Cibi ca ni3 FF Li ES ser PESAUSST, aaa Da ci a ale i Sv ascese di RN N Z 28 JAN 1225 7 ATTI DELLA | SCIENZE, LETTERE E BELLE ARTI DI PALERMO RELKOVEAS STESESIEE VoLume VIII. PALERMO TIPOGRAFIA DEL GIORNALE DI SICILIA 1884. nann____—_—-— —=-——7< =-—>———- | quid gentium mores, quid rerum publicarum formae diversae; ideoque possunt de legibus, ex prin- | ciptis et pracceptis, tam aequitatis naturalis, quam politices, decernere. IV APPENDICE . E nel 4 gennaro 1875 soggiungeva che. le RIFORME SONO la conquista raggiunta dai bisogni de’ tempi e dalla volontà degli uomini: però si riformi con senno e circospe- zione, perchè il rimedio non si converta in veleno. Non havvi chi ignorì come lo spi rito innovatore tenda a raggiungere, specialmente negl’impeti di libertà, un idealismo non sempre attuabile. Tra le tenerezze sentimentali di una scuola che corre di troppo, # e la severità inesorabile di un’altra che vive assorta tra le nebulose teoriche di una erudizione astrusa e talvolta pesante, saprà trovarsi certamente il punto dialettico nella patria della scienza del dritto, e che fu culla a’ Romagnosi, a’ Filangieri, ai Beccaria, a’ Carmignani, a’ Rossi, a’ Pagano, a’ Nicolini. Conchiudendo diceva: ma si risolva una volta quest'arduo problema, obbietto di tanti voti e di tanti desiderî: attorno al quale, per volger di anni, si è fissata, ma sempre invano, l’attenzione del paese ! (1) E il Maurigi ben si avvisava, se si rifletta che noi abbiamo tre legislazioni penali in Italia, come, pria del gennaro 1883, avevamo due legislazioni commerciali: entrato oramai in vigore il Codice di Commercio, è tempo che si provveda per l'attuazione del Codice penale affinchè non possa continuarsi a ripetere per l'Italia quel che a suo. tempo diceva Paschal per la Francia: giustizia al di qua di un ruscello, o di un monte, ed ingiustizia al di la! (2) e Ta ea Procedura penale. Ma il Codice penale , diceva il Maurigi ne’ due discorsi sopracennati, non basta a raggiunger lo scopo ; devesi, a mio avviso, porsi anco mano ad un’opera efficace di revisione della procedura penale : l’esperienza ha suggerito la necessità delle r7- forme, conciosiachè sia noto che l’ azione della giustizia giunge ora sempre fiacca e svigorita (3). (1) V.i Il CircoLo GIURIDICO — Rivista di legislazione e giurisprudenza; vol. 5, pag. 295. (2) Gli anni 1866, 68, 69, 72, 73, 74, 76 (1), 78 ed 83 segnan le date in cui si è fatta balenare agl’Italiani la speranza di avere un Codice penale.—-Sia gloria almeno dell’attuale Guardasigilli (2) il fare entrare in porto questa tanto attesa riforma, la quale, come fu ben detto, per fatalità di eventi arriverà l’ultima nel novero delle leggi unificatrici del Regno, quando avrebbe dovuto esserne l'antesignana (3). ‘ (3) Opera affrettata del 1859; essa, non ostante le molteplici modificazioni cui è ut sOg- getta dal 1861 in poi, offre mende e difetti che un dì più che l’altro si rivelan maggiori. i Le più recenti riforme attuate in proposito nella Germania, nell’Austria, nella Francia e nel Belgio, ci sono anco di sprone a battere alacremente la via dalle altre Nazioni con successo per- — È corsa (4). e: (1) Formò anco obbietto di esplicita promessa dell’ on. Presidente del Consiglio nel programma di da Stradella degli 8 ottobre 1876, ed anco recentemente di Sua Maestà il Re allo inaugurarsi della novella Legislatura del Parlamento italiano. (2) Ci è noto che il Ministro Zanardelli vi lavora attivamente, e con grande studio ed amore. (3) Calenda di Tavani, Procuratore Generale del Re. Discorsi inaugurali; anni 1873-82-83. (4) V.i Il processo penale e le riforme; studì di Luigi CEI e i pregevoli articoli pubblicati nella RivistA PENALE dal prof. Lucchini. APPENDICE V Per accelerare il corso della giustizia penale vorrei soppressa, cosi proseguiva, la Camera di Consiglio, devolvendone le attribuzioni al Giudice Istruttore, ed am- pliando ad un tempo i poteri di quest’ ultimo funzionario (1). E qui si abbandonò ad altre sottili ed amplissime ricerche intorno ad uua maggiore brevità del procedimento penale ; conciliando il rispetto alla libertà dell'individuo, con le supreme garanzie di eni vuol'essere circondato il corpo sociale. Sì; l illustre trapassato non s'ingannava ! Questa riforma del Codice e della pro- cedura penale è un bisogno altamente sentito dagl’'Italiani, come di tutti i popoli che aspirano al mantenimento dell’ordine e della sicurezza, al rispetto della libertà perso- nale, della proprietà e della famiglia; sicchè vogliamo augurarci che non vada dimen- ticato il suo autorevole voto, poichè rihil (ést) cIvITATI praestantius quam leges RECTE POSITAE ! Codice penitenziario. Natural compimento de’ due Codici è il Codice penitenziario , poichè senza di esso la disciplina delle prigioni, ordinata ad attuare il concetto della penalità, rimane al tutto priva di fondamento. Disse che nel progetto del Codice penale si è fatta larga parte a ciò che può addirittura chiamarsi un vero portato della civiltà moderna, come sono le colonie penali, agicole o industriali, stabilite come luoghi di EDUCAZIONE E DI EMENDA. Ma frattanto, soggiunse, non si risolvono bene per esso le varie e complesse quistioni (2) che si riferiscono alle discipline carcerarie nelle loro relazioni col sistema | (1) L'istituto della Camera di Consiglio, dopo 50 anni di prova infelice, fu abolito in Francia con la riforma del 1856. Il voto del Maurigi, crediamo, possa fra non guari venire esaudito; ma il relativo progetto di legge non è stato tuttavia riproposto, siccome ci si era fatto sperare! (2) E parci davvero che dopo il corso di 3 lustri, dopo tanto lungo e incessante lavoro di pre- parazione compiuto per opera delle più preclare intelligenze del paese, sieno rimaste tuttora in- solute!... Ciò giustifica, pur troppo, il lamento di Chi ebbe l’ onore di sedere più volte ne’ Con- sigli della Corona, e che della Cassazione romana è vanto ed orgoglio. « Nei progetti posteriori, così egli sè esprime, ed anche in quello votato dalla Camera de? de- « putati il 7 dicembre 1877, le disposizioni intorno all’ esecuzione delle pene vennero man mano «tolte dal Codice. Rimasero solo le disposizioni intorno all’espiazione dell’ergastolo (articolo 12); la «regola generale per la esecuzione delle altre pene restrittive della libertà personale, di doversi | «scontare con la segregazione cellulare durante la notte, e col lavoro in comune, obbligatorio o « facoltativo, durante il giorno (13 a 17); la disposizione di potere queste pene essere scontate per «un terzo della loro durata, in una colonia penale agricola od industriale, laddove i condannati «avessero dato prova di loro buona condotta (art. 48): e l’altra della liberazione condizionale dei « condannati stessi, dopo scontati tre quarti della pena (art. 48, s 2). Tutto il resto relativo al «TRATTAMENTO de’ condannati, al vitro, al vestIARIO, alla pIsciPLINA, al LAVORO ed alla MERCEDE « del medesimo, è lasciato ai regolamenti particolari da pubblicarsi con decreti reali, ‘sentito il « parere del Consiglio di Stato. Sembra che il progetto lasci in questo modo molte incertezze e «lacune in quanto al sistema penale che va ad attuarsi. La pena vuol’essere descritta nel Codice, « precisamente quale sarà eseguita. Il regolamento penitenziario dovrebbe, almeno, esser sancito «e pubblicato contemporaneamente al codice a simiglianza di quanto si è praticato per altri co- «dici, tra i quali il portoghese. Vedi IL progetto del Codice penale pel regno d’Italia, vol. I e II. » Discorso del Senatore G. De Falco letto alla Cassazione romana nel 3 gennaro 1883. Vedi note di esso a pag. 57-58. 15 VI APPENDICE punitivo, e con le istituzioni preventive della delinquenza (1). — La Svizzera, l'Inghil- terra, la Germania, gli Stati-Uniti di America (2), buona parte de’ milioni che si spen- dono per la giustizia penale in Italia l’ hanno invece impiegato all’ EDUCAZIONE ED AL LAVORO DE’ DETENUTI. Imitiamo dunque i nobili esempî, chè quì più forte ci stringe il bisogno (3), e fa- remo alcerto opera utilissima nell’ interesse della giustizia, dell'umanità, della Patria nostra ! : , a Il ch.®° Beltrani-Scalia, che mezza la sua vita ha speso nello studio di cotesto pro- blema sociale, e che ce ne dava anco uno splendido saggio nel suo pregiato lavoro F Il sistema penitenziario secondo il sistema del Codice penale, propose in Italia alla i; sua volta lo stesso quesito ch'erasi affacciato alla mente del Maurigi (4), però, non si sa per quale avverso fato, le più importanti riforme legislative, a differenza delle po- litiche, o non attingon la mèta, o rimangono sventuratumente come campate in aria, e sol destinate a vivere nel mondo de' desiderîì e delle speranze! Le Assise ed i Giurati. Nel discorso inaugurale del 6 novembre 1864 parlò il Maurigi della istituzione dei giurati; rivendicandola all'Italia col corredo di larga dottrina, con ordine di esposi- zione, con lucentezza d’idee (5). Validissimi campioni della scienza, del senno, della virtù italiana, ne’ Consigli giu- diziarî e politici, e financo ne' Consigli della Corona, furono in quell'epoca compresi ‘ (1) Problema pur ampiamente discusso ne° Congressi internazionali di Londra e di Stocolma. Un tesoro di preziose notizie raccolte con vigili cure e con ispirito scientifico ci ha fornito, e con- tinua a fornirci in Italia l'onorevole Beltrani-Scalia (1). (2) La Società Americana per la riforma penitenziaria, e il Rev. D. Wines che non ha ri- sparmiato nè cure, nè spese, nè fatiche per raggiungere il suo filantropico scopo, sonosi resi dav- vero benemeriti dell'umanità. i Con sentimenti di viva compiacenza leggemmo anco sù pe’ giornali nell'autunno del 1870 le belle discussioni fatte dal Congresso penitenziario riunito in Cincinnati. (Onio, Stati-Wniti di America). (3) «E un soggetto, pur troppo, dolorosissimo e molto umiliante questo «delle carceri per l’I- « talia, costretta a far pubblica confessione del più infelice primato che mai avesse potuto toccarle «in sorte fra le Nazioni di Europa ». Così abbiamo letto in un pregiato documento ufficiale. (V-i Ax- nuario statistico italiano pubblicato nel 1878 dal Ministero dell’Interno). 3 (4) Se pe’ progressi delle discipline carcerarie e per la presente condizione de’ condannati in. Italia convenga riformare, ed in quali limiti il nostro sistema penitenziario, così come carcere preventivo, che come sistema di punizione. (5) Fu lungamente disputato se la patria naturale de’ giudizî per giurati avesse dovuto asse- gnarsi a Roma antica, ovvero alla Gran-Bretagna. — E gli scrittori, un tempo divisi, sonosi oggi formati in grande maggioranza per dare all'Italia, e non già all’Imghilterra, l'onore del primato de’ giudizî popolari. (1) Statistique penitentiaire internationale; 1872. Lo stato attuale della riforma penitenziaria in Europa ed in America; 1874. Relazione sul lavoro de’ detenuti nell’anno 1875 , presentata alla Ca- mera de’ Deputati dal Ministro dell’Interno nel 25 novembre 1876.— La riforma penitenziaria in Italia; 1879.— Rivista di discipline carcerarie.-Accurata pubblicazione quest’ultima che ha riscosso gli elogi di dotti stranieri, e che , insieme alle annuali effemeridi della Direzione Generale delle Carceri, forma oggetto di studî ad altre Nazioni, e torna di grande ausilio a’ cultori delle scienze sociali. tia arte cet ea APPENDICE VII di dubbio per le assise e pe’ giurati, e a motivo di taluni verdetti che, specialmente in Sicilia, aveano destato tanti clamori, gridavano, esagerandosi taluni mali e difetti che più, o meno, son dappertutto, alla fallacia di cosiffatti popolari giudizì, e ne pro- pugnavano la soppressione per ritornarsi al vecchio istituto delle Corti Criminali. Or bene; il Maurigi coraggiosamente, e senz’ alcuna esitazione, proclamò che pochi fatti speciali non bastavano a screditare una istituzione, e che lo istituto dei giurati, vero portato di progresso e di civiltà, non falliva al suo scopo, come alcuni erronea- mente credevano. I giurati possono ingannarsi condannando, possono ingannarsi assolvendo, ma sa- rebbe cosa strana davvero che il solo Regno d’Italia dovesse offrire al mondo lo strano spettacolo di sopprimere una istituzione liberale oramai accolta con confidenza da tutti i paesi civili: ho fede, così conchiudeva, che i giudizî passionati ed empirici si raddrizzeranno, tanto più se si pensi che alle ingiuste assoluzioni, volendolo i Legi- slatori della Nazione, potrebbe porsi adeguato riparo, se, come pare, non sieno ancora spenti il genio e la potenza dell'ingegno italiano ! (1) Però una istituzione nobilissima | In Roma antica-non eravi la organizzazione del moderno giry rispondono, sebbene con di- versa intonazione, il Pisanelli, il Gabelli, il Pizzamiglio: questa la troviamo ben vero presso gli Anglo-Sassoni, dice il primo, presso le antiche razze germaniche (1), e quindi anche in Inghilterra dopo la conquista de’ Sassoni, asseverano i secondi.—Ma tutto questo non iscema di una dramma il peso delle osservazioni del Maurigi e di altri recenti scrittori che vi han fatto plauso. Essi non parlarono delle epoche in cui si organizzò, e meglio prosperò il 9gîury, e molto meno han volu to rintracciare i punti di contatto tra l’antica e la nuova organizzazione: han solo affer- mato, e tra questi anco l’ illustre Vacca, che la idea, il concetto de’ giudizî popolari e fin le ve- stigia di essi si rinvengono in Roma antica, e nessuno potrebbe in questo smentirli (2). (1) ISiciliani che fur già primi, ed ora non rimangono fortunatamente da sezzo nella via delle utili e illuminate riforme, non ismentendo l’ antico loro intuito giuridico, che anco ne’ tempi andati fu gloria indisputabile dell’Isola nostra, e di cui più tardi avremo ragione di occuparci (3), intravidero, soLI IN ITALIA, la necessità di un provvedimento legislativo che ancor si attende, ma che però, in quanto a’ giudizi popolari, reputiamo sia la più sicura e salda guarentigia' della Giusti- zia. — E nel 1875 il Maurigi, con ardimento di critica e con elevatissimi concetti, meglio veniva spiegan do la bontà e gl’ indiscutibili vantaggi della sua proposta. Un altro Siciliano, il Presidente Di Menza, il quale ne’ suoi studî relativi ai giudizi popolari, ha ricongiunto il presente col passato della grande istituzione e con le glorie maggiori di questa, in sullo scorcio del 1873 faceane obbietto di larga disamina; e fu anco un Siciliano che nel marzo del 1874 sollevava la delicata quistione al cospetto della Camera de’ Deputati, che ne rimase pro- fondamente scossa ed impressionata. — Ma di ciò parleremo a suo tempo. (1) Così pur sostenne il Montesquieu, il quale scrisse che la istituzione de’ giudizi popolari venne all'Europa dalle selve Germaniche; ignaro che più tardi financo gli stessi giuristi tedeschi doveano re- cisamente smentirlo. (2) Codesto studio importantissimo è stato pur fatto, secondo noi crediamo, con grande successo da un valoroso Magistrato nostro, il quale provò che la istituzione de’ giudizi popolari « deriva in linea «retta da quello incivilimento Romano che ha lasciato le sue tracce incancellabili in tutte le contrade del mondo » (1). Nessuna voce in Italia od oltr’Alpi è venuta giammai a contraddirlo ! (3) La rabbia dei detrattori non ha potuto strappare alla storia codesta pagina splendidissima per la Sicilia! — Un alto ingegno, già Consigliere della Corona (2), ne facea or ora, in una pubblica arringa, amplissima testimonianza con vibrata ed efficace parola. (Causa tra i signori Di Belmonte, il Conte Gattinara e l'Erario, discussa innanzi la Corte di appello di Palermo, I® Sez. civ.e, ne’ giorni 9 e 10 marzo 1883). (1) V.i L giudizi popolari dei Romani per Giuseppe DI MENZA; anno 1873. (2) L’on. comm. avv. Diego Tajani. Vice-Presidente della Camera de’ Deputati. VII APPENDICE e degna de’ tempi în cui viviamo, la quale mentre da una banda serve ad educare, pur cleva d'altra banda i cittadini alla dignità di magistrati, non può assolutamente pro- scriversi. — Conviene ben vero renderla più salda e duratura che sia possibile; con- viene affrettare co’ voti quelle riforme che possano assicurarle una vita prospera e speranzosa: sarebbe davvero follia, all’ ombra benefica degli ordini liberi che ci reg- gono, distruggere una istituzione ch'è nata e cresciuta con la libertà: in Roma decadde e si spense difatti la magistratura popolare, quando ivi cessò di brillare l'astro sereno della libertà !.. FC Ne» discorsi inaugurali letti innanzi questa Corte di Cassazione negli anni 1869, k 1871, 1873 e 1875 insistè con crescente efficacia negli stessi concetti. — Nel 1870 sor- | gevano frattanto vivaci le critiche e gagliarde le resistenze, e per taluni verdetti, che parvero suonare come un'offesa alla verità ed alla giustizia, le impressioni della co- scienza pubblica furono in Sicilia poco favorevoli a’ giudizì popolari: parecchi opuscoli, oltre la voce della stampa periodica, eran venuti quasi a suffragare l assunto di chi verso l'istituto in esame mostrava, per forti convinzioni sue, avversione profonda e sentita. Gravi parole erano state pronunziate da illustri professori e giureconsulti; un avvocato troppo noto pe’ suoi vasti studî nel giure penale, tenuto meritamente in pregio 5 anco dall’ insigne Carrara, dava alla luce in quell’anno una monografia con la quale propugnava la soppressione de’ giudizî per giurati, e rincarava più tardi la dose nel periodico legale la — Temi Zanclea (1). — D'altro verso un dottissimo e vecchio Ma- gistrato, già onore e gloria della Cassazione napoletana, tuonava infaticabilmente contro le assise siciliane che disse rovina della vera libertà politica e civile, fomite dell'aumento de’ reati, simulacro di giustizia impotente ed irrisa, e si spinse financo ad asserire che i giudizî per giurati fra noi disonoravano questa cospicua parte d'I- talia, ch' è la Sicilia.—Nè il comm. Pietro Castiglia, allora Procuratore Generale del Re presso la Cassazione palermitana, sen rimaneva alla sua volta silenzioso, e, sem- brandogli che l'istituto anzidetto fosse stato come una pianta esotica condannata per fermo a sterilire sul nostro suolo, scagliava bravamente le sue frecciate con impeto giovanile. Non basta : quasi per giunta ‘alla derrata una voce insultatrice e concitata par- tivasi contemporaneamente dalla Francia. Era la voce del sig. Louis-Lande, redattore della Revue des deux-Mondes, il quale consigliava al Governo italiano di sospendere almeno, se pur non l'avesse voluto sopprimere, il giury in Sicilia; dimenticando che” i giurati francesi, suoi concittadini, giunsero talvolta ad assolvere sino a 74 accusati per °/, mentre nel 1863—primo periodo di prova perchè in quell’anno inauguravansi le Corti di assise in Sicilia—le assoluzioni non furono che del 31 per °/,, discendendo sino al 22 per °/ negli anni 1864, 65 e 67 (2). 1 ri MIT or! (1) Avvocato Francesco Faranda. (2) La media delle assoluzioni, in quegli anni in cui la istituzione non erasi tuttavia salda- mente affermata, fu minore in Sicilia di quella che offrirono le più cospicue regioni d’Italia, e vinse pure le più favorevoli proporzioni che ci dànno le statistiche dell'America, della Scozia, del Belgio, della Francia, della Germania e financo dell'Inghilterra, ove i Giuni contano ben 9 se- coli di non ignobili tradizioni. APPENDICE IX Intanto le accuse davano sosta per poco, e ritornavano con assidua vicenda ! Addi 8 gennaro 1871 una voce calma e dignitosa, ma insieme forte, risoluta, robusta, risuonava nell’ aula della nostra Corte di Cassazione riunita in solenne tornata: era la voce del Marchese Maurigi. Ogni istituzione sorge, e? disse, perchè dettata dal bisogno; nel suo primo nasci- mento è imprecisa, difettosa, e forse anco inadatta a quel bisogno medesimo, ma porta però sempre impresso il concetto che l’ha generata, concetto che rivela il carattere e l'intensità de’ bisogni stessi che ne hanno reclamato l'attuazione. Cammin facendo - col volger del tempo - la istituzione si sviluppa, si modifica, si trasforma, sia perchè nel modo ond’è nata non mena allo scopo, sia perchè il bisogno è cessato. L'attuale stato di cose ci fa comprendere appieno il concetto della istituzione , ce ne facilita grandemente l'applicazione, e può servirci di mezzo ad ulteriori miglio- ramenti.— Per certe istituzioni, come questa de’ giurati, non basta la parola rassicu- rante della scienza, ma è d’uopo che esse divengano coscienza del popolo, che si tras- fondano nella vita sociale. Io credo con Napoleone I.° che l'istituzione della giuria sarà buona, o cattiva, se- condochè bene o male verranno scelti i giurati (1). La colpa precipua de’ giudizî falliti deve ascriversi, così proseguiva , alle Com- missioni municipali, cui è affidato l’ incarico di compilare le liste de’ giurati: esse ci mandano generalmente uomini incolti, che talora non sanno nemmanco leggere il verbale, uomini senza fede, e qualche volta de’ degradati, degl’ indegni del civile con- sorzio , de’ condannati! — Gli uomini culti ed onesti non vogliono muoversi da’ patrî focolari; ottengono di non farsi iscrivere nelle liste, e il delicato e terribile ministero resta in balia di chi lo fa riescire a danno della società! (2) E quì con quell’erudizione che non ristucca, mercè la viva fantasia onde il Maurigi illuminava e presentava tutti i suoi pensieri, mercè lo stile animatissimo che posse- deva, avviso alle riforme legislative , grazie alle quali 1’ istituto nobilissimo avrebbe potuto elevarsi alla sperata altezza (3). A’ detrattori per sistema della giuria e della Sicilia rivolgeva poi, conchiudendo, fiere e sdegnose parole : Il Dio della libertà salvi l'Italia; non si calunnia gratuitamente un popolo del quale non si possiede, nè si comprende la robusta virtù ! (1) Processi-verbali del Consiglio di Stato. (2) L'on. Tajani, già Procuratore Generale del Re presso questa Corte di appello, amico della istituzione de’ giurati (1), pur dividendo gli stessi concetti, nel discorso inaugurale da lui letto nel 1870 annunziava, con vigoroso e libero accento, che la proporzione de’ giudizi innanzi alle Corti di assise del Distretto non poteva essere più soddisfacente. « Senza dubbio, lamenti, e fondati la- «menti, udimmo, ora per un verdetto troppo mite, ora per una assoluzione, che, allo stato delle « pruove, NON PAREVA POSSIBILE, Ora per certe scusanti ammesse con facilità soverchia; ma furono «casi speciali, furono di quegl’inconvenienti e di quelle imperfezioni che sono inseparabili da « tutte le istituzioni umane, ma che non possono menomare l’ importanza dei risultamenti com- « plessivi. » (pag. 12) E le parole dell’ egregio uomo valsero allora non poco a prevenire tante sinistre preoccupa- zioni formatesi contro le assise siciliane. (3) Il Maurigi còlse nel segno, poichè molte delle riforme da lui propugnate vennero sancite con la legge degli 8 giugno 1874. (1) Ne fa bella riprova anco la robusta orazione pronunziata nel 1867 in Catanzaro; cui fu a buon diritto assegnato un posto di onore nell’opera dell’avvocato Pizzamiglio. 16 x APPENDICE I diarî legali e politici di Palermo e di Catania, di Napoli e di Milano (1), pro- digarono al Marchese Maurigi altissime lodi precisamente per questa parte della ora- zione sua, e il Precursore (2), in un succoso e forbito articolo, riassumevasi ne’ ter- mini seguenti : > «0 c'inganniamo, 0 questo (SUL GIURY) è stato lo studio più serio ed utile del « discorso , studio ORIGINALE E D'INGEGNO VALOROSO ; esso spargerà molta luce nella « viva quistione che oggi si agita in Italia, assai dottamente illustrata dal Presidente « Di Menza (3), e che in Milano è stata messa a concorso. » (4) * Frattanto il Procuratore Generale Castiglia non si acquietava, e tornava anzi più vigorosamente alla breccia col suo discorso inaugurale letto nel 7 gennaro 1874. Ecco le sue parole : « Più volte sentiste da questa sedia manifestazioni di sconforto sui giudizî per giu- «rati. Non giova dire (vedete l'abilità nell'attacco così ben predisposto dallo strenuo « Generale !), che le condanne profferite dalle Corti di assise, dietro verdetto afferma- « tivo de’ giurati, si adeguavano nel numero a quelle che già presso di noi emette- « vansi dalle abolite Corti Criminali (5): anzichè al numero , vuolsi guardare alla le- « galità delle condanne, delle assoluzioni; e qui, e nel resto d'Italia, sorgono di con- « tinuo delle voci ad imprecarne la illegalità, e tanto da commuoversene di pro- « fonda indignazione lo spirito pubblico. » (6) E con una tenacità, che, a dir vero, trova per fermo pochi riscontri, il venerando (1) La Luce, anno 1871, n. 9. —L’Amico del Popolo, n. 8. — La Gazzetta di Palermo, n. 8. — L'Avvenire d’Italia, n. T.—La Gazzetta dei Tribunali di Napoli, n. 23. etc. ete. (2) Anno 1871, num. 9. 5 (3) II comm. Giuseppe Di Menza, del cui nome si è fatto più volte ricordo, già Presidente di assise, ed oggi Presidente di Sezione presso la nostra Corte di appello, è stato pur esso incrollabile nella sua fede, che ha trasfusa ne’ molti suoi scritti, tra cui abbiamo letto con grandissimo frutto i se- guenti pregevoli lavori : È — Le assise ed i giurati del circolo di Termini-Imerese; anno 1869. — Dei giudizîì popolari in Italia,e nella Sicilia specialmente; anno 1870. — Teorica dei quesiti che si propongono a’ giurati; anno 1871.—Sv' giudizi popolari dei Romani; anno 1873.—E finalmente le. riforme allo istituto de’ giurati; anno 1874. (4) È noto che i rappresentanti in Milano del premio del prof. Ravizza proponevano nel 1870, a ti- tolo d’ incoraggiamento , la somma di L. 1500 alla migliore fra le memorie che avesse offerto i risultamenti delle assise italiane dal 1861 al 1869. La prova andava fallita, e nel 1870 riaprivasi il concorso per l’anno 1871, elevandosi il premio. a L. 2,000, che venne conferito al cav. avv. Clemente Pizzamiglio; riconoscendosi pur degna di ono- revole menzione la memoria di Emilio Brusa, professore di diritto internazionale presso l’Univer- sità modenese. (5) Malgrado l’affetto che.ci legava all’estinto giureconsulto dobbiamo notare che cosiffatta affer- mazione non è interamente esatta.—Le abolite Gran-Corti Criminali della nostra Provincia assol- vevano dal 32 al 39 p. 010. Ora anco nel 1863, epoca delle maggiori assoluzioni avvenute ne’ giudizî per giurati, esse fu- rono sempre inferiori al 39 p. 010, e mai sorpassarono il 31 p. 010. (6) Anco l’on. Corte, nella tornata della Camera 5 marzo 1873, avea interrogato. il Ministro di È APPENDICE XI 3 giureconsulto le stesse idee sosteneva innanzi alla Giunta parlamentare per l'inchiesta I sulle condizioni della Sicilia, nominata secondo il disposto dell’art. 2° della legge 3 a luglio 1875, siechè di parole gravissime (così allora fu scritto), nella sua severità si i servi il Castiglia per caratterizzare molti verdetti riflettenti il periodo anteriore al- _ Vultima riforma legislativa degli 8 giugno 1874 (1). : Ahimè !.. Le idee preconcette fanno velo talfiata a’ più sublimi intelletti (2). Il Mau- : rigi anco questa volta si trovò nella necessità di dover mitigare le dure e crude osser- vazioni sottoposte alla Commissione d'inchiesta dal Procuratore Generale del Re presso È il Magistrato Supremo : non tacque ben vero de’ molti difetti che occorreva emendare, - e della necessità di molti miglioramenti da introdurre; meritevoli senza dubbio gli uni i e gli altri di tutta la sollecitudine del Governo e del Parlamento ; sebbene, così egli soggiunse, la nuova legge degli 8 giugno 1874, per quanto funzionasse da poco tempo, 1 avrebbe pur dato alla giuria un indirizzo migliore. Tutto valutato, io credo che l'i- È stituto de’ giurati potrà tornar veramente utile agli scopi della giustizia punitiva, sol i quando sarà fatta più larga parte a tutte quelle utili riforme che sin dal 1864 ed in epoche posteriori sono state da me propugnate, e che sono ancor da venire. Piacemi ben vero affermare che l’opera testè compiuta è assai commendevole , ma è riescita incompleta, sicchè non potrà dare i frutti che si ha ragione di attenderne (3). Ciò mal- grado, in vista dei singoli casi, non bisogna ingigantire paure, per verità poco fon- Grazia e Giustizia sui verdetti pronunziati da’ giurati di Palermo, cui allude il Castiglia, e che: avevano prodotto profonda impressione nell'opinione pubblica.—Ma l’on. Corte, rivolgendosi al Guar- dasigilli, con logica inappuntabile, conchiudeva invece così: Se Za legge funziona male, si prov- veda analogamente! (1) La Giunta parlamentare d’inchiesta, composta di uomini che sono realmente onore della È scienza e della Patria (1), con autorità e competenza indiscutibili, dichiarava così: | ’‘—’—’«La Giunta non crede poter proporre su questo argomento (pEr cIURATI) nessuna idea, visto i «che l’ordinamento della giura non sembra dare in Sicilia RISULTATI ESSENZIALMENTE DIVERSI da quelli « delle altre province italiane. » (pag. 154). (2) Non è a meravigliarcene punto se si consideri che pauca admodum sunt sine adversario; sicchè mentre nel 15 novembre 1872 (2) il deputato Dufaure , innanzi 1° Assemblea Nazionale , af- "ferma «che giammai una legge fu più necessaria all’ ordine sociale direttamente minacciato ,» l'on. Berthauld alla sua volta il contraddice, combattendo con ardore il progetto di legge; e mentre in Italia nel 12 marzo 1874 l’on. Puccini propone l’abolizione de’ giurati assumendo, che 2’Italia avrà una giustizia rispettata sol quando al cittadino si daranno altri oneri invece di quelli di strapparlo dalle sue mura e da’ suoi affari, il Pisanelli e il Mancini gagliardamente insorgono contro di lui, e nel giorno successivo. affermano che l’ istituto in esame è il più sicuro presidio della libertà. Però come l’Assemblea Nazionale di Versailles deliberava di passare alla discussione degli articoli del progetto con 475 voti contro 142, così il Parlamento italiano approvava a gran- dissima maggioranza una legge ch'è stata, e sarà semprepiù feconda di bene per la giustizia e per | la societàl . Bi: (8) Fu anco questo il pensiero del Pisanelli.—Alla Legge degli 8 giugno 1874 diede favorevole il voto perchè la considerò come un primo passo utile nella via di più larghe e più illuminate: riforme. = PRE (1) G. Borsani, G. Alasia, N. Cusa, C. De Cesare, P. De Luca, L. Gravina, F. Paternostro, C. Verga: e R. Bonfadini. (2) Discussione della Legge sul giury.. XII APPENDICE date, nè supporre che uomini, cui sono pur care la vita, la roba, la famiglia, pos- sano per sistema impietosirsi per un furfante , o simpatizzar col delitto ! (1) Si esalta alle nubi il pericolo dell’ errore, e per l’ errore irreparabilmente com- messo si discute della convenienza e della utilità della istituzione de’ giurati; ma pur non sanno valutarsi d’ altra parte nè l’ assurdo , nè il pericolo del sistema contrario. Una logica inesorabile porterebbe anzi ad una conclusione che troncherebbe in radice ogni disputa; poichè quando le cose sono giunte ad una certa maturità, sicchè co- minciano a corrompersi, allora è d’ uopo che un principio superiore se ne impadro- nisca, le risani, ne tragga norme pratiche, e rigetti le parti inutili. In quanto a me, diceva il Maurigi, ho fede (2) in codesto istituto eminentemente giudiziario (3), e credo che a misura che progredirà, migliorerà: sarebbe davvero un passo retrogrado nel cammin del progresso qualora si abolissero i giurati, poichè io ritengo col Beccaria, ch'è felice quella Nazione ove le leggi non sono una scienza, e ch'è utilissima legge quella per la quale ogni uomo vien giudicato da suoi pari! (4) (1) I difetti e gli errori sono inseparabili da ogni istituzione umana, e come nell’ aprile del 1843 destò il più grande raccapriccio in Inghilterra l'assoluzione di Mac Naugtham, noto assassino di Mi-Drummond , così pubblicisti e Parlamenti stimatizzarono , in varie epoche, come ingiuste , al pari che ifiique, le sentenze di condanna a morte di Antonio Pin, supposto autore dell’ assassinio . di Giuseppe Sevas; quelle di Roccke e Gaethalo, del Lébrun, del Lésurques; tutti riconosciuti innocenti dopochè le loro teste insanguinate si eran viste ruotare sulla polvere ! E così nel 1857 la Gran-Corte Criminale di Caltanissetta pur condannava per assassinio un pastore al supplizio estremo. — Ma quando il capo di codesto infelice era rotolato sul patibolo, il vero colpevole denunziava dalla lontana Malta il terribile giudiziario errore già irreparabilmente consumato ! x Eppure, ciò non ostante, non si gridò mai che avrebbero dovuto sopprimersi le assise ed i giurati presso le altre Nazioni, o le Gran-Corti Criminali nell’ex-Regno delle due Sicilie!.. (2) Questa fede, cotanto viva nel Maurigi, andava man mano abbandonando i migliori. — Il giureconsulto Bandi a Firenze, il prof. Giuliani a Pisa; gli avvocati Pellegrini e Bonanno, il prof. De Gioannis, in altre regioni d’Italia! Quest'ultimo anzi con accento irresistibile— ispirato a pro- fonda convinzione—esclamò : La realtà mi avverte che il primo entusiasmo fu un'illusione. (Ar- chivio-giuridico, vol. V, pag. 632). (3) La giurta non è un istituto politico, ma un istituto essenzialmente giudiziario. Lo affermarono, al pari del Maurigi, il Glaser, l’Oudut, il Rùttiman, il Bonneville, il Pisanelli, il Gabelli, il Caso- E rati, il Poli, il Tunesi, il Puccioni, il Giuriati, il Pizzamiglio ed altri. Alcuni di questi scrittori appellaronla un'istituzione esclusivamente giudiziaria, ma i vari ragio- nari del Bandi, del Bosellini, del Guala, del Massa-Saluzzo, dell’Ellero, del Pescatore, del Gabba, del Bonanno, del Franceschini, ben ci appalesano come sia stato più accorto il Maurigi, ed assai più felice nel definirla come una istituzione eminentemente giudiziaria; schivando destramente l’urto delle avversarie opinioni. È (4) Grazie al Cielo sa valutarsi in Italia l’alto pregio della istituzione di cui si tratta; e nessun motivo fra noi potrebbe mai accennare alla necessità di un progetto di legge, simile a quello che veniva presentato, parecchi anni addietro, dal Ministro Austriaco della Giustizia D.r Glaser alla Ca- Dall = mera de’ Deputati in Vienna, per la sospensione dell’opera della Giurèa; e ciò perchè « dal momento — « che l'individuo sedente al banco di giudice popolare crede di compiere un dovere patriottico se « porta seco il suo giudizio già preparato (approvazione a sinistra), se egli non giudica la verità «del fatto, e secondo il senso della legge, ma trova unicamente di sua convenienza di servirsi «del caso per esprimere le sue convinzioni e le sue simpatie politiche e nazionali; dal momento, - 7 «infine , ch’ egli è guidato dall’ insana idea di essere un traditore di quella convinzione se non APPENDICE XIII Risposta ad una grave objezione. Nel discorso inaugurale letto nel 1875 accentuò il concetto della necessità delle riforme, e, rispondendo alle objezioni abilmente dal Castiglia accampate nel discorso inaugurale del 7 gennaro 1874, avviso che per la legalità delle condanne e per le in- giuste ed“erronee assoluzioni unica àncora di salvezza era quella di ripetersi, in certi casi eccezionalmente gravi, il dibattimento innanzi ad altri giurati. La riforma augurata all'Italia dal Maurigi. Ma è già suonata l’ ora di una seconda riforma per le assise ed è giurati, e sin dal 19 novembre 1881 è stata presentata alla Camera elettiva la RELAZIONE della Com- missione parlamentare sul disegno di legge del Ministro di Grazia e Giustizia, debi- tamente esso disegno dalla Commissione medesima corretto ed emendato (1). Il Mau- rigi divinò adunque i tempi che gli vennero dietro, e il suo presagio sembra avverato: resta ora soltanto a vedere se le sue parole sieno andate perdute al vento, o se in- vece i suggerimenti dell’illustre magistrato sieno stati tenuti nella meritata conside- razione. Con quella onesta e risoluta franchezza, che attinge vigore nella forza de’ proprì convincimenti, dobbiamo pur confessare che, in base al progetto di legge superiormente ricordato, i diritti dell’ innocente affin di preservarlo immune da ingiuste persecuzioni sono stati tutelati con saldi ed efficaci presidî, che il diritto del colpevole, per non esser trattato con una severità che oltrepassi la prescritta misura, è stato altresì te- nuto in onore, ma non ci sembra egualmente che la punizione dei reati fosse abba- stanza garantita mercè quelle tali riforme che il Maurigi auspicò all'Italia pria da Pro- curatore Generale di Corte di appello, e più tardi da Avvocato Generale presso la Cassazione palermitana. Ignoriamo qual maligna stella possa avversare, in questa terra classica del diritto, le più salutari ed importanti riforme. — Quella dal Maurigi proposta noi reputiamo sia la sola, mercè la quale potrà soltanto l’istituto anzidetto sorgere su basi solide e sicure, se pur non si faccia ogni opera per giustificare i lamenti già sollevati dal Bosellini e dall’illustre professor Pisano, il quale con frase, come sempre, incisiva, parecchi anni « dichiara bugia tutto ciò che è vero, e se non dichiara verità tutto ciò che è falso (bravo bravo), «si entra in un tale stadio, che, mantenuto a lungo, non può ad altro condurre che a vedere « schiacciata la istituzione del Giury sotto il peso delle più amare esperienze (bravo! bravo !) » ET NUNC ERUDIMINI !.. (1) Il progetto di legge era stato presentato alla Camera dall’ ex-Ministro Guardasigilli on. Villa. 17 XIV APPENDICE or sono, affermò, che la scienza criminale in Italia fosse davvero in un movimento retrogrado verso il rigore (1). Difatti non veggiamo ‘che nel succennato progetto di legge si dica alcun verbo di ciò che, a credere del Maurigi, sarebbe quasi un sommo dettato di giustizia, e che non potrebbe lasciarsi in vergognoso oblio ! Sarà bene, diceva il Maurigi, che non si abbandoni l’accusato in balia di molte- | plici e imprevidibili eventualità, delle preoccupazioni de’ partiti, delle possibili anti- patie personali, delle momentanee esaltazioni del popolo, ma si farà bene del pari a non allargare soverchiamente i freni della giustizia punitiva: vi sono i grandi colpe- voli, talfiata simpatici al cittadino giurato , vi sono i giorni de’ processi solenni nei quali le passioni ribolliscono, e le voci sinistre precorrono i dibattimenti, al pari delle audacie che sfidano baldanzosamente la giustizia, delle viltà che la insidiano, dello scetticismo che la sospetta! Arrogi che anco l’errore, frutto della umana fragilità, è pur possibile; ma allora in qual guisa potrà porsi riparo alle immeritate assoluzioni? Si sospenda in tutte siffatte ipotesi l ingiusto verdetto di assoluzione , e si rimandi la causa ad altri giurati 1 — Nel diverso si troverà la giustizia disarmata e impotente di fronte a verdetti inesplicabili che turbano la coscienza dell’universale, che sono di eccitamento a’ tristi per isfogare le malvagie loro passioni, con la speranza che con- cepiscono di conseguire la impunità, e che scoraggiano gli onesti, i quali non veggono abbastanza garantite la loro vita, le sostanze, la integrità personale. , È impossibile non apprezzare la importanza di questo argomento, anco a nome della scienza, se per poco si rifletta ch’essa è lontana dal dettare oracoli contrad- ditorî ! I colpevoli e la società, secondo la frase di un egregio pubblicista (2), restano egualmente colpiti da una sentenza o ingiustamente severa, o fuor di luogo benigna ! Genesi e necessità della riforma. Il Maurigi fece sempre plauso al concetto che avessero dovuto conferirsi alla Giu- stizia tutti i mezzi mercè i quali avrebbero potuto ripararsi e gli errori legali e le in- È giuste condanne, ma pur trovò indispensabile che avrebbe dovuto armarsi ad un tempo — contro le ingiuste assoluzioni, giacchè egli pensava che una riforma di tal genere sia come una sintesi vitale, da cui non possono a comodo, per avarizia di tempo e fatica, o per difetto di animo e coraggio, dividere e staccare le parti. E di siffatta necessità furon compresi gli onorevoli Mancini e Pisanelli, la Com- | missione parlamentare e il Guardasigilli, il quale, di concerto con la Commissione medesima, si vide costretto dalla irresistibile potenza della logica a ritirare la proposta — riforma dell'art. 509 del Codice di procedura penale, dopochè l'onorevole Spina (3) avea formalmente sollevata alla Camera nel marzo del 1874 la importante quistione , attorno (1) F. Carrara.—Sulle quistioni di scusa a’ giurati. — Pisa, 15 ottobre 1862. (2) Cav. Edoardo Arbib.—Direttore della Libertà. Roma, 25 dicembre 1873. (3) La proposta Spina venne anco appoggiata alla Camera da quell’elegante e dotto scrittore ch’è l’on. deputato Lioy. È i APPENDICE : XV alla quale erasi pur travagliato infaticabilmente quell’ eletto ingegno del Presidente Di Menza. È Ma Governo, Commissione e Parlamento taglieranno, ci è stato detto or ora da un eminente personaggio politico, il nodo gordiano, e l'art. 509 verrà approvato nel testo proposto dalla Commissione (1), la quale ha creduto in siffatta guisa troncare ogni ragion di contesa. _ Ce ne dorrebbe altamente come di un partito inconsulto, che per fermo non po- trebbe acquistarci un titolo di benemerenza nella storia de’ progressi civili, mentre, ‘seguendosi il consiglio del Maurigi, una lodevole garanzia d’ imparzialità nell’ ammi- nistrazione della giustizia verrebbe ad incentrarsi, come potentissima forza dinamica, ne’ roteggi di un freno efficace e salutare ad un tempo ! Il voto dell insigne trapassato non potrà quindi, siccome speriamo, non essere accolto dalle Camere legislative, se vuolsi evitare la ripetizione di que’ verdetti scan- dalosi che conturbarono in altra epoca mezzo il paese, perchè, al dire dell’on. De Falco, allora Ministro Guardasigilli, furonvi dei re? confessi (2), i quali vennero assolti (3). Come qui, per ben due volte nel 1872, presentaronsi innanzi alle assise straordi- narie de’ giudicabili di omicidio, i quali aveano trucidato gli uccisori del proprio padre ingiustamente assoluti dalle assise infra l’anno; come il giovinetto Militello , che assassinato avea il suo compagno di collegio nello stesso anno 1872, assolto dalle assise ordinarie di Palermo, ritornava tranquillo al domestico focolare; così nel 1864 veniva assoluta nelle Marche dalle assise di Fermo la fantesca di Poggio Mirteto che barbaramente assassinava la Marchesa, sua padrona, dormiente fra due bambine, al pari delle assise di Chiavari (Genovesato) che rimandavano libera nel 1868 una certa, Domenica Bonfigli, convinta rea di avere ucciso il proprio marito ; ed al pari altresì delle assise di Milano che assolvevano un colpevole pel solo merito di essere stato un prode militare ! — Non difformemente del resto alle assise di Napoli, le quali, come nel 1867 assolvevano i ladri del pubblico danaro con la malintesa convinzione di pro- testare contro la moltiplicità e gravezza delle tasse, così nel 1882 mandavano libero e sciolto da ogni legame un altro noto delinquente: cosa che a chiunque sembrava im- possibile in vista delle prove luminose già acclarate al pubblico dibattimento !.. (4) Sarà ciò ancor tollerabile ? — Governo e Parlamento rimarranno ancora impassibili (1) La decisione de’ giurati non va mai soggetta ad alcun ricorso. (E DI TUTT'ALTRO SI TACE!) (2) Rebus sic stantibus, e sino a che alla giur?a non verrà fatta più larga parte (come forse le ri- serba un avvenire più vicino, c più lontano), nell’amministrazione della giustizia ordinata a base popolare, perchè non si pone il problema se, in questi casi, convenga sottrarre al giudizio de’ giurati l'imputato che confessa la sua reità, sul lodevole esempio che ci offrono in proposito le altri Nazioni ? Così avviene in Inghilterra, in Prussia, nel Wilrtemberg, in Francoforte, in Brema, in Svizzera, - ne’ Cantoni di Zurigo, in Turgovia, nel Neufchatel, nella Argovia, in Soletta, in Vaud ! Se le nostre reminiscenze non sono ingannevoli parci che l’Ambrosoli ed il Gabelli ne abbiano posto in Italia - molti anni or sono - il quesito. Ciò risparmierebbe tempo e lavoro a giurati, a magistrati, a testimoni; ritardi ed ansie al reo confesso, e pur tornerebbe di vantaggio economico all’Erario nazionale. ? (3) Il Senatore De Falco ne fece solenne testimonianza alla Camera nella tornata del5 marzo 1873, rispondendo alla interpellanza dell'on. Corte della quale più innanzi è parola. È (4) Quell’Argo da’ cento occhi ch'è la libera stampa gridò difatti allo scandalo per siffatto verdetto e i giornali politici di Napoli accennarono financo ad un processo intentato da quel Procuratore del Re contro alcuni giurati su cui pesavano gravi indizî di corruzione. XVI APPENDICE ed inerti? — Lasceranno ancora che le acque, come pel passato, corrano per la loro china? — Ci piacerà forse sentire ancor ripeterci che grandi misfatti perpetrati a luce di sole, illustrati dappoi dalla evidenza del dramma giudiziario, sono riesciti in Italia ad inattesi verdetti assolutorî ? Siamo quanto altri mai amantissimi del progresso e delle riforme, ma il progresso è ritardo se vuolsi spingere troppo innanzi chi non ha ancora forze adatte alla corsa (1), e le riforme debbono attuarsi non secondo i palpiti del cuore, ma secondo i calcoli della fredda ragione ; tenendo specialmente presenti le condizioni morali dei popoli, i quali, com'è noto, son’usi di pregiare le istituzioni in ragione diretta dei benefizî che arrecano! Le speranze dell' avvenire. Ma ciò non è tutto ancora: amico sincero dello eminente istituto, vedrei con pia- cere, dicea il Maurigi, tra le avversarie opinioni di chi vuol ridurre, al meno possibile, la competenza de’ giurati, estendendo quella dei tribunali correzionali — e tra chi vuol ridurre tutto lo esercizio della giustizia penale — anco correzionale e di polizia —a giudizio per giurati, secondo l'avviso del Pisanelli e di altri viventi scrittori seguaci della sua scuola —che il giury pur venisse esteso a tutte le materie penali con certi temperamenti, con certe garanzie (2). — Una volta introdotto il popolo nelle aule della giustizia non è a credersi, scrisse il Pisanelli, che esso rimarrà sulla soglia ! (1) V. Carrara. Se l’unità sia condizione del giure penale; anno 1866. (2) Una plejade d’illustri scrittori idoleggia la istituzione del gîry, anco in materia civile, pre- sieduto dal giudice unico (1). In parecchi Stati della Germania, dice il Mittermayer, come Hannover, Oldemburg, Curchessen e Baden trovasi già in attività una forma pressochè simile di giudizio popolare, deferito alla cognizione del così detto — TrisunALE peGLI ScaBINI. — E quando nel 3 . aprile 1868 il Ministro della Giustizia presentava alla Camera de’ Deputati in Vienna un progetto di legge per la formazione di tribunali di giurati (Scabiri), organizzandoli nel modo testè accen- nato, svegliaronsi le più vive e generali simpatie fra Governo, popolo e pubblicisti per l'attuazione della bene augurata riforma. È La Costituzione del 1812 forma pur l’elogio dell’intuito giuridico de’ Siciliani , sempre primi nella via del progresso, siccome abbiamo accennato a pag. IX di quest’ appendice. Difatti al s 9, capitolo, I, n. 3° di essa Costituzione, sta scritto così: « Le materie tutte di fatto «ne’ giudizî sì civili che criminali siano decise da un giury, per la formazione ed applicazione « del quale sistema, sulle leggi stabilite în Inghilterra, resta interamente incaricato il Comitato « per la formazione dei Codici civile e penale. » Per questo intuito giuridico, di fronte all’autorità di Romagnosi, di Carmignani, di Nicolini, non si piegò l’altissimo pensiero di Emerico Amari. i Fu data perciò a lui la gloria di precorrere il Pisanelli, in quasi tutto il suo sistema, con lo stupendo lavoro che intitolò : Saggio sui difetti e sulle riforme delle statistiche penali; ricordato a pag. 17 della Commemorazione (2). Dopo quasi tre quarti di secolo ferve ancora la quistione che i Siciliani aveano coraggiosa- mente risoluto fin dal 1812! (1) Il pensiero del giudice unico va prendendo corpo come di una riforma possibile in Italia. — Due ex-Ministri di grazia e giustizia (il Mancini e il Tajani), ciascuno di essi con vedute sue proprie, ne cal- deggiano l’attuazione. (2) Veniva reso di ragion pubblica nel 1839, mentre il Pisanelli mandava per le stampe il suo libro della istituzione dei giurati nel 1856. alive A + NES Re Na Li APPENDICE XVII Grandiosa riforma ella è questa vagheggiata dal Maurigi; conforme al progresso ed alle nostre aspirazioni. Resterebbero così aboliti tutti gli appelli in materia correzionale, e si riordine- rebbero in modo più logico, più conveniente e più economico, i Tribunali correzionali e le Preture; istituendosi soltanto, se pure il bisogno sarà per richiederlo, una Sezione speciale presso la Magistratura Suprema per la revisione dei ricorsi correzionali e di polizia. I furti campestri (fu bene osservato da un prestantissimo ingegno che compi sua giornata innanzi sera), gli schiamazzi notturni, certi assembramenti, l’abitualità di certi barbassori di percuotere ed altri simili fatti, sono tante e tante volte impuniti perchè fan difetto le prove assolute. — In tutti però sta il convincimento della colpa dell'imputato. " Le dichiarazioni di non farsi luogo a procedere, che pur sono con tanta frequenza pronunziate, suscitano altresi insistenti reclami da parte dei danneggiati, e fomentano certe opposizioni, che sarebbero evitate col giudizio popolare. Codesta nobile causa non è ancor vinta, ma tenghiamo fede che il tempo ne con- sacrerà certamente il trionfo! I Presidenti delle Corti di assise. Il Marchese Maurigi, anco prima del compianto Senatore Vacca, considerò che il buon successo de’ giudizî per giurati dipende essenzialmente da un complesso di con- dizioni e di guarentigie che mutuamente si aiutano e si compiono: delle quali gua- rentigie la più suprema è riposta nella buona scelta del Magistrato, che nelle Corti di assise è chiamato a presiedere i pubblici dibattimenti. Occorre quindi elevare il Presidente presso le Corti medesime all'altezza della sua missione: vi si debbono nominar persone cui non faccian difetto nè possesso di scienza, nè vigor di mente, nè potenza di eloquio, e soprattutto quelli che abbbian coscienza del delicato ed arduo ministero che li costituisce inquisitori non della reità, ma della verità: loro rendendo, mercè un adeguato compenso, meno aspra la via del lavoro, cui sono quasi cotidianamente obbligati a sobbarcarsi, e del quale talvolta son vittime: ben avventurati se loro si dia, solo culto, l'oblio ! È a far quindi i più fervidi voti perchè Governo e Parlamento si rendano inter- preti di codesto supremo bisogno. ì Riassunto presidenziale. Nel 20 marzo 1874 l'on. Ercole svolse, innanzi la Camera dei Deputati, una sua proposta sulla necessità di mantenere, o sulla opportunità di abolire il riassunto pre- sidenziale. Il Maurigi prese la parola sulla quistione; dichiarando nel suo discorso inau- A : 18 XVIII APPENDICE gurale del 1875, difformemente all'avviso dell’on. Ercole ed anco dell’illustre Mancini (1), che il riassunto, pur mantenuto nella grande maggioranza delle legislazioni di Eu- ropa, non dovrebbe sollevar diffidenze, poichè il vantaggio di esso è quello di pre- sentare a’ giurati in modo imparziale tutto il corso di una lunga discussione. af Ora è ripreso in esame codesto controverso argomento, il quale, men che d’im- »* portanza scientifica, è di alta importanza pratica, conciosiachè la Commissione della Camera, per fermo assai più coraggiosa del Ministro proponente, « con mirabile con- cordanza di giudizio, » dice il Relatore di essa (2), è stata di parere che «il vero modo « di collocare il presidente delle assise in una sfera superiore, nella quale gli sia dato «mantenere quel prestigio d'imparzialità che deve sempre circondarlo, sta nel torgli il « terribile potere che gli viene dal riassunto. » Il Parlamento scioglierà quanto prima questo nodo, ma si pensi al mònito dell’e- gregio giureconsulto nello interesse della giustizia , nello interesse della società ! (3) 3 Codesto riassunto che metteva mezzo secolo addietro i brividi a Timon in Francia; 1 che a’ Legislatori di essa nel 1881 facea tremar le vene e i polsi; ch'è stato avversato J in Italia dal Brofferio, dal Rattazzi, dal Tecchio (4), dal Buniva, dal Taneredì Cano- nico (5), dal De Mauro (6), dal Carrara (7), ed ultimamente anco dal Giuriati, ci sembra, se mal non veggiamo, come la suprema guarentigia di essa! Meglio che seguire l'esempio del Belgio, meglio che tener dietro a qualsiasi ser- vile imitazione della vicina Francia, ove il riassunto presidenziale venne abolito per la legge 20 giugno 1881, malgrado la splendida difesa fattane dal Baragnon al Senato nella seduta 12 maggio dell’anno medesimo, ciò che però non hanno ancora osato di fare nè l'Imghilterra, nè la Germania (8), diciamo col Maurigi, che, lungi di abolire il riassunto in esame, converrebbe invece che il Guardasigilli rivolgesse le più gelose cure per af- (1) La Camera respinse nel 1874 la proposta Mancini, ch'era anco quella dell’on. Ercole, sicchè l’art. 498 venne approvato nel testo proposto dalla Commissione. (2) L'on. deputato Vastarini-Cresi. — Presidente e relatore. ) (3) Chi, innanzi la Corte d’appello di Palermo, lesse nel 1882 il discorso inaugurale sull'ammi- nistrazione della giustizia nel 1881 sì dichiarò contrario alla proposta riforma (Disc. del cav. Isi- doro Broggi, sost. Proc. Generale del Re). > (4) Lo abbiamo già rilevato a pag. 44 della Commemorazione. (5) Il Buniva ex-Deputato, insieme all’egregio T. Canonico, presentava verso il 1872 apposita petizione al Parlamento per la soppressione del riassunto presidenziale. (6) L’avv. Mario De Mauro ne scrisse nell'Archivio giuridico di Bologna, vol. V, pag.462-472. (7) Il prof. Carrara nel detto Archivio, vol. VI, pag. 339-342. (8) Una recente legislazione consacrò, anche in Germania, come necessario il riassunto pre- sidenziale. Nelle sedute della Società di scienze giuridiche e politiche ch’ ebbero luogo in Torino nel 5 e 26 febbraro 1871 la proposta per l'abolizione del riassunto, dopo vivo dibattito, non venne ap- È provata. 3 R Il Bonneville in Francia con cala di ragionamento, con acume di critica, Reno riconosciuto. necessario (De l’amélioration de la loi criminelle). - In Italia il Casorati e il Pizzamiglio pur si dichiararono avversari del riassunto, che trovò ben vero uno strenuo difensore nella persona del Saluto, Consigliere presso la Corte di Cassazione di Palermo; molto noto in Italia per le sue dotte opere nel giure penale. La Cassazione di Torino con decisione del 10 giugno 1869 ne rilevava alla sua volta al fori grande importanza. È P nie e ii intime it i APPENDICE XIX fidare a’ Magistrati più sapienti ed operosi le parti assai ardue di Presidente di Corte di assise, e che ne faccia oggetto delle migliori sollecitudini sue; se si rifletta ch’ è grandemente vera la famosa sentenza del Montesquieu: esser virtù degli uomini il procacciar credito ed efficacia alle istituzioni, e loro colpa il farle perire! (1) I giudici di Tribunale al servizio delle assise. E nel 1875, con tocchi da maestro, discusse se fra l'organismo del giury inglese, presieduto da un unico giudice togato , e l’ organizzazione del giury francese, non debba preferirsi il sistema inglese ; eliminando dalle Corti di assise i due giudici di Tribunale, e considerò quest'ultimo sistema come meglio conforme alle nobili tradi- «zioni della Patria nostra; un ritorno all'antico sistema romano pel quale il Praetor dirigeva il dibattimento cui era chiamato a presiedere, et miltebat judices juratos in concilium. Siamo lietissimi di poter quì dichiarare che la Commissione anzidetta ha già fatto alla Camera la stessa proposta. Pena di morte. Nel 1874 quasi tutta la stampa della Penisola (2) facea le spese ad un’ardita pro- posta che NIENTEMENO dicevasi caldeggiata dalla concorde opinione nazionale. Era quasi una parola d'ordine che da un capo all’altro d’Italia ripetevasi con foga incalzante per l'abolizione della pena di morte. Come suole spesso avvenire, specialmente in tempi di libertà, dalla febbre si passò al delirio, e s’insistette con viva e costante energia affin di vedersi tradotta ad atto cosiffatta riforma, per la quale al postutto la scienza, la critica, la storia, come in un campo chiuso e asserragliato, si dibatton frementi; combattendo aspra tenzone. Chi avrebbe avuto il coraggio, e, diciamo quasi, l'ardimento di opporsi alla marèa semprepiù montante della pubblica opinione, che gazzettieri e pubblicisti annunziavano allora (vero, o pur no, qui non giova indagarlo), come ultima, sincera, concorde espres- sione del pensiero degl'Italiani? Il Maurizi l’ ebbe cosiffatto coraggio, appunto perchè era più amante del vero, che del godimento di quella incantatrice sirena, che appellasi popolarità: una delle più funeste piaghe d’Italia, perchè, al dire di un valoroso pubblicista, ha creato quel gesuitismo moderno, ch'è movente continuo di simulazione , di calunnie e di vanità deplorabili ! 7 | (1) Montesquieu — Esprit des lois. (2) Diè allora causa a tanto risveglio il progetto del nuovo Codice penale che l’ex-Ministro Vigliani avea presentato al Senato nel febbraro del 1874, dal quale fu poi votato, ed in cui la pena di morte venne pur conservata. IX APPENDICE È Questa dell'abolizione dell’estremo supplizio, ei scrisse, sarà l’opera della sapienza e del tempo ; forse in un'epoca più vicina, o più lontana, essa va destinata a scom- parire dai codici dell'umanità, come avvisava Emerico Amari (1); ma io ritengo neces-- sario il mantenerla PROVVISORIAMENTE pei 4 casi indicati nel progetto del Codice penale (2), poichè non credo che nelle attuali condizioni del paese possa decretarsi l'abolizione della pena capitale.