pi VICINI IN Vi si ATTI DELLA REALE ACCADEMIA SCIENZE, LETTERE E BELLE ARTI DI PALERMO (uo erat Eri Da | Fot se î 9 È È A At dirti ich ho stag, n \ s asian + Pr toa Viliae î ; i 5 tl Spi TOMATO I CRI i .* n ( ATTI DELLA REALE ACCADEMIA DI SCIENZE, LETTERE E BELLE ARTI DI PALERMO NUOVA SERIE VoLume VII. PALERMO TIPOGRAFIA E. FERRIGNO E F. ANDO Via Divisi N. 20 (1880-81 e più tre mesì 1882). o 4 ao “ ir Li \ ti quo Vabbe È bi cA i % ; 3. Le 3 < TAVOLA DELLE MATERIE Elenco de’ Soci. Proemio. CLASSE DI SCIENZE COSMOLOGICHE NapoLi — Della vita e delle opere di Giovan Battista Odierna. Tommasi — Sulla stabilità dell’idrato rameico. CLASSE DI SCIENZE NEOLOGICHE Bruso — Elogio del Conte Giovanni Arrivabene. Dr Marco — Degli arbitrati internazionali e dei dritti della guerra. Macciore PERNI— Tommaso Natale e i suoi tempi. CLASSE DI LETTERE E BELLE ARTI . Di Giovanni — Del volgare usato dai primi poeti siciliani e del carattere della loro poesia. CrisaruLLi — Sulla pubblica moralità e sull’istruzione pubblica in Italia. Alcune poesie lette dai socj nell’anno accademico 1879-80, B. Marotta — G. Vaglica < U. A. Amico — C. Ramondetta-Fileti — T. Franceschi-Pignocchi — G. De Spuches. COMUNICAZIONI ED ESTRATTI Giuseppi MonraLsAno — In memoria del Prof. Filippo Parlatore. Iscrizione e distici. Ugo Dr MeLtz di Ungheria — Lettera in occasione di essere stato eletto socio della Reale Accademia. Ermanno Bucnzontz di Berlino — Addizioni alla grammatica latina. Vincenzo Dr Marco — Sull’esegesi del Consigliere Invidiato al num. 3, art. 193 Codice Civile. Viro La Mamma — Sul manuale di Dritto Costituzionale del Dott. F. Flogoito. Mario Corrao — L'inchiesta sulla marina mercantile. Cacciatore G. — Quadro sinottico meteorologico nel R. Osservatorio di Palermo per gli anni 1879-80. Catalogo de’ libri presentati in dono alla R. Accademia. — ELENCO DEI 80CJ SOCIO D'ONORE SUA MAESTA' PIETRO II, IMPERATORE DEL BRASILE. PATRONO IL MUNICIPIO DI PALERMO PROMOTORE IL BARONE NICOLO’ TURRISI COLONNA, Senatore del Regno, Sindaco della Città di Palermo. MAGISTRATO ACCADERTCO DE SPUCHES GIUSEPPE Principe di Galati, PRESIDENTE. CERVELLO Prof. NICOLO’, Vice-Presidente. BOZZO Prof. GIUSEPPE, Segretario Generale. TODARO Prof. AGOSTINO, Direttore della Classe di scienze naturali ed esatte GEMMELLARO Prof. GAETANO GIORGIO, LO CICERO Prof. GIUSEPPE, COPPOLA Prof. GIUSEPPE, Segretario. BRUNO Prof. GIOVANNI, Direttore della Classe di scienze morali e politiche. DI MENZA Presidente GIUSEPPE, MAGGIORE PERNI Avv. Prof. FRANCESCO, SAMPOLO Prof. LUIGI, Segretario. DI GIOVANNI Prof. VINCENZO, Direttore della Classe di lettere e belle arti. CAVALLARI Prof. SAVERIO, COSTANTINO Avv. GIOVANNI, AMICO Prof. UGO ANTONIO, Segretario. PORCARI Barone ANGELO, Tesoriere. | Anziani. Anziani. Anziani. E @) O 00 =T D a > DOH 1-9 Td aDIONIH- O O 0 10 » SOCI ATTIVI CLASSE DI SCIENZE NATURALI ED ESATTE . Albeggiani Prof. Giuseppe. ‘11. Gemmellaro Prof. G. G., Anziano. . Bandiera Dott. Giuseppe. \12. Inzenga Prof. Giuseppe. . Cacciatore Prof. Gaetano. | 13. Lancia Federico Duca di Brolo. . Cacopardo Prof. Salvatore. : 14. Lo Cicero Prof. Giuseppe, Anziano. . Caldarera Prof. Francesco. (15. Napoli Prof. Federico. . Cannizzaro Prof. Stanislao. 116. Porcari Barone A., Tesoriere. . Cervello Prof. N., Vicepresidente. | 17. Raffaele Prof. Giovanni. . Coppola Prof. G. Segretario. 118. Tacchini Prof. Pietro. . De Maria Allery Tommaso Mar-|19. Todaro Prof. Agostino, Direttore. chese di Monterosato. | 20. Tommasi Giulio Principe di Lam- . Doderlein Prof. Pietro. pedusa. CLASSE DI SCIENZE MORALI E POLITICHE . Albergo Dott. Giulio. 11. Evola Prof. Filippo. . Ardizzone Dott. Girolamo, 12. Guarneri Avv. Prof. Andrea. . Bruno Prof. Giovanni, Direttore. |13. La Mantia Consigliere Vito. . Corleo Prof. Simone. 14. Lanza Cav. Prof. Salvatore. . Crisafulli Prof. Vincenzo. 15. Maggiore Perni Avv. Prof. F., Anz. Cugino Prof. Giuseppe. 16. Ruffo Avv. Giovambattista. . Cultrera Prof. Paolo. 17. Sampolo Prof. Luigi, Segretario. . Di Marco Cons. Pietro. 18. Saluto Cons. Francesco. . Di Menza Pres. Giuseppe, Anziano. | 19. Turrisi Barone Nicolò. . Deltignoso Avv. Gaetano. 20) 5 CLASSE DI LETTERE E BELLE ARTI 1. Amico Prof. Ugo Ant. Segretario. | 3. Bozzo Prof. Giuseppe, Segretario . Basile Prof GB | Generale. # Il posto è vuoto per la morte del Marchese Maurigi. . Carini Prof. Can. Isidoro. . Cavallari Prof. Saverio. . Costantini Avv. Giovanni, Anziano. . Cusa Prof. Salvatore. . De Spuches G. Principe di Galati, Presidente. . Di Giovanni Prof. V., Direttore. . Di Marzo Abate Gioachino. . Di Maggio Padre Luigi. TO O > 11 . Meli Prof. Giuseppe. . Montalbano Can. Prof. Giuseppe. . Palomes Padre Luigi. . Perez Comm. Francesco. . Pitrè Dott. Giuseppe. . Salinas Prof. Antonino. . Solomone Marino Prof. Salvatore. . Starrabba Barone Raffaele. . Villareale Prof. Mario. S0CJ EMERITI D'Ondes Reggio Barone Vito. Santocanale Avv. Filippo. Mortillaro Vincenzo March. di Villarena De Beaumont Uav. Francesco. Landolina di Rigilifi Cav. Francesco. Pantaleo Prof. Mariano. | Maggiacomo Prof. Filippo. Barone Dott. Ferdinando. | Gravina Abate Domenico di Comitini. Garajo Prof. Antonino. S0CJ ONORARI Gravina Michele Principe di Comitini. Paternò Antonio Principe di Manga- nelli. Tasca Lucio, Conte di Almerita. Fraccia Cav. Giovanni. La Russa Dott. Tommaso. Notarbartolo Comm. Emmanuele di San Giovanni-Sciara. Cottù L., Marchese di Roccaforte. Castelli Abate Luigi di Torremuzza. Perez Cav. Giuseppe. Ragusa Can. Monsignore Francesco. Ruggieri Avv. Leonardo. Fardella Vincenzo, Marchese di Tor- rearsa. Celesia Monsignor Michelangelo, Arci- vescovo di Palermo. Papardo Monsignor Giuseppe, Arcive- scovo di Morreale. Lanza Francesco Principe di Scalea. Bardesono Conte Cesare. Dichiara Dott. Francesco. Sciacca Barone Domenico della Scala. Crispi Avv. Francesco. Muratori Proc. Gen. Matteo. Armò Avv. Gen. Giacomo. Nunziante Presidente Antonio. Colapietro Presidente Erasmo. Cajazzo Proc. Regio Saverio. Lancia di Brolo Monsignore Domenico, SCCI CORRISPONDENTI COLLABORATORI Giardina Prof. Antonino. Pignocco Prof. Francesco. Cacciatore Dott. Giuseppe. Agnello Prof. Angelo. 12 Spoto Sac. Marco Antonio. Fardella Cav. Felice della Ripa. Gramignani Avv. Pietro. Zerega Avv. Antonino. Palizzolo Cav. Raffaele. Corrao Avv. Mario. Maltese Avv. Paolino. Reyes Dott. Sebastiano. Celesia Marchese Gaetano. Platania Prof. Pietro. Fileti Ramondetta Signora Concetta. Di Bartolo Can. Salvatore. Vaccaro Prof. Vito. Cimino Ingegnere Giuseppe. Ragusa Enrico. La Tioggia Dott. Gaetano. Paternò Prof. Emmanuele. Marvuglia Architetto Domenico. Di Blasi Prof. Andrea. Santangelo Prof. Giovan Battista. Delisa Prof. Giuseppe. Caliri Prof. Filippo. Lodi Dott. Giuseppe. Florena Avv. Girolamo. Palizzolo Barone Vincenzo. Ardizzone Prof. Matteo. Pizzuto Prof. Pasquale. Bozzo Stefano Vittorio. Todaro Antonio. Montalbano Can. Saverio. Oglialoro Todaro Prof. Agostino. Lo Forte Prof. Salvatore. Geraci Prof. Bernardo. Di Giovanni Prof. Giuseppe. Civiletti Prof. Benedetto. Lo Jacono Prof. Francesco. Pensabene Prof. Giuseppe. Naselli Cav. Giulio. Cavallari Prof. Salvatore. Russo Onesta Avv, Michele. Riccò Prof. Annibale. Zona Prof. Temistocle. Finocchiaro Avv. Camillo. Camarda Prof. Nicolò. Eliodoro Lombardo Prof. Ignazio. Malato Todaro Prof. Salvatore. Alfonso Spagna Prof. Ferdinando. Crisafulli Dott. Salvatore. S00J ONORARI E CORRISPONDENTI ASSENTI Turano Monsignor Domenico; Girgenti. | Anzalone Cav. Nicolò, Napoli. Minà Dott. Palumbo Francesco, Castel- | Acri Prof. Francesco, Bologna. buono. Biondi Giuseppe, Roma. Minà Dott. La Grua Antonio, Castel-|Sturzo Cav. Filippo, Messina. buono. Busacca Cav. Raffaele, Roma. Accordino Dott. Francesco; Patti. Tornabene Prof. Francesco; Catania. Del Re Cav. Leopoldo, Napoli. Mercurj Prof. Giuseppe, Roma. - Cacioppo Cons. Vincenzo, Sambuca. Errante Cons. Vincenzo, Roma. Ferrara Prof. Francesco, Venezia. Beltrani Vito, Firenze. Amari Prof. Michele, Roma. Vaglica Can. Giuseppe, Morreale. De Rossi Prof. G. B., Roma. Cantù Cav. Cesare, Milano. Zurria Prof. Giuseppe, Catania. & Scarcelli Dott. Vincenzo, Napoli. Garrucci Prof. Raffaele, Roma. De Gasparis Prof. Annibale, Napoli. Senzales Giuseppe, Girgenti. Cornalia Prof. Emilio, Milano. Visone Conte Giovanni, Roma. Zuccagni Orlandini Prof. Attilio, Fi- renze. Sbano Sac. Corrado, Noto. Guaita Conte Innocenzo, Roma. Arietti Cap. Antonio, Parma. Gaeta Catiello, Napoli. Guasti Cav. Cesare, Firenze. Errera Alfonso, Napoli. Ventimiglia Domenico, Napoli. Arabia F. S., Napoli. De Cesare Carlo, Napoli. Sbarbaro Prof. Pietro, Parma. Franceschi Pignocchi Signora Teodo- linda, Bologna. Denza. Prof. Francesco, Torino. Prudenzano Prof. Francesco, Napoli. Zambrini Comm. Francesco, Bologna. Tosti Abate Luigi, Monte Casino. De Luca Cardinale Antonio, Roma. Fornari Abate Vito, Napoli. Picone Dott. Giov. Batt. Girgenti. Santini Prof. Giovanni, Padova. Cittadella Conte Giovanni, Vicenza. Lampertico Prof. Fedele, Vicenza. Brioschi Prof. Francesco, Milano. Beggiato Prof. Francesco, Milano. Ercolani Dott. G. Battista, Milano. Grazioli Dott. Isaia, Milano. Schiaparelli Prof. Giovanni, Milano. Carcano Dott. Giulio, Milano. Cremona Dott. Luigi, Milano. Luzzati Luigi, Milano. Zanella Abate Jacopo, Vicenza. Vitrioli Prof. Diego, Reggio di Calabria. Conforti Avv. Pasquale, Cosenza. Casarati Prof. Felice, Milano. Betti Prof, Salvatore, Roma. Passarini Prof. Ludovico, Roma. Paussevich Marchese L., Trieste. Finocchietti Conte Carlo, Trieste. Chianchella Matteo, Trieste. 13 Curti Avv. Pier Ambrogio, Milano. Arezzo Barone Corrado, Ragusa. Fergola Prof. E., Napoli. De Brignole M. Giovanni, Genova. Orlando Prof. Giacomo, Carini. Racioppi Prof. Giacomo, Napoli. Castronovo Sac. G., San Giuliano. Ghivizzani Prof. Gaetano, Aquila. Polizzi Prof. Maurizio, Morreale. Marotta Prof. Benedetto, Morreale. Camarda P. Demetrio, Livorno. Mamiani Conte Terenzio, Roma. Vallauri Prof. Tommaso, Torino. Lilla Prof. Vincenzo, Napoli. Hortis Dott. Attilio, Trieste. Hortis Avv. Arrigo, Trieste. Conti Prof. Augusto, Firenze. Wolff Conte Prof. Emilio, Roma. Rossi Conte Giuseppe, Bologna. Ferrazzi Prof. Jacopo, Bassano. Di Giovanni Cav. Gaetano, Cianciana. Mitchell Prof. Riccardo, Messina. Baccarini Comm. Alfredo, Roma. Catara Lettieri Prof. A., Messina. Pitra Cardinale G. B., Roma. Blaserna Prof. Pietro, Roma. Filippuzzi Prof. Francesco, Napoli. Galassi Prof. Luigi, Roma. Richiardi Prof. G., Pisa. Cantoni Prof. Giovanni, Pavia. Correnti Comm. Cesare, Roma. Palmeri Prof. Luigi, Napoli. Fiorelli Prof. Giuseppe, Napoli. Burresi Prof. Pietro, Siena. De Sanctis Prof. Leone, Roma. Pelliccioni Prof. Gaetano, Bologna. Brugnalelli Prof. Tullio, Pavia. Pugliatti Prof. Giuseppe, Messina. Lioy Cav. Paolo, Roma. Fedeli Prof. Gregorio, Roma. Betocchi Prof. Alessandro, Roma. Malagola Carlo, Bologna. 14 Tommasi Cav. Donato, Parigi. Seghi Prof. Giacomo, Certaldo. Denaro Pandolfini Prof. F., Termini. Valdarnini Prof. Angelo, Macerata. Del Rio Prospero, Reggio-Emilio. Bambergh Dott. Felice, Germania. Poletto Prof. Giuseppe Padova. Conterno Dott. Giulio, Cherasco. Carrara Prof. Francesco, Milano. Gerra Comm. Luigi, Roma. Ranalli Prof. Ferdinando, Pisa. Scelsi Giacinto, Ferrara. Buccellati Prof. Antonio, Milano. Cesati Barone Vincenzo, Napoli. Brusina Prof. Spiridione, Dalmazia. Galanti Can. Carmelo, Ripatransone. Maschek Cons. Luigi, Zara. Bonghi Prof. Ruggiero, Napoli, Spata Dott. Giuseppe, Roma. Matranga P. Filippo, Messina. Lancia Marchese Corrado, Firenze. De Gubernatis Prof. Angelo, Firenze. Nocito Prof. Pietro, Roma. Guicciardi Prof. Giuseppe, Napoli. Baggiolini Cav. Mario, Vercelli. Pisati Prof. Giuseppe, Palermo. Gorresio Prof. Gaspare, Torino. Verdi Prof. Giuseppe, Genova. Nobile Cons. Francesco, Roma. Trillino Prof. Settimo, Fermo. Guzzino Prof. Giuseppe, Genova. Comparetti Prof. Domenico, Firenze. Prina Prof. Benedetto, Milano. Volpicella Prof. Scipione, Napoli. Zagari Prof. Saro, Roma. Tribolati Avv. Felice, Pisa. Grosso Prof. Dott. Stefano, Milano. Buroni Prof. Giuseppe, Torino. Romano Prof. Nicolò, Cosenza. Maffei Andrea, Riva del Trento. Capecelatro Sac. Alfonso, Napoli. Querci Prof. Dario, Roma. Ricci Prof. Mauro, Firenze. Invidiato Cons. Agostino, Napoli. Boccardo Prof. Girolamo, Milano. Rodllkofer Prof. Luigi, Firenze. Mordani Prof. Filippo, Ravenna. Morcaldi Ab. Michele, Montecassino. Minieri Riccio Dott. Camillo, Napoli. Cigliutti Prof. Valentino, Roma. Gelli Dott. Agenore, Firenze. Guido Baccelli Comm., Roma. Riccardi Prof. Pietro, Bologna. Curioni Prof. Giovanni, Torino. Pagano Prof. Vincenzo, Napoli. Picone Prof. Giuseppe, Girgenti. De Bernardo Dott. Domenico, Collesano. S0CJ CORRISPONDENTI ESTERI De Lesseps Dott. Ferdinando, Parigi. Hugo Vittorio, Parigi. Holm Prof. Adolfo, Palermo. Witte Prof. Carlo, Halle. Vesselofski Dott. Alessandro, Pietro- burgo. Blin M. A., San Quintino. Houssard M., Tours. Vau Wolre, M., Harlem. Le Jolis Aug. Francesco, Cherbourg. Barnes Jos. K. Washington. ! Nist Dott. Enrico, Bruxelles. Lugerberg D. C., Liegi. De Puymaigre Conte Th., Parigi. . Liebrecht Prof. Felice, Liegi. i Bergmann Prof. G. F., Strasburgo. Roux Dott. Amedeo, École (Francia). Mezières Prof. A., Parigi. "i RN o ne ZUNE dp la p Dennis Sig. Giorgio, Londra. Ross Dott. Alessandro, Toronto. Jeffreyes Dott. Giovanni, Londra. Heinzelmann C., Berlino. Le Roy Prof. Alfonso, Liegi. De Frenne Prof. Giorgio, San Quintino. Du Pont Prof. Carlo, Bruxelles. Favre Prof. Alfonso, Ginevra. Straganoff Conte Sergio, Pietroburgo. Pujazol Cav. Cecilio, San Fernando. Paris Prof. Gaston, Parigi. Franck Prof. Adolfo, Parigi. De La Borde Marchese G., Parigi. Bourguignat Dott. F. R., Parigi. De Caisne Prof. Giuseppe, Parigi. De Candolle Prof. Alfonso, Ginevra. Meulemans Prof. Augusto, Bruxelles. De Vignaux Dott. Eugenio, Parigi. De Regel Prof. Eduardo, Pietroburgo. Braun Prof. Menandro, Berlino. Pringsheim Prof. Nataniele, Berlino. Hooher-Dalton Prof. Giuseppe, Londra. Bentham Giorgio, Londra. Fenze Prof. Eduardo, Vienna. Aubée Prof. Beniamino, Parigi. Franck Giuseppe, Ginevra. Monnier Prof. Marco, Ginevra. Maximowich Prof. I. C., Mosca. Crepin Prof. Francesco, Bruxelles. Godefroi De Herder Prof. F., Pietro- burgo. Balfour I. Hutton, Bruxelles. Lance Dott. Giovanni, Danimarca. Bounfaurt Dott. Giulio, Parigi. D'Andrien Barone F., Werbourg. Haynold Mons. Ludovico, Cardinale Ar- civescovo di Colocza in Ungheria. Buchenau Dott. Francesco, Brema. Morren Dott. Eduardo, Liegi. 15 Boot Gerardo Cornelio Prof. Giovanni, Amsterdam. Rayas Sourindro Mohun Tagore, Cal- cutta. Bouchholtz Dott. Ermanno, Berlino. Minekwitz Prof. Dott. Giovanni, Lipsia. Meltzel Dott. Ugo, Claudiopoli. Agassiz Dott. Alessandro, Cambridge. Hayden Dott. F. V., Washington. Durand Prof. Francesco, Gande. Ulrici Prof. Ermanno, Halle. Crane Prof. T. F., Nuova York. Hock Dott. Prof. Augusto, Liegi. Lévéque Prof. Carlo, Parigi. Bouillier Prof. Francesco, Parigi. Laveleye Prof. Emilio, Liegi. Del Boeuf Prof. I., Liegi. Mignet Prof. Francesco, Parigi. De Saint Hilaire Barth, Parigi. Liagre J. B. J., Bruxelles. Morhange Salvatore, Belgio. Henry Dott. Giacomo, Dublino. Eli K. Price, Filadelfia. S. Vaux Guglielmo, Filadelfia. Phillips Junior Enrico, Filadelfia. Consiglieri Pedroso Prof. Z., Lisbona. Poniropoulos Prof. Eusebio, Atene. Millou Dott. Deodato, Marsiglia. Tehihal Prof. Pietro, Monaco. Lubansky Cav. Alessandro, Smolensko. Pietrasanta Prof. Prospero Parigi. Newbourg Dott. Ferdinando , Nuova York. Buchenberger Dott., Filabelfia. Spencer Dott. F., Washington. Tryon Dott. Giorgio, Washington. Withmey Dott. J., Cambridge. Lebon Dott. L., Bruxelles. K zio A 5 ; di: Va a 4 VEL a VARE, 5 Aa) P À é ualoeanà di Ù n d L: I) @ ul Ò ) ai i 2. i + VESTI LIA] f Na - % - pic U È » UE | ti) n L. , s N î . Ù SE po n R i Ri LL S h ; 10 ER RO ia Gi ti È È > Pal 3. (I » 3 È x A ARRE e Aran nto (eroe ADI si 3 EA ATE it MATTE Rc N | xl, SME DIE OLtaRza NIS 7 e TE » TRE et ) î a s da . ‘ À “4 . sa É Re) 1 A AI i L. 3 r AVVERTENZA I socj attivi Lanza, Di Marco, Corleo, Crisafulli, Cugino e Salomone- Morino essendo stati nominati ultimamente nella tornata del 5 marzo, se n'è scritto al Ministero dell' I. P. per la sovrana conferma. ISTITUTI E SOCIETÀ SOTENTIPICHE E LETTERARIE CHE SONO IN CORRISPONDENZA CON L’ACCADEMIA Comrissione di Agricoltura e Pastorizia. Accademia di Scienze Lettere ed Arti Accademia Gioenia di Scienze Naturali . . Accademia di Scienze e Lettere . R. Istituto Lombardo. Accademia di Scienze. . . Sta Società Adriatica di Scienze Ni Istituto di Scienze Lettere ed Arti. .. Ateneo di Scienze e Lettere . ‘Accademiatdi Mettere: 0.0 sl e 0.0 Accademia dei Fisiocritici . . Accademia di Scienze e Lettere . È R. Accademia di Archeologia e io . RPAccademia della Crusca 0 n, R. Accademia di Torino è... R. Accademia dei Nuovi Lincei . Accademia Fisico-Medico-Statistica . Accademia dei Filopatridi R. Accademia Medico- iano Società Veneta Trentina di Scienze QUI R. Accademia di Belle Arti . . Accademia di Scienze e Lettere . Accademia di Scienze del Messico Società di Studj ed Opere oltre dell’ Onion Società Reale lt... 0, Società delle Scienze della Mis colo Shi Sud Accademia Reale Svedese di Scienze di Stockolm . Società Malacologica del Belgio. . . Accademia Imperiale di Scienze. . . . Società delle Scienze Fisiche. . . +... Società Italiana di Scienze Naturali. ». +. Palermo Aci Reale Catania Napoli Milano Bologna Trieste Venezia Bergamo Pisa Siena Vicenza Napoli Firenze Torino Roma Milano Savignano Napoli Trento Milano Tolosa Messico Crisviania Londra Nuova Galles Stockolm Bruxelles Pietroburgo Konisberga Milano = 18 Reale Osservatorio di S. Fernando (Spagna) Archivio Néerlandeso. ‘.. . . . . R. Società Geologica d'Irlanda . . . Società di Scienze Naturali . . . . Museo Zoologico Comparativo. . . . Accademia Reale d'Irlanda . . . . Società Entomologica del Belgio. . . Accademia Imperiale di Scienze e Lettere Società Zoologica e Botanica di Vienna. Società Zoologica di Francia.» . . . Accademia di Scienze Ateneo . . . Accademia Archeologica... . . Accademia Nazionale d’Agricoltura . . Società di Statistica Universale . . . Nccademiagdlalizco dior e Ia Accademia di Oftalmologia . . . . Società di Antiquaria e Numismatica. . Accademia di Belle Arti... LL. Archivio del Museo Nazionale . . . Accademia di Agricoltura . |... 20.0 Sir, S. Fernando Harlem Dublino Wisbaden Cambridge Dublino ‘ Bruxelles Mosca Vienna Parigi Brescia Filadelfia Parigi. Parigi Guadalajara (Messico) Pavia Montreal - Canadà Torino Rio Janeiro Verona. PROEMIO (Relazione dell’anno accademico 1878, letta dal Segretario generale Prof. Giuseppe Bozzo nella tornata solenne del 27 aprile 1879). . Non mai più bel principio al novello anno accademico; le arti che sì l’infiorano lietamente cominciano, venendo innanzi a tutte la regina tra esse (1). Gratuliamoci a vicenda, come a vicenda ci siamo confortati lungo l’anno trascorso; nel quale le opere aggiungendosi alle o- pere, e il pregio accumulandosi al pregio, tanto siam valuti a soprapporre, tanto le armi del tempo abbiamo saputo ribattere, che la nobiltà dell’Accademia n'è rimasta intera, anzi se n' è potentemente ingrandita. Quando, se i sav] dissero dovere le dotte esercitazioni agli uomini arrecare giovamento o diletto, che al tutto è far bene, l'Accademia sull’orma propria s'è dell'uno e dell'altro consigliata, nè una sola delle sue adunanze è mancata allo scopo. Assemblea per vero eletta che nel comune consorzio, (1) Fu scritta per tal solennità una sinfonia ed eseguita a piena orchestra dal valente socio Bernardo Geraci. 2 ‘vive come fuori del consorzio, e pure sempre al suo utile; e mentre di là s'occupano in temperare gli ardenti, e di qua i tre- pidi in consolare, essa attende, medita, e nel ritiro che solo l'è d’uopo, e nell’agio che l'ispirazione soccorre, guardando a tanto agitarsi del mare della vita, tirata come in sicuro, fa pro e al- letta, e gli ardenti e i trepidi al suo tenore riconduce. Assem- blea elettissima; nello scorso anno gloriosa. Le prove, in esso avute gioverà un giorno rammentare; dritto è adunque che ora in uno si raccolgano, e il vanto chiesto dal merito ad ogni sguardo si appresti. Dopo le feste pel felice cominciamento di quell’anno, qual no- me più eccelso poteva qui d’intorno risuonare nelle scienze co- smologiche, che il nome di un Grande che pe’ sublimi suoi stud] dirizzò l'ingegno verso il cielo, trattando Il aere co’ calcoli sin per iscrutare nel — Ministro Maggior della Natura? — Il socio prof. Cacciatore con tutta valentia tessè l'elogio del celebre Padre Secchi; e ne fummo commossi, e insieme ammaestrati; che la lode in mezzo ai dotti è sprone e documento, alla via di sa- pienza sovrana allettatrice. Lasciando il cielo e venendo alla terra e alle sue necessità, ci fu grato intendere al grave argomento della pubblica salute. Il socio D.° Reyes lesse in due tornate delle fogne e della Cala di Palermo, e de’ danni che oggimai al benessere dei cittadini ne derivano. Che essendosi ricostruito il suolo della città si mutò il sistema de’ condotti sotterranei per ricevere e sgorgare acqua ed immondizie, ciò che vero è una fogna; e gli ingegneri pre- sumendo di lavorare senza il consiglio de’ medici, l'una separa- rono dalle altre; e mancarono gli acquidotti co’ scolatoj ben fo- gnati; e invece nel suolo a tratto a tratto, praticaronsi de' fori, I 3 da’ quali male si disfogano i miasmi delle immondizie che ri- stagnano. E più che questo. A far riparo nel nostro porto al traverso vento, d'onde talora mettevansi le barche in burrasca, che non era certamente la tempesta scatenata da Eolo, pen- sarono d'’inalzare un antemurale, per difenderlo da quella. Il perchè qui in terra da’ fori, e colà in mare da quel seno così chiuso, vie più 1 miasmi disfogandosi, la città ne fu infestata, e le malattie si sono accresciute con danno degli abitanti, e dei viaggiatori. I quali ritornando alle loro case dicono male del nostro clima, e l'appellano morbifero; sin facendolo maledire ai loro periodici; quando già questa Sicilia, in grazia del puro aere, l'Alighieri con bella autonomasia aveva chiamato Primevera.— A tanto male, e a’ suoi rimed] avvertì il nostro socio. La sua voce sì ben nota all'Accademia, e ’1 suo pregio di valente igienista, lo fecero ascoltare con brama, e la lezione a stampa destò la brama nel pubblico con lo stimolo d'altri lavori dati in luce allo stesso scopo, ed al cospetto di una Commissione eletta al riparo dell’ avveduto Municipio. Nè solo il Reyes; il socio Corleo, il socio Corrao facevano saviamente saggi avvertimenti, d'onde la Accademia per virtù de’ suoi arrecava vantaggio per così grave bisogno. Ma d'altra parte fa male al quale essa con caldo zelo ebbe ad intendere. Là dove tanta è vita, ma dove per fatale impro- vedenza tante sono cagioni di morte, covano i morbi più ne- fandi che per eccessiva celerità di tragitti, alla foca de’ com- merci, all’infernal furia delle guerre, sbucano feroci e si attaccano ai luoghi sani e li attossicano e li desolano. L'anno scorso pro- ruppero dalla Russia asiatica all’ europea, e incrudelirono. Gli oculati governi gridarono all’ erta, con essi loro l’Italia, dalla quale, dirò col Tamassia di Pavia, solo dalla quale dipende che 4 l'Europa non si appesti. La Sicilia con gagliardia gridava an- cor essa, e ’l Municipio meritò molta lode, e colui che ben lo regge non mai rimise da’ provvedimenti con vigilanza ammire- vole. L'Accademia allora dava lode al Municipio, e in frequenti tornate avvisava al riparo, invocando il metodo di separazione; metodo che può dirsi eminentemente siciliano, e che solo giova allo scampo, come negli incendj, come nelle inondazioni. Che se il Boutkin di Russia diceva ancora al tristo evento, essere questa l’èra de’ contagi, voglia il cielo che non dovessimo invece noi dirla l’èra della negligenza delle leggi di pubblica salute. Sì il ciel voglia, che il patto internazionale ora all'uopo fermatosi a modificare altri patti, ed anco a rendere più efficace quello del 1872, che tal patto firmato tra la Germania. l’Austria e la Russia, cui sarebbe bene che si accostasse l’Italia, valga a tanto; e che i provvedimenti igienici ed amministrativi dell’accortissima Germania, sino a fondare delle Cattedre d’Igiene pubblica nelle sue Università, insieme valgano : rifiettendosi sempre , che, se l’Italia deve alla fortuna l'essere ultimamente scampata dal di- sastro, come ora considerava il bravo scrittore dell’articolo del Giornale di Sicilia; la fortuna fu spiegata dall’Alighieri per il volere di Dio, cui ben si deve l’ossequio dell’uomo provveden- dosi ne’ pericoli coi mezzi i più efficaci. Negli stud} noologici ancora noi fummo prodi. Il socio Di- rettore Di Giovanni facendo le lodi del Padre Giuseppe Romano trattò dell’ ontologismo in Sicilia sulla metà di questo secolo. Bene è vero che il metodo psicologico ha i suoi vanti, altresì è vero che l’ ha il metodo ontologico; e ’1 Romano ne diede prova, come considerava il nostro socio, con la sua speciale teoria conciliativa. La tornata fu luminosa. Il Municipio di Termini qui 5 chiesto diede testimonianza generosa e patriottica, e ’1 discorso del Di Giovanni fu retribuito di lode. Alla scienza del vero seguitava la scienza del bene elogiandosi l’estinto socio barone D'Ondes Rao, dal socio avv. Vincenzo Di Marco. Egli lo rimeritò quale si conveniva : valente avvocato, so- lerte professore, tra’ più saggi preposti alla formazione del Codice Italiano; ma quando n’encomiò la sincera pietà, la modesta libe- ralità e la virtù cittadina, la sua orazione fu rivestita d'un novello splendore. Il senso morale s'ebbe il suo trionfo; e come lampo trascorse d’uno in altro in tutti quelli che numerosi erano venuti ad ascoltarlo. Gran lode a lui, gran lode al senno ed al cuore dei nostri, che lungi da insani trascorrimenti e da vergognosi de- lirj, al senso morale si affanno, il senso morale coltivano, non mai degeneri dagli avi e del proprio onore gelosi. Le due ora- zioni del Di Giovanni e del Di Marco, ciascuno nel vario aringo di questi studj eccellenti, valsero tutto all’onore della nostra Ac- cademia, nè uopo è ch'io nulla aggiunga a farne oltre contem- plare la singolarità e la maestria. Lieti del dire legato in numeri de’ nostri nella prima solenne tornata di quell’ anno, ci riconoscemmo per que’ dessi che pel corso di più d'un secolo e mezzo siamo apparsi da questo luogo, cultori intenti al bello con nomi gloriosi. Se ci riconoscemmo tutti zelo, e provanti alla lezione del socio prof. Evola il quale discorse dell’introduzione della stampa in Sicilia ne’ secoli xvi e xvir. Egli con gli assidui studj fu adatto al tema eruditissimo. L'ascoltarlo era un riempirsi di meraviglia e di piacere riandandosi con la mente secoli pieni di sollecitudine per una delle arti certamente più utili; nei quali i privati, fra noi seppero farsi nome, come il Cumia in eguaglianza a quello fattosi dal De Licnamines in Roma. 6 Nella erudizione più occupandoci, andando fuori di noi, alle cose ci rivolzemmo di una parte del mondo che tanto ai nostri giorni ci fa attenti; alle cose d'Oriente, in medio tempo. Il socio Stefano Vittorio Bozzo lesse dell'Islam e de’ rapporti religiosi e politici tra l'Oriente e l'Occidente. Rintracciò con dili- genza quale sia relazione di dottrine tra il Corano e l’Evangelo per comuni tradizioni dell’ebraico e dell'arabo, e pe’ precetti e per le credenze monoteistiche che Maometto ritrasse dal Cri- stianesimo; e sullo stesso tenore trattò de’ rapporti politici; ciò a noi molto importante mercè i ricordi e le tradizioni della Sici- lia, già sotto gli Arabi, poi sotto al primo poderoso movimento dei Normanni. Il discorso quivi tosto dato in pubblico, corse sino al più estremo d’Italia, e’ critici di Trieste dissero con questa occasione benemerita la nostra Accademia. Dopo di che il socio prof. Cultrera volle interrompere le dotte meditazioni sopra una nuova opera di erudizione biblica che accrescerà pregio al suo nome, e venne a toccare delle considerazioni ermeneutiche sopra una delle profezie di Daniele, che vogliono riferire all'Impero di Russia. Le armi in Oriente risuonarono feroci, e’ mali aggiun- gevansi ai mali, di cui rimane la traccia; e’ capi di quelle na- zioni guerreggianti spingevano ad attendere ed a studiare in quei luoghi e nella storia di essi; e qui la spinta in questa Ac- cademia nelle sue esercitazioni sempre alacre ed indefessa. Ma l’andar fuori di noi, quale di luogo tale di tempo, è antichissi- mo; ed il socio professore Isidoro Carini trattò coll’usata erudizione di Egittologia. Questa nobil parte dell'Asia che ancor’essa ci fa attenti, diede al valente socio di mostrare tra’ primi come tutto ciò che trovasi nella scrittura intorno all’ Egitto sia confirmato da’ più ponderati libri profani e da’ più segnalati monumenti. 7 S’inalza la mia relazione ora che mi è dato narrare di ciò che mi porta a dire il dilettoso tema delle arti. Il meritissimo Pre- sidente discorse di alcuni oggetti archeologici; e innanzi a tutto del gran musaico di Carini. Mosse dal discorrerne con mente in- sieme artistica ed erudita, e quasi poselo sotto gli occhi con pretta descrizione. Di poi, fattivi suoi stud], lo dichiarò nella parte più bella, opera del primo o del secondo secolo; addetto tutto l’edifizio ad uso di Pretorio, essendo stato indi ingrandito e reso ad uso ecclesiastico. E con pari bravura esaminò altri oggetti colà rinvenuti, dove un tempo sorgeva una città : un grande acquidotto di stagno, una edicola rotonda; e soldi aurei di Valentino, ed un'antica moneta di Costantino Pogoniate, ed un candelabro di ordine dorico. Senza che notevole fu il disser- tare sopra una vasta necropoli non esplorata; là dove si fè luogo a varie congetture , lù dove il Presidente espresse il voto che questa seconda città si dissepellisca in prò, più che dell’archeo- logia e dell’estetica, della scienza del dritto pubblico, potendo rischiararsene le origini di molti nostri Comuni e le loro vicissi- tudini. Quel voto fu ripetuto da tutta l’ Accademia; e diè ter- mine alla lezione, illeggiadrita del bel tema, sostenuta dal valor critico, confortata da una speranza che inanimerà sempre questi gravi e cari stud]. Fiso al santo scopo, e rivolgendolo al moderno, leggeva il socio Basile le osservazioni sugli svolgimenti dell'architettura 0- dierna all'Esposizione di Parigi (1877.) Dopo avere discorso del vero stile del classicismo, e del suo invadere nelle accademie gli ultimi anni dello scorso secolo, disse della forma ora introdotta con una certa libertà, determinata dalla diversa indole della vita moderna, come scorgevasi ne’ progetti presentati; e notò un nuovo svolgimento dell’arte in alcuni pro- 8 getti di edifizj; avvertendo che, eccettuato questo il quale fu ori- ginato dall'uso organico del vetro, niuna altra forma che si possa dire nuova potè quivi raccogliersi. Considerò infine per la Sezione Italiana, che sebbene non sieno stati presentati che soli trenta progetti, pure l’Italia ebbe un nu- mero maggiore di premj di quello che statisticamente le sarebbe toccato. Generalmente concluse : oggi in Italia prediligersi la for- ma del cinquecento più o meno pura, con più o meno libera maniera. E non credè di meglio porre fine all’applaudito discorso che avvisando una riforma nell’insegnamento dell'arte. Qui rompe l’'esultanza della mia narrazione il mesto richiamo dei cari soc] estinti. Mancò a noi nello scorso anno Francesco Crispi da Palazzo Adriano dotto nella letteratura greca e nell’'italiana, che nell’una potè a lungo sostituire il rinomato suo zio, e nell'altra sostituir me se taluna volta fossi mancato alla mia Cattedra; comentatore di Demostene, autore di saggi di buonissima critica. Manceò dopo di lui Luigi Longoni da Milano, professore di merito all’ Acca- demia scientifica e letteraria della Patria, autore dell’ Introdu- zione alla filosofia, che gli arrecò fama, e membro utilissimo dell'Istituto Lombardo, ragionando egli sovente d’importantissimi argomenti. E mancò pur testè a noi Lionardo Vigo da Aci Reale, poeta inchinevole al forte; zelante dell’onor patrio; cultore degli stud} del siciliano, de’ primi a segnalarsi in essi, che sono in tanto pregio. Al qual mesto ricordo succeda un altro tutto lieto per grazia delle esercitazioni che gli esteri corrispondenti vollero aggiungere nel corso anno alle nostre. Baurguignat di Parigi ci donò l’au- 9 tografo di una sua monografia di un nuovo genere di conchi- glie da lui scoperto in Sicilia; un altro ce ne donò Bulchowtz di Berlino di un Appunto di lingua latina ed italiana, e Bam- bergh da Messina fece lo stesso per un suo saggio della vita di Hebbel; i quali tutti fanno parte della odierna pubblicazione. Poi, mentre gli esteri ci mandavano i loro doni, i nostri si ren- devano al di là ognor più chiari e ’1 vanto siciliano ognor più aumentavano. Galati riceveva unanimi applausi dai dotti d'ogni parte del mondo incivilito, per le traduzioni dal greco e per li versi latini; e dovè con grato sentimento udirsi di là dal mare un’autorevole voce, asserire: la versione di Mosco e di Bione fatta dal nostro Presidente, essere da anteporre a quella fatta dal Leopardi, alla qual voce altra d’egual peso consuonava d’oltre monti, in prova evidentissima della verità dell’asserto. Di Giovanni era lodato pe’ suvi libri di filosofia nell’ Accademia del Belgio, e nell'Istituto di Francia, quà dicendolo di grande onore alla filo- sofia italiana, dopo aver fatto conoscere con la sua storia due grandi gen] originali, il Miceli e il D'Acquisto; colà dichiarando quest’ ultima opera una esposizione completa di tutte le parti essenziali della scienza; mentre la Biblioteca di Losanna segna- lavalo come uno de’ più distinti e de’ più laboriosi. Il prof. Bozzo comentatore del Boccaccio riscuoteva grande approvazione non pure dal continente d’Italia, ma dalla Germania e dalla Francia, sino sentenziandosi che quind’innanzi non è da leggere il gran prosatore che solo con questo comento. L’esimia signora Ramon- detta raddoppiava la fama del suo bel nome con le ottave al Za- nella dolcemente ispirate. Gli studj del socio La Mantia sugli anti- chi Statuti di Roma, destavano l’attenzione dell’ Accademia delle iscrizioni e belle lettere, e il De Rozière vi riconosceva l'ottimo ingegno di un critico valente; d’onde il nostro socio aggiungea 2 10 vanto con una nuova memoria sulle origini e le vicende degli Statuti medesimi. Dennis, che qui dimorando s'è fatto de’ nostri, mostravasi ognor più degno co' lavori archeologici sull’Etruria, Pitrè in pari modo con la stampa de’ Proverbj Siciliani posti con quelli degli altri dialetti d’Italia, che saranno tutti editi in quattro grossi volumi, e Cavallari facendo ancora belle ricerche nel suolo dell’antica Sibari, e Bruno promovendo in tutti i modi al comun benessere la Società d’Economia, oggi mai più importante per la lotta imminente tra’ protezionisti e i liberisti di Parigi; e Torre- arsa e Di Maggio in fine adoperando altrettanto al bene della So- cietà di Storia Patria. E l’Esposizione pur dianzi terminatasi ha accresciuto pregio del quale dobbiamo rallegrarci. L'Esposizione Universale è stata cagione di gran vanto all’ Italia; i premj ottenuti ci diedero il 62 per 100; le belle arti vi furono da ua italiano presie- dute; la più bella di tutte le arti vi fu fatta dagli italiani con maestrevole orchestra risplendere; e i Siciliani tra gli altri eb- bero i primi premj; e l’ebbero i soc] di questa Accademia. Onore innanzi a tutti a Basile per la sua facciata monumentale della Sezione Italiana; Dumonchele la descrisse e la esaltò nel diario dell’ Esposizione, dalla Spagna assentirono con encomio gli scrit- tori del Mundo Politico, e l’eco dilettosa e concorde si ripetè sino alla Nuova York. Ed onore, e premio, a Todaro per la egregia opera sul cotone; onore e premio a Civiletti per la viva espres- sione del suo Canaris; ed onore insieme a Lo Jacono per la pit- tura, ed a Platania per la musica. Nell’ardua palestra bene ap- parvero gagliardi i nostri atleti. L'Accademia che può desiderare di più se dentro le sue pa- reti e fuori il nome le risuona di savia e valorosa? Ma la lode e il nome riflette a chi dell’Accademia ha il patronato. Il Mu- 11 nicipio ci favorisce, esso che benevolmente ci accoglie, esso nostro presidio e nostro dolce decoro. Le adunanze si avvivano, e con fervore si succedono; il volume sesto degli Att ne è qui in bella mostra, e per poco è che non si imprende la pubblicazione del settimo; d'onde questa lode e questo nome a’ più lontani con- giungesi. Come per tante altre guise l’opera dell’Accademia si rialza e si fa insigne, con eco, con reflesso, con amore; e i più sani principj si ripetono, e le più nobili manifestazioni si fanno, lungi i malvagi pungoli de’ tristi, lungi ogni pensiero strano da ordinato e costumato consesso. Che se ultimamente udivamo all'Istituto di Francia con so- lennità proclamarsi: « Non si può essere grande poeta senza idealismo, grande artista senza fede, grande scrittore senza logica, grande oratore senza la passione del bene e della libertà » noi abbiamo di che prendere superbia quale ai meriti è dovuta, co- noscendo che tutto questo è stato sempre proclamato e con en- tusiasmo ripetuto ne’ geniali convegni di questa nostra Acca- demia. (Relazione dell’anno accademico 1879, letta dal Segretario generale Prof. Giuseppe Bozzo nella tornata solenne del 28 aprile 1880). In quest'ora sì solenne, in questo luogo sì cospicuo dovrò an- cora io rammentare i vostri vanti, o soc] illustri! i vanti ottenuti nell’anno che ora è scorso, e col quale siamo a chiudere l’ot- tava decade del secolo! Chi mi darà voce da tanto? chi eziandio se umanissimo vorrà credere io possa al grave officio adempire? Ma il dubbio ch'è a’ piè del vero, come cantò l’Alighieri, non tolga ch'io per l’opposito non cerchi di raddoppiare le mie forze, vedendovi qui benignamente ad ascoltarmi, narratore affettuoso dei vostri vanti medesimi; d’onde questa qualunque siasi qualità di lavoro sarà meglio dovuta a voi, che mi siete fratelli e che mi siete maestri. — Voi faceste il meglio e nel modo il più sicuro voi i quali andate co’ piè dritti sulle orme de’ predecessori; ciò che il socio Guizot già osservava de’ dotti. d'Inghilterra, ed è, più che degli altri, de’ nativi delle isole; e giova tanto al conservare, ch'è prezioso negli studj non meno che l’estendere. E nelle Ac- cademie ancora meglio della società benemerite; assidue esse alla letteratura, la quale fa le grandi nazioni, lo ripeterò ancor io col socio Victor Hugo. E nella presente età altrettanto, della quale tutti dolgonsi e la chiamano con motti assai vituperevoli; 13 quando non è a chiamarla, eccetto che soverchiamente agitata, e che talvolta negli stud] per soverchia agitazione trascorre. Ben è vero che gli assettati ordini civili sono delle nazioni va- lido sostegno, altresì è vero che lo sono gli ordini letterarj; la qual cosa vedremo essere stata per parte sua dall’ Accademia conseguita. E lo vedremo oggi con più animo, perchè oggi fa un secolo che Giovanni Meli entrava la prima volta in questo sacro ricinto, e che nel nostro albo era scritto il suo nome, del quale certamente non fu nome più caro. Gli eserciz) delle scienze naturali ed esatte ebbero splendido principio pel socio Federico Napoli, il quale presentò, discusse e diede in dono il manoscritto inedito del compendio della geo- metria d’ Euclide eseguito dal nostro celebre Maurolico; quello da Megara riordinatore delle discipline, l’altro da Messina restau- ratore di esse nell’epcca del risorgimento. Ci arrecò il socio le pagine preziose ritrovate da lui nella Biblioteca di Parigi, e l'Accademia accettò il dono, deliberando di pubblicarsi nei venturi volumi degli At. Ascoltammo di poi il socio Agostino Oglialoro-Todaro sul feucrium fruticans, estraendone la fenerina, che vuolsi ben vaglia sull’organismo animale a combattere più che altro le febbri mias- matiche; e lo ascoltammo sopra una sintesi dell'acido fenilcinna- mico e sopra altri alla scienza utilissimi. Il socio Monterosato in appresso espose alcune conchiglie delle coste d'Africa che non si trovano nel Mediterraneo, ed accrebbe così il numero degli acquisti fatti dal diligente De Stefanis; il quale scrutando una gran quantità di quelle, tutta la specie può dirsi di aver fatto conoscere. Ed inoltre riferi la notizia delle conchiglie pompejane del D." Tibari prodotte nel centenario della 14 sventurata città, e delle conchiglie esotiche del Mar Rosso de- positate nel Museo di Napoli; bensì avvertendo, ad onore di que- sta nostra Accademia, che già nel 1872 ne aveva egli a noi letto; e la novità dell’osservazione non doversi al Tibari attri- buire. | Alla voce del Monterosato per tali studj nominato, s'aggiunse quella del valente socio Gaetano Giorgio Gemmellaro, per la geo- logia e la paleontografia. La lezione del Gemmellaro, che tanto aveva avuto applauso dagli oltramontani ne’ lavori sulle gaste- ropodi, fu seguita ora sui Brachiopodi del calcare cristallino della montagna di Bellolampo presso Palermo; argomento importan- tissimo che tende ad illustrare la fauna ancora non ben cono- ‘sciuta del Zas inferiore del bacino mediterraneo a facies di bra- chiopodi; e la memoria ora fattane accrebbe gloria al socio qual’ei si gode chiarissima. Nè meno fu del socio Emmanuele Paternò col suo chimico esame sulla pierotostina. Tali le esercitazioni in mezzo a noi: mentre il socio Inzenga pubblicava col nome di cronaca, buoni documenti di agricoltura nel reputato periodico diretto da uno dei nostri. E la Società d’agricoltura, e quella d’acclimazione, ben riguar- date per pubblicazioni saviissime, facevano con gran voce met- tere all’erta pe’ mali che ormai hanno infestato le viti. L’Acca- demia con grato animo attese all’ opera di Società così egregie; uno dei cui presidenti elesse ad entrare nel novero dei nostri. La classe di scienze morali ed economiche trasse ammirazione di se nel corso dell'anno e proclamò, innanzi a tutto, un socio di molta fama, celebrando l’ anniversario di Tommaso Natale, filosofo, criminalista, letterato eccellente. Il socio direttore Vin- cenzo Di Giovanni con l’usata valentia lo mostrò divulgatore, 15 perfezionatore della dottrina di Leibnizio; il socio anziano Fran- cesco Maggiore Perni fu lodato in dimostrarlo pubblicista di gran merito per le nuove leggi economiche e civili sulla divisione e il censimento della proprietà demaniale ; le quali leggi furono sì giuste che le tolsero ad esempio gli altri Stati d'Italia, allora che la penisola non era unita in un sol regno; e il socio Segretario Generale fu lodato per averlo descritto letterato di bel nome, traduttore di Omero, oratore ragguardevole. Che se non potè ascol- tarsi la voce del socio segretario Giuseppe Di Menza per mo- strarlo criminalista di pregio originale, come sin d’ailora anco il nostro socio Giuseppe Lanza principe di Trabia l'aveva ricordato nelle diligenti sue cronache, se quella voce dissi non potè ascol- tarsi; 1 soc) Palizzolo, Baggiolini, Pizzuto, Montalbano, con ele- ganti versi adempierono, insiem che ad altro, ancora a questo, del Natale notando l’intuito del ben fare, il genio delle riforme delle pene, sì che alla società sieno più utili; di lui emulo del Beccaria, anzi precursore; gloria della Sicilia e di tutta l’Italia, che ogni traccia di schiavitù s'affretta a togliere da’ codici. Questo ammaestrare con gli esemp], questo ricordare i chiari autori per ricondurre gli uomini al dovere, è oltremodo profit- tevole e fu adoperato dagli antichi; più, lo ripeterò nel tempo del pericolo, riproducendo in pubblico le immagini de’ grandi. Questo ammaestrare aggiunse vanto lungo l’anno alla Accademia, se per tal via venne bene, a noi troppo bisognevoli. Vi adempiette il socio Filippo Evola con considerevole lezione sulle sane teorie economiche svolte da noi e discusse dal 1845 al 1875. Le lodi di Emerico Amari, di Bernardo Serio, di Pietro Sanfilippo , di Gaetano Vanneschi qui udite, dopo già esserlo state quelle del Balsamo e dello Scrofani, seguite in fine dalle lodi del Bruno, del Maggiore Perni, del Biondi e di altri parec- 16 chi, ci vennero veramente al cuore, e del bene che aveva sempre arrecato l'Accademia fu l'Evola dissertatore degnissimo. Il qual bene acquistò forza per le continue esercitazioni della Società di Economia Politica, fondata da non guari in Palermo, e di tratto venuta in voce; unica oramai in Italia e tra le più in- signi d'Europa; il suo giornale propugna i veri più certi, e del reggimento della cosa pubblica accresce col lume la confidenza. Nella strettezza dei nostri termini ci basti solo ad accennare l'argomento della marina mercantile; il quale trattato dal socio Mario Corrao, continuandosi a quello della marina da guerra svolto da lui pur dianzi in questa nostra Accademia, ha scosso l'animo de’ reggitori, ed ha chiamato tutti ad intendervi, nella grande e salda idea che la marina, e la mercantile, può essere uno dei migliori mezzi, a recare ad altro all'Italia. Come le esercitazioni dell'economia civile, quelle della Storia Patria pel zelo del Preside, per l'affetto del Segretario, per la vigilanza de’ membri, con la voce, con la stampa, in ogni guisa vantaggiosa. Come le esercitazioni delle altre Società scientifiche di sopra accennate; le quali tutte da questa antica Accademia si derivano. Ed essa con occhio materno le scorge e se ne tran- quilla, e con cuor vivo ne esulta; sono studiosi che rispondono agli studiosi pel progresso della Sicilia: il progresso migliore che è quello degli stud]. i Ma degli studj morali sia all'Accademia più brama ora che i medesimi versano in pericolo. Si vogliono tristamente studj non altro che di pratica; si vogliono le Università solo al vero rivol- gersi e solo al bello, che fin rilegano agli Istituti elementari ; questa cara filosofia seconda che non è meno importante che la filosofia prima non credendola da tanto. Ma quando l'alto in- segnamento della morale era stato sbandito dall'Università; che 17 lo reclamò poi, ed ottenne le fosse restituito, essa qui lo fe” a bal- danza di un gran nome, del nome di Giuseppe Gioeni di Angiò, nostro socio, che aveva fondato del suo le due cattedre del dritto e del dovere, ponendo premj a’ discenti con generoso consiglio; ed intanto la Società d’Economia Civile, che gli aveva inalzato un simulacro, e lo poneva a gran significanza nell'Aula dell’U- niversità, giovava indirettamente all’ altro buon scopo, perchè Gioeni delle due scienze era stato egregio benefattore. E mentre la torta opinione di togliere la filosofia morale dalle Università, infieriva (che tuttavia non è spenta), l'Accademia assurgeva; ed ora Di Menza, ora D'Ondes Rao, ora La Mantia, ora Vincenzo Di Marco in qualunque si fosse forma, o in materie affini, vi fa- cevan qui prova che dissero nobile e coraggiosa. Tenacità dei Si- ciliani, tenacità dei nostri studj che ci dà salda rinomanza, e appo tutti ci rende singolari dagli altri. Alle lettere ed alle arti porgasi al fine il passo; gioja dell’a- nima, conforto della vita, che il secolo vuole, per cattivi spiriti, in mille guise maledire. Il socio direttore Vincenzo Di Giovanni lesse del volgare usato da’ siciliani nel xm secolo, e del carattere della loro poesia. Ciò che s’ebbe la testimonianza dei tre gran padri dell’ italiana elo- quenza, ciò che è stato confirmato di secolo in secolo da’ loro successori, meritava il sostegno e la difesa del chiaro socio, già che contrarie grida s’ascoltavano di là con fiero sbigottimento. La lezione fu applaudita, e d’oltremare e d’oltremonti i saggi fecero eco; e perchè taluni opponendosi tentarono altre armi, il nostro socio di nuovo lesse e fu approvato di nuovo. Voglia il cielo che le lezioni rechino il vantaggio che s’aspetta, e che una volta veggasi come, meglio che perdersi e mettere in forse il pri- 3 18 mato della Sicilia nell'origine dell’italiana favella, si studii da noi profondamente essa, qual fu appellata aurea dall’ Alfieri, e celeste da Ugo Foscolo, qual'è appellata la più bella di tutte le favelle moderne dagli assennati oltramontani. Il socio Isidoro Carini fece in seguito, con l’usata utile idea, il richiamo del socio estinto Isidoro La Lumia. Storico di retto giudizio e di puro sentimento in questi giorni che un soverchio gli stud] storici anco invade. I pregi di La Lumia furono mostrati con voce schietta, e la voce ci entrava più vivamente nell’ani- mo con vero merito dell’oratore, stretto al lodato per vincolo di natura. Il socio Stefano Vittorio Bozzo lesse della nostra lingua e delle sue fasi in Sicilia. Le idee ne furono le più sicure, per- chè le fonti da cui le attinse erano le più chiare; d’onde ben qui tutti s' attesero, e unanimi applaudirono. Bel congegno di pensieri, ai quali diede lume proemiando felicemente il suo la- voro paleografico! Possa in agio compierlo, come devesi, e a- verne onore, quale col cuor commosso altamente gli desidero! Il socio Antonio Salinas lesse del merito in archeologia del socio Giuseppe Romano. Già dell'illustre che tuttora piangiamo, ave- vamo ascoltato con pago animo le lodi in filosofia, qui le ascol- tammo in archeologia tirate con affetto dai ricordi più intimi con li quali il socio Salinas annunciò le fatiche del Romano, e il con- sorzio avutone con gli archeologi più celebri. Le parole di lui ci furono gravi, e quel ch'egli disse del sistema seguito dal Ro- mano nel trattare l'archeologia riguardandola con occhio, oltre che erudito, artistico, ci fu gravissimo, perchè tale occhio, tale scopo, è tutto proprio di noi. 19 Le arti sono nostra eredità, le arti che in quest’ Accademia di continuo si coltivano, e d’ora in ora s'ingrandiscono. La più sublime di tutte s'ebbe qui pompa l’anno scorso con le avvenevoli note del socio Bernardo Geraci. La più grande di tutte l’ebbe quivi tosto dai socj Galati, Palizzolo, Montalbano, Barone, Pizzuto, Vaglica, Ramondetta che con carmi d'’eletta tempra fecero lieta la tornata. E le ragioni delle arti come qui in bell’accordio! — Per opera del socio Salvatore Lanza di Trabia furono raccontati i fasti della nostra scultura negli ultimi tre secoli; e per l’opera del socio Giovan Battista Basile ci avemmo il più sano giudizio sul progetto del Busiri di Roma per una gran piazza in quell’eterna città. Le arti ministre del bello sì variamente possiedono l’Accade- mia della città capo della Sicilia; che Dante non seppe chiamare con altro titolo che di bella; quivi soggiungendo che caliga per nascente zolfo, per accennare al meraviglioso fenomeno, cui con- suona il vivo estro dei suoi felici abitatori: quando al di fuori il bello con reo animo da molti si contamina. Al grave danno per la poesia, avvertirono i soc} nostri. Stefano Vittorio Bozzo scrisse contro l’ Assomoîr e mandò oltre le sue idee al periodici più gravi, che furono tosto a ripeterle. Ma meglio con la sicura e cheta via dei fatti altri accorsero al danno. Galati pubblicò la sua eccellente traduzione di Euripe, detto sì tragi- cissimo da Aristotile, ma che se va al vivo nel tocco degli af- fetti, non lo fa al di là di quello che giovi ai bisogni del cuore; e dietro il classico libro del nostro Presidente, Amico tradusse Omero, Villareale tradusse Orazio, autori di sicuro gusto ora dagli Accademici a giusto fine divulgati. Che per l’ esempio vedesi dileguar meglio il dubbio tra il reale e l’ideale, e im- parasi meglio la sentenza di Platone, il bello altro non essere 20 che il vero ma splendido; e consacrasi il precetto: non essere argomento onorevole di un artista le cose sordide e vili; se il maestro dei maestri, la cui epistola a’ Pisani fu appellata dal Dacier codice del buon gusto, insegnò di tralasciarsi quello che disperasi che trattandolo non possa rilucere. Infine di che, per la forma, con gli esempj vedesi, che se Ugo Foscolo ebbe giusto odio del verso che suona e che non crea; odio ancor giusto dovremo noi avere del verso, che, se crea, malauguratamente non suona. Lascio di dire altrettanto per le arti, che ad uno stesso ora tornerebbe, alcuni de’ cui cultori possono chiamarsi, con la frase di Giuseppe Mazzini, barbari del sentimento; come lascio del bene che in vario modo loro si è fatto, qual di sopra fu mo- strato, dalla nostra Accademia. Essa nel 1879 tanto ha operato. I socj hanno altrettanto meritato e nuovi vanti acquistato, mentre nuovamente lavori hanno intrapreso. Al nostro Presidente l’ Accademia del Belgio espresse il voto più invidiabile esclamando, ch'egli co’ dotti lavori nelle tre grandi letterature, prova una volta di più che le tradizioni delle medesime sono restate vive nella Trinacria; in Germania si tra- ducono in patria lingua i suoi carmi latini, e si traducono nel- l’idioma inglese in Filadelfia; ed egli oltre pubblicando ognora e ovunque meglio si manifesta. Di Giovanni per continui lavori è nominato a far parte de’ Consessi più celebri, ed ultimamente dell’Istituto di Francia. Il Segretario generale è ricordato con onore in Germania per le varie sue elucubrazioni; ed ora in Un- gheria que’ valentuomini fanno eco in onore di lui a tutto ciò che testè s'era scritto in Italia e con parole savie e più gravi; e ancora meglio nel Belgio con parole di tanta lode che alla sobrietà del costume di lui, ed alla gravità di questo ufficio suo non è concesso di riferire. Cultrera rinomato per la Flora bibli- 21 ca, è già a dare in luce d’egual merito la zoologia biblica col ti- tolo di Fauna. Palizzolo uso a recarci diletto con gli accesi suoi versi, ora altri avendone l’una e l’altra volta pubblicato di vago e leggiadro stile, ha riscosso altre lodi quali meglio a lui dovute. Ugo Antonio Amico pei suoi inni d’Omero, e per quello surtogli dal petto mentre quegl’inni traduceva, ha ascoltato lieti evviva, cui ben consuonano quelli di questa nostra Accademia. Pietro Di Marco ben vede oggimai, dopo quattro lunghi anni, ritornarsi dai più alti politici e da’ più invitti capitani del secolo a quelle sane e certe idee di dritto pubblico, da lui svolte alla nostra pre- senza, leggendo degli arbitrati nazionali e del dritto di guerra. La Mantia con altro lavoro, sull’ antica legislazione italiana, ad- doppia il vanto del primo sulla legislazione di Sicilia. Girolamo Ardizzone mettendo a stampa le prime e le novelle sue opere mostra ognor meglio in qual buon grado debba per esse essere te- nuto. Carini con gli eruditi lavori della cattedra di paleografia fa riscontro a quelli letti fra queste mura con unanime ammirazione. E Pitrè e Salomone Marino fanno riscontro con nuovi lavori di letteratura sicula a’ primi che loro hanno recato da ogni parte ap- provazicne. E Basile intanto va chiesto a far parte del Con- gresso centrale della Esposizione a Torino ed a scrivere la regola dei concorsi d’architettura, e Platania va chiesto a scrivere mu- sica fra’ più insigni per l'anniversario del Palestrina. E il Muni- cipio di Palermo corona la nostra opera, e ci fa bene di ogni sorta, esso nostro Patrono; e che, savio e nobile, conosce la di- gnità di tanto patronato. Le dimostrazioni dei lontani compiono la mia relazione con suono di letizia; quelle degli oltramontani superano quelle dei nostri d’oltre mare; e lo fanno con gara. Doni all’ Accademia, voti all'Accademia chiamandola tra le prime e solenni. Da Bre- 22 scia, da Pisa, da Bergamo ci viene invito a lavorare seco loro col nome di sorelle, dall'Inghilterra Caleb Bradlee ci manda un tributo di versi in onore di due grandi italiani del quattrocento e del cinquecento, Cosimo De Medici e Guido Reni; dalla Francia la Società di Statistica e la Società d’ Agricoltura chiedono il nostro consorzio; dalla (rermania altrettante manifestazioni d’af- fetto ci pervengono, e sin da Filadelfia. Ed un magnifico si- gnore di Napoli, figliuolo di un antico nostro socio, il marchese Saverio d'Andrea la cui memoria in mezzo a noi sarà imperi- tura, ci lascia eredi dell’ ottava parte del suo patrimonio per istituire de’ concorsi a pro delle arti; e l'Imperatore del Bra- sile, eletto socio della nostra Accademia, ringraziando dichiara averlo accettato pel merito de’ socj che presentemente la com- pongono. Ahi mi toglie dalla letizia il richiamo de’ nostri trapassati in quell’anno! Pietro San Filippo ragguardevole uomo di lettere che a pro della più preziosa cosa, a pro dell’insegnamento, ado- però le sue forze e n’ebbe concorde voto per sani racconti e per precipua storia civile e letteraria. Isidoro La Lumia, il cui pregio fu detto toccando dell’elogio fattogli dal socio Carini; Luigi Mazza erudito in economia politica ed in letteratura, ornamento poi del nostro foro in uno de’ supremi seggi; Filippo Minolfi ad- dettissimo alla sicula biografia, intento sempre a migliorarla coi suoi assidui ricordi; Diego Orlando giureconsulto meritissimo scritto avendo sulla legislazione normanna, sul feudalismo in Si- cilia, sul sistema ipotecario in Francia, e sopra siculi diplomi; e pure trapassato Paolo Volpicelli da Roma professore di fisica in quella Università, restauratore laborioso dell’ Accademia de’ Lincei, Silvestro Centofanti Rettore dell’ Università di Pisa, onore dell’elo- quenza e della letteratura italiana come lo aveva proclamato il 23 Gioberti, terzo già tra il Niccolini e ’1 Capponi a reggere l’onorata schiera degli uomini, gli elementi della cui anima erano la lettera, la religione, la patria.—E che fare richiamo qui insieme io possa, dopo alquanti anni, dell’estinto socio Alessio Narbone, che fu segretario generale dell’Accademia; di vita illibata, di dottrina onnigena, Varrone, come bene lo dissero, de’ nostri tempi, per opere di varia specie e di tutta importanza; il cui elogio aspet- tasi, e ’l voto sarà presto adempiuto. Dalla pietra che tutti copre, alla nostra aura festevole rivol- gendomi, con ispirazione oltrechè viva, auguro a voi, socj il- lustri, prosperità e grandezza; ed auguro all’ Accademia rino- manza ognor più bella, che della felicità di questa terra sia in- dice al comun gaudio il più bramato e il più certo. + x I CI i Pi Ù DIO E FIDO. BIOGESO ig icon taria 00 DIA NE LISTILTIORA Pisa fit) i ‘ f de e Tio de i ASI l'inmd 5 na vesta ago a; «Ln SUL 23% % È d, nt cp rile 497 È , ra Ri ) 13315) OE. Gis OSO ! | CROCI PMO Sao TECNO PIPE ARE RT RBARENE ST : HO TSOJEsI ENDR RIIZOo! 