2 >< agro = r_=x==# _ \.Î==> > D>©» >» TTT = = ne ) DNCSD (Wb ) dd Ì (9) Library of the Museum — OF { COMPARATIVE ZOOLOGY, | AT HARVARD COLLEGE, CAMBRIDGE, MASS. Founded bp pribate subscription, in 1861. DI ——-- No. 727% Mes.10.1874 Bd Mery, 6 189). ANNUARIO. DELLA DRI NATURALISTI CIN Ri © RESA ANNO II. MODENA TIPOGRAFIA E LITOGRAFIA DI ANDREA FERRARI x ia Pm 1867. L° Annuario si-vende presso Carlo Vincenzi Tipografo-Libraio sotto i Portici del Collegio in Modena. Per la Germania, la Francia e Vl Inghilterra, dirigersi in Torino alla Libreria Loescher, Via Carlo Alberto N° 3. STATUTO DELLA SOCIETÀ DEI NATURALISTI IN MODENA Approvato nell’ Adunanza del 26 marzo 1865 ArticoLo I. La Società dei Naturalisti in Modena ha lo scopo di pro- muovere lo studio delie Scienze naturali nel senso più lato, e nei loro rapporti pratici ed iniziare pari Società nelle altre città dell’ Emilia per fonderle poi tutte in una più vasta Associazione che potrà aver per titolo: Società dei Naturalisti dell’ Emilia. ArticoLo Il. I mezzi per raggiungere lo scopo suddetto sono: 4A. Adunanze a periodi regolari. Esse sono pubbliche. I soli Socì potranno fare per se o per altri comunicazioni e prender parte alle discussioni. 2. Istituzione di una biblioteca di Scienze naturali a se- conda dei mezzi sociali. 3. Raccolta di oggetti naturali e industriali della provincia. 4. Studì pratici dei prodotti e fenomeni naturali della provincia per mezzo di commissioni. 5. Lezioni popolari di Scienze naturali. 6. Pubblicazione di un Annuario. ArticoLo II. Tutti i lavori letti e tutte le comunicazioni fatte nelle Adu- nanze saranno pubblicati per sunto o per intero, purchè l’ autore v'acconsenta e dietro il voto di una Commissione speciale no- minata dal Presidente nella stessa Adunanza. ArticoLo 17. La Società consta di.Soci ordinari, di Socì corrispondenti ed onorarì. Socì ordinari sono quelli che nella prima adunanza dichiararono di volerlo essere od aderirono allo Statuto appro- vato nella adunanza del 26 marzo 4865 entro il termine di un mese, ed anche quelli che furono in seguito e saranno in avve- mire presentati da tre Soci. «Per proposta di un Socio ed approvazione a maggioranza di voti della Società si nomineranno dei Socì corvispondenti ed onorarî fra gli Scienziati che dimorano fuori dell’ Emilia. Il numero dei Socì ordinarì e corrispondenti è illimitato. ArticoLo V. La Società è retta da un Presidente, da un Vicepresidente, da un Segretario e da un Vicesegretario. Il Presidente convoca e presiede le Adunanze, dirige le discussioni e nomina le Commissioni. Egli rappresenta la Secietà. Il Vicepresidente sostituisce il Presidente quando questi sia impedito nelle sue funzioni. Il Segretario tiene i processi verbali delle Adunanze, man- tiene le corrispondenze d’ accordo col Presidente e coordina i lavori per la stampa dell’ Annuario Il Vicesegretario sostituisce il Segretario quando questi fosse impedito, ed ha la gestione economica della Società. La Presidenza stabilirà il Regolamento interno. ArticoLo VI. Queste cariche sono formate dalla Società a maggioranza di voti e durano un: anno. Esse possono essere riconfermate. — Wil —- ArticoLo VII. L’anno Sociale incomincia col 4 aprile. ArticoLo VIII. Il fondo Sociale è stabilito: A. Dalla tassa annua di Lire dodici pagate dai Soci or- dinarii. 2. Dalla tassa annua di Lire cinque pagate dai Soci cor- rispondenti. 3. Dalla vendita dell’ Annuario. ArticoLo IX. Ogni Socio ha diritto ad una copia dell’ Annuario. ArtICOLO X. Ogni Socio può ritirarsi dalla Società in fine dell’anno previa dichiarazione di tre mesi. ArtIcoLo XI. Dato il caso dello scioglimento della Società dei Naturalisti di Modena, quanto essa possiede diverrà proprietà del Municipio. Si riguarderà sciolta quando ridotta a dieci Socì, questi dichiarino espressamente lo scioglimento. ArticoLo XII, Nella previsione della formazione della Società dei Natura- listi deli’ Emilia, i membri componenti la Presidenza della Società di Modena stabiliranno d’ accordo colle Commissioni delle altre città lo Statuto generale. AIM PRESIDENZA DELLA SOCIETÀ - lame GAGNN 1e eptr —_— EPresidente Pnor. GIOVANNI CANESTRINI Wiee-Presfidente NU. Segretario Pror. LEONARDO SALIMBENI. Wiee-Segretario Pror. GIOVANNI GENERALI. SOPRA DUB CRANII ANTICHI TROVATI NELL’ EMILIA NOTA DEL PROFESSOR GIOVANNI CANESTRINI ( Letta nella seduta del 19 dicembre 1866 ) Cranio di San Pelo Vedi Tav. I, Fig. 1% e 22. Il professore Gaetano Chierici ebbe un cranio sco- perto nella terramara di San Polo, che merita di essere descritto ed illustrato. Questo cranio è ben conservato; tra le ossa del capo sono incompleti solamente il tempo- rale destro cui manca I’ apofisi zigomatica, il mascellare superiore ed i nasali; manca poi interamente la mascella inferiore. La fronte è mediocremente larga, ma bassa; il fron- tale ha una sutura frontale abbastanza distinta, che in- comincia però ad obliterarsi specialmente nel mezzo della sua lunghezza. La forma delle orbite si accosta alla quadrata; le arcate sopracigliari sono ben sviluppate. L' occipite sporge molto in dietro. L'individuo era orto- gnato, avea un’ età di circa 40 anni ed apparteneva al sesso maschile. Ho preso sul cranio medesimo le pe misure. Lunghezza del cranio . ... gW SUSS EBAFI960 Larghezza del cranio tra le Polibe dritta CARD. 9750 ” D » =» 1 centri delle squame temporali AMS. MOR: GR. AT; QI, 10908, 02000 Altezza dell'eranio i LR Ne s + 143,0 Larghezza della faccia tra le arcate zigomatiche . 133,0 Distanza in linea retta tra la radice dei nasali e il centro della sutura coronaria . ...-.... 113,8 Distanza in linea retta tra i punti estremi della sutura sagittale: n re ‘1270 Distanza del margine anteriore del grande foro occipitale dalla verticale che tocca la protube- Tanza (OCCIpilalen dii ta 108,0 Distanza tra il margine anteriore del grande foro occipitale e la sutura nasale in linea retta . . 105,0 Distanza tra la radice dei nasali e la punta della sutura lambdoidea in linea retta . . ...... 189,0 Distanza tra il margine posteriore del grande foro occipitale e la punta anteriore della sutura sa- sittalesiny;lineapretta c.d ae 155,5 Larghezza massima della fronte, tra i punti più distanti della sutura coronaria, in linea retta. 124,0 Circonferenza orizzontale del cranio . . . ..... | 538,0 Lunghezza dell’ arco, che partendo dal margine superiore del foro uditivo, passando pel ver- tice, va al punto omologo dell’ altro lato . . . 549,0. Lunghezza dell’ arco frontale, tra la radice dei nasali e il centro della sutura coronaria ... 129,0 Lunghezza della sutura sagittale seguendo la curva 144,0 Distanza tra la sutura nasale e la punta della su- tura lambdoidea, seguendo la curva . ..... 276,5 Distanza tra il margine posteriore del grande foro occipitale e la punta anteriore della sutura sa- gittale, seguendo la -curva e toccando la pro- tuberauza,ogcipitale; java altere Lessa 280,0 L’ indice della larghezza in questo cranio è dunque 69,89; quello dell’ altezza 72,9. Un cranio simile al pre- cedente e che ha un indice della larghezza di 72,0 fu trovato nell’ autunno del 1863 nella piazza reale di Mo- Lon dena in occasione di alcuni scavi che vi si fecero; esso trovavasi in un sarcofago di pietra che non portava alcuna iscrizione. Il cranio di San Polo s° accosta per la lunghezza al cranio antico del Museo di Firenze, descritto da Igino Cocchi e da Carlo Vogt (1); quello è lungo Mill. 196, questo Mill. 197; ma il primo è assai meno largo del secondo, giacchè l’ indice della larghezza del cranio fio- rentino è calcolato di circa 85, mentre quello del cranio reggiano non arriva a 70. Una grande rassomiglianza esiste tra il cranio di San Polo ed il cranio di Hohberg, illustrato da His e da Vogt. Welcker colloca quest’ ultimo cranio tra quelli degli antichi Romani, e rilevasi dalla tabella seconda delle Kraniologische Mittheilungen, che nel tipo Hohberg il diametro longitudinale è di Mill. 192, il diametro tra- sversale di Mill. 136, I indice perciò di 71. Si discute ancor oggidì tra gli antropologi, a quale popolo debba riferirsi il tipo di Hohberg. Secondo His e Ritimeyer questo rappresenterebbe il cranio romano; Ecker risguarda alcuni cranii della Germania meridionale, che concordano essenzialmente con quelli di Hohberg, come cranii dei Franchi; Vogt obbietta all’ idea di His e Rutimeyer, che i cranii di Pompei non hanno alcuna affinità con quelli di Hohberg, essendo i primi piuttosto brachicefali, questi eminentemente dolicocefali. Siccome gli autori dell opera sui Cranii svizzeri (Crania helvetica) adducono in favore della loro opinione su espressa la grande affinità che esiste tra i cranii di Hohberg (tétes d’ Apòtres di Vogt) ed un cranio romano del Museo di Gottinga descritto dal Blumenbach, Vogt aggiunge: » Si cette origine (2) était autentique et constatée par des (1) Su alcuni antichi cranii umani rinvenuti in Italia, Letter. al sig. B, Ga- staldi, pag. 3, n.° 1. (2) Cioè la provenienza romana del cranio di Gottinga. PAS tO exemples plus nombreux encore, il faudrait en déduire comme conclusion que dans I’ Italie antique demeuraient, au lieu de deux, trois souches, deux plutòt brachycé- phales et une hautement dolicocéphale. En attendant des recherches ultérieures nous pourrions bien nous contenter des etrusques et des liguriens, ces derniers | étant peut-étre plus anciens (1) ». Il cranio di San Polo non giova a risolvere la sud- detta questione, poichè nulla fu trovato insieme col medesimo che potesse accennare all’ epoca della sepoltura. Ma il cranio di San Polo concorda benissimo con quello sopra accennato trovato nella piazza reale di Modena ed insieme col sarcofago anepigrafico, fatto di tufo della Venezia, che conteneva quest’ ultimo cranio, si scoperse nella stessa località un’ arca sepolcrale di piombo. Ed ora cedo la parola al nostro Cavedoni, il quale trattando dei sepoleri antichi trovati a Modena dice: » le nostre arche sepolcrali di piombo sembrano probabilmente non ante- riori al IH secolo, e più verisimilmente del IV o V. Le due scoperte presso S. Agata, alla profondità di 9 braccia, mostrano con ciò stesso d° essere state riposte sotterra ai tempi, ne’ quali il nostre suolo erasi di già elevato di. un metro e più sopra quello della strada di Modena Romana scoperta l anno 1845 e V altra ora scoperta suppone di già avvenuto un interrimento anche maggiore. Questa anzi parmi verisimilmente raccomandata alla terra a mezzo Il secolo IV all’ incirca, segnatamente perchè ivi presso si rinvenne una monetina di terzo bronzo con testa assai ben conservata, ma con l' epigrafe guasta dall’ ossidazione sì che non potei leggervi che sole le lettere D N IUL ... NOB CAES; ma dev’ essere uno dei due Nobilissimi Caesares Costante o Costanzo, figliuoli di Costantino Magno. Vorrei anzi congetturar, che la nostra (1) Lettera succitata, pag. 14. RS pene arca sepolcrale ultimamente scoperta spettasse a persone cristiane, si a riguardo de’ tempi come per ragione del lungo tubo di vetro che v’ era dentro riposto (1) ». Se dunque il cranio suddetto modenese è da riferirsi alla metà del IV secolo, dobbiamo assegnare un’ età pressocchè uguale al cranio di San Polo. Questa idea è inoltre sostenuta dall’ età assegnata da His, Rutimeyer e Vogt ai crani di Hohberg, creduti della fine del IV o del principio del V secolo, e dal giudizio di Ecker che risguarda i erani della Germania meridionale, simili a quelli di Hohberg, come non anteriori al V secolo. El. Cranio di Gorzano Vedi Tav. II, Fig. A? e 22. Il cranio di Gorzano appartiene al tipo ligure già esattamente descritto dal Nicolucci; io ne faccio menzione e ne do la figura, perchè è un esemplare bellissimo ed egregiamente conservato. La tabella che faccio seguire renderà evidenti le notevolissime differenze che esistono tra il cranio di San Polo ed i tre cranii liguri del nostro Museo di Storia naturale. (1) Ragguaglio archeologico di un gruppo di sepolcri antiehi scoperto di Fecente in Modena, Atti e Memorie delle RR, Deputazioni di Storia patria per le provincie modenesi e parmensi, Vol. III. Estratto pag. 11, Cranii liguri MISURE S_-|2s|2s|e£ GO ITRrRIE 2 5 [SE |JO SIOE Lunghezza del cranio .......... 4196| 4178] 464| 450 Larghezza » NIRO SONO OTON O DIS E 437| 458| 434| 439 Altezza » DOTTI E RICE SPO 143| 432| 434| 426 Indice della larghezza . ......... '69,8| 88,7| 83,2] 92,6 Di iidellaltezza i n e 72,9|74,A| 84,3] 84,0 Larghezza della faccia . . ........ 133] 133| 424| 106 Circonferenza orizzontale . ....... 558| 543| 504| 480 Distanza in linea retta tra la sutura nasale e la sutura coronaria . - . .. | 113] 444| 404| 404 Lunghezza dell'arco frontale . . .... 429| 433] 424| 448 Distanza tra i punti estremi della sutura sagittale in linea retta. . ... - +0 | 427| 142) — | 405 Distanza come sopra, ma segundo la CUEVA NITTO IE 444| 426| — | 424 Distanza tra la sutura nasale e la punta della sutura lambdoidea in linea retta. | 489| 176| 4163| 454 ‘ Distanza come sopra, ma seguendo la CUEVAna i i REA (ER 276| 260| 247| 240 Distanza tra il margine anteriore del gran foro occipitale e la sutura nasale lnglinca stretta sie 405] 102} — | 83 Larghezza massima della fronte, tra i punti più distanti della sutura coro- naria my linea netta (i nni i, 4124| 132) 426| 424 DUE NOTE ITTIOLOGICHE DEL PROFESSORE GIOVANNI CANESTRINI ( Lette nell’ Adunanza del 24 gennaio 1867 ) —0— I. Sopra alcuni pesci dell’ Arno. Il prof. Igino Cocchi mi spedi nell’ estate scorsa una serie di pesci presi nell’ Arno, alcuni dei quali meritano di essere notati pei caratteri che offrono. 1.° Vanno menzionati due esemplari del Leuciscus aula Bp. L’ uno di essi s' accosta al Leucos basak Heck, solo ne differisce perchè possiede una fascia longitudi- nale oscura che è però poco distinta. Nel medesimo il capo è lungo quanto è alto il corpo, mentre nell’ altro esemplare l’ altezza del corpo è maggiore della lunghezza laterale del capo. Tuttavia questo secondo individuo è, relativamente alla lunghezza totale del pesce meno alto del precedente. Se il primo esemplare sopra menzionato chiamiamo B, il secondo A e gli esemplari tipici del Leuciscus aula C, possiamo dire, che rispetto alla forma del corpo regge il seguente paragone. A B C Cyprinus regina | Cyprinus carpio | Cyprinus elatus. Come la maggioranza degli ittiologi è d’ avviso, che questi tre Ciprini non costituiscono tre specie distinte, a se così, a mio credere, il Leucos basak non può essere spe- cificamente disgiunto dal Leuciscus aula, idea da me già sostenuta el mio Prospetto critico dbi Presi d’acqua dolce d’ Italia, pag. 54 e 55. 2.2 Un Ha bus, che per ogni rapporto Gala col B. plebejus Val., porta nella Mitica laterale 55 squame, per cui la formiola ue ale si è: Sq. 1. 1 55 — 75. È que- sto un esempio che c’ insegna, quanto sia variabile questo carattere. L’ individuo suddetto è inoltre tra i più allun- gati della specie ch’ io abbia potuto osservare, poichè l’altezza del corpo non è che un sesto della lunghezza totale. ° Un Zelestes muticellus Bp. ha nella pinna dor- sale soli 7 raggi divisi. Questo caso è interessante, per- chè‘ nella figura che Bonaparte dà di questa specie, tro- vasi disegnato un ugual numero di raggi dorsali molli, locché da qualche autore fu creduto un errore del dise- gnatore, mentre è probabile che questo abbia avuto per modello un individuo concordante sotto questo rapporto col nostro dell'Arno. La formola generale dei raggi —_ dorsali pel Telestes muticellus è adunque questa: D. —-; | comprendendo nella stessa specie il Telestes Agassizii ed il T. Savignyi, che non differiscono specificamente dal T. muticellus, com’ io dimostrai nell’ anno 1864, idea recentemente confermata dal Blanchard nella sua opera » Poissons des eaux douces de la France, » pag. 406. 4° Due esemplari dello Scardinius erythrophthal- mus L. sono tra i più grandi ch'io abbia visto fin'ora, uno ha una lunghezza totale di 260 Mill., l altro di Mill. 270. Questi esemplari reppresentano la varietà Scardinius scardafa, che da molti ittiologi è risguardata come una specie distinta. La mascella inferiore ascende obbliquamente molto in alto; il profilo del capo è in un esemplare rettilineo, nell’ altro alquanto concavo; il pro- ME I) e filo del ventre rettilineo; la curva del dorso raggiunge la massima altezza sopra la metà posteriore delle pet- torali ed è gia abbassata nel punto in cui sorge il primo raggio dorsale. Mentre questi caratteri accostano i nostri esemplari allo Sc. scardafa, il numero dei raggi anali li separano da questa varieta, ravvicinandoli ai tipici indi- vidui dello Sc. erythrophthalmus, la formola della pinna anale essendo: A. 0 Ciò prova in pari tempo, quanto sia erronea la classazione del Dybowski, fondata sul numero dei raggi anali, distinguendo tra gli Scardinii a 59 — 45 squame nella linea laterale quelle specie che posseggono 10 — 12 raggi anali molli da quelle che ne hanno soli 9 (1). 5.° Tre esemplari del Cyprinus carpio L., tra cui due rappresentano la varietà Cypr. regina Bp. A Il terzo è intermedio tra il Cypr. carpio ed a Cypr. elatus. 6.° Gli esemplari della 7inca vulgaris Cuv. sono uniformemente bruni e solo sulla faccia inferiore, tra le pettorali e 1° anale, bianco-giallastri. 7.° Tra i Ciprinoidi ebbi ancora alcuni individui della specie Squalius cavedanus Bp., i quali nulla offrono di rimarchevole; essi concordano perfettamente con quelli che io raccolsi nell’ Emilia e nell’ Italia settentrionale. S.° Parecchi spinarelli giovani appartengono alla specie Gasterosteus aculeatus L. e concordano in tutti i caratteri cogli esemplari che io ebbi dalle altre parti d’Italia. L’ opinione da me espressa nel Prospetto critico già ci- tato, che cioè in Italia esista una unica specie di Gaste- rosteus con quattro varietà, viene ora confermata da un autorevole ittiologo, il Dott. Domenico Nardo, il quale dice: » La sesta nota riguarda quattro specie di Gaste- rosteus finora osservate in Italia, quali sono il G. acu- (1) Dybowski, Cyprinoiden Livlands, pag. 131. Lo ge leatus, il G. brachyocentrus, il G. argyropomus ed il G. tetracanthus. Le osservazioni fatte con molta accura- tezza dal prof. Canestrini sul valore dei caratteri speci- fici assegnati alle indicate specie lo persuasero a riguar- darle come semplici varietà di una specie sola, cioè del G. aculeatus di Linneo. Credo io stesso poter associarmi ad un tale parere, ricordando aver raccolto in passato alcune note indicanti una serie di frequenti passaggi graduati in individui raccolti in diversi luoghi ed in tempi diversi (1) ». Blanchard, nel suo recente lavoro sui pesci delle acque dolci della Francia, distingue niente meno che otto specie di spinarelli propriamente detti e sono i se- guenti: G. aculeatus, G. neustrianus, G. semiloricatus, G. .semiarmatus, G. leiurus, G. bailloni, G. argentatis- simus, G. elegans. 1 caratteri differenziali sono desunti specialmente dal colore, dal numero delle piastre laterali e dalla forma e lunghezza delle spine dorsali e ventrale. Questa distinzione di numerose specie deve essere accolta con molta riserva. Alcuni ittiologi, come Fries, Eckstròm, Heckel e Kner, risguardano il numero delle piastre late- rali come variabile entro la medesima specie dipenden-, temente dalla stagione dell’ anno e dal clima in cui vive I animale; altri sono propensi ad attribuire al citato ca- rattere un’ importanza maggiore; tale questione è dunque ancora sub judice. Ciò che posso asserire su tale argo- mento si è, che il colore è spesso assai diverso in esem- plari, che concordano tra loro esattamente in tutti gli altri caratteri e che la forma e la lunghezza delle sud- dette spine vanno pure soggette a variazioni specialmente secondo |’ età degli individui. 9.° Quattro esemplari del Gobius fluviatilis Bon. of- frono tali caratteri che sembrano costituire una specie (1) Dom. Nardo, Atti dell’ Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, Vol. XI, Sez. HI, pag. dell’ Estratto 6. i I diversa del ghiozzo comune. Il numero dei raggi dorsali ed anali di quest’ ultimo viene indicato colle formole: 1 1 i, A ol I. D. o: A 7g; ma lo studio di numerosissimi esemplari m’ ha condotto a stabilire le formole se- 1 1 guenti: UD TT] A. 7g. Gli esemplari del- — 11° 1 l’ Arno offrono nella seconda dorsale jo 4g nel- 1 È ) l anale sg per cui la differenza tra questi e quelli non è grande. Ma oltre ciò gli esemplari dell’ Arno sono di forma alquanto più allungata e, ciò che maggiormente risalta, i maschi hanno il capo, le pinne dorsali, la co- dale e l’anale di colore nero e le pinne ventrali di co- lore bruno. Solamente la prima pinna dorsale ha un orlo bianco, mentre le altre pinne sono uniformemente colorate. Fra i tre esemplari maschili però da me esa- minati, uno fa eccezione, offrendo traccie di punteggia- tura nera sulla dorsale e codale e costituendo così un passaggio al ghiozzo comune. Per decidere se i ghiozzi sopra descritti dell’ Arno costituiscano una nuova specie oppure una varietà del Gobius fluviatilis, bisognerebbe studiarne un numero maggiore di esemplari; per ora credo opportuno di con- siderarli come varietà, cui si potrebbe assegnare il nome Gobius fluviatilis nigricans e i seguenti caratteri. // corpo è più allungato che nel ghiozzo comune; la se- conda pinna dorsale è più lunga e porta 12 — 13 raggi divisi; V anale ne porta 8 — 9. Nel maschio il capo, le dorsali, la codale e V anale sono mere, le ventrali e le pettorali brune. 10. Parecchi esemplari del genere Anguilla vanno riferiti all’ Anguilla vulgaris Flem. Tra 1 medesimi cor- rono bensì delle differenze, ma tanto poco precise e sì Lal ig graduate ch’ io non posso decidermi ad ammettere varie specie distinte. Recentemente il Blanchard ha distinto tra le anguille della Francia 4 forme, cioè l’ A. latirostris, i A. mediorostris, l'A. oblongirostris e 1° A. acutirostris, lasciando sospesa la questione, se queste siano specie o varietà (1); Siebold invece combatte recisamente ‘la va- lidità delle varie specie stabilite da Risso, Yarrell ed Ekstròm (2). 11.° Due esemplari del Petromyzon Planeri BI. of- frono le seguenti dimensioni, che adduco in comple- mento della descrizione di questa specie data nel mio Prospetto critico, dove non trovansi che le dimensioni di alcuni individui allo stato di larva. I. Esemplare H. Esemplare Lunghezza totale. . . . .. Mill. 255,0-. .. . 226,0. Distanza fra l'apice del muso e l’ultimo foro branchiale . » 52,3... .. 51,0. Distanza fra l’apice del muso e il principio della 1.* dorsale » 114,0 . . . . 112,0. Distanza fra i’ apice del muso lano pi 69:0 N 59 0e Altezza del corpo sotto al prin- cipio della 1.° dorsale ... :» 17,0 .... 442. BR. Efietti di dimagramento esservati mel Gobius. fluviatilis Hon. Nell’ estate scorsa io teneva in un vaso pieno di acqua alcuni animali di acqua dolce, tra cui due pesci cioè lo spinarello ed il ghiozzo. Siccome fui assai negli- (4) Blanchard, Poissons des eaux douces de la France, pag. 494. (2) Sisswasserfische von Mittelcuropa; pag. 343 e 552. gente nel cambiare T acqua, tutti perirono ad eccezione del ghiozzo. Levai i cadaveri dal vaso e siccome più tardi partiti da Modena, il gliozzo rimase nel vaso, dove visse parecchi mesi senza ricevere alcun nutrimento e senza che l’acqua fosse stata cambiata. Al mio ritorno trovai nell'acquario un pesce che a prima vista non ri- conobbi; era il suddetto ghiozzo in tale stato di dima- gramento, che, se l'avessi trovato in un libero ruscello, sarei stato tentato a risguardarlo come appartenente ad una nuova specie. Il capo sembra molto più grosso che nel ghiozzo co- mune, di fronte al corpo estremamente smilzo; le ossa sono sporgenti e mostrano le loro punte e gli spigoli acuti. L’ occhio non è punto maggiore del solito, ma essendo le orbite rilevate, appare infossato. Il tronco è talmente basso ed allungato, che la sua altezza sta 10 !/3 volte nella lunghezza totale del pesce, mentre in 11 esem- plari comuni da me esaminati, l'altezza del corpo sta 5,0 — 7,1 volte nella lunghezza totale. Osservasi che il tronco è basso specialmente innanzi alla pinna anale, pel restringimento del ventre. Il profilo del capo e del dorso è rettilineo; tutto il pesce è assai compresso. Le pinne dorsali e anale sembrano elevatissime per la bas- sezza del tronco. Tali caratteri danno all'animale un aspetto tutto speciale, che lo fanno comparire assai di- verso dagli esemplari normali. ns Î i | RI i Ù Ò n ) MORTA ) Li, I 5; i Di si « JUCITOTO IAN È j DELLE RAZZE CAVALLINE E DEL MODO DI MIGLIORARLE MEMORIA DEL PROF. A. GHISELLI ( Letta nell’ Adunanza del 24 gennaio 1867 ) Fra gli animali di una medesima specie, possono esistere sensibili differenze rispetto alla taglia, alle forme, alle qualità, alle disposizioni, all’ attitudine ad un deter- minato genere di servizio; e allorquando cosiffatte diffe- renze sono ereditarie, perdurando le cause che le produs- sero, costituiscono ciò che si chiama una razza, e le dif- ferenze medesime si chiamano i caratteri della razza. I naturalisti ammettono generalmente per tutte le specie d’’‘animali un tipo primitivo, avente nel più alto grado i caratteri particolari e le qualità originali della specie, e. suppongono che questa razza primiera viva sotto I’ influenza di circostanze le più favorevoli alla sua natura. Le modificazioni che essa provò col tempo, e che produssero le diverse razze, sono dovute a due or- dini di cause differenti, le une cioè naturali, le altre artificiali. Le prime sono il clima, il suolo, la natura del paese, gli alimenti; le seconde sono la qualità dei riproduttori e degli incrociamenti, ed il genere speciale di servizio, al quale furono assoggettati gli animali per una serie non interrotta di generazioni. L’ azione delle doge cause naturali modifica lentamente gli organismi, mentre quella delle cause artificiali è più pronta e più energica. Considerate dal lato della natura, le razze primitive possono dirsi le più perfette, ma sotto il rapporto della nostra utilità esse sono al contrario molto lontane dalla perfezione, ed è un errore il credere che il perfeziona- mento degli animali domestici consista nell’ avvicinarli più che sia possibile al loro tipo primiero; al contrarie la perfezione di una razza risiede nella sua maggiore attitudine a soddisfare le nostre mire, ad esserci utile, quindi l animale più perfetto sarà quello che possederà nel più alto grado tutte le qualità, che lo rendono atto al diversi generi di servizio ai quali è destinato. Applicando questi principî ai cavalli, sarà probabil- mente impossibile riunire in una sola razza le pregievoli qualità, sovente esclusive ed opposte che si trovano dis- seminate in tutte le altre, e perciò nello stabilire una razza, si deve principalmente guardare che i prodotti della medesima raggiungano lo scopo per cui essa fu instituita. Quanto più una razza è antica e scevra di mescolanze con altre razze, tanto più i caratteri che la distinguono sono marcati, durevoli e suscettibili di essere . trasmessi. nei discendenti, prerogativa chiamata dagli alemanni costanza di una razza. Gli usi differenti a cui si destinano 1 cavalli, indussero l uomo a stabilire delle razze secondo questi usi: il caso stesso contribuì da principio alla formazione di tipi talvolta distinti, talaltra forniti di accidentali anomalie, che furono perpetuate con successo, trasformandosi in veri caratteri di razza. Se tutte si volessero descrivere le razze conosciute dei cavalli, sarebbe opera immensa, e dicasi pure di poca utilità; mi limito quindi alla descrizione delle razze più importanti, di cui mi piace la naturale divisione di razze africane, asiatiche, europee ed americane. sig Le razze africane che meritano singolare menzione sono le arabe e le barbere. 1 cavalli arabi sono oggetto di grande amore e di somma cura presso i popoli arabi, i quali ne fanno tre distinzioni o varietà: appartengono alla prima i cavalli nobili o di puro sangue, alla seconda i meno nobili 0 di mezzo sangue, alla terza i comuni. I loro caratteri generici sono: taglia mediocre; pelle sottile e morbida con pelo corto e fino; crini rari e finissimi; mantello per lo più grigio-pomellato o sauro; forme secche e ben marcate, fronte spaziosa, narici ampie, occhi grandi, collo agile e lievemente arcato, garrese eminente, torace pro- fondo, ventre smilzo, groppa orizzontale, gambe lunghe, secche, con muscoli e tendini ben rilevati ed espressi e senza fiocco alla nocca, piede piccolo con unghia liscia e dura: coda attaccata alta e disposta a tromba. É poi curiosa la descrizione che gli allevatori arabi fanno, secondo quello che ne racconta il Brehm, delle bellezze dei loro cavalli di razza nobile, nei quali riscontrano quattro parti specialmente distinte per larghezza, quattro egualmente distinte per lunghezza e quattro per brevità, e cioè: larghi la fronte, il petto, le anche, le articola- zioni: lunghi il collo, il ventre, i femori, gli avambracci: corti gli orecchi, le reni, il pene e la coda e questa poi molto ricca di crini e grossa all’ origine. Inoltre debbono avere fina e rada la chioma, il dorso unito, lunghe le coste vere e corte le false, rotonde le coscie, secche © tendinose le gambe, i garretti larghi e forti, l ugna nera, solida e liscia, la testa leggera e ben quadrata, le labbra unite, e gli occhi limpidi, bene aperti, che inspirino con- fidenza e sappiano prendere all’ uopo_ un’ espressione amorosa. Tale si è il cavallo dell’ arabo, alla poetica fantasia del quale si presenta veloce come il veltro, bello come la colomba, docile come il camello. e ag Il cavallo barbero abita quella parte dell’ Africa che i geografi orientali chiamano isola dell’ occidente, e i nostrali appellano Barberia. Le vaste valli intermedie ai gioghi atlantici, irrigate da numerose correnti di acque, riescono straordinariamente feraci, benchè le nordiche pianure sieno in generale arenose. Questa regione è ricca di mammiferi di vario genere, e fra gli animali dome- stici primeggia fra tutti il cavallo, il quale sebbene a prima vista sembri un po freddo e negligente, appena stimolato spiega forza, agilità, ed ardire. Ha collo lungo, sottile, e poco crinito, leggiadra e piccola testa, sovente montonina, orecchio vivace e ben fatto, spalle piane, coste bene arcate, groppa un po’ lunga, gambe asciutte e ten- dinose, zoccolo duro e ben conformato. Se i Mauri cu- rassero i loro cavalli, come lo fanno i popoli arabi, si vedrebbero questi leggiadri corsieri della Barberla, come scrisse giustamente il Pananti, uguagliare in beltà e in isveltezza i corsieri arabi. Il cavallo barbero è paziente, laborioso, e resiste alle fatiche ed ai più duri strapazzi, nè sembra vecchio a 30 anni. Le razze asiatiche più pregiate comprendono il ca- vallo persiano, il tartaro, e il turco asiatico. I cavalli persiani sono dopo gli arabi 1 mighori del- l'oriente e si considerano generalmente ottimi quelli che si allevano nelle pianure della Media e di Persepoli. Di taglia mediocre, hanno testa leggiera, bella groppa, gambe sottili, particolarmente agli stinchi, tendini forti e bene staccati; sono docili, leggieri, sobrii, animosi e robusti; se ne trasporta una grande quantità in Turchia a prezzi miti e quasi vili, in causa della grande abbondanza, che ne ha la Persia. Il cavallo tartaro, non è che una derivazione del- l'arabo, e le diverse forme che da questo lo distinguono furono determinate dall’ influenza specialmente del clima, e dalla diversa educazione. Di piccola taglia, possiede «uv non ostante membra pronunciatissime, ed è di una resistenza tale, da superare sotto questo rispetto tutti i cavalli del mondo; esso è capace di camminare due o tre giorni di seguito, contentandosi di bere ogni 24 ore, e di passarne altrettante con poche boccate di paglia. I cavalli di questa razza sono numerosissimi, e forse in maggior numero che gli abitanti stessi di quelle contrade, e fu per essi che l’antica cavalleria Scita. ruppe tante volte la potenza degli imperi d’ Occidente; coi soli ca- valli tartari era possibile inseguire un esercito per 24 ore, e per essi soli sfuggire a quelle insidie di guerra, per le quali interi eserciti Sciti vennero talvolta circon- dati dall’ inimico. Il cavallo turco conferma esso pure che l° Asia è per eccellenza il paese più proprio dei cavalli: sorse da in- crociamenti di cavalli arabi, persiani, e tartari, e come questi è sobrio, tollerante, e laborioso. La sua testa ha forme svelte, fronte spaziosa, narici ampie, ganascie qua- dre; l incollatura però è magra e sottile, il corpo al- quanto lungo e i reni troppo alti. Le razze equestri di Europa si può dire che sono tante, quante le nazioni di questo continente. Vi hanno infatti razze inglesi, francesi, alemanne, olandesi, danesi, polacche, russe, ungheresi, svizzere, spagnuole, turco- europee ed italiane. Razze incLesi.i — Le razze inglesi sono senza dubbio le più perfezionate di Europa; ebbero origine da incro- ciamenti con istalloni arabi, barberi e turchi: il mantello è generalmente bajo, ed è facile trovare i balzani e 1 mascherati; e se i cavalli inglesi sono in generale stima- bili, non lo sono però tutti in eguale misura, e in ra- gione della loro diversa bontà e bellezza si distinguono in 5 varietà; la prima è quella del cavallo da corsa, fon- data in origine dall’ incrociamento di stalloni africani PIC) | pera colle migliori cavalle indigene, varietà che oggi è affatto distinta e di puro sangue; il cavallo che vi appartiene presenta una conformazione tutta speciale in cui spiccano la forza e la leggierezza: il suo collo è diritto, lungo e smilzo: la testa e le orecchie lunghe: le spalle lunghe ed obblique s’ attaccano ad un petto stretto, mà oltre- modo alto; la groppa orizzontale, le gambe lunghe, e i garretti un po’ dritti sono condizioni che imprimono grande rapidità a’ suoi movimenti, e le articolazioni lar- ghe, 1 tendini forti e staccati, gli danno la forza e la resistenza che a quella si convengono. La sua taglia supera quella dei cavalli arabi, la sua pelle finissima la- scia trasparire i vasi sottocutanei e gli interstizi musco- lari; la vivacità del suo sguardo dinota la sua grande energia. Gl’ inglesi hanno stabilito delle corse, che rag- giungono il doppio vantaggio di eccitare 1° emulazione nel miglioramento delle razze, e di procurare enormi guadagni ai possessori dei più valenti corsieri: il fonda- tore delle corse equestri in Inghilterra fu Enrico VIII®, e da’ suoi tempi fino a noi, cotali esercizi vi andarono sempre crescendo, e sono indescrivibili le cure, l inte- ressamento e |’ entusiasmo di cui questo nobile animale è l'oggetto: dei cavalli più famosi si pubblicano i nomi, si vendono 1 ritratti, se ne scrive la vita; vi sarà in In- ghilterra chi ignori le gesta di alcuno de’ suoi grandi uomini, ma tutti conoscono i fasti, non che il giorno della nascita e della morte dei più famosi corsieri. La seconda varietà è quella da caccia, proveniente da uno stallone di puro sangue e da una cavalla comune, ond’ è che il prodotto di questo inerociamento si dice anche di mezzo sangue: i cavalli che ne derivano sono anch’ essi pregievoli per robustezza ed armonia di forme, di cui sono caratteri principali, il collo lievemente arcato e muscoloso, il petto largo, le membra solide, il dorso tondeggiante; le reni corte, le articolazioni larghe, i ten- dini forti e bene staccati. vai: DOM Nella terza varietà si comprendono i prodotti dell’ in- crociamento di stalloni da caccia con cavalle ordinarie; questa varietà quantunque meno nobile è però molto robusta, di belle apparenze, e si destina per lo più alla carrozza. Sono molto rinomati sotto questo riguardo i cavalli del Cleveland, i quali forniti di solida ossatura, di petto largo e profondo e di garrese alto riescono ec- cellenti per la carrozza. Si ritiene che la razza primi- tiva del Cleveland abbia avuto origine da alcuni cavalli francesi che il re Giovanni introdusse in Inghilterra. La quarta varietà si compone di cavalli di alta e grossa taglia, nei quali si coltivò e si propagò lo sviluppo straordinario del sistema osseo e muscolare, guardando più alla forza che alla bellezza. Questi cavalli sono affatto sconosciuti sul continente, e gl’ Inglesi se ne servono allo strascino dei carri e dei grandi pesi. Di tutti 1 prodotti degenerati o mal riusciti delle quattro varietà precedenti, se ne formò una quinta to- talmente comune, nella quale però si rinvengono talora cavalli abbastanza ben conformati ed abili in cui sì rav- visa, sebbene alla distanza di moltissimi gradi, l’ influenza potente delle razze distinte. Vi hanno pure cavalli, che passano impropriamente col nome di inglesi e che provengono invece dalle razze d’ Irlanda. Il cavallo irlandese è più piccolo dell’ inglese, ha corpo corto e grosso, manca di eleganza specialmente in causa della testa alquanto pesante; le sue gambe un po lunghe sono però eccellenti; 1 muscoli forti insieme e flessibili; le anche acute ma gagliarde; il petto ampio. Insuperabile nel salto e nella solidità del piede, ofire al cavaliere la maggiore sicurezza anche sopra un terreno ineguale. Le privazioni sofferte nella tenera età lo ren- dono alquanto rustico e mettono sovente ostacolo al suo accrescimento e perfetto sviluppo, il che però non gli toglie di essere ardito e vigoroso. Nel salto si comporta iu Dl ea in tutt’ altra maniera, che il cavallo inglese: questo vo- lendo superare una barriera, saita colle gambe distese in tutta la loro lunghezza, e descritto una specie di arco, piomba sul terreno col bipede anteriore, che deve perciò sostenere solo il peso e l impeto del corpo, il che in certi casi e segnatamente quando il cavallo è debole nel treno anteriore, può essere causa di terribili cadute. Il cavallo irlandese ha tutt’ altro sistema; il suo salto asso- miglia a quello del daino e del capriolo e rende però difficile la posizione del cavaliere. Raggruppando e pie- gando le membra sotto il corpo prende lo slancio, e su- perato l’ostacolo, ritorna con tutte e quattro le cembra al suolo quasi pelli stessa inclinazione di prima, nè si conoscono esempi di cadute per questa maniera di sal- taré. Nell’ Ulster si distingue una razza di cavalli, che merita di essere conosciuta per la fermezza tutta parti- colare delle gambe, sebbene la conformazione del corpo sia poco regolare e le andature ne siano poco aggradevoli. Razze rrancesi. — Sebbene i cavalli limosini e nor- manni godessero meritamente di una antica riputazione anche prima che gli inglesi fossero riusciti a stabilire le loro razze equestri, nondimeno chi guardi oggi alla Francia è costretto di gridare al miracolo, tanto e in breve tempo si ottenne di stabilire razze eccellenti. Turenna e Napo- leone I contribuirono a rendere stimato per la guerra il ca- vallo limosino, il quale conserva ancora in gran parte i ca- ratteri del tipo orientale. Ha la testa leggera e secca, l’in- collatura graziosa, il corpo sebbene tondeggiante zionali meno stelo. le Loch elevate, i pestordti assai lunghi, pei quali l'andatura riesce così dolce da renderlo più proprio alla sella, gli stinchi alquanto gracili, i garretti larghi e ben pronunciati, l ossatura forte, 1 muscoli ed 1 tendini robustissimi : la sua taglia è in media di 1 metro e 50 centimetri, ed è di temperamento così forte da pre- Lul G GI e star servizio anche in età avanzata, quando cioè la mag- gior parte dei cavalli delle altre razze sono comunemente inservibili; per contrario esso non raggiugne che tardi il suo pieno sviluppo e riporta non lievi danni dai pre- maturi servizi. L’ antica razza limosina migliorata già per mezzo del sangue arabo, si raffina presentemente incrociandosi con istalloni inglesi, e si coltiva altresì nell’ Alvernia e nel Périgord. I cavalli normanni si dividono in due razze distinte, quella del Cotentins e quella del Merlerauld. I cavalli di quest’ ultima nutriti in pascoli meno fertili sono di una taglia inferiore a quella del Cotentins; hanno la testa meglio quadrata, il collo più diritto, il garrese più alto; il loro carattere è poco affabile, I’ andatura inco- moda al cavaliere. Il Cotentins e il Merlerauld forniscono gran numero di cavalli all’ esercito francese, e il credito acquistato e il facile spaccio hanno incoraggiato a sta- bilire nelle medesime contrade una nuova razza, che porta il nome di anglo-normanna e si deve all’ incrocia- mento di cavalle del Merlerauld con istalloni inglesi. Sono poi degne di menzione le razze del Poitou, di Boulogne, le razze navarrine, le percheronne e le bretoni. Razze aLemanne. — Fra le molte varietà di cavalli che si riscontrano nei paesi alemanni si distinguono le razze del Mecklemburgo, dell’ Hannover, dei Ducati, della Prussia, della Boemia e della Sassonia. I cavalli che ap- partengono a questi due ultimi paesi sono di mezzana statura, abbastanza belli, molto robusti e atti specialmente alle rimonte della cavalleria per 1’ uniformità della loro taglia: nuoce però alla loro conformazione la testa ordi- nariamente carica di carne, le coscie molto voluminose e la coda attaccata in basso. I cavalli del Mecklemburgo sono i più belli fra quanti ne possiede l Alemagna: quelli dello Schleswig e del- ilo l’ Holstein, che possedono eguali qualità sono ordinaria- mente confusi sotto la generica denominazione di cavalli mecklemburghesi. Nessuna altra razza ci offre per la carrozza maggior nobiltà e maestà di portamento. Il ca- vallo del Mecklemburgo è quasi sempre di uno stesso colore cioè bajo-bruno, senza balzane e senza macchie alla testa; il suo collo è quasi diritto, la testa larga e quadrata, l'ossatura forte; gli stinchi sono lunghi e larghi, le unghie grandi e solide. Alla integrità ed al perfezio- namento di questa razza sono diretti i maggiori sforzi, e a questo proposito il signor H. Robinson nel suo Manuel complet de l' eleveur. et du propriétaire de chevaux, (Paris Ch. Tanera editeur 1864), cita il nome di un personaggio che egli considera come l'allevatore il più coscienzioso e il più distinto che vi sia: ecco le sue pa- role » Le duc d’ Augustenbourg, qui peut étre considéré comme l’ éleveur le plus consciencieux et le plus éclairé qui existe, habite l ile d’ Alsen séparée par un détroit du duché de Schleswig. Il posséde un haras qui contient una vingtaine d’étalons de pur sang qui doivent servir à l’amelioration de la race de tout le duché. En effet, chaque année, 600 juments appartenant à tous les culti-. vateurs de la contrèe sont amenées au haras d’ Augu- stenbourge ». S Razze oLanpesii — I cavalli olandesi sono più atti alla carrozza che alla sella; le loro coscie oltremodo lun- ghe, la corta loro incollatura, la testa voluminosa, le gambe tozze mostrano ad evidenza che i molli e grassi pascoli non sono propiz) al