—I popoli vogliono progredire, ma non amano di saltare col rischio di cadere per perder la vita! Il chiarissimo Avvocato Generale pur soggiunse che molte condanne alla pena del capo erano state pronunziate dalle Corti d’assise, e tolse da ciò argomento per affer- mare che non si trovavano punto nel vero coloro i quali voleano dare ad intendere che il cuore del cittadino giurato mostravasi decisamente ostile alla terribile pena, se poi infliggeala con tanta frequenza: sembra anzi per l’opposito che questi fatti ‘of- frano nuovo argomento pel mantenimento di essa! i 4 Il giudice popolare, quando pronunzia quel si fatale che segna iltermine della vita dell’accusato, pur pensa, dicea il Maurigi, che non può per fermo la giustizia umana privar della vita chi è creatura di un Ente Supremo ; pur pensa che lo spargimento del sangue adusa al sangue le plebi (3), che la irreparabilità della pena mentre frustra lo scopo salutare dell'emenda, pur non permette, nel caso in cui fosse stata eseguita (1) Emerico Amari (come già abbiamo detto a pag. 16 della Commemorazione), fu maestro al Maurigi, e si rivelò sempre infaticabile avversario della pena di morte. Quando lo Amari, da questo estremo lembo d’Italia, tuonava dalla cattedra contro il carnefice, il Pisanelli poco dopo facea altrettanto in Napoli, senzachè l’ illustre Siciliano avesse potuto co- noscere le idee del preclaro discepolo di Giuseppe Poerio. E quando nel Parlamento siciliano del 1848 il Calvi pria Presidente del Comitato di Grazia e Giustizia, e poi Ministro dell’ Interno, si chiariva abolizionista della pena di morte (1), il Pisa- nelli nello stesso anno (17 agosto 1848), presentava in Napoli alla Camera de’ Deputati — riunita in Monte Oliveto—d’onde, per atto di cieco e incorreggibile dispotismo, venne più tardi scacciata con la forza bruta delle armi, un suo disegno di legge per l'abolizione della pena medesima. Di guisachè come Tommaso Natale precorse con le sue dottrine, e con il progetto delle sue riforme il Beccaria (2), così lo Amari precorse il Pisanelli; ed il Calvi nella stessa epoca, e nelle identiche circostanze per le quali le popolazioni della meriggia Italia eransi ridestate allo spirito di libertà, proponeva in Sicilia quello che il giureconsulto di Tricase progettava in Napoli. Rara coincidenza di date e di fatti che rilevano altamente il merito e il vanto di questa bel- l'Isola, madre feconda di eletti ingegni, e che non giunge mai ultima, come innanzi dicemmo , nella via del progresso! . (2) V.i La Gazzetta de’ Tribunali di Napoli (3 febbraio 1875, n. 2719), ove allora pubblicammo — un ampio riassunto intorno alla orazione del Maurigi. (3) Il Senato del Regno, con savio accorgimento, accolse ultimamente l’idea di togliersi lo spet- tacolo dell’esecuzione; considerando che, lungi di giovare, essa invece demoralizza il popolo. (1) V.i Michele Palmeri nel suo scritto cominciato il 4 aprile, e terminato al10 maggio 1848. Pa- lermo tipografia Clamis e Roberti; 1848. (2) Il Marchese Natale; prima che il celebre filosofo e giurista milanese avesse pubblicato l’ aureo suo libro (cominciato in marzo del 1763, e compiuto nel gennaro del 1764), avea già scritto in Napoli nel 1759 le sue Riflessioni politiche intorno all'efficacia e necessità delle pene dalle leggi minacciate dirette al giureconsulto Gaetano Sarri, in cui con forte proposito si combatte la pera capitale. ì ) Quel lavoro però, afferma il Natale medesimo, e viene pur confermato da altre testimonianze d*in- dubbia fede, non venne pubblicato perchè non mel permisero, così EGLI SI ESPRESSE, Î gravi affari che fi molto mi tenevano sollecito. i P E APPENDICE XXI una sentenza ingiusta, che possa corrersi al riparo di essa (1); ma egli pur pensa alla società minacciata da’ tristi, alle strazianti scene di sangue, alle selvagge vendette d’iniqui malfattori, i quali affilan le armi per rivolgerle, con efferata barbarie, contro innocenti vittime ! Diritto di grazia. La più preziosa fra le prerogative del Capo Supremo dello Stato, il più nobile attributo della Sovranità (sebbene in vario senso discusso da chi della teorica della, giustizia assoluta, sorretta, con tanta autorità e competenza, da Kant, Kegel, Abicht, Mittermayer, si mostra inflessibile propugnatore), è quello di poter condonare le pene, togliendo così alle condanne qualsiasi giuridico effetto. Pero la clemenza abusata, disse il Maurigi, nuoce alla severa maestà della Legge (2), e ciò rilevò perchè, nel sessennio precedente al 1875, erano state in tutto il Regno concesse ben 174 grazie a colpevoli già condannati a lasciar sul patibolo sl delitto! Che giova quindi, così proseguiva, lasciare scritta nel Codice la pena di morte, quando essa poi non è mai eseguita? (3) Se non voglionsi attender quindi, com’ è mio convincimento, tempi migliori (4), da cui per verità ci sentiamo costretti a riconoscere ancor lontana la mèta, mercè quelle due lève potenti dell'umano incivilimento, che sono l’ISsTRUZIONE, e, sopra ogni altro, l’EDUCAZIONE, si risolva una volta la grave, sebbene dibattuta quistione (9), con- (1) Chi si occupa di tal genere di studî non può ignorare come codesto della irreparabilità della pena sia il più potente argomento accampato dagli abolizionisti d’ ogni fede e credenza, d'ogni scuola e colore! Il Rossi — non partigiano dell’abolizione della pena di morte — esprimeasi difatti così : « Nella irreparabilità di questa pena vengono ad infrangersi tutti gli argomenti che l'estremo -« supplizio sostengono ! » (2) Il prof. Sampolo fece plauso in quell’epoca a siffatto concetto, e ne scrisse anco nel Circolo giuridico da lui meritamente diretto. (8) Risulta dalla ‘statistica pubblicata dall'’on. Mancini, allora Ministro di Grazia e Giustizia, che ‘ pel periodo di tempo corso dal 1867 al 1876 erano state inflitte 396 condanne capitali; ma che aveano avuto luogo soltanto 34 esecuzioni. Nessuna esecuzione è avvenuta nell’ultimo quinquennio! Per dare semprepiù ragione al Maurigi crediamo util cosa porre in rilievo che il Decreto di grazia ed amnistia del 19 gennaro 1878 (art. 3), salvava in un giorno la vita a meglio che 100 con- dannati, e ad altrettanti forse accusati di crimini punibili con pena capitale. Così l'argomento di cui sopra è cenno risplende per fermo di luce migliore! (4) Il signor Alphonse Karr, rivolgendosi a Louis Jourdan, con fine satira, gli scrivea, che per abolirsi la pena di morte aspetterebbe prima che l’abolissero gli assassini in prò dell’onesto cit- tadino e del tranquillo proprietario, del ricco banchiere e così via dicendo. Il Barone Holtzgndorff sostiene invece che la pena di morte dovrà venire, senz’ altro indugio, surrogata dalla pena a vita. lai (5) Si trovò nel vero l’on. Avossa quando, parlando della pena di morte, disse ch'è il più grande fra tutti i problemi sociali, tanto più che il prò e #2 contro su questo tema hanno avuto propu- gnatori potentissimi (1). (1) Così nel 19 agosto 1848 l’on. Avossa rispondeva a’ suoi colleghi Pisanelli e Mancini, infaticabili abolizionisti, quando prese sull'argomento la parola innanzi la Camera dei deputati riunita in Monte Oli- veto, siccome più innanzi è stato avvertito. (V.i Gabba G. F.--Il prò e il contro nella quistione della pena di morte.--Considerazioni critiche, Pisa, 1866). 19 XXII APPENDICE ciosiachè, nello stato delle cose, la pena di morte abbia cessato di esser temuta. Se ne proclami, se pur così vuolsi, la legale abolizione , ma ad essa altra se ne sosti- tuisca, che valga, al pari di quella, come salutare freno all’audacia dei grandi delitti, che abbia forza repressiva sufficiente per servir di sgomento a’ malvagi, restituendo per cosiffatta guisa nervi e polsi alla giustizia repressiva; ma non si lasci questa da una parte nello stato della più deplorevole impotenza, di fronte agli orrori di certi crimini esacrandi che commuovono profondamente la società, che scuotono da’ suoi cardini l’ ordine pubblico; e non si perturbì dall'altra la graduale progressione delle pene sancita dal Codice penale! Però l’arduo quesito della pena di morte sta tuttora ne’ termini in cui, molti anni or sono, ebbe il coraggio di porlo il Maurigi (1), sicchè a noi altro non resta se non che sperare perchè l'antiquissima Italorum sapientia, dal solitario pensatore di Na- poli fatta nota alle genti universe, rifulga anche oggi di novello splendore, e risolva il difficilissimo problema ; confermando ancora una volta al mondo che la presente generazione non è punto degenere dall'antica stirpe latina, e per fermo non immeri- tevole che si avveri per lei il tradizionale voto che un sommo antesignano nostro amò così formolare : SIT ROMANA POTENS ITALA VIRTUTE PROPAGO ! (2) Provvedimenti eccezionali per la Sicilia. Nel discorso inaugurale del 4 gennaro 1875 trattò , {ra gli altri argomenti, anco delle condizioni della Sicurezza Pubblica in Sicilia, e singolarmente di alcune pro- vince di essa. Si rivelò recisamente contrario alle misure eccezionali; poichè , egli disse, sono più che sufficienti a raggiunger lo scopo i provvedimenti già dal Governo adottati, e le leggi in vigore applicate con mano ferma, legalmente, coscienziosamente ! (3) In verità, così soggiunse, non è con le misure eccezionali che si stabilisce per- manentemente l'ordine: le misure eccezionali sono mezzi che dovranno lasciarsi a' Go-' PO verni i quali non sispirano a principî liberali: ed io mi vi opporro sempre perchè conosco gli amari frutti che danno! (1) Anco il Procurator Generale Calenda di Tavani aveva fatto altrettanto nel discorso inaugu- rale del 3 gennaro 1873, e tornava con maggior vigore alla breccia in quelli riferibili agli anni 1882-83. Anzi nel discorso del 1883 ci riferisce le seguenti notizie che per verità non sono di lieve importanza: i «So ben io che fatti recentissimi, come quelli intervenuti ne’ vicini Cantoni svizzeri di San A «se già essa è di fatto abolita, val meglio disciplinarne l'abolizione con sostituirle altra esemplar « pena ». ecc. ece. 3 (2) Vira. 12, An. v. 827. ) (3) Questa parte dell’orazione del Maurigi venne rilevata con belle parole dal Circolo giuridico, | num. 295; dall’Amico del Popolo, num. 5; e dal Precursore, pari numero. n A APPENDICE XXIII Il Conte di Cavour respingeva le misure contrarie al sistema di libertà, con le quali, e non altrimenti, si doveva fare l’Italia; Emerico Amari tuonò, rispondendo al deputato di Girgenti nel Parlamento Siciliano del 1848, contro i Tribunali estraordi- nari, le Commissioni speciali, le misure eccezionali, ed affermò ch'esse non debbono mai venir decretate in tempi di libertà. Fece altrettanto il Marchese Maurigi ! idrica Codice civile. È Maurigi rilevo in tutti i suoi discorsi, sempre con franca e vivace parola, gli errori ne’ sistemi giudiziarî e di polizia: ciò mise in luce nel 1864, e negli 8 gennaro 1869 tornò a battere in breccia sopra codesto vitale argomento. Per quest’ultimo discorso lodò le riforme utilmente arrecate al Codice civile italiano, @ propose varî emendamenti che dalla ragion giuridica vengono suggeriti e reclamati. Ciò non ostante il Codice civile è opera degna della sapienza e dei tempi, se si ri- fletta che le teoriche in esso consecrate t'ovansi, egZi scrisse, all'unisono de’ progressi della civiltà odierna. Abbattuti gli odiosi vincoli che rinserravano la proprietà in poche mani, regolato lo stato e la capacità dello straniero, ridonati i diritti alla coscienza, l’ ordine delle successioni ispirato a più alti e razionali principî, assicurata alla famiglia, ch’ è real- mente il serzinarium reipublicae , la sua dignità, concessa alle convenzioni quella maggior libertà alla quale aveano ben diritto specialmente dopochè il soffio della rivo- luzione riusci a cancellare sin le ultime tracce del dispotismo, remosso ogni freno in quanto concerne la fissazione degl’interessi nel mutuo, proscritto il retratto successorio, la dotalità messa in armonia co’ principî di eterna giustizia, di progresso e della più squisita prudenza civile, regolate Ie servitù a norma de’ dettati puri della scienza eco- nomica, i quali non frappongono ostacoli di sorta al libero svolgimento dell'industria ed al rigoglioso prosperare dell'agricoltura, circondato di migliori garanzie lo istituto lell' ipoteca mercè la pubblicità e la specialità (1), io trovo, disse il Maurigi, pie- namente giustificati gli encomî che al nuovo Codice civile han largamente prodigato, insieme a’ dotti giureconsulti stranieri, la Scuola, la Magistratura ed il Foro (2). Finalmente conchiuse che la pubblicazione del Codice civile, unico ed universale, contribuì non solo al miglioramento de’ civili rapporti tra le diverse province, ma concorse eziandio a rinfrancare ed invigorire il principio dell'Unità nazionale. (1) Il rimpianto Pisanelli ne rilevò i pregi in una bellissima monografia scritta nel 1867 per incarico dell’on. Berti, allora Ministro di Pubblica Istruzione, e che intitolò: — De’ progressi del Codice civile in Italia nel secolo XIX. — Milano, tipografia Vallardi, 1872. (2) I professori di diritto Paolo Gide (1) e Teofilo Huc (2), entrambi valentissimi pubblicisti e giureconsulti, discussero in Francia della necessità di riformare il Codice Napoleone togliendo a modello il Codice civile italiano, pur commendato dal signor Vernier, e tradotto con molta cura nell'idioma francese dall'avvocato Orsier di Annecy. (!) De la lègislationcivile dans le nouveau royaume d’Italie Paris, 1866. (2) Le Code civilitalien etle Code Napolèon. Paris, 1866. CI XXIV APPENDICE sO Procedura civile. Interloquendo su codesto tema combattè innanzi tutto l'errore di coloro i quali in buona fede asseverano che la procedura giudiziaria, specialmente nelle contese civili, sia un'arte ‘che dal proprio speciale uffizio tragga l unico principio, anzichè teorico, affatto pratico, e, per così dire, dinamico che la governa e la scorta.—Le leggi di pro- cedura non sono arbitrarie, e molto meno convenzionali, egli disse, poichè ben lungi dall’ offrire un’arida raccolta di materiali congegni, esse costituiscono invece la vita esteriore del diritto. Scendendo poi a ragionare della procedura sopra ricordata affermò che î sommi fini di un bene ordinato sistema in materia di rito civile sono: massima celerità nel corso dei giudizi, minimo dispendio delle parti, perfetta eguaglianza di trattamento fra’ contendenti. Se la giustizia riscuote in Italia la pubblica confidenza, perchè tutti ì cittadini sono uguali dinanzi alla legge, non può dirsi altrettanto pel nostro ordinamento processuale civile in quanto tocca, disse l'illustre estinto, alla celerità de’ giudizî ed al minimo dispendio de’ litiganti, giacchè la giustizia non soddisfa alle esigenze di tutti; se si rifletta che mentre da una banda essa è cagione di molte spese, non è rispondente dall'altra a quella speditezza, a quella ognor crescente attività della vita sociale, ch'è uno de’ caratteri distintivi de’ tempi odierni (1). Trovò specialmente parole di sconforto per quella parte procedurale ch’ è intesa a dare forma ai giudizî, i quali per loro natura debbono esser più celeri: la parte cioè relativa al procedimento sommario (2). Da: Potremmo passare a rassegna tutte le belle idee da lui annunciate in proposito, ma _ crediamo che ciò basti perchè le son cose assai note, nè d’altro verso aggiungerebbero un grande merito all’illustre estinto, giacchè questo della riforma de’ giudizî sommari — è stato argomento ed obbietto dei desiderî dell’universale, e specialmente della magi- stratura, del foro, dei cultori delle giuridiche discipline, che l'han fatto segno a frequenti e non infondate critiche per la facilità delle sorprese cui rimangono esposte le parti (come noi stessi scrivemmo in un lavoro (3) messo fuor per le stampe nel 1878), e perchè (1) Malgrado gli evidenti difetti di essa i più cospicui giureconsulti di Francia e di Alemagna ne fecero elogi all’epoca della sua pubblicazione; e specialmente il Baroche in Francia, e il Mitter- mayer in Alemagna. ? Anco le Camere del Belgio la tolsero come a modello per la revisione del loro Codice di civil procedura. Fa O in (2) Quest’altra sospirata riforma dal maggio 1878 al marzo 1879, dal 19 febbrar al 15 aprile Dr 1880, e da quest'ultima epoca al 30 maggio dell’anno medesimo, si trascina grave e pesante; in- Hi felicemente sbattuta dalla Camera de’ deputati al Senato, e dal Senato alla Camera de’ deputati ; con alterna vicenda | ia (3) Il presente e l’avvenire delle Regie Avvocature erariali. Palermo, Tipografia del Giornale di Sicilia; 1878. Dì APPENDICE XXV riesce talvolta impossibile che venga esercitato pienamente il dritto della rispettiva di- fesa. Aggiungiamo ora soltanto un altro voto del Maurigi, ed è questo cioè; che per esser durevole la legge che dovrà quanto prima venire a discussione innanzi la Camera elet- tiva, e perchè le vagheggiate riforme possano corrispondere veramente alla generale aspettazione , è necessità si provveda, come par che vogliasi fare, anco alla riforma. del procedimento formale, e ciò per non essere costretti a correr dietro altra fiata, în breve volger di tempo, ad altre modificazioni della nostra procedura civile; essendo sempre cosa assai delicata il porre mano a riforme che toccano alle basi fondamen- tali della legislazione : richiamando per giunta, con tutto buon diritto, contro di noi il rimprovero che il più grande Poeta nazionale rivolgeva, con amara ironia, alla patria sua: Quante volte del tempo che rimembre, Legge, moneta, e ufici, e costume Hai tu mutato, e rinnovato membre! (1) Sul regime delle acque. Più di una volta discusse sul regimie delle acque , alte cui seabrose e multiformi teoriche va legato il nome di quel peregrino intelletto del Romagnosi! — Il Maurigi luminosamente dimostrò come le disposizioni del Codice civile italiano, della legge 20 marzo 1865 su’ lavori pubblici, e di quelle altre che vi si riferiscono, sono insufficienti allo scopo; specialmente dopo i grandi progressi della meccanica che, in men di una metà di secolo, ha prodotto una vera rivoluzione nelle industrie manifatturiere, e in ogni lavoro in cui alla mano dell’uomo è venuta a sostituirsi l’ azione meccanica sia per mezzo del vapore, sia per mezzo della forza motrice idraulica, traendo profitto delle pendenze e de’ salti d’acqua (2). Il Maurigi, con sano criterio, mirava specialmente a veder disciplinato I’ uso di essa a scopo industriale, ed invocò de’ provvedimenti — già reclamati da’ bisogni dei tempi — intesi a promuovere le irrigazioni; i quali provvedimenti saranno , egli di- ceva, ed è vero, come una lèva poderosa al miglioramento dei terreni. | Per fermo; se col mirabile sistema delle irrigazioni la scienza saprà guidare le acque de’ fiumi, de’ laghi, delle sorgenti perenni e così via dicendo, si vedranno, come per incanto, rivestite di pingui praterie vaste zone di terra, prima incolte e sab- biose, e nude ed infeconde lande tramutate in fertili campi, in colti e ridenti giardini (3). (1) Purg. c. 6, v. 143. (2) Ciò in questi ultimi tempi fu anche posto in rilievo dal Senatore Alessandro Rossi; cotanto benemerito della scienza, il quale, con grande amore, consacra a siffatti studî il suo ingegno e la sua vasta dottrina. (V.i Annali dell'industria e del commercio, anno 1882, pag. 9). (8) In Sicilia invochiamo con fede siffatti provvedimenti, e n'è stato già presentato al Parlamento il relativo progetto di legge, se poniamo mente che, a petto di una. superficie irrigata di 35,577 ettari, sta una superficie, tuttavia non irrigata, di 111,000 ettari! 20 tri KKXVI i APPENDICE Il progresso scientifico e la scienza del dritto. Un Magistrato e giureconsulto insigne dall'alto seggio della Cassazione subalpina usciva, or non è guari, in questa sentenza; « In tre udienze furono discusse 6 cause «a Sezioni unite: quattro volte confermaste il precedente vostro pronunziato, in due « il ripudiaste. o « Deste così mirabile esempio di temperanza di animo, RINNEGANDO, IN GRAZIA « DE’ PRINCIPÎ, la OPINIONE VOSTRA. » (1) Lo stesso concetto, sebbene sott’altro punto di vista, manifestava il Maurigi nel discorso degli 8 gennaro 1871. Egli, in nome del progresso della scienza del dritto, trovò parole di altissima lode per la Cassazione palermitana, la quale, in omaggio al culto de’ principî, senza perplessità e senz’ambagi, erasi affrettata a disdire talune delle opinioni intorno a parecchie massime precedentemente abbracciate e stabilite ; persuaso , al pari del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione di Torino , che il vero assoluto non è patrimonio delle scienze morali, che il dubbio non è indizio sempre di mutabile animo, o di mal ferme convinzioni, e che dell'errore giuridico non st deve esser mai timidi confessori; persistendosi, per alto sentire di noi medesimi , nel primo giudizio, che non aveva forse colpito nel segno (2). Pensiero questo non nuovo per fermo, ma che pur rende il debito culto alla sa- pienza de’ nostri avi, i quali mandavano gli Alciati per insegnare a Parigi le prime rubriche del Digesto!—wnoBISs, così essi ci lasciarono scritto, ALIQUANDO PLACEBAT, SED NUNC IN CONTRARIUM ME VOCAT SENTENTIA (3). Il naturale progresso della scienza del dritto, non che della mente stessa del ma- gistrato, impediscono, disse il Maurigi, che i responsi suoi abbiano la immobilità del domma; la scienza va meglio, col volger del tempo, studiata nelle infinite sue rela- zioni: nuove riflessioni, novelle vie che la scienza ha dischiuso, hanno determinato il magistrato intelligente e coscienzioso a mutar parere, a decidere altramente. Il magi- strato deve farsi guidare dalla scienza, e non menare dalla giurisprudenza, ciò sa- rebbe indice di difetto o di minore perfettibilità umana. Così fosse stato sempre seguìto il suggerimento di questo magistrato-filosofo , e da tutte le magistrature imitato lo splendido esempio fornitoci dalla Cassazione dell'I sola nostra; chè non avremmo visto talora in Italia difese con incredibile ardore delle massime dalla gran maggioranza delle altre magistrature ripudiate, o contraddette, sol per tèma di doverla rompere vuoi con lunghe ed antiche tradizioni della propria giuris- prudenza (da precedenti giudicati solennemente affermata), vuoi perchè, dimentican- dosi che il Genio più sublime non è sempre al sicuro delle sorprese dell'errore, sì è (1) Calenda di Tavani — L’Amministrazione della Giustizia nella Corte di Cassazione di To- rino (pag. 55). Tipografia LocatELLI; ANNO 1882. (2) Calenda; discorso 1882 quì citato. (3) È un famoso responso di Papiniano, cui armonizzano molti testi del Digesto égregiamente illustrati dal Gotofredo (D. 1. XVIII, t. VII, etc: etc:). I di APPENDICE XXVII ereduto di essersi già colto quel vero giuridico, che altri con mirabile accordo, come tale non ritenendolo, ha reiteratamente respinto! (1) La scienza vuol godere di una piena libertà, essa tra il vivo agitarsi delle lotte si rinvigorisce e sempremeglio rinsaldasi; non vuol perciò essere inceppata dalle pastoie della tradizione, sicchè mentre ATEJO CAPITONE quae a majoribus tradita fuerant, constantius tenebat, et verbis, atque institutis haerebat firmius, un giureconsulto, la cui fama suonava si alta fra i suoi contemporanei (2), nil assuetus jurare in verba magistri, provehebatur IN ALTUM, ET NOVITATE DUCEBATUR. ITAQUE PLURA INTULIT VEI IGNOTA, VEL INTENTATA VETERIBUS (3). Le nobili massime dal Maurigi annunziate costituiscono l’ antica lotta nel romano liritto tra le due scuole dei Sabiniani e dei Proculejani; lotta dell'autorità contro la ragione, ove la prima, com'era da attendersi, fini col soccombere! Il Maurigi bandì co’ suoi scritti the l'autorità non è una ragione, ma non altro che l' ausiliario della ragione; come aveano pur proclamato un sommo logico del di- ritto (4), e il grande Arpinate nel lib. I, n. 5, del suo volume. — De natura Deorum. Il magistrato e la legge. aan * Ma le leggi sono, egli scriveva nel 64, e siffatto concetto ne’ suoi discorsi del 69, del 71, del 75 sempre meglio , e con colori più smaglianti, scolpiva. Le leggi sono, ma cio non basta , io voglio gli uomini che ad esse pongano mano con intelletto d- amore; lo voglio il magistrato che, bene applicandole, sia in grado di compiere quel- l'alto mandato di conservazione sociale , che per tutte vie assicuri la prosperità del popolo; fonte ed origine prima di tutti i Poteri dello Stato, forza e potenza d’ogni Go- verno! — Come un altro illustre caduto (5) egli diceva: Datemi # magistrato ottimo, e vi risponderò del resto ! Né: s’ ingannava punto , se si consideri che spetta al magistrato dar vita ed effi- cacia alla legge; come potrà essere opera del magistrato di renderla impotente a con- seguire il fine cui venne essa ordinata alla luce delle eterne massime del giusto e del vero che stanno consacrate ne’ Codici: frutto dell''ammiranda sapienza degli antesi- «gnani nostri, che furono i primi legislatori del mondo! ‘La indipendenza del giudice e le garanzie. E parlò nel suo discorso inaugurale degli 8 gennaro 1873 appunto della nobilissima (1) Poetae fabulati sunt obstinationem filiam esse Herebi et noctis. Così Cicerone. — De na- tura Deorum. . (2) Antistio Labeone. (3) Gravina. De ortu et progressu juris civilis, cap. 45. (4) Il Gravina, quì citato. ) (5) Avv. Vincenzo Di Marco. Memorandum-protesta al Governo Nazionale; 1861. XXVIII APPENDICE missione del magistrato che deve attingere unicamente nella legge le sue ispirazioni (1); subordinando i giudizî suoi personali alla fede solennemente giurata, tetragono egual- ‘mente tanto alle blandizie del Potere e agli attacchi de’ potenti, quanto alle codarde accuse, alle lotte partigiane e politiche, alla troppo invadente tirannia della piazza! Ma perchè possa adempiere degnamente al suo mandato è mestieri, sî affrettava a soggiungere , che il giudice non sia abbandonato a tutte le ondate della opinione paesana: il magistrato dev'essere indipendente, e lo potrà esser soltanto quando il suo giudizio sarà immune da ogni censura; quando sarà ricinto di que’ presidî e di quelle garanzie che possano metterlo al coverto delle persecuzioni illegali, de’ giudizî passio- nati, de’ fulmini del Potere; circondandosi la sua autorità di maggiore e meritato prestigio. Due eminenti giureconsulti , il Vacca (2) e il Mirabelli (3), affermarono più tardi, con mirabile concordia di principî, gli stessi concetti in due sudati e pregiatissimi la- vori messi fuor per le stampe negli anni 1875 e 1876, e pur trovarono una eco po- tente nelle parole autorevoli di Chi fu più.volte Consigliere della Corona, ed è oggi della Cassazione toscana (4) splendido ornamento. PA Accuse e difese. Ognun di noi ricorda a quali insane ingiurie era stata fatta segno, per l’ epoca dal 74 al 75, la magistratura siciliana dalla stampa del Continente e da quella d’ ol- tr'alpi (9). I diarî politici d'ogni colore e partito sorsero allora frementi, e, compresi di no- bile sdegno, combatterono le strane accuse. Il Maurigi nel suo discorso del 1875 rilevò alla sua volta, con forte e indipendente linguaggio, la dignità della nostra magistratura ingiustamente offesa, e proclamò con impavido animo che la medesima era stata sempre a tutti segnacolo di magnanime virtù cittadine, d’impareggiabile abnegazione, di specchiato patriottismo ; incitandola con parola scolpita, potente, irresistibile, e che destò entusiasmo (6), a ritemprarsi a vita più gagliarda ed operosa, a dar prove novelle della sua nota energia, ed a pro- seguire ad accrescere quel patrimonio di virtù civile e di scienza giuridica che aveanla resa sì grande e venerata ne’ tempi andati, e che l’avrebbero fatta risplendere di mag- gior lustro, militando sotto la bandiera di una Costituzione libera, e sotto i benevoli_ i auspicî di un intrepido e valoroso PRINCIPE. (1) Pensiero codesto della più alta filosofia civile espresso egregiamente dall’Arpinate con le se- guenti parole: Vereque dici potest magistratum legem esse loquentem!—E nel lib. 3.° de legibus: Lex, mutus magistratus : magistratus, lex loquens. (2) Degli ufficî e de’ limiti tra la Giustizia e la Ragion Politica. (8) L’inamovibilità della magistratura. , (4) Il Senatore Vigliani—Primo Presidente presso la Corte di Cassazione di Firenze. (5) L’ Italie 6 settembre 1874 nell’ articolo — Encore la Sicile — si spinse financo ad asserire che la magistratura siciliana non rendeva tutti i servigi che lo Stato e l’ordine pubblico richiede- van da lei! } (6) Si servì di questa frase L’Amico del popolo del 6 gennaro 1875, n. 5. APPENDICE XXIX Siffatto discorso segnò un nuovo trionfo pel Maurigi. — La stampa cittadina (1), levandolo a cielo, disse che il discorso medesimo era degno di tanto uomo, e che al merito dello stesso rendeasi scarso ogni elogio: un periodico giuridico encomiò fra noi vivamente il Maurigi per la sua indipendente e faconda parola (2): la Gazzetta dei tribunali di Napoli sottopose ad esame l’orazione anzidetta (3), e la relativa rassegna bibliografica, accolta con favore da tutta la Penisola, fece realmente il giro d’Italia; oltrechè l’on. Sindaco di Palermo, sotto la bella impressione ricevuta, credette allora, compiendo un suo indeclinabil dovere, indirizzare una lettera di felicitazione all’illustre Magistrato ; il quale (così în essa sta scritto), SÈ DECORO DELLA TOGA, è PUR ONORE DELLA NOSTRA CITTÀ. E fu grande la meraviglia di chi nelle alte sfere governative neppur pensava che di tanta libertà di giudizio, di tanta indipendenza di parola, avrebbe potuto servirsi un funzionario dell’ Ordine giudiziario , il quale, militando nelle file del P. M. non potea contare sull'appoggio valido e sicuro di quella potenza tutelare che in gran parte pre- clude l’àdito a possibili arbitrî, e che chiamasi — inamovibilità — la quale dà almeno sicurezza di stato, e fa del magistrato giudicante rispettato strumento della legge, di cui non dev'essere nè mancipio, nè signore; ma ad un tempo servo e ministro ! Però chi meravigliossi di cosiffatto libero linguaggio forse non sapea con quanta rara abnegazione e con quanto ardimento avea l'Avvocato Generale Maurigi difeso gli uomini egregi che misero in pericolo, nei procellosi tempi precorsi, le loro sostanze e la vita per veder risorgere a libertà questa nostra Patria diletta; e forse anco igno- rava che trovossi il Maurigi ad un pelo di deporre il mandato e la toga, quando gli parve che altre Autorità miravano a scuotere l’imperio di quella Giustizia, ch'ei volle sempre incontrastato e saldo; superiore ad ogni arbitrio e ad ogni violenza. Apostolo della verità, incrollabile in quella fede di cui avea fatto solenne sacra- mento, non mostrossi d'altro sollecito che « di osservare lealmente lo Statuto e tutte « le leggi del Regno, e di adempiere da uomo di onore e di coscienza alle funzioni «ch'erangli state affidate » (4). Di guisachè mostrossi sempre pronto ad abbandonare l'altissimo seggio, cui dalla fiducia del Governo era stato elevato, se così avessero voluto e la sua dignità perso- nale, e la sua indipendenza di magistrato e le schiette e sincere manifestazioni del suo sentire, ispirate a giustizia e conformi agl'impulsi della propria coscienza: libero, in ogni tempo, di ritornare, se pur lo avesse desiderato, a quella forense palestra, che come fu schermo, sotto la mala signoria, alle ire politiche, così offre sempre sicuro rifugio alle possibili ingiustizie del Potere; rifugio sicuro non solo, ma benanco onore- vole, giacchè fu berff detto dell'avvocato che non havvi ufficio, per quanto alto, dove per cuoprirlo egli abbia da salire, o dal quale si trovi a discendere per tornare avvocato (5). (1) Ne scrisse anco il Precursore in data 6 gennaro 1875, con erudizione non iscompagnata da frizzi pungenti e felici contro i detrattori della magistratura di queste sicule regioni. (2) Il Circolo giuridico, vol. 5, pag. 295. (8) Anno 1875, num. 2719. (4) Formola del giuramento prescritto per la Magistratura dall’articolo 10 della legge organica giudiziaria 6 dicembre 1865. ; (5) Nè Valentiniano ingannavasi quando, con frase elegante, affermò che l’ avvocatura è un seminarium dignitatum. Nov. Valen. 2, 2, $ 1. 21 KXX APPENDICE < Del resto anco il ricco censo doveva, e non poco, concorrere a francare l'animo del Maurigi così dalla paura dell’indomani, come dalle preoccupazioni dell’ avvenire ; sicchè egli non si rattenne, quando il bisogno ve lo costrinse, dal levare libere ed alte le sue proteste; chè sintomo della paura è il silenzio!.. La Cassazione. Uguale libertà di parola usò ne’ suoi discorsi allorquando , per la seconda fiata, contraddisse il Procurator Generale Castiglia, il quale in una sua precedente orazione avea ritenuto che i giorni della Cassazione dell'Isola nostra eran contati. Il Maurigi, dopo un amplissimo studio della quistione, senza mezzi termini, senza perifrasi, senza indorar la pillola, com'è andazzo de’ tempi, e che, a detta di Publio Siro, costituisce davvero la più raffinata malizia del mondo (1), altamente proclamò che i giorni della Cassazione siciliana non eran mica contati, ma che per l'opposito era destinata a tenersi ritta in piedi per continuare le tradizioni del suo glorioso pas- sato, ed arricchire di nuovi veri il suo patrimonio di scienza giuridica. Le nobili e ardite parole riscossero gli animi, e fu aperta una nuova campagna gior- nalistica per la conservazione nell’ Isola del Magistrato Supremo (2), la cui soppres- sione, in cento guise minacciata, sembrava allora vicina. —I tempi han dato finoggi ragione al Maurigi, e crediamo non sia peranco venuto il momento in cui possa risol- levarsi l’ardua e delicata quistione, alla quale collegansi tanti interessi nostri e della giustizia, e che ha travagliato e travaglia, con forza incessante ed operosa, la mente dello Statista e del Legislatore; mentre d'altra parte pur somministra nuovo alimento allo studio de’ giuristi e de’ Congressi scientifici, e fornisce il tema altresi alle dotte lucubrazioni della Curia e del Foro ! Il discorso del 2 Marzo 1880. Compiutesi le formalità di rito il Marchese Maurigi prese la parola per rendere innanzi tutto vivissime azioni di grazia all'augusto Monarca, che, per iniziativa del Guar- 3 dasigilli e con la piena adesione del Consiglio de’ Ministri, avealo voluto, sebbene non ne avesse fatto istanza, elevare all altissima carica di Capo Supremo della Cas- sazione di Sicilia. Bb; Sciolse quindi un caldo tributo di riconoscenza e di affetto alla venerata memoria del suo illustre predecessore; del quale tessè la vita con parola riboccante di efficacia, | ed ispirata a dignitosi concetti. p: (1) Bonitatis verba imitari major malitia est! (2) Abbiamo lodato le intenzioni del giureconsulto; l’ esempio dato a’ suoi concittadini; però non appartiene a noi seguitarlo e giudicarlo in tutta la vasta traccia ch'ei segna del suo sistema. — 3 È n APPENDICE XXXI Tolse in seguito a ragionare dello istituto della Cassazione, svolgendo nobilis- sime idee, che qui ci piace testualmente di riferire : « Più elevata ancora, e di maggiore importanza, a petto delle altre Magistrature, « è la nostra speciale missione, onorevoli Componenti di questo Supremo Collegio. A « rioi è dato di stare a, guardia ed a custodia delle leggi, di vegliare incessantemente « perchè le diverse magistrature non eccedano i limiti assegnati alle rispettive giuris- « dizioni, e nell'esercizio delle proprie funzioni non trasmodino. — A noi spetta l’ im- « pedire che un’ erronea interpretazione , od arbitraria giurisprudenza , si sostituisca « alla legge. — Nostro il diritto di richiamar> alla esecuzione di questa le Corti e i Tri- « hbunali che se ne fossero allontanati ; in una parola siam giudici e censori ad un « tempo dei giudici stessi! — Supremi garanti di tutti i diritti, sostenitori di tutte le « libertà, custodi de’ confini legittimi di tutti i poteri, non vi ha infrazione di legge, « arbitrio, o sconfinamento di autorità, che non debba trovare presso di noi ripara- « zione ed emenda. Difatti, o Signori, negli ordinamenti civili dello Stato, noi figuriamo « siecome custodi dell'autorità legislativa da qualunque usurpazione del potere giudi- « ziario , da qualunque :ingerenza governativa ; custodi de’ limiti di tutti i poteri tra « loro , custodi dell’ unità del Dritto, ma iniziatori nel tempo stesso delle utili inno- « vazioni che lo nobilitano, de’ bisogni e de’ progressi che dalla scienza possano « venir consigliati. - « Saldi nel nostro dovere noi fareino sempre prevalere la parola della legge , « quando essa non presenti alcuna dubbiezza o ambiguità ; memori pur troppo che «nessuno è più stolto quam qui lege vult sapientior videri. — A fronte della lettera « chiara, manifesta della legge, la nostra suprema autorità, onorevoli Colleghi, risulta « destituita d'ogni facoltà ed arbitrio. «Tutto puossi per la legge, nulla per noi: sarà sempre questo il nostro pro- « gramma ! « Però in mancanza di un testo preciso, e nel caso di oscurità o dubbiezza, por- remo ogni cura di supplire al silenzio, od alla imperfezione della medesima, ricor- rendo a’ principî generali, alle regole della più retta interpretazione, alle teoriche « delle più accreditate dottrine (1), aZle fonti del Diritto Romano, bene'a ragione ap- « pellato il Codice della universale sapienza. » Necessità dello studio del Diritto Romano. E, parlando della necessità dello studio di esso, usciva ne' seguenti pensieri :; « Niun Magistrato potrà mai compiere con gloria la sua missione senza tener « dietro alle splendide orme di quei sommi giureconsulti che, con gli ammirevoli loro (1) Nei principî annunziati dal Maurigi limpidamente traspare il riflesso del senno giuridico dle’ nostri predecessori. E difatti i principi medesimi bellamente armonizzano co’ responsi di Giu- liano (Zi. 15, Digestorum), di Ulpiano (lb. 1, ad Edictum aedilium curulium), di Paolo (lib. 54, ad Edictum), e sono pur cònsoni con la L. 13 Dj con la L.7,$ 2, nel tit. de jurisdictione, con la T.. 30 (22 fine) nel tit. de negotiis gestis; etc. etc. XXXII APPENDICE « dettati, ammaestrarono tuita l'umana generazione, e progressivamente la spinsero « sulla via della civiltà. Niuno potrà mai sostenere la dignità di giurisperito se non « vive nel commercio delle più importanti reminiscenze dello spirito umano ; se non « sa tener conto delle stupende rivelazioni che raccolgonsi da' documenti dell’ antico « senno; se, sul secreto de’ più ardui problemi dell’arte sovrana del giusto e dell’in- « giusto (1), non sia vago d’interrogare i tempi che furono. — Veneriamo adunque, o « Signori, anche oggi il DIRITTO Romano, il monumento più luminoso di legislazione « che il mondo abbia saputo creare! » Essenza della Cassazione. — -—__ Ragionando dello istituto della Cassazione affrettavasi a dire, che essa giudica de jure Constitutionis, e non de jure litigatorum (2), e per ciò ci atterremo costantemente nei limiti insorpassabili delle quistioni di diritto; giammai sconfinando ne’ vietati dominî delle quistioni di fatto (3). — Quì aggiunse altre osservazioni che rivelarono i suoi forti studî nelle giuridiche discipline. Il delitto del Magistrato. Giammai ci lasceremo illudere dalla mascherata ingiustizia di un giudicato sotto lo specioso velo dell'equità, ch'è sempre insidiosa e men che attendibile al tempo istesso! « Se dessa talvolta, così soggiunse, sembra ingegnosa, al dire dell’immortale D'A- « guesseau, nel penetrare l’intenzione del legislatore, ciò è meno per conoscerla, che « per deluderla: essa la scandaglia da nemico fallace, anzichè da fedele ministro: essa « combatte la lettera con lo spirito, e lo spirito con la lettera, ed in mezzo a questa « contraddizione la verità sfugge, la regola sparisce, e il magistrato diventa un despota. « Ond’è che spesse fiate l'autorità della giustizia non ha nemico più pericoloso di sif- (1) Balena in siffatti concetti il pensiero di Ulpiano: Jurisprudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia: justi atque injusti scientia. (D. lib. I, tit. 1, 10). (2) È mirabile il riscontrare tanta concordia di concetti ne’ classici migliori del Diritto. Se il giudice offende le sacre Costituzioni—de jure constituto pronuntiasse intelligitur —se per con- verso la quistione è tutta di fatto , ed allora va rimessa all’arbitrio del giudice — de jure Vitiga- toris pronuntiasse intelligitur. — Così Macro nella L. I, D. quae sententiae sine appellatione re- M scindantur, e Modestino nella L. 27, D. de re judicata. 3 Li i (3) Nè mal si avvisava! Le quaestiones FAcTI în arbitrio sunt judicantis, mentre le quaestiones JurIs, le quali, cum de jure constitutionis, non de jure litigatoris pronuntiatur, legis uuetoritate re- servantur ; e, risolute contro la legge, sine appellatione rescindantur perchè hanno violato le sacre Costituzioni! (1) (1) V.i Il Dig. lib. XLIX, tit. VII. mi - A er APPENDICE XXXIII « fatta inopportuna equità; ritenuta, a buon diritto, come l’errore della virtù, il delitto « dell’ onesto magistrato. Nih:? periculosius et perniciosus quam si judici cui tibet, « liceat aequitatem pro arbitrio sibi fingere, et legibus illudere praetextu hujus « aequitatis! » Gli annullamenti. Ragionando sul noto ma sempre difficile e delicato tema degli ANNULLAMENTI pre- sentò al numeroso uditorio, che lo ascoltava con religioso silenzio, uno studio pro- fondo, ricco di principî, di fatti e di osservazioni giuridico-legali. « Penetrati dalle dannose conseguenze che producono gli annullamenti, sia nell’in- « teresse pubblico che privato, noi c’indurremo a pronunziarli solo quando le sentenze « a noi denunziate offrissero evidentemente la violazione della legge, secondo lo spirito « e il concetto di essa (1), ovvero la omissione delle forme prescritte sotto pena di nul- « lità (2), senzachè questa fosse stata espressamente o tacitamente sanata. — Gli an- «nutllamenti sono fonte ed origine d’ incalcolabili danni materiali e morali: essi fan « venir meno nelle popolazioni il prestigio della Giustizia, e tornano pur di discredito « alla serietà de’ giudizî, che vogliono essere ordinati con principî il men che sì « possa mutabili. Nulla civitas, scrivea difatti Platone, revera civitas erit, nisi debito «ordine judicia fuerint constituta! » Quì aggiunse altre considerazioni sulle quali, per amor di brevità, sorvoliamo, ma che pur brillantemente rivelano le nobili tradizioni della scienza; la quale, spiegando da una banda, il testo delle leggi, risale d'altra banda alle sorgenti d’onde esse sca- turirono, e mette in limpida luce il pensiero che le ispirò. (1) Ammonimento a chi non pensa che la parola della Legge va intesa con discrezione e secondo i fini di essa, non secondo le esagerate pretensioni di un rigorismo, diciamo quasi, giudaico, come si dànno a pretendere i rigidi uccellatori delle sillabe, delle parole e financo delle interpunzioni dei singoli articoli di essa, pe’ quali, secondo la frase di Cujacio, la verborum subtilitas ac proprietas dovrebbe anteporsi allo spirito stesso della legge; senza punto riflettere che veritas legis intuenda est non VERBIS, Sed, suBsrantIA.——Ed è pur questo un pensiero attinto dal Maurigi alle fonti sempre fresche ed inesauribili del Roman Diritto, per le quali; vERBUM EX LEGIBUS sic accipiendum est, tam EX LEGUM SENTENTIA, Quam ex verbis (L. 6, D. De verb. signif.), non oportere jus civile ca- lmmniari, neque verba captari sed QUA MENTE QUID DICERETUR animadvertere convenire (L. 19, D. od exhbendum), sed etsì maxime verba legis hunc habeant inTELLECTUM, tamen Mens legislatoris aliud vult (L. 13, p. 2, de excusat), scire leges non hoc est veRBA earum tenere, SED VIM AC PO- TESTATEM (L. 17, lib. 26, Dig.) etc. etc. (2) Darà ciò argomento a meditare; ma il Maurigi ben ricordava la famosa Costituzione jurîs formulae AUCUPATIONE SYLLABARUM INSIDIANTES cunctorum actibus radicitus amputentur (L. Il, Cod. de form.); sicchè non potea seguir l’esempio degli amatori di un vacuo formalismo, considerando che le formole sono ben vero salvaguardia del diritto, ma non istrumento pieghevole alle esigenze dei litiganti e della difesa ! 22 KKXIV APPENDICE Un amoroso ricordo. a Rivolgendosi agli Avvocati tessè l'elogio del loro merito distintissimo, delle loro antiche e gloriose tradizioni, della loro eloquente parola (1), ma pur soggiunse che non avrebbe mai potuto conseguirsi il fine di aversi una giustizia pronta e sollecita, com'era ne’ suoi propositi, se i difensori de’ litiganti non sì fossero, nelle pubbliche arringhe, ispirati a que’ principî di moderazione e di sobrietà che formano il loro pregio migliore. — Mi permettano, ei disse, che io loro ricordi un noto precetto della Romana sapienza: Advocati agant quod causa desiderat, non ultra quam. litium poscît utilitas (2), e pur facciano in guisa che il monito del più grande Oratore e del più insigne filosofo del mondo non cada in oblio: Oratorîs brevitas magna laus est ! Una esortazione. Agli onorevoli Componenti la Corte di Cassazione chiese quella valida, efficace ed illuminata cooperazione che ha reso venerato il loro nome. Ispirandovi alle splendide tradizioni di un passato luminoso, voi saprete, egli disse, tramandarlo pieno di non minor gloria alle generazioni avvenire. — Confidiamo, a Signori, nell'opera nostra, e tenghiamo sempre scolpita nella mente e nel cuore la memoranda sentenza del sommo Filangieri, con la quale affermò che, sotto l'impero delle libere istituzioni, il Magistrato è colui che ha nelle sue mani tutta la forza della Nazione! — Grande, immensa, diciamo quasi, infinita è la responsabilità che pesa sul magistrato, poichè se si vuole incorrotto il pubblico reggimento , incorrotta soprat- tutto si vuole che fosse la giustizia. — Néh?l tam incorruptum esse debel in repu- blica quam suffragium, QUAM SENTENTIA ! (3) L'Italia risorta. L’onnipotenza del pensiero svolto e propagato dalla storia (ch'è luce di verità e maestra delle umane azioni), ridesta le memorie del passato , le raffronta col pre- sente e prepara l'avvenire. (1) Clarissima eloquentiae lumina! Così Giustiniano. L. 6, Cod. de adv. div. jud. I, 8. (2) È testo cavato dal lib. II, tit. VI del Codice— De officio advocati. (3) Così Cicerone fa dire all’Africano nel V libro della Repubblica. APPENDICE 'KAKKV Finalmente dopo il corso di ben 14 secoli, attraverso ostacoli infiniti, il nostro bel Paese è stato collocato nel posto delle grandi Nazioni! L'Italia è già libera ed una dalle Alpi all’Adriatico, e il suo vessillo sventola glorioso sulla vetta del Campidoglio. Spetta però ora a noi tutti di rendere stabile, perenne, questo memorando avvenimento, che formò invano il sospiro de’ nostri padri. Deh! non fia mai che la stella meravigliosa per cui l’Italia è risorta volga un giorno al suo tramonto. Il pensiero del bene della patria comune ci ànimi, ci sostenga, ci fortifichi nel- l'esercizio del nostro ministero! etc. etc. E più in là soggiunse così : « Si persuadano i perturbatori dell'ordine pubblico, e quanti altri vaneggiano di « attentare in un modo qualunque alle nostre istituzioni che i loro sforzi audaci, i loro « perversi insegnamenti, i loro tentativi s'infrangeranno di fronte all’unanime e risoluto « volere della Nazione, all’ energico contegno dell’ Armata e de’ Custodi del sacrosanto « deposito delle Leggi. » Il Re e la Magistratura. E, ponendo fine al suo dire, esclamava così: « Stringiamoci attorno a quella gloriosa bandiera che da Torino ci ha condotto «sino a Roma; abbiamo fede nell’augusto Monarca, cui già la Nazione grata e rive- « rente saluta come degno erede del nome della Corona, della virtù dell’ immortale « suo genitore, in quel giovane Sovrano dal cui augusto labbro ascoltai giorni sono «le seguenti parole: LA MAGISTRATURA È UNA ISTITUZIONE che mi sta a cuore sovra «tutte le altre, perchè nella retta amministrazione della giustizia riconosco il fonda- «mento di ogni autorità, la garanzia di ogni libertà, il benessere e la felicità delle « popolazioni. « Abbiamo dunque fede nella lealtà , nel senno , nella prudenza , nel valore del « nostro Re, nel suo culto per la Patria e le libere istituzioni. « Abbiamo fede nelle onorevoli tradizioni della sua Dinastia, i cui interessi sono « oramai indissolubilmente legati alla fortuna d’Italia. » Possa l'esempio dell’ illustre trapassato incitarci alla gloria degli studî , ch’ è la gloria più degna, e che fu scopo nobilissimo delle sue dotte fatiche: possa l'esempio di Lui ispirarci l’amore alla giustizia, alla indipendenza, alla Patria ! 1 ISCRIZIONI XXXFX Sulla porta esterna della sala A A GIOVANNI MAURIGI DEI MARCHESI DI CASTEL MAURIGI PRIMO PRESIDENTE DELLA CASSAZIONE DI SICILIA , GRANDE UFFIZIALE DELLO STATO SENATORE DEL REGNO PRESIDENTE DEL CONSIGLIO PROVINCIALE DI PALERMO CHE ALLO SPLENDORE DI SUA STIRPE PATRIZIA IN OTTO LUSTRI DI VITA PUBBLICA ACCREBBE NUOVE GLORIE LEGANDO UN NOME CHIARISSIMO ALLA STORIA DELL’ILLUSTRE FORO PALERMITANO E DELLA SAPIENTE MAGISTRATURA D'ITALIA | QUESTA R. ACCADEMIA DI SCIENZE LETTERE ED ARTI AL SOCIO ATTIVO MORTO IL 31 AGOSTO 1881 FA SOLENNI PARENTALI ADDI 28 MAGGIO 1882. Can. Giuseppe Montalbano S. A. TZ ISCRIZIONI Sub Icone marmoreo JOANNES MAURIGI ROGERII FILIUS EX NEPOTIBUS AURELII A PRISCA SUEVORUM STIRPE CASTRI MAURIGII XIX DYNASTES VII MARCHIO ET COMES. DI Sub stemmate quo effingitur sententia « Nisi Ferox Fero » NI VOLUCRUM REGINA FEROX VIRTUTE PATERNA, SORTEM UTRAMQUE SAGAX ET GENEROSA FERO.. Can. Joseph Montalbano S. AC. ISCRIZIONI XLT ei. DIES GHrA e — Dextrorsum INVIDIT PUERO PROAVIS FORTUNA SUPERBO, | FATORUM JUVENIS NESCIA MAGNANIMI. | CLARA SUEVORUM SOBOLES DE SANGUINE PRISCO PRAESTAT AVÙM TITULIS SPENDIDIORE TOGA. E DEFENSURA REOS VICTRIX OPULENTIA LINGUAE | NOSTRA HOC, QUID VALEAT, PRAEDIDICERE FORA. i gdr ORANTEM STUPUIT SAEPE UTRAQUE CURIA, SUMMO QUIN PARUIT THEMIDIS MENTE ANIMOQUE DUCI. SONTIBUS INGENIO, ROMANA ATQUE UTILIS ARTE, INTEGRA SELEGIT JUDICIS OFFICIA. È) ESSE MAGISTRATUS, DOCUIT, SERVIRE MINISTRUM JURI, NULLIUS COMMODA RESPICERE. 24 ISCRIZIONI ti Sinistrorsum TE CUNIS MESSANA PETIT, CULTUQUE PANORMUS, UTRAQUE DEFLEVIT FUNUS AMICA SOROR. SI CONFERRE DIES FAS EST OPERUMQUE LABORES, VITA BREVIS PATRIAE, SED TIBI LONGA FUIT. PROSPICIENS ATAVIS TUMULUM NUMEROSQUE DICASTI, PUBLICA TESTANTUR MARMORA AMORIS OPUS. TE GNATUS STATUA, TE SACRAT CARMINE AMICUS, ALTERA VEL POTIOR SIC TIBI VITA REDIT. HIC SICULÙM COETUS, CUI GLORIA CARA VIRORUM EST, EN TRADIT FASTIS NOMEN ET ACTA SUIS. i NIL AMPLIS MIRERE VIRUM TOT HONORIBUS AUCTUM, PRAEMIA CUM VIRTUS VINDICET IPSA SIBI. i Can. Joseph Montalbano S. AC. POESIE XLHMI JOANNIS MAURIGI TUMULUS = DIM Stemma nitens tumulo proavorum insignia facta Admonet, et bello quod peperere decus. Aligeràm expansis alis regina superne Emicat, usque feris ferre parata necem (1). Quique leo scandens medius, tria lilia tangit, Incrementa docet roboris atque domus. Haec armis gaudens emblemata maluit aetas Martia, cum virtus praestitit ante alias. Ast haec, Ioannes, atavis monumenta relinquens, Virtuti quaeras praemia parta tuae. «Cumque Aquila ingenium haud simulet, dum dicta recusant, —_Turaque nata Leo deneget esse sibi; Hîc laevà assurgat Suadae dicentis imago Allatura reis acriter auxilium. Inde Themis sedeat dextrà sua jura ministrans, Ore, supercilio suspicienda gravi. Hae tumulo comites adsint; spectanda Virago Utraque, certantes excoluere genus. Nunc tu coelesti frueris qui sede beatus, Qua virtus proprio lumine tota viget; Accipe sinceros numeros, laudesque canentis, Mirabundus enim devovet ex animo. Aequi virtutem incolumem non odimus unquam; vidi at ereptam quaerimus ex oculis. XAVERIUS MoNTALBANO S. R. (1) Lo stemma gentilizio più recente presenta nel motto la variante Ni /eroa fero — questa ho seguito, sembrandomi più conforme alla Araldica, POESIE ALLA TOMBA DI GIOVANNI MAURIGI IMITAZIONE Splende sui marmi bello Stemma, e ricorda l’onorate imprese Degli avi chiusi nell’augusto avello, E qual premio e decoro L’armi trattando meritar costoro. Il. Sovra d’aurati gigli Coll’ali aperte un’aquila d’argento Appare, e con un motto infra gli artigli, Pur dall’aure serene Volta ai ribaldi, fa tremar le vene. SUITE Il Leone rampante All'ombra amica dei tre gigli d’oro, Precinto di regal serto raggiante, Segna nel suo linguaggio Accrescersì il valor d’esto legnaggio. TIVE Ma qual stemma rammenti Dell’età bellicose insano voto ! Quando di Marte i figli eran contenti Di lor virtù fatale, Onde la forza alla ragion prevale ?_ POESIE XLV V. A te, chiaro Giovanni, Ben altri emblemi consacrar desio, Chè tua virtude a confortar gli affanni In questa nostra etade Venne, amica civil di libertade. VI. E mentre Aquila dura Col motto ardente di feroce sdegno, Non è tipo fedel di tua natura; Jontro il dritto protesta Il coronato Re della foresta; VII. È È A È. Dell’eloquente Dea L'immagine viril qui sorga a manca, Che nel foro sostegno all’alma rea In capital cimento Gli animi trasportava a suo talento. VII. Chi guida ne’ litigi Sul banco di ragion ti fu costante, Pronta a render sentenze e non servigi, Temi, in volto severa S'assida a destra colla sua stadera. Te Queste sieno, o grand’Alma, Il tuo blasone; della muta tomba Vivan compagne ad onorar la salma: Virago assai più chiara, In te degli avi lo splendor rischiara. a GOTAN, Pri) XLVI PN POESOE ELI X. * Dalla celeste sfera, Là dove ogni valor meglio riluce, La lode accogli, e la canzon sincera Di chi devoto al merto Osa intessere al crin umile serto. È XI. Sin che godesti in vita Non fu nemica invidia a’ tuoi trionfi; Or che la tua virtù ci fu rapita, E dileguossi al guardo, Destasi il suo desir vie più gagliardo. CAN. G. MoNTALBANO S. A. POESIE XLVII IN MORTE DEL MARCHESE GIOVANNI MAURIGI PRIMO PRESIDENTE DELLA CORTE DI CASSAZIONE SENATORE DEL REGNO SONETTO FC Dal sommo degli onori, a cui l’ingegno E 1 forti studî t’elevaàr, colei Chefuraiebuonite lascia stare drei Ti balzo fulminando entro il suo regno. Ma nulla tolse all’uom, che a nobil segno Sempre mirò, che non alzò trofei, Sovra l’altrui ruine, e degli Dei Più temé che degli uomini lo sdegno. dl Morendo quella pace in fondo al core Sentivi, ch'è soave guiderdone Di chi per la virtù arse d’amore. La Dea Siada e Temi ognor fidato Non men che prode ti provàr campione, Cittadino la Patria immacolato ! PePizzuro STE. eni ee e 3 SS EboGlO DI LINCENZO DI MARCO letto nella solenne tornata del 20 novembre 1881 ALL’ACCADEMIA DI SCIENZE, LETTERE E BELLE ARTI DAL PROF. LUIGI SAMPOLO Palermo in poco più di due anni ha visto mancare alla magistra- tura ed all’ avvocheria , oltre a quelli di minor grido , sei uomini, che dell’ una o dell’ altra erano splendido onore: Pietro Castiglia, Gaetano Parisi, che appartenevano alla vecchia scuola dei magistrati; Diego Or- lando, e il marchese Maurigi , pur testè cessato di vivere , che onora- vano la nuova magistratura; Salvatore Jannelli, esimio avvocato e au- tore di un’opera pregiatissima sull’Enfiteusi, e Vincenzo Di Marco che lasciò fama di sommo giureconsulto e di valente oratore. La perdita di sì egregî uomini riesce a noi più grave e dolorosa , perchè con essi pare venga meno l’antica sapienza onde rifulsero i no- stri più grandi. Ma perchè dalla passata tolga esempio la presente ge- nerazione, e perchè si riprendano senza lunghi intervalli le belle tradi- zioni del nostro foro, giova ricordare degl’illustri estinti i pregi e le virtù. La nostra Accademia veste oggi la gramaglia e consacra una so- lenne tornata alla venerata memoria di Vincenzo Di Marco, suo Socio attivo. E me incaricarono i moderatori del dotto sodalizio a dir le lodi di lui. Accettai volentieri l’ alto e mesto ufficio perchè somma era la mia reverenza verso l’illustre uomo , e perchè a me piaceva potere rendere a lui trapassato quel maggior tributo d’onore che io potessi. Vincenzo Di Marco nacque da Giuseppe e da Angela Di Giovanni il 20 gennaro 1812, anno memorando in cui la Sicilia rappresentata dai 2 ELOGIO tre bracci del parlamento, riformò l’antica sua costituzione. Modesti fu- rono i suoi natali. Avviato dal padre agli studî vi si applicò con quel tenace volere ch’è proprio degli uomini non comuni. Singolari doti avea sortito da natura: ingegno prontissimo, cuore eccellente, parola facile e comprensiva. Studiò letteratura latina ed italiana sotto la guida del va- lente Abate Nascè, e alla scuola di costui si rivelò poeta , e fu lodato dal maestro ed ammirato dai suoi stessi compagni. Studiò diritto nel nostro Ateneo. Poche erano allora le cattedre di giurisprudenza, e ben- chè sin dal 1819 un novello diritto si fosse introdotto, mancava fra noi chi pubblicamente questo insegnasse. Egli quindi dovette da se solo svolgere e studiare la moderna legislazione. La sua famiglia amava la Sicilia, amava la libertà ed era in istretta relazione coi più noti liberali. Dopo la rivoluzione francese del luglio 1830, che, cacciati dal trono i Borboni, chiamò in loro vece Luigi Filippo d’Orleans, gli animi degl’I- taliani sì riscossero come da lungo letargo. Insorsero primi quei delle Romagne, ma furono fcompressi dalle armi austriache. Seguì Modena con a capo Ciro Menotti che, tradito vilmente da quell’ambizioso Duca, espiò sul patibolo il desiderio di far libera l’Italia. Anche fra noi si anelava ricuperare le perdute libertà , I autono- mia e la indipendenza da Napoli. Parve opportuno il momento, reg- gendo quì la pubblica cosa Leopoldo fratello a re Ferdinando. La sera del 1° settembre 1831 pochi uomini armati entrano nella città gridando Viva la Costituzione, Viva Santa Rosalia. Per un malaugurato caso il movimento andò fallito. In quei moti, ch’ebbero sì infelice successo, furono involti tre fra- telli Di Marco, Domenico, Giovanni e Salvatore figli ad Onofrio, stretti congiunti del nostro Vincenzo. Il primo, che vi ebbe parte precipua, fu con altri due condannato alla fucilazione, il secondo all’ergastolo, e l’ul- timo a dieci anni di reclusione. Allora Vincenzo non toccava il vigesimo anno. Il martirio dei suoi per la causa della libertà accese nell’animo suo più fortemente l’amore alla patria, alle libere istituzioni, e ravvivò in lui potentemente 1’ odio alla tirannide. Dopo pochi anni un'immensa sciagura toccò alla ridente isola no- stra, e massime a questa antica e popolosa metropoli. Appariva perla prima volta fra noi quell’ orribile lue che dal Gange veniva a devastare le belle contrade d'Europa. La Sicilia avrebbe potuto esserne salva, ma DI VINCENZO DI MARCO 3 la suprema autorità sanitaria, se togli due egregi uomini (41), fu stupi- damente improvvida: Allor che venne del mal seme carca Sulle spiagge d’Oreto e ruppe il bando, E a forza entro la maledetta barca (2. Nella nostra città il male imperversò più crudelmente che in alcu- altra d’Italia, e qui spietatamente la morte con la ruinosa falce mietè le vite a centinaja, a migliaja per giorno, lasciando da per tutto deso- lazione ed orrore. In quel tempo sì luttuoso, Di Marco perdette in otto giorni, nella strage del fatal luglio, il padre e due fratelli; com'io , allora fanciullo , mi vidi scemata sì rapidamente e sì atrocemente la numerosa famiglia di tre giovani sorelle, e d’un fratello di oltre appena venti anni. La pubblica e la domestica sciagura conferirono a rabbujare il suo cuore, il suo spirito, il suo aspetto. Scrisse allora due tragedie, di cui una dedicò all’ombra immortale del padre, e l’altra all’illustre marchese Gargallo ; rivelando in esse lo spirito tragico che le tristi vicende della famiglia e della patria avevano in lui destato. Gli argomenti scelti son truci, e furono cavati, il primo — Foca — dalle storie bizantine del se- colo VI, e l’altro — IZ Valentino — dalle storie italiane dell’evo moderno. Qnesti due tipi di principi scellerati egli scelse per potere libera- mente disfogare i sentimenti dell'animo suo contro re Ferdinando II, su cui pesava il grave cumolo delle colpe commesse dai suoi padri e da lui stesso verso i popoli delle Due Sicilie, dal 1799 sino a quei giorni. Quelle tragedie scritte secondo gli esempì alfierani si sarebbero dette prenunziatrici del suo genio tragico se altre e migiori ne avesse egli poi composto. Ma non ne scrisse più, anzi significò più tardi ad un e- gregio letterato il pentimento di avere dettato quelle due. Il suo genio non lo spingeva al Parnaso, ma sì al tempio di Temi. I grandi poeti e letterati cui la volontà dei padri condannava allo studio dei libri di Giustiniano, mal si arrendevano ad indagare in quei volumi eterni le supreme leggi onde va retta la vita civile dei popoli, e amavano meglio di spaziare con la loro immaginazione nei campi interminati dell’ arte. Il Di Marco alle vergini muse antepose Giustiniano e i glossatori, a (1) I due egregi uomini che si ricusarono a far entrare la barca che veniva da Napoli, furono il marchese delle Favare e il marchese Merlo. (2) G. BorcHI. Il Museo di Versailles. 