€ LLEGSIL8O LILLE BIEIOTECA: CAPRONI e 4 22 - = 7 tea/0) g£ SY 5 a a Le i Po 7 fa He ù vi 3 UCI a ar i ge AGLI a i a e da SZ A otra: n DI pipe pra ‘ —; eds è - ser es > Q + O Mali P Loreti x n ASA ri ni ; [lor se SLM n (7, “gp TU \\ I QUI N \ LI ÎÒ) NI u LL AMMIIY]) i ST \ n \ »\ er — = 19 AA ‘ a i e I e DI i i a i o e n a 10:44 o, } AZ | Ps 2% Bi |Digitized by the Internet Archive 7 | im2011 with funding from pi | . University of Toronto & FIài o a A nt [goes Table i È Linea «en Ti dee Y tà De a 7 i http:/Avww.archive.org/details/aiconfinimeridioocite TEGO A Cap. CARLO CITERNI AI CONFINI s° NOTE DI UN VIAGGIO MERIDIONALI ATTRAVERSO L’ETIOPIA ED DELL’ETIOPIA. = Pres caua È SOMALI. CON 3 APPENDICI, 6 CARTE GEOGRAFICHE, I PIANTA TOPOGRAFICA E 158 INCISIONI ULRICO HOEPLI EDITORE LIBRAIO DELLA REAL CASA MILANO 1913 , Y Cap. CARLO CITERNI AI CONFINI MERIDIONALI DELL'ETIOPIA NOTE DI UN VIAGGIO ATTRAVERSO L’ETIOPIA ED I PAESI GALLA E SOMALI CON 3 APPENDICI, 6 CARTE GEOGRAFICHE, UNA PIANTA TOPOGRAFICA E 158 INCISIONI ULRICO HOEPLI EDITORE LIBRAIO DELLA REAL CASA MILANO 1913 PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Roma — Tipografia dell' Unione Editrice, via Federico Cesi, 45. A Sua Eccellenza il Cavaliere Marchese A. Di SAN GIULIANO Ministro per gli Affari Esteri Non sembri soverchio ardire, ma devoto rendimento di grazie, sio pongo in fronte a queste pagine il nome di Chi ne rese possibile la redazione, e ne agerolò, con ogni mezzo, la nitidissima stampa. Il nome dell’ Eccellenza Vostra non può non essere la prima parola liminare della narrazione del mio ultimo viaggio in terra d'Africa: poichè fu proprio per ordine della Eccellenza Vostra che io ebbi Vonore di presiedere alla Missione incaricata di delimitare in Somalia i nostri confini coll’ Etiopia; e fu proprio per la iniziativa del Mini- stero per gli Affari Esteri, così ben intesa dalla Direzione Centrale per gli Affari Coloniati, che io potei, sotto la veste del libro, radunare tutto un materiale, che, pur nella sua tenvità e nella sua pochezza, era bene non andasse perduto. y Infatti, dopo avere presentato, ora è qualche mese, alla bcecellenza Vostra, la relazione ufficiale, dove son raccolti tutti gli clementi, di carattere riservato 0 strettamente tec- nico, necessari soltanto ai fini politici e pratici della Mis- sione, io vedevo inutilmente giacere entro le casse appunti e raccolte. Pu allora che, per rifare in ispirito Vavventuroso € piacevole viaggio, per rivivere, insomma, le passate emo- zioni, misi ne? miei appunti un po’ di sintassi e d'ordine logico; ravvivai così, senza artistiche pretese, qualche brano di taccuino, abbozzato 0 scolorito ; scelsi il materiale foto- grafico più rappresentativo; ed ottenni dagli esimi pro- fessor ing. A. Loperfido, geodeta capo dell’ Istituto Geogra- fico Militare, prof. dott. R. Gestro del Museo Civico di storia naturale di Genova e dott. E. Oddone dell’ Ufficio centrale di Meteorologia e Geodinamica le relazioni, poste in appendice, e riguardanti le osservazioni astronomiche, le raccolte zoologiche e le osservazioni meteorologiche ; € pensai pure di arricchire il volume con le carte compilate dai topografi della Missione ed eseguite con la ben mota valentia dall’ Istituto Geografico Militare. Il mio forse immodesto disegno s’ebbe per volontà della Eccellenza Vostra, assecondata dalla Direzione Centrale per gli Affari Coloniali, Vattuazione più rapida e più ampia. Ecco perchè queste pagine vengono di diritto, ancor più che in omaggio, alla Eccellenza Vostra. E poichè il volume, alleggerito com'è di tutta la parte ufficiale, può andare fra le mani di tutti coloro che hanno in buona consuetudine la lettura di quanto riguarda la no- stra vita e vitalità coloniale, io mi auguro che, oltre i sensi della gratitudine mia, sia per giungere alla Eccel- lenza Vostra anche il compiacimento del benevole lettore : e specialmente di quel lettore, che, per naturale inclina- zione, non per virtù delle mie parole, avrà saputo distil- lare dal mio racconto tutto Vardore che vi è contenuto, tutto Pamore che porto verso le belle terre delle Colonie nostre. Roma, ottobre 1912. CARLO CITERNI ; ” È . trad Ò . \ @ i w. x x ) LI Ù A i) LI ; | i | 4 ne” I P x e i » Lai v 4 hu Pre ui » ; i Ù 3 \ +4 * PR ì È ( Ù i IT É «ii PAR 10 \ DÒ FR Ù #*07 ; RM LTT SR) AANONIN bi ita LIMI : à co de 1 ENTRO Papi) di è ì } 11 i 7 Ù 14 ‘ è ’ N { sua i CIVITA i VA ALL Mu IVI ASI RT BIT 3 AAA, LAGO or murs. ATI divo 1, 4 10 CMV OE PIRANO. TI Va ) TRA i ROBE I 0. Falla, 77 Pi Ì Ù ST i Ct IC adire (PO TINSRIONE LE, N «ip Ì N î » \ r4 VICINI VI è VI pro RA n ì i er n n ? I ai n ia A RETI i (VAT MINI PART” ut "or a PIRLA yi UA i Ni | i A dal piutv NI, (i 04 a #4 è Mn " ; L'A iu cosa pet: BAR IETLE) SU SPIRIT ala Ù i î ‘ n PRI * : SA i Di ct ne__& dae 7° “ y Malte; ìi ì DA GIBUTI ALLA CAPITALE ETIOPICA. I valori che, fino alle soglie dell’ ultimo secolo, ave- vano costituito le basi della vita dei popoli, sembrano essersi spostati o addirittura mutati. Oggi, la potentis- sima molla che mette in moto tutte le altre energie d’uno Stato, che dà ad esso la vita, che decide le sue azioni presenti e delinea quelle future è, soprattutto, l’esponente industriale. Ma per aumentare la ricchezza non basta produrre molto; è anche necessario procu- rarsi naturalmente o formarsi artificialmente i mercati su cui riversare la propria sovraproduzione. I grandi Stati europei hanno quindi sentito il bisogno di allar- gare il raggio d’azione del loro commercio, creando vasti imperi coloniali nelle terre dove, per essere la civiltà più arretrata, le industrie non avevano ancor avuto modo di allignare. Però queste terre trovansi ancora, per la maggior parte, in uno stato così primitivo o addirittura selvaggio, da essere, nelle loro parti interne, poco cono- sciute dagli stessi dominatori, i quali, assai spesso, non sanno nè meno con precisione quali ne siano i confini. Tale fatto si riscontrava, fino al 1908, nella Somalia Italiana, il cui confine era rappresentato da una sem- plice e schematica linea ideale, che, partendosi poco a — 10 — monte di Bardera, sul Ganana, e mantenendosi parallela alla costa, avrebbe dovuto raggiungere 1’ Uebi Scebeli e quindi il confine Anglo-Etiopico. Ma siffatta linea, per quanto fosse rimasta fino allora allo stato puramente platonico e intenzionale, si appa- lesava, anche, punto rispettosa delle integrità territoriali e dei supremi diritti storici ed etnografici, sacri alle varie tribù limitrofe, producendo amputazioni profonde nelle membra di alcune regioni, originando dissidî gravi e funesti come quello in cui — in su’1 dicembre del1907 — perdettero la vita i valorosi capitani Bongiovanni e Molinari. Con sagace spirito politico fu quindi stipulata, fra l’Italia e il Negus Menelich, la convenzione 16 mag- gio 1908 (1), basata, nelle sue grandi linee generali, sulle divisioni etnografiche di tribù, nomadi per bisogno e per tradizione, e sulle uniche indicazioni grafiche fornite (1) Credo opportuno trascrivere qui appresso il testo della Conven- zione, ricordando che tanto essa quanto l’atto addizionale della mede- sima data, furono approvati con la legge 17 luglio 1908, n. 468: Sua Maestà Vittorio Emanuele III, Re d’Italia, in nome Suo ed in nome dei Suoi Successori, per mezzo del Suo Rappresentante in Addis Abeba, conte Giuseppe Colli di Felizzano, capitano di cavalleria, e Sua Maestà Menelich II, Re dei Re d’Etiopia, in nome Suo e dei Suoi Succes- sori, volendo sistemare in modo definitivo la frontiera tra i Possedimenti italiani della Somalia e le provincie dell’Impero etiopico, hanno stabi- lito di firmare la seguente convenzione. Art. 1. — La linea di frontiera tra i Possedimenti italiani della Somalia e le provincie dell’ Impero etiopico parte da Dolo alla con- fluenza del Daua e del Ganale, si dirige verso est per le sorgenti del Maidaba e continua fino all’Uebi Scebeli seguendo i limiti territoriali fra la tribù di Rahanuin che resta alla dipendenza dell’Italia e tutte le tribù a nord di questa che restano alla dipendenza dell’Abissinia. Art. 2. — Il punto di frontiera sull’Uebi Scebeli sarà al punto di confine tra il territorio della tribù di Baddi-Addi che resta alla dipen- CAR LA VALLE DI UORABILLE, COLUBI. VERSO SU, TRA VI ian dea con" DI COLUBI. CHIESA LA A, |) I dalle carte allora esistenti. La stessa Convenzione, per- tanto, consigliava i due governi di dare concretezza e precisione a quei troppo incerti e vaghi elementi: e ciò mediante un sopraluogo. Una Commissione mista, infatti, composta di membri denza dell’Italia ed il territorio delle tribù a monte dei Baddi-Addi che restano alla dipendenza dell’Abissinia. Art. 3. — Le tribù sulla sinistra del Giuba, quella di Rahanuin e quelle sull’Uebi Scebeli a valle del punto di frontiera saranno alla di- pendenza dell’Italia. La tribù di Digodia, di Afgab, di Djedjedi e tutte le altre che si trovano a nord della linea di frontiera, saranno alla di- pendenza dell’Abissinia. Art. 4. — DalP’Uebi Scebeli la frontiera si dirige verso nord-est, secondo il tracciato accettato dal Governo italiano nel 1897. Tutto il territorio appartenente alle tribù verso la costa rimarrà alla dipendenza dell’Italia; tutto il territorio di Ogaden e tutto quello delle tribù verso l’Ogaden rimarrà alla dipendenza dell’Abissinia. Art. 5. — I due Governi s' impegnano a fissare praticamente sul terreno e nel più breve tempo la suddetta linea di frontiera. Art. 6. — I due Governi s' impegnano formalmente a non esercitare alcuna ingerenza oltre la linea di frontiera e a non permettere alle tribù loro dipendenti di passare la frontiera per commettere delle violenze a danno delle tribù che si trovano dall’altra parte della medesima; ma se sorgessero delle questioni o degl’ incidenti tra o a causa delle tribù limi- trofe alla frontiera, i due Governi di comune accordo li risolveranno. Art. 7. — I due Governi s' impegnano reciprocamente a non fare e a non permettere da parte dei loro dipendenti alcuna azione che possa essere causa di questioni o d’incidenti, o possa turbare la tranquillità delle tribù di frontiera. Art. 8. — La presente convenzione sarà, per quanto riguarda l’Italia, sottoposta all’approvazione del Parlamento del Regno e ratificata da Sua Maestà il Re. Fatta in duplice copia e di identico tenore nelle due lingue italiana ed amarica. Una delle copie resta nelle mani del Governo italiano e Valtra nelle mani del Governo etiopico. Scritto nella città di Addis-Abeba, il giorno sedici del mese di maggio dell’anno millenovecentotto. (Sigillo del Negus Menelik). GIusEPPE COLLI DI FELIZZANO. ML MA dl nominati dai due governi, doveva, sia con rilievi topo- grafici, sia con l'accertamento territoriale delle suddette tribù nomadi, fornire elementi tali da ottenere, al più presto, una definitiva ed esatta delimitazione del confine. A me toccò l’alto onore d’esser messo a capo della Missione italiana. Nell’estate del 1910 fui incaricato d’or- ganizzare la spedizione che doveva compiere un viaggio non certo semplice nè breve. Perchè, infatti, noi non dovevamo sbarcare direttamente sulle coste del Be- nadir, e di là, avanzando nell’interno, raggiungere il confine abissino; ma dovevamo prima recarci ad Addis- Abeba, capitale dell'Etiopia, per metterci d’accordo con i delegati del Negus, e quindi dirigerci verso la Somalia, facendo un lungo e faticoso itinerario, a traverso l'Etiopia centrale e meridionale. Si trattava, insomma, di girare internamente attorno a tutta la parte più orientale del- VAfrica, traversando regioni spesso quasi ignote, sempre inospitali, affatto prive perfino di quelle risorse che offrono al viaggiatore alcuni paesi mediocremente civili. Con la massima oculatezza e con il lume dei preziosi insegnamenti fornitimi dall’esperienza, mi accinsi a sce- gliere il personale ed a procurarmi i materiali neces- sarî. Quanto al personale vennero destinati per i lavori cartografici i topografi dell’ Istituto geografico militare, signori E. Grupelli ed A. Venturi; il servizio sanitario venne affidato al dott. G. Brigante-Colonna. I prepara- tivi, come ognuno può comprendere di leggieri, non fu- rono nè facili, nè brevi. * * * Addì 19 settembre del 1910 il piroscafo « Po» della Società Italiana dei Servizi Marittimi mi conduceva in vista di Gibuti. Debbo confessare di aver provato una at to vera commozione nel ritrovarmi su quel suolo africano che mi ha sempre attratto con un irresistibile fascino. Io eredo che poche ebrezze siano comparabili a quella di colui che si mette in cammino per inoltrarsi verso paesi ignoti; che volge le spalle ai luoghi dove tutto è co- struito in modo da facilitare la sua vita, e s'avanza verso quelli dove tutto sarà alla sua vita nemico; di colui che vedrà nudo il volto selvaggio e meraviglioso della Natura, senza la maschera artificiosa che l’uomo gli ha applicato nei paesi civili. Egli dovrà sentirsi pronto a tutto; ad ogni passo troverà un ostacolo; ogni passo sarà una lotta; ogni passo compiuto una vittoria. Dovrà invigilare continuamente: gli uomini lo insidieranno in mille modi, la terra gli opporrà ad ogni istante minac- ciose barriere. Ma, in mezzo a tutte queste asprezze, egli proverà la soddisfazione immensa di affrontarle conti- nuamente con l’ardire e l’ostinatezza e sentirà il proprio corpo e il proprio spirito temprarsi sempre più nella lotta e nella solitudine; ed avrà la grande gioia della rive- lazione dell’ignoto; la gioia di tuffare lo sguardo nell’ in- trico smeraldino impenetrabile di foreste meravigliose, dove ancora l’ascia ugualizzatrice della civiltà non ha intaccato nessun tronco; di udire melodie di uccelli, canzoni di cascate, stormir di piante che ancora V’orec- chio dei suoi simili non ha udito; di saziar la gran sete che arde in ogni cuore umano: la sete degli orizzonti novi. Ero già stato due volte a Gibuti. Questa terza volta nulla trovai di mutato. Il commercio soltanto progrediva sempre più; ma il traffico della ferrovia che giunge a Diredana, presso ’ Harrar, sembrava stazionario. La Colonia francese traeva ancora i suoi maggiori proventi dal mercato delle armi. NERI FASI La ferrovia che va da Gibuti a Diredaua è lunga 309 chilometri, e la sua costruzione ha subìto molte e complicate peripezie politiche e finanziarie. Adesso si stanno facendo gli studi necessarî per proseguirla fino ad Addis-Abeba. Questo secondo tronco, che dovrebbe rag- giungere lo sviluppo di 480 chilometri, è appena in sull’inizio e chi sa se potrà mai essere terminato: si incontreranno probabilmente molte altre difficoltà di ordine politico prima di poterlo aprire al pubblico eser- cizio. Gli Abissini, sotto la nera lucentezza delle loro fronti, rinserrano una buona dose di furberia. Hanno tranquillamente imparato dagli europei a monopolizzare i tabacchi, il sale, la carne ed altre derrate; e adesso pensano, non senza ragione, che non sarebbe male di monopolizzare anche le comunicazioni; perchè, se le fer- rovie dànno tanto guadagno, è veramente stupido di far intascare questo guadagno agli europei sfruttatori. Così, senza parere, con olimpica indifferenza, hanno incomin- ciato a fare un po’d’ostruzionismo contro la Società delle ferrovie, che, sotto l’alta protezione del Governo francese, fa ogni sforzo per allungare i lueidi binarî fino all’ Auase. Ebbi la fortuna di restare un sol giorno ad arro- stirmi fra le incandescenti mura di Gibuti. Dopo quasi un’intera giornata di viaggio, trascorsa dentro un vagone che sembrava concentrare tutto il soffocante calore dell’atmosfera, la sera del 20 settembre giunsi all’ultima stazione della linea ferroviaria: Dire- daua, piccola città situata in pieno territorio etiopico e dal Governo etiopico amministrata, ma in realtà quasi europea, perchè i padroni della ferrovia hanno fatto di tutto per renderla francese. Vi si trovano comodi al- "« VISVIINVU » VNUIAIT NI ITNTOO IT INIMIONI ‘ITNTOO IT VISHMOV UW.LSUd'TV/SITHN » «e LA BELLA VALLE DI CIALLANCO... (Pag. 18) BIMBE DI LAGAGHEVIÀ CHE VANNO ALLA FONTE. berghi, e tutto quanto è necessario per organizzare prontamente una carovana. Per quest’ultima bisogna dovetti ricorrere al «na- gadi », che si può paragonare ad una nostra agenzia di trasporti. Infatti il «nagadi » s’incarica di tr: sportare merci e persone da un luogo ad un altro, pensando al recapito delle prime, ed a fornire le altre di tutto quanto è loro necessario per il viaggio: una Specie di Cook e di Gondrand riuniti in un personaggio abissino. Il sistema è da una parte molto comodo, ma è d’altra parte costoso, e di più vi obbliga a darvi, mani e piedi legati, in balìa del «nagadi », al quale sarete soggetti durante tutto il viaggio; egli vi farà comminare solo quanto e quando talenterà alla sua volontà o al suo capriccio, ed anche alla volontà ed al capriccio delle sue bestie da soma. * * * Composto un litigio d’ordine contrattuale. durato alcuni giorni col « nagadi », ero finalmente in grado di iniziare il viaggio con la mia carovana. Avevo la scelta fra tre vie carovaniere che conducono ad Addis- Abeba: la più orientale, che è la più breve, attraversa il deserto dancalo ed è quindi calda, malsana, non priva di pericoli e resta senz'acqua per aleuni mesi dell’anno; la centrale, detta dell’Assabot, che è anche essa mal- sana e povera d’acqua; e la più occidentale, chiamata del Cercer, dalla regione che attraversa, che è la più montuosa, ma è però la più sicura, la più ricca d’acqua, e presenta il vantaggio di svolgersi in territorî quasi sempre abitati. Scelsi quest’ultima, sebbene 1’ avessi per- corsa un’altra volta; e la sera del 26 settembre potei già MIS ai; SS accamparmi sul colle di Angagò che si trova ad un terzo di strada fra Diredaua e l’Harrar. In questo primo tratto tutto procedette meraviglio- samente, senza il minimo incidente. Fin dal primo giorno potemmo sederci ad un’ottima mensa, elegantemente imbandita, e riposare, poi, sotto le comode tende dove nulla mancava: il che non è poco per chi si trova nel- l’interno dell’Africa. La perfezione del funzionamento di tutti i servizî mi indusse a rivolgere al mio spirito qualche breve parola di elogio e di compiacimento. Lasciai per qualche giorno la earovana accampata presso al lago Aramaia, e mi recai a visitare Harrar, l’interessante e grandioso emporio agricolo e commer- ciale su cui esiste oggi una letteratura così abbondante che non potrebbe certo giustificare una mia qualunque ulteriore dissertazione... Riprendemmo la marcia attra- verso al vasto altipiano che raggiunge, in media, i 2000 metri di altezza e che offre all’occhio deliziosi pa- norami. Si scorge una serie infinita di colline tondeg- gianti, riunite le une alle altre da pendii dolcissimi, quasi spoglie di vegetazione arborea, ma rivestite da ondeg- gianti campi di dura. Qua e là si aprono vallate pitto- resche come quelle di Carsà e Uorabille, o si scavano conche verdeggianti, in fondo alle quali, come grandi pupille azzurre che guardino estatiche il cielo, si stendono le immobili acque dei laghi Aramaia, Derac e Jabetà. Numerosi, a mezza costa, sui pendii delle colline, son disseminati i villaggi, simili a gruppi di coniche borchie auree poggiate da un tappezziere megalomane sul vel- luto verdastro del suolo; e i villaggi son circondati da siepi di euforbie candelabro che poi fanno ala ai sen- tieri, elevando dritti verso il cielo i loro nudi tronchi bianchicci ricordanti un poco i ceri votivi degli altari. LA FORESTA DI DURRÒ. NELLA VALLE DI BURCA. « . «SULLA GROPPA DI UN CARATTERISTICO PONTE INDIGENO... ». (Pag. 22 « ... IL SENTIERO SALE VERSO CUNNÌ, PAESE STRAORDINARIAMENTE PITTORESCO ...... (Pag. 26) SE) ROSA Il paesaggio assume in tal modo un aspetto così mi- stico e così doloroso che vien fatto di pensare subito ad un cimitero di qualche strana religione scomparsa. Dopo Carsà le colline si assottigliano, si appunti- scono, gettano i loro mantelli di velluto verde cupo delle coltivazioni di dura, e si rivestono di arboscelli. Verso Uorabille agli arbusti di varia specie si mescono basse conifere, con le loro capellature verde tenero; e gli uni e le altre vanno crescendo di altezza man mano che si procede verso i crinali e i cocuzzoli dei monti ; chè, len- tamente, quasi insensibilmente, il terreno si eleva di con- tinuo tendendo verso la bella montagna di Colubi, che intaglia nel cielo l'oscuro profilo dei suoi fianchi, ma s' incorona il capo d’un folto e misterioso diadema di nembi. Per renderci un onore di cui proprio non sentivamo bisogno, la stagione delle pioggie si era prolungata esa- geratamente. A Carsà, verso il tramonto, due violenti acquazzoni si rovesciarono sul nostro accampamento. L’acqua serosciava giù, a torrenti, lungo le tende, produ- cendo un frastuono simile ad un rullo continuo di tamburi; il terreno era divenuto un pantano; e dovun- que, intorno a noi, scorrevano rivoli precipitosi che s’ in- tersecavano, formando una fitta rete liquida di botri chioccolanti, penetravano nei crepacci, si riunivano, si dividevano, scorrevano tumultuosamente, saltavano giù dagli scoscendimenti in innumerevoli cascatelle con un vasto fruscìo sonoro. L’attendamento era tutto avvolto da una densa nebbia che ci toglieva la vista d’ogni cosa d’intorno, e l’aria era divenuta quasi gelida. Noi, av- viliti di quello strano avvilimento che produce Pumidità, tutti tremanti e inzuppati fino alle midolla, stavamo in silenzio aspettando la fine di quel diluvio; e pensavamo con ironia a tutte le visioni di ardori canicolari che produce nell’immaginazione la parola « Africa »; pen- savamo, con una specie di curioso dispetto, che i nostri cari, in Italia, probabilmente in quel momento ci vede- vano con gli occhi della fantasia errare sotto un sole accecante, sfiniti dal torrido calore, languenti nell’ im- mensa afa opprimente! Oh come, invece, avremmo gra- dito un tiepido home, un ovattato nido europeissimo con l’augusta presenza di una poltrona a sdrajo e di un cami- netto acceso, colmo di tizzi scoppiettanti e di ciocchi fiammeggianti ! * * * A Colubi il paesaggio diventa addirittura alpestre, nella sua orrida suggestiva bellezza. I cocuzzoli acuti lanciano i loro coni verso il cielo come una dentatura di belva gigantesca. Qua e là affiorano le roccie basal- tiche sovrapposte alle granitiche — ricordo lontano di qualche antichissima convulsione vulcanica. Fra i pendii sgretolati, sempre più scoscesi, aspri, faticosissimi, si scorgono rosseggiare enormi massì granitici: sembra che il fiammeo cuore della montagna, verso l’alto, abbia vo- luto sfondare l’epidermide per mostrarsi nudo. Ogni tanto sì trovano folti gruppi di profumate conifere che ammas- sano i loro cuscini di velluto verde. Le coltivazioni son divenute rare, e son costituite da campi di orzo e di dura. Al di là di Colubi, è la bella vallata di Ciallanco, dove avvenne lo scontro fra gli Egiziani e gli Abissini, quando questi mossero alla conquista dell’Harrar. Quivi il paesaggio diviene addirittura meraviglioso: poichè siamo nel colmo della primavera, le pioggie, irrorando queste terre feconde, han fatto sorgere dal suolo una vegetazione lussureggiante, che sembra prodotta da — 19 — qualche incantamento. Il suolo è coperto da infinite di- stese di fiori che formano vivaci tappeti policromi; i campi sembrano straripare di verde come se non potessero contenere l’esuberante messe; i villaggi sorgono ovun- que, ridenti, popolosi, in mezzo a quella straordinaria festosità della natura. E si sale e si scende per monti e per valli, per dolci declivii, respirando il mite tepore di quell’aria profumata. E, ad ogni passo, si scoprono nuovi spettacoli, sempre simili e sempre diversi, cui l'occhio non si stanca mai di guardare; si è presi a poco per volta dal fascino di tutti quei colori; si è afferrati da una ebrietà dolce, semplice, sana, che non somiglia a nessuna di quei morbosi capogiri che abbiamo pro- vato nei paesi civilizzati; la calma vigorìa della natura ci penetra in tutte le vene; ogni preoccupazione è spa- rita; son dimenticati i disagi passati, e non si pensa alle difficoltà future; non ci si ricorda di esser nell’ in- terno dell’Africa, ma si crede d’esser capitati in un paese di sogno, fuori dal tempo e dallo spazio; e si vorrebbe fermarci lì, e trascorrere la vita in mezzo a quella bel- lezza festosa e solenne, assorti in quel gaudioso incanto, per sempre. Ma, dopo Lagaghevià, la via ci serba uno strano im- provviso antitetico spettacolo. Si sale ad un tratto faticosamente per un erto roccioso pendìo di natura calcarea che mette a dura prova la nostra pazienza e ci scuote penosamente dalla dolce ebrietà poetica nella quale ci aveva immersi la bellezza sontuosa del pae- saggio precedente. Ma, subito dopo, il sentiero si raddolcisce, e si svolge a mezza costa con varie e molle ondulazioni. Prima di Durrò si penetra in una bella e cupa foresta secolare, dove, in certi luoghi, l’ombra profonda e silenziosa di- Peg ge viene verdastra e dà illusione di una qualche calma profondità sottomarina; in altri punti si aprono radure assolate dove son distesi enormi tronchi abbattuti dalla vecchiezza o dal fulmine simili a mostruosi draghi uccisi che sì dissecchino lentamente sotto il sole. Le conifere e ì ginepri si elevano altissimi formando enormi navate di verdura, complicati intrichi resi più densi dai licheni e dai muschi che con frangie spioventi e ampi festoni svolazzanti collegano i rami innumerevoli, scendendo giù con eleganti curve dalle eccelse cupole sempre verdi. Spesso il suolo è coperto da fittissime distese di fiori gialli che sembrano esser stati coltivati espressa- mente da un fantastico giardiniere per produrre un galo stupore nei viandanti. Quei pomposi tappeti di raso aureo ricoprono soflicemente i margini del bosco, circon- dano i campi, foderano gli seoscendimenti, imbottiscono le cavità, sommergono il suolo dovunque, e si susseguono e sì prolungano via via all’ infinito sotto i passi, e dinanzi e di dietro, e lontano laggiù negli ultimi vani che s'in- travedono fra l’intercolunnio dei tronchi, come una vasta nevicata sulfurea, producendo una gioiosa ossessione di splendori dorati. x * * Anche a Durrò dovemmo subire un tremendo acquaz- zone, che mise a dura prova il nostro stomaco. La lunga strada percorsa ci aveva prodotto quello speciale vuoto gastrico che prende il nome di appetito 0, talvolta, anche quello di fame; e il pranzo, invece, ostacolato nella sua genesi dagli scrosci violenti, ritardava esasperantemente. Il nostro cuoco non riusciva a tenere acceso il fornello che aveva improvvisato fra due sassi. Finalmente ebbe un lampo di genio; si piantò a gambe larghe davanti al fuoco, e mantenne teso al disopra di quello, con le sue braccia inverosimilmente lunghe, un largo telo ince- rato, difendendo così pentola e fornello da quella tre- menda doccia che cadeva dal cielo. Intanto, carponi, aceucciato fra le sue gambe, come un cane pauroso, il suo aiutante sorvegliava la cottura delle vivande. Non sì può descrivere fino a qual punto fossero grotteschi quei due uomini tutti grondanti acqua, che in quella posizione assurda compivano la loro bisogna con tanta serietà come se fossero stati due sacerdoti dinanzi ad un’ara. * *X * Cominciammo poi a scendere, sempre in mezzo ad un’alta vegetazione arborea verso la stretta valle di Burca. Ma il sentiero era difficilissimo: tutto impre- gnato dalle pioggie recenti affondava sotto il passo rendendo la marcia faticosissima. O, peggio ancora, ci metteva in grado di romperci il collo quando, ogni tanto, ci ricordava di essere costituito da roccie calcaree, da quelle tali roccie, le quali, come ognun sa, quando sono umide diventano sdrucciolevoli quanto lastre di ghiaccio. Fortunatamente i muletti abissini, che sanno fare miracoli, ci trassero senza troppi inconvenienti dal malo passo. Queste povere bestie, che più di tutte le altre sono utili in Etiopia, resistono alla fame ed alla fatica in modo stupefacente, sono di una sobrietà esem- plare, e camminano per sentieri scoscesi, sulle roccie più aspre, sull’orlo dei burroni, con una sicurezza di passo ammirevole. Scelgono da sè stesse il sentiero mi- gliore, e se per caso sbagliano, ritornano immediata- mente sulla retta via ad un grido del conducente. Spesso s'incontrano numerose carovane di questi muletti che Mi: A vanno innanzi, curvi e pazienti, con aria docile e ras- segnata, ma senza avvilimento, sicuri di loro stessi, pronti a scansarsi ed a lasciarvi il passo, garbatamente, con un senso di educazione che difetta a molte bestie e... a molti uomini dei paesi civili! Questi quadrupedi stupefacenti aspettano ancora il cantore delle lor geste e la làuda immortale. Come i destrieri d’Orlando e di tutti i Cavalieri del Ciclo, questi muletti avranno il loro Ariosto. Non ne dubito. E poichè non dubito che queste mie rapide e prosaiche note dovranno rappresentare le « fonti » del futuro e immancabile poema, così mi corre l’obbligo di rammentare che proprio sul dorso di questi muletti si svolge tutto il commercio etiopico; e che sono proprio questi modestissimi e pacifici animali che tra- sportano i soldati abissini nelle razzie, nella guerriglia, nelle marcie di trasferimento da uno all’altro paese. La scoscesa valle del Burca sembra un vasto corri- doio, o meglio un immenso fossato difeso da fortificazioni titaniche. È stata probabilmente prodotta da una frat- tura; ed il suo asse conserva, per un lungo tratto, la direzione da Sud-Ovest a Nord-Est; poi il torrente piega con un brusco gomito verso il sud, ed il sentiero lo attra- versa sulla groppa di un caratteristico ponte indigeno che eleva i suoi piloni di legno in mezzo ad una tranquilla radura tappezzata di erba smeraldina. La carovaniera quindi abbandona la valle e sale verso Tullò e Diddibà, dove ritroviamo il terreno ondulato e i graziosi villaggi. Ma le coltivazioni si fanno sempre più rare perchè il bosco lussureggiante invade spesso prepotentemente anche il fondo delle conche meravigliose, dove le folte Mg capellature delle ombrellifere mettono macchie di verde tenero sul solito ossessionante fondo dorato dei prati di fiori gialli, formando una deliziosa armonia, che sembra esser stata composta da un pittore raffinato in ricerca di colorazioni musicali. Procedendo nel cammino vediamo ergersi dinanzi a noi la scura groppa villosa della montagna di Ira o Erna, ricoperta di alte conifere e di giganteschi sempre- verdi che, fra il viluppo dei loro rami secolari, dànno gradita ospitalità a miriadi di uccelli multicolori di cui udiamo gl’ innumerevoli e diversi canti che formano come una paradossale orchestra composta soltanto di pifferi, di clarini e di flauti. Sì vedono fuggire, balzare, arrampicarsi con un’agilità miracolosa, fra i rami, su pei tronchi, sul suolo, intere famiglie di guresa, ele- ganti scimmie che hanno il petto candido, e tutto il resto del corpo nero, e che sembrano quindi un po’ le caricature di uomini in abito da sera. Al campo di Diddibà e di Medaidà il nostro « nagadi » Ato Alula ci fornì l’occasione d’un impensato diverti- mento. Questo bel tipo d’abissino è un vero originale; è nato da una buona famiglia del Goggiam ed avrebbe potuto condurre una vita comoda ed agiata nel suo vil- laggio, fra i suoi campi ed i suoi armenti, se un giorno non si fosse voluto cavare il capriccio di fare un bel gesto. Stava chiacchierando con un suo compaesano sulle qualità di audacia e di prontezza che deve avere un uomo, quando il suo interlocutore, nel calore della conversazione, così, per ischerzo, e senza la menoma intenzione di eccitarlo, gli disse: — « Tu, per esempio, non saresti mica capace di sparare adesso qui una fu- cilata, ad un tratto, contro di me, senza proferire una parola...» — Ato Alula non proferì la parola, ma spianò Parma e sparò la fucilata..., così, tanto per dimostrare all'amico che era capace di fare quello che gli propo- neva; ma l’amico non ebbe nemmeno tempo di mostrarsi convinto da quella dimostrazione perchè rimase morto sul colpo. Dopo quel grazioso seherzetto, Ato Alula dovette star lontano dal proprio paese e si ridusse a fare il « nagadi ». Violento ed impulsivo, egli aveva tut- tavia qualche cosa di attraente e di divertente che ce lo rendeva piacevole. Noi gli dimostrammo sempre la nostra simpatia, ed egli ha sempre cercato di ricam- biarcela con una grande fedeltà e con un fare rispettoso che gli dava come una vernice d’educazione europea. Con i servi invece ridiventava abissino... e cioè prepotente e manesco. Al campo di Diddibà, proprio nel momento in cui stavamo per ripartire, un servo del «nagadi », offeso e soverchiamente bastonato dal padrone, si ribellò, abban- donò il lavoro, ed invocò la giustizia del paese. Era questo servo un antico schiavo galla, d’una lunghezza e d’una magrezza inverosimili, con due braccia che gli penzolavano fino alle ginocchia; vestiva mezzo alla europea, con un soprabitino corto corto, che un tempo doveva esser stato marrone e adesso era di tutti i co- lori, come una tavolozza, e che chissà quante peregri- nazioni aveva fatto, quante peripezie aveva subito, prima di andare a finire sulle magre e curve spalle di quel vecchio galla, servo di carovane, nell’ interno dell’Africa. Il processo, se così si poteva chiamare, venne so- ‘speso al suo inizio, per essere proseguito'al nuovo campo. « +... POI DISCENDEMMO FINO ALLA VALLE DI BOROMA...b. (lag. 27) « CAGNASMACC » TEGHEGNÈ E LA SUA SIGNORA. NEL CERCER. « FITAURARI » ASFAU ED IL SUO SEGUITO. POM. Ivi assistemmo ad una scena curiosissima: servo e pa- drone, accusatore ed accusato, stavano in piedi dinanzi al capo del villaggio che, per l'occasione, aveva assunto le funzioni di dagna, e cioè dispensatore di giustizia. Il servo galla era assistito da un collega amhara degno di sedere in uno dei nostri tribunali, tanto aveva la lingua sciolta, e sottile e artifiziosa l’argomentazione. Ma Ato Alula non si mostrava a lui inferiore, e ribat- teva ogni argomento con pronte, argute, vivaci risposte 3 si difendeva con grande abilità, ed aveva nei gesti, nelle apostrofi, negli scatti, nelle invettive un fare così comico, un umorismo così irresistibile, che spesso il nu- meroso uditorio, lo stesso. giudice, e perfino la parte avversa, scoppiavano a ridere clamorosamente e sgan- gheratamente. Sembra che, per giunta, Ato Alula avesse ragione; ma se anche non l’avesse avuta — insinuava il mio interprete che mi traduceva i passi più eloquenti delle rumorose arringhe — avrebbe saputo farsela dare distribuendo a tempo opportuno una manciatina di talleri. Non è improbabile che l'interprete avesse ragione, perchè in Abissinia la giustizia è affidata all’autorità amministrativa, che deve, naturalmente, da quella fun- zione, trarre il maggior profitto. La giustizia viene esercitata, in prima istanza, dal capo del paese, e poi, o per appello, o per importanza di causa, su, su, ad autorità sempre più alte, fino ai tri- bunali presieduti dai degiac, dai ras e dallo stesso Negus, il quale rappresenterebbe una specie di Corte Suprema, ed è il solo competente per alcuni reati gravissimi. Ogni abissino però, in assenza dei giudici naturali, può esser chiamato a decidere fra due contendenti, quando essi si siano in precedenza messi d’accordo sulla scelta dell’ar- PB bitro. Il giudice improvvisato non può, purtroppo, sot- trarsi a questo grave obbligo, che è per lui, molto spesso, sorgente di numerosi e non lievi grattacapi. Da Medaiddù per Sciola il sentiero sale verso Cunni, paese straordinariamente pittoresco che, se fosse com- posto di casette invece che di capanne coniche, ricor- derebbe molto i nostri villaggi alpestri. Ogni capanna, col terreno circostante che le appar- tiene, è rinchiusa in un circolo perfetto di siepi verdi, per modo che, dall’alto, il paese sembra un gruppo di belle collane di smeraldo con medaglioni d’oro, posate sul tappeto grigio smorto del suolo. Nei monti vicini ho veduto le più belle foreste che avessi ancora incontrato, formate da altissimi alberi simili al ginepro. Al campo di Cunni avemmo due sorprese: la prima fu costituita dalla visita improvvisa del capo del paese, il cagnasmace Teghegnè, che si mostrò straordinaria- mente premuroso e cortese: anzi tanto ridicolmente cor- tese, da farmi credere che avesse proprio bisogno di me. È vero ch'egli era stato in Italia col povero ras Ma- connen, e che doveva serbare del nostro paese e della accoglienza fattagli un gradito ricordo; ma il desiderio di contracambiare la festosa ospitalità ricevuta nelle città italiane e quella qualunque forte simpatia che potesse avere per l’Italia e per gli italiani, non erano sufficienti per produrre in un capo abissino tanta copia di cordiali manifestazioni di premura e di cortesia quanta ne esibì il cagnasmace Teghegnè. L’altra sorpresa l’avemmo a poca distanza dal campo, mentre dalla vetta di un cocuzzolo ammiravamo il mera- ESTR pria viglioso panorama boschivo. Ad un tratto, da una mac- chia folta, proprio alle nostre spalle, sbucò un bellissimo leopardo. La belva sì arrestò un attimo stupita, piantata sulle quattro zampe robuste, muovendo irrequieta la lunga coda, ondeggiando un poco la curva elegante della schiena arcuata, con qualche fremito sotto la splen- dida pelle maculata. Ci fissò con gli occhi d’oro, incerta sul da fare; poi, con quattro balzi veloci, traversò la breve radura a pochi passi da noi, e sparì nel folto producendo un fracasso di rami commossi. L’apparizione era stata così istantanea e così ina- spettata, che a nessun di noi era saltato in mente d’in- viare un buon colpo di fucile all’ospite improvviso, che, del resto, si era contentato di constatare la nostra pre- senza e ci aveva subito tolto l’ inecomodo senza farci la minima dichiarazione d’ostilità. Dopo Cunni, camminammo per due ore nelle dense ombre d’una bellissima foresta, poi discendemmo fino alla valle di Boroma, dove il cagnasmace Teghegnè tornò a visitarci giustificando così le sue cortesie del giorno innanzi; infatti egli desiderava di far visitare e curare sua moglie che era ammalata, e voleva aver da noi qualche pacco di cartucce per il suo fucile; fu su- bito esaudito nella sua prima richiesta, ma in quanto alla seconda... egli aspetta ancora una risposta! I soliti acquazzoni noiosi ci forzarono a trattenerci per due giorni a Boroma. La seconda sera, mentre ma- linconicamente pranzavamo sotto l’umida tenda, udimmo appressarsi un grazioso einguettìo di voci infantili, e vedemmo spuntare una frotta di musetti neri imbacuc- BMRN: Io (n cati di bianco, che vennero a far atto di ossequio e di omaggio al frengi... con quanto disinteresse lascio a voi d’immaginarlo. Per ringraziarci dei doni che facemmo loro, quella dozzina di vispi diavoletti di cioccolata ese- guì una fantasia; e mai, come quella volta trovai ap- propriato il nome alla cosa, giacchè lo spettacolo di quei piccoli strani folletti bianchi e neri, che si agita- vano e danzavano fra i riflessi rossastri dei fuochi del campo, gettando grida gioiose con le chiare gole argen- tine, assumeva un aspetto davvero fantastico, e sem- brava uno strano episodio di qualche fiaba orientale, trasformato ad un tratto, per virtù d’incanti, in realtà. Dopo Boroma incomincia la regione del Cercer che dà il nome alla via carovaniera. È una lunga vallata che ricorda un poco quella di Burca; ma invece d’esser costituita da un semplice impluvio diritto e stretto, si ramifica spesso in propagini diverse; è sinuosa in sul principio, poi si slarga in conche successivamente più aperte, come a Gara-Gurgora; e forma paludi e laghi come quello di Gara-Gurgora che è detto anche Cercer, dal nome della regione. Anche la vegetazione ha mutato aspetto; nelle zone pianeggianti e nelle ondulazioni sì scorgono rare om- brellifere e qualche sicomoro, mentre dovunque si stende la prateria di altissima erba che ricopre ogni asperità. Nel Cercer il terreno è sparso di ciottoli di quarzo, mentre a Ghelensò non si trova più un sasso, e tutto il suolo è costituito da crete e da argille che rendono il sen- tiero penoso e sdrucciolevole. A Laga Hardin si trova accanto all’ immancabile do- gana la stazione telefonica, installata in una capanna rotonda di canne e di paglia, che mostra come la ci- viltà si avanzi così rapidamente nel cuore d’ogni paese più perduto, che ad esso non lascia nemmeno il tempo di cambiare il suo aspetto selvaggio. In quel villaggio termina il dominio di degiac Tafarì figlio di ras Ma- connen che risiede all’ Harrar. Capo del paese è una mia vecchia conoscenza: il fitaurari Asfau. Questi, ap- pena seppe del mio arrivo a Laga Hardin, venne a tro- varmi, seguito da un lungo stuolo di armati, i quali avevano un aspetto fiero e bellicoso, con i loro grossi fucili portati sulla spalla, i rotondi scudi di cuoio d’ ip- popotamo, ed i lunghi mantelli bianchi drappeggiati alla maniera bizantina, che li facevano somigliare a quelle teorie di figure ieratiche che spiccano sui fondi dorati nei mosaici delle più antiche chiese romane, di San Marco e di San Vitale. Fitaurari Asfau, dopo avermi usate molte cortesie, e dopo avermi fatto doni numerosi, mi narrò, cosa che del resto sapevo, che suo padre era morto ad Adua insieme con molti de’ suoi soldati. Il fitaurari, senza risentimento nella voce, senza ombra di rancore nell’espressione, pro- nunciando anzi nobili parole all’ indirizzo dei nostri prodi caduti, mi fece tutto il racconto, estesamente, spiegan- domi come Ras Maconnen, accusato al campo del Negus di patteggiare segretamente con il nemico, smentisse la calunnia lanciando i suoi soldati, con a capo il padre di Asfau contro il forte di Macallè, ed ordinandogli di attaccare furiosamente l’eroico Galliano. A proposito dell’attacco al forte di Macallè, Ras Ma- connen, natura mistica e superstiziosa, amava raccon- ze sg > tare un episodio, che udii più volte narrare da lui stesso. Mentre conduceva, con audacia furiosa, i suoi seguaci dove più ferveva la mischia, venne colpito al petto da una palla di fucile; ma il proiettile non produsse alcun effetto, perchè deviò battendo contro un orologio che il ras portava costantemente appeso al collo come una sacra reliquia. — « Quell’orologio che mi ha salvato da una certa morte » — diceva Maconnen — « mi è stato do- nato da una Madonna, e perciò era naturale che mi ren- desse invulnerabile ». L’augusta donna, che il ras, nel suo linguaggio mistico, qualificava con un appellativo così religioso, che denotava una venerante adorazione del- l’animo, era la nostra Regina Margherita, incantatrice di folle e di uomini, anche se questi siano barbari e nemici. * * * Appena superate le aspre colline, che chiudono la valle di Laga Hardin, si presenta allo sguardo la inter- minabile pianura nella quale scorre Vl’ Auase. Sembra di discendere verso un immenso lago d’acqua torbida, tanto è antipatico il colore di quella terra ricoperta da erba secca bruciacchiata, giallognola, fin dove arriva l’oechio, verso l'orizzonte. E man mano che si discende, afoso, snervante, insopportabile piomba su noi il tremendo caldo africano, che noi avevamo avuto la sfacciataggine di desiderare, quando sulle montagne, inzuppati da qualche acquazzone, tremavamo sotto la nostra tenda per il freddo e l’umidità. Dobbiamo poi sopportare anche lo spiacevole cambiamento di panorama. Ci eravamo ormai abituati a passare da una bella foresta, ad una più bella ancora, da un prato ricoperto di fiori gialli, ad uno di fiori multicolori, da una vallata ombrosa piena 31 — di profumi, ad una montagna che ci mostrava paradisi di verde, da una macchia lussureggiante sonora di gor- gheggi, traversata da voli di ali scintillanti, ad un vil- laggio grazioso immerso nel sogno tranquillo della na- tura in festa... E adesso, nel vederci davanti quella immensa piana gialliecia che sembra senza confini, priva d’alberi e di qualunque macchia verde, traversata da nere acute vertebre di roccia nera, abbacinante e affo- cata come un metallo incandescente, ci sentiamo ad un tratto presi dalla repulsione e dallo scoraggiamento, e sì avrebbe quasi voglia di tornare indietro, tanto quel cambiamento ci urta i nervi. Fino all’accampamento, che posi sulle rive del ru- scello Argagà, ci venne dietro come un cane, un giovane abissino, che aveva modi affabili e signorili e che par- lava abbastanza bene il francese. Era stato educato in Francia a cura del Negus Menelich, ed ora, capo di un piccolo villaggio, si dedicava all’agricoltura, e coltivava, diceva lui, i campi secondo le regole della scienza agraria europea. Durante tutto il giorno ci era venuto dietro, senza staccarsi un istante dalle nostre costole, colmandoci di premure fino a diventare noioso e insop- portabile. E sapete perchè aveva fatto quelle cinque ore di lunga e faticosa marcia, ed aveva esaurito tutto il programma dei salamelecchi e dei complimenti di cui era capace? Perchè voleva chiedermi in dono alcune cartuecie cariche a pallettoni! È inutile: anche educato in Francia, l’abissino perde il pelo, ma non il vizio! La sosta di Argagà fu per noi un vero supplizio a causa delle infinite miriadi di zecche che avevano invaso il nostro accampamento. Non si riusciva a vedere di dove venissero, ma bastava muovere un passo fuor del sentiero battuto per essere subito coperti da migliaia di SebIS > MICRI quelle piccole belve avide di sangue. Le tende, i letti, i vestiti, erano tutti pieni di un brulichio grigiastro, schifoso, che ci metteva nausea e ribrezzo! Pare grot- tesco, e pur quante volte si preferirebbe di aver da fare con un branco di leoni o di rinoceronti, piuttosto che con le torme infinite di certi insetti con cui non c’è arme che valga, perchè quando ne avete uccisi cento o mille, ce ne sono altri centomila pronti ad assalirvi ed a mar- toriarvi. #% Giungemmo all’ Auase, nel luogo dove trovasi il ponte fatto costruire da Menelich. Avevamo fatto una lunga e faticosa marcia, che ci aveva dato un saggio non indiffe- rente di quel che significhi camminare sotto il sole afri- cano senza trovare l’ombra di un albero che possa dare qualche ristoro. Ci attendammo presso al fiume che scorre rumoreggiando, incassato fra due alte pareti di roccie basaltiche; in fondo, l’acqua torbida e irrequieta luecicava qua e là, sotto i fasci di raggi che, in qual- che gomito, riescivano ad insinuarsi fino al fondo. Con quel caldo asfissiante non era possibile percorrere in una sola tappa la distanza che ci separava da Te- decciamalcà, il luogo meno lontano dove esistesse acqua. Decisi dunque, contrariamente al solito, di marciare nel pomeriggio fino a notte, e di riprendere il cammino nella notte stessa, dopo aver concesso alla carovana al- cune ore di riposo. Giungemmo infatti l’indomani a Tedecciamalcà, e non è descrivibile la gioia che pro- vammo ad attendarci, dopo dodici ore di marcia sner- vante, sulle rive del ruscello Cassan, che scorreva lim- pido, fresco, trasparente su di un fondo multicolore di ghiaia rotonda, fra alte erbe ed ombresi arbusti. ALL'UFFICIO TELEFONICO DI LAGA HARDIN. *».. LA INTERMINABILE PIANURA NELLA QUALE SCORRE L’UASC... (Pag. 30) «... GIUNGEMMO ALL’UASC, NEL LUOGO DOVE TROVASI IL PONTE. ce de (Pag. 32) BAMBINI DI BALCI. Cei A Tedecciamalcà trovammo, come avevamo trovato a Cunni, nientemeno che una bottega armena, se si può dar questo nome sontuoso di « bottega » al lurido bugi- gattolo, dove il proprietario sedeva in mezzo a cataste di roba innominabile di tutti i generi e di tutti i colori, coperta dai più varii strati di polvere e di muffa, e deco- rata da magnifici cortinaggi di ragnatele. È inutile dire che tutta quella merce, se aveva il pregio della varietà, aveva il difetto di essere d’ infima qualità, e tutta vecchia e stantìa fino all’inverosimile. Acquistammo alcuni fia- schetti di Chianti, che speravamo contenessero un vino eccellente, perchè il bottegaio ci dichiarò di averli in magazzino da più di sei anni. Ma si vede che il Chianti, che, con l’andar del tempo, diventa sempre più buono nelle nostre cantine, perde questa bella abitudine quando si trova nella bottega di un armeno in un villaggio abissino, perchè io non trovo davvero le parole per de- scrivervi quale abominevole, velenosa e nauseabonda bevanda fosse contenuta nei fiaschetti dell’armeno, che pure avevano, a prima vista, un’apparenza tanto innocua. Certamente si trattava di vino indigeno. Infatti i Greci e gli Armeni che negoziano in Abissinia, sono abilissimi nel fabbricare sul posto vini e liquori, imitando, più o meno bene, quelli europei. * * * Da Tedecciamalcà a Cioba si risale rapidamente per una via carrozzabile molto primitiva, sulla quale tran- sitavano veicoli ancor più primitivi, trascinati faticosa- mente da magri buoi, trasportando gli oggetti ed i ma- teriali di grosse dimensioni da Diredaua ad Addis- Abeba. La nostra carovana, però, deviò da questa strada quasi rotabile subito dopo Tedecciamalcà, per seguire l’antica mulattiera, che abbrevia di non poco il cammino. Il suolo, su questo secondo versante dell’Auase, as- sume forme più aspre e più ripide, scoscendendo dai pendii delle montagne. Qua e là, rarissime, si scorgono piccole e magre piantagioni, accovacciate in fondo agli impluvii, come per raccogliere preziosamente, e sfrut- tare, le poche goccie d’acqua utilizzabili. A Cioba si trova, purtroppo, la dogana dello Scioa. Dico purtroppo, perchè le dogane abissine procurano un monte di seccature anche a chi, come noi, viaggia con un lasciapassare imperiale. I doganieri, che sono affetti da una manìa fiscale in confronto della quale quella europea sembra un regime da età dell’oro, afflig- gono i viaggiatori con ogni sorta di vessazioni. Quelli di Cioba vollero che si mostrasse loro il documento dal quale risultava che avevamo libero passaggio. E, dopo averne preso visione, pretesero che si pagasse una tassa per compensarli del disturbo che avevamo loro dato, obbligandoli a leggere quella carta, mentre noi, certa- mente, non li avevamo pregati di mostrarsi così zelanti nel disimpegno delle loro funzioni. Un’altra tassa ci fu imposta per darci il permesso di far abbeverare le nostre bestie da soma in certe pozze, dove, per cura delle lo- cali autorità, vien raccolto qualche litro d’acqua torbida e fetente. Ma la lista delle delizie doganali non finisce qui: ci son poi sempre le mancie, che, senza esser richieste, divengono obbligatorie, per ricambiare alcuni doni signi- ficativi, consistenti in qualche dozzina di uova, qualche pollo, od una magra pecora, che vengono portati al mo- — 35 — mento della partenza, in modo che, per non saper dove metterli, si restituiscono dopo averli profumatamente pagati. * * * Ampie gradinate di roccie ci si presentano innanzi, sovrapponendo, ininterrotte, i loro enormi scaglioni da Manabella a Gadaburca. Su ogni pianoro cominciamo a rivedere frequenti aggruppamenti di capanne ed uber- tose coltivazioni, consolandoci un po’ della snervante marcia fatta per vari giorni attraverso alla vasta risecca vallata. Anche la temperatura ridiventa mite e quasi fresca; infatti siamo di nuovo ad um’altitudine che si avvicina ai duemila metri. Quel bel tipo del nostro «nagadi » ha trovato modo un’altra volta di crearsi grattacapi con la giustizia — mi si passi la parola che potrebbe sembrare ironica — del paese. A Manabella egli ha permesso che i muli della carovana andassero ad abbeverarsi a certe pozze, che, secondo le disposizioni delle autorità, sono riserbate sol- tanto agli animali del paese e non a quelli di passaggio. Le nostre bestie colpevoli furono sequestrate, ed il loro proprietario venne deferito alla giustizia. Il fatto suscitò un grande scompiglio nell’accampa- mento, perchè l'indomani era necessario ripartire. Mandai quindi l’ interprete ad intercedere perchè i muli fossero messi «in libertà provvisoria », ed intanto feci dire al «nagadi » che ungesse le ruote rugginose della giustizia con talleri sonanti, per tacitare le bramose canne dei neri magistrati, sempre pronti a tender ricatti allo stra- niero, con qualunque pretesto. Ato Alula restò mortificato, perchè avrebbe preferito di sfoderare un’altra volta la sua cavillosa ed impetuosa PANIC 1 Ga arte oratoria; ma quando fu convinto che io non inten- devo affatto trattenermi a Manabella, per il solo gusto di assistere ad un nuovo esilarante processo abissino, mi obbedì, sebbene a malincuore. Così potemmo proce- dere senza altri inconvenienti verso Gadaburca. In fondo alla valle di Gadaburca, che, a quanto mi parve, è il risultato di una frattura, si raccolgono e scorrono in paurose fenditure profondissime, con mugghii di bestia scannata, le acque che scendono tumultuosa- mente dalle ripide terrazze di Balci e dalla ubertosa regione del Mingiar, assai bene coltivata. C'inerpicammo fino a Balci per un sentiero assurdo scavato nella roccia. Ci attendammo più tardi a Scion- corà, dopo avere attraversato vaste pianure, dov'erano frequenti le coltivazioni di orzo e di tief, che, del resto, sono frequenti in tutta la regione scioana. Prima di rimetterci in marcia, ogni mattina, mentre rifacevamo per l'ennesima volta il noioso e complicato lavoro di toglier le tende e di rifare i carichi, ci vede- vamo circondati tutt’ intorno da innumerevoli pupille umane e bestiali, luccicanti di avidità. Eran misere donne curve e rugose, bambini macilenti, col ventre mostruosamente gonfio, che aspettavano di contendersi i nostri rifiuti: le ossa spolpate, le pelli gettate via, le scatole vuote, i brandelli di lacere stoffe, e perfino le sudicie fascie che avevan servito a bendare qualche piede escoriato. E sui rami degli alberi avvoltoi appol- laiati ed immobili, ed in alto, nel cielo, stormi di falchi roteanti e di corvi gracchianti, e in basso, ai piedi dei tronchi, branchi di cani rognosi, sfiameati, ischeletriti coi i dai lunghi digiuni; da per tutto dove volgessimo le pu- pille vedevamo orridi spettri viventi, umani e anima- leschi, che tendevano i magri colli, gli occhi spalancati, le bocche affamate verso di noi, attendendo, con uguale bramosia, di poter gettarsi su questo o quell’immondo avanzo, adocchiato in precedenza: pronti a slanciarsi tutti insieme, con meditata rapacità, sulla preda ago- gnata, appena ci fossimo allontanati e a difendere con le unghie e coi denti il miserabile tesoro. Io mi sot- traevo, più rapidamente che potevo, alla vista di quel nauseante spettacolo, ma le poche volte che mi capitò sotto gli occhi quel viluppo convulso di mani e di ar- tigli, di musì e di ali che si agitavano freneticamente, lottando su di un immondezzaio, fui