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Lp PO Ma i pin qui dletA de dd Pos Bd uf LAT (e) eda te, bon ptc “ stat. pali Ci ER RIT Ape cane lb pa 0° died hl pr =" Do vi \l Pu i de Ge I) SAN PA Lat ATTI DELLA SOCIETÀ TOSCANA SCIENZE NATURALI ebSsbbE NERE: EN: PISA Mel XXVI PISA STABILIMENTO TIPOGRAFICO SUCC. FF. NISTRI IRA © RESIDENTE: IN PISA . MEMORIE | STABILIMENTO TIPOGRAFICO SUCC. FF. NISTRI | FOTI È, i I SCIENZE NATURALI PIERO ALOISI x LE COSÌ DETTE MILONITI DELL'ISOLA D'ELBA In alcuni suoi recenti lavori il TERMIER !) ha cercato di mostrare come nella parte orientale dell’ Elba, il complesso di rocce indicato dal LottI ?) con le lettere pr, (scisti gneissiformi e micascisti presiluriani), sia costituito in parte da graniti, micrograniti e gneiss laminati; 0, come il TERMIER stesso li chiama, da miloniti granitiche, microgranitiche e gneis- siche; in questo insieme milonitico poi, si troverebbe del granito non schiacciato, identico a quello del M. Capanne, e, in altri affioramenti, lo stesso granito con laminazione incipiente, simile ad un protogino. In base a tale fatto e ad altri dei quali non è qui il caso di par- lare, ha concluso che l’Elba è un “ pays di nappes , e che dei feno- meni di carreggiamento le hanno data l’attuale costituzione geologica. Vediamo come sono costituite, secondo il TERMIER, le sopra dette miloniti. Miloniti granitiche *). — Rocce informi e caotiche, nelle quali la mica nera è scomparsa. In una pasta verde scuro, o verde sudicio, o color ruggine, o nerastra, che non ha quasi azione sulla luce polarizzata, ap- paiono dei frammenti di feldispato e di quarzo, angolosi o arrotondati. Quando i frammenti sono un poco più grossi si mostrano costituiti da granito quasi intatto e si vedono spesso, sopra una parte della loro pe- riferia, fondersi nella “ purée , circostante. 1) Sur les granites et les porphyres écrasés de l’ ile d’ Elhe. C. R. Ac. Se., CXLVIII, pag. 1441. Paris, 1909. Sur les nappes de Vîle d’Elbe. Ivi pag. 1648. . Sur les relations tectoniques de l’île d’Elbe avec la Corse et sur la situation de celle-ci dans la chaîne alpine. Ivi, CKLIX, pag. 11, 1909. Sur la tectonique del’île d’Elbe. Bull. Soc. geol. de Fr., X, pag. 134. Paris, 1910. ?) Descrizione geologica dell’isola d’ Elba, pag. 7. Mem. descr. della carta geol. d’It., II. Roma, 1886. 3) Sur les granites, ecc., pag. 2. Sur la tectonique ecc., pag. 137. 4 P. ALOÎSI Tali fenomeni si osserverebbero molto bene lungo la strada fra Mola e Longone. | Miloniti microgranitiche 0 falsi gneiss 1). — Sono rocce molto chiare, bianche o grigie, d’aspetto leptinitico. Nei tipi meno laminati sì vede ancora la struttura porfirica; in una pasta microgranitica, con sericite, sì trovano grossi ortosi caolinizzati rotti, tormaline e quarzi pure spez- zati. Aumentando la laminazione si ha la pasta suddetta trasformata in uno scisto quarzo-sericitico; i vecchi quarzi sono scomparsi, e l’ortose sì è ancor più frantumato. Al limite la roccia diviene molto scistosa, a zone sottili, le une di piccoli quarzi, le altre di mica bianca e di fram- menti ortosici. Uno degli aspetti più frequenti è quello ?) di una roccia a cristalli quarzosi bipiramidati appena deformati, in una pasta scistosa costituita dai frammenti dei grossi feldispati, e dalla polverizzazione dell’antica pasta della roccia porfirica. Queste miloniti microgranitiche formerebbero la catena di colline sulla destra del ruscello Valdana, dal punto 20 della carta (dove è aperta una cava) fino al Lido, e si troverebbero anche nella regione di Ortano; qui, anzi, la laminazione sarebbe stata anche molto più intensa che non a Valdana. | | Miloniti gneissiche 0 veri gneiss. — Dei veri gneiss, laminati o no, il TERMIER non dà una descrizione, e solo dice *) che le miloniti gneis- siche sono analoghe a quelle granitiche; che in esse la mica è scomparsa, persistendo però in generale un aspetto gneissico ed una struttura zonata. | I veri gneiss si troverebbero in varie località, così essi formerebbero il promontorio roccioso che limita all’ovest il vallone di Mar di Carvisi Di In un lavoro pubblicato di recente, °) mi sono occupato di una parte delle rocce che formano la serie pr,, e dei filoni di rocce granitiche che le intersecano, ed appunto ho raccolto i campioni che mi hanno servito per tale studio nelle località sopra ricordate, cioè, nel monte ad occi- dente della valle Fosso Mar di Carvisi e nel tratto compreso fra detta 1) Sur la tectonique, ecc., pag. 138. °) Sur les granites, ecc., pag. 4. 3) Sur les granites, ecc., pag. 3. 4) Sur la tectonique, ecc., pag. 139. 9) Rocce granitiche negli scisti della parte orientale dell’isola d’Elba. Mem. Soc. Tosc. Sc. Nat., XXVI. Pisa, 1910. LE COSÌ DETTE MILONITI DELL ISOLA D'ELBA 5 valle e Longone; perciò molte delle rocce delle quali parla il TERMIER sono state da me descritte, ad eccezione di quella della cava presso il punto 20 della carta. i Ebbi contezza delle prime due memorie del TERMIER quando il mio lavoro era già in bozze e quindi potei ad esse accennare solo in nota, ma ora che in occasione del Congresso della Società geologica Italiana, tenutosi quest'anno all’Elba, mi sono recato di nuovo sul posto, ed ho raccolto materiale anche alla cava del punto 20, ritengo di dover tor- nare sull'argomento, tanto più che i resultati ai quali arriva il TERMIER sono in generale completamente in opposizione con quelli ai quali io ero giunto. % * * Come ho detto prima, TERMIER fa derivare è falso gneiss dalla lami- nazione del microgranito; sotto questo nome comprende tanto il por- fido quanto l’eurite del LoTTI, e non distingue quando la milonite deriva dall'uno, quando dall’altra; per questo, e onde poter fare gli Opportuni confronti, do una breve e sommaria descrizione delle due rocce che sono notevolmente diverse fra di loro. Di esse si sono occupati molti geologi e petrografi valenti e, più di recente di tutti, il MarTEUCCI, !) che pubblicò una descrizione accu- rata, alla quale mi riferisco, ed alla quale rimando per notizie più ampie e per la bibliografica. Il porfido, che il MartEUccI chiamò porfido granitico, è una roccia a struttura olocristallina porfirica; la massa fondamentale macro-, micro-, ed anche criptocristallina è costituita da quarzo, feldispato e mica. Gli interclusi sono di quarzo, con corrosione magmatica evidentissima, di feldispato, specialmente ortoclasio, ma anche, sebbene in quantità mi- nore, microclino, albite e labradorite, e di biotite. Quarzo, feldispato e biotite sono sempre molto abbondanti, e ad essi, come accessori, si ag- giungono zircone ed apatite, spesso frequentissimi, e, come minerale neo- genico dovuto ad azioni pneumatolitiche, la tormalina. Tale descrizione si riferisce al porfido della parte centrale dell’isola, ma tutto fa ritenere che i caratteri di esso si mantengano press’a poco !) Le rocce porfiriche dell’isola d’ Elba. Porfido granitico. Mem. Soc. Tosc. Se. Nat., XIV. Pisa, 1894. Le rocce porfiriche ecc., Aplite porfirica. Ivi, XVI. Pisa, 1897. i i 6 P. ALOISI costanti anche nella parte orientale; ad ogni modo ho studiati al mi- croscopio i preparati di alcuni campioni da me raccolti alla Crocetta, nell'alta valle del Burraccio presso la Valdana, e sono giunto, per quanto lo permetteva la notevole alterazione degli esemplari, a risultati quasi uguali a quelli del MATTEUCCI. La eurite od aplite porfirica, come più giustamente la chiama il MATTEUCCI, è, secondo detto autore, una roccia a struttura olocristallina, porfirica, fluidale, a massa fondamentale macro-, o microcristallina con evidente fluidalità, costituita da feldispato, quarzo e mica; i feldispati sono quasi tutti albite, pochi ortoclasio. | Gli interclusi, molto meno abbondanti e più piccoli che non nel por- fido, sono di quarzo, non sempre nettamente limitato, nè con forma pro- pria, e senza segni sicuri di riassorbimento magmatico, di ortose, al- bite, oligoclasio e di muscovite. | Mancano, o sono estremamente rari, zircone ed apatite. Caratteristico per questa roccia è il modo di presentarsi in essa della tormalina, considerata qui pure come minerale neogenico pneuma- tolitico, che si mostra in noduli azzurro-grigi, talora assai grossi, subro- tondi, spesso ordinati in linee regolari. > i AI solito questa descrizione si riferisce all’aplite della parte centrale dell’ isola; per accertarmi se la roccia manteneva gli stessi caratteri anche nella parte orientale ho raccolto alcuni campioni in località vicina. a quella dove ho preso il porfido, e precisamente alla cava lungo la via militare del M. Castello, poco sopra Casa Traditi, e ne ho studiate le sezioni sottili. Nel complesso la roccia corrisponde assai a quella descritta dal MatT- TEUCCI, però lo studio ne è reso difficile e poco sicuro per la avanzata alterazione. La massa fondamentale è quarzoso-feldispatico-micacea; la mica, se- ricite, la ritengo in grande parte secondaria da feldispato. Riguardo ad esso non potrei confermare la determinazione del Mat- TEUCCI, cioè che sia quasi tutto albite; certo del plagioclasio acido, nei miei campioni non più esattamente determinabile, è presente ed in quan- tità notevole, ma a me sembra che non possa per questo dirsi che l’or- tose sia al paragone pochissimo. + 0 Così pure nei miei esemplari il quarzo porfirico è spesso a forma propria, contrariamente a ciò che ha veduto il MartEUCCI; questo avviene specialmente per gli individui più piccoli, (tanto piccoli da restare in LE COSÌ DETTE MILONITI DELL'ISOLA D'ELBA Yi dubbio se appartengano alla massa fondamentale) i quali appaiono in sezioni a losanga o quadrate, che estinguono secondo le diagonali, ciò che fa ritenere trattarsi di diesaedri. Ad ogni modo questo quarzo por- firico dell’aplite, per dimensioni, quantità e per la mancanza di riassor- bimento, si distingue bene dal quarzo del porfido. Il plagioclasio porfirico, per le poche determinazioni che ho potuto fare, data l’avanzata alterazione, estinguendo in sezioni normali a (010), a 15.°-16.° dalla traccia di tale piano, sembra essere albite. di Gli interclusi muscovitici sono rarissimi ; la struttura fluidale osser- vata e fotografata dal Ma1rEUCCI, !) manca nelle mie sezioni. Altra differenza dall’aplite della parte centrale è la mancanza della tormalina; il MaTTEUCCI,?) in campioni raccolti fra i Magazzini e Longone l’ha riscontrata solo al microscopio, ed il LOTTI 3) crede che essa manchi’ nella parte orientale. Ad ogni modo si può certo ritenere che nella parte orientale dell'Elba, l’aplite è molto più povera in tormalina che non nella centrale, e che probabilmente manca nella forma caratteristica di macchie rotondeggianti. La così detta milonite microgranitica del punto 20 dovrebbe derivare, per laminazione, da una delle due rocce avanti descritte, ed anzi, a quel che dice il TERMIER,*) dovrebbe essere uno dei termini sui quali tali azioni meccaniche deformatrici avrebbero agito meno potentemente. La roccia ha scistosità evidente, colore biancastro e piccole macchiette ellittiche più scure; anche a prima vista dunque mostra una grande rassomiglianza con gli scisti gneissiformi che ho descritti nella mia memoria avanti citata, °) che ho raccolti nella collina che separa la Val- . dana dalla valle Fosso Mar di Carvisi, e che quindi, secondo il TERMIER, sarebbero dei veri gneiss. Studiata al microscopio essa si rivela costituita da una massa minuta quarzoso-micacea, nella quale sono sparsi frammenti di quarzo assai nu- merosi ed altri di ortose un poco caolinizzato. La mica della massa minuta è una sericite, talvolta un poco giallognola per pigmento limonitico. In altre parole si ha anche nella composizione mineralogica e nella struttura la stessa corrispondenza con gli scisti raccolti sulla sinistra. 1) Le rocce, ecc. Aplite porfirica, pag. 23 e tav. V, fig. 1. ?) Le rocce porfiriche, ecc. Aplite porfirica, pag. 30. 3) Loc. cit., pag. 147. 4) Sur la tectonique, ecc., pag. 138, 5) Loc. cit., pag. 4. | D P. ALOISI della valle;,.che si aveva nell’aspetto macroscopico, corrispondenza che potrebbe quasi chiamarsi identità. Le differenze infatti riscontrate confrontando i preparati sono minime, tali quali sempre si trovano fra i campiori di una stessa roccia raccolti in località vicine. La roccia del punto 20 è forse un po’ più ricca in frammenti di ortose di quel che non lo sieno in generale gli scisti; il pigmento limo- nitico è pure in essa un poco più abbondante; sembrano mancare la tormalina ed il minerale indeterminato presenti negli scisti e viceversa è forse un poco maggiore la quantità di zircone. Date le differenze minime esistenti fra le due rocce, non ho creduto | utile fare una nuova analisi chimica e, considerato anche come il divario mostrato nella composizione fra lo scisto privo di ortose e quello rela- tivamente ricco di tal minerale sia lievissimo, ritengo che la analisi II pag. 6 del mio lavoro precitato, rappresenti con grande approssimazione la composizione della così detta milonite microgranitica. Perciò la riporto (I) mettendola a confronto con quella del porfido della parte orientale (II) ), del porfido di Portoferraio (III)?) e dell’aplite porfirica (IV)?) 1 II III IV DO RISI sa 2,10 0,97 SOL ROSI 70,10 68,00 75,85 ALONE | 14,99 | Resor fa 18,75 - 3 dd ; 7 Rel lo 4,05 0, 58 Cai 27 1,32 1,68 tr. Mo 0 0 0, 54 0, 86 — Nasi 0 2000 4,04 (8, 61) KIRI AO ON 2,37 99, 29 100, 73 100, 00 98, 80 Fra il porfido e la così detta milonite del punto 20 esistono dunque delle differenze notevoli, sia dal punto di vista della composizione mi- neralogica, sia da quello della composizione chimica. i) FunARO. Sulla composizione chimica di alcune rocce feldispatiche dell’isola d’Elba. Boll. R. Com. Geol. d’It., VII n. 9-10. Roma, 1886. © Nessi. Die jiingeren Eruptivgesteine des mittleren Elba. Zeit. d. deut. geol. Gesell., XXXV, fasc. 1. Berlin, 1883. 9) DamouR. Examen a de deux roches feldspathiques de l’ìle d’ Elbe. Ann. soc. Agr. de Lyon 185 LE COSÌ DETTE MILONITI DELL'ISOLA D'ELBA 9 Fra le prime, veramente meno appariscenti, sta il fatto della scom- parsa della mica nera e delle caratteristiche e profonde corrosioni del “quarzo, nonchè della mancanza del plagioclasio; le prime due però po- trebbero spiegarsi, con un processo di alterazione 1’ una, con l’azione della pressione l’altra, e la terza ha importanza secondaria data la scar- sità del plagioclasio nella roccia porfirica !). La completa trasformazione della massa fondamentale del porfido (feldispato + quarzo +4 mica) nella massa minuta della così detta milonite (sericite + quarzo) sarebbe sul tipo, ad esempio, di quella che si ammette subisca per dinamometamorfosi la massa fondamentale dei porfidi quar- ziferi o dei keratofiri quarziferi che si trasformano in porfiroidi; nel nostro caso però la laminazione, secondo il TERMIER, sarebbe stata leg- gera, e non so quindi quanto sia ammissibile un tale processo. D'altra parte non mi sembra possa ammettersi, col TERMIER, ?) che tale massa minuta, sia stata formata da “ débris des gros feldspaths et de la pul- vérisation de l’ancienne pàte du porphyre , giacchè una semplice polve- rizzazione non credo possa cambiare il feldispato in quarzo + mica. Ad ogni modo quindi, anche volendo accettare l'ipotesi del TERMIER, ‘ bisognerebbe ammettere pure che alla sola azione dinamica se ne fos- sero aggiunte altre di altra natura, specialmente a cagione delle diffe- renze chimiche. Queste stanno nella quantità di silice che essendo di 74,57 °/, nella così detta milunite, è di 69,60 °|, per la media di sei determinazioni fatte dal NessIe ?) su campioni di porfido, e, tralasciando altre meno impor- tanti, più di tutto nel rapporto Na, O: K, O, che per la roccia scistosa è di 1,00:5,08 e per l’altra di 1,00: 0,98. Le rocce granitiche della Corsica avrebbero subìto pure uno schiac- ciamento, ma i diversi autori*) che ne descrivono gli effetti non accen- nano, per quanto io sappia, a mutamenti nella composizione chimica; del resto, appunto parlando dei fenomeni di cataclasi in rocce granitiche, 1) Veramente nei porfiroidi le originarie corrosioni del quarzo, nonostante le forti azioni meccaniche, sono spesso conservate (RosENBUSCH, Elemente der Gesteinslehre. (3), pag. 566. Stuttgart, 1910). 2) Sur les granites, ecc., pag. 4. a)ObLoc..cit-pag. 1270. 4) DEPRAT. L'origine de la protogine de Corse. C. R. Ac. Sc., CXLI, pag. 151. Paris, 1905. TERMIER et MAURY. Sur les nappes de la Corse orientale. Ivi, CXLVI, pag. 1426. Paris, 1908. TERMIER et DEPRAT. Le granite alcalin des nappes de la Corse orientale. Ivi, CXLVII, pag. 206. Paris, 1908. 10 P. ALOISI e porfiriche, il RosENBUSCAH !) esplicitamente dichiara che essi non con- ducono a cambiamenti chimici. Fra la così detta milonite e l’aplite porfirica le principali differenze sono le seguenti: 1.° Gli interclusi quarzosi non corrispondono come quantità ai grossi frammenti quarzosi dello scisto, e tanto meno corrisponderebbero ove dovessero considerarsi derivate dal loro frantumamento anche le plaghe esclusivamente quarzose alle quali ho accennato nel mio lavoro preci- tato; ?) così spesso non corrispondono, sempre in quantità, gli interclusi ai frammenti di ortose. 2.° Nella roccia della cava di Valdana, come negli scisti della vicina collina ad oriente, manca, sia nei grossi individui, sia nella massa minuta, il plagioclasio che nell’aplite è presente ed in quantità di poco inferiore all’ortose fra gli interclusi, e, secondo MATTEUCCI, in maggior copia nella massa fondamentale. | 3.° La massa fondamentale dell’aplite è quarzoso-feldispatica e in piccola parte micacea, la. massa minuta della così detta milonite è quar- zoso-micacea ed in piccolissima parte forse feldispatica. Potrebbero, è vero, la mica ed il quarzo dello scisto provenire in gran parte per trasformazione del feldispato dell’aplite, ma bisognerebbe ammettere che tale trasformazione fosse avvenuta per tutto, o quasi, il feldispato della massa fondamentale e per gli interclusi di plagioclasio, rispettando quelli di ortoclasio. | Oltre a queste differenze mineralogiche che mal si spiegano con la semplice e non energica laminazione, si hanno poi qui pure delle dif- ferenze chimiche notevoli, fra le quali quella del rapporto Na, O: K, O, di 1,00: 5,08 per lo scisto e di 1,00:0,59 per l’aplite. Le miloniti granitiche deriverebbero come abbiamo veduto da un granito simile a quello del M. Capanne, e quello della Serra da me de- scritto, 5) lo rappresenterebbe allo stato normale. Tale roccia, a grana media piuttosto grossa, ha struttura ipidiomorfa ben sviluppata; esso contiene essenzialmente quarzo, ortose, plagioclasio zonato che va dall’oligoclasio-albite all’andesina, biotite e muscovite. Le 1) Elementi der Gesteinslehre, (3) pag. 106 e 247. Stuttgart, 1910. 2) Loc. cit., pag. 4. Mi Loeeto pago: LE COSÌ DETTE MILONITI DELL'ISOLA D’ ELBA Jil differenze fra questa roccia e quella del M. Capanne sono piccole, sia mineralogicamente sia chimicamente. -_ Fra Mola e Longone, al contatto con le masse e con i filoni di gra- nito analogo al precedente, o di tipo più o meno spiccatamente aplitico, stanno gli scisti che io ho considerato come derivati per metamorfismo di contatto da scisti analoghi a quelli di Valdana, mentre il TERMIRR li ritiene non altro che il granito precedentemente descritto, schiacciato. Essi hanno composizione molto costante, solo variando le proporzioni dei singoli costituenti principali, che sono mica, andalusite, quarzo e poco feldispato. La mica è sericite e biotite, quest’ultima talora abbondantis- sima, e con quelle forme scheletriche che sono caratteristiche per le rocce di contatto. Il quarzo è quasi sempre raccolto in amigdale con struttura a mosaico bellissima. L’andalusite ha inclusioni di piccole particelle car- boniose e di biotite. Il poco feldispato è ortose ed un plagioclasio molto acido. Minerali accessori, talora molto abbondanti, sono tormalina, ma- gnetite, ferro titanato. | La struttura varia a seconda del prevalere dell’uno e dell’altro mi- nerale 1). Come si vede le differenze fra le due rocce sono fortissime; volendo ammettere col TERMIER la derivazione di questa da quella bisognerebbe ammettere pure che la laminazione avesse cambiato la natura minera- logica 2) e la struttura dei graniti, non solo, ma che avesse prodotto proprio quegli effetti che sono caratteristici. per il metamorfismo di contatto. Difatti gli scisti del tratto Mola-Longone eorrispondono in tutto e per tutto alle più tipiche formazioni di contatto e, per riferirmi solo a 1) Secondo la nomenclatura del SALOMON (Essai de nomenclature des roches métamorphiques de contact. C.R. VIII Congrés geol. inter. pag. 342. Paris, 1900). queste rocce sarebbero delle leptinoliti-astiti-quarzose. 2) La andalusite è stata talora, ma raramente, trovata in rocce granitiche elbane, sia del M. Capanne sia della parte orientale (vedi GRATTAROLA. Note mi- neralogiche. Boll. R. Com. Geol. d’It., anno 1876, n. 7-8, pag. 328. Roma, 1876). Il prof. MANASSE che sta studiando delle rocce filoniane e scistose analoghe alle mie, raccolte al M. Arco presso Ortano, mi comunica di avervi ritrovato questo minerale in alcuni filoncelli granitici, e non ci sarebbe perciò nulla di strano che anche qualcuno dei filoni fra Mola e Longone ne contenesse; in quelli da «me studiati l’andalusite manca, e in ogni modo essa è da considerarsi come minerale raro per le rocce granitiche, abituale per le scistose di contatto. Per- ciò la grande differenza di composizione mineralogica, salvo qualche caso spe- cialissimo, permane anche per quel che riguarda l’andalusite. - di P. ALOISI regioni vicine, sono ad esempio molto simili ad alcune “ hornfelsiti , descritte nella memoria postuma del Rrva!) sulle rocce sarde. La laminazione avrebbe poi, anche molto più che per la cosidetta milonite microgranitica, cambiato la natura chimica della roccia grani- tica, come risulta dalle due analisi che riporto dal mio lavoro ?) (I scisto di contatto, II granitite della Serra). I II Perd. per arrov, . . 4,04 1,0% e RS TO Troia 1,599 0,83 Bi Oriana te — AL On a 0 te 12,61 3,13 Fe O : ì Ce 0,44 1,81 Nei 3,27 Dali Naso Valera d Al 0368 Kenia 4,56 3,63 99,84 99,53 Psp. IA Le differenze sono tanto forti che non occorre nemmeno metterle in evidenza. Già nel mio lavoro precitato, avevo osservato come nell’analisi dello scisto la percentuale della silice fosse bassa, perchè il campione analiz- zato era dei meno ricchi in quarzo; affinchè non debba nascere il dubbio che la differenza principale stia nella quantità della silice, carattere ac- cidentale del campione analizzato, ho fatto la prova dell’acidità per altri cinque esemplari. Nel preparare le singole polveri ho messo la massima cura per ottenerle in modo che rappresentino la composizione media dei singoli campioni, ciò che non riesce tanto facile data la disposizione in. amigdale del quarzo; ad ogni modo ho, se mai, volontariamente esagerato 1) Le rocce granitoidi e filoniane della Sardegna. Atti R. Acc. Sc. fis. mat. XII, serie 22, n. 9. Napoli, 1905. . 2) Loc. cit., pag.10 e 17. LE COSÌ DETTE MILONITI DELL’ ISOLA D'ELBA 13 nel senso di un aumento della silice piuttosto che in senso contrario, e ritengo -che la media delle sei determinazioni ci possa rappresentare la media acidità di queste pretese miloniti. Si 03 % Media RL, FS AA PERE dc) II. MI, 55,55 iene. 98,80 e, 55,10 Mi SERE 92.74 NI STAT AR 60,82 Per le rocce granitiche la percentuale in silice varierebbe nel modo seguente: Si O %o Media I SR a. T4,D85 II. POR I 69,92 eo 65,49 AVE Rd Ra 67,21 68,55 dove Ièla percentuale della silice per la granitite della Serra, II !), III e IV ?) quelle del granito di M. Capanne. Sempre a proposito della composizione chimica si potrebbe obiettare che se forti differenze si notano fra il granito e le così dette miloniti granitiche, altrettanto forte è il divario fra queste e gli scisti di Val- dana, che rappresentano le rocce non metamorfosate per contatto, 0, per dir meglio, con metamorfismo incipiente, giacchè le macchiette el- littiche scure che quasi scompaiono nell’osservazione microscopica, sono certo da ritenersi come primo indizio dell’azione del vicino granito °). A tale proposito però esservo che se in realtà, in generale, è poco ammesso che col metamorfismo di contatto possa aversi cambiamento di composizione chimica, un tale cambiamento non può, in generale 1) MAnAssE. Stilbite e foresite nel granito elbano. Mem. Soc. Tosc. Se. Nat., XVII. Pisa, 1900. “O 2) NEssIG. Loc. cit., pag. 127. 3) RosENBUSCH. Loc. cit., pag. 107, 14 i 1}, FAtOnsÌ escludersi in modo assoluto, come molto a ragione, mi sembra, fa osser- vare il Riva!) Ad ogni modo, non volendo ammettere tale cambiamento di compo- sizione, potrà sempre supporsi che gli scisti del tratto Mola-Longone si sieno originati per metamorfismo di contatto da rocce di natura ar- gillosa ad esempio, e l’analisi avanti riportata concorda con molte analisi di argilloscisti; quello che è certo e che assolutamente non può negarsi, è che gli scisti di Mola-Longone sono delle rocce di contatto, e che differiscono moltissimo sia dai graniti, sia dalle miloniti granitiche quali le descrive il TERMIER. Fra gli scisti metamorfici da me studiati ce n'è uno che per alcuni caratteri si ravvicina alla milonite granitica del TERMIER: si tratta del. campione raccolto alle prime case di Longone ?), nel quale scarseggiano molto la andalusite e la biotite (così si spiega come il TERMIER® dica “le mica noir a disparu ,, mentre invece in generale la mica nera è abbondantissima) resta presente la mica bianca e vi è grande copia di clorite (forse la “ pàte vert sombre.... qui n’agit presque pas sur la lumière polarisée ,,). A tali minerali si ‘accompagnano della cordierite alterata, e della tormalina in grossi frammenti ed in grande quantità; nel resto la roccia è simile alle altre. Essa deve considerarsi come una forma speciale delle nostre lepti- noliti. (Schiefrige Hornfelse); per essa pure può escludersi che si tratti di un granito laminato come mostra, fra altro, la percentuale in silice, che è di 55,77, | Nel mio lavoro ho ammesso che le rocce granitiche della parte orien- tale dell'Elba sieno state soggette a pressioni energiche, e ne ho dato le prove migliori, fotografando le piegature dei minerali e la struttura cataclastica, quali si vedono nelle sezioni sottili °). i Però non ho potuto osservare che gli effetti della pressione sieno più o meno intensi a seconda che si tratta di tipi granitici od aplitici, chè invece a me è sembrato che il maggiore o minore sviluppo dei fe- nomeni di cataclasi sia in relazione con le dimensioni delle masse roc- ciose sottoposte alle azioni deformatrici. bioetica paz i($: o\elkoeierto, patio. 3) Sur la tectonique, ecc., pag. 137. 4) Ivi. i 9) Loc. cît., tav. I, fig.3, 4, 5. LE COSÌ DETTE MILONITI DELL'ISOLA D'ELBA 15 Ad ogni modo mi pare che se in realtà le così dette miloniti grani- tiche derivassero per laminazione dai graniti, al contatto fra le due rocce dovrebbe vedersi un passaggio graduato ; il TERMIER !) dice a tale proposito, che seguendo alcune delle masse granitiche, si nota come in una parte della loro periferia esse si fondano nella “ purée , ambiente. Questo fatto è sfuggito alla mia osservazione e credo debba essere molto raro, giacchè è frequentissimo invece il caso opposto, che io ho ritenuto e ritengo generale, del contatto nettissimo fra filone e roccia incassante, contatto che sono arrivato a fotografare in sezione sottile ; ?) la roccia granitica e la scistosa si mantengono, ognuna con i suoi ca- ratteri fino al contatto immediato. Questo si ripete se non per tutti, certo per la massima parte degli affioramenti, ed è un fatto che mi sembra male spiegabile con l’ipotesi del TERMIER. In tutti i casi poi, i campioni di roccia granitica che mostrano di aver subìto le più energiche azioni meccaniche, dovrebbero ravvicinarsi per struttura e composizione a quelle che sono indicate come miloniti, ciò che non è, giacchè le rocce filoniane da me descritte mantengono, nei vari tipi, costante il loro contenuto mentre la struttura varia dalla normale alla cataclastica, contenuto e struttura ben diversi come ab- biamo veduto da quelli delle così dette miloniti. Dallo studio comparativo delle roccie porfiriche e granitiche e di quelle scistose del tratto compreso fra la Valdana e Longone risulta, mi sembra, dimostrato quanto segue: ‘1.° La roccia raccolta sulla destra del ruscello Valdana è uguale a quelle raccolte sulla collina a sinistra della valle stessa; in'altre parole la milonite microgranitica, o falso gneiss, e la milonite gneissica, o vero gneiss, sono la stessa cosa. 2.° Verosimilmente tale roccia non ha nulla a che fare geneticamente col porfido granitico e con l’aplite porfirica. 3.° Le miloniti granitiche sono gli stessi scisti o, nella peggiore ipo- tesi, degli scisti argillosi, modificati al contatto con le rocce granitiche. 4.° Le rocce granitiche hanno subìto delle forti pressioni la cui azione, a quanto sembra, si è esplicata tanto maggiormente quanto minori erano 1) Sur la tectonique, ecc., pag. 137. ?) Loc. cit., tav.I, fig. 2. 16 P. ALOÎSI le masse delle rocce stesse, e tale azione ha condotto alla struttura a smalto (Mòrtelstrucktur) caretteristica per tali fenomeni, senza avere però alcuna influenza sulla composizione chimico-mineralogica. Laboratorio di Mineralogia della R. Università di Pisa. Decembre 1910. GIOTTO DAINELLI -]e__k = INTRODUZIONE ALLO STUDIO DEL CRETACKO FRIULANO PARTE II. 10. — Il Cretaceo dell’ ellissoide tra la Regione Caulana e il Monte Jouf. Il Cretaceo del Monte Cavallo e del versante orientale del Cansiglio si collega direttamente all’ellissoide che dalla regione Caulana si estende ad oriente fin oltre il Monte louf. Della sua parte occidentale, incisa dal Cellina, non si hanno notizie di una successione di livelli distinguibili litologicamente. Trattasi nel complesso di calcari, bianchi o grigi, più o meno compatti, che costitui- scono tutta la ellissoide, almeno per quello spessore di strati che è stato messo allo scoperto dalla incisione stessa del Cellina. Non mancano invece fossili, ma anche riguardo a questi sono scar- sissime le notizie di qualche valore. Il Pirona !) nei dintorni di Barcis distinse da prima due livelli: uno inferiore, di un calcare argilloso con Pecten, ed uno superiore, del calcare a Rudiste; più in alto ancora sa- rebbe la scaglia rossa. Ma di quel primo livello non si ha più notizia | negli scritti posteriori di quell’autore nè di altri studiosi, ed io credo debba invece ritrovarsi, con un salto cronologico assai grande, nel cal- care a Pecten del Miocene inferiore, affiorante appunto a sud di Barcis presso la casera Caulana. Del secondo, ma quindi unico livello, il cal- care a Rudiste, il PiRonA citava allora alcune specie: Hippurites orga- nisans Desm., H. cornu-vaccinum BronNn, H. sulcata DEFR., Radiolites sp., Caprina sp., Caprinella sp. Successivamente il Prrona ?) negava la presenza di Caprine presso Barcis; ma in seguito ancora, sempre per questa stessa località, dava *) un nuovo elenco di fossili (Hippurites cornu-vaccinum BRoNnN, H. dilatatus ) Pirona G. A. Cenni geognostici ecc., 1861, pag. 281-284. ?) Prrona G. A. Le Ippuritidi ecc., 1869, pag. 10. 3) PironA G. A. La Provincia di Udine ecc., 18717, pag. 41. Sc. Nat., Vol. XXVII 9 18 G. DAINELLI Derr., H. sulcatus DEFR., Caprina Aguilloni D’ORB., Radiolites sp., Ca- protina sp.), il quale veniva accettato dal TARAMELLI !), salvo che per la citazione di Caprotina Sp. Assai più recentemente il FUTTERER *) osservava: tra Barcis e Pez- zeda, Coralli e Radioliti; tra Pezzeda e Le Fratte, sezioni di Caprinidi; e presso la Val Pentina, numerosi Ippuriti. L'andamento degli strati rendeva evidente la soprapposizione, ad una certa distanza, delle Ippu- riti alle Caprotine 3); il FurreRER aggiunge poi che le Radioliti si troverebbero ad un livello ancora più alto *); ma la forma assai incerta e dubbiosa ch’egli dà a questa sua affermazione fa convinti che la po- sizione e la distinzione di tale supposto più alto livello, più che sulla diretta osservazione stratigrafica, sia basata sulle convinzioni dell’autore. Nei fossili raccolti in abbondanza presso la Val Pentina il FUTTERER riconobbe una sola specie, e, per di più, nuova °): l’ Hippurites crassico- status, che, badando alle sue grandi analogie con l’ H. giganteus, farebbe pensare ad un’età tra l’Angumiano e la base del Coniaciano ’). È incerto quale valore si possa dare alle citazioni di fossili, innanzi riportate, fatte dal Prrona; il verificarsi, però, di un cambiamento tra il primo ed il secondo elenco, fa supporre che questo, del resto dili- gente, studioso abbia rivolto ripetutamente la sua attenzione all’esame dei fossili raccolti e che le determinazioni sien buone. Nell’esaminarle, non però accettandole come del tutto sicure, è bene pertanto fare osservare ch’esse non appaiono spettanti a fossili raccolti in un unico giacimento. | 1.° Hippurites cornu-vaccinum Bronn, del Campaniano inferiore ‘). 2.° Hippurites dilatatus DEFR.; se corrisponde all’ H. dilatatus DEFR, in ZirreL *) è l’H. Oppeli Dovuv. °), che, come abbiamo visto innanzi, è stato citato da terreni attribuiti più che altro al Senoniano inferiore. Se corrisponde invece all’ H. dilatatus DEFR. degli autori 1°), potrebbe es- sere così l’ HM. sublaevis MATA. come l’ H. turgida RoLL., l'uno e l’altro 1) TARAMELLI T. Spiegazione della carta ecc., 1881, pag. 94. 2) FuTTERER K. Die Gliederung der oberen Kreide ecc., 1893, pag. 852, 855. 3) FutTERER K. Ueber einige Versteinerungen ecc., 1896, pag. 243. 4) FurtERER K. Die Gliederung ecc., 1893, pag. 855; Ueber einige Versteine- rungen ecc., 1896, pag. 243. 5) FutTERER K. Ueber einige Versteinerungen ecc., 1896, pag. 244-247. 6) Toucas A. Etudes ecc. des Hippurites, 1904, pag. 91 e 94. 7) Ivi, 1904, pag. 101. 8) ZirtEL. Die Bivalven ecc., 1866, pag. 142. °) DouviLLÈ H. Etudes ecc. Distribution ecc., 1897, pag. 203. 10) Ivi, (1895; pag..19) N82: i INTRODUZIONE ALLO STUDIO DEL CRETACEO FRIULANO 19 del Santoniano !). La circostanza, però, che 1° H. Oppeli Douv. è stato più volte riconosciuto nel bacino di Santa Croce, mi fa ritenere che anche per i dintorni di Barcis si tratti della stessa specie; in ogni modo le deduzioni cronologiche sarebbero, nell'un caso e nell’altro, poco diverse. 3.° Hippurites sulcatus DerR., del Campaniano inferiore ?). 4.° Caprina Aguilloni D’ORB.; per quanto, anche qui come per l’ Hip- purites dilatatus, le deduzioni cronologiche non possan variare, credo che si abbia a che fare invece con il Plagioptychus Arnaudi Douv., dell’Angumiano superiore, e del quale si è già detto a proposito dei dintorni di Santa Croce di dove è stato citato. A questa correzione in- duce la circostanza che anche il FUTTERER *) citò la specie di DouUvILLÉ sotto il nome di quella del p’ORBIGNY, come ebbe poi a riconoscere il BorHm ‘). Se dunque, in mancanza di dati più sicuri, si deve per ora trarre qualche conclusione soltanto dalle analogie che l’ Hippurites crassicostatus Furt. ha con specie già note, e dalla critica delle forme citate dal PI- RONA, Si può pensare che nella ellissoide cretacea che va dalla Caulana al Monte Jouf sieno, nella sua parte più occidentale cioè quella a sud di Barcis, rappresentati l’Angumiano (Plagioptychus Arnaudi Douv. e forse Hippurites crassicostatus FutT.), il Senoniano inferiore ( Hippurites — Oppeli Douv. e forse, H. crassicostatus Futt.) ed il Campaniano (Hippu- rites cornu-vaccinum Bronn e H. sulcatus DerR.). Quanto al livello a Caprine osservato dal FuTTERER, per analogia con quanto si è detto pel Col dei Schiosi del cui giacimento fossilifero esso può essere la prosecu- zione, non è improbabile che rappresenti il Turoniano inferiore. Altri dati si hanno per la parte mediana di questa ellissoide, quella cioè corrispondente alla depressione della Forcella La Croce, tra Ma- niago Libero e Andreis. Anche qui non si trovano dagli autori distinti litologicamente diversi livelli. Soltanto il FuTTERER °) notò la seguente successione dal basso all’alto: . a) calcari grigio-chiari, in sottili banchi, con sezioni di fossili in- determinabili; 6) banchi di calcari bianchi, subcristallini, fossiliferi ; c) calcari grigio-chiari, con lenti marnose verdastre; 1) Toucas A. Etudes ecc., des Hippurites, 1903, pag. 42-43. 2) Ivi, 1904, pag. 103. 3) FUTTERER K. Die oberen Kreidebildungen ecc., 1892, pag. 94. 4) Boenm G. Beîtrige zur Kenntniss ecc., 1894-95, pag. 138. 5) FutTtERER K.Die Gliederung ecc., 1893, pag. 856-897, 20 G. DAINELLI d) banchi di calcari grigiastri, fossiliferi; e) banchi di calcari bianchi, subcristallini fossiliferi; f) calcari grigiastri. Segue in alto la scaglia rossa. Incerti sono anche i ritrovamenti di fossili, di cui si hanno citazioni, oltre che dal FuorTERER, anche dal BoEHm 1). Gli strati 8) contengono numerose Caprine, Radioliti e Nerinee; una delle prime è da avvicinarsi alla Caprina schiosensis Bornm ?). Gli strati d) contengono secondo FuTTERER *): Apricardia Pironaì BoEHw, Ncerinea Jaekeli Futt., Ostrea sp., Caprina sp.j secondo il BoEHM *), numerose Radioliti e Caprine, tra le quali la Caprinula Di Stefanoì n. sp. Gli strati e) secondo il FUTTERER contengono kadioliti, Coralli ed Ostree. Dalle parole del FurTERER non si comprende quale potenza abbiano i calcari a) ed f); è certo che i banchi 5), c), d) ed e) sono poco po- tenti e cronologicamente devono rappresentare un solo livello, infatti di essi quelli che sono fossiliferi mostrano faune analoghe. Quanto all’età, quando si. persi che l’Apricardia Pironai BorHm, la Nerinea Jackeli FutT. e la Caprina schiosensis Boram sono proprie del Col dei Schiosi, e la Caprinula Di Stefanoì BorHM è stata descritta *) dalla Bocca di Crosis, da un livello che, come vedremo, corrisponde a quello di Schiosi, è le- cito dedurre che a questo stesso, cioè al Turoniano inferiore, spetti pure la breve serie di calcari fossiliferi della Forcella La Croce. Evidente- mente, i calcari a) sottostanti, e quelli f) soprastanti, devono rappre- sentare altri livelli del Cretaceo, dei quali ulteriori ricerche faranno trovare assai probabilmente fossili caratteristici. Infine nella parte più orientale della stessa ellissoide il torrente Colvera ha inciso una profonda valle, nella quale il FuTTERER °) ha os- servato la seguente successione dal basso all’alto: a) calcari a grana fine, con fossili indeterminabili; 6) calcari bianchi fossiliferi; c) calcari grigiastri, con fossili indeterminabili; d) calcari bianchi fossiliferi; 1) BorHm G. Beitrag zur Gliederung ecc., 1897, pag. 165-166. vi 1597 papi l60, i 3) FuTtTERER K. Die Gliederung ecc., 1893, pag. 856; Ueber einige Versteine- rungen ecc., 1896, pag. 261-262. i) BorHM G. Beitrag zur Gliederung ecc., 1897, pag. 165. 5) Ivi, 1897, pag. 176. 6) FUTTERER K. Die Gliederung ecc., 1893, pag. 858-860. INTRODUZIONE ALLO STUDIO DEL CRETACEO FRIULANO 21 e) calcari grigi, compatti; f) calcari bianchi, compatti, fossiliferi (10 metri); g) calcare grigiastro (0,50 m.); h) calcari bianchi, compatti, fossiliferi (15 metri); i) calcari grigiastri, con fossili indeterminabili (5 metri); j) scaglia rossa. Negli strati 6) il FurreRER ha osservato numerose sezioni di Cu prine e più rare di Eadioliti; il BorHM !), confermando ciò, aggiunge che un banco è addirittura pieno di Ostrea aff. Munsoni HiLL, che, come abbiamo visto, cade in sinonimia della Chondrodonta Joannae CHOFF. del Turoniano. Dal livello d) il FUTTERER cita numerose impronte di Radioliti e di Ippuriti; di questi secondi però il BoEHM nega l’esistenza in modo assoluto. FRadiolità sarebbero pure secondo FuTTERER nei li- velli ancora superiori f) ed 4); in questo poi il Boram ?) avrebbe raccolto un grosso /roceranus, ed osservato numerosi esemplari di una Rudista affine alle Radioliti e che ha descritto come Joufia reticulata n. gen., MW spi): L Da questi pochi documenti si può soltanto dedurre che il livello d) con le sue Caprine e la Chondrodonta Joannae CHOFF. corrisponde a quello del Col dei Schiosi, cioè, per quanto abbiam visto, al Turoniano inferiore; e che gli strati c)-i), sormontati in concordanza dalla scaglia rossa, devono rappresentare l’Angumiano e tutto il Senoniano, come forse una ricerca ed uno studio più diligenti di fossili potrà dimostrare. 11. — Il Cretaceo delle ellissoidi tra la Meduna ed il Tagliamento. Ancora più rare sono le osservazioni, almeno un po’ sicure, sulla successione di livelli litologicamente diversi in quella ellissoide cretacea | che viene a giorno dalla valle della Meduna fino all’altezza di Clauzetto. Da quanto FurtERER *) ne ha scritto, sembra che dal basso all’alto si abbia la seguente successione: ni a) calcari inferiori; 5) calcari bituminosi a lastre; 1) BoeHM G., Beitrag zur Gliederung ecc., 1897. pag. 167. 2) Ivi, 1897, pag. 168. >) Ivi, 1897, pag. 180, tav. V, fig. 3, tav. VI. ‘) FuTtTERER K. Die Glsederung ecc.; 1893, pag. 363-868. 22 G. DAINELLI c) calcari fossiliferi a Caprine; d) vari livelli di calcari fossiliferi a Iadioliti ed Ippuriti; c) scaglia rossa. Sono stati più volte citati fossili da questa ellissoide; ma, se pure permettono, da una parte, la individualizzazione del livello c), non la- sciano chiaramente vedere quanti sieno e come si succedano i livelli d), che per comodità ho riunito insieme. Corrispondentemente al livello c) il FuttERER ha raccolto !) alla Ca- sera Fossor, presso il Monte Ciaurlec, e descritto 2) Caprina schiosensis BorHm, Caprinula sp., Pinna ostreaeformis n. sp., Apricardia sp., Nei- thea sp. Dalla stessa località il BorHm 8) cita pure la sua Caprina schio- sensis, Ostrea aff. Munsoni Hicn., Spondylus cfr. Requieni, rari esem- plari di Apricardia, e due valve superiori di Hippurites. Altrove, presso Casera Ferrara, il FuTTERER 4) cita dallo stesso livello anche un Echi- nide (Ananchytes 2). Si può supporre che qui pure vadano uniti il cal- care bianco con Pecten e Cydaris, che il Pirona *) ha citato da Ponte Racli, sotto al livello ippuritico, ed il calcare ad Ostrea osservato dal TARAMELLI *) al Toppo. Comunque, si hanno le seguenti specie: 1.° Caprina schiosensis BorgMm, del noto giacimento del Col dei Schiosi, che noi abbiamo concluso poter attribuirsi al Turoniano inferiore. 2.° Pinna ostreaeformis Futt. ed Ostrea cfr. Munsoni Hinn., le quali cadono in sinonimia °) della Chondrodonta Joannae CHorr., del Turoniano. 3.° Spondylus cfr. Requient MatA., del Turoniano È). Le prime due specie ed i generi Caprinula e Netthea, rappresentati ma non determinati specificamente, indicano la corrispondenza del livello c) al noto giacimento del Col dei Schiosi, alla quale non si oppone l’età della terza specie; le due valve superiori di Hippurites potrebbero rap- presentare il livello ippuritico (Turoniano superiore), che al Col dei Schiosi sovrasta immediatamente al livello a Caprine. 1) Ivi, 1893, pag. 866. | ?) FUTTERER K. Ueber einige Versteinerungen ecc., 1896, pag. 256-260. 3) BorHM G. Beîtrag zur Gliederung ecc., 1897, pag. 169-174. 4) FuTtTERER K. Die Gliederung ecc., 1893, pag. 865. 5) PiRONA G. A. Lettere geologiche ecc., 1856, pag. 13-14. 6) TARAMELLI T. Catalogo ragionato ecc., 1877. ?) CHoFFAT P. Recueil ecc., Espèces ecc., 1901-02, pag. 157. 8) PARONA C. F. La fauna coralligena ecc., 1909, pag. 166. INTRODUZIONE ALLO STUDIO DEL CRETACEO FRIULANO 23 Sicuramente al di sopra del livello c), ma probabilmente spettanti a vari livelli, sono gli strati contenenti, secondo riferiva il FUTTERER !), Ippuriti e FRadioliti. La località più rieca di fossili appare, allo stato attuale delle cono- scenze, essere nelle vicinanze del Ponte Racli sulla Meduna. Anche il BorHm ?) vi osservò Ippuriti, Radioliti ed Apricardie. Il PiRoNA ne citò già in vari suoi scritti *) alcune specie; tra le quali riporteremo qui sol- tanto quelle nominate più di recente ed accettate poi anche dal Tara- MELLI *): Hippurites cornuvaccinum Bronen., H. dilatatus DerR., H. sul- catus DEFR., Caprina Aguilloni D’ORB. A proposito di queste specie si veda quanto re abbiamo detto, dove si è parlato dei dintorni di Bar- cis: una di esse (Plagioptychus Arnaudi Douv. = Caprina Agquilloni D’ORB.) rappresenterebbe l’Angumiano, una (Hippurites Oppeli Douv.= H. dilatatus DerRr.) il Senoniano inferiore, e due (H. cornu-vaccinum Bronn ed H. sulcatus DEFR.) il Campaniano. D'altronde il FuTTERER ?) dalla stessa località del Ponte Racli de- scriveva: Hippurites Medunae n. sp., H. gosaviensis Douv., e var. sulcata, H. inferus Douv., Apricadia tenuistriata n. sp., intorno alle quali specie Si può osservare: 1.° Hippurites Medunae Furt.: come specie nuova, ha. poco signifi- cato cronologico; se mai, le sue assai grandi analogie con 1’ H. Oppeli Douv. potrebbero far pensare, per quanto abbiamo visto, al Senoniano inferiore. A° meno che non sia addirittura questa stessa specie, che abbiam trovato tante volte citata per la Creta friulana. 2.° Hippurites gosaviensis Douv.; per quanto si è detto innanzi, in- dica l’Angumiano superiore. 3.° Hippurites gosaviensis Douv. var. sulcata. Sieno, o non sieno ap- partenenti all’ H. sulcatus DEFR. 6) i fossili di Gosau che così determinò lo ZirtEL °) coi quali il FutTERER 8) identifica i suoi, importante, per- 1) FortTERER K. Die Gliederung ecc., 13893, pag. 863-868. 2) Bornm G. Beitray zur Gliederung ecc., 1897, pag. 168. 3) Pirona G. A. Lettere geoloyiche ecc., 1856, pag. 13-14; Cenni geogno- sticì ecc., 1861, pag. 281-284; Le Ippuriti ecc., 1869, pag. 10; La provincia ecc., 1877, pag. 41. | 4) TARAMELLI T. Spiegazione della carta ece., 1877. 5) FurTERER K. Veber einige Versteinerungen ecc., 1896, pag. 247-256. 6) DouviuL&é H. Etudes ecc., Distribution ecc., 1890, pag. 25. 7) ZitTEL E. Di Bivalven don Gosaugebilde ecc., 1866, pag. 139. 8) FortTaRER K. Ueber einije Versteinerungen ecc., 1396, pag. 253. 24 G. DAINELLI chè rimane invariata, è la loro giacitura nei livelli di Gosau, che li fa riportare al Campaniano inferiore. 4.° Hippurites inferus Douv., dell’Angumiano 1). 5.° Apricardia tenuistriata Futt.: avrebbe, secondo il descrittore ?), molti caratteri delle forme di Apricardia del Turoniano. Per l’incertezza, se i fossili citati dal PIRONA sieno stati veramente raccolti al Ponte Racli in uno stesso strato o non piuttosto provengano da più livelli come quelli, appartenenti alle stesse specie, della regione a sud di Barcis, credo prudente attenersi soltanto a quelli studiati dal FuTTERER, i quali nell'insieme indicano l’Angumiano. Si può qui ram- mentare che il Prrona *) cita la Caprina Aguilloni (cioè il Plagioptychus Arnaudi Douv.) dalla località di Pradis presso Battei, dove si avrebbe dunque un altro affioramento fossilifero dei calcari angumiani. Dall’altezza di Clauzetto al Tagliamento segue ancora un’altra ellis- soide cretacea. È però questa certamente la parte del Friuli meno cono- sciuta per quanto riguarda l’argomento che adesso cì interessa. Il TELLINI *), nella sezione naturale incisa dall’Arzino attraverso questa ellissoide, si limitò ad osservare, in basso, dei calcari dolomitici assai bituminosi ch’egli ritenne triassici, e al di sopra una potente pila di calcari cretacei. Il FuTTERER °) indicò una successione di livelli, però indeterminati cronologicamente, che è la seguente dal basso all’alto: a) calcari grigi con vene spatiche e frammenti di fossili indeter- minabili; molto potenti; ne: b) alcuni banchi di calcare grigio senza tracce di fossili, ma con “ ciottoli di calcare e di selce ,; c) calcari bituminosi in strati sottili; d) calcari bianchi, suberistallini, senza tracce di fossili. Va osservato però, che questa successione si incontrerebbe, secondo il FuTtERER, da Anduins verso il Canale di Vito d’Asio, dove al livello d) sovrasta Eocene. Ora, data la piega ad anticlinale che formano qui gli strati cretacei, è evidente che in una sezione che l’attraversi, si de- vono incontrare da prima livelli via via più antichi, poi, al contrario, via via più recenti. Onde appare chiaro che la successione presentata 4) Toucas A. Etudes eoc. des Hippurites, 1904, pag. 91. 2) FutTERER K. Ueber einige Versteinerungen ecc., 1896, pag. 255-256.. 3) Pirona G. A. La provincia ecc., 1877, pag. 41. 4) TELLINI A. Descrizione geologica ecc., 1892, pag. 21-23. 5) FuTTERER K. Die Gliederung ece., 1893, pag. 870. ae. INTRODUZIONE ALLO STUDIO DEL CRETACEO FRIULANO 25 n dal FuTTERER non è corrispondente alla realtà. Si aggiunga che dalla parte di Anduins affiora localmente la scaglia rossa sottoposta all’Eo- cene, e lo stesso si osserva sul fianco opposto dell’anticlinale, verso San Francesco; e che qui gli strati superiori dei calcari cretacei sono ric- chissimi di /ppuriti, mentre d’altronde in una grotta presso Anduins alcuni strati sottoposti all’ Eocene sono selciferi. Tutto considerato non si vede quali elementi si possono trarre dalla serie indicata dal Fut- TERER, alla quale, per quanto si è detto, si può sostituire, almeno prov- visoriamente, la seguente dal basso all’alto: a) calcari bituminosi; b) calcari bianchi e grigiastri, subcristallini, molto potenti; c) calcari con Ippuriti, e localmente selciferi; d) scaglia rossa. Quanto alle EMipsactinie che il TELLINI !) ed il FurTERER ?) hanno osservato nella regione del Monte Prat, tra l’Arzino ed il bacino di Peonis, rimangono per ora elemento di nessun valore cronologico. Il MARINELLI ) le ritiene rappresentanti il Titoniano, mentre il TELLINI si era mostrato alquanto incerto nell’attribuir loro un’età. Allo stato attuale delle conoscenze si può osservare come le E/lipsactinie non sieno caratteristiche di un piano piuttosto che di un altro ‘). Nel caso speciale poi esse sembra sì trovino non in posto, ma in blocchi quasi sempre isolati. Non si può quindi decidere se esse spettino agli strati cretacei, — e in questo caso sarebbero certamente della parte più alta della Creta, — o non piuttosto a strati giuresi, i quali per le particolari con- dizioni tectoniche della regione vengono in parte a coprire i terreni del Secondario recente. 12.—-Il Cretaceo della ellissoide del Monte Bernadia. Ad oriente del Tagliamento una nuova ellissoide cretacea è messa allo scoperto dalla incisione di tre valli consecutive: quelle del Torre e del Cornappo e la valle Montana. Le condizioni stratigrafiche ne sono state messe in evidenza nella valle del Torre dal MARINELLI 5), secondo 1) TELLINI A. Descrizione geologica ecc., 1892, pag. 81. 2) FutTERER K. Die Gliederung ecc., 1893, pag. ST1. 3) MARINELLI 0. Descrizione geologica ecc., 13891. pag. 33, nota 1. 4) PARONA C. F. Nuove osservazioni sulla fauna ecc., 1905, pag. 68. 5) MARINELLI O. La serie cretacea ecc., 1897; Descrizione geologica ecc., 1901 26 G. DAINELLI il quale la serie, riconosciuta anche dal BoeHxm !), sarebbe dal basso al l’alto la seguente ?): a) calcare con tracce di Caprinidi, Radioliti ed un piccolo Pecten; b) calcari compatti, molto potenti, con tracce di fossili indeter- minabili. c) calcare scuro, scistoso e bituminoso (20 metri); d) calcare grigio variamente compatto; e) calcare grigio, con leccature cloritiche, con piccoli Diceratidi e Nerinee; f) calcare grigio con leccature cloritiche e venature di calcite, di carattere brecciato cioè con elementi estranei; g) calcare grigio, compatto, molto potente; h) calcare grigio, fossilifero, a Caprinidi (12 metri); i) calcare grigio, compatto (metri 2, 50); 1) calcare grigio, compatto, a Radioliti ed Ippuriti (3 metri): m) calcare grigio, compatto, con tracce di fossili indeterminabili (12 metri). Riguardo ai fossili, il livello £) è certamente il più importante, giacchè vi sono stati raccolti °): Ostrea aff. Munsoni HiLL., Lima Marinelli BorHm, L. carnica Bornwm, Pecten sp., Neîthea Zitteli Pir., Monopleura efr. foro- juliensis PIR., Caprinidae sp., Caprinula Di Stefanoi BorHnx, n. sp., Ra- diolites cfr. macrodon Pir., Lucina sp., Neriînea cfr. Airoldina GEMM., N. forojuliensis PIR. Di queste specie si può osservare: 1.° Ostrea aff. Munsoni Hinu., per quanto abbiam visto è la Con- drodonta Joannae CHorr. del Turoniano, e compare al Col dei Schiosi. 2.° Lima Marinelliù BorHm: forma del Col dei Schiosi. 3.° Lima carnica Borzm: forma del Col dei Schiosi. 4.° Neithea Zitteli Pir.: forma del Col dei Schiosi. 5.0 Monopleura cfr. forojuliensis Prir.: forma del Col dei Schiosi. 6.° Caprinula Dì Stefano BorHM: forma nuova. 7.° Radiolites cfr. macrodon Pir.: forma del Col dei Schiosi. 8.° Nerinea cfr. Airoldina GeMm.: del Turoniano dei dintorni di Palermo *). | i) Boenm G. Beitrag zur Gliederung ecc., 1897, pag. 169-171. ?) MARINELLI O. Descrizione geologica ecc., 1901, pag. 22-23. 3) MARINELLI 0. Descrizione geologica ecc., 1901, pag.23; BorHM G. Beitrag zur Gliederung ecc., 1897, pag. 171, 174-179. 4) GemmeLLARO E. Nerinee della Ciaca ecc., 1865, pag. 13. INTRODUZIONE ALLO STUDIO DEL CRETACEO FRIULANO TT Evidentemente tutte queste specie mostrano che il livello %), affio- rante alla Bocca di Crosis, corrisponde al noto giacimento del Col dei Schiosi, che noi abbiamo attribuito al Turoniano inferiore. Altro livello fossilifero è quello 2) a Radioliti ed Ippuriti; unica determinazione è però quella dell’ Hippurites cfr. giganteus D° HomBR.- Firm. !), che, come abbiamo già visto, è caratteristico del Coniaciano. Nella valle del Cornappo il MARINELLI ?) osservò la seguente suc- cessione dal basso all’alto : a) calcare grigio compatto, molto potente; b) calcare bruno, scistoso e bituminoso (30 metri); c) calcare grigio, compatto, molto potente; d) calcare grigio, con venature verdognole e fossili indetermina- bili, molto potente; e) calcare grigio, compatto, molto potente; f) calcare grigio, compatto, con piccoli Diceratidi e Nerinee (1 metro); g) calcare grigio, con venature marnose verdognole; e fossili in- determinabili, molto potente; ì h) calcare grigio, compatto. Infine nella Valle Montana, dove pertanto non è sicuro che questi calcari cretacei sieno tutti o non in posto, lo stesso MARINELLI *) ha osser- vato la seguente successione dal basso all’alto: a) calcari grigi, compatti a Diceratidi, Nerinee e Coralli; b) calcare grigio, compatto; c) calcare grigio, a Coralli, Radioliti e Caprinidi; d) calcare grigio; e) calcare bianco, oolitico, con Serpula; f) calcare bianco, subcristallino, fossilifero (Cidarìs sp., Lìma Vallismontanae MARIN. n. sp., Ostrea sp., Pecten sp., Janira Sp.). 13.— Il Cretaceo tra la valle del Natisone e quella dell’Isonzo. Più complicate e più difficilmente riconoscibili sembrano le condi- zioni stratigrafiche del Cretaceo nella parte più orientale del Friuli, cioè nella zona del Natisone e dell’Isonzo. 1) BorHmM G. Beitrag zur Gliederung ecc., 1897, pag.172. ?) MARINELLI O. Descrizione geologica ecc., 1901, pag. 24-25. 3) MARINELLI 0. Decrizione geologica ecc., 1901, pag. 26-27. 28 G. DAINELLI Nella media valle del Natisone, ai monti Mia da una parte e Ma- tajur dall’altra corrisponde una nuova ellissoide, non così semplice come le precedenti, e che è stata sottoposta ad un sollevamento più intenso giacchè il Natisone stesso ne ha inciso, in basso, la dolomia triassica, e, sopra, dei calcari selciferi che in parte sono giuresi ed in parte forse cretacei. La serie quindi, secondo le osservazioni di MaRINELLI !) e di Kossmar ?) sarebbe la seguente dal basso all’alto: a) calcari selciferi, nella loro parte superiore (?); b) complesso di calcari a Rudiste; | c) marna scagliosa rossiccia con intercalazioni di calcari brecciati; d) alternanze di calcari brecciati, scisti marnosi ed arenarie cal- caree, nella loro parte inferiore. Per quanto limitate sieno le attuali nostre conoscenze, è evidente che il complesso 6) comprende vari livelli della Creta. MARINELLI e Kossmar infatti hanno osservato al Monte Mia Nerinee e Caprine; il secondo di questi autori poi, al Monte Matajur, e ad un livello ch’egli ritiene più elevato di quello a Caprinidi del Mia, ha raccolto delle Ra- dioliti, tra le quali la fadiolites excavata D’ORB., che, come abbiam visto, è attribuita al Santoniano, accanto alla £. pasiniana Pir. della quale ab- biamo detto cadere probabilmente in sinonimia colla £. Sauvagesi D’HomBr.-FIRrM., specie del Coniaciano. Questi pochi dati fanno supporre come almeno il livello del Col dei Schiosi e qualcuno Senoniano sieno fossiliferi nel complesso di calcari db). Più difficile è dire quale limite superiore spetti ai terreni cretacei. Per lungo tempo il livello d), rappresentato dall’alternanza dei carat- teristici tipi litologici dell’Eocene inferiore friulano, era stato dagli au- tori attribuito all’ Eocene stesso. Nè si opponevano a ciò i fossili cre- tacei macroscopici evidentemente rimaneggiati. Se non che il Kossmat nelle arenarie calcaree della base trovò, apparentemente in posto, delle Orbitoidi di habitus cretaceo; onde bisogna riferire alla Creta la parte inferiore di quel complesso litologico che più in alto è sicuramente eoce- nico, ed imaginare che le condizioni del mare tra la fine del Secondario ed il principio del Terziario sì mantenessero qui inalterate. Per la valle dell’Isonzo conviene, in riguardo all’affiorare dei ter- reni cretacei, distinguere due zone: una più meridionale, poco innanzi 1) MARINELLI O. Descrizione geologica ecc., 1902, pag.40; Osservazioni varie ecc., 1905, pag. 9-8. 2) KossmaTt E, Beobachtungen tiber den Gebirgsbau ecc., 1908, pag. 83. INTRODUZIONE ALLO STUDIO DEL CRETACEO FRIULANO 29 allo sbocco del fiume nella pianura friulana, l’altra più settentrionale, fra Doblar e Caporetto. Per la prima possono ancora valere in parte le vecchie indicazioni dell’HauER 1), ma specialmente quelle recenti del Kossmar?). Ivi, tra il Monte Santo e il Monte Sabotino, si può osservare la seguente succes- sione dal basso all’alto : a) calcari sottilmente stratificati e calcari scistosi, bituminosi (con pesci fossili a Mrzlek); 6) calcari grigi poveri di fossili; c) calcari grigi, fossiliferi, a Zoucasia; d) calcari giallastri con Caprina ; e) calcari bianchi a FRadioliti ed Ippuriti; f) marna rossa scagliosa con Imocerami. Si può supporre che il livello e) rappresenti il Turoniano superiore ed il Senoniano, e quello d) l'orizzonte a Caprine del Col dei Schiosi. Quanto ai tre primi livelli, che ho qui indicati separatamente, il Kos- SMAT, pur indicandone la successione, li riunisce in un solo complesso; quello che importa di aggiungere si è che questo autore afferma, che un orizzonte litologicamente simile al livello a) si ritrova anche più in ‘alto in mezzo agli strati 0) e c). Dove, però, non si capisce dal suo contesto precisamente, ma sembra alla sommità del complesso stesso, cioè tra i livelli c) e d). Quanto alla zona cretacea che si trova più a settentrione lungo la stessa valle dell’ Isonzo, credo opportuno, per meglio interpretarla, ri- portare prima la successione stratigrafica che la Creta presenta in una zona intermedia, nell’altipiano di Locovec, in regione cioè già un po’ al di fuori del territorio del quale specialmente ci occupiamo. Ivi, secondo il Kossmar ?), si avrebbe dal basso all'alto: a) calcari e scisti calcarei sottilmente stratificati e selciferi; b) calcari grigi e bianchi a Toucasia, localmente alternanti con calcari selciferi ; c) calcari a Caprina; d) calcari grigi e bianchi a Rudiste (L'adiolità). Nella zona tra Doblar e Caporetto le condizioni sono ancora un poco 1) HaueR F. Ein geologischer Durchschnitt ecc., 1857, pag. 339. 2) Kossmat F. Der kiistenlindische Hochkarst ecc., 1909, pag. 94. 3) Ivi, 1909, pag. 93-94. 30 G. DAINELLI diverse. Unendo alcuni vecchi dati dell’ HAUER !) e dello STUR?), a quelli recenti del KossMaT 3, si ha, a quanto pare, la seguente successione dal basso all’alto : a) calcari sottilmente stratificati e selciferi (“ Woltschacher Kalk , di STUR); b) calcari compatti con sezioni di Camacee; c) calcari grigiastri con intercalati banchi di calcare brecciato; fossiliferi a Rudiste. d) alternanza di marna scagliosa rossa ad Inocerami, e di banchi di calcari brecciati a Rudiste; e) calcari marnosi, arenarie calcaree, scisti argillosi, con fossili rimaneggiati. L'importanza del raffronto della successione che si osserva nell’alti- piano di Locovec, deriva dal fatto che essa permette il parallelismo tra le due serie, meridionale e settentrionale, lungo l’ Isonzo. Infatti si vede, che mentre tra il Monte Santo e il Monte Sabotino si ha inferiormente un livello a) di calcari scistosi e poi uno 6-c) di calcari più o meno fos- siliferi a Toucasia, — nella zona intermedia i calcari sottilmente stra- tificati, e qui già selciferi, del livello a) si ripetono nel successivo 5) intercalandosi nei banchi a Zoucasia, — ed infine tra Doblar e Capo- retto la sostituzione è giunta al punto estremo che i due livelli si con- fondono in uno solo, quello dei “ calcari di Volzano , di STUR. Il livello 5), in questa zona settentrionale, potrebbe rappresentare quindi l’orizzonte a Caprine; quello c), nel quale il Kossmat *) avrebbe raccolto un Hippurites cornu-vaccinum BROonN (come si è visto, della base del Campaniano), potrebbe rappresentare il Turoniano superiore e gran parte del Senoniano. Nel livello d) si ha un alternanza di marna rossa scagliosa ad Inoceramus (citati da Hauer, StuRr e KossmaT da varie località), e di banchi di calcare brecciato a Rudiste: Kossmar °) dai pressi di Santa Lucia ne cita alcune specie, intorno alle quali si può osservare: 1.° Joufia reticulata BorHMm; come abbiamo visto, questa specie è stata descritta su esemplari raccolti, insieme ad Inocerami, nella parte 4) HAUER F. Ein geologischer Durehschnitt ecc., 1857, pag. 333-336. 2) Stur D. Das Isonzo-Thal ecc., 1858, pag. 346-350. 3) Kossmat F. Geologie des Wocheinertunnels ecc., 1907, pag.57; Der kù- stenlindische Hochkarst ecc., 1909, pag. 94-96, 98-99. 4) KossMmaT F. Der kiistenlindische Hochkarst ecc., 1909, pag. 98. 5) Ivi, 1909, pag. 98. INTRODUZIONE ALLO STUDIO DEL CRETACEO FRIULANO 31 più alta (a 5 metri sotto la scaglia rossa) del calcare a Rudiste, nella valle del Colvera. 2.° Hippurites sulcatoides Douv., è del Campaniano !). 3.° Hippurites variabilis Mun.-CHALM.; è stato raccolto nei livelli più alti del Campaniano ?). 4.° Hippurites aff. Lapeirousei GoLpr.; forma molto diffusa e ca- ratteristica del Dordoniano è). Da ciò pare si possa concludere che il livello d) rappresenta la parte più alta del Senoniano. Infine il livello e), il quale passa in alto, con le stesse forme lito- logiche, nell’ Eocene, contiene in basso delle Orbitoides di habitus tale, da farlo ritenere rappresentante del Senoniano più elevato. Notisi qui che fossili cretacei rimaneggiati si trovano non solo nel livello e) e nel soprastante Eocene (conglomerato pseudo-cetaceo), ma anche nel livello d) dove, accanto a Rudiste in posto, si osservano, per esempio, Caprine rimaneggiate, appartenenti originariamente a livelli ancora inferiori. 14. — Il Cretaceo del Colle di Medea. Un affioramento isolato di strati cretacei fossiliferi è quello ben noto di Medea presso Cormons. Ivi, secondo il PrronAa ‘) si può osservare la seguente successione dal basso all’alto : a) calcare grigio, ceruleo o bianco con rare Rudiste e molte Fo- raminifere microscopiche; 5) strati molto ricchi di Rudiste ; c) strati meno ricchi di Rudiste; d) calcare grigio nerastro a grossi strati, senza fossili. I livelli 6) e c) hanno dato un gran numero di fossili, e cioè, stu- diati, aleuni Echinidi e molte Rudiste. Negli Echinidi il TARAMELLI 5) riconobbe un Catopygus Medeae n. sp. che avrebbe delle affinità col CO. carinatus Agass. del Cenomaniano ‘%), un Catopygus nucula n. sp., ed un Botriopygus sp. che mostrerebbe 1) Toucas A. Etudes ecc. des Hippurites, 1903, pag. 60. \ityiz1903, pag.52. 5) Ivi, 1903, pag.53. 4) PIiRonA G. A. Le Ippuritidi ecc., 1869, pag. 11. 9) TARAMELLI T. Sopra alcuni Echinidi, ecc., 1869, pag. 29-31. 6) D'ORBIGNY. A. Prodrome ecc., 1850, vol. II, pag. 178, dda G. DAINELLI delle affinità col B. Toucasanus D’ORrB. del Turoniano !). Per quanto il TARAMELLI non faccia ipotesi sull'età degli strati, da cui provenivano questi fossili, oltre il riferimento alla Creta, pare lecito dalle analogie da lui riscontrate si possa pensare al Turoniano inferiore. Le Rudiste, come più numerose, ebbero anche più ampia illustra- zione. Il PiroNA ?) prima citò Radiolites lumbricalis D’ORB., R. angulosus D’ORB., e Sphaerulites ponsiana D’ORB., e descrisse una Synodontites Stoppaniana n. sp. Poco di poi, oltre alle precedenti, egli descrisse ampiamente le seguenti specie 3): Sphaerulites Meneghiniana n. sp., Sph. Visianica n. sp., Sph. Pasiniana n. sp., Sph. Guiscardiana n. sp., Sph. Beaumonti BarLE, Sph. medeensis n. sp., Sph. Catulli n. sp., Sph. ponde- rosa n. Sp., Radiolites Zignana n, sp., R. Gastaldiana n. sp., È. Tara- melliù n. sp., R. fascicularis n. sp., E. Massalongiana n. sp., È. mo- noptera n. sp., È. trialata n. sp., Synodontites Stoppaniana n. sp. var. vittata, S. forojulicnsis n. sp. Assai più tardi il Toucas ‘) citava dalla classica località: Praeradio- lites excavatus D'’ORB., Pr. Ponsiì D’ARCH., Fadiolites Sauvagesi D’HomBR.- Firm., FE. squamosus D’ORB., L. angeioides Lam., Biradiolites cfr. Sharpei BayLE, £. lombricalis D’ORB., B. cfr. angulosus D’ORB., B. cfr. canalicu- latus D’ORB.; e altrove °): Agria fascicularis Pir., A. excavata D’ORB., Radiolites Sauvagesi D’HomBr.-FiRM., È. squamosus D’ORB. (= R. Zignoi Pir. n. sp. e £. Gastaldi PIR. n. sp.), R. Guiscardi Pir. Di tutte queste specie, alcune si prestano a qualche osservazione, e cioè: | 1.° Agria fascicularis Pir. n. sp.; è stata poi riscontrata a Gati- gues (Gard) nel Coniaciano 9). 2.° Agria excavata D’ORB.; è del Santoniano ?). 3.° Praeradiolites Ponsi D’ARrcH.; propria dell’Angumiano *). 4.° Radiolites Sauvagesìi D’ HomBr.-Firm., nella quale cade in si- nonimia la Sphaerulites Pasinii Pir. n. sp., è del Coniaciano °). ", 1) TARAMELLI T. Sopra alcuni Echinidi ecc.,1869, pag. 31. 2) PIiRONA G. A. Synodontites ecc., 1867. 3) PIRoNA A. G. Le Ippuritidi ecc., 1869. 4) Toucas A. Sur l’àge ecc., 1905, pag. 526. 5) Toucas A. Etudes ecc. des Radiolitidés, 1907, pag.22,27; 1908, pag. 66, 2, 6; S).Ivi, 1907, pag.22: Si Lva, 1907; pag.9L. Ivi; 1907, pae 27 9) Ivi, 1908, pag. 66. INTRODUZIONE ALLO STUDIO DEL CRETACEO FRIULANO 33 5.° Fadiolites squamosus D’ORB., nella quale cadono in sinonimia, tutt'al più come varietà, la Radiolites Zignoi PiR. sp. n. e la R. Ga- staldi Pir. sp. n., è del Santoniano 1). 6.° Ladiolites Guiscardi Pir. sp. n., è stata ritrovata poi a Beaus- set ed alla Montagne des Cornes (Aude) nel Santoniano ?). 7.° Radiolites angeioides Picor., come abbiamo visto, sta al limite tra il Santoniano ed il Campaniano. 8.° Sauvagesia Sharpei BarLe, del Ligeriano 8). 9.° Biradiolites lombricalis D’ORB., dell'Angumiano inferiore 4). 10.° Biradiolites angulosus D’ORB., dell’Angumiano superiore °). 11.° Biradiolites canaliculatus D’ORB., del Coniaciano 5). È difficile trarre da ciò qualche indicazione sicura sopra l’età degli . strati fossiliferi di Medea: una specie sembra propria del Ligeriano, tre lo sono dell’Angumiano, 3 del Coniaciano, 3 del Santoniano, ed una si trova al limite fra questo e il Campaniano. E siccome sembra strano che si abbia qui la commistione di forme che altrove fin ora sono state trovate solo in orizzonti ben definiti, vien fatto di pensare che a Medea sì possano distinguere più livelli, per lo meno in basso uno Turoniano e in alto uno del Senoniano inferiore, corrispondentemente ai due li- velli fossiliferi 6) e c) dal PIRONA. Il MARINELLI °), su la fede di un manoscritto del TARAMELLI riguar- dante il Cretaceo dei dintorni di Monfalcone, ritiene che gli strati fos- siliferi di Medea corrispondano all’orizzonte del Col dei Schiosi. Siccome però hò riscontrato sul manoscritto stesso, che la successione indicata dal MARINELLI non è esattamente quale resulta da quello, così la riporto qui con le debite modificazioni. Si ha dunque dal basso all’alto: | a) calcari bituminosi, sottilmente stratificati, i quali nella loro parte superiore presentano numerose Nerinee; 5) [localmente] banchi pieni di Ostrea; c) calcari con la fauna di Medea (oltre le nuove specie di PIRONA anche il Biradiolites lumbricalis D'ORB.); 1) Ivi, 1908, pag. 72. 2) Ivi, 1908, pag.77. 3) Toucas A. Classification ecc., (Sauvagesia ecc.), 1908, pag. 57. Ly 1908, pag.bT. +) vi, 1908; - pag. 57. Silvi, 1908, pag. DT. 7) MARINELLI O. Descrizione geologica ecc., 1901, pag. 44-45. Sc, Nat., Vol. XXVII 3 34 G. DAINELLI d) calcari a Rudiste (specie non di Medea) e Terebratula sp. Non è, in sostanza, che escluso un livello intermedio tra c) e d), e che sarebbe, secondo MarINELLI, dato da “ calcari con Hippurites cornu- vaccinum ,; mentre il TARAMELLI nel suo manoscritto si limita a dire che nei calcari a Rudiste, senza indicare a quale livello, ha osservato anche sezioni di Hippurites. In conclusione si può essere autorizzati a vedere, come già ho detto, nei piani 6) e c) di Medea il Turoniano su- periore, il Coniaciano ed il Santoniano, rappresentati nei dintorni di Monfalcone da quello c) e forse dalla parte inferiore di d); mentre sol- tanto qui, nei banchi ad Ostrea che non è improbabile sia la solita Chodrodonta Joannae CHoFr., si potrebbe vedere rappresentato il noto orizzonte fossilifero del Col dei Schiosi (Turoniano inferiore). 15.- I fossili del così detto congiomerato pseudo-cretaceo. Indipendentemente dall’età che si voglia attribuire a quel complesso di forme litologiche noto specialmente sotto il nome, usato dagli autori, di conglomerato pseudo-cretaceo, — si debba cioè esso riportare per in- tero alla Creta od all’ Eocene, o parzialmente all'una e all’altra età, — in ogni modo interessa esaminarne brevemente quei fossili, che son senza dubbio cretacei. DI La località fossilifera più nota è quella di Vernasso presso Cividale, dove il Tommasi !) ritenne gli strati in posto, mentre il MarINELLI *) li credè senza radici cioè costituenti un klippe, in senso geologico, dentro ai terreni eocenici. Comunque, gli strati fossiliferi presentano la seguente successione apparentemente dal basso all’alto *): | a) calcare ad Exogyra, biancastro, molto compatto (4 metri); b) calcare fetido, nerastro o bianchiccio, a volta glauconioso, fos- silifero (3 metri); c) calcare giallastro, compatto a Echinidi e Foraminifere (4 metri). Il livello mediano è quello che ha dato in quantità fossili animali e vegetali: studiati i primi dallo stesso Tommasi 4), i secondi dal Bozzi °). 1) Tommasi A. Sul lembo cretaceo ecc., 1889; 1 fossili senoniani ece., 1890-91. ?) MARINELLI O. Il Senoniano di Vernasso ecc., 1904. ®) TommAsI A. I fossili senoniani ecc., 1891, pag. 1090. 4) Ivi, 1891, pag.1092-1115. 5) Bozzi L. Sulle filliti ecc., 1889; La flora cretacea ecc., 1891, pag. 372-379. _ INTRODUZIONE ALLO STUDIO DEL CRETACEO FRIULANO 35 Il livello a) dette una Exogyra sp., che secondo il PiRoNA, a quanto ne riferisce il MARIANI !), avrebbe caratteri comuni colla E. Mermeti Cogo. del Cenomaniano e colla E. auricularis WaALBH. del Senoniano in- feriore; in ogni modo, non prestandosi ad una determinazione, non credo possa avere gran significato cronologico. Il livello c) dette, oltre alle Foraminifere, un Hemiaster sp. e la Ci- daris papillata Mant. del Turoniano e Senoniano. La fauna del livello 6) è la seguente: Dercetis sp.-(genere che se- condo il Bassani *) proverebbe la Creta superiore), Buchiceras sp. cfr. Ewaldi von Buca (Senoniano), Volutilithes subsemiplicata D’ORB. (Seno- niano), Ceratosiphon Caroli-Fabriciî n. sp., Cerithium Margaritae n. sp., Natica cfr. bulbiformis Sow. (Turoniano e Senoniano), Turritella sp., Pholadomya granulosa Zrrt. (Senoniano), Ph. (Liopistha ) aequivalvis GoLpr. (Senoniano), Ph. Augusta n. sp., Ph. Comottii n. sp., Ph. Vari- scoù n. sp., Venus faba Sow. (Turoniano e Senoniano), V. Leussiana GrIN. (Turoniano), Tapes vernassina sp. n. e var. elata, Astarte promissa n. sp., Cardita cfr. tenuiscosta Sow. (Turoniano e Senoniano), Inocera- nus Cripsiù MAnT. (Senoniano), Avicula pectinoides Reuss (Senoniano), Pecten membranaceus Nirss. (Turoniano e Senoniano), P. cfr. Nilssoni GoLpr. (Turoniano e Sononiano), P. n. sp., P. sp. Le conclusioni a cui posson trarre questi fossili sono, secondo che il Tommasi 3) ha mostrato con opportuni raffronti, che la fauna di Ver- nasso rappresenta il Senoniano, e forse più particolarmente la sua parte inferiore. | La flora raccolta nello stesso livello 5) è costituita dalle seguenti specie: Sequoia concinna HeeR, S. ambigua HER, Cunninghamites ele- gans EnpL., Cyparissidium gracile Heer, Frenelopsis Konigii Hostus, Araucaria macrophylla n. sp., Arundo Groenlandica HEER, Rhus antiqua n. sp., Myrica Vernassiensis n. sp., Phyllites proteaceus n. sp., Ph. pla- tfanoides n. sp. Le conclusioni cronologiche alle quali il Bozzi 4) fu in- dotto da questa flora da lui studiata sono ch’essa appartenga al Seno- niano; ciò concordemente a quanto la fauna aveva pure mostrato al TOMMASI. 4) Mariani E. Appunti sull’Eocene ecc., 1892,pag.9. 2) Bassani F. Avanzi del genere Dercetis ecc., 1895, pag. 14. 3) Tommasi A. I fossili senoniani ecc., 1891, pag. 1116-1119. 4) Bozzi L. La flora cretacea ecc., 1891, pag. 381-382, 36 G. DAINELLI Altra località ben nota, dalla quale provengono fossili del conglo- merato pseudo-cretaceo, è quella di Subit a nord di Attimis. Al Pi- RONA !) si deve la illustrazione di questa fauna rimaneggiata, la quale resulta delle seguenti specie: Hippurites cornu-vaccinum BRONN, H. bio- culatus Lam., H. organisans MontTF., H. Giordanti PiR. n. sp., Pironaea poylstylus Pir. n. sp., Radiolites forojuliensis PiRr. n. sp. j Intorno a queste specie si possono fare alcune poche osservazioni : 1.° Hippurites cornu-vaccinum BRONN, per quanto abbiam visto, è proprio del Campaniano inferiore. 2.° Hippurites bioculatus LAM., come si è già detto, pure del Cam- paniano inferiore. 3.° Hippurites organisans MoNTF., proprio di una zona ben deter- minata al limite del Santoniano e del Campaniano ?). | 4.° Pironaea polystylus Pir. n. sp.: è stata poi citata da altre località, cioè da Cuatretonda in Spagna 5) nel Dordoniano, da Cserevitz- Graben in Slavonia ‘) nel Garumniano, e dal Capo dal Leuca °) nel Dor- doniano. Il DouviLLé °), che ha avuto in esame dal PironA fossili di Subit, per l'associazione di alcune Orbitoides li ritiene pure rappresen- tanti del Dordoniano. 5.° Hippurites Giordanii Pir. n. sp.: secondo il DouviLLÉ °) pre- senta molte analogie con una varietà dell’ H. gosaviensis Douv., che, come abbiam visto, sembra proprio dell’Angumiano. Concludendo, i fossili raccolti nel così detto conglomerato pseudo- cretaceo rappresentano vari livelli della Creta: la faunula e la florula speciali di Vernasso indicano sicuramente il Senoniano, e forse la sua parte inferiore. D'altronde le Rudiste di Subit starebbero a provare certamente la parte più bassa del Senoniano superiore, cioè il Campa- niano (Hippurites cornu-vaccinum Bronn, H. bioculatus Lam., H. organi- sans MonTr.), probabilmente anche la sua parte più elevata o Dordo- niano (Pironaea polystylus Pir.), e forse l’Angumiano se l’ Hippurites 1) PiRoNnA G. A. Sopra una nuova specie di Hippurites ecc., 1868; Sopra una nuova specie di Radiolite, 1875; La provincia ecc., 1877, pag. M- 42; Sopra una particolare ecc., 1880. 2) Toucas na Etudes ecc. des Hippurites, 1903, pag. 36. 3) NIicKLES E. Etudes géologiques ecc., 1891, pag. 94. 4) HriLlBER V. Pironaea Slavonica, 1901. 5) DAINELLI G. Appunti geologici ecc., 1901; Vaccinites ecc., 1905. 6) DouviLLÉ. Etudes ecc., Revision Di 1894, pag. 108. 7) Ivi, 1890, pag. 29. INTRODUZIONE ALLO STUDIO DEL CRETACEO FRIULANO 37 Giordanii Pir. si può riportare ad una varietà di Gosau dell’H. gosa- viensis Douv. 16.—Omologazione delle varie serie locali e caratteri generali del Cretaceo friulano. Terminato così l’esame e la critica dei dati stratigrafici e paleontolo- gici che si posseggono oggi giorno sulle varie serie locali del Cretaceo friulano, si può tentare di omologarle, per avere un’idea complessiva sul vario sviluppo e sui vari caratteri di tali terreni nell’intera regione. Il modo più opportuno di far ciò è sicuramente quello di riunire i singoli dati in una sola tabella, come ho qui cercato di fare (vedasi quadro alla fine della memoria). Certo, non era sempre facile, in base a dati spesso insufficienti e talora anche mal sicuri, costruire una tale tabella, nè io mi nascondo le im- perfezioni più o meno grandi, ch’essa può presentare. Un tentativo di questo genere già aveva fatto il FuTTERER !), ma per un numero assal più piccolo di serie locali e sopra un numero anche minore di dati paleontologici, i quali sono venuti accrescendosi notevolmente soltanto in questi ultimi anni. Prima di paragonare, eventualmente, i sincronismi indicati da tale autore con quelli preferiti da me, valgano alcune poche spiegazioni in- : torno alla mia tabella. In essa ho riportato tutte le serie locali esaminate nei precedenti paragrafi, e indicato anche i livelli rappresentati dai fossili del così detto conglomerato pseudo-cretaceo, cioè da quei fossili cretacei rimaneggiati in terreni sicuramente eocenici. Nelle serie locali ho indicato con una linea orizzontale più marcata il limite visibile degli strati: cioè in basso, il limite inferiore di quelli affioranti, in alto, il limite superiore di quelli conservati. Similmente ho indicato se le serie si continuano, con strati affioranti, sia nel Giura, sia nell’Eocene. In quattro casi questo poggia su livelli cretacei, che non sono dei più alti nella serie cronologica: un segno speciale indica i livelli mancanti. In alcuni casi ho creduto di poter limitare cronologicamente alcuni speciali orizzonti fossiliferi; in altri invece, quando non si aveva indi- cazione precisa della provenienza di fossili, di età diversa, raccolti in i) FuTtTERER K. Die oberen Kreidebildungen ecc., 1892, di fronte a pag. 58. 38 G. DAINELLI un solo potente complesso litologico, ho esteso questo tra l’età più antica e l’età più recente indicate dai varî fossili, segnando con una crocetta i livelli più speciali rappresentati da questi. Talora però, quando non si avevano determinazioni specifiche di un dato complesso litologico, ho esteso questo più o meno, in base al- l’età attribuita agli orizzonti immediatamente o inferiore o superiore : qualche volta però anche per questi l’età è stata attribuita soltanto per analogia con orizzonti simili di altre serie. Un esempio servirà a mostrare il modo col quale ho costruito la mia tabella, e nello stesso tempo alcune differenze da quella del Fut- TERER: la serie, cioè, del versante occidentale del Cansiglio. FuTTERER DAINELLI Scaglia rossa ; Dordoniano Senoniano Scaglia Caleari a superiore Senoniano superiore bianca |Conocrinus + Campaniano Scaglia bianca. | Santoniano + Senoniano 3 Calcari 4 ) Calcari inferiore Senoniano inferiore a Conocrinus | Coniaciano Ie Angumiano Rudiste Turoniano a Rudiste Turoniano Ligeriano - Caleari Gul Creta media Calcari bituminosi Creta media Creta inferiore Biancone Creta inferiore Biancone In questa serie il termine più importante è dato dai calcari a £wu- diste: in essi non sono stati distinti sul posto livelli diversi, provvisti ciascuno, di fossili speciali, ma dal suo complesso provengono e sono stati descritti fossili, che fin ora si ha ragione di ritenere caratteri- INTRODUZIONE ALLO STUDIO DEL CRETACEO FRIULANO 39 stici dei varî piani del Turoniano e del Senoniano inferiore, ed an- che del Campaniano. Per questo, mentre il FutTERER limitava i calcari stessi al Turoniano, io li ho estesi in alto fino alla parte inferiore del Campaniano. | Evidentemente, però, in molti casi questa estensione, più o meno grande, è stata un poco arbitraria, come quella relativa, che, nell'esempio citato, ho dato alla Scaglia bianca ed ai calcari a Conocrinus da una parte, ed alla Scaglia rossa dall’altra. Una grande importanza, per la costruzione della mia tabella sin- cronica, ha certamente avuto la serie del versante orientale del Can- siglio, con la presenza del ben noto giacimento fossilifero a Caprine e Nerinee del Col dei Schiosi. Si è visto come per i caratteri faunistici si possa attribuire al Turoniano inferiore; d’altronde il sottostante cal- care bituminoso veniva ad essere riferito alla Creta media, come an- che, indipendentemente dalle considerazioni stratigrafiche, aveva giudi- cato il De Zieno in base ai fossili vegetali che esso contiene, secondo il TARAMELLI riferisce in varie sue opere. I calcari ancora sottostanti, e poggiati sul Giura, dovevano quindi essere complessivamente attri- buiti alla Creta inferiore. Orbene, i due livelli, di calcari a Caprine e Nerinee e di calcari bi- tuminosi sottilmente stratificati, si ritrovano in quasi tutte le serie lo- cali del Cretaceo friulano, e costituiscono quindi due orizzonti ben de- finiti e continui. Nella sezione dell’Arzino (ellissoide tra Clauzetto e il Tagliamento), il non essere indicato il livello a Capriîne dipende, credo, unicamente dal fatto che ivi le ricerche sono state più superficiali; al contrario, là dove i rilievi geologici sono stati minuziosi e pazienti, si sono fatte molte distinzioni, che io ho creduto opportuno di riunire, come nelle sezioni dell’ellissoide del Monte Bernadia, studiate dal MA- RINELLI. i Invece più incerto mi pare il riferimento al livello a Caprine, che io ho fatto, provvisoriamente, del termine inferiore della serie di Medea, basandomi sulla circostanza che il termine sovrastante contiene specie che si ritengono fin «ora caratteristiche dell’Angumiano o Turoniano superiore. Al di sopra di questi due orizzonti segue un complesso assai po- tente di calcari più o meno fossiliferi, che ho indicato come calcari a Rudiste, contenenti Ippuriti e Radioliti talora eccezionalmente abbon- danti. La serie del versante occidentale del Cansiglio mostra, come ab- 40 G. DAINELLI biam visto, che fra tali fossili si hanno specie caratteristiche fin del Campaniano, e ciò si ripete anche in altre serie; onde ad una parte più o meno grande di questo livello ho quasi sempre esteso il com- plesso litologico dei calcari a Rudiste. Non più in alto, perchè non sono mai state raccolte in posto specie sicuramente Dordoniane. Se però tale valore cronologico si può attribuire alla Pironaca polystylus PIR., pro- veniente dal conglomerato pseudo-cretaceo di Subit, bisogna pensare che almeno localmente la facies a Awudiste abbia, in alto, oltrepassato il Campaniano. In alcuni casi invece ho creduto di doverla un po’ limitare, cioè in quelle serie, nelle quali al di sopra di essa ed evidentemente inferiori alla marna rossa scagliosa, compaiono dei livelli con facies li- tologiche speciali, come la scaglia bianca ed i calcari a Conocrinus del Cansiglio occidentale, i calcari a Serpula e poi a Cidaris, Lima, Pecten ecc. della Valle Montana; forse qui potrebbero omologarsi anche i cal- cari a selci che si osservano localmente nella parte più alta della serie dell’Arzino (ellissoide fra Clauzetto e il Tagliamento). Quanto alla marna rossa scagliosa, che quasi dovunque poggia sui calcari a Rudiste, non è il caso di vedere qui, come sia stata da molti autori riferita all’ Eocene. Che rocce simili intercalino, nel Triuli, anche fra strati nummulitici è fuor di dubbio, ma si tratta di lenti più o meno limitate, di nessun apparente valore stratigrafico. Qui invece si ha un livello continuo, sempre alla sommità dei calcari a wudiste, quasi in prosecuzione della tipica scaglia rossa della regione ad occidente del Friuli; per di più nella bassa valle dell’Isonzo, al Monte Sabotino, essa contiene Inocerami che non sembrano rimaneggiati, — e nella media, a Zighino ed a Santa Lucia, contiene pure Inocerami mentre alterna con banchi di calcari a Kwudiste, gli ultimi di questa serie. Onde mi pare indiscusso, che la marna rossa scagliosa, quando si trova a questo li- vello, costituisca veramente la parte più elevata del Senoniano supe- riore, cioè della serie cretacea !). La nostra tabella mostra anche alcune deposizioni eteropiche messe in rilievo dagli autori. Il paragone delle due serie corrispondenti agli opposti versanti del Cansiglio, indica assai bene il fatto indicato dal FUTTERER, che questo altipiano segna il limite tra una zona dove la Creta 1) Mi riserbo di trattare altrove con maggiore diffusione la questione del- l’età della scaglia rossa, come pure l’altra dei così detti conglomerati pseudo- cretacei. INTRODUZIONE ALLO STUDIO DEL CRETACEO FRIULANO 41 presenta facies litologica di calcari selciferi e faunistica a Cefalopodi, ed un’altra di calcari a Camacee ed a Rudiste. Si può però osservare che tale eteropicità si limita alla Creta inferiore ed a parte del Seno- niano superiore, giacchè, per quanto ho innanzi mostrato, anche sul fianco occidentale del Cansiglio la facies a Rudiste, sia pure con minore po- tenza, deve rappresentare tutto il Turoniano e tutto, almeno, il Seno- niano inferiore. In ogni modo, a partire dal Monte Cavallo, il Cretaceo, rappresen- tato dalle ellissoidi le quali formano la prima serie di rilievi delle Prealpi Friulane, assume decisamente il carattere di un seguito di sco- gliere coralline, e lo mantiene anche più ad. oriente, oltre la nostra regione. A settentrione di queste ellissoidi, il Cretaceo stesso tecto- nicamente sì presenta invece preso in pieghe assai strette, e più o meno inclinate, o rovesciate addirittura, e, come ha mostrato il Ma- RINELLI, con facies eteropica, cioè con calcari selciferi mal distinguibili da quelli giuresi, e con marna rossa scagliosa abbastanza ben svilup- pata. Ora, anche questo passaggio si può rilevare nella nostra tabella, in quelle serie che si riferiscono alla zona delle valli più orientali, del Natisone cioè e dell’Isonzo. La serie del Monte Santo e del monte Sabotino, come quella che cor- risponde alla zona delle pieghe più esterne del Cretaceo, presenta, su per giù, la solita successione delle ellissoidi che si trovano più ad occidente. Ma se si procede alquanto verso settentrione, si osserverà che, nella serie dell’altipiano di Locovec, la Creta inferiore e media è già rappresentata da abbondanti calcari selciferi che si intercalano a quelli a Camacee. Più a nord, poi, nelle serie dei Monti Mia e Matajur e dell’Isonzo tra Doblar e Caporetto, essa è tutta quanta con la facies di calcari selciferi, mentre soltanto la Creta superiore mantiene il suo carattere di facies a Rudiste; si noti pertanto che anche di essa la parte più elevata mo- stra già delle sostituzioni di marna scagliosa ai calcari ippuritici, come sì può osservare nelle caratteristiche alternanze di questi due tipi lito- logici specialmente nella media valle dell’ Isonzo. si Queste serie più orientali mostrano ancora un fatto assai interes- sante, messo in evidenza recentemente dal Kossmat. Al di sopra della marna rossa scagliosa si adagiano, in irregolare alternanza, calcari brec- ciati, scisti marnosi ed arenarie calcaree, in mezzo ai quali da molto tempo si raccolsero fossili cretacei, segnatamente Rudiste. Questo fatto valse da prima ad attribuire alla Creta quel complesso litologico; poi, 42 G. DAINELLI come si scoperse che i fossili stessi, o isolati, o presi in massi anche di dimensioni assai grandi, erano spesso sovrapposti a calcari nummu- litici, si sostenne l’eocenicità di quel complesso medesimo e si dette il nome di conglomerato pseudo-cretaceo alla singolare formazione. Ora, il Kossmar ha raccolto al di sopra della marna rossa scagliosa del Ma- tajur e della valle dell’Isonzo, delle Orbitoides di Rabitus cretaceo; ciò che fa ritenere sicuramente che almeno la parte basale di quella alter- nanza tipica di rocce appartenga alla Creta, senza però che si possa indicare, e tanto meno rappresentare cartograficamente, il suo limite verso l’Eocene. Si può qui notare che tale riconoscimento è una prova di più che la marna rossa scagliosa appartiene al Cretaceo. Comunque, il ritrovamento di fossili cretacei sicuramente rimaneg- giati ha un grande valore per la storia geologica di questa regione. Si noti: a Vernasso, in mezzo all’ Eocene, si trova ancora immedesimata nella roccia cretacea, tutta intera una di quelle faune speciali, che ab- biam detto essersi sviluppate localmente al di sopra dei calcari a Ru- diste; a Subit, sempre in terreni eocenici, si raccolgono commiste Ra- dioliti ed Ippuriti, che, nelle specie determinate, sono caratteristiche dell’Angumiano, del Coniaciano, del Campaniano e forse anche del Dor- doniano. Ciò era stato spiegato col fatto che il mare eocenico battesse 1 terreni cretacei già sollevati, ma contrasta, bisogna aggiungere, con la circostanza, negata da alcuni studiosi, ammessa da altri e da me, ‘della continuità di sedimentazione tra Creta ed Focene; come è pro- vato dalla completezza delle due serie che si osserva in tutto il Friuli occidentale, dove fra di esse non vi ha discordanza 0, se anche si crede di vederla, è solo apparente, — e come è confermato anche da quello . stretto, intimo passaggio che si è visto avverarsi nell’ estremo Friuli orientale, dove perfino è impossibile indicare sul terreno il limite tra le due formazioni. Si deve ancora ricordare un fatto, che era stato chiaramente osser- vato dallo StuR, ma del quale da nessun autore era stato tenuto il ne- cessario conto, e che solo di recente ha confermato il KossmaT in base alle osservazioni sue proprie: nella valle dell’ Isonzo, là dove la marna rossa ad Inocerami (in posto) alterna con calcari brecciati a Rudiste (Radioliti ed Ippuriti, pure in posto), si trovano, rimaneggiati, fossili di piani cretacei più antichi, specialmente Caprine. Sì osservi d’altra parte: mentre, come abbiamo detto, nella mag- gioranza delle serie descritte Creta ed Eocene si presentano, concordanti, INTRODUZIONE ALLO STUDIO DEL CRETACEO FRIULANO 43 in continuità, senza che si possa ‘osservare un hiatus qualsiasi tra l’una e l’altro, e neppure nell’una o nell’altro, — nella serie della Valle Mon- tana l Eocene poggia direttamente sopra uno di quei calcari con faune speciali, che generalmente sono sottoposti alla scaglia rossa !); nella serie della Valle del Torre e dell’altipiano di Locovec, sopra il calcare a Ru- diste; nella valle del Cornappo, sopra il calcare a Caprine. Tutta la serie, insomma, del Cretaceo superiore, a partire dall’Angumiano incluso, può localmente mancare: ciò in rapporto appunto con quei fossili, dello stesso periodo, che si sono ritrovati nei terreni eocenici. D'altronde il Kossmar ha riferito che, poco a oriente di Santa Lucia sull’Isonzo, nella valle dell’Idrica, mentre per lo più si osserva la stessa successione corrispondente a quella da noi riportata per la zona Doblar- Caporetto, cioè si hanno, sopra ai calcari di Volzano, gli strati a Ca- prine, poi quelle a Ippuriti ecc., fino all’ Eocene, — localmente invece gli strati a /ppuriti poggiano addirittura sui calcari selciferi. Anche qui, la locale mancanza in posto dei calcari a Caprine, trova riscontro nel fatto del ritrovamento di Caprine rimaneggiate nei banchi a Ippuròti. Tutto ciò significa che le condizioni alle quali è dovuto il così detto conglomerato pseudo-cretaceo non si sono verificate durante il solo Eo- cene, ma han cominciato ad esistere almeno fin dal principio della Creta superiore. In conclusione: mentre, durante la Creta inferiore, a settentrione della attuale zona delle ellissoidi, si depositavano calcari selciferi, in relazione con le condizioni di ambiente, le quali dovevano essere quelle di un mare relativamente profondo, e mentre uguali condizioni si ve- rificavano anche ad occidente del Cansiglio, come lo provano i sedi- menti simili a questi primi, — nella zona più esterna delle attuali Prealpi friulane aveva inizio una costruzione simile alle coralligene, la quale aveva poi un’estesa continuazione più ad oriente, e che prova la presenza di un mare relativamente sottile. Nella Creta media, mentre le condizioni nella regione più setten- trionale rimanevano invariate, in questa meridionale si depositavano regolarmente calcari con resti di piante (calcari bituminosi), indizio di spiaggia vicina. 1) Questo esempio vale, naturalmente, solo se l’affioramento cretaceo della Valle Montana rappresenta roccia in posto e non già un klippe geologico: del che, come ho detto innanzi nel testo, non si è ancora sicuri. 44 G. DAINELLI Nella Creta superiore, condizioni di mare se non molto profondo, ma non certo basso, sono provate nella zona settentrionale dalla presenza della marna rossa scagliosa; nella zona meridionale, invece, prendeva ancor più grande sviluppo quella formazione di scogliere a Rudiste, che aveva avuto inizio fin dalla base del Cretaceo, e che adesso si estendeva anche più ad occidente. Doveva evidentemente aversi una costruzione, sia per deposito, sia biogenica, assai rapida e potente, tale che, avve- nendo già in un mare sottile, poteva, almeno localmente, raggiungere un livello, al quale il mare avesse modo di esercitare un’azione abra- siva. Forse al rapido crescere delle scogliere potè andare congiunto un lento ed ineguale sollevamento del fondo: il resultato si fu, che men- tre il mare deponeva e gli organismi costruivano, qua e là, contempo- raneamente, si operava un’azione demolitrice: quindi la commistione di forme ormai estinte con altre più recenti. E queste condizioni, nella continuità dell’ambiente marittimo e nello svolgersi della sua vita, du- rarono, da luogo a luogo più o meno intense, fino agli albori dell’età eocenica, dopo i quali una grande uniformità di deposito e di fauna si stabilì in quel mare ancora poco profondo. A tali conclusioni porta l’esame e la critica dei dati che oggi giorno si hanno sul Cretaceo friulano, aiutati da un po’ di esperienza che mi sono acquistato intorno alla geologia della regione. Possano la ricchezza delle faune esistenti, note o solo indicate, le molte lacune esistenti, ed il molto interesse delle questioni che qui sono state adombrate, invo- gliare alcuno allo studio paziente e diligente del Cretaceo Friulano. Firenze, Museo geologico, 18 giugno 1910. Li, 13. OPERE CITATE NELLA PRESENTE MEMORIA . AtRAGHI C. Inocerami del Veneto. Boll. della Soc. Geol. Ital., vol. XXIII, 1904. . BASSANI F. Appunti di ittiologia fossile italiana. Avanzi del genere « Dercetis » nel calcare senoniano di Vernasso (prov. di Udine). Atti della R. Accad. di Scienze Fis. e Natur. di Napoli, ser. 2, vol. VII, 1895. . Bornm G. Ueber stdalpine Kreide- Ablagerungen. Zeitschr. der deutsch. geolog. Gesellsch. Bd. XXXVII, 1885. . BoeHm G. Ueber das Alter des Col dei Schiosi. 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Bllissoide tra la Meduna e il Tagliamento Pllissoide del Monte Bernadia Cretaceo delle valli dell Natisone e dell’ Isonzo A sud di Barcis Pra Maniago e Andreis Lungo il Colvera Clauzetto- Meduna-Clauzetto agliamento Valle del Torre Valle del Cornappo Valle Montana Monti Mia-Matajur Monte Santo-Sabotino, Eocene Pocene Dordoniano __—__-; Senoniano superiore Ì Campaniano I i ie ie Santoniano Senoniano inferiore Coniaciano Angumiano; Turoniano Ligeriano 7) Marna rossa scagliosa 7) Calcari binn- chi, marnosi in strati sot- tili (Scaglia bianca) 9?) Marna Scagliosa alternante con calcari a Conocrinus alcare oolitico, luo madrepo- rico e calcare bree- cinto a Coralli, Du- sus, Pecten Bocene Pocene Altipiano di Locovee Mra Doblar e Caporetto di Meden Dintorni di Monfalcone 52-54 Fossili dell conglome- rato pseudo» — ceretaceo. Pocene Pocene Eocene Focene Pocene Pocene Pocene Focene Eocene Focene c) Marna rossa scagliosa 4) Marna rossa liosa 3) Marna rossa e) Marna rossa d) Mama rossa scagliosa d_-f) + Calcari a Rudiste, inferiormente oplitici; inferiormente Ca L * @ superiormente feri e2) Calcari Rudiste DI Calcari Rudiste D Calcari grigiastri (a Ltudiste?) af O=y) Calcari bianchi o grigiastri Rudiste b)—c) cari bianchi GIRI Calcari bianchi o grigiastri molto potenti; Itudiste superiormente ad Ippuriti et) Calcare a Capri ne del Col dei Schiosi Creta media c) Calcari scuri bituminosi d) Calcare seuro bi- tuminoso con ZFelci e Monocotiledoni Creta inferiore Giura b) Calcari chiari sel- ciferi in banchi sottili Biancone a) Calcari bianchi con filaretti sel- ciosì c) Calcare farinoso con Diceratidi è Nerinee 6) Calcare brecciato compatto con Di ceratidi e Nerinee a) Calcare grigio subeloritico Giura a) Calcari a Caprine b)—e) Calcari gvigi e bianchi 1 Caprine b) Calcari bianchi a Caprine c) Calcari selciferi n Caprine e in zone ristrette m) Calcare grigio compatto 1) Calcare a Rudiste i) Calcare grigio compatto d) Calcari brecciati, scisti marnosi ed arennrie calcaree con Orbitoides f) Marna rossa f) Calcare bianco n Cidaris, Lima, 0- rea, Pecten, ecc, e) Calcare bianco suboolitico con Serpula d) Calcare grigio c) Marna rossa sea gliosa con interca- lazioni di calcari brecciati. scagliosa a Inocerami e) Calcari brecciati, scisti marnosi ed arenarie calcaree con Orbitoides rami, alternante con calcari brec- ciati n Rudiste Ue) + Calcari Rudiste e) Calcari bianchi Rudiste d) Calcari grigi © bianchi a AL Itudiste D) Calcari grigi intercalati con banchi di calcare brecciato; a Rudiste d) Calcare grigio + Calcari a + Rudiste d) Calcari a Rudiste è Zerebratula DD) Calcari a + Rudiste d)—h) Calcari aleuni cloritici, in unlivello inferiore a Diceratidi e Ne- rinee, in uno su- periore a Caprine c)-1) Calcari grigi e cloritici con un livello a Diceratidi e Nerinee a) Calcari grigi, in banchi sot- tili, con fossili indeterminati a, Calcari a grana fine con fossili indeterminati b) Calcari bitumi- | a) Calcari nosi, a lastre minosi a) Calcari infe- riori bitu- strati c) Calcari in isti bi- sottili e sci tuminosi b) Calcari a lastre e scisti bituminosi con lenti di cal care e selce, b) Calcari grigi a) Calcari con Capri- nidi, Radioliti e Pecten. a) Calcare grigio e bianco senza fos- sili Giura a)-—c) Calcari grigi, con un livello in- feriore a Dicera- tidi e Nerinee, ed uno superiore a Caprine e Radioliti D!) Calcari a Caprine e Nerinee d) Caleari giallastri a Capvine 0) Calcari a Caprine ») Calcari compatti a Chamacee a Calcari selciferi Giura c?) Calcari scistosi e bituminosi (?) c) Calcari grigi a Toucasia b) Calcari grigi po- veri di fossili b) Calcari gri Toucasia, alter- nanti con cal- cari selciferi. a) Calcari in strati sottili e sti bitu minosi con Pes a) Calcari sottil- mente stratifi- cati e selciferi, a) Calcari selciferi (calcari di Volzano) Giura Giura a) Calcare grigio o bi a Rudi: e Ron roe (2) b) Calcari ad Ostrea 2 a) Calcari in strati sottili, bituminosi TI MENAIOnA Menia & ; ‘ EMA fi pei # e ) k: (2) antabi dA # pai TAI Mars Sarge lina Caal” x. Sl "aa tue » ( si i © Kia (i 8° ra o I Dia AIAR I PNE RELA R. UGOLINI KINZIGITE DI MONTELEONE CALABRO La roccia descritta in questo lavoro e sulla cui denominazione non tutti i geologi sono d’accordo, fa parte di una ricca collezione geologica della Calabria che il chiarissimo prof. DE STEFANI fece durante l’escur- sione scientifica del maggio del 1879 e donò poi al Museo geologico di Pisa dove si conserva. Essa fu raccolta nelle vicinanze di Monteleone ed appartiene a quella serie scistoso-cristallina a granato che da questa città si distende verso nord-est costituendo senza interruzione i monti racchiusi fra Curinga, Girifalco, Vallefiorita, Palermiti, Olivadi, Capistrano e Monterosso Ca- labro. La formazione scistosa in parola, affiorante anche in altre località della regione calabrese, ebbe un primo sommario descrittore nel PILLA !). Questi difatti, nell’illustrare uno spaccato geologico dell'Appennino na- poletano diretto nel senso del meridiano della penisola, fa menzione della formazione micaceo-granatifera di Pizzo presso Monteleone, chia- mandola col nome di onfacite. Il Vom. RATE ?), a proposito della costituzione geologica della Calabria, fa anche una descrizione molto sommaria della roccia in questione, ma la considera come uno gneiss granatifero a grossa grana. E come tale fu riguardata poco dopo anche dal JERWIS 8). 