4 ELOGIO quella delle lettere la repubblica del foro. Ma non mai abbandonò il culto delle letterarie discipline, ben sapendo quanto giovino al giurecon- sulto e all’oratore; e a quando a quando scrisse versi eleganti, e, sin negli ultimi anni di sua vita fu udito a recitare in mezzo a noi due belli sonetti per la morte di re Vittorio Emanuele unificatore e liberatore di Italia. Fino dalla sua balda giovinezza aspirò a divenir grande. I nobili esempî lo esaltavano e a egregie cose ne eccitavano il forte animo. Il naturalista Francesco Ferrara avea per molti anni nel nostro A- teneo, con la vivacità dell’ingegno e la facondia del dire , meglio {assai che con la profondità delle investigazioni, attirato molta gioventù alla scuola di storia naturale. Tornava nel 1840 a Catania per insegnare in quell’antico Archiginnasio la lingua d’Omero. Alcuni suoi amici gli vol- lero offerire in omaggio un piccolo volume di versi (1). Figura in que- sto il nome del Di Marco, il quale affascinato dai pregi dell’illustre Ca- tanese scrisse un bel sonetto. La chiusa suona così: Gloria ei segnò. Su, chi nol segue? Gara, Non alma manca in noi. Chi chi si arresta Nel secolo di Piazzi e di Ferrara ? Ed egli non si arrestò. Dotato di poderoso intelletto ebbe a disde- gno di levarsi sui mediocri, guardò ai grandi e l’animo volse nobilmente ad emularli. Addottoratosi nel 1835 intraprese con amore l avvocheria. Nobile arringo ov’è nulla il potere, lo splendore dei natali, il cumolo delle ric- chezze; il solo in cui il merito fa tutta la nobiltà, in cui l’uomo ha tanta stima quanta sa egli medesimo procacciarsene. Arringo in cui entra- vano i più eletti ingegni, e di là in antico fra noi erano chiamati a ve- stire la toga del magistrato, per lasciarla dopo e ritornare all’antica pa- lestra circondati di più grande autorità. Arringo in cui nei primi de- cennî del secolo tuonò la maschia eloquenza di Paolo Leone, piacque a straordinaria facondia di Giovanni Di Blasi, la robusta orazione di Bonaventura Rossi e l’ammirevole sottigliezza di Bernardino Denti, la grazia di Scimonelli, e più tardi il sodo e pacato ragionare del sommo Antonino Turretta. Arringo, in cui, ritrattossene già quest’ultimo, ga- reggiavano allora il Santocanale, il Vaginelli, il Foderà , l' Agnetta , il (1) Omaggio dei Palermitani al professore Naturalista cav. Francesco Ferrara, Palermo, stamperia Garofalo, 1340. DI VINCENZO DI MARCO 5 Franco, e tenea lor dietro, d’un tratto non molto lontano, più giovane fra tutti, il Napolitani. Il Di Marco incominciò il tirocinio forense sotto Pietro Vaginelli , dotto giureconsulto e forbito oratore; trapassato lui, lo continuò sotto Filippo Foderà che allo studio del diritto congiunse la più varia cultura e fu autore di una opera importante sulla legislazione criminale , e lo compì presso quel miracolo di eloquenza forense che fu Francesco Fran- co. In lui giovane d’ingegno prontissimo, di facile eloquio, e fornito di eletta dottrina, scorsero tosto quei tre grandi maestri il futuro loro e- mulo. Il sacerdozio di Temi è uno, e chi in esso si inizia deve esercitar- si, come in due rami dello stesso culto, nella pratica delle cose civili e delle penali. L’avvocatura abbraccia la difesa dell’onore, della vita, della libertà dei cittadini, e quella dei loro interessi materiali. Elevato e no- bilissimo ufficio l’uno non meno che l’altro. In Sicilia, come nel regno di Napoli, massime nelle grandi città, se ne togli poche onorevoli ec- cezioni, chi all’un ministero tutto si consacra con studio indefesso, ab- bandona l’ altro ; la qual disunione dell’ avvocatura tanto biasimata dal sommo Nicolini, è pure oggi mantenuta, nè del resto io credo venga da essa scapito, anzi vantaggio agli studî e ai clienti. Il Di Marco preferì le cose civili alle penali, come il Franco, il Na- politani, il Viola e lo Scoppa. Nelle materie civili, il campo, se non è per lo più fecondo di com- mozioni, è molto più esteso che quello delle penali. Esso comprende le delicate questioni che risguardano lo stato delle persone , e le rela- zioni di famiglia, le complicate quistioni intorno alla proprietà. e alle contrattazioni civili e commerciali nella varietà infinita dei casi, i rap- porti del cittadino con lo Stato, e dello Stato con la Chiesa. E 1’ opera dell’avvocato è indirizzata a schiarire le molte dubbiezze che ad ogni piè sospinto egli trova nelle leggi, e a porgere con chiarezza di ragio- namento ed efficacia di parola la soluzione di grandi problemi giuridici dai quali dipendono la pace, la sicurezza e il benessere delle famiglie. Il primo lavoro legale del Di Marco fu letto con ammirazione. Un egregio magistrato che vide in piè di quella scrittura un nome oscuro, significò il desiderio di conoscerne l’autore, e, avutolo a sè , dopo de- cisa la causa in favore della parte da lui difesa: Zo mi rallegro con voi, gli disse, 0 giovane avvocato : i primi passi che segnate nella nobile palestra del foro, accennano indubbiamente che vi coglierete i primi onori. Continuate animoso nell'avvocheria, nè mai vi vinca la tenta- 2 6 ELOGIO zione di abbandonarla per abbracciare la magistratura. Nè quegli augurì fallirono, nè quello autorevole ammonimento fu mai dimenticato. Ma l’uomo non poggia in alto, benchè fornito di grande ingegno , senza quello studio assiduo, paziente, pertinace , che riempie la mente di sana dottrina e la esercita alle profonde indagini, al severo ragiona- mento. E il Di Marco applicò l animo a svolgere con operosa sedulità i libri della romana sapienza ov’ è riposta la scienza giuridica di quei sommi giureconsulti che furono gli splendidi fari del mondo civile, e studiò ì più grandi commentatori di quei volumi, dai Glossatori fino ai più recenti. Nè minor cura pose nello studio del diritto canonico, delle leggi e degli Statuti di Sicilia. Da cosiffatti studî altamente avvalorato potè bene intendere i novelli codici che contengono il meglio delle tra- dizioni giuridiche ed elevano a dettami legislativi quelle norme che la moderna civiltà è venuta mano mano introducendo con lo svolgersi ed ampliarsi degli umani bisogni. Nel 1840 egli compose una succinta illustrazione del codice civile del 1819, che conduceva fino a tutta la materia delle obbligazioni. Non era un lavoro ampio come quello del Toullier e del Duranton, o come gli altri che uscirono dopo, del Marcadè, del Demolombe, del Deman- te, del Laurent. Non era un compendio come quello che egregiamente fece il Marcadè di ciascun titolo del codice. Il lavoro di lui ha la forma di trattato, non di comento, e racchiude una esposizione breve, lucida, comprensiva dei principî che informano il codice senza venire alla disa- mina delle teoriche degli scrittori, nè scendere nel vasto campo dei di- ritto controverso. Egli non appose il titolo al suo studio; io lo chiame- rei Principi delle leggi civili del 1819. Fu scritto per studio privato ovvero per farne un’ opera da dare alle stampe? Inclino a credere che lo abbia fatto per sè, e non per altri. E lo mostrava ai suoi più intimi come documento dello studio accurato e coscenzioso ch’ egli avea fatto su quella legislazione. Però cotesto studio portato a compimento e pub- blicato, sarebbe stato un ottimo manuale non solo per gli studenti, ma eziandio pei cultori del diritto. Il lavoro fu lasciato incompiuto , forse perchè le occupazioni della pratica non gli consentirono di condurlo a fine. Mutata la legislazione, non gioverebbe ora mandarlo alle stampe. Le sue difese legali te lo mostrano dotto giurista, ragionatore ma- tematico, scrittore serrato. I nostri grandi avvocati hanno versato in gran copia la lor dottrina giuridica nelle memorie dettate pei clienti, ma quei lavori stampati a pochi esemplari e a semplice scopo di difesa, non han potuto riuscire utili per lo studio delle leggi, per lo avanzamento ESA DI VINCENZO DI MARCO or) della scienza. Così andarono disperse pur le memorie del Di Marco. Chi si desse la cura di raccoglierle, e cavarne quei comenti di leggi o le soluzioni di alte quistioni, che pure oggi hanno un interesse, e tutto. raccogliesse in un bel volume, farebbe certo opera utilissima (1). Tostochè il nostro Vincenzo esordì ad arringare presso il Tribunale e presso la Gran Corte civile, quanti ascoltarono il giovane oratore, ma- ravigliarono della forbita parola, e del sodo ragionare , e fecero giusto pronostico che egli un giorno avrebbe preso loco tra i più grandi av- vocati. Un illustre e dotto magistrato napoletano la cui memoria serbasi | venerata fra noi, Stanislao Falconi, che si piaceva a lodare ed incorag- giare i giovani d’ingegno più promettente, scorto il raro merito di lui , lo eccitò ad assumere una procura del re. Ma ei gli resegrazie , e ri - cusò l’offerta. Suonava ancora alle sue orecchie l’ammonimento di quel- l’altro egregio magistrato che lo avea esortato a non allontanarsi dall’av- vocheria. Nè il suo rifiuto derivava dalla poca stima in cui tenesse la magistratura che è pure degnissimo ufficio sociale, ma dal riconoscere che l’avvocheria, la quale nacque all’altra sorella, fosse più libera e in- dipendente, e ch’egli possedesse le più acconcie doti per nobilmente e- sercitarla . La elezione a pontefice di Pio IX , le idee di pace e di carità da lui bandite, le riforme introdotte nel governo pontificio, fecero prorom- pere gli Italiani in quel grande insorgimento che fu febbre, delirio di popolo, e suscitò la prima guerra dell’indipendenza. Qui, come altrove, si domandarono le riforme al principe. Ma ogni nostra speranza fu vana; il principe si fe’ sordo alle richieste che nei modi più solenni la universa cittadinanza gli fece. giungere. Il popolo, impaziente d’ ogni indugio si levò in armi il 12 gennaro 1884 per. ot- tenere le libertà che gli erano state disdette. Il moto incominciato in Palermo si dilatò come scintilla elettrica per tutta l’ isola, sicchè fu veduta insorgere con maggiore unanimità di quella, onde sei secoli innanzi avea gridato contro i Francesi il terribile Mora, mora. (1) Nella Rivista di legislazione e giurisprudenza, il Circolo Giuridico, si sono da me pubblicati due pregevoli lavori di lui, cavati da due memorie: Osservazioni sugli art. 570, 571, 572, del Codice civile, e Sulla capacità a ricevere degli enti morali non riconosciuti. Vedi volume XII, parte prima, pag. 160 e 268. Una bella rassegna scritta da lui intorno al Comento dell'art. 193, n. 3, dell'avv. A. Invidiato, è inserita nel volume VII degli Atti dell’ Accademia di Scienze, Lettere ed Arti, e nel vol. XIII del « Circolo Giuridico » pag. 142. 8 ELOGIO Oggi che l’Italia è una, sotto un sol principe, legata ad un sol patto, mal si comprende lo scopo di quella memoranda rivoluzione. La Sicilia in cui antico, come in Inghilterra, era il governo costi- tuzionale, e per secoli avea goduto la sua autonomia, videsi nel 1816 violentemente spogliata delle sue libertà, e asservita a Napoli, e da quel tempo gravata di imposte non più votate dal suo parlamento. Il popolo insorse per rivendicare i suoì diritti e per adattare ai no- velli tempi la costituzione del 1812. Nè sarebbesi politicamente disunito da Napoli se re Ferdinando gli avesse consentito libertà e autonomia. Non avendo potuto fare con lui alcun accordo , il parlamento siciliano decretò il decadimento dei Borboni, ed elesse più tardi re dei Siciliani Alberto Amedeo secondogenito di Carlo Alberto. I voler ridurre allora tutti gli stati italiani in un solo era impos- sibile, chè gl’istinti municipali, gli interessi dei varî principi, la gelosia d'Europa non l'avrebbero patito. Però, se non la unità, la quale , va- gheggiata da quel grande cospiratore che fu G. Mazzini, non era an- cora entrata nell'opinione dell’universale, l’unione era certo possibile me- diante una colleganza dei popoli e dei principi italiani. La Sicilia, se voleva rompere il mal congiunto anello che riluttante la legava a Na- poli, intendeva con altro e ben più saldo vincolo ricongiungersi libera- mente al resto della italiana famiglia. Disunirci da una parte d’Italia, ©. se era da una mano diminuzione dell’unione esistente, come notò Ce- sare Balbo, era dall’ altra avviamento ad una più bella ed inconcussa unione. Che cosa infatti avvenne nel 1860? Insorgemmo di nuovo, ci disunimmo un’altra volta da Napoli, e affermammo l’unità d’ Italia. In quella grande rivoluzione il Di Marco che, come dice il La Fa- rina, era sinceramente amico della patria, fu non ultimo attore. Deputato di Ganci al Palermento Siciliano, si chiarì tosto, oltrechè giurista, cultore esimio delle discipline sociali, e partecipò alle impor- tanti discussioni dello Statuto. Il 13 aprile, quando fu decretato il deca- dimento di re Ferdinando e dei suoi dal trono di Sicilia, egli ripensò ai fatti del 1831, alle stragi del 1837, e disse commosso queste belle e concitate parole: Ora i martiri son vendicati, e i miei fra i primi. La mia famiglia fu distrutta dal governo borbonico. Voi l’avete ven- dicata, pienamente vendicata. Come re è caduto, come privato: bi- sogna dimenticarlo. A 16 febbraro 1849, quando le sorti della siciliana rivoluzione erano incominciate a declinare, fu nominato ministro di grazia e giustizia e del culto, e compagni a lui furono il principe di Butera, il marchese DI VINCENZO DI MARCO 9 della Cerda, l’avvocato Catalano, il barone Niccolò Turrisi e il maggiore Giuseppe Poulet. Gli eventi incalzavano, Re Ferdinando mandava da Gaeta il suo ultimatum del 28 febbraro. In quel supremo momento era necessario che un governo forte composto di uomini della rivoluzione sapesse vi- rilmente sostenere la dignità della Sicilia di fronte al re decaduto che mirava a riconquistare la perduta isola e rivendicarne la corona. Il mi- nistero sì ricompose e vi entrarono Calvi, Errante, Stabile; Di Marco vi rimase ed assunse il dicastero delle finanze. L’atto di Gaeta fu dalle Camere respinto. Ripresa la guerra, cadde Catania fra le rovine, gl’incendii e le stragi. La rivoluzione vittoriosa nei suoi primi impeti tentò allora gli estremi sforzi, ma indarno. La novella soldatesca male agguerrita e mal con- dotta oppose una gagliarda resistenza, ma fu sopraffatta dall’ esercito invadente, cui non facevan difetto nè vigore e sapienza di comando, nè numero di schiere nè armi. La Camera dei deputati accettò i buoni of- fici offerti dalla Francia e si prorogò. Il ministero si dimise. Fu que- sta la fine luttuosa di quella grande rivoluzione che avea schiuso gli a- nimi nostri ai vergini entusiasmi della libertà, e che pareva iniziatrice di uno splendido avvenire per l’isola. E come noi, gl’Italiani, quali prima, quali dopo, se ne togli il popolo del Piemonte, ricaddero sotto la si- gnoria assoluta dei principi spodestati. All’ avvicinarsi dell’ esercito Napoletano verso Palermo gli uomini che furono proscritti, e coloro che non si fidarono della data amnistia, presero la via dell’esilio. Tra questi ultimi fu il Di Marco, il quale prima recossi in Malta, e poi in Alessandria d’Egitto. Quivi esercitò con plauso l’avvocheria e avrebbe potuto acquistare grandi ricchezze. Ma lontano dalla patria, lontano dalla vecchia madre e dalla famiglia ch’ erano a lui sì caramente dilette, non sapeva vivere; sentiva svigorirsi l’ingegno in quelle piagge accese, in cui non aveva nemmeno il conforto di ri- mirare da lungi la nativa sua isola. Ed arse del desiderio di ripatriare, e il governo il fe’ pago. Tornò all’avvocheria con ottimi auspicii. Avea lasciato partendo brama di sè, il suo ritorno fu salutato con festa. Nel foro erano ancora illustri vecchi avvocati, e una nuova gene- razione di valorosi era sorta da parecchio tempo ad illustrarlo, e tra questi si segnalavano Emmanuele Viola e Francesco Scoppa. Ai quali aggiuntosi il Di Marco, più giovane di entrambi, ma non men gagliardo di mente e di studii, contese con essi il primato. Triumvirato nobilis- simo che rendeva a quel tempo celebrato il nostro foro nonchè in Sicilia ma in tutta Italia. 3 10 ELOGIO Viola che nella sua giovinezza erasi mostrato valente cultore delle discipline economiche, e molto versato nelle lettere, ebbe ingegno oltre ogni dire perspicace e pronto, vasta dottrina, e rara facondia, non ac- compagnata però da quella varietà d’ accento che imprime maggior ri- lievo ed efficacia alla parola. Scoppa sortì mente profonda e speculativa, sommamente analitica, pieghevole alle esigenze della pratica, parola facile senza ornamenti; fu ‘sottile ragionatore e superò gli altri nello studio paziente e minuto delle cause. Di Marco, letterato più dell’uno e dell’altro, ebbe ingegno sovrana- mente comprensivo, dottrina pari a quella dei suoi rivali, rifuggì sem- pre da ogni sottigliezza e dalle metafisicherie; e seppe mirabilmente tra- durre con una parola densa, concettosa , attraente, le idee che la sua mente apprendeva con somma lucidezza , tanto che se fu incerto qual dei tre sovrastasse gli altri per potenza e acume di mente, nessuno osò contrastare che su tutti s’ innalzasse il Di Marco per vigoria e fascino di parola. Bella ed utile scuola era pei giovani assistere alle lotte. quotidiane combattute da sì poderosi atleti, i quali porgevano luminose prove di lor potente ingegno e del fine magistero di loro arte. Ebbe il Di Marco la prima virtù motrice dell’eloquenza giudiziaria, l’amore alla verità, mercè il quale il giurisperito, consulente e parlante per il suo cliente, è quasi magistrato che lo incomincia a giudicare in primo grado. « L’avvocato , scriveva il Balbo, non giudice della causa assunta volge in vizio la virtù del proprio ufficio; e peccando contro la morale umana e divina, pecca poi inevitabilmente contro all’ eloquenza propria e del suo mestiere; non servendo alla verità, non può servire all’eloquenza; non persuaso non può persuadere, per lo più, o non al- meno, se non guastando, invertendo la ragione altrui; riduce la ragione stessa immortale a sofismi, l’immortal giustizia ad iniquità, e il sacer- dozio di lei a misera o talor fatale impostura (1) ». Il Di Marco, onestissimo qual era, non assunse la difesa se non quando a lui ne paresse evidente la ragione. Ciò era per lui l’ onestà dell'avvocato. La esperienza della vita forense gli apprese che non di rado quel che a noi pare evidente può non parer tale agli altri, e anco non essere; ond’egli mutò consiglio. (1) BaLBo. Della Monarchia rappresentativa in Italia, Firenze 1857, pag. 367, lib. II, cap. 7. DI VINCENZO DI MARCO N06 ID I « Onesta causa, egli scriveva nell’elogio del barone D’Ondes Rao (4), non vuol dire causa evidente, quasi in giudizio combattessero il pro e il contro, come il genio del bene e del male. Il diritto che chiamasi controverso è mare sì vasto, e la complicazione dei fatti è così indefi- nita che la ragione delle due parti pende le più volte da incerta lance. Le più volte una sentenza ne revoca un’ altra, una maggioranza vince la minoranza, nè per questo nel campo della moralità è meno rispettabile la sentenza dei primi giudici, o «il voto del minor numero. Nella cerchia di questo dubbio è l’onestà della causa, l’onestà di cui la giustizia vuole garante il difensore nel nome proprio ».. La rivoluzione del 1860 trovò il Di Marco unitario, perchè egli in- nanzi che si compissero i meravigliosi eventi del 1859 e del 1860, ebbe fede nell’unità d’Italia. E forse anche nella sua giovinezza avea vagheg- giato l’Italia unita, quando all’ esecrato Cesare Borgia, che il Macchia- velli, pur di vedere una e potente la patria, avrebbe desiderato capo e sovrano di lei, mise in bocca questi concetti così bene espressi: È questa Italia al mondo Tremenda troppo, e lo stranier la spregia E la deride, perchè in cento il fato Partir la volle, e in cento anco partilla La eterna bile cittadina. Ov’ella Fosse solo una patria, e solo un soglio In lei s’ergesse, impallidir vedresti I più possenti, e sol fa questo ai regi Abborrito il mio nome. Ei temon forte Che l'aquila latina abbia sol uno Possente capo, e più non tremi. Or questo Io sì farollo. A terra ir tutte denno Le minori corone. Un scettro solo Dominar debbe Italia, e questo è il mio. Tremi chi il tocchi.... (2°. Parole altamente profetiche che ebbero la loro effettuazione ai dì nostri sotto un principe guerriero e galantuomo che da Novara a Roma seppe, con gli avvedimenti politici, con le guerre, e con le alleanze , e con gli opportuni plebisciti, mutare un picciol reame in un grande Stato, il Piemonte nell’Italia indipendente, libera ed una. (1) Leggesi negli Atti dell’Accademia di Scienze , Lettere ed Arti, Nuova Serie, vol. VI, 1878, Tipografia del Giornale di Sicilia. (2) Vedi il Valentino, tragedia di V. Di Marco. 12 ELOGIO Libertà suonava pel Di Marco, come per ogni animo onesto e libe- rale, giustizia, ordine, progresso. E quando nel nome santo di essa vedeva compiersi atti ingiusti, l’animo suo ne sentiva altissimo disdegno. Le rivoluzioni vogliono uomini nuovi nei pubblici ufficii e ordinano scrutinii per indagare la condotta e i sentimenti degli uomini vecchi, e dànno a questi facilmente l’ ostracismo se non li trovano accostati già alle idee liberali. Non è guari abbiamo veduto la repubblica francese voler sospendere per un anno la guarentigia migliore dell’indipendenza della magistratura, ch’è l’inamovibilità, per iscrutare gli animi dei ma- gistrati e vedere quali alle idee repubblicane non inchinassero affin di | toglierli tosto di ufficio. Certo i funzionarii che furono strumento di dispotismo non potranno essere tollerati dai governi liberali. Ma privare d’ufficio gli uomini vec- chi che con probità e intelligenza hanno servito le pubbliche ammini- strazioni senza macchiarsi delle sozzure dei governi caduti, è ingiustizia ed errore, dacchè, mentre si fa torto agl’ individui, si reca nocumento non lieve alla cosa pubblica, la quale richiede uomini che abbiano non solo speciali attitudini, ma lunga esperienza d’affari. Giuseppe Napoli- tani, illustre Procuratore generale alla Corte suprema di giustizia, Gae- tano Parisi'e Agostino Invidiato, onesti e intelligenti magistrati, furono dichiarati indegni di tornare alla magistratura sotto il nuovo governo. Il Di Marco stimò ingiusta l’ accusa e scrisse un memorandum-protesta per illuminare la pubblica opinione, ed eccitare il governo a non sfron- dare la magistratura delle più belle sue glorie. Il buon senso popolare, egli scriveva, e la fiducia che ispirano gli uomini del governo, fa bene intendere che quei nomi appartengono ancora al patrimonio dell’am- ministrazione dello Stato. Ma i tempi incalzano , ed oramai è sta- gione che il paese torni alla sua vita normale. Senza fiducia, 0 senza intera fiducia, o nell’aspettazione di più solenni riputazioni, i grandi interessi si arrestano e non, si vive che precariamente. Il governo compia adunque senza esitanza la via che gli resta. Onori la pro- bità e l'intelligenza, e la Sicilia glie ne sarà riconoscente, poichè la probità e la intelligenza non appartengono nè ad epoche nè a signo- rie; sono elementi e bisogno di tutti i tempi e di tutti governi. ‘La sua parola fu efficace a bene indirizzare la pubblica opinione che nei tempi turbinosi di una rivoluzione è facilmente travolta e guasta. Il Napolitani fu rinominato Procuratore Generale presso la Corte su- prema di giustizia, il Parisi eletto Consigliere nella medesima Corte ; il solo Invidiato, e non fu giustizia, non venne rimesso in ufficio. DI VINCENZO DI MARCO 13 Deputato di Corleone alla prima legislatura , prese parte nel 1862 ‘alla legge sulle poste e fu reverentemente ascoltato. Propose alcuni e- 3 mendamenti per assicurare quella inviolabilità che il conte di Mirabeau chiamava principio di probità nazionale, ed egli della libertà dei citta- dini. Bentosto presso il governo acquistò sì grande autorità che in dif- ficili quistioni fu ricercato e accolto l’avviso di lui. Era allora guarda- sigilli il Cassinis. Voleva questi estendere a tutta Italia la legge pie- montese del 13 luglio 1857 con cui abolivasi forzosamente qualunque enfiteusi, costringendosi gli enfiteuti ad affrancare i canoni in un dato termine, o i concedenti a prendere i fondi pagandone le migliorie. Que- sto disegno di legge fu sottoposto ad una Commissione di cui facevan parte senatori e deputati delle varie provincie d’ Italia. Vi erano di Si- cilia il Musmeci, il Di Marco ed anche il Corleo che avea già presen- tato alla Camera la legge per il censimento dei beni ccclesiastici. Mu- smeci e Corleo avversarono le idee del ministro, le accettarono gli altri. Di Marco che non potè intervenire alle discussioni della Commissione, mandò da Palermo scritto il suo parere, nel quale stimò inapplicabile alla Sicilia la legge dell’affrancazione forzosa , e più opportuno di la- sciare in balia degli enfiteuti il redimere i canoni. Dietro il sapiente av- viso del palermitano giureconsulto mutò di consiglio il ministro e pro- pose di non estendere alla nostra isola la legge piemontese e di appli- carla solo alle altre provincie del regno. Ma, oppostisi a ciò gli altri com- ponenti la Commissione, andò a vuoto quella proposta (1). Per le pro- vincie siciliane fu pubblicata nell'agosto del 1862 la legge per la censua- zione dei beni ecclesiastici. Nel codice civile venne conservato il con- tratto d’enfiteusi. . ‘ Il Di Marco avrebbe nel parlamento onorato sè e l’ isola nativa e sarebbe stato uno dei più valenti oratori onde la Camera dei deputati avrebbe avuto gloria, dacchè l’eloquenza politica s’ accosta più sovente alla giudiziaria che non alla religiosa e alla tecnica o insegnatrice. Grande oratore giudiziario, sarebbe stato pur grande oratore al parlamento. Ma egli smesse l’alto officio, non consentendogli Ja moltiplicità degli affari che per lunghi mesi lasciasse, Palermo. Vacando nel 1862, per la morte del Napolitani, il posto di Procu- ratore Generale alla nostra Corte di Cassazione , il Governo vi nominò (1) V. CorLeo, Storia della enfiteusi dei beni ecclesiastici in Sicilia, Palermo , Stabil. tip. Lao, 1871, pag. 59. 4 14 ELOGIO lui. Da quest’alto ufficio la sua parola sarebbe suonata autorevole in- terprete della legge, come quella del Merlin e del Dupin alla Cassazione francese, e quella del Nicolini alla Corte suprema di Napoli. Intorno * al 1840 gli era stata offerta una procura del re, ventidue anni dopo era chiamato ad uno dei più eminenti posti della magistratura. Ed egli che avea rinunziato la prima volta, si ricusò anche la seconda, non isti- mando che dalla avvocheria a più alto ufficio si salga, e non volendo abbandonare quella palestra che a lui avea procacciato fama, onori e ricchezze. E: si sovvenne di certo anche allora di ciò che gli era stato detto da un egregio magistrato, quand’egli esordiva nell’avvocatura. s Dal giorno che gl’Italiani ebbero comune la libertà e la patria; e che il paese fu retto con unico ordinamento, una grave quistione venne mossa sulla esistenza dei varii supremi collegi giudiziarii che erano in Italia, e se una sola Corte di Cassazione dovea mettersi a capo della magi- stratura italiana, come un sol codice dovea imperare su tutte le pro- vincie del regno. Il Di Marco indirizzò in nome degli avvocati di Palermo una peti- zione alle Camere legislative ed ai ministri, nella quale disse che l’unità di giurisprudenza impossibile a raggiungersi per autorità magistrale, è i solo opera di leggi e del loro successivo perfezionamento; che la Corte di Cassazione risponde a ben altro e più alto ufficio, cioè a garantire ai cittadini la osservanza delle leggi, e che tale essendo l’ ufficio di quel supremo magistrato, la sua unità non è questione di principii, e bisogna istituirne tanti, quanti il bisogno del paese ne esige. E ben si apponeva; la uniformità, anche dove unico è il magistrato supremo, sarà sempre un desiderio, anzichè un fatto. Del resto, la giurisprudenza deve essere progressiva e liberale, e provvedere alle nuove relazioni giuridiche che nella società si creano, cori nuove interpretazioni della legge esistente, per poterla adattare ai bisogni della società progre- diente (1). Il primo Congresso Giuridico Italiano, trattando l’ardua quistione , ammise si istituissero varii magistrati supremi o di terza istanza locali, e una Corte di Cassazione per le materie di ordine pubblico, per le cause penali, per le nullità sostanziali, e per la espressa violazione di legge. La quistone pende ancora insoluta. Quando si ripresenterà al parlamento, abbiam fede che trionfi la idea del Di Marco , quella cioè di varii su premi magistrati secondo richiede il bisogno dei cittadini. (1) CALENDA, Discorso detto alla Corte di Cassazione di Torino, Torino, A. Loca- telli, 1880. è DI VINCENZO DI MARCO 15 L’illustre nostro Socio ebbe parte cospicua nella Commissione le- gislativa, che quì, come in Torino, Napoli, Milano, Firenze, venne no- minata nel marzo del 1863, ‘per istudiare il progetto del Codice civile. Il ministro guardasigilli Pisanelli aveva con felice intendimento voluto sottoporre quel disegno allo esame di cinque commissioni nelle quali si raccogliesse il fiore della magistratura e della avvocheria, bene avvi- sandosi che tanta ne sarebbe stata l'autorità e tanto si sarebbe spia- nata la via dell’approvazione al parlamento per quanto più ampi fos- sero stati gli studi e maggiore il concorso delle intelligenze del regno. La nostra Commissione che lavorò per oltre due anni sentì primie- ramente il bisogno di dare al codice un più logico ordinamento, ma vide che a ciò le sarebbe mancato il tempo, dovendo fornire urgente- mente il proprio lavoro ; sì restrinse quindi a far voti che chi ultimo mettesse mano a quel grande edificio intendesse degnamente a ordi- narlo. Nell’esame dei due progetti non mirò solo a fare semplici osser- vazioni, ma con tanta sapienza condusse i suoi lavori da ricostruire in parte il progetto, ora mutandone, ora modificandone i principii, e di più conveniente forma rivestendo i precetti legislativi. Dei quattro libri in cui era diviso il progetto del codice civile Miglietti, furono studiati interi i primi tre, l’ultimo fino alla locazione. Il Di Marco in quell’opera apportò grande contributo di studii e di idee e vi lavorò con zelo indefesso. La sua parola fu accolta sempre con plauso, sovente, ripeterò ciò ch’egli scrisse pel d’Ondes, valse come l’ultima parola di grandi problemi di legislazione civile. To non posso qui, e non ne sarebbe il luogo, fare un minuto esame dei lavori della Commissione e studiare le riforme che arrecò al pro- getto del codice civile, e quanto questo ne avrebbe avuto vantaggio: o scapito, e quante di quelle siano state proposte dal Di Marco. Dirò solo che i verbali di quella Commissione attestano che se la Sicilia cooperò grandemente alla rivendicazione dell’ unità italiana, non meno conferì col senno all’unificazione legislativa (1). (1) I verbali della Commissione legislativa di Palermo, furono depositati, per vo- lere dell’illustre Pietro Castiglia, alla Biblioteca Comunale. Faccio qui voto che siano dati alle stampe. Questa opera riuscirebbe molto frut- tuosa per gli studi giuridici, e accrescerebbe lustro al nome di quanti vi. partecipa- rono, e massime del Di Marco. Se l'esempio spingesse poi altri a pubblicare i ver- bali delle altre Commissioni legislative, possederemmo i materiali tutti che servirono all’edifizio della civile legislazione, e allora soltanto sarebbe possibile che qualcuno con diligente cura radunasse e in bell’ordine disponesse tutt’insieme i lavori prepa- ratori del codice, siccome il Fenet fece per il codice francese. A 16 i ELOGIO Indicevasi pel settembre 1872 il primo Congresso Giuridico in Roma. Il Comitato ordinatore del medesimo nominava il Di Marco presidente di una delle due Commissioni istituite per:lo studio della 4* tesi, che riguardava le riforme da apportarsi al codice di procedura civile. La presidenza da lui declinata fu poi assunta dal professore Buniva. La riforma del procedimento sommario richiamò il maggior numero di suffragi, anche in seno alla Commissione, con minor divergenza in- torno alle speciali modificazioni. Difatti è bisogno comune, com’ è de- siderio vivamente sentito, la celerità nei giudizii, la semplicità nelle forme. Ma la forma nelle discipline morali è garantia della sostanza: quindi se da un lato vuolsi la semplicità, deve dall’altro badarsi a premunire i giudizii dalle sorprese e dagli errori, figli della fretta. Il Di Marco mandò alcune sue proposte di riforma. Egli vide so- pratutto « urgente la modificazione del rito che si chiama sommario e meglio si direbbe improvviso, che nasconde le ragioni e i documenti delle parti, toglie i mezzi a difendersi, ed è assurdo perchè diventa un privilegio personale, specialmente allo Stato e alle amministrazioni pubbliche, di poter sorprendere indifeso l'avversario all’udienza mentre dovrebbe l’indole del rito esser connessa al tema del litigio. Il vizio del sistema si rivela in larga scala per la massa enorme di liti che tante leggi eccezionali di soppressioni, di tasse, ecc. han fatto sorgere rim- petto alle pubbliche amministrazioni. Nè trovò adeguato rimedio nella facoltà concessa al magistrato di rinviare al procedimento formale, per- chè in pratica si esercita senza la perfetta cognizion della lite, e perchè di gravi danni è cagione il cangiamento di un rito in un altro che versa in eccesso contrario, riapre ogni disputa e viola i diritti già acquisiti dalle parti». Richiamò l’attenzione del Congresso: « sulla materia degli incidenti, che crean liti nelle liti, e presumono nelle parti un accordo pressochè impossibile, ingenerandosi così uno confusione che divaga dal tema principale della causa, e col rimedio del rinvio all’ udienza unitamente al merito, non avendosi che un procedimento incerto con tutti i difetti del procedimento sommario ». Avrebbe veduto volentieri : « mandate nel nulla le regole arbitrarie della iscrizione a ruolo, e le conseguenze arbitrarie di precludere l’adito a qualunque deduzione, e sia pure un giudicato, un documento decisivo, come se il giudice dovesse chiudere gli occhi alla verità e pronunziar contro coscienza per lo inesorabile decorrimento di un termine » (1). (1) Vedi queste proposte negli Atti del Primo Congresso Giuridico tenuto in Roma l'anno 1872, Roma, tipografia Enrico Sinimberghi, 1872, pag. 55. DI VINCENZO DI MARCO 17 Il Congresso riconobbe necessario che in quel procedimento fosse introdotto un termine entro il quale le parti debbano comunicarsi , per mezzo della cancelleria, i documenti e le conclusioni avanti il giorno della discussione. Un disegno di legge per questa sì lungamente invo- cata riforma fu già approvato da una delle due Camere, ma è ben lon- tano ancora di essere una legge; perchè il parlamento si preoccupa as- sai più delle leggi di ordine politico ed economico , che non di quelle di ordine giudiziario. Nell'ultimo decennio il Di Marco, spenti già anzi tempo i due sommi emuli, Viola e Scoppa, nell’agone forense era rimaso primissimo fra tutti, anzi unico. Nè gli anni avanzati, nè le infermità che cominciavano a guastarne la salute, lo ritrassero dal foro. Appena risanato , ei tor- nava con ardore quasi giovanile a riprendere il suo posto. L’avvocatura tutto lo assorbiva ed occupava. Innanzi ai tribunali arringava tutti i giorni una o più cause, e tornando a casa non trovava un luogo di ri- poso e di ritiro, ma i molti clienti che ‘lo ricercavano, o per soluzione di dubbii, o per avviamento di litigi; e dalle discussioni passava so- venti a scrivere quei preziosi appunti in cui era solito compendiare le cause più difficili, e dettare la giuridica soluzione di esse (1). Im que- sto continuo lavoro era tutta la sua vita. Abbandonare il foro sarebbe stato per lui gittarsi in un riposo infecondo, in un ozio inglorioso. Nel 1880 l’associazione costituzionale di Palermo avrebbe voluto ri- mandarlo deputato al Parlamento e fe’ ogni sforzo per indurvelo ; ma egli, fermo nel suo primo proposito, ricusò la candidatura. E interro- gato due volte se avrebbe accettato il nobilissimo ufficio di Senatore , disse che le medesime ragioni per le quali era stato astretto a rinun- ziare la rappresentanza parlamentare, gli vietavano pure di entrare nel- Alta Camera. Se a lui impedì l’avvocheria di sedere degnamente nei consessi le- gislativi, gli fu dato far parte dell’assemblea del comune per lunghi anni e per minor tempo di quella della provincia. Nell’una e nell’altra la sua parola suonò sempre autorevole, imponente. La nostra città non trovò migliore interprete che il cuore e la penna di lui quando volle signifi- (1) Una sola difesa di lui, che sappiamo, venne stampata. Fu quella fatta nella causa De Silva e Filangeri, il 6 febbraio 1878, innanzi la Corte di appello di Palermo , se- conda Sezione promiscua. La contraria difesa è dell'avvocato Salvatore Tomasino. Fu- rono tutt’ e due riprodotte con la stenografia e pubblicate coi tipi dello Stabilimento Lao, nel 1878. o) 18 ELOGIO care al giovane principe qual fosse il suo dolore per la morte inaspet- tata e sì profondamente rimpianta di Vittorio Emanuele, e più tardi quale il suo sdegno per l’insano attentato alla vita del giovane Re. Le tragedie furono il primo lavoro del Di Marco, l’elogio del barone Bartolomeo D’Ondes fu l’ultimo. Le prime segnarono i primi passi du- bitanti di lui nel campo delle lettere, 1’ altro è un modello del genere. Amico e collega dell’estinto, precorrendo quasi al desiderio dei Mode- ratori di questa Accademia, accettò l’invito di tesserne la lode. E ce lo ritrasse con vivezza di colori, chiarissimo avvocato, valente professore di dritto romano e, sovratutto, uomo di cuore, onesto, liberale , rifug- gente come dall’abbietta servitù, così dalla prava licenza, e fervente cat- tolico. E facendo lo elogio di lui col quale ebbe comune la onestà nella professione, i principî morali, le credenze religiose, piacquesi in esso rivelare tutto se medesimo. Noi che sinora lo abbiamo guardato nel foro, nelle assemblee po- litiche ed amministrative, nel governo, come uomo pubblico, lo guar- deremo ora nella cerchia della famiglia, entro se stesso; studieremo l’uomo nei suoi domestici affetti, nei sentimenti più riposti dell’animo. Amò teneramente il padre e a lui trapassato dedicò il suo primo lavoro; alla genitrice che più fortunata del marito potè rallegrarsi dei trionfi di lui, fu religiosamente devoto. Ebbe tenerezza di padre verso le sorelle e i fratelli, dei quali il più giovane educò agli studii, e vide con viva compiacenza occupare onorevole loco nella magistratura, e l’al- tro tenne sempre seco. Nel 1854 s’ invaghì di avvenente donna e la fe” sua. Leggiadra di forme e tutta piena di vita, vaga di geniali ritrovi, fe’ aperto contrasto col marito austero e solitario. Il contrasto genera la temperanza dei ca- ratteri, onde ben cantò un’immortale poetessa palermitana : Ah nulla d’arrogante e di virile Ama il cor degli eroi nella bellezza, Ma un non so che di caro e di gentile Che tempri lusingando la fierezza (1). La moglie esercitò su di lui uno straordinario impero , e luce ful- gidissima nel cammino di sua vita, gli fe’ deporre la cupezza abituale dello spirito, spianò le rughe della fronte, e gli rese più belli gli allori che ei venia tuttodì raccogliendo nello esercizio della nobile professione. (1) Giuseppina Turrisi-Colonna nei versi: Un sepolcro del 1550 in Termini. DI VINCENZO DI MARCO 19 Aveva ella portato a lui tre figli avuti da un primo marito, ed egli amò lei pur nelle sue creature, e le due ch’ebbe sempre seco dilesse sì ca- ramente che parea aver dimenticato di esser nate da altri. E la diletta consorte il fe’ lieto di cara figliuolanza. Dopo venti anni la sua vita tornò, qual prima, melanconica e triste. Il 19 aprile 1874 fu per lui giorno di profondo dolore, perchè vide, quasi d'improvviso, e in ancor verde età, mancare l’ adorata sua compagna. Unico conforto all’immenso suo cordoglio ‘rimasero a lui i figli. Il Di Marco non vergognò di confessar solennemente di essere cre- dente in Cristo. «Si può essere, egli diceva , cristiano e filosofo , fer- vente cattolico e benemerito cittadino di questa bella ltalia a cui i po- steri sapranno grado di aver liberata la chiesa dalle basse ambizioni di Stato ». Così rendeva a Dio quello ossequio razionale ch’ è imposto ai credenti. ; Nel summenzionato elogio del D’Ondes egli, lodate le virtù dell’ e- gregio uomo , la pietà e la carità verso gl’ indigenti, con sublime elo- quenza benedice alla nostra religione e rimpiange i nostri tempi, in cui le credenze si demoliscono , e il principio di autorità si pone in non cale, e i popoli abbrutiti corrono agli eccessi più insani , alle peggiori scelleratezze, in cerca di un ordinamento sociale ch'è follia poter con- seguire. « Benedetta, ei diceva, quella religione che si espande siffattamente nella vita esteriore! Se non fosse divina nella sua essenza, sarebbe di- vina nei suoi effetti! E così non fosse altra filosofia al mondo che questa, e si moltiplicassero cotesti esempii di pietà e di virtù invece di abbru- tire i popoli col demolire le loro credenze. Chè or non vedremmo alla tutela sociale mostrarsi impotente l’ autorità delle leggi. Nè vedremmo minacciati i cardini della società per inique aspirazioni, inique al pari che insane. Nè orribili fatti verrebbero sì di frequente a conculcare la coscienza pubblica, nè a costernare la nostra generazione sul destino dei nostri figli! Stolti! Non sanno che se dell’uomo non resta che il bruto, la società umana si scompagina e si dissolve. Che dico io? La società è la legge dell'umanità, nè si dissolve, nè si scompagina, solo la libertà paga le follie e le iniquità di ogni tempo. Prima conseguenza dell’uomo bruto è l'anarchia, l’ultima il dispotismo ». Tanto nobile vita spegnevasi il 24 aprile dell’anno cadente. Un figlio non ancora trilustre ne eredita il nome ele sudate richez- ze. Oh! potesse in lui trasmettersi pure in retaggio la virtù e l’ingegno del padre, o almeno suscitarsi nell’animo vivo il desiderio , e ferma la 20 ELOGIO DI VINCENZO DI MARCO costanza di seguirne i nobilissimi esempi, sicchè si dica un giorno di aver lui serbato degnamente il nome di sì illustre genitore! Le tre figlie, fornite di gentile educazione, provvedute di largo censo, quasi presago del.suo prossimo fine, pensò collocare convenientemente in matrimonio con egregi giovani, e le prime due condusse egli mede- simo all’altare e ne provò nell’ animo ineffabile allegrezza. E volle che le ultime nozze si celebrassero novanta giorni dopo la sua morte. Il suo volere fu fatto. La seconda delle figliuole compì il sacro rito e il civile senza alcuna pompa , in mesto silenzio, rotto da’ singhiozzi, e dalle lagrime sue e della famiglia per il recente lutto. Il diletto vene- rando genitore, cui non fu conceduto assistervi, le benedisse in quel so- lenne momento dal cielo insieme con la madre. La perdita del Di Marco fu riguardata come pubblico lutto dall u- niversa cittadinanza; il Municipio gli rese riconoscente solenni onoranze nello Chiesa di S. Francesco, ove un egregio uomo che ebbe verso il medesimo reverenza di figliuolo (1) disse con parola eloquente e viva- mente commossa la lode di lui; l’ordine degli avvocati deliberò innalzargli un mezzobusto nel luogo stesso in cui aveva risuonato la sua vibrata parola. Con lui mancò l’ ultimo di quel triumvirato che sì nobilmente illu- strò con l’ingegno e con la dottrina il nostro foro. Nè egli fu solo vanto dell’ isola che lo vide nascere, ma di tutta Italia, che perdè in lui un sincero patriotta, un valentissimo giureconsulto. (1) L’Avv. Prof. Francesco Agnetta-Gentile. >< 4 Cd VA Ra. ì POTE È pen n mea i E } è RAR. n È ida IR 1 ui mE fp Ù î { | de r 2 » n DI & ; È iRx A 1 t nali ® (Pa s SaTa pe " Tre y = = x Ò ds i Ì ' rà x Ù I ISCRIZIONI 23 AD ONORARE LA VIRTÙ CITTADINA CHE SE STESSA SACRIFICA AL BENE COMUNE UN INTELLETTO SUBLIME ORNATO D’INCANTEVOLE PAROLA SEVERA SAPIENTE NON AVVILITA NON ABUSATA GIAMMAI IRRESISTIBILE NELLA DIFESA DEL GIUSTO E DELL’ONESTO IMPONENTE NEI CONSIGLI .DEL COMUNE DELLA PROVINCIA DELLA NAZIONE A PROTESTA SOLENNE CONTRO LE INSANE DESOLANTI DOTTRINE CHE IL SECOLO ACCAREZZA DISTRUGGITRICI DI OGNI UMANO CONSORZIO LA R. ACCADEMIA DI SCIENZE, LETTERE ED ARTI CELEBRA IN PIANTO LA MEMORIA DEL SOCIO DEFUNTO VINCENZO DI MARCO Socio Segretario Pror. GiusePPE CoPPpoLA 24 ISCRIZIONI Xaîpe par, © vaiwv Aldpng Aipapxe peidtgpors, Movodiv vai Bépiog xDdoc ’Opntoyeviv. Zoù y)etovor xépar davatov moto te YEpovtss Iralidog te mdtpyg d)nipa pdia vewy. “Atget cor ènuos xaibv tapà x7rov dya)pa. Oirep èîmyv Esîvoc duuata piitat spet. GIUSEPPE DE SPUCHES. ITEM LATINE REDDITUM | DIMARCE O SALVE, SUPERUM QUI DEGIS IN AULA, MUSARUM AC THEMIDIS GLORIA ORETIGENUM. "TE DEFLENT CANIQUE SENES, SIMUL ATQUE PUELLA, AUSONIDUM DEFLET MAGNANIMUMQUE GENUS. PULCHRA TIBI POPULUS MONUMENTA EXTOLLET IN HORTIS, ACCEDENS HOSPES VERBA ET AMICA FERET. Socius Prof. PascHaLis Prizzurus. ISCRIZIONI 25 VINCENZO DI MARCO VISSE XIV LUSTRI NELLA SANTITÀ DEI PIÙ NOBILI AFFETTI NEI QUALI CONGIUNSE LA PATRIA, ELA FAMIGLIA E L’ALTERA DEGNITÀ DI LIBERO ED OSSERVANTE CITTADINO. IL DÌ XXIV APRILE MDCCCLXXXI MORÌ QUAL VISSE CON LA PATRIA SUL LABRO E NEL PENSIERO CONL’'AMOREINEFFABILE DEI FIGLI SUOI DILETTI CON LA SPEME E LA FEDE IN DIO ONNIPOTENTE. ORATORE INSIGNE NON DI NOTE SONORE E DI LEZIOSI ACCENTI LA VENUSTÀ DELLA PAROLA ATTINSE ALLA LUCE ISTESSA E ALLO SPLENDOR DEL VERO CHE PIÙ CHE DIPINGERE SCOLPIVA. Socio Anziano Presidente GrusepPe DI MENZA n È (77 sl: 26 i ISCRIZIONI x VINCENTIUM DI MARCO VIRUM POLITIORIBUS LITERIS EQUE AC SEVERIORIBUS DISCIPLINIS EXCULTISSIMUM ITALICI FORI COLUMEN ET PRAECIPUUM ORNAMENTUM ACERRIMA INGENII VI, ANIMI INTEGRITATE ET MIRA ELOQUENTIA INTER CAUSARUM PATRONOS SIBI PRIMAS PROMERITUM QUI IN CORPUS ITALICI JURIS AFFABRE DIGERENDUM INTER AD ID ELECTOS JURISCONSULTOS POTIOREM OPERAM CONTULIT ACADEMIA PANORMITANA EGREGIUM SOCIUM PER OMNIA BENEMERENTISSIMUM SUIS DOCTISSIMIS ACROASIBUS ACADEMI&R FAMAM SUSTINENTEM SIBI LITERIS SCIENTIIS {AC CIVITATI EUM CONSULENTI EREPTUM DIE XXIV APRILIS MDCCCLXXXI IN SUI GRATI ANIMI ERGA TANTUM VIRUM MNEMOSYNON MERITA CUM LACRIMIS PROSEQUITUR LAUDATIONE. Socius Prof. IoseprH VAGLICA an LE COMUNI ORIGINI DELLE DOTTRINE FILOSOFICHE DI MICELI, DI MALEBRANCHE E DI SPINOZA E LORO CONFRONTO CON QUELLE DI GIOBERTI 6 di alcun positivista moderno Lettura del Prof. SIMONE CORLEO ALLA R. ACCADEMIA DI SCIENZE, LETTERE E BELLE ARTI nel dì 29 giugno 1882. Soci Onorandi, Mi sono indotto a farvi questa breve lettura per non mancare al do- vere di gratitudine verso la vostra squisita cortesia, con la quale me non chiedente avete nominato a vostro socio attivo, in surrogazione del compianto prof. Giuseppe Ugdulena. Però, debbo dirvi con lealtà (pria di entrare nel mio tema) che male avete scelto la persona per surro- gare l'illustre socio. L° assiduità allo studio era in lui cosa veramente portentosa. Mi diceva un giorno un suo vicino, che in qualunque ora della notte si alzasse e si mettesse alla finestra, vedeva sempre l’Ugdu- lena coi libri alla mano. È impossibile pertanto che in me troviate un uomo che gli venga almen da presso, se non lo pareggi. Nacque in Termini, patria di eletti ingegni, il 10 agosto 1818, e fu uno dei tre di quella illustre famiglia che cooperarono due volte nella loro modesta sfera alla liberazione del nostro paese. Non raggiunse, è vero, l’altezza del fratello maggiore Gregorio, famoso scrutatore di lin- gue e monumenti semitici. Pubblicò pochi scritti per le stampe, soli opuscoli, alcuni di dritto pubblico e naturale, altri sulla organizzazione della magistratura, altri sull’antica Costituzione siciliana. Fu professore 2 . DOTTRINA FILOSOFICA ordinario di Dritto costituzionale ed incaricato del Dritto internazionale nella nostra Università. Morì a Palermo, con cordoglio di tutti, il giorno 4 giugno 1880. , Ed ora entro difilato nel mio argomento. Vedete io vi ho preparato un lavoro critico storico, conforme alle indole di una dotta Accademia, ed agli studii filosofici che ho avuto sem- pre in predilezione. Ricercando le comuni origini di tre dottrine filoso- fiche, due del passato ultimo secolo, del nostro siciliano Vincenzo Mi- celi e del francese Nicola Malebranche, l’ altra del secolo antipassato, dell’olandese Benedetto Spinoza, io non avrò la pretensione di esporvi idee radicalmente nuove; ma spero mostrarvi in coteste tre dottrine la po- tenza logica de’ principii assunti; poichè ogni filoso fo che rigorosamente ragioni, è appunto quello che lo fanno essere i principii metodici da cui è partito. Tanto più vedrete questa potenza dei principii, col confronto ch’ io vi farò delle precipue loro dottrine con quelle di un illustre filo- sofo del secondo quarto del nostro secolo, Vincenzo Gioberti, e con quelle ancora di taluno frai moderni positivisti, il quale, forse egli stesso, men si crederebbe trovarsi d’ accordo nei punti principali con idealisti di quella tempra che ho citati. Come il nostro secolo ha ricevuto profondamente l’influenza di Em- manuele Kant (di che non tocca occuparmi in qnesto lavoro), così i due secoli anteriori sono stati invasi dall’influsso di due altri filosofi celebri. Renato Cartesio, l’autore dell’Algebra, e Guglielmo Leibniz, il fondatore del calcolo. Li cito con queste qualificazioni, perchè nell’ epoca nostra, in cui parecchi voglion ridere della metafisica, non niegheranno la qua- lità di uomini serii ai due, che metafisici in alto grado, sono stati pure i più insigni inventori delle discipline matematiche , la cui mercè fiori- scono oggi le scienze naturali ed esatte. La influenza di Cartesio non è tanto dovuta alle conclusioni dele suo sistema, quanto invece al principio metodico, ch’egli veramente non in- ventò del tutto (gli scolastici in forma implicita lo possedevano) ma lo chiarì ed applicò completamente. Qnesto principio è espresso nel famoso canone: Zo affermerò di ogni cosa ciò che è contenuto nella sua idea chiara e distinta. Il canone così concepito ha due parti, una psicologica, l’idea chiara e distinta debbo averla io : quindi io non ubbidirò ciecamente all’auto- rità degli altri; ma in me è d’uopo si faccia chiara e distinta nelle sue parti ogni idea, acciocchè io possa affermare o negare. La seconda è ideologico-ontologica. Ciò ch’ io vedrò chiaramente e distintamente nel- ba MICELI, MALEBRANCHE, SPINOZA 3 l’idea di una cosa, l’affermerò di essa, cioè realmente le compete : la misura ideologica, mia, subbiettiva , è la misura dell’ essere reale, del fuori di me, obbiettiva. Canone gravissimo, come ognun comprende: l idea chiara subbiettiva è il fondamento legittimo a tutte le asser- zioni obbiettive. E Cartesio ne fece l’applicazione subito, cominciando dal suo cele- bre entimema : Penso, dunque to sono. L'essere è contenuto chiara- mente nell’idea del pensare. — Non ho pensato sempre , ho cominciato a pensare; dunque una causa cì è stata che mi ha fatto pensare ed es- sere. L'idea di cominciare ad essere include l’idea di causa. — La causa prima, che ha fatto tutti cominciare ad essere, deve contenere tutte le perfezioni: è un'idea che vi si legge chiaramente, perchè niuno dà ciò che non ha; e tra queste perfezioni, principalmente l’esistere da sè, che è fondamento di tutte le perfezioni. Dunque l’Ente perfettissimo, al solo pensarlo, deve esistere; e così di seguito. Però , lasciatemi fare una sola e concisa osservazione. Deve esi- stere nella mente di chi così lo pensa. Ciò che nasce da un’idea chiara subbiettiva, non può essere che subbiettivamente obbiettivo. Verrà un giorno Kant a mettere in sodo il vero valore di tali argomentazioni. Ma come si ha cotesta chiarezza d'idee? Esamina Cartesio la loro origine e si accerta dell’esattezza della loro composizione, per poter ri- porre in esse il fondamento solido delle umane affermazioni? Niente af- fatto rigoroso nell’esigere la chiarezza psicologica dell'idea per poter af- fermare, non s’incarica di sapere come essa siasi formata tale, e molto meno se gli elementi, che la compongono, stieno esattamente insieme. Anzi egli, per isbarazzarsi della difficoltà di ogni ricerca a tal riguardo, va al concepimento delle idee innate, idee che esistono e sono chiare per Sè stesse appunto perchè nascono con noi. Qnì il punto della celebre discordia con Giovanni Locke , il quale, ammettendo pure il canone fondamentale che la base legittima di ogni affermazione sia la chiarezza della idea, si propone esaminarne l’origine. Egli crede che gli elementi di ogni idea sono nelle sensazioni, da cui la riflessione la ricava. Così egli sì fa fondatore di una scuola subal- terna, la scuola ideologica sensistica. Mentre al contrario Leibniz , ri- conoscendo con Locke che davvero i sensi sviluppin le idee, pure sta- bilisce che le idee sono per sè stesse, fan parte della monade spirituale, ed i sensi sono soltanto i canali, pei quali essi vengon su e si fan co- noscere. Questo breve e troppo noto ricordo storico mi ha servito, o signori, 4 DOTTRINA FILOSOFICA per farvi rilevare che in quel periodo, in cui l’autorità veniva abbattuta, un sol principio magno , il solo principio metodico, rimaneva da tutti ammesso, cioè, che l’idea chiara e distinta sia fondamento legittimo di ogni affermazione obbiettiva, pur non montando il come questa chiarezza psicologica si abbia. E ciò tanto più che i Lockiani, con tutto il loro buon volere, mancando il criterio per esaminare le idee finirono col non poter cavare dai sensi l’ origine di alcuna di loro : non della sostanza, non della causa, non dello spazio, non del tempo, non dell'unità, e via. Intanto che la scuola sensistica va a dibattersi nei suoi inani sforzi per trovare l’ origine e la giustificazione delle idee, e va fino a perdersi negando con Hume la loro realtà, a capo l’idea di causu, tre soli filo- sofi dopo Cartesio nel secolo XVII fan l’applicazione del suddetto di lui principio metodico, e sono Spinoza, Malebranche, Leibniz. Lasciate che io vi parli prima di quest’ultimo, il quale esercita una influenza più decisa nella filosofia non sensistica del secolo XVIII ed in gran parte del nostro. Leibniz prende di mira l’idea della sostanza, e nella sua idea chiara trova la necessità della continua azione. La sostanza non può mai tro- varsi allo stato di potenza, quel che è, è sempre atto. Non già sempre il medesimo e identico atto, intendiamoci. Leibniz trova nella sostanza, ch’egli chiama monade, la continua mutabilità degli atti, la cui ragion sufficiente è nella monade medesima. L'identità immutabile ed imma- nente di ciascun atto sostanziale, la necessità dell’aggregazione di pa- recchi atti sostanziali per avere le potenze, e la diversità continua degli atti collettivi, non è questa una dottrina che appartenga a Leib- niz : sarà piuttosto una delle caratteristiche fondamentali che i posteri