preso alla gola da un senso di ribrezzo tanto profondo da superare anche la pietà. * * * Continuammo a traversare il vasto pianoro che se- guita ininterrotto fino ad Addis-Abeba, incontrando spesso ruscelli e fiumiciattoli, che s’intersecano e si ra- mificano, irrorando e rinfrescando tutta la regione. Il più importante di essi, 1’ Acachi, per mezzo di un canale rozzo e primitivo, irriga le coltivazioni di caffè e gli orti tenuti in concessione dagli europei. Da Sciafedenza vedemmo aleuni lontani luccichii, che în sul principio non sapevamo spiegarci. Erano i tetti di lamiera della capitale etiopica, che, riflettendo i raggi del sole, ci annunziavano, come una face, la vicinanza della prima mèta del nostro lungo viaggio. Infatti l'indomani, 1° novembre, entrammo in Addis- Abeba, accolti con simpatica cordialità dal Ministro d’Italia conte Colli di Felizzano, e dal segretario di Le- gazione cav. G. Cora. Finalmente! Dopo tante setti- mane trascorse in mezzo alla natura selvaggia e ad uomini troppo diversi da noi nell’anima e nei costumi, eran volti italiani quelli che ci sorridevano affettuo- samente, eran mani italiane quelle che si tendevano a stringere calorosamente le nostre, eran voci italiane quelle che ci salutavano con le dolci parole della bella lingua nativa, producendo sul nostro spirito una commo- zione, un’esaltazione gioiosa, come quella che produce il risentire, dopo molto tempo, una musica soave tanto conosciuta e tanto amata. TE IL NUOVO FIORE. (ADDIS-A BEBA). Il nome di Addis-Abeba ha, in amarico, un poetico significato: quello di «nuovo fiore ». Non voglio discu- tere l’olezzante sostantivo per rispetto alle opinioni este- tiche degl’ indigeni; in quanto all’aggettivo, esso è indi- scutibilmente assai appropriato perchè Addis-Abeba è nata insieme all'impero di Menelich, il quale, come è noto, salì al trono di tutta l'Etiopia nell’anno di grazia 1889. Anzi questa città è sorta per volontà dello stesso Negus, il quale pare non avesse soverchia simpatia per la decrepita residenza di Entotto, appollaiata sull’aspro culmine di un monte. Perciò, salito alla dignità im- periale volle discendere qualche chilometro più al sud, e pose il suo « Ghebì », la sua residenza, insomma, su di una collinetta riparata dai venti freddi di nord-est ed elevantesi, insieme ad alcune altre, nel bel mezzo dell’altipiano. Sebbene, ormai, parecchi anni sian trascorsi da quando la prima rotonda capanna fu inalzata per ordine della Imperiale Maestà, pure Addis-Abeba conserva, ancora oggi, il carattere di una città in corso di costruzione. Questo suo aspetto proviene dal gran numero di case e di opere pubbliche che hanno tutta l’aria di attendere ESS pn vanamente la mano industre del muratore per essere condotte a termine. Menelich, infatti, che aveva senza dubbio una non comune intelligenza, aveva ideato e fatto iniziare, proba- bilmente dietro consiglio di europei, un gran numero di opere pubbliche. Ma queste, come dicevo, son rimaste quasi tutte in asso, poco dopo il cominciamento della loro costruzione. Anche alcuni privati indigeni volevano farsi edificare case con sistemi europei; ma queste co- struzioni furono rapidamente abbandonate; ond’è che adesso se ne vedono i muri cadere prima che mai ab- biano servito al loro uso. Tutto quel che può passare inosservato all’occhio del comune viaggiatore, impressiona invece vivamente chi conosce a fondo il carattere abissino. L’acuto inda- gatore vede, infatti, nell'aspetto della capitale, come l’espressione tangibile, come il simbolo esteriore, della volubilità e dell’incostanza che sono le principali carat- teristiche dell'anima etiopica. In realtà, se si eccettuano le capanne indigene e le case fatte costruire e abitate dagli europei, tutto il resto di Addis-Abeba è una folle accozzaglia di muri incompiuti, di rottami abbandonati, di edificii, di strade, di ponti, appena iniziati e già cadenti, che conferiscono alla città uno strano aspetto paradossale, come d’un paese nuovo e già troppo vecchio, d’un paese che stia sorgendo e che già cada in rovina. Anche le poche vie fatte costruire da Menelich son ridotte ormai in uno stato miserevole. Nessuno si è più occupato della loro manutenzione; l’acqua, scorrendovi come in un letto di torrente, le ha guastate ed erose; alcuni ponticelli, lesi, sconnessi, traballanti e giammai onorati di una riparazione, sono stati chiusi al pas- ADDIS-ABEBA. IL « GHEBI ». ADDIS-ABERA. IL TERRENO ATTIGUO ALLA R. LEGAZIONE. ‘OIVUOID NVS IO VSHIHO VI ‘'VAIMAIV-SITAV ; ì o | dre saggio per evitare ai viandanti i pericoli a cui andreb- bero incontro se, per distrazione o per amor di cimento, vi transitassero sopra. Si può dire quindi che, durante la stagione delle pioggie, il passeggiare per le vie della capitale sia altrettanto incomodo quanto il camminare su di una qualunque carovaniera dell’altipiano. Se si eccettua una conduttura d’acqua, assai pros- sima, per contro, all’esaurimento, tutte le altre opere pubbliche che in Addis-Abeba vivono e resistono al tempo sono dovute all’iniziativa degli europei. A dire il vero, anche l’ospedale è dovuto alla munificenza di Me- nelich: ma, a quest'ora, il pietoso asilo non esisterebbe nemmeno allo stato di rudero, senza l’opera assidua ed amorosa del dottor Vitalien che ad esso ha consa- crato tutta la sua attività e tutte le sue forze. L’ unico mulino a vapore che lavora è stato costruito dall’ita- liano Vaudetto. La bella chiesa di San Giorgio, che inalza la sua graziosa cupoletta sull’armonico poligono delle mura, simmetricamente traforate dalle finestre di stile Rinascimento, è stata pure disegnata ed elevata da un altro italiano, l’architetto Castagna. Anche il telegrafo, che dirama le comunicazioni al nord di Addis-Abeba, è opera d’italiani e da italiani viene esercitato; mentre quello del sud vien tenuto da impiegati francesi; come pure da impiegati francesi è fatto il servizio postale, su cui, però, il Governo imperiale conserva la sua facoltà di controllo. Esiste pure un comodo albergo che si dice costruito con i danari dell'imperatrice Taitù — la quale sarebbe cointeressata nell’azienda — e che è diretto da un suddito greco. L'impressione di precario e di effimero che la capi- tale etiopica produce sul visitatore, viene confermata dai numerosi attendamenti, che sorgono, un po’ da per tutto, =. ar come strane fungazioni biancastre, e che si addensano specialmente verso la periferia della città. Essi appar- tengono ai capi, che vengon chiamati dal Governo per ragioni di servizio, e che giungono seguiti da numerosi gregarii; ai « nagadi» che arrivano alla capitale con le carovane; a tutti coloro che, per una ragione o per l’altra, dopo lunghi viaggi in contrade inospitali raggiungono il centro dell’Etiopia. Appena il sole è tramontato ogni circolazione cessa per le vie di Addis-Abeba; agl indigeni è proibito di transitare per le strade durante la notte; quindi, man- cando completamente ogni movimento notturno, non si è sentito il bisogno d’impiantare un sistema qualunque d’ illuminazione per le vie della capitale, le quali restano perciò immerse nella più profonda oscurità. Soltanto qualche volta si vedon dei lumi dondolare nella tenebra, assumendo un’apparenza quasi fantastica in mezzo al buio, al silenzio, alla solitudine; son le lanterne degli europei, i quali, se hanno bisogno d’uscire dopo il tra- monto, son costretti a farsi accompagnare da quei lam- padefori, così poco ellèni... Sulla sinistra del torrente Cabanà, sorgono, l’una ac- canto all’altra, le sedi delle rappresentanze estere. Esse, tutte costruite in muratura, linde e nitide, mettono una riposante nota di civiltà, in questa caotica confusione di barbare capanne intramezzate da mura incompiute e ruinate che ricordano l’aspetto delle città dissepolte. Quelle legazioni europee, sebbene fornite di tutte le comodità che è possibile procurarsi in questi paesi, hanno però un po’ tutte l’aria di fattorie di campagna. Quella — 43 — d’Italia, a detta d’ognuno è la meglio situata, e costruita col maggiore buon gusto: di ciò si deve dare tutto il me- rito al nostro ministro conte Colli, che ha fatto trionfare, anche nel centro dell’Abissinia, il tradizionale senti- mento artistico italiano. Il palazzetto è composto di un sol piano. Ha sulla facciata un portico a cui si accede con una doppia sca- letta, e che è formato da sei robusti pilastri quadrati; le linee dell’insieme sono semplicissime ma eleganti. Al disopra delle finestre si aprono piccole feritoie che cor- rispondono nel solaio e che tradiscono, sotto apparenza civettuola della villetta, il carattere sostanziale di for- tino, non inopportuno nè ineloquente nelle costruzioni europee di questi paesi. A nord del fabbricato principale si trovan le case per il personale italiano ed indigeno della Legazione, nonchè la magnifica e ricca scuderia che eleva il suo gra- zioso tetto spiovente in mezzo a vasti prati ben tenuti dove i quadrupedì si esercitano al salto degli ostacoli : ad uno steeple-chase confidenziale, che, poi, in certi giorni dell’anno, diventa un vero spettacolo pubblico, laggiù, nell’ elegantissimo Ippodromo che le varie Legazioni hanno impiantato con tutte le regole dell’arte ippica e con tutte le raffinatezze dell’arte... cavalleresca... In- torno al palazzetto, alle case, alle scuderie, ai prati, ricorrono viali magnifici, tutti coltivati a rose; e non manca nemmeno un bell’orto che produce buona ver- dura e frutta eccellenti. Anche la residenza imperiale, il Ghedi, offre lo stesso aspetto caotico del resto della città: si scorge entro un gran recinto, un confuso aggruppamento di costruzioni di tipo indigeno, o scimmiottanti le foggie europee; le capanne mescolate agli edificii in muratura, il vecchio RISE 1 A che viene a patti col nuovo; il tutto senza ordine e senza criterio. E dovunque s’aggirano continuamente muratori e manovali in gran faccenda, ma fermamente decisi a non farci mai vedere quattro muraglie com- plete che rappresentino, non dico un palazzo regale — sa- rebbe troppo chiedere — ma almeno qualche cosa che somigli da lontano ad una nostra semplice casetta di cam- pagna. Nella città, oltre alle Legazioni, vi sono alcuni altri edificii che possono meritare l’onorifico appellativo di «case» e sono sparsi qua e là specialmente nei pressi del mercato; appartengono naturalmente ad europei e ad indiani, per la maggior parte commercianti; ma nessuna di quelle case assume proporzioni di qualche importanza, anzi dimostrano tutte la generale mancanza di mezzi della capitale abissina. Tutte le supreme autorità politiche, amministrative, legislative, giuridiche son concentrate in una sola per- sona: il Negus; e quindi tutte le principali funzioni di quelle autorità son riunite nel luogo dove egli risiede. Il Negus personifica lo Stato: è il padrone assoluto di tutto e di tutti, ha un potere illimitato, e governa con un regime molto simile all’antico feudalesimo. Quindi tutti e tutto fan capo a Addis-Abeba. I ras, i degiac, i capi, i sottocapi, tutti quelli che reggono in nome del Negus una provincia o magari un piccolo villaggio, devon render conto dei loro atti e della riscossione dei tributi ad Addis-Abeba, dove affluiscono periodicamente. Esiste, è vero, presso il Negus una specie di Consiglio dei Ministri, che vorrebbe rassomigliare quelli europei, ma non ne è invece che l’ombra, poichè funziona in in un modo straordinariamente primitivo e manca di qualunque organo di decentramento. Ond’è che i vari ministri non sono altro, in sostanza, che consiglieri per- manenti della Corona, i quali aiutano il sovrano nella direzione dei varii dicasteri; ma il potere assoluto resta sempre nelle mani del Negus che è il solo e supremo arbitro d’ogni manifestazione politica o amministrativa. Anche questo sistema di Governo, cui ho rapida- mente accennato, mì persuade a credere che gli Abissini siano proprio di razza camitica, piuttosto che di razza semitica, come molti scienziati vorrebbero affermare. È certo che nella religione, nella lingua, nelle tradizioni, sì riscontrano traccie d’infiltrazioni semitiche; ma ciò non dimostra che il ceppo della razza sia semitico; anzi, se sì osservano i costumi, le usanze, la psicologia degli Abissini, sì è indotti a propendere per la mia tesi, poichè essi tradiscono troppo le origini camitiche; soltanto pro- genitori di questa stirpe possono aver tramandato ai moderni etiopi, non soltanto V uso di accentrare tutti i poteri governativi nel capo guerriero, ma anche lo spi- rito di rapina e di conquista portato ad un così alto grado. La storia dell’ Etiopia, con le sue guerre che somigliano a razzie, e con le lotte intestine per ogni successione al trono, cagionate dai varii pretendenti è tutta una eloquente conferma della mia ipotesi. Però, quanto alle lotte di successione, quest’ultima volta, sebbene tutti temessero lo scoppiare di tremende guerre civili, la scomparsa di Menelich dalla scena po- litica si è realizzata in una relativa calma: per lo meno sa Ri senza spargimento di sangue. Varie sono le cause che potrebbero darci la spiegazione di questo fenomeno. Anzitutto Menelich aveva già avuto il modo di de- signare il successore, e, sebbene paralizzato, sebbene cronicamente agonizzante, non era ancora morto; due ragioni perchè il suo fascino personale esercitasse an- cora una potenza di dominio assoluto su tutto e su tutti. Il leone moribondo non è la stessa cosa del leone morto; tanto più quando ha lasciato nella tana un lion- cello che, se non ha ancora i denti abbastanza forti per mordere, può coprirsi come di un’egida col rispetto im- posto dal vivente fantasma del suo autocratico prede- cessore. Poi, i pretendenti erano troppo deboli di fronte al fascio di forze coalizzate, che Menelich, con sapiente diplomazia, aveva saputo radunare intorno al suo gio- vane successore; l’unico partito potente, che avrebbe potuto alzar la testa con qualche probabilità di riuscita — quello che faceva capo all’ imperatrice Taitù — si trovò isolato e disorganizzato al momento della lotta, e potè quindi essere sùbito ridotto all’impotenza dai forti e ben collegati sostenitori di Ligg Jasu. Un altro fatto che può aver influito sul pacifico modo con cui è avve- nuto il trapasso del trono, è l’ indebolimento dello spi- rito bellico prodotto nel carattere abissino dal lungo periodo di pace che Vl Impero ha goduto sotto il regno di Menelich. Questo Negus ha esteso il proprio dominio su tutti i paesi che era possibile conquistare, e li ha riuniti in modo definitivo all’ Impero. Cosiechè da molto tempo è mancata la ragione per tentare qualunque guerra di conquista. Sebbene io fossi preparato a ricevere un’ impressione di cittadina vita pacifica, pure devo confessare di essere stato non poco sorpreso dallo stato di perfettissima calma PIANTA si N° 105 MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI ADDIS ABEBA MISSIONE PER LA FRONTIERA DIREZIONE CENTRALE DEGLI AFFARI COLONIALI ITALO-ETIOPICA Legazione Francèse FIG Fitaurari Apte 6hiorghis { {Rest Imp! bu Scala nel rapporto di |a 25,000 o | 2° Chilometri n i i PISTA FarFoWia. (RI CONtrUzione, Riproduzione vietata Istituto geografico militare _1912 (Lecce 19 SETT 1882 N.1012) ===, rada a fondo artificiale : Rilievo eseguito dai Topografi naturale Grupelli e Venturi A. ana" «= LIT) Capo della Missione _—------------------— Sentiero Capitano Citerni Re rd che regnava in Addis-Abeba e dalla inverosimile tran- quillità con cui i tradizionalmente bellicosi abissini disbri- gavano tutti i loro affari, e con cui si svolgevano tutte le funzioni della vita pubblica. Mentre il vecchio Negus, completamente paralizzato e impotente, miserevole spet- tro di sè stesso, seguitava a vivere vegetativamente, assistito dall’imperatrice Taitù, ed era tenuto nascosto alla vista di tutti, tantochè alcuni si eran convinti ormai della sua morte, Ligg Jasu, il giovinetto desi- gnato dalla volontà del morente, regnava, sorretto, nelle cure del governo, da Ras Tesamma, diramando la sua autorità per tutto l’ Impero attraverso ai ministri, ai ras, al degiac e a tutti gli altri capi. Mentre mi trovavo ad Addis Abeba, fu imprigionato Ras Oliè, fratello della Taità; poi, sì questa che quello vennero relegati ad An- cober. Da poco tempo era stata sedata la ribellione di degiac Abrahà, il quale si era lasciato prender prigione dopo la battaglia di Quoram, così sfortunata per lui. Ebbi dunque, durante il mio soggiorno, la possibilità di osservare la vita della capitale, in un periodo di straor- dinaria tranquillità. Dopo che fu assicurata la succes- sione di Ligg Jasu, l'andamento politico interno ed esterno continuò a procedere con la sua normale fisonomia, pro- pria di questo paese, e cioè complicato dai subdoli in- trighi dei favoriti, turbato ogni tanto dal rumoroso allon- tanamento d’un capo caduto in disgrazia, distratto dal- l'interesse d’un processo alla moda che riempiva di commenti la capitale. * * * Ad Addis-Abeba vi erano stati finora rappresentanti di cinque grandi potenze, e cioè: dell’ Italia, della Francia, dell’ Inghilterra, della Germania e della Russia. Ma, ulti- LIMI mamente, anche la lontana America ha voluto far giun- gere la sua voce politica nel cuore dell’ Abissinia, isti- tuendo un consolato nella capitale. I rappresentanti delle potenze devon trattare i loro affari col ministro degli esteri; ma anche qui, come in tutto, la suprema san- zione è riserbata al giudizio ed alla volontà del Negus. Se si dovesse far la storia di qualcuno degli affari trat- tati dai rappresentanti esteri con il Governo abissino, ci sarebbe da riempir dei volumi che riuscirebbero il più curioso ed insieme il più noioso documento della inde- cisione umana. In Etiopia il sospetto e la diffidenza son posti a base d’ogni sistema diplomatico o commer- ciale; il più semplice, il più piccolo, il più limpido affare vien circondato dal mistero, dall’ambiguità, e si compie, quando si compie, attraverso ad infiniti ondeggiamenti, con tali strascichi, con tali lungaggini da far impallidire la proverbiale sospettosa lentezza delle autorità turche. Il tempo non ha alcun valore per gli abissini: è inu- tile arrabbiarsi, incitare, cercar di convincere; bisogna armarsi di santa pazienza e di santissimi talleri. In simile ambiente non ci sono che due soluzioni da’ prendere: opporre astuzia ad astuzia ovvero mo- strarsi candidamente, onestamente sinceri. Io mi sono sempre afferrato con tutte le forze al secondo e più decoroso corno del dilemma. E, a giudicare dai frutti raccolti, il sistema prescelto non mi ha indotto mai al pentimento. * * * Le merci che giungono dall’estero per essere impor- tate nelle varie regioni dell’ Abissinia, passano per Addis- Abeba; ed ivi affluiscono, dall’ interno, anche quelle che poi saranno avviate alla costa per essere esportate. A ddis- ‘HNOIZVOUT "I VITUO OLLUZZVIVA "TI "VIUIAV-SITTV ADDIS-ABEBA. LE SCUDERIE DELLA R. LEGAZIONE. ADDIS-ABEBA. LA RACCOLTA DEL FIENO ALLA R. LEGAZIONE. At I Abeba è quindi anche il centro commerciale dell'Etiopia e può essere considerata come un gran mercato. In un gran piazzale, due volte la settimana, si riunisce gran numero di negozianti in una pittoresca confusione e sì espongono tutte le merci di produzione del vasto Im- pero: dall’oro alle pelli, dall’avorio al fascio di fieno. Il bestiame è riunito in tre separati recinti: uno per gli animali bovini, l’altro per gli equini, il terzo per gli ovini. Intorno al gran piazzale sono disposti i negozi e le botteghe degli europei e degli indiani. Fra di essi tro- neggia la dogana, l’unica istituzione, che, pur troppo, si trova in qualunque paese dell’ Impero. Specialmente nei magazzini degli indiani, che sono completissimi bazar, si trovano molti generi anche di uso europeo, ed in particolare tutto ciò che è necessario per organizzare una carovana per l'interno: dalle co- mode tende di tutti i sistemi, all’oggetto più insignifi- cante di equipaggiamento, e perfino i cibi più fini con- servati in iscatola, e le bottiglie dei vini e dei liquori più ricercati. Gli indiani esercitano pure varî mestieri, fra i quali quello del barbiere e del sarto; sanno ese- guire abbastanza bene qualunque vestito purchè se ne dia loro il modello. Del resto, indiani sono anche i grandi esportatori e importatori, che esercitano il loro traffico con capitali propri, o presi a prestito da indigeni e specialmente dal Negus. Essi hanno una grande attività; sono intra- prendenti e si contentano di moderati guadagni; con- servando un continuo contatto con la popolazione in- digena, hanno anche potuto rendersi perfettamente conto dei bisogni e dei gusti di quella; ed in base a tali osser- vazioni tengon magazzini forniti di tutto ciò che può essere spacciato in Abissinia, facendoselo arrivare dai ER centri di produzione più a buon mercato dell’ Europa o dell’ India. Di più, mantengono, come del resto anche le ditte europee, numerosi rappresentanti arabi o indiani, nei principali centri dell’ interno, che son situati sulle grandi vie carovaniere. Così possono far giungere i pro- dotti importati fino al consumatore, e possono incettare alle migliori condizioni i generi da esportare, facendoli spesso lavorare e preparare sul posto. Con questa per- fetta organizzazione, molti si son formata una solida posizione commerciale che può sfidare qualunque con- correnza. * *X * Facendo un giro per il mercato di Addis-Abeba, ci sì può render subito conto delle svariatissime merci che s'importano in Abissinia. Ecco, infatti, se per poco vi allontanate dall’assordante marea di popolo che invade la piazza e vi rifugiate, un po’ per trovarvi tregua, un po’ per curiosità, in uno di quei molti negozi indiani, voi vedete fasci di armi di tutti i generi: son fucili di vari sistemi, antichi e moderni, da guerra e da caccia, semplici o graziosamente decorati, sono sciabole ricurve che luccicano al sole, coltelli da caccia, brevi pugnali insidiosi, e poi tutti gli accessorî: pacchi di cartucce, guaine per pistole, foderi e impugnature di sciabole, eleganti borse di cuoio tutte lavorate per contenere le armi di lusso. Più in là, altri metalli luecicano, ma de- stinati ad usi più pacifici: sono vomeri per gli aratri, e zappe e vanghe per dissodare la terra, falcetti per la fienatura, e seghe, e pialle, e scalpelli, e tutti gli uten- sili per gli operai e gli artieri. Ma ecco altri luccichii più vivaci prodotti dalle cristallerie e dagli oggetti in ferro smaltato per uso domestico. In altri luoghi vedete esposte le pezze di cotonate americane, dei tessuti speciali per gli sciamma, le ricche stoffe di seta per le vesti dei capi, ed i bei ricami d’oro con i quali sono adornate quelle di maggior lusso; ve- dete anche tappeti vivaci e stoffe per tende; e vedete scarpe di tutti i generi, gambali di cuoio, e cappelli di feltro a larghe tese, bianchi o neri, che ormai sono usati da tutti gli abissini eleganti dei due sessi, i quali creano, così, senza accorgersene, una curiosa stonatura, com- pletando con un copricapo europeo il loro costume deti- nitivamente indigeno. Ma anche la tavola non è punto trascurata; infatti seorgete sul mercato le scatole di latta che racchiudono conserve di frutta o di pomodoro, oppure tonno e sar- dine sott'olio; scorgete le scure bottiglie contenenti vini di lusso specialmente spumanti, e forti liquori diabolica- mente alcoolici; e quelle gialle, trasparenti, ripiene d’olio di oliva; e trovate zucchero, e riso, e pasta, e comme- stibili d’ogni sorta. In altro luogo trovate lampade di vari sistemi, fiam- miferi di legno, generi di drogheria, come il petrolio e il sapone, e perfino i medicinali più comuni, tra i quali i tenifughi contro il comunissimo morbo della tenia onde sono afflitti questi abissini divoratori di carne cruda. E trovate anche sigari e sigarette, che però son con- sumati quasi esclusivamente dagli europei. Gli abissini, com’è noto, fanno poco uso di tabacco. E adesso osserviamo un poco i prodotti del paese destinati all’esportazione. Sono cataste di pelli bovine e caprine che sì ammassano l’una su l’altra, e balle ri- rai 1" (IRA piene di chiechi di caffè che andranno laggiù ad Aden e poi, via via, diramati da quel gran centro commerciale, sotto il nome di caffè moka, andranno a profumare, con le loro vaporose esalazioni, i salotti europei; son liane da cui verrà estratto il caucciù; son pani di bionda cera; e pezzi d’oro grezzo; e sacchetti di zibetto; e lucidi ricurvi denti di elefante; e preziosissimi corni di rino- ceronte. In mezzo a questi monti di merci differentissime passeggiano e discutono gl’indigeni affluiti dai più lon- tani punti dell’ Impero, non solo per concludere i loro affari, ma anche per raccogliere notizie e informazioni importanti. Infatti sul mercato i banditori gridano gli ordini dell’ Imperatore, ed ivi pure amministrasi la giu- stizia, e si applicano le dolcissime pene che si chiamano la fustigazione, la lapidazione, il taglio della mano e del piede, e, tanto per finire la graziosa serie, l impiccagione. Si può vedere anche l’albero della giustizia, un vecchio albero seortecciato dai cui rami pendono, dondolando al vento, i cadaveri dei giustiziati, ad esempio e ammo- nizione dei deliquenti intenzionali, che, certo si aggi- rano pel mercato, quasi attratti da una strana voce del sangue... Al mercato incontrate anche gli artisti: i poeti can- tastorie, specie di rapsodi che vengon chiamati nelle feste domestiche per cantare la gesta del guerriero o la bellezza della dama; i suonatori che servono ad allie- tare i banchetti e i pittori che offrono i loro curiosi quadri rappresentanti soggetti religiosi, come santi e madonne, oppure il ritratto del Negus; « rappresentanti » per modo di dire, perchè col loro strano stile quasi bi- zantino, i pittori abissini non riescono troppo ad avvi- cinarsi alle forme della natura; e di questo sembra sian convinti anch'essi, perchè, per non esser male inter- pretati, hanno cura di scrivere sempre sopra ogni figura quello che, secondo loro, hanno avuto l'intenzione di rappresentare. Ho acquistato uno di questi capolavori. Guardatelo. Raffigura un gabar, o banchetto offerto dal Negus. L'imperatore è dipinto lassù, in alto, bene in- gabbiato dentro un trono o baldacchino che ha l’aria d’un arco scenico per marionette. E marionette sembrano i di- gnitari impalati e sempliciotti che lo attorniano. Nello scomparto sottostante banchettano i ras intabarrati che sì guardano tutti di traverso con occhi comicamente sospettosi e discutono con attitudini gravi tanto da far sembrare quella striscetta dipinta una originale e buffa caricatura della Cena del divino Leonardo. Quei tre bu- rattini stretti appiccicati l’uno all’altro sopra i ras, alla destra, vorrebbero essere nientedimeno che i rappre- sentanti esteri. Vi consiglio non lambicecarvi il cervello per cercare di riconoscere in ognuno di essi il rappre- sentante della tale o della tal’altra potenza... Sarebbe inutile: sono tutti uguali, e sono uguali agli abissini, perfino nel colore della pelle... Sul dipinto, unica differenza tra Europei e Abissini è che quelli — gli Europei — portano un paio di baffetti spio- venti. Più giù negli altri comparti si vedono i degiac, i capi minori, i soldati, i cerimonieri, i servi, le schiave, i coppieri, e in fine, in basso a sinistra, tutti in fila, stec- chiti e malinconici, i suonatori che tengono tutti per traverso certi arnesi che dovrebbero essere trombettine, ma che potrebbero essere anche bottiglie o qualunque altra cosa. Tutte le teste sono uguali, rotondette e li- scie, viste quasi di faccia, ma con le pupille che guar- dano sempre di traverso, molto a destra o molto a si- nistra. L'insieme dello stile ricorda, come ho detto, certi lavori bizantini fra i più primitivi, in cui non si tiene affatto conto della realtà, ed ogni oggetto od ogni essere è disegnato sempre nello stesso modo, con una cifra stereotipata, una specie di simbolo grafico immutabile. Il commercio di esportazione segue quasi tutto la via carovaniera che da Addis-Abeba va a Diredaua, e poi pro- segue fino a Gibuti per mezzo della ferrovia. La moneta corrente è il tallero di Maria Teresa. Esiste pure quello fatto coniare da Menelich, ma non è accettato volentieri dai commercianti; anzi di esso non son rimaste in cir- colazione che le monete divisionali, le quali suppliscono alla mancanza di suddivisioni del tallero di Maria Te- resa. La Banca dell’ Abissinia, costituita da capitali in- glesi, francesi e italiani per la somma complessiva di lire sterline 500,000, di cui un quarto versato, ha la sua sede principale al Cairo; ma in Abissinia tiene la sua succursale principale ad Addis-Abeba e agenzie a Dire- daua, all’ Harrar, a Gorè e a Dessiè. Il bilancio del 1911 portava un movimento di cassa pari a 16,813,868 di tal- leri ed il bilancio stesso dava agli azionisti circa il 6 0/0 sul denaro versato. * * * Purtroppo gl’ Italiani e i prodotti dell’Italia hanno una parte insignificante nel vasto movimento commer- ciale di Addis-Abeba, che è quanto dire nel movimento dell'intera Etiopia. Nella capitale si trova una sola im- portante casa italiana. Esistono pochi altri commercianti nostri connazionali, che però non importano nemmeno prodotti esclusivamente nostrani. La mancanza d’una comunicazione diretta fra i porti italiani e Gibuti è la causa principale della difficoltà che incontrano i nostri commercianti ad imporre i pro- dotti italiani in Etiopia. Le merci provenienti da Napoli devono essere scaricate ad Aden, e, di qui, esser traspor- tate a Gibuti. Ond’è che la maggior spesa ed il maggior tempo richiesti da questo trasbordo, obbligano i nego- zianti abissini ad evitare di dare ordinazioni in Italia; e d’altra parte i produttori italiani mal volentieri avven- turano le merci verso il centro dell’ Abissinia, perchè, in simili condizioni, esse sono esposte ad essere smar- rite o deteriorate. Oltre a questa causa, dipendente dalla difficoltà di comunicazioni, il poco nostro successo com- merciale in Abissinia va addebitato ai primi impor- tatori nostri, i quali introdussero nel mercato vini, li- quori, cappelli e stoffe, ma vollero far guadagni troppo lauti e troppo immediati, e furon quindi sopraffatti dalla concorrenza degli Indiani e degli altri europei; di più cambiarono spesso il genere della merce, mentre in questi paesi un prodotto s'impone con la persistenza; giacchè quando gl’indigeni si sono abituati a comprare una data cosa, desiderano di poterla ritrovare sempre uguale. Per esempio, le cotonate italiane sono poco ricercate, pur essendo di buona qualità, perchè ne fu variato troppo spesso il tipo; grave errore su questo mercato dove, come ho detto, il successo dipende dal sapere presentare ai clienti la merce sempre dello stesso genere, tanto per la qualità come per il prezzo. Così anche i vini da pasto han ceduto il passo a quelli importati da Marsiglia. Oggi vengono introdotti con successo i cappelli fab- bricati in Italia, ma incettati dai Greci e dagli Indiani. Credo che, oltre ai cappelli ed alle merci surricordate, molti prodotti nostri potrebbero trovare in Etiopia una rimunerativa diffusione, e specialmente quelli che, per il 2. "RI loro basso costo, in Italia possono lottare con sicurezza contro la produzione straniera, come ad esempio, i generi alimentari in iscatola e specialmente il tonno, le sardine, le conserve, i frutti canditi; poi il burro, l’olio, la pasta, il vermouth e i vini, in particolare gli spumanti. Ma bi- sogna cercar d’inviare merci non di infima qualità, sempre uguali al campione presentato, e sempre dello stesso tipo. Ogni industria ed ogni commercio di una certa im- portanza, vengono a poco per volta monopolizzati in Etiopia. Il Negus, in cambio di lauti compensi in danaro ha concesso a ditte o a privati europei il monopolio dei tabacchi, del sale, del caucciù e perfino della macellazione delle carni. Questi monopolii hanno naturalmente una grande influenza sul movimento commerciale perchè im- pediscono ogni concorrenza. Vi sono poi concessioni indu- striali, e fra di esse, fiorentissimo è il grande mulino a vapore esercito dall’ italiano Vaudetto in Addis-Abeba; quello stabilimento mette una strana nota di febbrile operosità industriale europea in questo paese ancora tanto barbaro. Così pure prospera la concessione per l'estrazione del caucciù in certe provincie dell’ Impero, data alla « Rubber Company ». Invece non han conse- guito buoni risultati altre concessioni minerarie ed agri- cole perchè impiantate su basi poco solide. Alcuni speculatori, nei tempi passati, venivano in Abissinia per chiedere al Negus qualche concessione, poi tornavano in Europa e si mettevano a battere la gran cassa decantando le miracolose ricchezze dell’ Etio- pia, lasciando credere che laggiù bastasse chinarsi verso terra per raccoglier manciate di danaro; così formavano LA CARROZZA. DELLA R. LEGAZIONE IN ADDIS-ABEBA. UN DONO DI RAS TESAMMA AL CONTE COLLI. A BUFOLA CHE PASCOLA LIBERAMENTE DELLA R. LEGAZIONE. ADDIS-ABEBA. IL MERCATO. NEI CAMPI <=. sindacati, allettando i gonzi e mangiandosi poi, senza serupoli, i capitali raccolti. Questo trucco fece un gran numero di vittime specialmente in Francia, dove era stato ideato e organizzato. I nostri connazionali non sono numerosi in Etiopia, ed appartengono quasi tutti al ceto operaio; ma per la loro serietà, laboriosità e intelligenza sono molto ben ve- duti. Lo stesso Menelich nutriva per essi una gran sim- patia ed una speciale predilezione; quando sapeva che erano disoccupati faceva in modo di procurar loro del lavoro. Se una parte della simpatia che gl’ Italiani ispi- rano agl indigeni si deve alle loro doti personali, un’altra parte è opera dei nostri rappresentati, che seppero, con molto discernimento, limitare e disciplinare l immigra- zione, e fecero ogni sforzo per tenere alto il prestigio nazionale. Di più, si deve notare che l’Italia non ha mandato qui, come han fatto le altre nazioni, affaristi e speculatori avidi, ma lavoratori onesti e intelligenti, che fanno onore alla patria, e sanno farsi apprezzare dovunque, tanto ad Addis-Abeba quanto nel resto del- l'Impero e specialmente nel tratto Gibuti-Diredaua, in qualità di impiegati della ferrovia, ed oltre Diredaua, in qualità di manovali o sorveglianti nella costruzione del nuovo tronco. Così, sebbene appartenenti ad una nazione, che è stata per lungo tempo nemica dell’Abissinia, i nostri connazionali, con la loro onesta e intelligente operosità, han saputo conquistarsi la fiducia di questo popolo che è, per sua natura, diftidentissimo. Venne il giorno in cui dovetti prepararmi alla par- tenza. Le preoccupazioni che questa mi dava non pote- vano essere indifferenti giacchè, prima ancora di incomin- ciare i lavori della frontiera, dovevo percorrere ottocento chilometri, da Addis-Abeba a Dolo, attraverso paesi che non offrono alcuna risorsa al viaggiatore. Ero quindi obbligato ad organizzare una carovana numerosa e com- pletamente equipaggiata sì da rispondere a tutti quei bisogni preveduti e imprevedibili che potessero sorgere durante il lungo cammino. Acquistai quel numero di muletti da sella e da soma occorrente all’ impresa, ed arruolai centotrenta uomini tra conducenti, cucinieri, servi, che costituirono tutto il personale della carovana. L’interprete Hassan Aly, bel tipo di negro intelligente, che avevo condotto con me dall’ Eritrea, il robusto duluc-basci Cassa Sangal con i quattro zaptiè a lui sottoposti, mi furono utilissimi e mi coadiavarono magnificamente nel preparare la spe- dizione. Altri aiuti molto efficaci m’ebbi da tutto il per- sonale della nostra Legazione, al quale non sarò mai abbastanza grato per tutte le cortesie usatemi. In breve tempo il numeroso personale ed i molti quadrupedi furon reclutati; dovetti anzi rimandare in- dietro parecchi uomini che volevan seguirmi ad ogni costo, sebbene sapessero che avrebbero dovuto andare molto lontano, attraverso a regioni di difficile transito e piene di pericoli d’ogni specie, e che avrebbero guada- gnato il non molto pingue salario di dieci talleri al mese. Nello scegliere i miei seguaci, ebbi l'avvertenza di non accettare coloro che non fossero stati presentati da un così detto « garante », cioè da una persona ben nota alla Legazione, che s'impegnava verso di essa come mallevadore per l’arruolato, e che si dichiarava respon- sabile per qualunque furfanteria che questi potesse com- mettere. Tale precauzione, molto opportuna nel mio caso, e assai consigliabile a chiunque viaggi in Etiopia, nonchè la buona indole della gente che reclutai, fecero sì che, più tardi, non avessi mai a lagnarmi del personale. Esso si mostrò non soltanto resistente alle fatiche del lungo e talvolta aspro viaggio, ma, come meglio non si poteva, premuroso, volenteroso e disciplinato nel disimpegnare il molteplice compito opportunamente e precisamente da me ripartito secondo l’indole e le attitudini di ciascun mio seguace. In verità, non avevo voluto trascurare un punto, secondo me, essenziale a qualsiasi avventura in paesi nuovi: avevo voluto pre- cisare, talora con abbondanza di spiegazioni e di espe- rimenti preventivi, il compito cui doveva adempiere ciascuno dei componenti la spedizione. Il conducente, avuto consegna esatta del quadrupede, della bardatura e del carico, sapeva, già prima di par- tire, non soltanto riconoscere, a certi segni distintivi, il materiale affidatogli sì da non confonderlo con quello ad altri commesso, ma conosceva anche quali sarebbero stati i suoi doveri in marcia, al campo e al bivacco. Non dissimili consegne e istruzioni, intese ad evitare, più tardi, equivoci, beghe e perditempi, s'ebbero i pa- lafrenieri, i cucinieri e tutto il personale di servizio. Completai la bella carovana assegnando aiutanti capaci al medico e ai topografi e scegliendo cacciatori e racco- glitori per le collezioni zoologiche. Ogni più legittima aspettazione era superata: chè il 22 dicembre tutta quella gente aspettava da me il se Ri cenno della partenza. Dietro a me stava un paese che, per quanto ancora in uno stato primitivo, ospi- tava, sopratutto, volti amichevoli e affettuosi di com- patriotti; dinanzi a me stava la lunga via da percor- rere per monti aspri, per valli inospitali, per pianure ardenti, per luoghi ignoti e selvaggi, in mezzo a po- poli infidi, primitivi, feroci talvolta; dinanzi a me stava il mistero attraente e sgomentante dell’Africa, in mezzo al quale tutta quella folla di uomini e di animali che mi seguiva, si sarebbe sentita piccola e sperduta come una fila di formiche; dinanzi a me stavano tre mesi interi di continuo e difficile cammino, senza un solo riposo sotto un tetto, senza, probabilmente, un solo incontro di un volto bianco, e senza un’assoluta cer- tezza di giungere alla mèta... Ma tutti questi pensieri non facevano che eccitare il mio desiderio di partire, perchè il mistero africano è come un forte liquore: chi l’ha bevuto una volta desidera di beverlo ancora, de- sidera sempre di più gustarne lo strano sapore, l’ori- ginale, forte, indicibile ebrezza. ZIA. I IUST G DELLA ALBERO IL ADDIS-ABEBA. e e Tan Pt e” RAGA IRE x "00 ROIO Più . Tri ii RO ER dl Sii n sila UN CAPOLAVORO DELL'ARTE INDIGENA. TVONVS VSSFO) «UNLdAVZ>» ITDHUA <«IDSVA-DNTNHA) TI 'AIV NVSSVH ULUUdUMINI/T Burano " 5 VEC SIRERO RETE s ©» SM TA i PRE FRA GLI ARUSSI. Il 22 dicembre, come avevo deciso, lasciai Addis Abeba, sebbene gli uomini della carovana avessero mo- strato il desiderio di trattenersi ancora un poco, e seb- bene il nostro ministro e il personale della Legazione in- sistessero cortesemente perchè accettassi di passare il Natale con loro. Ma la via lunga ne sospingeva, ed il do- vere da compiere non ammetteva più dilazioni. Resistetti quindi a tutte le lusinghe e ruppi ogni indugio, dando il segnale della partenza. La lunga carovana, fatta grave da casse e da carichi d’ogni genere, uscì lentamente dalla città; e parve come se un serpe si snodasse scivolando fuor dalla tana. Poi si avanzò nel piano fra le grida gutturali dei conducenti che incitavano le bestie da soma. Ci fermammo dopo soltanto due ore di marcia, sulle rive del torrente Acachi. Fui obbligato ad arrestarmi per meglio organiz- zare la spedizione, giacchè, sebbene io avessi tutto prepa- rato e predisposto, fin nei minimi particolari, secondo le buone norme del paese, assegnando cioè ad ogni condu- cente i suoi quadrupedi ed il suo carico, accaddero diversi incidenti imprevedibili che interruppero la marcia: alcun muli imbizzarriti buttarono all’aria il carico che sì sbu- dellò e si sfasciò tutto; V’un d’essi fuggì addirittura la- sciando le due casse in mezzo alla strada; un altro cadde* ferendosi in malo modo tantochè fu dovuto abbattere. Queste sono le sorprese che serba ad ogni viaggiatore, per quanto preparato e previdente, il primo giorno di marcia. Del resto le prime tappe debbono essere brevi perchè obbligano a frequenti interruzioni. Inoltre è neces- sario, a principio, allenare gli uomini e i quadrupedi. Festeggiammo il Natale a Dicom, attendati in un magnifico prato, sulle rive d’un torrente cristallino. Le anatre selvatiche diguazzavano a gruppi folti gridando e aliando rumorosamente; sul nostro capo si stendeva l’immensa serenità d’un cielo azzurro senza nubi; e il tepore carezzante dell’aria ci faceva pensare stranamente al vento gelido che doveva soffiare in quel giorno per le vie delle nostre città, ai caminetti accesi, alle nostre fa- miglie riunite intorno al desco fumante... * x * Il giorno seguente, alle otto, eravamo di nuovo in cammino, e procedemmo senza incidenti fino al lago Arsadi, dove ponemmo il campo. Questo lago, che ha un perimetro di circa quattro chilometri, giace nel fondo di un cratere mettendo una viva macchia azzurra sul gri- giore ferrigno delle aspre roccie vulcaniche e sull’opaco nereggiare delle colate di lava, antichissime e recenti. La superficie cilestrina è tutta baleni, punteggiata e percorsa com’è dal vivace folleggiare di migliaia di uccelli acquatici di molte specie; alcuni piccoli e roton- detti, nuotano protendendo boriosamente il petto rigonfio; altri più grandi, serii e meditabondi, affondano ogni tanto il becco nell’acqua con gravità contegnosa, altri, infine, elegantissimi, sì sorreggono su di una gamba alta e sot- tile come una verbena e snodano i lunghi candidi colli simili a serpenti. — 63 — Questa zona doveva essere certamente in comunica- zione col grande apparato vulcanico dello Zuquala, bel- lissimo monte, perfettamente conico, alto più di 4000 metri, che ha continuato a mostrarci, durante varii giorni di marcia, il suo profilo cupo e solenne. A guardarlo si pensava alla piramide sepolerale di un fantastico Fa- raone che avesse regnato su di un popolo di titani. Da Dicom fino al torrente Moggio la regione è molto popolata, e possiede frequenti coltivazioni d’orzo e di tief; discende lentamente verso il torrente che luccica in fondo alla valle fra i tronchi alti e sottili delle om- brellifere. Poi si discende ancora nel bacino dell’ Auase fra colline — vuleaniche, o costituite da calcari — che formano piccole ambe, dando al paesaggio l'aspetto di una serie misteriosa di fantastiche fortificazioni. Ed ecco finalmente il fiume, che scorre in alcuni luoghi fra alte sponde nitidamente tagliate, in altri fra dolci declivii coperti da campi di dura. Alti sicomori sorgono sulle rive elevando le grandi masse del loro fogliame verde intenso. Il terreno è tutto pesto e tor- mentato da innumerevoli orme di tutte le dimensioni e di tutte le sàgome. Quivi, infatti, gli animali, a mi- gliaia e migliaia scendono a dissetarsi nella fresca lim- pida vena che traversa l’ardente contrada, e gli uomini vengono ad attingere il liquido elemento necessario alla vita. Ci fermammo per tre giorni sulle rive dell’ Auase, ed ivi terminammo l’anno 1910. Il secondo giorno fu ral- legrato da un interessante episodio di caccia. Ero sceso al fiume per pescare e per arricchire la mia raccolta zoolo- ME nie gica di qualche esemplare della fauna fiuviale dell’ Auase, allorchè vidi gli ascari, tutti eccitati, correre verso di me, balzando fra gli sterpeti col loro passo elastico di pantere: « Guaitana, guaitana, gumare ! » Nel loro gergo mi annunziavano gl’ippopotami. Piantai lì canne e barattoli, imbracciai il fucile e seguii i miei neri bat- titori. Risalimmo un po’ a monte sulle rive; poi, gli ascari mi fecero cenno di rallentare e di smorzare il romore dei passi. Strisciammo adagio adagio fra i cespugli. Ci sdraiammo sul suolo. Di fronte a noi, sull’acqua, uno, due spruzzi: nient'altro. Un lieve ondeggiamento della superficie liquida tradiva la presenza dei mostruosi ani- mali. Ma un nuovo spruzzo, quasi uno sternuto gigante- sco, fece da pedale ridevole all’aspra melodia di piombo cantata dal mio fucile. Ferito, l’un dei mostri, con moto convulso, alzò per un istante la testa fuor dell’acqua, mostrando le piccole pupille, folli di terrore e di furore. Coronato a sommo da uno sciaquio fievole, il grosso pachiderma calò giù a fondo. Con grande nostra sorpresa, l'indomani, la corrente ce lo fece ritrovare un po’ più a valle, impigliato in una rete di liane, straordinariamente gonfio. La caccia era stata facile, ma il difficile cominciò quando si volle tirare a riva la preda. Non so quante ore di fatica ci costò quel rude capriccio; ma ricordo che non ne potevamo più; ogni sforzo sembrava inutile; appena la metà del pesantissimo mostro era uscita dall’acqua, le corde si rompevano e la gigantesca massa di carne rotolava giù per la riva a scarpata ripiombando con un fragoroso tonfo nell’acqua. Ci volle davvero una buona dose d’ostinazione da parte nostra per arrivare a tra- scinar nel prato la nostra preda; ma di essa allegra- mente ci vendicammo fotografandola in tutte quelle pose IL LAGO ARSADI. « IL DIFFICILE COMINCIÒ QUANDO SI VOLLE TIRARE A RIVA LA PREDA...) « ... PER ARRIVARE A TRASCINARE NEL PRATO LA BELLA PREDA... ”. (Pag. 64) « +... MA DI ESSA PREDA ALLEGRAMENTE CI VENDICAMMO, FOTOGRAFANDOLA... ». (Pag. 64) SOR IA più o meno eleganti che può assumere un ippopotamo morto. Il giorno di poi venne a visitarci un cantastorie, cu- rioso tipo di girovago, col volto tutto devastato dalle rughe ed uno strano sorriso stereotipato sulle labbra, che metteva a nudo il bianco luccicore della meravi- gliosa dentatura. Questo grottesco rapsodo abissino si accoccolò tranquillamente in terra, appoggiò fra le gambe una tiorba molto primitiva a forma di losanga, che, se- gata con un arco ancor più primitivo, rendeva suoni non dissimili da senili colpi di tosse. E cominciò, con la maggior serietà del mondo a cantare la mia gesta! Non so dire quanto mi stesse bene a viso quella parte di Fingal in tenuta coloniale dinanzi ad un Ossian col muso affumicato! Ma il mio bardo non si contentò di questo, e, durante gl’ intermezzi volle rallegrare l’udi- torio facendo ballare un fantoccetto di stracci, che, per mezzo di una cordicella, saltava su e giù lungo un piuolo conficcato in terra. Ahimè, proprio vuol dire che il me- stiere del rapsodo, dai tempi di Omero in qua è deca- duto assai, se oggi dobbiamo vederlo accoppiato a quello di burattinaio! * Xe La sponda sinistra del fiume è tutta in discesa, for- mata dagli ultimi pendii delle colline, mentre la destra è costituita da un’ampia pianura tutta rasa. Occupiamo tutta la giornata del 1° gennaio a traversare questa pia- nura nuda di vegetazione, la cui malinconica unifor- mità è interrotta soltanto da qualche enorme baobab che innalza sul suolo liscio il suo tronco secolare simile ad una torre, e spande intorno la vasta ombra dei rami sr Re innumerevoli, sotto ai quali si potrebbe rifugiare una intera tribù. Quà e là si vedono anche alcuni piccoli villaggi che hanno una disposizione originale : le capanne sono piantate intorno ad uno spiazzo circolare, sul quale esse aprono tutte le loro porte, e nel quale sta riunito il bestiame come dentro una cinta difesa. Gli abitatori sono di natura nomade, non coltivano il suolo e si nutrono soltanto di latte e di carne. Infatti non si scorgono campi nei dintorni, ma solo grandi mandrie di buoi. Con tutto ciò, non ricordo per qual ragione, il primo dell’anno noi restammo senza carne. Allora, accompa- gnato da un dei miei, uscii dall’accampamento, traversai il piano nudo, e mi diressi verso una boscaglia che già avevamo intravista. Appena fummo nel folto, ci tro- vammo in una specie di giardino zoologico nel quale non avevamo che da scegliere per empire il carniere; infatti, in una sola ora di caccia uccidemmo, con otto fucilate, cinque galline faraone, un francolino, una otarda e due lepri! Un lettore molto accorto e troppo mate- matico, potrebbe obbiettarmi che le vittime sono nove invece di otto; io gli spiegherò l’assurdo dicendogli che, tirando ad una delle lepri, colpii, senza accorgemene, anche l’otarda che non avevo visto! Cose che succedono soltanto in Africa. In Italia invece c’è pericolo di tirare alla lepre e alla otarda e di non prendere nessuna delle due. Si vede proprio che nel continente nero anche la selvaggina è meno civilizzata. Nella notte dal primo al due gennaio avemmo freddo; il termometro scese a zero; la pianura, le tende, i nostri indumenti, eran tutti ricoperti di candida brina lucci- « .0+ VENNE A VISITARCI UN CANTASTORIE... ». (Pag. 65) UN GUADO SULL'AUASC. AL VILLAGGIO DI SIRIÈ, ACCOCCOLATO SUL PRIMO SCALINO ira oa E DELLE ASPRE MONTAGNE... . (Pag. 67) «. «SI VEDONO GRANDI MANDRIE DI BOVI SCURI E MACCHIATI ...). (Pag. 69) Cabagrrst cante, che però si sciolse subito, appena comparve il sole; anzi, un’ora dopo ci accorgemmo di nuovo di essere in Africa perchè il termometro segnava venticinque centi- gradi: un salto di temperatura, veramente acrobatico da un momento all’altro. E guai se non fosse così: come, altrimenti, potreb- bero resistere questi abitanti che hanno soltanto per co- prirsi un pezzo di leggera cotonata, e che spesso fanno a meno anche di quella, contentandosi di seguire il figurino che dettava le leggi della moda ai nostri primi progenitori, nel paradiso terrestre ? Dopo la piana dell’Auasce, ricominciamo ad ascendere verso le montagne dell’opposto versante, seguendo questa continua vicenda di salite e di discese che sembra non dover terminare mai più. Traversiamo una zona disa- bitata, boscosa, coperta di bassa vegetazione; poi traver- siamo il torrente Galata, che scorre fra verdi intrichi di piante, incassato nelle roccie calcaree, che strapiom- bano sulla stretta valle, paurosamente. Al di là del Ga- lata, si stende una regione coltivata a frumento orzo e granturco. Anche il bestiame abbonda nei pascoli ubertosi che si stendono fino al villaggio di Siriè, accoc- colato sul primo scalino delle aspre montagne che for- mano come una ciclopica muraglia innanzi a noi, e che ci sembrano a prima vista inaccessibili. A_Siriè, dove ter- minavano i dominii di Ras Abatè, che era allora gover- natore del Cambatta, trovammo l'immancabile dogana, ed avemmo le solite noie dagli avidi doganieri. Questi, sebbene sapessero che noi avevamo un permesso di li- bero transito, arrestarono la carovana e pretesero di vedere il documento: evidentemente si trattava della solita astuzia puerile per avere il bascisc. MIPGE O pan Dopo Siriè, la strada si biforca: ma ambedue i rami conducono ugualmente a Gobà. Scelgo la via più lunga, che è la meno difficile, e che si svolge sul crinale d’una ampia catena, scendendo e salendo sulle gobbe, girando attorno alle vette, traversando i limpidi ruscelli che si precipitano fragorosamente giù per gli aspri pendii. Per lungo tempo non si vede più un albero; tutto il suolo è coperto d’un’alta erba folta e risecca che sembra una gran giuba leonina. La mancanza di piante arboree è talmente assoluta da costringere i cuochi a portarsi dietro la legna per accendere i fornelli. Intanto, durante la notte, il termometro scende spesso fino al gelo! I miei uomini sono addirittura stupefacenti; passano queste fredde nottate sul suolo nudo, gelato, ammuc- chiati sotto le tende leggere, riscaldandosi l’un l’altro come gli animali. Noi abbiamo qualche coperta e siamo più riparati; però, in ogni modo, non è punto piacevole passar notti come queste sotto la tenda. Vien fatto di pensare, con molta insistenza, ai coltroni soffici, alle ca- mere ben chiuse e magari al termosifone. Eppure siamo in Africa! Ci vuole un certo sforzo di volontà per con- vincersene. dg I villaggi e le coltivazioni son situati ancora più in alto; gli abitanti sono Giaui (Arussi) e appartengono alla sottotribù degli Ataba: professano scrupolosamente la religione musulmana e conducono una vita presso che nomade. Le loro coltivazioni son misere e primitive; il bestiame invece è numeroso e ben tenuto. Si vedono GI grandi mandrie di bovi seuri o macchiati, che hanno una gobba sul collo non dissimile da quella degli zebù in- diani. Gli Ataba son quasi tutti poveri, vestiti di stracci; si ungono di burro rancido, credendo così di ripararsi dal freddo e dal caldo. Non so se ottengono questo ri- sultato d’indole termica; ma certo ottengono quello di esalare un fetore insopportabile tantochè è impos- sibile, per noi, di resistere alla loro vicinanza. Le donne portano come ornamento enormi cerchi di ottone alle orecchie, oppure gravi pendenti foggiati a guisa di bilan- cette ed ugualmente fatti di una piastra d’ottone che raggiunge talvolta lo spessore di un centimetro. Ci accorgiamo, dalla natura del suolo, di essere ormai giunti nell’altro versante della catena. Infatti i poco profumati indigeni ci fan sapere che i ruscelli scorrenti nei dintorni discendono verso V’Uabi (alto Uebi-Scebeli). Per giungere al fiume impieghiamo un’altra settimana di marcia e cioè dal 7 al 14 gennaio, traversando un vasto territorio ondulato uniformemente coperto dalla solita erba secca che, col suo giallore, finisce per pro- durre una specie di ossessionante fastidio, un senso di desolazione e di arsura, e fa sembrare più implicabile, più cupo e più affocato il cielo africano. Ad ovest si eleva una delle solite montagne, che spinge la vetta al disopra dei tremila metri e somi- glia, per la natura del suolo e per la vegetazione, a quella di Cunni. In un giorno di sosta volli visitarla e m’inerpicai fino alla cima, scoprendo di lassù la vastità desolata di quel paesaggio senz’alberi, che spingeva fino e all'orizzonte, d’ogni intorno, le sue ondulazioni molli, tutte coperte dal fulvo mantello di erba riarsa. Nei giorni seguenti incontrammo qualche graziosa gazzella, che si soffermava un attimo a guardarci coi dolci occhi pieni di stupore, poi fuggiva rapidamente facendo balzi prodigiosi con le gambe sottili. Le lepri abbondavano; le vedevamo scappar via di qua e di là sbucando fuori dai cespugli, tutte terrorizzate dal nostro avvicinarsi. Numerosissimi eran poi i topi che, a miriadi, formicolavano dinanzi ai nostri piedi e andavano poi & rifugiarsi nelle tane, che erano unite fra di loro con una rete di veri piccoli sentieri scavati nella superficie del suolo, formando così delle estese città a cui non man- cavano che la luce elettrica ed i tram per sembrar mi- niature delle nostre metropoli. Durante gli ultimi due giorni di marcia scendemmo continuamente pel lento declivio che termina al fiume, camminando sempre sulle gialle gramigne risecche, finchè non trovammo i ciottoli rotondi che ci annunziavano la vicinanza dell’acqua. La grande catena di montagne era ormai rimasta alle nostre spalle. x * * L’Uabi è, senza dubbio, il ramo principale del gran fiume Uebi-Scebeli che attraversa la Somalia interna e la lontana Colonia del Benadir. Provai una certa impres- sione pensando che quell’acqua, così distante dalla costa, avrebbe finito per bagnare una terra italiana, prima di perdersi nelle feconde terre del Benadir. Nel luogo dove trovai un guado, ) Uabi era largo poco più di dodici metri e profondo al massimo ottanta cen- timetri; la corrente, piuttosto rapida, passava fra sponde « .