1) PiLLa. Spaccato dell’ Appennino napoletano diretto nel senso del meridiano della penisola. Atti IV Riun. Scienz. ital., pag. 395. Padova, 1843. 2) Vom RatH. Geognostisch-mineralogische Fragmente aus Italien. — X. Geo- gnostisch-geographische Bemerkungen dber Calabrien. Zeitschr. d. Deutsch. geo- foetTXXNV pae 187. Berlin, 1873. 3) JERWIS. I fesori sotterranei dell’ Italia, P. II, Regione dell’Appennino e vulcani attivi e spenti dipendenti, pag. 621-2. Torino, 1874. Sc. Nat., Vol. XXVII 4 56 R. UGOLINI Devesi però al Lovisato *), parmi, il merito di averne dato una de- scrizione mineralogica. Secondo questo autore gli elementi essenziali della roccia sarebbero oligoclasio, mica e granato. E siccome a rocce simil- mente costituite della Valle Kinzig nel Granducato di Baden era stato imposto dal YFIscHER ?), sino dal 1861, il nome di Xinzigife, nome che fu bene accolto fra gli altri anche dallo stesso ZIRKEL *), il LovISsATO credette di poter proporre il nome suindicato anche per la corrispon- dente roccia calabrese. Questa venne poi più minutamente studiata dal Bucca °) sopra campioni raccolti fra Palermiti e San Nicola di Crispo; e l'esame microscopico ch'egli ne fece rivelò, oltre alla presenza dei soliti minerali essenziali: granato, oligoclasio e biotite, anche varie altre specie come sillimanite, zircone, rutilo, magnetite, pirite e ferro tita- nato; ragione per cui fu indotto egli pure come già il Lovisato a ritenere la roccia esaminata corrispondente a quella di Kinzig e quindi come una vera e propria kinzigite. Anche il DE STEFANI *) ci ha dato un breve accenno alla composi- zione mineralogica della roccia in istudio, dicendola costituita di biotite, oligoclasio e granato (almandino) in predominanza e subordinatamente di ortose e quarzo ; ma per l'abbondanza della biotite e la scarsità dell’or- tose egli preferisce considerare la roccia stessa come un micascisto gra- natifero. Con questa stessa denominazione il BusattI °) indicava poi rocce similmente costituite, sebbene provenienti da altre località della Calabria. Termino questo cenno bibliografico col ricordare che l'ing. CORTESE °), parlando della natura litologica della formazione affiorante tra Pizzo e Monteleone, nelle vicinanze di Palermiti ed a San Vito al Jonio, av- verte che la Xinzigite compatta durissima trovasi specialmente lungo la strada che va da Pizzo a Monteleone, donde appunto provengono i 1) LovisaTo. Sulle Chinzigiti della Calabria. Mem. R. Accad. Line., s. III, v. III, pag. 221. Roma, 1879. ?) FiscHER. Neu. Jahrb. f. Min., 1861, pag. 641. 3) ZIiRKEL. Lehrbuch der Petrographie, v. III, pag. 209. Leipzig, 1894. 4) Bucca. Sopra alcun? rocce della serie cristallina di Calabria. Boll. Com. geol. ital., v. XV, pag. 241. Roma, 1884. 5) DE STEFANI. Escursione scentifica nella Calabria: Iejo, Montalto e Capo Vaticano. Studio gzologico. Mem. R. Accad. Linc., s. III, v. XVIII, pag. 50. Roma, 1883. | 6) BusaTTI. Alcune rocce delle pendici nord-occidentali della Sila (Calabria). Atti Soc. tosc. Se. nat., Proc. verb., v. VIII, pag. 203. Pisa, 1893. ?) CortEsE. Descrizione geologica della Calabria. Mem. deser. d. carta geo- logica d’Italia, v. IX, pag. 70. Roma, 1895. KINZIGITE DI MONTELEONE CALABRO 57 campioni da me studiati, dimostrando così di condividere quanto a questo proposito era già stato detto dal Lovisato e dal Bucca. La roccia è di color grigio-bruno, con aspetto e struttura distinta- mente gneissica, ha grana piuttosto grossa, consistente ed è costituita di un impasto quarzoso feldispatico foggiato a bande alternantesi con grosse lamine di mica nera; il tutto intramezzato da grossi cristalli di granato roseo. Non mancano però esemplari a grana minuta dove i cri- stalli di granato pure abbondantissimi hanno dimensioni molto ridotte. La struttura microscopica è molto simile a quella che il GRUBENMANN 1) ha indicato col nome di gramoblastica e costituita di sezioni allotriomorfe dei vari minerali che formano un impasto granulare grossolano a mo- saico. I costituenti principali di questa roccia sono il quarzo, il plagiolasio, la biotite, il granato ed un minerale fibroso biancastro i caratteri del quale parmi si accordino esattamente con quelli della sillimanite. Il primo prevale per la copia sopra tutti gli altri. Vi si presenta in individui di varie dimensioni, non di rado molto minute, specie se inclusi negli altri componenti come il plagioclasio ed il granato, più spesso assai grandi. Come effetto cataclastico i grani più grossi di questo minerale mostransi più o meno fittamente attraversati da fessure che sono dirette normalmente al piano di scistosità della roccia e riem- pite quasi sempre da quarzo secondario. Tra le inclusioni del quarzo sono da ricordarsi: la biotite, il plagioclasio ed il granato. Tutti gli individui di questo minerale si presentano con estinzioni fortemente ondulate. Il plagioclasio segue per la copia immediatamente al quarzo, ma non è la sola specie feldispatica che costituisce. la roccia perchè lo ac- compagnano ortose e microclino. Ha aspetto quasi sempre fresco, contorni irregolari, sviluppo variabile e forma col quarzo un aggregato a mo- saico talora grossolano, altre volte minuto. È di preferenza geminato con legge dell’albite, ma si hanno esempi frequentissimi di geminati con le leggi albite-periclino e, sebbene più di rado, albite-Kkarlsbad ed albite- periclino-karlsbad. In queste due ultime associazioni fu però quasi sempre assai difficile il riconoscimento delle estinzioni. Nelle lamelle geminate, talora esilissime, le massime estinzioni os- servate nella zona di simmetria non superano mai i 20°. 1) GRUBENMANN. Die Lristallinen Schiefer, v. I, pag. 79, tav. I, fig. 1e 2, Berlin, 1907. 58 R. UGOLINI Le ricerchè sulla rifrazione diedero poi, nei confronti col balsamo: ad > >n essendo n» alquanto inferiore ad © del quarzo; ed in quelli col quarzo: da EE a RT RAT A O MELO (et ONE de Pei eRegia È o eee e e, 0 e e 34 e 8,22 ig i OC A ARI RR DA >. eee e RL A 25601 100, 31 A maggior conferma di ciò ho calcolato quest’analisi con il solito metodo di GRUBENMANN ed ho trovato: Analisi 7 1007 Do, Mao. oto. 59, 64 61,24 101, 39 65, 54 Me 16,70 17,15 È7:.78 11, 49 edi 8] 8, 32 ilo 7, 48 e 4 46 4, 58 11, 35 T, 34 i 4 2,40 4,27 2,76 TCS RETE ND. Ja Sal 2,27 NERO 0 9-99 3, 00 4, 83 So 97, 39 100, 00 154, 70 100, 00 1) RosenBUScH. Elemente der Gesteinslehre, III ed., pag. 599, n. 14. Stutt- fari LOTO. i 2) HEBENSTREIT. Beitrige z. Kenntniss d. Urgesteine d. n. è. Schwarzwald. ‘Imaug.-Dissert. Wiirzburg, 1878. 62 G. UGOLINI da cui: SEA O MO A Ti 65,54 5,39 2,76 14,82 0,00 3,34 1,24 4,5. 2,5 18,0... .... Ora, comé è facile di vedere riportando sopra il triangolo di Osann anche i valori a, c, f di questa kinzigite, la somiglianza nella composizione chimica delle due rocce non potrebbe essere più evidente. Esiste, è vero, fra l’una e l’altra qualche differenza nella costituzione mineralogica, ma si tratta di differenze che riguardano più che altro ì componenti acces- sori, avendosi nella roccia calabrese maggior copia di quarzo mentre che gli elementi essenziali restano sempre per tutte e due le rocce gli stessi e cioè: un plagioclasio acido che va dall’oligoclasio all’ andesina, la mica biotite ed un granato molto prossimo alla specie almandino. Per questa roccia ho creduto di potere adottare il nome di kinzi- gite, proposto, come ho già detto, dal FrscHER ed ormai da tutti accet- tato; parmi però opportuno di avvertire che, stante la copia del quarzo, potrebbe forse essere ad essa più esattamente appropriato il nome di kinzigite gneissica. Pisa, Laboratorio di Geologia dell’ Università, gennaio 1911. [a CARLO DE STEFANI SUNTO GEOLOGICO DEI MONTI LIVORNESI —_—_---_______ Nell'occasione che un mio diletto allevio, GrorGIo TRENTANOVE pub- blicava una sua seconda descrizione dei fossili Tortoniani dei Monti Li- vornesi cioè di Quarata, avevo preparato il seguente proemio al lavoro suo. Ma essendo esso riuscito un po’ più lungo del dovere, ho pensato pubblicarlo a parte, quantunque poi non contenga gran che di nuovo. Eocene. _I Monti Livornesi, sebbene occupino in superficie piccolo spazio e giungano a poca altezza, non sono a considerarsi come un monte unico il quale dal vertice più o meno lentamente e regolarmente degradi verso la periferia. È piuttosto, come ebbe a notare già il Lori, un gruppo di almeno due o tre isolette che oggi appaiono insieme unite, ma che nei più recenti periodi del mare terziario emersero dalle acque se- paratamente, intersecate da golfi e da stretti di un mare che vi depositò in mezzo i sedimenti miocenici. Infatti il Poggio Caprone (334 m.), il Poggio del Castello (321 m.) e il Monte Nero (327 m.) che stanno fra il Rio di Popogna divergente verso O., il Torrente Chioma che va-a S. O., al mare, ed il mare stesso, ven- gono separati dalla zona montuosa orientale più lunga e più alta (440 m.) che dal Poggio Corbolone va al mare, mediante i terreni miocenici che traversano lo spartiacque fra la Popogna e la Chioma dopo avere in parte riempito il fondo delle due vallette. L’ossatura delle colline è tutta formata da .terreno eocenico. Il più antico lembo è l’arenaria macigno del poggio di Calafuria sul mare, traversata da singolari filoni di quarzo, dolomite e baritina illustrati dal compianto mio amico e quasi primo maestro ALcEsTE DELLA VALLE, 64 C. DE STEFANI nella quale baritina poi ritrovasi la stibina, coi suoi prodotti di alte- razione kermes e cervantite, e con la quale furono trovate ed illustrate da A. D’AcHIaRDI la marcasite e la farmacosiderite. La parte massima del terreno è però costituita dall’ Eocene superiore, tipico del Liguriano, co’ suoi calcari da cemento, ora attivamente sca- vati, che sembrano predominare nella zona inferiore, con gli alberesi, i diaspri a radiolarie esaminate dal PANTANELLI, sovente manganesiferi, del cui contorcimento di presso il Romito dette una antica primiera figu- razione l’OmBonI, le argille galestrine identiche alle argille scagliose dell'Emilia, e qualche lente di calcare nummulitico indicata dal LoTTI presso Montenero e alla Poggia, quale suol trovarsi anco altrove in Toscana in mezzo alla stessa formazione calcareo-argillosa. Di questa stessa formazione fanno parte e vi sono talora nettamente e ripetutamente interstratificate, per es. presso il Romito sul Rio del Pian della Pineta e altrove, le diabasi verdi o arrossate, raramente por- firiche, le rare harzburgiti (a bronzite e olivina) impropriamente dette lherzoliti, per lo più alterate nelle abbondantissime serpentine a ba- stite ed enstatite, con steatite e con vene di crisotile, la rara iper- stenite serpentinosa, e i gabbri, per lo più saussurritizzati, nome che il De BucH tolse appunto alle nostre regioni, dove è pure una località detta il Gabbro. Quel nome è volgarmente dato a tutto il complesso delle rocce verdi. Il Gabbro di von BucH i geologi toscani per lungo tempo lo chiamarono eufotide, nome più recente, di origine francese. Studiarono recentemente queste roccie dal punto di vista litologico BerwERTA, Cossa, BusaATTI, CASELLA, MANASSE, UGOLINI. Il LortI accenna pure nel Poggio Caprone al granito: l’ UGoLINI mi diceva non averlo riscontrato. Calcopirite ed erubescite con tutti i minerali che derivano dalla loro decomposizione trovansi quà e là, e furono scavate nel secolo scorso a Quercianella, dove il minerale era in filoni regolari ma ristret- tissimi. Ivi presso il diallagio del gabbro fu talora alterato da emana- zioni idriche, probabilmente termali, delle quali sussistono tuttora nu- merosi residui, e fu parzialmente trasformato in ossido di cromo, a volte accompagnato da cromite. Dallo sfacimento di tali rocce serpentinose dei dintorni del Romito derivano le sabbie con magnetite, ferro titanato, cromite e peridoto del littorale di Castiglioncello che il MANASSE riscontrava. Questi terreni, giudicando dai paragoni assai stretti che possono SUNTO GEOLOGICO DEI MONTI LIVORNESI 65 farsi con depositi di origine attuale, debbono essersi formati colà, come in tutto l'Appennino settentrionale, a profondità non minori di parecchie migliaia di metri. Lo attestano i diaspri a radiolarie e i depositi man- ganesiferi simili a quelli delle regioni abissali odierne e provenienti forse come in queste dalla decomposizione delle rocce basiche vulcaniche ejettate dalle bocche eruttive che occuparono tutta la grandissima re- gione. Ai galestri rossi corrisponde forse l’argilla rossa abissale e ì ga- lestri turchini finissimi e poco calcarei e manganesiferi hanno rispon- denza nei fanghi turchini che si raccolgono fino a circa 5000 m., mentre i calcari a Globigerinae l’ hanno nei calcari simili delle profondità attuali di tutto l'Atlantico. Miocene. Durante il Miocene inferiore, del quale non si conosce traccia alcuna, le rocce eoceniche si alzarono sul fondo del mare e si conformarono a pieghe, delle quali mal si può giudicare perchè alla plicazione tettonica si è aggiunta durante il Neogene l’erosione sottomarina e sublittorale più o meno complicata,. Le pieghe appaiono piuttosto semplici, a curva abbastanza ampia, ravvicinate come brevi ellissoidi allungate da N. E. a S. O. In mezzo a queste pieghe più o meno erose, cioè in mezzo alle valli attuali rispondenti in massima ai golfi ed agli stretti miocenici, come pure tutto attorno alla periferia, compariscono i terreni del Mio- cene medio e superiore sempre discordanti sull’ Eocene, illustrati sì ma- gistralmente dal CAPELLINI, poi dal Bosniaki e ora dal TRENTANOVE. Essi hanno pure servito a numerosi studi del FucHs, dell’AnpRUSSOW, del D’AcHIARDI, del MAnzoNI, del CoccHI, del MAJOR, del Sacco, del NELLI, .dell’UsoLini, del ReBEL, CASTRACANE, Portis, del LoTtI e di altri. A N.E. di Quarata, alla Villa Maggi, alla base di tutta Ia formazione miocenica marina si trovano lenti e masse di gesso, certamente più antiche e paragonabili ai gessi alternanti con gli strati saliferi del Vol- terrano e a quelli che stanno nel così detto Langhiano dell’Ascolano e di vari altri luoghi d’Italia. Non sono perciò da unirsi con altri gessi che stanno alla cima di tutta la formazione miocenica. Ritengo che pure il gesso dei Colli presso Rosignano sia antico come questi di Quarata e sottostante originariamente, non per effetto di faglia come suppose il LoTtI, alle altre formazioni mioceniche, Nello stato attuale della scienza 66 C. DE STEFANI la presenza di tali grandiose, uniformi ed estese. masse di gesso nel Miocene, talora accompagnate da cloruro sodico, non può spiegarsi se non con l’ipotesi di un mare scarsamente o punto comunicante con l'Atlantico, o per lo meno di ampi bacini chiusi occupanti il posto del- l'odierno Mediterraneo. | Gli altri terreni del Miocene medio e superiore sono per lo più con- glomerati; calcari sublittorali a Nulliporae, cioè il così detto calcare di Rosignano; banchi di Siderastraea crenulata GoLpr. (Castelnuovo della Misericordia, Colognole, Val Benedetta, Popogna, Quarata, Gorgo); tri- poli a diatomee con specie in parte littorali e salmastrose, con pesci che il DE BosnIaKi riconobbe simili a quelli dei tripoli di Sicilia e di Orano; marne pur con pesci d’acqua dolce o salmastra, con insetti e anellidi, di carattere pur esse littorali, o gessi. Questi terreni sublittorali cingono tutte le pendici settentrionali ed orientali, fino quasi alla cima dei poggi ; 1 calcari a Nwlliporae si trovano pure in lembi nel lato occidentale verso il piano di Livorno, a S. O. lungo mare, a Castiglioncello, e nel pros- simo scoglio detto la Troia, dove ne raccolse vari frammenti fossiliferi, oggi del tutto scomparsi, il prof. CoccHI: li descrisse il NELLI, Un piccolo lembo simile a quello che costituiva il vicino, scomparso colletto di Montignoso trovai presso i Mulini di Collinaia e lungo mare sotto l’odierna villa Chayes. Più scarse alla periferia sono argille e marne sabbiose, spesso ac- compagnanti i banchi di Siderastraea, attestanti un deposito di mare appena più profondo. Le accenna il CapeLLINI a Colognole, Scaforno, Paltratico, Castelnuovo, al Botro della Giunca. Più frequenti si trovano in mezzo alle due valli indipendenti, ma divergenti da uno stesso spar- tiacque, dei torrenti Popogna e Chioma, cioè tutto attorno al Poggio Caprone, non che nella Valle Benedetta. In molti altri luoghi dove i sedimenti miocenici mancano, massima- mente per denudazione, ma sotto il livello marino d'allora, notansi nei calcari e negli schisti eocenici, da occhi esperti, quelli ingiallimenti, ef- fetto di idrossidazioni, e quelle alterazioni che soglionsi manifestare nelle roccie fino a notevoli profondità per azione delle acque marine. Che tutti i detti depositi sieno littorali, non solo, ma che le colline, oggi Livernesi, fossero allora parzialmente emerse, lo attestano le filliti e le tracce di lignite, gl’insetti terrestri, le larve di libellula e gli anel- lidi abitatori degli stagni adiacenti, gli stessi tripoli a diatomee con specie in parte littorali e salmastrose, gli strati calcarei a Lithotam- “a SUNTO GEOLOGICO DEI MONTI LIVORNESI 67 nium ed i banchi corallini a Siderastraca che accompagnano le argille i quali accennano a profondità non maggiori d’una settantina di metri. Questi ultimi banchi, per quanto limitati, ultimi residui di quelli che tanto più svariati ed estesi occupavano il Mediterraneo fino al Miocene inferiore, sono pur forse indizio che la temperatura del mare non scen- desse sotto 17° o 20° C. Gli strati salmastri a Poftamides abbastanza frequenti ogn’intorno (Scaforno, Quarata, Castelnuovo) specialmente nelle zone inferiori, potrebbero attestare che almeno durante una parte del- Panno le precipitazioni acquee erano abbondanti, più d’ora, per ali- mentare stagni e ruscelli sebbene discendenti da pendici così limitate. . La intera formazione miocenica è chiusa superiormente in Valle Be- nedetta da strati argillosi con molluschi d’acqua dolce o salmastra, con menilite e con tripoli a diatomee; da argille gessose alle Parrane; da marne con pesci c’'acqua dolce e argille gessose a Scaforno, e sono for- mazioni che attestano la permanente contiguità della terra ferma. Il TRENTANOVE ha già illustrato la bella fauna tortoniana di Popo- gna e Cafaggio. Egli pubblica ora quella parallela, sebbene rappresen-. tata da varie specie differenti, di Quarata e del Gorgo sul Quarantoio, specialmente sulla sinistra ed un poco sulla destra, nei luoghi detti Aione delle Torricelle e nel poggetto detto, dai fossili, dei Garagori. I fossili vi si trovano entro le argille e le marne giallastre, a colonie, specialmente le Lucinae e le Turritellae. Cerithium e Potamides si tro- vano alla base; comincia sopra la Siderastaea, prima in rarissimi esem- plari, poi in ampia scogliera superiormente. Lo stesso si verifica ivi presso, al Gorgo, dove agli strati a Pota- mides equivalgono conglomerati e argille lignitifere, e al Gabbro dove gli strati inferiori a Clupea gregaria DE Bosn. sono parte salmastri, parte marini. Le marne superiormente contegono cristalli di gesso a ferro di lancia. Volendo determinare l’età relativa di cotali strati e secondo la no- menclatura usuale, schematica ed in parte inesatta, si puo constatare che gli strati a Cerithium se non fossero notati sul posto, situati alla base, verrebbero attribuiti al Messiniano, che nel presente caso sarebbe sot- tostante, non superiore, alle argille rappresentanti del Tortoniano. I calcari a Nulliporae di Rosignano e di Castiglioncello, paragonati ai calcari della Leitha, e ritenuti equivalenti all’ Elveziano, contengono una fauna malacologica così recente, da farli ritenere rappresentanti delle 68 C. DE STEFANI zone più alte del miocene, il quale fatto non è strettamente d’accordo con le idee di coloro che ritengono essere la zona Elveziana alquanto più antica e sottostante al Tortoniano. Pliocene e Postpliocene. Non più nel mezzo, ma tutto all’intorno dei Monti Livornesi, eccet- tuato lungo mare, trovansi le argille marnose del Pliocene, di mare più profondo dell’età precedente, ricchissime di fossili con Pecten histrix Men. e P. oblongus Patt. (P. Defilippii StoPPANI, P. Comitatus FONTANNES). Esse sono assai alte ed estese a levante nella Valle della Fine, e meno a settentrione; ma a ponente, profondamente corrose dal mare quaternario, trovansi quasi a livello del mare attuale in bassi fondi che furono su- bacquei, spesso isolati, o coperti da pochi strati di suolo postpliocenico. Sì trovarono ai Primi Archi, al Botro della Valle grande, e quasi al pari del suolo o nelle perforozioni lungo la Cigna, alle Fornaci Anelli, nei pressi della nuova Stazione, alle Acque della Salute ed in città nei fori più profondi. Vi si trovarono scheletri di delfino studiati da CASTELLI, MANTOVANI, UGOLINI e da altri, ed altri fossili determinati dall’ APPELIUS, dal MANTOVANI e da me. Nelle stesse circostanze questi terreni furon notati dall’ UcoLINI sotto il suolo postpliocenico nell’estremo Sud dei Monti Livornesi al Giardinaccio sulla destra della Fine verso il mare. Nell’estremo Nord sovrastanno, studiati dal MENEGHINI, dal DE Amicis e da tanti altri, i calcari ad Amphistegina Targionii Mean. 0 Hauerina D’ORB., prima ritenuta una nummulite, e questi calcari sono coperti a loro volta da scarse sabbie pur plioceniche, maggiormente estese più lungi a levante, nei colli di Fauglia e di Lari. Al di sopra, nel postpliocene, ed altrove, pur sempre a Nord nelle colline di Nugola e di Vallebbiaia, compaiono sabbie e talora argille lit- torali a Cyprina islandica Lick. che veramente sono a ritenersi appar- tenenti al Postpliocene inferiore, al pari di quelle di Monte Mario e di Gallina, studiate dal Manzoni, dal GENTILUOMO, dal BusaTTI, dal LAWLEY, dal Sacco e da me. Infatti esse non solo sovrastano alle sabbie plio- ceniche ma, a differenza di queste, non contengono i caratteristici Conus, Terebrae, Pleurotomae, ecc., hanno forme che più si accostano a quelle viventi, ed hanno molto più bassa percentuale di specie estinte. Sopra lo strato argilloso fossilifero più alto del Rio di Vallebbiaia e del Val- lino stanno almeno 55 m. di sabbie gialle, quasi orizzontali, con pochi SUNTO GEOLOGICO DEI MONTI LIVORNESI 69 o punti fossili: dal Rio prendendo la strada di Piazza, nel poggetto della casa di Vallebbiaia, alla quota di di circa 88 m. è il banco fos- silifero più recente con Balanus, Ostrea, Pecten viventi e fra gli altri il Pes-lutrae L. che suol distinguere gli strati più alti del Postpliocene nell'Italia meridionale ed in Sicilia, per es. a Monte Pellegrino e Fi- carazzi 1). Le sabbie dell’orizzonte di Vallebbiaia coprono pure le marne plio- ceniche a ponente, specialmente dappresso alla collina di Salviano e di Collinaia, e si trovano anche lungo mare, sempre in strati orizzontali sopra l’ Eocene e talora sul Miocene presso Castiglioncello dove pur son 1) Recentemente il Granoux (Definition stratigraphique de l’étage sicilien. — Sur la classification du Pliocene et du Quaternaire dans l’ Italie du Sud. — Les couches a Strombus bubonius (Lck.) dans la Mediterranée occidentale. Comptes rendus d. Ac. des Sciences, 28 dicembre 1908; 29 mars 1910; 6 février 1911) sostiene che: 1.° Gli strati di Vallebbiaia, Monte Mario, ecc. rappresentano la parte più alta del Pliocene. 2.° Rappresentano un intero ciclo, cioè con strati littorali e strati di mare profondo. 3.° Sono particolarmente distinti in Calabria; perciò propone ad essi il nome di piano Calabriano. 4.° Sono distinguibili dagli strati di M. Pellegrino e Ficarazzi contenenti specie artiche, appartenenti ad nn altro ciclo, cui può conservarsi il nome di piano Siciliano, alla base del Quaternario. 5.° Succedono strati con Strombus bubonius LcK., e con altre specie del- l'Atlantico meridionale, diffusi intorno il Mediterraneo, coincidenti probabilmente col periodo di ritiro dei ghiacciai in terra ferma. La questione è stata così ampiamente trattata in Italia da 70 anni a questa parte, dai primi lavori del SEGUENZA in poi, che io avrei soltanto a rimandare l’autore alla bibliografia pubblicata nel 1905 dal De FRANCHIS nei suoi studi sul Leccese, la quale potrebbe essere arricchita dai non pochi lavori successivi. 1.° Quanto al primo punto è questione di convenzione. Certo è che gli strati di M. Mario ece., come risulta anche dall’ ultimo lavoro del CERULLI-IRELLI, e come si sapeva prima, contengono una fauna notevolmente diversa da quella dell’Astiano tipico, e con varie specie estinte che si trovano poi anche quasi tutte nel Siciliano, ne contengono una quantità assai più vicina nelle loro mu- tazioni alle forme viventi che a quelle plioceniche; ciò che non risulta sempre sufficentemente dalle descrizioni, del resto accuratissime, del CERULLI; ma che ‘ pure per varie specie, fu già messo in vista da altri. È verissimo che la Cyprina islandica si trova già in terreni attribuiti al Plocene, a Cusignano, al Rio dei Coppi e a Tabiano nel Parmense, al Rio della Gatta presso Castellarquato, non però nel Modenese: ma questi strati sono pa- leontologicamente ancora poco noti; solo si sa che stanno alla cima di altri strati veramente Astiani. Ma d’altra parte la stessa specie trovasi pure in tutto il Siciliano fino agli strati più recenti, dopo di che scompare. t 70 C. DE STEFANI fossilifere. Esse hanno una estensione ben maggiore di quella general- mente loro attribuita, perchè coprono tutta la pianura a Nord verso l’Arno, non solo intorno al Camposanto ed alla vecchia stazione di Li- vorno, ma quasi tutta la tenuta di Tombolo, traversata da fossi d’aper- tura recente, la tenuta di Coltano e la collina traversata dal brevissimo traforo della ferrovia Pisa-Livorno, gettando uno sprone fino a S. Piero in Grado dove il pozzo artesiano, a profondità di m. 104, 60, traversò un grosso strato di sabbia piena di Corbula gibba OL. In mezzo a queste sabbie stanno i Paduli delle tenute predette. Vi abbondano ovunque, fino al piede, a N. e ad O., dei Monti Livornesi, fino a Collinaia ed all’Ar- 2.° Certo fra i suddetti strati, oltre quelli littorali, tipici, ben noti, ve ne. sono altri di mare più profondo, meno conosciuti (Livorno, Lazio, Sicilia), pur con Cyprina islandica e con qualche specie estinta, ed in questo senso si può dire che essi rappresentano un ciclo intero. Ma se questo cielo si intende nel senso di MAYER, di Sacco e di parecchi geologi francesi, devesi osservare che le dette formazioni non sempre sormontano l’ Astiano in continuità: ciò avviene delle sab- bie a Cyprina in parte a Vallebbiaia, in Puglia; non a Livorno dove le argille a Cyprina sormontano argille plioceniche di mare molto profondo; non al M. Mario dove queste ultime sono sormontate dalle sabbie, non nell’ Istmo di Ca- tanzaro e nel territorio di Cosenza ed in molti luoghi di Puglia, dove le sab- bie coprono argille dello stesso piano e poi talora terreni pliocenici; non in Calabria dove la continuità tra questo piano ed il Pliocene precedente di rado esiste e non esiste per esempio a Gallina. Meno che mai è esatto che dal Pia- cenziano al Calabriano si abbiano facies di più in più littorali. L'A. non cita le argille a Cyprina od equivalenti, non littorali, non affatto Piacenziane, del Livornese, del littorale Romano, delle Puglie, della Sicilia. Certo la fauna delle sabbie Calabriane è continuazione alquanto modificata della fauna Astiana, come quella delle argille Calabriane a Nucula placentina LcK., è continuazione al- quanto modificata della fauna Piacenziana. 3.° In Calabria agli strati di M. Mario e Vallebbiaia rispondono quelli di Gallina e di Santa Maria di Catanzaro, come quelli di Sciacca e forse quelli di Caltanisetta in Sicilia. Non convengo che gli strati di Calabria rispondano in massima parte al Calabriano così inteso; anzi vi corrispondono in piccola parte. Ciò risulta dall’esame comparativo delle faune e risulta già, non so se ‘dalle fonti cui attinse il GIGNOoUX, ma certo dagli studi pubblicati più di 30 anni fa dal SEGUENZA, paleontologo valentissimo, rettificati poi in parte da me. L'A. non dà importanza alla percentuale delle specie viventi o estinte; ma dovrà darla pure alla scomparsa di interi gruppi (Mitrae, Columbellae, Terebrae, Co- nus, Murex, Pleurotomidae, Arcae, Pecten, ecc.) ed alle mutazioni delle specie dal Pliocene alla attualità. L'A. preferisce citare uno o due specie che egli crede caratteristiche; ma devesi ricordare che le faune mediterranee ed atlan- tiche nemmeno oggi sono completamente conosciute, ed alquanto meno lo sono le faune Siciliane, Calabriane ecc. Una quantità di specie credute estinte del Pliocene e fin del Miocene, o ritirate nell’ Atlantico, si vanno scoprendo quasi ogni giorno. Potrei citarne 6 o 7, (Cerithium modosoplicatum HORN., C. etru- SUNTO GEOLOGICO DEI MONTI LIVORNESI fasi denza dove fanno passaggio a grandi massi di origine locale, ed in Li- vorno stesso, ghiaie sicuramente provenienti dal Monte Pisano, ma non certo dalle lontane Alpi Apuane nè dalla valle del Serchio, osservate dal D’AcHIARDI, dal LoTTI e da me. L’Arno si fece strada a traverso a queste sabbie per giungere al mare, ed incise il golfo di Pisa, occupato per un certo tempo dal mare, che via via andò ritirandosi. La presenza delle medesime sabbie ha non poca importanza per mo- strare che un sollevamento recente si manifestò anche nella parte oc- cidentale del Monte Pisano. Qualche lembo di questo terreno trovasi infatti anche in mezzo al Vallone dei Lecci presso Uliveto, a S. O. del predetto Monte. È vero che tutti i terreni pliocenici delle valli del- scum MayER, Murex Pecchiolianus D’Anc., Enthria adunca Bronx, fossile nel Postpliocene più recente, Buccinum Dalei Sow, Neptunea contraria L., Lima tenera CHEMN. ecc. ecc.). Non v'è proprio nessuna ragione di trarre il nome di Calabriano dalla sola località di Gallina in Calabria, eccellentemente studiata dal SEGUENZA e poi da altri, e che, a farla apposta, non è nemmeno citata dal GIexoux. Il MAYER volendo, ha una caterva di nomi (Sahariano, Arnusiano, Materiano) da far sce- gliere, e nel caso il nome di Mariano proposto dal CeRULLI per le sabbie del M. Mario sarebbe preferibile. 4.° Sicuramente i detti strati sono distinguibili dal Siciliano di M. Pelle- grino ecc.; ma questa distinzione è da 40 anni la base di tutti gli studi dei geologi italiani sul Postpliocene marino. 5.° Gli strati contenenti specie dell’ Atlantico meridionale, dell'Oceano In- diano e del Mar Rosso, mancanti, pare nei terreni precedenti, erano già stati distinti e bene interpretati dal SEGUENZA nel 1880 e poi ricitati da altri, ed il SEGUENZA aveva già nominato varie delle specie citate dal GIGnoux aggiun- gendone molte più, e lasciaido fuori la Tugonia anatina che si trova già nel Miocene mediterraneo e nel Pliocene italiano. È possibile che alcune delle spe- cie citate si abbiano a trovare nel Mediterraneo, come la Atlantica Lima te- nera che prima era nota, come fossile, solo nel nostro terziario. Una Imbricaria quasi identica a specie dell’Oceano Indiano trovasi nelle argille Calabriane di Livorno. Lo Strombus bubonius trovasi col coronatus in Puglia, a Taranto ed in Pianosa ed il vero $S. coronatus giunse nel Livornese fino a strati recentis- simi sopra le argille Calabriane. Da luogo a luogo, con attento esame, si può forse stabilire una successione relativa di età fra terreni che nelle classifica- zioni attribuiamo allo stesso piano. Ma dubito assai che stratigraficamente si possano distinguere dei piani, ben netti, secondando il SeGuENZA ed ora il GI- GNOUX, in base a due o tre specie del Nord o respettivamente del Sud Atlantico, al- cune delle quali, si è visto, non sono sufficenti, ed altre sono rarissime e poco note. Gli Autori non tennero conto sufficentemente dello stato diverso nel quale ‘ doveva essere il Mediterraneo precedentemente alla nostra età. Già nel Pliocene esistono specie ritenute nordiche, oggi scomparse, insieme a grande quantita di generi e di specie assai affini ad altre del Sud Atlantico, del Mar Rosso, dell’Oceano Indiano. Le profondità dovevano essere diverse; diverse le correnti e le temperature, e più ampie le comunicazioni con gli altri mari. Nel Siciliano, 12 C. DE STEFANI l’Elsa e dell’Era hanno una lievissima pendenza di 2° a 4° verso Nord, verso l'Arno; ma ciò non esclude che pure a S. O. del Monte Pisano n si estendesse un leggiero, recentissimo, sollevamento, il quale è anche più evidente nel suo lato occidentale dove il corso dei fiumi e la even- tuale corrosione del mare non scancellarono le tracce dei terreni plio- cenici ivi ampiamente esistenti da Vicopisano e Buti a Montuolo, a di- retto contatto del Monte. Lungo il bacino attuale dell'Arno a S. E. del Monte Pisano, come ad Est di questo nei bacini di Bientina e di Fucecchio, manca comple- tamente ogni indizio delle sopradette sabbie marine o di altro terreno più recente che permetta di affermare l’estensione del mare quaternario il Mediterraneo era certo assai più profondo d’oggi, e la temperatura dei fondi dovette essere inferiore a 12° C., quale è oggi, indipendentemente dalla vici- nanza, certo efficace, dei ghiacciai. Ciò può spiegare la presenza di specie nor- diche o simili alle nordiche, le quali però sono localizzate a pochissimi luoghi nei dintorni di Palermo e in Puglia. Parmi impossibile che terreni relativamente recentissimi, così estesi, ed aventi del resto forme identiche a quelle dei luo- ghi predetti, salvo la presenza di tre o quattro specie nordiche, abbiano a te- nersi separati, solo perchè queste manchino. E parmi pure che la presenza di qualche rarissima specie littorale dell’Atlantico meridionale, tra le quali lo Strombus bubonius, più antico che il GiGNnoUX non creda, abitatrice probabil- mente delle zone marine più alte, abbia a bastare per far porre il terreno che la contiene in un piano separato dagli altri quando le faune fondamentali sono le medesime. Strati con specie del Sud Atlantico, strati con specie del Nord Atlantico, ma specialmente strati coetanei che non contengono le une nè le altre, sono tutti egualmente sottoposti o più antichi, quando si ritrovano (Calabria, Livornese, Campagna romana, Puglia, Sicilia, Grecia), alle Panchine recenti con specie at- tuali, per le quali pure, volendo, si sarebbe potuto proporre un nome nuovo, e fra le quali panchine recenti e non fra gli strati a ,S.bubonius del GIGNOUX credo vadano comprese anche le Panchine di Sardegna, di Corsica, e di Meli- sello citate dal GIGNoUX. Perciò pure non credo che gli strati con le specie del Sud Atlantico già citate dal SEGUENZA, rispondano all’ ultimo periodo di ritiro dei grandi ghiac- ciai Postpliocenici. | i Il DAINELLI trovava nei depositi glaciali della Valle dell’ Aniene quei me- desimi residui di attività del. Vulcano Laziale che presso Roma si trovano alla base dei terreni locali quaternari più recenti ed in mezzo a strati littorali ma- rini recentissimi, certo posteriori d’assai al Mariano o Calabriano, e che non hanno che fare nemmeno col Siciliano o con veri o supposti strati a Strombus. Perciò ritengo che il ritito dei ghiacciai sia piuttosto contemporaneo alle anti- che panchine di quello che agli strati del piano Siciliano che credo, sotto questo punto di vista faccia un tutto indivisibile con gli strati a specie meridionali del SEGUENZA e del GIGNnoUX. Ciò senza pregiudicare l’età relativa più recente che possono avere in alcuni luoghi, per es. in Pianosa e a Taranto, strati con S. bubonius. SUNTO GEOLOGICO DEI MONTI LIVORNESI pie: “in quei luoghi i quali furono solcati e scavati dai corsi d’acqua infra- terrestri. | Sotto le sabbie o equivalenti a queste, più al largo, da Suese a Li- vorno, rispondono alle medesime delle argille, pur con Cyprina islan- dica, di mare più profondo, studiate da APPELIUS, CATERINI, MENEGHINI, CasTELLI, MANTOVANI, NEVIANI, incontrate, sopra il Pliocene, o senza traccia sicura di questo, in alcuni pozzi alla Salute ed in tutti gli scavi in Livorno, e ricche di resti d’ E/ephas antiquus Farc. e di Hippopota- mus Pentlandi H. von MEYER, studiati dal Masor, dal ManTOVvANI, dal Peruzzi, dal CAPELLINI e da altri. Dei lembi se ne vedono scoperti sul mare all'Accademia navale verso Sud. Qua e là, alle Mura di S. Cosimo, al Ponte girante, al Cantiere oggi Orlando, donde li notò l’APPELIUS, e lungo il fosso di Salviano a S. del Coteto, fra S. Michelino e Salviano, quei terreni marini sono alternati o coperti da strati argillosi palustri, sottostanti a loro volta alla Panchina, ricchi di svariatissimi molluschi terrestri e d’acqua dolce. Trovai abbondanti conchiglie palustri pure nelle argille consimili al Ponticello della ferrovia all’Ardenza. Questi ritrovamenti provano l’esistenza di paludi temporanei littorali. In piccola parte formate a spese delle sabbie predette, in molta parte ancor più recenti, e sempre sul mare o non lungi da esso sono le così dette Panchine di Livorno, Ardenza, Antignano e Castiglioneello, . già note a G. Tarcioni Tozzetti ed al LAMARMORA, delle quali recente- mente pur si occuparono l’UGoLIinIi ed il Merciar. Esse costituiscono vari scogli littorali a Sud della Città; ed oltre Castiglioncello cominciano ad essere sostituite dalla sabbia sciolta o ghiaiosa, ferrettizzata, dei piani di Vada. Sono ricche di resti d’organismi e di grani calcarei pro- venienti dalle rocce eoceniche del littorale: la loro cementazione ha origine, secondo il solito, dalla dissoluzione del carbonato calcico per opera dell’acqua marina fornita di acido carbonico, sotto forma di bi- carbonato, il quale poi viene ridepositato come cemento per l’evaporazione dell’acqua stessa € per l’eliminazione dell’acido carbonico in eccesso sopra il livello del mare, ovvero, a mare calmo, a fiore di questo. No- tevole è, in alcani strati dell’Ardenza l’abbondanza delle Amphisteginae, onde si ha l'apparenza di un calcare nummulitico, e come tale, perciò supposto di età eocenica, fu ritenuto un calcare identico che non raro trovasi con le Panchine nei dintorni di Piombino e di Porto Vecchio fino a quote di 200 m. Questa Panchina, diversamente da quanto talora fu detto, copre di- 74 C. DE STEFANI rettamente anche calcari miocenici a Montignoso, a Castiglioncello e lungo il littorale d’Antignano. Alla foce dell’Ardenza in mare trovai un tempo un calcare compatto con Pupae, Helix, e molluschi terrestri di specie viventi che potrebbero essere stati trasportati dallo stesso torrente in tempi poco anteriori al- l’attuale, od anche rispondere ad un vero travertino compatto prodotto da sorgenti calcarifere ed accennante in tal caso ad un piccolo, even- tuale, arretramento per corrosione della spiaggia prima più ampia, in tempi recenti. — In questo stesso periodo, entro terra, si formarono le brecce ossi- fere del Monte Tignoso, monte miocenico, circondato da panchine qua- ternarie, che fu distrutto per ricavarne massi nella costruzione del molo. I resti di vertebrati furono studiati dal Coccai, dal MaJoR, da DEL CAMPANA. Il sollevamento attuale dei terreni postpliocenici e più antichi del quale parlavamo poco fa si estende non solo a Nord come ad E. e a N. O. nella pianura Pisana; ma ad O. tutto lungo il mare, dove la Panchina re- cente presso Castiglioncello è innalzata, secondo il LoTTI e l’UGoLINI e il MERCIAI, fino a circa 100 m,. come del resto in altri luoghi più a Sud, forse anche perchè si formò per accumulazione di dune subaeree, men- tre ordinariamente tra Livorno e l’Ardenza non passa la quota di 20 a 30 m. È inutile omai accennare, se non dal punto di vista della storia geo- logica, alla antica ipotesi che supponeva la penisola italiana, e con essa i Monti Livornesi, unita in tempi geologicamente non antichi, alla Cor- sica, alla Sardegna, ed alle altre isole del Tirreno, per dar luogo a questo mare formatosi nella regione sprofondata. Invero nell’ Eocene la penisola prospicente il Tirreno non esisteva ancora: il mare miocenico ne copre le ellissoidi per ogni dove; durante il Postpliocene e nell’età odierna una cintura continua di terreni marini la separò e la separa dal mare, ed il Pliocene, per lo più di mare profondo, occupa molte parti del littorare Ligure e riempie tutte le valli Toscane, comprese come si vide quelle dell'Arno e della Fine alla loro uscita in mare. Se dall’An- tignano ad Orbetello non si trovano le argille plioceniche addossate al- l'esterno delle coste rocciose, ciò deriva dalla natura friabilissima del- ‘l’argilla facilmente erosa e distrutta dal mare e dalle cause atmosferiche; . nè si può pensare ad una riunione pliocenica dall'Italia con la supposta Thyrrhenis quando tutto il versante tirreno d’Italia era occupato dal mare pliocenico. DE È og e no De ? = W RUSSE alt ERE PIET 1: MI ASSE ce, S EST © RA ta lf udizi 2) by a SUNTO GEOLOGICO DEI MONTI LIVORNESI 75 Un altra osservazione singolare è da farsi, ed è che lungo il litto- rale dal Romito a Castiglioncello le vallette attuali hanno già la loro continuazione segnata sotto il livello del mare nello zoccolo continen- tale che orla il littorale. Le valli interne che solcano la panchina emersa e che si approfondano in una regione soggetta ad attuale sollevamento sono recentissime; perciò recentissimo ed attuale è il solco sottomarino che si incontra alle loro foci; evidentemente simile formazione è dovuta a cause attuali, come sarebbero i venti di terra incanalati nelle vallette, per ampie che sieno, ed increspanti il mare, ed alternativamente le burrasche ed il moto ondoso del mare incanalati verso le aperture ri- spondenti di terra ferma. Oggi non si dubita che i movimenti delle acque possano giungere a ragguadevoli profondità, e ciò spiega come la loro durata nella serie dei tempi possa finire per produrre cavità e sol- chi riguardevoli costituenti valli sottomarine nel prolungamento diretto di quelle terrestri. Nello stesso modo vanno spiegati i solchi sottomarini che seguono le vallette recentissime del lido occidentale di Calabria. Più e più volte nelle mie escursioni ho veduto il vento di terra o di mare soffiare violento nelle vallate e sul mare contiguo e sommuovere que- sto lasciando più calmo il mare circostante. La bora soffia violentissima dalle valli della costa Dalmato-Croata mettendo spesso in pericolo le imbarcazioni che traversano rimpetto alle foci di quelle valli. All’ Elba vidi il vento freddo, mattutino, di terra, che esce incanalato dalle vallette, muovere il mare e formare nebbie nel prolungamento della valle a spese del vapore acqueo più caldo che incontra e che condensa. A Fom-ir-Rieh, (Bocca del Vento) in Malta, il libeccio entra nella stretta baia atter- rando sopra terra quanto incontra e sconvolgendo il mare, che resta più calmo oltre i capi: è certo che in questi casi si formano oggi valli sotto- marine. Ciò dissi per mostrare che parecchie spiegazioni complicatissime del- l'origine delle valli sottomarine, date altrove, possono essere errate. Se. Nat., Vol. XXVII 5 ERNESTO MANASSE SOPRA ALCUNI MINERALI DELLA TOSCANA Millerite delle Cetine (Siena). Questo minerale, non ancora citato per la Toscana, si ritrova in pic- colissima quantità, associato a marcasite, in una vena di calcite spatica che attraversa un’argilla scistosa, bigio-nera. L’esemplare fu da me rac- colto, qualche anno addietro, alla miniera antimonifera delle Cetine di Cotorniano, oggi chiusa. La millerite forma dei piccoli ciuffetti, risultanti di sottilissimi e de- licati aciculi, piuttosto radi e con disposizione raggiata, lunghi non più di tre millimetri. Il loro colore è giallo di ottone, con vivo splendore metallico. È Data la grande scarsità del minerale non mi furono possibili saggi chimici quantitativi. Qualitativamente però dalla soluzione nitrica di questi aciculi ottenni soltanto reazione di acido solforico (per ossidazione di solfo) e di nichelio. | Turgite di Rosseto (Elba). L'esistenza in natura di un idrossido di ferro più povero in acqua : III della goethite e ben definito chimicamente, con formula H? Fe* O”, se fu sostenuta già da gran tempo da molti mineralogisti, che diedero al mi- nerale il nome di turgite o di idroematite (differenti l’una dall’altra solo per il peso specifico), da non pochi è tuttora negata. Assai di recente però dal ZEMJATSCHENSKY !) e dal SAMOYLOFF ?) in di- versi giacimenti ferriferi della Russia e dal GoopcHILD 8) per altri della 1) Die Eisenerze Central Russlands. Zeitsch. fir Kryst. und Miner., Bd. XX, pag. 185. Leipzig 1892. (Recensione). ?) Bull. de la Soc. Imp. des Naturalistes. N. 1, pag. 142-156. Moscou 1899. 3) Uber die Eisenerze Schottlands. Zeitsch. fir Kryst. und Miner., Bd. XLI, pag. 402. Leipzig 1906. (Recensione). SOPRA ALCUNI MINERALI DELLA TOSCANA 77 Scozia furono trovati minerali, la cui composizione corrisponde a quella della turgite H? Fes O”, e a tale specie i detti minerali vennero riferiti dai precitati autori. E in questi ultimi tempi io ho esaminato e analizzato alcuni campioni di minerali di ferro, pure riferibili alla turgite, pro- venienti dal cantiere di Rosseto delle miniere di Rio Marina. Quivi la turgite si trova come incrostazione, spessa pochi millimetri, su . di una limonite giallo-bruna. Il suo aspetto è identico a quello della goe- thite, e come tale l’avevo ritenuta prima di intraprenderne l'esame chi- mico. Essa è fibroso-lamellare, o fibroso-raggiata, o infine stallattitica ; il suo colore è grigio di acciaio, con vivo splendore submetallico o addi- rittura metallico, quasi setaceo nelle varietà fibrose. Altri caratteri della turgite elbana sono: notevole fragilità, polvere di colore rosso-sangue, durezza 5 circa, peso specifico (determinato nella varietà fibroso-raggiata) uguale e 4.34, completa attaccabilità dall’ acido cloridrico a caldo. Le lamelle di un certo spessore soro opache, quelle molto sottili translucide di un bel colore rosso vivo, ma senza netta azione, al microscopio, sulla luce polarizzata. i Le analisi delle tre varietà, fibroso-lamellare (I), fibroso-raggiata (II) e stallattitica (III) diedero: I II III Seo 2,65 Dahl t, 13 Pelo ate 0 92: 60 92, 04 93, 54 His: TREO 599 4,95 100, 81 SATO, 99, 67 L’ossido manganico, Mn”0*, che, trovato dal SAmoyLoFF nelle analisi della turgite di Uspensk, fece ammettere all’autore l’esistenza di un idros- sido di manganese H?Mn*0" isomorficamente corrispondente a H?Fe4 O non è presente in nessun caso, nemmeno come traccia, nel minerale elbano. Togliendo dalle tre analisi la silice presente e riportando gli altri componenti a 100 si ottengono valori che sono in buon accordo Di le percentuali teoriche di H?0 e di Fe 20° volute dalla formula H?Fe4 07. aL si ha: Sa ESE III Calcolato Fe*0?. ora 94 98 94:97 GL66 Heston 66 5, 72 5, 08 5, 34 100,00 100,00 100,00 100,00 78 E. MANASSE Goethite di Capo d’Arco (Elba). Fra i minerali da me raccolti ultimamente alla miniera di ferro di: Capo d’Arco, fra Rio Marina e Capo Calamita, nell’ isola d'Elba, vi sono anche alcuni esemplari di limonite giallo-bruna, incrostati da stratarelli, dello spessore di due o tre millimetri, di goethite, che di sovente è, a ‘sua volta, ricoperta da calcite spatica o stallattitica. Questa goethite è formata da fibre parallele o divergenti, alquanto fragili, grigio-nere o con leggera tinta rossigna e assai splendenti, che, se sottilissime, appariscono al microscopio translucide e di colore rosso- sangue. La polvere del minerale, che è rosso-bruna, si scioglie nell’acido cloridrico a caldo. Durezza 5 a 5,5 circa; peso specifico = 4,17. All’analisi ebbi: SOZZI E dl Fe le HO SOR a 100, 42 da cui, detraendo la silice e riportando i valori di H?O e Fe?03 a 100,. sì ottengono percentuali (I) che concordano bene con quelle calcolate sulla formula H FeO? (II): I i 1I Re 89, 87 ie e 10, 13 100,00 100, 00 Rodocroisite zincifera di Rosseto (Elba). Sopra la varietà stallattitica di turgite di Rosseto, già descritta, sono impiantati dei cristalletti molto imperfetti, a facce incurvate e for- temente striate e corrose, e delle masserelle globulari di una rodocroi- site rosea a lucentezza vitrea. Il minerale trattato con acido cloridrico dà effervescenza e si scioglie facilmente a caldo, con lentezza a freddo. Durezza uguale a 5 circa; i ci da VA e TRIBE LI RE RI EI, PINETA 1) VOI si SOPRA ALCUNI MINERALI DELLA TOSCANA 79 peso specifico = 3,86. La polvere del minerale, che è di colore roseo pallidissimo, arroventata annerisce. L'analisi chimica, eseguita su materiale ottenuto insieme dai fram- menti dei cristalletti e delle masserelle globulari, ha dato i seguenti risultati : Rapporti molecolari —_TT———_—__.gs”—TF—>—>— ino. .36, 6000: 0831800, 8818". 1 De... 0,66. 0,0092 | Mio... 30,17. 0,4249 3108 0. 3812 0,8539 1,03 fe 2.10 ‘0; 0374 Mebib 005 0, 0012 100, 61 Non si tratta dunque di una rodocroisite esclusivamente mangane- sifera, che, come è noto, in natura si ritrova ben raramente, e nem- meno di un carbonato manganoso che contenga notevoli quantità di car- bonati di ferro, calcio e magnesio, quale è il caso più frequente delle rodocroisiti. Questa di Rosseto è invece ricchissima di zinco, talchè po- trebbe anche denominarsi zincorodocroisite, e si discosta molto anche dalla rodocroisite calcifera di Franklin-Furnace, analizzata dal BrowNING?), che contiene soltanto il 2, 28 °/o di ZnC 03, benchè essa sia, tra le poche rodocroisiti zincifere conosciute, una fra le più ricche in zinco. Volendo ora stabilire le rispettive quantità dei carbonati di man- ganese, di zinco, di calcio, di ferro e di magnesio che entrano a comporre 100 parti del nostro minerale, si ha in cifre intiere: MnCO? = 50 % Mais 45. CaCOSi==-4 +; bPeG0t= (a RA 20049724 2,5094 15,85 88,37 vl 92 100, 00 All’ allumogeno di Vigneria sembra quindi si addica la formula Al?[S04]?.16H?O, e non l’altra, generalmente data per la specie, AlI?[S0*]|?.18H?0O. La composizione teorica per Al?[S04]3.16H?0 è: SO°. A1?0? HS05 38, 08 16,21 45,71 100, 00 Il minerale elbano ha quindi la stessa composizione chimica dell’al- lumogeno di Magugnano nei Viterbese analizzato dal MILLOSEVICH !) e dell’altro della Grotta dello Zolfo a Miseno analizzato da ZAMBONINI ?): Magugnano SOIT ei 3134 NEOICLO La 16, 02 Fe? sane Hio: Cioe shoe 99, 84 Grotta dello Zolfo 37, 98 16, 30 45,55 99,83 Sottoposto all’azione di temperature diverse fino a perdita di peso costante l’allumogeno di Vigneria eliminò la sua acqua nel modo seguente: 1) Di alcuni giacimenti di allumogeno in provincia di Roma. Boll. Soc. Geol. It., vol. XX, fase. 2.°, pag. 263. Roma 1901. 2) Su alcuni minerali della Grotta dello Zolfo a Miseno. Rend. R. Acc. Sc. fis. e mat., fasc. 12.° Napoli 1907. a SOPRA ALCUNI MINERALI DELLA TOSCANA 87 Arcdaieo Minvala | Percentuale . 0 2 »j In essiccatore ad H?SO* conc.t° (dopo 173 Me teorica. ore si raggiunge l’equilibrio). . . 4, 59 be 4,29 dg t19t: poli 32,89 LL 42; 89 (RI DOLO IERI A SONO IZ SOSTA Ardoino ta 37,14 IRZOONT o n Sa 14 40, 00 AZ REL 144, 41,42 A LA 141), 41,42 ; a 425° circa !) 43,23 d5 42,85 Per quanto si tratti di allumogeno un poco impuro tuttavia le perdite in peso avute alle diverse temperature (l’equilibrio è stato sempre rag- giunto in tempo assai breve, entro un minimo di tre ore ed un massimo . di sette) corrispondono in ogni caso, con discreta approssimazione, ad una frazione semplice dell’acqua totale. A 425.° circa resta ancora una piccola quantità di acqua (circa 1°/,), la quale, a somiglianza di ciò che avviene in altri sali con acqua di cristallizzazione, se ne va solo alla calcinazione, ad una temperatura cioè alla quale il solfato allumi- nico si scompone totalmente in A1?0? e SO3. Fino a 425° circa invece il solfato alluminico è rimasto tal quale, perdendo solo acqua e niente O quasi niente di anidride solforica, e ciò perchè dopo l’azione di una tale temperatura, prolungatasi per sei ore circa, esso ha dato il 37.15 %; di SO3, e prima del riscaldamento ne conteneva il 37.80 °%o. Quanto alla genesi di questo minerale elbano fa d’uopo ricordare: 1.° che esso è associato a pirite e a solfati di ferro originatisi dall’os- sidazione e idratazione dei bisolfuri; 2.° che il giacimento ferrifero di Vigneria giace sopra scisti argillosi. Evidentemente qui, ripetendo uno dei suoi più comuni modi di origine, l’allumogeno si è formato in se- guito all’attacco dell’acido solforico, prodotto dall’ossidazione delle piriti, sui silicati alluminiferi degli scisti. Fibroferrite di Capo Calamita, di Vigneria e di Capo d’Arco (Elba). Questo solfato basico idrato di ferro non fu ritrovato fino ad ora in Italia che alla miniera antimonifera delle Cetine (Siena), associato a marcasite e a melanteria, da cui proviene per ossidazione °). 1) Questa temperatura non fu potuta precisare; certo però essa è superiore a 400° e inferiore a 450°. 2) E. Manasse. Melanteria e fibroferrite delle Cetine (Siena). Proc. Verb, Soc, Tose. Sc. Nat., Vol. XVII, pag. 51. Pisa 1908, 88 E. MANASSE Recentemente fu rinvenuto nel giacimento ferrifero di Capo Cala- mita (Elba) da FERNANDO TONIETTI, che me ne diede in dono un buon esemplare, e da me stesso alle miniere di Vigneria e di Capo d’Arco, ove, in piccolissime quantità, si trova talvolta associato all’ihleite. La fibroferrite di Calamita è formata da fibre delicatissime di colore giallo-verdastro, con vivissima lucentezza sericea. Al microscopio queste fibre, che costituiscono un fitto intreccio, as- sumono la forma di lunghi ed esilissimi aciculi (millimetri 0,2 — 0,3 in lunghezza per millimetri 0.001 circa di larghezza), striati longitudinal- mente, in massima parte rotti in modo irregolare alle due estremità; pochi soltanto sembrano terminati da faccettine di piramide, e pochis- simi infine sono troncati da un piano ad angolo retto. Il colore delle fibre risulta al microscopio giallo-verdastro pallidis- simo; pure in alcune di maggiore spessore ho potuto notare un debole pleocroismo e un leggerissimo assorbimento. Per le vibrazioni parallele all’allungamento il colore è di un giallo-verdastro un poco meno chiaro e l'assorbimento maggiore che per le vibrazioni normali, che risultano di un giallo-verdastro pallidissimo. i Gli aciculi hanno allungamento positivo, colori d’interferenza assai vivaci, ed estinguono a 0°. Fra i tanti esaminati nessuno ha presentato estinzione obliqua rispetto all’allungamento, come ha osservato LINcK !) nella fibroferrite cilena, da lui incertamente riferita, appunto per questo carattere, al sistema monoclino piuttosto che al trimetrico. Confrontata la rifrazione degli aciculi con quella di essenze ad in- dice noto ebbi, con notevolissima approssimazione, dalla media di nu- merose osservazioni: Ng 1, 568 ny = 1,530 Da questi valori risulta per la fibroferrite una birifrazione assai elevata, che bene concorda con la vivacità già osservata dei colori d’ interferenza. La polvere del minerale ha colore giallo-chiaro ; essa si scioglie solo parzialmente nell'acqua, ma la soluzione avviene, facile e completa, se si aggiungono alcune gocce di acido cloridrico. Durezza non bene deter- 1) Beitroig zur Kenntniss der Sulfate von Tierra Amarilla bei Copiapò in Chile. Zeitsch. fiir Kryst. und Min., Bd XV, pag. 14. Leipzig 1889. SOPRA ALCUNI MINERALI DELLA TOSCANA 89 minabile, ma sembra bassa, aggirantesi intorno a 2. Peso specifico, de- terminato nell’olio, uguale a 2.08 -- 2.09, assai maggiore quindi di quello dato dal Lincx per la fibroferrite cilena (P. sp.= 1.857). L’analisi chimica del minerale elbano diede i risultati qui appresso indicati in I; in II espongo le percentuali teoriche richieste dalla formula Fe°0[SO*]?. 10H?0, o, ciò che è Jo stesso, dall’altra Fe(0H)SO*. 4'/,H?0, pure adottata per il minerale in questione: I II SOA 0) 39. 03 32, 02 Beer E 30, 58 st, 99 bea ne. L:bDO — Best 36, 40 36, 03 100, 51 100, 00 La piccola quantità di FeO trovata è molto probabilmente da im- putarsi in totalità a melanteria (5.80 °/o). Una buona parte dell’acqua della nostra fibroferrite è perduta sopra l’acido solforico concentrato. L'equilibrio si raggiunge lentamente, dopo circa 400 ore, quando la perdita in peso è arrivata a 23.24 %, corri- spondente a 6 ‘|, molecole di acqua (teor.= 23.42 °). La velocità di di- sidratazione è assai incostante; dopo 44 ore di azione dell’acido solforico la perdita in peso è di 13.66 %,, dopo 50 ore di 18.85 °,, dopo 74 ore di 19.50 %,, dopo 98 ore di 20.18 %., dopo 170 ore di 21.68 °|,, ecc. Sottoposta all’azione di temperature diverse fino a perdita di peso costante, la fibroferrite di Calamita ha eliminato la sua acqua nel modo seguente: peo HO ee 98°-100° _ 23,02 6‘, 33, 42 E290 25, 26 fi diz2 165° 28, 78 8 28, 82 205° 30, 58 81), CSA 235° 31, 41 83), 31, 52 260° RA42509 SL 34, 23 285° 35, 66 10 36, 03 90 E. MANASSE Un ulteriore riscaldamento a 310°, prolungato per circa 8 ore, non produsse nessun aumento nella perdita dell’acqua; e d’altra parte la percentuale di 35.66 ottenuta a 285°, è molto vicina alla quantità teo- rica dell’acqua totale della fibroferrite (36.03 °,), pur non trattandosi nel nostro ceso di fibroferrite purissima. ! Può dirsi dunque che a 285° la fibroferrite di Calamita perde la totalità della sua acqua; e ciò avviene senza che il minerale subisca la minima decomposizione. Infatti esso, dopo prolungato riscaldamento oltre 285° (a 310° circa), diede un quantitativo di SO? (riferito al peso iniziale della fibroferrite idrata) che corrisponde bene a quello calcolato, ‘poichè ho avuto: Trovata Calcolata SO e ie 32,02% Arroventata invece la fibroferrite perde totalmente l’anidride solfo- rica, lasciando un residuo rosso-bruno di puro ossido ferrico. Se si espone la polvere del minerale in ambiente saturo di umidità, dopo che ha subìto rispettivamente l’azione disidratante dell’acido sol- forico e delle diverse temperature di 100°, 165°, 205°, 310°, essa assorbe l’acqua in quantità notevolissima, tanto da ridursi sempre in un ammasso pastoso o in una poltiglia semiliquida. Il comportamento offerto dalla fibroferrite di Calamita nell’elimina- zione della sua acqua, comportamento che è analogo a quello presentato dallo stesso minerale delle Cetine, ci suggerisce che l’acqua è contenuta in una unica forma. Invero alle diverse temperature esperimentate, che, partendo da 100° circa, vennero man mano elevate di 25°, 30° o 40°, non si è mai constatato un arresto nella perdita in peso, un intervallo, cioè, in cui l’uscita dell’acqua sia risultata nulla. Essa, al contrario, è elimi- nata gradualmente fino a disidratazione completa, che avviene, può dirsi, già a 285°, cioè ad una temperatura relativamente bassa. Questo è già un buon carattere che ci suggerisce come la totalità dell’acqua debba considerarsi di cristallizzazione. L'ipotesi è avvalorata poi dal fatto che ad ogni temperatura sperimentata fu ottenuto sempre, in tempo assai breve (da 6 a 9 ore), un equilibrio stabile, cui corrispose un rapporto semplice tra acqua e sale. Anche per l’azione disidratante dell’acido solforico si è avuto, a equi- librio raggiunto, precisamente come per il riscaldamento a 98°-100°, un sale idrato ben definito Fe?0[SO*]?.3!|, H°O. CIR Sea è, Ù ORI PASTE RSI SISTER TR SOPRA ALCUNI MINERALI DELLA TOSCANA 9i L’ammettere per la fibroferrite che tutte le 10 molecole di acqua che essa possiede siano di cristallizzazione viene in conferma di quanto già supposi trattando dello stesso minerale delle Cetine, per il quale adottai la formula Fe= [SO*] O» » ° DameLLi. Foss. batoniani d. Sardegna, pag. 23 (cum syn.). Di questa specie ho in esame solo due esemplari dei quali uno assai piccolo ed incompleto. Essi, tra le quattro forme distinte dal MENEGHINI, appartengono a quella allungata, la quale, più delle altre trova affinità in specie congeneri e della stessa età. Per la variabilità e instabilità della conchiglia di tutte le ostriche è ben difficile farsi un concetto chiaro a questo proposito, tuttavia non ritengo improbabile che la specie mene- ghiniana possa essere ragionevolmente divisa in modo che una parte ri- manga autonoma ed una, e potrebbe essere appunto quella cui si riferisce la forma in esame, sia da riportarsi ad altra specie e probabilmente all’ O. Gregarea Sow.*), con la quale già il MenEGHINI riconobbe affinità con lO. Perdalianae. 3: Per le reciproche relazioni faunistiche sarebbe poi interessante co- noscere, se, insieme con gli esemplari nostri, dovesse riferirsi all’ 0. Gregarea Sow., già conosciuta per l’Oolite inglese °), anche l'esemplare delle Alpi di Vaud che con qualche incertezza venne dal DE LoRIoL 5) riportato all’O. costata Sow. °*). 1) FucINI. Notizie paleont. sull’Oolite di Sardegna, 1894. — Sopra ale. pg Oolitici del M. Timilone, 1899. ?) DAINELLI. Fossili batoniani d. Sardegna, 1903. 3) Avverto di avere lasciate fuori dal mio studio, perchè di determinazione non perfettamente sicura, alcune specie che (cutetrobteni pure riferibili ad alcune dell’Oolite inglese, fra le quali, per esempio: Placunopsis jurensis Room., Gervillia acuta Sow. 4) SowerBr. Min. conch., vol. 2, pag. 19, tav. 111, fig. 1-3. 5) MORRIS e LycETT. Cha Ool., pag. 4, tav. 1, sel 2. 6) De LoRrIoL. Étude paléont. d. SETA à Mytilus des Alpes Vaudoises, pag. ((, tav. 11, fig. 25. 2 SOWERBY, Min. conch., vol. 5, pag. 143, tav. 488, fig. 3. VUE N SIIT PRI ORRORE RESTI o E TRITO VEE IR SIENA TRE: TATO (TP, SIE TTI FOSSILI NUOVI O INTERESSANTI DEL BATONIANO ECC. DT Pecten lens Sow. 1821. Peciten lens SowerBr. Miner. Conch., vol. 3, pag. 3, tav. 205, fig. di 1830. >» > Zieren. Wiirttemb. ; pag. 69, tav. 52, fig. 6. 4935. » RoemER. Ool., vol. 1, pag. 71; vol. 2, pag. 27. 1836.» > Puaiutips. Yorksh., vol. I, pag. 101, 112, 123, 128, 134, i 162. | 1840. » » GoLpruss. Petref. Germ., vol. 2, pag. 49, tav. 91, fig. 3. ESS, 0» » Morris e Lycert. Great Oolite, pag. 11, tav. II fig. 1. Lu 01200 4 ORO » MenecHINI. Paléont. ile de Sard., pag. 340 (pars). 1858.» » QuensteDt. Der Jura, pag. 322, 342, 354, 432, tav. 59, fig. 3, 4 pars? (non? tav. 48, fig. 8). 907, > » LaAuBE. Die Bivalven v. Balin, pag. 12. IN0d999: =» » GREPPIN. Foss. Baj. sup. de Bale, pag. 121, tav. 13, fig. 9. 21903. » » DAINELLI. Foss. bat. d. Sard., pag. 29, tav. XII, fig. 12. LANE) » Cero. Foss. du Dogger, pag. 66. Questa specie oltremodo distinta ed elegante è caratterizzata dalla sua spiccata equilateralità e specialmente dalla forma dei sottili orna- menti, fatti benissimo risaltare nelle figure del GoLDruSss e speciamente in quelle di Morris e Lycerm. I miei esemplari, dei quali uno molto ben conservato, per quanto mancante di un orecchietta, corrispondono perfet- tamente alla forma dell’ Oolite inglese. | | Io ho posto dubitativamente in sinonimia di questa specie l’esem- plare illustrato dal DAINELLI poichè mi sembra che esso per le sue coste assai spiccate, poco arcuate e poco divergenti debba forse ascri- versi meglio al P. arcuatus sotto descritto che, è bene notare, il DAINELLI ritiene però sinonimo del P. lens. Lo stesso dicasi per segapiore Lg: rato dal QuENSTEDT a tav. 48, fig. 8. È una specie di Pecten molto diffusa nei terreni Oolitici ed era già fatta notare per Laconi dal MenEGHINI; uno degli esemplari studiati però da questi deve essere ascritto al P. annulatus Sow. Pecten arcuatus Sow. 1818. Pecten arcuatus SowrgBr. Min. Conch., tav. 205, fig. 5- non1840. » » GoLpruss. Petref. germ., pag. 50, tav. 91, fig. 6. non1853. >» > Morris e Lyoett. Great Oolite, pag. 11, tav. I, fig. 18, pica «di fi Si 3 - a vi Je di su da 98 A. FUCINI L’esemplare in esame corrisponde perfettamente all’originale del SowERBY, per quanto di dimensioni alquanto più piccole. La conchiglia, assai obliqua ed inequilaterale, ha il margine posteriore subtruncato, l’inferiore arrotondato e l’anteriore espanso, sebbene piuttosto spiccata- mente escavato verso l’apice. Le orecchiette, poste in linea non angolosa fra loro, sono ineguali; la posteriore è più piccola e a margine obliquo, l'anteriore, più grande, ha il margine arrotondato ed è profondamente escavata dal seno bissale in quanto che si tratta della valva destra. La superficie è ornata da coste sottili e numerose, del medesimo tipo di quelle del P. les, però meno sottili, più diritte, meno divergenti e quindi senza il carattere di parere irradianti dal centro della conchiglia anzichè dall’ apice. Queste specie che da alcuni si è creduta essere una var. del P. lens superiormente esaminato, è, secondo me, invece assai distinta. La con- chiglia è molto più obliqua ed inequilaterale, assai più scavata al bordo buccale ed ha coste meno fini, meno arcuate e meno divergenti, come ho già detto. Il P. tithonius Gemm. e Di BL. !) del Titoniano della Sicilia può es- sere considerata come intermedio tra la specie in esame ed il P. lens somigliando alla prima più per la forma, alla seconda più Be gli or- namenti. Dirò sotto, nella descrizione del P. RCA le ragioni per le quali ritengo che i P. arcuatus descritti dal GoLpruss e del MorRIs e LycETT non appartengano alla specie sovverbiana. E specie comune all’Oolite inglese ed a quella di Sardegna. Pecten redemptus n. sp. — Tav. I [I], fig. 1. 1840. Pecten arcuatus GoLpruss. Petref. Germaniae, pag. 50, tav. 91, neo. | 1853. > » Morris e Lycert. Great Oolite, pag. 11, tav. I, fig. 13. 1857. =» lens Sow. MenEGHINI. Paléont. èle de Sard., pag. 340 (pars). Tra i Pecten di Laconi che io ho in esame ve ne ha uno, discreta- mente conservato, che somiglia grandemente a quello dell’Oolite inglese 1) GEMMELLARO e Di BLASI. Pettini del Titonio inf. d. Sicilia, pag. 26, tav. III, fig. 13-15, FOSSILI NUOVI O INTERESSANTI DEL BATONIANO ECC. 99 figurato da MorRrIs e LycETT e da questi riferito al P. arcuatus Sow. ed io credo trattarsi della stessa specie. MorrIs e LycerTT hanno dubi- tato però che questa dovesse considerarsi come una varietà del P. lens, “sopra esaminato, ed il MenEGHINI ed il DArneLLI hanno accettato del tutto questo modo di vedere sinonimico. A me parmi invece che non solo si tratti di specie differente dal P. lens, ma anche diversa dal P. arcuatus Sow. cui l’hanno riportata i primi due autori. Per me non si tratta infatti di varietà del P. Zens perchè è assai differente a cagione delle coste radiali più grossolane, meno numerose, meno arcuate, meno divergenti e che non hanno affatto spiccato il carattere apparente di irradiarsi dal centro geometrico della valva anzichè dall’apice. Non è poi certamente riferibile al P. arcuatus Sow. poichè non è come questo obliquo ed inequilaterale, nè ha coste radiali così sottili. Avendo esaminato gli esemplari di Pecfen della Sardegna riferiti da MENEGHINI al P. lens ho constatato che alcuni sono da riportarsi a questa specie. Il P. arcuatus illustrato dal GoLperuss è escluso dalla sinonimia per- chè cretaceo e perchè diverso specificamente. Questo Pecten sarebbe proprio dell’Oolite inglese e della Sardegna. Pecten annulatus Sow. 1826. Pecten annulatus Sowerbr. Mineral conch., tav. 542, fig. 1. 9400» » GoLpruss. Petref. Germ., tav. 91, fig. 2. lett NAME » MorrIs e Lycert. Great Oolite, pag. 12, tav. I, fig. 13. 1857. >» lens non Sow. MEnEGHINI. Paléont. île de Sard., pag. 340 (pars). Questa specie fu da MorRIS e LycETT ritenuta dubbiosamente sino- nima del P. lens, sopra esaminato, ed il MENEGHINI, che accettò la si- nonimia, riferì quindi allo stesso P. lens un individuo di Laconi che ‘corrisponde più propriamente al P. annulatus. Tale esemplare presenta infatti delle coste concentiche molto evidenti, non però tanto regolari come in quello figurato da MoRRIS e LyCETT, quindi è più simile all’originale del SoweRBY, ed ha le costicine radiali più rade, meno arcuate e meno divaricate di quel che non sieno nel P. lens. Le sue orecchiette sono assai disuguali e l’anteriore è più grande dell'altra, ha pieghe di accrescimento molto distinte ed un seno bis- 100 A. FUCINI. sale, giacchè si tratta di valva destra, molto profondo, alquanto più di quel che è mostrato per il .P. lens dalla figura che di questo ne da il GoLpruss. L'originale del SowvERBY presenterebbe invece l’orecchietta anteriore della valva destra più piccola della posteriore, per quanto molto scavata per il seno bissale. Pecten disciformis Sca. — Tav. I [I], fig. 2. 1830. Pecten disciformis SCHUBLER, in Zieten. Versiein. Wiirttemb., pag. 69, tav. 13, fig. 2. 21840. >» demissus Gorpruss. Petref. Germamiae, pag. 79, tav. 99. de gda » disciformis Crapurs et DewaLque. Foss. second. d. Luxemb., pag: 200. tav ie 2 - ?1855. » demissus Morrise Lycert. Great Oolile, pag. 127, tav. 14, it LT IIS Seo » MexecnIni. Paléont. èe de Sard., pag. 275, 340. nente » . QuenstEDT. Der Jura, pag. 358, tav. 48, fig. 6, 7. p1860t0 » Lause. Die Bwalven v. Balîin, pag. 10. 1899. » disciformis GrePPIN. Baj. sup.de Bale, pag. 124, tav. XV, fig.3. 21904. >» demissus Cuerc. Foss. d. Dogger, pag. 63. Si riferisce a questa specie un esemplare assai ben conservato, non però molto grande. Esso ha un angolo apiciale non molto largo e le orecchiette sono sulla stessa linea, non facendo fra loro alcuna angolo- sità. Per questo carattere l'esemplare in esame corrisponde perfettamente a quello lussemburghese figurato da CHaPUIS et DEWALQUE e quindi un poco differente dall’originale del ZiereN il quale ha le orecchiette a leg- gerissimo angolo fra loro. Il P. demissus di GoLpruss e di QUENSTEDT ha le orecchiette ad angolo molto spiccato ed io non sono sicuro che esso debba per ciò riunirsi al P. disciformis, come vorrebbero alcuni, fra i quali lo ZrrtEL !). L'esemplare figurato con lo stesso nome da Morris e LycETT non presenta tale carattere differenziale però è assai alto e non è così, come il mio, scavato sul margine buccale. Per la sua altezza tale esemplare corrisponde al P. spatulatus Roem. figurato da GREPPIN ?). Restando dubbiosa questa sinonimia è incerta la corrispondenza, in riguardo a questa specie, fra l’Oolite sarda e quella di Balin; più in- 1) ZIitTEL. Traité de Paléontologie, tav. II, pag. 29. ?) GREPPIN. Foss..Baj. sup. de Bale, pag. 125, tav. XV, fig. 4. È È Be È ; | i i pb: PRIA IRR RR > tia «i sn Set So n ) 4 si & FOSSILI NUOVI O INTERESSANTI. DEL BATONIANO ECC. 101 certa: ancora è quella con l’Oolite inglese. Il MENEGHINI aveva. già no- tata la presenza di questa specie nel Giurassico della Sardegna occiden- tale; nella Sardegna orientale la cita col nome di P. demissus. . Hinnites abjectus Pair. — Tav. I [I], fig. 3. : 1836. Pecten abjectus Paruipps. Geol. Jork, I, tav. 9, fig. 37. «1855. Himmates abjectus Morris e Lycett. Great Oolite, pag. 125, tav. 9, ; fig. 0: tav. 14, fig. 3. I Bd967. .. > » LauBE. Bivalven v. Balin, pag. 18. mel989.. ‘> >» De Lorror. Étude paléont. d. cousches, pag. 72, tav. XX, ie. 12, 13. 1904. » » CLerc. Foss. du Dogger, pag. 67 (cum syn.). LL RI » DexnINnGER.. Mesox. form. a. Sard. pag. 453. MoRRrIs e Lycert hanno dato due figure di questa specie che par- rebbero riguardare due specie diverse ed infatti LauBE e DE LoRIOL sono ___di questo parere, secondo anche l’idee espresse dall’ OppeL. Io sono molto incerto a questo proposito poichè il mio esemplare è intermedio alle due forme illustrate dai due autori inglesi. Esso infatti, per la forma generale della conchiglia, per i caratteri dell’orecchietta, sulla quale si estendono visibilmente le coste radiali, e sopra tutto per le pieghe grossolane del primo ciclo, ridotte a tre di numero ed ingros- sate a sbalzi, si accosta grandemente all’ individuo rappresentato da Morris e LycerT con la fig. 7 della tav. IX; ha però quelle pieghe del primo ciclo meno sviluppate e anche le coste interposte più sottili e più numerose. Per queste coste interposte assai numerose e sottili, irrego- lari, delle quali alcune più spiccate delle altre, dovendosene riconoscere almeno di tre ordini di sviluppo (quattro valutando anche le pieghe grossolane già studiate), il nostro esemplare si accosta pure all’altro figurato da quegli autori, il quale non mostra tanto distinte le pieghe grossolane; per quanto, ben riguardandole, il loro numero possa essere ritenuto di tre. | La specie, assai diffusa nei depositi Oolitici, sarebbe comune ai quattro depositi oolitici, fra loro molto corrispondenti, dell’ Inghilterra, del Balin delle Alpi di Vaud e della Sardegna ove è anche citata dal DENINGER per il M. Elva. Lima semicircularis GoLp.? © 1833. Lima semicircularis. oLpruss. Petref. Germaniae, pag. 83, tav. 101, fig. 5. ie pi, LI è Va dCI ha Fon 7 Pd 102 A. FUCINI 1903, » DAINELLI. Foss. Batoniani, pag. 26 (cum syn.). 1904. .. » » GreppINn. Foss. d. Dogger, pag. 59 (cum syn.). Si tratta di due esemplari non completi ed in impronta, per i quali la determinazione non può essere assolutamente sicura. Certo essi, dif- ferendo dalle specie sotto studiate, specialmente per il maggior numero e la maggior sottilezza degli ornamenti, si adattano moltissimo con gli individui tipici di questa specie. Da questi probabilmente deve escludersi come ritennero CHaPuIs e DewALQUE e dubitò già il DAINELLI, l’esem- plare dell’Oolite inglese figurato dal MoRRIS e LyceTT e che, per avere coste assai grossolane, si accosta piuttosto alla L. complanata LauBE. È specie grandemente diffusa tanto nell’Oolite inferiore quanto nel Batoniano. | Lima strigillata LaAuBe. 1853. Lima bellula non p’OrBIeny. MorrIs e Lycert. Great Oolite, pag. 30, tav. IIL fig. 9. 1867. >» sirigillata Lause. Die Bivalven v. Balin, pag. 15, tav. I, fig. 9. | 1888. >» bellula Greprin. Foss. Grande Oolite, pag. 124 (cum syn.). Per quanto l'esemplare che io riferisco a questa interessante specie non sia completo, perchè un poco mancante nella regione umbonale, tuttavia esso è riconoscibilissimo a cagione dei peculiari caratteri spe- cifici. Esso per la forma, assai ristretta posteriormente, e per gli orna- menti, sottilmente delicati e limitati quasi alla metà posteriore della conchiglia, essendo quasichè invisibili nell’anteriore, somiglia molto me- glio alla forma dell’Oolite inglese che non a quella del Balin. Questa specie, nuova per il Batoniano della Sardegna, era fino ad ora conosciuta solo che per l’Oolite inglese e per quella del Balin, di Bale e della Mosella. Lima cardiiformis Sow. — Tav. I [I], fig. 7. 1815. Plagiostoma carduforme SowerBr. Miner. Conch., tav. 118, fig. 3. 1853. Lima cardiiformis Morris e Lycett. Great Oolite, pag. 27, tav. III, Met: 18675» » — LauBe. Die Bivalven v. Balin, pag. 14. 1883: » De Lorior. Etude paléont. d. cousches a mytilus, pag. 65, tav. IX, fig. 13, 15 (cum syn.). ì L ri Li dt tt PETE DIOR E SRO In “i sa di RE CER ATT SI, |} "7 VERTOROOA | stali. La conchiglia FOSSILI NUOVI 0 INTERESSANTI DEL BATONIANO ECC. 103 Ritengo di potere riferire a questa specie con sufficiente sicurezza un esemplare mancante di una buona porzione della regione umbonale. La gonfiezza e la poca inequilateralità della conchiglia, la rotondezza del margine inferiore, il numero e la forma delle coste, sono caratteri spiccati e speciali che la fanno facilmente distinguere dalle altri con- generi. È specie fino ad ora sconosciuta per i depositi Oolitici della Sarde- gna e che si è rinvenuta oltre che in altre località estra italiane, spe- cialmente francesi, nell’Oolite inglese, in quella del Balin e negli strati a mytilus delle Alpi di Vaud. Lima complanata Lause. — Tav. I [I[, fig. 4, 5. 1867. Lima complanata Lause. Die Bivalven v. Balin, pag. 16, tav. I, fig. 1l. Si riferiscono a questa specie diversi esemplari, dei quali alcuni in assai buono stato di conservazione. Il più interessante di essi è uno in impronta, dalla quale è stato tolto il modello rappresentato dalla fig. 4 Esso mostra tutti i caratteri e le particolarità più minute della specie, compresa la caratteristica e grossolana punteggiatura dei solchi interco- è più alta che larga, non esageratamente inequila- terale, col margine anteriore ed inferiore arrotondati, con quello poste- riore obliquo ed assai scavato e col cardinale ottusamente angoloso. . L’umbone sorpassa appena il margine cardinale. Le coste, in numero di 45, sono molto nette, regolari e separate da spazi ugualmente larghi, nei quali la striatura concentrica, uniforme e piuttosto larga, da luogo ad una punteggiatura rada, slargata e grossolana. La lunula, alquanto profonda, è assai lunga e separata nettamente da una distinta carena. Le orecchiette sono presso a poco grandi egualmente. Questa specie era fino ad ora conosciuta solo che per l’Oolite del Balin. Lima Lycetti Lause. — Tav. I [I], fig. 6. 21855. Lima punctata (non SowerBy.) MorrIs e Lycert. Great Oolite, pag. 130; fav: XV, fig- 09. 1867. Lima Lycetti Lause. Die Bivalven v. Balin, pag. 15, tav. I, fig. 12. Appartengono a questa specie due esemplari che si differenziano dalla precedente per avere la conchiglia un poco più inequilaterale, alquanto PRONTE ITA GRIP SI TEO TE La 104 Ali (A RUCINI:15! più espansa posteriormente e fornita di coste meno regolari, più nume- rose, più sottili e separate da intervalli più ristretti. La punteggiatura degli intervalli costali non è chiaramente visibile, tuttavia nell’ individuo figurato si scorge come essa, in confronto di quella della L. complanata, sia più fitta e serrata e come le strie concentriche si manifestino anche sopra alle coste. La lunula è lunga e molto profonda. Giustamente LAuUBE tolse dalla L. punctata Sow. di Lias iter la Lima oolitica che vi riferirono MorRrIS e LycETT, però non è da esclu- dersi che essa, per la sottigliezza degli ornamenti, dovesse riferirsi piuttosto che a questa ad altra specie, forse alla L. semicircularis. Anche questa specie è nuova per la Oolite sarda ed era fino ad ora nota solo che per i depositi dell’ Inghilterra e del Balin. Pteroperna costatula Des. — Tav. I [I], fig. 12. 1824. Gervillia costatula DesLonecHAaMPs. Mém. soc. linn. Li Calcadb®) I, tav. VE cHe: 1909. Pteroperna costatula DarneLLI. Foss, batoniani d. Sard., pag. 33, tav. XIEfip. 8710: tax XE do 2,5 (cum syn.). Lu » » DenINGER. Die mesox. Form. a. ui , pag. 454. Due esemplari corrispondono perfettamente a quelli illustrati dal ti nella tav. XI; uno è differente e si accosta invece a quelli degli strati a Mytilus delle no di Vaud !). Le quattro costicine irra- dianti dell’apice si trovano in esso nella parte posteriore della conchi- glia e sono fra loro molto serrate. Sull’ala posteriore corre una piega ra- diale distinta che mi ha fatto pensare trattarsi forse di specie differente. È specie diffusa; si trova in quasi tutti i depositi oolitici ed era già conosciuta per la Sardegna per opera del MENEGHINI, del DAINELLI € del DENINGER. Trigonia duplicata Sow. — Tav. I [I], fig. 10, 11. 1819. Trigonia duplicata SowerBr. Min. conch., tav. 237, fig. 4, (59). È 1853. » -» MorzIs e Lycert. Gr .. Oolite, pag. 60, tav. VI, SUA REM 1867. > nes La Bivalven x. Balin, pag. 29, tav. III, fs See 4) De LorioL. Foss. d. couches à Mytilus, pag. 64, tav. XI, fig. 1. FOSSILI NUOVI O INTERESSANTI. DEL BATONIANO ECC. ‘105 Sono diversi esemplari che per la forma corrispondono molto bene a quello inglese figurato da MoRrRrIS e Lycert, il quale è un poco più allungato posteriormente e meno troncato anteriormente di quelli del Balin illustrati dal LauBe. Il solco radiale dell’area nell’esemplare grande della fig. 11, è però più spiccato, essendo anche limitato da una carena assai sviluppata; nell’esemplare della fig. 10 esso è invece tipicamente normale. Le coste non appariscono tanto tubercolate; le concentriche, bene evidenti presso l' umbone e nella regione anteriore, sono assai re- golari; le oblique si presentano invece alquanto irregolarmente spazieg- giate e non appariscono dicotomizzate. Questa specie interessantissima è esclusiva dell’Oolite d’ Inghilterra, del Balin e di Sardegna. Lucina bellona D’Ors. 1850. Lucina bellona D’OrBIGNY. Prodr., vol. TI pap. 209, Id905.. >» »- DAINELLI. oss. batoniani ecc., pag. 56, tav. XII, fig. 7 (cum syn.). Appartengono a questa specie due esemplari perfettamente corrispon- ticati a quelli figurati da DAINELLI. È specie assai diffusa nell’Oolite di Inghilterra, di Francia e di Ger- «mania. In Sardegna si trova oltre che a Laconi, alla Perdaliana-e al Tacco di Seui. tr Unicardium cfr. gibbosum Morris et Lycert. — Tav. I [I], fig..9. 1855. Unicardium gibbosum Morris e Lycemt. Great Oolite, pag. 132, tav. 14, fig. 11. Confronto con i questa specie una valva di lamellibranco rigonfio. « e gibboso, la quale, essendo un poco mancante al margine posteriore, non lascia scorgere se essa ha questo superiormente angoloso come nell’ori- ginale inglese, al quale del resto essa valva si accorda per ogni carattere. Nerinea sp. ind. 1857. «En sp. ind. MenecHINI. Paléont. èle de Sard., pag. 311, tav. E, Net È la specie fossile più comune, rappresentata sempre da modelli interni ed esattamente corrispondente con quella di Nurri, illustrata 106 i À. FUCINI dal MENEGHINI, che si trova pure nell’ identiche condizioni di fossiliz- zazione e con la quale non ho mancato -di confrontare i miei esemplari. La specie è interessantissima poichè da ragione fondata di credere che gli strati a Nerinee di Nurri, alla stessa guisa di quelli di Laconi non sieno separabili cronologicamente da quelli a Gervilliae, assecon- dando le idee giustamente espresse dal DAINELLI in proposito. Questa Nerinea è propria dell’Oolite sarda e si trova a Nurri ed a Laconi. | | Rhynchonella concinna Sow. — Tav. 1 [I] , fig. 13. 1812. Terebratula concinna Sowerbr. Min. Conch. Tav. 83, fig. 6. 1857. Ehynchonella concinna MeneGHINI. Paléont. è%e de Sard., pag. 304. 1857. » subobsoleta (non Davin.) MenEGHINI. Paléont. èle de Sard., pag. 353, tav-E, fig. 20, pers non fig. 200, 205. | 21/9034 > nclE. » DAINELLI. Hoss. Batoniani d. Sard., pag. 22. 1904. » concinna CLerc. Foss. du Dogger, pag. 89, tav. III, fig. 12-14. 1907. » » Denincer. Die mesox. Form. a. Sard.. pag. 453. Tre esemplari, non di buona conservazione, corrispondono perfetta- . mente alla terza forma descritta da MENEGHINI come £%. subobsoleta, che io ho esaminato direttamente e che ho creduto di tener separata dalle altre. Anche il MEeNEGHINI senza distinguerle specificamente notò le dif- ferenze tra le sue forme. Non si può asserire con sicurezza che la specie studiata dal Dar- NELLI sia da ascriversi a quella in esame, come però parrebbe dalle considerazioni che egli vi fa, o non piuttosto all’altra specie figurata dal MENEGHINI. Questa specie, dell’Oolite inglese e di varie altre località, è stata re- centemente citata dal CLeRc a Deneyriaz nelle Alpi di Vaud ed era già stata notata per la Sardegna da MENEGHINI e da DENINGER. Echinobrissus clunicularis 0’ OrB.? — Tav. I [I], fig. 8a, 85, 1850. Nueleolite clunicularis D’OrBIGNY. Prodr. T.I, pag. 319. Dubbiosamente si può ascrivere a questa specie, alquanto variabile e tanto mai diffusa, un modello di Eckinobdrissus, che. per la: faccia in- E VITE O ie ine ae A e die FOSSILI NUOVI 0 INTERESSANTI DEL BATONIANO ECC. 107 feriore, la meglio conservata, corrisponde molto bene alla figura 3a data dal DE LoRrioL !) per un esemplare molto tipico, e che per la faccia po- steriore o anale si adatta invece alla fig. 8a, la quale per il DE LoRIOL stesso rappresenta invece una forma estrema, depressa e subrostrata. Pleurosmilia Benoisti Kosy. 1906. Pleurosmilia Benoisti Kosy. Pol. bath. de St. Gaultier, pag. 14. tav. I, fig. 20-25. Sono diversi esemplari, non di ottima conservazione, perchè in mo- dello, che, dai caratteri che si possono rilevare ora da uno ora da un altro, mi sembra di potere con sufficiente sicurezza riferire a questa caratteristica specie. Il polipaio è conico, ciò che è dimostrato da due esemplari, non ha ornamenti esterni, quindi era probabilmente fornito di epitecio robusto. Il calice in alcuni esemplari è circolare, in altri subellittico; sempre assai profondo; al fondo ha un tubercolo columellare, circa il doppio più lungo che largo e molto rilevato. Si scorge evidentemente che i dodici setti più grandi, più elevati degli altri, si elevano maggiormente avvici- nandosi alla columella, con la quale si fondono. Altri dodici setti s’inter- pongono ai primi ed arrivano pure alla columella, ma sensa unirvici in- timamente; seguono altri ventiquattro setti più piccoli, ma sempre rego- lari, che giungono fino alla metà del calice e quindi vengono altri nu- merosi setti più minuti, limitati al margine del calice, dei quali non è facile conoscere il numero. Come avverte il KoBy è questa la specie di Pleurosmilia più antica. Essa si trova per ora esclusivamente nel Batoniano di Sf. Gaultier ed in quello di Sardegna. i) De LorioL. Echinolog. Elvet. Per. jurass., pag. 305-308, tav. XXXVIII. Se, Nat., Vol. XXVII 10 SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA I [I] © ì He — Pecten redemptus n. sp. i o”, Pecten disciformis SCH. Se Hinnites abjectus Pat. — Lima complanata LAUBE. — Lima Lycetti LauBn. — Lima cardiiformis Sow. — Echinobrissus clunicularis D’ ORB.? — Unicardium cfr. gibbosum M. et Lo — Trigonia duplicata Sow. sai — Pteroperna costatula DESL. — Rhynchonella concinna Sow.. i DI IsTITUTÒ ANATOMICO DELLA R. UNIVERSITÀ DI PISA e DOTT. LUIGI DE GAETANI AIUTO E LIBERO DOCENTE RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE ——+ @etoedro La storia del fascio atrio-ventricolare (f. a. v.) è recentissima e com- prende un periodo che non va oltre l’ultimo ventennio. Se tale periodo si riferisce però alle notizie che si hanno sul fascio considerato come formazione ben definita, con caratteri peculiari sia in riguardo dell’ana- tomia macroscopica sia della microscopica, conviene pure riconoscere che in senso più lato è da poco meno di un secolo che l’ attenzione degli osservatori è stata richiamata sopra un sistema unitivo più ampio tra la muscolatura degli atrii e quella dei ventricoli del cuore. Nel periodo anteriore al 1876 1 ricercatori si limitarono per lo più ‘ alla osservazione obiettiva dei fatti anatomici e non li misero in rapporto _ con la meccanica del cuore. Nel periodo invece che va dal 1876 al 1893 il sistema di fibre unitive fu tenuto nella dovuta considerazione per spie- gare fatti interessanti della funzione cardiaca. Finalmente dal 1893 in DI poi non si è più parlato di connessioni generiche tra atrii e ventricoli, ma di un distinto fascio unitivo atrioventricolare, che fu considerato di una straordinaria importanza nella fisiologia e nella patologia del cuore. Pochi argomenti hanno appassionato i ricercatori quanto quello del f. a. v. e considerevole è il numero dei lavori fatti in proposito; ma di questi lavori pochi in vero riguardano l’ anatomia normale del f., mentre la massima parte porta contributi alla fisiologia ed all’anatomia patologica di esso. Questo fatto agevolmente si spiega considerando la febbrile at- tività che hanno dimostrata i ricercatori per risolvere alcune incognite della fisiologia del cuore e che troverebbero la loro spiegazione nel modo come è stato prospettato il nuovo sistema di propagazione dello stimolo delle contrazioni cardiache, 110 L. DÉ GAETANI Non volendo anticipare osservazioni che troveranno posto più adatto dopo le notizie che riguardano il f.a.v., pure non posso esimermi dal rilevare che le ricerche affannose, specialmente da parte di ricercatori affrettati nelle conclusioni, hanno nociuto, più che giovato, alla chiara visione delle varie quistioni riflettenti l'argomento. His jun., che diede la prima descrizione del fascio unitivo, fu molto riservato nelle conclu- sioni delle sue ricerche e si limitò ad indicare ai clinici la via nella quale si potevano mettere per spiegare sintomi e fatti fino allora oscuri nella fisio-patologia del cuore; ma, come avvenne per DARWIN e i darwinisti, i seguaci di His hanno voluto esagerare, assegnando al f. a. v. delle at- tribuzioni d'importanza straordinaria che i dati anatomici non hanno completamente spiegato. Bisogna anche notare che la presenza del f. a. v. costituiva un ar- gomento valido in favore della teoria miogena della dinamica del cuore e quindi i miogenisti, nei loro attacchi contro i fautori della teoria neu- rogena, si sono valsi delle recenti ricerche sul f. a. v. per dimostrare la via di propagazione dell’ onda di contrazione dagli atrii ai ventricoli, negando quell’influenza nervosa, che si doveva necessariamente invo- care, e la invocavano i neurogenisti, per spiegare il propagarsi dello stimolo della onda anzidetta, quando veniva ammessa l’ assoluta indi- pendenza tra la muscolatura degli atrii e quella dei ventricoli. E nella tenacità con la quale ognuno difende le proprie idee e, interpretando i fatti, cerca, anche in buona fede, di piegarli in sostegno della propria tesi, non è difficile che anche nell’osservazione dei fatti obiettivi, ci sia notevole disparità di vedute non solo, ma anche si arrivi a risultati diametralmente opposti. Se alle ragioni accennate si aggiungono i me- todi differenti impiegati nella ricerca del f., la relativa difficoltà nel prepararlo e il differente materiale usato, emerge chiaramente la man-. canza di uniformità di criterii in riguardo del f. a. v. Non credo quindi sia stato inutile intraprendere ulteriori ricerche sul detto f., indirizzan- dole principalmente ai rappresentanti della serie animale che lo pre- sentano costante e tipico, non che a quelli che lo hanno ridotto di molto e non costantemente presente, accennando ancora a quelli che lo pre-. sentano poco dissimile dal tipico. E i risultati di tali ricerche esporrò da ultimo dopo aver data notizia dei lavori sul f. che sono a mia co- noscenza con alcune considerazioni a cui inducono i lavori anzi detti. Prima di arrivare al periodo contemporaneo delle ricerche sul f. a. v., RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE IRE che hanno dimostrato il passaggio di fibre muscolari dai seni nei ventri- coli del cuore, vi è stato un periodo direi quasi preparatorio, che mi- rava ad abbattere la radicata convinzione della assoluta indipendenza delle pareti atriali da quelle ventricolari, per lo arresto completo delle fibre muscolari in corrispondenza di quella specie di colonne d’ Ercole, che erano gli anelli fibrosi. Ed appartengono a tale periodo le ricerche del Lancisi, del SENAC e del Rem, le quali stabilivano il passaggio di fibre muscolari dagli atrii nelle lamine valvolari a. v. Il KURSCHNER se non è stato il primo, come credeva, a mettere in evidenza tale pas- saggio, fu però il più esplicito ed il più sicuro nell’affermare che fibre muscolari atriali vanno nelle valvole membranose del cuore dei pesci, nella valvola muscolare del ventricolo destro degli uccelli e nelle val- vole auricolo-ventricolari del cuore dei mammiferi. Ulteriori osserva- zioni fatte a poca distanza di tempo hanno indotto i ricercatori a con- clusioni disparate. Il BAUMGARTEN ritenne incostante il passaggio delle fibre muscolari dagli atrii nelle valvole; il NEGA invece confermò i risultati dei primi osservatori e il Rokiransty ne ammise solamente il passaggio in casi di cuori ipertrofici. Il Lupwie, anche con la ricerca microscopica, con- fermò indubbiamente l’anzi detto passaggio. Seguì un periodo di sosta nelle ricerche iniziate e i trattatisti fu- rono ostili o molto riservati nello accettare i risultati a cui erano per- venuti i menzionati ricercatori. Il SAPPEY e l’ HyRTL o non ne parlarono o diedero nozioni incomplete; il LuscHKA fu decisamente contrario alle nuove vedute. Di uguale opinione fu il DonpERs ed il KOLLIKER, il quale, sebbene non recisamente, finì per negare anch’egli il passaggio sopra detto. HenLE e Quary ammisero nelle valvole fibre muscolari provenienti dalle pareti del cuore. F. MùLLER ammise senz’ altro la provenienza di dette fibre dalle pareti atriali, seguito in ciò anche dal FRANK e dal _GusseNBAUER. Questi anzi fu molto preciso nello stabilire la struttura delle valvole dell’uomo, determinandone il decorso longitudinale e il decorso trasversale delle fibre muscolari. Il PETTIGREW negò ciò che ave- vano ammesso il Lancisi ed il SenAC; ed il Sé, pure ammettendo che le valvole a. v. agiscono sotto influenze muscolari, escluse che il tessuto muscolare entrasse nella composizione delle valvole stesse. Era questo nel 1876 lo stato delle cognizioni sulla continuità del miocardio atriale con quello ventricolare e si deve riconoscere che, ac- canto ad osservazioni esatte e coscienziose, ve ne erano di quelle contro- TRE L. DE GAETANI verse o addirittura negative, le quali ingenerarono quel confusionismo che | il PALADINO Si propose di eliminare con le sue classiche ricerche. Non si limitò egli alla sola osservazione dei fatti anatomici, ma in una con- cezione assai vasta, prospettò l’intima compenetrazione del miocardio degli atrii con quello dei ventricoli, ritenendo che una parte del primo, attraverso le valvole a. v. “e i tendini, passa nei muscoli papillari e nelle pareti ventricolari. Potè poi affermare, come corollario delle molteplici esperienze fatte, che la muscolatura delle valvole agisce attivamente nella funzione delle medesime, ritenuta fino ‘allora come passiva e di- pendente da fattori estranei alla costituzione di esse; e che il conti- nuarsi degli atrii nei ventricoli è condizione favorevole ad una maggiore solidità nell’ unione tra essi e di notevole influenza nel meccanismo ge- nerale e totale della pompa cardiaca. Egli esaminò 50 cuori appartenenti a varii animali (uomo, cavallo, asino, bue, vitello, cane, montone, gatto, gallo d’ India e testuggine) e venne a conclusioni assai interessanti. Per il cuore dell’uomo, premesso che i fatti anatomici non sono evidenti come negli altri animali, potè concludere che le valvole a. v. sono ricche di muscoli: ne ricevono dagli atrii e più dai ventricoli e notò che è la muscolatura longitudinale in- terna dei seni quella che si prolunga nelle valvole, mentre i muscoli provenienti dai ventricoli, disposti in fascetti appiattiti, si ripiegano sulla faccia inferiore delle valvole, ove corrono per breve spazio. Negli altri mammiferi osservò che la muscolatura delle valvole è più considerevole e proviene in maggior parte dai seni; e a proposito del cuore del cavallo notò che lo strato muscolare dei seni, a livello degli ostii a. v., perde gli strati più esterni di fibre circolari che si arrestano e continua con le fibre longitudinali e le circolari intermedie nello in- terno delle lamine valvolari. Di tali fibre le longitudinali vanno a ter- minare nei tendini di 2° e 3° ordine e qualche fascio passa direttamente sulle pareti ventricolari, ove in mezzo ai fascicoli muscolari appiattiti, che vanno ad inserirsi sulle lamine valvolari, si risolve in tendini. Ag- giunge poi, per osservazioni fatte nel cuore di vitello, che la nozione comune che la muscolatura dei seni e dei ventricoli ha un punto di par- tenza negli anelli tendinosi a. v. si trova in grande disaccordo coi fatti, ed a norma di questi deve essere profondamente modificata. Dopo l’esame di cuori di altri animali, riassumendo, dice che le valvole a. v. sono for- nite di muscoli che provengono dai seni e dai ventricoli; che quelli che scendono dai seni si devono ritenere proprio quali prolungamenti del n Me ve e to e i e RENIETENTONS O 0 RT ER RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE 13 | fondamentali delle valvole e sino ai margini liberi massime nelle lamine | o segmenti intermedi. Fatta una particolareggiata descrizione della di- È sposizione delle fibre muscolari nelle valvole a. v., conclude che in al- ° cuni mammiferi i seni non si arrestano a livello dei presunti anelli F fibro-cartilaginei degli ostii a. v., ma in massima scendono oltre e vanno ad inserirsi sulle pareti ventricolari e sui muscoli papillari, mercè una 3 parte dei tendini valvolari, i quali perciò varrebbe distinguere diver- | samente da quello che si fa oggidì, stando ai loro rapporti anatomici ed ai loro possibili incarichi funzionali. 