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OCT O REM] VETRINE “bs MEIER ui: | LO 0A (da i ui y * cp fi Mi ATTI SOCIETÀ TOSCANA SCIENZE NATURALI RES TDENTE ENTPTISÀA eden INAEGENZIO NRE Vol TX Dedicato alla Memoria del Prof. &. Meneghini 167854 ALLA MEMORIA DEL PROF. G. MENEGHINI PRIMO PRESIDENTE DELLA SOCIETÀ TOSCANA DI SCIENZE NATURALI RESIDENTE IN PISA Il 29 gennaio 1889 morì in Pisa il prof. G. MexeGHINI, socio fondatore e primo presidente della nostra Società. Nel marzo successivo si costituì un Comitato promotore per erigere al sommo scienziato un monumento nel Camposanto urbano, dove, per deliberazione del Municipio pisano, la salma di Lui aveva trovato onorata sepoltura. Compiuto il monumento e la cerimonia dell’inaugurazione nel dì 11 giugno 1899, rimase un’eccedenza di cassa di L. 800, che dal Comitato fu consegnata alla nostra Società. Nell’ accettare il dono, il Consiglio direttivo, facendo aumentare per questo volume il numero ordinario dei fogli di stampa, deliberò che il volume stesso fosse dedicato alla memoria del suo primo presidente. Ponendo oggi in atto la sua deliberazione, il Consiglio sente il dovere di esprimere qui, a nome di tutti i soci, la sua gratitudine all’anzidetto Comitato che elargì la conspicua somma a vantaggio appunto di quella isti- tuzione scientifica, la quale tanto si accrebbe e si avvantaggiò mercè l’opera indefessa e il nome illustre del venerato e sempre compianto G. MeNEGENI. Pisa, 10 maggio 1903. PER IL CONSIGLIO DIRETTIVO Pror. S. Ricuiarpi, Presidente Pror. M. Canavari, Segretario. | | | i Ro ra “ Dei RAS Da PASTE h papera D h, Ù hi Ri; Hi i) 183 ARI VE ATI To potiiteiie . Ò Il % È i de 6 RIENTRI se I pg e ed LI e Ora OE 4 E, ; "i sp) i : i, LUO È Ù TI TM ‘x der A $ » * = n x 3 è É d CEI Ul o w î : E ri ; ks R3 At ; } LI A ni \ À Ù i ' E i I È i - ì x Y ’ 4 P: LEOPOLDO BARSANTI CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO ‘) Il gruppo di Iano, costituito da colline poco elevate, comprese fra le due valli dell'Era e dell’Elsa, si può considerare come l'estremo lembo settentrionale della Montagnola senese, ovvero quale anello di congiun- zione tra questa e i Monti Pisani a NO, da cui è separato per la valle dell’Arno e per una breve distesa di colline plioceniche. Fa parte di questo gruppo il Monte di Torri, oggi divenuto una località molto nota, non solo per lo studio dei terreni paleozoici in Italia, ma anche per le industrie minerarie, che da vari anni vi hanno preso una mediocre estensione. Del Monte Torri ne hanno dato per primi una descrizione geologica il Savi e il MENEGHINI nel 1851 ?). Spiegavano essi l'improvviso appa- rire di quel forte ammasso di verrucano, che rappresenta gli strati più antichi del Monte, in mezzo ad un territorio tutto di epoca terziaria, ammettendo che questi furono sollevati dall’eruzione di una massa di roccia plutonica, che secondo le loro osservazioni si trovava al di sotto di essi strati. In seguito però a più accurate ricerche sembra che quell’ammasso plutonico di eufotide serpentinosa non sia stato la causa dell’inalza- 1) Questo lavoro è stato eseguito sotto la direzione dell’ illustre prof. G. AR- CANGELI, al quale debbo esternare la mia più viva gratitudine per la benevola accoglienza che ha sempre usata verso di me ogni volta sia ricorso a Lui per schiarimenti. Debbo inoltre porgere infiniti ringraziamenti all’ amico dott. Cor- RADO AGNOLUCCI, il quale ha agevolato di tanto il mio studio permettendomi di valermi di alcuni suoi appunti riguardanti questo medesimo argomento. 2) P. Savi e G. MENEGHINI. — Memoria sulla struttura geologica delle Alpi, degli Appennini e dei Carpazi di R. T. Murchison. Traduzione dall’ inglese ed appendice sulla Toscana. Firenze, 1851. 4 L. BARSANTI mento del Monte, ma ciò sia avvenuto nel periodo postpliocenico per via delle comuni forze generatrici delle montagne. Infatti BerNARDINO Lotti 4), che segue pure il parere del DE STEFANI, avrebbe osservato che poco di- stante da Torri le rocce plutoniche si trovano a contatto con gli scisti carboniferi e son ricoperte dal pliocene. Per tale giacitura era facile essere indotti, come infatti avvenne, nella falsa opinione che tali rocce fossero sottostanti a quelli antichi strati e costituissero il fondamento di tutte le formazioni stratificate dei monti di Iano. Una più attenta ispezione però fa vedere in modo chiaro che esse, lungi da esser sot- toposte, sono soltanto contrapposte al carbonifero, come osserva anche il DE STEFANI ?), ed anzi se ne può constatare in qualche punto la so- vraposizione. Del resto sebbene non si scuoprano gli alberesi diretta- mente a contatto con le rocce ofiolitiche, si ritrovano però a pochi passi di distanza, andando verso Torri, separati da esso soltanto per una pic- cola vallecola di erosione, e non vi ha dubbio alcuno che tale contatto diretto si verifichi sotto il pliocene, che ricuopre per una gran parte la massa serpentinosa. Nel gruppo di Iano abbiamo detto che la formazione del verrucano rappresenta le rocce più antiche, che giacciono a forma di cupola, sco- perta però ed interrotta a SO dove si vedono gli strati più profondi per poche centinaia di metri quadrati. Questi sono costituiti prevalen- temente da scisti argillosi ed arenacei, sono tutti neri e carboniosi, talora addirittura antracitiferi, e specialmente nelle masse più tenere e argillose e carboniose si trovano delle vene di cinabro, della baritina, della pirite ed altri minerali in minor quantità. Tutta la serie di questi strati contiene fossili, specialmente vegetali, che secondo il MENEGHINI appartegono al sistema carbonifero. Le forme fossili che abbiamo preso ad esaminare, gentilmente cedute per studio dal prof. M. CANAVARI, giacchè si trovano nel Museo geologico di Pisa, furono estratte dalla galleria SAvI, tagliata in questi strati fossiliferi per i lavori delle miniere. Continuando in scala ascendente la serie delle roccie, che si seguono nel gruppo di Iano, si osserva che sopra i terreni paleozoici concordano 1) B. LorTI. — Alcune osservazioni sui dintorni di Jano presso Volterra. Bul. del Com. geol. ital. vol. X, 1879. i 2) C. De STEFANI. — Un nuovo deposito carbonifero nel M, Pisano, Atti R. Ace. dei Georgofili, vol. XIV. Firenze, 1891. CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO D quelli triassici, che stendendosi tanto a Nord quanto a Sud ricuoprono il carbonifero. La loro serie è la seguente: scisti lucenti bianchi e rossi, quarziti bianche o rossastre e micascisti, quarzite con ghiaiette di quarzo bianco o roseo. Si noti che questi strati di Iano sono litologicamente iden- tici a quelli delle Alpi Apuane, dei Monti Pisani, della Montagnola e di Capo Corvo, i quali pure appartengono al trias. Concordante sopra il trias sta l’infralias, formato inferiormente da piccoli strati di calcare terroso giallastro e superiormente da una grande massa di calcare ce- ruleo cupo compatto, talora cavernoso. Con l’infralias terminano le rocce antiche del poggio. Nelle porzioni più settentrionali esso è coperto qua e là da uno schisto argilloso rosso e biancastro, in straterelli, friabile, simile a galestro, che per il carattere litologico e per la posizione stra- tigrafica il De STEFANI attribuisce alla creta !). Tutto intorno alla cupola delle rocce antiche stanno gli alberesi e l’eufotide appartenenti al piano eocenico superiore, al solito con discor- danza grande di tempo e di stratificazione. In molti luoghi l’eufotide è a contatto col carbonifero, onde fece credere ad altri, come abbiamo già veduto, che esso fosse sottostante al carbonifero stesso, ma si è pro- vato come ciò non sia in realtà. Tutte le rocce ricordate vengono cinte e ricoperte dal pliocene che è per lo più sabbioso nella regione orien- tale, argilloso e meno litorale in quella occidentale. Tratteggiato così rapidamente il taglio geologico del gruppo di Iano, passiamo ora in ras- segna i primi studi che furono fatti sopra i suoi fossili. Abbiamo già detto che le prime impronte vegetali estratte dal M. di Torri furono studiate dal MENEGHINI e pubblicate nel suo lavoro sulla geologia della Toscana. Egli cita cinque Newropteris di cui una sola con determinazione di specie, e ciò a causa della conservazione non troppo buona degli esemplari. Nota pure varie Pecopteris, Calamites, Annularie, un Adiantites, e una Odontopteris. In una nota allo stesso lavoro a pag. 484, sotto il titolo “ Nuovi fossili del Verrucano , ricorda i lavori che si facevano a Iano per l’escavazione della nuova miniera cinabrifera, lavori che apportarono alla scienza la felice scoperta di fossili animali, appartenenti come i vegetali, secondo il MENEGHINI, all’epoca carbonifera. Fa notare come mentre gli avanzi vegetali si erano trovati negli scisti grigio-scuri a grana fina, quelli animali si trovarono in prevalenza negli scisti a grana grossolana. Anche di questi animali ne descrive i migliori 4) C, De STEFANI. — Loc. cit. 6 L. BARSANTI esemplari, e convalida la sua opinione di dovere attribuire al carboni- fero la formazione detta del verrucano “ giacchè se poteva rimanere dubbio fintanto che non se ne conoscevano che soli fossili vegetali, la presenza di fossili animali, egualmente appartenenti a quel periodo, in un piano superiore di quel medesimo terreno elimina qualunque dubbio che in proposito si potesse conservare , 1). Non sempre però furono tali le opinioni sull’età della formazione verrucana, come lo mostrano le numerose controversie che si ebbero tra insigni geologi, riguardo specialmente al verrucano dei Monti Pisani, che forma un identico orizzonte con quello di Iano e di altre località. In origine il SAVI ritenne questo verrucano come primario ?), di poi nel 1832 trovati alcuni fossili nei calcari di S. Giuliano, ammise che fossero ter- reni secondari trasformati, e li chiamò Verrucano. In seguito il prof. SismonDa con altri l’attribuirono al lias. Nel 1850 si scuoprirono i fossili di Iano che dal MENEGHINI sono riconosciuti carboniferi. Nel 1864 il CAPELLINI 3) e poi il Coquanp pongono parte del verru- cano nel permiano. Nel 1874 il DE STEFANI trova alcuni fossili di aspetto triassico, onde a tale epoca sono riportati parte degli scisti verrucani. In seguito alle scoperte di fossili fatte dal cav. pe BosNIASKI e dal LortI rimasero in campo le due questioni se si trattasse di resti paleo- zoici o secondari. 3 Il De SterANI dai fossili scoperti alla Traina nel Monte Pisano ascrive 4) quelli strati con quelli di Iano alla parte superiore del carbo- nifero superiore, corrispondenti agli strati di Radnitz in Boemia; ma il pe BosNIASKI da alcune impronte trovate nella stessa località conclude che tali terreni sono del permiano inferiore corrispondenti agli strati di Rossitz e Vettin in Boemia °). Il DE STEFANI in altra pubblicazione 5) dimostra che le forme trovate 1) P. Savi e G. MENEGHINI. — Loc. cit. 2) P. Savi. — Catalogo ragionato di una collezione geognostica contenente le rocce più caratteristiche dell'a Toscana. Pisa, 1830. 3) G. CAPELLINI. — Descrizione geologica dei dintorni del golfo della Spezia e Val di Magra inferiore. Bologna, 1864. 4) C. Dr STEFANI. — Le flore carbonifera e permiana del M. Pisano. Atti d. Soc. tosc. d. Sc. Nat. 1894. 5) S. DE BosNIASKI. — Flora fossile del Verrucano nel M. Pisano. Pisa, 1890. 