«.« LE DONNE PORTANO ENORMI CERCHI DI OTTONE ALLE ORECCHIE ...). Pag. 69 .L'’UABI ERA LARGO POCO PIÙ DI DODICI METRI... ». Pag. 70) (GIO LA( TE MO) NADO,. IAC » EG IL «DI PESO 7} ME spianate e nude. Dopo aver attraversato il corso d’acqua, marciammo ancora per due.ore, quindi ci accampammo ai piedi del Monte Laggio. Quivi restammo una gior- nata per dare un po’ di riposo agli uomini ed agli ani- mali che ne avevano gran bisogno. Approfittai di quel giorno di tregua per far ridurre le dimensioni delle casse di vettovaglie, il che, a detta dei conducenti, avrebbe reso più facile il cammino ai nostri muletti. Queste po- vere bestie ebbero quel giorno anche Valtra consola-. zione d’esser medicate; consolazione molto dubbia giac- chè l’unica pratica veterinaria abissinia consiste nella cauterizzazione. I muli furono imbracati ed atterrati come bestie da macello, poi il cerùsico improvvisato passò sulle piaghe e sui gonfiori incipienti un ferro ro- vente simile al bottone da cauterio, lasciando, senza compassione, sulla pelle dei poveri quadrupedi larghi solchi abbrustoliti e sfumacchianti che empivano Varia d’un odor di bistecca dimenticata su un fuoco troppo acceso. Certo, i poveri animali non dovettero rimanere troppo esilarati dall’arte medica, ma però, il giorno dopo, poterono essere caricati di nuovo come se nulla fosse, e poterono ricominciare bravamente la marcia. Le montagne della riva destra dell’ Uabi non son comodissime ad ascendersi; anzi la nostra carovana deve addirittura mutarsi in una compagnia di alpinisti, e, badando alla propria vita messa a repentaglio dagli aspri scoscendimenti rocciosi, deve spingere contempo- raneamente i muletti che sembrano disperati di arrivare in cima, col dorso carico di fardelli. Se Dio vuole giun- giamo alla cresta senza esserci rotti il collo, e per di più SL TRN con la sodisfazione di notare che il barometro indica 3600 metri di altezza. Lassù, le roccie, probabilmente di natura calcarea, formano denti aguzzi e piramidi dolomi- tiche, che si elevano verso il cielo, minacciose. Al di là sì stende uno scopeto foltissimo di alte eriche soffici in mezzo alle quali la carovana quasi scompare. L’aria è profumata da tutti gli aromi del bosco di conifere, ed il verde cenere delle eriche macchiato dal lieve roseo dei loro grappoli di piccolissimi fiori forma un’armonia di tinte delicate e graziose. Così, oltrepassata la catena, che separa il bacino dello Uebi Scebeli da quello del Ganale, cominciamo a discendere verso 1’ Ueb, affluente di quest’ultimo fiume, che scorre in un’ampia pianura circondata dai monti e che qui ha le dimensioni di un rigagnolo, trovandosi ancora nel bacino di formazione. Presso 1’ Ueb, dove passiamo un’altra di quelle not- tate fredde che ci fanno dimenticare il nome scottante del continente che attraversiamo, c’è riservata la gran fortuna di trovare una delle solite simpatiche dogane. Questa è inalzata sul confine dei dominî di degiac Nado, che giungono fino alla Somalia italiana. Con due tappe giungiamo a Gobà, residenza del sud- detto degiac, il quale, con gentilezza molta, mi manda incontro un alato messaggero nella persona glottologica del mio interprete che presso di lui mi attendeva. Gobà appare allo sguardo qualche ora prima che vi si giunga. È situata sul culmine d’una rotonda colli- netta isolata e circondata da montagne rivestite di cupi sempreverdi. La residenza del degiac, simile ad un im- menso panettone poco cotto, è situata nel centro del IL MERCATO DI GOBÀ. «... SI DISPONEVANO... IN GRUPPI ARTISTICI CHE SEMBRAVANO COMPOSTI DA QUALCHE PITTORE...». « ... QUEI DUE INCAPPUCCIATI GRAVI E IMMOBILI... E QUEL BEL TIPO DI MORO RIDENTE... (Pag. 75) DONNA ARUSSI DI GOBÀ. ga villaggio; e attorno ad essa, come implorandone la pro- tezione, si affollano le capanne degli abitanti, che sono, per la maggior parte, soldati. Nei dintorni la campagna è poco coltivata, sebbene mostri le migliori intenzioni d’essere fertile; il fatto dipende dallo spopolamento e dall’impoverimento avvenuti dopo l’ocecupazione degli ambhara. Ad uno svolto della via, vedemmo apparire, ad un tratto, una cinquantina di graduati, mandati dal degiac per renderci onore; essi erano appiedati, e attendevano in posizione rispettosa, dritti, stecchiti, rivestiti dei loro abiti da festa riccamente ricamati, col fucile sulle spalle e, a seconda del grado, imbracciando lancia o scudo, ricoperto questo di strane e belle decorazioni metal- liche. Eran comandati dal cerimoniere del degiac, che mi recitò un lungo ed ossequioso saluto d’occasione, abbellito dai fiori della rettorica abissina e poi ordinò ai suoi uomini che salissero a cavallo dopo averne chiesto a me il permesso. La fiera scorta si dispose metà in testa e metà in coda alla carovana, e ci accompagnò verso il villaggio. Eran belli quei robusti cavalieri barbareschi, che, avvolti nei candidi manti, ricoperti dalle vivide cotte ricamate, caracollavano sui focosi destrieri, parati a festa con pom- pose bardature, le cui lamine metalliche scintillavano sotto il sole e producevano un sottile tintinnio continuo con gl’innumerevoli campanelli d’ottone pendenti dalle cavezze e dalle selle! In mezzo a quella selva di lancie acute che manda- vano faville di luce nell’aria limpida, si poteva credere d’essere tornati indietro di molti secoli, e di vivere al- l’epoca cavalleresca dei paladini e si poteva immaginare che quella scorta ci conducesse verso il castello ario- 10 LAI (A stesco di qualche re moro, sorgente su di una roccia acuta, dinanzi a qualche precipizio spaventevole, circon- dato di magie, visitato dagli ippogrifi... Andavamo forse a liberare qualehe bella principessa incatenata, chiusa in una torre buia, e destinata in pasto ad un drago con venti teste?... La fantasticheria fu interrotta dall’arrivo al ghedì, dove trovammo schierati i capi e i soldati disposti in due lunghe ale, fino alla sala di ricevimento. Appena entrammo in quella sala, il degiac, in piedi, a capo sco- perto, ci salutò rivolgendo a tutti parole cortesissime. Era un bell’uomo, con piccola barba tagliata in quadrato. Avea modi signorili e distintissimi e portava, con fierezza ed eleganza, il suo costume di degiac, consistente in una ricchissima cotta di velluto splendidamente ricamata, sovrapposta alla bianca tunica abissina. Egli si sedette su di una specie di trono, e ci fece sedere intorno a lui interrogandoci sul viaggio che ave- vamo fatto, sui paesi attraversati, sugli incidenti occor- sici. Poi ci lasciò liberi di recarci all’accampamento che egli stesso ci aveva fatto preparare in un bel recinto, all'ombra di alte conifere. A Gobà eravamo giunti il 17 e ci trattenemmo fino al 29, vedendo spesso il degiac, che venne varie volte a colazione o a pranzo da noi, meravigliandoci sempre più con la distinzione disinvolta delle sue maniere. Egli sedeva a tavola correttamente, senza rifiutare alcun cibo per pregiudizio religioso, mangiava sobriamente, e par- lava di tutto, con buon senso, dimostrandosi un capo di vera intelligenza. Egli aveva imparato tutto ciò che LA FESTA RELIGIOSA DEL « TEMCHET »,. « «+. ACCOMPAGNANDONE IL LENTO E MONOTONO RITMO CON I « NAGARIT )» ...). (Pag. 76 : re ° « +... IL SEMPRE INTERESSANTE SPETTACOLO DELLA «FANTASIA » ... d. (Pag. 77) « +... ED HA « SANTONI » CELEBRI CHE SON RISPETTATI E VENERATI DA TUTTI I FEDELI...). (Pag. 79) di bello e di buono gli era occorso di notare nei paesi civili che aveva visitato, e cioè Gesusalemme, Ales- sandria, Marsiglia e Parigi. La sua educazione era tal- mente perfetta che talvolta ci sembrava di conversare con un europeo di buona famiglia, il quale si fosse, per capriccio, tinto il viso e travestito da capo africano. Soltanto una volta si mostrò buon abissino: nell’ac- cettare i regali che feci a lui e a sua moglie, consistenti in un bel fucile e due riechi mantelli, vidi sfavillare i suoi occhi di una gioia e di una riconoscenza esage- rata che somigliavano un po’ troppo apertamente alla cupidigia. Visitammo spesso il mercato abbastanza importante, molto pittoresco, pieno di folla e di gridìo, osservando gli strani tipi degli abitanti che avevano bei corpi slan- ciati, movimenti lenti di stile e che, senza saperlo, si disponevano spesso dinanzi ai nostri occhi meravigliati e dinanzi all’obbiettivo della mia macchina in gruppi artistici che sembravano composti da qualche pittore per farne un quadro. Osservate per esempio quelle due giovinette esili che ci guardano, l’una stretta all’altra, in attitudine di timo- roso stupore; e a destra, in fondo, l’uomo sorridente ap- poggiato al bastone che sembra tolto da qualche tela di Zuloaga, e in basso, seduto in terra quel giovane seminudo classicamente drappeggiato con un lembo di stoffa bianca, che sarebbe un magnifico modello per un San Giovanni nel deserto. E nell’altra illustrazione quei due ineappucciati gravi e immobili che sembrano due anacoreti immaginati da Domenico Morelli! E in mezzo quel bel tipo di moro ridente che pare disegnato dall’ar- guta matita d’un caricaturista americano illustratore di giornali per ragazzi! Una mattina il degiac ci invitò a colazione nella fo- resta. Trovammo un’elegantissima tenda già pronta, inalzata in mezzo ad una radura, in un luogo alpestre che aveva per sfondo gli acri e rabbiosi profili delle mon- tagne. Nei pressi v'era una sorgente di buon’acqua ferrug- ginosa e gasosa che doveva aver certo proprietà medi- cinali. Il capo abissino fece signorilmente gli onori di casa a noi ed alla nostra gente con un copioso ban- chetto nel quale erano inclusi, purtroppo, molti piatti abissini inaffiati con tegg di svariate qualità. Assistemmo poi al pasto dei soldati: i bravi militari abissini divo- ravano la carne cruda sanguinolenta sbranandola coi denti con avidità quasi felina. Avemmo janche la fortuna di poter assistere alla festa religiosa del Temchet, che commemora il battesimo di Gesù Cristo nelle acque del Giordano per opera di San Giovanni Battista. Il degiac, i sacerdoti, amman- tati di candidi lini e col capo fasciato da una specie di turbante, i soldati in uniforme di gala, e tutta la popo- lazione cristiana si riunirono sulle rive d’un ruscello. Ivi, sotto una tenda sacra, i sacerdoti celebrarono la messa; poi, recatisi presso l’acqua corrente, proseguirono la funzione benedicendo tutti i presenti. Indi, intona- rono canti liturgici, accompagnandone il lento e mono- tono ritmo con i nagarit, grossi tamburi di forma ori- ginale simile a quella d’un obice. Strana era quella fun- zione religiosa, che aveva qualche cosa di misterioso e di solenne, sotto l’implacabile cupo cielo africano; le me- lodie s’inalzavano con le loro cadenze barbaresche, scan- dite dai sordi colpi del nagarit, e i sacerdoti ed il po- polo avevano sul volto una gravità di statue ieratiche che faceva sembrare i loro lineamenti scolpiti nella pietra antichissima di qualehe tempio egiziano. Durante il ritorno ìi soldati ci dettero il sempre in- teressante spettacolo della fantasia ; e veramente attraente mi parve questa volta la massa bianca, urlante, selvag- gia, che, con impeto guerresco, agitava sulla vasta piana erbosa l’irta selva delle armi e la schiera di scudi ro- tondi policromi, sfavillanti sotto il sole di mille pic- cole scintille d’oro. A Gobà ci raggiunsero i delegati abissini che dove- vano unirsi a noi per delimitare il confine italo-etiopico. La missione era composta da A to Sartuold, rappresentante del Governo di Addis Abeba e delegato a trattare meco la delimitazione della frontiera; dal fitaurari Mamo; dal fi- taurari Teghegnè comandante dei soldati che scortavano la missione; dal delegato tecnico von Gissnitz, tenente dell’esercito tedesco, incaricato dei lavori topografici. Il degiac Nado disse che si sarebbe unito anche lui alla carovana e che avrebbe fatto gli onori di casa, in quanto che, come capo del paese di cui dovevamo stabilire i limiti, ci avrebbe accompagnati a traverso la difficile regione. La regione di Bale, che ha per centro principale Gobà, occupa un altipiano che varia fra i duemila e i tremila metri. La popolazione, formata da Arussi (Galla) conserva la religione e le tradizioni musulmane, a mal- grado della dominazione amharica: dominazione che ha tentato di soffocare le caratteristiche degli indigeni, ha spopolato il paese e ha reso squallide le già ubertose coltivazioni ridotte, adesso, a qualche campo d’orzo, a SIAE gar pochi jugeri di tieff, e a rare coltivazioni di caffè nei luoghi meglio adatti a questa cultura. Essendo il clima relativamente fresco, regolari le pioggie, fecondo il suolo, abbondante l’acqua, ben di- stribuite le diverse temperature in modo da permettere le più svariate coltivazioni — da quelle proprie delle regioni tropicali a quelle della zona temperata — ricchi i pascoli che potrebbero nutrire grandi mandrie di be- stiame, queste terre avrebbero sicuramente grande av- venire, quando fossero messe in valore da coloni bianchi, laboriosi e intelligenti, e quando potessero stabilire si- cure e rapide comunicazioni col mare. Perfino il legname abbonda, sebbene gli amharici abbiano compiuto grandi devastazioni, tagliando tutte le piante intorno ai villaggi e sfrondando quelle cui i loro arnesi primitivi non po- terono abbattere. Del resto, in tutta la regione si scorgono ancora, sebbene varî anni siano trascorsi, i segni e le conse- guenze delle grandi razzie compiute nel passato dagli invasori: lo spostamento prodotto dalla gran quantità di abitanti che è stata tratta in ischiavitù fuori del paese; le coltivazioni abbandonate; la miseria degli in- digeni; l’avvilimento; e il rancore che pur non sanno nascondere. Essi non hanno la forza di ribellarsi, ma un odio indelebile li separa dagli Amhara, un odio che non permetterà mai la fusione dell’ Arussi con l Etiope, perchè quest’ultimo fece su quello troppo duramente sentire il suo giogo prepotente. Un’altra ragione di distacco è la diversità di reli- gione. Non bisogna scordare che gli Arussi si sono con- servati musulmani devotissimi, ed hanno una venera- zione profonda per il Corano e per le Moschee. Una di queste, chiamata Sceich-Ussein, che trovasi a nord-est di DONNE ABISSINE E GALLA DI GOBÀ. «&.. GHIGNER È PIÙ CHE ALTRO UN MERCATO»... (Pag. 80) AL MERCATO DI GHIGNER. « IL PALAZZO DI GIUSTIZIA » DI GHIGNER. SIE Gobà, distante alcuni giorni di marcia, è frequentatis- sima, richiama gran numero di pellegrini e di devoti, ed ha santoni celebri, che son rispettati e venerati da tutti i fedeli. La differenza fra dominati e dominatori, appare anche nell’aspetto esteriore. I primi, miseri, laceri, girano co- perti di rosse e logore pelli, lavoran per gli altri la terra che fu loro, esercitano i più umili mestieri; mentre i secondi si pavoneggiano in candidi e costosi sciamma e vivono da padroni, in ozio, nel territorio di conquista, sfruttando i poveri indigeni. Vi sono alcuni capi abis- sini intelligenti e di animo men duro, che, come degiac Nado, sembrano fare il possibile per render meno grave una dominazione così vessatoria ed odiosa; ma i loro nobili sforzi naufragano nell’universale cupidigia degli altri amhara. * * * Il 30 gennaio, la nostra carovana, divenuta più lunga e più folta per l’aggiunta dei delegati abissini e del loro seguito, si snodò novamente nella campagna. Cinque giorni di marcia ci stavan dinanzi prima di giun- gere a Ghigner. Nell’attraversare l’ondulato altipiano, trovammo, an- cora una volta, le euforbie candelabro, che cireondavano gruppi di capanne come ceri disposti intorno a padi- glioni sacri. Nella seconda tappa ritraversammo l’Ueb, divenuto ormai un fiumicciattolo d’una certa importanza. Scorre dentro una stretta valle che sembra di erosione, e che è tagliata quasi a picco sul fiume, tanto che l’acqua non si scorge finchè non si giunge proprio sul ciglio della ripa. La corrente, che è larga da 5 a 6 metri, è lim- pida e lenta e passa su di un fondo che sembra basaltico, VIAOI =| gild come basaltici sono i detriti levigati formanti il greto del fiume. Sulla riva sinistra ricomincia la pianura sconfinata che sale insensibilmente, senza alberi, con pochi villaggi e rare coltivazioni. Poi si trovano rapide discese che ci conducono in una valle dove cantano limpidi ruscelli scorrendo in direzione opposta a quella dell’Ueb. Le loro acque vanno a gettarsi nell’Uabi (Uebi Scebeli) mentre il corso delll’Ueb appartiene al bacino del Giuba. Qua e là, lungo il sentiero, spesseggiano e sì raggrup- pano le bianche tombe musulmane. Anche nell’ultimo giorno di marcia si continua a discendere; ma per obliqui aridi pianori, interrotti a grandi distanze da rari alberi, e intagliati da larghe fenditure che fanno sembrar più aspra la siccità della regione. Finalmente, su di una collinetta, appare il ghebì del degiac: poichè il nostro amico Nado risiede parte dell’anno a Gobà e parte a Ghigner. Posto sull’estremo limite del grande altipiano, prima che incominei la brulla arida sconfinata regione dei no- madi, Ghigner è, più che altro, un mercato: un grande e importante mercato, cui affluiscono, due volte la set- timana, commercianti e produttori dei paesi circonvi- cini, e dove si trovano rappresentanze delle aziende non soltanto di Addis-Abeba ma dell’Harrar, che è unito con Ghigner da una carovaniera diretta. Il mercato è oltre- modo interessante e pittoresco come lo sono, del resto, tutti quelli abissini. Dopo essersi un po’ orientati in mezzo alla confusione degli indigeni vociferanti, dei cammelli e degli asini carichi, si constata quali siano le principali merci che dàn vita al traffico del paese: sono pelli di bovini e di caprini che vengono portati dall’interno e venduti a commercianti esportatori; sono sacchi di caffè che giungon dai Sidama e prendono la via dell’Harrar; sono carichi di sale che giungon dalla: Somalia, e, in- cettati a Ghigner, vengono poi mandati nei varii paesi dell'Etiopia; son mandrie di bestiame da macello, ed anche cammelli, che qui possono vivere per il clima con- facente alla loro natura; son cotonate e generi diversi che gli indiani portan qui da Addis-Abeba. Ghigner ha molta importanza pel commercio del Be- nadir; infatti vi incontrai commercianti che venivano da Lugh. Ma è necessario stabilire subito, fra il Benadir e Ghigner, facili e dirette comunicazioni, perchè la via carovaniera che presentemente unisce questo centro com- merciale alla nostra colonia è incomoda, mal sicura, e perfino priva di acqua in alcuni mesi dell’anno. Il governo della Somalia ha istituito presso Ghigner un’agenzia per facilitare il traffico fra i due paesi ed instituire solide relazioni commerciali, e ciò allo scopo di far pervenire a Ghigner, dalla costa, carovane appor- tanti le mercanzie più facilmente spacciabili sul mer- cato, accompagnate da gente abituata a negoziare cogli indigeni, pratiche degli usi e dei bisogni commerciali del paese. Queste carovane, che si dovranno moltiplicare in avvenire, esiterebbero a Ghigner i nostri prodotti che poi s’irradierebbero nell’interno, e, prima di tornare verso la costa, incetterebbero quelli indigeni più adatti all’esportazione, come pelli, avorio e caffè. Il caffè dei Sidama, dopo aver fatto sosta a Ghigner, va a finire all’Harrar, dove mal sostiene la concorrenza di quello locale perchè si è aggravato, per via, di tutte 11 preti => IA le spese di trasporto e di quelle di dazio percepite dalle molte dogane. Se invece da Ghigner il caffè fosse man- dato alla costa benadiriana, potrebbe, secondo me, dar maggiori guadagni. Lo stesso dicasi delle liane per il caucciù, che la Compagnia concessionaria fa raccogliere nei Sidama e nelle regioni che attorniano il lago Mar- gherita; codeste liane prendon la via di Addis Abeba, da dove poi sono trasportate alla costa del Mar Rosso; mentre che più breve e men costoso sarebbe farle arri- vare ai porti del Benadir, qualora la comodità e la si- curezza delle strade attirassero da quella parte le ca- rovane. Ora che si è ottenuta una assoluta tranquillità sulla costa della nostra Colonia dell'Oceano Indiano, dovrebbe, a mio modesto avviso, essere studiata e poi costruita una via interna, comoda, ben provvista d’acqua, senza forti dislivelli nè difficoltà di cammino, che, attraverso la regione di Baidoa e i domini etiopici direttamente unisse le città costiere con Ghigner. È questo, come ognun vede, il più importante fra i problemi intimamente connessi al radioso avvenire della nostra Colonia; e ad esso, io son certo, saranno appun- tati gli sguardi di coloro i quali ogni giorno intendono le lor forze perchè il tricolore italico non resti uno ste- rile segnacolo di signoria, ma simbolo di nuova, feconda, alacre vita commerciale e intellettuale e quindi di pro- spero rinnovamento e di opulenta civiltà. PV. DA GHIGNER A DOLO. I delegati del Governo italiano e di quello etiopico avrebbero dovuto, da Ghigner a Dolo, procedere insieme. Avevamo la scelta fra due vie: quella più breve, che segue il finme Ueb, ma che, durante l’epoca del nostro viaggio, non avrebbe offerto acqua sufficiente per i bisogni d’una carovana numerosa come la nostra; e quella che, seguendo l’Uebi Mana, affluente del Ganale, e poi il Ganale stesso, ci avrebbe condotto a Dolo, a traverso sentieri aspri e faticosi, e ci avrebbe obbligati ad una deviazione e ad un conseguente allungamento di itinerario. Io parteggiavo per la prima via, a causa della sua bre- vità e della sicurezza dei paesi che attraversava; avrei eliminato i disagi che poteva procurare la scarsezza dell’acqua, scaglionando convenientemente uomini ed animali lungo il percorso. Ma questo non era il parere degli abissini e degli indigeni, i quali, per speciali e ovvie loro ragioni, mì rappresentavano la via dell’Ueb come straordinariamente disagiata e pericolosa per la sua spaventevole siccità. Accettai dunque di seguire la via del Mana e del Ga- nale: il che mi forniva la possibilità di eseguire il rilievo MET 7 (ACI dei due importanti corsi d’acqua: vantaggio questo che non mi pareva trascurabile. Però i veri guai cominciarono quando giunse il mo- mento di decidere la partenza; gli abissini non erano mai pronti; ogni giorno trovavan nuovi pretesti e nuove difficoltà per rimandare il viaggio; finalmente, con un atto, non so se di energia o d’impazienza, mi incamminai con la mia carovana. Gli abissini mi avreb- bero raggiunto per via. Così partii da Ghigner il 7 feb- braio. Il sentiero si presenta, in sul principio, come una rapida discesa che ci porta in poco tempo a un disli- vello di 400 metri e seguita così a precipitare fino al torrente Dinnic, corso d’acqua violento, limpido, scor- rente fra antiche aspre roccie basaltiche, per entro le quali spesso s’incapriccia formando spumeggianti fra- gorose cascate, che sembran mettere una nota di fresca, primitiva allegria nel paesaggio rude, cantando le sue eterne canzoni affascinanti, di una poesia indefinibile. L’amba, su cui è collocata Ghigner, si eleva adesso dietro di noi con le sue ripide pareti che sembran di natura calcarea: cosa che infatti vien confermata dalle acute cuspidi dolomitiche, le quali, più ad oriente, inta- gliano arditamente nel cielo i loro profili strani che sem- brano imitare le zanne delle fiere, mostruosamente ingi- gantite. Allontanandoci da Ghigner, abbiamo anche abban- donato l’ultimo contrafforte di quella vasta regione montuosa che suol chiamarsi Altipiano etiopico. Prima di toglier le tende dall’accampamento del Dinnic fummo raggiunti dalla missione abissina. Si vede che il nostro buon esempio aveva finito per scuo- tere î nostri compagni di viaggio. Mancava adesso sol- tanto il degiac Nado che era rimasto indietro per finir d’organizzare la sua carovana. Continuammo la marcia per un sentiero che, costeg- giando più o meno davvicino il Dinnic, scendeva sem- pre. Infatti la temperatura si intiepidiva sempre più e la vegetazione si trasformava, assumendo, a poco per volta, quell’aspetto che rende così caratteristiche le terre somale. Poi, quando perdemmo di vista il Dinnic, ci dirigemmo, per un terreno convulso e frastagliato, verso l’Ueb, che scorre incassato in un corridoio di can- dide e friabili roccie calcaree. Nella località chiamata Logh, dove il sentiero rag- giunge il fiume, ci è dato ammirare uno spettacolo indi- menticabile. L'acqua si è scavata un’ampia porta nella roccia, e, col suo paziente scalpello, più minuto di quello d’un marmoraro gotico, ha figurato, nella roccia, basso- rilievi fantastici, capitelli frastagliati, sculture millenarie, nelle quali par di scorgere fogliami di piante strane, eratiche figure sepolcrali, mostri addormentati, che for- mano indicibili connubi, nascendo luno dall’altro e cam- biando d’aspetto ad ogni punto di vista. Il fiume riflette, capovolto, quel misterioso ammasso di pietre, che sembra un cantiere abbandonato da operai scontenti, i quali avessero lasciata a metà la costruzione d’una moschea incantata... Non sembri arditamente seicentesca o affatto arbi- traria questa similitudine. Chè, senza aspettare il ritorno al lavoro degli ipotetici scioperanti, gli indigeni sono stati così colpiti dall’aspetto chiesastico di quella grotta quasi soprannaturale, che l’hanno proprio adibita alle pratiche del culto. E là, contro le roccie, appesi alla pro- minenza acuta di una fantastica tibia o incastonati nel- l’orbita di un ciclope petroso, gli ex-voto dei fedeli, con- sistenti talvolta in sandali, cartucciere, lancie, pugnaletti, armille, bàltei, conchiglie e cenci, fanno testimonianza della mistica destinazione della grotta. Ma l’acqua, senza punto curarsi di quelle faccende degli umani, silenziosa, lenta, solenne passa sotto i gi- ganteschi architravi di pietra, penetra sotto le ogive tenebrose, scompare nelle viscere del monte, quasi vo- lesse fuggir la vista di queste terre selvagge, irte di sterpi e di roccie, senza verde di pascoli e di campi, senza muggito di mandrie, senza canti umani; poi per- corre, invisibile, chiusa nelle vene di pietra, più di quattro chilometri, prima di tornare a riflettere l’azzurra pace del cielo. Le stratificazioni orizzontali della pietra, la strana levigatezza del fondo che sembra un pavimento marmoreo di tempio o di sala da ballo, aggiungono ori- ginalità al magico spettacolo. L’Ueb, nelle antichissime epoche, doveva scorrere in un altro letto che formava con quello attuale un gomito di 90 gradi verso oriente. Poi uno scoscendimento di roccie, dovuto a qualche fenomeno tellurico o all’erosione delle acque che avevano consumato gli strati inferiori deve aver formato improvvisamente una diga che ha strozzato la corrente. Allora l’acqua, ristagnando nel- l’immenso corridoio che contiene I Ueb, deve aver len- tamente, attraverso secoli innumerevoli, corroso la mu- raglia di roccia che le si parava dinanzi, riuscendo ad aprirsi la via sotterranea: così si è formato il meravi- glioso fenomeno carsico di cui ho tentate dare un’idea. POSTA = RE Il sentiero s'avvia attraverso la macchia inestricabile, tenace, e folta così da non lasciare una radura in cui sì possa porre un accampamento. Dovemmo quindi al- lontanarei un’ora dal fiume per raggiungere Corrò, un luogo ove gl’indigeni hanno abbattuto le piante ed hanno formato un largo spiazzo in cui tengono mer- cato. Dopo Corrò trovammo che il bosco diradava e, con sei ore di marcia, giungemmo all’Uebi Mana per- correndo aridi cocuzzoli ciottolosi, d’aspetto ingrato e selvatico, pezzati qua e là d’erba gialliccia tisica e ri- secca, che rendeva ancor più triste il paesaggio povero e desolato. Trovammo alcuni villaggi di Gurra (Galla) il cui capo è Roba Butta, un curioso tipo, abbastanza simpatico, che protestava ad ogni istante, non so se con molta o poca sincerità, la sua grande ammirazione per gli uomini bianchi, e che si lasciava ad ogni istante sfuggire mezze parole ambigue con le quali volea farci comprendere che sopportava mal volentieri il giogo etiopico. Se tutto questo suo esibizionismo parolaio fosse in accordo con i suoi veri sentimenti non saprei dire; ma so dire che certe sue pratiche alcooliste non erano affatto in accordo con la sua religione. Il buon Roba Butta teneva moltissimo a farci sapere che era maomet- tano convinto e scrupolosamente osservatore del Corano; ma non pare però che seguisse a puntino i comanda- menti di questo libro sacro che ordina ad ogni fedele di conservarsi astemio; perchè quando richiesi al mio in- terprete, che ben conosceva le abitudini del capo, con che cosa dovessi contraccambiare i doni che il Galla mì aveva fatto, l’ interprete mi consigliò di regalare al devoto di Maometto alcune bottiglie di mastica! E Roba Butta si guardò bene dal rifiutare. Anzi al conspetto delle bottiglie, gli occhietti di smalto sorrisero arguta- mente e, contro il palato, schioccò, con una pregusta- zione anticipata, la lingua sua salace. Se Roba Butta beve, sa anche darla da bere: chè ha molta influenza fra i suoi, e devo dire che anche a me ha saputo fare, in complesso, l'impressione di un brav’uomo. AI guado di Cargialo attraversammo un affluente del Ganale, il Mana, che è, in quel luogo, appena un ru- scello, ma in compenso assai rieco di pesci. Quivi anche ricevemmo la visita di fitaurari Mamo, che mi dette uno strano incarico. Con fare solenne e ampollose parole mi consegnò una bambina dei Rahanuin, che era stata presa nella famosa razzia del dicembre 1907 e che poi, non so perchè, non era stata restituita insieme con gli altri prigionieri. La nuova compagna di viaggio, vispa diavoletta di cioccolata che aveva appena cinque anni, cavalcava come uno di noi, e non si sgomentava di nulla e di nessuno. Fin dal primo giorno si trovò come a casa sua, al campo, in mezzo agli ascari di cui divenne la delizia e l’idolo. Si chiamava Cullo Zabenai, ciò che signi- fica « piena di felicità » 0 « tutta felicità »; ed era davvero felice perchè non si meravigliava di niente, sgambet- tava, rideva, scherzava tutto il giorno, imitava le fan- tasie abissine, e di più strillava con la sua vocetta in- fantile una nenia popolare degli etiopi... Infatti fitaurari Mamo mi aveva detto con la massima gravità e con la maggior serietà che le aveva fatto studiare il canto ..... « ... L’AMBA SU CUI È COLLOCATA GHIGNER SI ELEVA DIETRO DI NOI COLLE SUE RIPIDE PARETI... ». (Pag. S4) « +... L'ACQUA SI È SCAVATA UN’AMPIA PORTA NELLA ROCCIA... (Pag. 85) « +... LA NUOVA COMPAGNA DI VIAGGIO CAVALCAVA COME UNO DI NOI... ». (Pag. 88) LA STRETTA VALLE DEL MANA. os Bg e Quando si trattò di partire, anche a Cargialo, sorsero ostacoli da parte dei delegati etiopici, i quali mi prega- rono di ritardare la partenza. E ritardai infatti, ma di un sol giorno; poi mi misi in cammino senza di loro, alle- gando il pretesto che era meglio dividerci per sopportare meglio i disagi che ci avrebbe procurato la scarsezza dell’acqua e dei foraggi, scarsezza annunziataci dai nativi pratici della carovaniera. Ma purtroppo il mio pretesto divenne verità esat- tissima: fin dalla prima tappa, con dolorosa sorpresa, constatammo che il fiume scompariva e si perdeva in vene esigue fra i grossi ciottoli dell’alveo ; il suolo non produceva un filo d’erba; gli alberi, se pur numerosi, erano risecchi e privi di fogliame, come se un’enorme vampata di fuoco avesse arso tutta la regione. Nella sic- cità desolata, i tronchi e i rami, completamente nudi, si levavano beffardi come a dirci che là dove era la vita, oggi trionfava la morte, e che essi erano le stele di uno sterminato cimitero vegetale. Nel dì seguente, avanzando, trovammo la regione sempre più arida; ormai, anche gli esili fili d’acqua non scorrevano più fra i massi, come fugaci sorrisi, ma, come torbidi sguardi, stagnavano formando pozzanghere ver- dastre, colme di detriti vegetali in putrefazione. E pure, in mancanza d’altro, fummo costretti a dissetarci con quell’acqua putrida che esalava un fetore nauseabondo. I poveri muletti, poi, facevano veramente compassione: non avevano altro foraggio all’ infuori dei pochi giunchi che crescevano sulle rive serepolate o fra i ciottoli del- l’inutile letto del fiume. E intanto il cammino si faceva sempre più difficile e aspro; ci sentivamo affranti dalla fatica che era resa insopportabile dai tormenti della sete. Oh come allora ci sembrò lontana la mèta! Questa 12 ARR, i) genti era l'Africa, la vera Africa che si trova descritta nei libri. E pensare che l’avevamo quasi desiderata quando si tremava di freddo, nelle notti umide e gelide della montagna! Giungemmo, non so come, a Malcà Burcà, con au- mento di torture {perchè le ‘pozzanghere diminuivano sempre di numero, e diventavano più torbide e più fetide. Ripensandoci adesso, non so davvero spiegarmi come potemmo trangugiare quell’ ignobile liquido vi- scoso e putrido. Intanto anche i foraggi mancavano completamente, e per di più uomini ed animali avreb- bero avuto bisogno di un giorno o due di riposo, perchè erano fiaccati dalla stanchezza dopo quei tre giorni di marcia lungo il Mana, attraverso a regioni rocciose, impervie, frastagliate, arse dalla siccità, deso- late dal silenzio e dalla assenza d’ogni vita, e special- mente dalla assenza di esseri umani, ch’erano fuggiti tutti, forse a causa della mancanza d’acqua e di pascoli, o anche perchè, avendo avuto sentore dell’avvicinarsi degli abissini, avevano voluto evitare di trovarsi sul loro passaggio, temendo le abitudini voraci dei domi- natori prepotenti, che sono considerati nè più nè meno che come nugoli di cavallette. Eravamo dunque avviliti, e affranti in mezzo a quel deserto, a quel silenzio, @ quella arsura ossessionante; e se la necessità di ripo- sarci ci faceva desiderare una lunga sosta, d’altra parte il bisogno di ritrovare l’acqua e l’erba c’incalzavano a trascinarci innanzi. La situazione era oltremodo triste, e forse a più d’uno, nascostamente, il cuore tremava in petto dallo spavento. Ma mentre ci eravamo rassegnati “Sab ad accampare presso una delle solite pozzanghere fetide, ecco, un dei seguaci, che era andato per faccende nei dintorni, ci annunziò che accanto, a due passi, c'era un lembo di paradiso terrestre: una vena d’acqua! Una improvvisa indicibile gioia rialzò gli spiriti abbattuti, una gioia che non può comprendere chi non si è tro- vato sperduto in certe solitudini africane, lontano dagli uomini e dalla vita, dove la natura sembra avere accu- mulato tutte le sue facoltà negative, spietatamente, in odio alla razza umana. Limpida, canora, gelida, una me- ravigliosa sorgente spicciava dalla terra; e, intorno al bacino, si stendeva un prato di erba, di vera erba, soffice, fresca, verde, di un bel verde smeraldino che riempì di felicità i nostri occhi estasiati che da tanto tempo, (un tempo che pareva incalcolabile!) cercavano avidamente quell’allegro riposante colore cui credevamo di non dover rivedere mai più. Eravamo veramente a pochi passi da quell’oasi d’ incanti e non ce ne eravamo accorti, perchè le guide, abituate a far quella strada quando il Mana scorre gonfio d’acque, non avevano mai avuto bisogno di ricercare quella sorgente. È inutile dire che, l’accam- pamento di quel giorno, con tanta grazia di Dio innanzi gli occhi e con tanta freschezza dentro le nostre gole riarse, fu il migliore di quella lunga triste serie che l'aveva preceduta. Miglior luogo per una più lunga e meritata sosta non si poteva desiderare: onde è che decisi di rimaner quivi due giorni ininterrotti. Per la prima volta fummo visitati dai re della foresta; le orme dei leoni si moltiplicavano nei dintorni, e spesso, la notte, rompeva improvvisamente il silenzio qualche possente, cupo, lungo ruggito. Le sentinelle scorgevano fuggevoli ombre strisciare nell’oscurità e sparavano BE | SU verso di quelle qualche fucilata diradando per un attim > le tenebre con vampate rossigne. Allora i muletti spa- ventati sì destavano e si mettevano a correre, irrequieti, dentro la zeriba, fiutando l’odore della temuta belva. * * * Il Mana teneva in serbo una sorpresa per la nostra marcia successiva. Esso si mostrò infatti nuovamente colmo d’acque scorrenti; e le acque erano anche più copiose di quelle che, poco prima, s'erano nascoste, alla chetichella, sotto terra, sembrando raccogliere, per un fraterno addio, gli ultimi sorrisi dei cieli aperti. Nel letto del fiume apparivano roccie basaltiche, mentre, nei giorni precedenti, la natura del suolo era apparsa prevalen- temente calcarea, con quei sedimenti rocciosi e stratifi- cazioni orizzontali, che, forse, avevano dato origine al fenomeno carsico. Ma la maggiore delle sorprese la trovammo a Malcà- Girma, quando ci fu recapitata la posta! Sissignori, proprio la posta! O voi tranquilli mortali che la mattina, scendendo le scale di casa vostra, ancora sbadigliando, traete lentamente di tasca la chiave della cassetta delle lettere, dopo avere sogguardato un istante attraverso al vetrino rivelatore e aprite lo sportello e ritirate un fascio di corrispondenza, e lacerate ad una ad una le buste, e poi scorrete di mala voglia, distrattamente, i foglietti coperti di varie calligrafie, mormorando non di rado un sommesso: « seccatore!» — potete immaginare, sol per un istante, la indicibile gioia di ricevere, nell’interno del- Africa, a centinaia di miglia da ogni centro civilizzato, in regioni selvaggie, abitate da leoni, una lettera, una vera lettera, chiusa in una autentica busta, con un non fantastico francobollo timbrato, e con le notizie e le frasi affettuose dei vostri cari, che pensano a voi tanto da lon- tano, che vi fanno rivivere, in ispirito, la vostra vita di uomini civili, e vi lasciano assorti, sognanti, compresi di una vaga strana tenerezza, tanto più intensa quanto più è difficilmente varcabile la distanza che vi separa dalle persone amate? E i giornali? I veri giornali di Roma, di Milano, di Torino, di Napoli che vi dànno le notizie della Patria lontana, e che vi ricordano ad un tratto come nel paese dove si parla la vostra lingua ci siano automobili, telefoni, macchine rotative, aeroplani! Come tutto ciò sembra strano in un luogo dove solo nude roccie vi cireondano, e dove la natura vi pare già infi- nitamente meno selvaggia quando, dopo tre o quattro giorniì di solitudine e di deserto, incontrate un essere appena degno del nome di uomo, ricoperto di pelli, abi- tatore di qualche capanna sgangherata in cui noi esi- teremmo a ricoverare i nostri cavalli o i nostri cani! Le lettere e i giornali che ricevemmo portavano la data dei primi di dicembre, e ci giungevano il 16 febbraio! Erano passate per Addis Abeba. Ma ci fecero, lo stesso, un enorme piacere; ci dettero però la misura di quanto poco sia conosciuta, in Italia, la geografia dell’Africa; infatti portavano indirizzi di questo genere: « Massaua per Addis Abeba» oppure « Addis Abeba (Eritrea) ». Ahimè! Nei giorni seguenti, il Mana comparve e scomparve a volta a volta, ogni due o tre chilometri, come un ra- gazzo allegro che giocasse a nascondersi; ma purtroppo le apparizioni eran molto più brevi delle eclissi, ed il più SCAN delle volte fammo obbligati a dissetarci nelle famose, sudicie e già laudate pozzanghere. Un giorno ne trovammo una, più grande delle altre, che mi fece venire la bizzarra ispirazione d’organizzare una pesca. A dir vero, il sistema che adoprai era abba- stanza primitivo, ma la speranza di tirar su un buon mucchio di pesci non era addirittura infondata. Feci dunque disporre entro la pozza alcuni ascari, i quali sostenendo verticalmente un lungo telo che strascicava sul fondo, dovevano spazzare l’intero volume dell’acqua traendo in secco i pesci. Gli ascari procedevano così, lungo i margini nel- l’acqua, avanzando lentamente, diguazzando coi piedi nel fango e scherzando con rumorosa allegria, come son soliti sempre di fare questi meravigliosi soldati che di nulla si sgomentano e che anche nei momenti più serii han l’aria di tanti gioiosi scolaretti in vacanza. Noi c'eravamo posti al limite dello stagno, e più vedevamo avvicinarsi gli strani pescatori con la stranissima rete, più sentivamo accendersi in noi la curiosità e la spe- ranza d’un buon bottino. Ma quando ormai il telo non distava più che venti passi da noi, ed immaginavamo già di vederlo giungere nella sponda, pieno d’un ar- genteo brulichio, scorgemmo invece un’ enorme boeca spalancata, armata di denti aguzzi, sorgere dall’acqua, e dietro quella, un lungo corpo legnoso, agitantesi su quattro zampe robuste, e poi una coda, una coda ster- minata. Sì, proprio una coda che non finiva mai. Ave- vamo davvero fatto buona pesca. Con quel semplice telo avevamo tratto a riva un magnifico coccodrillo. Rimanemmo tutti immobili. Il mostro fece qualche passo verso di noi che avevamo così inaspettatamente visto ingigantire il pesciolino cui credevamo di trovare SRETO: 1] PARA in fondo alla rete; spalancò tre volte le orribili ma- scelle guardandoci con un’espressione tutt’ altro che tenera, poi, con una rapida piroetta, si precipitò nuo- vamente nell’acqua alzando un’ondata di fango e por- tandosi via la nostra sciabica primitiva. Così se ne andò, senza farci alcun male, e senza che noi, sbalorditi dalla sorpresa, avessimo il tempo di farne a lui. Però restammo abbastanza mortificati, perchè fra esploratori africani che si rispettano, e un coccodrillo che si ri- spetta, e che vogliono esser somiglianti agli esploratori ed ai coccodrilli descritti nei libri di viaggi che diver- tono tanto i nostri figli quattordicenni, deve accadere una delle due cose: o che gli esploratori ammazzino il coccodrillo, o che il coccodrillo mangi gli esploratori. Invece il nostro incontro con l’animale, così curiosa- mente pescato dagli ascari, fu straordinariamente pa- cifico, e somigliò esattamente all’incontro con un timido micio che soffia un istante e poi scappa a nascondersi nel primo pertugio di cantina che trova. Chi ci godette furono i pesci, che si videro così im- pensatamente salvati dall’inesorabile rete che li spin- geva senza speranza verso la morte... x Nello stesso giorno, 18 febbraio, fummo raggiunti dalla missione abissina, con la quale si trovava anche il degiac Nado, che, con marcie forzate, era riuscito a riacquistare il tempo perduto. Il sentiero si confondeva, d’ora innanzi, col torrente incassato fra colline a picco, le quali formavano una specie di corridoio, dove il caldo sembrava concentrarsi e produceva un senso di insopportabile soffocazione; il CRI o e paesaggio, che non variava mai, ci dava l’ossessione di camminare, camminare, e di ritrovarci sempre nello stesso punto; di più il riflesso abbagliante delle roccie abba- cinava e stancava la vista. Il decimo giorno, secondo le previsioni delle guide, avremmo dovuto raggiungere le rive del Ganale; in- vece il fiume non si vedeva, e le guide s'’impuntarono a non voler proseguire, perchè capivano che il piccolo stagno presso il quale c'eravamo accampati era l’ultimo affioramento d’acqua, e assicuravano che, d’ora innanzi, non avremmo più trovato una goccia di liquido. La si- tuazione era difficile, ma la risolsi facendo legare soli- damente le guide e mandando due esploratori a rico- noscere la strada. Ritornarono con la tristissima notizia che, dopo tre ore di marcia, il Ganale non era in vista, e che in tutto il tratto esplorato non si trovava al- cuna traccia d’umidità, nemmeno una delle solite fe- tide pozzanghere. Allora inviai una seconda pattuglia con l'ordine di raggiungere il Ganale a qualunque costo. L’attesa fu lunga, sfibrante; sapevamo, dai calcoli fatti, che il desiderato fiume non poteva essere troppo lontano. Ma però un segreto timore ci agitava i precordii e ci metteva innanzi la terrificante visione di un possì- bile errore: di una grande distanza da percorrere senza trovare una stilla dell’ indispensabile elemento vitale. E intanto il caldo si faceva asfissiante, insopportabile; il termometro segnava quaranta centigradi all'ombra; non spirava un alito di vento ; ci sentivamo la pelle risecchita, le fauci arse, il cervello in fiamme. L'incubo africano, fatto di calore scottante, di siccità spaventosa, di soli- tudine desolata, incombeva su di noi come se volesse schiacciarci, abbatterci. « ... IL GANALE, SCORRE IN UN VERO CORRIDOIO ... ». UN GUADO NEL GANALE. IL GANALE A BANDER. IL GANALE SCORRE FINALMENTE IN PIANO. — 97 — Ma per fortuna, durante la notte, la pattuglia esplo- ratrice fece ritorno, narrando che il Ganale distava poco più di sei ore di marcia, e che, a metà strada, sì trovava una fossa sufficiente per dissetare tutta la ca- rovana. Quindi, con due brevi tappe, raggiugemmo il fiume sospirato; ed era tempo, perchè nel viaggio lungo il Mana, che era durato dal 12 al 25 febbraio, avevamo sofferto privazioni d’ogni genere. Se si eccettuano due giorni di riposo, ed altri due di brevi soste, avevamo sempre marciato per più di tre ore al giorno, su di un terreno difficile, faticoso, frastagliato, pieno di ostacoli, quasi privo di foraggi e con poca e pessima acqua. Se gli uomini erano stanchi, gli animali avevano risentito più assai di loro le conseguenze del disagiato viaggio. Parecchi eran morti per via, segnando con le loro carogne le tappe dell’aspro viaggio. * * * N Ganale, nel punto dove lo raggiungemmo, ha gli stessi caratteri del suo affluente Mana, e, come questo, scorre in un vero corridoio, che è anzi più profondo dell’altro, con sponde alte e ripide, talvolta addirittura a picco, tal’altra a scarpata come gigantesche muraglie d’una millenaria costruzione egiziana. Qua e là, dove la conformazione della riva lo permette, gruppi di belle palme dum elevano contro il cielo le loro eleganti ca- pellature verdi. La corrente aveva un volume d’acqua abbastanza notevole, sebbene in quel momento occupasse soltanto una quinta parte dell’alveo; quindi il degiac decise di tentare una pesca alla dinamite. 