vigoroso sviluppo delle razze equine, e che debbono anzi riputarsi come una causa sfavorevole, ed un grave ostacolo al perfezionamento di una razza; certo è che in generale, ed eccettuata appena la razza degli Hardraves, o dei forti trottatori, non si giunse mai colle più assidue cure, e co’ meglio intesi MOI, [ere incrociamenti a togliere quel tipo massiccio e insieme floscio che distingue le razze olandesi. Potrebbesi dire altrettanto delle razze danesi, se non fosse che alcuni utili e veramente buoni cavalli trovansi nel paese di Tye, i quali però sono poco numerosi e poco conosciuti, nè comportano grandi mutazioni di clima. Razze poraccne. — Il cavallo polacco è stato appellato non senza ragione l’ arabo dell’ Europa: esso è piccolo, robusto, ed agile: ha testa piccola, fronte diritta, labbra alquanto grosse, guancie larghe, collo corto e dritto. Gli abitanti della Polonia amano i cavalli al pari dei popoli arabi; si direbbe che parlano quasi coi medesimi, con- ciossiachè alle loro parole siano i cavalli così obbedienti da muoversi, correre in ogni senso e fermarsi, senza uso nè di briglia, nè di sprone, nè di altro incentivo. Tro- vansi in ogni parte della Polonia di questi ottimi cavalli, ma specialmente nella Lituania, e sonò frugalissimi, ed anche in questo emuli dei cavalli arabi, ai quali si as- somigliano per lo stesso colore del mantello, che è per lo più storno. Razze russe. — I cavalli della Russia si possono di- videre in due grandi categorie: la prima comprende quelli che sono allevati nei tenimenti dei grandi signori e che procedono da stalloni arabi, tartari e persiani: la seconda abbraccia quelli che appartengono ai ricchi mer- canti, ai grandi fittajuoli e ai contadini: spicca nei primi il tipo orientale; nei secondi, benchè piccoli di mole e di forme poco eleganti, si mostra non minore che in quelli la forza, l’ agilità e l'instancabilità, e tanto gli uni quanto gli altri, sono per eccellenza trottatori. Le corse al trotto in Russia possono dirsi nazionali, nè vi ha paese alcuno nel quale si abbia, come in questo, un amore e un interessamento così grande per questo genere di LAB corse, nè vi ha spettacolo più pittoresco delle corse al. trotto che si fanno nell’ inverno sulla Neva, in faccia al palazzo imperiale, tra le cupe muraglie del forte e il vasto e moderno edifizio della Borsa. Razze uncneresi. — I cavalli di queste razze’ sono piccoli, veloci, e robusti; hanno la testa un po’ volumi- nosa con guancie larghe, l incollatura svelta, le coste piatte e lunghe, le membra forti e ben proporzionate: sono pregievoli per la loro lena ed agilità nel corso, per la tolleranza delle fatiche, per l’indomito coraggio, riescono per la bassa loro taglia molto adatti per la ca- valleria leggiera: sono governati con molta cura e trat- tati con dolcezza; il loro principale alimento è l’avena, a cui si aggiugne poco fieno misto a paglia, e a questo metodo dietetico si deve attribuire la ristrettezza del- l'addome, che si osserva in questi cavalli, e 1’ agilità nelle corse. Razze svizzere. — Il cavallo della Svizzera è di taglia piuttosto alta; ha testa voluminosa, vista debole, movi- menti impacciati ed è proclive alla pinguedine. Il cantone. di Berna è la parte della Svizzera ove presentemente i cavalli sono più curati e migliori. Razze spacnuote. — Il cavallo di Spagna, è uno dei migliori e più stimati d’ Europa, e sebbene abbia la testa alquanto allungata, le reni basse, l’ incollatura grossa, le unghie troppo alte e diritte come quelle del mulo; e sebbene vada molto facilmente soggetto all’ incastellatura per avere i talloni troppo alti, nondimeno questi difetti sono di gran lunga compensati dall’ armonia complessiva delle parti, dalla grazia e dalla maestà del portamento, dal brio, dal coraggio e insieme dalla docilità, che sono sue doti caratteristiche. Bisogna però confessare che que- — 27 — ste nobili razze, fra le quali primeggia quella dell’ Anda- lusia, furono nei tempi scorsi ancor più distinte e più pure, di quello che siano nei presenti, nei quali sono andate degenerando. Nella Spagna la castrazione dei ca- valli sì fa per semplice percussione dello seroto mediante un martello di legno, col qual mezzo 1 testicoli si fanno bensì incapaci alla secrezione dello sperma, ma non si atrofizzano completamente, rimanendo piuttosto allo stato d’indurimento, ond’ è assai difficile distinguere i castrati dagli interi. Fa duopo perciò nella compra di stalloni procedere con molta cautela per non lasciarsi ingannare, tanto più che gli spagnuoli soffrono mal volontieri che i loro ginnetti vadano a popolare razze straniere. Nella Spagna si trovano inoltre cavalli montanari di collo ancor più grosso, di corpo corto e di bassa taglia, provenienti da quelle razze, che i mori v’ introdussero al tempo della conquista, che fecero della Spagna. Questi piccoli cavalli montanari hanno servito da tempo assai remoto a quelle famose guerriglie che si sono vedute moltiplicare ad ogni crisi politica di quella nazione. In Ispagna sono in di- spregio i cavalli che hanno mantello o bianco, o grigio, o comunque misto o macchiato, nè si vedono, general- mente parlando, che mantelli delle varie modificazioni del bajo e del morello. Razze turco - europee. — Debbono intendersi sotto questo nome quelle razze di cavalli, che originarie del- I’ Oriente, e sparse in Europa sotto la turca dominazione, si trovano oggi e nella Turchia - europea e nella Moldo- valacchia e nella Grecia e negli altri paesi dell’ Europa orientale. Questi cavalli sebbene abbiano risentita l’ in- fluenza diversa dei climi, degli alimenti, delle abitudini, e in particolar modo degli incrociamenti, conservano però in diverso grado l’ impronta orientale. I cavalli che si allevano nei dintorni di Costantinopoli, hanno molta so- N RO; DOES miglianza coi cavalli tartari, dei quali non sono che discendenti alquanto degenerati. Nella Moldovalacchia e nella Grecia, 1 cavalli sono nella maggior parte di piccola taglia, più atti alla sella che al tiro, e in confronto dei loro progenitori asiatici non poco decaduti; in questi paesi si è ottenuta però una razza di cavalli di grossa taglia pel tiro pesante, la quale sempre più conferma che anche nei climi caldi e meridionali si possono trovare le condizioni favorevoli allo sviluppo di cavalli di alta conformazione, quali si osservano nelle fredde e nordiche regioni, nella stessa guisa che in queste, e sotto le nebbie dell’ occidente, crebbero e prosperarono cavalli leggieri e snelli come quelli del mezzogiorno e dell’ oriente. Razze iraLiane. — Scrivendo anche brevemente la storia delle razze equine, non è senza grande sconforto, che s’ imprende a discorrere delle presenti condizioni dei cavalli italiani. Percorrendo l’ Italia e le sue isole mag- giori e minori, vediamo cavalli di cento diverse forme e dimensioni, i quali potrebbero per la maggior parte servire di modello per istudiare i difetti delle propor- zioni, anzichè i pregi che distinguono il cavallo. Eccet-. tuati pochi diligenti cultori, principi e ricchi proprietari, e ad onta della istituzione delle monte fatta con lodevole scopo dal Governo, la massima parte della produzione equina si trova in balia dell’ empirismo, dell’ ignoranza e dell’ indifferenza; e questi tre avversari del migliora- mento dei nostri cavalli hanno ‘creato tale confusione e tale decadimento, che invano si cerca fra i due milioni all'incirca di cavalli indigeni, quale sia la forma, quale la sembianza del cavallo nazionale. Sentiamo bensì parlare di cavalli sardi, padovani, friulani, toschi, ferraresi, ro- mani, di Napoli e della Sicilia, come quelli che furono un tempo tenuti in grande onore, e che sono presente- mente i meno decaduti; ma non possiamo ancora vantarci Lo di possedere cavalli, che soddisfino al nostro orgoglio nazionale e possano essere offerti come tipi veramente indigeni, alla stessa maniera che I Inghilterra p. es. e la Francia ci mostrano i loro nazionali corsieri. lo distinguo le razze equestri italiane in due classi: comprendo nella prima quelle che possono subito miglio- rarsi per incrociamento con istalloni orientali; abbraccio nella seconda quelle che non lo possono, senza prima essere migliorate per se stesse. Appartengono a quest’ ul- tima classe tutti quei cavalli che non hanno forme co- stanti, o se ne hanno, la costanza è dei difetti e non dei pregi: spettano alla prima quelle razze, nelle quali, fra non pochi difetti sopravvenuti da non molto tempo, si mantennero costanti per lunghe generazioni alcuni pregi, che le rendono anche al presente stimate; tali sono a mo’ d’esempio 1 cavalli sardi, i toscani della razza gentile, i romani, i napolitani e quelli delle ubertose pianure del Po verso 1’ Adriatico, tra 1 quali s! distin- guono i cavalli di Padova e del Friuli. Darò una breve descrizione di queste razze. — Negli antichi stati del Piemonte si fecero molte prove per migliorare le razze equine, e fu per la generosa iniziativa e la regale pro- tezione dell’ Augusta Casa di Savoja, che quelle prove non rimasero senza utile risultato. S. M. Vittorio Ema- nuele nostro amatissimo Monarca, intelligentissimo di cavalli e apprezzatore del sangue arabo, ha fatto cospicui acquisti di cavalli orientali, spedendo a tal wopo ufficiali della R. Sua Casa in Oriente e più particolarmente in Siria, e le equestri sue razze, oltrecchè non temono il confronto con quelle di qualsiasi altra Corte europea, sono senza alcun dubbio le migliori d° Italia, e forse le uniche, che vi mantengano veramente onorata la produ- zione equina. I cavalli dell’ isola di Sardegna provenienti, come si crede, da. stalloni spagnuoli accoppiati in lontanissimi PA tempi colle cavalle isolane, si distinguono per molte buone prerogative. Sobrii e vivaci, come i cavalli meri- diorali, hanno taglia assai piccola e più propria della cavalleria, e se ne distinguono tre varietà: i cavalli così detti di razza, i volgari e 1 semiselvatici. 1 primi sono quelli in cui l'arte ha tentato tutti i mezzi di rimovere, per quanto fosse possibile, i vizi nazionali, ed è riuscita ad ottenere buoni cavalli, i caratteri dei quali sono: testa quadrata, occhi a fior di pelle, musello appianato, narici ampie, collo muscoloso con cervice lievemente convessa, garrese prominente, groppa acuta, cuda ben attaccata, gambe secche con tendini bene spiccati, piedi forti; e questi cavalli furono così migliorati per incrociamenti fatti con istalloni arabi. I secondi o volgari sono alquanto più‘alti ed hanno la testa più lunga, leggermente mon- tonina, con ganascie cariche di carne; la groppa pendente, i piedi coi talloni alti e soggetti alle screpolature. I semi- selvatici della Sardegna, ma specialmente gl’ inselvatichiti dell’isola di S. Antioco, sono di natura così perversa, che difficilmente si riesce a domesticarli, e d’ ordinario se ne fa la caccia per averne la pelle. Il cavallo della razza gentile di Pisa, è meritevole di. essere considerato non tanto per quello che fu, ma per ciò che è, e per quello che può, migliorandosi, diventare. La razza a cui appartiene fu tra le più stimate d' Italia ed è ancora in tali condizioni da riacquistare in breve l’antica riputazione. Il clima temperato, la varietà del suolo, i pascoli eccellenti, e la costanza di non pochi pregi di questa razza sono circostanze le più favorevoli ad ottenere che per solleciti ed efficaci miglioramenti, essa diventi il modello delle altre. | Le razze napoletane sono, generalmente parlando, in condizioni soddisfacenti: i cavalli che vi appartengono hanno la testa ben quadrata, l’incollatura alquanto grossa . e la forma del corpo, che partecipa insieme dell’ araba Lie e della spagnuola. Una volta assai pregiate, ora decaddero anch’ esse, ma se tempi avversi contrariarono la conser- vazione e il miglioramento progressivo di queste razze, il buon seme è rimasto, e con esso la speranza, anzi la certezza, di vederlo di nuovo nobilmente fecondo; poichè sotto il bel cielo d’Italia, la dove arde il vesuvio, e ride perpetua la primavera, il cavallo arriverà, quando lo si voglia, a superare tutti gli altri di Europa e a raggiu- gnere la perfezione dell’ arabo. Il cavallo romano è più alto, e più maestoso del ca- vallo napoletano, del quale non ha però il brio e I° ele- ganza, sebbene offra esso pure segni non comuni di bellezza e di forza. Le più distinte famiglie romane ten- gono e per cocchio e per sella cavalli delle proprie razze, tra le quali si distinguono quelle dei principi Ghigi, Piombino, Doria, Corsini, e di altri illustri patrizi, non che di alcuni ricchi proprietari di Roma e dei contorni. I cavalli della Venezia tra 1 quali si encomiano, come ho gia detto, i padovani e i friulani sono tuttora di un pregio non ordinario. Alta è la loro taglia, l' incollatura ben conformata, la testa alquanto greve e montonina: ma il difetto principale che in essi si riscontra è la pic- colezza degli occhi e la strettezza del petto specialmente al costato. Il mantello di questi cavalli è più comune- mente morello. Ho la ferma credenza, che le cavalle di tutte queste razze italiane qui sopra descritte, coperte da stalloni africani od asiatici potrebbero stabilire i germi di ben durevoli miglioramenti; ma una razza non si migliora che col tempo, e non è, giusta il giudizio dei zootecnici, che verso la decima generazione, che si otterrà una forma regolare e costante, e che potremo servirci dei maschi indigeni per le successive generazioni. Quanto poi a tutto il bastardume di cavalli anomali, che si incontrano in ogni parte, fa mestieri di sceglierne i meno difettosi, E migliorandoli per se stessi, opponendo cioè difetto a di- fetto, perchè il prodotto ne risulti vantaggiosamente mo- dificato. Così p. e. con una cavalla che abbia la testa montonina, si accoppierà uno stallone con testa camusa, a un’altra che abbia il dorso da mulo, si darà un ma- schio leggermente insellato, e si procederà nello ' stesso modo per gli altri difetti, applicando il noto principio contrariis contraria curantur. Razze americane. — In nessun trattato regolare d’ ip- pologia sì trovano finora descritte le razze americane, e le brevi notizie, che intorno alle medesime imprendo ad esporre, le ho tratte dalla giudiziosa relazione ehe il Signor Houél fino dal 1855 fece al ministro d’agricoltura e dei‘lavori pubblici in Francia, sulla scorta di quanto esso medesimo aveva raccolto ne’suoi viaggi nelle due Americhe. Nell’ America del Sud si trova ancora il cavallo spa- gnuolo degenerato e rimpicciolito, la riproduzione del quale, sebbene abbandonata al caso e ai capricci della natura, soddisfa nondimeno quanto basta ai diversi biso- gni degli allevatori. E duopo però confessare, che in certi luoghi l’ allevamento e l’ educazione del cavallo si fa con qualche diligenza; nell’ isola di Cuba, per esempio, si osservano cavalli in parte superiori a quelli delle città principali dell’ America meridionale, e nel Messico, ad onta delle lotte politiche che lo hanno continuamente travagliato, si ammirano le belle forme dei corsieri in- trodottivi da Cortez, e l'educazione e gli esercizi equestri spagnuoli; ma con tutto ciò nulla vi ha nell’ America del Sud, che offra un vero interesse per la scienza ip- pologica e possa riuscire profittevole per noi. Non può dirsi altrettanto dell’ America del Nord, e specialmente degli Stati Uniti, dove le razze equine sono riuscite per accorti allevamenti a fornire cavalli di una conformazione la più conveniente ai diversi usi della sella e del tiro, RI SE non che ad assumere sembianze veramente nazionali. In questi stati verso il lago superiore e Kebec, cresce il cavallo sotto latitudini pressochè eguali a quelle delle nostre regioni europee dove il clima, 1 prodotti del suolo e specialmente le pingui praterie, ricordano il clima, il suolo, e i molli pascoli del Mecklembourg in Germania, e della Normandia in Francia, e perciò vi si trovano le medesime varietà di cavalli, di alta e robusta taglia, il cui tipo nobile e maestoso, non è già il risultato di eso- tici incrociamenti, ma di quelle circostanze in mezzo alle quali crebbe e si modellò l'organismo equino. Con questo però non vuolsi negare che in qualche luogo non siansi introdotti, e non s'introducano ancora cavalli d’ambo 1 sessi dall’ Europa, specialmente normanni ed inglesi delle più belle e più distinte razze, i quali sembra che abbiano colà trovato una seconda patria. Gli stati che si trovano fra il settentrione e il mez- zogiorno, offrono i migliori prodotti, come quelli che risultano dal costante incrociamento dei cavalli dell’ uno e dell’ altro estremo, intermedi fra il grave cavallo del Nord, ed il leggiero del mezzogiorno. I popoli d’ America, fedeli alla loro origine britannica amano il cavallo pel loro proprio interesse, e la loro scienza è tulta istintiva, tutta di pratica: e per vero poco o nulla si occupano di teorica, poco da essi si scrive, meno si insegna, ma si opera molto. Per essi la scienza ippologica è tutta compresa in una domanda e nella sua risposta più praticamente utile. Che cosa è il cavallo? Un animale che cammina; dunque si cerchi il modo di farlo il più sollecitamente e durevolmente camminare. Convinti che le buone qualità e le specialità del lavoro a cul si destina il cavallo, debbano essere ereditarie, gli americani non ammettono alla riproduzione che le cavalle ce gli stalloni che si sono distinti pei loro meriti, e primi fra tutti si considerano quelli del Canadà destinati uni- rd 0) n E camente per le corse al trotto. Poco si cura l’ allevamento di cavalli di puro sangue destinati come in Inghilterra alle rapide corse o alla carriera, ma invece si ha la più grande cura e la più viva passione per l’ allevamento di cavalli di mezzo sangue, che si destinano per le corse al trotto. Da qualche tempo è sorta una nobile gara fra gli allevatori delle razze del Nord, e quelli delle razze del mezzogiorno, e ie dispute si decidono ordinariamente sull’ ippodromo di Nuova Yorck. Il premio che in tali occasioni si destina al vincitore, supera le cento mila lire, e le scommesse ascendono d’ ordinario a tre milioni. I cavalli si mettono alla corsa attaccati ad un veicolo, o adue o a quattro ruote, e sebbene ogni veicolo non sia per lo più tirato che da un solo cavallo, pure alcuna fiata lo si vede tratto rapidamente da una pariglia di cavalli pari di forza e di velocità, e così bene armoniz- zanti nel trotto, che sembra quasi che navighino nell'aria. Non si può dire che gli americani si occupino delle corse pel miglioramento dei cavalli, essendochè non hanno altro movente che il piacere di correre, e purchè pos- sedano i migliori trottatori, che è per loro un pensiero fisso e quasi un delirio, non st prendono cura delle forme, ed ogni prova è tentata e spinta fino all’ esagerazione per riuscire a quel sommo ed agognato intento. Ma l’esagerazione nuocerebbe all’ utile, se il miglioramento non iscaturisse per forza dall’ esagerazione medesima, per la quale, mentre viene sforzata la natura al solo fine di produrre abili troltatori, essa non può tali crearli senza che abbiano insieme quel parallelismo nella dire- zione delle ossa e delle articolazioni, e quell’ energico sviluppo di muscoli ben coordinati e ben disposti, che si richiede in cavalli trottatori. È per verità nel consi- derare questi cavalli, nell’ allevamento dei quali 1’ indu- stria umana non si prefigge che un solo intento, si resta maravigliati nel riconoscere, alla giusta conformazione MOI SNA dei medesimi, l attitudine a molti e svariati esercizi. Questi cavalli hanno per lo più mantello grigio, taglia mezzana, testa svegliata e leggiera, gambe e articolazioni lunghe e larghe; e la loro ai è più di sovente quella dell’ambio ereditata dai primi loro progenitori orientali e spagnuoli, nei quali è comunemente abituale. Chiuderò questa memoria coll’ esposizione di alcune regole generali, la cui osservanza è indispensabile pel miglioramento delle razze equine, e specialmente delle nostre d’ Italia e di quelle, più propriamente che deb- bono, prima di mescolarsi col sangue orientale, essere migliorate per se stesse. — Fa d° uopo evitare negli accoppiamenti la consanguineità, la quale non produce che animali deboli e delicati, nè può essere adoperata che nelle razze ovine destinate alla produzione della lana, che riesce per cosiffatti accoppiamenti lunga, morbida e finissima, o nelle razze suine e bovine da macello, nelle quali la consanguineita è un mezzo per ottenere il tes- suto muscolare fino e delicato, le ossa minute, e la pro- clività alla pinguedine, o in altri scopi di simil fatta. Le cavalle delle regioni settentrionali si devono accoppiare con istalloni del mezzogiorno, sul quale proposito è fra noi desiderabile, che nelle stazioni di monta di quei luoghi, ove le razze sono più degradate, come nei paesi montuosi e silvestri, in cui le Gitai sono generalmente difettose, si mandi qualche stalione indigeno delle parti meridionali d’ Italia e specialmente del napoletano. Fa d’ uopo inoltre conoscere qual parte spetti a craschedun genitore nella conformazione della. prole, e su questo riguardo | esperienza ha stabilito delle regole accettate come principi di scienza nella zootecnia. Lo stallone de- termina nella prole la forma della meta anteriore del corpo, che si modella a similitudine sua; la madre quella della metà posteriore: la taglia o l’ altezza del poledro e dovuta alla madre, l indole e il temperamento al padre. prreio e Approfittando di queste cognizioni e dirigendo nei modi più accorti gli accoppiamenti, si riuscirà a correggere le cattive conformazioni, e ad ottenere cavalle, le quali potranno essere alla lor volta accoppiate con istalloni orientali: ma non si creda di poter giugnere a miglio- rare le nostre razze equestri accoppiando colle 'cavalle più degradate stalloni esteri distinti, poichè così ope- rando, sì avranno prodotti sempre più degenerati e mo- struosi: nè si deve pensare per adesso ad introdurre stalloni inglesi buoni solo a raffinare non a migliorare le razze; e poichè il raffinamento deve succedere al miglio- ramento, così è a questo che dobbiamo rivolgere i nostri sforzi, nè lo potremo altrimenti ottenere, che mediante I uso di stalloni orientali coi modi e colle regole sopra descritti. Affinchè poi una razza fiorisca, non bastano solo gli accorgimenti nella scelta dei genitori, dei luoghi, degli alimenti, ma influiscono efficacemente al regolare sviluppo dell’ organismo e per conseguenza della forza, dell’agilità e della resistenza, i frequenti e bene ordinati esercizi del corpo; perciò | istituzione di corse con premi, d’ippodromi, di società ippiche sono mezzi ausi- liari, ma potenti del miglioramento delle razze. _—— sò © io —_— DE SPECIEBUS DUABUS DIPTERORUM GENERIS ASPHONDYLIAE ET DE DUOBUS EARUM PARASITIS AUTORE CAMILLO P.ONDANI ( Memoria presentata alla Società dei Naturalisti in Modena nella seduta 9 maggio 1867 ). Familia CECIDOMYDAE Rndn: Bigot. Sciin. Stirps Cecidomyinae Rodn. Gems Asphondylia Loew. Wnrtz. Schin: Radn. Phyllophaga (olim) Rndn. Cecidomyia Mgn. et Alior:- Tipula Lin. Fabr. etc. Char: Gener: praecipui. Antennae in utroque sexu filiformes; articulis flagelli subeylindricis, non aut vix petiolatis, pubescentibus sed non verticillato-pilosis. Alarum venae longitudinales quatuor; prima ante apicem non sinuosa; secunda marginem aftingente sub apicem alae, non in apice ipso nec ante: tertia et quarta sat longe a basi alarum conjunctis et furcam venosam efformantibus etc. Sp. 1. A. Pruniperda Radn (1). (Mas.) Antennae articulis quatuordecim instructae; primo subeyatiforme; socundo globuloso; caeteris gra- (!) Giornale di Agricoltura di Bologna ( Februarii 1367 ). i datim sed parum decrescentibus, et longitudine parum diversis. Facies et Frons lutescentes. Thorax nigricans; antice partim, lateribus et postice cum scutello rufescens; pectore rufo-maculato. Alae paulo infuscatae, fusco-pilosae et fimbriatae, ve- nula nulla obliqua nec transversa duas longitudinales primas conjungente. Halteres capitulo fusco, stipite Dalida Pedes nigricantes basi i Abdomen nigricans pilis albicantibus; organis copu- latoriis modice incrassatis. © (Faem.) Similis mari, sed difert, praeter characteres sexuales abdominis, etiam Anfennis minus longis, et arti- culis 15 tantum instructis, duobus ultimis satis brevioribus, conjunctim longitudinem praecedentis circiter aequantibus. Ejus larva vivit in gemmis floralibus Pruni domestici, quarum explicationem impedit. Ab Hymenoptero parasito occiditur, de quo ulterius. Sp. 2. A. Verbasci Vallot. Scrophulariae Schin. 3 Fusco-rufescens — 7huracis dorsum nigricante tri- vittatum, vittis latis sub-contiguis. Antennae fuscae, duodecim articulatae ( saltemo in faemina), articulis a tertio ad ultimum fere aeque longis et gradatim paulo decrescentibus. Abdominis pili partim pallidi. Alae paulo fuscescentes, vix pilosulae, et fimbria pa- rum apparente: venula transversa nulla inter duas primas longitudinales. Halteres pallidi. Pedes fusci, basi pallidiore, dilute testacea. Larva in floribus non expansis habitat Scrophulariae caninae, quos in pseudo-gallas convertit. — 59 — Occiditur ab hymenoptero parasito da quo ulterius. HYMENOPTERA PARASITA (1). Familia CHALCIDIDAE mihi. Uhalcidiae Spin. Halid. Forst. etc. Stirps Eneyrtinae Mihi. Alae superae non plicatae. Femora postica non valde incrassata. Tarsi quinque articulati Tibiae intermediae apice calcaratae etc. i Genus Lopodytes Rndn ( Giornale di Agricoltura di Bologna 1867). (Mas.) Antfennae articulis novem instructae; secundo distinete breviore sequentibus longitudine parum di- versis, et exceptis ullimis, superne pilosis, pilis partim longis, omnibus flexis. (Faem) Articuli septem tantum, penultimo majore subovato; ultimo brevi et parvo, omnibus pilis distinctis destitutis. ( Uterque sexus) A/ae, venula exili a radice prope costam decurrente circiter ad medium, et ibi (In superis) retro oblique flexa, et apice dilatata. Pedes, metatarsum sat breve ferentes.. Abdomen depressum, brevior thorace. Sp. L. Prunicola Radn (L. C.) Facies flavida, vitta nigra intermedia. Frons flavescens, fasciola transversa nigra ad anten- nas, et occipite nigro. Thorax nigro-nitens; vittis lateralibus, et macula dorsuali postica cum scutello flavidis. (1) Clar. Halliday consulto. RARO | Ul Abdomnen nigricante sub-aeneum et paulo virescens. Pedes toti pallide lutei apice tantum tarsorum nigri- cante, et non raro femoribus anulo plus minus, obscuro Di Alae limpidae, vix ad lentem validam cos In primo vitae stadio larvas devorat Aspondyliae Pruniperdae. È Genus Sigmophora Mihi. Eulophus?. Vallot. Antennae arliculis septem instructae; a secundo ad quintum long itudine sub aequalibus; sexto magno sub- ovato, ultimo! minimo, (an faeminae tantum?). Alae superae vena exili sub-costali a radice ad tertium cosfae circiter ducta, et ibi in formam S flexa cujus dorsum costam tangit, parte exteriori libera ad apicem non dilatata: veinila: spuria quoque. adest in medio basis alarum (1). Sp. S. Serophulariella Mihi. Verbasci? Vallot. Luride lutescens, Antennis et apice iarsorum nigri-. cantibus. Thoracis dorsum saepius macula fusca vel nigricante in parte anteriori notatum. Abdomen fuscum praesertim in medio dorsi. Alae limpidae, vix ad lentem validam pilosulae. In primo vitae stadio larvas devorat Asphondyliae Scrophulariae. (1) « Alas Enecyrthoidarum, antennas Myinoidarum prae se ferre videtur, for- « sitan utrumque connectens, Cercobelî antennis novem articulatis iam transitum « parantibus ». Haliday (in Litt. ). IL VULCANO TENGGHER DELLA GIAVA ORIENTALE PER EMILIO STOHR { Memoria presentata alla società dei Naturalisti in Modena, nella seduta 9 maggio 1867 ). Traduzione dal tedesco fatta sul manoscritto dal prof. Giov. Canestrini. Difficilmente trovasi un paese al mondo più atto allo studio dei vulcani dell’ isola di Giava, in cui i vulcani sono tanto numerosi. ll solo Junghubn nel suo grande ‘lavoro su Giava (i) annoverò e descrisse in parte non meno che 43 vulcani tra attivi e spenti e 6 vulcani di fango; Zollinger ne nota 67, facendo osservare che se si volesse enumerare anche i meno ragguardevoli, se ne dovrebbe tra ‘attivi ed estinti annoverare più che 100. Uno dei più importanti è il Gunung ossia monte Tenggher (2), posto nella parte orientale dell’ isola. I viaggiatori europei hanno già dato qualche cenno in- torno a questo vulcano, così ne parlarono von Herwer- den (3), il geologo inglese Beete Jukes (4); il mio defunto (1) Java, seine Gestalt, Pllanzendecke u. innerer Bau, Trad. Hasskarl 1857. Junghuhn visitò il Tenggher nel 13838 e più volte nel 1844. (2) Tenggher significa nella lingua dei Kawi monte, colle; Gunung è del dialetto malese e giavanese e significa monte. (3) Over het Tengghersch Gebergte nelle Verh. Bat. Genot, vol. XX. Herwerden frequentò il vulcano nel 1830, 1841 e più volte nei 1844. (4) Voyage of H., M. Ship Fly 1847, visitato da Jukes nel 1844. i pg e amico il botanico Zollinger (1) e più che tutti il Junghuhn. Delle misurazioni d'altezza ipsometriche furono fatte da Zollinger, le barometriche da Jukes e Junghuhn; questo ultimo assunse una parte della montagna trigonometrica- mente. L’accennato vulcano non è dunque ignoto agli scienziati (2) e se qui non ostante ne parlo, si è non solo perchè è uno dei più interessanti di Giava ed anzi del mondo, ma anche perchè, avendolo io stesso visitato nel settembre 1838, posso aggiungere qualche notizia a quanto si conosce. Un breve cenno sullo stato del cratere attivo feci già nel 1863, nelle » geographische Mit- theilungen » del Petermann. Al certo non ho l’ intenzione di descrivere nuovamente quanto fu già con esattezza descritto; devo però ripetere quanto è necessario per comprendere la conformazione del vulcano; le condizioni topografiche potranno vedersi nella carta del Junghuhn su Giava in 4 fogli, foglio 4.° orientale. La montagna di Tenggher dista circa 18 miglia dal mare e dalle città marittime Passuruan e Probolingo e si eleva dal litorale gradatamente sino all’ altezza di 2650 metri; essa forma un cono ottuso, posto sopra larga base. L’apice porta il cratere forse il più vasto. del mondo, del diametro di quasi un miglio tedesco, infossato quasi verticalmente nella montagna, posto circa 2080 metri sopra il livello del mare, circondato da pareti erte, scoscese ed alte 5 a 500 metri. Nella metà del piano del cratere, coperto di sabbia mera vulcanica e perciò con ragione chiamato Dasar cioè lago di sabbia, si ele- vano i coni di eruzione in numero di quattro, tra cui tre comunicano tra loro esternamente e costituiscono un gruppo, e sono il Widodarin, il Segorowedi ed il Bromo, (1) Zollinger visitò la montagna nel 1844 erborizzando e poi nel 1857. Nel 1859 credeva di rimettersi sulle alture della medesima da grave malattia, ma morì a Kandagan. Vedi le notizie del citato autore Petermann, l. c. 1858, (2) Vedi. inoltre Horsfield, transact. of the Batav. Soc. 1814. dei quali solo il più basso, il Bromo che si eleva circa 220 metri sul livello dal lago di sabbia, è ancora attivo. Gli altri sono spenti, come pure il quarto, posto isolato, a forma di pan di zucchero ed alto circa 550 metri sul livello del lago di sabbia. Le alte e ripide pareti del cratere, che circondano il lago di sabbia quasi circolare, sono interrotte in un sol punto cioè a nord-est, dove scorre una larga valle di fessura profondamente incisa. Ma anche qui il lago di sabbia è chiuso da un argine trasversale, il quale, quantunque non raggiunga | altezza delle pareti del cratere, si eleva tuttavia di 200 metri so- pra il Dasar; quest’argine forma precipizio verso l’interno come lo fanno le pareti del cratere, e s’ appiana all’esterno seguendo la fessura della valle. Questa è in breve la confi- gurazione della montagna di Tenggher. Il versante esterno è attraversato da solchi profondi, che in generale inco- minciano immediatamente sotto all’ apice, s° estendono in basso serpeggiando, s’ allargano inferiormente e talora si biforcano, costituendo delle valli profonde 100 fino a 180 metri. Essi danno origine a coste longitudinali, con spigoli acuti, le quali cadendo fortemente in ambi i lati formano in basso dei solchi non più larghi degli spigoli accennati. Questa formazione di coste che è una conse- guenza dell’ erosione, trovasi in tutti i monti a cono, ma e nell isola di Giava in seguito alle pioggie tropiche e perchè gli strati superiori di quei vulcani sono costituiti solamente di sabbie, ceneri, tufi e lapilli, eminentemente sviluppata. Anche nell’ isola di Giava però lo sviluppo di dette coste è rare volte tanto evidente come nel Tenggher. La cenere vulcanica, in cui trovansi disseminati dei lapilli ed altri prodotti, forma lo strato superiore e svi- luppatissimo della montagna; per cui la roccia in sito non si scopre che in fondo ai solchi, in tal caso levigata dalle acque; ma anche qui non scorgesi sempre, perchè non tutti i solchi raggiungono la roccia solida. RO, Su questo fondo di ceneri cresce una ricca vegeta- zione (1); giardini di caffè, campi e floride selve occu- pano il piede del monte, come ovunque nell’ isola di Giava. In maggiore altezza, dove | aria incomincia a diventare più fresca e più gradevole, scompariscono le palme, il banano selvatico e gli altri rappresentanti ‘della vegetazione delle regioni basse, mentre mostransi le felci arboree colle foglie pinnate ad ombrello, sopra fusto grosso ed alto 3 — 6 piedi. In un altezza di circa 1600 metri mostransi gli alberi Tjemorro, alti 20 — 50 metri, che sono proprì della Giava orientale e ricordano nel loro abito i picei del settentrione ( Casuarina Jun- ghuniana Miq.). La trovasi il vero clima del T'enggher, simile all’ europeo, nascono le rose e le viole ed altre piante come | euforbia, 1° ortica ec. le quali ricordano la vegetazione dell’ Eufopa, nella quale si potrebbe cre- dersi traslocati se le felci arboree non ci rammemorassero che ci troviamo ne’ tropici. In queste fresce regioni mon- tuose si coltiva il mais ed il tabacco, come pure cavoli, cipolle e patate che si vendono agli abitanti della pia- nura. Il governo ha là stabilito dei giardini, in cui col- tivansi piante e frutta europee, tra cui eccellenti fragole; . inoltre viti e peschi, che però rare volte danno frutta mature; in pari tempo sono questi luoghi gli asili degli europei che ammalano nella calda pianura. Il giardino più esteso trovasi a Tosari, sul versante occidentale, posto all altezza di 1779 metri. Là la montagna Tenggher è abitata sino quasi al- l'altezza di quasi 2000 metri da una stirpe umana par- ticolare; sono questi gli unici abitanti di Giava che non (1) Pur troppo fin’ ora non si fece alcuna analisi delle roccie del Tenggher, ma a giudicare dall’ analogia colle roccie del Jdjen, vulcano pure della Giava orientale, che furono esaminate dal professore Schwarzenbach di Berna, conter- rebbero gran copia di fosforo, cui, a mio credere, va attribuita la grande fer- tilità del Tenggher. PO) — 45 — professano la fede maomettana. Intorno al loro culto poco si sa; essi non hanno tempi, invece trovansi talora nelle loro abitazioni, che differiscono nella costruzione da quelle degli altri Giavanesi, delle rozze figure, cui si fanno dei sagrifizîi; una volta all'anno si raduna tutta la popolazione nel lago di sabbia, per sacrificare al dio Bromo che abita nel vulcano attivo di egual nome. Forse il nome di Bromo (fuoco), analogo al nome del dio degli Indu Brama, ha dato origine all’ opinione, che fa di- scender gli abitanti del Tenggher dagli antieni Indu, i quali dopo la distruzione del grande Regno di questi nella ‘ Giava orientale, quello cioè di Madjopait, rifuggiarono nella montagna, conservando la fede dei loro padri, il culto di Siva. Quantunque quest’ultima opinione possa essere vera, pure molte cose sembrano addimostrare, che gli abitanti del Tenggher non sono i discendenti dei suddetti fuggiaschi, dai quali i loro riti religiosi possono essere stati bensi alquanto modificati. lo credo doverli risguardare i di- scendenti degli aborigeni del paese, che nelle solitarie valli di montagna conservarono la fede che avevano i loro avi prima che la religione indiana venisse propa- gata nella Giava, l'adorazione cioè delle forze natuarali. Che i Tenggheriani non possono essere veri Indu, lo prova il fatto, ch’ essi non sì astengono dalla carne come questi, ma sagrificano perfino la sacra vaccina; durante la mia pre- senza in quel luogo si teneva a Tosari un grande bufalo, per sagrificarlo e mangiarlo nell’'annua festa che era imminente. Invito il lettore a seguirmi colla mente nel viaggio da Tosari al cratere del Tenggher e all’attivo Bromo, viaggio che io feci il 20 settembre del 1858. Tosari giace sopra una delle coste accennate, che si allarga in un piccolo piano: a destra ed a sinistra il terreno si abbassa con una pendenza di 55 — 60° fino alla pro- fondità di parecchie centinaia di piedi. Sotto Tosari le VCL TAI coste hanno ad un dipresso una direzione da sud a nord, al disopra del villaggio da sud-est a nord-ovest. Nel vicinato del villaggio constano di tufi ed ammassi di ceneri di color giallastro e bruno, in cui giacciono dei lapilli ed altri prodotti eruttivi. Nemmeno nelle pro- fonde valli, in cui scorrono i torrenti, non potei vedere la roccia in sito; all’ est di Tosari in un profondo solco vedonsi grandi massi di una lava solida e grigia, che nemmeno è in luogo. Questa roccia, come le ceneri e i tufi si mostrano magnetici, vale a dire agiscono sull’ ago magnetico. Il Bromo aveva subito il 4 marzo 1858 una piccola eruzione; a Tosari, distante oltre 8 miglia, erano cadute delle ceneri in tal quantità che giusta l' asserzione dei giardinieri, le viti si coprirono di tre pollici di questi prodotti e quasi perirono. Gli effetti di questo avveni- mento si facevano sentire ancora durante la mia pre- senza in quel luogo. La strada che da Tosari mette al lago di sabbia ascende sopra una costa; io la feci a cavallo colla solita scorta di 5 — 4 Giavanesi. Lo spigolo della costa si restringe gradatamente e si riduce in fine a pochi metri. di larghezza; cade però in ambi i lati sino a 80 — 100 metri di profondità, facendosi in alto più piano. I pendii del monte sono in gran parte coperti di giardini piccoli, regolari, con Casuarine e felci arboree; ameno aspetto in tale altezza. A maggior altezza mancano i giardini e le felci e restano le sole Casuarine, però meno frequenti e più basse, in compagnia di piante erbacee e di arbusti, che ricordano specie europee; il carattere della località è decisamente alpino. All’ altezza di 2400 metri verso ovest e nord si ha un bel prospetto del paese; sopra le cnste verdeggianti l’occhio domina la pianura sino al mare. A nord ovest mostrasi la piramide regolare del Penan- gungan, con particolari risalti a foggia di tuberi; più a i e sinistra la potente montagna delle Ardjuno, più a sinistra ancora a gran distanza il cono massicio del Kawi; fra questo vulcano e l’Ardjuno è visibile a gran distanza il cono del Klut. Mettendosi sopra un vulcano, vedonsi verso occidente altri quattro vulcani, in parte attivi, in parte estinti. i Continuando la via dal punto di veduta or ora de- scritto, dove trovasi un albero per issarvi una bandiera, . s' arriva in breve tempo al margine del grande cratere. A tergo verso ovest il prospetto si chiude, ma dinnanzi s'apre una vista sì grandiosa e mirabile, che resta pro- fondamente impressa nell’ animo; è un quadro che una volta veduto non si dimentica più. Noi ci troviamo sull’ orlo di un profondo abisso; la parete cade a picco alla profondità di oltre 309 metri, ed in fondo apparisce misterioso il Dasar, a tal profondità e di tal estensione, che cavalieri i quali si muovano nel mezzo, non sembrano che punti neri. Si presenta una pianura grigio scura, senza vegetazione, circondata ad anfiteatro da pareti alte ce verticali, in cima alle quati ci troviamo. Nel mezzo del Dasar si elevano a disuguale altezza i varii coni eruttivi; dapprima si presenta innanzi a noi il Gunung Batok, di forma smilza a pan di zucchero, presso ed in parte dietro ad esso trovansi le forme massiccie degli altri, tra cui il colle sabbioso dell’ attivo Gunung Bromo, dal quale si eleva una potente colonna di fumo. Nel lago di sabbia e sul Bromo privo di vegetazione l occhio non scorge che colori oscuri, il nero o bruno, mentre all’ op- posto gli altri coni eruttivi sono coperti di verdi cespugli e di Casuarine, come lo sono, quantunque in grado mi- nore, le erte pareti che circondano il lago di sabbia. All intorno regna quiete perfetta, non si vede un uc- cello, non si ode la voce di alcun animale; il silenzio è interrotto solamente dalla colonna di fumo che esce dal Bromo, o dalla polvere che il vento solleva nel lago di sabbia. LEO ARA Dall’altro lato del Dasar, precisamente di fronte, alla distanza di 2 '/ miglia vedesi la valle di fessura gia prima accennata, che a nord-est interrompe le pareti circondanti il lago di sabbia; si vede inoltre il basso argine trasversale G. Tyjemorro lawang, che cade erto verso il Dasar, chiudendolo dalla parte della valle di fessura. Attraverso a questa fessura si vede il cono fu- mante di un vulcano attivo, il Gunung Lamongan e volgendo lo sguardo verso: mezzodi, vedesi dietro le alture elevarsi una nube di fumo, che viene dal Gurung Smirn, il vulcano più elevato di Giava, di quest’ iscla interessante, in cui dalle alture di Tenggher, su cui si giri per un'ora, si vedono 7 vulcani, tra cui 5 attivi. Discendiamo nel lago di sabbia, seguendo il sentiero a zig zag lungo la parete quasi verticale. Si osserva dap- prima, che la parete consta di strati, che all’ infuori seguendo la configurazione del terreno, s' inclinano dolce- mente al massimo di 20 gradi, mentre verso l’ interno, cioè verso il Dasar, le testate degli strati sono troncate repen- temente, e poste le une sopra le altre a foggia di terrazza. Cenere alta più che una palma, frammenti di lava, bombe, lapilli trovansi su tutti i risalti e le sporgenze; sono questi prodotti di recenti eruzioni del Bromo, che ricoprono in parte le testate degli strati. Nella parte superiore delle pareti gli strati constano di sabbie, ce- neri, tufi colorati di verde, giallo, rosso, bruno e grigio; a metà dell’altezza troviamo solo lapilli e pomice, costi- tuenti strati interi, ed uno strato di ossidiana; inferior- mente compariscono di nuovo i tufi, con bombe, lapilli e ceneri. Gli strati superiori quindi, probabilmente nella terza parte superiore almeno constano di cenere, di sabbia e dei tufi che ne derivarono, mentre ia parte inferiore sembra costrutta principalmente di lava, come ce lo di- mostra l’ ossidiana; le testate degli strati ci sono in gran parte inacessibili, perchè coperte da muovi prodotti. e pigra Discendendo lungo la parete raccolsi degli assaggi che cito nell'ordine stesso in cui si succedono dall’ alto in basso. In alto troviamo le seguenti roccie che più o meno agiscono sull’ ago magnetico: | 1) un tufo grigio verdastro, affine al tufo palagonite, 2) strati di cenere, sabbiosi, grigio-verdastri, 5) tufi giallastri con granetti bianchi di feldispato, 4) strati arenosi grigi. A metà dell’ altezza trovansi: 5) lapilli di pomice grigi o neri, in parte entro tufi; sono più frequenti in basso e fanno passaggio ad uno 6) strato di pezzi di pomice neri della grandezza di un pugno e più. Essi agiscono poco sull’ ago magne- tico. Immediatamente sotto mostrasi uno 7) strato di ossidiana di potenza variabile, for- mato da fascie di ossidiana, tra loro vicine, della lar- ghezza di !