6) C. Do STEFANI, - Un nuovo deposito carbonifero nel M. Pisano. Firenze, 1891, CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO vd dal De BosNIASKI non sono caratteristiche del permiano ma bensì del Carbonifero superiore. Intanto il pe Bosniaski dallo studio di altri fossili rinvenuti portava nuove prove !) in favore della sua opinione, paragonando il permiano del Monte Pisano al gruppo Autuniano di Francia. Nel 1891 il prof. CANAVARI ?) annunziava il ritrovamento di un’altra località fossilifera al Monte Vignale, contenente una flora diversa da quella della Traina, perchè le forme della prima sono maggiormente diffuse nel permiano inferiore, onde il De STEFANI deduceva che gli strati di Monte Vignale sono del permiano inferiore e corrispondenti ai Cu- seler-schichten, al permiano inferiore di Stockheim Mamback etc. Egli dunque attribuiva le due fiore della Traina e di Monte Vignale a due età diverse, cioè assegnava la prima al carbonifero superiore, la seconda al permiano inferiore, mentre il pe BosNIAsKI le univa ambedue con quella di Iano al permiano inferiore. Le osservazioni da noi fatte ci inducono piuttosto a secondare l’o- pinione del De STEFANI *) ammettendo che la flora di Iano appartenga al carbonifero superiore, e che quindi i suoi terreni siano in relazione con quelli della Traina. Ma d’altra parte sebbene fra i nostri esemplari non abbiamo trovato Walchia e Callipteris, tuttavia ci è nato un dub- bio nel riconoscere quattro saggi di Neurocallipteris gleichenioides, che secondo lo StERZEL sarebbe una delle specie proprie del permiano. Non rimanendo perciò nemmeno ora del tutto certa la determinazione di questi terreni, mi propongo di continuare presto lo studio, giacchè nel- l’Istituto di Botanica esiste un buon numero degli stessi fossili di Iano, che il prof. ARCANGELI con squisita cortesia mi ha proposto di studiare. Intanto per le indagini fatte siamo per ora, come già si è detto, più propensi ad assegnare a quei terreni un’età carbonifera, giacchè se pas- siamo in rassegna i tipi speciali al carbonifero superiore, vediamo la perfetta corrispondenza che questi hanno con quelli studiati da noi. Infatti la flora carbonifera superiore è caratterizzata per l'abbondanza di felci specialmente del gen. Pecopteris e Odontopteris; le Calamites 1) S. DE BOSNIASKI. — Nuove osservazioni sulla flora fossile del Verrucano nel M. Pisano. Pisa, 1894. ?) M. CANAVARI. — Due nuove località nel M. Pisano con resti di piante carbonifere. Atti d. Soc. tosc. d. Sc. Nat. 1891. 3) C. De STEFANI. — Flore carbonifere e permiane della Toscana. Firenze, 1901. 8 L. BARSANTI sono le stesse che nel carbonifero medio. Tra le Asterophyllites predo- mina l’Asterophyllites equisetiformis. Le Annularie sono rappresentate da due specie: l’Annularia sphenophylloides e V Annularia stellata, che nate verso l’estremo orizzonte dell’età precedente si sostituiscono a poco a poco all’Annularia radiata. Tra gli Sphenophylum appariscono i nuovi tipi, prima lo Sphenophyllum oblongifolium e poi in alto lo Sphenophyllum Thoni, la più grande specie del genere. Le Sphenopteris sono molto di- minuite, infatti anche noi abbiamo trovato un solo esemplare della Sphenopteris delicatula. Le Neuropteris conservano ancora in parte certe forme della flora carbonifera media, ma sono per lo più rappresentate da specie nuove, come la Neuropteris auriculata. Le Dictyopteris dell’età precedente sono rimpiazzate da altre specie, quali la Dictyopteris Bro- gniarti, la Dictyopteris Schiitzei. Nel gruppo delle Neuropteridae è più importante in questa età il genere Odontopteris. Si presenta pure il ge- nere Callipteridium, che nei nostri esemplari si è mostrato numeroso sotto la specie di Callipteridium subelegans. Su tutte le felci però, come è facile vedere, ha la superiorità il genere Pecopterîs colle specie Pe-. copteris cyathea, P. polymorpha, P. unita e P. longifolia. I Lepidodendri sono quasi scomparsi e non hanno che un posto secondario, infatti noi ne-abbiamo trovato solo qualche impronta molto indecisa; persistono ancora per qualche tempo i Lepidostrobus e i Lepidophyllum. Tra le St- gillarie predominano le forme Sigillaria Brardi e Sigillaria Spinulosa. Le Cordaiti sono al loro apogeo con le specie Cordaites borassifolius e Cordaites principalis, delle quali anche noi abbiamo trovati numerosi esemplari. I Calamodendri sono rappresentati in abbondanza in tutto il piano superiore dal Calamodendron nodosum. Le Gimnosperme sembrano bene sviluppate dai numerosi frutti che ad esse devonsi riportare. Con un rapido confronto tra l’elenco dato e la flora di Monte Torri si vede chiaramente come quest’ultima corrisponda in tutte le particolarità ai tipi fondamentali caratteristici della flora carbonifera superiore, per cui crediamo poter stabilire che il piano degli scisti antracitiferi di Monte Torri, da cui provengono i nostri esemplari, appartiene al carbonifero superiore, e corrisponde agli strati della Traina del Monte Pisano. La relazione è evidente se noi confrontiamo le specie trovate a Iano con quelle della Traina; notiamo solo che la flora di quest’ultima si mostra un po’ più antica rispetto a quella di Iano. Il pe BosnIaski in tutti i suoi lavori sulla flora del verrucano è venuto sempre a conclusioni differenti dalle nostre e da quelle del DE CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO Ò SterAaNI. Egli ha paragonato la flora di Iano e della Traina a quelle degli strati Rossitz e Wettin in Boemia, che si riferiscono alla porzione inferiore del permiano; ma noi facciamo osservare che molte delle specie di Iano da noi studiate sono caratteristiche del carbonifero superiore e tutte molto comuni nel terreni di questa età. Riguardo alla nota impronta, che si può vedere figurata nel Museo geologico di Pisa, attribuita a G/ossopteris, a noi sembra, per quanto abbiamo osservato, che non sì tratti veramente nemmeno di una foglia ma piuttosto di una brattea, e verosimilmente del LepidophyWlum maius, figu- rato e descritto da molti autori, fra i quali FrisrmantEL nell’opera Die Virsteinerungen der bòhmischen Ablagerungen; tav. XIII, n. 2. Il cav. pe BosNnIasKI ritiene sicura la determinazione generica di Glossopteris “ mancando nella nostra flora permocarbonifera un altro ge- nere col quale a cagione delle dimensioni e della forma della foglia potrebbe essere confusa , 1). A noi sembra però che osservando attentamente il nostro esemplare e confrontandolo con la figura di FEISTMANTEL e degli altri si giunga a conclusioni alquanto diverse da quelle del DE BOSNIASKI. In primo luogo il disegno della supposta foglia, che si trova nel nostro Museo, non sembra ritrarre con tutta precisione l’esemplare, perchè in questo non si osserva alcuna traccia del picciolo, che è dise- gnato nella figura. Quella parte poi della foglia che è stata presa per base, a noi sembra rappresenti invece la sommità, come abbastanza chiaramente lo attesta la nervatura mediana, che come in ogni foglia è più grossa alla base e si assottiglia verso l'apice. Vi è inoltre da os- servare che nell’esemplare non vi è alcuna traccia di quella fitta rete di nervature secondarie, che si osservano nelle foglie di GIossopteris. Si potrebbe opporre a ciò che lo stato di conservazione del fossile non è così buono da mostrare tali nervature; ma se ciò fosse dovrebbe es- sere poco distinta anche la nervatura mediana, che spicca invece molto bene sulla superficie liscia della brattea. Guardando attentamente l’im- pronta alla base si vede che ivi presenta come una piccola area schiac- ciata e di apparenza diversa dal resto della foglia; in questo spazio anche la nervatura mediana sì fa meno appariscente, in una parola a noi sembra intravedere la forma che hanno alla base le brattee degli strobili. 1) S. De BosNIasKI. — Nuove osservazioni sulla flora fossile del Verrucano nel M. Pisano. Pisa, 1894. 10 L. BARSANTI Riassumendo quindi i caratteri che vi abbiamo potuto osservare, cioè mancanza assoluta di nervatura secondaria, mancanza di picciolo, base della foglia quasi rotonda e con l’impronta di un ricettacolo per gli spo- rangi, pare che non debba ritenersi come una foglia di Glossopteris, ma piuttosto una brattea di Lepidophyllum matus, di cui mostra tutti i ca- ratteri. Già anche il De STEFANI aveva dubitato della primiera interpre- tazione di quell’impronta, dicendo: “ la G/ossopteris (del Museo di Pisa) è così mal conservata che potrebbe essere tutt’altra cosa , !); parimente lo ZEILLER conferma che sia stata male interpretata?), e pure il prof. ARCANGELI, molto competente in materia, la riferisce ad una brattea di Lepidophyllum maius. Trattandosi del resto di uno studio molto difficile e di forme così- poco ben conservate da poterle determinare con sicurezza, non è a me- ravigliarsi se non ostante gli accurati studi si giunga a conclusioni spesso tra loro molto disparate. | Nello studio dei nostri fossili abbiamo riconfermato alcune specie nuove già fatte dal MenEGHINI, come l’ Annularia macrophylla e VAn- nularia ramosa, perchè mostrano abbastanza chiaramente caratteri suf- ficienti per farne nuove specie. Però alcune impronte di Asterophyllites segnate dal MENEGHINI come specie nuove, ci hanno lasciato un poco in dubbio, perchè si trovano in così cattivo stato che riesce molto difficile raccoglierne caratteri decisivi. Il De STEFANI pure ha fatto una nuova specie in un tronco di Ca- lamites, che presenta nella porzione superiore le coste molto acute ad angolo, cosa che non si verifica in altra forma. Noi crediamo osservare però che tale particolarità si presenta solo al di sopra dell’articolazione mentre al di sotto di essa le coste si mostrano piane: dunque trattan- dosi di parti di un medesimo pezzo si può supporre che il rialzamento delle coste della porzione superiore sia stato un effetto di pressione laterale, molto più che in questa parte il tronco si presenta un poco piegato ad arco. Abbiamo constatato infine la presenza di forme trovate ancora al 1) C. Dn STEFANI. — Un nuovo deposito carbonifero del M. Pisano. Firenze, 1891. 2) R. ZaiLLeRr, — Paléontologie végétale. Annuaire geologique universel 1890. Paris, 1892, p. 1122. CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO 11 Museo pisano, e che furono da altri diversamente determinate, cioè i generi SphenophyUum e Callipteridium. La prima forma si trova dal MENEGHINI riferita agli Adiantites; ma con più minute ricerche abbiamo osservato negli esemplari 4 e 5 tre di queste foglioline riunite in verti- cillo attorno ad un fusticino, disposizione che non si può avere negli Adiantites. Oltre la presenza dei verticilli, anche il numero delle ner- vature e le dimensioni delle foglie fanno riportare l’impronta alla spe- cie Sphenophyllum Thoni MARR. var. minor STERZEL. Questa varietà è creata e descritta dallo STERZEL !) per la mancanza dei denti sul con- torno della foglia, che egli ha notato in alcuni esemplari; per questo carattere forse la nostra impronta fu erroneamente riferita al genere Adiantites. Con ciò non intendiamo davvero di fare una confutazione alle determinazioni fatte da così insigni conoscitori della paleontologia, ma vogliamo solo unire alle loro le nostre osservazioni, se queste po- tranno servire mai di un qualche schiarimento in uno studio così dif- ficile e incerto. Tra le felci quella che si è mostrata per numero superiore a tutte è il Callipteridium subelegans di Poronig. Egli ne ha fatto una nuova specie fondandosi sopra una particolarità delle pinnule secondarie, per avere cioè alcune nervature secondarie inserite direttamente sulla rachide, an- zichè riunirsi sulla nervatura principale ?). Questo fatto l’abbiamo osservato anche noi assai bene in molti esem- plari, ma in altri la cosa è rimasta indecisa per il loro cattivo stato di conservazione. Forse alcuni di questi ultimi potranno riferirsi alla spe- cie molto prossima ai Callipteridium, cioè alla Pecopteris polymorpha, alla quale il MenEGHINI ed HeER riportarono anche tutti gli altri’ esemplari da noi riconosciuti come Ca/lipteridium. Può darsi anche che quest’ ul- timo rappresenti una forma di Pecopterìîs polymorpha, perchè ancora non fu ritrovato con sporificazioni, ma il PoToNIE fa notare che la Peco- pteris polymorpha si distingue dal Callipteridium subelegans oltre che per la mancanza di nervetti callipteridici anche per le nervature più lasse, non così diritte e non così forti come si trovano nell’altra specie ?). Notiamo pure nell’elenco due specie nuove descritte già dal prof. 1) I. T. SrerzEL. — Die Flora des Rothliegenden im Plauenschen Grunde Bei Dresden. Leipzig. 