13 93 — Da principio, ero assai diffidente dell’abilità abissina in quel genere di pesca, ed avrei preferito di starmene lontano nel momento in cui gli uomini del degiac pre- paravano la cartuccia di gelatina da gettare in acqua; ma poi fui invece meravigliato della disinvoltura con la quale i novissimi pescatori maneggiavano il pericoloso esplosivo. Constatai che sapevano usare perfettamente il terribile preparato e non dimenticavano alcuna delle precauzioni necessarie. È veramente strano vedere come questa gente assimila facilmente tutto ciò che ha atti- nenza con le armi e con la guerra, mentre si dimostra oltremodo refrattaria ad ogni altro genere di cultura! La pesca non fu molto abbondante, ma avemmo la fortuna di uccidere alcuni pesci di razze rarissime che non sarebbe stato possibile prendere con lamo. Io li preparai per la collezione zoologica, che si arricchì, in tal modo, di qualche interessante esemplare. Ci fermammo per tre giorni, dal 26 al 28, nel luogo dove avevamo raggiunto le sponde del Ganale; e quivi provammo un’amara delusione. Uno dei più ardenti de- siderî che ci aveva tormentato durante la marcia sul Mana, era stato quello di bere dell’acqua fresca, perchè le pozze che ci avevano dissetato fino ad allora ci ave- vano fornito acqua non solo sporca e fetida, ma anche nauseosamente calda; sentivamo dunque il bisogno acuto, allucinante di calmare l’arsura delle fauci con acqua, non solo limpida, ma fresca. Invece anche il Ganale, se pur sufficientemente limpido, era però caldo come se sgorgasse da una sorgente termale, perchè scorreva su roccie continuamente infuocate dal sole. UN IPPOPOTAMO UCCISO A DOLO. POETA. Ti e DE IN VISTA DI DOLO. DOLO. IL NOSTRO ACCAMPAMENTO A DOLO. EE Mi) peo Gli ascari approfittarono di questa qualità termica per starsene sempre immersi nell’acqua; del resto avevan proprio bisogno di fare qualche bagno, e di lavare i loro vestiti che, ridotti in uno stato indescrivibile, man- davano un protumo che non era precisamente simile a quello lasciato nell’aria dal passaggio d’una signora ele- gante. Dopo quei bagni e quel bucato i nostri ascari eran ridiventati tutti lindi, belli, eleganti, bianchi, come dovessero andare a dameggiare in un giorno di festa. Prima che ricominciassero le marcie, il degiac tornò indietro, giacchè non aveva provvisto i suoi soldati di tutto il necessario per un così disagiato e lungo viaggio. Approvai questa decisione e con me l’approvò l’ufficiale tedesco. In tal modo il degiac avrebbe potuto organizzare meglio, a Ghigner, le truppe da inviarci alla frontiera quando fosse stato il momento opportuno; intanto re- stavano con i delegati etiopici circa tre centinaia di soldati che, uniti alla nostra scorta, avrebbero potuto provvedere alla sicurezza dei lavori preparatorii nei dintorni di Dolo. Pensavamo poi di inviare da Dolo al degiac un messaggio col quale gli avremmo indicato in che luogo e in che giorno avrebbe dovuto mandarci le truppe di cui avessimo giudicato necessario cireondarci per difendere la tranquillità dei lavori durante la deli- mitazione dei confini. Riprendemmo il viaggio il primo marzo, seguendo un sentiero che costeggiava il fiume sulla riva sinistra; poi ci arrampicammo fino sull’altipiano, dove la marcia era più agevole; ma fummo presto costretti a ritornar sulla riva dove il sentiero, scosceso e roccioso, metteva — 100 — a dura prova la nostra pazienza. Ad aumentar gli osta- coli del cammino s’aggiungeva, in quei luoghi, anche una folta vegetazione, tenace e imbarazzante come un groviglio di funi, che faceva inciampare i muletti e ci obbligava ad usar l’ascia per aprirci la via! Soltanto con la sicura testimonianza della propria osservazione diretta, si può giudicare e immaginare quali tremende difficoltà debba aver superato il capitano Bòttego, quando, senza guide e con scarsissimi mezzi di tra- sporto, traversò, per il primo, queste regioni deserte, inospitali e selvagge! La seconda tappa non fu meno faticosa e penosa della prima: il fiume era sempre incassato fra le mon- tagne, in un solco profondo dove il calore, divenuto asfissiante, sembrava procedere ad un supremo sforzo di sintesi. Il sentiero passava fra le roccie, sul pendìo della riva che andava giù senza mai un gradino, un ripiano, ed era sempre coperto dal viluppo inestricabile di rampicanti che intessevano le loro maglie robuste fra i tronchi della folta vegetazione arborea. Per fortuna, in alcuni luoghi, qualche buon elefante ci aveva fatto inco- scientemente da battistrada, formando, fra il verde, col passaggio del suo corpo poderoso ed enorme dei viottoli non perfidissimi. Ma anche in questi corridoi non man- cavano gli ostacoli, formati da tronchi di palme cadute che imbarazzavano i muletti, e da certi rovi pungenti che carezzavano con troppo ironica tenerezza le nostre gambe e i nostri fianchi fasciati soltanto di labili stoffe e di tenace pazienza... Tutte queste difficoltà che stancavano e irritavano, mi impedivano un poco di ammirare la selvaggia bel- lezza della foresta tropicale: bellezza indescrivibile, bellezza unica al mondo: nuvola verde che avvolge il — 101 — viandante da tutti i lati, togliendogli la vista di tutto ciò che non è foglie e rami e fiori ed erbe; labirinto dedaleo, che mostra, ad ogni istante, impreveduti aspetti della sua vigorosa magnificente fecondità, della sua infinita varietà di forme, con il filo d’erba e la larga foglia spi- nosa, lo stelo esile e il tronco gigantesco, la pianta nana e l’eccelsa cupola, il fiore delicato e la matassa di liane, che sembra un groviglio di enormi serpenti in letargo. A un certo punto cì accorgemmo che era impossibile proseguire. Allora guadammo il fiume per cercare un cammino possibile su l’altra sponda; ma, poco dopo, fu mestieri ritraversare di nuovo il corso d’acqua; e così per quattro volte, nello stesso giorno, con indicibile noia, tanto più che, essendo i guadi assai profondi, dovemmo, quasi sempre, disfare i carichi e farli portare a spalle d’uomo, perchè non si bagnassero. Per evitare questi inconvenienti, i giorni di poi de- cisì di seguire il sentiero che passa sull’altipiano salendo e scendendo per gl’ impluvii. Su, in alto, si respirava, se non altro, un’aria meno soffocante, ed il sentiero era un po’ più sgombro, sebbene dovessimo ancora crearcelo spesso con l’ascia per far passare 'i muli che, povere bestie, erano assai mal ridotti da tutte quelle faticosis- sime salite e discese, e non s'erano ancor rimessi dai passati digiuni. Fin’allora ce n’erano morti ventisette! Nei seguenti giorni 5, 6, e 7 marzo, il cammino non migliorò: perciò quando, a Bander, potemmo fare una sosta ci rallegrammo non poco. Ma, d’altra parte, avevo in cuore un invincibile eruecio: in una delle marcie, s'era smarrito il conducente che aveva in consegna il — 102 — materiale fotografico e di cancelleria. Facemmo infinite ricerche, ma non riuscimmo a rintracciare nè l’uomo, nè il mulo, nè il carico, che, lo confesso, era troppo pre- zioso perchè non mi importasse assai più di tutto il resto ... Soltanto a capo di tre giorni vidi tornare le pattuglie esploratrici con il conducente, il mulo e il carico tutti incolumi. Quel bel tipo di carovaniere mi raccontò che aveva smarrito il sentiero, era ridisceso al Ganale e ne aveva seguito il corso, credendo così di raggiungerci; quando aveva visto scendere la notte, si era sdraiato sulla riva aspettando pazientemente l’alba. Il giorno seguente, aveva ripreso il cammino senza ombra di preoccupazione. Sapeva che dovevamo andare a Dolo e pensava che, prima o poi, ci avrebbe raggiunto; l’acqua del Ganale avrebbe pensato a dissetarlo, ed i legnosi frutti della palma dum sarebbero bastati a togliergli la fame... Durante la notte un leone aveva tentato di assaltare il mulo, ed egli si era difeso, così come se si fosse trattato di scacciare una zanzara... Raccontava tutto questo con la massima calma e la più tranquilla naturalezza... Ed era rimasto solo, senza cibo, senza nozione dei luoghi, in mezzo ad un vasto territorio selvaggio privo di abi- tanti, nel più folto groviglio della foresta tropicale, dove il solo incontro probabile è quello di qualche belva at- famata... Io credo che davvero molti altri uomini sa- rebbero morti di paura, e non so se qualificare per corag- gioso o per incosciente il meraviglioso contegno del conducente abissino, che, tranquillamente e indifferente- mente, aveva portato a passeggio il suo mulo, la mia macchina fotografica e le mie raccolte grafiche attra- verso ad un luogo dove, ad ogni istante, la morte poteva raggiungerlo. ANCORA L'ACCAMPAMENTO DI DOLO. DOLO. L'ACCAMPAMENTO DEGLI ASCARI. DOLO. ANCORA L'ACCAMPAMENTO DEGLI ASCARI. LA GUARDIA AL CAMPO. — 103 — A Bander, dove il fiume comincia ad allargarsi, tro- vammo le prime traccie di esseri umani; eran miseri ricoveri sospesi sui tronchi degli alberi, ma vuoti perchè gli abitanti appartenenti alla tribù Auata, discendente dei Bòran (Galla), che vivono di caccia e di pesca, erano, in quella stagione asciutta, emigrati più a monte. Sul suolo spesseggiavano le orme del rinoceronte; anzi in- contrammo uno di questi enormi pachidermi, per via. Un altro attraversò l'accampamento; quegli incontri erano abbastanza pericolosi perchè il rinoceronte, quando è sorpreso, fugge caricando e investendo gli uomini, a differenza di altri animali che, con la fuga, pensano sol- tanto a mettersi in salvo. A Bander ricevemmo altra posta; questa volta ci giungeva dal Benadir, e portava la data del settembre antecedente! IN 9 marzo riprendemmo la marcia con poche difti- coltà perchè l'alveo del fiume era largo; ma, poco dopo, questo si restrinse in una strozzatura improvvisa, obbligandoci a risalire sul ciglio destro; dovemmo mar- ciare anche durante il pomeriggio, dormire senza aver potuto bere una goccia d’acqua, e, di giorno, raggiungere con faticoso cammino, il Ganale, in un punto dove le rive erano ricoperte da folti, altissimi, meravigliosi palmeti di una bellezza incomparabile. Gli amatori della caccia grossa avrebbero eletto quel luogo a loro paradiso. Fummo accolti da numerosi barriti che facevano un clangore come di tube selvaggie, e udimmo il rovinoso schiantar di piante e di rame che produce la fuga del- l'elefante nel folto di una macchia. Il fiume era tutto — 104 — cosparso di ippopotami che si riunivano a branchi, di- guazzavano nell’acqua, mostravano or le vaste groppe brune, or le teste piatte e le fauci mostruose soffiando. L’ufticiale tedesco e gli abissini, senza muoversi dal- l’accampamento posto sulla riva, con pochi colpi di fu- cile ne uccisero una diecina. ia Ormai il Ganale cominciava ad allargarsi veramente; non si vedevano più dai due lati le ciclopiche muraglie delle montagne aspre e arroventate dal sole che osta- colavano la marcia, toglievano la vista e il respiro, e ci mettevano, in fatto di temperatura, nella condizione di un pane dentro al forno. Adesso si camminava con mag- gior facilità, senza troppi inciampi, e soprattutto con maggiore rapidità, coprendo in media una distanza di 5 km. all’ora. Di più ci allietava la buona notizia che con due sole tappe saremmo giunti a Dolo. Intanto il paesaggio era divenuto pittoresco e si era rivestito di tutti gl’incanti che possiede la terra afri- cana nei luoghi dove l’aridità non l’ha resa desolata e nuda. Il fiume scorreva ora argenteo, ora azzurrino, come una lama d’acciaio, ora scurito da cupe trasparenze verdi. Dalle sponde, eleganti boschetti di palme e di ombrellifere scagliavano in alto sui colli sottili le loro capigliature folte, emergendo dalle frangie compatte delle piante più basse che armonizzavano in gamme delicate di infinite sfumature verdi; e talvolta sì cur- vavano dalle sponde verso l’acqua, come straripassero per troppa esuberanza, o come volessero guardare, attra- verso alla trasparenza della corrente, le pietre rotonde dell’alveo. Ma tutta questa lussureggiante vegetazione — 105 — non eopriva che le sponde, formando come due strisce di velluto smeraldino che orlavano il letto del fiume da ambo i lati. Al di là si stendeva, sulla pianura e sulle colline, uno sconfinato bosco arido, spinoso, spoglio di verde come se la vampa cocente del sole equatoriale lo avesse arso distruggendone la linfa vitale. Ma, per la gioia dei nostri occhi, era sufficiente il meraviglioso spettacolo offerto dal fiume; e l’acqua limpida e i freschi pascoli compensavano uomini ed animali delle priva- zioni sofferte lungo il Mana. Difatti, ogni qual volta trovavamo le sponde accessibili, tutta la carovana si precipitava verso il fiume, serpeggiando con un brusio confuso di gioia; perchè soltanto in Africa si giunge ad aver l’esatta sensazione dell’importanza che ha il fresco limpido elemento per gli esseri viventi. Così si procedeva, passando spesso dall’una all’altra sponda di quel fiume a cui ci tenevamo attaccati perchè rappresentava per noi la guida, il ristoro, la necessità assoluta, il primo coefficiente della nostra esistenza. E finalmente, dopo tanto tempo di viaggio attraverso alla natura deserta, abbandonata a sè stessa, ritrovammo le traccie del lavoro umano, l’opera dell’essere intelli- gente che provvede alla propria vita trasformando co- scientemente la naturale energia. Eran pochi campi di dura coltivati dai Garra-Marra, ma rappresentavano per noi la mano dell’uomo che ha saputo dominare e asservire le forze cieche della terra. Arrivammo a Dolo il 15 marzo. Una grande e sem- plice felicità fece luminose le nostre pupille allorchè vedemmo venire incontro un italiano, il tenente A. Costa 14 — 106 — delle truppe coloniali benadiriane che veniva a mettersi a mia disposizione, seguito da duecento ascari i quali dovean proteggerci durante i lavori di delimitazione. Non si può immaginare quale commozione gioiosa produca l’incontro d’un compatriota nell’ interno del- Africa! Sembra di trovare un fratello amato da lungo tempo perduto e creduto morto! E quante cose si hanno da domandare, quante da raccontare! Sembra che la voce e il linguaggio non siano sufficienti ad esprimere tutta l’esuberante effusione interiore. Avrei voluto che il collega mi avesse potuto dire subito nel primo attimo, tutto ciò che accadeva in Patria e nella Colonia, e nello stesso attimo avrei voluto narrare tutte insieme le pe- ripezie del lungo viaggio, e le osservazioni fatte, e le impressioni provate. È inutile; si viaggia, ci si interessa a tutto ciò che si vede, ci si immedesima col luogo in cui ci troviamo; ma tutto ciò è puramente cerebrale. Direi quasi che viaggiando ci si porta dietro nelle valigie soltanto lo spirito, la mente, l’ intelletto; ma il cuore, il sentimento, l’affetto si lasciano a casa, si lasciano nella Patria ado- rata. Le sensazioni piacevoli o spiacevoli del viaggio restan disegnate nel nostro pensiero come su di una insensibile lastra fotografica; e al di sotto di quelle con- tinua a palpitare immutato, immutabile, lo stesso cuore di prima, avvinto con tutte le sue fibre, con tutta la sua tenerezza, con tutto il suo caldo amore, alla gente della nostra terra, alla nostra cara indimenticabile Patria lontana! Vi DOLO. Sulle opposte sponde del Ganale e presso la con- fienza del Daua, sorgono due villaggi, chiamati entrambi con un medesimo nome «Dolo» nome che ripete la sua etimologia dal vocabolo somalo dol equivalente a « barca » o «zattera da traghetto ». Dapprima questo appellativo, congiunto anche spesso a quello di Fullaje, designava soltanto il gruppo di capanne situato in territorio inglese, sulla destra del Ganale e più precisamente sull’ultimo lembo destro del morituro suo affluente, il Daua. Sulla sinistra siamo invece in pieno territorio ita- liano. E fu proprio il Governo italiano della Somalia che, dopo la convenzione 16 maggio 1908, decise di far costruire, là, dirimpetto alla Dolo inglese, un bel villaggio, cui, forse in omaggio alla bisogna fluviale, quivi mag- giormente esercitata, gl’ indigeni estesero il nome dell’op- posto paesotto inglese. Esistono dunque, in quella località, una Dolo italiana e una Dolo inglese. | L'importanza della duplice Dolo proviene dalla situa- zione geografica che fa di codesti villaggi la chiave di tre vie fluviali e il nodo delle comunicazioni che da quelle tre vie convergono. Intendo parlare del Ganale e dei suoi due affluenti, Daua e Ueb, che a Dolo si riu- niscono in un alveo solo. — 108 — Il paese ha dunque importanza commerciale, ma anche politica, però che quel lembo di territorio segni, secondo la summentovata convenzione intervenuta fra l’Italia e 1 Etiopia, il limite dei nostri possedimenti lungo il Ganale. Del resto è facile intendere come in questi paesi, l’importanza commerciale e quella politica spesso s’identificano. La popolazione stabile di Dolo è composta di un di- secreto numero di famiglie Garra e Gubahin, che vanno man mano aumentando, e da alcuni commercianti quivi venuti da Lugh o dalla costa. V’è anche una popola- zione fluttuante: ed essa è costituita dalle carovane che trafficano fra Lugh e i paesi degli Arussi e dei Bòron. L’autorità politica di Dolo all’epoca del mio viaggio era tutta riassunta e sublimata dalla arida figura di Mohamed Urchei. Questo vecchietto intelligente e astuto era per me una vecchia conoscenza; lo avevo avuto con me al tempo della seconda spedizione del capitano Bot- tego e mi sì era particolarmente affezionato. Poichè dal Governo era stato mandato a Dolo per commerciare e per mantenere sotto l’autorità italiana il villaggio e le carovane, Mohamed Urchei disimpegnava queste sue funzioni con uno straordinario zelo. Era un informatore abilissimo e possedeva, di più, il raro pregio di essere devoto e fedele. Adesso è morto. Il mio amico capitano Ferrandi ha riportato in Italia la sciabola che il capi- tano Bottego aveva donato ad Urchei in segno d’affetto e di stima. Mi piace immaginare che, per atto di devo- zione, Mohamed Urchei, sentendosi in punto di morte, — 109 — abbia voluto sentire per l’ultima volta, sulla sua cute, il freddo della bell’arma nuda. Con la morte del buon vecchio, ignoro in qual pugno di ferro o in quali scodelle capaci sia andata a riassu- mersì o a disciogliersi la politica paesana. Quanto all’autorità militare, essa è rappresentata da una «banda», un breve manipolo cioè di irregolari. È la guardia nazionale indigena. Costituiscono la banda al- cuni robusti giovanotti che, forse per mettere in pratica e in vista qualche dottrina individualista appresa nelle Università locali, indossano le più disparate uniformi (o pluriformi ?) costituite — talvolta — da un pudicissimo pajo di mutandine e — sempre — dal rispettabile cinto della cartueciera. Questa soldatesca pacifica quanto inter- mittente è armata e pagata dal Governo e s'impegna di mettersi a disposizione delle autorità, tutte le volte che e è bisogno di essa per scortare carovane e far servizio di polizia. Non posso affermare che questa sia una spar- tana guarnigione ideale; posso però sforzarmi a ricono- scere fra le molte buone lane di quella masnada alea- toria, discrete stoffe di futuri presidiarî... Come ho già detto dianzi, varî commercianti fore- stieri, arabi e somali, venuti dalle città costiere, si sono qui stabiliti e fanno relativamente buoni affari. Alcuni mi son sembrate delle vere macchiette. Guardate quel bel tipo mogadisciano e ditemi se non vi sembra proprio un personaggio da operetta con il parasole da borghe- succia nostrana, con la capigliatura da wagneriano con- vinto e da somalo impazzito, con i sandali lasciatigli in memoria da qualche esploratore ciclista e colossale e — 110 — con il manto bianco da statua classica! Ora codesti stra- nieri si sono infiltrati e amalgamati mirabilmente con il resto della popolazione, che è costituito dai Garra-Marra: da quegli stessi Garra-Marra, che abitano l’altra sponda del fiume. È, si può dire, tutta una vasta parentela, non già divisa, ma unita dal fiume, sul quale si svolge appunto, con discreta vicenda, lo scambio di persone, d’interessi, d’idee e di affetti. Gli antenati di questa gente erano in parte schiavi dei Garra-Badia che dimoravano più a monte sul Daua, e in parte schiavi dei Rahannin e più specialmente delle tribù Adama, Ober e Gasar-Guddà. Questi schiavi liberati dettero origine agli odierni Garra- Marra, che vivono adesso insieme ai loro antichi pa- droni Garra-Badia, in massima parte su territorio inglese e han villaggi e coltivazioni lungo la destra del Ganale a monte e a valle della confluenza del Daua e lungo la. parte più meridionale di questo affluente. Tanto i Garra- Marra che i Garra-Badia, pur abitando la destra del Ganale, continuano ancora oggi a pagare un tributo ai Gasar-Guddà di Lugh. Questo strano fatto è spiegabile soltanto se si tien conto della psicologia di questi na- tivi che, non potendo comprendere il regime e il signi- ficato delle spartizioni territoriali fatte tra 1’ Etiopia e le potenze europee, continuano a considerare i Gasar- Guddà come soli signori e padroni delle terre dove essi credono di stare come inquilini. Pig I Garra-Marra, che abitano nel villaggio italiano dî Dolo (di essi soltanto io intendo qui occuparmi) vivono. assai miseramente ricavando risorse esigue da insignifi- canti scambi commerciali e dai pochi campi di dura che — lil — essi coltivano con mezzi rudimentali e sistemi primitivi sulle rive del fiume e allevando quel poco bestiame cammelli, buoi e capre — che serve ai loro più imperiosi bisogni. Codesta gente, poco numerosa e non certo su- scettibile di miglioramento, mostra anche, come ho detto, poche e poco lodevoli attitudini pel commercio, conten- tandosi di scambiare con le popolazioni vicine le poche merci di cui fa uso. Ad onta che il polso della vita di Dolo sia languido e torpido, il villaggio italiano, giù, a ‘alle, si va facendo più folto di capanne. Sono povere e semplici e piccole, tuttavia, queste capanne: come quelle dei nomadi, fatte quasi tutte della medesima stuoia con cui s'intessono i basti da cammello. Quelle costituite per ordine del Governo italiano sono assai migliori: han le pareti di traliccio di legno ricoperto di paglia. Anche gli utensili domestici sono molto primi- tivi. La dura, per esempio, vien macinata fra delle pietre lisce o con lunghi pestelli dentro mortai di legno; poi vien stacciata dentro ceste un po’ concave che le ragazze indigene scuotono dal basso in alto: e in questo gesto, non privo di grazia, ricordano le statuette fuor di moda che ornavano, qualche decina d’anni fa, i canterani e i caminetti delle nostre mamme, in provincia. * * * Le coltivazioni di dura, di fagiuoli e di cocomeri vengono fatte lungo il fiume nelle poche sciambe: in quelle poche radure, insomma, ottenute in seguito a di- boschimento e dissodamento del terreno. Pare impossi- bile che oggi, al tempo delle « città terribili », al tempo della febbre e della rapidità ansiose, elevate a sistema d’esistenza, al tempo dei treni, dei telegrafi, dei gior- — 112 — nali, delle automobili, degli aeroplani, al tempo in cui si vive un anno in un’ora ed ogni azione si complica con infinite altre di altri individui che a quella si col- legano come i denti di un gigantesco ingranaggio, pare impossibile, dico, che ci siano ancora popoli che non sospettano nulla di tutto ciò, che sono ancora indietro di fronte a noi di trenta o quaranta secoli e che vivono con tanta schematica semplicità come questi abitatori di Dolo. Qui, uomini e donne attendono ai lavori dei pochi campi in aprile e in novembre, cioè prima che comincino i periodi delle piogge; in seguito fanno il raccolto, che non è sempre molto copioso e dipende più che altro dalla quantità di precauzioni prese per difen- derlo contro le scimmie e contro gli uccelli devastatori. Poi si può dire che non abbiano più altro da fare e che se ne stiano oziosi tutto il resto dell’annata. Quelli che hanno proprio una gran vocazione al lavoro, occupano qualche ora fabbricando, con una lentezza che rasenta l'inerzia, i primitivi utensili domestici che si riducono a pochi recipienti di terra e di pietra. Le donne, oltre a dividere con gli uomini le fatiche agresti, accudiscono alle faccende domestiche: ma si può bene immaginare che nemmeno questo lavoro è soverchiamente gravoso perchè quelle molto primitive massaie non han certa- mente da lustrare mobili o impianciti, nè da sbattere tappeti, nè da spolverare statuette di Sèvres. Tutta la fatica consiste nello starsene accoccolate qualche mezza ora intorno alle pentole, poste, senza alcuna sorta di intermediari, in diretto colloquio con i tizzoni ardenti, e nell’aspettare che il fuoco compia l’opera sua. Poichè in ogni famiglia non manca una discreta collezione di figliuoli, ciascuna di quelle prolifiche Cibeli, po- trebbe, volendo, far concorrenza a qualehe affaccenda- DOLO. LA CONFLUENZA DEL DAUA COL GANALE. DOLO. LA CONFLUENZA DEL DAUA COL GANALE. « «++ QUESTO VECCHIETTO INTELLIGENTE E ASTUTO ... ». (Pao. 108) « ... ERA UN INFORMATORE ABILISSIMO...». (Para. 108) — 113 — tissima istitutrice di orfanotrofio europeo. Ma, appena staccati dalla mammella, alla quale, per anticipata rea- zione, nei primi mesi, stanno appesi notte e giorno, quegli idropici mostriciattoli pensano da loro stessi a crescere, come Dio, o meglio, come Maometto vuole, senza bonne e senza istitutrice, senza che la madre si affatichi certo per dar loro una raffinata educazione. Spesso le donne vanno al fiume per attinger acqua: ed allora sì fermano sulla riva a bighellonare e a chiac- chierare, tal quale come le comari dei nostri paesi, in- torno al pozzo o sulle soglie. Talvolta, anche, si dànno convegno su qualche rozza panchina per far conversa- zione; ma quei ricevimenti all’aperto, bisogna dire la verità, non ricordano molto i five o’clock della nostra società elegante. Alcune donne, le più modeste e laboriose, stando- sene chiuse nel loro recinto, costruiscono graziosi ce- stelli intessuti di vimini e d’avellana. Se in genere, le donne lavorano assai più degli uomini, non manca qualche signora di sangue bleu a cui il ri- spettivo uomo può permettere una vita oziosa. Queste specie di favorite, come tutte le favorite del mondo, amano il lusso e sfoggiano vesti, gingilli, collane d’ar- gento e orecchini venuti dalla costa; se ne stanno quasi sempre mollemente sdraiate sui canapè e sui tappeti: volevo dire: sui graticci di canne, come, da noi, i fichi, e su frammenti di cuoio mal concio. Sembrano piccole pantere in pensione: ma si dànno delle arie da signore civettuole e passeggiano con la mano sull’anca protesa guardando gli altri miseri mortali con un certo sorri- setto di sufficienza che non è poi troppo dissimile da quello che abbiamo visto sulle labbra di qualche nostra mondana mentre sale in automobile provocando il mag- 15 — 114 — x gior fruscìo di cui è suscettibile la sua gonna di seta o lasciando ondeggiare le lunghe piume del cappello largo proprio come una capanna sòmala... Qui, però, manca l’automobile, il cappello e anche, talvolta, la gonna... Un altro mestiere esercitato dalle donne di questi paesi è quello della stregona. Ne ho vista una a Dolo: vecchia, secca, allampanata. Pretendeva di guarire tutte le malattie — eccetto quella di credere alla sua arte — con i suoi rimedi costituiti dai soliti unguenti nauseosi, e dai soliti succhi di radici e di foglie... Viveva, natu- ralmente, a scrocco, alle spalle dei gonzi... È anche vero che i gonzi non si trovano soltanto ‘a Dolo. de Il gran polso della vita di Dolo è tutta là, sul fiume. Se non ci fosse quel poco di movimento, diciamo così, nautico, Dolo sembrerebbe un paese anchilosato da una paralisi epidemica... Per fortuna, il bisogno degli scambi fra gli abitatori delle due rive s° è fatto talmente sen- tire che il fiume è divenuto l’operoso telaio su cui certe chiatte primitive e rudimentali fan da spole. Perchè il nome dell’utensile tessile non induca in errore circa la forma delle unità navali di Dolo, dirò subito che queste ultime, essendo costituite da tronchi d’albero legati in- sieme, dànno piuttosto l’idea di frammenti di staccio- nate cadute, per caso, giù nel fiume o di palafitte ribelli che, stanche di rimanere in piedi, si siano staccate dal fondo per adagiarsi orizzontalmente sulla superficie del- l’acqua. Il Commissariato di Lugh ha regolato le tariffe del transito fluviale, stabilito le ore di lavoro, scelto e di- MOGADISCIANO ... TIPO BEL QUEL GUARDATE < ss. ». ARASOLE ... P IL CON (Pages 109) DOLO. DI CAPANNE i, pe) Les eo ul o AI id; « .+.. LA DURA VIEN MACINATA CON DELLE PIETRE LISCE.... (Pag. 111) — lib — sciplinato i navalestri. Capo di costoro è un vecchio inverosimilmente, paradossalmente alto: così alto che, in un momento di distrazione, vien fatto di domandargli se tiri molto vento, su, all’altezza della sua zucca cal- vissima... Eppure, quando, nelle tregue se ne sta acco- sciato sullo scorcio della ripa a guardia della sua zattera ferma, sembra un omino di statura ragionevole. Penso che le sue gambe e le sue braccia e il suo torso debbano avere un qualche congegno non dissimile da quello dei tele- scopi. Or ecco una voce lo chiama dall’opposta riva. Ed eccolo, alla chiamata, sfoderare torso e braccia e gambe e rotolar giù dalla ripa come lo scheletro terroso di un colossale anfibio e formarsi poi nella franatura informe con il suo soffio e il suo borbottìo umano... Sembra un rifiuto del fiume che s’animi a un tratto per trasfor- marsi in un Caronte dantesco. Non è egli la larva del Tempo? E non forse su quel passatore deforme sembra che passino le acque del fiume come tutte le cose labili? Gli spiriti pratici e positivi mi ammoniscono che non l’acqua trascorre sul nocchiero, ma il nocchiero e la sua chiatta misera passano sul fiume. È vero. E passa la tartana del mio Caron non demonio come tutte le altre dei suoi colleghi (colleghi in mestiere, se non in altezza): spinta, cioè, per mezzo di un palo che il con- duttore appoggia sul fondo. Così, dall’una all’altra sponda naviga la merce caricata asciutta su codesti soffitti gal- leggianti e scaricata fradicia, tanto fradicia da rendersi necessaria una lunga esposizione al sole. Ai passeggeri poi sono offerte tutte le comodità: infatti, per non gra- vare di soverchio la zattera essi sono obbligati a far la traversata a... nuoto. Soltanto le donne, come viaggia- tori di prima classe, possono prendere posto a sedere — 116 — sulle balle di merce. Ed in questo, non si può negare, gli africani di Dolo sì dimostrano abbastanza caval- lereschi. I bovi e i cammelli fanno la traversata a nuoto: anzi su questi ultimi, poveretti, sale spesso a cavalcioni il conducente che deve guidarli e sospingerli. In quanto alle capre e alle pecore esse vengono legate lungo i margini della zattera perchè non si sbandino. Par Sarà gran miracolo se a Dolo, fra qualche decina d’anni, resterà la floridezza commerciale di questo in- nocuo traffico fluviatile esercitato fra quei pochi con- sanguinei Garra-Marra che abitano indifferentemente sull’una o sull’altra sponda del Ganale. Quanto poi a credere che, dalla sua favorevole posizione geografica, Dolo possa in un giorno, più o meno lontano, trarre sì grande utilità da divenire un operoso centro com- merciale, io, ho i miei dubbi. L’essere Dolo situata presso la confluenza del Ganale col Daua e coll’ Ueb non costituisce un argomento decisivo per decretare la futura prosperità di quel nodo molto flu- viale ma poco stradale. La eccellenza della posizione geografica di Dolo è e sarà sempre, almeno nei nostri riguardi, di una utilità molto relativa Anche oggi, in- fatti, per andare dalla linea al Daua alla costa o a Lugh forse che si tocca Dolo? Nemmeno per sogno. Non si attraversa nemmeno un po’ di territorio inglese attorno a Dolo. Si segue invece l’ipotenusa di un trian- golo del quale il Daua e il Ganale formano i due cateti e Dolo il vertice. Esiste già una via che, per Cercale, al limite orientale dei Boràn, adduce direttamente, dia- Le di — gonalmente a Bardera e scorcia così di molto il cam- mino per andare alla costa. Quanto poi alle carovane che, dalla linea del Daua, vogliono recarsi a Lugh, perchè supporre che esse, soltanto in omaggio alla sospirosa posizione geografica di Dolo, debbano seguire tutta la sponda del Daua fino alla confluenza col Ganale, pas- sare per Dolo, inchinarsi devotamente, poi seguire il Ganale e giungere finalmente a Lugh, quando invece, per una comoda scorciatoia, possono arrivare diretta- mente a Lugh? E poi di più dobbiamo fare i conti con la concorrenza degl’inglesi che cercano di attrarre sul loro territorio tutto il movimento commerciale del Daua e del paese dei Boràn: ed è probabile che riescano in un periodo più o meno lungo a fare affluire verso la loro zona il commercio di almeno gran parte del bacino del Daua. Come si vede, dunque, il Daua sbocca sì nel Ganale presso Dolo: ma questa confluenza di acque non im- plica una affluenza di commercio. Se il Daua, per un improvviso capriccio della natura, invece che gettarsi nel Ganale si impaludasse e si perdesse nelle melme, Dolo non ci perderebbe nulla. Le altre due linee fluviali del Ganale e dell’ Ueb obbligano invece le merci, dirette verso il mare, a tran- sitare in ogni modo per Dolo. Ma le statistiche, dimo- strano chiaramente che il commercio avviato verso la costa da questi due bacini fluviali è sempre stato di poca entità e di nessuna importanza. Ciò dipende senza dubbio dalla mancanza o scarsità di strade, dalla loro problematica sicurezza e dalle ragioni politiche che fecero — 118 — deviare verso l’ Etiopia anche il commercio delle pro- vincie meridionali dell'impero, commercio che avrebbe dovuto avere come sbocco naturale l’Oceano indiano. Queste cause influirono certo a rendere esiguo il mo- vimento diretto verso il Benadir; ma io credo che la causa principale e determinante risieda nella natura istessa del terreno che forma il bacino del Ganale e dei suoi affluenti. Ed io lo posso dire con conoscenza di causa perchè ormai gli zoccoli dei miei muletti han calpestato molte di queste vie e mi han fatto percor- rere gran parte di queste regioni. Io credo dunque che, come non fu facile, agli indigeni, attirare lungo il Ganale e lungo 1’ Ueb le carovane, così non lo sarebbe per noi; e penso che, dopo avere, conjlunghi anni di fatica e con gran profusione d’oro, abbattuto i continui e ingentissimi ostacoli della natura per fare comode strade o addirittura ferrovie, non ci troveremmo poi il nostro tornaconto. Il bacino del Ganale è accidentato ed impervio come pochi altri; è, di più, refrattario alla coltivazione. Fra la pianura somala e l’altipiano etiopico è inter- posta una vasta zona d’una aridità sconfortante e pro- babilmente non suscettibile di alcun miglioramento. Nulla o quasi nulla oggi produce; e poco di più pro- durrebbe anche se fosse posta in mano dei nostri in- telligenti e laboriosi coloni che vi consumerebbero inutilmente sforzi preziosi. Tali condizioni negative non erano certamente le più indicate per rendere attivo, come dovevano, le relazioni fra la pianura somala e l’altipiano etiopico. Ma l’acume dei nostri diplomatici cercò, in qualche modo, di stabi- lire un anello di congiunzione fra la Somalia e l’ Impero Etiopico. Ancora una volta l'ostilità della natura doveva (TTT *60T) (TEL "b0I) “«***HTAVONOO 04 NO '<''ONDUT IT MISHO OMINIT VIVIOOVIS NATA TO1***» IVIHON OUINUT ITTAISIT IHONAT NOO 0 ***» « +... TUTTA LA FATICA CONSISTE NELLO STARSENE ACCOCCOLATE QUALCHE MEZZ'ORA ATTORNO ALLE PENTOLE... >. (Pag. 112) ui i DOLO, LA CURA DEI BIMBI. — 119 — ‘esser vinta. Le relazioni commerciali fra i due paesi dovevano, ad ogni costo, essere istituite, pronte, si- cure, alacri. A questo scopo, appunto, furono inspirate le Note che i due Governi si scambiarono nel 22-25 giu- gno 1908 (1). In virtù di siffatta attività diplomatica il primo passo (1) V. i seguenti Atti parlamentari, Legislatura XXII, Sess. 1904- 1908, Doc. LXXVII: © A Sa Majesté Ménélik II élu de Dieu, Rois des Rois d’ Ethiopie. Au nom du Gouvernement de Sa Majesté le Roi d’Italie, mon Au- guste Souverain, que j'ai l’honneur de représenter près de Votre Majesté et dans le but de rendre plus facile et de développer de plus en plus le commerce entre la Colonie de la Somalie italienne et les Provinces de l’Empire Ethiopien, j'ai ’Ponneur de soumettre è l’approbation de Votre Majesté les propositions suivantes: 1. La frontière de la Somalie italienne aura droit au méme trai- tement commercial que les autres frontières de Empire, c’est-à-dire, permission de libre commerce pour toute marchandise, y comprises celles actuellement défendues, comme l’ivoire, etc. 2. Tous les commergants provenants de la Colonie de la Somalie italienne et spécialement ceux qui sont pourvus de documents qui prou- vent leur nationalité italienne auront droit è la protection par les autorités éthiopiennes et au mème traitement que les commergants éthio- piens. 3. Sur la frontière de la Somalie italienne seront établis des ta- rifs de douane égaux à ceux des autres frontières de Empire. 4. Le Gouvernement éthiopien permettra aux commercants ita- liens et aux commercants protégés italiens d’établir des Agences, des dépéts de marchandises et d’exercer leur commerce avec les mémes droits reconnus aux commercants des autres Puissances. Le Gouvernement de Sa Majesté le Roi d’Italie sera toujours dis- posé à s’accorder avec le Gouvernement de Votre Majesté pour faciliter et développer le commerce entre les deux pays. Addis Abeba, le 22 juin 1908. COLLI. (Traduzione). Ha vinto il Leone della tribù di Giuda — Menelik II investito da Dio Re dei Re di Etiopia: che giunga al conte Colli di Felizzano, ministro plenipotenziario di S. M. il Re d’Italia. Abbiamo esaminata la lettera che Ella ci ha inviata, scritta il 15 Sené (22 giugno) in nome del Governo d’Italia, ed essendo anche nostra volontà di estendere ed accrescere il commercio fra il nostro Im- — 120 — è stato fatto, e con pieno successo. Ora non rimane che a rendere più agevoli le relazioni fra l’ Etiopia e la So- malia: ora non rimane che a stabilire comode comu- nicazioni fra il mare e l’altipiano etiopico: quell’alti- piano ubertoso e fecondo che migliorerebbe assai le con- pero ed i Possedimenti italiani del Benadir e della Somalia, conveniamo nel testo del seguente accordo: 1. I Possedimenti del Benadir e della Somalia saranno (commer- cialmente) considerati come ogni altro paese di confine; 2. Il Governo Etiopico concederà ai commercianti italiani pro- venienti dal Benadir e dalla Somalia, e specialmente a quelli muniti di documenti comprovanti la loro nazionalità, la stessa protezione (trat- tamento) che ai propri commercianti ; 3. Sulla frontiera del Benadir e della Somalia saranno stabiliti diritti doganali identici a quelli di tutte le altre frontiere; 4. Il Governo Etiopico permetterà ai commercianti italiani di sta- bilire dei depositi di mercanzie e di esercitare il loro commercio cogli stessi diritti riconosciuti ai commercianti di altre Nazioni. Il Governo Etiopico è disposto per l'avvenire e secondo l’opportu- nità del caso ad accordarsi col Governo italiano per estendere e ren- dere sempre più fiorente il commercio fra l'Etiopia ed i Possedimenti italiani del Benadir e della Somalia. Scritto in Addis Abeba, il 18 Sené dell’anno di grazia 1900 (25 giu- gno 1908). NOTA. Art. 1. — In forza di questo articolo, la nostra frontiera del Be- nadir e della Somalia viene ad essere messa di fatto nelle stesse con- dizioni delle frontiere finora più favorite dell’ Impero etiopico, poichè cessa per essa il divieto di esportazione finora esistente di alcune merci fra le più ricche, quali l’avorio, lo zibetto, le corna di rinoceronte, che erano in passato esclusivamente avviate per la via di Gibuti e di Zeila con esclusivo vantaggio di quelle Colonie. La ragione di tale divieto, che viene ora abrogato, deve ricercarsi specialmente nelle necessità fiscali derivanti dalla assoluta deficienza e dalla mancanza anzi di qualsiasi organizzazione amministrativa nei ter- ritori meridionali dell’ Impero etiopico, e nella necessità quindi di in- terdire assolutamente l’esportazione delle merci più ricche ‘e soggette a speciali obblighi e diritti per quelle vie che sfuggivano al controllo ed alle imposizioni delle autorità abissine. Per effetto del presente articolo, le relazioni commerciali fra il Be- nadir e le provincie meridionali etiopiche avranno maggiore incremento anche per le merci la cui esportazione non era finora vietata, ma per le quali in passato esistevano pur anche altre difficoltà dipendenti dal- l’incertezza e dalla poca sicurezza del traffico e delle comunicazioni e « ... APPESI NOTTE E GIORNO QUEGLI IDROPICI MOSTRICIATTOLI.... (Pag. 113) «...+ TALVOLTA ANCHE SI DANNO CONVEGNO SU QUALCHE ROZZA PANCHINA . ».. » (Pag. 113) DOLO. DONNA GARRA-MARRA. Ù i nua | TU DOLO. DONNE GARRA=MARRA. — 121 — dizioni della nostra colonia se verso di essa avviasse i suoi prodotti. Orbene io credo che, con tali linee di transito, si dovrebbe evitare, per quanto è possibile, di attraver- sare l’arida e tormentata zona di cui ho parlato. Le relazioni commerciali adesso, le comunicazioni ferro- dallo scarso profitto che da esse si poteva ritrarre: le migliorate con- dizioni di sicurezza (derivanti specialmente dalla definitiva sistemazione della frontiera fra il Benadir e l’ Etiopia) e l’allettamento di maggiori e più sicuri guadagni per l’esportazione di merci più ricche e rimune- rative, non mancheranno di risvegliare ed incoraggiare l’attività dei nostri commercianti, specialmente se ad essa sarà di aiuto l’azione del Governo diretta ad eliminare e diminuire le difficoltà delle comunica zioni e dei trasporti, costruendo strade carrozzabile e ferroviarie, ed attivando vie fluviali. Non è certo possibile prevedere ora lo sviluppo a cui potrà giun- gere il commercio benadiriano nel vasto e ricco paese Galla oggi quasi ancora sottratto ad ogni attività commerciale: la convenzione attuale rappresenta il primo passo alla conquista di quel mercato, ma i van- taggi ed i guadagni che da esso si potranno ritrarre saranno natural- mente lenti e graduali e proporzionati agli sforzi che si faranno per conquistarlo sia nel campo politico che in quello economico. Art. 2. — Per ragioni di consuetudini e per la poca sicurezza locale l’azione commerciale dei negozianti benadiriani era finora assai limi- tata ed ultimamente quasi vietata nelle regioni Galla con noi confi- nanti, le cui correnti commerciali dovrebbero già naturalmente avviarsi sui nostri mercati: la necessità di rompere con le consuetudini sud- dette e di attirare a noi il commercio attingendolo alla sua fonte, spiega e giustifica la designazione precisa di commercianti provenienti dal Be- nadir e dalla Somalia quali aventi diritto alla protezione delle autorità ed all’uguale trattamento degli stessi sudditi etiopici. È d’altra parte necessario che l’attività commerciale italiana, oltre a trovare la dovuta libertà d’azione e protezione presso le autorità delle stesse regioni Galla ove essa tende ad esplicarsi, venga altresì diretta verso quegli sbocchi che rappresentano e costituiscono le basi della nostra azione coloniale, e non sia invece sottratta a vantaggio di altri sbocchi commerciali, come succederebbe se le merci fossero dai nostri commercianti stessi avviate ad Addis Abeba od all’ Harrar di dove pren- derebbero la via di Gibuti. Allo scopo di evitare inconvenienti che potrebbero intraleiare il sereno sviluppo dei commerci fra il Benadir e l’Abissinia, e per dimi- nuire le responsabilità ed accrescere gli obblighi verso il nostro Go verno è stata misura opportuna quella di accordare una condizione di preferenza a quei commercianti muniti di documenti comprovanti la loro nazionalità, ciò che pone il Governo stesso in grado di respingere 16 LR viarie più tardi, non si dovrebbero stabilire lungo il Ganale e nemmeno lungo 1 Ueb che pur presentando minor difficoltà di percorso è però quasi privo d’acqua: ma dovrebbero passare nel centro del vastissimo piano inclinato che separa il Ganale dall’ Uebi-Scebeli. Credo che questa sarebbe la migliore soluzione. In- fatti anche oggi esiste una comoda carovaniera che, da Ghigner, conduce, in soli dodici giorni, ai confini del Benadir e in meno di altri venti, da quei confini al qualsiasi responsabilità per quei commercianti che non fossero merite- voli della nostra protezione ed accordarla invece a quelli che offrono garazie su@cienti di esplicare la loro azione con la dovuta correttezza. Art. 3. — Nessuna norma doganale all'infuori del divieto assoluto fatto per l'esportazione dell’avorio, regolava per il passato il movimento commerciale fra le regioni poste sotto il dominio etiopico ed i nostri possedimenti di Somalia, che era lasciato all’arbitrio dei capi abissini preposti al Governo di quelle regioni, e che lo esercitavano con ogni sorta di soprusi e di angherie. , L'istituzione delle dogane con l’ imposizione di regolari tasse doga- nali identiche a quelle delle altre frontiere rimedia a questo inconve- niente grandissimo che intralciava e rendeva impossibile ogni nostro commercio, e crea per i nostri mercati più vicini di ogni altro alle pro- vincie meridionali etiopiche, una condizione privilegiata, in confronto specialmente a quelli che fanno capo ad Harrar e ad Addis Abeba, e che nelle condizioni passate rappresentavano una pericolosa concorrenza per il nostro commercio in quelle regioni. Art. 4. — Questo articolo completa i precedenti ed ha per se stesso speciale valore, poichè elimina il grave pericolo che commercianti di altre nazioni possano ottenere e valersi di speciali diritti e prerogative che annullerebbero o diminuirebbero i vantaggi che noi dobbiamo alla nostra posizione topograficamente privilegiata di fronte a quelle regioni. Era quindi necessario affermare la libertà di azione e l’uguaglianza di diritti e di trattamento, per quanto riguarda specialmente il com- mercio nei Galla, con quelli accordati o riconosciuti ai commercianti di qualsiasi altra nazione. Tale affermazione ci dà modo altresì di re- clamare per noi e di usufruire di tutti quei vantaggi e di quelle con- cessioni di indole commerciale che altre nazioni concorrenti potrebbero in seguito ottenere dal Governo etiopico. Come corollario politico e morale di quanto fu concordato nel pre- cedente scambio di « Note », è interessante tener conto delle ripetute dichiarazioni del Negus di essere ben disposto a concorrere all’ inere- mento del commercio fra l’ Etiopia ed i nostri possedimenti di Somalia, ciò che costituisce un nuovo pegno ed una nuova conferma dei suoi propositi di pace e dei suoi sentimenti di amicizia DOLO. DONNA GARRA=*=MARRA. «... SE NE STANNO QUASI SEMPRE MOLLEMENTE SDRAIATE.... (Pag. 113) ». D'ARGENTO... xILLI, COLLANE T GIN( :IANO VESTI, T ( SFOG A SICO (Pag. 113) ». +. MOLLEMENTE SDRAIATE... Coat — 123 — mare. Così, anche adesso, partendo dalla costa, si può raggiungere Ghigner in un mese di viaggio, per una via scevra di difficoltà, percorribile tutta con i cam- melli e sopratutto ricca d’acque in tutte le stagioni. Ma questa via presenterebbe un altro vantaggio punto trascurabile: attraverserebbe, cioè, 1’ ubertoso territorio occupato dai Rahanuin che si è sempre pensato d’allacciare alla costa per la ragione della sua impor- tanza agricola e commerciale. Torno a ripetere: è un’ utopia ed una ostinatezza supporre che, laggiù, le grandi linee fluviali debbano coincidere con le grandi vie di comunicazioni. Queste ultime debbono svolgersi indipendentemente dai corsi d’acqua. Nel caso nostro particolare, l’unica via di co- municazione possibile è quella che senza seguire nè il Ganale nè l’Uebi-Scebeli si mantiene quasi sempre equi- distante e dal Ganale e dell’ Uebi-Scebeli, rendendo, in tal modo, non impossibile qualunque diramazione che si volesse istituire con questo o quello dei paesi posti lungo i suddetti fiumi. Nulla vieta infatti che dalla grande linea mediana svolgentesi su, nell’altipiano, si diparta, ad un certo punto, una carovaniera 0, più tardi, un breve tronco ferroviario, che vada a finire, per esempio, a Lugh e che poi costeggiando il Ganale (in quel tratto meno ostile) vada a raggiungere Dolo. Tanto Dolo che Lugh, insomma, dovranno acconten- tarsi di una indiretta comunicazione col mare: e non dovranno mai pretendere di divenire mète terminali, teste di linee di una ferrovia. Da quanto ho detto è facile comprendere quale potrà essere la futura condizione di Dolo e di Lugh, sebbene la loro posizione geografica abbia fatto nutrire molte speranze e suggerito anche all’odierno profeta sotto- scritto, ben diverse profezie... E parlo anche della posizione geografica di Lugh perchè questo paese raccoglieva veramente, meglio che Dolo, tutto il traffico delle tre linee fluviali, però che come ho detto, le provenienze del bacino del Daua, anche non passando per Dolo, dovevano poi affluire a Lugh. Quindi Lugh, pur non trovandosi come Dolo sulla confluenza delle tre linee fluviali convergenti, si trovava però sul nodo delle tre linee commerciali provenienti dai tre bacini. Per questo, Lugh ha, ancora oggi, la sua importanza e merita tutto il nostro interessamento. La seconda spedizione Bottego fondò nel 1895 questa stazione commerciale, ed essa è rimasta sempre sotto il dominio italiano, anche quando i confini fra la nostra Somalia e l'Impero etiopico l’avrebbero tagliata fuori dal Benadir. n'a Nelle vicinanze di Dolo, oltre i Garra-Marra, che abi- tano le rive dei fiumi a causa delle loro coltivazioni, vivono alcune tribù di Di-Godia che sono d’ origine prettamente somala, mentrei Garra-Marra, come ho detto, sono discendenti di schiavi. I Di-Godia sono immi- grati dalla sinistra dell’Uebi Scebeli, e precisamente dall’ Iran, regione situata ad ovest del sultanato di Obbia, nelle vicinanze del fiume. Discendono dalla tribù Hauia, che, ancor oggi, vive in massima parte nel sultanato di Obbia, sulla sinistra dello Scebeli. I Di-Godia furono costretti ad abbandonare circa un secolo fa il loro paese d’origine e si trasferirono sulla destra dello Scebeli. Poi, lentamente, migrarono sempre 2315 125 319 za più verso l’occidente, avvicinandosi a poco per volta al Ganale. Ma, in questo lento moto di spostamento, fini- rono per incontrarsi con i Rahanuin che erano i padroni del territorio; e siecome questi ultimi non avrebbero permesso che una tribù forestiera si incuneasse fra di loro, i Di-Godia furon costretti a domandare ll’ospitalità ai Rahanuin,i quali la concessero a patto che i nuovi venuti s’obbligassero a pagare un tributo annuo. Infatti i Di-Godia stabilitisi quasi come inquilini nel territorio dei Rahanuin pagarono puntualmente l’affitto per circa un secolo, e, nel frattempo, sì avvicinarono sempre più a Lugh, che a causa della sua importanza commerciale, faceva da magnete. Ma un bel giorno, i Di-Godia pronipoti rifiutarono di pagare il tributo che i loro antenati avevan promesso anche per la discendenza; allora scoppiò la guerra fra le due tribù, e non terminò che per l'intervento del capitano Bòttego, il quale riuscì a far concludere la pace fra i belligeranti, nel 1895. E contemporaneamente riuscì a stringere coì Di-Godia un trattato per il quale essi si dichiaravano sudditi dell’Italia, e che poi, pur troppo non servì allo scopo. Intanto i Di-Godia per allontanarsi dai Rahanuin di Lugh e per conquistar terreno verso gli Arussi, si lagnarono col Bòttego di aver subìta una razzìa e lo pregaron di aiutarli a riconquistare il bestiame per- duto. Bòttego accondiscese, e i Di-Godia ripresero quel bestiame che aveva servito loro magnificamente da pre- testo, ma poi non vollero più tornare indietro, e si sta- bilirono nella piana di Oddo e sulle rive del Ganale e dell’Ueb, a monte della confluenza di questi due fiumi. Quindi le relazioni fra le due tribù non tornaron mai cordiali, anzi una vera animosità permanente è ri- masta fra di loro, sebbene non abbiano più ricorso alle — 126 — armi. I Rahanuin considerano i Di-Godia come tribu- tarî ribelli e mancatori di parola; i Di-Godia arrogano diritti inesistenti. Ma e’ è stato, a dir la verità, anche qualcuno che ha soffiato nel fuoco dell’ odio perchè aveva interesse a che non si estinguesse. Voglio par- lare degli Amhara, i quali, dopo aver assoggettato i Di-Godia, alcuni anni or sono, li spinsero a ritornare nel territorio dei Rahanuin. E questa pressione divenne tanto più forte quando la convenzione del 16 maggio 1908, interceduta fra il governo italiano e quello abissino, as- segnò la tribù dei Di-Godia all’ Impero etiopico. Quindi gli Amhara avevan tutto l'interesse a che i loro soggetti sì spingessero il più possibile verso il sud, per poter così vantare diritti nel territorio da loro occupato, ed escluderlo dal nostro dominio. I Di-Godia non differiscono molto nel tipo dagli altri Somali e sono di statura in generale piuttosto alta. Eser- citano esclusivamente la pastorizia e posseggono molto bestiame; quindi conducono vita nomade, il che spiega la grande estensione di territorio da essi battuta in rap- porto col loro numero; ma sono sempre odiati da tutte le tribù confinanti, un po’ forse per il loro carattere, e molto per i loro legame e i loro intrighi subdoli con gli abissini. La A Dolo, finalmente, dopo una numerosa serie di osta- coli, si poterono cominciare le operazioni geodetiche. Ma gli abissini non mancarono di sollevare obiezioni, perchè, credevano che i segnali trigonometrici, da noi alzati, ser- vissero a segnare la linea di confine. Per quanto usassi tutta la forza della mia dialettica non riuscivo mai a con- vincerli completamente del contrario. Eppure io avevo (GEL ‘6vq) (EIT *6b0I) "<***OnDTV ***MUUNUN'TINISOUTANI OIHODHA NO MU "<< *** VNODHULS VIITHA OUOLSOO IT OdvVOo *** » OTTANDd GI UUUIISTOA ORILIV NO °°" » « «sa FRADICIA TANTO DA RENDERSI NECESSARIA UNA LUNGA ESPOSIZIONE AL SOLE...). (Pag. 115) « «ae SONO OBBLIGATI A FAR LA TRAVERSATA A NUOTO ... ». (Pag. 115) preveduto questa difficoltà perchè sapevo che era sorta durante la delimitazione della frontiera anglo-abissina; ad Addis-Abeba, il conte Colli, dietro mia preghiera, aveva spiegato chiaramente, in mia presenza, a Ras Te- samma lo scopo di quei segnali, ed aveva consumato un polmone per mettere bene in testa all’abissino che essi non avevano nessuna relazione coi limiti della fron- tiera. Ma tutto era stato inutile. Fin dal principio dei lavori, e poi sempre durante tutto il proseguimento, ogni segnale trigometrico inalzato diveniva il vessillo d’una inevitabile logomachia, la secchia rapita d’una ostinata guerra di parole. Gli abissini poi pretendevano che il rilievo della zona attraverso a cui doveva passare il confine, non potesse farsi senza la presenza dei capi del paese. Ah, se potesse parlare il grande albero che con la sua ombra ci protesse durante le famose discussioni di cui non basterebbero dieci volumi a far la storia! La sera si lasciava in sospeso una discussione non terminata e la si riprendeva la mattina dopo e si giun- geva alla sera essendo rimasti sempre allo stesso punto. Un grave inconveniente derivava dal fatto che la Convenzione del 1908 non aveva potuto precisare il confine citando nomi di accidentalità del terreno come monti, fiumi e valli, perchè la regione essendo seono- sciuta, le carte in quel punto presentavano grandi spazi bianchi; quindi si era dovuto ricorrere all’espediente di basarsi sui nomi delle tribù. Ma quelle tribù son nomadi, si spostano continuamente da un luogo ad un altro in cerca di pascoli o d’acqua, e sì avvicinano al Ganale nei periodi di siccità. È così che gli Abissini avevano mille appigli per i loro ceavilli, e, quando faceva loro comodo, consideravano la momentanea apparizione di Pod; E una tribù in un dato luogo, come una stabile ed an- tica occupazione. E disgraziatamente fra questi indi- geni non esistono documenti scritti che possano almeno dare una lontana idea del diritto e delle consuetudini locali; consuetudini che del resto hanno subito continue variazioni seguendo le vicende delle guerriglie e le im- posizioni dei capi ‘influenti. Di più era accaduto che alcune tribù poste sotto il dominio etiopico, avevano creduto di sottrarvisi spingendosi verso il Sud nel ter- ritorio italiano. Invece, essendo la Convenzione basata appunto sui nomi delle tribù, quelle che si erano avan- zate nella nostra Colonia non avevano fatto che portare idealmente più al sud i confini dell’ Etiopia. E non so dire quel che dovetti faticare per convincere gli Abissini, che quelle tribù erano spostate dai loro confini naturali, e che quindi la loro situazione territoriale presente non aveva nessun valore. Per loro, il tempo non aveva alcuna importanza. Se li avessi lasciati fare, ancor oggi sarei là, sotto il grande albero, ad ascoltare gli squarci oratorii dell’eloquenza abissina. Ma io tenevo informata di tutto la nostra legazione di Addis-Abeba, che a forza di vigorose proteste finì per ottenere dal Governo etiopico la promessa di sosti- tuire quei delegati con altri più ragionevoli e più devoti alla equità. * * * Intanto le giornate trascorrevano, sempre uguali, sempre monotone perchè, come si può immaginare, a Dolo non esistono le distrazioni che si trovano a Roma. Non si potè nemmeno organizzare una caccia perchè la selvaggina era tutta fuggita dinanzi all'invasione «+0. SOLTANTO LE DONNE POSSONO PRENDERE POSTO A SEDERE...®. (Pag, 115) « +++ SUI CAMMELLI... SALE SPESSO A CAVALCIONI IL CONDUCENTE ..