troveranno nella filosofia di colui che a voi parla. Ad ogni modo, la dottrina, che il filosofo di Lipsia ricava dall’idea chiara e distinta della sostanza, è molto interessante : bisogna ch’essa sia sempre in atto, anzi in una seguela di atti, sempre nuovi e sempre continui. Questa è l'essenza della monade. « Quantum ego mihi rotio- «nem actionis perspexisse videor (ecco l'applicazione del principio dal- « l’idea chiara e distinta) consequi ex illa et stabiliri arbitror, dice Leib- « nizio (De ipsa Natura $ 9) receptissimum philosophiae dogma actiones « sunt suppositorum; idque ad eo est verum, ut etiam sit reciprocumj «ita ut non tantum omne quod agat sit substantia singularis, sed etiam d «et omnis singularis substantia agat sine întermissione, corpore ipso e « non excepto, in quo nulla umquam quies absoluta reperitur ». Ed al- trove (lettera II al P. Des Bosses:) « Nec mirum est, quod substantia se. MICELI, MALEBRANCHE, SPINOZA Ò «queevis infinitas exercet actiones ope partium infinitarum diversos « motus exercentium; cum queevis substantia totum quodam modo « repraesentet universum, etc. » In molti altri passi ripete queste sue idee; ho scelto i più chiari e più concisi. Or prendete, o signori, il principio metodico di Cartesio , che si può affermar di una cosa ciò ch'è contenuto nella sua idea chiara e distinta, o come dicevano prima gli Scolastici, nella sua essenza, avve- gnachè l’essenza è l’idea della cosa; unitevi l’applicazione fatta da Leib- niz alla idea della sostanza, la quale è necessariamente in atto, senza intermissione, e con infinita variazione e novità; riunite, io dico, questo metodo di filosofare e questa dottrina della sostanza (Cartesio e Leibnizio), tiratene quindi sino all’ultima le conseguenze, e voi avrete tal quale il parroco Miceli da Monreale. Ecco le principali di lui proposizioni, ch'io tolgo di peso dal suo Specimen Scientificum manoscritto da Benedetto Saverio Terzo, dolente di non potermi servire della bella pubblicazione, che pria di tutti ne ha fatto il nostro egregio Socio Prof. Di Giovanni, perchè in essa lo Spe- cimen, offerto ai lettori come un saggio, non è tutto intiero nella sua testuale orditura. Proposizione 8: « Ratio sufficiens cur intellectus admittat aliquid po- « tius esse quam non esse, esse hoc potius quam alio modo, est notio « distineta ipsius rei». Ecco innanzi tutto il principio metodico carte- siano: è la cognizione chiara e distinta della cosa, che fa sia ammessa nell’intelletto. La sostanza di ogni cosa e i suoi modi di essere si de- ducono dalla idea chiara e distinta della stessa. Miceli aggiunge, nella nota alla suddetta proposizione, essere stato Leibniz primo fra tutti a sta- bilire nella filosofia la ragione distinta. In tutte le sue Proposizioni e Dimostrazioni egli se ne appella al- l’idea, alla chiarezza di essa, clarum est, alla essenza ed ai predicati di ciascuna cosa, che son sempre l’idea, o almeno alla ripugnanza o non ripugnanza, la quale sempre si arguisce dalla convenienza, 0 dalla” lotta degli elementi dell’idea fra loro stessi. Ecco una serie di tali Pro- posizioni. Prop. 5: « Quod libet, quodivere est, debet habere suam essen- tiam et praedicata ». Prop. 6: « Ratio sufficiens cur res in se ipsa potius sit quam non sit, est ipsamet Essentia et proedicata ipsius ret.» Prop. 9: « Non repugnat dari rem, quin ab alio a se distincto et realiter conjuncto rationem sui ipsius sufficientem recepisset.» Prop. 11: « Repugnat dari rem sine ratione sufficiente intrinseca.» Prop. 14: « Omne verum ens 2 "a id 6 DOTTRINA FILOSOFICA ab aeterno est». Prop. 17: « Nihilum est cui nulla spondet notio ». Prop. 19: « Essentia realis et existentia identificantur.» Prop. 20: « Omne verum ens ab aeterno existit ». Proposizione gravissima, come bene scorgete. Ma l’Autore , nella Nota che vi fa seguire, aggiunge queste parole non meno gravi, riguardo al metodo di accettare le conseguenze, qualunque esse sieno, che derivino logicamente da’ principii: « Cae- terum in demonstrationibus hoc prae oculis habendum: utrum recte ex antecedentibus descendant, non autem utrum errorum fons sint et 0- rigo in sequentibus; sic enim recte cujuslibet propositionis, imo scien- tiae omnis praecluditur aditus ». Miceli sa il grave peso delle conseguenze che discendono dalle sue idee chiare e distinte; ma bisogna per rigor di logica accettarle, egli dice, altrimenti si preclude l’adito ad ogni sapere. E come tutto faccia derivare dalle idee, lo mostra la sua Proposi- zione 32: « In idea limitum idea partium continetur, seu quod idem est, undequaque finitum sine partium pluritate concipi nequit.» E così sempre di questo passo. i Camminando così d’idea in idea, e di chiarezza in chiarezza di con- cetti, senza mai entrare nel dubbio che la chiarezza per avventura sia vera prova di esattezza degli elementi che compongono ciascuna idea, ecco come il Miceli sia andato a raggiungere i due suoi predecessori Malebranche e Spinoza, i quali partirono dal principio metodico carte- siano, cioè dalla chiarezza dell’idea, l’uno applicandola alla idea di causa infinita, l’altro a quella di sostanza infinita, e togliendo per conse- guenza agli esseri mondiali ogni azione ed ogni sostanzialità loro pro- pria. Essi non sono che occasioni a Dio per agire col pensiero o col movimento, ovvero sono modi, stati dell’unica sostanza infinita, pensiero ed estensione di essa. Vi presenterò di seguito le Proposizioni di Miceli. Prop. 35: « Si datur ens reale, infinitum est.» Prop. 37: « Si datur ens reale, .repugnat quodcumque aliud ens reale ». Prop. 38: « Si datur. ens reale, omnes perfectiones in se ipso habet » (propo sizione tal quale cartesiana). Prop. 39: « Habet ergo omnes realitates ». E qui una nota interessante: « Quamobrem cum aliquid esse ab infinito sejunctum po- nimus, infinitam Dei perfectionem de medio tollere haud dubium est, <= Si erit enim ultra bonum aliquid, quod ipsi deest.» Nella stessa guisa hanno argomentato Malebranche e Spinoza, lo vedremo. Perciò egli conchiude —— ‘così la sua Nota: « Creaturis enim duo insunt, esse et carentia , posi- sE. tivum scilicet et negativum, ex quibus clare infertur, quo Esse cum | carentia ulterioris perfectionis creaturam constituat, seu carentiam ul- | terioris esse creaturarum essentiam efficit ». MICELI, MALEBRANCHE, SPINOZA 7 Ed ecco come egli passa all’azione continuamente nuova dell’essere reale ed infinito. Prop. 40: « Ens vivum est quod continuo agit; seu ratio continua agendi.» Prop. 41: « Actio identificatur cum ente vivo.» Prop. 43: « Es- sentia entis vivi consistit in eo quod sit semper nova ». É il principio stesso di Leibnizio sull'azione continua e sempre diversa della sostan- za, elevato però al grado infinito. E poi, Prop. 48: « Ens reale vivum liberum non est ad agendum vel non agendum.» L’ente reale vivo deve dunque sempre agire, cioè deve sempre creare, poichè ogni nuova azione limitata è per Miceli una creazione. La libertà gli rimane solo in questo senso. « Ergo cur as- sumat hanc vel aliam novitatem, seu agat hoc vel illo modo, non aliam agnoscit rationem intrinsecam quam ipsum agens.» È parte della di- mostrazione aggiunta alla sua Prop. 50. Intanto il parroco Miceli entra nel campo teologico e vuol provare che le tre persone della Trinità cristiana, non solo non ripugnano nel- l’unica essenza divina, ma non sono altro che tre stati necessarii, tre modi di agire della medesima, l’azione, cioè l’Onnipotenza; la cognizione del suo operato, cioè la Sapienza; e la compiacenza, ch'è il prodotto dei due, della cognizione del proprio operato, cioè 1’ Amore. E queste tre persone sono create; anzi le creature medesime non son altro che 1.ter- mini di una persona infinita, della Onnipotenza. Nella lunga Nota alla sua Prop. 58 espone chiaramente questi concetti: « Persona enim, non Essentia agens, sed agentis Essentiae ferminus dici debet, adeoque non intrinsecus' Enti, sed veluti extrinsecus.... dari tantum Trinitatem Personarum, Omnipotentiam scilicet, Sapientiam et Charitatem, et om- nes has personas creatas, imo creaturas omnes nihil aliud esse , nisi terminos unius Personae infinitae, nempe Omnipotentiae: nam cum haec infinita novitate consistat, Creaturae nihil aliud sunt, nisi fermini novi- tatis infinitae, idest Sapientiae în cognitione ejusdem novitatis ». Dopo parecchie Proposizioni su questi concetti, scende a coteste altre che sono quasi conclusionali. Prop. 70: « Ubi datur Ompipotentia, de- bet dari ratio agendi infinite nova.» Prop. 72: « Datur semper infinita novitas.» Prop. 76: « Summa justitia est operatio perfectissima cum co- gnitione talis operationis, et complacentia ejusdem ». Ecco la Trinità. Di- fatti, Prop. 77: « Summa justitia est vox, seu terminus, quae denotat Trinitatem.» E perciò, che cosa è il Mondo? Prop. 100: « Mundus ad spectabilis est determinatus status, seu participatio Omnipotentia ». È che cosa è l’ Anima? Prop. 117: «Tune ergo coepit existere Anima, 8 DOTTRINA FILOSOFICA cum coepit existere cognitio extrinseca » cioè la cognizione estrinseca del Mondo. Perciò nella lunga Nota alla sua Prop. 106 egli dice: « Mun- dum esse actiones Omnipotentiae se ipsas extrinsece cognoscentes, seu melius Omnipotentiam se ipsam extrinsece cognoscentem, faciem proinde Ompipotentis Dei utique intueri.» Notino, Signori, questo intuito della faccia divina. « ... Omnipotentia ita egit, ut se ipsam extrinsece cogno- sceret, tunc coepit existere Mundum; unde operis ab extra nomen sor- titur ». Perciò la sua gravissima sentenza che lo mette al posto stesso di Malebranche. Prop. 134: « Eadem indivisibilis actio, quae fit ab Anima, fit a Deo simul.» Ma è d’ uopo ora risalire a Malebranche ed a Spinoza; ed allora apparirà più chiara la comunità d’origine di essi due, e del Miceli. Il P. Malebranche adotta nella sua opera De inquirenda veritate il principio metodico cartesiano, cioè: « Harum omnium legum princi- pium est conservandum esse evidentiam in ratiociniis, ut veritas. sine erroris periculo retegatur.» (Lib. VI, parte 2, cap. 1). Or da questo principio dell’evidensa, cioè dell'idea chiara e distin- ta, cava due capitali dottrine: la visione in Dio, Lo divina causalità di tutte le azioni mondiali. Ecco testuali due dei principali suoi passi (Lib. VI, cap. 6): « Re- vocanda sunt in memoriam ea quae capite praecedenti dicta sunt scilicet, necesse esse Deum in se habere ideas omnium entium quae creavit, cum alioquin ea non potuisset producere, ac illum proinde videre om- nia illa entia, considerando perfectiones quae includit in :se et ad quas entia illa referentur. « Dio non potrebbe creare, se non avesse entro di sè le idee e le perfezioni di tutti gli enti da creare.» Sciendum est prae-. terea Deum mentibus nostris praesentia sua arctissime uniri; adeo ut Deus dici possit locus spirituum, quemadmodum spatium est locus cor- porum ». Unione intima della mente umana con Dio, ecco il secondo con- cetto. « His duobus praesuppositis, certum est (tutto giuoco di evidenza edi chiarezza d’idee) mentem id posse videre quod in Deo est quod re- praesentet entia creata, cum id sit. maxime spirituale, intelligibile, et menti praesentissimum. Mens itaque in Deo potest videre opera Dei, 3 dummodo Deus velit ipse retegere id quod in se habet, quod illa re- praesentet opera ». Così il P. Malebranche arriva subito alla teoria della visione in Deo, cavandola dall’idea della esistenza di tutte le perfezioni e cognizioni in Dio, e della intima di costui unione coll’anima. Miceli è andato più a- Fasc MICELI, MALEBRANCHE, SPINOZA ©) vanti, perchè, secondo lui, l’anima non è che la medesima cognizione limitata ed estrinseca dell’Ente divino, come abbiamo osservato sopra nella sua Proposizione 117. Eppure Miceli non vuole che si confonda la sua dottrina con quella della visione in Dio del P. Malebranche: lo dice espressamente nella Nota alla sua Proposizione 4. Quanto poi alla causalità, ecco come discorre Malebranche (Lib. II, cap. 3): «Omnes causas naturales non esse veras causas, sed tantum causas occastonales , et alias veritates quae ab iis sequantur, paucis probare operae praetium est... Vis movens corporum non est igitur in corporibus quae moventur, cum vis illa movens nihil sit aliud quam Dei voluntas. Verum enim vero, non modo corpora non possunt esse verae causae ullius rei, mentes etiam nobilissimae in eadem versantur impo- tentia. Nihil possunt cognoscere , nisi Deus illas illuminet ; nihil pos- sunt sentire, nisi Deus ipsas modificet; nihil possunt velle , nisi Deus ipsas versus se moveat... nullam esse connexionem necessariam inter voluntatem nostram, exempli gratia, movendo brachium, et motum bra- ‘chii, evidens est (è sempre affare di evidenza, notatelo bene, o Signori; il principio è sempre lo stesso). Movetur equidem, quando volumus il- lud moveri, ac proinde sumus causa naturalis motus brachii nostri ; sed causae, occasionales, quae non agunt nisi vi et efficacia voluntatis divinae». È la esagerazione all’infinito della idea di forza e di azione, è l’azione infinita che assorbe ed immedesima in sè ogni azione mondana. Tanto che, secondo Malebranche, Dio non potrebbe comunicare alle menti umane la facoltà di muovere i corpi; la quale varrebbe quanto quella" di creare, di annichilare, di essere onnipotente. L'argomento è semplicissimo ed è fondato sull’idea chiara. La cau- sa, per essere infinita, deve abbracciare ogni causalità, nè può esservi causalità che a lei manchi, o che in essa contenuta non sia. Dunque Dio è la causa universale di tutti gli atti ; il mondo corporale o spiri- tuale non è che occasione a Dio per agire, causa apparente del moto e del pensiero, ma il pensiero ed il moto son atti dello stesso. Dio. É l'argomento medesimo che ha maneggiato il Miceli, come l’abbiam ve- duto sopra nella sua Nota alla Prop. 39: «Quamobrem cum aliquod esse ab infinito sejuncetum ponimus, infinitam Dei perfectionem de me- | dio tollere haud dubium est, ertt enim bonum uliquid quod ipsi deest». Ma lo stesso argomento, prima del Malebranche e prima assai del Miceli, aveva maneggiato lo Spinoza. Anch’egli argomentava dai con- getti, cioè dall’idea chiara e distinta, come Cartesio. « Per substantiam intelligo id quod in se est, et per se concipitur, hoc est cujus concep- 3 10 DOTTRINA FILOSOFICA tus non indiget conceptu alterius, a quo formari debeat. (Prop. 1° della sua Etica, dif. 3). Si tratta sempre di concetti e d’ indipendenza di un concetto dall’altro. Cioè, concepire una cosa come indipendente da un’ altra, importa che realmente quella non dipenda dall’altra. Zo affermerò delle cose ciò che vedrò contenersi nella loro idea chiara e distinta. Conseguenze immediate di quella definizione della sostanza sono per Spinoza queste altre due. Prop. 7 ed 8: « Ad naturam substantiae pertinet existere. Omnis substantia est necessario infinita.» Egli nella Prop. 5 aveva detto: « In rerum: natura non possunt dari duae aut plures substantiae ejusdem naturae, sive attributi, quia eadem attributa , cum essentiam substantiae efficiant, eamdem efficiunt substantiam.» Quindi la conseguenza gravissima, ove sta racchiuso tutto lo Spinozismo. Prop. 414: « Praeter Deum nulla dari aut concipi potest substantia.» Spinoza è ben chiaro: esistere ed esser concepito è lo stesso. E dimostra, della stessa guisa del Malebranche e del Miceli, il suo assunto: « Cum Deus sit ens absolute infinitum, isque necessario existat, si aliqua substantia praeter Deum daretur, ea explicari deberet per aliquod attributum. Dei, cum nempe substantia infinita habeat attributa, sicque duae substantiae ejus- dem attributi existerent, quod per Prop. 5 absurdum est: adeoque nulla substantia extra Deum dari potest, et consequenter non etiam con- cipi». i Da questa dottrina due altre conseguenze immediate: il pensiero e l'estensione son due attributi di. Dio (Etica Parte II) Prop. 1: « Cogi- tatio attributum Dei esi.» Prop. 2: « Extensio attributum Dei est ». Nè Malebranche, nè Miceli avrebbero avuto il coraggio di dir que- sto sì apertamente. Ma se tutte le azioni del mondo, pensiero e movi- mento, sono azioni divine (è la dottrina di Malebranche), perchè non dire che il pensiero e l’ estensione son attributi di lui? Che cosa è la sostanza, altro che l’azione, secondo Leibniz ? Se le cose mondane non hanno azione propria, non sono propriamente sostanze , ma accidenti. E Miceli l’ha detto sotto altra forma : « Limitatum esse potest tantum phenomenon rei et ejusdem superficies... quae phenomena et superficies nihil aliud sunt, nisi ipsa vera Essentia et substantia (unisce Essenza e Sostanza) ab extrinseco limitata a carentiis, scilicet Enti vivo super- venientibus (Nota alla Prop. 32).» Ed altrove più chiaramente: « Crea- turae nibil aliud sunt, nisi termini novitatis infinitae (Nota alla Prop. 58).» E nella Nota alla Prop. 106 ripete in varii modi che il mondo nient’al- tre è che la carenza, il difetto, unito all’azione divina conoscente estrin- secamente sè. stessa. i MICELI, MALEBRANCHE, SPINOZA di Dunque, se le origini metodiche furon comuni, penetrati i termini che involgon le rispettive idee, Spinoza, Malebranche e Miceli, presso a poco, debbon venire alle stesse conclusioni. Tutta la sostanzialità , tutta l’azione, tutta la causalità, è di Dio. Il mondo stesso è Dio limi- tato dai termini, cioè dal nulla, dalla carenza di ulteriore realtà, è Dio e null’altro, perchè il nulla che vi si aggiunge, è sempre nulla. Fra i tre, quello che lo dice più chiaramente è Spinoza, e men chiaro Male- branche. i Quindi si comprende il giudizio che in breve sentenza aveva dato nel passato secolo la Sorbona sugli scritti del nostro Miceli, i quali le erano stati inviati dai nemici del Seminario di Monreale. Io ancora gio- vinetto, trovai non iscancellata la memoria di quel giudizio nel Semi- nario di Mazzara, ed era ‘questo: Nihil novi, Spinosimum sapit: quel medesimo giudizio che la Sorbona aveva pure emesso sopra un altro filosofo non meno acuto, nè meno panteista del Miceli. La dottrina pan- teistica, antica quanto la stessa filosofia, — basta vederla nell’India senza possibilità di cronologia — è tornata in mezzo pur sempre, e nelle stesse scuole cristiane, non ostante il dogma della creazione che vi è diame- tralmente opposto. Anzi si è cercato di porre in luce filosofica quel medesimo dogma della creazione, immedesimando la sostanzialità e l’ azione divina con quella delle creature, e riducendo la loro sostanzialità ed azione allo stesso atto creativo. Gittiamo uno sguardo sulle idee filosofiche, ancora non del tutto tramontate, dell’illustre Vincenzo Gioberti. Egli, teologo profondo. ed erudito quant’altri mai nella storia filoso- fica, nella ecclesiastica e nella civile, sa benissimo misurare i termini, ed è ben raro non trovarvi una sottigliezza teologale o filosofica che ricopra il fondo delle sue dottrine. Pure, anch'esso ha per unico principio metodico l’ evidenza dell’ I- dea. «La nota ideale, egli dice /ntroduzione allo studio della filoso- fia, Lib. I, cap. 3) che, equivalendo alla dimostrazione, ne fa le veci, è l'evidenza. L’evidenza è l’intelligibilità delle cose; e siccome l’Idea è l’intelligibile, ella riesce evidente per sè medesima. Le altre cose sono evidenti in virtù dell’Idea, e partecipano alla intelligibilità che ne deriva, e di cui ella è fonte unica, suprema ed universale. L’evidenza ideale è dote intrinseca e non estrinseca, luce propria e non riflessa, ecc...... Ella è quindi insignita di una necessità obbiettiva , assoluta , spettante alla propria natura, non all’intuito che la contempla, non arguisce nulla di subbiettivo (e qui Gioberti si oppone a Cartesio, anzi lo bistratta , 502) DOTTRINA FILOSOFICA x perchè esso prese l'evidenza come dato psicologico: è quistione tra on- tologismo e psicologismo per ispiegare la ragione e la natura della evi- denza, ma ambidue pongon le loro fondamenta in essa), nè risulta, con- tinua Gioberti, dalla struttura dello spirito umano, secondo i canoni della filosofia critica. L’evidenza non esce dallo spirito, ma vi entra e lo penetra: vien dal difuori, non dal didentro, l’uomo la riceve, non la produce, e ne è partecipe, non autore. Ella scaturisce dalle viscère del suo oggetto, è la voce razionale con cui l’Idea attesta la propria realtà, è l’atto medesimo con cui questa pone sè stessa al cospetto del contem- plante ». Gioberti, per quanto ripudii la subbiettività dell’evidenza e dell’Idea, tanto più la rende identica colla realtà. E qui ricorre al ripiego consueto della limitazione, della privazione, della subbiettività negativa, e simili; poichè tutto il positivo della conoscenza e dell’intelligibile è divino. In questo punto Malebranche e Miceli lo avevano preceduto, con- servando al mondo la parte negativa, il termine, il limite, la carenza di ulteriore perfezione. « L'esistenza è il termine estrinseco dell’ atto erea- tivo dell’ Ente» diceva Gioberti (Libro sudetto, cap. 4). E più chiara. mente nella Nota XVII al capit. VII: «Tanto è lungi che l’idea divina sia negativa, che anzi il solo positivo, conoscibile, dell’ uomo, si con- tiene fontalmente nell’idea divina e deriva da essa. Fu già avvertito che l’idea dell’infinito è positiva, e quella del finito è negativa. Ora dicasi lo stesso delle altre. Le idee di ente, causa, sostanza, legge e simili , applicata dal pensiero riflessivo alle creature, sono veramente negative, perchè sono negazioni , o per dir meglio, limitazioni delle stesse idee prese in modo positivo e assoluto, cioè in quanto emergono dall’intuito di Dio, e sono soltanto applicabili all'Ente increato. Così l idea gene- ralissima di esistente é una negazione o limitazione dell’ idea di Ente.» Solo Spinoza non fa di queste sottili distinzioni, di questi miscugli di Dio e nulla, di essere e limiti; poichè egli, non ritenuto da alcun le- game teologico, è esplicito: il pensiero e l’estensione in tutta la loro va- rietà sono attributi della medesima sostanza di Dio. E son parimenti per Gioberti sostanzialità del medesimo Dio ; poi chè l'Ente, affacciandosi, giusta la celebre di lui similitudine, per | a--@ nello della creazione, diviene l'esistente. Difatti la formola pur celebre, Ente crea lesistente, è, secondo Gioberti, un vero giudizio, di cui sog- getto è l'Ente, attributo l'esistente, ed il verbo crea funge l’ ufficio di copula, cioè di mezzo d’identificazione relativa tra i due termini. « Come | Ce MICELI, MALEBRANCHE, SPINOZA 13 il soggetto della formola ideale, dice Gioberti, libro I, cap. 4 (l Eute) contiene implicitamente il giudizio l’ Ente è, così il predicato (creante l’esistenze) contiene un altro giudizio le esistenze sonoînell’Ente. Impe- rocchè, siccome col predicato si afferma esplicitamente che le esistenze sono dall'Ente come da causa prima, ci si dichiara altresì per modo im- plicito che le esistenze sono nell’Ente come in sostanza prima ed asso- luta». Onde il filosofo torinese è costretto lasciare alla esistenze la so- stanzialità secondaria e relativa, mentre la loro sostanzialità prima ed assoluta l'hanno tutta in Dio stesso. Con questa distinzione, sembra salvarsi alle esistenze una sostanzialità propria di secondo grado, cioè fenomenica ; ma il fondo poi è , che in assoluto la loro sostanzialità è quella di Dio. Anche rispetto alla causalità Gioberti è astretto a riconoscerla tutta in Dio, accettando, benchè con termini diversi e più misurati, la dot- trina del Malebranche e del Miceli. Egli infatti dice che la creazione del- l'esistente può assimilarsi alla creazione de’ pensieri per parte dell’ani- ma, ed in generale alla creazione dei fenomeni e dei modi di essere, i quali tutti vengono pure dal nulla. Parlando infatti (Ivi, Lib. I, cap. 4) della oscurità del concetto di creazione, viene a dire così: «la stessa oscurità si trova nel capire la sola efficienza dei fenomeni, giacchè la produzione dei fenomeni, o sia modi delle cose, é pure una vera crea- zione». Or se crear le sostanze e creare i fenomeni è lo stesso, la cau- salità creatrice si riduce o ad una sola trasformazione di elementi, poi- chè i fenomeni non sono che risultamenti e composizioni diverse di e- lementi, ovvero nel senso spiritualistico, ch'io dico esagerato, sono atti interni di una sola e medesima sostanza. Pertanto il concetto di crea- zione, per dover essere comune anche ai fenomeni secondo Gioberti , deve battere tra una di queste due: o trasformazione della composizione di elementi, o piuttosto emissione di nuovi atti di una sola sostanza. Laonde Miceli attribuisce la limitazione dell’ atto creativo sempre nuovo ai soli fenomeni, i quali null’ altro sono che la stessa vera es- senza e sostanza limitata esternamente dalle carenze sopravvenienti al- l’Ente vivo: « quae phenomena et superficies nihil aliud sunt, nisi ipsa vera essentia et substantia ab extrinseco limitata a carentiis, scilicet Enti vivo supervenientibus (Nota alla Prop. 32). E Malebranche riputava incomunicabile da Dio alle menti la facoltà di muovere i corpi, perchè questa val tanto, quanto la facoltà stessa di creare, di annichilare , di esercitare l’ onnipotenza (De inquirenda veritate , Lib. III, cap. 3). Produrre i fenomeni è lo stesso che esercitar l’ onnipotenza e creare. 4 14 DOTTRINA FILOSOFICA Perciò il pensiero e l’ estensione son due veri attributi dell’ unica so- . Stanza divina, secondo Spinoza. Epperò Gioberti con Malebranche ritiene che la causalità vera sia in Dio, causa prima. Dio però, egli soggiunge, non solo sa fare la so- stanza dell’ atto, ma anche sa farne il modo , se deve essere umano, lo fa umano. Io non ho la pretesa di dire che le dottrine di Gioberti sieno in conclusione quelle stesse di Spinoza, o di Malebranche , o di Miceli. Ma solo ho voluto notarne alcuni punti identici sia nelle origini, sia nelle illazioni, per dimostrare che, partendo dall’evidenza, dalla lucidità dell’ idea come base inconcussa, sia dall’ evidenza psicologica ch’ è la cartesiana, sia dalla ontologica che si crede intuitiva ed obbiettiva in- sieme, senza punto esaminare donde e perchè essa venga, senza ana- lizzare gli elementi di ciascuna idea, per quanto lucida ed evidente, al- l'oggetto di conoscerne col criterio dell’identificazione integrale il valor vero degli. elementi singoli e del tutto ch’essi compongono; si è sempre nella necessità di toccare presso a poco conseguenze punto tra loro lon- tane, e solo per sottigliezza di apparenti distinzioni riputate diverse. Ma, pria di metter termine a questo mio discorso, permettete, o Signori, ch'io introduca il mio sguardo in un campo, ove certo niun di Voi crederà che si possan trovare principii identici a quelli già accen- nativi, e quindi conclusioni a un di presso simili. Parlo del campo del ‘Positivismo moderno, nel quale predomina, a detta stessa de’ suoi se- guaci, il sensismo, e come proponimento indiscutibile il rigetto di ogni Metafisica. Eppure, o Signori, i Positivisti moderni non sono in tutto e per tutto gli eredi del sensismo dei due secoli passati: infatti essi non sono punto ideologi, nè hanno affatto l'intenzione che i sensisti di allora aperta- mente mostrarono, di voler cioè esaminare le idee come fondamento di tutti gli umani giudizii e del sapere. Che se quelli Ideologi non ebbero, come dissi sul principio, un criterio per condurre a buon fine il loro scopo, e perciò ruppero nello scetticismo negando mano mano la realtà delle idee principali di sostanza, di causa e di parecchie altre corre- lative e dipendenti, i Positivisti al contrario, che l’esame di coteste idee proibiscono, perchè puzza di metafisica, non han potuto pure spogliarsi del bisogno, a qualunque ragionatore indispensabile, cioè di servirsi delle idee di atomi, di cause, di forze, di moto, di tempo, di spazio, ed altre simili, senza cui nissuna scienza naturale può esistere. Non potendo adunque privarsi di tali idee, e non volendo esaminarle da buoni MICELI, MALEBRANCHE, SPINOZA do Ideologi per non evaporarsi nelle così dette astrattezze della metafisica, i Positivisti prendon le idee come stanno in piazza, senza esame al- cuno, e di esse si servono. Così han fatto Compte, Littrè, Darwin, Spen- cer, Nill, Bain, Haeckel, e tanti altri dei maggiori. Quanto a dire , si affidano anch’ essi alla luce della comune ed abituale evidenza, ed in virtù di essa, senza esame nè dubitazione alcuna, le accettano. Ecco pertanto i Positivisti schierarsi anch'essi tra gli Evidentisti ; e quindi non deve recar meraviglia ch’essi pure alla loro volta dogmatizzino , e che talvolta (voglio restringermi al mio tema) si trovin d’accordo in pa- recchi punti col nostro filosofo monrealese, con Malebranche e con Spi- noza, cioè, intendiamoci, col fiore della metafisica, ch’essi ripudiano. Innanzi tutto, onorandi Socî, Voi vi dovrete sorprendere di trovare in Miceli una proposizione gravissima , che lo fa perfettamente amico dei Sensisti del suo secolo, e dei Positivisti del nostro. Egli crede che il principio di contradizione, il fondamento di tutta la sapienza metafisi- ca, o il principio de’ principî, sia vero non in sè e per sè stesso, ma perchè tale ce lo dimostra la esperienza esteriore ed interna, e che non sia altro che un principio relativo e del tutto subbiettivo. «Jam vero (Nota Prop. 4 del sudetto Specimen), cognitio principii, quod contra- dictionis appellant philosophi, interna externaque innititur experientia, externa, quia numquam quis rem aliquam simul esse et non esse expertus est; interna, quia numquam quis intrinsecus sibi persuadere potest, aut fingere rem aliquam simul esse et non esse.» Tutto è effetto di esperienza esterna ed interna, ed aggiungo espe- rienza negativa, perchè niuno ha trovato in fatto, o può immaginare che una cosa sia e non sia allo stesso tempo. Quindi Miceli lo chiama prin- cipio relativo e non assoluto. Indi segue: « prasertim quia omnes hu- Jus principil patroni, etsi terminis enunciaverint absolutis ut primum, tamen veritatis subjectivae principiùm agnoscerunt, non obiectivae, sci- licet sensus hujus propositionis ipsis est. — Impossibile intellectui vi- deri idem simul esse et non esse». E conchiude la sua Nota dicendo che il principio della contradizione è una confusa cognizione dello stesso primo principio di esistere, cioè di Dio. Ma in questo concetto, come dissi, l’ Autore protesta non voler essere assomigliato a Malebranche , che crede tutti i principî da noi intendersi nel Verbo divino. Ecco adunque che il fondamento dell’Idea, da cui poi vien tutto il resto, è per Miceli tutto sperimentale e relativo, non altrimenti che lo direbbero i Sensisti ed i Positivisti. Or vediamo con questa comunità di principio metodico , l'evidenza 16 DOTTRINA FILOSOFICA sperimentale delle idee, a quali conseguenze identiche, se non altro nel fondo ultimo, debbano i Positivisti venire. Essi han fatto proposito di non ammettere alcun ente che non si vegga e non si tocchi, per lo meno naturale. E sia pure. Ma è impos- sibile che non s'’infiltrino in questo oggetto della loro scienza le con- suete idee metafisiche, lucide per sè, ammesse da tutti, quelle di causa, di forza, di tempo, di spazio, e senza pur volerlo nè saperlo, anche quella di sostanza. Per loro il primo canone è questo: Non esistono spiriti, non esi- ste che la materia, o la forza universale. Perciò il pensiero e l’estensione sono la stessa cosa, sono due pro- prietà del medesimo essere. Spinoza non ne dovrebbe essere sconten- to, se potesse udirle. Ma Spinoza chiamava Dio quest’unico essere, cui competono i due attributi, estensione e pensiero. Invece i nostri Positivisti dicono che quest’essere è la materia o la forza universale. Ma che monta? È questione di puri nomi. Il fondo è perfettamente lo stesso. Infatti, che materia è? Materia eterna, infinita, indivisibi- le, da noi soltanto individuata per mezzo della mente. Lo stesso della forza. Eccovi subito entrate le idee di tempo e di spazio, di unità e d’in- divisibilità. Non sono esse idee metafisiche ? I Positivisti, a loro insa- puta, sono in piena metafisica. Ma in quale metafisica? In quella , le cui idee non sono esaminate, sono anzi tanto più evidenti, quanto più son volgari e comunemente accette. Sarà forse oggetto di sensazione l’eternità della materia, la sua in- finità, la sua indivisibilità ? La materia è eterna, dicono a coro i Positivisti, perchè il fatto prova che nulla si genera dal nulla e nulla si distrugge, ma tutto si rinnova nelle continue trasformazioni e svolgimenti. — I Positivisti non sanno che il nostro Miceli conosceva pure questa dottrina e se ne serviva a fondamento delle sue dimostrazioni. In una lunga Nota alla Prop. 11 del detto suo Specimen egli sostiene che un accidente non può esser causa di un altro, perchè nulla ex integro si genera e nulla sì distrugge (sono i termini stessi dei nostri moderni), che perciò noi attingiamo coi sensi gli accidenti e non l’essenza delle cose (dottrina carissima ai Po- sitivisti: l'essenza delle cose è inscrutabile); che l’accidente non sia qual- che cosa distinta dalla sostanza, ma la di lui essenza consiste nella /i- mitazione (cioè nella carenza di sostanza) dottrina accetissima , dice Miceli, di parecchi filosofi. MICELI, MALEBRANCHE, SPINOZA 17 Ma è più grave la dottrina della unicità della forza, dalla indivisi- bilità e indistinzione fondamentale della materia, che la rende sostanza unica, unico essere contornato o limitato d’infiniti e continui accidenti. In un recente lavoro del prof. Roberto Ardigò sulla [ndividualità nella filosofia positiva pubblicato sulla Rivista di filosofia scientifica num. 1, ‘trovo questa differenza tra l’infinità ammessa dal metafisico e quella del Positivista: «1° Il metafisico vede l’infinità nel dato concreto; vede in esso l’infinità il Positivista. Ma le due dottrine sono affatto diverse come affatto diverso è il senso che l uno e l’altro danno alla parola in- finità. L’ infinito del metafisico è ciò che trascende la natura e la cogni- ziene dell’uomo (ecco tutto il cardine del male). Quello del Positivista in- vece è lo stesso naturale e lo stesso conoscibile. (In somma è la materia stessa — l’antico e moderno Ateismo, l'antico e moderno Panteismo fusi insieme — questo stesso mondo è Dio, perchè è eterno, infinito , e quel ch'è più, sotto la scorza della divisibilità, è indistinto ed unico essere). Infatti: 2° «Le parti ultime, continua l’Ardigò, che, sarebbero i concreti singoli del metafisico (noi diciamo gli atomi, le monadi, gli elementi) nella filosofia positiva sono la materia indistinta, od omogenea ed identica; sicchè non vi sì avrebbero le distinzioni fondamentali delle loro essenze individuali diverse le une dalle altre. 3° L’individuo, come tale, non esiste secondo il Positivista. E non è (notino bene) che un con- cetto della mente corrispondente a certi rapporti delle cose. «Or ecco adunque . . . in che modo una cosa la concepiamo come una individualità, e siamo necessitati a concepirla come tale. Quando cioè la projettiamo nella realtà, ossia in un punto d’intersecazione delle linee del tempo e dello spazio ». Ecco redivivo Kant tra i Positivisti , siamo noi che projettiamo nel tempo e nello spazio la materia indistin- ta, e ne facciam venire il distinto e l’individuo; ma essa in sè è indi- stinta, unico essere. Spinoza, Malebranche, Miceli, non potrebbero re- starne col broncio, purchè si acconciassero a mettere il nome di mate- ria, (poichè è tutta quistione di nomi) a quello ch’ essi chiamano Dio, Ente vivo, sostanza o causa prima. Questo mi spiega, perchè uno de’ maggiori Positivisti del nostro tempo, Ernesto Rènan, sia andato in Amsterdam a leggere l’elogio di Spinoza nel costui centenario. Spinoza non è discaro ai Positivisti , come non lo sarebbero Malebranche e Miceli, purchè sotto il nome di Dio volessero essi intendere il Dio materia, la materia eterna, infinita, unico ed indistinto essere. Chiamatelo come vogliate, purchè il fondo 18 | DOTTRINA FILOSOFICA sia questo , che tutta l’azione del mondo che osserviamo sia d’un ente solo , eterno, infinito, senza parti. Eccovi la dottrina ultima, ove si accordano, con sottili distinzioni o senza, tutti quei filosofi che fan capo dal dogmatismo dell’ evidenza , dalla lucidezza spontanea dell’Idea, senza aver la voglia di esaminarla, nè un esatto criterio per integrarla nelle sue parti. Conchiudo col dirvi, che il fare questa dimostrazione critica è stato appunto lo scopo della mia presente lettura; e dell’ attenzione che mi avete sì gentilmente accordato Vi rendo grazie. | 2 4 È l'EP) MITA Vento gii atri sf SPA s ° n TAMIL NE SIOE. ci PIE Mal da: ala DA pd ‘ ; . Da JA N FA ri î 4) Di =, » . - su . 4 y = ® ì è F = ci È * ” DI * ) Ul . e ) È » « È »® / @ } Ù IL DIRITTO E LA MORALE DELL'ODIERNO POSITIVISMO DISCORSO del Socio Attivo Avvocato Giovan Battista RUFFO letto nell’adunanza del 26 Maggio 1883. Allontanatomi per la pratica giurisprudenza dallo studio della filosofia del dritto, ho creduto per poco ritornarvi sorpreso dalle pretensioni di una scuola, la quale, rinnegando lo studio della metafisica, intende rinnovellare le legislazioni e le istituzioni politiche del mondo distruggendo ogni idea pura del diritto. Io intendo, o signori, parlarvi della dottrina della evo- luzione che invade la psicologia e la fisiologia, le scienze morali e quelle naturali, ed accettando un sistema dell’intutto materialista e sensuale fa dipendere il diritto e la morale dall’espressione animale. Anche le anti- che dottrine orientali nel sistema Vaishesika, di cui l’autore è Kanadà, ha una fisica o una filosofia naturale che ha la pretensione di spiegare il mondo per atomi, quanto è a dire, con linguaggio moderno, con delle molecole semplici e indecomponibili, che in virtù della loro propria na- tura e di certe leggi che sono loro inerenti, entrano in movimento , si aggregano, formano i corpi e il nostro universo. Queste stesse: teoriche, che si insegnano negli’ scritti di Keechel e compagni, fecero la loro apparizione anche in Grecia: se non che all’ato- mismo di Democrito è stato oggi sostituito quello del materialismo, ed ulti- mamente quello del monismo; ai dettagli romantici della filosofia greca d’indole meridionale sono state sostituite, dalla lunga schiera degli evolu- zionisti, altre ipotesi morbose generate dalla melanconica speculazione dei filosofi nordici, ma la teoria è sempre la stessa. L’atomismo non incontrò ostacoli nelle superstizioni e nelle credenze dei Greci antichi, ma fu confu- 2 IL DIRITTO E LA MORALE tato dalla scienza e sepolto dal genio indipendente e scientifico in quella stessa terra ove germogliarono. Anassagora, il naturalista, assunse il primo a dimostrare l’assurdità dell’atomismo e la evidenza di una causa intelli- gente ed estranaturale desunta dall’armonia dello universo e dalle facoltà dell’ uomo. Quei due grandi genî poi di Platone e di Aristotile fecero tacere l’audacia di quelle dottrine dissolventi del diritto e della morale. La lotta però è perduta nel medio evo, e nei tempi moderni sembrava finita grazie ai progressi della psicologia e della ideologia, ma la questione dello spiritualismo e del materialismo sembra che non debba cessare che con l’uomo; ed oggi, mettendo da parte ogni studio di filo- sofia morale e di pura metafisica, sì crede dedurre dall’anatomia e dalla struttura fisica ogni concetto di diritto e di morale, dal sensismo ani- male ogni idea del buono, del bello, del vero, del giusto. Anche prima di questa scuola le dottrine del Bentham e del Roma- gnosi avevano cercato di alterare i principî puri del diritto e della mo- rale, ma le conseguenze non erano così funeste come le teoriche degli evoluzionisti. Anche Bentham aveva scritto che ogni azione umana per non ren- dersi indifferente doveva tendere alla ricerca del piacere ed alla fuga del dolore, e che l’unico principio delle determinazioni delle umane azioni doveva essere quello di accrescere la propria felicità. Questi principî sono consimili a quelli di Epicuro; ma potrebbe, o Signori, darsi una scusante a questi teorici, poichè l’umanità sente il van- taggio dell’ individuo seguendo i dettami del diritto e della morale, che troppo spesso sono quelli del sacrificio proprio e del dolore volontario. La coscienza degli uomini ha poi moralmente riconosciuto che al di là del piacere esiste una norma di bene assoluto, alla quale regola deg- giono conformarsi le azioni dell’uomo, trascurando le quali non si può conseguire che un diletto consumatore, causa dei vizii e delle angoscie di una società che voglia reggersi per il sentimento dell’egoismo e del- 2 l'interesse materiale. » Anche Romagnosi con diversità di linguaggio accolse il sistema della scuola utilitaria. Egli ritenne, che il diritto, come scienza, non sia altro che la cogni- zione sistematica delle regole moderatrici degli atti umani, derivate dai rapporti reali e necessarî della natura per ottenere il meglio ed evitare il peggio; che sia da respingersi la distinzione tra diritto e morale, e che ogni nozione di giustizia si costituisca in unica formola , il bene di sè stesso; giacchè l’uomo non si può muovere che in vista solamente del È DELL'ODIERNO POSITIVISMO 3 proprio vantaggio, ed operare indipendentemente della utilità nostra per- sonale è un’uscire dalla individualità propria, un torto che si faccia a se stesso , ed è impossibile che l’ uomo possa determinarsi ad un’ azione fuorchè per le spinte dell’amor proprio che si assume come volontà ge- nerale di star meglio che si può. Romagnosi materializzava quindi il diritto e la morale; nè sapendo come conciliare le disarmonie degl’ in- teressi individuali, suppose che dall’urto scambievole dell’amor proprio di ciascuno individuo ne possa nascere la temperanza e la moderazione scambievole; ma non si avvedeva che gli uomini sono guidati da spinte più o meno prepotenti, ed ajutati nei loro intenti da circostanze più o meno propizie, e ch’era impossibile ricavarne l’armonia sociale; non si av- vedea che l’amor proprio del povero senza una legge morale non poteva equilibrare quello del ricco, e del debole quello del potente; che affidarsi alle spinte individuali è lo stesso che credere che le forze di un uomo estenuato possano lottare con quelle di un robusto atleta: tra gli urti scambievoli degli uomini non guidati da altro principio che dalla spinta dell’utile e dell’amor di sè stesso, non rimarrà superiore se non il po- tente che schiaccerà il debole; e quando ciò avverrà, o signori, noi avremo legalizzato l’odio delle classi tra di loro e l’indifferenza che il ricco potrà risentire pel povero, e l’ odio e l’ invidia che il miserabile potrà covare contro l’ individuo opulento. Ecco quale sarà il risultato pratico di co- desta dissennata ed iniqua dottrina. Il potere di giustizia, anzichè servire a tutelare la pace e le sostanze dei cittadini, servirà a dare sfogo alle pas- sioni dei pochi, cui la fortuna ha arriso per dare lo spettacolo della de- pravazione. Le dottrine del Bentham e del Romagnosi sembravano decadute, ma desse sono rianimate da novelle scuole materialiste che hanno alterato e peggiorato le teorie stesse di quei sommi filosofi. Schopenhaver in- segna che l’idea del dovere deve disparire dalla morale. Voi vedrete un Buckner che non si ritiene dal proclamare il principio: che tutto è per- messo all’uomo per soddisfare le sue naturale inclinazioni. La missione della moralità non sta in Dio, nemmeno nell’ottimo, ma nei capricci del- l’uomo. I misfatti ed i delitti sono fenomeni naturali, conseguenze ne cessarie di cause irresistibili e di tale necessità quale è il giro della terra alla sua orbita. L’idea del bene non ha verun valore assoluto. Amore ed odio, generosità e tradimento, ipocrisia, assassinî, furti, ogni specie di delitto o di misfatto sono le conseguenze necessarie di certe combinazioni del cervello. Il matrimonio non è che un'istituzione acci- . dentale, e la morale che prescrive;—tu non commetterai adulterio, è una 4 IL DIRITTO E LA MORALE legge arbitraria, la pratica degli aborti è un diritto ragionevole è natu- rale dei genitori. In qualunque modo si conduce l’ uomo, ogni azione è.indifferente per la sua coscienza purchè eviti ogni conflitto colla società e colle leggi dello Stato. . _ Per Feverbach V esistenza sensibile dell’ uomo è la sua vita tutta intera. Ciò che l’uomo mangia, è tutto ciò che egli è. Moleschott ci insegna che lo spirito umano nei suoi fenomeni non è altro che un processo naturale, che non possedendo una vita intima che gli sia propria, la libertà umana, il pensiero libero è un controsen- so. L'ignoranza solo può parlare di libero arbitrio, di coscienza, di re- sponsabilità morale delle nostre azioni. Per. Voght il bene come il male deriva dalla costituzione della na- tura umana che non dipende dall'uomo. La responsabilità o la imputabi- lità, come la morale e la giurisprudenza ci vogliono imporre, non esistono in veruna guisa. La responsabilità non esistendo nell'uomo, le parole di colpa e di peccato non hanno verun senso. Queste aberrazioni dottrinarie sono spiegate con più vigore nelle teorie della evoluzione e del trasformismo di Darwin e di Erberto Spencer, e di queste a preferenza ci occuperemo nella seduta di oggi. Voi conoscete, o signori, che il Darwin nell’opera Origini dell’uomo ‘e la selezione sessuale, ha*creduto di risolvere il problema del diritto e della morale, come se si trattasse di una questione di fisiologia compa- rata, facendola dipendere dalle conoscenze che lo studio sugli animali inferiori può apprestare alla scienza sulle più alte facoltà fisiche dell’uomo. Egli decisamente ha creduto che l’origine dell’uomo scaturisca da qual- che tipo di scimia antropoide. Non entreremo in questo ginepraio fan- tastico e dommatico: chi ama penetrarvi, potrà ricorrere agli studì fatti sull’obbietto dal prof. signor Giovanni Canestrini, il quale con un entu- siasmo che non possiamo dividere, ha fatto l’intera esposizione della teoria della evoluzione, da servire come introduzione alla lettura delle opere del Darwin. Noi non sappiamo comprendere questo momento propizio nella storia della creazione supposta da Darwin ed accettata dai suoi se- guaci, in cui le razze scimiesche siano trasformate nell’umana schiatta; noi non sappiamo spiegarci come si possa dagli evoluzionisti distrurre l'immenso distacco che separa l’animale più intelligente, dall'uomo anche bambino, e come si possa nella scala zoologica degli esseri fare il gran salto incommensurabile dallo animale bruto all’uomo, che nessun sofista può calcolare; tanta è la differenza dall’istinto più raffinato dell’ animale, DELL'ODIERNO POSITIVISMO A) alla facoltà pensante che anima l'individuo umano, che lo fa ripiegare in se stesso, che gli dà la scienza di sè stesso e la potenza di concepire il tempo, la facoltà di fare o non fare una cosa, il concetto di Dio e le altre idee che nel mondo antico ci hanno dato il sistema di Platone, nel mondo moderno quello di Emmanuele Kant. Vogliamo soltanto studiare come secondo questa nov LIL storia della creazione, che si è inventata, siasi sviluppato il senso morale dell’uomo, che per i trasformisti è il grado più elevato dello istinto sociale. Secondo Darwin un animale qualunque dotato di istinti sociali pro- nunziati acquisterà un senso morale ed una coscienza, subitochè le di lui facoltà intellettuali avranno acquistato uno sviluppo analogo a quello dell’uomo. Ma come mai la scimia, l’animale bruto, ha potuto trasfor- marsi, e dall’esperienza sensibile e dallo istinto salire al grado d’intel- ligenza, e concepire l’idea del diritto, del doverc, del bello, del buono? I Darwiniani non sanno cosa rispondere a tale obbiezione; imperoc- chè è della massima evidenza, che siffatto progresso che la induzione dichiara impossibile, non si è potuto dimostrare, e il progresso evoluzio- nista che i positivisti fanno superare al loro animale immaginario, è quello che giammai non è accaduto. I positivisti osservano che la so- ciabilità esiste presso molte specie di animali, come presso l’uomo, do- vuta a cause complesse che si perdono in epoche lontane ed hanno fatto provare all’animale il piacere di vivere coì suoi simili. Leggete Wogt, Lecons sur l’homme (trad. francese num. 306): la no- zione del bene e del male, secondo questo scrittore, si sviluppa dai bisogni della società, dai rapporti reciproci degl’individui; e la nozione del bene e del male è pure sviluppata nelle società degli animali ed in rapporto al loro grado di sociabilità come nelle società umane. Il primo grado della società è la famiglia: presso il fanciullo, la nozione del bene e del male si riassume nella obbedienza verso i suoi parenti, nello adempi- mento dei doveri che gli sono imposti, e nelle lezioni, punizioni, o carezze che gli sono somministrate. Quando si osserva una famiglia di gatti o di orsi, il modo di comportarsi dei piccoli, la loro educazione, dànno la immagine della famiglia umana con tutte le manifestazioni della nozione del bene e del male che puossi desiderare ? Questa è, fa d’uopo confes- sarlo, una morale di gatti, una morale di orsi, che è imposta ed insegnata ai giovani: animali, ma non pertanto e sempre una morale. L'idea del bene al suo infimo grado secondo il prof. Canestrini (op. cit. pag. 186) si identifica con quella dell’utile individuale e momentaneo: il bene, dice il selvaggio, è mangiare 1 proprî nemici, il male l’esserne mangiato. 2 6 IL DIRITTO E LA MORALE Non sembra vero che in un secolo di progresso possano professarsi simili dottrine, che fanno discendere l’uomo alla condizione dell’animale bruto, che si arresta alla periferie delle cose che accadono sotto i sensi, e ciò dopo i tanti insegnamenti dell’antica e della moderna filosofia. Non comprendiamo come possa obliarsìi che l’ uomo per i suoi sentimenti, come per la sua ragione, abbenchè riconosca le sue primitive percezioni dal mondo materiale, arrivato ad un certo sviluppo intellettuale si eleva al di sopra dei fatti sensibili ed individuali, abbraccia col pensiero i rapporti generali delle cose, ne concepisce l’ordine, l’ armonia, la conformità, le leggi universali in relazione col mondo intero. L’ uomo ha, e sente la vocazione ed un dovere di progredire in mezzo a questi rapporti univer- sali, di penetrare dapertutto e sviluppando le sue facoltà morali conqui- stare e sottomettere le forze fisiche della natura. ‘ Sollevandoci sui motivi che spingono l’uomo, a passare dal mondo oggettivo al soggettivo, sì concepisce peri due ordini che quello che ac- cade in noi, a@viene eziandio in tutti gli individui nostri simili, che pos- sedendo tutti questi esseri razionali una natura speciale, tutti aspirano in virtù di questa natura particolare che è il loro bene, un fine totale ed ultimo che li riassume, che è quello della creazione, e che si risolve nel piano di un ordinamento universale che merita un tal nome, e riem- pisce solo l’ idea e la effettuazione del bene. Convenghiamo, o signori, che il principio della sociabilità è quello che sviluppa nell’uomo questa ragione morale e giuridica così sorprendente; ma il fatto dell’associazione senza l'io ragionevole sarebbe sterile, nè darebbe che lo istinto del ca- storo, del cane, dell’orso, del gatto, delle api, delle formiche, ma giam- mai potrebbe generare l’idea morale del perfezionamento e del progresso, mezzo e fine dell’umanità. La sociabilità che ci insegnano i positivisti, che esiste presso molte specie di animali, sebbene portentosa, si arresta ad un puro ed infimo meccanismo sempre stazionario e senza tradizione: . nell’ uomo si solleva nelle pure regioni della meditazione, e si rannoda al concetto di un progresso infinito. La condizione del castoro, delle api, degli uccelli è oggi quale era la dimane della creazione; quella dell’uomo cambia coi secoli, e si modifica in ogni epoca, quantunque le tendenze della natura siano sempre invariabili. Signori, la critica più imparziaie del Dar- vinismo ha unanimente riconosciuto, che il principio della vasta costru- zione empirica, per la quale il trasformismo cerca di imporre'le sue dot- trine giuridiche, non si fonda che sopra ipotesi. Gli evoluzionisti non vi dimostrano in qual giusa l’animale preparato per l’attività del suo cer- vello abbia acquistato la facoltà del linguaggio, ed in qual modo la va- DELL'ODIERNO POSITIVISMO “I riazione favorevole nello esercizio della voce, da cui materialmente si fa dipendere il perfezionamento del linguaggio, sia divenuta principio di ra- gione e di moralità nell’animale trasformato; ed ignoriamo nel Darvinismo con qual mezzo questa evoluzione possibile dello istinto sociale abbia creato la coscienza dell’umanità, e abbia rivelato l’idea della giustizia e del diritto senza alcuna influenza mistica e trascendente. Con pure ipotesi i Darviniani c’intendono dare la spiegazione della morale, e con fantastiche supposizioni dello istinto animale sociale creare la metafisica del diritto. Invano cercheremo le prove sperimentali, i do- cumenti che ci acclarino il passaggio di un’epoca ad un’altra dello stato. sociale, come dall’ opinione di un’adunanza a quella di tribù. La lotta trasformista della moralità si confonde con quella dei materialisti, come Maleschot che oppone il bisogno individuale a quello generico del bene delle specie; essa perviene alla teoria di Geremia Bentham e di Stuart Mill, a quella dell’amor proprio del Romagnosi. Non ci sembra affatto che questa sia la imagine esatta della vita umana , nè il quadro fedele dei fenomeni più elevati che nobilitano il progresso della coscienza e I’ educazione del genere umano. Le evolu- zioni, il grande mutamento della storia dell’umanità, sono guidate da tut- t’altre leggi che da quelle del materialismo dommatico, del positivismo Dar- viniano. Le grandi epoche degli imperi antichi, degli Stati della Grecia, di Roma, del mondo Greco Germanico e Cristiano, le rivoluzioni della Europa moderna, lo stato di ebollizione delle nazioni nell’ora in cui scri- viamo, hanno qualche cosa di superiore ad una fermentazione fisica ed animalesca. i Il volerci rendere conto di tutti e di tutto, il volere riparare ad ogni miseria, ad ogni colpa, questo razionalismo trascendente che non giun- gendo a spiegare la ragione delle cose fa disperare un gran numero di filosofi, che li spinge al più funesto materialismo da disprezzare la me- tafisica ed i più importanti problemi del mondo morale, ci rivelano che nella maturità dei tempi le aberrazioni attuali, fatto il loro cammino , necessiteranno il rinnovamento della filosofia e della morale da legare il progresso alle grandi tradizioni antiche del genere umano. Spinta da questo spirito di reazione alle idee morali e giuridiche delle scuole spiritualiste, la scienza sperimentale ha creduto di repudiare la idee a priori, indipendenti dal concorso dell’opinione e della volontà degli uomini. Erberto Spencer, il colosso di questa scuola, nella sua Zatrodusione alla scienza sociale sdegnosamente si fa a richiedere: Cosa sono questi diritti inerenti all'uomo per ciò solo che egli è uomo? Che cosa sono que- 8 IL DIRITTO E LA MORALE sti diritti anteriori e superiori alle leggi positive? Da dove scaturiscono ? Da quale cielo immaginario scendono nella ragione dell’uomo che li ha promulgato? Chî è che ne abbia trovato la formola? Spencer e la scuola trasformista in questa parte non han fatto che copiare le teorie del Bentham, quando quest’ultimo, negando le idee as- solute, disse che il diritto ela morale, come le leggi, non sono altro che il dettato del legislatore. La differenza tra le loro dottrine è una sola: che mentre Bentham credeva pervenire allo stabilimento della teoria dell’ utilità per l’ analisi dei fenomeni morali, lo Spencer intende giungervi per lo studio delle scienze naturali :. i « Tutte le azioni sociali, egli dice, essendo determinate dalle azioni « degli individui, e tutte Ie azioni degli individui essendo regolate dalle « leggi generali della vita, l’interpetrazione razionale delle azioni sociali « suppone la coscienza delle leggi della vita ». Egli nega il concetto morale assoluto di un ‘diritto eterno impre- scrittibile, e stabilisce il principio che non essendovi regno umano di- stinto da quello animale, non vi ha mondo morale distinto da quello della natura. Il primo progresso a farsi nella scienza, è di comprendere l’ unità delle leggi che regolano la vita in tutti i gradi in cui si mani- festa. La prima di queste leggi viene chiamata da lui la relatività uni- versale, la trasformazione incessante degli esseri; l’evoluzîbne, solo prin- cipio eterno nel cambiamento infinito delle forme e degli esseri, e dgi centri e dei mezzi da cui dipendono. La formazione delle società es- sendo determinata dagli attributi degli individui, e questi attributi non essendo costanti, nulla è più variabile quanto le regole che determinano i rapporti dei differenti membri della comunità, sia fra di loro, sia colla stessa comunità. Per Spencer è dunque una chimera della scuola spiritualista il sup- porre l’uomo universale , identico, costante a sè stesso sotto variazioni superficiali, avente dalle prime età, se non la stessa coscienza impli- cita e virtuale, le stesse facoltà a gradi differenti, la stessa natura in- tellettuale e morale, inviluppata in un germe, che racchiuda tutta la storia futura dell’umanità. Per una casualità l’ uomo è divenuto quello che è; avrebbe potuto non esserlo : una contingenza, un fatto acciden- tale insignificante nella sua apparenza, lo cambiò nella sua misteriosa storia; poteva cambiarlo dell’ intutto, ma poteva restare incatenato nei legami della muta animalità. Si ammette fin’ anco la ipotesi che un’al- tra classe avesse potuto prendere 1 posto dell’uomo nella sommità della DELL'ODIERNO POSITIVISMO 9 classe animale. Quale morale assoluta può ammettersi, secondo lui , per una specie sottoposta a tali vicissitudini? Per Spencer le classi so- ciali si sono formate con ogni comunione dello stesso modo, e per l’a- zione della stessa legge delle razze in seno alla specie; queste inegua- glianze gerarchiche di classe si sono generate dalle ineguaglianze na- turali originarie; non vi è ineguaglianza di diritto che non corrisponda al fatto, non àvvi ineguaglianza sociale che non parta da una inegua- glianza naturale. Ogni uomo non è più dunque l’uguale, il fratello del- Paltro, come l’animale bruto non è uguale all'uomo. La equità e non Vuguaglianza, la proporzionalità del diritto e non « il pareggiamento, deve essere la regola dell’umanità. Della stessa guisa che nella organizzazione più elevata la divisione fisiologica del lavoro è condizione della vita e del progresso, parimente nella organizzazione sociale che ne riproduce le condizioni e le regole, questo sistema si deve tener presente come espressione, come il risul- tato di una moltitudine di esempî biologici, che ci appresentano la su- bordinazione delle funzioni e delle classi che l’ adempiono; che dallo Spencer si ritiene come principio di una dipendenza reciproca crescente che accompagna una specialità crescente. (Introduzione alla scienza so- ciale, cap. XIV. Preparazione alla zoologia per la biologia). Gli eletti della selezione, esseri privilegiati e sovrani di una società scientifica, fa- ranno rispettare la legge biologica, alla quale deggiono la loro sovrani- tà. Questa legge di privilegio ha due corollarî : il primo è quello che la qualità di una società abbassa e deteriora riguardo al rapporto fisico per la conservazione artificiale dei suoi membri deboli; il secondo, che la società abbassa e deteriora sotto il rapporto intellettuale e morale per la conservazione artificiale degli individui meno capaci ad aver cura di sè stessi. Questa scuola crudele ed erronea deplora la tolleranza dei legislatori che permette di soccorrere gl’ infelici, essa riprova e con- danna la molteplicità degli atti caritatevoli isolati o riuniti che scono- scono o disprezzano la dottrina biologica, c’insegna ad abbandonare gli sventurati colpiti da un vizio di corpo o di mente, in guisa che spari- scano dal mondo: tanto il debole che l’incapace devono essere condan- nati a perire per il miglioramento delle razze umane. Il timor panico dei Maltussiani dell’ aumento della popolazione al di là dei limiti della sussistenza, sarebbe non solo riparato, ma lo stesso equilibrio diverrebbe anche un vantaggio coll’applicazione della dottrina biologica; giacchè vi sarebbe l’eliminazione di coloro presso cui la fa- coltà di conservarsi è la minore. 