1893. ?) H. Poronib. — Die Flora des Rothliegenden von Turingen. Berlin, 1893. 3) Loc. cit., pag. 67. 12 L. BARSANTI ARCANGELI, che le scuoprì negli stessi scisti di Iano, cioè la Daubreeia Biondiana e lo Zoophycos Iani 1). In numerosi pezzi abbiamo trovato le impronte di foglie riferibili a SigWlarie; ad alcune di più importanti abbiamo dato il nome e una particolare descrizione. Ricordiamo per ultimo una nuova forma di fungo fossile trovato ade- rente alla superficie di un fusto, che presenta una grande somiglianza con la Tubercularia vulgaris ora vivente. Si presenta in forma di tuber- coletti riuniti in gruppi, muniti talora di una depressione nel centro; si è chiamata per la somiglianza suddetta col nome di 7ubercolarites Tani. Tutte le varianti e le osservazioni di minore importanza, da noi ap- poste alla determinazione di questi fossili fatta dal MENEGHINI e dagli altri, sono minutamente esposte nell’elenco che segue. In questo descri- - viamo in particolare tutte le specie nuove e gli esemplari migliori di quelle già note. Le forme che si trovano in gran numero, e che abbiamo una volta descritte sono indicate in seguito semplicemente per nome. 1) G. ARCANGELI. — Sopra due fossili di Iano. Boll. Soc. bot. ital. Firenze, 1896. ELENCO E DESCRIZIONE DELLE SPECIE FOSSILI (I numeri scritti in parentesi sono quelli che portano i fossili nella collezione del Museo geologico di Pisa). I. (1) — Due pinnule di secondo ordine, l'una lunga cm. 5, l’altra cm. 3; sono oblunghe, ottuse, con nervature arcuate, uscenti dalla base, dicotome, sottili; alla base le foglie sono dilatate e auricolate. Questo resto si riferisce alla Neurodontopteris auriculata (Brone.) Poron. In altra parte di questo esemplare si ha una foglia di SpherophyWum Thoni MARR. var. minor SteRZ. Ad essa sta vicino un piccolo fusto angoloso con una articolazione, che appartiene certamente allo stesso Sphenophyllwn come più chiaramente si vede in migliori esemplari, che troveremo. II. (2). — Impronte mal conservate di. SphenophyWum Thoni MARR. var. mìnor STERZ. INI. (3). — Numerose impronte poco descrivibili di SphenophyMWum Thoni MARR. var. minor SteRZ. Frammenti di pinnule di Ptychocarpus unitus (Brone.) Weiss. Le foglioline sono unite fra loro sino quasi alla sommità; l'andamento delle nervature secondarie è molto obliquo. Da un lato dell’esemplare si osserva un resto incompleto di Annularia stellata (SCHLOT.) STERNB. IV. (4). — Questo esemplare ed il seguente sono stati ottenuti da un sol pezzo, per cui l’uno è la controimpronta dell’ altro. Il numero che ora descriviamo porta diverse impronte, riferite in collezione al ge- nere Adiantites, ma dai manifesti caratteri che offre, noi lo riportiamo al genere Sphenophyllum. Infatti si osservano tre foglioline riunite in verticillo intorno ad un fusticino, cosa che non si riscontra negli Adiar- tites. La forma di queste foglie è ovale triangolare; sono rotondate al margine superiore; dalla base si partono da 5-7 nervature principali, che verso la metà della foglia si dividono per dicotomia, e ciascun ramo si suddivide poi in altri minori. Sull’estremità del lembo non esiste den- tatura, e per questo carattere appunto STERZEL ha fatto una varietà della 14 L. BARSANTI specie Sphenophylum Thoni indicandola col nome di Sphenophyllum Thoni MAHR. var. minor STERZ. Lo stesso saggio porta pure numerose impronte ben conservate di Annularia stellata (ScHLOT.) STERNB. Le foglie sono larghe circa mm. 1, 5; lunghe da 15-29 mm. in numero di circa 22 per verticillo, lineari, lan- ceolate, acuminate all’estremità, con nervatura mediana assai distinta. Da un lato si ha una pinnula di Ptychocarpus unitus (Brone.) Wesss. Infine si nota un’impronta a forma di radice, formata di un asse prin- cipale lungo cm. 4, 5, largo 0, 5 cm., dal quale si partono sei assi minori, alterni, in parte incompleti. Il prof. ArcanceLI l’ha denominata col nome di Radicites Iani n. sp. ARCANG. V. (5). — La controimpronta del precedente offre perciò le stesse forme fossili di questo, cioè un fusticino con tre foglioline in verticillo di Sphenophyllum Thoni MAHR. var. minor STERZ., diverse impronte di È Annularia stellata (ScHLOT) STERNB., un frammento di Ptychocarpus unitus (Brone.) WrIss., e in ultimo la solita impronta di Radicites Ianì n. sp. ARCANG. VI. (6). — Un frammento di pinnula a foglioline nette con denti acuti, in ciascuno dei quali termina una nervatura secondaria. Si riporta alla Goniopteris foeminaeformis SCHLOT. VII. (7). — Una pinnula a foglioline ottuse, connate alla base, con nervature sottili, uguali, forcate, tutte nascenti dalla base. Si riferisce alla Odontopteris osmundaeformis ScaLot. Da un lato si ha un'impronta di Annularia stellata (ScHLOT.) STERNB. in gran parte piritizzata. VIII. (9). — Porzione di pinnula di penultimo ordine, formata da dieci foglioline ottuse, molto vicine tra loro e leggermente imbricate, con nervatura mediana evanescente verso l’apice, le secondarie forcate. La riferiamo alla Newrocallipteris gleichenioides (STUR) STERZ., mentre in collezione porta il nome di Neuropteris rotundifolia, di cui però non ha i caratteri. IX. (10). — Pinna mal conservata di Neuropteris rotundifolia GuTB. con foglioline a contorno quasi rotondo, lunghe 12 mm., larghe da 10 a 11 mm. Da un lato dell’esemplare vi è anche un'impronta di Annularia stellata (SCHLOT.) STERNB. X. (11). — Un frammento di fronda con tre pinne a pinnule mal conservate, ma che sembrano riferirsi alla Neurocallipteris gleichenioides (Stur) Sterz. Anche questa in collezione è indicata col nome di New- ropteris rotundifolia. adr CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO 15 XI. (12). — Una pinnula di ultimo ordine lunga cm. 5, divisa da lobi ovali a contorno intero e in qualche parte leggermente sinuoso, con nervatura mediana ben netta, secondarie oblique, biforcate e legger- mente arcuate. Per tali caratteri la riportiamo alla Pecopteris Pluckeneti ScaLor. È ancora molto vicina alla 2. pinnatifida ScHIMP., ma ne diffe- risce perchè questa ha pinnule un poco più distanti e il margine intero. Differisce anche dalla P. Sterzelì ZeiLr. perchè questa ha i lobi più grandi e più divisi. © XII. (13). — Una pinna lunga cm. 10, 5 di Callipteridium subelegans Poron.; sono ben visibili i nervetti callipteridici. XIII. (14). — Una pinnula lunga circa 20 mm. e larga 8, con nerva- tura mediana che si prolunga quasi fino all’apice; le secondarie sono numerose, diritte alla loro origine, poi fortemente arcuate, e toccano normalmente il lembo della foglia. Si riferisce alla Dictyopteris Schiitzei Row. In collezione è data come Dictyopteris Brongniarti, ma tale deno- minazione non è esatta, perchè in questa la nervatura mediana giunge solo a metà o due terzi della foglia, e le nervature secondarie toccano molto obliquamente il lembo. L’esemplare porta pure un’impronta di Calamites, ma in stato da non potersi determinare la specie. XIV. (15). — Frammento di pinna con pinnule lunghe da 3-4 cm. larghe da 6-7 mm., toccantisi leggermente tra loro, con l’ apice arro- tondato. Nervatura mediana netta fino a circa ?/3 della foglia, nervature secondarie poco discernibili. Sembra doversi riferire alla Dictyopteris Brongniarti GuTB. XV. (16). — Frammento di pinnula della Dictyopteris Schiitzei Réw. lunga 17 mm., larga 7. Si ha pure una pinnula di Ptychocarpus unitus Weiss., forma longifolia Brone., che mostra ben distinta la sola nerva- tura mediana. Altro resto di pinnula, che da un lato ha numerose foglioline munite di denti acuti, con nervature secondarie formanti angoli molto acuti e con nervo medio. Si riferisce alla Gondopteris foeminaeformis ScHLOT. Altra pinna di penultimo ordine lunga cm. 6,5 con foglioline alterne, sessili, ottuse, con nervo medio evanescente all’ estremità, e nervature secondarie numerose ed arcuate; le foglioline si cuoprono in parte l’ una con l’altra. Sembra corrispondere alla Newropteris imbricata GòPP., ma il nostro esemplare ha un numero di nervature secondarie molto maggiore che non ha il tipo di G6PPERT, dobbiamo perciò riportarla alla varietà di questa specie cioè alla Neuropteris imbricata GuòPP. var. densinervosa REL. 16 L. BARSANTI Vi è anche un’impronta di Calamites Cisti Browne. Dall’articolazione sì partono numerose coste longitudinali finissime e serrate; all’estremità delle strie si notano piccoli tubercoli che appariscono come tante pun- teggiature. Dal lato opposto dell’ esemplare si ha una foglia lineare, certo di SigWMlaria, di cui diamo una sommaria descrizione in latino: Folia li- nearia, longa cm.8, lata mm. 8,5, nervo medio recto et patentissimo, alia duo collateralia minus distineta. Essendo, come è noto, il nome di Sigil- laria riservato esclusivamente per i fusti, si è designata quella foglia col termine speciale di ,Sigiariophyllum, e precisamente il prof. ARCAN- GELI l’ha determinata SigWariophyllum tricarinatum n. sp. ARCANG. XVI. (17). -— Estremità di una pinna formata da una foglia grande a forma di lingua, lunga cm. 3, 5., larga cm. 2, riferibile alla Odonto- - pteris subcrenulata Rost. Si presentano poi altre due pinne a foglioline ottuse con nervatura indecifrabile da riportarsi, crediamo, alla Newrocal- lipteris gleichenioides (STUR) STERZ. Dal lato opposto del modello si ha una ben conservata impronta di Cordaites borassifolius STERNB., le cui nervature, una sottile tra due grosse, sono parallele e regolari. XVII. (18). — Una pinna a grossa rachide striata longitudinalmente, formata da varie 'pinnule a foglie larghe, ottuse, talora quasi rotonde. La nervatura mediana giunge presso la metà della foglia, le secondarie sono numerose e dicotome all’estremità. Qualche fogliolina si attacca con metà della base; allora in quel punto le nervature s’inseriscono sulla rachide. La riferiamo alla Neurocallipteris gleichenioides (StuR) STERZ. XVIII. (19). — Due frammenti di pinne primarie, l’una lunga em. 4, l’altra cm. 5, ambedue formate da pinne secondarie alterne, di cui le inferiori sono composte di foglioline ovato-rotonde, le superiori sono con- nate. In alcune di esse si osserva che talune nervature della base si inseriscono sulla rachide. Queste impronte rappresentano la parte supe- riore di due pinne di Callipteridium subelegans PotoN. Si ha pure un’impronta di Calamites Cistiù Brone., in cui le stria- ture sono visibili solo da una parte. XIX. (20). — Vari frammenti di pinnule di Odortopteris obtusa BRroNe. Le foglioline sono ottuse e si attaccano con tutta la base alla rachide; nervatura quasi indistinta. Da un lato si osserva pure una pinnula di Asterotheca suberenulata (Rost.) PrEsL. assai ben conservata. CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORÀ FOSSILE DI IANO 17 XX. (21). — Alcune pinnule di Pecopterîs, ma molto incerte; dalla nervatura ramificata e dalla lunghezza varia delle foglioline sembrano appartenere alla Asterotheca cyathea (ScuaLoT.) PRESL. Si osserva ancora qualche resto di Annularia stellata (ScHLOT.) STERNB. XXI. (22). — Grosso frammento di una pinnula di Asterotheca arbo- rescens (ScHLoT.) PRESL., ed un altro più piccolo di Ptychocarpus unitus (Brone.) WrIss. XXII. (23). — Porzione di pinna con tre pinnule a foglioline quasi rotonde alla sommità, e unite fra loro; crediamo poterla riferire al Ptychocarpus unitus (Brone.) WEISS. XXI. (24). — Alcuni resti di Asterotheca arborescens (ScHLOT.) PRESL., e due impronte di Annularia stellata (ScHLOT.) STERNB. XXIV. (25). — Alcune pinnule a nervatura indistinta, ma per la forma delle foglioline sembrano riferibili alla Asterotheca cyathea (ScHLOT). PRESL. Si ha anche qualche frammento di Annularia stellata (ScHLOT.) STERNB. XXV. (26). — Una rachide primaria con qualche pinnula piritizzata ed in buono stato, che a quanto pare deve riportarsi alla Asterotheca cyathea (ScHLoT.) PrESL. Vi sono anche pochi resti di Annularia stellata (SCHLOT.) STERNB. XXVI. (27). — Una foglia incompleta di Cyclopteris orbicularis BRONG. Il lembo è molto slargato, le nervature distanti, dicotome, grosse e in- flesse obliquamente. Si crede che fossero appendici foliari, che si for- mavano intorno al fusto e alla rachide delle Felci. Dall’altro lato dell'esemplare si hanno resti di Asterotheca arbore- scens (ScHLOT.) PRESL. XXVII. (29). — Una bella pinna lunga cm. 18,5 di Asterotheca ar- borescens (ScHLOT.) PRESL.; poche sono però le pinnule ben conservate. XXVIII. (30). — Esemplare con alcuni resti di pinna ben conservati. Il migliore rappresenta la parte superiore e media con pinnule e foglio- line distinte. È evidente il carattere di alcune nervature della base che vanno direttamente alla rachide; perciò dobbiamo riferire il nostro esemplare al Callipteridium subelegans Poron. Si noti che la parte su- periore di questa pinna offre caratteri affatto diversi dalla parte media e tali da renderla somigliante ad altri generi. XXIX. (31). — Una pinna ben conservata lunga cm. 8 di Asterotheca arborescens (ScHLoT.) PRESL.; un frammento sporificato di Ptychocarpus unitus (Brone.) WerIss., e dal lato opposto numerose foglie di Annularia stellata (SCHLOT.) STERNB. 