« ». (Pag. 116) DONNE DI-GODIA. « +... IL GRANDE ALBERO CHE CON LA SUA OMBRA CI PROTESSE DURANTE LE FAMOSE DISCUSSIONI... >». (Pag. 127) della nostra numerosa carovana composta di centinaia d’uomini e di animali. L’unica distrazione consisteva nell’andare ad osser- vare il fiume; distrazione monotona anche quella, ma pur piacevole, in Africa, dove la vista dell’acqua, e di tanta acqua come quella del Ganale, è così rara. Quindi nei momenti lasciatimi liberi dalle fastidiose sedute con gli Abissini, non occupati nella corrispondenza, nella amministrazione e direzione del personale, e nel fare rac- colte zoologiche, me ne andavo a sedere sulla riva e mi trattenevo a fissare quell’acqua scialba che passava, pas- sava notte e giorno, senza riposo, venendo da tanto lon- tano, dal cuore dell’Africa sconosciuta e andando tanto lontano, laggiù nell'Oceano che bagnava una terra sot- toposta alla bandiera della mia patria... Passava, pas- sava, fra le sue rive selvagge frequentate molto più dalle belve che dagli uomini, passava sotto soli ardenti, attraverso a foreste profonde, fra roccie inaccessibili, in mezzo a pianure sconfinate! e col suo continuo fluire pareva voler rappresentare la continuità della vita na- turale... Intorno il paesaggio uguale, triste, non variava mai... Ah sì, cambiò una volta con una improvvisa esplosione di bellezza, ma per così breve tempo! Fu quando cad- dero gli acquazzoni d’aprile; allora, ad un tratto, come per incanto, la terra mutò volto ; da per tutto sbocciarono fiori ed erbe e foglie e rame e vermene... Dove la terra screpolata sembrava arida irrimediabilmente, un man- tello di velluto smeraldino si svolse in pieghe fresche voluttuose; dove la sabbia faceva credere al deserto germogliarono distese immense di corolle multicolori ; vallate, colline, pendici, pianori, tutto s’era improvvi- samente coperto d’un giardino lussureggiante, esube- 17 — 130 — rante, che sembrava svolgersi al di là dell’orizzonte, fino all’infinito. Ma la magìa disparve con la stessa ra- pidità con cui si era creata. A metà del mese di giugno già tutto eraisecco, bruciato, inaridito, e tutta la vallata, fino al limite del cielo, aveva ripreso il suo uguale, fa- stidioso accorante colore giallieccio, colore della terra arrostita dal sole, colore delle macchie spinose di sterpi senza foglie, colore di erba secca, inaridita, morta. Finalmentei nuovi delegati giunsero. E da quel giorno i lavori poterono essere condotti con sollecitudine. Ci avviammo quindi lungo la frontiera abbandonando defi- nitivamente quell’ infausta Dolo dove avevo trascorso ben quattro lunghi mesi: quattro mesi, di cui i minuti mi erano sembrati settimane..... « ... AH, SE POTESSE PARLARE IL GRANDE ALBERO... ». DOLO. NELLE ORE DI SIESTA. E LUNGO LA FRONTIERA. Il nostro sistema di marcia, da Dolo in poi, doveva mutare radicalmente. Non si trattava più d’avanzare soltanto, attraverso un paese difficile; non si trattava più di camminare, per tappe, in modo da trovare, ogni giorno, un luogo qualunque che ci avesse fornito la poca acqua e i pochi foraggi necessarî a dissetare la caro- vana e a dar pastura alle bestie da soma. Adesso, il territorio che ci stava davanti doveva esser studiato, misurato pezzo per pezzo. Non eravamo più i viandanti frettolosi che passano, ma i padroni di casa che devono esaminare il terreno, su cui sarà elevato il muro di con- fine dei loro possessi. Decisi quindi di fare, ogni set- tantina di chilometri, una sosta, col grosso della carovana, in un luogo bene scelto, dove potessimo trovare acqua e foraggi per un tempo indefinito, e dove le condizioni igieniche fossero tali da permetterci una permanenza anche lunga, senza pericoli per la salute dei viaggiatori. Da questa specie di quartieri generali dovevano dipar- tirsi distaccamenti leggeri che avrebbero esplorato e vi- sitato minuziosamente la regione; ed a quegli stessi quar- tieri generali dovevano far capo i topografi che sarebbero rimasti indietro prima e poi ci avrebbero sorpassati, ad ogni sosta, per eseguire il rilievo del territorio di frontiera. — 132 — La regione che ci stava dinanzi era, per la massima parte, sconosciuta; si comprende quindi come io sentissi una grave responsabilità nell’avventurarvi tanti uomini e tanti animali. Si trattava di parecchie centinaia di uomini che dovevano mangiare, dissetarsi, trovare un giaciglio non troppo esposto alle intemperie, e questo ogni giorno per chi sa quante settimane o mesi. Mi im- posi dunque la massima prudenza, e, prima di iniziare il primo spostamento mandai il topografo Grupelli ed il tenente Costa a fare una ricognizione esatta del terreno e dei pozzi, non ostante che io avessi già avuto su questi e su quello attendibili informazioni da parte degli indi- geni da me interrogati. Quando gli alacri messaggeri tornarono, mi riferirono che la località più adatta per impiantare il primo accampamento era quella di Goriale, a quattro buone tappe di distanza, e che essa ci avrebbe permesso una lunga sosta. Ai primi di agosto dunque lasciammo finalmente Dolo: finalmente, sì. Eppure, nell’abbandonare il villaggio provammo un vero momento di malinconia. Si sa; finchè l’uomo è in un luogo, finchè possiede una cosa, finchè è vicino ad una persona, non vede che i lati antipatici del paese, le cattive qualità della cosa, i difetti della persona; salvo poi a scorgere le virtù della persona, l’utilità della cosa, i punti di vista simpatici del paese proprio nel momento in cui la morte gli porta via la prima, in cui egli dona la seconda o si allontana dal terzo. Pare una strana maledizione del genere umano questa, che la vicinanza e il possesso tolgano ogni pos- sibilità di pienamente godere. Così accadde quando lasciammo il paese in cui ci era sembrato di morire di noia, un poco ogni giorno, durante quattro lunghi mesi. Allora soltanto ci aceorgemmo che — 133 — il gigantesco albero secolare che ci era divenuto insoppor- tabile perchè ci aveva purtroppo tenuti insieme durante le interminabili discussioni con i delegati abissini, aveva pur protetto, con la sua ombra verde, i sogni delle nostre sieste, quando, distesi su di una sedia a sdraio, fumavamo per lunghe ore in silenzio fissando l’intrico folto dei rami, che a poco a poco, nel dormiveglia, sì trasformavano in una fantastica foresta da fiaba... Ci accorgemmo che se la sera non avevamo avuto il teatro o il bal tabarin, avevamo però trascorso ore meravigliose sulle rive del fiume, quando la luna lasciava cadere sull’acqua riflessi candidi che dan- zavano sul filo della corrente, e avvolgeva i boschi con tenui veli di nebbia argentea, o quando il folgorio pal- pitante delle stelle svolgeva sulle nostre teste l’ infinita pagina misteriosa dell’ universo e lasciava cadere sul mondo addormentato la blanda carezza della sua luce diffusa... Ci accorgemmo che ci dispiaceva anche di ab- bandonare la nostra sala da pranzo, quella spaziosa lunga capanna che gli ascari ci avevano costruita e che, per tanti mesi, era stato il nostro salotto di convegno, il nostro studio, la nostra sala di lettura, e aveva udito le nostre risate e le nostre allegre conversazioni intorno alla tavola fumante per le buone pietanze che il cuoco ci aveva apparecchiato. A tutto dovevamo dire addio. A poco per volta quell’accampamento aveva finito per sem- brarci qualche cosa di stabile, e adesso, il toglier le tende ci faceva quasi l’effetto di radere al suolo un paese... Ma tutti questi piccoli rammarichi dovuti alla incontenta- bilità dell'anima umana, o al sentimentalismo, furono assorbiti dalla soddisfazione di poter scuotere finalmente la lunga inerzia, furono sommersi dalla profonda, intima soddisfazione di poter compiere il proprio dovere, di ritor- nare uomini attivi, utili a qualcuno e a qualcosa, e non — 134 — semplicemente rimbeccatori di argomentazioni cavillose. Poichè precisamente questo era stato il mestiere che per quattro mesi, con pochissimo mio gusto personale, avevo per forza dovuto esercitare. Più di tutti eran seccati di dover partire i nostri buoni ascari; non perchè non amassero marciare o te- messeso di andare incontro a fatiche ed a pericoli, poichè essi, anzi, erano sempre pronti a tutto ed arditi, ma sol- tanto perchè dovevano abbandonare le straordinarie co- modità, che, in questo accampamento, erano riusciti a procurarsi. Durante la lunga permanenza a Dolo, ave- vano trovato modo di costruirsi un grande accampamento lungo il fiume, presso al nostro, una specie di villaggio, formato di originali capanne coperte di foglie di palma, che, da lontano, aveva l’aria di un branco di grossi ani- mali villosi; di più s'erano fabbricati i letti che consi- stevano in gratieci di rami sorretti da quattro gambe di legno e ricoperti di frasche. Avevano ugualmente inalzata una capanna per la cucina; ma la capanna ser- viva soltanto nei giorni di maltempo, perchè nei giorni sereni i nostri cuochi preferivano portare il fornello e le pentole all’aria aperta, e cuocere le vivande sotto la gran cappa del cielo azzurro. Insomma gli ascari avevano fatto di tutto per rendersi, con ogni ingegno- sità, la vita del campo meno scomoda possibile. Figura- tevi che perfino la sentinella aveva una specie di gar- ritta di rami per ripararsi dal sole! Im realtà, io non so quanto quelle loro capanne bucherellate come panieri riparassero dalle intemperie, e credo che, se uno di voi avesse dormito una notte su uno di quei loro letti, ne «e LA NOSTRA « SALA DA PRANZO »... ‘Pag. 133) « .<+ AVEVANO INNALZATA UNA CAPANNA PER LA CUCINA. . «. ». Pag. 133 « ... LE ANTICHE TOMBE DI UNA TRIBÙ GALLA NOMATA MADENLE... ». (Pag. 137) #9 L’ARRIVO DELLA CAROVANA AITPOZZIT DI GORIALE. — 135 — avrebbe poi avute le ossa peste e indolenzite per quattro giorni; ma in ogni modo gli ascari erano soddisfatti come se abitassero in un grande albergo con luce elettrica, ascensore e termosifone; quindi non si rassegnavano facilmente ad abbandonare quei loro tesori, e avreb- bero voluto portarsi dietro tutto... «Omnia mea mecum porto ». Ad ognun d’essi si sarebbe assai bene adattata l'affermazione volontaria e incrollabile dell’ Antico, la quale, evidentemeute, non potè essere suggerita che dal probo ed esemplare spettacolo della chiocciola... Infatti, quanto al desiderio degli ascari della mia carovana, non e era altro mezzo che caricarsi i propri arnesi sulle spalle; e così fecero, tant'è vero che il primo giorno di marcia erano quasi tutti curvi sotto vecchi sacchi, sotto buffi trabiccoli di legno e di foglie secche... Ma il giorno dopo, l’indolenza e V imprevidenza, che formano il fondo del loro carattere, presero il sopravvento, ed ogni cosa fu gettata e abbandonata per via. C'è Allah per tutti, e Allah deve provvedere a tutto... Dopo la confluenza dell’ Ueb, sulla riva sinistra, il terreno ricomincia a incresparsi, a ondularsi e ricompa- risce il seguito di quelle colline che, quattro giorni prima di giungere a Dolo, avevamo visto cessare; sulla destra invece, poco a monte della confluenza dell’ Ueb, si er- gono soltanto due o tre eucuzzoli, su uno dei quali a vevo posto l’ultimo accampamento, prima di arrivare a Dolo. Il resto di quella sponda è basso e pianeggiante. La catena di colline della riva sinistra forma come una specie di digradante anfiteatro che riunisce VUeb al Ganale e contiene, nel mezzo, fra l’insenatura del — 136 — fiume e quella delle colline, un pianoro, in fondo al quale sì trova Dolo. Questo tratto di terreno, costituito da un fertile terriccio d’alluvione, dovrebbe essere facilmente irrigabile giacchè è abbracciato e superato dal fiume, e potrebbe, credo, dare una buona produzione agri- cola. Anche adesso gli indigeni vi coltivano nel mezzo qualche campo di dura; ma, per difetto d’irrigazione, il raccolto è quanto mai aleatorio; infatti, negli anni in cui non piove, la messe intristisce prima di giungere a ma- turazione. L’arco di colline, che incornicia la pianura di Dolo, termina, avvicinandosi al fiume, nel luogo ove sorge il villaggio di Bantel, che dissemina le sue capanne sulle due sponde; salimmo su quelle colline, le percorremmo per un tratto, e, al di là, trovammo un’altra piccola pia- nura, che aveva una forma non molto diversa da quella di Dolo, ma che però presentava difficoltà di cammino perchè ricoperta di macchie intricate e traversata da reti di. fossi e di torrentelli, che corrodevano il suolo rendendolo simile ad un antico legno tarlato. La vicenda di basse colline e piccole pianure inter- poste si susseguì fino a Scidle; alcune di esse eran ri- coperte di alte erbe che arrivavano fino alla cintola, cosicchè la lunga carovana snodantesi sembrava dimez- zata come se guadasse un gran lago verdastro; in altri luoghi, quando il terreno era formato da squame di gesso, all’erba si sostituiva la irritante flora spinosa che ci carezzava poco piacevolmente le gambe, ma che però dava godimento alla vista perchè era spesso intramez- zata da folti gruppi di basse e graziose ombrellifere. Quelle colline avevano in generale profili regolari a tronco di piramide. Devono essere composte di are- narie mesozoiche e di calcari marini. Le coltivazioni « .se DUE SIEPI DI SOLDATI IMMOBILI... >». (Pvg 139) « ... IL DEGIAC MAGNIFICAMENTE ORNATO DEI SUOI PARAMENTI DIGRANC'GALA eda (Pag. 139 « +... IL FITAURARI MAMO... d. (Pag. 139) LUGH. LA PORTA. Lisior== scarseggiavano; vedemmo soltanto qualche campo col- tivato dai Gubaìn nei dintorni di Baciali e di Scidle. * * * Da quest’ultimo paese, abbandonammo definitiva- mente il corso del Ganale, la grande limpida arteria, di cui avevamo per tanto tempo veduto scorrere le acque; e lo abbandonammo con dispiacere, perchè, in Africa, allontanarsi da un fiume significa perdere un protet- tore, un fratello, un amico, significa andare incontro al pericolo della morte più straziante, la morte per sete. Ma era necessario volgere ormai direttamente verso l'Oriente, e così facemmo, inoltrandoci nella estesa pia- nura del For-Osboi, un torrentello formato da un seguito di rari stagni che hanno la particolarità di essere com- pletamente salati. Questa strana qualità delle acque del For-Osboi fa pensare con nostalgia al mare, e potrebbe dare, a colui che fosse sperduto in questi paraggi, l’il- lusione della vicinanza dell’Oceano. Invece l’Oceano è tanto lontano, e la salsedine di questo torrente pro- viene soltanto dal fatto che esso raccoglie le acque di- scendenti dalle colline meridionali dove si trovano le miniere di sale di Aggherar. Ai piedi dei monti Rare trovammo due enormi mucchi di pietre, alti parecchi metri, ed elevati, come ben si capiva, intenzionalmente; domandai spiegazione alle guide, e mi fu risposto che quelle eran le antiche tombe di una tribù Galla nomata Madenle, oggi totalmente scomparsa... Così finiscono tante stirpi umane durate secoli e secoli; due monti di pietre e un nome; poi anche il nome sparisce, e di tante vite, di tante gene- razioni, di tante lotte, di tante sofferenze non restano più che i tondeggianti tumuli di sassi e di terra. 18 — 138 — Ritrovammo, poco dopo, la catena di colline, che sem- brano ora di origine vulcanica, come certamente è appa- rato vulcanico il Monte Bongol che eleva verso il setten- trione, la sua oscura vetta perfettamente conica. Quelle colline seguitano fino a Goriale, dove si trovano i pozzi scavati nel letto ghiaioso del monte omonimo. Il nome di questa località significa «luogo dello struzzo »: infatti nelle pianure circonvicine abbondano quegli strani uc- celli corridori; ne vedemmo in lontananza passare a torme, di gran corsa, su quelle loro zampe robuste che han più l’aria di gambe di giraffa che di zampe d’uccello. Goriale è circondata da un laberinto di ondulazioni boscose, coperte di ciottoli basaltici che sembrano vo- lere accavallarsi l’una su Valtra, spingendosi e inarcando le rotonde groppe villose. In un avvallamento si tro- vano i pozzi che contengono un’acqua un po’ pesante, ma assai limpida. Non li trovammo mai esausti sebbene ne usassimo tutti abbondantemente. Ci accampammo dunque nei pressi di quei pozzi, occupando noi le colline di sinistra, e gli abissini quelle di destra e formando un insieme di tende e di capanne veramente pittoresco. Era bello vedere il formicolio di uomini e di animali che continuamente si moveva dal- l’uno all’altro campo avendo per centro i pozzi, e met- tendo ad un tratto in quella regione su cui il silenzio imperava da chi sa quanti secoli, la vita e il brusìo di un intero paese. La notte poi, quando nell’oscurità si vedevan brillare i numerosi fuochi rossastri dei due campi, si poteva credere che una città fosse sorta, per virtù d’incanti, in quel luogo disabitato... Lo stupore — 139 — di quelle colline, di quegli alberi, di quel torrente de- vono esser stati grandi nel trovarsi in un momento ele- vati al grado di « sobborghi », di « giardini pubblici » e di « fiume cittadino » ... Io non so quel che ne pensas- sero, ma so certamente che le iene non volevano as- solutamente rassegnarsi a quel cambiamento; tutte le notti sì sentivano, d’ogni intorno, dalla vasta tenebra deserta che ci circondava, giungere i loro ululati che riecheggiavano lugubremente dall’una all’altra valle, producendo nell’insonne un brivido di raccapriccio. Durante la nostra permanenza a Goriale avemmo modo di assistere ai festeggiamenti che gli abissini fecero in occasione del giorno natalizio dell’ Imperatore. Intervenimmo ad un solenne ricevimento del degiac, al quale eravamo stati cortesemente invitati. Percorremmo il lungo e stretto viale formato da due siepi di soldati immobili, col fucile sulla spalla, lo scudo imbracciato. In fondo allo strano sentiero si elevava la baracca, che era stata costruita appositamente per quella festa, e dentro la quale ci attendeva il degiac, magni- ficamente ornato dei suoi paramenti di gran gala, tutti coperti di ricami, e fiancheggiato dai capi suoi soggetti, primo fra tutti il simpatico fitaurari Mamo che era ri- tornato nella nostra carovana, insieme col degiac, a di- spetto di chi non ce lo avrebbe voluto. Ci fu offerto dello champagne, e brindammo tutti alla salute di Menelich. Alla salute di Menelich!... Mentre ognuno di noi alzava il calice, sentiva tutta l’ironia del suo gesto, sentiva l'ironia dell’augurio inviato ad un essere umano ormai ridotto a vivere come una pianta, — 140 — sentiva l’ ironia del festeggiare un uomo che da tanto tempo stava continuamente agonizzando, e che, per i suoi soggetti, non esisteva più. A notte gli abissini accesero certe strane torcie che avevan fabbricato impastando il fieno col sego, e si di- ressero lentamente movendo da tutte le parti dell’ac- *‘ampamento, verso la tenda del degiac; e per via can- tavano o piuttosto urlavano certe strane nenie guerresche che facevan risonare tutti gli echi della valle. La scena era di effetto veramente fantastico. Tutte quelle fiamme rosseggianti in alto sulle teste, illuminavano di riflessi sanguigni i volti eccitati, trasfigurati dal selvaggio canto; si avanzavano, si riunivano a due a tre, poi a dieci a venti a cento, formando ondeggianti teorie di splendori, agitati da mani ebbre; le voci urlanti mettevano rac- capriccio, e, piuttosto che ad una festa, sembrava che quei barbari movessero verso il luogo dove si sarebbe compito qualche orrendo sacrifizio sanguinoso, o verso un paese che doveva essere messo a sacco e incendiato e raso al suolo; tutto l'insieme aveva l’aria d’una scena infernale, e i volti congestionati, con gli occhi scintil- lanti, le bocche spalancate, le vene gonfie, sembravan quelli di demoni o di dannati; e quella danza di innu- merevoli fiamme, quell’assordante concerto di grida for- sennate, faceva venire in mente qualcuna delle più spa- ventose visioni della Prima Cantica. Le noiose, interminabili discussioni coi capi abissini erano, per fortuna, molto diminuite; a ciò influiva la pre- senza del degiac e del fitaurari, ma soprattutto la mia fermezza. Ormai, conformandomi allo spirito ed alla — 14l — lettera della convenzione italo-abissina, avevo dato or- dine ai topografi di eseguire il rilievo della zona seguendo una linea che da Dolo mirasse direttamente verso Oriente. Intanto, interrogando i capi indigeni e inviando pattu- glie di esploratori in tutte le direzioni, raccoglievo in- formazioni ed elementi per stabilire, con la maggiore esattezza possibile, quali fossero i limiti dei territori abi- tati dalle varie tribù. Gli abissini, dal canto loro, ese- guivano parallelamente inchieste dello stesso genere. Da Goriale, insieme col degiac Nado, mi recai a fare una gita a Lugh. Rividi così dopo sedici anni, la nostra stazione: quanti ricordi mi si affollarono alla mente! Il semplice fortino, che, sedici anni prima, la spedizione Bòttego vi aveva elevato, è scomparso; adesso grandi opere di difesa han sostituituito quelle prime mura che inalzammo per servir da baluardo al tricolore quando la prima volta sventolò su queste terre. Anche molte opere civili si stanno compiendo; sorgono nuove case, nuove strade si delineano, nuovi pozzi si scavano. La mano italiana sta compiendo miracolosi sforzi di civiltà in quel paese perduto dell’Africa selvaggia, in quell’ultima plaga della terra somala. Fummo accolti molto affettuosamente dai funzionari italiani e dagli ufficiali del presidio; da quei mirabili eredi della sapienza coloniale romana, che, con tanta pa- zienza e tanto tatto, sanno trattare quei popoli primitivi, diffondendo lentamente, ma solidamente, il prestigio della nostra dominazione, e trascorron la vita organizzando truppe, erigendo difese, senza mai uno svago, in un luogo così lontano e separato da ogni centro civile. Assistemmo anche a «fantasie » indigene eseguite dalle donne; queste si riunivano accoccolate in cerchio nelle vicinanze di una capanna e percotevano i piccoli sordi tamburi con le punta — 1422 — delle dita; mentre altre, in piedi si movevano ritmica- mente. Avevan tutte corpi snelli e nervosi, e le più gio- vani avevano anche un volto che, relativamente al tipo della razza, poteva parer bello e interessare, trasfigurato com'era dall’espressione estatica che assumeva durante la « fantasia ». A Lugh il degiac fece varie compere, provvedendosi di dura per i soldati ed acquistando vari gingilli per sè. Durante la permanenza a Lugh ebbi miglior modo di esservare quanto fosse veramente perfetta la educazione di questo etiope; egli pranzò sempre con noi, alla nostra stessa tavola, e mai mi venne fatto di notare ch’egli facesse qualche gesto che non andasse d’accordo col nostro galateo. La sosta di Goriale, che era cominciata il 14 agosto, durò fino al 12 settembre; in quest’ultimo giorno iniziai il secondo spostamento del campo, che, dopo esatte in- formazioni ricevute dal tenente Costa, mandato in rico- gnizione insieme con un capo abissino, decisi d’im- piantare a Iet. I topografi, sarebbero, al solito, rimasti indietro per eseguire il rilievo, e sì sarebbero a poco per volta, continuando il lavoro, avvicinati al nostro secondo accampamento, per poi sorpassarlo prima che noi aves- simo levato le tende. * *x * La prima località di qualche importanza che incon- trammo nella nostra marcia fu Robodi, distante circa una diecina di chilometri da Goriale, e dove si trovano pozzi che a quelli di Goriale rassomigliano per essere ugualmente scavati nel letto lapidoso di un torrente; da questa località la linea della frontiera, e naturalmente anche la nostra marcia, non seguirono più la direzione at}. © gg ovest-est, ma si spostarono verso nord-est per passare attraverro a Durei e a Dermangit e raggiungere Iet, guadagnando così una più larga zona al dominio ita- liano. Fino a Dermangit, ritrovammo continuamente le ormai solite colline vulcaniche, che sì susseguivano senza ordine e senza direzione, sparse qua e là come se una mano sbadata le avesse lasciate cadere, senza un’idea prefissa, sulla pianura; in seguito riapparirono le for- mazioni gessifere, che, talvolta, assumevano le caratte- ristiche dei terreni carsici, e tal’altra eran rivestite da uno strato profondo di quella terra roggia, comunissima, che ricopre una gran parte della superficie di tutta la Somalia, e che è, probabilmente, il residuo lasciato dalle più recenti alluvioni. E col cambiare della natura del terreno, cambiò anche la forma esterna; variando lo scheletro variava anche il sistema muscolare. Infatti le colline scomparvero com- pletamente dai nostri sguardi; e dinanzi a noi si distese la immensa, sconfinata pianura somala, che sgomenta il cuore del viaggiatore perchè ad ogni giorno di marcia la si vede ripetersi perfettamente uguale fino all’oriz- zonte, e sembra dover durare all’ infimto. Una monotonia ossessionante vi impera; un’aridità accorante la fa eternamente trista. Brulla, ispida, ma- ligna, talvolta priva completamente di terriccio vege- tale, essa si distende sotto il gran sole implacabile come un infinito tappeto irto di aculei, che sembra voler op- porsi alla vita umana con una volontà più ostinata di quella della inaccessibile roccia e del deserto di sabbie mobili. Le ombrellifere nane, le mimose, ed i rovi di tutte le specie formano un basso e interminale bosco pungente, un continuo intrico di innumerevoli punte che — 144 — si ergono dovunque per graffiare, stracciare, ferire come un reticolato di trincea che si ripetesse all’ infinito ; ogni forma tondeggiante di foglia e di ramo liscio è scom- parsa; la natura ha riunito qui tutti gli sforzi della sua malignità per non produrre che aghi, che spine, che eculei, che uncini. E, ricoperto da questa camicia di Nesso, il suolo si stende, per chilometri e chilometri, ostinatamente pianeggiante; invano l’occhio illuso crede di scorgere in lontananza ondulazioni e colline; quando si giunge sul luogo ci si accorge di aver sotto i piedi sempre la stessa pianura desolantemente invariata. Contrariamente alle informazioni avute in precedenza, trovammo in questa regione una certa abbondanza di acqua. I pozzi son numerosi, distano poche ore di marcia l’uno dall’altro, e, per la loro disposizione, permettono di traversare la regione con una relativa facilità, e favo- riscono l’allevamento di grosse mandre di bestiame. Anche i pozzi di Durei (località che prende il nome da una specie di pianta che cresce nelle vicinanze) come pure quelli di Goriale e Robodi che ho già descritto e come molti altri sono scavati nell’alveo ghiaioso e sab- ‘bioso dei torrenti, e vanno a ricercare, approfondendosi, il velo liquido, che, per la permeabilità del terreno, scom- pare spesso sotto terra; contengono quindi acqua disereta, che se pur non è sempre perfettamente limpida, può dirsi però bevibile senza inconvenienti. Invece a Der- mangit (nome che significa: « il luogo ove venne domato il puledro ») a Iet, a Uascen, ad Ato, a Curalle ed altrove i pozzi, praticati nel centro di ampie radure concave, vanno alla ricerca di acque che sono per loro natura LUGH. LA RESIDENZA DEL COMMISSARIO. LUGH. VEDUTA DEL VILLAGGIO. LUGH. UNA « FANTASIA » DI DONNE. w gf” Mp0 « ... IL DEGIAC... PRANZÒ SEMPRE CON NOI, ALLA NOSTRA STESSA TAVOLA... >. (Pag. 142) — 145 — sotterranee, e mostrano, nelle pareti scavate dalla mano dell’uomo, la natura degli strati geologici sovrapposti : calcari, argillosi e cretacei. Alla bocca del pozzo si ap- palesa il superficiale strato gessifero, e quindi successi- vamente andando verso il basso, la marna, l’argilla, la creta e, soprastante al velo liquido, la roccia di carbo- nato e di solfato di calce. Quindi ben si comprende come l’acqua di certi pozzi debba contenere in soluzione molti sali che la rendono sapida ed amarognola, sgradevole al gusto, e negli effetti sull'organismo umano, spesso non indifferentemente lassativa. Talvolta esala perfino un odore acutissimo di anidride solforica e solforosa. Queste acque son dunque pessime sotto tutti i rapporti; servono malamente a lavare perchè non isciolgono il sapone, conferiscono un sapone insopportabile alle carni ed agli ortaggi che vi si cuociono, e sono nauseabonde a beversi, sebbene talvolta la nausea derivi anche dalla soluzione di sudiciume, niente affatto minerale, che le intorbida per colpa degli indigeni e degli animali che lascian cadere indifferentemente nei pozzi ogni sorta d’immondizie. Penso che non sarebbe privo d’interesse ed anzi uti- lissimo, uno studio profondo e completo sul regime delle acque sotterranee nella Somalia; si comprende come tale studio illuminerebbe i problemi della viabilità, semplificandone la soluzione e porterebbe un neces- sario contributo alle direttive dello sfruttamento colo- niale, indicando molto spesso le varie possibilità di colti- vazione di ogni zona del paese. * * * A quei pozzi affluiscono di continuo le greggi a dis- setarsi; si vedono allora avanzare tutti quegli innume- 19 — 146 — revoli e mobili bianeori come un molle fiume latteo; qua e là qualche macchia nera punteggia la candida stria; sono le graziose pecore, con la testa nera, che sem- brano scolpite nell’avorio e nell’ebano, miste alle eleganti caprette che saltellano irrequiete in vicinanza dei pozzi; e da tutto quell’ondeggiante e scorrevole fiume di lanose creature si leva un concerto di belati, alcuni profondi, altri, quelli degli agnelli più teneri, striduli ed acuti simili a vagiti umani. Le brune pastorelle, che accom- pagnano le greggi, non sono prive di grazia; sembrano spesso squisite statuette di bronzo, ed hanno una certa foggia di acconciatura, un certo modo di drappeggiare sul corpo snello i luridi cenci, una certa ingenua ele- ganza di pose, che le fanno stranamente rassomigliare ai piccoli capolavori di Tanagra. Giungono spesso a dissetarsi anche le mandre dei cammelli; si vedono allora arrivare lunghe file di quegli strani animali che avanzano goffamente come se fos- sero impastoiati, sulle alte gambe nodose, ondeggiando i dorsi gibbosi, e piegando i lunghi colli con un mo- vimento serpentino; guardano con i dolci occhi pieni di un assonnato stupore e si dispongono in lunghe file attendendo il loro turno. Perchè questa operazione di abbeverare le mandre, vien fatta con un sistema assai primitivo; i truogoli son collocati ad una certa distanza dai pozzi, e i pa- stori si dispongono in catena fra il pozzo e il truogolo, tal quale come i pompieri dinanzi ad un incendio quando mancano le pompe. Il più vicino al pozzo attinge l’acqua con un piccolo otre di cuoio, che poi vien passato, di mano in mano, fino all’ultimo che lo versa nel truo- golo; dinanzi a questo, ad uno ad uno, passano gli ani- mali, e bevono, mentre quelli che ancor son lontani, PR gra attendono pazientemente il loro turno dimostrando però la loro bramosia. Questo improbo lavoro, per il sistema con cui vien compito e per i mezzi primitivi, richiede naturalmente gran tempo e gran fatica, tanto più quando i pozzi son molto profondi o quando l’acqua scarseggia. In mezzo ad una vasta radura, nella regione deno- minata Forborale, sono scavati i pozzi di Iet. Accanto ad essi, due grandi alberi senza tronco, aprono i loro rami e stendono le loro fronde, come due giganteschi ventagli verdi. In tutto il resto della radura circolare che ha quasi un chilometro di diametro, il suolo è com- pletamente nudo. * * * Non lontano dai pozzi di Iet si scorgono avanzi di coltivazioni e di un antico villaggio denominato Bilan- Babasc, che eran proprietà degli Adama, una delle fa- miglie della tribù Rahanuin. Poichè tutto il territorio che circonda la lunga serie di pozzi da me enumerati, serie che incomincia con Goriale e finisce con Iet, è sempre appartenuto ai Rahanuin. Io lo trovai invece occupato dagli Afgab, ma questi vi eran giunti da poco, spinti da quel vasto movimento di spostamenti succes- sivi, simile a quello delle onde marine di cui ognuna avanzando occupa il posto della precedente, prodotto dallo straripamento della invasione amharica, che, som- mergendo alcune popolazioni ed assoggettandole al giogo abissino, ha provocato nelle popolazioni vicine il terrore d’esser sommerse alla lor volta; così queste ultime han tentato di sfuggire il pericolo, volgendo il tergo all’in- calzare degli amhara, e portando necessariamente il con- traccolpo nelle altre tribù, che via via si paravano davanti, pronte a resistere e a combattere. — 148 — Per tali eventi gli Ogaden, premuti dagli Arussi e dai Gurra si spostarono verso il sud occupando il ter- ritorio dei Rahanuin. Questi ultimi, che, a differenza degli altri, sono per lor natura agricoltori, incatenati alla terra dalle coltivazioni che dovevano proteggere, non poteron seguire la corrente della fiumana di po- poli che migravano verso le regioni australi; però ae- colsero mal volentieri i non desiderati ospiti e tenta- rono ogni mezzo per opporsi alla minacciosa invasione degli Ogaden. Questi ultimi, aiutati materialmente dagli abissini, divenuti ormai dominatori delle regioni poste al settentrione, si fecero più aspri e implacabili nella lotta tradizionale contro i Rahanuin. Negli ultimi tempi le querele si sono complicate e le parti quasi rove- sciate. Gli Ogaden e i Di-Godia, si lasciavano di buon grado sospingere sempre più al sud, sperando così di finire per incorporarsi con i Rahanuin, i nemici di ieri, far causa comune con essi e rimanere quindi sotto il desiderato dominio degli italiani. * * * A Tet impiantammo l'accampamento, in modo da poter fare un’altra lunga sosta. Il grande inconveniente di questa località era il continuo via vai di indigeni che affluivano dai villaggi sparsi nei boschi a prender acqua e ad abbeverare gli armenti; giungevano coi loro caratteristici recipienti formati da grandi anfore rivestite da cesti di vimini intrecciati; e si spingevano innanzi numerose mandrie di bovi che avevano una piccola gobba sulle spalle come gli zebù indiani. Gli uomini e le donne, formando pittoreschi gruppi, si accoccolavano in cerchio e atten- Cage devano pazientemente lunghe ore, finchè il bestiame non sì fosse dissetato. Siccome fortunatamente vi erano molti pozzi, ne destinai due alla mia gente ed ai miei quadrupedì, ne assegnai altri due agli abissini, e lasciai il resto per gl’indigeni; così potei ovviare agli inconvenienti, che la promiscuità cogli indigeni ci avrebbe procurato, e riuscii ad attingere acqua non intorbidata dalle immon- dizie e ad evitare la sorpresa di pescare con la secchia qualche vecchio cencio ben macerato. Durante i lunghi soggiorni, come questi di Iet, ho avuto modo di studiare a fondo il carattere dei nostri ascari arabi. Questi preziosi soldati coloniali, sono poi nella vita intima, dei veri fanciulloni. Sempre allegri, vivaci, vogliosi di scherzare; trovano modo di ridere su tutto, e tutto li diverte; ma, appena si trovano in servizio o vengono chiamati da un superiore, divengono ad un tratto serî, impassibili, rispettosi, e rimangono impalati, sull’attenti, come statue di legno. Appena son lasciati liberi, ritornano subito vispi ragazzi, e spalan- cano la bocca in gran risate, mostrando le candide dentature luccicanti. Bisognava vederli all’accampamento, la sera, verso il tramonto, nell’intimità, quando dopo finito il servizio si abbandonavano alla loro naturale allegria: alcuni si riunivano a crocchio intorno al fuoco, e gettandosi l'un l’altro frasi scherzose, preparavano il caffè nelle loro giabene, cuccume arabe di rame o di terra; altri si ap- partavano per dire le loro preghiere, con l’aria di com- piere un dovere qualunque di servizio; fra di loro qual- cuno assumeva invece un’aria di asceta estatico che contrastava stranamente con la sua abituale giocondità e con il frastuono chiassoso del campo; più in là sotto — 150 — una baracca improvvisata o sotto una tenda, un gruppo si metteva a cantare in coro qualche strana nenia del paese nativo, accompagnata dalle monotone modula- zioni di un piffero e dal ritmico batter delle mani, pro- ducendo un misterioso senso di inspiegabile nostalgia. Vi è pure fra loro qualeuno che soffre; son pochi am- malati sdraiati seminudi sotto le tende; ma non mo- strano alcun abbattimento ed hanno un’aria serena e rassegnata che non ispira la malinconia. Aspettano con fede e con pazienza che Allah li faccia guarire, perchè tutto viene da Allah, secondo loro; e questo fatalismo, che potrebbe sembrare una debolezza, è spesso invece origine di una gran forza, sconosciuta a coloro che cere- dono nella volontà e nella potenza umana, e che poi di quella volontà e di quella potenza, troppo facilmente sindacabili e sottoposte alla critica, finiscono per du- bitare. * * * Il nostro accampamento di Iet era assolutamente privo d'ombra, e non aveva altri ripari all’infuori della zeriba; sì può quindi immaginare quello che accadde il giorno in cui un turbine si rovesciò su di noi; lo spet- tacolo sarebbe stato buffo se non fosse stato seccante. Era un vortice di polvere asfissiante, opprimente, accecante; e, dentro di esso, le tende divelte si rincorrevano come i cavalli d’una giostra. In aria poi, fino ad inverosimili altezze, giravano follemente vestiti, coperte, cenci di tutti i generi, e carte, foglie secche e frasche; si può immaginare l’aspetto del campo dopo che, passato il ci- clone, smessa la tregenda aerea, tutta quella roba, si degnò di ritornare in terra! Era uno spettacolo laeri- mevole e veramente indescrivibile. E quanta fatica ci — 151 — volle per riordinare tutto, e quanta pazienza per ritro- vare la nostra roba, di cui molta era andata a piovere a centinaia di metri di distanza! Per corrispondere con Lugh mi fu utilissimo un gio- vane indigeno chiamato Derò, bel tipo di Gubain, snello, slanciato, diritto come un palo, che, pel modo con cui si drappeggiava e per le pose ieratiche che prendeva, ricordava esattamente le antichissime statuette egiziane; era questi un podista miracoloso che percorreva abi- tualmente quel centinaio di chilometri intercedenti fra Dolo e Lugh, andata e ritorno, in due giorni e tre notti, e, quando c’era fretta, in un tempo molto minore. Però queste grandi corse, e la nevrosi di cui soffriva non gli toglievano mai l’allegria. Ma io, sapendolo affetto da quella malattia, e non avendo potuto trovare, nè farmi mandare da Lugh un interprete che mi servisse nelle relazioni con i Rahanuin, conferii a Derò questa carica, e Derò seppe disimpegnarla con zelo e premura. Quasi ogni giorno giungeva al campo qualche capo Rahanuin, che si era finalmente deciso a venire dopo reiterate insistenze e perfino minaccie da parte mia. A p- pena venuti cercavano ogni mezzo per andarsene su- bito, allegando insignificanti interessi domestici ai quali davano maggior peso che alla sistemazione del loro paese; sembrava quasi ch'io non lavorassi per loro, e che la delimitazione del confine non li interessasse, mentre invece essa doveva avere per risultato di libe- rarli dalle razzìe degli Afgab e degli Amhara... Oggi era Mohamed Nur, capo degli Adama, che vo- leva tornare a casa perchè suo figlio stava per pren- — 152 — der moglie; l’indomani era Islau Mallelo, capo dei Gasar- Guddà, che voleva recarsi a Lugh per vendere una vacca! Così dovetti lottare anche con il contegno am- biguo dei capi che dicevano d’essere nostri sudditi. Ma in verità, assai limitata era la nostra autorità su di essi, che per paura degli Amhara, si peritavano a darci indi- cazioni e informazioni, anche nel loro interesse; e se io li richiedevo di servirmi da guide mi rispondevano che non conoscevano il paese! Gli Afgab e i Di Godia invece obbedivano come automi agli Amhara loro dominatori; si erano stabiliti nel luogo dove era loro stato ordinato di farlo, e a me ripetevano con scrupolosa esattezza la lezioneina che dagli Abissini era loro stata insegnata. A queste difficoltà prodotte dalla malevolenza degli uomini, a queste continue e sistematiche congiure contro la speditezza del rilievo della zona frontiera, se ne ag- giungevano altre appartenenti alla natura. Il terreno coperto jdi folta vegetazione e privo di accidentalità nettamente individuate non permetteva il collocamento dei segnali trigonometrici con quella sollecitudine che sarebbe stata desiderabile; quindi finii per decidermi a far interrompere la regolare triangolazione che richie- deva un tempo enorme, ed a procedere, d’ora innanzi, con un rilievo speditivo. Gli Abissini furono lietissimi di quella mia decisione,j perchè avevano pochi viveri e temevano il sopraggiungere delle pioggie autunnali. Richiamai quindi i topografi che erano ancora a Der- mangit e diedi loro le nuove istruzioni. * * * Il 27 di settembre fu una giornata significativa per due avvenimenti che la distinsero dalle altre. AI POZZI DI DUREI. « ... QUELL’ONDEGGIANTE E SCORREVOLE FIUME DI LANOSE CREATURE... ». (Pag. 146) « «++ LE BRUNE PASTORELLE CHE ACCOMPAGNANO LE GREGGE... ». (Pag. 116) « +.» GIUNGONO SPESSO A DISSETARSI ANCHE LE MANDRE DEI CAMMELLI... ». (Pag. 146) ] — 153 — In quel giorno gli abissini festeggiarono il Mascal o festa della croce. Verso il tramonto, si schierarono tutti in lungo ordine fuori dell’accampamento, sostenendo altissime pertiche in vetta alle quali eran legati fastelli di fieno intriso nel sego; in mezzo a loro il prete abis- sino recitò lunghe preci, poi essi richiusero il cerchio e deposero nel centro i fastelli, su di un nido di ter- miti; quindi appiccarono il fuoco al gran monte di fieno e di grasso che avevan formato. La notte era calata, e la fiamma si levò altissima nell’oscurità come una vam- pata di vulcano, e intorno ad essa freneticamente si agitavano centinaia di figure nere con contorsioni spa- smodiche ed urli da forsennati. Nello stesso giorno era accaduto che un ascaro, es- sendosi recato, contrariamente alle mie prescrizioni, a raccogliere foraggio da solo, sì era smarrito. Il giorno dopo, non vedendolo ritornare, molto inquieto sulla sorte che poteva essergli toccata, inviai grossi pattuglioni perchè ad ogni costo lo ritrovassero; ma gli esploratori tornarono dopo mezzogiorno senza aver visto nessuno. Nel pomeriggio, quando già cominciavamo a perdere ogni speranza di poter rivedere il nostro bravo sol- dato, questi ritornò accompagnato da un giovane so- malo. L’ascaro era ridotto in uno stato compassionevole per la fame, la sete, la stanchezza; e ne aveva ben ra- gione; aveva camminato per due giorni e una notte senza cibo, senz’acqua e con lo spavento di non ritro- vare più il campo e rimaner solo, abbandonato, sper- duto in mezzo alle inestricabili boscaglie. Eppure, anche in quelle critiche condizioni, aveva trovato l’energia per mercanteggiare il compenso al giovane somalo che doveva servirgli da guida per ricondurlo al campo! Si trattava della vita o della morte, ma per quel bel tipo 20 =; ae di ascaro era ugualmente importante il non lasciarsi imbrogliare e prendere per la gola, e il non dare un tallero più del giusto al suo salvatore. Questi ascari non dimenticano mai d’aver nelle vene il sangue dei commercianti e nell'animo lVistinto del traffico. A la- sciarli fare commercerebbero continuamente. Alcuni giorni dopo l'avvenimento veramente memo- rabile fu Varrivo d’un telegramma che ci annunciava l’inizio della guerra italo-turca e la successiva presa di Tripoli. Chi può descrivere la profonda commozione che una notizia come quella potè produrre nel cuore di italiani ch’eran così separati dalla loro madre patria? La pianura somala svanì, svanì l'accampamento, svanì la distanza enorme. Fu come se gli orizzonti si apris- sero per lasciar posto a un grande azzurro e ad un gran verde... L’azzurro del nostro cielo, il verde dei nostri campi. Non eravamo più laggiù sperduti nell’ in- terno del continente nero... Noi li vedemmo sventolare i nostri tricolori sulle torri eccelse, dai balconi infio- rati, sulle folle urlanti di entusiasmo; e fra quelle folle fummo confusi commisti anche noi, anche noi urlammo gli evviva e cantammo gl’inni della patria... Tanto fu l’impeto di gioia e d’amore che violentemente agitò le anime nostre, che ci parve con quelle di travalicare bo- schi e deserti ed oceani, e raggiungere la grande anima nazionale per fonderci in essa, e con essa esultare di gioia. Anche gli abissini mostrarono di apprender la no- tizia con gran piacere e con viva simpatia e fecero voti per la nostra completa vittoria. «€ «ce SONO SCAVATI I POZZI DI-IET...%. (Pag. 147) IL CAMPO DI IET. « +... AFFLUIVANO DAI VILLAGGI SPARSI NEI BOSCHI... AD ABBEVERARE GLI ARMENTI... » (Pag. 148) « ... GRANDI ANFORE RIVESTITE DA CESTI DI VIMINI INTRECCIATI... ». (Pag. 148) Il degiac volle che gli mostrassi la carta della Tri- politania, ed esaminandola non finiva di meravigliarsi e di ammirarci perchè noi avessimo osato di muovere alla conquista d’una terra che era tanto più grande della stessa Italia. va Riprendemmo la marcia il 16 ottobre, lasciando al campo di Iet tutto ciò che non ci era strettamente ne- cessario, in modo da poter percorrere rapidamente la zona di frontiera onde eseguirne, come ho già detto, uno speditivo rilievo. Prima della partenza gli abissini ave- vano tentato di far risorgere i contrasti e mi oppo- sero non pochi ostacoli; sì vede che provavano ormai la nostalgia dei loro sfoggi oratorii di Dolo durati quattro mesi; ma io troncai ogni indugio e feci togliere il campo. Da Iet a Uascen il terreno si conserva sempre pia- neggiante e la flora non muta: poche varietà di om- brellifere, generalmente di basso fusto, più o men folte a seconda della natura del terreno, e frammiste a gom- mifere e a piante grasse poco elevate dal suolo. Sulle sponde dei torrenti, sulle prode dei fossi, negli impluvi, crescono invece grandi e belle ombrellifere ed altre piante di alto fusto, per lo più sempreverdi, le quali fanno un gradevole contrasto con la maggior parte della vegetazione, priva, quasi tutto l’anno di foglie, sì da sembrare bruciata ed impotente ad ogni germoglio. Per contro, subito dopo le pioggie, questo immenso bosco di aghi, di spini, di sterpi come per incanto si trasforma ed assume le gradazione del verde, dal te- nero color dell’erba al cupo bronzo dell’alloro; e s’ in- ghirlanda di fiori dal profumo veemente, quasi acre. — 156 — Cessate però le pioggie, una medesima rapidità fa di- sparire fiori e foglie, ed allora, sotto il dominio del ca- lore tropicale, sembra che da per tutto sia trascorsa una grande vampata di fuoco. L’erba non alligna dovunque; talvolta nemmeno dove è terriccio vegetale: chè questo è troppo travagliato dai venti per dare al seme la pace favorevole ad ogni fecondità. Perciò il foraggio è scarso; un poco se ne trova nelle bassure, ove una più lunga dimora delle acque ha reso compatta e consistente la terra ed un poco attorno ai cespugli ed ai tronchi degli alberi, al riparo dal vento. Da Uascen, i cui pozzi contenevano la solita acqua puzzolente, traversammo una bianca spianata di ter- riccio calcare per giungere ad Ato dove l’acqua aveva un sapore meno nauseabondo. Ad Ato ci dovemmo arrestare perchè i delegati etio- pici mi comunicarono un ordine del loro Governo, che, d’accordo con la nostra Legazione autorizzava a sospen- dere i lavori per ragioni di sicurezza. Analoghe istru- zioni ricevetti direttamente dal nostro Ministro. Ed in realtà verso l’Uebi Scebeli le popolazioni erano in fer- mento, tantochè i soldati di Degiac Tafari avevan do- vuto impegnare aspri combattimenti per tranquillizzare la regione. Dovetti obbedire, sebbene mi dolesse moltissimo di non giungere fino all’Uebi Scebeli. Però, siccome ero certo di aver rilevato esattamente la parte principale della frontiera, e sul resto avevo raccolto informazioni e dati sufficienti per poter offrire salde»basi alla deli- LI mitazione del territorio, così potevo ritenere come rag- giunto lo scopo della missione che mi era stata affidata.. Facemmo quindi ritorno a Iet, da dove gli abissini per la comoda via carovaniera da me già descritta nel quinto capitolo, dovevano dirigersi verso Ghigner. Ed ora diamo pure uno sguardo d’insieme alle varie tribù che s’incontrano lungo la frontiera. Sul territorio posto sotto la nostra frontiera abitano le tribù dei Rahanuin, dei quali parlerò in seguito; su quello posto sotto la dominazione etiopica, dopo alcune famiglie che dimorano nei paesi di Dolo, si incontrano subito gli Ogaden. Soltanto tre sotto-tribù Ogaden abitano la zona di frontiera, e precisamente da ovest verso est, gli Afgab, gli Aden-cher e gli Uafetab. Queste sotto-tribù, che por- tano il nome comune di Haulian, sembra che abbiano avuto la loro denominazione da tre figli di un celebre capo Ogaden chiamato Mumi: a) AFGAB. — Gli Afgab sono quelli che maggior- mente interessano per l’estensione del territorio di fron- tiera da essi abitato, per il loro numero abbastanza rile- vante e per la loro dislocazione rispetto ai due centri di Lugh e di Baidoa. Jo trovai i primi Afgab a Goriale; mi si prentarono con doni e sì protestarono sudditi italiani; subito, con mio e loro vivissimo dispiacere, dovetti, al riguardo far cadere ogni illusione. Anche ai pozzi di Robodi, di Durei, di Dermangit e di Iet trovai « villaggi » di Afgab, i quali però, interrogati, rispondevano sempre che il territorio non era loro, ma che invece apparteneva ai Rahanuin. — 158 — Il vecchio Omar Fara di ottant'anni, del rer Afgab denominato Nur Fara, che io interrogai a Durei, pre- senti molte persone del suo villaggio, mi assicurò che i pozzi di Goriale, Abdio, Nur, For, Borale, Iet ed Ua- seen appartenevano ai Rahanuin. Aggiunse che, da poco tempo, gli Afgab si erano stabiliti in questi luoghi; e precisamente in seguito allo spostamento verso il sud provocato dalla invasione amahara. I Rahanuin, riechi di pascolo, amanti del quieto vivere e dediti all’agricol- tura, si raccolsero attorno alle coltivazioni, lasciando abbastanza tranquilli gli Afgab che, per quanto gua- dagnassero ogni giorno terreno, costituivano un argine alla minacciosa espansione ambhara. Anche a Dermangit i capi Abdi Gir ed Osman Has- san der rer Hassan mi dissero che, da un anno soltanto, gli Afgab erano stabiliti in territorio Rahanuin sulla fronte Robodi-Durei-Dermangit-Iet; che prima abita- vano molto più a nord, nella località di Coclè, Uetcal, Dercadò e Bodlé. Analoghe dichiarazioni m’ebbi da Teiss Hssuen del rer Haillé Nur, capo residente a Robodi, mandatomi dal fitaurari Mamo perchè lo interrogassi. Data l’abitudine dei capi abissini nel preparare le risposte in bocca agli indigeni, si può ritenere che il Teiss Hussen abbia per lo meno detto la verità. All’arrivo della Missione gli Afgab erano in lotta con tutte le tribù Rahanuin, ciò nondimeno qualche famiglia Afgab si recava liberamente a Lugh per ra- gioni di commercio. Gli Afgab pagano il tributo all’Abissinia, regolar- mente, dall’epoca delle incursioni dell’allora degiac Lul- x seghed. Da'quel tempo, un capo abissino è rimasto a «... SI ACCOCCOLAVANO IN CERCHIO E ATTENDEVANO PAZIENTEMENTE LUNGHE ORE... ». (Pagg. 148-149) « ... ERA QUESTI UN PODISTA MIRACOLOSO... ». (Pao. 151) <.0. IN «+... ISLAU MALLELO, CAPO DEI GASAR-GUDDÀ...). (Pag. 152) QUEL GIORNO GLI ABISSINI FESTEGGIARONO IL « MASCAL)... ». (Pag. 153) — 159 — sfruttare il paese. Ora vi risiede il Cagnasmace Te- samma dipendente di degiac Nado. Gli Afgab avranno forse un migliaio di fucili, ma poche cartucce che acquistano dagli amhara. Tale acqui- sto è stato fatto con la più grande disinvoltura, pur durante il passaggio delle due Missioni... b) ADEN-CHER. — Questa gente meno numerosa degli Afgab occuperebbe ora i pozzi fra Uascen ed Ebesale, frammista, nell’ultimo tratto est, ai Rer Alì, tribù anche essa di origine Ogaden e che non si sa ancora se ap- partenga a degiac Nado ed a degiae Tafari. Gli Adencher invece sono sudditi di degiac Nado al quale inviarono i propri capi: sembra che non abbiano sempre pagato il tributo regolarmente. Il capo Mohalli Iusuf Mohamed che viveva fra gli Aden-cher e che io potei interrogare più volte, mi assi- curò che allora Aden-cher e Rer Alì occupavano i pozzi di Elbait, Aultire, Guddera, Gududuale, Elbar, Elme- ghit ed Ebesale; che però, tanto il territorio occupato, quanto i pozzi appartenevano di diritto ai Rahanuin. c) UareTAB. — Costoro, all’epoca del passaggio della Missione, abitavano a nord della linea di fron- tiera. Non avendo ancora fatto completa sottomissione agli abissini, mi si disse, anzi, che combattevano con molto accanimento contro i soldati di degiac Tafari. d) GraceL. — I Giagel sono, come i Di-Godia, di ori- gine Hauia. Anch’essi pastori e nomadi, confinano verso sud coi Baddi Addi. Il limite tra le due tribù non è molto ben definito. Stando ai miei informatori il limite più probabile, partirebbe da Ebesale per giungere al monte Duldir, passando pel pozzo El-Afuin. — 160 — Pare che i Giagel abbiano circa 300 fucili. Mai sono stati sottomessi agli abissini. Avevo ricevuto l’ordine di recarmi alla costa somala per la via più breve; dovetti separarmi dai delegati etio- pici, e, contro ogni pessimistica previsione, il distacco fu abbastanza commovente. Avevamo avuto, è vero, fra noi, lunghe discussioni, con le quali essi mi avevan tor- mentato fino all’esasperazione, e durante le quali non avevo mancato di difendere strenuamente i nostri di- ritti, anche quando ciò mi forzava a pronunziare le aspre parole e gli acerbi rimproveri che essi meritavano, ma in fondo devo confessare che non mi avevano mai mancato di rispetto, e che anzi mi avevano spesso di- mostrato deferenza e simpatia. E poi... e poi, è inutile: le lunghe fatiche, gli aspri disagi sopportati insieme, i lunghi viaggi attraverso regioni ignote, deserte, semi- nate di pericoli, accomunano gli uomini più che non si creda, senza che essi lo vogliano e nemmeno se ne ac- corgano. Dinanzi alle ostilità della Natura ostacolante la vita umana, gli uomini si sentono tutti della stessa razza, e sono insensibilmente attratti l’uno verso l’altro, anche se la diversa stirpe, la diversa educazione, gli op- posti interessi sembrano dividerli. Prima ch’io mi dipartissi, i capi, venendo a salutarmi, pronunziarono parole di calda simpatia e mi sembrarono commossi; e dopo i capi, anche gli inferiori, anche i semplici soldati vollero stringermi affettuosamente la mano, ad uno, ad uno, tutti, fino all’ultimo. Poco prima della partenza ricordai al degiac di com- piere un atto che aveva dimenticato di fare fino allora, — 161 — ed egli mi accontentò. Presenti gli interessati promise di risolvere al più presto alcune questioni pendenti fra i sudditi nostri e quelli abissini. Ma il momento di più alta commozione fu quello nel quale Deghegné, capo degli Afgab appagando un mio desiderio sul quale in- sistevo da molto tempo, concluse la pace con gli Adama e con i Luhai giurando che non avrebbe fatto più razzie sul loro territorio. Mentre Deghegné e il cadì degli Adama si abbracciavano e si baciavano, tutti gli altri capi pre- senti tacevano, impressionati e commossi ; ed io pensavo che i dolci sentimenti di pace, di perdono e di frater- nità devono avere una grande intima potenza se pos- sono jgiungere a toccare il cuore anche di genti che hanno incancellabile nel sangue Vl’istinto della guerra e della rapina. E dovetti pure, con gran dispiacere, separarmi dai miei buoni ascari amhara, che dovevano tornare ad Ad- dis-Abeba. Eran tutti commossi fino alle lagrime nel salutarmi e mi chiedevano perdono se qualche volta avevano mancato. In dieci mesi di vita comune avevo imparato ad apprezzarli ed a conoscerli profondamente; ma mai come in quell’ora del distacco avevo potuto così chiaramente vedere che anche essi hanno un cuore sen- sibile, e si affezionano fortemente a chi li tratta bene, e magari con severità, purchè non disgiunta dalla giustizia. L’ultima visione che mi è rimasta di quell’addio, è quella di Cerenet, un ragazzetto vivace e chiassone, di soli quattordici anni, che mi aveva sempre seguito come un cucciolo ringhiosetto ma fedele, e che, al momento della partenza, mi si gettò ai piedi scoppiando in singhiozzi e supplicandomi eh’io mi degnassi considerarlo sempre come un mio figliuolo! 