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Pratica utilissima degli antichi, da’ moderni con pari uti- lità continuata per opera degli Italiani, poi dagli ultramontani seguitati; orgo- gliosa sempre, e per secoli, del nome di quella Istituzione fondata dal padre, dal Dio dei filosofi, come lo chiamò Cicerone. D’onde è gran dolore che uomini baldanzosi a malmenare le cose più sante, e le reputazioni più insigni, sin malmenino questa pratica; talora, per isciagura, alcuni valenti seco loro. I detti speciosi o spensierati dei quali hanno generato, senza volerlo, divisioni, astj, e, come dicono, partiti, sì nocevoli a’ civili ed ai letterarj negoz]. La cagione di questi detti è derivata dall’ equivoco in cui molti si sono tro- vati, qual maraviglia; anco valenti, di scambiare l’abuso per l’uso, e solo avere in odio un'istituzione perchè di essa si abusa. Ciò che, come ognun vede, è gran danno, e poter produrre danno maggiore; avvegnachè non vi sia cosa umana che non sia soggetta agli abusi, ed allora converrebbe che si abborrissero tutte. Fortunatamente, malgrado così gran trepidare del secolo, il mal di taluni a- busi che abbia potuto far cadere in tanto equivoco, è oggi nelle più illustri Accademie quasi dileguato; nè ombra è quasi in esse che impedisca di mirare la candida loro luce; siccome può vedersi nella Accademia nostra. Questo mo- streremo ragionando del corso ultimamente terminato; tal che voi, o socj, tro- verete di compiacervi di voi stessi; se il vero che è la vita lunghesso schietta- mente è apparso, mercè la facoltà della parola, che gli uomini concilia. Perchè meglio ferisse nel segno l’Accademia in quell’anno battè per lo più la 26 via de’ nobili esempj, d’onde per essa, che è sì breve, sorgesse con singolare atteggiamento la virtù dell’emulazione, mezzo efficace di progresso. Il socio prof. Federico Napoli lesse di Giovan Battista Odierna da Ragusa in Sicilia celebre astronomo, fisico, e matematico contemporaneo di Galileo. Mostrò come da umili principj sia venuto in altezza al favore compartitogli dal Prin- cipe di Lampedusa, secondo era allora costume dei Baroni di Sicilia; e questo segnatamente fu costume de’ Lampedusa nella cui casa l’amore degli studj è stato caldissimo, occupandosi in essi, e proteggendoli in sino al tempo presente. Pel quel favore l’Odierna potè salire sì ad alto; che ai remi si erano aggiunte le vele, e l’opera sugli astri medicei, e l’altra sulle comete lo fecero conoscere ed ammirare, cosa allora meno facile, in Francia ed Inghilterra. All’eco di tali lodi si esalta il nostro socio disserente, e poi considera con par- ticolare attenzione il merito dell’Odierna per l’ opera sull’ Iride; ponendola con quella di egual tema scritta dal Dedominis, rammentata da Newton; fermando che l’uno fu inconsapevole dell’ altro, cosicchè, sebbene l’Odierna abbia scritto dopo del Dedominis, se perdè il merito della contemporaneità, non perdè quello dell’originalità, e restò per conseguenza ad ogni sguardo segnalato. Tale il pregio della lezione, colla quale è stata colmata quella lacuna, che nella storia delle matematiche aveva notato il benemerito prof. Riccardi, non avendo ancora veduto uno espresso lavoro sull’Odierna; come ora degnamente il nostro socio l’ ha fatto. i Il socio Gemmellaro di poi, il socio Inzenga ed il socio Paternò si accingono a conseguitar con lavori di massima importanza. Bella gara d’ingegni a mostrare come in questo luogo le scienze naturali ben coltivansi, ed alla bontà, ed alla vaghezza degli altri studj ben s’accoppiano, e industremente a comun vanto si alternano. Nella classe di scienze morali e politiche la nostra Accademia nello. scorso anno di egual passo è progredita. Il socio Carini trattò un argomento assai im- portante; la Chiesa cattolica e le scoperte geografiche. Niun fu che non l’abbia ammirato per l’opportuna erudizione, pel savio ragionamento, e per la gravità impressavi. La religione benefica in varj modi, lo fu già per le Crociate; e gravi storici mostrarono con l’occasione di quelle imprese essersi avvantaggiati i civili in seguir virtude e conoscenza. Altresì per le missioni religiose, e per lo pii viaggi. Valentuomini, specialmente di Sicilia, vi hanno avuto nome; e con la bontà continuamente si è diffuso il sapere. Dopo l’applaudita prova del Carini si profferse con tema non meno alto il socio Crisafulli, esaminando un progetto sull’educazione. L’importante argomento fu trattato in maniera importantissima. La rettitu- dine del pensiero, la vigoria del sentimento, la sobria dottrina rifulsero nel di- scorso del nostro socio. E importò molto che gli Accademici ascoltandolo, e gli altri uditori, si fossero levati ad unanime esultanza: il senso morale assurgendo in ascoltar quelle massime, ad onor certo dei nostri cuori in questa età diver- samente agitata e di soverchio alterata. Accadde allora in questa Accademia, ciò Par, che l’anno precedente era accaduto avendo letto il compianto socio Vincenzo Di Marco l’elogio del socio d’Ondes; dove a quelle giuste teorie a quel diritto sen- tire con lealtà e con fede, lo stesso sentimento in tutti noi si riscosse, che leg- gendo il Crisafulli si è da ultimo riscosso. In corrispondenza fece quindi ascoltare la sua voce lo stesso socio Di Marco allora tuttavia nel numero dei viventi. Già il socio Invidiato, da Napoli dove ha sua stanza, ci aveva offerto in dono la sua esegesi all’art. 133, n. 3 del codice civile, nel quale è scritto che: il figlio naturale, anche nei casì in cui il rico- noscimento è vietato, avrà sempre cagione di domandare gli alimenti se la pa- ternità o maternità risulta da esplicita dichiarazione scritta da’ genitori. Il socio disserente dopo aver seguito l’autore dell’esegesi nella narrazione delle vicende che tal legge s’ ebbe dopo la sua pubblicazione nel codice Napoleone, lodò il senno del bràvo giureconsulto Invidiato, perchè nel suo lavoro con franca voce aveva affermato, che la dichiarazione esplicita è la dichiarazione completa, che sola da se attesti il fatto della paternità criminosa ; esclusa quindi qualunque altra ricerca di supplemento. In quest’avviso dell’ autore fu qui lodando ed in- sistendo il Di Marco sui principj di sana morale, e sull’ abborrimento di turpi esempj; e sul danno di malaccorta così detta equità. A chiudere il corso di sì pregiati lavori il socio Bruno sciolse il voto dell’Ac- cademia facendo l’elogio dell’estinto socio Giovanni Arrivabene. Egli con pietoso animo ricordò i lunghi anni del trapassato, e le molte sue opere, e discorse delle vicissitudini degli uni, ed esaminò il merito delle altre. L'immagine amatissima del più provetto degli economisti italiani apparve tutta dessa dalla lezione ascol- tata con tanta attenzione e meritamente lodata; sì che quando andò a stampa gli economisti di Francia nel reputato periodico l’ebbero in grande onore. E qui, al termine, diremo dell’elogio del socio Sampolo pel cessato socio Vincenzo Di Marco. Con sacra pompa l'Accademia ne celebrava la memoria. Le belle iscrizioni dei socj Galati, Vaglica, Di Menza e Coppola erano alle pareti per ricordarne le virtù. Ciò che poi era compiuto dall’ elogio del socio Sampolo in lodatissima guisa. Tributo estremo dell’ Accademia al socio illustre defunto ; il cui nome non sarà per estinguersi mai in mezzo a noi, e che sempre ripete- remo con ammirazione e rammarico. Resta riferire delle lettere e del suo esercitarsi in esse, la cui bellezza splendè innanzi per li poetici componimenti. Onor precipuo di questa antica Assemblea, non mai mancatole; che non mai, se al Ciel piaccia, sarà per mancarle. Per essi è additata sin dalle più lontane regioni; essi proclamano: sacra eredità lasciataci da’ nostri avi, ajutata dal dolce clima, animata da un certo foco dilicato, che, per dirlo col divino nostro poeta, scorre qui in mezzo a noi, e va di cosa in cosa, sempre caro e piacevole che gli animi rapisce. Chi non fu lieto nel principio dell’altro anno agli aurei versi del Principe di Galati nostro illustre Presidente; come del Pizzuto , del Barone, e dell’Amico e della Franceschi Pignocchi; seguiti da quelli del Santangelo in siciliano, traccia gloriosa del nostro primo apparire in questo aringo. E chi non fu maravi- 28 i gliato de’ classici versi latini del Vaglica, del Marotta; come de’ due Montalbano e del Vaccaro. Li quali componimenti mostrano con prova eloquentissima : in italiano, l’arte del dir legato da° numeri, lungi dall’essere de’ frivoli e de’ nojosi, essere degli uomini più ponderati e più insigni: in latino, che il riprodurre in Italia la bellezza del secolo di Augusto è più che d’altri di noi, la cui scuola con- tinua con incessante esercizio. Rammentiamo ora l’ameno scrivere in prosa del socio Amico ragionando del nostro Alfano poeta del cinquecento, e della sua battaglia celeste. Essa tenne in pregio l’Alfano appo i valentuomini del secolo, perchè col tema sublime, trat- tato dall’ Andreini con vario stile ed immortalato dal Milton, fece mostra di se con applaudita sentenza. Di questo poema trattò l’ Amico percorrendolo indu- stremente e giudicandolo avvedutamente e dimostrandone i pregi con sagezza e maestria. E dopo sì giusti studj del socio Amico pensò nella via de’ nobili esempj il socio Carini apprestarsi di nuovo a far le lodi dell’ antico nostro segretario ge- nerale Alessio Narbone. Corse con rapido sguardo, e con salda base cronologica, tutte le erudite opere di questo nostro Varrone, e provò con evidenza che in quelle dotte opere dovrà con molto utile attingere chi voglia, com’ è nei voti, scrivere la storia letteraria di Si- cilia. Nè tacque a tanto il nostro socio; ma volse la sua attenzione al merito avu- tosi del suo elogiato reggendo da segretario generale questa Accademia: le sue cure, il suo zelo, la sua avvedutezza; come tutto si avvisa e si compendia nella elaborata relazione dopo il 1832. A che l’Accademia non pure applaudì , ma si commosse, sino a deliberare con voce sola, che a Narbone le cui ceneri furono per tristo caso miseramente neglette, si ponga un marmo in S. Domenico che ai posteri incessantemente, a nome della stessa, lo rammenti. Dopo di che ritardandosi per caso la celebrazione del principio del novello anno accademico, ben valse a non interrompere la catena de’ nostri esercizj il socio Basile riferendo sugli studj,i disegni del prof. Andrea Busiri di Roma per un ponte-galleria da costruirsi sul Tevere. Ne applaudì la parte d’ingegniere, ne applaudì la parte di architetto; e lo disse meritevole per entrambe che l’ Acca- demia gli dirigesse un voto di lode. E promise di poi il disserente sulla richiesta de’ socj di ragionare con apposito discorso sul modo di ristorare al possibile l’ar- chitettura, come sì fa per l’ingegneria, nel suo studio categorico, e nel suo an- tico splendore. Valse poi il socio Sant'Angelo leggendo eruditamente intorno al- l’Alighieri. E l’onor grande del padre della letteratura non pure dell’Italia, ma del mondo si accinge ora a segnalare il socio Pizzuto in. una lezione sull’utilità dei classici con invitti argomenti. All’espettazione dei quali argomenti per animare il zelo verso i grandi maestri, considererò io da mia parte di non avere meglio potuto adempire al mio pub- blico magistero , che in tutti e tre i padri della letteratura meditando, e le meditazioni pubblicando ; sino le ultime nel corso di questo anno accademico, a mostrare di quanta importanza fu il siciliano alla formazione dell’italiano il- 29 lustre; secondo ha ora notato sul mio lavoro la reale Accademia del Belgio. Laonde non mi si apporrà a superbia il ripetere di avere in tal modo bene spesa la vita, siccome testè ne scrisse il valente professore Giannini di Ravenna, sebbene con lode di soverchio eccedente. E lasciando la lode, perchè io alla fine non ho fatto che il mio dovere, mi contenterò qui a concludere, riflettendo sullo importantissimo argomento , che non so come non possano tenersi in grande osservanza tutti e tre questi crea- tori, perfezionatori della nostra lingua, se la lingua di una nazione è tutto, e vale quanto la libertà; se la lingua di una nazione è sì gran cosa anzi sacra, che i tiranni più spietati non hanno creduto avvilire di più anzi annullare un popolo, che vietandogli l’uso della propria nativa, ed obbligandolo, oh barbarie! ad usare quella del dominatore. Rifletterò inoltre che non so nemmeno persua- dermi come alcuni abbiano potuto, con poca considerazione, chiamare questi tre grandi padri, scrittori di parole e non di cose; de’ quali il primo tra le grandi e maravigliose sue creazioni, con la pietà dell’Ariminese e col terrore del Conte di Donoratico riempì del più gran sentimento drammatico, ed esercitò gli animi di tutti ne’ più supremi affetti con tale un movimento, che nelle sue pagine imperiture dura da cinque secoli; l’altro, maestro prima di quell'amore che no- bilita il cuore dell’ uomo, e creatore poscia della più sublime lirica poesia in Italia, esortando con la melodica sua voce i Grandi della terra alla concordia , ed alla liberazione dell’ Italia dallo straniero, benemeritò allora, ed insegnò ai posteri in che più d’ ogni altro sia da usare la divina arte de’ versi; il terzo, descrittore immortale di tutti i casi umani, giunto alla metà del suo cam- mino pensò meglio che altro adagiarsi nell’amore ragionevole del Petrarca con la novella di Cimone, il quale amando divien savio, raccomandandola non solo pel felice fine di virtù al quale cominciò a ragionare, ma per comprendere quanto seno sante, quanto poderose e dì quanto ben piene le forze d'amore; e non credè dar termine alle sue narrazioni, se non con quella ammirevole in cui espone ed esalta la fede e l’obbedienza della moglie, provvedendo così con l’impareggiabile sua eloquenza al più certo bene della società riposto tutto nell’ordine e nell’o- nore della famiglia; a traboccar poi felicemente in bene dell’ordine e dell’onore della civil comunanza. Nè solo in Accademia i socj hanno avuto merito lungo il tempo descritto, ma al di fuori con lo stesso zelo con lo stesso intuito che nell'Accademia, alla quale il vanto ottenuto grandemente ritorna. Inzenga nella sua cronaca agraria co’ più sicuri lumi delle scienze per so- brietà di giudizio, e per sana pratica, è giovato alla più utile di tutte le arti in questa nostra Isola del sole. Cacciatore ha fondato l’Osservatore Meteorologico nuovo a grande pubblico vantaggio. Tacchini congedandosi da noi ha lasciato un insigne ricordo co’ suoi lavori per l’Osservatorio sull’Etna; promotore ancora egli insieme col socio Cacciatore, de’ più zelanti, dell’ equatore Secchi, monu- mento glorioso allo astronomo immortale. Riccò ha pubblicato le sue dotte os- servazioni astronomiche sulla gran cometa recentemente apparsa a rendere ognor 30 più lieto il mostro emistero; dopo avervi atteso Cacciatore colle sue effemeridi ; pure il principe di Lampedusa dalla sua specola secondando. Gemmellaro pei suoi studj di storia naturale ha arricchito incessantemente i più celebri perio- dici; e non altrimenti Paternò per la chimica: entrambi col vanto di avere ac- cresciuto il nome dell’ Università co’ loro compiuti stabilimenti. Cultrera alle lodi meritate per la flora biblica e per la fauna biblica, ha aggiunto quelle per la mineralogia biblica, e per le bibliche istituzioni. I socj Prelati Celesia, Tura- no, Ragusa, ciascuno dalla sua sede, han divulgato dotti sermoni a dirizzare il popolo nella via della virtù. La Mantia ha dato in luce la nota de’ libri rari del secolo XV. esistenti nella biblioteca Lucchesi in Girgenti, e la monografia delle notizie e documenti sulle consuetudini di varie città in Sicilia; mentre a man- tenere il bel nome acquistatosi, e ad accrescerlo, scrive con mente assidua una nuova importante opera sulle origini italiche del nostro codice civile. Maggiore Perni ha reso di pubblica ragione i suoi travagli sulla statistica e- lettorale di Palermo e sui movimenti della popolazione dal 1862 al 1871, in con- fronto co’ precedenti, ed è stato applaudito in Francia del de Blok. Carini che tante volte ravviva l’idea del suo esercizio negli studj di paleografia, e di ar- cheologia, quante ritorna ad iniziare con erudita prolusione il suo corso, ora più felicemente addimostrossi parlando degli stromenti dello scrivere con ampia classificazione, e più particolarmente dello stiletto scrittorio, del calamo e della penna sotto l’aspetto archeologico e diplomatico. Stefano Vittorio Bozzo intento all’archeologia, ed alla diplomatica ha presentato all'Accademia la continuazione della Storia della guerra del Vespro a quella del socio Michele Amari, e l’opera lodatagli sarà per vedere la luce nel sesto centennario. Ed inoltre Pitrè aggiunge volumi ai volumi pubblicati con comune approva- zione sulla letteratura siciliana. Cusa rende di comune ragione ed in originale i diplomi greci ed arabi della Sicilia. Girolamo Ardizzone ottiene maggior pregio per l’altima sua pubblicazione di un sermone in difesa della causa del giusto e dell’onesto, e per eleganti traduzioni. Di Giovanni scrive all’Istituto di Francia della filosofia di quell’anima santa, che, come disse l’Alighieri, i mondo fallace fa manifesto chi di lei ben ode. Marvuglia, mentre tutti dolgonsi dell’architettura on- deggiante, e quasi persa, inalza un tempio di tutta bellezza con lo stile del se- colo XV, con l’elevatezza delle sue linee e con la sobrietà de’ suoi membri ad eccitare il sentimento religioso; e con metodo di singolare scelta sui più grandi monumenti di architettura cristiana in Sicilia. Civiletti, in tempo in cui la scoltura dalla pietà di Niobe e dal terrore di Laocoronte già si vede precipitare alle trivialità così dette reali, sino alla Nana del Zola ed alla petroliera del 1870 in Parigi, tiensi al suo cheto e bene ispirato estro con elette creazioni a man- tenere il decoro dell’arte. E delle lettere toccando e della ragione di esse, accenneremo il merito avu- tosi dal Vaglica dal Montalbano e dallo Spoto nelle traduzioni e nelle epigrafi latine; e pure dal Mortillaro; il quale poi accresce il corso delle erudite pubbli- cazioni con riprodurre con utile il suo vocabolario; e dalla Ramondetta con 31 versi di squisito sentimento, e dall’Amico con versi in decorosa forma; ì quali, vedendosi in opposto tanta mala via battersi nel presente tempo, potrebbero fare rammentare quel di Cicerone — qual perversità è negli uomini, che tro- vato il frumento, si pascolano di ghiande? — Ed accenneremo in fine il me- rito del nostro Presidente che in tutte e tre le letterature, ed in prosa ed in versi ha riportato unanimi suffragi in vario modo, da tutte le parti, dove i suoi volumi si sono letti ed ammirati; più dalla Germania, perchè, è d’alcun tempo, .di lassù agli studj de’ Siciliani si fa grandissimo applauso. Ma chi dopo essersi affissato in tanta luce potrà rivolgere lo sguardo fra le tenebre della morte ? Chi dirà de’ nostri socj estinti lungo il corso accademico ? Chi dirà di Giuseppe Ugdulena accurato professore di diritto costituzionale in questa Regia Università, di animo saldo e gagliardo, di erudizione singolare nella storia, e nelle lingue straniere? Chi di Vincenzo Di Marco chiaro lume del nostro celebre foro, con mente rettissima, con istudj profondi; la cui parola fece trovare vera la sentenza di Omero che la bellezza e la eccellenza del dire sono doni degli Dei? Chi dirà d’Ignazio Li Bassi professore di fisica e di botanica, cultore esimio di storia na- turale, la cui memoria sulle conchiglie fossili di Palermo orna di molto pregio il terzo volume de’ nostri Afl#? Chi di Giovanni Maurigi, caduto innanzi tempo per la via alacremente percorsa in sino al supremo grado della magistratura si- ciliana? Mi è forza far di loro richiamo con estremo dolore. Non meno estremo sarà esso per li defunti oltre il mare. Per Francesco Rizzoli insigne chirurgo di Bologna Presidente di quell’Istituto, socio insigne e in sino all’ultimo alla no- stra Accademia affettuoso; per Giovanni Arrivabene anziano degli economisti ita- liani, della gloria della patria in sommo grado sollecito ; per Giusto Bellavitis; trai nobili sapienti del Veneto, che credette accrescere la nobiltà della nascita con quella di pubblico professore delle scienze esatte nella patria Università; pel conte Carlo di Beligioso grande ornamento dell’ Istituto Lombardo, che agli eccellenti studj di scienze morali aggiunse con vanto gli studj delle belle arti; chi per Giovanni Duprè infine, la cui morte recente tiene tutta in ]Jutto la bel- lissima Italia. Scultore di gran merito, tra’ primi dell’arte, seguendo il vero sce- gliendolo: scrivendone aumentò il proprio nome, e ne’ marmi e ne’ libri lasciò un nome importante. E se il dolor non ha tregua, non l’abbia per, al sommo della gloria , alla ricordazione del celebre Vincenzo Miceli, il centennario della cui morte avvenne nello scorso anno. Vanto di Morreale, terra avvezza ai vanti scien- tifici, letterar], ed artistici. Uno de’ più cospicui filosofi del tempo; movendo dal savio dubbio della scuola di Megara, si diè allo spiritualismo con la teoria del- l’ Ente Uno e Reale; in onore presso i più grandi Istituti delle nazioni più colte che senza posa lo esaltano. Ritorno dalla ricordazione di questi egregi che di là ci osservano e con l’eco del loro nome a belle imprese ci spingono, per dar termine alla relazione segnalando gli onori in questo periodo dall'Accademia ricevuti. All’esposizione geografica di Milano sono stati accolti con singolare attenzione i due rari portulani l’ uno del 1468 e l’altro del 1536, mandati colà dal socio 32 Lanza, proprietà dell’avita sua casa; ed i rapporti archeologici dell’Archivio Si- ciliano mandati dal socio Carini. Al congresso filarmonico di Milano sono stati eletti a prendere parte i due nostri socj maestri Platania e Geraci. Al centen- nario di Camoens in Lisbona fummo segnalati, e lo fummo di poi al centennario di Calderon in Madrid; lo fummo in tante grandi esposizioni industriali, per opera del socio barone Porcari e del socio Duca Brolo. Di poi da Atene il socio professore Paniropulos ci mandò una memoria ori- ginale sui tremoti di Scio per inserirsi nei nostri Atti; da Vienna il professore , Werner proclamò che si dessero tutte a stampa le opere di Emerico Amari; da Ripatranzone il socio prof. Galanti ci dedicò le sue memorie dantesche delle quali l’Accademia gli è assai riconoscente , e da Berlino il socio Buchholtz ci mandò i suoi studj sul latino pure a far parte degli Atti nostri. Come il Museo Nazionale di Rio Janeiro e la Società degli Ingegneri di Guadalajara, con le altre più illustri Accademie sorelle ci fanno dono de’ loro insigni lavori; e nuovi se ne aggiungono da quelle di Brescia e di Filadelfia e dall'Accademia di Medicina di Parigi, e dall’ altra di Pavia, e dall'Accademia del Canadà e dall’ Accademia di belle arti in Torino; entrate tutte lo scorso anno in questo nostro consorzio. E se la fognatura, la marina, e la perequazione delle imposte sui terreni, sono tre temi gravissimi ed alla nostra città importantissimi, i socj Reyes, Corrao, e Maggiore Perni li hanno essi, per li primi, in questa Regia Accademia trattato; ed ora le autorità costituite con tutto l’animo vi intendono. Così che il merito della iniziativa sarà sempre, cagion somma d’orgoglio, a quest’Accademia attri- buito. Il Municipio rispondendo, dalla parte sua all'Accademia con savia beneficenza l’ajuta e l’alimenta; e mancano le parole alla lode per gli effetti ottenuti dal provvedente comunale magistrato, a favore della stessa; il cui settimo volume è presso a pubblicarsi. A tutti i quali onori il Re con compiacimento singolare badando, applaude ancora egli, e nella Accademia riconosce e le conferma il ti- tolo di Regia. Sia tutto caparra di futuri vantaggi, sia tutto augurio di novelli splendori a questa pacifica adunanza, dove vero gli uomini sì riconoscono fratelli, come l’appellò il Tocqueville, a questo albergo della scienza, a questo tempio di Dio e della virtù, come l’appellava Bernardo Tasso; cui io, ora che si festeggia il com- pimento di mezzo secolo dalla sua restaurazione, presso al termine della mia accademica carriera, mi proffero affettuoso e devoto. CLASSE DI SCIENZE NATURALI ED ESATTE DELLA VITA E DELLE OPERE DI "% GIOVAN BATTISTA ODIERNA ASTRONOMO FISICO E NATURALISTA DEL SECOLO XVII MEMORIA DEL SOCIO PROF. FEDERICO NAPOLI letta nella tornata del 25 luglio 1880 La vita di G. B. Odierna, offre un esempio splendido, di ciò che possa l’inge- gno, unito ad un vigoroso e perseverante volere; per vincere le più gravi diffi- coltà, e lasciare malgrado i più forti ostacoli, una traccia luminosa nella storia delle scienze. Nacque in Ragusa di Sicilia (provincia di Siracusa) il 13 novembre 1597 da poveri genitori, i quali esercitavano la modesta industria di calzolai. Intorno alle condizioni degli studj nell’isola in quel tempo, non si hanno che incerte notizie; ma ben può affermarsi che in Messina fiorivano le scienze e le lettere in quella università; ove l’illustre geometra Francesco Maurolico, il quale va celebrato come uno dei restauratori delle matematiche, nell’ epoca gloriosa del rinascimento, avea insegnato le scienze con molto splendore. Morto il Mau- rolico gli era succeduto il Borelli, il quale avendo parteggiato pel governo fran- cese, che in quel periodo, ebbe breve dominio in quella parte dell’ isola; venne in sospetto del governo spagnuolo ristaurato, e allontanandosi dalla università messinese ebbe l’onore di venir nominato matematico dello studio di Pisa ove successe al sommo Galilei. Non vi ha dubbio quindi che in quella regione 0- 4 DELLA VITA E DELLE OPERE rientale di Sicilia le matematiche erano state insegnate da grandi maestri; e però riesce agevele d’intendere come G. B. Odierna, nato pochi anni dopo la morte di Maurolico, avvenuta nel 1575; abbia potuto nella sua giovinezza studiare pri- vatamente matematiche in Ragusa, e meditare le opere del grande geometra mes- sinese; delle quali come vedremo in appresso fece studio diligente. Entrò di buo- n’ora nel chiericato, che in quell’epoca era in Sicilia, la carriera prescelta co- munemente da tutti coloro, che intendevano a passare la lor vita, nella regione serena degli studj; e trovavano nello stato ecclesiastico, una qualche risorsa per far fronte ai bisogni della vita, ed una guarentigia contro le persecuzioni poli- tiche, frequenti in un paese, travagliato dalle alterne vicende di dominazioni straniere. Del resto, il tempo in cui egli visse, era singolarmente adatto agli studj delle scienze fisiche e matematiche; perchè Galileo Galilei, dal quale prende origine la grande scuola sperimeutale moderna; diffondeva allora con le sue opere, una viva luce, su tutte le parti delle scienze matemetiche, e delle scienze sperimentali. È naturale quindi, che il modesto chierico di Ragusa, educato agli studj matema- tici, sotto le splendide tradizioni di Maurolico e di Borelli, malgrado l’isolamento in cuì vivea nella sua patria; sia stato indotto dalla lettura di quelle opere, a dedicarsi alle speculazioni astronomiche, ed agli studj della fisica, e di altre scienze naturali. È noto come in quel tempo i lavori di Galileo presero una nuova direzione. Ai cominciamento dell’anno 1609 si sparse la notizia, che in Fiandra era stato presentato a Maurizio di Nassau uno strumento costruito in modo, che gli og- getti lontani, vedevansi come se fossero vicini. Galileo racconta egli stesso, di avere appreso tale notizia mentre trovavasi in viaggio; e ne ebbe conferma da una lettera di Parigi. Di ritorno a Padova, dove era stato chiamato dalla repubblica veneta ad insegnare matematiche , in quel celebre ateneo; meditò una notte intera alla scoperta dell’apparecchio olandese, sulla cui forma non si conosceva alcuna particolarità; e l’indomani il teloscopio che prese il suo nome era trovato. Questo strumento egli perfezionò prontamen- te; in modo da potere ottenere un ingrandimento di mille volte in superficie. Galileo non si è mai attribuito il primo onore di questa invenzione, ma egli ha sempre affermato, e le sue asserzioni sono appoggiate da tutte le testimonianze contemporanee, che egli aveva indovinato il segreto, e perfezionato la costruzione dello strumento. L’artista olandese fu presto dimenticato; poichè documenti au- gentici provano, che col teloscopio costruito in Olanda, si poteva appena ottenere un ingrandimento di cinque volte il diametro degli oggetti; e che nel 1637 non sì sapevano ancora costruire in Olanda telescopj, adatti ad osservare i satelliti di Giove. Da tutti i pnnti di Europa quindi, gli studiosi delle cose astronomiche, sì rivolsero agli artisti italiani, per avere teloscopj. E noto come Galilei, rivolgesse con ardore il nuovo strumento alle osserva- zioni del cielo; e che in tempo brevissimo, fece una serie d’importanti scoperte, i DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 5 sulla costituzione fisica del corpo lunare, sulla costituzione della Via Lattea , e sui quattro satelliti di Giove, di cui egli il primo notava la esistenza. Codeste ed altre molte scoperte astronomiche fatte mentre dimorava a Padova, | egli consegnava nella sua opera celebre Galilei Sidereus Nuncius. Risulta da pa- recchi luoghi dei lavori pubblicati dall’ Odierna, che egli ebbe di buon ora co- desta opera; della quale fa cenno ripetutamente; e che gli servi di guida nelle sue osservazioni, e ricerche astronomiche. Il 24 giugno 1628 Odierna ricevette da Roma un teloscopio, dal sig. Alessandro Rondanini. È Taluni degli scrittori siciliani, che hanno raccolte con diligenza, le notizie re- lative alla vita di G. B. Odierna; affermano che codesto teloscopio fosse costruito nel sistema primitivo dei teloscopj olandesi; ma tale affermazione è inesatta, non solamente perchè egli fece molte ed importanti osservazioni sui satelliti di Gio- ve, che siccome abbiamo già notato non era possibile di osservare coi teloscopj olandesi; ma altresì perchè nell’opuscolo Il nunzio della terra, egli stesso parla di alcune sue osservazioni, fatte col telosgopio del sig. Galilei. Pare che egli abbia trovato un mecenate, nel Principe di Lampedusa signore della terra di Palma in provincia di Girgenti; il quale era non solo amante dei buoni studj, ma altresì cultore non volgare delle scienze matematiche; ed è pro- babile che l’Odierna abbia ottenuto da codesto suo protettore, i mezzi per l’ac- quisto del teloscopio, e delle opere matematiche ed astronomiche, le quali de- terminarono l’indirizzo dei suoi studj, e delle sue ricerche. Nell’aprile del 1645, fu creato Parroco ed Arciprete della terra di Palma, e d’al- lora in poi occupò interamente la sua vita nell’ adempiere i doveri del suo uf- ficio, e nel coltivare con ardore i suoi prediletti studj; menando una esistenza modesta ed operosa in quel comune, sin che si spense nel 6 aprile 1660. La sua prima pubblicazione, di argomento astronomico, porta la data del 1629; e venne fatta in Palermo, essa ha per titolo: Universae facultatis || Directionum Physiotheorica || opus astronomicum || in Duas partes divisum || Authore || D. Jo: Baptista Hodierna || Presbytero Saeculari Ragusano || Mathematicarum cultore || Panhormi || Typis Alphonsi de Insula; Anno Virginei Partus MDCXXIX. Uodesto breve lavoro che conta 26 pagine, è preceduto da una lettera dedica- toria al Barone D. Vincenzo Arezzo. che egli saluta come il suo primo discepolo. Si ha da tale lettera, la conferma del fatto, asserito dai suoi biografi, che l’ 0- dierna insegnò privatamente in Ragusa, le matematiche e l’astronomia. E poichè le notizie intorno alla vita del nostro autore, sono scarse ed incerte; non è su- perfluo il notare, che la lettera porta la data di Palermo 12 Kal. Julij 1629. Ciò mi pare indichi chiaramente, che egli erasi recato in questa città ; nella quale siccome si deduce da altri documenti, fece lunga dimora; e vi attese a studj ma- tematici, e sperimentali, presso l’Accademia palermitana; che avea sede in quel tempo, nel Collegio massimo dei gesuiti. 2 -6 DELLA VITA E DELLE OPERE Il lavoro del quale superiormente abbiamo riferito il titolo, è diviso in due parti; siccome è annunziato nel titolo stesso : nella prima parte si discute del modo onde si possono determinare i movimenti dei corpi celesti, riferendone le posizioni ad alcuni pochi punti fondamentali; di cui le posizioni, si possano ri- guardare come permanenti. La seconda parte tratta dei circoli di posizione, nella sfera celeste; e dei metodi per determinare le posizioni degli astri, riferendoli a tali circoli; e come codeste determinazioni si possano registrare in tavole, se- condo le differenti posizioni della sfera nelle regioni ove si fanno le osserva- zioni. Egli anzi in una breve nota che precede ]’ opuscolo, annunzia di avere costruito le tavole per i gradi 36. 37. 38 di latitudine ma che avea dovuto ri- tardarne la pubblicazione, per difficoltà tipografiche (1). Il lavoro ha indole elementare, mantiene le denominazioni degli antichi scrit- tori di astronomia e mostra che il suo autore, benchè conoscesse le opere e le scoperte di Galileo; non si era del'tutto affrancato, dalle vane credenze dell’astro- logia; e riguardava come dottrina sacra, la immobilità della terra. Se l’Odierna, si fosse limitato a questa sua prima pubblicazione; il suo nome non sarebbe certamente divenuto sì chiaro, presso i contemporanei; nè sarebbe pervenuto alla posterità. Ma le grandi scoperte dell’astronomo fiorentino, avendo dato ottimo indirizzo ai suoi studj; egli rivolse le sue osservazioni, ai satelliti di Giove ; che gli for- nirono materia ad una importante pubblicazione, la quale gli procacciò molta fama, tra gli astronomi di quel tempo. Codesta opera, sopra il primo foglio porta il titolo: Medicaeorum || Ephemerides || Numquam Hactenus apud mortales Editae|| Cum suis || Introductiomibus || In tres partes distinctis || Auctore || Don Jo. Baptista Hodierna; e al di sotto nel secondo fo- glio: Meneologiae Jovis || Compendium || seu || Ephemcrides Medicacorum || ad || Ferdinan- dum || Bis Magnum || Hetruriae Ducem || Hodierna Siculo Auctore || Ducis Palmae Ma- thematico || Panormi apud Cirillos || MDCLVI || Impr. Abbas Gelosus V. G. S. V. || Impr. de Denti F. P. Di codesta opera ha fatto cenno ampiamente il celebre astronomo francese De- lambre nella sua Histoire de l’Astronomie moderne (2). A pag. 327 del secondo volume sotto il titolo di Hodierna, l’astronomo fran- cese dice: « Questa opera è estremamente rara; io l’ho avuta alla vendita di La Lande e vi trovo queste parole scritte di sua mano: recu de M. Piazzi. Ne esistono tuttavia parecchie copie in Sicilia, e ne possiede una copia la Bi- blioteca Vittorio Emanuele di Roma, che per la grande liberalità dei regolamenti (1) Studiorum utilitati consulendo, post Dirertionum Physiotheoricae editionem. Praxim etiam ac Tabulas (quas admirabili artificio sub Poli Borealis altitadinibus grad 36. 37. 38 proprio Marte construxe ram et quamplurimi studiosi admirati sunt) in lucem edere spe- rabam verum ad Typographi nostri impedimentum ec. ec. (2) Paris 1821, tome 2, pag. 327-332. DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 7 delle biblioteche italiane, e per la perfetta cortesia di chi dirige quella bibliote- ca, ho potuto avere a mia disposizione. Giova ora di qui riferire, il lungo reso- conto di codesta opera, dato dall’astronomo francese: « Gli astronomi che si erano occupati dei satelliti prima di Odierna sono come «lo dice egli stesso nella sua prefazione Simon Marius, Blancanus, Keplero, Heri- «gone, Gassendi, Rheita, Franc. Fontana, Gotifredo, Zupus e Reineri. Ma niuno d’essi «potè riuscire a dare la teoria completa, niuno d’essi aggiunse alcun che d’im- « portante alle scoperte di Galileo. Si sa che il Reineri discepolo del grande astro- «nomo fiorentino, avea per di lui incarico compilato codeste tavole, le quali non «poterono essere ritrovate, malgrado tutte le ricerche fatte presso i suoi eredi. «Noi esamineremo, dice il Delambre, ciò che Odierna ha potuto aggiungere alle « conoscenze dei suoi predecessori. La sua Jettera dedicatoria dell’opera al Gran- «duca Ferdinando secondo, Granduca di Toscana, reca la data del 1° gen. 1656 «ed è firmata: Jo: B: Hodierna archipresbyter Palmae. Egli promette una teoria «completa (Theoriam absolutissimam persolvimus). Ha trattata la parte teorica in «un’altra opera; la quale per ciò che si conosce delle sue opere, non è stata pub- «blicata. In libris theoreticorum haec exponentur amplissime. Siquidem illic at- «lantem agimus modo hic herculem representamus. «I satelli ti non possono essere appercepiti ad occhio nudo, sebbene abbiano lo «splendore di stelle della sesta grandezza. La vicinanza e la luce brillante di Gio- «ve li rende invisibili ad occhio nudo. « Egli stima le elongazioni dei satelliti in moduli ossia in diametri di Giove, ag- «giungendo che giammai questo diametro non gli è parso superiore a 45”. «Ecco queste distanze secondo lui e i suoi predecessori: en EROE E E Nom | MARIUS| LEUS NA | , , , | C SIMONA TIZONO .° 0° | 3.° 30’ Alphipharus | Principharus Oi o. 0 5. 0 | 4. 0 | 5. s0| Betipharus | Victripharus CH SO) 480 o TOTO. Cappipharus | Cosmipharus CY |12. 0 |13. O |10. O |14. 30) Deltipharus | Ferdnipharus -r@“"’"@"@@P@@p@’-@vtui@ «Iquattro satelliti sono indicati dai nomi coi quali egli li ha successimante de- « nominati. In generale li chiama phares a cagione della loro luce. Li distingueva «in seguito con le quattro prime lettere dell'alfabeto greco, che sono anche le ci- « fre 1. 2. 3. 4; poi ha preferito i nomi dei membri della famiglia granducale di 8 DELLA VITA E DELLE OPERE «Toscana, in onore della quale Galileo, avea già adoperato la denominazione di « stelle medicee. Ha dato il nome di Cosimo al terzo satellite, il più brillante di « tutti, in onore di Cosimo I. dei Medici. Il quarto che inviluppa le orbite di tutti «gli altri nella sua orbita, ha ricevuto da lui il nome sincopato di Ferdinando. «Il secondo ha ricevuto il nome di Vittoria, moglie di Ferdinando, Princifaro ha «denominato il primo, in onore dell’erede presuntivo. Diede inoltre il nome di «Firenze, al disco di Giove; ed il nome del fiume Arno, alle bande che si osser- «vano sul disco. Ometteremo il capitolo delle influenze che chiude questa prima «parte dell’opera. « La seconda tratta delle latitudini, delle rivoluzioni, delle ineguaglianze e degli «ecclissi. Noi abbiamo visto la disputa tra Galileo e Marius per le latitudini. 0- « dierna trova che essi hanno torto entrambi. Egli si allontana dalla opinione di « Galileo, sostenendo che le latitudini dei diversi satelliti sono differenti, e così «sensibili, che nelle congiunzioni essi possono intercettare soventi più che il se- «midiametro di Giove; e nelle disgressioni allorchè un satellite superiore è in «congiunzione con un satellite inferiore, non si vede fra loro alcun intervallo. « Contro la idea di Marius, egli ha sempre osservato i satelliti settentrionali nei «loro semi circoli superiori, e meridionali nella parte inferiore. «Si domanda forse come gl’illustri matematici e gli abili astronomi che hanno «tanto lavorato sui satelliti non hanno potuto darne sin qui alcuna teoria se «non è forse Reineri che se ne è occupato per dieci anni. » « È forse perchè non si è potuto ancora determinare con esattezza le rivoluzioni, «di cuila durata incostante ed ineguale sembra esigere non una sola equazione «ma parecchie ? « Odierna concepisce tre ineguaglianze, e non più. «I satelliti si muovono in orbite inclinate all’ecclittica di Giove. Sono già due canni che per una serie di osservazioni, egli è stato condotto a pensare, che i «quattro satelliti si muovono in uno stesso piano inclinato di 45° all’ecclittica di « Giove (ad semiquadrantem); secondo questa idea, esprimendo le più grandi lati- «tudinì in decimi di digiti del disco, egli ha trovato pei quattro satelliti 1°. 59’, 3°. «7°, 5°. 61, 8°. 29°. Mercè di nuove osservazioni egli ha riconosciuto, che la sup- «posizione è inesatta. Queste latitudini sono una prima causa d’ineguaglianza. «La seconda è la parallasse annua che non è sempre la stessa. La terza è la «ineguaglianza propria di Giove che è variabile. Rivoluzioni periodiche dei satelliti C' o" Qu CIV LES 2A, RETRO ee SA A Odierna 2/8 9,0 019 IR 99 TSO 5 17 0 | secondo De- lambre DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 9 ASper 0 — NES obi 8 per CV — 5068 4714 per C'— 408 18h79' 2 CA 7620036 1 QU] i Ci=:004019:128 C.—- 49 13 14 20 per C"—14388!29"(101 per © —723522224'/128 perC"—454522% 25° SIMO — 4438 47/409 CE 50 299 o 2 119 per C" — 422520% 23' 59 C=1226020025 «Sin qui non si vede alcun vestigio di teoria e solameute alcune osservazioni «alquanto incerte. L’autore passa alle cause degli ecclissi; a ciascuna rivoluzione, «tutti i satelliti debbono ecclissarsi nelle loro congiunzioni superiori, eccetto il «quarto che passa qualche volta al di sopra del cono di ombra. La osservazione «era nuova allora; essa è esatta. Allorchè il quarto satellite ricomincia ad ecclis- «sarsi, non entra che poco profondamente nel cono d'ombra, ed i suoi ecclissi «hanno una durata più corta ciò che è facile a concepirsi. «Il quarto satellite si ecclissa tre volte in cinquanta giorni, il terzo sette volte, «il secondo quattordici ed il primo ventotto. «Il quarto ventuna volta in un anno il terzo cinquantuna volta, il secondo «cento due volte, il primo duecentosette volte, cioè a dire ciascuno tante volte, «quanti gradi percorrono in un giorno solare. Questa osservazione è curiosa e la «ragione non è difficile a trovare. « L’asse del cono d’ombra è il prolungamento del raggio vettore di Giove; que- «sto asse fa co] raggio visuale guidato dalla Terra, un angolo uguale alla paral- «lasse annua di Giove. Questo angolo fa che noi siamo meglio collocati, per vedere « l’entrata che l’uscita dall’ombra, o al contrario. «Nei due satelliti interni non si vede mai che la entrata o la uscita (Questa «regola vera sempre per il primo satellite soffre eccezioni pel secondo). Pei due «altri si vede la entrata e l’uscita quando la parallasse è la più grande. «Odierna passa al calcolo degli ecclissi. Egli ha già detto che nelle sue più «grandi latitudini, il quarto satellite cessa dall’ecclissarsi. Egli non osa nulla de- « cidere relativamente al terzo, ma lo ha visto sempre ecclissarsi. Egli indicherà «i tempi delle congiunzioni, perchè il cangiamento di latitudine fa che la fine ed «il cominciamento degli ecclissi non ritornano in intervalli di tempo ben fissi; «due cominciamenti e due fini di ecclissi consecutivi non daranno dunque esat- «tamente le rivoluzioni: parecchi vi sono rimasti ingannati. Questo passo ci prova «che Odierna non è il primo che abbia osservato gli ecclissi, ma egli non ha af- 3 10 DELLA VITA E DELLE OPERE pri « fatto ragione quando afferma che i cominciamenti e le fini degli ecclissi non « possono dare le rivoluzioni; questi fenomeni bene osservati gli avrebbero dato «rivoluzioni più esatte e sopra tutto durate meno difettose. « Il 1° Settembre 1655 egli osservò la immersione del primo satellite a 14® 12’ « pomeridiane, È « Il 25 luglio immersione del secondo 13* 9' dopo mezzogiorno. «Il 25 luglio immersione del terzo a 14* 1’ durata dell’ecclisse 29 57. «Da queste osservazioni egli deduce l’epoche dei quattro satelliti. « La terza parte dell’opera contiene le tavole; la prima è quella delle rivoluzioni «in tempo. « La seconda tavola quella dei movimenti per i giorni, in gradi, minuti, e se- « condi. C' C" pe CIV Movimento diurno SERRE sodi si x 203%2304 410917 IR hi 008 BLEI SO «I movimenti dei tre primi sodisfano a 55” al teorema di Laplace. A+2A4C0"=34C0" «Il 1° settembre 1655 immersione C' 14» 12’ 1/2. Egli suppone la semidurata « 55’ per concluderne il mezzo. « Il 4 ottobre 1655 imm.: €" 15» 13’. Egli suppose la durata 1> 10°. « Il 19 ottobre 1655 egli calcola la immersione di C'" a 14> 20'. « Il 24 ottobre 1654 il quarto satellite diminuisce la luce senza ecclissarsi a «10h 13'. « Il suo modo di determinare il tempo, era di osservare il passaggio di qualche « stella al meridiano e di fare oscillare un pendolo da questo passaggio sino al- « l’istante dell’osservazione. « Io sospetto (dice il Delambre) che il suo tempo non era molto esatto, perchè, «avendo calcolato le sue osservazioni, non ho creduto di farne uso nelle mie tavole. «A pagina 15 egli riferisce varie congiunzioni non ecclitliche del CIV. «In seguito dà le epoche dei quattro satelliti dal 1650 al 1682. « Alcune tavole di correzione per la ineguaglianza di Giove. « Alcune tavole per calcolare le elongazioni. «Egli descrive in seguito lo strumento che serve a determinare l’elongazioni per «un tempo dato; è quello che di poi si è denominato jovilabe unendo una parola « latina ad una parola greca. «Vi hanno tavole per determinare gl’istanti degli ecclissi del primo satellite. «Egli si scusa di non aver potuto determinare le leggi che regolano le durate. DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 11 « ParTE 3. — Questa parte contiene le effemeridi che danno dal 1656 al 1676 pel «cominciamento di ciascun mese le longitudini in gradi dei quattro satelliti; poi «i movimenti per tutti i giorni del mese. Per gli anni 1651 e 57 si vede al basso « delle pagine l’annunzio di alcuni ecclissi. Egli si scusa di non averli dati tutti «e con maggiori particolari. Ma il numero di quelli che ne faranno uso non è con- « siderevole, i teloscopj sono rari; egli ha dato delle facilitazioni per compiere il «calcolo, a quelli che vorranno dedicarsi a queste osservazioni; ciò che basterà per «il presente. « Egli finisce con affermare che Giove non ha che quattro satelliti. Questo è un «punto che non è più dubbioso» (1). L’esteso e particolareggiato resoconto che abbiamo riprodotto testualmente dalla citata opera dell’illustre astronomo francese, dà prova dell’importanza da lui at- tribuita all'opera dell’ astronomo siciliano; e fornisce inoltre un concetto ben definito, delle notevoli osservazioni fatte dall’Odierna, sui satelliti di Giove. Un'altra opera la quale ha dato molta riputazione all’ astronomo ragusano, e lo mostra degno continuatore dei lavori astronomici di Galileo reca per titolo: (1) L'autore dopo di avere in parecchi luoghi dell’opera affermato che i satelliti di Giove sono quattro solamente; fatto che in quel tempo era controverso, per le inesatte osserva- zioni di varj astronomi; tratta in fine dell’opera di siffatta quistione, a pag. 78-79. Scholium De quaternario Mediceorum numero. ; Sicuti sapiens vobis asserendum fuit Iovis Comites quaternarium numerum nunquam ec- cedunt; adest testis hujns rei Eustachius de Divinis, streanissimus Teloscopiorum istructor qui pluries (varijs Teloscopijs vel 45 palmorum longitudinis) Iovem observans nunquam plures quatuor se animadvertisse testatur; uti scribit ad serenissimum Hetruriae Ducem. Quod autem viri preclarissimi R. P. Schirnerius, S. I. Franciscus Fontana, Schyrleus, vel . etiam R. P. Caramuel in omni genere scientiarum versatissimus, Plures admiserint Iovis comites, pace tantorum virorum, quos omnes, uti Preceptores meos veneror, ipsi de facile, in observando, decipi poterunt, praesertim ubi Stella Iovis juxta suas stationes fulserit, Nam stellulae firmamenti in eodem eoeli sinu fulgentes:in quo Iupiter in statione, inter ac- cessum et recessum latiiudinem etiam permutando circumvolvitur apparent Stellulae circa Tovem non secus, ac satellites circumgrediri quod sepius equidem inter observandum, vix atque vix, in candem deceptionem incidissem, ut crederem plures quatuor esse Iovis comites, nisi postmodum examinando illorum Periodum, cognoscerem non illorum, sed Iovis fuisse motum et circumgressum. Quod autem renatus de Cartes sue dioptricae cap. 9 asseveret oculum suis Hyperbolicis Teloscopijs instructum quatuor alios minores Planetas Iovem con- comitantes prospicere quae fortesse excerni, non possa usitatis Teloscopijs Fontanae Turri- cellae aut Eustachij dixerit: tamen adhuc ipse (rerum abditarum profundissimus Indagator) decipi poterit: oportet primum pluries earundem Stellarum circugressionum Periodos disqui- rere, et explicare ut rei veritas luce clarius pateat nunc igituv in eadem sententia persisti- mus, ut non plures quatuor Satellites [ovis, quas Mediceas , indigitavimus exsistant stabi- litum sit. 12 DELLA VITA E DELLE OPERE De systemate |] Orbis Cometici || et de || Admirandis Coeli || characteribus || opuscula duo |] in quorum primo || Cometarum causae disquiruntur et explicantur [| nec non || Viae cometarum per orbem cometicum ultiplices |] indicantur || In secundo vero || Quid, quales, quotve sint Stellae Luminosae, Nebulosae; || nec non et occultae manifestantur || et re- rum Coclestium studiosis || commendantur. || Authore || Don Joanne Baptista Hodierna || Siculo Palmae Archipresbytero. || Panormi Typis Nicolai Bua 1654. L’opera siccome si scorge dal titolo è divisa in due parti, aventi soggelto di- verso; e che formano due opuscoli, segnati con una differente numerazione dì pagine. Il primo opuscolo risulta di 102 pagine il secondo di 99. Di questa opera trovasi fatta menzione nel catalogo bibliografico di Guglielmo Libri pubblicato a Londra nel 1861 ; al n° 1853 vi si legge ciò che segue: this work unknown to Lalande and Struver no copy being mentioned as în the Library of the Pulcovian Observatory the richiest perhaps in works on comets. On the importance of the works of Hodierna who is said to have anticipated some of Newton discoveries and who has made some curious observations on Beems (see Lalande). Nel primo lavoro intorno alle comete, egli ha dato particolarmente la storia delle tre comete, apparse nel 1600, 1618, 1652, notando le loro successive posi- zioni nel cielo, le loro più notevoli apparenze, e l'andamento generale del loro COrso. Ha tentato inoltre di dare una teoria, sulla origine delle comete; nella quale se per una parte sostiene, che le orbite delle comete sono molto al di là di quella della Luna; cade per l’altra nell’errore di supporle altrettante masse di vapori, staccate da violenti scosse dalla nostra atmosfera, e trasportate verso 1’ orbita di Marte; dove accese, dopo di essersi avvicinate al sole, interamente si consu- mano. La teoria sulla origine delle comete, è preceduta dalla esposizione di dodici proposizioni di fisica, molto notevoli; dalle quali si scorge, che egli avea rinun- ziato alla credenza dei cieli cristallini di Tolomeo; e riguardava gli spaz] celesti, come riempiti da un fluido sottilissimo ed elastico, il quale è melto più sottile relativamente all’aria, di quel che è l’aria relativamente all'acqua. L’etere, ha con l’aria varie qualità comuni: specialmente la tenuità, la fluidità, e la trasparenza; ma in grado molto più eminente dell’aria. Cuin Aere vero Aether communem habet, cum tenuitate, ac fluiditate transpicuita- tem: verum Acther hasce qualitates in gradu summo, Aer in gradu remisso sibi ven- dicat. Ut si dixerim tantumdem substantiam Acetheris ab Aerea (in tenuitate fluiditate ac transpicuitate) differt; quantumdem ab Aquea (in hisce qualitatibus) Aerea dissidet: nil fortasse deciperer. Utrumque spirituosum substantiae Genus: sed spiritus Aeris la- bilis ac flaebilis, Aetheris vero vivificus costanter perseverat. Sectio prima, pag. 4, lin. 11... 19. La grande massa di aria che circonda dapertutto il globo terrestre, ha una estensione limitata; l’ altezza della colonna atmosferica, ha un termine che si DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 13 può definire, e che varia in limiti assai ristretti; in vece l’etere che riempie gli spazi celesti, ha una estensione di cuì i limiti non sì possono definire, neanco col pensiero. La massa aerea, va soggetta ad una serie di flussi e di riflussi, per le continue evaporazioni di sostanze che avvengono alla superficie della terra; che si innal- zano, si dilatano, e tornano poi a ricadere condensandosi; mentre l’Etere che co- stituisce il Cielo etereo o Firmamento celeste , persevera sempre nel medesimo stato, nè va soggetto a quelle mutazioni, ed a quei flussi e riflussi, ai quali va soggetta la massa atmosferica. L’etere, è l’alveo comune di tutti i corpi che esistono nel mondo, e della stessa Aria. Aetheris immensi substantia omnium mundanorum corporum (vel etiam Aeris ipsius) communis Alveus, uterus, vel centinens absolutissimum ewistit: cuius molis vastitas per immensa Mundi spatia circumquaque diffunditur, ac dilatatur; ita ut Limites ejus ma- gnitudinis nonnisi ratione, quatenus totius Mundi sensibilis continens sit, percipiuntur. La luna non ha un’atmosfera, simile a quella che circonda il globo terrestre. Egli non esita ad emettere francamente tale opinione, contradicendo a quella di varj uomini autorevoli; i quali han sostenuto la esistenza di un’ atmosfera lunare fondandosi sulle apparenze dei colori, che si mostrano ai bordi del disco lunare, quando si contempla col teloscopio, e sulla fievole luce rossastra, che il- lumina il disco lunare, quasi sempre negli ecclissi totali, specialmente se annulari. Del primo fenomeno, egli dà ragione, attribuendolo all’effetto della figura len- ticolare del vetro, nel teloscopio. Quanto poi alla luce onde appare illuminato il disco della luna, negli ecclissi totali; egli adotta la spiegazione data da Keplero, ed adottata dagli astronomi moderni, cioè: che siffatta luce provenga dalla refrazione dei raggi solari, i quali nell’atmosfera terrestre, sono deviati dal loro cammino rettilineo, ed entrano nel cono d’ombra, che sarebbe determinato dai raggi tangenti alla superticie terre- stre. Egli deduce dalle sue dotte considerazioni, le conclusioni seguenti: Dalla massa del corpo lunare non si sprigiona alcuna sostanza aeriforme, che possa costituire un’atmosfera intorno al globo lunare. Nella Luna o in sua vicinanza, non si produce alcuno di quei fenomeni me- teorici, che si producono presso la terra; Nubi, Pioggie, Nevi, Nembi. Le macchie che sono coeve al corpo lunare, e che assumono le apparenze di Mari o di Laghi, non sono che imagini prodotte dalle ineguaglianze e scabrezze del corpo lunare, e dall’attitudine diversa delle varie sue parti a riflettere la luce. Mancando l’ atmosfera; il globo lunare non può contenere abitatori di natura almeno, che avesse qualche rassomiglianza con gli esseri viventi sul globo ter- restre. Nullam igitur in orbe lunari Atmosphaeram, vel aeris scaturiginem, huic, quae Tel- luris Orbem circumsepit, similem produci ex praemeditatis evidentissime constat, quod erat demonstrandum (pag. 8, lin. 8... 11). 4 14 DELLA VITA E DELLE OPERE In Orbe Lunari Incolae nullae sunt, neque illuc, è Terris translatae, naturaliter vivere poterunt (pag. 9, lin. 6 7). L’opuscolo secondo conziene importanti osservazioni e notizie intorno all’astro- nomia stellare. La prima sezione di codesto lavoro, che trovasi distribuito in quattro sezioni, classifica le stelle in Nebulose, Occulte o cieche, e Luminose. Chiama nebulose quegli spazi che osservati ad occhio nudo sulla volta celeste assumono la forma di leggiera nuvola biancastra; ma che guardati col teloscopio appariscono non come un insieme nebuloso od una semplice stella, ma come una copiosa riunione di stelle. I. Diffinitio Nebulosae Nebulosae Stellae encomio illum Caeli eminentissimi Tractum, vel Nexum, decoran- dum venit, qui ad immediatum, seu nudum oculorum intuitum nebuculae speciem ada- mussim repraesentare valcat, quanvis deinde, ubi oculus prospicientis Tubospecillo cor- roboratur, nequaquam nebulosus nexus, aut simplex Stella; sed copiosa Stellarum coadunatio circumspectari videatur. Et consequenter, Stella nebulosa nil aliud esse perhibit, nisi Stellarum tumultuosa in Aethere eminentissima coadunatio quae ob totidem tenvissimorum confusam ad oculum irradiationem, sub specie unius nebulosi Globis ad sensum representantur. (pag. 2. lin. 1.... 14). II. Diffinitio Occultae Obscurae seu stellae Cecae Occultae vero stellae encomio angustissimum ille Caeli nodus insigniri debet, et dignus reputavi qui cum ad liberum, seu immediatum oculi intuitum quasi Stella nubilo Caeli Tractu obducta appareat, nihilominus ubi oculus prospicientis Tubospecillo munitus fuerit et cumdem Cacli nodum excernere contingerit, tunc non Stellam simplicem, sed aut multiplicem, partibus distinctis, aut caccum quodam lucis iubar, indivisum cernere videbitur. Et consequenter Stella occulta nil aliud esse perhibetanisi arctissima tenuissimarum Stellarum in profundiori sinu coadunatio, quam vix oculus. Tubospecillo corroboratus excernere poterit. (pag. 2. lin. 14.... 27). III. Diffinitio Luminosae Porro luminosam Stellam, vel (congruentius) Constellationem cam esse reputandam censemus, quae cum sit etiam Stellarum ad invicem coeuntium tumultuosa coadunatio; tamen sive quatenus hae stellae nobis propinquiores existant ; sive quatenus matores sint et spatiosioribus ab invicem intervallis dissitae partis ad visum patulae fiiunt. (pag. 4. lin. 1.... 8). DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 15 _—__—_——————rr—t—___——##38tt* +xtkttk._____— ——————+————»+-»»-»+»»+»_—_»+—+— —_—-_—ttòt—etoo. rn] Su codesto soggetto delle Nebulose sono noti gl’importantiistudi cdegli! astro=! nomi moderni, e specialmente quelli di Sir William Herschelbil, quale:: mereù: l’uso dei suoi potenti telescopii, ha potuto scoprire un numero/prodigioso, sdi mex bulose di vario genere e ne ha studiato le forme e dato congrande probabilità ed approssimazione il numero prodigioso di stelle dalle quali risultano. +rv:init » Secondo le denominazioni degli astronomi moderni, quelle:che»Odierna:(©hiàma Stelle Nebulose sono le nebulose stellari e le Stelle occulte o cieche.»dell'astrionòomo ragusano sono le nebulose diffuse dei moderni. dip sroig eps) La Secondo Odierna le stelle cieche sono anche dei cumuli di stelle: Cameb ii cho bulose risolubili; se non che per la loro maggiore distanza, anche.l’:occhio! ar- mato di teloscopio, può appena discernerle. Mentre i moderni hanne adottato la ipotesi che le nebulose diffuse, siano originate dalla condensazione=«diomateria cosmica; sieno in somma delle vere stelle in istato di formazione. OD LB » Nella seconda sezione della sua opera (pag. 6.) Odierna ci da un elenco: delle nebulose che si conoscevano ai suoi tempi. Cominciando da Tolomeo coi più:an- tichi osservatori, e dai suoi seguaci sino a Ticone Brache; i quali non conosce- vano che solamente cinque Stelle Nebulose nel cielo. « 1. Primam in Constellatione: « Persei super extremitatem eius manus Dexterae. «2. Secundam in pectore Cancri, quam; « Praesepe appellare consuevere. « 3. Tertiam quae subsequitur spinam ; « Scorpionis ad Orientem. «4. Quartam quae in capite Sagittarii; « Super oculum duplex. «5. Quintam in capite Orionis; (pag. 5 lin. 6... 17). Codeste sono le cinque nebulose annotate nel catalogo di Tolomeo; ma la quinta può riguardarsi come gruppo luminoso: at quintam, equidem inter Luminosas ad- scriberem , quatenus in ea Stellificatione, quae praesidet in capite Orionis , Stellarum turba splendet evidenter. Brache e Longomontano hanno aggiunto quattro stelle nebulose, nel capo del Capricorno, ma così tenui, che appena si possono discernere con grande sforzo. «1. Nebulosa superius cornus praecedens. «2. Nebulosa Occidentalis Basis trianguli in fronte. «3. Nebulosa Orientalis. «4. Nebulosa praecedens in frontes. Quae quidem exigue sunt adeo, ut potius «inter Stellas Obscuras adnumerandae videantur. «5. Quintam praeterea in Herculis constellatione videlicet. « Ultimam trium Obscurarum in eius pede sinistro, quam Longomontanus in « pede sinistro Gnorsiae adnotat, quam equidem nonchem obserrare potui, neque «excernere, fortasse ob tenuitatem (pag. 6 lin. 3... 19). L’Odierna quindi afferma che gli astronomi più antichi ed i più vicini al suo 16 DELLA VITA E DELLE OPERE tempo hanno registrato dieci. Nebulose, alle quali egli ne aggiunge altre cinque molto insigni, scoperte mercè le proprie osservazioni. « quibus equidem et alias quinque, insignes Nebulosas adiicio, vidilicet. « 1. Quae super Aculeum Scorpionis in Boream, quae respectu illius magnae Ptole- « maicae respicit in Carrum. « 2. Quae iuxta viam lacteam superius telum Sugittarij ad occasum. e 3. Quae super caput Algol, in humero sinistro Persei. e 4. Quae prentit Rostrum Cygni inter Galaziae bisectionem, in eadem recta, pro- e ducenda a Lucida Aquilae ad Fidiculam. «5. Quae iunta Triangulum, vel hinc inde duplex (pag. 7, lin. 19... 32). « Hisce quindecim Nebulosis (in Hemispherio nobis Europeis viso) et alias in hemi- « sphaerio austrino, Indis viso, quatuor addunt, videlicet duas in Constellatione Pavo- « nis, ac totidem in Constellatione Phaenicis. Practer duas Nébuculas preclarissimas « iuxta Polum antarticum candicantes; quas oportet esse etiam de natura Nebulosa- «rum, vel illius magni nebulosi tractus, qui veluti magna zona universam sphaeram « circumabit, ob candorem vero Graecis dicitur Galaxea, quae Latinis via lactea, ex « eadem causa appellari consuevit, (pag. 8, lin. 1... 9). Per ciò che riguarda le stelle occulte che i più moderni astronomi preferirono chiamar cieche, Tolomeo ne indicava undici nelle seguenti posizioni : « In primis Ptolomeus quatuor occultas informes, inter duos pedas anteriores Ursae « matoris, et Caput Leonis ad meridiem indigitat. « Duos item informes supra Leonis dorsum, in Comam Berenicîs. « Unam informem, quae antecedit cam Stellam quae in capite Algol. « Quatuor postremo in Constellatione. Equi minoris (pag. 8, lin. 13... 20). Odierna osservando attentamente col teloscopio, alcune stelle che Tolomeo in- dicava tra le occulte, e che Ticone avea classificato come luminose di quarta grandezza ; egli dopo accurate osservazioni le classifica tra le stelle doppie o mul- tiple. « Quia potius quatuor easdem, quas Plotomeus in Equuleo occultarum Encomio in- « signivit, ipee Tycho, in ordinem quartae magnitudinis, sicuti, et reliquas lucidas, ad- « misit. Dicv easdem numero; quod considerationis valde dignum videtur, idequidem « animadvertens, ul experientia Teloscopij comprobarem, ut videlicet praeter liberum « intuitum Tubaspecillo exccernerem, quale essent in ca Equulei regione, Stellulae qua- « tuor: an scilicet obscuritatè vestigium aliquod in illis deprehenderem, ingenue fateor, «a religuis differre, nisi in esse duplices, vel multiplices. Praeterea et quatuor occul- «tas, quas Ptolomeus informes, inter duos pedes anteriores Ursaè maioris, et Caput « Leonis ad meridiem iuxta Cancri peder Boreales, indigitat, per Tubospecillum obser- ec vari, ac deprehendi singulas esse duplices, aequales quartae magnitudinis, et aspectu c pellucidas, ac pulchras, Stellis illis, quae intuitu libero, duplices in pedibus Ursae « anlerioribus emicant, persimiles, (pag. 8, lin. 31 32, pag. 9 1.., 18). Il nostro autore crede che l’ apparenza di nebulosità che presentano codeste stelle doppie provenga da una illusione ottica; per la difficollà di ottenere una imagine singola determinata, da un oggetto doppio o multiplo. i DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA ste%; _————rrrr_rv_v>—»*—_—_—r_r_ry_y__— <—TFFrr,rF,r;;--rF,,,,;,;/,----rr _—_———<<==-=+=+#=>+6+ff%% "ZZ = =T Del resto non tutte le stelle cieche registrate da Tolomeo, appartengono al novero delle doppie o multiple; ma parecchie sono vere e proprie nebulose, le quali conservano tale apparenza, non solamente ad occhio nudo, ma altresì os- servate col teloscopio mantengono la forma nebulosa o cometica. « Verumtamen nequaquam omnes, ac singulae Stellae occultae a Ptolomeo re- «censitae eiusdem conditionis existunt, ul duplices, aut multiplices reperiantur: «nam duae Stellae informes iuxta Leonis Tergum, in caudam Ursae et in Tricam « Berenicis, non solam ad immediatum intuitum (pag. 9, lin. 30 31 32). « Sequens earum et est in Figura similis Rosae fusae et est species volubilis. « Hanc etiam Copernicus conulebrat dicens, esse in figura folij Hederae. « Hisce duabus equidem admirandis, terlam valde insignis adijcio, a nemine (ut «sciam) deprehensam. Hanc veri caecam Stellam super coxam dexteram Andro- « medae vel sub Lilium Cassiopeae post duas lucidus in extremitate zonulae pen- « dentis, e cingulo ipsius Andromedae deprehendo: quae quamvis Nebulosam ad «immediatum intuitum repraesentit: nebulosa tamen nequaquam existit, sed et « caeca, quatenuus per Tubospecillum visa, nulla in eius amplitudine Stellarum « coaeuntium apparet multitudo, sed adhuc Stellae occultae lubar, ad instar co- « metae vicuti et duae premeditatae iam Ptolemaicae Stellae iuxta Tricam Be- «renicis. (pag. 9, lin. 30. 31. 32.-pag. 10. lin. 1.... 25). Riassumendo le cose dette anteriormente egli afferma che oltre le dieci Stelle occulte registrate da Tolomeo e le undici osservate da Brahe; ed una da lui sco- perta et unam a nobis indigitatam; egli può additarne parecchie altre nelle varie Costellazioni celesti. «Quam plurima etiam possim in singulis Caeli Constellationibus hujusmodi « Stellae quocumque nomine censeantur occultae, obscurae, ac nebulosae prae- « sentim. « In Pisce Boreo iuxta Andromedam. « Circa Hyades et Pleiades. «In Brachio dextro et Baculo Orionis. «Juxta Triangulum. «Juxta Caput Arietis. «Juxta Caput Medusae ef ubique iuxta viam lacteam. (pag. 10, lin. 29.... 32. pag. belin. 219). Dopo le nebulose e le stelle cieche egli passa a descrivere le principali costel- lazioni luminose delle quali fornisce una descrizione grafica con l’aiuto di figure inserite nel testo della sua opera; le quali, secondo le notizie raccolte dai suoi biografi, erano da lui stesso disegnate ed incise. La prima Costellazione da lui descritta è quella delle Pleiadi, della quale oltre la figura graficamente descritta quale si presenta la costellazione ad occhio nudo; fornisce le posizioni delle sue sette principali stelle componenti, mercè le ri- spettive Longitudini e Latitudini, espresse in gradi e minuti. (pag. 12. pag. 13. pag. 14). 5 18 DELLA VITA E DELLE OPERE -___________—_—_—______—_—____——T—T—TT—_Tt_—_—_—_r_r_t -"-—r—re"er SISI LARIO Aggiunge in seguito, la figura della’ costellazione medesima, qusle si osserva mediante il teloscopio; e le distanze fra loro delle varie stelle che la compon- gono. La seconda costellazione della quale dà la descrizione e la figura, splende nella testa del Toro. | «2. Secundus valde insignis, et omnium Maximus Stellarum Caetus, cui Lu- « minosae constellationis Encomio optimo iure tribuendnm est in eadem Coeli «Regione, videlicet, in Capite Tauri splendet; ut qui magnam Stellarum Turbam « tumultuose in Synodum concurrentium continet et circumplectitur. « Harum Stellarum illustriores patronimico vocabulo Hyades denominantur. «Septem vero Hyades esse autumant, videlicet, singulas in singulis oculis (sed « quam in sinistro omnium clarissimam Paulitium appellant) in Fronte media unam: in Naxibus duas: ac totides in eductione cornuum. » pag. 15. lin. 19....32. pas al6lin 2: Delle sette principali stelle di codesta costellazione egli determina i siti in longiludine e latitudine e ne aggiunge la descrizione grafica. (pag. 17). La terza costellazione da lui descritta è la Chioma di Berenice « que per An- « tonomasiam omnibus Astronomis venit appellanda, hanc Berenicis Tricam, seu « Comam appellant, et splendet post Leonis tergum ad Caudam Ursae maioris , «et quamvis innumeras ignobiles tarum Stellas complectitur: ut nil aliud sin- « gulare sibi vendicet, nisi copiosum stellarum numerum. Ideo de illa nulla nobis « ratiocinatio. (pag. 18. lin. 1.... 8). La quarta costellazione della quale dà la descrizione grafica con una figura incisa al testo è posta nel lato destro di Perseo. « 4. Quarta Constitutio Luminosa splendet in latere dextro Persei instariam « lacteam, ubi praeter insignis magnltudinis Stellam, quae fulget in eodem la- « tere, nebulosis etiam nonnullis implicatur Tractibus. » pag. 18. lin. 9.... 18. Ne descrive quindi con analoga figura una quinta posta nella spada di Orione e nella quale novera ventidue stelle. «o. Quinta in ense Orionis vigintiduabus Stellis circumscribitur, prout atten- « ditur per Teloscopium. Sed haec constellatio Luminosa admirabilior apparet , «ex Luminis quoddam caeco lubare, quod e meditullio, tribus Stellis , supere- « minens, circumradiare videtur, prout ex ipsa Configuratione, in adiecto Later- « culo repraesenlanda intueri liceat. » pag. 19. La sesta Costellazione descritta dall’astronomo ragusano «enitet in Capite 0- « rionis, ubi quamvis libero intuito tres tantum Stellae attenduntur, per telo- «scopium tamen visa constellatio, Stellas 14 continet pront in adiecto Laterculo « circumscribuntur. (pag. 19). Le ultime due Costellazioni delle quali fornisce la descrizione; l’una nella co- stellazione dello scorpione rappresentata graficamente con figura incisa, l’ altra nella costellazione dell’Acquario. «7. Septima Stellatio Luminosa splendet in tertia Spondili Scorpionis valde POI SD DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 19 «insignis ob coordinatam XVII. Stellaram dispositionem, videlicet cum annexa « sibi Nebulosa, cuius exemplar in annexo schemate exprimitur.» pag. 20. «8. Octava Luminosa splendet in fusionae Aquae Aquarj, multiplex gregatim, «ut non immerito Aquae perlabentis, atque spumantis, similitudinem reprae- « sentat.» pag. 21. Con la descrizione di codeste otto costellazioni luminose, che egli annovera tra le più insigni, ha termine la seconda sezione del suo lavoro. La terza si propone di esaminare per quali cause si producano queste diffe- renti apparenze negli spazi celesti. La cagione materiale di tutte codeste varie apparenze, di costellazioni luminose, di nebulose, di stelle occulte o cieche , è una sola. La riunione di molto stelle nello stesso sito, nella stessa regione del Cielo. Se non che per la maggiore o minore distanza di siffatti gruppi di stelle, o le varie distanze che le stelle dei diversi gruppi hanno vicendevolmente fra loro, si produce la differente apparenza di costellazioni Luminose, di nebulose e di Stellificazioni occulte. Allorchè le irradiazioni dei varj corpi componenti un gruppo stellare perven- gono all'occhio sotto angoli più ampj e la visione riesce distinta; tale aggregato di stelle si presenta sotto la forma di Costellazione Luminosa. Allorchè gli an- goli dei raggi luminosi che emanano dai vari componenti di un gruppo stellare riescono più angusti e la visione dei corpi luminosi si produce contusamente, si ha l’apparenza di una Nebulosa. Che se poche stelle convengono in augustissimo spazio, o varie stelle formano un nodo strettissimo (archtissimum Nodum) codeste stelle costituiscono la specie delle occulte. La‘cagione fisica o materiale di codesti vari fenomeni comune, e ciò apparisce dal fatto che come all’ occhio nudo le costellazioni luminose appariscono come riunioni di stelle con l’uso del teloscopio che aumenta le dimensioni degli 0g- getti e dilata del parigli spazj fra loro !nterposti; sì scorge che le Stelle Nebulose non sono che moltitudini radunate di stelle. L'annunziò prima fra tutti Galileo, al suo Nunzio Sidereo; annotando 21 stelle nella nebulosa di Orione e 36 nella nebulosa del Presepe) E della Galassia che ha la medesima causa materiale scrive : Non essere altro che una congerie innumerevole di Stelle adunate nello stesso spazio ed in qua- lunque punta di essa si rivolga il cannocchiale apparisce una ingente frequenza di Stelle delle quali parecchie sono abbastanza grandi e perspicue ma la molti- tudine delle minori è del tutto inesprimibile. Tutti coloro i quali hanno affermato che le Nebulose e la stessa Galassia ri- sultano da una sostanza materiale proveniente dal condensamento dell’ etere si sono ingannati poichè egli ha già dimostrato nell’ opuscolo intorno alle comete che l’etere sottilissimo che invisibilmente comprende tutto l’ universo non può mai degenerare dalla sua innata trasparenza. Nè lo rimuove dal suo concetto la obiezione proveniente da quella nebulosa di 20 DELLA VITA E DELLE OPERE che egli denomina stelle cieche od occulte; le quali anche col teloscopio non presentano alcuna apparenza di stella luminosa, ma conservano quella di spazj nebulosi. Le stelle che brillano di luce propria come il Sole; non debbono riguardarsi come equidistanti dal sito dell’osservatore sulla terra. Le dimensioni del mondo sensibile sono immense. Nè riesce possibile di determinare; se le stelle di prima grandezza o di grandezze minori sieno corpi di massa e d’intensità di luce di- versa; ovvero appariscono tali per le loro ineguali distanze. Per la grandezza incommensurabile della sfera del Mondo, ben possono esistere corpi luminosi posti a così grandi distanze che anche con l’ajuto del teloscopio conservino l’apparenza di stelle cieche o di semplici nebulosità. Poichè quando varj oggetti lucidi irradiano l’occhio sotto angoli acutissimi; le loro imagini nel- l’occhio le loro imagini si frastaglianp e si perturbano a vicenda in modo da pro- dursi la impressiene di un oggetto unico e continuo. « Materialem igitur Caelestium horum Phaenomenum causam eandem omni- « bus, ac singulis Nebulosarum, Occultarum et Luminosarum generibus commu- «nem esse substinemus, quae etiam ipsius Galaxiae seu viae Lacteae per expe- « rientiam esse deprehendimus, videlicet. Confluentia, Conspiratia Synodus, vel « multarum Stellarum concursus in eamdem apparentem Coeli eminentissimi « Regionem, ita ut multitudo quaedam Stellarum in talem ac tulem specialem « Synodum conveneriît, quae nobis pro maiori, vel minori a visa distantia, aut « varia Stellarum ipsarum ad invium coadunatio, sua specie Luminosae, vel Ne- « bulosae aut Occultae Stellificationis representetur. » pag. 22 lin. 13... 26. « Porrò causa formalis non eadem omnibus, differt enim effective, quatenus « eorumdem Obiectorum Lucidorum species, diversimode ocnlum afficiant, pro « lucis robore, vel pront magis minusve distincte oculum irradiaverint: Nam ubi «sub angulis amplioribus, ac distincti species visum irradiaverint, talem Stella- «rum concursum sub specie Luminosae Stellificationis sensus apprehendet. Kbi « vero sub angustioribus confusae oculum afficerint Stellae eam Stellarum coa- « dunationem sub specie. Nebulosae Stellificationis sensus ipse deprehendit. Quod « si paucae stellae in angustissimum Synodum convenerint, aut ite quampluri- « mae arctissimum Nodum sub Coelo ad oculum repraesentaverint, sensus eas « Stellas, ita ad invicem cocuntes sub specie Occultarum Stellarum apprehendet. «Pi 29, n Sdi ir ee i ne « Ope Tubospecilli Nebulosas Stellas, nil aliud esse percipimus; nisi Stellarum « coacervatae multitudines idque primus omnium inter Mortales, Galileus in suo « Nuncio Sydereo detexit (p. 23 lig. 23... 28). Sed quid egemus Testibus ? idem et « nos ipsi prospicimus intuemus, attendimus et admiramur, non solum in par- « tibus Galaxiae et in singulis Nebulosis, sed ubique fere quorsumlibet Telosco- « pium dirigimus per singulos Firmamenti Actherei Regiones, vel Constellifica- « tiones Stellas promiscuae magnitadinis innumeras, praesertim ubi candoris « vastigium aliquod prospicimus intuemur. » (p. 24 lin. 9 16) . . . . . . + DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 21 « Non ob id, quod Stellae quaedam occultae vel quosdam Coeli tractus, etiam ope « Teloscopij, Oculi acie corroborata, adhuc tanquam Nebulose appareant et nullum «in eis vestigium Stellarum attendatur, subsequitur necessario, ut illae Coeli par- « tes ex Aetheris condensata substantia, sicuti et Nubes ex Aere coarctato consti- «tuantur, quia fortasse in tanta Sphaericitatis celsitudine, et ab oculo nostro di- « stantia, Stellae illae nobis occultae removentur, ut etiam adhibito Tubospecillo «nondum tamen ad visum partes, illos Coeli tractus constituentes, ad visum pa- «tulae fiunt, sed adhuc etiam indistinctae representantur (pag. 26, lin. 22... 32). « Nam quoties plurima objecta lucida sub angulis acutissimis Oculum irradiant « toties illarum species, in ipsa oculi superficie transfusi, ad invicem vehementer «complicantur, et ita sensus illuditur, ac perturbatur, ut unum quid spissum et «continuatum objectum sentiat ac percipiat: prout manifestissime patet in ipsis « Nebulosis Cancri et Scorpionis ad nudum oculum relatis (pag. 27, lin. 2... 8). La quarta sezione dell’opera è forse la più importante. L’autore comincia in essa dal trattare l'argomento delle stelle doppie che si osservano in grande numero in tutte le regioni del cielo, Codeste stelle appariscono semplici all’occhio dell’osservatore perchè tra i corpi che le costituiscono la distauza è così piccola che non potrebbe fra le due stelle collocarsi una stella della medesima loro grandezza. « Splendent namque ubique passim per Acthera, Stellae quaedam Geminae quae cum « reipsa duplices existant, nihilominus tanta intercapedinis angustia tenentur ; ut vix « duae ab invicem dissidere, ob contiquitatis vinculum quo ipsae connecti videntur, ap- « pareant; et sic non duplices sed simplices prorsus reputantur. « Quamvis enim visus expeditissimus duplices illas esse sentiat, eas tamen ab invicem « tanta intercapedinis angustia dissidere censet ul ne quidem inter illas tertia ciusdem « magniludinis interseri posse credat; cum tamen in rei veritate plures viginti aut tri- « ginta per eamdem rectam Stellae in contiguitate dispositae ntersererentur prout in- « ferius patehit (pag. 29, lin... 12... 24). Vi è appena qualche Costellazione in cui l’una o l’altra stella Gemina non si rinvenga. Tra esse sono molto notevoli quelle che sono presso l’Ecclittica; e di tali stelle gemine egli dà un quadro che contiene le loro rispettive Longitudini e Latitu- dini. 92 DELLA VITA E DELLE OPERE STELLAE GEMINAE IUXTA EcLYPTICAM LoncIituDo | LATITUDO | | Signum Grad. Min. | Grad. Min. 1. Orientaliss.* Pleiadum...., Tauri 20 196 y|118 di Ba 2. Oculus Bor." Tauri........, Gemin. di poinz SÙ, de 3. Lanx Austr.* Librae...... Scorp." 10: bi 4908, 2031 4. Cornus Occ.' Caprie. ....