18 L. BARSANTI XXX. (32). — Una grossa rachide con pinnule sporificate, ma senza alcuna traccia di nervatura. Sembra doversi riferire alla Asterotheca cyathea (ScaLor.) PresL. Nello stesso pezzo si vedono qua e là fram- menti di Goniopteris foeminaeformis ScHLot. Si osserva pure la parte in- feriore di una pinnula di Dactylotheca dentata (Brone.) ZEILL., e alcuni resti di Ptychocarpus unitus (Brone.) WrISS. XXXI. (35). — Frammento ben conservato di Callipteridium subele- gans Poron. Una pinnula mal conservata di Goniopteris foeminaeformis ScHLoT. Infine abbiamo delle foglie lineari, sottili, che il prof. ARCANGELI ha indicato col nome di SigilariophyUWlum Tani n. sp. ARCANGE. di cui diamo la seguente diagnosi in latino: Folia linearia 1, 5-2 mm. lata, 10 cm. longa, pagina inferiori obtusa, striata, margine integra. Nella parte op- posta dell'esemplare si ha il Cordaites borassifolius STERNB. XXXII. (42). -—- Resto di pinna lunga 11 cm. formata da otto pinnule a foglioline quasi acute, con nervetti callipteridici, perciò da riferirsi al Callipteridium subelegans Poron. XXXIII. (43). — Parte inferiore di una pinna di Callipteridium su- belegans Poron. Al lato di questo si ha un frammento di foglia, a quanto pare, di Neurodontopteris auriculata (Brona.) Poron. La foglia è molto incompleta, ma nella parte visibile la nervatura è ben netta. XXXIV. (44). — Una pinna con contorni foliari appena visibili e senza traccia di nervatura. È una forma tra il Callipteridium subelegans Poron. e la Pecopteris polymorpha Brone., ma per la mancanza di ca- ratteri essenziali non ci permette di decidere per alcuno dei due. XXXV. (45). — Impronta di una grossa foglia lunga cm. 6, larga al massimo cm. 3, con nervatura mediana evanescente all’estremità; da essa si partono le nervature secondarie sottili, ed arcuate. Dobbiamo ripor- tarla alla Odontopteris subcrenulata Ros. Si osservano pure impronte di Callipteridium subelegans Poron., di Goniopteris foeminaeformis ScHLor. e di SigillariophyWlum Ianì n. sp. ARCANG. già descritta. XXXVI. (46). — Alcuni resti in cattivo stato di Callipteridium sube- legans Poton. XXXVII. (47). — Estremità di una grossa pinna con altre minori di Callipteridium subelegans Poron. In alcune foglioline si possono vedere chiaramente alcuni nervetti callipteridici. XXXVIII. (48). — Altre pinnule di Callipteridium subelegans PoroN. Dal lato opposto dell'esemplare si ha un resto che sembra doversi rife- rire al Cordaites borassifolius STERNB. CONTRIBUZIONÈ ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO 19 XXXIX. (49). — Questo residuo ci offre il migliore esemplare di Cal- lipteridium subelegans Poron., che abbiamo trovato : ci mostra le foglioline e i nervetti callipteridici in ottimo stato. Sul lato opposto si ha una larga impronta di Cordaîtes borassifolius STERNB. XL. (50). — Parte di pinna di Callipteridium subelegans Poron. Dal lato opposto dell'esemplare si ha la solita forma di Radicites lani n. sp. ARcANG. costituita da un asse principale ad arco, da cui si staccano nu- merose appendici, che sono tutte segnate da striature longitudinali. ‘ XLI. (51) — Altri resti di Callipteridium subelegans Poron. di poca importanza perchè in cattivo stato. XLII. (58). — Una pinna grande ed altri frammenti di Callipteridium subelegans Porton. Dal lato opposto si hanno due impronte di tronco non bene decifrabili. XLIII. (62). — Un ramoscello a tre verticilli di foglie, le quali sono in numero da 8-20, lineari, terminate in punta acuta, uninervate e unite un poco alla base. Si riferisce alla Anmularia radiata Brone. Dal lato opposto si ha un frammento di pinna, che sembra avere sulla rachide primaria e sulle minori delle squamette. Le foglioline sono alterne, a contorno rettangolare, arrotondato all’estremità, con nervatura mediana netta e nervature secondarie semplici. La riportiamo alla Asterotheca paleacea ZeiLr. Si ha anche un resto di Callipteridium subelegans Poron. XLIV. (63). — Vari frammenti di Callipteridium subelegans Poton. Dal lato opposto un’ impronta incerta di Calamites. XLV. (64). — Varie pinnule a quanto pare di Scolecopteris poly- morpha (Brone.) ZENK. Le nervature sono più lasse, meno forti e diritte che nel Callipteridium. Dal lato opposto si ha la parte inferiore di una foglia di Cordaites borassifolius STERNB. XLVI. (66). — Parte superiore di una pinna di Callipteridium sub- elegans Poton. Da un lato dell’ esemplare vi è un’ impronta che sembra di Cordaites, ma molto in cattivo stato. Si ha poi la solita forma di £Ra- dicites Iani n. sp. ARCANG. XLVII. (67). — Corta pinnula a foglioline arrotondate all’ estremità, che si inseriscono sulla rachide con tutta la base; nervatura poco distinta. Per questi pochi caratteri non resta tanto facile esattamente determi- narla, ma sembra avvicinarsi alla Asterotheca abbreviata (Brone.) PRESL. XLVIII (69). — Una rachide con varie pinnule distintissime. Le fo- glioline sono ad apice rotondato e le nervature ramificate. Si riporta alla Asterotheca cyathea (ScHLOT.) PRESI, Sc. Nat. Vol. X1X À 2 20 L. BARSANTI XLIX. (71). — Un resto di nessuna importanza di Callipteridium aa PoTon. L. (73). — Bellissima impronta di Ptychocarpus unitus WrISS. torni longifolia Brone. È ben noto il contorno delle foglie con le nervature secondarie ramificate. Dal lato opposto dell’ esemplare si ha un ramo- scello a tre verticilli di Anmularia stellata (ScHLOT.) STERNB. Appresso di questo vi è una foglia lineare lunga cm. 5,5 larga mm. 5, tricarenata, con nervatura mediana grossa e due laterali più sottili. È incerto se devesi riferire ad una Sigillaria o ad un Lepidodendron. LI. (74). — Due frammenti di Aspidiopsis coniferoides var. minor Poron. Sono bene visibili le impronte che nel tessuto distrutto hanno lasciato i raggi midollari. LII.(75).— Una porzione dellembo di una foglia a quanto pare di Aphle-- bia PRESL., che non presenta caratteri sufficienti per determinarne la specie. LITI. (81). — Una pinnula con sporificazioni di Ptychocarpus unitus (Brona.) WrIss. Al lato di essa vi è un frammento di Annwaria stel- lata (ScHLOT.) STERNB. LIV. (82). — Alcune pinnule ben distinte e sporificate di Asterotkeca cyathea (SCHLOT.) PRESL. LV. (84). — Meschinissimo frammento di Pecopteris, di cui non è pos- sibile determinarne la specie. LVI. (85). — Una pinnula lunga cm. 8 con foglioline oblunghe, ottu- se rotondate, contigue e con la rachide coperta di piccole squame. La riferiamo alla Asterotheca lepidorhachis (Brone.) PRESL. LVII. (86). — Un tronco di Aspidiopsis coniferoides Poton. lungo cm. 10, largo cm. 2,5 quasi tutto coperto di uno strato di pirite. Da un lato si ha un'impronta di Annularia stellata (ScHLOT.) STERNB. LVIII. (87). — Un tronco di Calamites o Calamodendron, sulla cui superficie si osservano tanti tubercoletti, generalmente rotondi, talora un poco allungati, riuniti con una certa regolarità in tanti gruppi; ta- lora i tubercoli hanno una leggera depressione nel centro. Essi rappre- sentano un fungo fossile che ha grandissima somiglianza colla Zubercu- laria vulgaris che cresce sulla corteccia degli alberi morti. Per tale somiglianza il prof. ArcancELI ha dato a questo fungo il nome di Zw- bercolarites Ianì n. sp. ARCANG. LIX. (89). — Due foglioline arrotondate all’ estremità, leggermente crenulate al lembo, colla nervatura mediana grossa e le secondarie poco visibili. Le riferiamo alla Asterotheca crenulata (BRonG.) PRESL. CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO 21 LX. (93). — Un frammento in cattivo stato di Asterotheca cyathea (ScHLOT.) PRESL. LXI. (95). — Estremità di una pinna di Dactyiotheca dentata (BRoNG.) Zen. In essa si vede che le pinnule vanno riunendosi verso l’ estremità, hanno margine rotondo, nervo medio netto con poche nervature semplici. LXII. (96). — Altra pinnula lunga cm. 6,5 ben conservata di Astero- theca cyathea (ScaLOT.) PRESI. LXIII. (97). — Due frammenti mal conservati e in parte piritizzati di Dactylotheca dentata (BronG.) ZEILL. LXIV. (98). — Alcuni resti di Asferotheca crenulata (BRoNG.) ZEILL. Le pinnule sono arrotondate alla estremità, leggermente crenulate ai margini e un poco saldate alla base; le nervature secondarie sono di- vise una sola volta per dicotomia. Nello stesso esemplare si hanno pure delle pinnule di Ptychocarpus unitus (BroNne.) WEISS con sporificazioni, e alcuni frammenti di Asterotheca arborescens (ScHLOT.) PRESL. LXV. (99). — Esemplare in pessimo stato che porta un frammento di pinna a quanto pare di Asferotheca Candolleana (Bronc.) PRESL.; ma non si può determinare con certezza. LXVI. (100). — Alcuni resti che pare debbansi riferire allo Ptychocar- pus unitus (Brone.) Weiss e alla Asterotheca Candolleana (Brone.) PRESL. LXVII. (102). — Tre pinnule sporificate di Ptychocarpus unitus (Brone.) Weiss in alcuna delle quali sono ben visibili gli sporangi. Si hanno pure alcune foglie lineari riferibili al solito SigillariophyMWlum IJanì n. sp. ARCANG. Si osserva inoltre un’ impronta di fusto legnoso lungo cm. 8, largo cm. 2,5 che mostra all’ esterno delle cicatrici rilevate che rappresentano le impronte dei raggi midollari distrutti per la ma- cerazione subìta. A questi avanzi si dà il nome di Aspidiopsîs coniferoides var. minor Poton. LXVIII. (103). — Alcuni resti poco importanti di Asferotheca arbore- scens (ScHLoT.) PrESL. e di Ptychocarpus unitus (BRona.) WrISS. LXIX. (104).