4 Ripetendosi finalmente e dando prova di non comune acume di os- —. servazione, specialmente per quell’ epoca, scrive le seguenti parole in | riguardo alle disposizioni delle fibre muscolari nei molti cuori esami- nati: “ Una tale disposizione infirma i due cardini anatomici ripetuti | universalmente in ordine alla struttura del cuore, cioè che la muscola- | tura dei seni e quella dei ventricoli sono separate e distinte a livello delle aperture auricolo-ventricolari e che gli anelli fibro-cartilaginei siano Ci punto di arrivo e di partenza delle fibre muscolari del mesocardio ,. È Il concetto del DonpERS che ciascuna cavità del cuore ha una mu- | scolatura indipendente e che se vi è qualche unione essa è dovuta a tratti del connettivo fibroso degli anelli, non solo non portava alcun ap- | poggio alla teoria miogena, ma la infirmava e la infirmavano sempre. . più le ricerche del WiLLiam nei mammiferi, che negavano qualunque | connessione tra atrii e ventricoli. L'osservazione però del GASKELL che negli animali a sangue freddo esistono fibre unitive tra seni e ventricoli | era in aperto contrasto con la concezione del DonpERS; e in maggior contrasto stavano le osservazioni del Parapino e dello StANLEY-KENT che anche nei mammiferi ammettevano la presenza di particolari con- | nessioni in corrispondenza del setto interauricolo-ventricolare. Questo ultimo inoltre ammetteva una seconda maniera di congiunzione a. v. fatta | per mezzo di una rete di cellule muscolari sparse nel tessuto connettivo È degli anelli fibrosi a. v., ma la tecnica usata fu creduta non propria, il. suo lavoro non riuscì a convincere gli scettici e non fu tenuto in molta considerazione. Non è stata ulteriormente confermata la seconda specie — di connessioni ammessa dallo StanLEY-KENT; ma la prima specie, che È | coincideva con quella più ampia, messa molto prima in evidenza dal Parapino, ebbe indubbia conferma dalle ricerche di His j jun. Questi con ricerche sullo sviluppo e sulla morfologia del fascio unitivo, cui gene- e 114 L. DE GAETANI ralmente viene legato il suo nome, ha potuto stabilire che negli uccelli e nei mammiferi, compreso l’uomo, il detto fascio esiste costante mente. Con preparati microscopici potè esplicitamente descrivere una connes- sione muscolare tra atrii e ventricoli con queste parole: “ Il fascio mu- scolare origina dalla parete posteriore dell’ atrio destro, vicino al setto interatriale, nel solco a. v.j si avvicina al margine superiore del setto interventricolare con molteplici scambii di fasci, decorre nel medesimo in avanti, finchè detto fascio, accanto all’aorta, si biforca in un ramo destro e uno sinistro, il quale da ultimo termina nella base del pizzo valvo- lare aortico della mitrale ,. Sezionando il fascio nel cuore del coniglio osservò una differenza tra il ritmo dei ventricoli e quello dei seni, e modestamente poneva ai cli- nici il quesito se la bradicardia poteva ripetere la sua origine dalla di- scontinuità funzionale del f. unitivo. Le ricerche di His sono state di poi confermate da altri ricercatori. BRrAEUNIG riscontrò nel tritone, nella rana ed in altri animali a san- gue freddo, il passaggio della muscolatura atriale nella ventricolare, ma in una modalità speciale, che manca nei mammiferi; al contrario con- statò in questi un fascio muscolare, il quale decorre al di sotto della fossa ovale e sul margine superiore del setto interventricolare. Aggiunge dei particolari sull’ ulteriore decorso del f., i quali fanno pensare che egli abbia visto solamente il ramo sinistro di esso. HumBLET descrisse con sufficiente esattezza l’origine, il decorso e 1’ ul- teriore biforcazione del f. con il passaggio dei due rami risultanti su entrambe le pareti del setto interventricolare. RETZER, dopo aver accennato alle due teorie invocate per spiegare il modo col quale si propaga lo stimolo dell'onda di contrazione dagli atrii ai ventricoli, afferma che domina oscurità sulla presenza di vie musco- lari di comunicazione dello stimolo medesimo, vie che costituirebbero un fatto anatomico di straordinaria importanza per i fautori della teoria miogena. Poichè negli animali a sangue freddo gli era noto che comu- nicazioni muscolari a. v. erano state messe in evidenza, egli intraprese numerose ricerche per stabilire se tali connessioni esistono negli animali a sangue caldo e quale è la loro esatta posizione. In una rapida ras- segna bibliografica nota che nei trattati di anatomia tedeschi, inglesi e francesi viene affermata l'indipendenza tra la muscolatura atriale e quella ventricolare, compreso un estesissimo lavoro dell’ALBRECHT sul muscolo cardiaco e sul suo significato per la fisiologia, patologia e clinica del RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO- VENTRICOLARE 115 cuore. Il RerzER poi fa degli apprezzamenti erronei a proposito del la- voro del PaALapINo. Dopo aver detto che le ricerche di questo furono ricordate da ENGELMANN, WENCHEBACH, LANGENDORFF ed altri, si stupisce di non aver trovato nella memoria originale di lui indicazioni riguar- danti il principio da lui ammesso ‘che la muscolatura degli atri non termina negli anelli fibrosi, ma va in parte nelle pareti ventricolari e nei muscoli papillari. Aggiunge o che queste indicazioni si trovano in un altro lavoro del PaLapIino o che il BARDELEBEN è caduto in errori di traduzione riportando il sunto del sopra menzionato lavoro nell’ Jahresbe- richte f. Anat. u. Physiol. del 1876. La colpa che il RETZER addossa al BAR- DELEBEN ricade invece sopra di lui. Il BARDELEBEN fu abbastanza esatto nel riassumere la parte anatomica del lavoro del PALADINO: fu il RETZER invece che cadde in errori nella lettura del lavoro apparso nel 1876 nel “ Movimento medico-chirurgico ,, di Napoli. Dopo aver citato i la- vori di GasKeLL, Mc. WiLLiam, STANLEY-KENT ed His, dice che comples- sivamente, ma con qualche variante nel decorso, ha potuto confermare i reperti dell’ ultimo. Esaminò cuori interi, di piccoli mammiferi, tagliati in serie; cuori di animali grossi, tagliando in serie quei tratti in cui presumibilmente doveva trovarsi il fascio e da ultimo preparò macro- scopicamente il f. ricercandolo nel cuore dell’uomo, della pecora, del maiale, del vitello, del cavallo e del cane. Dopo aver indicato la tecnica micro e macroscopica usata, espone i resultati ottenuti, confermando la presenza del f. a. v. con numerosi particolari topografici e descrittivi, dando anche le dimensioni del f. che sarebbero lunghezza mm. 18,.lar- ghezza 2,5, spessezza 1,5. I precedenti autori avevano fatte le loro ricerche sul f. consideran- dolo come una connessione muscolare a. v. e, dopo averne indicato l’ori- gine, il decorso e la biforcazione, si arrestavano ad affermare che i rami terminali entravano in intima connessione col miocardio ventricolare sperdendosi in esso. Fu primo il TAwARA con due successivi lavori del 1905 e 1906, fatti con la guida dell’AscHorr, a considerare il f. a. v. come parte di un si- stema più complesso, un sistema propagatore dello stimolo per la con- trazione cardiaca. Esaminò il f. a. v. nei cuori di varii animali, com- preso l’uomo; secondo le sue ricerche il f. origina costantemente in vicinanza della valvola di TEBESIO, decorre orizzontalmente e parallela- mente in avanti al di sopra della tricuspide e quindi nel setto mem- branaceo. Prima di entrare nel setto i fasci muscolari si dispongono 116 L. DE GAETANI ad intreccio, costituendo un robusto nodo, e diventano poi paralleli nel setto membranaceo. Il f. ricostituito si divide in due rami: il destro de- corre in giù verticalmente sotto l’endocardio e si sfiocca in molti fasci piccoli tra le trabecole della parete ventricolare: il ramo sinistro, più largo, decorre sotto dell’endocardio, discende perpendicolarmente in giù e si slarga sopra tutta la parte interna del ventricolo. Esposti i carat- teri istologici del fascio unitivo, considera le diramazioni terminali di esso come fasci del PURKINJE, con i quali le identifica. Il f. unitivo, se- condo le sue vedute, rappresenta il centro unico cardiomotore dei mam- miferi, la cui parte principale risiede nel nodo intercalato nel fascio, prima che questo decorra nella parte membranacea del setto. Questo schema del sistema di propagazione dell’onda di contrazione. abbozzato nel primo lavoro, viene notevolmente ampliato nel successivo lavoro del TAwARA e sviluppato in tutti i suoi particolari che verranno riportati in altra parte del presente lavoro. Nello stesso anno e separatamente il TAwARA tratta dei così detti fasci tendinei abnormi del cuore. Dopo avere riassunto le sue vedute sul sistema unitivo a. v., enumera gli autori che sì sono occupati di questi fasci, le ‘categorie che i medesimi ne hanno fatte e riferisce un suo caso, in cui notansi tendini abnormi con disposizioni speciali e li considera come continuazioni abnormi di arborizzazioni terminali del sistema uni- tivo a. V. FagR ha confermato le ricerche di BRAEUNIG e di RETZER sul f. a. v. Trovò nell'uomo un f. muscolare che, nella regione della pars mem- branacea del setto passa al di sopra dello anello fibroso, decorre per un tratto orizzontalmente interamente separato dalla muscolatura ventrico- lare da tessuto connettivo e quindi si divide in due rami discendenti fino a mm. 35-40 di distanza dallo anello fibroso e che, senza subire alcuna suddivisione, vanno a fondersi completamente con la muscolatura del ventricolo. Dopo aver accennato alla disposizione del f. nell’embrione umano, dice che per il significato il f. a. v. è una via di propagazione dell'onda di contrazione dall’atrio al ventricolo; significato che oltre ai comuni mammiferi, in cui fu sicuramente stabilito dall’ HERING, va esteso anche all'uomo, per le conseguenze disastrose che alla meccanica del cuore producono le lesioni del f. a. v. KEITH e FLACK vollero determinare macroscopicamente e microscopi- camente l’ estensione, la natura e la posizione della connessione musco- lare tra le prime sezioni del cuore per tutti i vertebrati, constatare CIRO IIO ARO, I TER. OT Po Ù n È sm Se mai RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE 117 eventuali differenze della muscolatura conducente lo stimolo in confronto della rimanente muscolatura del cuore e derivare lo sviluppo della mu- scolatura atrioventricolare, come viene trovata nell'uomo, da forme più semplici e. più chiare (cuore dei pesci). Ammesso il principio che la via di propagazione dell’onda di contrazione sia attraverso la muscolatura, stabilirono cinque sezioni per le quali la detta onda deve passare. Trat- tarono gli autori della topografia del f., della struttura del nodo, dei caratteri della musculatura del f. e fecero dei richiami embriologici ine- renti ad esso, accennandone la disposizione nel cuore di varii animali. Le ricerche del WENCHEBACH possono avere in generale importanza per la dinamica del cuore, ma non hanno diretta attinenza col f. a. v. FIRKET ricercò e trovò il f. nell’embrione umano di mesi 3, 5 e 6 1/2, ma nulla aggiunse alle notizie che si avevano sulla situazione e sulla disposizione del f. medesimo. FaHR, rinnovando le ricerche, ha riconosciuto che per osservazioni non precise, aveva dovuto precedentemente discordare dallo schema del TAawaARA; mentre di poi, per il cuore di bambino, con altre risorse di tecnica, ha potuto addivenire nello essenziale agli stessi risultati del TawARrA. Ammette la grande analogia della disposizione del f. nell'uomo con la disposizione del f. con la rete del PuRrKINJE negli ungulati, os- servando come le espansioni terminali del f., specialmente quelle del ramo sinistro, formano sulla superficie interna del cuore una rete rami- ficata di sottili fibre muscolari, che presentano una particolare struttura e un decorso estremamente complicato. MoNcKEBERG potè anche nello essenziale confermare le vedute del TawaRrA. Esaminando i così detti fasci tendinei abnormi potè dividerli in due categorie: quelli che nulla hanno da fare coi rami del f. a. v. e quelli che sono in rapporto coi fasci del ramo sinistro di esso. In queste ricerche gli fu di guida la prova del glicogene in individui fortemente costituiti e sani. Keita e MAcKENZIE indagarono i rapporti tra il nodo del seno e il nodo atrioventricolare e non hanno ammesso la connessione di un nodo con l’altro. Rilevarono però come in quei punti la muscolatura del cuore entra in intimi rapporti con il sistema nervoso, e come 1 nodi stabi- livano direttamente un contatto neuromuscolare. KocH esamina la struttura del nodo del seno (KEITH) e del nodo a. v. (TAWARA) e trova che il nodo muscolare del seno ha circa mm. 2 di spessezza. Le fibre muscolari abbastanza sottili hanno la larghezza uguale 118 L. DE GAETANI ad '/3 di quella delle fibre atriali e sono incrociate e intrecciate a guisa di rete, come nel nodo di TAWARA. Descrive la struttura minuta delle fibre muscolari e del connettivo, simile nei due nodi e osserva come nel centro del nodo si trovi una robusta arteria le cui pulsazioni, forse, potrebbero eccitare col loro ritmo la muscolatura del nodo: nota ancora in vicinanza del nodo abbondanti cellule gangliari e fasci nervosi, che si addentrano nella massa del nodo. Crede verosimile che questi sistemi muscolari siano il luogo di origine dello stimolo del moto del cuore, la cui natura miogena o neurogena deve restare impregiudicata. THOREL dice che il nodo di TAwARA non rappresenta l ultima tappa del sistema conduttore delle eccitazioni cardiache. Esso è unito per un sistema di fibre simili a quelle di PuRKINJE con la vena cava superiore e col sinus, luogo di origine delle eccitazioni cardiache. Mentre le strette fibre di PuRKINJE del nodo di TAWARA si continuano da una parte con le grosse fibre del f. a. v. per spandersi nei ventricoli e unirsi alla loro muscolatura, le fibre di PuRKINJE del nodo sino-auricolare si continuano in alto con le grosse fibre della vena cava e quindi con la muscolatura ordinaria della vena e delle orecchiette. Siccome poi una parte delle fibre di PURKINJE provenienti dalla vena cava si prolunga di là dal nodo sino-auricolare fino al nodo di Tawara (fascio di WENCHEBACH), risulta la formazione di un sistema di fibre di PURKINJE esteso dalla vena cava - superiore alla punta del cuore la cui struttura speciale è senza dubbio in rapporto con l’ ufficio particolare (conduzione delle eccitazioni cardiache). KocH al contrario sostiene che nè nell’ uomo, nè in altri animali i fasci di PuRKINJE appariscono nel nodo del seno. Corregge la topografia ad esso assegnata dal THorEL e dice che ha forma di spillo spesso al massimo mm. 2 ed è irrorato dall’arteria coronaria destra per mezzo di due rami congiunti anastomoticamente. WALDINSKY studiò i nervi e i gangli nervosi del cuore senza dare particolari su quelli che si mettono in rapporto col f. a. v. Vengono in luce intanto molti lavori sul detto f., ma pochissimi ri- guardano qualche particolare dell'anatomia normale di esso: quasi tutti si riferiscono alla sua fisio-patologia. PAUKUL negò al f. a. v. il significato di intermediario delle pulsazioni coordinate tra atrio e ventricolo. Fece delle esperienze sui conigli, nel cuore dei quali il f. veniva legato con un filo di seta e nessun disturbo di coordinazione avveniva quante volte si evitava di impigliare nella legatura i tessuti circostanti; ma bastava comprendere nella legatura RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE : 119 qualche poco di tessuto immediatamente adiacente al f. medesimo per produrre tosto il rallentamento dei ventricoli, che non seguivano più i battiti degli atrii rimasti normali. L'autore dedusse dalle esperienze: 1.° che il f. a. v. non è la via che porta ai ventricoli l’eccitazione neces- saria al loro battito ritmico; 2.° che essendo il f.a. v. il solo legame muscolare che unisce i seni ai ventricoli, bisogna ammettere che non è il miocardio che trasmette lo stimolo generatore dei battiti cardiaci; 3.° che per conseguenza, questo compito è devoluto al sistema nervoso; 4.° che la regione del setto interauricolo-ventricolare, ove decorre il f., non ha alcun ufficio preponderante nella coordinazione dei diversi mo- vimenti del cuore. Le esperienze del PAUKUL erano in aperto contrasto con quelle fatte precedentemente da altri ricercatori. HumBLET con la sezione del f. a. v. aveva prodotto dissociazione as- soluta tra atrii e ventricoli. Risultati simili ottenne il FREDÉRICQ comprimendo il f. in una pinza di PÉAN. i ERLANGER, mediante una pinzetta, trasfiggeva il setto e mentre con una estremità ad uncino comprendeva il f., con l’altra, appoggiata sulla base del cuore, regolava la compressione e otteneva a volontà un ritmo più o meno lento. Con la compressione brusca i ventricoli cessavano di contrarsi e ci voleva del tempo perchè le contrazioni sì ripristinassero. Herine tagliò il f. in 10 cuori pulsanti artificialmente. Ottenne 9 volte un ritmo differente nelle contrazioni atriali e nelle ventricolari. Nel decimo caso il cuore batteva regolarmente, perchè il f. non era stato sezionato. In un pregevole lavoro sul polso lento permanente o temporaneo EsmeIN fa una minuta analisi di tutte le quistioni che possono avere relazione col suo tema, non trascurando di riportare le nozioni che sì hanno sull’anatomia, fisiologia, patologia e clinica del f. a. v. Fa una breve storia delle teorie miogena e neurogena e riferisce le opinioni, gli esperimenti e le deduzioni di una numerosa schiera di osservatori: FRANK, GASsKELL, EnceLMANN, Mvusckens, His jun., FANO, KRONECKER, SCHMEY, BETHE, TAWARA, SCHWARZ, Cron, LANGENDORFF, FRÉDÉRICQ, SPAL- LITTA. Vagliate le obiezioni contro la teoria miogena e riportate le no- zioni che si hanno sull’anatomia del f. a. v., non si pronuncia in favore di alcuna teoria e concorda cogli osservatori che accettano la teoria mista; teoria che gli permette di concludere che nel polso lento hanno id RES‘, 120 i. DE GAETANI grande importanza le alterazioni del setto del cuore e che l'integrità della parte interauricolo-ventricolare di esso è indispensabile perchè il cuore conservi il suo ritmo normale. La sezione menzionata deve la sua proprietà al f. a. v., che è la sola via, muscolare e nervosa, che possa condurre ai ventricoli l'eccitazione necessaria al loro battito normale. Ogni lesione di questa zona modifica il ritmo dei ventricoli, senza mo- dificare quello degli atrii. HesgetH Biges fece delle ricerche sul cuore isolato di coniglio e munito di circolazione artificiale. Sezionava o tutto il cuore destro o i due ventricoli lasciando solamente il setto o il ventricolo destro e una parte del setto. In tali condizioni ciò che restava del cuore mutilato si contraeva con energia e regolarità. La sezione delle ramificazioni infe- riori del f. a. v. non provocava altra modificazione che un intervallo maggiore del normale tra la sistole auricolare e la ventricolare. Lo stesso fatto verificavasi quando il taglio si avvicinava alla biforcazione del f.; ma se esso veniva praticato sul f. prima della biforcazione, si aveva l’arresto simultaneo delle contrazioni dei due ventricoli. Da questo fatto l’autore traeva due conclusioni: che le fibre del f. sono in connessione nel setto con tutto il miocardio ventricolare e non solo nel terzo infe- riore come si riteneva, e che ciascuno dei rami di biforcazione del f. si distribuisce non solo al ventricolo corrispondente, ma anche al ventricolo opposto. Afferma inoltre l’autore che sezionando il f. a piccoli colpi suc- cessivi non si produce altro che un maggiore intervallo tra la sistole auricolare e la ventricolare, fino a che l’ultimo colpo arresta completa- mente il ritmo ventricolare. In altri casi un colpo solo basta a provo- care l’Heart-block completo, poi le contrazioni riappariscono. Le sistoli che erano indipendenti, si fanno sincrone e l’Heart-block è divenuto in- completo. Quando la sezione del f. è completa si hanno da prima con- trazioni tumultuarie, poi viene il riposo: qualche volta questo è definitivo, altre volte le contrazioni riappariscon prima lente, una ogni due minuti, poi si fanno più ravvicinate fino ad aversi una sistole ventricolare per ogni quattro sistoli auricolari. JAMES B. WALTER ha illustrato il caso di un cuore che presentava interruzione del f. a. v. per una ulcerazione a livello del setto interven- tricolare. Si trattava di un uomo di 60 anni, sofferente per lunghi anni di un’affezione mitralica, accompagnata in ultimo da endocardite ulcerosa. In vita aveva presentato dissociazione completa tra i battiti degli atrii ‘ e quelli dei ventricoli, ma nessuno dei disturbi cerebrali, che caratte- rizzano la malattia di ApAMS-STOKES. RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE 121 MosBAcHER riporta due casi di rallentamento dei ventricoli del cuore. In uno il ritmo ritornava normale sotto l’azione dell’atropina (bradicardia nervosa). Nell’altro questo farmaco era inefficace e i battiti auricolari e ventricolari seguivano un ritmo totalmente dissimile. Alla necropsia fatta nel secondo caso si trovò una grave sclerosi del f. a. v. MackENZIE e MoRROw in un cardiaco iposistolico con aritmia perma- nente, senza lesioni valvolari, hanno osservato delle extrasistoli che, per ragioni di semeiotica, hanno ritenuto prodotte da extrastimolo proveniente dal f. a. v. HeRrING ha ripreso ad esaminare l'importante questione, per la fisio- logia, del rapporto che intercede tra il f. a. v. e la contrazione dei muscoli papillari. Con esperienze sul cuore sospeso di cane, sottoposto alla cir- colazione artificiale, egli ha potuto costantemente osservare che la con- trazione dei muscoli papillari precede quella della parete ventricolare corrispondente. Uguale constatazione ha fatto quando i ventricoli, separati dagli atrii, hanno cessato di ricevere da essi l’eccitazione motrice e battono per le loro proprie risorse. Uguale constatazione ancora quando non è impiegata l'irrigazione artificiale del cuore. Crede che questi fatti sarebbero rimasti senza spiegazione prima: ora ricevono la loro completa ‘spiegazione per le conoscenze recenti acquisite sull’ esistenza e sulle funzioni del f. a. v. e specialmente per il lavoro del TAwARA, da cui ri- sulta che le arborizzazioni terminali del f. medesimo si prolungano molto oltre dello inizio della biforcazione e che le più corte e le prime termi- nano nei muscoli papillari, mentre le altre devono fornire un decorso molto più lungo prima di fondersi col miocardio ventricolare. Questa disposizione quindi spiegherebbe il fatto che i pilastri carnosi si contraggono prima delle pareti ventricolari. Per rendere più precisa la sua dimostrazione l’ HeRING sezionava il ramo del f. che andava ad un dato muscolo papillare e riscontrava che questo muscolo entrava in azione con notevole ritardo in confronto degli altri. Le osservazioni di HeRING furono confermate da quelle del SALTZMAN, che nel cuore isolato, irrigato con la soluzione del RincER, con la cavità ventricolare destra aperta, ha potuto constatare che la contrazione dei pilastri comincia immediatamente dopo quella della base, prima anche di quella della punta del cuore e che l’onda di contrazione nel setto interventricolare cammina fino alla punta e poi rimonta alla parete dal basso in alto. | Il MoxncxEBERG in altro lavoro ritiene che il f. a. v. per la sua dispo- e Mr » o to, CTS CA da À 122 L. DE GAETANI sizione speciale, per il decorso sottoendocardico assai complicato, per la sua particolare struttura istologica, per il suo contenuto in glicogene differente da quello del muscolo cardiaco e per la speciale irrorazione, mostra reazioni patologiche differenti da quelle del restante miocardio. Passati in rassegna tutti i processi morbosi che possono colpirlo, am- mette per il f. una certa autonomia e anche una vera indipendenza pa- tologica e si pone il quesito, che non risolve, se certi casi d’insufficenza cardiaca sopravvenuti rapidamente ed inopinatamente, primitivi o inter- correnti nel corso di un’affezione anteriore, non siano sotto la dipendenza di una lesione del f. a. v. KARCHER e SCHAFFNER in un caso di malattia di Apams-Stoges hanno trovato placche sclerotiche del f. a. v. Siccome non tutto il f. era invaso dal processo morboso, così si spiegano come in alcuni momenti il ritmo era normale; ma quando sopravvenne l’indebolimento cardiaco, la por- zione di f. rimasta integra non fu più capace di mantenere le relazioni tra le fibre auricolari e le ventricolari e il cuore non potè più funzionare. ERLANGER in due lavori si occupa delle cause del blocco sino-auricolare e auricolo-ventricolare e della possibilità del ristabilirsi della unione fun- zionale tra i seni e i ventricoli dopo la distruzione parziale di un segmento del f. a. v. Afferma che l'unione funzionale non si può ristabilire e l’Heart-block persisterà nonostante la rigenerazione del tessuto. Parti- giano della teoria miogena, dice che l’onda di eccitazione non è condotta dai tronchi nervosi, ma dalle fibre muscolari del f.j essendo il tessuto cardiaco composto di plessi muscolari e nervosi, poichè le fibre nervose si rigenerano e riprendono le loro relazioni, i risultati delle esperienze fatte in proposito, sarebbero in appoggio della teoria miogena. Giudi- ziosamente poi fa delle riserve sugli apprezzamenti emessi considerando che ancora sono insufficienti le nostre cognizioni sui processi di rigene- razione delle fibre nervose. | BrAaMwELL ByRom riferisce un caso di Heart-block con trasformazione fibrosa e distruzione parziale del f. a. v. Descritta la sintomatologia, dice che l’infermo dopo pochi giorni di un attacco di reumatismo arti- colare acuto è morto in seguito a numerosi e penosi attacchi di angina pectoris. Alla necropsia trovò un nodulo calcare situato all’estremità de- stra dell’ inserzione della grande valvola mitrale, estendentesi fino al setto invadendo e distruggendo quasi il f. a. v. alla sua estremità auricolare. Il f. sembrava colpito da trasformazione fibrosa, e le poche fibre musco-. lari non colpite erano pallide. RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE 128 HANDWERK in un caso diagnosticato per insufficienza aortica sifilitica, con malattia di ApAms-Srokes per affezione probabilmente della stessa natura del f. a. v., alla necropsia trovò una gomma voluminosa occupante tutto il setto auricolare. L'A. si rivolge la domanda, data l’estensione del processo, se aleuni fasci di supplenza o neoformati non avevano po- tuto trasmettere le eccitazioni che pervenivano ancora al ventricolo. BeRrcE e PELISSIER portano anch'essi un contributo alla patologia del f. a. v. con l’osservazione di un caso di polso lento permanente, dovuto ad infiltrazione adiposa del f. medesimo, con deposito notevole di grasso in tutto il cuore, e lo credono analogo all’ unico caso esistente dell’AscHoFF; e, rintracciando l’etiologia nel saturnismo, etilismo e nella sifilide antica del loro ammalato, ricordano le sensazioni piacevoli che l’ammalato di- ceva di provare all’ uscire dalle sue crisi epilettiformi. LEVELLIS, BARKER e HIRscHFELDER cercarono di realizzare sperimen- talmente l’emisistolia sezionando il ramo ventricolare sinistro del f. a. v. Con tecnica non molto agevole riuscirono a tagliare il ramo sinistro 5 volte in 14 esperimenti. In 4 casì soli provocarono un Herzblock com- pleto; ma le contrazioni dei due ventricoli restarono sincrone. Senza negare formalmente l’esistenza dell’emisistolia, non l’ammettono che con le più grandi riserve. SCHMIDT combatte l’asserzione di NaGAYo che vi può essere sindrome di ApAams-STOKES, oltre che per lesione del f. a. v., anche per lesioni diffuse del miocardio. Impugna l’esattezza della diagnosi fatta da NAGAYO in un caso unico di malattia di Apams-STOKES per miocardite fibrosa e dimostra che la bradicardia non era dovuta a difetto di conducibilità, ma ad extrasistoli troppo deboli per arrivare al polso e che quindi vi era pseudo- e non vera bradicardia. EsmeIn studiando le forme cliniche della bradicardia consecutive a lesioni del f. a. v., ha potuto concludere che nella lesione della parte superiore del f. si ha dissociazione delle contrazioni auricolari e ventri- colari completa con bradicardia relativa; nelle lesioni antiche e profonde del f. bradicardia nodale; nelle lesioni irritative del f. bradicardia extra- sistolica. BaARIÉ e CLERET descrivono un caso di notevole sclerosi del f. a. v., di cui hanno fatto un minuto e particolareggiato esame istologico, con- cludendo che la clinica aveva potuto far prevedere la grave lesione del f. di conduzione, stabilendo la diagnosi di sindrome di Apams-STokEs, di cui l’ammalato presentava manifestamente caratteristiche le crisi paros- sistiche. Sc. Nat., Vol. XXVII i 124 L. DE GAETANI SaPEGNO ricorda i varii processi morbosi che possono colpire il f. di PALADINO-HIs e rileva come in gran parte si attribuisca ad essi la sin- drome di Apams-SToKEs. Osserva però che si fa sempre meno accentuata la tendenza di riportare costantemente la genesi della detta sindrome ad una lesione organica del f. a. v., e che si ammette accanto alla forma di origine miogena, un’altra forma dipendente da alterazioni nervose. Riporta un caso interessantissimo del MòncKEBERG nel quale in vita nes- sun fenomeno di Herzblock si era rilevato e che poi alla autopsia mo- strò un focolaio di calcificazione che interrompeva quasi completamente il f. a. v. Richiama quindi le esperienze del KRonEcKER che hanno dimo- strato che legature e suture in diverse parti del cuore, senza toccare il f. a.-v. turbavano la coordinazione delle pulsazioni, e quelle dell’ ImcHa- NITZKI, il quale distrusse il f. in alcuni animali, senza osservare altera- zioni nei movimenti cardiaci, e dice che non gli sembra provato in modo assoluto il nesso tra lesioni del f. e sindrome di ADAMS-STOKES. . Con l’esame sistematico di 72 cuori d’individui morti per varie malattie potè concludere che lesioni gravi del f. a. v. si riscontrano in casi di morte improvvisa, di morte per paralisi cardiaca: che le lesioni flo- gistiche del f. non sono di regola primitive: che nei casi di scompenso cardiaco, nei casì di aritmia, il reperto del f. a. v. si presenta di regola negativo e nei casi esaminati, nonostante le gravi lesioni del f., clinica- mente non era stata registrata la sindrome di ApAMS-STOKES, 1’ Herzblock. In un consecutivo lavoro il SAPEGNO, dopo avere mossi degli appunti alle ricerche dello ScHIBONI e fortemente infirmata la di lui asserzione che “ la correlazione fra bradicardia e aritmia da un lato e lesioni più o meno marcate del f. di His dall’altro è meravigliosamente mantenuta costante ,, osserva giustamente come oggi la questione della produzione delle aritmie sia molto complessa dopo i reperti di fibre nervose nel sistema di conduzione. Espone i risultati di altre 34 osservazioni da lui fatte su cuori di individui morti per malattie infettive o intossica- zioni gravi per vedere se ed in quale grado fosse colpito in tali casì il f. a. v., e viene alla conclusione che i processi infettivi o stati d’in- tossicazione generali e quelli precisamente cui più spesso segue la pa- ralisi cardiaca, possono esercitare ed effettivamente in una forte per- centuale di casi esercitano, una influenza deleteria sul sistema di con- duzione, determinandovi forme di degenerazione parenchimali. Tale reperto, se da un lato dimostra sempre più l'indipendenza esistente tra f. a. v. e miocardio, dall’altro porta una prova, sia pure nr I VEE SV © W Me RT ta) vidi. > fia i 'abtei ibale RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE 125 indiretta, al rapporto già stabilito fra lesioni gravi, generalizzate del sistema di conduzione e debolezza, insufficienza del cuore, paralisi cardiaca. Conn e TrENDELENBURG hanno riprese e controllate le esperienze del PaAUKUL, servendosi di 53 cuori di gatto, coniglio, cane, scimmia e capra, irrigati alla LANGENDORFF con la soluzione di RIincER-LocKE e praticando anzi che la legatura, poco sicura, la sezione nel f. In tutti i casi, al- l'esperimento fisiologico, seguì l’esame istologico con tagli in serie dei pezzi. Nel gatto e nel coniglio non hanno avuto risultati concludenti per le molteplici arborizzazioni del f. con fibre atipiche e quindi per la impossibilità di recidere tutte le vie di conduzione. Attribuivano a questa disposizione speciale i risultati divergenti del PAUKUL, che avrebbe legato soltanto il tronco principale del f. Le esperienze negli altri ani- mali confermano la teoria della conduzione dell’eccitazione per mezzo del f., la cui sezione sperimentale era seguita da soppressione durevole e completa della conducibilità dell’eccitazione dagli atrii ai ventricoli. Se il f. era sezionato solo in parte, nessun disturbo si verificava o si verificava un disturbo incompleto e passeggero. KRONECKER insorge contro CoHN e TRENDELENBURG che avevano rite- nute inesatte le esperienze del PAUKUL, e ricorda quelle sue e dei suoi collaboratori, fatte prima e dopo quelle del PaUKUL, le quali mostrano in maniera evidentissima che la contrazione del cuore è dovuta ad influenza nervosa. Nel cuore di cane, nel 1884 egli, legando un ponte nervoso in vicinanza del ramo discendente dell’arteria coronaria sinistra, vide le contrazioni dei ventricoli ridursi a 40 e diventare totalmente indipen- denti da quelle degli atrii rimaste a 160. Il ponte legato, esaminato da His, conteneva un filetto nervoso e un gruppo di cellule ganglionari. LomaK€ina osservò nel coniglio la dissociazione auricolo-ventricolare in seguito a legatura separata dell’aorta e dell’arteria polmonale. KRONECKER e SPALLITTA nella tartaruga e IMcHANITZKy-RIes nella lucertola, ottennero la dissociazione a. v. con la recisione di un ponte nervoso che riunisce esternamente le orecchiette ai ventricoli. Ricorda l’accurata legatura del f. fatta dal PauKUL e gli effetti negativi della medesima sulla coordinazione delle contrazioni a. v., e da ultimo osserva che tutte le precedenti esperienze sono state realizzate sul cuore ancora vivente e intatto, mentre quelle di Conn e TRENDELENBURG furono fatte sul cuore isolato e irrigato, in cui le reazioni sono assai differenti da quelle del cuore vivente, concludendo che le esperienze complessivamente di- 126 L. DE GAETANI mostrano che la dissociazione a. v. può essere provocata senza interes- sare il f. a. v., e che per conseguenza questo f. non è necessario, nè sufficiente, per mantenere da solo la coordinazione a. v. HeRrING per dimostrare che il rallentamento subito dalla condu- zione della eccitazione tra orecchietta e ventricolo nei mammiferi ha luogo nel nodo di TAWARA, eccitava nei cani il f. primitivo al disopra e . al di sotto del detto nodo mediante una corrente ad induzione e deter- minava esattamente l’intervallo tra il momento dell’eccitazione e quello in cui appariva la contrazione ventricolare. L’A. ha trovato che tale in- tervallo è molto più considerevole quando l’eccitazione deve attraversare il nodo. Trae quindi la conclusione che, nei casi di automatismo a. v., l’origine delle eccitazioni eterotope si trova nel nodo di TAwarA. La con- statazione di queste due funzioni importanti nel nucleo di Tawara (ral- lentamento e genesi delle eccitazioni) viene in aiuto della teoria miogena dell’attività cardiaca. STERNBERG esaminò in differenti punti il f. a. v. in 72 cuori di am- malati morti improvvisamente dopo un periodo più o meno lungo di debolezza cardiaca. Trovò lesioni morbose di varia natura, che però erano comuni a tutte le altre regioni del miocardio. Concluse che-le lesioni del f. non potevano essere la causa della morte improvvisa, ma che questa era dovuta alla degenerazione di tutta la massa del miocardio. Lewis e MatHISON hanno osservato l’Heart-block causato dalla asfissia e il LastertT l’Heart-block provocato dalla digitale. MonRaD-KRoHN conferma in tutto per topografia, struttura e chimica (contenuto in glicogene) le precedenti osservazioni, specialmente del MòoNckEBERG. Insiste nel fatto che il ramo sinistro del f. non è distinto, ma un insieme di fibre raggiate a ventaglio. Conferma la povertà di. fibrille nel £. e la ricchezza in sarcoplasma. Dice che il ramo destro è meno considerevole e prolunga il tronco principale; che il sinistro è più potente e che le sue fibre si dipartono dal tronco principale in diversi punti del setto membranaceo. Nel primo segmento (nodo di TAWARA, tronco principale e inizio dei due rami) la fibra muscolare è stretta e sottile; il resto dei rami ha la fibra muscolare spessa, con fibrille sui margini. Parla delle false fibre muscolari nel senso di Tawara e Mow- CKEBERG e distingue quelle che nulla hanno di comune col f. da quelle che provengono dal ramo sinistro di esso, e parla ancora della irriga- zione fatta da un ramo dell’arteria coronaria destra. Non ha potuto scoprire nervi nel f. Fa osservazioni sulle alterazioni del tessuto con: STA SERENA 4 Lei det Pg» : dei. - para tnt RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE 217 nettivo circondante il f. e sulla infiltrazione adiposa di questo. Dice che il f. risente meno di queste alterazioni in confronto del rimanente miocardio. Conclude che. il f. è la sola ed unica via muscolare normale di comunicazione tra la muscolatura degli atrii e quella dei ventricoli. Suppone che quando il f. è interrotto, un altro sistema, la muscolatura liscia dell’endocardio e dei vasi, può contribuire a ristabilire le comu- nicazioni. AMENOMIYA dice che nella difteria il f. ha presentato degenerazione adiposa più o meno appariscente. Polemizza col M6NcKEBERG sull’origine di questo processo morboso e conclude che le lesioni del f. a. v. costi- tuiscono evidentemente non la causa esclusiva, ma una delle cause degli accidenti del collasso cardiaco. Martin e KLorz riferiscono un caso di sarcoma intratoracico inte- ressante il cuore e specialmente il setto interventricolare, compresa la regione del f. a. v. L’ammalato in vita non aveva presentato sintomi di polso lento, che si manteneva sempre a 72-100. Si fondano su questa osservazione per pensare che il f. a. v. non è il solo fattore assicurante la trasmissione degli impulsi e la correlazione tra atrio e ventricolo. KRUMBHAAR in un uomo di 76 anni, con crisi epilettiformi e polso abitualmente lento a 30-40, che si abbassava a 18 e che financo si arre- stava completamente per quaiche secondo, mentre le sistoli auricolari erano 60-70 per minuto primo e sembravano completamente indipen- . denti da quelle ventricolari, all’autopsia, non trovò, microscopicamente, alcuna lesione sul decorso del f. a. v., tranne un lieve aumento del con- nettivo, ma non più di quello che trovasi in molti altri casi. Vi era de- generazione sclerotica del nodo sino-auricolare di KEITH e FLACK. FLemING e KenNEDY hanno constatato in una bambina difterica polso lento e dissociazione a. v. totale. All’autopsia furono trovati normali i ‘vaghi, ma si constatò che il nodo di TAwARA e la parte superiore del f. a. v. erano invasi da focolai intiammatorii, costituiti sopra tutto da — linfociti. — Mottarp, Dumas e ReBATTU hanno fatto un’osservazione di bradicardia nervosa, nella quale, all’autopsia, il f. a. v. fu trovato integro. Riferiscono i caratteri differenziali della bradicardia nervosa e di quella dovuta a lesioni del f. a. v., e concludono che se il f. non è solo conduttore mu- scolare della eccitazione, come a torto si è creduto per qualche tempo, ma è innervato ed in relazione col plesso cardiaco, un’affezione grave di questo si può riflettere sul f. e turbarne la funzione. Si comprende 128 L. DE GAETANI come in questi casi la sintomatologia non sia sensibilmente differente da quella prodotta da una lesione muscolare del f. a. v. Contemporaneamente a questi lavori, quasi tutti d’indole clinica e anatomo-patologica, piuttosto numerosi, pochi ne vengono alla luce in riguardo dell'anatomia normale del sistema unitivo a. v. Ivy MAcKENZIE e JANE RoBERTSON non hanno trovato negli uccelli il f. a. v. come nei mammiferi e nessuna muscolatura speciale hanno visto in corrispondenza del nodo del seno (KEITH e FLACK); videro poi intima associazione tra nervi e muscoli nella regione della vena cava e nel luogo ove dovrebbe trovarsi il f. a. v. PAcE conferma assolutamente la descrizione del sistema specifico di His-TAWARA e la continuità con le fibre di PuURKINJE e coi pilastri, come pure la presenza di numerosi elementi nervosi. Conferma ancora le ricerche di PaLADINO e di StANLEY-KENT. Con- clude che le fibre del PALADINO, come quelle del KENT, non hanno al- cuna connessione con il sistema di Hrs-TAWARA. CuRRAN in 96 cuori di uomo trovò attorno al f. una disposizione a borsa mucosa. Dice egli che la spessa parete connettivale del f. è più o meno distintamente divisa in due strati, di cui l’interno circonda il f. stesso, mentre l’esterno appartiene alla parete del canale in cui de- corre il f. Fra questi due strati intercede un interstizio, il quale o è attraversato da trabecole o è libero e contiene un liquido lubrificante, simile alla linfa, che facilita lo scorrimento del f., anche quando non si contragga la muscolatura circostante. Il liquido lubrificante accompagna. i rami di biforcazione del f., rendendone facile l’isolamento. La dimo- strazione della borsa si può fare mediante insufflazione di aria. Crede che la costante presenza della borsa possa dare adito a processi infiam- matorii. Parla ancora di fasci unitivi accessorii e crede che il PAUKUL, non comprendendo nella legatura del f. a. v. principale, uno di questi fasci accessori, abbia avuto dei risultati erronei, che lo indussero a ne- gare qualunque funzione al f.a. v. nella coordinazione del ritmo del cuore. MerconI ha voluto portare anch’egli un contributo alla conoscenza del f. a. v. e, dopo poche e non sempre esatte notizie bibliografiche, espone i risultati delle sue ricerche, che nulla aggiungono a quanto si conosceva sull’anatomia e fisiopatologia del f. a. v. Fa diverse conside- razioni e ipotesi non sempre poggiate su solide basi e trae conclusioni che non sembrano evidenti e necessarie conseguenze delle premesse. RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE 129 ENGEL fece ricerche sul f. a. v. indirizzandole all’istologia normale e patologica di esso. Nel cuore di vitello potè constatare, mediante il bleu di metilene, la presenza di 30-40 fasci «di fibre nervose amieliniche che decorrono paralleli o lievemente intrecciati col f. a. v. e provvedono in forma di fasci finissimamente granulosi i cordoni muscolari e le cellule del PuRKINJE: tali rapporti trovansi anche in altri mammiferi e negli anfibii. Nei rami di biforcazione del f. e in quelli che chiama falsi ten- dini terminali trovò cellule gangliari in quantità sorprendente, aggrup- pate in numero di 4-6, situate tra i fasci nervosi o addossate ad essi. Le cellule gangliari nella maggior parte sono unipolari. Nel vitello in- sieme coi fasci amielinici trovò fibre mieliniche, ma in scarsa quantità. In corrispondenza della biforcazioae, queste ultime accompagnano tanto il ramo destro quanto il sinistro e li seguono fino alla punta del cuore e fino al punto ove i fasci del PURKINJE si mescolano con la muscola- tura del ventricolo. Nell'uomo non trovò fibre mieliniche, ma potè osservare fasci amie- linici in un cuore iniettato col bleu di metilene dopo un’ora dalla morte. Nel ramo sinistro del f. vide anche disposizioni a rete o ad intreccio; da queste ultime due formazioni prendevano origine fascetti che circon- davano i fasci muscolari. Termina riferendo le sue ricerche sul conte- nuto in grasso del f. e sui falsi fasci tendinei di esso. Wizson studiò l’innervazione del f. a. v. nel vitello, porco, cane e nella pecora. Trovò in grande quantità cellule uni- bi- e multipolari, isolate, o aggruppate, tanto nel connettivo circondante il f., quanto nei cordoni muscolari del f. stesso. Vide il decorso, la disposizione e i rapporti delle fibre nervose, amieliniche quasi sempre, alcune mieliniche solamente nel vitello, e nulla di speciale trovò nei nervi vasomotorii che accompagnano i vasi del f. e delle sue diramazioni, nè potè osservare speciali ter- minazioni nervose. Non crede di potere omologizzare i fusi muscolari del f. con un apparato neuromuscolare. HocLL in un recentissimo lavoro, presentato all’Accademia di scienze matematiche e naturali di Vienna il 9 febbraio 1911 e venuto alla luce dopo il Congresso di Lipsia dell'aprile 1911, ove furono presentati dei preparati macroscopici del fascio, che erano stati anche presentati al Congresso internazionale dei Fisiologi di Vienna del 1910, espone le sue ricerche macroscopiche sul cuore dell’uomo e di altri animali. Esposta la letteratura sull’argomento, dice che a torto il DoGIEL dubita dell’esi- | stenza del f. unitivo e quindi osserva giustamente che la ricerca micro- 130 i L. DE GAETANI scopica del f. fatta quasi da tutti quelli che si occuparono dello argo- mento, non era la più adatta a risolvere le questioni inerenti alla esi- stenza, posizione e ai rapporti del f. stesso, e ricorda come il RETZER fu il primo che ebbe l’idea di prepararlo macroscopicamente, seguito poi da KeIiTA e FLACK, CuRRAN e KocH; ma osserva che questi ricer- catori non danno figure complete e descrizioni particolareggiate di tutto il sistema unitivo. Ha voluto quindi egli preparare macroscopicamente il sistema nel cuore dell’uomo, vitello, bue, maiale, cane e cavallo, e dà belle riproduzioni fotografiche dei riuscitissimi preparati, dei quali fa pure un’accurata descrizione. Conclude che nello essenziale il sistema è simile tanto nel cuore dell’uomo quanto in quello degli altri animali e che sono sorprendenti le differenze nel comportamento della robustezza di esso. Nel vitello, bue, pecora, maiale e cavallo è più sviluppato che nell'uomo e nel cane, mentre in questi è più considerevole la lunghezza del sistema unitivo. Ricorda che il f. in tutti gli animali studiati origi- nava in vicinanza del seno coronario da una rete di fasci, la quale passava nel nodo di TAWARA, da cui partiva il tronco principale che poi, allar- gandosi in una formazione triangolare, dava origine, ai rami destro e sinistro. Descrive il decorso di questi, i rapporti e il passaggio nei mu- scoli papillari, rilevando come i cuori dell’uomo e del cane abbiano tra loro le maggiori affinità, mentre le stesse affinità presentano fra loro i cuori dei rimanenti animali. In complesso trova un sistema continuo che va dal seno coronario ai muscoli papillari, il che giustificherebbe le esperienze dell’ HERING, dimostranti la precedenza della contrazione dei muscoli papillari su quella del resto del ventricolo, e ritiene esatto il significato dato al sistema da AscHorr e da TAWARA. Le notizie finora riportate si trovano in lavori che hanno attinenza più o meno intima con l’argomento del sistema unitivo del cuore. Nei trattati di Anatomia, tranne qualcuno recentissimo, nulla si trova che direttamente lo riguardi, e solamente si trovano notizie sulla struttura del cuore e su qualcuna delle questioni che col sistema unitivo in ge- nerale possano avere relazione, come il passaggio di fibre muscolari dagli atrii e dai ventricoli nelle valvole a. v., i tendinucci valvolari, la rete del PURKINJE ecc. Benchè IPPocRATE avesse ammesso la natura muscolare del cuore, i più antichi osservatori dubitarono di tale natura, come BERENGARIO da Carpi e VesaLIo, o del tutto la negarono come GareNo e ReALDO Co- Lomo. MatricHI e BoRELLI per primi stabilirono la natura muscolare RICERCHE: E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE IS del viscere e le loro vedute furono ampiamente confermate e ampliate da NiL STENSON (NiccoLò STENONE), LancIsI, Vieussens, LowER e Win- sLow con la sua formula, che sintetizzava tutte le cognizioni che allora si avevano sulla disposizione delle fibre cardiache: il cuore è formato da due sacchi muscolari, chiusi in un terzo sacco comune pure muscolare. La concezione della completa indipendenza della muscolatura degli atrii da quella dei ventricoli, quantunque più minutamente illustrata con interessanti particolari dal Senac, WoLFrr, MECKEL, GERDY ecc., fu sem- pre ritenuta principio indiscutibile e nessun accenno si trova ad un. sistema unitivo nei più comuni trattati di Anatomia umana, comparata e veterinaria: Gorconge, UcceLLI, RupEL, CLoQueT, LautA, BLANDIN, In- ZANI, STRAMBIO, CALDANI, CRUVEILHIER, HenLE, MEcKEL, MEYER, KRAUSE, BrAUNIS e BoucHaRD, HyRTL, SAPPEY, QuaIn, LuscKxHA, DEBIERRE, WIE- DERSHEIM, SPERINO, SOBOTTA, TestuT, PorrieR e CHARPY, GEGENBAUR, SPALTEHOLZ, BUCHANAN, SPAMPANI e VARALDI, CUNNINGHAM, VALENTI, ecc. Nel trattato di Anatomia del Romiti trovasi il primo accenno ad un sistema unitivo col ricordo delle ricerche del PaLapINO e delle sue pa- role a proposito delle fibre muscolari che dagli atrii vanno alle valvole: “ qualcuna passa direttamente nella parete del ventricolo ,. Vi sono riassunte inoltre le vedute moderne sulla costituzione delle valvole, sulle fibre muscolari che vi penetrano e su ciò che si sa della rete di PuRKINJE nell'uomo e negli animali. L’AscHorr nel suo recentissimo trattato di Anatomia patologica de- scrive esattamente l’origine, il decorso e la terminazione del f. a. v. conformemente all’esposizione del TAwARA. Osserva che nel tratto ven- tricolare i fasci del sistema unitivo si possono distinguere da quelli del rimanente miocardio per la ricchezza in glicogene. Ricorda i rapporti dei rami del f. con la rete del PurkINJE negli ungulati e ricorda pure «i nodi di Tawara e di KEeItH, con la speciale loro muscolatura, e i rap- porti con i rami arteriosi, che attraversano detti nodi, non che quelli con l’apparato nervoso del cuore. Nelle Istituzioni di Anatomia dell’ uomo del CHiaRUGI (vol. II, p. II, 1908) si trova per la prima volta un paragrafo dedicato al f.a. v. Questo viene descritto con tutti i particolari nella sua costituzione e nei rapporti conformemente alle vedute del Rerzer e del TAwARA e nelle dimensioni, che coincidono con ‘quelle date dal RerzER. Descritto il de- corso, la biforcazione e la terminazione dei rami di divisione, si accenna sebbene in modo dubitativo, alla continuazione delle arborizzazioni ter- » va in pr e - i » * x 132 L. DE GAETANI minali, con speciali elementi muscolari equivalenti alle così dette fibre di PURKINJE, le quali in altri mammiferi sono le vere terminazioni ca- ratteristiche del f. a. v. (TAWARA), e da ultimo vengono fatte sul f. me- desimo alcune considerazioni d’ indole fisiologica. Nel trattato di Anatomia di RauBER-KoPscA si trova una figura del ramo sinistro del f. con poche parole sul riguardo e credo per ciò che non sia esatta l'affermazione di HoLL che sia questo l’unico e il primo trattato che abbia dato ospitalità al f. a. v., poichè il CHIARUGI un anno prima della 8.8 edizione del KopscH del 1909 ne aveva parlato, per quell’epoca, con relativa ampiezza, mettendolo anche in rapporto con le fibre del PuURKINJE. Dalla rapida rassegna fatta dei lavori apparsi sulla struttura del cuore e del modo come essa viene esposta nei trattati di Anatomia de- scrittiva nasce spontanea la constatazione di due fatti: l’ indipendenza assoluta della muscolatura degli atrii da quella dei ventricoli e Ie re- centi osservazioni di un sistema muscolare unitivo. Il secondo fatto an- nulla completamente il primo e, con tutte le quistioni che ad esso si connettono, viene a mutare radicalmente alcune vedute che si avevano sulla anatomia, fisiologia, patologia e clinica del cuore. Il fatto primo è compendiato nella classica formula di WinsLow- GERDY: il cuore è composto di due sacchi muscolari contenuti in un terzo ugualmente muscolare. Il secondo che infirma il primo è costituito dalla presenza del f. a. v., detto comunemente fascio di Hrs. Prima di continuare nella esposizione dei criterii che hanno portato la notevole modificazione nel modo d’intendere la struttura del cuore devo aprire una parentesi sulla denominazione che deve essere data al nuovo fascio. Mettendo da parte le vedute del WinckLER che in altro senso si allontanavano da quelle del Gerpy, è fuor di dubbio che fu primo il PALADINO nel 1876 a negare l'indipendenza della muscolatura degli atrii da quella dei ventricoli, risultandogli dalle sue classiche ricerche il passaggio di fibre atriali nelle valvole a. v., di cui alcune andavano di- rettamente nelle pareti ventricolari, ammettendo un ampio sistema di comunicazioni col passaggio diretto del miocardio auricolare nel ventri- colare. Il PaLapino parlò di fasci unitivi a. v., ma non di fascio a. v, Li i < RTLA { Mieli , ih LA IA On Rie. \ RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE 1:39 Fu invece His jun. nel 1893 il primo a descrivere un f. unitivo a. v., al quale venne dato il suo nome. È molto probabile però, se non certo che il f. di His sia uno di quelli visti dal PALADINO: ed essendo dimo- strato che fibre muscolari del f. di His possono andare nel pizzo val- volare mediale della tricuspide, è verosimile ammettere che PALADINO ha visto il f. di His. Se non lo ha descritto in modo particolareggiato, quantunque avesse esaminato cuori di vitello e di montone ove è assai evidente, è per il fatto che teneva a mettere in rilievo un sistema più ampio di comunicazioni e non credeva di dover fare una descrizione particolareggiata per ogni singolo fascio che metteva in evidenza. Si deve dare al f. il nome del PaLapino o quello dello His? Non credo che si possa dare nè quello dell’ uno, nè quello dell’altro. La consuetudine di dare agli organi il nome dello scopritore o del presunto scopritore, se era possibile nei primordii delle investigazioni anatomiche, non è desiderabile che continui ancora complicando la già abbastanza compli- cata nomenclatura anatomica. Dubito anche della utilità di tale consuetudine, avendo essa dato luogo a vivaci polemiche per quistioni di priorità, che in fondo finiscono per turbare quella serenità, che è tanto necessaria nel campo della scienza. Nessun osservatore si accinge a fare una ricerca col proposito deliberato di fare una scoperta per vedere il suo nome unito come suffisso ad un nucleo nervoso, ad un’arteria, ad un muscolo ecc. Le ri- cerche si fanno con serena obiettività e quando si ha la fortuna di sco- prire qualche cosa di nuovo sono sempre i posteri che s’incaricano di unire il nome dello scopritore alla scoperta: ma tutto ciò è necessario? No: necessario è soltanto che ad ogni osservatore sia riconosciuto il merito di ciò che ha fatto, di ciò che ha scoperto. E nessuno dubita che al PaLapINo va attribuito il merito di avere descritto per primo i fasci unitivi a. v. e all’His quello di avere con esattezza descritto uno di questi fasci, cioè una particolarità di un sistema più complesso, il- lustrato dal PaLapino. I fatti importano, non i nomi. Se quindi si vo- lesse ancora conservare la consuetudine dei nomi sarebbe doveroso, come ha fatto con correttezza il SapEGNO, chiamare il fascio, fascio di Pala- dino-Hiîs. Se poi si vuole abbandonare questa consuetudine, crederei più esatto, attesa la caratteristica principale del f., che è quella di unire la sezione atriale con quella ventricolare, di denominarlo fascio atrio-ven- tricolare (f. a. v.), come fanno del resto in gran parte gl’Inglesi, i Te- deschi e i Francesi: e tutto ciò senza la benchè minima mancanza di 134 L. DE GAETANI deferenza verso il PaLADINO e l’His e senza menomare il merito indi- scutibile che ognuno di essi ha avuto nell’attuale modo d’intendere i rapporti tra la. muscolatura degli atrii e quella dei ventricoli. Chiusa la lunga e necessaria parentesi bisogna esaminare l’impor- tanza assegnata al f. unitivo nella dinamica del cuore. È risaputo che per spiegarne i movimenti, essendo ammesso da HaLLER in poi l’automatismo del cuore, cioè la proprietà che esso ha di continuare a battere per un certo tempo, isolato da tutte le connes- sioni sue col sistema nervoso centrale, si sono invocate due teorie: la neurogena e la miogena, che, sostenute da fautori autorevoli e valorosi, da tanti anni si contendono il campo nella interpretazione dell’automa- tismo cardiaco. I neurogenisti hanno riconosciuto nei gangli intrinseci del cuore, con le loro connessioni, un sistema completo capace di suscitare, coordinare e trasmettere le contrazioni del miocardio. Senza ricordare le numerose esperienze fatte in proposito, va ricor- dato che i neurogenisti, ammettendo la completa separazione della sezione atriale da quella ventricolare, riconoscevano come assiomatico il fatto che le dette sezioni dovevano essere collegate per via nervosa. I nervi moderatori e acceleratori, dimostrati dal DoGIEL in connessioni intime con le cellule gangliari cardiache del tipo motore, darebbero al cuore, se non il funzionamento, la proprietà di modificare questo sotto la di- pendenza del sistema nervoso centrale. I fautori della teoria neurogena riconoscevano alle regioni gangliari del cuore proprietà di cui erano sprovviste le altre regioni e credevano necessario lo intervento del si- stema nervoso per spiegare come la contrazione del cuore segua un cammino invariabile. Esperienze di legature o di eccitazioni praticate nella zona auricolo-ventricolare dimostravano come si poteva avere non solamente incoordinazione, ma financo il delirio del cuore. KRONECKER e ScaMEY ammettevano nel terzo superiore del setto interventricolare anche la presenza di un centro coordinatore, negato poi dal WILLIAM. Ricerche istopatologiche però hanno trovato normali i gangli nervosi in individui morti con manifesti segni di aritmia. | Per analogia avanzata dall’EncELMANN tra il muscolo cardiaco e le fibre muscolari lisce dell’uretere, credute sprovviste di nervi, e per l’as- senza di cellule nervose gangliari nelle pareti degli ureteri dei roditori e nel muscolo ventricolare della rana, è sorta la teoria miogena, la quale riconosce agli elementi muscolari del cuore la proprietà di essere organi RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE 135 centrali eccito-motori e di poter trasmettere l’eccitazione da cellula a cellula, essendo le dette cellule non separate da barriere di arresto alla propagazione dell’onda contrattile, ma fuse in unica massa contrattile. La nuova concezione di HEIDENHEIN del sincizio miocardico e le ricerche embriologiche che hanno stabilito nel miocardio la presenza di parti muscolari poco modificate, conservanti i caratteri embrionali, sono state invocate dai miogenisti in aiuto della loro teoria. Queste parti a struttura embrionale, situate tra lo sbocco delle due vene cave, o allo sbocco della vena coronaria secondo AscHorr, sareb- bero il punto di partenza dell’eccitazione cardiaca e sarebbero situate in fuori della zona dei gangli nervosi. E mentre l’ ENGELMANN riteneva ‘ ugualmente eccitabili tutti i punti del miocardio, altri miogenisti, tra cui l’HeRrING, negano all’atrio sinistro l’automatismo e lo collocano nelle parti a struttura embrionale dello atrio destro. Riconosciuta a queste parti la proprietà di essere il luogo di origine del movimento cardiaco, la causa intima di questo, l’eccitante che lo produce, sfugge sempre all’ investigazione. Ogni nuova scoperta di elementi nervosi nel miocardio, nei luoghi ove si credeva mancassero, era una pietra che veniva a mancare all’e- dificio della teoria miogena, e quando fu creduto che i gangli cardiaci, di natura simpatica, non sono esclusivamente sensitivi, come volevano His e RomBere, KREHL e RomBERG, ma che tra essi ve ne erano motori, veniva meno anche qualche pietra delle fondamenta della teoria. Dal momento che nel cuore esistono fibre intracardiache motrici, i miogenisti furono costretti ad ammettere che queste fibre potevano su- scitare le contrazioni muscolari e costituire un centro di automatismo; ma poterono opporre che battono cuori embrionali, in cui sono conte- nute fibre muscolari, ma non fibre nervose. Oltre dello ENGELMANN, an- ‘che miogenisti convinti come l’HerINc e l’ HorFMANN, hanno riconosciuto ai nervi intracardiaci qualche funzione nella dinamica del cuore. Nel contrasto fra neurogenisti e miogenisti si sono avute le più belle “manifestazioni di genialità e di potenza d’induzione: ma quando gli uni domandavano agli altri quelle prove anatomiche, che non potevano fornire per conto proprio, si è dovuto constatare che non si usciva dal campo delle ipotesi e che l’anatomia non ha dato finora le prove asso- lute a favore di una piuttosto che dell’altra teoria. Fornite le prove, dicevano i miogenisti ai neurogenisti, che nel cuore sono elementi ner- vosi motorii e che sono essi che suscitano i moti del miocardio. For- 136 L. DE GAETANI nite le prove, dicevano i secondi ai primi, che togliendo ogni connes- sione nervosa, gli elementi muscolari del seno intercavico e coronario; sono capaci di produrre automaticamente il movimento del miocardio, mediante le eccitazioni che in essi hanno origine. E queste prove, in modo veramente decisivo, si aspettano ancora. Un argomento poderoso invocato dai miogenisti è quello del cuore embrionale che pulsa prima che in esso siano immigrati elementi ner- vosi: ma quando le condizioni del tessuto cardiaco seno profondamente cambiate, quando le fibre muscolari del miocardio vengono ad essere intimamente circondate da fibre nervose e i caratteri embrionali per- mangono solamente in piccole zone di tessuto muscolare, si è sicuri della identità del meccanismo di contrazione tra il cuore adulto ed il . cuore embrionale? Non si può categoricamente affermare o negare, ma non è fuor di luogo ricordare che alcune funzioni della vita extrauterina sì compiono in modo differente da quello nel quale si compiono durante lo sviluppo. L'idea della contrazione diffusa di tutto il miocardio (esperienza del ventricolo della rana sezionato a zig-zag) per uno stimolo, di cui non sì specifica la natura, in un punto qualunque di esso, avvalorata dalla concezione odierna del sincizio miocardico, non è precisamente un ar- gomento in favore dei miogenisti, perchè non si può scindere la parte che nella contrazione ha la rete muscolare da quella che ha la rete nervosa, che quasi in tutto il miocardio è stata dimostrata in intimi rapporti con la prima. Col criterio dello arresto completo delle fibre muscolari degli atrii e dei ventricoli in corrispondenza degli anelli fibrosi e con la localiz- zazione dei resti del miocardio embrionale agli sbocchi delle grandi vene, ai miogenisti veniva a mancare il terreno anatomico per la loro teoria; ma nel terreno anatomico ancora combattono i miogenisti dopo la scoperta del sistema unitivo a. v. La via per cui si propaga l’onda di contrazione non è più incerta: c'è un ponte muscolare che unisce gli atri ai ventricoli, e per esso quindi l’onda contrattile sorta nei resti embrionali, dotati di caratteri peculiari, per il f. a. v., dall’atrio destro, attraverso il setto interventricolare, si propaga ai ventricoli. Possono le cognizioni anatomiche che si hanno attualmente sul f. a. v. spiegare le importantissime e vitali funzioni che ad esso si vogliono assegnare? È ciò che vedremo dopo aver esposti brevemente i risultati delle ricerche fatte dai varii osservatori e da me in riguardo dell’ana- tomia del f. a. v. in diversi animali e nell'uomo. O PE Le RI ARE: x x TRL I PE Spa sari ; RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE 137 * ; * La presenza di fasci muscolari unitivi a. v., notata da tempo nel cuore degli animali a sangue freddo da GaskELL (1883) e da WiLLtAM (1885- 1888), recentemente è stata anche confermata da SrAnLEY-KENT (1893), His jun. (1893), ReTzER (1904), BRAEUNIG (1904), TAWARA (1905-1906), FAHR (1907) ed altri nel cuore degli uccelli e dei mammiferi. Tralascio di riportare le ricerche che si riferiscono al sistema più complesso di fibre unitive e mi intrattengo su quelle che si riferiscono al f. a. v. Nonostante le ricerche del PaLADINO, il WILLIAM, pure ammet- tendo vero il fatto negli animali a sangue freddo, negava in modo re- ciso qualunque connessione muscolare tra atrii e ventricoli nei mammiferi; e mentre il KenT dava indicazioni vaghe di connessioni per mezzo di elementi spilliformi, aventi caratteri simili a quelli dei muscoli lisci, nel cuore di ratto e di coniglio, a destra del setto, tra atrio e ventricolo destro, è merito di His jun., avere per primo data quasi esattamente la descrizione del f. a. v. in base a ricerche microscopiche, fatte durante il lungo tempo che si è occupato del grave problema della attività car- diaca, e riassunta nelle parole altrove ricordate. Quantunque non indichi egli con esattezza l’ ulteriore destino dei due rami di biforcazione, pure bisogna riconoscere che la descrizione del tronco principale è fondamentalmente esatta. ReTzER nello essenziale ha confermato le vedute di His, con prepa- rati microscopici, fatti con tecnica appropriata, specialmente per una felice modificazione del metodo MaLLory, di cuori di varii animali, e con preparati macroscopici di cuori di uomo, pecora, maiale, vitello, ca- vallo, cane. Ha trovato il f. al confine superiore del setto interventricolare e al di sotto della parte membranacea del setto, circondato da tessuto con- nettivo: lo ha seguito in avanti, talora accavallato al setto e ne ha visto la divisione in due rami, i quali si congiungono gradatamente con la muscolatura del ventricolo. In alcuni preparati ha visto il f. addossarsi al lato sinistro del setto e passare distintamente un fascio dopo l’altro nella muscolatura del ventricolo. Nell'uomo trovò, in un caso, isolato il f. dopo macerazione e in altri lo preparò anche con gli strumenti da dissezione. Non potè con la macerazione mettere allo scoperto il f. nei cuori di maiale, cavallo, vitello e pecora, nè lo ricercò microscopicamente, 138 L. DE GAETANI Quasi le stesse cose dicono BRAEUNIG e HuUMBLET. Con le ricerche del TawarA la questione del f. a. v. entra nella fase della sua più grande importanza e cercherò di riferirne con maggiore ampiezza. Il f. a. v. perde la sua individualità e diventa parte di un si- stema complicato, incaricato della propagazione dello stimolo dell’onda contrattile. Ma questo sistema non è quello del PALADINO risultante dalla continuazione del miocardio atriale in quello ventricolare, secondo le modalità da lui indicate; è invece un sistema in cui entra un nuovo elemento, cioè la fibra del PURKINJE, di cui si fanno importanti constata- zioni per la morfologia e per il significato. Il sistema di TAwARA si pre- stava assai bene per i miogenisti come base anatomica della loro teoria e su questa base si è fondato lo edificio delle affannose recentissime ricerche sulla fisio-patologia del cuore. Il TAwARA ha esaminato microscopicamente in serie cuori di uomo, cane, pecora, vitello, giovenco, gatto, coniglio, ratto, cavia e piccione, osservandone qualcuno anche macroscopicamente, e asserisce che in tutti si trovano le fibre del PurkINJE o i loro equivalenti, che formano le arborizzazioni terminali del f. a. v. Dice che il sistema presenta una disposizione determinata con pochissime differenze. Ha la sua origine nel setto interatriale, come un cordone chiuso, e decorre -per il setto fibroso a. v. fino alle sue diramazioni nelle pareti ventricolari, separato dalla restante muscolatura del cuore per mezzo di tessuto connettivo; cordone che dopo si suddividerà a guisa di albero e che nel suo decorso non entra per nulla in connessione con il mio- cardio, ma solamente nelle sue diramazioni terminali si fonde con l’or- dinaria muscolatura del ventricolo. Ritiene che il sistema, per le sue proprietà topografiche, istologiche e biologiche, trasmetta le eccitazioni e presieda ai movimenti coordi- nati delle singole sezioni del cuore. Esamina quindi il comportamento del sistema nei varii cuori cominciando da quello della pecora. Al disopra del setto fibrocartilagineo a. v., dice egli, trovasi il nodo, che è una rete muscolare assai complicata. Da esso da una parte al- l’indietro decorre un fascio fino alla periferia anteriore del seno coro- nario e quivi si unisce con l’ordinaria muscolatura dell’atrio. Dall’altra parte va in avanti il f. assottigliato ed entra, per il setto fibrocartila- gineo, nel setto interventricolare. In alto raggiunge l’attacco della val- vola aortica posteriore mm. 5 circa sotto alla fossa ovale; in avantì si estende alla periferia postero-inferiore della porzione membranacea È | È 4 i i È RT I 7 e, eni ei nn nin ri iii mt o Liri hi uti. RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE 139 del setto. Nel setto interventricolare il f. si divide in due rami. Il si- nistro va in giù sotto l’endocardio del ventricolo sinistro, chiuso in una guaina di tessuto connettivo. Si divide in più gruppi, di cui i più robusti sotto forma di cordoni liberi contenenti f. tendinei vanno ai muscoli papillari anteriore e posteriore, per dividersi quindi sotto l’en- docardio in tutte le direzioni nelle pareti ventricolari. Nello stesso modo si comportano i cordoni non liberi. Il ramo destro non raggiunge l’en- docardio dentro il setto interventricolare; penetra dopo un decorso di 2 cm., rivestito di connettivo, in una grande trabecola muscolare, la quale si estende di contro al muscolo papillare anteriore. Qui il f. di- venta sottoendocardico e si sfiocca improvvisamente per mandare le sue innumerevoli diramazioni ai muscoli papillari e alle pareti del ventri- colo in tutte le direzioni. Nel cane il nodo è contiguo, a destra, alla parete della radice aor- tica confusa col setto fibrocartilagineo a. v.; il f. attraversa il setto a. v. all’altezza dello attacco della valvola aortica posteriore e penetra nel setto interventricolare nella circonferenza inferiore della parte membra- nacea del setto. Quindi si divide in due rami, i quali, divenendo ver- ticali, si dispongono sotto l’ endocardio. Il ramo sinistro apparisce al- l'altezza dell'inserzione della valvola aortica destra e posteriore, diventa largo e va in giù dividendosi in molteplici rami terminali. Il ramo destro apparisce sotto alla parte membranacea del setto, poco al di sotto della linea di attacco della metà anteriore del lembo tricuspidale mediale, va in basso e posteriormente e guadagna il muscolo papillare anteriore. Si divide in molti rami terminali, che decorrono per le diverse parti della parete ventricolare. Nell’ uomo il fascio trovasi sotto e posteriormente alla porzione membranacea del setto, sopra l’attacco del lembo tricuspidale mediale, un poco al di sotto degli attacchi più profondi del lembo aortico po- steriore. Il braccio sinistro appare come un largo strato opaco sopra il setto interventricolare; decorre in giù sfioccandosi in fascetti, che pos- sono disporsi a rete sui muscoli papillari e. sul resto della parete ven- tricolare. Il braccio destro è più difficilmente dimostrabile, poichè spesso non è riconoscibile macroscopicamente. Comincia nel setto al di sotto della cresta sopraventricolare nel dintorno del piccolo muscolo papillare mediale, va in basso ed in avanti, quindi ad arco in dietro verso la base del muscolo papillare anteriore; quindi dà diramazioni in tutte le di- rezioni. Il TAwARA aggiunge l'interessante notizia che nel cuore della Se. Nat., Vol. XXVII 12 140 L. DE GAETANI pecora, e più ancora in quelto del vitello, il f. a. v. fino alle sue propag- gini era accompagnato e intrecciato con un considerevole plesso nervoso, e nel vitello si trovavano alcune cellule gangliari nel setto interven- tricolare. Questi nervi potevano essere seguiti dorsalmente nel segmento vnosteriore del setto interatriale di contro al solco coronario. Nell’ uomo e nei rimanenti animali non vi erano nervi che davano all’ occhio. Istologicanmente il f. nella pecora, nel tratto settale e prima della biforcazione, è costituito di cellule straordinariamente grandi, variabili di forma, le quali a 2-3 una accanto all’altra, sono disposte in cordoni; 1 cordoni si addossano l’uno all’altro in forma di rete. Alla periferia deile cellule si trovano fibrille striate trasversalmente, le quali si di- spongono sopra i limiti delle cellule nel senso della lunghezza e spesso decorrono ondulatamente adattandosi alle forme irregolari delle cellule. I cordoni cellulari sono circondati da una sottile divisione di connet- tivo, la quale, alla superficie del f., sta in connessione con la spessa guaina connettivale di esso. Dallo estremo terminale atriale del f. partono 1-2-3 fasci muscolari sottili che penetrano nel nodo. Questo risulta di fasci stretti e disposti in rete assai complicata. Nelle maglie della rete si trova abbondante adipe, scarso tessuto connettivo, vasi sanguigni e fasci nervosi. Descrive quindi il graduale passaggio, nelle ordinarie fibre muscolari dell’ atrio, mentre dalla parte opposta, in corrispondenza dei rami di biforcazione, le cellule cambiano di forma per chiarirsi tipiche cellule del PURKINJE. Dà i caratteri di queste cellule che fondamentalmente sono quelli già noti e descrive come questi cordoni cellulari prendono gradatamente i caratteri delle ordinarie fibre muscolari del cuore. Nel cane il nodo presenta una fitta rete di fasci muscolari pallidi, con scarsa fibrillazione e indistinta striatura trasversale, con abbondante tessuto connettivo. In vicinanza del seno coronario il sarcoplasma diminuisce e i fasci si di- spongono quasi parallelamente. Nel tratto ventricolare il f. ha caratteri molto simili a quelli del nodo: i limiti cellulari sono poco definiti. Nel tratto terminale i fasci sono più allontanati, con sepimenti connettivali lamellari. Nel cane neonato i fasci di PURKINJE si comportano come quelli della pecora; ma dopo pochi giorni la fibrillazione è più ricca e più ap- pariscente nel sarcoplasma. Nell’ uomo si hanno disposizioni molto simili a quelle del cane. Nei feti umani progrediti nello sviluppo, i limiti cellulari non sono più di- stinguibili. atto det RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE 141 Nei conigli e nei ratti la porzione atriale risulta di una fitta rete ‘ di fasci muscolari, ricchi di nuclei; nel rimanente il f. presenta gli stessi «caratteri del miocardio comune. Il braccio sinistro del f. nelle cavie è costituito di fasci pallidi, po- veri di fibrille. Le arborizzazioni terminali nel colombo presentano fasci addensati con scarse e delicate fibrille e grossi nuclei. I limiti cellulari sono in- distinti. I ricercatori venuti dopo TAwARA hanno sostanzialmente confermato le vedute di lui: così il FIRKET, il FAHR, il MònckEBERG. Sulla struttura dei nodi di KEITH e di TAwARA non c’è uniformità di reperti, come sì può rilevare dai ricordati studii di KeitE e MACcKENZIE, KocH e THOREL. Interessanti ricerche sulle fibre nervose e sulle cellule gangliari del si- stema unitivo hanno fatto l’ EnceL e il WiLson. Le mie ricerche furono fatte nei cuori di diversi mammiferi, cuori che io esaminai macroscopicamente e in parte microscopicamente. Mi sono fermato principalmente allo studio accurato del cuore degli ovini, come quello che presenta nel modo più tipico il sistema unitivo a. v. e poi allo studio di quello dell’uomo, che di molto si allontana dalla forma tipica. Esaminai ancora cuori di vitello, di asino, di cavallo, di cane, di coniglio, di cavia, di gatto, di pipistrello e di topo. Il metodo da me usato è stato quello di preparare macroscopicamente il f. a. v. e quindi, dopo averne fatta la descrizione con le relative osservazioni, di asportarlo per sottoporlo all'esame istologico, Rinunciai solamente alla ricerca grossolana del f. nel pipistrello e nel topo, di cui limitai lo stu- dio alla sola ricerca microscopica. A questo punto credo doveroso dichiarare che le mie ricerche furono fatte indipendentemente da quelle di _Hott. Nello stesso tempo che a lui, è venuta anche a me l’idea della ricerca macroscopica del fascio fatta sistematicamente, perchè il metodo della ricerca microscopica, anche con la ricostruzione, può dimostrare il f., ma è difficile che possa dare tutti i particolari descrittivi e topografici dello intero sistema dalla sua origine dal seno coronario fino alle ultime diramazioni. Quando HoLt il 9 del corrente febbraio presentava il risultato dei suoi preparati al- l'Accademia di Scienze matematiche e naturali di Vienna, avevo di già 142 L. DE GAETANI fatto molti preparati macroscopici di cuori di uomo e di altri animali, e quando egli mandava i suoi preparati al Congresso di Lipsia del 23 - aprile di quest'anno, il prof. RoMITI, per mia preghiera, vi portava già il manoscritto di una mia nota preventiva sull’ argomento, ultimata pochi giorni prima e che durante il Congresso fu consegnata all’ Ana- tomischer Anzeiger, in cui fu pubblicata il 21 giugno del corrente anno. Procedevo alla ricerca macroscopica del f. esaminando i cuori ap- pena tolti dai soggetti. Nessun trattamento preventivo facevo ad essi subire perchè non necessario, anzi nocivo alla ricerca. Siccome facevo la preparazione con gli usuali strumenti da dissezione, a nulla mi sa- rebbero serviti i processi di macerazione: anzi, per la trasparenza che questi fanno assumere ai tessuti, e per il colorito uniforme che ad essi danno (processo del Mac CaLLum), sarebbero stati nocivi, come nocivi riescono alla ricerca i comuni liquidi conservativi, fatta una relativa ec- cezione del KarserLING. Qualunque liquido, anche la semplice acqua, sbiadisce uniformemente il colore delle fibre muscolari, mentre allo stato. naturale, il f. a. v. presenta quel colorito grigio pallido, così caratteri- stico, che è difficile poter confondere con quello del comune miocardio. Aperti i ventricoli e gli atrii del cuore, con i tagli che si praticano nella tecnica dell’ anatomia patologica, si procede alla ricerca del f. guardando per trasparenza uve trovasi la pars membranacea del setto interauricolo-ventricolare. Si vede subito una zona trasparente, bian- castra, priva di fibre muscolari, variabile per forma, per lo più a seg- mento ellissoidale o circolare, diretta nel senso postero-anteriore, con la base in basso, rappresentata da un margine aderente, come una corda sottesa all’arco descritto dal margine arcuato della pars membranacea. È in corrispondenza della base che qualche volta si vede trasparire il f. e allora con strumenti adatti si mette delicatamente allo scoperto. Se non si intravede, allora con una incisione parallela alla base, si pe- netra tra le due lamine del setto fibroso e scollandole si riesce a vedere il f. Osservo però che il setto fibroso può presentare delle varietà e in tali casi occorre una discreta attitudine per riuscire nella preparazione. Non in tutti gli animali il f. presenta topografia uniforme. Nel cuore di montone, vitello, cavallo e altri mammiferi la posizione del f. è più profonda. Nel cuore di montone il f. è situato profondamente al di sotto del margine inferiore del setto fibroso, tra la muscolatura propria del setto, che bisogna distaccare dalla sua inserzione allo scheletro fibroso. re RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE 143 Il f. si rende più superficiale avvicinandosi alla sua biforcazione ed il ramo sinistro, tranne l’inizio coperto dai muscoli subaortici, è addirit- tura sotto l’endocardio, mentre il destro nel suo tratto iniziale è ancora situato nella spessezza del miocardio del setto e solo dopo qualche cm. di decorso si rende superficiale. Onde è consigliabile il procedimento che io ho sempre usato di cominciare la preparazione col distaccare l’endocardio della parete sinistra del setto e, trovato il ramo sinistro, grigio pallido, del f., isolarlo dalle fibre restanti del miocardio. Si giunge presto alla biforcazione e quindi, seguendo il setto dallo avanti all’in- dietro, si scopre la porzione indivisa del f., che si può agevolmente se- guire fino al nodo di TAwaARA: quindi, dalla parte del ventricolo destro, si riprende il ramo destro dalla biforcazione in giù e si completa la preparazione. Nel vitello quasi nello stesso modo si può riuscire a preparare il f.; ma egli altri animali, non trovandosi una disposizione così carat- teristica, si può procedere alla ricerca del f. andando dalla origine di essu verso la biforcazione. Il f. unitivo a. v. nel montone mantiene una disposizione costante e tipica, che difficilmente si trova in altri animali. Alquanto in avanti e al di sotto dello sbocco della vena coronaria si trova il così detto nodo di TAWARA, formazione di notevole consi- stenza, di colorito biancastro, di forma più o meno rotondeggiante 0 amigdaliforme. Da questa formazione nodulare partono fibre muscolari, che vanno all'indietro verso lo sbocco della vena coronaria confonden- dosi con l’ordinaria muscolatura dell’atrio destro. È in corrispondenza di questo tratto che si trovano i vasi e i nervi che vanno al nodo. In avanti le fibre che partono dal nodo costituiscono il f. a. v., il quale sin dalla sua origine appare cordoniforme e tale si mantiene fino alla sua biforcazione, decorrendo orizzontalmente e parallelamente alla base della porzione membranacea del setto, deviato alquanto a destra e na- scosto dalle fibre del miocardio settale. Lungo il suo decorso il f. resta separato da questo da un invoglio di tessuto connettivo, che poi con- tinua sui rami del f. medesimo. Al limite superiore del setto interven- tricolare il f. si divide in due rami, i quali accavallano quella por- zione dell’anello fibroso che corrisponde alla estremità anteriore della curva che descrive la pars membranacea. Il ramo destro del f. acquista dopo qualche cm. e più di decorso la posizione sottoendocardica e su- bisce allora le prime divisioni. Qualcuna di queste si continua con uno tf ARI TI MT “i si = i 144 L. DE GAETANI dei tendini valvolari, altre vanno nei ponti muscolari di LEONARDO da Vinci e una va costantemente nella base del muscolo papillare ante- riore. Alle prime divisioni ne seguono numerose altre le quali vanno a sperdersi sulle pareti interne del ventricolo destro, senza però formare su di esse un rivestimento completo. Il ramo sinistro, come dissi, diventa presto sottoendocardico e si dirige, divenendo più rapidamente verticale in confronto del destro, verso la punta del cuore. Poco dopo la sua origine esso si allarga no- tevolmente a ventaglio; alcuni dei fasci sì continuano con falsi tendini, che si portano verso i muscoli papillari; altri si addossano come arbo- rizzazioni terminali, sempre sotto l’endocardio, alle pareti interne del ventricolo e nelle più svariate direzioni. Nel cane il nodo è ad un livello più basso di quello del montone. Il f. a. v. partendo da esso si dirige in avanti seguendo il margine in- feriore della pars membranacea del setto e quindi si divide nei due rami, che presto diventano verticali; il destro, divenuto superficiale al- quanto al di sotto dello attacco della porzione anteriore del lembo tri- cuspidale mediale, raggiunge il muscolo papillare anteriore; il sinistro si allarga notevolmente, dividendosi in molteplici cordoni, dei quali alcuni decorrono liberamente, altri formano come una rete lungo le pareti ven- tricolari, esaurendosi sia tra ‘le trabecole carnee, sia nelle fessure che le separano. Disposizioni poco dissimili furono trovate nei cuori degli altri ani- mali studiati. Solamente noto che mentre nella pecora, nel vitello, nel cavallo e nell’asino il f. è più robusto, e relativamente predominano i diametri della larghezza e della spessezza, nel cane e nell'uomo pre- vale la lunghezza; quindi mentre in questi ultimi il f. è lungo e sottile, negli altri animali esso è più breve e robusto. Trovai quasi in tutti vasi sanguigni che irroravano il nodo e filuzzi nervosi che penetravano in esso. Di La disposizione tipica e costante, come la presenta il cuore degli ovini non si trova in quello dell’ uomo, ed è da dubitare che tutti gli osservatori che hanno studiato il f. sia con intenti di anatomia normale, sia con intenti di fisiopatologia, abbiano portato la loro attenzione sopra la stessa formazione. Il metodo della ricerca microscopica, adoperato da moltissimi, non credo che sia indiscutibilmente il più adatto per de- terminare i più minuti particolari descrittivi e topografici del f. Come dissi in un mio recente lavoro il f. nell’uomo per la sua to- RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE , 145 pografia, quando esiste, è rilevabile macroscopicamente. Insisto su questa circostanza perchè l’ ho voluto ricercare nel cuore dell’uomo con la mas- sima accuratezza, avuto riguardo all’importanza straordinariamente grande che ad esso si vuole attribuire. Feci da principio qualche tentativo di macerazione col metodo del Mac CaLLum e dovetti convincermi che per esso la ricerca veniva no- tevolmente ostacolata; nè potei constatare quel vantato disgregamento del connettivo che rende isolati i fasci muscolari. Sarà unico il caso del ReTzER, che ottenne con la macerazione il distacco degli atrii dai ventricoli e l'isolamento del f. a. v. In seguito feci l'esame sistematico di 80 cuori umani con intenti topografici e descrittivi cercando di preparare il f. con gli usuali stru- menti da dissezione; e tutte le volte che il f. c'era, aprendo- quella specie di tasca che trovasi alla base della parte membranacea del setto, ‘esso veniva messo allo scoperto. e preparato convenientemente. Ciò in- dipendentemente dal suo volume, perchè fu scoperto anche ridotto a pro- porzioni inverosimili di sottigliezza, e fu preparato anche nel cuore di un feto di 6 mesi circa. Riassumo in una tabella i casi studiati segnando per ognuno o l'assenza del f. o la presenza di esso, con il modo di comportarsi e con le dimensioni del tratto indiviso dal nodo fino alla biforcazione. Lun- | Lar- | Spes- Num. |shezza|ghezza| sezza FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE mm, mm. mm, 1 Ero 07 1 Biforcazione. Ramo destro (R.D.) e ramo sinistro (R. S.) sulle rispettive pareti del setto interven- tricolare vanno verso la punta del cuore e si esauriscono, passando il D. nel muscolo papillare anteriore (M. papill. anter.). . = — — Il fascio individualizzato non esiste. Dal nodo par- tono direttamente due fascetti. Uno lungo mm. 22 va sulla faccia sinistra del setto interventricolare, si slarga a ventaglio, raggiunge la larghezza di mm. 6 e si sperde sulle colonne carnose della pa- rete posteriore del ventricolo. L’altro si porta in avanti e si divide in due rami: il destro lungo 2 ti 2 0,5 Passa quasi tutto a D. 3 = | —_ = | Manca. 4 — —_ | _ Manca. i 146 L. DE GAETANI Lun- | Lar- | Spes- Num. ghezza ghezza Sezza FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE mm. mm, mm. mm. 48, largo 2 si dirige verso la punta e, de- scrivendo un’ansa, .si esaurisce nel M. papill. anter. Il sinistro è nastriforme, descrive una curva in giù, raggiungendo uno slargamento a in un gran numero di fascetti che si esauriscono, sempre sotto l’endocardio, nelle colonne carnose del setto e della parete anteriore del ventricolo $. ventaglio di mm. 8 e poi si divide e suddivide 6 _ = = Manca. 7 — _ =: Manca. Peso del cuore gr. 635. 8 — — = Manca. 9 —_ = * Manca. 10 La Oa o, Dopo un accenno a divisione passa quasi tutto a S. ‘e, come nastro largo mm. 2,5 dopo 18 mm. di decorso, si divide e si suddivide fino ad esaurirsi. DI A: SER Manca. 12 _ —_ - Manca. Peso del cuore gr. 590. 13 a —- —_ Manca. 14 8 1 0,2 Sottile. Passa quasi tutto a S. 15 = i — Manca. 16 9 È 0,3 Biforcazione. Il R. D. va nel M. papill. anter. Il R. S. a ventaglio si esaurisce presto nel setto. 17 id Da, Ss Manca. 18 DA da 5, Manca. 19 2 = = Manca. 20 di Sira, ata Manca. Dil Ls Se Manca. i 922 10 320 Si espande tutto a ventaglio nel ventricolo S. 23 Ta 08 OA Biforcazione. R. D. sottilissimo, dopo un decorso di mm. 44 si sperde nel M. papill. anter. R. S. si fa nastriforme e si sperde nelle colonne carnose di 2.° e 3.° ordine, dopo aver raggiunto la larghezza di mm. 4. > 24 Jai 3 0,6 Biforcazione. R. D. dopo mm. 28 si esaurisce nel setto. R. S. si esaurisce poco dopo avvenuta la biforcazione. 95 2 DES DR Manca. MT : 0) 26 33 RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE 147 Lun- 12 Lar- Spes- Num. |ghezza|ghezza| sezza mm, FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE 0,4 0,6 Passa tutto a D. e dopo un decorso di mm. 48 si esaurisce, descrivendo un’ansa, nel M. papill. anter. Manca. Manca. Manca. Manca. Biforcazione. R. D. dopo pochi mm. si esaurisce; R. S. si esaurisce presto sotto la valvola semilu- nare aortica mediale. Manca. Biforcazione. R. D. dopo un decorso di mm. 1,5 si trasforma in un tendinuccio che s'inserisce sul margine libero del lembo valvolare anteriore della tricuspide. R. S. dopo pochi mm. di decorso si esaurisce nel setto. | Esilissimo. Si continua solamente nel R. D. il quale, dopo un decorso di mm. 38, si assottiglia addos- sandosi ad un tendinuccio che va nel M. papill. anter. Cuore notevolmente ipertrofico, peso gr. 680. Bifor- cazione. R. D. si divide a sua volta, dopo mm. 11, in due rami: uno si dirige posteriormente, tra- sformandosi in un tendinuccio, che si fissa sul margine libero del lembo valvolare mediale della tricuspide; l’altro, dopo un decorso di mm. 15, dà un rametto che si continua con un tendinuc- cio che si approfonda nel setto e un ramo lungo ed esile che passa nel M. papill. anter. R. S. esile, slargato a ventaglio, dopo brevissimo decorso, si esaurisce sottoendocardialmente nel setto. Manca. | Passa quasi tutto a D., si assottiglia notevolmente e dopo mm. 7 di decorso, si esaurisce nel setto. Biforcazione. R. S. appena visibile. R. D., lungo mm. 32, dopo aver dato alcune diramazioni, si approfonda nel M. papill. anter. Manca. Biforcazione. R. D. dopo mm. 88, descrivendo una ansa, va nel M. papill. anter. kR. S. si slarga a PIRO RA N + da 148 L. DE GAETANI Lun- | Lar- | Spes- Nan: laico FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE mm. mn. mm. nastro, che raggiunge 4 mm. di larghezza e si sfiocca sotto l’endocardio. 41 14 2 0,5 Biforcazione. R. D. va nel M. papill. anter. R. S. dà pochissime fibre in giù e il resto, orizzontalmente, va a sperdersi al di sotto della valvola sigmoidea aortica mediale. 42 = = —_ Manca. 43 7 2 0,2 Passa quasi tutto nel R. D. e va finire nel M. papill. anter. di — = = Manca. . 45 = = — | Manca. i 46 7 1 0,3 Passa tutto a D., continuandosi come un fascio sot- tile che, dopo un decorso di mm. 62, va diretta- mente nel M. papill. anter. 47 = = — | Manca. 48 8 3 0,3 Biforcazione. R. D. dopo mm. 40 si esaurisce nel setto; R. S. dopo breve decorso orizzontale si esaurisce sotto la valv. semilun. aort. med. 49 9 ii 0,6 Biforcazione. R. S. a ventaglio, si esaurisce presto nel setto; R. D. va nel M. papill. anter. 50 — —_ _ Manca. i DI 11 1 0,8 Cordoniforme,; sottile. Biforcazione. R. D. e R. S. si esauriscono poco dopo l’origine. 52 10 di 1 È un cordoncino che va dal nodo al margine an- teriore del setto membranaceo. 53 9 1 0,7 Passa quasi tutto a D. e va nel M. papill. anter. D4 _ — - Manca. 55 dia) ai Sa Manca. 56 ni SS == Manca. 57 vati = 32 Manca. 58 Se 228 TS Manca. 59 ds: TIR sa Manca. 60 1IShr0, fi 006 Non dà rami: va dal nodo al margine anteriore del setto membranaceo. 61 19 #0, #3|020076 Passa a D., terminando dopo mm. 38 di decorso nel M. papill. anter. 62 8-0, 30 Cordoniforme, passa a D. e termina dopo qualche em. TRATTO I e I | i v 1 RITO, RETE, Je 2 80 RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO- VENTRICOLARE 149 Lun- | Lar- | Spes- Num. |chezza|ghezza| sezza FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE mm. mm. mm. 63 —_ —_ —_ Manca. 64 — = — Manca. 65 _ _ —_ Manca. 66 e 07517059 Passa tutto a D. e dopo pochi mm.. si esaurisce espandendosi a ventaglio nella muscolatura sot- tostante. 67 -— — — Manca. .68 — =" — Manca. 69 — = — Manca. 70 SR 25:1:02 Si esaurisce a D, in un tendinuccio valvolare subito al di sotto della pars membranacea del setto. IL = — — Manca. 72 SO, 08 Passa tutto a S. ove si slarga in un ampio venta- glio, che si esaurisce sulle pareti anteriore e mediale del ventricolo S. 13 Seo 02 Esilissimo. I pochi fasci che lo compongono passano tutti a D. e si esauriscono presto, 14 15 3 0,5 Passa quasi tutto a D. essendo appena accennato il R. S. Il R. D. si suddivide in due rami: uno dopo 1 em. di decorso si esaurisce; l’altro discende in basso, nastriforme per 42 mm. e passa nel M. papill. anter. 19 iz 0,600, 6 Peso del cuore gr. 205. Biforcazione. R. S. dopo poco si esaurisce, R. D. passa in un tendine valvolare. Ben visibili: un’arteria del nodo, proveniente dall’a. coronaria destra e due vene, che partendo dal nodo, vanno a sboccare nella v. coronaria. 16 dg ORGA 1005 Biforcazione. R. D. e R. S. si esauriscono poco dopo i la loro origine. ma (031056 Biforcazione. R. D. e R. S. si esauriscono poco dopo la loro origine. 78 8 TRR2) 0,8 Biforcazione. R. D. dopo 1 cm. di decorso si esaurisce nella muscolatura del setto. R. S. notevolmente sviluppato si allarga formando un nastro trian- golare, che si sperde sotto l’ endocardio dopo 3 cm. di decorso. 79 12 1 0,8 Biforcazione. I due rami si esauriscono poco dopo la loro origine. Manca. 