21 lO d na = 4 IV ETA ER TIE a JABRA) PRPVRLAVI RISO SUIT PRIEST), ANALE CifUeve tf "a (ki ‘ata Li ati ada 1 (dA LEDIY * III SAI SOLITA Lyre, ORAr Db at AO i Alert Gia 09 nil TITSTTNCI LMUGITIAIDATIANUTTO A TRPAIT, te ER dba mimi, x #96 | rea A iuranin din MTIBTLONO AE ICARO SEPE vivi EVE CUGINI FR io ATAgrHA ddr 1° DORGIEE I at a E TE OI sfiltarò TUTA La: Geiidia ai di b i Ch ACSTLTITO 3 td, if rtaiaza pg: fio RIUTSTI sa 4 Mr lano f;3) (13 id 0, DI tig Mic Vai. GURIADI pit azicnte 0 a RURAL 19 dn fin ii til: $otbi txt bdlò ti +; LISA j ’ n è do, x sa = a) i g tra ui sia psi les iù SUSE siga 13 si # Viti be. mi: Li [STI VM SPA SPARITO (OLI PCI QELOATTCI (ih 1 1 7 @ il " e SSA TI RTS RR IS I i , Ld [9 ? Lia SATTA E OSE METEO PRATO °. n CNG i, » ADATTE ; dr a siiot binati da dot de su Arata fato pa POTE GIRO TA i 164 lo iz 7 FIA ato eo du "pat 1a 49 treat UE 0OSHSTAI o'fale si i di 130 DO Nei IR ‘oe Li RIINA 40 li MIR rp mie (IU dt (9A 4 Sio) a litio! Vagt CITTA) stat DURI Gatohi "PRATT SPERO Hal ARRE, o Uta ito ato ti) HOA 19 avi Lia pela #14 Bata sa, iu biro von A toa o LU I) Lit TRE gt Ri; i dfn Ott dati ri ne CI RE STIVITÀ si ni n INNI nai (ti l'i Man image i Mari io ‘uf tibia Vale vai Matto PRIA: us Prini Min ca VETO pi Dini di, « .:. L'ULTIMA VISIONE CHE MI È RIMASTA DI QUELL’ADDIO... ». (Pag. 161) LA è. CI ft i e i Fa ff o DA Wobl: BAIDOA. Il 26 ottobre levammo le tende per iniziare il viaggio di ritorno. Il mio còmpito era assolto. Adesso non restava più che fare una non breve e non facile traversata della Somalia; ma, al termine di questa, ci saremmo trovati sulle rive dell’oceano, in cospetto all’orizzonte, su cui sì vedono i piroscafi che navigano verso la cara patria. Decisi di dirigermi alla sorgente di Baidoa che dà il nome alla regione, e che è il centro più importante del paese dei Rahanuin. Traversammo il torrente Medul, dove si trova un pozzo, con acqua poco abbondante ma buona. Dalla sponda sinistra scorgemmo grandi piramidi di sassi che sembravan squadrati dalla mano dell’uomo; eran le so- lite tombe dei Madenle, gravi monti di pietra che com- primono per sempre cadaveri innumerevoli di uomini scomparsi senza storia. Facemmo la prima tappa ai pozzi di Curalle, dove l’acqua era forse la peggiore fra quelle che avevamo fino allora inumidito le nostre gole riarse. Sembrava la più disgustosa delle medicine. Satura com'era di anidride solforica che emanava un fetore nauseabondo, appestante l’aria d’intorno, ci provocava la nausea nel beverla ed intaccava perfino il metallo delle posate. — 164 — L’aspetto del paesaggio non era mutato: pianura sconfinata ricoperta di sterpi, di rovi, di macchie intricate. Dopo Curalle non s'incontra più un pozzo fino a Siggià; son dodici ore di marcia, che naturalmente non sì possono compiere in una sola volta; e d’altra parte non potevo portarmi dietro l’acqua sufficiente per tanti uomini e tanti animali. Decisi quindi di partire nel po- meriggio, riposare la notte a metà strada e riprender la marcia all’alba. Ma tutte quelle ore senz'acqua mi preoccupavano non poco. Ad ogni modo, visto che non c'era altra soluzione, dopo aver camminato per circa cinque ore, feci arrestare la testa della carovana, cal- colando che la coda ci avrebbe raggiunto prima che scendessero i velari della sera. Eravamo nel fitto d’una vasta ed intricata boscaglia, in un luogo solitario dove il sentiero è raramente fre- quentato. La tenebra ormai ci avvolgeva da tutte le parti e lo strano bivacco era pervaso da quella specie di apprensione e di disordine che genera la mancanza d’acqua. Le bestie si agitavano e scalpitavano, inquiete; gli uomini non dormivano tormentati dalla sete, quasi non sentendo la stanchezza, impazienti di riprendere il cammino. Io ascoltavo quel nervoso brusìo, quell’ irre- quieto malessere che serpeggiava fra i gruppi agitati di uomini e di animali, e pensavo con terrore a quel che avverrebbe se, invece di altre cinque o sei ore, aves- simo dovuto marciare ancora per un giorno o due prima di arrivare ad un pozzo. E di nuovo mi pareva strana, incomprensibile la nostra indifferenza di europei dinanzi all'acqua, abituati come siamo a dover soltanto girare — 165 — un rubinetto, in casa nostra, per vederla scaturire lim- pida, fresca, inesauribile; mi pareva strano, incompren- sibile di non aver mai pensato, in Italia, in casa mia, a quel che rappresenta, per una popolazione, l’abbon- danza dell’acqua, di non aver mai valutato fino a qual punto sia prezioso e necessario questo liquido elemento di vita. Grandi fiammate si alzavano rombando, scop- piettando, lanciando le lingue ardenti, frenetiche verso il cielo, illuminando di riflessi rossastri l’intrico oscuro dei rami, fra cui occhieggiava il palpito di qualche stella. A un tratto, un coro di voci si levò nella notte, una nenia assonnata, strascicante, malinconica, quasi lugu- bre; e seguitò per ore ed ore, con le sue modulazioni tristi; seguitò, come se nulla la potesse troncare, fino all’ossessione. Eran gli ascari, che volevan restar desti per partire il più presto possibile, e, accoccolati intorno alle fiamme, cantavano le arie del loro paese. Ancora prima dell’ora stabilita cominciammo a rica- ricare le some, senza che quasi nessuno fosse riuscito a riposare. Per poterci vedere si gettò nuova legna secca sui fuochi, e le fiamme ingrossate, insanguinando l’oscu- rità, davano alla scena di tutto quel rimescolìo di gente che si agitava impazientemente, un aspetto quasi tra- gico. Sembrava che si bruciassero dei cadaveri, e che quelle centinaia di uomini si affannassero per paura di non arrivare in tempo ad incenerirli tutti. Finalmente, dopo il faticoso lavoro del ricaricamento, la tromba della partenza squillò spandendo il suo suono, stranamente, nei silenzii dei boschi addormentati, e la lunga caro- vana si mosse, si avviò serpeggiando, dietro una lan- terna accesa, fissata in vetta ad un palo, che doveva servir da guida. La interminabile fila di uomini e di animali si avanzava brancolando nel bosco, insinuan- — 166 — dosi nell’oscurità e fiancheggiata da rami accesi, portati a guisa di torcie, che facevano pensare ad un immenso corteo funebre di tempi favolosi. Forse attraverso a quel bosco selvaggio si trasportava la salma di qualche eroe? E si sarebbero sentite echeggiare le immortali note del « Crepuscolo », gli squilli strazianti della marcia funebre di Sigfrido? Non le note del gigantesco genio della Tetralogia sì udivano, ma i lugubri squilli della tromba che ogni tanto richiamava gli sperduti, e la cui voce, attraverso all’intrico dei rami, sembrava giungere da una lonta- nanza chimerica. La ondeggiante lanterna che ci serviva da guida, dondolava e brillava in alto dinanzi a noi a intermit- tenze, come una enorme lucciola gialla. Dove ci condu- ceva? Non si sarebbe spalancato ad un tratto d’ innanzi a noi qualche abisso, qualche baratro insormontabile nel quale saremmo tutti piombati? Talvolta, ad un tratto, il cuore si stringeva all'idea che potessimo sperderci in quelle boscaglie senza uscita, e ci traversava l’anima l’assurda fantasia che il giorno non dovesse nascere più. La luce della lanterna e delle torce empiva di va- cillanti riflessi luminosi i tronchi e i rami, che un mo- mento si disegnavano netti sul fondo oscuro, poi si som- mergevano di nuovo nell’ombra. E, al nostro passaggio, il bosco sembrava destarsi spaventato. Misteriosi battiti d’ale, fruscii di foglie secche, schianti di verbene, stri- sciamenti rapidi si udivano nelle macchie vicine, come se un intero popolo celato di esseri maligni si svegliasse; ed avevamo la sensazione d’infiniti occhi invisibili fissi su di noi con espressione di terrore e di odio. Ad ogni poco, nelle profondità della tenebra, ci sembrava di ve- dere qualche ambigua forma che fuggisse senza rumore, AI POZZI DI SIGGIÀ. « ... INCONTRAMMO PER VIA ALCUNE FAMIGLIE DI NOMADI... » (Pag. 171) « +... INTERROMPEVANO UN MOMENTO I LORO LAVORI CAMPESTRI E CI OSSERVAVANO IMMOBILI... »,. « ... CISTERNE AD OGNI PASSO FIANCHEGGIANO IL CAMMINO... ». (Pag. 173) DE IVA come un fantasma. Uomini? Animali? O soltanto un giuoco di riflessi delle nostre mobili luci? Talvolta la stanchezza ci prendeva; ma si continuava ad avanzare senza troppo guardare dove si andasse come in una specie di lucido dormiveglia; ed ecco eravamo subi- tamente destati da un’acuta puntura, da uno sgraffio, da uno sbrano che ci faceva sanguinare la pelle e sus- sultare: qualche aculeo uncinato, qualche ramo spinoso, come se si fosse con subdola malignità proteso dalla tenebra, ci aveva fatto l’aspra carezza... Finalmente l’intrico dei rami cominciò a disegnarsi in nero sul cielo schiarito; l’alba tanto sospirata si levò, e i primi raggi scagliarono fasci dorati attraverso il fogliame. Ma non ce ne venne troppo sollievo, perchè coll’avan- zare dell’ora, si manifestavano gli effetti della lunga marcia e del mancato riposo; una grande stanchezza ci appesantiva il corpo, resa più grave dall’arsura delle fauci e dal calore asfissiante, dall’afa terribile di quella mattinata veramente africana. Giungemmo a Siggià alle undici e mezzo, ma il resto della carovana continuò ad arrivare, a gruppi separati, durante tutto il pomeriggio; e gli ultimi comparvero soltanto verso l’ imbrunire, tra- scinandosi affranti per stanchezza. Appena giunto, avevo requisito tutti i recipienti ed i cammelli ed avevo man- dato acqua incontro a sollievo di quella parte della earovana che indugiava e stentava per via. I pozzi di Siggià sono situati nel fondo ghiaioso di una specie di torrente e scavati attraverso a strati levi- gatissimi di roccie calcaree, che, con i loro riverberi, — 163 — abbagliavano gli occhi ed aumentavano il calore ren- dendolo sempre più asfissiante. Intorno ai pozzi si aggiravano varie donne indigene, con i caratteristici recipienti di legno fasciato di vimini che ebbi già a descrivere. Quelle donne sottili, coi volti allungati e il naso corto, appartenevano alla tribù degli Adama che abita in quei paraggi. Il capo di essa che mi accompagnava, ordinò che ci fosse portato del latte e dei buoi e ce ne fece dono. Giunsero in folla anche molti dei suoi sudditi per ossequiarci, e fra di loro una quantità di malati, affetti dalle infermità più diverse, che ci richiesero di esser curati; ma si meravigliarono che noi non potessimo guarirli ad un tratto, da un mo- mento all’altro. I vecchi poi erano i più insistenti; avreb- bero preteso addirittura di essere rimessi a nuovo, come se noi avessimo posseduto il filtro della giovinezza che Mefistofele fece bere a Faust dopo che questi ebbe fir- mato il famoso contratto. Si vede proprio che la vita per la maggior parte degli uomini ha un pregio stra- ordinario, e che, malgrado la sì calunni quotidianamente, non ha poi un valore così trascurabile, se quegli indi- geni, ormai vecchi e condannati ad un’esistenza miser- rima e primitiva, ci tenevano tanto! * * * Fra Siggià e Jabel, il terreno e la vegetazione, pur non mutando natura, avevano mutato aspetto; le prime pioggie cadute avevano compiuto il solito miracolo afri- cano. Gli sterpi secchi, gli alberi scheletriti e riarsi e i rovi pungenti s'erano coperti di un verde meraviglioso, vivace, fresco, che ci allietava la vista, dopo tanto tempo di paesaggio gialliccio e bruciacchiato. E il terreno duro, « AMALCÀ. IA 7 x OM MET | ssi "i - *« . IL CAPO DEGLI ELAI, SCECH MOHAMED HARON.. ». (Pag. 174) « +... L'INSEGNAMENTO VIENE IMPARTITO SUL PIAZZALE... ». (Pag. 176) « +... NON SERVE CHE A RIPARARE LE LUNGHE TAVOLETTE SU CUI È SCRITTO IL CORANO... ». (Pag. 176) — 169 — risecco, serepolato, s'era ridotto molle e dolce al passo per un soffice mantello d’erba folta improvvisamente germinata dalle radici e dai semi invisibili. Fra Siggià e Jabel, durante una sosta notturna, fummo anche sorpresi da un violento acquazzone ; e così la mattina trovammo i carichi tutti inzuppati e dive- nuti doppiamente pesanti. Ciò rese più difficile il cari- camento dei cammelli, che, del resto, anche senza questo inconveniente, era sempre noioso e penoso per tutti. Le povere bestie, ancora stanche del giorno innanzi, ma- nifestavano in tutti i modi il loro malumore, mentre i conducenti componevano e fissavano le some sul loro dorso gibboso; e gli uomini cui stavano dinanzi molte ore di marcia, avrebbero volentieri fatto a meno di esau- rirsi e stancarsi in precedenza con quel lavoro compli- cato e seccante. Quel quotidiano, faticoso fare e disfare, faceva pena anche a chi stava a vedere come me. Durante quella insopportabile ora e mezzo di attesa, che sempre intercedeva fra il toglier delle tende e la partenza, come al solito, mi avveniva di fare un paral- lelo fra i disagi dell’esploratore africano e quelli del buon borghese europeo. Osservando quell’ intenso intermina- bile lavoro che faceva ritardare la partenza, mi sem- brava proprio grottesca la nostra irritazione, quando, sotto una comoda tettoia di stazione, con la prospettiva di un rapido viaggio e di una buona dormita in vagone- letto, ci impazientiamo se il treno ritarda dieci minuti a partire! Ogni giorno poi si ripetevano i soliti inconvenienti, a malgrado delle mie precise istruzioni, delle mie insi- stenti raccomandazioni per arrivare a far presto e bene. Spesso i carichi si disfacevano appena legati o risulta- 22 vano troppo pesanti o non sì riusciva a metterli insieme per la troppa diversità degli oggetti. Perchè, sebbene ogni conducente avesse il suo carico assegnato, poi, per la morte dei cammelli, o per necessità di portarsi dietro acqua, si finivano per raggruppare i carichi che risultavano composti con elementi talmente eterogenei da divenire grotteschi. Mi è rimasto impresso nella memoria un cam- mello, che un giorno, mi passò dinanzi con due tavolini legati ai due lati della gobba ed il forno da campo troneg- giante sulla sommità, da cui ciondolavano le scarpe del cuoco ed una mezza capretta già pronta per essere arrostita; dalle gambe dei tavolini poi pendevano, a grappoli, recipienti pieni d’acqua di tutte le forme e di tutte le nature: erano fiaschi toscani e bottiglie da cham- pagne, ghirbe di tela e di pelle e borraccie di legno; e frammiste ad esse sacchi e fagotti pentole e padelle... Insomma, un vero bazar di chincaglierie... E tutta quella roba ondeggiava, sbatteva, si accavalcava seriechio- lando, tintinnando, fruscendo; talchè quel povero cam- mello mi ricordava un poco quei musicanti da fiera che suonano l’organetto con le mani; con i piedi, per mezzo di una cordicella, battono i piatti e la grancassa che portano sulla schiena; con la bocca soffiano nel sistro; con i gomiti azionano il triangolo; ed agitando la testa fan tinnire una selva di bubboli e di campanellini fis- sati su di una specie di casco! * * * Il periodo delle pioggie era definitivamente comin- ciato; spesso l’acqua ci sorprendeva per via o inondava durante la notte l'accampamento; ma in compenso, din- torno a noi, si svolgeva un panorama attraente e ripo- sante, coperto di un verde meraviglioso, folto, fresco, — 171 — vigoroso. Nella pianura uniforme che si stende fra Jabel e Galamò, la vegetazione formava un vero parco fan- tastico di smisurate dimensioni; pareva quasi che le piante fossero state disposte da un sapiente giardiniere per il piacere degli occhi; e l’intenso verde smeraldo, lo smorto verde antico, il vivace verde Paolo Veronese, l'oscuro verde di Prussia, il tenero verde gialliecio, l’opaca terra verde, il raffinato verde cinereo, forma- vano una sinfonia indescrivibile con infinite gamme ed infinite sfumature che sembravano il frutto del gusto squisito e del sapiente studio di un geniale e sovru- mano colorista. Anche la strada era insolitamente facile; piana, comoda, senza ostacoli di sorta e ben marcata. Eppure uno dei nostri ascari trovò modo di smarrirsi anche lì. È vero che ci s'imbatteva assai spesso in pa- recchie diramazioni, ma il passaggio di una carovana, numerosa come la nostra, lascia tali traccie e tali orme da non provocare alcun dubbio sulla vera via da seguire. Il fatto è che questi negri, i quali hanno talvolta una tale acutezza di attenzione da notare particolari insignificanti che sfuggirebbero a chiunque, sono, in altri momenti, così spensierati da non badare più a nulla, e da rischiare stupidamente la vita per qualche stolido capriccio improvviso. Incontrammo per via alcune famiglie di nomadi che cambiavano residenza. Avevano caricate tutte le loro masserizie e tutti gli oggetti domestici, nonchè le ca- panne e le armature di queste sui cammelli, i quali, con quelle curiose coperture, assumevano da lontano l’aspetto di mostruosi animali preistosici, come una specie di gi- gantesche tartarughe con lungo collo e lunghe gambe. Quasi quanto i cammelli erano cariche le donne che facevano la parte di bestie da soma, perchè oltre ai loro bambini portavan sulle spalle grandi fagotti di ca- rabattole d’ogni genere; gli uomini invece se ne anda- vano avanti con le sole armi indosso precedendo le mi- sere carovane con aria tronfia e altera di dominatori... Questa è la gentilezza cavalleresca che si usa verso il sesso debole nel paese dei somali! Più in là passammo nelle vicinanze di un villaggio e scorgemmo gruppi di donne e bambini affollarsi curio- | samente sull’orlo del sentiero; la loro ammirazione era eccitata dagli ascari del « Sercal » (Governo), che, per la prima volta, attraversavano quelle terre, e che rappre- sentavano il primo segno tangibile della lontana po- tenza dominatrice. Anche gli uomini osservavano passare i soldati con manifesta meraviglia, facendo commenti sottovoce; ma si vede che, anche in questi luoghi, la curiosità è di sesso femminile, perchè gli uomini non sentivano il bisogno di scomodarsi per venirci a vedere da vicino e restavano accoccolati in gruppo sotto gli alberi. La vasta e folta boscaglia, che avevamo traversato fino allora, termina a Golamò, dove cominciano le col- tivazioni della regione di Baidoa, la quale, come ho già accennato, prende il nome da una sorgente, e che è il centro più importante dei Rahanuin. Ivi giungemmo il 81 ottobre, accolti con curiosità da quei robusti coltiva- tori, che hanno un tipo caratteristico, coi loro volti allun- gati, i tratti fortemente disegnati, le larghe bocche che sembrano sempre sorridere lasciando scoperto il bianco dei denti, e le lunghe e folte chiome lanose che incor- niciano selvaggiamente le fronti lucide. Interrompe- vano un momento i loro lavori campestri e ci osser- . — 173 — vavano immobili, in attitudini statuarie, formando dei gruppi che sembravano fusi nel bronzo. Da Golamò fino a Revai viaggiammo sempre in mezzo ai campi, interrotti soltanto da qualche macchia bo- schiva, e cosparsi di numerosi villaggi che hanno un aspetto pittoresco ed elegante, con le loro capanne rag- gruppate e con le graziose siepi di euforbie. Che differenza dall’arida piana spinosa e deserta che avevamo percorsa dopo la zona di confine! Là sem- brava che la natura avesse accumulato tutti gli osta- coli per opporsi alla permanenza ed anche all’avanzata della razza umana; qui, benigna, alla razza umana s’era piegata; e la mano dell’uomo l’aveva soggiogata, l'aveva reso docile strumento della propria vita e del proprio benessere. Là rari pozzi con acqua quasi imbevibile; qui, oltre a pozzi di buona acqua, cisterne ad ogni passo fiancheggiavano il cammino, testimoni dell’ingegnosità del popolo industre che ivi dimora. Quelle cisterne erano costruite nel punto più basso d’ogni coltivazione, dove l’acqua si sarebbe naturalmente raccolta; in quel punto era stato formato un grande terrapieno, nell’interno del quale con sapiente e regolare escavazione era stato approfondito un serbatoio, lasciando libera naturalmente la parte dalla quale l’acqua doveva poi defluire. Così, nel periodo delle pioggie, il bacino artificiale si riempie e nel periodo di siccità i gruppi d’euforbie e di altri folti alberelli, piantati sull’orlo del serbatoio, impedi- scono una troppo rapida evaporazione. In tal modo gli abitanti hanno acqua in quantità anche durante la sta- gione asciutta. i Ogni villaggio ha molta di queste cisterne, ma varie se ne trovano, qua e là, anche lungi dall’abitato; esse sono rese possibili dalla impermeabilità di questa terra — 174 — nera chiamata hermadò, (diversa dal comune terriccio rosso nomato serman) la quale favorisce il deflusso delle acque e la conservazione di esse per mancanza di pro- prietà assorbenti. Però questa terra nera, durante le pioggie, è faticosa a lavorarsi, e rende difficile il tran- sito ad una numerosa carovana, divenendo acquitrinosa, molliecia, sdrucciolevole. Piantai le tende ad Amalcà, ove risiede il capo degli Elai, Scech Mohamed Haron, un robusto tipo d’indi- geno, con una criniera folta sulla fronte rotonda e con le guance fortemente solcate. Portava anelli alle dita, e, se pur goffamente ammantato nella sua veste bianca, aveva un’aria di fierezza e d’autorità ed insieme di se- rietà, che ispirava fiducia. Si mise a mia completa di- sposizione e mi usò molte cortesie; di più mi dette informazioni precise sugli usi, costumi e natura dei Rahanuin, che, riunite a tutte le altre da me personal- mente fatte, esporrò ai lettori, perchè son convinto che bisogna interessarsi di questa popolazione agricola. * * * Il nome Rahanvin è composto da due parole: Raha che significa « macina » e nuin che vuol dire « grande » ; la denominazione di queste genti sarebbe dunque ve- nuta dalle dimensioni dei primitivi istrumenti usati da essi per macinare la dura; dimensioni assai maggiori di quelle delle macine adoperate dalle tribù somale. Dal tipo di queste tribù differisce, in generale, non poco, quello dei Rahanuin, più tozzo, più basso, col cranio legger- mente sfuggente e assai convesso alla sommità, vicino, sotto vari aspetti, a quello negroide; mentre invece i veri somali, se si fa astrazione dal colore, hanno un tipo perfettamente ariano, come lo mostrano ad evidenza — 175 — la forma del eranio ed il profilo regolare. Però il tipo Rahanuin manca di caratteri ben definiti, e di stabilità, somatiche; il che fa supporre che queste tribù, invece di aver nelle vene il sangue puro. d’una razza origi- naria, com’esse vorrebbero, non siano che il prodotto di svariati incroci di stipiti diversi in epoche diverse; o, quanto meno, che il primitivo stipite sia stato corrotto da connubi con stipiti estranei, che ne hanno modificato totalmente i caratteri primitivi. Molto probabilmente l’innesto è stato prodotto dagli schiavi che, scendendo dall’ interno verso la costa, erano rattenuti per le coltiva- zioni e finivano poi per infiltrarsi e fondersi con la razza già stabilita nel paese; come uccelli migratori che, penetrati a caso in una gabbia e trattenuti dalle sbarre, finiscono per far razza con gli inquilini che vi hanno trovato. I Rahanuin pretendono di esser somali e, come gli altri somali, si vantano di discendere dagli arabi dello Jemen; narrano che i loro antenati provenivano da una località detta Seba, dalla quale sarebbero emigrati nel continente africano, seguendo una via che passa da Zeila, dall’Harrar, e poi lungo l’Uebi Scebeli, fino alla regione nella quale oggi risiedono. Ma tutto ciò è probabilmente leggenda, ed in realtà i Rahanuin somali non sono; nemmeno la loro lingua è simile al somalo o all’arabo, sebbene con- tenga vari vocaboli che appartengono alle due lingue: e precisamente alla somala quelli che si riferiscono alla pastorizia, ed all’araba quelli attinenti alla religione. E ciò si spiega facilmente, poichè, nei commerci con le primitive tribù somale, i Rahanuin han dovuto lasciarsi imporre i vocaboli che queste tribù dedite alla pasto- rizia più specialmente usavano dato il loro genere di vita e che eran necessarie per trattare gli scambi com- merciali; mentre l’islamismo del quale i Rahanuin son — 176 — fedeli seguaci, ha portato con sè dalla costa asiatica all’africana le parole relative alla religione. Infatti i Rahanuin non scrivono la loro lingua, ma imparano a leggere e a serivere sul Corano, che viene insegnato da maestri stabiliti in vari centri. * * * Una parentesi. Le aule di queste scuole non hanno a che fare con quelle delle nostre città, e, nel paese di Bai- doa,inostri pedagogisti e i nostri igienisti non potrebbero lamentare le lunghe ore passate dai giovani allievi stipati in stanze chiuse, prive di luce, e non dovrebbero temere gli effetti dell’aria corrotta sui teneri polmoni, perchè queste aule non sono che misere capanne di sterpi, molto più bucherellate delle altre, dove il sole e la pioggia non trovano alcuna difficoltà ad entrare... Ma, come se non bastasse, l’insegnamento viene impartito sul piazzale, che si stende dinanzi alla capanna; e quest’ultima non serve che a riparare le lunghe tavolette su cui è scritto il Corano... Quindi i moderni apostoli della « scuola all’aria aperta » non sarebbero obbligati a sciupare troppo fiato se venissero a fare propaganda delle loro idee nel paese di Baidoa! * * * Sebbene il tipo dei Rahanuin, come ho detto, abbia su- bito certo nel medesimo tempo importanti modificazioni, e non abbia parentela con quello somalo, pure ritengo che, come i somali, anche i Rahanuin possano conside- rarsi discendenti della razza semitica; lontanissimi di- scendenti,i quali però han conservato degli antenati il caratteristico fanatismo religioso, e le tradizioni di go- verno democratico. Infatti le forme di ‘reggimento dei (EST "6bDT) *< ***VINULIV VIAO NODO OTCNVdIdvVZz “°° » «I VILLAGGI... DEI RAHANUIN SI RASSOMIGLIANO TUTTI... . (Pag. 187) « «+... LE CAPANNE SOLIDAMENTE COSTRULTE... ». (Pag. 187) Rahanuin sono perfettamente opposte a quelle degli etiopici; fra questi il potere è riassunto da un capo mi- litare supremo, verso il quale tutti i poteri convergono, mentre fra i Rahanuin è sminuzzato nelle mani dei no- tabili e tende a decentralizzarsi, a divergere, con un ca- rattere complessivo, che si avvicina a quello delle nostre forme repubblicane. * * * I Rahanuin si dividono in due grandi famiglie, che hanno due nomi numerali Sied che significa « otto », e Sagal che significa «nove ». I Sied a loro volta si suddi- vidono in quindici famiglie che sono così raggruppate: (PWDESSÙ.: abitano a Godle e Galmedoule. BocoL-HOorÀ . Comali.. ..,. » a Cal e Corar. Emi... » a Dererhassan. Talallè". . -. » con i Comal a Cal e Corar. Massani. 0... » a Golol tra Adama e Mulimad. Uangel.... » a Jà. Garrauale . . » a Oghir fino a confinare coi Luhai. Bocor-pì . . .) Mohallinuena —» a Echial. Garron .... . . » a Bana. Rer Dumal. . » a Gudalè. [laraww to frammisti ad altre famiglie. \ Asciraf.... >» frammisti ad altre famiglie. BocoL DAMBÀ - Harien. ... » in Baidoa e Mulimad. MIR » in Baidoa ed Haccaba. BIGELA ... Ù EUadè .... » presso il M. Deghis vicino ad Hac- caba. I Sagal si dividono in undici famiglie, e cioè: Gasar-Guddà, abitano, in massima parte, insieme ai loro liberti, i Gubahin, a Lugh e dintorni: pochi se ne trovano a Gheledi. — I Gasar-Guddà costituiscono la famiglia più eletta dei Rahanuin. | Adama . abitano ad est e ad ovest del territorio fra i -/ pozzi di Jet-Siggià-Jabel. | Luhai. . » ad est degli Adama fino ad Ebesale. | Gilible. » ad est e sud dei Luhai. BRUSILE. . . PA Lo ‘| Ghelidle » a nord di Gleledi, non sul fiume. COS O aa » a Ofla e dintorni. TTI Pd NARO RIARONO RR » a Dà. 105 LI IAS RARI Sr » ad est di Haccaba a Bur Eilè. DLC ARA REN ATO » il Dafet ad est di Haccaba. i RO RR ARP R » sullo Scebeli a Gheledi. CIT TIRO SOS ARR E? STATE » a Brava. Secondo la tradizione, i Sagal dovrebbero abitare in un territorio che circonda quello dei Sied; e, se non è precisamente così, è pur vero che le famiglie dei Sagal risiedono in paesi che stanno disposti intorno al terri- torio dei Sied. La tradizione vuole che il capostipite dei Rahanuin sia stato Mohamed bin Dighil bin Sema; e che egli avesse quattro discendenti: Mereffè Targhenè che avrebbe dato origine ai Sied; Elmi avrebbe dato origine ai Sagal; Gembelul che avrebbe avuto pochi discendenti, alcune famiglie dei quali si troverebbero oggi fra i Gheledi e i Dafet; e Bagoda che non fu più prolifico del prece- dente fratello, ed i cui lontani nipoti abiterebbero ad Audegle, sulle rive del fiume Uebi Scebeli. I Rahanuin occupano tutto il vasto rettangolo, for- mato, a grandi linee, dall’ immensa pianura, che ha per lati ad oriente ed occidente i due grandi corsi d’acqua Ganana e Uebi Scebeli, a settentrione e a mezzogiorno la frontiera e lo stesso fiume Scebeli. Occupano quindi la massima parte del territorio della Somalia Italiana, che si suol chiamare anche semplicemente Benadir. Per vastità di paese occupata, e pel loro numero assai supe- riore a quello delle altre tribù, devono esser considerati come la. popolazione più importante che risieda entro i nostri confini. A quanto mi; risulta, di buon animo hanno desiderato entro quei confini rimanere, e provano simpatia e devozione pel nostro dominio. | Credo che usando tatto, bontà e fermezza squisita- mente riuniti, con una certa facilità giungeremo ad assog- gettare completamente i Rahanuin; poichè questi sono « « «a UN VILLAGGIO RAHANUIN PRODUCE SUBITO UN’ IMPRESSIONE FAVOREVOLE ... >. (Pag. 187) «4 +00 SCIMMIOTTI, SENZA SAPERLO, QUALCHE ANTICA STATUA DI VESTALE... ». (Pag. 188) INOLTRE ACCUDIRE DEVONO HI LABORIOSI MOLTO LE DONNE... Coe ». 7 Du DOMESTICHE FACCENDE DI ALLE (Pag. 188) ADAMA. LI G DE « CADI » D IL n I MOHAMED HARON SCECH relativamente compatti, come tutti i popoli laboriosi. Infatti piuttostochè colla vita nomade, colle ladronerie, colla razzia, come iloro cireonvicini, i Rahanuin si procu- rano il necessario col lavoro delle loro mani e con l’ap- plicazione della loro discreta intelligenza. Essenzialmente agricoltori, e quindi attaccati per bisogno e per amore- vole abitudine atavica alla terra che coltivano, hanno co- struito su questa numerosi e popolosi villaggi, che hanno carattere stabile, aspetto di tranquillo e fervido lavoro, e che spesseggiano principalmente nella regione di Bai- doa, la quale è, in realtà, molto più estesa di quel che sembrò dopo le esplorazioni iniziali della seconda spe- dizione Bòttego. Per essere più esatto dirò che le coltivazioni dei Rahanuin che cominciano a Baidoa seguitano quasi ininterrottamente fino alle rive dell’ Uebi Scebeli; in questa vasta regione agraria si trovano qua e là campi invasi dallo sterpeto, abbandonati per mancanza di braccia, ma che potrebbero con molta facilità esser ri- messi in valore. Ne vidi in vicinanza di Jet e durante il percorso Curallé-Siggià. Mi è stato detto che in ogni luogo dove si trovano Rahanuin esistono coltivazioni. Ma questi laboriosi in- digeni non si contentano dei soli prodotti della terra; esercitano contemporaneamente la pastorizia, allevando greggi e mandrie nei dintorni delle coltivazioni, e riu- nendo così i due più antichi mestieri della terra. La musigghé, come la chiamano i Rahanuin e i So- mali, la tam o la dura come la chiamano gli Arabi, è quasi l’unica pianta che questo popolo coltivi: e in par- — 180 — ticolare la qualità rossa, perchè quella bianca, pur essendo migliore, non dà spesso un buon raccolto. Di questa dura rossa gli Adama, i Luhai, i Ghelidle coltivano una va- rietà che ha i semi grossi, mentre gli abitanti di Baidoa e di Haccaba ne coltivano una che ha i semi piccoli. La terra nera, impermeabile, che conserva l'umidità e richiede quindi poca irrigazione, è eccellente per col- tivarvi la dura, mentre la terra rossa che assorbe l’acqua e la lascia passare negli strati inferiori, come un crivello, avrebbe bisogno di grande irrigazione che ne impove- risce le parti sostanziali, e di più mette in pericolo l’in- tero raccolto quando una siccità prolungata prosciuga tutti gli strati superiori. Il sottosuolo di questa regione, a mio giudizio, deve essere formato in parte da roccie basaltiche, e nel resto da calcari, fra cui predomina il carbonato di calce, che, affiorando in alcuni luoghi, mostra allo sguardo gli enormi lastroni dei suoi strati orizzontali. Questa immensa superficie, che è oggi interamente coltivata, è stata tutta con lungo e paziente lavoro disso- data dai Rahanuin e da altre tribù; perchè certamente in questi luoghi doveva esistere una interminabile fo- resta, che, bagnando le radici delle sue prime piante nel Ganale stendeva l’intrico verde dei suoi rami, ininter- rottamente, su tutta la regione, fino ad ombreggiare col fogliame dei suoi ultimi alberi il corso dell’Uebi Scebeli. Questo immenso manto di pelliccia verde, lungo due o trecento chilometri, si è trasformato lentamente in un uguale tappeto di velluto verde, di folto velluto cupo composto dai fiorenti campi di dura. E ciò per opera dei Rahanuin, e forse anche per opera delle tribù, oggi scomparse, che li precedettero in questi luoghi e che si chiamavano Megiani (Madenle e Materè). Di esse, da per — 181 — tutto, s'incontrano le tombe che, com’ebbi già a dire, son formate da alti mucchi piramidali di pietre sboz- zate. Gli indigeni odierni che professano 1’ Islamismo indicano quegli antichissimi e primitivi monumenti se- polerali con la parola Awualtire che significa: « tombe di pagani »; ciò che dimostra come essi rimontino ad un’epoca in cui l Islamismo ancor non esisteva, o almeno in cui non s'era ancora diffuso fino a queste terre. Il lavoro di messa in valore del terreno è alacre: ancor oggi, con lenta avanzata, il campo coltivato con- tinua ad allargarsi e ad invadere il bosco. Varie fami- glie di indigeni si riuniscono, abbattono gli alberi nello spazio fissato, estirpano piante ed erbe, e poi ardono tuttociò sul luogo stesso; quindi si stabiliscono appez- zamenti che vengono assegnati ad ogni famiglia, e sui confini di essi si piantano siepi di aloe. Queste primi- tive funzioni hanno qualche cosa di solenne, che fa pen- sare ai tempi primordiali dell’umanità, alla prima vit- toria dell’uomo sulla natura, alla conquista della terra, alla prima, alla più grande scoperta fatta dall’umanità, che imparò a volgere a proprio profitto la misteriosa fecondità del suolo. Quando vedevo le grandi distese di alberi e di piante abbattute fiammeggiare, incenerirsi, poi fumigare lun- gamente sotto il cielo aperto, mi pareva che un rito sacro si compiesse, eimmaginavo, in mezzo al vasto campo di ceneri, un’ara marmorea, e un sacerdote che gettasse sul fuoco le interiora di qualche agnello compiendo il sacrifizio per propiziare gli Dei verso l’opera dell’uomo. E quando seorgevo ricingere i campi dissodati con lunghe — 182 — siepi di aloe, mi pareva quasi strano che agli angoli della siepe non biancheggiasse l’erma del Dio Termine. Quando il terreno è dissodato, gli agricoltori indi- geni vi seavano delle buche, distanti cirea un braccio l’una dall’altra, ed in fondo ad ognuna seminano sei 0 sette chicchi di dura. Una quindicina di giorni dopo che la pianticella è sorta dal suolo ed ha raggiunto l’al- tezza d’un palmo, il coltivatore, con una piccola zappa, scerba e smuove il terreno intorno alle buche e sbar- bica in ognuna di esse gli steli meno vigorosi lasciando vivere soltanto i tre o quattro migliori esemplari. Com- piuta questa bisogna, l’agricoltore incrocia le braccia e attende con tranquillo fatalismo; nessun altro lavoro viene eseguito, e da allora in poi le probabilità del raccolto vengono abbandonate nelle benefiche mani del- l’onnipotente Allah! La seminagione viene fatta qualche giorno prima che cominci il periodo delle pioggie, il quale coincide col cambiare dei due monsoni di N. E. e di S. O.: e cioè alla fine di marzo e alla fine d’ottobre. Quindi si hanno due seminagioni e due raccolti, nello stesso campo, in un anno. Ma, com’è naturale, questo intenso sfrut- tamento produttivo impoverisce e stanca la terra. I Rahanuin ne hanno fatto l’osservazione e, senza cat- tedre ambulanti d’agricoltura, han trovato da loro stessi il rimedio. Infatti, quando si accorgono che un campo comincia a non render più quanto dovrebbe, lo lascian riposare per tre anni; il bosco, pronto ed avido, riaf- ferra subito la preda che gli era stata strappata, e ri- copre il campo provvisoriamente abbandonato; ma, con (88 ‘8DI) (EST 60) *«***0T0DOII MINUNIINISOUTANI "«"**OLVIZVUO)S 00 OZZOL 0dHOO) NO ONNVII » OMMOLI NN VA VIVIHOJ VLIUIIVZ VNOA U *"° » « +... CERTI VOLTI TANTO POCO FEMMINILI...) (Pag. 188) LA SORGENTE DI BAIDOA. — 183 — la sua presa di possesso, il bosco compie una buona azione; perchè, quando, in capo ai tre anni, il Raha- nuin, con l’ascia e col fuoco, lo scaccia nuovamente, il terriccio vegetale ha riguadagnato tutta la sua primiera fertilità. È una specie di rotazione agraria, come si vede, che dimostra come il Rahanuin non sia privo di intelligenza nè di spirito d’osservazione, sebbene tal- volta non si capiscano certe sue regole agrarie; per esempio quella di non usare i concimi, di cui egli co- nosce perfettamente i benefici effetti. Gli uomini e le donne insieme lavorano nei campi; sì vedono, curvi, procedere zappando con cura attenta, ma non smuovono il terreno che per una profondità di dieci centimetri appena, per causa dell’arnese troppo primitivo da essi adoperato. È una zappetta formata da un ferro inverosimilmente piccolo, che è schiacciato e tagliente da una parte ed ha, dall’altra, una punta che viene inserita nel manico; ma, nell’ insieme, sembra piuttosto un trastullo da ragazzi, adatto a costruir ca- naletti nella sabbia della spiaggia, che un utensile de- stinato alla lavorazione dei campi. Soltanto per disso- dare il terreno dopo il disboscamento, gli agricoltori di Baidoa usano una zappa di maggiori dimensioni che intacca più profondamente la zolla. Le coltivazioni di questa regione hanno due nemici : il « Rang» e le cavallette. Il « Rang» è una specie di passero giallo che somiglia al nostro ortolano, e vive in — 184 — stormi numerosissimi che si abbattono con assordante cicaleccio sui campi, quando la mèsse è prossima alla maturazione, facendone strage; le cavallette sono molto più terribili perchè non aspettano che il chicco sia for- mato per compiere le loro devastazioni; per loro ogni momento è buono, fin da quando il primo germoglio bianchiccio, appena visibile, spunta timidamente dalla zolla. Si precipitano in dense nuvole sui campi, coprendo, con lo schifoso brulichio infinito dei loro corpi, vaste estensioni di terreno. E quando riprendono il volo e si vedono le nuvole sussurranti sollevarsi dal suolo, tutto è stato distrutto; non più uno stelo di dura, un filo d’erba, una sola foglia son rimasti. Pare impossibile che questi esseri — innocui, presi uno per uno — possano divenire un flagello più spaventevole dell’ incendio e dell’ inonda- zione, quando, riuniti a miliardi e miliardi, in nembi densi, vengono ad abbattersi su di una estensione di terreno coltivato. I Rahanuin si difendono dal « Rang » impedendogli di trattenersi nei campi; ad ogni poco si trova un uomo che fa la guardia e che, appena vede uno stormo d’uc- celli posarsi, si mette a far rumore e gesti violenti per scacciare i ladri alati. Secondo le credenze nelle tradi- zioni locali, gli agricoltori, per scongiurare durante tutto un anno i danni che gli uccelli posson produrre ai loro campi, hanno un altro mezzo che si dice effica- cissimo: quello di far dire una preghiera speciale da uno dei discendenti dello Scech Mumi... Ma, natural- mente, questa preghiera non vien detta gratis, anzi bi- sogna pagarla, e pagarla bene... E, strana combina- zione, colui che deve recitarla, colui che rappresenta in terra il benefico e venerato Scech Mumi è proprio sempre il cadì, capo del paese!... (C6r *50I) "«*** UTVINYO TITOHUA OIVO MON TCONVIVIIN HOHOS *** » 'VOCIVH IT HINHYHOS VI OSSUUMA OUNTIV.TIUA NA Pu net « +... LA VASTA PIANURA SOMALA COPERTA DI BOSCHI BASSI FINO ALL'ORIZZONTE... ». (Pag. 196) « +... SU QUEL MARE DI VEGETAZIONE, SORGEVANO QUA E IRAR COME ARIDE ISOLE LE ROCCIE GRANITICHE... >. (Pag. 196) — 185 — Abbiamo parlato dei nemici alati della dura; ma anche in terra e sottoterra ve ne sono, e non meno terribili. Da dieci anni è stata osservata una malattia che fa arrossare lo stelo, e ne fa colare una sostanza gommosa simile al miele; difatti gl’ Indigeni chiamano questa malattia malabessò, parola derivata da mal che significa appunto « miele ». Questa sarebbe la tabe dorsale della dura; ma e’ è anche la difterite, costituita da alcuni vermi che impediscono lo sviluppo della pan- nocchia, malattia che gli Indigeni chiamano duncovett, cioè « preso per il collo », « strozzato ». La povera dura soffre poi perfino di paralisi infantile alle estremità, che è la peggiore delle sue infermità, dovuta al terribile burìa, verme parassita che rode le radici quando la pianta è appena nata... Come medicine per tutti questi mali si adoprano esclusivamente le preghiere ad Allah. Le quali medicine un indigeno mi assicurava essere effica- cissime. E certo egli doveva essere convinto ancor più degli altri perchè era una specie di sacerdote, e le pre- ghiere rivolte ad Allah per commissione dei fedeli gli fruttavano da che vivere senza far fatica. Però, a malgrado di una salute così delicata, soggetta a tante malattie, con o senza l’aiuto di Allah, la dura a Baidoa arriva quasi sempre a maturazione senza gravi inconvenienti. Allora dopo 110 giorni da quello della semina, se il terreno non è stato troppo sfruttato, e dopo 120 se il terreno è stanco, la pannocchia vien ta- gliata dallo stelo e deposta in granai che sono perfet- tamente il contrario dei nostri; perchè questi sono si- tuati generalmente nella parte più alta degli edifici, 24 — 186 — mentre quelli consistono in vani scavati nel sottosuolo. Dove, invece della terra nera, si trova il terriccio rosso, le pannocchie vengon battute ed i chicchi estratti prima di porli nei granai sotterranei. La povera dura avrebbe, così riposta, il diritto di credersi finalmente in salvo; ma no, perchè anche nei granai un nemico l’attende per insidiarla; e questo è la tarma, che depone le sue uova nel raccolto, del quale poi le piccole larve si nu- triranno appena l’uovo sarà dischiuso. Oltre alla dura si coltivano, in quantità immensa- mente inferiori, i fagiuoli, le zucche e il cotone; ma non se ne fanno speciali coltivazioni; anzi i fagiuoli e le zucche vengono addirittura seminati in mezzo alla dura, mentre del cotone si trovano qua e là anche pianticelle isolate; ciò conferma quanto mi è stato assi- curato, che cioè nei tempi andati si facessero vere pian- tagioni di cotone, le quali sembra dessero buoni resul- tati. Io credo che si potrebbero tentare di risuscitare queste coltivazioni di cotone quando le comunicazioni migliorate offrissero al prodotto un facile sbocco verso il mare. In quanto alla dura i Rahanuin la esportano nel paese degli Ogaden, a Lugh, nelle città della costa, nella regione dei Boran e nei villaggi dello Scebeli; la spediscono per mezzo di carovane, racchiusa in ele- ganti sacchi di scorza d’albero ingegnosamente e fi- nemente lavorati. Un appezzamento di terreno quadrato, che abbia i lati lunghi tre tratti di freccia, e cioè, per parlare un linguaggio meno barbaresco, circa trecento braccia, può produrre, quando il raccolto è buono, 100 gisle (1) di (1) Misura di capacità: una gisla, nelle città della costa, equivale a 163 kg. Reit, y pt dura. Quando generalmente per causa della siccità, il raccolto è scarso, i coltivatori non se ne preoccupano molto, perchè, per l’eterno giuoco della « domanda e dell’offerta » il prezzo di vendita sale. Ma in media si può calcolare che una gisla si venda al prezzo di due top (1). * * * Gli usi e i costumi dei Rahanuin che menano una vita stabile (e sono la grande maggioranza) differiscono da quelli dei Somali soltanto per qualche particolare; invece le abitudini di quei Rahanuin che, per ragioni di pascolo, son costretti a condurre un’esistenza no- made, sono addirittura identiche a quelle dei Somali. I villaggi permanenti dei Rahanuin si rassomigliano tutti; sono disposti con regolarità su di un terreno bene spianato, secondo una pianta simmetrica preordi- nata (da noi si direbbe un «piano regolatore ») om- breggiati da begli alberi, circondati da siepi diritte e ben {tenute di euforbie; le capanne, solidamente co- struite, hanno le pareti cilindriche sostenute da arma- ture di rami intrecciati e sono sormontate da un tetto conico che?ricorda un ombrellino giapponese semichiuso. Vi si può notare anche, cosa rara in Africa, una rela- tiva pulizia. È strano fino a che punto l’indole di un popolo si rispecchi anche nelle sue abitazioni. Un vil- laggio Rahanuin produce subito un’impressione favo- revole che testimonia immediatamente della laboriosità e del buon carattere degli abitanti, sollevati, dall'amore per il lavoro, ad un gradino di civiltà superiore a quello delle altre tribù. (1) Il top, pezzo di tela della lunghezza di 14 braccia, ha un valore equivalente al tallero di M. T. — 188 — La capanna dei Rahanuin, pure avendo la stessa linea esteriore, è ben diversa da quella dei popoli che vivono disordinatamente di violenze e di razzie. Ci si accorge subito che essa è stata costituita da mani che conoscono gli utensili da lavoro, e che facilmente di- vengono strumenti della naturale ingegnosità umana. In quanto a vesti, gli uomini portano il top, come i Somali, specie di manto bianco che essi, inconscia- mente certo, drappeggiano un po’ alla romana, cosa che stona discretamente con quei musi neri e quei profili niente affatto classici. Le donne usano una vestaglia, abbastanza bella nella sua semplicità, che ricorda un poco il costume delle Abissine e delle Galla; e, sopra a quella veste, drappeggiano anch’esse il top come i loro consorti, con relativa imitazione classica... Guardate un po’ fino a che punto quella povera Rahanuina, che con un enorme pestello macina la dura dentro un grosso mor- taio, scimmiotti, senza saperlo, qualche antica statua di vestale, che fa bella mostra di sè nei corridoi dei nostri musei nazionali... Ma per le donne l’ inconveniente della stonatura diviene anche maggiore. Esse son ben lungi dal possedere la bellezza romana spirante un superbo fascino di forza e di dolcezza dalla linea slanciata del corpo, dalla vivacità dello sguardo ardente e delle labbra rosse squisitamente disegnate, dall’arco deciso e perfetto delle nere sopracciglia... Le Rahanuine invece hanno un corpo tozzo e sgraziato, e certi volti tanto poco fem- minili, che, quando son rugosi ed attempati, non per- mettono quasi di distinguerle dai loro confratelli del sesso forte... Come ho già detto, le donne sono molto laboriose, e faticano nei lavori campestri quasi più degli uomini; devono inoltre accudire alle faccende domestiche, fra — 189 — cui, la più noiosa, è quella d’andare a prendere l’acqua, che talvolta si trova lontana. Devono poi macinare, stacciare, cuocere la dura che forma il principale, per non dire l’unico, alimento di questo popolo. Come armi da guerra e da caccia gli uomini usano, al pari dei somali, la lancia, l’arco, il pugnale, e per la difesa, lo scudo. Quindi, anche come nemici, non sa- rebbero temibili perchè non posseggono e non sanno usare il fucile, del quale invece gli amhara sono ormai maestri. * * * La sorgente di Baidoa, che, come ho detto, dà il nome alla regione, si trova a due ore circa di distanza da Amalcà e Revai, i due villaggi che possono consi- derarsi come uno solo, perchè costituiscono il centro di tutti gli altri della regione. Quindi, allettato dalla brevità della gita, volli andare a vedere quella sorgente, una vera rarità per questo paese dove non ne esistono altre. Dopo aver attraversato le coltivazioni, discesi un pendio coperto di boschi lussureggianti e cosparso di grossi sassi, formato dalla stessa qualità di terreno che avevo trovato nei valloni di Siggià e di Jabel, ed in- terrrotto da grandi roccie bizzarre simili a quelle che si ergevano nelle suddette località. Vi si vedevano anche stranissimi alberi il cui tronco nano si biforcava subito ad altezza d'uomo in tre o quattro rami enormi grossi ed alti come grandi tronchi, che alla sommità si divi- devano ad un tratto in innumerevoli ramoscelli esili coperti di fogliame. Facevano un po’ | impressione di alberi grottescamente storpiati da un caricaturista, fe- roce o riflessi in uno specchio deformante. — 190 — Intanto gli strati declinavano sempre più fino a rag- giungere dolcemente il fondo dell’esteso avvallamento le di cui testate dall’una e dall’altra parte si innalzano quasi allo stesso livello, e che deve esser stato prodotto da una frattura geologica. In mezzo all’ impluvio, al di sotto di un medesimo strato, sgorgano numerose e rieche polle d’acqua, vivaci, ridenti, chioccolanti, limpide, cantando le loro canzoni monotone e dolci; sembra ‘che ciascuna di esse abbia la sua voce diversa dalle altre, e tutte quelle voci riu- nite formano un coro verginale, armonioso, sussurrante, che mette nell’anima un delicato senso di fresca poesia. Questa è la famosa sorgente, benefica come una deità tutelare per i popoli dei dintorni, chei Rahanuin chia- mano Baidoa e gli abissini « Maidaba » storpiando la pronunzia della parola indigena a cui fanno precedere il prefisso « mai » che, in ambharico, vale « acqua ». Le buone vergini sorelle cantatrici, si riuniscono presto in un solo limpido ruscello, e poi, dopo essere discese, per un centinaio di metri, attraverso ad una piana seminata di grandi lastroni di pietra, trabalzano giù, dividendosi novamente in cascatelle, con allegri scoppî di [risa argentine, dai massi di tufo che esse hanno lentamente eroso con un lungo e paziente lavoro millenario ... Poi di nuovo, dopo quella scappatella gio- vanile, si riuniscono in un solo alveo e ridiventano serie e composte e scorrono, sotto forma di ruscello, fino ad Haccaba, come mi fu detto, dove più o meno si trova acqua durante tutto l’anno. Quindi quelle sorgenti hanno grande importanza e rappresentano la ricchezza del paese, perchè rendono possibile non solo l’allevamento di numeroso bestiame, ma la vita stessa dei Rahanuin di Baidoa, che, altrimenti, dovrebbero contare soltanto — 191 — sull’acqua piovana, la quale, oltre a non cadere con costanza matematica, imputridirebbe, certo dovendo es- sere conservata a lungo nelle cisterne. In quanto al clima si può dire, senza tema di smen- tita, che esso sia generalmente buono; ad ogni modo siamo lontani dalle esagerazioni di coloro che s° immagi- nano questi luoghi come arsi da un calore insopportabile e asfissiante simile a quello del Sahara e di altre parti dell’Africa. Qui invece la temperatura tropicale è molto mitigata dal benefico soffio dei due monsoni, e non si fa sentire in modo notevole che nel periodo di cambia- mento dall’uno all’altro di quei due venti; ma anche allora il termometro può raggiungere soltanto dei mas- simi di 40°, per brevi giorni, e per poche ore del pome- riggio di ogni giorno; nel resto dell’anno la temperatura sì mantiene relativamente sopportabile, in ispecie du- rante la notte che è sempre mite, se non talvolta addi- rittura fresca. In complesso dirò che in questa regione non viene quasi mai fatto di invidiare la temperatura delle nostre città in certi giorni di luglio e d’agosto, quando i roventi lastricati di pietra e l'asfalto rammol- lito sembrano voler cuocere addirittura gli abitanti, e continuano a tramandare anche durante la notte un calore insopportabile togliendo il respiro al disgraziato nottambulo, che si aggira vanamente per le vie in cerca d’un soffio d’aria, e che invece prova continuamente l’incubo d’essere ravvolto nelle spire inevitabili d’un gigantesco termosifone sovrariscaldato. In Somalia le pioggie, come ho già accennato, coin- cidono esattamente col cambiar dei monsoni, e cadono — 192 — dunque in aprile e in novembre; durano pochi giorni, ma sono relativamente copiose e rinfrescano molto l’aria; poi, finchè soffia il monsone di S. O., e cioè durante i mesi di luglio, agosto, e parte del settembre, il cielo si mantiene quasi sempre coperto di nubi, specialmente la mattina, fino a mezzogiorno; e anche questo fatto, naturalmente contribuisce a rendere più mite la tem- peratura. Come bene si comprende da ciò che ho esposto, le condizioni del clima di questa regione, ben diversamente da quelle di altre parti dell’Africa, rendono possibile e quasi gradevole la vita anche all’europeo che vi si tra- sferisce. * * * In ogni villaggio di Baidoa si incontrano commer- cianti somali che vengono dalle città della costa, da Mogadiscio, da Merca, da Brava, e si riconoscono subito dagli abitanti stabili non solo per il tipo diverso, ma specialmente per un certo aspetto più civile che hanno acquistato sotto la dominazione italiana; essi si dànno delle grandi arie di superiorità come di aristocratici piombati in mezzo ad una turba di miseri idioti; si pavoneggiano con ostentazione un po’ comica nelle loro vesti candide, nei loro top eleganti, accurati, pulitissimi ; sfoggiano parasoli enormi, pistole col calcio intarsiato, e fumano molte sigarette con l’aria di dire: « guarda- teci!». Questa, naturalmente è l’attitudine che assu- mono verso gli indigeni; quando incontrano noi, invece, ci salutano cortesemente in italiano, dimostrano di es- serci devoti e affezionati, di avere compreso quali benefici si ritraggano dalla nostra dominazione. Essi importano quasi unicamente cotonate, ed esportano pelli. « ... NUDE,... CON LE_PARETI A PICCO... ». (Pag. 196) UN GUADO SUL FIUME UEBI SCEBELI. « ... IL « FIUME DEI LEOPARDI » SCORREVA MAESTOSO E SOLENNE... ». (Pag. 198) « «2 PERCHÈ L'INTERA CAROVANA GUADASSE DALL’UNA ALL'ALTRA SPONDA... >». (Peg. 198) — 193 — Dopo avere congedato il tenente Costa destinato a Lugh, ed una parte della scorta, partii da Revai il 12 no- vembre e mi diressi verso Egherta, seguendo un itine- rario parallelo a quello della seconda spedizione Bottego percorso nel 1895 e mai più eseguito da altri europei. A principio continuai a traversare le solite coltiva- zioni di dura, marciando faticosamente perchè il terreno era reso pesante dalle pioggie, che cadevano abbondanti tutti i giorni; era anche difficile trovare il luogo dove piantar le tende, perchè, con quella umidità, sarebbe stato pericoloso attendarci nei campi umidi e fangosi. Il primo giorno impiantai l’accampamento dentro una macchia folta, dove speravo d’essere un po’ al riparo dal mal tempo e dalla melma. Ma, nel pomeriggio, cominciò a piovere e a ripiovere dirottamente, in varie e ostinate riprese. Le tende grondavano, l’acqua entrava di sopra e di sotto, da tutti i lati, in forma di sgocciolature, di schizzi, di spolverii... Eravamo addirittura in mezzo ad ano stagno... Le sentinelle, coi piedi nell’acqua, sta- vano immobili, mute, impalate, là, al loro posto, e cola- vano e grondavano, impassibili, come grotteschi fantocci che qualcuno per scherzo avesse messo sotto la doccia. Nè coloro che non erano in servizio avevano troppo da rallegrarsi; per indolenza e per imprevidenza sì erano lasciati cogliere dalla pioggia senza avere scavato il fosso intorno al campo, e quindi si trovavano immersi in un vero pantano. Lo strano effetto psicologico depri- mente dell'umidità si manifestava al più alto grado; il nostro campo ordinariamente così allegro, così pieno di festosi clamori taceva in un silenzio di morte. Quegli 25 — 194 — uomini audaci, che avrebbero affrontato qualunque pe- ricolo col riso sulle labbra, tacevano adesso soggiogati da un indicibile sconforto; nessun fuoco scoppiettava, nessun suono, nessun canto si elevava, nessuna frase scherzosa, nessuno scoppio di risa attraversavano l’aria. Soltanto si udiva l'infinito monotono continuo fruscìo delle goccie innumerevoli sulle foglie innumerevoli, ed il tamburellìo più sordo dello scroscio sulla tela tesa delle tende... Scese la notte, e l’oscurità, e il silenzio, e il fradicio gelido che penetrava fino alle ossa resero ancor più grave la tristezza diffusa... Ma quella tristezza era in noi, Italiani soltanto super- ficiale; perchè ciascuno di noi, con intimo sussulto di gioia, sentiva che il mare era ormai ‘vicino, e che si andava verso la cara patria festante e orgogliosa per la sua nuova guerra intessuta di vittorie... E nella fan- tasticheria dell’insonnia, vedevamo attraverso agli umidi veli di tenebra {apparire e sparire i profili del Campi- doglio, del Palazzo Ducale e di Santa Maria del Fiore ed altri, ed altri... irraggiando intorno una luce mera- vigliosa che fugava l’ombra, un tepore di tenerezza che ci faceva dimenticare le stille gelide continue cadenti sul volto, e la pesantezza della nostra coperta intrisa d’acqua e di fango... Pal Il giorno seguente, presso i; pozzi di Helo, dovemmo subire un nuovo acquazzone; dintorno a noi non vede- vamo più campi coltivati e terra nera, ma terra roggia e boscaglia folta. E quella boscaglia, diceva la guida, si stendeva ininterrotta fino al mare... « Fino al mare... ». Chi di voi può comprendere la magia che racchiude- vano per noi quelle semplici parole così comuni? — 195 — Nelle boscaglie che attraversavamo il bestiame ab- bondava, e spesseggiavano i villaggi dei nomadi, ap- partenenti alla famiglia dei Lissan. Quegli indigeni ve- devano, per la prima volta, uomini dal volto bianco, e pure, non so per qual ragione, ostentavano una grande indifferenza, fingevano di non vederci passare, nascon- devano con cura la loro meraviglia e la loro curiosità; ma noi sentivamo fra il fogliame delle macchie, fra gli interstizii delle zeribe, fra le fessure delle