| Caprie. DI AD: SU Ts I 5. Trium in frontem Occid.| Scorpionis 281808 | Tio:40, «Baldi (pas. 30, 13... 19). Egli ha misurato gl’intervalli che si frappongono tra i corpi costituenti le più insigni stelle doppie. « Harum vero duplicium Stellarum aliquot insigniores, ope Tubospecilli adaptato « urta cius Orificium Dimensorio intercapedines dimensus sum; easque reperi, sicut « în adiecto laterculo adnotantur videlicet (pag. 31, lin. 6... 9). I componenti delle stelle doppie trovansi notati in apposita figura con lettere alfabetiche, e le loro distanze con linee proporzionali (pag. 31). Con l’uso del Teloscopio si scoprono poi altre stelle doppie delle quali è ap- pena discernibile l’intervallo. come avviene ad occhio nudo delle altre sopra no- tate. « Inter innumeras, quae sub Noctibus interlunij sub Acre defecatissimo Stellae du- « plices, per Tubospecillum in Aethere passim discoperiuntur, nonnullae Geminae tam « aretissimo ab invicem intervallo dissitae cernuntur ut vix, atque via discontinuari « internoscuntur: quin potius eodem modo quo nos libero intuitu Geminas Tauri, Scor- « pionis vel Capricorni in contactum fere coire cernimus: ita et Geminas quosdam in « Nebulosis Persei, Cancri et Scorpionis adhibito Tubospecillo: difficillime a contactu « secernere possumus, si quidem tamquam lapidum cumulus, ibidem Stellae tumultuose « congeri videntur (pag. 33, 1... 12). Questa diligente ricerca fatta dall’autore intorno alle stelle doppie ha lo scopo di servire di guida ad una discussione relativa al sistema del mondo. « An quia « fortasse stellis hisce ducibus, ad Mundani systematis obscuritatem dilucidandam, nos « (psos conducere speramus (pag. 33, lin. 14... 17). Aristarco, Filolao e Copernico, dice l’autore, valutando arbitrariamente la gran- dezza del mondo sensibile, la estendono pressocchè all’ infinito; e così grande suppongono la distanza delle stelle fisse, che la grande orbita ossia la rivolu- zione annua della terra intorno al sole, non produrrebbe alcuna parallasse sen- DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 23 sibile. Dalla quale impercettibilità della parallasse seguirebbe necessariamente, che il nostro sistema planetario malgrado la sua vastità, avrebbe dimensioni impercettibili relativamente alla grandezza dell’intero sistema del Mondo sensi- bile. Secondo l’ipotesi Filolaica il nostro mondo solare, sarebbe una delle innume- revoli stelle sparse nel firmamento celeste ; e qualunque stella al pari del Sole dovrebbe avere un proprio sistema planetario. Vi sarebbero mondi innumerevoli uguali a questo nostro mondo visibile: ciò che se non urta con la potenza di- vina, urta contro la dottrina delle sante scritture.... «et quamvis non implicaret contra Omnipotentiam Altissimi implicat nililominus contra sanam sanciorum literarum doctrinam. A confutare codesto sistema, egli afferma che la Parallasse riesce sensibilissima nelle stelle polari, e nelle stelle gemine vicine alla Ecclìttica, che non hanno un intervallo maggiore di un minuto, ed ancor più evidente presso quelle che hanno una distanza minore di un minuto. « Dico huiusmodi Parallaxis cvidentia patere necessario apud Stellas Polares, apud « quas Parallaxis fit evidentissima: sed et in Geminis iuata Ecliplicam; quae non ad- « mittunt maiorem intercapedinem unius Minuti; et evidentius apud illas, quae minorem « umus Minuti intercapedinem admittunt (pag. 34, lin. 13... 27). Ma codeste affermazioni così positive, non sono corredate da notizie intorno al metodi di osservazione, adoperati per giungere alla misura delle parallassi ; cosicchè appajono piuttosto ipotesi, create da un preconcetto, contrario ai sistemi di Filolao e di Copernico; anzichè il risultato di vere, e proprie osservazioni. Del resto è noto, quante lunghe e laboriose ricerche, abbiano dovuto durare gli astronomi moderni; prima che fosse dato loro raggiungere un risultato po- sitivo, per la determinazione della parallassi, di alcune poche stelle. È solo in tempi molto recenti, e dietro i più grandi progressi nella costru- zione degli strumenti, e nella precisione dei calcoli astronomici, che il problema della parallassi, ha potuto raggiungere una favorevole, e positiva soluzione. Varî moti provenienti da elementi uranografici, le variazioni nascenti da pe- riodi annui nelle rifrazioni, e dai moti anch’essi annui, indotti negli strumenti, nei loro sostegni, e nel suolo su cui poggiano ; rendono difficilissimo, di sceve- rare la differenza di posizione apparente delle stelle, nascente dallo spostamento della terra nella sua orbita attorno al sole, dagli altri moti apparenti, che na- scono da elementi uranografici, o da altre cagioni fisiche, aventi lo stesso pe- riodo annuo della parallassi. Non può farsi quindi rimprovero all’ Odierna, se nel tempo in cui egli vivea; nel quale la scienza non possedeva i mezzi istrumentali di osservazione, ed i precisi metodi di calcolazione, che sono stati il conquisto dell’ astronomia mo- derna; egli abbia fallito nel tentativo, di risolvere l’ importantissimo problema della parallassi. Del resto i suoi errori, più che a difetto nei metodi di osservazione, o di cal-. 24 DELLA VITA E DELLE OPERE colo, che erano al suo tempo tanto lontani dalla perfezione, che hanno acqui- stato dai progressi posteriori dell’ astronomia teorica, e strumentale; nascevano sopratutto, dal concetto, che attribuendo al sistema dell’ universo, dimensioni così grandi da sorpassare ogni umana imaginazione, secondo i sistemi di Filolao, e di Copernico; si andrebbe contro alla dottrina delle sante scritture. La cre- denza del sacerdofe, vinse nel dotto ragusano, l’acume deil’astronomo. Le diligenti ricerche infatti, degli astronomi moderni hanno dato prove ben fondate, della giustezza delle ipotesi di Filolao, e di Copernico, dedotte dalla mi- sura delle parallassi. 1 Da una serie di osservazioni, fatte al Capo di Buona Speranza, negli anni 1832 e 1833 dal Prof. Henderson, col circolo murale di quell’Osservatorio, veniva de- terminata la parallassi di un intero secondo per la stella « Centauri, una delle più notevoli tra le stelle meridionali. Le osservazioni posteriori del signor Maclear negli anni 1839 e 1840, in parte con lo stesso, ed in parte con un nuovo, e più poderoso strumento, hanno con- fermato le osservazioni di Henderson, benchè con una leggiera diminuzione, de- terminando la parallasse di codesta stella, a 10/11 di secondo. Ora codesta stella, si riguarda con molta probabilità dagli astronomi, come tra le più vicine al nostro sistema solare; poichè ha un movimento proprio, annuo, molto notevole, che è stato accertato di 4". La distanza di un astro che produce la parallassi di 1” è stata considerata come una specie di unità parallattica, la quale calcolata in funzione del semi- diametro terrestre, e poi tradotta nelle unità di misura ordinarie terrestri, da- rebbe una distanza calcolata, di venti bilioni di miglia (@nglesi). Il percorso di codesta distanza, con la immensa velocità della luce solare, ri- chiederebbe il tempo di 3 1]2 anni. Poco tempo prima della pubblicazione di questo notevole risultato, Bessel os- servando le due piccole stelle che formano la 612 del Cigno del Catalogo di Flamstedio, nella quale avea notato un regolare moto progressivo di spostamento della estensione di più che 5” per anno, relativamente alle stelle vicine; calco- lando la distanza di tale stella la trovò, seicentomila volte la distanza della terra dal sole. Così le ipotesi degli antichi astronomi sulla immensa vastìtà del sistema del mondo, si trovano non solamente confermate, ma dimostrate dalle diligenti ed accurate ricerche degli astronomi moderni (1). (1) Outlines of Astronomy {l dy i Sir John F. W. Herschel || Fourth edition || London | 1851, pag. 540 e seg. Taking therefore the carth's radius for unity, a parallax of 1° supposes a distance of nearly five thousand millions of such unites: and lastly to descend to ordinary standards, since the ‘carth’s radius may be taken at 4000 of our miles, we find about twenty billions of miles for qur risulting distance. bile DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 25 Il quarto capitolo dell’opera di Odierna, dopo avere trattato siffatta importante quistione intorno al sistema del Mondo; prosegue ad esporre varie notizie di astronomia stellare. Vi si descrivono con apposite figure incise, dieci nebulose nelle apparenze che presentano osservate col teloscopio, completando per tal modo un soggetto trattato già nella seconda sezlone. La prima nebulosa descritta è quella del Presepe ossia del Cancro; nella quale Galileo annotava 36 stelle. Egli osservandola attentamente vi ha scorte trentotto stelle notevoli, ed altrettante che per la tenuità della luce sfuggono quasi alla vista: et in adiecto laterculo singulas incisimus. Eius centralis Longitudo sub grad. 1,56 Leonis, Latitudo Grad. A,14 Bor: e nella figura annessa si legge: Nebulosa Prae- sepis seu Cancri Stellas habei Quinquaginia (pag. 38... 39). La seconda nebulosa descritta con figura , è la nebulosa dello Scorpione: Se- cunda in ordine, caeteras praecxullit Nebulosa Scorpionis omnium evidentissima ; nisi quod ipsi Galaxie proxime inhaeret, post Aculeum Scorpionis în Orteum aestivum de- clinans. Stellas diversae magnitudinis promiscuas habet XXX, quae ad invicem, sicut in hoc Laterculo exprimuntur, coordinantur. Centralis ejus Longitudo sub grad. 25. Sagitt. latitudo vero ejus austrina grad. 13, pag. 41. « Tertia Nebulosa quae omnium prima, a Ptolomeo indigitatur in constellatione « Persei super extremitatem manus ejus dexterae sub Cassiopeam, inter viam lac- «team, valde insignis, ob Stellarum eximiam copiam. » Alle tre nebulose delle quali abbiamo notato le indicazioni fornite dall’autore si aggiungono le seguenti: 4.2 Altra nebulosa presso lo Scorpione. 5.° All’occhio destro del Sagittario. 6.° Nella stessa costellazione del Sagittario sopra il dardo ad occidente vicino la Galassia. 7. Nella Costellazione dell’Auriga. 8.° Nella bisezione della Galassia. 9.* Nel piede sinistro della Costellazione di Ercole. 10.* Nel sito che precede la testa del Capricorno. Oltre alle dieci nebulose delle quali, dice l’autore , abbiamo qui disegnato le apparenze; molte altre e forse più insigni dapertutto si osservano nel cielo, tra le quali molto notevole è la Nebulosa intercanicolare che trovasi presso Sirio, e varie altre che vengono particolarmente indicate. Chiude l’ opera una breve appendice nella quale sono trattate varie questioni astronomiche con grande acume e con piena conoscenza delle dottrine di quel tempo intorno all’astronomia stellare (1). Uno dei fenomeni più singolari dell’astronomia stellare, formò soggetto di os- servazioni e di studi, del dotto e diligente astronomo ragusano. È noto, come per- (1) Problemata Nonnulla pag. 53... 62, 26 DELLA VITA E DELLE OPERE correndo i cataloghi che hanno lasciato gli antichi, gli astronomi posteriori sono stati indotti a fare um’osservazione di grande importanza; talune delle stelle an- ticamente osservate, hanno cangiato sensibilmente di splendore, in una guisa più o meno notevole, nel mentre che altre ne sono apparse, che non si erano mai vedute; ve ne ha che sono sparite, ed indi sono di nuovo ricomparse, ed altre che non sono riapparse mai più. Talune di queste stelle, hanno uno splendore temporaneo, che cede il luogo ad una completa disparizione, altre ricompariscono ad intervalli fissi più o meno lunghi; hanno perciò ricevuto il nome di periodiche: sebbene non ritornino sem- pre ad avere lo stesso splendore, nè tutte procedono con regolarità nei loro ri- torni. La stella di splendore variabile della quale ci ha dato notizie particolareggiate, l’astronomo di Ragusa, è apparsa nel 1600 nella costellazione del Cigno: Una stella nuova e peregrina sul nostro vertice nel seno della via Lattea, dove nella candidissima costellazione del Cigno risplende il sacrosanto segno della croce fregiato di cinque lucidissime stelle ; apparve la prima volta con grande mera- viglia degli astronomi nel 1600: disparve dal 1640 al 1650, venne osservata nuo- vamente da Odierna nel gennaio 1864 della sesta grandezza. i Negli anni che corsero dal 1600 al 1629, andava successivamente scemando ; ma invece nel periodo osservato dall’astronomo ragusano, andava successivamente crescendo; passando pet la quinta e per la quarta grandezza, cosicchè nel 1659 vedeasi ingrandita di luce nel principio della terza grandezza, finchè come nel 1601 superi l'apparente grandezza di quella stella che splende nel becco del Cigno. Essendosi sempre osservata nell’ istesso sito e nella stessa posizione senza punto variare e colla stessa luce pallida e languida come quella di Saturno, come da principio nel 1601 fu osservata. Sicchè non vi è luogo da dubitare se questa che oggi splende sopra la lucidità del petto sul principio del Collo del Cigno sia Vislesso individuo o differente da quel che con istupore del mondo fu nel 1600 e nelli seguenti anni insino al 1620, ivi sempre veduta ed osservata. La vera causa di taii fenomeni che sembrano strani, e che sfidano la umana sagacia come tanti altri segreti della natura, ci è ignota; sebbene varie conget- ture ed ipotesi, sieno state proposte da astronomi eminenti onde spiegare queste apparizioni e disparizioni di stelle e la variazione dei loro splendori. Anche 0- dierna il quale in tutte le sue opere, apparisce non solo osservatore diligente, ma altresì filosofo dotato di molto acume, ha tentato di spiegare il fenomeno. Egli ha imaginato che codeste stelle, debbono essere animate da un movimento inconsueto che si deve fare per una linea retta, cadente a piombo per il piano della nostra veduta, e non per qualsivoglia circonferenza come sogliono muoversi tutti è mo- bili del cielo sin ora osservati. Ma egli stesso non dissimula la difficoltà di ammet- tere fale movimento insolentissimo, che tanto si scosterebbe dalle leggi, che rego- lano i movimenti di tutti i corpi celesti. Su codesta importante ricerca astronomica, l’Odierna pubblicò un opuscolo sotto ta. DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA I; forma di lettera, che reca il titolo: Il nunzio della Stella nuova ossia la Stella nuova e peregrina comparsa sul petto del Cigno scoperta nuovamente. Io possiedo una copia di codesto opuscolo, che è stato pubblicato a Roma nel 1659, eseguita da persona che ebbe in mani l’opuscolo, posseduto altra volta dalla Biblioteca dei Gesuiti ora Nazionale. Mi è riuscito impossibile di avere quell’opuscolo, malgrado le diligenti ricerche del Direttore abate Filippo Evola, ma ne ho trovato un largo estratto in una opera di Caramuale in Mathesi nova synt: L° autore che era riputato come uno dei più dotti uomini del tempo, parla di Ogierna, lodandolo qual uno degli astro- nomi più celebrati. La importanza dei lavori astronomici dei quali abbiamo fatto cenno, gli valse una grande ripulazione tra i dotti contemporanei, e quando nel 1656 in occa- sione di una ecclissi solare osservata il 16 gennaio di quell’anno a Roma, una riunione di cultori delle scienze astronomiche fu tenuta in quella città, sotto la direzione di D. Domenico Plato, professore di Filosofia nel Monistero di Monserrato, per discutere e definire varie quistioni sorte, per le speciali osservazioni fatte in quella ecclissi; il dotto uomo che presiedeva a quella riunione, trasmise la serie dei quesiti proposti, all’Odierna, in Ragusa, perchè ne formasse soggetto di studio e ne pubblicasse le relative soluzioni. Frutto di codesto onorevole incarico era un lavoro dell’ astronomo ragusano pubblicato in Palermo sotto il titolo: De Admirandis Phasibus || In Sole et Luna visis [| Ponderationes || Opticae Physicae et Astronomicae || In questiones Incidentes || In- fer observandum Solis Eclypsim Romae || Anno Domini 1656 Die 26 Januarij, Ho: 14 Min: 36 P. M.|| Seu || Dissertationum Responsiones || Don Joannis Baptistae Hodierna Siculi, || Ducis Palmae Mathematici, ibidemque Archipresbyteri || Ad Reverendum Domi- num || Don Dominicum Platum, Montisserrati. || Monachum , ibidemque Plulosophiae Prophessorem etc. Panormi Typis Nicolai Bua 1656. I quesiti che gli vennero trasmessi dal dotto frate romano, egli ordinò in tre categorie secondo la loro diversa natura; componendo una serie di Problemi Ot- tici, Fisici, ed Astronomici; e dando poscia a ciascuno di tali problemi singolare e sapiente soluzione. «Porro hae Questiones curiosissimae quae Romae, inter observandas Eclypsis «cum viris illustribus tibi coortae sunt, Reverende Platae quasve mihi conside- «randas proponis, miscellanae cum sint pro diversitate obiecti, in quem respiciunt, «in tres Classes, vel Sectiones, ad maiorem dilucidationem, distinguere libuit. Dalle 43 quisiioni che vennero a lui proposte, egli trasse 7 Problemi Ottici, 16 Problemi Fisici e 19 Problemi Astronomici, Ci riesce impossibile di riassumere codesta serie svariata di quistioni e di ri- sposte, anche per l'indole molto varia e peculiare dei soggelti ai quali hanno relazione. Diremo solamente che esse si riferiscono principalmente alla natura fisica del 28 DELLA VITA E DELLE OPERE s e TTI n_— ___—r———T —_——————————————————x ’ —_——————_ Sole e della Luna, alle più importanti apparenze presentate dai dischi dei due astri, al fenomeno delle macchie solari, e ad altri subietti astronomici di grande importanza. L’Odierna vi apparisce fornito delle più sode dottrine scientifiche, e perfetta- mente istruito delle grandi scoperte fatte dal Galileo nella scienza astronomica con l’uso del teloscopio, e rese pubbliche nel Nuntius Sidereus. Le stesse quistioni sollevate dall’assemblea, presieduta in Roma da Plato, for- niscono una prova evidente, dell'influenza che aveano esercitato per la diffusione degli studi astronomici, anche in Roma, le scoperte dell’astronomo fiorentino; cui non era ancora stata mossa quell’aspra guerra, la quale condusse a quel pro- cesso che ormai rimane celebre nella storia. La soluzione dei varii problemi di ottica, e di fisica, rende già ampia testimo- nianza del valore del dotto siciliano nelle scienze fisiche; ma altri suoi lavori speciali in codeste scienze, meritano di venire particolarmente ricordati. Uno dei più notevoli fra tali lavori è stato superiormente accennato, citando una nota bibliografica di G. Libri ed ha per soggetto il fenomeno della disper- sione della luce col prisma triangolare. È un opuscolo che egli definisce come introduzione ad una nuova scienza sulla causa dei colori. Codesto opuscolo di sole 36 pagine pubblicato in Palermo nel 1656 pei tipi di Nicola Bua, è divenuto tanto raro, che appena ne fa menzione taluno dei biblio- grafi siciliani, i quali han dato copiosi elenchi delle sue opere. Tuttavia dalla nota di Guglielmo Libri sopra ricordata, si vede che tale lavoro era noto a La- lande, il quale giudicava che in talune osservazioni sui raggi luminosi Odierna avea preceduto Newton, il gran padre dell'ottica moderna. Thaumantiae || Miraculum || seu de causis || Quibus Obiecta singula , per Trigoni vitrei || transpicuam substantiam visa, elegantissima Colorum varietate ornata || cer- nuntur || Opusculum Opticum || Vel introductio ad novam scientiam de causis || Colo- rum || Don Joannis Baptistae Hodierna || Siculi Ragusani in Oppido Palmae Agri- gentinae Diaecesis Archipresbyteri. Panormi, Typis Nicolai Bua 1652. L’autore dell’opuscolo narra (in una breve prefazione) come otto anni innanzi dell’epoca in cui accingevasi a tal suo lavoro, sui fenomeni di colorazione che appariscono col prisma triangolare di cristallo, avea già compiuto un altro lavoro di ottica nel quale si proponeva di spiegare le cause dei colori che sì osservano nell’Iride : de opere quondam optico, quod de causis colorum Iridis inscripse- ram et publici juris facere constitueram. Ragionando di tale lavoro col P. Francesco del Bene gesuita, professore di matematiche nel Collegio palermitano; costui lo consigliò a far opera molto più importante studiando lo spettro che si produce, facendo cadere i raggi luminosi, sopra un prisma triangolare, e procurando di spiegare le cause dei colori che si osservano nello spettro. DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 29 Codesto lavoro dell’Odierna compilato in forma scolastica e distribuito in De- finizioni, Proposizioni e Corollarj , meriterebbe una minuta analisi che non può trovar posto nel presente nostro discorso. Tuttavia ci studieremo di fare una ra- pida rassegna, dei fatti e delle osservazioni in esso raccolti, e delle conclusioni che ne deduce l’autore. Precede una esposizione del metodo, secondo il quale conviene sia adoperato il prisma triangolare di cristallo, a traverso cui si vogliono guardare gli oggetti: Methodus observandi obiecta visenda per organum Thaumanticum, sive per diaphanam substantiam Trigoni vitrei. La luce bianca è la luce pura, luce sincera (1). I colori sono luce, che degenera dalla sua purezza; essi si debbono classificare in due specie, l’una di colori sobri l’altra di colori ebrij. I primi nascono dalla luce degenerata per attenuazione , gli altri nascono da rafforzamento o raccoglimento di luce. Ogni spazio privo affatto di luce , dicesi nero. I colori debbono distinguersi in colori primarj e semplicissimi e colori non semplici o secondari]. (1) £ Albedinis candor, nil aliud est, nisi purae lucis imago, in sua semplicitate ad visum “ relata (pag. 10). “ Lucis species non syncera; sed a sui candoris simplicitate degenerans, Color dici con- “ snevit.... Unde color nil aliud esse perhibetur, nisi lucis specimen a sua sinceritate dege- “ nerans et luminis perturbati nitor (ibidem). “ Color, seu lucis species a sua sinceritate degenerans, in duplici differentia consistit, vi- “ delicet in esse Colorem sobrium et in esse colorem ebrium (pag. 11). « Omne spatium a candore, seu lucis nitore denudatum Nigrum dici consuerit ; cst enim « Nigredo ipsa omnimoda lucis carentia (ibidem). “ Sobrij colores, dicendi veniunt , quorum a candore, ac sinceritate luminis degeneratio, “ per ipsius luminis extenuationem fieri contingit, ut ob id hebetes, umbrosi, et obscuri so- « brij Colores censeantnr, quatenus videlicet ob luminis aliquantam defectionem ad Nigre- « dinem declinare videantur (ibidem). “ Ebrij vero Colores dici consuevere, quorum a simplicitate luminis degeneratio, per coitum “ et luminis coadunationem fieri contingit; ubi ob luminis continuati excessum, vegetiores, « pollentioresque ad visum colores ipsi redduntur: vibrant enim ob luminis coeuntis exces- “ sum (ibidem). “ Sobriorum Colorum species quamplurimae: etenim aliae Primariae ac simplicissimae : © aliae non simplices vel secundariae. Ebriorum etiam totidem, siquidem nonnullae simpli- “ ces ac Primariae nonnullae vero promiscuae ac secundariae Colorum Ebriorum sunt spe- “ eies (pag. 12). 8 30 DELLA VITA E DELLE OPERE AT ranenininmanenia L’autore enumera sei specie di colori sobrij dei quali vengono dati i nomi tratti dagli oggetti naturali nei quali si osservano. Segue indi la enumerazione di altri sei colori ebrij. Il bianco che è la manifestazione della luce sincera, sta tra le due sezioni dei colori sobrij ed ebrij. Ma poichè in entrambe le sezioni alcuni colori si possono riguardare come gradazioni di altri colori della stessa specie; la intera serie dei colori si riduce nel modo seguente : SECTIO (pag. 17). _-Yv-_TT->%5>5, 1 __——_.r rt0'°'°'°r'_ _=_L C_ oENpppppeee——m—m—_cc=o Ti SOBRIORUM (ALBUM) EBRIORUM mirtinus, violaceus, cerul.s 0 Flavus, russeus, purpureus 3 2 si 1 2 3 Il fascio luminoso che parte da un centro di luce, quanto più si estende nel suo cammino si espande in più ampie sfericità e quindi decresce in intensità : in codesta proposizione, si comprende, sebbene non formulata esplicitamente, la legge della diminuzione d’intensità luminosa del fascio, secondo î quadrati delle distanze dal centro luminoso. Egli nota infatti che facendo cadere un fascio di luce solare, da uno stretto forame del tetto, sul pavimento di una camera oscura, ed intercettando il fascio con un piano che si avvicina gradatamente dal pavi- mento al tetto , il fascio si restringe in uno spazio (circolare) sempre più an- gusto, e la luce risplende più intensa e più chiara (1). Ne deduce come corollario che i pianeti essendo tutti illuminati dal sole , la intensità della luce, deve in essi diminuire con l’ aumento della distanza loro, come infatti si osserva (2). Allorchè si guarda un oggetto a traverso la sostanza diafana del prisma appa- riscono i colori, solamente, ai limiti ombrosi dell’oggetto che si guarda. Se si riguarda un piano molto esteso e uniformemente illuminato in ogni verso, che sia interamente bianco o del tutto nero, o splendente di un colore speciale diffuso in modo continuo; guardato a traverso il prisma triangolare non presen- terà alcun colore, o manterrà il suo speciale colore. (1) Propositio III. “ Lucidi aut Luminosi corporis, Radius, quo longius extenditur, eo « magis in ampliorem sphaericitatem expanditur, et eatenus in hebetudinem extenuatur “ (pags 17). (2) “ Stellae errantes omnes ac singulae illuminantur ab eodem Sole: nitidius tamen Mer- € curius splendet ac micat: deinde Venus: tertio Mars: quo minus Iuppiter: minimum vero ‘€ Saturnus splendere videtur: sicut patet observantibus: ob maximam videlicet Folciferi e- € longationem a Sole; ubi per illud immensum tantae sphaericitatis spatium lumen exte- “ nuatissimum fieri contingit: e contra vero Mercurij et Veneris Stellae cum Soli proximae « sint, ob sphaererum angustiam lumen Solis insensibiliter hebetari contingit. DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA S1 In qualunqde oggetto, che ha limiti determinati, guardato a traverso la so- stanza diafana del prisma, i colori appariscono, solamente, ai margini; i colori sobrj verso la regione del vertice gli ebrij verso la regione della base, I colori più intensi di entrambe le sezioni appariscono al di là dei limiti degli oggetti, i meno intensi al di qua dei contorni (1). L’Odierna dopo varie osservazioni su codesti colori, che si manifestano ai con- torni degli oggetti, guardati a traverso il prisma giunge alla seguente con- clusione: essere quattro e non più i colori semplici o primarj cioè: violaceo e turchino, (violaceus et turchesius) che Qiconsi sobri], manifestantisi dalla regione del vertice; giallo ed aranciato cifrinus et coccineus) che si dicono ebrij dalla re- gione della base. Tutti gli altri sono colori secondar]j o misticolori. Dopo varie osservazioni sui colori secondarj più notevoli che possono generarsi dalla sovrapposizione di colori semplici; giunge ad una conclusione nella quale sì riassumono le differenti osservazioni sui colori. (2) Le specie di colori principalissime sono sei: quattro cioè semplici e puris- sime, due generate dalle medesime specie semplici. Vi sono quindi (secondo il suo sistema) due sezioni di colori; una dei Sobrij l’altra degli Ebrij. Due prin- cipali e semplicissimi della specie dei sobrij, Violacea, e Cerulea. La tinta Verde è prodotta dalla loro sovrapposizione ; codesti colori si manifestano dalla parte dell’angolo. Due della specie degli Ebrij Gialla e Rossa, dalla regione della base. La tinta purpurea nasce dalla sovrapposizione della Rossa e Violacea. (1) Proposirio IV. “ Colores quicunque per diaphanam Trigoni substantiam cernuntur, “ nonnisi iuxta umbrosos, Obiecti visi, limites attenduntur (pag. 19). CorotL: “ Ubi planum quodvis aequaliter extensum et uniformiter fuerit illuminatum, “ ita ut sinus umbrositatis nullos admittat, sive id albedine candeat, sive ingredine tingatur, « aut quovis colore miteat, nullum peregrini coloris specimen, per Vitrei Trigoni miraculum “ visum, in eo apparebit verum suo peculiari colore prorsus nitescere videbitur. « Sic Caelum Caeruleo: Mare marino colore et albus Paries albedine coruscare: nigrum “ vero pannum telerrima nigredine tinctum, ubi continuato Plano, eius inconspicui Termini « fuerint, apparebit (pag. 19). Proposirio V. “ In quovis terminato Obiecto, per Anguli solidi substantiam viso, Sobrij “ e regione basis, in Terminis, seu ipsius Obiecti Marginibus, ad visum irradiantur (pag. 19). (2) CoroLLarIvm. “ Sunt igitur colorum species principalissimae sex : Quatuor. videlicet “ simplices et purissimae: duae vero ex ipsis simplicibus progenitae. « Igitur Colorum sectiones duae; una Sobriorum, altera Ebriorum. Sobriorum species duae « Principales, ac simplicissimae Violacea et Cerulea è regione Anguli. Viridis ex his pro- « ducta. Ebriorum species duae, Hava, et Russea, è regione Basis: Purpurea ex Russea et “ Violacea (pag. 26). 32 DELLA VITA E DELLE OPERE Nell’Iride appariscono più di quattro colori, perchè per l’angustia dello spazio tra il giallo ed il ceruleo, si genera il color verde , nascente dalla loro sovrap- posizione. E poichè nell’iride la serie dei colori della Zona interna, si ripete in ordine inverso nella Zona esteriore; di modo che il colore supremo della prima apparisce infimo nella Zona superiore; ne segue che per la coincidenza del colore Rosso col Violaceo emerge il Purpureo (1). Ma delle cause dei colori apparenti nell’ Iride l’autore si riserva a parlare in un lavoro speciale, del quale noi possediamo una copia manoscritta che verrà in parte pubblicata più avanti. La causa materiale della generazione dei colori che appariscono a traverso la sostanza diafana del prisma; è la inclinazione delle faccie che racchiudono l’an- golo. Il fenomeno quindi si manifesta non solamente nel prisma cristallino, ma altresì in qualunque solido diafano terminato anche da varie superficie piane, sieno solidi vitrei, o cristallini, o adamantini, come le gemme, o masse di umori transpicui come il .ghiaccio. Apponendo una gemma adamantina o cristallina terminata da superficie piane variamente inclinate, ai raggi del sole, sì vedranno apparire i colori dell’ iride. E parimenti si vedranno colorate le lamine delica- tissime del gesso là dove esse si staccano le une dalle altre (2).. Uno speciale teorema (Propositio XII) (3) è impiegato a dimostrare, per qual modo la inclinazione dei piani che racchiudono il prisma produca l’ appari- zione dei colori. La dimostrazione è ingegnosa e dà ragione del diverso spo- stamento delle imagini degli oggetti, guardati a traverso il prisma triangolare, secondo la diversa inclinazione dei piani, ma non rende ragione dell’apparizione (1) “ In Iride colorum species exterioris Zonae ab interiori Zona ordine converso re- € petuntur, ita ut supremus color infimus appareat in Zona superiori, et extima, tune ex € coitione Rubei cum Violaceo colore, Purpureus, vel potius Sandarachinus, seu Vinaceus color, « (qui est purpureus dilutus) emergit. (2) ProPosirio XI..... * Ex praemeditatis patet evidentissimè, Materialem causam colorum, € qui per anguli solidi transpicuam substantiam conspicui apparent, esse obliquam superficie- “rum Angulum solidam claudentium inclinationem inter Parallelam et Perpendicularem “ constitutionem. i “ Idque non solum in Trigonis vitreis, sed in solidis quibusque Diaphanis pluribus etiam « planis superficiebus terminatis, sive ea vitrea, sive christallina sint, vel Adamantina, vel “ ex humoribns quibusque transpicuis, aut e Gelu modulata. Jam si adamantinam Gemmam “ aut Christallinam varijs superficierum inclinationibus terminatam ad Solis radium appo- “ sueris, e singulis inclinationibns transmissus radius, Irini Lilij florem adamussim repre- “ sentabit. (3) “ Causae materialis dispositio , (ipsorum videlicet planorum Angulum solidum clau- « dentium aptitudo) ad colores concipiendos, a Parallelica ad Orthogonicam constitutionem € extenditur (per Quadrantem Circuli, videlicet, a primo ad nonagesimum inclinationis gra- “ dum) et per successivos inclinationis gradus, succesive Colores irradiantes intenduntur “ et vivificantur. DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 39 ———e—e—=—=—=e——_——=—=—=—=—*=*-****-+-=z=z*-*k*------------ _————————6ttktét58t388kk3zt -/t+-—+-—————---> ° dei colori, per la differente refrangibilità dei raggi diversamente colorati; ciò che dà la vera spiegazione del fenomeno della dispersione , e costituisce una delle grandi scoperte di Newton. Il concetto intorno alla uatura della luce, è sempre lo stesso degli antichi. La luce bianca è luce nella sua più grande purità, i colori sono luce che dege- nera dalla sua purezza; e questa degenerazione avviene sempre quando la luce passa dagli spazj illuminati agli spazj ombrosi. Ma sebbene questo concetto , si ripete ad ogni passo nell’ opuscolo; non s’in- tende bene ciò che egli voglia significare sotto la denominazione di spazj om- brosi, nè per quale azione cotesti spazj possono generare i colori. Il concetto che la luce bianca sia composta di raggi variamente colorati, e che il prisma separi i raggi colorati per la loro differente refrangibilità non appa- risce affatto nel lavoro di Odierna; cosicchè sebbene l'opuscolo contenga osser- vazioni ed esperienze notevoli, che certamente rivelano nell’autore un ingegno abituato alla paziente ed accurata ricerca dei fenomeni naturali, il lavoro che siamo venuti esaminando non muta sostanzialmente lo stato delle conoscenze ottiche legatoci dagli antichi fisici. Per cortesia del signor Principe di Boncompagni ho potuto esaminare un vo- lume da lui posseduto, contenente quattro importanti Opuscoli del Dr. D. Giovanni Battista Odierna di Ragusa Arciprete della terra di Palma in Sicilia. « Il Nunzio Sidereo della Terra» « L'occhio della Mosca» « La Nuvola pendente » « Il Sole del Microcosmo » dedicati : AWINMz0 Signore il Signor || D. Giulio Di Tomasi e Caro || Duca di Palma Barone del Castello di Monte Chiaro || e Signore dell’ Isola di Lampedusa || In Palermo per Decio Cirillo 1644. Di codesti opuscoli merita particolare menzione il primo, in cui l’autore esa- mina le grandezze apparenti delle stelle, le quali, siccome già avea notato Ga- lileo, ed annunziato nel nunzio sidereo; ad occhio nudo appariscono maggiori di quello che si mostrino nel campo del teloscopio. Egli sostiene che la maggiore grandezza apparente delle stelle è un’ allucinazione che si produce nell’organo della vista. Dopo avere intorno a ciò riferite molte ingegnose esperienze ed osservazioni, stabilisce che la più grande delle stelle fisse, non può avere un diametro mag- giore di due secondi circa. Ma da codeste premesse inferisce poi una conseguen- za, cui certamente il lettore non si attenderebbe, cioè: che le stelle sono in massa minori della nostra terra, conseguenza che non avrebbe certamente de- dotta, se come ebbe il coraggio, di rinunziare ai cieli cristallini di Tolomeo, avesse osato del pari rigettare le altre parti del sistema tolemaico. In vece sic- come abbiamo già notato nell’esame dell’opuscolo De admirandis Celi caracteribus egli sì studia con ogni sforzo in quella operetta di confutare gli argomenti di Copernico’, contro il moto del Sole, ed ammette come dottrina sacra il riposo 9 94 DELLA VITA E DELLE OPERE della terra. Tanta è la forza del pregiudizio ed il peso dell’autorità nel ritardare lo sviluppo delle verità più luminose! « L'occhio della mosca» è un opuscolo che dà prova dello spirito di paziente investigazione che guidava l’Odierna nelle scienze naturali, e gli concede posto cospicuo tra i zoologi. Egli prima del Miiller e dei micrografi moderni, trovò che gl’insetti hanno occhi multipli, e faccettati a musaico, e provò che ogni faccetta era un apparato visivo completo con lo strato di pigmento isolatore della luce, diverso per le varie intensità. e pei var] bisogni ottici dei diversi insetti; e in ogni faccetta trovò un cristallino speciale, ed uno speciale strato cerebroso segmento della retina. « La nuvola pendente » è un opuscolo meteorologico in cui l’autore, raccogliendo le idee enunciate in altre sue opere tratta della formazione delle nubi, delle pioggie, delle nevi, e di altri fenomeni meteorologici, dandone la spiegazione se- condo principj che sono in armonia con le idee della fisica moderna. « Il sole del microcosmo » sotto una denominazione alquanto bizzarra, è un opu- scolo nel quale si descrive anatomicamente la struttura del corpo umano e si dà la spiegazione flsica del fenomeno della visione. Codesto opuscolo rende te- stimonianza delle conoscenze anatomiche del dotto racusano. Agli opuscoli precedenti fa seguito un altro opuscolo in-4 edito in Palermo 1644, intitolato : Archimede redivivo o la stadera del momento dove non solo sinsegna il modo di scoprire le frodi nelle falsificazioni dell’ oro e» dell’ argento, ma si notifica l’uso dei pesi e delle misure civili presso diverse nazioni del mondo è di quesito Regno di Sicilia. L’autore comincia col trascrivere il discorso di Galileo Galilei sul prin- cipio idrostatico che va indicato sotto il nome di principio di Archimede ; indi vi aggiunge un suo dotto commentario, in cui con grande acume d’ingegno si mostra profondo conoscitore dei princip]j di fisica moderna, posti in onore dal grande fisico ed astronomo fiorentino. Un altro opuscolo appartenente ai suoi lavori di zoologia porta il titolo: «Jo: Bapt. Hodierna » Dentis in vipera virulenti anathomia. Pan: 1646, in-4. Codesto trattato precorse quello del Redi, che lo cita in più luoghi delle sue « Osservazioni sul veleno della vipera. » Nè meno importanti sono le osservazioni e gli esperimenti da lui fatti, per provare che il miele è un prodotto del fiore; corregendo le ipotesi degli antichi naturalisti che lo supponevano prodotto dalla rugiada: escrementum syderis. Intorno a codesto argomento, egli scrisse un opuscolo portante il titolo: Floris Mellis et Apis Anathomes; opuscolo che si conserva manoscritto nella Biblioteca Comunale di Palermo, ed è sin ora inedito. Ò Tale opuscolo è preceduto da una lettera dedicatoria al Rev. D. Filippo Api- cella che porta la data Palmae kalendis. Novem. 1658, ed è diviso in varie parti o capitoli di cui i titoli bastano a dare una sufficiente idea della importanza del lavoro. La prima parte ha per titolo: Floris Mellis et Apis|| Breves nonnullae veluti ana- DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 35 = —_——"8"r*—TrT—_--+rFFrrrFrF,F,,,r,r,r,r,,----------;.r thomes Observationes proponuntur et explicantur. Ac primum de natura Floris: Segue De Mellis productione: Indi Apis Anathomes ac natura: Infine si aggiunge una esatta e particolareggiata descrizione del Favo illustrata con figura, Exemplar Favi Mellei in Frontali aut dorsali superficie. A codesto opuscolo ne va unito nel medesimo fascicolo un altro, anche ine- dito, scritto in italiano e di data anteriore : La scaturigine del miele dall’intrinseco della Pianta nel calice del fiore, non dall’estrinseca rugiada del cielo prodursi. Nuovo scoprimento di G. B. Odierna. Palma 15 maggio 1658. Tale lavoro è inteso esclusivamente, a combattere gli argomenti accampati dagli antichi naturalisti, onde provare che il miele, si forma dalla condensa- zione della rugiada, e ad esporre in modo chiaro, e facile, varie osservazioni ed esperienze, fatte dall’autore, onde provare che il miele, è generato dagli organi interni delle piante. Entrambi gli opuscoli, porgono prova evidente del valore di Odierna come naturalista, il quale respinge le volgari opinioni, e le affermazioni inconsulte degli antichi, ponendo l’ osservazione e la esperienza, a fondamento delle spiegazioni dei fenomeni naturali. Un altro opuscolo di argomento botanico è posseduto dalla Biblioteca Comu- nale di Palermo, sotto il titolo: L’equità della Natura || nel distribuire || Diverse tuniche corteccie, e coprimenti || a° Frutti delle Piante per || corroborazione del loro || seme || Discorso di || Giambattista Odierna || da Ragusa || Arciprete di Palma. Codesto opusoolo è stato pubblicato da un erudito che vivea nel secolo pas- salo, Domenico Schiavo, in una sua raccolta di Opuscoli di Autori Siciliani, To- mo II, pag. 1*. Palermo 1759. i I manoscritti ancora inediti che sono posseduti dalla Biblioteca Comunale di Palermo, provennero dallo stesso Domenico Schiavo; e tra tali manoscritti giova ricordare: Genealogia temporum seu Hystoria || Anni Civilis Romani || Principum Ro- manorum arbitrio costituti || ac sepius innovati correcti et instaurati || a Romulo ad Gregorium XIII || Pont. Opt. Max. || Libri tres || In quibus et Anni ipsius cum ad Lunae tum ad Solis || circuitum variae applicationes et magnitudines mensium, ritus, numerus, ordo || singularum atque magnitudo denominationes diversas apud nationes habentur et recensentur || D. Joannis Baptistae Hodiernae Siculi. || Il manoscritto porta la data del 1641. Ma il manoscritto più importante dell’ Odierna che rimane ancora inedito, è posseduto dalla Biblioteca dell’ Università di Catania: esso ha per soggetto la spiegazione del fenomeno dell’Iride e porta il titolo: Thaumantias || Junonis Nun- tia || praeconium pulchritudinis || seu || De Natura Iridis et de Irinis || Coloribus ratio exactissima ad novam || et absolutam de Causis Visibilium || Scientiam promulgandam praemissa || Authore || D. Johanne Bap.ta Hodierna Siculo Ragusano || In Oppido Pal- mae Agrigentinae Dioecesis || Archipraesbitero ||, (FicurA DELLIRIDE) 36 DELLA VITA E DELLE OPERE —————FTFTrT—T—r-};<;*;«-*T;;*x«à«à«xz= == Popo 72 ore. Temperatura iniziale = 89,5 » finale = 9° I medesimi risultati che precedentemente , all’ eccezione che l’idrato rameico che era in sospensione nell’acqua stillata principiava ad imbrunire. Dopo 96 ore. Temperatura iniziale = 89,5 » finale —9° L’idrato rameico in sospensione nell’acqua stillata e l’idrato rameico in con- tatto col carbonato sodico al 10 0/0 erano divenuti più bruni; l’ultimo maggior- mente del primo. Quanto all’idrato rameico in contatto col cloruro, bromuro, e ioduro potassico non si osservò nessun cangiamento sensibile. Dopo 120 ore. Temperatura iniziale = 89,5 » finale = 9° Medesimi risultati che precedentemente; solamente l’idrato rameico in contatto col bromuro potassico principiava leggiermente ad alterarsi. Dopo 168 ore. Temperatura iniziale = 9° » finale = 10° Medesimi risultati che precedentemente; solamente nelle soluzioni nelle quali l’idrato rameico principiava ad annerirsi, l’annerimento era aumentato. Dopo 10 giorni. L’idrato rameico il quale era in contatto colle soluzioni della Serie 2* erasi più o meno alterato; ecco l’ordine progressivo del suo annerimento : 1° Idrato rameico +- soluzione di carbonato sodico al 10 0/0 III » + acqua stillata 3°» » + soluzione di cloruro potassico al 10 0/0 4°» » + » di bromuro » » (1) TI » + » di ioduro » » 3° Serie di esperimenti. Dopo 24 ore., IA Temperatura iniziale = 8° » finale = 9° (1) In codeste soluzioni l’idrato rameico non erasi propriamente annerito, ma la sua tinta era divenuta più o meno verdognola probabilmente perchè l'idrato rameico aveva reagito sulle dette miscele generando nuovi composti chimici più stabili dell’idrato rameico stesso. Di codesti nuovi composti verrà parlato in una Memoria speciale. 6 SULLA STABILITA’ TSTTTFF5%Ty-yTyTFrrr]r”rxrrrrFr;------ SFTF_Se_r_ e Idrato rameico +C10;K . . . . . . nessun cangiamento 4 S0;Mp bee » » +SO,Nî . . . . . . precipitato verde chiaro (1) +(NO;).Pb (2). . . . precipitato biancastro Dopo 48 ore. Temperatura iniziale = 8° | » finale —99 Medesimi rirultati che precedentemente. Dopo 72 ore. Temperatura iniziale = 8° rd » finale = 9° Medesimi risultati che precedentemente. Dopo 120 ore. Temperatura iniziale = 9° ua d » finale = 10 Medesimi risultati cho precedentemente. Dopo 168 ore. L’idrato rameico che era in contatto col solfato di nichelio, e l’idrato rameico che era in contatto col nitrato di piombo furono raccolti su filtri e lavati. Idrato rameico +- soluzione di solfato di nichelio. Il colore del precipitato è verde- chiaro. Il liquido separato dal precipitato consta di solfato di nichelio non con- tenente nessuna traccia di rame. Il precipitato verde ben lavato fu riconosciuto essere un composto contenente simultaneamente del rame e del nichelio , pro- babilmente allo stato di un solfato doppio basico di nichelio e di rame (83). Idrato rameico +- soluzione di nitrato di piombo. Il precipitato ha una tinta bian- castra. Il liquido separato dal precipitato contiene una miscela di nitrato di piom- bo e di nitrato di rame. Da quanto fu detto si può scorgere la grande influenza che esercitano talune soluzioni saline nel ritardare od accelerare la disidratazione dell’idrato rameico. In una prossima Memoria mostrerò l’influenza della quantità del sale sulla de- composizione dell’idrato rameico. Mi basta il dire ora che una traccia di certi sali è sufficiente per impedire la disidratazione dell’idrato rameico. Una soluzio- ne, per esempio, di solfato di manganese al 0,30 0/o basta per impedire che l’i- drato rameico perda l’acqua anche se vien riscaldato sino ai 100°. Influenza del calore sulla disidratazione dell’idrato rameico. In nessun trattato di chimica, che sia in mia conoscenza, è indicata la tem- peratura alla quale l’idrato rameico perde la sua acqua d’idratazione. Era dunque (1) L’idrato rameico divenne immediatamente biancastro al contatto del nitrato di piombo. (2) Il colore di codesto precipitato è il medesimo di quello oitenuto per l’azione dell’i- drato rameico sul solfato rameico. 7 (3) Di codesto nuovo composto verrà parlato in ispecial modo in apposita Memoria. DELL’IDRATO RAMEICO 7 interessante conoscere: 1. Quale è la temperatura alla quale l’idrato rameico, riscaldato in presenza dell’acqua, annerisce, ossia si disidrata. 2. Se la disidra- tazione dell’idrato rameico viene ritardata o accelerata sostituendo all’acqua stil- lata diverse soluzioni saline (1). Idrato rameico + acqua stillata. L’idrato rameico principia ad alterarsi verso i 62°; a 74° diviene bigio, e bruno a 77°. Se poi si opera sopra un idrato rameico il quale ha principiato appena a de- comporsi alla temperatura ordinaria, allora la sua disidratazione si effettua ad una temperatura più bassa. Idrato rameico (2) + acqua stillata. A partire dai 50° principia a divenir verda- stro, a 60° diviene bigio, a 64° bigio-scuro ed a 68° bruno. Al di là di questa temperatura la sua tinta non aumenta più in modo sensibile. Idrato rameico + soluzione di cloruro di calcio al 10 0/o. L’idrato rameico non subisce niuna alterazione allorchè viene riscaldato sino ai 100° in presenza del ‘ cloruro di calcio. La sua tinta passa al verde-pallido quasi bianco, ma non an- nerisce. Idrato rameico 4- soluzione di zucchero al 10 0/g. Riscaldato sino ai 100° l’idrato rameico non annerisce, la sua tinta dal bleu passa al verde più carico del pre- cedente. Codesto idrato, lavato finchè non contenesse più traccia di zucchero, fu nuovamente riscaldato in presenza dell’ acqua stillata onde conoscere se la sta- bilità dell’idrato rameico in presenza dello zucchero dipendesse : 1. dal contrarre collo zucchero un composto più stabile dell’ idrato rameico; 2. dal trasformarsi in una modificazione isomera; 3. dal trovarsi in presenza di una soluzione di zucchero. A 64° l’idrato rameico principia ad alterarsi e diviene bruno a 76°. La disi- dratazione dell’idrato rameico avendo luogo quasi alla medesima temperatura dell’idrato rameico 4- acqua stillata (77°), ed inoltre l’acqua stillata separata dal- l’ossido rameico fatta bollire per alcuni minuti con poche gocce di acido solfo- rico e indi trattata con potassa ed un po’ di solfato rameico , non ha prodotto la ben nota reazione del glucosio ; si è in dritto di concludere che la stabilità dell’idrato rameico in contatto con lo zucchero dipenda, non direi da una azione di presenza, ma bensi da una causa finora ignota. Idrato rameico +- soluzione di cloruro potassico al 410 0/g. A 55° l’idrato rameico assume una tinta verde-chiara; a 60° diventa d’un bel verde-pisello; a 64° prin- cipia ad imbrunire; a 71° diventa bruno. A partire da codesta temperatura la tinta bruna dell’ idrato rameico, 0, per meglio dire, dell’ ossido rameico , non cangia più in una maniera sensibile. (1) L’idrato rameico venne riscaldato in un tubo di vetro immerso nell’acqua. Il tubo era tenuto mediante un sostegno, dimodochè esso non toccava le pareti del bicchiere contenente l’acqua. Il termometro pescava nel tubo da saggio contenente l’idrato rameico. La fiamma del gas era regolata di tal maniera che per ogni minuto la temperatura s’innalzasse presso a poco di un grado. (2) Codesto idrato principiava appena a decomporsi alla temperatura ordinaria. 8 SULLA STABILITA” DELL’IDRATO RAMEICO Idrato rameico +- soluzione di solfato sodico al 10 0/q. L’idrato rameico principia a divenire bigio verso i 67°; bigio-oscuro a 75°, e diviene completamente bru- no a 79°. Idrato rameico +- soluzione di nitrato potassico al 10 0/g. Verso i 74° l’idrato ra- meico principia ad alterarsi; a 81° diviene bigio; a 87° bigio-scuro, ed a 90° bruno. Idrato rameico + soluzione di acetato sodico al 10 0/o. L’idrato rameico comincia a decomporsi verso i 68°; diviene bigio a 74°, e bruno a 78°. Idrato rameico +- soluzione di clorato potassico satura alla temperatura ordinaria (T* 8°). A 74° l’idratc rameico diviene bigio, a 79° bigio-scuro, e bruno a 85°. Idrato rameico +- soluzione di carbonato sodico al 5 0/q. L’idrato rameico prin- cipia ad alterarsi verso i 47°, e diviene bruno a 50° (1). Idrato rameico + soluzione di bromuro potassico al 10 0/q. A 71° drincipia a di- venire verdognolo, bigio a 79°, e bruno a 85°. Idrato rameico 4- soluzione di ioduro potassico al 10 0/o. L’idrato rameico prin- cipia ad alterarsi verso i 76°, diviene bigio a 83°, e bruno a 86°. Idrato rameico + soluzione di soda al 10 0/q. A 62° principia a scomporsi, di- viene bigio a 69°, e bruno a 74°. Idrato rameico + soluzione di soda alli 0/o. Principia a disidratarsi a 42°, di- viene bigio a 76°, e bruno a 88°. Idrato rameico + soluzione di soda al 0,5 0/q. L’idrato rameico principia ad al- terarsi a 42°, ed annerisce a 84°. Idrato rameico + soluzione di solfato di manganese al 10 0/0. Verso i 75° priucipia a divenir verdognolo, ma esso conserva codesta tinta anche fino a 100°. Terminerò questo lavoro facendo osservare un fatto di grande importanza, ed il quale riesce difficile a spiegarsi colle teorie che reggono tuttora la chimica. L’idrato rameico possiede la singolare proprietà di porre in libertà una certa quantità di alcali, allorchè vien messo in contatto a talune soluzioni saline, co- me sarebbe, il cloruro sodico, il cloruro potassico, il cloruro di calcio, il solfato di soda, ecc. E, cosa strana, questo spostamento dell’alcali avviene alla tempe- ratura ordinaria anche quando essa è piuttosto bassa (6°)1! Col cloruro potassico chimicamente puro, per esempio, la reazione è, per così dire, istantanea; basta mettere in contatto una soluzione al 10 0/0 di cloruro potassico coli’idrato rameico , perchè la soluzione sovrastante acquisti una rea- zione manifestamente alcalina , la quale aumenta coll’andar del tempo, mentre l’idrato rameico si trasforma in un composto contenente del cloro, simile pro- babilmente al composto che si produce per l’azione del cloruro sodico sull’idrato rameico e del quale ho parlato avanti. Ho già istituito alcuni esperimenti in proposito, e tostochè avrò ottenuto dei risultati soddisfacenti non tarderò a pub- blicarli. (1) La tinta di codesto ossido rameico è più marrone e meno bigia della tinta dell’ossido rameico ottenuta nei precedenti esperimenti. CLASSE DI SCIENZE MORALI & POLITICHE ke LITE A Ùl Po bano vez ELOGIO DEL CONTE ARRIVABENE Letto dal socio Prof. GIOVANNI BRUNO NELLA TORNATA DEL 24 APRILE 1881. __———T- SIGNORI ! Questa dotta Accademia nella tornata del 13 gennaro, deliberava di onorare la memoria del rimpianto e venerando uomo, il Conte Giovanni Arrivabene nostro socio corrispondente, e volle deferire a me il penoso incarico di scriverne lo elogio. Io ho dovuto ubbidire al gentile invito dell’ Accademia, sebbene l’affettuosa amicizia che io sentiva per l’ illustre trapassato, renda troppo doloroso per me l'adempimento di questo dovere, siccome ho provato due altre volte, ricordando dalla cattedra e nella Società di economia politica, della quale egli era presi- dente di onore, la perdita che aveva fatto l’Italia colla morte di lui. Giovami intanto manifestare a questo eletto Consesso, che sebbene io avessi cominciato ad ammirare l’ illustre Arrivabene sin dai miei primi studii nelle discipline economiche , pure potrei dire ben poco della sua vita trascorsa per molti anni in terra straniera. Allorquando mi fu dato di conoscerlo personal- mente in Roma, trovai in esso lui quella cordiale amicizia e quella cortesia di modi che erasi rivelata abbastanza nella frequente corrispondenza tenuta fra noi. Pertanto volendo considerarlo come patriotta esimio, come economista insigne e come generoso filantropo ho dovuto far larga messe nelle sue stesse memorie nelle quali egli narra con attraente semplicità le vicende della sua vita, e mi son giovato altresì di un pregevole discorso del compianto professore Dino Carina, messo fuori nel 1859, e che precede una raccolta di scritti morali ed 4 ELOGIO economici del Conte Arrivabene: ed infine ho attinto pure parecchie notizie di lui nelle copiose necrologie colle quali gli è stato reso omaggio dalla stampa periodica e dai sodalizii scientifici e politici. Giovanni Arrivabene nacque in Mantova il 24 giugno del 1787 dal Conte Ales- sandro e dalla Contessa Adelaide Malaspina della Bastia. I primi anni della sua vita volsero fra gli studii letterarii. Egli non fu con- tento della sua giovinezza; e con rara modestia dichiarava di avere raggiunto i diciotto anni nel più completo e vergognoso ozio; senza quasi punto curarsi delle pubbliche cose, malgrado che quell’epoca fosse così piena di grandi avve- nimenti. Pure comincia dalla sua adolescenza la storia delle tribolazioni della sua fa- miglia. Nel 1806 il vittorioso esercito francese, capitanato dal generale Napoleone, moveva verso Mantova per. bloccarla. Il padre di Giovanni trovavasi a Vienna, e la madre con tre figliuoli rifugivasi in Parma presso la sua genitrice, vedova marchesa Malaspina della Bastia. Bonaparte fece porre il sequestro sui beni della sua casa, il quale poi le si tolse sotto la condizione che il Conte Alessandro fa- cesse ritorno in patria. Costituitosi e poi caduto il regno d’ Italia lo Arrivabene comincia a prendere interessamento delle pubbliche vicende. « Io vedeva, egli dice, divella una pianta, la quale invigorita dagli anni, fa- « vorita dalle circostanze avrebbe potuto crescere in modo da coprire di sua «grande ombra tutta quanta l’Italia, ed io ne sentiva vivo dolore. » Nel 1801 Napoleone primo Console della repubblica francese volle sostituire alla Cisalpina una repubblica italiana. Egli convocò a tal uopo i comizii a Lione pei primi giorni del 1802; furon chiamati a concorrere alla nuova repubblica gli uomini più cospicui per censo, per dottrina, e il Conte padre del nostro Gio- vanni fu scelto dalla città di Mantova a rappresentare la classe proprietaria. In quell’anno il giovane Arrivabene insieme al genitore e a due fratelli, par- tivasi da Mantova per un viaggio in Torino. Di là salito il Cenisio, con grandi pericoli, e traversata la Savoja, si recarono a Lione, dove la famiglia Arrivabene frequentava le riunioni delle persone con- venute ai comizil. Nel 1802 ritornato da Lione in Mantova giunse quivi il generale Murat, cui fu presentato dal padre il giovane Arrivabene; il generale mostrò desiderio di averlo nell’esercito, ma il genitore non volle consentirvi. Napoleone, divenuto imperatore dei francesi, volle farsi incoronare a Milano re d’Italia. La città di Mantova aspettandolo, organizzò una guardia d’onore di cui era stato nominato comandante un fratello di Giovanni, ed egli pure ne fa- ceva parte come semplice guardia. DEL CONTE ARRIVABENE 5 Però la polizia ebbe sentore che nella guardia correvano sentimenti ostili al- l'Imperatore, e dessa fu disciolta prima ch'egli giungesse in quella città. Due anni appresso moriva il padre di Giovanni, e quantunque egli non avesse toccato gli anni ventuno venne emancipato , perchè reputato abile a reggere la sua fortuna. Nell’anno susseguente può dirsi che chiudevasi il periodo della sua giovinezza, e fin qui non possiamo ricordare di lui che un sonetto arcadico letto all’ Acca- demia Virgiliana di Mantova per la morte dell’abate Bettinelli. Nel 1812 il nostro Arrivabene trovandosi in casa del marchese Tullo Guer- rieri acquistò la prima conoscenza politica di Camillo Ugoni, con cui strinse un'amicizia affettuosa che durò finchè costui visse. Intanto egii apprende la notizia che l’esercito di Napoleone ritiravasi dalla Russia, e se ne attrista profondamente, perchè parevagli che questo disastro do- veva portare il suo contracolpo in Italia. Il vicerè Eugenio Beauharnais difen- devasi alla meglio in Lombardia, ma l’approssimarsi della catastrofe, decise lo Arrivabene di lasciare Mantova in sul finire del 1813 ritirandosi in Brescia, dove confortavasi della compagnia dell’ amico Ugoni e di Giovita Scalvini. Il primo letterato distinto che si occupava allora della traduzione dei commentari di Giulio Cesare, ed aveva pubblicato tre volumi delle vite di letterati illustri italiani in continuazione all’opera del Corniani. Il secondo anch'esso letterato e competen- tissimo amatore delle belle arti. Nel 1814 caduto Napoleone, il vicerè sciolse l’esercito, composto in gran parte d’Italiani, e Giovanni ritornò in patria, dove erasi lasciato libero l'ingresso agli austriaci, Egli li vide comparire dalla casa del marchese Guerrieri, portanti un ramo di bosso sull’ elmetto e ne provò, com’egli dice, profonda e dolorosa com- mozione. Da questo momento comincia per l’Italia e per l’egregio uomo un’era tram- basciata di foriunosi avvenimenti. L'Italia dopo il grande cataclisma francese del 1789 erasi rialzata moralmente da quello stato di atonia e di asservimento che dominava gli animi nei tempi anteriori, e attutiva o frenava ogni aspirazione di progresso e di libertà. Le vit- torie napoleoniche che meravigliavano il mondo e la costituzione del regno d’I- talia faceva concepire grandi speranze per l’avvenire della Penisola ; nonostante che sotto nomi affascinanti di repubbliche, di progresso, di libertà si nascon- desse un dispotismo efferato, un sistema tributario opprimente, enormi sagri- fizii ed ogni maniera di conculcazioni che turbavano la coscienza pubblica e se- minavano spesso l’abborrimento e il terrore. Malgrado ciò la caduta di Napoleone fu appresa in Italia con grave costerna- zione, perchè prevedevasi che quel bagliore di libertà che avea adusato gli spi- riti più eletti a liberi pensieri e a vaghe speranze doveva mutarsi nella tenebra di una esasperante oppressione. L'Austria infatti ritorna in Italia con artigli più feroci, e fortificata dalla santa 6 ELOGIO -_—_ ne AAA n alleanza dispiega il più abominevole dispotismo sulle terre in cui comandava sovrana, e negli Stati sottoposti ai Principi che ubbidivano servilmente ai voleri dell'impero, simboleggiato dall'Aquila grifagna. D’allora i più ardenti patriotti che videro dileguarsi qualunque raggio di spe- ranza, che sentirono la dura repressione del pensiero e della parola, cercarono uno sfogo alle loro aspirazioni nelle società segrete, nelle congiure, nelle cospi- razioni, nelle rivoluzioni. Si organizzarono parecchie sette con modi e nomi differenti; comparvero i Rag- gi, i Federati, l’Adelfia, i Carbonari e tutti nell'intento di concertarsi, affin di abbattere le tirannie, e conquistare all'Italia l’indipendenza e la libertà. E qui comincia la vita politica e perigliosa del Conte Arrivabene. Fin dal 1815 egli avea contratto amicizia con Camillo Ugoni, col conte Costanzo Luzzago, col Berchet , con Silvio Pellico. La Lombardia era la regione che soffriva prima di ogn’ altra gli effetti dei mutamenti politici, e Milano fu sempre un focolare per- manente di cospirazioni e il centro ove si raccoglievano i patrioti più impazienti, i quali mantenendo vivo lo spirito nazionale lusingavansi di liberare l’Italia dal giogo straniero. Convenivano in casa «del conte Porro gli uomini più animosi: il Gonfalonieri, cotanto percosso dalla sventura, il Tecchio, il Borsieri, condannato nel 1824 allo Spielberg, Filippo Ugoni, il Mompiani, l’Arconati, il Pecchio e con essi il nostro Arrivabene. i Fra gli atti generosi ed arditi di quest’accolta di amici fu deliberato di scri- vere un proclama patriottico. e diramarlo per tutta l’Italia. L’impresa fu affidata all’Ugoni, il quale, messo in sospetto della polizia, prese la via dell’esiglio. L’Arrivabene ritornato in Mantova , fu visitato nel maggio 1821 alla sua casa di campagna, la Zaita, dalla polizia austriaca, incaricata di rovistare tutte le sue carte. Ciò fatto gli fu intimato di recarsi con essa al suo palazzo di Mantova onde continuare quivi le ricerche delle carte, e dopo ciò condotto in prigione gli fu detto dal direttore di polizia essergli stato ordinato di mandarlo in Ve- nezia davanti alla Commissione istituita dall’imperatore per giudicare gli accu- sati di carboneria. Egli però non era carbonaro, e ciò diminuiva i suoi timori, Ritornato alla sua dimora, affine di preparare qualche cosa per la partenza, ei poteva fuggire, malgrado la presenza di un Commissario e di due gendarmi, ma la coscienza del sentirsi puro lo determinò a seguire le sue guardie, e recarsi con essi in Venezia, dove fu chiuso in uno dei piombi del palazzo ducale, e poi nell’isola di S. Michele in Murano. Io non mi fermerò a ridire l’agitazione che ad ogni istante torturava il nostro Arrivabene. Egli soffri un seyero interrogatorio dai giudici processanti che vole- vano sapere per primo s’egli avesse mai letto giornali di Napoli e la famosa can- zone di Rossetti. Un altro capo di accusa per lui fu quello di aver fondato in Mantova nel 1820 DEL CONTE ARRIVABENE ia una scuola di mutuo insegnamento col disegno politico di cattivarsi l’ affezione del popolo e trarne partito nei futuri contingenti rivoluzionari. Quella scuola di- fatti era stata chiusa poco dopo il suo impianto, per ordine del governo di Mi- lano, il quale credeva di aver buono in mano possedendo una lettera con cui il benefico fondatore di quella scuola ne facea nota la chiusura ai genitori dei fanciulli. E dopo quattr’ ore di un penoso c minuto interrogatorio, da cui non poteva scaturire veruna reità nella vittima, il Presidente Salvotti vi mette fine con que- ste parole: « Pellico le ha confidato alla Zaita di essere carbonaro ; era dovere «in lei il denunziarlo al governo, ella nol fece, quindi ella è reo del delitto di « non rivelazione (1).» E il Conte rispondeva : non doversi denunciare o tradire l’amico e l’ospite; mi condannino pure, io non poteva ubbidire a queste leggi, che sono le più immo- rali del mondo. E tanta lealtà poteva costargli il carcere a vita con cui punivasi allora codesta virtù, che si chiamava delitto. L’illustre prigioniero passò parecchi mesi tormentato da interrogazioni penose e arroganti, da tramutamenti di prigioni, da sofferenze fisiche e incertezze del- l’avvenire, da ricordi angosciosi del suolo natio e dei suoi più cari, da notizie tristi e sconfortanti sulle vicende degli amici e della patria. Unico sollievo per lui la lettura di buoni libri facendone anche degli estratti per trovare conforto allo spirito trambasciato. i Una maggiore consolazione fu per lui l’arrivo di un prigioniero nella stanza contigua alla sua; era il conte Laderchi di Faenza; e dopo alcuni mesi anche l’arrivo di Maroncelli a cui fu conceduto di passeggiare e desinare coi due altri prigionieri. Il 10 dicembre 1821 il conte Gardani di Mantova presidente della Commissione istituita per giùdicare dei carbonari, ed amico ad un tempo della famiglia Arri- vabene, annunziò al nostro Conte con accento di gioia, che già era libero e po- teva uscire di prigione. Qualunque altro uomo a quell’annunzio avrebbe precipitosamente abbandonato quel duro ostello per distrigarsi dagli artigli dell’ iniquo e spietato Salvotti, e respirare l’aura della libertà; ma la nobiltà dell’animo dell’egregio uomo, pensò alla desolazione in cui sarebbero rimasti i due suoi cari amici il Laderchi e il Maroncelli; volle restare con essi altro giorno per consolarli, e il dì seguente ritornò all’abborrita prigione per desinare coi suoi compagni di sventura. Partiva da Venezia dopo quattro giorni per la sua terra natia, ma la gioia del ritorno gli veniva amareggiata dalla notizia dell’arresto in Milano del conte Gon- falonieri, del marchese Pallavicini e di Gaetano Castiglia. Egli si fermò alcuni giorni a Mantova dove fu accolto festosamente dai pa- (1) Questo delitto era punito col carcere a vita. 8 ELOGIO renti, dagli amici, dall’intera popolazione che avea provato e ammirato gli effetti della sua beneficenza. Ma esso è anzioso di conoscere la sorte dei suoi compagni, nei rigori spiegati dal governo. E quindi nel gennaro del 1822 recossi in Milano, e prima fra tutti corse a far visita alla contessa Confalonieri, la quale veden- dolo, gli disse: Arrivabene fugga l’Italia. Queste parole rivelavano il timore del- l’esimia donna pel probabile arresto di tutti coloro che avessero parlato della rivoluzione piemontese col marito di lei. È nolo come in quel tempo di pace le idee liberali si alimentassero e si dif- fondessero in tutta Italia a mezzo delle società segrete, le quali quanto più du- ramente compresse tanto più fermentavano. Gli avvenimenti della Spagna concitarono gli animi e la Società dei carbonari si agita a preparare una rivoluzione simile a quella di Spagna e assicurarsi del favore dell’esercito. Nel mese di luglio 1820 scoppia quasi contemporanea la rivoluzione: in Na- poli il 2 e in Sicilia il 14 luglio ; ed entrambe al grido di viva la costituzione, inalberando il vessillo tricolore negro, azzurro e vermiglio, sotto del quale fra- ternizzavano soldati e popolo nell’istesso desiderio di libertà e d’ indipendenza. Codesti avvenimenti accesero vieppiù dappertutto lo spirito liberale e rifor- matore. Dapprima sollevaronsi i principati di Benevento e di Pontecorvo che si costi- tuirono in repubbliche indipendenti, mentre il torrenie rivoluzionario procedeva minaccioso nelle altre regioni della Penisola, dove il cavbonarismo liberale at- tendeva l’istante propizio per esplodere e trionfare. Un movimento simile a quello di Sicilia e di Napoli divampa nel Piemonte, i presidii di Alessandria e di Fossano insorgevano colla stessa bandiera procla- mando la costituzione spagnuola, e il Santarosa pubblicò a Carmagnola il primo manifesto di una confederazione italiana. La ferrea mano dell’Austria schiaccia sventuratamente le schiere liberali e ri- staura il potere assoluto nel Piemonte. La repressione fu feroce per quanto era stato grande il timore e il pericolo di vedere abbattuto e sconfitto il dispotismo, e le persecuzioni e le vendette co- strinsero i più fortunati a cercare rifugio nell’esiio in lerra straniera. Il nostro Arrivabene compromesso per le sue relazioni intime con lo Scalvini, il Mompiani, il Borsieri ed altri cospicui liberali considerati come capi e promo- tori delle idee rivoluzionarie in Lombardia, abbandona Milano e ritorna alla sua casa di Mantova col fondato presentimento che la polizia austriaca, sospettosa e diffidente, informata di alcune circostanze che lo riguardavano lo avesse giudi- cato come settario e cospiratore. Egli infatti manteneva corrispondenze col Niccolini e il Capponi in Toscana ed altre in Milano discutendo sulla rivoluzione di Napoli; ospitava in sua casa il Pellico e la famiglia Porro; era intimo coll’Ugoni, col Gonfalonieri, col Pecchio, col Mompiani; egli avea preparato i quadri d’una guardia nazionale e designato e O DEL CONTE ARRIVABENE 9 le persone che potevano formare una Giunta provvisoria di governo in Mi- lano. Egli infine, trovandosi infermo Gonfalonieri capo dei federati di Milano, era stato da costoro invitato a sottoscrivere il proclama da pubblicarsi all’ ingresso dei piemontesi in quella città. Tutte queste circostanze dovevano turbare lo spirito di Arrivabene, per cui gli parve prudente di lasciare l’Italia, allorchè seppe l'arresto dei suoi più cari amici e compagni di aspirazioni politiche. E con lui abbandonavano la patria infelice lo Scalvini e |’ Ugoni e tutli pre- sero la via della Svizzera, il 9 aprile 1822. Si può comprendere le ambasce , i pericoli, i timori, le anzietà, i disagi, il cordoglio del penoso viaggio di questo gruppo dì emigranti, prima che avesse toccato una terra straniera. Giunti alla perfine a Poschiavo si dirigono per Ginevra, dove Pellegrino Rossi, il Sismondi ed il Bonsteten presero un vivo interesse della sorte loro. Intimati a partire da quella città, il Sismondi indirizzandoli al ministro in- glese in Berna, fe loro sperare che avrebbero ottenuto da lui un passaporto per la Francia e per l'Inghilterra ; il ministro si negò; e fu ventura del nome loro, della cagione del loro esilio volontario se l’ottennero dopo, mercè l’amicizia di uomini virtuosi che si adoperarono efficacemente per sottrarli da ogni pericolo. Il 10 agosto 1822 il conte Arrivabene giunge in Parigi col suo compagno Scal- vini. Distratti amendue dalle meraviglie di quella metropoli, quasi dimenticavano la loro infelice condizione, ma dopo alcuni giorni recatisi al gabinetto letterario del Galignani, l’Arrivabene legge nella Gazzetta di Milano l'atto di accusa di de- litto di alto tradimento diretto contro di lui e di altri otto contumaci, e l’inti- mazione di comparire dinanzi la Commissione di Milano entro sessanta giorni con minaccia di sequestro dei suoi beni se non si fosse presentato nel termine prescritto. Per salvare i suoi beni ei si rivolge dapprima al Dupin e poscia al Teste, che gli fu generoso di ogni sorta di aiuto, quantunque l’ Arrivabene accettasse sol- tanto l’opera sua come avvocato. Pervenne intanto la seconda citazione, dove il delitto di alto tradimento ve- niva per lo Arrivabene indicato nei seguenti sensi: « Avere egli fatto parte di «una combriccola nella quale si conchiuse che la guardia nazionale e la giunta «si attiverebbero nel momento dell’ invasione piemontese; che allora si procla- « merebbe la costituzione di Spagna e facendosi causa comune col nemico si «ecciterebbe la popolazione di questo regno ad armarsi contro il legittimo go- «verno austriaco e che si sarebbero infrattanto mandati deputati a Torino onde « accordarsi coi cospiratori piemontesi sulle operazioni da farsi in questo paese. « Essersi lo Arrivabene incaricato delle operazioni necessarie in Mantova onde « promuovere l’esito della cospirazione avendo anche a questo scopo sborsalo una « considerevole somma di denaro, » 2 10 ELOGIO Le cose asserite in questa citazione non erano tutte fondate sulla verità. ma il nostro Conte trovò necessario di lasciare la Francia verso la fine del 1822 e di recarsi in Inghilterra dove parevagli di vivere più liberamente e più sicuro. Di là apprese che nell’autunno del 1823 fu posto il sequestro ai suoi beni, e che il 21 gennaro 1824 era slato condannato in contumacia alla pena di morte. Codeste notizie dileguarono dal suo spirito qualunque speranza di ritornare in patria, e rassegnavasi a scorrere il resto della vita in terra straniera. E qui ponghiamo termine agli accenni concernenti le vicende politiche e tem- pestose dell’Arrivabene, e vogliamo adesso ravvisarlo come scrittore di cose eco- nomiche ed agrarie, rilevando il suo ingegno e le sue opere , le quali addimo- strano abbastanza l’elevatezza della sua mente e le virtù dell’animo suo. Trovandosi in Inghilterra, il solo paese che offriva allora agli esuli lo spetta- colo confortevole della vera libertà, e dove le numerose opere di beneficenza presentavano un esempio edificante sui mezzi di lenire la miseria delle classi disagiate, lo Arrivabene, disperando di vedere la patria libera e indipendente, attese allo studio degli espedienti, coi quali potevasi, mercè l’educazione, suscì- tare la virtù del popolo e mitigarne le sventure. L’Arrivabene contava allora 41 anni di età, e sebbene sin dalla sua giovinezza avesse coltivato la mente di severi studii, pure non avea pubblicato alcun la- Voro. Quattro anni della sua dimora in Inghilterra bastarono, egli diceva, ad attac- cargli il contaggio del lavoro. E quindi si occupò di un’opera: Sulle istituzioni di beneficenza della città di Londra, studiandone lo scopo e gli effetti salutari sulla condizione delle classi povere, e raccogliendone prezioso insegnamento. Nel 1828 ne pubblicò a Lugano il primo volume, e sia per modestia, sia per dare al suo libro un facile corso in Italia, lo mise fuori senza nome; per la qual cosa venne attribuito dapprima a Giuseppe Pecchio, egregio storico degli economisti italiani, e compagno di esilio di Arrivabene. L’opera fu accolta con entusiasmo in Italia, ed io mi astengo dall’ esprimere su di essa una qualsiasi opinione, perchè sembrami assai più onorevole per l’au- tore di riportare qui alcune parole di un lungo articolo col quale venne giudi- cata dal rinomato economista Pellegrino Rossi, « Ecco un piccolo volume (diceva il Rossi) che noi segnaliamo con piacere al- l’attenzione dei nostri lettori. È questo un libro in cui si parla di filantropia senza declamazione e dell’ applicazione dell’ economia politica alla vita umana, senza considerare l’uomo come una semplice macchina o come una cifra. È que- sto un merito poco comune. L’autore, nel suo lungo soggiorno in Inghilterra è stato colpito dell’attività prodigiosa della carità privata, che si mostra sotto tutte le sue forme. : «In nessuna. parte si trovano in così gran numero fatti di tal genere da rac- cogliere e da osservarsi come a Londra, ed il libro che noi annunciamo ci sembra I a RI eo DEL CONTE ARRIVABENE 11 un’ eccellente guida per queste ricerche. Nessuno avrebbe potuto riunire in si piccol volume una maggior quantità di cose con più precisione e chiarezza. «Le considerazioni più importanti vi sono il più delle volte indicate solo da qualche parola, in modo tutto naturale, ma che pure colpiscono e fanno pensa- re. Si vede che è libro di un uomo onesto, di un filantropo illuminato, le cui idee sono tanto sagge e chiare, quanto l’espressione è semplice e corretta » (1). E svolgendo il Rossi tutto ciò che trovasi esposto in questo volume soggiunge: « Non è possibile offrire un riassunto del libro che abbiamo sotto gli occhi. Ciascuno stabilimento, ha un articolo a parte, in cui si trova quasi sempre l’ori- gine della fondazione, i mezzi di stabilirlo, il suo svolgimenlò, i metodi in vi- gore, i risultati ottenuti, gli ostacoli incontrati, la somma delle rendite e delle spese, il numero degli individui sussidiati, le opinioni che si sono pronunziate pro e contro lo stabilimento; in una parola tuttò ciò che è necessario per for- marsi un criterio chiaro, per riconoscere quali sieno le istituzioni meritevoli d’encomio, quali quelle che bisognerebbe guardarsi dall’imitare. » Il giudizio autorevole di Pellegrino Rossi, incoraggiò l’Arrivabene a continuare i suoi studii sulla condizione delle classi disagiate e sui mezzi atti a sollevarne la miseria. Pertanto nel 1829 visitò le colonie dei mendicanti vagabondi in Olan- da e nel Belgio, e ne pubblicò tosto una relazione in francese, la quale fu dopo recata dall'autore nella nostra favella e stampata a Lugano. Egli predisse ciò che poi accadde ; la difficoltà di esistenza di quegl’ istituti fondati sopra una terra sterile che poteva fornire ben poco sviluppo al lavoro dei coloni. Di questo lavoro il Pellico gli scriveva le seguenti parole, da Torino il 3 apri- le 1843. « Ho letto con vero gusto la tua esposizione statistica del Belgio. Oltre alla soddisfazione della mia curiosità, ho provato quel piacere che danno gli scritti dei valentuomini d’animo buono. Tutto nei tuoi persieri mi è simpatico, senza eccettuare il tuo cenno di amicizia al Piemonte. » Nel 1832 comparve in Lugano il secondo volume dell’opera sulle istituzioni di beneficenza; e nel medesimo anno un altro libro, scritto dapprima in francese e poi in italiano Sui mezzi atti a migliorare la condizione degli operai. In quest opera egli svolse con molta dottrina le questioni più ardue, conci- liando la purità della scienza economica col bisogno della carità illuminata e sorretta dal lavoro. L’Arrivabene in questo genere di studii precorse gli seritti di Villermè, del Fix, del Ducpetiaux, dell’Audizanne, del Reybaud e di molti altri eminenti scrittori che comparvero posteriormente. Nel 1833 il Parlamento inglese voleva preparare una riforma della tassa dei poveri. A tal uopo istituiva una commissione parlamentare nel fine di raccogliere notizie sull’obbietto, e della quale faceva parte l’egregio economista W. N. Senior. Costui si rivolse al suo amico Arrivabene pregandolo a dargli conto del modo con (1) Bibliothèque universelle de sciemces, ecc. Genève janvier 1829. 