9 * 10 IL DIRITTO E LA MORALE Tutto sottomesso alla crescente difficoltà di alimentarsi, per lo ec- cesso della fecondità vi sarebbe in media un progresso per effetto di que- sta pressione, poichè coloro che sotto quest’ influenza sopravviveranno eventualmente, saranno gli eletti della generazione. In tutte queste fan- tastiche escogitazioni non di altro si tratta che del miglioramento del benessere dell’umanità, e si crede intravedere che allorquando il prin- cipio della selezione regnerà nelle nostre leggi e nei nostri costumi, i deboli, i pigri, gli sciocchi spariranno; e se ì nostri discendenti saranno fra gli eletti, si realizzerà l'ideale sbozzato da migliaia di secoli della prima scimmia antropoide, l'ideale dello animale secondo la dottrina della evoluzione: l’uomo incivilito. Gli errori, che si racchiudono in queste strane teorie, sono stati chia- ramente dimostrati dalla sana filosofia, ed anche dall’ arma del ridicolo ragionato; imperocchè le teorie di trasformismo trovano la loro con- futazione nella stessa genuina loro esposizione, giacchè si tratta di si- stemi che si vogliono fondare o sul paradosso o sopra ipotesi insussistenti. Noi non stancheremo la vostra pazienza riferendo le dotte memorie che oppugnano così mostruose dottrine, che da taluni professori si accettano senza discussione come il postulato ultimo della scienza, ma che sven- turatamente fuorviano dai sani studîì le giovani menti, preparando alla società un tempestoso avvenire. Eppure, o signori, come ultimamente il dottor Giovanni Scal- zuni osservava in un suo recente lavoro Studî sopra l’uomo ed il ma- terialismo, pubblicato in Milano, gli uomini serî della scuola positivista cominciano a conoscere le assurdità della teoria della evoluzione. Il professore Virchow, invitato a prendere la parola innanzi all’ ul- timo congresso dei naturalisti riunitosi a Monaco, tolse a tema del proprio discorso le pubbliche conferenze date dal professore Keckel sull’ origine dell’uomo. «Il professor Keckel, dice egli, pretende che la teorica del- « l'evoluzione abbia ad adottarsi nelle scuole, e sostituirsi a tutti gli in- « segnamenti filosofici che si riferiscono ad una creazione ed alla genesi «indipendente dalla materia. Io non posso comprendere come mai siasi « potuto immaginare di proporre l’imsegnamento di una teorica che por- «terà una completa rivoluzione nella coscienza dell’ umanità, di una « teorica che tende a sovvertire tutte le fondamenta della vita morale dei « popoli, senza potere affermare che questa teoria sia una verità scientifica. «Io sarò di pieno accordo col professore Keckel, ma lo sarò in «quel giorno in cui ]’ ipotesi rivestirà il carattere di una proposizione « scientifica. Io non penso nè alle inquietudini nè agli allarmi sociali. « No, la dottrina dell’evoluzione costituisca pure il fondamento delle no- DELL'ODIERNO POSITIVISMO 11 - RR stre concezioni sul mondo e sulle origini dell’uomo! ma prima di ciò la scienza deve adottare la teorica, deve trovarsi in grado di dire: ec- covi una verità. Ma prima che giunga quel momento e fino a che la « dottrina evoluzionista si trovi nella posizione in cui oggi si trova, una «ipotesi, una pura speculazione, non che essere proposta ad una pratica « applicazione, non deve neppure essere considerata come una proposi- « zione teoretica delle scienze naturali e positive. Voi sapete, continua «l’ eminente naturalista di Berlino, che in questi momenti gli studii «antropologici sono le mie principali e predilette occupazioni; ma in «nome e nello interesse della scienza io vi debbo scongiurare a non « cangiare i problemi, dei quali ci occupiamo, in proposizione scientifica. «La discendenza dell’ uomo per evoluziome è uno dei desiderati della «scienza (diremmo noi il desiderio di un partito), ma il tentativo di « cambiare il problema in una proposizione che da un giorno all’ altro « potrebbe essere smentita, è grave di pericoli per l’autorità della scienza « stessa. «Quando, dieci anni or sono, incontravamo qualche cranio umano nelle « torbe e nelle caverne, noi credevamo incontrare in esso le tracce di «uno stato selvaggio incompletamente sviluppato ed avente tutti i ca- «ratteri di un cranio scimiaco. Ma tutto ciò è ora dissipato, e tutte quelle « nostre prove e congetture scomparvero per opera di ulteriori ricerche, «ed ora è provato incontrastabilmente che gli antichi Trogloditi, gli «uomini delle torbe e delle caverne, costituivano una società rispettabi- « le. La dimensione delle loro teste è tale che molti individui del dì d’oggi « Si stimerebbero felici di averne una simile; e noi dobbiamo riconoscere «che nessuno dei tipi fossili presenta un carattere marcato di uno svi- « luppo inferiore. Se compariamo la somma dei fossili umani conosciuti fino «a questo momento con quello che ci offre l'epoca attuale, noi dobbiamo «confessare, che fra gli uomini viventi oggidì esiste relativamente un «maggior numero di individui inferiori di quello dei fossili in questione. «I fatti positivi ci indicano la esistenza di una linea di demarcazione « sempre e costantemente tracciata fra la scimmia e l’uomo; nè siamo in diritto d’insegnare, nè possiamo considerare come un fatto avva- lorato dalla scienza la discendenza dell’ uomo da altro essere vivente; ed io debbo pur dirlo, qualunque investigazione materialmente rea- « lizzata ci ha allontanati dalla soluzione proposta ». Sappiamo, o signori, che il professore Keckel dopo le pubblicazioni di Claudio Bernardo di Virchow non annunzia più la sua dottrina come una soluzione scientifica, :ma come una soluzione metafisica e come una questione di fede discutibile. -_- RR _- 2 LS CI = CN CS CN 12 IL DIRITTO E LA MORALE . Il signor Beussire, e sopra tutto il signor Caro che possiamo chia- mare il continuatore della filosofia di Vittorio Cousin e di Jouffroy, han voluto indagare donde provenga la immensa simpatia della democrazia avanzata per queste teorie novelle, da quali motivi è spinta alle dottrine ed ai metodi del positivismo. Ed il Caro, o signori, non può fare a meno di proclamare gli indi- vidui della scuola suddetta come illogici ed inconseguenti. Egli non sa comprendere come questi teorici che non restano soddisfatti di un pro- gresso realizzabile, che sdegnano di riconoscere che la vita umana, non ostante i grandi trionfi che la scienza promette al genere umano, sarà sempre la lotta eterna del bene col male, del vizio colla virtù, della li- bertà contro la fatalità, possano disprezzare i principii eterni della giustizia, del diritto e della morale. Non si sa spiegare come, invocando i principii del progresso infinito della libertà, della uguaglianza e della solidarietà delle nazioni, si possano accettare le dottrine della trasformazione, e negare il procedimento del sistema intuitivo, niente sperimentale e superiore ai fatti. Non troviamo altra spiegazione che di ritenerla come momentanea aberrazione di menti. giovanili che, impazienti di ogni dottrina Ria ripudiano lo studio della sana filosofia. Poco edotti nello studio delle severe discipline, chiudono gli occhi innanzi alla evidenza del vero progresso, che riposa sopra gli eterni prin- cipii del diritto e della morale, che essi intendono escludere dalle loro me- ditazioni. Ma lo immegliamento continuo dell’umanità riposa sulla grande tradizione delle idee, che vincolano le generazioni ed i secoli fra di loro. È strano, o signori, che mentre dalla dottrina positivista si insegna alle giovani menti a guardare in faccia al vecchio metafisico la filosofia pura come un arnese inutile, come un oggetto da museo, di poi da taluni di co- testi dottori si fa la più abbietta metafisica, insegnando che la creazione non si possa conciliare colla bontà infinita, negando che questa giustizia sia indipendente da ogni tradizione superiore ai fatti ed alle oppressioni storiche che l’hanno violato, elevando una empia requisitoria contro Dio ove si ammettesse la sua potenza creatrice. Essa, chiudendo gli occhi all'ordine magnifico dell’universo, non sa conciliare colla bontà infinita, colla sapienza infinita, quelle carneficine. che si sono inflitte reciprocamente per tanti secoli gli esseri viventi. Tanti delitti, tanta effusione di, sangue versato di queste creature, era dunque tra i pieni poteri della bontà infinita? E non era capace il creatore di prevederle o prevenirle ? Perchè non creava egli le specie viventi in ma- niera di far evitare questi mali ? Ù DELL'ODIERNO POSITIVISMO 13 Ma donde proviene questa giustizia, quali titoli produce innanzi alla logica delle scienze positive? Sappiamo che per gli evoluzionisti la giustizia è al di fuori dei pregiudizii, rappresenta il più alto grado dello istinto e della sociabilità, è la espressione di una quantità di immagini e di idee generate successivamente da diverse peculiarità agglomerate ‘e legate fra di loro per la forza delle abitudini e dall’azione del tempo sul cervello. Torniamo a fare le nostre meraviglie come la democrazia possa accogliere simili dottrine, e non sì avvegga che per gli evoluzionisti l’egua- glianza del diritto è una chimera, la solidarietà degli esseri una illusione, giacchè per costora una nazione robusta ha diritto di soggiogare e di divo- rare un popolo debole, il progresso non è che l’ingrandimento dei forti e la sparizione dei piccoli, le crudeltà delle razze anglosassoni e delle razze neolatine contro le pelli rosse e gli uomini selvaggi sono giustificate, e le rivalità nazionali sono alimentate dalle loro teorie barbare ed inu- mane: il pangermanismo credesi l'elemento che deve rigenerare il mondo, si compiace della sua prosperità scientifica e militare, e considera sè stesso come il figlio primogenito dell’ umanità, e guarda disdegnoso la debolezza militare delle razze neolatine. Il panslavismo alla sua volta disprezza l'antico suo maestro germanico, e crede che l’elemento slavo racchiuda in sè stesso il principio della rigenerazione sociale e la pa- nacea contro la corruzione dell'Occidente, sia con la teocrazia cesarea, sia col nichilismo che agita le classi guaste di ogni nazione. E le rivalità non si fermano a quelle delle razze primarie, ma gli stessi tronchi di esse si fanno la guerra tra di loro. E non ostante i seguaci della pace perpetua, i positivisti animano quegli odì, predicano che le guerre e le battaglie sono non solo inevitabili, ma benefattrici del genere umano; il vincitore è quello che merita di vincere, il perdente è quello che merita il disastro ed il servaggio. L’innata personalità del- l’uomo svanisce, e ciascun individuo umano e le nazioni non hanno che quel destino che meritano, non altro diritto che quello che risulta dal loro organismo e dallo sviluppo delle loro facoltà. La superiorità che ricevono dalla fortunata costituzione del loro privilegiato organismo, non è considerata nè come un’usurpazione, e nemmeno come un’ingiu- stizia; parimente che le ineguaglianZe sociali e nazionali, è un’ assurdità il volerle distrurre, e l’appello al livellamento è un delitto contro le leggi naturali. La sovranità del numero è il più basso e il più miserabile dei poteri, imperocchè sono le classi elette elaborate che deggiono imperare; esse sole sono le iniziatrici, e sole degne di rappresentare il genere umano. Nello Spencer abbiamo, come osservano il Caro ed il Beus- 4 14 IL DIRITTO E LA MORALE sire, il germe di un novello dispotismo , il dispotismo scientifico dot- trinario solo ministro e mandatario del progresso. Il tempo non ci permette di immorare nella esposizione di queste teorie; ma chiede- remo alla nostra volta alla democrazia così gelosa della uguaglianza, della libertà e della fratellanza del genere umano, come possano accor- darsi le sue aspirazioni generose e sventuratamente spesso inattuabili con dottrine così autoritarie da farci retrocedere ai secoli primitivi delle società teocratiche egiziane o asiatiche, colla differenza che invece di un simbolo religioso, e per ciò stesso umanitario, qui i veggenti stabilireb- bero il loro patriziato sopra di un organismo scientifico. Spencer, con- seguente a queste premesse, nel capitolo Preparazione alla scienza so- ciale per la psicologia dispiega un’ aspra ironia contro le illusioni de- mocratiche che ripongono una assoluta fidanza nella diffusione della i- struzione e negli effetti morali che se ne ripromettono. Per Spencer il paragone che gli statisti fanno tra il numero dei delinquenti che sanno leggere e scrivere e gli analfabeti, è erroneo: non si deve attribuire il maggior numero dei crimini alla ignoranza, ma alla privazione dei co- modi della vita. Or la fiducia negli effetti moralizzatori della cultura intel- lettuale è mal fondata ; e la fede che si ha nella diffusione dello inse- gnamento e nella lettura dei libri, è una delle superstizioni del nostro secolo. Signori, nonintendiamo intrattenervi sulle esposte teorie, nè esaminare le singole questioni dello Spencer: solo richiamiamo la vostra attenzione per mostrarvi come in Italia, in Francia, in Germania presso le menti su- periori siasi compresa l'assurdità della dottrina democratica che chiama in suo aiuto il positivismo e il trasformismo. Voi vi accorgete come la teoria della evoluzione si stacca anche in questo dalle dottrine utilitarie del sommo Romagnosi , che dove quello intendeva conciliare e armonizzare lo interesse sociale con quello indi- viduale, onde insegnava che la prosperità dei pochi non dovea immo- larsi al benessere dei più, o viceversa, nella dottrina trasformista l’indi- viduo sparisce e viene sacrificato allo interesse sociale di esseri privilegiati. E questa logica crudele invade senza pietà le menti di molti, i quali qualunque danno consumato per lo impero della ingiustizia o dell’ e- goismo lo mirano con indifferenza, e lo credono spesso strumento e mezzo dello immegliamento universale e di un futuro progresso. Non si tiene più conto della persona umana, e la smania del collettivismo sover- chia ogni sentimento di dovere e di carità. In ciò la morale degli evoluzionisti crede imitare la natura, che DELL'ODIERNO POSITIVISMO 15 . sembra loro non avere altra premura che la conservazione delle specie trascurando l’individuo. Impressionati che la natura creatrice sia indifferente , nello esube- rante sviluppo della vita, della perdita di migliaia di germi assicurata dello incremento dei più fortunati che trasmettono la loro esistenza ad aitri esseri più fortunati, imitando la natura bruta incosciente suppon- gono di avere scoverto una verità arcana; ma evidentemente essi con- fondono la verità biologica colla verità umana, il regno animale con quello umano, lo spirito con la materia, la libertà del pensiero col fata- lismo. Per gli evoluzionisti il benessere generale, l’utilità della specie, è la regola unica. Ma per noi, per gli uomini di ogni scuola, di ogni razza, di ogni partito, al di fuori dei sistemi che s’impongono brutalmente per un sofisma crudele, vi ha una garenzia, superiore alla prevalenza delle forze organiche della natura, nella innata personalità umana, che porta seco le idee del diritto, del dovere, della giustizia; nozioni che è impos- sibile potersi cancellare dalla coscienza per una falsa scienza decaduta presso le nazioni in cui nacque, e che si vuole trapiantare in Italia. Il sentimento universale ha respinto così assurde teorie che sacrifi- cano l'individuo e i popoli alle esigenze della specie. La giustizia del- l’umanità raccoglie il debole, protegge il miserabile nella stessa guisa che l’uomo forte e possente. Per la scienza morale non vi sono nè bianchi nè negri, nè pa- rias nè bramini, nè pelli rosse nè ottentotti, nè franco-galli, nè vinci tori, ne vinti, ma esiste l'umanità universale collettiva: quando un’ in- dividuo o un popolo soffre, l’uomo soffre in generale anche nella coscienza dei suoi oppressori. Cancellate questo inno sublime e provvidenziale che parte dal cuore di tutti, e l'umanità si vedrebbe colpita nella nobiltà delle sue origini, nella dignità delle sue aspirazioni, vedendosi subordinata alle leggi biologiche che non hanno altro scopo che il miglioramento del benessere e del tipo. . Non possiamo disconoscere che al di là del diritto che considera soltanto il fatto esterno in rapporto alla legge, e che punisce le mate- riali infrazioni della legge medesima, esiste una regione di cose elevata, interiore, morale, la quale riposa sopra principî superiori, e si attiva in modo intimo nella coscienza e nel sentimento interno dell’ individuo e dell’ umanità. E la legge morale, che al pari del jus naturale ci im- pone la conservazione ed il perfezionamento. Questa necessità di obbedire alla legge per rispetto alla legge è un sentimento universale. 16 IL DIRITTO E LA MORALE DELL'ODIERNO POSITIVISMO Io, signori, ho fatto opera soverchia a confutare innanzi questa dotta assemblea teorie che voi tutti disprezzate, ma non ho fatto uno studio inutile richiamando la vostra attenzione e quella della pubblica opinione, affinchè, raffrenato il dispotismo di una scuola dissolvente, la gioventù non sia sviata dai grandi principî della vera sapienza che hanno dato all’Italia un primato incontestato nella scienza del diritto e della legislazione. Non si dica, o signori, che dopo avere le scienze positive fatto oggi proprî tutti i problemi dell’ esistenza di cui si era occupata inutilmente per oltre 23 secoli la metafisica senza trovarne la soluzione, non vi sia più posto per la scienza pura del diritto e della morale che si sdegna sotto il nome di metafisica. Noi respingiamo la dottrina guasta dello insegnamento, che dice ai giovani non esservi più posto per le nozioni più alte, e che deggiano essi guardare il vecchio metafisico come ar- nese da museo. i L’UMANISMO DELLA DOTTRINA PENALE ITALIANA DALL’AVVENIMENTO DEL REGNO LONGOBARDO FINO AL SECOLO X, Lettura del Comm. FRANC. SAV. CAIAZZO ALLA REALE ACCADEMIA DI. SCIENZE, LETTERE E BELLE ARTI nel dì 25: novembre 1883. $ I. — Di quel periodo della storia giuridica italiana che intercede tra l’inizio del regno Longobardo continuato nei Franchi e nei Tedeschi, ed il rinnovamento degli studî, le ricerche non posson dirsi complete (1). Imperocchè nei libri nostrani e forestieri ad esso relativi se trovansi do- cumenti abbondanti, criterì generali , giudizî più o meno esatti intorno le cause che influirono al grande mutamento , se trovansi interpetra- zioni pressochè letterali delle leggi di quel Regno o paragoni di talune di esse con quelle della Collezione di Giustiniano, od incomplete notizie dei pochi ricordati giuristi del tempo, nulla o scarsamente si i vaeDoshe intorno quella letteratura giuridica (2). Eppure oggi. che fatti meno ingiusti i giudizî, si riconosce che ai principali istituti di quella età si ricongiungono non pochi dei moderni, è che ad altri non ancor conseguiti si aspira, ognun vede che un altro studio divien necessario, quello cioè di ricercare negli scarsi documenti che ne rimangono la specialità dei principî, onde il contenuto degli isti- tuti stessi venne codificato ed esplicato (3). Sarà così una volta ancora dimostrato da una parte, che più che per forza di Barbari gli istituti Romani decaddero pel sopravvenire della Idea Cristiana; ed il perchè non valsero ad invigorirli o riformarli, nè la rinnovata unità dell'Impero, nè la pubblicazione del Corpo del Dritto già 2 L’ UMANISMO fatta in Italia, fin da che Belisario distrusse Vitige presso Ravenna, nè i voti e l’ opera dell’ Imperatore Giustiniano. Ut una Deo volente facta Republica, legum etiam nostrarum ubique proferetur auctoritas (4). E da un’altra che in questo periodo, allorchè per l’ impeto delle armi dei nuovi vincitori, e per i primi asprissimi danni, pareva dovesse soc- combere tutta quanta la Civiltà precedente, di questa l’ intelletto giuri- ridico di Roma salvò quanto meno era contrario ad un passato non più possibile é ad un avvenire non possibile ancora, conservandola come scienza, letteratura e disciplina (9). E siccome alla inflessibilità dello stretto Diritto dei Patrizì, aveva già un tempo saputo sostituire il Diritto Equo della Democrazia Citta- dina, così ora al Diritto Autoritario dell'Impero ed agli usi dei vincitori sforzavasi a sostituire il Diritto Umano, amalgamando nella compren- sibilità cristiana la rigidezza bene spesso parziale ed esclusiva della legge Romana; ed accanto alla società romana fatta ormai impossibile fonda- vane un’ altra sulla base della gerarchia elettiva, e sul rispetto alla per- sonalità umana (6). Pensiero giuridico stupendo che rifiettendosi dallo Spirito del Cri- stianesimo indirizzò la persona umana ad esplicarsi a nuovi e più alti fini di libertà, di famiglia e di città. Da ciò doveva provenire e derivò , che quantunque già da tempo abbandonato l’insegnamento pubblico del diritto, nè più riscossi il foro e le Curie dalla voce prepotente di oratori esimî, l’ intelletto di Roma creò una nuova letteratura giuridica, su cui posò, per cui vinse, ricove- rando dallo splendore delle cattedre nelle umili scuole delle parrocchie, dal foro agli atrî delle chiese, dai responsi dei giureconsulti ai precetti dei sacerdoti cristiani. Fu a Roma principalmente, ove di quel tempo convenivano i sacer- doti ad istruirsi, fu dovuto a Roma se presso i capitoli delle chiese sorgessero scuole di lettere e scienze, e si raccogliessero i residui delle vecchie biblioteche. Da Roma il nuovo pensiero giuridico venne incessantemente diffuso in tutta Italia, principalmente dopo che la supremazia del Papa su tutti i Vescovi fu codificata da Re Luitprando con la legge 23 dell’anno 723. Papa urbis Romae qui in omne mundum caput ecclesiarum Dei et sacerdotum est. Pensiero giuridico che fin dal Regno dei 36 Duchi dopo la morte di Clefi, secondo riferisce Paolo Diacono, si espresse nella tolleranza usata ai vinti di reggere a loro piacimento le cose di religione, e sotto DELLA DOTTRINA PENALE ITALIANA 3 il Regno di Re Agilulfo nella concessione fatta ai Vescovi della giuri- sdizione contenziosa civile e penale sugli ecclesiastici longobardi e ro- mani, e della giurisdizione volontaria sui romani tributarî o patteggiati per le sole controversie civili (17). Pensiero giuridico che si affermò viemaggiormente quando volendo Rotari dopo 76 anni dal regno di Alboino raccogliere le Caterfrede, non potè fare a meno di scriverle nella lingua dei Romani, benchè già di- venuta scorretta, nè potè trascurare di comprendere nell’Editto taluni degli usi romani o degli usi cristiani che quello avevano di fatto già codificato e reso adatti non solo ai bisogni dei discendenti della Gens parva dei Vinnili, ma in beneficio di tutti i sudditi del regno per subjecto- rum nostrorum commoda (8). Ed ancor più allorchè Luitprando togliendo all’Editto il carattere di legge territoriale, specialmente nelle materie civili, prescrisse che il di- ritto di Giustiniano fosse accettato come regola in tutto ciò che, allo editto non contrario, non era da questo previsto e regolato. Da che la mag- giore estensione della giurisdizione dei Vescovi, e la maggiore propa- gazione degli usi Romani—Cristiani codificati nelle riforme posteriori (9). Ora ognun vede di quanta necessità ed utilità sia rintracciare nelle fonti che ne rimangono la dottrina giuridica emanata da tale pensiero, e la quale applicata nelle leggi e negli usi del tempo, valse come fiac- cola a realizzare la consistenza armonica di quei contrarî, ed a.conse- guire nella successione dei tempi la fusione delle razze, e l’ attuazione progressiva del buono. Le difficoltà dell’impresa gravissime senza dubbio a chi volesse rivol- gersi ad esplorare tutti i rami del diritto, essendo uso di quel tempo, massime dopo l'avvenimento dei Longobardi di trasmettersi le dottrine da una ad altra generazione più a parola viva che per libri, sono riu- scite men gravi a me che limito questo studio alle materie penali, e più specialmente alla teoria del concorso di più persone in uno stesso reato. Imperocchè a prescindere da quanto si trova tracciato nei Sinodi e Concilii, nei decreti e nelle lettere di taluni Pontefici, la letteratura giuridica penale di quel periodo si raccoglie larghissima nei libri peni- tenziali in genere; specialmente in quelli Italiani, o di origine Italiana , ed altresì dalla regola di S. Benedetto nei ventinove capitoli sulla di- sciplina, i falli e le pene (10). La quale dottrina se non versavasi di quel tempo ad indagare il fondamento del diritto di punire o a dimostrarne la origine razionale, e naturale, o a discuterne l’indole collettiva od individuale, o a determinare 4 4 L’ UMANISMO infine se potesse essere una funzione isolata dello Stato, o dovesse es- sere in rapporto assoluto di un’altra funzione più grave ancora, ed an- cora oggi incompresa, relativa ad un più giusto ordinamento di bisogni, d’interessi, e di poteri; in cambio però di quelle speculative quistioni, si esplicava in regole pratiche ed utili, dirette a fecondare nel legisla- tore il criterio che nei limiti della legittimità le pene dovessero essere necessarie; nel reo la coscienza di meritarle e la speranza per esse di redimersi dalla colpa; e negli indifferenti, accanto alla certezza che nè classe nè uomo potesse essere più forte della legge, il sentimento mo- rale di non essersi con la pena inflitta al dichiarato colpevole contra- detta, nè la loro naturale compassione, nè il naturale comune criterio di giustizia e di verità. Avvenne così che sconfessato man mano il criterio politico predo- minante nel prisco e nel nuovo sistema penale Romano, e quello del componimento privato quasi esclusivo del sistema Longobardo, la nuova dottrina penale Italiana riuscisse a far preminente il criterio morale più liberale, più universale, più largo; e ad iniziare con esso precorrendo i tempi dell’età nuova un sistema di prevenzione, d’imputabilità, di pro- cedimento e di penalità, che se malauguratamente non fosse traviato alla epoca del primo rinnovamento degli studì giuridici, ne avrebbe forse risparmiato scosse e calamità più gravi ancora di quelle delle successive occupazioni forestiere. Alberto Du Boys, nella sua storia del diritto criminale delle nazioni di Europa, scrisse che i libri penitenziali dal VII al X secolo furono dei veri codici penali, ed io mi permetto aggiungere che provenendo tutti dal pensiero Romano — Cristiano, furono per l’Italia nostra non solo la base degli usi, che avevano già modificato il diritto delle Ca- derfrede e delle posteriori riforme dell’Editto: ma furono bensì la base su cui più tardi il diritto di giudicare riconosciuto necessario nelle società civili, venne a purificarsi nel dovere di ben giudicare. Importa intanto premettere una doppia dichiarazione. La prima, che in questo studio prescinderò affatto di eccitar nuova- mente le quistioni antiche sul se con la pubblicazione dell’ Editto fosse rimasto abolito il Dritto Romano; se la collezione di Giustiniano venne veramente dimenticata nelle stesse parti d’Italia rimaste romane, o se per l’ inverso i vinti Romani avessero conservato per volontà dei. loro stessi vincitori, e pria anche del regno glorioso di Luitprando, la citta- dinanza romana, e con gli ordini e con le Curie l’uso pubblico del Di- rRÈ: b ritto Romano siccome loro legge personale. Imperocchè dopo l’ ampio DELLA DOTTRINA PENALE ITALIANA 5) ed eletto lavoro dell’illustre e benemerito Carlo Troia, e le opinioni di altri scrittori resta o nulla, 0 poco a raccogliere e scrivere (11). E la seconda, che nel sistema dei miei studî importa che io riferisca i testi nei quali è riposta la dottrina che espongo. Il perchè, invoco la venia vostra, Illustri Accademici, se questa e- sposizione potrà stancare talvolta , nè essere agevole sempre, quantun- que ho fatto di organarla sotto forma di teoremi come è odiernamente accettata. $ I. — Incomincio dal sistema di Prevenzione. La dottrina politico-sociale la quale impone oggi ai Governi civili la difficile funzione della prevenzione dei delitti, onde potersi razional- mente riconoscere nel sistema delle pene il carattere della necessità,, e sulla cui determinazione e limitazione tanto aspramente sì discute, venne appunto di quel tempo insegnata ed umanamente applicata mediante i, tre Istituti della Pace, della Sorveglianza e della Ammonizione, indiriz- zati, da una parte a contenere gli uomini di sangue, ed i faziosi dallo abuso delle armi e delle violenze ; e da un’altra ad affezionare i vaga- bondi e gli oziosi alla coltivazione delle tante terre divenute incolte, e ad iniziare una nuova era di prosperità economica. L'istituto della Pace, non ancora trasformato dalla prima indole re- ligiosa e civile nell’altra tutta quanta politica di possesso o perdita della protezione della legge (Costit. di Federico Imper. De Pace tenenda in- ter subditos, et ]uramento firmanda, et vindicanda), venne fecondo a re- primere mediante mezzi morali o leggiere coercizioni corporali , la su- bitaneità della spinta a delinquere, e se non a vincere, a lenire almeno l'eccessivo spirito di vendetta degli offesi, ed attinenti agli offesi contro gli offensori, ed attinenti agli offensori. Nel Penitenziale Romano cap. 8 è scritto: —.Si quis non vult re- conciliari fratri suo, quem odio habet; tandiu in pane et acqua poeni- teat usque dum reconcilietur ei. E nel Penitenziale di Rabano Mauro cap. XX è più largamente dettato : Qui sacramento se obligaverit ut litiget cum quolibet, ne ad pacem ullo modo redeat, pro perjuro, uno anno a comunione corporis et sanguinis Domini segregatur , reatum suum elaemosinis et fletibus , et quantum potuerit jejuniis absolvat. Ad charitatem vero quae operit multitudinem peccatorum, celeriter venire festinet. Gli istituti della Sorveglianza e dell’Ammonizione, che oggi disor- ganati tra il concetto Autoritario ed il Radicale, tra ingiustificate paure. 2 6 L’ UMANISMO di governanti, e più spesso ingiustificate intolleranze cittadine, riescono su metodi mortificanti ogni senso di rispetto alla personalità umana, o a pervertire maggiormente gli uomini dediti al malfare od a colpire le plebi inconscienti ed in difetto di sussistenza e di educazione, venivano di quel tempo esercitati da cittadini autorevoli e benemeriti, i quali in- ceppando il meno possibile la libertà della persona traviata, ne illumi- navano lo spirito, ne confortavano il cuore, e sol raramente erano ob- bligati a coercirne le prave tendenze ed abitudini. Tra i pechi frammenti che su questa importante materia rimango- no, piace riferire quelli che trovansi scritti nella Regola di S. Benedetto. « Ante omnia sane deputentur unus aut duo seniores, qui circu- meant . . . . et videant, ne forte inveniatur. . . . . qui vacet otio aut fabulis. « Hic talis, si repertus fuerit, corripiatur semel et secundo : si non emendaverit, correctioni regulari subjaceat taliter ut caeteri metum ha- beant. Reg. S. Benedetto cap. XXVII. XLVII. « Si quis vero ita negligens et desidiosus fuerit, ut non volit, aut non possit meditari aut legere, injungatur ei opus quod faciat ut non vacat. Reg. Ead. cap. XLVIII. « Et si contumax, aut inobediens . . . . aut in alio. . . contemp- tor repertus fuerit, hic secundum Domini Nostri preceptum admonea- tur semel, et secundo secrete a senioribus suis. Si non emendaverit, objurgetur publice coram omnibus. Si vero neque sic correxerit si in- telligit qualis poena sit, excommunicationi subjaceat. Si autem improbus est, vindictae corporalis subdatur. Reg. S. Benedetto cap. XXIII ». $ II. — In ordine alla teoria della imputabilità molti frammenti di quei libri ne apprendono come fin d’allora la dottrina Italiana avesse di quella determinata la formola. Infatti per ciò che si attiene all’elemento morale, invece del « Consiliaverit » dell’Editto, o del dolo delle leggi ro- mané, o della volontà sola come comprensione del pensiero delittuoso, era insegnato che non fosse punibile l’azione disgiunta dalla volontà, e la volontà disgiunta dal pensiero. Onde necessaria fosse ad affermare qualsiasi imputazione, la prova che il delinquente avesse agito nello stato di scienza od almeno di dubbio di contravvenire alla legge , operando volontariamente il delitto. da « Si quis suspicatur, quod ad periurium ducatur, et tamen ex con- sensu jurat: quadraginta dies paeniteat . . . . (Ex paenit. Theod. ex Bi fragm). Qui compulsus a domino perjurat se sciens: utrique sunt per- Di DELLA DOTTRINA PENALE ITALIANA 7 Juri et dominus et miles ecc. Si quis sciens voluntarie occiderit , et convinctus est. (Poenit. Rom. cap. II. III. VII. etc.) ». $ III. — Ma ciò in cui si concentra principalmente la qualificazione « Umanitaria » — di quel periodo della nostra letteratura giuridica è la dottrina intorno il procedimento, e il sistema di penalità. L’anfico criterio Romano e Germanico di non potersi condannare alcuno se non udito e convinto, già scritto, secondo il Filangieri, in una legge degli Ebrei (Lib. III, Leggi criminali. Cap. VIII, Delle condanne in contumacia nota 3.—Petito, n. XX.XV, 12), si trova completato am- piamente nella formola: Nisì auditus et habita discussione ubi crimen admissum. Nisi auditus — cioè presente ed interrogato l’accusato. Una lettera di San Gregorio dell’ anno 600, ci apprende, che questo grande dotto e giurista del tempo non consente a Costanzo Vescovo di Milano di avere riaperto un processo di crimine contro il Vescovo Pompeo già giudicato ed assolto da Massimiano Vescovo di Siracusa, nè accetta la nuova sentenza di condanna per non essere fra le altre ragioni stato inteso il Pompeo nel nuovo giudizio e per temersi estorta la confessione di lui. « Gesta quae exinde apud fraternitatem vestram confesta sunt ne- que ad condemnationem neque ad absolutionem ejus probantur posse sufficere... post quam et persona absens est. Epist. 29 (*) ». Habita discussione, non già più col coede definire secondo il Jus majorum Gentium giusta la intelligenza di questa formola data dal Vico; non già mediante l’uso dei tormenti per tutte le persone e per ciascun reato, come si cominciò ad usare dopo Cesare, ma per mezzo di sacra- mentali. L’incolpato della uccisione del sacerdote, solamente se servo e ne- gativo, era soggetto a purgarsi della accusa mediante la prova del fuoco. « Si liber est, cum septuaginta duobus juret; si autem servus, super duodecim vomeres ferventes se expurgat (Ex poenit. V. Theodori cap. 36. Rede num. 32)». Habita discussione—indagando la causa a delinquere e tutte le cir- costanze del fatto mediante testi idonei anche nei casi eccettuati dalle leggi (*) Vedi pure Epist. 6. lib. IV dell’anno 593 diretta da Papa Gregorio al diacono Cipriano Rettore in Sicilia e con cui ordina il giudizio di un monaco e di una monaca. « Petronillam nomine causamque ipsam secundum sui meritum summa subtilitatis exa- minatione perquiras ». 8 L’ UMANISMO umane, come in quello del marito che credesse rea di adulterio la mo- glie. « Prius causa criminis subtiliter erat investiganda; et nunc si rea fuisset inventa , secundum legis tramitem debuit excipere ultionis vin- dictam. (Poenit. Rom. De illo qui uxorem suam sine judicio interfecerit, tit. de Hom. cap. XI.) De his qui servos suos extra judicem necat. (Barbano Mauri cap. XIV)». Habita discussione; garentendo allo accusato il beneficio delle di- scolpe e delle difese mediante l’opera di avvocato. Ed onde meglio fosse assicurata nel sistema della discussione la realità della difesa venne rinnovato lo istituto dell’asilo, non più come rifugio d’impunità, ma qual sicura guarentigia a raffrenare le vendette subitanee, ed a correggere con le condizioni della consegna 1’ asperità delle pene corporali e sopprimere quella della morte. Sotto il titolo, de his, qui ad ecclesiae patrocinium confugiunt per- sequentibus sine faedere pacti. (Poenit. liber Rabani Mauri cap. XXII), è scritto: Relativamente agli omicidi, agli adulteri, ai ladri: « Ut ab ecclesiae atriis, vel domo episcopi, eos abstraere omnino non licet nec altari consignari, nisi ad Evangelia datis sacramentis de morte et debilitate, et omne poenarum genere sint securi; ita ut ei, cui reus fuerit criminosus, de satisfactione conveniat ». ; Relativamente ai rapitori violenti: « Mortis vel poenarum impunitate concessa ad serviendum subiectus sit, aut redimendi se liberam habeat facultatem ». Relativamente ai servi fugitivi: « Si a domino omissa culpa sacra- mentum susceperit, statim ad servitium domini sui redire cogatur . . . ‘« Si vero servus pro culpa sua ab ecclesia defensatus, sacramenta domini clericis exigentibus de impunitate perceperit, exire volentem a domino liceat occupari ». Fra i moderni non pochi affermano, che tanto alla teorica della mi- sura della pena secondo la razionale graduabilità della colpa, quanto al concetto della emenda del colpevole come a fine precipuo di ogni penalità, non sia la scienza pervenuta che solamente nel secolo XIX mediante i due sistemi psichi-ocratico e penitenziario. i No, Illustri Accademici, la Idea Cristiana fin da prima non dimen- ticò di tutelare anche il colpevole, ed influendo sulla fede e sull’intelletto di lui, di riacquistarlo riabilitato alla società civile. i Infatti dai libri stessi raccogliamo, che il sistema della penalità in. genere non seguiva già il criterio politico della salute dello Stato, nè DELLA DOTTRINA PENALE ITALIANA 9 la privata vendetta, nè la sola riparazione del danno , ma prefiggevasi conseguire colla espiazione della colpa la riabilitazione del colpevole. « Poenitemini ut deleantur vestra peccata . . . ut ad expiationem cri- minum pervenitur. (Poenit. Rom. tit. de var. crimin. cap. XIII.). Post penitentiae satisfactionem pristinum restaurari posse honorem. Post e- mendationem vitiorum , loci vel pristinae dignitatis recipiat meritum (Poenit. liber. Rab. Mauri 7. 1)». Dottrina che si vede vieppiù manifesta se si guarda il pensiero in- formante il concetto della espiazione, e quello della sanzione delle pene specifiche; per cui eran regola la efficacia correttiva nello sceglierle, la giustizia in proporzionarle, la inalterabilità in eseguirle. S. Colombano nel proemio del libro de poenitentiarum mensura, scrisse: Che ogni pena dovesse contenere « afflictio cordis et corporis et emendatio morum, hoc est obrenuntiatio vitiorum ». E dovesse in ordine alla efficacia correttiva concretarsi in passione contraria della spinta a delinquere. « Verbosus vero taciturnitate damnandus est, inquietus mansuetudine, golosus jejunio, somnolentus vigilia, superbus carcere , destitutor repulsione, unusquisque juxta quod meretur, quae aequalia sentiat, ut justus juste vivat $ 12 ». Laonde a base di quel fine intrinseco in ogni penalità , proscritta la pena della morte anche nei reati atrocissimi, non escluso quello di eresia, le pene longobarde del troncamento e della ascissione di alcuno dei membri del corpo, ed il maggior numero di quelle di uso Romano enumerate da Isidoro nelle Origini, e dettagliate dal Gottifredo in ordine al barbaro modo della esecuzione loro, quei libri accettarono quelle so- lamente privative o sospensive della libertà individuale , o delle civiche prerogative, nonchè quelle detrattive delle rendite patrimoniali, della forza del corpo, e dell’attività della persona del reo, determinandole sempre in tempo e quantità, eccetto pochi casi di rinvio del colpevole alla Potestà del Re. Infatti il digiuno, il sequestro delle rendite, l’esilio dalla città, 1° e- silio dal Regno, la perdita delle armi e la scomunica nei casi gravis- simi furono le uniche pene accettate dalla Giurisdizione ecclesiastica, a cui per più secoli rimase demandata la competenza di giudicare dei cri- miri di parricidio, di adulterio, d’incesto, ed in generale di tutti i reati contro la legge di Dio. S. Gregorio scriveva a Leone Isaurico: « Si quisquam te offenderit domum ejus pubblicas, et expolias, solam illi vitam relinquens, tandem- 3 10 L’ UMANISMO que illum etiam vel suspendio necas, vel capite truncas, vel relegas.... Pontifices non ita, sed ubi peccaverit quis et confessus fuerit, suspendii vel amputationis capitis loco, evangelium et crucem ejus cervicibus cir- cumponunt, eumque tanquam in carcerem in secreterio... in ecclesia Diaconica oblegant, ne visceribus ejus jejunium, oculisque vigilias, et laudationem ori ejus indicant »... E nel Penitenziale Romano tit. de Homicid. cap. IV sta scritto che per gli stessi reati gravissimi del parricidio, o della uccisione del figlio o della figlia, del fratello o della sorella germana, dell’avo o dell’ava o del consobrino ecc., era sanzionato l’esilio temporaneo dal regno « Extra patriam septem annis exul fiat » o l’esilio temporaneo della propria terra; « quinque annis extra metas ipsius terrae exul fiat»—od il divieto di portar le armi—« viginti annis inermis cum fletu et lucto poeniteant »... (Poenit. Rom. Tit. de Homicidio cap. XIV). E la sola penitenza per tre anni per lo stesso reato di eresia « Consuluisti magos aut aruspices, aut incantatores, aut sortiligas, vel vata quae ad arbores, vel ad fortes fiunt novisti, annos tres peniteas—(Regin. Penit, p. 63. Commucani Abatis cap. VII. Si quis per alias etc.) ». E mentre si raccomandava ai giudici di esser temperanti e mise- ricordi «in judicando esto misericors pusillis ut pater, et pro viro matri illorum (Rede de remed. peccat. cap. 1) », nel tempo stesso davansi ad essi i precetti di proporzionare le pene specifiche : 1. Secondo la qualità del delitto. . Secondo il tempo il modo e le altre circostanze "del fatto. Secondo la qualità dell’offeso. . Secondo la qualità del delinquente. Secondo il pensiero delittuoso. Secondo la maggiore’ o minore intelligenza del colpevole. Secondo la graduazione stessa della volontà del delinquente. . Ed in fine secondo la sopportabilità del delinquente. 4. Di proporzionare la pena secondo la qualità del delitto. « Pro qualitate delicti poenitentiae tempus impendatur (Poenit. Rom. tit. IX de Var. crimin. cap. X). Diversitas culparum, diversitatem facit paenitentiarum (Reg. di S. Benedetto) ». 2. Di proporzionarla nel MEMO e nel modo secondo le circostanze. del fatto. «Si quadrupedia tulerit vel casas effrigerit, septem annos poeni- teat.. ni « Si quis autem de minoribus.... anno uno poeniteat (Eod. de prae- datoribus furibus etc. cap. V). Ne 2 1 O Udi dv DELLA DOTTRINA PENALE ITALIANA 11 «Ex fragmentis poeniteat. Teodori cap. V (secondo il Petit. capit. collecta pag. 56). «Qui juramentum fecerit in ecclesia... septem annos poeniteat. « Sì in manu Episcopi.... sive in cruce consecrata, unum annum poeniteat... (Rede Eod. cap. IX). « Si infrengisti alicujus.... domum per noctem, et ibi tulisti ejus quadrupedia... aut fortiorem causam valentem quadraginta solida; prae- tium redde, et anno uno penitere debes; si non reddis duos annos pae- nitere debis. Si majus furtum fecisti, magis debes poenitere.... Si par- vum fecisti, decem dies in pane et aqua poenitere debis. (Poen. Rom. de Predat ec. cap. XV). Ex duobus libris Reginonis (secondo il Poe- iimiomi. tom. 4, pag. 61)». 8. Di proporzionarla in taluni casi secondo la qualità dell’ offeso. «Qui occiderit monachum vel clericum arma relinquat, et Domino serviat (Reda, cap. 15). i « Qui Episcopum vel praesbiterum occiderit, Regi dimittendus est ad judicium. capit. lib. 6, cap. 9. Ex fragmentis in spicilig. IX Acherto editis. Petit. Eod. pag. 47). De mensura poenitentiarum Comeani abatis cap. VI». 4. Di proporzionarla secondo la qualità del delinquente. « De furto, falso testimonio, et similibus, laici annum unum, clerici duos, subdia- conus tres, diaconus quatuor, praesbiter quinque, Episcopus septem annos peniteant. (Reda, cap. VI)». « Si quis fornicaverit... si clericus, tribus annis: si monachus vel diaconus , quinque annis, si sacerdos septem, si episcopus duodecim annis poeniteat ($ 16, 21, 22)». E ciò per la ragione « Ut quem minorem, major precedit, sicut ho- nore est major, ita sit in crimine. (Rab. Mauri poenit. liber cap. 1)». (Regola che corrisponde oggi alla teoria del maggior dovere violato). 5. Di proporzionarla secondo il pensiero delittuoso. « Mens atten- diturp. | Onde all’insano che commise omicidio « levior poenitentia imponenda est si ad sanam mentem pervenerit » di quella comminata'a chi lo com- mise di mente sana (P. R. de Hom. cap. VI). AI sano che lo commise per negligenza «in Episcopi sententia ma- neat... clementius, erga illos agat. (capit. Theodori 43. P. tom. 1, p. 35)». ‘Onde era maggiore o minore la penitenza secondo che si commise l omicidio per ignoranza, per infermità o per male arti, o premeditata- mente « meditatione odii. Redae Comeani abatis c. 8 (Reg. Fragmenta Petit. pag. 67) ». 12 L’ UMANISMO « Gravius est infirmitate, quam per ignorantiam, gravius industria, quam per infirmitatem penare (P. R. cap. XIV) ». Più grave la pena se delinque in idem. « Si semel aut bis furatus fuerit. Si consulerit ($ 19, 31) (ex Penit. Theodori secondo Ivone (Petit) )». «Si quis frequenter correptus pro qualibet culpa.... non emenda- verit, acrior ei accedat correctio, idest ut verborum vindicta in eum pro- cedat. (Reg. S. Benedetto cap. XXVIII) ». 6. Di proporzionarla secondo la maggiore o minore intelligenza od istruzione del colpevole, nel comprendere la violazione della legge e la misura della pena. I mezzi di correzione contro i frati di S. Benedetto dovevansi apprestare fra l’altro « secundum uniuscujusque intelligentiam. (Cap. 11, Reg. S. Benedetto). Si vero neque sic correxerit. Si intelli- git qualis poena sit, excomunicationi subjaceat. Si autem improbus est, vindictae corporalis subdatur (Cap. XXIII. Eod.)». «Omnis aetatis et intellectus proprias debet habere mensuras. Ideo- que pueri , vel adolescentes aetate, aut qui minus intelligere possunt, quanta poena sit excomunicationis (Cap. XXX. Eod.)». 7. Di proporzionarla secondo la graduazione stessa della volontà di delinquere. Colui il quale « coactus pro vita redimenda vel pro qualibet causa vel necessitate se perjurat. (Ex poenit. Teodori secondo Graziano causa XXII. 9, 5 e 3, Petit. tom. 1) » soggiaceva a penitenza meno grave di colui che spergiurò per se senza altra causa (P. R. de perjur. c. 11). Penitenz. di S. Colombano $ 33-37. E così di colui che «]ussu principis tyrannum occiderit (Cap. XX. P. R. de Hom.) vel jubente domino suo servus vel hominem innocen- tem. Liber Comeani. Eod. c. VI». Così di colui che uccise nell’impeto dell’ira « per iram subitam (Reda de remed. peccat. cap. III)». «Qui per iram et rixam et ebrietatem subito hominem occiderit, qua- tuor annos poeniteat. (Ex poenit. Rede Petii p. 66)». O per causa di amore sì rese reo di avvelenamento « Si autem pro amore quis maleficus sit, et neminem perdiderit (S. Colombano $ 18). Si quis per amorem veneficium fit, et animam perdiderit. (Ex poenit. Theod. secondo Ivone. Petit. T. 1, pag. 79) ». O per eccesso di fine « Qui per rixam, ictu debilem vel deformem hominem fecerit, reddat impensas medico, et maculae pretium, et opus ejus donec sanatur, et dimidium annum poeniteat (Teodori cap. XXIII. Petit. p. 19)». 8. Secondo fosse la pena specificamente sopportabile al colpevole. DELLA DOTTRINA PENALE ITALIANA 13 « Secundum conditionem utriusque sexus , aetatem, paupertatem , statum. (Penet. Rom. c. 18) ». $ IV.— Ciò che però completava in modo singolare il sistema di pe- nalità di quella classica scuola era il grande concetto politico di eseguire inalterabilmente la pena a fine di correggere la spinta criminosa. Inse- gnamento che dimenticato nei secoli posteriori condusse da una parte a rinnovare, anzi accrescere il rigore delle pene romane, e da un’altra al sistema delle transazioni, negazione vera di ogni tutela giuridica. Nella regola di S. Benedetto cap. XXV, trovasi insegnato di non potersi in alcun modo agevolare l’esecuzione della pena inflitta; nè di alleviarla ove fosse tassata dalla legge. « Ordinamus ideo... ut eas in- violabiliter faciant a transgressoribus observari ». E nel Penitenziale Rom. cap. XV, de Var. Crimin. è scritto. « Fra- tres nostros Episcopos et presbiteros admonemus, ne falsis poeniten- tiis laciorum animos decipiant ». E ciò maggiormente nei casi nei quali la correzione non fosse ot- tenuta: « Si quis perseverat in malo non ignosce sed judica judicium di- strictum secundum canones, ut alii timorem habeant (Bede de Remed. penat. cap. 1)». $ V.—Dai quali criterî generali discendendo a quelli che sono riferibili ‘alla teorica del concorso di più persone in uno stesso reato, ne è dato affermare, che fin d’allora, la uguaglianza , o la differenza di penalità tra i concorrenti seguiva la condizione di colpabilità di ciascuno sul duplice elemento del pensiero e dell’azione e in base ai seguenti criterî generali : 4. A quantità uguale di pensiero e di operare delittuoso come a quantità uguale di pensiero delittuoso e ad incertezza di operare uguale, corrispondeva penalità uguale. i Soggiacevano infatti alla penitenza stessa le più persone, che con proposito di uccidere aggredivano un’altra, sia che tutte o talune sola- mente di esse la ferissero di ferita donde avvenne la morte. « Si qua- tuor vel quinque homines, seu etiam plures contra unum hominem rixati fuerint, et ab his vulneratus mortuus fuerit, quicumque eorum plagam el imposuit.... ut homicida judicatur. Reliqui autem qui eum impu- gnabant, volentes eum interficere similiter poeniteant. (Poen. Rom. de Homicid. cap. XV)». Ed egualmente colui che di presenza consentì a commettersi l'omicidio. 4 4, ini dat OO ; i 14 L’ UMANISMO « Si quis ad homicidium faciendum consenserit, et consilium de- derit, et factum fuerit, septem annos poeniteat. Reginone. Petit. Eod. pag. 66, cap. XVII. (Liber Cammeani cap. VII. Eod.) ». E così colui che consentì all'incendio della chiesa « Incendisti ec- clesiam aut consensisti: si fecisti ecclesiam restitue, et pretium tuum 9 idem vireldum tuum pauperibus distribue, et quindecim annos poeni- teas (Poen. Rom. de praedator et incendiar cap. XVII (*)». E più chiaramente in altro luogo. « Si quis... quod Deo consecratum fuerit rapuerit, vel consenserit facientibus ut sacrilegus dijudicatur... (cap. I. Eod.) ». Ed anche più accentuatamente a proposito della testimonianza falsa: « Si quis periuraverit et alios sciens in perjurium duxerit, quadra- ginta dies poeniteat in pane et aqua... Et alii si conscii fuerint, similiter poeniteant... (Poen. Rom. de Hom. cap. V) ». Quantunque in questo caso nel libro del Cammeano fosse la pena anche graduata: «Qui ducit alium in perjurium ignorantem, septem an- nis poeniteat ». «Qui ductus est in periurio ignorans et postea recognoscit, anno uno poeniteat. «Qui vero suspicatur quod in perjurio ducitur, tamen jurat per consensum duobus annis poeniteat (cap. V, de perjurio et mendacio) ». 2. A quantità disuguale di pensiero e di operare delittuoso corris- pondeva penalità disuguale. Soggiaceva a pena minore colui che non cooperò nell’omicidio che aveva consigliato. « Consiliatus es homicidium, et non fecisti, et occisus est homo ille propter tuum consilium: quadraginta dies in pane et aqua, cum septem sequentibus annis poeniteas (P. Rom. de Homic. cap. XIX) », mentre la pena contro l’autore dell'omicidio commesso dal laico in per- sona del laico era: «septem annis poeniteas (cap. XIV. Eod.)». Ed a pena minore soggiaceva colui che trovandosi con altri, i quali combattevano contro uno, lanciò invano a costui una saetta od un sasso con intenzione di ucciderlo; «tamen ab aliis, cum quibus eum impugna- bas occisus est: quadraginta dies in pane et aqua poeniteas, et septem sequentes annos ita observes ut consuetudo est (cap. XXI. Eod.) ». Ed ugualmente nella ipotesi del marito che fu lenone della moglie (*) Questo frammento prova che l’ autorità di questi libri estendevansi anche ai Longobardi e che in Roma stessa era penetrato il concetto del Guidrigildo. DELLA DOTTRINA PENALE ITALIANA 15 consenziente. «Contigit tibi, ut uxor tua , te conscio et hortante cum alio viro, illa autem nolente... adulterium.perpetraret. Si fecisti, qua- draginta dies in pane et aqua poeniteas. Si autem uxor tua hoc pro- bare potuerit, quod tua culpa et tuo jussu se renuente et luctante adul- terata sit. Si se continere non potest, nubat cui voluerit, tantum in Do- mino. Tu autem sine uxoris spe in perpetuo maneas. Illa autem si consentiens fuerat eodem jejunet quae tibi proposita sunt et sine spe conjugii maneat. (Poet. Rom. de Fornicat. cap. XX) ». 3. Ad opera delittuosa senza pensiero delittuoso non corrispondeva alcuna pena. Colui il quale assistè al reato, ma non vi cooperò nè per consiglio nè per ausilio, non era in nessun modo imputabile. « Qui nec hominem impugnabat, nec vulnerabat, nec consilio, nec auxilio cooperator fuerit, sed tantum affuerit, extra noxam sit (cap. XV. Eod.)». Non così coloro i quali con l’ autore in scelere fuerunt (Eod. de var. criminib. cap. XIX) (12). 