150 L. DE GAETANI Dalla precedente tabella si vede che il f. a. v. fu trovato 38 volte in 80 casi (47,5 %) In 18 esemplari era individualizzato e poi si divi- deva in un ramo destro e in un ramo sinistro (47,36 °|). In 4 passava quasi tutto a costituire il ramo sinistro (10,52%); in 13 a costituire il ramo destro (34,21 °,). In un caso (N. 5) aveva una disposizione speciale. Tutte le volte che il f. fu trovato aveva costantemente la sua ori- gine apparente in una formazione nodulare, di colorito biancastro, di consistenza notevole, situato qualche cm. in avanti e al di sotto dello sbocco della vena coronaria. Dalla parte opposta a quella da cui par- tiva il f., originavano fascetti muscolari i quali si portavano in dietro. e in alto verso il seno coronario, continuandosi con l’ordinaria musco- latura dell’atrio. E dubbio se le sue connessioni si estendano alla mu- scolatura della faccia sinistra del setto interatriale. Il nodo a. v. si tro- vava al di sopra del livello dell’ anello fibroso a. v. destro; e il tratto iniziale del f. e quello che segue fino alla biforcazione si trovavano adagiati al di sopra di quel tratto di anello fibroso, che dà origine dai due lati a fibre muscolari del setto e che, a cuore aperto, dà l’imma- gine di una corda sottesa all'arco descritto dal limite superiore della porzione membranacea del setto. Le formazioni muscolari, esistenti al di sotto dell’anello fibroso, non vanno confuse col f. a. v., facendo esse parte del miocardio ventricolare. Il tratto indiviso del f. ha la forma di un cordoncino decorrente orizzontalmente nel senso postero-anteriore. Non raramente accompagnato da un vaso sanguigno, era compreso in una specie di tasca connettivale a pareti lisce, umettate come da un liquido lubrificante, nella quale poteva subire senza difficoltà variazioni nel suo volume. Esso contraeva rapporti con la linea d’inserzione del lembo mediale della tricuspide, linea che può risultare parallela als in uno stesso piano orizzontale o può intersecarlo, formando due an- goli opposti al vertice molto acuti, restando la porzione posteriore del f. al di sotto dell’ attacco valvolare e l’ anteriore al di sopra e vice- versa. Il f. era di colorito grigio pallido, simile a quello delle fibre pal- lide di alcuni animali ed era facilmente distinguibile dalla rimanente muscolatura del cuore, sebbene la tonalità del suo colore fosse un poco più oscura di quella del f. degli ovini. | Molto variabili sono le dimensioni del f.: dalle misurazioni fatte mi risulta che esso in media è lungo mm. 8,9, largo mm. 1,3 e spesso mm. 0,47. Tranne qualche caso in cui dà fibre che penetrano nel pizzo RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE 151 valvolare mediale della tricuspide, esso decorre per un tratto più o meno lungo individualizzato e nascosto nel suo rivestimento connettivale fin- chè, in corrispondenza dello estremo limite anteriore del setto mem- branaceo, diventa quasi superficiale comportandosi in vario modo. Esso può dividersi in due rami, destro e sinistro che si addossano, decor- rendo quasi verticalmente in basso, alle pareti rispettive del setto in- ‘terventricolare; o passa tutto a continuarsi in un solo dei detti rami; o accenna a dividersi, dando un ramo molto sviluppato e l’altro rudi- mentario, che si arresta subito dopo la biforcazione. Qualche rara volta mi è occorso vedere il ramo sinistro partire non isolato come fascio unico proveniente dalla biforcazione, ma costituito da tanti fascetti sot- tilissimi, a guisa delle barbe di una mezza penna, attaccate alla sinistra del f. Dei due rami di biforcazione, tranne poche eccezioni, quello. si- nistro ha presentato sviluppo poco considerevole, specialmente nel senso della spessezza. Generalmente si mantiene sottoendocardico, formando, poco dopo dell’ origine, un nastro di spessezza minima, notevolmente slargato a ventaglio nell’ ulteriore decorso, dando origine alle dirama- zioni terminali, di cui alcune passano nei muscoli papilari, altre vanno nelle pareti del ventricolo e specialmente nelle pareti del setto, ove si esauriscono. Il ramo destro secondo i miei preparati si mostra più facile a ri- trovarsi ed a riconoscersi in confronto del sinistro. Questo fatto non coincide con le osservazioni di Tawara e di quelli che lo hanno seguito, secondo i quali il ramo destro del f. è malagevole a ritrovarsi, poco sviluppato e non riconoscibile macroscopicamente. Ritengo complessiva- mente che i due rami sono pressochè eguali di sviluppo e che il sinistro guadagna in larghezza ciò che perde in spessezza, mentre Ì’ opposto accade per il ramo destro. Frequentemente il ramo destro si divide in più rami, di cui qualcuno, abbastanza breve, si continua ben presto in un tendinuccio valvolare. Con molta frequenza tutto il ramo destro o uno dei suoi rami, si dirige, descrivendo una lieve curva a convessità anteriore, verso la’ punta del cuore, decorrendo ordinariamente sotto l’endocardio o approfondendosi per qualche mm., e penetra nel mu- scolo papillare anteriore, ove si può seguire fino al tendine valvolare che ne diparte. I rami del f. a. v., anche nei casi di sviluppo relativamente note- vole, non cessano di essere formazioni tenui. Il f. primitivo, in corri- spondenza della sua biforcazione, si appiatisce e i due rami che ne ri- 152 L. DE GAETANI sultano hanno l’ aspetto di nastrini muscolari, specialmente il sinistro, quasi trasparenti, che presentano col miocardio del setto solamente rap- porti di contiguità, essendo addossati ai fasci muscolari, ma separati da scarso tessuto connettivo. Macroscopicamente si possono ancora osservare vasi e nervi che vanno al sistema unitivo a. v. Qualche volta riesce scorgere un sottile vasellino costeggiare il f. e penetrare in esso; ma quasi sempre con la dissezione si mettono allo scoperto i vasi e i nervi che vanno al nodo a. v. Trovasi un’ arteria di calibro relativamente notevole e molto lunga, la quale, distaccandosi dall’ a. coronaria destra o posteriore, più fre- quentemente dal ramo discendente di essa, decorre dallo indietro in avanti, perfora la muscolatura atriale nel limite tra atrio e ventricolo destro, passa dalla parete diaframmatica dell’atrio alla parete settale e penetra nel nodo di TAWARA per il polo posteriore, addentrandosi in esso. Eccezionalmente invece di una si trovano due arterie, delle quali però l’altra è abbastanza sottile. Dal nodo, inteso nel senso dell’ insieme delle formazioni che comprendono il nodo propriamente detto, con cammino inverso partono due vene, in mezzo delle quali decorre l’arteria. Una delle vene, che trovasi al di sopra dell’arteria, immette nella vena co- ronaria, poco prima che questa sbocchi nell’atrio destro; l’altra, che è “situata al di sotto dell’arteria, va nel ramo ascendente della vena co- ronaria, che trovasi alla faccia diaframmatica del cuore. Dal plesso coronario posteriore partono filetti nervosi, che seguono il cammino dell’arteriola nodale e penetrano nel nodo a. v.. Non esiste rapporto alcuno tra il volume, le dimensioni e il peso del cuore e lo sviluppo del f. a. v. Cuori con notevolissima ipertrofia non mostravano il f. a. v. o lo presentavano di sviluppo assai limitato: al contrario cuori abbastanza piccoli ne hanno fornito buoni esemplari, e ne ricordo specialmente due, uno del peso di or. 205 appartenente ad una donna e l’altro di gr. 208 appartenente ad un uomo, entrambi «di età avanzata. Nè ho potuto osservare rapporto alcuno tra lo svi- luppo del f. e l’età dei varii soggetti, avendo presentato i cuori di bam- bini qualche volta un f. bene sviluppato, altre volte mancanza. Lo stesso reperto si è avuto nei cuori d’individui di età avanzatissima. Neanche il sesso ed il mestiere hanno influenza alcuna, avendo riscontrato buoni esemplari di f. in donnette mingherline e casalinghe e assenza di esso in lavoratori robusti e di notevole sviluppo scheletrico-muscolare. DS | a n RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE 153 * * Per avere sezioni microscopiche d’insieme del sistema unitivo, aspor- tavo la regione del nodo, unitamente al f., compreso lo inizio della bi- forcazione e, disposto tutto sopra una lastrina di vetro, procedevo alla fissazione e allo indurimento. Per esaminare la struttura dei vari seg- menti del sistema, fattane la preparazione, li asportavo e facevo subire ed essi il trattamento richiesto dai diversi metodi, non esclusa la sem- plice dilacerazione a fresco. Come liquidi fissativi adoperai l’ alcool, la soluzione acquosa satura di HgCi?, le miscele con sublimato o con for- malina, il Flemming ed altri. Dopo inclusione in paraffina venivano fatte sezioni che oscillavano tra i 3-9» e che interessavano le fibre musco- lari sia nel senso della lunghezza, sia in quello della larghezza. Per i rapporti delle fibre del PuRKINJE con l’ endocardio e col miocardio fu- rono fatte sezioni parallele alla superficie endocardica e sezioni perpen- dicolari alla stessa superficie. Per colorare, oltre alle comuni colora- zioni, mi son servito dell’ematossilina al vanadio, dell’ematossilina ferrica di HemEeNHAIN, del MaLLory originale o modificato (SPALTEHOLZ-RETZER). In questo ultimo metodo ho trovato utile ridurre a metà il titolo della soluzione di eritrosina e usare la soluzione di azzurro di anilina di- luita con 5 volumi di acqua distillata, che dà una colorazione più lenta e più delicata e che non richiede una decolorazione molto prolungata. Le sezioni venivano intensamente colorate con le ematossiline e poi dif- ferenziate in una soluzione di acido ossalico (1 °) sorvegliando la dif- ferenziazione al microscopio. Furono ancora usati i metodi policromici del Cayar, il metodo BreLscHowsky-Levi, il WEIGERT e 1 UNNA-TANZER- Livini per le fibre elastiche. Per i vasi feci iniezioni dalle arterie co- ronarie di gelatina al carminio e peri nervi usai il GoLeI, il CAsaL, il BiELScHowsKy modificato da BoECKE. Pa La struttura del sistema unitivo a. v. negli ovini è così caratteri- stica da non potersi in nessun modo paragonare con quella che si ri- scontra in altri animali e deve essere considerata come il più tipico esempio. Siccome il sistema veniva diviso in quattro segmenti dei quali il primo comprendeva il nodo a. v. con il tratto iniziale del f. da una parte e dall’altra la continuazione con la muscolatura atriale, il secondo il tratto rimanente del f. con la biforcazione e lo inizio dei due rami 154 L. DE GAETANI sinistro e destro, il terzo e il quarto rispettivamente il ramo S e il ramo D, comincerò con i reperti avuti nello esame del primo segmento e successivamente esporrò quelli dei segmenti rimanenti. Le sezioni più centrali del primo tratto mostravano un insieme di tre porzioni disposte a guisa di un angolo ottuso, aperto in alto, di cui il lato inferiore, orizzontale, corrisponde all’inizio del f., il vertice al nodo a. v. e l’altro lato, obliquo, alle fibre che si dirigevano verso lo sbocco della vena coronaria. Dallo aspetto che presentano i preparati credo che la parola nodo debba significare una porzione vicina a quella detta nodo del TAWARA. È nel vertice dell’angolo che si trova un aggrovigliamento di cordoni cellulari, cui credo sia meglio adatta la parola nodo. L’ intreccio com- prende cordoni cellulari orientati nelle varie dimensioni dello spazio e credo sia poco adatta la parola rete perchè le anastomosi dei cordoni non avvengono solamente in un piano: tagliato in sezione, il nodo, può dare l’apparenza di una rete, ma in realtà il fatto è differente. Accanto a-cordoni che alla superficie di taglio si presentano anastomizzati, de- lineando qualche larga maglia, se ne vedono altri tagliati obliquamente ed altri ancora nel senso trasversale. I vari tratti dei cordoni si pre- sentano tortuosi, qualche volta ad ansa, anastomizzati sotto diversi an- goli oppure isolati, formando nello insieme un aggrovigliamento para- gonabile, mi si passi l’espressione, a queilo che mostrano i gomitoli delle ghiandole sudoripare, quando s’incontrano in una sezione di cute. Qual- che volta le cellule sono aggruppate in numero considerevole e in modo indeterminato, formando un ammasso centrale da cui partono 2-3 o più cellule disposte a filiera, oppure si distaccano parecchie di queste brevi filiere dando all’ammasso un aspetto incompletamente radiato: insomma le cellule o ammassate o a cordoni producono insiemi di forme le più strane e le più svariate. Queste cellule sono cellule del PURKINJE, perchè ne hanno quasi tutti i caratteri. Non credo esatto dire che esse in se- guito passando nei rami di biforcazione vengono a chiarirsi tipiche cel- lule del PuRKINJE. Questi descrisse le cellule trovate sotto l’endocardio degli ovini perchè gli occorse di esaminare inconsapevolmente qualche diramazione del f. a. v. e certamente non esaminò questo alla sua ori- ‘gine e tanto meno il nodo a. v. Se avesse visto le cellule del nodo non avrebbe avuto dubbio ad unirle alle altre che descrisse. Si può dire al più che la forma delle cellule varia alquanto nei rami, ma fondamen- talmente la struttura è la stessa. LI ha aan 4 a iren opt fina x RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE 155 Le cellule di PuRKINJE del nodo hanno aspetto caratteristico e forma varia: se ne trovano rotondeggianti, ovalari, poligonali, bitorzolute, a biscotto, a fagiuolo, ma generalmente non prevale in esse un diametro sugli altri due. Hanno esse la zona marginale con striatura trasversale, dovuta a citoplasma differenziato in fibrille, che passano da cellula a cellula. Non è raro che alcune fibrille si aggruppino dando a più cel- lule consecutive, specialmente quando sono disposte in filiera, una ap- parenza netta di striatura longitudinale. La zona interna delle cellule è chiara e raramente presenta qualche fibrilla: in essa si trova un nu- cleo e più frequentemente se ne trovano due, raramente tre e attorno ai nuclei un alone chiaro di sarcoplasma, con granuli adiposi e granu- lazioni pigmentarie, molto rifrangenti, di colore giallo d’ ambra e di grandezza variabile. I nuclei sono rotondeggianti, hanno una membrana e mostrano cromatina piuttosto abbondante: conservano la posizione centrale nelle forme globose, quella dell’asse maggiore nelle forme lie- vemente allungate. Le cellule non sono mai isolate e sono sempre riunite in gruppi o a cordoni; quelle in gruppi conservano di più la forma ro- tondeggiante o poliedrica; quelle disposte a cordoni, si allungano un pochino nel senso della lunghezza del cordone e in corrispondenza della linea di saldatura mostrano un lieve strozzamento. Il cordone alle volte è costituito da una sola filiera di cellule, altre volte da 2-3-4 o più fi- liere: non è raro che il cordone in un punto qualunque s’ingrossi per sovrapposizione di altre cellule e che poi ritorni alla costituzione pri- mitiva. Nel nodo la lunghezza dei cordoni è assai limitata. In quello che io intendo come nodo e che non è formazione a sè, ma intercalata, anzi legame tra il f. a. v. da una parte e la muscola- tura atriale dall’ altra, trovasi abbondante tessuto connettivo, il quale congiunge e tiene collegate le varie formazioni cellulari di cui si è detto di sopra. In alcuni tratti il connettivo è lasso, in altri è fitto, stipato, con moltissimi nuclei, qualche volta disposto a fascetti: circonda esso il nodo, addensato in varii strati, in cui notasi del tessuto elastico, e da esso partono propaggini, tra le quali non è raro scorgere cellule adi- pose che s’insinuano da per tutto negli spazii lasciati liberi dalle for- mazioni cellulari del PuRKINJE. Qualunque insenatura, qualunque anfrat- tuosità è colmata da connettivo, cui sono mescolate delle fibre elastiche piuttosto sottili: penetra esso tra le filiere di cellule, ma, sebbene si trovi costantemente, è piuttosto scarso e segue le insenature tra cel- lula e cellula. Si ha qualche volta l'apparenza di connettivo. fra cellule Se. Nat. Vol., XXVII 13 156 L. DE GAETANI vicine; ma in tali casi si tratta di cordoni a più filiere di cellule, ta- gliate nel senso trasversale e il connettivo che appare è quello che di- vide una filiera di cellule dall’ altra. Il nodo si continua direttamente nel fascio. Il connettivo che cir- conda il nodo si continua con quello che riveste il f. e gradatamente passano in questo tutti gli elementi che trovansi nel nodo. Al di sotto del rivestimento connettivale si può trovare qualche accumulo di adipe ed aumenta notevolmente il tessuto elastico. Il connettivo che proviene dal rivestimento esterno si avanza fra i cordoni cellulari, ma non è in quella quantità che trovasi nel nodo, nè ha quella posizione indefinita. Nel f. il connettivo si dispone nel senso della lunghezza di esso, non è molto fitto, ma si può addensare in fascetti sottili che decorrono pa- ralleli tra i cordoni più distanti uno dall’altro, o decorre in semplici fibre tra i cordoni più avvicinati; s’' insinua ancora, disposto lassamente, fra le filiere cellulari, ma non si avanza mai fra cellula e cellula. I cordoni cellulari assumono una disposizione meglio definita. Dagli ammassi cel- lulari del nodo, formanti l’aggrovigliamento sopra descritto, partono delle propaggini le quali si portano verso destra, costituendo il lato inferiore dell’ angolo ottuso. Queste propaggini si continuano come cordoni che possono anastomizzarsi sotto angoli molto acuti, formando maglie assai allungate, hanno decorso orizzontale e spesso parallelo. I cordoni pos- sono essere costituiti da una o più filiere di cellule, aderenti per le estremità e sono separati da tessuto connettivo e da fibre elastiche. Le cellule hanno gli stessi caratteri di quelle del nodo: solamente pre- sentano la prevalenza del diametro longitudinale su quello della larghezza e della spessezza. Hanno discreta quantità di sarcoplasma disposto ad alone intorno ai nuclei, che sono per lo più in numero di due. La por- zione marginale delle cellule mostra striatura ben distinta. Le fibrille sono più stipate in corrispondenza dei margini più lunghi delle cellule ‘e passano da una cellula all’altra, e negli spazii tra una filiera e l’altra di cellule si vedono fasci più densi di fibrille e abbastanza lunghi, tra i quali non è raro vedere qualche fessura. Nello alone perinucleare si comincia a differenziare qualche fibrilla, che però si mantiene ancora lontana dai nuclei. Prima di esaminare il f. nel luogo di biforcazione e i rami che ne dipartono, occorre ritornare al nodo e vedere gli elementi del lato sinistro dell’angolo ottuso sopra cennato. In alcune sezioni sembra che il nodo venga separato, dalle formazioni che si trovano verso il seno RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE 157 coronario, da uno sperone di connettivo denso che si distacca da quello che circonda il nodo: ma in altre si vede che lo sperone può mancare, oppure, ridotto notevolmente, diventare connettivo lasso, attraversato dagli elementi muscolari. È di evidenza incontrastabile la continuazione dei cordoni o degli ammassi cellulari del nodo con le fibre muscolari che vanno verso il seno coronario. Non tutte le formazioni cellulari del nodo passano senza interruzione nel nuovo fascio che s’inizia dal ver- tice dello angolo, ma soltanto alcune situate proprio sul vertice si con- tinuano in numero di 2-3 o poco più attraverso lo sperone connettivale, quando esiste, oppure attraverso il connettivo lasso che dal nodo va verso la muscolatura atriale. Nella piccola zona di passaggio si trovano elementi di transizione che hanno perduto i caratteri delle cellule di PURKINJE: sono elementi notevolmente allungati e stretti, hanno l’alone di sarcoplasma assai ridotto, contengono qualche granulo, hanno più accentuata la striatura longitudinale e nuclei disposti irregolarmente. Questi elementi, circondati da scarso connettivo, si assottigliano sempre più, si allungano e costituiscono l’inizio di un fascio, il quale conserva per un notevole tratto aspetto reticolato. Le nuove formazioni non seno cordoni, come quelli visti di già, ma sono fascetti muscolari anastomiz- zati sotto angoli molto acuti, descriventi maglie assai allungate, che a poco a poco spariscono, mentre i fascetti acquistano un relativo paral- lelismo, formando un fascio, che passa gradatamente .nel miocardio atriale. Nelle fibre muscolari di questo fascio la striatura longitudinale è evidente; appena accennata quella trasversale. Il sarcoplasma è ri- dotto ad un piccolissimo alone perinucleare, le fibre contengono granuli e nello insieme si possono considerare come elementi che di molto si avvicinano a quelli del comune miocardio, e che ne differiscono sola- mente per la loro sottigliezza e per la straordinaria ricchezza di nu- clei, che trovansi non solo sulla linea assiale delle fibre, ma addossati alla superficie di esse. Esaminata la struttura del sistema unitivo nel tratto atriale, nel nodo e nel f. primitivo, bisogna vederla nei tratti rimanenti del sistema. In corrispondenza della sua biforcazione il f. conserva ancora i ca- ratteri esaminati: notasi solamente che gli elementi cellulari del PuR- KINJE, che passano nei rami di biforcazione, si allungano sempre più, mentre nel punto di divisione ve ne sono alcuni di forma globosa o poliedrica, che formano piccoli aggruppamenti o brevi cordoni convoluti in modo da dare la apparenza di un piccolo nodo secondario, con ca- ratteri paragonabili a quelli del nodo principale. 158 L. DE GAETANI Il rivestimento connettivale passa dal f. sui rami di biforcazione, costituendo ad essi un rivestimento continuo, ma meno considerevole; il connettivo penetra poi tra i varii cordoni, ma lasso ‘e non abbondante. I cordoni cellulari, comprendenti una o più filiere di cellule; dal f. vanno parte nel ramo destro e parte nel sinistro: decorrono frequen- temente anastomizzati e nel complesso formano una notevole rete, espansa nel senso della larghezza, assottigliata in quello della spessezza. La striatura longitudinale delle cellule aumenta notevolmente, ma il sarcoplasma è sempre considerevole, perchè tutto l’ elemento cellulare acquista dimensioni maggiori. I nuclei, rotondeggianti, si mantengono sempre in numero di 1-2 per cellula. Il ramo sinistro del f. è più con- siderevole del destro nel senso della larghezza. Le sezioni parallele alla superficie endocardica e che lo interessano in senso trasversale, mostrano una considerevole rete di cordoni cellulari, anastomizzati tra loro e for- manti maglie allungate cogli angoli acuti diretti secondo l’asse longi- tudinale del ramo stesso. | Fra i cordoni e fra le filiere di cellule che li costituiscono trovasi abbondante tessuto elastico. Nei tagli più superficiali si vede uno strato continuo di fibre elastiche, in quantità considerevolissima, grosse alcune, altre medie, altre assai sottili, intrecciate in tutti i sensi e intimamemente connesse. Attraverso questo strato si vedono trasparire i cordoni di cellule di PURKINJE e si vede ancora nelle sezioni successive, che già in- teressano i cordoni, come, in confronto dello scarso connettivo, siano numerosissimi i fasci di fibre elastiche che, ondulati e flessuosi, seguono le curve dei cordoni cellulari. Le fibre elastiche non penetrano nelle linee di congiunzione tra le cellule, ma ne seguono i contorni e le insenature e penetrano in tutti gli spazi liberi. Le cellule del PuRKINJE assumono il loro massimo sviluppo e la strut- tura classica. Sono in prevalenza assai allungate; presentano fibrilla- zione periferica più distinta e confluente nel senso dell’ asse maggiore, e fra le filiere si vedono abbozzate le fibre muscolari, con interruzioni trasversali, in corrispondenza della linea di adesione tra due cellule vi- cine. Il sarcoplasma è ancora abbondante, ma in esso appaiono di già fibrille, le quali qualche volta s’ insinuano fra i due nuclei, che frequen- temente vi si trovano, facendoli deviare dalla linea assiale e facendoli apparire sui tratti marginali delle cellule e in mezzo alla fibrillazione più progredita. Altre volte la fibrillazione è concentrica e i due nuclei DI sono addossati tra loro. Raramente il nucleo è unico, più raramente RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE 159 ancora se ne contano tre. Sono essi di forma rotondeggiante in preva- lenza ed hanno un reticolo cromatinico discretamente appariscente. Nel “ sarcoplasma perinucleare trovansi granuli gialli o giallo-bruni assai splendenti. Esaminando il ramo sinistro in sezioni perpendicolari alla superficie endocardica e che lo interessano nel senso della spessezza, si trova anzi tutto l’endocardio col suo endotelio e un sottile strato di connettivo che lo sostiene. Al di sotto uno strato di tessuto elastico considerevolissimo con fibre grosse e sottili che si vedono decorrere longitudinalmente. Segue un cordone di cellule di PuRKINJE disposte in due strati. Tali cel- lule hanno fondamentalmente gli stessi caratteri notati osservandole se- zionate trasversalmente. Solamente esse appariscono più basse, il loro sarcoplasma sembra più esteso nel senso della lunghezza, mentre è di- minuito al di sopra e al di sotto dei nuclei, che si mantengono nella linea assiale. Le fibrille rettilinee od ondulate si addensano di più sui margini lunghi delle cellule nello spazio compreso fra le due filiere, come peli che vadano a formare un pennello. Non di rado occorre vedere tagliate di traverso, specialmente lungo la linea di saldatura tra due cellule, fibrille montanti dalla insenatura verso la superficie arrotondata di esse e che danno l’apparenza di linee punteggiate lungo la saldatura stessa. È raro che alle due filiere se ne aggiunga una terza: quando c'è, difficilmente è completa. Questo cordone superficiale di cellule di PURKINJE è circondato da fibre elastiche sottili, delicate e numerose. Esse provengono dal robusto strato elastico sottoendocardico e si vede chiaramente che formano uno straterello sulla faccia endocardica della prima filiera, passano quindi sulle facce laterali di essa e poi s’ insinuano tra una filiera e l’altra, formando uno straterello fra di esse, insieme con scarsissimo connettivo lasso e senza addentrarsi tra cellula e cellula. Il ramo sinistro poco dopo la sua biforcazione, fra l’ endocardio e la prima filiera di cellule, pre- senta piccoli accumoli di adipe. Al primo cordone cellulare, che è il più superficiale, segue uno stra- terello tenue di fibre elastiche frammiste a scarsissimo connettivo e quindi un secondo cordone cellulare. Le cellule del PuRKINJE che formano questo cordone sono assai più robuste di quelle del primo cordone. La striatura trasversale e la longitudinale sono molto più evidenti ed hanno invaso quasi tutto il corpo cellulare: il sarcoplasma è ridotto ad un piccolo alone perinucleare. La forma dei nuclei si avvicina all’ ovalare; essi restano 160 L. DE GAETANI sull’ asse della fibra abbozzata, ma non sono sopra la stessa linea, perchè le cellule del PuRrKINJE non hanno allineamento perfetto e non sono equi- distanti perchè variabile è la lunghezza delle cellule anzi dette. Comin- ciano a sparire i limiti cellulari e si osserva già fusione di cellule vi- cine, ma non sempre sparisce qualunque traccia della fusione. Lungo la linea per cui questa avviene non sempre accade che la saldatura fra le fibrille dell’ una e quelle dell’altra cellula avvenga per combaciamento perfetto in modo che i contorni delle fibrille si continuino gli uni cogli altri e i varii dischi chiari e oscuri si trovino tutti sulla stessa linea; ma accade spesso che la fusione si fa in modo irregolare e quindi ri- sulta una linea spezzata, più oscura formata da strie trasversali disposte a varia altezza. Il secondo cordone è pure circondato da fibre elastiche, che lo separano da quello soprastante e da quello sottostante e pure s’ insinuano tra le filiere cellulari del cordone stesso. Il secondo cordone, che conserva in parte i caratteri delle fibre del PURKINIE, si avvicina di molto, per i particolari della sua struttura, al comune miocardio e quindi va considerato come una forma di transizione fra le due strutture. Separato dal precedente da uno strato di connettivo poco rilevante e discontinuo, tramezzato da fibre elastiche, segue un terzo cordone in cui può dirsi che si riscontra quasi la struttura del miocardio comune. I nuclei si sono allungati e in nulla differiscono da quelli del miocardio. S’intravede ancora qualche limite cellulare per fusione avvenuta irre- golarmente tra le fibrille, ma si ha netta striatura e completa nel senso longitudinale e in quello trasversale. Il protoplasma però non ha ancora assunto i caratteri definitivi, rilevandosi in esso col MaLLoRy varie gra- dazioni di colorito rosso; solamente il piccolo tratto perinucleare si mostra incoloro e contiene dei granuli splendenti. A questo terzo cordone segue uno strato di connettivo, spesso in fascetti, continuo, con nuclei abbondanti e scarse fibre elastiche, delle quali quelle longitudinali fanno ancora un sottilissimo rivestimento al terzo cordone mentre altre, sottili e scarse, in direzione perpendicolare a quella delle longitudinali, si approfondano negli strati successivi di fibre muscolari, che seguono al terzo cordone e che appartengono al miocardio vero e proprio. Se qualche volta manca il terzo cordone al- lora il secondo si presenta molto più evoluto, assume i caratteri, che ha ordinariamente il terzo ed è seguito dagli strati del miocardio. Nei tratti più distali ove ho potuto seguire le arborizzazioni termi- nali del ramo sinistro ho notato un aumento considerevole del numero ita it ra Se5: tei pe E ; * E. : » è RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE 161 delle filiere cellulari andando dall’endocardio verso il miocardio. In questo senso si osserva il graduale passaggio delle fibre del PURKINJE nel mio- “cardio comune, ma nel senso dell’asse del ventricolo non ho potuto con- statare la diretta continuazione delle fibrille delle cellule del PURKINJE con le fibrille del miocardio. Anche in queste cellule l’alone di sarco- plasma è considerevole e in esso, come in altri punti del sistema uni- tivo, si notano vacuoli, frequentemente ovalari, disposti irregolarmente o addossati ai nuclei, che sono rotondeggianti. Evidente è la fibrilla- zione periferica, ma le fibrille non confluiscono notevolmente nel senso longitudinale. Il ramo destro offre la stessa struttura del ramo sinistro. Qualche differenza si ha nei rapporti quando si esamina la porzione che si ad- dentra nel miocardio, mettendosi in rapporto col muscolo papillare an- teriore. Nella porzione non affondata nel miocardio, si vede come esso è costeggiato dai cordoni miocardici normali e come tra esso e i cor- doni si approfondi l’endocardio. Continuando l’esame del ramo destro col tessuto circostante, ho tro- vato una porzione di fibre di PuRKINJE tagliate trasversalmente, le quali andavano ad un tendine, che era stato asportato, ed ho seguito il rima- nente del ramo nel muscolo papillare, ove decorre eccentricamente, sem- pre però sotto l’endocardio. Nel tratto più distale che ho potuto seguire aumenta il numero delle filiere cellulari e per il resto tanto in sezioni parallele, quanto in quelle perpendicolari, si hanno gli stessi reperti del ramo sinistro. Nel nodo si trova un vaso di diametro notevole; esso però si di- stribuisce in gran parte nel rimanente del sistema unitivo. Nel nodo non c’è ricchezza di vasi: si trova una rete a maglie ir- regolari e strette che avvolgono gli ammassi delle cellule di PURKINJE e negli spazii tra i cordoni cellulari si vedono vasi di maggior calibro. All’inizio del f. le maglie si allungano, si fanno più regolari, coin- volgono i cordoni e ancora di più si allungano nei rami del f. acqui- stando maggiore regolarità e presentando prevalentemente più grossi i rami trasversali delle maglie in confronto dei longitudinali. Lungo il f. a. v. si trovano cellule nervose, con prolungamenti in numero variabile, le quali o si aggruppano costituendo gangli microsco- pici o restano isolate. Se ne riscontrano anche lungo il decorso delle fibre nervose. I nervi si dispongono a fasci o ad intrecci. I fasci de- corrono negli spazii compresi tra i cordoni cellulari o nel connettivo di rivestimento del f. 162 L. DE GAETANI Le fibre dei fasci, amielinici, sono finamente varicose. Servendomi del metodo di BoLton, non mi riuscì negli ovini di mettere in evidenza fibre mieliniche. I fasci amielinici in parte si risolvono in finissime fi- brille, che, a guisa di plesso o intrecciate, circondano i cordoni musco- lari e dall’intreccio partono fibrille che penetrano tra le filiere delle cellule del PuRKINJE, sul contorno delle quali si esauriscono, senza però mostrare intimi rapporti. Nel cuore di vitello fondamentalmente il f. ha la stessa struttura di quello della pecora. Il connettivo è di poco aumentato, i cordoni cellu- lari, sempre anastomizzati, decorrono alquanto più allontanati tra di loro. Le cellule di PuRKINJE non sono identiche a quelle che trovansi nei rami di biforcazione della pecora, ma in complesso presentano sempre i ca- ratteri peculiari, cioè la zona di sarcoplasma, uno o due nuclei roton- deggianti e la fibrillazione periferica confluente. | Per i vasi ed i nervi nulla di differente, tranne un maggior numero di cellule gangliari e la presenza di rare fibre mieliniche. Nel cavallo e nell’asino le stesse particolarità di struttura: più piccole sono le cellule del PURKINJE, ma sempre evidenti e da non potersi met- tere in dubbio. Fascetti di fibre nervose amieliniche trovansi negli spazii tra i cordoni cellulari; intrecci di fibre nervose, cellule gangliari, a volte aggruppate, a volte isolate e addossate alle fibre amieliniche. Nel coniglio, nella cavia, nel topo e nel pipistrello gli elementi del f. non sono più paragonabili alle cellule del PuRKINJE. Esso risulta di fibre muscolari, disposte in rete a maglie strette nella porzione atriale, che si avvicinano di molto alle fibre del miocardio comune, ma che ancora se ne distinguono per essere poco ricche di fibrille e per avere una grande quantità di nuclei disseminati in modo assai irregolare. Il f.a.v.eisuoi rami di biforcazione sono costituiti non da cellule, perchè i limiti tra esse sono spariti, ma da fibre molto simili a quelle comuni del miocardio e che si possono ancora distinguere per il colorito pal- lido, per la scarsa fibrillazione e per l'abbondante connettivo che le separa dal circostante miocardio. Nel cane e nel gatto le fibre che dal nodo vanno aì seno coronario sono piuttosto sottili, si riuniscono in fascetti paralleli, separati da scarso connettivo, con poco sarcoplasma e nuclei numerosi, assiali al: cuni, altri addossati alle fibre. Il passaggio di queste fibre nella musco- latura ordinaria si fa gradatamente e insensibilmente. Nel nodo la rete è fatta di fasci pallidi, sottili con sarcoplasma abbon- RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE 163 dante e scarsa fibrillazione nel senso longitudinale: poco distinta è la striatura trasversale. | i Nel tronco principale e nei rami del f. non si trovano le caratteri- stiche cellule del PurKINJe. Si osservano invece fasci di fibre paralleli, che si scambiano fibrille, che qualche volta danno l’apparenza di una cifra 8, racchiudente un nucleo in ciascuno degli occhielli. Generalmente le fibrille sono molto delicate e circondano lo scarso sarcoplasma in modo irregolare. Nelle porzioni più distali del sistema unitivo le fibrille aumentano di numero, diventano rettilinee per lunghi tratti e non fanno distinguere limiti cellulari. Nei tratti terminali del f. le fibre s’ intrec- ciano in modo assai complicato. Essendo la struttura delle fibre del f. quasi uguale a quella del ri- manente miocardio non si trova, nelle sezioni perpendicolari alla super- ficie dell’endocardio, il graduale passaggio, osservato nella pecora, dal f. al miocardio comune, caratterizzato dai cordoni che considero di tran- sizione per la loro struttura. Uno strato connettivale di rivestimento determina i limiti del fascio. Minime tracce di connettivo sono interposte tra i fasci muscolari; i nuclei appaiono disseminati irregolarmente. Le maglie vascolari sono strette nel nodo all’inizio del f.: diventano molto allungate e regolari nei tratti più distali. Si notano numerose fibre amieliniche e cellule gangliari aggruppate o isolate. Per la struttura del f. nell’uomo nulla :-posso aggiungere a quello che di già è stato notato. Nè in cuori di adulti, nè in quelli di neonati mi è stato possibile osservare le cellule di PuRKINJE, nè forme che ad esse si potessero avvicinare. Il f. unitivo risulta di fibre muscolari che per pochissimi caratteri differenziali, sì distinguono da quelle del mio- cardio. Le fibre si mostrano da per tutto con la doppia striatura, con biforcazioni rare che le anastomizzano con le fibre vicine sotto angoli acutissimi, in modo da limitare delle strette fessure. Sono molto sottili, non sempre riunite in fasci, a decorso per lo più parallelo, con nucleo allungato e granulazioni pigmentarie assiali. Si fa distinta la striatura trasversale nel tratto del f. che si continua col miocardio atriale. Nel nodo invece la striatura è indistinta e ivi i fascetti di fibre formano una rete a maglie strette e alquanto allungate, dalle quali partono poi le fibre che si dirigono verso il seno coronario da una parte, mentre dal- l’altra ha origine il segmento ventricolare del f., costituito da fascetti paralleli di fibre ancora distinguibili per la loro pallidezza e per la di- 164 L. DE GAETANI screta quantità di sarcoplasma perinucleare e intercontrattile. Nei rami terminali del f. unitivo aumenta considerevolmente il numero delle fibrille, la doppia striatura è più evidente, permane un piccolissimo alone peri- nucleare di sarcoplasma e pochissimo assiale, quasi tutto disseminato di granuli di pigmento; e perciò cresce notevolmente la somiglianza di essi rami con gli ordinarii fasci del miocardio. Il connettivo interposto tra i fascetti del nodo non è molto consi- derevole, ma abbonda nella zona perinodale: esso poi costituisce un involucro al tronco primitivo del f., e da esso partono delicate dirama- zioni verso l’interno, che danno origine al tenue connettivo che s° inter- pone tra i fasci muscolari. Il rivestimento connettivale, commisto ovanque a fibre elastiche, si estende anche alle diramazioni terminali del f. In cuori di feti a termine o quasi, altre particolarità non si poterono con- statare e neanche i limiti cellulari. I vasi discretamente abbondanti, costituiscono una rete a maglie irregolari e strette nel nodo, nel cui centro si vede un grosso vaso e alle volte se ne vedono due: le maglie poi nel resto del f. unitivo si allungano e si fanno abbastanza regolari, presentando i tratti trasver- sali un calibro frequentemente maggiore di quello dei tratti longitudinali. Per le condizioni in cui il materiale umano si trova quando viene fissato non è possibile ottenere i più minuti particolari di struttura e appunto per tali condizioni, nella ricerca dei nervi, ho dovuto rinunciare ai metodi al bleu di metilene, per servirmi dei metodi del Gori e del CAJAL. I risultati non furono trascurabili poichè nel nodo ho potuto vedere tronchicini nervosi e abbondanti fibre nervose, isolate o disposte a rete o ad intrecci. Le fibre a volte di diametro uniforme, presentano altre volte delle piccole varicosità. Lungo le fibre trovansi cellule gangliari, piuttosto piccole, con pochi prolungamenti, che si mettono in rapporto di contiguità con i fascetti muscolari. Le cellule o sono isolate, o sono aggruppate in numero di 5-8 o più formando dei gangli microscopici. Nel f. e nei suoi rami si vedono fibre amieliniche, sia riunite a fascetti sia ad intreccio. Le fibre che decorrono in discreta quantità nel con- nettivo che separa i fasci muscolari .a poco a poco diventano isolate e circondano i fascetti muscolari, addossandosi ad essi semplicemente, senza offrire strutture o disposizioni speciali. Addossate alle fibre si no- tano cellule gangliari e in alcuni punti dei gangli microscopici. Le fibre anzi descritte sono tutte amieliniche; trattando i pezzi con l’osmizzazione . ed ematossilina acida non poterono essere rilevate fibre mieliniche. fo SU Pe MELE LE IDA he TE Te > ER a ip. x ; spe : S AE - Fa , » RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE © 165 * *. * Anzi tutto bisogna rilevare che nel sistema unitivo più ampio di comunicazioni atrio-ventricolari delineato dal PALADINO vi è un sistema a. v. speciale e caratteriscico, il quale dimostra una continuità indiscu- tibile non essendovi interruzione vera nel nodo a. v. I miei preparati dimostrano che le fibre che compongono il sistema E sebbene abbiano struttura differente nei varii tratti del loro decorso, si continuano dal seno coronario nel nodo, da questo nel tronco princi- pale del f. e quindi nei rami di biforcazione fino alle ultime dirama- zioni terminali nei muscoli papillari. Tranne che nella porzione atriale, ove le fibre muscolari, sebbene con i caratteri differenziali descritti, sì avvicinano per la struttura al- lordinaria muscolatura del cuore, in molti animali il resto del sistema è formato da cordoni di cellule del PuRKINJE. Nell'uomo, nel cane, nel gatto le fibre del sistema, per i loro ca- ratteri, si avvicinano di più alle fibre comuni del miocardio. Messa fuori di dubbio l’esistenza del f., pur riconoscendo l’impor- tanza che le ricerche microscopiche hanno avuto nei primi tempi per lo studio di esso, ora sorge la necessità della ricerca macroscopica di esso e l'eventuale osservazione microscopica, sia nei riguardi dell'anatomia normale come della patologica. ‘ ReTzER fu il primo a fare la ricerca macroscopica del f. nel cuore umano e, dopo di lui, servendosi di strumenti da dissezione, lo prepa- rarono KerrE e FLack, CurrAN, KocA e HoLL: lo prepararono ancora nel cuore degli animali KEeITH e FLACK, CURRAN e HoLrr. Immagini ma- croscopiche hanno date altri, desumendole da preparati istologici. Tranne quelle di HorL, le altre ricerche sono incomplete e limitate di numero. Egli fece numerosi preparati di cuori di uomo, vitello, maiale, cane, cavallo e pecora e riuscì chiaramente dimostrativo per la descrizione e per la topografia del sistema unitivo a. v. Non dice egli però il numero dei cuori esaminati 'e se in essi ha costantemente trovato il f. L'esistenza di questo è sicura e a torto ne ha dubitato il DocreL: la costanza di esso invece credo sia un’altra cosa e di grande interesse, essendo la base anatomica di alcune vedute di fisiologia. Non posso precisare il numero di cuori di animali osservati, ma in tutti ho trovato il f. a. v. tenuto sempre conto delle notevoli variazioni individuali riguardo allo sviluppo. ero 166 L. DE GAETANI DI La costanza però non si è verificata negli 80 cuori umani che ho dissecati. Nonostante che abbia usato le stesse minuziose cure in tutte le dissezioni in circa metà dei casi il f. non fu trovato. Tenuto conto che non tutti i cuori erano normali, non insisto sulla precisione mate- matica della percentuale della assenza del f.; ma è per me certezza che c'erano dei cuori in cui mancava. Escludo da parte mia difetti nella preparazione, perchè nello stesso luogo e cogli stessi mezzi ove ne preparai molti e assai dimostrativi, anche in cuori di feti umani, avrei certamente potuto preparare i fasci che non ebbi la fortuna di trovare. Non credo che nell’uomo, come dice il RETZER, il f. possa trovarsi profondamente e coperto dal miocardio del setto. In altri animali non è raro trovare il f. alquanto coperto dal miocardio e specialmente l’inizio del ramo sinistro, coperto dai muscoli subaortici; !) ma nell’uomo l’ori- gine del f. è sempre sulla faccia destra del setto interatriale e dopo il nodo esso decorre al di sopra dello anello fibroso a. v. destro, sulla cui circonferenza superiore si continua fino alla biforcazione. Un fatto indiscutibile è la varietà di struttura che offre il teda e - permette di distinguere due tipi di f. notevolmente differenti. Uno è quello che ha per elemento la fibra di PuRKINJE (ovini, equini); l’altro quello che ha per elemento la fibra muscolare che poco differisce dalla comune fibra miocardica. I tipi restano immutati anche se nei varii segmenti del f. la struttura offre delle modificazioni. A questo punto è necessaria una piccola digressione sulle cellule del PURKINJE. Non è più il caso di dire che sotto l’endocardio un dato animale presenta le dette cellule: noi non possiamo POMOEBIEE la presenza di cellule di PURKINJE isolate, astraendo dal f. a. v., e ne è prova il fatto che esse i) Durante la stampa del presente lavoro, JARISCH ha reso noti i risultati delle sue ricerche sulla Pars membranacea septi ventriculorum des Herzens. Come concernenti l'argomento del f. a. v., meritano menzione i rapporti che l’A. stabilisce per i due rami di biforcazione del detto fascio. Egli afferma che il ramo sinistro allo inizio del suo decorso nella pecora, nel vitello e nel maiale, è co- perto dal m. subaortico sinistro. Nel cane e nell’ uomo, nei quali questo muscolo non esiste, il detto ramo giace immediatamente sotto il prolungamento lamel- lare sinistro dell’ aorta. Il ramo destro si trova sotto alla parte marginale po- steriore del prolungamento aortico destro e nell’ ulteriore decorso trovasi sotto la muscolatura superficiale e longitudinale del setto. Afferma inoltre che mentre il m. subaortico sinistro, mancante nell’ uomo e nel cane, deve essere conside- rato come una formazione a sè, il m. subaortico destro va considerato come porzione caratteristica della muscolatura profonda del setto. RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE 167 si trovano soltanto sotto l’endocardio ventricolare, ove appunto si tro- vano le diramazioni del f. Oggi possiamo dire che esse si prolungano _nel f. e si arrestano nel nodo a. v., ma non esistono nella porzione co- ronaria del f. medesimo. Nell’ uomo e in altri animali che hanno il f. a tipo miocardico dob- biamo escludere, anche per le mie ripetute ricerche, la presenza di cellule del PURKINJE, e in ciò tutti gli osservatori sono quasi concordi, fatta qualche rarissima eccezione. Il GEGENBAUR e il MERGONI parlano di cellule di PuURKINJE trovate nell’uomo. Del primo si ricorda un’osser- vazione soltanto secondo la quale, profondamente nel miocardio, furono visti elementi con fibrillazione periferica, alone di sarcoplasma attorno ad uno o due nuclei. Il MERGONI poi esplicitamente afferma di avere nell’ uomo messo in evidenza le cellule del PURKINJE, senza una prudente riserva, e ne dà la dimensione del diametro che sarebbe di 10-20 w. È doveroso però riconoscere che in proposito gli osservatori sono molto riservati e pochi, tra cui TAwARA, credono che se in alcuni animali non si trovano le cellute del PuRKINJE, si trovano i loro equivalenti. È cosa questa molto agevole a dirsi, ma difficile a provarsi: e fino a che tale prova non sarà fornita, dobbiamo, per la notevole differenza fra le due strutture, restare titubanti di fronte al dubbio, che due organi a strut- tura dissimile possono avere funzione identica. Prima però di fare un fugace cenno della funzione del f. a. v., mi piace fare brevemente qualche osservazione sopra alcuni lavori riscontrati. Parla il Kocg di un’arteria robusta che si trova costantemente nel nodo di Kerrg, che egli crede costituire, insieme ‘con quello di TAWARA, il luogo di origine dello stimolo del moto cardiaco e accenna alla pos- sibilità che le pulsazioni dell’arteria eccitinò col loro ritmo la muscola- tura del nodo. A me sembra che così si entrerebbe in un circolo vizioso. Le pulsazioni dell’arteria stimolano il moto del cuore, ma per pulsare l’arteria deve ricevere il sangue dal cuore e quindi si potrebbe doman- DI dare: come si è mosso il cuore, senza essere stimolato dalla pulsazione della arteria? Come ha pulsato l’arteria, se il cuore non era stimolato per contrarsi? In altre parole chi 1 cominciato a contrarsi prima - cuore 0 l’arteria? | Ci fiere L'osservazione del TuoreL che nel io KritH ci sono le cellule del PurKINJE non sembra esatta e il Koc&H, che ha fatto pregevoli la- vori su questo ed argomenti affini, giustamente gli osserva che in quel nodo, nè nell'uomo, nè in altri animali esistono lè dette cellule ed io 168 L. DE GAETANI aggiungo che negli atrii in nessun animale si riscontrano cellule di PURKINJE e che solo in alcuni, mai nell’uomo, si trovano soltanto nei ventricoli. Non ho fatto ricerche microscopiche, nè esperienze per accertare la disposizione che assegna il CurRAN ad una borsa che costantemente comprende il f. a. v.j ma mi è occorso con frequenza, nei casi in cui il f. era chiaramente visibile per trasparenza nella porzione membranacea del setto, di trovarlo libero e come separato dalla borsa connettivale da uno scarso liquido incoloro e poco denso. Siccome non è giusto che rimangano dubbi sulle cognizioni acquisite all'argomento del f. a. v., debbo rilevare, perchè li avrei desiderati meno oscuri, alcuni punti del lavoro di MERGONI. A parte che egli attribuisce a GasgELL la prima scoperta di un f. unitivo a. v., senza tener conto del lavoro del PALADINO, che egli cita in seguito, non comprendo cosa voglia dire, attribuendo all’His il merito di aver dimostrato connessioni ininterrotte nei primi stadii di sviluppo fra le varie sezioni del cuore e di avere dimostrato il f. a. v. in intere classi di animali inferiori e quali siano questi animali. Credo poi poco esatto che egli attribuisca al TAwARA il reperto di fibre di PURKINJE nel- l’uomo, perchè il TAwARA crede invece che ove non ci sono fibre di Pur- KINJE, che è il caso dell’uomo, ci siano i loro equivalenti. La topografia e la descrizione del f. a. v. nella pecora mi sembra che non siano ecces- sivamente chiare, nè chiara mi sembra la struttura del nodo a. v. ove, dice, ogni fibra si scioglie nelle sue fibrille elementari, che si anastomizzano nei modi più diversi fra di loro e con quelle delle altre cellule per dare origine ad altre fibre muscolari molto più piccole e più numerose che escono dal polo opposto del rigonfiamento. Io invece ho potuto vedere come le fibre del PURKINJE, 0 aggrovigliate, o aggruppate, o disposte a rete si as- sottiglino all’ estremità che si dirige verso il polo coronario del nodo e si continuino direttamente con fibre muscolari sottili, disposte a rete da prima e che poi decorrono parallele, dirigendosi verso il seno coro- nario. Nè credo sia esatto dire che nella costituzione del nodo, oltre le fibre muscolari, entrano due altri elementari: i nervi ed i vasi, perchè si trova del connettivo, che ha una discreta importanza, tessuto elastico e adipe. Devo ancora rilevare come non risponde a verità l’asserzione che il f. non è visibile macroscopicamente a fresco nella pecora se non dopo trattamento con formalina al 10 °/o per qualche giorno. A me in- vece risulta che il f., anche in capretti di pochi giorni, per il suo co- Alonte i RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE 169 lorito caratteristico, si vede sempre benissimo ad occhio nudo e che la formalina piuttosto ne intralcia la ricerca. Le cinque osservazioni sul cuore umano non mi sembrano sufficienti per giustificare le conclusioni alle quali giunge l’autore. Che nell’uomo restino gli stessi fatti osservati nella pecora, salvo qualche piccola diversità, mi pare asserzione con- traria al vero, essendo grandi assai le diversità macroscopiche e di struttura. Affermare che il f. è costante, che è evidentissima la sua divisione in due peduncoli, che esso è più ricco di vasi e meno di nervi, mentre in ultimo dice che il f. è ricco di nervi, che gli elementi cellulari sono ‘assai più piccoli, mi sembrano fatti poco sicuri e che le mie numerose ricerche non confermano. Non sono di mia competenza la fisiologia e l’anatomia patologica del f. a. v.: mi piace solamente esporre in forma sintetica i giudizii di autorevoli ricercatori tanto tra quelli che attribuiscono, quanto tra quelli che negano al f. un ufficio straordinariamente importante. La funzione di condurre l’onda di eccitazione per la contrazione dei varii segmenti dei ventricoli del cuore, attribuita al sistema a. v. dal TAwARA, è recisamente oppugnata da KRoNEKER e dai suoi allievi, principalmente dal PauguL, che legando il f. con un filo di seta, non riscontrava alcun cambiamento nel ritmo del cuore. HumBLeT, FrépéRICQ, ERLANGER ed HerING affermano invece che, im- pedita la funzione del f., mediante sezione o compressione, si verifica dissociazione tra i movimenti degli atrii e dei ventricoli. Un’osserva- zione però d’indole generale va fatta in queste esperienze. La tecnica usata non permette di dire tassativamente che la pinza di Pian ado- perata da FRrépERICQ o la pinza ad uncino di ERLANGER comprimesse esclusivamente il f., e non è finora dimostrata l’identità di funzione tra il cuore che pulsa naturalmente e quello irrigato artificialmente. Alcuni, abbastanza riservati, come l’EsmeIn, si limitano a riconoscere grande importanza alla regione del setto interauricolo-ventricolare, che comprende il f. a. v., credendone l’integrità indispensabile per il nor- male funzionamento del cuore. Le conclusioni che HeskerH Biees trae dalle sue esperienze sul cuore mutilato di coniglio sottoposto alla circolazione artificiale e dimo- stranti le alterazioni del ritmo cardiaco in seguito a lesione graduale o totale dei rami o del f. intero, non sono confortate dalle ricerche ana- tomiche. Dice egli che le fibre del f. sono in connessione nel setto con. 170 L. DE GAETANI tutto il miocardio ventricolare, e non solo nel terzo inferiore, e che - ciascuno dei rami di biforcazione del f. si distribuisce non solo al ven- tricolo corrispondente, ma anche al ventricolo opposto: risulta invece, almeno in alcuni animali, che le supposte connessioni non si riscontrano. HerInc crede di avvalorare l’esattezza della presunta funzione del f. con l’osservazione che i muscoli papillari si contraggono prima del rimanente miocardio ventricolare, e il SALTZMANN in ciò è d’ accordo con lui. L’ERLANGER poi, senza prove di fatto, giunge financo a dire che, in seguito a lesione parziale di un segmento del f., non si può rista- bilire la funzionalità normale del cuore. Nega che la funzione è dovuta alla via nervosa, perchè, riproducendosi, le fibre nervose dovrebbero ristabilirla, ma invece è dovuta alla via muscolare, che dopo la lesione, non si può ricostituire. | LEVELLIS, BARKER e HIRSCHFELDER, con la sezione del ramo sinistro del f. a. v. non sono riusciti ad avere.una vera emisistolia e le contra- zioni dei due ventricoli restarono sincrone. Poche parole ancora sulla fisiologia del f. secondo le conclusioni del MergonI. Dice egli che dai suoi studii, e non so veramente come, gli risulta che l’onda di contrazione, che prende origine da quelie fibre au- ricolari che s’insinuano nelle pareti delle vene, si propaga verso il basso per le fibre comuni prima e poi per quelle del f. di His, che con esse si continuano, e vanno a gettarsi nel rigonfiamento nodale. Quivi lo stimolo viene elaborato in modo che le onde, dopo un certo arresto, arrivino molti- plicate in potenza e intensità di trasmissione, eguali e simultanee, ai rami efferenti del f. e quindi ai ventricoli. In questo cammino, dice, lo stimolo arriva alle parti superiori e poi alle inferiori dei ventricoli, spiegando con ciò la contrazione peristaltica dei ventricoli. Ora tutto questo è in evidente contraddizione con quanto hanno affermato i miogenisti, spe- "cialmente HerIne, che cioè il f. trasmette l’onda di contrazione prima alla punta, tanto che i muscoli papillari si contraggono prima del re- stante miocardio e quindi la contrazione rimonta verso la base dei ven- tricoli. dada an js E per dimostrare come gli osservatori, anche di fronte ai fatti che ognuno per conto suo crede inoppugnabili, vengono ad opposte conclu- ‘sioni ricordo che Conn e TRENDELENBURG, hanno voluto controllare le esperienze del PAuKUL, negando ad esse ogni attendibilità per errori di tecnica e che KRONECKER insorge contro di essi, ricordando le esperienze sue e dei suoi allievi, fatti prima e dopo quelle del PauxuL e secondo RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE 171 le quali è evidentissimo che la contrazione del cuore avviene per in- fluenza nervosa. Conclude che la dissociazione delle contrazioni auricolo-ventricolari, ottenuta da lui, da LOMAKINA, da SPALLITTA e da IMCHANITZKY per tut- t'altra via che quella del f.a.v.e in animali viventi e a cuore intatto, e non sopra cuori irrigati artificialmente, come quelli adoperati dai due osservatori suddetti, prova che il f. a. v. da solo non è necessario, nè sufficiente a mantenere la coordinazione atrio-ventricolare. Le stesse incertezze e le stesse contraddizioni che si hanno per la fisiologia, si hanno ancora per l’anatomia patologica del f. a. v. Alcune osservazioni sembrano, come sono presentate, abbastanza convincenti, mentre altre danno adito a dubbi, perchè riferiscono pro- cessi morbosi del f., che potevano essere comuni a tutto il miocardio, di cui, tranne che da STENBERG e da qualche altro, non sono stati fatti preparati di controllo. Il caso di JAMES WALTER riguardava un individuo che presentava dissociazione completa dei battiti degli atrii da quelli dei ventricoli e alla necropsia fu trovata un’ulcerazione che interessava il setto inter- ventricolare in corrispondenza del f. Ricordo che il PAUKUL appena com- prendeva nella legatura del f. porzioni del tessuto circostante, otteneva la detta dissociazione ed è verosimile che l’ulcerazione, oltre del f., interessasse anche i tessuti vicini. Simile è il caso di BRAMWELL BryRom ma ugualmente indeciso, per- chè ivi fu trovato un nodulo calcare che interessava il setto nella re- gione del f.; e non se ne allontana l’osservazione dello HANDWERK, in cui fu trovata una gomma voluminosa che occupava tutto il setto auricolare. Il MosBacHBER in un caso di aritmia trovò grave sclerosi del f. a. v., ma non dice se questa era esclusivamente limitata al f. Mackenzie e Morrow in un ammalato di aritmia permanente hanno supposto che le extrasistoli fossero dovute ad extrastimolo prodotto dal f. a. v. Ma le supposizioni non bastano, ci vogliono prove. positive. KARCHER e ScHAFFNER asseriscono che in un caso di malattia di Apaws-Sto€es il ritmo cardiaco alcune volte era normale perchè le plac- che sclerotiche che hanno riscontrate nel f. non lo invadevano comple- tamente. Il caso di polso lento permanente osservato da BERGÉ e PELISSIER veniva da essi attribuito all’infiltrazione adiposa del f. a. v., ma aggiun- gevano che c'era un deposito notevole di grasso in tutto il cuore. Noto Se, Nat. Vol, XXVII 14 199) L. DE GAETANI qui che nel f. allo stato normale si trova dell’adipe e che bisogna es- ser cauti nello stabilire quando esso diventa patologico. NaAgayo ammette che si può avere la sindrome di ADAMS-STOKES, oltre che per lesioni del f., anche per lesioni diffuse del miocardio e ne riporta un caso per miocardite fibrosa. SCHMIDT però impugna l’esattezza della diagnosi di NAgAYO. EsmeIin, BARIÈ e CLERET ritengono le lesioni del f. e la sindrome di Apams-Sroxes collegate come causa ed effetto. SAPEGNO però osserva che si accentua sempre meno la E, a riconoscere costante questo legame, notando che si ammette una forma della detta sindrome dipendente da alterazioni nervose. Pare che le sue numerose osservazioni provino che ci sia un legame tra gravi lesioni del f. e le morti per paralisi cardiaca, mentre lo escludono tra lesioni del f. e sindrome di cuore bloccato. Importanza hanno le conclusioni dello STENBERG, che cioè le lesioni del f. non sono la sola causa delle morti improvvise, perchè egli in 72 casi trovò che le lesioni del f. erano comuni a tutto il miocardio ed erano state la causa della paralisi cardiaca. Queste osservazioni concordano con quella di BeRGÉ e PELISSIER e si avvicinano all'opinione di AMmENOMIYA, a proposito della degenerazione adiposa del f. nella difteria, che le lesioni di esso non sono la causa esclusiva, ma una delle cause del collasso cardiaco. Che l’ Herzblok non sia prodotto unicamente da lesioni del f. è pro- vato dalle esperienze di Lewis e MATHISON e poi di LasLeETT, che lo hanno prodotto rispettivamente con l’asfissia e con la digitale. Di dubbia interpretazione è il caso di MARTIN e KLotz, perchè è strano che si sia potuta mantenere integra la trasmissione e la correla- zione a. v. nonostante la presenza di un voluminoso sarcoma del cuore che aveva invaso il setto interventricolare. Nè mi sembra convincente l'osservazione del KRUMBHAAR, secondo la quale vi era completa dissociazione a. v. e integrità del f., perchè essa sarebbe stata di grande importanza se egli non avesse riscontrato sclerosi del nodo di KriTtH e FLACK, che è ritenuto uno dei più impor- tanti segmenti del sistema unitivo a. v. E chiudo questa breve rassegna con due osservazioni contraddittorie: una di FLemine e KENNEDY che hanno trovato, in un caso di difteria con completa dissociazione a. v., focolai infiammatorii nel nodo di TAWARA e nella parte superiore del f. a. v. e l’altra di MoLLarp, Dumas e Re- RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE 173 BATTUÙ fatta in soggetto con sindrome di ApAMS-STOKES e che alla necro- psia presentò integro il f. a. v. Le incertezze e le contraddizioni sulla fisiologia e sulla patologia del f. a. v. restano sempre nonostante la brillante discussione seguita alla comunicazione fatta dal Parapino al Congresso della Società italiana per il progresso delle scienze tenutosi in Napoli nel dicembre 1910, per ri- vendicare a sè la priorità della scoperta dei fasci unitivi a. v. Mentre il Fano sosteneva che il sistema di His va distinto ed ha funzione differente dal sistema del PALADINO, questi negava che fosse un sistema a sè e che avesse le funzioni di alto valore assegnategli. E quando il Luciani osservava che il f. di His deve essere considerato come un’ ulteriore differenziazione degli studii del PALADINO, e il BOTTAZZI domandava se c’era identità tra i due sistemi di PALADINO e di His e tra gli elementi del sistema di PALADINO e quelli di PuRKINJE, il PALADINO rispondeva che non può escludersi che tra i fasci da lui descritti che passano dagli atrii nei ventricoli vi sia quello così detto di His e che nello uomo non si può parlare di f. di Hrs, identificato nelle fibre del PURKINIE, proprie degli ungulati, perchè queste fibre non vi esistono. Al Foà poi che ricordava i casi di morte rapida coincidenti con le- sioni del f. di His, solo colpito di tutto il sistema di PALADINO, questi rispondeva che lesioni sperimentali del f. di His, fatte sotto la guida di KRONECKER e di altri non determinarono alcun disturbo nella funzione del cuore e che in necroscopie di individui morti con malattie cardiache fatte dipendere da lesioni del detto fascio, questo fu trovato integro. * * * Essendo allo stato che ho cercato di tracciare con serena obiettività le quistioni che attualmente concernono l’anatomia, la fisiologia e la pa- tologia del f. a. v. cercherò di dare la risposta al quesito ehe ho pre- messo, se con le cognizioni anatomiche che si hanno per ora sul detto f. si possono spiegare le funzioni importantissime che si vogliono ad esso assegnare. | Evidentemente no. Si è visto che nell’uomo il f. può mancare e mancando l’organo deve mancare la funzione; quando si trova non fornisce argomento inoppu- gnabile in favore della teoria miogena, perchè il sistema unitivo è ricco di cellule e di fibre nervose. mm wi”. Si Me bl”, PET 4g x MEL I VA TI E ERE PR A 174 L. DE GAETANI Lo studio macroscopico ed istologico del sistema induce a constatare la mancanza d'identità tra quello di alcuni animali e quello di altri animali e dell’ uomo. Nei primi il sistema è ben definito ed ha caratteristiche da non mettere in dubbio: è sistema unico e continuo che dal nodo sino-auri- colare si estende fino alle ultime diramazioni ventricolari, risultante da segmenti differenti nella struttura, ma tra loro connessi, poichè trovansi fibre che per pochi caratteri differiscono dal miocardio ordinario, fino al nodo a. v. e dal nodo in avanti le caratteristiche fibre di PURKINSE. A parte il significato differente che si dà a questi elementi, creduti da taluni a trasmissione rapida, come i muscoli pallidi di alcuni animali e da altri invece elementi a trasmissione lenta, perchè ricchi ancora di citoplasma non differenziato in fibrille, e quindi adatti per spiegare” il breve intervallo tra la contrazione degli atrii e quella dei ventricoli, non è ancora provato il loro vero ufficio. Rilevo però che i miei pre- parati mostrano chiaramente come gli elementi del. PURKINJE, circondati da un vero ambiente di fibre elastiche non facciano rilevare la conti- nuazione delle loro diramazioni terminali col comune miocardio nel senso del loro ininterrotto passaggio secondo l’asse del ventricolo, ma come invece vi sia un passaggio graduale alla musculatura normale del mio- cardio nel senso eccentrico, cioè dall’ endocardio verso il miocardio, fatto ben chiarito dalla modificazione graduale nei caratteri della struttura dei cordoni di PURKINJE più superficiali mano mano che si va ai più profondi. La constatazione di questo fatto darebbe valore all'opinione espressa dal Romiti nel suo trattato di anatomia, che le fibre del PuR- KINJE possano essere in relazione con la continua neoformazione musco- lare del viscere. Si potrebbe chiedere come si può accrescere il miocardio negli ani- mali che allo stato attuale non presentano gli elementi di PURKINJE; ma in tal caso si potrebbe rispondere che, secondo le ricerche di HENLE e di TAwaARA, durante la vita fetale e poco dopo la nascita gli elementi di PURKINJE sì trovano e poi spariscono del tutto. Queste osservazioni proverebbero quindi il nesso tra la scomparsa degli elementi di Pur- KINJE e l’evoluzione più completa del miocardio in alcuni animali, e l’os- servazione del GEGENBAUR di cellule di PURKINJE trovate profondamente nel miocardio di un adolescente, potrebbe provare che l’evoluzione in quel caso non era del tutto completa. x Nel cane e nell'uomo è risaputo che gli elementi del f. non presen- RICERCHE E CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO-VENTRICOLARE ID tano che differenze trascurabili in confronto di quelli del comune mio- cardio, e sembra più opportuno dire che i detti animali non presentano, ma presentavano gli equivalenti delle cellule di PuRKINJE che, fornito il loro ufficio, sono del tutto scomparse. Un'altra osservazione emerge dallo esame dei preparati anatomici. _ Le fibre di PuRkINJe non formano uno strato continuo che tappezzi completamente le cavità ventricolari e non c'è passaggio diretto delle fibrille del f. a. v. in tutto il miocardio. La teoria miogena presuppone vie muscolari ininterrotte per la propagazione dell’onda di contrazione: ora queste vie ininterrotte non si trovano nè nel senso dell’asse del ventricolo, nè nel senso endo-miocardico, perchè i varii cordoni di PuR- KINJE tipici o modificati sono tra loro separati da connettivo e da fibre elastiche. Se non c’è diretta continuazione di tutto il sistema unitivo con tutto il miocardio non si comprende come il miocardio possa rispon- dere, contraendosi, allo stimolo che viene trasmesso dal f., stimolo del quale la natura è ancora incerta, come incerta è la vera sede ove pri- mitivamente ha origine. Si può dire che il miocardio è un sincizio e basta uno stimolo in un punto qualunque di esso per promuovere la contrazione. Anzitutto è da domandare: il sistema unitivo fa parte del sincizio ? Si può rispondere che negli animali in cui il sistema è fatto di cellule del PURKINJE, esso non fa parte del sincizio, mentre in quelli ove è co- stituito di fibre assai simili alle comuni del miocardio, esso invece ne fa parte. Tutto ciò non facilita la chiarezza che è necessaria per inten- dere il sincizio miocardico. Se questo è tale non si comprende perchè non debba essere uguale nei diversi animali. Se è sufficiente lo stimolo ad un punto qualunque del sincizio non è chiaro perchè il sistema di fibre di PurkinJe debba essere in alcuni animali tanto diffuso e venire a contatto con moltissimi punti del sin- cizio. Questi contatti multipli poi dovrebbero provocare contrazioni par- ziali disordinate in varii territori, la cui somma non potrebbe dare per risultato la contrazione regolare dei ventricoli sempre nello stesso senso dalla punta verso la base secondo alcuni osservatori, o viceversa secondo altri. Non si deve perdere di vista l’obietto cui si mira, cioè la funzione specifica del f. a. v.: e quindi non trovo esatto che qualcuno in casi di interruzione di esso, tenti di spiegare la normale funzionalità del cuore per mezzo di funzione vicaria assunta da fibre di nuova formazione 0 176 L. DE GAETANI dalle cellule muscolari lisce dell’endocardio. Nè mi sembra accettabile l'opinione che la rete del PURKINJE possa avere la funzione di mantenere uniformemente distesa la superficie endocardica, quando la detta super- ficie non risente alcun danno dalla mancanza delle fibre del PURKINIE, che si verifica nel cuore di alcuni animali. I particolari della struttura e il fatto che la rete di PuRKINJE non forma uno strato continuo pare siano piuttosto in favore di una funzione di accrescimento ad essa rete dovuta; funzione cessata nei tratti in cui le fibre mancano, perchè ivi il miocardio ha compiuto la sua evoluzione. Non credendo stabilita l'identità di struttura del f. a. v. degli ovini e di altri animali con quello dell’uomo, sembra logica conseguenza la non identità della funzione e del significato. Mentre nei primi animali il sistema di PURKINJE può essere indice di evoluzione non ancora com- pleta, nell’ uomo, secondo il vario grado di sviluppo, gli si può attribuire il significato, sempre con struttura modificata, del ritorno o della per- manenza di una disposizione che è propria di animali più bassi nella serie e propria ancora di un dato periodo dello sviluppo. Non devono meravigliare i risultati incerti, differenti ed alle volte contraddittorii cui sono pervenuti molti ricercatori in seguito ad espe- rimenti di fisiologia e ad osservazioni di anatomia patologica. Essi sono conseguenza logica del fatto che si è voluto prendere come base per sostenerli una disposizione anatomica, che finora le ricerche non hanno dimostrato costante, uniforme e comune a tutti gli animali studiati. Ed è necessario che si continuino sistematiche e numerose le ricerche e che ogni osservatore renda conto non soltanto degli esemplari più classici di f. a. v. riscontrati, ma anche di quelli meno dimostrativi e, se gliene occorrono, anche dei reperti negativi. Così pure nelle osservazioni ana- tomo-patologiche non è sufficiente dire che il f. presentava una data lesione, ma occorre dimostrare istologicamente non soltanto l’ integrità di tutto il miocardio, ma anche quella di tutta l’ innervazione del cuore, compreso il f., del quale la lesione deve riferirsi esclusivamente agli elementi muscolari, sia in modo primario, sia secondario. Fino a che questo non sarà fatto e sistematicamente per un numero grandissimo di ricerche, dimostrando l'impossibilità che anche in un caso solo manchi il f. a. v., si è autorizzati a negare al detto f. l importante funzione che ad esso si vuole attribuire nella fisiologia e nella patologia del cuore. E concludendo ritengo che ogni osservatore non deve preoccuparsi se le sue ricerche confermino o infirmino ipotesi e teorie da altri avanzate, Pe. dea fe “ '‘ el ei A I a PTT E » Mirratai P. dead dà lat b$ SL ori CL Th raf: roi 47 2% att > “ e. IV AS het n ° Pi È. . i " = ” - è I x ‘ i È Ne le x RICERCHE K CONSIDERAZIONI SUL FASCIO ATRIO- VENTRICOLARE EDT ma deve serenamente e con la massima obiettività esporre i fatti che ha potuto constatare; e sullo argomento del f. a. v. i fatti che a me ri- - sultano sono i seguenti: 1.° — Mancanza del f. a. v. in circa la metà dei cuori umani ma- croscopicamente preparati. 2.° — Presenza, di esso nei cuori di molti animali domestici, con- statata con la dissezione nei grossi e istologicamente nei piccoli. 3.° — Diversità di struttura tra il f. a fibre di PuRKINJE di alcuni animali e quello a fibre quasi miocardiche di altri animali, compreso l’uomo, ove mancano gli elementi di PuURKINJE in modo sicuro. 4.° — Grande ricchezza di elementi elastici che circondano le filiere della rete di PuRKINJE ed anche i cordoni che esse formano. 5.° — Mancanza di continuità tra le cellule di PURKINJE e le fibre comuni miocardiche, nel senso dell’asse del ventricolo. 6.° — Trasformazione graduale delle fibre di PuRKINJE in fibre mio- cardiche, dimostrata da cordoni di esse a struttura chiaramente di tran- sizione e stratificati concentricamente, andando dallo endocardio verso il miocardio. 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Fig. 1. — Sistema unitivo visto nello insieme: in basso il f.a.v. con i due rami di biforcazione; in alto il fascetto coronario; nel mezzo il nodo atrio- ventricolare (pecora). » 2.— Sezione del ramo sinistro del f. a. v. perpendicolare alla superficie en- docardica (pecora). In alto l’endocardio: sotto di esso un cordone di tipiche cellule di Purkinje disposte in due filiere. Seguono due cor- doni di cellule di Purkinje in via di transizione; indi il miocardio ordinario. » 3. — Sezione del ramo sinistro del f. a. v. parallela alla superficie endocar- dica (pecora). Cellule del Purkinje e fibre nervose (met. Cajal). » 4.— Sezione del ramo destro del Y. a. v. perpendicolare alla superficie en- docardica (pecora). Endocardio in alto, miocardio in basso. In mezzo le filiere di cellule del Purkinje circondate da abbondantissime fibre elastiche (orceina). » 5. — Fibre e cellule nervose del f. a. v. di cuore umano (met. Cajal). » 6. — Fascio atrioventricolare del cane. » 7.— Sistema unitivo visto nello insieme (uomo). A destra un tratto del f.a.v.; a sinistra i fascetti coronarii; nel mezzo il nodo atrioventri- colare. PROF. DOTT. ALCESTE ARCANGELI —— ta ———_— Sopra due specie di Armadillidium della fauna italiana Armadillidium Pallasii Branpt e Armadillidinm Ficalbii nov. Sp.. Armadillidium Pallasii è una specie che fu fondata da J. FR. BRANDT (v. bibl. 1) nel 1833 con le seguenti parole; “ Armadillidium Pallasii nov. sp. Dorsum granulatum, griseum, emaculatum. Lamina frontalis longissima. Patria: Taurica Chersonesus? , Questa stessa specie egli avrebbe poi (1841, v. bibl. 2) ritrovato fra i crostacei raccolti da M. WAGNER in Al- geria e secondo lui si estenderebbe fino nel Caucaso. Mine EpwaRDS (1840, v.-bibl. 11) fra le sedici specie di Armadilli- dium da lui ammesse annovera questa specie, per la quale dà come patria la Piccola Tartaria. KocH (1841, v. bibl. 9) fondò una nuova specie di Armadillo laminatus in base ad esemplari raccolti a Trieste; ma in seguito Buppe-LuND (1885, v. bibl. 4) riconobbe in questa specie l’ Armadillidium Pallasii BRANDT. Lucas (1849, v. bibl. 10) trovò un esemplare di questa specie a Bir- kadem in Algeria, ma DoLLrus molto tempo dopo (1896, v. bibl. 5) re- puta che debba essere riportata ad Arm. granulatum BRANDT e riguardo all’esemplare che BraNDT ascrive all’Algeria egli crede che vi sia stato errore o confusione perchè Arm. Pallasii sembra più orientale. Buppe-Lunp nel 1879 (v. bibl. 3) assegnò a questa specie come area di diffusione l’ Europa meridionale e l’Africa settentrionale. Rinforzò questo concetto nel 1885 (v. bibl. 4) con le seguenti parole a proposito della patria di questo Armadillidium: “ Plerasque terras mediterraneas habitare videtur. Tergesti (Koch), in Longobardia (Balsamo), in Sicilia, in Chersoneso Taurica (Mus. Berol.), in Caucaso (Mus. Petrop., sec. Brandt), in Algeria (M. Wagner). In ora australi Chersonesi Tauricae cl. Rathke Se. Nat. Vol, XXVII 15 188 A. ARCANGELI hanc speciem sub lapidibus copiose legit. Exempla numerosa, ex Inker- mann (Mus. Petr.) et e Theodosia (Mus. Uljan.) trasmissa, vidi ,. Egli dà inoltre per il primo una descrizione che sia appena sufficiente per rico- noscere la specie. DoLLrus nel 1895 (v. bibl. 5) parlando della distribuzione geografica degli Armadillidium in Europa assegna ad Arm. Pallasiù BraNDT “ le bord de l’Adriatique ,. Tua nel 1900 (v. bibl. 12) cita questa specie rinvenuta in esemplari raccolti ad Apricena-Gargano, Otranto (dr. Peracca) e Genova. DoLcLrus nel 1901 (v. bibl. 7) trova Arm. Pallusii specialmente a Trieste e nella Dalmazia e identifica questa specie con Arm. scaberri- mum STEIN. In seguito nel 1906 (v. bibl. 8) la ritrova nelle Isole Tremiti ed aggiunge che “ Abondant dans l’Adriatique Nord, se retrouve en. Lombardie, dans la Chersonèse taurique, en Sicile et en Algerie (?) ,,. VERHOEFF per ultimo nel 1908, (v, bibl. 13 a pag. 455 e 487-488) sempre con metodo sinottico, ci offre una diagnosi molto succinta della specie in parola e sostiene che per ora essa spetta con sicurezza alla Sicilia orientale. Secondo questo autore il reperto di DoLLFuSs che trova l’Arm. Pallasii in Lombardia e nelle terre limitrofe all’Adriatico setten- trionale deve considerarsi come errato e dovuto a confusione fatta con Arm. scaberrimum SteIN; tanto più che DoLLFUS (v. bibl. 7) identifica questa specie con la prima e non mostra di conoscere bene i caratteri morfologici differenziali. Egli soggiunge di avere raccolto molto materiale nei territorî dell'Adriatico settentrionale e di non avere trovato Arma- dillidium Pallasii, la presenza del quale in Istria o Croazia, in virtù delle condizioni di diffusione degli Armadillidiani, apparirebbe in sommo grado inverosimile. “ A. pallasii und scaberrimum, dice VERHOEFF, sind schon in der Faàrbung verschieden, und Budde-Lund hatte bereits in durchaus zutreffender Weise den ersteren als , ex nigro grisens “ und den letzteren als ,, sordide lutescens “ geschildert. Hinsichlich der wichtigeren Unter- schiede will ich neben dem schon oben genannten verschiedenen Verhalten des Hinterrandes des 1. Truncussegments noch folgendes hervorheben: scaberrimum STEIN. - Pallasii Bra. et m. Untere Seiten des Stirndreiecks Untere Seiten des Stirndreiecks angedeutet, die untere Ecke dessel- | verwischt, die untere Ecke weniger ben unter stumpfem Winkel abfal- | vortretend, abgerundet. lend. SOPRA DUE SPECIE DI ARMADILLIDIUM DELLA FAUNA ITALIANA 189 Stirnplatte am Rande in der Stirnplatte in der Mitte des Mitte deutlich ausgebuchtet. Randes leicht ausgebuchtet. Ricken stark gehockert, vor Ricken màssig stark gehOckert, dem Hinterrand der Truncusseg- | vor dem Hinterrande der Truncus- mente eine kriftige Hoòckerchenrei- | segmente cine recht feine Hocker- he. [Schon bei Halbwiichsigen sind | chenreihe. Ostsizilien ,,. die Hinterrandhockerreihen stàrker ausgepràgt als bei Erwachsenen des pallasii]. Dalmatien ,. Riguardo alla colorazione debbo in primo luogo fare osservare che se Bunpe-Lunp assegnò ad Arm. Pallasii un colore differente da Arm. scaberrimum, aveva peraltro riconosciuto la grande affinità che esiste fra le due specie in discorso e ciò si può ben rilevare dalla osservazione che egli (v. bibl. 4, a pag. 54) ha posto in fine alla descrizione di Arm. scaberrimum STEIN e che io cito integralmente: “ C1. Stein mihi benevole specimen supra descriptum transmisit, quotamen explorato, mihi non satis patet, num potius cum Arm. Pallasii hanc speciem conjungi opor- teat. Exempla, nomine Arm. scaberrimi, a cl. Uljanin e Theodosia Cher- sonesi Tauricae missa, ab Arm. Pallasii statura minore solum diversa ,,. Da quanto hanno osservato Autori precedenti e da quanto risulta dalle mie osservazioni si può dire che se in alcuni casi il colore del ‘tegumento può assumere per gli Isopodi tale importanza da potersi considerare come un buon carattere diagnostico, in numerosissimi casi esso è di ben scarso valore perchè estremamente variabile. Nella descri- zione che in seguito io do dell’’Armadillidium Pallasii BRANDT sì vedrà quanto sia variabile la colorazione ed a togliere il sospetto che io abbia avuto sotto gli occhi una specie diversa, quale vorrebbe essere secondo VerHOoEFF l’Armadillium scaberrimum Stein basti il fatto che quegli esemplari che per la colorazione dovrebbero secondo il predetto Autore appartenere a questa ultima specie mancano di quei caratteri morfolo- gici (pochissimo importanti) che egli invece assegna alla prima; senza .contare poi che la differenza di colorazione si può osservare in animali raccolti nella stessa regione e anche, sino ad un certo punto, sotto la | stessa pietra. Non sarà inutile che io faccia qui delle osservazioni di indole generale. Come si sa la variazione della colorazione in una stessa specie dipende da varie cause, delle quali non poche io credo ci restino per ora ignote. 190 A. ARCANGELI A parte il fatto che molto spesso sta in rapporto con la località, io posso dire per mia esperienza che essa varia con l’età dell’ individuo non solo, ma anche durante le varie epoche dell’anno e specialmente in rapporto all’invecchiare della cuticola ed alla muta di questa. La colo- razione in generale è un poco più sbiadita subito dopo la muta della cuticola, diviene in seguito e ben presto più vivace per poi assumere un tono fosco con l’invecchiare della cuticola e specialmente quando essa si è distaccata dalla cuticola sottostante nuova, ma non è stata ancora abbandonata. Non tenendo conto di questa particolarità l’osser- vatore può essere condotto ad assegnare ad una specie nota o nuova una colorazione assai diversa da quella caratteristica dell'animale. Un certo rapporto, e non trascurabile, poi esiste fra la grandezza e la forma del- l’animale con la muta stessa. Quando un Armadillidium per esempio viene sorpreso poco tempo prima che compia la muta della cuticola sì presenta più grande di quello che in realtà è, perchè la vecchia cuticola sl è sollevata a costituire come un involucro del quale l’animale si sba- razzerà. La differenza fra la grandezza e la colorazione apparente e quella vera mi è apparsa sensibilissima in individui che furono da me sorpresi nel momento che avevano abbandonato la cuticola vecchia solo nella metà anteriore del corpo, la quale appariva assai più ristretta e di colore più vivace della parte posteriore che di detta cuticola era ancora provvista e di colore fosco. La scultura delle parti tergali dei segmenti diversi del corpo ha certamente un valore sistematico non indifferente, ma va applicata con un certo criterio. Se noi prendiamo per esempio a considerare le aspe- rosità (siano granulazioni o tubercoli più o meno grandi) del tegumento in una stessa specie, certamente noi siamo subito sorpresi dal fatto che lo sviluppo in grandezza e numero di esse è ben lungi dall'essere eguale in tutti gli individui, ed anzi capita di avere sotto gli occhi individui che le presentano così scarsamente sviluppate che se non esistessero altri caratteri morfologici più importanti e fissi e si desse a queste asperosità un valore sistematico assoluto, si dovrebbero assegnare ad un altra specie. Io ho notato per diverse specie di Armadillidium che la scultura del tegumento si presenta più accentuata in individui raccolti in località montuose e molto battute dal Sole di quello che sia in indi-' vidui della stessa specie raccolti in località basse e umide. Il carattere della maggiore grossezza dei tubercoli che si trovano da- vanti al margine posteriore dei segmenti del tronco, carattere assunto I | | y SOPRA DUE SPECIE DI ARMADILLIDIUM DELLA FAUNA ITALIANA 191 da VERHOEFF come differenziale per Arm. scaberrimum rispetto ad Arm. Pallasii, nel presente caso non può avere alcun valore secondo la mia - ‘opinione. E dico questo perchè ho trovato i tubercoli con tutti i diversi gradi di sviluppo in esemplari di Armad. Pallasii, raccolti persino sotto la stessa pietra. Gli altri caratteri differenziali assunti da VERHOEFF per le due specie ‘in parola, e che io di sopra ho riportato integralmente, si disfanno sotto gli occhi di chi osservi coscienziosamente un certo numero di esemplari. Dal “ deutlich ausgebuchtet ,, del margine della lamina frontale dell’Arm. scaberrimum si passa facilmente al “ leicht ausgebuchtet , dell’ Armad. Pallasti. E così si dica del resto. Pur non disconoscendo l’autorità dell’ Isopodologo tedesco, mi dispiace di constatare che egli per la distinzione delle due specie non ha portato dei caratteri differenziali ben netti e debbo dire che se quelli da lui ri- feriti sono i soli e più salienti che abbia potuto trovare, non resta altro da fare che di considerare insieme a DoLLrus l’Armadillidium scaberri- mum STEIN come sinonimo di Arm. Pallasiò BRANDT o tutto al più (ti- rando le cose) come una varietà di questo ultimo. L’Armadillidium Pallasiù BRANDT merita davvero una descrizione molto più accurata di quella che hanno dato i sunnominati Autori ed io appunto vengo a darla nelle pagine seguenti in quella maniera che mi sono prefisso per ciascuna specie del genere Armadillidium. Premetto che essa si fonda sopra gli esemplari numerosi raccolti da me a Reggio Emilia (dove si trova abbondante sia nei giardini dell’ abitato, sia nei dintorni), sopra quelli raccolti e gentilmente favoritimi dal sig. PIETRO GRANDI in Ravenna e nei suoi dintorni, sopra quelli esistenti nella Col- lezione del Museo di Zoologia degli Invertebrati di Firenze!) e raccolti (da TaccHETTI, che li classificò come Arm. laminatum) a Bologna, a San Marino, a Castel di Monticchio (Prov. di ? ), a Treviso. Queste località e quelle nelle quali fu raccolta questa specie dagli Autori prece- denti dimostrano che essa ha un’area di diffusione molto estesa. In Italia essa si trova quasi in tutta la sua estensione dalla Sicilia alla pianura Padana estendendosi poi ad oriente non solo sino in Dalmazia ma molto probabilmente si prosegue attraverso le regioni Balcaniche, per ritro- varsi poi nella Russia meridionale e sino nella regione del Caucaso. 1) Colgo qui l’occasione di porgere all’illustre prof. DANIELE Rosa, Direttore del suddetto Museo i miei più sentiti ringraziamenti per avere messo a mia di- sposizione la collezione di Isopodi ivi esistente, sulla quale riferirò in apposita pubblicazione. 192 A. ARCANGELI Ecco la mia descrizione per la quale io raccomando che si interpretino i caratteri diagnostici con una certa larghezza, quale del resto deve ado- prarsi nella caratterizzazione di ogni specie animale e vegetale. Il corpo è ovale allungato, abbastanza convesso. Per lo più la lar- ghezza massima si ha nel 1° segmento del pereion e diminuisce molto leggermente sino al 4° per crescere di nuovo, e sempre di poco, sino al 6° che eguaglia quasi in larghezza il 1°. Il 7° segmento di nuovo si restringe per completare con il resto del corpo, cioè con il pleon, l’ ovale. Il pleon ha una pendenza più dolce del cephalon e del 1° segmento pe- reiale presi insieme: i fianchi dei segmenti pereiali cadono obliquamente con pendenza piuttosto forte. La superficie dorsale del corpo oltre essere finamente punteggiata è coperta di granulazioni o tubercoli più o meno grossi e spesso di colore più chiaro. Di tali granulazioni per lo più sono prive le parti tergali dell’exopodite degli uropodi. Esse rendono il margine posteriore dei seg- menti crenulato, ma non nei primi segmenti pereiali, dove possono anche non apparire nel margine stesso. È nei segmenti pereiali posteriori e specialmente in quelli del pleon che tali granulazioni sono più forti. In questi ultimi una fila di tubercoli più accentuati occupa la parte me- diana, in senso trasversale dei segmenti. Gli anelli del pereion presentano sul tergite un solco trasversale da- vanti al margine posteriore, solco che si termina alla base degli epimeri. Questo solco può essere più o meno accentuato e talora si osserva an- che negli anelli del pleon specialmente quando la fila trasversale me- diana di granulazioni è molto accentuata, Riguardo alle dimensioni la lunghezza massima osservata è di circa 20 mm.; la larghezza massima calcolata nel 1° segmento pereiale è di 9 mm. Quanto alla colorazione debbo notare che essa è soggetta a va- riazioni non lievi. Molti esemplari presentano un colore grigio o grigio- ardesia, altri un grigio-rossigno o violaceo, altri un grigio con tendenza al giallastro (negli esemplari di Bologna il giallastro è localizzato spe- cialmente ai lati della linea mediana del corpo, sugli epimeri e presso il margine posteriore del cephalon), altri un grigio bruno, altri infine un bruno vero. Per lo più gli epimeri hanno una tinta un poco più chiara che si manifesta molto spesso più accentuata nelle lineole irregoiari prive di punteggiature che si trovano ai lati della linea mediana dei segmenti del pereion. (li sterniti e le appendici del pereion sono talora di un bianco su- RP RA Pepi ue ° \# vr» | SOPRA DUE SPECIE DI ARMADILLIDIUM DELLA FAUNA ITALIANA 193 dicio, talora giallastri (negli esemplari che dorsalmente presentano il giallastro), talora grigi più o meno. I pleopodi sono incolori tanto nel T -che nella ©. Il cephalon è infossato completamente nel seno anteriore del 1° seg- mento pereiale. I canti anteriori di questo ultimo sorpassano 1 canti la- terali della fronte, ma si trovano quasi allo stesso livello della parte media della linea frontale e restano un poco più indietro della estre- mità dei tubercoli antennarî. I canti della fronte sono quasi ad angolo retto. La linea frontale su- bito dopo questi si ripiega all'insù e in avanti formando una cresta che dapprima presenta una leggera incurvatura all'indietro per poi subito ripiegarsi in avanti e terminarsi subito dopo l’angolo che essa fa con i lati della lamina del prosepistoma. Nello spazio compreso fra il termine delle due creste laterali si trovano due piccole, ma spiccate prominenze separate da una pur piccola, ma netta fossetta frontale. Esse sono limi- tate lateralmente da un piccolo e corto solco obliquo. Gli occhi sono composti ciascuno di circa 21 ocelli. Una fila di tu- bercoli disposti a mezza luna circonda dal lato interno lo spazio più ri- levato nel quale risiedono gli occhi, ma fra questa fila e l’occhio si trova uno spazio liscio pure. a mezzaluna. Il prosepistoma si protrae all’ innanzi in una lamina per lo più molto allungata, quadrangolare, assai ricurvata, ma in vario grado dei diversi esemplari, all'indietro: talora essa apparisce un poco più larga che lunga ma spesso anche più lunga che larga e più ristretta verso l’ estremità. Il margine anteriore di questa lamina presenta una insenatura più o meno accentuata. I lati talvolta diritti, talora un poco concavi si terminano quasi subito dopo l’angolo che essi discendendo fanno con la linea fron- tale. In alcuni individui la Jamina si presenta un poco piu ristretta in modo da assumere l'aspetto di un trapezio isoscele. Dorsalmente essa si presenta concava ed alla base fornita di due rigonfiamenti più o meno spiccati che stanno di fronte alle due sunnominate eminenze del cephalon; tali rigonfiamenti sono divisi da un solco che corrisponde in direzione alla fossetta della linea frontale. i Dalla faccia ventrale il prosepistoma presenta uno scudo non bene limitato lateralmente perchè i canti corrispondenti ai lati sono molto arrotondati. Questo scudo, che in gran parte rappresenta il lato ven- trale della lamina frontale ed ha un superficie alquanto convessa con un leggero avvallamento mediano verso il margine anteriore, corrispon- 194 A. ARCANGELI dente all’insenatura della lamina frontale, ha la forma di un triangolo, per lo più molto allungato, che nella parte posteriore presenta un an- golo molto acuto il quale si prosegue in una ben manifesta carena a mar- gine alquanto concavo, la quale si termina in corrispondenza di un di- stinto solco trasversale in contatto col mesepistoma. L’angolo che lo scudo fa con la carena è molto ottuso e spesso arro- tondato. I lobi antennarî sono grandi, triangolari con apice acuto arro- tondato, per lo più non ripiegato o solo con'un accenno di ripiegamento all'indietro. Lo spazio che intercede fra la superficie posteriore di essi e la linea frontale è convesso e percorso da leggeri solchi longitudinali. Dietro i lobi non si ha alcun tubercolo, nessuna fossetta; anzi la super- ficie posteriore di essi è fortemente convessa e si prolunga in una corta carena che si connette con la parte inferiore dell’apice dei canti frontali. Le antenne del 1° paio sono un poco più lunghe della metà della lun- ghezza del corpo. Hanno per lo più il 2° articolo del flagello lungo circa due terzi del primo, ma può essere anche un poco più lungo o corto. Un piccolissimo aculeo si trova presso il limite superiore e nella superficie posteriore del propodite. Ambedue gli articoli del flagello sono ricoperti di peli un poco più lunghi di quelli degli articoli precedenti. La mandibola destra ha l’apofisi dentaria apicale bruna con tre denti, dei quali il mediano è smussato e molto più lungo degli altri due arrontodati. Apofisi mediana mobile di colore ambra scura, in foggia di mestola, la quale per una intaccatura mediana presenta il margine anteriore talvolta (ma non sempre) diviso in due denti laterali presso- chè quadrangolari; dorsalmente è provvista di una gibbosità. Il lobo setifero è poco sviluppato. li seguito a questo una serie di pennelli ser- rati gli uni contro gli altri e separati per un largo intervallo di un pen- nello più grande situato all’angolo del margine interno. La mandibola sinistra ha, come al solito, l’apofisi dentaria apicale bruna, sensibilmente più grossa che la destra, e questa apofisi mostra una divisione in 4 denti, dei quali il 3° (contando dall’alto) è quello più sviluppato e con apice arrotondato come gli altri. L’apofisi mediana. mobile è più grossa e nella parte inferiore e nel margine distale pre- senta una concavità che determina la formazione di due denti laterali piuttosto acuti. Il lobo setifero è abbastanza sviluppato: i pennelli sono disposti come nella mandibola destra. Per le mascelle del 1° paio trovo che 1’ exopodite della mascella destra presenta all’estremità 10 denti conici e leggermente ricurvi, dei SOPRA DUE SPECIE DI ARMADILLIDIUM DELLA FAUNA ITALIANA l)) quali quattro (i più apicali) bruni e più robusti e di grandezza decre- scente, e sei (situati più in basso) più chiari e meno robusti, dei quali tre (e di questi specialmente uno) un poco più piccoli. Lo stesso numero di denti presenta la mascella sinistra, ma più bruni e più robusti. Nel pereion il 1° segmento è il più grande di tutti. Esso presenta gli angoli anteriori molto acuti. Parallelamente al suo margine laterale si vede una leggerissima depressione che dagli stessi angoli anteriori un tantino rialzati si perde ben presto all’indietro. Alla base degli epimeri, ai lati il margine posteriore di questo segmento presenta una insenatura abbastanza accentuata e l’epimere si prolunga posteriormente in un lembo ad angolo apicale molto acuto e leggermente ripiegato in dentro. Tale insenatura diminuisce, ritirandosi un poco verso la linea medesima, sino ad un minimo visibile nel 4° segmento; e così, quasi impercettibile, si continua fino al 5° segmento. Corrispondentemente a ciò l’angolo termi- nale posteriore degli epimeri doventa sempre meno acuto, tanto che al 5° segmento è quasi retto, ma nel 6° segmento tale angolo doventa leggermente più acuto e ancora di più nel 7° per una leggera iucurvatura in avanti che il margine posteriore presenta subito dopo tale angolo. I processi articolari laterali sono visibili nel 2°, 3° e 4° segmento pere- ionali, ma sono piccoli (specialmente nel 3° e ancora più nel 4°), conici, con apice arrotondato e ricurvo in alto. Nel pleon il 1° segmento è il più corto per ciò che concerne la lun- ghezza del tefgite, la quale va insensibilmente aumentando dal 2° al 5°, di modo che gli stessi segmenti appariscono quasi eguali. L'angolo poste- riore degli epimeri, dei quali i più ristretti sono quelli del 40 segmento, diventa gradatamente meno acuto dal 3° al 5° segmento, nel quale ultimo è quasi retto e più o meno arrotondato. Nel resto le cose si presentano come in Arm. Peraccaiî Tua. | Il pleotelson è triangolare allungato, con estremità ad angolo molto acuto e arrotodato. I suoi margini laterali a circa un terzo (talora alla metà) di distanza dalla base presentano una leggera insinuatura. La superficie dorsale si presenta leggermente sollevata alla base e lungo la linea mediana. La sua estremità giunge presso a poco allo stesso livello del margine posteriore dell’exopodite degli uropodi. Quanto alle appendici diremo che dei pereiopodi, ad eccezione di quelli del 1° paio un poco più corti e più robusti, quelli delle altre paia sono a un dipresso eguali. Dal 5° paio al 7° va un tantino aumentando in lunghezza l’ischiopodite e diminuendo corrispondentemente il basi- 196 A. ARCANGELI podite, che però si presenta un poco più largo. Nei pereiopodi del 1° paio il carpopodite presenta visto dal davanti un pronunziato avvalla- mento nella metà interna, il quale interessa circa tre quarti della lun- ghezza dell’articolo, cominciando dal margine distale. Gli aculei nei pereiopodi tutti sono ordinati lungo il margine interno del propodite, del carpopodite e del meropodite, nonchè sul margine distale degli stessi. Nel 1° paio il propodite presenta gli aculei limitati alla metà superiore del margine interno, mentre sulle altre paia tutto il margine interno ne è provvisto. Il carpopodite ne è massimamente provvisto nel 1° paio, ma in questo paio non presenta sul margine distale (visto dal davanti) gli aculei come gli altri, a parte di un aculeo situato nell’an- golo laterale interno di cotesto margine. L'ischiopodite presenta pochi aculei e il basipodite uno solo e debole in corrispondenza del margine distale dal lato interno. I pleopodi del 1° paio nel maschio hanno l’exopodite grossolanamente triangolare, con margine interno convesso, apice posteriore ad angolo acuto che si avvicina al retto e margine esterno (o posteriore) concavo, alquanto sinuoso e provvisto, circa ad un terzo dallo stesso apice, di una distinta insenatura. Una insenatura vistosissima si trova circa alla metà del margine anteriore. Pochi e fini aculei si trovano presso l'apice poste- riore tanto nel margine esterno che nell’interno. L’endopodite è assai allungato con piccola punta leggermente ricurva in fuori. Pene in forma di lunga spada romana e provvisto lungo la linea mediana di un di- stinto solco che ne occupa i due terzi prossimali. I pleopodi del 2° paio hanno l’exopodite con margine posteriore . provvisto in vicinanza della curva laterale esterna di una piccola inse- natura, i peli o piccoli aculei vanno da questa all’apice posteriore: negli altri pleopodi gli aculei occupano tutto il margine posteriore e laterale, ma sono sempre più sviluppati verso i lati esterni. Nella femmina i pleopodi del 1° paio hanno l’exopodite con l’angolo anteriore interno quasi retto e arrotondato, l’angolo posteriore interno piuttosto acuto e arrotondato, il margine posteriore profondamente con- cavo e sinuoso, con una distinta intaccatura a circa un terzo di distanza dall'angolo posteriore interno. Questa intaccatura nel 2° paio di pleopodi è meno profonda e spostata verso l’esterno in modo da trovarsi a circa due terzi del margine. L’endopodite è piccolissimo e piriforme. Tutti i pleopodi sono provvisti di fini aculei o peli specialmente nel margine posteriore e laterale, ma nel 1° paio questi peli sono molto scarsi. SOPRA DUE SPECIE DI ARMADILLIDIUM DELLA FAUNA ITALIANA 197 Gli uropodi hanno il protopodite con angolo posteriore interno acuto e ben arrotondato; l’exopodite grossolanamente ovale allungato. Proto- | podite ed exopodite sono coperti di radi, fini e corti peli, più corti nel secondo. L’ endopodite è molto allungato, a lati quasi paralleli, ma più propriamente col margine interno diritto e col margine esterno molto leggermente convesso. Esso articolo è assai più corto della estremità del pleotelson; peloso specialmente nel margine interno, presenta un solo aculeo all’ estremità. Così è terminata la mia descrizione. Aggiungerò che negli esemplari di Bologna raccolti da TaccHETTI ho trovato un esemplare il quale in luogo della caratteristica lamina frontale possiede un piccolissimo cono, manca dello scudo del prosepistoma nel quale è conservata solo la carena che si prosegue sino all’ apice del cono. Si tratta verisimilmente di un caso teratologico interessante, perchè tutti i caratteri morfologici di Arm. Pallasii sono presentati da questo esemplare. Se lo avesse trovato un maniaco delle specie nuove certamente ne avrebbe fatto una nuova specie. Debbo inoltre riferire che nella collezione del Museo di Firenze si trova un vasetto contenente molti individui raccolti a Zannone (una delle Isole Pontine) nel 1878 e portante la diagnosi di Armad. laminatum. A. prima vista mi sembrò che si trattasse di una specie nuova, ma dopo un esame più accurato mi convinsi che si trattava tutto al più di una nuova varietà di Arm. Pallastîi. Questi esemplari sono piuttosto piccoli; il più grande solo raggiunge la lunghezza di 16 mm. Alcuni dei più pic- coli presentano un colore bianco giallognolo e per gradazioni si passa ad altri che sopra un fondo grigiastro presentano cinque file longitudi- nali di macchie giallognole e cioè una fila mediana costituita da macchie più piccole, due file laterali di macchie più grandi costituite di lineole prive di punteggiature e due file (una per parte) di macchie in gran parte localizzate alla base degli epimeri, più piccole delle due precedenti, ma più grandi di quelle della linea mediana. Il cephalon presenta la su- perficie dorsale a fondo grigio con piccole macchie giallognole sparse. Sterniti e appendici del pereion e del pleon di colore giallognolo chiaro. La lamina frontale in alcuni individui è più ribattuta all'indietro e più concava superiormente di quello che sia nel tipico Arm. Pallasù. Caratteristica invece per tutti gli esemplari è la presenza nel margine posteriore del 1° segmento pereionale, alla base degli epimeri, di una forte insinuatura ad angolo ben netto e ottuso, che spesso si avvicina al 198 A. ARCANGELI retto. Non credo che questa differenza morfologica, la sola che si riscontri in questi esemplari, mi possa autorizzare a crearne una nuova specie, perchè in tutti gli altri caratteri, comprese le granulazioni, concordano con l Armadillidium Pallasii. E nemmeno la colorazione diversa può as- sumere un valore specifico, perchè, in fin dei conti, meno spiccata si può riscontrare in esemplari giovani d’ Arm. Pallasii raccolti da me a Reggio Emilia. Io sarei disposto quindi a crearne una varietà che in rapporto alle macchie chiamerei maculata. II. 3 Nei Monti Pisani fino all’altezza di 450 m. ho raccolto diversi esem- plari di un Armadillidium che io ritengo costituisca una nuova specie e che io chiamo Armadillidium Ficalbiî nov. sp. dedicandola al mio ca- rissimo maestro prof. EugeNIO FICALBI come modesto tributo di ricono- scenza ed affetto. Debbo confessare che è con vera trepidazione che io istituisco per la prima volta una nuova specie, avendo per lunga esperienza mia con- statato quanta variabilità ci può offrire nei caratteri una specie e quanto insufficienti siano le descrizioni che molti Autori hanno dato delle specie del genere Armadillidium. Mi sento peraltro autorizzato a stabilire ciò dal fatto, che se questa specie è stata descritta da qualche autore, la descrizione corrisponde così poco al vero che può reputarsi inutile, e quindi invece necessaria e proficua l’opera mia. Il corpo è ovale allungato, più ristretto in corrispondenza del 3°, 4° e 5° anello del pereion, molto convesso, con i fianchi del pereion cadenti quasi a picco: il pleon spesso ha una pendenza più forte della parte an- teriore del corpo, cioè del cephalon e del 1° segmento pereiale. Per le dimensioni la lunghezza massima osservata è di circa 22 mm. la lar- ghezza massima, calcolata nel 1° segmento pereiale, è di circa 11 mm. La superficie tergale del corpo è liscia, priva affatto di granulazioni, piuttosto lucente, molto finemente punteggiata, di colore piceo nei maschi, con piccole e irregolari macchie di un bianco sudicio nelle fem- mine, nelle quali le stesse macchie tendono a formare tre serie longi- tudinali, una mediana e due laterali. Le parti ventrali, ad eccezione di alcuni pleopodi, di colore grigio più o meno chiaro, con marmorizzature nei pereiopodi. | Alla base degli epimeri e presso il margine posteriore dei segmenti pereiali una piccola infossatura che nei segmenti stessi posteriori va agi an EE SOPRA DUE SPECIE DI ARMADILLIDIUM DELLA FAUNA ITALIANA 199 facendosi meno evidente mentre si avvicina ancora di più al margine posteriore. Il cephalon è infossato completamente nel seno anteriore del 1° seg- mento pereionale, gli angoli anteriori del quale si trovano allo stesso livello del limite estremo della linea frontale, mentre sono un poco più corti dell’ estremità dei lobi antennarî. Esso presenta i canti anteriori leggermente ricurvi in alto e ad angolo quasi retto. Il margine frontale partendo da questo angolo laterale si incurva indietro formando come una piccola cresta leggermente ribattuta indietro per dirigersi poi in avanti e terminarsi (assottigliandosi) dopo l’ angolo che esso margine (visto dal di sopra) fa con la lamina del prosepistoma ad un terzo circa della larghezza della base di questa lamina. Per tale fatto il margine frontale presenta in corrispondenza del terzo mediano della lamina frontale stessa una interruzione occupata da due leggere promi- nenze della superficie del cephalon, separate all’innanzi da una fossetta molto piccola. In alcuni esemplari queste due prominenze sono così poco distinte l’una dall’ altra da formare quasi una sola prominenza. Due solchi uno per parte limitano queste prominenze rispetto al termine del mar- gine frontale. Gli occhi sono composti per lo più da 21 a 24 ocelli e in generale il maggior numero di ocelli si ha nell’ occhio destro. Dal lato interno ad essi si trova una prominenza del cephalon più o meno accentuata e a forma di larga semiluna opaca. Il prosepistoma si protrae all’ innanzi in una lamina frontale subret- tangolare che vista dal disopra apparisce di una lunghezza eguale circa ad un sesto della larghezza. Il margine anteriore apparisce leggermente arcuato, gli angoli laterali anteriori arrotondati ed i lati inclinati si ter- minano poco dopo l’angolo che essi fanno con il margine frontale, ma come leggerissima cresta si proseguono fino quasi ai canti laterali della fronte. Dorsalmente questa lamina presenta alla base due rigonfiamenti, più o meno ben separati che corrispondono alle due eminenze summenzio- nate del cephalon e sono separati da un piccolo avvallamento che cor- risponde alla piccola fossetta frontale. In generale si può dire che quanto più distanti l’una dell’altra sono le eminenze del cephalon, altrettanto lo sono i due cuscinetti. Osservato dalla faccia ventrale il prosepistoma presenta uno scudo triangolare abbastanza rilevato e con superficie leggermente concava. 200 A. ARCANGELI Questo scudo ci offre il lato anteriore un poco convesso e gli altri due lati leggermente concavi e bene delineati perchè i due canti ad essi cor- rispondenti sono bene spiccati. L'angolo inferiore dello scudo è assai acuto e in corrispodenza dell’apice di esso la superficie si solleva per poi con un angolo ottuso (che si avvicina in alcuni esemplari al retto). proseguirsi in una carena per lo più a margine concavo (in alcuni esem- plari però anche diritto) che si termina improvvisamente in contatto del corto ma accentuato solco trasversale che limita il prosepistoma dal mese- pistoma. I lobi antennarî sono triangolari, assai grandi, con apice assai ribattuto. all'indietro (e generalmente più nel sinistro). Dietro a ciascuno di essi uu tubercolo ben distinto e separato dalla superficie posteriore dell’estre- mità del lobo per una stretta ma profonda fessura. Le antenne del 1° paio sono quasi eguali alla metà della lunghezza del corpo: gli articoli del flagello di esse un poco disuguali e cioè il 2° un poco più lungo del 1°: ambedue sono ricoperti di peli più lunghi degli articoli dello scapo. Un piccolissimo aculeo si trova presso il limite. superiore e nella superficie posteriore del propodite. Le mandibole trovo conformate come in Armadillidium Peraccai Tua. Per le mascelle del 1° paio posso dire che l’ exopodite della mascella destra presenta alla estremità 8 denti conici e un poco ricurvi dei quali tre (i più distali) più grandi e bruni (di grandezza degradante) e cinque più chiari posti più in basso, dei quali tre più grossi e due più sottili. L’exopodite della mascella sinistra porta dieci denti, egualmente confor- mati, dei quali quattro (i più distali) più grossi (di grandezza degradante dall’ apicale agli altri, il più piccolo dei quali però è situato nel mar- gine esterno dietro il primo) e sei più piccoli e più chiari (e di questi tre alternati sono più sottili). Nel pereion il 1° segmento, che è più grande, presenta gli angoli an- teriori assai acuti e parallelamente al margine laterale esterno una de- pressione abbastanza distinta che dagli stessi angoli anteriori, un poco rialzati, va restringendosi all’ indietro in vicinanza all’ angolo posteriore (dell’epimere) e solleva lievemente il margine stesso. Ai lati, alla base degli epimeri il margine posteriore dello stesso segmento presenta una leggera insenatura e l’ epimere si prolunga posteriormente in un lembo ad apice acuto arrotondato e leggermente ricurvo in dentro. La suddetta insenatura diminuisce molto nel 2° segmento corrispondentemente ad una diminuzione del lembo posteriore dell’ epimere, che presenta un angolo SOPRA DUE SPECIE DI ARMADILLIDIUM DELLA FAUNA ITALIANA 201. posteriore quasi retto. Al terzo segmento essa è appena accennata per non trovarsi più nel quarto, e in corrispondenza a ciò l’ angolo terminale | posteriore nell’ epimere del 3° anello, ed ancor più in quello del 4°, di- venta un poco più acuto e l’ epimere intero ha assunta perfetta direzione trasversale. Nel 5° segmento l’ angolo sunnominato doventa meno acuto fino a che nel 7° è quasi retto. Questo ultimo presentasi conformato come in Armad. Peraccai Tua. I processi articolari del 2° e 3° segmento sono conici, ab- bastanza sporgenti e ricurvati alquanto all’ infuori. Nel 4° segmento il processo è ridotto appena ad una gibbosità. Mancano affatto negli altri. — Venendo al pleon si nota che il 1° segmento è un poco più lungo del secondo e la lunghezza poi va aumentando di pochissimo dal 2° al 5°. Se peraltro i segmenti 3-5 sono presso a poco eguali per ciò che concerne la lunghezza del tergum, non così per quella degli epimeri che è maggiore nel 3°, un poco minore nel 4° e ancor più nel 5°. Gli epi- meri sono quadrangolari, divergenti, con angolo terminale anteriore ot- tuso arrotondato e angolo posteriore quasi retto. Questo ultimo nel 5° segmento per lo più è un poco arrotondato. Il 5° segmento in corrispondenza del tergum presenta una profonda insenatura del margine posteriore, nella quale viene ad incastrarsi la base del pleotelson. Il pleotelson è triangolare, un poco più lungo che largo, a margini laterali diritti e termina con apice smussato, ma talvolta anche smussato-arrotondato. Giunge presso a poco allo stesso livello del margine posteriore dell’ exopodite degli uropodi. Riguardo ai pereiopodi si può dire che, ad eccezione di quelli del 1° paio, che al solito sono più corti, ma più robusti, quelli delle altre paia sono a un dipresso eguali, per quanto si verifichi un leggero aumento in lunghezza andando verso i posteriori. I pereiopodi del 1° paio presen- tano un carpopodite che visto dal davanti mostra un forte solco nella metà interna, il quale interessa circa 4 quinti della lunghezza dell’ ar- ticolo incominciando dai margine distale. Tutti i pereiopodi sono provvisti, specialmente sul margine degli ar- ticoli, di aculei. Questi sono ordinati, al solito, massimamente lungo il margine interno del propodite, del carpopodite e del meropodite. L’ischiopodite è scarsamente provvisto di queste formazioni. Il basi- podite presenta solo peli. Nei pereiopodi del 7.