12 ELOGIO cui la faccenda dei poveri era regolata nel Belgio. L’Arrivabene per rispondere adequatamente al desiderio dell’illustre amico compilò una statistica del comune di Gaesbeck ov’egli passando gran parte dell’anno, aveva potuto studiare siffatto problema. L’opera di lui fu cotanto apprezzata dalla Commissione d’inchiesta che venne inserita per intero negli atti del Parlamento brittannico. E in questo medesimo anno, seguendo il consiglio di Pellegrino Rossi, l’Arri- vabene attese a volgere nell’italica favella gli elementi di economia politica del Mill, padre del rinomato Stuart-Mill e aggiungendovi una dotta prefazione li met- teva in luce in Lugano. Intanto il Senior, confidando nell’operosità del suo amico, gli affidava il ma- noscritto delle lezioni di economia politica da lui stesso dettate all’Università di Oxford , e l’Arrivabene le volgeva in francese e le pubblicava a Parigi nel 1836 facendole precedere del pari da una splendida introduzione. Nel 1847 lo Arrivabene si adopera a riunire in Bruxelles il primo Congresso degli economisti onde trattarvi specialmente l’argomento della libertà del com- mercio, il quale dopo la lega di Cobden e le riforme del Peel era il tema più vitale del tempo. V’intervennero i più rinomati economisti del mondo, e l’Arri- vabene, che aveva tanto contribuito a promuovere un tale Congresso si ebbe gli onori della Presidenza. E poscia colla cooperazione del Molinari riusciva ad organizzare la Società belga di econemia politica, la quale da lui preseduta e diretta acquistò ben presto una grande riputazione pei suoi importanti servigi resi al principio del libero cambio e per avere con la sua influenza liberato il Belgio della piaga economica del dazio consumo. Verso il 1839 recatosi per circostanze particolari, nel Cantone Ticino soggiornò parecchio tempo in Vira-Magadino dove mettendo a profitto le ore disoccupate si rivolse a descrivere la condizione economica di quella piccola popolazione. Un la- voro pregevolissimo comparve intanto nella Revue étrangére et francaise de legisla- tion et d’economie politique, (settembre e ottobre 1839, dal titolo: De Pétat des tra- vailleurs dans la commune de Vira-Magadino-Canton du Tessin. Questo lavoro, che poi fu riprodotto in Bruxelles nel 1840, ha lo stesso scopo di quello fatto pel comune di Gaesbeck ; esso contiene preziose ed abbondanti notizie statistiche di quel comune, ed è preceduto di una stupenda rassegna ge- nerale del Cantone, sulla forma del governo, sulle leggi civili e penali, I’ orga- namento giudiziario, le leggi militari e comunali, quelle sull’istruzione, i metodi per la distribuzione dei soccorsi ed altre circostanze che influiscono sulla popo- lazione di un comune. È rimarchevole la conclusione di questo lavoro, in un momento, in cui la fede comunista ferveva nella Francia col Saint Simon, col Furier e cento altri. « Che si ricerchi pure, egli diceva, l’utopia dell’ uguaglianza delle fortune, ma coloro che crederebbero di averla trovato non pretendano mica di imporla con la forza al resto degli uomini. Ciò che noi sappiamo si è che per migliorare la società DEL CONTE ARRIVABENE 13 __——_ rr _=—-_àa&=e--}1—-—F--<----è&>*->--<--<&ì-= =" = vi ha dei mezzi conosciuti e sperimentati che giovano a temperare la situazione di tutti i popoli, e questi mezzi sono: la religione, la libertà, l’educazione e l’i- struzione, e noi facciam voti perchè coloro che son chiamati ad attuare siffatti mezzi lo facciano con discernimento e con perseveranza. » E in proscritto , a proposito di una insurrezione popolare del Canton Ticino, diceva queste parole: Un partito politico non avrà superiorità sopra un altro che per quanto si conformi più strettamente alle leggi della morale, della giustizia e dell’umanità. L'influenza dell’imposia fondiaria sul prezzo dei prodotti agricoli è una delle più complesse questioni della scienza, perchè vuol’essere studiata sotto il rap- porto economico, finanziario ed agricolo. Adolfo Thiers nel suo trattato sulla proprietà avea sostenuto che tale imposta altera il prezzo dei prodotti. L’illusire storico della rivoluzione e dell’impero, non avea profonde vedute sulla scienza economica, e lo Arrivabene colpito dell’ ine- sattezza delle affermazioni del Thiers, scrisse nel 1850 una dotta memoria sulle relazioni fra l’imposta fondiaria e il prezzo dei prodotti agrarì e analizzando sot- tilmente i fenomeni della produzione agricola, mostrò la necessità dell’imposta e l’errore economico del Thiers, determinando i limiti dove convenga restringere siffatto tributo, onde non essere di ostacolo alla divisione delle terre e al pro- gresso dell’agricoltura. Nello stesso anno l’Arrivabene dettò in francese e poscia in italiano una me- moria sulle industrie agricole e manifattrici considerate nei loro rapporti con la protezione. Qui l’autore dispiega tutta la sua energia ed una logica stringente a dimo- strare l’evidenza della dottrina del libero scambio, ch’egli chiama legge neces- saria per condurre la produzione all’apice della sua grandezza, per vedere la mi- seria più largamente soccorsa ed appagato il desiderio di una estesa e conve- niente agialezza. E adesso dirò qualche cosa della memoria sulla ieoria della rendita, pubblicata pure da lui in francese e poi in italiano nel medesimo anno. L’Arrivabene in questo lavoro prende rango fra i più eminenti economisti dei tempi nostri. Allorquando David Ricardo scrisse della rendita parve che avesse annunziato ‘una grande verità, e fu quasi generalmente accettata dagli economisti come un domma economico. Egli avea sostenuto che soltanto l’ industria agraria somministra una rendita netta, oltre al profitto del capitale, e alla mercede degli operai; poichè in questa industria ci è un fattore, la terra, che non essendo ugualmente ubertosa ad uguali spese, e ad uguali estensioni, fornisce un prodotto maggiore dove presentasi più feconda alla mano dell’ uomo. Questo prodotto eccedente che sorpassa la tassa comune del profitto e della mercede fu chiamato rendita dall’inglese economista, facendola considerare come un privilegio della proprietà fondiaria, il quale non 14 ELOGIO -—— _________—_—_—T—_TrrC£+£&£r----rrrr- I ritrovasi nelle altre industrie, dove secondo lui ricavasi soltanto, la compensa- zione del profitto del capitale e della mercede del lavoro. E il Ricardo, supponendo che il dissodamento succede dalle terre più fertili alle più sterili, e che il prezzo dei prodotti debba sempre più elevarsi onde fornire al coltivatore meno felice la compensazione del profitto e della mercede, afferma che questo fenomeno riesce a beneficio dei proprietarî di terre migliori e a danno della massa dei consumatori. L’americano Carey, che pure non va esente di molti errori economici, attaccò pel primo codesta teoria, sostenendo che la coltura delle terre non cominciò dalle più fertili, siccome disse Ricardo , ma dalle più facili a dissodare e dalle più prossime ai centri di consumazione. Questa diversità di parole non distrusse la teoria ricardiana, poichè il Carey affermando che la coltura comincia dalle terre più facili o più vicine ai centri popolati, implicitamente riconosceva derivare la rendita dall’azione della natura e dalla differenza nell’ubertà della terra. L’Arrivabene è più felice nel combattere siffatta teoria. Egli dimostra fulgida- mente che l’ ineguaglianza nella potenza produttiva non è soltanto nei terreni, ma è una legge naturale che si rivela in tutti gli agenti materiali e immate- riali che concorrono alle produzioni. Che d’altronde la coltura delle terre non si svolge inesorabilmente dalle più feconde alle più sterili, e che la produzione non è sempre decrescente e in guisa da assicurare la rendita ai proprietari più fortunati. La fecondità delle terre essere invece un fenomeno variabile più o meno in- teso delle altre cause fecondatrici che emendano e migliorano il suolo, o che trasformano le condizioni concomitanti, come ie macchine, la viabilità e tutt'altro che può influire ad acerescere la produzione e il prezzo della medesima, mal- grado l’inferiorità produttiva della terra, locchè rende fallace la teoria di Ricardo. Egli provò conseguentemente che la rendita non è un’eccezione o un privilegio derivante dal monopolio della proprietà terriera, ma è invece un fatto generale che si riscontra in tutte le industrie dalle quali ricavasi un prodotto che fornisce un livello comune di profitti e di salarî, è una parte eccedente che costituisce la rendita dell’intraprenditore, locchè dipende da un complesso di circostanze eco- nomiche, morali ed intellettuali che nell’uno possono trovarsi superiori a quelle di un altro. Per tali svolgimenti la teoria della rendita di Arrivabene diviene più conso- lante di quella di Ricardo, la quale ha potuto influire ad eccitare le gelosie delle classi non abbienti, e gli odì dei socialisti contro la proprietà fondiaria. Su questa ‘teoria e colle medesime vedute dello Arrivabene, un economista francese , il Boutron, scrisse nel 1867 una memoria che meritò di essere pre- miata dall’Accademia di scienze morali e politiche, sezione dell’Istituto di Francia. È siccome pareva ch'egli avesse tenuto poco conto della dottrina esposta ugual- mente parecchi anni prima dall'Arrivabene, costui volle avvertire la precedenza ta; i È DEL CONTE ARRIVABENE 15 del suo pensiero, in una lettera diretta al Journal des économistes, la quale com- parve nel fascicolo di ottobre 1868. Quando io pubblicai nel 1862 il secondo volume della mia opera La scienza dell'ordinamento sociale, vi esposi pure la teoria della rendita territoriale nel modo stesso con cui l’ aveva svolto dalla cattedra sin dal 1845. Io allora non aveva avuto la fortuna di conoscere il succitato lavoro dell’Arrivabene. Allorquando lessi nel giornale degli economisti la lettera di lui sul lavoro del Boutron, essa dis- sipò ogni dubbio sulla mia temerità di aver combattuto la teoria di Ricardo. Anzi soggiungo, con tutta sincerità che io provai un grande compiacimento, allorchè osservai che la teoria desolante e pericolosa del Ricardo era stata non solo confutata da un professore ignoto, ma ben pure da dune eminenti econo- misti, l’Arrivabene e poi il Boutron, i quali aveano del pari considerato la ren- dita siccome un terzo elemento del valore, distinguendola dalla retribuzione del lavoro e dal protitto del capitale. E questa nuova dottrina veniva approvata dal- l’Istituto di Francia per la parola autorevole e competente del rimpianto Ippolito Passy. E poichè ho citato il giornale francese degli economisti, debbo dire che lo Arrivabene, secondo l’espressione dell'illustre Garnier, era stato uno dei primi col- laboratori di quella dotta effemeride (fascicolo di gennaro 1881), ed io attinsi in questo giornale preziose idee dagli articoli di Arrivabene. E se per la teoria della rendita ebbi a provare il compiacimento di averla svolto coi medesimi criteri dell’ illustre scrittore, posso anche ricordare che parecchie volte egli fu citato nella mia opera, nel fine di avvalorare col suo nome qualche mia opinione che parevami arrischiata. Così a pagina 14 del primo volume messo fuori nel 1859, parlando delle varie definizioni della scienza economica, io soggiungeva : «Il conte Arrivabene ha de- plorato amaramente il vago, l’oscurità, l’incoerenza, la insufficienza sovrattutto delle definizioni azzardate dei maestri della scienza. » E così ancora a pag. 421 egli è citato insieme col Dunoyer e col Woloski nella questione concernente i metodi per la transizione dal regime protettore a quello della libertà commer- ciale. Molti altri scritti dello Arrivabene trattano di alcune leggi ed istituzioni del Belgio, dov’ egli avea fatto lunga dimora dopo il suo esilio. Fra questi scritti è rimarchevole una memoria sul dazio consumo (octroi) e sulla sua abolizione de- cretata dal Parlamento, conforme alla proposta del sapiente ministro Frère- Orban. L’ Economiste francais diede il più soddisfacente giudizio di questo lavoro di Arrivabene, il quale fu il primo fra gli italiani che dimostrò l’importanza di sìf- fatte liberali riforme. Pregevolissimo è pure il lavoro pubblicato nel 1855 dal titolo, Dell’ economia rurale in Inghilterra, in Iscozia e in Irlanda. E sebbene egli imprendesse a far co- noscere il Saggio sull’economia rurale di codesti paesi, scritto da Leonce de Lavergne, 16 ELOGIO pubblicato nel 1854, (1) pure vi aggiunse tanto del suo, che si può considerare come un’opera originale corredata di peregrine notizie sulle cause che hanno influito al progresso dell'agricoltura nella Gran Brettagna. Parecchie altre memorie di argomento economico, brevi ma succose, rivelano sempre più la costanza dei principii e la dirittura della mente di Arrivabene ed accrescono splendore al suo nome. Così nel 1856 scrisse: Delle tendenze in Europa e particolarmente nel Belgio verso le riforme economiche, ove dimostrò fulgidamente i beneficì della libertà commer- ciale. Nel giornale La Lucciola dava conto del sistema della fognatura conside- randolo come utilissimo a rendere asciulti i terreni troppo umidi, come pure di nuove macchine agrarie pella battitura del grano. Trattò della povertà e della miseria nel 1858; e passando a rivista una serie d’istituzioni beneficenti e filan- tropiche aventi lo scopo di alleviare le umane sciagure, non tralascia di racco- mandare il savio principio: che la carità nell'adempimento della sua santa missione debba guardarsi dallo spegnere o anche dal menomare nel povero il sentimento della propria risponsabilità. Nel 1859 scrisse in Bruxelles: Del superfluo. Questa memoria ha stretta rela- zione con quella sulla povertà e la miseria, e fa rilevare con belle dimostrazioni come la civiltà e l’educazione fa scomparire il lusso smodato e ridicolo, e lascia il superfluo che giova alla vitalità e al progresso delle industrie. Allorchè nel 1863 agitavasi la questione della rinnovazione dei trattati di com- mercio, egli diresse una lettera al senatore Scialoja, sul trattato fra l’Italia e la Francia dichiarandosi favorevole a queste commerciali stipolazioni, avvalorando la sua opinione con savie ed opportune osservazioni e coll’esperienza dei risultati utili di codeste convenzioni internazionali. Il signor Nassau William Senior commissario per le ricerche sulla educazione popolare in Inghilterra nel 1861 dettava un’ opera col modesto titolo: Suggeri- menti intorno all’educazione popolare in Inghilterra. Lo Arrivabene volle dare un ragguaglio di questo lavoro; ma si può affermare di averne fatto più che una semplice esposizione, una vera memoria originale poggiata sulle parole di Tocque- ville « Istruite gli uomini ad ogni costo, perchè io vedo accostarsi il tempo in cui la libertà, la pace e l’ordine sociale stesso non possono dispensarsi del sa- pere. » Lo Arrivabene passa a rassegna i metodi e le pratiche dello insegnamento elementare in diversi paesi e precisamente dell’ Inghilterra, e plaudendo per la gravità del bisogno all’intervento dello Stato, dichiarasi nondimeno avverso a qualunque legge obbligatoria per l’istruzione. Nel 1861 egli faceva una completa esposizione di un’ opera di Leonce de La- vergne intitolata: Economia rurale della Francia dal 1789 in poi. E qui pure il (1) Essai sur l’Economie rurale de l’Angleterre, de l’Ecosse, et de l’Irlande — Guillau- min et C. DEL CONTE ARRIVABENE 17 nostro illustre Socio, con qnella nobile ed affettuosa fierezza d’italiano, confron- tando le pratiche agrarie della Francia, dell’Inghilterra, del Belgio, se da un canto è costretto a confessare l’inferiorità del nostro paese in fatto di agricoltura, dal- l’altro investigandone le cagioni più spiccate le fa precipuamente rimontare alle sue passate condizioni politiche, associandosi alle seguenti parole di Arturo Joung, scritte nel 1788. « Se l’Italia dotata di possenti magnifiche città, splendida per bellezze artistiche « impareggiabili, solcata da canali, tanto per la navigazione che per l’irrigazione, «e da stupende strade , fornita di copiose rendite pubbliche venisse ad essere « unita sotto un solo scettro essa prenderebbe posto fra le prime potenze d’Eu- «ropa » (1). Il Parlamento belga nel 1860 decretò l’abolizione del dazio consumo sulla pro- posta del sapiente ministro Frere-Orban. Nessun paese aveva allora pensato ad abbattere un tale ostacolo alla libera circolazione dei prodotti nazionali. La legge che aboliva l’octroî, per la sua importanza e per la varietà degli ele- menti che la informavano e la rendevano di non facile intelligenza attirò l’ at- tenzione di Arrivabene, il quale volle darne conto in un lavoro per quanto breve altrettanto sennato. È notevole che il ministro Frère-Orban, allorquando fu votata la legge a 18 lu- glio 1860, uscendo dalla Camera corse alla casa di Arrivabene per annunziargli la vittoria riportata, conoscendo quanto interesse egli prendeva alle riforme libe- rali di quel paese da lui considerato come la sua. patria adottiva. Un’ altra legge belga pubblicata nel 1866 sulla miseria, il vagabondaggio e i depositi di mendicità , diè pure all’Arrivabene l’occasione di un altro lavoro su tale argomento. Secondo le sue abitudini egli somministra le più diligenti notizie sopra il po- verismo nel Belgio, nell’ Inghilterra ed in altre città, e dappertutto addimostra l’insufficienza e il danno delle leggi che intendono a regolare e legalizzare la carità e le istituzioni che mirano a combattere direttamente l’indigenza. Gli umanitarii dei nostri tempi, che non sempre posseggono la potenza istin- tiva della filantropia dello Arrivabene potrebbero meditare su queste parole, colle quali ei conchiudeva il suo lavoro. « Non vi ha forza di leggi, non vi ha nulla che possa impedire la mendicità; ma possono temperarla e distruggerla le leggi che sanno imprimere un vigoroso impulso al progresso morale e materiale dei popoli, che vicendevolmente si confondono e si aiutano, e con esse le imposte moderate ed equamente ripartite, e poi tutti quei trovati della scienza che fa- cendo evidente la risponsabilità dell’individuo riescono a correggere e a mitigare la piaga della mendicità. » In tutte coteste opere l’ Arrivabene mirava sempre a indagare i rimedii per migliorare lo stato delle classi povere. E come dice il suo amico prof. Ranzoli ; (1) Voyage en Italie et en Espagne par Arthur Joung, traduction de M. Lesage. Paris, Guillaumin 1860. 3 13 ELOGIO nn ___________—_—_—_____r___1____rP———r—_rr—___m- v__r_r—r_—_—_—_—— nn è questo l’ ultimo fine delle sue fatiche, la nota dominante in tutti i suoi la- vori. A Tre anni or sono, allorchè trattavasi alla Camera dei deputati la grave que- stione del macinato, il senatore Arrivabene scrisse una lettera al Minghetti colla quale dando uno sguardo rapido sullo stato presente dell’Italia, in poche pagine manifestò pensieri così elevati, tanto sotto l’aspetto politico come su quello fi- nanziario da lasciar molto a meditare su questo difficile argomento. Oltrepassati i novant’ anni, imprende a pubblicare nel 1879 coll’energia e col brio di una mente giovane: Le memorie della mia vita. Nel primo volume vi com- prende il periodo dal 1795 al 1859. Egli avea sin dal 1838 dato alla luce in Bruxel- les, una parte di queste memorie, dal titolo: Intorno ad un’epoca della mia vita— Memorie di un esule — Appena comparvero esse riscossero le più favorevoli acco- glienze; furon tradotte in francese, in inglese e in tedesco, e il Gioberti ne dava il seguente giudizio in una lettera al prof. Carina. « Lo scritto di Arrivabene è divino ; io vi trovai un solo difetto, ed è quello « di vederlo così presto finito. Provai un gusto grandissimo nel leggerlo, lo stile « è chiaro, spontaneo, grazioso. « L'autore dimostra una immaginazione potente. Hai tu notato quelle gentili « descrizioncelle ? Io certamente ho sempre amato e stimato l’ uomo e |’ autore « nel nostro Arrivabene; ma ti dichiaro che dopo la lettura di quello scritto lo «amo e lo stimo di più.» x Adesso il primo volume delle sue memorie è una storia completa, è l’epopea della sua vita; pochi conoscono quel libro, e pochi l’ han potuto giudicare. La narrazione della sua vita è uno dei periodi più tempestosi della storia moderna d’Italia. Il lettore sente di trovarsi con lui nei suoi viaggi per la Svizzera, l'Inghilterra, la Francia, il Belgio, l'Olanda. La gran copia e l’acutezza delle sue osservazioni, le forme semplici e pure, i giudizi savi e coscienziosi, le sincere rivelazioni del- l'animo suo, la descrizione di tante vicende e di tanti costumi, la conoscenza di tanti uomini illustri, esercitano sul lettore un fascino così ineffabile, che giunto alla fine del libro pare come distaccarsi da un amico carissimo con cui sì è fatto insieme un viaggio lungo ed istruttivo. Io lo vidi a 92 anni in Roma che rivedeva le prove di stampa di questo vo- lume con l’attenzione e la diligenza di un giovane scrittore, e mi diceva che disperava di poter fare altrettanto pel secondo. E di fatti non potè pubblicare quest’altro volume in cui narra l’ultimo periodo della sua vita dal 1859 al 1877; egli sentiva il peso degli anni e dubitava di ve- derlo dato alla luce. ‘ In una lettera del 20 novembre decorso scrivevami: Lavoro alla seconda parte delle memorie, ma temo di non poterla finire. Fortunatamente egli lasciò il manoscritto al suo carissimo e nobile nipote il conte Silvio Arrivabene, il quale lo regalerà all’Italia probabilmente dentro que- st’anno. DEL CONTE ARRIVABENE. 19 Io non dirò di altri opuscoli e dei copiosi articoli pure importanti ch’ egli pubblicava sui giornali francesi e belgi che ambivano di fregiare le loro pagine del nome dell’eminente scrittore di cose economiche ed agrarie. Egli non fu certamente un genio straordinario, ma se non gli fu dato di se- gnalare nuovi orizzonti e d’imprimere novelle direzioni alla scienza, nella quale fu maestro valentissimo, pure si ebbe il genio della libertà, e della beneficenza. Il suo sincero e virtuoso patriottismo, la fede incrollabile nelle verità scientifi- che, il sentimento profondo e modesto della carità, sono tali pregi che rara- mente si trovano congiunti in una sola persona; un solo di questi titoli rende- rebbe un uomo rispettabile e generalmente ammirato. E di fatti il sapere di questo uomo insigne, la nobiltà del suo carattere e le sua sincera filanlropia gli meritarono la considerazione di tutti coloro ai quali fu dato di conoscerlo personalmente. La famiglia del conte Arconati che migrando dall’ Italia recavasi nel Belgio nel 1827, invitava lo Arrivabene a raggiungerla, ed essa divenne la sua famiglia adottiva. Ei fece stanza dapprima nel castello di Gasbeech appartenente agli Ar- conati, e dopo il 1829 stabilivasi a Bruxelles, dove i proscritti di tutti i paesi non erano punto molestati. A volte lasciava il Belgio pei suoi viaggi d’ istruzione nel fine di raccogliere notizie che potessero giovare a lenire la condizione delle classi disaggiate, e do- vunque recavasi acquistava intimi rapporti di amicizia con gli uomini piùillustri del suo tempo. Pertanto a lui non mancarono onoranze di ogni maniera. Egli fu Presidente di tutti i Congressi nei quali intervenne, ei fu presidente della Società belga di economia politica e di tutte quelle fondate in Italia. L’Istituto di Francia e l’As- sociazione nazionale pel progresso delle scienze sociali in Inghilterra lo vollero socio corrispondente. » Nel Belgio fu onorato e stimato dal governo e dal popolo. Re Leopoldo lo degnò della sua amicizia, malgrado ch’egli fosse un esule italiano e suddito austriaco. Egli lo invitava sovente alla sua menza e alle adunanze serali e quindi lo deco- rava dell’ordine di Leopoldo del Belgio; il popolo lo elesse Consigliere provinciale del Brabante. Nel 1852 recatosi a Torino, il Re gli conferiva un ordine mauriziano , ed il Conte Cavour glielo partecipava con queste parole: « Il Re ha voluto rimeritare le vostre opere economiche ed i servigi che in varie circostanze avete reso al governo. Egli ha voluto altresì dare un segno dell’alta sua stima ad un italiano che ha altamente onorata la patria all’estero con una dignitosa e virtuosa con- dotta, in epoche e circostanze critiche e difficili. » « Permettete che nel felicitarvi io vi dica francamente che non ho mai, dacchè sono ministro, firmato con maggior piacere un decreto quale fu quello che vi collocava sul petto una patria onorificenza. » Egli era già Cavaliere gran Croce del Sacro Militare Ordine Gerosolimitano , e 20 ELOGIO ritornato definitivamente in patria fu decorato dell’ ordine di grande ufficiale della Corona d’Italia e poscia fu nominato Cavaliere del merito civile di Savoja. Il suo sincero patriottismo e l’amore ineffabile della libertà rispiccano dalla fierezza delle sue determinazioni, allorquando poteva ritornare in Italia senza periglio. Nel 1838 il governo austriaco scioglieva il sequestro ai suoi beni e gli fu ac- cordata l’emigrazione legale; ma egli non volle ritornare suddito dell’ Austria e richiedeva invece nel 1840 la naturalizzazione ordinaria belga. Dopo il 1848 il Piemonte, sebbene percosso dalle sciagure del 1849, era rimasto fermo contro l’esigenze del gabinetto aulico ; la bandiera italiana dei tre colori sventolava gloriosa e guardata anziosamente dai popoli e dai martiri della libertà come simbolo e segnacolo della redenzione d’Italia. L’Arrivabene spinto dal desiderio di rivedere la patria, si reca a Torino, e viene mandato da Cesare Balbo in Lombardia, dove lo straniero erasi fatto più baldanzoso dalle vittorie riportate sulla rivoluzione, e quindi sconfortato e do- lente il fiero mantovano fa ritorno nel Belgio. Scorrono pochi anni e sui colli di S. Martino e di Solferino, il 24 giugno 1859 dischiudesi l’era nuova. La parte di Lombardia già sgombra dall'Austria, si prepara ad eleggere l’Ar- rivabene a suo rappresentante al Parlamento, Ma il Cavour per dargli un segno maggiore della fiducia del governo lo fa chiamare alla Camera vitalizia, dove gli è dato di rendere segnalati servizi al paese coll’opera e cogli scritti. Egli intanto geme di non rivedere la sua terra natale, perchè tuttavia calpestata dal soldato straniero, il quale usciva da Mantova il 12 ottobre 1866. Scorsero appena due giorni e l’esule vi rientrava dopo 44 anni di assenza, fe- steggiato dal popolo con quella amorosa ed entusiastica espansione che pochi uomini han provato nel mondo. D’allora una gara di affetti; il popolo tributa a lui tutte le onoranze elettive, e il grande patriota indaga tutti i servizi ch’ egli può rendere ai suoi concittadini. Il senno, la parola, gli scritti, l'influenza, la fortuna tutto consagra a vantaggio del suo paese. Eccoci all’ultima fase della sua vita, e qui vediamo lo Arrivabene alternare il suo tempo fra i doveri del senatore e la filantropia del patrizio. Nell’ aula par- lamentare la sua bandiera è la libertà in tutte le sue manifestazioni, ed egli spiegò tutta quella attività che sorpassava il peso degli anni suoi. Egli si ebbe spesso la presidenza negli uffici; fu relatore al 1861 del progetto di legge per la tassa di ricchezza mobile, ed avvertiva che la legge italiana a differenza di quella inglese dell’ income-tax colpiva di più i meno agiati, anzichè le grandi fortune. Nell'anno successivo propugnò la vendita dei beni demaniali. Nel 1861, coerente al principio della libertà industriale, sostenne da relatore l’abolizione del monopolio della compagnia privilegiata degli operai del porto di Ge- nova. DEL CONTE ARRIVABENE 21 Nel 1868 difese splendidamente la ricostituzione della Provincia di Mantova, e nel 1871 combattè energicamente in favore del trasporto della Capitale da Fi- renze a Roma. Il Belgio voleva sottrarsi al grave tributo che pagava all’ Olanda per la navi- gazione sulla Schelda. Tutti i governi d’Europa aveano contribuito in uno esborso proporzionatamente ài rispettivi interessi. L'Italia non aveva aderito, divisando che il trattato non le avrebbe arrecato vantaggio. L’Arrivabene dimostrò il con- trario, e fu incaricato dal governo di rappresentarlo nella vertenza, e colle rela- zioni ch’esso aveva nel Belgio riusciva a comporla vantaggiosamente. Nel 1865 morto il primo Re dei Belgi, l’illustre senatore era da Vittorio Ema- nuele prescelto ad ambasciatore straordinario alla Corte di Bruxelles affine di presentare le lettere di condoglianza per la morte di Leopoldo I e di felicitazione al successore. In quella occasione veniva insignito dal Monarca Belga del gran Cordone dell’ordine di Leopoldo, e dal Re d’Italia del gran Cordone dei SS. Mau- rizio e Lazzaro. Intanto nella vita privata la sua passione è la carità e il sollievo del povero. Sin dalla sua giovinezza, a quell’età in cui la voluttà del piacere soverchia or- dinariamente le dovizie, l’ Arrivabene avea già fondato nel 1820 in Mantova la scuola gratuita di mutuo insegnamento. Ritornato dall’esilio vi istituisce un asilo d’infanzia che viene qualificato come asilo modello, dove fino all’ ultima ora vi si recava due volte alla settimana a distribuire colle sue mani ai bimbi dei graziosi regali. Egli era convinto che la nobiltà della sua prosapia e il pingue patrimonio gli imponevano il dovere di soccorrere gl’infelici. Sono le opere, egli diceva, che nobilitano l’uomo, non già il casato. Egli era perciò benefico senza limiti, nella campagna sussidiava i contadini poveri nelle annate sterili, e nella città gli operai che mancavano di lavoro. Ed egli ricusava la riconoscenza del beneficato , e soleva dire per fino non esservi merito a far del bene a chi si mostra grato, esservi maggior merito a farlo a chi non serba gratitudine. L’esser benefico era per lui una seconda natura. Il Maroncelli che fu compagno dell’Arrivabene nei giorni più nefasti e più pe- nosi della sua vita scriveva di lui queste parole : « Difficilmente s’ incontrano sulla terra anime più pure, più innamorate del bene, più abneganti di se stesse di quella di Giovanni Arrivabene; tale è il giu- dizio di Pellico, di Porro, di Gonfalonieri e tale è il mio; agricoltura ed economia politica erano soggetto speciale delle sue meditazioni, onde pervenire ai modi pratici che tornassero ad utilità dei più poveri (1) ». Ecco o Illustri Accademici l’uomo che noi rimpiangiamo ; io ho dovuto pre- sentarlo a voi come suol dirsi, a volo di uccello; il nostro lutto è soltanto l’eco dolorosa e fraterna del generale compianto d’Italia. (1) Addizioni di Piero Maroncelli. Alle mie prigioni — Nota 5, pag. 247 del volume — Prose di Silvio Pellico —. Le Monnier, 1851. 22 ELOGIO DEL CONTE ARRIVABENE __ L’Italia durante la vita di lui non ebbe che sentimenti di ammirazione e di affetto; niuna censura fu giammai fatta a quest’ uomo insigne, la gelosia e la maldicenza nulla ebbero di addentare contro di lui; quand’ egli scompariva da questa terra la stampa di tutti i colori gli rese concorde il tributo della lode e del pianto. : Deve attribuirsi alla tempra e alla nobiltà del suo carattére il fenomeno unico più che raro di un uomo, di un esule, spogliato dai suoi beni che pure attirasi l’affetto e l’ amicizia sincera dei personaggi politici più illustri e dei più emi- nenti scienziati del suo tempo, non solo d’Italia tutta, ma dei paesi ch’ egli percorre. 7 In Svizzera trova grata accoglienza nel Rossi, nel Sismondi, nel Bonsteten; in Francia acquista relazioni amichevoli col Say, col Lamartine, col Guizot, col Cousin, col Lafayette, col Destutt de Tracy, col Bastiat, col Duprat. In Inghilterra col Senior, con una confidenza veramente fraterna; nel club degli economisti stringe amistà col Took, col Mac-Culloch, col Mill, col Watley, col rinomato irlandese O’ Connel. Nel Belgio sua patria adottiva ricevuto come fratello dalla famiglia degli Arconati, diviene l’amico di Vittor Ugo e di Tocqueville rifugiatisi entrambi a Bruxelles dopo il colpo di stato del 2 dicembre. Fa pure conoscenza intima col Quetelet, col Bertinatti, con Elliot già ministro d’Inghilterra a Costantino- poli, col Van Buret che fu Presidente degli Stati Uniti d’ America, col Carey economista. americano, e con cento altre notabilità che sarebbe lungo lo enu- merare. Quest’astro luminoso scomparve il dì 11 gennaro di quest’anno, esso fu l’ul- timo di quella plejade rifulgente di spiriti eletti che prepararono col loro mar- tirio la redenzione della patria nostra. Ma pure dobbiamo dire che se lo Arri- vabene ebbe grandi sofferenze per lungo esilio, si ebbe pure la sua ricompenza dell’amore e dell’ ammirazione dei suoi contemporanei. Il Garibaldi in una let- tera del 28 febbraro 1875 gli scriveva: «È una vera fortuna per la generazione che sorge di poter contemplare nel venerando vostro aspetto uno dei più cospicui iniziatori della libertà italiana. » E sembra veramente che la Provvidenza avesse voluto conservare all’ insigne uomo una esistenza longeva, onde rappresentare gli eroi che gli furon compagni nei tormenti del dispotismo e dello esilio, e che dal 1821 immolarono sostanze e vita sull’altare della patria. Mandiamo, o Signori, l’ultimo saluto al grande patriotta, al nestore degli eco- nomisti contemporanei, al generoso filantropo, all’illustre superstite di centinaia di vittime che parve destinato a raccogliere il sospirato retaggio della libertà e dell’indipendenza d’Italia! DEGLI ARBITRATI INTERNAZIONALI E DEREDRELLDTEDI GUERRA DISCORSO DELL’'AVV. PIETRO DI MARCO Letto all’ Accademia di Scienze e Lettere di Palermo NELLA TORNATA DEL 19 piceMBRrE 1875. È da due anni che per le cure di un illustre deputato inglese è risorta la qui- stione, che parea già sopita, degli arbitrati internazionali. In astratto nulla di più seducente dell’ordinamento di una giustizia interna- zionale. Anche noi vorremmo spezzata la spada e sostituirle un giudice meno cieco e più umano; ed il plauso fatto in tutta Europa alla proposta Richard è la pruova la più eloquente che questa è l’aspirazione di tutti i popoli. Ma in pratica l’argomento non è scevro di difficoltà, ed è sotto questo punto di vista che non è stato ancora studiato abbastanza. Persuadere chi è in pos- sesso della forza a rinunziarvi non è agevole impresa. Mille progetti sono stati fatti a quest’uopo; ma tutti, più o meno, hanno un vizio che li ha rosi sin dalla loro prima formazione, rifare cioè il mondo, e non tener conto del modo come sono costituite le nazioni, tutte sovrane ed indipendenti. Noi oggi passeremo a rassegna tutti questi generosi tentativi; vedremo quale di essi meriti di essere coltivato di più, e colla guida della storia vedremo sino a qual punto possansi spingere utilmente le nostre speranze. In un punto però dovremo essere sin da ora tutti di accordo, cioè che la desiderata riforma non ha altre armi per lottare e per vincere che l’uso dei mezzi morali; e tutti sap- piamo che questa via per condurre alla meta ha bisogno di perseveranza e di tempo. Or mentre si attendono i benefici del progresso, non è prudente consiglio 1 È DEGLI ARBITRATI INTERNAZIONALI trascurare lo studio dei miglioramenti che può subire l’attuale dritto di guerra. Ed oggi che spira un’ aura non del tuzto rassicurante, questo studio ci sembra di una importanza vitale. PARTE PRIMA Arbitrati internazionali. Il pensiero di volere risolvere le quistioni internazionali con mezzi più ragio- nevoli delle armi non è nuovo. In ogni tempo sono state anime generose che hanno imprecato contro la guerra; ma è sin dal medio evo che si studia per trovare il mezzo più acconcio per assicurare al mondo una pace durevole. Il primo che di bel proposito si fosse occupato di questo interessante argo- mento fu lo Alighieri nel suo famoso trattato de monarchia. Egli comincia dallo stabilire che il civile svolgimento della umanità consiste nello sviluppo intel- lettuale delle società umane. Questo sviluppo intellettivo, secondo lui, non può conseguirsi senza armonia tra le parti diverse; donde la conseguenza che sia ne- cessaria una pace universale. Ma questa pace non può conseguirsi che colla forma dell’ unità, e non potendo più egli disfare gli stati esistenti e fonderli in uno, concepì l’ardito pensiero di creare un potere superiore, non nel senso di annul- lare completamente l’autonomia dei singoli stati, ma per decidere le loro con- troversie, e per tutelare la pace comune. Niuno può cestamente niegare al concetto dantesco l’ impronta della origina- lità; ma per quanto è ardito altrettanto è inattuabile, si che un suo biografo, Cesare Balbo, l’ha chiamato strana abberrazione dello spirito ghibellino (1). Infatti niuno dei tanti ambiziosi conquistatori, che sono apparsi da quel tempo in qua nella scena del mondo, ha mai avuto la tentazione di trarne profitto per alzarsi sull’ordinario livello delle altre potenze. II. Dopo quasi tre secoli di silenzio, interrotto solo di quando in quando da qualche fugace inno alla pace, Enrico IV nel 1614 mise fuori in Francia un altro pro- (1) Balbo, Vita di Dante, vol. 2, cap. XI. E DEI DRITTI DI GUERRA 3 _————_——_—__—<@ _———————rr_——r—_————_——_—————Ttttttttttt----/tt——+—+——r—rrr————'tttbkblb\lkl|60t'(t'('|'(|'|(|(|{t{$t'_—_ mn rimasero scosse; ma lo stato per molti anni raddoppiò di energia; ed è a lui che bisogna rendere gli onori di Vaterloo. La stessa guerra civile di America non ha ella sotto i nostri occhi medesimi mostrato a pruova di fatto come la distruzione del commercio nemico nulla in- fluisce? In quale altra guerra si è mai fatto strazio maggiore della proprietà marittima, ed in quale altra la corsa ha spiegata una maggiore ferocia? Il solo Alabama in soli due anni di vita cagionò un danno di 80 milioni di lire circa; e se si potessero calcolare i danni indiretti, si toccherebbe una cifra che forse parrà favolosa. Bisogna infatti considerare che il timore fa ritirare sulla terra i capi- tali marittimi, e negli Stati Uniti un gran numero di armatori si contentarono di disfarsi delle loro navi a vilissimo prezzo, anzichè arrischiarli nei mari battuti in tutti i sensi dai corsari del sud. Pria della guerra-erano scarsi questi baratti, quali sogliono essere in tutti i luoghi ed in tutte le epoche. Nell’anno che la pre- cesse, le navi vendute ascesero appena a 41 della portata complessiva di 13638 ton- nellate; dopo lo scoppio delle ostilità questo numero si accrebbe smisuratamente, e nel 1863 arrivò a 388 bastimenti della portata di 252279 tonnellate (1). Chi non sente stringersi il cuore allo spettacolo di tante fortune compromesse e di tanti fallimenti seguiti? Non tutti i danni sono entrati, nè potevano en- trare nello indennizzamento cui fu condannata ]' Inghilterra dal tribunale di Ginevra per la infranta neutralità; ma chi può dire che essi non siano un danno per gl’interessati cui non sarebbero stati esposti se la proprietà particolare fosse stata rispettata nel mare? Eppure la guerra durò quattro lunghissimi anni, e sarebbe durata ancora senza le ultime campali giornate che decisero dei destini del sud. Sono infatti gli eser- citi e le flotte che decidono delle sorti di uno stato, non la rovina del com- mercio marittimo (2). Se questa in qualche modo potesse contribuirvi, avrebbe bisogno di una lunga sequela di anni; ma non vi è guerra che dopo i meravi- gliosi progressi dell’arte militare possa ora vivere una vita longeva. Se non altro il perfezionamento degli strumenti di distruzione ha recato il vantaggio di ren- dere assai più brevi le lotte. Pria dunque che si arrivino a sperimentare le con- seguenze del male, la guerra verrebbe a cessare da se. Ma se la guerra può ce- dere da se medesima per le sue stesse vicende, a che allora ricorrere ad un’arma proscritta dalla civiltà e dalla scienza? Dall’altro lato non abbiamo sotto i nostri occhi esempi flagranti di guerre che (1) Laugel, Corsaires confederés, revue des deux monds; 1 luglio 1864. (2) “4 Se noi gettiamo uno sguardo sugli esempi antichi, non troviamo mai che un paese potente sta stato vinto dalle perdite private sofferte individualmente dai suoi cittadini. Sono le lotte delle armate sulla terra e sul mare che decidono delle sorti e delle querele degli stati. » Discorso di lord Palmerston alla camera di commercio di Liverpool. —V. Cauchy; op. ec. pag. 142. 32 DEGLI ARBITRATI INTERNAZIONALI —__————————————_—t-—_—_————____———————————————————_—_—_—____yrm€€€€€f&#t&y&y;##T- t: non ostante la maggiore possibile moderazione contano una vita brevissima ? Senza parlare della guerra di Crimea e di quella del 1859, chi non ricorda quella che al 1866 combatterono la Prussia e l’Italia contro l’Austria? Tutti sappiamo l'estremo accanimento con cui fu combattuta quella guerra; ma la proprietà marittima e terrestre fu da tutti rispettata religiosamente. La Prussia sentì forse il bisogno di offendere il commercio dell’Austria per debellarla completamente, e per invadere gran parte del suo territorio? E nel 1870 la Germania pria di arrivare a catturare una sola nave francese, era già padrona di una gran parte del territorio nemico. Non è dunque vero ciò che afferma Hautefeuille che la distruzione del com- mercio marittimo renda più violente e quindi meno corte le guerre. La loro fine dipende da tutt’altre cause; e se in queste non entra la rovina dei partico- lari, a che creare nuove sventure, e provocare lamenti novelli? Son forse pochi i mali che sono inseparabili della guerra, perchè sia ao di aggiungerne altri di proprio capriccio e senza alcuna necessità? XV. Ed al punto in cui è oggi il dritto marittimo, parlare di distruzione di com- mercio sarebbe una grande follia. L’art. 1° dell’ atto del 16 aprile 1856 abolisce la corsa, e, come vedremo in altro lavoro, sono tre le potenze che non hanno voluto aderirvi. L’art. 2° rende poi insequestrabili le merci caricate sopra legni neutrali, e tutti gli stati hanno accettata questa sentenza. Or colla corsa è venuto meno il più formidabile strumento di distruzione. R1- marrebbe è vero la marina militare; ma il danno che può ella fare è ben mi- sera cosa al confronto di quello che possono recare i corsari. La stessa flotta inglese, che è incomparabilmente la più vasta del globo , in un eguale periodo di tempo non ha forse fatto tutto quel danno che produsse il solo Alabama (1). E quando la merce nemica può essere coverta dalla bandiera neutrale, si ha un mezzo sicuro per poterla mettere in salvo (2). Al più potrebbe rimanere scoperto (1) £# Il numero delle prede fatte in questo spazio (1778 al 1783) dai corsari usciti dai porti francesi, ascese a 566 navi, il cui prodotto lordo fu L. 28,259,525. Le catture fatte dalla marina militare attinse il valore di L. 14,000,000. Quale influenza può avere sulla ricchezza commerciale dell’Inghilterra un danno ridotto a proporzioni così poco importanti? , Cauchy, op. c. p. 40. (2) # I 5]12 dei trasporti che si facevano nel 1860 con navi americane, si sono fatte nel 1863 da navi straniere ; lo che importa che quasi la metà del commercio marittimo degli stati del nord ha tratto profitto durante la guerra dal principio consacrato dall’art. 2° della dichiarazione del 16 aprile 1856, che garentisce la merce nemica sotto bandiera neutrale. » Cauchy, op. c., p. 48. tel Reacii E DEI DRITTI DI GUERRA 33 o abbandonato il commercio di trasporto; però lo interesse privato saprà sup- plirvi con le cessioni fittizie in forma legale. E quando pure questo non fosse, niuno crederà seriamente che il danno di questa parte di commercio possa riu- scire a mettere un peso nella bilancia della guerra. Se dunque il danno è ridotto a così misere proporzioni, a che ostinarsi in un principio che non promette alcun utile risultato? Avremmo compresa non la giustizia ma la importanza della guerra fatta alla proprietà privata nel mare, finchè si avevano in mano tutti i mezzi efficaci per conseguire lo scopo. Ma oggi che questi mezzi sono cessati o in gran parte diminuiti, la importanza è venuta anche meno. Che cosa dunque rimane? Non altro che il ricordo di un vecchio pregiudizio, cui non tutti i pubblicisti hanno avuto finora il coraggio di rinunziare. XVI. Andremmo alle lunghe se tutti volessimo passare a rassegna i tentativi che da anime generose da un secolo si. sono fatti in pro della proprietà privata marittima. Qui solo ci piace di ricordare la lettera che il I Napoleone scrisse nel 1809 al ministro degli Stati Uniti ($ IX), e di aggiungere che anche nella solitudine di S. Elena, quando considerava le vicende umane non più da attore interessato, ma da spassionato filosofo, egli vaticinava che un dì o l’altro il mare sarebbe messo nella eguale posizione della terra. «È a desiderare che un tempo venga in cui le mie idee liberali si estendano «alle guerre di mare, e che le armate navali di due potenze possano battersi «senza dar luogo alla confisca delle navi mercantili, e senza fare costituire pri- « gionieri di guerra i semplici marinari o i passeggieri non militari. Il com- «mercio si farebbe allora sul mare tra le nazioni belligeranti come si fa per « terra. » (1). E lo stesso blocco continentale, contro cui tanto si è gridato, non ebbe lo scopo di trascinare la Inghilterra a rispettare la proprietà marittima ? Ugnun sa che la Inghilterra, incapace a vincere la Francia vittoriosa, cercò di rovinarla indirettamente nel commercio marittimo, e cercò del pari di rovinare tutto il commercio neutrale per rimanere padrona assoluta dei mari. Il sistema conti- nentale ebbe appunto di mira una rappresaglia la più crudele contro la superba Albione per obbligarla a rispettare il mare nello interesse di tutti. Il decreto di Berlino infatti (21 novembre 1806), che secondo Thiers fu concepito e redatto da (1) Memoires de Napoleon, v, 3, c. 6, $ i. 34 DEGLI ARBITRATI INTERNAZIONALI - Si Napoleone, da lui medesimo, senza lo intervento di Talleyrand (1), portava nei suoi preliminari le disposizioni seguenti: « Le disposizioni del presente decreto saranno considerate come principio fon- damentale dello impero, fino a che l’Inghilterra abbia riconosciuto: « che il dritto di guerra è uno — lo stesso sulla terra e sul mare; «che non può estendersi nè alle proprietà private qualunque esse siano, nè alle persone estranee alla professione delle armi ; « che il dritto di blocco dev’ essere ristretto alle piazze forti realmente in- vestite da forze sufficienti» (2). Ed al nome imponente di Napoleone ci piace di aggiungere un altro non meno insigne sotto altro aspetto, quello di lord Palmerston. L’insigne statista il 10 no- vembre 1856 pronunziava nella camera di commercio di Liverpool un discorso, e parlando della guerra di Crimea tra le altre manifestava le cose seguenti : « È con soddisfazione profonda che al cominciamento di questa lotta il go- verno di S. M. di concerto col governo francese, ha potuto ammettere certi cam- biamenti ed addolcimenti alle regole della guerra, che senza diminuire il potere dei belligeranti verso il popolo nemico, tendono intanto a mitigare la pressione che le ostilità hanno per oggetto inevitabile di provvedere sulle trasformazioni commerciali delle contrade in guerra. Spero intanto che questi addolcimenti all’antico rigore del dritto pubblico stabiliti al principio di questa guerra, messi in pratica durante il suo corso, e ratificati dopo da promesse formali, potranno forse andare più lungi, e che nel corso dei tempi le regole applicate alla guerra terrestre potrebbero essere estese senza eccezione alla guerra di mare , talchè la pro- prietà privata non sia più oggetto di aggressione. Se volgiamo lo sguardo ai tempi passati, non troviamo un solo paese potente che sia stato vinto dalle perdite private dei suoi cittadini. Sono le armate e gli eserciti che decidono delle guerre » (3). È a stupire però che dopo tre soli anni lo stesso ministro rinnegava questi principî. Una deputazione del commercio di Liverpool, Bristol, Mancester ecc. presentavasi a lui per chiedere l’aiuto della potente sua voce in difesa della pro- prietà particolare marittima. Ed il nobile lord, dimenticando se stesso ed i suoi precedenti, il 8 febbraro 1860 rispose cinicamente che l’Inghilterra non avrebbe potuto mai rinunziare ad alcun mezzo che valesse ad indebolire i suoi nemici (4). Chi in questa gretta risposta può ravvisare lo statista profondo del 10 novem- bre 1856? Vi si ravvisa il ministro di quella nazione che non conosce e non siegue altra politica che quella del tornaconto. (1) Thiers, Histoire du consulat et de Vempire, v. 7, p. 222. (2) V. Cauchy, Droit maritime, v. 2, p. 403. (3) V. Cauchy, Du respect de la proprieté privée, p. 143. (4) V. Vidari, op. c., p. 206 e seg. E DEI DRITTI DI GUERRA 39 Checchè di ciò, è impossibile niegare che oggidi il rispetto della proprietà marittima sia ormai una di quelle verità intese da tutti indistintamente, e che aspetta la prima occasione per essere elevata a massima generale. Nella stessa Inghilterra ha ella già fatti nuovi progressi. Nella tornata del 2 marzo 1866 sir Gregory presentò alla camera dei comuni una mozione con cui chiedeva che si invitasse la regina per intavolare trattative con le altre potenze per fare accet- tare il principio del rispetto della proprietà marittima. La proposta, dopo una clamorosa discussione fu respinta; ma non può dirsi perduta quella causa che ha per se il suffragio di tutte le camere inglesi, ed i nomi autorevoli di Cobden, Bright, Lindsay, Gower e cento altri del partito liberale. XVII. Il rispetto della proprietà privata marittima trae seco un altro vantaggio, an- ch’esso generalmente desiderato, la continuazione del commercio di mare tra i popoli belligeranti. Si è generalmente ritenuto finora che il cominciamento delle ostilità segni la fine delle relazioni commerciali tra le due nazioni, salvo una speciale autorizzazione. Abbandonata la proprietà privata alla discrezione del nemico, la interruzione del commercio marittimo è una conseguenza legittima. Come mai un legno può recarsi nelle acque nemiche se lì lo aspettano il sequestro e la confisca? (1) Ma estendendo al mare le regole benefiche della terra, questa ragione finisce, sì che la interruzione commerciale non sarebbe più che un capriccio ingiustifi- cabile. E di vero uno stato non può avere interesse di spezzare questi legami, e di chiudere i suoi porti ai legni nemici. Il commercio tra i due popoli è corri- spettivo. Rotto per l’uno, è rotto di conseguenza per l’altro, ed il danno che vuolsi recare al nemico, si fa nel tempo stesso al proprio commercio. Si arrivi, se vuolsi, a rovinare i cittadini nemici, ma si rifletta che la rovina di costoro trae quella dei proprì cittadini, e porta nel tempo stesso un danno non lieve allo stato, cui verrebbe a mancare una parte di entrate in tempi di maggiori bisogni. Ma il commercio si farà sempre non ostante il divieto, perchè non si impone sui bisogni dei popoli; e si fa per mezzo dei neutrali, la cui bandiera cuopre la (1) “Ex natura belli commercia inter hostes cessare non est dubitandum. Et quid valebunt commercia, si, ut constat, bona hostium, quae apud nos inveniuntur, fisco cedant? , Bynkershoek, qu. juris publ. 1., c. 3. 36 DEGLI ARBITRATI INTERNAZIONALI —_—————————@——————m_ymy——_ymym—mtttttte——_——.-——————____ mercanzia. Lo scopo proposto non si raggiunge quindi neppure; al contrario si favorisce la causa dei neutri, i quali verrebbero così ad avere nelle loro mani il monopolio del commercio di trasporto a danno esclusivo dei consumatori. A che dunque si ridurrebbe il dritto di commerciare? Ad immiserire i sudditi delle due parti, ad arricchire i neutrali. Il primo a parlare contro questa improvvida misura fu Pabate Mably, quello che fù tra i primi a levare nel 1745 la voce in favore della proprietà privata marittima: pruova evidente che fra questi due principî esiste un’intima connes- sione (1). La voce di lui non trovò allora eco in Europa, ed è nei moderni scrit- tori che ha potuto ora trovare qualche seguace (2). Però, uopo è il confessarlo , si è ben lontani dal trovare uniformità di vedute. Vi ha ancora chi crede di seguire le antiche abitudini; e senza parlare del Wheaton, di Phillimore, e di altri nemici della proprietà privata, ci duole di vedere schierato tra le loro file un vivente giurista italiano, il professore Sandonà, egli che non è completamente avverso alla proprietà dei privati. « Il commercio, egli dice, ripetendo le ragioni già esposte da altri, implica necessariamente contratti di compra-vendita, con- tratti che avrebbero per se poco valore, se l’autorità giudiziaria non fosse pronta a comandare la loro fedele esecuzione. Or secondo le legislazioni di tutti è paesi, la qualità di nemico straniero produce la incapacità di essere attore 0 pure convenuto. E se non si può stare in giudizio, quale validità avranno i contratti? E senza valore, quale utilità potranno arrecare ai commercianti? » (3). Ignoriamo di quali luoghi, di quali tempi e di quali leggi intenda parlare. Sappiamo al contrario che al tempo in cui siamo, la guerra non turba meno- mamente la capacità giuridica dei cittadini delle due parti (4). (1) £ Perchè due nazioni che si dichiarano la guerra si interdicono ogni commercio reci- proco ? Quest’ uso è un resto dell’ antica nostra barbarie. Colla interdizione del commercio si vuol nuocere al nemico, e si ha ragione; ma si ha torto se con questa proibizione si fa a se medesimo un pregiudizio eguale a quello che vuolsi ad altri recare. Nella situazione attuale dell'Europa non ci è stato che con questa proibizione non si trovi ad un tratto privato di qualche ramo del suo commercio, e non risenta un difetto di circolazione. Le mercanzie de- periscono nei magazzini, languiscono le manifatture, gli operai impoveriscono, le produzioni si perdono per manco di consumatori, le derrate straniere aumentano di prezzo, quelle il cui uso è indispensabile, entrano in contrabbando malgrado tutte le proibizioni; e da tutto ciò risulta che allo stato verrebbero a mancare i prodotti delle dogane, e le sue rendite diminuiscono di conseguenza in un tempo in cui si è obbligati di fare spese straordinarie. , Mably, Droit public de VEurope, ed. de Genéve 1748, v. 2, p. 308 e seg. (2) Tra gli scrittori che hanno seguito addì nostri il Mably, ci piace di avere trovato un valente scrittore italiano , il professore Vidari, la cui opera “ Del rispetto della proprietà privata , ha riscossi meritamente gli applausi di dne egregi scrittori francesi, il Cauchy ed il Calvo. (9) Sandonà, op. c., p. 357. (4) “ Il nostro antico dritto pubblico francese ammetteva che durante la guerra un sud- E BEL DRITTI DI GUERRA IZ; Certo è però che nella pratica il commercio è rimasto sempre sospeso. Si è aspettata una parola d’incoraggiamento per entrare in una nuova via, e questa parola non essendo mai stata pronunziata, non si è potuto uscire dalla sfera delle antiche abitudini. Primo a sentire questa verità fu il terzo Napoleone, cui è impossibile, se si vuole essere giusti, di niegare l’alto merito di avere giovato alla civiltà ed al progresso del dritto internazionale. Nella guerra contro la Chi- na, egli col manifesto del 28 marzo 1860 dichiarò solennemente che non ostante la guerra i sudditi delle due parti avrebbero potuto commerciare liberamente. È così che le guerre possono veramente ridursi entro i confini di relazione di stato a stato; ed è solo così che possono riuscire meno frequenti e meno fu- neste, perché, come osserva il Pinheiro-Ferreira, non è permesso ai governi di es- sere inqiusti, quando i popoli sono uniti tra di loro (1). TT T_- dito di una dominazione nemica non poteva agire contro un suddito del re. — Questa era la massima richiamata nel 1704 dal cancelliere Pontchartrain al parlamento di Douai, ed applicata con un arresto di questo parlamento in data del 20 giugno dello stesso anno. Ma questa massima che si fonda evidentemente sopra una falsa idea del dritto e degli ef- fetti della guerra non potrebbe essere oggi seguita. , Massè, Droît comm., n. 144. Niuno comprenderà come dopo questa solenne dichiarazione abbia potuto il Massè nel seguente num. 145 affermare che in linea di eccezione possa uno stato belligerante niegare temporaneamente la capacità di stare in giudizio ai sudditi dello stato nemico che agiscono per la riscossione dei loro crediti, allo scopo di impedire che il numero possa dai suoi do- mini passare presso il nemico. Questa eccezione ci sembra contraria a tutti. i principi, ed in opposizione a quello proclamato le mille volte dallo stesso scrittore, cioè che la guerra è opera esclusiva di stati. Il Vidari respinge a ragione la teorica del Massè a pag. 115 dell’opera già accennata. (1) Note a De Martens, $ 268, 6 ME 3 x RICA tia iii sai eni DO LU È DS i; È * È L neon] B08 ; onpanigae gianni “ pionedià; di oitai t Ham eta a testo 8. pIV St, esci rif onsuina 1607) ostanisiggaidag A goa sore: rst ersioeue voserto;p Us on pid ls arena) Gite, iaggpobit dai SRI sudo ie sid Sai Sasa smiiage ai agri 4 sti viva pale Sa if PIRL ‘ondezo stante ie s04t008 La iso i pioto 0669 * pece mantragathio Gipà, sliebr i ibbaa. 4. RSI onde ie dite dre LIS AE (VELA 9AISYR: olii i VELI it soft ‘dnonr sti dirongasgo 6, f209: olo8.0 tata cho li arto i “ortaggi tit anto horisdnli li avIoaEo n R0A E uni Min oi Bis! ak Hare Ù: ppi Sartoni ico Nitro | ARRE DE sarai ì i % rd 1% \ ; rÙ Di, 3 ì ‘ h11 wi a \ È. ) i SI, DAT L 1a 4 ‘ t Pugi E IR to xa RSI / d 4 Li Ni , da di ; piedini aa ali iii 60) SSL, EL: salga mini \ fgldinne0, ibcosgoltaliag La diattasi loto ssaitttona i (eb. 