/ pollice fino a '/2 piede, tra cui si osservano pezzi di pomice. Le fascie di ossidiana stesse constano di strette striscie di ossidiana vitrea e nera, che alter- nano con striscie di una roccia compatta, opaca, bruna, a modo di matta, in cui si riconoscono singole particelle di feldispato.. L’ ossidiana vitrea è magnetica, la massa appena; la prima si fonde al cannello facilmente dando un vetro nero, la seconda, meno fusibile, dà un vetro bolloso, chiaro o verde di bottiglia. i Più in basso trovansi: S) lapilli di pomice della grandezza di una noce, giallognoli rossastri, formanti uno strato (1), e (1) Queste diverse giaciture della pomice ponno servire a correggere un errore. Nel libro del resto molto pregevole del Fuchs: Die vulkanischen Erscheinun- gen der Erde, 1865, Heidelberg, pag. 211, è detto che il Tenggher produsse bensì dell’ ossidiana, ma mai della pomice. Di questa se ne trova nel Tenggher in parecchi punti, nel luogo citato essa sta in diretto nesso coll’ ossidiana, Questa giacitura era fin’ ora sconosciuta; Junghuhn riscontrò in altre località una lava ossidianica, ma non menziona la vera ossidiana vitrea. 4 9) quasi interamente in basso un tufo verde gial- lognolo con impronte di fusti vegetali, il quale non è magnetico o lo è appena. Queste impronte derivano cer- tamente da piante, che crescevano intorno al cratere, quando un’ eruzione le coperse di cenere, locchè con- ferma l’idea che le testate degli strati inferiori sono ricoperte da recenti formazioni. Aggiungasi inoltre 10) una roccia massiccia, nera, a modo di retinite ( pietra picea), con lucentezza pinguedinosa, facente pro- babilmente passaggio all’ ossidiana e forse affine alla tra- chidolerite di cui più tardi faremo menzione. Trovasi in basso sopra una prominenza in singoli massi, probabil- mente derivanti da uno dei letti inferiori di lava, che sono nascosti sotto a più recenti prodotti. Credo che sia la roccia che Junghuhn accenna sotto il nome di dolerite. Il Dasar privo di vegetazione, coperto di sabbia nera e di ceneri grigie, a cui ora siamo discesi, ci rappre- senta in piccolo un deserto africano. Siccome il giorno prima era caduta della pioggia, la pianura deserta offriva un colore grigio oscuro, quasi nero. Quando il tempo continua ad essere caldo e secco, il vento leva dalla pia-- nura riscaldata delle potenti e fastidiose nubi di polvere e dei turbini di sabbia, da cui noi per fortuna fummo poco molestati; inoltre, come racconta Jungbuhn, offresi talora lo spettacolo della fata morgana. Per dare un'idea approssimativa della grandezza del Dasar col suo distretto eruttivo, noterò le distanze ot- tenute da Junghuhn, secondo il quale il diametro da sud a nord è uguale a 6500 metri, quello da est ad ovest metri 8550. Apparentemente il Dasar è orizzontale, solo da queste misure risulta che è un piano inclinato alquanto verso est, dove è 60 metri circa più basso che all’ovest. Il suo punto più basso elevasi sopra il mare secondo Junghuhn 2098 m., secondo Lukes 2076. La ‘ sua parte più meridionale chiamasi Rudjak. RAD; RENE La sabbia, che copre il Dasar, è fina, d’un grigio scuro e contiene del ferro magnetico, che si può segie- gare colla calamita. Alla superficie giacciono i prodotti eruttivi del Bromo, di varia forma e grandezza, con un diametro perfino di 2 piedi; sono massi di lava o mas- sicci, 0 scoriacei o spugnosi; oppure bombe, oppure per- fette pomici. Il loro colore è quasi esclusivamente nero e nella massa fondamentale riconoscesi ordinariamente un feldispato triclino. La sabbia consta certamente dello stesso materiale, che costituisce i prodotti di eruzione che giacciono dispersi attorno e dei quali faremo cenno più tardi. Dappertutto noi troviamo dei. singoli pezzi eruttati giacenti sulla sabbia, in nessun luogo continui letti di lava; eccezione fa una sola località nella parte oriertale. Qui sporgono dalla sabbia profonda che tutto ricopre dei piccoli scogli, che esternamente sono rivestiti di una crosta rossastra, il prodotto della decomposizione, ma che all’interno si manifestano composti di lava nera, scoriacea, con interstizii allungati; la massa fondamen- tale consta di feldispato bianco e giallognolo, ed è la stessa roccia che si trova spesso sparsa nel Dasar. Tale fatto conduce alla conclusione, che sotto alle sabbie del Dasar debbasi trovare un antico terreno di lava solida. Il viaggiatore che attraversa il Dasar scorge facilmente il suono vuoto che ode sotto ai suoi piedi, special- mente quando spacca qualche pietra; tale suono dai Giavanesi è chiamato Rimbombo ed è evidente spe- cialmente nei punti ove sorgono le sporgenze di lava. Si sarebbe quasi tentati a supporre, che si si trova sopra un volto internamente vuoto. La via lunga quasi un’ ora, che dal margine del cratere attraversando il Dasar, conduce al piede dell’ at- tivo Bromo, passa innanzi al Gunung Batok (1), alto (1) Junghuhn scrive Batuk, ma credo più giusto serivere Batok, che sigm- fica guscio di cocco, 2400 m. sopra il livello del mare, e costituente un cono isolato che sorge arditamente e che attira particolar- mente lo sguardo del viaggiatore. Rassomiglia, come fu detto, ad un pane troncato di zucchero e i solchi che discendono dal suo apice, gli danno l’ aspetto .di essere regolarmente solcato. E mentre in massima parte è co- perto di cespugli e di casuarine, vedonsi in parte di- scendere dei tratti grigi e nudi; esso sembra di essere costrutto di semplice sabbia. Anche gli altri tre monti eruttivi constano solamente di sabbia e ceneri; certo si è che nè nei loro crateri, nè nelle profonde fessure si scopre altra cosa all’ infuori di sabbia. Essi stanno l'uno presso l’altro sopra una linea che da sud-ovest va verso nord-est e non offrono la forma ardita, co- nita, del Batok, ma assumono l'aspetto di ingenti ed allungati mucchi di sabbia. Ciascuno di questi monti porta. sull’apice un profondo cratere. È estinto il più meridionale, che è il più alto e più esteso, il Wido- darin; l'orlo del suo cratere raggiunge la massima altezza nella punta Kembang di 2589 m.; è inoltre estinto il monte medio Segorowedi; entrambi sono esternamente coperti di vegetazione. È invece attivo, come fu detto, il Gunung Bromo, il più piccolo e più basso, posto a nord degli altri; il margine del suo cratere raggiunge un'altezza di 2298 m. Esso solo è completa- mente sterile e di colore grigio bruno per le ceneri che coprono la sua superficie. Lasciamo al piede del Bromo sotto apposito tetto i cavalli ed ascendiamo al cratere, al quale mette un sen- tiero. Dapprima si passa sopra ammassi di cenere, nei quali si sprofonda fino alle noci dei piedi, se si abban- dona il sentiero calcato. H monte, solcato come il Batok ma meno regolarmente, si ascende più faticosamente che non sembri a prima vista. Col mezzo di travi, che gli abitanti del Tenggher applicarono a mo’ di scala sopra SLI una delle coste, si agevola la salita. La superficie consta di una solida corteccia di ceneri di colore bruno ros-. sastro o bruno giallastro; le quali furono rese solide probabilmente dalle pioggie. Sopra la medesima trovasi generalmente una sabbia nera, simile affatto a quella del Dasar. Il color bruno della cenere non toglie l im- pressione generale, che fa comparire dalla distanza il Bromo quasi nero. Oltre la sabbia nera scorgonsi quà e la molti lapilli e bombe, composti ordinariamente della stessa lava nera con feldispato bianco che riscontrasi nel Dasar; rare volte questi prodotti sono rossi o grigi. Il margine del cratere forma una costa abbastanza affilata, che, con molti scogli, gira attorno al cratere circolare od elittico, raggiungendo la massima altezza verso mezzodì. Al nord, dove dapprima giungiamo, l’al- tezza ascende a 2298 m. sul mare, ossia circa 220 m. sul livello medio del Dasar. Il girare sul margine del cratere produce la vertigine, tanto più che vi si unisce il sentimento di camminare sopra sabbia e ceneri sciolte e minaccia il pericolo di precipitare nell’abisso se qual- che frammento di roccia sì stacca. Tuttavia il pericolo non è tale quale apparisce a tutta prima per la circostanza che la corteccia di ceneri è discretamente solida; ciò non ostante i Tenggheriani che presi meco, non mi segui- vano che pieni di timore ed il domestico che venne meco da Surabaya e che non avea mai visto un vulcano, era per paura inetto per ogni lavoro. Verso l'interno il cratere discende repentemente, con 50, 60 e più gradi, in alcuni punti verticalmente, fino al piano del cra- tere, ossia ad una profondità di 180 m. All’ esterno l inclinazione è minore, raggiunge tuttavia in parecchi punti 50°. È impossibile di giungere fino al piano del cratere, essendo però la sua distanza non molto grande, si può osservare ogni cosa dall’ alto. Junghuhn calcolò nel 1844 il massimo diametro del margine del a nelle cratere da ovest ad est di 583 m. e tale misura era esatta anche nel 1858, avendo il cratere, non ostante la piccola eruzione del marzo, mantenuta, come credo, nel complesso la sua forma. Dal fondo del cratere escono dei vapori, in alcuni punti con grande veemenza e qui le pareti sono coperte di affioramenti di solfo, come si riscontra prin- cipalmente al lato settentrionale, verticalmente sotto ai nostri piedi, dove da un'apertura quadrangolare, larga 6 — 7 m. esce violentemente del vapore. La bocca principale però trovasi al lato orientale, dove con con- tinuo soffio e fischio esce incessantemente una colonna verticale di fumo e vapore, che solo a ragguardevole altezza si distende, in prova della forza che caccia fuori quei prodotti. Di quando in quando, lorchè un colpo di vento devia il famo dalla sua direzione normale, è visi- bile una voragine inesplorabile del diametro di circa 18 — 20 m,, da cui esce la colonna di fumo. Il piano del cratere, che come fu detto trovasi a 180 m. più profondo dell’ orlo settentrionale, dunque all'incirca al livello del Dasar, è un piano orizzontale quasi circolare, a mio giudizio del diametro di appena 200 passi, coperto di ceneri e sabbia. Sul medesimo non. si trovano delle fumarole, ne gli sfuggono dei vapori, ciò che avviene solo alla periferia solcata ed ordinariamente affatto appresso alle pareti del cratere, trovandosi non solo la suddetta bocca quadrangolare, ma anche la bocca principale orientale posta nella periferia. Nel piano si ammassarono sabbie, ceneri e lapilli fino all’ altezza di parecchi metri, rappresentanti un cono incipiente che sta formandosi dalla periferia. La fig. IH, 6 della tav. V. rappresenta una sezione da est ad ovest attraverso il cratere colla bocca principale. La pendenza meno ripida dal lato occidentale non trovasi negli altri versanti, per cui una sezione da nord a sud offrirebbe dappertutto le stesse ripide pareti crateriche, quali sono disegnate al e versante orientale. Non vidi mai delle fiamme ed. il fumo reca poco affanno e sembra formato quasi sola- mente da vapori acquei, essendo l’ odore di acido solfo- roso assal debole. Accenno ad alcuni prodotti di eruzione da me rac- colti sul Bromo e nel Dasar. Non posso entrare in una esatta disamina dei saggi, trovandosi questi in Germania; mi limito dunque a comunicare le osservazioni da me fatte prima d’ ora. Sono le seguenti roccie, che facciamo seguire alle precedenti. S Provengono dal Bromo: I 11) cenere sabbiosa, bruna rossastra, magnetica, che sembra costituire la massima parte del Bromo. Indu- rita costituisce la corteccia esterna di questo vulcano, 12) sabbia nera con grani bianchi di feldispato, contenente ferro magnetico (Scoriaceo? ) che si può estrarre colla calamita. Giace sparsa sulla cenere sab- biosa del n.î° 11, proveniente probabilmente dalla degra- dazione della lava porosa; cioè dalla, 15) lava scoriacea, spugnosa, d’aspetto della po- mice, che è nera con grani di feldispato bianco triclino, magnetica. Giace sparsa dovunque ed è, credo, il pro- dotto di una recentissima eruzione, 14) scorie schistose ondulate come fuse, nere, di lucentezza serica, di struttura che da compatta passa alla bollosa, con feldispato bianco triclino, magnetiche. Trovansi anche queste sparse dovunque e costituiscono le roccie addotte da Junghuhn al n."° 72 e chiamate dallo stesso porfido feldispatico scoriaceo affine all’ ossidiana, 15) lava compatta nera, con molto feldispato bianco triclino, a struttura porfiroide: possede molti pori finis- simi, ha lucentezza vitrea ed è eminentemente magnetica. Costituisce dei massi che giacciono sul margine del cra- tere; le roccie dei n." 15 e 14 ne sono, come credo, 1 prodotti, a seconda che la struttura divenne scoriacea sue oppure porosa. Sembra la roccia del n.° 71 di Junghuhn, che chiama lava porfiroide feldispatica simile all’ ossidiana. 16) lava bruno nerastra, con molti feldispati bianchi triclini; senza lucentezza, fortemente magnetica. Rinviensi in massi sul margine del cratere. 17) lava compatta grigia -chiara, con molto feldi- spato bianco triclino; senza lucentezza, assai magnetica. Trovasi in massi sul margine del cratere. Provengono dal Dasar: 18) sabbia grigia-nera, simile a quella del n.î° 12, dalla quale differisce perchè i grani feldispatici sono più rari. E questa la sabbia comune del Dasar. 19) lava compatta nera con molto feldispato bianco triclino, iridescente, assai magnetica. Comune in massi e frammenti. È (robabilmenta una varietà di quella del n.° 15. 20) lava nera; scoriacea, facente passaggio alla bol- losa ed alla pomice; contiene feldispato bianco triclino, è magnetica. E quella del n.° 19 modificata, addotta da Junghuhn ‘al n.° 72. 21) scoria compatta nera, fibrosa contorta, colorata in rosso sulle faccie fibrose, magnetica. Trovasi nel piano infimo delle pareti del gran cratere, dal lato del Tosari. 22) lava compattissima, omogenea, nera, magnetica. È una bomba. Della località della (necedenio, Ss’ idocostà al n.° 10 e corrisponde forse al n.° 553 del Junghuhn, che chiama dolerite. 25) Bomba di lava grigia chiara, compatta, gra- nulosa, con corteccia esterna rossa. E poco magnetica; è rara nel Dasar; è forse la stessa del n.° 19 trasfor- mata da vapori acidi. 24) Bomba grigia biancastra con grani bianchi feldispatici e corteccia esterna grigia-rossastra forse per decomposizione. Non è magnetica e manda odore d'’ ar- senico al canello. E rara nel Dasar. PM 7 (VOI 25) Roccia grigia, semidecomposta, pisolitica, costi- tuita di piccoli grani grigi, magnetici, assai rara. È forse ossidiana decomposta sferolitica. | In quasi tutte le roccie il feldispato si riconosce con sicurezza quale triclino dalle striature gemelle; il Sani- dino manca sempre. L’ esatta determinazione del feldi- spato stesso ben difficilmente si può fare altrimenti che coll’ analisi chimica; questa sola inoltre può informarci intorno alla composizione della massa fondamentale. Se- condo che il feldispato è oligoclasio oppure anortite, le lave saranno trachitiche o basaltiche. Il colore quasi esclusivamente nero, la forte azione sulla calamita deter- minata dalla presenza di magnetite mi indurrebbero assolutamente di collocarle tra le lave basaltiche, se la presenza dell’ossidiana non militasse per la loro posi- zione tra le lave trachitiche. Junghuhn chiama queste roccie in parte lave ossidianiche. Devesi pensare, che le lave di epoche diverse siano di natura diversa e conten- gano varii feldispati, in guisa che il Tenggher in un tempo abbia prodotto lave basaltiche, ed in un altro lave trachitiche? Ciò sarebbe ben possibile, ma anche in tal caso non risguarderei queste ultime roccie pei loro caratteri come vere lave trachitiche, sibbene come tra- chidoleritiche. Dissi più sopra che il Dasar è affatto privo di vege- tazione; ma si noti che tale espressione non è del tutto esatta, giacchè specialmente nella parte meridionale, dove le acque talora si fermano, vegetano alcune piante. Zollinger annovera le seguenti: una specie di Imperata, Festuca nubigena, Artemisia indica; dietro i sassi trovasi Senecio pyrophylla, Echinospermum javanicum, Polygo- num corymbosum, una specie di Hypericum, Pentachon- dra javanica, Selliguea Fei. Nel 1844 Zollinger non trovò presso al medio cratere Segorowedi le Casuarine che si mostrano solo presso il Batok ed il Widodarin. Il Sego- _-— rowedi dunque sì estinse più tardi che questi due monti, oppure venne in un tempo posteriore devastato da eru- zioni del Bromio. Zollinger fece tagliare una acacia morta ( Acacia vulcanica ) che trovavasi colà e contò sul tronco del diametro di 0,55 m. con fatica 36 anelli. Ne infe- risce, che, supposto morto l albero da 4 anni e ‘perciò vecchio di 40 anni, il Segorowedi dovesse essere stato tranquillo da 50 anni in addietro, essendo necessarii almeno 10 anni prima che quest acacia si stabilisca sopra terreno vulcanico recente. Sembra che le eruzioni del Bromo e del Widodarin abbiano avuto luogo special- mente nella direzione nord-est, poichè sul versante me- ridionale le casuarine si estendono più in alto che sul settentrionale. Janghuhn racconta rispetto al Batok, che nel. 1858 solo nelle infime regioni esistevano delle ca- suarine, elevandosi queste soltanto in sottili striscie verso la cima, essendo sterile il rimanente della vetta del monte; mentre nel 1844 tutto il monte fino quasi all’ apice era coperto da una selva, cosa che io stesso potei osservare. In ogni modo le eruzioni del Bromo dal 1858 in poi non danneggiarono la vegetazione. Le pareti che circondano il Dasar non sono do-. vunque di uguale altezza; esse raggiungono la massima altezza a nord-est e precisamente i due punti più ele- vati trovansi là, dove la fessura trasversale interrompe le pareti, poichè al nord di questa fessura trovasi il Gunung Penanjain alto 2500 m., al sud il G. Budo lem- bung alto 2650 m. L'orlo ha la sua minima altezza all’ovest, quasi in faccia alla fessura trasversale, dove le pareti si ritirano alquanto e dove il Dasar s’ inoltra a guisa di stretto golfo. Si ponno dunque distinguere due parti della parete del gran cratere l’ una settentrionale dal golfo occi- dentale sino al G. Penanjain, formante un arco della lunghezza di circa 2 !/ miglia; l'altra meridionale fino al G. Budo lembung, lunga 5 buone miglia, semicirco- ngi lare, portante il nome di Ider-Ider. Si può calcolare la media altezza dell’ orlo del gran cratere. a 2350 m. sul mare e 280 m. sopra il punto più basso del Dasar, mentre presso il Penanjaîn si eleva sopra questo di 400 m. e presso il Budo lembung di 500 m. ll detto orlo è quasi dappertutto ugualmente ed anche più ripido che dal lato del Tosari dove l’ abbiamo osservato ‘da principio e consta, come qui, di testate di strati poste le une sopra le altre a guisa di terrazza. Le pareti ripide non circondano però il Dasar come un muro, ma risaltano frequentemente con spigoli taglienti. Questi risalti, coperti di sabbia, di ceneri e di lapilli, in parte costituiti di questi materiali costituiscono delle falde poste |’ una dietro l’altra che si estendono dalla vetta sino in basso al Dasar. Le roccie che compongono le pareti del gran cratere, abbiamo in parte imparato a conoscere discendendo da Tosari. In parecchi punti, dove le testate degli strati coperte da recenti prodotti non si sottraggono all’ osserva- zione, trovasi una roccia grigia, compatta, a grana fina, trachidoleritica o andesitica, con o senza cavità nell’ in- terno, contenente molto feldispato bianco triclino e talora distintamente con un po di orniblenda; simile roccia ri- scontreremo nella fessura trasversale. Janghuhn fa notare la sua presenza anche negli strati superiori dell’ Ider-]1der e sarebbe interessante conoscere esattamente l'altezza di tale giacitura, poichè forse anche là una parte degli strati superiori ebbe origine da letti di lava, come credo supponga Junghuhn. La larghezza della fessura trasversale tra il piede del G. Penanjain e quello del G. Budo lembung conta 4300 m. In questo tratto il Dasar è chiuso dall’ argine Gunung Tjemorro lawang, il quale avendo una media altezza di 2260 m. sul mare o 200 m. sul Dasar, s' in- = 60 = clina verso quest’ ultimo (1). Siccome dunque il Dasar è chiuso da tutte le parti, le acque piovane devono rac- cogliersi nel medesimo; se ciò non avviene, non lo pos- siamo attribuire unicamente alla forte evaporazione che si effettua sopra il piano sabbioso oscuro riscaldato. Le acque devono sprofondarsi in fessure invisibili dell’an- tico piano del cratere; da queste escono poi in parte per nutrire i torrenti che sboccano dai versanti esterni: del Tenggher, in parte entrano nell’ interno affuocato del vulcano per uscire dal cratere come colonne di va- \pore o per promuovere nuove eruzioni ed esplosioni. Dall’altezza dell’ argine si ofire una vista simile alla gia descritta che si gode sulla cima del giogo del Tosari, questa però non è sì imponente, ma reca invece il van- taggio della ‘ minore altezza e di lasciar vedere gli og- getti più distintamente. La tav. 4.* dà il prospetto da me descritto. In vicinanza si vede il Bromo fumante e nudo, dietro ad esso ed alla sinistra presso il medesimo scorgesi il Segorowedì, più indietro ancora ed alla destra il Widodarin colla vetta Kembang, più alla destra di questo ma più in avanti il cono del Batok. Alla sini- stra nell’ estremo oriente, vedesi il ripido orlo detto - Ider-Ider colle testate degli strati; mentre alla de- stra, verso ovest, si scorge la parete del gran cratere e il giogo del Tosari. La striscia di ossidiana è fatta risaltare nel disegno, quantunque per la distanza non sia discernibile. Sono notati a dritta 1 risalti sopra descritti a falde. Il fumo che si eleva alla sinistra sopra il Segorowedi, proviene dal lontano Smèru. Questo di- segno insieme coi profili delle sezioni rappresentati dalle fig. I. e II. della tav. 5.° potranno dare una chiara idea del Tenggher. Il profilo 1 è alquanto immaginario, siccome v’ entrano in prospettiva i coni eruttivi che (1) Nella tav. V, fig. 2.9 invece dell’ altezza di 2200 metri leggasi 2260. Più sotto nella indicazione della scala invece di 2260 leggasi 4000. ED piper non cadono nella linea di sezione; nel profilo 2 la linea di sezione passa per questi coni stessi; i numeri aggiun- tivi danno le altezze sul livello del mare. Le roccie dell’argine trasversale, che dal lato ripido rivolto verso il Dasar mostra pure le testate rotte degli strati, sono, ove poteronsi osservare, generalmente le roccie trachidoleritiche grigie, ricche di feldispato che abbiamo accennate e vi si notano 1 ripidi risalti a falde; questi possono essere accuratamente osservati e ponno essere riconosciuti per risalti di roccie solide coperte da prodotti di recenti eruzioni, rappresentanti gli spigoli prominenti ed erti delle pareti superstiti dell’antico orlo del cratere, dei quali una parte rivolta verso il Dasar, andò dirupata. Così sono spiegati gli analoghi risalti delle alte pareti del gran cratere, ed è na- turale che principalmente questi siano copiosamente co- perti di sabbia, cenere e lapilli; giachè il dirupamento degli strati inferiori fa cadere in basso gli ammassi supe- riori e mobili e li ammucchia sugli spigoli superstiti, sui quali più recenti eruzioni versano poi nuovi materiali. AU infuori, verso la fessura della valle, il G. Tje- morro lavang si appiana dcicemente, avendo una inclina- zione di al più 15 — 20°; anche qui gli strati mobili su- periori di sabbia, di lapilli e specialmente di ceneri danno un terreno assai fertile; qui pure osserviamo i profondi solchi di erosione che abbiamo visto sul versante esterno del Tenggher. Questi solchi incominciano sempre alquanto sotto alla costa quasi retia dell’ argine, sono dapprima leg- geri e solo più in basso si sprofondano maggiormente. Essi formano molte fessure fra loro parallele pei torrenti che con- ducono talora dell’ acqua e più in basso si riuniscono per formare il torrente Prau. Le coste, cui danno luogo i sud- detti solchi, sono qui pure sì strette da non esservi luogo .che per un sentiero e discendendo sopra una di queste co- ste si giunge ai paesi poco discosti l’ uno dall’ altro Ngadi- cu gi e sari e Wonosari, tra cui il primo secondo Zollinger trovasi all'altezza di 1920 m. e va adorno di un giardino dema- niale. La coltura degli erbaggi è qui assai praticata e i pic- coli campi si estendono molto in alto sui pendii del monte. Non ostante la giacitura più elevata del luogo di fronte al Tosari p. e. che giace più in basso di quasi 150 m. le pesche sono migliori e più mature che su questo, locchè devesi attribuire alla posizione, essendo quel luogo da tutte le parti circondato da monti, formanti un bacino. Questo che in alto è largo 2!/ miglia si restringe più in basso, alla distanza di circa 2 miglia e si trasforma nel solco pel torrente Kali Prau, che si estende in basso, largo appena 1500 m., come una pro- fonda fessura tagliata nel versante esterno del Tenggher. Tale restringimento non avviene gradatamente; ma nella parte superiore della valle la larghezza è stazionaria, giacchè le pareti al nord e al sud camminano nella stessa maniera come la dove rinserrano il Dasar. Al I’ incirca 1 !/ miglio sotto all’ argine trasversale la pa- rete settentrionale si volge repentemente al sud con angolo acuto, fino alla vetta del Gunung Ringghit, che, quasi ultima colonna, si trova nel sito in cui prende- origine la vera fessura torrenziale. In tal guisa la parte superiore della valle costituisce un ambiente largo 2 !/ miglia, lungo 1! miglio, solcato da torrenti, circo- scritto da monti elevati, contenente i villaggi suddetti. Le pareti dei monti che chiudono il bacino non sono in modo alcuno diverse dalla parete del Dasar, non man- cano nemmeno i risalti a falde, che spiccano erti, lisci ed acuti specialmente sulla parete meridionale. Si ponno dunque riguardare queste pareti come una continuazione di quelle che cingono il gran cratere, il quale una volta abbracciava anche questa parte superiore della valle. Notevoli sono le sporgenze a terrazza del fondo della valle, non solo nella parte superiore di questa, ma anche nell’ inferiore, in guisa che perfino le coste finiscono con simili terrazze. É ciò indicato nel profilo Il. tav. 5, il villaggio Ngadisari trovandosi verso il mar- gine di una terrazza superiore, mentre sopra una più bassa successiva trovasi il vicino Wonosari. A maggiori inter- valli ripetesi la formazione di queste terrazze lungo tutta la valle e queste ponno riguardarsi come le parti inferiori di parecchi strati vulcanici appartenenti a diverse eru- zioni. Le roccie in sito trovansi anche qui solo nel fondo delle fessure torrenziali. Circa 2 miglia sotto Ngadisari trovai queste roccie che faccio seguire alle già accennate. 26) Inferiormente una roccia grigia compatta in sito piena di granetti feldispatici bianchi non esattamente de- terminati, fortemente magnetica. È la stessa roccia che in parecchie varietà osservasi neli’ argine trasversale e nelle pareti. del cratere e che certamente costituisce lo sche- letro del vulcano. Si può essere in dubbio, se si debba annoverare questa roccia tra le lave, oppure se sia una roccia più antica, quest ultima idea mi sembra la più probabile. L'intero aspetto di questa roccia è quello di una dolerite trachitica od andesite (andesite pirossenica ) e crederei di doverla risguardare come tale se Iò studio esatto del feldispato ce lo rivelasse un oligoclasio. 27) Al disopra giace una roccia consimile bruna nerastra, in cui si manifesta il feldispato bianco triclino. È una varietà della precedente. Queste roccie sono coperte da potenti strati di sabbia, di lapilli e di ceneri; immediatamente sopra esse però trovaronsi dei massi sì grandi, che non poterono essere gettati fino la da una eruzione, ma devono riferirsi a strati superiori che probabilmente esistono in vicinanza. Sarebbero forse avanzi di antichi leiti di lava, simili a quelli cui oggidi da origine il Lamongan? Queste roccie sono: Mi n 28) una lava compatta nera con feldispato bianco talora rossastro, triclino, fortemente magnetica. Nelle pic- cole cavità ed intorno A feldispato si colora frequente- mente in rosso, segno di incipiente trasformazione. È sì dura che solo con gran fatica se ne poteva staccare un pezzo coll’ aiuto del martello. 29) una lava assai compatta bruna rossastra con feldispato bianco triclino in tal copia, che la roccia di- venta porfiroide; 1 grani feldispatici hanno talora la grandezza di piselli; rinviensi talora inoltre dell’ augite. Agisce in certi punti sull’ago calamitato. È affine alla pre- cedente ed alla roccia del n.° 15 (1). Da qui innanzi nella fessura del Kali Prau trovasi solo la roccia grigia del n.° 26 in parecchie varietà. È questa la roccia più antica del Tenggher, mentre le lave nere coll’ ossidiana, appartenenti di o più re- cente, non si trovano che molto in alto. Nella fessura del ioinca.o però, molto in basso, al disotto del villaggio Sukapura, circa 5 miglia da Nodi ni ricompariscono repentemente massi e bombe di 30) lava compatta bruna nerastra con feldispato bianco triclino, più o meno scoriacea; è perfettamente. la lava del Dasar. Sarebbe mai qui avvenuta una eru- (1) Questa memoria era già scritta ed in parte stampata, quando ebbi una lettera dal chiar. prof, Kenngott di Zurigo, che dietro mia richiesta fattagli da qui ebbe la gentilezza di esaminare il feldispato della roccia del N.° 29. Il prof. Kenngott mi scrive quanto segue. « Devo dichiarare il feldispato bianco come anortite. La roccia che è difficile a classificarsi è un porfido afanitico ( Aphanit- porphyr ); se è di origine piuttosto recente potrà dirsi porfido basaltico. Oltre all’ anortite scorgonsi poco distintamente sviluppati individui di augite. Certi punti agiscono sull’ ago calamitato, dinotanti la presenza di magnetite, Il colo- ramento in rosso va attribuito ad un cambiamento già incominciato della massa fondamentale ». Con ciò è stabilito che molte lave del Tenggher devonsi certa- mente classare come lava tefrina, Studio più accurato richiedono specialmente le roccie dei nn. 26 e 27, che come-più antiche costituiscono il nucleo del monte, che a seconda della presenza di oligoclasio o di anortite sono da deno- minarsi trachidoleriti o roccie anortitiche, Stando all’ aspetto generale le conto provvisoriamente fra le Erachidoleriti. Lg e zione laterale o devesi credere che qui non vi sia una precisa serie di roccie a seconda dell'età? La prima opinione è tanto più probabile, giacchè da Sukapura si vede verso sud-est un piccolo cono posto sul pendio del monte, il quale potrebbe esser benissimo un cono formato da una eruzione laterale. Deploro che il breve tempo di cui disponeva, mi rendesse impossibile il visi- tarlo. Sukapura giace 880 m. sopra il mare, dunque 1200 m. sotto il livello del Dasar. Janghuhn fa men- zione di un simile fatto riscontrato sul pendio nord-ovest del Tenggher, trovandosi presso Desa Gherbo una roccia compatta e nera, che chiama basalto e che riferisce ad una eruzione laterale. Non si conoscono eruzioni del Tenggher e nemmeno cambiamenti del suo grande cratere nel tempo storico, ed è certo che l’ epoca dell’ attività di questo cratere è assai rimota e risale al periodo pliocenico e forse miocenico. All'epoca della distruzione del grande regno degli Indu di: Modjapait nel 1478 il Tenggher avea da lungo tempo l’attuale sua configurazione e tutti i suoi coni eruttivi e Herwerden ci racconta che il Bromo era coperto di vegetazione. Tutto ciò che noi sappiamo delle eruzioni del Tenggher, si limita al Bromo; 1 dati sicuri si rife- riscono al secolo attuale, in cui venne esplorato dagli Europei. Tutte le eruzioni del Bromo durante il tempo storico devono essere state molto insignificanti; se fosse avvenuta qualche eruzione devastatrice, di cui altri vul- cani della Giava ci offrono esempi, il popolo ne avrebbe conservata la memoria. À giudicare da quanto il Bromo offerse nel secolo attuale, egli deve aver avuto lunghi periodi di quiete perfetta, mentre durante altri escivano continuamente fumo e colonne di vapore ed ebbero luogo delle eruzioni, in cui furono eruttate bombe, lapilli e sopra tutto ceneri, eruzioni accompagnate da rumore sotterraneo. Il Bromo non eruttò mai torrenti di lava 8) MATO A locchè accenna alla sua origine relalivamente recente. giacchè, com’ è noto, siffaiti torrenti. peil isola di Giava datano dal tempo preistorico. Junghahn ha rae- colto in gran parte le notizie che si riferiscono alle eruzioni del Bromo fino al 1843 e nota come anui di eruzione i seguenti: 1804, 1822-25, 1829, 1850; 1842, 1845, cui devonsi aggiungere gli anni 1853 e 1859. Du- rante queste eruzioni la cenere veniva gettata talora fino alla distanza di 25 e perfino 40 miglia e più. Una delle più importanti eruzioni deve essere siata quella del 1829. Il giornale Java Courant del 19 novembre 1829 riferisce quanto segue: » sabato si udirono parecchi tuoni; dom:e- nica li 8 verso mezz ora incominciò a Malang, discosta 23 miglia, una pioggia di ceneri e di lapilli, in guisa che dalia casa del Residente noa si poteva vedere quella attigua del Reggente. Alberi, case, animali, ogni cosa venne coperta da ceneri e l'acqua dei fiumi divenne inbevibile. A Glagodovo al piede del Tenggher si do- vettero accendere i lumi a mezzodi, il sole era offuscato e tutto compariva come a chiaro di luna. Verso sera ie ceneri si diressero verso nord, così verso Passaruan, dove ne cadde gran copia, cosicché il sole compariva infuo- cato e grigia Varia ». Nel 1393 ebbero luogo due piccole eruzioni, l una li 4 marzo, prima della mia visita, V alira li 18 ottobre pochi giorni dopo la mia visita. Secondo il Passaruaù Niews. Advert. Biaad la prima eruzione fu preceduta da forte rumore sotterraneo; il 3.° giorno ascendevano nubi dense di fumo cou singole pietre, il 4.° di scomparivano le nubi di fumo per dar luogo a copia immensa di pietre che con continui tuoni venivano lanciate fino alla di- stanza di oltre '/ miglio. Poi escivano rubi bianche e gialle. Alla distanza di 3 miglia si poteva udire benis- simo il rumore sotterraneo. Come fu già detto, a Tosari distante S miglia cadeva la cenere fino all'altezza di 5 pollici da terra. ET Rot Rispetto all'eruzione del 18 ottobre 1858 lo stesso giornale dice, ch’ essa fu preceduta da rumore sotter- raneo, che molte pietre furono eruttate e che si senti- rono dei terremoti. intorno all’ eruzione del 27 gennaio 1859 potei sa- pere solamente, che la cenere giunse fino a Surabaya e all isola Madura, adunque alla distanza di 45 miglia, probabilmente in seguito al vento che dominava di sud-est. E notevole che tutte queste eruzioni cambiarono assai poco la forma totale del Bromo. Jurgbuhn che vide il monte nel 1858 e poi nel 1844, non Lo l eruzione del 1842 lo trovò appena cambiato nei suo coniorno, e nel 4858 io trovai la descrizione del Junghubn ancora perfettamente esatta. Diversa è la cosa rispetto all’ imbuto del cratere. Nella tav. V, fig. 5.8 vedonsi rappresentati i suoi cambiamenti dal 1858 in poi, con una sezione da est ad ovest, mantenendo nel varii periodi gli stessi con- torni esterni. Aggiungo le seguenti spiegazioni. Nel 1855 il Bromo fui poi subentrò un periodo di quiete; nel luglio del 1358 Fritze e Junghuhn videro nell’ imbuto del cratere un fago profondo e azzurro, senza scorgere fumo o vapore. Le pareti liscie dei cratere si accostavano tra loro fino al lago assai poco e formavano un imbuto quasi cilindrico. Jungbuimn stima la profondità fino al lago almeno di 1300 piedi sotto il margine del cratere, ossia di 880 piedi sotto il Dasar. La superficie del lago era continuamente agitata, vi nuotavano all’ in- torno massi neri di pomice, che però non potevano esser visti distintamente nemmeno col cannocchiale, attesa. la penombra che regnava in basso. Le pareti erano talmente ripide, che bisognava collocarsi sul ventre per guardare in basso sul fondo dell’ imbuto il cui diametro è stimato di 490 piedi (ved. fig. 1). i Nel 1842 il Bromo ebbe repentemente un eruzione e van Îierwerden, che era impiegato a breve distanza, ATL Sch lo frequentò 4 volte durante quell’anno. Secondo il suo rapporto interessante (ved. |. c.), 1’ eruzione inco- minciò li 24 gennaio; venivano lanciati intorno pezzi di lava, vapori solforosi empivano l’aria e il monte rim- bombava pci tuoni continui che duravano giorno e notte. Nel febbraio Herwerden lo visitò e li 19 si trovava sul- l’argine trasversale G. Tjemorro lawang. Ascendevano in gran copia ceneri e nubi di fumo, che, come le pietre lanciate all’ intorno, comparivano infuocate durante la notte e davano uno splendore rossastro alla montagna. Egli contò 3 — 4 esplosioni in un minuto; le pietre eruttate ricadevano in gran parte nel cratere; il rumore assordava e talora rimbombava il fondo. Li 20 non riescì: la prova di ascendere il Bromo a cagion delle pietre che ne‘rotolavano in basso. Li 21 marzo Herwerden visitò nuovamente il Tenggher ed anche a quest’ epoca non era possibile ascendere il Bromo. Il Dasar era coperto di fitto vapore e si sentiva in tutto il vicinato odore di idrogene solforato. Le esplosioni in questo tempo non avvenivano che ogni 3 — 4 minuti, i tuoni però erano più forti e le pietre eruttate più copiose ed innanzi ad ogni esplosione si mostrava sopra I orlo dei cratere uno splendore tremolante. Le pietre venivano lanciate ad im- mensa altezza, erano generalmente tenere, semifuse e ca- dendo a terra assamevano una forma piatta. Esse consoli- davano formando una roccia, che talora era in tutta la massa porosa e specificamente leggera; talora invece solo all’esterno di tale strattura ed internamente dura e com- patta. In aprile Herwerden visitò il monte per la -terza volta e potè salire il Bromo. Egli stimò il nuovo fondo del cratere di un terzo circa della profondità dell’ anteriore livello del lago e lo vide attraversato da fessure radiali, che convergevano verso il centro facendosi più larghe; dalle fessure escivano vapori azzurri chiari, con un ru- more simile al fragore delle onde marine. ll fondo del Le gii eratere consisteva di lava semisolida, la quale poco tempo. prima fu trovata ancor tenera ed elastica da alcuni indi- geni che erano saliti sul monte e che di quando in quando si elevava nel mezzo per lasciar sfuggire vapori e pietre, chiudendosi poi nuovamente. Nel giugno Her- werden visitò il Bromo per la quarta volta; egli trovò sprofondato il fondo di lava colle sue fessure, solo dal lato occidentale era rimasto un margine stretto, della larghezza di circa 10 piedi, semicircolare; la parte rima- nente del fondo si trovava alcune centinaia di piedi più bassa e a maggior profondità che l’antico livello del lago. Nella bocca si vedevano ingenti scogli di lava, e dagli interstizi rivestiti di solfo escivano con fischio dei vapori. Le aperture maggiori trovavansi al lato orientale, dove uscivano i vapori più densi; ma il mas- simo rivestimento di solfo notavasi al lato occidentale, sotto al margine infranto dell’ antico fondo del cra- tere (ved. fig. 2 e 5). i Nel 1844 Junghuhn trovò le pareti del cratere meno ripide che nel 1838; al lato orientale trova- vasi una bocca profonda cilindrica, di circa 200 piedi di diametro, da cui con gran rumore si elevava una colonna di fumo, mentre ad occidente di questa si no- tava un piano rotondo, orizzontale, su cui sembrava che vi fosse stata dell’ acqua che avesse cambiate le ceneri in melma. Anche dal lato occidentale e meridio- nale escono da piccole fessure dei vapori biancastri in piccola quantità. L'intero diametro del fondo del cra- tere, compresa la bocca orientale, è calcolato a 500 piedi (ved. fig. 4). Bleeker frequentò il Bromo nel 1848 ed in allora il fondo del cratere era coperto di acqua, su cui nuotavano scorie di solfo. L'acqua non era profonda e di quando in quando i vapori ne uscivano con cupo rumore. Da fenditure delle pareti del cratere, non molto al dissopra — 70 — del livello dell’acqua, uscivano vapori solforosi e gas accompagnati da fischio (1) (ved. fig. 5). In che stato io ritrovassi il cratere del Bromo li 20 settembre 1858, fu già sopra detto e rimando ora alla fig. 6. TS Negli abitanti del monte Tenggher è invalsa idea, che il Bromo ed il Lamongan che ne dista verso est 22 miglia ed è alto circa 1700 m. alternano nella loro at- tività, cosicchè l'uno sarebbe in riposo, quando l' altro è in eruzione. È vero che ciò si avverò spesse volte, ma si osservò altresi non raramente che entrambi furono attivi alla stessa epoca così negli anni 1842, 1859. Siccome notoriamente i vulcani di Giava si elevarono in massima parte lungo una fessura che va da est ad ovest, siffatto nesso tra due vulcani tanto vicini sarebbe ben possibile. Zollinger trattando delle catene di montagne della Giava orientale annovera realmente il Lamongan come cratere parassitico del Tenggher. Le osservazioni fin’ ora fatte abbracciano uno spazio di tempo troppo breve, per poter pronunciare una fondata cpinione su tale argo- mento. La fessura lungo la quale sono posti i vulcani di” Giava viene variamente aftraversata da fessure corte che vanno da sud a nord, su cui pure si elevano dei vulcani, in guisa che ogni tale fessura ne ha il suo proprio sistema. Su tali fessure dirette da sud a nord noi troviamo i maggiori sollevamenti di terreni in quei punti, dove ha luogo l’ incrociamento colla grande fessura che va da est ad ovest e i vulcani che qui si elevano hanno l'aspetto di essere i più antichi. La direzione della grande fessura orientale - occidentale non è la stessa in tutta l'isola. Dall’ esteso e potente sistema Idjen- Raun nel- l'estremo oriente questa linea segue verso occidente il (1) bragmente cener reis over Java, Tydschr. v. Neertands. Indie 1849. du, if parallelo fino al Tenggher, il quale col Smèru posto a mezzodì ed alto 35740 m. costituisce un grande sistema. Poscia la linea si volta alquanto verso nord, ad un angolo di circa 12 '/ gradi verso l' equatore, fino. alla montagna Dieng, che