° paio e nel maschio l’ischiopodite è caratteristico sia per la sua maggior lunghezza sia per la forma, perchè il suo estremo distale ha l’aspetto di un apofisi di osso 202 A. ARCANGELI lungo. Il canto esterno di questo articolo è ingrossato a costituire come una gobba semicircolare, alla quale segue verso il canto interno un forte ciuffo di aculei. I pleopodi del 1° paio nel maschio hanno l’ exopodite con apice poste- riore acuto, margine interno fortemente convesso, con margine posteriore sinuoso e provvisto di una piccola insenatura poco dopo l'apice suddetto. I due terzi posteriori del margine interno dell’ exopodite portano presso, o nel margine stesso, piccolissimi aculei. L’endopodite è stretto e al- lungato; presenta una punta leggermente ricurva all’ esterno. Nella femmina l’ exopodite del 1° paio di pleopodi presenta presso a poco la stessa forma di quello di Arm. Peraccai, solo che ha pochi e fini aculei all’ apice posteriore interno. L’ endopodite ha la forma di un triangolo ad angoli arrotondati, un poco più largo che lungo e mar- gine interno diritto. L’exopodite del 2.° paio presenta nel margine poste- riore alla distanza di circa è, dello stesso dal margine laterale una piccola ma distinta insenatura. Tutti i pleopodi sono quasi privi o molto. scarsamente provvisti di aculei, ad eccezione però del loro margine laterale. I pleopodi per lo più sono di color bianco sporco, ma anche grigio chiaro. Quando però si ha questo ultimo colore quelli del 1° paio fanno eccezione presentandosi sempre privi di pigmento. Gli uropodi hanno un exopodite grossolanamente quadrangolare, più largo che lungo, con margine esterno provvisto a circa un terzo dalla estremità posteriore di una piccola gibbosità la quale si adatta ad una insenatura del margine posteriore dell’ epimere del 5° segmento pleonale. Protopodite ed exopodite sono provvisti di piccolissimi e scarsi peli di- stribuiti regolarmente. L’ endopodite è provvisto di peli molto più grossi specialmente sui margini laterali e possiede un aculeo alla estremità. Esso talora è piuttosto corto, tanto che la sua estremità dista di un bel tratto da quella dell’'exopodite e del pleotelson, ma può anche presentarsi più lungo, specialmente nelle femmine, tanto da avvicinarsi alla estre- mità del pleotelson. Il suo margine interno è diritto, l'esterno convesso, in modo da assumere l’aspetto di un coltello ad apice troncato. Ed ecco così terminata la descrizione di questo Isopode. Descri- zione che forse sembrerà troppo lunga ed in alcuni punti oziosa; ma io debbo fare considerare che per una revisione del genere Armadillidium occorre non trascurare nemmeno quei caratteri che sembrano comuni, perchè nòi non possiamo a priori giudicarne la maggiore o minore im- \ DI ARMADILLIDIUM DELLA FAUNA ITALIANA 203 e degli Autori precedenti, dobbiamo registrare gli stessi caratteri che ranno svelare quelle affinità per le quali potremo ripartire in gruppi specie di questo genere. È in virtù anzi della menzionata insufficenza «non mi è dato stabilire con una certa sicurezza a quale specie sia ne l’Armadillidium Ficalbii. Le cognizioni acquistate per mia perso- esperienza peraltro mi fanno inclinare a ritenerlo affine simulta- mente ad Armadillidium maculatum Risso, Arm. sordidum DOLLF., n. opacum Kocg. Tedremo in seguito se è giusta questa mia opinione e fino a qual to possa estendersi questa affinità. I BIBLIOGRAFIA 1. BranpT. J. F. — Conspectus Monographiae Crustaceorum Oniscodorum La- | treillii: In Bull. Soc. Imp. des Naturalistes de Moscou, vol. VI, 30 pag. tav. IV. 18935: 2. ID. — Ueber die asselartigen Thiere (Oniscoda Latr.) der Regentschaft Algier: In M. Wagner, Reisen in der Regentschaft Algier in den Jahren 1886, 1837, 1838. Bd. III p. 276, Leipzig, 1841. 3. BuppE-LunD G. — Prospectus generum specierumque Crustaceorum Isopodum Terrestrium. 10 pag. Copenhague, 1879. 4. 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I [I]) . . . . ni L. — Ricerche e considerazioni sul fascio atrio- TEMERE e li A. — Sopra due specie di Armadillidium della 3 italiana C) . . . . . . Dl SS o. . . . È, di #, o 4 "a ££* “ se) & sm A. Mem. Soc. Tosc. FUCINI FOT. Sc. Nat. Vol. XXVII, Tav. | A. FUCINI, Zossili del Batoniano, ecc. [Tav. 1] ELIOT CALZOLARI & FERRARIO - MILANO Mem. Soc. Tosc. Sc. Nat. Vol. XXVII Tav, Il L. DE GAETANI, Fascio atrio-ventricolare [ Tav. I] ELIOT CALZOLARI & FERRARIO - MILANO ve: T) Fr aio n i e Mem. Soc. Tos L. DE GAETANI, Fascio atrio-ventricolare [ Tav, IN) o. Sc. Nat. Vol. XXVII Tav, Ill IEN DWH CE DELLE MATERIE CONTENUTE NEL PRESENTE VOLUME Aloisi P. — Le così dette miloniti dell’isola d’ Elba . . . pag. Dainelli G. — Introduzione allo studio del cretaceo friulano (Parte) Ft. RR ARI OI a Ugolini R. — Kinzigite di Monteleone Calabro . . ... > De Stefani C. Sunto geologico dei Monti Livornesi . . > Manasse E. —- Sopra alcuni minerali della Toscana . . . > Fucini A. —- Fossili nuovi o interessanti del batoniano del Sarcidano di Laconi in Sardegna (TAv.I [1]) LS Rggi de ai De Gaetani L. — Ricerche e considerazioni sul fascio atrio- ventricolire: Fava: PEGLI) a Arcangeli A. — Sopra due specie di Armadillidium della TAUNA' UAAR: A OLO I A A A UFFICIO DI PRESIDENZA. Presidente . . — Prof. Giovanni Arcangeli. Orto botanico, R. Università di Pisa I È Prof. Mario Canavari. Istituto geologico, idem. Mace presi f Prof. Guglielmo Romiti. Istituto anatomico, idem. Segretario . . — Prof. Giovanni D’Achiardi. Istituto mineralogico, idem. Vice-segretario ‘— Prof. Piero Aloisi. Istituto mineralogico, idem. Cassiere . . . — Prof. Eugenio Ficalbi, Istituto zoologico, idem. SEDE DELLA SOCIETÀ — Museo di Storia Naturale in Pisa. Gli atti della Società (memorie e processi verbali delle sedute) si pubblicano per lo meno sei volte all’anno a intervalli non maggiori di 3 mesi. 93 109 187 = - PI “i VAIO CIVILI a si DI SCIENZE NATURALI x RESETDENFSE: IN PISA PISA | STABILIMENTO TIPOGRAFICO SUCC. FF. NISTRI 1912 0 dun14 198 Vol. XXVIII. I STABILIMENTO TIPOGRAFICO SUCC. FF. NISTRI RESIDENTECIN:PISÀ =x Pa — si SI sore =” = a DE SCIENZE NATURALI at a - LI STI TE E Te Sa) PL N si cd See DI Rei i Ric A pi Si SMR de ot CARLO DE STEFANI LA GEOLOGIA ENDODINAMICA IN ITALIA NELL’ ULTIMO CINQUANTENNIO —_ —. —e —-.-_— In molte guise Fisici, Chimici e Geologi tentarono determinare in cifre l’età trascorsa dalla Terra dal suo consolidamento in poi. MELLARD READE prese in considerazione il tempo necessario per l’accumulazione del solfato calcico nel mare, DuBoIs quello necessario per la formazione di tutto il carbonato calcico; J. JoLy fa lo stesso esame pel cloruro so- dico; Lord KeLvin, CLARENCE Kinc, PERRY, EkHOLm, con diversi risultati si fondano sul tempo necessario a raffreddare il pianeta supposto primie- ramente incandescente, ed il primo anche sul ritardo alla rotazione ter- restre portato dalle maree e perfino, insieme con Tarr, sulla supposta provvista di calore del Sole. Rupzgi ed EkHoLm considerano il tempo voluto per diminuire il diametro terrestre in conseguenza delle pieghe della superficie. Oggi si conosce quanto elio sia emesso in un anno da quantità determinate di uranio e di torio; perciò RUTHERFORD conoscendo il contenuto in elio di alcuni dei relativi minerali determina il tempo minimo trascorso dalla loro prima formazione ad oggi. A simile studio si è dedicato il PrurTI (1910-11). Il JoLy, pur ammettendo il principio espresse alcuni giusti dubbi. Ma si tratta di semplici esercitazioni di calcolo le quali peccano nel punto di partenza, poichè prendono a fonda- mento ipotesi inesatte o studi imperfetti o suppongono in massima parte l’invariabilità nei tempi delle circostanze terrestri; mentre l’ Astronomia, la Fisica terrestre e la Geologia da una parte ci nascondono tanti ele- 1 menti di calcolo che ci sarebbero indispensabili, dall’altra fanno oggi am- i mettere che una variabilità debba riconoscersi nella quantità e nella 4 composizione dell’atmosfera, come nella quantità e nella salsedine dei mari, come nella estensione delle terre, e perfino nella massa terrestre soggetta per lo meno a piccoli aumenti per meteoriti cadute nella in- commensurabile durata dei tempi; perfino nella situazione dell’asse di 4 C. DE STEFANI rotazione ed in varie circostanze cosmiche; per modo che variando così i punti di partenza debbono variare pure le conseguenze. Dal semplice punto di vista della Geologia, secondo intendimenti già seguiti dal LyELL, e della Paleontologia, si può essere disposti ad accettare e ad oltrepas- sare le più lunghe cifre presupposte. Le variazioni degli esseri e della superficie terrestre suno sì innumerevoli e procedono d’altra parte per gradi sì lenti che non sono suscettibili d’ essere determinati per anni o per cicli, sia pure immensi, di secoli. Minori elementi di inesattezza contengono i calcoli, però pur sempre incerti, diretti a determinare la durata e l’ intensità di fenomeni at- tuali, come sarebbero l’arretramento della cascata del Niagara, l’appro- fondamento di una valle, l’abrasione di una catena montuosa. Anche UzIELLI si diè, a studiare l’abrasione eventualmente avvenuta nelle Alpi supponendo cessati i movimenti orogenetici. Per quanto riguarda la forma della Terra troviamo che, a sempre più perfetta. conoscenza di essa, il generale von BayER nel 1864 pro- pose fosse rinnovata la misurazione de’ gradi europei, la quale invero con l’aiuto pure del R. Istituto geografico italiano fu compiuta in 20 anni e fu pubblicata nel 1896 dalla Commissione internazionale per la misura: del Grado, sotto la presidenza dell’astronomo FAyE. Migliori progressi si sono ottenuti per opera delle scienze affini in quanto riguarda lo stato interno della Terra. Da tempo si conosceva che la temperatura cresce dall’ interno al- l'esterno nei pozzi e nelle miniere. I più profondi pozzi aperti a Pa- ruchowitz (2003 m.), a Schladebach (1748 m.), allo Sperenberg (1268 m.), a Lieth (1259 m.), a Sennewitz (1084 m.), in Germania; a Calumet (Michigan) ed altrove, fnrono oggetto di attenti studi da parte di DUNKER (1872) di A. AgassiIz (1895), di HENRICH e di vari altri. I fori aperti in questo tempo nelle Alpi al Cenisio, al Gottardo, al Sempione, al- l' Arlberg, ecc. hanno dato opportunità ad importanti osservazioni di Herm, StAPFF, WAGNER. GIoRDANO studiò l'incremento delle temperature nel Cenisio (1870). L'esistenza di sorgenti termali e di vulcani era nota all’ uomo fino dalle età più antiche. Vigeva fino quasi ad oggi il concetto del Fuoco centrale, cioè, d’ una massa interna liquida coperta da una crosta solida, più o meno alta secondo il parere di uno o dell’altro, e l’origine di quella massa liquida era pur diversamente spiegata. PIT RU TERREMO a TT 77 n ha DE er PR - LA GEOLOGIA ENDODINAMICA IN ITALIA NELL'ULTIMO CINQUANTENNIO d NEwToNn, LEGENDRE, HuyGHENS, sopra tutti LAPLACE, avevano studiato lo stato d’equilibrio di un corpo celeste rotante intorno al proprio asse, come la Terra, ed avevano determinato l’ appiattimento del medesimo secondo la diversa natura della sua materia e secondo la diversa di- stribuzione di questa. Ora l’HELMERT, partendo dalle più recenti misure di gravità fatte col pendolo, dopo varie successive correzioni, stabilisce l’appiattimento nella cifra di ‘/,3,3, minore dell’appiattimento di Besset ('/,99) che era quello comunemente accettato dai geodeti, e poco maggiore di quello dell’ellissoide di CLARKE. Quell’appiattimento reale combina con lo stato d’equilibrio d’ un corpo più denso all’ interno che alla periferia; anzi © con lo stato di un corpo la cui massa vada lentamente variando di den- sità dal centro fino a raggiungere quella reale più bassa che ha alla superficie, e di un corpo perciò solido, ma sufficientemente plastico da cedere all’appiattimento in tutto il suo insieme. PRATT, con analisi matematica, ponendo la densità media della Terra doppia a quella della superficie, come è, aveva ottenuto l’appiattimento di 1/29». Per altra via si ebbero risultati alquanto discordi fra loro, ma concordi almeno nel constatare la ragguardevole solidità del nostro pia- neta. Hopkins (1842), e recentemente l’americano BARNARD, avevano rite- nuto che i fenomeni della precessione degli equinozi, della mutazione, cui si possono aggiungere le aberrazioni dei moti lunari, non si conciliassero con uno stato di fluidità della terra; RocHE, RADAU, POINCARE, d’accordo in ciò, opinarono che specialmente la precessione non sarebbe esplicabile se non ammettendo un appiattimento uguale o minore di !/,),, a meno di ammettere nell'interno della Terra cambiamenti di densità non con- ciliabili con le osservazioni fatte per altra via. Ora le misure dei gradi danno appiattimento minore e RocRE trasse la supposizione che la Terra sia realmente costituita da un nucleo solido coperto da un strato meno denso, eventualmente anche fluido. HANSEN pure dai movimenti lunari dedusse l’appiattimento della Terra essere !/,;; . Però G. DARWIN (1879) e S. OpPPENHEIM (1885) sostennero che i detti fenomeni si manifesterebbero in egual modo in uno sferoide fluido come in uno solido. Le deduzioni fatte per questa difficile via non danno dunque ancora risultati definitivi. Poisson e AMPERE (1868) manifestarono l’idea che l’interno della Terra ‘non sia fluido, altrimenti sarebbe soggetto alle maree lunari. Lord KeLvin da molti anni (1862) aveva sostenuto che il grado di resi- 6 C. DE STEFANI stenza della Terra all’azione luni-solare poteva mostrarne il grado di rigi- dità: invero se la Terra si deformasse insieme col mare non vi sarebbero maree, e queste sarebbero rispettivamente di °/, e di °|, minori di quelle che si verificherebbero in caso di assoluta rigidità, se la Terra avesse almeno la rigidità dell’accialo o rispettivamente del vetro. G. DARWIN, tenendo conto di un vecchio suggerimento di LAPLACE, partendo però dalla teoria statica, analizzò le maree di più lungo periodo, libere da ogni influsso dina- mico nei porti indiani ed europei, per 33 anni e credette prima notare che desse fossero “ di quelle teoriche; HECKER (1907) crede dedurre la stessa cifra dalle deviazioni del pendolo orizzontale in Potsdam, che egli attribuisce alle maree terrestri; ma questi calcoli sono estremamente difficili ed incerti, ed il flusso del più lungo periodo di 18 anni e 6 mesi è talmente piccolo anche all’Equatore, che sembra per ora quasi impossi- bile sceverare il vero stato delle cose, come ebbe a riconoscer poi lo stesso G. DARWIN. Migliore risultato si ottenne per altra via. Nei tempi a noi vicini BesseL a Konigsberg, NyREN a Pulkowa, FER- coLa a Napoli avevano constatato variazioni periodiche di latitudine. A concretare il fenomeno si moltiplicarono le osservazioni, si fecero appo- site spedizioni agli antipodi e si vide che realmente l’asse principale di rotazione stabile si sposta in 430 giorni in modo non ancora ben definito ma in limiti assai ristretti: sono ancora ignote le cause, che SPI- TALER attribuisce ai periodici spostamenti delle masse aeree fra i due emisferi ed altri ad altro. Lo SCHIAPARELLI poi HaAucH, NEWCOMB, ed altri mostrarono che lo spostamemto osservato non combina col concetto di assoluta rigidità, nè con quello di perfetta elasticità della Terra; questa bensì deve avere una plasticità sufficente a risentire deforma- zioni quando la forza deformatrice superi un dato limite. Ben inteso che. questa deformabilità della Terra ha soltanto un valore medio diverso secondo le specie della deformazione, poichè ad esempio nella teoria delle variazioni di latitudine le forze deformanti operano quasi parallele all’asse polare; nella teoria delle maree queste hanno un asse di sim- metria mobile debolmente inclinato sull’Equatore. Il SomiGLIaNA (1911) si è proposto di indagare matematicamente il problema delle deforma- zioni dovute alle forze generatrici della marea, che egli ammette con HeckER e con Love manifestarsi anche nella terra ferma, ed alle forze centrifughe dovute alla rotazione, pur sempre tenendo conto della gravità, e conclude con l’ammettere la solidità della Terra. LA GEOLOGIA ENDODINAMICA IN ITALIA NELL’ULTIMO CINQUANTENNIO 7 Le accurate osservazioni fatte con gli strumenti sismici hanno mo- strato che quanto più l'emergenza di una scossa sismica è lontana dalla regione epicentrale, tanto più le piccole vibrazioni della fase prelimi- nare si staccano dalla fase principale e nel contempo tanto maggiore diventa la velocità di propagazione delle onde stesse. Ciò significa che nell'interno della Terra è una massa isotropa nella quale le onde si- smiche si propagano con notevole velocità, e vi si propagano traver- sando il diametro terrestre per tanta maggiore estensione, quindi con velocità proporzionale di altrettanto maggiore, quanto più l’emergenza sì avvicina agli antipodi della regione epicentrale. Non ancora sufficentemente stabilite sono le basi dalle quali Love e KnonT (1908) vogliono dedurre il modulo di compressione della Terra fondandosi sulla velocità delle onde di dilatazione e rispettivamente di torsione. D'altra parte l’energia di questi urti che traversano il diametro ter- restre procede costantemente diminuendo dall'interno verso l’esterno e secondo l’ARRHENIUS ciò può avvenire soltanto in un ambiente gasoso densissimo, ad alta temperatura e pressione, non già in un ambiente fisi- camente affatto solido. Anche per quanto si può dedurre dalla propa- gazione dei terremoti, la Terra non è dunque assolutamente rigida, ma è dotata di una certa plasticità e di un coefficente di elasticità che le future osservazioni potranno meglio determinare. Nè a questo concetto di una relativa plasticità ed elasticità si op- pongono i dati della fisico-chimica e della termodinamica. La pressione che è nell'interno tende bensì a mantenere solidi i corpi terrestri anche oltre quelle temperature alle quali sotto la pressione atmosferica si fonderebbero ; ma sopravviene la temperatura critica, oltre la quale, a qualsivoglia pressione, i corpi passano allo stato fluido ed allo stato di dissociazione. Perciò alle altissime temperature interne, osserva il Z6PPRITZ, i corpi si trovano ridotti allo stato di gas, soggetti cioè alle leggi dei gas, ma in stato di compressione e di densità mas- sima non inferiore a quella di cui sarebbe suscettibile il solido relativo. Questa è la teorica oggi più comunemente accettata e che meglio si presta alla spiegazione di tutti i fenomeni astronomici, dinamici e fisici che si manifestano sulla Terra. Non mancarono però fino a tempo recente e durante lo svolgersi delle sopra dette scoperte ed osservazioni, quelli che seguitarono a so- stenere lo stato liquido di qualche parte interna od esterna della Terra 8 C. DE STEFANI (Sterry Hunt 1868-69, DANA 1873, StRENG 1878, PiLar 1881, Waps- wortH 1884, Osmonp FISCHER). Discutono molti, e fisici, e chimici, e geologi, sull’altezza dei vari strati, sulla natura degli elementi loro; ma sono esercitazioni accade- miche le quali non escono dal puro campo dell’ipotesi. La geologia, salvo in quanto riguardi la vulcanicità, non presta a dir vero grande aiuto a questi studi. Si discusse a lungo fra geologi se gli strati terrestri sieno sufficen- temente plastici da deformarsi senza o con rottura. ALBERTO HeIm (1878), il quale, insieme a molti geologi italiani, dà alle faglie un'importanza secondaria nella formazione delle pieghe e delle montagne, ritiene che gli strati meno superficiali, soggetti a grande peso ed a forti pressioni possano diventare plastici e ripiegarsi anche senza rotture. Questa idea fu combattuta da GùmBEL, BRÒGGER, STAPFF, PFAFF ecc. i quali ritennero che le frantumazioni avessero sempre a manife- starsi. Infatti gli strati più compatti e tenaci ed apparentemente meno plastici, come i calcari, le arenarie, le rocce cristalline compatte, si tro- vano quasi sempre rotti o traversati da fessure infinite, spesso micro- scopiche e risaldate da vene o secrezioni formate a spese della roccia stessa. Le roccie frammentizie, apparentemente più plastiche, argille, schisti, filladi e simili, risentono i movimenti interni in modo diverso; tanto alla superficie quanto a profondità sono poco o punto soggette a grandiose rotture o fessure, ma invece lo sono a laminazione ed a sci- volamenti, nei quali i componenti frammentizi, già dall’origine separati fra loro, si spostano reciprocamente senza rotture appariscenti; ma ciò deriva dalla natura dei componenti stessi, non gia da una plasticità dei medesimi conseguente a pressione. Nelle rocce cristalline più profonde, bensì, gli spostamenti e le rotture eventuali sono sollecitamente rimar- ginati dall'azione chimica delle acque permeanti. Le rocce superficiali sono dunque completamente solide e non più soggette a variazioni di vo- lume per emissione di un calore iniziale loro proprio, e quando sì pie- gano ciò può avvenire soltanto con rotture e con spostamenti, come del. resto avviene anche nel ghiaccio e nei metalli secondo le osservazioni microscopiche di SpriNnc di Ewine e di RosENHAIN. Ma le rocce delle maggiori profondità sottratte all’osservazione di- retta si trovano in ben altro stato: esse serbano ancora parte del calore iniziale che seguitano a perdere con diminuzione di volume, ed in questo diverso stato non comparabile a quelli superficiali hanno certamente una e PO PRRII e LA GEOLOGIA ENDODINAMICA IN ITALIA NELL'ULTIMO CINQUANTENNIO 9 adattabilità all'ambiente che può paragonarsi ad una vera plasticità o malleabilità. Adunque una plasticità non si può negare alle rocce in- terne (TAMmMmAN, GRUBENMANN); ma quelle superficiali pure hanno una adattabilità alle pressioni la quale si manifesta con rotture tosto che il limite della resistenza sia superato. Terremoti. . Lo studio dei terremoti che serberà nuove sorprese nello svelare Vie più la costituzione interna della Terra, è sempre stato coltivato in Italia, paese che vi è assai soggetto: e si può dire anzi che quello studio qui abbia avuto le sue origini ed abbia mosso i primi passi. Negli ul- timi tempi, specialmente ad opera dei Fisici, si sono avuti in proposito notevolissimi progressi, per modo da dar luogo ad un ramo speciale della Fisica terrestre, alla Sismologia. Se non erro, il primo che paragonasse gli urti sismici alle vibra- zioni derivanti da un urto meccanico fu lo StugEeLEy nella descrizione del terremoto di Londra del 1750, ma il vero progresso più tardi rag- giunto nella cognizione fisica dei terremoti comincia da quando il WER- THEIM (1851) stabilì la natura delle onde trasversali e longitudinali che prendono origine da un urto meccanico e che si propagano con velocità diverse. Lord RayLEIGH aggiunse (1855) la nozione delle onde di gravi- tazione che si propagano per la superficie. Ewine ed altri insegnarono che tutte queste onde, come ogni moto vibratorio, sono soggette ai fe- nomeni di riflessione, di vibrazione e d’ interferenza. Oggi non v’ha terremoto energico che non metta in moto gli stru- menti degli osservatori di tutto il mondo. In un terremoto di vicina origine le onde si sovrappongono e si confondono in un ciclo solo; ma attesa la diversa loro velocità di pro- pagazione si vanno separando tanto più quanto più lontana dall’origine è la loro emergenza. Nei terremoti più lontani si distinguono oggi le vibrazioni preliminari, brevi d’ampiezza e di periodo, la fase principale, con vibrazioni lunghe di ampiezza e di periodo, e la fase finale, con vi- brazioni che durano sovente per tempo assai lungo, brevi d’ampiezza, lunghe di periodo. Dalla diversa durata della fase preliminare, che è attribuita alla emergenza delle onde longitudinali e poco più tardi di quelle trasversali, deduce l’Omori la distanza del centro dello scotimento con una nota formola che serve in tutti gli osservatori. Lo STIATTESI ed a 1 E Di È Hpi'& È LI 10 C. DE STEFANI altri hanno introdotto lievi correzioni nelle costanti e per essere esatti ogni osservatorio dovrebbe adottare delle costanti sue proprie deduci- bili dalla esperienza. A scoprire tali cose condussero gli strumenti sismici profondamente e variamente studiati dai Fisici. Il merito dello studio di questi risale primieramente agli Italiani. Il Padre BertELLI (1870-76) portò il suo studio alla determinazione dei movimenti microsismici coi tromometri, istrumenti delicatissimi, che hanno direttamente portato ai perfeziona- menti odierni, quantunque dopo una controversia fra il BERTELLI ed il P. Monte (1874) ed altri, sì sia poi convenuto che non tutti quei movi- menti hanno origine sismica interna. Le difficoltà maggiori degli stru- merti consistevano nel ritrovare un punto fisso il quale col maggiore ritardo possibile partecipasse gli impulsi della Terra ed intanto segnasse i movimenti di questa. Si proposero e si adottarono pendoli verticali, rovesciati, orizzontali e cento altri metodi. Si occuparono fra noi degli strumenti sismici il padre CECCHI, il Mezzi, il SERPIÈRI, il BERTELLI, l’ODDONE, il VISENTINI il cui sismometro è oggi molto usitato, Lo Surpo e molti altri. Si studiano ora più per- fetti strumenti forniti di smorzamento e si studia di ottenere da essi gli elementi dell’accelerazione (Lo Surpo) per evitare le incertezze che derivano dall’applicazione delle scale De Rosst-ForEL, 0 MERCALLI, 0 CAN- CANI, 0 OMORI. Si sono fondate istituzioni e società scientifiche nei vari paesi per lo studio della materia: da noi MicHELE STEFANO DE Rossi benemerito fondatore dell’ Osservatorio di Rocca di Papa, tuttora uno dei meglio situati, e propalatore degli studi sismici, fondò e diresse per molti anni un Bullettino del Vulcanismo (1873-90). Più tardi gli Amnali di Meteo- rologia pubblicati dal Ministero di agricoltura industria e commercio rac- colsero la materia relativa ai terremoti, e nel 1895 si è fondata una Società sismologica italiana che dura tuttora con prospera vicenda. Finalmente il numero degli Osservatorii si è da noi molto esteso; pur non ancora quanto sarebbe utile in una regione così frequentemente turbata come la nostra. Trattarono di terremoti italiani, oltre gli autori citati, il MaLLET in un classico libro e vari altri stranieri, non che, fra gli italiani CAVALLERI, GIOVANNOZZI, ALFANI, AGAMENNONE, GRABLOVITZ, CANCANI, TRABUCCO, RIZZO, SABATINI, l’ing. BAssANI, PALAZZO, ARcIDIACONO, MARTINELLI, STIATTESI, IsseL, UziELLI, GOIRAN, MONTE, VISENTINI, ecc. Vari geologi italiani (AGa- LA GEOLOGIA ENDODINAMICA IN ITALIA NELL'ULTIMO CINQUANTENNIO © ll MENNONE, IssEL, MERCALLI, TARAMELLI, ecc.) studiarono pure terremoti di paesi stranieri. In occasione dei terremoti dell’India del 1897, della California del 1906 e della Calabria del 1908, si rifecero livellazioni di precisione, revisione di basi trigonometriche, nuove misure del fondo del mare, ta- lora, come replicatamente dimostrò l’OLDHAM con poco profitto, causa la difficoltà della materia e l’insinuazione di qualche errore sufficiente a rendere meno perfette le conclusioni. Da osservazioni sulle variazioni della gravità non si potè trarre ancora partito. La preminenza che spettava prima agli Italiani nello studio dei fe- nomeni sismici è passata in molta parte ai Giapponesi (OmoRI, KÒòTÒ, NAGAOKA. KUSAKABE, ecc.), i quali con accuratezza matematica hanno stu- diato le propagazioni degli urti in terra ed in mare, l’azione loro sugli edifici, ed ogni altro elemento che interessi la materia. La complicazione dei movimenti che seguono un moto sismico ha scosso la fiducia nei mol- teplici metodi suggeriti per la determinazione delle profondità del così detto epicentro, (metodi di MaLLeT, DutToN, A. ScHMIDT, SEEBACA, RIZZO 1906, ecc.), vicendevolmente combattuti e corretti dall’uno o dall’altro. Così pure il vecchio metodo usato nel determinare con aree più o meno ellittiche la superficie di emergenza, così detta epicentrale, ha perduto di efficacia, in quanto non tenga conto delle circostanze geologiche le «quali veramente determinano l’ intensità delle manifestazioni superficiali. Preziosi studi, i quali meglio da noi che altrove potevano eseguirsi per la lunga storia e per la frequenza dei sismi, furono compiuti dal MeRcALLI il quale determinò la maggiore frequenza dei terremoti in certi periodi piuttosto che in altri; e, insieme col BARATTA, le aree più soggette nei diversi tempi. Ciò fu fatto da altri pel Giappone e vantaggi ben maggiori che non si credano si trarranno da tali deter- minazioni nell’ avvenire. I tentativi di previsione dei terremoti del FaLIB, del MaccionI, dello STIATTESI e d’altri non riscossero fiducia e per ora non presentano pro- ‘babilità di riuscita; nè maggiore adesione hanno trovato le idee su rap- porti intravisti fra i terremoti e le fasi lunari, o le variazioni barome- triche, (P.* Cosranzo ed altri), o le precipitazioni atmosferiche. Quanto alle cause dei terremoti, è unanimemente riconosciuta la per- tinenza dei sismi circostanti ad un vulcano alla vulcanicità. Pei sismi che si manifestano in regioni non vulcaniche o lungi da un vulcano vi- gono due teoriche; gli uni li considerano per la massima parte come 12 C. DE STEFANI conati di vulcanicità profonda abortiti, gli altri li mettono in rapporto con la tettonica, cioè coi fenomeni che producono le montagne, od anche con la corrosione di rocce nell'interno della Terra e con relativi sprofondamenti o rotture. Sarebbero questi i terremoti perifericè o tet- tonici dello STOPPANI e del SuEss, il quale venne a studiare espressamente la regione sismica calabrese. Quest’ ultima opinione, che è pure in accordo con le idee dominanti fino ad oggi nelle scuole sulla genesi delle montagne, è quella principalmente condivisa anche in Italia. Si osservi però che anche questi terremoti tettonicì hanno origine il più delle volte in regioni poco lontane da vulcani attivi, o spenti in tempi geologicamente recentissimi, che si manifestano sovente anche in re- gioni antichissime ed assettate da lunghissimo tempo, e che viceversa mancano o scarseggiano il più spesso in montagne recentissime o in via di formazione. La questione rimane dunque ancora sud judice. Vulcani. Connessa coi terremoti è la vulcanicità. Per l appunto al limitare del periodo che abbiamo preso ad esame, nel 1859, uscivano due lavori di due memorabili autori, di PouLETT ScRoPE, che fin da studente nel 1816-17 avea visitato il Vesuvio, come poi il resto d’Italia nel 1818; | 1819, 1822, e del LyEeLL fondatore della Geologia. Questi, a proposito dei vulcani, combattevano la teorica detta dei craferì di sollevamento fondata dal von BucH e andata fino allora per la maggiore, con lievi incertezze da parte di alcuni, ma già senza consentimento dei predetti due geologi, che in precedenti loro lavori (PouLEtt Scrope G. Conside- rations on Volcanos, London, 1825; 2.* edizione nel 1862 e 3.* edizione postuma, più completa, in tedesco, Berlin 1872) già l'avevano com- battuta. Riteneva von Buck che i coni vulcanici si fossero originati per rigonfiamento della massa terrestre dal sotto in su. Avevano mo- strato gli altri due che i coni invece sì originano per sovrapposizione di materie gettate dal crateri da sopra in giù. Dopo i due citati lavori di PouLETT ScRoPE e di LyELL l’ipotesi, già scalzata prima, è stata defi- nitivamente riconosciuta errata ed unanimemente abbandonata. A vero dire il MATTEUCCI nell’ eruzione del 1898 al Vesuvio cre- dette osservare il caso di una piccola cupola lavica formata per impulso dal basso all'alto; ma il MERCALLI (1902-03) oppugnò il fatto con buoni argomenti. x TON RA e a) REL RR TURI nn A MIT (tit, era Bue è MEA pd A VE ASTRO VIAN Oggi e ea A o ‘LA GEOLOGIA ENDODINAMICA IN ITALIA NELL'ULTIMO CINQUANTENNIO . 13 - In questo cinquantennio alle molte centinaia di descrizioni antiche e moderne di eruzioni e di vulcani, altre assai se ne aggiunsero in ogni parte della terra. Si seguitarono a studiare la situazione dei vul- cani e i fenomeni esteriori di questi, già prima assai noti; e mediante analisi chimiche moltiplicate e condotte con metodi sempre più precisi si studiarono la litologia ed i prodotti aeriformi. La mia Nota sarebbe riempita dal solo elenco dei nomi di coloro che si occuparono di vul- cani, tanto italiani quanto stranieri. I vulcani nostri farono sempre visi- tati da chi volle scrivere di vulcanologia e si deve dire anzi che la scienza vulcanologica fu fondata primieramente sulla considerazione dei mede- simi. Questo dicasi tanto per i vulcani attivi quanto per quelli che, seb- bene conservino appariscenti residui della loro attività, pur sono estinti. Molti fra i principali e completi studi delle nostre regioni vulcani- che, attive o estinte, furono, forse più oggi che per il passato per le ragioni sopra dette, opera di stranieri e fra questi di molti dei più eminenti. Parecchi degli attuali maestri cominciarono qui i loro studi o come tesi di laurea o come primo passo alla scienza, (JupD, LACROIX, Brun, PrINz, SARTroRIUS von WALTERSHAUSEN, RosENBUSCH, Emmons, WIL- LIAMS, WasHINeTON, DALMER, KLEIN, DoELTER, BRANCO, BERGEAT, JOHN- ston. LAvis, FoERSTNER, von LASAULX ecc.). Tengono a questi degna compagnia gli studi di Arorsi, ARTINI, BertoLIo, Bucca, CLERICI, dei D’AcHtiaRrDI, DE Lorenzo e Riva, FRANCO, GRATTAROLA, FANTAPPIÈ, MA- NASSE, MATTEUCCI, MartELLI, MercaLLI, MiLLosevica, MaTTIROLO, Nova- RESE, SABATINI, STARABBA, SERRA, STRUEVER, VioLa, RoccATI, ROSATI, ecc. ecc. Questi vulcani, specialmente quelli estinti, hanno dato luogo ad in- teressanti dispute non ancora tutte pienamente decise. Ne’ primi passi del cinquantennio si consideravano da alcuni quasi come formazioni colonnari uscenti in massa di mezzo alle circostanti rocce sedimentarie: era forse un residuo della vecchia teorica dei crateri di sollevamento. Oggi tutti si riconoscono come espansi al di sopra delle rocce sedimentarie. In alcuni luoghi infatti, p. es. al M. Amiata, si sono anche fatti scavi per la ricerca di minerali al di sotto della roccia vul- canica. In nessun luogo si constatarono le vie d’ uscita delle lave, fuori che nel vulcano estinto, antico e ad imbasamento profondamente cor- roso, di Campiglia, cui si potrebbero aggiungere i filoni ritenuti basal- tici dal MADDALENA (1907) che traversano l’imbasamento dei vulcani basaltici terziari del Vicentino. In nessun luogo si constatarono alte- 14» C. DE STEFANI razioni di rocce a contatto, fuori dell’arrossamento di alcuni strati, pre- scindendo ben inteso dagli inclusi che vennero strappati da grandi pro- fondità. Si disputa se in origine sieno stati in parte almeno sottomarini e non ancora è stato raggiunto l’accordo sull’ età loro. Che taluni sieno sorti primieramente sotto il mare, come i vulcani di Val di Noto che debbonsi attribuire al Miocene, i vulcani Eolici dei quali il SEGUENZA notò i prodotti sottomarini, i vulcani Flegrei e grande parte di quelli di Sardegna niuno lo nega. Pei vulcani del Bacino di Roma lo afferma il PorTIs seguendo in parte le orme del BroccHI e di altri in un po- deroso lavoro; lo negarono CLERICI, MELI, STELLA, VERRI con buoni argo- menti almeno per gli strati più recenti. Scavi fatti al Ponte Molle mo- strerebbero che almeno nei primi tempi, a periodo quaternario avanzato, i prodotti del Vulcano Laziale caddero in mare o almeno in stagni littorali fino in Roma. I Per solito si ritiene che i nostri vulcani spenti non rimontino oltre il Quaternario, eccezion fatta di quelli delle Lipari di poco più antichi; ma, prescindendo dai vulcani miocenici della Sardegna e di Val di Noto, converrà probabilmente retrotrarre le prime origini di quasi tutti fino al principiare del Pliocene; a Bolsena, a Viterbo, a Orciatico trovaronsi lave e prodotti vulcanici inclusi fino nei più bassi strati di mare profondo pliocenici. È probabile che per lo meno gli altri vulcani etruschi sieno altrettanto antichi. Per quali ragioni un territorio improvvisamente si apra ai vulcani per la prima volta o per lo meno dopo sosta di lunghe età geologiche, lo ignoriamo. Scrisse il DARWIN che i vulcani sì aprono in regioni sog- gette a sollevamento, nè alcuno ha seriamente provato a negarlo. Ciò deve dirsi pure dei vulcani italiani. Scrisse il Surss (1885) seguendo in parte una precedente idea del MaLLeT (1875), che i sistemi montuosi sono asimmetrici, cioè costituiti sopra uno dei lati da pieghe l’una sull’altra eventualmente accavallate, dall’altro troncati e rotti di fronte a fessure dalle quali escono i vulcani. La sua teorica è molto seguita; oggi però con le nuovissime idee sull’ orogenesi dovrebbe modificarsi. Anche chi non accetti queste nuovissime idee può osservare, e già fu osservato per l’ Italia, che quel concetto di asimmetria de’ sistemi montuosi, dedotto dalla osservazione di carte puramente geografiche quando ancora man- cavano 0 scarseggiavano quelle geologiche, non risponde sempre al vero; perciò il rapporto fra orogenesi e vulcanismo resta tuttora oscuro, come È K li | P È ee” Cer TI, n e È ici dii enim tt int } LA GEOLOGIA ENDODINAMICA IN ITALIA NELL’ULTIMO CINQUANTENNIO 15 rimane oscuro quello fra orogenesi e terremoti. I nostri vulcani penin- sulari, il Vulture compreso, escono in mezzo a pieghe e a cupole, e tutt’ al più in mezzo a sinclinali senza rapporto appariscente con rot- ture e sprofondamenti, Nota il De LorENZOo (1899) che al Vulture può applicarsi il concetto già esplicato altrove, di un insaccamento, o abbassamento a fondo di battello, del materiale vulcanico in mezzo al suolo sedimentario, forse per esportazione appunto di materiali sottostanti al cratere, e questo concetto, se esatto, potrà estendersi ai nostri vulcani di Bolsena, di Bracciano, dei Campi Flegrei, all’ Etna. Comunque sia, i materiali vulcanici escono da fessure interne, ta- lora, da quanto si vede, lineari e irregolari, che alcuni ritengono locali, altri radiali e continue, quand’ anche alla superficie non si vedano, come infatti tali non si vedono in Italia. Alcuni gruppi vulcanici presentano grande uniformità nei materiali eruttivi, per es., per noi la Valle del Sacco, i Campi Flegrei, la Sicilia occidentale, Linosa: in altri casi vulcani contigui producono rocce diver- sissime (in Italia i Vulcani Etruschi, le Lipari). Talora un vulcano erutta sempre le medesime materie (Capraia, M. Amiata, Campiglia, Vulture, Vesuvio, Etna): tal’altra, assai più raramente, erutta materie diverse in differenti periodi; e dicasi più raramente perchè a volte si attribui- scono a periodi diversi materiali eruttati da bocche adiacenti o sovrap- poste, ma diverse. Dalla successione dei materiali, taluni (BROGGER, TEALL) trassero partito a dire che le eruzioni cominciano con rocce basiche ; altri con rocce di carattere medio (Ippines); altri (MicHeL-Lévy) le fa cominciare con rocce acide; ciò secondo i luoghi. Fu voluta stabilire una legge generale in proposito; ma la proposta ha trovato poca fortuna fuori, e punta fortuna, come non ha rispondenza ne’ fatti, in Italia, anche per parte di geologi stranieri. A spiegare quella diversità di materiali eruttati in luoghi o in tempi diversi i più autorevoli litologi supposero l’esistenza nell’interno della Terra di due (MicarL-Lévy, STRENG, KJERULF, TRIBOLET, secondo una teoria di BUNSEN) 0 tre o più magmi, i quali riunendosi in varia proporzione produrrebbero le miscele diverse, oppure di unico magma che si mani- festerebbe con diverse segregazioni e differenziandosi secondo le tempe- rature od altre circostanze (RoTtH, BROGGER, IDDINGS, ecc.). Ma questa ipotesi così comune non si accorda con le idee ora do- minanti sulla costituzione dell’ interno della Terra ove, o solide, o liquide, 16 C. DE STEFANI o gassose, potrebbero trovarsi delle materie sì più o meno difformi ma così dense e soggette a tali attriti interni da non dar luogo a moti con- vettivi e a conseguenti miscele, e da esser poco suscettibili dell’applica- zione del principio di SORET. Val meglio supporre che il magma locale sia già preparato sotto il condotto vulcanico. Per ora in Italia domina il concetto (DE LoRENzO, 1901, ed altri) che la vulcanicità si manifesti bensì in aree o provincie assai ampie in senso orizzontale e verticale, ma che gli spiragli locali attingano a regioni per lo più non grandemente profonde ove già in origine si trovano quei materiali diversi e già diversamente elaborati che poi verranno fuori, secondo precedenti concetti di DeLESSE (1861), STERRY-HuNnT ed altri. Le eruzioni basiche, le quali escono nelle maggiori profondità dei mari e che sono più uniformi, più estese, e costituite da materiali più pesanti, vengono fuori forse anche da profondità maggiori dove il ma- teriale appunto sia più uniforme. PRIOR, ma specialmente il BeckE (1903) ritennero potersi distinguere nelle rocce vulcaniche due tipi, uno andesitico, con predominio di Ca ed Mg sugli alcali, comune al Pacifico e proprio delle regioni piegate per compressione tangenziale; altro dell'Atlantico, tefritico, con predominio di alcali, specialmente di Na, speciale a regioni con prevalenti disloca- zioni e rotture radiali. Ma la distinzione non tiene perchè non solo nelle dette regioni, ma in Italia, vediamo promiscuamente i due tipi, cioè, p. es., il tipo andesitico al Vesuvio, Vulcano Laziale, Rocca Monfina, Bolsena, Bracciano, Radicofani, Etna, Linosa, ecc., il tipo tefritico del Pacifico trovasi al M. Amiata, Campiglia, Roccastrada, Tolfa, Isole Lipari, Campi Flegrei, ecc. Il WASHINGTON (1908) ritiene che si possano riconoscere in Italia e in generale nel Mediterraneo due provincie vulcaniche; l'una a Sud, della quale fa parte anche Linosa, distinta da proporzioni non troppo scarse di titanio, altra a Nord segnalata dalla presenza del bario. Però le buone analisi chimiche sono per ora troppo scarse e la presenza dei detti elementi è troppo saltuaria perchè si possa concludere -qualche cosa. Sulle cause che producono la fuoriuscita delle lave non molto di nuovo fu detto; nè l’accordo completo è ancora raggiunto, quantunque forse non sia lontano. Tentò MoHR (1866), come già poco prima VoLGER, spiegare l’origine ny LA GEOLOGIA ENDODINAMICA IN ITALIA NELL’ULTIMO CINQUANTENNIO 17 delle materie vulcaniche con uno sbriciolamento e conseguenti azioni termodinamiche, di rocce interne per compressione di strati terrestri e di acque oceaniche sovrastanti. Li combattè ragionevolmente PFAFF (1871). Oggi i più attribuiscono alla tensione del vapore acqueo sopra ri- scaldato, in unione ad altri gas, l’ uscita delle lave e dei materiali conco- mitanti: è la più antica idea dei nostri SPALLANZANI, MONTICELLI, COVELLI, STOPPANI, MENEGHINI, come di MeNARD, DféLuc, von HUMBOLDT, poi di PouLeTt-Scrope, LyeLL, MALLET. Se non che lo ScropE ed oggi SuEss, LANE (1894), SHuLER (1897), il GAUTIER (1903), l’Hauc, ecc. ritennero che vapore e gas provengono dallo stesso magma interno della Terra, che si tratti cioè di vapor d’acqua, come dicono, giovanile. LYELL, come HumBoLpT, von BucH, BiscHor e i più dei geologi compresi i no- stri, considerando pure l'immensa quantità di vapore acqueo che do- vrebbe essere uscita dai tempi più antichi fino ad oggi, ritengono che quell’acqua giunga per le fessure dall’esterno e principalmente dal mare. È l’idea dello SPALLANZANI: si adducono in proposito la contiguità dei vulcani al mare e la natura dei vapori alcalini eruttati in moltissimi casi. Il DAUBRÉE (1880) mostrò che materiali dotati di altissime tem- perature possono assorbire acqua dall’esterno ad onta della tensione dei vapori. Nelle esplosioni superficiali più grandiose (Schirane, Bandaisan, Taravera, Krakatoa, Vesuvio, ecc.) bene spesso non seguite da eruzioni laviche, l’azione del vapore d’acque provenienti dall’esterno è manifesta. Per quanto riguarda gli ampli crateri di alcuni dei nostri vulcani spenti (Bolsena, Bracciano, Vico, Nemi, Albano), la vecchia idea di al- cuni (vom RaTH, combattuta da Stoppani 1873) che attribuiva la loro origine a sprofondamenti anzichè ad esplosioni, riconosciuta poi inesatta, ma ripresa dal BeRrGEAT (1899) per le isole Lipari, fu dal SABATINI (1909) per il lago di Nemi vittoriosamente dimostrata errata, sebbene non si escluda che sprofondamenti delle pareti crateriche portino mate- riali via via alle susseguenti esplosioni. Il DANA aveva già osservato che alle placide emissioni uicni del Kilauea nelle Hawaii basta l’acqua atmosferica degli acquazzoni tropi- cali del cono vulcanico. Il De LorENZO (1900-01) aveva tentato di mo- strare qualche rapporto fra le eruzioni vesuviane e le piogge; ma il SEMMOLA (1901), secondo me opportunamente, mostrò che ciò non era provato. X Il De LorENZo anzi, con calcolo per vero dire forse troppo ristretto Sc. Nat. Vol., XXVIII 2 18 C. DE STEFANI e combattuto dal SABATINI, tentò determinare la profondità, secondo lui assai piccola, dalla quale derivarono l’esplosione e la eruzione del M. Nuovo. Certo è che il rapporto fra le acque esterne e l’intensità delle fumarole è in taluni casi manifesto. In eruzioni pur violente la quantità di acqua rigettata sotto forma di vapore non è superiore alla portata di una sorgente mediocremente grande dell'Appennino, poichè più che la portata giova l’alta tensione del vapore a temperature al- tissime studiata da REGNAULT, CAILLETET, BATTELLI ed altri. Un mec. di acqua evaporata ne dà 1700 di vapore a 100° C. a pres- sione normale, e tanto più quanto più cresce la temperatura e dimi- minuisce la pressione. La quantità dello zolfo che via via si forma all’esterno della solfatara di Pozzuoli o di qualsiasi altra solfatara, ma in scarsissime proporzioni in altri vulcani, non è superiore a quella che può derivare dalla decom- posizione di qualsiasi giacimento di pirite o di altro solfuro, il quale si trovi a profondità anche poco ragguardevoli nell'interno. Così dicasi del selenio, dell’arsenico, i quali sono più speciali ad alcuni vulcani che ad altri; così dell’acido borico; così della cotunnite relativamente fre- quente al Vesuvio; così della cuprite ail’ Etna; così di cloruri i quali sarebbero più che a sufficienza spiegabili con l’intervento anche solo di scarse acque marine. Per tali ragioni, per la variabilità estrema già detta dei materiali rocciosi ignei, il De LoRrENZO, (1901) ed altri ritengono che le eruzioni non derivino, se non forse in circostanze eccezionali, da profondità rag- guardevoli, bensì da regioni della Terra poco profonde e relativamente poco lontane dalla superficie, nelle quali ancora si manifestano diver- sità di materiali costituenti, e le quali perciò, verosimilmente, già fecero parte un tempo della superficie emersa ed in questa furono plasmate ed originate. Si avrebbe così una circolazione fra rocce sedimentarie e rocce vulcaniche, la cui possibilità fu già insegnata dal MEeNEGHINI. Mate- riali meno profondi di origine sedimentaria poco o punto alterati sono trascinati fuori in ogni vulcano; ma sovente si ristontrano materiali più alterati di origine profonda quali alla superficie, almeno per lar- ghissimo tratto all’intorno, non compariscono (M. Amiata, porfido quarzifero dell’ Elba). Materiali ancora più profondi, più antichi, ma forse ancora per avventura di origine sedimentaria, provvedono la roccia fusa al vul- cano. Delle profondissime alterazioni che subiscono questi materiali si è recentemente occupato R. BraAuns. LA GEOLOGIA ENDODINAMICA IN ITALIA NELL'ULTIMO CINQUANTENNIO 19 La profondità cui furono portati per la sovrapposizione di alta serie di rocce dell’antichissima Terra, l’alta temperatura, ma anche l'alta pressione in cui si trovano riduce quei materiali in uno stato di fluidità potenziale che diviene cinetica tosto che la pressione per rotture o per diminuzione conseguente ad esplosioni o per altro motivo scenda sotto il limite della resistenza La maggior densità dei materiali interni sotto pressione, che per diminuzione di questa porta alla loro fluidità cinetica, ha per conseguenza immediata un aumento di volume che si manifesta con la fuoruscita delle lave facilitata dalla tensione dei gas e del vapore acqueo. Così si originano le eruzioni. Tale è forse la teorica destinata a prevalere. Più recentemente il Brun (1911), con troppo eccesso, e assai al di là dei limiti supposti fra noi, toglie ogni importanza nel produrre eruzioni al vapore acqueo, e la dà esclusivamente a gas giovanili di origine mag- matica. Il PrINZ emise idee molto vicine, ma non così eccessive, per l’ultima eruzione del Vesuvio. Il Brun analizza i gas contenuti in una quantità di vetri vulcanici di quasi ogni regione ritenendo, come già si era ritenuto fra noi, che quei vetri rappresentino nel miglior modo il magma fluido primitivo. Egli vi trova quasi generalmente tutti quei gas che si trovano uniti 0 successivi nelle eruzioni (cloro, acido solforoso, acido carbonico, ossido di carbonio, idrogeno, azoto, talora idrocarburi, per eccezione poco altro) giammai acqua, che elimina calcinando fin sopra 300° C., ed osserva che fondendo quei vetri fino alla temperatura detta da lui d’esplosione si espandono improvvisamente con intensa effervescenza convertendosi in pomice, cosa già nota. A tale espansione egli attribuisce le eruzioni. È ad osservare che vulcani interamente pumicei, cui perciò possa appli- carsi la sua idea con minor contestazione, non se ne trovano se non nel cratere di Lipari ed in rari altri luoghi. La pomice è per lo più accidentale. Vi sono invece. per tutto ossidiane uscite pure alle tem- perature sperimentate dal Brun che non si sono trasformate in pomice. Per avere vere ossidiane e vetri basaltici occorrono circostanze speciali di raffreddamento, e per lo più istantanea perdita delle calorie per con- tatto di acque superficiali o per altro. I magmi si mantengono fusi nel Kilauea e nei crateri dei laghi basaltici senza dar luogo a quegli scoppi ed a quella trasformazione che il BRUN produce nei suoi laboratori, e le lave giunte alla superficie con le medesime sue temperature se si raf- freddano lentamente cristallizzano senza dar luogo a quei fenomeni che egli osserva. | 20 C. DE STEFANI È pure possibile che i gas sieno, come l’acqua, di provenienza più superficiale del magma liquido e sieno disciolti da questo nel cammino verso l’esterno, man mano che il liquido si avvia al raffreddamento. Sup- posto che il magma fosse ancora liquido, non completamente gassoso, alla più alta temperatura interna non ostante qualsiasi pressione esso non potrebbe disciogliere quelle quantità di gas. Infatti secondo la legge di HENRY un liquido discioglie il medesimo volume di gas a qualunque pressione, ma non a qualunque temperatura. A temperature alte ne di- scioglie meno, anzi finirebbe per espellerlo interamente se ne contenesse, come appunto avviene nelle esperienze del BRUN. Gran parte dei criteri usati dal BRUN per mostrare la mancanza del- l’acqua nei fumi vulcanici, specialmente nei parossismi, non ha valore. Così egli adduce la presenza del cloro libero, la mancanza di arrossa- mento per trasformazioni del sesquiossido di ferro nella roccia attigua alle fumarole secche, ed altri fenomeni fisici esteriori che escluderebbero il vapore d’acqua nei fumi secchi e nelle fumarole ad altissime tempe- rature. Ma per appunto a tali temperature, alla pressione atmosferica, il vapore acqueo soprariscaldato è secco, ha la proprietà di non conden- sarsi subito nell’atmosfera e di diffondersi in questa serbandosi affatto limpido, quantunque a causa del suo grande calore abbia azioni termiche potentissime che sono usate nei laboratori e nella tecnica: p. es. a 300° C. brucia una carta che vi si sia esposta: ma quanto più si alza la tem- peratura e diminuisce la pressione tanto più diminuisce la solubilità del cloro e di altri gas nell'acqua e nel vapore e manca la trasformazione del protossido di ferro in sesquiossido e idrossido che è possibile in lave umide a basse temperature. Così manca la formazione di aloni e di iride nei fumi secchì e nel vapore acqueo parimente secco dei parossismi che Brun ha osservato. Il solo che avesse fatto osservazioni dirette sulla temperatura delle lave, uscenti nel 1892 dal cratere dell’ Etna, coi metodi che la fisica con- sentiva era stato il BarroLI. Le temperature di fusione del basalte erano state ottenute col metodo calorimetrico da W. C. RoBERTS AusTEN ed A. W. Rucker. Alcune misure, con metodi svariati, furono fatte dal Brun. Per altre lave non basiche, ma specialmente per minerali che le com- pongono sono state studiate le temperature di fusione nel laboratorio da BaRUS, CusAK (1896), JoLy (1900), DOELTER (1903), Day (1905), SPEZIA. Le lave basiche sono fusibili a temperature relativamente assai più basse di quelle acide, e ciò spiega la facile ed amplissima diffusione delle 0 Ù; h- LA GEOLOGIA ENDODINAMICA IN ITALIA NELL’ULTIMO CINQUANTENNIO ZA; prime, la maggiore scarsità, la più facile concomitanza con materiali pu- ramente frammentizî, la circoscrizione a crateri, meno ampi, ma più alti, delle lave acide, circostanze messe in luce del DANA (1899) ed applicate pure fra noi, quantunque messe alquanto in dubbio dal DE LoRENZO. Dagli studi unanimi di chi si occupò espressamente della materia fin dai tempi del BiscHor risulta che le lave fluide hanno minore densità di quelle solide (BARUS 1893, Day e ALLEN, TAMMANN ecc.), sebbene molti osserva- tori, non a giorno di ciò, vedendo talune lave già solide galleggiare su quelle fluide per varie ma semplici ragioni, abbiano affermato talora il contrario. Perciò i vetri vulcanici, i quali hanno la medesima o poco minore densità delle lave fluide, e che si formano per improvviso raf- freddamento del magma, fu ritenuto fra noi rappresentassero nel mi- glior modo lo stato del magma quale esce dalle profondità e porgessero buon modo di studiare e determinare l’ordine successivo di solidifica- zione dei componenti. La quantità di calore utile a produrre una eru- zione basica può dunque essere insufficente a produrne una acida; ma la quantità delle calorie in ogni emersione di lava, pur tenendo conto di quelle perdute nel tragitto interno, può essere, e tale sovente si di- mostra, assai superiore a quel tanto necessario per produrre la eru- zione. È questo un elemento, (che oggi si potrebbe forse ben determi- nare numericamente) del quale si deve tenere e si è tenuto calcolo fra noi, perchè il divario della temperatura delle lave giunte all’esterno in- fluisce sulla rapidità del raffreddamento, quindi sull'andamento della ceri- stallizzazione, producendo formazione di cristalli tanto maggiori e più regolari, cioè differenza fra rocce olocristalline ed ipocristalline secondo la nomenclatura del RosENBUSCH, quanto maggiori siano la temperatura congenita e la lentezza del raffreddamento. Si è mostrato che la fuo- riuscita delle lave nelle profondità dei mari e la pressione dell’ oceano sovrincombente, per quanto alto, non sono sufficenti a spiegare il carattere olocristallino, cioè la completa cristallizzazione delle lave stesse. La vecchia ipotesi dello ScroPE e di antichi autori, ripresa dallo STOPPANI, che i componenti le lave uscissero già cristallizzati e fossero messi in movimento dalla commistione dei gas e del vapore acqueo fu mostrata inesatta. Si ritiene oggi che il magma, meno qualche materiale per avventura incluso già solido, esca in stato di soluzione (BunsEN 1861, LaAGorIO 1887, Voer, ScgoTt), coi singoli ioni dissociati (DUHEM) come risulterebbe pure da studi di Barus e Ippines (1892) sulla relativa resistenza elettrica: il vetro riproducente il magma liquido si ritiene sia una soluzione solida, 292 3 C. DE STEFANI A quei magmi sono applicabili e furono già applicati, anche da alcuni fra noi, tutti i moderni concetti della fisico-chimica relativi alle solu- zioni. Così pure le moderne cognizioni di questa scienza furono appli- cate alle ultime trasformazioni dei componenti le lave nell’atto della so- lidificazione. | Insieme con le manifestazioni gassose contemporanee o susseguenti alle eruzioni sono state studiate anche quelle di egual natura periferi- che. Sui Geystîr dell’ Irlanda, che sono i più anticamente noti, scrissero WIEDEMANN (1882), PETERSEN (1889), AnDREAE (1893) confermando le ipo- tesi di Bunsen e DescLorzeaux sulla loro intermittenza. Di quelli della Nuova Zelanda, noti dal principio del secolo scorso, scrisse HocHSTETTER (1863). Quelli della Yellowstone nel Wyoming, scoperti si può dire nel 1863, furono illustrati da HaypEeNn (1871), Homes e PEALE (1883), e la pittoresca regione fu dichiarata monumento nazionale. In Italia i soffioni boraciferi della Toscana hanno seguitato ad avere molti illustratori ge- nerali o parziali in MENEGHINI, BecHi, D’AcHIARDI, LoTTI, DE STEFANI, PeERRONE, NASINI (1906). L’origine dell’acido borico che essi portano, assai discussa, fu attribuita dal DieuLaFrAIT a borati, dal BecHI a serpentine, dal PERRONE a graniti esistenti in profondità. Forse è questa l'ipotesi meno inverosimile, poichè i graniti contengono scarse ma diffuse traccie di minerali boriferi ai quali l’acido borico può facilmente essere sottratto da vapori acquei ad alta temperatura forniti di acido carbonico. Parziali studi si ebbero sulle nostre esalazioni di acido carbonico 0 Mofete e di solfuro idrico o Putizze. Si è riconosciuto che esse, in Italia, come in Alvergna, nelle regioni Renane ed altrove, formano quasi un’au- reola periferica alla regione attualmente o recentemente vulcanica, au- reola periferica a similitudine di quella delle acque termali, ma di questa più interna. ii Origine affatto indipendente dai vulcani hanno le salse o salinelle, talora dette vulcani di fango per la forma dei loro coni, che sono gran- diose attorno al Caspio, al Mar Nero, alle foci del Missisippì e che sono pure frequenti, sebbene di piccole dimensioni, fra noi, a Paternò in Sicilia donde le descrissero il GimBEL ed il SILVESTRI, e nell’ Emilia (STOHR, STROBEL, PANTANELLI, STOPPANI, TARAMELLI, PAGANI), sebbene non manchino pur nelle Romagne, nel Lazio (SABATINI) e nella Calabria (Rizzo, CREMA). Sono getti intermittenti.di idrocarburi provenienti per decomposi- PIER, LIST PETTO I ATEI RETI SI , à si n ' "o é Bia LA GEOLOGIA ENDODINAMICA IN ITALIA NELL'ULTIMU CINQUANTENNIO 23 zione di sostanze organiche vegetali od animali da terreni terziari, ma talora anche da terreni palustri recentissimi, e quando escono accom- pagnati da acqua che traversi superficialmente un terreno argilloso for- mano un conetto fangoso. Quando il getto gassoso esce da una roccia solida forma i così detti terreni ardenti o fuochi perpetui, come a Por- retta, Pietramala, Barigazzo, ecc. Fouquk e GoRcEIX studiarono i vari carburi che li compongono: la chimica ne permetterebbe oggi studi an- che più precisi. | . Spesso stanno in rapporto col petrolio. Tracce di questo sono fra noi in molti luoghi, ma in proporzioni industrialmente alquanto utili soltanto nelle provincie di Parma e di Piacenza. Molto fu scritto sull’origine dei petroli (BeRTOLIO, PANTANELLI, TA- RAMELLI, ecc.), che in taluni casi si ammette derivino da distillazione di sostanze animali, ed in altri casi da sintesi diretta, che era pure un’ idea dello SroPPANI e che fu mostrata possibile da MENDELEJEFF e compro- vata dagli idrocarburi non rari nelle eruzioni vulcaniche. Rocee cristalline antiche. Plutonismo. Il carattere vulcanico è stato riconosciuto e spesso è unanimemente ammesso non solo in vulcani estinti di recente, ma pure in terreni più antichi. Niuno ha messo in dubbio la natura vulcanica dei basalti del Terziario inferiore nel Vicentino e nel Veronese e delle trachiti degli Euganei. Nell’ ultimo cinquantennio furono studiati i primi da MUNIER- CHaLmAS, LasAaULX (1873), e dai nostri ARTINI e MADDALENA, le seconde da Surss, ReyER e Srark. Esempi consimili se ne hanno fuori in ogni parte del mondo. Le contestazioni mancano, si può dire, circa a terreni più o meno antichi i quali abbiano identità con terreni vulcanici attuali; ma questo raramente avviene a cagione delle trasformazioni subìte dalle rocce, ed allora le contestazioni ricominciano. Ne danno esempio le nostre rocce verdi. | Quelle dell’Appennino ad Est della Polcevera presso Genova furono separate dalle altre più antiche dall’ IsseL (1880), separazione poco oppor- tunamente lasciata in dubbio da carte nostre recenti. Sono peridotiti, gabbri, diabasi accompagnati da graniti e all’ Elba da porfidi quarziferi. I più dei geologi nostri (TARAMELLI, IssEL, LOTTI, ZACCAGNA) non mettono menomamente in dubbio che appartengano al- 24 C. DE STEFANI l’Eocene; anzi alcuni più precisamente all’ Eocene superiore. Solo il SACCO, seguendo un concetto che in addietro era maggiormente diffuso, le mantiene nella Creta; differenza, invero, di poco momento. Lo STERRY Hunt guardando solo ad analogie litologiche le aveva credute prepa- leozoiche. L'idea, che tali rocce derivino da metamorfismi di terreni sedimen- tari, che il SANTAGATA e pochi altri avevano manifestato nel cinquan- tennio precedente di fronte al SAvi e ai più che già le ritenevano eruttive, è ora tramontata, o per meglio dire è evanescente, essendone rimasto appena qualche residuo presso alcuni geologi. É una delle po- che idee eccessivamente nettuniane che prima della nascita della litologia si erano manifestate in Italia, dove gli studiosi, mossi solo dallo studio positivo de’ fatti, non avevano ecceduto nè pei mnettuniani, nè pei plu- tonisti precorrendo sovente nel vero e gli uni e gli altri. Oggi tutti i litologi, qui come altrove, niuno eccettuato, e la gran- dissima maggioranza dei geologi italiani e tutti quelli stranieri, consi- derano le nostre rocce verdi come eruttive, secondo le idee da assai tempo fra noi prevalenti. Nei tempi precedenti ai nostri le si suppo- nevano originate e consolidate a traverso fessure delle rocce sedimen- tarie. Ho visto gli accurati appunti che PAoLo SAvI prendeva sul posto nello studiare le serpentine della Toscana che egli riteneva facenti parte di quella da lui detta Catena serpentinosa, ed ho visto che esse sono segnate esattamente intercalate agli strati; ma nelle sue pubblicazioni egli le raffigura, in accordo con le idee allora universali, trasversali ai medesimi. Se non m’inganno fu nel 1876 a proposito delle serpentine della Garfagnana in Val di Serchio, comparate già bensì con quelle di altre regioni, che fu emessa e poi sempre sostenuta l’idea dell’inter- calazione perfetta delle medesime ai sedimenti eocenici o diciamo in generale ai sedimenti, idea, ripeto, oggi da tutti condivisa. Non si è indicato finora con esattezza un solo luogo nel quale si possa notare la fuoruscita di quelle rocce a traverso terreni sottostanti, e ciò, ben inteso, non perchè tali luoghi debbano mancare, ma perchè si tratta di letti estesi a mezzo Appennino, e secondo gli studi del FucHs, del MARTELLI e di più altri probabilmente assai oltre a S. E. nella penisola Balcanica. Questi sono letti di una roccia basica assai fusibile, oggi profondamente sconvolta con tutte le rocce sedimentarie concomitanti, le cui vie d’uscita, probabilmente non affatto molteplici, sono ai nostri occhi, forse anche in modo assoluto, sottratte. Alcuni nostri geologi più LA GEOLOGIA ENDODINAMICA IN ITALIA NELL’ULTIMO CINQUANTENNIO pi; novizi, che osservino quelle rocce verdi solo in uno od in altro luogo, cogniti ancora dei vecchi libri, qui, come del resto anche altrove, le raffigurano tuttavia irregolarmente traversanti gli strati a uso filoni. La concomitanza di conglomerati di origine indubbiamente esterna, e secondo alcuni di veri tufi, per quanto alterati dai metamorfismi, il modo di distribuzione, l’alternanza ripetuta e spesso molto sottile coi terreni sedimentari, ha indotto alcuni di noi a ritenere quelle rocce originate da vulcani superficiali sorti nel fondo del mare eocenico il quale doveva essere profondissimo, come lo attestano i calcari a Gobi- gerinae, i diaspri a radiolarie, gli schisti rossi, i noduli e gli strati manganesiferi, originati pare, come oggi nelle profondità del Pacifico, da decomposizione delle stesse rocce vulcaniche basiche. A proposito di serpentine d’altre regioni accompagnate da consimili rocce di mare profondo, il SuEss riferisce una osservazione dello STEIN- MANN (1905), che cioè forse oggi nelle grandi profondità dei mari si espandono masse magmatiche di estrema basicità. Questa idea della vulcanicità superficiale, nel fondo dei mari, che il De SrerAnI probabilmente esagerò col voler determinare in troppo nu- mero le bocche di uscita, non pare accetta ai più (TARAMELLI, ISSEL, Lori, De LAuNAY) i quali sembrano più propensi a ritenere le dette rocce come plutoniche, cioè espanse nell'interno degli strati senza uscire all’a- perto. Pure, ripeto, la sottile e ripetuta alternanza con strati sedimentari non sembra potersi interpetrare diversamente da una vera espansione vulcanica esteriore. Uno dei principali fatti che indusse a ritenere non effusive le rocce verdi è la loro differenza litologica, per verità non eccessiva, dai comuni basalti e dalle rare peridotiti che si formano oggi; ma conviene tener conto delle circostanze probabilmente alquanto diverse, causa le profon- dità dei mari, nelle quali si formavano, dell’antichità loro, e, dirò con lo SLAVIK (1908) delle azioni idrotermali oltre a quelle atmosferiche che le trasformarono durante la lunga serie dei tempi. Il porfido quarzifero accompagna tali rocce all’Elba insieme con aplite o porfido microcristallino, detto suvente ewrite. Lo ristudiò recentemente il MatTEUCCI (1894-97) e contiene inclusioni che MATTEUCCI crede autigene, che sono probabilmente di arenaria eocenica, e inclusi di schisti cristal- lini antichi i quali non si vedono a giorno vicini nè lontani e proba- bilmente provengono dal di sotto del granito sul quale il porfido posa quasi direttamente. Il Lori lo raffigura come dirompente attraverso 26 C. DE STEFANI gli strati eocenici; ma il minuzioso esame della regione, specialmente lungo la costa a Nord, fa vedere che esso è in grossi banchi regolari, con le rocce verdi, in mezzo ai sedimenti dell’Eocene superiore, perciò con forma effusiva, cui la struttura fluidale della così detta aplite e la presenza degl’inclusì non contraddicono. Più raro assai e soggetto a qualche maggiore contestazione fu il granito che in Val di Trebbia forma masse abbastanza ragguardevoli e altrove nell’Appennino settentrionale. masse molto minori, cui non manca il paragone coi banchi porfirici del- l’Elba. La sua presenza in mezzo ai terreni eocenici e la sua natura lito- logica furono riconosciute dal LortIi per un piccolo lembo dei Monti Li- vornesi, dal CoccHI (1870) per la Val di Magra, dal Traverso per la Val di Trebbia, da DeL Prato pel Parmense e da tanti altri per la Garfagnana e per pochi altri luoghi. Il VioLa e SANGIORGI (1907), quello del Groppo del Vescovo, nel Parmense, lo ritengono una breccia esogena. Rocce verdi (serpentine, gabbri, diabasi, anfiboliti e dioriti) si trovano in Italia in terreni più antichi ed in più serie d’età non ancora ben determinata, e spesso con la stessa concomitanza di diaspri a Radiolarie, e con le circostanze medesime delle serpentine eoceniche, vale a dire regolarmente intercalate ai sedimenti. Ne sono nel Paleozoico inferiore all’Elba, al Giglio, in Gorgona, nel M. Argentario ed in terreni antichi nelle Alpi Occidentali, donde si ripetono in Corsica, inoltre nella Calabria e nel Messinese. Le studiarono BonneY, UGoLINI, BusatTI, FRANCHI, No- VARESE, RovERETO, ZaccaGnA, IsseL, STELLA ed altri. Alcune di quelle delle Alpi furono attribuite ad età secondaria od al Permiano. I porfidi nel Trias o dentro terreni più antichi del Veneto e della Lombardia sono talora raffigurati come masse traversanti gli strati; ma parte dei geologi Austriaci e Tedeschi che li studiarono nelle Alpi orien- tali ed in Germania li raffigurano invece come letti o banchi. Maggiori questioni presentarono i graniti non effusi in mezzo al- l’Eocene. Quanto ai veri graniti altamente cristallini ed alle rocce pur cristalline che sovente li accompagnano (sieniti, dioriti, liebneriti, ecc.) ‘e che appaiono alternanti in mezzo a terreni secondari o paleozoici se- dimentari e tali sono per esempio quelli antichi di Baveno, quelli forse della Liguria occidentale, quelli delle famose località di Val di Fassa e di Predazzo nel Trentino, tanto studiati dopo il MARZARI-PENCATI nostro ed il von Buc4, si conviene generalmente che abbiano una origine erut- tiva, quantunque pochi li ritengano effusivi. In certi casi non lo si po- trebbe escludere e basterebbe l’indagare se sieno usciti con provvista TI 1 | È. 4 È - LA GEOLOGIA ENDODINAMICA IN ITALIA NELL'ULTIMO CINQUANTENNIO 297 di gran quantità di calorie e soggetti a raffreddamento estremamente lento. I più, preferiscono ritenerli iniettati a profondità senza raggiun- gere la superficie e chiamarli plutonici. I graniti ritenuti più antichi, che appaiono in alte masse alternanti in mezzo agli schisti cristallini, qualunque sia l’età di questi, nelle Alpi Occidentali, e fra gli altri la roccia di Crodo o Verampio in Valle del Toce che credo sia una delle più antiche delle Alpi, sono oggi per mas- sima parte chiamati gneiss a cagione della loro più appariscente schi- stosità e stratificazione, e gneiss li credo io pure insieme col granito o gneiss che forma l’imbasamento di tutti i terreni nella Calabria. Dopo che nei tempi scorsi era stata supposta la loro origine, nettuniana dagli uni, metamorfica da altri; dopo che altri in addietro avevano attribuito all’emersione loro il rialzamento delle Alpi e delle altre montagne, fu un breve periodo recente, nel quale essi (vom RaTH, WEINSCHENK, HucGi, KLEMM, SANDBERG, e SALOMON per le Alpi orientali) furono ritenuti come formazione eruttiva di data assai moderna, perfino terziaria, che avesse traversato, senza venire a giorno, gli antichi terreni alpini. Questa teo- rica è stata per tali rocce delle Alpi abbandonata, credo, senza ritorno, sostituita pur essa dalla solita teorica dei carreggiamenti che ritorna a considerare le varie masse di granito o gneiss, litologicamente pur assai differenti tra loro, come la roccia più antica, implicata e conficcata per effetto di pieghe carreggiate in mezzo agli schisti cristallini attribuiti a loro volta quasi tutti ad età secondaria (FRANCHI, STELLA, NOVARESE). Il De Lorenzo (1896) aveva accettato per le Calabrie le predette teorie di quelli che credevano i graniti, ora gneiss, delle Alpi Occiden- tali, eruttati durante l’era terziaria e ritenne i graniti o gneiss cala- bresi come eruttati nell’Eocene, indi sovrapposti, e conseguentemente interposti, alle altre rocce. Dopo d’allora non è più tornato sopra questa sua ipotesi. Altri graniti si trovano sotto forma di cupole e di masse centrali, senza che appaiano a giorno altre rocce sottostanti, come in Toscana e nelle isole adiacenti, e nella Sardegna. Hanno essi, come in generale gli altri graniti, molte affinità con le trachiti quarzifere vulcaniche, come già mostrò A. D’AcHIARDI (1885), ma per tanti motivi e per la completa struttura olocristallina ne differi- scono. Il LortI aveva applicato da tempo a questi graniti vulcanici l’ipotesi della loro eruzione terziaria: egli li crede emessi, senza giungere all’e- 28 C. DE STEFANI sterno, nel Miocene. Il fatto che essi appaiono nelle cupole più interne (Giglio, Montecristo, M. Capanne, Gavorrano, Campiglia,) ed in vari di questi luoghi quasi subito sotto i porfidi e sotto le rocce verdi eoceniche, ed a Campiglia quasi subito sotto le trachiti; inoltre i filoni che se ne dipartono traversando il terreno eocenico, ed i metamorfismi apportati in questo, danno una parvenza di verità all'ipotesi che essi rappresentino la parte centrale e interna, perciò serbante i caratteri di granito, di un magma acido che nell’effusione vulcanica esteriore si appalesa come porfido o come trachite. Però il porfido, supposto in rapporto, è eocenico; mentre la trachite di Campiglia è più recente del miocene; d’altra parte nei terreni eocenici del Fiorentino trovansi ciottoli di granito e ciottoli identici al granito di Gavorrano si trovano nel Miocene della Maremma. STRUEVER e Bucca (1891) ritennero i detti graniti toscani essere rocce antichissime. Da questi graniti, come in generale dalle rocce cristalline antiche più alcaline partono filoni e apofisi di pegmatiti o di granito tormali- nifero, che si diramano nelle rocce circostanti e sovrastanti, per es., in- torno al Monte Capanne all’ Elba, a Gavorrano, nelle Calabrie ed in più luoghi delle Alpi. I più traggono partito da tali filoni per dedurre l’età recente e l'origine intrusiva dei detti graniti, ma altri pochi ribattono che quei filoni hanno il più delle volte carattere litologico diverso e che possono riguardarsi come escrezioni e secrezioni avvenute, come dicesi, ad opera di agenti mineralizzatori o cristallizzatori o per circostanze pneumatolitiche soggette a verificarsi in qualunque tempo. Non frequenti, nè generali, ma intensissimi quando si verificano, sono i metamorfismi nelle rocce a contatto coi graniti e con le rocce affini molto alcaline, ed anche questi sono ritenuti prova dell’origine eruttiva recente, dei medesimi. Sono profondamente e variamente metamorfosate tutte le svariatissime rocce dell’ Eocene superiore nella regione Ovest del Monte Capanne, e non solo le rocce sedimentarie (A. e G. D’ACHIARDI, MANASSE, LoTTI, ALoIsI) ma tutte le rocce verdi e perfino i porfidi quarzi- feri, argomento ancora non sufficentemente studiato. Alquanto meno sono metamorfosati dal granito di Gavorrano gli schisti secondari ridotti pur tali da scambiarsi con terreni paleozoici. Notissimi sono i metamorfismi prodotti nei terreni secondari dai graniti e dalle altre rocce alcaline di Predazzo, studiati nell’ ultimo cinquantennio da von RIcHTHOFEN (1860), von Corta (1863), DoELTER (1876), TScHERMACK, vom RatH, von MossIso- vics (1879), e ultimamente dal BroEGGER (1895), che paragonò le rocce. eruttive di quella regione a quelle assai antiche dei dintorni di Cristiania. LA GEOLOGIA ENDODINAMICA IN ITALIA NELL'ULTIMO CINQUANTENNIO 29 Da questi metamorfismi pure si vollero far deduzioni sull’età non antica delle rocce che li accompagnano, e nel passato secondo le idee del metamorfismo di contatto principalmente sostenute dal WEINSCHENK vi si cercò una prova dell’alta temperatura che quelle rocce dovevano avere. Oggi invece si tende ad attribuirli ad agenti mineralizzatori (BRòG- cer, KeMP, LinperEN). Ma altri osservano (GRUBENMANN) che quei me- tamorfismi sono eccezionali, che non accompagnano tutta la periferia delle rocce ritenute generatrici del metamorfismo, e che queste stesse pure sovente sono metamorfosate. Ad esempio attorno al M. Capanne solo i giacimenti ad Ovest sono quasi completamente alterati; quivi prin- cipalmente appaiono le pegmatiti o filoni, possibilmente recenti, del granito; quivi trovasi la principale zona di alterazione dei ben cono- ‘sciuti filoni tormaliniferi accompagnati da formazione di zeoliti: perciò gli oppositori alla comune teoria attribuiscono quei metamorfismi all’a- zione temporanea, anche recente, ma ora cessata, di alcune di quelle acque termominerali che durano a manifestarsi in tutta la regione vul- canica toscana. Acque normali traversanti consimili rocce alcaline possono indurre le tenui modificazioni molecolari che più di frequente si osser- vano in vicinanza di rocce messe a posto da antichissimo tempo. Se- condo le leggi di van°tHorr e LE CHATELIER, sulle quali pur richiamò l’attenzione l’ARRHENIUS, l’acqua penetrata internamente aumenta il suo potere dissolvente dei silicati e di altri minerali in proporzioni grande- mente più rapide dell’aumento di temperatura; secondo van’T HoFF come secondo tuttii geologi l’azione dei tempi può supplire quella della temperatura. Tale è la lotta che si dibatte ora in Italia fra vulcanisti e pluto- nisti; lotta invero assai pacifica e che si va svolgendo gradatamente a ‘base di fatti. Fuori d’Italia non vi hanno contestazioni per i letti basaltici, ter- ziari, o più recenti i quali coprono amplissime superfici della terra, dalla Scozia all’ Islanda, nel Deckan ed in tanti altri luoghi, e che sono rite- nuti vulcanici. Appunto sui basalti della Scozia occidentale maggiormente si erano acuite in antico le gare fra Hurron e WERNER, fra Nettunisti e Plu- toniani. Gli uni li volevano formati da acque, altri riusciti poi presto vincitori, li ritenevano eruttivi. Il GrIKIE (1861, 1867) mostrava. che quei basalti insieme con quelli delle Firoe e dell'Islanda erano di origine subaerea e di età terziaria. 30 C. DE STEFANI Anche per altre formazioni diabasiche e simili, parecchi scienziati stranieri sono entrati nell'ordine d’idee manifestate da tempo per le rocce verdi italiane; così SLAVIK (1908) per le spiliti nel Precambriano fra Kladno e Klattau in Boemia; BraAuns (1889) ed i suoi discepoli per i diabasi e rocce concomitanti del Devoniano dell’Assia e del Nassau; cui si potrebbero aggiungere LoEvinson-LessIne (1888) per i diabasi dei dintorni dell’Onega in Russia, e BarROIS (1890) per i diabasi silu- riani del Finistére, i quali autori però non accennano a tufi coevi, come i precedenti. Anco per le peridotiti più o meno serpentinizzate e per le rocce verdi concomitanti fu notata la compagnia di basalti, p. es. nel Ken- tucky (KemP e Ross (1907) e l’alternanza frequentissima con diaspri a radiolarie, come nella nostra penisola e nelle stesse Alpi, presi forse nei Carpazi per Hornfelse, nella Coast-Range di California (HinpE 1894, Lawson e PaLacHE 1902) ed in tanti altri luoghi. I più seguitano però a ritenere diabasi e serpentine come rocce plutoniche non effusive. Solo in Inghilterra, per opera di GEIKIE e dei suoi contemporanei e seguaci, si ha una decisa tendenza a ritenere, sempre più, molte rocce, anche acide, dai tempi più antichi in poi, come manifestazioni di vul- canicità effusiva, a scapito della plutonicità interna; la quale però è ammessa in ampia scala, anche all'infuori dei filoni e delle apofisi che originarono le rocce considerate. Bisogna ripetere che nei vulcani attuali le lave quanto più son ba- siche tanto più si diffondono, mentre quelle acide formano più alte ed incomparabilmente meno ampie masse. Lo stesso deve essere avvenuto in passato; or quando avviene di trovare nei terreni più o meno an- tichi tali masse delle rocce più acide, coperte per l’ andare dei tempi da alti mantelli di rocce sedimentarie e spostate insieme con queste, prevale la tendenza a ritenere che mai abbiano raggiunto la superficie terrestre. A questo eccesso, cui meno si è giunti, come dicevo, in Italia ed in Inghilterra, contribuiscono idee tradizionali e non ancora del tutto spente delle vecchie scuole dei crateri di sollevamento di von BucH in Germania e del rèseau pentagonal di ELIiE De BeAUMONT in Francia, scuole ambedue che, per opera del LyELL, meno profondamente attecchirono nei due primi paesi. Negli Stati Uniti d’ America, donde la scienza geologica protende lussuriosissimi rami, GiLBERT propose il nome di /accolitî per masse cristalline consolidate a profondità, che senza venire alla superficie si v * e a - fate e i ve Sea RP da reo AREE de @ ts ° LA GEOLOGIA ENDODINAMICA IN ITALIA NELL’ULTIMO CINQUANTENNIO 31 sono intruse in mezzo agli strati sedimentari posando sopra quelli in- feriori e sollevando quelli sopra a mo’ di cupola. EÉ in sostanza un ri- torno larvato ai craterì di sollevamento. L'idea ha avuto ed ha largo — seguito presso i geologi americani (PEALE, HoLmes, EnpLICH, W. Cross, DaLy, WEED, ecc. ecc.); ma pure in Europa, e timidamente in Italia. REYER (1888) ed in Italia altri I’ hanno combattuta, non foss’altro perchè il supporre l’insinuazione della roccia eruttiva per amplissimi spazi fra due sottili pagine di roccia sedimentaria tenacemente saldata, contrasta coi più elementari assiomi della meccanica. Esaminando le descrizioni dei geologi americani si nota che le località da loro indicate sono costituite da rocce secondanti regolarmente le stra- tificazioni e non è facile sottrarsi all’idea che si tratti di antiche rocce vulcaniche effusive olocristalline per origine o per più o meno profonda metamorfosi. Il Surss nel suo magistrale lavoro ha tentato rafforzare queste ipotesi ripetendo gli esempi e adducendone di nuovi, che fareb- bero credere ad una connessione di luoghi, di tempo e di origine fra la impostatura (mise en place) delle rocce dette interne o plutoniche, _ e la effusione vulcanica. Però questi esempi sono suscettibili anche di interpretazioni diverse. Tale è lo stato odierno della questione. Il cinquantennio precedente al nostro si chiudeva con l’abbandono dell’ipotesi dei craterì dì solleva- mento di von Buc4Ò, e delle teorie catastrofiche in geologia ed in paleon- tologia di CuvieR (n. 1769, m. 1832), fondatore dell’ anatomia compa- rata, sostituite dalle teorie uniformitarie del LyELL e dal concetto di lenta trasformazione degli organismi del LAMARCK, poi del DARWIN, e nello stesso tempo si indeboliva l’idea collaterale del rèseau pentagonal di ÉLiE DE BEAUMONT (n. 1798, m. 1875) sostituita dai concetti rias- sunti da un altro maestro, il Surss. Il cinquantennio che ora termina sì chiude consegnando a quello successivo, dopo dibattiti ancora certa- mente lunghi e forse non definitivi, la risoluzione dei problemi relativi alle rocce intrusive di profondità, cioè, in sostanza al Plutonismo. Possa: l’Italia, in questi dibattiti, mantenersi, come quasi sempre avvenne nel passato, esente da feticismi e da influssi di una o di altra scuola, ed avere a solo maestro e guida il gran libro della natura. Quasi allo stesso punto di prima è rimasta la questione dell’origine degli schisti cristallini; chi li ritiene, coi gneiss e coi graniti, residui della primitiva superficie del pianeta (DAUBREE, RoTH, ZIRKEL per una parte dei gneiss, LEHMANN), senza però ben mettersi d’accordo sulla regione 32 C. DE STEFANI nella quale apparirebbero le rocce più antiche della terra ; chi prodotti di eruzioni vulcaniche, specialmente se si tratti di gmeiîss (DARWIN, Corta, NAUMANN), per lo meno tufi vulcanici; ma i più oramai li riten- gono rocce sedimentarie alterate per metamorfismo (StERRY-HunT, DE- LESSE, ZIRKEL, E. FucHs, LePsIius, VAN HISE, ecc.) considerando che pa- recchie rocce fossilifere, anche mesozoiche, cominciano a mostrare la for- mazione di minerali autigeni svariati, che aumentando . poco a poco di dimensioni finiranno per produrre una roccia completamente macrocristal- lina. Questa ipotesi anzi ha condotto la massima parte dei geologi italiani e stranieri, che si sono occupati delle Alpi Occidentali, a ritenere appar- tenenti al secondario superiore schisti cristallini che ivi, come tuttora altrove, si ritenevano prima antichissimi (FRANCHI, STELLA, NOVARESE, SCHARDT, SCHMIDT, TERMIER, Luceon, MAURY, Surss, HEIM, TARAMELLI). Si contano sulle dita quelli che hanno opinione diversa (GASTALDI, BARETTI, ZACCAGNA, MATTIROLO). In aggiunta alle altre circostanze già stabilite, che possono portare la trasformazione di rocce sedimentari d’origine clastica, il LosseN (1867) propose il dinamometamorfismo cioè le dislocazioni e la pressione per semplice via secca. Questa teorica, con lievi modificazioni, entrò per un certo tempo nell’uso comune: però lo ZirkeL, il RosENBUSCH, il WEIN- SCHENK e specialmente i geologi francesi non la accettarono, ed in verità, riassumendo tutte le più recenti osservazioni sperimentali e gli studi fisici sull’infuenza della pressione nel sollecitare o nel ritardare i feno- meni fisici-chimici si vede che quella resta immensamente all’indietro dell’ influenza della temperatura, con che si accordano pure gli sperimenti dello SPEZIA (1905-1911). Con l'aumentare poi della temperatura aumenta in modo estremamente rapido l’azione chimica dell’acqua, talchè sorge la convinzione che il metamorfismo di rocce, eventualmente anche recenti, sia dovuto all’azione delle acque, variabile secondo le temperature e secondo i materiali costituenti le rocce attigue traversate dalle acque Stesse. In Italia durò una interessante questione tra VIoLA e SPEZIA poichè il primo riteneva che tra due sostanze di composizione diversa potes- sero avvenire trasformazioni molecolari per via secca, per semplice con- tatto; mentre lo SPEZIA osserva che è necessaria la presenza di acqua. Lo studio sui metamorfismi riassunto ed esposto sotto nuove forme in un recente lavoro del Van Hise ha messo in luce vari fatti relativi alle variazioni di volume, spesso notevoli, che risentono minerali e rocce a LA GEOLOGIA ENDODINAMICA IN ITALIA NELL'’ULTIMO CINQUANTENNIO 39 nel trasformarsi: ancora non furono determinate le calorie che in quelle trasformazioni si emettono o si consumano, secondo che i fenomeni chi. mici relativi sono esotermici o endotermici. Però vari studi di BERTHELOT, Le CHATELIER (1893), TAMMANN (1903), segnano un buon avviamento alla risoluzione di questo problema. Litologia. Delle attuali discussioni si risentono, come è naturale, tutti i trattati di Litologia, scienza maturata soltanto negli ultimi tempi nel nostro cinquantennio dopo l’estesa applicazione del microscopio, quantunque per la prima volta applicato dal SorBy nel 1850 allo studio di calcari se- dimentari. Col perfezionamento dei metodi microscopici andò di pari pauso quello dei metodi chimici, e rocce di ogni parte del mondo vennero man mann in grandissimo numero illustrate. Il primo trattato compr?n- sivo redatto con tali metodi veniva pubblicato dallo Z1IRKEL, dopo lunga serie di lavori preparatorii suoi e di altri nel 1873. Contemporaneamente appariva il primo volume dell’opera del RosENBt scH, condotta con gli stessi metodi, ma con deduzioni diverse sulla classificazione e sulla ge- nesi delle rocce. Con questi due lavori la Germania è stata per molti anni a Lapo della scienza litologica, come avviene in quasi tutti gli studi che richie- dano accurata analisi e minuta osservazione dei fatti. _ Im Francia, dove i metodi ottici ebbero profondissimi studi, sono seguiti di preferenza i concetti riassunti nel 1879 dal trattato di Fou- quì e MicgHEL-LÉvy seguiti pure da alcuni dei nostri italiani che in Francia studiarono (SABATINI), ma nemmeno più da tutti i francesi. L° Inghilterra ma specialmente l’Italia, anche in questo sorelle, tennero dietro a quelli studi con ritardo, sebbene anche da noi, per tempo, si avessero le illustra- zioni del Cossa. Però il tempo perduto è stato da noi degnamente riacqui- stato coi lavori di ALOISI, ARTINI, MANASSE, SABATINI, A. D’ACHIARDI, che scrisse pure una Guida al corso di litologia (1888) G. D’ACHIARDI, MicLLosevica, MARTELLI, FANTAPPIÈ, SERRA, BeRTOLIO, Riva, MADDALENA, CoLomBa, RoccatI, Rosati, SPEZIA, STRUEVER, ecc. La classificazione delle rocce è venuta formandosi poco a poco te- ‘nendo a base principalmente criteri mineralogici, cioè con carattere qua- litativo, e moltiplicando i nomi delle varie specie man mano che la co- Se. Nat. Vol., XXVIII 3 34 C. DE STEFANI enizione mineralogica progrediva, pur non trascurando le età geologiche ed i modi di formazione, coerentemente alle idee del tempo. Della com- posizione chimica tengono conto bensì le ultime edizioni dei sopra citati lavori di ZiRKEL e di RosENBUSCH; ma ai principali litologi americani (Cross, InppIinGs, Prrsson e WASHINGTON) progrediti in suolo vergine senza influsso di scuole locali, ma traendo il meglio delle scuole europee, è sembrato che troppo piccola importanza fosse «data alla composizione chimica del magma e, contribuendo con accuratissime analisi alla miglior conoscenza dei materiali terrestri, hanno d’accordo proposto una nuova classificazione svolta poi in un trattato dell’ Ippines, che in opposi- zione all’altra essi dicono quantitativa e che fondano sulla composi- zione chimica ritenuta qualità inerente al magma primitivo. Ciò però non basta a conoscere le trasformazioni che il magma può risentire lungo la via d’uscita, e che risente poi ne’ tempi, sicchè la composi- zione chimica primitiva, che era intendimento arrivare a conoscere, resta ugualmente indeterminata; mentre poi vedonsi dagli Americani spesso determinate come unica specie rocce aventi per avventura composizione chimica eguale, ma costituzione mineralogica costantemente diversa, cosa non priva d'importanza. Inoltre si è avuto uno sbriciolamento di specie che naturalmente accenna ad aumentare in modo indefinito ad ogni nuova analisi chimica, e per raffigurare i vari caratteri sostanziali e formali si riempiono le pagine con un' gergo tale che tende a renderle sempre più incomprensibili perfino a chi le ha scritte. Nè, quando essi vogliono determinare le età e il differenziarsi dei magma, si sottraggono a idee eventualmente preconcette e a difetti che imputano alle classificazioni qualitative. | L’innesto del sistema loro con quello di ZIRKEL e di ROoSENBUSCH, adottato con varie seplificazioni, è forse destinato a trionfare. Se la Litologia ha reso imcomparabili servigi nel mostrare l’origine eruttiva di rocce precedentemente dette nettuniane, però non solo alla Litologia bensì ad una Stratigrafia bene studiata debbono essere subordinate le questioni relative all'emissione ed all’età delle rocce dette oggi intru- sive; o di profondità, o paleovulcaniche ed in sostanza plutoniche. Così pure dovrà essere perfezionato lo studio dei metamorfismi, pei quali rocce vulcaniche antiche identiche a quelle attuali debbono essersi tra- sformate in modo tale da parere completamente diverse. Orsa GIOTTO DAINELLI -3- NOTA PRELIMINARE SOPRA I GASTEROPODI EOCENICI DEL FRIULI — Altra volta, pubblicando in queste stesse Memorie un elenco di Lamellibranchi eocenici del Friuli !), spiegai Ja ragione di quella co- municazione di carattere preliminare, annunciandone come prossime altre simili. Con la presente infatti offro un elenco dei Gasteropodi dell’ Eocene della stessa regione il cui studio ho da alcun tempo con- dotto a termine, riserbandomi naturalmente di giustificare ed illustrare in altra sede le mie determinazioni paleontologiche. Le più vecchie citazioni di Gasteropodi eocenici del Friuli sono do- vute al CaruLLO ?) il quale credè di riconoscervi due nuove specie, ed al TomascHEcK *), al Pirona ‘), al CastELLI *), ed all’ Hauer °) che si limi- tarono quasi, allora, a semplici citazioni generiche. I primi riferimenti un po’ sicuri sono dovuti allo Zivic ‘) ed al TARAMELLI È). i) DAINELLI G. Nota preliminare sopra i Lamellibranchiati Eocenici del Friuli. Atti della Soc. tosc. di Sc. natur., Memorie, vol. XXV, 1909. ?) CatuLLO T. A. Catalogo delle specie organiche fossili raccolte nelle Alpi venete e donate al Gabinetto di Storia naturale dell’ Università di Padova. Pa- dova, 1842, pag. 21. 3) ToMASCHECK A. Bemerkungen iiber die geologischen Verhiiltnisse i Um- gebung von Gòrz, 1854, pag. 26. ‘) Pirona G. A. ira di mercurio a Poloneto presso Cividale del Friuli. Collettore dell’ Adige, n. 42, Verona, 1855, pag. 331. Lettere geologiche sul Friuli. Annotatore friulano, anno IV, Udine, 1856, pag. 4. Cenni geognostici sul Friuli. Ann. dell’Assoc. agraria friulana, IV, 1861, pag. 287. Cenni geognostici sul Friuli, in Ciconi. Udine e la sua provincia. Udine, 1862, pag. 16. 5) CASTELLI L. Escursioni sui Monti del Da Annotatore friulano, anno IV, Udine, 1856, pag. 335. 6) HaueR F. Fin geologischer Durchschnitt der Alpen von Passau bis Duino. Sitzungsber. der k. k. Akad. der Wissensch. Wien, Bd. XXV, 1857, par sot 7 Zivic G. Cenni sulla costituzione geologica del territorio di ‘’ormons, in Cumano. Vecchi ricordi cormonesi. Trieste, 1868, pag. 4. $) TARAMELLI T. Sopra alcuni Echinidi fossili cretacei e terziariù del Friuli. Atti del R. Istit. veneto di Sc. Lett. ed Arti, serie 32, vol. XIV, 1869, pag. 9. 36 | G. DAINELLI A quest’ultimo autore si deve però il primo elenco veramente ricco di Gasteropodi eocenici friulani !), comparso nel 1870; e di fronte al quale perde importanza quello, più ristretto, pubblicato assai anni dopo dal Prrona ?). Mentre, quasi contemporaneamente a questo, il MARI- NONI *) dava, in due sue brevi memorie, note di fossili relative a varie località della provincia. Poco di poi il TARAMELLI *) offriva un nuovo elenco, il quale però evidentemente non è frutto di ricerche nuove. Assai più recentemente il MARIANI °) pubblicava un catalogo di Ga- steropodi dell’ Eocene friulano, assai più ricco di specie che non fossero tutti i precedenti; valga però per esso la osservazione già altrove fatta ‘), che cioè quell’autore ebbe evidentemente visione di uno studio mano- scritto del MARINONI, del quale son ripetute le determinazioni, così le giuste come le errate. In periodo ancora più recente nuovi contributi, importanti e. su ma- teriale paleontologico nuovo, furono portati dal MARINELLI ‘) e dall’Op- PENHEIM 8), mentre al FABIANI °) son dovute notizie intorno ad una par- ticolare specie. | Per quanto, dunque, i Gasteropodi dell’ Eocene friulano fossero stati più volte oggetto di studio, non credo senza interesse anche il semplice elenco che faccio seguire nella presente nota. Infatti, di fronte alle 18 specie citate dal Prirona, 21 dall’OppenHEIM, 35 dal MARINELLI, 46 così 1) TARAMELLI T. Sulla formazione eocenica del Friuli. Atti dell’Acc. di Udine, 1867-68, Udine, 1870, pag. 42-43. ?) PiRoNA G. A. La provincia di Udine sotto l’aspetto storico naturale. Cro- naca del R. Liceo Stellini, 1875-76, Udine, 1877, pag. 46. . 3) MARINONI C. Di un lembo eocenico nelle falde settentrionali del Monte Plau- ris. Atti del R. Istituto veneto, ser. 58, III, 1877, pag. 14-15. Ulteriori osserva- zioni sull’ Eocene friulano. Atti della Soc. ital. di Sc. nat., XXI, 1878, pag. 3. 4) TARAMELLI T. Spiegazione della carta geologica del Friuli (Provincia di Udine). Pavia, 1881, pag. 102-103. 9) MARIANI E. Appunti sull’eocene e sulla creta nel Friuli orientale. Ann. del R. Istit. tecn. di Udine, serie 32, X, 1892, pag. 26-39. 8) DAINELLI G. Op. cit., pag. 4. 7) MARINELLI 0. Risultati sommari di uno studio geologico dei dintorni di Tarcento in Friuli. « In alto », VII, 1896, pag. 60-61. Descrizione geologica dei dintorni di Tarcento in Friuli. Pubblicaz. del R. Istit. di St. super. Firenze, XLIII, 1902, pag. 203-213. 8) OPPENHEIM P. Ueber alttertiire Faunen der vsterreichischen-ungarischen Monarchie. Beitr. zur Paleont. und Geol. Oesterr.-Ung. und des Orients, XIII, 1901, pag. 183-186. 9) FABIANI R. I molluschi eocenici del Monte Postale conservati nel Museo di Geologia della R. Università di Padova. Atti dell’Acc. scient. ven-trent-istr., II, 1905, pag. 150. aelninà ; odi de lati ì DI È E De i 4 NOTA PRELIMINARE SOPRA I GASTEROPODI EOCENICI DEL FRIULI Sy) dal TarameLLI che dal MARINONI, e 111 dal MARIANI, stanno le 243 da me riconosciute, le quali evidentemente, anche al semplice confronto del numero, segnano un notevole progresso. Il materiale .che io ho avuto in esame è ricchissimo, e, come altra volta accennai, consta, oltre che delle raccolte mie personali, di quelle del TarRAMELLI, del Prrona, del MARINONI, del TELLINI e del MARINELLI, tutti geologi, che allo studio del Friuli han rivolto la loro attività ope- rosa; non curai di avere in esame collezioni private, alcune anche assai note, giacchè non presentavano altrettanta ragione di fiducia. Co- munque gli esemplari da me studiati ammontano a ben 8082, oltre a molti che non ho creduto di determinare perchè troppo imperfettamente conservati, e ad altri, che, pur determinabili e determinati, sono di ignota provenienza, e quindi non figurano nel presente catalogo come non figureranno nella illustrazione definitiva della fauna in questione. Molte delle precedenti determinazioni ho creduto di dovere radical- mente cambiare, alcune anche nel genere, pochissime persino nella classe; di questi cambiamenti darò altrove giustificazione. Qui mi limi- terò a indicare quelle vecchie determinazioni che non hanno trovato riscontro nelle sinonimie delle singole specie da me studiate: Haliotis sp. !); Zrochus lucasanus Bronen., n. var. °); Trochus sp. 3); Turbo n. sp. prope serangularis SANDB. 4); Turbo cfr. Sandbergeri FucHs °); Turritella prope compta Dersu. 5); Sigaretus prope clathratus RecL. "); Natica se- miclausa Desa. 3); N. crassatina Lam. *); N. Josephinia Risso 1°); Ampul- laria sp.!!); Cerithium retusum n. sp. *°); C. conoideum Law. **); C. corru- gatum Bronen. 15); C. prope vulgatum Bronen. 15); C. prope semigranu- 1) MARINONI C. Di un lembo ecc., pag. 12. MARIANI E. Appunti sull’ eocene ecc., pag. 26. 2) MARIANI E. Op. cit., pag. 26. 3) MAKINELLI O. Tarcento, pag. 203. 4) MARINONI C. Di un lembo ecc., pag. 14. MARIANI E. Op. cit., pag. 26. 5) MARIANI E. Op. cit., pag. 26. 6) Ivi, pag. 28. “Ivi, pag. 28. 3) TARAMELLI T. Sulla /ormazione ecc., pag. 42. °) MARINONI C. Ulter. osservazioni, pag. 6. MARIANI E. Op. cit., pag: 28. 10) MARIANI E. Op. cit., pag. 30. 14) Ivi, pag. 30. Caruso T-0p.-cit.,- pag. 21. 13) TARAMELLI T. Sulla fo mazione, pag. 43. Pirona G. A. La provincia, pag. 46. 14) MARIANI E. Op, cit., pag. 30. 