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Tommaso Natale è tra le più belle e severe figure del secolo passato; e seb- bene a buon dritto non possa dirsi un intelletto altissimo ed originale, pure, per la vastità delle dottrine, per le svariate ragioni di studii che coltivò, per l’effi- cacia e l’operosità che espresse sempre a vantaggio del sapere e del progresso del nostro paese, non che per l’ effettiva influenza che ebbe ad esercitare nelle riforme che si videro sorgere allora in Sicilia, è a ritenersi un uomo, che com- pendia in sè i suoi tempi, e si presenta come propugnatore delle più ardite e salutari riforme non che negli studii, negli ordini stessi dello Stato e delle leggi. Fu un uomo completo : poeta, letterato, filosofo, giurista ed economista ; e le pubblicazioni che egli fece nella sua lunga carriera, non che le alte cariche che coprì nell’ amministrazione dello Stato, lo dimostrano abbastanza avanti negli studii di ogni ragione, e degno di avere un posto nella storia delle nostre riforme, che molte furono ed effettivamente progressive nella seconda metà del secolo XVIII. Il secolo decimottavo, ed in ispecie la seconda metà di esso, in cui ebbe a fiorire il Tommaso Natale, fu per la Sicilia un periodo di grande rivoluzione in- 2 TOMMASO NATALE tellettuale, la quale progressiva e pacifica fece sentire la sua benefica influenza sull’ ordinamento sociale e politico dell’ Isola. Questo movimento processe dagli studii e dalle buone idee, delle quali nobili intelletti si fecero propagatori. Fra noi non furono gli enciclopedisti e quei filosofi e scrittori, la cui scuola in Francia con lo scetticismo e il sensualismo preparò e produsse quel terribile cataclisma che sconvolse la società, insanguinò la Francia e perpetuò in Europa la guerra distruggitrice di ogni progresso. La Sicilia non ebbe di simili bene- fattori; i suoi ingegni non prepararono la negazione d’ogni principio, e la così detta salutare onda della rivoluzione non scosse l’autorità e la libertà. Noi uscivamo dalla prima metà del secolo , che avea veduto la guerra della successione spagnuola, ove i principi col sangue e col denaro dei popoli si di- sputavano il retaggio di Carlo II. Noi dopo la guerra per la successione di Po- lonia, vedemmo cancellare il trattato di Parigi, che ci avea condotti sotto l’im- pero, vedemmo un re coronarsi nella nostra capitale, giurando l’autonomia della nazione siciliana, e vedemmo svolgersi gli elementi della potenza e della ric- chezza del paese per l’influenza di buone leggi che assicuravano le nostre fran- chigie, e di buoni intelletti che svolgevano la nostra coltura, rianimando gli studii e in ispecie gli storici, gli economici e giuridici, verso cui le tendenze dei nostri cultori di lettere erano più dirette. Il movimento delle riforme ebbe salde radici nell’Isola; e da qui propagossi per talune regioni del continente italiano. Siciliani, trai quali primissimi il Da- guirre e il Pensabene, passarono in Piemonte, organizzando l’istruzione, rifor- mando le leggi e promovendo le innovazioni che Vittorio Amedeo II e Carlo III di Savoja introdussero nei loro Stati. Mentre qui sotto un Borbone, che lasciò de- generati successori, per l’influenza della libertà e dell’ amore del natio luogo si svolsero gli elementi del sapere, col concorso di una aristocrazia generosa, che anelava le lettere, e delle chiese e degli ordini religiosi che aprivano nuovi se- minarii e collegi, o riformavano gli esistenti. Chi si fa a considerare lo stato della Sicilia a quei tempi, in relazione alle altre parti d’Italia, osserverà come qui i germi di un pacifico progresso e di una politica libertà temperata trionfassero a preferenza, in mezzo ad una società, in cui, quantunque la parte aristocratica ed ecclesiastica prevalessero, pure la bor- ghesia, appoggiata dall’elemento del potere regio, esercitava la sua influenza e i poteri si bilanciavano a vantaggio pubblico. Il feudalismo erasi spogliato grada- tamente delle sue prepotenze, la guerra feudale tra i partiti pareva spenta, e si preparava mano mano quel solenne e nobile sagrifizio che mezzo secolo dopo consumarono gli aristocratici, rinunziando generosamente ai loro privilegi. Il potere ecclesiastico, quantunque godesse delle immunità, non faceva sentire un peso opprimente; dall’ultimo auto-da-fe erano scorsi pochi anni, e fin d’allora si potea presagire quanto parecchi lustri dopo avveniva, l’abolizione delle loro im- munità, il censimento dei loro beni e lo scioglimento dell’onnipotente tribunale dell’Imquisizione. Aristocrazia e clericato sentivano il bisogno di adoperare i loro mezzi alla pubblica cultura, nè li trascurarono. I 9 I SUOI TEMPI ECC. 3 _—r—TTt—_——_r__ __——€ n —— Lo spirito d’ indipendenza nazionale, esistente in tutte le classi del popolo, e in nome del quale avea la Sicilia sempre combattuto imprimeva una qualche cosa di originale nella cultura e negli studii del paese, che tardi venne a modificare l’oltremarina influenza. Amore agli studii, generose speranze, carità di patria costituivano il patrimonio di quel secolo ricco di uomini che vita e sostanze operosamente impiegavano a vantaggio Gel sapere e al miglioramento della condizione civile dei tempi. Ma la rivoluzione economica e sociale — sia lecita la frase — non operavasi fra noi violenta e distruggitrice, calpestando dritti e rovesciando interessi. Essa pro- gressiva e pacifica facea sentire la benefica influenza sull’ordinamento sociale e politico. Procedeva da’ buoni studii e dalle buone idee; e legata alla tradizione non distrusse l’autorità per la libertà, ma cercò di armonizzare questi due prin- cipii, saldi sostegni di ogni civile società. La filosofia si spogliava delle pastoje della scolastica, ma non correva al ma- terialismo; le nuove dottrine propugnavano i principii di libertà, ma non abbat- tevan tutto quanto era creato in sostegno dell’ autorità; le leggi penali si spo- gliavano della loro ferocia, ma non giungevano all’abolizione della pena capitale; il feudalismo logoravasi a poco a poco, ma vi rimaneva tanto, quanto riuscì fa- cile ai baroni, quarantanni dopo, sacrificare i loro privileggi sull’altare della li- bertà del paese. Il tremendo Tribunale della Inquisizione si chiudeva per sempre, ma non s’insultava alla religione dei credenti; la chiesa perdeva le sue immu- nità, ma non le sue sostanze; i suoi beni si censivano a vantaggio dell’agricol- tura, ma non s’incameravano per isciuparsi dallo Stato. Insomma era il vero progresso che si svolgeva, il progresso legato alla tradizione, illuminato dal dritto, sorretto dalla ragione. L’opera era lenta, ma progressiva ; ed ogni riforma ; per lieve che fosse, era addentellata ad altra più radicale. I nostri grandi uomini non prepararono il grande cataclisma della rivoluzione francese del 1789, ma il grande monumento delle riforme, coronato dalla costituzione del 1812. II. Lo stato economico e sociale del paese dovea ridestarsi e riformarsi, e si dovea energicamente riparare al guasto che la influenza dei cattivi sistemi spagnuoli avea prodotto. Disordinata la moneta, ristretto il commercio dei grani, la pro- prietà mal divisa, l’agricoltura negletta, il valore delle terre avvilito, le vie di comunicazioni mancanti, le poche strade mal sicure, il commercio interno in- ceppato, l’esterno languente, le industrie decadute, le arti in corporazioni, i freni e i vincoli estesi, i privilegi e le privative ovunque; dacchè il potere regio, il comunale e il feudale aveano a gara strappato dai principi e dai parlamenti concessioni dannose all’universale. Ma il potere locale, e l’opera delle nuove idee si volsero alacremente ai miglioramenti, e leggi e procedure e monete e studii 4 È TOMMASO NATALE —r——_____ _____{__ “e_ »@e“©@° @n“_>_n_n"err-r-;* lett ttetettm— si riordinarono. Una Giunta così detta di Sicilia ebbe cura di ricercare i bisogni e di rimediarvi; a soli siciliani si volle che gl’impieghi civili ed ecclesiastici fos- sero conferiti, e che le rendite della Sicilia a suo proprio vantaggio si volges- sero, e le milizie provinciali si riordinassero , e la marina si ristorasse ad im- pedire le continue incursioni barbaresche. Così si prepararono i germi di un progresso intellettuale e materiale. Dappoichè fu in quel periodo che l’Università di Palermo sorse con ventidue cattedre e biblioteca e gabinetto chimico e orto botanico e teatro anatomico e museo e osservatorio astronomico; e quelle di Ca- tania e di Messina furono migliorate; e collegi di nobili e reali ospizii di bene- ficenza si fondarono in Palermo e in altre città di Sicilia. Così aprivasi il campo agli studii che trovavano ovunque pubblicità e rispetto, essendogli più che altro di singolare incoraggiamento il premio che ottenevano, dappoichè e cariche e preminenze ed onori sì davano a quanti più nel sapere si segnalavano. L'istruzione nella prima metà del secolo era in mano dei soli Gesuiti; indi Teatini, Scolopii e Seminarii vescovili vennero a far loro concorrenza, e i nomi di padre Gaetano Cottone teatino, del canonico Di Giovanni che riformò il Se- minario di Palermo, e di monsignor Testa che fece illustre quello di Monreale, saranno sempre con affetto ricordati nella storia della nostra Sicilia. A questi rispondevano monsignor Gioeni vescovo in Girgenti, il Ventimiglia in Catania, il Requesenz in Siracusa, il Bonanno in Patti, i quali nelle loro diocesi istituirono e riformarono gli studii. Nè meno de’ vescovi fecero i privati come il Fleres, lo Scavo, il Carì, i quali nelle loro case aprirono insegnamenti. Più tardi sorse ri- formata l’Accademia palermitana, e quattro licei e diciotto collegi furono istituiti in varie città dell’Isola, e le scuole normali, per opera del dotto De Cosmi, che le diresse, si videro riordinate e fiorenti. Nè qui si fermò l’opera salutare, ma essa si estese ancora nella fondazione di librerie e di accademie, a cui grandemente influirono gli aristocratici. Dappoichè Francesco Sclafani fondava nel 1647 a pubblico utile la Biblioteca dei PP. del- l’oratorio di S. Filippo Neri; il principe di Cutò e il Marchese di Giarratana apri- rono le proprie agli studiosi; e nel 1760 sorse, per opera del Corazza, del Serio, dello Schiavo e del Vanni, che le legarono i propri libri, quella del Comune, che nel 1775 ebbe stanza ove oggi si vede, e larghe rendite per mantenersi e mi- gliorarsi; nel 1782 si vide l’altra fondata dalla Deputazione degli studii, la quale nel 1204 fu affidata ai Gesuiti, ed oggi appellasi nazionale. Nè mancarono dei generosi in Messina che arricchirono di libri e resero pubblica quella del Sal- vatore, come in Catania se ne vide sorgere una per cura di Vito Amico, ed altre in altre città dell'Isola, tutte di privata fondazione e volte a pubblica uti- lità. Con tali energici mezzi gli studii risorgevano, acquistavano influenza e trova- vano illustri propagatori. i Le accademie nascevano dal bisogno di associazione, e dalla deficienza dei mezzi individuali a progredire; come altresì dalla viva emulazione dei nobili e dal I SUOI TEMPI ECC. 5 desiderio di conoscere e farsi conoscere, onde continuare ed accrescere quel mo- vimento intellettuale che erasi iniziato per l’opera di grandi uomini e per l’in- fluenza dei tre poteri denominati la società dei tempi : il governo, gli ecclesia- stici, l’aristocrazia: Le accademie rispondevano ai bisogni degli studii; e siccome le scienze e le belle lettere trovarono dei solerti cultori, così accademie che ave- vano or l’uno or l’altro intento o entrambi riuniti si fondavano. Ma più che altro le accademie volte agli studii di erudizione e di storia patria ebbero lustro; non che quelle che ebbero ad intento di riformare il gusto cor- rotto nelle lettere umane. Palermo, che ben rappresentava l’intelligenza e il cuore dell'Isola, era la sede del grande movimento morale che spingeva i suoi cittadini e quelli delle altre città siciliane, ivi residenti; e ad essa rispondevano in qualche modo e Messina e Catania. Oggi siamo poveri di queste istituzioni sulle quali si lancia il sarcasmo come di cose inutili. Egli è vero che quand’esse non si volgono che a. futili studii , a mediocri poesie, non possono reggersi in un periodo in cui |’ associazione è diretta a serii lavori e a difficili ricerche, che possano interessare la storia e la vita di un popolo, o migliorare la di lui morale e materiale condizione. Ma egli è vero altresì che le accademie bene ordinate hanno reso e rendono segna- lato servigio alle lettere e al progresso umano, quando volgono i loro studii a cose di alto rilievo, a lavori che isolatamente non sì possono produrre, e in cui l’opera dell’associazione degl’ingegni riesce proficua alle ficerche, ai metodi, alla creazione o compilazione di quei monumenti del sapere, a cui la mente e la vita di un solo uomo non sono bastevoli. Varie, come fu detto, furono le accademie che sorsero nel secolo passato per opera della nostra operosa aristocrazia e dei nostri ingegni, i quali volevano in esse lavorar di concerto, e lasciar con esse non interrotta la tradizione degli studii. Fra le prime a sorgere fu quella che si adunava a discorrere di cose eccle- siastiche presso il Bazan Arcivescovo di Palermo, in cui acquistò fama il Mon- gitore. Più importante però fu la Giustinianea, fondata dal Caruso, che congrega- vasi in casa del principe di Resuttana a studiare materie di dritto, ed ove ac- quistavano nome il Pantò e lo Scavo. Quella dei Geniali si fondava nel 1719, la Colonia Oretea nel 1721, ed entrambe eran volte alle amene lettere e alla poesia, ma ben presto mancarono ; e vi successero l’Accademia dei Rassodati nel 1728, degli Argonauti nel 1730, ambedue nel collegio de’ Gesuiti, fondate per opera l’una del P. del Bono, e l’altra del P. Lupi. L’accademia degli Ereini però nata nel 1730 in casa del principe di Resuitana, in 36 anni di vita fece molti lavori, dei quali gran parte furono pubblicati, anche fuori dell’Isola; intenti tutti a richiamare a purezza e a semplicità le amene let- tere con discorsi e poesie. Ognora più importanti però furono le accademie che si volsero ad illustrare la storia e a correggere il gusto. Tra le prime si fa cenno di quella che nel 1747 6 TOMMASO NATALE _—______—_——nnnnnnnnnnnnn T_T ———____——————————_++_—_—————€<€_elrTTrT rvyrremTmT-____t' ———_————_————tc il Cassinese Requesenz e il Di Giovanni fondarono, infondendo una nuova critica agli studii storici già deturpati di favole e di menzogne, a cui tenne dietro l’altra nata più tardi (1777) che ebbe a nome Nuova Società della storia del Regno di Si- cilia in cui s’ingrandirono Salvatore ed Evangelista Di Blasi e l'’immortale Ro- sario Gregorio. Spenta per difetto di uomini questa nobile Accademia si vide risorgere nel 1863 col nome di Nuova Società per la storia di Sicilia e dieci anni dopo con quello di Società siciliana per la storia patria, tuttavia in fiore. Ma il nobile intento di correggere il gusto nelle lettere non venne mai meno, per opera di scrittori di merito incontrastato; e sin dal 1718 sotto gli auspicii di Pietro Filangieri, Principe di S. Flavia, fondavasi l’ accademia che si disse del Buongusto e vi durò in sua casa sino al 1790, quando fu trasferita nel Palazzo Pretorio, mutando più tardi il nome in Accademia palermitana di scienze lettere ed arti. Ebbe ai suoi tempi utile emulazione con l’altra che fondava il Duca di Pratoameno nel 1742, col nome delle Scienze e delle arti e con l'altissimo scopo di raddrizzare la critica e il buon gusto nello scrivere; morta nel 1768, rimase sola quella del Buongusto che rese segnalati servigi al corretto scrivere e allo svi- luppo del sapere; dacchè oltre il coltivare le lettere e la poesia, nell'intento di riformare il gusto, ebbe a proprio scopo illustrare la storia siciliana, e più tardi le scienze morali, politiche ed economiche. Nel lungo corso della sua vita ebbe a pubblicare degl’importanti lavori e ad esercitare una efficace influenza nel pro- gresso del paese; era, €d è, una nobile palestra, in cui si educano e sviluppano gl’'ingegni siciliani. Nè solamente in Palermo, ma nelle principali città dell'Isola sorsero di simili istituti. Messina ebbe la Peloritana e quella degli Arconti; Catania quella dei Gio- viali e quella degli Etnei, Acireale quella dei Zelanti, Siracusa quella degli Anapet, Trapàni quella della Civetta, Caltanissetta quella degli Imerei, Mazzara la Selinun- tina; si videro ancora la Cauloniana in Pietraperzia, quella degl’ Industriosi in Gangi, degli Euracei in Termini, ed altre accademie fiorirono in Marsala, Tra- pani, Modica, Noto, Nicosia ed altre città. Era nello stesso periodo che a miglio- ramento della patria agricoltura si fondava a Palermo l’ accademia degli Agri- coltorî oretei che adunavasi in primavera in una villa del duca di Cefalà; e quella degli scientifici agricoltori che sorse in Partenico per opera del duca della Ferla, e a sodo incremento delle scienze della salute otteneva nel 1742 luogo stabile e dotazione l'Accademia medica fondata nel 1621, e che rese e rende tuttodì sin- golari servizii alla scienza. E a rendere più gaje e gentili le lettere, sorse quella che appellossi della Galante conversazione per opera del principe di Campofranco, ove fra gli altrì si adunavano il Cento, il marehese Natale, il Carì e il Contro- sceri; come altresì l’altra Società che nel 1735 si congregò con 15 socii in casa del principe di S. Vincenzo, per illustrare le cose delle Chiese siciliane. Queste ed altre accademie erano allora in Sicilia, le quali sebbene non aves- sero prodotto direttamente tutto il bene che si sperava per il traviato indirizzo, pure indirettamente animarono gli studii e gli impressero un movimento, che più tardi fu produttivo di ottimi frutti. I SUOI TEMPI ECC. 7 III. E le scienze e le lettere e le arti presero uno sviluppo progressivo; e in si fatte discipline si resero celebri molti intelletti che onorarono del loro nome e istrussero della loro dottrina la Sicilia, facendo sentire la loro potente influenza nel resto dell’Italia. Era il periodo nel quale fiorirono le scienze naturali ed esatte, le filosofiche e le giuridiche; e in cui le lettere e le storie, rinnovate per critica, si distinsero. La botanica e lo studio delle scienze naturali progredivano; e in esse un Boc- cone, un Cupani, un Bonanno acquistavano celebrità non comune; mentre, in mezzo alla decadenza degli studii agronomici, Filippo Nicosia pubblicava un’opera di agricoltura, che sì prestava grandemente a svolgere la potenza produttiva delle nostre terre; e preparavansi in tempi in cui Paolo Balsamo dovea coi sistemi inglesi rinnovare la scienza agraria in Sicilia. Nè l’investigazione dei fenomeni naturali si trascurò; il De Quingles, il Cam- pailla e l’Amico si volsero a studiare l’Etna, il Giardina la Fata morgana, il De Bono il tremuoto, ed altri dotti varie altri ordini della storia naturale presero a svolgere. Ma i mezzi eran pochi e falsi i metodi; locchè influì altresì. al. poco sviluppo dell’astronomia e della fisica, ove però in rapporto ai tempi abbiamo degli uomini che in simili discipline si resero celebri; e i nomi di Sinatra, di Odierna, di Giuffrida, dell’Acquetta, del Barca, dell’ Olivieri e del gran meccanico Ferro sono però importanti in questi studit: ma chi riempì onorevolmente il - vuoto di un secolo fu un Agatino Daidone da Calascibetta, sommo fisico, che rendeasi celebre col suo èdrolitro che levò tanto rumore in Germania, e un Leo- nardo Ximenes, celebrato pei suoi stupendi lavori in fisica ed astronomia. Lo studio di queste scienze importanti al progresso delle industrie e delle arti fu preceduto e seguito da quello delle matematiche, ove in prima un Be- nedetto Castrone e un Melchiorre Spedalieri ebbero fama; ed indi si resero il- lustri il Vanni e il Bonomo, e più che altri Nicolò Cento celebrato maestro di matematiche sublimi. Le scienze mediche e chirurgiche, non che le chimiche trovarono in questo periodo un considerevole sviluppo; era l’epoca della maggior gloria dell’Accade- mia medica di Palermo, la quale, da fresco rinnovata, accoglieva nel suo seno i più insigni uomini, spandendo le sue dottrine per tutta Sicilia, e i nomi di un Pulcrinotto, di un Denaro, di un Tommaso Campailla, di un Giuffrida, di un Giuseppe Gregorio Russo sono celebrati per la medicina in tutta Sicilia, come per la chirurgia quelli di Antonuzzo, Controsceri, Alagna, e più che altro di Gioa- chino Parisi che trovava un nuovo metodo di litotomia ed inventava nuovi stru- menti chirurgici. Tre libri importanti allora si mostravano : l’uno di Farmacopea del celebre Nicolò Gervasi; l’altro di salute pubblica, sulle tracce del Parisi e 8 TOMMASO NATALE _———ymm(t(|T—._.?eo6€o€+o+€}.r. dell’Ingrassia, di Agostino Gervasi, e il terzo di Embriologia del can. Francesco Emmanuele Cangiamilla, che acquistava per le sue opere fama durevole in tutta Europa. Questo ammirevole impulso ed energico svolgimento mostrava la prima metà del secolo XVIII, e preparava il progresso delle scienze fisiche e naturali; ove in proseguo acquistarono gran fama per le loro opere e i loro trovati: nella bota- nica un Arena col suo trattato dei fiori, primo propagatore in Italia del sistema dei sessi, e un P. Bernardino di Ucria che rinnovava la scienza; nelle discipline naturali un Musumeci, un Marcellino, un Zappalà, un Bellitti, un Fichera, un Ferrara, e più che altro un Giuseppe Recupero col suo studio sull’Etna, il grande Ramondini che scopre la zurlite, e l’insigne Giuseppe Gioeni che viene in gran fama per varii argomenti di storia naturale; nelle scienze matematiche ed astro- nomiche un Guglielmo Silio, un Barone, un Marabitti e più che altri Giuseppe Piazzi da Valtellina che può dirsi siciliano, il quale fondava l’Osservatorio astro- nomico, scopriva la Cerere, riformava il codice metrico e si rendeva celebre in tutta Europa pei suoi lavori; nella chimica Meli, i due La Pira e Mirone acqui- staron fama; nella medicina Serra, Giuffrida e i riformatori Gallo, Cannata, Ca- stagna, Papa, Palermo, Logoteta, Mollè-Mallo ; nella chirurgia Mastiani, Salerno, Graffeo; ma più che altro in questi studii levarono fama in Europa il Mirone con le sue Meditazioni mediche e Rosario Scuderi con le sue Opere e la Introdu- zione allo studio della medicina. Le scienze filosofiche e giuridiche toccarono uno sviluppo quale competeva a tempi di progresso. Abbandonandosi la scolastica, e scotendo il giogo di una fi- losofia convenzionale, gl’ingegni spesso col furore di una reazione si diedero al nuovo. E fu visto un Domenico Alcamo di Palermo insegnare la filosofia di De- mocrito e seguirlo nella via lo scolare Gian Pietro Milazzo. Ma indi a poco risorse il cartesianismo, che avea avuto a capo l’ immortale Borelli, col Fardella e il Campailla che l’illustrarono coi proprì scritti e l’inse- gnarono per tutta Italia. Il sistema della filosofia nniversale del Fardella e l’ Adamo del Campailla sono due stupende opere in cui la filosofia cartesiana è svolta non con la servile imitazione di scolari, ma con la libertà di pensatori, che si di- scostavano in parte dalle idee del francese filosofo, per essere filosofi a lor volta, apprezzati non solamente in Sicilia, ma in Italia. Di fronte ai cartesiani che declinavano sorsero nella seconda metà del secolo i leibniziani, tra cui primo il Cento riputato maestro di matematiche, a cui ten- nero dietro il Gambino, il Fleres e il più illusfre fra tutti, il marchese Tom- maso Natale, che alla robustezza del pensiero filosofico unì, come il Campailla, la maestria del verso ilaliano e la indipendenza di filosofare nelle dottrine del tedesco capo-scuola. La filosofia del Wolfio, dell’Hume e del Locke venne dopo a pigliar posto nel campo del pensiero siciliano. Era epoca di lotta e di opposizione fra l’imitazione e l’originalità, fra lo spirito di corporazione e il desiderio di rinnovamento, e le I SUOI TEMPI ECC. 9 scuole filosofiche ne risentivano influenza per esercitarla a lor volta. Ma dopo agli scolastici, ai cartesiani, ai leibniziani, ai sensisti era dato a Vincenzo Miceli creare una scuola originale, che nulla risentiva dell’influenza dei tempi, e ri- chiamava l’antica e nazionale filosofia ontologica, mischiata ai germi del moderno panteismo alemanno. | La riforma filosotica portò seco la riforma nelle scienze giuridiche ed econo- miche, di cui tanto bisogno si sentiva. Le vecchie idee dell’inquisizione e dei pri- vilegi cadevano sotto i colpi di scrittori che parlavano di libertà. E valenti cul- tori di dritto naturale e pubblico come il Fleres, il Carì, il Gaglio, il Sarri, il Pepi, il Natale, sorsero e si divisero il pubblico suffragio, mentre nelle scienze economiche un Sergio, un Requesenz, un Lanza, un Bottari ed altri si levavano a combattere i vieti sistemi, e a parlar di libertà in mezzo ai vincoli. Ma su ciò non ci fermiamo, perchè formerà in proseguo argomento di speciale studio; essendo che il nostro Natale a questo grande movimento ebbe parte. Le accademie e le scuole erano la palestra di questo rinnovamento d’idee nel dritto, che dal campo filosofico passarono in quello della economia, della ragione pubblica e civile, e delle leggi. Delle scienze ecclesiastiche mon è mestieri il dire; e pure esse ebbero dei va- lenti e dei dotti scrittori, massime in materie in cui la Sicilia ha speciali pre- rogative e leggi, da costituire un proprio dritto ecclesiastico; e i nomi di Caruso, Gravina, Burgos, Guarnera, Peci, Di Blasi, Carì, Spedalieri, Dichiara, Di Giovanni sono abbastanza noti pei lavori storici, critici e polemici che misero in luce. IV. Le amene lettere erano bensì in una specie di decadenza; risentivano del cat- tivo guasto del seicento e delle freddure del secolo che le accoglieva. Si dovea combattere per vincere tanti elementi di decadenza; e le accademie e le scuole si accinsero all’opera. Il latino era la lingua dei dotti, e il volgare quasi abban- donato ed usato senz’arie; ma l'accademia dei Gemiali, degli Ereini, e più che altro quella del Buon Gusto di Palermo contribuirono a rialzare le lettere, a raddriz- zare la critica, a formare il gusto. Questo movimento si partì da Palermo e si sparse per tutta l'Isola. Le nostre lettere a quei tempi non contano dei valenti scrittori e degli ottimi poeti. E pure non mancarono degli uomini che si vol- sero alle lettere umane; e i nomi di Campailla, Natale, Baldanza, Leanti, Casti- glione, Petrelli sono ritenuti di valenti letterati e di buoni poeti; nè qui si fer- marono, che il gusto progredendo si ebbero egregi istitutori e filologi come il Barone, il Grano, il Franzone, il Traverso, il De Cosmi, il Pasqualino, il De Bono; letterati come il Bandiera, il Zappalà , il Murena; oratori come Agneto, e Luc- chese; e più che altro nelle lettere e nella poesia erano e sono tuttora in fama 2 10 TOMMASO NATALE lo Scrofani, e Tommaso Gargallo, che portò alto il nostro nome nella letteratura italiana. Ma vi ha l’immortale Giovanni Meli, che compensa la decadenza di un secolo; il nome di un poeta, che, cantando nel natio dialetto le grazie della na- tura, sorse emulo a Teocrito e ad Anacreonte; per il che vive il Meli, e vivrà sempre da genio nella letteratura, non che siciliana, italiana, dai nazionali e dagli stranieri ammirato. La storia fra le letterarie discipline ebbe cultori a preferenza; dacchè il nostro paese ha una storia; nobile ed elevata qual si conviene a popolo libero ed ane- lante d’indipendenza; ha una tradizione gloriosa da tramandare alle future ge- nerazioni, come esempio perenne da imitare. In ciò il secolo passato non fece che seguire l’impulso dei secoli precedenti in questi studii, e rinnovarli al lume di una novella critica e di serie ricerche sugli antichi e contemporanei docu- menti. La più bella figura con cui si apre il secolo XVIII è quella dell’abate Gio- vambattista Caruso; critico dottissimo dava un nuovo indirizzo agli studii storici, Nella Biblioteca storica raccolse i monumenti della storia saracena, normanna e sveva, ein un’opera poderosa scrisse la Storia di Sicilia dalle origini ai suoi tempi, mentre con dotta memoria sosteneva l’ allora mimacciata prerogativa della Mo- narchia siciliana. Il movimento impresso da lui non si estinse; ed è a quel tempo che l’Aprile scriveva la Cronologia universale e il Mongitore la Biblioteca Sicula, e le Memorie intorno ai Parlamenti. A fama più alta si elevarono il canonico Di Giovanni, che scrisse dei Riti delle chiese di Sicilia, che compilò il famoso Codice diplomatico e ci lasciò una dotta Storia ecclesiastica della Sicilia; e monsignore Francesco Testa, che pubblicò la Vita di Guglielmo II, scrisse importanti memorie di dritto siculo e compilò il durevole monumento del nostro dritto pubblico nella raccolta dei Capitoli del Regno. Nè sono a dimenticarsi i lavori e le opere del Vito Amico, au- tore del famoso Dizionario topografico della Sicilia, e gli scritti degli illustri mes- sinesi Gallo, Greco e Foti. La diplomatica e l’antiquaria prepararono questo movimento ; e si raccolsero tanti documenti su cui gli storici e i pubblicisti scrissero in proseguo dotti la- vori; e in quest’ opera, eminentemente patriottica e salutare agli studii, ebbero parte illustri letterati come lo Schiavo, il Lupi, il Cianciolo, il Landolina, il Mira, il Cutelli e più che altri Salvatore Di Blasi cassinese. Nè mancarono dei dotti della aristocrazia, i quali ingenti spese erogarono a questo nobile scopo; e la storia ricorderà sempre un Lacillotto Castelli principe di Torremuzza e un Mon- signore Airoldi, le cui opere levarono tanto grido non solamente fra noi ma al- l’estero ancora. Queste ed altre importanti ricerche alla nostra storia preparano i dotti lavori del Di Blasi e del grande Gregorio. ; i I SUOI TEMPI ECC. 11 _———__——F———tktk14kt___—_TTT—————_———————_——__——t—++}++}t}y8ytyttktktt66CC-_ n Le belle arti altresì ebbero in quel periodo singolare importanza. Era il secolo in cui l’architettura, la pittura e la scultura di concerto camminavano per ab- bellire colossali edificii e sontuose chiese, che la fiorente aristocrazia e la ric- chezza del clericato innalzavano. Non era il tempo in cui si dimandava cosa pro- ducesse il capitale impiegato in queste opere; e l’arte trovava in che attuarsi e manifestarsi. Tra noi, giova il rammentarlo, il decadimento dell’arte avvenne circa un se- colo dopo del continente italiano. La severità e profondità dei principii insegnati dall’Alberti e dal Leonardo da Vinci decadevano gradatamente dopo la metà del secolo XVI, per riuscire ai Bernini e ai Borromini. Anzi tutto fra noi fu l’architettura, che fin dal secolo XVII segnò i primi passi del barocchismo nascente , che andò sempre aumentando , lasciando sì corrotta eredità al secolo XVIII; mentre nella pittura e nella scultura gli artefici siciliani sono lontani dalle caricature degli artisti italiani del secolo XVII. Qui lo stile derivò nella pittura dai dipinti di due potenti ingegni Pietro Novelli e Antonio Catalano da Messina, pochi seguirono il fare di Wandik; e nella statuaria dai lavori degli ultimi Gagini e di Livolsi da Nicosia, esagerandone talvolta i movi- menti. L’architettura barocca continuò sin quasi al 1790, ed una gran quantità di edificii civili e religiosi furono fabbricati da potenti ingegni, con magnificenza non ordinaria. Ed è verso la fine del secolo che Venanzio Marvuglia, artefice di merito e di gusto, ripigliando gli studii sui greci e romani monumenti si allon- tana dalle stranezze del secolo e fa opere di merito segnalato. La scultura però, deviando un poco dai classici modelli, va esagerandosi per affettazione di movimenti e partiti di panni svolazzanti a sproposito; ma può ben asserirsi che sono pochi fra noi a quei tempi i lavori barocchissimi, sì abbon- danti nel continente sino al tempo di Canova. La pittura anche essa, dopo i primi quarant'anni del secolo devia un poco e si fa esagerata nelle forme e nelle movenze, mantenendo però gran gusto nel colore, come particolarmente si vede nel cavalier Gaspare Serenario che studiò a Roma e nella scuola di lui; ma è notevole, che l’esagerazione è sempre minore in quei dipintori che furono educati in Sicilia: ma verso la fine del secolo i trasmodamenti vanno diminuendo, e si fa via via ritorno ad un disegno più semplice, avvicinandosi ad un tal quale sentimento di verità nelle forme e nelle movenze. Gloria dell’isola sono in questa epoca una quantità di affrescanti, che fecero opere vastissime con ardire non comune e gran gusto di colorito, i quali non temono il paragone del Cortonese. 12 TOMMASO NATALE Ma per fama e numero ed opere fatte non sono inferiori a quelli del conti- nente i pittori, scultori, ed architetti che illustrarono l’ Isola nostra nel se- colo XVIII. E di fatti nella pittura si resero celebri un Filippo Tancredi messinese, un Filippo Randazzo da Nicosia, un Giacinto Calandrucci, un Gaspare Serenario edu- cato a Roma, un Onofrio Lipari trapanese, un Vito D'Anna, un Giovanni Porcello, un Tommaso Sciacca, tutti e tre da Palermo, e i messinesi Letterio Paladino e Placido Campolo; i quali fiorirono nella prima metà del secolo. La seconda metà non mancò altresì di nobili artisti che nella pittura acquistarono nome per opere che tuttora ci rimangono. I principali sono: Olivio e Francesco Sozzi, Giuseppe, Francesco e Antonino Manno, Mariano Rossi da Sciacca, Francesco Testa da Pa- lermo e il più illustre fra tutti Giuseppe Velasques palermitano. Nè si mancò di buoni scultori: la prima metà del secolo vide fiorire Giam- battista Ragusa, Carlo Aprile, Vincenzo e Jacopo Vitagliano tutti da Palermo, e i trapanesi Fra Benedetto da Trapani, Mario Ciotta e Andrea Tipa che si distin- sero nel lavorare il marmo, il legno, l’avorio, lo stucco; ma celebre fra tutti è il palermitano Giacomo Serpotta pei suoi stupendi lavori da stuccatore. Nella seconda metà del secolo fiorirono la modellatrice in plastica Anna Fortino da Palermo, Paolo Cusenza trapanese incisore di armi e scultore in avorio e corallo, Francesco S. Severino da Palermo valorosc imitatore del Serpotta, e Domenico Ferraiolo; ma quello che si eleva su tutti è il celebre scultore in marmo Ignazio Marabilti palermitano, di cui, oltre molte pregiate opere, abbiamo nella villa Giulia la celebre statua rappresentante Palermo. L'architettura ancor essa conta dei valenti cultori: tra i più distinti architetti sono ad annoverarsi nella prima metà del secolo Tommaso M. Napoli domeni- cano, Giovanni Amico trapanese, fra Giacomo Amato crocifero e Filippo Iuvara messinese; i quali, poco più poco meno, lasciarono or delle belle opere in istampa, or degli edifizî e monumenti che ancor sorgono a di loro onore. La seconda metà vide un Orazio Fioretto architetto del vasto Albergo dei poveri, un sac. Salvatore Attinelli, e il celebre Venanzio Marvuglia che collo studio delle opere greche e romane svincolò dal cattivo gusto del secolo l’arte in cui si distinse. Così possiam dire che pittura, scultura, ed architettura concorsero a rendere, anche per le belle arti, illustre un secolo che ebbe tanta copia di uomini grandi, i quali energicamente si adoperarono allo sviluppo del progresso siciliano, in que- sto secolo di sodo e vero risorgimento in ogni ramo del sapere. NIE Erano questi i tempi, in cui nasceva e fioriva Tommaso Natale; propizii alcerto per un ingegno forte e versatile; tempi nei quali può dirsi che ogni ramo rina- @ I SUOI TEMPI ECC. 13 —_—rrr——r——r———————————————8" "###FF33585z;k+k+k+kkkk((|(|K€|[|[€£"([*—-«-;-;y y>)y)y)y)y)y|)|)|)\»\|u|+—*=—-=-x-x-=à scente di studii aspettasse l’opera sua per imprimervi quella serenità e dirittura di giudizio, quella severa e nobile critica e quell’incontrastato gusto nello scri- vere, che lo resero autorevole e caro nel secolo in cui visse, aggiungendo, alla non comune dottrina, una illuminata pratica, che il fecero degno di salire alle più alte cariche dello Stato e di potere l’opera sua essere efficace nelle riforme economiche, di cui va altero il secolo in cui visse. Sia che si leggano le sue opere poetiche, letterarie e giuridiche , sia che si studiano i suoi atti e le sue proposte nelle riforme dei tempi, trovasi sempre l’impronta del suo alto ingegno e del suo nobile carattere. I suoi contemporanei lo ammiravano, e gli egregi scrittori che di lui hanno parlato lo illustrano. Leggendo le stupende pagine del Prospetto della storia letteraria di Sicilia dello Scinà, ove in varii luoghi del Natale si occupa come letterato, come filosofo , come giurista; o studiando la Storia della filosofia in Sicilia del Di Giovanni, che eleva il nostro scrittore come a rappresentante della filosofia leibniziana in Si- cilia; o svolgendo il dotto e vivace Elogio che fa il nostro illustre professore Bozzo del Tommaso Natale, noi troviamo che tutti si accordano nell’ assegnargli un elevato posto nella storia del progresso intellettuale del nostro paese. Nato nel 1733, fin da giovine ebbe un nome nella storia delle lettere. Fu poeta e letterato, indi filosofo e giurista, e solo nella tarda età dispiegò la sua valentia nelle cose economiche. La esposizione da noi fatta sulla condizione intellettuale dell’ Isola ai suoi tempi, ben ci mostra quale si fosse Io stato della nostra letteratura. Corrotto il gusto; le lettere si volgevano in frivoli argomenti; la poesia delirava negli ultimi aneliti del seicentismo; il dettato può dirsi che non rappresentava per nulla il bello stile, che formava il patrimonio di pochi dotti nel continente, di cui taluni qui furon chiamati a restaurare il gusto delle lettere, come il Sal- vagnini e l’Orsini da Padova, lo Scherli da Verona, il Vecchi e l’Ugolini da Fi- renze, che qui scrissero e poetarono. I siciliani anche essi l’emularono, cercando di trattare buoni argomenti, e in uno stile nobile ed elevato sia in prosa come in versi. Si dà lode al vivace ed eloquente Francesco Carì, ai forbiti ed energici Orazii della Torre, all’ordinato e robusto d’Espinosa, al facile ed attico Tetamo e a tanti altri, come il Delfino, il Di Maria, l’Alberto Corrado della Rocca, il Calvi da Mes- sina, il Grano, il Barone, il Franzone, lo Sciacca, il Zappalà da Catania, gl’inse- gnanti del Seminario Morrealese alla cui testa il Murena, l’Emmanuele Lucchese da Palermo, il Drago e il Gaetani, traduttori in versi di latine e greche poesie; il Galfo da Modica, il Buonajuto da Trapani, il Pellegra Buongiovanni, e tanti e poi tanti, i di cui nomi ed i di cui scritti in versi ed in prosa si trovano. ri- cordati dallo Scinà. Ogni città aveva le sue accademie; e non si lasciava sfuggire la ben che minima occasione per leggervi orazioni, poesie latine e italiane, ed anco nel nostro dialetto, che allora per l’opera del De Bono, del Pasqualino e del Vinci ebbe vocabolario, e culti scrittori nel Giuffrida, nello Scherli e in tanti altri, che poi furono tutti vinti dall’immortale Giovanni Meli. 14 TOMMASO NATALE _—_ y______P—P___r_r_rrm—m_—m_—mt|yb|k|{|[||_.[rrrr—-|.trr_!,;-r,rrr. __ _ rm ——_——_t- Ma chi più si distinse nel bello scrivere e nel poetare fin dai primi anni della seconda metà del secolo fu il nostro Tommaso Natale. Nel 1752 scriveva l’Ora- zione funebre in lode dell’abate Giuseppe Natoli, letta all’Accademia del Buongusto, e l’altra nel 1767 per Emmanuele Lucchesi Palli. I suoi Sonetti divennero tosto ce- lebri, e si leggono in tutte le raccolte di poesie che si pubblicarono dal 1750 in poi; la sua filosofia leibniziana scritta in sciolti e terze rime, di puro dettato, di ricca immaginazione e di facile verso, lo fanno un valente poeta didattico; la sua traduzione dei primi sei canti dell’Illiade d’Omero, scritta prima del Monti e dopo il Salvini e il Ceserotti, ai quali fu riputato superiore, accrebbero la sua fama; e da Firenze, da Napoli, da Milano i dotti lo plaudivano, il Monti l’inco- raggiava. Lo Scinà, il severo e dotto critico della nostra letteratura, scrivendo di lui come letterato, ne dà sì splendido giudizio : « Le orazioni di Tommaso Natale sono pieni di sapere e di filosofia, gravi nello stile, nella dicitura corrette, e i suoi sonetti (1750), i suoi sciolti (la Filosofia Leibniziana, la traduzione di Omero) e le sue torze rime, (nella Filosofia Leibni- ziana) per la varietà dei concetti e per le immagini pittoresche poeta te lo danno a vedere di nobile e vivace fantasia. » E il prof. Bozzo nell’Elogio che di lui tessè nel 1852, in un sintetico giudizio, che indi egregiamente analizza, sugli scritti e le poesie del nostro Natale così si esprime : « Del bello si mostrò esimio coltivatore, elette prose scrivendo ed elettissimi versi, con sì corretto ed anzi nobile stile che senza fine diletta, e che frutto è in lui di avvedutissimo studio. » E mentre il tempo ha coperto di obblio i suoi compagni, gli scrittori che, cercando di emularlo, ai suoi tempi fiorirono, il tempo rialza la sua fama; e dopo tardi anni dalla sua morte, letterati, filosofi, giuristi scrivono di lui, e le sue opere apprezzano ; e mettono in rilievo l’efficace influenza che egli esercitò ai suoì tempi. VII. Letterato e poeta fu anch’egli filosofo; e se la Filosofia Leibniziana, da lui scritta, per la forma gli assicura un posto tra i felici verseggiatori, per la sostanza glielo dà più elevato e degno fra la schiera dei siciliani filosofi. La prima metà del secolo XVIII in Sicilia vide il filosofare aggirarsi nella sco- lastica, e in quei metodi che esercitavano la ginnastica del pensiero, senza per nulla progredire nello scoprimento della verità. I Gesuiti padroni delle scuole combattevano qualunque novità, e solamente era tollerato il Cartesianismo, che era stato in fiore nel secolo passato, per opera del Borelli, del Fardella e di Tom- I SUOI TEMPI ECC. 15 maso Campailla, che il Muratori avea salutato col nome di Lucrezio italiano e cristiano. Al risorgimento della filosofia nel secolo XVII la Sicilia avea pigliato larga parte; e seguendo l’ indole pacata e sperimentale dei siciliani pensatori si era spinta libera, e senza pastoje, allo studio del vero; ma fu bensì aliena della li- cenza del Pomponazzo, del 'l'alesio, del Campanella, del Giordano Bruno; tenen- dosi più stretta all’Erizzo, al Vinci, al Galileo e a quei grandi nomini del con- tinente, che seppero conciliare la libertà col rispetto alle verità rivelate. Ma il movimento del XVII secolo erasi rallentato nel XVIII; la filosofia era decaduta, in modo che occorreva di un grande sforzo per rilevarla nella via della libertà; questa gloria devesi più che altro a Tommaso Natale. Giovine a 23 anni comprese la condizione dei tempi; vide lo stato negletto in cui trovavansi gli studii filosofici fra noi, e fecesi banditore della Filosofia Leibni- ziana. Allievo del Cento, reputato maestro di matematiche, e per ciò indirizzato alle dottrine del Leibnizio, scrisse in versi, a simiglianza del Campailla, la sua Pilo- sofia Leibniziana, della quale nel 1756 fu pubblicato il primo libro, dedicato agli Accademici di Lipsia, che con onore l’ accolsero, e di alte lodi lo retribuirono. All’apparire di questo libro la persecuzione che avea incontrato la dottrina del Cento si fe’ più gigante. I gesuiti, i quali aveano condannato la dottrina Leibniziana come avversa alla religione , e il principio della ragione sufficiente come nemico della libertà, si levarono contro il Natale, che con tanto ardire avea osato propagare velenose dottrine, ristaurando la fama del Cento, che poco prima di lui avea incontrato la più spietata e inesorabile censura. Ed è a lui che il Natale nella sua Filosofia (pag. 105) si rivolge dicendo: Nè temer punto quella insana turba Sol di tenebre amica; ella t’insulti, S’armi contro di te, la veneranda Antichità t’apponga, a lei compagno Jl falso zelo sotto i finti panni Della religion... .. E così segue; e in altro punto volendo poeticamente descrivere l’errore l’ad- dobba sotto foggia di frate (pag. 35). 1 Gebo Ailor sen gio Ad abitar nei rozzi chiostri u’ regna Molto da tutti venerato e culto E il mondo annebbia di fantasmi e fole;..... Non se ne volle di più; e la persecuzione giunse al colmo. La lotta ardeva tra il vecchio e il nuovo, tra: la filosofia convenzionale e la fi- Mas 16 TOMMASO NATALE losofia libera; ma gli sforzi della vecchia scuola dei gesuiti furono vani. Parte per convinzione, parte per moda, la filosofia leibniziana del Cento e del Natale era da tutti seguita. I gesuiti allora si volsero al cartesianismo dei primi anni del secolo; ma non vi riuscirono. Essi erano stati scolastici quando il mondo era cartesiano , e scolastici e cartesiani quando il mondo era del Leibnizio e del Wolfio. L’opera del Natale non è essa grande, per le dottrine che contiene, quantunque avesse modificato, e qualche cosa aggiunto di nuovo a quanto avea insegnato il filosofo alemanno. L’ importanza del libro si deve ai tempi; al rumore che fece; all’ardire che mostrò il Natale nel combattere le vecchie dottrine e bandire le nuove; alla chiarezza, alla grazia e al lepore poetico con cui l’ espose; all’ in- fluenza che esercitò ai suoi tempi, tanto che nulla valse ad arrestare il progre- dire delle nuove dottrine. Il giorno 27 febbrajo del 1758, due anni appena dalla pubblicazione del primo libro della Filosofia Leibniziana, un editto della Inquisizione proibì che si potesse leggere o detenere il libro del Natale; obbligando ognuno a consegnare le copie in mano degli Inquisitori. L'autore fu acremente ripreso, e fu proibita la stampa degli altri quattro libri, che solo si divulgavano dopo l’ abolizione del tremendo Tribunale del S. Offizio. Questo fatto ingrandiva la fama dell’autore, rendeva popolare il suo libro, e le dottrine leibniziane. Ed è singolare, come avverte lo Scinà, che nello stesso giorno in cui il Natale era spaventato dai fulmini dell’Inqusizione, i Padri Cassinesi, in una pubblica con- clusione tenuta in Palermo nella chiesa dello Spirito Santo, difesero la dottrina Leibniziana. Il secolo era per essa; e il Cento, il Natale, il Fleres, il Gambino, Simone Iu- dica, Agostino Giuffrida, Carmelo Fileti, Giacomo Sciacca, Giuseppe Nicchia, e tanti altri per le scuole, pei collegi, pei seminarii di tutta Sicilia, e negli scritti e nei libri insegnavano e propagavano le opinioni del Leibnizio. Doveansi atten- dere parecchi anni per sorgere quell’altissimo filosofo che fu Vincenzo Miceli, vero novatore nella filosofia e capo di una scuola filosofica, che può dirsi siciliana. Tornando al Natale, avvertiamo come la sua Filosofia Leibniziana dividesi in cinque libri: trattando nel 1° dei principii, cioè dei diversi gradi della cognizione umana, della ragione determinante e del principio di contradizione; nel 2° di Dio in sè stesso e come autore della natura e come della grazia; nel 3° degli Spiriti, delle Anime e delle Monade; nel 4° del composto, della materia, delle af- fezioni di essa, dell’ unione della materia e dello spirito, e dell’ Universo; nel 5° dei doveri delle Anime riguardate assolutamente, rispetto a Dio ed in Società. Come si scorge egli abbracciava la filosofia tutta intera; e a 23 anni si faceva autore di questa immensa opera in cinque libri, di cui ogni libro stava per se, come uno speciale poema. Nè egli, come Leibniziano, fu un semplice espositore delle dottrine del grande I SUOI TEMPI ECC. 17 mm rrrrtk::<::::,-:---.rr,r------ .EFF----_rrr maestro. Accettò delle opinioni tutte quelle che a lui parvero conformi al suo modo di pensare; ne modificò talune, ne combattè delle altre; egli, come scrisse, più che lo splendore dei grandi nomi amava meglio la verità. Noi quì non verremo particolarizzando a dire in quali punti si dilunghi dalle dottrine del sommo suo autore; altri l’han fatto in ispeciali lavori; ma non possiamo tacere che egli, nell’innovare le dottrine di Leibnizio, abbia reso un servizio alla sua scuola; tanto che il dotto mio amico Prof. Di Giovanni, intrattenendosi su questo argomento, nel 2° libro della sua filosofia moderna in Sicilia, ebbe a scrive- re: « Chi tien l’occhio ai principii del Leibnizio e a questa animavversione del Natale non negherà certo che la monadologia leibniziana così corretta dal nostro, riusciva più accettabile, e non pochi servigi però rendeva il siciliano alla nuova scuola, che allora si propagava. » VIII. Come cresceva negli anni, così il Natale progrediva negli studii, ed allargava il campo delle sue meditazioni, rendendole più sperimentali e più dirette all’u- tile pubblico. Letterato, poeta, filosofo, fu altresì giurista e penalista. Il rinnovamento degli studii filosofici portò seco il ridestarsi di quelli di dritto naturale e pubblico sulle traccie del Grozio, del Wolfio e del Puffendorfio. Allora le più ardite quistioni si trattavano, e le scuole, le accademie, i nascenti giornali, col titolo: l’uno di Opuscoli di autori siciliani, e l’altro Notizie dei letterati, che si pubblicavano in Palermo, s’intrattenevano di questi vitali argomenti, che riflet- tevano la filosofia del dritto, il dritto pubblico e la filosofia morale. Gli illustri uomini che si erano distinti negli studii filosofici si applicarono ai nuovi. Ma la lotta tra l’antica scuola e la nuova durava tuttavia; e se questa avea vinto quella nella metafisica, pur tuttavia non avea potuto ancora trionfare nel- l’etica e nel dritto naturale. L’uso del latino, tanto nello scrivere, come nel disputare nelle solenni mostre, non si era potuto smettere; e la pubblica opinione sol riteneva dotto chi in la- tino scrivesse e disputasse. E di fatti in latino il Fleres nel 1757 e 1759 ebbe a scrivere, sebbene alla nuova scuola appartenesse, la sua opera di dritto naturale; e in latino altresì nel 1776 dettava Vincenzo Miceli, novatore ardito nel modo di filosofare, i suoi Istituti di dritto naturale. Rompere questo monopolio; popolarizzare la scienza, scrivendo e disputando in italiano, doveano essere i mezzi per rinnovar tutto e far trionfare la nuova dot- trina. Chi per primo e il latino e la disputa bandì fu Vincenzo Gaglio, scrivendo nel 1759 in italiano il suo Saggio sul dritto della natura, delle genti e della politica. 3 x REI CBR - - K nd 4 i - 18 TOMMASO NATALE Libro, che sebbene presenta il vizioso sillogizzare delle scuole, pure per i suoi principii, l’ordine e la chiarezza fu detto aureo dai giornalisti di Berna. Rotte le pastoje dell’antico, animosi si slanciarono nella nuova via. La lingua italiana, parlando agli italiani, fu d’allora la lingua dei dotti novatori, rimanendo l’uso del latino a quelli, che, o seguendo gli antichi sistemi, o non volendo rompere la tradizione del luogo ove scrivevano, non accettarono l’italiano. Questo fatto dell’uso del volgare nelle scienze filosofiche, fu un vero progresso; fu un’affermazione della nazionalità, un mezzo di popolarizzare la scienza e di assicurare il trionfo del rinnovamento degli studi1. Il metafisico Gambino dettava in volgare, e nel 1767 pubblicava in Napoli, le Leggi di collisione del dritto naturale, riportando lodi dal Fermey e dal Genovesi; ed altri scrittori si occupavano or di questo or di quell’altro argomento di etica e di dritto naturale; trai. quali bisogna ricordare Rosario Arfisi che scrisse nel 1771 i Fondamenti dell’enestà naturale, libro assai lodato ai suoi tempi. Ma l'antica scuola dei Gesuiti mal tollerava il ridestarsi degli studii di etica e di dritto sulla base delle: nuove idee; e il P. Giovambattista Guerini scriveva nel 1769 in latino un opuscolo de? principi del dritto naturale e delle genti e delle regole dei doveri cristiani, levandosi, sotto l’egida del Suarez, contro il Puffendorfio, il Tomasio e il Buddeo, scrittori della nuova scuola. Gli applausi raccolti furono immensi; erano gli ultimi aneliti di un vecchio sistema, che pur trovava dei so- stenitori, che nel nuovo vedono sempre un pericolo per la società. In mezzo a tutti questi scrittori di filosofia del dritto, appartenenti alla nuova scuola , si levò il nostro Tommaso Natale, scrivendo un commento sul para- grafo 11 del dritto della guerra e della pace del Grozio (1773). Egli con lucidezza e dottrina venia a dare il suo voto su una quistione di dritto naturale che allora agitavasi. Era ammesso da tutti l’ immutabilità dei principii di giustizia, che, anteriori ad ogni volontà, hanno fondamento nella na- tura e nelle eterne idee dell’intelletto divino. Ma domandavasi, se inducevano obbligazione, antecedentemente alla volontà di un superiore. Fu per la negativa il Puffendorfio; il Guerini e il Gambino, giu- risti siciliani, debolmente sostennero che inducevano una piccola obbligazione. Il nostro Natale fu decisamente per l’affermativa, ed energicamente la sostenne; dimostrando come prima della legge e della volontà del superiore vi ha una vera perfetta ed interna obbligazione ad eseguire i principii immutabili della giustizia. E se in fatti nelle civili società vi è la legge del superiore che impera ed or- dina l'esterna obbligazione, mercè una sanzione, egli è per supplire a quanti difettano nel conoscere i motivi regolatori delle azioni. In simil modo il Natale, dirò con lo Scinà, «si piacea di sottoporre a doveri e ad obbligazioni l’ateo, l’uomo che vive senza superiore, e il superiore mede- simo che non sia ad altri subordinato. » In questi studii levossi emulo a lui un Antonio Pepi; e per lunghi anni e in ogni più ardua quistione si trovarono di fronte. I SUOI TEMPI ECC. 19 Allievo del De Cosmi fu Antonio Pepi da Castronuovo. Avido di gloria, pubblicò molti scritti, tra i quali quello contro di Diderot nella quistione di Monpertuis intorno alla formazione dei corpi organici (1779). Nello stesso anno si levò contro il medico Giovanni Carbonajo da Girgenti, nella quistione : se era lecito tirare a brani un feto morboso sì, ma vivo, quando senza di ciò e madre e figlio dovessero perire. Il Carbonajo sosteneva non esser lecito, il Pepi sì; la quistione dal campo morale e medico passa a quello di dritto naturale; molti vi presero parte; le dottrine di Loke e di Camberland vennero in esame, e la vittoria rimase al Pepi. Indi levossi contro il Bayle e gli enciclopisti, che avevano calunniato gli antichi popoli come atei e spinozisti (1777); e il fa- ceva con tanta erudizione e con uno stile acre, animato e con una frase alla francese da rendersi attraente e dilettevole. Ma il lavoro, che gli avea dato fama e conciliato la riverenza degli uomini dei suoi tempi, era stato il trattato dell’inequalità naturale degli uomini, che pubblicato in Venezia nel 1771 fu poì ristampato in Palermo nel 1772. Egli attacca viru- lentemente il Rousseau, le sue dottrine e la sua irreligione, addimostrando l’ine- qualità degli uomini fin nei dritti che ha, e nei doveri a cui è tenuto. Egli combattendo con eccesso, cadeva nel paradosso; ma in lui non difettava nè la critica. nè lo spirito; sicchè la sua opera riuscì applaudita: insomma egli ripro- duceva il sistema di Pitagora, che vuole il governo in mano dei sapienti; le plebi a servire. Gli Opuscoli di autori siciliani e Le notizie dei letterati furono la palestra ove il Pepi e il Natale si distinsero; in questa prima raccolta ripubblica il Natale le sue Riflessioni sull'efficacia delle pene, e in essa il Pepi ripubblicava il suo Trattato dell’inequalità naturale degli uomini, nelle Notizie dei letterati il Pepi stampava la sua lettera intorno alla disputa, se siano preferibili gli autori antichi ai moderni, stando pei primi (1772), e nello stesso giornale il Natale pubblicava la nota sul Grozio di cui parlammo; quivi stesso si leggono i bellissimi Saggi sopra Vuso della critica del Pepi e le Riflessioni preliminari sopra i discorsi del Mac- chiavelli intorno alla prima deca di Tito Livio, del Natale, che lo Scinà giudica scritte con tanto sugo e maturità, che li pajono dettati dallo stesso [Segretario fiorentino. Furono essi che più si distinsero a quei tempi negli studii politici e morali. Ebbero lo stesso intento, ma diversi i mezzi, diverse spesso le idee, sempre lo stile. Teorico e vivace il Pepi, posato e sperimentale il Natale; l’uno brillava per amore alla religione , l’altro ai costumi; l’uno scriveva focoso con stile e frase alla francese, l’altro pacato, con le forme dei classici italiani. La novità ammaliò i nostri, e il Pepi fu preso a modello di scrivere, tanto, che fuvvi un momento in cui la gloria di questi parea soverchiare quella del Natale. «Ma questo trionfo fu momentaneo, scrive lo Scinà, e la gloria del Natale rinasce oggi più bella, perchè comincia a rifiorire il gusto fra noi, e i buoni scrittori della nostra lingua sono in riverenza. » Che dir delle idee e dell’influenza esercitata nelle riforme delle leggi? Il Natale in questa parte è l’uomo più avventuroso dei suoi tempi. 20 TOMMASO NATALE È ammirevole al certo lo svolgimento degli studii di filosofia del dritto che in breve tempo veggiamo spinti e favoriti da tanti scrittori; all’idea di dritto, tenne dietro quella di dovere; e gli studii di etica, ispirati ad una libera filosofia, divennero comuni anche nelle scuole secondarie, nelle quali, all’ espulsione dei gesuiti, la spiega degli Ufficii di Cicerone fu resa obbligatoria; nè mancarono degli scrittori che si occupassero di morale tra i quali un Giuffrida, un Gaetani, un Garajo (1776). Ma fra tutti alto levossi il famoso giureconsulto Gaetano Sarri, che fin dal 1770 ebbe a scrivere una stupenda dissertazione, nella quale esamina la morale degli antichi filosofi, discute sui moderni e disegna un abbozzo degli ufficii umani, che derivando dal dritto naturale, tutti tra loro si legano e connettono. È egli fra gli etici e gli scrittori di dritto pubblico e civile il più illustre; fu da giovine professore di filosofia morale; e percorrendo tutti i gradi della magi- stratura, finiva giudice della Gran Corte. IX. Gli studii di dritto pubblico e di ragion civile risentivano la influenza del gran progresso che erasi fatto in quelli della filosofia del dritto; erano per così dire la parte sperimentale e positiva dei grandi principii che si erano sostenuti. La prima metà del secolo avea veduto i Longo, i Perlongo e i Landolina, dot- tissimi giureconsulti che con la loro scienza aveano raddrizzato l’applicazione delle leggi e favorito le riforme; ma poco o nulla avean pubblicato per le stampe; e gli studii forensi avean pochi libri, che li mantenessero in fiore. Fu primo nel 1744 Carlo Napoli che pubblicava la sua bella dissertazione sulla Concordia fra i dritti baronali e demaniali; dottissima scrittura di dritto pubblico, in cui le più belle dottrine si mettevano in vista, e che produsse una rivoluzione nel nostro foro, il quale allora scuotendo le antiche forme, si avviò a trattare le quistioni di dritto, non sulla sola e sterile autorità, ma appoggiandosi alla ragion civile. I fratelli Pantò con le loro lezioni di dritto civile, i giureconsulti Alessandro Testa e Filippo Corazza, che dilungandosi dell’ antica scuola, misero in voga il Cujacio, contribuirono grandemente al progresso del dritto pubblico e civile; nei quali studii si elevarono un Nicolò Gervasi con le sue Disseriazioni sulle leggi di Sicilia; un Francesco Emmanuele, Marchese di Villabianca con le sue otto dotte memorie, che intitolò : Notizie storiche sugli antichi Uffiziù del Regno di Sicilia; un Michele del Giudice col suo discorso sul Titolo di Re di Gerusalemme; un Rosario Bisso colla sua dissertazione nella quale imprese a dimostrare la ragion civile doversi ricavare dalla giustizia naturale, e con l’altra sulle due prime consulta- zioni di Cujacio; un Francesco Beltrano coi suoi Elementi di dritto privato siculo. Ma a fama più alta e duratura si elevò, per la robustezza della mente, per la I SUOI TEMPI ECC. 21 copia della dottrina, per la varietà dell’erudizione, il giureconsulto Gaetano Sarri, di cui parlarono, come filosofo. Amico del Natale, fu il vero suo emulo, ed amico carissimo; egli fu grande nello studio della ragion pubblica e civile, come il Natale lo fu nella filosofia e nel giure penale. Il Sarri lesse più memorie di dritto pubblico che levarono tanto grido, e che poi nel 1786 furono pubblicati in due volumi dal figlio Gio- vanni, che li annotò, col titolo: Gius pubblico siculo; la cui prima parte conteneva i cinque capitoli della successione reale; e la seconda due dissertazioni, l’una del padre sulla inaugurazione, proclamazione , prestazione del giuramento di omaggio e fedeltà, coronazione e della solenne funzione della sacra unzione degli Augusti Mo- narch di Sicilia, e l’altra del figlio dei titoli e regni dei quali si augurano i sovrani di Sicilia; e la terza comprendeva lavori sui governi politici e sulla legislazione an- tica e moderna. Tanto splendore di scienza, e tanti lavori di ragion pubblica e civile portarono una completa riforma negli studii legali, nella giurisprudenza dei nostri magi- strati e nel retto uso d’ interpretare le leggi, e di difendere i litigi. Allora an- darono in bando i libri del Muta e del Giurba, che la ragion civile non ricava- vano dalla ragion naturale, ma basavano tutto sull’autorità dei savii, senza dire il perchè; e la loro incontrastata autorità scadde nel foro. Si cercavano ragioni, non opinioni; si voleva pensare e dimostrare, non provare col convenzionalismo degli autori che godevano autorità, ma risalendo ai principii, investicando lo spirito delle leggi con la storia, la critica, la filosofia dei tempi. Questa grande rivoluzione nei principii e nella pratica della legislazione pub- blica e civile facea sentire il bisogno della riforma delle leggi; e molte voci si levarono. Anzitutto fu Vincenzo Gaglio, che nel suo Saggio sopra il dritto della natura (1759), scriveva: « Ora sarebbe da desiderarsi che si facesse, mercè l’au- torità del sovrano, qualche riforma di tante opinioni opposte che si trovano nei libri dei nostri legisti; onde venisse a determinare in quali procedono o no le tante innumerabili e scabrose quistioni, che veggiamo tutto dì agitarsi nei tri- bunali, con grande dispendio dei poveri liticanti. » A lui si unirono tutti i giureconsulti novatori, tra i quali il grande professore di dritto Rosario Bisso; ed è memorabile il decreto del Fogliani del giorno 8 luglio 1767 a lui diretto, col quale le riforme si promettevano; ma non vennero all’attuazione, pel timore del nuovo, e poscia per le minaccie della francese rivo- luzione. Ma l’opera dei dotti proseguiva, e sono rimarchevoli delle grandi pubblicazioni che si fecero in seguito nelle materie di dritto naturale pubblico e civile ; che prepararono le grandi riforme dei primi anni del secolo XIX. Nel dritto naturale e politico sono rimarchevoli le Istituzioni di giurisprudenza naturale del Controsceri, scritte nel 1788, e il Catechismo dell’uomo e del cittadino che lo stesso giurista pubblicava nel 1794; Della libertà e dell’ uguaglianza degli uomini e dei cittadini di Sebastiano conte di Ayala da Castrogiavanni , scritta in 22 TOMMASO NATALE francese, e poi tradotta in italiano nel 1793. Ma l’opera che onora una genera- zione, si è quella dei Dritti dell’uomo di Nicolò Spedalieri, pubblicata nel 1791; con la quale conciliava la libertà alla religione, e rigenerava i sudditi in citta- dini, con quello stile enfatico che risente dell’entusiasmo e della declamazione propria dei tempi. Nel dritto civile, senza attendere ad opere di minor pondo, come le Istituzioni Giustinianee di Nicola-Amedeo Balsamo del 1784; le Istituzioni di dritto romano siculo di Antonino Garajo del 1789; il Codice Siculo, ove delle costituzioni dei ca- pitoli, delle prammatiche si ragiona, di Domenico Maria Giarrizzo del 1779; le Prammatiche sanzioni del Regno di Sicilia di Francesco Paolo Di Blasi, opere tutte scritte in latino, ci fermeremo a segnalare l’opera in sette volumi che nel 1798 pubblicava in latino Francesco Candini col titolo: Codice del dritto siculo accademico e forense, nel quale egli offriva un prospetto che per ogni materia conteneva quasi un compendio di tutto il dritto pubblico e privato della Sicilia, additando le più importanti leggi. A cui tennero dietro i lavori di dritto del Rocchetti, scritti in lingua volgare; tra i quali primeggia la sua grande opera: Ordine dei giudizii civili. Nel dritto pubblico, a tutti gli splendidi lavori da noi accennati dal Caruso al Sarri, bisogna aggiungere la più grande opera con cui si chiude il secolo XVIII, cioè la Storia del dritto pubblico del dottissimo Rosario Gregorio, che pria con l’Introduzione alla storia del dritto pubblico e poi colle sue Considerazioni sulla storia di Sicilia elevava il superbo monumento del nostro dritto pubblico, facendo opera, che se non ha più fama di quella del Giannone, ha certo più merito. È singolare però, che in mezzo al grido delle riforme che chiedevansi alle leggi civili, e in mezzo al grande movimento negli studii di dritto naturale e pubblico, nè una voce si levò, nè alcuna riforma dai giureconsulti si chiese per il dritto penale, che più che altro richiedeva l’opera e l'influenza delle nuove idee e degli studii di dritto naturale. Servi i giureconsulti alle vecchie pratiche, e distratti dalle leggi civili, non pensarono alle penali. Una sola voce si levò potente nei primi anni della seconda metà del secolo, una sola voce di filosofo e di filan- tropo. Questa voce, che echeggiò in Sicilia per mezzo secolo, finchè le riforme furono proclamate dal nostro Parlamento, fu quella di Tommaso Natale. Quale era lo stato delle leggi penali e della pratica criminale ai tempiin cui scrisse il nostro filosofo? Noi non dobbiamo certamente dilungarci per presentarlo. La giustizia penale era sotto l’influenza del passato. Varii i fori; la procedura lunga, inquisitrice, fe- roce; le disuguaglianze e le immunità leggi; la tortura regina delle prove; le I SUOI TEMPI ECC. 23 pene feroci e non efficaci; il dritto di grazia, non sempre opportuno, soleva miticare l’acerbità delle pene; il secolo XVIII fu nella sua prima metà, come il secolo precedente. Questo impasto di contradizioni ed immanità applicato di magistrati feroci, fiscali, tal volta corrotti, costituiva il dritto e la procedura penale, non regolati da principii, non indiretti a scopo, non sostenuti dai rigorosi dettami del dritto; era la vendetta sociale piuttosto che l’espiazione della colpa; erano nuovi delitti che si commettevano per ristabilire l’equilibrio rotto dai delitti; era spesso l’ar- bitrio e il pregiudizio che la necessità della difesa sociale. In questo stato obbrobrioso di cose, la Sicilia era uguale al continente italia- no. E le stupende pagine del Verri, del Beccaria, del Filangieri, che pennelleggiano la condizione degli uomini sotto l’impero di queste leggi penali, possono appli- carsi a noi, ne sono la fedele dipintura. Eppure questa procedura inquisitrice e feroce, queste pene pesanti e sanguinarie, questo condannar spesso e tremendo non esercitavano alcuna influenza salutare; i delitti erano più frequenti e la so- cietà sotto questo rispetto trovavasi in uno stato morboso. Tuttavia la voce dei filantropi e dei filosofi non si era elevata a richiamare al dritto e all’umanità; ma ben si presagiva; dacché il rinnovarsi degli studii di filosofia e di dritto dovea portare a questo glorioso trionfo. Primo a levare la sua voce in Italia contro questo stato mostruoso ed anor- male del giure e della procedura penale fu il nostro Tommaso Natale nel 1759, che emulò Beccaria; ma restò vinto della popolarità del libro del filosofo mila- nese, che lo dettò con solenne efficacia e con uno stile entusiasta e declamatorio. Egli scrisse, con l’umile e modesta forma di lettera al giureconsulto Gaetano Sarri, le sue Riflessioni politiche intorno all'efficacia delle pene minacciate, che videro per la prima volta luce nell’ 8° volume dei Miscellanei di varia letteratura , che pubblicava in Lucca Giuseppe Rocchi; indi con giunta si pubblicarono nel to- mo XIII degli Opuscolî di autori siciliani nel 1772, e infine nello stesso anno comparvero a solo, con l’aggiunzione di una nuova lettera, nella quale impugna l'opinione del Beccaria che esclude totalmente la pena di morte, e quella del Linguet «he la vuole frequente. Tre edizioni in pochi anni, a quei tempi, in cui la Sicilia era quasi lontana dal consorzio delle altre nazioni, mostra l’importanza del libro, la sua opportu- nità, l’ avidità che si ebbe a ricercarlo; dacchè trattava la più vitale quistione dei tempi. Affrontare un intero sistema, combatterlo, proporre i mezzi per rendere efli- caci le pene, migliori gli uomini, più giusti i giudici fu alcerto un ardito con- cetto; massime in tempi, in cui i giureconsulti erano legati ai vieti sistemi; tanto che non mancò chi contro lui scrivesse a sostenere e difendere l’uso della {or- tura; fu questo un Vincenzo Malerba, professore di economia civile all’ Univer- sità di Catania. \ Ma la dottrina e la calma frase del Natale vinse tutti. E se le leggi penali non 24 TOMMASO NATALE si modificarono, cominciarono le più inumane tanto nella procedura che nel pu- nire a cadere in disuso, o a rimanere inefficaci, sia per le frequenti grazie e commutazioni di pene, sia per le benigne sentenze dei magistrati, che applica- vano sovente, come scrisse il La Mantia, pene arbitrarie inferiori alle legali, ma pur sempre severe ove si pongano in confronto con le odierne. La forma dei giudizii si migliorarono, per le nuove Istruzioni, e per l’ esempio lodevole delle riforme toscane, e divenivano più ragionevoli e moderate nella pratica. L’azione delle nuove idee si facea sentire da per tutto; le aspirazioni a mag- giori guarentigie per l’ifimocenza e maggiore proporzione nelle pene crescevano sempre; ed era riserbato alla rappresentanza nazionale, al rifarsi della costitu- zione, riformare la magistratura e promettere un nuovo codice penale , che fi- nalmente si otteneva nel 1819; nell’anno stesso in cui moriva Tommaso Natale, il filosofo e il riformatore del secolo XVIII. Oggi, dopo 122 anni, con tanto progresso nella scienza criminale, con tante riforme nei codici penali, con tanta umanità nelle leggi, e con tante dotte opere, che il mondo scientifico ci presenta, parlare del libro di Tommaso Na- tale, delle sue idee, delle proposte di riforma non ha alcerto grave importanza. Ma bisogna riportarsi a quei tempi, per potere apprezzare l’opera filantropica del nostro filosofo; ai tempi prima del Beccaria e del Filangieri; dacchè oramai è provato, che le Riflessioni politiche intorno all'efficacia delle pene, furono scritte pri- ma, che comparisse l’aureo libro dei Delitti e delle pene. (Vedi Scina’, Prospetto della Storia letteraria di Sicilia nel secolo XVIII, capitolo 2.