— Impronta incompleta di una grande foglia con tre nerva- ture. Mancano i dati per poterla determinare. Da un lato dell’esemplare si ha anchela parte superiore di una pinnula di Ptychocarpus unitus (Brona.) WEISS. LXX. (109). — Due grossi frammenti di pinna a pinnule arrotondate all’ apice, unite alla rachide per tutta la base e un poco saldate fra loro. Si riporta questo residuo alla Pecopteris pennaeformis Brona. LXXI. (110). — Estremità di pinna riferibile alla Asterotheca arbo- rescens (ScHaLOT.) PRESL.; in alto le pinnule sono connate tra loro, 22 L. BARSANTI LXXII. (111). — Esemplare che ci offre la parte media e la parte estrema di una pinna di Asterotheca arborescens (ScHLOT.) PRESL. ; l'estrema presenta delle pinnule sporificate. LXXIII. (112). — Due pinnule a foglioline ovali leggermente crenu- late, con nervo medio ben netto, nervature secondarie divergenti. Si ri- portano alla Pecopteris leptophylla Bung. In collezione è data come . Nevropteris convugata, ma come si può vedere i suoi caratteri sono ben differenti. LXXIV. (113). — Alcuni resti piritizzati di Ptychocarpus unitus (BRONG.) Wess., dei quali taluni si debbono riportare alla forma longifolia Brone. Questi frammenti rappresentano delle pinnule aventi le foglioline totalmente fuse tra loro, e sembra dovessero appartenere alla parte su- periore della fronda. : LXXV. (114). — Frammento di Ptychocarpus unitus (BRrone.) WrIss. LXXVI. (118). — Alcuni resti di Callipteridium subelegans Poton. LXXVII. (119). — Due grossi frammenti ed altri minori di Goniopteris foeminaeformis SCHLOT. LXXVIII. (120). — Due pinnule a foglioline uguali, ad apice ottuso, nervatura non ramificata. Si riportano alla Asferotheca arborescens (SCHLOT.) PresL. Dal lato opposto dell’esemplare si hanno alcuni resti di Amnu- laria stellata (ScHLOT.) STERNB. LXXIX. (121). — Tre pinnule da riferirsi alla Pecopterìis platyrhachiîs Brone. Le pinnule sono ellittiche, rotondate all’apice, perpendicolari alla rachide; le nervature sono semplici. LXXX. (122). — Alcuni resti poco importanti di Pecopteris longifolia Brona. e qualche avanzo di Asterotheca arborescens (ScHLOT.) PRESL. LXXXI. (123). — Vari frammenti di Asterotheca cyathea (SCHLOT.) PrEsL. tutti ben conservati e sporificati. LXXXII. (125). — Alcune pinnule ben distinte di Asterotheca arbo- rescens (ScHLot.) PresL. Dall'altro lato dell’ esemplare si ha un tronco di Aspidiopsis coniferoides var. minor Poron. Presso di questo vi è un altro tronco tutto trasformato in antracite, che si riferisce al genere Calamites, di cui però non è possibile determinare la specie perchè privo di caratteri distintivi. LXXXIII. (126). — Alcuni resti incerti di Callipteridium subelegans Poron. LXXXIV. (128). Grossa pinna lunga 17 cm., a foglioline nette e sal- date alla base. La pinnula basilare della parte inferiore apparisce mu- CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO 23 nita di un lobo più grande che le dà un’ apparenza auricolata. Per i caratteri che presenta la riportiamo alla Dactylotheca dentata (BRona.) ZEILL. LXXXV. (132) — Due piccoli frammenti di Sphenopteris delicatula ZeruL. La rachide è cilindrica; le pinnule secondarie sono subpicciolate pinnatifide, ottuse; le nervature sono semplici. LXXXVI. (133). — Impronta di foglia attribuita in collezione a Glos- sopteris e ritenuta dal cav. DE BOSNIASKI come specie nuova. Confrontando il modello con le descrizioni e le figure del gen. G/ossopteris, che ci danno i Paleontologi, sì vede a prima vista che ne differisce moltissimo. In primo luogo la nostra supposta foglia non ha picciolo e non ha al- cuna traccia di quella fitta rete di nervature secondarie, che si osserva nelle foglie di G/ossopteris. Osservando poi l’impronta alla base si vede che ivi presenta una piccola area schiacciata e di apparenza diversa dal resto della foglia; in questo spazio anche la nervatura mediana si fa meno appariscente. Per questi dati noi riportiamo l’esemplare al Lept- dophyllum maius Brone., e precisamente sarebbe la brattea di uno stro- bilo con alla base la parte sporangifera. LXXXVII. (134). — Numerosi resti poco importanti di Ptychocarpus unitus (Brone.) Wrerss. Dal lato opposto dell’esemplare si osservano dei fusticini di varia grossezza con nodi e striature longitudinali, che sì crede appartengano allo SphenophyIlum Thoni MARR var. minor STERZ., perchè accanto si vedono numerose foglie di questa specie; anzi un fusticino porta ancora attaccata una di queste foglie. LXXXVIII. (140). — Alcuni resti mal conservati che sembrano rife- rirsi al Calamites Suckowii BroNG. LXXXIX. (141). — Altro resto di Calamites Suckowii BRrone. con un’ articolazione e qualche tubercolo. Le coste sono un poco ad angolo e confluenti tra loro. Dal lato opposto dell’ esemplare si ha l’Annularia stellata (SCHLOT.) STERNB. XC. (142). — Resti di Calamites con caratteri indecifrabili. XCI. (144). — Un tronco di Calamites Suckowii BRrONG., le cui coste sono poco appariscenti e in gran parte piritizzate. XCII. (145). — Altro esemplare di Calamites Suckowii Brone. che si attacca al precedente in modo che costituisce un sol fusto fornito di due nodi. XCIII. (147). — Un tronco di Calamites Suckowii Brone. lungo 74mm., largo circa 45 mm., che ha l'aspetto di un modello esterno. Alcune foglie DA L. BARSANTI di Annularia stellata var. angustifolia (ScELOT.) STERNB. Si riportano a questa”specie per avere essa foglie più numerose nei verticilli, più strette e più acute verso l’apice come è nel nostro caso. XCIV. (148). — Un nodo di tronco di Calamites Suckowit Brone. Si ha una articolazione, ma poco manifesta e senza tubercoli. XCV. (149). — Un frammento di tronco riferibile a Calamites, ma con caratteri incerti. XCVI. (150). — Un tronco ad articolazioni molto vicine e coste grosse che può attribuirsi al Calamites Suckowi Brone. XCVII. (151). — Altro frammento che rappresenta un nodo di tronco di Calamites Suckowi BRroNna. XCVIII. (152). — Altro resto di Calamites Suckowti Brone. e di An- nularia stellata (SCHLOT.) STERNB. i XCIX. (153). — Altro esemplare di Calamites Suckovòù Browne. di poca importanza. C. (154). — Due impronte ben conservate di Calamites Suckowii Brone. Dal lato opposto dell’esemplare si ha un resto di Anmularia stellata (SCHLOT.) STERNB. CI. (155). — Un tronco a quanto pare di Calamites undulatus STERNB. Nello stesso esemplare si hanno poi due pinne, l’una di Asterotheca ar- borescens (ScHLoT.) PrESL., l’altra di Pecopteris unita Brone. CII. (156). — Un fusto lungo cm. 12, largo 4cm., con una sola ar- ticolazione e coste poco visibili. Lo riferiamo con certezza al Calamòtes Cistii Brona. Si hanno inoltre alcune pinnule sporificate di Pecopteris. CIII. (157).—- Impronte di tronco di Calamites Cistàù Brone. Le coste sono piane, sottili, diritte, separate da un piccolo solco. CIV. (158). — Impronta in gran parte piritizzata di Calamites Cisti BRONG. CV. (159). — Impronte poco importanti di Calamites undulatus STERNB., di Calamites Suckowiù Brona. e di Pecopteris. CVI. (160). — Impronta di Calamites secondo il DE STEFANI specie nuova col nome di Calamites Heerì De Ster. Rappresenta un pezzo di tronco diviso da un’articolazione; le coste sono più salienti e ad angolo, carattere della nuova specie. Facciamo notare che nella parte inferiore dello stesso pezzo le coste sono piane, e dunque può darsi che la par- ticolarità della parte superiore sia un effetto della pressione subìta dal fossile. Noi la riporteremo piuttosto al Calamites Suckowii BRona. CVII. (161). — Un tronco in parte piritizzato di Calamites Suckowii CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO 25 Brona. Le coste sono piane e arrotondate all’estremità, i solchi sono deboli, mancano i tubercoli. CVIII. (162). — Frammento di foglia di Cordaites principalis GERMAR. È solcata da nervature diritte e alternanti con un numero variabile di nervature più fini; in generale due nervature grosse comprendono da 4-5 più fini. Lo STERZEL ne fa una sola specie col Cordaites borassifolius STERNB. perchè di quest’ultimo se ne trovano esemplari somiglianti al Cordaites principalis GeRMAR. Nello stesso esemplare si ha pure un frammento di Callipteridium subelegans Poron. CIX. (163). — Residuo di Calamites che non offre nessun carattere distintivo. CX. (164).— Pezzo di tronco lungo cm. 13, 5, largo cm. 6, senza artico- lazioni, a coste bene distinte e a quanto pare di Calamites Cisti BRrona. CXI. (165). — Alcuni resti poco visibili di Calamites Cistà Brone. e di Anmularia stellata ScHLOT.) STERNB. CXII. (167). — Diverse impronte di Calamites undulatus STERNB., che presentano coste piane leggermente ondulate e separate da solchi poco profondi. Si ha inoltre un frammento di Asterotheca arborescens (SCHLOT.) PRESL. CXIII. (168). — Quest’esemplare ci offre una foglia di Cordaites prin- cipalis GERMAR. lunga cm. 14, larga cm. 6,5; la nervatura non è bene distinta perchè l’esemplare è qua e là coperto di pirite. CXIV. (169). — Impronta di Calamites in cattivo stato, senza arti- colazione e tubercoli, per cui non se ne può determinare la specie. Varie impronte di Annularia stellata (ScHLOT.) STERNB. CXV. (170). — Un tronco lungo cm. 8, largo 2, 5-3 cm. con tre ar- ticolazioni e coste appena notate e segnate irregolarmente da leggere strie. Dobbiamo riferirlo al Calamodendron nodosum BRons. CXVI. (171). — Un frammento di scorza ricoperta da placche poli- gonali leggermente striate, che può darsi sia la scorza di un Calamites o Lepidodendron. CXVII. (172). — Tronco di Calamites Suckowii Brone. con quattro articolazioni tra loro poco distanti. Le coste sono piane ed hanno all’e- stremità dei tubercoli rotondi; alla lente sono anche visibili le striature dei solchi. CXVIII. (173). — Un resto di Calamites Cistii Brone., che rappre- senta un nodo di tronco. 26 L. BARSANTI CXIX. (175). — Impronta di tronco riferibile a Calamites lejoderma GuTB.; presenta un’articolazione distinta e tre cicatrici rameali; le coste sono diritte e un poco meno strette che nel Calamites Cisti BRronG. CXX. (176). — Una pinna mal conservata di Asterotheca arborescens (ScuLor.) PresL. Nelle foglioline prevale l’ottusità dell’apice, sono di uguale lunghezza, e le nervature sono semplici. Dal lato opposto del- l'esemplare si ha l'impronta di un fusto cilindrico con tre articolazioni approssimate. Le coste all’esterno sono appena distinte e non vi sono tubercoli. Per questi pochi caratteri non possiamo determinarlo con cer- tezza, ma sembra avvicinarsi al Calamites approximatus BRone. CXXI. (177). — Due pezzi di tronco, l’uno lungo cm. 10,5 con tre articolazioni, l’altro cm. 6 lungo e con una sola articolazione, sono segnati da leggiere e irregolari strie. Per i caratteri li riportiamo al Calamites nodosus Brone. Dal lato opposto dell’esemplare si hanno dei resti di foglie ‘ lunghe, strette, riferibili a Sigillarie. CXXII, (178). — Un pezzo di tronco, lungo cm. 14, largo 5 cm. in parte coperto dalla scorza silicizzata; è segnato da coste piane e solchi poco profondi, ed è limitato da due articolazioni. Lo riferiamo, ma non sicuramente, al Calamodendron striatum (GutB.) Brone. Da un lato si osservano foglie di Sphenophyllum Thoni MARR. var. minor STERZ. e due SigiMariophyUlum. CXXIII. (179). — Un fusto cilindrico senza articolazioni, irregolar- mente e leggermente striato secondo la lunghezza. Sembra riferirsi al Calamites nodosus BRrona. CXXIV. (180). — Un tronco di Calamodendron striatum (GuTB.) BROoNe. Dal lato opposto dell'esemplare si osservano delle forme di radici, di ramoscelli e di rachidi di Felci. CXXV. (181). — Un tronco di Calamites di incerta specie per il suo cattivo stato di conservazione. CXXVI. (183). — Si ha in questo esemplare un pezzo di scorza ru- vida, leggermente e irregolarmente punteggiata e striata; dal lato de- stro si seguono in linea retta quattro cicatrici ellittiche, lunga ciascuna circa 8 mm. e larga 5 mm. Si tratta di un Syringodendron, ma non è possibile determinarne la specie. Le cicatrici ci rappresentano la base di organici secretori. CXXVII. (184)..