rappresenta nn sistema di vulcani non meno esteso del Tenggher. Da questo punto la linea procede quasi parallela all’ equatore fino ‘all’ altipiano ricco di vulcani della Reggenza Preanger; poi si biforca in guisa che havvi una serie settentrionale ed una me- ridionale di vulcani. Nel consecutivo corso verso ovest la linea si volge di nuovo a settentrione, passando alla vicina isola di Sumatra. Così noi abbiamo per la Giava centrale ed orientale (facendo astrazione dal sistema dello Idjen-Raun) nei punti di incrociamento specialmente due notevoli e potenti sistemi, quello del Tenggher e quello del Dieng, e sono questi certamente tra 1 vuleani più antichi dell’isola, fra i quali solo più tardi si ele- varono gli altri vulcani sulla fessura orientale-oecidentale. Stimai opportuno per l’ intelligenza del lavoro di dare questi cenni intorno al modo, con cui comprendo i si- stemi dei vulcani della Giava orientale nella loro totalità. L'attività vulcanica del Tenggher oggi non è che un ombra di quanto fu una volta. Sono da lungo tra- scorsi non solo i tempi in cui il vulcano formò il suo nucleo di trachidoleriti, ciocchè avvenne già nell’ epoca terziaria; ma anche quelli in cui eruttò immensi torrenti di lava. E ciò è pure di tutti i vecchi vulcani di Giava, che nel tempo storico non eruttarono torrenti di lava fusa (1), ma tutt'al più le note correnti di pietre oppure (1) Ciò ha già dimostrato Junghuhn ed io aggiungo la segnente osservazione. In una memoria stampata nel 1864 nell’ Jahebuch file Mineralogie del Leonhard jo dimostrai, che il vulcano disfatto Ringhit (che non deve essere conluso colla sopra menzionata vetta di montagna di egual nome ) posto al litorale setten- trionale non ebbe l’ ultima sua eruzione nel 1536 come sostenne Junghuhn, ma che assal prima e probabilmente nel tempo preistorico andò in rovina. Il signor Hageman in Surabaya, in una recente memoria speditami 1’ anno scorso, la cei- «Li 7a e principalmente soli lapilli, sabbie e ceneri, segno evi- dente della diminuzione dell'attività vulcanica in tutta l’ isola. L'attuale attività del Tenggher o piuttosto l’ avanzo della medesima nel Bromo è di sì lieve intensità, che non solo non getta più torrenti di pietre, come fa ancora il suo vicino il Lamongan, ma nemmeno tali masse di sabbie come all’ epoca in cui si costruiva i suoi coni di eruzione. Non si va troppo oltre quando si dice, che il Bromo attuale sarebbe completamente spento, se le acque atmosferiche che si raccolgono nel Dasar non penetras- sero nel suo interno infuocato, producendo di quando in quando delle esplosioni. Tra tutti i vulcani di Giava il più attivo è oggidì il Lamongan, co’ suoi noti torrenti pietre. Esso è più basso del Bromo di 470 m. e questa può essere una delle cause, per cui questo nelle eruzioni si limita ai lapilli, alla sabbia e principalmente alle ceneri, adunque ai prodotti di eruzione più leggeri, diminuendo la manifestazione dell’ attività vulcanica in ragione dell’ altezza del monte, locchè per uno stesso monte almeno è ammissibile. In altro luogo (1) ho di- mostrato, che in tempo relativamente vicino la parte . orientale di Giava si è sollevata e si solleva ancora, e siccome Junghuhn ha provato la stessa cosa rispetto alla cato di sostenere 1’ asserzione dello Junghuha e tra i motivi accennati, che presso Pandji si trovano massi vulcanici dell’ ultima eruzione del Ringhit, i quali con- stano di lava consolidata « una volta liquida », Non indagherò qui, se questi pro- dotti provengano dal Ringhit o da un altro vulcano conosciuto o forse da un vul- cano. piccolo fino ad ora trascurato (simile al Tembro presso Besuki ), noterò solo, che, se le dette correnti di lava fluida provenissero realmente dal Ringhit, ciò sarebbe la prova migliore che questo non sì estinse solo nel 1586, poichè a quest’ epoca nessun vulcano di Giava eruttava più siffatte correnti. Hageman ha peraltro il merito di avere pel primo studiata questa località e m° interessò spe- cialmente la notizia relativa al banco di corallo presso Sampayan, poichè con ciò ci viene recata una nuova prova diretta del sollevamento della Giava orientale, fatto su cui pel primo attirai 1° attenzione. (1) Die Basaltklippe Batu dodo! an Java”s Ostkiiste. Jahrb. f. Mineral. Leonhard u. Geinitz, 1865. N II parte occidentale, devesi ammettere che tutta Giava sta sollevandosi, attualmente però con probabilità più lenta- mente che negli ultimi periodi geologici trascorsi. I vul- cani di Giava hanno dunque oggidìi un’ altezza maggiore che ne’ tempi preistorici, di che devesi tener conto nel giudicare la diminuzione avvenuta della attività vulca- nica, quantunque sia vero d'altra parte, che in generale tale attività s'è diminuita. Che differenza non passa tra il Bromo osservato oggi ed osservato nel tempo in cui il largo lago di sabbia ricettava la lava liquida incan- descente! Tale spettacolo che appena può essere immaginato dalla più ardita fantasia, ofîre attualmente il Kilauea dell’ isola di Sandwich Owaihi. Questo vulcano ci fu reso noto dai viaggiatori inglesi specialmente da Sheppert, e più ancora da Dana, che nel 1844 fu sul luogo colla spedizione americana (1). Questo vulcano ha grandissima rassomiglianza col ‘Tenggher di quel periodo, in cui il Dasar era coperto di lava fiuida. La grandezza del suo cratere ovale è stimata a 15000 piedi (4500 m.) di lunghezza e 7500 piedi (2250 m.) di larghezza; le pareti sono alte circa 1000 piedi (300 m.) e sul fondo trovasi della lava liquida incandescente in continuo bollimento. Talora questa riempie l intero im- menso spazio del cratere, ma ordinariamente è confinata in un grande lago, che viene riferito come lungo 15000 piedi (5950 m.) e largo 4800 piedi (1460 m). La lava nel cratere ondeggia continuamente, ora si eleva ed ora si abbassa repentemente. Il missionario americano Coan descrive un repentino abbassamento nel giugno 1840, in cui nel corso di 5 settimane il livello si abbassò di 400 p. (1209 m.), in seguito ad eruzioni laterali alla distanza di 6 miglia inglesi e di 27 miglia. Il canale (1) Geology of the united states exploring expedition, 1849. Ri AA sotterraneo conducente a questi punti di eruzione era profondo ben 1999 piedi e nella direzione in cui scor- reva sotterraneamente la lava fluida il terreno offriva svariati crepacci, dai quali usciva vapore; in alcune lo- calità il terreno si era elevato di 20 — 50 p. Le pareti cireondanti il cratere si elevano a foggia di terrazza. Nell'anno 1824 viene riferito intorno a tre pareti a ter- razza, tra cui Vinfima era alta 8 — 900 p. (250 m.). Nel 1859 Sheppert trovò ancora queste tre pareti, ma linfima non avea che metà dell’ altezza di prima e nel 1844 Dana non ne vide che 2, la superiore alta 650 p. (198 m.), P inferiore 341. p. (104 m.); quest ultima cir- condava immediatamente il lago di lava fluida. Oltre ai cambiamenti di livello ebbe dunque luogo uno svariato irrompere delle pareti del cratere. Ciò avvenne anche al Tenggher, solo sopra più larga scala; le osservazioni fatte sul Kilauea noi possiamo ri- ferire anche al Tenggher e ci è lecito perciò giudicare, che nel Dasar la lava fluida ora era più alta dell’ argine trasversale, ora e forse in seguito ad eruzioni laterali si abbassava di centinaia di metri, con parziali irruzioni delle pareti del cratere; che in fine sia per diminuzione - generale dell’attività vulcanica, sta per maggior distri- buzione della medesima, la lava si consolidò ad un basso livello formando il fondo dell’odierno Dasar. Se si considera la configurazione del Tenggher, si può essere tentati a credere di avere innanzi a se un vero cratere di sollevamento nel senso di Leopeldo de Buch. Gsservasi la larga montagna a cupola coi suoi strati che cadono da tutti i lati, che sulia vetta porta il gran cra- tere che, come forse niuno al mondo, trovasi regolar- mente circondato da alte pareti e nella cui meta, agglo- merali imtorno alla Bocca, sorgono i coni eruttivi; osser- vansi i Barancos, i solchi scavati sul versante esterno con rara regolarità; notasi in fine la Caldera, la fessura tra- MEi ee sversale orientale, in perfetto accordo colla teoria, in alto più larga e più ristretta in basso, fessura che è accennata anche verso occidente, dove il Dasar s’ innoltra a guisa di golfo, nella cui linea di direzione trovansi i coni eruttivi. Se si osserva la cosa più attentamente. offresi un risultato ben diverso. Gli studì recenti, specialmente quelli di Hartung e Lyell hanno già demolita la base della teoria dei sollevamenti e pochi geologi oggidi se- guono le idee di Leopoldo de Buch e di Elie de Beau- mont. Il ritornare su quest’ argomento trattando del Tenggher può dirsi portar acqua al mare, tanto più che già Junghuhn asserì con esattezza, che in tutta Giava non trovasi un solo cratere di sollevamento. Siccome però la montagna del Tenggher sembra giustificare la suddetta teoria, di cui, secondo qualche autore, per così dire ne offre un modello, credo opportuno di toccare brevemente la questione: Se la teoria dei sollevamenti non fosse applicabile al Tenggher, potrà ben dirsi che essa non trova alcuna applicazione Se esaminiamo dapprima il gran cratere, il Dasar, colle sue pareti ripide, alte e regolari, noi troviamo, che queste constano di tre sorta di roccie, in basso di tra- chidoleriti, al disopra di lava tefrina, ed in cima di recenti prodotti eruttivi di grande potenza, cioè di bombe, di lapilli, di sabbia, di tufi e di ceneri, in gran parte stratificati. Gli ultimi strati sono parte significante delle pareti ed banno contribuito alla formazione del cratere; essi ben difficilmente possono essere stati sollevati a ta'e altezza, mentre possono benissimo essersi accumulati sopra strati sollevati in seguito ad eruzioni imponenti. Gli strati a metà dell'altezza constano di letti di lava, come lo dimostra la striscia di ossidiana che si trova in posizione perfettamente normale, sotto e sopra circondata da masse scoriacee e pomice, e facente passaggio a queste. Questi sono certamente letti di lava Iraboccata, nella loro Tg posizione originaria, che non furono sollevati dopo la consolidazione. Ora non havvi alcun motivo per attribuire agli infimi strati un'altra origine, poichè questi hanno giacitura concordante cogli altri strati, la stessa inclina- zione di questi. E i indubitato, che il Teng ggher si costruì intorno al suo gran di gradatamente coi proprì prodotti. I Barancos, i solchi del versante esterno del monte, sono bensì, come lo richiede la teoria dei crateri di solle- vamento, incisi talora nello spigolo superiore della parete del cratere, per la qual cosa questa in questi punti assunse forma seogliosa; ma nel maggior numero dei casi essi non prendono origine sotto allo spigolo superiore, essendo dapprima superficiali e facendosi più profondi verso il basso. Sono perciò solchi di erosione e quando essi si mostrano sulla cima del cratere, questo non è quale fu originariamente, ma degradato per irruzione. Che la cosa sia realmente tale, ce lo dimostra |’ argine trasversale Tjemorro lawang, che ha lo spigolo superiore intatto, non inciso; egli non è degradato per irruzione e tutti i solchi incominciano sotto allo spigolo superiore. La Caldera ossia la valle di fessura sembra militare. perfettamente in favore della teoria dei sollevamenti, assal più che quella rinomata dell’ isola di Palma, RL questa si allarga in basso, mentre è stretta in alto, ciocchè si cercava di spiegare coll’ aiuto delle erosioni avvenute più tardi. Il Tenggher invece ci offre una valle in alto larga, che si restringe in basso, in armonia colla suddetta teoria. Ma in questa valle trovasi l'argine trasversale G. Tjemorro lawang, che la chiude dalla parte del cratere e che la teoria dei sollevamenti non può in alcun modo spiegare, mentre la spiegazione riesce facile, quando lo si risguardi formato in seguito a correnti di lava traboc- cata. Bisogna pensarsi il cratere cinto originariamente da pareti; in questa cintura non interrotta si formò Se gio per cause determinate una fessura trasversale; poscia sola- mente, prorompendo la lava verso la fessura, ebbe origine l’argine trasversale, superiormente ricoperto da prodotti più recenti. Un repentino abbassamento della lava nel cratere, simile a quello osservato al Kilauea, ha dato origine all’argine, fornito di ripide pareti verso il Dasar e dolcemente inclinato con piani a terrazza verso il basso della valle. Diremo più tardi alcune parole sull’ origine della fessura; io la credo una fessura di sprofondamento, specialmente nella sua parte superiore. Aggiungiamo a queste osservazioni due fatti addotti da Juughuhn e che si riferiscono a tutti i vulcani di Giava, che cioè nessuno (nemmeno il Tenggher) porta o sollevò con se i depositi terziari 0 più recenti, locchè dovrebbe essere avvenuto, se fosse stata sollevata la lava dopo il consolidamento; inoltre che 1 letti di lava, quan- tupque assai diversamente inclinati, sono sempre attra- versati da fessure verticali (come lo si osserva anche nel fenggher), in seguito alla gravità delle correnti di lava consolidantesi, fessure che non potrebbero essere verticali, se i letti di lava fossero stati sollevati dopo il consolidamento di questa. Tutto ciò prova con certezza che il cratere del Tenggher non è cratere di solleva- mento. ma tale che successivamente si formò coi proprì prodotti vulcanici. | Chiudo queste note sul Tenggher con alcune osser- vazioni sull’ origine e lo sviluppo del medesimo. 1) Nel punto di incrociamento della grande fes- sura di est-ovest, su cui giace la maggior parte dei vulcani giavanesi, con quella di nord-sud, che dal Tenggher è diretta allo Smèru, si formò dapprima per successivo tra- boccamento dalla bocca del cratere lo scheletro del monte, composto di trachidolerite (andesite pirossenica ); questa formazione era sottomarina. L° epoca di questa attività vulcanica incipiente risale certamente all’ epoca plioce- nica e forse più indietro. Siccome da quel tempo l'isola si solleva continuamente, devesi tener. conto anche di questo fatio, trattando del graduato sollevamento dei monti. i 2) Dopo che il cratere si era completamente sol- levato sopra il livello del mare, si cambiarono, nelle nuove condizioni, i prodotti vulcanici e le roccie di prima furono in parte sostituite lentamente da roccie ri- fuse del primo periodo, appartenenti principalmente alle lave della serie dei basalti. Di queste continuò a formarsi la parete che cioge il cratere. Dapprima effondevano solamente lave compatte di parecchie varietà, più tardi venivano eruitali prodotti scoriacei, lapilli, sabbie. e ceneri. Durante questo .tempo, come nel Bilavea, il 1 vello della lava fiuida variò ripetutamente, elevandosi tem- poraneamente almeno fino a 3/3 dell'altezza delle attuali pareti che cingono il cratere. in quel tempo il cratere era circondato da un continuo cercliio di pareti e la sua estensione era maggiore cle la odierna del Dasar, spe- cialmente verso est, dalla qual parte poteva benissimo estendersi sino quasi al Ringhit. 5) Durante questo periodo la lava st abbassò re- pentinamente nel cratere di centinaia di metri, sia che. avvenissero eruzioni laterali, sia che la lava trovasse nuovi condotti. sia che a maggiore distanza si formasse un nuovo vulcano, comunicante col cratere del Fenggher, locche potrebbe riferirsi al Lamongan. Questo repentino vuoto formatosi produsse una catastrofe; le pareti che circondavano il cratere andarono in molti punti in ro- vina; verso nord-est rimase fisso un tratto ‘che venne poi ingrandito dalle pareti del cratere direpanti ‘e; così si formò il fondo delia parte superiore detla valle, in cui oggi trovansi i villaggi Ngadisari e Wonosari. Con- temporaneamente si infranse l’intera valle superiore di spaccatura, forse pel fatto, che il canale sotterraneo che SE ORA univa il Tengglier col nuovo vulcano Lamongan. repen- temente vuotato della lava in esso contenuta, si sfondò pel peso del terreno sovrastante. Nella parte superiore la fessura del torrente Prau è in generale diretta da ovest ad est, quantunque non si trovi esattamente nella linea che accenna al Lamongan; nella parte inferiore si volge verso settentrione, ed è qui probabilmente il risul- tato di erosioni posteriori, poichè le acque, elevandosi continuamente l’ isola, si scavarono gradatamente un letto, il più corto che conduce al mare. _4) Dopo la formazione del nuovo vuleano, in seguito a temporaneo o!tturamento del canale di congiunzione, la lava si elevò di nuovo nel Tenggher ed effondendosi sopra i frantumi posti nella fessura trasversale costruì l’'argine G. Tjemorro lawang. L'attività vulcanica, in allora divisa su parecchi punti, non raggiunse nel T'eng- gher l'intensità di prima. Avvennero però continuamente cambiamenti di livello della lava nel cratere, finché, diminuendo sempre più l'attività vulcanica, si consolidò la lava formando il Dasar. 5) Forse il fenggher attraversò un periodo, in cui eruttava torrenti di pietre come lo fa ancor oggidi il Lamongan; i gran massi di lava che trovansi sotto Wonosari ammettono tale spiegazione. In tal caso questo periodo dovrebbe mettersi alla fine del precedente e no è improbabile, che tale fenomeno, durando per qualche tempo, abbia fornito il materiale per ta formazione del nucleo dei coni eruttivi che si elevano sul Dasar. In ogni modo sarebbe cosa assai sorprendente, se questi fossero costituiti di sola sabbia, senza alcun nucleo solido, specialmente trattandosi di coni così ripidi come p. e. lo è il Batok. 6) Venne poi il periodo, in cui il Tenggher, dimi- nuendo sempre l’attività vulcanica, non forniva che fram- menti diversi di lava e sabbia, quest ultima in tal im- ar TR pren mensa quantità, che con essa si formarono i coni eruttivi od almeno si coperse copiosamente il loro nucleo, e si riempì il Dasar, diventando ciò che oggi è, un lago di sabbia. Fra i coni di eruzione il Widodarin non solo è il più elevato, ma anche il più antico e quello che pel primo si spense; segue poi il Segorowedi che è più basso ed in fine il Bromo, l unico attualmente attivo. La for- mazione del Batok cade probabilmente tra quella del Widodarin e quella del Segorowedì. 7) In fine venne il periodo attuale, che Junghuhn con buon termine chiama periodo della cenere, in cui l’attività vulcanica, limitata unicamente. al Bromo, di- venne affatto insignificante. Certamente il Bromo sarebbe entrato nello stadio ultimo di un vulcano attivo, in quello di semplice fumarola, se le acque atmosferiche che di quando in quando filtrano nell’ interno, non producessero delle esplosioni e non fossero Îa causa della continua colonna di fumo che ne esce. | —_—d0è&a—__ = EI. CARATTERI ANOFALEI E RUDIREENTALE IN ORDINE ALL’ ORIGINE DELL UOWMO per GIOVANNI CANESTRINI Chi ammette una speciale creazione dell’ uomo, non può darsi una chiara spiegazione delle affinità che esi- stono tra questo e gli altri mammiferi. Tutti i punti di contatto tra i bimani e gli altri mammali diventano invece evidenti, quando si ammetta la trasformazione delle specie e conseguentemente la discendenza dell’uomo da uno stipite animale. Mentre tutta |’ organizzazione umana milita in favore della origine animale dell’ uomo, hannovi dei éaratter: che accennano in modo speciale a siffatta origine. sono i caratteri anomali ed i caratteri rudimentali che | riscontransi nella nostra specie. È. Caratteri anomali. 1.° Perforazione della fossa olecranica. Cuvier, par- lando della Venere ottentotta, diceva che » la lame gui sépare la fossette cubitale antérieure et la postérieure de Il humérus n° etait pas ossifite: il existe, egli dice. un trou a cet endroit comme dans ! humérus de plu- sieurs Singes, des Chiens et de quelques autres Carnas- siers ». Bory de Saint - Vincent e Desmoulins attribui- 6 — 82 rono a questo carattere tanta importanza che lo cre- dettero buono per la distinzione delle razze umane; ma ben tosto, in seguito a numerose osservazioni, Si conobbe, che la fossa olecranica può essere n tanto nei Negri come negli Europei, che tale foro offre numerosissime gradazioni e che esso talora esiste in un braccio mentre manca nell’ altro. Hollard, nel 1855, ha cercato di indagare il vero significato di tale anomalia e giunse al risultato che il foro olecranico è una conse- guenza dello sviluppo della fossa olecranica e risulta dall’ assottigliamento estremo della parete che separa la suddetta fossa dalla coronoide; il foro indicato dunque è, per così dire, il termine estremo, ma non necessario, di una tendenza 0 di una progressione; e non va posto nel numero delle aperture che rappresertano le traccie di una congiunzione avvenuta di parecchi centri di os- sificazione. Siccome si ha motivo di credere che la per- forazione dell’ estremità dell’ ’omero sia in alcune razze più frequente che in altre e che essa dipenda da certe modificazioni generali dell’ articolazione omero-cubitale; così si è indotti ad attribuire all’ amomalia sopra de- scritta una grande importanza (1). Se si ammette la di- retta creazione dell’ uomo, il significato di quest ano- malia resta oscuro; mentre | ipotesi della discendenza animale ne può dare la seguenie spiegazione. Il proge- nitore comune di tutti i’ mammiferi placentarii posse- deva una fossa olecranica perforata; tale carattere fu conservato pienamente da alcuni suoi discendenti e prova ne sia che alcune specie dei carnivori e dei quadrumani lo posseggono ancora costantemente; in altre specie e tra queste nell’ umana tale carattere andò soggetto a (1) H. Hollard, Note sur le caractère ostéogénique de la perforation qui affecle, dans un grand. nombre de cas, la cloison des fosses olécranienne et coronoide de l’ humérus, Annales des sciences naturelles, IV série, Zoologie, tome Ill, pag. 3f1, 345. Lig variazioni, l’ apertura olecranica divenne sempre più rara e talora scomparve. E notevole che in alcuni casi I’ apertura suddetta si mantenne in una sottospecie 0 razza, mentre scomparve in un’altra razza della me- desima specie; così la fossa olecranica del maiale delle terremare è perforata, mentre quella del maiale attuale non offre questo carattere. In concordanza con quanto abbiamo detto sta I osservazione, che |’ apertura ole- cranica è più frequente negli scheletri antichi che nei recenti, perchè questi distano più di quelli dal punto di indifferenza morfologica nel senso datogli da Strobel (1). 2.° L’ osso malare. Quest osso è nell’ uomo gene- ralmente seinplice, ma in alcuni rari casi fu osservato, che il medesimo era diviso mediante una sutura in due pezzi disuguali, l'uno superiore-anteriore, molto più grande, l’ altro inferiore- posteriore, più piccolo. Già Sandifort osservò tale anomalia, poichè dice: » In facie suturae rarissime se exbibent: vidi tamen dextri lateris os jugale vera sutura in binas partes, superiorem et inferiorem divisum, quod quum vix unquam obser- vatur, dignum visum fuit, ut icone illustraretur. In sini- stro latere eiusdem capitis talis sutura non conspicitur, sed levissimum, ut videtur, ipsius vestigium (2) ». Portali e Spix fanno svilupparsi il malare da due o tre punti di ossificazione e Meckel osserva che » quelquefois cet os manque entièrement, ressemblance frappante avec ce qu’ on observe chez plusieurs Mammiferes, tels que le Tanrec, le Paresseux et le Fourmilier. On là trouvé partagé, par une suture, en deux moitiés, l une anté- rieure, l’ autre postérieure, ou méme en trois pièces (3) ». (1) Atti della Società italiana di scienze naturali, vol. VII, fase. 5°, pag. 519. (2) Ed. Sandifort, Observationes anatomico-pathologicae, lib. TIT, cap. VIII pag. 113; tab. VIII, fig. 7. (3) Manuel d’ anatomie générale et descriptive, tom. I, pag. 655, traduction de M. M. Jourdan et Brechet. Br) pur Più tardi ne parlò Laurillard. » Au bord inférieur du jugal, egli dice, nous avons trouvé sur deux sujets un os particulier, allongé et aplati, étendu tout le long du bord inférieur du jugal, et s’ articulant en-avant avec l extrémité très saillante de l apophyse malaire du maxil- laire, et en arrière avec | apophyse zygomatique du temporal, laquelle se trouve ainsi presénter deux sutures, une verticale avec le jugal, l' autre horizontale avec le second jugal, en faisant un angle presque droit avec la preécédente. Dans les sujets ou nous l’avons rencontré, la forme de ce nouvel os, ses connexions avec les os volsins, sa proportion avec l os malaire proprement dit, étaient les mémes; et comme nous avons trouvé dans certaines especes de Singes une subdivision parfaitement semblable, nous sommes portés à la considérer autrement que comme une disposition purement accidentelle (1) ». Nel 1844 quest’ argomento fu trattato da Breschet (2) e nel 1866 da Garbiglietti. Partendo dall’ osservazione, che nel feto umano Î’ osso zigomatico si svolge da due distinti punti di ossificazione e viene perciò costituito da due pezzi fondamentali, l'uno anteriore - superiore, l’altro posteriore - inferiore, il Garbiglietti va in traccia dell’ osso omologo a questa seconda porzione negli uc- celli, nei rettili e nei pesci e crede di rinvenirlo nell’ osso ipotimpanico nel senso di Owen (5). La domanda più spontanea che qui si presenta, si è certamente questa: d’ onde viene tale anomalia? Per rispondere a tale domanda noi dobbiamo tener conto dei seguenti fatti: che in alcuni quadrumani ed in altri mammiferi il malare è regolarmente diviso in (1) Lecons d’ anat. comp. de G. Cuvier, 2.° édit., par MM. Fr. Cuvier et Laurillard, Paris 1837, tom. I, pag. 381. (2) G. Breschet, Sur les anomalies de 1’ os malaire. Annales des sciences naturelles, ser, III, tom. I, Zoologie, pag. 25. (3) Hypotympanie; Owen, Anatomy of Vertebrates, vol. I, pag. 122, fig. 81, num, 28, fig. 75 e 84 num,.28 d, e due porzioni, come si osservò nell’ uomo in casi eccezio- nali; che il malare nel feto umano si svolge con due distinti nuclei ossei locchè risulta dall’ osservazione di- retta di feti che non abbiano oltrepassato 1 due mesi o tutt’ al più 1 due mesi e mezzo circa di gestazione (1); che la suddetta anomalia riscontrasi più di sovente nelle razze prognate, meno progredite, che nelle razze orto- gnate e quindi più perfezionate (2); che in fine tra i pochissimi casi, in cui si riscontrò l’ anomalia in discorso, uno sì riferisce ad un cranio antico. Tutti questi fatti non ponno essere spiegati che am- mettendo, che un antico progenitore animale dell’ uomo abbia posseduto un osso malare diviso normalmente in due porzioni, che più tardi e gradatamente si fusero insieme. La persistenza di queste due porzioni in altri mammiferi accennerebbe ad uno stipite comune, e la loro presenza nel feto bimestre e la eccezionale comparsa negli adulti sarebbero gli odierni testimoni della avve- nuta sopra indicata trasformazione. L’osso malare offre ancora delle altre anomalie ed è una osservazione ben importante, che queste anomalie sono sempre tali da avere un riscontro nello stato nor- male di animali inferiori all'uomo. Che ciò avvenga sempre accidentalmente? Non lo credo; anzi trovo in questi fatti una nuova prova della discendenza della specie umana da uno stipite animale. Che le accennate anomalie esistano, è noto già da qualche tempo e ce lo disse recentemente anche il Garbiglietti, che così si esprime:..... » le varie anomalie, cui nell’ uomo va sog- getto l’ osso zigomatico, trovano tutte il loro riscontro nello stato normale degli animali a vertebre; così, la deficienza totale di quest’ osso, che qualche rara volta (1) Garbiglietti nel Giornale della Reale Accademia di Medicina di Torinos num. 4 del 1866, Estratto pag. 9. (2) Garbiglietti, 1. c. pag. 5. 96 fu osservata nell’ uomo, vien rappresentata dallo stato normale dei pangolini (Manis Lin.), i quali ne sono onninamente privi; medesimamente, il trovarsi il malare nell'uomo ridotto a estreme proporzioni ed affatto rudi- mentale, connesso solamente coll’ estremità posteriore dell’ osso mascellare superiore, nè raggiungendo mai. l’ a- pofisi zigomatica del temporale, ella è tale disposizione anatomica che collima perfettamente con quella propria dei formichieri, dei musoragni, dei centeni, degli echi- nopi e di altri pochi mammati (1) ». 5.° Sutura frontale. Il frontale dell’uomo adulto è generalmente formato di un unico osso. Ma se esami- niamo individui giovani, fino all’età di cinque o sei anni, troveremo quest’ osso costituito di due pezzi distinti, che più tardi si fondono insieme. Talvolta si riscontra perfino in individui adulti | esistenza di due frontali, tra 1 quali scorgesi una sutura frontale più o meno distinta. Questa sutura è più frequente nei cranii antichi che ne’ recenti ed osservasi specialmente in quelli a tipo brachicefalo. Fra tre cranii brachicefali di stirpe ligure ch’ io trovai nella terramara di Gorzano, uno offre una leggerissima traccia della sutura frontale presso il centro della sutura coronaria; l altro offre una sutura frontale distinta e solo nel terzo questa manca interamente (2). Per comprendere il significato di quest’ anomalia dob- biamo passare rapidamente in rivista i frontali delle varie classi di vertebrati. Nei pesci troviamo 5 — 6 fron- tali, cioè due anteriori; due medii, talora fusi assieme in un unico osso; e due posteriori (5), o, come direbbe Owen, osserviamo oltre i due frontali, due prefrontali e due postfrontali (4). Gia nei. rettili vediamo scemare (1) Garbiglietti, I. c. pag. 14 e 15. (2) Annuario della Società dei Naturalisti in Modena, anno I, pag. 94 e 95. (3) Gegenbaur, Grundzige der vergl, Anatomie, pag. 449. (4) Owen, Anatomy of Vertebrates, vol. I, Fishes and Reptiles, p. t11 e 112. il numero di queste ossa, osservando che spesso i fron- tali medii si riuniscono in un unico osso, il frontale principale (nel coccodrillo e nei saurii ); e che i poste- riori talora mancano (in alcuni serpenti). Negli uccelli e nei mammiferi vediamo maggiormente ridursi il numero dei frontali, 1 quali nei mammiferi sono rappresentati da due ossa e nell’ uomo da un ‘osso unico. Siccome l'osso frontale si sviluppa per due punti ossei, così dobbiamo scorgere nell’ anomalia sopra citata In individui adulti una persistenza di caratteri giovanili; e siccome, secondo la teoria del Darwin, lo svolgimento dell’ individuo è analogo a quello della specie, ne dob- biamo inferire, che l’antico stipite umano possedeva normalmente due frontali come gli altri mammiferi. Ora tale punto di contatto tra luomo e i mammali non può essere attribuito al caso; ma accenna ad un comune progenitore dell’ uno e degli altri. Se le osser- vazioni sopra esposte sono vere, noi dobbiamo scorgere nella eccezionale persistenza della sutura frontale un esempio di riversione ai caratteri di uno stipite lontano. 4.° Lacuna nel setto de’ ventricoli del cuore. Mentre i pesci non hanno che un cuore semplicemente venoso, negli anfibi, nei rettili, negli uccelli e ne’ mammiferi troviamo un cuore doppio, cioè venoso ed arterioso. Inoltre negli anfibi e rettili, ad eccezione del coccodrillo, i due ventricoli comunicano tra loro, in guisa che ha luogo una mescolanza delle due sorta di sangue. Il cuore dei mammiferi offre qualche cosa di analogo, poichè nella sostanza muscolare del setto dei due ventricoli ri- scontrasi una lacuna, ora più ed ora meno sviluppata e di varia forma; così l Albini la riscontrò in tutti 1 mammiferi domestici, ad eccezione del cavallo, egli la vide nel cane, nel gatto, nel coniglio, nel topo comune e di campagna, nel maiale, nel porcellino d’ India ed inoltre nella talpa, nella donnola, nel riccio e nella Lu'@Rie scimia. In questi animali manca nella parte superiore del setto sopra uno spazio ben circoscritto il tessuto muscolare e la parete risulta in questo spazio formata dalle due laminette dell’ endocardio, cioè da porzione dell’ endocardio del ventricolo sinistro e da porzione dell’ endocardio del ventricolo destro del cuore.. Tra queste porzioni dell’ endocardio havvi uno strato apo- neurotico, nel quale vanno a terminare le singole fibbre muscolari del setto. Nei ruminanti giovani ( vitello, a- gnello, capretto ) in luogo del tendine trovasi una car- tilagine, che ossifica negli animali adulti. Una tale la- cuna nella sostanza muscolare del setto de’ ventricoli osservasi anche nell’ uomo. - Albini indica il metodo più semplice e sicuro di preparare il cuore, per iscoprire questa lacuna e ricono- scere i rapporti di essa colle parti adiacenti. Dopo d’ aver espostati cautamente gli atrì si aprano i due ventricoli con un taglio praticato nella loro parete po- steriore parallelamente al solco longitudinale posteriore, e si continui il taglio del ventricolo sinistro anche nel- I’ aorta in modo da tagliare per mezzo o dividere la valvola semilunare posteriore. Si rovescino poscia, op- pure si levino le pareti dei ventricoli e. si osservi il setto attraverso la luce, tenendo con una mano l'’ aorta aperta verso se stesso e tirando in basso coll’ altra mano il setto de’ ventricoli. Allora non si avrà difficoltà di vedere nell’ angolo formato dalle convessità della val- vola semilunare destra e superiore, una parte semitra- sparente del setto, la qual parte è a destra coperta da un lembo della valvola tricuspidale col quale è in parte concresciuta. ilo stesso Albini osservò poi in un embrione umano di circa cinque mesi, quasi nel centro della lacuna, un foro di comunicazione tra un ventricolo e | altro, di che si convinse introducendovi cautamente una sonda livggili ottusa d’ osso di balena; ed è probabile che nei due casi di rottura del setto dei ventricoli descritti l’ uno dal prof. Hauska, I’ altro dal prof. Buhl non si trattasse veramente di una rottura in seguito ad endocardite, come vogliono questi autori, ma piuttosto di una ano- malia di sviluppo, quale fu riscontrata nel suddetto em- brione dall’ Albini, tanto più che gli individui, di cui parlano Hanska e Buhl, erano giovani (di 13 a 14 anni ) ed aveano offerto fin dalla nascita que’ sin- tomi morbosi che devono accompagnare siffatta ano- malia, cioè batticuore, difficoltà di respiro e cianosi del volto e della parte superiore del corpo (1). Io non saprei spiegare questa anomalia in modo ge- nerale, che risguardandola siccome un caso di riversione ai caratteri di antichissimi progenitori e quale testimone della nostra origine animale. 5.° Utero. Se facciamo una rivista delle varie forme che presenta l’ utero nelia classe dei mammiferi troviamo quanto segue. a) L’utero è talora doppio (uterus duplex); in tal caso ciascun ovidotto termina in un utero, ma quello di un lato s'avvicina a quello dell'altro lato in guisa da costituire un unico organo; entrambi gli uteri però sboccano ciascuno con un proprio orifizio nella vagina. Esempi di questa conformazione ci offrono i marsupiali ed i roscicanti (p. e. Lepus, Sciurus ec. ). b) Altre volte le corna dell’ utero sono inferior- mente riunite insieme e sboccano con un unico orifizio nella vagina; esiste però tra le medesime un setto che si estende fino quasi all’ orifizio. E questo l’ utero bipar- tito (uterus bipartitus ), che osservasi nei roscicanti, p. e. nel genere Cavia. (1) Albini, Sulla parte tendinea nel setto de’ ventricoli del cuore dell’ uomo e degli animali mammiferi, Li gie c) In altri casi l’ utero è bicorne ( uterus bicornis ); così chiamato perchè le parti terminali degli uteri si fondono in un unico organo portante due corna. Esempi ci offrono i cetacei, 1 carnivori, gli insettivori, le pro- scimie ec. d) In fine hannovi degli uteri semplici, in cui è scomparsa ogni traccia di corna e ne’ quali la muscola- tura è sviluppatissima; tale conformazione troviamo nelle scimie e nel!’ uomo (1). | Ora dobbiamo tener conto di due fatti; il primo si è che in origine l’utero della donna è bicorne, come quello di alcuni mammiferi, e che solo col progressivo sviluppo la forma bicorne scomparisce ed in fine cessa del tutto; il secondo si è che nella specie umana gli uteri anomali sono spesso bicorni per tutto il tempo di vita. Del resto, dice Blandin, questo vizio di conforma- zione, che inci esattissimamente uno stato che è normale ne’ primi tempi della vita, presenta parecchi gradi; ora la bifidità interessa tutto il corpo dell’ utero e si arresta soltanto al collo del medesimo; ora non è divisa che la parte più alta di quest organo (2). Chi sostiene l’ origine direttamente divina dell’ uma- nità, deve scorgere nelle anomalie dell’ utero sopra citato altrettanti enigmi; mentre la dottrina della discendenza animale dell’uomo può facilmente spiegare questi fatti principi della trasmissione dei caratteri ad una età corrispondente e della riversione ai caratteri di un pro- E antico. i .° Muscolo ischio - pubico. Sull’ ambito superiore in- ich della branca ischio-pubica esiste talora un muscolo ora più ed ora meno sviluppato, scoperto dal prof. G. P. Vlacovich e denominato dai suoi punti d’inserzione mu- (1) Gegenbaur, Grundziige der vergleichenden Anatomie, pag. 596. (2) Blandin, Nuovi elementi di anatomia descrittiva, taduzione del Sereni, vol. Il, pag. 279. LANE scolo ischio-pubico. Esso giace, giusta l’ indicazione dataci dall'autore, sotto ai fasci anteriori più interni dell’ ele- vatore dell’ano ed è sovrapposto ad un lembo estremo dell’ otturatore interno, e della fascia che lo ricopre. Il muscolo è talora sostituito da un legamento il quale affatto gli corrisponde per forma ed inserzioni e che perciò chiamasi legalmente ischio-pubico. Vlacovich esaminò in proposito 70 individui, cioè 40 maschi, tra cui 20 adulti e 20 bambini, e 50 fem- mine, tra cui 15 adulte e 15 bambine. Tra i 20 maschi adulti 11 non offrivano traccia alcuna del muscolo, ma in soli 3 tra questi 11 scorgevasi la traccia del legamento di sostituzione. Tra i 20 bambini 10 presentavano il muscolo più o meno sviluppato in ambi i lati; nelle 15 femmine adulte invece una sola era fornita del muscolo e tre possedevano il legamento di sostituzione; tra le 15 bambine una sola offriva il muscolo tanto a destra quanto a sinistra. Ora a quale scopo fu dato questo muscolo all’ uomo? È questa una domanda che dobbiamo dirigere ai fautori della diretta creazione della specie umana. “i questa do- manda risponde Vlacovich, il quale dice : » questo mu- scolo anomalo non ha probabilmente nell’ uomo alcun uso.... Dichiarare che questo muscoletto non ha proba- bilmente alcun uso, equivale al dire che esso manca di ogni fisiologica utilità ». Dal nostro punto di vista la presenza di questo mu- scolo trova una spiegazione nel fatto, che parecchi mam- miferi lo posseggono, giacchè il muscolo dell’ Houston, che gli corrisponde, fu trovato nel cane, nel gatto e nella puzzola, ne’ quali mammiferi compie |’ uffizio di comprimere la vena dorsale della verga (1). (1) Atti dell'Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, tomo X, ser. II, disp. X, pag. 4294 e seg. Liecegf() () fbcco In appoggio della nostra origine naturale potrebbero citarsi ancora le ossa wormiane e principalmente |’ epat- tale; le ossa soprasternali trovate da Luschka anche nell'uomo e molte altre consimili anomalie. Come av- viene, domanderemo ora, che un organo il quale si scosta dallo sviluppo normale, devia in guisa da rappresentare lo stato normale di altri vertebrati? Ciò non può deri- vare da puro e semplice caso, ma deve esistere un certo legame tra tutti 1 vertebrati ed un legame più stretto fra tutti i mammiferi. Chi per spiegare questi fenomeni non vuol ricorrere alla verga magica, non può, a mio avviso, ricusare l'idea che il suddetto legame altro non significhi che i rapporti di parentela per discendenza comune. { EL. Caratteri rrundismentali. La seconda delle sopra citate serie comprende gli organi rudimentali dell’ uomo. 1.° Piega semilunare. Nei vertebrati, oltre alle due palpebre, ne troviamo una terza, che può essere distesa sopra l’ occhio con rapido movimento; è questa la mem- brana nictitans. Nei pesci (Selaci) e negli anfibii essa rappresenta un organo svoltosi dalla palpebra inferiore poco sviluppata, mentre nei saurii, nei coccodrilli, nelle testuggini e più ancora negli uccelli costituisce un organo speciale ed indipendente, che trovasi inserto all’ angolo interno dell’ occhio. Nei mammiferi la medesima subisce una notevole riduzione; nei cetacei carnivori e più ancora nelle scimie non è che una semplice piega, della quale nell'uomo non rimane che una leggera traccia che porta il nome di Plica semilunaris. Qualche autore volle scorgere un rapporto inverso tra lo sviluppo della piega semilunare e quello della mano. Chauveau dice: » L’usage du corps clignotant LEO I est d’ entretenir la netteté de la surface de |’ oeil en enlevant les corpuscules que les paupières ont pu laisser arriver jusq à lui; et ce qui démontre parfaitement cet usage, c’ est le rapport inverse qui existe constamment entre le développement de ce corps et la facilitè qu’ ont les animaux de se frotter l’ oeil avec le membre ante- rieur. C'est ainsi que, dans le cheval et le boeuf, dont le membre thoracique ne peut servir a’ cet usage, le corps clignotant est très développé; qu’ il devient plus petit dans le chien, qui peut dejà un peu se servir de sa patte pour le remplacer, plus petit ancore dans le chat, et rudimentaire dans le singe et dans l' homme, dont la main est parfaite (1) ». Sia che si voglia ammettere quest’ opinione o meno, noi scorgiamo nella piega semilunare dell’uomo un or- gano rudimentale, che non è di alcuna importanza per la specie. Chi sostiene una creazione ispeciale per l uomo, non sa certamente rendersi ragione della esistenza di un organo rudimentale e perciò affatto inutile; mentre i fautori della trasformazione delle specie debbono rav- visare nella suddetta terza palpebra gli avanzi di un organo bene sviluppato in un antico progenitore ed in slim suoi discendenti attualmente viventi. 