°) XI. Il Natale comincia dal chiedere : « quale sia la cagione, che non ostante. la troppo severità delle pene che le leggi minacciano e la frequenza ed esatta ese- cuzione di esse; si commettono pur non di meno con tanta frequenza delitti così enormi e così inumani ? » Donde rileva, che non nelle troppo severità delle pene, nella loro frequenza sta il segreto dell’ efficacia di esse, bensì, egli dice « nel saperle adottare e di- spensare, quantunque meno severe fossero e meno spesse. Anzi sostengo, che il supplizio della morte non è forse il mezzo più adatto per prevenire ed estir- pare i delitti, ed imprimere nei sudditi quella necessaria idea di timore e di spavento, perchè si astenessero di commetterli, come che si giudichi e sia effet- tivamente il maggior male, che possa minacciarsegli. » Questo concetto cardinale dà l’intonazione al suo scritto. Egli non si parte dall’idea astratta dell’uomo, e dalla idea assoluta della pena; egli non mette a base il contratto sociale, come il Beccaria, ma il bisogno di migliorare e condurre alla virtù gli uomini, in modo che la pena non ha nulla f i 4‘ i I SUOI TEMPI ECC. 25 di assoluto, ma tutto deve essere relativo, non solamente ai delitti che si com- mettono, ma più tosto agli uomini che li compiono; giacchè le pene « producono lo stesso effetto che gli sperimentati medicamenti nel nostro corpo. » L'uomo tende per natura alla società. Ma superiore a questa tendenza è l’amor di se; in modo che i fini umani invece di tendere al bene pubblico, tendono «a ricercare il nostro particolare bene meglio, che l’altrui; » ed osserva, che che ne dicono il Grozio, il Puffendorfio, il Cumberland, «che i principii della società non si deducono che per lunghi e penosi raziocinii, i secondi al contrario ognuno li trova ricercando per poco dentro se stesso.... » « Ecco dunque la ragione, che l’uomo, che considerato in sè stesso sarebbe una molto perfetta creatura, diviene per così dire cattivo, quando che si giudica relativamente alla società. » Sta nella lotta dell’interesse privato e del pubblico la dinamica che spesso produce il delitto; quando si commette un’azione che a sè par utile, agli altri è dannosa. E la società abbonda di questi uomini, che sia per difetto organico, come accidentale sono incapaci di dilettarsi del buono e del virtuoso, e turbano la pace della società col delitto; « perchè eglino non conoscendo altro bene se non che il loro proprio (e quest’uno poco ragionevolmente ed esattamente) non sanno curare l’altrui in nessun modo, nè vengono a moderare le. passioni e i desiderii loro, nè cercano di adottare le loro azioni ad una certa e determinata regola, che gli dirigga, ed onde vuole essere situata la vera norma dell’ umana condotta. » ; A premunirsi dagli effetti di sì funesta posizione, la società ha stabilito delle leggi, che sono delle regole per limitare e determinare a pubblico bene, ch'è anco il privato, le umane azioni; ed evitare una delittuosa collisione d’interessi. Queste leggi mutano, si perfezionano col mutare e migliorare della società; « e la ragione, egli dice, non ha fatto in ciò altra cosa che seguitare ed imitare il piano e l’o- riginale della natura. » Ma quali effetti producono queste leggi che la società ha fatto ? Esse non ob- bligano persuadendoci che sono un maggior bene per noi; ma perchè minacciano una pena, che sarebbe per noi un gran male; quale minaccia, e lo stesso timore, egli scrive, « che suole meravigliosamente esprimere lo spirito nostro è un ri- medio molto potente, perchè le passioni che ci portano a mal fare, ci stimolino meno, e sieno meno efficaci ed attive. Ed ecco le pene necessariissime perchè gli uomini possano vivere pacificamente in società. » Per venire a questa conclusione, egli percorre una lunga via col sistema spe- rimentale, ed esamina molte opinioni di dotti che al suo tempo erano preva- lenti; opinioni che consideravano l’uomo in astratto, non come è, ma come do- vrebbe essere, e in ispecie quelle del Cumberland e del Bayle. Esaminata la natura e la necessità delle pene, passa alla loro applicazione, per renderle efficaci. Egli non trova altro scopo in esse che o l’emendazione del delin- quente 0 l esempio altrui, perchè temendo la stessa pena mon si caschi negli stessi 4 26 TOMMASO NATALE _—» T + _——r———my)+yt—t—rt__---__——— n delitti ; e ne scarta qualunque altro, combattendo le opinioni vigenti ai suoi tempi. Questa relatività nel principio e nello scopo delle pene, dovea produrre i suoi effetti nell’applicazione : sicché ne deduce, che « nello stabilire le leggi penali deve aversi sopra ogni altra cosa riguardo alla costituzione del governo, all’in- clinazione ed indole dei sudditi, al diverso ceto delle persone, e finalmente nel- l’esecuzione di esse si dee riguardare la natura dei delitti, e secondo ciò propor- zionarli. » Egli disviluppa queste modalità, a cui le leggi debbono conformarsi; combatte gli scrittori che non le accettano; mostra i danni dell’ allontanarsi da queste norme; e nell’edizione del 1772, dopo divulgato il libro del Beccaria, combatte, e con poco successo, l’uguaglianza delle leggi, che egli vuole diverse in rispetto ai ceti; dacchè il penalista milanese si partiva dal concelto del pubblico danno, e il nostro dall’essere la pena non una vendetta dei delitti commessi, ma come una medicina di essi. È questa la parte più debole del libro del Natale. Ma egli s’ innalza quando combatte i disordini nelle leggi e nella pratica criminale, che ben disviluppati riduce ai seguenti: 1° ai processi, alle inquisizioni, al ritardo delle esecuzioni; 2° alla mancanza di proporzione tra il delitto e la pena; 3° alle esenzioni ed ai privilegi tanto ecclesiastici che civili che godono i delinquenti; 4° alle immora- lità dei processi e alla corruzione nei giudizii per parte degli ufficiali e dei giu- dici. E desidera ardentemente che simili disordini, che modificano l’efficacia delle pene, cessassero. Intorno alla pena capitale ei la discute a lungo; combatte la sua frequenza, come il Beccaria combatte la sua esistenza; dicendo: che nella sua estremità e violenza si racchiude certamente la sua debolezza; e quindi io vedo, egli scrive: 1° che manca con essa il mezzo di proporzionare la pena al delitto; 2° che non produce negli animi di quelli, cui spesso suole cadere simile capitale condanna, quell’effetto ch’è necessario produrre. Non dovea fare che un passo, per procla- mare l’abolizione della pena di morte, e nol fece; e volle che fosse usata con prontezza, di rado cd in una straordinaria maniera; e della sua opinione fu il Fi- langieri. La pena di morte fu il suo obbiettivo; e dopo la pubblicazione dei delitti e delle pene, egli scriveva una lettera al Sarri sul sistema del Beccaria intorno alla pena capitale, ed agli opposti sentimenti del signor Linguet giureconsulto francese; e com- batte l’uno che ne vuole la totale abolizione, e l’altro che non teme la sua fre- quenza. La tortura condanna energicamente, sebbene abbia la debolezza di tollerarla come pena; come mezzo di prova la dice inumana ; non essendo lecito sforzare chiunque a confessarsi reo di sua propria bocca; e dovendo una tale confessione riputarsi come nulla, perché forzata dalla violenza dei tormenti; e perchè per mezzo I SUOI TEMPI ECC. 27 x di essa « chi è veramente reo si vede divenire innocente, e reo chi’ in tutti i conti è innocente. » In grazia di quanto sennatamente scrisse, giova perdonargli s’egli fra le pene non condannasse quelle, che come avanzo di barbarie il progresso dei tempi ha bandito, cioè l’ignominia, il marchio, l’amputazione; che egli ammise come mezzi per proporzionare la pena al delitto. Qui terminano le dottrine penali, che abbracciano la massima parte del libro del Natale ; nel resto si occupa dell’ educazione e delle riforme ad introdursi; dacchè il malamente operare viene dalla storta maniera di pensare; e di conseguenza egli trova in una buona educazione l’azione preventiva ai delitti; dacchè le pene possono castigare il delitto, non già sostener la virtù. Ma quali sono le sue idee in questo argomento? Avremo occasione di dirne appresso. Tornando al sistema penale delle riflessioni intorno all’efficacia delle pene del Na- tale, diremo che questo libro, scritto prima dei delitti e delle pene dal Beccaria, ha certo un gran merito. E furono questi giuristi che primi in Europa levarono a principii il giure penale; che condannarono gli abusi, il ritardo e la corruzione nei processi, le immunità e i privilegi, la enormità delle pene e la loro spro- porzione ai delitti, la tortura e le feroci esecuzioni. Dopo di loro la pratica cri- minale s’ingentilisce; e più tardi i-codici si conformano a sensi più umani, ispi- randosi ai principii. E qui non posso tralasciare dal notare uno stupendo raffronto che il dotto Scinà istituisce tra il Natale e il Beccaria: « Ambidue questi filosofi, egli scrive, con- dannano la pratica dei tempi, e avevano in mente la dignità della umana natu- ra. Ma il Beccaria considera l’uomo in astratto, più come può essere, che come è; e cortese egli è nei vizii e nei delitti, d’un’equità che a prima vista t’incanta, perchè ti pare bella e benefica. Il Natale all’inverso vede l’uomo come è, e l’a- mor proprio, che è a lui connaturale, come la radice infetta che lo dispone al vizio e fallo nel vizio durevole; però nel punire è alquanto severo, sulle prime ti scosta, e poi tuo malgrado ti vince. Ma l’uno e l’altro si convengono, che la efficacia delle pene non deriva nè dalla loro severità, nè dalla loro frequenza. Il Beccaria recasi a ciò per amor dell’ umanità e per qualche metafisico ragio- namento, e il Natale per l’esperienza, e per la cognizione dell’uomo, che a ca- gione della frequenza ed atrocità delle pene inferocisce di più, e poi nel mal fare sì ostina. Il Beccaria inoltre considera le pene soltanto come vendetta dei de- litti, e però le vuole in proporzione ai delitti e in tutti uguali. Ma il Natale a queste considerazioni aggiunge quella di medicina pei delinquenti, e di esempio per gli altri. » (Opera citata, cap. II). Certamente non mancheranno di coloro che in questo parallello troveranno un’esagerazione in pro del siciliano Natale; forse vi è; ma in oegni modo resterà sempre che il libro del nostro, se ebbe minor fortuna, è però di un merito in- contrastato, che assicura al suo autore la fama di filosofo e di riformatore del giure penale. 28 TOMMASO NATALE XII. Tommaso Natale, come avvertimmo, può a buon dritto dirsi una gloria del secolo passato; fu un uomo completo, poeta, letterato, filosofo, giurista; con tanta copia di studii e di dottrina non poteva non essere un economista, massime in tempi, in cui questa scienza, quantunque nascente in Sicilia, era necessaria a quanti pigliavano parte al governo dello Stato, e in cui più che distinta fonde- vasi alla scienza del dritto, e si manifestava sotto l’umile, e pur abbastanza ele- vato ufficio, di progetti e di riforme, a migliorare lo stato economico del regno. Che il Natale sia stato un operoso cultore delle cose economiche, lo attestano le alte cariche che egli coprì nell’amministrazione finanziaria e commerciale dello Stato; le riforme che egli propose e introdusse in questo ramo della vita dei po- poli; i corretti pensieri e gli elevati concetti in questa disciplina, che trovansi sparsi nelle varie sue opere; il giudizio che di lui porta il sommo Gregorio, che gli fu contemporaneo, il quale il disse uomo di lettere dotto e delle cose economiche intendentissimo. Ma di lui, bisogna pur dirlo, non esiste alcuna opera o scritto di materia economica, su cui portare il nostro esame scientifico ; e bisogna ricor- rere ai fatti economici che egli studiò, alle leggi che mercè l’opera sua furono a pubblico bene promulgate, e che portano impresso il saggio pensiero di chi li concepiva ed attuava. i Il colbertismo era allora prevalente; le idee fisiocratiche spuntarono più tardi; e i nostri economisti, sotto l’impulso di quel sistema, contemperato dai bisogni speciali di un paese eminentemente agricolo, scrivevano e propugnavano le ri- forme. Emmanuele Sergio nel 1762 scriveva di cose economiche, mentre era sol noto in Italia il libro di Genovesi; e da colbertista intendea tutto volgere a beneficio delle manifatture e del commercio, che quasi mancavano. Egli combatte con co- raggio leggi, abitudini, pregiudizii; e in mezzo agli errori del sistema, si senti- vano ripetere delle grandi verità e delle libere idee. Domandava le strade di cui mancavamo , il commercio che era spento, le manifatture di cui difettavamo, l'abbattimento delle barriere, il commercio interno, la sicurezza del commercio esterno, il minor costo per le produzioni industriali, la riduzione dei dazii sul consumo dei generi di prima necessità, la libera esportazione, l’abolizione delle corporazioni di arti. Erano idee nuove che doveano preparare le riforme; e la loro popolarizzazione fe sì che al 1779 si fondava nella nostra Università la cat- tedra di economia politica col Sergio a professore, che fu quarta in Europa, terza in Italia. Nè fu solo in questa opera; lo seguirono i messinesi Era, Bottari e Guerra che professavano le stesse idee; il Giarrizzo, il Silio, il La Loggia, l’Averna, il Pietro Lanza Principe di Trabia, che si volgevano al setificio, al lanificio, all’agricol- I SUOI TEMPI ECC. 29 ____—————T—_€t<—24----r-;;C-;r.-£-/c;Fr-:-:scsr-£(r----&;F,--E-/F-r--s-.E-:--E-E-r-----r:-. /e----:r----< anno si aboliva in Palermo il prezzo fisso del pane, primo passo per il libero paneficio. D’allora comincia a vedersi la libera estrazione dei grani, che produce ricchezza ed impedisce le carestie; ed onde aggevolare il commercio, i legni di guerra furono destinati a scortare la marina mercantile. Pal lato economico i colpi alla feudalità furono potenti e risoluti. Nel 1782 fu dato ai vassalli il dritto di lavorare anche fuori il territorio baronale; nel 1788 erano sollennemente aboliti i dritti angarici, che costituivano tanti monopolii e privilegi a vantaggio dei signori, e a danno del libero commercio e della libertà del lavoro; e un anno dopo veniva proibita la contrattazione dei servizii perso- nali a tempo determinato, che costituita una volontaria servitù personale; nè fu- rono risparmiate le altre istituzioni che infrenavano il lavoro e lo rendevano pri- vilegiato e improgressivo, dacchè anche i consolati delle arti furono aboliti e il lavoro fu libero a tutti. E tutto ciò compivasi tra gli applausi degli scienziati, che vedeano il frutto delle loro dottrine. Una riforma chiama l’altra. Nel Parlamento del 1786 il braccio demaniale alza la testa; e il terzo stato pacatamente parla pel popolo. Esso domanda una rettifica di censimento per isgravare le università dalle imposte dirette, e chiede, fra l’opposizione dei baroni e del braccio ecclesiastico, un regolare cafasto, acciò i tributi fossero divisi ugualmente, e i grandi signori e la chiesa possessori delle terre non ne fossero esenti. I baroni si oppongono; e chiedono una legge contro il lusso, che il braccio ecclesiastico e demaniale respingono, come nociva al commercio; e la legge proposta da questi pel ritorno del monopolio del ta- bacco è oppugnata dai nobili come dannosa all’agricoltura e al libero lavoro. Gl’urti d’interessi diventano fautori di beni e fomite di più generose riforme, che si consumarono in proseguo, per parte della nobiltà, che rappresentava al- lora la classe culta del paese. Ma baroni, clero, terzo stato furon sempre d’accordo nel fare il bene dei popolo, e nel mantenere le prerogative della rappresentanza del paese; come mostrarono nel 1782, quando sotto il Vicerè Caracciolo napoli- tano, che mal tollerava le siciliane istituzioni, si voleva, che il Parlamento si ap- pellasse Congresso; e contributo, i donativi che si votavano pel mantenimento dello Stato, quasi a mostrare che venissero da spontanea largizione del popolo. Il feudalismo era stato colpito ; il commercio rialzato e avviato a libertà ; il lavoro svincolato dai privilegi e dai monopoli; la chiesa frenata nei suoi acquisti immobiliari; le strade , veicolo di ricchezza , votate; bisognava pensare ad una migliore distribuzione della terra per dare uno svolgimento all’agricoltura, in un 5) 54 TOMMASO NATALE paese eminentemente agricolo, in cui la terra non dava quanto la sua potenza produttiva poteva offrire alla pubblica ricchezza. Il Colbertismo piegava; e le idee fisiocratiche spuntavano e ottenevano favore fra noi; e gli scrittori le sostenevano come più consentanee alle condizioni del paese. Non che la Chiesa, i Comuni erano possessori d’ immensi latifondi, o abban- donati o mal producenti, e in ispecie quest’ultimi aveano vasti fondi lasciati a vantaggio dei comunisti, ove nessuno lavorava, ove tutti portavano il saccheggio, non producendo alcuna rendita, o magra, alle municipalità. Il pensiero venne prima per il censimento dei beni dei Comuni, nel 1787; cinque anni dopo si pensò a quelli della Chiesa. Il primo concetto fu un pensiero fi- scale. Un Giovanni Pomar da Corleone propose al governo di censire le terre co- munali inculte e mal producenti, incamerando le rendite a vantaggio del Regio Erario. Il Tribunale del Patrimonio lo rigettò come ingiusto; ma, come esso con- teneva il germe di una grande riforma, la censuazione delle terre, fu coltivato, e produsse. L’uso dell’enfiteusi era antico in Sicilia; e segna il passaggio tra la proprietà serva e la libera, tra la miseria e lo squallore della campagna, e l’attività e la produzione. Al marchese Natale debbe la Sicilia riconoscenza per avere sostenuto il censi- mento dei beni dei comuni e della chiesa; nobile pensiero nato a rigenerare il paese. Egli da economista, e avvalendosi del suo sapere e del credito che avea presso il governo e il popolo, scriveva in quel torno una dotta memoria, con la quale mostrava i vantaggi della censuazione in rapporto all’agricoltura e ai proprietarî dei fondi censiti. La sua voce autorevole trovava eco per ovunque; il suo pensiero svolgevasi praticamente ed utilmente, ed è impresso nelle famose istruzioni del 5 dicembre 1789, per la censuazione da farsi dei fondi e tenute di terre che si possiedono dalle Università del Regno, che il governo volle che da lui fossero scritte; e a ren- dere più degna la sua persona, era nominato Maestro razionale del Real Patrimonio, e membro della Giunta per la censuazione. Questo fatto importante per la vita del Natale, e che lo costituisce un econo- mista abile nell’attuazione dei proposti sistemi, è accertato da due grandi uomini il Gregorio e il Palmeri. L’uno scrivendo sulla proposta censuazione loda la legge, e aggiunge: « l’incarico di eseguire e condurre a termine questa grande e bene- fica operazione è stato dato al marchese Natale, Maestro razionale del Real Patri- monio, uomo di lettere dotto, e delle cose economiche intendentissimo. » L’altro, il Palmeri, in una lettera al cavaliere Cesare Airoldi intorno alla censuazione dei beni comunali di Sicilia, scrive: « Nei primi anni del governo del principe di Ca- ramanico vicerè in Sicilia, il marchese Natale, Maestro razionale del Tribunale del Real Patrimonio fece il progetto di dare a censo tutti i beni posseduti dai Comuni e dagli ecclesiastici, e pubblicò una memoria intorno a ciò; » ed indi, I SUOI TEMPI ECC. Bia) rrTr—TF——r—T——— rè-<=-+=||||}||}|}]_t|]}ée lee E EeEìezEE;-- .-t-teeleleeeteeéeleeéeEemzElzE-- ispirato ad idee diverse da quelle sostenute dal Natale e dal Gregorio, si fa a combattere il censimento, educato come egli era alle idee inglesi del latifondo, e nemico di ogni sminuzzamento di proprietà; in ciò seguendo le idee, che un Ca- millo Gallo e Gagliardo avea esposto sullo stesso argomento, in un discorso al- l'Accademia del Buon Gusto nel 1800. Noi non vogliamo entrare in questa discussione che si agitò allora, e forse anco oggi divide le opinioni: se lo sminuzzamento della proprietà sia un bene; ma vogliamo constatare come debbesi al Natale questo concetto di censire i beni dei comuni e della chiesa, concetto a cui la Sicilia debbe il rinnovarsi della sua agricoltura, e che d’allora ad oggi non è stato mai abbandonato; che anzi è a ritenersi il miglior mezzo di vivificare l’industria agraria, legando il coltiva- tore alla terra, e accrescendo il valore produttivo dei fondi, e di conseguenza la pubblica ricchezza. Le istruzioni fatte dal Natale nel 1789 ben risposero allo scopo. Il concetto ne è semplice; ma svolto con tali considerazioni economiche, che a buon dritto lo dimostrano un valentissimo economista. I posteri lo hanno coperto di obblio; nè mai una parola si è rivolta a questo benefattore della nostra vita economica; ma i suoi contemporanei gli tributarono il dovuto onore; tanto che il dotto Di Blasi, nella sva Storia di Sicilia, celebrando il vivente Natale, pone, accanto alla sua opera sull'efficacia e necessità delle pene, le istruzioni sulla censuazione dei beni comunali. Ma cosa contengono queste istruzioni? Il concetto a cui miravano si era: ele- vare il colono a proprietario; spargere la popolazione per la campagna, e creare delle nuove agglomerazioni in vaste estenzioni di terreno, ove il lavoro umano non si era giammai applicato; svolgere l'agricoltura cotanto negletta a quei tempi, e sciogliere la promiscuità dei dritti sulle terre, che per ciò stesso non sì col- tivavano e miglioravano. Ad attuarlo si sanzionarono le seguenti disposizioni. (Istruzioni 5 dicembre 1789, in 32 articoli, ristampate nel 1843 nella prima parte delle disposizioni per lo scioglimento della promiscuità). Le terre comunali infra quattro miglia dalle popolazioni agglomerate si devono dividere in piccoli lotti sino a quattro salme, a misura delle circostanze e della abilità delle persone, alle quali dovranno concedersi; quelle al di là di quattro miglia in partite sino a dieci salme, o più, in rapporto alla distanza, qualità delle terre, numero delle persone che concorrono, cercando di conciliare che ogni lotto si avesse terra di ogni qualità e produzione. Le sorgive di acqua restavano per l’uso comune dei coloni e del bestiame. La stima delle terre fatta da buoni periti, che fissavano il canone da pagarsi alla comunità ai 15 di agosto di ogni anno. Non calore di asta, dovendo sollevare i coloni; ma il bussolo fra i con- correnti, dovendo preferire la gente abile ed atta alla coltura, e fra questi i na- turali della rispettiva località. Alle persone ricche di capitali possono concedersi solamente quelle terre, che abbisognano di grandi spese per renderle atte a cul- tura, col dovere di riconcederle dopo, di tempo, in tempo, così migliorate, in pic- coli lotti. 36 TOMMASO NATALE Le migliorie eran d’obbligo, sotto pena della devoluzione, fra quattro anni nelle terre vicine, con la piantagione delle vigne e degli oliveti; nelle lontane con altri benfatti, dovendo tassativamente la Giunta determinare il capitale d’impiegarsi in migliorie. E a far che sorgessero, come sorsero in proseguo, comuni rurali, si lasciavano in mezzo ai fondi quattro salme o più di terreno, in luogo adatto per sorgervi le abitazioni dei coloni, e della gente destinata alla cultura, giusta un piano e disegno determinato; ciò dovea praticarsi in quattro anni, mercè l’ajuto delle co- munali amministrazioni, che doveano mutuare ai più poveri. Raccolto un numero di venti capi di famiglia, il Comune dovea erigere a sue spese una chiesetta rurale e stabilirvi il culto e la istruzione. Qualunque persona avea il dritto di fabbricare delle case per suo conto o per affittarle , ottenendo gratuitamente il terreno; e ciò nel fine di render possibile la formazione dei co- muni rurali, i quali sino al 1864 godevano della esenzione della tassa sui fab- bricati. Fu abolito il dritto di pascolo nell’interesse dell’agricoltura, e quello di ven- dere e succoncedere per impedire con questa forma il concentramento della pro- prietà. La censuazione dovea farsi da speciali delegati del governo, assistiti da periti, ed ajutati dalle comunali amministrazioni, alla cui presenza dovea farsi il sor- teggio trai concorrenti enfiteuti, quando il numero delle persone abili e richise- denti superasse i lotti a censirsi. Le spese contrattuali a carico degli enfiteuti. I reclami e i dubbi da decidersi dal Ministro, a cui i delegati, settimana per set- timana, dovevan render conto delle fatte censuazioni. Agli stessi principii fu ispirata la censuazione dei beni ecclesiastici di Real Patronato, promossa dallo stesso Tommaso Natale, ed approvata con dispaccio del 3 novembre 1792. Questa legge accettò il sorteggio per le terre vicine all’ abitato , e solamente volle il calore dell’ asta tra abili e ricche persone con precedenza invitate per i grandi lotti e distanti, nel fine di togliersi ogni sospetto di parzialità, e non pregiudicare i giusti dritti della Chiesa e del Fisco. I possessori ecclesiastici dei fondi si dovevano udire, nello scopo di mettere la Giunta in posizione di bene eseguire il censimento; i canoni non dovevano essere al di sotto delle rendite che davano i fondi, e il censimento doveva promuovere il sorgere di nuove po- polazioni e l'aumento di esse. Se qualche storico, così di volo, accenna alla benefica censuazione dei be»i comunali, niuno si occupa di quella dei beni ecclesiastici; e fu ritenuto che non si fosse siammai attuata; tanto che il decreto del 19 dicembre 1838, che la ri- chiama in vigore, nei suoi considerandi la dice sapiente determinazione, che le vi- cende dei tempi impedirono mettersi ad effe!to. Ma non è così; essa ebbe in parte esecuzione. Una Giunta di cui il Natale fu componente si mise all’opera e molti censimenti si fecero. Basta per tutti quello fa % I SUOI TEMPI ECC. 37 —______n____—_—_—T—TTtttgtktkcC —__ rt" delle terre in montagna di Gallo dell’Arcivescovo di Palermo censite nel 1794, i cui effetti furono, che questi fondi di salme 291, i quali alla Mensa non produ- cevano che la scarsa entrata di lire 1300, gli assicurarono, censiti, oltre lire 6000, e sorsero 102 proprietari in altrettanti lotti, che ora si mostrano vegeti di ri- gogliosa produzione, e formano la sussistenza di numerose famiglie. Nè meno produttiva di questa censuazione era stata l'altra dei beni comunali pei proprietarii dei fondi. Basta far notare, come il comune di Mazzara, che rica- vava lire 395 annuali da 215 salme di terre, censite ne ebbe 1504, creando 131 proprietarii; quello di Marsala che da 600 salme traeva lire 408 annuali e ne ebbe lire 1825, elevando a proprietarii 150 braccianti; Termini da 68 salme di terra senza rendita ne ebbe lire 565, formandosi 60 proprietarii. Tacciamo degli altri comuni; ma giova avvertire come migliaia di lavoratori divennero proprie- tarii, nuove popolazioni e comuni rurali sorsero, l’agricoltura divenne rigogliosa attorno i comuni e le nuove abitazioni, la produzione crebbe e il lavoro non venne più a mancare alla classe agricola. Aggiungiamo altresì, come i buoni ri- sultati di questa censuazione spingesse i privati a dare ad enfiteusi parte delle loro terre, mutando i servi e i coloni in enfiteuti. E allora per una triplice a- zione la proprietà terriera e l’agricoltura ebbero incremento. Queste leggi che da circa un secolo i nostri padri fecero ed attuarono, comin- ciarono a dare sì felici effetti, interrotti dalle vicende dei tempi, che nel 1812 il Parlamento siciliano le votava per tutti i beni ecclesiastici ; nel 1838 Ferdi- nando II le richiamava in vigore; e in tempi a noi più vicini, Garibaldi le pro- clamò da Salemi; la prodittatura ne formava una legge a 18 ottobre 1860; e il Parlamento italiano nel 1362 promulgava la legge della censuazione dei beni ec- clesiastici in Sicilia e l’attuava completamente, ispirandosi alla sapienza dei no- stri maggiori, producendo immensa utilità alla popolazione e alla agraria indu- stria. E se nell’ odierna censuazione ebbero a lamentarsi dei difetti inerenti a simili lavori, egli fu, perchè si dilungarono in parte dalle antiche leggi, le quali meglio risposero allo scopo, come viene accertato dagli storici, che sull’ oggetto non ebbero a levare un lamento. Fu errore non averla proclamato per tutta Italia al 1866; e doveva al certo far peso sì splendito precedente; mentre il sistema della vendita col prezzo a rate, spogliò lo Stato e i comuni d’immense ricchezze, gettò sul mercato una quantità di terre superiori alla richiesta, e ne avvilì il valore. Con la legge dell’enfiteusi gl’interessi dello Stato e dei privati si sarebbero assicurati, la proprietà si sarebbe meglio divisa, e di maggior utile sarebbe tor- nato allo sviluppo dell’industria agraria e al sollevamento delle popolazioni ru- rali. La Sicilia debbe essere riconoscente alla memoria di Natale, per la proposta che egli nel 1787 sosteneva della censuazione dei beni dei comuni e della chiesa, non solo per quanto egli fece; ma per quanto dopo di lui e sulle sue orme è stato fatto. Egli portò una rivoluzione nella divisione della proprietà terriera non solo, ma nel costituirla in modo, da permettere più tardi con profitto le riforme 38 TOMMASO NATALE e ee eee” — delle finanze del Regno, mercè un regolare catasto e l'imposta sulla terra. Ma l’utile che portò all’ agricoltura e alla pubblica ricchezza ha ben altro valore. Gli effetti benefici più che allora, oggi si risentono; e la gran mente del Gregorio li presagi, quando, dopo aver chiarito gl’immensi utili della censuazione, conchiu- deva con le seguenti parole: « Adunque le cose sono ora condotte a termine, che tolti via gli ostacoli e moltiplicate le proprietà, egli è immancabile che l’a- gricoltura siciliana sia al più presto in ottimo stato di perfezione ridotta. » XV. Nè questi soli, sono i servizii che prestò il marchese Natale al paese e all’am- ministrazione dello Stato, nella parte economica, colla sua dottrina e colla sua valevole autorità ; che importanti furono altresì quelli che egli ebbe a rendere nella qualità di consigliere di Stato, di Maestro razionale del Real Patrimonio, carica che egli sostenne per lunghi anni; ed anco come consigliere del Supremo Magistrato del commercio, componente la Giunta delle Regie Poste, del Catasto del Regno, di Ammortizzazione, deputato dell’Università di Palermo e degli Studî del Regno. Cariche egli ebbe come uomo dottissimo e valente ministro. Chi si fa a considerare la costituzione del regno di Sicilia a quei tempi, può ben formarsi l’idea dell’importanza delle cariche che occupava il Natale. Ai grandi dignitari dello Stato, dei tempi Normanni e Svevi, erano succedute delle magistrature. Il Comite o Gran Contestabile che amministrava la guerra e la milizia, il Grande Almirante che reggeva le cose navali e marittime, il Gran Can- celliere che sovraintendeva alle materie civili, il Maestro giustiziere che invigilava all’amministrazione della giustizia e punizione dei delitti, il Gran Camerario che avea la direzione e il maneggio del denaro pubblico, il Gran Sinîiscalco che am- minlstrava la Real casa, e giudicava tra le persone di corte, non esistevano più; di taluni restava il nome, senza l’autorità. Filippo II e successivi principi vi ave- vano fatto succedere magistrature, i cui presidenti avevano autorità illimitata. E fu al certo un progresso questa riforma, fatta col consenso del Parlamento; dacchè all’ individuo succedeva il corpo, e al posto della grandezza e della ric- chezza, la scienza e la dottrina. La Gran Corte col suo presidente ebbero l’amministrazione della giustizia, in- vece del Maestro Giustiziere; al Gran Camerario successe nell’ amministrazione dell’ Erario il Tribunale del Patrimonio; la Giunta dei Presidenti della G. Corte e del Patrimonio con il consultore del governo assistivano, alla forma dei legati presso î pretori romani, il Vicerè su tutte le cose che ‘appartenevano al governo dello Stato, insieme a pochi ministri consiglieri di Stato. Il Tribunale del Concistoro , che rappresentava l’ antico della Sacra coscienza del Re, composto da un Presidente e da quelli della Gran Corte e del Patrimonio, I SUOI TEMPI ECC. 39 POFTTOSRE non che da proprii giudici, decideva in appello delle cause sentenziate nei Tri- bunali dello Stato, appello, che prima portavansi direttamente alla conoscenza del Sovrano. Gli avvocati fiscali erano addetti presso ogni Corte o Tribunale, e rappresen- tavano il rigor della legge. Di questi magistrati di cui abbiamo fatto cenno componevasi la Gran Corte del Principe, o,come dopo si disse, il Sacro Consiglio; suprema autorità giudiziaria, con- sultiva ed esecutiva dello Stato, che nell’assenza dei Vicerè e dei presidenti del Regno esercitava il sovrano potere. Dei magistrati superiori dipendevano da questi supremi in ogni ordine della vita economica, amministrativa e giudiziaria della nazione. Completava infine l’organismo dei poteri dello Stato un altro corpo, che fu la Deputazione del Regno. I deputati del Regno, eletti ad ogni chiudersi di Parla- mento, e di esso rappresentati tra una legislatura ed un’altra, avevano fra le prin- cipali incumbenze quella di dividere equamente fra i contribuenti i votati do- nati, e di esigerne le quote; e l’altra altissima, di far conservare dal governo pure ed intatte le immunità e le franchigie delle libere istituzioni dello Stato. Così il potere legislativo , esecutivo e giudiziario erano in permanenza, non rappresentati da individui, ma da magistrature e corpi, in cui il vigore e la scienza presiedevano , e la giustizia e la buona amministrazione trovavano guarentigia. Del Tribunale del Patrimonio, dicemmo, fece parte sin dall’anno 1789 il mar- chese Tommaso Natale, come uno dei Maestri razionali. Erano essi gli ammini- stratori del pubblico Erario, e i consultori e giudici nelle cose economiche e fi- nanziarie; e dopo il Presidente, a cui si addossò la somma delle cose, come al Gran Camerario cui successe, non vi era autorità e dignità maggiore di quella dei Maestri razionali, o come pria dicevansi Maestri camerarii o dei conti, che da quattro portava re Filippo II a sei, dei quali tre nobili e tre giureconsulti, oltre ai soprannumeraril. Il Tribunale del Patrimonio rappresentava allora quant’oggi il Ministero delle Finanze, dell’agricoltura e commercio, e anco dei lavori pubblici; e i Maestri ra- zionali erano a reputarsi de’ veri ministri, e ne avevano spesso il nome. L’ essere stato prescelto il Natale a questo officio, da convinzione, come egli fosse finanziario ed economista. E dei quattro ufficii, in cui il Tribunale era par- tito, toccò a lui il più difficile e per cni si richiedeva maggior copia di studii economici. Ti Egli ebbe il secondo, e direggeva e trattava: le regie tande di tutta l’Isola, al dazio surrogato al dritto proibitivo del tabacco, la Tesoreria generale, le Fisca- lità ordinarie, gli assenti di Regia Corte, le Poste, la Regia Zecca (1). (1) Gli altri tre ufficii trattavano le seguenti materie : 1. L’ufficio di protomedico del Regno. La Milizia urbana. Quartieri e provvisioni dei 40 TOMMASO NATALE Sebbene questo fosse l’ufficio che egli di proposito reggeva; pure non gli man- carono delle altre nobili ed elevate cariche, di cui dicemmo; cariche a lui toccate per la vasta dottrina e per la speciale conoscenza della economia politica. Il che, mentre torna a di lui onore, torna altresì ad onore del paese e del go- verno, che ebbe rispetto a sì grand’ uomo, e nobile indirizzo di volere la scienza là, ove erano gravi cose a diriggere, importanti interessi a garentire. E qui giova accennare ad altro fatto, per mostrare il rispetto al merito. Quando nel 1766 fondavasi in Palermo una importante fabbrica di majoliche, con privativa e franchigia, il Tribunale supremo del commercio e delle industrie vi delegava alla sorveglianza l'economista Vincenzo Emanuele Sergio. Chi volge .lo sguardo alla storia economica e politica di quei tempi vedrà quali compagni il Tommaso Natale si avesse avuto, e con lui, e prima di lui, nelle alte magistrature di cui abbiamo fatto parola, accolta delle più distinte celebrità nelle scienze giuridiche ed economiche. E il Tommaso Natale fu tra i più valenti; e in tuttii suoi ufficii portò il con- tingente di severi studii e la religione «del dovere. Il suo voto era sì autorevole che le sue opinioni ed avvisi trasmutavasi in legge; e si adoperò sempre di armonizzare gl’interessi del Fisco con le esigenze delle popolazioni; attenendosi alla giustizia ed ai principii del dritto. E qui ci piace rammentare una Rappresentanza della Giunta della censuazione di Sicilia che porta il suo nome, e fu data alle stampe; in essa sostiene la vali- dità della censuazione delle terre dette della Gangia di Aci Reale, contrastata dal Co- mune; essa porta la data del 2 gennaio 1796, e al 2 aprile dello stesso anno, il suo parere era legge. Egli esercitò ! alta autorità che gli fu conferita, sino all’ abolizione della magistratura, di cui facea parte. Ispirandosi ai sani principii della filosofia e della economia sociale li applicava al governo e alla politica. Preoccupandosi delle idee dei suoi tempi, che portarono f castelli. Le fortificazioni. Il munizioniere del Real Palazzo. I munizionieri del Regno per i viveri, polvere e salnitro. 2. Le segrezie e dogane di tutto il Regno, inclusa ancora la gabella delle carte di giuoco e la gabella della seta ed olio. Il maestro segreto. Le tratte del Regno. La tratta della seta di Palermo e Messina. La gabella dello zucchero, pescespada e carte da giuoco di Messina. La collettoria della marina. La collettoria di ferro ed acciajo di Messina. I controbandi e le furtive estrazioni delle dogane e delle collettorie. Il Porto franco di Messina. Il maestro Portulano, ossia tratte di frumenti, orzo, legumi, ed amministrazione ‘dei regi caricatori, in- clusi i controbandi e le furtive estrazioni per detto officio. 8. L’azienda gesuitica , incluso il ministro di Messina per quell’abolito collegio, e suoi aggregati. Il rettore del seminario di Modica. I segreti e commissionati del Regno per detta azienda. Il curatore dei fondi gesuitici in Partinico ed i regi depositari per detta azienda. L'azienda dell’abolito 1° Officio. Le elemosine del principe delle Asturie. I SUOI TEMPI ECC. 41 agli eccessi della rivoluzione francese, pensava alla plebe, di cui paventava lo sca- tenarsi, non essendo trattenuta da buoni costumi e d’ amore al lavoro; e sin dal 1772 scriveva: « Or due rimedii potrebbero in qualche modo rettificare il co- stume ed il pensare della inculta plebe: la religione e l’ occupazione. La prima è attivissima ad introdurrre negli animi loro certe massime di onestà, di giu- stizia, di carità; la seconda li toglie dall’ ozio e dal bisogno, onde nasce la mag- gior parte dei disordini in uno Stato. Perchè l’ ozio gli abbandona liberamente in preda alla loro sregolata ed ineducata fantasia; il bisogno li spinge al pro- caccio e all’ interesse; quindi la mala fede, l’ ingordigia e con essa molte altre conseguenze nocive. Ed egli si può francamente dire, come massima sperimen- tale in politica, che quando vi ha universale occupazione in uno Stato, vi ha. parimente ricchezza fra i cittadini, e la ricchezza produce per lo più tranquillità e buoni costumi. Gli avvenimenti che si succedettero in Sicilia dal 1798 al 1812 lo trovarono al suo posto: amico delle pacate riforme, e nemico delle rivoluzioni violente. Egli era amante delle franchigie siciliane; l'antica costituzione e gli ordini ammini- strativi in cui visse e in cui ebbe parte non ultima, lo convinsero che quel si- stema di cose, suscettivo di miglioramenti, si avrebbe dovuto rispettare, non an- nullare; creando pur si voglia qualche cosa di meglio, che non avea il suggello della secolare tradizione, che costituisce un dritto invulnerabile. E veramente le nostre antiche istituzioni nella loro-rozzezza erano improntate alla massima li- bertà; e il trovarsi il governo in tutte le sue parti nelle mani di elette e dot- tissime magistrature, era un pregio che non si riscontra nelle altre costituzioni, ove l’arditezza e la fazione impone e governa. Al 18312 il marchese Natale era vecchio ; a 79 anni non potea pigliar parte a quel movimento riformatore , che tutto cancellando, tutto ad un tempo creava; annullando un ordine governativo, che avea resistito onorevolmente ed efficace- mente per circa otto secoli all’ invadente dispotismo di sette dinastie straniere, che con religioso rispetto giuravano e mantenevano le nostre franchigie. Il 1812 fu un progresso nell’ordinamento liberale del regno; ma fu altresi una riforma radicale, una rivoluzione che facevano gli stessi poteri dello Stato. Il 1815 non trovò le secolari e libere istituzioni, che tutte le dominazioni avevano con riverenza rispettato, ma una bambina costituzione che vigeva da tre anni; can- cellarla fu l’opera di un istante, in quei momenti di violenza e di spergiuri. E allora il dispotismo potè senza contrasto assidersi sovrano al posto di quella nuova libertà, che avea annullato le nostre secolari franchigie. Colla libertà ca- deva l’indipendenza della nazione; e s’iniziava quella incessante lotta di quaran- tacinque anni, che riuscì a ristaurare la libertà, cancellando senza ragione il nome della Sicilia. Sri Si5h 173 " è \ 3 ; % DA » * ; - ‘ nuti FRI 1 IORO LORI | 3 YES) IRE 11 BOI i (GIFISO Foo 1a da i i . I HI » 4 Ù ; bu di * ì I 047 Ù d3 Ù Vi at N] y PERI pi ton 3 7 3 #4 I ORIO PSA { N 9) 354 YI b tif DIR: I > 19) 4 \ i” > SI 40 is a - i ” 4 ; | Li e le pProrscea,. 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SIA IAT 0 Ret SAT AA ui : W A ui È i ; x to E x di Jar 3, le n p î A A i CLASSE DI LETTERE E BELLE ARTI TT TTYTTFT-_-TFT-» Onde è, o Signori. che prima di chiudere per sempre la bocca innanzi a tanta luce di critica, voi mi concederete che per poco io v’intrattenga delle ragioni e dei fatti accampati contro i paladini del primato siciliano nell’ uso del volgare illustre, trattando appunto in questo discorso, quasi come continuazione di altro discorso sull’ uso del volgare in Sicilia ne’ secoli XIII e XIV, e di altri lavori sul proposito (4), del volgare usato dai primi Poeti siciliani, e del carattere della loro poesia. Che i poeti insulari siciliani non poterono usare il volgare illustre , siccome tortamente credettero Dante e il Petrarca, prima che fosse stato usato nel con- tinente e specialmente in Toscana, la cui parlata fu appunto il volgare illustre di tutta Italia, è tenuto come un articolo, non più per la sua saldezza discuti- bile, da illustri critici e cultori della patria letteratura, quali il D'Ancona, il Co- razzini, il Bartoli, e con essi il D’Ovidio e il Caix, il Tallarigo ed altri contem- (1) V. BarroLI, op. cit., p. 110. (2) V. BARTOLI, op. cit., p. 112. (3) V. BartOLI, op. cit., p. 16%. (4) V. Sull’uso del volgare in Sardegna e in Sicilia ne’ sec. XII e XIII — La Lingua Vol- gare e i Siciliani— Della Prosa Volgare in Sicilia ne’ secoli XIII, XIV e XV.—Di alcune Cro- nache Siciliane de’ secoli XIII, XIV e XV — ne’ due volumi Filologia e Letteratura Siciliana pubblicati nel 1871. é q È a E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA = poranei scrittori, che rappresentano, si dice, la nuova scuola critica, a petto della vecchia, che non vagliava molto le cose, e poco o nulla metteva in esame an- tichi pregiudizii: gli scritti de’ quali o dati fuori in periodici letterarii o in libri a parte, io, credo siano già noti a quanti di voi seguono questi studii e si ten- gono informati della storia della letteratura contemporanea, la quale non fa meno rumore all’uopo delle questioni politiche o morali, ogni dì nuove e poste a far crollare da ogni parte l’ antico edifizio della vecchia Europa. « I siciliani, dice il Corazzini, non avevano una Letteratura italica da imitare, nè modelli nel volgare illustre a cui ravvicinare le poesie loro. Ciò non pertanto, sarebbero sorte come per incanto in Sicilia e in altre parti lontanissime, e tra genti di parlari diversi, cpere in una lingua unica, prima scritta che parlata, intesa do- vunque e non viva in alcun luogo! Miracolo che io lascio volentieri a chi lo vuole per darmi tutto alla ricerca del vero. Dalle poesie di questi antichi sici- liani non abbiam noi nessun indizio de’ loro studii, donde attingessero pensieri e forma? apparisce chiaro: dai Provenzali che furono imitati in tutte le altre parti d’Italia.» E quanto alla lingua segue a dire: « È molto strana cosa l’am- mettere il dialetto negli scrittori dell’Italia superiore e centrale, in Fra Bonvesin da Riva, in Giacomino da Verona, in Francesco d’Assisi, in Jacopone da Todi, e negarlo ne’ siciliani: in questi più lontani, divisi dal mare doveva essere pene- trata la lingua che ancora non avevano appreso le provincie limitrofe alla To- scana. » Il prof. Corazzini non concede che possa darsi una letteratura o una lingua nazionale prima che una nazione abbia « un centro intellettuale impor- tante» o « prima che uno de’ dialetti fosse generalmente conosciuto, ossia che da scrittori di vaglia non fosse fatta palese tutta la sua bellezza. Codesto fatto, segue a dire, non mi pare probabile innanzi gli ultimi anni del secolo XIII per due ragioni; e per la decadenza de’ siciliani causata dal governo tirannico degli Angioini, e per la perfezione data all’idioma toscano o se volete dell’Italia cen- trale, dai grandi Toscani, e per avere Firenze preso il posto di Palermo e di Na- poli (1).» Nelle quali parole, onde il Corazzini conchiude « sono sempre più con- vinto che gli antichi siculi non scrissero e non potevano scrivere in altro idio- ma che nel loro nativo, almeno quelle poesie che di loro ci restano (p. 60), » l’autore si crede che prima di esserci una letteratura italica, o modelli nel vol- gare illustre, i siciliani non potevano usare il volgare illustre, nè cominciare una letteratura nazionale; e come i siciliani, così nemmeno altri di altre parti d’Italia. Ma se prima che una cosa abbia cominciamento fa uopo che ci sia, come sarebbe stata mai possibile una letteratura Italiana, e l’uso del volgare illustre, non esistendo l’una nè adoperandosi l’altro, innanzi che fosse cominciata la let- teratura, e usato il volgare? Per aversi una letteratura e una lingua illustre, non (1) V. Una Questione sulla storia della lingua, Lettera del professore F. Corazzini al com- mendatore F. Zambrini. Bologna 1875. 8 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI ° dialettale, il Corazzini domanda la esistenza bella e buona e della letteratura e dell’ idioma illustre. A me pare che sia questo un circolo vizioso, come dicono gli antichi logici, stante che la quistione è delle origini o del primo comincia- mento, e intanto si dice che i siciliani non potevano cominciare la letteratura nazionale, nè usare la lingua illustre, perchè la letteratura predetta non esiste- va, e l’idioma illustre nazionale non era stato innanzi usato! Ragionandò di questo modo, i primi, dato che non siciliani, non sarebbero mai stati primi, nè manco se Toscani, innanzi ai quali non ci sarebbe stata nè la letteratura, nè la lingua illustre. E poi forse i siciliani non sono razza italica, come la toscana e l’umbra, o l’appula e la marchigiana; ne’ quali anzi meglio che altrove durò il sangue siculo insieme col nome, e la favella, non estinta giammai nè sotto i Greci e Romani, né sotto i bizantini e i musulmani? lo non so capire perchè da essi non poteva aver cominciamento la letteratura nazionale, e l’uso del vol- gare illustre; ma da altri popoli italici sì, e specialmente se dalla media Italia. Ci è bisogno, dirà il Corazzini, di un centro intellettuale importante. Ma la Corte Normanna ove si usò il titolo di Rex Italiae, e ove convenivano da tutte parti belli favellatori e dicitori di ogni condizione, e la Corle Sveva, in cui un Impe- ratore di Germania e re de’ Romani, raduna attorno a se gli uomini più dotti di Occidente e di Oriente, non era bastante centro intellettuale da potervi aver cominciamento la letteratura nazionale e il volgare illustre chiamarvisi, siccome si chiamò, aulico e cortigiano? La fama di Sicilia nacque, cel dice Dante, dalla sua Corte, e specialmente per gli illustri eroi Federico Cesare e il ben nato Manfredi « propter quod corde nobiles, atque gratiarum dotati, inherere tanto - rum. Principum majestati conati sunt ita quod eorum tempore quicquid excel- lentes Lalinorum enitebantur, primitus in tantorum Coronatorum aula prodibat. Et quia regale solium erat Sicilia, factum est, ut quicquid nostri praedecessores vulgariter. protulerunt, Sicilitanum vocatur. » Se dunque perchè possa nascere una letteratura nazionale e sì usi un volgare illustre , non dialettale, occorre un centro intelletivale importante , nessun centro intellettuale più importante era in Italia, a testimonianza di Dante, rispetto alla Corte di Sicilia; e non faceva bisogno aspettare gli ultimi anni del secolo XIII, quando la Sicilia era caduta sotto il giogo straniero degli Angioini o avvolta nella feroce guerra del Vespro. Il Bartoli, che ora sta pubblicando una storia critica della nostra letteratura; consente col Corazzini, e non concede punto agli scrittori siciliani che i nostri poeti del 1200 abbiano adoperata una lingua illustre, « che si sarebbero fabbri- cata (dice), io non so veramente intendere nè come, nè quando..... Come intendo anche meno ciò che asserisce un altro moderno, il quale c’insegna che la lingua nobile, uscita di Sicilia, sì riparò în Toscana. Una lingua che emigra, che si ri- x para, che fugge da un paese all’altro, è un fenomeno maraviglioso (1). » Questo (1) V. Storia della Letteratura Italiana, II, p. 176. E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 9 detto che la lingua uobile uscita di Sicilia, sì riparò in Toscana, è mio, o Signori, e lo ripeto ora coll’ autorità dello stesso critico prof. Bartoli, il quale a p: 181, v. II, ha scritto, dopo le parole citate di p. 176, « dobbiamo ricordarci che quei primi monumenti della poesia sicula cortigiana’, quando venne a finire la cul- tura che gli aveva prodotti, trovarono rifugio nel paese appunto che di quella cultura si fece erede, cioè nella Toscana, tanto è vero che essi sono arrivati a noi tutti in manoscritti toscani, tanto è vero che in Toscana sorse (come ve- dremo) una scuola poetica imitatrice de’ siculi.» Fra la mia frase si riparò in Toscana, e questa del Bartoli trovaron rifugio nella Toscana, che si fece erede della cultura siciliana, sì che vi sorse una scuola poetica imitatrice de’ siculi, non credo ci sia differenza di sorta; tranne che io dissi della lingua nobile usata da siciliani, e il Bartoli dice de’ monumenti della poesia sicula cortigiana; i quali mo- numenti non trovaron certo rifugio in Toscana, che si faceva erede della coltura siciliana, come monumenti dialettali, il che sarebbe stata strana cosa, bensì co- me monumenti scritti in una lingua che poteva essere imitata da’ Toscani, vale a dire nella lingua mobile, illustre, cortigiana, ch’era il volgare da Dante proposto a tutti gli Italiani e detto Latino, «quod totius Italiae est. » E che il Bartoli non avrebbe mai fatto imitare da Toscani i Siculi poetanti nella forma dialet- tale, si può argomentare da questo che egli dice che il dialetto siciliano del secolo XIII si parlava e si scriveva « simile a quello che si parla oggi, un dia- letto che non ha niente da fare colla supposta lingua illustre (p. 176). » Sareb- bero stati più che pazzi que’ Toscani del secolo XIII, gli attempati contempo- ranei del giovine Dante Alighieri, ad imitare poeti che avevano usato un dialetto che non aveva niente che fare colla lingua illustre; la quale secondo il Bartoli e compagni, era appunto il Toscano, che in nulla avrebbe avuto bisogno d’imi- tare un dialetto così barbaro o strano alle sue forme, nobili e illustri. Se non intende il Bartoli come il volgare illustre, usato prima in Sicilia, uscendo di Sicilia si sia riparato e perfezionato in Toscana, ci faccia intendere egli come i Toscani abbiano creduto di dover imitare i siciliani, i quali, avendo scritto se- condo la sua senienza in linguaggio dialettale, avevano usato una forma che «non ha niente che fare colla supposta lingua illustre. » La Toscana non fu erede della cultura siciliana nella scienza o nell’arte, ma nella poesia: e poteva ereditare ella forse la poesia dialettale, facendosi così il volgare illustre imita- ‘ tore ed ereditiero del dialetto, e di una forma che non era italica e nazionale, bensì speciale di un paese e di un tempo ? Se i poeti aulici del dugento scris- sero in un volgare che non era il volgare illustre, bensì il dialetto siculo, al- lora fu il dialetto siciliano reputato superiore al toscano, e i componimenti vol- sari non furon detti siciliani per l’ uso del volgare comune fatto illustre in Si- cilia da’ siciliani, ma pel merito del dialetto siculo, nel quale si scriveva da iutti i rimatori che precedettero Dante, e quindi dalla scuola bolognese e toscana. Io non credo che il Bartoli voglia accettare questo supposto, fuori del quale non resta che consentire a quello che per secoli si è ripetuto ; cioè, che il volgare 10 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI ———————6———t—--=-=#=-=#3ttt< 232 z3ztktk;<>#>#*# * * * à*à*àk*kà+tk ky *++*OY*TS>*o*e*ont illustre fu prima usato in Sicilia, e dopo i siciliani che già fur primi vennero i poéti della scuola bolognese e toscana a perfezionare la novella poesia e il no- bile idioma. Non era adunque la lingua che da Sicilia emigrava in Toscana, ma era l’esempio de’ siciliani che s’ imitava in Toscana; era la lingua che, da vol- gare fatta illustre, dalla Corte di Sicilia si ritirava nel Palazzo del Comune in Toscana, e dall’aula regia ne’ parlamenti de’ popolani, dal castello del barone nella bottega delle arti, e nel banco dei mercatanti. E che la Toscana accettava da Sicilia i canti nella forma stessa illustre, e non dialettale, che avevano avuto in Sicilia, il mostran bene le citazioni che fanno il Villani della canzone patria messinese del Vespro, e il Boccaccio della canzone elegiaca di Lisabetta, tutte e due in forma illustre e non dialettale: nè si dirà così essere state ridotte dallo storico e dal novelliere toscano, i quali non avrebber curato di cercare dei versi solamente intesi in Sicilia, se già scritti nel dialetto, per ornare o il racconto storico o la gaia novella scritta nella forma più nobile che avesse presa la prosa volgare in quel secolo XIV. Non vorrà dire l’egregio professore Bartoli che siano nati in forma dialettale lo stupendo e tenero lamento della fanciulla abbando- nata di Odo delle Colonne (Rime antiche volg. p. 69); e lo strambotto siciliano, e la Ciciliana pubblicati dal Carducci (Canti e Ball. p. 52 e 56). Se non che, e il Corazzini e il Bartoli e il D’Ovidio vengono ai fatti, e il pri- mo ci ha dato saggio della restituzione all’ antica e primitiva forma dialettale delle vantate poesie, secondo noi scritte da’ poeti di Sicilia nel volgare illustre e cortigiano; forma più nobile dell’altro volgare plebeo e popolano, che pur ebbe i suoi canti e il suo uso, giusta la distinzione fatta da Dante nel passo messo ad epigrafe di questo discorso, e da me altra volta citato e comentato in rispo- sta al saggio e all’ intendimento del mio illustre amico , il prof. Corazzini (1). Dante scriveva il libro della Volgare Eloquenza, secondochè hanno notato il Balbo, il Giuliani e il Boéhmer (2) tra il 1304 e il 1308; cioè appena mezzo secolo dopo che si fanno fiorire i Poeti siciliani della Corte di Federico, qualcuno de’ quali Dante nato nel 1265 aveva potuto o conoscere di persona, o sentir poetare nelle rime che giungevano sino a lui nel cuore di Toscana. Or, senza esservi stato di mezzo tutto quel tempo che i propugnatori della trasformazione della forma dialettale delle Poesie siciliane in linguaggio illustre per opera di trascrittori toscani sono costretti a supporre, avvisando che « dal loro dialetto originale esse si trasformarono a poco a poco, lentamente, nel dia- letto toscano » (BARTOLI, v. 2, p. 180); il grande Fiorentino, che non si avvide di questa trasformazione avvenuta ai suoi tempi, e non ebbe l’occhio così pene- trante, nè l’orecchio così delicato, siccome la critica de’ nostri tempi cioè di sei (1) Vedi sopra Sulla stabilità del Volgare Siciliano dal secolo XIII al presente. (2) V. Bauso, Vita di Dante, L. II, c. V.—Giuuiani, Opere latine di Dante Allighieri, v. I, p. 126 e segg. Fir. 1878. E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 11 secoli dopo, notò nel suo libro due forme ben distinte ne’ rimatori siciliani, cioè la nobile e la volgare, o la illustre e la terrigena, l’aulica e la popolana, per ragione che « molti dottori indigeni (e non sono toscani, o bolognesi, o mar- chigiani in Sicilia) troviamo aver cantato gravemente, come nelle Canzoni: Amor che l’aicqua per lo foco lassi, Amor che longamente m’hai menato; e altri terrigeni mediocri hanno usato un cotal volgare non degno di preferenza e lento nella pronunzia, come : Traggemi d’este focora — se t’este a bolontate. Nè questo intendiamo accettare, ma quel volgare uscito dalla bocca de’ princi- pali siciliani, autori delle canzoni citate; il qual volgare appunto non differisce da quello che è lodevolissimo » (L. I, c. 12). E così tranne il primato che dava ai siciliani, questa stessa distinzione faceva l’Alighieri nel volgare bolognese, il quale appunto gli suonava all’ orecchio mentre scriveva si crede in Bologna il suo libro, avvertendo che il volgare bolognese simpliciter non era quello che chia- mava aulico e illustre, benchè assai superiore ad altre parlate municipali; ma da esso si scostarono (il che non avrebber fatto se fosse stato il volgare illustre) e il massimo Guido Guinicelli, e Guido Ghisleri, e Fabricio e Onesto, che furono dottori illustri, le cui rime furono dettate nel volgare illustre, cioè in parole «quae quidem a mediastinis Bononiae sunt diversa (de V. Elogq. L. I, c. XV, p. 44).» Onde è che quello che fecero i Bolognesi era stato già fatto dai Sicilia- ni; e intanto la testimonianza di Dante va accettata senza scrupolo per la scuola di Bologna, va combattuta e rifiutata pe’ Poeti di Sicilia, de’ quali si è dubitato se pur sapessero il latino, quando l’un di loro dettò in latino la famosa guerra di Troia che fu volgarizzata da più di un antico, e posta fra’ testi di nostra lin- gua, e col greco e il saracinesco era il latino la lingua officiale de’ diplomi, e in latino si traducevano sotto gli occhi di Federico e di Manfredi opere greche ed arabe che l'Imperatore regalava alle Università di Bologna e di Parigi (1). Nè manco si vuol credere, quando si tratta de’ Poeti siciliani, quello che fu al- lora scritto contro Bonaggiunta Urbiciani di Lucca, cioè che questi si vestiva delle penne del Notaro, (BARTOLI, op. cit. p. 278) cioè di Jacopo da Lentino, quello stesso Jacopo notaro, che per Dante era stato già causa al esso Bonaggiunta di (1) V. HuiLLarp-BréHoLurs, Ivtroduct. a 1 histoire diplomat. de VEmpereur Frédéric II, p. XXVI. Paris 1859. 2 12 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI non aver preso il dolce stil novo delle nuove rime, e della bella Canzone Donne ch’avete intelletto d'amore (Purgat. XXIX). Troppo strana cosa, nella supposizione de’ nuovi critici, un lucchese poetante in dialetto siciliano, o vestito delle penne del Notajo, che pure sarebbe stato vecchio stile per Dante, ma conveniente ad un toscano, quasi non altro volgare ci fosse stato da usare in Toscana, fuori del dialetto siciliano! E nondimeno una siffatta supposizione si è volula portare a dimostrazione, col fatto della restituzione nelle forme dialettali siciliane di alcune di quelle poesie del secolo XIII; ed abbiamo pertanto il saggio datone dal Co- razzini, ed accettato almeno come principio, e direi come cosa indubitabile, dal Bartoli, dal D'Ovidio e da altri scrittori e critici contemporanei, fra quali ha molta autorità il D'Ancona, cui si deve insieme al prof. Comparetti la pregevo- lissima edizione delle Antiche Rime volgari secondo la lezione del Codice Vaticano 3793, pubblicata nella collezione di Opere inedite o rare della R. Commissione pe’ Testi di lingua (v. 1, Bologna 1875). Eccoci adunque o signori, al fatto della pretesa restituzione nella forma dia- lettale delle antiche Rime siciliane, giusta il saggio del prof. Corazzini: al quale si potrebbe a priori pur rispondere, siccome altra volta risposi, che com’egli ha reso in siciliano il volgare illustre de’ poeti del dugento, così noi potremmo anche dar forma siciliana alle rime di Dante e di Petrarca, e però poter soste- nere che, se i Poeti antichi siciliani non usarono il volgare illustre, bensì il dialetto, anch’essi in dialetto siciliano poetarono i rimatori toscani, nè esistette fuori del volgare siciliano, non illustre, ma dialettale, altra lingua di poesia sin dopo Dante e Petrarca. Anzi dal saggio delle parlate italiche dato in occasione del centenario del Boccaccio, anche potrebbe esser detto, accostandosi più di altre parlate alla forma illustre del Boccaccio le parlate siciliane, che in volgare sici- liano fosse stato scritto il Decamerone, nel quale senza dubbio molte voci ancor si leggono che sono vive nel nostro parlare, di cui dovette essere intendente il Certaldese tanto quanto era consapevole di storie e di casi avvenuti in Sicilia. Il Corazzini così procede nel suo saggio. Nelle rime del Notaro da Lentini ab- biamo secondo la forma illustre, E non è in presgio laudare Quel che sape ciascuno. A voi, Della, tale dono Non vorria apresentare : e altrove, Lo vostro amor ch'è caro Donatelo al notaro Che nato è da Lentino. I quali versi sono restituiti al primitivo dialetto siciliano, E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 13 _— _ +6 wr——m——————m————————— —P————T__—Tttktktk-+-+- E no è in presio laudari Chiddu sapi ciascanu. A vui, bedda, tal dunu Nun vuria apresentari. Vostru amuri, ch’è caru Dunati a lu nutaru Chi natu è da Lentinu. Gi è data in questi pochi versi come forma dialettale siciliana, E no è in pregio laudari Chiddu sapi ciascunu; e intanto non è nè è stata mai forma dialettale questo è in presio laudari, forma tutta nobile e illustre; nè un siciliano del dugento avrebbe potuto mai scrivere chiddu, non conoscendosi allora altro che il killu, Kellu, il quale cedette in questa Sicilia occidentale al chiddu d’oggi non più che dal secolo XVI a noi. Nè un si- ciliano potrà mai accettare come forma dialettale quest'altra: Chu natu è da Len- tinu; non dicendosi altrimenti nel dialetto che Chi nasciu a Lentini. In un s0- netto dello stesso Jatopo da Lentino il verso Si che lo dotti chi è malvascia in core andrebbe restituito secondo il Corazzini in questa forma siciliana, St chi lu dotti chi a malvascia in cori: forma che è integralmente la illustre, e per nessun verso siciliana, non essendo dei nostro dialetto la frase aviri malvasia in cori, per dire essere di malvagio a- nimo, invece della quale forma non siciliana il dialetto dice aviri malu cori; nè i nostri vocabolarii siciliani da’ più antichi ai più recenti del Mortillaro e del Traina registrano la voce malvasia in senso di cattiveria, malvagità, bensì come nome di uva, e di vino che viene da Lipari. Nè mai sarà verso siciliano l’altro a È i 5 i SUN, . Ca u cominzari un mostri fiur ’è amaru, che si fa rispondere al verso del sonetto, Cal cominciar no’ mostri fior d’amaro Non è affatto del dialetto nostro il dire di mustrariî o aviri sciurìi d’amaru per significare essere ben amaro, disgustoso , sì in senso proprio, e sì in figurato. Si 14 DEL VOLGARE USATO DA” PRIMI POETI SICILIANI dice di una persona essere questa lu 4xiurî, per esempio, di li galantuomini, lu aiuri di lì picciotti, se ragazzo o ragazza, e lu xiuri di l'età, ma vuol dirsi così la eccellenza della persona, in bontà, in onestà, in bellezza, cioè nelle buone qua- lità dell'animo o del corpo, o l’esser nel fior dell’ età, della giovinezza, e non altro. Similmente non può rispondere in siciliano « qua] più ti serve a fede » del volgare illustre, a questo Chiddu chi ti servi a fidi del Corazzini; perchè, oltre non essere del dugento il chiddu, non si dice, nè è conforme alla natura del dia- letto, serviri a fidi, per dire essiri fidili, ovvero nun fari mancanza. Se non che, il saggio del Corazzini dà ridotte dal volgare illustre nella forma dialettale quat- tro lunghe canzoni che sono di Jacopo da Lentino, di Tommaso di Sasso da Mes- sina, d’Inghilfredo siciliano, che si crede di Palermo, quasi scegliendo le parlate principali dell’ Isola dalle sue città principali Messina,“Catania, Palermo. Ma il restauratore per quanto ingegnoso ha creduto che mutando la e in è, la 0inu, la d in n, lalind,lasinc, la gli in gghi, già ne sarebbe uscito bello e buono quell’antico siciliano che i trascrittori toscani o della media Italia avevano vol- tato nel volgare illustre italiano. Io vi leggo, o signori, una strofa per Canzone della riduzione vantata, e basta il leggervela per farvi dire che tutt’ altro che forma del dialetto siciliano, sarà bensì la forma illustre che si contende ai Poeti siciliani, supponendo quello che nè la logica, nè il fatto può sostenere per ra- gione alcuna, contro le testimonianze e la storia del secolo stesso XIII e se- guenti XIV, XV e XVI, quando scriveva quel Giambullari, riveritissimo come scrittore e storico, ma in quanto che sostenitore del primato siciliano, riguar- dato come meno che sciocco e bambogio, non degno di fede, nè di maggior va- lore degli scrittori siciliani, o sognatori, o maestri di arzigogoli, e ridicoli pala- dini di una causa perduta e di una nobiltà cui sono mancati i titoli del vecchio blasone. La prima stanza del notar Jacopo è così ridotta : ' Amannu lungamenti Disiu, ch’eu vi vidissi, Qual’ura ch’eu piacissi, Com’eu valissi—a vui donna valenti, Maravighiusamenti. Mi sforzu, s’eu potissi Ch’eu cotantu valissi Chi a vui parissi— meu affari piacenti. Vurria beni serviri a piacimentu, La u’ tutt'ho piaciri, E convertiri,—lu meu parlamentu A zò ch’eu sentu. Pri l’intendanza de le mei paroli Veggiati com’u meu corì si doli. elia Lug en) E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 15 Vi sarete tosto avveduti come di siciliano non c’è che l’u e li, l’eu e lo 20, terminazioni e forme pur comuni in quel secolo e anche dopo a poeti non sici- liani, ma e toscani e d’altre parti d’Italia. L’ew per io, e il zò per ciò sono leo antico e il z0 stesso usato da Cecco Angiolini e da Fino di M. Benincasa di Arezzo, e da Nori de’ Visdomini, e da messer Prenzivalle Dore, o Semprebene da Bolo- gna, i quali non sono siciliani; e se invece di dogghia, accogghiu, cordogghiu, vog- ghiu, credute dal Corazzini forme siciliane del dugento, si fosse posto così come nel dugento, trecento e quattrocento si disse, nè si poteva dire altrimenti, cioè dogla, accogla, cordoglu, voglu, che si pronunziavano doglia, accogliu, cordogliu, vo- gliu, tali quali si trovano nella forma illustre; a me pare non sì riduca ad altro la pretesa riduzione, se non a ripetere come volgare dialettale siciliano quello stesso che per secoli si è detto volgare illustre italiano, e Dante disse ‘aulico, cortigiano, latino, del quale appunto usarono i dottori siciliani, bolognesi, toscani, preferendolo al volgare de’ terrigeni secondo l’uso che quivi tennero i siculi, donde il suo nome per l’Italia di ciciliano. Nè diversa è condotta la riduzione della canzone di Tommaso di Sasso, la cui prima strofe è la seguente: L’amurusu vidiri M’a’ misu a rimembranza Com’eu lungamenti — all’avvinenti Au tantu ben volutu, Ch’eu non purria taciri La gioi e l’allegranza, Chi mi duna suventi. Allegramenti — su da lei vedutu. A zò mì riconfortu E merzedì li cheru, C’a si m’accolga senza dimoranza. Pir ch’eu non fussi mortu Lu so visaggiu alteru Mi si mostra piacenti pri pletanza. Non c’è nulla che non sia del volgare illustre, parole e frasi, tranne le ter- minazioni in v, che possono ugualmente essere in 0, e nulla mutare del lin- guaggio e delle forme poetiche del componimento del vecchio poeta messinese; il cui canto nel volgare illustre corre nelle forme stesse che si dicono siciliane e dialettali, quando sono italiche ed illustri, nobili e cortigiane. L’amoroso vedere M’'ha miso a rimembranza Com’io già lungiamente ide 16 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI TT T__—_—_______—T—_————»wm_twz=xxoumuxeo0caae All’avvenente — ho tanto ben voluto. Ch’io nom porìa taciere La gran gioi’ e l’ allegranza, Che mi dava sovente. Allegramente — son da lei veduto. A ciò mi riconforto, E mercede le chero, Ch’a sè m’accolga senza dimoranza. Perch’io non fosse morto Lo suo visaggio altero Mi si mostra piacente per pietanza. Le due forme la illustre e la siciliana della riduzione sono le medesime: anche l’avvinenti, la dimoranza, il visaggio, il cheru, il da lei, che se è del volgare illu- stre, non è punto dell’antico siciliano, che avrebbe detto ad illa, a quilla, ad ipsa, e non mai a lei, come non chiddu per killu, non nudd’autru per nixiun altru, nè biddizza per billicza, nè speni per spiranceza, e simili. Nel volgare illustre così canta Inghilfredi secondo la lezione del Corazzini : Uno disio d’amore sovente Mi ten la mente; Tener mi face, e miso m'ha in erranza. Non saccio, s'io lo taccia, O dica neente Di voi più, gente: Non vi dispiaccia; tant’ ho dubitanza Ca s’eo lo taccio, vivo in penitenza, Chè Amor m’intenza, Di ciò, che può avvenire Porìa rimanere in danno, Che porìa sortire a manti, Se lor è detto guardisi davanti. La riduzione del Corazzini non ripete che le stesse forme, sotto nome di forme dialettali siciliane, quando contrappone a’ versi riferiti questi altri : Unu disiu d’amuri, chi suventi Mi ten menti, Timiri mi fa e misu m’à in erranza; Non sacciu, s' eu lo taccia o dica nenti Di vui chiù genti; Non vi dispiaccia, tant’ho dubitanza, E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA aUt Ca s’eu lu tacciu vivu in penitenza Chi l’amuri m’intenza Di zò che può avviniri E in danno rimaniri Chi purria sortiri....... a manti (1) Si a loru è dettu guarditi davanti. Tutto è del volgare illustre; nè sono forme siciliane il mè ten menti, il misu m'à in erranza, il tant’ho dubitanza, il l’amuri m'intensa, che il Corazzini ha rite- nute nella sua riduzione come forme del siciliano antico usato dal poeta, che è nel numero degli aulici e cortigiani, e avrebbe per la nuova critica usato il vol- gare popolano e mediocre, non illustre e nobile, detto da Dante. Il Conte Baudi di Vesme oppose molte difficoltà al tentativo del Corazzini, e fra le altre ragioni filologiche e storiche disse che qualche cosa avrebbe dovuto restare se la primitiva forma fu ridotta al linguaggio illustre per opera de’ tra- scrittori toscani, dell’antica maniera dialettale propria dei siciliani; dal quale do- cumento avrebbe potuto essere sostenuta o no la riduzione nella forma primi- tiva. Ed il Corazzini ed altri trovarono subito la risposta nel frammento di poesia siciliana edito dal Barberi, e in una canzone intera di Stefano protonotaro, il quale i nuovi critici sopra uno sbaglio di trascrizione hanno mutato in Stefano di Pronto notaro, o ignorando o fingendo d’ignorare che il protonotaro sia stato fino al 1815 un ufficio importantissimo nel Regno di Sicilia, essendo il Cancel- liere dello Stato e il Conservatore degli Atti pubblici, donde il nostro antico Ar- chivio dei Protonotaro del Regno (2), e la strada detta del Protonotaro in Palermo, e ritenendo il di Pronto come 0 cognome o appellativo di città, che non è mai esistita in Sicilia. Questa Canzone di Stefano Protonotaro, data da Giammaria Barbieri come tale (1) Questo marti, che s’interpetra molti, non è d’ origine siciliana, tranne non sia stato usato dalle colonie Jombarde e francesi. (2) Il Testa nella Dissertazione De Magistratibus Siculis, tra gli altri magistrati pubblici del Regno sotto i Normanni così dice del Protonotaro: “ Erat praeterea Protonotarius, seu Logotheta, ad quem pertinebat non solum cura electionis magistratuum municipalium, et tabellionum; verum etiam supplices libellos, Principi oblatos, excipere, et ad eum referre, ac quod ille decernerat, rescribere, omniumque legum, ac reliquorum publicorum actorum ta- bulas conficere. ,, V. Capitula Regni Sicilie; t. I, p. XXIII, Pan. 1741—In un atto della Im- peratrice Costanza, che deve essere, dice l’Huillard—Bréholles, del 1194, Filippo di Matera è nominato Protonotarius Regni Sicilia; e nel 1249 Protonotario del Regno era Pietro delle Vigne quando cadde in disgrazia di Federico (Vedi Dx CHERRIER, Storia della lotta de’ Papi e degl’Imperatori della Casa di Svevia, vol. II, pag. 335, traduzione italiana, Palermo 18362). Altrove citai dai Capitoli del Re Martino dal 1402: « Lu Protonotaru et Segritariu, ciasqui- dunu spacciaranno sullumodo li litteri spectanti a loru officio, comu su notati et declarati in li Pandecti antiqui. , V. Testa, Capit. Regni Sicil., t. I, p. 179. 