— Frammenti di piccoli tronchi articolati, con sottili striature longitudinali, i quali si riferiscono molto probabilmente a Ca- - lamodendron. CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO 27 CXXVIII. (186). — Impronta poco importante di Calamites Suckowii BronG. CXXIX. (187). — Lungo tronco di Calamites nodosus BRone. con cinque articolazioni e con leggiere ed irregolari strie secondo la lun- ghezza. CXXX. (188). — Un grosso pezzo ben conservato di Aspidiopsis coni- feroides var. minor Poron. Si hanno poi alcune pinnule di Ptychocarpus unitus (Brone.) WeIss. ed alcuni frammenti di Annularia stellata (ScHLOT.) STERNB. e di Asferotheca arborescens (ScHLOT.) PRESI. CXXXI. (189). — Estremità apicale di un ramoscello di Asterophyl- lites equisetiformis Scuaror. Gli articoli sono lunghi da 9-10 mm.; le fo- glie sono in numero di 12-16 per ogni verticillo, uninervate ed acute in punta. CXXXII. (190). — Una spiga di fruttificazione che porta qualche sporangio ovale nel centro degli internodi; nelle articolazioni si vede ancora qualche foglia. La riferiamo alla Bruckmannia tuberculata STERNB. Si crede che fossero le spighe di fruttificazione dell’ Annularia stellata (ScHLOT.) STERNB. COXXXIII. (191). — Una spiga imcompleta senza traccia di sporangi e di foglie, che si avvicina molto alla Palacostachya pedunculata Win. Si ha pure un frammento di pinnula a foglioline con punta ottusa e ner- vature secondarie numerose e biforcate; la riferiamo alla Pecopteris or- eopteridia (ScaLor.) Browne. Si hanno infine alcuni resti di Annularia stellata (ScaLOT.) STERNB., e di AsferophyIlites equisetiformis ScHLOT. CXXXIV. (192). —Un ramoscello di AsterophyMites equisetiformis Scanor. lungo cm. 10, ed a foglie bene distinte. Intorno a questo si ve- dono altri frammenti minori della stessa specie. CXXXV. (193). — Alcuni verticilli poco importanti di AsterophylMites equisetiformis SCHLOT. CXXXVI. (194). — Ancora altri minuti frammenti di Asterophyllites equisetiformis SCHLOT. CXXXVII. (195). — Altri resti a foglie ben distinte di Asterophyllites equisetiformis SCHLOT. CXXXVIII. (196). — Impronta di un fusto con articolazioni, da cui si partono dei rami sottili, che portano talora delle foglie filiformi. Il MENE- GHINI lo ha riferito al genere Asterophyllites facendone una specie nuova col nome di Asterophyllites calamopteris n. sp. MENEGH. Nello stesso pezzo si osservano numerosi frammenti di Asterotheca arborescens (ScHLOT.) PRESI. 28 L. BARSANTI CXXXIX. (197). — Ramoscello mal conservato di AsterophyIlites equi- setiformis SCHLOT. CXL. (198). — Alcuni verticilli ben distinti di Asterophyllites equise- tiformis SCHLOT. CXLI. (199). — Un ramoscello piatto e largo con articolazioni molto prossime, dal MeNEGHINI riferito al genere Asterophyllites e ritenuto specie nuova col nome di Asterophyllites crassicaulis n. sp. MENEGH. I caratteri per una specie nuova non ci sembrano molto manifesti, del resto ha molto somiglianza con la Bruckmannia tuberculata STERNB. CXLII. (200). -— Alcuni resti di Asterophyllites, ma senza caratteri buoni per la determinazione. CXLIII. (201). — Un’impronta che il MENEGHINI riporta al genere Asterophyllites facendone una specie nuova col nome di Asterophyllites. calamopteris n. sp. MENEGH. Anche questa ci sembra possa esser rife- rita alla Bruckmannia tuberculata STERNB., ma senza sporangi. Si hanno anche vari frammenti di Asterotheca arborescens (ScHLOT.) PRESL. CXLV. (203). — Un frammento di ramoscello di Asterophyllites equi- setiformis ScHLOT., che rappresenta un internodo lungo 2 cm. il quale porta all’estremità un solo verticillo di foglie. CXLVI. (204). — Altro ramoscello di Asterophyllites equisetiformis ScHLoT., lungo cm. 7,5 e ben conservato. Presso di questo si osserva un'impronta che sembra di Calamites. CXLVII. (205). — Una spiga di Bruckmannia tuberculata STERNB., di cui non sono visibili nè gli sporangi nè le foglie. Si hanno pure nume- rose foglie di SphenophyUlum Thoni MARR. var. minor STERZ. CXLVIII. (206). — Due spighe di Bruckmannia turberculata STERNB., ed un frammento di Odontopteris obtusa Brone. Dall'altro lato dell’esem- plare si osservano le impronte di Annularia stellata (ScHLOT.) STERN. e di Pecopteris, di cui non è possibile determinarne la specie. CXLIX. (207). — Altra spiga di Bruckmannia tuberculata STERNB. con qualche foglia e qualche sporangio. Dal lato opposto dell’esemplare si hanno delle impronte in cattivo stato di Calamodendron e di Pe- copteris. CL. (208). — Una pinna di Asterotheca abbreviata (Broxs.) PRESL.; alcuni ramoscelli di Asterophyllites e di Asterotheca arborescens cute PRESL. CLI. (210). — Ancora un’ altra spiga di Bruckmannia tuberculata STERNB.; in questa è visibile anche qualche sporangio tra un’articolazione CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO 29 e l’altra. Dal lato opposto dell'esemplare si hanno impronte incom- plete di foglie lineari, con quattro nervature parallele, appartenenti certo a Sigillarie, e che comprendiamo perciò sotto il nome di Sigi- lariophyllum. CLII. (211). — Alcuni resti di Annuaria, dai quali il MENEGHINI rinviene i caratteri sufficienti per farne una nuova specie che stabilisce col nome di Arnularia macrophylla n. sp. MeNEGH. Le foglie hanno l’e- stremità slargata, una nervatura mediana e due coste rilevate laterali, che nella pagina inferiore formano come due scanalature. La superficie delle foglie è coperta di peli, che sembrano partire dal nervo medio e si dirigono al margine convessi in alto. Le foglie sono raggruppate a destra e a sinistra rendendo sempre visibile il fusto. CLIII. (212). — Una foglia lineare con diverse nervature parallele da riferirsi al nome generico di SigilZariophyUum. Il MENEGHINI la se- gna come Taeniopteris, ma le nervature laterali non esistono e le me- diane sono più di una. CLIV. (213). — Alcuni verticilli frammentari di Annularia macra- phylla n. sp. MENEGH. CLV. (214). — Un ramoscello mal conservato di Annularia macro- phylla n. sp. MENEGH. CLVI. (215). — Altri resti poco importanti di Annularia macrophylla n. sp. MENEGH. CLVII. (216). — Varie impronte di foglie lineari, che riferiamo al nome generico di SigilariophyWIum. Alcuni resti di Annularia stellata (SCHLOT.) STERNB. CLVIII. (217). — Qualche residuo di foglie di Annularia macrophylla n. sp. MENEGH. CLIX. (218). — La stessa Annularia macrophylla n. sp. MENEGH. e una debole impronta di Cordaîtes di incerta specie. CLX. (219). — Un ramo mal conservato di Calamites senza nodi e articolazioni e con coste appena visibili. CLXI. (220). — Altra Annularia macrophylla n. sp. MENEGR., ed al- cuni pochi resti di Pecopteris. CLXII. (221). — Alcune impronte poco decise a quanto pare di Sphe- nophyllum, e da un lato dell'esemplare si nota anche un frammento di Annuluria. CLXIII. (222). — Un residuo di Annularia longifolia Brona. CLXIV. (223). — La medesima Annularia macrophylla n. sp. MENEGH. 30 L. BARSANTI CLXV. (229). — Alcuni ramoscelli di Annularia stellata (ScHLOT.) STERNB. i CLXVI. (230). — Altri frammenti di Annularia stellata (ScEnot.) STERNB. CLXVII. (231). — Annularia macrophilla n. sp. MENEGH. e Astero- theca arborescens (ScHLOT.) PRESL. CLXVIII. (232). — Resti mal conservati di Annuaria longifolia BRons. CLXIX. (233). — Un ramoscello di Annularia sphenophylloides ZENx.; da un lato si vedono alcuni verticilli di Asterophyllites equisetiformis SCHLOT. CLXX. (259). — Un ramoscello a tre verticilli di Annularia ramosa n. sp. MENEGH. Questa nuova specie si avvicina molto alla A. radiata - ZEILL., ma ne differisce essenzialmente per avere le foglie di ciascun ‘ verticillo divise in due gruppi, l’uno a destra, l’altro a sinistra dell’asse che porta le foglie; queste sono larghe nel centro da 1-1, 5 mm., uni- nervate e acute all’estremità. CLXXI. (272). — Due foglie lineari, l’una larga 1 cm. con varie ner- vature parallele, l’altra più stretta e con una sola nervatura. Le attri- buiamo a foglie di Sigillarie e le indichiamo col nome generico di ,Sì- gillariophyilum. Da un lato si osserva un’impronta, a quanto pare, di Lepidodendron, ma non sicuramente. CLXXII. (274). — Un frammento di fusto mal conservato da riferirsi con incertezza a Lepidodendron. CLXXIII. (273). — Resti di Annularia stellata (ScHLOT.) STERNB. e di Asterotheca arborescens (ScHLOT.) PRESL. CLXXIV. (275). — Cono di fruttificazione a forma quasi cilindrica, un poco ottuso all’estremità, largo da 3, 5-4 cm., lungo cm. 6. È formato di un asse con piccole cicatrici ovali corrispondenti all’inserzione delle brattee sporangifere. Lo riferiamo al Lepidostrobus Geiniìtzì ScHIMP. CLXXV. (276). — Un’altra impronta molto frammentaria e indistinta di Lepidostrobus d’incerta specie. CLXXVI. (278). — Impronta di Syringodendron con le cicatrici degli organi secretori disposte in due linee parallele; le cicatrici sono ovato- ellittiche distanti tra loro verticalmente da 7-8 mm. e orizzontalmente circa 10 mm.; sono un poco approfondate nella scorza. Questi organi si trovano alla base del tronco di alcune piante (Si- gillarie), e secernevano sostanze gommose e resine in gran quantità. se sarà CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO 31 CLXXVII. (279). — Frammento di tronco della Sigillaria mutans Weiss. forma Brardì Brone. Le cicatrici foliari sono a forma quasi esagonale, più larghe che alte, con angoli laterali acuti e longitudinali arrotondati. CLXXVIII. (280). — Questo esemplare rappresenta la controimpronta di quello descritto al n.° CLXXVI, per cui rappresenta lo stesso Syrèx- godendron. CLXXIX. (281). — Foglie lineari di SigillariophyWum e impronte in- certe di Sigillaria. CLXXX. (282). — Impronta di Syringodendron approrimatum REN. con cicatrici geminate, non confluenti, ovali, collocate in due linee ver- ticali, parallele; l’una coppia di linee è distante dall’altra circa 6-7 cm. CLXXXI. (285). — Foglie lineari, uninervate di SigiWariophyMWlum. CLXXXII. (286). — Impronta di Sigillaria mutarns WrIss. forma de- nudata GoPP. Le cicatrici sono in linee parallele, nella parte superiore ad angolo, nell’inferiore arrotondate ; nell’ interno contengono tre piccole cicatrici; gli interstizi tra le cicatrici sono attraversati da linee rugose, talora leggermente ondulate. CLXXXIII. (287). — Questo esemplare rappresenta la controimpronta del precedente, per cui rappresenta anch’esso la Sigillaria mutans WrISS forma denudata GòPP. | CLXXXIV. (293). — Un pezzo di tronco compresso di Sigillaria mu- tans Weiss forma Brardì Bronxa. CLXXXV. (294). — Tronco di SigiZaria mal conservato, in cui non sono visibili le cicatrici foliari, onde riesce impossibile la determina- zione. Per la forma del tronco somiglia molto alla specie precedente. CLXXXVI. (299). — Le solite impronte di foglie lineari riferibili a SigillariophyIlum. CLXXXVII. (300). — Porzione media di una foglia di Cordaites principalis Germ. L’esemplare è ben conservato, e mostra chiaramente alla lente le nervature principali, che ne racchiudono altre più sottili. CLXXXVIII. (301). — Frammento di pinna di Callipteridium sube- legans Poron.; numerose impronte di Sigillariophyllum, e di foglie di Cordaites principalis GERMAR. CLXXXIX. (302). — Una pinnula di Asterotheca cyathea (ScHLOT.) PrESL. e qualche impronta incerta di Cordaites. CXC. (303). — Varie impronte frammentarie di Cordaîtes principalis GERMAR. Si osserva pure nello stesso esemplare un frammento di tronco 92 i L. BARSANTI deteriorato, che ha lasciato sulla roccia l’impronta della trama le- gnosa. CXCI. (304). — Quattro foglie lineari di varia larghezza, una delle quali presenta una grossa nervatura mediana, senza alcuna traccia però di nervature secondarie. Si riferiscono ai soliti SigiariophyUum. CXCII. (305). — Due frammenti legnosi alterati, che mostrano le cicatrici di fasci midollari. Tali esemplari si presentano spesso nei ter- reni carboniferi, ma non sappiamo a qual pianta siano appartenuti. Il BRONGNIART riferisce i suoi esemplari a tronchi di Felci, e precisamente alla Asterotheca lepidorhachis, perchè vi ha trovato accanto le pinnule di questa Felce. Il nostro pezzo non è accompagnato da nessun resto di foglie, e crediamo bene