2. Appendice vermiforme del ceco. Nell’uomo l'in- testino cieco porta una appendice chiamata ciecale e vermiforme, appendice della grossezza del tubo di una penna da scrivere, lunga due a otto centimetri circa, ripiegata su di se stessa e fissata per mezzo di un par- ticolare ripiegamento del peritoneo su i lati dello stretto superiore del bacino; le sue pareti racchiudono una quantità di follicoli mucosi (2). Secondo la teoria Darwi- (1) Traité d’ anatomie comparée des animaux domestiques par A, Chauveau, pag. 758. (2) Blandin, Anatomia descrittiva, Trad. del dott. Sereni, Dag. 180. Cuvier, Lecon d’ anat. comp,, Ill, 480, ne ig niana gli organi rudimentali degli individui di una me- desima specie sono molto soggetti a variare nel grado del loro sviluppo e per altri rapporti (1). E in fatti osserviamo, che l’ appendice vermiforme talora manca, come l’attestano Meckel e Morgagni, mentre Autenrieth in un’ .ernia inguinale la trovò grossa come il ‘colon. Inoltre Oehl osservò una parziale ed innata occlusione della medesima. Ecco le parole del professore Oehl: » Le opere di anatomia e gli anatomici da noi consul- tati nè accennano, nè sanno accennarsi ad una partico- lare e non infrequente anomalia, in conseguenza della quale l’ appendice vermiforme, pervia soltanto per un certo tratto di sua lunghezza dalla sua foce nel cieco, presenterebbe in una più o men lunga porzione della sua libera estremità un solido cordone lungo nel cui asse ogni traccia di cavità mancherebbe. Di una tale anomalia osservansi nei vari cadaveri graduati passaggi. Nel mentre infatti per alcuni di essi, spingendo nel lume dell’ appendice vermiforme uno specillo, troviamo fra la introdotta estremità di quest’ ultimo e quella del- l’appendice interposto uno spazio, che rappresenta lo spessore delle sue pareti, non quivi gran fatto dissimile da quello di ogni altro punto delle medesime; osser- viamo per altri arrestarsi talmente lo specillo che fra esso e l'estremità dell’appendice interceda uno spazio quivi accennante ad uno spessore multiplo di quello, che le pareti dell’appendice presentano in altre parti di loro periferia. Avviene generalmente in questi casi che l’appendice vermiforme anzichè assottigliata e quasi ap- puntata termini in una oblunga ed appianata e solida espansione simile per forma e dimensione ad una pic- cola fava. Sparando in allora l’appendice vermiforme in tutta la sua lunghezza, possiamo convincerci colla (1) Darwin, Origine delle specie, traduzione italiana, pag. 358. — 95 — diretta osservazione, aver fine realmente la cavità tubu- lare di essa laddove arrivava lo specillo esploratore; possiamo inoltre convincerci aver pur fine quivi la mem- brana mucosa che tappezza internamente | appendice e l’eccedente spazio che fra la prima e l estremità termi- nale di quest’ ultima intercede essere dalla muscolare e sierosa tonaca intieramente occupato. Delle quali due tonache però, mantenendo la seconda il suo spessore normale, ne deriva che alla tonaca muscolare soltanto si debba in questi casi la soda ed appianata espansione terminale dell’appendice vermiforme. Di questa primor- diale anomalia si osservano nei cadaveri le diverse gra- dazioni fino al punto che una metà od una terza parte soltanto dell’appendice vermiforme mostrisi pervia allo specillo esploratore, assumendo invece l'altra metà o gli altri due terzi il carattere di un solido cordone a più n meno appuntata od espansa estremità (1) ». La mancanza osservata dell’ appendice vermiforme, lo straordinario sviluppo che questa talora assume e la sua parziale occlusione notata da Oehl accennano alla lieve o nessuna importanza che ha per la vita umana quest or- gano, la cui presenza non può essere spiegata che col principio di eredità. L’appendice vermiforme tende ad allargare l’interna superficie dell’ intestino ceco, il cui sviluppo va soggetto a molte variazioni tra i mammiferi. L’appendice ciecale esiste nell’ orang- ontang, manca nelle altre scimie (2); il ceco è negli onnivori di svi- luppo ragguardevole e sviluppatissimo negli erbivori, lo si vede notevolmente allungato nei marsupiali frugivori, nei solipedi, nei pachidermi (Elephas, Rhinoceros) ed in alcuni roscicanti; qualche roscicante ed i manati pos- (1) E. Oehl, Memorie della R. Accademia delle scienze di Torino, ser. Il, tom. XXI, pag. 369. (2) L° appendice vermiforme du coecum ne se trouve que dans les orangs; les autres genres de cette famille (singes) en manquent, Cuvier, Anat. comp. HI, 480. Rs I seggono parecchi cechi (1). Per cui | appendice vermi- forme dell’ uomo può essere risguardata siccome un ca- rattere ereditato da un lontano progenitore animale, che andava fornito di uno o di più cechi sviluppatissimi. ° Muscoli auricolari. Se tra i mammiferi posti sotto “ai primati prendiamo ad esempio il cavallo, troviamo dei muscoli auricolari ben sviluppati, poichè sei sono i muscoli estrinseci che muovono la conca dell’ orecchio. Il muscolo zigomatico - auricolare tira il padiglione in avanti; il temporo-auricolare esterno ed il temporo-auricolare interno sono adduttori della conca; lo scuto-auricolare esterno dirige l’ apertura del padiglione in avanti ed ha per antagonista lo scuto - auricolare interno; il cervico - auricolare superiore tira la conca in dietro ed in basso, mentre il cervico-auricolare mediano ed inferiore danno al padiglione dei movimenti di rotazione; il parotido - auricolare è abduttore del padiglione si il mastoido - auricolare raccorcia la corica. Gli animali che devono continuamente origliare, per accorgersi In tempo opportuno dei pericoli che li minac- ciano, ponno eseguire dei movimenti estesi del padiglione dell’ orecchio ed hanno a tal’ uopo dei muscoli auricolari numerosi e robusti. Se l’uomo discese da uno stipite animale, egli dovrà. aver posseduti per eredità siffatti muscoli, ma alcuni di questi potranno pel non-uso essere in istato rudimen- tale, altri potranno perfino essere scomparsi. E ciò è quanto osserviamo, poichè alcuni dei sopra riferiti mu- scoli auricolari mancano affatto nell’ uomo, mentre altri ravvisansi debolissimi, tali sono il temporo-auricolare, il mastoido-auricolare ed il zigomatico-auricolare. In seguito a tale conformazione i movimenti della conca sono nulli o limitatissimi e ciò dovea avvenire quale risultato dello (1) Gegenbaur, Grundzige der vergl. Anatomie, pag. 535. stato sociale in cui l’uomo vive tranquillo da tempi remotissimi. Come il non-uso rese quei muscoli rudimentali e ci fece perdere il dominio sui medesimi, così l’ uso e I’ eser- cizio potranno renderli nuovamente più robusti e rista- bilire il nostro impero su essi, come risulta dalla seguente asserzione dell’ Hyrtl: » A torto ‘s° incolpa la nostra edu- cazione del poco potere, che abbiamo sui movimenti delle nostre orecchie. Le strette cuffie usate ai fanciulli non ne sono certo la colpa, giacchè né eziandio i barbari possono muovere le orecchie, a modo dei cavalli ombrosi. Ma che non si raggiunge egli con l’uso e la pazienza? così s' è visto persone, dopo lungo esercizio, riuscire anche al dominio di questi esili muscoli, e tal fu l' il- lustre anatomico di Leyda, il quale, messa giù la par- ruca, era solito darne saggio e spettacolo ai suoi uditori: Et capillamento seposito auditoribus fidem fecit, quid in movendis auribus valeret (1) ». 4.0 Seni frontali. I seni frontali sono nell’ uomo assai poco sviluppati, per così dire allo stato rudimentale di fronte a quelli che riscontriamo negli altri mammiferi. Tuttavia il loro sviluppo va soggetto a variazioni dipen- denti dalla robustezza muscolare degli individui. Perciò vediamo che nella donna le arcate sopraciliari sono ordi- nariamente meno sporgenti che nell’ uomo, come risulta dalle osservazioni fatte da Schaafhausen, da His, da Busk, da Vogt e da altri autori. Se in via d'esempio esaminiamo alcuni mammiferi domestici, troviamo che nel cavallo i seni frontali rap- presentano due vaste cavità; che i medesimi nel bue si prolungano nel parietale e perfino nell’ occipitale e che essi si estendono entro il parietale anche nel majale. Asgiungasi che nella specie umana i seni frontali sono (1) Hyrtl], Manuale di anatomia topografica, Trad. Roncati, tom. 1, pag. 158. 7 Liga in generale maggiori ne’ crani antichi che ne’ moderni e ravviseremo in questi fatti una nuova prova in favore della tesi che stiamo discutendo. 5.° Za coda. La porzione codale della colonna verte- brale è affatto rudimentale nell’ uomo, essendo formata di tre a cinque piccole ossa che articolano insieme e delle quali il primo si fonde spesso col sacro. Negli altri mammiferi invece il numero delle vertebre codali è assai variabile e talora straordinariamente grande; così nel genere Manis troviamo perfino 46 vertebre codali costi- stuenti una coda tre volte più lunga della rimanente colonna vertebrale. Evidentemente la coda rudimentale, esternamente non appariscente dell’ uomo è un organo inutile e che esiste perchè ereditato da uno stipite antico e non ancora eliminato dall’ elezione naturale. Tale idea viene confermata da due fatti. Il primo si è che il coc- cige è proporzionatamente assai. lungo nell’ embrione, in guisa che, come dice Blandin, raffigura una specie di coda analoga a quella di certi animali; sembra anzi che a quell’ epoca ci si trovino più pezzi che nel coccige dell’ adulto, e che alcuni di essi scompariscano poi in seguito per atrofia. li secondo si è che in casi anomali la coda assume uno sviluppo ragguardevole. Passiamo sotto silenzio le asserzioni del conte di Castelnau, del Ducouret, del Rocher d’ Hericourt e del D’ Abbadie . per notare solo Vl osservazione del dott. Hupch e le no- tizie raccolte da Isidoro Geoffroy Saint-Hilaire. Hupch dice di aver veduto nell’ ospedale di Costan- tinopoli una donna nera antropofaga fornita di una breve coda ed un uomo nero pure colla coda esterna- mente visibile (1). Il principe Mohammed-abd-el-Gellich, venuto a Parigi, dichiarò a Geoffroy Saint-Hilaire, di aver veduto in casa (1) Gazette hebdomadaire de médecine, 20 ottobre 1854. Lessona, Conver- sazioni scientifiche, nella Biblioteca utile 1866, 22 serie, pag 48. di Aggie sua una schiava di suo padre, nera, che aveva una pic- cola coda a un dipresso fatta come il dito mignolo, ma un tantino più lunga. Quel principe soggiunse di aver veduto nei suoi viaggi a Bournon parecchi altri individui della stessa razza, e disse notissima la cosa nell’ Africa centrale. Due altri fatti di tal natura si conoscono. Un soltotenente dei turcos ebbe nel suo reggimento, nel 1860, un Niam-Niam, fornito di una coda lunga sei od otto centimetri, flessibile, molle e coperta di una lieve peluria. Un generale di divisione dell’armata d’ Africa disse a Geoffroy Saint-Hilaire di aver veduto a Tunisi, parecchi anni or sono, una donna colla coda (1). Nella presenza costante di una coda rudimentale nell’ uomo, nella maggior lunghezza che questa ha nel- l'embrione e nello sviluppo ragguardevole che essa in casi eccezionali può assumere nell’ adulto, io vedo una nuova& prova in favore dell’ opinione, che fa discendere luomo da uno stipite animale. (1) Etudes sur 1° histoire naturelle par C. Delvaille, Lessona, 1. c. pag. #9. (i ‘OR hoi tia dI Di Lat 5 DI La a interi hai IO slip’ sé Li di cigni si Ai ui 1 sb i fia Vi “ da SUI MIGLIORAMENTI IGIENICI IN MODENA DAL 1846 AL 1866 MEMORIA DEL PROFESSOR GIOVANNI GENERALI (Letta nell'adunanza del 21 maggio 1867) A chi segue giorno per giorno i miglioramenti che avvengono sotto a’ propri occhi in Modena, non solo pare che poco si progredisca in fatto d’ igiene e di c'- viltà, ma sembra perfino che si stia fermi, e quasi dissi non si vada all’ indietro. Ma se lo stato presente di questa città in ordine igienico, confrontiamo colle condizioni passate anche non molto lontane, ci verrà veduto d'aver fatta molta strada sul cammino del progresso, e noi stessi resteremo meravigliati dei miglioramenti avvenuti quasi a nostra insaputa. Gioverà di dare una scorsa a questi miglioramenti e indagare al tempo stesso quali effetti e benefici ab- biano prodotti sulle costituzioni individuali e sulla salute pubblica, onde dal conoscerli ne venga alle autorità e rappresentanza comunale incitamento e conforto a pro- seguire nella via che è già tracciata ed in gran parte percorsa. Modena, che è una delle più antiche città Romane, sorge lungo la via Emilia ed è posta all’ altezza di metri — 102 — 54 (circa) sul livello del mare, alla latitudine Boreale di 44°, 58?, 52° ed alla longitudinale orientale di 8°, 35°, 185 dol itdigiane di Big ; La città antica fu fondata sopra un terreno d’allu- vione, e la moderna s’ innalza sopra la vecchia della quale negli scavi si trovano moltissimi e interessanti avanzi. Modena è percorsa nella direzione sud-nord da una moltitudine di canali grandi, e piccoli, ove coperti da volti ove scoperti; canali che ricevono e trasportano in un massimo canale detto Naviglio non solo le acque piovane e di scolo delle circostanti campagne e della città, ma raccolgono e trasportano mescolate a quelle acque la maggior parte delle escrezioni e delle immon- dezze degli abitatori e degli abitati. Poeti e prosatori ne celebrarono le immonde con- trade, e le immonde abitazioni, e le sordide costumanze, sicchè presso i popoli più civilizzati Modena non avrebbe un posto molto onorifico se non fossero da quei giorni ad oggi avvenuti mutamenti che ne produssero una quasi completa metamorfosi. Non è gran tempo passato che la maggior parte delle abitazioni di Modena erano umide, mal costrutte, con portici attigui bassi e limacciosi, e immondi per ogni sorta di succidume, e nelle strette viuzze, e nei vicoli . laridi, e nelle miasmatiche contrade a stento poteva ri- mutarsi l’aria, che più a stento ancora veniva rinnovata nelle case. Nè questa stessa aria era delle più purificate giacchè tutto all’intorno la città era circondata da terreni in- gombri d’ acque stagnanti e corrotte d’ onde s’alzavano malefici miasmi, che investivano, specialmente verso sera gli abitati e gli abitatori in una atmosfera di malefiche esalazioni, e in una densissima nebbia come ricordano d'aver visto molte persone ancora viventi. — 105 — Da queste tristissime condizioni fu in gran parte tolta la citta avanti il 1846, come lo dimostrò il prof. Grimelli in una sua memoria presentata in quell’anno all’ Accademia Modenese di scienze lettere ed arti. Ma della vecchia citta e della sua antica e prover- Diale malsania restavano ancora quà e la dispersi non piccoli avanzi, che dal 1846 in poi andarono via via scemando, sicchè oggi la patria del Tassoni, del Muratori e del forti acquistò aspetto più gentile e maggiore salubrità. i A dare una idea dei lavori cospicui eseguiti nelle case di Modena dal 1846, basterà accennare che in questo ventennio oltre a 500 furono le abitazioni che vennero o riedificate o riformate in guisa equivalente a riedifi- cazione, senza nemmanco calcolare che oltre a 500 altre case vennero ristaurate, e variamente risanate. Numero che riescirà sorprendente quando si consideri che gia prima del 1846 molti lavori di case erano già stati ese- guili, e che la citta conta poco meno di 2000 abitazioni. In questo lasso di tempo, e per queste costruzioni furono allargate molte contrade, atterrando molti portici delle vecchie case, con risultante salubrità tanto mag- giore quanto più cospicuo fu l'ampliamento delle con- trade, e l'alzamento del piano o livello delle abitazioni. Nè a questi si limitano i miglioramenti della citta. Uno de’ guai più gravi di Modena, e una delle con- dizioni principali della insalubrità di molte delle sue abitazioni consiste nel sistema di canali e canalette che percorrono, come ho già detto, la città. In questi pub- blici. mondezzai ( che tali pur sono senza esagera- zione questi canali e queste canalette ) scolano, s° accu- mulano, e fermentano gli escrementi degli abitatori, le immondezze e il putridume della intera città; sicchè, specialmente nella estiva stagione, quando per le acque scarse non possono trasportarsi via le materie raccolte, — 104 — si elevano malefici miasmi o principî d’ infezione i quali penetrando nelle case che fiancheggiano simili canali, cogli odori più disgustosi vi recano la più grave malsania. Da quei giorni al presente molti di cotali canalette e canali furono coperte a volto, di guisa che il male è diminuito d’assai, ma non pochi ancora di questi canali o cloache fluenti rimangono aperte all’ uscita de’ miasmi, ed è a far voti che presto sia tolto dappertutto un tale malanno, e vogliamo sperare anzi che, lasciata da banda ogni considerazione economica, inopportuna, quando si tratta della pubblica salute, la rappresentanza comunale e le commissioni sanitarie vorranno provvedere perche cessi un tanto guaio, e vorranno curare che con acconcio sistema di latrine e di pozzi neri 0 fogne mobili sia serbato all’ agricoltura ed ai nostri campi che tanto ne abbisognano quello che oggi o trascorre via inutilmente colle acque piovane, o si converte in un vero veleno aereo pei nostri concittadini. i Intanto su questo rapporto dobbiamo far noto che uno dei più dispendiosi lavori fu fatto colla chiusura del Naviglio. Il Naviglio è il canale massimo della città, quello in cut si raccolgono tutte le acque di scolo e piovane, che vi vengono dai campi e dalla città, tutte le acque e materie impure e corrotte che dalle case e cloache flui- scono nelle canalette e nei canali che poscia le traspor- tano nel canale massimo, divenuto la grande cloaca. Dal Naviglio in ogni tempo dell’anno ma special- mente nella state, quando le acque erano basse ed ele- vata la temperatura, si svolgevano abbondanti esalazioni putride che dilatandosi a cospicua estensione rendevano infetta l’aria dell’ora corso Vittorio Emanuele, e delle circostanti contrade e abitati. Da lungo tempo si deplorava questo stato di cose, e i cittadini tutti, e specialmente i medici non lasciavano — 105 — occasione di protestare colle parole e cogli scritti contro a un tanto malanno. I desideri dei cittadini, e i con- sigli dei medici furono alla perfine esauditi e venne nel 1858 cominciata e terminata la chiusura di questo canale. Un altra delle opere più civili ed igieniche fatte in questo ventennio è la costruzione del nuovo macello, eretto nel 1849. Ho detto igieniche in quantochè per la costruzione del nuovo macello vennero a sopprimersi lo sconcio am- mazzatoio dei suini e la beccheria dei bovini ed ovini che, trovavasi collocata con poco accorgimento, nel centro della citta, lateralmente alla piazza maggiore. Chi volesse avere una esatta idea del vecchio ammaz- zatoio dei suini, s imagini una pozzanghera buia, im- monda, umida, fetente fra 1 tanti buggigattoli pure im- mondi e bui che a quei giorni formavano la via Luchina, che ora veggiamo trasformata in una’ delle più belle e salubri contrade (Corso Terraglio). Quivi si trovava il macello dei suini, e in un locale senza scoli, senza luce, senza ventilazione, senza alcuno di quei riguardi che richiede la civiltà e di quelle av- vertenze e cure che domanda l'igiene, vi venivano ma- cellati i suini. Nè meno mal collocate, nè in migliori condizioni d’igiene si trovavano le antiche beccherie bei bovini ed ovini, le quali oltre al grave inconveniente di trovarsi nel centro della città, non avendo nè opportuni scoli né getti d'acque, mandavano tutto intorno verso gli abitati col puzzo insoffribile e caratteristico degli animali sgoz- zati, le esalazioni infeziose che da quel luogo immondo si sviluppavano. Tutti questi sconci cessarono coll’ erezione dell’ attuale macello. — 106 — Questo è formato da un vasto edifizio in forma di pentagono irregolare situato all’ estremità settentrionale di Modena. Internamente l’ edifizio si divide in due grandi sezioni una delle quali è destinata alla macellazione dei bovini ed ovini, l’altra per quella degli animali suini. Il ma- cello dei bovini ed ovini consta principalmente di un grande cortile di forma quadrata i cui lati sono costituiti da alti portici a tre archi per lato il cui sommo tocca le volte. Tre pozzi vasi vi forniscono l’acqua col mezzo di pompe. La macellazione si effettua sotto i portici il cui piano è inclinato in guisa che la parte più alta è verso le esterne, la più bassa verso le colonne del por- ticato. Il piano dell’ampio cortile è convesso e le sue pendenze laterali vengono a confondersi con quelle dei portici sulla linea delle colonne. Lungo questa linea ed in ciascuno dei quattro lati sonovi scavate tre vaschette o pozzetti di forma quadrata in ciascuno dei quali s° in- nicchia una cassetta mobile di ghisa per la raccolta del sangue. Questo raccolto e quella levata le residue materie scorrono ad un serbatoio comune per un foro praticato nel fondo dei detti pozzetti, e poscia per sotterranei condotti disposti parallelamente ai lati del cortile. II serbatoio comune è capace di contenere più di mille quiutali di materia organica addensata, e sì scarica delle acque mediante uno sfioratoio od emissario che va al Naviglio. Di consimile costruzione, ma: più piccolo e diviso in due compartimenti è il macello dei suini, provvisto delle opportune caldaie, scoli ec. La costruzione del macello attuale oltrechè corrispose alle esigenze della civiltà, riescì di non lieve vantaggio alla salubrità di quelle regioni in cui venne eretto, giac- chè fu necessario alzare il livello del terreno sul quale venne fabbricato; terreno in massima parle basso e in- sgombro d’acqua, di fango, e di brutture. — 107 — Nè di poco conto fnrono le conseguenze che in ordine igienico s ebbe la deliberazione municipale che ordinò di far scorrere con un sistema interno i tubi delle gron- daie le quali con molto incommodo dei passeggieri stil- lavano le acque nelle pubbliche contrade, ed erano causa di continua umidità dei muri inferiori delle abitazioni. Per siffatta misura edilizia essendo costretti i proprie- tari delle case a costruire gli scoli che trasmettessero l’acque piovane verso i canali delle contrade, giovaronsi di queste occasioni per immettere negli scoli predetti le acque e le materie delle latrine, e si raggiunse così di togliere in molte case il lamentato inconveniente del ristagno di sostanze capaci di putrida fermentazione e di insalubri effluvi. Altri ed altri lavori vennero pur eseguiti così nell’ in- terno della citta come nelle sue circostanze. Fu alzato in molte parti della città il livello delle strade, dei giardini pubblici, della piazza interna della cittadella, dei prati di piazza d’ armi. La costruzione del Foro boario fece che si chiudessero scaturigini d’ acque che s' impaludavano nelle praterie vicine, si aprirono do- vunque canali di scolo, si coprirono fossati. Le acque stagnanti di S. Faustino e S. Cattaldo ( subburbio) furono inalveate; furono rialzati i terreni suburbani della bar- riera Vittorio Emanuele, e la Ferrovia che scorre fuori di questa barriera non solo ci portò i favori della civiltà, ma ci valse ancora maggiore salubrità, essendosi per essa tolti gl impaludamenti d'acque, che si verificavano in vasta estensione per quei dintorni. Ma se nel corso di pochi anni l'opera del Municipio e dei cittadini ebbe recato tanto miglioramento nelle condizioni materiali igieniche della città, non bisogna contentarsi di ciò che si è fatto, ma continuare e com- pletare l'opera incominciata, e tanto più alacremente in quantochè ai vantaggi maleriali corrisposero migliora- — 108 — menti cospicui nelle condizioni sanitarie della popolazione Modenese. Ed ora ci resta appunto da indagare qual fosse lo stato sanitario degli abitanti di Modena in quei giorni nei quali le condizioni igieniche della città erano quali ce le descrissero e lasciarono i nostri antenati, e qual sia lo stato sanitario delle presenti generazioni nate e cre- sciute sotto l’ influenza delle attuali condizioni d’ igiene, onde argomentare se agli avvenuti miglioramenti cor- rispondano lo stato sanitario degli abitanti. i » Ben potrebbero prevedersi ed anche a priori stabi- lirsi, quali dovessero essere le morbosità che sotto le. influenze dell'antica condizione di cose, predominavano. L'elemento miasmatico di luoghi che pel ristagno delle acque, erano analoghi ai paladosi doveva dare ori- gine a morti febbrili periodici. L'elemento umido, l'infezione miasmatica animale qual si svolgeva e si aveva per essere basso il livello della citta, ricco d’ acque il suo suolo, umide le sue case, e percorse da canali e canalette messe ad uso di cloache; l elemento umido e miasmatico perennemente operanti sopra i cittadini doveva dare origine a malattie cache- tiche. E diffatti fino dai loro tempi il Torti ed il Ra- mazzini deploravano che nelle regioni più settentrionali della città dominassero pertinaci e gravi le febbri acces- sionali eziandio perniciose, le quali continuarono il loro imperversare fino ai nostri giorni, manifestandosi quando più meno frequenti, ma sempre più numerose e ribelli in quella parte di Modena dove per la natura e dispo- sizione dei circostanti terreni suburbani era maggiore l impaludamento delle acque e lo svolgimento degli efluvi miasmatici. In questa stessa parte della città, e dovunque ancora nel resto di Modena dominavano pure due morbi che CM nei loro elementi patologici generatori e nella loro con- dizione morbosa generale vogliono considerarsi affini o congeneri dai patologi, intendo dire la serofola e la rachitide. Quest’ ultima si poteva quasi considerare una vera endemia, e tanto era estesa, tanto manifesta, così bene delineata in tutte le sue forme, così bene dispiegata in tutti i suoi caratteri, che il rachitismo modenese poteva proprio dirsi il tipo di tale affezione, come ce lo pro- vano alcuni scheletri di rachitici conservati nel museo della scuola d’° anatomia umana, e non pochi individui tuttora viventi. Oggi le cose sono molto cambiate; il rachitismo non domina endemico; le giovani generazioni ne vanno ge- neralmente immuni come lo mostrano i risultati delle ultime leve, l ispezione ai bambini che frequentano gli stabilimenti d’ istruzione, e l’ osservazione anche gros- solana della giovane popolazione modenese. Per lo svolgersi e generarsi del rachitismo s° invo- cano dagli autori come cause tutti quegli agenti mor- bosi che sono capaci d’ indebolire l° organismo del fan- ciullo, tanto più predisposto a divenire rachitico quanto più manifesta sia in esso il temperamento linfatico e ne sta debole la costituzione. La cattiva alimentazione, quindi, la mancanza di cure igieniche, l’ abitazione in luoghi umidi vengono consi- derati come elementi patogenici di tale affeziono; opi- nando eziandio il Guerin che | alimentazione animale sia una delle cagioni più potenti a sviluppare il rachi- tismo. | Checchè sia di questa ultima opinione del Guerin che sembra confortata da numerose osservazioni, è per Modena assolutamente dimostrato oramai che | avere migliorate nel mode sovraesposto le condizioni della città, l’ averne risanate le abitazioni, l avere cessata | in- — 110 — fluenza miasmatica ed umida, l aver data miglior aria da respirare agli abitanti, tutto ciò insieme ha concorso a diminuire gradatamente e, si può quasi dire, a to- gliere la dominazione di un malanno che rendeva i nostri concittadini deboli e deformi. E che dalle suddette migliorate condizioni igieniche della città dipendesse la diminuzione così notevole del rachitismo gia lo aveva fino dal 1846 notato nella citata memoria il Grimelli, il quale dopo avere provato come in fatto fosse diminuito il numero dei rachitici, avver- tiva poi che se in allora ancora dominava non infrequente questa malattia, se ne rinvenivano i casi più numerosi in quelle famiglie che vivevano nelle non ancora ristau- rate abitazioni. Si potrebbe da taluno obbiettare com’ è che esi- stendo oggi ancora parecchie abitazioni nelle quali si verificano le stesse influenze di malsania con dominio d’ umidità e di miasmi, con scarsità di luce e di ven- tilazione, tuttavia non si hanno nella città casi di ra- chitismo proporzionati al numero degli individui che abitano in quelle dimore? i Tale obbiezione è certamente giusta, e merita che s indaghino i motivi per cui esistendo tuttora in alcuni punti della città le condizioni più gravi, diciam così, domestiche di malsania, non vi corrisponda proporzio- nalmente l effetto del rachitismo. Due a parer mio sono le ragioni che bisogna prin- cipalmente invocare a spiegazione di questo fatto. La prima ragione è che oggidi, per motivi complessi è più frequente il rimutamento delle famiglie in quelle case dove per un anno abita una famiglia che nel ven- turo cede il posto ad unfaltra e così di seguito. È ben raroZil caso che una famiglia da moltissimi anni, come usavasi nei tempi patriarcali abiti lo stesso focolare, per più generazioni. — Ill —- Le cagioni che alterano le costituzioni, che distur- bano profondamente l° impasto organico fondamentale agiscono per lo più con lentezza, e la loro azione vuole prolungata, diuturna, continua. Se a intervalli ne inter- rompi la malefica influenza, o queste cause non. mani- festano o incompletamente i loro effetti, che poscia fa- cilmente per mutate condizioni 0 per acconcio tratta- mento terapeutico spariscono. Ciò è quello che a parer mio si verifica nel caso concreto del nostro rachitismo in rapporto alle influenze locali generatrici. Nè tal supposizione mi è nata in mente per effetto d’imaginazione, ma per aver tali cose più volte osser- vate e verificate nell'occasione di dover visitare le fa- miglie povere che domandavano d’ ammettere qualche- duno dei loro fanciulli nell’ Asilo d’ Infanzia. In tali visite ho trovati alcuni bambini o affetti o in via di esserlo dal rachitismo, ma’ generalmente li rinvenni in quelle famiglie che da parecchi anni abita- vano in case insalubri per umidità, per miasmi, per searsità di luce e d’aria buona; mentre in altre famiglie egualmente povere, ma che spesso mutavano abitazione alternandola ora in luoghi sani ora in luoghi insalubri, fu sempre eccezione se vi trovai bambini rachitici. Ma oltre a questa un altra ragione merita pure di essere notata. Appena il bambino può star in piedi, e fare i primi passi lo si toglie dalla casa, si porta nell’ officina, si melte in una scuola, si conduce nei prati della città, fuori delle mura. La casa è divenuta pel fanciullo un ricovero per la notte, e soro ben rari i casi nei quali i fanciulli abitino due o tre anni (come pur praticavasi in addietro per diversità d’ abitudini e costumanze) con- tinuamente nella medesima stanza, respirando la stessa aria malsana, risentendo per lungo tempo le stesse in- fluenze. Sgo Il malefico influsso delle poco salubri abitazioni i fanciulletti risentono di tal guisa per poche ore, e per breve tempo; e trovano direi quasi un compenso alle influenze cattive della notte, nelle influenze benefiche dell’aria nel giorno, e del sole. L’aria buona che re- spirano il di paralizza gli effetti dell’aria nociva che respirarono la notte. Nè sole queste cagioni influirono a far diminuire, anche nei luoghi meno insalubri, il rachitismo, ma un complesso d’ altre circostanze vi concorsero, come cam- biamento d’ abitudini, d’ alimentazione, ec. Vi ha però un altra malattia la cui dominazione non è cessata, ed anzi, argomentandolo da quello che si os- serva sotto a’ nostri occhi (non potendolo desumere dalle statistiche ) pare che cresca, e questa è la scrofola con le varie sue forme e conseguenze in ispecie di tuber- colosi polmonale. Ma ognuno sa che tale morbo non dipende soltanto dalle condizioni atmosferiche, dall’ umido, dal miasma, dalla deficienza di luce ec. dalla alimentazione ec. ma da moltissimi moderni, appoggiati a risultanze statistiche molto concludenti, vuolsi in massima parte derivato dal virus sifilitico, il quale altera siffattamente le condizioni organiche plastiche da indurre con massima facilità nei procreati da genitori sifilitici, la scrofola o la tendenza ai mali scrofolosi. i Certo è che se la scrofola dipendesse solamente dalle condizioni atmosferiche ed alimentizie fra le quali si trovano i fanciulli, e gli adolescenti avrebbe dovuto di- muire nella stessa guisa che scemò il rachitismo, e l’ essere avvenuto il contrario prova che da altre condizioni ne procede l’ aumento. ; Se io avessi avuto statistiche da consultare avrei bramato di corroborare i miei asserti colla eloquenza delle cifre, ma le statistiche pei tempi passati ci mancano. — 115 — Io ho creduto di raccogliere alla meglio queste notizie, e farvene argomento in questa adunanza, nella lusinga che altri si. voglia in seguito occupare di questo tema con maggiore profondità, e nella fiducia che conosciuta la grande influenza che ebbero i già fatti miglioramenti sulla salute dei nostri concittadini, il municipio trovi in essi conforto a perfezionare e completare | opera inco- minciata avvegnacchè siano gli uomini forti e sani che rendono forti e rispettate le nazioni. 3 CRANE TRAI dh bn FO, CENNI CRITICI INTORNO ALLA TEORIA DEL KOLLIKER SULL’ ORIGINE DELLE SPECIE per GIOVANNI CANESTRINI L’ illustre Kolliker ha svolto recentemente le basi per una teoria sull’origine delle specie; cercheremo di svi- luppare brevemente le sue idee su quest importante ar- gomento. Siccome la creazione degli organismi en bloc, in un getto solo, non merita alcuna discussione, siamo ridotti al seguente dilemma: 1.° O gli organismi si svilupparono per generazione spontanea, ciascuno indipendentemente dagli altri, da un proprio germe ed assumendo una forma tipica. 2.° Oppure non vi furono che una o poche forme fondamentali, dalle quali si svolsero le altre; è questa la teoria della creazione per generazione secondaria. I sistemi fondati sulla generazione spontanea s' allon- tanano talmente dalle odierne osservazioni che nessuno può accettarli, per cui non ci resta che di ammettere la generazione secondaria. Questa può essere avvenuta se- condo il principio dell’ elezione naturale (teoria del Dar- win); oppure col mezzo di cambiamenti lenti od inter- mittenti sotto l’ azione di una legge generale di sviluppo. Chi ricusa di ammettere la teorica del Darwin, è con- dotto alla generazione eterogenea, secondo la quale gli — 116 — organismi, sotto l’azione di una legge generale di svi- luppo, produssero col mezzo de’ loro germi degli orga- nisi! differenti. In favore di questa dottrina milita principalmente la metagenesi, nella quale animali alquanto elevati assumono forme, che concordano con tipi più semplici, da cui non derivano per metamorfosi, ma per mezzo di un alto di generazione agamica che non distrugge necessariamente il progenitore, ossia lo scolice. Esaminiamo qualche fatto speciale. La idra ossia il polipo d’acqua dolce è un organismo compiuto, peculiare, che si riproduce per germe ed uova direttamente. In altri cast invece un organismo idroide non è che uno stadio nello sviluppo di alcuni medusarii. Si osserva cioè quanto segue. L'uovo delle meduse su- periori si trasforma dapprima in un animale simile ad un infusorio, ovale, rivestito di cigli vibratili, chiamato Planula; questa conduce per alcuni giorni una vita libera e diventa poi sessile, fissandosi con una delle sue estre- mità a qualche corpo marino; essa riceve quindi sul contorno dell’ apertura boccale dei tentacoli ed assume la forma di una idra, per cui in questo stato fu deno- minata Hydra tuba (Scyphistoma ). Progredendo nello svi'uppo il corpo di questo polipo s ingrossa; presso l'estremità libera del corpo apparisce una piega trasver- sale, cui ne succede una seconda, poi una terza. ec., finchè il corpo risulta composto di parecchi disci, accol- lati VP uno sopra l'altro. In tale stato l animale ebbe il nome di Strobila. La separazione dei disci diventa sempre più marcata, finchè ciascuno di questi si separa e diviene un individuo indipendente ( Ephyra). Questo ha tutti i caratteri della medusa, che completa poi il suo sviluppo e produce delle uova. In questo caso noi vediamo che un infusorio (la Planula ) produce in via agamica una idra e che questa, — 117 — per via uguale, dà origine ad una medusa; sembra dun- que che qui abbia luogo una perfetta eterogenesi. Si può supporre che la Planula abbia una volta riprodotto se stessa, e che altrettanto abbia fatto la Hydra -tuba. Nè tale supposizione sarebbe priva di ogni fondamento, giac- ché abbiamo e degli infusorit e delle idre che non sono stadii transitorii nella metagenesi dei medusarii, ma es- seri speciali ed affatto indipendenti. Mentre alcuni idroidi subiscono la sopra descritta metagenesi, hannovi di quelli che non attraversano uno stadio polipiforme, ma subiscono una semplice metamorfosi; osservasi ciò nelle famiglie Geryonidae Eschsch., Trachynemidae Gegenb., Aequo- ridae Gegenb. ed Aeginidae Gegenb. Come queste fami- glie si poterono esimere dal lungo procedimento di svi- luppo e rendersi indipendenti, altrettanto potranno fare in seguito quei medusarii, che al presente vanno soggetti alla metagenesi. Interessante è inoltre la metagenesi degli echinodermi, per la forma tutta speciale degli scolici, dhe ponno pa nissimo aver goduta una esistenza O ed es- sersi riprodotti direttamente per uova. Che il proglottide possa anche in questa classe svincolarsi dalla metagenesi, sembra addimostrato dall’ osservazione che al presente non tutti gli echinodermi vanno soggetti a melagenesi; così le specie Ophiolepis squamata, Asteracantlion Mul- leri, Echinaster spec. danno per uova direttamente delle asterie, mentre qualche altra specie dei generi Ophiolepis ed Asteracanthion si riproduce per mezzo di scolici (o larve come altri vogliono). Anche lo sviluppo dei distomi viene citato da Kol- liker in appoggio della sua dottrina. In questi vermi si osserva che dall’ uovo nasce un o fornito di cigli vibratili e che vive libero a guisa d’ infusorio. Nel suo interno sviluppasi quindi un corpo privo di ciglia vibranti e foggiato a sacco, il deutoscolice, che dà poi — 118 — origine alle cercarie. Siccome gli scolici dei trematodi (meglio i protoscolici) generano degli scolici a loro simili (cioè i deutoscolici ); così Kélliker trova plausibile 1 idea che i primi conducessero una volta una vita propria e speciale. Questi sono, per categorie, i fatti che tendono a provare, che gli organismi ponno, in via agamica, pro- durre degli organismi differenti. Alle sopra esposte osservazioni fatte dal nostro autore ne dobbiamo aggiungere un’altra, la quale si riferisce ad una scoperta fatta da Haeckel e che è della massima importanza. Questo naturalista trovò che la Cunina rho- dodactyla si sviluppa per gemmazione alla superficie della lingua nella cavità stomacale della Carmarina ha- stata. Se questa osservazione fosse esatta si avrebbe qui un chiaro esempio di eterogenia, il quale complicherebbe assai gli oscuri rapporti di parentela che esistono nella classe delle idromeduse (1). Ato Non ostante i fatti sopra citati rimangono sempre problematici l esistenza propria degli scolici e lo svinco- lamento degli individui perfetti dalla metagenesi; favo- riscono bensì questa idea le specie indipetidenti, simili a scolici od a proglottidi di altre specie, ma le conclu- sioni non sono serrate e stringenti e perciò è lecito re- spingerle. Tanto più che la metagenesi è limitata ad alcune classi di animali avertebrati, mancando nelle altre di questa sezione e completamente nei vertebrati. Kolliker comprese questa difficoltà e cercò di pre- venire le obbiezioni ammettendo un secondo modo di eterogenesi, giusta il quale l'uovo fecondato potrebbe, sviluppandosi in determinate condizioni, trasformarsi in un organismo più elevato. Per sostenere questa seconda (1) Jenaische Zeitschrift fim Medicin und Naturwissenschaft, II. Band, I. Heft, pag. 120. — 119 — idea il nostro autore cita parecchi fatti, di cui faremo menzione. » Devesi notare innanzi tutto che negli animali a metamorfosi le larve sono talora assai rassomiglianti a forme più semplici, per cui non sarebbe impossibile che, per esempio, dall’ uovo di un perennibranchiato siasi sviluppato un organismo simile ad un tritone o ad una salamandra oppure un ecaudato. E inoltre notevole, che gli embrioni per regresso o per arresto di sviluppo o per eccessivo accrescimento di certe parti assumono forme analoghe a quelle di altri organismi della stessa classe. Un embrione umano microcefalico prognato, per esempio, assume tipo di scimia ». L’uovo fecondato di un perennibranchiato così ra- giona Kélliker, potrebbe produrre un ecaudato, poichè i girini di questo rassomigliano ai perennibranchiati. Si potrebbe concludere con ugual diritto che l uovo fecon- daio di un anellide possa dare un lepidottero, poichè le larve di questo hanno della somiglianza cogli anellidi. Ma nessuna diretta osservazione conferma siffatte idee. AI contrario noi vediamo che dalle uova dei perenni- branchiati nascono sempre perennibranchiati, e sempre anellidi da quelle degli anellidi. E vero che Kélliker stesso confessa » che nessun fatto diretto comprova l’ opi- nione, che l’uovo fecondato di un animale possa assu- mere una forma più elevata che quella dei suoi geni- tori » e non insiste senonchè sulla possibilità di tale processo; ma della pura e semplice possibilità alla realtà corre gran divario. Ammettiamo per un momento col nostro autore, che l'uovo fecondato di un perennibranchialo siasi trasfor- mato in un ecaudato. Noi certamente domanderemo: come avvenne tale trasformazione? Fu questa analoga a quella che oggidì subiscono i girini degli ecaudati per diventare animali perfetti? E quali furono le cause che _tagi determinarono tale trasformazione? A queste domande Kolliker non ha risposto e noi ci troviamo completa- mente al buio. L'idea sopra espressa del Kélliker presuppone molti animali, propagantisi direttamente per uova, simili a larve o girini. Nè tale supposizione potrebbe essere legger- mente respinta; giacchè conosciamo i perennibranchiati somiglianti a girini e poichè conosciamo delle larve, in cui si sviluppano ancor oggidì gli organi sessuali prima che sia compiuta la metagenesi, e delle altre larve che si riproducono direttamente per germi, come risulta dalie recenti ‘scoperte di Haeckel e Wagner. La prima si riferisce al Glossocodon eurybia ( Liriope eurybia ). Quest animale è da principio una piccola larva che rap- presenta una sfera ialina di gallerta del diametro di 0,3 mill. sino a 0,4 mill.; la superficie porta dei finis- simi punti, i ui altro non sono che i nuclei dell’ epi- telio, il quale copre la superficie della sfera in forma di strato cellulare, a cellule prive di membrana che non si lasciano separare I una dall’ altra (1); in questo primo stadio ‘non scorgonsi che le traccie dell’ombrella e del velo. Nel secondo stadio si mostrano i quattro tentacoli radiali embrionali, i quali compariscono contemporanea- mente o successivamente; il terzo stadio è caratterizzato dalla comparsa dei tentacoli interradiali e dei primi ru- dimenti del sistema gastro-vascolare. Nel quarto periodo si mostrano gli organi dei sensi, si sviluppa lo stomaco, s'ingrandisce l ombrella ed incomincia a mostrarsi il sistema nervoso. Il fquinto periodo è notevole per la comparsa dei tentacoli radiali principali; nel sesto stadio si formano le quattro \vescichette radiali dei sensi e si sviluppa lo stelo dell’ ombrella. Nel settimo stadio scom- (1) Che la membrana cellulare non sia una parte essenziale della cellula, è noto già dal 1857 a questa parte e fu anche recentemente dimostrato da Leydig Handbucth der vergl. Anatomie, I. Band, I, Hùlfte, pag. 10 e seg. CS — 121 — pariscono i quattro tentacoli radiali embrionali, e nel- l’ottavo i quattro tentacoli interradiali. La metamorfosi, come