15) Ivi, pag. 30. DITER ETA TI PIO 38 i G. DAINELLI losum Lam. !); C. sp. 2); Triton sp. *); Fusus crispus Bors. *; Murex crispus Lam. °); Borsonia cfr. Deluci Nvsr *). Tutte queste determina- zioni si riferivano a fossili appartenenti a collezioni che io ho avuto in esame; nelle quali pertanto non ho trovato esemplari distinti con tali denominazioni nè che alle specie sopra indicate potessero riferirsi. Cerithium muricoides Lam., Marginella phaseolus BRONGN., Conus co- notruncus De GrEG. Queste tre citazioni sono dovute all’OpPENHEIM °), il cui materiale paleontologico io non ho avuto presente; però tra quello che ho avuto in istudio nessun esemplare ho potuto riferire a tali specie. Con ciò non intendo infirmare le tre determinazioni di questo diligente autore. Keilostoma cfr. minor DEsH. 3), Fusus sp. °), Voluta prope lyra Law. 19). Ho avuto in esame gli esemplari cui si riferivano queste tre citazioni, ma li ho dovuti riconoscere assolutamente indeterminabili anche -nel genere. Accennerò infine, come già feci altra volta, che volutamente non indico, in queste note preliminari, la precisa provenienza di ciascuna specie, affinchè non si possa da altri tentare una suddivisione in livelli la quale, a studio incompiuto e senza la considerazione dell’elemento stratigrafico, ritengo prematura. Dopo di che faccio seguire senz’altro l’elenco delle specie determinate, con la descrizione di quelle che io ho ritenute per nuove. 1. Patella n. sp. Conchiglia di piccole dimensioni, ovale, abbastanza elevata; l’apice è spostato in avanti ed ottuso. La ornamentazione consiste in finissime costoline concentriche, le quali crescono di dimensioni dall’apice alla pe- riferia; in questo senso si modifica anche un poco il loro aspetto, giac- chè da prima sono ottuse, poi divengono acute e quasi lamelliformi, 1) MARINELLI 0. Tarcento, pag. 2) MARINONI E. Di un lembo, pag. 14; Ulter. osservaz., pag. 3-12. MARINELLI O. Tarcento, pag. | 3) MARINELLI E. Tarcento, pag. A 4) MARINONI C. Ulter. osserv., pag. 10. MARIANI E. Op. cît., pag. 34. °) MARINONI C. Ulter. osserv., pag. 10. MARIANI E. Op. cit., pag. 36. 6) MARIANI E. Op. cît., pag. 38. 7) OPPENHEIM P. Op. cit., pag. 184-186. 3) MARINONI C. Ulter. osserv., pag. 3. MARIANI E. Op. cît., pag. 30. °) MARINONI C. Ulter. osserv., pag. 3. 1°) MARINONI C. Di un lembo, pag. 14. MARIANI E. Op. cit., pag. 36. NOTA PRELIMINARE SOPRA I GASTEROPODI EOCENICI DEL FRIULI 39 sempre però assai piccole: presso il bordo se ne contano da 5 a 6 nello spazio di un millimetro. Questa ornamentazione concentrica è poi inter- secata da delle finissime strie radiali. Altezza mm. 6: diametro massimo mm. 11; diametro minimo mm. 8, 5. Le maggiori analogie sono con la Patella centralis Desa. — Esem- plari esaminati 3. 2. Pleurotomaria ctr. concava Desa. — Esempl. 2. 3 e = cfr. dalmatina Dan. — Esempl. 1. 4. Trochus cfr. Castellinii Fucns. — Esempl. 3. 5. Turbo cfr. plebetus Fucas. — Esempl. 1. 6. -- —(Senectus) n. sp. Conchiglia di mediocri dimensioni, di aspetto elegante, turbiforme, abbastanza globulosa, poco elevata; consta di 4 anfratti visibili, arro- tondati, convessi, disgiunti da una sutura lineare, diritta, abbastanza in- clinata sull’asse della conchiglia, non molto infossata. L'ultimo giro è assai più sviluppato dei precedenti, ed uniformemente rigonfio, tanto che nessun cambiamento nella curvatura limita la sua superficie supe- riore dalla base. Questa è assai convessa; l'apertura è subrotonda, ab- bastanza grande, leggermente obliqua sull’asse della conchiglia; il lab- bro esterno è sottile, il labbro interno è inferiormente appena un poco ispessito, e aderente ad esso si può osservare traccia d’un principio di fessura ombilicare lineare. La ornamentazione consiste in tre serie lon- gitudinali di tubercoletti ben individualizzati ed elevati, ma di piccolo diametro; nell’ultimo anfratto, alternanti con queste serie principali se ne insinuano altre in tutto simili ma di dimensioni molto più piccole; nella base si ripete questa ornamentazione, ma senza una marcata al- ternanza e con dimensioni in generale minori. Altezza mm. 11,5; dia- metro massimo mm. 10. Le maggiori analogie sono con il Turbo PFuciniù Vin. — Esempl. 1. 7. Collonia (Parviroia) n. sp. Conchiglia di piccole dimensioni, di forma subdiscoidale, composta di 3 o 4 anfratti crescenti abbastanza rapidamente in diametro, poco in altezza; la loro superficie superiore costituisce un insieme convesso presso a poco come la base, mentre l’ultimo di essi lateralmente forma una specie di carena subangolosa; la sutura è lineare, poco marcata. La ornamentazione consiste in grosse coste ottuse, radiali cioè tra- 40 — —. DAINELLI sverse, le quali non sono diritte, ma curvilinee ed inclinate dall’avanti all’indietro se si considerano nel loro decorso dal centro alla periferia; di esse se ne contano 12 nell’ ultimo giro; quelle dei giri precedenti sono attenuate e non tutte visibili. Così sulla periferia appaiono pure attenuate, e sulla superficie inferiore non ve ne è che tracce assai lievi. La base è convessa, largamente e profondamente ombilicata; l’ombilico appare eccentrico. La bocca è piuttosto grande. Altezza mm. 6; diame- tro massimo mm. 11,5. Le maggiori analogie sono con la Collonia Pissarroì Cossm. — Esem- plare 1. » 8. Collonia (Cirsochilus) n. sp. Conchiglia di discrete dimensioni, turbinoide, globulosa, solida, ottusa superiormente, composta di 5 anfratti assai convessi, crescenti rapida- mente, separati da una sutura diritta, lineare, poco incassata, poco in- clinata sull’asse della conchiglia. L'ultimo giro è grande, globuloso, alto presso a poco quanto la spira; esso si restringe appena un poco prima dell'apertura boccale. La base, per quanto convessa, si presenta nel- l'insieme un poco depressa: essa è perforata da un ombilico non largo ma assai profondo. L'apertura non è grande, subrotonda, un poco obliqua sull’asse della conchiglia; il labbro interno appare ispessito. La orna- mentazione consiste in coste longitudinali abbastanza numerose (7 nel penultimo anfratto), poco rilevate, piuttosto larghe, arrotondate, e non intere ma come granulose; ad esse si aggiunge come ornamentazione secondaria una finissima striatura pure longitudinale, che però lascia libera la sommità delle coste. Questi ornamenti cessano al limite esterno dell’ ultimo anfratto; la base è completamente liscia, e mostra soltanto, qua e là, una fine striatura trasversa dovuta alle strie di accrescimento. Altezza mm. 22; diametro massimo mm. 26. Analogie si possono trovare con la Collonia grignonensis DESH. e con la C. obsoleta Cossu. — Esempl. 2. ‘9. Liotia decipiens Bay. — Esempl. 4. 10. >» Warnt Derr.— Esempl. 2. 11. Tinostoma (Megatyloma) Canavarit Vin. — Esempl. 1. 12. Delphinula calcar Lam. — Esempl. 3. BS _ Regleyi Desa. — Esempl. 6. 4. = l. sp. ; x Và PI | NOTA PRELIMINARE SOPRA I GASTEROPODI EOCENICI DEL FRIULI 41 Conchiglia di dimensioni relativamente grandi, di forma subdiscoide, essendo superiormente quasi depressa; la spira si allarga negli ultimi «anfratti assai più rapidamente che nei primi; la sutura è evidente, perchè sempre un poco infossata. L'ultimo anfratto porta lateralmente una espansione a guisa di carena non molto sporgente, piuttosto sottile, e rotta in rade e grosse spine a larga base; non vi è traccia che essa si continui negli anfratti precedenti, ma ciò può dipendere dall’ imper- fetto stato di conservazione dei fossili. La superficie superiore dei giri porta presso a poco nella sua linea mediana una serie longitudinale di grossi tubercoli, a base circolare, ottusi alla sommità, ben definiti e ri- levati; in uno dei miei esemplari, che appare più adulto degli altri, essi hanno perso alquanto la loro forma netta, per apparire più irregolari e più espansi in senso trasverso alla spira. Si scorgono traccie anche di sottili coste spirali. La superficie inferiore dell’ultimo anfratto è molto convessa, e limita un ombilico largo e profondo; è adorna da coste spi- rali, ben nette ma non molto rilevate, fornite di tanti piccoli tuberco- letti; di esse le più esterne sono anche le più grosse e le più pronun- ciate, come pure le più distanti l’una dall’altra; tra la carena laterale ed il culmine della convessità inferiore dell’anfratto se ne contano quat- tro. Altezza mm. 15; diametro massimo mm. 33. i Le maggiori analogie sono con la Delphinula Regleyi Desa. — Esem- plari 3. 15. Delphinula cfr. lima Law. — Esempl. 1. 16. Calliomphalus (?) sp. — Esempl. 4. 17. Trochus Saemanni Bay.- Esempl. 4. 18. — Renevieri Fucns. — Esempl. 1. 19. — n.sp. MARINELLI. Conchiglia conica, acuminata alla sommità, dilatata alla base; essa è costituita di almeno 8 anfratti rapidamente crescenti in diametro ma non in altezza, onde ne deriva la caratteristica forma generale, cioè di cono largamente imbasato e dal profilo laterale leggermente inflesso. La sutura è lineare, diritta, poco inclinata sull'asse della conchiglia, punto infossata, malamente riconoscibile per la uniformità degli orna- menti che ricoprono tutta la conchiglia. Essi consistono in serie longi- tudinali di tubercoletti assai piccoli, che nei primi anfratti si riducono a granulazioni via via sempre più fini; nei giri precedenti all’ultimo si. contano 6 di queste serie, assai fitte e addossate luna all’altra, non 492 G. DAINELLI tutte ugualmente sviluppate, ma senza che appaia alcun regolare ricor- rere di serie a granuli più grossi o più fini; soltanto presso la sutura anteriore pare si abbiano realmente sempre tubercoletti un poco più grandi e trasversalmente come sdoppiati. L'ultimo anfratto è limitato, verso la base, da un angolo assai acuto; su di esso, come pure sulla base, si ripete la solita ornamentazione, ma con la differenza che le serie longitudinali sono più distanti l'una dall’altra ed i loro tuberco- letti più marcati. La base è imperforata, alquanto concava; l’apertura è stretta, allungata; il labbro esterno sottile ed obliquo; la columella alquanto ritorta. Altezza mm. 26; diametro massimo mm. 33,5. Analogie sono con il Zrochus mitratus DESH. e con il Tr. Saemanni Bay. — Esempl. 5. 20. Calliostoma subnovatum Bay. — Esempl. 2. 20, _ abavum Mav.-Evm. Esempl. 4. 22. i leoninum Orp. — Esempl. 1. 23. — n. Sp. Conchiglia di mediocri dimensioni, turrita, trochiforme, acuminata alla sommità. Essa è composta di circa 8 anfratti, lentamente crescenti in larghezza, a superficie lateralmente quasi diritta salvo in alcuni vec- chi individui, nei quali si accentua il rilievo degli ornamenti ed il pro- filo della conchiglia appare scalariforme. La sutura è netta, abbastanza inclinata sull'asse della conchiglia, leggermente infossata. La ornamen- tazione principale consiste in una serie longitudinale di tubercoli posta. presso la sutura anteriore di ciascun anfratto; essi sono generalmente ben rilevati, grossi e robusti in specie avendo riguardo alle proporzioni della conchiglia; sono allungati trasversalmente, sì da occupare circa 1 due terzi dell’altezza anfrattuale; nel senso però della loro lunghezza non appaiono paralleli all’asse della conchiglia, ma più o meno inclinati dal basso in alto e dall’avanti all'indietro rispetto alla bocca dell’ani- male. Raramente questi tubercoli mostrano una costante e regolare ri- levatezza per quanto son lunghi; più spesso verso la metà sono at- tenuati; qualche volta una specie di solco filiforme longitudinale sem- bra quasi dividerli, non però fino alla base; talora anche una infossa- tura, pure longitudinale, più marcata e più larga, tende a sdoppiarli. La parte degli anfratti non occupata da questa serie di caratteristici tubercoli allungati, costituisce come una fascia longitudinale un po’ più depressa; quando quei primi sono più sviluppati, allora appunto il pro- tale ” ue NOTA PRELIMINARE SOPRA I GASTEROPODI EOCENICI DEL FRIULI 43 filo della conchiglia diviene alquanto scalariforme. La fascia comprende ancora due serie di ornamenti: una prima è data da delle finissime - pieghettature oblique, e piuttosto irregolari nella loro disposizione; una Re e * seconda da dei tubercoletti a sezione all’ ingrosso circolare, più rilevati delle pieghettature, e situati proprio a ridosso della sutura posteriore di ciascun anfratto. Anzi, siccome spesso si riscontra una perfetta cor- rispondenza tra questi tubercoli e quelli allungati del giro precedente, così a prima vista pare che la sutura decorra lungo la serie, più de- pressa, delle pieghettature. Nei primi anfratti questa ornamentazione è assai attenuata, prevalendo, però assai meno allungati, i tubercoli an- teriori; allora la rimanente superficie presenta una fine e fitta striatura longitudinale. La base è liscia; essa continua con la sua superficie la inclinazione della spira; trasversalmente, tra la periferia ed il centro, è un poco convessa. Manca l’ombilico; l'inserzione del labbro esterno è superiore alla columella, che è semplice; la bocca è ovale, e la sua apertura assai inclinata sull’asse della conchiglia. Altezza mm. 11-15; diametro massimo mm. 7,5-9. Analogie sono col Trochus crenularis Lam. — Esempl. 14. 24. Calliostoma n. sp. . Conchiglia conica, assai allungata, composta di 9 anfratti. Questi hanno una sezione trasversa quadrangolare, col profilo esterno rettilineo, salvo una leggera concavità che si osserva nel senso della spira in vi- cinanza della sutura posteriore. La sutura è lineare, diritta, poco in- clinata sull’asse della conchiglia. La ornamentazione consiste in una serie di tubercoli posti a ridosso della sutura anteriore; essi sono assai rilevati ed acuminati a guisa di aculei, ed hanno una base ben netta, all'ingrosso circolare; soltanto a ciascuno di essi fa seguito, verso la sutura posteriore, una linea di leggero rialzo della superficie dell’anfratto; nell’ ultimo giro se ne contano 9. La base, per la sporgenza di tali tubercoli, appare bellamente stellata; essa è leggermente convessa, e adorna di una tenve striatura spirale; non vi è traccia che questa si ripeta sulla superficie esterna degli anfratti. La bocca è piccola ed ovale. Altezza mm. 13; diametro massimo mm. 8, 5. Le maggiori analogie sono con il Calliostoma Husteri Orp. — Esem- plare 1. 25. Gibbula (Monilea) parnensis Bay. — Esempl. 1. x 44 G. DAINELLI 26. Gibbula (Phorculus) sulcata Lam. — Esempl. 4. 27. Clanculus Tellinit MaRINELLI. — Esempl. 3. 28. —_ n. Sp. # Conchiglia di piccole dimensioni, assai poco elevata, turbinata, sub- globulosa, superiormente ottusa. Consta di 4 anfratti visibili, a rapido accrescimento così nell’altezza come nel diametro; essi sono un poco con- vessi, separati da una sutura lineare, diritta, poco inclinata sull’asse della conchiglia, infossata, anzi tra l’ultimo ed il penultimo anfratto un po” canalicolata. L'ultimo giro non ha lateralmente un limite netto verso la base, ma si presenta regolarmente convesso; un po’ più depresso è invece nella base, la quale presenta al centro un ombilico, non comple- tamente visibile perchè in parte coperto di roccia, ma supponibilmente profondo. L'apertura non è conservata per intero; doveva essere grande, subcircolare. La ornamentazione consiste in coste longitudinali, in numero . di 4 o 5 negli anfratti precedenti all’ ultimo, ben nette, non larghe, ri- levate, disgiunte da solchi spaziosi, e intersecate regolarmente da coste trasverse, le quali determinano un rilievo a reticolato uniforme; soltanto. nell’ ultimo giro e specialmente in prossimità dell’apertura, nei punti d’inerocio delle coste longitudinali e trasverse si ha un rilievo maggiore a guisa di piccolissime spine. La stessa ornamentazione si ripete sulla base; qui però, in corrispondenza della linea di massima convessità, vi è una costa spirale un po’ più rilevata delle altre e non come queste netta e stretta; essa simula un po’ una carena. Altezza mm. 7; diame- tro massimo mm. 8. Le maggiori analogie sono col il Clanculus Ozennei Crosse. — Esem- plare 1. 29. Boutillieria modesta Fucus. — Esempl. 1. 30. Monodonta n. sp. | Conchiglia conica, spessa, globulosa; gli anfratti sono arrotondati, convessi, disgiunti da una sutura lineare, netta, poco inclinata sull’asse della conchiglia, incavata ma non infossata; l’ultimo giro è assai più sviluppato dei precedenti. I caratteri della base rimangono sconosciuti perchè essa non è conservata. Gli ornamenti consistono in coste longi- tudinali, ben nette ed abbastanza rilevate, disgiunte da solchi piuttosto profondi e larghi un poco più di quanto esse non sieno. Le coste però non sono intere, ima resultano dalla successione di tanti granuletti cir- NOTA PRELIMINARE SOPRA I GASTEROPODI EOCENICI DEL FRIULI 45 colari, regolari ed uniformi; la costa posteriore di ciascun anfratto è più larga e rilevata delle altre, ed in proporzione sono più grandi i _ tubercoletti che la costituiscono. Altezza mm. 17; diametro massimo mm. 16. Analogie sono con la Monodonta Zignoi Bar. e con la M. parisien- sis DesH. — Esempl. 2. 31. Nerita tricarinata Lam. — Esempl. 1. 32. — (Peloronta) circumvallata Bar. — Esempl. 1. 33. — — Cumani Marinoni. — Esempl. 3. 34. Velates Schmidelianus Cuemn. — Esempl. 54. 35. Neritopsis pustulosa BeLr. — Esempl. 6. 30. = parisiensis Desa. ? — Esempl. 4. 3‘. Solarium n. sp. Conchiglia di piccole dimensioni, a contorno circolare, a forma di- scoide, a spira pochissimo elevata ed ottusa, consistente di 5 anfratti, separati da una sutura lineare, regolarmente curvilinea, poco infossata e poco discernibile ad occhio nudo. La ornamentazione è assai fine e graziosa e dà nell'insieme un bell’aspetto alla conchiglia; essa consiste di quattro coste longitudinali, cioè nel senso della spira. Di esse la maggiore, quella che risalta a prima vista sulle altre, si trova addos- sata alla sutura posteriore degli anfratti; è più larga e più rilevata delle altre e divisa in tanti cingoletti allungati trasversalmente. Lo stesso carattere presentano le due coste successive, per quanto con di- mensioni in tutto assai minori, sì che 1 cingoletti trasversi resultano assai più fitti e numerosi; e lo stesso carattere ancora si ritrova nella quarta costa, nella quale però le dimensioni sono intermedie tra quelle che si osservano nella prima e quelle della seconda e della terza. Tra la quarta costa e la sutura anteriore si osserva una fascia longitudi- nale concava, assai stretta e relativamente infossata; sul suo fondo, specialmente nell’ultimo anfratto, si osservano delle finissime granula- zioni tendenti a disporsi in serie spirale. L’ultimo giro è limitato late- ralmente da una fascia perimetrale suddivisa nel solito modo in cingoli allungati. La base è abbastanza concava; nel centro ha un ombilico ampiamente aperto e profondo. La ornamentazione consiste in tre delle solite coste, non molto grandi, che si seguono tra la fascia perimetrale ed il massimo rilievo della superficie inferiore dell’ultimo anfratto; di qui verso il centro dell’ombilico, con disposizione spirale si osservano I AME 0A STO Mo 3 Vga, gl SUIT I FRA LO Da 46 G. DAINELLI altre coste, più rilevate di quelle tre prime e di queste più rade, incise trasversalmente in guisa da assumere l’apparenza di serie di scaglie ab- bastanza prominenti ed acute; con queste coste alternano regolarmente delle serie di fini granulazioni. Altezza mm. 3; diametro massimo mm. 11. Analogie si hanno col Solarium hortense Opp. — Esempl. 2. 38. Scalaria (Crisposcala) cfr. Barrandei Desa. — Esempl. 1. 39. Turritella imbricataria Lam. — Esempl. 31. 40. —_ carinifera Desa. — Esempl. 81. 41. _ subcarinifera Donc. — Esempl. 17. 42. _ gradataeformis Orp. — Esempl. 12. Me _ trempina Carez. — Esempl. 32. 44, _ n. Sp. Un solo esemplare, non completamente conservato, ma con assai chiari i suoi caratteri ornamentali. Conchiglia comprendente, nell’indi- viduo che abbiamo come frammento, 6 anfratti: è di mediocri dimen- sioni, ha la spira abbastanza inclinata sull’asse, ma lentamente crescente. tanto che l’aspetto generale è subcilindrico piuttosto che evidentemente conico. La sutura è lineare, infossata; gli anfratti in sezione trasversa paiono convessi, ma pianeggianti verso la loro linea mediana. La orna- mentazione consiste in quattro cingoli longitudinali, abbastanza rilevati, acuti, apparentemente interi; ad essi ne segue, verso la sutura poste- riore, un quinto assai più sottile. Analogie sono con la Turriîtella circumdata Desa. — Esempl. 1. 45. Turritella cfr. incisa Bronan. — Esempl. 10. 46. — cfr. Custugensis Donc. — Esempl. 91. 47. Mesalia fasciata Lam. — Esempl. 9. 48. — Duval Rovaver. — Esempl. 2. 49. Discovermetulus Pissarroi Rov. — Esempl. 4. 50. Burtinella Zitteli Rov. — Esempl. 3. DI. - spirintorta Rov. — Esempl. 16. 52. Tubulostium spirulaeum Lam. — Esempl. 197. DI: _ euganeum Rov. — Esempl. 40. i pseudospirulacum Opp. — Esempl. 2. 55. Vermetus exagonus RovauLT. — Esempl. 1. 56. - polygonus DesH. n. var. — Esempl. 6. 5‘. Tenagodes costellatus TarameLLI. — Esempl. 1. 58. Xenophora cumulans Bronewn. — Esempl. 2. » ce NOTA PRELIMINARE SOPRA I GASTEROPODI EOCENICI DEL FRIULI 47 59. Xenophora (Tugurium) agglutinans Lam. — Esempl. 1. 60. Hipponix dilatatus Lam. — Esempl. 1. 61. -— opercularis Desa. — Esempl. 1. 62. Natica Qweniì D’Arca. — Esempl. 17. 63. — debilis Bay. — Esempl. 8. 64. — epiglottina Lam.? — Esempl. 1. 65. — (Cepatia) cepacea Law. — Esempl. 24. Dogi = n. Sp. Conchiglia di mediocri dimensioni, rotelliforme, pianeggiante nella parte superiore, dove soltanto i primi anfratti si rilevano come picco- lissimo cono, non rigonfia nè globosa nemmeno nella superficie inferiore. La spira è assai corta, e costituita da 5 anfratti, dei quali i primi tre sono assai stretti, ma ad accrescimento discreto, onde ne deriva quella forma di piccolo cono emergente dal centro della superficie superiore; il quarto anfratto appare più largo, ma provvisto di accrescimento mi- nore; l’ultimo, il più sviluppato di tutti, mantiene la sua superficie supe- riore a livello di quella del precedente, lateralmente è arrotondato; suo carattere principale è una netta angolosità che si trova al limite tra la sua superficie superiore e quella laterale, decorre così parallelamente alla sutura e si vede continuare per tutto l’anfratto precedente. La su- tura è lineare ed un poco incavata. L'apertura è di mediocre grandezza, di forma abbastanza regolarmente ovale, soltanto un po’ ristretta in alto. Una ampia callosità ricopre tutta quanta la regione ombilicale. Al- tezza mm. 17; diametro massimo mm. 21.—- Esempl. 2. 67. Natica (Ampullina) hybrida Lam. — Esempl. 37. (CC 6 2a — sigaretina Lam. — Esempl. 31. board — = Suessoniensis D’OrB. — Esempl. 18. 00 — — sphaerica Desa. — Esempl. 71. TSE — forojuliensis MarIinELLI. — Bsempl. 17. 02. — _ parisiensis D’Org. — Esempl. 106. n 73. — — acuminata Lam. — Esempl. 17. dda, — — similis Opp. — Esempl. 6. Mon e Vulcani Bronen. — Esempl. 49. (60. — = — var. hortensis Bay. — Esempl. 1. ml. — n. sp. MarineLLI. — Esempl. 9. 18. — — patulina Mun.-CnaLm. — Esempl. 29. (9. — — cochlearis Hantk. — Esempl. 3. 80, — - incompleta Zirr. — Esempl. 4. CETRA A TOSSE Vago Sa DIE, NI 48 G. DAINELLI 81. — (Crommium) Willemet Desa. — Esempl. 1. 82. — i n. Sp: Conchiglia di mediocri dimensioni, di forma allungata, poco rigonfia, robusta, costituita di 6 anfratti. La spira è abbastanza elevata, ed equi- vale a qualcosa più di un terzo dell’altezza totale della conchiglia; la parte superiore di questa appare slanciata, conica, accuminata, regolare nello sviluppo degli anfratti, scalariforme. I primi cinque anfratti, se- parati da suture lineari e ben nette, presentano superiormente un me- plata che in alcuni esemplari appare assai sviluppato, lateralmente sono poco convessi; solo in alcui individui aumenta la convessità degli an- fratti a detrimento dello sviluppo del meplata. L'ultimo anfratto è assal alto, misurando circa i quattro quinti dell’altezza totale della conchiglia ; è sui lati regolarmente convesso, ma non rigonfio. L'apertura non è molto grande, allungata, stretta, non molto obliqua rispetto all’asse della conchiglia, mentre a questo si mantiene parallelo il suo piano; è ap- puntita superiormente, appena un po’ slargata dalla parte opposta. Il labbro esterno è robusto. La fessura ombilicare è allungata e strettis- sima, ricoperta dal ripiegamento caratteristico del bordo columellare, che va ad unirsi in basso alla parte inferiore del bordo esterno. La superficie appare liscia, e fornita soltanto di sottilissime strie trasverse di accrescimento. Altezza mm. 39; diametro massimo mm. 29. Analogie si hanno con la Natica acutella Leym. — Esempl. 30. 83. Natica cfr. (Crommium) acuta Lan. — Esempl. 10. 84. — (Euspira) Possagnensis Opp. — Esempl. 6. 859. — (Amauropsella?) sp. — Esempl. 2. 86. — sp. — Esempl. 1. 87. Paludina sp. - Esempl. 2. 88. Diastoma costellatum Lam. — Esempl. 27. 89. Littorina postalensis Da GreG. — Esempl. 1. 90. —_ sp. — Esemp. 1. O1.-Eulma sp. — Esempl. 5. 92. Piramidella cfr. terebellata Lam. — Esempl. 1. 93. Odontostomia n. sp. Conchiglia di mediocri dimensioni, allungata, conica, turricolata, ot- tusa alla estremità superiore, completamente liscia. La spira consta di 7 anfratti, lentamente crescenti nel diametro, quasi insensibilmente con- MA PR RP rA Ford i NOTA PRELIMINARE SOPRA I GASTEROPODI EOCENICI DEL FRIULI 49 vessi, disgiunti da una sutura lineare, diritta, subcanalicolata, non molto inclinata sull’asse della conchiglia. L'ultimo anfratto è grande, ovalare, allungato, sorpassando di poco la metà dell’altezza totale; la base è im- perforata. La bocca è ovale, non grande, assai acuta all’estremità supe- riore, arrotondata a quella opposta; il suo piano è obliquo, ‘in basso e all’indietro, rispetto all’asse conchigliare. Il labbro esterno è sottile, ma non pare tagliente; si ispessisce in basso, e là dove sì unisce al bordo columellare la sua massima rigonfiezza dà luogo ad una piccola piega in senso spirale. Altezza inm. 14; diametro massimo mm. 5. Le maggiori analogie sono con la Odontostomia turbonilloides DESH. e con la O. derica FAB. — Esempl. 2. 94. Odontostomia sp. — Esempl. 1. 95. Bayania Stygis Bronan.? — Esempl. 1. 96. Faunus (Melanatria) vulcanicus ScuLora. — Esempl. 25. 97. = —. _ undosus Bronen. Esempl. — 20. 9Beo. — — Dufresnei Desa. — Esempl. 108. sd n auriculatus ScHLOTR., var. Hantkeni Muvn.- CÒaLm. — Esempl. 124. 100. Cyclostoma (Dissostoma) mumia Lam, — Esempl. 16. 101. Cerithium (?) Vernewili RovauLT. — Esempl. 19. 102. — (Bellardia?) gomphoceras Bay. — Esempl. 1. 103. — (Campanile) giganteum Law. -— Esempl. 14. 104. — _ Lachesis Bay. — Esempl. 237. 105. _ (Tiaracerithium) Hantkeni Muxn.-Cnarm. - Esempl. 254. 106. _ no Gravesi Desa. — Esempl. 2. 107. _ (Vulgocerithium) roncanum Broen. — Esempl. 1. 108. = _ (?) Dal Lagonis Opp. — Esempl. 2. 109. — (Ptychocerithium) lamellosum Brusa. - - Esempl. 12. 110. — _ Johannae Tourn. — Esempl. 5288. 111. S — n. Sp. Conchiglia di mediocri dimensioni, conica, allungata, talora un po’ ventricosa. Gli anfratti, numerosi (non più di 9 conservati), sono leg- germente convessi, disgiunti da una sutura lineare, ondulata, poco in- clinata sull’asse della conchiglia; di essi gli ultimi hanno un accresci- mento più rapido che i precedenti. I primi giri (fino al quartultimo ) hanno per ornamentazione delle coste trasverse abbastanza numerose (circa 13), strette, ben rilevate, un poco curvilinee ed oblique sull’asse Sc. Nat. Vol., XXVIII 4 50 G. DAINELLI della conchiglia, separate da solchi più larghi di quanto esse non sieno; tali costoline non sono intere, ma costituite, oltre che da un vero e proprio rilievo trasverso uniforme della superficie anfrattuale, special- mente da una serie di 4 o 5 barrette allungate spiralmente, che hanno per loro base tale rilievo trasverso. Queste barrette però non sono che porzioni più in risalto di altrettante strie spirali; anzi, nei solchi tra- sversi, si osservano delle strie spirali intermedie a queste prime, e di esse assai più fini. Negli ultimi tre anfratti, o poco più, la ornamen- tazione non è così uniforme. È conservata per tutta l’altezza anfrattuale la caratteristica alternanza di strie spirali di due diverse dimensioni; ma altri ornamenti tengono luogo delle semplici costoline trasverse dei primi anfratti. Già la superficie dei giri si può distinguere in due metà, una delle quali, la posteriore, appare più depressa dell’altra; in essa le due strie prossime alla sutura sì rilevano ad intervalli in barrette assai corte ma ben in risalto, che a prima vista sembrano costituire, due a due, dei turbercoletti più o meno irregolari: se ne contano da una ven- tina per giro, però tendono a divenire via via meno netti, fino a sparire, avvicinandosi all’apertura. La parte anteriore degli anfratti presenta in- vece 11 coste trasverse, le quali alla sutura anteriore cominciano assai poco rilevate, crescono poi via via in risalto, e terminano circa alla linea mediana degli anfratti stessi abbastanza prominenti ed acute, non però spiniformi. Di tali coste vi è solo traccia, spesso debolissima, nella metà posteriore degli anfratti. Sulla base si ripetono le strie spirali di due di- mensioni, ma più marcate; la base stessa è convessa; dalla parte opposta all'apertura vi è una varice trasversa molto ottusa Non è conservato il labbro esterno, ma l’ apertura è certamente piccola, subovale; il canale è corto e ristretto; la columella è scavata e ricurva, rivestita di callosità dal bordo alquanto rilevato sulla superficie dell’anfratto. Altezza mm. 40, diametro massimo, mm. 14. Le maggiori analogie sono con il Cerithium Depereti Donc.— Esempl. 6. 112, Cerithium (Ptychocerithium?) n. sp. Conchiglia di dimensioni piccole o mediocri, allungata, acuminata alla sommità; gli anfratti, circa 10, crescono lentamente nel diametro, sono abbastanza alti, alquanto convessi, un po’ depressi lungo la sutura su- periore, disgiunti da una sutura lineare, diritta, incavata, non molto inclinata sull’asse della conchiglia. La ornamentazione è duplice: in parte assai fine, constando di tenuissime strie spirali, non sempre visibili, e NOTA PRELIMINARE SOPRA I GASTEROPODI EOCENICI DEL FRIULI 51 che sembrano mancare del tutto negli ultimi anfratti degli esemplari adulti; in parte più appariscente, consistendo in tre serie spirali di tu- bercoletti. In questi però si nota una certa variabilità; la quale è sia nelle dimensioni da serie a serie, sia nel loro aspetto da individuo a individuo. Infatti la serie posteriore, la quale si trova sulla parte della superficie anfrattuale che è meno convessa, ha tubercoletti sempre più piccoli delle altre due. I tubercoli delle tre serie spirali poi si allineano sempre anche in serie trasverse leggermente oblique; talvolta, anzi, tra serie e serie spirale si nota un rilievo della superficie anfrattuale, sì che si potrebbe anche parlare di coste trasverse sormontate ognuna da tre tubercoli; ciò non succede però negli esemplari adulti, dove i tubercoli stessi sono nettamente isolati. La loro forma, come si è accennato, varia pure: talvolta sono rotondeggianti, più spesso allungati in senso spirale e più o meno stretti ed acuti in senso trasverso. La base porta delle costo- line spirali; l’ultimo anfratto ha, diametralmente opposta alla bocca, una varice trasversa molto rilevata; il canale è mediocremente svilup- pato; l'apertura non è visibile. | Altezza, mm. 17-32; diametro massimo, mm. 8-15. Analogie si hanno con il Cerithium FRauffi Opp. — Esempl. 8. 113. Ahynoclavis (Vertagus) Chaperi Bar. — EHsempl. 40. 114. _ (Pseudovertagus) corviniformis Orp. — Esempl. 3. . bla, - -- Fontis Felsineae Opp. — Esempl. 1. 116, — — n. Sp. Un solo esemplare parzialmente conservato nei suoi due ultimi an- fratti. Conchiglia apparentemente di dimensioni piuttosto grandi, sub- cilindrica, molto allungata. Gli anfratti sono assai alti in relazione col loro diametro, in profilo diritti, o soltanto assai lievemente concavi per la maggiore rigonfiezza presso la sutura posteriore; la sutura stessa è lineare, diritta, incavava, abbastanza inclinata sull’asse della conchiglia. La ornamentazione consiste nel principio di coste trasverse, che si os- serva presso la sutura posteriore; qui esse sono rilevate, grosse, ottuse (12 per anfratto), ma si attenuano subito in basso, e prima della metà dell'altezza anfrattuale sono già sparite. La base è convessa, ornata da coste spirali non grandi; l'apertura, non visibile, doveva però essere piccola; vi è traccia del canale ricurvo verso l’ esterno. Altezza, mm. 60-65 circa; diametro massimo, mm. 17-18. - Esempl. 1. % 4 E Vai 6 era lari de ° ROLL GAL RD 52 G. DAINELLI 117. Besanconia (Colinia) hortensis Vin., n. var. — Esempl. 2. 118. Orthochetus Leufroyi Mica. — Esempl. 5. 119. Potamides (?) Vulcani Bronen. — Esempl. 2. 120. — corrugatum Bronan. —Esempl. 2. ; 121. - (Potamidopsis) turritelliforinmis Oprp. — Esempl. 4. 122. — (Tylochilus) cfr. acutus Donc. — Esempl. 1. 123. Tympanotonus aculeatus ScaLota. — Esempl. 1. 124. - Atropos Bay. — Esempl. 1. 125. — familiaris Mav-Evm.? — Esempl. 1. T26: # DISP: Conchiglia di mediocri dimensioni, conica, turrita, acuminata alla estremità superiore. La spira si compone di circa 11 anfratti, abbastanza rapidamente crescenti nel diametro, convessi da prima, carenati in se- guito, disgiunti da una sutura lineare, diritta, incavata, poco inclinata sull’asse della conchiglia. Rispetto alla ornamentazione bisogna distin- guere i primi sette dagli ultimi quattro anfratti. In quelli si ha una serie spirale posteriore di piccole granulazioni rotondeggianti assai nu- merose; al di sotto la superficie anfrattuale appare più convessa, ed è ornata da altre due serie di granulazioni spirali simili a quella poste- riore. I granuli delle tre serie si corrispondono, sì che potrebbe parlarsi anche di serie trasverse, ciascuna costituita di tre granuli; però rimane sempre quella distinzione determinata dalla convessità dell’anfratto, che quasi non interessa la fascia posteriore con la sua serie spirale. Tale ‘carattere si accentua vie più nel 6° e 7° anfratto, nei quali si intercala una stria spirale tra le due serie inferiori, e tra la più bassa di esse e la sutura anteriore; contemporaneamente i loro granuli si fanno un poco più radi, per cui si altera l'allineamento in senso ‘trasverso con quelli della serie posteriore. Questa mantiene inalterati ì suoi caratteri anche negli anfratti seguenti; invece li cambiano assai le due serie an- teriori. La superficie dell’anfratto, infatti, a partire dall’ 8° giro, da con- vessa che era si rialza notevolmente a mo’ di carena molto sporgente, la sommità della quale è culminata dalla stria spirale intermedia fra le due serie inferiori. Queste vengono a trovarsi subito lateralmente alla sommità della carena stessa; i loro granuli sono ancora più radi, e assai allungati spiralmente, ma tendono ad attenuarsi via via che la spira si svolge, fino a divenire quasi non più riconoscibili; presso alla sutura anteriore decorre la stria spirale, che abbiamo visto cominciare nel 6° anfratto. Un’ altra simile limita esternamente la base, che è assai poco convessa. L'apertura non è conservata. DI "RE CIPE COLTA EM TL TOGLI VET £ cn ‘ a De 3 » E NOTA PRELIMINARE SOPRA I GASTEROPODI EOCENICI DEI FRIULI 53 Altezza, mm. 23; diametro massimo, mm. 10. Analogie sono col Tympanotonus Bourdettensis Donc. — Esempl. 1. 127. Tympanotonus n. sp. Conchiglia di mediocri dimensioni, conica, molto allungata, acuminata alla estremità superiore. La spira è composta di numerosi anfratti, len- tamente crescenti in diametro, abbastanza alti, concavi lungo la loro fascia mediana, disgiunti da una sutura lineare, diritta, finissima, inca- vata, abbastanza inclinata sull’asse della conchiglia. La ornamentazione consiste in due carene spirali, vicine, ciascuna di esse, alla sutura re- spettivamente posteriore ed anteriore più che esse stesse non sieno fra loro; sono ottuse, regolari, separate da una fascia mediana concava; quella anteriore è assai più sviluppata della posteriore. Tranne queste due carene, non vi è altra ornamentazione e la superficie della conchiglia è completamente liscia; soltanto un esemplare mostra le carene stesse ‘come leggermente granulose; in tutti gli altri sono intere. Altezza, mm. 30; diametro massimo, mm. 8, 5. Grandi analogie sono conil Tympanotonus trochlearis Lam.— Esempl. 8. 128. Tympanotonus n. sp. L » . . . . e - . . . Conchiglia di mediocri dimensioni, conica, molto allungata, acuminata all’ estremità superiore. La spira è composta di numerosi anfratti len- tamente crescenti nel diametro, abbastanza alti, nell'insieme diritti in profilo, disgiunti da una sutura lineare, diritta, finissima, incavata, poco inclinata sull’asse della conchiglia. La ornamentazione appare alquanto variabile dai primi agli ultimi anfratti. In quelli consiste in una carena spirale submediana, assai rilevata, acuta, che rende nettamente ango- loso il profilo degli anfratti stessi; un cingoletto ricorre poi a ridosso della sutura posteriore, e un altro simile a ridosso di quella anteriore, mal visibili senza l’aiuto di una lente. Col progredire della spira la -carena si sposta via via verso la sutura anteriore, non avvicinandosele però di una distanza minore del terzo all’altezza anfrattuale; contem- poraneamente la carena stessa da liscia che era prima, si fa legger- mente granulosa, e poi diviene come una serie di granuli ben netti, rotondeggianti, ma piccolissimi; essa pertanto diminuisce la sua rileva- tezza in rapporto alle crescenti dimensioni degli anfratti. I due cingo- letti prossimi alla sutura si fanno via via più marcati, e di essi quello posteriore diviene nettamente granuloso; tra questi e la carena sub- P int, en D4 G. DAINELLI mediana si insinua un nuovo cingoletto, minore degli altri due e com- pletamente liscio. Altezza, mm. 40; diametro massimo, mm. 13. Analogie sono con la precedente n. sp. — Esempl. 7. 129. Tympanotonus (?) n. sp. Conchiglia di mediocri dimensioni, allungata, acuminata alla estremità superiore, conica a base più o meno larga, talvolta leggermente rigonfia verso la sua metà, turrita. Gli anfratti sono circa 12, abbastanza alti, in profilo diritti, carenati lungo la sutura posteriore, disgiunti da una sutura lineare, diritta, poco inclinata sull’asse della conchiglia. La or- namentazione dei vari individui, per quanto si possa riportare ad un unico tipo, si dimostra assai variabile. Appare costante nei primi an- fratti, dove essa consta di due carene o coste spirali assai rilevate, acute alla sommità, delle quali una decorre a ridosso della sutura po- steriore, l’altra all'incirca lungo la linea mediana dell’altezza anfrattuale; esse sono ugualmente sviluppate, presentano ben piccola differenza; di solito appaiono tutte e due liscie, talvolta però la posteriore presentan- dosi come un seguito di leggerissime strozzature. A partire dal 5.° o dal 6.° anfratto si modificano nettamente le proporzioni relative di tali due coste; contemporaneamente si introducono però quelle differenze ornamentali in base alle quali credo opportuno distinguere alcune va- rietà. Nel tipo più semplice (var. simplex) la costa o carena posteriore soltanto presenta un certo sviluppo nelle sue proporzioni; essa cioè si fa via via più rilevata senza però guadagnare molto in larghezza; la sua sommità non è intera, ma divisa più o meno profondamente in gra- nulazioni o tubercoletti arrotondati, allungati nel senso della spira, nu- merosi (se ne contano 14 per anfratto), sempre collegati lateralmente per la base, sì che, per quanto ben distinti essi possano essere, non si può mai parlare di serie spirali di granuli staccati, ma sempre di coste spirali più o meno granulose. Lo sporgere di tale carena poste- riore dà alla conchiglia l’aspetto turrito del quale si è detto. L'altra, cioè la costa acuta submediana, via via che si svolge la spira, diminuisce le sue proporzioni, non solo relativamente a quelle della carena poste- riore, ma anche assolutamente; tanto che si riduce negli ultimi anfratti ad un rilievo spirale filiforme o poco più ispessito. Generalmente uno simile, ma assai più sottile, lo segue da presso in posizione relativa- mente posteriore. In altri esemplari (var. bicarenata) la costa subme- NOTA PRELIMINARE SOPRA I GASTEROPODI EOCENICI DEL FRIULI D5 diana sì mantiene relativamente assai più sviluppata anche negli ultimi anfratti. In altri infine (var. granulifera) essa non è intera come nelle varietà precedenti, ma rotta in piccole granulazioni, Altezza mm. 35-40; diametro massimo mm. 13-16. — Esempl. 40. 130. Tympanotonus (?) n. sp.. Conchiglia di mediocri dimensioni, conica, molto allungata, acumi- nata alla estremità superiore. Gli anfratti sono numerosi, quasi punto convessi, aventi la loro superficie in diretta continuazione tra l’uno ‘e l’altro, disgiunti da una sutura nel complesso poco distinta, però, me- glio osservando, lineare, diritta, incavata, abbastanza inclinata sull’asse della conchiglia. La ornamentazione negli esemplari giovani e nei primi anfratti di quelli adulti consiste in tre serie spirali di granulazioni, le quali dànno alla superficie anfrattuale un carattere di grande uniformità ; esse infatti sono tutte uguali (subcircolari, ben rilevate), equidistanti sia in una stessa serie sia tra le varie serie, mentre lo spessore di queste ‘è identico, si può dire, alla larghezza dei solchi spirali interposti. Per- tanto con l’aiuto della lente si può vedere sul fondo di questi una sot- tilissima stria spirale. Più caratteristica è la ornamentazione degli ul- timi anfratti degli esemplari adulti: consiste sempre essenzialmente di tre serie spirali di granulazioni; queste sono subcircolari od un poco allungate spiralmente, ben rilevate, nette, superiormente arrotondate, numerose (circa 24 per giro in ogni serie); però, il loro spessore non ‘essendo aumentato in proporzione all'aumento dell’altezza anfrattuale, ne deriva che divengono via via più larghi i solchi interposti tra serie e serie. In essi pertanto viene elevandosi la stria mediana, che, finis- sima, si notava anche nei primi anfratti ; essa poi, via via che si eleva, si fa sempre più nettamente granulosa a simiglianza delle tre serie principali delle quali si mantiene molto più piccola. Infine, lateralmente a questa serie mediana dei solchi se ne insinuano altre due, una di qua ed una di là, le quali si mantengono fino alla base intere. Questa ornamentazione regolare è di tanto in tanto lungo la spira un poco alterata da un ri- gonfio trasverso variciforme; diametralmente opposta all'apertura è poi nell’ ultimo anfratto, una vera e propria varice, nettamente limitata, rigonfia, ma stretta, e attenuantesi sul davanti della base. Questa è con- vessa e adorna da tre coste spirali nelle quali è pure un principio di granulazioni. In nessun esemplare la bocca è conservata per intero. Il canale deve essere brevissimo, a giudicare dall'andamento della base; 56 G. DAINELLI l’apertura non molto grande, ma con- labbro esterno piuttosto espanso. Il labbro interno, conservato, si distacca nettamente dalla superficie an- frattuale; in alto a sinistra mostra una ottusa piega spirale, assal poco profonda nel senso della spira, e che limita una stretta e ricurva doccia posteriore del labbro. Altezza mm. 40-54; diametro massimo mm. 15-18. — Esempl. 43. LIRA elescopium lemniscatum Bronen. — Esempl. 18. 132. Batillaria n. Sp. Conchiglia di mediocri dimensioni, conica, a base abbastanza larga, al- lungata, turricolata, acuminata all'estremità superiore. Degli anfratti sono conservati soltanto gli ultimi 9; sono abbastanza alti, assai leggermente convessi, disgiunti da una sutura lineare, un po’ sinuosa, non molto in- clinata sull’asse della conchiglia. La ornamentazione prima del quartul- timo anfratto consiste in strie spirali numerose, fitte e finissime; di esse però tre sono più rilevate, e la loro posizione è tale che dividono l’altezza anfrattuale in quattro parti, di cui sono uguali a due a due quelle centrali e quelle adiacenti alle suture: queste seconde un po’ più larghe di quelle prime. Tali tre strie a intervalli uguali lungo la spira assumono un rilievo molto più marcato; tanto che ne resulta la pre- senza come di tante (11 per anfratto) serie trasverse di tre barrette allungate spiralmente. A cominciare dal quartultimo anfratto, però, questa ornamentazione si modifica radicalmente: delle tre strie più rilevate le due anteriori acquistano dimensioni minori, che non le fanno più di- stinguere da tutte le altre, e la superiore è sostituita da una serie spirale di tubercoli, un po’ allungati spiralmente, ben netti l’uno dal- l’altro, prominenti, acuti, spiniformi; se ne contano una diecina per giro fino alla bocca, i quali tendono ad assumere una posizione via via più mediana rispetto all'altezza anfrattuale. La base è convessa; limitata da due cordoni spirali interi, distanti circa mm. 1 e mezzo, con inter- calata una stria più fine; adorna da strie spirali assai sottili e fitte ma di due dimensioni alternanti regolarmente. Apertura e canale non visi- sili; conservata in parte la callosità columellare. Altezza mm. 38; dia- metro massimo mm. 16. Le maggiori analogie sono con la Bazillaria subechinoides Donc. — Esempl. 1. 133. Bittium plaga Opr.? — Esempl. 3, Malo Sly de @ 4 tesa Cad) Poll PATTO PIERI e e i -_ NOTA PRELIMINARE SOPRA I GASTEROPODI EOCENICI DEI FRIULI OT | 134. Neswotonella clavus Law. - Esempl. 3. 1952 -- cfr. pulcherrima Desa. — Esempl. 3. 136. Strombus (Cncoma) Tournoueri Bay. — Esempl. 28. 137. — (Strombidea) ovnatus Desa. -- Esempl. 2. 138. Terebellum fusiforme Lam. — Esempl. 17. 139. _ (Seraphs) sopitum Sor. — Esempl. 13. 140. - << (Mauryna?) pliciferum Bay. — Esempl. 1. 141. _ sp. — Esempl. 15. 142. Fostellaria postalensis Bay. — Esempl. 2. _ 143. _ Hupei RovauLT. — Esempl. 2. 144... — (Terebellopsis) cfr. Rabetensis Doxc. — Esempl. 1. 145. Fomella fissurella. Lam. — Esempl. 12. 146. -— canalis Law. — Esempl. 52. 147. -.- Retiae De Grec. — Esempl. 7 14. — Lejeunùi Rovaurr. — Esempl. 2. 149.. — Crucis Bay. — Esempl. 1. 150. — Pellegrini De Greco. — Esempl. 10. 1bk. — n. sp. Conchiglia di mediocri dimensioni, piuttosto corta, ventricosa, appun- tita all'estremità superiore, a spira abbastanza allungata, composta di almeno 7 anfratti; questi sono rapidamente crescenti, disgiunti da una sutura lineare, diritta, non incavata, abbastanza inclinata sull’asse della ‘conchiglia; sono poi a superficie non convessa ma diritta, salvo l’ultimo che appare assai sviluppato in altezza (circa #/, dell’altezza totale della conchiglia) e come ventricoso. La ornamentazione consiste in coste tra- sverse, quasi diritte, sottili, ben rilevate, a bordi netti, vicine fra loro ‘e numerose: nell'ultimo anfratto se ne contano circa 22; esse adornano, ‘per quanto attenuate, anche i primi giri. L'apertura è molto piccola, ovale, appuntita in alto; la columella sembra rivestita di una callosità sottile; restano tracce. di un canale posteriore. Altezza mm. 17; dia- metro massimo mm. 9. Le maggiori analogie sono con la Rimella angusta DANnc. — Esempl. 2. 152. Rimella n. sp. Conchiglia di mediocri dimensioni, allungata, fusiforme, turricolata, acuminata alla estremità superiore, tendente ad assumere, nella spira, la forma di piramide trigona. Gli anfratti sono in numero di 8, assai debol- mente convessi, alti, ciascuno un poco sporgente rispetto a quello che 58 G. DAINELLI precede; l’apice è levigato ed ottuso, ed il giro che segue è liscio; gli altri invece hanno una ornamentazione assai evidente. Essa consiste in coste trasverse, ben rilevate, strette, subacute, a limiti netti, piuttosto nume- rose nei primi anfratti (15 per giro), mentre nell’ultimo e nella seconda metà del penultimo sono assai più rade e irregolari, come meglio di- remo. In quei primi giri tali coste interessano tutta l’altezza anfrattuale, però in alto si mostrano attenuate lungo una linea spirale che decorre a poca distanza dalla sutura posteriore; esse si possono dividere, in ogni anfratto, in tre gruppi di cinque, ciascuno diviso dall’altro da una grossa varice trasversa, molto più larga e molto più rilevata delle coste stesse. Tali varici si fanno, avvicinandosi all’apertura, sempre più robuste, più ottuse ed a base più ampia, e nell’ultimo anfratto si. prolungano assai in basso sulla base, fin dove questa si restringe nel breve canale. Le coste dell’ ultimo anfratto e mezzo sono, come si è detto, meno nu- merose e più irregolari; il loro numero,. tra varice e varice, anzichè essere di 5, è da prima di 4 e poi passa a soltanto 2; sono più rile- vate, angolose, irregolarmente distribuite, e si prolungano in basso per tutta la base. Le varici poi, per quanto non sempre regolarmente, ten- dono ad allinearsi da un anfratto all’altro, e siccome, come si è visto, sono tre per giro, determinano per la loro rigonfiezza la forma generale di piramide trigona più o meno irregolare, che abbiamo riconosciuto fin da principio alla spira. Una ornamentazione secondaria è in senso spi- rale: consiste in una finissima striatura, mal visibile ad occhio nudo, che si attenua ancor più sul vertice della coste e delle varici trasverse. Sulla base è sostituita da una striatura più rada, più marcata, netta- mente riconoscibile senza l’aiuto di lenti. Il canale è breve; la bocca non è mai conservata per intero; appare ovale, non molto allungata; di un canale posteriore vi è soltanto un breve accenno, in una piccola espansione canalicolata, la quale però non invade l’anfratto precedente ma continua la linea della sutura. Altezza mm. 28; diametro massimo mm. 12, 5. — Esempl. 3. 153. Oypraea (Bernayia?) persona Orp. — Esempl. 2. 154. — (Vulpicella) Lioyi Bay. — Esempl. 15. 155. — (Luponia) Proserpinae Bay. — Esempl. 1. 156. — (Cypraedia) elegans Deer. — Esempl. 5. IIS _ — elegantiformis Opp. Esempl. 2. LOS; — sp. — Esempl.3 159. Vicetia Hantkeni HB. et Mun.-Cuarm. — Esempl. L NOTA PRELIMINARE SOPRA I GASTEROPODI EOCENICI DEL FRIULI 59 160. Cassîs Aeneae Bronen. — Esempl. 4. 161. — harpaeformis Law. — Esempl. 3. 162. — postalensis Orp. — Esempl. 1. 163. Morio nodosa Sor. — Esempl. 1. 164. — sp. — Esempl. 1. 165. Lampusia (Simpulum) Minae De GreG. — Esempl. 4. 166. - e triamans De GreG. — Esempl. 2. 167. — _ nodularia Lam. — Esempl. 3. 168. Pseudoliva n. sp. Conchiglia di mediocri dimensioni, ovale, allungata, ventricosa un poco nell'ultimo anfratto, abbastanza acuminata alla estremità superiore, a spira allungata e turrita. Gli anfratti non devono essere numerosi (6 o 7, dei quali 4 conservati), rapidamente crescenti in altezza, la quale supera la metà del diametro; essi presentano presso la sutura posteriore una rampa spirale concava, lateralmente sono poco convessi, e sono disgiunti da una sutura lineare, diritta, infossata, assai incli- nata sull’asse della conchiglia. Gli ornamenti consistono in coste tra- .sverse, più fitte e numerose nei primi anfratti che negli ultimi (rispet- tivamente 10 e 8 per giro); esse sono larghe, a sezione curva, pochissimo rilevate, e presso la sutura inferiore arrivano ad annullarsi; presso quella posteriore invece acquistano notevole importanza, non perchè esse sieno più rilevate, ma perchè da questa parte si affondano i solchi interposti ; esse terminano a guisa di tubercolo rivolto in alto, sul margine esterno della rampa spirale concava, prima indicata. Gli stessi caratteri si os- servano nell’ultimo anfratto, il quale però è più grande e globuloso dei precedenti; i tubercoli sono più rilevati, più grossi ma anche più ottusi; le coste dalle quali essi derivano, cessano in basso dopo circa un terzo dell’altezza anfrattuale. Vi è qualche traccia di striatura spirale. L’a- pertura e la parte inferiore della conchiglia sono solo parzialmente con- servate; si vede però la callosità columellare a bordo esterno curvo; dal suo limite superiore si parte un solco spirale, che però dopo breve percorso piega in basso con ampia curva. Altezza mm. 33; diametro massimo mm. 18. Analogie sono con la Pseudoliva prima DEFR. e con la P. Poursa- nensis. Donc. — Esempl. 1. 169. (lavilithes maximus Desa. — Esempl. 2. 170. - parisiensis Mav.-Eym. — Esempl. 4. pe er o, 1,51 " Agfa pid * / La 60 @. DAINELLI 171. Clavilithes Noae Carmun. — Esempl, 14. T72. _ Iosattii MARINONI..- Esempl. 5. af 2 rugosus Lam. — Esempl. 13. 174. _ Erbreichi Orp. — Esempl. 1. LO = IL, Spa Conchiglia di dimensioni piuttosto piccole, allungata, stretta, conica, acuminata, a spira lunga e canale relativamente breve. Essa è compo- sta di 7 giri, rapidamente crescenti in altezza, sì che questa in cia- scuno uguaglia più della metà del diametro relativo; essi sono poco con- vessi, separati da una sutura diritta, lineare, poco incavata, abbastanza inclinata sull’asse della conchiglia. Protoconca liscia e come globulosa. La ornamentazione principale degli anfratti consiste in coste trasverse (9 nel penultimo giro), strette, ben rilevate ed acuminate quasi, le quali interessano l’ anfratto in tutta la sua altezza, pur attenuandosi un poco verso la sutura superiore; nell’ ultimo giro, essendo nello stesso numero, appaiono più distanti l'una dall’altra; mantengono però gli stessi ca- ratteri, salvo che non raggiungono la sutura, ma si arrestano piuttosto bruscamente ad una certa distanza da essa, dove si ha quindi una fa- scia spirale come depressa; in basso terminano invece attenuandosi per gradi, al principio del canale. Uu’altra ornamentazione consiste in una fine e fitta striatura longitudinale, regolare ed uniforme in tutta l’al- - tezza di uno stesso anfratto, e così pure da uno al seguente; per dare un’idea della finezza di tali strie, basti il dire che se ne contano al- meno 7 nello spazio di un millimetro. Soltanto sul canale esse diven- gono un po’ più grossolane e spazieggiate, ed acquistano un andamento obliquo. Infine si può notare come nell'ultimo anfratto, nella fascia de- . pressa presso la sutura, le strie longitudinali siano attraversate da delle specie di piccole pieghettine trasverse. Il canale è poco lungo, abba- stanza sottile alla sua estremità, largo alla sua giuntura con l’ultimo anfratto; è leggermente ritorto verso l’esterno. L'apertura, per quanto non conservata, dovrebbe essere non grande, ovale-oblunga, stretta, ad angolo acuto alle due estremità. La columella è provvista di un rive- stimento calloso, sottile e poco espanso, sul quale, a circa metà altezza del canale, è visibile una piccola pieghetta trasversa, alquanto obliqua. Altezza mm. 21; diametro massimo mm. 8, 5. Qualche analogia è col Clavilithes uniplicatus Lam. — Esempl. 1. 176. Latirus (Peristernia) Delphinus De GreG. — Esempl. 3. MT È PA A na i a RIT LIE L 2 a, È) - Eeti ALA fran © TIT #7 g De » Bia NT, Sag CRI BO n È ù & ; NOTA PRELIMINARE SOPRA I GASTEROPODI EOCENICI DEL FRIULI 61 177. Latirofusus funiculosus Lam. — Esempl. 2. 178. — Li: 80) Conchiglia di piccole dimensioni, fusiforme, allungata, un po’ ven- tricosa nell’ ultimo anfratto, acuminata all’estremità superiore. La spira consiste di circa 7 anfratti, un poco convessi, regolarmente crescenti così nel diametro come nell’altezza: questa uguaglia la metà di quello; .la sutura è lineare, leggermente ondulata, alquanto incavata, e con poca inclinazione sull’asse della conchiglia. Gli ornamenti consistono in coste trasverse, poco numerose (da 8 a 9 per giro), rotondeggianti, non molto rilevate; nell'ultimo anfratto sono più rade (7), ma assai più rigonfie e si prolungano in basso fino al principio del canale. Un’altra ornamen- tazione consiste in tre tenui costoline spirali, equidistanti; nella base e sul canale altre se ne ripetono di simili, ma più marcate. L'ultimo anfratto, abbastanza ventricoso, non è però alto, e si restringe presto e senza gradazione nel canale, che è pure piuttosto breve. L’apertura è ovale, poco allungata, e si continua in basso assai stretta nel canale; la columella ha un andamento un poco ricurvo, e mostra il principio di due pieghe oblique. Altezza mm. 15; diametro massimo mm. 6, 5. Le maggiori analogie sono col Latirofusus fusopsis DE GREG. — Esempl. 1. 179. Streptochetus approrimatus Desa. — Esempl. 10. 180. - amarus De Grec. — Esempl. 3. 181. Siphonalia (Costulofusus) angusticostata MeLL. — Esempl. 2. 182. Sycum bulbiforme Lam. — Esempl. 6. 183. Strepsidura turgida Sor. — Esempl. 1. 184. Tritonidea excisa Lam. — Esempl. 4. bia 150. _ (Cantharus) polygona Lam. — Esempl. 12. 186. - — subcostulata Opp. — Esempl. 1. L8-- — (Endopachychilus) sulcata Desa. — Esempl. L1. 188. Melongena (Pugilina) subcarinata Lam. — Esempl. 2. 189. = . n. Sp. Conchiglia di mediocri dimensioni, non molto allungata, conica, ven- tricosa nell’ultimo anfratto, abbastanza acuminata alla estremità supe- riore. La spira è composta di 7 anfratti, assai convessi, rapidamente crescenti nel diametro, disgiunti da una sutura ondulata, assai incavata ed inclinata sull’asse della conchiglia. La ornamentazione più marcata 62 G. DAINELLI consiste in coste trasverse, non numerose (8 per anfratto), grosse, ro- bustissime, con il massimo di rigonfiezza a circa ?| dell’altezza anfrat- tuale a partire dal basso; la loro sezione è grossolanamente triango- lare, ma ottusa nel vertice, e, specialmente nell’ultimo anfratto, un po’ irregolare in quanto il fianco rivolto all'apertura è meno sviluppato, perchè più inclinato, di quello opposto. Una ornamentazione secondaria, ma sempre ben evidente, è data da delle coste spirali (4 per anfratto), abbastanza grosse e ben rilevate, le quali si attenuano soltanto sul lato . delle coste trasverse che guarda l’apertura. L'ultimo giro è assai più sviluppato dei precedenti, e più robusta ne è la ornamentazione: le coste trasverse si prolungano in basso fin sulla base, ma in alto, a non grande distanza dalla sutura, sono molto più rilevate. Non è conservato il canale, che si suppone però corto. Altezza mm. 25; diametro mas- simo mm. 18, Qualche analogia è con la Molongena muricoides Desa. — Esempl. 1. 190. Murex (Muricidea) spinulosus Dersu. Esempl. 3. 191. —. (Pteronotus) tricarinatus Lam. — Esempl. 4. 192. — (Muricopsis) cfr. Oppenheimi Fas. -- Esempl. 3. 1939. — -- sp. — Esempl. 1. 194. Mitra crebicosta Lam. — Esempl. 3. 195. — Marsalai De Gres. — Esempl. 1. 196. — cfr. elongata Lam. — Esempl. 2. 197. — cfr. plicatella Lam. — Esempl. 5. 198. — (Ffusimitra) Barbieri Desa. — Esempl. 2. 199. Voluta (Eopsephaea) postzonata Nicois? — Esempl. 3. 200. — — muricina Lam. — Esempl. 1. 201. — — n. Sp. Conchiglia di discrete dimensioni, allungata, un po’ rigonfia, nel-- l'insieme di forma ovale, acuminata all’ estremità superiore. Gli anfratti sono in numero di 8, abbastanza rapidamente crescenti in altezza, la quale però non raggiunge la metà del diametro; essi sono poco con- vessi, disgiunti da una sutura lineare, leggermente ondulata, alquanto infossata, abbastanza inclinata sull’ asse della conchiglia. Gli ornamenti principali consistono in coste trasverse, in numero di 8 per anfratto, lar- ghe, grosse, ben rilevate, a sezione regolarmente curvilinea, con anda- mento quasi sempre diritto e subparallelo all’asse della conchiglia, di- vise da larghi solchi concavi, larghi poco meno che esse stesse non Sa: NOTA PRELIMINARE SUPRA I GASTEROPODI EOCENICI DEL FRIULI 63 sieno; tali coste formano da un anfratto all’altro degli allineamenti un poco obliqui; negli ultimi due anfratti però lo spostamento laterale reci- proco è tale, che esse sembrano alterarsi da un giro all’ altro. Esse sono assai ed ugualmente rigonfie per tutta l’altezza anfrattuale, sì che presso la sutura posteriore terminano con una specie di gradino; nel penultimo e specialmente nell’ ultimo anfratto, verso la sutura poste- riore sì attenuano alquanto. La ornamentazione secondaria è data da una finissima striatura spirale. La parte inferiore della conchiglia non è conservata per intero; sulla columella però si vedono 6 pieghe, ben nette e generalmente sottili, ma tanto più sviluppate quanto più son vicine alla estremità inferiore. Altezza, mm. 38; diametro massimo, mm. 21. Le maggiori analogie sono con la Voluta Prevosti RovAULT. — Esempl. 3. 202. Volutolyria Besanconti Bay. — Esempl. 3. 203. Volutilithes cithara Lam. — Esempl. 3. 204. — crenulifer Bay. — Esempl. 2. 205. _ propeelevatus De GreG. n. m. — Esempl. 2. 206. - subspinosus Bronan. — Esempl. 2.. 207. _ n. Sp. . Conchiglia di dimensioni piuttosto piceole, fusiforme, allungata, as- sai poco ventricosa, acuminata alle due estremità. La spira è abbastanza allungata, e consta di 7 anfratti, nei quali l’ altezza uguaglia all’ incirca la metà del diametro; essi sono poco convessi, sporgono alquanto cia- scuno rispetto al precedente, sono disgiunti da una sutura lineare, di- ritta, poco inclinata sull’asse della conchiglia. L'ultimo anfratto è sub- ovale, poco rigonfio, si restringe rapidamente nella base, alla quale fa seguito un canale stretto e assai allungato. La ornamentazione consiste, nei primi anfratti, in 5 costoline spirali, più marcate presso la sutura posteriore, evanescenti presso quella anteriore; nel penultimo anfratto tali rilievi spirali appaiono intersecati da finissimi solchi trasversi via via più marcati procedendo con la spira; localmente la loro intensità però è inversa a quella delle costoline longitudinali, cioè essi si fanno più profondi dalla sutura posteriore a quella anteriore. La stessa orna- mentazione si continua nell’ ultimo anfratto, dove si ha, presso la su- tura, 5 costoline spirali più marcate che nei precedenti e tenuemente incise da solchi trasversi; al di sotto, fino a tutta la base, prevalgono 64 G. DAINELLI questi, i quali dànno luogo a delle costoline assiali ottuse, alla lor volta intersecate da delicatissime incisioni spirali; finalmente su tutto il ca- nale mancano completamente ornamenti trasversi, e si hanno invece di nuovo costoline spirali di due dimensioni alternanti fra loro. L’aper- tura è ovale-oblunga, stretta, acuminata specialmente all’ estremità su- periore, e sorpassa in altezza la metà di quella conchigliare; la colu- mella è nella sua metà inferiore come ritorta verso l’ esterno; la sua parte mediana è occupata da tre pieghe spirali, oblique, decrescenti per dimensioni dall’ alto al basso. Altezza, mm. 16,5; diametro massimo, mn. 6,5. — Esempl. 2. 208. Volutilithes cfr. placentifer Oer. — Esempl. 1. 209. — sp. — Esempl. 1. 210. Lyria harpula Lam. — Esempl. 7. 211. — turgidula Desa. - Ésempl. 3. 212. Olivella nitidula Desn. -- Esempl. 7. 213. — mttreola Lam. — Esempl. 3. 2l4. — postalis DE GREG. — Esempl. 2. 215. Ancilla buccinoides Los Esempl. 1a 216. — pinoides De Grea. — Esempl. 5. 217. Cancellaria cfr. parnensis Cossu. — Esempl. 1. 218. Terebra? sp. — Esempl. 2. 219. Pleurotoma (Eopleurotoma) n. sp. Conchiglia di mediocri dimensioni, fusiforme, molto allungata e stretta, turricolata, acuminata alla estremità superiore. La spira è composta di 11 anfratti, quasi diritti nel profilo, lentamente crescenti nel diametro, disgiunti da una sutura lineare, diritta, incavata, abbastanza inclinata sull’asse della conchiglia. L'ultimo anfratto è un po’ convesso al centro, poco sviluppato in altezza, assai minore di quella della spira. La orna- mentazione, ben netta nei primi giri, sì modifica via via e si attenua con lo sviluppo della spira stessa. Nei primi 6 anfratti si osserva un cercine spirale, a ridosso della sutura posteriore, diviso in granulazioni; segue in basso una stretta fascia concava; poi una serie di coste tra- sverse, che occupano circa i °|, dell’altezza anfrattuale, oblique, ben rilevate, nette, non uniformi nello spessore, abbastanza numerose (circa 16 per anfratto), disgiunte da solchi poco più stretti di esse stesse. Nel 7° giro tali ornamenti sono molto attenuati: così le granulazioni spirali presso la sutura posteriore, come le coste trasverse; queste però NOTA PRELIMINARE SOPRA I GASTEROPODI EOCENICI DEL FRIULI 65 si continuano anche nella fascia spirale concava, con andamento ivi cur- vilineo e rivolgendo la concavità verso l’apertura. Nei giri seguenti le coste trasverse non si vedono più; il loro andamento è riprodotto dalle strie di accrescimento. Le granulazioni spirali, presso la sutura, per- mangono ma debolissime, sì che il cercine appare meno rilevato e quasi liscio; si conserva sempre la fascia spirale depressa, un po’ più larga di prima. In cambio si aggiunge una finissima striatura, che diviene più marcata e più rada sulla base e sul canale. Questo è poco svilup- pato; l’apertura è stretta, non molto lunga, affusolata, acuminata alle due estremità; il labbro esterno è sottile, prominente, fortemente cur- vato, inciso poco sotto la sutura. Altezza mm. 21; diametro massimo mm. 6,5. — Esempl. 2. 220. Pleurotoma (Eopleurotoma) n. sp. Conchiglia di piccole dimensioni, allungata, fusiforme, leggermente rigonfia al centro, acuminata all’ estremità superiore. La spira consta di 9-10 anfratti, dei quali i primi tre appaiono lisci; tutti sono debol- mente convessi, abbastanza alti in specie gli ultimi quattro, disgiunti da una sutura semplice, lineare, diritta, poco inclinata sull’ asse della conchiglia, nettamente incavata. La ornamentazione consiste in coste trasverse le quali occupano i */, dell’ altezza anfrattuale a partire dal basso; esse sono ben rilevate. nette, a sezione curvilinea, separate da solchi larghi quanto le coste stesse, un po’ oblique; esse terminano in alto ad una incisione spirale, oltre la quale vi è un cercine, pure spi- rale, che decorre a ridosso della sutura superiore, ed è ornato da pic- coli tubercoletti circolari: coste e tubercoletti sono in numero di circa 14 per anfratto. Nell’ ultimo giro le coste si prolungano in basso fin sulla base, attenuandosi assai; spesso anzi sembrano biforcarsi o divi- dersi in parti assai più fini. Apertura stretta ed allungata. Altezza, mm. 15; diametro massimo mm. 5. Analogie sono con la Pleurotoma distans Desa. — Esempl. 3. 221. Pleurotoma (Hemipleurotoma) odontella Korn. — Esempl. 2. 222. — (Surcula) n. sp. Conchiglia di discrete dimensioni, assai allungata, fusiforme, acumi- nata alla estremità superiore. La spira è regolarmente crescente, allun- gata, composta di 10 anfratti, in ciascheduno dei quali l’altezza uguaglia la metà del diametro; essi appaiono molto convessi per una carena Sc. Nat. Vol., XXVIII 5 66 G. DAINELLI spirale mediana, ben rilevata, e alquanto acuta al vertice, la quale di- vide la superficie anfrattuale in due parti quasi ugualmente sviluppate; la sutura è diritta, lineare, appena incavata, abbastanza inclinata. sul- l’asse della conchiglia. Gli ornamenti più appariscenti sono dati da una serie. di tubercoli che occupano la sommità della carena spirale mediana; essi sono ben rilevati, in numero di circa 15 per anfratto, disgiunti da solchi poco più stretti di essi stessi; sono allungati trasversalmente, giacchè, mentre non invadono affatto la metà della superficie anfrattuale che sta tra il vertice della carena mediana e la sutura superiore, sì prolungano invece, e di assai, in basso, giungendo molto attenuati, a guisa di coste trasverse, alla sutura anteriore. La metà superiore. della. superficie anfrattuale è poi adorna da 7 strie spirali, fini, ben nette, non intere, ma rotte in sottilissime granulazioni; la seconda di queste strie, a partire dalla sutura superiore, è assai più sviluppata delle altre, ed in essa le granulazioni assumono forma e dimensioni di finissimi tubercoletti rotondeggianti o leggermente allungati in senso spirale. La metà inferiore della superficie anfrattuale è invece adorna da 5 strie spirali più grossolane, intere e via via meno avvicinate tra loro dal vertice della carena mediana alla sutura anteriore; esse interessano net- tamente anche le coste trasverse, che formano, come si è detto, il pro- lungamento della serie mediana di tubercoli. Nell’ ultimo anfratto tali coste non assumono, verso il basso, uno sviluppo maggiore che nei pre- cedenti; tutta la superficie basale di esso è adorna di strie spirali, più grosse e più rade in alto, più fini e più fitte in basso verso il canale. Questo appare non molto lungo, per quanto non mai conservato nella sua interezza. L'apertura è piccola, stretta, allungata, angolosa in corri- spondenza della carena esterna. Altezza mm.35; diametro massimo mm. 13. Le maggiori analogie sono con la Surcula Miqueli Donc. Esempl. 19. 223. Pleurotoma (Surcula) cfr. polygona Desa. — Esempl. 2. 224. — cfr. textiliosa Desa. — Esempl. 6. 225. Genotia lyra Desa. — Esempl. 2. 226. Drillia sp. — Esempl. 2. 220. — sp. — Esempl. [No] 228. Borsonia obesula Desa. — Esempl. 2 229. — Bellardù Desa. — Esempl. 1. 250. Aphanitoma (?) n. sp. Un solo esemplare imperfettamente conservato, perchè manca del- l’ultimo anfratto ed ha subìto forti compressioni. Conchiglia di piccole JB w. Ù :4 sd NOTA PRELIMINARE SOPRA Î GASTEROPODI EOCENICI DEL FRIULI 67 dimensioni, subfusiforme, non alta, nettamente turrita, forse ventricosa nell'ultimo anfratto. La spira è poco elevata; consta di circa 7 giri ra- -pidamente crescenti nel diametro, poco alti, disgiunti da una sutura lineare, tenuamente ondulata, un poco incavata, appena inclinata sul- l’asse della conchiglia; essi sono a circa metà della loro altezza fortis- simamente carenati, sì che la loro superficie si può dividere in due metà nel senso della spira: la inferiore subparallela all’asse conchigliare ed un poco convessa; la superiore suborizzontale presso la carena, in- clinata presso la sutura, nell’insieme quindi fortemente concava. A que- ste due parti corrisponde una diversa ornamentazione: la inferiore è adorna da coste trasverse numerosissime (35 nel penultimo anfratto, 26 nel precedente), nell’insieme assai ben rilevate, le quali pertanto cominciano tenui alla sutura inferiore, e passando per gradi raggiungono il loro massimo rilievo proprio sul culmine della carena mediana, dove termi- nano quasi a guisa di piccolissimo tubercolo ottuso; hanno andamento un poco obliquo e ricurvo con la concavità rivolta verso l’apertura, tanto che meglio di ogni descrizione vale il paragonarle a tante “ virgole , allineate. Nei solchi che intercedono tra esse si nota una finissima striatura spirale. La parte superiore ha una ornamentazione assai più semplice ed attenuata; la quale consiste in strie trasverse, che sono la continuazione di quelle coste or ora descritte, ed in altre molto più fini, spesso mancanti, spirali. Dall’andamento generale degli ornamenti trasversi si può dedurre che il seno corrispondesse alla sommità della ‘ carena spirale. Sulla columella sono nettamente visibili tre pieghe, assai ben rilevate, le quali sembrano convergere fra loro verso l’interno della conchiglia. Altezza mm. 15; diametro massimo mm. 9. — Esempl. 1. 231. Mangila (?) sp. — Esempl. 1. 232. Bathytoma (Epalxis ?) n. sp. Conchiglia allungata, fusiforme, acuminata alla sua estremità supe- riore, un po’ rigonfia nell’ ultimo anfratto. La spira è regolarmente cre- scente; si compone di 8 giri visibili, nell'insieme non convessi, piuttosto alti, separati da una sutura lineare, diritta, poco inclinata sull’asse della conchiglia, un poco incavata. La ornamentazione principale consiste in due serie di rilievi spirali; la prima si trova presso la sutura posteriore, ed è data da tubercoletti perfettamente circolari, regolari, ben rilevati, in numero di 13 per anfratto, nettamente isolati l’uno dall’altro; essi occupano circa !/, dell’altezza anfrattuale. La seconda serie è data da 68 G. DAINELLI tubercoli più rilevati, allungati trasversalmente, però un po’ obliqui sull’asse della conchiglia, disgiunti da solchi larghi quanto i tubercoli stessi; questi occupano la metà inferiore dell’altezza anfrattuale e sono, come quei primi, in numero di 13 per anfratto. Fra queste due serie di rilievi vi è come una fascia spirale concava. Tutta la superficie an- frattuale è poi adorna di finissime strie spirali (circa 15), le quali si attenuano, fino a sparire, in corrispondenza dei tubercoli delle due serie. Nell'ultimo anfratto si ripete questa ornamentazione nella sua parte superiore; i tubercoli della serie inferiore si prolungano però assai in basso, con andamento obliquo ed un po’ sinuoso, fino alla base, e su di essi le strie spirali hanno meno marcate le loro differenze e quindi la ornamentazione appare più uniforme. L'ultimo giro dopo il massimo suo diametro si restringe rapidamente nella base, per dar luogo ad un ca- nale, che non è interamente conservato, ma che non sembra dovesse essere molto sviluppato. Neanche si conserva il labbro esterno nella sua interezza; la columella presenta un’ispessimento calloso, a bordo diritto, pochissimo sopraelevato alla superficie anfrattuale. Altezza mm. 18; dia- metro massimo mm. 8, 5. Le maggiori analogie sono con la Pleurotoma cavasana OPp. — Esempl. 4. 233. Cryptoconus clavicularis Lam. — Esempl. 20. 234. -- priscus Sor. — Esempl. 11. 235. _ elongatus Desa. — Esempl. 1. 236. — cfr. filosus Lam. — Esempl. 2. 237. Conus (Stephanoconus) Rovaulti D’Arca. —’—Esempl. 6. 238. — mM: (Spi Conchiglia conica, allungata, di mediocri dimensioni; il cono corri- spondente all'ultimo anfratto è presso a poco alto due volte quello rap- presentato dalla spira. Questa appare ben rilevata, regolare nel suo svi- luppo, acuminata, prominente; consiste di 10 anfratti visibili, scalari- ‘ formi, separati da una sutura ben netta, lineare, debolmente ondulata. Spiralmente, e cioè verso la sutura anteriore, ciascun anfratto presenta una serie di grossi tubercoli, e più precisamente ampii ma non molto rilevati; la parte superiore degli anfratti, cioè tra questa serie di tu- bercoli e la sutura posteriore, è adorna di strie longitudinali, nel senso della spira, le quali vi determinano da 5 a 6 specie di costoline, delle quali la posteriore, presso la sutura, è la più marcata ed assume an- SSA ETA NOTA PRELIMINARE SOPRA I GASTEROPODI EOCENICI DEL FRIULI 69 damento un po’ tortuoso. L'ultimo anfratto, che involge strettamente tutti i precedenti, pur essendo conico nel suo insieme, presenta però - un leggero arrotondamento o convessità nella sua parte posteriore ; esso è liscio, salvo presso l’apice, dove si osservano delle strie oblique, longitudinali rispetto all’avvolgimento della conchiglia, ed abbastanza marcate e spazieggiate. L'apertura è stretta, allungata, a bordi paral- leli; la columella presenta un principio di avvolgimento su sè stessa; a questo corrisponde una specie di depressione stretta ed allungata che sì osserva presso l’estremità anteriore della conchiglia sulla superficie del penultimo anfratto. Altezza mm. 32-45; diametro massimo mm. 14-19. Analogie sono col Conus sulcifer Desa. — Esempl. 8. 239. Conus (Lithoconus) diversiformis Desa. — Esempl. 6. 240. — sp. — Esempl. 1. 241. Fortisia Hilarionis Bay. — Esempl. 1. 242. Bullaea Meneghini Bav.? — Esempl. 2. 243 Gladina n. sp. Conchiglia ovale, allungata, fusiforme, poco ventricosa verso la sua metà, acuta alle due stremità. La spira si compone di 6 giri pochissimo convessi, poco alti, separati da una sutura lineare, diritta, appena in- cavata, inclinata sull’asse della conchiglia sempre più via via che ci si avvicina all’apertura. L’ultimo anfratto è grande, assai alto, non molto rigonfio, attenuato alla estremità inferiore; l'apertura è alta, ovale, stretta, acuminata superiormente, arrotondata in basso ; la columella ha andamento sinuoso ed è inferiormente troncata. Tutta quanta la super- ficie è adorna da strie traverse finissime, come strettamente sinuose, assai fitte (7 ogni 2 mm. presso l’apertura); esse giungono con un’ampia curva alla parte inferiore della columella. Altezza mm. 30; diametro massimo mm. 12. Le maggiori analogie sono con la Glandina Cordieri Desa. — Esem- plare 1. PRO PET, 0 SUOTTO GIUSEPPE MERCIAI FENOMENI GLACIALE NELLE ALPI APUANE (‘Tix STD). Le traccie più sicure di fenomeni glaciali quaternari nelle Alpi Apuane furono scoperte la prima volta da AntoNIO StoPPANI il quale, nel giugno del 1872, percorrendo la valle d’Arni, trovò un deposito morenico presso Campagrina. Egli allora comunicò la sua scoperta all’ Istituto Lombardo di Scienze, ne parlò poi in diversi scritti !) e così fu sollevata la questione dell’esistenza di ghiacciai quaternari nelle Apuane. Tale questione attirò in quel tempo l’attenzione di alcuni geologi per l’importanza che presen- tava inquantochè essa dimostrava che l’ estensione della glaciazione qua- ternaria in Italia era assai maggiore di quella che allora si credesse. Il CoccHÙÒi ?) trovò traccie glaciali in diverse parti delle Apuane, con- fondendo però spesso i depositi glaciali con quelli ritenuti poi alluvionali. Il DE STEFANI in una prima pubblicazione *) dette ai fenomeni glaciali apuani una estensione maggiore di quella che aveva data loro il CoccHi: in seguito contestò la natura di quei depositi, da lui ritenuti glaciali, ammettendo invece che fossero diluviali 5): di questi parlò in diversi suoi DITE lavori °) finchè poi trovati indizi sicuri di depositi glaciali ne descrisse. 1) STOPPANI A. Sull’esistenza di un antico ghiacciaio nelle Alpi Apuane. Rend. R. Ist. Lomb. di Se. e Lett., vol. V, pag. 753, Milano, 1872. — Ip. Sui rapporti del terreno glaciale col pliocenico nei dintorni di Como. Atti Soc. ital. d. Se. nat., vol. XVIII, 1875, pag. 193. — Ip. L’ Era Neozoica, Milano, ed. Vallardi, 1878. — Ip. Il del paese, Milano, 1883, pag. 401. 2) CoccHÙ I. Del terreno glaciale delle Alpi Apuane. Boll. R. Com. geol. d’It., vol. III. Firenze, 1372, pag. 187. 3) De STEFANI C. Gli antichi ghiacciai dell’ Alpe di Corfino ed altri dell’ Ap- pennino settentrionale e delle Alpi Apuane. Boll. R. Com. geol. d’It., vol. V, 1874, pas io. EEE 4) De STEFANI C. Dei depositi alluvionali e della mancanza di terreni glaciali nell’ Appennino della Valle del Serchio e nelle Alpi Apuane. Boll. Com. geol. d’It., vol. VI, 1875, pag. 3. 5) DE STEFANI C. Ordinamento cronologico dei terreni delle Alpi Apuane. Proc. verb. Soc. Tosc. Sc. nat., 14 novembre 1880. — Ip. Quadro comprensivo FENOMENI GLACIALI NELLE ALPI APUANE T1 alcuni e vi ritrovò così la presenza di 12 ghiacciai quaternari !). LorTI pure dette un cenno di terreni glaciali 2), parlando della piega di Arni. ZACCAGNA, essendo incaricato del rilevamento geologico delle Alpi Apuane, seguì i limiti di questi depositi glaciali, ne fece il rilevamento e brevemente li descrisse *). Egli poi, oltre a metter in rilievo la natura veramente glaciale dei depositi, quasi a togliere ogni dubbio che ancora potesse esistere sull’ esistenza di ghiacciai quaternari apuani, citò, al pari del De STEFANI, anche alcune roccie evidentemente striate per azione gla- ciale. Mentre lo ZAccaGNA con la sua solita accuratezza e scrupolosità rilevò i limiti dei terreni morenici segnati nella Carta geologica delle Alpi Apuane a 1:50000, pubblicata dal R. Comitato geologico, non ri- tenne opportuno, per l'indole del suo lavoro di rilevatore, di esaminare l'estensione e la forma degli anfiteatri dai quali discendevano i ghiacciai che lasciarono indiscutibili depositi morenici addossati alle falde dei monti. Questo esame non fu fatto neanche dai precedenti autori che si occuparono dello stesso argomento. Nella primavera ed estate dell’anno decorso, attirato dal desiderio di riconoscere la vera natura dei depositi glaciali in questione e l’esten- sione di quei bacini glaciali, feci diverse escursioni durante le quali ebbi occasione di raccogliere dati ed osservazioni che formano l’oggetto di questa nota; e non credo inutile pubblicarli, per contribuire alla com- pleta conoscenza della questione dei fenomeni glaciali apuani, la quale essendo stata abbandonata già da diversi anni dai geologi, merita ora di esser trattata in relazione ai recenti studi glaciologici nelle Alpi e in altre parti d’Italia. Nelle Alpi Apuane io ho riscontrato traccie sicure di nove ghiacciai, le quali sono date da indubitati residui morenici. Dico indubitati perchè la loro situazione topografica, la loro struttura, nonchè la presenza di ciottoli striati sono dati sufficienti per non aver alcun dubbio sulla loro vera natura. dei terreni che costituiscono l’ Appennino settentrionale. Atti Soc. Tosc. Sc. nat., vol. V, 1881. — Id. I laghi dell’ Appennino settentrionale. Boll. Club alp. it., 1883. — Ip. Le pieghe delle Alpi Apuane. Contribuzione agli studi sull’ origine delle montagne. Pubbl. Ist. di Studi sup. di Firenze, 1889. 1) De STEFANI C. Gti antichi ghiacciai delle Alpi Apuane. Boll. Club alp. , vol. XXIV, 1890, pag. 175. 2) LOTTI B. La doppia piega d’ Arni e la sezione trasversale delle vu Apuane. Boll. R. Com. geol. d’It., vol. XII, 1881, pag. 422. 3) ZACCAGNA D. oa e sezioni e delle Alpi Apuane. Boll. R. Com. geol. d’It.; vol. XXVIII, 1897, pag. 305. 12 G. MERCIAI L'impressione che io ebbi sino dal principio del mio studio sulla glaciazione apuana fu che fin ad ora i geologi, a cominciare dallo SToP- PANI e venendo poi a tutti gli altri che si sono occupati di tale questione, mentre hanno riconosciuto le prove sicure dell’esistenza di terreni gla- ciali, hanno però dato ad essi un’ estensione molto maggiore di quella che effettivamente hanno. E le ulteriori osservazioni, infatti, mi hanno sempre più convinto di questa mia prima idea. Nella descrizione che appresso faccio dei terreni glaciali, e quindi dei ghiacciai che li formarono, sono in parte in accordo con i rilievi accurati di ZACCAGNA, e sono in parte in disaccordo col DE STEFANI che vi rico- nobbe la presenza di 12 ghiacciai, esagerando così l’estensione dei terreni glaciali stessi. Alla descrizione dei ghiacciai, dei loro bacini e dei loro depositi, faccio seguire conclusioni sintetiche riguardo alla loro posizione topografica, all’età, al probabile limite delle nevi perpetue, in relazione anche cogli studi recenti sulla glaciazione alpina quaternaria. I nove ghiacciai citati in questa nota si trovavano tutti sul versante orientale delle Apuane lungo una linea diretta da NO a SE. Comincio la descrizione da quelli situati più a N passando successivamente a descri- vere quelli più a S. 1. Ghiacciaio dell’Orto di Donna. — Questo ghiacciaio era situato nella parte più settentrionale del gruppo apuano. Esso occupava la pit- toresca valle dell’Orto di Donna fino alla curva che questa valle fa a E. per seguitare nella valle di Gramolazzo. Il suo bacino a S era formato dalle pendici del M. Cavallo (m. 1789), del M. Contrario (m. 1676) e del Grondilice (m. 1805), a E dalle pendici occidentali degli Zucchi di Cardeto e del M. Pisanino (m. 1945), a O dalle pendici orientali della Cresta del Garnerone, formata da diverse cime che vanno discendendo dalla parte del Grondilice verso N e che variano dall’altezza di m.1707 fino a m. 1633. Questo bacino glaciale è il più tipico e il più grande delle Alpi Apuane. L'asse maggiore è diretto da N-NO a S-SE ed ha una lunghezza superiore a 4 chilometri. L'ampio circo che formava la parte più alta del bacino era dato da una linea a ferro di cavallo formata da cime che variano da m. 1600 a 1945 (M. Pisa- nino) e larga più di 2 km. Le rocce che vi predominano sono i calcescisti ed i calcari grigi a liste di selce, appartenenti al trias superiore, e poi vi è la serie così detta degli scisti superiori, appartenenti alla parte più alta del trias superiore. Questi scisti costituiscono le pareti occidentali del Pisa- nino, del Cavallo e del Contrario, mentre le pareti orientali del Grondilice, Pr PU FENOMENI GLACIALI NELLE ALPI APUANE 73 del Garnerone e del Pizzo d’Uccello sono formate da grezzoni e da marmi, rispettivamente del trias medio e superiore. Il fondo di questo ampio bacino è occupato ora da una valle la cui parte più alta è a m. 1300, discende poi gradatamente verso N, piega aEe quando traversa il deposito morenico delle Mandrie, che rappre- senta la parte terminale del ghiacciaio a. 5 km. più a valle, il suo fondo è a m. 650 sul mare. In questa valle si trova attualmente il Serchio di S. Michele ossia la parte più alta del Serchio che qui ha la sua origine sotto la forma di torrente, alimentato da poche sorgenti di piccolissima portata. Il ghiacciaio nella parte più elevata arrivava probabilmente fino alla quota di m. 1500 poichè sotto a detta quota nel fondo della valle, e nella parte più elevata di esso che arriva fino a m. 1300, si hanno gibbosità dovute all’azione di erosione del ghiacciaio. Scendendo nella regione dell’Orto di Donna e della Serenaia si hanno grossi blocchi erratici di calcari grigi a liste di selce, provenienti dal M. Cavallo, e che per la posizione loro e la distanza dal luogo di origine non possono essere interpetrati altro che come testimoni di un’azione glaciale. La valle, anche nella sua parte più bassa, non presenta nè pareti ripide nè un fondo ristretto come quelle scavate dall'erosione torrenziale, ma ha il fondo pianeggiante e le pareti dolcemente inclinate, ha insomma il profilo ad U, colle due parti più aperte. Oltre a ciò si hanno le rocce striate (roches moutonnées dei fran- cesi) e 1 depositi morenici. Nel luogo detto la Serenaia, presso l’estremità settentrionale dell'Orto di Donna, si osservano delle roccie arrotondate e striate fino alla quota di m. 1100 superiore assai al fondo della valle dove scorre il torrente e perciò può escludersi che siano dovute ad azione torrenziale. Queste roccie che già furono notate da ZAccAGNA !) sono gli scisti triassici rico- prenti una massa calcarea raibliana, e, come può vedersi dall’ annessa fotografia fig. 1, tav. I, presentano dorso arrotondato, striato, con inci- sioni profonde le quali sono ben visibili sulle roccie a destra della strada che dall’Orto di Donna conduce a Gramolazzo. Mancano di questo ghiacciaio residui morenici laterali, però nella parte più bassa della vallata, sulla sinistra del torrente, presso la regione Man- drie, dove esso piega ad oriente verso Gramolazzo, si ha il grosso depo- 1) ZAccAGNA D. Carta e sezioni geologiche delle Alpi Apuane. Boll. R. Com. geol. d’It., 1897, pag. 339. 74 - 'G MERCIAI sito morenico sopraricordato, che probabilmente rappresenta una grande parte della morena frontale addossata alle colline calcaree di Minucciano. Questa deposizione lunga più di 1 km. arriva fino a 100 m. sopra il fondo del torrente, risulta di un ammasso caotico di ciottoli di calcari con selce, di scisti rossi e verdastri, provenienti dal M. Cavallo, e di ciottoli mar- morei e di grezzoni del M. Grondilice. Vi ho trovato anche dei ciottoli striati e quindi non ho alcun dubbio sulla natura di questo deposito che fu pure notato da CoccHr, DE STEFANI e ZACCAGNA. Il ghiacciaio dell'Orto di Donna era certamente il ghiacciaio più esteso delle Alpi Apuane avendo una lunghezza di più di 5 km., ed era. vera- mente di tipo alpino. 2. Ghiacciaio di Gramolazzo. — Questo ghiacciaio scendeva dal versante settentrionale del Pisanino. Il suo bacino era poco esteso essendo limitato a E dalla cresta rocciosa della Mirandola, a O dalla cresta della Forbice. La neve precipitata dalle pareti ripide del Pisanino veniva ad ammassarsi in basso contro il M. Castri, formando un ghiacciaio che sì divideva in due rami: quello orientale scendeva nella vallecola tra il M. Calamaio e il M. Castri; quello occidentale scendeva lungo il Rio la Costa, ad O di M. Castri. Di quest’ultimo ramo di ghiacciaio sono ben manifeste due morene. laterali-terminali, come può vedersi nella annessa fotografia fig. 1, tav. IL Sebbene esse ora siano ricoperte di vegetazione, la morena sinistra è più conservata dell’altra. Esse manifestano chiaramente la loro origine non solo per la situazione topografica quanto per i materiali componenti che sono ciottoli (più o meno arrotondati e spesso striati) di calcescisti e marmi costituenti il versante NE del Pisanino, dal quale essi provengono. Nella parte più bassa di questo ramo del ghiacciaio si ha un ammasso di blocchi e ciottoli glaciali, adesso ricoperto da castagni, che arriva fino al torrente detto Serchiosdi S. Michele. . Del ramo orientale si conserva nella valle del Pianellaccio, fra M. Castri e M. Calamaio, un deposito morenico che ha l apparenza di morena fron- tale. Esso è costituito da ciottoli e blocchi di scisti triassici del Pisanino, mentre il M. Castri e il M. Calamaio sono formati «la calcari retici. A valle di questa morena si trovano presso la Fuccicchiola irregolari de- posizioni moreniche ciottolose sui due lati della valle e inoltre grossi monoliti di scisti che sono evidentemente blocchi erratici. Tali deposi- zioni si estendono alla confluenza della vallecola colla valle di Gramolazzo e si prolungano un poco anche in questa. Infatti CoccHi e DE STEFANI. FENOMENI GLACIALI NELLE ALPI APUANE 75 citano un grosso blocco di scisti dei dintorni di Gramolazzo. Questo blocco erratico, insieme agli altri, vi era stato trasportato evidentemente dal ghiacciaio che scendeva dal Pisanino. Dall’insieme di queste deposizioni si può arguire dunque che in un primo periodo di espansione glaciale il ghiacciaio portò le sue morene fino al fondo della valle presso Gramolazzo e poi esso si ritirò molto in alto e in un secondo periodo si protrasse ancora e si spinse colle sue morene fino nelle due valli che si hanno a destra e a sinistra del M. Castri, dove ha lasciato Ie morene sopraricordate. Oltre che da queste morene si ha la conferma della presenza del ghiac- ciaio dalle roccie striate e lustrate che si osservano, come già notò il DE STEFANI, al Piastraio, nella parte alta del bacino. Inoltre presso al Pianel- laccio, dove il ghiacciaio si divideva in due rami, si hanno delle buche circolari nelle quali si conserva tutt'ora la neve in tutto l’anno, e che per la loro forma e la loro situazione in mezzo a roccie che hanno subìto l’erosione glaciale, mostrano di avere esse pure un’origine glaciale. Queste rappresentano le così dette marmitte deì giganti, originate dai mulini che sono frequenti nei ghiacciai di spessore non molto notevole, come doveva essere appunto questo ghiacciaio nel secondo periodo di glacia- zione. In quest’ultimo periodo, come attestano le sue morene, la parte terminale della massa ghiacciata scendeva fino ad altezze non minori di 800 m.; la sua lunghezza nel primo periodo era forse superiore ai 3 km., nel secondo invece era poco più della metà. Questo ghiacciaio era di un tipo intermedio fra i ghiacciai vallivi e quelli sospesi. 3. Ghiacciaio del Pisanino. — Dopo quello occupante la valle del- l'Orto di Donna, precedentemente descritto, questo era il ghiacciaio apuano di maggiore estensione. Infatti il suo bacino era formato dalle pareti orientali del M. Pisanino e del M. Cavallo, già ricordati, dal ver- sante settentrionale del M. Tambura (m. 1889) e dal versante occiden- tale del M. Tombaccia (m. 1640). In esso predominano in alto i marmi, in basso 1 calcecisti e scisti triassici. Il ghiacciaio occupava tutta l’attuale valle dell'Acqua Bianca e ricopriva tutta la piccola pianura di Corfi- gliano, a fianco della quale è costruito oggi il paese omonimo. Prove del- l’esistenza di questo ghiacciaio sono le roccie arrotondate da erosione glaciale che si trovano a NE del Pisanino negli scisti retici, e poi i residui morenici irregolarmente sparsi a Cima al Piano e ai Novelli, già notati dal DE STEFANI, e alla base del Tonterone e del Giovetto, osservati anche dal Coccni. Inoltre possiamo dire che tutto attorno alla pianura di Cor- 76 G. MERCIAI figliano si hanno depositi morenici mentre che la parte centrale di quella pianura è formata da terreni alluvionali recenti. Al di là di detta pia- nura, sulla destra del torrente Acqua Bianca, dove questo si piega a NO per andare ad incontrare il Serchio di S. Michele, presso Gramo- lazzo, si hanno depositi glaciali che io sono propenso più a ritenere fluvioglaciali anzichè morenici, dato il loro modo di presentarsi quasi sempre irregolarmente stratificati. Tali depositi si prolungano fino a Canipaia. La posizione che gli altri depositi sopraricordati occupano in tutta la vallata, i ciottoli marmorei e scistosi e talvolta striati dai quali sono composti, e il loro impasto caotico, non lasciano alcun dubbio sulla na- tura morenica come non lo lasciano i grossi blocchi erratici marmorei trovati presso Corfigliano sopra roccie retiche e adesso in gran parte distrutti e adoperati per uso edilizio. Dalla loro disposizione si arguisce anche che la massa ghiacciata, mentre occupava la pianura di Corfigliano fino al di là della località dove ora trovasi il paese, non si spingeva fino ad unirsi all’altro ghiacciaio precedentemente descritto, come crede il DE STEFANI. - Il ghiacciaio nel ritirarsi lasciò tutt’ intorno alla pianura suddetta le sue morene, e in mezzo a queste una depressione da esso escavata. La depressione fu in seguito occupata, secondo Rovereto *), da un lago inframorenico alla sua volta riempito da detriti alluvionali che oggi vi formano un terreno fertilissimo. Questo ghiacciaio era di tipo prettamente alpino, ossia vallivo, ed ebbe, durante la sua più grande estensione, circa 4 Km. di lunghezza. 4. (rhiacciaio di Campocatino. —- Dal versante orientale del M. Tombaccia scese un ghiacciaio non molto grande ma che ha lasciato residui morenici ben manifesti, già osservati e descritti da CoccHi, DE STEFANI e Lotti. Il bacino che alimentava colle sue nevi questo ghiac- cialo era poco esteso inquantochè si limitava alle pareti scendenti a picco dal versante orientale del M. Tombaccia, le quali insieme a quelle di qualche altro picco minore più orientale, formavano un bacino concavo, rivolto a NE verso la regione di Campocatino. Il M. Tombaccia è formato da calcari marmorei ed alla base delle sue pareti ripide del versante di Campocatino si trovano i calcari a cri- 1) RoveRETO, Bozano, Questa. Guida delle Alpi Apuane, C. A. I, pag. 196, 1905. FENOMENI GLACIALI NELLE ALPI APUANE T7 noidi, in gran parte ricoperti da ammassi di detriti calcari, prodotti da frane. Nel piano di Campocatino, situato a circa m. 1000 di altezza, presso le suddette pareti del M. Tombaccia si ha la morena più conservata che sia nelle Apuane. Un ammasso di grossi blocchi marmorei forma una collina semicircolare alta m. 10 colla concavità rivolta a monte e che limita uno spazio pianeggiante detto appunto per la sua forma C'ampo- catino. Su questo ammasso che rappresenta evidentemente la morena frontale di un ghiacciaio, sono costruite le casupole di pastori che ven- gono qua per passarvi l’ estate con i loro greggi (fig. 2, tav. II). Con- centricamente a questa morena, qualche diecina di metri più a monte, come osservò il DE STEFANI, si ha una seconda morena più bassa e piw antica poichè la più recente, per ragioni che fra poco spiegherò, è quella più alta e più esterna. A valle di questa morena esterna si ha un pendio assai ripido pieno di grossi blocchi di marmi irregolarmente ammassati. Questo ammasso, sul quale è situato pittorescamente una parte del paese di Vagli di Sopra, si estende fino al confluente del sottostante canale del Gruppo col fosso della Tambura. La strada che da Campocatino scende al sot- tostante paese di Vagli si trova sul detto ammasso morenico. Questi blocchi erratici si trovano anche sulla sinistra del canale del Gruppo e seguitano anche a trovarsi sulla sinistra del torrente della Tambura fino sotto al Convento di Vagli di Sotto. Presso Vignale, al punto cioè di confluenza dei suddetti torrenti, si ha una mescolanza di massi calcari del M. Tombaccia con altri di scisti, trasportati da un altro ghiacciaio che scendeva dalla Tambura e che più avanti descriverò. Detto così brevemente di questi depositi morenici, sui quali nulla è da aggiungere a quanto osservò e scrisse l’egregio prof. DE STEFANI che con forma elegante e precisa, a lui abituale nei suoi scritti, fece la descri- zione di questo ghiacciaio, io ritengo in accordo colle sue osservazioni che il detto ghiacciaio nel periodo di maggiore espansione arrivasse ad invadere oltre il piano di Campocatino anche il sottostante canale del Gruppo: presso Vignale si univa all’altro e insieme arrivavano sino sotto il Convento, dove si trovano ancora gli ultimi resti di blocchi erratici. Non credo che giungessero sino a Vagli di Sotto ad unirsi all’ altro ghiacciaio che, secondo il DE STEFANI, scendeva dal Sumbra. A valle del Convento si trova pure un deposito di terreno morenico ri- maneggiato dal torrente della Tambura che arriva fino a m. 210 a valle del paese di Vagli di Sotto. Questo però è un deposito diluviale originato dal torrente con materiali provenienti dai terreni morenici più alti. 718 G. MERCIAI Dopo un primo periodo di grande incremento, durante il quale il ghiacciaio trasportò i blocchi erratici lungo la valle e sotto il piano di Campocatino, esso poi si ritirò per riavanzare nuovamente e formare quella morena frontale più interna di Campocatino che come ho detto è la più antica. Dopo un periodo di sosta o di regressione esso ebbe un nuovo avanzamento e formò la seconda morena più esterna che li- mita il piano di Campocatino ed è ben visibile nella fig. 2, tav. II. Questo ghiacciaio per la buona conservazione delle sue morene più alte, che non hanno subìto l’azione di trasporto dei torrenti, è di grande impor- tanza inquantochè ci dimostra evidentemente un primo periodo di avan- zamento, quindi un ritiro notevole succeduto poi da un’altro periodo di minore avanzamento in due diversi stadi. Nel primo e specialmente nel secondo periodo, questo ghiacciaio era una vedretta e quindi di tipo di secondo ordine. Nel primo periodo la lingua di ghiaccio giunse ad avere 3 Km. di lunghezza, nel secondo ebbe circa 1 Km. 5. Ghiacciaio della Tambura. — A fianco di questo ghiacciaio di Campocatino se ne aveva un'altro assai notevole per le sue dimen- sioni. Esso occupava la vallata che scende dal Passo di Sella, sul fondo della quale scorre ora il torrente della Tambura. Il suo bacino era for- mato a O dalle pendici orientali del M. Tambura e dell’ Alto di Sella (m. 1792), a S dal Passo di Sella e M. Fiocca (m. 1711), a E dalle pen- dici occidentali del M. Croce (m. 1527) e M. Pallerina (m. 1284). - Nella parte alta del bacino predominano i marmi, nel fondo della valle gli scisti e calcescisti. La posizione di questo bacino, diretto nella parte più alta da S a N per piegare poi a NE in basso, è delle più fredde anche attualmente; le sue pareti sono assai ripide e spesso ricoperte in basso da cumuli di detriti di franamento; nella parte alta del bacino scarseggiano i depositi glaciali. Scendendo dal Passo di Sella verso Vagli si rimane subito colpiti dalla vera forma di bacino glaciale che presenta questa vallata e poi si . osservano al di sopra di Arnetola, roccie erose per azione glaciale fino a m. 150 di altezza sul fondo della valle, ciò che dimostra lo spessore notevole del ghiacciaio. Scendendo più a valle dove questa si ristringe e presso le cave di marmo, si notano pure fino a m. 100 sul fondo della valle, roccie calcaree erose e arrotondate sulle pareti occidentali del M. Pallerina. Oltre a ciò più in basso, presso Castagnola, incominciano depositi mo- renici che si estendono prevalentemente sulla destra del torrente Tam- Lada IL 3 c o p i FENOMENI GLACIATLI NELLE ALPI APUANE 79 bura per 2 Km. di lunghezza fino presso il Convento di Vagli di Sotto, già ricordato descrivendo il precedente ghiacciaio. Presso Vagli di Sopra e presso Vignale, dove questo ghiacciaio si univa all’ altro scendente dal M. Tombaccia, si hanno grossi blocchi di calcari dolomitici provenienti dalla Tambura. Qua e là sulle pareti della valle fino ad altezza superiore a m. 100 dal torrente si trovano, come osservò il DE STEFANI, blocchi erra- tici di marmi e di scisti diasprini. Tutti questi fatti non solo ci confermano la presenza del ghiacciaio ma ci indicano che esso nel periodo di maggiore estensione giungeva al Convento di Vagli, avendo così una lunghezza di poco più di 5 Km., e che per un buon tratto, a monte di Castagnola, il suo spessore variava dai 100.ai 200 m. Tale spessore era dovuto alla ristrettezza della valle, troppo forte in proporzione della massa considerevole di ghiaccio che vi passava e che si formava nella parte alta del bacino. La lunghezza dei depositi morenici di Castagnola e del Convento sarebbe dovuta a di- verse fasi di avanzo e di ritiro. Ciò sarebbe in accordo con i fatti da me osservati per gli altri ghiacciai già descritti. Ammettendo due periodi di avanzamento e di regresso, nel primo pe- riodo il ghiacciaio si sarebbe esteso fino al Convento insieme all’altro del M. Tombaccia, mentre nel secondo periodo di avanzamento sarebbe giunto fino a Vignale e poi si sarebbe ben presto ritirato da tutta la valle. Le accumulazioni di blocchi che si trovano in quest’ ultima località da ambedue le parti del torrente dimostrano di essere i residui morenici più recenti. È da notarsi che questo ghiacciaio si è mantenuto per un tempo assai lungo nella parte ristretta della valle del torrente Tambura raggiungendo spessore notevole, e ciò spiegherebbe la erosione e l’ arrotondamento delle superfici rocciose alle falde del M. Pallerina e presso Arnetola. Il ghiac- ciaio era di tipo alpino e tanto di questo come del precedente, la fronte ghiacciata, nel periodo di più grande estensione, scendeva fino a m. 500 di altezza sul mare. 6. Ghiacciaio di Arni. — A S del Passo di Sella scese un’altro ghiac- ciaio che giunse fino a Campagrina e che a differenza degli altri ebbe il bacino di raccoglimento colla concavità rivolta a S e formato a O dalle pendici orientali del M. Macina (m. 1560), a N dal Passo del Ve- | stito e a E delle pendici occidentali del M. Fiocca (m. 1711) e del Fat- tonero (m. 1427). Le roccie che predominano nella parte elevata sono i marmi mentre il fondo della valle, percorsa attualmente dal canale di 80 G. MERCIAI Arni, è costituita di calcescisti triassici. Un primo deposito morenico, nella parte alta del bacino, si ha nel fosso che scende dalla cima del M. Fiocca a poco più di m. 1000 di altezza, ed è formato da ciottoli arrotondati di marmi, molti dei quali striati, e con un impasto caotico. Più in basso sulla sinistra del canale ve n’ è un altro, formato dai soliti ciottoli e che si prolunga per più di m. 400 lungo la valle. Su questo de- posito che arriva fino a m. 80 di altezza sul fondo del torrente, sono costruite le case del villaggio di Arni. A S di Arni presso lo sbocco del canale omonimo nel canale delle Gobbie in vicinanza di Campagrina, si ha un altro notevole deposito mo- renico che è quello stesso scoperto da SroPPANI nel 1872 e che dette il primo indizio sicuro di ghiacciai quaternari nelle Alpi Apuane. Questa morena si eleva sopra ambedue i fianchi della valle fino a m. 50 di al- tezza dal fondo del torrente, (fig. 1 tav. III). Sulla destra del canale di Arni, una strada fatta recentemente dalla Società Henraux per il trasporto dei marmi delle cave settentrionali del M. Altissimo, ha tagliato questa morena, e da questa sezione artificiale si rileva benissimo la sua struttura che risulta di un ammasso caotico di ciottoli di marmi e di scisti, in gran parte striati, provenienti dal M. Fiocca e M. Macina, e impastati da un cemento biancastro, caratteri- stico dei depositi morenici calcarei. Non si può perciò aver dubbio sulla natura di questo deposito, come su quella degli altri situati a monte di Arni, dei quali la struttura e composizione è ben manifesta. CoccHI, DE STEFANI e ZACCAGNA pure ci- © tarono queste deposizioni moreniche. StoPPANI ritenne la morena presso Campagrina come una morena frontale e io credo che la sua costitu- zione, il suo spessore e la stessa posizione siano una conferma dell’ opi- nione dell’ esimio geologo lombardo. Questo ghiacciaio, di tipo vallivo, giunse nella massima estensione fino a Campagrina ed ebbe cosi la lunghezza di poco più di 2 Km. 7. Ghiacciaio dell’ Altissimo. — Vicino al ghiacciaio di Arni ve ne era un altro che scendeva dal Passo del Vestito e occupava l’attuale ca- nale delle Gobbie. Il bacino, rivolto a SE, era formato a N dalle pen- dici del M. Macina e del Passo del Vestito (m. 1131); a O e a S dalle pendici settentrionali del M. Pelato (m. 1541) e del M. Altissimo (m. 1589). Qui predominano i marmi ed i grezzoni che si ritrovano sotto forma di ciottoli, più o meno arrotondati e striati, in ammassi caotici di natura morenica. Si hanno di tali depositi sulla destra e sulla sinistra del “ FENOMENI GLACIALI NELLE ALPI APUANE 81 canale delle Gobbie e così sono sparsi irregolarmente, come nel canale di Arni, e non formano come per gli altri ghiacciai un vero apparato - morenico ben distinto, sebbene non vi sia alcun dubbio sulla loro natura. AI punto di confluenza del canale delle Gobbie col canale dell’ Acquarola vi è il deposito morenico più esteso che abbia lasciato questo ghiacciaio e che è formato secondo il solito dai ciottoli di marmo del M. Altissimo e da grezzoni con un impasto caotico: sì innalza sulle due parti della valle fino a m. 40 di altezza dal fondo del canale e si estende per m. 600 fino al di là di Campagrina. Questo rappresenta forse il residuo della morena terminale. CoccHÙi ritenne glaciali alcune ghiaie che si trovano al Campaccio, circa tre chilometri più a valle, e che giustamente furono dal DFE STEFANI ri- tenute alluvionali. Il ghiacciaio dunque, diretto prevalentemente da O a E, ebbe nel periodo di maggiore incremento circa 2 Km. di lunghezza: era di tipo vallivo e scese fino a m. 750. 