riferirlo all’ Aspidiopsîis coniferoides Poton. CXCIII. (309). — Impronte che hanno apparenza di fusti schiacciati - con ramificazioni dicotome e attraversati da numerose nervature. Si pos- sono attribuire a rachidi di Felci o a foglie di Cordaòtes, che talora sono ramificate. Stante la loro cattiva conservazione non si possono però con sicurezza determinare. CXCIV. (310). — Diverse impronte di rachidi di Felci, di cui una porta ancora attaccate due pinnule di Pecopteris. Tutte le impronte presentano la superficie scabra. CXCV. (311). — Infiorescenza di Cordaianthus Germarianus GòPP. L’asse apparisce robusto, lungo 11 cm., largo 5 mm., diritto; i semi sono oblunghi, ravvicinati, acuminati all’estremità, lunghi 9 mm., larghi 6 mm., contornati alla base da brattee scagliose ed acute. Da un lato dell’infiorescenza si osserva l'impronta di una foglia di Cordaòtes. CXCVI. (312). — La controimpronta del precedente esemplare, per- ciò lo stesso Cordaianthus Germarianus GoOPP. CXCVII. (313). — Alcune foglie di SphenophyMlum Thonì MARR. var. minor STERZ. ni; CXCVIII. (314). — Un’impronta indecifrabile formata come da sol- chi, che noi riportiamo a quelle forme strane conosciute col nome ge- nerico di Noeggerathia. CXCIX. (315). — Frammento di pinna di Odontopteris crassinervia GoPp. Le nervature sono grosse e distintissime, e nascono dalla base delle pinnule, scorrono verso il margine a ventaglio, dove terminano divise dicotomicamente. ‘ CC. (316). — Altra impronta di Noeggerathia, di cui come la prima; non si può determinarne la specie per mancanza di caratteri decisivi. CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO 33 CCI. (317). — Una foglia frammentaria di Daubrecia Biondiana Arcano. Il nostro esemplare corrisponde esattamente alla nuova specie descritta dal prof. G. ArcanGELt !). La foglia a margine subrotondo con tre sole nervature grosse principali in rilievo, tra le quali se ne scor- gono altre secondarie, e fra queste in alcuni punti si mostra qualche stria più sottile parallela alle prime e tra loro. L’ARcANGELI non con- divide con ZEILLER l’opinione che le foglie di Daubreeia si possono con- frontare con sei foglie di Aspidistra troncate e connate insieme, ma è più propenso all'opinione di GERMAR, che paragona questi strani orga- nismi ai lobi fogliari inferiori del Platycerium alcicorne. Non è infatti improbabile, osserva l’ARCANGELI, che, come oggidì nei Platycerium si hanno lobi fogliari rotondati devoluti alla funzione trofilegica, un fatto simile si verificasse pure nelle Filicarie delle epoche passate. CCII. (318). — Un’impronta incompleta di Zoophycos Tani Arcana. 2). Questa forma si avvicina pei suoi caratteri allo Spirophyton Caudagalli (VANUX.) HALL., ma secondo l’ARCANGELI ne differisce per essere spesso fornito di una costa mediana maggiore delle altre, e per aver talora nel margine della fronda qualche pinnula. Riguardo all'origine di questi strani fossili si è molto discusso, ma noi riteniamo che sieno dovuti a vegetali, anzichè ad animali o a azioni meccaniche, come altri ha am- messo °). 1) G. ARCANGELI. — Sopra due fossili di Iano. Nuov. Gior. bot. ital. 1896. 2) G. ARCANGELI. — Loc. cit. 3) L. BARSANTI. — Considerazioni sopra il genere Zoophycos. Soc. Tose. di Se. Nat. — Memorie, vol. XVIII. 1901. ELENCO SISTEMATICO DELLE SPECIE DESCRITTE Fungi. . Tubercularites Ianì n. sp. ARcANG. (Saggio n. 87). Pteridophytae. Filicales. . Aphlebia sp. (Saggio n. 75). . Asterotheca abbreviata (Brone.) PreESsL. (Saggi n. 67, 208). 4. Asterotheca arborescens (ScHLoT.) PrESL. (Saggi n. 22, 24, 27, 29, 31, DD LIS O 98, 103, 110, 111, 120, 122, 125, 155, 167, 176, 188, 196, 202, 208, 231, 274). . Asterotheca Candolleana (Brona.) Pres. (Saggi n. 99, 100). . Asterotheca crenulata (Brone.) PrESL. (Saggi n. 89, 98). . Asterotheca subcrenulata (Rost.) PrESL. (Saggio n. 20). . Asterotheca cyathea (ScHLOT.) PrESsL. (Saggi n. 21, 25, 26, 32, 69, 293 MON 30302)! . Asterotheca lepidorhachis (Brone.) PrESL. (Saggio n. 85). . Asterotheca paleacea Zen. (Saggio n. 62). . Callipteridium subelegans Poron. (Saggi n. 13, 19, 30, 35, 42, 43, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 58, 62, 63, 66, 71, 118, 126, 162, 301). . Oyclopteris orbicularis Brona. (Saggio n. 27). . Dactylotheca dentata (Brone). Zeri. (Saggi n. 32, 95, 97, 128). . Dictyopteris Brongniarti GutB. (Saggio n. 15). . Dictyopteris Schitzeì Rom. (Saggi n. 14, 16). . Goniopteris foeminaeformis ScaLOoT. (Saggi n. 9, 11, 17, 18). . Neurocallipteris gleichenioides (StuR) StERZEL. (Saggi n. 9, 11, 17, 18). . Neurodontopteris auriculata (Brona.) Poron. (Saggi n. 1, 43). . Neuropteris imbricata GòPP. var. densinervosa RòHL. (Saggio n. 16). . Neuropteris rotundifolia GutB. (Saggio n. 10). . Odontopteris crassinervia GùPP. (Saggio n. 315). . Scolecopteris polymorpha (Brone). ZENK. (Saggio n. 64). . Sphenopteris delicatula (Brone.) ZELL. (Saggio n. 133). CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO 35 . Odontopteris obtusa Brone. (Saggi n. 20, 206). . Odontopteris osmundaeformis ScHLOT. (Saggio n. 7). . Odontopteris subcrenulata Rost. (Saggi n. 17, 45). . Pecopteris leptophylla Buns. (Saggio n. 112). . Pecopteris longifolia Brone. (Saggio n. 122). . Pecopteris oreopteridia (ScaLot.) Brona. (Saggio n. 121). . Pecopteris pennaeformis Brone. (Saggio n. 109). . Pecopteris platyrhachis Brone. (Saggio n. 121). . Pecopteris Pluckeneti (ScHLOT.) (Saggio n. 12). . Ptychocarpus unitus (Brone.) WeIss. (Saggi n. 3, 4, 5, 22, 23, 31, 32, 81, 98, 100, 102, 103, 104, 113, 114, 134, 188). . Ptychocarpus unitus WrISs: forma longifolia Brone. (Saggi 16, 73, 113). Ri Equisetales. . Annularia longifolia Brone. (Saggi n. 222, 232). . Annularia macropylla n. sp. MENEGH. (Saggi n. 211, 213, 215, 217, DB 20N2239231): . Annularia radiata Brone. (Saggio n. 62). . Amnmularia ramosa n. sp. MENEGH. (Saggio n. 259). . Annularia sphenophylloides Zenx. (Saggio n. 233). . Annularia stellata (ScHLoT.) STERNB. (Saggi n. 3, 4, 5, 7, 10, 21, 24, 253020, 81,/3;181, 120,44, d6o27 154, 165, 169, 188, 191, 206, 216, 229, 230, 274). . Annularia stellata var. angustifolia (ScHLOT.) STERNB. (Saggio n. 147). . Asterophyllites calamopteris n. sp. MENEGRH. (Saggi n. 196, 201). . Asterophyllites equisetiformis (ScaLoT.) Brone. (Saggi n. 189, 191, 19219 SARO O 988203 02,0478238). . Bruckmannia tuberculata STERNB. (Saggi n. 190, 199, 202, 205, 206, 207, 210). . Calamites approrimatus Brone. (Saggio n. 176). . Calamites Cistiù Brone. (Saggi n. 16, 19, 156, 157, 158, 164, 165, 173). . Calamites Heerì De STEP. (Saggio n. 160). . Calamites lejoderma GutB. (Saggio n. 175). . Calamites nodosus Brone. (Saggio n. 170, 177, 179, 187). Sc. Nat. Vol. XIX È 36 L. BARSANTI 50. Calamites striatus (GutB.) Brone. (Saggi n. 178, 180). 51. Calamites Suckowii Brone. (Saggi n. 140, 141, 144, 145, 147, 148, OI ie do Ie ICL LT. 0) 52. Calamites undulatus StERNB. (Saggi n. 155, 159, 167). 53. Palaeostachya peduneulata Winx. (Saggio n. 191). 54. Eadicites Iani n. sp. Arcano. (Saggi n. 4, 5, 50, 66). 55. SphenophyUum Thoni MARR. var. minor SteRzEL. (Saggi n. 1, 2, 3, ta), eb ue 200 SO Lycopodiales. 56. Lepidodendron sp. (Saggi n. 171, 273). 57. LepidophyUum maius Brone. (Saggio n. 133). 58. Lepidostrobus Geinitzì ScHimP. (Saggio n. 275). i “59. Sigillaria mutans WrIss. forma Brardii Brone. (Saggi n. 279, 293).. 60. Sigillaria mutans Wriss forma denudata GoòPP. (Saggi n. 286, 287). 61. Sigillariophyllum Iani n. sp. Arcane. (Saggi n. 35, 45, 102). 62. SigillariophyUum tricarinatum n. sp. ARcaNG. (Saggio n. 16). 63. Syringodendron sp. (Saggio n. 183). 64. Syringodendron approrimatum REN. (Saggio n. 282). Gymnospermeae. Coniferales. 65. Cordaianthus Germarianus GoòPP. (Saggi n. 311, 312). 66. Cordaites borassifolius STERNB. (Saggi n. 17, 35, 48, 49, 64). 67. Cordaites principalis GERMAR. (Saggi n. 162, 168, 300, 301, 303). Cycadales? 68. Noeggerathia sp. (Saggi n. 314, 316). Species incertae sedis. 69. Aspidiopsis coniferoides Poron. (Saggi n. 86, 305). 70. Aspidiopsis coniferoides var. minor Poron. (Saggi n. 74, 125, 188). 71. Daubrecia Biondiana Arcana. (Saggio n. 317). 72. Zoophycos Ianiì Arcana. (Saggio n. 318). Pisa, R. Istituto botanico dell’ Università, luglio 1902. PROF. GIUSEPPE RISTORI STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI DI CoLtiBono SECCIANO E CAFAGGIOLO NELLA CATENA CHIANTIGIANA (VALDARNO SUPERIORE) Parte I. Generalità. È ormai dimostrato da molte osservazioni che i bacini imbriferi che alimentano le sorgenti sono in intimo rapporto con le condizioni orogra- fiche ed orotettoniche dei sistemi o del sistema montuoso a cui appar- tengono, di modo che è anzitutto necessario rendersi conto di queste per farsi adeguato concetto della potenzialità sorgiva di quelle. La porzione della catena chiantigiana che è oggetto del nostro esame idrografico si estende dall’altura (m. 761) di Monte Piano Orlando a quella di Montigrossi (m. 701-650) percorrendo lungo la dorsale di spartiacque una distanza retta di circa 7 chilometri. Le elevazioni più accentuate che in questa plaga controdistinguono lo spartiacque fra il vasto e classico bacino del Valdarno superiore ed il Chianti non superano gli 850 metri ed il crinale nel suo generale andamento non si deprime mai al disotto di 650. In corrispondenza dei culmini più elevati, come Monte Piano Orlando, Monte Pescinale, Monte Petraja, Monte Maione, Monte Porcigliano, Pog- gio Martini e Monte al Porro, si distaccano dei contrafforti o propag- gini collaterali che chiudono e individualizzano assai nettamente alcuni bacini idrografici solcati da torrenti e torrentelli che raccolgono le acque superficiali unitamente alle sorgive ed a quelle delle sorgenti che smaltiscono per la massima parte la potenzialità imbrifera di ciascuno di essi. Il regime sotterraneo delle acque mentre in parte si armonizza con questa costante disposizione orografica, in parte subisce delle varianti, 38 G. RISTORI le quali sono in rapporto con la tettonica delle formazioni e con il pre- dominio che alcune di queste prendono sulle altre. Ad onta di ciò in tutta la regione esaminata sono notevoli i caratteri che hanno spesso in comune i torrenti ed i torrentelli di un dato bacino: essi infatti mentre per la generale iniziano il loro corso da una sorgente (d’altro canto accen- tuando, via via che scendono a valle, la loro azione erosiva, sia sulle roccie in posto, come sui detriti di frana e di falda specialmente accumulati nei semiconi d’erosione e nelle depressioni di carattere vallivo da essi stessi determinate) lo accrescono notevolmente e con molta rapidità in un per- corso relativamente breve. Questo fenomeno è per noi di una certa im- portanza, perchè evidentemente dimostra che le sorgenti in generale più ricche di acque, che troviamo assai a monte quasi in testa a ciascun bacino imbrifero, non ci rappresentano tutta la sua potenzialità sorgiva. Lo smaltimento si opera molto frazionato ed una parte delle acque d’imbibizione prende la via delle fratture più profonde che interessano alcune peculiari formazioni, le quali fratture meandriformi e molteplici frazionano e rendono intricatissima la rete acquifera sotterranea, per modo che le acque sgorgano sporadicamente, allorchè l’erosione torren- ziale medesima aperse loro un qualsiasi sfogo all’esterno. Ma non basta. Alcune di queste acque sorgive traversano frequentemente la compage delle formazioni detritiche di frana e di falda ed interessandole più o meno estesamente si mescolano a quelle freatiche insite e proprie delle formazioni incoerenti suddette e vengono fuori più a valle con proprietà e portata più o meno alterate ed incostanti. ì A disturbare il regolare regime sotterraneo delle acque si aggiun- gono nella plaga qui presa in esame