4. A condizioni eguali di pensiero ed operare delittuoso variava la penalità secondo lo stato personale del delinquente. « Non omnibus ergo in una, eademque libra pensandum est, licet in uno costriugentur vitio: sed discretio sit in uno quoque eorum », secondo lo stato di fortuna, secondo lo stato politico e civile, secondo l'età, se- condo lo stato di mente ed anche secondo la maggiore o minore in- clinazione a delinquere (Beda de remed. peccat. cap. 1. in fine). Potrebbe parere a taluno che questa dottrina fosse un sommario delle regole già codificate nell’ Editto. Se non che ove si raffrontino le date dei Penitenziali che la contengono: le fonti, cioè i concilii o i Decreti dei Pontefici onde fu tratta, si vedrà. senza dubbio, che da essa come maggiormente andava a diffondersi Ja giurisdizione dei Vescovi, ebbero origine le riforme che vennero dopo la pubblicazione di Re Rotari. L'istituto infatti della Pace, quale mezzo di riconciliare i discordi animi, e di sedare le risse ed il sangue, era già imposto ai Cristiani dal Penitenziale Romano, e nel libro di Rabano Mauro, come abbiamo visto, prima che colla legge XII della riforma di Re Luitprando del 1° marzo 723 venisse introdotto nel Giure Longobardo come precetto ai Giudici ed Officiali propri del Re, e come facoltà ad ogni altro Scul- dascio « Si quis judex aut auctor publicus in qualecumque Civitate , aut locum inter alios homines, qui aliqua discordia habet trevvas tulerit, et unus ex is hominibus inter quos ipsa trevvas facta sunt eas ruperit, medietatem de ipsos trevvas comp. in publicum et med. illius cujus 16 L’ UMANISMO causa est. Et ipsas trevvas non sit minus, quam ducentas sol: qui aut amplius forsitan pro majoribus: causis ponere voluerit sit ei licentiam ». Istituto che più tardi allargato dalla legge 2° di Carlo Imperatore, sotto il titolo 37 de faidosis etc. lib. 1... « Et faidosus si quis fuerit; disen- tiatur, et hunc is qui ex duabus contrariis fuerit, aut pacificatus fiat, aut distringatur ad pacem etiam si noluerit etc...» E meglio disciplinata dalla legge terza dell’imperatore Lotario sotto lo stesso titolo: « De his, qui discordiis et contentionibus studere solent, et in pace vivere volue- rint, et inde convincti fuerint, similiter volumus, ut per fidejussores ad nostrum palatium veniant, et ibi cum nostris fidelibus consideremus quid de talis hominibus faciendum sit », si vide trasfuso e conservato in quasi tutte le leggi statutarie. i L’istituto della sorveglianza contro gli sprezzatori delle leggi, adom- brato nella riforma di Re Luitprando dell’anno 717 Leg. 8 venne introdotta da prima colla legge di Carlo Imperatore «de contemptoribus legum leg, 1. Tit. XXI. De his qui legem servare contempserunt , ut per fi- dejussionem in presentia Regis deducantur ». E disciplinato dopo da un’altra legge di Lotario « de contemptoribus. Tit. LV, lib. 2. Placuit nobis, ut si pro quibuslibet causis, culpis, atque criminibus, quaecumque persona toties fuerit contemptor, ut etiam excomunicatione episcopali pro contemptu digna habeatur. Comitem suum Episcopus sibi sociat, et per amborum consensum hujuscemodi distringatur contemptor, ut jussioni Episcopi sui obediens existat. Sî . vero assensum non dederit, bannum nostrum nobis persolvat ». «Quod si adhuc contumax extiterit, tunc ab Episcopo excomunice- tur, si vero excomunicatus corrigi nequierit, a Comite in vinculis distrin- gatur quousque... suscipiat judicium. Si vero Comes in talibus requi- situs fuerit noxius per Episcopum ejus nobis nunciatur etc....» E ciò a complemento di una legge di Carlo « de officio judicis » con cui era fatto precetto al giudice d’imporre con giuramento ai credenti ; «per civitates... seu foras per curtes, vel vicos, ubi manent... ut cui... cognitum fuerit homicidia, furta, adulteria... nemo concedet. Leg. XV, lib. II». i L’istituto dell’Asilo venne accettato : In quanto ai servi fuggitivi nella riforma di Luitprando dell’ anno 785 colla leg. 4. tit. 39, lib. 44. « De reverentia Ecclesiae etc. Si cuju- scumque servus aut ancilla Aldus vel Aldia in Ecclesia Dei confugium fecerit, et dominus vel patronus eorum aut per se, aut per missum suum exinde eos violenter traxerunt, componat vridrigild suum in suprascripta sancta basilica, unde expulsi fuerint etc. ». È DELLA DOTTRINA PENALE ITALIANA 17 E come mezzo di garenzia dei colpevoli nella legge 11. Tit. stesso: «Ut homicida et rei caeteri, qui legibus mori debent, si ad Ecclesiam Dei confugiunt, non excutiantur, neque eis ibidem victus detur ». Ed in quella di Ludovico Imperatore I, sotto il titolo stesso: « Si quis ad Ecclesiam Dei confugerit intra atrium ipsius Ecclesiae pacem habeat; nec sit necesse ei ecclesiam ingredi, et nullus eum per vim inde abstrahere praesumat, sed liceat ei confiteri quod fecit, et inde per ma- nus bonorum hominum in discutione in publicum perducatur ». La sicurezza del giudizio penale mediante la prova per testi, s’in- sinuò fino ad eccettuare dall’esperimento delle pugne i giudizî intorno la legittimità dei cittadini, le pretensioni del Mundio, le accuse dei ma- riti contro la onestà delle mogli. Grimoaldo infatti nella riforma del 28 luglio dell’anno 668, premessa la necessità di correggere nell’ Editto «ea quae dura et impia per sug- gestionem judicum, omniumque consensu, visa sunt », dispose fra le al- tre cose nella legge seconda giusta il codice Cavense di potersi provare con la attestazione di degni cittadini la libertà dei servi se posseduta per anni trenta. «De liberis, quibus constat XXX anni in libertate sua permanissent, nullam per pugnam paciantur violentiam, sed liceat eis libertatem suam habere et si eos quecumque pulsaverit, liceat illi cum sacramentalibus suis legittimis se edoniare », di aver vissuto come cit- tadino Longobardo. E nella settima: «Si quis uxorem suam incriminaverit asto , extra causa legittima quasi adulterasset, aut in anima mariti sui tractasset liceat etc. ». E più spiccatamente nella riforma di Luitprando dell’ anno 717 in cui per la prima volta codificandosi la prova testimoniale, s’indicano le qualità dei testi, e si determina che sui detti e credibilità di essi debba basare il convincimento del giudice: « Si quis qualicumque causa inter colibertas aut parentes evenerit... et homines boni tres aut quatuor in- terfuerint... Testes illi tales sint quorum opinio in bonis precellat ope- ribus, et quibus fides amittitur, vel quibus Princeps aut judex credere possit....», leg. 8. ‘Sistema che venne ampliato e completato, proibendosi la esclusione e la limitazione dei testi a difesa.... « nullatenus praesumant alicui ho- mini sua testimonia ‘tollere, aut extrahere etc... Leg. 9 di Carlo Imp. lib. 41. tit. 52 de testibus ». ‘Ordinandosi al Conte di chiamare di officio quelli non potuti pro- durre dalla parte: « Decernimus ‘enim, ut si quis aliter testes habere h) 18 L’ UMANISMO non potuerit, ut per Comitis jussionem testes, quos in suo testimonio necessarios.... in publico conventu adducantur, ut per ipsos rei veri tas,... valeat inquiri. Leg. 16 dell’Imp. Lotario lib. 11 de offic. judic. ». Legittimando i testi in genere sia in ordine alle loro qualità « non habentes malam famam » (leg. 17 Eod. de testibus) sia in ordine alle ripulse (leg. 11 Eod.), sia in ordine al tempo da far loro “REESE il giuramento, ed esentarli (leg. 2. Eod.). La dottrina stessa in ordine alla imputabilità, ed alla penalità in genere s’insinuò in parte dopo l’ abolizione del Guidrigildo fisso, l’ am- missione delle leggi personali e delle pene corporali per taluni reati. Infatti il concetto che la pena debbe essere diretta contro la spinta a delinquere venne accolto nella legge 1 di Errico Imperatore: « Qui- cumque propter cupiditatem rerum, patrem , aut matrem, aut fratres, aut sorores... per se aut per alium interfecerit, haereditas interfecti ad alios suos legitimos haeredes pertineat: haereditas vero interfectoris in fiscum redigatur...» Lib. 1, tit. X. L’altro, che la pena deve moderarsi secondo il proposito e la vo- lontà di delinquere, venne benchè imperfettamente accolto nella leg. 11 dello Imperatore Lodovico... « qui ignoranter peccaverit, non tantum se- cundum legem componere cogatur, sed juxta quod visum fuerit possi- bile; is vero quantum malum voluntarie perpetraverit, totam legis com- positionem cogatur exsolvere » (lib. 41, tit. 2). E troviamo trasfuse altresì nelle posteriori riforme le regole, di gra- duarsi le pene secondo la qualità dell’ offeso: « Qui subdiaconum occi- derit, 300 solidas componat, qui diaconum 400 etc....» (leg. 27 di Carlo imper. lib. 1, tit. de homic. liber. hom.). Secondo le circostanze di tempo e di luogo in cui era l’offeso: « Qui hominem liberum publicam poenitentiam agentem interfecerit bannum nostrum componat in triplum....» (leg. 29 di Ludovico Imper. Eod.). Secondo la qualità della persona (leg. 34, di Lotario — tit. XX, lib. 1, leg. X, dello stesso tit. Eod.). Per la consuetudine a delinquere in idem «De latronibus ita prae- cipimus.... ut pro prima culpa non moriantur sed oculum perdant, de secunda nasos.... de tertio anno si non emendaverint emendantur », (leg. 49 di Carlo imp. lib. 4, tit. XXV de furtis). Ciò che però venne a preferenza accettato fu la dottrina intorno il concorso di più persone in suo stesso reato, contemperandosi insieme il sistema Longobardo ed il Romano. Infatti Luitprando nella riforma dell’ anno 733 modificando il concetto dell’ Editto accettò la regola che DELLA DOTTRINA PENALE ITALIANA 19 a quantità uguale di pensiero delittuoso, dovesse corrispondere penalità uguale. Proposto il caso di colui il quale dica al servo di altra persona «veni et occide dominum tuum, et ego tibi habeo facere bonitatem quam volueris » nè contento « presemialiter diceret eidem puero feri dominum ‘tuum... et iterum dixit ei feri eum adhuc, nam si non ei ferieris, ego te ferire habeo » sanziona che questo caso in quanto alla composizione non debba considerarsi sotto la legge «de consilio mortis » siccome taluno opinava. « Sed nobis et nostris judicibus ha millam modo placuit quam consilio mortis inoccultasse et concinuatum, et aliquociem perfi- citur, aliquociem vero non perficitur. Nam hoc homicidum presenciali- ter factum est, et nos non dicimus esse consilium, quando hoc alteri homine verbo tenus, et presencialiter ostendit , et dicit ferì hominem istum. Ideoque qui tale malum commiserit et probatuum fuerit non componat consilium mortis, sed camp... ut perdat omnem substantiam suam et medietatem accipit exhinde heredem defuncti, et medietafem curtem Regis...». E propostasi l’altro di colui che induce a spergiurare, già scritto nel Penitenziale Romano ed indicato in un decreto di Papa Pelagio molto prima della compilazione dello Editto, lo trasfuse nella legge X nella riforma dell’anno 724. « Si quis testimonium falsum con- tra quemcumque reddiderit aut in carta falsam per scientem manum po- suerit. Et ipsa fraus manifestata fuerit componat guidrigild suum me- dietatem. Regi et med-cujus causa fuerit... Et ille qui alium rogat te- stimonium falsum dicere... sic componat sicut et ipsi falsi testes com- ponere jussimus: pro eo quod ipsum malum per ipsum fuit inchoatum». Anzi estesa la regola anche al caso in cui chi operò il delitto fosse più o meno irresponsabile. Colla riforma dell’ anno 734, egli condannava al componimento quegli uomini perfidi ed astuti, che onde scansare la pena dello Editto «fecerunt colligere mulieres suas.... et miserunt eas super homines qui minorem habeant virtutem.... Et si.... feritas aut plagas fecerint... ma- riti eorum comp. ipsas plagas, aut feritas quas ipsae fecerint secundum tenorem Edicti (Leg. 5, tit. XVII, de aggressione, lib. I)». L’altra regola poi della disuguaglianza della pena «a quantità di- suguale di pensiero e di operare delittuoso », che era già criterio fonda- mentale dello Editto, venne estesa ed applicata al caso dell’ eccitamento di un fatto che non può compiersi se non dalla sola persona eccitata, come nella ipotesi del marito lenone della moglie consenziente, e per cui quegli era sempre punito in meno. «Si quis coniugi sua malam li- 20 L’ UMANISMO centiam dederit dicendo: — Vade concumbe cum tale homine, aut di- xerit ad hominem veni et fac muliere mea carnis commistionem, et tale malum factum fuerit, et causa probata fuerit, quod per maritus ejus factum sit. Ita statuimus; ut illa mulier qui hoc malum fecerit, et con- senserit moriatur... Ille autem vir ejus, qui ei tam malam licentiam dedit... comp. ad parentes ipsius mulieris suae, tamquam in scanda- lum occisa fuisset... et res ejusdem mulieris, si filius habuerit ipsi ha- beant, et si filias non habuerint revertatur ad parentes ipsius mulieris (diseredando così il marito). Ille autem homo, qui ipsam mulierem adul- teraverit quamquam cum viri ejus consilio , fiat traditus in manus de parentis ipsius mulieris....» Non farò altri confronti bastandomi affermare che allargata vieppiù dopo Carlo Magno la giurisdizione dei Vescovi, causa dirò principale della fusione delle diverse razze e della Costituzione del Comune, molte altre massime di quella preziosa dottrina vennero accolte nelle riforme posteriori rendendosi sempre più umano il Dritto scritto, relativamente al modo di custodia dei rei; alla loro contumacia, per cui alla pena del bando ma non mai a quella del reato erano condannati. Leg. 3 e 4, di Lodovico Imperatore Ist. XLIV, lib. 11; alle difese idi officio — Leg. 12. Eod. alla « Pars publica » per muovere l’ azione penale di ufficio; al sollecito disbrigo dei giudizî; alla non retroattività della legge; al di- vieto di riagitare le cause definite; ed alla maggiore graduabilità ed u- manità delle pene, a base di scusanti, o derimenti, o attenuanti sic- come largamente si raccoglie dalle altre riforme di Luitprando e da quelle degli Imperatori Carlo, Pipino, Ludovico, Lotario ed altri. Odiernamente si afferma che in proporzione dei progressi della mo- ralità e della prosperità pubblica deve essere raddolcito ìl sistema pe- nale tanto nella forma delle procedure, che nel contenuto delle sanzioni penali, e si aggiunge che a ben giudicare dello stato morale e civile delle diverse Età di un popolo, nulla val meglio che consultare la Dot- trina giuridica. i Or se ciò può ritenersi criterio esatto, possiamo dire che quella Età non fu Barbara; che è veramente provvidenziale la missione di Roma a costituire socialmente il Diritto; e che secondo l augurio del Leopardi, e le speranze nostre, per questo attributo quasi esclusivo tra le Nazioni civili, REGINA TORNERÀ LA TERZA ‘VOLTA. REO-EE (1) Se l’avvenimento dei Longobardi fosse a fissarsi nel maggio dell’anno 569, ov- vero del 568 fu lungamente controverso: In generale si segna questa data sull’ auto- rità di PaoLo Diacono Lib. II, cap. 7, ed anche a base delle lettere di S. Gregorio , quantunque da un frammento di Secondo da Trento possa ritenersi la prima data. TRovA, | Cod. Diplomat., vol. 4, parte. 1, pag. 21. V. Cantu’, Storia degli Italiani, vol, 3, cap. LXI e note relative. (2) Tra gli scrittori antichi e moderni possono in preferenza riscontrarsi: ProcopIo, Hist. Arcan., cap. ll, 18. PaoLo Diacono, De gestis Longobard., Lib. II, cap. 5. CancianI, Leges Barbaricae. Antichità Longobarde Milanesi. Donato AnToNIO D’AstI, Dell'’uso ed autorità della ragion civile. ANNALI-MURATORI. CamiLLo PeLLEGRINO, Storia dei Principi Longobardi. ZANETTI, Del regno dei Longobardi. CarLo DI Tocco, Glossae in leges Longobardorum. NicoLa BoERIO-SEHALIA. ANDREA DE BaruLo, Commentaria in leges Longobardorum. E più specialmente. In quibus discordat Jus Long., a Romano. GIANNONE, Storia Civile del Regno di Napoli. E tra gli stranieri. I. CaristIus, Origines Longobardicae. ScHEMIDT, De Longobardis. SavignY, Storia del Dritto Romano, etc. (3) Non è più controverso che da quella Età e dalle leggi longobarde son prove- nute non solo una parte deile principali consuetudini e dei principali istituti di Dritto Civile, ma bensi non pochi di Dritto Pubblico, tra cui si posson noverare: 4. Il sistema rappresentativo che forse più corretto dell’attuale funzionava nelle Diete Generali composte dei cittadini principali di tutti gli ordini del Regno per con- correre a discutere, approvare e sanzionare le leggi. 6 22 L’ UMANISMO 2. Il concetto della libera personalità umana nei rapporti della città e della fa- miglia, di fronte alla soverchiante potestà Patria Romana ed alla potestà del Duca. 8. Il giudizio a giurati, che mette capo nell’istituto dei dodici sacramentali. Vedi Ugon Grozio nei Prolegomeni alla storia dei Goti, StRruvio, Storia del Dritto Criminale. Tanucci, De Pandectis Pisanis. DenINA, Delle rivoluzioni d’Italia. Tom. 1. SIGNORELLI, Vicende della cultura delle due Sicilie, vol. 2, pag. 39. Contro il merito della legislazione Longobarda stanno specialmente: Il giudizio di Luca pa PENNE, Longobardas leges fuisse factas a bestialibus, neque mereri appellari leges, sed faeces. (Leg. Unica de Gladiatoribus, lib. Il). Quello di AnpreA DE IsERNIA che la chiama Jus asininum. Quello di MARANTA, disp. 2, e di CaRAVITA in Rit. 292 che le dissero: Foez, non lex. Quello di Grovan Vincenzo GRAVINA, De Ortu et progressu juris Civilis. Lib. I ca- pitolo 139, in cui ne scrive: Pudendae leges sive potius Barbari ingenii libidines. Quello del TiraposcHi, Storia della Letteratura, Tom. 3, lib. II, cap. 1. Del Marrei, Storia di Verona, lib. X. Ed anche un poco quello dello stesso ALEssanpRo MANZONI, Discorso sopra alcuni punti della storia Longobardica in Italia, cap. IV. Stanno in favore, oltre i nominati in principio: Monrtesquieu, Esprit des loix. PurFeNDoRFIO, NieBHuR, BaLDo, SismonpI, Republiche Italiane, cap. I. FiLanGIERI, Scienza della Legislazione, lib. III. Borgia, Memorie storiche di Benevento, anno 1764. E sopra tutto il fatto, che sotto Carlo III una caltedra venne istituita nella Università di Napoli per la esposizione del Diritto Longobardo (Vedi SIGnoRELLI nel luogo sopra citato). Pietro GIANNONE nella Storia Civ., lib. III, scrive che le loro leggi e ì loro costumi, sebbene non potranno paragonarsi con quelle degli antichi Romani, non dovranno però posporsi a quelle degli ultimi tempi dello scadimento dell’Impero. Vedi pure CarLo PeccHIo, Storia della G. Corte della Vicaria, lib. I, 326. Ed il Trova, Cod. Diplomatico Longobardo. Vol 4, parte 2, pag. 368 ed in altri luoghi. (4) La promulgazione del Cod. di Giustiniano era avvenuta in Ravenna verso il 540 Trova, Storia d’Italia del Medio-Evo, lib. 51, vol. 3, pag. 66). Dì seguito nell’anno 554, quando cioè si ebbe riacquistata quasi intera l’Italia dopo la disfatta dei Goti, Giustiniano sulle istanze di Papa Vigilio promulgò, inviandola ad Antioco Prefetto per l’Italia, la Prammatica sanzione, con cui, ma invano, cercò prov- vedere fra l’altro agli studi di Roma, alle giurisdizioni ed alla legislazione. Intorno agli studi del Diritto di Roma è noto che erano tenuti nel Campidoglio, e che vi restarono fino ai tempi di Atalarico ed Amalasunta; che cessarono affatto al tempo della occupazione di Totila, in cui, quantunque non mancassero gli antecessores, mancavano affatto gli studenti. Ed è altresì noto che Giustiniano sull’esempio di Teodo- sio, raccolta nel Cod. lib. XI, tit. 18. De studiis liberalibus, la legge 3° del Cod. Teodos., lib. IV, tit. 9, intorno alle cattedre di Dritto; ne estese anche il numero dei professori destinandone quattro in Roma, due in Costantinopoli, e due a Corinto. La scuola di Berito nella Fenicia, che era servita per tutte le provincie orientali | n. DELLA DOTTRINA PENALE ITALIANA 23 e meridionali dello Impero, ed a cui appartennero i giureconsulti Papiniano, Ulpiano ed altri non meno rinomati, decadde allorchè quella“città fu privata della prerogativa di Metropolitana dal Concilio di Calcedonia, e cessò affatto quando il terremoto del 554 ne ebbe scacciati gli studenti. Intorno le giurisdizioni e la legislazione Giustiniano con la suddetta Pramm. San- zione dispose che oltre il Codice dovessero essere in vigore i Digesti e le Novelle ed applicarsi non già da Giudici Militari, ma da giudici scelti da” Vescovi e dagli Ot- timati delle Provincie. Iura insuper vel leges Codicibus nostris insertas, quas jam sub edictali pragmatica in Italiam dudum misimus, obtinere sancimus: sed et eas, quas postea promulgavimus constitutiones, jubemus sub edictali propositione vulgari, ex eo tempore quo sub edictali pragmatica evulgatae fuerint, etiam per partes Italiae obtinere, ut una, Deo volente etc. Costituz. Prammat. di detto anno. Di quel tempo le provincie di Aosta, di Susa e le valli del Mata e di Lanzo erano in potere dei Franchi, e vi rimasero finchè da Carlo Magno furono restituite al Regno Longobardo. (Trova. Cod. Diplom Longobardo, vol. IV, parte I, pag. 75, 81). (5) Possono principalmente riscontrarsi le affermazioni del Troya ed i documenti da lui riferiti nell'opera sopra citata. Vedi specialmente vol. IV, parte I, pag. 24, n. 2, p. 201, vol. IV, parte II, pag. 141, 174, n. 92, 184, 185, 191, 203, n. 138, 267, 319, 358 etc. (6) È noto che con gli editti introducevansi azioni ed eccezioni, onde adattare ai fatti la inflessibilità delle formole patrizie, e dare al Diritto Civile una espansione più con- forme al buono ed all’equo. La querela inofficiosi contro la diseredazione dei figli ; la fazione del testamento del prigioniero presso il nemico, che per validarlo riportavasi al momento precedente alla cattività; in genere tutte le finzioni di Diritto, cogli stessi ‘quasi contratti e quasi delitti, si sottoposero ad azioni civili molti di quei doverì che prima giudicavansi di pura coscienza. La idea cristiana intese alla prevalenza del Gius delle Genti sul Civile; a vinéere colla filantropia la violenza dei vincitori; a correggere l’asprezza della potestà patria, a proibire l’aborto; ad impedire che la persona umana fosse assorbita nello Stato; ad estendere sempreppiù i doveri non solo di giustizia, ma pur quelli di benevolenza. Vedi TRopLoNG, Influenza del Cristianesimo sopra la legislazione. (7) Tutto ciò provano non pochi documenti, tra cui: 1. una donazione del prete Gra- zioso alla Chiesa di S. Maria di Cremona dell’anno 666 e specialmente il seguente brano, tutto di letteratura giuridica romana. Do, cedo, transfero in jus et dominium. (TRoyA, parte II, pag. 511, vol. IV). 2. Una lettera di Damiano di Pavia. (Eod. pag. 547). 3. Varî brani di concetto Romano che si trovano fusi nelle lettere di Papa Pelagio, di Papa Eugenio e specialmente di S. Gregorio. In quanto alle Biblioteche il Troya accenna fra le altre a quella del Capitolo di Verona, ove era l'insegnamento de’ Preti di sangue Lombardo. (Eod., p. 9). . In quanto alle scuole è certo che non mancassero nelle Cattedrali delle città del regno ove i sacerdoti concorrevano ad imparare insieme al latino anche le leggi di Giu- stiniano. Il TroyA riferisce che il Vescovo di Fiesole, come egli stesso affermava: per plures annos in Ecelesia sancti Donati nutritus et literis edoctus (Eod., p. 202). 24 L’ UMANISMO E dalle formole antiche: procurationum Episcoporum sì raccoglie: Sotto l’anno 810, che l’ arcivescovo Ebroino presentando a Magnone arcivescovo Lenorensis il prete Dodobarto raccomandavalo fra l’altro per essere in sacras literas edoctum. i Sotto l’anno 868, che Willeberto indicato Vescovo, ed interrogato dal Metropolitano dove avesse studiato, rispondeva: In schola Turonica liberalibus disciplinis traditus sum. Il Troya riportando sotto l’anno 689 una iscrizione latina composta da Benedetto Arcivescovo di Milano, afferma che Luitprando commettesse il più delle volte ai Ve- scovi di compilare le leggi del Regno, ed opina che queste non fossero dettate origi- .nariamente nello stile scorretto in cui si leggono nei Cod. di Cava, di Vercellio e d’I- vrea (pag. 29 n. 1, v. IV, parte III). Tra i dotti e giuristi del tempo si fa menzione del Signorelli (Tom. II, pag. 51 e seg.) di S. Bonifacio IV Abbruzzese, Bonifacio V Napolitano, Onorio I Capuano, Aga- tone I, Conone II, e Sergio I Siciliani. E tra gli altri scrittori rinomati, di Teofane Siciliano, Abate di Raja di Siracusa. Il Troya sotto l'anno 698 giusta il Rifmo Babbiense riferisce di un Teobaldo — Se- gum poritissinus—cioè nelle leggi Longobarde e nelle Romane Ecclesiastiche (Part. III, vol. 4, pag. 117. : Sotto l’anno 689 accenna ad un prete Gariberto Diacono della Chiesa di Cremona. Sotto l’anno 723 ad un Aldone Arciprete della stessa Chiesa, occupato nella ri- cerca di antichi monumenti ed autore di due libri col titolo di Episcopologio e Meno- logio della chiesa di Cremona. (Parte III, vol. IV, pag. 27, n. 1-2). E fra gli altri a Paolo Diacono. Il Pertz da una iscrizione rileva che Romualdo Duca di Benevento fosse Mon- dana lege togatus (Monum. Germ. n. 482). Il Signorelli stesso parlando di Arechi ultimo Duca e primo Principe di Bene- vento afferma che oltre le varie opere sacre, scrisse un Editto di diciassette capitoli. (Luogo sopra citato). Intorno ai frequenti viaggi dei preti e pellegrini Longobardi a Roma il Troya stesso (Eod. p. 197), riferisce un documento del 715, ed aggiunge che dai giornalieri commerci di costoro, detti di poi « Romei » si comprende agevolmente quanta parte di vita Cattolica, e perciò di Dritto Romano ed Ecclesiastico si venisse trasformando presso i Longobardi, etc..... Ed un altro documento dell’ anno 707 prova l’uso degli avvocati delle Chiese del Regno Longobardo che eleggevansi dagli Sculdazii ad altri giudici emeriti della Città. (Pag. 93, n. 3, Eod.). (8) All’impeto delle prime armi Longobarde e dei primi asprissimi danni, alla di- visione dei Romani sopravvanzati sopravvenne più o meno presto la reciproca tolle- ranza, sopravvennero le incorporazioni dei rifugiati, dei tributarii, dei manomessi, e più l’ amalgama dei connubi. Onde il diritto della Caderfrede pur rimanendo legge i territoriale per tutte le genti soggette nelle due sue principali manifestazioni di Dritto Politico e di Dritto Penale, non potè per necessità di ‘cose essere escluso nelle materie - di di Dritto privato e di religione. ì Da più lettere di S. Gregorio si rilevano: 1. I suggerimenti da lui dati ai Vescovi Cattolici dell’Italia Longobarda per pre- dicare ai barbari e convertirli: Quos ergo potestis admonere, quanta rirtute valetis, eos » DELLA DOTTRINA PENALE ITALIANA 25 ad fidem rectam suadendo rapite. E ciò mentre lamentava di avere Re Autari proibito battezzare Longobardorum filios in fide Catholica (Lib. 17, an. 590. 2. Gli ordini dati a Crisaudo vescovo di Spoleto di provvedere di un sacerdote la chiesa di Bevagna. Hortamur igitur fraternitatem tuam... reperire personam dignam ad Episcopalis officii apicem promoveri. (Let. 64. Lib. 3. Anno 593). 3. L’annuenza data ai preti della Città Longobarda di Fiesole a riscuotere denari dovuti loro: sub testamenti, pagina; per rialzare le loro chiese. (L. 44, lib. 10, Ann. 600). Intorno la giurisdizione volontaria e contenziosa sappiamo che il prete Filacrito lamentando di essergli dalla chiesa Longobarda di Tortona stata tolta una vigna, ed il servo Mauro con la moglie ed i nipoti, S. Gregorio rescrisse a Costanzo Vescovo di Milano; in quanto alla vigna che fosse restituito il possesso : ut sua cuique parti integra post hoc maneat de proprietate cognitto. Ed in quanto al servo e famiglia del servo fossero dal Vescovo di Tortona senza contesa restituiti se costasse il fatto come era stato rappresentato. Ed ove il Vescovo contradicesse; in questo dovesse lo stesso Costanzo giudicare da sè o a mezzo di arbitri: Qui si aliter esse forte responderit aut apud vos, aut apud arbitros causa haec cognoscenda sine excusatione est aliqua facienda... E discussa la causa : quaestione ventilata, sì decidesse dal sopradetto Mauro secondo ragione : quod ratio suaserit, come pure della moglie di lui: sî aliqua dicitur esse con- tentio de uzxore ipsius, et hoc quoque ita interventu iudicit siniatur , vobis illis praesen- tibus... (Lett. dell’anno 593, lib. IX, n 126), Giurisdizione che comprendeva anche le materie penali. Da una lettera di S. Gregorio dell’ anno 600 (Epist. 29, lib. X), si rileva che lo stesso Costanzo riapri un processo per crimine contro un Vescovo di Sicilia Pompeo, il quale era già stato giudicato ed assoluto da Massiminiano Vescovo di Siracusa, e che S. Gregorio non accettò la nuova sentenza di condanna sia per non trovare suf- ficiente le prove : gesta quae erinde apud fraternitatem vestram confesta sunt neque ad condemnationem, neque ad absolutionem ejus probantur posse sufficere; sia per temere che a lui fosse stata estorta la confessione: cruciari custodia cremarique fame; e più per non essere stato presente al giudizio : postquam et persona absens est. Dopo Carlo Magno non fuvvi Chiesa che non si facesse privilegiare di particolare giurisdizione e ciò tanto pel crescere della ignoranza, quanto pel crescere le profes- sioni di legge. Ma per l’innanti e specialmente. sotto Luitprando nega il Troya fosse stata con- cessa ai Vescovi la giurisdizione ordinaria civile (Trova, vol. IV, parte 3, pag. 378, n. 1, pag. 392; n. 5 e 6). La giurisdizione era esercitata dal Duca, o dal giudice sia Regio sia della città, dallo Sculdascio, e dal Messo Regio. Idem p. 371. Ed intorno al luogo ed al modo di esercitarla sappiamo che erano distinti gli atrii delle chiese, dove i ve- scovi in presenza delle parti e talvolta in presenza di difensori d’ufficio rendevano giu- stizia, come un tempo erasi fatto nelle basiliche, esse stesse successe ai portici chiusi dopo l’esempio di Catone. Vedi Trova, vol. IV, parte 2, pag. 313, nota 313, intorno le parole: ante Ecclesia in Conventus, della legge 353, di Rotari. (9) Degli usi romani compresi nell’Editto si possono specialmente noverare : 1. Quello della prelevazione in favore del fratello rimasto in casa cogli altri, di quanto acquistò : in obsequium regis, vel judicis. Legge 167, e che il Savieny riferisce all'istituto del peculio castrense o quasi castrense. (Istor. del Dir. Rom. 11, 133). Y 26 L’ UMANISMO 2. Quello della diseredazione in danno dei figli colpevoli. Legge 169: /ustas au- tem culpas exheredidandi filias dodos esse dicimus.—Si filius contra animam, aut sangui- nem patris sui insidiatus aut consiliatus fuerit, aut si patrem percussit voluntarie, aut si cum matrina sua idest noberca peccaverit (Nov. 115, di Giust.). 3. La risoluzione della donazione per ingratitudine per le causa stesse per le quali potevansi diseredare i figli. Legge 174. 4. L’ istituto della prescrizione di cinque anni con giusto titolo e possesso di buona fede tra presenti. Leg. 227 : Si quis comparaverit terram , idest solum edifican- dum, aut casam mancipiatam, et quinque annos inter presentes personas possiderit... tunc liceat cum firmiter possidere quod sibi paravit. 5. L'appartenenza dei frutti al padrone del campo se alcuno di mala fede lo a- vesse seminato. Leg. 354: Si quis campum alienum araverit sciens non suum, aut se- mentam aspergere presumpserit, perdat operas et fruges, et ille qui campum ipsum suum probaverit habeat fruges. (Dig. Lib. 22, tit. 4. Leg. 25, inepn.). 6 La stima dei danni recati dagli armenti alle messi ed ai prati secondo la consuetudine dei luoghi. Leg. 344: Sicut arbitrium fuerit et loci consuetudo est. 7. La dottrina della tradizione codificata nella legge 183. E degli usi Cristiani : 1. Quello relativo alla materia degli impedimenti a contrarre le giuste nozze. Leg. 185 : Non liceat noveriam suam idest matriniam... neque privignum.... neque co- gnatam... urcorem ducere, et si ipsa consenserit, vir qui eam ducit componat pro culpa solid in curte Regis et mox sepuratur ab ea constrictus a rege ete. 2. Quello di limitare sempre più la prova della pugna, e sostituire ad essa la prova per testi degni della libertà posseduta dai servi per più di anni trenta. Leg. 2, della riforma di Re Grimoaldo del 28 luglio 668. Che fu senza meno conseguenza della formola della manomissione contenuta nel libro : Diurno dei Pontefici sotto la rubrica: Praeceptum libertatis, GarNnERI, Lib. Diurnus, Cap. VI, tit. XXI, p. 116. 8. L'istituto della rappresentanza concorrendovi dal nipote alla successione al- l’avo unitamente agli zii. Leg. 5: Talem partem percipiant de substantia avi sui, una cum patriis suis, qualis pater eorum inter fratres suos percepturus erat sti vivus fuisset. (Nov. 118, Savieny, 11, 132). (10) Non ostante la pubblicazione dell’Editto, taluni degl’ Istituti Romani seguita- rono ad insinuarsi presso i Longobardi mediante l’opera dei sacerdoti Cristiani siccome regole in ciò che ad esso non contrario non era previsto e regolato. Incontriamo infatti fin dal 650 un esempio di enfiteusi concessa dai sacerdoti e dia- — coni della chiesa di S. Maria di Cremona, che era città Longobarda : Scilicet ad te- nendum, habitandum et meliorandum unam domum cum horto... quod meliorata reddat... et singolo anno solvat pro ficto livellario saldo quinque moneta bona , et expendivile. Trova, Cod. Diplom. Longobardo, vol. 4. Parte II, pag. 483. Si riscontri pure la dottrina di ZENONE AUGUSTO. Fin dal 660, un esempio di testamento di Giovanni Vescovo di Milano, che istituiva erede în suis facultatibus, la chiesa di S. Ambrogio. Fin dal 635, un esempio di legato. disposto da Eriprando Duca di Cremona in favore della chiesa di S. Maria Maggiore. di quella città (Trova, Eod. pag. 570, 572. Nell’anno 686, un esempio di donazione non già secondo l’art. 173, dell’Editto, ma ad uso Romano, che Cataldo ed i fratelli deli- ziosi del Re, fanno con riserva di possesso ed usufrutto in favore dell’ Ospedale dei santi Eusebio e Sireno di Cremona. DELLA DOTTRINA PENALE ITALIANA 27 All’anno 706, l’assenso del Duca di Ariberto II, al Vescovo Emiliano II, di Ver- celli, a potere accettare : De donis regum, aut aliorum largitate vel comparitione tam de Arimaniis, quam de libertis seu alditionibus... Trova Eod. pag. seguente. (Onde in- novavasi grandemente al sistema successorio stabilito nell’ Edilto. All’anno 708, sotto Romualdo II, Duca di Benevento, un esempio di Dritto di Pa- dronato. Troya, Zod. p. 99, n 2. All’anno 703. Un esempio di vero testamento fatto in favore della chiesa di san Pietro in Lucca da un tal Fortunato e figli: quam mihi haeredem constitui. (Eodem, pag. 134). All’anno 722, l’esempio di una stipolazione ad uso Romano nella fondazione di un monastero di monache (Eod. p. 341). Né è improbabile che ad uso Romano venissero regolati i contratti di permuta, di società, le transazioni stesse ed altri bisogni non previsti dall’Editto. Ciò spiega le posteriori riforme introdotte da Luitprando, e di cui uopo è riferire. Sotto l’anno 713, la legge, con cui si permette per la prima volta l’uso dei testa- menti : pro anima limitativamente però in favore dei soli infermi. Leg. St quis Lon- gobardus... L’altra sotto l’anno 720, che l’uso dei testamenti pro anima allarga in favore de- gli infermi anche se minori di anni 18. (Leg. 10), secondo il Comp. L’altra sotto l’anno stesso che codifica l’uso della manomissione dei servi innanti l’altare secondo la formola del libro diurno (Leg. 19), riformando la 229, di Rotari. L’altra sotto l’anno 725, intorno la efficacia della ipoteca speciale (Leg. 47). E Spiega in preferenza la poca o nessuna difficoltà incontrata nel grande mutamento del 1 marzo dell’ anno 727, in cuì Luitprando conquistata Ravenna, ebbe il bisogno d’introdurne altre riforme nell’Editto, e di far facoltà tanto ai Romani delle nuove pro- vincie conquistate, che indistintamente ai vecchi sudditi di rinunziare alla propria legge e contrattare dei proprî dritti secondo la Longobarda o la Romana : Prospexi- mus in Edicti corpore illa adjungere, unde antea erat incerta definitio etc... Et quiscum- que de lege sua subdiscendere voluerit et paciones, aùt convenienciam inter se fecerint, et ambas partes consenserint , istud imputetur contra legem... salvo di non contravve- nire al Diritto Politico del regno, come per esempio all’ordine delle successioni: quod ad haereditatem pertinet. Da quel tempo furono anche più facili le posteriori riforme, continuando ad av- vicinarsi, anzi a fondersi in quanto era possibile le due legislazioni Longobarda e Romana. (14) Che la dottrina penale Cristiana preesistesse in Italia allo avvenimento dei Longobardi non è a dubitare sol che si ponga mente : 1. Alla influenza della stessa esercitata sulle riforme del Dritto Imperiale, mas- sime sotto gli Imperatori Severo, Antonino, Arcadio e Teodosio e lo stesso Giustino in relazione specialmente alla restrizione dei reati di Maestà, alle inattendibilità delle accuse indirette di Maestà, alla incapacità degli schiavi di attestare in queste contra 1 loro padroni, al non potersi dar luogo a procedere sulle denunzie anonime, alla li- mitazione delle confische, alla pietà ed assistenza dei carcerati, alla limitazione della pena stessa di morte (Cod. Teod. Tit: De petit: de fumosis libellis: de indulg. crim. ete- Vopisco in Alexandro Severo. (Cod. Teod. ad Leg. Iul. Majest. etc.). 2. Ai molteplici documenti nei quali si trova benchè a brani insegnata. Infatti 28 L’ UMANISMO appartengono a S. Agostino il concetto che dovesse la pena avere a fine di correggere la spinta a delinquere, quello della reitera: l'aggravante di persona; la scusa del ti- more, la riprovazione della tortura: De civitate Dei, lib. 19, c 6, e fin la specifica sanzione di esser reo di furto: qui inventum non reddit. De civit. Dei, XII, 2; XV, 1, etc. De quaest. octogintatribus $ 58, etc. A S. Girolamo, il concetto del pensiero delittuoso come essenziale elemento del delitto : Mens furandi. E la teoria della quantità e modalità delle pene. i A Papa Pelagio la formula : Qui sciens duzerit alias in perjurium. A Papa Euti- tichiano la formola del difetto di mente per ebbrezza. A Papa Clemente I, il concetto dell’ Omicida. E molti altri precetti di Sinodi e Concilii precedenti all'anno 700, ed alle lettere dei Pontefici. E specialmente alle regole di S. Benedetto che risalendo al comincia- ‘ mento del secolo VI, a giudizio di molti dotti, rappresenta un compendio della dottrina Cristiana, intorno la forma democratica elettiva, la comunione dei possessi, la obbe- dienza ai capi, il miglioramento delle terre, il lavoro utile, la temperanza, la disciplina e le sanzioni penali. Cesare Cantu’, nel vol. 3, cap. 64, della Storia degli Italiani scrive: « Quantun- «que la regola di S. Benedetto tendesse a fortificare le anime colla preghiera , col « lavoro, colla solitudine... la scienza trovò in essa un asilo, talchè toccò ai Benedet- « tini tra l’altro la gloria... di disselvatichire i deserli, conservare e riaccendere la let- « teratura ». . Nu Nè è a dubitare che una tale dottrina da quelle fonti tratta, disposta ed allargata venisse raccolta da prima nei più autorevoli libri Penitenziali, ed applicata dai Sacer- doti cristiani già prima della compilazione di Rotari, fosse dipoi in parte introdotta in questa e nelle posteriori riforme dell’Editto a fine di emendare: ea quae dura et im- pia visa sunt... (Proem. della riforma di Grimoaldo del 28 luglio 668), vel quae antea » erat incerta definitio (Proem. della riforma di Luitprando del marzo 727), ed ottenere che a ciascuno : liceat... salva lege, et justitiam quiete vivere, et propter opinionem con- tra inimicos laborare... suosque defendere fines (Proem. di Rotari). Dei libri penitenziali se ne ricordano ben molti più o meno antichi, più o meno certi e nel maggior numero ricomposti sopra frammenti antichi da scrittori di secoli a noi più vicini. Si può riscontrare : Il Manuale di Diritto Ecclesiastico di tutte le Confessioni Cat- toliche di FERDINANDO WALTER. Pisa, 1845, pag. 162, $ 93 e le relative note per aversi forse la più completa Bibliografia sulla materia. Ed anche, D. CHarDON : Histoire de la penitence, $ 11, cap. IV, tom. II, pag. 475 e seguenti. ) Noi seguiremo il libro di S. Colombano Abate del Monastero di Bobio : Tracta- tus de modo, seu mensura poenitentiarum. L'altro è : De mensura poenitentiarum Cameani abatis. Ed i frammenti dell’antico penitenziale Romano messi a raffronto con quelli di Teodoro, del Venerabile Beda, e di Rabano Mauro. E ciò facciamo, sia per essere ‘questi documenti Italiani, o di origine Italiana; sia per essere assai più antichi, e meno incerti in quanto al contenuto. S. Colombano appartiene al tempo di Re Agilulfo e Teodolinda, e di S. Gregorio DELLA DOTTRINA PENALE ITALIANA 29 Papa. Il Cardinal Baronio, Annalium, tom. 8, afferma che questo grande personaggio di patria Irlandese, cacciato da Teodorico per opera di Brunechilde dal suo Mona- stero nella Borgogna, fosse venuto in Italia, e fondato verso l’anno 612 il monastero di Bobbio, ivi morì a 21 novem. del 615, secondo il martirologio Romano. Che che ne sia della venuta in Italia di lui, e del tempo preciso della fondazione del monastero, non si dissente del tempo della sua morte. Onde il suo penitenziale fu certamente scritto prima della pubblicazione dell’Editto, ed è probabilissimo che pel Monastero di Bobbio. Vedi Troya, Cod. Diplom. vol. IV, parte II, Dissertazione sui primi cinque diplomi di Bobbio. Nel proemio e trattato di S. Colombano (Bibliotheca Patrum. Tom. XII, p. prima, in proposito dei libri penitenziali è scritto: E# inc hortum habuit illa quorumdam an- tiquorum diligentia in colligendis ex statutis Ecclesiae, et dictis sanctorum Patrum va- riis hujusmodi canonibus, qua in uno poenitentiali libro comprehensus facilius animo im- primerent, et retinerent sacerdotes; nonnullus etiam ipsi de suo adjungere solebant aliis Patrum dictis, ut hic faciat. Columbanus. Il trattato di S. Cameano (Bibliotheca Patrum. T. XII, pag. 42), s'incontra in molti precetti e regole quasi alla lettera conformi a quelli contenuti nel libro di S. Colombano. ll Penitenziale Romano di cui si fa cenno nella collezione di Graziano: Extra de Injuriis, e che credesi avesse visto dei suoi tempi il Beda, non è improbabile fosse precedente a quello di Teodoro, e forse anche a quello di S. Colombano , sia che si guardino le fonti della Dottrina che contiene, sia per la maggiore sua autorità quan- tunque non cessasse ancora esso di rappresentare una collezione d’indole privata. Il Penitenziale di Teodoro : Cantuariensis archiepiscopus, omnibus Ecclesiis propo- situm; secondo il Reginone (Libro II, de Eccles. disciplina inquisit, c. XV), quantun- que pubblicato in Inghilterra tra il 678, in cui fu Egli nominato Arcivescovo di Can- torbery, e l’anno 690, della sua morte, ricordato ancor esso nella stessa collezione di Graziano, 22, 9, 5, et extra de furtis, et extra de sortileg., portiamo opinione doversi ritenere di origine Italiana. Imperciocchè, Teodoro benchè di origine greco fu lunga- mente in un monastero di Roma ammaestrato nella letteratura Greca e Latina, divina ed umana, ed era in Roma, quando già di anni 66, da Adriano Abbate: in monisterio Nisidano, in Campania, venne indicato a Papa Vitaliano per quel posto eminente. (.Sto- ria Ecclesiastica di Beda. Lib.IV, cap. 1). Il MuratoRI, Antichità Italiane Dissert. 688, afferma che Teodoro importasse da Costantinopoli la sua dottrina Penitenziaria dove il Patriarca Giovanni il Digiunatore aveva già pubblicato il suo libro penitenziario. « Ma è lecito di ciò dubitare essendosi dimostrato che già da più di 50 anni preesi- steva in Italia il libro di S. Colombano ». E tanto più può ciò ritenersi probabile in quanto i frammenti di quel libro ripor- tati nella collezione di Antonio d’Agostino del 1584, dal Reginone sotto il titolo : ad dandam poenitentiam, dal Burchardo sotto il titolo : de illis qui pejerant se in manu E- piscopi, aut in cruce consecrata, aut non consecrata. Dall’Ivone : de illis qui ex amore venefici fiunt; rispondono più o meno letteralmente a quelli del Penitenziale Romano compresi sotto i titoli : De illis qui se scienter perjuraverint; Qualiter poenitere debeant, quae lenocinium operatur. De furto Capitali etc.... E questi a non pochi delle regole e precetti dei trattati di S. Colombano e di S. Comeano. 30 L'’UMANISMO DELLA DOTTRINA PENALE ITALIANA. Del libro di Teodoro si è fatta una edizione nel 1840 nelle : Ancient laro and in- stitute of England; ma che non ci è riescito avere e studiare. | Del libro del Bepa, de remediis peccatorum, Venezia, 1584, Coloniae Agrippinae 1612, tom. VIII, opere, si contrasta da non pochi l’autenticità.. | ‘Non abbiamo elementi certi a giudicarne. Incliniamo però per la sua autenticità, in quanto che anche di esso trovasi menzione nella collezione di Graziano : Distinct. 2, - de consec., in quanto che il contenuto delle sue regole è quasi conforme a quello dei Penitenziali di Teodoro e Romano, ed anche perché il Baronio attesta di averlo avuto . manoscritto. ; Il venerabile Beda nacque nel Northumberland l’anno 673, e morì il 26 maggio 735, o secondo il Baronio nel 776. In progresso di tempo e specialmente sotto Carlo Magno e Leone III , essendosi accresciuto a dismisura il numero di questi libri di cui: certi errores, incerti aucto- res; avvenne che dai Concilii di Tours e di Chalons fu da prima disposto . Poenitentialis liber quis potissimum sit sequendus, episcopis et praesbiteris diligendi cautela tractandum. E dopo : Pocenitentiales libelli quos vocant penitus eliminandi, ei poenitentia modus | peccata sua confitentibus, imponendus juxta Canones et Ecclesiasticam consuetudinem. (12) Trova, Discorso intorno alle condizioni dei Romani vinti dai Longobardi. Ap- pendice allo stesso. Anni 1842-1843. Codice Diplomatico Longobardo, parte prima, vo- lume IV, pag. 36, 39, 136, 188 e seg., pag. 245 e 430, n. 2; parle seconda, pag. 117, $ 2, pag. 122, n. 9, ed in molti altri luoghi. DIE pes du APRE ps SI SH RO. sia di i RUI si i K VI tal SEDUTRATSOLENNE pel centenario della morte DI PIETRO METASTASIO nel dì 30 aprile 1882. Discorso del Segretario Generale Prof. GIUSEPPE BOZZO A grave officio adempie la nostra Accademia chiamata oggi a cele- brare il centenario dalla morte di Pietro Metastasio. Perchè essa, già sì accresciuta con le scienze morali e le naturali, ed inalzata quasi ad . Istituto, che l’ha reso nobilissima, sorse or sono tredici lustri sopra un secolo per l’animosa opera dei nostri avi a fugare i vizj delle lettere col giusto proposito dell’Arcadia; e di quell’Istituzione in Roma fu uno dei migliori sostegni il Metastasio in sin che essa non decadde, quando, come disse l’Alfieri, dimenticò le sue arti. L’Arcadia benemerita per tali arti fu fondata dal Gravina maestro del Metastasio, e il Metastasio colà adoperossi e fu dei prodi del buon tempo; tal che per noi, che l’antico vanto non saremo mai per iscordare, il nome di lui non solo è caro ma sacro, se prontamente ci ricorda la gloriosa nostra origine. Noi celebriamo il centenario di un Italiano a cui niuno mai niegò il titolo di grande. Correndo con la mente le varie vicende del secolo tra mezzo di esse, gli si vedrà, con più o meno eco, confermato sem- pre un tal titolo. Sia che per gli abusi l’Arcadia fosse di poi venuta in disdegno , o che pel contatto della Francia il neologismo ci abbia offeso, o che la scuola romantica abbia al tutto investito l’antica nostra scuola, e, siesi andato a tutto ciò che di più specifico e di più gagliardo in Italia la letteratura svolgesse, mai niuno, di sentito animo, non ha detto che il . Metastasio fu grande. Amore di tutti d’ogni indole i popoli, la fama di lui si distese ed ue accrebbe a gloria non solo dell’Italia, del mondo. Poeta di vivo estro e di irresistibile vena toccò tutti i cuori nelle più intime latebre; filosofo di schietto sentire adempiè al primo dei doveri insinuando la virtù mo- rale; valentuomo dottissimo riunì il nuovo all’antico, ed ebbe nome im- mortale. Movendo quì a lodarlo mi riempio di letizia, e quasi ringiovanisco; che tutta la penisola oggi esulta insiem con noi pel vanto degli studj na- zionali così pieni di zelo. In tanta esultanza date ascolto alla mia voce, o socj volti al bello, che dicendo del Metastasio aro nel vostro campo ed il mio solco è il vostro; e voi volti al bene, di cui il Metastasio fu intemerato ministro; e voi volti al vero, perchè tutto agli studiosi vien da unica luce, la quale tutti affratella per opera dell’arte in cui fiorì il Metastasio. Laonde la Francia nel Museo dove tanto raccoglie di supellettili e di memorie e di documenti dello scibile universale ha voluto per mano dell’ Ingrès si dipingesse l’immagine di solo lui che l’ Alighieri finse con una spada in mano, cantore d’Eroi originale e sublime. Fu bell’ auspicio al poeta che nato nella città capo del mondo, vi- vesse i giovanili suoi anni in quell’amenissima regione dell’Italia tra il Tìrreno e l’ Adriatico appellata un altra Grecia ; in quella regione era vissuto il filosofo di Samo, maestro umile di discepoli umili, che perciò furono immortali: quivi egli che aveva insegnato la scienza del bene nel quale il Metastasio dovea poi segnalarsi, quivi nella scienza del vero an- cora tanto potè da trovare l’ordine e la natura de’ numeri armonici, fonda- mento dalla più bella delle arti, per unirla alla quale doveva poi Meta- stasio crear la sua poesia; e nell’ intima ragione di entrambe avere un titolo famoso. Auspicio ancor bello che dandosi in sulle prime il giovinetto a cantar versi improvisi vi abbia avvertito l’Illustre Giureconsulto Giovan Vin- cenzo Gravina, sommo filosofo ancor esso e letterato cospicuo; il quale udendo tanta melodia ed ammirando a tanto estro, prese ad amarlo ed a proteggerlo, e lo dirizzò agli stud). Ma fu sapienza eletta, che lo scorse e lo pose in alto con l’uso dei classici che tanto e solo possono; e sì in essi lo allevò che d’indi in poi volle si facesse greco il suo nome a perpetuo indice della via d’ onde mai non dovesse scostarsi. La vaghezza dei luoghi, i ricordi memora- bili, la dotta guida furono certo bellissimi e lietissimi auspicj. | E la guida sì propizia, che, lunge dal soffocare nel giovane poeta cad IAS quell’ estro, ne’ belli stud} lo mantenne insiem che nei giuridici. Egli valentuomo al pari celebre per la origine al dritto e per la ragione poetica, e del Metastasio affettuoso protettore ed autore. Ma nel Metastasio l’estro fortissimo potè ogni cosa alla fine ; e la- sciando la ragione scritta, sì abbandonò alla poesia, tra var] generi al drammatico, nel qualé mancava all’Italia quest'unica corona. Genere dif- ficilissimo; la poesia della giovinezza, ‘che gli antichi volevano ispirata dal Dio domatore delle tigri e inventore della vite; poesia che richiede grande mobilità di fantasia; e che dà di far sentire alle moltitudini quelle massime, delle quali il Metastasio era disposto a diventare egregio in- segnatore. L'arte drammatica preferì accompagnata dalla musica , allora che entrambe andando in amabile consorzio, erano in gran voga, singolar- mente in Italia: ed alla musica, a questa che chiamano la regina delle arti, fu anco egli fido imparandola assiduamente e sin facendovisi com- positore; poichè credeva a riuscir valente nel melodramma, doversi eru- dire e nell’una e nell’altra. Molto più che gli antichi, dei quali era studiosissimo, amavano grandemente la musica, e Platone avea ammaestrato che sapere la mu- sica era fondamento ai buoni studj. E dalla musica facevano que’ glo- riosi accompagnare non solo la drammatica, ma le altre sorti di poesia; e sino si giovavano pel buono effetto dell’ eloquenza : arte nobilissima pregio di tutte le nazioni liberali; più semplice ed efficace appo gli an- tichi, più artificiosa e maravigliosa appo ì moderni; ed ai bisogni del- l’umanità sempre propizia. La musica che accompagna il dramma; dopo l'iniziativa de’ Siciliani sul volger del cinquecento con l’Aminta del Tasso in note del Marotta, e dopo il perfezionamento datole da’ Toscani, per opera del Bardi, del Peri, del Caccini; (eguale il caso della formazione della lingua in que- ste due grandi regioni d’Italia), e dopo le varie vicende che la porta- rono in Francia con a capo un Italiano; fermatasi in fine nella Peni- sola, singolarmente in Napoli, come in propria sua sede, fu stretta alla poesia come affettuosa sorella. Con la melodia prima, con l'armonia se- conda, con rare e ben preparate dissonanze pel giusto effetto specifico; tutto ragionevole e sicuro ; inventandosi la cantilena che alla parola si confaccia, sì che questa si esprima creando ed unendovi quella, senza che la vaghezza del canto opprima mai o tolga la virtù della parola. Questo punto di bellezza erasi raggiunto , allora che Pietro Meta- stazio entrava nell’aringo. 2 LAI A Poichè Apostolo Zeno con erudito ingegno avea il melodramma mi- gliorato, togliendolo da tanti sconci in cui per disavventura era caduto, Metastasio succedendogli rendevalo più appassionato , più amabile, più vivace; ed i maestri di musica se ne consolavano ; ed il genere acqui- stava la sua perfezione. Anzicchè nel fantastico , sin coi balli, e quasi nell’ aereo, lo volle nello storico, con intenti che signoreggiavano il cuore; e dal troppo se- vero ed arido in cui l’avea tenuto il predecessore, lo portò al bello e spesso al melico, quale componimento da essere unito alla musica. Que- sto è il primo de’ suoi pregi; al quale è subito unita una forza di sen- timento ineffabile, un esercizio di fantasia maestrevole, una spontaneità senza termine, una squisita movenza; di modo che i suoi versi come si ascoltano entrano nell'animo e vi risuonano con eco di chi commosso e rapito li ripete come propr), trovando quivi nel suo cuore a quei versi la risposta tutto sempre con istile nobile e limpido, e con parole elette di effetto maraviglioso in una forma sì soave ed armonica che essa stessa è una musica. Venuto dalla scuola de’ classici scelse per primo argomento al suo melodramma la Didone abbandonata. Dove sono manifestazioni di vero genio che tosto lo fecero accla- mare, ed inalzarono il melodramma tra gli evviva al cielo. Ve lo inalzò un’altra cagione non men possente e benevola; perchè scrivendo il me- lodramma per essere cantato da Marianna Bulgarini, prima donna al- lora egregia, ed essa la bella creazione del poeta in note armoniche se- guendo furono presi d’amore ai pregi l’uno dell’altro. Amore solo del cuore che viene da virtù, e che da taluni incauti fu male interpetrato : esso valse ad animare l’estro di entrambi; e al Metastasio valse di bene sin d'allora accordarsi nell’esprimere il senti- mento d’amore con immaginazione vivissima, ma temperata e soave,lungo il corso avventurato della leggiadra carriera. Nella sua come prima maniera, dal 1724 al 1730; dalla Didone al- l’Artaserse, con indicibile felicità e con assiduo studio si aumentava e compievasi. Giacchè sfavillando sempre ne’ lavori di quella epoca de’ lampi, talora arditi, con eleganza senza pari, curò poi a rendere di mano in mano più semplice lo stile, più fermi i caratteri, più eccitato il dialogo, con meno lunghi recitativi: vero progresso nel cammino in cui era in- defesso. Ve lo costituiva la scienza del bene, come ve lo sospingeva la scienza del bello; avegnacchè abbia stabilito nell’ animo suo che il teatro è la DA LE e) scuola della morale pratica. Ammaestrato da Aristotile che è meglio rappresentare ciò che può essere, se buono, che quello che è, se cat- tivo, volle considerar l’uomo nei suoi precipui dritti, i quali non potranno mai mancargli, e ne’ suoi precipui obblighi ai quali non potrà mai ve- nir meno qualunque sia l’indirizzo della società e della sua politica, e pose in atto scegliendo, ed artisticamente esponendo, le magnanime a- zioni de’ trapassati più illustri ad utile del viver de’ presenti; sì, che quello che fu detto di Plutarco per le sue vite paralelle è da dire dal Metastasio, per le suoi melodrammi , chiamandolo fermamente amico della. virtù. Per essa in incantevole guisa fece spargere, se oppressa , lagrime di dolore ; come per l’amore, se contrastato, fece spargere lagrime di tenerezza. Ma come l’amore volle lungi dalla sensualità sino alla tur- pitudine, così gli altri affetti, e quello della patria, volle lungi da ogni eccesso, dicendosi egli medesimo perciò avere adempito le parti di ono- rato cittadino sempre con idea correttissima e santissima, quale rifulse in alto grado nell’eccellente Artaserse. Addusse alla perfezione possibile le composizioni melodrammatiche e quanto siesi potuto le affece alla tragedia. Il terrore e la pietà suoi sommi affetti, con l’unità d'azione giammai trasgredita, col protagonista spesso in quello stato di mediocrità tra il bene e il male, che è giusta il precetto dello Stagirita, come nel Poro e nell’Ezio; con protasi che pone l’azione nel centro, come nell’A lessandro; con nodo industremente avviluppato, come nel Siroe; con catastrofe quasi sempre inaspettato come nella Semiramide. Il lume di tal bellezza prese, più che altri, gli abitatori dell’ Istro; ed allora che tante ubbie non erano surte, nè tanti odj e rancori, l’Im- peratore Carlo VI chiamò a se il Metastasio; perchè del melodramma era molto a dilettarsi, avendo sempre colà tenuto i più valenti italiani poeti, e i più valenti italiani maestri , cultore egli stesso di arti così belle. Metastasio vi comparve col Demetrio, e quella comparsa gli fu un trionfo.