capanne, fil- trare mille sguardi avidi e stupiti che ci osservavano, ci esaminavano, ci spiavano; ed io son sicuro che, fra dieci o venti anni, molti, in quei paesi sapranno ancor dire di quanti cammelli e di quanti uomini la mia ca- rovana era composta, e qual’era il colore dei nostri ve- stiti, e il genere delle nostre armi. A Sui-Menasse lo scech Mahamud Nur, capo degli Ormalè (Hauia) venne a trovarmi per rendermi omaggio a nome della sua tribù. Era un vecchio alto dall’aspetto fiero che ricordava qualche pittura di apostolo e di pro- feta; ma se fiero era l’aspetto, non altrettanto lo era il carattere, perchè infatti Mahamud Nur pretendeva da me ad ogni costo un dono; ma io mi guardai bene dal farglielo perchè egli, contrariamente all’uso, era venuto a mani vuote. Egli insisteva dicendo che era abituato a ricever doni dal sercal (governo); ed io lo richiesi di dirmi quel che avesse fatto a nostro profitto per meri- tarsi dei regali. Allora, confuso, senza rispondere, se ne andò, con la sua aria da Evangelista che avesse perso il libro sacro: solennemente, così com’era venuto. — 196 — Intorno a noi si stendeva con la sua tremenda mo- notonia la vasta pianura somala coperta di boschi bassi fino all’orizzonte che terminava in linea retta come quello del mare. E su quel mare sterminato di vegeta- zione, sorgevano qua e là, come aride isole le roccie granitiche nude, a forma di cono o con le pareti a picco, che davano l’illusione di un arcipelago. Salendo sull’una di esse ed osservando la infinita distesa verde che lontanava in azzurri oltremarini, pa- reva che, ad un tratto quella superficie si dovesse muo- vere, increspare, sollevare in onde e che flutti furiosi dovessero battere spumeggiando il piede delle roccie... Ma il miracolo non accadeva, ed allora si pensava al miracolo contrario; si pensava che quella grande super- ficie fosse quella d’un mare fantastico che un incanta- mento avesse coagulato e condannato ad una eterna immobilità; e che il gruppo montuoso dell’Egherta che si delineava appena trasparente sul cielo, fosse la mi- steriosa residenza del mago che aveva compiuto lo strano incanto... Un altro tremendo acquazzone ci sorprese poco prima di Dombò mentre attendevamo che la carovana ripren- desse il retto sentiero dal quale aveva deviato. Ma, più tardi, dopo alcune marce ce ne consolammo giungendo sulle rive di un affluente del Matagoi, il torrente Uareg, che ci offrì uno dei più belli spettacoli naturali che avessimo ancor visti. Esso scorreva biondo e impetuoso fra roccie muscose disegnate con arditi profili, e fra piante magnifiche folte di un verde intensissimo che straripavano coi loro fogliami esuberanti giù dalle rive Cage inchinando sull’acqua le fronde tremule. Tutto era così artisticamente disposto, che non pareva possibile fosse opera del caso; sembrava invece di traversare un ma- gnifico parco, dove il gusto d’un maestro della pittura avesse armonizzato le linee e i colori e avesse disposto fin l’ultimo particolare, fin l’ultima frangia di musco vellutato, fin l’ultima trina di capelvenere che tremo- lava giù dalla cavità della roccia macchiata di vivi gial- lori! E dopo pochi giorni, terminato il periodo delle pioggie, tutto quell’incanto doveva sparire, lasciando un alveo secco scosceso serepolato, ed un intreccio di rami spogli, riarsi, scheletriti. Qua la Natura fa tutto il possibile per essere il simbolo fedele delle illusioni umane! Ad Egherta giungemmo il 19 e permanemmo fino a tutto il 20 con la simpatica compagnia del tenente Sper- nazzati che colà risiedeva. Dall’Egherta all’ Uebi Scebeli impiegammo cinque lunghe tappe traversando una vasta pianura che abi- tualmente è piena d’acqua e poco frequentata anche dai nomadi, ma che in quella stagione era invece tutta verdeggiante, ricca di bestiame e cosparsa di numerosi villaggi come Saha Scidle, El-Gheri, Gofra-Ammà, Gu- fiale e Cubi-Coude. Vi dovevano vivere anche mandrie di elefanti selvaggi perchè ne vedemmo spesso le fresche orme sul terreno. Finalmente giungemmo al tanto sospirato Uebi Sce- beli che ci rallegrò e ci dette la consolazione di fornirci acqua buonissima e ci fece riprovare quella speciale impressione di gioia e di tranquillità che produce in Africa l’incontro d’un corso perenne d’acqua... — 198 — Il « fiume dei leopardi» scorreva maestoso e solenne, fra le rive basse ed estese, coperte di praterie liscie e di boschi fiorenti, ed io mi trattenni ad ammirarlo du- rante le lunghe sette ore che furon necessarie perchè l’intera carovana guadasse dall’una all’altra sponda; quando l’ultimo cammello giunse in secco, ci rimet- temmo in marcia e andammo ad attendarci ad una certa distanza dal fiume per non esser molestati dalle zanzare. L’indomani, da una breve altura, appare dinanzi ai miei occhi l’azzurra distesa dell’Oceano! Non so dire con quale commozione di gioia posassi gli sguardi sulla liquida via che doveva ricondurmi in patria, ed insieme con quanto dispiacere sentissi giunto il momento di ab- bandonare quel vasto suolo che era pure italiano e che avevo traversato con tanta fatica, e studiato con tanto amore; sentii in quel momento che lo amavo di pro- fondo amore quel suolo troppo ignorato e trascurato dai miei compatrioti, e che invece sarebbe degno del loro massimo interesse; avrei voluto che tutti i cuori italiani avessero battuto in quel momento insieme al mio cuore, e che le energie italiane si fossero rivolte verso quella terra, che, oso assicurarlo, ci arrecherebbe benefizii maggiori di qualunque altra parte da noi dominata. Il vasto territorio dei Rahanuin in ispecie, che è quasi tutto atto alla coltivazione, potrebbe, con- venientemente sfruttato, conferire enorme importanza alla Somalia Italiana. Sono convinto che, dove oggi cresce soltanto la dura, si potrebbero coltivare altre piante tropicali ben altrimenti rimunerative, come per esempio il cotone ed il caucciù; nè in quella regione si avrebbe deficienza di mano d’opera, come accade alla costa, perchè i Rahanuin sono abituati fin dall’infanzia alle opere campestri, ed hanno indole buona e laboriosa. SE Il suolo fecondo e l’uomo che lo lavora sono i due fattori che, senza alcun dubbio, posson produrre la ric- chezza; in quella regione dunque nulla manca per pro- muovere un certo e rapido sviluppo agricolo e com- merciale. Il serio programma coloniale che si è iniziato in Somalia con lo sfruttamento delle terre con la costru- zione delle necessarie opere pubbliche, e soprattutto istituendo comunicazioni dirette colla madre patria con- seguirà lo scopo di mettere al più presto in valore quel che la Natura così spontaneamente e generosamente ci offre. Date le sue favorevolissime condizioni naturali, la Somalia è destinata a divenire, secondo il mio modesto giudizio, la nostra più ricca e fiorente colonia. Siamo na- turalmente portati a dare tutta la nostra attenzione alle terre che abbiamo maggiormente intrise col nostro sangue e che ci sono costate i più grandi sacrifizii di denaro; ma non si dovrebbero invece dimenticare quelle che, pur essendoci costate piccoli ma dolorosi sacrifizii di uomini e di oro, danno il maggior affidamento di poter produrre buoni frutti. Ogni terra da noi conquistata, col ferro o con un semplice contratto, deve essere da noi sfruttata se vo- gliamo essere i veri seguaci dello spirito coloniale ro- mano, e la maggiore importanza dev'essere data a quel dominio che può con la sua produttività accrescere la grandezza della Madre patria; e tanto meglio per noi se per averlo sotto la nostra bandiera, pochi o nessuno dei nostri figli ha lasciato le sue ossa alla base delle pietre miliari della nostra avanzata. Non intendo davvero dare con queste parole una comoda arma in mano dei pacifisti; e sia benedetta la guerra che ci ha dato la Libia, anche se ci fosse co- stata dieci volte di più, e se dieci volte più grande cu Bhe fosse stato il numero dei nostri eroi abbattuti dal piombo turco-arabo; ma intendo di dire che quando ormai la nostra bandiera sventola su di una terra, le considera- zioni di ordine sentimentale devon lasciare il posto a quelle di ordine positivo, e dev’esser dimenticato se il dominio fu ottenuto con guerre sanguinose o con pa- cifica penetrazione. Quel che dopo vale soltanto, è la maggiore o minore possibilità che può avere una terra di darci vantaggi, di aumentare in qualunque modo la grandezza e la potenza della nostra Italia. Dinanzi a me, sulla riva dell'Oceano, Brava apparve. La rivedevo dopo quindici anni di assenza. Adesso, giungendo dall’interno, mi fermai per salutarla su quelle stesse dune dalle quali l’avevo salutata quindici anni prima, lasciandola per avvicinarmi verso l'ignoto... Quante cose sono accadute da allora!... L’Italia ha piantato il tricolore su queste terre, e su altre ancora, per portarlo sempre più avanti, sim- bolo di luminosa civiltà e di grandezza romana; sempre più avanti... sempre più avanti... Fin dove? « «++ SULLA RIVA DELL'OCEANO, BRAVA APPARVE... >. (Pag. 200) rat 0. fd è id: we IR fia “ è de pì È UNA VIA DI BRAVA. , allea a ga - “ ù t « Pa RES a) 4 NI AE Ta ue” mi » VI ti a ur: APPENDICI Ù DUI i) E VINU IAA ; LA PAN Ag LV INCLIT, Lpd LI ì APPENDICE I. Lavori astronomico-geodetici e topografici compiuti dalla missione per la delimitazione della fron- tiera italo-etiopica. Il còmpito assegnato ai topografi Grupelli e Venturi che seguirono il capitano Citerni in Somalia, per coadiuvarlo a stabilire in modo definitivo la frontiera dei nostri possedi- menti equatoriali con l'impero abissino, doveva essere as- solto naturalmente con opportuni rilevamenti topografici ap- poggiati a posizioni astronomiche, le quali dovevano essere definite mediante metodi speditivi, ormai adottati in tutti i viaggi di esplorazione, quando cioè occorre avere la carta di una regione nella quale difettano o mancano affatto mezzi adeguati a potere eseguire determinazioni di coordinate geo- grafiche suscettibili di una grande precisione. Prescindendo dal caso che riguarda la valutazione della latitudine e dell’azimut, occorre subito dichiarare che non era possibile determinare la longitudine con una estrema precisione, perchè nella regione attraversata manca la tele- grafia elettrica, nè d’altra parte si avevano mezzi adatti a raccogliere le onde herziane che ogni notte la stazione della Torre Eiffel lancia nello spazio per dar modo di regolare i cronometri delle navi in viaggio o di altri osservatorî radio- telegrafici rispetto al meridiano dell’ Osservatorio di Parigi. Per la determinazione della longitudine fu perciò adottato il metodo cronometrico, il quale, se non è il migliore per la precisione che da esso può scaturire, è senza dubbio il più semplice ed il più conveniente quando, come nel caso nostro, — 204 — si tratta di dovere effettuare rapidi e frequenti passaggi da una località ad un’altra. Il metodo che alla stessa determinazione può assegnare un’adeguata precisione è quello delle culminazioni lunari quantunque, in tal caso, bisogna anche riflettere che l’errore accidentale inerente all’ascensione retta della luna resti in- grandito ben 28 volte. In ogni caso, come già è stato accen- nato, anche per tale obbiettivo mancavano ai due operatori i mezzi strumentali più logici ed insieme la opportuna com- pilazione di buoni cataloghi stellari prestabilita con i criteri di severa critica che richiede il metodo accennato. Gli operatori infatti non disponevano che di un teodolite di piccolo modello e di due orologi Longines tascabili, uno dei quali regolato a tempo siderale e l’altro a tempo medio: il puro necessario cioè a fissare in modo non assoluto, ma approssimativo, e sufficiente per una carta parziale, la posi- zione di alcuni punti del suolo geografico percorso, prescin- dendo naturalmente dalle ineguaglianze che probabilmente esistono rispetto alla superficie geometricamente definita dell’ellissoide terrestre. Giova ora soggiungere che la lettura dei due cerchi del teodolite usato è ottenuta con due microscopi mierometrici, i quali consentono ciascuno l’approssimazione di 20” e che l'andamento medio diurno degli orologi all’epoca della par- tenza da Firenze era: per quello regolato a tempo siderale di + 15°,64 e per quello a tempo medio di — 45,77. Per la critica dei risultati parziali bisogna poi tener pre- sente che ad ogni angolo semplice può competere teorica- ABANO mente l'errore medio di n + 14”,2, e che assumendo que- sta grandezza come errore medio unitario, cioè dell’unità di peso, è lecito prevedere, relativamente ad ogni angolo misu- rato n volte in posizioni opposte del circolo verticale, l’er- LÀ D rore medio di © Va * Se si assume, per esempio, n= 16, l’er- n rore medio complessivo sarà di + 3”,55. ao Tutto ciò vale a giustificare sommariamente le discor- danze che manifestano i valori delle latitudini e degli azimut determinati col menzionato teodolite; discordanze le quali non possono essere considerate eccessive perchè, come è fa- cile comprendere, in esse concorrono errori di altra natura ed ordine, sistematici ed accidentali, dipendenti dalla divi- sione dei cerchi, dal moto della bolla nella canna delle livellle, dal puntamento dell’astro, dagli errori residui di rettifica — errore di verticalità specialmente — e da tutte le inegua- glianze che hanno la loro causa nell’aria atmosferica. Le osservazioni vennero infatti eseguite per ciascuna sta- zione in breve tempo poichè, come già è stato detto, era ne- cessario passare rapidamente da un luogo ad un altro e venne così a mancare la possibilità di usufruire con sovrabbon- danza del metodo di reiterazione ; e la correzione della livella occorrente alla misura della distanza zenitale era definita in modo affatto meccanico, ed infine per la correzione dovuta alla rifrazione era stata adottata l'ipotesi che prescinde dalla variazione della temperatura lungo la verticale, cioè il procedimento di Andoyer. Ciò non ostante si può dire che i risultati ottenuti sono tali da essere utilizzati benissimo per la costruzione della carta topografica relativa alla regione percorsa, insieme ad itinerari e rilevamenti parziali eseguiti o con metodo geode- tico, ovvero col concorso della bussola magnetica. A giustificare tale confortante conclusione daremo, prima prima di tutto, brevemente ragione delle formole adoperate per il calcolo delle coordinate geografiche e dell’azimut ini- ziale, nonchè di quelle per la determinazione del tempo, ed analizzeremo poscia i risultati mettendoli a confronto con quelli che, relativamente alle stesse località, esistevano in precedenza. DETERMINAZIONE DEL TEMPO. — Si ottenne quasi sempre osservando il sole ad uguali altezze nel primo verticale, ossia determinando la correzione del mezzogiorno. — 206 — Il principio del metodo semplicissimo è fondato sulla re- lazione: 1 TImtoa=sG (TetTo+a essendo 7. e To i tempi cronometrici delle due osservazioni coniugate, Tm il tempo cronometrico del mezzogiorno solare vero, ed x la relativa correzione dipendente dal moto pro- prio in declinazione. Questa correzione è così definita: a= — Autgo + Bputgd in cui y rappresenta la differenza delle declinazioni del sole a mezzogiorno del giorno precedente e del giorno successivo a quello dell’osservazione, A e B i coefficienti numerici che si ricavano dalla Tav. 24 del Formeln und Hiilfstafeln fiir geo- graphische Ortsbestimmungen, von prot. dott. Th. Albrecht (edizione 1908), con l'argomento: T il 3 (To T). Per la valutazione della grandezza x è sufficiente cono- scere anche approssimativamente la latitudine geografica del luogo di osservazione e la declinazione del sole: tuttavia, in ogni caso, è stata presa la declinazione ridotta al meridiano locale. Ponendo: 7,=12" + equazione del tempo, si ottiene per la correzione dell’orologio: AT=T,—(Tn+%). Occorse talvota adoperare anche l’orologio regolato a tempo siderale e venne allora applicata anche la correzione che ri- duce l'intervallo sidereo, intercetto tra le osservazioni co- niugate, a tempo medio. DETERMINAZIONE DELL’AZIMUT. — Le misure di azimut dovevano unicamente servire ad orientare le levate topo- grafiche e, quando fosse stato possibile, a determinare anche le differenze di longitudine successive di una data poligo- nale geodetica. Per tutto questo, e più ancora per la vici- agg nanza della regione all’equatore, la determinazine dell’azimut fu connessa all’osservazione del sole in un tempo conosciuto- valendosi cioè della relazione: [1] { t ( cos M tg t ) (+ embo orientale AAT peu na + > ) sen (9 — M) | RA in cui l’angolo ausiliario M deriva da te M=tg è sec t ed 4” — 2 sen Z dove A” rappresenta il valore del diametro solare apparente e Z (distanza zenitale allo stesso istante) risulta dalla espres- sione : te(0 — M) 2 to Z— Dili [2] È cos A essendo la latitudine geografica approssimata. La [1] scaturisce dalla formola della cotangente, la [2] da quella del seno-coseno. Per avere l'angolo orario si pone : = 12% — (7 — equaz. del tempo + correz. dell’orologio) per riferirsi al mezzegiorno vero: 7 è l’ora dell’osservazione. DETERMINAZIONE DELLA LATITUDINE. — La valutazione della latitudine geografica si ottenne osservando in determi- nati istanti l’altezza di una stella o del sole ed adottando perciò i seguenti metodi. Data la distanza zenitale di una stella o del sole, si as- sume il sistema: e cos (o — M)= ser tg M=tgd sect. g Dei due valori che ne risultano per la latitudine, si deve considerare quello che segue con continuità le latitudini note delle località contigue. — 208 — Nelle due relazioni precedenti Z= Zo + 60,3 to Zo t=T+tAT— a. x Quando l’astro osservato è il sole, bisogna ridurre la sua ascensione retta e la declinazione al meridiano locale ed all'istante dell’osservazione; la distanza zenitale al centro della Terra e dell’Astro, ponendo cioè DA POT put + lembo superiore n — lembo inferiore A diametro apparente, p parallasse di altezza. Ora, la formola differenziale corrispondente a quella che dà cos Z fa vedere chiaramente che gli errori in t, Zo e d hanno influenza minima sul valore della latitudine quando le osservazioni sono distribuite intorno al meridiano. Fu perciò adottato anche il metodo delle distanze zenitali meridiane, per cui risultando M=ò, si deduce. \ + stella a sud della zenit Dda “" — stella a nord » La conoscenza dello zenit strumentale si fa scaturire dalle stesse letture angolari se è noto, anche approssimativamente, un valore della latitudine. Col teodolite adoperato si deduce perciò: Zenit strumentale = lettura + distanza zenitale appros- simata. Nel caso del Sole, e quando le osservazioui siano eseguite in angoli orari piccoli, di mezz'ora al massimo, si è anche adoperato lo sviluppo: 1 cos Z= cos (9 — è) — 2 cos $ cos è sen? 5 È Considerando Z come funzione dell’ultimo termine, si deduce: o=d+Z COS 9 COS d cos % cos à 7? sen (9 — 2) m+ cotg (gp — d) | n. sen (9 — d) — 209 I coefficienti m ed n sono ricavati dalle tavole 26 e 27 delle citate Formeln und Hiilfstafeln, ecc., dell’Albrecht. La formola precedente può consentire l’approssimazione di un secondo e quando ? è piccolissimo, cioè di pochi se- condi, si può allora abbandonare il quarto termine ed as- sumere: o=d+ZT— Ct. Il coefficiente C (riduzione al meridiano di Z)è funzione della latitudine e della declinazione che basta conoscere ap- prossimativamente.j Infine si potè conseguire il valore della latitudine col me- todo di Gauss, osservando i tempi in cui tre stelle passano allo stesso circolo di altezza. Essendo 7,.T,.T,i tempi cronometrici corretti, si pone : a=T-T—-(—-%) r=T—T-(3—- 4) per ricavare: l, 1072 3 m,sen M=sSen_, ), cotg, (î6, — d,) M,= costi, tg 1(0,+° m, cos M = 08) ,), tt g C+, 1 ls x m, sen M,=sen , %, cotg 5 (0, — d,) i) 1 ia L 8 my COS M,= cos = \, tg 5 (0, + d,) Dedotti i valori delle grandezze incognite, si assume an- cora: n n= arctg — Mo per ottenere: tg [+14 N] = tg (45° — neotg 3 (A — N) e conseguentemente l'angolo orario t, dell’osservazione ini- ziale e l'andamento unitario dell’orologio allo stesso istante, giacchè: AT=a,+t, T Si ha infine: teo =m, cos (ty +N) teo = m, cos (t, + No). — 210 — Questo metodo è il più sicuro di tutti, dopo quello delle distanze zenitali meridiane, e consente per la latitudine e la correzione dell'orologio ottimi risultati, quando le tre stelle distino mutuamente in azimut non più di 120° e siano poco distanti tra loro i tempi delle osservazioni. DETERMINAZIONE DELLA DIFFERENZA DI LONGITUDINE. — Quando è conosciuto l'andamento unitario dell’orologio e lo si suppone costante nel tempo, allora si può determinare la differenza di longitudine col semplice trasporto del crono- metro da una località ad un’altra. L'esperienza invece prova che l’ipotesi della invariabilità di andamento è ostacolata dalle ineguaglianze che facilmente subisce un meccanismo, così delicato come quello di un eronometro, durante lunghi viaggi per terra o per mare, nei quali non sempre si riesce ad applicare il metodo di Struve che ha scopo di eliminare la possibilità di errore. Per tutto questo, e data l'impossibilità di conoscere in modo assoluto la variazione che subisce l’andamento dell’oro- logio durante il trasporto, per il calcolo della longitudine si assume senz'altro: x RR, AL=S,—SHT 9 (i +wk,—- 8) essendo S, S, gli stati alle due stazioni, « ed «, andamento corrispondente, t, — t il numero dei giorni decorsi fra le due determinazioni di tempo. Per tale ricerca sono state utilizzate le determinazioni del mezzogiorno corretto mediante un orologio a tempo medio. Ai risultati così ottenuti non può, naturalmente, competere una grande precisione — quale poteva conseguirsi forse col metodo delle occultazioni, del resto non sempre applicabile e che richiede anche un calcolo di predizione — ma la prati- cità del metodo e la sua relativa esattezza, rispetto cioè ad uno scopo puramente cartografico, indusse i due operatori a farne uso esclusivo. TRIANGOLAZIONE TOPOGRAFICA. — Per avere una carta — omogenea in tutte le sue dimensioni lineari — del terri- = torio che si estende da Dolo ai pozzi di Goriale e da questa località alla regione di Gorof Daruè, le levate topografiche vennero appoggiate a posizioni geodetiche, invece che alle corrispondenti posizioni astronomiche. Da Dolo, nelle cui adiacenze venne misurata una base di circa 3 chilometri, la triangolazione si spinge verso ponente seguendo l’andamento del primo verticale, e poscia ripiega a nord-est per andare ad arrestarsi nella regione Gorof Daruè. La misura della base ottenuta con un procedimento spe- ditivo che è fondato sulla misura dell’angolo parallatico cor- rispondente ad un segmento rettilineo ortogonale all’allinea- mento principale, risultò di L= 3050",82 + 0%,22 ossia con un errore relativo di circa ate il quale è per- 14000 fettamente in armonia con l’approssimazione che può dare nella distanza lineare una carta alla scala di para, 100000 Tutta la rete è costituita di 50 triangoli e 36 vertici. Ogni angolo è stato misurato in media 8 volte, e però a ciascuno di essi compete l’errore medio di All’ultimo lato che si troverebbe a 110 Cm. da Dolo, se- guendo lo stesso percorso della triangolazione, verrebbe a 1 È a : competere l’errore relativo di circa 1000 nella ipotesi che gli angoli più piccoli non abbiano valore inferiore a 20° e che al cumulo degli errori accidentali corrisponda, per naturale compensazione, un residuo minimo. Di tutti i vertici della triangolazione topografica venne calcolata la posizione geodetica orientando l’ellissoide terre- stre sulla verticale di Dolo, e quindi con le coordinate geo- grafiche così ottenute vennero calcolate le coordinate carte- — 212 — siane per la sintesi grafica sul piano col metodo della proie- zione naturale. Per il calcolo delle coordinate geografiche e degli azimut furono adoperati gli sviluppi in serie di Legendre valevoli pel caso che la lunghezza dei lati non fosse maggiore di 25 Cm., e cioè: s COS x (s sen a)? Rarci" 2R'arc1” tg © 8 sen x rit = sec ; Li Rarc 1” ? s sen & — 1800 Pedane dati TA 2, a pe ep TE SP 0, 0,2%, latitudine, longitudine e azimut incogniti O aa » » » noti Vis raggio della sfera locale, cioè della sfera che si adatta convenientemente alla curvatura dell’ellissoide terrestre nel punto di cui è conosciuta la posizione geografica. Nella ipotesi che l’asse delle y sia diretto secondo il me- ridiano di Dolo e quello delle x coincida con la perpendi- colare al meridiano nel centro di osservazione, si avranno nella citata proiezione le corrispondenze: Y= fm (9 — go) are 1” xrx= Ncosg(0 — w) are 1”. L’azimut iniziale corrisponde alla posizione di Burgudut 0 M. Bocolo a circa 4 Cm. da Dolo, e fu determinato il 3 mag- gio 1911 con osservazioni di Sole ed il giorno 6 dello stesso mese con osservazioni della Polare (x Ursae minoris). Nel primo caso si ottenne: A, == 580.14"71”2 #97,0 nell’altro : A,= 58 .14.30 ,4+6 ,0 È quindi lecito attribuire all’azimut iniziale il valore: 4 — 580.14'.507,8 + 11”,0. — 213 — La latitudine d’origine, che è quella di Dolo, ottenuta col metodo di Gauss e col metodo delle distanze jzenitali meri- diane assume il valore di: o = 4°.10".36”,6 + 6,8, il quale rappresenta la media pesata di 21 determinazioni. ®L’altitudine dei punti si ottenne col metodo della livel- lazione geodetica adottando la formola di Bessel: h=H +5 cotg (Z — fs) +AI- AM H è V’altitudine nota, s la distanza del punto di cui si vuole la quota altimetrica, Z la distanza zenitale, { il coefficiente angolare che caratterizza la correzione dovuta alla curvatura terrestre ed a quella della traiettoria luminosa intercetta fra i due punti, AI l’altezza dell’asse di rotazione del cannoc- chiale sul suolo, AM la distanza verticale fra il piano mirato e quello di riferimento dell’altitudine. L'altitudine origine stabilita a Dolo, era già stata deter- minata mediante un’accurata livellazione barometrica. CONCLUSIONE. Gli elementi geografici raccolti in questa relazione hanno il carattere proprio di grandezze atte a fissare grosso-modo la posizione geografica di alcuni punti della frontiera tra la Somalia italiana e 1’ Etiopia. Per comprendere poi in quale maniera le posizioni così determinate possono, in via approssimativa, giovare alla co- strazione di una carta topografica in una scala data, occorre innanzi tutto pensare alle condizioni che esige il complesso lavoro della sintesi grafica. Nel disegnare la carta di una regione, si attribuisce alla superficie del suolo la stessa cur- vatura della superficie matematica della Terra, cioè dell’ellis- soide di Bessel. Ora, tutto ciò non presenta difetti quando le posizioni dei punti sono definite sulla stessa superficie con i metodi della geodesia operativa. Se invece le menzionate Ma, D pe posizioni risultano determinate alla maniera astronomica, al- lora si verificano anomalie che possono rendere illusorio, 0v- vero non perfettamente logico, il procedimento grafico. Prescindendo dalla possibilità che la superficie delle posi- zioni astronomiche non sia identica o simile a quella dell’el- lissoide, occorre ben considerare l’anomalia che scaturisce dalla varia natura dei metodi di osservazione, dagli errori stessi di osservazione, ed infine dal fatto che per lo stesso elemento geografico determinato in epoche diverse da vari osservatori non esiste, in generale, l’identità nell’ubicazione della verticale istrumentale. Perchè sono precisamente tali ineguaglianze che fanno mancare l'uniformità nella compagine di un lavoro collettivo e non ammettono confronti se non in base all’analisi matematica di tutti gli elementi sussidiari. Esaminiamo i fatti. Le coordinate geografiche determinate mediante osservazioni astronomiche non possono avere la medesima precisione in ciascun punto se non a parità di strumento e di osservatore, di metodo e di peso (il quale è caratterizzato dal numero di osservazioni) ed infine di per- fetta uguaglianza negli effetti di cause perturbatrici esterne. Se manca una sola delle accennate condizioni, ed in pra- tica ciò si verifica specialmente nei viaggi di esplorazione, allora le distanze lineari intercette tra le posizioni astrono- miche determinate non potranno assumere la stessa preci- sione relativa e verranno così a sovrapporsi al rapporto di riduzione del disegno altri elementi congeneri impossibili ad essere apprezzati nel campo delle grandezze scalari. Se poi si considera il caso di più operatori, si troverà che manche- ranno quasi completamente le condizioni accennate e per di più l’aggravante di uno spostamento più o meno grande rela- tivamente alla posizione di un medesimo centro di osserva- zione, ed è allora logico escludere qualsiasi confronto fra i risultati ottenuti dai singoli osservatori. La Carta dell’Etiopia del D’Abbadie, che fu senza dubbio il più fortunato esploratore di quella regione, è in completo CM o disaccordo con le carte degli altri viaggiatori che lo segui- rono; ma non si può, a vista d’occhio, giudicare con favore piuttosto una che un’altra produzione cartografica. Manca, per farlo, la bilancia, ossia il complesso di quelle notizie, in base alle quali la sola analisi matematica potrebbe decidere. Nel caso nostro possiamo soltanto considerare la latitudine di Dolo nelle sue determinazioni del 1896 e del 1911. Ma giova, in primo luogo, notare che la determinazione del 1396 si riferisce ad una località posta a sud della confluenza del Ganale col Daua e che quella del 1911 si riferisce invece ad un’altra località situata a nord della confluenza medesima. Il Vannutelli poi nel 1896 determinò la sua latitudine osser- vando una sola altezza di Sole e nel 1911, invece, la latitu- tudine venne determinata con due metodi suscettibili di mag- giore precisione ed osservando ben 21 stella. La diflerenza tra le due latitudini di circa 30” rende ma- nifesto che se i due centri di osservazione appartenessero allo stesso meridiano la loro distanza lineare sarebbe di circa 926" e la nuova carta fornisce appunto la stessa indi- cazione. Per contro la triangolazione topografica orientata a Dolo non può ammettere nessuna protesta, inquantochè è la sola parte che ha veramente completa uniformità, tanto rispetto ai metodi di rilevamento, quanto rispetto alla derivazione degli elementi fondamentali. Tutto il lavoro astronomico adunque bisogna accettarlo come è risultato dalla discussione degli elementi originali; discussione che, occorre ripeterlo, data l’armonia relativa delle osservazioni, non ha fornito motivo a segnalare nessun criterio di reiezione. Firenze, settembre 1912. Prof. ANTONIO LOPERFIDO Ingegnere geodeta capo. Visto: Il Tenente Generale Direttore dell'Istituto Geografico Militare firmato GLIAMAS. — 2168 — Determinazione del tempo - Orologio Longines 5 1910 ottobre £ » dicemb. 1911 gennaio » » » » febbraio » » » » marzo aprile » » giugno » do) novemb. 7 » » a tempo medio. Indicazione topo- grafica Stazione Tedecia Malcà Collina presso la Le- gazione Ita- liana Addis Abeba . Auasce del finme Alcassò presso Azza- +1 Borofa 4 sotto i monti Laggio a Nord della | 14 collina del #F " | sa Ovest del \+1 \ paese ) Ghigner . . . » Cargialo. . . . | Bivio Goba- +1. Ghigner Mana Ganale . Contluenza < » » DI Malcà Ciratti |Gnado per Dolo a 300m dalla riva sini- stra del Ga- nale e di fronte alla confluenza | del Dana in vicinanza | della sor- | | gente omo- | nima Egherta . presso l’ac- - 1. qua omoni- ma sul palazzo +1 sede del re- sidente Stato sulla sinistra | + 1. 2 Li (41. < +1. IT+1. Andamento dell'orologio | diurno + 1°.33". 18.10 1.0 - 10009 . 42. . 20. Determinazione del tempo - Orologio O - Tempo medio. Indicazione Stato And Stazione topo- TAAEDERIA grafica i dell'orologio | diurno » » s| DAS + 9. 12. 47 | | | » ottobre 12|Jet...... | Nata 34. 37. 76 > a S-E. dei pozzi + 13. 81 » » TEX] ARS RO \ + 34. 51. 57| | | » » IS NUaRcen': ‘0 <- | a Sud dei pozzi | + 36. 49. 76 | Ì Ì Determinazione del tempo - Orologio Longines III - Tempo siderale. : | TARE | Indicazione Stato Andamento Epoca | Stazione topo- dell'artrite dia | grafica gl | | | TI | | 1911 febbraio 26 | Mana Ganale | | + 2°.36".535. 67 Confinenza | _ 168. 91 » » DT » » \ e 2.00. 40:58 | | | » aprile 4|Dolo..... erat (+2. 49. 55. 71 | ) i + 14. 10 af pa giu nihil dr at fue prbnALI, Le( ie BOL 19,81 LI) | Determinazione della longitudine. Differenze di longitudine Longitudine Epoca | — Stazione md: in tempo | in arco a Greenwich 1910 dic. 19 | Addis Abeba . 0”. 08,00| 0°. 0". 0”. 0|38.044”. 26.0 (Marchand) DM IA ATISC + 1. 47. 65| 0. 26. 54. 7 1911 genn. 7 | Alcassò . ...|+ 3. 2. 27] 0. 45. 34. 0 >. MO ELL Borofa.® art + 2. 21. 95| 0. 35. 29. 3. DTA PACCO NL ee + 2. 47. 03| 0. 41. 45. 4 varo 26. One n «| 4° 16:13 de AZ » febb. 4|Ghigner. ...|+ 6. 46. 25| 1. 41. 33. 7 » » 11|Cargialo....|+ 7. 3. 73| 1 45. 56. 0 » >» 27|Mana Ganale.|[+ 8. 9. 91| 2. 2. 28. 6 VA Apridi Dolo feat + 11. 36. 47| 2. 54. 7.0 Dov: Bardoale e + 19. 33. 93| 4. 53. 29. 0 » » 19|Egherta....|+ 17. 58. 07| 4. 29. 31. 0 » » 29|Brava.. DIRE + 21. 34. 40| 5. 23. 36. 0|(*) or III Seo oe + 8. 21. 87] 2. 5. 283.0 > i ‘» 18 Wasceni, . iui + 9. 11. 01] 2. 17. 45. 1 (#) La longitudine di Brava determinata nel 1904 dall’ Istituto Idrografico della Regia Marina risultò di 440 2/, 19” E. G.; col trasporto del tempo da Addis-Abeba si è ora invece ottennto 44°, 8/, 2”. La differenza fra i due valori (5/. 43/) non può essere s0g- getta a discussione nè ad un criterio di compensazione; ma occorre anche notare che essa non può neppure menomare lo scopo che si trattava di conseguire. — 219 — Determinazione della latitudine di Dolo Metodo di Gauss. 6 maggio 1911 Coordinate equatoriali al 1911.0 È È: l'empo siderale Stelle E dell’osservazione Virginio Hydrae x, = — 0°. 27”. 558.9 ., = + -8%19.155.6 M, = + 80°.53".11”.9 M, = — 880.12”. 057.3 N, = — 84. 22. 41.9 N, = + 113. 6. 32. 3 m= + 2.19.27.0 i, = = 2% 26: .10,8 + 40.10”. 37”. 8 AT= + 45.3 Pm = + 49.10”. 377.1 + 4. 10. 36, 4 — 220 — Determinazione della latitudine di Dolo Metodo delle distanze zenitali meridiane. Coordinate equatoriali al 1911.0 Distanze zenitali N. Stelle Roe NSF 3° Snpross agili Rifrazione a I d ] 10](D'OLTONIE et e 11°. 9.225.65|4- 21°. 0°. 41”.2| — 160.49". 55"| + 187.2 DIMORE 44, 31. 28{+ 15. 4. 10. 6{ — 10. 53. 25 |+ 11 6 3|y Grande Ourse. 49. 9. 33|+ 54. 11. 22. 6| — 50. 0.35 {+1. 11. 8 dl'intiVzerge.. il 12.15. 21. 15f— 0. 10. 20. 1] + 4. 21. 6} 4. 6 5|ò Courbeau . .. 25. 15. 46[|— 16. 1. 12. 1| +20. 11. 58 |+ 22.2 6|e Grande Ourse . 50. 7. 05] + 56. 26. 33. 9] — 52. 15. 48 | +1. 17.3 Til'OnVaAeEae dt e tr 51. 7. 18|+ 3. 52. 51. 4| + 0. 17. 55 {+ 0. 3 Bla VieEBe ino 57. 44. 79|- 11. 26. 14. 3| — 7. 15. 28 |+ “(Ri 9|3 Grande Ourse. | 13. 20. 20. 71|+ 55. 23. 23. 8| — 51. 12. 33 | +1. 14.9 102 iVaerpeni nà 20. 30. 15| — 10. 41. 49. 1| + 14. 52. 35 |+ 16. 0 11|n Grande Ourse. 44, 2. 13|+ 49. 45. 25. 8| — 45. 34. 40 {+1 1.5 12m Bouvier 0... 50. 26. 83| + 18. 50. 36. 7| — 14. 39. 51 | + 15.8 13|f Centaure. . .. 57. 32. 00| — 59. 56. 38. 6| +64. 7. 25 | +1. 58. 6 14|o Bouvier ....|14. 11. 36. 09|+- 19. 38. 43. 4| — 15. 27. 57 |+ 16.7 15 |, Centaure . . . 33. 32. 73| — 60. 28. 6. 8] -+ 64. 38. 53 |+-2. 0.0 16|= Bouvier .... 41. 6. 01/+-27. 26. 56. 2] — 23. 16. 10 {+ 25.9 17|a Balance;... .. 45. 57. 13] — 15. 40. 20. 7[*4-19. 51. 7]4+ 21.8 — 221 — Determinazione della latitudine di Dolo. Metodo delle distanze zenitali meridiane. 19 maggio 1911. Letture sul cerchio Zenit corrette FI Latitudini dall’ inclinazione istrumentale medio Maione td 10°. 46”. 10”.0 | 353°. 56’. 16”.7 ASD SIE 2} Lion...... ATAGLATIO RIT 4| n Vierge. . . | 349. 34. 47. 0 TROIE 5| è Courbeau. .| 333. 44. 8. 0 LR 64o 7|è Vierge....| 354. 14. 13.0 | 10. 45. 3 8| e: Vierge....| 346. 40. 24. 0 | 109903850 10| a Vierge.... 8. 49. 4. 0 | Inoz 12| n Bouvier. ..| 339. 16. 28. 0 | 10. 25. 5 medio = 4. 10. 46. 0 CID id ld id Determinazione della latitudine di Dolo. Metodo delle distanze zenitali meridiane. 29 maggio 1911. Letture sul cerchio Zenit N. Stelle corrette x a Latitudini dall’inclinazione | Strumentale medio 21 Bilan ii 4°, 48’. 36.0 3539.56”. 47,7 4°, 112600 3| x GrandeOurse| 43. 56. 10. 0 10. 16. 0 6| e GrandeOurse di t3200 9..56. 3 9| > Grande Ourse 45. Co | m (er) (©) (ani ° Koi N (0.2) 11| n GrandeOurse | 308. 22. 22. 0 10. 44. 7 12 m Bouvier . . .| ‘339. 15. 52. 0 10832 13 | B Centaure. . . 58. 2. 16.0 DIAL» 14] a Bouvier. ..| 338. 27. 44. 0 9. 59. 6 15 | a, Centaure . . 58. 33. 28. 0 10. 58. 7 16 | e Bouvier . ..| 330. 39. 10. 0 9. ded 17| « Balance... 13. 46. 42. 0 10. 25. 6 medio — 4. 10. 29.6 Valore definitivo della latitudine di Dolo. ne AGO 1 o,=+4. 10. 46. 0 o, = +4. 10. 29. 6 o= + 4°.10”.36”.6 + 6”.8 peso 2 » $ pic Li (errore medio). Determinazione dell’azimut di Bocolo sull’orizzonte di Dolo. 3 maggio 1911 — Azimut di Bocolo dedotto con osservazioni di Sole A= 58°. 14,71”.2 + 9".0 6 » » — Azimut di Bocolo dedotto con osservazioni della Polare A, = 58°.147,307.4 + 67.0 Azimut medio: A, = 58°%.14/”.50”.8 + 11”.0. | Determinazioni di latitudine con distai Distanza zenitali resa geocentrica Tempo osservato corretto Stazione Epoca —-|‘°)/l°/iipiiIIOèi)|&“) WéÒi“l{ Tedecia Malcà 25 ottobre 1910 11°. 1".548.1 930,28". 34"! Ao = + 2*. 50 | Auasce 30 dicembre 1910 11. (3105158S Ao = + 2°. 61 » » » 49, 14158 » » » 52. 37. 8 1 » » 11.41 bs » » » 50. 58. 8 Alcassò 7 gennaio 1911 11230101500 Ao = + 2° 63 » » » 39. 28. 2 » » » 50. 09. 2 Borofa 11 gennaio 1911 11. 34. 58. 9 Ao = + 2°. 62 » » » 44, 41. 9 » » » 54. 45. 9 Accò 14 gennaio 1911 11. 35. 13. 2 Amo — + 2°. 63 » » » 45. 13. 2 » » » DD. Oz Goba 24 gennaio 1911 11. 32. 15. 4 Ao = + 2°. 65 » » » 41. 31. 4 26 » » 11. 43-39 » » » 48. 12.7 » » » SIL tali circummeridiane di Sole. 11°.50”. 39”.5 42%,278.9 | — 13. 21. 6 30. 37.4 | — 13. 20. 0 20. 15.7 | — 13. 18. 4 9.42.0| — 9. 30. 2 21. 45. 7| 9. 28. 6 11. 50. 5 | — 19 bo © © n © 0 © a ho 9 nu S o to © CIO Ut 00 TOT. 19. mol. 10.3 12. 59. (an bo (N) AS Ut N 00 mo 00 [o] (A I [9] {56} rS I do 26. 15. 0 39. 53. 0 | — 26. 9.5 30. 35. 5 | — 57. 10. 3 28. 57.8 | Bi: 7.5 24. 221|— B. 57. 4.3 19. 16.3 | — . 2’.40”.6 I (ari Ha bo ua DD ak SoS . 44. 54. 9 . 37. 59. (cp) 3. 23. +++ ‘259. 10583 I La FS La do . 35. 49. Sw I NO SS © Hi DN © g-M DO ID bo © dd 10”. 14.0 I DI iN JA DI FÀ Si 00 do ar Ca I bo (o) (SV) o DIITN Di 6 + 90. 7/.38”.4 + 00 LO N NIN N BR IAA LiS9] < Petar. a Sr > 5 ISTTNAE SN Me. > FG ba o OIAIWOD) I dI I 0 o v ao a LAT SAT + 6. 59. 59. 59. 59. 09. + 6. 59, 14. SOT 90 0000 bi S SN (5) | {O 209 WéWvSIi Da. pa Segue Determinazioni di latitudine Stazione Ghigner Ao = + 2°. 69 Cargialo Av= + 2°. 70 Mana Ganale Ao = + 2°. 72 Malcà Ciratti Ao = + 22. 75 Jat Aw == - DI 72 Epoca 4 febbraio dol » » » » » » » febbraio » » febbraio » » » marzo » » » ottobre 1911 » » » » 1911 » » 1911 » » » Tempo osservato corretto 10°. 467.159. 7 26. . 59. . 44. 8. 4. pd Ma x Li bo (ani > 3 9 6 6 (— i er) ESS > > > DOH Dì Sì Sì So x Distanza zenita resa geocentrica De =| ize zenitali circummeridiane di Sole. MI60.31". 8.4 872,598.7 | — 170.440.151 | + 240.49. 467.0 | + 7°. 57.30”.9 Morsi. 1.9 HO. d4. 7 | — 17. 29. 40.5 | 4 24. 34. 41. 6 BORE 16. 13. 14. 5 81. 35. 5 | — 17. 14. 36.1 | + 24. 19. 41.1 5. (5. 0 Mib. 13. 8.2 13104 RSS72 032400070 4009 Be I Wo: 13. 2.0 65. 13. 1 | — 16. 51. 32.1| + 23. 57. 2.1 5. 30. 0 + 7. 5. 14.2 20. 41. 2 "78. 32. 2 | — 15. 11. 25. 8 | + 21. 52. 22.3 | + 6. 40. 56. 5 20. 32. 8 68. (8. d| — 14. 58. 17. 6-4 21. 40. 24.9 COBELIT(ARO. 20. 24. 3 IRSA AT GE 210299 135 LZ GIO) + 6. 41. 41. 9 ee 5. 12. 4 17.27.71) — 9.37. 18.5| +4 15. 5. 52.1 + 5. 28. 33. 6 Meo. 2. 8 GTA |. —N95128: 056, 9 NS D4 ALTA 28. 44. 5 eun 4. 53. 7 DIRI ER 2207 S + 14. 50. 26. 4 28. 18. 6 8. 42. 30. 6 57. 9.5 | — 8. 58. 55.5 | + 14. 27. 9.4 200199 + 5. 28. 27. 6 pilo. 29.9 18. 45. 1 | — 5. 16. 33. 1 | +- 10. 15. 50. 0| + 4. 59. 16. 8 seo. 25. 5 14. 13.3 | — 5.16. 1.8| + 10. 15. 21. 1 59. 19. 3 È b. 15. 20. 9 9. 32. 6 | — 5. 15. 37.2 | + 10. 14. 58. 2 592120 no. 16. 3 4. 45.8 | — 5. 15. 20.3 | + 10. 14. 56. 9 59. 36. 6 + 4. 59. 23. 4 Me. 14.1 38. 25. 2 | — 7. 7.10.0| + 11. 39. 3.5] + 4. 31. 53. 5 Wi023. 50. 8 St 04, 20 702900, 0 ed i 3g MN: 23. 59. 6 28. 34.7| — 7.27. 25.7| + 11 58. 44.0 Zi ot183 W0z4. 9.5 18. 6.0| — 7. 25. 31.9|+ 11 56. 55. 8 31423-19 M24. 19. 6 7.15.2| — 7. 24. 32.8 | + 11. 55. 53.0 de 620582 (ee) E Pg 3 Stazione Uascen Ao = + 23 73 Baidoa Aw == _ Du 91 Egherta ÀAw == _ phi 883 bo a (e 0) | Epooa 18 ottobre » » » » » » » » 7 novembre » » » » » » » » 8 » » » 19 novembre » » » » » » Segue Determinazioni di latitudine 1911 1911 Tempo osservato corretto LI PRIA JI. 3.498, 6 . 46. Rho . 55. 6. . 32. . 23. 8 4 6 8 do 00 o o o o o dI dI dI dI Distanza zenita)i resa I Il | | | geocentrica | zenitali circummeridiane 90,15’. 12”.1 415.428,55 | — 9. 15. 19.5 de VI 9. 15. 28. 2 Mueip9 9. 15. 35. 2 de: za 9. 15. 42. 7 8..20.0| — . 59. 31. 8 32. 54. S| — 59. 40. 2 Moggio — 59. 45. 0 dn: 29, ji — . 59. 49. 0 La. dl — . 59. 53. 9 piso = 17. 29.5 2.7.6 (DEA ER mar: 34.1 PI So. 14. 24. 1 3319 8 — 14. 28.0 edge 19. 14. 32. 5 io — 19. 14. 35. 6 12: DL 6 — di Sole. M 0 ooo (n =1 16. 16. 16. 16. 15. 59. 16. 22. 16. 20. Dm 5090 19. 25. 19. 21. TERE TE II NEL6: 56. 1h0é RpLa Ls vw o ao WI DS HI 0 WD UU SD A N [9] bo N°) o-M SL Lao, 07.6 RA dia cL #8 HE 1% 0. 58. 57. 55. 44. O di 0 Pi SO_Ww a bi va li dI 00 N Sa ia Se ol PAID ID PI JO OL Dì JpPo Dì DIN 10 O 00 o — 230 — Triangolazione topografica. Coordinate geografiche sull’elissoide di Bessel 7 È Quote sipitarca Latitudine Longituding INNI Dolo ks li La SIERO e 00. 0°. 0” 0 Bocolo o Burgundut. . |+ 4 11. 41. 3|+ 0. 1 44. 0|{ 270. 6 Gol (Est° Nord Base di Dolo) . ; - | + 4. 12. 21 0|— 0. 0. 0.8| 276.1 Estremo Sud Base di Dolo | + 4. 10. 47. 3[+ 0. 0. 32. 0| 254. 5 M. Bangol + 4. 15. 41. 6|+ 0. 6. 32. 3| 374.0 Ual Egilo + 4. 11. 47. 9}+ 0. 6. 26. 7| 242.9 Corrè Nord . + 4 11. 21. 2|+ 0. 12. 38. 5| 381.3 Corrè Sud + 4. 8.21 0[+# 0. 12. 37. 9| 372. 5 M. Carari. + 4. 13. 22. 8|+- 0. 12. 9. 0| 283. 8 Gherzei o Curo + 4. 13. 2.8|+ 0. 17. 32. 0| 234. 6 M. Rare + 4. 6. 1. 7|+ O. 16. 38. 3| 349. 5 Geglè + 4. 8. 48. 7|+ 0. 24. 47. 0] 249. 5 Cormaghimbì + 4. 10. 32. 9|+ 0. 32. 40. 6| 344. 6 Gel Gelé . + 4. 13. 17. 9|+ 0. 32. 46. 4| 386. 1 Goriale. + 4. 11. 54. 8|+ 0. 38. 32. 4| 353. 1 Ciallai . + 4. 12. 3. 8|+ 0. 40. 54. 0| 368. 8 Diddum + 4. 10. 25. 4|+ 0. 40. 47. 4| 350. 8 Fultur . + 4. 9. 33. 2|+ 0. 42. 3. 8| 332. 7 Ginger . + 4. 8. 51 4|+ 0. 46. 21. 0| 335. 3 Nur Moo . + 4. 8. 52. 9] + 0242. 38. 9| 329. 2 Segue Triangolazione topografica Coordinate geografiche sull’elissoide di Bessel dui < È x e prua altimetriche Latitudine | Longitudine Elben . 40,11”-15”.9 00.45”. 33”.7 347. 6 Scimilè II° Sala tR20088 0. 47. 40. 2 353. 3 0. 45. 26. 1 361. 6 +++ Scimilè I° IR O E ATI . 43. 7 365. 8 È _ tini o ne) (er) (>) nas 00 Ul (n I (>| (SI bo Gumerta Diglei renato, sb, AS e 4 15512,0 +++++4++ IDEE e SR OETO A ORC oi RA e e ann o FAI: 502 40504391: 368. 7 Bur Meghed. . . . .|- 4. 16. 32. 7|4 0. 54. 2.7 352. 4 PDermangit >... +0. .|- 4. 18:34. 114 (0:53. 14.0 357. 3 Beet e ETRO EN 00514305 366. 3 Addura I° + 4. 19. 14. 114 0. 55. 9.3| 364. 6 Iglei + 4. 20. 7. 2/4 0. 54. 28. 7 369. 3 Tzuchella Sud . ce z ACGGEASIEIO e a 472005700 Ha (SO) (No) («©») —J] IL a (ni ai DO Ul o (0%) =] Dì (n Addura III°. Tzuchelta Nord. Step a (id 45 29008. 3 L00054 14009 387. 2 Longitudine di Dolo rispetto a Greenwich = 41° 38". 33”. 0. Rappresentazione della triangolazione sul piano cartesiano. Nome dei punti Polo Bocolo o Burgudut . Gol (Est° Nord Base di Dolo) . . 4 M. Bangol . . Estremo Sud Base di Dolo . . . + nei ' Ual Egilo Corrè Nord. . + Corrè Sud . M. Carari Ghezzei o Curo . . M. Rare... Geglè Cormaghimbì . . Gel Gelé . . Goriale Cral ont, itet Diddum . palate 1987" - + + + +++++ + + + — 233 — Segue Rappresentazione della triangolazione sul piano cartesiano. __————r—rrrrrrr—_r _ _*g])v)->vwY[Y-—»——P—— ——————_———_—m———m—————————— Nome dei punti y x (ETIENNE Pia ARISTON O LINO NO CENE 253 im + 857610 Nu Moore ORO i IMSS — 3185 + 78911 Elben . + 1207 + 84298 Scimilé II° . . + 5181 + 88194 Scimilé I° . + 6226 + 84058 Diglei . . + 3406 + 92004 Gumerta Diglei . t 9091 + 88958 Durei II°. . + 8152 + 92971 Durei I° . . + 11499 + 92242 Tsama . + 13778 + 93825 Bur Meghed . + 10937 + 99982 Dermangit . + 14666 + 98479 Beielei . + 16079 + 95684 Addura I° + 15895 + 102030 Iglei. . + 17526 + 100776 Tzuchella Sud . + 20661 + 100803 Addura II°. . + 19055 + 102285 Addura III° + 21012 + 102535 Tzuchella Nord. . + 23088 + 100344 30 is; STAT. metri i VAI tt cpm tp cgil art ) ag dr ° Wi Mi page (ge e) (tfad TIE Di NO ny dl SCR NSA l Pere uelà ) b.1 i UD e è ni a A laprinra ana: Ia 4 di #0, ì n & Ni i) ù Li LI ’ * {Td | TARA Ù H } Ù Li (hi ji A ENG Mo le ì O) | | di LA . ih A f : Sù i / pù "} vee i "ASTRA vo (| i ; INTO. RO Vgt Fodggii io Te i i i HS » : y ; 1 ; ; 4 De ib lo DIRETTA) o ( » î si pone dà hà | i si “ f h Ì N "il ; i 1a : ; " Di a F perth } ° ta }é bg ì ; » Ù iti, A È Li l ) i (ny i; MARCA 4 x k si 0 i PL RVÙ ave io 4 p 9 hi j i ) i 4 Ì ì } "SpA Egr MZ) x are n Î si . toi : 4 " ’ LI Re I de, AO Ù (i SEL) si 4 BILI i n n n; 4 ì Ì h È # Ca tia l i n | < A LAGCAS è: 3 MAL Ig MERLI) pa }: ì i I i | 4 i y A i ) } A La, i (ATE 0 HABA È Me Ù _ ti , ii P | 3 DEIRA % i SEU) Il n tr Wi UGO. Voti TORO e ì ARTO Nat ea apre *# APPENDICE II. Cenni sulle collezioni zoologiche fatte dal Cap. Ci- terni durante la Missione per delimitare i confini italo-etiopici. Non è questa la prima volta che ho l’onore d’ illustrare collezioni zoologiche fatte dal capitano Citerni, perchè ho già trattato di quelle da lui radunate in Somalia nel 1903 (1) e prima ancora, nella mia relazione sul materiale scientifico ottenuto durante l’ultima spedizione del capitano Bòttego il nome del valoroso ufficiale è più volte citato (2). Durante la spedizione per la delimitazione della frontiera italo-etiopica, il capitano Citerni, ammaestrato dall’esperienza (1) Collezioni zoologiche del tenente Citerni în Somalia (Bollettino della Società Geografica Italiana, 1904). In questa memoria sono enumerate le specie più degne di menzione per la loro rarità, o per l'interesse pre- sentato dal punto di vista biologico; alcune sono figurate (Athyreus Ci- ternii e il bellissimo Fasmide Burria Citernii). L’ Anthicus Citernii è de- scritto dal Pic nel vol. XLI, 1904, degli Annali del Museo civico di storia naturale di Genova, ove trovasi pure la descrizione di un nuovo Cleride, il Phloeocopus verticalis, Schenkling e di un Imenottero della famiglia dei Braconidi, Rhogas Citernii, Mantero. Durante la stessa spedizione, il Ci- terni ha scoperto anche varie specie nuove di Crisomelidi, dei generi Diamphidia e Apophyllia. Non si deve dimenticare che a lui si devono anche interessanti collezioni zoologiche fatte nel Harrar (maggio-giu- gno 1904). (2) Cenni sulle collezioni zoologiche dell’ ultima spedizione Bòttego (L’Omo. Relazione sulla seconda spedizione Bòttego nell’ Africa orientale, di L. VAN- NUTELLI e C. CITERNI, Roma, 1899. Synodontis Citernii, Vinciguerra. I pesci dell'ultima spedizione del capi- delle precedenti ricerche, ha dimostrato sempre più lumino- samente il suo zelo e i risultati ottenuti sono di molto su- periori a quanto si poteva attendere da chi non ha scelto la zoologia a scopo precipuo dei suoi studî. Il breve tempo che mi fu accordato per redigere questa relazione, non mi consente di compiere per intero lo studio delle raccolte affidatemi; esse comprendono una quantità di specie spettanti a molti gruppi disparati, che di necessità si devono ripartire fra diversi specialisti, non essendo dato, nello stato attuale della scienza, che uno da solo possa rigo- rosamente determinarle tutte. Mi limiterò dunque a consi- derazioni generali e all’accenno di quelle forme che presen- tano maggiore interesse. MAMMIFERI. La collezione risulta di micromammiferi conservati in alcool, di alcune pelli a secco e di cranî di varie specie «i Ungulati. Più pregevoli sono i micromammiferi in alcool; essi com- prendono sette specie di Chirotteri e una interessante Cro- cidura; il resto consta di Roditori, fra i quali varie specie di Muridi, un Tachyoryetes e lo straordinario Heterocephalus. Fra gli esemplari a secco notiamo i generi Guereza, Cer- copithecus, Galago, Canis (2 specie), Genetta, Mellivora, Xerus, Sciurus, Mus (2 specie), Tachyoryctes, Pectinator (coll’unica specie P. Spekei, Blyth) e Lepus (2 specie); più un giovane Hyrax e tre belle Antilopi, cioè: Madoqua Swaynei, Thomas, Lithocranius Walleri, Brooke, e Ourebia montana, Cretzschm. tano Bòttego (Annali del Museo civico di storia naturale di Genova, Ser. 28, vol. XIX (XXXIX), 1898). Odontopyge Citernii, Silvestri. Chilopodi e Diplopodi dell’ultima spedi- zione Bòttego (loc. cit.). Platyrantha Citernii, Jacoby. Some new genera and species of Phyto- phagous Coleoptera collected during Captain Bottego' s last expedition (loc. citi). — 237 — L’egregio viaggiatore ha ricordato che, per lo studio della fauna delle regioni da lui percorse, importava avere il mag- gior numero possibile di specie; quindi ha reso servizio alla scienza conservando almeno il eranio di quegli animali che, per mancanza di tempo, o per le circostanze del momento, non era possibile preparare interi; e così abbiamo ceranî di Ippopotamo, di Phacochoerus, della elegantissima antilope Oryx beisa, di Gazella Soemmeringi, di Cobus ed altri. UCCELLI. È una delle parti della collezione esaurientemente illu- strata per opera dell’insigne ornitologo conte Tommaso Sal. vadori (1) e di molta importanza perchè comprende 155 specie. Di fronte a questa cifra cospicua, notiamo un numero rela- tivamente scarso di esemplari, in tutto 254, il che rivela il giusto criterio del raccoglitore, che si è curato di radunare il maggior numero di specie, anzichè accumulare individui, utilizzando così nel modo il più proficuo per la scienza il tempo, limitato dalle circostanze del viaggio. Nessuna delle specie è nuova, come osserva il Salvadori, e non è da sorpren- dere, considerando che la regione percorsa dal Citerni è stata largamente e diligentemente esplorata da parecchi viaggia- tori e naturalisti e specialmente dal barone von Erlanger. Più meritevoli di essere citate sono le specie seguenti: Francolinus castaneicollis, Salvad., specie che rammenta molto il Francolinus Bottegi, Salvad. Rhinoptilus Hartingi, Shell. Otis humilis, Blyth, specie molto rara nelle collezioni. Falco sacer, Gm. Spreo Fischeri, Rehnw. (1) Missione per la frontiera italo-etiopica sotto il comando del capitano Carlo Citerni. Risultati zoologici. Uccelli per T. SALVADORI. (Annali del Museo civico di storia naturale di Genova, ser. 38, vol. V (XLV), 1912). — 233 — Le 155 specie sono ripartite per famiglie nel modo se- guente: Anatidae . specie 3 Bucerotidae . specie 2 Phasianidae . DO Alcedinidae » 4 Pteroclidae Di Ul Meropidae. » 5 Columbidae » 4 Upupidae . de el Ibididae Py ABBA 3) Irrisoridae. » 3 Ciconiidae. PZ Caprimulgidae e Ardeidae DICI Cypselidae. PORN Charadriidae . » 4 Hirundinidae. pesi Scolopacidae . NPT; Muscicapidae. » 3 Otididae 2 MT Campophagidae . peli Bubonidae. D.ir,59 Laniidae DO Vulturidae. Diga Dieruridae. d Gypaetidae wr IL Oriolidae . DIA Falconidae. DUaLo Sturnidae . PNG Psittacidae . DRS Ploceidae . » 13 Musophagidae » 3 Fringillidae . di l'M2 Cuculidae . I Motacillidae . » 6 Indicatoridae . patri Alaudidae . De Capitonidae . INA) Pycnonotidae. » 83 Picidae . Dio Nectariniidae. DI IN6 Coliidae » 2 Paridae . Pa CORE Trogonidae DITE Sylviidae . » 14 Coraciidae. . . +. DI 9 RETTILI E BATRACI. A] valente erpetologo del Museo Britannico, G. A. Bou- lenger dobbiamo lo studio dei rettili e dei batraci (1). La serie non è molto numerosa, ma interessante; essa comprende: Ohelonii, 2 specie. Saurti, 22 specie, fra le quali un nuovo Gecotide, Hemi- dactylus Citernii, forma interessante che si avvicina all’He- midactylus gracilis, Blanf., dell’India e all’Hemidactylus 0xy- (1) Missione per la frontiera italo-etiopica sotto il comando del capitano Carlo Citerni. Risultati zoologici. List of the Reptiles and Batrachians, by G. A. BOULENGER, F. R. S. (Annali del Museo civico di storia naturale di Genova, ser. 3%, vol. V (XLV), 1912). rhinus, Blgr., di Socotra. Il Chaleides Bottegi, Blgr., di cui un solo esemplare fu raccolto fra Sancurar e gli Amarr durante l’ultima spedizione Bòttego, venne ora ritrovato dal Citerni ad Addis-Abeba. Camaleonti, 3 specie. Ofidii, 15 specie, e fra queste il nuovo Zamenis Citermi. Fra i Batraci, ammontanti in totalità a 5, è degna di men- zione la Rana Beccarii, Blgr. (1), specie assai pregevole che fu descritta sopra esemplari scoperti in un torrente a Filfil, Eritrea, dal dott. Nello Beccari. Il capitano Citerni l’ha rac- colta ad Addis-Abeba. PESCI. Il materiale ittiologico fu elaborato, con la solita grande e ben nota perizia, dal prof. Decio Vinciguerra (2). È scarso, risultando di 11 sole specie; ma in compenso 3 di esse sono descritte come nuove, cioè: Mormyrops Citernii, Labeo sticto- lepis, ambedue dell’Alto Ganale e Labeo Boulengeri del fiume Berber, nel paese degli Arussi Galla. Il risultato non è poco, considerando che anche il più lieve contributo alla conoscenza dei pesci d’acqua dolce di quelle regioni ha sempre molta importanza scientifica. MOLLUSCHI. Fra questi è da notarsi l’elegante Ampullaria speciosa, Phi- lippi, della quale esistono nella raccolta Citerni varî esem- plari, raccolti, in novembre 1911, nel torrente Baidoa (So- malia). (1) Description of a new Frog discovered by Signor Nello Beccari in Erythraca, by G. A. BOULENGER, F. R. S. (Annali del Museo civico di storia naturale di Genova, ser. 3°, vol. V (XLV), 1912). (2) Missione per la frontiera italo-etiopica sotto il comando del capitano Carlo Citerni. Risultati zoologici. Pesci per D. VINCIGUERRA. (Annali del Museo civico di storia naturale di Genova, ser. 3%, vol. V (XLV), 1912). — 240 — CROSTACEI E MIRIAPODI. Queste due classi di Artropodi non sono state trascurate dal solerte raccoglitore. Fra i primi va citato un Potamo®, trovato in varì esemplari nel torrente Baidoa. I Miriapodi, specialmente Diplopodi, sono rappresentati da un buon nu- mero di specie. ARACNIDI. Anche gli Aracnidi si presentano, come i Miriapodi, con una serie considerevole di specie. Abbondano gli Scorpioni e gli Araneidi, più povera è la serie dei Solifugi e i Pedi- palpi non contano che una specie. Fra gli Scorpioni noterò il Buthus Eminii, che Pocock ha descritto sopra un esemplare rinvenuto sulla sponda meri- dionale del Victoria Nyanza da Emin Pascià. Questa specie non è però che una varietà del Buthus trilineatus, Peters, dif- fuso dall’ Africa orientale germanica al paese dei Cafri. Il Ci- terni l’ha trovato nel territorio dei Rahanuin. Altre sette specie di Scorpioni fanno parte della sua collezione e sono: Buthus acutecarinatus, E. Sim., Parabuthus liosoma, H. & E., Parabuthus pallidus, Pocock, Nanobuthus Andersoni, Pocock, Uroplectes Fischeri, Karsch, Pandinus pallidus, Kraepelin ed un Lychas che richiede ulteriori studì. L'unico Pedipalpe è un Phrynichus, che, secondo il parere dell’insigne aracnologo prof. Kraepelin, potrebbe essere una specie nuova. Uno dei Solifugi è la Zeriassa Ruspolii, Pavesi (1), la cui scoperta devesi a don Eugenio dei principi Ruspoli fra Lugh e Bardera, nel febbraio del 1893. Seguono altre tre specie, cioè il comune Galeodes arabs, C. L. Koch, il Rhagodes Karschi, Kraepelin e una Daesia non ancora determinata. (1) Studi sugli Aracnidi africani del prof. P. Pavesi. IX. Aracnidi s0- mali e galla raccolti da don Eugenio dei principi Ruspoli. (Annali del Museo civico di storia naturale di Genova, ser. 23, vol. XVIII (XXXVIII) 1897). cai, pnt INSETTI. È questo, come era da aspettarsi, il materiale più copioso; ma io dovrò limitarmi a passare brevemente in rassegna i diversi ordini, segnalando per ciascuno di essi le forme più importanti e più caratteristiche. Le specie sono così distribuite: Coleoptera . . specie 324 VII CHO NERI RNA 63 WIRIOLIRRA O VI O SI 26 Aphaniptera . Sali eta dci lie » 1 Hemiptera sp. 83 ) poanichota Homoptera sp. 13 $ Ù de NE UROPIOLI OA A at I LETO 8 Paeudoneuropterati. ta dI 3 OTO preraa e O EN N 34 Specie 555 COLEOTTERI. Il numero delle specie di Coleotteri si può riassumere nel quadro seguente: Cicindelidae . . specie 4 Lymexylonidae . specie 1 Carabidae. . . . » 39 Bostrychidae. . . DIUIMS Dytiscidae . . . » 3 Anobiidae. . . . DENTI Gyrinidae.... DRS Meloidae . . . . DAMS Paussidae . ... . Dix 2 Mordellidae . . . DST Staphylinidae . . 