si vede, è progressiva sino al settimo stadio e di- venta poi regressiva. Ciò che giova notare si è che lo sviluppo degli organi sessuali dovrebbe aver luogo solo nell’ ottavo periodo, quando l animale ha subita tutta ed intera la metamorfosi; ma sappiamo da Haeckel, che talvolta il detto sviluppo ha luogo nel settimo ed anche nel sesto stadio (1). La seconda scoperta è quella di Nic. Wagner e si riferisce ad una specie di cecidomia. Le larve di questo dittero si propagano in via agamica; il processo inco- mincia in autunno e continua nell'inverno e nella pri- mavera, durante il qual tempo parecchie generazioni di larve si succedono, finchè l’ ultima generazione, che nasce in giugno, si trasforma in ditteri perfetti e sessuati. Gli animali perfetti quindi si accoppiano, fanno uova e si rinnova il processo suddetto (2). Le osservazioni del Meinert, del Pagenstecher e del Leuckart confermarono la scoperta del Wagner e la estesero sopra altre specie del medesimo gruppo di ditteri. Di fronte a questi fatti dobbiamo osservare, che gli animali indipendenti simili a girini sono al presente assai scarsi e che inoltre non si osservò mai che questi, anzichè riprodurre se stessi, abbiano generato dei girini trasformatisi poi in ispecie diverse. È tale osservazione avrebbesi pur dovuto fare, non essendo supponibile che la creazione sia finita. Kolliker cita inoltre in appoggio della sua teoria V em- briologia. E nota, egli dice, la grande rassomiglianza che esiste tra gli embrioni di gruppi diversi di animali. (1) Haeckel, Jenaische Zeitschrift fiur Medicin und Naturwissenschaft, II, Band, II. Heft, pag. 129. (2) Zeitschrift fiir wissenschaftl. Zoologie XIII, 4, pag. 513. - Troschel” s Archiv fr Naturg. XXXI, 3, pag. 286. — 122 — Non solo si rassomigliano tra loro ne’ primi stadii di svi- luppo gli embrioni di tutti i mammiferi, ma questi sono inoltre assai affini a quelli degli uccelli e dei rettili. Un embrione di mammifero non avea che a variare assai poco in una direzione o nell’ altra per dar origine ad una nuova forma; bastava p. e. che assumesse un cranio maggiore, un cervello alquanto più voluminoso ec. Che in seguito a deviamenti nello sviluppo embrio- logico possano prodursi delle varietà di una specie, è opinione non solo ammissibile, ma che può essere so- stenuta con molti fatti; se però Kolliker col termine di nuove forme vuol indicare nnove specie, o nuovi generi, dobbiamo respingere la sua ipotesi come contraria alle esperienze fin qui fatte. La prima interpretazione gio- verebbe poco alla teoria del Kélliker, poichè la produ- zione di varietà non conduce a comprendere la genesi delle svariatissime specie, quando si ricusi di accettare il principio della elezione naturale, come fa il nominato autore. Devonsi citare ancora due fatti, i quali, secondo Kélliker, provano che l'uovo non assume sempre neces- sariamente una medesima forma. Il primo si è che in molti animali 1 maschi e le femmine differiscono assai tra loro, in guisa, che ove non fosse riconosciuto il rapporto sessuale, si dovrebbero collocare in generi e per- fino in famiglie diverse. Il secondo si è che negli insetti costituenti delle colonie nascono dalle uova tre sorta di forme, cioè maschi, femine e neutri, tra cui questi ultimi, nelle formiche, differiscono assai dalle due prime forme. Questi fatti citati dal Kélliker sono esattissimi, ma anche costanti. Vediamo che entro una specie il ma- schio assume sempre la stessa forma e la. femina in- variabilmente quella che le è propria; così e’ insegna la quotidiana osservazione che gli individui dell’ ape e della formica costituiscono tre caste, ciascuna con proprì e — 125 — sempre uguali caratteri essenziali. Ciò fa bensì vedere che le uova fatte da una medesima femina possono svi- lupparsi in più che una direzione, ma anche che queste direzioni sono limitate e sempre le stesse. Con ciò non e esclusa una lenta trasformazione, che sfugga a’ nostri occhi, sibbene una trasformazione quale è richiesta dalla dottrina del nostro autore. Come si vede dai cenni precedenti, la teoria del Kòlliker ha qualche rassomiglianza con quella del Dar- win; entrambe partono dal principio della discendenza della specie da uno o da pochi tipi. La differenza tra queste due ipotesi sta in ciò che Darwin ammette le variazioni utili e la elezione naturale, negate dal Kolliker. » Il mio pensiero fondamentale, dice quest ul- timo, si è che la creazione degli esseri organici è diretta da una grande legge di sviluppo, che spinge le forme semplici a produzioni più svariate. Come agisca questa legge, quali cause dirigano lo sviluppo delle uova e dei germi e la loro trasformazione in organismi più perfetti, non posso dire nemmeno io, ma so che tutta la meta- genesi milita in mio favore. Se una Bipinnaria, una Brachiolaria, un Pluteus possono trasformarsi in un echi- noderma tanto diverso; se un polipo idroide può darmi una medusa; se lo scolice vermiforme dei trematodi produce una cercaria, non apparirà impossibile, che l'uovo o l’ embrione cigliato di una spugna abbia potuto tra- sformarsi, in determinate condizioni, in un polipo idroide, oppure che l'embrione della medusa sia diventato un echinoderma ». Un’ altra differenza tra l'ipotesi Darwiniana e quella del Kolliker si è, che questo ammette molte variazioni a salti, mentre il primo sostiene le trasformazioni lente e graduate. Tuttavia Kélliker confessa, che questa idea possa essere ulteriormente discussa. » Se supponiamo, egli dice, che la legge generale di sviluppo agisca in = iL È modo, che gli organismi assumono gradatamente e len- tamente nuove forme e rappresentino da prima sole va- rietà e poi nuove specie, allora ci accostiamo alle idee del Darwin ed andiamo soggetti a tutte le obbiezioni fatte in proposito a questa dottrina. Le obbiezioni più serie sarebbero 1. che non è dimostrato un graduato passaggio da una specie in un’altra; 2. che la paleonto- logia non scoperse le forme intermedie tra le varie spe- cie; 5. che non si conoscono varietà, che siano durevol- mente infeconde tra loro come le specie. Si potrebbe forse aggiungere con buon diritto, che per la lenta tra- sformazione delle specie e dei generi non sarebbero stati sufficientemente lunghi nemmeno gli immensi periodi di tempo trascorsi tra un periodo geologico e l' altro. Se invece ammettiamo, che i passaggi da organismo ad or- ganismo siano avvenuti a salti, in guisa che un orga- nismo primitivo abbia prodotto direttamente delle nuove specie, ad un dipresso come il polipo idroide dà origine alla medusa od uno scolice al rispettivo distoma, in al- lora si presentano i seguenti vantaggi. 1. Queste idee sarebbero sostenute dalla metagenesi. Anzi questa può essere spiegata solo mettendola in stretto nesso colla nostra teoria della creazione. 2. Non ci conturberebbe la mancanza di forme di transizione tra le specie e i generi. 3. I fatti che si riferiscono alla riproduzione non ci sarebbero sfavorevoli, poichè non costituirebbe alcun ostacolo per la nostra teoria la fecondazione osservata tra le/varietà e si comprenderebbe, perchè alcune specie . stano tra loro feconde ed altre infeconde, il qual fatto non può essere rivocato in dubbio dopo le molte osser- vazioni che si fecero in proposito. Se le specie con atto creativo danno specie, esse potranno fecondarsi recipro- camente ed è inoltre ben possibile, che questa facoltà vada più tardi perduta. 4. Tale creazione esigerebbe un — 125 — tempo lungo bensi, ma non di una lunghezza che sor- passa ogni limite e probabilità (1) ». Se esaminiamo la teoria del Kolliker nel suo com- plesso, ci convinceremo facilmente, che nessun fatto po- sitivo, all’ infuori della metagenesi, appoggia direttamente l’idea di una generazione eterogenea; la metamorfosi, le differenze sessuali, le varie caste di individui entro una medesima specie ponno essere assai più plausibilmente spiegate colla dottrina del Darwin che con quella del Kélliker. Quest’ ultima inoltre non porta alcuna luce nei fenomeni che si riferiscono alle numerose varietà odierne, alle forme di transizione constatate dalla paleontologia, agli istinti degli animali, alla distribuzione geografica degli organismi ec. Se consideriamo bene ogni cosa, do- vremo alla teoria del Kélliker, quale ci venne sbozzata dall’ illustre suo autore, anteporre quella del Darwin, che dopo esser stata accolta con entusiasmo e dippoi caloro- samente combattuta, rientra, afforzata da nuove scoperte, nel favore del mondo scientifico. ———_=09(=—_ (1) Uiber die Darwin’sche schòpfungstheorie, von A. Kolliker. Zeitschrift filr wissenschaftl. Zoologie, XIV. Band, II. Heft, pag. 174-186. IPERTROFIA STRAORDINARIA DEL CUOR DESTRO con RESTRINGIMENTO AGLI ORIFIZII DEL MEDESIMO NOTA DEL PROF. EUGENIO GIOVANARDI .( Letta nell’ adunanza del 21 maggio 1867 ) Vedi Tavola VII.® Melani Giuseppe, d’ anni 52, nativo di Gombola, di professione giornaliero fu accolto nell’Ospedale di Modena il giorno 21 marzo 1867. ; Era moribondo. Aveva respiro frequente e brevis- simo, polsi piccolissimi ed appena percettibili, e molto frequenti, colore delle estremità quasi cianotico. Non aveva tosse, nè escreato, nè accusava dolore in alcuna regione del corpo, ma solo un senso di forte oppressione nella regione anteriore e laterale sinistra del petto. Non aveva anasarca, nè idrope ascite, ed aveva libere e nor- mali le facoltà della mente. Il medico curante gli praticò alla megtio la percus- sione e l’ascoltazione agli organi del torace, e potè con- statare colla percussione un’ ottusità che in tutte le di- rezioni anormalmente si estendeva al di là della regione cardiaca, e saliva a sinistra fino al bordo inferiore della seconda costola. Coll’ ascoltazione non fu sentito alcuno de’ suoni cardiaci. Parlava a stento, e solo potè raccontare, che s'era messo a letto da 10 giorni; che un’anno prima aveva scontata una malattia, per la quale erasi gonfiato nelle — 128 — gambe, nelle coscie e nel ventre; e che a poco a poco le gonfiezze erano scomparse, ma gli era rimasta molta prostrazione di forze, difficoltà di respiro, e palpitazione di cuore specialmente quando faceva qualche fatica. La mattina del 22 marzo morì. Il giorno dopo gli fu praticata l’ autopsia nella scuola di anatomia patologica, ed eccone il risultato. Aperta la cavità del torace si trovò il Pericardio enormemente dilatato per grande copia di liquido in esso raccolto. Si estendeva in basso fino al bordo infe- riore della settima costola; in alto fino alla seconda co- stola; a sinistra fino a cinque centimetri all’ esterno delle articolazioni delle cartilagini colle costole; a destra oltrepassava di quattro centimetri il bordo sternale. Ambedue i polmoni erano compressi, ma più special- mente lo era il lobo superiore del sinistro, il quale non occupava altro che il primo spazio intercostale. La compressione forte, permanente e prolungata ave- , valo atrofizzato in modo, che ogni traccia del suo tessuto normale era scomparsa, ed il parenchima polmonare era convertito in una sostanza cellulo-fibrosa assai compatta, di consistenza carnea, e di colore grigio, che immersa nell'acqua precipitava al fondo come un polmone che non abbia mai respirato, o che abbia toccato lo stadio dell’ epatizzazione. Ambedue i polmoni erano anemici; l’ arteria polmo- nare e le vene polmonari erano vuote, le cave e le jugulari erano piene, l’aorta, le succlavie e le carotidi erano vuote e di calibro più piccolo dell’ ordinario. Fu levato tutto intero il pericardio, e questo col li- quido contenutovi fu trovato del peso di grammi 2720. La sua circonferenza massima era di centimetri 66. Aperto il sacco si raccolse in un vaso tutto il con- tenuto del medesimo, che era un liquido giallo-scuro, torbido, e denso nel quale nuotavano fiocchi albuminosi, — 129 — e lo stesso liquido trattato coll’ acido nitrico e coll’ ebol- “lizione diede un’ abbondante precipitato di albumina. Osservato mediante il microscopio vi si trovarono molte cellule purulente, dei globuli rossi del sangue e qualche cellula epiteliale. — La superficie interna del foglio parietale del peri- cardio era seminata di macchie rosse di varia grandezza aventi l’ aspetto di Echimosi ed era rugosa e coperta di villosità. Il foglio viscerale del pericardio medesimo, era anche esso, ma solo in corrispondenza del cuor destro, sparso di macchie rosse, e di alcune macchie lattee, era fina- mente iperemizzato, e sulla sua superficie libera sorge- vano delle produzioni fibroidi. Il cuore presentava una rarissima alterazione. Il ven- tricolo destro e l orecchietta destra erano affette da un enorme ipertrofia concentrica, ed il ventricolo e 1° orec- chietta sinistra erano in istato di atrofia. Lo spessore del setto interventricolare eraînella sua parte media di . .... . . millimetri 43. Lo spessore della parete anteriore del ventricolo destro di ...... SEAL I, ” 24. Lo spessore della sua parete posteriore ” DSi Lo spessore della parete dell’ orec- chietta destra in prossimità della sua base ” 15. Lo spessore del setto interauricolare . ” 9. La cavita del ventricolo destro era appena capace di contenere una noce, ed infatti il suo diametro trasverso era di . ” 253. Il diametro verticale di ........ » 26. Il diametro antero-posteriore di . . . ” 50. La cavità dell’ orecchietta destra non era sensibil- mente diminuita. L’ orifizio auricolo - ventricolare destro, non conser- vava più alcuna traccia della sua normale conformazione, 9 — 150 — e rappresentava invece una fissura a bordi irregolari e flessuosa nel suo andamento, ed era lunga 16 millimetri e larga 6 millimetri. Questo straordinario restringimento e questa defor- mazione dell’ orifizio era prodotta da ipertrofia con pro- duzione fibro-cartilaginea del tessuto connettivo ‘sotto endocardico al contorno dell’ orifizio stesso, e da altera- zione ateromatosa della valvola tricuspidale, la parte anteriore della quale era affatto immobile, ed aveva sul suo bordo libero un grosso bernocolo duro e calcareo, che vie più ne restringeva l’orifizio. L’infondibolo aveva il diametro di. . millimetri 10. L’orifizio dell’arteria polmonare di . . D 8. Le valvole sigmoidee dell’ arteria polmonare non erano più riconoscibili: erano ateromatose e calcificate; erano completamente immobili e saldate assieme, e rappre- sentavano un piccolo imbuto che colla sua faccia concava guardava verso la cavità del ventricolo (1). La grande vena coronaria del cuore era piena di sangue, e varicosa. Nella cavità del ventricolo destro e nell’ infondibolo era un coagulo fibrinoso bianco, compatto e assai tenace che chiudeva l’orifizio dell’ arteria polmonare. L’endocardio del ventricolo destro era ingrossato ed opacato specialmente verso gli orifizi, e la sua superficie libera era rugosa e coperta qua e là di piastre bianco- giallastre. Versando dell’acqua nell’ arteria polmonare, e diri- gendola verso il cuore, entrava direttamente e senza alcun’ ostacolo nel ventricolo destro, e con uguale faci- lità passava dal ventricolo nell’ orecchietta. Le pareti del cuore sinistro, e specialmente quelle del ventricolo erano assottigliate e flaccide, ed il colore (1) V. Tavola N. VII — 151 — E giallastro dei muscoli delle medesime faceva contrasto col color rosso vivo dei muscoli del ventricolo destro, dei quali era pure notevole la compattezza e la consistenza. Nessun’ alterazione fu riscontrata nelle meningi e nell’ encefalo, e nessuna negli organi del basso ventre. Ho creduto di qualche interesse per l'anatomia pa- tologica il registrare questo fatto, imperocchè |’ ipertrofia parziale del cuor destro è rara, ed è poi rarissima l al- terazione ateromatosa e calcarea delle valvole, special- menle di quelle dell’ arteria polmonare. L'ho creduto pure interessante attesa la grande quantità di liquido raccolto nel pericardio, dalla quale rilevasi di quanta dilatazione sia capace questo sacco, quando in esso il versamento succede gradatamente e lentamente; e rile- vasi pure come il cuore a poco a poco si abitui ad una forte compressione, mentre che resterebbe paralizzato e cesserebbe ogni suo moto se il versamento fosse istan- taneo o molto rapido. Credo pure non sia inutile per la fisiologia patologica il ricercare quale sia stata la causa dell’ idropericardio; quale la causa dell’ ipertrofia del cuor destro, e delle alterazioni valvolari del medesimo; e quale la causa dell’ anemia polmonare, dell’ atrofia del cuore sinistro e dell’ atressia dell’ aorta e di tutto 1’ albero arterioso. In quanto all’ idropericardio, questo dipendeva diret- tamente dalla pericardite cronica, già constatata coll’ au- topsia tanto sul foglio viscerale, quanto sul parietale per la fina e capillare iperemia, per le macchie sanguigne, per le villosità esistenti sulla superficie libera del peri- cardio, pei fiocchi albuminosi nuotanti nel liquido, col quale pure erano mescolate cellule purulente e globuli rossi del sangue. Probabilmente la malattia dalla quale il Melani fu da principio travagliato, era una pericardite acuta, la quale poscia assunse un’ andamento cronico, e produsse — 152 — così a poco a poco quel versamento così cospicuo, e quella dilatazione così straordinaria del sacco del peri- cardio; non essendo possibile che una siffatta dilatazione in pochi giorni si potesse effettuare. To non dubito che anche una cagione meccanica abbia contribuito alla produzione dell’ idropericardio, l° ostacolo cioe che la vena coronaria trovava a scaricarsi nell’ orec- chietta destra del cuore, nella quale stagnava il sangue durante la sistole per il restringimento del suo orifizio, e nella quale rifluiva il sangue durante la sistole ven- tricolare per l'insufficienza dello stesso orifizio. Infatti la vena coronaria fu trovata piena, dilatata e varicosa. Ma oltre ai segni anatomici di una pericardite, esi- stevano pure nel ventricolo destro del cuore le altera- zioni. caratteristiche di una sofferta endocardite, e queste erano l’ opacità, e l’ ingrossamento dell’ endocardio, la prolificazione del tessuto connettivo sottoendocardico, e la degenerazione ateromatosa e calcarea delle valvole semilunari e della tricuspidale. lo ammetto la possibilità di formazione dell’ ateroma indipendentemente da stato flogistico, e per semplice dis- sesto della nutrizione dell’ endocardio e della tunica in- terna dei vasi. Ma lateroma trovasi frequentemente nelle valvole del cuore sinistro e nell’aorta, specialmente negli individui di età avvanzata, mentre che è rarissimo nel cuor destro e nell’arteria polmonare. Quando adun- que l’ateroma si forma nel cuor destro si deve anche a priori ammettere l azione di una. causa speciale ed inso- lita, e nel caso nostro questa causa fu appunto l’ infiam- mazione tanto essudativa quanto parenchimatosa, della quale già furono constatati i segni anatomici. L’endocardite adunque produsse l'alterazione atero- matosa e calcarea e questa produsse il restringimento degli orifizii auricolo-ventricolare, ed arterioso, e produsse pure l insufficienza dei medesimi. — 155 — Dal restringimento e dall’ insufficienza ne venne una ipertrofia del cuor destro, la quale fu prodotta dalle vio- lente e continuate contrazioni eseguite dal medesimo per vintere gli ostacoli che il sangue incontrava al suo pas- saggio dall’ orecchietta nel ventricolo, e dal ventricolo nell’ arteria polmonare. Passando pochissimo sangue nell’ arteria polmonare si spiega a meraviglia l’ atressia della medesima, l’ anemia dei polmoni, l’ atrofia del cuore sinistro, ed il restrin- gimento dell’ aorta e dei principali tronchi arteriosi. Ciò che rimane alquanto difficile a spiegarsi si è il perchè in seguito ad un ostacolo meccanico al corso del sangue siasi formata un’ ipertrofia concentrica nel ven- tricolo destro, anzichè un’ ipertrofia eccentrica, come suole avvenire quando il sangue esercitando. contro le pareti del cuore una pressione, tende a dilatarne le cavità. Ma se si considera che negli orifizi oltre il restringi- mento, esisteva pure un’ insufficienza ad un notevole grado, e che ad ogni sistole ventricolare quella quantità di sangue che non poteva passare - nell’ arteria polmo- nare rigurgitava nell’ orecchietta destra, si comprenderà che le pareti del ventricolo destro non subivano pres- sione straordinaria. Un’ altra cagione poi io credo che abbia potente- mente contribuito allo svolgimento dell’ ipertrofia con- centrica. L’ endocardite cronica e la pericardite cronica debbono avere prodotta e mantenuta un’ iperemia cro- nica nei muscoli del cuore, e quindi un’ ipertrofia dei medesimi; ed infatti i muscoli del cuor destro erano rossi, più compatti e molto più consistenti dell’ ordinario, e gia oramai l’ anatomia patologica ha pienamente con- statato che una delle cagioni più potenti dell’ ipertrofia concentrica degli organi cavi è l’iperemia cronica de’ me- desimi. — 154 — Di tutte le descritte anatomiche alterazioni quale mai fu l’ ultima a formarsi, e quale fu la causa imme- diata della morte del Melani? Nessuno metterà in dubbio, io sono certo, che quel coagulo sanguigno che fu trovato nel ventricolo destro del cuore e che otturava a guisa di un tapo l’ orifizio dell’ arteria polmonare non si fosse formato durante la vita, poichè aveva tutti i caratteri che sono propri de’ coaguli attivi, era cioè bianco, tenace e assai resistente, ed i coaguli che si formano o dopo la morte, o negli ultimi momenti di vita sono rossi o giallastri e molto molli ed hanno pochissima coerenza. Questo coagulo che chiudeva il lume dell’ orifizio dell’ arteria polmonare fu causa della immediata morte del Melani sospendendo completamente la circolazione sanguigna; e ciò viene anche meglio comprovato dalla totale anemia dell’ arteria polmonare, dei polmoni e del cuore sinistro. ARCHIVIO PER L’ANATOMIA MICROSCOPICA pubblicato DA MASSIMILIANO SCIILULTZE Professore di Anatomia in Bonn. COMUNICAZIONE DI E. OEHL Professore nella R. Università di Pavia ( Presentata nell’ adunanza del 28 gingno 1867 ) ID questo il titolo di un nuovo giornale, di cui i primi fascicoli apparsi fino ad ora ci sono garanti che sarà per essere degno coetaneo degli Archivit di Ana- tomia Patologica di Virchow, di quelli di Zoologia di Kolliker, di quelli di Anatomia e Fisiologia di Reichert e Du Bois. Nè dovra certo sembrare strano, che in questo con- sorzio di pubblicazioni periodiche, trovi un posto con- facente questo Archivio, quando specialmente si pensi alla crescente vigoria colla quale si dedicano alle ricerche di Anatomia microscopica i dotti di Europa e quando si consideri, che per la vastità sterminata del rispettivo campo d'indagine, il materiale di annua produzione non potrà essere da non appositi periodici intieramente ricevuto. E ciò tanto più, quantochè gli Archivii di Schultze si propongono di pubblicare in uno scopo sin- tetico ogni lavoro originale sulla struttura microscopica non soltanto dell’ organismo umano, ma anche di quello degli animali e vegetali tanto in istato di salute che in quello di malattia. — 156 — Dico in uno scopo sintetico, dappoichè stabiliosi dal microscopio uno stretto legame fra i tessuti anmali e vegetali, fra i normali e i patologici, è evidente non potersi svolgere efficacemente la trattazione dei più im- portanti problemi di istologia generale, se non avendo riguardo a tutte quante le forme della organizzazione. Questo sguardo sintetico sulle forme istologiche è reso df- ficile dalla separazione della zoologia dalla botanica, della anatomia normale dalla patalogica; le quali per quanto isolatamente riescano utili al concentramento delle forze dei singoli sulla soluzione di problemi speciali, pure non ponno che indirettamente, vale a dire coll’ accumulo del materiale d’ indagine, influire sù quella dei pro- blemi generali. E questo è appunto lo scopo a cui ten- dono oggigiorno i cultori della scienza; quello cioè di neutralizzare i danni cagionati da una troppo violenta separazione, di ritornare l’ anatomia microscopica al suo vasto orizzonte e di far emergere una istologia, che con- sideri tutti quanti gli organismi nel loro sviluppo nor- male e patologico. E ad una tanta aspirazione non pote- vasi a meno di giungere, dopo che la esperienza aveva insegnato, piucchè dalla importanza della forma, ritrarsi il filosofico concetto della natura organizzata dalla esten- sione di essa. Ella non era tanto infatti una forma co- mune a tutti corpi trovantisi in determinate condizioni. di aggregazione e di affinità molecolare, quella che do- veva eccitare la intuizione sintetica dei dotti, quanto doveva esserlo l’ apparizione sua in ogni essere orga- nizzato e lo svolgimento che dalle sue diverse modifi- cazioni prende ogni tessuto, si animale che vegetale, sì fisiologico che patologico. Nè al nuovo Archivio mancherà la impronta di una ben desiderata novità nella trattazione dell’ argomento tecnico, al quale non mirarono sino ad ora che assai scarsamente e in modo affatto secondario gli altri pe- — 157 — riodici. Proponesi esso infatti di non trascurare lo studio del meroscopio e del suo perfezionamento, come pure si prdigge occuparsi di tutti quei metodi ed apparati, la cui conoscenza si rendesse necessaria nelle indagini mi- crosopiche. Volessimo anche a questo proposito evitare la lurga disamina storica dei rapporti fra lo sviluppo della scenza e della tecnica, non possiamo, senza compiacenza, | mcordare i più recenti effetti, che dai progressi della seconda emersero per la prima. La felice applicazione al microscopio dei fenomeni di polarizzazione condusse al differenziamento della sostanza degli organi in base al criterio ottico della doppia e semplice rifrazione. Così, a modo d’ esempio, i sarco-elementi che Todd e Bow- mann avevano, diremmo quasi, molecolarmente contrad- distinti, ricevettero dalio studio che fece di essi il Bricke colla luce palarizzata un nuovo battesimo di autonomia nella scoperta delle loro proprietà birifrangenti. Gli ob- biettivi ad immersione in sostanze a diverso indice di rifrazione valsero a farci penetrare più addentro nella conoscenza morfolorica di elementi, che per le condizioni proprie di loro refrangibilità erano meno accessibili alla indagine ordinaria. Lo studio poi delia influenza più o meno specifica che dispiegano i reagenti sui tessuti che si osservano; le imbibizioni coloranti; la conoscenza dei metodi e delle sostanze atte alla conservazione dei preparati; la tecnica delle injezioni; tanto per ciò che riguarda la qualità e l'accoppiamento delle sostanze da injettarsi, quanto per ciò che concerne l’ andamento della injezione, hanno fatto quei rapidi progressi, che sono testificati dai pre- parati di Thiersch e di Gerlach, non che dalla istessa predilezione che ha per le sue recenti injezioni il nestore dei tecnotomici, il professore Hyrtl. Non è quindi me- raviglia che tanto si arrichisca oggigiorno di opere spe- ciali la tecnica del microscopio e de’ suoi diversi appa- — 158 — rati, non che quella che riguarda la migliore naniera di ottenere e di conservare i preparati microcopici, senza il sussidio dei quali, non potrebbero mantnersi lungamente in credito gli studi istologici, essendochè per lo immane peso brutto del contingente annuo da essi somministrato, monchè pei dubbì causati dalla varietà, dalla disparità, dalla contrarietà, e qualche volta dala inverosimiglianza delle opinioni, ha finito coll’ esaurirsi la buona fede degli intelligenti e col non essere suscet- tibile di ridestarsi, se non eccitata dalla contemplazione dei preparati riferentisi a quanto è affermato dagli scritti. Anche sotto questo rapporto quindi non poteva ve- nire più opportunamente una pubblicazione periodica, la quale, oltrechè allo scopo principale di ridestare colla maggiore poss:bile centralizzazione la discussione intorno al più importanti problemi della istologia e di eccitarne la sintetica contemplazione, tende eziandio alla utilissima ed oramai indispensabile meta di tenere informato il lettore delle innovazioni e dei perfezionamenti che si verificano nei metodi e nei mezzi d'indagine. Così, a modo di esempio, lo stesso Schultze prelude alla pubblicazione del primo fascicolo con un suo inte- ressantissimo scritto intorno ad un tavolino da micro- scopio suscettibile di essere riscaldato ed all’ applicazione. di esso allo studio del sangue. L’apparato di Schultze non è altro che una piastra d’ ottone, dello spessore di 1 a 2 millimetri, foggiata presso a poco a ferro di cavallo. La sua parte mediana ha la forma e l'estensione di un’ ordinario tavolino da microscopio con un piccolissimo foro nel mezzo, mentre lateralmente si prolungano due braccia, della larghezza di 5 centimetri, che dopo breve decorso ripiegano ad angolo retto in avanti, decorrendo ancora pel tratto di 17 a 20 mm. — 159 — Questa piastra d’ottone deve applicarsi sul tavolino ordinario del microscopio in modo però che rimanga un piccolo spazio intermedio, il quale si ottiene mediante due asticelle di legno applicate lateralmente al forellino mediano e prominenti sul piano del metallo. . Lo spazio intermedio alle due asticelle di legno con- tiene il pozzetto di un termometro foggiato a due com- pleti. giri spirali, disposti concentricamente al foro me- diano, i quali si continuano quindi nel tubo del termo- metro, che appoggia sovra un terzo braccio metallico, il quale dal margine anteriore della parte mediana della piastra si avanza e si eleva inclinato. In questa terza appendice metallica, che ricetta il tubo del termometro, è scolpita la scala del medesimo, facilmente consultabile, per la sua favorevole posizione, nell’atto istesso che si osserva al microscopio. Per preservare da ogni lesione la spirale del termometro è dessa racchiusa in una sca- tola di latta, la quale ricevendo calore dalla piastra di ottone ha il vantaggio di riscaldare uniformemente anche al disotto la spirale del termometro. Ben s’ intende che questa scatola deve essere pure forata in corrispondenza del foro centrale che vedemmo applicato alla parte me- diana della piastra d’ ottone. La lunghezza e la grossezza delle due braccia laterali dell’ apparato è calcolata in ma- niera, che sottoponendo a ciascun braccio una piccola lampada a spirito di vino, la parte mediana raggiunge una temperatura di 35° a 40° C. Facilmente s’ intende che applicando questo apparato al tavolino ordinario del microscopio, ove si fissa mediante morse laterali che, a non impedire il maneggio del preparato, si approfondano in doccie scolpite nella piastra d’ ottone per modo da non superarne il piano, facilmente s'intende, dico, che appli- cando questo apparato al tavolino ordinario del micro- scopio, devesi por mente che sieno centrati i fori di quest’ ultimo con quelli del primo. Ad impedire poi gli — 140 — effetti della soverchia evaporazione dal preparato in causa dell'aumento di temperatura, lo Schultze, attenendosi al primitivo suggerimento di Recklinghausen, applica all’ obbiettivo una campanella di cristallo, che inferior- mente combaccia col vetro porta oggetti, superiormente circonda il tubo del microscopio lasciando però adito al suo movimento verticale. Due listerelle di carta bibula e bagnata, le quali s' insinuano nel piccolo ambiente che ne risulta, bastano a mantenervi un sufficente grado di umidità. Schultze controllò il proprio strumento, determinando prima il grado a cui si fonde la paraffina da lui impie- gata a questo controllo (51 a 32° C) facendone quindi un preparato microscopico e vedendo, se il termometro dell'apparato segnava l’indicato grado di fusione quando la sua incipienza rilevavasi al microscopio per la traspa- renza che andava ad assumere il preparato. Lavorando su piccole masse di paraffina in un tubetto capillare con una soluzione gommosa, e non oltrepassanti le dimensioni di un globulo di sangue, trovò che vi era una coincidenza quasi perfetta; se non che impiegando masse maggiori, inallora per la cattiva conducibilità della paraffina, fondonsi prima i margini del preparato e il termometro dell’ apparato ha già oltrepassato il grade di fusione, mentre nella parte centrale la fusione non è an- cora avvenuta; e viceversa, portando nel campo una por- zione marginale già fusa, si solidifica, mentre il termo- metro accenna ad un grado superiore a quello della fusione. Questa differenza non si ha che lavorando su grandi masse, e dipende dalla cattiva conducibilità della paraffina e dalla specie di ventilazione che si stabilisce attraverso il sistema dei fori centrali scolpiti nell’ appa- rato. Egli è per questo che bisogna avvertire che il forellino centrale della piastra d’ ottone sia ben piccolo poichè inallora la perturbazione. viene ad essere molto minore. 1 — 141 — E inutile avvertire che onde la riflessione dello specchio. del microscopio corrisponda alle esigenze di una conveniente illuminazione dell’ oggetto, bisogna di tanto innalzare il primo, quanto fu elevato il secondo sul piano del porta oggetti ordinario del microscopio in causa della interposizione del descritto apparato di riscaldamento. Schultze applicò per la prima volta questo apparato per tentare uno studio dei globuli sanguigni umani alla temperatura del corpo. Egli distingue nel sangue due specie di globuli bianchi, (con forme intermedie ) luna delle quali a piccole, l’altra a grandi granulazioni; ambidue le specie sono nucleate e se Lieberkihn aveva ‘ pei globuli bianchi constatato un lieve movimento con- trattile, Schultze col metodo del riscaldamento con- statò in essi fra i 35° e 40° C..la esistenza dei più spiccati movimenti amebiformi, anche con lenta locomo- zione e con forte aderenza alle pareti del vetro, mani- festata dal non seguire ch’ essi fanno le eventuali correnti . liquide del preparato. Sotto questi movimenti rendesi più energico il movimento molecolare già visibile nei globuli della prima specie in riposo e si appalesa quello che non era evidente nei non contraentisi globuli della seconda specie. Nei loro movimenti amebiformi questi globuli bianchi presentano un fenomeno già osservato da Haechel nei rizopodi, poi da Recklinghausen e da Preyer nei globuli bianchi della rana, quello cioè di av- volgere colla loro sostanza le granulazioni circostanti ed appropriarsele (1). Schultze ha constatato questo fatto pei globuli bianchi dell’uomo, i quali si appropriano le granulazioni di carminio, di cinabro, d’ indaco, di azzurro d’anilina e perfino globuli lattei del diametro di 0,005 mm. (1) Vidi questo anche nella Monas termo di Elirenberg. Giunta in vicinanza ad un bacterio fa un rapido movimento di prensione, come farebbe un pesce della preda, poi contorna il granulo colla sostanza del proprio corpo, in seno al quale vedesi ben presto apparire il granulo ingojato. — 142 — che si raccolgono nel loro interno, presentando quivi un movimento molecolare insieme alle granulazioni proprie del globulo bianco. A questa assunzione tendono meno i globuli a gra- nulazioni grosse, differenza che dipende certo da una diversa consistenza del protoplasma corticale. Dappoichè Schulize considera a ragione i globuli bianchi, siccome privi di membrana, e formati soltanto da protoplasma avvolgente uno o più nuclei. Egli attenendosi alla opi- nione gia espressa da Haeckel li parifica ai globuli san- guigni degli invertebrati. I globuli bianchi umani perdono i loro movimenti amebiformi dopo 2 o 3 ore se mantenuti ad una tem- peratura di 58 a 42, nè possono essere ridestati con temperature più basse o più elevate; mantengono invece per molte ore ( fino a 36 ) questi movimenti, se il prepa- rato venga tenuto ad una temperatura di 5 —- 5° C. Se il sangue è conservato in massa a 5° C. inallora 1 globuli bianchi presentano anche dopo 3 o 6 giorni i loro mo- vimenti a 58° C. (1). Dalle ricerche di Kihne, di Sachs, e di molti altri è stabilito il limite massimo a cui può resistere la con- trattilità del protoplasma fra 40° e 50° C. AI di là il protoplasma muore ed assume i caratteri di rigidità. termica che Kihne assegna alle sostanze contrattili, e che si osserva, per esempio, a 45° C. pei muscoli della rana, a 50° C. pei mammiferi, a 55° C. per gli uccelli. Analogamente ai protoplasmi in genere e alle sostanze contrattili muscolari in ispecie, si comportano i globuli bianchi del sangue umano, i quali a 50° C. sono rigidi e mantengono quella qualunque forma che avevano (1) In ciò differiscono da quanto io vidi pei movimenti amebiformi nei corpi salivari della ghiandola sotto mascellare del cane e della pecora, In pieno estate ad una temperatura media di 25° C, li ho rilevati ed indagati nella saliva conservata in tubi ed estratta 48 ore prima dalla ghiandola dei rispettivi animali. — 145 — prima di giungere a questa temperatura. À questo stato di rigidità precede però uno stadio d’ immobilità, dal quale 1 globuli ponno riaversi, e che si osserva pure pei muscoli nello stadio intitolato da Kuhne di tetano termico, per distinguerlo dal successivo stadio di rigi- dità termica. i Schultze applicò il suo apparecchio anche allo stadio dei globuli rossi del sangue umano, ma non ottenne da essi alcuna traccia di contrattilità, alla temperatura di 58 a 45" C. come la vedemmo aver luogo pei globuli bianchi. Però ad una temperatura di 52° C. superiore quindi a quella, nella quale tutti gli altri protoplasmi e sostanze conlrattili entrano in istato di rigidità, i globuli rossi si alterano in modo caratteristico e fino ad ora inos- servalo, perchè i suoì margini cominciano a farsi seghet- tati, poi i piccoli infossamenti del margine così modificato si approffondano nel corpo del globulo, dal quale si prolunga la sostanza in cilindretti o in globicini più piccoli, che aderiscono dapprima per esili peduncoli al globulo. poi se ne staccano e finiscono col formare una specie di detrito sferulare. Qualche volta sono invece dei lunghi filamenti che protrudono e si staccano dal corpo del globulo e somi- gliano a vibrioni pel forte movimento molecolare che li domina, in causa dell’ aumentata temperatura. Questi cangiamenti avvengono a 52° C. nei globuli rossi finché essi mantengono la forma lenticolare biconcava; ma se la loro forma è diventata sferica (il che suol avvenire a vario tempo dalla estrazione del sangue a norma della temperatura ) inallora nemmeno a 60° C. si modificano. Un sangue conservato a 40° G. dopo due o tre ore non presenta più forme lenticolari epperò nemmeno altera- zioni di forma a 52° C.; mentre invece se conservato a 5° — 5° C. presenta ancora forme lenticolari e con- seguenti alterazioni a 52° C. anche dopo 8 giorni. — 144 — A circa 60° C. il menzionato detrito dei globuli rossi si discioglie e ne risulta una soluzione rossa di emo- globina, nella quale nuotano degl’ incolori residui inso- lubili ( così dette membrane dei globuli ). Che questa soluzione di emoglobina sia inalterata, lo dimostra la sua mantenuta felt di cristallizzare. E rimarchevole sotto questo rapporto l’ amalosi. che 1 globuli sanguigni presentano con altri tessuti nel com- portarsi identicamente alle temperature elevate e a quelle al disotto di 0°. I globuli sanguigni diventano sferici sotto 0° e si sciolgono come a 50 e a 60° C. e forse presentano sotto 0° le stesse modificazioni di forma che vi si osservano a 52° C. e che sono analoghe a quelle che Kélliker vide pei globuli rossi della rana trattati con una soluzione concentrata di urea, e che Rindfleisch e Preyer descrivono come verificantisi anche spontanea- mente nei medesimi. Dal descritto contegno dei globuli rossi del sangue umano sorgerebbe la dimasda, se questi globuli siano muniti di membrana e se siano contrattili. Schultze non attribuisce a contrattilità le da lui osservate modificazioni di forma dei globuli rossi dei mammiferi e dell’ uomo perchè avvengono ad una temperatura a cui diventa rigida ogni sostanza contrattile. Egli nega quindi la signi- ficazione di protoplasma alla sostanza dei globuli rossi nei mammiferi e nell'uomo e nega perfino la loro natura cellulare, perchè mancanti di nucleo. Riconosce invece la contrattilità nelle trasformazioni, a temperatura ordi- naria, dei globuli rossi della rana, quindi la significazione di protoplasma, anche per la presenza del nucleo. È in questo s’ accordano i risultati delle belle ricerche di Rollet intorno alla influenza che dispiegano le scariche elettriche sui globuli sanguigni rossi del sangue. Quanto alla presenza di una membrana, lo Schultze si accorda .a negarla con Briicke e con Rollet. Egli fece poi la in- SE teressante osservazione, che nella febbre violenta i glo- buli sanguigni rossi del sangue spiegano la loro tendenza ad ‘assumere la forma sferica in molto maggior grado che non nelle condizioni normali. La importanza dell'apparato di riscaldamento pro- posto da Schultze e la feconda applicazione che egli ne fece allo studio dei globuli sanguigni, ci condusse forse troppo lungi dal principale scopo di questo scritto, quello cioè di diffondere la conoscenza del nuovo periodico, il quale, se è dato giudicarne da questo e dagli altri lavori pubblicati nei primi fascicoli, non che dalla eccellenza delle tavole e dalla eleganza della edizione, promette di non riuscire inferiore alla fama dell’ uomo, che lo redige. 