18 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI che non soffri la trasformazione nel volgare illustre, siccome tutti gli altri com- ponimenti della scuola siciliana del dugento, va riferita dal Corazzini per riba- dire il suo proposito, e comincia così: Pir meu corì allegrari Ki multi longiamenti Senza alligranza, e 10i d’amuri è statu Mi ritorno in cantari, Ca forsi levimenti Da dimuranza turneria in usatu, Di lu troppu taciri. E quandu l’omu è rasuni di diri Ben di’ cantari e mustrari allegranza. Ca senza dimustranza Ioi siria sempri di pocu valuri; Dunca ben de’ cantar ogni amaduri. Nella quale prima strofa, tranne la grafia e le terminazioni in v, che accusano un trascrittore siciliano, nulla avvi della forma dialettale; chè non si dirà mai siciliano il dire: Mi ritorno in cantari — Da dimuranza turniria in usatu— Dunca ben de’ cantar onni amaduri, insieme con altre forme delle stanze seguenti, come: Homo, che havissi in alcun tempu amatu — Cusì mè dulci mia donna vidiri — K° eu leì guardandu metu in ublianza — Tutraltra mia intendanza (1) — Sulu chi fussi a la mia donna agratu—Ki quandu mi rimembra di sou statu—Homu acquistau d’amur gran beninanza etc. Nè il toi che il siciliano legge gioi, l’esti per l’è, il pir per per, il plu per più, il diyu per digiu, divu, il ki per che, il ken per che in, il sou per suo, fanno essere siciliana, cioè scritta nel volgare dialettale, una canzone che ha lin- guaggio, maniere e suono tutto del volgare illustre. Gioî in genere mascolino si ha in un poeta anonimo del Saggio di Rime illustri inedite del secolo XIII (Ro- ma 1841); esti ed este per sei ed è si ha in Bartolomeo Maconi e in Bonaggiunta Urbiciani, ed in gran copia negli scrittori del dugento, secondo avvisa il Nan- x nucci (2); plu per più è nel Trattato delle Virtù morali presso l’Ubaldini, Tavola (1) Seguono nella lezione del Corazzini questi due versi: Si ki instanti mi feri sou amuri D’un colpu, ki inananza tutisuri. L’ultimo verso è inintelligibile se non si legga, D'un colpu, ki m’amacza (o m’amansa) tuti l’uri. (2) V. Analisi critica de' verbi italiani, p. 454. Firenze 1843. licet n E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 19 ai Documenti di amore; digiu che vale deggio, usato da quasi tutti i primi poeti toscani per debbo, è lo stesso che aggio per ho, saccio per so usati da molti, dal Barberino, e fin dal Boccaccio (Ninf. 279); il soa per sua si legge nella Vita di Cola di Renzo (cap. XXXVIII); come l’en per in in.infiniti esempì, e il pir per per, e il ki per che sono più della pronunzia siciliana, che forma speciale del dialetto. Ma mettiamo a riscontro questo esempio di poesia dialettale siciliana, con poesie senza dubbio ritenute illustri di poeti toscani, lette nella grafia degli an- tichi codici. Il Crescimbeni, che si occupò eziandio della Ortografia antica nelle Poesie volgari, riferisce nel vol. 1°, L. VI de’ suoi Comentarii intorno all’Istoria della volgar Poesia, la lezione di alcuni codici secondo la loro antica grafia ; e però troviamo in una Canzone di Baldo Fiorentino: « Chome faraggio Deo — El meo volere — lo meo coraggio — dolghosa pena — seo faccio fallanza — etc. » (1); non altrimenti che di altri codici della Chigiana veduti da esso il Crescimbeni; o come abbiamo dal codice Vaticano nelle rime edite dal D’Ancona e Compa- retti, di Neri de’ Visdomini, di Neri Poponi, e specialmente di Messer Osmano, che sarebbe il Castra fiorentino di Dante, a petto a cui le rime siciliane, che si vogliono scritte in dialetto, sono de’ più eleganti versi che avrebbe scritto il Petrarca, leggendo in Neri de’ Visdomini: « E non agio speranza — C’aver possa alegranza mai nè bene — Questo è gièlosia — Malvascio pensamento — Sì che con- ven ch’io metta in ubrianza — Fina gioi e allegranza e dulcie amore — Oi bon cominzamento — Dunqua, como faragio ? In tal distin moragio ?» E in Neri Po- poni: « — fa l’orgolglio bassare — » E nell’anonimo di n. XCIX : « Cominzo senza rima — semo un, con carne ed unglia — Che più mi pura — cu l’aqua la spun- za — cambra (la ciambra de’ siciliani da’ Normanni al secolo XV) —». 0 come nel n. GC: «— E quando mi sovene— la gio’, che mi donao — Gietto un grande sospire — » e-— « volire — avire — falluta — scanosciente — Del vostro onor mi pesa — Che tanto este abassato —Lo danno e lo dannagio — De lo suo segnora- gio — Amor so’ ’n gio’ di vui — »: tutte parole e rime della forma che ne’ poeti siciliani si dice dialettale, e ne’ non siciliani nobile e illustre. Nè parlo poi delle rime, che ne’ più antichi non sono sempre conservate, contentandosi delle asso- nanze, così come qualche volta si trova ne’ componimenti de’ nostri siciliani; pigliando da ciò pretesto, anzichè argomento, di un’ antica o primitiva forma perduta sotto la trascrizione toscana; essendo ciò stato bene avvertito da altri, e ben noto agl’ intendenti. Chè la non esatta corrispondenza della rima negli antichi poeti del secolo XIII fu bene avvertita sul proposito dal prof. Monaci, al quale ha risposto il D’Ovidio, ma in modo mi pare da raffermare l’ avviso che gli antichi non ebbero per la rima la scrupolosità de’ poeti moderni ; tanto da (1) Vedi sul proposito le Poesie Guelfe e Ghibelline pubblicate dal De Cherrier sopra il codice stesso Vaticano 3703, nella sua Storia cit. v. III. Documenti n. 10, 11, 13. La grafia le rende spesso non intelligibili. E potrei citare eziandio il Canzoniere Palatino 418 di Firenze. 3 20 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI dover dire egli il D’Ovidio che « quanto ai poeti di scuola sicula non nativi di Sicilia, ei si trovano in una contraddizione affatto speciale. Il loro volgare na- tivo li tirava da una parte, l’esempio de’ poeti siculi, che pure un certo relativo primato in quella scuola. avevano, li tirava dall’altra; e quindi in fin del verso, dove il bisogno della rima li faceva essere meno scrupolosi, oscillavano talvolta tra le forme loro proprie e le forme date loro a prestito da’ siculi (Saggi Critici, p. 506). ». E se questo per Pietro delle Vigne, il D’Ovidio il nota pure per Jacopo Mostacci pisano, e per l’autore della poesia che ha il n. LXXXV nella stampa del D'Ancona, e dev’essere o di un Genovese, o di un Bolognese ; sì che anche pe’ poeti non siciliani il D’Ovidio propone di ripristinare nella rima la forma sicula, « quante volte ripristinando la forma sicula, la rima che or ne’ codici apparisce imperfetta ritorni perfetta (p. 508). » Io non capisco più se si parli, come pare, della forma sicula dialettale, o della forma sicula illustre; poichè se le rime siciliane furono ridotte al volgare illustre da’ trascrittori, come mai i poeti non siciliani, toscani e bolognesi, usavano le rime dialettali siciliane? seri- vevano i non siciliani, che intanto si dicono appartenere alla scuola sicula , nel dialetto siciliano, ovvero nella lingua illustre ? e se in questa, e non nel dia- letto, nel quale si vuole che abbiano scritto i poeti siciliani, come mai usavano le rime dialettali de’ siciliani ? Tanta potenza d’imperio avevano i siciliani usanti il loro dialetto, da tirarsi dietro toscani e bolognesi? Debbo confessare di non capire questo modo di restaurazione , il quale applicato a un quadro o a una statua, farebbe quel quadro o quella statua anzichè di un’epoca e di un paese, riuscire di un’altra epoca e di un’altro paese. Il D’Ovidio trova qualche difficoltà a far rimare, cercando la forma siciliana, amuri e curi perchè si rispondessero amore e core ridotte al volgare illustre, stante non si conoscere in siciliano que- sta forma curi, ma cori, nè cusa, per cosa, da rispondere ad amurusa, come sì rispondono nel volgare illustre cosa e amorosa: ma ricorre a forme inorganiche che poterono usarsi; non negando « che nelle poesie non veramente sicule le rime sicule son mescolate ad altre non sicule (p. 508). » Il che importa essere quello uso de’ tempi, e non aver luogo a restituzione , quando quelle rime son nate così come si trovano e ne’ poeti siciliani, e ne’ non siciliani. In Arrigo Testa da Lentino leggiamo secondo la lezione del D'Ancona, Ma lo fino piacimento Di cui l’amor disciende Solo vista lo prende: riducendo la voce e la rima disciende nella forma siciliana discindi o discinni, si deve far rispondere ad essa la voce e rima prindi o prinni, che non è siciliana, e dovrebbe fare pigla, per leggere piglia: ma tra discinni e pigla non c’è più rima. In altra strofe dello stesso poeta abbiamo legna e ispengna; e riducendo sicilia- namente legna in ligna, non possiamo avere ispigna, che in siciliano vale ripigliare E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 21 il pegno, non spegnere il fuoco che si dice astutare, con voce antica usata pur da Dante in una sua canzone ; sì che senza la voce ispegna del volgare illustre, la voce legna non avrebbe avuta rima corrispondente. Nel Notaro Giacomo abbiamo in rime servidore, amadore, core; ma riducendo l’ultima in curi per rispondere a servituri, amaturi, cangia il senso, perchè curî sono le cure, e core è il cori. Così in messer Prenzivalle bolognese il D’Ovidio vuole che si faccia rispondere al mattino di forma siciliana, invece di sereno, che non rima, la voce serino (p. 507): ma io non so che i nostri antichi abbian potuto dire serino per sirenu; e così se si toglie vio che è siciliano, e si fa vedo, veggio, del volgare illustre, non rima più con disio: tanto non si posson toccare quelle rime primitive ch’ erano co- muni nell’uso di quel secolo, o per la lingua che sì scriveva e parlava, o perchè molte forme siciliane si credevano poter convenire al volgare illustre; sì che il per te non ajo abento di Ciullo faceva dire a Rugieri d’Amici o a Buonaggiunta da Lucca «— Si ca ’1 meo cor n’abenta — » e a Compagnetto da Prato « —Non mi lascia avere abento — » frase purissima siciliana. E però se questi e non altri sono gli esempii e i saggi di restituzione del- l’antico dialetto e delle rime che avrebbero usato i poeti siciliani del dugento, ai quali secondo la nuova sentenza -a torto si è finora attribuito l’ uso del vol- gare illustre in quel secolo XIII, e prima che l’avessero usato gli scrittori del- l'Italia media, e singolarmente i Toscani; quantunque questi abbiano imitato i Siciliani fin nelle rime; si può conchiudere per questa parte, o signori, che i nuovi critici hanno rafforzato stupendamente la testimonianza e la sentenza di Dante, toscano e poeta nell’idioma illustre superiore a tutti, che « quicquid no- stri praedecessores vulgariter protulerunt, sicilianum vocatur; quod quidem reti- nemus et nos, nec posteri nostri permutare valebunt.» Nè voglio credere che sarà per l’avvenire ripetuta ciecamenie e senza esame, quasi fornita di evidenza e di prova irrepugnabile, una sentenza che è stata data ci pare con molta fa- ciltà, se non con leggerezza, per arbitrio di giudizio, anzichè per ragione di fatti e studio di documenti, dai quali per contrario esce prova opposta che sostiene col fatto la verità delle antiche testimonianze. Fra le quali non sono certo da tenere in non cale quella del Colocci, amoroso raccoglitore di codici nel se- colo XVI, il quale pur oggi s’invoca contro il nome di Ciullo, e l’altra dell’Al- lacci, che il primo raccolse per le stampe da’ codici Barberini e Vaticani i Poeti antichi, fatti stampare dall’Accademia Messinese della Fucina in Napoli nel 1661, con quella del Crescimbeni che ristampò e accrebbe la raccolta Allacciana nella sua storia della volgar. Poesia, e del Tiraboschi che ci diede la storia più co- piosa ed erudita della Letteratura Italiana. L’Allacci non mette in dubbio alcuno che la poesia italiana, cioè illustre, abbia avuto sua origine in Sicilia, e che i toscani imitarono i siciliani, secondo il detto chiarissimo del Giambullari che i toscani ridussero a pulitezza il loro idioma imitando que’ di Sicilia (A); ma ci (1) Vedi 72 Gello etc. p. 243. Mil. 1827. Col Giambullari consente il Castelvetro nel cre- dere che le rime italiane ebbero origine dalla lingua usata da’ Siciliani (V. Giunte al L. 1° 22 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI piace di riferire quello che ebbe lasciato scritto il Colocci ne’ suoi Mss. « huomo, dice l’Allacci, in simili materie intendentissimo » cioè, che « i siculi impararono da loro la lingua Italiana, e ricordandosi della ode Greca, e seguitando i nostri latini nelle rime, cominciarono a fare Odi pur così senza forme eleganti, e fa- cevano Distichi come quelli che di sopra abbiamo detto de’ Romani di quindici sillabe, quanto li Politici Greci, ma più alla misura de’ Romani. Et io non trovo alcuno, se non Cielo dal Camo, che tanto avanti scrivesse, e questo noi lo chia- meremo Celio. Costui adunque fu celebre poco dopo la ruina di Gotti, e scrisse in lingua Italiana. Così, scrisse in un dialogo siciliano. Virgo beata ajutami chio non perisca a torto. Rosa fresca aulentissima, che vieni inver l’estate Gli huomini ti disiano pulcelle e maritate. » Nel quale passo se troviamo Cielo letto per Ciulo, cangiato dal Colocci in Celio, ne è data ragione dall’Allacci in quel gusto del secolo XV di ridurre a nomi classici antichi i moderni; siccome sì sa che fecero de’ loro nomi il Pontano, il Sannazzaro, il Leto, i nostri Siciliani Giano Vitale e Lucio Marineo, ed egli stesso il Colocci che prese nome di A. Colotius Bassus (1). Che poi l’Allacci non poteva supporre i poeti siciliani avere poetato nel loro dialetto nativo, e que’ di Bologna e dell’ Italia media nel volsare illustre o toscano, ce ne dà argomento la sua raccolta , nella quale nella forma stessa si leggono i poeti di Sicilia e quelli di Bologna e di Toscana, nè l’Allacci, nè l'editore Accademico della Fucina, detto l’Occulto (e sappiamo essere stato Giovanni Ventimiglia messinese, che stampò i Poetì dell’ Allacci nel 1661, e fu l’autore del dotto libro Dei Poeti siciliani (2), stampato in Napoli nel 1663, nella stamperia stessa dell’Alecci), mutarono parola o forma; facendoci anzi sapere che i Codici Barberini in cartapecora erano anti- chissimi, e la copia fatta tirare dall’Allacci era stata fedelissima, perocchè, scri- delle Prose del card. Bembo, p. 169). Che “se, dice il Perticari, all’ultima altezza fu solle- vata per lo ingegno e il valore toscano, sia lode a que’ mirabili Fiorentini che tanto ope- rarono; ma non si tolga il loro diritto ai Siculi che già furono i primi. » V. Difesa di Dante, e. XXIII. (1) V. ALLacci, op. cit. Pref. p. 25. Il Colocci nacque a Jesi, studiò in Napoli col Ponta- no, fu segretario di papa Leone X, e Vescovo di Nocera; e morì a Roma nel 1547, lasciando molte raccolte nella Biblioteca Vaticana. Il Salvini notando che con lui fu confuso qualche volta il Poliziano, lo disse di Sicilia. V. Sarassi, Vita del Poliziano, prem. alle Poesie Ital. di M. Angelo Poliziano, Mil. 1825. (2) Quest’opera restò imperfetta, e ne fu pubblicato il solo Libro primo che tratta “ Dei poeti bucolici e dell’origine e progresso della poesia nell’isola di Sicilia. , È dedicato alla Accademia della Fucina, e doveva l'opera giungere sino ai tempi dell’ autore. Vi abbonda molta erudizione greca e latina. E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 23 veva l’Allacci stesso al nostro Accademico con lettera del 30 luglio 1660: « chi l’ha copiati, l’ha copiati con l’istesso tenore del parlare, l’istessa ortografia, l’i- stessa articolazione, e per non moltiplicar parole, li ha disegnati e non scritti.» Al che aggiunge l’Occulto, « abbiamo osservato ancor noi la stessa puntualità nello stamparli, non appartandoci per quanto ci è stato possibile nè meno in un apice del testo mandatoci dall’Allacci, perchè così que’ curiosi che non possono a lor talento studiare i codici Barberini, ne possano almeno avere una copia fedele e sicura; e per questo ci siamo astenuti di correggere eziandio le più chiare e manifeste scorrezioni, affinchè ognun sappia ì difetti non che altro del cod. originale, e ,non venghi deluso dall’importuna carità degli stampatori, i quali a mio giudizio s'hanno preso molta licenza nel pubblicare le scritture non mai stampate, alterandole dalla forma loro originale..... Con lasciare intatta quest o- pera abbiamo lasciato intatto e libero a ciascuno il proprio giudizio, sì che possa leggere e correggere a suo talento senza impedire colle nostre correzioni quelle de’ migliori di noi » (1). Parole di tanto sapere e giudizio nella materia, che non so se oggi potrebbe -esser detto e fatto di meglio in tanta sapienza critica, come si dice, e dotta pra- tica nel metter fuori antichi testi; i quali almeno nella prima stampa bisogna sieno riprodotti come per fotografia; o come se si avesse il codice stesso sott’oc- chio con «l’istessa ortografia ed articolazione » (2). Ora tra Ja forma riferita della Canzone di Stefano Protonotaro, come forma dialettale sicula, e non illustre e toscana, e le poesie de’ due maestri principali della scuola Bolognese e Toscana, Guido Guinicelli e Guido Cavalcanti, tali quali erano riprodotti da’codici romani nella raccolta uscita fuori in nome dell’Allacci, io non trovo differenza alcuna: e però se illustre è stata detta e tenuta la forma de’ due Guidi, non meno illustre è la forma del poeta messinese, riferito a prova della forma dialettale di quegli antichi poeti siciliani della Corte di Federico. Così si legge nell’Allacci a pag. 376, questo sonetto di Guido Cavalcanti; Madonna la vostra belta enfolio Si li mei ogli che menan lo core A la battaglia ove l’anzise amore Che del nostro plaser armato usio. Si che nel primo esalto, che asalio Passo dentro la nocte e fu signore E prese l’alma che fuzia di fore Pianzendo di dolor che vi sentio. (1) V. Poeti antichi etc, p. 70, 71. (2) V. ALtacci, Op. cit., p. 70. 24 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI e e e e e e e ee] ] ©] er” _ Pero vedete che vostra beltade Mosse la folia unde il cor morto Et a me ne convien clamar pietate. Non per campar ma per aver conforto Ne la morte crudel che far mi fate Et o rason se non vinzesse il torto. E di Guido Guinicelli a pag. 378 di essa Raccolta abbiamo: Nui provamo ch’in questo ciecho mondo Ciascun si vive in angososa dogla Ch’ in onne aversita ventura l tira. Beata l’alma che lassa tal pondo E va nel ciel dove e compita zoglia Zuglioso 1 cor for de corrotto e d’ira. Or donqua de ch’el vostro cor sospira Che ralegrar sede del suo migliore . Che Dio nostro signore Volse da lei come avea 1 angel detto Fare il ciel perfetto Per nova cosa onne sento la mira El ella sta davante a la salute Et in ver lei parla onne vertute A me non pare che il trascrittore, forse lombardo, abbia mutato la natura de’ due componimenti, restati sempre nella lingua illustre, così come il compo- nimento di Stefano Protonotaro, benchè alterata la parte fonetica ed ortografica dalla mano e dalla parlata dialettale del trascrittore. Il Carducci ha pubblicato da un codice magliabechiano una ballata che ha il titolo di Ciciliana, ed ha quanto più vi si può desiderare di carattere siciliano nel concetto e nel verso: ma non è punto nella parlata o nella forma dialettale, bensì nella illustre e comune ai dottori di Dante, quantunque sia una felice imi- tazione della Tenzone o Contrasto del vecchio Ciullo, sì che al dir del D’Ancona, «appartiene al ciclo stesso, al quale spetta anche il canto di Ciullo (p. 267).» Parlano la donna e l’amante: i Donna Lèvati dalla porta: Lassa, ch’or foss’io morta Lo giorno ch’i t’amai! E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 25 Lèvati dalla porta, Vatten alla tua via; Chè per te serìa morta, E non te ne ancrescerìa. Parti, valletto, partiti Per la tua cortesia : Dè, vattene ora mai. Amante Madonna, ste paraule Per dio non me le dire, Sai che non venni a càsata Per volermene gire. Lèvati, bella, ed aprimi E lasciami trasire; Poi me comanderai. Donna Se me donassi Trapano, Palermo con Messina, La mia porta non t'àpriro, Se me fessi regina. Se lo sente maritamo O questa ria vicina, Morta distrutta m’ài ecc. Nelle stanze appresso c’è la voce scurta, Se la scurta passassenci Serìa stretto e legato che è proprio la sciurta de’ nostri antichi, la scolta dell’italiano, compagnia di guardia notturna in Sicilia sin da antichi tempi, sì che le università o municipii avevano gli ordinamenti del maestru xiurteri, che si disse anche in tempi a noi più vicini, maestro di ronda e rondiere (1). E in un componimento senza titolo, che nella raccolta del Carducci segue a questa Ciciliana col n. XIX, si legge: (1) In una nota al c. LVI de’ Capitula di re Giacomo riferiti al 1288, così sul proposito de’ maestri di «urta avvisava il Testa: “ Surta et surterti significant excubias escurrentes et 26 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI Figliola se’ de garbi, Saggia palermitana e amorosella, E morirò per tia, Quando ti vesti la verde gonnella Conveneti l’anella etc. (1). Ora del Garbo si dicevano in Palermo certi mercatanti Giudei, e forse divenne appellativo di tutto un ceto di commercianti in panno, sia del borgo Amalfita- no, sia della Loggia de’ Genovesi e Catalani, i quali tenevano quella parte della città di oggi che ancor sì dice la Loggia presso a Sant’ Andrea e a S. Eulalia, che erano le chiese degli Amalfitani e de’ Catalani; a sinistra del Cassaro, il quale era nel 1312, siccome sì rileva da un privilegio di Federico Aragonese, quasi tutto abitato dai Giudei (2); nè vha dubbio che, siccome la ballata Ciciliana do- vette esser composta in Trapani, i versi di quest’altra ballata furono dettati da rimatore palermitano ; e intanto nè la prima, nè la seconda ballata, che erano più o meno imitazione della Tenzone del poeta Alcamese, si diranno mai da chi ha fior di senno essere state dettate nel volgare dialettale, e non nel volgare illustre e nobile, pel quale poterono conservarsi in codici toscani, come in co- dici toscani fu conservata la Canzone di Lisabetta, già pubblicata per intero dal Fanfani e dal nostro Lionardo Vigo nelle Nuove Effemeridi siciliane dell’aprile 1870, sopra il codice Laurenziano N. 32. Pluteo 45, e però un po’ diversa nella lezione dalla stampa datane in Firenze nel 1568; sulle quali due edizioni del 1568 e del Fanfani la diè fuori il Carducci nella sua raccolta citata di Cantilene e Ballate stampata nel 1871. Della Ciciliana dice il D'Ancona che «conserva qua e là spe- cialmente nelle rime, le forme originarie insulari; » ma non volle dire di essere un componimento nel dialetto dell} Isola. Così il Vigo e il Carducci (p. 50) no- tarono o come poco conveniente a una donna, o d’imbrogliata sintassi, il dire, Davanti all’uscio mi sare’ jaciuto Per la mia grasta guardare : e appunto in questa forma si ha per me il certo segno che la canzone nacque in volgare illustre, e non dialettale; che nel dialetto sarebbe stato detto mi nocturnas, ipsosque vigiles nocturnosque custodes; unde profectum est, quod nos vulgari sermone dicimus Sciurta,, V. Capitula Regni Siciliae, t. I, p. 34. Pan. 4741, “ Mastru di xiurta.,, Spat. ms. praefectus vigiliae nocturnae. Capu runna., V. Pasquatino, Vocab. Sic. t. III. Ne’ Capitoli delle nostre città il mastru wurteri si trova nominato fin dal secolo XIV. (1) V. Carpucci, Cantilene e Ballate, Strambotti e Madrigali dei secoli XIIIe XIV, p. 52-55. Pisa 1871. ; (2) V. De Vio, Privilegia Panhor. p. 43. Pan. 1706. E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 27 sarei coricata, o curcata, senza rispondere alla rima raputo, la quale voce nem- meno sarebbe del dialetto, come non sarebbe mai forma dialettale questa, e doneriagli un bacio in disianza. Le quali due ballate uscite di Sicilia (1) e accolte in Toscana, del modo stesso come dal Boccaccio era citata nell’aurea sua prosa la Canzone della povera Lisa- betta, ci richiamano per la imitazione, che ne facevano, al Contrasto di Ciullo d’Alcamo; uno degli antichi monumenti di lingua volgare sul quale si è dispu- tato ai nostri tempi quanto sovr’ altro monumento letterario non mai. E la di- sputa hanno sostenuto e sostengono non solo scrittori siciliani e continentali d’Italia; ma pur di fuori Italia, e specialmente di Germania. Onde, ci fermeremo altro poco eziandio sulla lingua del famoso Contrasto, contraddetto pure alla Si- cilia, si come è contraddetto e il tempo in che si fa fiorire da’ siciliani il poeta, e la patria e fin la esistenza, tentando qualcuno di far uscire il Da Camo da Iacomo, o dal Camo come foggia di vestire e abito usato, e fare scomparire il Ciulo, Ciullo, Cielo, e Celio, quasi un di più o un prefisso senza ragione di essere rispettato. Sulla lingua del Contrasto sono fino a tre opinioni, cioè, che sia si- ciliana; che sia mista di pugliese, lombardo, toscano, provenzale , e latino ; che sia tra il dialetto e la lingua illustre per quello che ritiene dell’antica o primi- tiva forma, e per le modificazioni che ricevette da’ trascrittori toscani. Diversi sono pure i giudizii rispetto al carattere del componimento , se popolare o no; se da giullare o da cavaliere ; e diversissimi i pareri quanto al poeta e al suo nome, e all’età in cui cantava della rosa fresca aulentissima, che gli aveva messo nel petto ardenti focora di amore. Pel Colocci che primo parlò di Ciullo, e per l’Allacci che primo raccolse dai codici romani la famosa canzone citata da Dante, che appunto si pubblicava nel volume dei Poeti antichi offerti all'Accademia Messinese della Fucina, Ciullo dal Camo « scrisse in lingua Italiana, o pur mistigando la Italiana » secondo il Co- locci; e per l’Allacci « non scrisse in lingua Tosca raffinata e purgata, ma sici- liana e quella de’ suoi tempi (v. Poeti antichi, p. 22, 34)». I critici contempo- (1) Altra poesia siciliana è il rispetto dato dal Carducci al n. XXXVII, pag. 59 del suo libro; nel quale rispetto è nominata la Camiola Turingia, che non venne in mente al Car- ducci, e la fata Morgana. Il Fazello, ed altri storici non Siciliani, come il Costanzo, riferi- scono la storia della generosa donna messinese, che riscattò col suo denaro Orlando d’A- ragona caduto nelle mani di Roberto di Napoli nella battaglia di Lipari, a patto che la sposasse; e quando Orlando già libero, mancò alla fede data, e il Tribunale lo condannava a sposare la Camiola, giunto il dì delle nozze, Camiola rinfacciò Orlando in presenza di tutti della sua ingraditudine, e rifiutò ella quelle nozze, “ chè non voleva haver per marito un’huomo sì da poco e così svergognato. ,, V. FazzLLo, Deca II dell’Istoria di Sicil. L. IX pag. 790. Venet. 1574. 4 28 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI ranei sono anche essi di diverso avviso. Il D'Ancona si fa questa domanda: «qual sarà l’ idioma nel quale fu scritto il Contrasto? » E risponde: « Distin- guiamo, anzitutto, la forma che il canto ha ne’ codici da quella che dovette a- vere originariamente. Imperciocchè a noi non par dubbio che sua propria forma debba essere stato quell’ idioma soltanto che un cantore siciliano poteva ado- prare : l’idioma, cioè, che usarono poi gli anonimi autori del Tuppi tuppi, e del Multi vuci e di tutte altre tradizionali poesie insulari, liriche o narrative (p. 285); » e a conferma cita « un fatto assai rilevante, cioè la canzone di Stefano Protono- tario di Messina e il frammento del Re Enzo, primamente scoperti da G. M. Bar- bieri, i quali sono in pretto volgare siciliano (p. 289)». Il Bartoli pensa che il poeta popolare, « tentò d’ingentilire il proprio dialetto, con tutto quel più che egli potè di forme letterarie già ricevute, già consacrate dall’uso (p. 151)»; e il Galvani che Ciullo usò una lingua, non pretto dialetto siculo, « ma consparsa di municipalismi normanno-siculi, e per conseguenza da non dirsi aulica ed illu- stre (Osser. p. 5 e 6) ». Il Corazzini poi ci dice che l’idioma del. Contrasto di Ciullo è «quello degli altri poeti siculi, o almeno non molto peggiore, e se ad alcuno può apparir tale non contrasteremo, ma ben col prof. Caix pensiamo di avere tutte le buone ragioni per giudicarlo idioma di una poesia d’arte, e infarcito di provenzalismì e francesismi assai più di tutte le altre poesie sicule (Del Contrasto di C. Aîc., p. 6)»; onde il Caix, pel quale Cielo dal Camo non è Ciullo d’ Alcamo, e non scrisse siciliano, ma pugliese, sostiene contro la elaborazione successiva del Bartoli, che il Contrasto « potè esser scritto fin dalla sua origine qual ora lo ab- biamo » e l’autore fu un poeta di Corte che volle imitare un genere popolare francese, « studiandosi coll’usare modi, parole, e forme plebee, di riprodurne la rozza semplicità e naturalezza, senza saper del tutto schivare le frasi e i modi della scuola, e rivelando, nell’uso delle voci francesi, lo studio de’ modelli stra- nieri (v. Ancora del Contr. di C. d’'Alcamo, p. 4, 15). » Al quale avviso ha risposto il prof. D’Ovidio e contro l'imitazione voluta trovare dal Caix nel Contrasto delle Pastorelle francesi, benchè il Canto, quantunque d’indole popolare, si possa dire lavoro di arte; e contro la lingua usata in esso, che non è pugliese, secondo ha detto il Caix, ma siciliana, provandolo per uno studio minuto sulle voci e frasi in esso adoperate; quantunque se già questo Contrasto «non riuscisse ad essere toscanizzato al punto a cui lo furono le poesie sicule cortigiane, subì pure sotto la penna de’ trascrittori toscani un notevole travestimento alla toscana ». Donde l’attuale forma della poesia di Ciullo, per ragione che «il siculo, toscaneggiato, viene ad sssumere in parte l’aspetto di quel dialetto che sta appunto in mezzo tra siculo e toscano , il napoletano (Saggi critici, p. 466-515)... ma il siculo ori- ginario del Contrasto giace certamente in fondo al testo toscaneggiante del. co- dice vaticano (p. 517) ». Io non posso, o signori, pigliare in esame speciale questi diversi giudizii così tra loro opposti; ma riferendo per ora solamente la prima e seconda strofe del Contrasto, credo si possa da voi discernere per chi stia o no la ragione. E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 29 Il. poeta, popolano o cavaliere che sia stato, apostrofava la sua donna : Rosa fresca aulentissima c’apar ’nver la state Le donne ti disiano, pulzelle e maritate; Traimi d’este focora, se t’este a bolontate; Per te non aio abento notte e dia, Pensando pur di voi, madonna mia. E la donna rispondeva: Se di mene trabalgliti, follia lo ti fa fare: Lo mar(e) pot(e)resti arompere avanti e semenare : L’abere d’esto secolo tut(t)o quanto asembrare : Avere me non poterla esto monno; Avanti li cavelli m’aritonno. Così ha letto il D'Ancona il codice vaticano, che ha una lezione più corretta del codice che servi all’Allacci, e fu della Biblioteca Barberini (1). Or in queste due strofe tutto è siciliano, ma non dialettale, siccome si ha nel c'apar ’aver la state, e nella madonna mia, e nella forma illustre Avere me non poterìa esto monno: nè si dica che questo appunto sia il segno della mano toscana portata nel com- ponimento, poichè un trascrittore o un letterato toscano non avrebbe lasciato Per te non aio abento notte e dia, nè se di mene trabalgliti, nè due volte l’avanti, che sta prima per anzi, siccome si sente tuttodì in Sicilia e non per prima, o innanzi avv. di tempo, e poi per piuttosto, come fu usato dal Boccaccio (G. IV, 4), nè l’arritonno, che vale mi rado, come ancor oggi nel popolo cozzu tunnu, vale festa rasa, e aviri travaghiu pir qualcunu vale aver premure, cure, pene, soffrirne dispiaceri. Che poi nel secolo che poetava Ciullo non poteva affatto dirsi capiddi, ma ca- pilli o cavilli, siccome in tutte le scritture siciliane de’ secoli XIII e XIV sino al XV e XVI, sel sa bene chi ha studiato sulle scritture la sostituzione della d alla I, della c o sc alla x, e della challa &, e simili, avvenuta specialmente nella Sicilia occidentale da tre secoli in qua. In altra delle strofe dice la donna: K’eo mene pentesse davanti foss’io aucisa Ca nulla bona femina per me fosse ripresa (o riprisa). (1) Vedi la lettera dell’Allacci del 2 Nov. 1660 all’Accademico Occulto della Fucina, che è il dotto Giovanni Ventimiglia, il quale fece la prefazione ai. Poeti Antichi, a p. 69. 30 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI ’Er sera ci passasti, correnno ala distesa (o distisa). A questi ti riposa, canzoneri: Le tue para(b)ole a me non piacci(i)on(o) gueri. È una delle strofe di difficile lezione nel terzo e quarto verso: ma è sempre siciliana la lingua, e non pugliese, lombarda o provenzale, che si voglia; e le nostre donne dicono tuttavia chi fussi auccisa! e nun vogghiu essiri riprisa, e bona fimmina, e canzoneri a chi è uso cantar di notte sotto le finestre di donna amata o per se, o per altri. Nè pertanto questo che è siciliano è difforme dal volgare illustre , sì come è data la lezione nelle stampe finora, e potrebbe meglio correggersi, leggendo i due versi 3° e 4°, Er sera ci passasti, coremo’, a la distisa: Acquistati riposo, canzoneri: invece di Er sera ci passasti, correnno ala distesa; A questi ti riposa, canzoneri. Colla correzione proposta va il senso, si trova una voce che risponde al pa- dreto, padre tuo, in coremo’, core mio, espressione antica e viva nella bocca del nostro popolo, sì a significato di amore, e sì a senso ironico; e vanno finite le molte osservazioni sul correndo, cantando, coreando, e sulla distisa, e sul a questi. Il passasti, coremo’, ala distisa, vale: ci passasti, cuore mio, fermandoti a lungo cantando; e però acquistati riposo, cioè or ti riposa, stante le tue parole non pia- cermi gran fatto. E in questa strofe non si sente nemanco la mano toscana, chè la rima gueri è voluta dal canzoneri, voce ancor viva in Sicilia, e I’ auccisa del primo verso porta con se la riprisa e distisa, che il cod. Vaticano legge ripresa e distesa, e per noi di Sicilia a la stisa, a distesa, alla distesa, vale continenter a- gere, come avvisa il Pasqualino. Sarebbe anche buona lezione il cantando a la distesa o coreando come propose il Vigo: ma non vorrebbe dire, siccome ha cre- duto il D'Ancona, cantando a squarciagola, bensì cantando lungamente, per molto tempo: chè non era canto quello di Ciullo da farsi a squarciagola, sì che l’avesser potuto sentire il padre e i fratelli della donzella, la quale consiglia il canzoneri di non farsi cogliere da’ suoi fratelli, tanto che questi risponde : Se ’n tuoi parenti trovami, e che mi pozon(o) fare? Una difemsa metoci di dumilia (a) gostari, ; Non mi tocàra padreto per quanto avere à ’m Bari: Viva lo ’mperadore, graz’ a Deo! Intendi, bella, questo (che) ti dico eo? E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 31 La quale stanza, o Signori, se per la lingua non è differente dalle prime, cioè non pugliese, non lombarda, né provenzale, ma siciliana e quale l’avrebber po- tuto scrivere i poeti di Bologna e di Toscana del secolo XIII e XIV; è appunto delle più importanti del Contrasto per la difesa e gli agostari e Bari, che vi son nominati, e hanno dato tanto argomento alla critica rispetto alla scena del Con- trasto e al tempo del poeta. Scena, la quale in tutt’altro luogo potè esser posta dal poeta, tranne che a Bari, se si tien mente alle parole della donna, Sengnomi in Patre e ’n filio ed i(n) Santo Mateo! nelle quati parole il nominar Santo Mateo dopo il Padre e il Figlio della Trinità, è argomento che nel luogo della scena era Santo patrono San Matteo, secondo il costume che i santi patroni vanno nominati dal popolo tosto dietro al nome di Dio; e intanto patrono di Bari era San Nicola, nè una donna barese avrebbe mai invece del suo santo protettore invocato il patrono di altre città, come di Salerno, o d’altro luogo di Sicilia. E della difensa e dell’ agostaro parleremo più sotto; per conchiudere ora da questi esempi che il Contrasto composto in sici- liano, ma con arte che innalzava il volgare popolano alla imitazione del volgare illustre, è restato quale appunto il giudicò Dante, cioè uno de’ componimenti ‘in lingua siciliana mediocre, e non di dottori; vale a dire un componimento che per la lingua usata e le forme adoperate sta in mezzo al volgare plebeo e al volgare aulico e nobile, alla parlata de’ terrigeni e al sermone che per Dante era lodevolissimo, e da dirsi latino, perchè di tutta Italia e usato da’ dottori. Senza questo carattere mediocre non avremmo nel componimento parole prettamente siciliane , che non si trovano ne’ componimenti de’ poeti aulici, nè l’avrebbero imitato poeti toscani come Ciacco dell’ Anguillara, Urbiciani, e Bonaggiunta, il quale diceva alla sua donna « Maritate e pulzelle, Di voi so ’nnamorate; » e il primo, al dir del Carducci, faceva appunto parlare l’amante e madonna « su ’1 te- nore del sirventese di Ciullo» (1) sino ad accennare anche alla intonazione del Contrasto; siccome Bonaggiunta ne usa molte voci e maniere, e il fiore aulente, e feruto, e simili, sì che ti pare un siciliano quando canta ad esempio — ch’ eo disio Di ciò che crio — în voi gentil criatura, — non diversamente che Semprebene di Bologna, in questi versi — Ed ave tai bellezze, ond’ eo desio, E saccio e crio — che follia lo tira — Chi lauda il giorno avanti che sia sira: parole e forme tutte siciliane , così come del volgare illustre usato in Toscana e a Bologna. Nè solo il lucchese Bonaggiunta, ma Paganino di Sarzana e Pucciandone Martelli da Pisa hanno motte e dia, e il dimino come in Ciullo, siccome Albertuccio della Viola ha rosa aulente, e Dante da Majano la fresca rosa; e non mancano le rime e le voci, e la forma de’ verbi de’ nostri antichi ne’ migliori della scuola toscana e bolo- (1) V. Cantilene e Ballate ece., p. 12. 32 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI __———_————_———— _—————__—_—_—_—_—_—_—_—_—_——_—_T——rrrrr———:£« 4 ## ##"" " gnese, usando Bonaggiunta dormuto e arriccuto, e aggio e saccio, e innamura, e tanto este abassato, e Pacino Angiolieri fino a una voce che si è creduta del solo dialetto siciliano, cioè sfagione, istaciuni, per dire assolutamente l’està, la state; sì che non si trova nel Vocabolario della lingua Italiana in questo senso del- l’Angioleri, che è il senso che ha nel nostro dialetto (1). Onde è che, se i poeti aulici scrissero nel volgare illustre, e non ha fonda- mento il credere che i componimenti della scuola siciliana siano nati in forma dialettale e indi ridotti per mano toscana nella forma illustre, il Contrasto di Ciullo invece nacque e si è conservato nella forma siciliana, ben a ragione detta mediocre, perchè tra mezzo al volgare plebeo e al volgare aulico, e più atta a un canto popolare quale fu il Contrasto, in cui le forme della più antica poesia si- ciliana venivano meglio conservate che non nella canzone cortigiana, tanto da aver veduto anche i critici meno sospetti nel Contrasto non solo un saggio ri- mastoci di poesia popolare indigena, che ci attesta l’esistenza di una poesia di popolo, anteriore alla scuola cortigiana del periodo svevo cioè anteriore alla in- troduzione del provenzalismo, e tale che ci mostra qual sarebbe stato in Sicilia lo sviluppo della maniera indigena, se la Corte non lo avesse impedito col vol- gersi di preferenza ai modelli cavallereschi, secondo ci dicono il D'Ancona e il Bartoli, e il Settembrini, dopo il nostro Giudici e il Sanfilippo; ma Ciullo, al dire del De Sanctis «è l’eco ancora plebea di quella vita nuova svegliatasi in Europa al tempo delle Crociate, e che aveva avuta la sua espressione anche in Italia, e massime nella normanna Sicilia; » sì che la sua lingua, per l’illustre critico, non è dialetto siciliano, ma già il volgare com’era usato in tutti i trovatori italiani, ancora barbaro, incerto e mescolato di elementi locali, materia ancora greggia. » E ciò, stante che «in Sicilia , segue a dire il De Sanctis, troviamo appunto un volgare cantato, e scritto, che non è più dialetto siciliano, e non è ancora lingua (1) Maravigliar mi fate Donna, quando v’avviso: Sofferon gli occhi la veduta appena, Tanta è la chiaritate Ch’esce dal vostro viso Che passa ogn’altra bellezza terrena, E lo veder m’allena, Ed attuta ed affrena A somiglianza di spera di sole, Quand’uom per istagion guardar lo suole. Di ciò si duole—il mio cor, c'ha volere Di voi vedere, E guardar non vi puote quant’ei vuole. V. Nannucci, Manuale della Letter. del primo secolo della lingua Itol. 2 ed., v. 1, p. 219. Firenze 1856.‘ : E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 33 italiana, ma è già, malgrado gli elementi locali un parlare comune a tutti i ri- matori italiani, e che tende più a scostarsi dal particolare del dialetto, e dive- nire il linguaggio delle persone civili.... La Sicilia divenne il centro della coltura italiana. Fin dal 1166 nella Corte del normanno Guglielmo II convenivano i tro- vatori italiani. Sotto Federico II l’Italia colta aveva la sua capitale in Palermo. Tutti gli scrittori si chiamavano siciliani » (1). E se ciò per la lingua usata nel Contrasto, e pel suo carattere, l’uno e l’altro tanto distanti dal linguaggio e dallo spirito de’ poeti aulici, cioè del periodo svevo, sì che il Contrasto « è uno de’ Canti più antichi dell’arte popolare (Bar- TOLI);» ed « è ben difficile che trovisi un altro esempio così notevole, così dif- fuso e così caratteristico della prima forma della nazionale poesia (D’AnconA); » quale sarà mai l’età del poeta, senza dubbio siciliano, e perocchè è esistita sin da’ tempi musulmani una città che si chiama Alcamo, e tuttavia si sente tra noi il nome di Ciullo, Ciuddu, Ciuzzu, °Nciulo, °Nzulu, (vezzeggiativi finali di Vicen- ciullo, Vicenciuzzu, Vicenzulu) non senza ragione detto Ciulo del Camo, e Ciullo d’Aleamo? La critica contemporanea consente cogli scrittori siciliani che «la poe-. sia di Ciullo, nella sua incondita semplicità, nella sua ingenua rozzezza, a niuna altra assomiglia e fa razza da se... Ciullo cantò in un tempo lontano egualmente dalle prime informissime prove, e dagli ultimi raffinamenti : e, così com'è, questa poesia suppone necessariamente tutto « un ciclo poetico » dietro di se (D'Ancona, De SancTIS), » ma, soggiunge, dalla rozzezza di Ciullo non si deve inferire, sic- come pretendono i siciliani, l’antichità del poeta : « Ciullo è più rozzo perchè se- guace d’altra maniera di poesia, popolare, non cortigiana (D’Ancona, pag. 261, nota). » Il che sarebbe lo stesso di dire che Ennio sia stato dei tempi di Augu- sto, benchè i suoi versi ritraggano la rozzezza de’ tempi degli Scipioni. Non si dubita per nulla che Compagnetto da Prato, Saladino da Pavia, Fredi da Lucca, Paganino da Serzana, Pucciarello e Maestro Migliore da Firenze, Messer lo Abate da Napoli, Dante da Majano, Ciacco dall’Anguillara, e i nostri Jacopo da Lentino, Mazzeo da Messina, Ranieri, e Ruggerone da Palermo, siano proprio delle città, delle quali portano il nome. Ma sì dubita per opposto, anzi si nega, che Ciullo dal Camo, o d’Alcamo sia di Alcamo; quasi non bastasse la composizione araba d’el camo, o d’al camo, }Alkamah di Edrisi e d’Ibn Djobair, e la tradizione sola- mente in Alcamo di una casa di Ciullo, di antica fabbrica, rifatta nel secolo XVI, e nuovamente pochi anni sono sotto gli occhi nostri (sufficiente a signore, e non una bicocca, come l’ha detto il sig. De Bon, senza punto averla veduta, nè anche in disegno); o l’ essersi creduto dagli eruditi Alcamesi del secolo passato che Ciullo fosse stato della nobile famiglia Colonna, nella quale è assai antico il nome de’ Ciulli, quasi per tradizione dell’antico poeta, non plebeo, nè pezzente, siccome il predica la nuova critica, ma in condizione di poter mettere una difesa (1) V. Storia della Letterat. Ital. 2.* ed., vol. 1, p. 6. ol DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI di duemila agostari, e di presentarsi a donna che poteva vantare monticelli di perperì d’oro, e di essere stata cercata da marchesi e giustizieri, i quali pur eb- bero il suo rifiuto, sì come anche al poeta fa sentire che poco apprezza le sue mill’ onze di aviri, patrimonio ragguardevolissimo a que’ tempi, quando il feudo poteva costare anche di venti e di dieci onze di rendita (1). Or sono queste mil- lanterie, ci dice il Bartoli, prese sul serio e alla lettera da’ siciliani (pag. 130): e sia. Il castiello e la forte magione e le correnti vicine, sono o una capanna o un bugigattolo o una taverna e le correnti il rigagnolo di una strada o l’acqua sporca del taverniere, se Ciullo è stato anche detto « un D. Giovanni da taver- na; » e così i titoli di madonna e di cavaliere, sono l’ironia scambievole de’ due amanti popolani, e i perperi e le mill’onze nomi vuoti di significato, come nomi di pompa i marchesi e i giustizieri che per la ripulsa ne sarebbero andati molto fieri: ma donde mai, domanderemo noi, i nuovi critici hanno attinto i docu- menti che la donna del Contrasto sia stata una femmina da trivio (D’ANCONA, p. 213), e il poeta un pezzente, o per lo meno « un uomo e una donna del volgo (BARTOLI, p. 129)?» Nella Sicilia Normanna, quando s’innalzavano Cattedrali e Palagi di marmo e di oro, non si poteva essere poeta e nobile signore ? ovvero furono anch’essi uomini di volgo e pezzenti Stefano Protonotaro, Jacopo da Len- ntii, Guido Giudice e Oddo delle Colonne, o Ranieri e Ruggerone da Palermo con Inghilfredi, i cui nomi accennano al casato normanno, e però della baronia del Regno ? E una donna che minaccia di chiudersi in monastero, sarà davvero donna del volgo, quando i monasteri erano per le donne e le fanciulle di sangue nobile, sì da aver potuto con esse convivere ed educarsi la normanna Costanza che fu sposata ad Errico di Germania, e, secondo la tradizione, la Rosalia Sini- baldi, che fu di sangue regio ? I due versi ultimi che chiudono il Contrasto sono, si dice, di donna di poco pudore: ma non si è avvertito che l’ amante dopo il giuramento su’ Vangeli è già moglie; che prima di arrendersi dice, SIN adomanami a mia mare e a mon peri; Se dare mi ti degnano, menami alo mosteri, E sposami davanti dela jente E poi farò le tue ’comannamente. So non ale Vangelie, chomo ti dico, jura, Avere me non puoi in tua podesta; e il canzoneri risponde, Sovr’esto libro juroti, mai non ti vegno meno. (1) V. GaraorIo. Consideraz. sopra la Storia di Sicilia. L. II, c. IV, ove è riferito dall’I- sernia: “ feudum communiter est in Regno de 20 unciis annuis:, ma se la rendita non ve- niva da terre “ poteva contarsi come feudatario ed obbligato al servizio militare chi pur godesse di onze 10 annuali per qualsiasi altra ragione. , E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 39 _—ttttttttttttt£t£;ttkttrtkt+ktt+kk+££+-F-F-FrF,,,;,;r_ Allora la donna chiama il cavaliere meo sire; e aggiunge, Sono ala tua presenza, da voi non mi difenno S’eo minespreso àoti, merzè, a voi m’arrenno. Ma il Vangelo non poteva essere pronto in mano del cavaliere, si dice da’ cri- tici, nè s'avrebbe potuto tenere in petto così grosso volume (GRION); e « certo Ciullo non ce l’aveva: ma per assicurare la sua donna, omai del resto vicina ad arrendersi, se ne vantava, e si poneva la mano sul petto, al luogo dove doveva essere, se ci fosse stato (D’AncoNA, p. 217). » Se Ciullo aveva o no con se il libro de’ Vangeli nol so io che non mi trovai presente alla scena: ma che non ce l’avesse perchè non poteva portare în seno così grosso volume, ci fa maraviglia a leggerlo, quando si sa che i primi Cristiani potevano portare in seno gli E- vangeli, senza essere il grosso volume che diciamo oggi Messale, e si avevano fra i libri liturgici a parte gli Evangeliarit, che servivano ai diaconi, e contene- vano ora il testo completo e per ordine de’ Vangeli co’ passi indicati da esser letti alla messa, ora, i più moderni, spesso una raccolta di passi staccati e appropriati all’ordine delle domeniche e delle feste (1). Che anzi potrei mostrare un codice del sec. XIII, che contiene tutta la Bibbia, il quale si avrebbe potuto portare in seno da Ciullo, senza avvedersene nessuno. È il giuramento sul Vangelo, onde la donna è vinta, che la fa cedere al cantore, divenuto suo sîre, e così più for- tunato de’ conti, cavalieri, marchesi e giustizieri, che indarno la domandarono del frutto del suo giardino, prima di far cogliere il quale senza essere moglie si avrebbe fatta tagliare la testa, o si sarebbe gettata in mare al profonno (2). E pur questa donna è una femmina volgare (Garx), e il poeta che giura su’ Vangeli un D. Giovanni da taverna, quasi il giuramento religioso del secolo XII fosse il giuramento politico del secolo XIX E .pure l’ indole stessa del componimento e la natura dei contendenti non ci danno a vedere, ci si dice, «se non caratteri vol- gari e persone di volgo (D’AnconA, p. 228)!» Quanto poi all’età del poeta, attesa la defensa e gli agostari nominati, si ritiene come finita una questione che tuttavia è sotto lite, anzi è stata ripresa con mag- gior vigore coll’ultimo scritto pubblicato dal Vigo pochi giorni prima di morire (Alcamo 1879). A rispondere agli scrittori siciliani e non siciliani che hanno vo- luto la cantilena di Ciullo scritta prima che morisse il Saladino, cioè negli ul- timi anni del secolo XII, e non verso la metà del secolo seguente, il prof. D'An- cona ha trattato dottamente della defensa e dell’ agostaro e di Saladino in tre (1) V. MartIGny, Dictionnaire des Antiquités Chrétiennes ate. p. 4832-33. Paris 1877. (2) Che il Contrasto finisca col matrimonio fu pur notato dal prof. V. Pagano, (V. Pro- gugnatore, III, p. 158), benchè non crediamo affatto il Canto di Ciullo sia stato un epitala- mio per le nozze regali di Enrico Imperatore e di Costanza: o, secondo il Grion, per le nozze di Caterina figlia naturale di Federico II col Marchese del Carretto. 5) à 36 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI discorsi o appendici che seguono le chiose fatte al Contrasto di Ciullo nel volume delle Antiche Rime volgari secondo il Codice Vaticano 3793, sopra citato; conchiu- dendo dal titolo XVI delle Costituzioni di Federico, De Defensis imponendis, pub- blicate nel 1231, e dalla coniazione dell’ agostaro riferita dal cronista Riccardo di San Germano allo stesso anno 1231, che « se la defensa fu istituita dalle leggi del 1231, la poesia di Ciullo dev'essere posteriore a cotest’anno (D’ANCONA, p. 333); e che « Federico II avendo fatto coniare gli agostari nell’anno 1231, la poesia che li menziona non può essere anteriore a cotesto anno (p. 348); » che in un documento « non storico, ma poetico » il nome di Saladino è titolo, siccome quello di Soldano, che vale per nome di dignità di principato (p. 370), e non sono per- sonaggi storici contemporanei al poeta sopra cui debba farsi tanto rumore « per un misero d (D'Ancona, p. 365) » che potrebbe correggersi se non in au, in appi, «quando ci paresse che a sciogliere il nodo della controversia fosse necessario ricorrere a correzione del testo (D'Ancona, p. 361).» Onde il Bartoli ebbe a dire: «il grande e terribile argomento sul quale si fondano alcuni per creare un pe- riodo letterario siculo normanno, è quell’ha del Saladino: troppo povera cosa invero per dar luogo ad un effetto sì grande. » «Sull’età sua (cioè di Ciullo) in- torno alla quale elevarono strane pretensioni varii scrittori siciliani, oggi non è più da stare in dubbio,... esso appartiene ai tempi di Federico II (1). » A queste conclusioni, che si tengono inespugnabili, come « punto, dice il Bartoli, messo oramai fuor di questione (p. 125), » io «redo abbiano dato contrario argomento essi stessi i critici citati, quando non pel misero 4 del Saladino e del Soldano, che è ne’ versi Se tanto aver donassimi quanto a lo Saladino, E per ajunta quanto a lo Soldano, sì che mostra il poeta accennare ai due nominati come viventi, e però che poe- tava non dopo del 1193; ma per l’indole stessa del componimento han dovuto dire, che la poesia di Ciullo non assomiglia ai componimenti aulici della Corte di Federico, e il poeta « cantò in un tempo lontano egualmente dalle prime in- formissime prove, e dagli ultimi raffinamenti (D'Ancona, p. 260);» che innanzi a Federico ci fu in Sicilia una poesia indigena popolare, e Federico « si fece centro di una scuola che trasportò la nuova arte dalla piazza alla corte; » tanto che «è curioso il trovare in mezzo ad una canzone di maniera affatto cortigiana versi che non hanno nulla che fare col rimanente, e che ricordano invece la forma popolare, riconferma dell’esistenza di un’arte indigena del volgo, preesi- stente alla scuola che tolse a modello i Provenzali » (2). Non cito altri passi ba- (1) V. presso D'Ancona, p. 3 73, e Storia della Letteratura Italiana, 2. ediz. v. II, p. 123 ediz. cit. (2) V. Bartoli, Storia della Letter. cit., v. II, p. 172, 184. RT TEO 7 TO E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 37 stando questi, che sono del D’Ancona e del Bartoli, a dimostrare se siamo o no noi siciliani a voler fondare sopra un a un periodo letterario siculo normanno. Questa letteratura, indigena, anteriore all’ imitazione provenzale, preesistente a Federico, della quale è un saggio e un avanzo la cantilena di Ciullo , la quale non appartiene affatto alla scuola cortigiana, debba o no esser chiamata siculo normanna, se innanzi allo splendore della Corte Sveva non ci fu che il Regno Normanno? A noi siciliani, che crediamo non avere ancora perduta la logica, pare di sì; nè quindi possiamo facilmente ritenere come finita la questione della defensa, dell’agostaro, e del Saladino, per le sole ragioni finora addotte dal D’An- cona, contro ai molti argomenti che dal Colocci, e dall’Allacci, da Apostolo Zeno, dal Muratori, dal Tiraboschi, e da’ più recenti e nostri Palmeri, Emiliani Giu- dici, Amari, Sanfilippo, La Lumia, Vigo, si raccolsero sul proposito. Per la defensa, creduta solamente istituita la prima volta dalle Costituzioni di Federico nel 1231, il Vigo pubblicava prima di morire una lettera del prof. Ed. Boehmer dell’Uni- versità di Strasburgo, uno de’ dotti tedeschi che più si occupano di storia e fi- lologia italiana, nella quale lettera è detto che «evidentemente nella Costitu- zione imperiale la parola si usa come parola ben conosciuta: (1)» onde è che poteva bene essere o una consuetudine, o un ordinamento de’ tempi normanni, stante nel proemio delle sue Costituzioni lo stesso Federico avvisare: «In quas precedentes omnes Regum Siciliae sanctiones et nostras (quas servari decerni- mus) jussimus esse trasfusas » (2). Come si può sostenere che la defensa non sia passata nelle Costituzioni Imperiali dalle Sanzioni più antiche (3) e dalle con- suetudini del Regno, nelle quali molte cose furono accettate dal diritto franco e longobardo? E però è assai vacillante questa parte della critica contro le pretese degli scrittori siciliani che vogliono sia stata scritta la Cantilena di Ciullo un trentotto anni prima del tempo, che le si vuole assegnare dal D'Ancona e dai LI critici citati. Nè per altro verso è meno vacillante l’altro argomento fondato (1) V. Vico, Appendice alla Disamina e al Comento della Tenzone di Ciullo d’Alcamo, p. D4. (2) Così il Testa nella sua Dissertazione De ortu et progressu Juris Siculi, che va premessa ai Capitula Regni Siciliae, t. 1, p. XIV € Leges Nortmannorum Regum, nempe Rogerii I, Gullelmi I et Gullelmi II, suis coniunetae, exemplo Imperatorum Theodosii, et Justiniani, ut in unum codicem colligerentur, curavit Imperator Fridericus ex strenua Svevorum gente prognatus, ‘qui jure Constantiae matris in Regnum Siciliae successerat. Hujus rei conficien- dae negotinm dedit Petro de Vineis, doctissimo, ut illis temporibus, Jureconsulto et Judici magnae Curiae; quo ipse consiliario, et ab epistolis utebatur. Ubi opus absolutum fuit, has leges, sive constitutiones, ut inseriptae fuerunt, in conventu Melphiensi Fridericus ratas ha- buit, sc in publicum ab omnibus servandas proposuit anno 1231. , (3) Vedi nel La Lumra, Za Sicilia sotto Guglielmo il buono, V Appendice che tratta del co- dice Vaticano delle antiche Costituzioni di Sicilia esaminato dal Merlcel, nella quale Appen- dice si riferiscono le Costituzioni di re Guglielmo contenute in quel Codice, e comprese nelle Costituzioni* Fridericiane. 98 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI sulla coniazione degli agostari riferita da Riccardo da San Germano nel dicem- bre del 1231. Il Cronista stesso ci fa sapere che nel mese di giugno 12341 « Con- stitutiones novae, quae Augustales dicuntur, apud Melfiam, Augusto mandante, conduntur, » le quali indi si pubblicavano nella stessa Amalfi nef mese di ago- sto: « mense augusto..... Constitutiones Imperiales Melfiae publicantur. » Gli ago- stari non vengono coniati se non nel mese di dicembre: « Mense decembri..... Nummi aurei, qui Augustales vocantur, de mandato Imperatoris in utraque Sicla Brundusii et Messanae cuduntur.» Indi nel mese di giugno del 1232 è notato dal Cronista: « Mense Junii quidam Thomas de Pando civis Scalen. novam mo- netam auri, quae Augustalis dicitur, ad S. Germanum detulit distribuendam per totam Abbatiam, et per S. Germanum, ut ipsa moneta utantur homines in em- ptionibus et venditionibus iuxta valorem ei ab Imperiali providentia constitutum, ut quilibet nummus aureus recipialur, et expendatur pro quarta unc. sub poena personarum et rerum in Imperialibus litteris, quas idem Thomas detulit, anno- tata. Figura Augustalis erat habens ab uno latere caput hominis cum media facie, et ab alio aquilam.» Sono questi i due passi su’ quali va sostenuta la non esistenza dell’agostaro innanzi alla coniazione del 1231. Ma innanzi tutto, io non so più intendere come si possa pubblicare una legge che voglia soddisfatte le pene pecuniarie in moneta (1), che alla pubblicazione della legge non esiste; stante le Costituzioni essere state pubblicate nell’ agosto, e gli agostari essere stati battuti nel dicembre (2). Le Costituzioni suppongono che i popoli avessero (1) Gli agostari sono appunto nominati nel titolo XIII delle Costituzioni, che è: Si quis mulieri violentiam patienti et clamanti non succurrerit ; ove è detto: “ Quod si non fecerit, quatuor augustales in poenam tam nocive desidie camere nostre componat., E l’Huillard- Brèholles annota: “ Prima nunc de hac aurea moneta mentio. Eamdem tamen non ante mensem decembrem hujus anni 1231 memorat Riccardus de S. Germano. » V. Hist. Diplo- mat. Imperat. Fredericî II, ete. t. IV, P. I, p. 25. Paris 1854. Il D'Ancona ha creduto (p. 356, n. 2) che io mi avessi riferito a questo titolo delle Co- stituzioni Fridericiane a proposito di sostenere che il Viva, o vive, l’Imperatore , di Ciullo, non debba essere inteso di Federico; e mi oppone una considerazione del De Blasis sul va- lore della pena minacciata in questo titolo. Ma io intendeva sostenere il mio avviso sulla pena minacciata nel titolo XXIII, e non su questa del titolo XIII, che si è citata. Nè era poi difficile lo scorgere lo sbaglio del 1221 invece del 1231; onde debbo io qui correggere la nota (2) di p. 7 del vol. 1.° Filologia e Letteratura Siciliana, ove è detto sull’autorità del Muratori che la Giunta alla Cronica di S. Germano, riferita dal Vergara, dava battuto l’a- gostaro nel 1221; essendo quella Giunta così detta il passo stesso del Cronista che si legge sotto l’anno 1231; siccome con ragione ha fatto rilevare il D'Ancona, correggendo lo sbaglio preso dal Muratori, per poca considerazione sul passo riferito dal Vergara. (2) Il Grion ha prevenuto questa obbiezione dicendo che Riccardo “ è cronista, annalista se vuolsi, ma non iscrive effemeridi, o epimenidi; in fine dell’anno 1231 annota: si coniano gli agostari a Brindisi e Messina, non dice che s’ incominciarono a coniare in Dicembre, tutt'al più che anche alla fine dell’anno si continuavano a coniare, come si sarà proseguito E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 39 già notizia della moneta, nella quale dovevano essere soddisfatte le pene inflitte in esse Costituzioni: ne è detto nelle Costituzioni che quella moneta allora non esisteva, ma si sarebbe provveduto col coniarla quanto più presto: avvertenza del resto che non sarebbe stata degna nè del compilatore delle Costituzioni che fu il dotto Segretario imperiale Pietro delle Vigne, nè della mente non comune dello stesso Imperatore. Di più, ì passi del cronista debbono intendersi riferen- dosi agli altri passi che accennano a coniazione di monete fatte da Federico, e‘ prima e dopo che sono notati gli agostari. Ora leggendo all’ anno 1239 « Impe- riales novi cuduntur Brundusii» ognuno crederà senz’altro che appunto in quel- l’anno gl’imperiali nuovi fossero stati da Federico sostituiti ai vecchi; e intanto noi sappiamo dallo stesso Cronista che per lo innanzi gli imperiali nuovi erano stati coniati nel 1236: « Hoc annu jussu Imperatoris Brundusii novi Imperiales cuduntur, et veteres cassati sunt;» e questi Imperiali qui detti veteres battuti nel novembre del 1225, non erano altro che i danariî novi: « Denarii novi, qui Imperiales vocantur, cuduntur Brundusii, et veteres cassati sunt:» del modo stesso come nel 1221 aveva fatto coniare in Amalfi i tarì nuovi, in sostituzione degli antichi, « Tareni novi cuduntur Amalphiae ». Federico coniò tari nuovi, danari nuovi, e Imperiali nuovi (1); e con tutta ragione dobbiamo anche credere agostari nuovi; ciò che volle dire il- cronista con quel notare « novam monetam auri, quae Augustalis dicitur:» il che confermano gli archeologi avvisando co- me l’agostaro non sia stato altro nel conio che una ripetizione del nummo aureo antico, il nome stesso che dà all’ agostaro Riccardo da S. Germano. « Metallo, modulo, tipo, lavoro, tutto nell’agostaro, dice il Longpérier, pare copiato dagli aureì imperiali dell’ antica Roma (2).» E però non nuovo l’agostaro di Federi- negli anni seguenti fino ‘alla morte di Federico e non più.,, V. Propugnatore, an. IV, P. I, pag. 115. Ma Riccardo conduce la sua narrazione per anni e per mesi, e se nota la pub- blicazione delle Costituzioni in Amalfi mense Augusto (Constitutiones Imperiales Melfiae pu- blicantur) quando aveva notato sopra “ mense junùi..... Constitutiones novae, quae Augustalis dicuntur, apud Melfiam, Augusto mandante, conduntur; , non senza ragione è notato: “ mense Decembri.... Nummi aurei, qui Augustales vocantur, de mandato Imperatoris in u- traque Sicla Brundusii et Messanae cuduntur. », Sì che dal giugno 1231, che sono compilate le Costituzioni, sino che nel giugno 1232 si distribuisce in San Germano, ove le Costituzioni si pubblicavano mense februario , la nova moneta o il nuovo agostaro, passa un anno, sul quale, con questa precisione di mesi usata dal Cronista, non facilmente avrebbe dovuto passare il prof. Grion , i cui scritti sono sempre pieni di molta erudizione. La cronica di Riccardo va per anni e mesi, e non è lecito non tenerne conto in una questione di date storiche. {1) Il D’Ancona crede (p. 237) che gl’Imperiali del 1236 siano gli stessi che gli Agostari riconiati ; donde si spiegherebbe la varietà di tipo: ma Imperiales son detti i denarii novi coniati in novembre 1225, e non gli agostari del 1231. (2) V. Encyclop. du XIX siècle, cit. dal D'Ancona, p. 337.