8. Ghiacciaio del Corchia. — Dal M. Corchia (m. 1676) scese un ghiacciaio non molto esteso ma interessante per il suo modo di presen- tarsi, dovuto a speciali condizioni topografiche. Il bacino era limitato al versante del Corchia che formava un discreto circo. Il deposito glaciale più esteso e che confermi la presenza di questo ghiacciaio si trova nel così detto Piano del Puntato che è una spianata situata a N di Casa Simi, limitata a oriente da un ramo del canale di Val Terreno, e a occidente dal canale delle Fredde. In questo piano che finisce contro un rilievo di calcescisti triassici, si notano qua e là grossi blocchi erratici di marmi e grezzoni provenienti dal Corchia e il terreno è formato da un impasto. di ciottoli glaciali che indica chiaramente. la sua origine. Tali deposizioni si trovano anche a destra del Puntato nel ramo occidentale del canale di Val Terreno, e sulla sinistra pure, fino in fondo al canale delle Fredde. Tutto ciò indica che la massa di ghiaccio accumulata nel circo N del Corchia scendeva fino a Piano del Puntato, e incontrato il colle di calcescisti che impediva il suo avanzamento si divideva in due rami, uno orientale che scendeva fino al canale di Val Terreno nel punto dove si ha confluenza di due rami di detto canale, ‘e l’altro ramo occidentale che scendeva nel canale delle Fredde. Secondo DE STEFANI il ghiacciaio si divideva, avanti di arrivare al Puntato, contro il colle situato a N. di Casa Simi, e la parte destra scen- deva nel ramo orientale del canale di Val Terreno. Se. Nat. Vol., XXVIII 6 82 G. MERCIAI La mancanza assoluta di ciottoli di blocchi erratici o di qualunque altro residuo glaciale in questa parte del canale sopradetto, non conferma l’idea del De STEFANI il quale osservò anche piccole accumulazioni concen- triche di rigetti nel piano di Puntato, che secondo lui accennerebbero a successivi stadi del ghiacciaio. Io non ho ritrovato simili accumulazioni, forse in gran parte spianate dagli agricoltori del Puntato che vi fanno una coltivazione intensa di cereali. Il ghiacciaio era una vedretta lunga circa 2 Km. nella sua massima estensione. 9. Ghiacciaio della Pania Secca. — Il ghiacciaio apuano più me- ridionale scendeva a NE della Pania Secca (m. 1711). Le pendici del M. Piglionico (m. 1142) a O, la Pania Secca a S, la Grotta Bianca (m. 1180). e le Rocchette (m. 1054) a E, formavano il bacino di raccoglimento del ghiacciaio che discendeva fino al Piano di Pianiza e forse anche più in basso fino sotto il villaggio di S. Antonio. | Un deposito morenico lasciato da questo ghiacciaio nella parte alta del bacino è stato attraversato da una strada fatta recentemente alle falde della Pania Secca per il trasporto dei calcari che vi si estraggono. Il deposito è caratteristico inquantochè formato da un impasto caotico di ciottoli di calcari bianchi del lias inferiore, costituenti la Pania Secca e il M. Piglionico, e che riposano sopra i calcari cavernosi retici i quali formano la parte bassa del bacino. Più a valle della strada, nella spianata dolcemente inclinata detta Piano di Pianiza, si osservano depositi glaciali risultanti di grossi blocchi calcarei della Pania. Questi sono irregolarmente ammassati sulla sinistra di Pianiza in un rialzo che ha l'aspetto di un rilievo morenico ( fig. 2 tav. III) e si estendono ad ambedue i lati del canale Borellone fino sotto alle case di S. Antonio. Il ghiacciaio in gran parte vallivo giunse sino alla lunghezza di 2 km. ZACCAGNA ') in questo deposito glaciale che da Pianiza si estende per circa 1 km. lungo il canale Borellone, affluente della Turrite,.trovò dei ciottoli glaciali di macigno eocenico, roccia che si trova nel M. Volsci nel versante opposto della vallata della Turrite, ed ammise quindi che un ghiacciaio grandissimo per trasportare quei materiali fino a Pianiza avesse dovuto occupare tutta la valle della Turrite che si sprofonda fino ai M. ‘390 4) ZACCAGNA D. Mem. cit., pag. 341. h FENOMENI GLACIALI NELLE ALPI APUANE 83 | Dall’osservazione topografica della località sembra molto azzardata questa ipotesi. Sebbene il M. Volsci sia alto m. 1266 e la localita di Pianiza sia solo m.1000 bisogna notare che quest’ultima si trova addossata ad un bacino le cui montagne sono più alte del M. Volsci e quindi le nevi e i ghiacci accumulati in esso tendevano a discendere verso Pianiza e verso le parti più basse ed opponevano perciò resistenza a qualunque massa di ghiaccio che fosse provenuta da alture minori e che sarebbe stata perciò obbligata ad avere un percorso rimontante sulla valle. Fra Pianiza e il M. Volsci intercede la valle della Turrite e quindi ammettendo la presenza di qualunque possibile massa di ghiaccio e co- noscendo le leggi del movimento dei ghiacciai non si può spiegare il trasporto di questi ciottoli morenici sul versante opposto della vallata, mentre anche è noto che le maggiori morene dei grandi ghiacciai alpini conservano sempre una spiccata individualità. ZACCAGNA per giustificare la sua ipotesi viene così a dare al fenomeno della glaciazione quaternaria delle Apuane una importanza notevolmente superiore a quella che io giudico per le ragioni che più innanzi esporrò. Oltre a questi terreni indubbiamente glaciali se ne hanno altri che da alcuni geologi sono stati considerati pure glaciali e quindi sarebbero l’indizio della presenza di altri ghiacciai. Essendomi limitato in questa nota a descrivere i terreni che presen- tavano i più spiccati caratteri glaciali e che ci davano un'idea molto approssimativa delle dimensioni e forme dei ghiacciaio che li aveva ori- ginati, non faccio la descrizione degli altri terreni, assai incerti per la loro origine, e per molti dei quali io ammetto un origine diluviale, ma soltanto li passo brevemente in rassegna facendovi alcune osservazioni e considerazioni. Re: Il Dr STEFANI ammette, oltre ai ghiacciai da me descritti, la presenza di un ghiacciaio alle pendici settentrionali del M. Sumbra, un altro più piccolo a N O del M. Corchia, ed un terzo alla Foce di Mosceta. Nelle pendici settentrionali del M. Sumbra (m. 1765) e in tutta la valle, diretta da S a N, fino a Vagli di Sotto non si trova alcun de- posito glaciale; a N però di Vagli si ha una larga deposizione alluvio- nale, presso Casa Pantano, ritenuta glaciale da CoccHi e DE STEFANI. 84 G. MERCIAI Essa è attraversata dal fosso Lussia, e vi si trovano ciottoli di marmi e calcescisti provenienti dal Sumbra, che sembrano di aver subìto un’azione glaciale. Probabilmente questi materiali vi sono stati trasportati dai tor- renti e provengono dai depositi morenici che si trovavano più in alto nella valle e dei quali ora non si conserva più alcuna traccia. Si trovano lungo la valle dei massi di calcari e scisti prodotti da frane. Data la situazione speciale della valle rivolta a N, a fianco di altre ricoperte da ghiacciai, è verosimile ammettere che in essa pure sia esi- stito un ghiacciaio del quale però non si può dare alcuna notizia sicura non essendovi prove che ci indicano la sua ubicazione e le sue dimensioni. A NO del M. Corchia si ha una conca imbutiforme dalla quale si inizia il canale delle Fredde. Tanto in quella come nel canale non si ha nessun residuo morenico, ma soltanto qua e là piccoli depositi alluvionali oppure frane locali. Nel caso che vi fosse esistito un piccolo ammasso di ghiaccio, credo che questo sarebbe stato una vedretta di pochissima importanza e che avrebbe avuto una breve durata. A Mosceta non vi è nessun residuo glaciale e così pure lungo il ca- nale delle Verghe dove si hanno, presso il Teverone, detriti di falda qua e là, e provenienti dalla Pania. Non credo quindi che si debba am- mettere la esistenza di un ghiacciaio a Mosceta. Nella valle della Versilia non scesero ghiacciai. CoccHI cita morene a Ruaca, Gronda, Resceto mentre effettivamente vi sono o piccoli depo- siti alluvionali o prodotti di frane. Nella valle del Frigido presso C. Bonotti in mezzo ail marmi si ha un ammasso di blocchi di grezzoni e di cal- cari dolomitici, provenienti dal M. Macina, e che sembrano sbarrare la valle fino a m. 100 di altezza. DE STEFANI ritiene che tale ammasso vi sia stato abbandonato da una vedretta. ZAccaGNA pure lo ritiene glaciale. Io anche credo che debba ritenersi tale, dato il suo modo di presentarsi che non si può spiegare nè ammettendolo come un resultato di azioni torrenziali nè come un prodotto di frane, sebbene vi manchino i ciottoli striati che sono la prova più indiscutibile dell’ origine glaciale. CoccHI cita, come indizio di ghiacciai, un grossissimo blocco di scisto verdognolo, proveniente dal M. Cavallo e che fino a pochi anni fa giaceva in mezzo al canale del Forno presso Casa Biforco. Questo blocco fu visto pure dal De STEFANI che, considerando la sua mole, dubitava che esso fosse là per sola forza di gravità e quindi ammetteva Y intervento del- l’azione glaciale. Il blocco adesso è stato distrutto con mine ed è stato utilizzato come materiale edilizio. Il fatto di non aver trovato fino ad sz FENOMENI GLACIALI NELLE ALPI APUANE 85 ora, nè altri nè io, alcuna traccia glaciale lungo il detto canale, credo che possa fare escludere l'ipotesi della presenza di un antico ghiacciaio. I depositi della valle Carrione, ritenuti dapprima glaciali dal CoccHI, hanno un evidentissimo carattere alluvionale come già dimostrarono DE STEFANI, ZACCAGNA ed altri. Riepilogando vediamo che nelle Apuane abbiamo prove sicure che vi furono 9 ghiacciai. Di questi, alcuni, come i ghiacciai dell'Orto di Donna, del Pisanino, della Tambura, di Arni, dell’ Altissimo e della Pania Secca furono vallivi ossia di primo ordine o di tipo alpino; altri invece come 1 ghiacciai di Gramolazzo, di Campocatino e del Corchia furono ghiac- ciai sospesi ossia ghiacciai di secondo ordine oppure di tipo intermedio fra i due ordini suddetti. Quelli dell'Orto di Donna e della Tambura ebbero oltre 5 Km. di lun- ghezza; gli altri giunsero appena a 2 Km. o poco più. La maggior parte di essi non si suddivisero ; solo i ghiacciai di Gra- molazzo e del Corchia si suddivisero, ei due ghiacciai di Campocatino e del Corchia si unirono nella valle di Vagli per formare un ghiacciaio composto che spinse la parte terminale fino all’altezza di m. 550, mentre in tutti gli altri l’estremità della lingua di ghiaccio si mantenne a quote superiori ai m. 600. In Arni, dove il ghiacciaio era rivolto a S, per spe- ciali condizioni topografiche era favorita l’ablazione e quindi la fronte del ghiacciaio rimase a m. 800 come in quello prossimo dell’ Altissimo, e nel Corchia poi non discese sotto ai m. 900. Nei ghiacciai di Gramolazzo, di Campocatino e della Tambura si hanno prove di due stadi ben distinti di avanzamento e di ritiro di intensità notevolmente differente. È da notarsi che tutti questi ghiacciai erano diretti, fatta eccezione per quello di Arni, a Ne NE e si trovavano tutti sul versante orientale della catena. Sul versante occidentale, come vedemmo, non si hanno altro che poche e spesso incerte traccie di ghiacciai. Il fatto che questi ghiacciai i quali in gran parte rassomigliavano per le loro dimensioni e caratteri a quelli attuali alpini, sì trovassero quasi esclusivamente nel versante orientale, è causato, come già osservò il DE STEFANI, dalla diversità del clima dei due versanti, che si verificò nell'epoca glaciale e che si osserva tuttora sebbene con un clima no- tevolmente più caldo. 86 G. MERCIAI Infatti sul versante occidentale, esposto al mare, si ha un clima meno freddo e meno piovoso, in gran parte dovuto ai venti di Maestrale e Libeccio che vi predominano e che sono asciutti, mentre nel versante orientale vi è un clima alpino, più freddo e più piovoso e vi predomina lo Scirocco che è il vento più ricco di vapori. Tale differenza climatica è dimostrata anche dalla vegetazione. Per questa stessa ragione nella parte occidentale le nevi sono rare e presto si sciolgono, mentre nell’altro versante sono più frequenti e vi si mantengano per una gran parte del- l’anno. Io ho visto alle falde orientali del Pisanino al di sopra del Pia- nellaccio, residui di nevi invernali fino alla metà di giugno e così pure alla base delle pareti del M. Tombaccia presso Campocatino. Inoltre la neve si conserva permanentemente in moltissime buche del M. Pisanino, della Tambura e di altri monti, da dove, come è noto, fino. a pochi anni indietro, gli abitanti di Vagli e i pastori estraevano il ghiaccio per uso commerciale. Data questa persistenza delle nevi e la maggior precipitazione atmo- sferica sul versante orientale, DE STEFANI ritiene che con cambiamenti climatici, non moltissimo differenti dagli attuali, si dovrebbero ripetere nelle Apuane gli stessi fenomeni dell’epoca glaciale. Un'idea esatta delle pioggie nella regione orientale apuana si ha nei dati raccolti dall’ EREDIA !) secondo il quale la precipitazione annua vi raggiunge i 1600 mm. come nel vicino Appennino. Per spiegare la glaciazione apuana il CovcHi ammise che l’ abbassa- mento di temperatura, occorrente per la formazione dei ghiacciai, fosse dovuto ad una maggiore altezza alla quale si sarebbero trovate le Alpi Apuane in quell’epoca. Questa ipotesi naturalmente deve escludersi in- quantochè ammettendo anche che le Apuane avessero un’ elevazione mag- giore di m. 200 o 300, come le cime del prossimo Appennino, prive di ghiacciai, non si avrebbero le condizioni sufficienti per la glaciazione, mentre poi è stato riconosciuto da studi di DE STEFANI, LOTTI, ISSEL e miei che sì è avuto in tutto il litorale toscano un sollevamento quaternario, attestato dai conglomerati marini che vi si trovano a diverse altezze, e sul litorale poi delle Alpi Apuane provato dalle numerose terrazze marine. Quindi le cause che originarono la glaciazione apuana sono quelle stesse della glaciazione alpina e appenninica quaternaria, sulle quali molto sì è discusso e si discute. i !) ErwpIa F. Le precipitazioni atmosferiche in Italia dal 1880 al 1905. Ann. Uff. Centr. d. Meteor. e Geodin. Roma, 1908. FENOMENI GLACIALI NELLE ALPI APUANE 87 Riguardo all’età nella quale i ghiacciai invasero le valli Apuane, DE STEFANI osservò che mentre sul versante apuano della Garfagnana non si hanno depositi nè di fiumi nè di ghiacciai che dimostrino i rap- porti di questi coi terreni pliocenici, all’uscita di alcune valli appenni- niche, poste sul versante orientale della Garfagnana e nelle quali esi- stevano ghiacciai contemporanei di quelli apuani, le alluvioni dei fiumi. che trasportavano i materiali morenici, hanno ricoperto i sedimenti plio- cenici lacustri. Perciò bisogna ammettere anche per i ghiacciai apuani un'età postpliocenica o quaternaria. L’età geologicamente recente dei ghiacciai apuani è dimostrata anche dal fatto che l’erosione dei torrenti non ha ancora inciso i fondi delle valli, scavati precedentemente all’invasione glaciale e sui quali esistono ancora i depositi morenici. | Come ho già fatto notare, alcuni depositi morenici dei ghiacciai da me descritti dimostrano che vi sono stati due periodi di avanzamento e successivo ritiro delle masse glaciali, e quindi due periodi glaciali net- tamente distinti. PENCK e BRUECKNER hanno riconosciuto nelle Alpi *) quattro glaciazioni, corrispondenti al quattro periodi glaciali da essi chiamati gunziano, min- deliano, rissiano e wurmiano, separati da periodi interglaciali più o meno lunghi. Lo stabilire il sincronismo della glaciazione alpina con quella apuana è .cosa non facile e perciò va fatta colla più grande riserva. La copertura glaciale nelle Alpi ha raggiunto la più grande estensione nel periodo Rissiano : però, come è noto, la glaciazione più conosciuta e studiata è quella wurmiana. TARAMELLI ?) ritiene che in una delle più antiche gla- ciazioni lo sviluppo glaciale fu molto più esteso di quanto apparirebbe dai grandi anfiteatri morenici, e di questo cita prove nelle Alpi lom- barde e venete. ; Quindi non è improbabile che anche quella maggiore estensione dei ghiacciai apuani, della quale si hanno prove in alcune vecchie morene di Gramolazzo, di Campocatino e della Tambura, corrisponda alla gla- . ciazione rissiana delle Alpi o forse sia anche più antica, e le morene più conservate, più recenti e che dimostrano un minore avanzamento delle 1) PENCK e BRUCKNER. Die Alpen in Eiszeitalter. Leipzig, 1909. 2) TARAMELLI T. L'epoca glaciale în Italia. Atti della Società italiana per il Progresso delle Scienze. Napoli, ottobre 1910. 88 G. MERCIAI lingue di ghiaccio corrispondano alla glaciazione wurmiana alla quale corrispondono pure i ghiacciai dell’ Appennino ligure, emiliano e degli Abruzzi dei quali trovarono numerose traccie il SAcco ') e il TARAMELLI ?). Riguardo al limite delle nevi perpetue che alimentavano i ghiacciai apuani vi è da fare alcune considerazioni. Molti dei ghiacciai apuani, come abbiamo veduto, avevano il loro bacino di alimentazione formato da diverse cime inferiori ai m. 1500, e fra questi si possono citare il ghiacciaio dell’ Altissimo e di Arni, il quale, per la sua situazione topografica, era anche in condizioni sfavorevolis- sime alla formazione del ghiaccio. Io dopo aver osservato anche i limiti di erosione glaciale sulle roccie in Arnetola, sul Pisanino e all’Orto di Donna, riterrei che il limite delle nevi perpetue sulle Apuane fosse stato nell’ultima glaciazione poco sopra al m. 1200. TARAMELLI *) lo mette per l'Appennino presso ai m. 1500, come nel Friuli. DE LoRENZO *) ammette che il livello delle nevi perpetue fosse non più alto di m. 1800 nella Basilicata, che si trova ad una latitudine molto inferiore a quella delle Apuane. Dagli studi di PENcK e BRUECKNER, già citati, si ha che quel limite nelle Alpi Cozie superava i m. 2000 e scendeva a m. 1300 nel bacino del Tagliamento, e anche dagli studi recenti di MARINELLI °) il limite attuale delle nevi scende nelle Alpi venete nel M. Canino a m. 1450, mentre che nelle Alpi Dolomitiche si mantiene superiore ai m. 2800, e ciò è do- vuto alla maggiore piovosità che si ha nella estrema parte orientale. Ora poichè nelle Apuane sul versante orientale si ha come ho già detto, un’ abbondantissima precipitazione atmosferica, e siccome questa certa- mente deve essere stata ancora maggiore nell’epoca glaciale, così non credo molto inverosimile ii limite delle nevi perpetue che io vi ho supposto. Però se vi è stato un limite relativamente così basso, non credo altresì che si debba supporre una estensione grandissima della glaciazione quaternaria nelle Apuane. ZAccAGNA “) per giustificare un ritrovamento 1) Sacco F. Lo sviluppo glaciale nell’ Appennino settentrionale. Torino, 1894. ?) TARAMELLI T. Mem. cit. 3) TARAMELLI T. Mem. cit. 4) De LorENZO G. Geologia e Geografia fisica dell’ Italia Meridionale. Bari, 9) MARINELLI D. Limite climatico delle nevi nelle Alpi Venete. Firenze, 1910. 9) ZAccAGNA D. Mem. cit. pag. 341. Tia Reg Sa PSE FENOMENI GLACIALI NELLE ALPI APUANE 89 fatto nelle morene di Pianiza, delle quali ho parlato, descrivendo il ghiac- ciaio della Pania Secca, ammise che il fenomeno glaciale avesse avuto una grande estensione e che tutta l’Alpe Apuana e il vicino Appennino fos- sero stati “tranne i dorsi più alti sepolti sotto una estesissima massa di ghiaccio ,. Adesso io credo che se questo fatto si fosse verificato si dovrebbero trovare traccie di vaste erosioni, poichè quando la glaciazione ha una grande estensione certamente è grandissima l’azione erosiva che essa esercita. L'osservazione in posto e la osservazione morfologica non ci danno indizi di una grande erosione glaciale. Inoltre quando si hanno simili enormi masse di ghiaccio sì debbono avere pure grandi depositi morenici come sono i grandi anfiteatri morenici delle Alpi, poichè a tutti è noto quale potenza abbia il ghiaccio come agente di trasporto. Di tali depositi glaciali si dovrebbero trovare le traccie, mentre nelle vallate più esterne dei due versanti apuani e nella valle del Serchio non troviamo alcuna prova di queste grandi deposizioni. Come è noto i de- positi della Garfagnana e della valle del Serchio sono depositi lacustri e fluviatili. Se si ammettesse poi che tutte le grandi valli apuane, comprese quelle dell'Appennino, fossero state coperte da estesi ghiacciai, si ritor- nerebbe ad ammettere anche l’idea del Moro *) il quale supponeva che un immenso ghiacciaio quaternario avesse occupato la valle del Serchio e si fosse esteso fino al padule di Bientina il quale sarebbe stato un pro- dotto dell'erosione dello stesso ghiacciaio. Naturalmente questa ipotesi è stata fino ad ora molto giustamente combattuta e non può assolutamente ammettersi per le semplici quanto convincenti ragioni che poco sopra ho esposte. Dopo la descrizione dei nove ghiacciai quaternari e in seguito alle altre osservazioni e considerazioni che ho fatte, ritengo quindi che la glaciazione quaternaria apuana non ha avuto non solamente una grande estensione, ma è stata molto frazionata, e si è limitata alle valli più in- terne del versante orientale della catena, dove si hanno le deposizioni glaciali più sicure descritte in questa nota. Istituto geologico della R. Università di Pisa. 4) Moro. Il gran ghiacciaio della Toscana. Prato, 1872. SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE I-II [I-II] TAVOLA I [I]. Fi&. 1. — Roccie striate presso la Serenaia nella valle dell’ Orto di Donna. TavoLa II [II]. Fic. 1.— A e B. Morene del ghiacciaio di Gramolazzo. » 2.— Morena presso Campocatino. Tavocra III [III]. Fire. 1.— Morena del ghiacciaio di Arni. » 2.— Depositi morenici di Pianiza. GIOTTO DAINELLI po NOTA PRELIMINARE SOPRA GLI ECHINIDI EOCENICI DEL FRIULI ——_totrsedt ——— È curioso ad osservarsi che degli Echinidi dell’ Eocene friulano non si hanno negli antichi autori neppure cenni o citazioni generiche; mentre essi costituiscono il gruppo di animali che per il primo è stato studiato monograficamente dal Friuli. Infatti il primo studio paleontologico su questa regione è quello appunto del TARAMELLI sopra gli Echini della Creta e del Terziario !). Dell’ Eocene sono descritte ed in parte figurate 12 specie, le quali, quasi tutte, sono riportate in due successive pub- blicazioni dello stesso autore ?). Più tardi il Prrona) e lo stesso TaRrAMELLI *) si limitarono a citare alcune poche specie, l’ uno e l’altro però soltanto genericamente dal Friuli orientale, senza più precise indicazioni sulle provenienze; mentre il MARINONI °) dette di lì a poco citazioni da località in parte nuove. Nuovi elenchi, ma non con nuovi elementi paleontologici, sono do- vuti ancora al TARAMELLI ‘), e più recentemente al MARIANI ‘); questi 1) TARAMELLI T. Sopra alcuni Echinidi fossili eretacei e terziari del Friuli. Atti del R. Istit. Veneto di Sc., Lett. ed Arti, ser. 3a, XIV, 1861. 2) TARAMELLI T. Nulla formazione eocenica del Friuli. Atti della R. Accad. di Udine, 1867-63, Udine, 1870, pag. 44; Di alcuni Echinidi eocenici dell’ Istria. Atfi del R. Istit. Veneto di Sc., Lett. ed Arti, ser. 42, III, 1874, pag. 6-9. 3) Pirona G. A. La provincio di Udine sotto l’aspetto storico-naturale. Cro- naca del R. Liceo Stellini, 1875-76; Udine, 1877, pag. 46. i) TARAMELLI T. Catalogo ragionato delle rocce del Friuli. Mem. della R. Accad. dei Lincei, 1877, pag. 43. °) MARINONI C. Di un lembo eocenico nelle falde settentrionali del M. Plauris. Atti del R. Istit. Veneto, serie 52, III, 1877, pag. 18-19; Ulteriori osservazioni sull’ Eocene friulano. Atti della Soc. Ital. di Sc. Natur., XXI, 1878, pag. 4. 6) TARAMELLI T. Spiegazione della carta geologica del Friuli (Provincia di Udine), Pavia, 1881, pag. 4; Geologia delle Province venete. Mem. della R. Ac- cademia dei Lincei, 1882, pag. 465. 7) MARIANI E., Appunti sull’ Eocene e sulla Creta nel Friuli orientale. Ann. del R. Istit. ten. di Udine, ser. 32, X, 1892, pag. 20-22. 92 G. DAINELLI enumera 20 specie, in parte tratte dai precedenti elenchi del TARAMELLI e del MARINONI, in parte da un manoscritto inedito di tale ultimo au- tore, del quale, come dissi nelle mie precedenti note preliminari, il MA- RIANI stesso si avvalse nella sua pubblicazione 1). In questi ultimi anni sporadiche citazioni di Echinidi dell’ Eocene friulano sono state date soltanto dall’OPPENHEIM ?), dal MARINELLI 3) e dal LORENZI ‘). | Il materiale paleontologico che io ho avuto in esame, proviene, come ho avuto più volte occasione di indicare, dalle raccolte mie personali, oltre che da quelle dei proff. MARINELLI e TELLINI, e da quelle dell’ Istituto tecnico di Udine dovute più che altro a TARAMELLI, Pirona e MARINONI. La ricchezza del materiale mi ha permesso di accrescere notevolmente le nostre conoscenze sopra la echinofauna eocenica friulana; infatti ben 50 specie ho potuto distinguere, le quali segnano già un non lieve pro- gresso rispetto alle 20 dell’elenco, non sempre sicuro, del MARIANI. Seguendo le norme già indicate nelle mie precedenti note prelimi- nari, do qui l’elenco delle specie distinte, col numero degli esemplari che per ciascuna ho avuto in esame. 1. — Cidaris subularis D’ArcH. — 72 radioli. 2. — ; interlineata D’ARcH.? — 8 radioli. 3. — > cfr. spileccensis DAM. — 2 placche e 19 radioli. 4. — È n. sp. — Radioli di grandi dimensioni; capo relativa- mente piccolo, subcilindrico; base arrotondata, liscia, perforata; anello fine, poco rilevato a guisa di leggera carena acuta; colletto allungato, subeilindrico, liscio. Il corpo del radiolo è assai grande e robusto; ha forma di clava, assottigliata alla estremità superiore, con il massimo diametro presso alla sua metà. La sua ornamentazione consiste in serie longitudinali di tubercoletti rotondeggianti; questi non sono uniformi nelle dimensioni e neppure nella distribuzione, infatti sopra un lato del radiolo si notano più piccoli e nettamente allineati, mentre si passa per gradi al lato opposto, dove sono assai più grossi e più irregolarmente !) Sul valore di questa, basti osservare che il Conoclypeus Bouei AGASS. vi è diventato C. Bonci. 2) OpPENHRIM P. Ueder einige alttertiéire Faunen der éosterreichisch-ungari- schen Monarchie. Beitr. zur Palaeont. und Geologie Oesterreich-Ungarns und des Orients. Bd. XIII, 1901, pag. 184-186. 3) MARINELLI 0. Descrizione geologica dei dintorni di Tarcento în Friuli. Pubblic. del R. Istit. di St. Super. di Firenze, XLIII, 1902, pag. 199-200. 4) LORENZI A. La collina di Buttrio in Friuli. In alto, 1903, pag. 49. 2, € ssfetd NOTA PRELIMINARE SOPRA GLI ECHINIDI EOCENICI DEL FRIULI ib: distribuiti. Non tutte le serie giungono alla estremità del radiolo, ma alcune si arrestano prima d’un tratto: ciò perchè le dimensioni dei tubercoletti non diminuiscono verso l’estremità stessa, e quindi tutte le serie non possono essere contenute più appena il diametro del radiolo comincia a decrescere notevolmente. La lunghezza totale sembra variare fra 35 e 70 mm.— Analogie sono con alcuni radioli dell’ Eocene indiano. — 11 radioli. | 5. — Cidaris sp. — Analogie sono con la Cidaris spinigera DAM. — 9 radioli. 6. — Cidaris sp. — Analogie sono con la Cidaris Blancheti Cort. — 6 radioli. 7. — Cidaris sp. — 5 radioli. e 3 sp. — 8 placche e 49 radioli. 9. — FEhabdocidaris mespilum Des. — 1 placca e 4 radioli. 10. — È (?) sp. n. MARINONI (@ litt.). — Due radioli in- completamente conservati, in modo che non si può giudicare di tutti i loro caratteri nè delle loro dimensioni; essi appaiono però nell'insieme piuttosto grandi. Il capo è piuttosto piccolo, a cono tronco inferiormente; la base è incavata, la faccia articolare non crenellata; l’anello è molto sporgente e stretto a guisa di cercine; il colletto abbastanza sviluppato in lunghezza e discretamente delimitato verso il corpo del radiolo; è subcilindrico presso l'anello, ma si fa presto a sezione ovale sempre più depressa via via che si allontana da quello. Il corpo del radiolo è molto compresso, laminare, dilatato, limitato da due bordi interi, con andamento divergente verso l’estremità superiore del radiolo stesso. Le due super- fici sono ornate da una sottile striatura longitudinale; le strie stesse, con- seguentemente all'andamento dei bordi, non sono parallele, ma un po’ divergenti dal colletto verso l’alto. Non è conservata la parte terminale del radiolo. — Qualche analogia si può trovare nella Rhabdocidaris Ro- vasendai Air. — 2 radioli. 11. — Leiocìdaris itala LauBe. — 8 placche e 83 radioli. 12. — Sa) Scampiciù Tar. — 7 placche. 13. — Porocidaris Schmidela Mùnst. — 32 radioli. 14. — Cyphosoma pulchrum LAUBE. — 1 esemplare. 15. — Coelopleurus sp. — 1 esempiare. 16. — Orthechinus superbus DAM. — 2 esemplari. 17. — Coptechinus n. sp. — Due esemplari discretamente conservati, di piccole dimensioni; forma abbastanza regolarmente circolare, presen- . 94 G. DAINELLI tante però delle sporgenze in corrispondenza delle serie di tubercoli così ambulacrali che interambulacrali, e delle concavità in corrispondenza alle linee mediane degli spazi intercedenti tra le serie di tubercoli stessi. Faccia superiore regolarmente convessa, ma assai poco rigonfia; bordo massiccio e arrotondato ; faccia inferiore incavata nella regione mediana. Le zone ambulacrali sono, sul margine, larghe la metà di quelle inte- rambulacrali; il loro borbo esterno è lievemente, ma nettamente sinuoso, ogni convessità corrispondendo alla metà di ogni placca maggiore. Sono poco visibili i pori. I tubercoli, tanto degli ambulacri che degli interam- bulacri, sono piuttosto piccoli; il mammellone è poco sviluppato, roton- deggiante, imperforato ; il bordo del collo non è erenelato, ma liscio. Le serie di tubercoli si trovano come sopra un rilievo mediano delle sin- gole zone di placche; tale rilievo pare più marcato negli ambulacri che negli interambulacri, ma ciò soltanto per la minore larghezza di quelli rispetto a questi. Tutta la superficie presenta una ornamentazione ca- ratteristica, consistente in costoline abbastanza ben rilevate, dall’anda- mento un poco irregolare, le quali collegano tra loro i tubercoli. Ben evidente è la loro disposizione. Ce ne sono già alcune, le quali uniscono i tubercoli di ciascuna serie; poi altre che congiungono ciascun tuber- colo di una serie con i due vicini delle due serie adiacenti, costituendo così una ornamentazione in rilievo a zig-zag. Oltre a queste ve ne sono altre ancora, le quali complicano la ornamentazione stessa nelle zone ambulacrali; cioè, ogni tubercolo interambulacrale manda due costoline subparallele verso la adiacente zona ambulacrale, in direzione orizzon- tale: esse attraversano la prima serie di placche ambulacrali e vanno a terminare all’opposto tubercolo dell’altra serie di placche ambulacrali. Viene a determinarsi così una ornamentazione assai più complessa che nelle zone interambulacrali. — Diametro, mm. 13-23; altezza, mm. 6-12. — Analogie sono con il Coptechinus italus Opp. — 2 esemplari. 18. — Conoclypeus conoideus AGASS.? — varî esemplari frammentari. 19. — n anachoreta AGass. — 2 esemplari. 20. — n n. sp. — Un solo esemplare di grandi dimen- sioni, oltre ad un secondo peggio conservato; forma subovale, un poco allungata, nel complesso regolarmente arrotondata nel lato anteriore, appena rostrata in quello posteriore; faccia superiore molto rilevata, la massima rigonfiezza essendo alquanto eccentrica perchè spostata in avanti ; la faccia stessa appare nell’ insieme subconica, ma giro giro assai con- vessa tra il punto di massima rilevatezza ed il bordo esterno. La faccia NOTA PRELIMINARE SOPRA GLI ECHINIDI EOCENICI DEL FRIULI 95 x inferiore è nel complesso pianeggiante; essa mostra però una marcata | concavità imbutiforme in corrispondenza della regione proprio attorno al peristoma, ed invece una leggera convessità dal lato anteriore ed una più marcata presso quello opposto ; le quali due convessità risaltano n bene quando si osservi di profilo l’animale. Il bordo esterno è massiccio e arrotondato, tanto meno strettamente quanto più dalla estremità ana- le ci si avvicini lungo i due fianchi a quella anteriore. La sommità ambulacrale corrisponde al punto di massima rigonfiezza, quindi è alquanto eccentrica, spostata in avanti; i suoi caratteri non sono riconoscibili. Gli ambulacri sono abbastanza stretti, ma non troppo, misurando il 13 °,, del diametro antero-posteriore dell'animale, e sono fortemente depressi presso la sommità, e poi via via sempre meno av- vicinandosi al bordo esterno. I petaloidi sono lunghi (quello impari, mm. 58; coppia anteriore, mm. 54; coppia posteriore, mm. 65), e termi- nano aperti a poca distanza dal bordo (a non più di mm. 10). I loro limiti esterni corrono subparalleli a cominciare da poca distanza dalla sommità; verso il loro termine si restringono appena assai debolmente. Le zone porifere sono abbastanza larghe, ciascuna di esse misurando la metà della zona interporifera; i pori della serie interna sono perfetta-. mente circolari; quelli della serie esterna molto allungati, misurando qual- cosa più della metà di quanto è larga la zona porifera. Pori esterni ed interni sono nettamente coniugati; le zone porifere di ciascun petaloide sono ugualmente lunghe; si assottigliano notevolmente verso il loro ter- mine, dove però, per quanto assai ristrette, si chiudono non a punta ma tronche. Sul bordo e sulla faccia inferiore gli ambulacri sono segnati da due linee debolmente depresse; soltanto in prossimità del peristoma ciascuna zona ambulacrale si affonda notevolmente rispetto agli ambulacri che risaltano in rilievo. Il peristoma è malamente visibile; appare però subcentrale, appena un po’ spostato all'indietro, piuttosto grande, rego- larmente pentagonale. Il periprocto è infero, aderente al bordo esterno, ovale, nettamente allungato nel senso del diamentro antero-posteriore, appuntito in avanti. Tubercoli regolari ricoprono tutta la superficie: più piccoli e più fitti nella faccia inferiore e sul bordo, che non nella faccia superiore. — Lunghezza, mm. 108; larghezza, mm. 88; altezza, mm. 62. — Analogie sono con il Conoclypeus Ackneri KocH. — 2 esemplari. 21. — Pyrina Iarionensis DAM.? — 3 esemplari. 22.—. n. sp. — Un solo esemplare non perfettamente con- servato, ma che non esito ad attribuire ad una specie nuova. Individuo 96 G. DAINELLI di dimensioni piuttosto piccole: forma quasi perfettamente circolare; margine arrotondato. Faccia superiore nel complesso depressa, unifor- memente convessa; faccia inferiore pianeggiante, ma profondamente in- cavata nella regione peristomale. Sommità ambulacrale subcentrale; aree ambulacrali superficiali, relativamente larghe (mm. 4), misurando circa 14,8 ° del diametro antero-posterione ; sono acuminate presso la som- mità ambulacrale, si allargano quindi rapidamente fino alla massima larghezza, la quale si attenua appena un poco presso al margine dell’a- nimale; di qui essa decresce gradatamente fino al peristoma. Le zone porifere sono strettissime, misurando ognuna assai meno di mezzo mil- limetro di larghezza; i pori sono, così gli interni che gli esterni, pic- colissimi, circolari, uniformi, in coppie assai vicine ed oblique; essi sembrano mantenere gli stessi caratteri e le stesse proporzioni anche nella faccia inferiore. Il peristoma trovasi profondamente infossato ; esso è centrale, assai grande; non ne sono chiari i limiti, ma sembra ovale allungato obliquamente, con l’estremità più acuta rivolta verso l’inte- rambulacro pari anteriore sinistro. Il periprocto non è affatto visibile; potendosi però escludere che esso sia superiore ed inferiore, esso deve trovarsi di conseguenza marginale; non è visibile, giacchè l'esemplare è rotto corrispondentemente alla parte dell’interambulacro impari che si trova sul margine. L'individuo appare assai corroso; però nella faccia inferiore si vedono chiare tracce di grossi tubercoli, relativamente radi in specie lungo la linea mediana delle zone interambulacrali. — Lun- ghezza, mm. 27; larghezza, mm. 27; altezza, mm. 12, 5. — 1 esemplare. 23. — Cassidulus testudinarius BRONGN. — 3 esemplari. Sd 5 amygdala Des. - 1 esemplare. 25, — = n. sp. — Forma ovale, allungata, debolmente ri- stretta in avanti, slargata e subtronca posteriormente. Faccia superiore pochissimo rigonfia, anzi nell’insieme si può dire depressa; la massima rigonfiezza corrisponde, nell’interambulacro impari, al margine superiore del solco anale; del resto la intera superficie appare assai uniforme- mente, per quanto debolmente, convessa. La faccia inferiore è pianeg- siante nel complesso, ma longitudinalmente incavata; il bordo non è spesso, e solo superiormente arrotondato. La sommità ambulacrale è eccentrica, spostata in avanti, trovandosi a circa 44,7 °, del diametro antero-posteriore. Gli ambulacri sono superficiali; i petaloidi sono relati- vamente stretti (massima: larghezza di mm. 2, 5), non lunghi (mm. 8,3 quelli della coppia posteriore; 7 quelli della anteriore; 6,3 quello im- NOTA PRELIMINARE SOPRA GLI ECHINIDI EOCENICI DEL FRIULI 97 pari), giungono a circa due terzi di distanza tra la sommità ambulacrale ed il bordo; hanno forma lanceolata, più larga verso la sommità, e as- sottigliantesi verso l’estremità opposta, ove restano un poco aperti. Le zone porifere sono ben sviluppate, ciascuna di esse essendo maggiore della metà di quella interporifera. Le zone porifere constano di due serie di pori, piccoli, allungati trasversalmente così gli interni come gli esterni, questi però un po’ più di quelli, coniugati da un sottile solco in coppie debolmente oblique. Il numero di ciascuna serie di pori è di 28 nel petaloide impari, di 32 nella coppia anteriore, di 37 in quella poste- riore. Il periprocto è superiore, allungato longitudinalmente, assai stretto, acuminato alle due estremità; si apre nella parete di una depressione longitudinale che si trova nel terzo posteriore dell’ interambulacro im- pari. Non è visibile il peristoma; i tubercoli lo sono solamente in parte nella faccia inferiore, dove appaiono fini e fitti. — Lunghezza, mm. 23, 5; larghezza, mm. 19,5; altezza, mm. 8, 2. — Analogie sono con il Casst- dulus Munierì Cort. — 2 esemplari. 26. — Echinanthus subrotundus CoTt. — 1 esemplare. 27. — r bathypygus BItTN. — 4 esemplari. 3 de. ra i scutella Lam. ? — 3 esemplari. 29, — 1 n. sp. — Un solo esemplare di mediocri dimen- sioni. Forma subcircolare, un poco allungata longitudinalmente, arrotondata nel lato anteriore ed in quello posteriore; verso questo appena un poco più dilatata che verso quello opposto. La faccia superiore è poco rile- vata, depressa, un poco rigonfia a guisa di larga e ottusa carena nel- l’interambulacro posteriore. La faccia inferiore è da ogni intorno rego- larmente declive verso il peristoma; bordo arrotondato. La sommità ambulacrale è subcentrale, appena un poco anteriore, trovandosi a circa 48 9, della lunghezza totale. Gli ambulacri sono stretti, misurando dal 9 al 10 %, del diametro antero-posteriore dell’animale; quello impari è un po’ più sottile di quelli pari. I petaloidi sono tutti quasi ugualmente lunghi: soltanto un po’ più quelli della coppia posteriore; tutti terminano ad uguale distanza, non grande, dal bordo esterno; essi crescono rapi- damente in larghezza presso la sommità ambulacrale, poi la mantengono quasi invariata fino al termine, largamente aperto; questo carattere è più evidente nel petaloide impari, i cui limiti esterni sono perfettamente dritti e subparalleli; nei petaloidi pari invece è dritto soltanto il limite anteriore, mentre quello posteriore nella seconda metà del suo decorso si inflette un poco verso l’asse dell’ambulacro. Le zone porifere sono Sc. Nat. Vol., XXVIII - 98 G. DAINELLI sullo stesso piano di quelle interporifere e delle aree interambulacrali ; esse sono assai larghe, misurando ciascuna di esse più di 6 decimi della adiacente zona interporifera. In tutti i petaloidi presentano uguale lar- ghezza, ed in ciascuno di essi uguale lunghezza; i pori non sono discer- nibili; solo appaiono profondamente coniugati in coppie mediocremente oblique. Gli ambulacri male si riconoscono nella faccia inferiore, tranne che nella regione intorno al peristoma. Questo è pentagonale, nettamente stelliforme, appena un po’ dilatato trasversalmente, infossato, eccentrico, spostato in avanti, trovandosi a circa 40 °|, del diametro antero-poste- riore dell'animale, cioè assai più anteriore che la sommità ambulacrale. Il floscello è ben visibile e ben sviluppato: i carelli sono rilevati, massicci, arrotondati; i fillodi, abbastanza lunghi in paragone della loro massima larghezza, mostrano le serie esterne di pori fitte e regolari, mentre quelle interne sono più rade e assai meno uniformi. Il periprocto è marginale, piuttosto piccolo, subcircolare ma un poco allungato longi. tudinalmente, infossato dentro un solco che incide il bordo posteriore, continuandosi per breve tratto con una debole depressione sulla faccia inferiore. Tubercoli finissimi e molto fitti sulla faccia superiore e sul bordo esterno; più radi, e più marcati nella faccia inferiore. — Lun- ghezza, mm. 52; larghezza, mm. 48; altezza, mm. 14. — Analogie sono con l’Echinanthus Heberti CotTt. — 1 esemplare. | 30. — Pygorhyncus Mayeri De Lor. — 1 esemplare. 31. — Iarionia Damesi BirtN.? — 3 esemplari. 32. — Echinolampas alienus BITTN. — 1 esemplare. 33. — Lì Ottelliò TAR. — 10 esemplari. SA $ subcylindricus Des.? — 5 esemplari. 35. — È berticheresensis CoTT. — 4 esemplari. 36. — Po globulus LAUBE. — 5 esemplari. 27. — x Suessi LAUBE. — 4 esemplari. 38. — L cfr. Studerì Agass. — 2 esemplari. 39. — Oriolampas Michelini Corr. — 1 esemplare. 40. — Brissus ? sp. — 2 esemplari. 41. — Brissopsis forojuliensis Opp.? — 2 esemplari. 42. — Schixaster postalensis BIrTN. — 1 esemplare. Lada x vicinalis AGass. — 5 esemplari. NA ; Archiacì CoTtt. — 4 esemplari. 45. — Ù globulus DAM. — 2 esemplari. 46. — a n. sp. — Un solo esemplare in cattivo stato di con- NOTA PRELIMINARE SOPRA GLI ECHINIDI EOCENICI DEL FRIULI 99 servazione; esso sembra esser stato soggetto ad azione di compressione, la quale non si può arguire in che misura possa avere alterato la forma ‘originaria del fossile. Per questa ragione il riferimento appare un poco : dubbio, per quanto si possa pensare trattarsi di una specie nuova. — Esemplare di piccole dimensioni. Forma subcircolare, cordata, arroton- . data sul latu anteriore e sui fianchi, un po’ ristretta e acuminata po- steriormente; la massima larghezza si trova abbastanza innanzi alla sommità ambulacrale. La faccia superiore appare nell’insieme poco ri- gonfia; la massima rigonfiezza trovasi nell’ interambulacro impari, assai vicino alla faccia posteriore; di lì la superficie appare fortemente de- clive in avanti e non convessa ma nell'insieme corrispondente ad una superficie piana; non si può dire, però, per quanta parte questo aspetto caratteristico dipenda da una compressione successiva, come ho sopra accennato; ad ogni modo credo che, salvo la misura della declività, il carattere stesso debba ritenersi nel complesso originario. La faccia in- feriore è pianeggiante. Il bordo è subacuto anteriormente, mai massiccio. La sommità ambulacrale è assai accentrica, spostata all’ indietro, trovan- dosi a circa 64 ° della lunghezza totale. L'apparato apicale è un poco infossato; sono visibili i quattro pori genitali all'incirca equidistanti: i pori della coppia anteriore sono soltanto un poco più avvicinati di quelli della posteriore. Il solco anteriore è molto largo e molto profondo; si restringe alquanto in vicinanza del margine, che incide piuttosto tenue- mente. L’ambulacro impari è costituito da due serie di coppie di pori, le quali hanno andamento da prima curvilineo, poi quasi diritto, e si trovano alla base dei fianchi del gran solco anteriore; i pori stessi sono in coppie oblique e spazieggiate, assai avvicinati tra loro, separati da un piccolo rilievo. Le aree ambulacrali pari sono alquanto incavate nella superficie dell’animale. I petaloidi della coppia anteriore sono allungati, claviformi, cioè acuminati presso la sommità ambulacrale, indi crescenti gradata- mente in larghezza, e arrotondati alla loro estremità. Sono un po’ ri- curvi, con la concavità rivolta in avanti, e divergono di circa 85°; le zone porifere sono larghe, quella interporifera assai stretta; dei pori, gli interni sono leggermente ovali, gli esterni un po’ allungati; se ne contano da 18 a 19 coppie per ciascuna zona. I petaloidi posteriori sono meno infossati, assai piccoli, fogliformi; le zone porifere ed i pori non hanno caratteri speciali; le coppie dei pori stessi sono in numero di 7 od 8 per zona porifera. Le zone interambulacrali pari anteriori sono strette ed assai rilevate; le posteriori più ampie e relativamente de- 100 G. DAINELLI presse; l’interambulacro impari è un po’ carenato. Il peristoma è assai eccentrico, spostato in avanti, trovandosi a circa 15,4 °o del diametro longitudinale; non è riconoscibile nettamente la sua forma. Il periprocto è ovale, allungato longitudinalmente, accuminato alle due estremità; trovasi in alto della faccia posteriore, che è tronca, ed anzi un po’ con- cava. — Lunghezza, mm. 19,5; larghezza, mm. 18; altezza, mm. 12. — Analogie sono con lo Schizaster biarritzensis Cort. — 1 esemplare. 47. — Linthia pentastoma OPP. — 20 esemplari. ‘iti sp. — 1 esemplare. 49. — Prenaster alpinus Des. — 113 esemplari. 50. — Brissospatangus Damesi Opp. — 2 esemplari. ISTITUTO DI ANATOMIA PATOLOGICA DELLA R. UNIVERSITÀ DI PISA (PROF. A. CESARIS DEMEL) —___-__ A. CESARIS DEMEL + Null'arione delle sostanze toloranti vitali è sopravitali SUL CUORE ISOLATO DI CONIGLIO au (CONT) E una conquista assolutamente moderna nella tecnica istologica quella che ci permette di colorare alcuni dei tessuti viventi, negli animali, senza alterarne sensibilmente la vitalità e la funzionalità. A questa conquista si venne per gradi ed è veramente notevole il progresso che si è raggiunto dalle prime classiche esperienze di EHRLICH, che iniettando nell’animale vivente del bleu di metilene in soluzione, ne colorava le fibre nervose, alle recenti di GoLpMANN *!, * che con iniezioni ripetute di soluzioni tenui di pirrolblau e di isanaminblau riesce a colo- rare diffusamente in bleu più o meno intenso quasi tutti i tessuti, per una elettiva colorazione che avviene nella loro compagine di una deter- minata specie di cellule connettivali, dall'A. stesso definite col nome di cellule a pirrolo. Ed è ad EHRLICH stesso che dobbiamo questo progresso, perchè egli trovò e dimostrò la specifica azione delle due sostanze sopra ricordate. Ho detto che questo progresso si ottenne per gradi e voglio alludere con questo agli interessanti e molteplici tentativi che furono fatti suc- cessivamente ad EnRLICA, da altri AA. che sono ricordati da GoLDMANN e per quello che si riferisce al carmino, dalla bibliografia che accompagna il lavoro, pure recente, di PARI ”. Le osservazioni di GoLDMANN furono successivamente riassunte e con- fermate da Foà? che applicò il bel metodo di colorazione vitale allo studio di alterazioni patologiche, venendo a degli interessanti risultati. * Nella interessante monografia di GOLDMANN si trova citata tutta l’abbon- dante letteratura che riguarda le colorazioni vitali. 102 A. CESARIS DEMEL Ora, come ha dimostrato GoLpmann, le granulazioni bleu che com- paiono nelle così dette cellule a pirrolo, non sono granuli di colore penetrati nel protoplasma cellulare come potrebbe avvenire per semplice penetrazione meccanica o per assunzione fagocitica, perchè dal luogo del- l’iniezione non si ha penetrazione in circolo e trasporto di granuli di colore nei varii tessuti (ed io stesso ho potuto persuadermene giacchè in molti animali da me ripetutamente iniettati di pirrolblau non ho mai potuto constatare in circolo aleun granulo di colore o libero o fagocitato). Si tratta invece di una fissazione specifica che avviene da parte dei ‘granuli preesistenti nel protoplasma cellulare, del colore che vi arriva disciolto ed apportato dal plasma circolante negli interstizi dei tessuti. Si tratta cioè di un vero esempio di colorazione vitale in una parte viva. Se questa colorazione è indifferente alla funzione dell'elemento nel quale si manifesta giacchè questi elementi così colorati continuano a vivere e funzionare (tantochè animali anche fortemente colorati possono facilmente riprodursi) sì può ritenere che la sostanza colorante stessa, almeno nelle tenui proporzioni dell’ esperimento, non abbia manifesta azione tossica sull’organismo. Per quanto dunque ciò si possa desumere dall’esperienze di GoLpMann, io ho creduto interessante di confermarlo servendomi di un reattivo biologico molto sensibile, voglio dire del cuore isolato. Io ho voluto cercare cioè come si comporti il cuore isolato di coniglio di fronte a soluzioni varie di pirrolblau in liquido di R. L.* estendendo poi la mia ricerca all’azione di altre sostanze coloranti adoperate nelle colorazioni vitali e sopravitali. Esperienze col pirrolblau. In queste mi sono valso preferibilmente di soluzioni molto diluite di colore, per mettermi nelle stesse condizioni dell'esperimento fatto sull’animale vivo, per fare agire cioè sul cuore presso a poco la stessa diluizione di colore che vi agisce quando il colore, dopo di essere stato iniettato sotto cute, vi permane nella sua massima parte, mentre solo pochissimo viene assorbito per passare allo stato di estrema diluizione in circolo. Ricordo che GoLDMANN e successivamente Foà, adoperarono per le iniezioni una soluzione acquosa di pirrolblau all’ 1 °/, iniettandone un cc. per 20 gr. in peso dell’animale e come questi AA. abbiamo osser- * R.L.= Ringer Loke, © Sant deren dg) f x SULL’AZIONE DELLE SOSTANZE COLORANTI VITALI E SOPRAVITALI ECC. 103 vata la permanente intensa colorazione al punto della iniezione e solo un lento assorbimento per la via sanguigna di piccole quantità di colore, lento e progressivo, giacchè anche dopo parecchi giorni dall’iniezione la colorazione dei tessuti va ancora aumentando. In un litro di R. L. io scioglievo a 40.°, 0.01 di pirrolblau. Ottenuta la soluzione la filtravo attraverso ad un filtro a 4 strati di carta molto spessa. Il titolo della soluzione filtrata calcolata la piccola quantità di colore trattenuta dalla carta da filtro, veniva ad essere così di poco infe- riore all’1 per 100.000. Alla soluzione così preparata, non facevo la solita aggiunta di sangue defibrinato per evitare per quanto mi era possibile la formazione di piccoli coaguli che avessero poi a provocare degli em- bolismi nel cuore. Con questa soluzione feci parecchie esperienze otte- nendone un risultato costante come lo dimostrano le grafiche che io ne ho raccolto. Ne riproduco due (Gr.I e II) dalle quali risulta evidente come il cuore non risenta affatto o risenta in un modo estremamente lento dell’azione tossica del colore tantochè la grafica che se ne ottiene è assolutamente identica a quella che si può ottenere da un cuore nu- trito semplicemente dal liquido di R.L.e senza aggiunta di sangue. * Gr. I** (III delle mie esperienze). — Il R. L. puro, dopo un minuto fu sostituito da una soluzione di Pir. b. in R. L. all’1 per 100000. 1l cuore non risente della sostituzione e la sua funzione va solo lentissi- mamente decrescendo. Qui sono riprodotte in 1-2-3 le grafiche raccolte nei tre primi cilindri. Nel 4 l’attività del cuore andava ancora più atte- «nuandosi e il cuore fu raccolto intensamente colorato ed ancora ritmi- camente, per quanto debolmente pulsante. Gr. II (XIV delle mie esperienze). — R. L. puro poi subito Pir. b. all’1 per 100000. Solo dopo un’ora si ha una leggera aritmia. Il cuore è raccolto intensamente colorato, dopo un’ora e mezza, ancora valida- mente pulsante. In tutte queste esperienze io ho potuto osservare che il cuore co- mincia a colorarsi poco dopo l'immissione della soluzione colorante, che la colorazione va gradatamente aumentando fino ad un bleu molto intenso che interessa omogeneamente tutta la massa cardiaca. Il pirrolblau dunque, pur colorando intensamente il cuore, non ha su questo alla soluzione del- l'1 per 100000 alcuna manifesta azione tossica; confermando quanto ab- * Nelle mie esperienze ho sempre adoperato l'apparecchio di Apucco. *#* Questa grafica e le successive sono riprodotte nella tavola che accompagna il lavoro, (Tav. IV, [I]). 104 A. CESARIS DEMEL biamo detto avvenire nell’animale vivo, dove la colorazione ottenuta per iniezione sottocutanea, nei varii visceri e quindi anche nel cuore ne lasciava integra la funzionalità. Successivamente saggiai la tossicità del pirrolblau a più forte con- centrazione. Nella proporzione dell’1 per 10000 non manifesta ancora alcuna azione tossica immediata. Si ha così un andamento simile a quello segnato nelle grafiche precedenti. Nella proporzione dell’1 per 1000 (e questa fu la massima concentrazione di colore da me saggiata) come dimostra la grafica III non si ha alcuna azione tossica immediata, però dopo poco tempo si ha un rapido decadimento nella funzionalità car- diaca con profonde irregolarità delle sue pulsazioni e rapido arresto del cuore dovuto, l’uno e l’altro, non al fattore tossico ma al fattore mecca- nico dipendente da un progressivo esteso inamovibile embolismo dei mi- nuti capillari sanguigni per masse di colore che vi si soffermano, come l’esame istologico (e lo vedremo) facilmente dimostra. Gr. IIT (XXVI delle mie esperienze). — Si comincia col R. L. normale. Dopo 1.° si sostituisce con la soluzione di Pir. b. all’1 °/;o- Per tre minuti il cuore non ne risente, poi va lentamente abbassandosi l’altezza delle contrazioni e compaiono gravi irregolarità che si riparano tornando al R. L. normale. Rimettendo il Pir. b. si ripetono le irregolarità e si ha quasi un arresto del cuore. Il cuore si raccoglie fortemente colorato ed ancora mobile. Esperienze coll’ isanaminblau. Anche per questa sostanza adoperai le stesse diluizioni e preparate nello stesso modo di quelle del pirrolblau. I resultati che ne ottenni sono assolutamente identici a quelli ora riferiti. Anche qui la progres- siva colorazione del cuore fino a farsi intensissima non è accompagnata da una molto sensibile alterazione della funzionalità cardiaca come lo dimostra la grafica IV che corrisponde ad un cuore sul quale si è fatto agire l’isanamiblau nella proporzione dell’ 1 per 100000. Gr. IV (XXIII delle mie esperienze). — Corrisponde al 1.° cilindro raccolto da un cuore che ha funzionato sempre regolarmente colla per- fusione di isanaminblau all’1 per 100000. La leggera depressione che segue all'immissione dell’Is. b. è subito riparata per quanto continui sempre la perfusione della soluzione colorata. Il cuore è raccolto dopo due ore, diffusamente ed intensamente colorato ed ancora validamente pulsante, gi d | | SULL’AZIONE DELLE SOSTANZE COLORANTI VITALI E SOPRAVITALI ECc. 105 Esperienze col bleu di metilene. Era interessante provare anche questa sostanza come quella che fu adoperata per la prima volta nella colorazione vitale per dimostrare i filamenti nervosi nei tessuti. Questa sostanza ha un’azione spiccatamente più tossica delle due precedentemente studiate. Con la sua perfusione si ha da prima un abbassamento nell’ampiezza delle pulsazioni seguita da un rallentamento nel ritmo. Le due grafiche V (1 e 2) e VI lo di- mostrano. Gr. V (XXVIII delle mie esperienze). — Nel 1.° cilindro si comincia col R. L. puro. Dopo 1.° colla perfusione di bleu di met. all’1:100000 sì ha un leggero abbassamento nell’altezza delle contrazioni subito ripa- rato dai R. L. normale. Colla perfusione di bleu di met. al 1%, si ha un nuovo abbassamento rapido nell’altezza della contrazione, mal ripa- rato da R. L. normale. Rimettendo bleu di met. all’1°%/,, si ha un nuovo abbassamento che è mal'riparato dalla continuata perfusione di R. L. puro, per più di un’ora. L'ampiezza delle contrazioni aumenta di poco mentre il numero delle pulsazioni va diminuendo. Il cuore si raccoglie intensamente colorato e regolarmente pulsante. Gr. VI (XVI delle mie esperienze). — Si comincia con R. L. normale. Dopo 1.°, alla perfusione di bleu di met. all’1 per 10000 si ha un abbas- samento progressivo in altezza con rallentamento della contrazione car- diaca, non riparato dalla perfusione di R. L. normale. . L’azione tossica è permanente giacchè anche con la prolungata lava- tura con R. L. il cuore non riprende la sua funzionalità. . Esperienze col nilblau. Questo colore, il cui uso si va ora nelle colorazioni sopra vitali, spe- cialmente per la dimostrazione dei lipoidi, largamente diffondendo ed il cui uso in ematologia, come ho potuto in questi ultimi tempi convin- cermi, è quanto mai utile, non ha.la proprietà di colorare in vita gli animali ai quali venga iniettato. Sul cuore isolato di coniglio invece nella solita proporzione dell’1 per 100000 ha una rapida ed intensa azione tossica deprimente, si ha cioè un ‘abbassamento in ampiezza delle contrazioni cardiache ed un rallentamento del ritmo e la lavatura praticata con R. L. anche dopo soli 30 secondi non serve a far riprendere al cuore la propria funzione e così questo, che pur nella breve durata dell’espe- 106 A. CESARIS DEMEL rimento si è diffusamente colorato, è condotto rapidamente all’ arresto. La grafica VII dimostra questo fatto. Gr. VII (XI delle mie esperienze). — Si comincia col R. L. normale. Il nilblau all’1 per 100000 dà un abbassamento nell’ampiezza delle contrazioni, mentre il cuore va rapidamente e intensamente colorandosi. L’immediato ritorno al R. L. non impedisce che il cuore sia condotto rapidamente all’arresto. Esperienze col brillant cresyl blau. Anche questo colore nella solita proporzione dell’1 per 100000 dà un abbassamento in altezza della contrazione, aumento di tono e pro- gressivo esaurimento del cuore (che si va rapidamente e diffusamente colorando) non arrestato dalla prolungata lavatura con R. L. La grafica VIII nettamente lo dimostra. Gr. VIII (XII delle mie esperienze). — Si comincia con R. L. Alla perfusione di bril. cr. blau all’1 per 100000 diminuisce in ampiezza la contrazione, aumenta fortemente il tono mentre il cuore si colora inten- samente. Il ritorno al R. L. normale non impedisce che il cuore sia con- dotto rapidamente all’arresto. Esperienze col rosso neutrale. Anche questa sostanza si dimostra tossica, nella proporzione dell’1 per 100000 e mentre il cuore se ne colora diffusamente va diminuendo in ampiezza nelle proprie contrazioni e presenta un progressivo rallen- tamento. La grafica IX dimostra questo fatto. Gr. IX (XIV delle mie esperienze). — Si comincia col R. L. Il Neutral Roth all’1 per 100000 da un abbassamento rapido in ampiezza delle contrazioni, ed aumento di tono. Il ritorno al R. L. ripara in parte e rimettendo poi il N. R. si ha un progressivo abbassamento e rallenta- mento delle contrazioni. Nel 2.° cilindro, che qui non è riportato, il cuore pulsò ancora per 25' e fu raccolto diffusamente colorato ed ancora debol- mente ma ritmicamente pulsante. Esaurita questa prima serie di ricerche, dalla quale si può facilmente desumere come solo le sostanze coloranti vitali (pirrolblau ed isanamin- blau) non abbiano alla dose di 1 per 100000 un’azione tossica manifesta sul cuore isolato di coniglio, mentre il bleu di metilene l’ha già mani- è REggE -CACOE RE È. SULL’AZIONE DELLE SOSTANZE COLORANTI VITALI E SOPRAVITALI ECC. 107 festa ed il brillant cresylblau, il rosso neutrale ed il nilblau fortissima, era interessante il ricercare se i cuori colorati all’ apparecchio ed ancora re- golarmente funzionanti avessero conservata immutata la propria eccita- bilità. Per farlo raccolsi delle grafiche da cuori di conigli normali ecci- tati da una debole diluizione di paragangliina, sostanza che come è noto, contiene un principio attivo, eccitante, specifico della fibrocellula musco- lare cardiaca e le confrontai con quelle raccolte da cuori eccitati dalla stessa diluizione di paragangliina dopo di essere stati colorati da una pro- lungata perfusione di R. L. e pirrolblau all’1 per 100000. Riporto qui una delle grafiche (grafica X) delle prime esperienze che mi dovevano servire di controllo ed una di quelle ottenute da cuori precedentemente irrorati da una soluzione di pirrolblau o di isanaminblau (grafica XI). Gr. X (XXI delle mie esperienze). — Si alternano R. L. normale con R. L. + 5 goccie ‘o di paragangliina Vassalle e si nota per azione della paragangliina, un notevole aumento in ampiezza delle contrazioni cardiache. Gr. XI (XXIII delle mie esperienze). — Sono riprodotte il 2.° e il 3.° cilindro. Il 1.° fu riprodotto nella grafica IV e rappresenta la prima mezz'ora durante la quale il cuore ha pulsato continuamente sotto l’azione dell’isanaminblau all’ 1:100000. Nel 2.° cilindro (cioè dopo 35’ e quando il cuore è diffusamente ed intensamente colorato) si. vede che all'immissione della paragangliina si ha un notevole aumento in ampiezza nella contrazione cardiaca, che scom- pare rimettendo il R. L. colorato e si riottiene colla paragangliina a pa- recchie riprese ed anche due ore dopo il principio dell’esperienza. Come dimostrano queste grafiche il cuore ha conservata immutata la propria eccitabilità e sotto l’azione della paragangliina (nella propor- zione di 5 goccie su 1000 di R. L.) si ha lo stesso aumento nell’ am- piezza della contrazione e la stessa durata dell’eccitamento che si ha nei cuori normali. Queste esperienze dunque confermano e dimostrano anche più nettamente come il pirrolblau e l’isanaminblau rispettino la funzionalità del cuore. Ho ripetuto poi lo stesso esperimento con cuori ‘colorati col bleu: di metilene. Gr. XII (XXIV delle mie esperienze). — Nel 1.° cilindro si vede che cominciata l’esperienza con R. L., alla perfusione di bleu di met. al- l'1:100000si ha un sensibile abbassamento nell’ampiezza delle contrazioni. Nel 2.° cilindro si vede che ad un punto, che corrisponde a 25’ dal principio dell’esperienza, la perfusione di paragangliina da un notevole aumento in ampiezza delle contrazioni. 108 A. CESARIS DEMEL Esperienza questa anche interessante e che integra le precedenti, in quantochè, come vedremo più innanzi dal risultato dei miei esami istologici e come del resto era prevedibile da quanto avevano osservato precedenti AA. il bleu di metilene si fissa e colora elettivamente nume- rosi fibrille nervose e le cellule gangliari che si trovano nell’intimità del miocardio e da ciò la conclusione o che le fibre o le cellule nervose vitalmente colorate, possano continuare immutata la propria funzionalità, 0 che il cuore indipendentemente dalle fibre e dalle cellule nervose alterate dalla colorazione possa trovare nella conservata integrità delle proprie fibrocellule muscolari la ragione del proprio immutato automatismo. Coll’intento poi che mi sono prefisso in tutti i miei studi sul cuore isolato, di far seguire alla ricerca puramente funzionale, la ricerca isto- logica, io sottoposi ad esame istologico i cuori che ayevo fatto funzio- nare all’apparecchio e che raccolsi più o meno intensamente, ma sempre diffusamente colorati. Nessuno infatti dei cuori raccolti in queste espe - rienze presentava aeree scolorite e tali da far pensare ad un embolismo di qualche grosso vaso istituitosi al principio dell’esperienza. Quantunque pol io abbia sperimentati parecchi colori sul cuore isolato, nei miei esami istologici mi limitai ai cuori colorati dal pirrolblau e dal bleu di meti-. lene, trascurando gli altri, per’ la troppo breve durata della loro vita all’apparecchio, dovuta alla elevata proprietà tossica dei colori stessi. Cuori colorati al pirrolblau. . Quelli tra questi sui quali fissai più specialmente la mia attenzione furono quelli che avevano più a lungo funzionato colla perfusione di deboli soluzioni di colore e gli esaminai, sia per dilacerazione a fresco colorandoli col noto metodo delle colorazioni sopravitali del sangue, sia in pezzi fissati in formalina e tagliati al congelatore. Colla colorazione a fresco (colla miscela Brillant cresyl blau e Sudan III e col Nilblau) ho potuto constatare come anche in questi cuori, dopo qualche tempo da che è cominciata l’esperienza quando la grafica rac- colta indicava una funzione per quanto attenuata, assolutamente rego- lare, nelle fibro cellule muscolari cardiache si nota la comparsa di minute goccioline di grasso, e la cosa riesce poi tanto più evidente e dimostra- tiva nelle sezioni ottenute al congelatore e colorate alla ematossilina, previo trattamento secondo Hescheimer con una soluzione alcalino-alcoo- lica di Scharlach Roth, SULL’AZIONE DELLE SOSTANZE COLORANTI VITALI E SOPRAVITALI ECC. 109 Abbiamo così la conferma del fatto già da tempo da me dimostrato, che nel cuore isolato anche senza l’aggiunta di veleni steatogeni al liquido di perfusione, si ha la formazione di grasso direttamente dalle albumine cellulari, per il solo fatto della cattiva nutrizione alla quale è sottoposto il cuore ?. La comparsa di queste gocciole adipose è lenta e progressiva e si può cronologicamente seguire nella sua manifestazione. Le gocciole sono piccole, prima scarse, poi più numerose e solo quando sono molte, comin- ciano a confluire in gocciole più grosse. Questo reperto non ho cre- duto necessario confermarlo in pezzi fissati in MULLER e trattati suc- cessivamente col MARcHI, sapendo, come hanno dimostrato DappI e Mr- CHAELIS che col Sudan e collo Scharlach Roth adoperati come ho sopra accennato, si ottengono nella dimostrazione dei grassi neutri dei risul- tati migliori e più completi che dal semplice uso dell’acido osmico. Le fibrocellule muscolari contenenti le goccioline adipose, conservano immutata la propria striatura ed il nucleo, per colorabilità ed aspetto, si mostra assolutamente normale. In questi cuori però, resta interessante la constatazione della preco- cità in tempo nella comparsa di queste alterazioni, che a parità di tempo sono dunque molto più gravi di quelle che non si osservino in cuori normali e sotto la perfusione di semplice liquido di R. L. come ho potuto constatare nelle mie antiche esperienze. Successivamente mi occupai di ricercare quali elementi fossero nei cuori da me raccolti più direttamente interessati o lesi, dalla sostanza colorante, se cioè, in questi miocardi si potesse anche constatare la pre- senza delle caratteristiche cellule a pirrolo, dimostrate da GOoLDMANN in tutti i tessuti e quindi anche nel cuore degli animali colorati vitalmente. Per riconoscere questi speciali elementi non solo mi sono valso delle descrizioni e delle chiare figure che GoLpmann e Foi ne danno, ma per- sonalmente iniettai topolini bianchi e conigli con soluzioni di pirrolblau osservando al tutto la tecnica seguita dai precitati AA. Da questi animali uccisi a vari periodi della preparazione, ma sempre visibilmente colorati, raccolsi i varii visceri e ne allestii molteplici pre- parati, nei quali mi fu facile ritrovare le cellule a pirrolo, delle quali quindi acquistai una personale esperienza. Anch'io per la fissazione adoperai la formalina al 10°/, e per la ‘colorazione nucleare l’allume carmino. Fissai naturalmente la mia atten- zione sul sistema muscolare striato e più specialmente sul cuore. Potei 110 A. CESARIS DEMEL così confermare che il cuore presenta sempre una colorazione più cupa di quella che presentano gli altri muscoli, molto probabilmente come ha supposto EHRLICH quando studiò sugli animali viventi la colorazione dei tessuti colla fenildiamina, per trattarsi di un muscolo a più intensa ed ininterrotta attività e nel quale quindi arriva per i bisogni funzionali una maggiore quantità di sangue e si ha quindi un maggiore trasporto di colore disciolto nel sangue stesso. Vidi anche come GOoLDMANN, che la lingua è pure sempre molto colo- rata all’esame istologico. Confermai la presenza delle caratteristiche cel- lule a pirrolo (cellule rotonde che stanno per grandezza tra i grandi e i piccoli linfociti, con nucleo irregolare e protoplasma finamente granulato e tinto in bleu) che nei muscoli sono disposte a forma sinciziale lungo i fasci connettivali, mentre le fibre e le trabecolature muscolari sono sempre incolore e prive di quelle forme a bastoncino e granuli, descritti da ALTMANN. I preparati così ottenuti mi servirono di confronto e di controllo dei moltissimi altri ottenuti colla stessa tecnica dai cuori colorati, raccolti ancora pulsanti e fissati rapidamente in formolo. Dopo alcune prove, che mi diedero cattivi risultati, per ottenere dai cuori freschi delle buone sezioni al congelatore, senza fissarli preventi- vamente in formalina (chè difficilmente così si ottengono sezioni ampie e sottili) dovetti tornare al metodo classico della congelazione di cuori fissati preventivamente in formalina al 10 ‘|. Con questo mezzo le sezioni riescono ampie e sottili e se ne otten- gono degli ottimi preparati. Già a piccolo ingrandimento si nota come in questi cuori, per il modo col quale il colore si trova distribuito e per gli elementi che più direttamente ne sono interessati, si ha un reperto assolutamente diverso da quello che si osserva negli animali il cui cuore fu colorato vitalmente. Qui infatti sono specialmente le ultime terminazioni vascolari che dal colore sono messe in evidenza, quasi si trattasse di un preparato fatto per iniezione, mentre nei cuori colorati vitalmente questo fatto non si osserva mai. Qui molti tratti vascolari si possono seguire per un bel tratto nel loro decorso ed appaiono come cordoncini bleu, mentre altri tagliati trasversalmente appaiono come masse rotondeggianti di un color bleu intenso. Anche in vasi più ampi noi vediamo un contenuto bluastro alternato a masse più o meno voluminose di globuli rossi. A piccolo - È 3 Pat SATTA SULL’AZIONE DELLE SOSTANZE COLORANTI VITALI E SOPRAVITALI ECC. 111 ingrandimento ancora non si scorgono i caratteristici aggruppamenti delle cellule a pirrolo che, se non nei loro dettagli, almeno per la loro presenza dovrebbero essere nettamente discernibili. A più forte ingrandimento è facile poi conoscere più intimamente il modo col quale i vasi si comportano di fronte all’azione della sostanza colorante. Noi vediamo anzitutto che gli endoteli vascolari presentano una più intensa, ma diffusa colorazione bluastra del loro protoplasma che (nei preparati allestiti senza l’azione del carmino) è assolutamente incolore e di aspetto normale. Questa colorazione la troviamo tanto nelle cellule endoteliali degli esilissimi capillari sanguigni che ci sono così segnati nel loro decorso, attraverso le fibro cellule muscolari, da una banderella bluastra appena sensibile, quanto nelle cellule endoteliali che rivestano l’intima degli altri vasi. In queste ultime però nel protoplasma si scorgono anche talora dei granuli intensamente colorati in bleu, più che non siano i granuli delle cellule a pirrolo, e che non hanno come questi forma rotondeggiante e appaiono quindi come piccole precipitazioni di colore attivamente fago- citato o passivamente penetrato dal lume vascolare nel protoplasma endoteliale, mai come produzioni granulari preesistenti vitalmente colo- rate. Raramente poi nel lume dei capillari, più frequentemente nel lume dei piccoli e medi vasi, si notano anche grossi ammassi amorfi di colore embolicamente incuneati, senza però mai ostruire completamente il vaso stesso, alternati da ammassi più o meno voluminosi di globuli rossi. Nell'insieme abbiamo dunque, embolismi multipli di precipitazioni granulari con diffusione per imbibizione del colore e penetrazione di fram- menti granulari, nel protoplasma delle cellule endoteliali. La ricerca invece di vere e proprie cellule a pirrolo mi è riuscita assolutamente negativa. Vidi è vero talora nello spessore del miocardio degli elementi isolati, che a tutta prima sembravano appartenere al con- nettivo interstiziale e per il contenuto granulare colorato in bleu si poteva supporre sì dovessero interpretare come cellule a pirrolo, ma ad un più attento esame potei poi sempre identificarle con elementi endoteliali vascolari (che per le accidentalità della sezione potevano sem- brare isolate e indipendenti dai vasi) colla penetrazione passiva di pre- cipitati granulari di colore nel loro protoplasma. Per quanto questo reperto istologico, ora rapidamente ricordato, sia 1572 A. CESARIS DEMEL diverso da quello che si ottiene nel cuore degli animali colorati vital- mente, ci sembra sia lo stesso interessante, e dia campo a delle utili constatazioni. Noi vediamo infatti che ci troviamo dinanzi a cuori che pur presen- tando una notevole limitazione nel lume delle ultime diramazioni (embo- lismi multipli da parte di granuli di colore) e quindi scarsamente nu- triti, presentavano una funzionalità, poco intensa è vero, ma perfetta- mente ritmica e regolare. Questo fatto ci conferma che l’affievolimento delle contrazioni car- diache è da riferire, più che all’azione tossica della sostanza colorante, alla sua azione ostruente per il fatto meccanico dei suoi precipitati in- cuneati embolicamente nei vasi. Ecco che l’esame istologico non solo ci conferma l’assenza di pro- prietà tossiche del pirrolblau sugli elementi del cuore, ma ci rende ra- gione anche della precocità nella comparsa dei fenomeni degenerativi dovuti al grave difetto sopravvenuto nella circolazione e quindi nella nutrizione del cuore. | Da che dipende la precipitazione del colore che pure al principio del- l’esperienza era perfettamente disciolto nel liquido di perfusione ? Questa dipende da che il liquido di perfusione prima di aver cacciato dall’ albero circolatorio del cuore tutto il sangue che vi è naturalmente contenuto al momento dell’ esperienza — si mescola con questo e da questa mescolanza ne viene una minor solubilità del colore nel nuovo ambiente nel quale viene a trovarsi e quindi una sua facile precipitazione. E le esperienze stesse di GoLDMANN avevano dimostrato come it pirrolblau solo in tenuissime proporzioni possa disciogliersi nel plasma sanguigno tantochè se si cerca di colorare vitalmente gli animali colla iniezione in circolo della soluzione colorante, gli animali ne vengono ra- pidamente a morte con la produzione di embolismi multipli di colore nei vasi terminali. Da che dipende poi la mancanza delle vere e proprie cellule a pir- rolo nei nostri cuori? to: Evidentemente dalla troppo breve durata dell'esperimento, che non permette al pirrolblau, che allo stato disciolto perviene negli interstizi dei tessuti, di essere specificamente assunto dalle preesistenti granula- zioni delle cellule interstiziali: sappiamo infatti che anche nell’animale occorre un certo tempo dalla prima iniezione ‘di colore nel tessuto sot- tocutaneo perchè questi elementi compaiono colorati negli interstizi dei tessuti. SULL’AZIONE DELLE SOSTANZE COLORANTI VITALI E SOPRAVITALI ECC. 113 Nei cuori isolati, poi, che hanno pulsato per un certo tempo all’ap- parecchio (una, due, o più ore) si viene istituendo, come è noto, una imbibizione diffusa del miocardio da parte del R. L. che trova una minor resistenza alla permeabilità nelle pareti dei vasi che si vengono grada- tamente alterando talchè il cuore aumenta di volume, si fa umido e suc- coso come si può all’ esame macroscopico facilmente constatare. All'esame istologico questa imbibizione diffusa è anche evidente con una dissocia- zione delle fibrocellule muscolari, che sono facilmente allontanate tra di loro. Ora nei cuori colorati, da me raccolti questa imbibizione diffusa è notevolmente minore e quindi meno evidente, tanto all’ esame macrosco- pico che microscopico, di quello che non sia nei cuori semplicemente nutriti da R. L. Questo dipende da che la progressiva e diffusa ostruzione per quanto generalmente parziale, degli ultimi distretti vascolari, impedisce che i vasi che li costituiscono, cedano progressivamente alla pressione endo vascolare e per questa loro distensione si facciano più facilmente per- meabili. Cuori colorati col bleu di metilene. Con questo colore come è noto EHRLICH ottenne per iniezione sotto- cutanea la colorazione delle cellule e delle fibrille nervose ricavandone delle immagini che sono molto simili a quelle che sì ottengono col me- todo di GOLGI. Era interessante quindi di ricercare se colla perfusione di soluzioni di bleu di metilene (che non colora vitalmente i tessuti come il pirrol- bleu) si potesse ottenere negli elementi nervosi dei cuori isolati questa elettiva e specitica colorazione. Anche in questi casi, esaminai il miocardio per dilacerazione o in sezione di pezzi opportunamente fissati. Per dilacerazione, per quanto io lasciassi trascorrere un po’ di tempo dal momento nel quale toglievo il cuore dall’apparecchio al momento del- l'esame, perchè il bleu di metilene fissato elettivamente dagli elementi nervosi e divenuto incolore per trasformazione del bleu di metilene in una sostanza incolore, (Leucometylenblau) avesse tempo di ritrasformarsi nel prodotto di ossidazione colorato, non ottenni risultati degni di nota. La grande difficoltà di ottenere nella dilacerazione, delle cellule gan- gliari o delle fibrille nervose bene isolate e discerbibili dagli altri ele- Sc. Nat., Vol. XXVIII ni 8 114 A. CESARIS DEMEL menti, mi fece subito lasciare questo metodo, tantochè poi limitai il mio esame all'esame di sezioni di pezzi preventivamente fissati. Per la fissazione adoperai le indicazioni di DocIeEL e di BeTHE e ne ottenni dei preparati molto dimostrativi. Staccato il cuore dall’ apparec- chio lo lasciavo per circa mezz’ ora all’aria e successivamente lo fissavo per 24 ore in una soluzione di molibdato di ammonio purissimo al 10% al quale aggiungevo HCL nella proporzione di 1 gr. per ogni grammo di molibdato. Dopo una rapida lavatura ed una rapida disidratazione in alcooll, i tenni parecchie ore in xilolo, ricambiandolo frequentemente e li montai in paraffina. Con questo procedimento, come è noto, il molibdato forma col bleu di metilene una combinazione insolubile in alcool, sicchè nelle sezioni, gli elementi nervosi che in vita ne erano stati elettivamente colorati, lo restano stabilmente e nelle sezioni sono chiaramente visibili nella loro caratteristica disposizione. Ho potuto così ottenere delle fibre nervose e delle cellule gangliari, immagini nette e precise, specificamente colorate che ricordano quelle che ci sono date dai classici lavori sull’argomento di JAQUES, di DogiEL ecc. e che sono largamente citati dalla completa monografia sui nervi del cuore di MoLLaARp ‘. | Nè deve fare meraviglia questa identità di reperto quando si pensi che anche questi autori per colorare i nervi del cuore si valsero del bleu di metilene in soluzione, iniettato per la via coronaria nei cuori degli animali appena uccisi (vedi ad es. JAQUES) ‘. Penso però che il colore iniettato nel sistema coronario sul cuore ancora vivo e funzionante per un certo tempo, come credo di aver fatto ora io per il primo nelle mie esperienze, ci dia, nelle colorazioni degli elementi nervosi, delle immagini migliori che non siano quelle ottenute dai precitati autori. ; Ma io questo non posso affermare con assoluta sicurezza, giacchè non ho ancora allestiti preparati col metodo adoperato da JAQUES, che mi potessero servire di controllo. Similmente dato l’ esiguo numero di cuori colorati all’apparecchio col bleu di metilene, da me esaminati, mi impedisce di giudicare dello stato di normalità o di alterazione degli elementi nervosi da me messi in evidenza. Come avviene quando si adoperi il metodo di GoLGi, anche per questo metodo di DocreL e di BETHE occorre sempre integrare la ri- cerca con altri metodi quando si vogliono giustamente valutare le even- tuali alterazioni patologiche. dh e SULL’AZIONE DELLE SOSTANZE COLORANTI VITALI E SOPRAVITALI ECC. 115. Questa è la ragione per la quale affermato il fatto della buona colo- razione che si ottiene vitalmente degli elementi nervosi del cuore 1s0- lato, e formulata la speranza che questo metodo possa più dei prece- denti essere applicato allo studio dei molteplici e controversi problemi che ancora sono aperti sulla innervazione del cuore, io non mi soffermo a descrivere particolarmente la morfologia degli elementi nervosi da me così colorati e la loro topografica distribuzione riserbandomi di farlo a quando io avrò raccolto ed esaminato un numero maggiore di cuori. Riassumendo quanto io ho fino ad ora esposto credo di poter con- cludere: | , 1.— Il pirrolblau e l’isanaminblau mescolati al liquido di R. L. nella proporzione dell’1 a 100000 non manifestano alcuna azione tossica sul cuore isolato di coniglio. Il progressivo abbassamento in altezza delle contrazioni cardiache che si mantengono ritmiche, più che ad un fatto tossico è dovuto al difetto di nutrizione, per le alterazioni di circolo che durante l’esperimento sì istituiscono. 2.— Il bleu di metilene nelle stesse proporzioni ha un’azione tossica manifesta, che sì ha subito alla sua immissione e si continua progres- sivamente per tutto il tempo della esperienza e conduce all’esaurimento ed all’arresto del cuore. 3. — Il brillant cresyl blau, il rosso neutrale ed il nilblau, nelle stesse proporzioni, hanno una rapida ed intensa azione tossica che non è rimovibile e che conduce fatalmente all’arresto del cuore. 4.— Cuori colorati diffusamente ed intensamente colla perfusione di soluzioni di pirrolblau e di bleu di metilene, conservano anche pa- recchio tempo dopo l’inizio dell’esperienza, inalterata la propria eccit- tabilità di fronte a debolissime soluzioni di paragangliina. 5.—I cuori isolati, colorati diffusamente col pirrolblau non presen- tano all'esame istologico le caratteristiche cellule a pirrolo, dimostrate da GoLpwann negli animali colorati vitalmente collo stesso colore, pre- sentano invece una diffusa colorazione degli elementi endoteliali dei capillari e dell’intima dei vasi, elementi nei quali avviene anche la pene- trazione di minuti granuli di colore precipato. Contemporaneamente si ha la comparsa di embolismi multipli, costituiti da piccole masse di co- lore nel lume dei vasi, senza che il lume di questi ne resti totalmente occluso. sh Questi embolismi multipli che limitano necessariamente il circolo e quindi la nutrizione del cuore, se da un lato ritardano la imbibizione 116 A. CESARIS DEMEL diffusa che si avvera sempre nei cuori isolati per una aumentata per-_ meabilità delle pareti vascolari, accelerano d’altra parte quei fenomeni degenerativi delle fibrocellule muscolari cardiache che sono ben noti e che si istituiscono, indipendentemente da tossici speciali, solo per il di- fetto di nutrizione che l’esperimento necessariamente induce. 6. —-I cuori colorati all’apparecchio colla perfusione di soluzioni di bleu di metilene e fissati col metodo di BETrHE, all'esame istologico mo- strano i propri elementi nervosi specificamente colorati dal bleu di metilene, che si possono così topograficamente seguire nella loro sede e nella loro distribuizione. Luglio 1912. : x A Lo: I. io FRASCA » RI Sr % LL pi dh - e A * i LT STA Cr ela “pae È si N i ì deg A n rai PARE USATA 2 - è la : + - ‘ t a b gia Ra Ci i ddr » la £ (DI ve P. x. DE 4 a < v p . 4 L. E n ri b’ € È 4 me pd: su iù po MR, vg È LAVORI CITATI oe i SES | P. GoLpmanw. Die aiissere und innere Secretion des gesunden und kranken i È organismus, in Lichte der vitalen Firbung. H. Laupp., Tubingen 1909 N @ 1912, ki Si A. PARI. Ueber die Verwendbarkeit vitaler karmineinspritzungen fir die DI | pathol. anat. Frankf. Zeitsch. f. Pathol. B. IV, H. 1. 1910. ; È: do P. Foà. Le secrezioni interne e la colorazione intravitale. Pathologica, vol. II, A n. 43, 1910. SA Sagl Ù Zi i ERA Inem. Sulle cellule interstiziali del testicolo. Atti del I Congr. Intern. dei Pa- Da | Gori tologi, 1912, p. 201. “e 5. A. Cesaris-Demet. L’origine endogena del grasso dimostrata sul cuore isolato ) 5 _—dimammifero. Atti della R. Accad. delle Scienze di Torino, XLIII, 1908. I Si 6. MoLLarp. Les nerfs du coeur. Paris, Masson 1908. | 4 TAQUES. L’ innervation ganglionnarre du coeur du Mammifers. C. R. du XII | _—Congr. intern. de Med. Moscou, vol. II, p. 8-11. 2 * r PZA n : FIA la » Pa == a re tb, & Pisa 3 "a d> > CATE. Lr det ; ù va x des Pa La ri y prgn ERNESTO MANASSE ——t tm ——— RICERCHE PETROGRAFICHE E MINERALOGICHE SUL MONTE ARCO (ISOLA D'ELBA) (Tav. V-VI [1-11]). Il Monte Arco trovasi situato nel versante orientale dell’ isola d’ Elba fra le valli di Ortano e di Terranera, distante, in linea retta, 4 chilo- metri circa da Rio Marina a Nord e 8 chilometri circa a Sud da Capo Calamita. La sua vetta raggiunge circa 300 metri, e le sue falde scendono al mare con pendio assai lieve e regolare, costituendo numerose collinette. Una vegetazione non troppo rigogliosa se impedisce, in parecchi punti, di seguire passo, a passo, l’ossatura del monte, permette tuttavia di distinguere bene le varie formazioni rocciose, le quali appariscono tutte regolarmente stratificate con direzione generale N. N. E.-S. S. O. e inclinazione verso Ovest. La formazione più bassa, costituita da banchi di spessore assai con- siderevole, che si ritrovano anche a qualche diecina di metri sul mare, consta di scisti cristallini lucenti, grigio-scuri o grigio-verdastri, ricchi in quarzo, biotite, muscovite, clorite, andalusite, ecc. Si direbbero a prima vista micascisti biotitico-muscovitici, od anche gneiss a due miche, men- tre in realtà non ci rappresentano che rocce scistose, intensamente mo- dificate e ricristallizzate al contatto di altre granitiche, delle quali rac- chiudono numerosi filoni. Esse sono quindi, secondo la nomenclatura del SaLomon !) degli Schiefrige-Hornfelse (leptinoliti) della zona interna di contatto, e di questi hanno, come vedremo in seguito, la struttura e la composizione. Non di rado mostrano esili incrostazioni e velature di tormalina nera, di evidente origine pneumatolitica. 1) Essai de nomenélature des roches métamorphiques de contact. Mém. du Con- grès Géologique International. VIII Session. Paris 1900. od sei pera e RICERCHE PETROGRAFICHE E MINERALOGICHE SUL MONTE ARCO . 119 Le rocce granitiche, che attraversano soltanto gli anzidetti scisti e non compariscono mai entro le formazioni più elevate, spettano al tipo ‘aplitico e al tipo grossolanamente cristallino, detto impropriamente pegma- titico, più specialmente anzi a quest’ultimo. Al Monte Arco non affiora la granitite, che fu ritrovata invece dal LotTI !) e dall’ALoIsi *) più a sud, nel tratto compreso fra la valle del Fosso di Mar Carvisi e Longone, e più precisamente alla Serra. Le rocce filoniane granitiche del Monte Arco sono sempre torma- linifere e, particolarità assai importante attribuibile forse ad un feno- meno di contatto endomorfo, contengono, tutte indistintamente, dell’an- dalusite, che è però più o meno abbondante 3). Sopra di esse, come sopra gli scisti incassanti, si hanno incrostazioni e spalmature nere, tormalini- fere, formate da minuti prismetti striati e fittamente intrecciati fra di loro. O Lo spessore dei filoni granitici è sempre assai limitato, e, in generale, ma non costantemente, un poco maggiore in quelli pegmatitici che negli aplitici; esso si aggira intorno ai 5-15 centimetri. Come eccezione può ‘raggiungersi la potenza di 20-25 centimetri; e da questi filoncelli più grossi sì dipartono venuzze secondarie della stessa roccia granitica, che. sempre più assottigliandosi, si disperdono infine nella massa scistosa circostante. Potenza maggiore presentano alcuni filoni granitici dell’ iso- lotto di Ortano, situato rimpetto all’estremità nord del Monte Arco, da cui è separato da poche braccia di mare bassissimo. In questo piccolo lembo roccioso ho veduto, insieme ad altri assai esili e numerosi, un filone verticale, già citato dal CoccHI 4), che interessa quasi tutta l’altezza del- l'isolotto, leggermente ripiegantesi nella sua parte superiore, ed un altro, di cui pure fa parola il CoccHI stesso, dello spessore di 40 centimetri circa, al centro formato da un’aplite a struttura minutissima, quasi afa- nitica, e povera in tormalina, che passa nelle porzioni laterali ad una !) Descrizione geologica dell’isola d’ Elba con carta geologica annessa. Mem. descr. della Carta Geologica d’Italia. Vol. II, pag. 149. Roma 1886. °) Rocce granitiche negli scisti della parte orientale dell’ isola d’ Elba. Mem. Soc. Tose. Se. Nat., Vol. XXVI, pag. 3. Pisa 1910. 3) I RosTER (vedasi G. GrATTAROLA. Note mineralogiche. Boll. R. Com. Geol., n. (-8, pag. 329. Roma 1876) cita l’andalusite fra i minerali facenti parte di una roccia granitica tormalinifera, che in filoncelli attraversa gli scisti dell’ isolotto di Ortano, località quest’ultima che rientra nella regione presa da me in esame. 4) Descrizione geologica dell’ isola d° Elba. Mem. Com. Geol. Ital. Vol. I, pag. 147, Firenze 1871. 120 è E. MANASSE varietà meno minuta, saccaroide, arricchendosi in pari tempo di tor- malina. Come ha notato l’ALorsi !) per rocce del tutto analoghe di località limitrofe già menzionate, il metamorfismo subìto dagli scisti incassanti è identico sia che si tratti di rocce a facies aplitica, sia di quelle a facies pegmatitica, e il contatto fra la roccia scistosa e la eruttiva è sempre nettamente distinto, mantenendo l’una e l’altra in modo per- fetto i propri caratteri fino al contatto immediato (vedasi tav. V, [I] fig. 3), ove però l’aderenza fra i due tipi litologici diversi è più o meno forte a seconda dei casi. La formazione scistosa inferiore del Monte Arco è attraversata, oltre che da filoni granitici, anche da altri, assai esili, di rocce bianche, quar- zose, con venature e plaghe bruno-nere, tormalinifere, contenenti pure piccoli accumulamenti di apatite, che corrispondono alle così dette torma- linoliti degli autori italiani o Turmalinfelse degli autori tedeschi, e che sono di origine pneumatolitica. AI Monte Arco questa speciale roccia quarzoso- tormalinifera, e talvolta anche apatitica, sembra sempre geneticamente collegata ai filoni granitici, essi pure tormaliniferi, serpeggiando in questi ultimi di sovente vene più o meno grosse di detta roccia; particolarità questa che è già stata constatata dal Lor ?) e dall’ALoisi 3) per altre località della costa orientale dell’isola. Non mancano infine negli stessi scisti metamorfici a quarzo, miche, andalusite, ecc., vene di puro quarzo, dello spessore di 4-6 centimetri, quasi sempre normali e qualche volta parallele alla scistosità delle rocce incassanti. Secondo quanto riferisce il LorTI ‘) queste vene esclusivamente quarzose del Monte Arco furono ritenute dal KRANTZ quali rappresen- tanti e sostituenti i filoni granitici. Ma se si considera che esse sono molto maggiormente diffuse nelle formazioni superiori, nelle quali man- cano del tutto invece, sia le rocce granitiche, sia quelle quarzoso-tor- malinifere, viene con ciò, mi sembra, a stabilirsi che il legame ammesso dal KRANTZ non debba sussistere, e che i filoncelli quarzosi sieno indipen- denti dalla eruzione delle rocce granitiche; e ciò in pieno accordo con quanto ha ammesso l’ALoIsI. | Agli scisti quarzoso-micaceo-andalusitici fanno seguito, direttamente sovrapposti, strati potenti di rocce biancastre o grigiastre o bigio-nerastre, non molto scistose, dure, e minutamente granulari, con aspetto talvolta i) Mem. cit. MO priati: 3) Mem. cit. STOP e RICERCHE PETROGRAFICHE E MINERALOGICHE SUL MONTE ARCO iui d quasi zonato, perchè costituite da bande diversamente colorate; le quali rocce sono localmente indicate col nome di quarziti per una certa note- vole rassomiglianza macroscopica che hanno con queste ultime. Formate essenzialmente da quarzo, ortose e mica bianca, e contenenti inoltre, più o meno diffuse, delle sostanze carboniose, sono rocce, così almeno ri- tengo, modificate e parzialmente ricristallizzate in seguito all’ intrusione dei graniti, ed appartenenti alla zona esterna di contatto. La composi- zione loro e, maggiormente, la microstruttura, delle quali sarà detto ap- presso, ci palesano, più che l’aspetto esterno, il metamorfismo di-contatto da esse subìto; e ce lo palesa anche il fatto che, frammisti ai banchi di queste rocce, furono raccolti alcuni piccoli esemplari di Hornfelse com- patti (cornubianiti), poco o punto scistosi, durissimi, e a frattura con- coidale, che mineralogicamente e strutturalmente sono identici alle rocce ora menzionate, e, insieme ad essi, altri esemplari di rocce del tutto analoghe alle leptinoliti della formazione inferiore, ma più ricche in quarzo e più povere di elementi micacei, che contengono esse pure cristalli di andalusite. Con le rocce che hanno apparenza di quarziti si alternano strata- relli di scisti grigiastri, riccamente micacei, più o meno lucenti, mac- chiettati, e corrispondenti ai così detti Fruchtschiefer e Fleckschiefer degli autori tedeschi, o meglio, data la loro costituzione mineralogica, essen- zialmente quarzoso-ortosico-micacea, ai così detti Fruchtgneisse e Fle- ckgneisse, e che ci rappresentano, a mio avviso, un primo stadio di me- tamorfismo di contatto di parascisti. Tali rocce eminentemente scistose dal lato mineralogico e strutturale non differiscono essenzialmente dalle altre con scistosità poco evidente ed anche decisamente hornfelsitiche, alle quali sono intercalate; queste ultime per altro sembrano appena un poco più modificate per azioni di contatto. E in alcuni punti localmente si può notare quasi un graduale passaggio dagli scisti macchiettati, alle rocce con apparenza quarzitica, a quelle compatte e durissime con abito esterno hornfelsitico assai deciso, e alle altre infine leptinolitiche con andalusite, riccamente quarzose. Queste diverse rocce, più o meno metamorfosate, più o meno scistose, racchiudono spesso considerevoli vene e lenti di quarzo grasso, che viene scavato per uso industriale. Ad esse sì soprappone, in perfetta concordanza di stratificazione, una serie di scisti filladici quarzoso-sericitici e di micascisti lucenti, tabulari e fogliacei, essi pure intersecati da filoni di quarzo di potenza variabile, i quali, salvo rare eccezioni, nè macroscopicamente, nè microscopicamente, presentano traccia di metamorfismo di contatto. 