0 Alleculidae . ‘. . SU TRUEEO) Sulphidaet.5t. v.l. DOM Tenebrionidae . . » 49 Hydrophilidae DZ Rhysopaussidae . pied Cantharidae . » 4 Cerambycidae » 23 Cleridae PARO Chrysomelidae » 27 Ostomidae . Dia dl Anthribidae 3a 1 Coccinellidae. » 10 Brenthidae dt Dryopidae. » 1 Curculionidae » 29 Dermestidae . > ag Scarabaeidae . » 58 Elateridae . #,013 Cetonidae ‘. D: di 2 Buprestidae * 0133 31 Li de Le Cicindele sono state sottoposte all’esame del dottor Walther Horn, l’autorità più competente per questa fami- glia (1), Egli ha trovato che si riferiscono a quattro specie, delle quali la più importante è una forma della Megacephala regalis, Boh., che egli considera come sottospecie nuova € descrive col nome di Megacephala Citernii. Lo studio di essa ha condotto l’autore ad utili considerazioni d’indole sistema- tica e ad appunti sulla distribuzione geografica delle Mega- cephala di questo gruppo. Le altre Cicindele portate dal Ci- terni sono: la sottospecie quadripustulata, Boh. della Prothyma versicolor, Dej., la Cicindela alboguttata, Klug, che abita la Somalia, l’Abissinia, Eritrea e trovasi pure presso Aden, e infine la Cicindela rectangularis, Klug, razza est-africana della Cicindela octoguttata, Oliv. Di Carabici si ha una ricca serie, che offrirà largo campo di studio, con coppia di novità. Non mancano fra essi Calo- soma, Anthia e sopratutto Polyhirma abbondanti in quelle regioni, e sono rappresentati: Graphipterus, Galerita, Triae- nogenius, Zuphium, Brachinus, Clivinidi con due eleganti forme, Cyclosomus, Siagona, Morio e tanti altri. Si è detto dei Paussidi che sono per gli insetti come le Orchidee per le piante, alludendo alle strane particolarità che li rendono estremamente notevoli fra tutti i Coleotteri. La bizzarra conformazione delle loro antenne tanto variabili, la loro convivenza colle formiche, la loro rarità, li fanno molto ricercati, talchè ne abbiamo visto assai aumentate le specie in un tempo relativamente breve (2). (1) Missione per la frontiera italo-etiopica sotto il comando del capitano Carlo Citerni. Risultati zoologici. Enumération des Cicindelides par WALTHER Horn. (Annali del Museo civico di storia naturale di Genova, ser. 3°, V (XLV), 1912. (2) Nel Catalogus Coleopterorum di GEMMINGER e HAROLD, pubblicato nel 1868, le specie di Paussidi ammontano a 99; nel Catalogo sistema- tico dei Paussidi di R. GeSTRO (1901) sono 270; nel Coleopterorum Cata- logus di JUNK, Paussidae di R. GeESTRO (1910) arrivano a 298, cui dob- 2 Re s=S I nomi di Paussus Antinorii, di Arthropterus Feae, di Pen- taplatarthrus Bottegi, di Paussus Andreinii, di Paussus Ba- yonii, da me applicati a specie di Paussidi africani, mostrano che i nostri benemeriti esploratori e raccoglitori hanno re- cato un buon contributo per lo studio di questa famiglia. Chi ha raccolto maggior materiale è il capitano dott. Al- fredo Andreini, che durante il suo soggiorno in Eritrea, dal 1901 al 1903, si è dedicato ai Paussidi con speciale amore, non trascurando però le altre collezioni zoologiche in ge- nere, di cui ha saputo radunare grandissima coppia (1). Dal- l’Eritrea abbiamo pure avuto Paussidi per mezzo del valente imenotterologo dott. Paolo Magretti, altro benemerito della fauna africana. La famiglia è anche rappresentata fra gli insetti dell’ultima spedizione di Don Eugenio dei Principi Ruspoli col Paussus laevifrons, Westw. e col Paussus spini- cola, Wasm., specie finora esclusiva della Somalia, dove tro- vasi dentro alle spine rigonfie dell’ Acacia fistula, insieme alla formica Cremastogaster Chiarini. Il dottore E. Bayon, inde- fesso ed abile raccoglitore, che ha fornito grande quantità di elementi per la conoscenza della fauna dell'Uganda, ha trovato per questa regione sei specie, mentre prima se ne conosceva una sola, e fra queste il Paussus Bayonii è sco- perta sua (2). Dobbiamo essere grati anche al capitano Citerni che ha saputo tener conto dell'importanza di questi insetti, racco- gliendone fin dalla sua prima spedizione in Somalia nel 1903, ed ora dal suo recente viaggio ne ha riportate due specie. biamo aggiungere due specie recentemente descritte, Paussus Andreinii e Paussus Bayonii. (1) Materiali per lo studio della fauna eritrea raccolti nel 1901-903 dal dott. A. Andreini tenente medico. Paussidae, di R. GESTRO. (Bullettino della Società entomologica italiana, anno XLI, Firenze 1911). (2) Collezioni zoologiche fatte nell Uganda dal dott. E. Bayon. IX. Ap- punti sui Paussidi, di R. GesTRO. (Annali del Museo civico di storia natu- rale di Genova. Serie 32, vol. IV (XLIV), 1910). = 944 ae Una è nuova; ho l'onore di dedicargliela e mi compiaccio che vi sia anche un Paussus insignito del suo nome (1); l’altra è il bellissimo Paussus procerus, che è fra i più grandi, e fu descritto dal Gerstaecker nel 1867 sopra esemplari di Abissinia. Il Paussus procerus fu trovato finora fuori dei for- micai; il Citerni ne ha colto tre esemplari durante il percorso dal Harrar all’Auasc. Nel Museo civico di Genova se ne con- serva un esemplare del Harrar, dovuto all’egregio commis- sario di Assab, Pietro Felter. | Il diligente raccoglitore ha radunato anche parecchi Sta- filini, assai pregevoli, benchè minuti; l’unico che fa eccezione è un grande e magnifico esemplare di Platyprosopus beduinus, Nordm., specie della Nubia che fu però raccolta anche al Cairo da Giacomo Doria durante il viaggio dell’« Esplora- tore » ad Assab. Un’altra specie dello stesso genere, di mi- nori dimensioni, è il Platyprosopus longicollis, Epp.; il primo è di Dolo, Valtro proviene dal territorio dei Rahanuin. Bello è pure lo Staphylinus hemichrysis, Fauv. irto di peli dorati. Vi sono inoltre quattro specie di Paederus, uno Zyras, un Leptacinus, un Bledius e due Philonthus, dei quali uno porterà il nome di Philonthus Citernii e sarà descritto prossimamente dal dott. Bernhauer, il valente monografo degli Stafilinidi, Scarso è il numero dei Malacodermi e notevole sopratutto la povertà assoluta in fatto di Lycus. La famiglia dei Cleridi invece si presenta più ben fornita, perchè in mezzo a graziose specie già note (Cylidrus fa- sciatus, Cast., Tillodenops plagiatus, Fairm., Phloeocopus vinctus, Gerst., Opilo rudis, Gerst., Tenerus variabilis, Klug) troviamo una specie nuova che verrà in seguito descritta col nome di Stigmatium Citernii. (1) Missione per la frontiera italo-etiopica sotto il comando del capitano Carlo Citerni. Risultati zoologici. Nuova specie di Paussus della Somalia di R. GestRO. (Annali del Museo civico di storia naturale di Genova, serie 3, vol. V (XLV), 1912). — 245 — Non ricca, ma interessante è la serie degli Elateridi, coi giganteschi Tetralobus ed altre specie minori. Fra i Buprestidi un’importante cattura è quella dell Am- blysterna stictica, Kerrem., magnifica specie trovata dal Ci- terni a Dolo e descritta in origine sopra esemplari dell’Africa orientale germanica. La Steraspis colossa, Harold, già nota della Somalia e raccolta dal Bòttego nei Boran Galla, forma notevolissima per la sua statura e pei suoi colori smaglianti sopratutto nelle parti inferiori del corpo, è qui rappresen- tata da un esemplare di Dolo. Altri Buprestidi della colle- zione sono la Chrysobothris empyrea, Gerst., la Sphenoptera abyssinica, Thoms., la Sphenoptera cuneiformis, Cast. & Gory, la Sphenoptera Bayonii, Kerrem. e l'Agrilus Breyeri, RKerrem.; infine una Melanophila dell’Uebi Mana appare differente dalle altre specie conosciute e verrà pubblicata come nuova col nome di Melanophila Citerni. Abbiamo poi belli esemplari di un Lymexylonidae, Atrae- tocerus brevicornis, Linn. e una piccola serie di Bostrychidae, composta di otto specie, delle quali una (Bostrychopsis Citernii) è nuova (1). Ha destato in me vivo interesse la presenza nel materiale a me affidato di un Rhysopaussidae, perchè questa famiglia, di Coleotteri viventi fra le termiti e dotati di caratteri straor- dinarii, è finora povera di specie, ciò che rende maggiore l’importanza del contributo arrecato dalle collezioni di Ci- terni. Si tratta di un Hoplonyx, genere di cui si conosce 0g- gigiorno circa una diecina di specie, abitanti l’Africa orien- tale ed occidentale (2). (1) Missione per la frontiera italo-etiopica sotto il comando del capitano Carlo Citerni. Risultati zoologici. Bostrychidae par P. LESNE. (Annali del Museo civico di storia naturale di Genova, serie 32, vol. V (XLV), 1912). (2) La figura di un Hoplonyx, del Sudan, fra gli ultimi descritti (Hoplonyx termitophilus, Wasm.) trovasi nell’opera Results of the Swedish Zoological Expedition to Egypt and the White Nile, 1901, under the direc- — 246 — L'Africa è il paese dei Tenebrionidi e quindi è naturale che troviamo numerose specie di questa famiglia nella col- lezione Citerni; esse superano quelle da me enumerate nel lavoro sui Coleotteri della spedizione Bòttego al Giuba (1). Bella è la serie delle Zophosis e dei generi vicini; meno nu- merose sono le Adesmia e le Ehytidonota; noto la Pimelia Bottegi, alcuni Moluridi, tre Sepidiini, un’ Anemia, un Endu- stomus e tanti altri che richiedono lungo studio per essere esattamente determinati. I Cerambicidi sono in tutto 23, dei quali 4 Prionini, 8 Ce- rambicini e 11 Lamiini. Dei Prionini noto come più impor- tanti il bell’ Acanthophorus nyassanus, Kolbe, di Dolo; gli altri sono: Cantharocnemis spondyloides, Serv. e Macrotoma palmata, Fabr., pure di Dolo e Tithoes confinis, Cast., dell’Auase. Fra i Lamiini specialmente osservo parecchie forme minute, molto interessanti e con probabilità in parte nuove. I Crisomelidi, ammontanti ad una trentina, comprendono due Criocerini, un Oryptocephalus, un Clitrino; più numerosi sono gli Eumolpini; vi è una sola Cassida e mancano gli Hispini. Le due famiglie degli Antribidi e dei Brentidi, sempre parcamente rappresentate in quelle regioni, contano ciascuna una specie. Non si può dire lo stesso dei Curculionidi, che si presen- tano in serie numerosa e ricca indubbiamente di novità. x La famiglia degli Scarabeidi è quella che offre il mag- tion of L. A. Jtiigerskiòld, parte I. L’Hoplonyx termitophilus vive nei nidi di Termes natalensis, Hav. L’Hoplonyx Casatii, da me descritto sopra un esemplare del Lago Edoardo, raccolto dal compagno di Gessi e di Emin Pascià, il maggiore Gaetano Casati, è molto diverso dalla specie ripor- tata dal Citerni. (1) Esplorazione del Giuba e dei suoi affluenti compiuta dal cap. V. Bòt- tego durante gli anni 1892-93, sotto gli auspici della Società geografica ita- liana. Risultati zoologici. XVI. Coleotteri, pel dott. R. GeESTRO. (Annali del Museo civico di storia naturale di Genova. Serie 22, vol. XV (XX.XV), 1895). )feT — 24 — giore numero di specie. Non manca il comune, ma splendido, Scarabaeus purpurascens, Gerst., cui fanno compagnia alcune specie ugualmente splendenti di Ontophagus. Pregevoli assai sono quattro specie di Bolboceras. In mezzo alla serie degli Aphodius osservo tre esemplari di Stiptopodius Doriae, Harold, cosa che mi compiaccio di accennare, sia per la rarità di questo insetto dotato di caratteristiche straordinarie, sia perchè esso è legato ai nomi di quattro insigni esploratori italiani; infatti il primo Stiptopodius fu trovato in Eritrea a Sciotel, fra i Beni-Amer, dal dott. Odoardo Beccari, un se- condo è dovuto a Don Eugenio dei Principi Ruspoli, che lo raccolse a Leboi sul Daua, il terzo, preso fra Mat-Agoi e Lugh, spetta alla raccolta fatta dal capitano Bòttego durante la sua ultima spedizione, ed infine abbiamo i tre esemplari colti dal Citerni a Dolo, sponde del Ganale Doria, e nel ter- ritorio dei Rahanuin (1). Di Cetonidi non abbiamo che la Pachnoda Stehelini, Schaum e l’Hoplostomus fuligineus, Oliv.; la prima è comunissima, ma non può dirsi lo stesso dell’ Hoplostomus, conosciuto finora della Cafreria e della Senegambia e citato dal Gerstaecker fra le specie del viaggio di Von der Decken. IMENOTTERI. L’ordine degli Imenotteri conta le specie seguenti: Ichneumonidae . . specie 4 Scoliidae . . . . Specie 1 Braconidae . . . » 3 Pompilidae . . . »TI6 Ciorysidao).. v-t ab}: 0) di 13 Crabronidae . . . » 3 Formicidae . . . » 25 Vespidae . . . - DSi Mutillidae. . . . DIO Apidao . . . . DATI (1) Per la figura e la distribuzione geografica di questo insetto, unica specie finora descritta del genere Stiptopodius, vedi: R. GESTRO, Un cenno sul genere « Stiptopodius », Harold. (Annali del Museo civico di storia naturale di Genova. Serie 23, vol. XIX (XXXIX), 1899, pag. 519, fig. pag. 520). DITTERI. La serie è importante e comprende numerosi generi. Emerge fra tutti una graziosa Diopsis, colta in copiosi esemplari sull’Auasc; questa specie, a primo colpo d’occhio, ho creduto dovesse riferirsi alla Diopsis Beccarii, Rond. trovata, pure in quantità, a Sciotel nell’Eritrea, ma ho verificato in seguito trattarsi di cosa assai diversa. RINCOTI. Il numero dei Rincoti è davvero ragguardevole special. mente per gli Emitteri, che salgono ad 83, mentre gli Omot- teri non sono che 13. Abbondano i Reduviidi e fra essi fa bella comparsa, per dimensioni e colorito, il Platymeris Rha- damanthus, Gerst., seguito da buon numero di altre specie assai notevoli. NEUROTTERI E PSEUDONEUROTTERI. in questi ordini troviamo parecchi Mirmeleonidi, qualche Ascalaphus e pochi Odonati. ORTOTTERI. Gli Ortotteri non furono davvero trascurati. Prima di tutto dobbiamo notare una serie importante di Blatte, fra cui varie specie del curioso genere Derocalymma, e lo stesso per le Mantidi, benchè non ancora interamente determinate. Posso citare fra queste ultime: Danuria bolauana, Saussure, di Dolo. Sphodromantis viridis, Forsk., dell’ Auase. Sphodromantis Andreinii, Giglio-Tos, di Dolo. Ischnomantis, due specie finora indeterminate dell’ Auase. — 1249 — Tarachodes, due specie pure da determinare di Dolo. Tarachodes pantherina, Gerst., di Dolo, specie elegante figu- rata dal Gerstaecker nella parte entomologica del viaggio di Von der Decken. Entella, del territorio dei Rahanuin. Calidomantis, dell’Auase; queste due ultime ancora da studiare. Di Fasmidi non esistono che due specie del genere Ba- cillus. Seguono i Grillidi, con un discreto numero di specie; i Locustidi, con varie forme del bizzarro genere Eugaster e in- fine gli Acrididi, con poche, ma ben caratteristiche specie, ed i Forficulidi, con una sola. Genova, novembre 1912. Prof. R. GESTRO. 32 MICA ONT TOI OTERSATI MILO # MCMEAM TM I. five bona Lv SIA Vi RE «ine, IEEE i MPRPNIRAI MPT VITTO CIÒ de AVA BEFA TIT ACIIUITRR0N ISOTAT VICE MA MOSTO ù) ì : AVVIANO pen N z Î P LIT TRO We LN FO ARONA DIRI STE OO] ATO COSI iti) (Wh 0I PALI pi dn i so ; Vi vitto ddt du (a 14 pEr EDI in ab LALA E ITA A IAT civ bic. MERITI «it Arata id 3 40111 SIONI Sti DILATA aL | n ta US TITO “into MR ENO EIUT IRSIIOTALITE L Ah 1 DL Li} Ù 4 Vi Li i RETRA i 4a Ne A IAA Ù LI ride ALPI I (0 i Sb A 0 PRA ty! (PRO Ù) 1 Ù) I] È % A 5 0 ni raTS60 DEIRA NA DO A ti Ù i Î Ù di Past ai Li i; n! ivi gru ur Tale Lol GITA ) = WS ap (N ygatane) 2% da Ù vi dal a AD MALL dh, / ‘ I di fall MA. UVA. v PI DATATO & VIA 3 Ù ; Pa APPENDICE III. Osservazioni Meteorologiche e loro discussione per il Dr. EMILIO ODDONE primo assistente del R. Ufficio Centrale di Meteorologia e geodinamica in Roma. Al R. Ufficio centrale di meteorologia e geodinamica per- vennero dalla Direzione centrale degli affari coloniali al Mi- nistero degli esteri, le osservazioni meteorologiche fatte du» rante il viaggio della missione incaricata di limitare il confine italo-etiopico, perchè fossero discusse. Delle osservazioni era incaricato il topografo signor An- nibale Venturi dell’ Istituto geografico militare, addetto alla missione. Numerosi schiarimenti ci furono forniti a Roma dal ca- pitano Citerni comandante la missione stessa. Le osservazioni meteorologiche raccolte durante il viaggio della missione Citerni del 1910-1911 si riferiscono a misure di pressione, di temperatura, di vento e dello stato del cielo, compiute dai nostri nella regione continentale dell’Africa orientale tra il quarto ed il decimo grado di latitudine nord. Sono state fatte lungo la via che dall’ Harrar recava la missione a Dolo, per Addis-Abeba. Le osservazioni sono di due sorta: quelle fatte ad ore fisse in luogo di lunga permanenza, e quelle fatte alle stesse ore fisse, ma in località di- verse, secondo l’itinerario del viaggio. Le prime sono tra loro ‘paragonabili; le seconde non lo sono e pur nondimeno presentano un forte interesse, rife- — ga rendosi a regioni poco visitate e quasi sconosciute dal lato meteorologico. Le une e le altre abbiamo assoggettate a breve esame critico, decidendo di dividere le seconde osservazioni in varie serie, come comportava il variare della stagione, della lati- tudine e dell’altitudine. Per ordine di data, le osservazioni vanno dal 1° ottobre 1910 al 9 agosto 1911 e si possono dividere naturalmente in quattro serie nel modo che stiamo per descrivere: La prima corre dal 1° al 31 ottobre, e comprende le os- servazioni fatte in paese elevatissimo nel viaggio Harrar- Addis-Abeba, lungo circa il parallelo del grado nono. La seconda serie include il novembre ed il dicembre 1910, e sono le osservazioni fatte in posto ad Addis-Abeba alla legazione d’Italia. Quelle della terza serie sono le osservazioni durante il viaggio da Addis-Abeba a Dolo dal 22 dicembre 1910 al 16 marzo 1911. Furono fatte quando la missione scendeva dall’ altipiano abissino in direzione SE, fin verso il quarto grado di latitudine settentrionale, passando dalla quota di 2450 m. propria ad Addis-Abeba a quella di 221 m. sul livello del mare a Dolo. Sono le più difficili a raggrupparsi. Infine viene la quarta serie, con le osservazioni fatte a Dolo dal marzo all’agosto del 1911. Prima di accingermi alla discussione delle osservazioni, io esprimo il parere che le osservazioni meteorologiche d’esplo- razione siano pubblicate in extenso così come l'osservatore le ha raccolte. Ogni meteorologo le discuta come meglio la sua esperienza gli detta, ma si guardi con soppressioni od arbitrii di togliere ad altri studiosi la possibilità di risalire alle osservazioni genuine. Conseguente a tale convinzione, io ho consigliato di far pubbliche le osservazioni del Venturi quali furono trasmesse, senza correzioni o ritocchi. Dalla discussione delle medesime io ho tratto quel po’ che ho saputo ricavare; altri, colle fonti allegate, potranno verifi- care le mie conclusioni e spingersi più addentro nella materia. — 253 — BAROMETRIA. — La spedizione possedeva due barometri aneroidi della marca Troughton e Simms, contrassegnati dai nn. 990 e 1171. Non è detto nel quaderno delle osservazioni, se l’osserva- tore possedeva le rispettive curve di correzione strumentale. Vi leggiamo però: che il barometro aneroide n. 990 al mare, a Gibuti, an- zichè 760,2 segnava 749; ed il barometro aneroide n. 1171 nelle stesse condizioni di tempo e di luogo, segnava 765. Dallo stesso quaderno si può facilmente scorgere che i due barometri corretti per l’accennata differenza di Gibuti, segna- vano ad Addis-Abeba sull’altipiano, rispettivamente 568,2 e 573,2. Siccome la media pressione ad Addis-Abeba è nota, eguale a 568 circa, ne concludiamo che l’olosterico n. 960 non alterò la sua correzione passando dal livello del mare a 2450 m.; fatto che depone a tutto favore del detto ane- roide; mentre l’altro contrassegnato col n. 1171 diedesi a di- vedere soggetto ad un isteresi di 5 mm. e quindi meno buono. Troviamo ancora sul giornale che addì 20 dicembre 1910 si suppone caduto il barometro 1171, ed a svantaggio di que- sto 1171, sta ancora il fatto che a viaggio compiuto, essendo capitato nelle nostre mani per la taratura, abbiamo consta- tato che esso aveva l’indice fermo su di una pressione corri- spondente circa all’altezza di Addis-Abeba dove è presup- posto sia caduto. Senza insistere su ciò che potrebbe essere una fortuita coincidenza, abbiamo tre argomenti che depon- gono a sfavore del 1171. Perciò diamo incondizionata prefe- renza ai dati forniti dall’olosterico n. 990. Questi dati sono elencati ‘nella terz’ultima colonna delle tabelle ed ai mede- simi occorrerà portare la correzione che abbiamo chiamato di Gibuti (+ mm. 11,2). Le pressioni allora risultanti, permet- teranno il ricavo di dati ipsometrici abbastanza approssimati, affetti solo più dall’errore dell’escursione incognita della pres- sione barometrica che dal suo valore normale. RIESI. > QUE TEMPERATURA. — Il quaderno non dice con quali termo- metri si siano fatte le letture e nemmeno ne specifica la cor- rezione. È però probabile siano stati adoperati il termometro in quinti ed i termometri a massima e minima in uso nelle stazioni termo-udometriche italiane. È altresì probabile che la loro correzione fosse nota e sia stata applicata. In caso contrario, ricordando che i termometri da noi accettati e messi in circolazione per la meteorologia hanno sempre una correzione piccola, potremo con buona approssimazione rite- nerla trascurabile. Le letture al termometro sono state fatte tre volte al giorno; alle sei, a mezzogiorno ed alle diciotto t. v.; però nei giorni in cui l’arrivo al campo tardava sul mezzogiorno, si preferì trasportare l'osservazione dal mezzogiorno alle 15°. Tutto ciò risulta dalle tabelle. PRIMA SERIE, VIAGGIO LAGO HARAMAIA-ADDIS-ABEBA. — a) La serie incomincia con le osservazioni meteorologiche addì 1° ottobre 1910 a Carsa e continua per quindici giorni di viaggio, lungo un altipiano alto circa 2000 m., su di un percorso di circa 150 km. fino a Cunni. La temperatura dal 1° al 14 ottobre compreso ebbe una media di circa 12°,7 alle sei » >» 21°,1 alle quindici » >» 16°,1 alle diciotto. La media delle temperature massime fu di 21°,9, quella delle minime 8°,1. La temperatura media diurna ricavata dall’espressione 6" +18" +-Ma + Mi + L'escursione media diurna, calcolata dalla media delle massime meno la media delle minime, diede 14°,5. La tempe- ratura massima assoluta arrivò a 26°, la minima a 5° e la massima escursione diurna a 21°. fu di 149,5. Sono temperature molto basse per la latitudine cui occor- i, — 255D — rono. La ragione va cercata nell’altitudine, nel NE incipiente tra gli altri venti, e nel prolungo esagerato del tempo pio- vigginoso e temporalesco, come leggesi nella colonna ultima delle tabelle intitolata varie. b) Da Cunni, la missione scese da 2000 a 1000 m. sul li- vello del mare nella risecca vallata dell’ Auase, per risalire poscia a 2000 metri a Sciancorà. Ad un’altezza media di circa 1500 m., in questa seconda quindicina di ottobre, con cielo sereno e venti del secondo quadrante, le temperature ebbero î seguenti valori medi: Dal 14 al 28 ottobre compreso: 14°,8 alle sei 27°,4 alle quindici 253°,0 alle diciotto. La temperatura media fu di 22° approssimata, perchè es- sendosi guasti i termometri a massima ed a minima la si dovette ricavare dall’espressione meno esatta dra Così a criterio dell'escursione media diurna, il dato che me- glio specifica le condizioni termiche del paese, si tenne la differenza tra le medie alle 15" ed alle 6" ricavandone il va- lore di 129,6. Paragonate queste cifre alle precedenti del comma da) risulta evidente l’aumento di temperatura perla diminuita altitudine, aumento ancora più sensibile in fondo alla valle, presso lo Auasc, a 950 m. circa, dove il termometro salì alle 15° a 35°! Tra le stazioni a) e le stazioni 5) alla levata del sole la differenza di temperatura è piccola; ma verso le 15" e le 18! si fa notevole, corrispondendo al decremento adiabatico di 1° circa per ogni cento metri d’altezza. Ripresa la salita, verso Addis-Abeba, si ebbero notti fred- dissime e ad Ambissa 2°,5. SECONDA SERIE, OD OSSERVAZIONI AD ADDIS-ABEBA. — Le osservazioni ad Addis-Abeba città, vanno dal 3 novembre — 256 — al 21 dicembre e si riferiscono a regione molto alta sul mare (2450 m. circa) in una stagione nella quale dominò sempre il monsone di NE, con cielo sereno, salvo brevi periodi pio- vosi nella seconda decade di dicembre. Dato il clima equatoriale di Addis-Abeba che è a 9 gradi di lat. Nord, era da aspettarsi che la temperatura media men- sile vi fosse abbastanza costante ed infatti il valore medio mensile di novembre fu di 13°,5 e 13°,4 circa quello del mese di dicembre. Non ci fermiamo molto su queste osservazioni di Addis» Abeba perchè il nostro Governo vi tiene in funzione una stazione termo-udometrica che ha già fin dal 1905 pubblicato alcuni risultati preliminari (1). Dalle schede mensili della medesima si possono togliere a complemento, le massime e le minime dove esse mancano. Così impariamo che le temperature massime furono quasi sempre le stesse, intorno 25°, mentre le minime da circa 6° alla fine di novembre, salirono a 10° circa a metà dicembre. Ci piace peraltro far notare che il metodo allora adot- tato per la determinazione della temperatura media diurna Ma+Mi aveva per base la formola > dl ; mentre noi in queste osservazioni siamo in grado di poter adoperare l’espressione 6% + 180 + Ma + Mi 4 più approssimata . Per i mesi di no- vembre e dicembre i valori medi ottenuti con l’espressione ultima scritta, sono assai più bassi di quelli che si sarebbero ottenuti applicando la prima espressione. Ci è finalmente ‘di soddisfazione constatare che nei dati delle due stazioni: la provvisoria del cap. Citerni e la stabile del dottore L. De Castro, l’accordo termometrico fu in gran parte raggiunto. (1) L. DE CasTRO ed E. ODDONE, Boll. della Soc. Geogr. Ital., fasc. I, 1905, pag. 19-30. — 257 — TERZA SERIE. VIAGGIO DA ADDIS-ABEBA A DOLO. — a) Nel primo tratto da Addis-Abeba al lago Arsadi (22 al 26 dicembre 1910) la regione attraversata presenta elementi meteorologici dalle stesse caratteristiche come nel tratto prima di Addis-Abeba e di Addis-Abeba stessa. b) Dopo il lago, scendendo di qualche centinaio di metri verso la pianura umida dell’alto Auasc, la temperatura salì di poco, per tosto ridiscendere quando la missione prese @ risalire il versante opposto. Qui si incontrarono temperature minime insolitamente basse, fino a 4° sotto lo zero, con ab- bondante produzione di brina, un fenomeno non sconosciuto, ma non frequente allo Scioa. Nel tratto da Siriè a Ghigner, durante l’intero gennaio 1911, ad una media altezza di 2400 m., con venti sempre del primo e del secondo quadrante (periodo intenso del monsone) e cielo per lo più sereno, si ebbero le seguenti temperature medie: Dal 2 gennaio al 6 febbraio compreso: 6°,8 alle sei 25°,0 a mezzogiorno 14°,4 alle diciotto. La media delle temperature massime si mantiene ancora intorno i 26° salendo la massima assoluta a 29°. Le tempe- rature minime oscillano da — 4° a + 11° con una media di + 59,7 mentre l’escursione diurna fu sempre forte ed addì 1° gennaio raggiunse i 29°,5! La temperatura media risultò di circa 139,2. c) Al di là di Ghigner, il viaggio nella prima quindicina di febbraio si svolge da Nord a Sud per una ininterrotta lenta discesa. Per avere gli elementi meteorologici intorno ai 1000 m. d’altezza, abbiamo raggruppato le stazioni tra Malcà Uoddà a 1410 m. ed Aggiò Cata a 790 m. In questa quin- dicina soffid sempre il monsone di NE ed il cielo fu preva- lentemente sereno. La temperatura fornì le seguenti medie : 33 Dal 7 al 17 febbraio: 10°,7 alle sei 330,3 a mezzogiorno 27°,6 alle diciotto. La media delle temperature massime fu di 34°,7, quella delle minime 8°,9 risultandone una temperatura media di 20°,5. La temperatura massima assoluta fu di 389,5 e la mi- nima assoluta di 6° con escursione diurna media di 25°,8 e massima di 28°,5! d) Il rimanente del viaggio da Malcà Carsà a Dolo si svolse ancora in continuata discesa. Occupò la seconda quin- dicina di febbraio e la prima quindicina di marzo. I venti predominanti furono del primo e secondo quadrante ed il cielo si mantenne sereno. Si era in piena estate etiopica e l’unica giornata temporalesca del viaggio, fu quella del 9 marzo, con la caratteristica di possedere la temperatura massima assoluta del periodo: 45°,5! Raggruppato quelle stazioni di declivio comprese tra le altezze di 779 e 221 metri sul livello del mare, così da ren- dere in qualche modo possibile di riferire gli elementi me- teorologici ad un’altezza media di circa 500 m.; in questo intervallo abbiamo ottenuto per la temperatura, le seguenti cifre medie: Dal 18 febbraio al 14 marzo: 22°,7 alle sei 389,3 a mezzogiorno 34°,0 alle diciotto. La media delle temperature massime fu di 40°,6 quella delle minime 22°5 risultandone una temperatura media di 309,0 con temperatura massima assoluta di 45°,5 e minima assoluta di 20°. QUARTA SERIE, OD OSSERVAZIONI A DoLo. — La località era a 221 metri sul livello del mare, a circa 4910’ di lat. Nord e 41°45' Est del meridiano di Greenwich, An Le osservazioni si estendono dal 17 marzo al 9 agosto 1911. In questo periodo l'andamento della temperatura si può rias- sumere come nel seguente specchietto: Temperature medie mensili sua s P sili Minima | Massima MESI | | Massime | Minime Medie | Assoluta | assoluta Marzo (a principiare dal 17) - | 35°.9 | 250.2 | 29.4| 2300| 390.0 DIREI O e 34. 0 24.4 | 28.3 23.0 37.5 Manno ni te E 35.3 | 23.8 | 28.5 | 20. 5 37.5 Giugno (dal 10 al 17 osserva- | | tore ammalato) - . . . SIA NZ ITA ZII 22.0 36. 5 reboot |- 31.0 | 22.3 26.1,| 20.0 34. 0 Agosto (solo fino al giorno 9) | 31.0 22.0 25.9| 20.0 L'andamento annuo è tale che le temperature massime si incontrano in marzo e regolarmente decrescono fino ad agosto ed oltre. Le escursioni sono piccole e sconosciuti i bruschi sbalzi di temperatura. La costanza climatica equatoriale vi si mo- stra in tutta evidenza, tanto nelle piccole e regolari varia- zioni termiche, quanto nei venti, che durante sei mesi all’in circa, ebbero la provenienza predominante di SE e SW. Nota l’escursione termometrica annua, che i dati di Dolo e di Addis-Abeba in concordanza coi valori forniti dal pro- fessor Hann nel suo Hatlas der Meteorologie, dicono non su- periore ai quattro o cinque gradi; e noto l’andamento ter- mico annuo che gli stessi dati dicono diminuire da marzo a dicembre e salire da dicembre in avanti, riesce fino ad un certo punto possibile di riportare le temperature delle varie serie al probabile loro valore medio annuo. — ig Questo abbiamo fatto, e non avendoci troppo da preoc- cupare della correzione per le diverse latitudini, perchè le isoterme corrono piuttosto parallele che perpendicolari alla costa, siamo in prima approssimazione arrivati alle cifre del seguente prospetto, cifre troppo modeste per illustrare nel modo che avremmo desiderato come varia la temperatura media annua con l’altezza sul livello del mare, nell'Africa equatoriale orientale. p Media altezza Temperat. STAZIONI TRE annu. s. l. d. m. cdi ZIO DOLO Ma MR IE 279,0 500.» 'Maleà Carsà-Dolo 1 006. i SE, 269,0 1000 a 1500 » | Cunni-Sciancorà e Malcà Uoddà-Aggiò Cata. 219,0 20007». CALSICUTIRRE E et RR SII 169,0 2500 » | Addis-Abeba e Siriè-Ghigner . . . . . 149,0 Il medio decremento tra Dolo ed Addis-Abeba per un di- slivello AH di 2250 metri circa viene di 13°,0, indicando un decremento medio di 0°,6 circa per ogni cento metri di sa- lita; ma è una conclusione ripetiamo basata su troppo poche osservazioni perchè dessa non debba essere risoggetta a ve- rifica. ITINERARIO, DATI OSSERVAZIONI METEOROLOGICHE Itinerario: Lago Haramaia-Ad TEMPERATURA DATA LOCALITÀ 6h | 15h | 18h | Mass. | Min Ottobre 1 | Lago Haramaia: Carsa. 10 | 24 16,5 24,5 vi » 9° PDarabello\ {0a 11,5 21 15,5 21 8 » 8-4-5 | Ghcuda. . . . +. . e 13,2 21 14,4 21,7 8, » 6 | Laga Ghebià. . . . . + 13 _ 17 — 9, » Ti DER em aa 12,5 18,5 15 18,5 8, » 89M Burani ee 13 23 18,5 26 5 » 10..:| Didibà + do 15 24 19 24 “ » 11 | Medaidh .la.;llrtede 14 20 16 20 8, » Tosi oglizSciola. ct ie 13,5 19,5 16,5 23,5 10 « IS CURIE E 11 19 135 us 8 » 15-16-17 | Buroina. 0 le 00 14,3 | 22,7 19,5 24,5 9 » 18 | Abrò (Cereer). . . . .| 16 | 24 22 24 4 » 19 | Ghelemso . 00 | 18 a _ _ » 20 | Lagà-Hardin . . . . . 10,5 25,5 21,5 — = » 21 | Argagà. . . . .... 16 | 31,8 24 css x » DA. AmRSe i e 17. |. 26 30 _ _ » 23 Vin marcati — | = _ = = » 24-25 | Tadecia Malcà. . . . . 20 | 34,5 30 _ “ » 5. CRA RA Co (CIC: VP RARI SR 16 | 29 25 _ 4 » DT. | Manabella!/.../ ne 13 26 21 — —_ » 28 | Godoburca . . . . . + 9 24 16 — = » 29 | Sciancorà...... . 9 | 21 15 i » 30 | Sciaffedenza. . . . . +. 10 | 21,5 16 —_ » S| Ambia: Dr | 22 16 a È 0 e i AI pre | Novembre 1 | -Addis-Abeba. "0 | _ (*) Pressione media delle osservazioni giornaliere 6°, 15%, 18°... ... +.» — 263 — | BAROMETRO (*) TENTO i ___ ii | 990 | Ja | SSE 5 cu 598 | 608 Pg. temporalesca la sera, l. e t. vio. NW 2 ci cu 590 | 597 VE-SO vario 575,6 | 590,7 W-:sW | 2cu 5873 | 601 | SSW 6 cu GIOSS (59200 | bf dl mattino; allo 19 ped. iriabile 6 cu 605,4 614,3 | alle 12 del giorno 9 goccie di pg. WWW 6 cu 598,7 | 608,7 | nb. alta al mattino. ssw coperto 580,3 | 593,7 a 2 CSA 579,1 | 594,2 il ie la Ale: il 13 nbf. al mattino e N 3 ci cu 561,5 i 581,8 | nb. al mattino, alle 12 poca pg. riabile semicoperto 608,8 | 616,9 | poca pg. ad intervalli tutti i giorni. (E-SE 6 ci cu 607 | 615,7 | pgd. alle 11, e scarsa la notte. Au 4 ci cu 608 | 619,8 | pg. dalle 11 alle 12. ESE 3 ci cu 621,3 | 630,5 | termometro a Mass, e Min. guasto. SE 2 ci stv 653,7 | 663,3 SE puro 673,8 | 684,7 ESE 2 ci cu 667,3 677,3 E 1 ci cu 630,2 640,5 | 1 ci cu 615,3 624 | Ww 1 be 613,7 | 621,7 | notte freddissima, rugiada. E 1 stv 578,7 | 596 id. id. E 1 stv 570 586,8 2 cu 572 586,7 notte freddissima (2°,5). —_ — —_ Vedi specchio a parte. tometro aneroide Trongton n. 990 segnava al mare, a Gibuti, 749 | anzichè 760,2 » » » DO OBLAI » » » 765 | — 264 — Dati meteorologici raccolti ad Addis-Abeba (Lega: ——————————————————T=€€=—1————————_wwuMVvo0€€_rKrrzrm|]-«——-—-—=xa«aqpBpPoanRnOanOvyNuNo\(e v— TEMPERATURA DATA ETA 6h 12h 18h | Massima | Mini Novembre . 3 8 24,5 14 _ _ » 4 7 26,5 14 — - » 5 6 27 13 —_ - » 6 8 26 17 _ - » 7 9 25 15 —_ _ » 8 | 8 24 14 _ _ » 9 TI 25 13 = = » 10 8 26 14 —_ - » 11 7,5 26 14 —_ = » 12 8 24 16,5 —_ n » 13 9 25 15 — 5 » 14 8 Î 25 15 pi ò » 15 9 25 14 _ » 16 8 23 13 — » 17 7 24 13 — » 18 8 25 15 —_ » 19 7 | 24 14,5 _ » Ù 20 8 25 15 _ » 21 8 25 13 — » 22 8 26,5 13 — » 23 8 26 14 — » 24 4 27 14 —_ » 25 5 27 14 _ » 26 8 25 14 _ » i 27 9 25 15 — (*) Pressione media delle osservazioni fatte giornalmente alle 6, 12 e 18% .. — 265 — 4 ia) dal 3 novembre al 21 dicembre 1910. | BAROMETRO() | "ENTO oi VARIE | 990 | 1171 | | | | NE 1 eu | 558,7 | 578,3 termometro a massima e minima guasto. ENE | 1cicu | 68.8 |UCITI | NE 1cicu | 57,0 | (uf-1 » | 4ciceu | 557) 793 ARTT 56,7 80,7 | E | 4 cu 573 | 80,3 | » | 1 ci str SII 81,3 » | 1cistr 57,0 | 80,3 NE ! Zeici cu. | 56,3 | 80,5 E I 5cicu | 570) 80,7 » | 2 ci cu 54,7 | 78,3 » file | 568 | 76,3 » | 2 cu | 56,3 ' 717,0 | » i 2 cicu | 57,0 77,3 talma | 2cistr | 567| 763 | E L'erstr | 56,3 | 76,7 » | 1 ci str | 563 | 770 | NE | 1 ci 567 | 888 » | 2 ci str 57,0 92,0 » I 2 ci str | 56,3 | 86,2 1) si suppone caduto il barometro 1171 » 2 ci str 56,3 | 82,0 » | E.ci cu 55,0 | 80,0 > | 2cnstr | 560) 770 » | dela || 553 | 765 » I 2 ci cu | DO, "(Ox1, ;\arometro Troughon n. 990 segnava al mare a Gibuti 749 tr. : in cambio di 760,2 » n. 1171 » » 765 34 DATA Novembre . » » Dicembre. . . . — 266 — 30 | =}E RO fiati (OS CO (i RO ER) o 10 6h 10 10 TEMPERATURA 0A Temperatura media = 169.05 13,5 15 16 15 15 15 15 15 | 18h | Massima 26,5 I (l Minin 10 ENTO lma CIELO 1 ci cu 1 ci cu 2 ci cu 2 ci cu str | 1 ci str 1 ci cu str 1 ci str 7 nuvolo 8 nuvolo 4 cu 5 cu 8 coperto 3 ci cu dCI CU. 5 cu 9 nuvolo m BAROMETRO (*) 990 | 1171 | | 54,3 | 74,3 554,7 575,3 53,7 75,0 | 54,8 |. 75,0 54,3 78,0 bbc 548 78,3 54,7 80,0 55,3 79,7 56,0 | 80,0 57,3 | 80,7 55,0 80,0 GET 80,0 53,7 79,7 53,7 | 795 53,8 | 79,3 | 550 76,3 (ner 77,0 55,3 | 782 | 560 | 763 MA cc; | 82,0 55,7 | 80,0 53,3 | 77,2 53,7 | 78,7 55,3 | 79,2 | .= 555,7 | 579,0 | | ! | | | | I | | Lengni + VARIE ricevuto termometro a massima e minima. dalle 3 alle 8 e dalle 15 alle 16 pg ad intervalli. dalle 11 alle 13 pg ad intervalli. dalle 12 alle 14 scrosci di pg. | alle 18 gocce di pg. | dalle 8 alle 14 pg ad intervalli — 268 — Osservazioni meteorologiche eseguite lungo l’itinerario: Adi Ì I TEMPERATURA DATA LOCALITÀ ——_- o 6h | 12h | 18h | Mass. | Min sso. o A I Dicembre 21 | Addis Abeba . . ...| 13 | 16 15: AMA 11,08 » 22 | in marcia. . | — | — 2 | = di | » 23 | Achachi. . | 125) 24 16 26,5 | 104 » 24-25 | Bicom. . | 11,5 24,5 | 19 25 11, » 26 Lago Arsadi . . . . + | 14 25,5 | 18 27 TI » 27 | Mogiò | 18,5 | 26 | 21 28 ci » 28 a 31 | Auase | 85 | 255 | 19 27 5Ì 1911 | | I Gennaio 1 Tonio. ae vera ee | 26 20,5 | 26,5 | - 3 » 2° Be LI e a e 18 | 26° (008 » PARE, I, RT 10,5 | 23,6 000 » 45 | Bobbi-Girddà . . . . . 5 | 22 12,5 | 24,5 4 » Dal Alen i Sa a 24 16 275) 6 » 8 | Dilai ivi { (165 ed 21 29 11) » RIO Lo 4 #5 135 | 25,5 3 » 10-11 | Borofa li 6,5 | 22 12,5 23,5 » 19 | Arr 8,5: | 16 21 7 » 13-14 | INTARSI ERE 6 | 25,9 hr 27 » 16 RUI i 9 22,5 | - 4 » 16 | Abacarà. . 5 I 22,5 15 23,5 » 17 a 29 Goba . . | 6,5 | 21,5 13,5 26,5 » 30 | Besàsù . | 85| 24 12 25 8 » 31 Sceneddstni a i | Gio eV 16 24,5 Febbraio 1 | Caravullò . <... | 6 | 23/0 RE 26,5 6 » ola e t PD, | 25,5 | 145 | 26 (*) Pressione media delle tre osservazioni fatte giornalmente alle 6, 12, 18° ao e eba-Goba-Ghigner-Dolo (22 dicembre 1910-16 marzo 1911). | BAROMETRO (*) VENTO | CIELO VARIE J 990 1171 NE coperto pg. 555,3 | 579,2 si 3a | — | a NE 5 ci eu | 574,0 593,5 » | 3 cu str | 577,2 698,8 | » | 3 cu str | 595,0 610,2 » | 2 ci cu str | 603,3 615,0 | » i 1cicustr| 620,5 | 630,2 | | | calma | lo) I 624,0 | 634,3 | brina. NE I 3 | 59938 | 611,3 ESE | o | B4L5 | 568,5 | brina. ESE | 2cicu | 5533 | 5772 NE | © seo 5887 » | o | 593,7 608,0 calma nb alta | 961,0. | 591,2 NE 3 ci cu 535,6 562,9 95 2 cu | 545,5 | 578,8 ENE 2cicu | 552,7 579,7 | » | 2 ci cu 518,7 | 548,0 | vrina SW 3 cu | 533,2 565,2 | 21, 22, 23 e 24 piccole piogge. ESE vario | 537,7 561,5 | pg ISO notte. NE | 8 nuvole 558,2 585,0 | pg. la notte. » | 5 nuvole | 563,0 588,7 » 4 ci cu | 556,7 | 584,2 » 1 ci str | 513,2 | 596,3 brina. barometro Troughton n. 990 segnava al mare a Gibuti 749 ( invece di 760,2. » ig » » 765 | DATA Febbraio 3 a 6 » 1 » 3 » 9 » 10-11 » 12 » 13 » 14-15 » 16 » 17 » 18 » 19 » 20 » 21 » 22-23 » 24 » 25 a 28 Marzo 1-2 » 3 » 4 » 5 » 6 » 7-8 » 9 » 10 » 11-12 » 13 » 14 » 15 » 16 — 270 — L'0:C AL DIA Ghiguer Dinnic . . Malcà Uoddà . Carrò= Carsialo o ar hr avi Malcà Guggufto . . . Muddì Giallà . . Burca Girma. Aggiò Cata . . . Malcà Carsà. . Gurà.: Billi Ghillè . . Ibu { Berarsum . . Mana. . . | Tallebatt- 0A i Uold Alul Lastullo Cirà Succhiella . . Mena Cirasa, sa Cirò Irmata.... . AlimoPale: ile Cararrì . . | Malcà Cirratti Bander in marcia. . Gogorù . . Col Bur Dolo . TEMPERATURA 12h | 18h | stano 26 31 37,5 37,5 37,5 40,5 Min | BAROMETRO (*) CIELO 990 | 1171 588,1 606,2 621,5 635,2 633,8 649,3 636,5 | 650,5 6424 ! 6571 649,7 664,3 | 663,7 676,7 | 674,8 687,3 682,7 694,8 » (o) | 685,8 698,3 ‘1 ci cu 693,3 706,0 lcicu | 696,7 711,0 2 ci en | 706,0 lora 4 ci cu | 708,38 | 723,5 2 ci cu | 710,8 | 725,5 Bien: | 7148 | 729,8 2 ci cu | (18,9 | 733,5 1 str | 721,3 | 736,8 BR, ziesl vaso 1 cieustr 7055 | 7213 o | 718,5 732,5 1 str 716,2 730,2 1 en b sp | 123,3 736,4 3 ci cu | 721,7 | 738,7 5 cu 722,4 | 739,2 3 cu str 727,3 | 743,0 2 en str | 7243 | 740,8 ne Za gi De: I ci str 728,7 743,8 — 271 — VARIE gocce di pg dalle 0 alle 2 temporali da N con vento forte 1. et. e pg. Vedi specchio a parte comprendente le osserva- zioni giornaliere dal 17 marzo al 9 agosto. — 272 — Dati meteorologici raccolti a Dolo, sul Gar TEMPERATURA DATA ——— 6h | 12h | 18h | Massima | Miniv | | ERRATI VANI IDR) 26:00 Fosa 21 | 39 26 18 25 39. |. VSS E 10° | © api Vai 37 26 20 obi ‘81,5 32 38 25 21 25,5 33 32 34,5 25 22 26 33 33 36 26 A 23 26,5 | 38 | 32 36 26 È 24 24,5 33 32 36 2 25 26 | 335°) 815 36 25 26 | 24 31,6 25 | 85,5 24 a ad aa 30 33 2 28 25 31 32 34 2 29 25,5 | 32,5 32,5 34,5 9 30 26 38 | 32 35 2A 31 25 33 32 35 2 1 95.1 ‘88 28 35 2i 2 24 E VEE UNO 34 2 3 | asti ge e 34,5 2 4 27 s3 | 32 32,5 2 5 26 33,5 32 35 2 6. (25 32 32 35 2 7 24 27 28 35 2 8 25 31 26 30 2 9 24,5 31 30 33 2 +10 25 25 30 33 2 dI ant cani 24 29,5 29 34,5 2 12 26 30 30,5 31,5 : pe alri do data 26 31 31,5 33 SE calma CIELO 6 nuvolo 3 ci cu 2 custr ‘ 4 cu 3 cu 3 cu 6 nuvolo 3 cu str 5 nuvolo 7 nuvolo 6 nuvolo 3 cu str 5 nuvolo 4.cu str 3 cu str 2 cu str 3 cu sp 2 cu sp 3 cu sp 2 cu sp 2 cu sp 6 nuvolo 6 nuvolo nuvolo nuvolo 5 8 8 nuvolo 5 cu str 4 cu str BAROMETRO 990 30,7 30,8 | Tazi 745,5 Yf, t. e poca pg. la sera. 47,2 vf. e pg. la notte. 45,9 pg. minuta e scarsa la notte. 46,3 pg. temporalesca la sera. 47,7 pg. temporalesca la sera, raffiche. 47,5 | pg. la notte a mezzodì. 46,2 poca pg. la sera. 47,5 | pg. la notte ed in prima mattina. 46,5 pg. scarsa la sera. 48,5 pgd. per mezz'ora, alle 12, che produce un repen- tino abbassamento di temperatura. TEMPERATURA DATA i25 si 6h | 12h | 18h Massima | Minim Aprile: pus ts e re 26 26,5 26 33,5 26 | N SUIT FCI GIORNO? 23 31 31,5 32 23 » 16 23 32 32 33,5 23 » 17 25 30,5 | 31 35 25 » 18 25 31 32 34 25 » cd 08 25 30,5 | 31,5 34 25 » 20 26 31 32 34 26 » È 21 25 32 32 35 25 » 22 26 31 28 | 35 26 » IRSA RR 23 25 31,5 29 | 32,5 25 » sila Do 24 agito lan A 23 » 25 23 30,5 26 29,5 23 » 26 25 30 30,5 31,5 24 » 27 24 30,5 28,5 35 24 » : 28 24,5 32,5 30 35,5 24 » i 29 24,5 31,5 30,5 35 24 » 30 24 30,5 | 31 36 24 Maggio 1 25 sal. 06 36,5 24 » 2 24,5 33,5 | 30 "Bo 24 » 3 25 35 32 53 25 Dn e 4 26 31 sul 36 26 » 5 24,5 32 31,5 34,5 24 DAT Sr RI 6 24 33 26 37,5 24 » ‘| 23 32,5 29,5 35 26 » 8 24 30 29 35 28 » 3 9 26 32 | 30 35,5 2( » È 10 25 35 30 37 2 » 5 - 11 27 34 32 36 2 » dda RIDE 25 83 30 37 2 | BAROMETRO VENTO ONELO {ae =— 7 VARIE | 990 1171 | media i W 7 nuvolo 733,8 | 746,3 | calma SNCICÙ 34 | 47,2 | MZESTEINES | tara SW 2 cu | 34,8 | 48. | » 3 cu | 33 | 46,7 » ioni (ssteli scatti » 6 cu SGUIA | 46,7 SE 2 ci cu 33 | ATO SSW 7 cu 34,7 47,5 E T cu | 35,5 | 47,2 | dalle 18 alle 22 temporale con lv. t. e pg. dirotta. W 9 nuvolo 35,7 | 47 | pgd. dalle 6 alle 12 e dalle 19 alle 22. - calma T nuvolo 36,8 | 47,8 | pgd. dalle 13,30 alle 15. » 4 ci cu 34,8 | 47,7 O W 3 ci cu 36,2 | 48,2 | calma 5 ci cu | gole 1) ARES » 5 ci cu | 33,50) 465. | » 3 cu str 34,7 | 46,5 SW 2 ci str 88,7 | 46,7 calma 3 ci cu 33,8 46,5 | dalle 16 alle 17 pg. scarsa, raffiche. » 3 cu str | SIA 44,7 dalle 20 alle 21 pg. scarsa, raftiche. SE 7 nuvolo 33,5 | 46 | S 2 cu str 33,5 | 46,2 dalle 20 alle 20,30 pg. scarsa. SW 6 cu 35 | 47,2 Db. alta; n mattino e dalle 14,30 alle 15 pgd. vf. calma 4 cu E -ACA 47,2 | nel pomeriggio t. a NE e goccie di pg. SW 6 cu 34,3 | 46,3 » nuvolo | 32,7 | 46 » 2 ci cu 32,3 | 46 dalle 19 alle 21 pg. scarsa e v, , » 5 cuci 32,3 | 46 » 5 cu ci 33,3 46,3 calma 6 cu 34,3 46,3 pgd. dalle 9 alle 11 e dalle 16 alle 16,30. DATA — 276 — i fd ip TEMPERATURA | 12h | 18h | Massima | Mini né 38 26,5 34,5 23,5: 32 30 34,5 23 | 31,5 30,5 35 23 | 33 31 35,5 24 | 32,5 31,5 36 23 31 30 36 24 | 30,5 29,5 35 25 | 32 30 34 24 | 32 31 34 24 31,5 30 36 23, 32 30,5 34,5 23,5 31,5 30 35 23,3 31 Sip i 23 30,5 30 34 22 32 31,5 34 23 | 32 32 35 23 32,5 31 35 24 31,5 29 35 24) 32 31 34,5 24,6 32 31 36,5 24 | 30,5 30 35,5 23, 30,5 29,5 33 25) 31 30 31,5 L 30,5 28 31,5 n 31,5 30,5 32,5 s 30,5 30 34,5 24| 32 29 33 24, 32 32 33 28 È BAROMETRO VENTO CIELO meet VARIE i 990 1171 media calma 7 cu 734,2 | 746,7 Pilo cesta aree da E ad W con t., a : » 3 ci cu | 35,5 47,3 » | 1cistr | 35,8 si 48 SW 5 ci cu 35,5 49 » 4 ci ca | 35 47,8 » 4 cu 34 47,2 | nb. alta al mattino. SSW 5 cu 34,7 47,8 SW 6 cu 35,7 48,3 » ec) 34,3 | 47,2 » 1 ci 34,8 47,7 » | 3 ci cu 34,3 47,2 nb. alta al mattino. » 2 ci cu 34,7 47,3 » | 2 ci cu | 35 47,8 » I 1 cu str 35,8 | 48,2 » 2cicu | 36 47,7 » 2 cu b | 35,3 | 47,8 » | 3 ci cu | 34,2 | 46,8 calma | 3 ci eu 36,3 48 alle 20,30 goccie di pg. SW | 4cicu ‘ 36 49 | alle 21,30 vff. burrascoso di SW, » ll" 2 ci cu 36,3 49 » | 2 ci cu 35,3 48 » 5 ci cu 35,5 47,3 » | 7 nuvolo 35,3 47,8 | » | 5 cu str 36,8 48,5 » | 2 ci str SITA. 49,3 » | 3 ci cu str 36,8 49 » 4 ci cu 36,3 48,8 a = -Ì — osservatore malato. SW 2 ci cu 37 50,3 » 3 ci cu | 36,7 | 49,8 DATA mele de allo PS NY NIRO SRI dii i, a | TEMPERATURA 19h | 18h 27 | 28,5 30,5 29 30,5 29,5 30 29,5 29,5 29,5 30 30 29,5 29,5 31 31 31 | 30 31 30 31 31 30 28,5 28,5 29 28,5 28,5 26,5 28 29,5 29 30 29,5 28,5 29,5 28,5 98 26 27 28 29,5 29,5 29,5 27 29 98 28 30 30 30 29,5 29,5 29 30,5 30 28. 29 27 28 | Massima | Minima Lo ‘ae 23 i 22 | 33 23 | 182,5 23 38 24 | 995 23 | 39,5 22,5 | | 835 22 35 22,5 34 23 33 23 34 24 31,5 23 30 23 30 23 29,5 22,5 31 23,5 32,5 29,5 39,5 215 30,5 22 28,5 23,5 31,5 22 | Lio FO 29 | 080 29 30,5 23,5 34 sil 32 23,5 32,5 98° 33 21 31 28 — 279 — BAROMETRO VENTO CIELO Me i VARIE 990 | 1171 Î media | SW i 9 nuvolo 739,2 | 750,7 | goccie di pg. alle 12. Bic bici ca | 385 |. 50,7 | » 4 ci cu 38,7 513 | . 4cicu | 392 | 51,8 | goociedipg. aletr. » Ai ci cu. | 39 51,7 » 3 ci cu 37,3 50 » 3 ci cu 36,7 | 48,3 | » 8 ci cu 35,7 | 48,5 | » 2 ci cu 37,2 | 50,3 al mattino nb. E. » Sbei'ew. | .38,2) 50,8 » 3 ci cu 37,2 | 49,8 | » 7 nuvolo 38 | 49,7 | alle 9,30 goccie di pg. » 7 nuvolo | 39 | 50 alle 11 goccie di pg. » | 8 nuvolo 39,7 | 51,2 | » 5 ci cu | 39,7 | 50,8 » 7 ci cu | 38,2 | DONA » 3 ci custr| 37,5 49, | » il S| a » 2 ci cu str | 39,2 50 | » 9 nuvolo | 40,7 51 | » 4 ci cu | 39,2 50,2 » 2 ci cu | 37,8 49,2 | » 5 nuvolo | 39 49,8 | » 6 nuvolo I 40 51,2 » 5 ci cu 38,3 | 50,2 » 4 ci cu 39 pit » 3 ci cu | 38,8 51 | » 4cicu | 392 50,8 | » 2ce | 402 51,5 | » 5 ci cu | 40,5 52 | DATA Si RA RN 230 — 6h 12h I | | I 18h | Massima 27 28 30 29 28 28,5 28,5 | | | TEMPERATURA 28,5 30,5 31,5 30,5 31,5 Minima — 281 — | BAROMETRO TO CIELO | tei Varohzi VARIE 990 | 1171 | | | media _SW 7 nuvolo | 742 752,8 pg. scarsa la notte. » ! 5 ci cu I 41,8 53,3 dalle 20 alle 22 vff. di SE. » | 2cicu | 38,5 51,7 id. ia. » 5 ci cu | 39,2 51,3 id. id. SIR] 3 ci cu str 39,5 51,5 » | 3 ci cu str 39,5 51,5 » | 5cicu | 39,3 50,8 » | 5 nuvolo 40,5 51,3 » 4 ci cu | 40,3 51,3 » 1cicu | 39,3 50,8 » 4 ci cu | 39,5 50,7 » n 5.382 49,7 » 8 nuvolo | 38,5 50 » 2 ci | 36,8 49 » 2 ci cu | 36,8 48,8 » Sictew | 372 48,8 » 2ci | 37 49 » 6 nuvolo 37,5 49 vento impetnosissimo la notte. » 6 nuvolo 37,2 49,5 » | 4 ci cu str 37,7 49,5 » 5 ci cu | 38,2 50 => = a = si toglie il campo a Dolo. 36 ‘ SIE RI, INDICE A Sua ECCELLENZA IL Cav. MARCHESE A. DI SAN GIULIANO Pag. I. — Da Gibuti alla capitale etiopica . II. — Il nuovo fiore (Addis-Abeba). III. — Fra gli Arussi IV. — Da Ghigner a Dolo V. — Dolo VI. — Lungo la frontiera VII. — Baidoa APPENDICI. APPENDICE I. — Lavori astronomico-geodetici e topografici com- piuti dalla missione per la delimitazione della frontiera italo-etiopica . » II. — Cenni sulle collezioni zoologiche fatte dal Capi- tano Citerni durante la missione per delimitare i confini italo-etiopici » III. — Osservazioni meteorologiche e loro discussione . 107 131 163 203 235 251 POPAIMEMORI “ (peroni, ML, SUIS N Pa — pecore anti => 216 7 7 toy Ayygt ea, n go MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI DIREZIONE CENTRALE DEGLI AFFARI COLONIALI MISSIONE PER LA FRONTIERA ITALO-ETIOPICA = 10° 4|° ITINERARIO HARRAR-AUASC SEGNI CONVENZIONALI Itinerario percorso Struda carovaniera Sentiero Pozzi Longitudine dal meridiano di Greenwich Determinazioni astronomiche Si \ IA LAI pecall > Gbup & CrOVia Diredaia î: Diredaua 1185 + Quadro d'unione Oapo della Miunione - Capitume Cormasa. n = IRTITUTO OROORAFIOO MILIVARE, 1011, — Divieto di riproduzione, 40° lempiiatori; Tooograti GUUFELLI e VENTURI A. in ale MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI DIREZIONE CENTRALE DEGLI AFFARI COLONIALI MISSIONE PER LA FRONTIERA Fe 2. ITALO-ETIOPICA N° 99-b i : i n Pi Di 40° T === E =! n - nre === E: Entoto BI 4 > PERI “ VERRI I A DA c di Legazione dì cà, 0 A EBA SÌ 3 Leg®*di ihr ani (È Ris x BE Z 7 Ghebi(x, 1 VLe4"d Inghi CORE d- . Cioba 4 bi al ia Chi A274 (* Ghiorgi der ria ANA n Ri Perl - È - WGendavaca) A î w a) | a 4 î A fa S Eacelle” DEE f ì Reni AA) (S 75Ì 1 SAR À NM. (i x È a L9 Z ki, | | f CoraMsriam DTT 7 Î VIA l CFG = qa \ < 7; di. DT. aghi Babbo Gig (&Balei vi e ufficio telefonico) Ù & 3) Ta | N | | | | er | det | si | ar E Le A nte) 27 ra ee (aogua 9127" i n | Sf Ghengiù È | è | yÒ al | 8° 79 FCEFIENERA RIO AUASC-GOBA Scala 1: 500000 SEGNI CONVENZIONALI Itinerario percorso Strada carovaniera eenthu Sentiero ° Pozzi * Determinazioni astronomiche Longitudine dal meridiano di Greenwich SI Lira equa corrente) NE dI dis i Vini — sa Do Abba igiii v7) 2160) JT 3zzx, TEA) BUD.) i, Si A )) @ , IN \ si Yo TAR OSE alal futa 3 n) La, 7 Dima (3equa; > I ‘/Bara0à.: PIO arden) I La eoto a N NZSSINE Z Y Quadro d'unione Hogadisha | fp > gd DI NPA CN —) Dogana Giiie v 7 ga 2] DI} pe. a x '- RIF (2a i ‘= e___——-—o_y_ T.___AOWUWwunaer TAE= = === = r fsh Compilatori: Topografi GRUPELLI e VENTURI A. ISTITUTO GEOGRAFICO MILITARE, 1911, — Divieto di riproduzione. Capo della Missione : Capitano CITERNI. I 8° 72 e EU! ne AABRA Ry APR 24 1972 t Pas tr MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI DIREZIONE CENTRALE DEGLI AFFARI COLONIALI MISSIONE PER LA FRONTIERA ITALO-ETIOPICA } : can 20 sedi (CÀ a vabodona I) È SEA "| Pererne) (Gegua Fon te non NI} (diri Residenza delfitsurari Dadi Tarré Mares DdF me, si ”) pa si (avo Aoba Butta Vor DI lug Lx “yddi biallà i) ) oso N° 99 -c Mogadiskio 9 Ne uu MEZZO | 6° 5° n° ITINERARIO GOBÀ- GANALE Scala 1: 500000 SEGNI CONVENZIONALI Itinerario percorso —_ Strada carovaniera =tsnrcusuee Sentiero o Pozzi * Determinazioni astronomiche Longitudine dal meridiano di Greenwich Bs; Ò dA ‘cd Urghe AP \\ È & IPIAD go SillighiWe N STAN & eg PIA fi S Qfalegtarsa yb? YA A z\) Gura ° È 39 40° Compilatori: Topografi GRUPELLI e VENTURI A. ISTITUTO GKOGRAFICO MILITARE, 1011. — Divieto di riproduzione. 6° 41° Capo della Missione : Capitano CITERNI. 5% 10° + MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI DIREZIONE CENTRALE DEGLI AFFARI COLONIALI MISSIONE PER LA FRONTIERA ITALO-ETIOPICA N° 99 -d 42° Quadro d'unione T33A3\ Uldealul Lontulo + < Cir Irm33= 7 Malcè Cicatti ss 49 ITINERARIO GANALE-DOLO Scafa 1 :500000 30 SEGNI CONVENZIONALI Itinerario percorso —_-—_ Strada carovaniera Longitudine dal meridiano di Greenwich e, SS IS Sentiero o Pozzi * Determinazioni astronomiche Compilatori: ‘l'opografi GROPELLI e VENTURI A, GA ISTITUTO GEOGRAFICO MILIN'ARE, 1911. — Divieto di riproduzione. u__——P——m—r—P—__ alb 42° Vapo della Missione Uupitano UITERNI. 40 MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI DIREZIONE CENTRALE DEGLI AFFARI COLONIALI MISSIONE PER LA FRONTIERA Foo. ITALO-ETIOPICA Pl Pabdore | folte darsene rel radunlei Vele i ui VIS SES ?. 6 SEAN A? ARRA - MarRA © ITINERARIO DOLO-BAIDOA - Scala 1: 500000 _. Quadro d' unione SEGNI CONVENZIONALI Itinerario percorso —__— Strada carovaniera cron Sentiero . Pozzi * Determinazioni astronomiche Longitudine dal meridiano di Greenwich N° 99 -e E © > La® A rada Ghedi Harre Gomore marito gle sul pente” Porza @ “ata Bu ugo pre BI Gama cal “i Pozza Sy Porzzo]° + i Cabangia 20 fagerUina < w n ° Mentana” (0) Tegineei Gololi * (2A ai IS ALLIVUENA & LISSAN Mi Asceforto” COMAL pe Oempiiateri= Topograf GKOPRLLI o VaxTORI A. IatrruTO oWOORAPICO anLITANE, 1911, — Divioto di riprodusiono. + MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI DIREZIONE CENTRALE DEGLI AFFARI COLONIALI MISSIONE PER LA FRONTIERA ITALO-ETIOPICA N° 99 .f Î telai, BUE R AE pAbie ASI ro gadiiseio N Ja i i Hegghiné o Bulemeddo® $laì, csì egghine * \ Sdg2erreb i yo w L vAsobole R A sal 7 Mb a ai lle Cyivazioni- 7 É pimite sud de d Dei a pre eg GHELIDLE n e *?fabarab9 GHELIDLE)-JANTAR 416 @ P°Turgodut BAN.Salam n ES AM Meré Robd LL 353 \ b Mu 25°0ombi Ven Quadro d'unione 30 29 [° ITINERARIO BAIDOA-BRAVA Scala 1: 500000 | | Il | | —_—_e_—_—__m SEGNI CONVENZIONALI Itinerurio percorso — —_ Strada carovaniera ss-snssste Sentiero è Pozzi * Determinazioni astronomiche Longitudine dal meridiano di Greenwich + SODA Cubî Coude Quadro d' unione | 20 ablalle {passo con barca) w Mursal 43° Compilatori: Topografi GRUPELLI e VENTURI A. ISTITUTO GKOGRAFICO MILITARE, 19X1. — Divieto di riproduzione. Capo della Missione : Capitano CITERNI. I PLEASE DO NOT REMOVE | CARDS OR SLIPS FROM THIS POCKET ——____———_—_—_—_—_____ 21; | UNIVERSITY OF TORONTO LIBRARY | e ———_—__ P iu Citerni, Carlo 378 Ai confini meridionali, C5 dell'Etiopia Mira a 06. 017.7 27 15 0 an Dn m