‘ 40 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI co (1) nè pel nome, nè pel tipo, fu moneta nuova pel nuovo valore attribuitole da Federico, siccome si rileva dal passo così minuto del Cronista, nel quale, se- condo che notò a proposito il Sanfilippo, la parola novam di Riccardo « non ri- guarda il nome, sibbene il valore. » Nè debbasi credere di poco momento il fatto che la Costituzione XLV che è nelle pubblicate da Federico nel 1231, nella quale è nominato l’agostaro, è stata rivendicata appunto a re Guglielmo I, dall’Huil- lard-Brèholles e dal duca di Luynes, sì che fu scritta, « prima che fosse nato Federico » dice il Vigo (2); cosa non ignorata dal D'Ancona, il quale nota esser vero che la Costituzione s’intitola dal re normanno, ma non vi si fa menzione alcuna dell’ agostaro , e però crede che i copisti, « per strano errore, alla legge cui precede il nome di Guglielmo aggiunsero il brano ove si ricordano gli ago- stari (p. 345).» Il quale strano errore de’ copisti ci pare sottosopra come l’a del Saladino, che fu errore o figura poetica di un canzoneri, che pur sapeva dello difensa, e secondo il Caix avrebbe pur saputo a mente le pastorelle francesi, se potè dire alla sua donna quel Rosa fresca aulentissima , che è tutta imitazione provenzale (1). A sapere un siciliano che esistono delle rose fresche e odorose, alle quali può esser comparata una donzella, bisognava invero apprenderlo da provenzali; tanto è esotico questo fiore alle campagne e ai giardini di Sicilia! E continuando contro Ciullo, com’ è possibile, si dice, il farlo vivere contem- poraneo al Saladino, cioè prima che finisse il secolo XII, quando Alcamo era a- bitato da musulmani, e non da cristiani, secondo la testimonianza d’Ebn Djobair che appunto viaggiava in Sicilia nel 1184-85? Facendo questa obbiezione non nuova, nè molto debole finchè fu creduto che l’Alcamo presente fosse nato ai tempi di Federico Svevo verso il 1222, o di Federico Aragonese verso il 1332, cita il D'Ancona quello che io scrissi nel 1866 sul proposito, sostenendo che il viaggiatore arabo dovette fermarsi nell’ Alcamo presente, o non salire la città ch’era sul Bonifato, viaggiando da Palermo per Trapani; e osservando in opposto il D'Ancona che l’Alcamo vecchio musulmano fosse stato sul Bonifato, e 1’Al- camo nuovo sia la presente città del basso, ove sarebbero stati fatti scendere i musulmani dell’alto nella insurrezione domata del 1222; onde l’Alcamo cristiano sarebbe posteriore all’età di Ciullo, che fu poeta cristiano e non arabo, e però non del 1193, ma ben fiorito dopo il 1231 sotto Federico. Quando scriveva io quel passo citato riguardante il passaggio per l’Alcamo abitato da musulmani del viaggiatore Ebn Djobair, la storia delle origini di Al- camo era un po’ confusa, e la città presente del piano era creduta una nuova Alcamo succeduta nel secolo XIII o XIV alla vecchia Alkamak, già esistente nel 912, quando nella sollevazione di Palermo contro il Governatore mandato da (1) Sotto Federico Aragonese nel 1330 le multe si comminavano in agostari, e intanto l’agostaro era morieta del regno svevo, siccome sotto Federico imperatore poteva essere del regno normanno. V. De Vio, Privil. Panhorm. p. 108. Pan. 1706. (2) V. Appendice alla Disamina e al Gomento della Tenzone di Ciullo d' Alcamo, p. 45. E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA È 41 —Pr___—r—r_r_-.rrC&-6--€©>r-—r>yytitk9T;r»rrr_r!rggsrrr-:-,r--sr.r:-r--,----- Al-Mahadi in luogo di Alì, il governo della città fu tenuto da Khalil signore di Alcamo (saheb-al Khams-ou-Koms), che fu ucciso in Palermo nel 913, forse, se- condo l’avviso del Casiri, per la carica che esercitava (1). Ma dopo gli studii che raccolsi nel volume delle Notizie storiche della Città di Alcamo seguite dai Capitoli, Gabelle «e Privilegi della stessa città, e pubblicai nel 1876, non è più da dubitare che VAI Kamak musulmano esistette sempre dove è l’Alcamo presente, e che furono ben distinte la città del piano, al Kamak, al-Khams (beleda o mensil) e la terra Bonifati del monte così sotto gli arabi, come sotto i Normanni (2), gli Svevi e Aragonesi, fino a quando nel secolo XV la terra Bonifati venne meno, e i pochi abitanti si raccolsero certamente nella città del piano, del cui territorio fece parte il vecchio territorio del Bonifato. Ma se Ibn Djobair ci lasciò scritto che in Al-Kamach fu consolato di trovarsi in mezzo a suoi correligionarii, e la terra avea delle moschee e mercato, s'intende sempre della terra che oggi è l’Alcamo presente, è pur saputo che nel 1231, cioè quarantasette anni dopo che vi pas- sava Ibn Djobair, l’antica beleda musulmana era terra cristiana, sì che il Beato Angelo di Rieti compagno di San Francesco, vi fondava un convento di Frati francescani (8), se pure non si tiene come più antica, e del secolo stesso XII, secondo le tradizioni e gli scrittori municipali Alcamesi, l’antica chiesa, che fu parrocchiale, di S. Maria della Stella, consacrata da Goffredo Vescovo di Mazara nel 1313. La beleda, o mensil arabo, al Kamach, fu costituito da più borghi, che si distinsero sino a tempi recenti con nomi diversi; e però nessuna difficoltà che Ibn Djobair, si fosse fermato per la notte che vi passò in uno di quei bor- ghi abitato sovratutto da musulmani, quando negli altri borghi potevano abitare cristiani (4), nè dovevano questi esser pochi se fra pochi anni fu edificato tra loro un convento, e nel I270 vi si raccolsero, fuggendo la peste scoppiata in Tra- pani, i soldati francesi che ritornavano dall’impresa di Tunisi, cioè da una guerra impresa contro i musulmani di Africa. Giullo adunque poteva bene, siccome fu detto dall’Amari, trovarsi in Alcamo giovinetto e cristiano, quando nel 1184 vi passava Ibn-Djobair, sospirando alla vista delle nostre floridissime città e delle (1) V. Novairo, Storia di Sicilia nella Nuova Raccolta di scritture e documenti intorno alla dominazione degli Arabi in Sicilia, p. 283. Pal. 1854, e GregorIO, Rerum Arabicar. Ampla Collectio, p. 13, 44. Amari, Biblioteca Arabo-Sicula, v. 1, p. 183 “ Biùnifàt ,, Bonifato, p. 223 “ Alqamah , Alcamo (sec. XII). (2) Vedi il diploma di Guglielmo II del 1182 detto il Zollo riportato dal Lo Giudice nei Privilegi ete. della Chiesa di Monreale, p. 14, e le nostre Notizie Storiche di Alcamo, p. 14-16. (3) V. Pirri, Sicilia Sacra, Not. Eccles. Mazar. VI. (4) L’Alkamah era dentro i confini che nel 1093 il Conte Rugero assegnava in diocesi a Stefano vescovo di Mazara, e rispondeva nel mezzo dei due confini nominati dal diploma, perchè posti nella linea del mare, cioè Calathamet (presso Castellamare) e Calathubi (vici- nissimo ad Alcamo da settentrione, e castello oggi abbandonato). Possiamo credere che an- che nell’Alkamah non ci fossero stati cristiani, siccome ne’ luoghi vicini ? 492 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI bellezze naturali dell’Isola, che Dio l’avesse potuto ritornare ai musulmani e al culto del Profeta. Che se poi non potrà essere dell’età di Ciullo, la casa che in Alcamo si chiama per antica tradizione Casa di Ciullo, attesa la sua architettura, che non pare poter risalire, pur sotto i rifacimenti del secolo XVI, e i più re- centi di questi ultimi anni, più in su del secolo XV o XVI; non pertanto la tra- dizione prova qualcosa, cioè che Alcamo sola fra tutte le città di Sicilia sì è ri- tenuta patria del vecchio poeta, il quale poteva bene aver là, vicino al Castello, nel cui spiazzato di oggi fu una chitatella, fabbricata da Guarneri di Ventimiglia «davanti lu Castellu, in lu quali planu a suo principio eranu casi di Boni ho- mini di Alcamu, ed ora esti in tuttu disfacta» siccome si legge ne’ Capitoli del 1398 (1); nè la creduta dalla tradizione è una bicocca, siccome piacque di chia- marla al De Bon, senza averla veduta, bensì una conveniente dimora con atrio, fonte, e scale, di ricca famiglia. Pertanto, se il componimento di Ciullo, appartiene per se stesso a un ciclo poetico anteriore alla scuola aulica di Federico; se la defensa è data come cosa nota dalle stesse Castituzioni del 1231, e però il poeta poteva ben conoscerla dalle antiche Consuetudini del Regno, nelle quali molte cose furono accettate dal diritto in vigore sotto i re Normanni, de’ quali Federico raccolse nelle sue le antiche Costituzioni che avevano forza di leggi del Regno (2); se gli agostari sì trovano nominati nelle Costituzioni stesse del 1231, quando anche non sì vo- glia che siano stati nominati nella Costituzione di Guglielmo, già prima di es- sere battuti nel dicembre di quell’anno, e del resto si sa dal cronista medesimo Riccardo che Federico coniò tarì nuovi, danari nuovi, e più volte gli imperiali nuovi, sì che potè coniare un agostaro nuovo; nè altro che questo si vuol dire dicendoci il Cronista: « Nummi aurei, qui Augustales vocantur, cuduntur » e « no- vam monetam qauri, quae augustalis vocatur,.... » del modo stesso come dice ta- reni novi, danari novi, stante chè l’agostaro di Federico non fu che riconiazione dell’antico agostaro o nummo aureo con diverso valore ; io non saprei intendere per quale ragione Ciullo non abbia potuto scrivere anteriormente al 1231, cioè sugli ultimi anni del secolo XII, e però si debba correggere l’a del verso, Se tanto aver donassimi quanto à lo Saladino, il quale moriva nel 1198; e così il Saladino debba esser preso come titolo e di- gnità, a guisa de’ Faraoni, e de’ Cesari, e non storicamente, come persona indi- vidua la fama del cui valore e delle cui ricchezze doveva essere molto sparsa in Sicilia. Non intenderò mai che ad altri trent’ anni e più, quanti ne sarebbero (1) V. Notizie storiche della Città di Alcamo, p. 49. (2) “ Falso quas nos Regni Constitutiones vocamus, Imperiales Constitutiones appellantur, nam hae non solum Friderici Imperatoris, sed et Rogerii, et utriusque Guilelmi leges com- plectuntur, » Testa, Capitula Regni Siciliae, proem. p. 4, t. I. Pan. 1741. E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 43 passati da Saladino alla Cantilena di Ciullo, ritenuta posteriore al 1231, qualcuno potrà dire in Italia «non mi vinceresti, se pure avessi il valore che ha il re Vittorio Emanuele:» e porto questo esempio, perchè il Grion e il D'Ancona, ri- petendo, senza citarla, una opinione del Crescimbeni (1), vogliono che il nome di Saladino era restato popolare come il fondatore della potenza della dinastia degli Aiubiti «che da lui ebbe valore e nome (D’AnconA, p. 370)» e perehè il Bartoli ha creduto che per un a non si debba ancora stare in dubbio che Ciullo s’appartenga a’ tempi di Federico (2), siccome sostenne in favore del suo Fol- cacchiero il De Angelis contro del Tiraboschi , e de’ più antichi, i quali, com- preso anche il Crescimbeni, ritennero che « assai diversa dalla lingua purgatis- sima di Guido è la lingua rozzissima di Ciullo dal Camo, il quale, secondo l’Al- lacci, fiori negli ultimi anni del secolo precedente (3). » Il Contrasto di Ciullo, o signori, è anteriore alle Canzoni della Corte sveva, come anteriori saranno la defensa e l’agostaro alle Costituzioni di Federico; se in queste furono raccolte le sanzioni de’ re precedenti (4); Ciullo potè vivere sotto Federico, e fin dopo il 1231, se non morì giovane, ma il suo Canto è del tempo di Enrico Imperatore , sic- come abbiamo altrove sostenuto, e sostengono i nostri scrittori contemporanei, il Giudici, l’Amari, il Sanfilippo, il Vigo, il La Lumia, del quale Imperatore pare aver seguito le parti e le fazioni in Italia, se a segno di non temere del padre e de’ fratelli della donna, con baldanza rispondeva nei suoi infocati versi : Se i tuoi parenti trovanmi, e che mi posson fare? Viva, (o vive) lo Imperadore, graz’a Deo. Saranno arzigogoli, esagerate pretensioni di noi di Sicilia, che non sappiamo in- gollarci la portentosa applicazione del transformismo darwiniano al nome patrio (1) V. Istoria della Volgar Poesia, L. I, p. 3. Roma 1698. (2) € Io non mi lascierò mai indurre, dice in contrario il Pasquini, nell’opinione del Cre- scimbeni, il quale giudica insignificanti per assegnare il tempo della Canzone, le parole Se taut’aver donassimi quant’ha lo Saladino etc. , V. Del’unificazione della, lingua in Iltalia, Libri tre, L. 1°, pag. 44. Firenze 1869. (3) V. Cresciuseni, Comentariù intorno alla Istoria della Volgar Poesia, L. 1, c. IV. Ro- ma 1702. (4) L’Ancona opina (p. 333) che la invocazione del Papa, cioè la defensa che pur si trova nelle Costit. March. Anconit., posteriori alle Costituzioni Fridericiane del 1231, vi sia stata ammessa dalle Costituzioni Imperiali: ma io credo anzi che sia questo argomento che la defensa era cosa più antica delle Costituzioni di Melfi; chè non pare ammissibile che i Papi avessero accettata una creazione legislativa di Federico, mutando la invocazione dell’Impe- ratore in invocazione del Papa (ut per invocationem papae vel sui legati vel rectoris pro- vinciae se defendant, etc.), o del legato, o del rettore della provincia. Potevano. volentieri accettare una Costituzione normanna, ma non una disposizione di leggi sveve, ordinata da un principe ritenuto nemico della Chiesa. 6 44 DEL VOLGARE USATO DA” PRIMI POETI SICILIANI _—_———————TrTrt*t»m\|”]Tt+€t€t+è]|+ÉTÉTtÉet@&®Tro®o@oeWmUWm(m(mumio(|\ol(l!ìe] [([7Y 7YT| = ———————____ _——_—_—_——_————————T—————— di Ciullo, il quale non sarebbe stato in principio secondo la scoverta del pro- fessore Caix che Iacomo pugliese, trasformato sotto la penna de’ copisti, per se- lezione grafica, in da Camo, sì che un nome proprio divenne a mano a mano una città di Sicilia, e si credette la Cantilena o Tenzone o Contrasto di origine sici- liana, quando nacque da bocca pugliese: ma noi ci tenghiamo tanto, quanto i nuovi tritici non siciliani tengono a togliere alla Sicilia la gloria di essersi u- sato prima in Palermo e in Messina il volgare illustre, che indi fu di tutta Ita- lia. E quando siffatti arzigogoli hanno l’autorità di Dante e di Petrarca, per non dire d’infiniti e di tutta la severa tradizione letteraria Italiana; quando negli studii recenti hanno l’ assenso di persone competentissime straniere, crediamo che debbano essere rispettati, nè far torto a nessuno se ci compiacciamo delle parole di Dante, e fra gli ultimi grandi Italiani, del Monti, il quale potè scri- vere senza passione: « siamo debitori ai siciliani, che di favella essendo greci essi stessi, agevolmente poterono dare al comune volgare romano le greche ter- minazioni, e fermare il principale carattere dell’Italico, e aver il vanto (che che si cianci in contrario) di esserne i veri fondatori. Sulle tracce de’ siciliani altri poi l’abbellirono e l’educarono a maggior civiltà e gentilezza, ma nol fondarono, non ne furono i padri (1); » se ripetiamo con un nostro storico: « fissare la forma grammaticale ed illustre, la forma che dovea farsi e restare nazionale e comune, sostituendola alle trivialità ed ai varii e peculiari caratteri del proprio e degli altri dialetti; tale fu dal 1150 al 1250 il compito di quei padri primitivi della poesia e della lingua » (2). E ora, o signori, è da dire, prima di conchiudere , del preteso provenzalismo de’ nostri antichi Rimatori, cioè del carattere della loro poesia. Il prof. Caix ha rinnovata la vecchia tesi del Crescimbeni, del Ginguenè, del Leo e del Faurviel, massime rispetto a Ciullo; e il Bartoli col Carducci e il D’Ovidio l’ha sostenuta (1) V. Proposta etc. I poeti de’ primi secoli della lingua Italiana. Pausa II, sc. 2. Il Cre- scimbeni, niente amico ai siciliani avvisa che i comentatori del Petrarca, esponendo il che fur già primi del Trionfo d’Amore, “ tutti concludono che i siciliani furon primi nel rimare, e furon poi superati dagl’Italiani, la qual sentenza, se non si dice, che i siciliani poetarono nella stessa lingua, che gl’ Italiani, ella apparisce data al bujo, perciocchè è contraria al testo del Petrarca, il quale tra i Poeti Italiani annovera anche i siciliani, e all’ erudizione, dalla quale abbiamo che pel decimoterzo secolo i siciliani componevano nella medesima lingua, colla quale adoperavano gl'Italiani. , E aggiunte altre ragioni conchiude: “ chiara- mente apparisce che i siciliani furono i primi, che poetarono volgarmente, cioè coll’ istessa Lingua, colla quale poscia poetarono gl’Italiani, il cantar dei quali anche in tempo di Dante si chiamava siciliano, come egli stesso afferma nel Trattato della Volgare Eloquenza.,» V. Comentarii intorno alla Storia della Volgar Poesia, vol. 1, pag. 2, 3. Roma 1702. Non du- bita poi il Crescimbeni, che sia un argomento di anteriorità questo “ che assai diversa dalla Lingua purgatissima di Guido è la Lingua rozzissima di Ciullo dal Camo, il quale, secondo l’Allacci, fiorì negli ultimi anni del secolo precedente (p. 11)., (2) V. La Lumia, Studii di Storia siciliana, v. 1, p. 227. Palermo 1870. E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 45 _— ———————*"*=*=#@#£*** *?* * g*g*--rF-*®=zz-=;e\/eE,),rrrr-:-r:-rrsr-,-,r-- EA ingenerati od immegliati nelle popolazioni. Anzi sarei di avviso, che la cifra del premio, dallo scrittore proposta pel migliore scritto in lire 1000, si elevasse a lire 6000 ed anche a più, se con un prezzo o con un premio potesse degnamente compensarsi un beneficio di tanta importanza per l’umana famiglia e per l’Italia. 2. Lo scrittore vorrebbe che il ritratto dalla vendita del libro, che sarà appro- vato, si deponesse, detratte le spese, in un fondo, che dovrebbe essere impin- guato dalla contribuzione de’ diversi Ministeri, e delle Provincie, e dalle possi- bili largizioni che da’ buoni cittadini si potrebbero sperare. Questo progetto arieggia il celebre istituto che in Francia fu fondato dal ba- rone Giov. Battista di Montyon nel 1782 sotto il titolo premio alla virtù. Questo istituto è affidato all'Accademia di Parigi, che in ogni anno dispensa, con una solennità delle più festevoli ed imponenti, i premî a coloro che avessero com- piuto virtuose azioni. Checchè ne abbiano detto i francesi, è un’ opera che, se non da loro, è dagli stranieri grandemente lodata. Giacchè ancora non è sorto fra noi un filantropo, che abbia pensato di dare alla virtù quel premio, che quaggiù le manca; io stimo lodevole il progetto dello Zecchini, che almeno il Governo prenda l’iniziativa a mostrare, che esso anche ha un premio pel virtuoso, come ha una pena pel colpevole. 3. Ma è decoroso che alla virtù si dia un premio? È già noto che Solone e Platone, come ci dice Cicerone, pensarono dovere una repubblica, ed in generale, ogni Stato, poggiarsi su queste due basi: premio, e pena. E Giovenale disse : Di Quis enim virtutem amplectitur ipsam, Praemia sì tolias? (Satyr. 10). Ma non ostante così solenne precetto, noi in fatto troviamo, che sin dalla stessa più remota antichità, vi ha un codice penale pe’ colpevoli, non però un codice remuneratorio per gli onesti (1). Bentham e Condorcet, per quanto razionale fosse il concetto di un premio da darsi alla virtù, lo contrastarono vivamente, e da ultimo contrastollo anche il Biichner come un colossale egoismo inventato per accreditare la esistenza di una vita futura | A’ due primi ha già risposto il Gioja nell’opera del Merito e delle ricompense; all’ultimo ha risposto lo stesso Zecchini nell’opera di sopra accennata Dio e Vu- niverso. Io confesso che trovo ben ragionevole il premio dato alla virtù. La virtù è un (1) Le ragioni deila mancanza di un codice remuneratorio sono state svolte da Spedalieri, Dritti dell’uomo, lib. 3, cap. VIII, IX. 16 SULLA PUBBLICA MORALITA” atto che costa un sacrificio, uno sforzo, che esce dall’ ordinario, e quasi si ri- guarda come un’opera non obbligatoria. Gli antichi accordavano le corone, l’o- nore delle statue, de’ banchetti, e de’ privilegi non agli uomini semplicemente onesti, ma a coloro che avessero renduti segnalati servizi alla patria. I loro atti non erano riputati grandi, se non perchè avevano costato a chi li compiva, un sacrificio. Chi fa il proprio dovere può dirsi di aver fatto un sacrificio? Se voi offrite una mancia ad un popolano che vi porge la.borsa che vi era caduta, voi cor- rete rischio di incontrare un disdegnoso quanto onesto rifiuto, sentendovi dire: Signore, io non ha fatto che il mio dovere! L’ onesto popolano è stato da voi mortificato, credendo voi di ricompensarlo. Egli si ritiene più che soddisfatto, se voi non fate altro che un sorriso. Egli non si arrende a riceversi un onesto com- penso, che quando sa voler voi come indennizzarlo del disagio, e forse delle spese sofferte per raccogliere la vostra borsa, per conservarla, per andare in traccia di voi, e per aver quindi sottratto un qualche tempo al lavoro, d’onde egli ricava per se e per la sua famiglia il pane della giornata. È a questo solo titolo che egli si potrà arrendere ad accettare la vostra ricompensa. L’idea di un compenso quindi, come la propone lo Zecchini, da darsi a colui o colei che per un anno non altro abbian fatto, che contenersi nella osser- vanza del proprio dovere, e della onestà, che dicesi, negativa, non parmi ra- zionale. Nè si dica, che come alla colpa si assegna la pena, così all’onestà debba asse- gnarsi il premio. La colpa è un atto a dir vero straordinario, il colpevole contravviene al suo dovere, ed esce quindi dall’ordinario, ed oltre a ciò esso turba l’ armonia delle parti, con cui è in contatto; ed è ben ragione che sia lui sottratta una parte di quei beni che avrebbe goduto, se fosse rimasto nel suo stato normale. Si gitta via, o si porta alla fucina quel pezzo, che nella macchina non adempie al suo dovere, e turba e ritarda il libero movimento dei pezzi che sono ad esso in con- tatto; i pezzi che adempiono al loro ufficio, si lasciano al posto loro, nè, se aves- sero di sè coscienza, reclamerebbero una rimunerazione. Se il signor Zecchini avesse proposto un premio per quel padre, per quella madre, che, pur togliendosi dalla bocca il pane, avessero procurato la cultura della loro prole; se egli avesse proposto il premio per quella giovinetta che ri- gettando le proposte d’infamia, avesse conservato, anche tra gli stenti della po- vertà, il suo candore; se avesse proposto un premio per quello sciagurato, che con una vita esemplare fosse giunto alla più nobile riabilitazione, e avesse fatto dimenticare l’uomo vecchio con le opere di chi sì rinvergina al pentimento; io troverei molto filosofica la sua proposta, perchè si premierebbe lo sforzo straor- dinario che han dovuto fare costoro, nella lotta contro la miseria, contro la se- duzione, contro le perverse tendenze. L’istituzione di Montyon se è pregiata all’estero, non è molto ben vista alla E L'ISTRUZIONE PUBBLICA IN ITALIA 17 Francia. La Convenzione l’ebbe abolita, ed anche oggi il Laroque (1) ne parla come di una istituzione ridicola! Qual credete voi che sia di tal disprezzo l’ origine ? Si colorì e si colorisce quel disprezzo con dire, che l’istitutore di quel premio era un legittimista; ma la vera ragione è, perchè si crede disonorata con essa la Francia; la Francia di Pascal e Bossuet, che, con la scuola francese , dicono la virtù es- sere qualche cosa di ordinario, e non tengono ragione degli sforzi che costi l’e- sercizio della virtù, ma dell’ abituale osservanza della stessa. Ed i francesi sti- maronsi disonorati, nel vedere darsi un premio a ciò che non era altro, che lo adempimento del dovere. Qual vergogna non ricadrebbe su noi, se lo straniero potesse dire, che in Italia si dà un premio quando può trovarsi un uomo.... anzi che dico? un giovane, una donzella onesta? essere una rarità cotesta da doverlesi attribuire un. pre- mio, una ricompensa! Se abbiamo delle colpe, se abbiamo delle sciagure fra noi; non si faccia una sì pubblica confessione. Non si porga allo straniero, da noi stessi, il fango che quegli poi gode di gettarci nel viso. Essere soggetto ad un male, può essere una sventura; ma sentirselo rinfacciare dagli altri, è un oltraggio. 4. Il signor Zecchini propone che i premì siano per ora di lire 100, e soggiunge che potranno accrescersi secondo la capacità del fondo. To devo notare, che Rousseau e Filangieri sono contrarì ai premì in denaro. L’oro materializza la virtù, ed alimenta le passioni più basse. Considerando però, che quel premio in danaro debba, come propone lo scrit- tore, convertirsi in un certificato di rendita , il pericolo segnalato da’ due cen- nati scritlori sembra schivato, poichè quel piccolo reddito, che desta rimem- branze sì care, può servire come una tenue dote alla donzella per un onesto col- locamento, e come un embrione di capitale per l’industria dell’artigiano. o. Il signor Zecchini ha limitato il premio alla classe degli operai, de’ lavo- ranti, de’ campagnuoli. Pare che egli creda essere sole coteste classi le bisognose di moralità. Ma crede egli, che la corruzione alberghi solo nell’officina dell’ope- rajo, e nella capanna del contadino, e che da lì s’innalzi alla casa del proprie- tario, ed alla magione del titolato? 0 non è al contrario che gli agi di una vita molle, e le aure di tiepida voluttà, che si respirano nelle sfere più alte, sieno la cagione della corruzione delle basse classi del popolo? L’avoltojo non discende che dall’alto per ghermire la preda, che tranquilla ed inconscia dimora nel basso. To crederei che il premio con maggior ragione dovesse stabilirsi per que’ giovani e quelle giovani che appartenessero a famiglie più elevate, per allettarli alla pratica di quella moralità, che spesse volte prendono a gabbo, e facilmente di- spregiano. L'esempio de’ grandi, diceva Montesquieu, è una tacita ed efficace le- gislazione per le classi del popolo. Comprendo che a malincuore il figlio o la figlia di un proprietario, di un alto (1) Zenovation religieuse. Paris 1864, pag. 21. 13 SULLA PUBBLICA MORALITA” funzionario, stenderebber la mano a riceversi il premio, che fosse loro stato at- tribuito, di una carta di cento lire; e difficilmente si riuscirebbe a far loro com- prendere non esser quella un valore, ma un attestato di lode. Epperò créderei di doversi stabilire una seconda categoria di premì, non differentemente da quella che gli antichi Greci e Romani avevano assegnato pe’ maggiorenti, come sarebbero le distinzioni, i privilegi ed altri simili attestati di mera onorificenza. Queste considerazioni, ove fossero riputate meritevoli di accoglienza, io pro- porrei, che venissero significate all’ autor del progetto, per apportarvi le debite modificazioni. Io sono ai termine del mio discorso: permettete, o Signori, che io lo chiuda con una generale considerazione. Le libere istituzioni, la pubblica istruzione, la forza e l’autorità delle leggi fu- rono i primi argomenti a’ quali si confidò la grande e necessaria opera della moralizzazione delle nostre popolazioni. Per nostra sventura non corrispose l’ef- fetto alle grandi nostre speranze, ed a’ nostri bisogni. In seguito, quasi disperando di correggere la generazione presente in cui vi- viamo, ci slanciammo alla generazione futura, sperando, che, avviata la gioventù crescente al sentiero della virtù, avesse potuto sentire, cresciuta, la santità del dovere, e quindi far godere alla società avvenire i frutti di quella vera civiltà» che da noi non si potè conseguire. Ecco ravvivata l’opera della pedagogia, ecco moltiplicati gl’istituti di educazione. Ma un principio, permettete che il dica, non ho visto invocare in tutti questi per altro utilissimi e nobilissimi propositi, il principio religioso. La moralità! Ma havvi popolo, havvi nazione, che, sentendo il bisogno della moralità, non abbia avuto ricorso al principio religioso? Ed a che altro hanno mai mirato le religioni se non alla moralizzazione della umanità? E, lasciando pur da parte le antiche religioni, a che altro è diretta la religione cristiana, al cui impero l’I- talia non ha voluto mai finora sottrarsi, se non a rendere morale l’ uomo, e quindi socievole e civile? Ma pel momento, non essendone il caso, lasciando anche da parte il dogma religioso, che ci fa ben conoscere come alla restaura- zione della moralità sia stata tutta rivolta la grande opera della Redenzione. La storia non ci manifesta che tutte le cure della umanità, tutte le leggi, tutte le istituzioni, tutti gli ordinamenti, non ad altro hanno sempre mirato, che a con- seguire questo altissimo scopo la moralità? E può credersi oggi, che con un li- bretto da pochi soldi e di poca mole, possa ottenersi uno scopo, al cui consegui- mento è d’uopo, che siano coordinati tutti gli elementi che costituiscono e man- tengono la civil comunanza? Oh se si potesse con mezzi puramente artificiali E L'ISTRUZIONE PUBBLICA IN ITALIA 19 ottenere, non sarebbe mancata l’antichità ad avercene lasciato qualcuno! Quello che costantemente ci è affermato sin da’ primi Tesmofori, da primi generosi che si diedero all’opera di incivilire i popoli, è questo, che senza il principio religioso non si ha sentimento di dovere, e quindi inefficaci riescono le leggi sociali, e la educazione, e gli stenti amorevoli ed assidui della pedagogia. Io non ho bisogno di ricordare quello che già disse Plutarco, essere cioè men difficile il fabbricare una città nell’aria, che costituire uno Stato senza religione. ‘ Aristotile nella sua politica (7. c. 8.) metteva tra i primi uffici di una repub- blica la cura delle cose divine. Primum est curatio rerum divinarum. Scapiterebbe al fermo la legge, ed ogni ottima istituzione, se ottime, come esse pretendon di essere, non curassero l’ottimo, che è Dio. Così diceva Diogene Stoico « Deus enim quod optimum est, ab optimo coli, et quod imperat ab im- perante. E Senofonte ci dice di Ciro, essere stato solito così ragionare cioè, che se tutti i sudditi fossero timorati di Dio, si asterrebbero dal commettere cattive azioni, e contro loro stessi e contro Dio. « Ratiocinabatur, si omnes familiares Dei me- tuentes essent, minus eos aut inter se aliquid illicitum patraturos, aut in ipsum (Xenoph. Paed. L. 3).» E Cicerone, fra’ latini, osò gloriarsi, che sol con la religione erano i Romani arrivati a quell’altezza di gloria, che li rese padroni del mondo. « Non callididate aut robore, sed pietate ac religione omnes gentes nationesque superasse ». (Orat. de arusp. respons.). Nè vi spiaccia che a conferma di questo concetto di Tullio, vi arrechi la te- stimonianza di un autore non sospetto, quale è Machiavelli. Nei suoi discorsi sulla prima deca di Tito Livio, parlando della religione de’ Romani, non dubita di dover darsi la preferenza a Numa Pompilio, sopra lo stesso Romolo fondatore «il quale (Numa Pompilio) trovando un popolo ferocissimo e volendo ridurlo nelle obbedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione, come cosa necessaria a volere mantenere una civiltà, e la costituì in modo, che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio in quella Repubblica; il che facilitò qua- lunque impresa che il Senato e quelli grandi uomini romani disegnassero fare ». L’autore del Principe, lo sappiamo, va in nome di scettico, e sventuratamente ha dato nome ad una scuola di politica, che suona infingimenti e slealtà. Ma l’autorità che di lui abbiamo riportata, si riferisce ad un fatto storico, nel cui apprezzamento non influiscono le qualità soggettive dello scrittore. E poi, benchè egli volesse la religione come un artificio di governo, egli rende sempre un tri- buto di omaggio al principio religioso, giacchè se la stessa religione esterna e quasi la ipocrisia ha tanto valore, da contenere i popoli, che sarà quando si pro- fessa di cuor sincero, e si protegge il principio religioso ? Le false religioni, di- ceva Voltaire, giovano talvolta come la vera: come in tempi calamitosi la moneta falsa fa le funzioni e le veci della vera. E la ragione ne è pur troppo evidente. La legge morale, la cui osservanza ognun 20 SULLA PUBBLICA MORALITA” Vir__—————m—————€m desidera e vuole che sia restaurata nelle civili adunanze, come principio vivifi- catore di tutta la legislazione, e di tutti gli ordinamenti sociali, è qualche cosa, che ognuno, per quanto la senta nella propria coscienza, comprende e si avvede che non è stata fatta da lui stesso. Quante volte il colpevole vorrebbe distrurre quella norma, di cui nella sua coscienza sente la voce che gli rimprovera di a- verla trasgredita? E quanto si attenta l’infelice di volerla annientare col reiterar delle colpe, e con cadere da abisso in abisso, tanto più si avvede che la colpa, e la trasgressione di quella legge, non ha servito ad altro che a renderne più minacciosa, più autorevole, più straziante l’autorità. Nihil est miserius, quam animus Hominis consciens (Plautus in Mustellania). E Seneca: « Infixa est nobis ejus rei aversatio, quam natura damnavit ». (Ep. 98). Onde l’oratore romano, bellamente disse: « Conscientiam a Diis immortalibus accepimus, quae divelli a nobis non potest (Pro Cluent.). Se l’autore di cotal legge è fuor di noi, se non dipende dal nostro volere il mutarla, il riformarla , il sopprimerla; se niuna legge umana ha il suo vero imperio, se non ritrae da quel trono, ove la legge morale si asside, il benepla- cito e l'approvazione; non è egli vero che molto si debba a cotal legge, e che essa non sia altro che Dio, e che quindi la società, che senza legge star certa- mente non può, sia di natura sua, ed essenzialmente religiosa ? Eppure, o Signori, la società oggi credesi sufficientemente garentita, quando non solo negletto, ma disprezzato, e rejetto il principio religioso, si affida al magistrato, ed a’ ministri della forza materiale. Non così la pensava Touqueville, il quale riconosce dal rispetto che in Ame- rica si ha per la religione , la floridezza e la grandezza di quelle popolazioni: «Ivi, come egli dice, la religione cristiana conserva tuttavia il più grande im- pero sulle anime , e si confonde con tutte le abitudini nazionali, e con tutti i sentimenti che la patria fa nascere : ivi il Cristianesimo non regna come una filosofia che si adotta dietro esame, ma come una religione che si ammette senza discuterla, ivi chi osasse ripudiare alla scoperta tutte le credenze, sarebbe egli stesso ripudiato dalla società, e condannato a vivere isolato in mezzo ad essa. (Touqueville, Della Democrazia în America) ». Egli è vero, che in quelle contrade anche oggidi la moralità comincia a desi- derarsi; ma d’onde ciò viene se non da ciò stesso, che il sentimento religioso si sia anche colà a poco a poco intiepidito ? Egli è dunque sempre pur vero, che ove il sentimento religioso sussista, le civili istituzioni non iscapitano mai, anzi si invigoriscono. Sottratto un tal salutare principio, la moralità resta scossa, nes- suna sanzione o rispetto avranno i dritti e le obbligazioni, la società sarebbe popolata di altrettanti esseri che somiglierebbero l’Achille descritto da Orazio: Impiger, iracundus, inexorabilis, acer, che non riconoscerà doveri, jura neget sibi nata, E L'ISTRUZIONE PUBBLICA IN ITALIA 21 n nè altrimenti vorrà cosa arrogarsi, che con le armi e con la forza, nil non arro- get armis. Quanta vita sapreste voi assegnare ad una società, che fosse da uo- mini di tal genere popolata? Vi affidereste di assicurarne, anche per un’ora, la pace, l’ordine, e la tranquillità? Qual ordine si può trovare nella società, se ne è escluso il principio religioso? Non vi è ordine sociale, dice Lamennais, senza gerarchia sociale, senza potere, e senza sudditi; senza il dritto di comandare ed il dovere di obbedire. Or fra es- seri uguali, egli non esiste naturalmente nè dovere, nè dritti, nè soggetti, nè poteri, nè per conseguenza è possibile l’ordine, e giammai non si costituirà so- cietà con solamente uomini. Bisogna che l’uomo sia per primo in società con Dio, per potere essere in società co’ suoi simili (1). Or nell'epoca nostra quale è mai il principio sotto gli auspici del quale si vuo- le moralizzare e ricostituire la società? Voi ben conoscete quanto siam lontani da quei principì, che la filosofia e la storia ci additano come i fattori della civile società; quindi risparmiate a me il rincrescimento di dovere discendere a con- fessioni che ci addolorano. Qual moralità vorreste sperare di ottenere, se già la distinzione tra la colpa e la virtù, è quasi cessata? Se il colpevole non è che un essere esquilibrato, e se il virtuoso non è che un essere nello stato di sanità e di equilibrio? Qual mo- ralità vorreste voi sperare, se tutto dipende dall’organismo, e se le bozze crimi- nose trascinano fatalmente alla colpa? Anche il cane ed il leone ha le sue bozze, o Signori, anche essi hanno le zanne e gli artigli: eppure si riesce a domarli, a superare la forza da cui sono fisiologicamente determinati! Solo l’ uomo non è dunque dimesticabile? Solo l’uomo esser deve lo inconsciente atomo, che è ir- resistibilmente trascinato, pur sapendo di potere non lasciarsi trascinare? 88 Nè migliori sono gli auspici sotto i quali si vorrebbe da qualcuno inaugurare la istituzione della pedagogia. Tutti coloro che ad educare la gioventù lasciarono de’ precetti, tutti concor- demente ci insegnarono, dovere la educazione prendere le mosse dal principio religioso. Per non parlar degli antichi, basta leggere il Rosmini, il Rayneri, il Tommaseo, il Lambruschini, l’Allievo, il Parravicino, ed altri per rilevarne l’im- portanza. Come potrà il fanciullo rispettare, quando sarà grande, la legge mo- rale, se non si educa sin da’ primi suoi anni a rispettare la legge e l’autore di ogni legge, Dio? Convien forse aspettare che sia traboccato il torrente delle pas- (1) Essai sur l’indiff. Chap. X. 29 SULLA PUBBLICA MORALITA” CICLISTI BENSI RO sioni, per mettervi un argine? Sarebbe egli il vero tempo di cominciare a par- lare di una severa morale ad una giovane, quando avrà contratto l’abito di ri- muovere tulto ciò che potrebbe costringerlo? Di provarsi a porre catene alla gio- ventù, allorchè avrà già gustato il piacere di averle rotte? Tutti raccomandano che if principio religioso si insinui nell'animo dell’uomo sin dalla primissima età: se i sentimenti del bambino sono per l’ordine, per la tenerezza, pel piacere, perchè non cominciare a fare innalzare da que’ teneri labbri un inno di grazie a quell’ Essere supremo, da cui emana l’ordine, la te- nerezza, e tutta la famiglia di que’ piaceri casti e confortevoli, che devono allie- tare la vita di questo piccolo re della natura? Tutti i pedagogisti più illustri, che ben san leggere ne’ cuori della gioventù, hanno raccomandato, che al paro della istruzione cammini e si svolga il sentimento della religione, giacchè senza religione non vi ha solida moralità, nè vera libertà. «I lumi della intelligenza, diceva il sullodato Ducpetiaux, quando sono violati da’ lumi della coscienza, sono fallaci e funesti..... La religione è un mezzo così possente di educazione, che un istitutore saggio e sperimentato può farne un uso di cui non avrà mai a do- lersi ». I fanciulli sentono, sin da’ loro primi anni, la forza de’ motivi religiosi im- piegati a proposito, con discrezione e riserva. Le considerazioni di cotal genere producono in generale sull’ anima de’ fanciulli delle impressioni favorevoli alla loro dociltà e per conseguenza al loro progresso. Una esortazione, una censura da cui le idee religiose non siano bandite, a- vranno più virtù che le rimostranze del tutto umane. Un ricordo religioso ri- chiamato a proposito, un detto religioso pronunciato in un momento in cui il fanciullo è agitato, turbato, e già presto ad incollerirsi, bastano per calmarlo, per farlo rientrare in se stesso, per risvegliare il sentimento morale, e per por- tare l’attenzione di lui alle idee che gli comandano la fedeltà al dovere. (De l’état de l’instruction en Belgique, vol. 1, pag. 171) ». Così parlava nel 1838 uno dè’ più illustri filosofi e statisti del Belgio. Nè credo che oggi la natura umana siasi cangiata, giacchè anche oggi lo stesso Spencer, filosofo positivista, trasformista ed evoluzionista, parlando della educazione in- tellettuale, morale e fisica, non ha difficoltà di immedesimare la scienza e la religione, e di dire, che « lungi che la scienza sia irreligiosa, come tanti lo cre- dono , egli è l’ abbandono della scienza che è irreligioso ». La vera scienza e la vera religione, dice Huxley, sono due sorelle gemelle che non possono separarsi senza cagionare la morte dell’una e dell’altra». Oggi, o Signori, come per transazione, si consente da taluni, che al pensiero del fanciullo si riveli l’esistenza di un Dio impersonale ed astratto. È questa la più fatale, la più funesta delle ipocrisie. La vita del fanciullo comincia da’ sen- timenti: sono questi i primi che il pedagogo deve mettersi in mano, e guidare dolcemente a buona via. L’ha detto or ora uno de’ più bravi pedagogisti d’Italia, il Prof. De Castro, venuto fra noi ad inaugurare i giardini d’infanzia. E L'ISTRUZIONE PUBBLICA IN ITALIA 23 Or qual sentimento può destare nel fanciullo un Dio impersonale ed astratto? Anche nei giovani adulti, e negli uomini più provetti, qualunque sia la severità della loro morale, e la potenza del loro ingegno, e la sensibilità del loro cuore, non riuscirà mai, che si sprema una lagrima, o che si desti un sentimento per una sventura impersonale, per un dolore astrattamente conceputo. I sentimenti non sono prodotti, che da oggetti od immagini individuali; il pretendere il con- trario sarebbe un’assurdità. Eppure, o Signori, il Dio che si vuol rendere amabile o temibile a’ bambini, è un Dio astratto ed impersonale! ed il cuor del bambino, che tutto vuol ve- dere sensibile come sensibile gli è la madre con le sue carezze; il fratellino con la sua tenerezza; deve tenersi lontano da quel tesoro di sentimenti che la reli- gione dispensa a chi l’avvicina e l’ascolta ! $9. Signori — Chi volge uno sguardo a’ mille sistemi di filosofia, di etica e di scienze sociali, sente per un momento un conforto, perchè pare che tutti cotesti sistemi accennino alla febbrile smania che si ha, di arrivare per la più sollecita e sicura via allo scoprimento del vero. Ma no, lasciate che lo dica: tutti cotesti sistemi, che di giorno in giorno si moltiplicano, pare che abbiano per iscopo lo sfuggire l’incontro del vero. La storia della filosofia sarebbe al certo di minor volume, se non fosse stata, e non fosse tuttavia costretta a raccogliere e registrare tanti sistemi, che sven- turatamente non sono altro, che la negazione più audace delle verità più incon- trastabili. L’immaginazione umana non è stata così feconda a foggiare poemi e romanzi, come feconda ed inesauribile è stata, ed è tuttavia, nel plasmare sistemi filosofici. Ogni assurdo trova libero il campo nel dominio delle scienze specola- tive, perchè vien garantito da quel magico prestigio, quale è il progresso. « Ne- scio quomodo, (ebbe ad esclamar Cicerone) nihil tam absurdum dici potest, quod non dicatur ab aliquo philosophorum. » Oggi a tutte le scienze specolative, sieno morali, sieno sociali, è stato irrazio- nalmente sottratto il fondamento che ne assicurava la certezza, e ne regolava lo avviamento ed il cammino, quale è la metafisica. Di quanto disprezzo non è stata, questa regina del pensiero, coperta dalla scuola moderna, come dal Biichner, dallo Schopenhauer, dal Feurbach, dal Comte, che in una sola parola comprese tutto il suo sistema, quando disse: « I cieli non raccontano più la gloria di Dio; essi non raccontano che la gloria di Newton e di Laplace! » i Guai a quegli Stati che ispirar volessero i loro ordinamenti sociali, le loro leggi, ad una filosofia, che non altrimenti, che per amaro sarcasmo, appellasi 24 SULLA PUBBLICA MORALITA” razionalismo. Quello che si sottrae, diceva lo stesso Louis Blanc, alla Sovranità di Dio, si presta alla mannaja del carnefice! Anche gli antichi Greci ammetteano la irresistibile possanza del fato; ad esso la religione consacrava i suoi riti, e quegli illustri tragèdi ne facevano il Deus ex machina de’ loro più ammirati capolavori. Eppure le leggi sociali di quella nazione non si ispirarono a que’ concetti, e punirono il delitto, senza tener conto della scusante della fatalità. E la stessa Germania e la stessa Inghilterra lasciano che i loro moderni evo- luzionisti si sbizzarriscano nelle scuole, ma si guardano dall’ aprire alle costoro teoriche il varco delle Camere legislative, e delle aule governative. Sventuratamente anche in Italia il limpido suo cielo è offuscato dalle nubi del Nord, che su tutto si stendono, sulle arti, sulle scienze , sulla educazione, sulla famiglia, sulla società. Noi che abbiamo raccolta l’ eredità de’ Platoni, conservataci da S. Agostino, da S. Tommaso, dall’Alighieri,e da tutta la scuola italiana, possessori di tante ricchezze, le vorremmo abdicare per metterci alla balia di una scuola che non è rallegrata dal sorriso de’ cieli, ma intenebrata dalla eterna notte del Nord? Biichner ha detto: Dove andiamo? i filosofi italiani si sono alzati : vorranno essi seguirlo ? Ma dove ci condurrà quel novello Mosè? ci condurrà alla sconfessione della scuola italiana: e noi che abbiam respinto lo straniero da’ nostri confini, avremo il vigliacco coraggio di dargli alloggio nel nostro pensiero, nelle nostre scuole» nelle nostre arti, e nell’armonia de’ nostri carmi e de’ nostri musicali concenti? Non temano gl’Italiani, se dall’orgoglio di cotesti filosofi dottrinarii sien tac- ciati come poveri di spirito. No: non è con la ricchezza dello spirito, ma con la ricchezza del cuore che bisogna provvedere a’ veri bisogni della società. E la scuola italiana tutta ordine, musica e poesia, non ha mancato mai al suo còmpito di promuovere la vera civiltà delle popolazioni. ALCUNE POESIE LETTE DA’ S0CJ NELL’ ANNO ACCADEMICO 1879-80 ALCUNE POESIE PEI SOCJ 3 ____—r = - -ry-=z. -____—_—_—————————nnnnnnnm VESPERARUM SICILIENSIUM POETICA COMMENTATIO. Longum superbis edite turribus - Sonum, rubescens nascitur Hesperus Sacra aera! percussis et auris Assonuit fremebunda virtus. Immane fatum luctibus horridum Oris Sicanis acrins incubat; Sonum date, et casus repenti Vertite funereos triumpho! Injuriosis hausta doloribus Sicana tellus turbida conflagrat, Exempla, Northmannique Regis Usque memor benefacta quaerens. Irritat iras Gallicus insolens Linguis lacessens cuncta dicacibus, Gestitque fatalem nefandis Flagitiis maculare terram. Quid non scelestis abstrahit unguibus? Contundit omnes, omnia et arrogat; Nec templa Divorum superbas Sancta queunt cohibere cristas. Galli petulci turpia vis jubens Effraenis urbis luxuriat viis; Et Virgo ceu mitis columba Turpe fugit tremefacta monstrum. Tot pulsa damnis Gens Sicula impotens Irae furorem pectore combibit, Excussa dum probris, suisque Luctibus exoriatur ultrix. ODE. Stat Corradini Spiritus infremens; Saevique manes Manfredii increpant Tot saeva perpessos, sacrumque Pro Patria injiciunt furorem. Inulta alit Costantia flebilis Vulnus per artus immedicabile, Patrisque fortunas revolvit Sollicitis agitata curis. Longis ab oris pervigil, anxia Casus Triquetrae prospicit improbos, Fixa haeret, obtutuque pendit Fata novis revoluta rebus. Compesce sensus o Pia concitos! Te vota signant! Stella Aragoniae Iam luce praefulgens per axem Alma plagis Siculis renidet. Vis urget audax motibus arduis Quo plus repressa eo magis insilit; Motusque maturans supremos Consiliis, animoque pollens Unus tot ausis Prochita praevalet. Arcana perstant credita Patribus; Mens una sic omnes vel unus Spiritus intus agit, movetque — Mira arte cantus faedera Principum Orditur audax, gratiam et aucupat, Plebisque ferventis potenti Imperio moderatur iras. 4 | Qualis sub Aetna vis furit ignea Praeclusa, magno murmure et extuat, Audita sunt longe profundis Viscera detonuisse bombis; Ruptisque dein fornacibus exilit Circum nigrantem explosa per aerem, Et visa agros late fluentis Ignivomis rapuisse et urbes; Aeque laborant concita pectora, Ignemque caecum vis alit acrior, Qui major assurgit, frementem Jamque nequit cohibere flammam. At si praeurens desuper indita Favilla semen porrigat igneum, Tunc flamma crebrescens eundo Per Siculas volitaret oras. Oreti ad undas gramine floreo Qua laxa cives corda resolverent Festisque laetantes diebus Ebiberent cupidi levamen; Qua effusa ducunt agmina virginum Laetas choreas, sertaque colligunt Gaudentque per campos nitentem Floribus implicuisse crinem, Instat Druheti torva salacitas Incontinentes injiciens manus, Quum turpe dedignata probrum, Versa ruit furibunda Virtus. Faedum puellae dedecus inditum Poseit cruoris prima piacula; Hac fonte derivata clades Funeribus cumulata fluxit. En vocis ictu Gallica concidit Diffracta cervix, indocilis furor Qua venit, aspexit, peremit Fulmine corripuit trementes, ALCUNE POESIE Stratosque Gallos. Non pietas subest Nulli pepercit flammeus impetus, Sontesque et insontes nefasto Exitio perimuntur uno. Montano ut amnis flumine turgidus Si forte fractos diruat aggeres Effusus hinc late per agros Omnia vorticibus retorquet; Intemperatus sic furor irruit, Acri et Triquetram turbine concutit, Commota quae tractim dehiscens Turpe parat gremio sepulcrum. Condit sub umbris irrevocabilem Vesper cruenta luce tyrannidem; Nox volvit aerumnas, tegitque; Sole novo recreata ridet Tellus, et aether purior emicat; Cruor cruorem luxtrat et expiat Jucunda Libertas ruinis Exoritur meliore flamma. Melos puellae solvite gratius, Virosque vernis spargite floribus, Qui nomen inspectent per aevum Sole sub occiduo renascens. O matre pulchra filia pulchrior, Quam vis trementem gallica pertigit. Aeterna te laurus manebit, Sicelides celebrentque famam! Musa o duarum disjice gentium Iras repostas, faedus et integra! Quas stirpe concretas eadem Stringat amor, socielque Virtus. Casus nefastos, saevaque funera Nunc corde lapsa oblivio contegit; Utramque sic gentem potenter Nexus amicitiae revincit. CanoNIcus Proressor BENEDICTUS MAROTTA. al bntce, DEI S0CJ Tu sei lo mio maestro e il mio autore Tu sei solo colui da cui io tolsi Lo bello stile che m’ha fatto onore. Dante, Inf. c. I. BXAMETRI, O tu formosa formosior orta parente, Quae linguas inter, potuit quas gignere sermo Corruptus latii, majori laude renides, Tu cuinam dulces veneres, cui robora debes? Dantes qui primus lingua fuit usus equestri Nobiliore aliis, genuit quos itala tellus, Uni accepta refert Magno sua cuncta Maroni. Heu cur nostra recens ingrato corde juventus Audet uti vita functam contemnere. Matrem! Si non ore, suis vivit sat florida scriptis, Quae non ulla quidem poterit superare vetustas, Sculpta ubi Romanae Mejestas cernitur urbis Quae cum jure suam dedit orbi ediscere linguam, Foecundam prolis vel in ipsa morte parentem. Non ita senserunt illi, queis jure superbit, Itala terra viri, fama super aethera noti, Inclyta qui decimi non interitura Leonis Occiduis nunquam mandarunt saecula chartis. Hi vigili cura assueti pallescere libris, Aurea sermonis latii quos protulit aetas, Hoc semper memori volventes mente tenebant: Ramus ut e trunco praebente alimenta revulsus Languet et emoritur, sic itala lingua parente Cernitur abscissa ingenvas amittere formas, Et ruere in pejus, constanti ut proditur usu. O Mons Regalis, nomen tibi grande decusque Si gessisse datum, si saepius alma Panormus Progeniem latii lingua tibi mittit alendam, x uu ALCUNE POESIE ___——————————__—————t€tttterr.rrrrrrr.,rr_ rvryr>-y>- >ovy»yvy]|]|\|\|\|\(«ecr—" Sermoni hoc debes, qui floruit usque, latino. Murena italicis veniens accitus ab oris, Quae tam nobilibus creverunt postea plantis, Primaeras fixit radices, Auspice Testa, Qui Praesul verbis et scriptis subdidit acres Ingeniis stimulos, doctosque eduxit alumnos. Sic nostra Urbs, nitidis cingens sua tempora sertis, Nomine athenarum meruit tunc jure vocari. Umbrae nunc etiam hic magnae volitare videntur Vatum, Regalis quos Mons hanc misit in aulam, Praesulis illius formosius ornamentum: Nasceus, vestri decus olim insigne lycei, Ille et Sicelidis quatuor quae tempora Musae Aemulus in latiam potuit vertisse Camenam, Carusus latio nulli sermone secundus, Castilia haud impar puri modulamine cantus, Pizzutus vestras qui mulsit callidus aures, Linguae utriusque simnl sermones doctus et acri Ingenio praestans, qui flebilis occidit Urbi; Post hos De Carolus, quem luxit docta Panormus Ante diem raptum latiis Graecisque camenis, Atque alii cunctos quos edens longior essem. Vos precor o clari socii, ne forte putetis Ferre meae patriae tumido me pectore laudes. Haud mens ista mihi; solum me publica movit Utilitas, semel ut Sapiens Sicana juventus, Si verum decus affectat, contemnere cesset Sermonem, claros italos qui reddidit unus. Haec tandem discat, praestantem carpere laudem Italico sermone illos modo posse, latina Qui soliti a teneris atque exemplaria graeca Nocturna versare manu, versare diurna. Pror. Can. JosePH VAGLICA. DEI SOCJ LA BELLEZZA IDEALE Oh non lasciarmi! e del tuo divo incanto De l’elette tue forme vereconde, Celeste imago, che m’inviti al canto, Non lasciarmi a le lacrime ingioconde. Dal tuo sorriso, dal pudor tuo santo Un’arcana speranza mi risponde; E l’affanno de l’alma è men crudele Se hai un accento pietoso a le querele Con gli occhi non ti vidi: e pur sì bella, Pur così viva il mio pensier ti finse, Che ’1 seren del tuo viso e la favella Innamorato artefice non pinse. Quel lume, onde nel cielo arde la stella, La purissima tua fronte ricinse, E appar così come da un aureo velo, Albor di luce, che s’accoglie in cielo. Pimmi: perchè a la spirtal veduta D’un’insueta gioia ’1 cor mi brilla? Perchè la lingna mi s’arresta muta Se gli occhi affiggo ne la tua pupilla? Come foglia dal calice caduta, O come fiamma che più non scintilla, Se t’allontani nè temo, nè spero E vanisce nel dubbio il mio pensiero. Ma se ritorni con la tua parola D’ogni beltà superna animatrice, La mente, che i remoti astri sorvola, Giunge dove a mortale occhio non lice: Là ti sento, ti adoro arbitra sola, Ora Laura ti appello, or Béatrice, Or col nome di lei, che nel divino Pensier raggiò dell’angelo d’Urbino. Oh non lasciarmi! E scendi a l’intelletto Ne la fulgida tua forma celeste! Vano sogno non sei se tanto affetto, Se tant’ansia d’amor l’alma m’investe. Tu, luce, che dipingi ogni concetto, Tu, esemplo onde l’idea si plasma e veste, Tu maestra nei numeri e nei carmi.... Divina imago, no, mai non lasciarmi. UGo ANT. AMIGO. ALCUNE POESIE UNA VISITA A CEFALU Salvete, io vi riveggo, o piagge amene, | E le vostre tepenti aure respiro! Ai verdeggianti colli, a le serene Plaghe del cielo, al mar lo sguardo giro. Qua l’onde immensurate, agresti scene Là sul pendìo delle montagne ammiro; E fin sull’erta, sull’estreme alture Campi, vigneti e d’alberi folture. Io vi riveggo coll’istesso affetto Di pellegrin che torni al suol natio : Voi richiamate al bel tempo diletto Dell’amor, dell’infanzia il pensier mio. Quanta spirate dal sereno aspetto Aura di pace! qual soave obblio ! Qual senso arcano che m’invoglia al pianto E in me ridesta l’armonia del canto! Delle sere di april, chi la divina Estasi, il riso adombrerà ? Scintilla Ampio, stellato il ciel, sulla marina Di tremolante luce Espero brilla; Nereggia la campagna e la collina, E sol per la silente aura tranquilla S’ode interrotto un gracidar di rane, Un fragor di cadenti acque montane. | Sublime scena! che all’accesa mente Riviver suol quand’io, sotto l’ombrosa Pergola mia, godo fissar sovente Sul declinar la stella luminosa. E su questo veron, teneramente Sollevar la pupilla desiosa (Forse di me pensando) in ver la stella Veggo bionda e modesta verginella. Modesta verginella, angelo caro A me più della vita, amor, ben mio, Nel cui sorriso, nel cui pianto imparo Quanto esultar, quanto soffrir poss’io. Leggiadro fior cui l’aura mite e il chiaro Seren del tuo bel ciel rende il natîo Vigor, l’olezzo che mi fa beata, Terra da me, quanto la patria, amata. T’amo nel raggio che la dolce figlia Bacia dal colle in sul mattin sereno; Nel queto mar cui fisa ognor le ciglia E un pensier volge al suo natal terreno; T’amo nel ciel che l’orchio suo somiglia, T’amo nell’aura che le molce il seno; T’amo nel riso degli aprici monti, Nella pompa regal de’ tuoi tramonti! CoNcETTINA RAMONDETTA FILETI. DEI SOCJ UN SALUTO ALLA SICILIA Aprile 1830. O mar che ti colori Del più limpido Sol d’Italia mia, Là ’vè lo Xifia per novelli canti Di eletto ingegno, fa obbliar gli antichi Delle Sirene, ed i sognati orrori E i vortici di Scilla ai naviganti, Io mi figuro le tue piagge, e l’alme Città, che il fortunoso Flutto rinserra, e cupido lo sguardo Vede Messina, che a un mio caro pegno Con le rose di Cipro un amoroso Serto prepara, e mi gioisce il core; E par che la fragrante Aura ne spiri, e l’ale Par che alla fantasia m’inpenni amore. O cedri, o aranci, o gemme Del rugiadoso albore, Fioriti colti, e piante Fronzute, a voi sorrida Sempre Favonio amante. O ben, Sicilia, ogni più dolce cura Posto ha in te la natura: Che se questa talora imperversando, Come noverca, stampa Orme su te di sdegno, Le scosse della terra, e l’atra vampa Etnea son come segno Della tremenda maestà di Dio, Che passa in mezzo ai venti: Passa: ed, oh!, forse allora Si risveglia nell’uom la creatrice Scintilla, e insieme un immortal desio. Per quel desìo non arse Catania il tuo Bellini, onde ancor sento Quaggiuso l’ineffabile concento (2°) 9 —=————t+1__——6T——tm6 e ——_} re 10 ALCUNE POESIE Che mi rapisce e l’alma imparadisa ? Se angiolo ei parve sotto umano velo, O quale ora l’accoglie astro felice, Quai note insegna nel gioir del cielo ? Come l’augello torna Dopo error vago al sospirato ramo, Così, come a dolcissimo richiamo, La mente vola con soave affetto Palermo, a te, cara gentile e bella, Entro soglia devota io qui talora Traggo a mirar la fossa D’Enzio, re giovinetto, Nel cui labbro l’italica favella Suonò, nascendo, e forte in cor commossa Dico: o Palermo, della lingua nostra Col puro accento, che parlò d’amore Coglievi il primo fiore! Poi, del popolo tuo le ardite prove Tutte ripenso, e un fremito m’assale, E par ch'io senta l’ora Del Vespro, e il grido orrendo: mora, mora ! Con letizia festosa or col pensiero Penètro i tuoi recessi: Veggio, sacra a Sofia, l’ara votiva, E ascolto il verso, quale un giorno usciva Dalla divina idea Del fuggiasco Alighiero; Quel verso che rimena Sovra l’itala scena Il corruccio ed il pianto Onde già vinse la palestra elea Euripide; rifulse Eterna l’arte greca al par del Sole Per la nostra Camena Quello splendor fra noi risorge ancora : E l’arte greca te, Palermo, onora. . Salve Sicilia: e tu Palermo, siedi Per grandi opre reina: Te degnamente l’universo inchina. TropoLinDa FRANCESCHI PIGNOCCHI. DEI SOCI LAMENTO DI CARLOTTA VIGO” ALLA TOMBA DELL’ILLUSTRE SUO GENITORE LEONARDO VIGO CALANNA. ELEGIA. Solo un’alma di più nel di caduto Fra noi brillava, e pure il Mondo intero Parmi deserto e d’ogni luce muto. La gleba ahi, ti coprì del cimitero, O padre mio! Con te nella tua bara Han rapito il mio core e il mio pensiero. E questa aura d’Aprile altrui sì cara, Che blandì per tradir tutta mia spene, Oh quanto è a me più d’ogni verno amara! Molcer da pria sembrò l’aspre tue pene, Rinnovellar sembrò l’egro tuo frale, E poi t’uccise e spense ogni mio bene. Ma, se il tuo fato alla mia gloria l’ale, Al mio gioîr troncò, perchè non caggio Pur teco ? In vita il rimaner che vale ° S'io del tuo sole altro non fui che un raggio, Perchè lasciarmi? Ogni fulgor sen porta L’astro del di, se compie il suo viaggio. 11 _———_——€—tFFFFtFy-yFTTTS5tktkty >TTZ PT TR i e ALCUNE POESIE Orfana e sola, chi più mi conforta? Ride qui l’Etra; ma quel riso è scherno; Chè a me di vita ogni cagion fu morta! Orfana e sola! Dell’amor materno Ogni séave, ogni pietosa cura Fin da la culla mi negò l’Eterno! Chè il dì ch’io nacqui a me la madre abi! fura, A lei la vita, al secolo un portento Di virtù, di bellezza e di sventura. Per chi la vide, oh quanta invidia sento! In ira è al Ciel chi della propria madre Ignora il volto e l’amoroso accento. E tu, che mi nudristi e alle leggiadre Opre mi fosti ognor duce, fratello, Amico, ahi tu pur m’abbandoni, o padre! Ma sulla pietra del tuo muto avello, Se l’eco sol risponde ai miei lamenti, Perchè m’assido e piango e a te favello? Sia ch’io torni, o che vegli, o m’addormenti, Sempre, o padre, sei tu da me lontano Quanto la luce de l’eteree menti ! Ahi! dopo un dì chiedo baciarti invano, Come quando morente e pur sereno Stringevi al cor la mia trepida mano. Darti mia vita, o morir teco almeno Bramai; tu mi baciasti e radiante Volò la tua grand’alma al Nume in seno. Ma sull’urna l’alloro e la fiammante Rosa e il candore del virgineo giglio Porrò; chè fosti ognor de’ fiori amante! Fiori, leggiadri fior’ sul tuo giaciglio Porrò; nè d’uopo di rugiada avranno Sparsi del pianto che m°’inonda il ciglio! | DEI SOCJ E onor di lauri e carmi a te daranno Quante Sicilia nutre alme pietose, E l’ossa tue nell’urna esulteranno. Chè a te sul labbro, se le carte ascose Di Clio trattavi, o di Maron la tromba, Sublimi accenti amor di patria pose; Nè con piuma di cigno, o di colomba Movea tua strofa; ma fulmineo volo Fu d’aquila, o di tuon ch’alto rimbomba. Inni e corolle del trinacrio suolo Ti recherò, memore ognor di quanto A me dicesti fra il sorriso e il duolo: « Figlia, ama i fiori e delle Muse il canto1 Ben trista è l’alma che di lor non gode; Ai carmi, ai fior’ nasce virtude accanto. È gemma il fior delle terrene prode, E l'inno è voce di gagliardì Spirti, Onde s’eterna degli Eroi la lode.» In questi sensi favellarmi udirti D’Aci sovente e Galatea la lieta. Cerula sponda e le ciclopie sirti. E, come il mio desir nel tuo s’acqueta, Adornerò con queste note i marmi, Che innalzerà Sicilia al suo poeta: « Nacque sull’Etna; amor cantando ed armi Ebbe cor pari al suo natio vulcano; Alla patria sacrò gli affetti e i carmi. Chi non lo piange non ha cor sicano!» Palermo, 27 Aprile 1879 (#). Giuseppe DE SPUCHES. (#) Altre si stamperanno nel volume di seguito. 13 COMUNICAZIONI ED ESTRATTI PHILIPPO PARLATORE PANORMITANO ARTIS MEDICAE CONSULTISSIMO DE RE BOTANICA UNIVERSA SECULO XIX LABENTE DIARIIS OPERIBUS EDITIS PRAESERTIM ITALICA FLORA PERICULIS EXCURSIONIBUS OPTIME MERITO QUOD LEOPOLDUM II MAGNUM HETRURIAE DUCEM ET FLORENTIAM PATRIAM ALTERAM SIBI DEVINXERIT BOTANICES DISCIPLINIS IN R. ATHENAEO TRADENDIS MUSEO HUJUSMODI DIRIGUNDO QUOD AMPLISSIMO HERBARIO INSTITUTO AMOENAM FLORUM URBEM PAMPHYTON TERRARUM ORBIS FECERIT VALETUDINI COMMERCIIS DOCTORUM CONVENTIBUS EUROPA AMERICA AUSTRALIA ACCURRENTE PROSPECTURUS ACADEMIA PAN. SCIENTIARUM LITERARUM ATQUE ARTIUM i SOCIO PRAESTANTISSIMO COMMUNI SICULORUM COMMODO BIBLIOTHECAM PRIVATAM TESTATO OBSIGNANTI ANTEQUAM FLORENTIAE FATO CONCEDERET JUSTA MOERENS SOLUTURA HOS TITULOS D. V. KAL. MAJAS AN. MDCCCLXXIX. COMUNICAZIONI ED ESTRATTI 15 IN TUMULUM PHILIPPI PARLATORE DISTICHA URBS SICULUM GENUIT, JUSSIT FLORENTIA CIVEM, SED COLUIT TELLUS ITALA OPIMA PARENS, ERRORES STUPUIT VARIOS EUROPA, LAPONUM CUM TULIT ARCTOO VISERE IN ORBE PLAGAS. QUOT DECORA ATQUE VIRIS EXCUSA NUMISMATA DOCTIS VIRTUTI RETULIT PROEMIA PARTA SUAE! NATURAE ET SOPHIAE RECTUM MEDITATUS AMOREM USQUE VIRENS ABIIT CULTOR IN ELYSIUM. Gan, Joser® MonTALBANO S. A. 16 COMUNICAZIONI _———58555f&ser”—-—- rt | PE M O (e) | (O | | | - Anno e Mesi E 2 a | 2 > "CE È lo Da SE i ES = £ 5 o n Ce] sila al Bis s|a| 3 |8|i|55) MM ‘n T = ta = Lo, 33 | i s E Se 5 RN S Sa O | SS RSS MIC, di Pi ARE Bi 3. è oo Ss E) È Gi n E E = > À G A | à E 1879 | MD mm mm Do) o (o) km | km Gennaio .. ... 764,42 | 1|755,42 (739,80 9205) (93% 012; AG 21 || WSW | 93/45,11 S Febbraio... .. 760,94 | 9 |752,29 [734,75 |22,25|| 23,6 |25| 13,26| 6,7 26 || WSW |12,9|524| W Marzo siete rà 166,66 | 9 |755,37 |(41,34| 24 || 243 |21| 13,19] 6,0 9 || WSW | 9,2|614| N ADI o oe 760,60 | 1|751,20 (742,70) 12 || 285 |21| 15,96) 8,5 Ti WSW |12,8 Maggio... ... 760,52 | 23 |754,53 |747,80 9 |(35,5 |31| 16,64 89 15 W 9,3 Giugno... ... 760,20 | 3 |756,64 751,00 | 17 || 325 |17| 22,s6| 141 4 || ENE 4,9 igloo oe TO SÌ 05001 751R601 1221313 510235924 652 7 NE 6,2 Agosto... ... 158,96 | 29 {755,20 [751,45 | 16 || 31,8 |19| 26,05| 18,8 1 || ENE 9,3 Settembre . . . . ||758,49 !2.3/755,29 |751,14| 17 || 34,0 7| 24,11] 16,4 !28,30)| WSW | 6,4 Ottobre... ... 163,03 | 13 | 756,46 |745,50| 16 || 26,2 | 16| 18,67| 10,3 24 NE 10 Novembre . . . . ||[765,50| 5|755,40|744,60| 29 || 27,4 | 3] 15,73) 72 8 || WSW |11,6 Dicembre. .... 770,93 | 29 759,08 |744,10 1012350 5 pu 1,4 9 [|WSW.W}) 8,8 Medie . . . ||762,45 755,20. | 745,48 28,22 (12489593 WSW | 8,7 mm Massimo . . . 710,93 ) mm Medio ....6$ generale del barometro . .. 755,20 Escursione barometrica annua = 36,18 Minimo. ... 734,55 Massima forza del vento = Km 61,4 alla mezzanotte del 6 marzo. Li OSSERVATORIO DI PALERMO NEGLI ANNI 1879 E 1880 9 PIOGGIA GIORNI CON , Mior NI PIOVOSI ss VENTO FORTE TUONI NEVE GRANDINE E E 880.11.12.13.17.18.19.20,25.27.28.29.30.| 134,35. || 2.5.6.13.24. d 5 ; :0;2(6,17.18.21.25.26.28. 32,94 || 7.11.16.17.18.19.20.21.22.24.25.26. i lgepni Ù S/0.22.24.25.27.28.29. 39,85 || 6.21.24.26. 26.29. 6 n {0019.11.12.13.17.20.22.24.25.29.30. 65,21 || 9.10.15.17.18.21.30. ui O DI 00 /7.8.10.11.12.13.14.17.18.20.26. 36,35 || 2.10.18. 26. Ù To LÌ » | È gr i LL, I 008 0,03 | 16. ” | n 1100 2.23.27.28.29.30. 50,05 4, i A 1083.17.18.19.20,21.22.28.24.26.27.30.31.| 55,85 || 12.16.21. 16.22. ti 19.292,23. x:89).14.16.17.19.20. 26,53 || 4.7.8.9.10.12.13.25.30. 7.8,9.17, 8.17.48. 7.16.17.18. y879.10.11.12.14.15.16.18.19.21. 116,36 || 4.9.20.21. 9: 9.10. 8.9. o Massimo . .. 35,5 Medio. .... spago del termometro . ., 17,72 Escursione termometrica annua = 341 Minimo... . 1,4 4 RISTRETTO DELLE OSSERVAZIONI METEOROLOGICHE ESEGUITE NEL REAL BAROMETRO TERMOMETRO CENT. VENTO NUR ?!:* Anno e Mesi i | | SI o) < di agi cati) > n aq -_ [0] ini SUN 7 mo s. uo on = Ge joRNi. Medio Minimo Direzione della forza massima Massimo Data del massimo Medio Minimo | Data del minimo Massimo | Data del massimo Data del minimo Predominante Forza media Forza massima Volume medio 1880 mm mm mm Gennaio ..... 161,64 7 |760,67 |752,29 km 0) 15|| 17,5 |30]| 9,75 38,9 | SE ||765|M Febbraio... .. 763,22 | 3 |757,00 [748,88|28|| 218 |23| 11,83 29,7| ssw |lco5\We Marzo età 165,51 | 10 |758,69 |744,39 49,7 | SSW Aprile |. 761,88 | 14 |754,03 [745,41 60 | 10] NE |100|42,7| s Maggio... ... 765,09 | 25 |753,32 [742,41 9,0 |11,12 wsw |82|23,7|wNW Giugno. i 760,27 | 9,10|756,25 [752,26 10,7 | 1| NE |7,8|276| nW Luglio ...... 759,50 | 19 |T756,47 [752,63 15,3 Il NE 6,1|245| NE Agosto... ... 758,36 |26,27|754,27 |749,81 34,9| SW Settembre . .. .||763,95! 1 |757,18 |752,17 134 | 29) NE 24,5 | NNW 168 | 12) NE ve 300) W Orale so 7161,€0| 27 S901 ELE 10,2 | 27 || WSW Novembre . . . . ||[(66,86| 30 |758,37 [746,55 74 3 || WSW | 6,7|39,8|] SW Dicembre. .... 165,69 | 7,8 |759,04 |751,76 mm Dì ISO) È (,] (NO) (©) {i La (©) 9 37,6] NW Medie . ... ||763,28 756,83 |749,15 mm Massimo .. . (67,64 | mm Medio ....X generale del barometro . .. 156,93 Escursione barometrica annua.= 25,23 Minimo. ... 742,41 200 .13.15.16.17.19.20.22.24.25.26.27.30.31. | 111,72 || 13.15.18.28.29. 13.15.16.17.| 12.13.22. | 12.13.17. SY tliB3.14.15.16.18.25. 63,39 ||-19.24. ; Dr ; IT 30.31. 31,25 || 29. 30. ” 30 3 (54B82.16.17.18.22. 65,61 Il 5.6.7.8.12.15.18.22. 22. n A TIT 4 0.12.13.14.20.21.22. 59,43 ” 3.7.12. n ù MW 14) 0,88 || 22.27.28. 5 n È il 0,04 | n n n | ” Ta) Dl 12,88 || 1.3.4.8.10.11. | 10.14.29.30. 3) ! 5 TN SAB) .25.26.27.28.29.30. 31,44 5) 11.26.27.28. 5 È 7 ‘10 19.20.21.22.25,31. 83,95 || 4.30. 14.19.25. 7 i ST (M0(4.18.22. 64,24 3.17.19. 22. 5 22 NW \1/21.22.26.27. 21,63 || 8.22. 22. P 22 | o Massimo . . . 37,4 Medio... .. generale del termometro . . . 18,21 Escursione termometrica annua = 35,7 . Minimo. 1,7 RAI Li drei a ina rd e wHod-rtwgro nai ve Ri una Re RAT RETI) 3 ir e TI la E Beretti TI ge suini ai 1 E O TE 9. n 5 4 . - : kol n “a î i OE x e 3 te x #% ra eta o TAO fi f pot vo vi! f 13; SUGASI ! 1a è LAT a, n Pegi d4 Ù 4 i etici A RE. ; î AL , 4 i # ti i ten: a n i pat : 33 } È , n $ a ni " } dh ; : | i 45 SORA TOI E NT REI Ar) dl i 3 } Ù rear PAS Ti 2a! LO isf i OLE ea BERE di î È. ; REI PERE i du % Ì d'or x terni i pra BENI ARR ARA ai : dx; di. : E AR î hi i fi GRES E ii Ano Li gnali ui È +95 pie i CAR RE Ir rai i passat RE i e orporiia ge ente age it Ta SACE i IRE fr o pi ci RS ccE I 4 ti $ jar aaa tia ee enna di 5 Vesti È v - er n > 0 = li ia \ ; DI È U tito AA naioa Ve PBI ITIStistti t | È 3 fi IE VI E NC (È) n Ci Lat A a du = DI a } ; { gli i d Noa Aeg pina cre a pan pila icaro zioni APRI n È 5) 3 Ù Le) n £ I) (da ANTO i, " RIMINI» DI LIBRI VENUTI IN DONO ALLA R. ACCADEMIA nell’anno 1831. OmsonIi Prof. Giovanni. 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