—Era da temersi, come egli lo stesso ne temeva, che il Deme- trio non prendesse gli animi e non facesse dapprima apporre; perchè senza scene illudenti e senza, come diconsi, colpi inaspettati; ma no, così egli dipoi ne scrisse, mi capirono subito, e già ripetevano i miei versi. Nè solo lo capirono, e li ripetevano, ma se ne commessero alle lacrime; le quali, tutte dolcezza e tenerezza all’addio di Alceste e di Cleo- nice, furono ancora vedute al ripetersi del melodramma in tutti i tea- tri del mondo. > ga In questa, come seconda maniera, sì faceva perfetto, ed allora che i mezzi di comunicazione non erano sì rapidi, fu una maraviglia | os- servare come la fama del Metastasio con le sue opere presto ovunque penetrasse: con la moltiplicità delle rappresentazioni la multiplicità delle edizioni con grido smisurato, con volo invidiabile. Non mai prima di lui sulla scena dialogo più vivo e rapido, ma senza prestabilite interruzioni; forte, ma senza violenza , affettuoso ma senza eccesso; la quale virtù non s’acquista senza favola bene ideata e carat- teri bene sostenuti. Questo fu singolare suo pregio; con vigore di sen- timento e d’immaginazione tutta propria di lui, uomo di genio, e solenne creatore e maestro. Certo, diremo al proposito , certo l’Alfieri è nostro orgoglio, diede egli propriamente la tragedia all'Italia; e questa forza di dialogo |’ ebbe in molti de’ suoi componimenti: ma il Metastasio l’ebbe in tutti; e la bella scena del giuramento di Polirice del tragico ritrae molto dalla bellis- sima scena del giudizio dell’Arfeserse del melodrammatico, scritta mezzo secolo innanzi. Non mai soggiungerò , non mai prima del Metastasio eloquio più chiaro ed armonioso quale meglio attinse dalla nostra bella scuola, dal Tasso, e da’ siffatti, e lo adattò in modo nuovo nel suo caro melodram- ma; e siccome l’imitazione nel melodramma si fa col verso e con la mu- sica, creò suo stile ad un tempo poetico e musicale, cercando nella no- stra bella lingua le parole più adatte, adoperate. con ‘infinita sollecitu- dine in guisa che il pensiero dell’una arte meglio secondasse il pensiero dell’altra. i Vagamente così manifestossi in quei maravigliosi recitativi, in quelle maravigliosissime arie, ed in quei cori di gusto greco, che ebbe osser- vato il Niccolini, mio maestro, nell’ Olimpiade, ed io l’osservo in altri molti; ed ora me ne conferma il De Spucches con la traduzione di Eu- ripide, la cui parte più ecellente sono i corì, nei quali tanto suona quel gusto, che ha nei suoi il Metastasio. Il drammatismo dell’/ssipide uno de’ melodrammi più prediletti dal pubblico, l’eroismo dell'A ttlio Regolo, che l'Autore desiderava solo gli rimanesse, dovendo perdere tutti gli altri, ia dignità di Temistocle, po- sto sopra gli altri da’ critici più valenti; la pietà dell’Olimpiade al cui tocco egli stesso ìl poeta fu vinto e l’animo disfogò nel famoso sonetto, la generosità di Zito dove trovò il Voltaire scene più belle, che non l’abbia avuto Corneille quando non -era declamatore , e Rai. quando non era debole, la perfezione infine dell’ Achille in Sciro, alla cui re- È ME O cita esultò tutta Vienna, e gl’Imperiali festanti lo ricolmarono di onori, chi potrà, pure in una di queste produzioni, saziarsi di ammirare senzà esclamare con un gran critico oltramontano. Nessuno fra gli scrittori Italiani fu più compiutamente poeta di Metastasio, nessuno congiunge una maggiore mobilità d’'immaginazione, una maggior delicatezza di sen- sibilità, un maggiore incanto di favella; nessuno fu pittore più grazioso di lui mediante il suo verso, e musico più lusinghiero per l’orecchio ; Metastasio fu il poeta del melodramma, ed in questo superò tutto quanto produsse la sua nazione medesima , tutto quanto le altre nazioni pro- dussero di più singolare. Tanta lode ottenne con le produzioni che riguardano più che altro la terra; ancora più l’ottenne con le produzioni che riguardano più che altro al Cielo; con gli Oratorj, ai quali non altro titolo hanno dato che quello di divini. Per vero meglio che non li abbia scritto un uomo, conviene dire con l’ Andres , che l abbia scritto un Angelo. Qual reli- gione nella Sant'Elena, quale dolcezza nel Giuseppe, qual forza biblica nella Giuditta, quale ingenuità in Abele, qual pia virtù in Gioas, qual celeste sublimità in Abramo ? Mancano le parole a celebrarli, e tutti meglio pare che s’intendano nel Cielo. Carlo VI ne dava egli stesso il tema al poeta, scegliendo spesso quei fatti dell’antico testamento che contengono il presagio della venuta del Messìa. Talchè il poeta rappresentando azioni così misteriose e fa- tidiche, in esse sì immedesima e ne ritrae una bellezza che non può raccontarsi, ed il pensiero cristiano par che senta l’infinito. Per conse- guenza la lode nostra al cospetto di sì ineffabili creazioni si arresta ed ammutisce giacchè loro spetta di lassù, d’onde gli furono ispirate. Parte più squisita delle quali è il costume, di cui niente negli Ora- ratorj è più conforme alla Scrittura; e niente insieme è all’ umanità più conforme. La creazione de’ caratteri, che è il tesoro più eletto della poesia drammatica , è in tutti i drammi del Metastasio degna d’ encomio; an- cora egli in questo di rarissimo esempio. Pochi tristi, non senza il lato che-possa farli scusare; rei che alla fine si pentono e ridonano i più cari esempj di concordia. Le voci di gioja, di tripudio, di carità dopo le emozioni più efficaci nel corso del- Y azione, risuonano in tutti i cuori e compiono il diletto. Che se alcun tristo per l’effetto drammatico, e la coerenza del carattere, debba rima- nere nel suo doloroso proposito, il poeta lo toglie accuratamente dagli occhi dello spettatore, come fece di Learco nell’ Issipide, e di Osroa nel Adriano. 3 PASSI iS Le donne, e questo vuolsi oggimai considerare, le donne quasi sem- pre virtuose, e se alcuna volta deboli, degne di compatimento ; taluna come Eurinome spietata e crudele, e pure ciecamente affettuosa del fi- glio. — Ah, se Giovenale disse che grande si deve reverenza al fanciullo, grande, diremo noi devesi reverenza alla donna. Metà di noi stessi, de- lizia del mondo, nata nel pudore, cresciuta nell’ abnegazione conjugale , * matrona in fine assisa a capo d’onorata famiglia, sì abbia in riverenza. *. Tolgansi dal teatro, con ogni altra tristezza, le donne malvagie sino al cinismo; e rappresentando sopra tutto la società quale debba essere, si rappresenti la donna nel migliore suo aspetto ; nè, molto meno, si chiami oggi la donna al teatro per vedere laide cose; le quali al bisogno solo basta gittarle in ombra, come fa valente artista nell’ammirato suo quadro. Si sbandiscano le mostruosità per sistema; Metastasio ce lo in- segni. Grande si deve reverenza alla donna. Componendo il Metastasio i suoi drammi mentre la musica era come nella sua età d’oro, fu lieto che glieli mettessero in nota i più insigni maestri. I Leo, i Traetta, gli Anfossi, e gli Scarlatti e i Iommeli. E più il Vinci con le grazie del suo stile, ed il Pergolese con la sua ricchezza ed il Porpora con la sua grandezza. La maniera varia di questi illustri bene si confaceva a sì graziosa poesia , in que’ giorni fortunati. Ed il grande uomo giovò ancora egli all’ arte sorella erudendo, ammaestrando que’ cultori di musica. Anzi l’azione sua era loro tanto efficace, che il celebre Hasse ebbe ad asse- rire, che quanto si acquistava dalla direzione e da’ consigli del Metastasio non s’acquistava dal più grande maestro che l’arte musica insegnasse : così i virtuosi presi di affetto nel vivo esercizio dell’ arte ricambiavano questo poeta incantatore de’ cuori. i Pure chi l’ avrebbe creduto? i suoi melodrammi si ressero ancora con sola la declamazione; si che egli spesso disse: avere talvolta avuto esito più felice con la recita che col canto. Li declamarono i più grandi tragici del tempo il Zannerini, il. Blanes, la Pellandi, il Belli, il Prepiani, e sin testè Tommaso Salvini. E ben tuttavia sulla scena tragica si potreb- bero ascoltare; perchè il vario metro di settenarî e quinarj alternati'col verso intero regge sempre alla declamazione; come ne fece prova il Nic- colini con la sua Medea. i Ben si potrebbero recitare con singolare diletto, come in età più cheta lo produssero : tanto in essi è la magia della parola, e l’arte di =icgge o prendere i cuori e di commoverli. E col diletto l’utilità più prontamente declamando avvenuta. Tal che in leggerli, ed in sentirli, meglio sì av- verte la dolorosa scuola che ora ci domina e ci mette in odio; più che lo facessero ai giorni di Rousseau (giacchè sin d’allora preparavasi. il danno) coloro che, come egli notava «sotto pretesto di giovare meglio all'umanità, spargono ne’ cuori desolanti dottrine con modi più assoluti di coloro cui combattono, sino calpestando tutto ciò che l’uomo rispetta, coi loro spettacoli tristissimi. » Sono nelle composizioni melodrammatiche d’ uomo sì immortale , non è dubbio, de’ difetti. Ma tolti quelli da’ quali poco si può riguar- * dare la natura umana, la maggior parte, la precipua parte, sono , altri del genere, altri delle condizioni in cui egli li scrisse. Il genere misto di tanti elementi, stretto da tante convenienze , stando colla libera ra- gione di un’ altra arte, non può per se stesso andare alla perfezione , laonde l’appellarono un del mostro. E le condizioni poi particolari sottoposero l’ autore ad essere per volontà altrui difettoso; dovendo introdurre amori continui ed importuni, dovendo riempire la scena di confidenti e di subalterni, dovendo a cia- scuno dare la sua aria, la quale però non potea essere sempre per solo abbellimento del soggetto, dovendo sempre fare terminare l’ azione con lieto fine; tutti questi ed altri doveri , e l uso delle similitudini sempre corrette e sapienti, ma talvolta soverchie e niente adatte alla posizione drammatica, ma richieste dal bisogno della musica di dilatarsi co’ suoi suoni imitativi; tutte queste cagioni l’infestarono, e nell’orditura della favola assai lo malmenarono; e talora nella andatura della forma, sino a far vedere, in lui si abbondante, quella che chiamano monotonia. La quale, chi dritto esamina, ne’ più cospicui suoi melodrammi punto non rinviensi. Nemmeno rinvengonsi svenevolezze, e traccia di altri vizj del tempo, dei quali egli fatto nemico (ed altamento lo scrisse) non potè talora sottrarsi, per l’aria ambiente dei mali di una età che passa, o di un’altra che Sopravviene: come di secolo in secolo neppure sempre lo poterono scrittori al pari di lui gloriosi e immortali. E intanto per que’ difetti portati a lui da inevitabile catena, alcuni crederono ripetere con minore eco le sue lodi, di che il Nicolini si dolse come di grande ingiustizia. L’autorità del qual dolore mi anima, a con- eludere, che malgrado tanto giogo, fare lavori così eletti, e così pieni di pregi d’ogni sorta, ed acquistarvi nome che non sarà per perire, non potè essere che vanto solamente di lui chiamato dal Sismondi il poeta il più drammatico dell’ universo; di lui con fina arte, ma sorretta da — pa viva natura, senza la cui azione reciproca non si possono ottenere quei prodigì che ottenne. Noi lo abbiamo riguardato ne’ melodrammi; perchè i valentuomini più che altro van riguardati ne’ loro lavori più eccellenti. Ma tutti sanno, e voi dotti lo sapete, quale larga vena di lirica sia stata in Metastasio che fece composizioni in tutte le specie; dall’ode al madrigale con i ca- ratteri suoi propri. E noi, lungi dalle licenze obbligate ad ogni fine di dramma, e dalle cantate e’ complimenti d’officio, noi, sebbene di sonetti l’Italia abbia copia a ribocco, pure segnaliamo quello per l’Olimpiade e l’altro alla Fortuna, e segnaliamo la canzone La primavera scritta con ingenuità senza pari quando entrò la prima volta in Arcadia ; e segnaliamo in fine i voti pubblici, e la felicità pubblica, che dirizzati a Maria Teresa, ora se colta da sventura, ora se uscita di malattia, s’ ebbero il chiesto effetto nell'animo e nella salute della grande Imperatrice. Vel sapete pure voi qual egli, poeta inesausto, e tutto volto con sua arte agl’ Imperiali di Vienna , per questo grave carico , abbia saputo, pieno di zelo per gli studj antichi, non perder l'ora a trattarli con feli- cissimo successo. D’onde fido alla drammatica che gli diede rinomanza, fece l'estratto dell’arte poetica del maestro del Peripato e la traduzione poetica co” commenti dell’epistola del maestro de’ Pisoni; insigni legisla- tori dell’arte, che saranno sempre osservati in libri di gran valore, da lui spiegati ed annotati in modo utile e nuovo; e sapete pure delle ele- ganti sue traduzioni di altri poeti latini, e del suo ponderato esame del greco teatro. Questi i lavori di lui sommo uomo di genio, sommo uomo di gu- sto, vissuto assiduamente in tali dotti esercizî. Il centenario del Metastasio ci pone quindi in altezza, quale si ce- lebra dalle più illustri Accademie, non pure dell’Italia, ma dell’ Austria che gli fa omaggio per lo splendore che ne trasse. Uomo dottissimo, Poeta di grande immaginazione e di gran senti- mento diede, mi giova ripeterlo co’ più egregî critici, con la sua forza drammatica più di quello che non abbia potuto appieno conseguire la. maestra antichità. Banditore della morale in sentenze che si scolpiscono nel cuore, lo fu primo co’ reggitori de’ popoli, ai quali fu presso; e loro predicò il bene de’ loro doveri, più che Virgilio ed Orazio non l’abbiano fatto ad Augusto. La nostra bella lingua italiana scelse bellissima per l’opera in musica, ed il suo canto si appellò dolce, come dolce appellava Leopardi il canto del Tasso. Unì tanta semplicità a tanta sublimità, sic- chè quando il pensiero tuonava la voce gli rispondeva amica e franca. Di là l andare de’ suoi versi per le bocche di tutti, come quelli di O- mero ed Euripide andavano per le bocche degli antichi. Perfezionando il melodramma, nel quale il Fabroni lo disse senza modello e senza imitatori, volle che la musica vi si creasse per modo che s’ impadronisca de’ cuori senza bisogno di riflessione; perchè splen- dore di bellezza è repente e veloce; e che la musica, come è naturale, accompagnasse le parole, non mai che le parole accompagnassero la musica. Tale ultimamente Rossini legò premio alla melodia, e sì si espresse legandolo: due eccelsi artisti protettori, fautori del vero bene dell’ arte singolar pregio d’Italia. Vivendo per mezzo secolo in Vienna conservò sincero il gusto della patria letteratura , vivendo per mezzo secolo in corte conservò sempre la integrità e la ingenuità del suo carattere: raggio di vera luce piovve dove che fosse senza contaminarsi o imbrattarsi. Fu il Metastasio scevro da invidia, ciò che ai più gloriosi è stato spesso difficile; abborrì dall’ acre della: satira ; fu in amicizia costantis- simo: l’onesta anima gli si manifestava nella bella serenità della fronte. Fu con tutti umile, i quali gli facevano onore che non gli cagionava superbia. Mentre tanta spargeva ovunque soavità di mille odori quanti leggiadri versi gli scaturivano dal petto; mentre, sino all’ opposito Brasile piangevano alla tenerezza delle sue rime, mentre la Crusca accoglieva nel vocabolario le sue maniere di dire; e tutte le Accademie erano bra- mose di chiamarlo a farne parte; tra le altre quella dei nostri Ereini dopo due anni trasfusa in questa Accademia; mentre le impressioni delle sue opere si moltiplicavano dovunque sino al numero di cento; mentre Ma- ria Teresa lo chiamava suo maestro e decoro del secolo, ed i Reali di tutte parti ‘lo festeggiavano e andavano in Vienna a visitarlo; mentre in- ‘ fine i poeti e’ letterati più illustri lo ricolmavano di elogi; sopra tutti il Parini, ed il Monti in Italia, Voltaire e Rousseau in Francia, Copwer in Inghilterra , e tutti di Germania che sempre gli stettero presso con ammirazione e reverenza, bello il vedere lui modesto, lui poco di se e- stimatore, accettare tutto come una grazia anzi che come una ricom- pensa. Gran lezione a noi in questi anni, in cui tutti ci sentiamo da molto, ed osiamo avere in dispregio i nostri duci e maestri. Cessato di vivere, la dotta Vienna gli scrisse sul sepolcro il nome 4 di Sofocle Italiano. E veramente il Metastasio prese da tutti i più ce- lebri Greci da Omero, da Anacreonte, da Pindaro; come per la mozione. degli affetti si accostò a Sofocle che avea fatto piangere col suo Edipo e ehe per l’eleganza era addimandato Ape attica, e ad Euripide per la tenerezza onde commosse con la sua Fedra, e per l’arte di collocare nel poema la sentenza. Cessò con la coscienza di non avere offeso mai la morale e la re- ligione, come poi presso a quel termine disse di se Walter Scott. Cessò l’anno stesso in cui nacque Giovan Battista Niccolini, volendo Dio, è ben ripeterlo, che un ingegno non meno grande attestasse anche allora la potenza dell’Italia nella palestra drammatica. Io lieto che l’ultima volta forse che mi è dato di parlare da questo luogo abbia ‘avuto la fortuna di farlo lodando poeta così Illustre, nella speranza che con l'esempio del suo fare attendere più che altro alla virtù si abborrisca finalmente dall’odierno fare attendere più che altro al vi- zio, e che con l’ esempio del suo dolce ed armonioso stile gl’ imbratti poetici del nostro tempo al tutto dispariscano, al vivo festeggiar dell’ I- talia per questo compiersi il secolo dalla sua morte; quando oggi sì è tanto ammirato il vero scegliendo nell’ estinto scultore Duprè, e lo spi- rito d'osservazione col magistero proprio dell’ arte nello estinto pittore Hayez; poichè le arti e le lettere sono guidate da una medesima stella, ho in cuore che con l'andamento delle creazioni artistiche quello delle poetiche si rassetti, rieccitandosi l’amore e l'ammirazione pel Metastasio uno de’ nostri migliori vanti al cospetto dello straniero. 1 POESIE — AS FO dad: #2 LEGGI delfino AL PRINCIPE DEL DRAMMA ITALIANO PERIERO MEFASEASLIO DELL’UMAN CUORE PORTENTOSO ANATOMICO MORALE CHE SFUGGENDO OGNI INIQUA SOZZURA CON DILETTEVOLE FACONDIA ELEVÒ LA SCENA A SCUOLA SAPIENTE DI SUBLIME PUDIBONDO INSEGNAMENTO L'ACCADEMIA PALERMITANA A SOLENNE VANTO DI ONOR NAZIONALE RENDE SPLENDIDO OMAGGIO CELEBRANDONE LE GLORIE IN QUESTO SUO SECOLARE ANNIVERSARIO (1) NEL QUALE SARÀ RICORDATA LA DURABIL MEMORIA DI QUEL SUO FAUSTO GENETLIACO GIORNO (2) CHE TUTTI I SECOLI VORRANNO SAPERE. 30 APRILE MDCCCLXXXII. Socio Emerito Marchese Mortillaro. (1) Morì in Vienna nel 1782. (2) Nacque in Roma a 9 gennaro 1698. IRE 4 PETRO METFASTIASTO IN MELICA DRAMATICA POESI FACILE PRINCIPI QUI IN CUJUSQUE ACTORIS PARTIBUS TUENDIS . SINGULARE MIRAE ARTIS EDIDIT ARGUMENTUM IN ANIMI AFFECTIONIBUS QUAE SUNT DULCIORES EXPRIMENDIS ANACREONTIS VENERES FUIT AEMULATUS IN NOBILIBUS HEROUM INGENIIS DESCRIBENDIS SUBLIMES PINDARI IPSIUS SENSUS MIRIFICE RETULIT IN CONCIONIBUS IN QUIBUS HEROES LOQUENTES INDUCIT CUIQUE GRAECORUM ET LATINORUM NIHIL DE ELOQUENTIA CONCESSIT OB DRAMATIS RATIONEM MIRA NODORUM COMPLICATIONE DISPOSITAM A SCENAE LANGUORE SEMPER ABSTINUIT QUIBUSQUE ANIMORUM MOTIBUS AD VIVUM NOTANDIS AUDITORUM ANIMUM AD EOS CONCIPIENDOS ATTRAXIT IN SINGULIS DENIQUE DOTIBUS QUAE DRAMATIS SCRIPTOREM DECENT OMNE TULIT PUNCTUM i PROPTERÉAQUE VIVENS TOTIUS EUROPAE ADMIRATIONEM VITA FUNCTUS AETERNUM SIBI NOMEN DEMERUIT ACADEMÌA PANORMITANA ANNO CENTESIMO AB EJUS OBITU JAM RECURRENTE TANTO VATI TOTIUS ITALIAE PRAECIPUO ORNAMENTO PROMERITAS LAUDES PERSOLVIT. » Socius Professor Ioseph Vaglica.. * SI 9 Lace TRO NEFASTASITO Nella città de’ Cesari, Oscuri genitor A te, nobil cantor, Diero il natale. Sulla tua cuna porpore Rubini non brillàr, Seriche non fasciàr Vesti il tuo frale. Vispo e leggiadro crescere La botteguccia umiìl Miravati, che. a vil Fin ti serbava. Ma in fondo del tuo spirito Grido mandò talor Il Genio, e con amor -Su-te vegliava. Quel grido un saggio Mentore (1), Un uom di core udì, E l’immortal t'aprì Via degli onori. Le Muse ti sorrisero E il labbro tirrigàr Del miele, che stillàr Di Grecia i fiori. È Il Tebro lasci e a Napoli Ten vieni, e un canto udir Qui fai, che fa stupir Che imparadisa ! Delle sirene un’emula, (2) Che molti affascinò, Al canto tuo restò Vinta, conquisa. (1) Gianvincenzo Gravina. (2) Marianna Bulgarelli. Gloria ed amore l’anima D’entusiasmo empì, Ebbrezze il cor sentì Non mai sognate. Gloria ed amor di rapide Ale l'ingegno armò, Che per region volò Non pria tentate. Del tuo gioir partecipi Volesti i genitor; Chè non cagiavi il cor, Cangiando il nome (3). Già la tua fama espandesi, Valica monti e mar, Lauri più scelti ornar Vedrai le chiome. Più te vedere i popoli Vorran, che prenci e re: Caso, virtù non è Nascer potente. Colui sol degno estimasi Co’ numi di seder Che vince di saper, Per cuore e mente. Come a novello Sofocle Plaude l'Italia a te; Nomarti, e suo ti fè Dell’Austria il sire. Di serti ti ricinsero D'oro ti cumular, Fu vanto l’appagar Un tuo desire. (3) Cangiò il nome di Pietro Trapassi in quello di Metastasio. CASO Ma fu ventura? il Genio Di lotte si nutri, Dalle sventure uscì Sempre più grande. Vano splendor, che abbaglia, Di corte è lo splendor; Aduggian mente e cor Le sue ghirlande.... Ma non di te, del secolo Inchino a servitù La colpa: alla virtù Tu fè serbasti. A lei devoto un tempio Un'ara ergevi in cor, Soavi incensi ognor A lei bruciasti. I dolci affetti, gl’idoli Più cari a ogni mortal Di luce verginal Cinse tua Musa. Il vil, l’astuto, il perfido, L’ingrato ha il suo color, L’alma del traditor Riman confusa. Chi meglio contro al vizio, Persùadendo il ben, Stillò dell’uom in sen L’abborrimento ? Li NOIE Gli Eroi di Roma, Chi opre sublimi fe’ Eterno ebber da te Un monumento. d’Ellade, Vivi ancor oggi sembrano Muoversi e favellar, E il fuoco ridestar Che in loro ardea. Ne’ drammi tuoi lo spirito Di Jéova calor Spira, che avviva i cor, Li nutre e bea; Lo spirto, che nell'ultima Ora pace ti diè, I gaudî, che mercè De’ giusti sono. Perenne a te sia gloria Nel gemino emisfer, » . Finchè s’onori il ver, Il bello, il buono. Stolto chi loda il rugghio Del fier leone sol, E odia dell’usignuol La melodia. Per te mai sempre Italia Giardin di mirti e fior, La terra degli amor, De’ carmi fia! Socio Prof. Pasquale Pizzuto. SRI e PPTETRRO METASTASIO Poeta, il primo verso Che ripetè il mio labbro fanciulletto Fu tuo: quest'universo Opra insegnommi d’un supremo affetto, Onde all’immenso Iddio Benedì pel tuo canto il labbro mio. Ma i giorni tenerelli Presto passaro; a lusinghiera meta Volti gli anni men belli, Sì presto io t'obbliai, gentil Poeta: Chè novi giorni i carmi Volean temprati al fiero suon de l’armi. Sì, una gagliarda gente Sacro il core a un pensier di libertade, Di giogo insofferente, Richiese canti ad incitar le spade; Poeta, e i giorni tuoi Parver men degni d’onoranza a noi. Che non i molli lai Echeggianti per gli arcadi boschetti Fur sacri ai forti mai; Di men leggiadri e di più saldi affetti Temprato volle il carme Quel popolo di eroi che trattò l’arme. Ma se la pace al giorno Ci ridonò di men aspre fatiche, Se fecero ritorno Ad ogni alto saper le menti amiche, Poeta, i nostri vati Fur degni dei destini rinnovati? No; le novelle genti Ad avviare a luminosa meta, Ad inspirar portenti Spesso, invilito, disdegnò il poeta, E la Vergin divina Osceno trasse a la più sozza china ! Oh non ai giorni tuoi Sospirerà la mente ammiratrice ! Figlio di Roma, a noi La fiacca età dei servi non s'addice: Ma il canto non s’ adimi Più mai nel sozzo, e al Bello sì sublimi ! Voli ai sereni cieli De l'Arte eccelsa che insegnò ad Omero Il canto eterno, e i veli Col suo riso infiorò d'ogni alto Vero; Tempri a la Fe' le note, A quella Fede che ogni cor riscote. No, non sarà Nerone Nobile esemplo ad educar le genti: Ma sì del tuo Catone La severa virtù parli a le menti, E sia d’Italia indegno Chi onorar la Virtù abbia a disdegno! Palermo, 30 aprile 188?. Socio Cav. S. V. Bozzo. AL METASTASIO Ricordo ancora i sogni Della mia giovinezza, Quando senza riposo, Come sfrenato corridor, sen gia L’ardita fantasia Percorrendo pe’ cieli un calle ignoto: Poi, dal tedio assalita, Parea cader nel vuoto Ad aspettar chi le porgesse aita. O Metastasio! la tua rima, allora Il varco in me schiudea Agli affetti dolcissimi del core; E mi appariano avanti, Quasi in umana forma, La pietade, l’amore, La costanza, la fede, Il magnanimo ardir greco, e latino; E con loro mescea sospiri e pianti! O quale estro divino Si aggirava a te presso a Quando ti uscia del labbro Tanto soave il verso, Al quale altro, nè prima, Nè pari, udiasi appresso ? Nelle nostre contrade Novellamente emerge Hi Oggi un altare, e a te fien sacri i voti: Dov'è il più bel giardino A cui l'occhio fecondo, Natura, con le Grazie abbia converso ? Dov'è la man che degna Sia, di scerner gli amabili colori, Per far ghirlande a te sole nel mondo? Nella valle di Tempe, x In cui la venustade antica regna Sol v'ha in Sicilia chi sa coglier fiori (1). Socia Teodelinda Franceschi Pignocchi. (1) Si allude a S. E. l'illustre Principe di Galati, insigne grecista. SA 3 PE POESIA NEL PRIMO CENTENARIO DI METASTASIO Nelle ausonie cittadi Oggi uno spirto, un sol pensiero aduna Quanti aman l’arte, quanti ; Di poetica luce accende il raggio, E di mirti e di allori, E dell'ingegno a te rendiam l'omaggio ; A te d’Ausonia figlio Che posi all’ ombra di stranieri marmi , Nobil sofo e testor di dolci carmi. E a salutar la bella Diletta patria torni Festeggiato dal plauso universale Più che ne’ lieti giorni De’ tuoi trionfi, o grande, Ed esulti all'encomio e di novella Corona ancor t'adorni; Corona è questa di onorata fronda Che non di pianto e nondisangue gronda! Redivivo lo stuolo Teco appar de’ pastori e degli eroi Che tu creasti a popolar la scena. Suonano in ogni labbro i versi tuoi, Spiran la carità del patrio suolo, L’invitto ardir, la Fede e la serena Aura dell'innocenza e dell'amore In ogni gentil core. Non di nefandi e abbietti Sensi l'arte divina Di Dante profanasti. Ma puri, santi, generosi affetti, Prostrato, il vizio, la virtù reina, Il Bello, il Ver cantasti. Salve dall’Alpi al mare Per te sciogliamo il canto. Sol tacerà l’oscena Ciurma (e il silenzio suo chiaro l’accusa) A cui Satana è Dio, Taide Musa! Socia Concettina Ramondetta Fileti. ’Ertypapupoa ’Appi toò mavo IHetpov Metastacion HoXXoi x ’otbppoves Moigag ÈTtAMviO pertxtai "Qy rep è voy alby otenpat Edmoe ubpate. °AXX” oî pèv TmoXgpave, xdnua Bodioty, Epuvviy, Ot d’alcypiv Gauyms Marvados &ppocbvnv. FAMA povor YAvxepfig Hetpov xéxinv®’ dr'kordne Obpaviday &peth, tod 1° èradòos ‘’Epwe. . È Giuseppe De Spuches, Socio Presidente. x IDEM LATINE REDDITUM Multi atque ingenio validi coluere Camoenas Quorum etas fronti laurea serta dedit. Verum hi bella ciunt, odiorum semina, Erinnym, L; Mi Bassaridem, quae ruit in venerem. At solum Petri mellito carmine gaudent «. Numina; cum his socio foedere iunetus Amor. PI . Socius Paschalis Pizzutus. SX SUL :OPERE DI MONS PIETRO SANFILIPPO IE COMMEMORAZIONE Dappoichè, onorandi Lai. ed illustri Colleghi, vi è piaciuto com- mettermi il caro e doloroso ufficio di ricordarvi le civili e letterarie be- nemerenze dell’estinto nostro socio, Mons. Pietro SANFILIPPO, Ciantro di questo Metropolitano Capitolo; consentitemi, che a sdebitarmi dell’inca- rico che mi avete affidato, io vi tenga libero e franco discorso, siccome libero e franco fu sempre mai l’egregio uomo di cui oggi, qui radunati, rimpiangiamo la perdita. ; Sono ormai trascorsi undici anni e liberamente vi ragionai di GRrE- GoRrIO UGDULENA, figliuolo di quell’istessa Termini che diè i natali al Sanfilippo; Ugdulena, che fu senza dubbio nel nostro secolo uno dei più illustri rappresentanti della scienza italiana; ingegno profondo, ver- satile; mente sagace ed acuta; memoria felice; erudizione in ogni ramo di scienza sorprendente; che diè alla Sicilia la sua prima numismatica fenicia ed all’Italia il più dotto de’ suoi comenti sulla Bibbia, sebbene per isventura incompiuto. Passarono sette anni ed era a me riserbato rendere in quest’aula medesima l’estremo tributo di encomî e di pianto all’esimio storico del- l’Isola, Isimoro LA Lumia, che ebbe col Sanfilippo amicizia lunga e non * Venne letta all’Accademia dal Can. Isidoro Carini, socio ordinario della med=- sima, nella tornata de’ 28 Ottobre 1883. 2 SULLA VITA E SULLE OPERE mai interrotta, comuni gli studì, comune il vivo amore a quest’Isola; è me poi fu congiunto co’ vincoli del sangue e con quelli (che meglio val- gono) del più tenero affetto. Chi avrebbe pensato, che quattr’anni dopo avrei dovuto ritornar quì in mezzo a voi e nel vostro consesso pagar pubblico, benchè tardivo tributo al buono, al dotto mons. Sanfilippo ; col quale mi trovai parecchi anni insieme nel Capitolo della nostra Cat- tedrale; che, provetto, incoraggiò me agli studì nell’età giovinetta; per- cosso da’ colpi dell’umana ingiustizia, ebbe me spesso a confidente delle sue pene; amoroso ed instancabile cultore degli studì storici, mise me sovente a parte delle sue soddisfazioni letterarie e de’ suoi lavori? Oggi dunque procurerò di ravvivarvene alla mente la nobile ed ono- rata figura. E poichè le lagrime non valgono a ricomprarcìi dai danni, possa almeno la lode degli egregi estinti confortarcene il duolo. È risaputo da tutti, che la Sicilia è stata in ogni epoca tenera e gelosa custode delle sue vetuste memorie, e che gli studì storici vi sono stati coltivati sempre con grande amore, dirò anzi, con manifesta pre- ferenza; appunto per quell’affetto potente, che noi isolani abbiamo sempre portato, e portiamo, a traverso i tanti mutamenti politici, a questa cara terra che ci vide nascere e ci mise a parte de’ tanti beni di cui le fu largo il Creatore. A dimostrare il fatto cui accenno, basti menzionare, pel nostro secolo soltanto, i chiari nomi di Domenico Scinà, Francesco Ferrara, Giov. Evangelista Di Blasi, Saverio Scrofani, Niccolò Palmeri, Giuseppe Alessi, Vincenzo Natale, Carmelo Martorana, Michele Amari, Isidoro La Lumia, Alessio Narbone, Vito La Mantia ed altri molti. Il SANFILIPPO occupa un bel posto fra questa schiera. Bèvve le prime aure di vita a 18 maggio 1811 da Giacomo Sanfi- lippo, e sortì comune la città nativa col Balsamo, col La Manna, coi due Romano, col Palmeri, coll’Ugdulena e con altri valentuomini, onore di Sicilia e d’Italia. i Venne indirizzato di buon’ora agli studî, e vi attese dal 1820 al 25 sotto la guida prima del Terminatore G. Catalano , indi del Ben. Fi- lippo Candioto, del sac. Niccolò Scialabba, de’ canonici Francesco Cio- falo ed Agostino Giuffrè Scaletta ed infine di Baldassare Romano, tutti preti (come avveniva allora) tranne l’ultimo, cui ebbe per ventura a maestro nelle belle lettere. Questo chiarissimo ed esimio termitano fu dotto di eletta tempra, di coltura rara, di squisita bontà; e n'è singolar merito, non solo l’aver atteso a tanti pregiati lavori letterarii ed archeo-. DI MONSIGNOR PIETRO SANFILIPPO 3 logici, ma sì pure d’aver dato opera al miglior indirizzo dell’istruzione in Termini, e suscitato attorno a sè tutto un drappello di preclari ingegni. Il Sanfilippo potè in questo tempo avvicinare e conoscere l’illustre storico Niccolò Palmeri, l'amico e l'allievo di Paolo Balsamo , che coi principi di Castelnuovo e di Belmonte fu tanta parte delle nostre poli- tiche vicende dal 1809 al 1814 e nell’ ultimo periodo di sua vita s’ era raccolto nella città nativa a vivervi in povero, ma onorato ritiro. Storico, agronomo, economista; distinto perle sue cognizioni in giurisprudenza, gius pubblico siciliano, dritto costituzionale dell’Inghilterra; stimato da tutti per la sua morale severa, per quella inattaccabile probità che ri- cerca scrupolosamente il retto ed il vero, e sa esporlo con ogni coraggio e franchezza , avea lo storico termitano prestato opera utilissima nel Parlamento del 1812, qual procuratore di un de’ baroni siciliani , indi qual deputato di Termini, finalmente, come rappresentante dell’ intiero distretto. Quando poi scomparivano , violate dal primo Ferdinando, le antichissime franchigie dell’ Isola, il Palmeri, sdegnoso ed intemerato, tornava agli studii prediletti, rifiutando ogni pubblico ufficio; nè uscì più dalla vita privata, neppure per la rivoluzione del 1820. — Furono gli esempii e i consigli di lui e del Romano che destarono in petto al giovine Sanfilippo quell’amore per la siciliana storia, che si spense in lui colla vita. Dal Romano intanto e da D. Antonino La Manna, suo zio e tutore, deputato del Collegio di Termini, il giovinetto Sanfilippo, che intendea rendersi frate, ebbe consiglio di entrare nel sodalizio de’ Gesuiti; che, espulsi nella seconda metà dello scorso secolo dagli Stati borbonici e braganzesi di Europa e d’oltre Oceano, indi soppressi nel 1778 pel noto breve di Clemente XIV, in faccia alla marèa montante dello spirito mo- derno, aveano fin dal 1805 fatto ritorno nell’Isola, ristabilito la Provincia Sicula, riaperto le scuole, riordinati gli studì. L’aggregazione del Sanfilippo alla Compagnia ebbe luogo nell’ago- sto del 25, e fu determinato dall’ esempio del suo concittadino P. Giu- seppe Romano, (fratello a D. Baldassare), divenuto poi filosofo ed ar- cheologo celebratissimo. Fornito il biennio della così detta probazione, riprese il Nostro i suoi studii letterarii con passione e tolse in mano, per non più lasciarli, i classici italiani e latini. Su questi modelli im- mortali de’ secoli, che sfidano gli impotenti sforzi di tutti i veristi e realisti del mondo, sì formò a quella precisione del pensiero, a quel gusto del bello e purgato scrivere, che sì lo distinsero ne’ suoi lavori, Aa . pa SULLA VITA E SULLE OPERE e per cui, giovane appena diciassettenne, gli si potè affidare l’insegna- mento delle umane lettere; dando così l’impulso, il movimento alla sua lunga carriera di maestro e di educatore, che forma il vero e più glo- rioso còmpito dell’intiera sua vita. Ed invero, o Signori, che vha mai quaggiù di più grande dell’edu- cazione dell’uomo ? di più prezioso per coloro che la ricevono ? di più grave per coloro che la dànno ? L’educazione intellettuale, voi lo sapete, non è che la metà dell’opera a fare; l educazione morale, 1’ educazione dell'anima, ecco ciò che importa immensamente di più; senz’ essa, il giovinetto potrà essere più o meno istruito, non sarà educato giammai. Per ottener ciò, bisogna andare sino al cuore del fanciullo, nè andar vi si può senza amarlo. L’ educazione morale deve giungere sino agli intimi penetrali dell'anima sua, svilupparne tutti i nobili istinti, comprimere ed estirpare tutto ciò che dev'essere estirpato e compresso, abituar il gio- vinetto alla lotta morale, lotta del bene col male, delle nobili colle prave tendenze, lotta contro sè stesso e contro i proprii appetiti. Certi educatori, non degni di questo nome, si tengon paghi della disciplina materiale ed esterna, che pure può ricoprire tante miserie morali. Non così il vero educatore. — Il SANFILIPPO cominciò ben presto ad amar le anime de’ fanciulli; e se la sua parola istruì le loro menti, depose al tempo stesso il germe delle cristiane virtù ne’ loro cuori. Sopravvenne il colèra del 1837, mentr’egli era tutto intento al suo insegnamento ed a’ suoi studì. Perì nel funesto contagio il Palmeri, sepolto e confuso fra la moltitudine innumerevole di vittime colpite dal- l’asiatica lue. E con esso perdette la patria il grande scienziato Do- menico Scinà, il naturalista Bivona, il diplomatista Garofalo, i due Greco, l'avv. Filippo Foderà, il pittore Vine. Riolo amico al Monti e ad Ennio Quirino Visconti, il dott. Pietro Polara, non che l’Alessi, il Della Ro- vere, il generoso filantropo barone Pietro Pisani, il Muzio -dotto pro- fessore di fisica matematica, il Ragona prof. d’ebraico, lab. Raimondi traduttore latino del Meli, l’ab. Scovazzo istitutore e direttore del metodo di mutuo insegnamento in Sicilia, emulo dell’Aporti e del Lambruschini, il giovane Antonio Di Giovanni Mira, Ignazio Dixitdominus che fondò lo Stabilimento dei Sordo-muti, il Tranchina; i migliori uomini insom- ma, di che faceasi bella e gloriosa la patria. .... In tanta strage, in tanto Scavar di fosse e traboccar di corpi, per dirla col Pindemonte, lo scompiglio fu generale , la società parve. DI MONSIGNOR PIETRO SANFIPIPPO 5 sciolta. Tuttavia sì ricompose,e ad una generazione di valorosi scomparsa, un’altra ne sottentrò nella quale prese a figurare il Sanfilippo. Però noto qui una differenza. Dal 30 al 36 era corso un periodo di movimento salutare, di progresso verace, di svariata coltura, un’affra- tellarsi degli studiosi, un emularsi e spingersi al meglio. Dopo il 37, Palermo perdette il primato intellettuale; ruppersi i legami che s’avreb- bero dovuto stringer più forti pel civile miglioramento del paese; ina- spritisi gli animi fra governanti e governati, il contraccolpo fece sentirsi anche nella repubblica delle lettere ; si biparti questa e divise in b0r- bonici e liberali, in patriotti e venduti; la più gran parte de’ giovani d’ingegno s'immerse nella politica ; svegliossi il sentimento nazionale; cominciò a parlarsi d’Italia, di risorgimento, di nuovi destini; si prese a caldeggiare una letteratura civile, unico mezzo di manifestazione al- lora, da cui traspariva, velato appena, l’intendimento di abbattere i Bor- boni, e si destò infine, per non più cessare, quel fermento tra intellet- tuale e politico, che riuscì al 48. Però ogni persona imparziale e che conosca quei tempi, mi accorderà che i Gesuiti siciliani parteciparono an- ch’essi, in ciò che avea di men rivoluzionario, al movimento degli studî letterarii storici e filosofici che correva non solo per | Isola, ma più per l’Italia tutta. E come potevan essere se non fioridissime per istudì quelle scuole, dove insegnavano teologia il Narbone , dritto naturale il Taparelli d’Azeglio, filosofia il Romano, matematiche il Turner, elo- quenza il Fontana, scienze naturali il Libassi, storia il Sanfilippo? An- che i più fieri nemici dell'Ordine confessavano, ch’ esso era composto in Sicilia di uomini sapienti e virtuosi. E trovandosi alla Prefettura degli studì il P. Alessio Narbone, Gaetano Daita in un suo articolo Sul pub- blico saggio dato dalla classe di rettorica nel Collegio de’ PP. Gesuiti di Palermo l’anno 1840, che leggesi nelle Effemeridi Scientifiche e Letterarie per la Sicilia (Tomo XXX, an. IX, pag. 58 e segg.) avea encomiato l’ indirizzo conforme allo spirito progressivo dei tempi, con l’abdicazione la più sensata ad ogni vecchio pregiudizio; facendo servire all’applicazione la più giusta i buoni principî e le sane teorie, mercè un pratico opportuno insegnamento. I due primi lavori storici messi a luce dal Sanfilippo sono due Vi- tine; l’una del beato Agostino Novelli patrono della sua Termini, e l’altra di S. Rosalia Vergine Palermitana. Della prima faceasi già una terza edizione nel 88; e sull’illustre mi- nistro di Manfredi, intorno al quale Palermo e Termini disputaronsi la 2 6 SULLA VITA E SULLE OPERE . gloria di avergli dato i natali, di cui molti scrissero dal B. Giordano di Sassonia al Lo Cascio al Riera all’Aliprando al Giambruno al Rizzo all’Errante all’ Orsini, il Nostro diè con sobria critica, in istile preciso ed elegante, poche ma sicure notizie. Un’altra prova dello spirito esatto, della maniera di scrivere purgata e chiara del Sanfilippo venne fornita dalla Vitina di S. Rosalia che uscì nel 38 e venne ristampata al 40, al 46 ecc. in 12°. Vi espose quanto di più assodato e meglio sorretto dai monumenti potè rinvenire sulla santa romita nelle vite e nelle opere dell’Auria, del Lucchesi, dello Spucces, del Gaetani, del Cascini, del Salerno, del Mongitore, del Tornamira, ma precipuamente dello Stiltingo. Questo pregevole compendio ebbe sette od otto edizioni. Basta dire per apprezzare debitamente queste due piccole, ma ben fatte agiografie, ch’esse furon tenute in molto conto dai dotti Bollandisti. Alle due Vite anzicennate può aggiungersi una terza: quella, cioè, dell’infaticabile apostolo della Sicilia, il ven. P. Luigi Lanuza; del quale il Sanfilippo narrò le opere e la santità, assai meglio che non avesser fatto prima di lui il Lo Cascio, ‘il Frazzetta, il Del Pozzo, l’ Alberti, il Longaro degli Oddi. Quest’ altro lavoro venne pubblicato in Palermo nel 1839. Fu nel 1840 che venne alla luce il Compendio della Storia di Sicilia, ristampato, con ARCIQRUIRERIO al 43, in 8°, con tavole cronologiche dei Re, Vicerè ecc.; poscia, con nuovi miglioramenti ed aggiunte, indice alfabetico de’ comuni di Sicilia etc., al 50 e diverse altre volte; Com- pendio nel quale tutta questa generazione ha imparato le glorie, le sven- ture, le vicende della patria. Ciò solo dovrebbe bastare a rendercelo caro. Il Di Blasi nella sua Storia der Vicerè ed in quella Generale di Sicilia ci avea dato il frutto di lunghi anni di ricerche e d’ immensi studîì ; il risultato de’ rimuginati archivii e de’ documenti frugati con invitta pazienza. Malgrado tutti i difetti notatigli dai critici e storici poste- riori aveva fatto opera utilissima ed avuto il gran pregio di consultare tutti gli autori antichi e moderni, che trattano la storia nostra, e di raccogliere l'enorme congerie dei materiali che la concernono. Ma le due Storie di lui eran di mole troppo vasta, perchè servir potessero alla gioventù, oltre- chè peccano di prolissità soverchia e scarso artifizio di stile. Quanto alla Somma del Palmeri, essa non serba le proporzioni di un Compendio e non raggiunge quelle di una storia vera e compiuta. Il Sanfilippo invece scrisse per le scuole. « Cerco il profitto vostro, * DI MONSIGNOR PIETRO SANFILIPPO 7 o giovanetti (scriveva egli sin dalla prima Prefazione) e per ciò solo ho durato quegli stenti che nel compilare il presente Compendio mi sono stati compagni ». Ebbene, o Signori, se è stato sempre difficile scrivere idonei corsi in servigio della gioventù studiosa; questo compito parmi dal Nostro al tutto conseguito; poichè il suo lavoro è con tanto giudizio condotto, che nulla meglio potrebbesi. desiderare per un libro scolastico. È breve , chiaro, esatto, elegante; stabilisce un continuo nesso negli avvenimenti che si succedono e li accompagna a quando a quando con riflessioni opportune. La parte p. e. che riguarda i Normanni è sì ben fatta, che venne.ripubblicata nel vol. II delle Memorie sulla Sicilia di Guglielmo Capozzo (Palermo, Virzì, 1840) con altri scritti pregevoli di Celidonio Errante, Mons. Airoldi, Raoul-Rochette , Gregorio, Scrofani, Scordia, Bréquigny, Testa, Sainte-Croix. Questo piccolo libro servì acconciamente a’ bisogni dell’istruzione, ed incontrò fortuna nel pubblico assai più che il Compendio di Niccolò Maggiore (malgrado le sue tre edizioni del 31, del 34 e del 40) non che gli altri di Spedalieri, Aglioti, Gianfalla, D'Angelo, Buccellato, Di Pasquale, Porto, Di Marzo-Ferro, Sapuppo, Zangrì. Esso, per comune avviso delle persone versate nelle patrie cose, è, fra quei molti che han veduto la luce, senza dubbio il migliore, superandoli tutti vuoi per purezza di stile, vuoi per la rapida e veridica narrazione de’ fatti, vuoi per la fedeltà ed accuratezza storica; cose che assai di raro soglionsi trovare in un Com- pendio. ; Avendone fatto sì numerose edizioni, l’autore potè sempre più cor- reggerlo e limarlo, senza lasciarsi adescare alla facile seduzione d’ im- pinguarlo soverchiamente.. Ei fu p. e. il primo ad avvalersi delle nuove e splendide ricerche dell’Amari, ed a farle entrare nella storia generale dell’ Isola. Ricordo qui, che, essendo venuto in Sicilia verso il 1846 Massimo D'Azeglio a fin di rivedere il fratello Luigi, avvicinò fra gli altri gesuiti il Sanfilippo, ne encomiò il Compendio e peculiarmente il buon uso fatto in esso della favella italiana: lode in siciliano scrittore secondo lui, non comune.. Frattanto il Nostro non lasciava di attendere a’ ministeri ecclesia- stici, ed io trovo negli Annali della Propagazione della Fede dell’anno 1843 (1° edizione siciliana) inserito un Elogio funebre dei defunti be- nefattori della Pia Opera della Propagazione della Fede, da lui re- citato nei funerali celebrati nelia Chiesa della Casa Professa in Pa- 8 SULLA VITA E SULLE OPERE termo il 15 novembre di quell’anno, alla presenza del Cardinale Arci- vescovo. Il Narbone avealo preceduto su quel pergamo l’anno innanzi, e gli dovean succedere il Ferrara al 44, il Fontana al 46, il Previti al 51. Ma le inclinazioni del Sanfilippo eran tutte per la gioventù; cotalchè, visti 1 buoni frutti da lui dati insegnando umane lettere a Marsala, a Caltanissetta, a Palermo, i Superiori lo chiamarono, nella verde età di trentatre anni, tornato già da Roma, al delicato ufficio di Rettore del Convitto dei Nobili, in questa capitale dell’ Isola; ufficio da lui tenuto per poco men di un triennio, con generale soddisfazione delle famiglie, sino al 48. Dissi ufficio delicato. Il Superiore infatti di una casa d’educazione è l’uomo, o Signori, su cui tutto riposa ed in cui l’opera intiera si con- centra; è l’anima, la vita di tutto il Convitto, ed a lui si applicano, nella più completa verità, le belle parole colle quali il Poeta Mantovano de- finia sì bene le cure di chi presiede : In te domus inclinata recumbit. Quante sollecitudini pesano invero su di un buon Superiore ! Bi- sogna far violenza a’ fanciulli, ma una violenza ‘dolce, ragionevole, eri- stiana. La costrizione materiale sarebbe facile, ma non salva nulla, e perde tutto. Fa d’ uopo vincere le nature più ribelli, ma colla persua- sione. Bisogna andar dietro ad esse, ma con soavità, tenerezza, indul- genza, severità. Il grande ausiliare di questa forte educazione morale (lasciate, o Signori, che lo proclami in quest’ Accademia, amante d’ogni progresso vero, ma fedele alle idee conservatrici) è, nè può esser altro, che la Religione. Essa è l’anima, la forza, la superiorità indiscutibile dell'educazione data dal clero : la Religione! considerata non solo come una parte essenziale dell’ educazione, (poichè le facoltà più elevate del- l’uomo e perciò del fanciullo sono le facoltà religiose, e i primi fra i suoi doveri i doveri verso Dio), ma dippiù come un mezzo generale di educazione, e il più potente fra tutti, che penetra e domina tutti gli altri con efficacia sovrana. Chiunque conosce la foga terribile e Ja deplore- vole debolezza dell’età giovanile, così ardente insieme e così leggiera, lo riconoscerà. Il sistema d’educazione intellettuale, morale e religioso, che prende nome dal clero, differisce profondamente dall’ educazione laica ed uffi- ciale che le si è sostituita. Questa può essere un insegnamento abile, un’amministrazione perfetta; può essere sotto ogn’altro aspetto senza ri- DI MONSIGNOR PIETRO SANFILIPPO 9 vale, benchè nulla vieti al clero di uguagliarla su tutti questi punti. Ma pe- netra, nell’ istesso grado, l’anima del fanciullo? se impadronisce col- l’istessa potenza, la preserva allo stesso grado? No, o Signori; non lo fa nè lo può fare. Invece l’educazione data da’ laici possiede un solo mezzo morale, di cui non disponga ugualmente l’ educazione data dal clero ? E questa non ha dippiù nella religione un supremo mezzo edu- cativo, che l’altra non avrà mai all’istesso grado ? — Vi sono delle epo- che in cui il buon senso pubblico si ecclissa; annotta fra i popoli come anpotta in cielo; ma le tenebre hanno il tempo assegnato; allorchè ri- splenderà la luce, ci accorgeremo dell’errore; si richiamerà nell’ educa- zione la fede sbandeggiata; si ravviverà la memoria degli educatori cri- stiani; si ripiglieranno le sane tradizioni pedagogiche, e Dio sarà rido- nato alla gioventù. Echeggiano tuttora alle mie orecchie le savie parole pronunziate testè nell’aula parlamentare dal deputato Lioy. « Nelle nostre scuole, esclamava egli, non si educa punto; l’anima è morta, il cuore non batte, non v'è neppure l’embrione di quella sana coltura morale ritempratrice del ca- rattere, della fede, del sentimento, dell'onestà e del dovere ». ‘E poichè io vi parlo d’un uomo, il quale spese tutta la sua vita nel ministero dell'educazione ; che educò co’ libri e colle opere ; il cui ca- rattere essenziale e il pregio potissimo è quello d’ educatore cristiano; io cedo alla tentazione di aggiunger qualche altro pensiero sugli antichi e nuovi metodi d'insegnamento. Oggi p. e. prevale per lo studio delle lingue classiche il metodo che possiam chiamare germaniszante, pel quale il greco ed il latino debbono insegnarsi così, come se precipua cura fosse quella di notomizzarli, di decomporre i vocaboli, cercandone la lontana origine nel sanscrito, nello zendo e nel celtico antico. Eppure dicea, non è guari, S. E. l’ attuale Ministro per la Pubblica Istruzione «un professore che nei primi anni del ginnasio, ed anche del liceo, at- tendesse a che i giovani alla sua cura affidati studiassero la genesi del linguaggio, piuttosto che la potenza e l’ efficacia di questo linguaggio , farebbe a me quella impressione che potrebbe fare una ricca matrona , la quale, per consolarsi delle sue gemme e dei suoi brillanti perduti, acquistasse la notizia di ciò che è il brillante o la perla ». Ottimo para- gone, ma che pure non ha fatto cessare un fatto che i savì pedagogisti deplorano ed ha prodotto in Italia lo scadimento degli studii classici ! Uomini autorevolissimi, come il Bonghi, il Villari, il Martini, il Ma- riotti, il Vallauri, han fatto le stesse assennate censure dentro e fuori le 3 40 SULLA VITA E SULLE OPERE due Camere, ma tuttavia senza pro. Ed io leggeva testè uno stupendo scritto d’uno de’ primi periodici italiani, in cui si assegnavano come cause di decadenza i metodi d’insegnamento, introdotti dall’estero nelle scuole nostre, per amore di novità e servile imitazione; l’abbandono sciagurato delle nostre tradizioni classiche ; la cattiva qualità dei libri di testo; la mania deplorabile di enciclopedismo scolastico , deriso già da Niccolò Tommaseo, e lamentato sempre dalle persone di senno, siccome contrario alle leggi della natura, avente per conseguenza che dei giovani sì formino saccenti presuntuosi, i quali sanno er omnibus aliquid, in toto nihil; l’aver preferito il metodo simultaneo al successivo ed aggiunto agli studì letterari gli studî delle scienze naturali e delle matematiche; l’uggia e il fastidio che naturalmente ingenera agli animi giovanili il continuo mi- scuglio di cose disparatissime da mettersi in testa; l’indebolimento e la stanchezza che viene dall’ agglomerar tante materie non proporzionate alle forze; il difetto dell’emulazione che tanto può , particolarmente dai nove a’ quindici o sedici anni, sullo spirito dei giovanetti. Aggiungasi il facile incapricciarsi della politica, da cui dissipati gli scolari perdono ogni amore alle lettere greche, latine ed italiane e mal si acconciano alla lezione di Cornelio, di Marco Tullio, di Virgilio, di Senofonte e dei nostri classici del trecento e del cinquecento, mentre che possono raccogliere nel giornalismo più facili allori. Gli educatori antichi, che vanno scomparendo dalla scena e di cui il Sanfilippo fu uno degli ultimi rappresentanti, aveano certo i loro di- fetti e le loro lacune. Però converrete con me esser aurea quella loro massima: Multam dandam esse litteris, at non multis, operam. Nè men belle mi paiono per finirla, queste giudiziose parole del celebre Cardinale Gerdil: Azien de plus important que la culture des premiéres années; il est trés dangereux de s'y méprendre. L’objet qu'on-doit avoir prin- cipalement en vue, n'est pas tant d’orner l’esprit, que de le former... Le grand art consiste d exercer l’esprit, d le mettre sur les votes de Jatre des pas de lui méme, et d’essayer ses forces dans la carriére quon lui ouvre... On a beaucoup fatt, si dans les premiéres années on a réussi d donner d un jeune homme du goùt pour l’ instruction, et l’aptitude de s'instruire de lui-méme le reste de ses jours; car il n'y a pas de terme d l’apprentissage de la sagesse (Opp. t. I, pa- gina 169, ed. Rom.) Spesso mi ripeteva il Sanfilippo, che scopo principale dell’educatore è abituar la mente giovanile a discernere il vero dal falso, il buono dal cattivo, impresa questa di tutta la vita: non doversi studiare i classici DI MONSIGNOR PIETRO SANFILIPPO 14 così di volo, a simiglianza dei viaggi nelle strade ferrate, facendo molte conoscenze, ma nessuna amicizia: dovervisi invece consacrare uno studio continuo di più anni, avvezzandovi l’ orecchio colla reiterata ripetizione ed osservazione, ed esercitandovi intorno la memoria coll’apprenderne i passi più insigni: lettura e dimestichezza coi pochi grandi, ecco il segreto dei maggiori scrittori, il mezzo per educare la mente dei giovani, avvezzarli al senso del bello, addestrarli a significare i loro concetti con ordine, con precisione, con eleganza. — Pueris, scrive stupendamente quel grande istitutore che fu Quintiliano, quae maxrime ingenium alant et unimum augeant praelegenda : caeteris, quae ad eruditionem modo pertinent, longa aetas spatium dabit, che è quanto dire: ai fanciulli si insegni anzitutto il buon gusto e il bello scrivere; l’erudizione verrà più tardi. i Questo metodo ha dato al mondo i prosatori, i poeti, gli scrittori, i filosofi più celebri; ed all'Italia ha fruttato quante glorie ella conta, dal secolo decimoterzo a mezzo il secolo presente : e coloro stessi che oggi, in quest’Italia nostra, valgono qualche cosa per coltura letteraria e buon gusto, debbono il valor loro al metodo successivo, secondo il quale sono stati ammaestrati. Ma è tempo di tornar subito all'argomento. Sopraggiunse il 1848, rivoluzione entusiastica al grido d’Indipendenza e Costituzione; indipen- denza cioè da Napoli, costituzione a monarchia parlamentare. L’anno fu, come sapete, fatale al Sodalizio cui il Sanfilippo appartenea. Anche in Sicilia vennero in luce ed articoli di giornali ed opuscoli diversi contro l’Istituto. Ripercuoteasi l’eco dei gridi risuonanti per tutta Italia: Viva Gioberti! Morte a' gesuiti! Malgrado che i religiosi della Pro- vincia Sicula avesser, con isbaglio perdonabile, separato la loro causa da quella dei proprii consodali del continente, ed assunto a dimostrare non essere il loro liberalismo nell’Isola nè simulato, nè infinto, ma anzi di data anteriore molto al 12 Gennaio; malgrado si fosser dichiarati apertamente per la causa comune del popolo, e per quei che pel popolo avean combattuto; si sa che il 31 Luglio, festa di S. Ignazio, le Camere procedettero alla loro dissoluzione. Per misurare il cordoglio del Sanfilippo, che pure era affezionato al suo Ordine, bisognerebbe immaginare questa violenta separazione di fratelli che si amano, e questo brusco spezzarsi di vincoli così profondi e così cari; poichè un religioso, o Signori, per la professione della vita e della regola ha ricevuto come una seconda nascita e un secondo bat- 12 SULLA VITA E SULLE OPERE tesimo. La disciplina regolare, la vita strettamente comune , lo spirito di corpo, il dono irrevocabile di tutto sè all’ Istituto, contribuiscono a cementare quell’amore, che identifica coi fratelli, colle fatiche, colle opere coi successi, coi rovesci, colla vita dell’Ordine proprio. Sicchè, quando lo scioglimento è pronunziato, quando la condanna di morte è stabilita, si compie un ineffabile martirio ed il religioso, che cessa di esserlo senza cessare di volerlo, diviene come un essere diseredato in un mo- mento, trabalzato ruvidamente da una vita laboriosa ma pacifica nel più terribile infortunio. Il Sanfilippo provò, è vero, l'amarezza di questo momento; ma, dedito com’era agli studì, da tutti conosciuto in Palermo e da tutti apprezzato, gli tornò facile trovar di che vivere colle sue fatiche ed a malincuore si rassegnò. Trovo un lavoro di lui nel Pensiero della Nazione, di cui era di- rettore proprietario il p. Luigi Previti, e collaboratori altri gesuiti, il Pinelli, il Carbonari , il Bottalla (Paolo) che vi scrisse (notate!) sulla Nazionalità Italiana della Sicilia, infine il deputato di Modica, Carlo Papa. Il Pensiero della Nazione cominciò il 9 gennaio 49 e finì il 3 marzo dell’istesso anno; pubblicò in tutto 16 numeri. Il Sanfilippo vi avea co- minciato a studiare i movimenti rivoluzionarii della nostra storia. Il suo scritto s'intitola Storia delle congiure, dei tumulti e delle rivoluzioni di Sicilia, dal regno di Guglielmo I sino a’ dì nostri, ma si arresta alla cospirazione contro Stefano Gran Cancelliere. Avvenuta la restaurazione, il Nostro non fu tra quelli che ritorna- rono in grembo alla Compagnia. Però (giacchè dal 49 al 60 è l’epoca dei maggiori onori della sua vita) consentitemi che vi richiami quest’ ali pagina di storia contemporanea. L'ingresso in Palermo delle truppe borboniche avvenne il 15 mag- gio 1849, avendo voluto la vanità del Principe di Satriano solennizzare così la vittoria riportata in Napoli dalle regie truppe sul popolo insorto nel giorno stesso dell’anno antecedente. Nei primi atti del Filangieri si ebbero due impressioni opposte, l’ una di speranza, l’ altra di terrore. Fu quest’ultima che ebbe il sopravvento. Al dipartimento di polizia, che in quei momenti credevasi il più importante, venne addetto un tenente di gendarmeria , Salvatore Maniscalco , che un tempo avea servito in cl Napoli presso il famoso Del Carretto. Rigorosa anzi feroce fu l’osser- vanza degli ordini pubblicati dal Principe di Satriano e la fucilazione venne minacciata ed attuata per ogni lieve caso di trasgressione. Tutto DI MONSIGNOR PIETRO SANFILIPPO 13 ciò giovava forse alla tranquillità materiale, ma la tranquillità degli animi, o per meglio dire la tranquillità morale era sparita. Invano richiamavasi in vita il Ministero per gli Affari di Sicilia in Napoli, creato nel 22, indi soppresso per risuscitarlo nel 49, preponendovi il Cassisi. Invano! Do- veano accumularsi sbagli su sbagli, ed errori sopra errori, e questi pro- durre odii e vendette che scoppiarono violentemente nel 60. Qualche maligno ha voluto accusare il Sanfilippo come strumento di reazione. Menzogna!! Egli fu, è vero, uomo d’ordine, esimio eccle- siastico, amante della pace; venne onorato dal caduto governo e gli si tenne grato; però serbossi sempre fior di probità e di onestà, eccellente amico, in rapporti continui con liberali notissimi, cui fece spesso, po- tendolo, del bene; e come raccoglierete dal sèguito di questo Discorso, fu, non solo buon Siciliano, ma anche buon Italiano, se han da parlare le opere e non le ciance. Il vero è, che Carlo Filangieri, l’antico ferito di Austerlitz ed avanzo delle guerre napoleoniche, lo scaltro uomo caro a Murat e poi alla Re- staurazione, fra i non pochi torti del suo governo, ebbe però il pregio innegabile di largheggiare cortesie e favori coi letterati, promuovere i buoni studii, mostrarsi saggio estimatore delle lettere. Quindi, come onorò il pio e santo Alessio Narbone, il Varrone Siciliano, onorò del pari il Sanfilippo; il quale, senza avvilirsi mai, godette dell’ugual fiducia sotto l’altro Luogotenente Generale, D. Paolo Ruffo Principe di Castelcicala, uomo inetto a governare, povero di mente e di consiglio, facilmente circuito dal Maniscalco, ma retto nell'animo e di buone intenzioni. Ebbe il Nostro degnamente conferito un Canonicato nel Capitolo di Palermo, che si è pregiato sempre di tanti cultori illustri della patria storia e va glorioso degli Antonino Amico, dei Testa, dei Mongitore , dei Di Giovanni, dei Gregorio, dei Di Chiara. Il merito del Sanfilippo non scapitava a lato al Mancino, al Casano , al Turano, al Raibaudi, all’Ugdulena. — Fu poi egli chiamato nella Commissione di Pubblica Istruzione, alla quale le sue fatiche gli davan dritto. E sostenne con decoro, con coscienza, con ispirito largo e liberale l'ufficio, non punto facile e gradito, di Regio Revisore, in modo tale da cattivarsi la stima e l’affetto degli autori e dei librai. Ciò è tanto vero, che i migliori amici di lui nell’ infortunio furono gli editori; primo fra tutti, il Pedone. È qui notate, o Signori, i più be- nigni e larghi depositarii della censura preventiva furono i gesuiti. Il buon p. Narbone, che pure era uomo da capire, licenziò per la stampa la Storia del Vespro di Michele Amari, che dovea attirare all’ autore 4 eee e 14 SULLA VITA E SULLE OPERE una sì fiera burrasca ed influir tanto sulla gloria di lui e sull’ istorio- grafia siciliana. Il Sanfilippo non fu superato da niun altro nel modo benigno di esercitare la Censura. Eppure egli, dopo il 60, fu perse- guitato come retrivo ed altri che fecer pesare in modo odioso la revi- sione, e tenner l’ufficio proprio, paurosamente per non dir vilmente, si dieder poi per liberali zelantissimi e gli gridaron contro la croce!! Per servire proficuameate la patria, avea composto