1323 E. MANASSE Le diverse rocce fino ad ora menzionate, prive sempre di qualsiasi resto fossile, benchè differiscano dal lato litologico, e talvolta in modo notevole, fra di loro, formano un unico complesso geologico ritenuto antichissimo, probabilmente, in origine, di natura sedimentaria, argilloso- arenacea, che fu riferito dal LorTI !) al presiluriano (pr'). Tale complesso ci rappresenta, sempre secondo questo autore, insieme ad altri terreni cristallini litologicamente diversi e stratigraficamente superiori, ma essi pure presiluriani, e dei quali sarà detto appresso, la formazione più an- tica di tutta la Toscana. Soprastante alle filladi quarzoso-sericitiche e ai micascisti si ha un potente banco, quasi a forma di grossissima amigdala, di marmo, ora bianco, ora verde-grigio, a grana d’ordinario grossolana, che viene sca- vato e utilizzato come fondente per gli alti forni. Il banco marmoreo, pure dal LortI ?) riferito al presiluriano (pr*), può seguirsi per la lun- ghezza di oltre un chilometro. Negli strati più alti i marmi passano a calcescisti, simili in parte a cipollini fogliettati, che constano di un al- ternanza di stratarelli di calcare con altri esili di micascisti filladici, i quali ultimi poi, da soli, formano superiormente banchi di notevolissimo spes- sore, che giungono fino alle parti più elevate del monte (pr* del Loti). Alla formazione marmoreo-micascistosa succedono in serie ascendente, e in concordanza di stratificazione con essa, delle serpentine scistose (s!), riferite pure dal Lori 3) al presiluriano e precisamente alla sua parte più alta. Nel versante occidentale del monte, a partire quasi dalla vetta, ha esteso sviluppo una formazione siluriana, rappresentata da scisti ar- desiaci bruno-neri, essenzialmente quarzoso-micaceo-carboniosi, con pic- colissime macchiette ellittiche (s* del LorTI); ai quali poi succedono dei calcari liassici (2!, 2?) di scarso interesse petrografico. Negli strati arde- siaci del Monte Arco non ho potuto rintracciare nessuna traccia di fossili, che furono ritrovati per altro in località limitrofe, ed identificati per Orthoceras e Monograptus 4). Infine alla vetta del monte, addossate «alle serpentine presiluriane del versante orientale e ai micascisti carboniosi di quello occidentale, compariscono alcuni lembi isolati di rocce permiane, sotto forma di pud- !) Op. cit., e ancora Geologia della Toscana. Mem. descr. della Carta Geo- logica d’Italia. Vol. XIII. Roma 1910. A Opci Opi 4) Vedasi LoTTI Op. cit. Wei RICERCHE PETROGRAFICHE E MINERALOGICHE SUL MONTE ARCO 123 dinghe e conglomerati quarzosi a grossi elementi (pm?) e di scisti quar- zoso-sericitici (pm!). Il complesso di queste rocce permiane fu riportato dal Lotti !) al cosidetto verrucano, tanto sviluppato in tutta la Toscana. Tali le formazioni diverse costituenti il Monte Arco, che io ho clas- sificato in base ai laboriosi ed ottimi studi geologici sull’Elba del LottI. Come è ben noto per altro secondo recenti osservazioni del TERMIER ?) l’attuale configurazione tettonica dell’ Elba sarebbe dovuta a grandiosi fenomeni di carreggiamento. L’insigne geologo francese distingue tre serie di terreni elbani differenti e indipendenti fra loro: la serie I, 0 serie profonda, probabilmente la sola autoctona, assai antica e ricca in graniti e micrograniti normali o laminati (miloniti) in seguito allo schiac- ciamento prodotto dallo scorrimento sopra di essi di grandi masse car- reggiate; la serie II, intermedia, formata da micascisti (schistes lustrés), identici a quelli della Corsica, con cipollini e serpentine; la serie III, su- periore, fatta di un complesso di rocce sedimentarie di diversissime età geologiche, e includente anche, nella sua parte più elevata, una formazione potente di rocce verdi, cioè di serpentine, eufotidi e diabasi. Secondo il TERMIER, come apparisce dalla sua sezione Ovest-Est attraverso l'isola d’ Elba 3) e corrispondente alla sezione generale della carta del Lotti, nella regione del Monte Arco sarebbero rappresentate tutte e tre le serie am- messe. Si avrebbe pertanto dal basso in alto la serie I, milonitica-mi- crogranitica, comprendente la massima parte delle rocce indicate dal LortI con (pr'), su cui poggerebbe la serie II degli schistes lustrés, cioè dei micascisti (pr! e pr), dei calcari cristallini e calcescisti (pr*), delle serpentine (s!), ed a questa si sovrapporrebbe la serie III formata dai micascisti carboniosi siluriani (s! e s°), dlalle puddinghe quarzose e dalle quarziti sericitiche permiane (pm', pm?) e infine dalle rocce calcaree liassiche /, /?). Vedremo in seguito come se alcuni pochi dati d’indole litologica sembrano in parte appoggiare la teoria del TERMIER, molto più nume- rosi sieno quelli che con la teoria medesima stanno in palese contrasto. Opi: | 2) Sur les granites, les gneiss et les porphyres écrases de l’île d’Elbe. C.R. Acc. Sc., CXLVIII, pag. 1441. Paris 1909. Sur les nappes de l’île d’Elbe. Id. IA. pag. 1648, Sur les relations tectoniques de l’île d’Elbe avec la Corse et sur la situation de celle-ci dans la chaîne alpine. Id., CXLIX, pag. 11, 1909. Sur la tectonique de l’île d’ Elbe. Bull. Soc. Geol. de Franee, X, pag. 134. Paris 1910. Sur les my- lonites de l’île d’ Elbe. C. R. Acc. Sc., CLII, pag. 826. Paris 1911. 3) Sur la tectonique, ecc. 124 E. MANASSE Tralascerò di addentrarmi sui caratteri prettamente geologici della re- gione, che del resto esulano dallo scopo del presente studio, perchè in risposta alle osservazioni del TERMIER, di essi si sono già occupati l’ALorsi *), il BaLpacci ?), il NOVARESE *), il LortI *), ai lavori dei quali rimando il lettore. I giacimenti di minerali di ferro che si rinvengono al Monte Arco sono distribuiti sopra una zona lunga oltre un chilometro e diretta presso a poco nord-sud, parallelamente alla costa, ed associati a minerali di manganese, di piombo e di rame. Essi, in forma filoniana, stanno rac- chiusi fra le rocce scistose presiluriane al letto, e i calcari marmorei, pure presiluriani, al tetto, e sono poi accompagnati da zone, più o meno po- tenti, e che talvolta assumono esse stesse un aspetto scistoso, di silicati ferro-calciferi, e segnatamente costituite di pirosseno hedenbergitico, di ilvaite, di epidoto, insieme associati, e, il più delle volte, assai confusa- mente. All’epoca delle mie gite al Monte Arco, che furono effettuate nel Settembre del 1910, erano aperti diversi cantieri, dei quali quattro prin- cipali, chiamati rispettivamente: Centrale, Trefolone, Santi, Nord 5). AI cantiere Centrale il più diffuso minerale è la limonite, in forma ocracea e compatta, segue la magnetite, non manca l’ematite, e in pic- colissima quantità si ritrova anche la goetite. Tali minerali formano come il cappello di un potente ammasso di marcasite, accompagnata da pirite e pirrotina. Il banco di limonite non ha spessore costante e, nel suo massimo sviluppo, raggiunge la potenza di 25-30 metri. Oltre i mi- nerali di ferro si hanno filoncelli di ocra manganesifera. Al cantiere Trefolone abbonda pure la limonite, più scarsa vi è la magnetite; nè mancano piriti di ferro e minerali manganesiferi. Anche il cantiere Santi non offre che limonite quasi in modo esclu- 1) Le così dette miloniti dell’isola d’ Elba. Mem. Soc. Tosc. Sc. Nat., vol. XXVII, parso isa 19107 ?) Le nuove ipotesi sulla struttura geologica dell’ Elba. Boll. Soc. Geol. Italiana, vol. XXIX, fasc. 3-4, pag. LXXV. Roma 1911. 3) Il presunto piano milonitico dell’ isola d’ Elba. Boll. Com. Geol. d’Italia, vol. XLI, fasc. 3, pag. 292. Roma 1910. 4) La riunione della Società geologica italiana a Portoferraio e l’ipotesi del Termier sulla tettonica dell’isola d’ Elba. Boll. Com. Geol. d’Italia, vol. XLI, fase. 3, pag. 284. Roma 1910. °) Tali escursioni furono fatte sotto la sapiente e praticissima guida del pro- prietario del terreno cav. GrusePPE TONIETTI e sotto quella di suo nipote FER- NANDO. All’uno e all’altro esprimo ora le mie più vive grazie. ”. + RICERCHE PETROGRAFICHE E MINERALOGICHE SUL MONTE ARCO 125 sivo. Non si rinvengono magnetite ed ematite, e sono invece assai dif- fuse pirrotina, arsenicopirite e specialmente pirite. | E Infine al cantiere Nord si hanno dei minerali ocracei ferro-manga- nesiferi, assai importanti dal punto di vista industriale, della limonite, molta pirite, poca marcasite, della galena e dell’erubescite. -In quest’ ul- timo cantiere furono rinvenute alcune grotte con entro uno scheletro d’uomo, molti utensili in pietra, notevoli accumulamenti di detriti di minerali e di materiali scoriacei, ecc. ecc., ciò che dimostra come le lavorazioni minerarie del Monte Arco risalgano a tempi remoti. Gli ossidi e idrossidi di ferro e manganese, oltre che da solfuri e da solfuri-arseniuri, sono accompagnati, nelle loro porzioni super- ficiali, da diversi solfati idrati di ferro e di altri metalli (melanteria, gesso, fibroferrite, copiapite, jarosite, ecc.) e anche da minerali chimi- camente del tutto diversi (oxalite, malachite, ecc.). Abbondantemente rappresentate sono poi negli affioraménti dei giacimenti ferriferi del Monte Arco le sostanze colloidali, come l’opale, l’alloisite, la samoite, la crisocolla, ecc., la cui presenza fu già constatata ed opportunamente messa in rilievo dal compianto Cornu !), che ritenne tali geli come for- mazioni superficiali delle zone di ossidazione dei depositi ferriferi, ori- ginatesi in seguito alla azione decomponente degli agenti atmosferici. L’abbondante presenza dei solfuri, e non di ferro soltanto, rende poi notevolmente importante il giacimento del Monte Arco, perchè serve a convalidare l’ opinione, emessa dal LortI ?) e sostenuta anche dal DE LAUNAY 3), che tutti i depositi ferriferi elbani traggano la loro origine da minerali solforati profondi. Il qual fatto, se è chiaramente constatabile in posto, risulta tuttavia di non facile interpretazione, mancando al Monte Arco come altrove, elementi positivi atti a spiegarci (tranne per ciò che riguarda la limonite che direttamente proviene dalla decomposizione della pirite) attraverso a quali trasfomazioni chimiche i primitivi solfuri di ferro abbiano dato origine ai minerali ossigenati, voglio dire cioè all’ema- 1) Die Bedeutung gelartiger Kòrper in der Oxydationszone der Erzlagerstitten. Zeitschr. fiir praktische Geologie, pag. 81. Berlin 1909. 2) Sui depositi ferriferi dell’ Elba e della regione litoranea tosco-romana. Rass. Min., vol. XIV, n. 4, pag. 54. Torino 1901. A proposito dì una recente scoperta di minerali plumbo-argentiferi all’isola d’ EWba. Id. Id., vol. XXI, n. 16, pag. 241. Torino 1904. 3) La Mètallogénie de l’ Italie et des regions avoisinantes-II Note sur la To- scane minière et l’île d’Elbe. Congrès Géologique International. — C.R. Xe Sess., pag. 655. Mexico 1907. 126 E. MANASSE tite e alla magnetite. Onde anche si comprende come il Cortese !) siasi sempre opposto all’ipotesi suaccennata del Lotti, supponendo invece che i depositi ferriferi sieno stati emessi allo stato di ossidi e accompagnati eventualmente da pirite e da altri solfuri. 1. — Rocce del Monte Arco. Nella descrizione delle rocce seguirò l’ ordine di successione loro, co- minciando da quelle costituenti le formazioni più basse per terminare con le più elevate. Leptinoliti quarzoso-micaceo-andalusitiche. °) La formazione più bassa del Monte Arco, la sola attraversata da fi- loni granitici e da rocce quarzoso-tormalinifere, come già abbiamo ve- duto, è costituita da banchi assai potenti di rocce cristalline, scistose, lucenti, le quali macroscopicamente appariscono formate in modo essen- ziale da minerali micacei (biotite e muscovite) e da quarzo, onde si di- rebbero a prima vista micascisti. Ad occhio nudo si scorge subito che le proporzioni del quarzo, della biotite e della muscovite variano molto da campione a campione; e alcuni esemplari, non mai raccolti ad im- mediato contatto con le rocce filoniane, ma a qualche metro di distanza da esse, oltremodo ricchi in quarzo, hanno scistosità poco distinta ed un certo abito esterno selcioso-corneanico, cioè hornfelsitico. Al microscopio si riconosce che, oltre i principali costituenti sopra ricordati, è elemento essenziale anche l’andalusite, ma che questa, al pari del quarzo, della biotite e della muscovite, varia per quantità, e ‘notevolmente, da campione a campione; in qualche raro caso può anche mancare del tutto. In generale l’andalusite abbonda negli esemplari ricchi di minerali micacei; scarseggia invece nei tipi fortemente quarzosi. Ad immediato contatto con le rocce filoniane, gli scisti, che sono ora bian- castri cioè quarzoso-muscovitici con poca biotite, ora bruno-neri, cioè eminentemente biotitici con scarsa muscovite e scarsissimo quarzo, 0 infine verdi per una forte cloritizzazione subìta dalla biotite, contengono però sempre abbondantemente l’ andalusite. 1) Le miniere di ferro dell’ Elba. Rass. Min., Vol XI, n. 3-8. Torino 1899 e Sui giacimenti ferriferi della Tolfa e della Maremma in genere. Id. IA., vol. XIV, n.1, pag. 1-2. Torino 1901. ?) Adottando la nomenclatura del SALoMmoNn (Mem. cit.) sarebbero degli Horn- fels-Andalusit-Glimmerschiefer oppure degli Schiefriger-Hornfels-Quarz-Astite. . RICERCHE PETROGRAFICHE E MINERALOGICHE SUL MONTE ARCO 127 La microstruttura di tali rocce è in generale minuta; negli esemplari riccamente quarzosi un po’ più grossolana e pavimentosa (tav. V [I], fig. 1). I principali componenti, tranne i più grossi individui di andalusite, non hanno contorni propri e sono concresciuti fra. di loro. Tali concrescimenti sono assai comuni in specie fra quarzo e biotite. Adottando la nomen- clatura del GRUBENMANN !) la microstruttura può dirsi granoblastica, op- pure, ove abbondano i cristalli maggiori di andalusite, porfiroblastica. Le sezioni sottili normali alla scistosità manifestano un’alternanza di stratarelli quasi esclusivamente quarzosi e di altri micacei (tav. V [I], fig. 2). Il quarzo, nel complesso, è il minerale fra tutti più abbondante; e in principal modo ai suoi granuli, che presentano estinzioni ondulate e numerose e piccole inclusioni fluide, è dovuta la struttura pavimentosa di tali rocce. Forma anche speciali amigdale e vene a grana saccaroide assai grossolana. In alcune sezioni sottili, frammiste ai granuli di quarzo, o formanti piccole e speciali porzioni a struttura minutamente saccaroide, si notano delle laminette completamente allotriomorfe e limpidissime di feldispati. Alcune di esse, provviste di qualche traccia di sfaldatura, rispetto alla quale le estinzioni avvengono o parallelamente o a 5°-6° (a), con rifra- zione rispetto al balsamo di n dd dee ‘e spettano pertanto ad un termine oligoclasico-albitico. Anche negli esem- plari tolti dalle zone ad immediato contatto delle rocce granitiche si ri- scontra grande scarsità di elementi feldispatici, e talora mancanza as- soluta di essi. Le due miche, biotite e muscovite, associate intimamente fra di loro e col quarzo sì da formare un fitto intreccio (tav. V [I], fig. 3), incluse in forma di gocciolette nel quarzo stesso o includenti questo, ma più di sovente con esso in concrescimento micropoichilitico, se isolate, hanno 1) Die kristallinen Schiefer. I. Allgemeiner Teil, pag. 71 e seg. Berlin 1904. Lg CERETTA i AL ep STI A 7 _ . 128 E. MANASSE contorni del tutto irregolari, presentandosi anzi nelle così dette forme scheletriche, caratteristiche delle rocce di contatto. La biotite ha colore cioccolata 0, più spesso, rosso-bruno, è fortemente pleocroica ed assor- bente con: a= giallo chiaro o incoloro b= d'n in 80) ve ae {= e qualche volta oi ieri sono riferibili ad un oligoclasio più o meno acido. Alcuni rari cristalli infine che nella zona normale a (010) danno estinzioni di 14°-16° e i seguenti schemi per la rifrazione a <% = a <% Te a on a <% T = I cristalli di plagioclasio non sono mai zonati, ed appariscono quasi del tutto inalterati. i: L'elemento micaceo, alquanto scarso e in quantità forse minore che nelle apliti, è rappresentato da lamelle di muscovite a grande angolo as- siale, spesso assumenti disposizione ventagliforme. La mica nera non è mai stata notata nelle sezioni dei sette esemplari esaminati e spettanti ognuno ad un filone distinto. La tormalina, in generale assai abbondante, è in grossi cristalli pri- smatici (tav. V [I], fig. 6), che possono raggiungere la lunghezza di un centimetro e più, neri, striati e spesso piegati e contorti, con termina- zioni romboedriche. Al microscopio il minerale si palesa spesso per una varietà policroma a nucleo principale con = giallo-bruno più o meno intenso e= giallo chiarissimo o incoloro e a ristrette zone esterne con ‘= azzurro più o meno intenso e=azzurro pallidissimo quasi incoloro. Contiene inclusioni quarzose e fluide. Col quarzo si trova anche in con- crescimento poichilitico. L’andalusite è sempre presente, in individui di dimensioni differen- tissime, ma la sua quantità varia notevolmente da campione a campione. In alcuni esemplari sono ben visibili anche ad occhio nudo dei bei pri- smetti rosei che sembrano della semplicissima combinazione {001}, {110}. Al microscopio i cristalli (tav. VI [II], fig. 1) appariscono idiomorfi, RICERCHE PETROGRAFICHE E MINERALOGICHE SUL MONTE ARCO 153° colonnari 0 tabulari, isolati o raggruppati in fasci divergenti, e sempre provvisti di nette tracce di sfaldatura prismatica, hanno talora rotture irregolari o secondo piani normali all’allungamento, e contengono poi poche inclusioni fluide. Sono incolori o rosei, e mostrano sericitizzazione più o meno avanzata e talora totale. :. Minerali accessori: apatite, zircone, e, insieme associati, ferro-titanato e leucoxeno. Un campione di roccia, fra i più ricchi di andalusite e fra i più poveri di tormalina, ha dato all’analisi le seguenti percentuali: Perdita per arrov. diga 0, 39 SOR Pe de ire, 72, 66 AROS= iaicdo do texto Fe?0* ; Fe0 UT, 054505) IO I SASTORTE MELA CANVINOPO ARS 022 MeOcreta tando irani tracce VEDA AAA e STO (00582) Naoto ie LLIÒ 430253) PE a a EROE Dr tracce boe arri rio idosato 100, 94 Se EUR 2, 64 Tormalinoliti. I filoni di rocce quarzoso-tormalinifere sono nella zona scistoso-me- tamorfica del Monte Arco più scarsi di quelli granitici, dei quali, come già è stato accennato, sembrano in dipendenza diretta per la loro costante associazione. | Sì tratta di rocce durissime, biancastre, quarzose, con zone e vena- ture intrecciate, nere, di tormalina (tav. VI [II], fig. 2). In alcuni casi, associato a quest’ultimo minerale, se ne nota un altro biancastro, spa- 1) Dosati a Fe? 03. 2 Un secondo dosamento delle basi alcaline fatto per controllo sopra altra polvere, tratta però dallo stesso campione di roccia, diede: ROTA Na? 0=4,449/; 138 E. MANASSE tico e mal conformato, che a prima vista si potrebbe quasi scambiare con feldispato, e che è invece apatite. Ben differente all’aspetto ma- croscopico è quindi tale apatite da quella che, in nitidi cristalletti di colore roseo o roseo-violaceo, si ritrova nei filoni tormaliniferi del granito di San Piero in Campo. Le parti quarzose, le più abbondanti, sono costituite da granuli ora grossolani, ora minuti, a struttura saccaroide, con estinzioni fortemente ondulate e con moltissime piccole inclusioni fluide, delle quali la massima parte fornite di libella. Le porzioni scure, tormalinifere, sono frate ora da prismi grossi ma tutti fessurati, rotti o deformati (tav. VI [II], fig. 2), ora. da esili cristallini pure prismatici, fittamente intrecciati ed addossati. Per questo modo speciale di loro associazione gli individui solo di rado sono bene terminati, e, in tali casi, appariscono all’una e all’altra estremità del- i asse verticale chiusi da faccette romhoedriche. La massima parte. dei cristalli hanno una debole struttura zonata, dovuta a zone dello stesso colore, ma più o meno intenso con w=rosso-giallastro bruno più o meno intenso e = giallastro pallido o incoloro e solo in pochi casi si hanno porzioni rosso-giallastre brune associate a porzioni il cui dieroismo è: = aZZUrro e=azzurro pallidissimo quasi incoloro e disposte concentricamente intorno all’asse prineipale. Il minerale ha inclusioni fluide, rare, ma non piccole, e di quarzo. Considerata dal lato chimico questa tormalina è una varietà quasi esclusivamente ferro-ma- gnesiaca, come ha dimostrato l’analisi quantitativa eseguitane e che sarà riportata in seguito, trattando dei minerali del Monte Arco. L’apatite si presenta al. microscopio o in granuli di forma irregolare, o in lamine prismatiche piuttosto tozze con allungamento negativo. Gra- nuli e lamine mostrano rilievo assai notevole e birifrangenza molto bassa, hanno numerose linee di frattura e contengono abbondantissime e ben piccole inclusioni fluide che rendono spesso torbido il minerale. Due sole sezioncine potei osservare normali all’asse di simmetria e da queste ebbi a luce convergente figura d’interferenza uniassica e ca- rattere negativo della birifrazione. Ma alla determinazione della specie RICERCHE PETROGRAFICHE E MINERALOGICHE SUL MONTE ARCO 139 pervenni però principalmente per mezzo dei saggi chimici. Avendo po- tuto distaccare una certa quantità del minerale sottoposi questo all’a- nalisi quantitativa completa. I risultati ottenuti verranno riportati in altra parte del presente lavoro; per il momento mi limiterò a dire che siffatta apatite è una varietà assai più fluorifera che clorifera. La presenza di un tal minerale contenente del fluore conferma sempre più la natura pneumatolitica delle rocce quarzoso-tormalinifere ora de- scritte. Gneiss cornubianitici '). Con tale nome indico le rocce poco scistose a struttura minutamente granulare, e solo eccezionalmente criptocristallina, che localmente sono chiamate quarziti. Le denomino “ gneiss ,, per la loro composizione mi- neralogiea, dovuta essenzialmente a quarzo, ortose, e mica bianca, e vi aggiungo l’appellativo di “ cornubianitici , per indicare che si tratta, a mio avviso, di rocce modificate e in parte ricristallizzate in seguito all’emis- sione delle rocce granitiche, sebbene non si trovino a contatto imme- diato di queste e nemmeno ad esse molto vicine. Sono rocce biancastre, grigiastre, o grigio-nere, uniformi o lievemente zonate, e il colore diverso devesi alla presenza scarsissima, o scarsa, o abbondante di un pigmento nero, granulare, di natura carboniosa. Tal- volta presentano incrostazioni quarzose costituite da aggruppamenti ir- regolari di cristalli quasi perfetti, lunghi più di due centimetri, e ca- ratterizzati dalle comunissime forme {1010}, {1071}, {jO1T1}. Abbiano esse apparenza minutamente granulare o addirittura horn- felsitica, tutte indistintamente lasciano conoscere al microscopio un mi- nuto intreccio cribroso del quarzo e della mica, che talvolta sono anche micropoichiliticamente e micropegmatiticamente concresciuti, in seno a cui stanno, più o meno abbondanti, piccoli frammenti irregolari, ango- losi ed anche ovoidali e rotondeggianti, di feldispato e di quarzo che, a giudicare dall’apparenza loro, sembrano granuli clastici (tav. VI [II], fig. 3 e 4). Si direbbe quindi che si tratta di rocce in origine arenacee, il cui cemento abbia subìto una ricristallizzazione, impartendo alle rocce stesse una compattezza assai maggiore di quella che ordinariamente presentano le arenarie, ma i cui frammenti clastici sieno rimasti presso 1) Secondo il SaLomon (Mem. cit.) sarebbero Contactsandsteine, che passano a Hornfelsgneisse. 140 E. MANASSE a poco tal quali. Ed è noto che nelle rocce arenacee che hanno subìto un metamorfismo di contatto non troppo intenso, la ricristallizzazione interessa dapprima il materiale minuto cementizio e posteriormente gli elementi clastici maggiori. In alcune sezioni mancano quasi in modo completo i granuli clastici di quarzo e di ortose e scarseggiano i minerali micacei; in tali casi le rocce sembrano ricristallizzate su più vasta scala e si avvicinano molto, per la struttura, che è pavimentosa e minuta, agli scisti leptinolitici riechi in quarzo. Il quarzo, le cui proporzioni variano nei diversi campioni, ha scarse inclusioni fluide e poco frequenti estinzioni ondulate. Il feldispato, con apparenza sempre clastica e i cui granuli sono in generale assai minori di quelli del quarzo (tav. VI [II], fig. 3), è quasi esclusivamente ortose, un poco caolinizzato e quindi torbido in specie nelle porzioni interne degli individui e con alterazione micacea limita- tissima; presenta i tipici caratteri della specie, compresa la rifrazione che dà nettissimamente a di ad 7 "Érdal RICERCHE PETROGRAFICHE E MINERALOGICHE SUL MONTE ARCO bb La presenza della cromite è svelata dai saggi chimici. Trattando la roccia con acido cloridrico a caldo essa risulta attaccata, ma la silice che se ‘ne separa non è bianchissima, e, dopo fusione con bisolfato potassico, dà debole reazione di ferro e di cromo. L’impurità della silice è dunque n dovuta a cromite, la quale per altro non è scomposta dall’acido clori- drico, perchè nel liquido ottenuto per semplice attacco con questo acido non si ha affatto reazione di cromo. La composizione chimica della serpentina presiluriana è: Perdita per'arrov: 0 Tono N 12,13 SITA ALE AO e RIS AES RE RC: NOR Reno ua it SC Si (A Ia VCR RI a MPT I 0,05 EE e DO SIRIO ER 4, 99 BERE E Sv I UD RESO R4 Na ia TIRI L07112 baie iaia + bh 70 MEO OA) 20 Sa #96; 64 Bigi Ta eee. tracce 100, 88 Rea eno 2,00 Micascisti carboniosi siluriani. Rocce eminentemente scistose, tabulari e lucenti, di apparenza ar- desiaca, con colore grigio-piombo a grigio nero, che hanno tante picco- lissime macchiettine ellittiche e poche chiazze maggiori limonitiche. Al microscopio risultano composte di quarzo, in granulini a contorni sinuosi o in elemonti un pochino maggiori ad estinzioni ondulose e con scarse inclusioni fluide, intimamente associato a pagliuzze di mica inco- lora sericitica e di una mica scura, ferro-magnesiaca, molto copiosa, in estese plaghe, parallele ai piani di scistosità delle rocce. Queste plaghe sono formate da tante laminette frammentarie, addossate e stipate le une sulle altre, più o meno cloritizzate con segregazione di granuli di ferro-titanato, di cristallini bacillari di rutilo e di scarsi prodotti gial- lastri limonitici. Nei rari casi nei quali il minerale micaceo si presenta quasi inalterato esso è pleocroico dal giallo-chiarissimo o incoloro (a) al rosso bruno (c) e fortemente birifrangente. Nelle lamine con alterazione clo- 152 E. MANASSE ritica incipiente il pleocroismo è meno intenso, dal giallo-verdastro pal- lidissimo (a) al verde erba alquanto carico (c) e la birifrazione si man- tiene abbastanza energica. Se invece la cloritizzazione è avanzatissima le lamine verdi che ne risultano hanno pleocroismo quasi insensibile de- crescendo in esse in pari tempo, e notevolmente, la birifrangenza. Abbondante in queste rocce è una sostanza granulare, nera, carbo- niosa, tutt'altro che facile a distinguersi dal ferro-titanato. Che questa sostanza carboniosa sia presente però lo dimostra anche il saggio chi- mico. Infatti la perdita in peso ottenuta arroventando la roccia è notevole (5, 13 °[o), pur avendosi un aumento dovuto alla soprossidazione dell’ossido ferroso, palesata dall’arrossamento della polvere della roccia stessa: e tale perdita sarebbe troppo elevata se dovesse attribuirsi soltanto al- l’acqua eliminata dai minerali micacei e cloritici e dai pochi prodotti limonitici presenti nella roccia. Molto subordinatamente si riscontrano nei micascisti siluriani prismetti di tormalina azzurrognola o giallo-bruna e frammenti più grossi irregolari; sono poi minerali del tutto accessori l’apatite e lo zircone. Ecco la composizione chimica di un campione di tali rocce: Perdità: persa ovo ea STE edi E er MOSTO RR Ros AVO e abi isa dee) 1.602, os STARE O LANE OSE CATO $ 1} Cao Sii a e e 0a, Mobil iena K2Oetgo ee SLA AM IO Na 0,13 AIOP 02 PROSE TESO ARE E TAO DROT RR SR to 101,28 P_i ee DO !) Dosati complessivamente a Fe?0?, e RICERCHE PETROGRAFICHE E MINERALOGICHE SUL MONTE ARCO 153 Quarziti sericitiche permiane. Queste rocce, che, associate a brecce e conglomerati quarzosi a grana molto grossa, affiorano, in sparsi e piccoli lembi, soltanto all’estrema vetta del Monte Arco, risultano formate da un intima mescolanza di granulini di quarzo, dominante, e di finissimi straccetti di mica sericitica. La mica è anche in lamine assai espanse, contorte, e debolissimamente verdastre per cloritizzazione subìta, che hanno però tutti i caratteri ottici della mu- scovite. E il quarzo è poi in abbondanti granuli e plaghe, assai più grosse, con fortissime estinzioni ondulate e con inclusioni fluide piccole e scarse, che talora presentano per anomalìa figura d’interferenza bias- sica; onde la microstruttura (tav. VI [II ], fig. 6) si avvicina molto a quella detta dal GRUBENMANN ') clastoporfirica. Sono minerali del tutto accessori: la tormalina in cristallini pleo- croici dall’azzurrognolo (©) al verde pallidissimo (e), la pirite in cubetti limonitizzati, lo zircone e l’apatite nei soliti prismetti bipiramidati, il leucoxeno minutamente granulare e la limonite in chiazzette giallastre. Un esemplare tipico di roccia ha dato all’analisi: Ecrdita) persa 1,38 See 189. BI O AR I I DAI Pe0*; Fe0 \ atea La 88.9) Cats a. tracce Mae a n 0:23 IENE e as a DIL! 17) Noe 0, 96 100, 95 be 9,67 1) Si confronti Op. cît., vol. II, Tav. X, fig. 4. ?) Dosati complessivamente a Fe?0?. 154 E. MANASSE 2. — Minerali del Monte Arco. Pirrotina. Lice Var > St Re Pe Associata assai frequentemente ai minerali ossigenati di ferro del Monte Arco questa specie forma masse compatte a struttura lamellare o granulare, di colore di bronzo, con splendore metallico, assai vivo nella frattura fresca. All’aria imbrunisce. Fragile. Polvere nera. Durezza circa 4. Peso sp.=4.56. Attaccata dall’acido cloridrico con sviluppo di idrogeno solforato. Talvolta è associata intimamente alla pirite. Per ossidazione dà origine a solfati di ferro, d’incerta composizione, solubili in acqua. Chimi- camente considerata non dà reazione che di solfo e di ferro, e, come tracce soltanto, di calce e di magnesia. Non è per nulla nichelifera, nè cuprifera. I risultati avuti all’analisi suggeriscono che il minerale corri- sponde fra tutte le possibili formule semplici attribuibili a Fen Sn + 1, meglio che ad ogni altra a Fe? S°, le cui percentuali teoriche sono se- gnate qui appresso. Infatti: trovato Residuo insol. in H C1 0, 61 PE St ata end Ce PO e ee Cee Gad tia MARECE MebSR te LL RAecE 99, 56 calcolato DIS 40, 77 100, 00 Non può escludersi per altro che il materiale analizzato contenesse piccole quantità di pirite, che porterebbero ad una diminuzione del quan- titativo di ferro e ad un aumento di solfo. Pirite. È molto comune nei giacimenti ferriferi del Monte Arco, ove gli ossidi e idrossidi di ferro possono considerarsi come. un potente cappello di alterazione della pirite stessa e della marcasite. S'incontrano molto fre- quentemente dei grossi noduli di limonite gialli o giallo-bruni, che, spac- cati, lasciano vedere un nucleo interno, più o meno spesso, formato da TREAT, Pi RICERCHE PETROGRAFICHE E MINERALOGICHE SUL MONTE ARCO 155 tanti cubetti di pirite, in parte idrossidati anche essi e di colore rosso bruniccio, ma in parte purissimi, gialli e splendenti. Pirite si ritrova anche disseminata in piccoli pentagonododecaedri inalterati entro i marmi bianchi. Tutte queste piriti sono lievemente cuprifere. Marcasite. Abbondante quasi quanto la pirite ha grande diffusione al can- tiere Centrale, ove forma un grande ammasso che fa da nucleo ai mine- rali di ferro ossidati ed idrossidati. Non è mai pura, contenendo, oltre lo solfo e il ferro, piccolissime quantità di piombo e rame, nè ben cri- stalizzata. Dalla sua alterazione si producono molte altre specie, come melanteria, fibroferrite, copiapite, ecc. Arsenicopirite. Non fu raccolta che al cantiere Santi. È compatta, con struttura la- mellare, di colore grigio biancastro e con splendore metallico nella frattura fresca. All’aria diventa più scura. Polvere quasi nera. Durezza compresa tra 5 e 6. Peso specifico = 5,78, un poco inferiore al normale, perchè i frammenti adoperati non erano puri. Cristalli non furono osservati. La sua composizione chimica corrisponde assai bene a quella teorica per Fe AsS. Infatti: trovato calcolato . Residuo insol. in HNO® 1,49 — RIE TR 997 90 34, 30 Coi e o 48 _ Dee oto AGES 46, 03 AT IT IE I LOS: 100, 97 100, 09 Galena. Si ritrova in piccole quantità in seno ai minerali ocracei ferro-man- ganesiferi o limonitici del cantiere Nord. È compatta, lamellare. Contiene dello zinco. Un esemplare molto im- puro, specialmente di limonite e di calcite, diede all’analisi: 156 | E. MANASSE Pbi= 30 i Zu’ 1602 5 da cui si ricava che per 41, 28°, di Pb S si ha 1,52%, di ZnS, vale a dire che 100 parti di minerale puro contengono 96,45 °|, di Pb S e 3,55% di ZnS. Erubescite. Pure rinvenuta dal proprietario della miniera al cantiere Nord. Negli esemplari da me esaminati l’ erubescite, massiccia, di colore bronzino- paonazzo, è intimamente mescolata a limonite e a malachite. Distaccati alcuni frammentini quasi del tutto puri, e trattatili con acido nitrico, ottenni da essi reazione di rame, di ferro e di acido solforico (per ossi- dazione di solfo). Ematite. Minerale piuttosto raro che al Monte Arco accompagna, insieme a magnetite, le masse limonitiche. E in cristalletti imperfetti, a facce for- temente incurvate, talora iridescenti, o anche nella varietà lamellare (oligisto micaceo). — Opale. Fra i diversi prodotti colloidi che accompagnano nella miniera Cen- trale gli ammassi limonitici è da annoverarsi anche l’opale. E sempre una varietà translucida, quasi trasparente, in qualche punto rossigna per un pigmento ferrifero uniformemente distribuitovi, a lucentezza vitreo- resinosa e a frattura subconcoidale, All’analisi diede: His AS Si 0? Di ECT LIDI Pel ela 4, 14 99, 88 Goethite. Tale specie, della quale mi sono già occupato precedentemente 1), 1) Sopra alcuni minerali della Toscana. Mem. Soc. Tose. Sc. Nat., vol. XXVII, pae. (87 Pisa 71918 i RICERCHE PETROGRAFICHE E MINERALOGICHE SUL MONTE ARCO 157 incrosta, insieme a della calcite spatica o stallattitica, la limonite giallo- bruna della miniera Centrale. E fibrosa e fibroso-raggiata. Le fibre sono fragili, grigio-nere, o lie- vemente rossigne, e assai splendenti; se sottilissime appariscono al mi- croscopio translucide e di colore rosso intenso. Solubile in acido cloridrico a caldo, lasciando .indietro un piccolissimo residuo di silice. Durezza 5-5,5. Peso specifico 4,17. Analizzata diede i risultati segnati in I; in II sono i valori cente- simali della goethite, da cui è detratta l’impurità di Si0O?; in II le percentuali teoriche per HFe0?: li II III STIA ME I - a Pes erere 87,10 89, 60 89, 87 H?0 SALI ia LOSE 10, 40 hOsf3 100, 42 100, 00 - 100, 00 Limonite. | È il minerale di ferro il più diffuso nella miniera del Monte Arco. Se ne hanno molte varietà; così le compatte di colore giallastro, o giallo bruno, o marrone bruniccio; le ocracee gialle e giallo-rossastre ; le stallattitiche; le piceo-nere (stilpnosideriti), assai fragili e a frattura concoide, che danno esse pure polvere gialla. La limonite ocracea di colore giallo-rossastro diede un tenore in acqua di 12, 86 °/o, inferiore al teorico per la limonite (14,46 °;). E dall’analisi della stilpnosiderite furono ottenuti i seguenti valori centesimali che dimostrano come la composizione chimica di questo speciale geloidrato di ferro corrisponda a quella teorica, H°Fe*0?, della limonite: trovato D siena bio e A20 14, 46 SIA O TAI ESIRRO. (059, -- Pesos iti 89016 85, 54 Gao; ee tracce -. Me: ss ee. “pracée _ 99, 93 100, 00 158 E. MANASSE Malachite. In piccola quantità si rinviene entro una limonite spugnosa di colore . marrone-bruno nel cantiere Nord; è in bellissimi ciuffi cristallini di colore verde, a vivissimo splendore sericeo, costituiti da tante delicate fibre con disposizione raggiata. Ed accompagna poi l’erubescite. Wad (?). È stato già accennato alla presenza di filoni ferro-manganesiferi sviluppati principalmente al cantiere Nord. Si tratta di minerali ocracei bruno-neri, assai teneri, risultanti di un’intima mescolanza principalmente costituita di ossidi e idrossidi di manganese e di ferro (ferrico) con calcite. L'analisi chimica di un esemplare tra i più ricchi in manganese ha dato: Perdita per arrov. (H?04+- CO?). 15,41 SLO RE: de IR 1, 48 AO: E ERE O Bee io eco e Lia VETO Mayi03.ci dale i Rare BOLO Re NR E a a o Meo i Lia a Phi ale 0, 07 Ol pui e RAR ta e 0, 05 Seri ue alan ALe 100, 64 da cui si ricava Fe= 28,82% e Mn=16,35%. Jarosite. Minerale già da me descritto ?), che al cantiere Centrale riveste la limonite con crosticine e noduletti minutamente cristallini, di colore giallo-rossastro bruno, e con splendore quasi adamantino. 1) Nell’analisi è stato calcolato come Mn?®0*, ma in parte è certo allo stato di MnO0?. °) Mem. cit., pag. 80. RICERCHE PETROGRAFICHE E MINERALOGICHE SUL MONTE ARCO 159 I minutissimi cristallini si mostrano al microscopio trasparenti e di un bel colore giallo-oro. Sembrano risultare dalla combinazione di }0001} con il romboedro {1011} e forse anche con {0221}. Sfaldatura basale talora ben visibile. Pleocroismo quasi insensibile dal giallo al giallo debolmente bruno; rifrazione molto elevata, maggiore in ogni caso a 1,74 (joduro di meti- lene); birifrazione energica. Nelle laminette {0001} si osserva una figura d’interferenza anomala, biassica, ad angolo degli assi molto piccolo e con carattere ottico negativo. L’analisi fatta su materiale un poco impuro di limonite e di silice, per quanto scelto con ogni cura, ha dato risultati tali da far riferire il minerale ad una jarosite potassico-sodica (K, Na)? Fe°[OH]!? [SO]? con rapporto tra K?0 e Na?0 di 3 a 1: trovato calcolato STAI EA ORI DEI Dio — Sto e Ret 32, 22 Heft 48, 68 48, 23 leone ent 82 mez Nazozi. arc IGTI 1, 56 dea o 106.86] 10, 87 100, 00 100, 00 Gesso. È poco diffuso in forma di lamine cristalline, contorte e corrose, che incrostano la marcasite; con avanzata alterazione limonitica, al contatto dei marmi. Evidentemente qui il gesso deve la sua origine all’attacco dell’acido solforico fornito dall’ossidazione del bisolfuro di ferro sui calcari marmorei. Melanteria. Come prodotto di alterazione delle piriti di ferro la melanteria, ac- compagnata da altri solfati, quali la fibroferrite, la copiatite, ecc., e più spesso da minerali limonitici che incrosta, si presenta in cristalletti confusamente associati, imperfetti e corrosi, di colore verde o verde gial- lognolo se un poco ossidati, con lucentezza vitrea. 160 E. MANASSE 7 Qui sotto trascrivo i risultati avuti dall’analisi di alcuni cristallini immersi in una massa di copiapite, e già altrove riportati !); e li metto a confronto con le percentuali teoriche richieste da FeSO4. 7H?0: trovato calcolato Residuo insol. in acqua (marcasite) 0, 98 — SORELLE TR OCA A DAI Feo i ee Hip TRI AA aa] 45, 35 100, 00 100, 00 Fibroferrite. Piccole quantità di fibroferrite, in esili e delicati aciculi di colore giallo-verdastro formanti un fitto intreccio, accompagnano al Monte Arco la copiapite ?). Al microscopio le fibre estinguono a 00, hanno allungamento positivo, colore verde-giallastro con pleocroismo insensibile, rifrazione media e birifrangenza assai energica. Il minerale è solubile anche a freddo in acido cloridrico diluito, e dà reazione di acqua, di anidride solforica e di ossido ferrico. Formasi per ossidazione della melanteria, cui pure è associata. Copiapite. Minerale assai comune nelle porzioni di affioramento dei depositi ferriferi del Monte Arco, e indicato generalmente col nome di iAleite, del quale mi sono già occupato in una precedente nota È). È sostanza minutamente cristallina, quasi polverulenta, soffice, di co- lore giallo-solfo; ad essa si accompagnano marcasite, melanteria, fibro- ferrite. 1) Identità fra la cosidetta ihleite elbana e la copiapite. Proc. Verb. Soc. Tosc. Sc. Nat. vol. XX, pag. 65. Pisa 1911. ?) Vedasi Mem. cit. per melanteria. 3) Vedasi Mem. cit. per melanteria. RICERCHE PETROGRAFICHE E MINERALOGICHE SUL MONTE ARCO 161 Al microscopio la polvere risulta costituita da tanti piccolissimi cri- stallini trimetrici, tabulari secondo (001), eccezionalmente rombici perchè costituiti soltanto dalle facce di {110}, e quasi sempre in forma esagona perchè formati, oltre che dalle quattro facce di {110}, anche dalle due di {010}, assai meno sviluppate. L'angolo (110):(110) è di 102° circa e quello (010):(110) di 129° circa. Sfaldatura perfetta secondo (001), più difficile secondo (110). Nella massima parte dei casi dei quattro lati di {110} due paralleli sono assai più lunghi dei rimanenti, ed i cristallini assumono per tal modo un apparente abito monoclino. Pleocroismo sensibile : a=c= giallo verdognolo | b=bd==giallo pallidissimo quasi incoloro c=a=sgiallo solfo e assorbimento c>a>b. Rifrazione non elevata; per la luce gialla si hanno approssimativamente i seguenti indici: si _009 Elio? FAZI Birifrazione positiva energica ({—a=0,068); 2Vya)=73° circa (calcolato). Il minerale è solubile nell'acqua a freddo, non lasciando indietro che un piccolissimo residuo, quasi esclusivamente costituito da marca- site; la soluzione, che ha sapore astringente ed è acida, dà reazione di SO*, Fe?03, FeO e, come tracce soltanto, di Al*0*. Arroventato il mine- rale sviluppa dapprima acqua, poi perde l’anidride solforica, e non rimane, può dirsi, dopo la calcinazione che un residuo rosso intenso di ossido ferrico. | La composizione chimica di questa varietà di copiapite, ricavata dalla media di due analisi concordanti, è qui sotto segnata in I; in II sono riportate le percentuali che si ottengono da detta media dopo elimina- zione delle impurità, e, cioè, del residuo insolubile (0,71%) e della me- lanteria presente (FeSO*+7H?0=15,70%,, come deducesi dal quan- titativo di FeO); in III è trascritta la composizione centesimale teorica voluta da Fe‘S°0?! 16H?0, che è, a mio credere, la formula più pro- | babile fra le tante ammesse per la copiapite: Se. Nat., Vol, XXVIII 11 SS TR a SET PL PIGRI pe ga PIRRTi Ra .* # ad 162 E. MANASSE I II III Residuo insol. . 0,71 - — SOS 1 RIGO SASA 40, 54 50 DR Gli AISO3:g 0 GEIL e asiracea PS _ Fe?0% Liutfo a, dio 31,25. 31, 70 Fe OSE Pe —_ — Hb aa, 30, 68 28,21 20109 9992 100, 00 100, 00 La copiapite formasi per ossidazione e idratazione del vetriolo di ferro, cui è sempre associata, in presenza dell’acido solforico, proveniente, insieme alla melanteria stessa, dall’alterazione superficiale dei bisolfuri di ferro, e in special modo della marcasite, operata dagli agenti atmosferici. Glocherite. Al cantiere Centrale esiste un ammasso di pirite rivestita da un minerale amorfo, ocraceo e stallattitico, di colore bruno-rossastro, od anche di colore nero-pece con lucentezza resinosa, che passa poi a limonite. Analizzato il materiale diede reazione di acqua, anidride solforica ed ossido ferrico, onde credo possa riferirsi alla glocherite. Un saggio quantitativo diede soltanto -1,32 % di SO3, ciò che dimostra che il ma- teriale analizzato non era certo glocherite pura, ma una mescolanza di piccole quantità di questo minerale con limonite, ambedue derivati dal- l'ossidazione della pirite che avvolgono. Magnetite. Molto più diffusa dell’ematite, compatta e cristallizzata. La varietà compatta è ora lamellare, ora granulare. I cristalletti, quasi perfetti, ma molto piccoli, risultano costantemente dalla combinazione di {111} con 110}, ed appariscono striati parallelamente agli spigoli [111:110]. Al- cuni pochi sono geminati con piano (111). Apatite. Di questa specie, che in piccoli accumulamenti si ritrova entro i filon- celli essenzialmente quarzoso-tormaliniferi attraversanti la formazione scistoso-metamorfica più bassa del Monte Arco, è già stato detto nella parte petrografica, alla quale rimando per ciò che riguarda i caratteri RICERCHE PETROGRAFICHE E MINERALOGICHE SUL MONTE ARCO 163 morfologici ed ottici. E qui riporto soltanto i resultati analitici, ottenuti attaccando il minerale con acido nitrico; risultati che hanno svelato trattarsi, come già è stato accennato, di una varietà prevalentemente fluorifera. Accanto trascrivo le percentuali teoriche per Ca5F1[PO*]? e per Ca?C1[PO4]?: | trovato per Gu ETTbOS: per Cascio Residuo insol.!) 0,56 — — Cao 54, 86 55, 60 53, 85 ‘spl o LA 492,23 42,22 40, 89 Ch. 0, 61 — 6,80 FI. Dea 370 —_ 100, 53 101, 58 i 101, 54 —0=2(Fl1+C1) 109 —0=2F1 IS95S —0=2C1 154 99, 44 100, 00 100, 00 Tormalina. Della tormalina come elemento essenziale delle rocce aplitiche e peg- matitiche, dei filoncelli quarzoso-tormaliniferi e degli scisti metamorfici è stato già detto nei capitoli precedenti. Mi fermo ora sulla tormalina che forma in tutte le rocce ora menzionate speciali e considerevoli con- centrazioni. Si tratta in questi casi di fitti aggregati di cristalletti bruno-neri, prismatici, non bene terminati alle estremità, o anche rotti irregolar- mente, e tutti fittamente striati nel senso dell’asse verticale. Durezza 7 circa. Peso specifico 3,12. Nonostante che macroscopicamente i cristalletti abbiano tinta nera, uniforme, in sezioni sottili mostransi talora policromi. Il pleocroismo è d’ordinario: = giallo-rossigno bruno più o meno cupo e = giallo chiarissimo fin quasi incoloro 1) Costituito da frammenti di tormalina e quarzo. IT NIEZEON e Ne / 3 d ” <& x Ù 164 E. MANASSE e qualche volta: © = giallo-bruno es =roseo pallidissimo fino incoloro e in limitate e ristrette zone: ‘= azzurro intenso e =azzurro chiarissimo fin quasi incoloro. DI La composizione chimica di siffatta tormalina è qui appresso tra- scritta insieme ai rapporti molecolari dei singoli componenti. Nell’analisi l'anidride borica è stata determinata per differenza: Rapporti molecolari HS dtt: 1935) 0, 1071 2,86 3 bl gara tracce — Soi 36, 09 0; 5975 1An9S 16 ASS e 34, 43 0, 3369 9,01 9 Col 8509) 0, 1193 3, 19 3 MnO=-& = ‘tracce - Cole 053 0, 0094 Ned ore 018880 ae ia i (Ea È PEA pete 0,535 0, 0037 Î NO Sa 07087 ASTE ; i BO SO ID] 0, 1486 3,97 4 100, 00 Se ne ricava la seguente formula bruta: 16 Si0?. 4B? 0. 9A1?0?. 3Fe0.4Mg0. Na?0.3H?0 cioè: Il H° Na? Pe? Mo SAT! BOSI EOS, i) H?°O fu calcolata in base alla perdita per arroventamento subìta dal mi- nerale, tenendo conto dell’aumento di peso avutosi per la sopraossidazione di Fe 0 a Fe? 03, nella supposizione, non sembrami infondata, che essa sia completa per il notevole arrossamento presentato dalla polvere. La determinazione è quindi soltanto approssimativa. ?) Tutto il ferro presente nel minerale è stato considerato come Fe 0. e ET in pae > MEO w". 0 Fg ‘d sa CNS dota $ | RICERCHE PETROGRAFICHE E MINERALOGICHE SUL MONTE ARCO 165 Se poi volessimo considerare, seguendo PeNFIELD e Foore !), le tor- maline come sali dell’acido allumino-boro-silicico H°A1*[B. OH]? Si* 0°, . nel quale i nove atomi di idrogeno sono in massima parte sostituiti da atomi di metalli mono, bi e trivalenti, la formula che più si addirebbe al nostro minerale sarebbe la seguente: H? Na? Fe? Mg* Al6 (Al? [B. OH]? Si4 019)* che si ottiene partendo da quattro molecole dell’ipotetico acido allumino- boro-silicico, rimpiazzando con metalli 34 dei 36 atomi di idrogeno di- sponibili, onde il sale risulterebbe acido. La composizione teorica voluta da tale formula è: Madeira i i 334 Rae sc crei eo 3885 Sete doti brecce e 49 Rebel 8500 Moe keel 99 E 0) PS VISTA I: 1 eee a a 10, 80 100, 00 Questi valori calcolati, tranne per ciò che riguarda il quantitativo dell’acqua (la formula richiederebbe 5H?0O, mentre l’analisi ha dato sol- tanto 3H?O; ma, come abbiamo veduto, la determinazione dell’acqua è appena approssimativa) corrispondono assai bene a quelli da me trovati, e vi corrispondono tanto meglio se si considera che nel minerale elbano piccola parte di MgO è sostituita da CaO e che un’altra piccola porzione di K?0 sostituisce Na?0O. Ilvaite. L’ilvaite ritrovasi, associata a pirosseno hedenbergitico e in minor quantità ad epidoto, nelle zone di contatto fra i giacimenti ferriferi ed i soprastanti marmi; condizione questa, come è ben noto, che sempre verificasi all’ Elba. | 4) Vedasi GroTH. Tableau systématique des minéraux, pag. 119. Genève 1904. 166 E. MANASSE Raramente in cristalli, e sempre molto imperfetti, della comune com- binazione {110}, {120}, {010}, {101} e {111}, e quasi sempre in masse cri- stalline compatte, nere, a lucentezza submetallica superficialmente, picea nella frattura. Durezza 6 circa; peso specifico = 3, 95. Per alterazione si ricuopre di una patina giallo-bruna, più o meno spessa, di idrossido ferrico, il quale talvolta sostituisce quasi completamente il minerale. Opaca se non in lamine estremamente sottili, in queste ultime ho osservato al microscopio due tracce di sfaldatura ad angolo retto, di cui l’una, probabilmente secondo (010), più marcata dell’altra secondo (001) o (100). Si nota anche notevole pleocroismo ed assorbimento molto forte; per i raggi vibranti parallelamente alla più facile sfaldatura si ha un bruno-nero intenso, per quelli normali un colore giallo-bruno molto ca- rico. Altri caratteri ottici non fu possibile osservare. | Il minerale è completamente solubile in acido cloridrico con deposito -di silice gelatinosa. All’analisi ha dato percentuali che sono in buon ac- II III cordo con quelle calcolate sulla formula Ca Fe?[Fe. OH][Si04]?: trovato calcolato E 319 2,20 STO 29, 49 ATSORO La 0;:63 “— Fe? LAM08Ì 19 51 PRebgiutoa sa Fog Macra EG -_ Cast et gi A13598 13; 609 Meo” tuus? a triolraene — 100, 30 100, 00 Epidoto. Nella zona dei silicati ferro-calciferi che accompagnano le masse ferri- fere del monte Arco l’epidoto non comparisce troppo abbondantemente, ed è poi così intimamente mescolato agli altri minerali, e in special modo all’ilvaite e al pirosseno, che non lo si può da questi separare. Alla Punta delle Cannelle per altro è molto più diffuso, e, da solo, forma anche una vera epidosite compatta, di color verde-pistacchio, in- crostata da cristalletti prismatici dello stesso SRO pistacitico, striati e non terminati, associati a calcite. po gr e "men. i en È 0. RICERCHE PETROGRAFICHE E MINERALOGICHE SUL MONTE ARCO 167 Al microscopio questo epidoto apparisce in individui colonnari paral- leli a y e, più raramente, in sezioni che accennano a figure rombiche od esagone presso a poco parallele a (010). Sfaldature (001) e (100), facenti angoli di 115° circa, assai facili ad osservarsi. Rari geminati secondo {100}. Pleocroismo piuttosto intenso in sezioni di un qualche spessore: a = incoloro b = giallo-verdiccio C- giallo Rifrazione e birifrazione molto elevate, ma variabili alquanto da in- dividuo a individuo. Nei cristalli colonnaril’ estinzione è retta, nelle lamine esagone parallele o quasi a (010) e limitate dalle facce di {100}, {001} e }101}, come è risultato da apposite misure angolari microscopiche, si bota era = 2° circa, a:c = 28° circa. Durezza uguale presso a poco a 6. Peso specifico = 3,29. | Distaccata una certa quantità di siffatti cristalletti e sottoposti questi all'analisi, previo trattamento a freddo con acido cloridrico diluitissimo per asportare le piccole particelle di calcite aderenti ai cristalletti stessi, ebbi: Rapporti molecolari SiO?. 36, 51 0, 6045 5; 59 6 A1?03 24, 50 0, 2397 Lusia sega 5 Fe?0? !) 12, 38 0, 0775 i tt Ca0 . 24, 34 0, 4339 & 0, 4450 4,11 4 Mg0. 0, 45 0, 0111 HO: 1,95 0, 1082 1,00 I 100, 13 Ne risulta la formula bruta: H?0.4Ca0. 3(Fe, A1)?03. 6Si0? nella quale: i Reso: AVO br:33) 1) Tutto il ferro avuto all’analisi è stato considerato allo stato di Fe?03.. * Dall'analisi si ricava precisamente: Fe?03?:; AI°03=1:3.09, 168 E. MANASSE Le percentuali teoriche per un epidoto della composizione di cui sopra sono le seguenti : SiO® ie ra ae ET a A1I3O03.. gie AA ZEAOO Bet ct RR LAI Cao ee i aio HO! a et Rae A e 100, 00 Pirosseno (Hedenbergite). È il più abbondante fra i silicati tac diferi. Si tratta di una va- rietà fibroso-lamellare o fibroso-raggiata, di colore verde piuttosto cupo; qualche volta il Ste è verde- chiaro. Durezza 5. circa. Peso specifico uguale a 3,50. | i ‘Dalle masse pirosseniche -sporgono talora dui cristalletti bacillari, molto imperfetti, che sembrano impiantati, per un’estremità dell’asse 2 e rotti irregolarmente all’altra, costituiti dalle forme {110}, {100} e {010}, con lucentezza quasi grassa e qualche volta rivestiti di una sottile pa- tina giallognola limonitica. Tali cristalletti ripetono i caratteri ottici del pirosseno formanti le masse maggiori. In sezioni sottili si notano infatti i seguenti caratteri: colore verde pallido con pleocroismo insensibile, rifrazione e birifrazione elevate, estinzioni massime in lamine di sfaldatura di 44° circa (e: Cc). I cristalli solo eccezionalmente risultano di due individui geminati secondo (100). | Il pirosseno può anche assumere una colorazione verdastra, non debole; ma ciò è dovuto ad un principio di cloritizzazione, che porta anche ad un abbassamento notevole della birifrazione. In rari casi poi le lamine sottili mostrano, limitata agli orli, una paramorfosi anfi- bolica; e l’anfibolo formatosi è ferro-calcifero al pari del pirosseno, per- chè di tipo actinolitico; ha infatti struttura fibrosa od aciculare, colore verde azzurrognolo con pleocroismo a = b = verde giallastro assai pal- lido ec = verde azzurrognolo piuttosto intenso, rifrazione e birifrazione un po’ meno elevate di quelle del pirosseno, estinzioni di c: c = 159-17°. A sua volta questo anfibolo dà origine, alterandosi, ad una sostanza squa- mosa, verde, di natura cloritico-serpentinosa. i POST a. SR, LOPAE LA RICERCHE PETROGRAFICHE E MINERALOGICHE SUL MONTE ARCO 169 Distaccati alcuni cristalletti di pirosseno verde cupo, fra i più puri, e analizzati, ebbi per essi i risultati qui appresso segnati, i quali dimo- strano che si tratta di un termine quasi esclusivamente ferro-calcifero *). Accanto ai valori ottenuti riporto quelli teorici per la tipica hedenber- gite Fe Ca [Si 08]?: | trovato calcolato Perdita per arrov. . E 0-68 aa Scotta. 48N09%, Sg 8490 TEO PREMERE 1, 61 _ EA E db 26, 14 28, 90 DITTA I O et ES 1,15 — ITS RA OPP RARA VA 20, 40 O}, MIO RI e pa) 1,94 — (Uda 100, 00 Amianto. Im discreta quantità questa specie si rinviene, associata a mizzonite ed a quarzo, entro i filoncelli di ocra ferro-manganesifera, già ricordati. È filamentoso, ma le fibre, non troppo pieghevoli, sono lievemente giallognole perchè inquinate da piccole quantità di limonite. Isolate ri- sultano al microscopio incolore ed estinguenti a 15° circa (c:c). La composizione chimica del minerale fa ascrivere questo quasi ad una tipica tremolite Ca Mg*[Si0*]%, le cui percentuali teoriche sono ri- portate qui sotto insieme ai risultati analitici ottenuti. Infatti: 1) Il presente lavoro era già in bozze quando potei leggere la Memoria del MartELLI: Sulla natura delle masse pirosseniche in relazione con i giacimenti ferriferi di Rio e Capo Calamita (Rend. R. Acc. Lincei. vol. XXI, serie 5, 1° sem, fasc. 12, pag. 803. Roma 1912). Ad essa quindi posso solo accennare. Il MaR- TELLI ha studiato e analizzato il pirosseno verde-bruno a struttura fibroso- raggiata di Rio e quello assai più chiaro di Capo Calamita. La varietà di Rio, in piccola parte uralitizzata, è una hedenbergite manganesifera (schefferite), nella quale per 24, 31°/, di FeO si hanno: 7,59°/, di MnO, 11,08°/, di CaO, 2,11°/, di MgO e inoltre piccole quantità di A1?0* (0,33°/,) e di Fe? 08 (2, 23°/,) spettanti alla molecola dell’augite. Il pirosseno di Capo Calamita, alquanto alterato, è in- vece una hedenbergite ferro-calcifera, priva di manganese 0 con tracce minime di questo elemento, contenente dal 2, 64 al 4, 93°/, di Mg O, e con discreta quan- tità degli ossidi alluminico e ferrico, propri di termini augitici. CS 3) Tutto il ferro presente è stato calcolato come Fe O, ma non posso escludere che piccolissime quantità di esso si trovino nel minerale allo stato di Fe?©3, - 170 Perdita per arrov. Sio? . Ai?20° | Fe?0? | Cao Mg0.. K?0 Naz9:. E. MANASSE trovato 1,92 54, 65 Mizzonite. calcolato —— 6 DT, 69 100, 00 vi i CISA po Accompagna l’amianto ora descritto. Come risulta da una mia nota già pubblicata *), il minerale si presenta in cristalletti prismatici con di- sposizione raggiata; è biancastro nelle parti più pure, ed ha lucentezza sericeo-madreperlacea poco viva. AI cannello fonde in un vetro bianco,. bolloso. È solo parzialmente attaccato a caldo dall’acido cloridrico. Durezza 5-6 ; peso specifico = 2, 60. Al microscopio i cristalletti appariscono prismatici, terminati in modo irregolare alle estremità, striati longitudinalmente, con qualche traccia di sfaldatura normale all’asse principale. Sono incolori, estinguono a 0°. Rifrazione : O(Na) = L DIVI E(Na) = 1, 540 Birifrazione negativa media (0 —e=0, 017). I risultati avuti all'analisi chimica hanno dimostrato che si tratta di una miscela isomorfa o, più esattamente, di una soluzione solida del silicato ma- rialitico, Na* AI3 Si*0?*CI, (Ma) e di quello meionitico, Ca* AI5 Si80.?5, (Me) nel [alone di 3a 2. Infatti: SÒ) Mizzonite di Capo d’ Arco (isola d’ Elba). Resa; R. Acc. Lincei. vol. ca serie 5%, 2° sem. fasc. 4., pag. 211. Roma 1910. 4 RICERCHE PETROGRAFICHE E MINERALOGICHE SUL MONTE ARCO IR trovato calcolato per Ma? Me? Perdita per arrov. 1,43 ss Si0? © 54, 40 54, 37 A1?05. 24, 44 ANTI Fe30?, tracce Al (20/95. » » 250° 0,92 » Tone e I a > ZIA 0,90 at a00 Lai » 350° 0,92 » oltre 400° 0,90 » per arrov.° 14,98 » La piccola quantità di acqua perduta sull’acido solforico e fino alla tempe- ratura di 250° (0,92 — 0,95°/,) è indipendente chimicamente dal minerale; quella restante, per la cui espulsione occorre la calcinazione, è di costituzione. Il com- portamento offerto dal caolino della Tolfa è del resto del tutto simile a quello di altri composti, la cui acqua è completamente, o quasi completamente, di costi- tuzione, studiati da ZAMBONINI (Contributo allo studio dei silicati idrati (Atti R. Ace. Sc. fis. e mat., vol. XIV, serie 22, n. 1. Napoli 1908). 174 E. MANASSE gelatina indurita, amorfo, a frattura subconcoidale, e di colore non uni- forme, ma verdastro o ceruleo-pallido o bianco. Durezza 3 circa; peso specifico = 2, 08. Al microscopio il: minerale non ha nessuna azione sulla luce pola- rizzata. Trattato con acido cloridrico è completamente attaccato, con deposito di silice gelatinosa. Arroventato sviluppa acqua in notevole quantità. Ai saggi qualitativi il minerale è risultato costituito da silice allu- mina, acqua e da -piccolissime quantità di ossidi di calcio, magnesio e rame; e quantitativamente le porzioni bianche o appena appena cerulee di esso hanno dato: H 05668 CoBagd Siti e e ina ATR03 et 59 Cao erre e Mb aaa 0590 Cao: el tele Ea eee 99, 08 Il minerale ha quindi notevole analogia chimica con la cosidetta samoite di Upolu, nell’isole di Samoa, per la quale il Dana !), da cui vien descritta in appendice agli allofani, suggerisce la formula bruta 2 AI?08. 3Si0?. 10 H?0 ?). GrotH?) invece considera la samoite, al pari dell’alloisite, come un caolino che contiene una quantità di acqua assai maggiore di quella richiesta dalla formula H*A1?Si?0?. 1) Descriptive Mineralogy. Sixth Ed., pag. 693. New-York 1904. ?) Dalla mia analisi, non tenendo conto di Ca0, Mg0 e CuO, si ottengono i seguenti rapporti: ATO: Si0%: H°20/—2: 3921972 _ E la formula 2AI°03. 3Si0?. 10H?O richiederebbe teoricamente: Sio? sv 0 11082,08 AO EL 336, 18 His s sit. a 0:100;00 | 3) Op. cit., pag. 139. . E e e e i ni. ee” i » ui _ . RR > PI “ K : "i RICERCHE PETROGRAFICHE E MINERALOGICHE SUL MONTE ARCO 175 Per altro l’aspetto esterno del minerale, la sua inomogeneità fisica, palesata anche dal colore non uniforme, l’isotropia da esso presentata, la impurità di ossidi di calcio, di magnesio e di rame che contiene, la sua associazione ad alloisite e a crisocolla, e alcune altre proprietà ancora fanno piuttosto ritenere che si tratti di un tipico idrogelo alluminico- siliceo. L'ipotesi trova conferma nel modo, con cui il minerale elimina la sua acqua, perchè le ricerche fatte a questo scopo, seguendo i metodi e i criteri suggeriti da ZAMBONINI !), hanno stabilito che, se non pure tutta, la massima parte almeno di essa acqua si trova come disciolta 0 assorbita, e non allo stato di cristallizzazione o di costituzione. Sull’acido solforico concentrato la perdita dell’acqua procede nella seguente maniera: Dopor9re:7:14/ 009%; ” » 2 tl 0, 17 no 5 S 16 da da È Dia 3,96, È 4 33 4,94 , n » o 48 0519. s o 18 Log; È SSR 100) (395 È 2005 Udo Per l’azione disidratante dell’acido solforico l’acqua sfugge dunque dal minerale con velocità variabile, e, se dopo 230 ore, cioè, così almeno sembra, a equilibrio raggiunto, si ha eliminazione del quarto circa di quella totale è questo un fatto, ritengo, puramente casuale. A temperature diverse l’uscita dell’acqua avviene come è indicato qui appresso; gli equilibri si raggiungono sempre piuttosto lentamente, dopo un tempo compreso fra 12 e 18 ore (in più volte): Perdita H?20 A o 97 dia 4 dh gens 16,98%, agent 020,59 ') Mem. cit. PRC. a È. MANASSE a 9950! ve dra sone "BA Ce E , 4930°cittato "Rie oe a . . . . ° . . . con-l’arroventamento 29, 64 , L’acqua è perduta dunque (almeno entro i limiti delle temperature sperimentate, cioè tra 115° e 430° circa) con continuità, ed in maniera tale che se si volessero rappresentare graficamente i valori ottenuti si avrebbe una curva di disidratazione continua e regolare. Inoltre le quan- tità di acqua eliminate alle diverse temperature non sono mai una fra- zione semplice di quella totale, come dovrebbe essere avvenuto se si fosse trattato di un idrato ben definito, vale a dire di un sale con acqua di cristallizzazione, e d’altronde l’acqua è perduta in considerevoli tenori a temperature relativamente non elevate, ciò che esclude che essa, in massima parte almeno, sia di costituzione. Se ne ricava pertanto che l’acqua si ritrova nel minerale allo stato di soluzione solida 0, meglio ancora, di assorbimento, e che, per conseguenza il suo tenore è suscet- tibile di variazione col variare delle circostanze esterne. Crisocolla. Piccole quantità di tal minerale, terroso o compatto, di colore verde a verde-azzurro, accompagnano al cantiere Centrale altri prodotti colloidi e segnatamente l’alloisite e la samoite; a quest’ultima anzi la crisocolla sembra fare quasi graduale passaggio. Oxalite (Humboldtina). Come già risulta da una mia precedente descrizione !) questo inte- ressante e rarissimo minerale fu rinvenuto nel cantiere Nord delle mi- niere di ferro del Monte Arco entro un materiale limonitico, terroso, costituente un terreno boschivo, e proveniente dalla decomposizione di piriti. L’oxalite, che fino ad ora non era stata mai ritrovata in cristalliz- zazioni definite, ma sotto forma invece di materiale polverulento o fi- 4) Oxalite di Capo d'Arco (isola d'Elba). Rend. R. Acc. Lincei, vol. XIX, serie 52, 2° sem., fasc. 3°, pag. 138. Roma 1910. RICERCHE PETROGRAFICHE E MINERALOGICHE SUL MONTE ARCO 177 broso o lamellare, si presenta al Monte Arco in cristalletti, non certo perfetti, ma che pure si prestano a discrete misure goniometriche e a - buone determinazioni ottiche. Il minerale è in prismetti o tavolette trasparenti di un bel colore giallo-ambra, ha lucentezza viva resinoide, e si disfà facilmente in esili fibre con splendore sericeo. Durezza circa 2; peso specifico 2, 28. È specie trimetrica, e le forme osservate sono queste soltanto : {100}, {001}, {110}, {101} associate nelle seguenti combinazioni : I 5001}, {110} II {100}, {001}, {110} III {001}, {110}, {101} delle quali è frequente la prima, poco comune la seconda, riscontrata una sola volta la terza. I cristalli sono piccoli, i maggiori non misurando nella loro massima dimensione, cioè secondo 2, che tre o quattro millimetri. L’abito loro è prismatico e dovuto al prevalente sviluppo della forma {110}; talvolta però le facce di {110} non sono equidimensionali, due parallele risultando più ampie delle due rimanenti che possono ridursi anche listiformi, fa- cendo in tali casi assumere ai cristalletti un deciso abitu tabulare. Queste facce di }110}, benchè striate parallelamente all’asse verticale, danno immagini assai buone e in generale semplici. La base {001} ha facce non tanto piccole, ma irregolari, ondulate e cariate, onde offrono im- magini imperfette e malamente distinguibili. Le facce del pinacoide 100} sono listiformi, striate parallelamente a 2, ma qualche volta assai ben riflettenti. Il macrodoma {101} fu osservato una sola volta in un cristallo incompleto e con un’ unica bruttissima faccia, ristretta ed ap- pannata, che non diede al goniometro nessuna immagine, ma appena un bagliore. I valori angolari ottenuti nelle misure sono: Spigoli | Valori Valori Valori misurati di estremi medi calcolati (110) : (1I0) 20 1599, 17 76°, 6 T.0°.033ì Ha 75°, 24' Ione (110): (110) ter 104, 4—104, 54 ROASSZO 104, 35 al (100) : (110) 12 d20- 3854 Sia Di 37,42 > Se. Nat., Vol. XXVIII 12 178 E. MANASSE (001) : (110) 4 89, 14— 90, 46 90,11 90, 00 (001) : (100) 1 SE 89, 21 Lc 90100 (001) : (101) 1 _ 55°. 00.circa 55, 00* Per la determinazione delle costanti cristallografiche mi sono servito, per ciò che riguarda a, della media di soli otto valori angolari (110) : (110) avuti dai cristalletti migliori, riflettenti una sola nitida immagine, media che risultò uguale a 75°, 24’, 23” (limiti delle misure: 75°, 18'-—75°, 30’); e per il calcolo di c mi sono basato sopra l unico angolo potuto misu- rare fra (001) e (101), uguale a 55° circa, ma determinato solo con larga approssimazione per il bruttissimo stato della faccia (101). Ottimo è quindi il valore della costante a; solo approssimativo e suscettibile di correzione quello di c. | In ogni modo dal calcolo si ottiene: 4° 06 — 0 TIZIA 0092 Le sfaldature riscontrate nell’oxalite sono: (110) facilissima, (100) e (010) assai meno comuni, (001) rarissima. Il minerale ha pleocroismo notevole: a=a=verde giallastro pallidissimo quasi incoloro b=5d=giallo verdastro pallido c=c= giallo intenso e assorbimento c->b>Aa, con differenza piccola fra a e b. Rifrazione assai elevata (a=?, B= 1,561, = 1, 692); birifrangenza oltremodo ener- gica e, molto probabilmente, positiva. La polvere del minerale con la perla al sal di fosforo dà la reazione del ferro. Essa è di colore giallo-chiaro. Arroventata sviluppa acqua, lasciando un residuo rosso-bruno di ossido ferrico. Solubile a freddo, ma meglio a caldo, nell’acido cloridrico piuttosto concentrato, senza svilup- pare la minima effervescenza, la soluzione che se ne ottiene offre sol- tanto reazione di ferro molto evidente e di magnesio come tracce soltanto. Questa stessa soluzione, diluita con acqua, dà con prussiato giallo un abbondante precipitato bianco o bianco-bluastro di ferro-cianuro ferroso, con prussiato rosso un bel precipitato bleu-scuro di ferricianuro ferroso, con solfocianuro potassico una debolissima colorazione rosso-sangue. Questi saggi dimostrano che il ferro si trova allo stato di sale ferroso. Bollendo la polvere del minerale con soluzione concentrata di carbonato RICERCHE PETROGRAFICHE E MINERALOGICHE SUL MONTE ARCO 179 sodico, e aggiungendo nel liquido filtrato dapprima acido acetico fino ‘a reazione acida e, dopo riscaldamento prolungato, cloruro calcico, sì ottiene un precipitato bianco di ossalato calcico. Tranne questa eviden- tissima di ossalati, nessun altra reazione di generi salini offrì il minerale. L’analisi quantitativa diede: I II Media Rapporti molecolari e 40,18 È 40,18 0,5581 1,00 + 40..67 40, 77 40672 0, 5663 TISOI i tracce tracce tracce 0 ga 20753) 20)5800) I ut9950) 02004 101, 43 . Perdita per arrov. _ DS Fo ail CI e. Questi risultati conducono alla formula FeC?04+2 H?O piuttosto che all’altra 2 FeC?044-3H?0O, assegnata dal RammELSBERG ?) all’hum- boldtina, in base ad una analisi della varietà polverulenta di Luschitz presso Kolosoruk in Boemia; onde il minerale elbano avrebbe la stessa composizione dell’ossalato ferroso artificiale. La formula FeC?04+2H?0 richiede teoricamente: O e 40. Q] eee 3006 PR o) 03 100, 00 Egea picEzatro vo sog. 95,59 richiede cioè percentuali molto prossime a quelle ritrovate nel minerale elbano. 1 Tuttavia per l’accertamento della formula dell’oxalite non potevo basarmi soltanto sui risultati analitici avuti, a causa della pochissima i) Il 20,53°/, di acqua fu stabilito in base alla perdita per arroventamento subita da minerale (56,18 °/,), detraendo da essa il 40,18 °/, trovato di C*03, e tenendo conto in pari tempo dell’aumento di peso (4,53°/,), dovuto all’ ossidazione di FeO a Fe?0?, che è completa. °) Handbuch der Mineralchemie, pag. 209. Leipzig 1875. 180 E. MANASSE: quantità di materiale impiegato (gr. 0, 0894 per il dosamento di C?0° e di FeO, e gr. 0, 0584 per la perdita all’arroventamento e per un nuovo dosamento di FeO), la quale, negli inevitabili errori sperimentali, poteva portare con facilità a divergenze centesimali non lievi. Per tale motivo ho preparato artificialmente, in diverse maniere, l’ossalato ferroso idrato, FeC?044+2H?0 e su questo ho eseguito nuove ricerche chimiche (pi- rognostiche, qualitative e quantitative) ed anche ottiche !). E poichè l’ossalato ferroso artificiale è risultato identico all’oxalite studiata, sia dal lato chimico, sia dal lato ottico, ho avuto così un’ottima conferma a quanto aveva supposto, cioè che la composizione del minerale elbano è esprimibile dalla formula FeC*04+2H?0, | Circa alla genesi dell’oxalite elbana parmi probabile che essa derivi da una doppia decomposizione fra il solfato ferroso prodottosi dall’ossi- dazione del bisolfuro e un qualche ossalato alcalino di origine organica e verosimilmente vegetale. Conclusioni. Lo studio litologico del Monte Arco fornisce, mi sembra, qualche nuovo argomento da aggiungersi a quelli geo-litologici, numerosi quanto importanti, con i quali l’ALoisi, il BaLpacci, il NovaRESsE e il LortI si sono opposti all'ipotesi del TERMIER circa l’esistenza nella parte orien- tale dell’isola d'Elba di un esteso piano milonitico, derivato da lami- nazione di un complesso di rocce di tipo granitico, comprendente la granitite normale, il porfido granitico e l’aplite porfirica, che tanto svi- 1) L’ossalato ferroso idrato artificiale, in forma di una polvere gialla minu- tamente cristallina ed anche apparentemente amorfa, fu da me ottenuto dapprima facendo agire l’acido ossalico sul cloruro ferroso e sul solfato ferroso-ammonico, l’ossalato-ammonico sugli stessi cloruro ferroso e solfato ferroso-ammonico, e in successive esperienze fu preparato per doppia decomposizione fra solfato ferroso da una parte e dall’altra acido ossalico ed ossalato ammonico. La precipitazione non fu mai completa, e non lo è stata nemmeno mettendo insieme dei reattivi impiegati quantità proporzionali ai rispettivi pesi molecolari. La presenza di acido cloridrico nelle diverse soluzioni non impedisce la formazione dell’ ossalato fer- roso idrato, pur diminuendone un poco la precipitazione, ed è, d’altra parte, gio- vevole, nei casi siensi impiegati sali ammonici (ossalato ammonico e solfato fer- roso-ammonico), perchè fa sì che non precipitino, insieme all’ossalato ferroso idrato, piccole quantità di ossalato ferroso-ammonico idrato ([N H*|? Fe[C? 0']? + 3H?0?) o, per lo meno, riduce quest’ultimo sale a semplici tracce non dosabili. Ho potuto ciò constatare con una serie assai numerosa di esperienze, sulle quali non mi pare sia il caso che mi dilunghi nel presente lavoro. RICERCHE PETROGRAFICHE E MINERALOGICHE SUL MONTE ARCO 181 luppo prendono, come è ben noto, nella parte centrale ed occidentale dell’isola stessa. Ù Secondo il TeRMIER le rocce che nella parte descrittiva ho chiamato leptinoliti quarzoso-micaceo-andalusitiche, gneiss cornubianitici, gneiss sci- stosi macchiettati, filladi quarzoso-sericitiche e micascisti, e che, se- guendo il LortI, ho ascritto ad una formazione geologica antichissima, probabilmente presiluriana, sarebbero invece dei graniti, micrograniti ed ortogneiss laminati, o, più precisamente secondo la nomenclatura adot- tata dal TERMIER stesso, delle miloniti granitiche, delle miloniti micro- granitiche o falsi gneiss, delle miloniti gneissiche o veri gneiss. Come ho già detto, io ritengo invece, d’accordo con quanto per terreni ana- loghi di altre località dell'Elba orientale hanno sostenuto il LotTI e l’ALoisi, che si tratti di un complesso di rocce di origine sedimentaria, e di natura argilloso-arenacea, più o meno modificate, per azioni di contatto, dai graniti. — Procedendo in ordine stratigraficamente ascendente prendiamo in esame anzitutto la formazione più bassa del Monte Arco, quella cioè costituita dalle leptinolîti quarzoso-micaceo-andalusitiche. Per tali rocce non posso che ripetere in gran parte quanto ha già pubblicato l’ALOISI circa gli scisti che si rinvengono fra Mola e Longone, i quali, già lo abbiamo veduto, possono considerarsi identici a quelli del Monte Arco. Che esse sieno rocce intensamente modificate e ricristallizzate in seguito alle eruzioni dei graniti, dei quali poi racchiudono numerosi filoni a facies aplitica e pegmatitica, è chiaramente dimostrato da molteplici ca- ratteri, come, per tacere di altri minori, dalla loro microstruttura pa- vimentosa e minuta, dall’aspetto scheletriforme dei minerali micacei e in particolar modo della biotite, dalla presenza dell’andalusite e della tormalina, dalle inclusioni reciproche e dai concrescimenti dei principali componenti, dal non presentare questi mai, ad eccezione dell’andalusite e della tormalina, contorni propri, ecc. ecc. Inversamente esse non hanno nulla di graniti schiacciati, e in par- ticolar modo della granitite normale, da cui il TERMIER crede derivati gli scisti in parola !). 1) Il TERMIER non parla in maniera speciale degli scisti del Monte Arco; egli si è fermato invece particolarmente sugli scisti della riva destra della Valdana, fra il punto 20 della carta (ove è aperta una cava) e la spiaggia del Lido, ed ha studiato poi la regione costiera fra Ortano e Rio Marina e i dintorni imme- diati di Longone. | 182 | E. MANASSE La granitite normale elbana è una roccia i cui elementi essenziali sono: quarzo, ortose, plagioclasi, (albite, oligoclasio e andesina acida), biotite. Ora nelle leptinoliti del Monte Arco i feldispati e, cioè, tanto l’ortose che i plagioclasi sono rarissimi, quasi direi accidentali, senza contare poi che in tali rocce hanno notevole diffusione la mica bianca, che risulta quasi minerale accessorio nella granitite, l’andalusite, che in quest’ ultima manca affatto, la tormalina pure assente nella granitite !). Si potrebbe obiettare che i feldispati possono per decomposizione aver dato origine a minerali micacei potassico-sodici e a quarzo, e con ciò verrebbe a spiegarsi come il contenuto in quarzo, e più ancora, in mica bianca sia in complesso maggiore nelle leptinoliti in parola che non nella granitite. Ma, come già ha osservato l’ALorsi, è ben difficile che queste trasfor- mazioni chimiche siensi effettuate in seguito a fenomeni puramente mec- canici. E quando anche si volesse fare entrare in giuoco, a spiegare siffatte decomposizioni, l’azione di acque circolanti sotterraneamente, mal si comprenderebbe perchè, dal momento che nella granitite normale i plagioclasi sono termini non solo albitici, ma anche oligoclasico-andesi- nicl, non siensi originati, come sempre avviene, dalla loro alterazione mi- nerali zoisitico-epidotici, o calcite, o qualche altra specie calcifera, di cui non si ha nessuna traccia negli scisti leptinolitici. Nè ci si renderebbe ragione, d’altra parte, come i ben rari granuli di ortose e plagioclasi che si rinvengono in queste rocce scistose sieno limpidissimi, offrendo uno stato di freschezza, quale non si osserva che eccezionalmente nei fel- dispati della granitite tipica, e che parla invece in favore di minerali neogenici. E inoltre, come spiegare poi n. scisti l'abbondante presenza del- l’andalusite e della tormalina, che mancano nella granitite, se non in- vocando un metamorfismo di contatto? 1) Nella granitite del Monte Capanne la tormalina fu riscontrata solo come accidentalità in un unica sezione e con un unico cristallino da G. D’ACHIARDI (Metamorfismo sul contatto fra calcare e granito al Posto dei Cavoli presso San Piero in Campo (Elba). Mem. Soc. Tose. Sc. Nat., vol. XIX, pag. 106. Pisa 1903). L’andalusite fu notata soltanto dal GraTtTAROLA (Mem. cit.) in esemplari gra- nitici provenienti da Alzi o Stabbiali, i quali, secondo studi più recenti di G. D’ACHIARDI (La cordierite dei filoni tormaliniferi nel granito di San Piero in Campo (Elba). Proc. Verb. Soc. Tose. Sc. Nat. Vol. VII, pag. 38. Pisa 1900 e Cenni su di un anfibolite orneblendica nel granito di S. Piero in Campo (Elba). Proc. Verb. Soc. Tosc. Sc. Nat., vol. XIV, pag. 125. Pisa 1904) sono di tipo pegma- titico ed aplitico. RICERCHE PETROGRAFICHE E MINERALOGICHE SUL MONTE ARCO 183 Questo dal punto di vista mineralogico. A conclusioni del tutto ana- loghe veniamo rispetto alla composizione chimica. Che io sappia la sola analisi fino ad oggi nota della granitite che forma il Monte Capanne fu eseguita dallo scrivente !) sopra esemplari raccolti in prossimità di un filone tormalinifero di Fonte del Prete, ed è qui appresso riportata in I. In detta analisi non fu però fatta la sepa- razione dell’ ossido ferroso dall’ossido ferrico;:a ciò si aggiunga che l’e- semplare analizzato, come di sovente avviene alle pareti dei filoni tor- maliniferi di San Piero in Campo, non era freschissimo, presentando una lieve colorazione giallastra. Per queste ragioni, in occasione del pre- sente studio, ho eseguito un’altra analisi della granitite tipica, del tutto inalterata, del Monte Capanne, ed i risultati ottenuti, vicini del resto a quelli precedenti, sono esposti-in II. Alle due analisi qui appresso faccio seguire: la III, dovuta al Bunsen ?) e data semplicemente come spettante ad un granito dell’ Elba; la IV, eseguita dall’ALoIsi 3) e ri- guardante la granitite della Serra, presso Longone, che, in grossi filoni, attraversa gli scisti metamorfici ; la V infine che è la media di due ana- lisi concordanti, eseguite dallo scrivente *) sopra una granitite, pure fi- loniana, della Crocetta (San Piero in Campo), povera in biotite: 1) Stilbite e foresite nel granito elbano. Mem. Soc. Tosc. Se. Nat., vol. XVII, pag. 223. Pisa 1900. 2) Vedasi J. RoTH. Beitrdge zur Petrogr. der plut. Gesteine, pag. XLII-XLIII. . Berlin 1869. ®) Rocce granitiche negli scisti ecc. 4) Su di alcune rocce della Crocetta presso San Piero in Campo (isola d’ Elba). Proc, Verb. Soc. Tosc. Sc. Nat., vol. XII, pag. 214. Pisa 1901. 184 E. MANASSE =——@————@<#@€&@#».->@ A Ho Z Da E, Huo) Geologia della Toscana. Mem. descr. d. carta geol. d’It. XIII. Roma, 194105 ROCCE DIORITICHE DEL MONTE CAPANNE (ELBA) 201 quella varietà di serpentina che distingue dalla comune, eocenica, indi- candola come serpentina enstatitica. L'esame microscopico di campioni - ivi raccolti mi ha rivelato trattarsi di una serpentina ordinaria, conte- nente residui assai numerosi di olivina. Nella parte alta del monte invece, si trovano specialmente una pe- ridotite costituita in modo essenziale da peridoto e tremolite, e delle roccie di tipo dioritico. Alla presenza di dioriti al monte Capanne hanno accennato, per quanto lo so, esclusivamente il v. RATH !) ed il REYER ?) e per questo credo utile il dare fino da ora una breve descrizione di tali rocce. Il v. RatH parlando della zona scistosa periferica del monte Capanne dice che petrograficamente si tratta di “ griine Schiefer, in chloritische Schie- fer, dioritische und lagerartige Gabbro-und Serpentingesteine tibergehend ,. E non credo che parlando di dioriti il v. RATA adopri la parola nel senso usato dai vecchi geologi toscani, cioè per rocce diabasiche, come per l’Elba hanno fatto Savi, CoccHI, ecc., giacchè invece, trattando delle rocce del Monserrato le dice non diverse dalle tipiche diabasi dell’ Harz e, descrivendo il cammino da Marciana Marina a Procchio parla della diabase che è ad immediato contatto con il porfido nelle vicinanze di Mar- ciana, come di un “ dichter griiner Schiefer ohne deutliche Schichtung .... welcher,.... in kaum trennbarer Weise mit Serpentin und Gabbro verbun- den ist ,. Nessun dubbio quindi che quando parla di rocce dioritiche intenda vere e proprie dioriti in stretto senso. Il REyYER poi, nella cartina geologica che accompagna la sua memoria, . fa figurare dioriti insieme, e subordinate, a diabasi; nel testo non è chia- ramente espresso quale differenza lA. intenda fare fra le due rocce, ma sembra che anche la diorite elbana del ReyeR debba in grande parte esser riportata a diabase, giacchè, secondo l’A., essa forma parzialmente il monte Orello, che invece è notoriamente costituito in prevalenza da diabase *) e nel quale, per quanto so, diorite nel vero senso della parola, non se ne trova. Il LottI ‘) poi trattando ‘delle rocce ofiolitiche eoceniche, che, come è noto si trovano anche al monte Capanne, dice non potersi escludere 1) Geognostisch-mineralogische Fragmente aus Italien. III Die Insel Elba. Ztsch. d. deut. geol. Ges. 1870. Berlin, 1870. 2) Aus Toskana. Wien, 1884. 3) P. ALOISI. Rocce del monte Orello (Elba). Mem. Soc. tose. Se. Nat. XXIII, Pisa, 1907. > Descrizione, ecc., pag. 69. 202 P. ALOISI a priori la presenza, non constatata, fra esse della diorite, “ perchè di re- cente fu riconosciuta dal D’AcHIARDI nei monti di Riparbella, presso Vol- terra, ove, dominando la diabase, non se ne poteva sospettare l’esistenza ,. Durante le mie escursioni ho rinvenuto dapprima la diorite sulla si- nistra del fosso della Serrana, nella valle fra il serrone Castorno ed il serrone della Settima in vicinanza della polla della Serrana; l’ho ritro- vata poi sulla destra del fosso e, a 40-50 m. sopra la polla, salendo l’erta della Settima, ho trovato il contatto della roccia stessa con quella gra- nitica o, per essere più esatto, ho raccolto un campione di diorite percorso da sottili apofisi di aplite, giacchè per la folta vegetazione ivi esistente è impossibile seguire il contatto fra le due rocce. Per i lavori di posa dei tubi della conduttura dell’acqua per Porto- ferraio è stata di recente scavata.una fossa della profondità di un paio di metri, spesso proprio nel vivo della roccia: questo mi ha permesso di osservare le relazioni fra la roccia dioritica e quelle vicine, relazioni’ che per altro appaiono assai complesse. Partendo dalla polla della Serrana e dirigendosi per il primo tratto a N. 15.° E circa, la fossa, lasciata la diorite, attraversa, entro un ri- stretto spazio, dapprima una massa di porfido, che è forse un grosso filone e che si ritrova alla stessa altezza dalla opposta parte della valle, poi la diorite, quindi del granito, una roccia di tipo aplitico, di nuovo diorite, porfido, granito. Il contatto fra la diorite che risale dalla polla verso il Perone e la peridotite che forma la vetta del Perone stesso, si segue male,-data anche la rassomiglianza che l’alterazione superficiale produce tra le due rocce; ad ogni modo, per dare un punto di riferimento, dirò che in vicinanza del filone porfirico segnato dalla carta del Lotti sul serrone della Set- tima si trova già la peridotite che prosegue poi fino alla vetta del Perone, onde la parte più alta del monte è formata da peridotite. Sul versante orientale del Perone la diorite è pure molto sviluppata ed i suoi rap- porti con la peridotite sono quelli stessi ora accennati. Data la disposizione a mantello delle rocce verdi attorno al monte Capanne si ha, al Perone per lo meno, la successione, in serie ascen- dente: peridotite, diorite, serpentina, eufotide, diabase. In altre località manca la peridotite e la roccia di tipo dioritico è adagiata completamente sul granito; questo sembra avvenire nella zona compresa fra Marciana Alta ed il Poggio ed anche a Pomonte, dove pure si ha un affioramento delle rocce predette che sono spesso attraversate pafiloni di natura granitica, i): Ù ROCCE DIORITICHE DEL MONTE CAPANNE (ELBA) 203 La diorite del monte Capanne non si presenta sempre con uno stesso abito, sia macroscopicamente, sia, e più, microscopicamente; le differenze «stanno nelle dimensioni dei singoli elementi, nelle loro proporzioni rela- tive e nella struttura. I due estremi sono da un lato un tipo normale a grana relativamente grossa, a struttura ipidiomorfa quasi isometrica, e dall’altro un tipo a grana minutissima con forte tendenza alla struttura spilitica ed a quella porfirica, e con forte prevalenza dell’anfibolo sui feldispati. I due tipi estremi sono riuniti da numerosissimi termini intermedi sia per struttura, sia per composizione mineralogica. Esemplari di faczes normale sono quelli raccolti alla polla della Ser- rana. - La roccia, durissima, ha apparenza eminentemente massiccia, sia in posto, sia nei campioni; è colorata, sulla frattura fresca, in verde-grigio scuro e lascia riconoscere, all’osservazione macroscopica, solo qua e là le lamine lucenti dell’orneblenda. Sulle superfici esposte all’azione degli agenti atmosferici acquista una colorazione bruno-ruggine unita. La struttura, osservata al microscopio, è olocristallina ipidiomorfa, ma l’idiomorfismo dei costituenti primi formatisi non è in generale molto netto. Invece però di aversi il tipo di struttura granitoide, cioè con idiomorfismo dei minerali colorati vispetto ai feldispati, si ha un tipo di struttura avvicinantesi alla diabasica, risultando idiomorfe le liste fel- dispatiche rispetto all’elemento colorato. Deve essere incominciata la con- solidazione col cristallizzare di piccolissimi prismettini di anfibolo e subito dopo deve essersi iniziata la segregazione del feldispato le cui liste includono i prismetti ricordati; prima della fine della cristallizza- zione del feldispato poi è incominciata la consolidazione dell’anfibolo in grandi lamine. L’elemento più abbondante in questa roccia è l’anfibolo; sì tratta di orneblenda con: a= giallo-verde chiaro b = verde c=verde-marrone intenso ; talora : c= verde-azzurto ; c:e--109; 204 P. ALOISI Come ho detto prima l’afibolo è idiomorfo in prismi molto minuti ‘ inclusi nel feldispato o nell’anfibolo in individui maggiori, o allotriomorfo in grandi lamine; si trovano peraltro anche cristalli assai grandi, rego- lari, della combinazione {110}, {010}. Talora grandi lamine anfiboliche apparentemente uniche si risolvono a nicols incrociati in un’associazione di numerosi individui irregolari, piccoli, variamente orientati, racchiusi da un anello di un solo individuo. Qualche volta nell'interno delle lamine anfiboliche è da notarsi un accumulamento di particelle opache probabilmente magnetitiche alle quali sembra spesso andar connesso uno schiarirsi del colore dell’orneblenda. È da notarsi anche finalmente come talvolta l’anfibolo sia leggermente cloritizzato 1). Poco meno frequente dell’anfibolo, il feldispato si trova, come ho detto, per lo più in liste allungate a contorno non molto regolare. È tutto plagioclasio mancando completamente, sembrami, l’ortose. Le liste sono sempre assai fresche, ora geminate secondo la legge dell’albite, ma for- mate di due o, ad ogni modo, da pochi individui, ora semplici; la doppia geminazione albite-Carlsbad manca quasi sempre. Le estinzioni simme- triche si aggirano su 10°-11° e solo eccezionalmente arrivano a 13° e d’altra parte confrontando gli indici di lamelle plagioclasiche ottenute per frantumazione e scelte al microscopio, con quelli di liquidi ad indice determinato volta per volta, ho ottenuto: a < L. bag =qge= È. 945, onde ritengo trattarsi nel massimo numero dei casi di oligoclasio-albite, pur non escludendo la presenza di termini più basici, ai quali accen- nerebbero i resultati ottenuti da un paio di geminati doppi, resultati peraltro di scarso valore perchè le sezioni erano troppo oblique sul pi- nacoide }010). Magnetite e ferro titanato sono assai abbondanti; frequenti le asso- ciazioni di numerosi granuli a formare aggregati a forme singolari. Come minerale accessorio è da citarsi la biotite assai scarsa. i) Riguardo all’anfibolo di questa e di altre dioriti del monte Capanne debbo notare come io sia stato dapprima un poco in dubbio se si trattasse di minerale originario o secondario, specialmente per il trovarsi di minuti aciculi a lardel- lare i plagioclasi come avviene nelle rocce ad elementi secondari (prasiniti, anfiboliti, ecc.); lo studio peraltro di tutti i tipi dioritici della regione mi ha convinto che si tratta effettivamente di minerale originario. ROCCE DIORITICHE DEL MONTE CAPANNE (ELBA) 205 L’analisi chimica ha dato i seguenti resultati: HIOSCRS I, O SIOE EAST RO ZA e reo La Ra O e Ad RESI RE Ra RPS ttt: ALY. IGN dg pag CAVI RIRSO VINTI PERL GO RANIERI Va O II Be i OSE Waste dai A TO IA o er O LESLIE OIRRR KP PIENE tt 99. 60 Da osservarsi la relativa basicità della roccia, specialmente notevole data l’acidità del feldispato, ma spiegabile con la prevalenza dei mine- rali colorati e con l’assenza completa di quarzo. Con il metodo dell’Osann, dall’analisi surriportata si ottiene: s A C F n m k a c f dere 5:07 26:41-:9:52 7.15 0.98 2.0 3405100 L590 Il punto relativo a questa analisi cade, nel triangolo di proiezione, nel IV sestante che comprende buona parte dei punti delle analisi di dioriti calcolate dall’Osann. Fra i tipi stabiliti da detto autore la nostra roccia si ravvicina a quello Campo Major !) che ha per formula: Per ciò che si riferisce al valore di » la diorite del Perone rientra nella serie «(x > 7,5) e per quello di w nella p(5,5» del balsamo; inoltre questo plagioclasio è quasi sempre in liste semplici, raramente geminate con le due leggi Carlsbad-periclino, alle quali, ancor più di rado si associa quella dell’albite. Qua e là si notano scarse masserelle microgranulari di epidoto secondario. I campioni raccolti sulle pendici orientali del Perone hanno grana ancor più minuta e maggior quantità di anfibolo rispetto al feldispato; le liste di plagioclasio molto strette, contengono al solito inclusi dei pic- coli individui anfibolici, che però sono disposti nella parte centrale delle liste e paralleli all’allungamento. L’anfibolo è in individui molto minuti che però hanno una certa tendenza all’idiomorfismo e corrispondono quindi per forma e per dimensioni all’anfibolo incluso ricordato per la diorite a facies normale. Ad un ulteriore rimpiccolimento della grana vanno spesso connesse notevoli particolarità; così un esemplare raccolto alla Serreta, sotto il Poggio, mostra tendenza alla struttura spilitica. I plagioclasi, che sono molto scarsi, in liste di solito sottilissime ed allungate si dispongono a ciuffi o a ventagli ed anche l’anfibolo spesso seconda tale disposizione. Alcune lamine plagioclasiche più grandi accennerebbero ad un prin- cipio di struttura porfirica. ROCCE DIORITICHE DEL MONTE CAPANNE (ELBA) 207 Le estinzioni simmetriche raggiungono 14° ed un geminato doppio mi ha dato: I II EDO 6° Gli indici di rifrazione appaiono più alti di quelli del balsamo e si ha quindi a che fare con termini andesinici. La roccia è percorsa da venuzze e contiene plaghette costituite da feldispato granulare associato a del pirosseno di tipo diopside-hedem- bergite, in granuli di media grandezza. In altri esemplari raccolti sempre in vicinanza del Poggio, la strut- tura è decisamente portirica. La massa fondamentale è quasi esclusivamente costituita da orne- blenda in prismi e granuli minuti, con pochissimo feldispato in liste od in granuli. Gli interclusi sono di plagioclasio, piuttosto piccoli, con le solite inclusioni anfiboliche; hanno estinzioni simmetriche che arrivano a 19°-20°; alcuni geminati doppi hanno dato: I II 11 7 16 !|, 3 20 1, 4 e gli indici di rifrazione sono maggiori di quelli del balsamo; si ha quindi a che fare con andesina basica passante alla labradorite. Alcuni pochi interclusi semplici o geminati a Carlsbad hanno caratteri che li farebbero riferire all’ortose; forse non è da escludersi anche la presenza dell’orne- blenda come elemento porfirico. Da questa sommaria descrizione dei principali e svariati tipi di roccie dioritiche del monte Capanne può trarsi intanto, mi sembra, una conclu- sione sui rapporti che corrono fra la struttura e la composizione minera- logica. A misura infatti che dai tipi a grana maggiore si passa a quelli a grana minuta con tendenza alla struttura porfirico-spilitica, sì ha un pro- gressivo aumento nella basicità del feldispato, che dall’oligoclasio-albite passa alla andesina-labradorite, ed una diminuzione della quantità del feldispato stesso, a vantaggio dell’elemento anfibolico. I diversi tipi si avvicinano per taluni caratteri alle forme filoniane delle rocce dioritiche, sia a quelle granitoporfiriche, sia a quelle lampro- 208 P. ALOÎSI firiche; così certi esemplari hanno alcune particolarità delle porfiriti dio- ritiche, specialmente delle vintliti che, come è noto rappresentano in certo modo un passaggio dalle porfiriti normali alle rocce lamprofiriche; ed a queste ultime e specialmente ai tipi spessartitici ed odinitici, per struttura e per composizione mineralogica sì ravvicina la massima parte dei campioni di diorite a facies minuta del monte Capanne. Non è ora il momento che io mi intrattenga sui filoni granitici che talora intersecano le rocce dioritiche e che hanno spesso grande inte- resse petrografico; essi saranno minutamente descritti a suo tempo. Così pure non mi fermo ora sui rapporti fra le rocce in parola e quelle che le accompagnano; accenno solo al fatto che sembra esistere un certo nesso fra le rocce dioritiche e certe anfiboliti orneblendiche che si rinvengono in varie località del monte Capanne, come, ad es., quella de- scritta da G. D’AcHiarpI !) per i dintorni di S. Piero ed un altra che ho raccolto fra S. Rocco e la Conca nelle vicinanze di Marciana. Così pure può darsi che un legame genetico esista tra le dioriti ed un tipo molto singolare di roccia anfibolica, da me rinvenuta alla spiaggia dell’Ogliera, presso Pomonte, costituita, in alcuni campioni esclusivamente, o quasi, da un anfibolo attinolitico-tremolitico, in altri dallo stesso anfibolo sempre molto preponderante, con spinello e qualche poco di clorite, e che da un altro lato mostra di ravvicinarsi alle rocce a spinello descritte da me ?) e da VioLa e FERRARI #) per S. Piero in Campo. Istituto di Mineralogia della R. Università, Pisa, ottobre 1912. 1) Cenni su di una anfibolite orneblendica nel granito di S. Piero in Campo (Elba). Proc. verb. Soc. tosc. Sc. nat., 3 luglio 1904. Pisa, 1904. ?) Rocce a spinello dell’isola d’ Elba. Proc. verb. Soc. tosc. Sc. nat., 8 lu- glio 1906. Pisa, 1906. 3) Rocce a pleonasto di S. Piero in Campo (Elba). Mem. Acc. Lincei, ser. V, VIII, fase IX. Roma, 1911. Nido ISCR DELLE MATERIE CONTENUTE NEL PRESENTE VOLUME . De Stefani C. — La Geologia endodinamica in Italia nel- l’ultimo cinquantennio Dainelli G. — Nota preliminare sopra i (Gasteropodì eocenici del Friuli . Merciai G. — Fenomeni glaciali nelle Alpì Apuane (Tav. I-II [1-111]) Dainelli G. — Nota preliminare sopra gli Echinidi eocenici del Friuli Cesaris Demel A. — Sull’azione delle sostanze coloranti vitali e sopravitali sul cuore isolato di coniglio (Tav. IV [I]) Manasse E. — Ricerche petrografiche e mineralogiche sul Monte Arco (isola d’ Elba) (Tav. V-VI [I-II]) Aloisi P. — Rocce dioritiche del Monte Capanne (Elba) . è VA 70 9I 101 118 200 G. MERCIAI. Fenomeni glaciali, ecc. [Tav. Il. Mem. Soc. Tosc. Sc. Nat. Vol. XXVIII, Tav. |. Mem. Soc. Tosc. Sc. Nat. Vol. XXVIII, Tav. II. G. MERCIAI. Fenomeni glaciali, ecc. [Tav. II]. BUGIE no citt rana DE n «Me VIP te EST Ai A Mem. Soc. Tosc. Sc. Nat. Vol. XXVIII, Tav. III. G. MERCIAI. Fenomeni glaciali, ece. [(Tav. III]. FIG. 1. Mem. Soc. Tosc. Sc. Nafy//’azione delle sostanze coloranti, ecc. [Tav. I.] Mm simana, di ._———_€ ta 1) fa E: Sprrssiirttrrrariirirtasrte PAMAALI ALIA AIAR ZIA ALTAN AMLIIILIAA00IAA ELIA LZALZZAAZIAA ZIA IALIA MAIALI and Dio) ir LE Izjoobdo Tr Ps Tann zona get I ( 3 ) RRLLILALLI is Lava DLULUcrnestovasiszaiotesetafoveras: rospi (gnintatitonssetettrtatennioti sivletato sctofeta MIALEGI ALE LERe Dotata ata e Lsrata uenta tenete beLotogogeto logi porasage bre tota ahi to | PESEETTPITTITOISI CITY USTITETTATATAFICYTITUTETEVTAVOCO(OCSOTSICIONTATACICITIONVAVICITOSIISCOCIOVETOVOCOSGIOTGOGOTATOCITOCOFIOOIICIOCIOR I CRI NT TEIPOTII VT COVITAVIVOCOO SOTOTIOVEST O COTATI TOTO IIUTCRA TONI P MPLSIPITT OI PTETTOISESFATI TIPI TSOTOSTI CORTES ITSOSATI (SOS IITIOIOOOIVO CINTOTITOICOOIOGSOCOTEVOTOSASEANCO CONTI CICOOVINIDIOVOFOVIOVAVNSOOTOTO CCI RUOSISDOOFO VOTO CIO VISCOTUCI LIDIAISVTTTUBCAPATOCONVIIODATO COPRTITO DI ( l ) LERRIOIAE RE 5 01 SORATTE TETTI SUUE FUIT TRIV IN TTUCTOTTI ROSI CORNVI VOSTRA CI OT TTATEVITToFIEOTI TIRATI TTAOSITITTUTE Vr ANI I VI II I L Cata da danilo parete disertore stsanni foi LL ALTA TE TT n su Li ILIFE TINTIRATE LOL LLAL ESE RIGA LeDe rta ena tarsia farate Lots tata trita tatti butatot tria et LO STIPITI ETTARO TOPO ATAVOTTETA COMETA TATOO OI COTONIV FOTVENA SENTI TNT ITTICA MSOAIVIVATI CIO TOTO | | AUHT. FOT. i Pale E LIOT CALZOLARI&FERRARIO-MILANE e Soc. Tose, Sc. Nat., Vol. XXVIII, Tav. IV A. vll'azi CESARIS DEMEL.- Sull’azione delle sostanze coloranti, ecc. {Taw. I.} i O ie FAMIARI CALA bed MAMMA ATALA MAIA RAI TALIA LIM ALL rt Ve ar upoa. VAT TB Joanumin lau /3/0000 nz RL orale 11 poPnagangi goa Yi FRIDA AL male 7° Ata sesrnata lena) ‘90000 Blu feti mel: | 510060 DI dont bl msi 1100 $' Pa lasazoni wa “i u 4 GRACE I tic OLII did tnt gaiti dis la di 7 7 7 MI MIILALI AMMALA LALA i î Tele lee ra & + Vada A) (0-47 RIETI VOGUE SI ‘GRP A LUCIO i alia i TAMA AMA NANA ATALA MLA MIA VAA VAN TAAS AAA AIMAN ITAMAIAA TARANTA MI AMIA IALIA IU ia psv ui n CARARALIAATI LALA MAIA AAMIRSNLIA I ALLA AALEATALA ALLAH \ ua ina ARMADA AL iti ALL int tin Trinaitaisssicacicata SOCIO I ION OI I I II III ALLA Ù 7 a n È 7 "GLI dda ga TOA APGAAAALA IA IMAA LALA AIM ANAAO CAAM Asi IA 3A NVAMATA NAM ALAM TAANIALA ALLARMI |M 4 ot li tl ttt OA AAA LT ttt i ME LIALAAIMAAAII MIELI!) ADALINAMLARNAAA IAARMALIAAVUNLALIANATABAAAANA CARLA ne Coli RETI - atti 0; tina pl TA BN) = bla di net VERZIEZELI n cinzia irrita i iii ita iris PARI a i RM tr ti i ELIOT CALZOLANI &FERRARIO-MILANE AUHT. FOT. x LAI Mem. Soc. Tosc. Sc. Nat., Vol. XXVIII Tav. V. A è UT FOT ELIOT CALZOLARI & FERRARIO-MILANE E. MANASSE - lticerche petrografiche ecc. [Tav. Il.] VI XXVII Tav. Mem. Soc. Tosc. Sc. Nat., Vol. ELIOT CALZOLARI & FERRARIO - MILANE AUT FOT. TENDA DELLE MATERIE CONTENUTE NEL PRESENTE VOLUME . De Stefani C. — La Geologia endodinamica in Italia nel- l'ultimo. cinquantennio vv. di A IRE Dainelli G. — Nota preliminare sopra i (rasteropodi eocenici del: -Fritilot:" 00, SE Ba A A A E Merciai G. — Fenomeni glaciali nelle Alpì Apuane (Tav. I-III [I-1II] ) e [1] (1 ° ° . ® o. e (1 . (1 . . . » Dainelli G&. — Nota preliminare sopra gli Echinidi eocenici del Friuli o. (1 (1 e e . . . . . e i] e . . » Cesaris Demel A. — Sull’azione delle sostanze coloranti vitali e sopravitali sul cuore isolato di coniglio (Tav. IV [I]) » Manasse E. — Ricerche petrografiche e mineralogiche sul Monte Arco (isola d0Elba) (Lay. V-VI |1-1]))f en » Aloisi P. — Rocce dioritiche del Monte Capanne (Elba) . » UFFICIO DI PRESIDENZA. Presidente . . — Prot. Giovanni Arcangeli. Orto botanico, R. Università di Pisa. dh i è Prof. Mario Canavari. Istituto geologico, idem. ptc pressioni ? Prof. Guglielmo Romiti. Istituto anatomico, idem. Segretario . . — Prof. Giovanni D’Achiardi. Istituto mineralogico, idem. SEAT — Prof. Piero Aloisi. Istituto mineralogico, idem. Cassidb è th; di — Prof. Eugenio Ficalbi, Istituto zoologico, idem. SEDE DELLA SociETÀ — Museo di Storia Naturale in Pisa. —--- =. rnn.rnrnnmmnmnmnn___eeunnt—@——_—_——@t& 70 Si 101 118 200 Gli atti della Società (memorie e processi verbali delle sedute) si pubblicano per lo meno sei volte all’anno a intervalli non maggiori di 3 mesi. 3 sa iCal 3 Cer) i ap. 1: RTRT A sd È Leal è ) È Piercart = turn o han e% N Dar Ò n Ni di » so 100 TANARO 3 9088.01316 4207