10 , iii ROIO si Ù STORIA DELLA SALSA DI SOPRA PRESSO SASSUOLO DELLA SORGENTE DELLA SALVAROLA E DEI POZZI OLEIFERI DI MONTEGIBIO per | M. CALEGARI E G. CANESTRINI f Ved. la carta del Dott. Stohr, tavola ILA ) i. Salisa di sopra. Il primo a parlare di questa salsa fu Plinio. Egli non racconta ciò che vide ma riferisce quanto aveva letto ne’ libri della Disciplina etrusca, ne’ quali segnavansi le cose più mirabili, che di quando in quando accade- vano (1). » Nel consolato, così si esprime, di Lucio Marzio e di Sesto Giulio (che fu Vanno di Roma 665) avvenne un portento grande nell’agro modenese imperocchè due monti fra lor s accozzarono rimbalzando con forte fra- gore e a vicenda scostandosi, e di mezzo ad essi, ben- chè di giorno, si vide fiamme e fumo levarsi. a cielo. Per cotale' commovimento tutte le ville intorno rimasero sfracellate e spenti molti animali, che verano. È questo portento si stettero a riguardare molti cavalieri romani con la loro gente, ed altri viandanti d' in sulla via Emilia (2) ». (1) Memorie storiche Modenesi del cav. abate Girolamo Tiraboschi, Mo- dena 1793, Tomo I, pag. 21. (2) Caii Plinii sSecundi, Historia mundi libri XXXVII, Cap. 83. — 143 — De colori tetri e spaventosi di questo quadro non si può far colpa a Plinio, e metterne in dubbio la veracità benchè avesse mente portata al maraviglioso; V esagera- zione bisogna attribuirla all'autore ignoto di queste no- tizie (1), ci sara stato secondo ogni probabilità un Augure edotto dalla voce del na "A questa salsa, ed alla sua intermittente MA allude Plinio con altra frase succinta: » nell’ Agro Mode- nese esce una fiamma ne’ giorni sacri a Vulcano (2) ». Questo fenomeno doveva essere molto tranquillo se re- putato onore al Nume più che segno della presenza del Nume terribile. L’ avvocato Antonio Panini di Sassuolo, nella sua cronaca inedita, ama credere che Plinio si sia recato sul luogo dell’ eruzione, e che a memoria della sua visita si sia imposto al colle prossimo alla Salsa il nome bello e superbo di » Roma di Plinio (5) ». Gli amanti delle etimologie saranno contenti di sapere che il Panini nelle sue dotte induzioni, nega che Sas- suolo derivi da piccolo sasso e che sia l’ abbreviatura di sasso solo, in causa di un masso isolato torreggiante un giorno presso la riva destra di Secchia, egli opina che richiamati dalla fama del luogo, in cui era accaduta la lotta di due monti e sedotti poi dalla salubrità dell’ aria, i Romani della vieina colonia di Modena abbiano eretto delle abitazioni di campagna nei dintorni, e che la sco- (1) Spallanzani. Op. cit., Vol. III, Cap. 42, pag. 332 - Dichiarazione degli antichi marmi modenesi con le notizie di Modena al tempo dei Romani di Cele- stino Cavedoni. Modena 1828. Appendice pag. 53 e segg. (2) €. Plinii. Op. cit., lib. II, cap. 107. (3) Questa cronaca voluminosa, che abbiamo potuto consultare pella genti- lezza del sig. Virginio Panini è interessante specialmente sull’ epilogo della Storia di Sassuolo nella 1% parte del 1° volume, e nelle note sugli ultimi avvenimenti del secolo scorso. Il Panini comincia il suo paziente lavoro in un modo semplice e commovente: « non scrivo per altri, ma per me, per prepararmi un conforto nell’ epoca triste dell’ immemore decrepitezza ». Ebbe lo sperato compenso: morì otluagenario. — 149 — perta dell'olio di sasso (saxum olii) sia stata la vera origine della denominazione del forte vicino (1). Lasciamo volontieri ai dotti in questa litigiosa materia l’ultimo giudizio: notiamo di passaggio che lo stemma del Comune, tre sassi, da cui spiccano tre fiori col motto: ex murice gemmae può significare la fiorente cultura di un suolo difficile, o l’ industre ricerca del petrolio: co- munque sia la cosa, noi salutiamo in quella frase tanto un nobile eccitamento, come una lusinghiera promessa. Nella cronaca modenese di lacopino de’ Bianchi detto de Lancellotti vi è una diffusa notizia del terremoto av- venuto nel 5 giugno 1501. — Notando i danni sofferti ne’ castelli di Spilamberto e Castelvetro soggiunge: ruina di Sassuolo per il terremoto grande e di grande terrore (2). Del fatto disastroso lasciava memoria anche il Tas- soni (3) dicendo che la rovina maggiore era successa ai monti; benchè in queste narrazioni non ci sia allusione alla Salsa pur forse non fu estranea a quel commovi- mento raro, se non nuovo, per questa provincia; non (1) La più antica menzione che trovisi di Sassuolo è in un diploma dell’ im- peratore Corrado in favor della Chiesa di Parma 1’ anno 1035. Dizionario topo- grafico storico degli Stati Estensi del Tiraboschi - Modena 1825, Tomo II, pag. 304. (2) Monumenti di Storia patria delle provincie modenesi, Tomo I, Parma 1861, Cronaca modenese di Jacopino de’ Bianchi detto de’ Lancellotti pag. 225 e segg. Questo terremoto di cui ci vengono date le più interessanti particolarità, è il fenomeno naturale più importante che a memoria d’ uomo sia successo in questa provincia: la. profonda impressione, che è fatto sull’ animo di tutti i cit- tadini, e la dolorosa ansietà di nuovi imminenti disastri accresciuti dalle notizie, che ogni giorno venivan da vicini paesi durarono molto tempo. Il terremoto si sentiva al sabato, nel giovedì successivo col concorso delle rappresentanze, dei nobili, dei dottori, di tutto il clero si celebrava nel Duomo la festa del Corpus Domini: nella piazza comparve tirato da due buffale un carro su cui stava e la rapresentaxion de la morte »: le buffale si spaventarono e corsero contro la gente, cominciarono allora grida, confusioni, e nella Chiesa urla, invocazioni e ressa di fuggenti contro chi voleva entrare. In tutti dominava l’idea che la Ghirlandina fosse per cadere. (3) Scriptores rerum italicarum. Muratori T. XI, colonna 86. — 150 — sappiamo del pari se abbia arso ne’ due precedenti ter- remoti del 1474 e 1481 (1). Il primo a rompere il silenzio, che da sedici secoli regnava su questo vulcanetto, fu Andrea Baccio nel suo libro sulle terme (2); accenna alla narrazione lasciata da Plinio, e, sulla fede di Francesco Cavalerino medico mo- denese, asserisce: » di tale rovina ebbimo trenta anni fa esempio non dubbio (anno 1592); il monte arse più giorni gittando globi di cenere, terra e sassi: il terre- moto si fè sentire molti giorni prima ». Paoio Brusantini in una sua relazione politica (3) come governatore di Sassuolo parla di » una voragine che gitta fuori quantità di terreno arsiccio in modo che nè erba, nè virgulto allignare vi può: quindi seguita: talorà manda sassi e della marchesite qualicheduna. Può essere due anni, per quello che questi dicono, che gittò tanto fuoco, e così in alto che temendo il signor Marco che non giungesse ad abbrugiare Sassuolo fece porre i cavalli ad ordine per girsene ». Questo fatto sarebbe avvenuto nell’anno 1601. Del decimo settimo secolo troviamo preziose indica- zioni nella cronaca di Antonio Vivi (4); anche egli chiama questa salsa voragine, che rende grandissimo terrore, che non desiste dal gittar fuori liquore di bi- tume, quindi prosegue: » L’anno 1594 ai 21 giugno a ore 21 (5 !/ pome- ridiane) svaporò la suddetta sarsa grandissime fiamme, e fece strepito tale che la gente credeva che si dovesse (1) Monum. di Storia patria cit. T. I. pag. 5. 48. (2) De Thermis Andreae Bacii Elpidiani Civis Romani. Romae MDCX XII, p. 276. (3) Li virtuosi d’ armi come di lettere nello stato di Sassuolo. Relazione fatta da Paolo Brusantini governatore di quella terra a S. A. Serenissima dello stato di Sassuolo nel 21 aprile 1603 ms. pag. 3, Archiv. municip, di Sassuolo. (4) Relazione accademica dell’ ultima eruzione accaduta nel Vulcanetto aereo così detto Salsa di Sassuolo di Giovanni: Brignole di Brunnhoff. Reggio 1836 pag. 24 e seg, LI immergere tutto il paese contiguo, e che fossero le case divorate dalle fiamme in tanta gran copia gittate col bitume, che si dubito talvolta per le case più vicine del Borgo della sarsa, sempre gittando bitume e pietre mar- chesite in gran quantità e tremando la terra; e nel sen- tire il signor Marco Pio questo strepito nel trovarsi alla caccia v' accorse a quella parte col gridare allarmi; ma quando vi giunse vide essere la Sarsa e restò stupito. » Nell'anno 1628 gittò un’ altra volta. grandissima quantità di terra, che coperse gli alberi e coprì un rio, e correva quella terra in modo liquefatta, che pareva che fosse acqua. Tutti gli alberi che furon colti da detta terra si seccarono come al presente si vede. Non vi nasce cosa alcuna, nè erba nè altra sorta di cosa. » Ha pure gittato fuora detta Sarsa alcune altre volte e particolarmente l’anno 1684 li 18 maggio, essendo uscita tanta terra bituminosa, che rendeva stupido chi la vedeva gittare, pensando che fossero monti interi alti una guardatura ». Queste notizie erano ignote allo Spal- lanzani, che dopo il racconto lasciatoci da Plinio riferisce testualmente la descrizione, che nel 1660 faceva il Frassoni nel suo libro De Thermis Montis Gibii; non a torto quell’ osservatore scrupoloso di naturali fenomeni accusa d’ enfatica quell’ esposizione e diffatti altro non è che una replica illustrata delle volgari dicerie. Ecco, tra le altre cose, ciò che voleva far credere il medico di Alfonso IV (1). » Se si chiude il foro, pel quale esce il fango, in prossimo luogo sollevasi la terra come fermento, e con ingente strepito da nuovo buco rigetta la melma, se vi si configge un'asta è mirabile la forza con cui viene respinta, se si gettano de’ sassi pre- cipitano nel baratro con alto fragore, e a fatica con delle corde si toccherebbe il fondo della voragine ». (1) De Thermarum Montis Gibii natura, usu atque praestantia, Tractatus Antonii Frassonii, Mutinae MDCLX pag. 11 e segg. — 152 — Sostiene che gli animali presentono tre giorni prima l'eruzione e ostinati ricusano di transitare per la via che da Sassuolo conduce ai monti, e parlando delle eruzioni accenna a muggiti nelle caverne del monte, a terremoti, a fiamme, che si sollevano alle stelle, a scoppi simili a quelli delle macchine di guerra, a straordinaria quantità di sassi e infine a nubi e a nebbie fitte, che fanno con- fondere la notte col giorno. Trenta otto anni dopo più pacata descrizione rin- veniamo nelle opere di Bernardino Ramazzini (1); non mi occorse, egli nota, di vederla in conflagrazione: di- cono peraltro che sia cosa orrenda, sicchè gli abitanti, ed i viaggiatori fuggono lontano per non essere sorpresi dalle fiamme e colpiti dalla grandine de’ sassi. Racconta che i vecchi del luogo gli avevano assicurato che il colle della Salsa s° era notabilmente accresciuto pel fango vo- mitato, e forse dagli stessi raccolse la voce che I° eru- zione succeda ne’ grandi mutamenti dell’ atmosfera, e che gli animali abborrissero quel sito; al suo tempo la salsa s' apriva in cima al colle in piccola pianura col diametro di tre braccia circa: il limo reietto era di colore nerastro con odore di zolfo e bitume. Dal 5 settembre 1711 comincia un nuovo periodo. Non avremo più da notare esagerazioni, pregiudizi, stra- nezze, ma i risultati meno brillanti sì ma certi dell’ os- servazione e dell’ esperienza. Antonio Vallisnieri mosse dalla vicina Scandiano, sua patria, e dopo aver visitata e descritta minutamente questa località perscrutando l’ origine de’ fenomeni, che la resero celebre, non esita a giudicare essere il petrolio la causa degli incendi e degli strepiti: asserisce poi che da lungo tempo la Salsa (1) Bernardini Ramazzini Opera omnia. Tom. 1. È il solo autore che assicuri essersi udito anche in Modena il fragore de’ getti di sassi. - De fontium Mutin. admiranda scaturigine, Caput V, — 155 — non s'era infuriata e che ignobile giaceva in quel giorno e riconoscibile appena (1). Otto anni dopo, nel 5 agosto 1719, il Galeazzi, in un’ escursione da Bologna all Alpe di San Pellegrino in Garfagnana (2) qui soffermatosi, vide un cono argilloso con cratere di due piedi di diametro che gettava fango nerastro, fetente; coi poveri mezzi, di cui poteva disporre, della chimica allora nascente, analizzò quella melma ed arrivò agli stessi risultati, a cui giungeva lo Spallanzani settant’ anni dopo. Il Galeazzi, per testimonianza della gente del luogo, asseriva che le eruzioni avvenivano ogni quindici anni; senza accettare l’asserto di tale csatta periodicità notiamo che per quattro quinti del secolo scorso mancano rac- conti di moti imponenti e che quindi era molto proba- bile che la Salsa andasse soggetta tratto tratto a sfoghi di poca energia e durata segnati solo dagli abitatori dello case circostanti. Domenico Vandelli fu anch’ esso a visitare la Salsa nell’ agosto 1755 e 1759 ed assicura che questa trovavasi in pace perfetta. Egli osservava due fori di un pollice solo di diame- tro, da’ quali lentamente fluiva dell’ acqua fredda mesco- lata con argilla cinerea e nafta di color nericcio ma in poca quantità; bisogna rimarcare che al pari del Galeazzi, senza segnare i data precisa, egli dà per sicuro il Li mine di iti a vent’ anni tra un’ eruzione e l’altra (3). Ferber, naturalista tedesco, nel 1772, in alcune let- tere descrittive sulla mineralogia italiana accenna ma in modo superficiale e confuso anche a questa Salsa: (1) Vallisnieri. Opere. Venezia, Tom. II, pag. 418. » (2) Commentarii Instituti Bononiensis Tom. I, Iter Bononia ad Alpes San Pellegrini. Galeazzi, pag. 97 e segg. (3) Analisi di alcune acque del Modenese di Domenico Vandelli. Padova MDCCLX pag. Ill e 12. — 154 —. lo citiamo perchè neppur esso fa menzione di recenti eruzioni (1). Negli annali, che abbiamo ogni ragione di ritenere esattissimi, dell’avvocato Panini in data del 1781 si legge: » Dopo essersi sentito li 4 aprile alle ore 10 una leggiera scossa di terremoto in Sassolo, verso il mezzo- giorno del di seguente la Sarsa di Montegibbio per un ora continua gittò sassi di enorme grandezza, che nel toccare la terra si squagliarono, e in tempo dell’ irruzione si udiva dalle vicine case un fragore simile a quello dei fulmini allorchè scoppiano. L’ essersi sentita la notte me- desima altra scossa nelle città limitrofe e sino nella Ro- magna fa supporre che sia la stessa la causa del terre- moto e dell’ eruzione; anzi l Estensore scrivendo ad un suo amico di Ferrara ne dedusse la fine del terremoto di Bologna ». i Un altro cenno troviamo nel 1789. » La Sarsa di Montegibio fece un’ eruzione li 19 gennaro e replicolla il 20 e attrasse molti curiosi a con- templare un tale fenomeno (2) ». L’Abate Lazzaro Spallanzani ha il merito inconte-. stabile di avere colle sue relazioni e colle sue esperienze diffusa la notizia di questi luoghi interessanti e di aver dato un serio indirizzo alla disamina di questi fenomeni che fino a lui erano stati tutt al più argomento di cu- riosita anche presso i dotti. Egli visitò questi luoghi in tre anni successivi, cioè nel 1789, nel 1790, e nel 1795: è singolare che nella prima sua gita accenni ad un’ eruzione successa tre anni prima e non parli di quelia avvenuta nel gennaio; se furono però poco esatte le informazioni sulle date fu (1) Lettres sur la mineralogie et sur divers autres objets de \ Histoire na- turelle de 1’ Italie par Ferber, Strasbourg 1776, 20.M0€ lettre pag, 429 e segg. (2) Cronaca inedita cit. Vol. I, parte I, pag. 25 e 111. | Lo — 155 — diligente l’ ispezione locale (1). Allora la Salsa presentava lo stesso aspetto, sotto cui l’ avevano descritta Vallisnieri e Galeazzi, senonchè lo Spallanzani, a cui la viscosità del terreno impedì le indagini che voleva fare sotterra, si dichiara convinto che il foro principale per cui spri- gionasi il gas che caccia il fango non mutasse, a memoria d’uomo, direzione e posto, e poi nota altri spiragli cir- costanti. Merita d’ essere estesamente riferito il racconto che ci da di un’ eruzione gagliarda successa nel 15 giugno 1790 i di cui principali dettagli gli furono offerti da testimoni oculari ventinove giorni dopo |’ avvenimento, del quale è fatto cenno, anche nella cronaca già citata del Panini. » A dì 15 adunque del precedente giugno, così narra lo Spallanzani, prima delle ore 10 del mattino, essendo da più giorni sereno il cielo e l'aria tranquilla, la Salsa cominciò a far sentire sotterraneamente de’ piccoli romori, che d’intensita andarono crescendo, alle dieci e mezzo improvvisamente dalla bocca venne cacciato del fango prima a poca altezza poi più grande giungendo in se- guito la cacciata a perdita di vista su per l’aria con tale fracasso, che udivasi a qualche miglia di giro. Mi nar- ravano che era come un gran lievito che gonfiava, poi con istrepito crepava e allora i pezzi del fango venivano in alto balzati. Intanto la vicina casa dalla cima alla - base tremava e furono stretti di abbandonarla ritirandosi a qualche distanza. Le grandinate non durarono più d'ore quattro quantunque la colante fanghiglia conti- nuasse il suo corso per due giorni seguiti, fattasi però sempre minore, e nel giorno terzo tornò a formarsi il solito cumulo di terra che continuò poi lo stesso quale io ve lo aveva trovato. Fummi mostrato da que’ paesani un sasso di natura calcare del peso all'incirca di libbre (1) Spallanzani. Viaggi cit. idem ibid. — 1560 — suv eruttato alla distanza di 20 piedi nel più forte della grandinata ». Nell’ ultima sua visita tutto era tornato nello stato di quiete abituale. Ménard-la-Croye che riferiva nel 1818 all’Accademia di Francia sulle Salse del modenese, par- lando di questa, da lui veduta nel 5 settembre 1814, dice di aver osservato un ammasso elittico del giro di 25 passi In cui si aprivano due pozze di un mezzo metro circa di diametro e distanti fra loro due metri; il dotto francese non dissimula il suo sconforto per averla sor- presa in uno stato assoluto di tranquillità (1). E in tale riposo perdurò fino al 4 giugno 1855 e il modo col quale diè ancora segno di vita fu senza dubbio imponente; l’ impressione dell’ inatteso spettacolo è viva ancora in tutti questi dintorni, che tutti furono del pari colpiti dalla forza dell’esplosione e dalla sua durata. Un racconto diligente ci fu tramandato dal Brignole: la Voce della Verità ed il Messaggiere Modenese, soli giornali consentiti dalla sospettosa polizia estense non ebbero una parola per segnare questo fenomeno che succedeva a poche miglia dalla città. Nel giorno adunque 4 giugno 18553 essendo il cielo . purissimo e sereno e l’ aere temperato fu sentito in questi dintorni un odore acutissimo di petrolio, che ad alcuni parve di zolfo e pochi momenti appresso si scosse il terreno e si udì uno scoppio simile a quello del cannone. Erano le ore 5 e 16 minuti. Lo scuotimento fu sentito con qualche forza a Sassuolo, a San Michele, e da Castel- larano fino a Baiso fu commossa tutta la zona montuosa, che si stende fra il Secchia e il Tresinaro. Allora si vide elevarsi su questa Salsa, di cui era scomparsa quasi la trac- cia, una colonna di denso fumo, all’altezza di circa 50 metri: (1) Jonraal:de Physique ecc. Tomo LXXXIV avril 1818, pag. 253 e segg. Description de 1° ètat des salses du Modenois dans 1° été de 1° année 1814 ecc. par F. I. B. Ménard-la-Croye. — 157 — in mezzo a questa scintillavano fiammelle di colore or giallo, or rossastro od azzurognolo, dal vertice di essa venivano gittati all’ intorno sassi voluminosi e densa fanghiglia argillosa la quale discorreva giù pelle sottoposte pendici. Tale violenta eruzione durò venti minuti, si rinnovò con minore intensità alle 5 pomeridiane dello stesso giorno; la Salsa non tornò in calma perfetta che dopo nove set- timane. La materia eruttata fu calcolata approssimativa- mente un milione e mezzo di metri cubi: è quella, che costituisce oggidi questo piano leggermente declive: prima la Salsa aprivasi sul margine di un burrone. In questo fenomeno furono segnate delle condizioni nuove o almeno non abbastanza prima accertate e queste sono: fenditure e sollevamenti, svolgimento considerabile di calorico, e pochissima fluidità nella melma (1). Il cratere, che du- rante l'eruzione aveva l'aspetto di un foro cilindrico senza alcun rilievo circolare, apparve poi alla sommittà di un piccolo cono formato di pura argilla cinerea; que- sto sciolto dalle acque scomparve ed oggi non è che una breve fossa circolare. (i) Riassumiamo il racconto della Relazione già citata del Brignole, dal Rapporto che il Podestà di Sassuolo spediva al Governatore di Modena nel 5 giugno 1835, e dai cenni riferiti dal Zuccagni Orlandini nella sua corografia d’Italia. Vol. VIII, Part. II, pag. 52. Firenze, 1844. Ecco come si esprime il Dallari nel suo rapporto: « Il piccolo vulcano deno- a minato la Sarsa esistente in questo Capo Luogo e la sezione di Montegibio, che «da quarant'anni e più a questa parte dava pochi segni di esistervi, la mattina « del giorno 4 corr. alle 5 e 1/o fece un’ esplosione tale, dalla quale per circa «20 minuti vomitò tanta lava che coperse da circa sei biolche di terreno per «un altezza in diversi punti anche di dieci braccia, ed in altri meno secondo «la diversità del terreno formando un piano quasi regolare. Nel dopo pranzo di « detto giorno alle ore 5 ebbe luogo un’altra eruzione meno però forte della « prima ed anche al presente non sembra calmato », — 158 — BI. Sorgente della Salvarola. Primo a nominare il luogo detto la Salvarola e acqua, che vi bolle, e il fango, con cui si facevano empiastri fu il cronista Antonio Vivi asseverando che in tutto l anno ma segnatamente nel mese di maggio correvano non solo i Sassolesi ma benanche i popoli di Magreta, Salvaterra, Casalgrande e Dinazzano a ber di quest’ acqua che ritenevano ottima ed efficace per molti malanni (1). Il Frassoni rimarcò anch’ esso quì in tre o quattro luoghi dell’ acqua uscente con romore, biancastra, salsa, e con odore di bitume e di zolfo (2), e prescrisse i modi per usarla ultimamente come medicina. Nel suo studio sulle acque del modenese Domenico Vandelli parla anche di questa ma sembra che 1’ uso ne fosse venuto meno generale e che scoscendimenti del prossimo colle avessero interrate le sorgive più importanti e confuse le traccie delle altre, poichè Giam- battista Moreali di Sassuolo tre anni dopo, nel 1764, riferendosi a studì e ad esperimenti iniziati fino dal 1753 ne parla colla gioia e coll’ orgoglio di una sco- perta (5). Chiunque scorra quell’ interessante libretto è for- zato a dividere l’ incertezza, la pena e il meritato trionfo del medico distinto, la cui memoria è pur sempre po- polare fra noi per altre acque salutari molto usate, da lui rinvenute e col suo nome chiamate. (1) Dell’ Acqua salso-iodica della Salvarola nell’ Emilia. Analisi chimica di Giovanni Giorgini. Parma 1861, pag. 6. (2) Frassoni, op, cit. pag. 8, 15 e segg. (3) L’ Acqua della Salvarola rediviva ecc. Giambattista Moreali. Modena 1764 pag. 14, — 159 — Egli ci fa assistere al suo primo esperimento tentato în anima vili, senza dir niente ad alcuno: era questa una donna del contado arida, secca, affumicata come un’ arringa, la quale per la sua decina di miali era stata anche santamente esorcizzata: buon per lei che anche un secolo fa la scienza valesse più dell’ asper- sorio: con 6 libbre di quest’ acqua in principio e poi con due in quindici giorni fu risanata completamente. Durante la cura non si sa chi soffrisse di più, se il medico o l inferma; il Moreali finalmente respira e chiamando quest’ acqua divina I’ adopera senza angustie in diverse malattie e con fortunatissimo esito. Antonio Moreali seguitò 1° esempio del padre scri- vendo su questo soggetto (1); ma una compiuta illustra- zione di questa sorgente ia dobbiamo al prof. Pietro Doderlein nel 1859, a questa tenne dietro la pubblica- zione di un’ analisi chimica del prof. Giorgini due anni dopo. i Dalla memoria del Doderlein togliamo alcune delle più interessanti particolarità. Queste sorgenti ad onta degli sforzi di Giambattista Moreali erano tanto decadute che abbandonate a se stesse, esposte all’ intemperie ed all’ arbitrio dei vian- danti ristagnavano in un laghetto ingombro di sterpaglie e di sassi. L° attuale possessore sig. Gaetano Moreali diede incarico all’ ingegnere Pietro Leveque di miglio- rarne la condizione con opportuni manufatti, e il lavoro, che fu condotto con molta intelligenza, condusse ad in- teressanti scoperte nel dodici settembre 1854. Uno scavo di esplorazione praticato per isolare le polle originarie e togliere gli ostacoli, che ne impe- dissero il corso fece rinvenire due ampi pozzi o serba- toi comunicanti fra loro e con vasca rettangolare di mat- (2) Qualità medicinali dell’ acqua della Salvarola. Antonio Moreali. Modena 1776. e toni della capacità di circa un metro e mezzo cubo, destinata forse a serbare e chiarificare l'acqua minerale. Questa era un di contenuta da una muraglia, i cui ma- teriali asportati servivano alla fabbricazione di un forno. Il pozzo maggiore quadrato di 19 metri di profondità era formato da 160 grossi panconi di legno di. quercia contesti tra loro a coda di rondine e compiuto con so- lidissimo tavolato. In mezzo alla melma argillosa de’ pozzi e della vasca si rinvennero parecchie lancie, mattoni an- tichi ed una moneta portante l’ effigie ed il nome di Antonino Pio. Se si riflette a questi oggetti, a tali dili- genti lavori, all’ esistenza di altre terme presso la torre dell’ Amaina, non rimane, a nostro avviso, alcun dubbio, che queste acque fossero note ed usate molto antica- mente, e questa certo non è una lode pei tempi nostri. La seienza ha fatto la parte sua; i più reputati natura- listi e medici della provincia nostra hanno sempre no- tata I importanza di quest’ acqua e raccomandato di usarla. Perchè i nostri medici non se ne occupano? 0 l'acqua è di qualche importanza medicinale ed in tal caso uniscano l’ opera loro a quella degli antecessori per vincere una malaugurata indifferenza, o l’ acqua non ha le proprietà che le si attribuiscono, ed allora distruggano le opinioni degli autori accennati. In ambi i casi faranno opera utile; noi intanto lamentiamo che nè il Garelli nè il Bombicci abbiano trovata una parola ne’ loro classici scritti per dedicarla a questa antica e salutare sorgente (1). Oggidì È sorgive sono allacciate e confluiscono in una vasca principale chiusa da semplice ed elegante capitello chiuso a chiave. L’ acqua che sovrabbonda fluisce perduta in una prossima lavina. Dà circa cento (1) Giov. Garelli. Delle acque minerali d’ italia e delle loro applicazioni te- rapeutiche, Torino 1864. - Itinerario mineralogico del prof. Luigi Bombicci, ag- giunto al Trattato di Mineralogia, Bologna 1865. olio = litri all'ora ed un getto di gas idrogene carbonato che acceso formerebbe una fiamma continua di mezzo metro d’ altezza. Tanto nella vasca come nel rigagnolo e ne’ vicini scoscendimenti e nel suolo circostante molle e permeabile sentesi odore acutissimo di petrolio. Gor- gogliano nell’ isolotto circostritto, dalla proprietà Ro- gnoni delle piccole salse; basta immergere nel fango il bastone a piccola profondità per notare l’ uscita del gas e riconoscere una melma profondamente bituminizzata. A breve distanza nel fondo dello stesso Rognoni, sul pendio di un burrone ristagna una sorgente poco co- piosa solforata con quantità notevole di nafta; se si le- vasse sino ad una certa profondità il terreno incoerente sovrapposto, si potrebbe arguire della quantità e della utilità di questa muova sorgente. Prima di lasciare la Salvarola non sarà inutile il riferire qui i caratteri fisici e chimici di quest’ acqua, come furono esposti dal Ragazzini nel 1845 e 1846 e dal Giorgini nel 1855 e nel 1861. Secondo Ragazzini l'acqua ha una temperatura co- stante di 11-12 R., ha un sapore salino leggermente lisciviale; segna 3 gradi Baumè; ha una densità uguale a 1,0201. Presenta in 100 grammi i seguenti mineralizzatori: Clonuro sodico, il i Grammi 1,546 lodukowsodico sta. nta Lea, ”» 0,157 Bromuro,sodieo gf. ’ 0,022 Bicarbonato):sodico\.5.; i... ”» 0,041 » calcico lt ora lo » 0,055 ” MI DESICOR ”» 0,025 ’» di protossido di ferro ’» 0,008 Solfatogealcico e >» 0.019 ACcIOESIlICICO; (.)7.jir nt D) 0,011 Acqua, traccie di materia organica, di petrolio e perdita . ..... » 98,218 Grammi 100,000 11 — 1602 — Jl Giorgini concorda col Ragazzini quanto a’ carat- teri fisici: il peso specifico dell’ acqua da lui esaminata è uguale a 1,101651. Ecco i risultati delle due analisi da lui eseguite su 100 grammi di acqua: Acido carbonico libero e Analisi Analisi combinato in dissolu- d0op1 1861 zione iis AG ranami 40:01 9920019 Acido,silicico SG. » 0,009. 0,009 Gloruro sodico #23 s» 1,529 1,528 Toduro sodico . . .... » OHI51STR0M 50 Bromuro sodico . . . . . 271,10. 10;022 170,026 Solfato disodal eco 0,025 0,025 Carbonato di soda. . .. 0,059 0,059 Carbonati di magnesia, di calce e di ferro . . > 0,101. 0,101 Materia organica . ... » 0,002 0,002 Acqua e petrolio ....» 938,101 98,101 Grammi 99,998 100,000 (1). Da tali risultati ogn’ uno può vedere, come le nostre raccomandazioni non siano infondate (2). (1) Doderlein op. cit. pag. 4, 5, Giorgini op. cit. pag. 7, 22. I due milli- grammi mancanti nella prima analisi del Giorgini dobbiamo ascrivere a perdita o ad errore di stampa. (2) L’ acqua della Salvarola pei suoi caratteri fisici e chimici ha molta ana- logia con altre acque del Regno, che da un tempo più o meno lungo sono utiliz- zate in medicina, p. e. con quella di Castrocaro presso Forlì, di Montecattini in Toscana, di Sales in Piemonte, della Donzella alla Porretta nella provincia di Bologna. Giusta 1’ analisi chimica riferita nel testo la suddetta acqua deve essere classata tra quelle che diconsi salso-iodiche, Se si ha riguardo alla parte impor- tante che prendono alla composizione della medesima il cloruro, il ioduro ed il bromuro di sodio, si può preconizzare ch’ essa debba essere un utile rimedio nelle affezioni glandulari e scrofolose; che se poi si tenesse conto degli altri componenti e specialmente dei bicarbonati, si potrebbe credere che la medicina potesse utilizzare 1° acqua nelle gastralgie, nelle gastro-enteriti ed in altre ma- lattie ( Ved. Giorgini, 1. c.-pag. 23). — 165 — Le sorgenti della Salvarola pei principî mineralizza- tori, che contengono, pella costanza nelle loro propor- zioni non solamente si prestano a bibita salutare ma sono anche raccomandate per bagni. Qual luogo più lieto, più opportuno di questo per uno stabilimento balneario? Affrettiamo con tutti i nostri voti quest opera utile e filantropica: i nostri maggiori sapevano meglio di noi usufruire di questi beni naturali, ma le loro costruzioni furono vandalicamente distrutte e i loro scritti rimasero lettera morta! HEI. Pozzi oleîferi. Nel fondo di una valletta, alla riva sinistra della Chianca, al piede del colle argilloso che ebbe il nome di Rovina, si scorgono delle macchie di bitume ed a breve distanza trovasi il pozzo più noto e più antico dell’ olio di sasso. Due pareti laterali di mattoni sormontate da un arco ricoperto da terra, chiuse al dinanzi da una porta con chiavatura, racchiudono una cavità interna, in cui trovasi dell’acqua verdastra su cui sornuota il petrolio. Un rialzo di terra accenna alla buona volontà di liberarlo dalle invasioni della Chianca, ma in prima- vera ed in autunno le acque ingrossate del torrentello invadono la buca e sperdono il petrolio trascinandolo con loro. Delle sorgenti di petrolio incontransi nella suddetta valle sopra e sotto il pozzo principale. Ascendendo il rivo che sbocca alla sponda sinistra della Chianca e che scorre nel solco tra il monte della Rovina ed il monte della Serra, per un tratto di mezzo chilometro all’ incirca, incontransi delle nuove traccie di petrolio gemente sul letto del rivo. Lungo tutto il Rio della Chianca, dal confluente accennato al suo sbocco nel torrente della Fossa in faccia a Spezzano, non si osserva alcun indizio — 164 — di olio minerale; ma il terreno presenta su tutta questa linea numerose traccie di salse recenti benchè inerti (1). Il pozzo accennato, la cui proprietà è divisa tra la famiglia Borsari e l’ ingegnere Cionnini, attrasse da lungo tempo l’attenzione degli scienziati. L’ Ariosti nel 1460 non conosceva che un solo pozzo che descrisse in questo modo: Quì avvi una fossa, o meglio fonte profonda un piede, il diametro della quale non si estende più di due braccia. In essa adunque deriva per venette sotterranee un acqua, la quale rassomiglia allo siero di latte. Sovr' essa appaiono galleggianti alcuni occhiolini, 1 quali sono un olio di quasi maravigliosa ed Vr virtù. Chi cre- dera sì facilmente, che l’acqua e l'olio abbiano il me- desimo grado di fragranza? Egli aggiunge poi che una certa terra nerastra attor- niante la sorgente era sì pregna di quest’ olio che cavan- done delle zolle e sminuzzandole, indi facendole lieve- mente riscaldare in caldaie di bronzo e chiudendole in borse di lana, dalla loro spremitura fatta con torchi ri- traevasi il dio olio (2). Questi erano i primi metodi rudimentali co’ quali a Montegibio si ricavava il petrolio quattro cento anni fa; da quel tempo in poi il metodo. non fu perfezionato; speriamo in un migliore avvenire che crediamo vicino. i Recentemente un medico francese credette di aver fatta una grande scoperta accennando all’ uso del petrolio come medicina. Ma già Marco Polo conosceva le qualità acaricide di quest’ olio e l’ Ariosti lo riteneva eminente- . mente medicinale, poichè dice: Ma checchè sia, quest’ olio non ignoriamo esser egli giovevolissimo ai corpi umani, come noi stessi per fermo veggiamo avverarsi ogni giorno per manifeste esperienze, nelle quali giova maravigliosa- (1) Ved. l-Appendice del Prof, Canestrini nel Panaro in data 1 dicem- bre 1865, N. 275. (2) Fr. Ariostus, De oleo montis Zibinii pag. 20, - Spallanzani, I. c. NI, 343. — 165 — mente al genere umano. Non conosciamo alcuno che ne abbia usato senza conseguire la salute o risentire un particolare giovamento. L'antico pretore di Castellarano fa seguire queste parole da alcuni racconti, in cui ci dice che un gattino fu mercè l’ olio indicato sanato dalla scabbia secca e settimestre; che un ragazzetto fu liberato da una sterminata quantità di vermi che minacciavano di trarlo alla tomba; che una donna colla unzione per tre volte del nostro olio fu guarita da un dolore settenne della spalla destra; che ad una fanciulla col lavacro del- l’acqua dell'olio venne restituito il fume dell’ occhio sini- stro; che un piede bipartico con un colpo di accetta, che aveva resistito alle cure per quattro mesi, ne fu riunito e rassodato; che un vecchio cieco ricuperò la vista per l’azione di sì virtuoso olio ec. ec. (1). Non si può dunque dire che il petrolio non sia stato adoperato come medicamento; si dica piuttosto che era riguardato siccome panacea. { Anche il Baccio parlò in succinto del nostro petrolio e delle sue qualità medicinali (2); ma più estese notizie troviamo presso il Frassoni, dal quale sappiamo che ai suoi tempi gli abitanti di Montegibio distinguevano il Bagno vecchio ed il Bagno nero, e che, per ricavare l olio minerale, scavavano nel monte delle caverne, im- pedivano mediante arcate che andassero in rovina e rac- coglievano l’ olio che gemeva dalla roccia. Quello che ricavavasi al Bagno vecchio era del colore dell'oro e di (1) Ariostus, 1. c. pag, 19 e seg. (2) De Thermis Lib. V, pag. 320, Petroleum Mutinense. Praecaeteris autem Jocis iam ducentis annis abundavit haec maleria ad pagum montis Gibii, quod est hodie sub ditione Illustriam Priorum oppidum. Ubi cum a snperficie iam coepisset deficere, persecuti per industriam venas, in viscera usque monlis pene- travere, ubi mellis instar scaturit liquor, ac juxta aqua emanat violacea, quicum colligitur, ac facto in fundo vasis foramine aqua paulatim exhauritur, ac rema- net superne ob crassiciem, oleum.... Copia varia: vena alias ferax erat quadra- ginta librarum singulo die, alias paulo minoris: hodie ad summum non transit octo libras. — 1660 — odore gratissimo; mentre quello del Bagno nero era di colore violaceo e di odore talmente acuto da produrre il dolor di capo in chi per qualche tempo vi si trovava vicino (1). Una esatta descrizione del pozzo secchio e del modo usato per ricavare il petrolio ci diede nel 1698 il Ra- mazzini. Esistevano a quel tempo tre fonti dell’ olio, poco discoste l'una dall’ altra; una di esse era assai più ricca delle altre, era tutta cavata .nel vivo sasso e per una scala di 24 gradini si discendeva ad una piccola vasca della profondità di circa due braccia contenente un’ acqua bianchiccia e del petrolio galleggiante. Nel vélto della scala che era tutto sassoso e formato di piccole pietre di varia maniera, presso la vasca, si scorgeva, una fenditura della larghezza di un palmo e delia lunghezza di un braccio; da questa fenditura che con tortuoso giro si perdeva nell’interno della roccia zampillava un’ acqua seco traente a galla l'olio minerale. Quest’ era di colore lionato, mentre quello del Bagno nero offriva un color nerastro. Coloro che ne aveano l’incarico raccoglievano l’olio due volte la settimana in questo modo. Immerge- vano nell’ acqua una secchia di legno e la volgevano un. po a sponda, poscia con un fascetto di erbe fatto a guisa di scopa vi introducevano bel bello il petrolio galleggiante insieme coll’acqua; quindi agevolmente per un foro aperto nel fondo della secchia separavano il petrolio dall’ acqua. Dalla fonte originaria ritraevano per ciascuna volta circa sei libbre di petrolio e ciò solevano fare due volte la settimana. Quanto alle qualità medicinali dell’ olio mine- rale, il Ramazzini cita gli autori che ne aveano già par- lato, cioè il Fernely, il Falloppio, il Bacci, il Mattioli, il Cesalpino, il Brasavola, il Cardano, lo Scrodero, il Silvio Deleboe, l Etmallero, il Cesio ed il Frassoni (2). (1) Frassoni, De Thermarum Montis Gibii Nalura ecc. pag. 11. (2) Bernardini Ramazzini, l. c, pag. 7 e seg. — 167 — Vallisnieri visitò Montegibio nel 1711. Egli ci dice che allora verano quattro pozzi antichi e che se ne scavava un quinto. Î paesani gli asserivano tutti d° ac- cordo che quando la Salsa s' infuria, e vomita fuoco e fumo e fango e marcasite, tutti i pozzi del petrolio ces- sano di stillare questa sostanza o almeno molto s’ impo- veriscono, e qualche volta tardano sino un mese a tra- mandarne, 6 gemendone solo poche gocciole. Il celebre naturalista risguarda questo fenomeno come un segno evidente di una comunicazione che deve esistere tra la Salsa ed i pozzi e suppone che il monte, in cui sta la Salsa, sia cavernoso e che per qualche rima o via, benchè non patente, vi penetri l’aria, perchè altrimenti non potrebbe il fuoco in quei cupi fondi sussistere, nè ge- nerarsi (2). Noi vediamo da ciò come più che un secolo fa il Vallisnieri sosteneva che tra la Salsa di Sassuolo ed i pozzi di Montegibio debba esistere un’ intima rela- zione. Lo Spallanzani visitava i nostri pozzi nel 1793. « Non più di due erano allora cotesti fonti o pozzi, come ivi si chiamano, situati nel fondo d’ una valle, l'un de’ quali appartiene in proprietà al Pubblico di Monte Zibio, |’ al- tro ai signori Nanni di quel luogo. Sono entrambi scol- piti in una pietra arenaria molto tenera, che alla super- ficie per le ingiurie delle stagioni e delle meteore si sbricciola e polverizza. Il pozzo del Pubblico ha un’ aper- tura bastante per entrarvi comodamente; la scala per discendervi, incavata nell’ istessa pietra, e di pochi gra- dini, e il suo fondo consiste in una vaschetta d’ acqua profonda un piede circa, su cui galleggia il petrolio. Insieme ad una venuzza d’acqua scaturisce egli nella parte opposta alla bocca del pozzo da una fessura di (2) Antonio Vallisnieri, Opere Fisico-Mediche, Venezia 1733, Tom. II, pag. 420, - Bianconi, Storia nat. dei terreni ardenti ecc. pag. 133. — 163 — detta pietra, e giù scendendo, va a cadere sull’ acqua.... E osservabile come nella state dia questo pozzo una libbra d’olio per giorno, quando nel verno non ne som- ministra che mezza libbra, o tutt’ al più oncie otto (1)... Il signor Nanni di Monte Zibio mostrommi il sito di un terzo pozzo, di cui altresì è proprietario, ma da alcuni anni sotto le ruine d’ una smotta coperto e sepolto. Non disperava egli però di ricuperarlo, adducendomi |’ esem- pio di un altro precedente infortunio consimile, che seppe togliere col liberare il pozzo della terra corsavi sopra. E mi narrava che dischiuso che ebbe il foro donde prima usciva il petrolio, sgorgò questo sì affluentemente che in breve potè raccoglierne più ventine di libbre (2) ». (1) Opere di L. Spallanzani, HI, 341. (2) Spallanzani, 1. c. pag 342. SCHIARIMENTI INTORNO ALLA CARTA DELLE SALSE E DELLE LOCALITÀ OLEIFERE DI MONTE GIBIO NOTA DI EMILIO STOHR ( Tav. IIL.® } ( Presentata nella adunanza del 28 giugno 1867 ) Fino nel giugno dell’anno scorso, indotto dal dottore Schwarzenberg in Firenze, feci eseguire sul monte Gibio presso Sassuolo dei lavori di assaggio e dapprima nei possedimenti del succitato mio amico, collo scopo di stu- diare tutto ciò che si riferisce al petrolio. Si fece allora sentire il bisogno di una carta esatta sopra scala alquanto grande, per potervi notare tutte le località interessanti. Egli è perciò che nell’ agosto passato delineai la carta che rappresenta la tav. IMI., in scala di 1: 14400, su cui si possono notare non solo i pozzi oleiferi noti da molti secoli, ma ancora tutte le altre località più impor- tanti; la quale carta inoltre mi serve di base per una carta geologica, già incominciata, dei dintorni di Monte Gibio. i Intendo qui di dare alcuni schiarimenti intorno alla carta suddetta, riservandomi di dare più tardi una descri- zione delle condizioni ‘geologiche della predetta località, ap- pena cioè 1 lavori che si stanno eseguendo permetteranno di enunciare un sicuro risultato. Debbo poi notare, che la carta fu eseguita alla fine di agosto e poco dopo stampata, Ling per cui non può contenere i risultati degli studi poste- riori a quest’ epoca; nelle linee seguenti farò tuttavia qualche cenno anche di questi, tanto più che gli speri- menti fatti fin'ora nel Modenese per la ricerca del pe- trolio si riducono a quelli eseguiti da me col concorso del dott. Schwarzenberg. E vero che se ne occupò anche l'inglese signor Fairman; ma egli non fece che vuotare e pulire alcuni pozzi antichi presso la Quercia in una valle laterale del Rio Pescaro nei dintorni di Monte Baranzone, e i suoi lavori durarono breve tempo, essendo stati interrotti già nel maggio dell’anno scorso. Mi giovai della bellissima carta del fu Ducato di Modena eseguita dallo stato maggiore austriaco; potei inoltre esaminare parecchie carte locali, p. e. una carta inedita della comunità di Sassuolo. Sulla carta trovansi notate: 1. Le Salse, le quali non solo emanano dei gas combustibili, ma eiettano anche a certe epoche del fango e delle pietre. i 2. Le sorgenti gasose, che emettono soli gas com- bustibili (idrogene carbonato ), e non hanno eruzioni. Esse sono d’ ordinario unite a sorgenti di acqua più o. meno salata. 5. I pozzi oleiferi, accompagnati comunemente da sorgenti salate. 4. Le sorgenti minerali. Per ciò che risguarda le salse, il loro terreno, cioè lo spazio occupato dai loro prodotti, è segnato con pun- teggiatura più o meno fitta, a seconda della distanza dal punto di eruzione ed a seconda della quantità dei pro- dotti di eruzione. La massima estensione ha la nota Salsa di Sassuolo, posta sulla carta a sud-ovest. I professori Canestrini e Calegari pubblicarono nell’anno scorso nel Panaro pa- recchi articoli intorno a questi che furono poi sospesi — 171 — per cagione della guerra. La Salsa di Sassuolo, che ebbe le note eruzioni conosciute. fino dai tempi di Plinio, è indicata sulla carta col nome di Salsa di sopra e la «casa colonica a sud-ovest della medesima, dove trovasi una fornace, porta lo stesso nome (1). Al piede meridionale del colle, su cui trovasi la casa colonica, esiste un’ altra salsa, già nota e più piccola. Sulla carta sono segnati due punti; l occidentale indica la salsa minore ora ac- cennata, l’ orientale significa una sorgente gasosa, posta in un campo, non ancora descritta, da cui ad intervalli di mezzo minuto si sprigionano con grande veemenza dei gas infiammabili. In tale stato io la rinvenni nel 1866. La casa colonica al nord della grande salsa porta il nome di Salsa di sotto e là trovasi, come è visibile dalla carta, la sorgente gasosa descritta nei succitati ar- ticoli del Panaro, manifestandosi quale sorgente salata con ragguardevole sviluppo di gas. La salsa presso S. Polo non fu fin’ ora descritta. Tra le due segnate sulla carta luna trovasi in un torrentello, nel Rio di S. Marco ed è solamente una sorgente gasosa, mentre l’altra è una vera salsa, che trovasi in una buca del diametro di metri 1 !