il Sanfilippo e pubblicato, in due volumi, nel 49, la bellissima operetta Roberto e la sua famiglia. ovvero letture per fanciulli Siciliani, ch'ebbe un’altra edi- zione nel 52. In questo libro istruttivo rifuse e restrinse la siciliana storia e diede un bell’ esempio a’ pedagogisti dell’ Isola, che possono vantare i chiari nomi del Viperano (1588), del Fardella (1696), del Can- giamila (1732), del Santacolomba (1775), e nel secolo nostro, dei De Cosmi, Panvini, Lo Presti, Scuderi, Rizzari, Scordia, Tedeschi, Scovazzo, Maggiore, Pizzuto, Marchese, Saccano, Daita, Pisani, ecc. tutti autori di opere educative o sull'educazione. Io non so comprendere perchè tanti libri, mal pensati e peggio scritti, piovutici di Piemonte o d’altrove, sì trovino in mano dei fanciulli siciliani, e ne sia invece bandito il Roberto; che, abbracciando la storia e la geo- grafia dell'Isola, è un’istruzione storica insieme e civile di cose patrie. Uscì al 50, in unico volume , pei tipi del Meli, la Somma della Storia di Sicilia del Palmeri, preceduta dall’ elogio di Francesco Perez ed eseguita sotto la direzione del Sanfilippo. Egli arricchì questa ristampa di alcune pregevolissime Note. La XII compendia la storia letteraria della Sicilia a’ tempi degli Arabi. La XVI è una difesa di Gregorio VII contro lo storico termitano. La XXXIII riepiloga la storia letteraria dell’Isola nell’epoca bizantina. Nè stancavasi la sua operosità. Nel 1850, Gaetano Somma fondava un giornale politico, scientifico e letterario, che pubblicavasi due volte la settimana col titolo Armonia e dal 56 in poi quattro volte, mutatosi nel Vapore. Parlo del medesimo Somma, che fu pur direttore d’ un altro giornale, iniziato nel 51 col nome | Eco della Religione, di cui uscivano due soli numeri al mese. Il Sanfilippo collaborò all’ Armonia coi seguenti lavori : Della Letteratura Siciliana dal secolo XII fino a’ tempi nostri. (1850), num. 5 e seguenti. : Sulla Letteratura Arabo-sicula, num. 19. Sulle Costituzioni di Federigo II. DI MONSIGNOR PIETRO SANFILIPPO 15 Tradusse inoltre ed inserì per brani nell’istesso giornale, anno 1851, le tre seguenti appendici : Il Generale Narvaez di C. De Mazade — Salvator Rosa di I. de Chatillon e Pepita, Racconto della Pampa. Si aggiungano : le Memorie sulla querra d’ Italia sotta il Mare- sciallo Radetsskit di Giorgio de Pimodan, e le Memorie sulla guerra d'Ungheria sotto ib Principe Windischgratz e il Bano Iellachich, ver- sioni di lui dal francese, del medesimo anno. Era il giorno 28 settembre 1851, quand’ei lesse in una tornata della nostra Accademia (della quale era socio antico) i due primi Capitoli della sua Storia della Letteratura Siciliana, alla quale avea dato opera ala- cremente e se ne distolse solo allorchè vide consacrarvisi quell’ erudi- tissimo ed instancabil uomo che fu il p. Narbone. Con questi due Ca- pitoli, che furono stampati negli Atti nostri, vol. II, 1853, ei giunge dai vetusti tempi fino a Mosco ed a Teocrito. L’erudizione parca e tutta di ottima lega, il buon gusto, la precisione delle idee, la chiarezza non inelegante dello stile sono i pregi di questa, come di tutte le altre scritture del Sanfilippo. « Le lunghe ricerche, le accurate disamine, le molte con- getture (egli dice), l'apparato di una svariata erudizione non si affanno punto al fine propostomi ». È a dolere ch’egli non abbia continuato sif- fatta opera, perchè l'avrebbe certo condotto con tutt'altro metodo ed in più modeste proporzioni che il Narbone , ed avrebbe così offerto alla gioventù un libro in tutto simile alla Storia della Letteratura Italiana, che le diede più tardi. Udite le modeste parole con cui egli presentava questo saggio del suo lavoro al nostro Consesso: «La Sicilia manca d’una storia completa della sua letteratura. Molti lavori parziali sonosi pubblicati finora, e, pregevolissimi fra tutti, quei dell'abate Scinà. La Storia letteraria di Sicilia, scritta dall’abate Ferrara e contenuta nel sesto volume della sua Storia generale di Sicilia com- presa in nove tomi, non piace e per buone ragioni. «Io mi sono accinto a scriverla, giovandomi delle opere già pubblicate, aggiungendo i frutti dei miei lunghi studiì su tale argomento , allonta- nandomi talora dalle altrui opinioni, quantunque di personaggi forniti di mente e dottrina lungo tratto superiori alle mie. Ho procurato d’illu- strare principalmente l’epoche men conosciute, ed ho raccolto tante ma- terie, da farmi sperare di poter condurre forse a buon termine l’ opera scabrosa. «Ho pubblicato in un giornale, come per saggio ed anche a sentire Se 16 SULLA VITA E SULLE OPERE ® l'avviso dei dotti, una parte non piccola dei miei lavori, cioè dalla origine della moderna letteratura sino a tutto il secolo XIV: nè parecchie colte persone mi sono state avare di cortese incoraggiamento. « Ora sottometto al vostro giudizio, onorevoli Accademici, il principio dell’opera divisata. Non vi troverete per avventura cose nuove, quan- tunque mi sia ingegnato di trattare il soggetto per guisa che in. breve discorso poco o nulla lasci desiderare! Ma voi giudicherete su ciò, sul- l'ordine da me seguito, sulle opinioni e sulla esterna veste in che vi si presenta e terrò cari e venerati o i confidenziali consigli o i pubblici ammonimenti ». Leggesi poi del Nostro, l’anno 1853, una Necrologia del Cardinale Pignatelli, Arcivescovo di Palermo, inserita nel num. 110 del Giornale Officiale di Sicilia, ch’era stato iniziato il 24 maggio del 49, prima sotto la direzione del barone Zappulla, indi del cav. Domenico Ventimiglia. Il medesimo Ventimiglia fondò nel 1855 la così detta Rivista Scien- tifica, Letteraria, Artistica per la Sicilia, che si pubblicava mensil- mente. In essa inserì il Sanfilippo (n. 13) un suo studio su Teofane Cerumeo, Arcivescovo di Taormina, autore delle celebri Omilie greche. Qualche altro scritto diede poscia al Poligrafo, che nel 56 raccolse la eredità della Aivista, periodico in 8° grande, che comprendeva articoli originali, analisi d’ opere , notizie politiche, invenzioni ecc. ed al quale collaborarono, sotto la direzione del Ventimiglia stesso, tutti i migliori ingegni di quel tempo. % Ma eccomi arrivato all’opera principale del Sanfilippo, la storia, cioè, dell’italiana letteratura; per ben estimar la quale io la metterò a raffronto colle altre d’uguale argomento. E anzi tutto l’opera di Paoio Giudici era uscita la prima volta, in Firenze, nel 1845, col titolo di Storia delle belle lettere in Italia; indi, dieci anni appresso, in 24 lezioni, così rimutata e corretta, che avrebbe potuto dirsi quasi da cima a fondo scritta di nuovo. Divide egli i nostri annali letterari in due grandi evi o periodi; dei quali il primo, che comprende la letteratura originale, principia dal nascimento della lingua e finisce con la morte di Lorenzo dei Medici; il secondo abbraccia la letteratura di perfezionamento e d’ imitazione, muove dal cinquecento e si chiude con la prima metà del secolo XIX. Circa a’ giudizii, l’autore ct 0 spesso discostasi dalle ricevute sentenze, comunque divenute tradizionali e radicate nella pubblica opinione. DI MONSIGNOR PIETRO SANFILIPPO 17 Per questa indipendenza (molto più succedendo alla storia, non ispregevole per altro, del Maffei) quella del Giudici segnava un progresso. Talune parti dell’opera, quelle p. e. dove si tratta dell’ Alighieri, delle origini della drammatica italiana, delle sacre rappresentazioni in Italia nel medio evo, dei primordî dell’epopea romanzesca, mi paiono ben trattate. Lo stile è castigato, animato talora da una certa eloquenza. Una sobria e parca erudizione toglie ogni pesantezza alla lettura di questi due volumi. Gli aggiungono anche valore qualche nuova ricerca e qualche documento nuovo. In generale però, tutte le notizie che appresta l’opera son cavate di peso dal Tiraboschi; non vi sì tratta neppure sull’origine della lingua italiana; l'epoca della Rinascenza vien esposta in guisa af- fatto incompleta ed insufficiente; la parte siciliana è al tutto trascurata, poichè il Giudici, siciliano, non trova a citare, in sette secoli di lette- ratura, che soli tre figliuoli dell’Isola, il Meli, il Gregorio ed il Palmeri. Quel che per altro dee dissuadere dal porre in mano a’ giovani la Storia di Paolo Giudici è il difetto assoluto d’ogni serenità di giudizî, lo spirito pregiudicatamente antipapale, la parzialità cieca; per il che mi basti citare gli storti apprezzamenti sul Macchiavelli, apprezzamenti che oggi niuno più accetta, le invettive indecorose contro il Salviati, gli inni a Fra Paolo Sarpi, il disdegno ingiustissimo con cui si sbriga del Bartoli e del Pal- lavicino, le ingiurie a Vincenzo Monti ecc. Del Muratori e di altri sommi si passa con una leggerezza e fretta incredibili. Spesso vi s'incontrano certi modi strani. Germanizza talora. E per dir tutto in una parola, l’opera può esser seducente per giovani inesperti e leggieri, illusi dalle sue idee politiche e religiose; essa però è decisamente settaria e partigiana: del resto, trovasi oggi caduta in piena dimenticanza, nè più risponde alle esigenze giuste della critica moderna. Migliore assai è la sua Storia del Teatro (1869), in cui l autore prende le mosse dal teatro dei Greci; discorre del teatro latino; e, dimo- strate le cagioni per le quali dovè trasformarsi, degenerare.e cadere la letteratura drammatica, ragiona giudiziosamente delle nuove forme che prese poi nel medio evo, venendo da’ primi saggi nella lingua volgare all’Eszelino del Mussato e all’Orfeo di Angiolo Poliziano. Ma si rimase ad un primo volume d’ introduzione , e scrisse del resto pe’ dotti, non già per la gioventù. Il Manuale della letteratura del primo secolo della lingua ita- ttana, compilato in due volumi dal prof. Vincenzo Nannucci è, come si scorge dal titolo, un lavoro speciale. Ottenne, appena comparve in luce, 5) 18 SULLA VITA E SULLE OPERE molte e giuste lodi dai più chiari filologi, e l’autore fu annoverato tra i più valenti investigatori delle prime forme del linguaggio italiano. Però neppure l’opera di lui è da porre in mano a fanciulli, bensì richiede giovani di età un po’ matura per esser letta con profitto quanto agli. studii, e senza pericolo quanto al buon costume, specialmente in quei saggi che il Nannucci stimò dover pubblicare dello sconcio e tenebroso Pataffio, brutta accozzaglia di parole da trivio che l’autore mostrò con belle e nuove ragioni essere stata scritta almeno due secoli dopo la morte di Brunetto Latini. Vorrei poter commendare alla gioventù il Manuale della Lettera- tura Italtana, compilato da Francesco Ambrosoli (2. ediz., 4 vol., Fi- renze, Barbera, 1863). Ma, se ho da esser sincero, e dir il povero av- viso mio, lo trovo poco giusto inverso i Pontefici, nè stimo che il Ma- nuale, benchè per alcuni lati pregevolissimo, sia punto opera che i mae- stri e gli istitutori cattolici possano lasciar correre liberamente per le mani dei loro discepoli ed allievi. Non mi sbrigherò sì facilmente del Settembrini. Lo studio della letteratura è lo studio della vita, rappresentata da Jorme fantastiche nella parola. Questo è il principio, ch'egli assu- me a fondamento delle sue Lezioni di Letteratura Italiana, dettate nel- l’Università di Napoli. Siffatto metodo di giudicare come « priori i fatti della storia, connettendoli colle cagioni non pure immediate e partico- lari, ma anche mediate e universali, prende il lusinghiero titolo di ft losofia della Storia. Se non che (come bene osserva un critico autore- vole) per quanto in teoria sia ottimo questo genere, altrettanto è difficile e pericoloso nella pratica, offrendo ad animo passionato il mezzo faci- lissimo di falsare la storia. Il professore napoletano, affine di racco- gliere l’idea compiuta, l’idea viva della letteratura italiana, credette do- verla cercare non tanto nelle opere morte degli autori, quanto ne’ pen- sieri, negli affetti e nelle tendenze della nazione, che, a suo giudizio, sono da reputare come lo spirito che informa quelle opere. Però fece passare i pensieri e i sentimenti dei nostri maggiori traverso al cristallo delle sue idee antireligiose; ed in conseguenza, se falso è il cristallo, qual meraviglia che provenga falsa l’immagine da esso atteggiata ? Secondo lui, il cristianesimo , facendo rinnegare la terra pel cielo, distrusse la civiltà antica, e diffuse la barbarie, nella quale si affermò in tutta la sua potenza. Non pensò egli, che il Cristianesimo non vieta. DI MONSIGNOR PIETRO SANFILIPPO 19 di procacciare i beni della terra, ma solo di volerli procacciare quali deni assoluti; nè prova (come occorrerebbe onde stesse la sua conchiusione) che la civiltà consiste nell’adunare, con ismania febbrile, e senza nessun riguardo al fine proprio dell’uomo, beni materiali. Dopo il Mille poi, ebbe cominciamento per suo avviso « la lotta della Chiesa col potere civile, con l’arte, con la scienza, con la religione stessa.... lotta che è stata ed è più viva e più grande in Italia, sede dei Papi, e centro del Cristia- nesimo ». E in questa lotta egli ravvisa la vita del popolo italiano, rap- presentata dalla sua letteratura. Voi vedete, o Signori, dove va a battere il discorso del Settembrini; per istabilire il quale egli non si sgomenta di falsare la storia, e di spacciare come alta filosofia i più strani para- dossi.—Il suo edifizio storico-filosofico è pur mancante di fondamento, laddove egli suppone uno spirito di radicale opposizione, che non esi- stette mai, tra i Comuni ed il Papato, mentre anzi i Comuni si svolsero sotto l’influenza e colla protezione dei Papi. — Il professore napoletano riconosce i principii della coltura italiana propriamente in Federico II, per la ragione che questo Imperatore fu incredulo, fu nemico del Papato ed ebbe il gran concetto di ridurre tutta |’ Italia sotto la sua domina- zione, abbattendo non pure la potestà temporale, ma anche la spirituale del Pontefice. Però il concetto di Federico non fu un concetto parteci- pato dalla nazione italiana, ed anzi venne combattuto ad oltranza da tutti gli Italiani. Per contrario il contrasto, che gli oppose il Papa, corrispose esattamente al pensiero italiano. Cade dunque la pretesa opposizione della vita italiana col Cristianesimo e col Papato. « Siciliana (continua egli) fu la nostra prima lingua scritta, siciliane le prime nostre poesie; perchè in Si- cilia fu il primo organismo della nuova Italia, in Sicilia il nuovo pensiero tutto laico, in Sicilia si ordinò la Monarchia ». Ebbene! concesso pure (ciò che la critica moderna non ammette) la canzone di Ciullo d’Alcamo es- sere stata il più antico monumento della lingua scritta e della poesia ; che consegue da ciò ? non avrebbe potuto Ciullo d’Alcamo scrivere e poe- tare, se invece della Monarchia la Sicilia avesse avuto un’ altra forma di reggimento & E pogniamo che la Monarchia era per Ciullo la condi- zione sine qua non per comporre quei suoi versi; perchè mo’ era ne- cessario, che il monarca fosse di più osteggiatore de’ Papi, e per lo meno poco tenero de’ principii cristiani? Dicasi lo stesso di tutto il resto. ‘Nell’ipotesi del professore, non solo la letteratura, ma anche le altre arti dovrebbero manifestare la loro avversione al Cristianesimo , o al meno, un tal quale deviamento da’ principi e dalle idee cristiane. Ma gli è mancato a quest’ uopo sin la possibilità del sofisma. Ond’ egli 20 SULLA VITA E SULLE OPERE confessa, ch’esse furono cattoliche e nel concetto e nella forma; però con meschina sfuggita ne dà la colpa a’ committenti, di cui gli artisti - son obbligati ad eseguire i concetti, quasichè questi committenti non formassero anch’essi il popolo italiano ! Ciò basta a mostrare, che la storia letteraria del Settembrini, consi- derata nella sua sostanza, è un sofisma perpetuo , il quale si appoggia sopra equivoci, e tratto tratto si distrugge da sè stessa; considerata poi ne’ suoi particolari, è un ammasso di errori religiosi e storici, di falsi giudizii letterarii, di parologismi e di contraddizioni. Per chi poi vuole avere una prova evidente dello spirito partigiano che anima l’opera, legga quanto il professore scrive sul Manzoni ed in generale su tutti quegli scrittori che non furono increduli e liberi pensa- tori. La sola cosa che parmi lodevole nella sua Storia (oltre l’incontesta- bile ingegno dell’autore) è la parte che vi fa amorosamente agli scrittori napoletani e talora siciliani, trascurati da’ predecessori di lui fino al Giudici, che pure era un meridionale. Sarò brevissimo nell’accennare alla Storia della Letteratura Italiana del compianto De Sanctis. Essa fa leggersi con piacere. È senza dub- bio l’opera d’un uomo d’ingegno; abbonda d’osservazioni nuove, sagaci, seducenti; presenta qualche soggetto non da altri per lo innanzi trattato, com’è p.e. il discorso sulla Maccaronea e su Teofilo Folengo; è brillante, benchè spesso ciarliera; rivela infine, tutto il brio e la grazia d’ un talento meridionale. Se non che, invece di essere una vera Storia, tradisce la sua origine, è un’accozzamento, cioè, di più articoli di giornale, messi e cuciti insieme; del resto è storia più speciosa , che vera; poco sorretta da’ fatti; manchevole sotto l'aspetto dell’ erudizione; e (mi si gridi pure la croce addosso da chi saluta nel De Sanctis, con molta esagerazione, l’instauratore dell’italiana critica moderna) spesso partigiana e paradossale. Il De Sanctis, siamo sinceri, mira più all’ effetto, che alla verità storica; e, mentre p. e. consacra un intiero Capitolo a Pietro Aretino, tace di tante vere e somme glorie della patria nostra, esvalga per tutti il Muratori. Credo che niuno penserà a dar il libro del De Sanctis come corso di storia letteraria alla gioventù studiosa. A vero incremento degli studii riuscirà invece, quale che poss’es- sere lo spirito con cui verrà condotta, la Storia Letteraria d’ Italia, scritta da una Società d’Amici, che dovrebbe formare una serie ordi- nata di trattati speciali, già intrapresa dal Vallardi di Milano, sotto la DI MONSIGNOR PIETRO SANFILIPPO 21 direzione del ch. Pasquale Villari, e con quella accuratezza ch’ei suole. . Primo trattato è quello sulla Letteratura Romana di Cesare Tamagni; che dei lunghi, pazienti, minuti studii fatti da’ Tedeschi sulla letteratura latina deliba, scegliendo con criterii propri, l’ intimo succo, spogliandolo di quelle astrazioni sistematiche , di quelle inutili ruvidità onde lo spirito germanico si compiace un po’ troppo. Seguono / Primi due secoli della ‘ Letteratura Italiana di Adolfo Bartoli e il Aesorgimento (sec. XV e XVI) di Giosia Invernizzi; due lavori, il primo specialmente, che fanno onore all'Italia ed alla critica moderna. Il Sanfilippo distese la sua Storia della Letteratura Italiana, in tre buoni volumi, dalle origini sino all'anno 1862; e la stampa di questo lavoro l’occupò dal 58 al 63. Il primo volume abbraccia il periodo dal secolo XI a tutto il XIV ed uscì per opera degli egregi editori fratelli Pedone, nel 1858. Va in- nanzi una graziosa prefazione indirizzata a’ giovanetti siciliani, nella quale osserva « che la Sicilia e con essa le provincie meridionali d’Italia hanno avuta una grandissima parte nelle glorie letterarie e scientifiche, onde gl’Italiani vanno con tutta ragione superbi: e questo non pure nel primo risorgimento degli studi, quando fra noi pria che altrove si poetò nella nascente favella italiana; ma eziandio in altre epoche posteriori e su di svariati argomenti ». Però, siccome, codesta parte avuta da’ Siciliani nella generale col- tura della nazione è stata negletta, ei si propone di riparare a siffatto torto. « Nè credo (così scriveva il Sanfilippo) che debba perciò venir biasimato di spiriti gretti e municipali. Qui non si tratta già d’illustrare una parte d’Italia vituperandone o trascurandone un’altra, e rinnovando così gare e contese, che ormai fortunatamente son fuori stagione. Tolga Dio a tutti e sempre il vil pensiero e il tristo vezzo! Le glorie di ogni provincia son glorie di tutta Italia; e quindi l’illustrarne una è accrescere lo splendore della comune patria italiana ». E conchiudea modestamente: «To voglio scrivere per voi, giovanetti miei cari; per voi, che avete fatto buon viso a quei tenui lavori, che vi ho finora dedicato. E il presente è uno di quelli, breve, facile; dal quale non ispero altro frutto, che d’es- servi utile e non molesto ». Comincia pertanto dallo stabilire qual fosse la condizione della col- tura in Sicilia a’ tempi de’ principi Normanni, e perciò anteriormente a Federigo. Discorre assennatamente sull’origine della lingua e del dia- 6 29 SULLA VITA E SULLE OPERE letto nostro; su Ciullo d’ Aleamo, per quanto almeno lo consentiva lo stato di siffatta quistione nel 58; mette in luce l influenza immediata degli Arabi sulla poesia siciliana; si trattiene a lungo sulla scuola me- ridionale ch’ebbe il suo punto centrico d’ irradiazione in Palermo, alla Corte di Federigo, colla morte del quale prese a declinare rapidamente; ci dà pienissime notizie sui poeti siciliani: Guido delle Colonne, Nina di Dante da Majano, Ranieri, Ruggerone ed Inghilfredi da Palermo, Oddo delle Colonne, Stefano protonotaio, Mazzeo del Ricco, Jacopo notaio ed Arrigo Testa da Lentini. Si ferma infine sulla Cronaca di frate Ata- nasio da Aci e conchiude il I° volume con queste belle parole: « Nello svolgere tanti svariati argomenti or difficili e sottili, or vasti e sublimi, ho avuto innanzi agli occhi sempre, ch'io scrivea per voi, che allo studio delle lettere italiane con nobile ardore vi dedicate... E poichè nei libri di letteratura ci ha ora il vezzo di spargere alcuni principî dai giova- netti inesperti orridamente letti e ripetuti, e da me stimati falsi e con- trarî alla storia; io ho voluto scrivere francamente secondo il mio giu- dizio; ho seguito sempre i fatti spassionatamente studiati, non facendoli strumento di nessun partito o sistema; e ne ho cavato quelle massime di religiosa e civil sapienza, che non fu mai nuova e non sarà mai vecchia, di cui è sparso naturalmente il mio libro ». Il II° volume uscì nel 1864, e ci trovo bellissime pagine, e notizie sul Galileo, sul Botero, su Telesio, Bruno, Campanella, Vico ed altri cultori delle scienze ne’ secoli XVI e XVII che non s’incontrano negli altri storici della letteratura. Il vol. III° venne a luce nel 63. Richiamo la vostra attenzione sulle piene ed esatte notizie, che si desiderano in altri autori e che il Nostro fornisce ampiamente intorno a Scipione Maffei, Bianchini, Muratori ed i siciliani Caruso, Mongitore, Di Giovanni, Vito Amico, Testa, Gregorio; sugli assennati giudizîì che dà del Giannone, del Colletta, del Coco, del Denina, del Botta, del Troya, del Serra e del Palmeri, al quale consacra amorose e nobili parole; su’ ragguagli ed apprezzamenti che ci offre in- torno all’Adamo del nostro Campailla, ed alle poesie di Monti, Foscolo, Pindemonte, Leopardi, Carrer, Pellico, Manzoni, Grossi, Borghi, Berchet, Scalvini, Rossetti, Giusti, Niccolini, Torti, Arici, ed altri pur taciuti dal Giudici, de’ quali informa largamente (come della Giuseppina Turrisi Colonna) e de’ poeti vernacoli (oltre il Meli), cioè Capasso e Lombardi napoletani, Maggi, Balestrieri, Tanzi, Porta lombardi, Gritti e Lamberti DI MONSIGNOR PIETRO SANFILIPPO |. 23 veneziani; nè son trascurati il Gioberti, il Balbo, il Thouar, il Giordani, il Perticari, il Barbieri, il Ventura. Senza pretendere alle vertiginose altezze della filosofia della storia, il Sanfilippo volle esporre in istile disinvolto, e con buona e schietta lingua, quanto diffusamente è trattato nelle opere del Tiraboschi, del Sismondi, del Corniani e del Narbone; diè contezza, per ordine di tempo, di quanti scrittori si sono in ciascun’epoca segnalati ne’ varì generi di letteratura, ne chiamò a sindacato le opere, ne fè rilevare i pregi ed i difetti, e giudicò del metodo comparativo degli uni rispetto agli altri. Dal piccolo cenno, che ho dato dell’opera e della distribuzione delle sue parti, potete scorgere, onorandi Signori, la vasta materia ch’ essa comprende, e le infinite difficoltà che offeriva ad essere trattata conve- nientemente all’uopo di una istituzione elementare. Ed appunto nell’aver superate tutte quelle difficoltà, procurando insieme di adunarvi tutti i pregi che si avvengono ad un corso, consiste la lode del Sanfilippo. Per riassumermi prima di terminare, dirò che il primo de’ suoi pregi è l’ordine che ha recato in una materia tanto vasta e molteplice. Il secondo è, di aver saputo adattare la materia, per sè, come ho detto, copiosissima, alla capacità de’ giovani. Al qual intento, opportunamente si valse de’ lavori del Cantù, del Cereseto, del Balbo, del Leo e d’altri egregi italiani e stranieri, mettendo in giusta luce scrittori siciliani im- meritamente trascurati dagli storici del continente. L’ argomento riuscì in tal guisa trattato con siffatta pienezza, che nessun punto di qualche rilevanza vi fu trascurato nè per quel che riguarda le notizie degli autori e delle opere, nè per quel che si attiene alle quistioni di critica letteraria. Il terzo pregio è il buon gusto che da per tutto si fa sentire, poichè la storia, oltre ad essere redatta colla massima esattezza ne’ particolari, è anche ne’ luoghi opportuni ragguagliata colle ragioni generali, le quali a questo o a quel periodo letterario abbiano dato un colore piuttosto che altro, eppur non offre quel sopraccarico di erudizioni affastellate , che suol tentare l'ambizione degli scrittori volgari. Ne’ giudizî poi intorno agli autori, che è quella pietra di paragone che dee provare il vero pregio di un corso di letteratura, e che in tanti o per una o per altra ragione falliscono; in questi giudizì, dico, trovo il maggior merito del Sanfilippo. Essi sono sempre temperati, imparziali, fondati sopra le leggi più inconcusse del Bello e non già su’ placiti di questa o di quella scuola, o delle mode correnti. Nel che se è facile non errare dove si tratti di quei sommi, la cui fama è assicurata dal % NI a a pe. ia ; ti sa dà: Di VI tei cri + 2A: SULLA VITA E SULLE OPERE suffragio de’ secoli; quanto è agevole trasmodare per rispetto agli scrittori di minor grido , e molto più ai contemporanei e quasi contemporanei ? E pure nell’esame di tante e tante centinaia di prosatori e poeti di secoli diversi, e di si diverso stampo, di gusti così varî, non eccettuati i con- temporanei, vi è tanta severità dall’ una parte, e dall’altra, tanta aggiu- statezza nel Sanfilippo, che fatte poche eccezioni in cose secondarie, vi è ben poco ad appuntarvi. Noto, fra l’ altro, che nell’ opera di lui s’in- contrano giudizî nuovi e coscienziosi sovra molti scrittori, specialmente storici. L’ aver saputo poi collegare con molta arte la storia delle lettere con quella de’ politici e religiosi eventi, in Italia ed in Sicilia, talora anche colla storia delle arti belle, aggiunge valore all’opera del Sanfilippo. Dalle cui pagine traspira un amor vivo e sincero alla studiosa gioventù; una certa franchezza bonaria ch'era a lui tanto connaturale; un affetto sentito alla sua cara Sicilia, che stava in cima de’ suoi pensieri ed alle anti- chissime isolane franchigie. Il tutto poi si trova espresso in una forma, dove la didattica par- simonia piace più per la lucida rispondenza ch'è tra il concetto e la frase. i Ond’'io non so vedere, perchè non si ponga questo libro alle scuole, dove lo si sostituirebbe con vantaggio ad altri, zeppi pur troppo di eru- dizione indigerita, vuoti spesso di idee, di criterì fecondi, scritti non di rado in barbaro italiano. Quanto ho detto è dal lato letterario. Ma un ultimo pregio affatto morale e religioso, che, unito a’ già detti dà l’ultima perfezione a que- st’opera, la dee render carissima a tutti que’ padri di famiglia e istitutori, i quali amano che i loro figli od allievi, insieme colle lettere, non bevano il veleno dell’empietà o del mal costume. Questa è la somma cura ch'egli pone nello sceverare, ovunque è duopo, da’ pregi letterarì di un autore tutto ciò ch’è contrario alla buona morale, ai principì religiosi, ad una saggia politica. E perciò, dovendo pur trattare di non pochi scrittori, più o meno pregevoli per qualità letterarie, i quali dall'altro canto pur troppo si resero biasimevoli per uno o per altro de’ detti capi; senza punto menomare quelle lodi che erano ad essi dovute, non ha mancato giammai di far rilevare le parti triste, e per tal modo che fosse efficace a metterne in guardia i giovani di buona volontà. So bene che ciò non va a versi di chi vorrebbe fare dell'istruzione letteraria un istrumento di universale perversione, religiosa, morale, politica. Ma per costoro il precipuo vanto che ho dato alla Storia del DI MONSIGNOR PIETRO SANFILIPPO 25 Sanfilippo, è una tal pecca, che basta essa sola a ridurre in nulla tutti gli altri suoi pregi (1). Sopravvenuto il 60 il Sanfilippo era divenuto uomo di altri tempi; il valor morale de’ quali potrà meglio giudicarsi più tardi, quando vedrassi come i tempi nuovi avranno mantenuto le promesse magnifiche con cui si aprirono. Ridotto a vivere in istrettezze, egli avea sopperita a’ bisogni cresciuti per l’ età ed a’ mezzi venuti meno, co’ discreti lucri, che, l’ amicizia del Pedone, avea potuto ricavare dalle sue fatiche. Più l’ afflissero le ingiuste e continue persecuzioni. Due volte trascinato e etenuto in carcere fra i pubblici malfattori; più fiate perquisita la suap casa; più d’ una volta, benchè con garbo, mandato a domicilio coatto. Non fo comenti. Narro queste cose da storico. Per lo sporco ed iniquo affare de’ pugnalatori, che non forma certo la gloria del Questore Bolis, mi rimetto a quanto ne lasciò scritto nelle sue importantissime Aivela- zioni Storiche l’ estinto nostro socio, dott. Giovanni Raffaele. Con lui, col buon parroco Agnello, col Ciantro Calcara , col Principe di Giardi- nelli ed altri cittadini spettabilissimi il povero Can. Sanfilippo dolorò nelle pubbliche prigioni è fu vittima delle calunnie insolenti d’ un Ma- tracia! A queste ed alle altre sue vessazioni allude egli in più luoghi della sua Storta; p. e. nel vol. III°, al capo pur III del libro IV, dove, a proposito delle sventure del Tasso prorompe in quell’ apostrofe com- movente. « Tasso, anima delicata e sensibile quant’ altra mai, il tuo cuore (1) Son lieto di avvalorare il mio giudizio con quello autorevolissimo di un uomo celebre. Ecco come scriveva da Genova 29 luglio 1859 Emerico Amari all’egregio av- vocato Giovanni Costantini, il quale, con amorevole gentilezza, ha voluto darmi copia della lettera. « Mio carissimo Giovannino, {eis Il libro del Canonico Sanfilippo l’ ho ricevuto, e pregai qualche amico a « presentargliene i miei ringraziamenti, non parendomi delicato per lui lo scrivergli io « direttamente ». « Ora prego Voi a ringraziarmelo vivamente, e al tempo stesso dirgli avere io « ammirato e il concetto del libro e la pulitezza dello stile e sopratutto l’amor patrio « che ogni pagina anima € vivifica. Questo fa la mia consolazione, cioè il vedere che « quelle deplorabili condizioni di parti e di necessità politiche, che altrove guastano «i cuorì e falsificano gl’intelletti, in Sicilia non bastano a velare il senno o intiepidiyre « Vi abbraccio carissimamente « Vostro Aff.mo « E. AMARI ». 26 SULLA VITA E SULLE OPERE straziato da tanti martirî io lo contemplo con ammirazione ed affetto ; io pure sventurato e, mentre scrivo di me queste dolenti parole, fatto segno ai duri colpi dell’ invidia, dell’ ambizione e della calunnia di tali perversi, sconsigliati o ignoranti, che solo sperano e possono innalzarsi sulle altrui rovine ». In fine leggesi questa annotazione : « Eppure altre sventure mi aspettavano. La notte precedente al 13 marzo 1863 fui tratto in arresto con molti altri onorati cittadini ». Negli ozî forzati della pri- gione, fece colla matita alcune piccole correzioni al III° volume della sua Storia letteraria. E l’ esemplare di suo pugno postillato, or si pos- siede dall’avv. Francesco Sanfilippo, nipote dell’estinto. Ecco poi come conchiude il III° volume della Storia, scusandosi co’ suoi cari giovani delle mende e delle lacune dell’ opera : « Le quali cose ho voluto accen- narvi non già (egli scrive) per isfogare l’ amarezza del mio cuore cru- delmente ferito da’ duri colpi dell’umana ingiustizia, la quale suol-deridere siffatti inutili e spesso poco decorosi lamenti; ma sibbene perchè possa dal cortese animo vostro ottener facile e benigno compatimento, se a quando a quando v’imbatterete in qualche menda o difetto. Forse avverrà, se tanto il ciel mi conceda di vita, di forza e di pace, che imprenda altra opera, la quale a voi pure, giovani diletti, dedicherò, in cui con più riposato animo e più profondi studi m’ingegnerò di mostrarvi la gratitudine mia per gli incoraggiamenti datimi in ogni tempo col vostro affetto ». Quest’ opera era una completa ed ampia Storia della sua diletta Sicilia, alla quale attese sempre, sebbene non la recasse mai a compi- mento. Vi accenna a pag. 442 del III° volume, allorchè nota che niuno ancora vi si è accinto. « Eppur non manca (scriv’ egli con quel po’ di vanità un po’ scherzevole che tutti gli abbiamo conosciuto) chi il possa e chi ardentemente il desideri e da molti anni vi lavori su con amore ed abbia raccolto importanti materiali. Ma forse alcuni non l’han potuto per le antiche, altri per le recenti persecuzioni politiche e pel difetto di quei mezzi, che sono assolutamente necessarii a chi pensi scrivere un’ o- pera di tanto valore ». | Edora poco altro mi rimane ad aggiungere sul Sanfilippo. Ricorderò, che a 3 ottobre 1863 spuntò, come una grande novità, il giornale inti- tolato il Presente, senza annunzio preventivo. Il 1° numero eccitò l’al- larme tra coloro che non erano avvezzi ad esser contraddetti ma ad aver esclusiva l arme della stampa; che non vogliono la libertà per tutti, ma solo per sè ; tirannelli dell’ opinione, aiutati dagli agenti fiscali, e dalle sette e che han la piazza pronta a’ loro cenni. Il Sanfilippo collaborò in DI MONSIGNOR PIETRO SANFIPIPPO 27 questo giornale politico. Però, smessi i sequestri che facean crescere i lettori, il prefetto De Cossilla e il questore Serafini inviarono cortese- mente ì redattori a domicilio coatto; il Turano a S. Martino; il Sanfilippo a Termini; il Galeotti a Firenze; sotto lo specioso pretesto di non farli pugnalare. Dopo ciò, il Mortillaro, ch’era il direttore della gazzetta, ne sospese la pubblicazione col num. 35, anno 2, del 16 febbraio 1864 (1). « (1) Mi piace a questo proposito trascrivere un foglio autografo col titolo Aprile 1864. Ricordi, che mi è stato posto sotto gli occhi dal nipote del Sanfilippo. E valga come storico documento : » « La sera del 15 aprile 1864 un amico mi domandò con molta disinvoltura se io il giorno innanzi avessi parlato col professore Maggiacomo. Risposi, ch’erano parecchi anni che non parlava con quel professore , e qualche anno e molti mesi che l’ avea veduto di lontano. Poi accortomi, che la domanda avea qualche fine importante ripi- gliai così : Ma è forse delitto parlare con Maggiacomo ? Vorrei sapere con quali per- sone posso parlare, quali devo respingere. Mi fu risposto, che c’ erano state false denunzie di riunioni ai Porrazzi in casa di Maggiacomo. (Io ignorava e ignoro l’abi- tazione di quel professore). Mi si fece capire, che il Governo tenea due persone, per invigilare sulla mia condotta (ed io mostrai gran piacere di ciò), che si pensava im- barcare sei o sette borbonici (ed io mostrai di non curarmene, aggiungendo, che sarebbe una prepotenza contraria alle leggi). Il giorno appresso mi fu riferito dal medesimo amico , che la persona recatasi da lui per informazioni era rimasta pienamente sod- disfatta. « Seppi dopo qualche giorno, che al Questore venne fatta denunzia, che parecchi borbonici (fra i quali immancabilmente dovea esser io) s° erano riuniti la sera del 14 aprile a’ Porrazzi, o a Mezzomorreale in casa Maggiacomo per tentare non so qual colpo. Scempiaggini, che non meritano di essere confutate e neppur riferite. Si sa intanto che quelle accuse ed altre ancora venivano dalle riunioni del così detto partito di azione. Si sa che in qualche riunione si parlò di pugnalare i borbonici. Si sa che fu deliberato rinnovare le scene del 1793 in Francia. Ne fan fede l’ Appello in parecchi numeri del mese di aprile e l’ Amico del Popolo specialmente nel n. 97 del 28 aprile 1864. In quelle riunioni furono specialmente designate alcune vittime. Erano i sei o sette, che si voleano imbarcare. Ma quelle informazioni venivano prese dal Governo o dal partito d’azione ? Io compresi che le persone addosso me le ‘teneva il Governo, e che il Governo dovea e potea solo ordinare l’ imbarco , de’ sei o sette. Che fatale coincidenza ! Si sa pure, che il governo non guardava di buon occhio il Presente. E non s’ignora che il partito di azione inveiva contro il Presente e contro quelli che credeane compilatori. Dico credeane, perchè s'ingannava a partito. Alcuni, fatti segno alle loro persecuzioni, neppure il leggeano. Questo è certissimo. « Il giorno 27 aprile ricevo un biglietto gentilissimo del Questore, che m’invitava a recarmi da lui nel giorno seguente. Il 28 all’ora designata mi vi recai. Aspettando in anticamera vidi uscir dalla stanza del Questore il Sac. Galeotti. Seppi che prima n’era uscito il Can. Turano. Venne la mia volta: entrai. Il Questore mi accolse colla 28 SULLA VITA E SULLE OPERE I principali articoli del Sanfilippo sono una serie di considerazioni politiche sull'argomento : Chi ha fatto il Regno d'Italia; del quale lavoro appassionatosi negli ultimi anni aveva riuniti, accresciuti e corretti i varî capitoli per riprodurli insieme, a scopo d’utile e piacevole lettura. E dico piacevole, perchè l’ opera è scritta con ispontaneo e naturale linguaggio, che ti fa proprio sembrare di startene a conversare con lui, che avea in orrore il peso di un pedantesco sussieguo. massima gentilezza e mi disse : « Vi parlo da Serafini, non da Questore. Vi vogliono pugnalare : vi consiglio di partire. Ieri ebbi questa denunzia da uno de’ complici, che indietreggiò innanzi a quell’orribile proposito. Io non posso garantirvi neppure in casa : sono assassini e traditori. Non sono avvezzo a queste cose, perchè son toscano. Fanno continue denunzie , ma senza prove. Voglion libertà per se ». Accennò a’ lamenti, perchè alcuni stampano. Quest’ era un’ allusione chiara al Presente. Siccome io era travagliato da un dolore reumatico alla faccia, pel quale mi aveano ordinato i bagni minerali di Termini dov'è la mia famiglia, dissi, che mi sarei recato in Termini per quelle ragioni. Egli approvò, protestando sempre, che era un Consiglio. « Si diffuse la notizia in Palermo. Un amico seppe ch’io era chiamato dal Questore e venne a dirmi, che sapeva il perchè. E in prova presentommi )’ Amico del Popolo, nel quale si legge un dialogo siciliano, che dimostra tante cose chiaramente. « Io tenni silenzio, eccetto con un amico. Intanto il giorno appresso alla Catte- drale tutti sapeano i fatti del precedente. Anzi la stessa sera venne un amico a visi- tarmi per questa causa. Era stato istruito da altri. I miei amici non sanno nulla dalla mia bocca, eccetto uno, che non parlò. Tutti i preti temono ciascuno per se. Temono anche molti de’ secolari. Io son tranquillo. « A mezzogiorno del 29 aprile venne un amico (Martino Riggio) e dissemi essersi recato dal Questore e avergli parlato in favor mio con tanto calore, anzi convulso (e convulso era mentre parlava a me) avergli dette tante cose, che il Questore final- mente gli disse : Io l’ho consigliato, perché ho saputo il fatto da sicura fonte : dunque si guardi e faccia come vuole liberamente. Riggio era contentissimo del discorso fatto e dell’esito ottenuto. Io intanto andai in Termini pe’ bagnì, come dovea. « Le vittime designate, secondo mi disse il Questore, sono: Can. Sanfilippo, Can. Turano, Sac. Galeotti, M. Mortillaro, ex-Consigliere Palizzolo, Prof. Maggiacomo. Al March. Mortillaro fu mandata un’imbasciata il 29 aprile verso le 3 p. m. col cognato Cav. Cusa dal Prefetto, perchè sì guardasse. Anche il Questore gli fe’ sentire, che per non incomodarlo, ne avea dato parte al Prefetto.... Si dice, che oltre ì sei accennati c'era qualche altro : me lo avea fatto capire il Questore, ed era ben naturale. Non voglio scrivere i nomî, che corrono per le bocche di alcuni. Scriverò quel che è certo. «Il Can. Turano il 30 aprile è ito a villeggiare nel celebre Monastero di S. Martino delle Scale a 7 miglia da Palermo. Qualche giorno dopo il Questore gli fece sentire, che potea tornare, perchè tutto era attutito. Il Sac. Galeotti però dovette partire. Andò in Firenze. Il giorno 10 maggio le monache della Concezione furono espulse dal loro Monastero destinato ad Ospedale Civico. Il giorno 11 i giornali dissero, che il popolo ne era contento. Jl Presente non poteva smentirli. Dunque, dicono, per questo gli si fece la guerra ». DI MONSIGNOR PIETRO SANFILIPPO 29 Finalmente, il 24 luglio 1873, essendo Sindaco il Peranni, il San- filippo, in compagnia de’ signori La Lumia ,. Silvestri, Salinas, Pitrè, Crispo-Moncada , Montalbano Giuseppe, Maggiore-Perni, Sampolo, Di Giovanni, Di Marzo, Starrabba, Principe di Galati, P. Lanza e dell’autore di questa Commemorazione, gittava le fondamenta della Societa Siciliana per la Storia Patria, divenuta oggi tanto florida e prosperosa, e dettava l'introduzione allo Statuto, che leggesi nell’Archivio Storico Siciliano, in fronte al I° volume della Nuova Serte. Ma già da qualche tempo, fosse stanchezza, fosse effetto delle mol- teplici occupazioni ecclesiastiche (1), egli non prendea più parte al movi- mento storico e letterario che si svolgeva in Palermo, e solo (come apparisce dalla lettera che pubblico in nota) si compiacea degli altrui lavori, e con sincero animo li incoraggiava (2). (1) Era Ciantro della Cattedrale di Palermo, Esaminatore Prosinodale, Procuratore del Capitolo, Deputato di Monasteri e Collegi ecc. (2) Ecco quanto scriveva il 13 maggio -1867 all’illustre prof. Ugo Antonio Amico allora in Bologna. : « Ornatissimo Signore, « Dall’egregio abate Di Giovanni mi fu inviata una vostra versione del carme di Catullo per Le Nozze di Peleo e Teti, preceduta da un’Epistola al Principe di Galati, che anch’io conto fra’ miei amici e fra i più illlustri cultori delle poetiche ed archeo- logiche discipline. : « Vi ringrazio da prima sinceramente dell’esservi ricordato di me. Questo non è un complimento di uso, perciocchè vivo ritirato per modo, che di me si fa solo parola quando mi colpisce (e non è rara) qualche persecuzione, che io credo sempre imme- ritata e ridicola. Badate, ch’io dico rédicola per se stessa. per le accuse fattemi : non già quanto a me; perchè a me le varie persecuzioni, onde venni travagliato per ben sette anni, cagionarono sempre mali gravissimi. Non è dunque da maravigliare s’ io meni una vita solitaria e quasi fuori del socievole consorzio. Figuratevi quindi se mi fu gradito il vostro dono, essendovi ricordato di me e di tanto lontano. « Mi piacque poi moltissimo vedermi offerto un lavoro di antico gusto. Io vera- mente ignoro le condizioni dell'odierna letteratura italiana, perchè non converso con letterati e non leggo giornali. A quando a quando il nostro eccellente amico Di Gio- vanni e qualche altro mi fan regalo di alcun lavoro; e al leggerlo sembrami, che mi desti da un lungo sonno. Eppure amava tanto la letteratura nostra, e gli antichi classici e le cose patrie. Con uno sforzo straordinario condussi a compimento la mia Storia della letteratura italiana, pubblicando il 2° volume nel 1861, e il 3° nel 1863. Ne cavai poco denaro, che consumai nelle carceri il 63 e il 65. Quella Storia è una cattiva cosa, nè può essere altrimenti, perchè è mia. Queste parole vi sembreranno per avventura esagerate o dettate da una tetra bile, che si svolge naturalmente in chi è o si crede perseguitato ingiustamente. Eppure sono verissime. Già s’ intende, che giudicano @ 8 30 SULLA VITA E SULLE OPERE Invece l’ egregio uomo veniva apparecchiando l’ animo a quell’ ab- bandono delle cose e degli affetti della terra, che è il supremo sacrifizio quel modo persone , le quali non leggono o non capiscono o son triste. Ma vedete un poco quanto sono strano : devo parlar di voi e scrivo di me un piagnisteo , che non è niente a proposito. Io dunque volea dire, che, vivendo in una continua perse- cuzione, non uso colle persone di lettere, perchè alcune mi sarebbero pericolose, altre non mi credono degno di tanto onore. Però talora mi è venuto sotto gli occhi qualche® scritto in prosa o in versi, che a me pare lontanissimo da quel gusto semplice, pro- prio di tutti i tempi, apprezzato sempre da tutte le colte persone, e che siamo usi chiamare classico. In tutti gli scritti osservo una moltitudine di pensieri, che sì ripetono, sempre vestiti delle medesime frasi; certe lodi e certi biasimi; certe speranze, che andranno sempre vuote; bestemmie e pazzie , che pur trovano ammiratori; dizione, immagini, tropi, figure, parole da far proprio spiritare i cani. Imaginatevi dunque la mia sorpresa quando presi a leggere la vostra epistola al Principe di Galati. Mi parve leggere una poesia sul gusto dell’Inno alle Grazie di Ugo Foscolo e delle odi di Leo- pardi. Eppure parlate di generose speranze e della magnanima lotta, che i Cretesi ora sostengono contro i Turchi, la quale ben si può dire lotta del Cristianesimo contro l Islamismo , della ragione contro la forza brutale, della civiltà contro la barbarie. Eppure esortate quei prodi a combattere per la patria finchè si congiungano alla Grecia. E accennate pure all'Italia un tempo divisa e ad altre cose contemporanee, e avete dato luogo con arte finissima e molto a proposito a reminiscenze mitologiche con quella gravità e dolcezza, che a poeta veramente italiano si convengono. I vostri modi mi commuovono e certo sempre mi dilettano : le declamazioni triviali, i turpi vituperì, le maledizioni, onde i moderni verseggiatori infiorano i loro inni di guerra e i loro canti patriottici, mi muovono a schifo per guisa che non posso finirne la lettura. Al con- trario come son belli questi versi ! Pugnar si debbe, Per la Patria pugnar fino a quel giorno Che nuove fede giungeran la bella Isola a la città madre dell’ arti; Auguste nozze assai maggior di quelle Che fer solenni un dì Giove e Giunone. Ma voi lodate il Principe di Galati; e dite, che merita quelle lodi, anche perchè tolse dai classici greci lo bello stile, che gli fa tanto onore: ARRONE Il nobil verso, che ti onora, Dagli esempli togliesti, onde fu ricea L’antiqua Grecia. a E così accennate appresso più chiaramente alle traduzioni dal greco pubblicate dal nostro comune amico. Ed io affermo, che voi scrivete sì bene, e certo scriverete meglio nell’ avvenire, perchè date opera assidua allo studio dei classici latini, dicendo voi stesso : Lunghe notti vegliai su le latine Carte dell’aureo vate, e mi pungea . Disio di gloria e speme (unica forse A tante angosce), che il mio cor sapesse Grato all’amor del tuo renderti un fiore Di gentile fragranza. Oggi te l' offro. DI MONSIGNOR PIETRO SANFILIPPO 31 imposto al cristiano. E morte infatti lo colpiva non vecchio, di mal di cuore, la notte del 21 ottobre 1879 (1). Chi lo conobbe giudicherà se io: abbia nel parlarne alterati i contorni e caricate le tinte. A me è parso, egregi soci, di essere rimasto nel vero, tanto nel giudicare lo scrittore quanto nel rappresentarvi l’uomo. Pur troppo quando la morte spegne « Volete ora un brevissimo giudizio sulla versione del carme catulliano ? Eccolo. Essa mi pare fedele, franca ed elegante molto ; supera di lunghissimo tratto quella di Pastore, gareggia con l’altra del Cav. Tommaso Puccini pubblicata la prima volta in Pisa, al 1815 e poi ristampata in Firenze nel 1843 dalla Tipografia Editrice (/ Poeti Latini nelle loro più celebri traduzioni italiane). Avendone confrontato alcuni tratti, io non so a chi dar la preferenza. Qualche verso della vostra potrebbe essere più armonioso : mi piacerebbe , se faceste meno uso delle licenze poetiche. So bene, che questo giova talvolta a rompere la monotonia: ma so pure, che Monti, Parini, Foscolo e Pindemonti riuscirono senza ciò ad ottenere ne’ loro versi sciolti un’ ammirabile varietà. Però voglio soggiungere , che questo è un difetto ben leggiero e forse per me, non per altri. E se voi mi dimostraste, che ho torto, mi fareste cosa gratissima. « Conchiudo questa lunga lettera con esortarvi a continuare nell’aringo intrapreso : Caro, Monti, Pindemonti, Gargallo, Borghi debbono gran parte di loro fama alle traduzioni che pubblicarono : lo stesso Foscolo aspirò alla gloria di buon traduttore, e ce ne lasciò dei Saggi o esperimenti. Dimostrate ai vostri allievi coll’ esempio quali studî si devono coltivare dagli Italiani, se vogliono mostrarsi degni di questo nome. Mi cagiona vergogna e dolore ineffabili il vedere un mondo di scrittorelli vantare tutto giorno l’Italia e vantarsi Italiani con lingua strana e barbarica. « Chi oserà opporsi a tanto danno? Chi alzerà la voce e mostrerà coll’ esempio la via da tenersi? Veramente ci vuol coraggio a farlo; perchè codesti letterati, pub- blicisti (tal nome si danno i compilatori di quei giornali, che fan tanto disonore all’ I- talia), scienziati di ogni ragione, i quali sorgono ogni giorno a centinaia, si credono . maestri di color che sanno, e dispensano tutti , tutti, che non pensano e scrivono com’ essi. E talora dallo spregio passano all’infamia, alle minacce e a peggio ancora. Già s'intende tutto questo per amor della libertà e dell’Italia. Io non posso oppormi a sì grave corruzione : a voi è dato il poterlo e il farlo. Fatelo dunque, e i presenti e i posteri principalmente ve ne sapranno grado sempre. « Questa lettera non è destinata certo alla stampa. Se si pubblicasse, qui mi potrebbe far male. Non temo la persecuzione, quando mi coglie innocente o per avere operato secondo i dettati dell’ onore e della coscienza. Ma siccome ho sofferto molto e non sono più nelle antiche condizioni, non voglio affrontarla o suscitarla senza necessità. Per altro io non iscrivo più nulla, non fo il letterato, molto meno lo scienziato o il pubblicista; e per metter su questa cattiva lettera, ho dovuto impiegarvi una diecina di giorni. Gradite almeno lo sforzo, che ho fatto, per dimostrarvi i sentimenti sinceri di mia gratitudine e credetemi sempre : e Il vostro aff.mo « PIETRO SANFILIPPO ». (1) Fecer di lui menzione la Sicilia Cattolica de’ 23 ottobre e la Nuova Gazzetta di Palermo de’ 24. 32, SULLA VITA E SULLE OPERE DI MONS. PIETRO SANFILIPPO l invidia, siamo soliti ad ingrandire il valore de’ morti, e sulle tombe che si chiudono s’ inalza un concerto di lodi che svaniscono col fumo dell’incenso funerale. Però son certo che non avverrà così del Sanfilippo. Egli avrà nome onorato nella storia delle lettere, perchè i suoi scritti, oltre all'eleganza ed alla venustà del dettato, sono informati a principî di alta moralità e prendono colore da affetti nobilissimi. Persona rara e sempre mai ricordevole per integrità di carattere, probità scrupolosa, animo leale ed aperto, umore allegro e sereno, indole schietta e gentile. Malgrado quelle debolezze che ìi Latini chiamavano vestigia hominis, ei fu caro a tutti gli onesti, a qualunque gradazione politica si appar- tenessero; amico vero ed affettuoso nella fortuna prospera e nell’avversa; amantissimo del paese nativo, delle libertà ben intese, de’ progressi legit- timi, de’ buoni studì. Padre amorevole de’ giovani siciliani, visse per loro, per loro scrisse, per loro lavorò. Serbino essi grata memoria del sapiente educatore, che se n’è andato co’ migliori, con Alessio Narbone, con Salvatore e Leonardo Vigo, con Giuseppe Romano, con Isidoro La Lumia, ed altri valentuomini, che non colle vuote ciance, non colle risonanti parole, ma colle opere, co’ sacrifizî, col carattere amarono ed onorarono la patria nostra. —_e- RSSUNTO DELLE ESEGUITE NEL R. OSSEREATORIO DI PALERMO NEGLI ANNI 1881-1882 RISTRETTO BELLE OSSERVAZIONI METEOROLOGICHE ESEGUITE NEL REAL | o BAROMETRO TERMOMETRO VENTO loÈ UV 2 DE | p 9 o) 9 RS | as | 2 (9 Anno e Mesi E E |E Sue eee È È INCI e | | pa te OS SUSE | e E EE ER SION A, 3: E; = B=: s 23) (= ve ROSS: SARI a DE DERE A ER NA rl E ON: a [E |5/S|SE sg CAS RO e 3 i|8|s|fki sz E Ss E er ec | =} {| i n | TESTER sta nai Il — | | | | I î 1881 | | | mm mm | mm lo) o o | km | km I (Game e 760,59) 21|753,28| 744,39] 1 23,8] I4| 14,80) 5,5 zi fWSW| 18,2} 50,21 W | REDINI 60,97 20| 53,11] 44,93|I2,13|| 19,0) 11 12,11] 3,0 13 || NW | 11,6] 44,6| WNW Marzo i 68,330 18| 56,30) 43,82) 27 27,7 8| 14,45) 3,4 18 |WSW| 8,41 45,6] SW | PE 62542|Mn130 1093732) ara Ie 31,0) 6| 17,41] 7,8 27 || NE | 11,7| 76,0 SSW Mascio 62,68] . 1) 56,02| 49,63! 10 26,3] 25| 17,41| 6,4 1 [[NEWSW| 53/247 NW 541 96 (Cemmo sio e a 60,50] 13| 56,02 47,30 7 33,4| 26| 20,83] 11,0 |11,12,14j NE 7,4| 28,6| SW | 62,414 Lido da 61,50 4| 57,20| 50,80) 27 41,3] 27| 26,10) 18,5 5,31 || NE | 7,3| 41,7} SW ll 92,6 13,93 | | “ol NDOSTORI LO 59,60 S| 55:64] 47,83 14:15 39,0) 18| 26,65) 17,2 17 || NE 7,8| 40,0 92,6 13,4 SESTA 62,10 13| 55-79 48,98 Ill 35,9) 7| 23:34/ 12,9 25 || NÉ 8,I| 34,0 63,4l{1 8 Otto cre 59:07 17.153,30) 426031 30;6|17 19:81] 852 31 ||WSW| 7,2| 27,2 seo | Novembre... ... . 69,70 6| 61,05] 39,41 i Tac ca eso si 21 || NW 6,4} 75,0| WNW Dicembre 67,52|27,28| 56,53] 42,86 Is|| 20,7| 21] 12,98| 4,2 [26,27,30|WSW| 7,1] 27,8] SW Ì | Medie 755,63 | 18,37 8,9 | mm Massimo . . . 769,70 ; mm : Medio. . ... » generale del barometro . . . 755,63 Escursione barometrica annua = 30,29 Minimo 739,41 | Massima forza del vento= Km 76,0 alle 3 p.m. del 1 aprile. OSSERVATORIO DI PALERMO NEGLI ANNI 1881 E 1882 3 rr LEVI : PIOGGE A GIORNI CON z | GIORNI PIOVOSI Quantità TUONI NEVE GRANDINE i | m mm 5:59 ||1.2.5.6.7.8.9.10.11.15.16.17.20.22.23.29.30.31I. 63,81 2.6. » » 49 [1.2.3 4.5-6.7.8.9.10.12.13.14.18.19.22.26.27.28. 134,80 9.13 TB) 700013 5: ||I.3.15.21.22.27.28. | 41,77 I I » 6,4 |9.12.16.23.24.25.27.28.29.30. 74,98 217 » 27 4,44 (||3.4.6.8.9.11.12.13.27.29. 27,16 S » » 5:5 ||1.2.3.7.8.9.10.11.12.13. 51,05 DISTOT | » » 8,61 >) si s N Ss 533 » » » » » 6,44 |11.23.24.25.26.27.29.30. 27:79 24.25. | » » 4,94 |[2.6.9.10,1I.12.18.24.25.26. 57:24 2.6. » » 3,64 ||1.2.3.9.10.11.19. 176,14 I )» I 2,59 |{1.2.4.5.6.7.8.9.10.11.12.14.15.16.17.20.24.25. 121,83 » » 24.26. 26.27. 776,57 o) Massimo . . . 41,3 INEAIO RNA generale del termometro . . . 13,37 Escursione termometrica annua = o Minimo... . 3,0 4 RISTRETTO DELLE OSSERVAZIONI METEOROLOGICHE ESEGUITE NEL REAL tr] [o] BAROMETRO TERMOMETRO VENTO 25) dA (GR ds SLI DE ; 6 lo) lo) ce a Anno e Mesi È È È sl. |s| 00083, (©) D lo) E o) D lo] = & = PA da 2. E S 2 E E E z © 2 E È z E > £ 9 E z Ss usi = ‘7 S us; = = Ly Ser Sa K7) 5 3 vd S v 5 3 v £ |d Ss Sola e e s.|$®= || DERE - rei — Ì (e) i. A A À | E CE ESE A SOLO RA LT E e ra) Lei dl 1882 | mm mm | mm o) o km | km Gennaro nen 773,22] 16|764,95|750,98] 4,5 711,36] 4,2.| 231 W ;3.]\ 2.192 N 6 Rebbralo noie 69,48 2} 63,17| 51,04) 28 24| 10,82 o | 3| WSW | 10,3| 40,0| WSW MALZORSI ISO 66,151 17| 56,98} 44,47 6 22| 14,45 5,6 | 25] WSW | 13,7| 60,0] NE INDIE 59,52|21,22| 54,04| 46,49] 27 27| 15,04| 6,7 | I4| NE 9;5| 43,0} W MAE ZIONI MANO 62,21] 12) 56,38) 44,60 7 210/31 RO:2 A SINAENE 8,2] 55,0] SSW GiULLO RICO 60,08| 27| 56,79] 50,46 8 2|:23;17.| 13,0 | 16j NE 7,5| 32,8] NW Euelo 58,79) 19] 55,39] 52,41/12,13 g| 25.13| 16,5 | 3 NE 9,8) 39,0] NNW ANDOSCONRIIRI FRATE 59,80] I14| 55,60) 49,86) 27 16| 25,09| 17,5 | 29] NE 8,6] 44,0| NW Settembre . . ... 60,90] 29) 5s,15| 48,25) IS 34,4 | 20] 23,48| 150 | 19 WSW | 8,7| 45,4] WSW Ottobre uno. 63,39 7| 56,52) 46,80 29 32,1 | 25| 20,82| 10,9 | 30] WSW | 6,9] 35.4| SW Novembretieuiae 65,68 Ss} 56,88) 47,05) 17 24,9 | t5| 15:77| 65 | 39 WSW | 11,0] 45,0] NW Diem 64,71 31] 54,23] 44,64) 6 23,7 | 10| 13,80! 6,4 | 13] WSW | 13,2] 60,0, SW Medie . .. i | 757,17 18,18 | 95 | A mm Massimo . . . \ 773,22 - mm Medio. . . .. generale del barometro . . . Tr] Escursione barometrica annua = 28,75 Mimimo . . . | 744,47 Massima forza del vento=Km 60,0 alle 0 p.m. del 29 marzo, ed alle 3 p.m. del 10 picembre. OSSERVATORIO DI PALERMO NEGLI ANNI 1881 E 1882 5 = ) PiFOGGE A. GIORNI CON : S ia DARA OICR |A AS SE 7 © "| CS - > : v : | "ai 2 GIORNI PIOVOSI | Quantità TUONI NEVE GRANDINE | È mm E mm | i 1347 ||1.4.5:7.8.16.17. | 26,72 I. | DI 16. JR 2,52 |6.9.17.18.20.21.27.28. | 39,43 27.28. 21 20.21.28. | I 3,54. |[2.3.5.6.7.24.25.26.27.28.29.30.31. IRR 6.24. » 3.6.7.25. | 3,54 ({|1.5.7.8.9.10.11.12.17.19.20.25.27.28. | 64,12 DIG » 28. È | | 4,18. |{10.18.20. | 7,88 » | » » 4,89 16.19.20. 16,12 16.19. » » | | 6,66 1. | 0,75 | » | » » 5:47. |[27. 1 Î 0,70 27: | » » 5,04 |IO.11.12.13.15.16.25.27. | 31,92 TNAN2A10:2SE27000) » | » | 3,62 |15.6.7.14.15.16.18.19.22.29.30.31. | 87,51 7.14.28.29. » » 3:72 |10.17.18.19.21.22.23.29.30. | 49,83 29. » 22.29. 3,76 1.2.3.6.7.10.11.12.16.17.22.23.24.25. 67,55 1.16 » 1.6.24.25. 515,26 i 0, Massi 2 CIO USdA 379 | ù Medion oe generale del termometro . . . 18,18 Escursione termometrica annua = 37,1 Minimo... ... IL DIRETTORE G. CACCIATORE. 28 JAN 1885 a ATTI DELL'ACCADEMIA SCIENZE. LETTERE ED ARTI DI PALERMO pae: che fl già Accademia del BUON GUSTO i PRIMA SERIE Saggio di dissertazioni dell AGE Palermitana da Buon Gusto: . ò ICE : ; 3 ; 5 1755 Saggio di dissertazioni dell’ Accademia Palermitana del Buon Gusto dopo la sua reintegrazione l'anno 1791: e age 1) NUOVA SERIE Atti dell’Accademia di Scienze, Lettere e Belle Arti: Vol. I: oa ee Volo Il: e n e Se ic Voll e a I A IRE o Vol: N ss (i e ARI SE WA ee e Viole VEC O e O e io e WIEN RO RR e i VOLI e e Sa ti List Ai PPIRCNRAT TITAN e