/ e della profondità di 1 metro, che emana ad intervalli del gas ed offre rare e lievi eruzioni. Un altra salsa è indicata sulla carta a sud est ed è quella di Nirano. Quantunque il suo terreno non sia molto esteso e non abbia la celebrità di quella di Sas- suolo, pure dessa è la salsa più significante e più inte- ressante del Modenese. Sopra due piccoli piani, posti l'uno vicino all’altro, accostati al versante di un monte, circondati da prati e campi, notansi i varii coni di fango e le bocche delle salse, di cui alcuni solamente sono (1) Per un errore di stampa vedesi sulla carta Salsa di sotto, deve leggersi Salsa di sopra; la casa colonica presso la salsa principale chiamasi salsa di sotto. — 172 — accennati sulla carta. Mi riservo per un altro lavoro la descrizione di queste e di altre salse modenesi e faccio notare solamente, che Spallanzani fu il primo a farne cenno, senza però averle visitate in persona. Nel Poli- tecnico del 1866 il prof. Stoppani ne ha dato una de- scrizione, aggiungendovi in litografia una veduta ‘che la ‘rappresenta come un perfetto vulcano. Dai coni di fango si elevano nubi di vapore e di fumo e trovansi questi coni in un vero cratere cinto da ripide pareti. Eviden- temente il disegnatore si lasciò dominare dalla fantasia, poichè in questa salsa tanto interessante mancano com- pletamiente le colonne di vapore e di fumo; vi sarebbe esagerazione anche se la salsa fosse rappresentata in istato di eruzione. Quanto poi alle pareti scoscese del cratere, esse si riducono al versante di un colle composto di marne turchine, che si estende a foggia d’ arco attorno alla salsa. i Sulla carta trovasi indicata un’altra salsa presso Fio- rano, già menzionata dal prof. Canestrini nel Panaro del 1.° dicembre 1865. Non sarebbe questa una vera salsa, ma riducesi a due sorgenti gasose insignificanti, posta l'una presso l’altra; tuttavia’ mi fu raccontato che. vi vennero osservate piccole esplosioni, asserzione che esige conferma. Se passiamo alle sorgenti gasose, noterò, che alcune furono già citate parlando delle salse. Il prof. Doderlein notò, parecchi anni fa, che entro la periferia di 2 — 5 miglia se ne possono contare da 15 a 20. Sulla carta vedonsi indicate alcune in serie nella parte superiore occidentale della valle della Chianca (o Cianca, come dicono gli abitatori di quei dintorni, o del Rio Daziano che è pure sinonimo); se ne con- tano 7, ma queste non sono che le più importanti, tra cui alcune fin’ ora sconosciute, mentre molte altre meno importanti e che io conobbi fin nell’agosto dell’ anno — 175 — scorso sono omesse. Molte se ne potrebbero aggiungere alle citate, specialmente nella valle di Serra e nella val- letta orientale della Chianca. Tra quelle indicate sulla carta, la più alta nella valle è insignificante ed emana poco gas; maggiore è quella che trovasi nel torrente accennata dal secondo punto. La terza alquanto discosta dal torrente, offre pure lcg- gera emanazione gasosa, ma è di qualche interesse poiché insieme si manifesta una sorgente salata; le seguenti 4.*, 5.* e 6.° sviluppano moltissimo gas che si sprigiona da sorgenti salate; la 6.° sarà anche più tardi menzionata. Al 7.° segno trovansi parecchie sorgenti gasose presen- temente ben sviluppate in mezzo al torrente, qui pure manifestansi traccie di petrolio in forma di occhi nuo- tanti sull'acqua. Una sorgente gasosa, che non vedesi sulla carta, esiste sopra il pozzo Borsari; anche questa offre traccie di petrolio, come più tardi vedremo. Devo far menzione ancora di un pozzo in Sassuolo, al lato meridionale del palazzo d’ Espagnac, profondo circa 12 metri. Dicesi che nel fare il pozzo lo sviluppo di gas sia stato tanto significante, che la fiamma dei gas accesi si elevò per qualche tempo a grande altezza. L’acqua di questo pozzo non è bevibile, questo è perciò murato da lungo tempo; io lo feci aprire, ma non osser- val emanazione gasosa. Le emanazioni gasose stanno in intimo rapporto coi pozzi oleiferi e in fatti dove havvi petrolio non manca mai sviluppo di gas combustibile. Il petrolio di Monte Gibio è noto già da secoli; nel 1460 ne parla F. Ariosto, accennando ad un pozzo che probabilmente oggi esiste ancora ed è indicato sulla carta col nome Pozzo Cionini. Dalla carta risulta che oggi esistono tre pozzi antichi, più o meno ben custoditi, nei quali il petrolio nuota sopra acqua salata, dove viene di quando in quando raccolto. In tutti questi pozzi osservansi emanazioni gasose. A Essi sono indicati sulla carta coi nomi Pozzo Borsari, Pozzo Cionini e Pozzo Lanzi; i primi due sono della Società Borsari-Cionini, I’ ultimo di quella Federer-Lanzi. Negli ultimi anni i primi due pozzi diedero scarsa rac- colta di petrolio, mentre l’ultimo citato diede un pro- dotto, se non abbondante, almeno in ragione degli altri anni discreto, giacchè si raccolsero mense oltre 125 chilegrinti di olio minerale. L'olio di questo pozzo è assai più chiaro che quello degli altri due. Spallanzani racconta che nel 1795 non esistevano che due pozzi, il Pozzo pubblico detto anche Bagno bianco ed il Pozzo Nanni o Bagno nero; che imolu chi pensava di riattivarne un terzo chi era ingombro. Il Pozzo pub- blico è l'odierno Pozzo Lanzi, l’altro probabilmente il pozzo Cionini, il terzo allora ingombro è forse il pozzo Borsari. Vallisnieri nel 1711 parla di 4 pozzi allora esenti e di un 5.° che si stava scavando. E difficile il dire, dove fossero due di questi pozzi; dicesi che uno trova- vasi sopra il pozzo Cionini sulla stessa sponda del torrente. L'esistenza di petrolio nel Modenese è conosciuta già da secoli; ma generalmente non si parlò che del petrolio . di Monte Gibio, di questa località che ha una certa ce- lebrità negli annali della scienza. Si conosce però da un tempo non meno lungo il petrolio di altre località, così di Monte Baranzone verso sud-est, località che non entra più nella carta. E vero che gli antichi scrittori non par- larono di questo petrolio; ma gli abitanti di quei din- torni lo conobbero già qualche secolo fa, come vedesi da un documento che conservasi negli archivi della co- munità di Sassuolo e che ebbi l’ opportunità di esaminare per la gentilezza del signor archivista Leonardi. Trattasi di un rapporto fatto dal dott. Giuseppe Cantelli al duca i Modena nell’anno 1697 in cui sta scritto, che era » venuto in cognizione come la comunità di Monte Ba- — 175 — ranzone possiede molti pozzi di olio di sasso, situati nel fondo di un fiumicello, dalli quali al presente ne ricava per annuo affitto la quantità di lire 500 di moneta cor- rente »; somma che la comunità, escludendo i proprie- tarì che non appartenevano alla comune, adoperava per se e che per l'avvenire si pregava il Duca di erogare a vantaggio di tutti i proprietari, nei cui fondi esiste petrolio; in una lista annessa sono citati niente meno che 75 nomi di tali proprietari. Dopo questa storica di- gressione ritorno alla carta. Vedesi qui notato un pozzo Schwarzenberg, lavoro di esperimento eseguito nell’anno scorso. Nel luogo di questo pozzo trovavansi in una piccola sorgente salata emanazioni gasose e traccie dubbie di petrolio; colla spe- ranza di giungere presto a questo si fece un pozzo nelle marne turchine. Dopo aver attraversato uno strato piut- tosto compatto si trovarono alla profondità di 5 metri le prime traccie di petrolio, in parte chiaro € fluido, in parte verdastro e condensato. Nei successivi strati marnosi poco compatti scomparve non solo il petrolio, ma ogni ema- nazione gasosa, finchè raggiunto nuovamente uno strato più duro ricomparvero e petrolio ed emanazioni gasose. Ciò avvenne parecchie volte, finchè alla profondità di 12 metri sotto uno strato ben compatto si riscontrò del petrolio in ragguardevole quantità, di colore chiaro più ancora che quello del pozzo Lanzi. L'odore di petrolio e le emanazioni gasose erano sì intense, che si poterono solo con gran stento proseguire i lavori, giacchè 1 lavo- ratori non resistevano nel pozzo che un quarto d’ ora senza essere tormentati da giro di capo e vomito. In tali condizioni tanto più difficili, perchè i lavori doveano essere eseguiti all’ oscuro a scanso di accensioni, i lavori furono continuati fino a discendere ancora 1 !/ metro; poi scomparvero talmente le traccie di petrolio e le emanazioni gasose, che 1 lavori potevano essere conti- — 176 — muati senza fatica. Si discese ancora 6 metri e siccome non si mostrarono altri segni di petrolio, si interruppe lo sperimento alla profondità di 19 metri, essendo rag- giunto lo scopo di esplorazione del terreno. Una piccola galleria eseguita nel pozzo la dove si era notata grande quantità di petrolio fece vedere, che gli strati sono in- teramente impregnati di questo e che in essi trovansi quà e la racchiuse macchie di olio minerale. E forse di qualche interesse il fare qui menzione di due altri lavori principali di esplorazione che feci ese- guire. L’uno è una galleria, scavata nel basso della valle alla distanza di circa 60 m. verso est del pozzo, per esplorare gli strati, tagliandoli ad angolo retto; essa è lunga al presente 98 metri. La direzione degli strati non è sempre la stessa, per cui anche il corso della galleria non è rettilineo. Oltre alle marne turchine si attraver- sarono delle arenarie molli, in cui si vedono traccie di petrolio. Già alla distanza di 7 m. dall'ingresso della galleria si osservarono delle emanazioni gasose nelle are- narie impregnate di petrolio, che tosto scomparvero, appena seguirono le solite marne. Alla distanza poi di 59 m. le arenarie che sì: incontrarono, erano mollo im-. pregnate di petrolio ed i gas si svilupparono in tal quan- tità, che accesi diedero una fiamma alta ‘/ metro. Nelle successive marne mancarono di nuovo il petrolio ed i gas, che solo dopo lungo intervallo ricomparvero a poco a poco, finchè comparve alla distanza di 90 metri, dopo la traversata di uno strato piuttosto compatto, una sor- gente salata in una arenaria molle, con accompagnamento di un po di petrolio e di ragguardevoli emanazioni ga- sose, che cessarono nuovamente, quando si giunse alle solite marne. Il terzo lavoro principale è un pozzo scavato nella succitata sorgente gasosa del N.° 6 nella parte superiore del Rio Daziano. Questa sorgente non aveva offerto che — 177 — emanazioni gasose senza traccie di petrolio ed il pozzo fu incominciato colla persuasione, che queste emanazioni accennassero a petrolio giacente a maggior profondità. Il pozzo fu incominciato nell’ autunno scorso nelle marne turchine, che finiscono più in alto nella valle a breve distanza essendo poi susseguite da formazioni mioceniche, e venne continuato fino alla profondità di 18 metri. Non si giunse direttamente al petrolio; però qualche tempo fa si fece sentire odore di petrolio e di quando in quando comparisce sull'acqua una leggera pellicola di olio minerale, cosicchè ora si può dire con certezza, che quelle emanazioni gasose derivano dal petrolio. Sono infine indicate sulia carta le sorgenti minerali. Scorgesi la sorgente salso-jodica della Salvarola, rispetto alla quale cito il lavoro del prof. Doderlein pubblicato nel 1859. Trovasi indicata una sorgente solforosa presso San Marino, all’opposto versante del monte. È debolmente salsa, contiene molto gas solfidrico e dà un deposito biancastro solforoso. Fu già menzionata la sorgente gasosa presso il pozzo Borsari; essa è in pari tempo una sorgente solforosa, poichè in certi tempi ha forte odore e sapore di acido soifidrico e lascia un deposito biancastro di solfo, talora in tale quantità, che sospeso nell'acqua da a questa un aspetto lattiginoso. La stessa offre talora indubitate trac- cie di petrolio, emana inoltre gas infiammabile ( gas idrogene carbonato ), cosicchè qui in una stessa sor- gerte riscontriamo il gas idrogene carbonato ed il gas solfidrico. Un'altra sorgente solforosa esit.e nella valle Serra sopra il pozzo Cionini; non è indicata sulla carta. Per essere esatti bisognerebbe parlare di 2 o 5 sorgenti sol- forose a pochi piedi di distanza tra loro, con acqua Îeg- germente salsa. Quest’ acqua è talora perfettamente chiara, 12 -- 178 — altra volta è torbida e nerastra e contiene molto gas solfidrico, nel quale caso si depone un po’ di solfo; altre | volte è interamente asciutta. Non vidi mai emanazioni di gas combustibili ne traccie di petrolio, invece a breve distanza notansi due altre sorgenti, le quali, quando non sono asciutte, emettono dall’acqua alquanto salata dei gas combustibili ed offrono traccie di petrolio, mai però gas solfidrico. Sassuolo, marzo 4867. SULLE OSCILLAZIONI REGOLARI ED IRREGOLARI DELLA TEMPERATURA desunte da un biennio di osservazioni meteorologiche eseguite nel R. Osservatorio Astronomico di Modena DAL PROF. D. RAGONA i. Non vi ha argomento più importante in meteoro- logia, che quello relativo all’andamento e distribuzione della temperatura. Difatti questo elemento è quello che determina le condizioni più fondamentali della climato- logia di una data località, e l'estensione delle forze fisiche che ivi reggono e caratterizzano i fenomeni del regno ve- getale e animale. Ridotto già a compimento un biennio della nuova serie delle osservazioni meteorologiche di questo R. Osservatorio Astronomico, ho creduto conveniente de- durre dalle 6570 osservazioni termometriche in questo biennio eseguite, in ore opportune e con buoni strumenti, taluni corollari che riguardano il cennato argomento, e do qui un breve saggio di questi studi relativo alle oscil- lazioni irregolari e medie della temperatura. 2. Le variazioni irregolari della temperatura prinei- palmente deduconsi dai termografi a massima e a minima, che segnano direttamente i veri estremi delia tempera- tura, e qualunque sbalzo accidentale della medesima. La tavola 1.° dà nella 2* colonna le più grandi differenze osservate tra le massime e minime temperature diurne, — 180 — con la data corrispondente. Si vede che talune di queste escursioni sono veramente considerevoli. Così per esempio a 9 settembre 1866 la variazione del termometro giunse a 18 gradi centigradi. Vi ha poi dei mesi in cui la quan- tità della variazione che fa in un giorno il termometro, è molto maggiore della temperatura media del mese. La medesima tavola 1. contiene le medie escursioni diurne delia temperatura, dalle quali ricavasi che le oscillazioni irregolari del termometro sono massime in està e minime in inverno, nel che si accordano le indicazioni delle mas- sime escursioni osservate. Questo risultato è d'altronde conforme al principio generale, che le variazioni di una forza diventano tanto più grosse, quanto più cresce l’ e- nergia di essa forza. in està essendo più elevata la tem- peratura e più lunghi i giorni,, il termometro varia in medio di 10.°7 al giorno, mentre in inverno le medie variazioni del termometro sono di 6.° 3. — 181 — Tavola 1. Elementi per le oscillazioni irregolare. Massima Media | Massima Media MESI E STAGIONI Escur- Data Escur- Varia- Data Varia- sione sione zione zione 1865 Giugno. . . | 46.56 | 18 |10554|—6317| 3-4 | 4.814 » Luglio ...| 46.76 12 |10873/—4.057| 2524 | 1.249 » Agosto ...| 15.24 4 |10.682/—4173) 6-7.| 4.649 » Settembre . | 12.88 | 49 |410.621|—4320| 12-43 | 4.444 » Ottobre... | 12.94 26 7.909 |4-4.293| 47-48 | 4.201 » Novembre . | 10.67 AS 5.177|—2.230| 18-19 | 0.879 » Dicembre . | 12.12 11 7.242/-—4.040|. 7-8 0.984 1866 Gennaio . . | 10.56 | 29 | 6.825|4+5516) 4-2 | 0926 » Febbraio . . | 15.56 15 6.421 |+4.3520| 2627 | 41.354 » Marzo... . | 412.09 12 7.615 !/—2896| 7-8 0.861 DWMCAPEUC (a 11.68 3 7.805|— 7445! 20-24 | 4 857 » Maggio. .. | 14.65 ki 8.791|4+4 93) 25-26 | 1.758 » Giugno... | 13.80 44 9.809 4-4 084| 9-10 | 1.562 » Luglio ...|44.27| 24 |11.455|—3.187| 14819 | 4.697 » Agosto ...|4595 5 (40.751 !—6 213) 40-41 | 1.575 » Settembre . { 18.06 9 9 412|-—6.5150| 17-18 | 1.260 » Ottobre... 974 6 6.516|—2070| 67 0 803 » Novembre . 9.29 16 6.497 |—53.793] 47-18 | 0.984 “» Dicembre .| 415.45} 415 5.998|—1.953| 7-8 | 0689 4867 Gennaio . . | 10.99 45 4.419 (4.477 15-46 | 1.36 » Febbraio. . | 1442 24 7.219/—4.860] 27-28 | 1.196 »iMarzo..::. .| 14.29 45 5.876 |+4.497| 19-20 | 1.515 » Aprile So I ed (gs 410 9709|—7.237| 24-22 | 4 860 » Maggio. ..| 1591 25 |10.029|—4.603] 21-22 | 4.545 Està . . . 4865 46.76 | 12L {10.703|—6.517| 3-4 G| 4.517 Autunno . 1865 412.94 | 260 7.902 |-—-4 52012-143 S| 4.097 inverno . 4855-66 | 1356 | 415f 6.819 4452025 27 F| 1.088 Primavera 1856 44 65 òM 8.070|/—7.4935,20 21 A| 41.493 Està ... 1866 15 95 SA |190674/—6.2:510-11 A! 4.441 Autunno . 1866 18.06 95 7.3575|—6.510/17-18S| 4.016 Inverno . 1866-67 | 14.142 | 24F 5.849|/—4.860/27-28 F| 4.074 l'rimavera 1867 45.91 | 23M 8 553|—7.257|24-22A| 1.640 Inverno!i..;:;+ 143/84 6.3554| 4.590) 4.081 Primavera . 45 27 8504| 7.565] 1566 ESTA eno. 416 59 40.658| 6 265 4.491 Autunno ..... 45.50 7.658| 5.415 1.056 ADORA, 15.24 8.241] 5.999 1.298 ITTTI:<—<— @uorar——=<= ptc tt@116@@@—#11111@—@1111111111111120 — 182 — 5: Le variazioni accidentali del'a temperatura possono anche desumersi dalla differenza delle temperature medie diurne di due giorni consecutivi. Chiameremo convenzio- nalmente escursione diurna accidentale la differenza tra le temperature massime e minime, e variazione, diurna accidentale la differenza tra le temperature medie di due giorni contigui. Le tre ultime colonne della tavola 1. espongono le variazioni accidentali osservate nel biennio da giugno 1855 a maggio 1867. Il segno apposto alle massime variazioni, per ciascuna delle quali è segnata. la data corrispondente, denota se la temperatura media in quei due giorni consecutivi ha sofferto aumento o diminuzione. Per esempio da 5a 4 giugno 1865 la tem- peratura media abbassò di 6.° 317, e aumentò di 4.° 293 da 17 a 18 ottobre 18653. Osservando questi segni si scorge che i — sono preponderanti, essendo essi 16 so- pra 24. Ciò mostra che i subiti abbassamenti di tempe- ratura, sono più frequenti che i subiti innalzamenti della medesima. L’ ultima colonna contiene le medie variazioni, prese senza tener conto del segno. Le variazioni acciden- tali così medie come massime, sono (come le escursioni accidentali ) in està più forti che in inverno. Però rela- tivamente alla primavera e all’ autunno, diversificano i risultati delle escursioni e delle variazioni, lochè o viene a indicare una proprietà speciale delle variazioni, o _mo- stra che quest’ ultime non possono in un solo biennio presentare spiccata e decisa la legge delle oscillazioni irregolari della temperatura. Ciò sarà posto in chiaro da ulteriori osservazioni. 4. Nel medio di una serie convenientemente estesa di osservazioni, vengono a distruggersi gli effetti acciden- tali e anormali della temperatura. Il numero delle volte in cui il massimo, per esempio, accade prima dell’ ora normale, in una lunga serie si può considerare quasi uguale al numero delle volte in cui esso succede dopo — 183 —« di essa ora, e così per gli altri elementi e per le cor- rispondenti amplitudini. Quando sarà collocato in questo Reale Osservatorio il termometro registratore, potrà con- venientemente e in tutte le sue parti, tra le altre cose, risolversi il problema delle variazioni normali della tem- peratura. Per ora mi avvarrò, per trattare questo argo- mento, di un processo teorico, cioè stabilirò le formule che rappresentano nel miglior modo le osservazioni ese- guite nelle ore ordinarie, e dalla differenziazione di esse formule dedurrò le ore critiche e le medie escursioni. La tavola 2.* contiene gli elementi delle variazioni medie. Farò uso della nota formula a seni e coseni multipli T=x+m Sen(M+h)4+ n Sen(N+ 2h)...... che limiterò per ora al termine in 2h. — 184 — Favola 2. | Elementi per le oscillazioni medie. i i i MESI E STAGIONI | 0 MI “| 91V XI la | PER 1865 Giugno. . . |24.747/25.024|24.893|20 603/18.431|22.32922:644|21.884 » Luglio . .. |28.90429 504|29.409/24.748/22.601/26.291/26 6641/26.100]| » Agosto . . . 27.511|28.084|28.112/23.698/24.486/23.859/24.718/24.486| 2i 13 Î IX XXI | Medio » Settembre . /25.037|26.092/25.768 20.926!18.826/20.242!21 425|24.612 » Ottobre . . |16.543/17.058/16.606/13.580/12 455/12.647/13.817(13.903 » Novembre . |10.071[10.459 10.093) 8.565) 8.068| 7.590| 8.233) 8.584 » Dicembre. . | 9.146) 5837| 5.279) 2.845] 2.188) 4.487| 2.093| 2.984[| 1866 Genneio . . | 4.715) 5.926) 5.557| 3.350) 2.704| 1.733! 2.352] 3.334 » Febbraio... | 8184] 9.340| 9 047] 6.837) 6.073] 4.816| 5.569] 6 645]| » Marzo ... |11.72312.522/12.266| 8.988] 7.928| 8.450) 8.939) 9.448] » Aprile. . . . (16.533|16.701(16.215]13.228 11.895 13.907/14.508]14.006 » Maggio. . . (18.323(18.563/18.237/14.293/12.728/15.92716.3567|15.647 » Giugno... |25.964/26.691|26.253/22.261/20.075/23.649/24.3965123.326 » Luglio . .. |28.65829.896.29.851/24.585)22.11926.087/26.587/26.019 » Agosto . . . |25.830/26.855/26.404|22.024|20.009/22.328|22.815/22.915 » Settembre . |22.450/23.368/22.955/18.952/17.594/18.463/19 326/19.671 » Ottobre. . . |14.810/15.225/14.707111.899 10 923/14.164/12 066112.265 » Novembre . | 9.746/10.268) 9.736] 7.413) 6.488| 6.043| 6.754| 7.429 Dicembre . | 5.651! 6.653| 5.961| 3.869 2.805) 2.018) 2.600) 3.595 1867 Gennaio . . | 3.354| 3-792| 3.482] 2.062] 4 447| 1.092) 1.515| 2.007 » Febbraio .. | 8.912! 9.980] 9.786! 6.900) 5.558! 5.116) 5.667! 6.820 » Marzo ...| 9828110.738|{0.688 8.273] 7.423] 7.551) 8.041 8.554 » Aprile . .. |17.869/18.829/18.56014 257]14.566|14.566]15.40915.138 » Maggio... |22.199/22.589/22.393/18.064|19.644|19.644/20.177|19.237 | | 2 Està ... 4865. |27.054 97 .537|/27.471 23.016|20.839)24 160|24.674|24.157 Autunno . 1865 |17 247|17.87017.489 14.359 13 .1416/43.493/14.492/14.700 inverno . 1865-66) 6.015 Primavera 1866 15 526 76 7.034] 6.628| 4.344| 3 655| 2.679] 3.338| 4.320 15 929|15.58912170/10.850/12.664|13.271)13.034 Està . . . 4866 |26 817|27.814/27.502|22:956|20.734|24.021|24.599|24.086 Autunno . 1866 - |15.669 16.287|15.79912 755|11.668|11 890112.715115.149 Inverno . 1866-67] 5.965) 6.808| 6.410) 4.277] 3.270) 2.742] 3.261) 4.144 Primavera 1867 |16.0632]17.385]17.214|13.530/11.795|13.920/14 542/14.510 loverno 5.990] 6.924| 6.519 4310| 3.462) 2.710) 3.299 4.230 Primavera . . . . |16.07916.657/16.401|12.850/11.322|13 290/13.906/15.672 Esta i e 26 935/27.675)27.486|22 986|20.786/24.090|24.636 24.121 Autunno . . . . - | |16.443/17.078/16.644|13.557|12.392|12.691|13.603|13.909 Amoi E 13.362|17.083|16.762|13.426|11.990/13.195|13.861]13.985] —— —————————————— ——————————rrrrrt& — Men 5. Nella tavola 5.° son contenuti i valori dei coef- ficienti che ho ritrovato sugli antecedenti valori. Favola 3. pren STAGIONI x log.m M_. | logn N ORIO LI o FAMA, Està . . . 1865 24 095/0 54659/60 2 28|941751|311 727 Autunno . 1865 14 705|0 4576445 55 15/9 74194] 57 46 52 Inverno . 1865-66 | 4335|0 34114|32 27 -4|9 84696] 46 910 Primavera 1866 13 01710 43751|57 37 59/9 48248] 31 732 Està ... 1866 24 087|0 54634|59 19 26/9 62390|311 54 59 Autunno . 1866 13 116|0 44488|45 27 3|9 81448] 56 4917 Inverno . 1866-67 | 4142/0 36554|34 33 11|9 75501] 55 53 27 Primavera 1867 14296/0 46609/55 20 54|9 41373|338 58 42 Queste formule rappresentano molto bene le osserva- zioni originali, come dimostra il seguente confronto tra l’osservazione ed il calcolo. Havoia 4.° Cale. - Osserv. | © S a Ca) co == | 25 Val 15 (Vo) (o) (Jo) 5 ch < À = = = = - _ = = DS "- ° 5 ù s . ° ° a) = (©) ES - Î È = ° o SS E E S Ss ® E E 7 = S 2 vi = E ELI O | (si | < Si (= [25] < = (MI D me. | o |—011|4+-0 02 000j—0 04|—0 02|—0 02/—0 04|—0 02) 027 HI |(-4+-013|] 000|—0 07/4-0 02/—0 04/—0 03|/_-007|4+-0:03| 059 Iv [--008|. 000|4+-0 07; 0 00|--0 05|+-0 04/4-0 09|—0 02| 035 Ix |—001{+0 01/0 02|—0 0i/—0 02!/—0 02!/—0 03; a 00) 012 XII [+0 01! 000|#-0 011H4-0 01]4#-0 0i[+0 01|4#-0 03) 000! 008 XX |—0t1{+003|—0 05|—0 06|/—0 06/—0 06j—011|[—0 02| 048 XXI [+0 16/—0 03|-+-0 031+-0 08|4+-0 08|+-0 07|40 14/0 04] 063 ————— \,. Î | —_—_———_ somma 0 61 0 09| 0251 022 DEI 0251 so 013 | | È Ì I TE et 06|4+-0 01|H-0 02|—0 02 000 000 0 O al 01, — 186 — In quest’ ultimo quadro vi è la somma delle differenze, presa così orizzontalmente come verticalmente senza tener conto del segno. Scorgesi da queste somme che Ì’ ora prù esattamente rappresentata è la mezzanotte, e la meno esattamente le 9% del mattino, e in riguardo alle stagioni la più esattamente rappresentata è l’ autunno del’ 1865, e la meno esattamente l’està del 1865. Neil’ ullima co- lonna orizzontale della tavola 4., vi è la differenza 7° del medio somministrato dalle formule, con quello di cui fo uso sistematicamente, cioè Medio — — (IV + XII + XX) e si vede che il medio calcolato concorda con |’ osservato. ‘6. Con le formule antecedenti, e adibendo il processo di calcolo che ho esposto in altre occasioni, ho ritrovato 1 seguenti valori delle ore critiche termometriche e delle oscillazioni regolari. I Favola 5. ora | Ora | oscilla- STAGIONI da del zione PENE NUSIRE i cr metrica h h 0 Està... 1865 DI 13 43 TORACE Autunno . 1865 Qalo 16 42 6 029 Inverno . 1865-66 QUO 17 80 5.025 Primavera 1866 DALLO IAS 5 478 Està . . . 1866 2790] 13015 77248 Autunno . 1866 2 08 OS) 5 983 Inverno . 1866-67 DINA 29 5 081 Primavera 1867 2 66 SRO) 5 892 Inverno . ..... 249 17 (54 DR0159 Primavera . .... 2:38 14 (02 5 685 ESTRO | 2 65 AZIO 7 166 A UFO RI ZIA GND 6 006 ANDOREEI Edo | 2 41 15.35 5 977 i SI ORTA MEN RISI — 187 — Esaminando questi valori si resta sorpresi della pic- cola escarsione dell’ ora del massimo caldo nelle diverse stagioni, mentre l'istante del massimo freddo varia di più che quatiro ore. Giusta l’ antecedente specchietto il massimo freddo avviene in inverno f°7 e in autunno 129 prima del nascere; in primavera 5° 3 e in esta anche 5% 5 prima del nascere. Comparando isolatamente l’ està all’ inverno, si vede che lora del massimo caldo è in està più lontana da mezzodì, e 1’ ora del massimo freddo più vicina alla mezzanotte. Riguardo poi all’ ora del mas- simo caldo, gli antecedenti valori confermano l’ asserzione di Arago che alle 2 pomeridiane avviene quasi daper- tutto, e in ogni stagione, l'epoca del massimo della tem- peratura diurna (Dissertazione sullo stato termometrico del globo terrestre cap. xxxvi Geuvres vol. v). Ritor- nerò sullo stesso argomento quando sarà a mia disposi zione il termometro registratore. La tavola 3.* mostra che le variazioni regolari, sono come le irregolari in està maggiori che in inverno, e quasi uguali in primavera ed autunno. 7. Do termine a questa Nota esponendo le correzioni che giusta le formule antecedenti, devono apporsi alle antiche osservazioni termometriche di questo Reale Os- servatorio Astronomico. Esse possono dividersi in sette serie, a seconda delle ore diverse di osservazione, serie che ho indicato col segno A. B. ec., e che sono le se- guenti. i 1850-5200: VIT OSE 1855 Osser. biorarie. 1834 O. VII. XI. XX. 95 VI ND NI 1856 O. VIIL X. XXI {89748 NOS VI INGANNI: CASIMIRO N mea vogda> — 188 — Ho calcolato con le formule antecedenti (tavola 3.) i valori del medio aritmetico delle ore delle serie A. B. ec. e prendendone ja differenza col vero medio, ho ottenuto le correzioni contenute nella tavola 6%. Mancano le serie B e D perchè saranno trattate con metodo spe- ciale. i Favola 6.° STAGIONI À C E F > | Està . .. 1865 —0 917|+0 124] —0 576| +1 TE 076 Autunno , 1865 —0 517]4-0 011|—-0 673] —0 $67|—a 858 Inverno. . 1865-66 {—0 111/4-0 084[—0 421|—0-513{—-0 551 <« $ Primavera 1866 —0 6215-40 073| —0 49641 —0315] —0 804 Està . .. 1866 —0 846/40 200[—0 467]—10685/—1 043 Autunno . 1866 — 0 456/40 018} —0 gs o 806 —o 810 Inverno. . 1866-67 |—0 255|+-0 020{—0 548| —0 547|—0 654 Primavera 1867 —o0 662|-4+0 129f—0 468] —0 896] —0878 Inverno .. .... —_0 183/40 0521 —0 434|—0 580|—0q 602 Primavera . .. .. — 0.641|#0 101] —0 482| —0 855/—0 841 ESE SIAE — 0 881|-40 162| —0 521| —1090|_1 059 Autunno . .... |—0486[4-0 014| —0 658] —0 836|—0 834 INTORNO AD UN DEPOSITO DI SELCI LAVORATE ANTICHE NEL MODENESE NOTA DI G. CANESTRINI ( Presentata nell’ adunanza del 28 giugno 1867 ) Gli oggetti antichi di pietra fin’ ora scoperti nel Mo- denese sono assal poco numerosi; essi si riducono ad alcune armi tra cui vi sono delle punte di freccia trovate nelle nostre terremare. ‘Tanto più interessante riesce la scoperta or ora fatta di una località distante quattro mi- glia da Sassuolo in cui qualche anno fa le selci lavorate abbondavano e dove anche oggidi praticando degli scavi se ne può trovare una quantita notevole. lo ebbi già nell’ autunno scorso sentore della presenza, di siffatti arnesi nella ristretta località che trovasi alla sponda destra di Secchia e che è circondata a modo di penisola da questo torrente e dal Pescaro. Don Chierici di Reggio ed i dottori Stéhr e Gambari l’aveano già visitata nell’anno passato, aveano trovato nel brevissimo tempo di loro permanenza in quel sito qualche selce, ma non aveano dato, a quanto pare, al fatto tutta quella importanza che esso meritava. Io mi recai sul luogo li 6 maggio in compagnia del dott. E. Stohr e del dott. M. Calegari ed ecco quanto vl riscontrai. | Li Mani Il sito trovasi fra S. Michele ed il passo del Pescale sulla sponda destra del Secchia ed è confinato a mezzodi ed a ponente dal Secchia, ad oriente ed a settentrione dal Panaro. Esso non è però interamente circondato dai sopranominati due torrenti, ma offre al lato sud-est una stretta lingua che lo mette in comunicazione col monte Pignelto che sorge alla sponda sinistra del Pescaro. La nostra località sparge a guisa di promontorio verso il letto di Secchia e si eleva sopra questio di circa 20 metri. Chi l'ascende, gode un dilettevole panorama e se guarda verso sud il passo del Pescale ha alla sua sinistra il letto del torrente Pescaro, chiuso tra il monte Pignetto ed il monte Ciccio, alla sua destra i monti Pendice e della Croce che si elevano sulla riva sinistra di Secchia, il primo coperto di rigogliosa vegetazione; costituito di roccie mioceniche, il secondo calvo ed arido formato da argille scagliose. Il monticello su cui ci troviamo ha delle pareti ni dle quasi verticali e profondamente erose dai due torrenti che ne bagnano il piede; il solo versante settentrionale e dolcemente inclinato e fornito di vege- tazione, l’ altipiano che troviamo in cima è arido coperto di piante erbacee e specialmente di gramigne che trag- gono una stentata esistenza in quello spazio isolato e ristretto. i Quest’ altipiano è il luogo che c interessa. Facendo degli scavi troviamo un palmo o poco più di terreno vegetale e sotto questo scopresi immediatamente la roccia miocenica in sito. In quei punti in cui il terreno vegetale è assai basso e lungo il viottolo che percorre il versante settentrionale e che mette sull altipiano sporgono marcate e ben distinte le teste degli strati costituenti il nostro monticello. Questo terreno vegetale offre all’ esploratore quanto segue : — 191 — 1. Molti frammenti assai piccoli di ossa. I fram- menti, appunto per la loro piccolezza non ponno essere classificati; solo si può dire che appartengono ad animali di parecchie specie e ad individui di statura molto di- versa. Potei tuttavia constatare la pacsenza di ossa di maiale, di capra, e di bue, non posso però nulla aggiun- gere intorno alle razze, cui appartenevano questi animali domestici. 2. Molti cocci tutti assai piccoli, alcuni di vasi as- sal recenti, altri forse del medio evo ed altri ancora che giusto il parere del dott. L. Pigorini devono essere rife- riti per lo meno al tempo dei Romani. 5. Delle selci lavorate. Queste sono di tre qualità. Alcune sono lineari, lunghe circa 50 mill., larghe circa mill. 9, con una faccia lavorata in guisa che porta uno spigolo affilato longitudinale nel mezzo ed ha i due lati paralleli allo spigolo assai taglienti. In altre lo spigolo longitudinale non è mediano, ma avvicinato ad uno dei lati lunghi, a quello cioè ui è pure tagliente, mentre altro lato lungo non è sgrossato. In fine bhannovi di quelle in cui io spigolo longitudinale trovasi presso al lato non affilato e che porta posteriormente un’ appendice compressa che agevola |’ uso dell’arnese. La lunghezza di queste ultime selci è all'incirca di 22 mill. e l'altezza (compresa l appendice) di mill. 15. Questi arnesi sono tutti di selce piromaca ad eccezione di uno che è di ossidiana. Gli oggetti sopra menzionati trovansi insieme con qualche ciottolo rotondato e CRE rotolato nell’ esiguo terreno vegetale di cui feci parola e si vedono confusi insieme senza ordine alcuno. Da informazioni prese in quei dintorni venni a sapere che l’altipiano fu lungamente coltivato e lavorato colla zappa e che i contadini vi rinvenivano e raccoglievano una grande quantità di seler che andavano in seguito tutte smarrite. (99, — Questi fatti, a mio avviso, conducono alle seguenti conclusioni. Il Pescaro in un’ epoca assai remota passava sopra il monticello che attualmente è la sede delle selci lavorate, e senza fare curva alcuna si gettava nel Secchia. Più tardi il torrente medesimo deviò verso mezzodì :e pas- sando sopra la lingua che attualmente unisce il nostro altipiano col Pignetto metteva foce nel Secchia di fronte al passo del Pescale. Durante questo tempo il letto dei due torrenti si abbassò continuamente per l’azione delle acque. Finalmente il Pescaro, costretto ad erodere il suo letto sempre più profondo ed arrestato nella sua azione dalla roccia dura e compatta che costituisce la lingua suddetta, deviò verso settentrione e si scavò il letto che oggidi percorre. Il nostro monticello è in tal guisa quasi completa- mente circondato dalle acque e potea perciò ne’ tempi preistorici fornire un luogo sicuro di abitazione. Le selci lavorate in fatti ci dimostrano che durante l’ epoca litica questo luogo fu abitato dall'uomo per un tempo che non possiamo definire. La forma che offrono le suddette selci ed il lavoro finito che vi riscontriamo, ci inducono a riferirie all’ ul- timo periodo dell’epoca litica, piuttosto che ai primi tempi della medesima. Ma non ci è lecito, a mio avviso, di risguardarle siccome oggetti dell’ epoca del bronzo, sia perchè le nostre terremare non contengono selci di forma analoga, sia perchè insieme colle selci non si trovò trac- cia alcuna di arnesi di bronzo. La località di cui ci occupiamo, fa durante l'epoca del bronzo probabilmente disabitata, in quel tempo cioè in cui a breve distanza dalla medesima, a Castellarano ed a Roteglia, esistevano le abitazioni dei popoli che coi rifiuti della cucina e dell’ industria diedero origine a due potenti terremare. 95 Il luogo fu invece abitato più tardi ed in epoche assai diverse, come ce lo dimostrano i numerosi cocci e le ossa clie vi si rinvengono. È qui si noti che se parlo di abitazioni, lascio libero il campo alla disputa, se si debba ammettere una dimora regolare e continua di famiglie, oppure la semplice presenza di uno o pochi uomini di sentinella, oppure un’ concorso nel sito in tempi determinati per motivi religiosi od industriali. È questa una questione secondaria che qui non importa discutere. i Se le selci, le ossa ed i cocci nella nostra località non si trovano in maggior copia, ciò dobbiamo attribuire, almeno in parte, alla degradazione esercitatavi dalle acque piovane, giacchè l azione di queste poteva essere grande in un luogo sì ristretto e disuguale. Ma il mo- tivo principale devesi cercare nel fatto che il terreno fu in tempo recente trasformato in campo. Essendo la crosta vegetale poco potente, essa veniva annualmente tutta sconvolta dagli agricoltori, locchè spiega benissimo la distrazione di molti avanzi e ia riduzione degli altri in minutissimi frammenti. Vi sarà forse chi, dissentendo dall’ opinione sopra esposta, preferira di assegnare ai cocci ed alle selci la stessa età, riferendo entrambi ai tempi Romani, cui sem- brano realmente appartenere alcuni cocci. Questa even- tuale questione non può essere decisa coll’ aiuto della geologia, perchè il luogo di giacimento degli oggetti sopra descritti, essendo rimaneggiato dalle acque piovane ed alterato dall’ uomo, non può fornire alcun criterio sicuro che ci tolga dall'incertezza. La questione perciò diventa puramente paleoetnologica ed archeologica. In favore della mia opinione e contro l’ età romana o più recente ancora delle selci militano i seguenti motivi. 1. Stromenti in silice simili a quelli da me trovati furono rinvenuti nella Campagna romana ed apparten- * — gg gono all’epoca della pietra. Io vidi siffatti arnesi nella Raccolta paleoetnologica del R. Museo di Antichità di Parma provenienti, secondo le notizie fornitemi dal Dottor Pigorini, da banchi diluviali di Ponte Molle presso Roma. Simili utensili in selce vennero inoltre trovati nelle palafitte dell'età della pietra del lago di Varese, come risulta dagli studi del capitano Angelo Angelucci (1). 2. Fin ora nelle terremare modenesi dell’ epoca del bronzo e del ferro non fu scoperta selce lavorata alcuna che rassomigliasse a quelle del Pescaro. Se i po- poli che vissero durante la formazione delle mariere si fossero serviti di siffatte selci, queste non dovrebbero mancare nelle terremare, in questi ammassi che ben lontani dal rappresentarci avanzi di roghi come taluno si sforza di far credere altro non sono che gli avanzi di antiche abitazioni. Spero che non si obbietterà, che quanto non fu fin ora trovato, possa essere scoperto in seguito, giacchè tale scoperta, quantunque possibile, e sommamente improbabile dopo le lunghe ed esatte esplorazioni delle mariere nostrane. 5. Non è cosa ben certa, stando all’ asserzione di parecchi archeologi da me interpellati in proposito, che . i romani facessero uso di selce uguali o simili a quelle del Pescaro. Se i nostri stromenti fossero contempo- ranei dei cocci e risalissero all’ epoca romana solamente, dovrebbe recarci sorpresa il fatto, che nella vicina Modena, la quale fornì numerosissimi avanzi romani, non si rinvennero mai siffatti arnesi in silice. Dopo queste considerazioni credo non infondata I’ idea che le selci sopra descritte possano appartenere all’ epoca neolitica e siano anteriori a quella della formazione delle mariere. (1) Le palafitte nel lago di Varese pag. 17. GIORNALI E MEMORIE ricevute in dono od in cambio dalla Società GARBIGLIETTI Dott. ANTONIO. Sopra alcuni recenti scritti di Craniologia etno- grafica de’ dottori Giustiniano Nicolucci e G. Bernardo Davis. FOETTERLE F. Mittheilungen der K. K. geographishen Gesellschaft in Wien. Jahrg. 1856-1865. ISTITUTO VENETO di scienze, lettere ed arti. Lavori per 1’ illustrazione topogra- fica, idraulica, fisica, statistica, agraria e medica delle provincie venete. Dispensa I, Il. SALIMBENI Prof LEONARDO. Mavimento scientifico. Disp. I. VI. MAYR Dott. G. Ein Ausflug nach den siudl. Inseln des Quarnero. LINDEMANN ED. Sulla Fragaria neglecta. i SENONER AD. Die Sammlungen der K. K. geologischen Reichsanstalt in Wien. - Chemische Analysen, i WOLF H. Bericht iber die Wasserverhaltnisse der Umgebung der Stadt Teplitz. LEZZANI Cav. M. Lettera al direttore della corrispondenza scientifica di Roma. MONOGRAFIA delle acque minerali delle provincie venete. IL MERCATO CENTRALE della città di Vienna. CORRESPONDENZ-BLATT des zoologisch-mineralogischen Vereins in Regensburg. Jahrg. XIX. JAHRESBERICHT des naturhistorischen Vereins in Passau. VI. BERICHT (VI!) des Offenbacher Vereins filr Naturkunde. RAGONA Prof. D. Descrizione del barometro registratore. PASSERINI G. Esposizione florale universale di Amsterdam. RENDICONTO delle Sessioni dell’ Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna. Anno Accademico 1866-67. INDICE DELLE MATERIE PER NOME D'AUTORE CALEGARI e CANESTRINI, Storia della Salsa di Sopra presso Sassuolo, della Sorgente della Salvarola e dei Pozzi oleiferi di Montegibio SRI CANESTRINI G. Sopra due cranii antichi trovati nell’ Emilia + » » Due Note ittiologiche ‘» » Caratteri rudimentali in ordine all origine dell’uomo . » » Cenni critici intorno alla teoria del Kòlliker sull’ origine delle specie . +. RO N a rta » » Intorno ad un deposito di selci Japora ie antiche nel Modenese . . Bur ° GENERALI G. Sui miglioramenti igienici in Modena do 181 6 di 1566 GHISELLI A. Delle razze cavalline e del modo di migliorarle . GIOVANARDI E. Ipertrofia straordinaria del cuore destro OEHL E. Sull’ Archivio di Anatomia microscopica del prof. Sch no RAGONA D. Sulle oscillazioni regolari ed irregolari della temperatura . RONDANI C. De speciebus duabus Dipterorum generis Asphondyliae . STOHR E. Il vulcano Tenggher della Giava orientale . oto « » Schiarimenti intorno alla Cartà delle Salse e delle località oleifere di Montegibio . è ° ° a ° ° o Prezzo dell’ Annuario Lire sei. tit Canestrini_Oranti umani. SEE S RE d = da Si Modena. Lit. A. Ferrari. umani. anil i_Cr ni Canestr Anno Il Tav/il° in Modena t IS Societa dei Natural CEIRONI Modena. Lit.A.F È - ; 5 b - RI e e na are a —.- it - - - = = 7, - - ca n ; = = RE: È 5 : el = = - = < E E RI | SETE e : lo nn i È ‘ Aa 6 Ù pa k Li EE A f 351 SIE rea Str =. sia ne DEE ria Ò È E È : ; Società dei Naturalisti ini Modena. Anno Il, Tav. IN. Canestrini, Petrolio CARTA DELLE SALSE e DELLE LOCALITÀ OLEIFERE piMONTE GIBBIO. o Salse ® Emanazioni gazzone © Petrolio Delineata da EMILIO STOHR.A gosto 1866. n lase «. 4% Fiorano. Y Bernardone. P FuRometta. ‘ CI no Montecchio. À i O 88 Salvarola., — x = Sorgente salso jodica Pozzo Cionimi ® Pozzo Lanzi ì ) HAS Li Ciazzolo = Ù CREA RIT da | Ac N (DR a til a s #| eee di = RI = N) s sBovina Pe = a 2 (Osteria Ja il 2 Monte (ribbio, Annuario della Società de: Naturalisti im Modena, Anno II, Tav; IV va iero IL VULCANO BROMO nel gran cratere del Tenggher della Giava orientale. Salite RE bit.A. Ferraci Stohr. Tenggher. Tov: 5. Fig: I. NNO. G.Tosari. 2377 Gredalo. Penanjacin. Budo lembung. Kembang. i E Is Ù i 2650. | I)» i valle del rio Prau. Ider_ Ider. 2500. 'ssidiano. oa PRIMO ENO ù 5 sa mi Li O O DAL Ta “e 2076. FEILORO Sigorovedì. Vedodarm 1600 metri sopra il mare. Ss Ovest 5 539. Pr 2510, Kembang. Penanjaan. per Hebo glago: Rudjah. livello del Dasar 2ore. h ; 3) . Bromo. Batok. Tjemorro lavang. Nqadisar:. Vidodarin. Segorovedi. eee. Bd: : > 5 Vonosari. 500 0 1000 Scala. 2000 2260 5000 metri. SESSO + ana = È i fi livello del mare. ul ; Est Fig: III Cambiamento del cratere di Bromo 1838 fin 1858. HO ; he 35 DG È Aprile. 1842. Giugno. [unghuhn. BleeKer. Dito, van Herwerden. | 1844. | 1848. | 1858. Modena. Lit.A. Ferrari . bi ù } Li » LI Ù A i se è l i w Ù 2 È . x x x . la È > . Ù Ta . È ‘ “ x È x 1° a - . * 4 Li