le condizioni geotettoniche e lito- logiche delle formazioni, che prima descriverò sommariamente per porre in relazione di esse le diverse sorgenti ed il modo peculiare di smal- timento dei diversi bacini imbriferi. La zona montuosa da noi presa in esame di fronte allo speciale ca- rattere di questo studio idrografico può ritenersi delimitata a valle dal- l’altopiano caotico che ci rappresenta le formazioni di riva del bacino lacustre del Valdarno. Lungo questa linea altimetricamente assai costante ‘ si sviluppa la zona arenacea con caratteri litologici e fisici abbastanza variabili, giacchè alle arenarie propriamente dette si alternano o sì so- stituiscono formazioni galestrine e marnose, le quali in qualche plaga pren- dono assoluto predominio. I caratteri di questa zona si mantengono special- mente nelle propaggini perpendicolari alla direzione della valle, le quali n STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 39 con notevole costanza e regolarità dicemmo distaccarsi dalla dorsale chiantigiana, la quale si dirige da SSE. a NNO. quasi parallella all’ asse del bacino valdarnese. In corrispondenza di una seconda linea altimetrica assai più elevata della prima, ma essa pure assai costante, la natura delle formazioni geologiche assume un carattere alquanto diverso. Que- sta seconda zona è controdistinta in generale da scaglie marnose rosee e da scisti policromi e galestrini spesso ricchi di druse calcitiche ed interessati da ossisali idrati di manganese e di ferro. A questa forma- zione prevalente, a quando a quando si sostituiscono estesi banchi di are- narie molassiformi e relativamente povere di cemento calcareo, ricche di mica e di elementi marnosi. Sulla formazione promiscua arenaceo-gale- strina e marnosa si adagiano stratigraficamente parlando calcari screziati e nummolitici, i quali ultimi, di carattere più brecciforme a monte, si mu- tano successivamente in calcari screziati durissimi silicei tenacemente cementati coni quali alternano e forse succedono in ordine discendente, calcari compatti i cui strati sempre poco potenti a quando a quando sem- brano alternare con le marne rosee. Al vertice della dorsale e più di frequente nei picchi più elevati, alle breccie nummolitiche si sostituiscono arenarie e scisti arenacei misti a marne coltelline grigie. Mi risparmio per ragioni d’opportunità il discutere la genesi di queste formazioni che si succedono con una relativa regolarità, molto più che questa singolare promiscuità di roccie ha indotto tanta confusione e tante controversie per l’interpetrazione della compage stratigrafica nelle nostre propaggini apen- niniche, per la massima parte riferibili a piani diversi del periodo eo- cenico. È mia convinzione che il problema sia stato complicato, perchè spesso in questi studi di stratigrafia forse le facies diverse sono state confuse coi pian?. A parte questi rilievi, quello che a me interessa porre in evidenza nella plaga qui studiata sotto il punto di vista idrografico sem- pre connesso con le condizioni geologiche e tettoniche, si è la costante sovrapposizione in questa seconda zona più montana dei calcari alle marne e spesso anche delle arenarie, per modo che il piano impermeabile, su cui in modo certamente incostante e saltuario si accumulano le acque sorgive, è da ritenersi in generale la formazione marnosa o galestrina. Le condizioni tettoniche suesposte hanno necessariamente determinati degli scoscendimenti e delle frane, i detriti delle quali si sono con mag- giore o minore potenza accumulati nelle vallecole costituite dalle erosioni dei torrenti i quali alla loro volta hanno a quando a quando costituito dei piccoli coni di deiezione ben riconoscibili per l’elaborazione subìta dai 40 G. RISTORI materiali caotici. In alcune località, e specialmente ove prevalgono le marne rosee, le frane sono assai profonde per modo che i massi di cal- care screziato scoscesi e distaccati dalle alte vette, abbandonati all’ im- peto delle frane medesime scesero assai a valle e poi furono ulteriormente ricoperti e compresi nelle frane successive delle marne e dei galestri per cui si formarono terreni detritici con una promiscuità di roccie molto ca- ratteristica. D'altro canto questi terreni, ricoprendo estesamente le de- pressioni dei semiconi d’erosione dei diversi torrenti, ammantarono le formazioni calcari e arenacee in posto e spesso fecero.sì che le sorgenti da quelle sgorganti fossero, prima di fluire all’esterno, costrette ad inte- ressare quelle neoformazioni e, raccogliendosi sul piano di scorrimento unirsi alle acque freatiche delle frane e falde medesime ed uscirne più in basso ove l'ulteriore erosione torrenziale raggiunse le roccie in posto - e quindi il piano di scorrimento suindicato. Questo in tesi generale il’ regime sotterraneo delle acque, regime il quale presenta delle varianti per ciascun bacino imbrifero e per ciascuna sorgente, spesso complican- dosi per le condizioni d’imbibizione e di smaltimento, variabilissima a seconda delle roccie e dei caratteri fisici e chimici ad esse inerenti. Altre circostanze ed altre condizioni a questo si aggiungono se fer- miamo un poco l’attenzione sui punti e sulle linee di contatto fra le di- verse formazioni che sommariamente furono descritte. I contatti che maggiormente interessano sono: 1.° quelli fra le arenarie altimetricamente superiori ed i calcari; 2.° quelli fra calcari, marne o galestri; 3.° fra queste ultime roccie ed i banchi di arenarie che saltuaria- mente si sviluppano nella zona marnosa e galestrina. In ultimo poi potremmo considerare i contatti delle roccie sopra de- scritte pertinenti alla plaga più montuosa con le roccie prevalentemente arenacee ed in parte galestrine che dicemmo appartenere alla seconda zona 0 zona più a valle. L'ubicazione assai elevata dei bacini imbriferi e delle sorgenti da noi esaminate ci costringono ad insistere ancora sulle condizioni geotetto- niche e litologiche della zona più a monte, riserbandoci in ultimo poche parole sulle condizioni in cui si trova la zona più bassa che solo indiret- tamente può interessare questo studio. Le roccie che costituiscono i bacini imbriferi della plaga che mag- giormente ha richiamata la nostra attenzione possono in ordine alla loro: importanza indicarsi così: Arenarie superiori che costituiscono i picchi STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 41 più alti della dorsale e dello spartiacque in questa porzione della. ca- tena chiantigiana — Calcari screziati e brecce nummolitiche — Marne rosee con strati alternati di calcari compatti spesso selciferi — Galestri e scisti policromi — Banchi arenacei della zona delle marne rosee e dei galestri — Detriti di frane e di falde. Le formazioni arenacee altimetricamente superiori hanno caratteri litologici e fisici molto vantaggiosi per l’imbibizione e la loro capacità cubica per l’acqua è certamente molto notevole, sia perchè gli elementi loro sono piuttosto grossolani, sia perchè il cemento calcareo che gli tiene uniti è relativamente poco abbondante e quindi poco tenace. La regolare stratificazione di queste roccie, che sogliono disporsi in pieghe molto ampie ed assai regolari, può fare convergere le lame d’acqua dalle discontinuità degli strati verso il centro di un dato bacino, ed è allora che qui si veggono scaturire acque sorgive. Queste condizioni così sem- plici non sono però le più comuni e spesso le acque d’imbibizione si raccolgono nelle fratture che si presentano assai frequenti ove, come ac- cade di sovente in questa regione, le roccie stratificate relativamente molto permeabili giacciono su quelle scistose scorrevoli, poco permeabili e di capacità cubica notevolmente ridotta. Le acque che tengono la via delle fratture, quando non sgorgano all’esterno direttamente da quelle, prendono spesso la via che si apre a loro sempre facile lungo il con- tatto di due roccie di natura diversa, e così si conducono più a valle 0 scaturiscono in carica se presto raggiungono il piano impermeabile, come nel caso che questo sia determinato dalle marne rosee, dagli scisti ga- lestrini o da qualche altra roccia simile a base argillosa. Difficilmente le acque sorgive, che hanno per roccia imbrifera le masse arenacee scen- dono molto a valle o scaturiscono a grandi distanze, perchè è ormai di- mostrato che simili formazioni nelle propaggini apenniniche in generale, e nella catena chiantigiana in particolare, non hanno, pure essendo assai sviluppate, grande continuità nella loro compage tettonica, ma spesso sono sostituite ed interrotte da altre formazioni più o meno diverse, le quali rappresentano o piani, o facies diverse di un medesimo piano. Passando ai calcari screziati e nummolitici come roccie imbrifere, che . per importanza in questa regione vengono subito dopo le arenarie, con- viene notare come questi si presentino per lo più con stratificazione apparentemente molto sconvolta, che spesso vela e rende difficile il rin- tracciare le vere e proprie pieghe orotettoniche, le quali nel loro insieme si presentano abbastanza regolari e sconcordanti con quelle delle arenarie 42 G. RISTORI superiori già esaminate. I cedimenti, le frane, le falde e gli assettamenti, sempre accentuati nelle roccie marnose e galestrine che stanno alla base delle formazioni calcaree, si sono manifestati con tale entità d’effetti mec- canici da determinare in esse pieghe serrate e rotture frequenti, le quali hanno sconvolto notevolmente il primitivo loro assettamento stratigrafico, quando non hanno determinato estesi scoscendimenti e frane profonde. Tutti questi movimenti e sconvolgimenti indussero assettamenti peculiari nella compage tettonica di questi calcari, e rotture profonde e spesse, le quali alla loro volta vennero modificate dalla stessa azione delle acque filtranti più o meno carbonate. Non estesissime plaghe costituite da si- mili roccie, ma sempre importanti poterono per speciali condizioni geo- logiche non prendere parte a questi movimenti complessi, da varie cause estrinseche all’orogenesi determinati, per cui restarono capisaldi a rappre- sentarci ancora la vera compage tettonica della formazione e ci dettero modo di conoscerne i rapporti stratigrafici, i quali non concordano con quelli delle arenarie, mostrando, p. es. a M. Grossi, una costante immer- sione a N. 25°, E. di 32 a 35 gradi, mentre pur si veggono discordanti con la stratigrafia delle marne rosee e dei galestri che ordinariamente si immergono ad O. con pendenze variabilissime, che da 25 gradi pas- sano a raddrizzamenti sulla verticale, quando non ci danno esempi di pieghe ribaltate. Dal complesso di queste condizioni tettoniche e dalle intricate frat- ture, dalle quali più comunemente sono interessati i banchi calcarei, si desume facilmente come il regime sotterraneo delle acque debba formare una rete oltremodo complessa tanto più che la roccia di per sè possiede una capacità cubica molto ridotta e l'interessamento della roccia mede- sima per le acque meteoriche si fa precipuamente per la via delle frat- ture grandi e piccole più che per quella di una vera e propria imbibizione. Del resto per una parte non si può assolutamente escludere il fenomeno di filtrazione delle roccie calcari e tanto meno in quelle interessate da mol- teplici ed intricate fessure. In queste spesso le discontinuità meno aperte vengono riempite dalla decomposizione stessa della roccia, i cui elementi litologici non essendo qui esclusivamente costituiti da Ca CO3, ma ag- giungendovisi in intima connessione elementi marnosi e sali metallici, questi si liberano dopo la soluzione della calce operata dalle acque car- bonate e sospendendosi in queste vengono poi deposti a riempire non tanto le piccole fratture quanto le medie ed anche le discontinuità esi- - stenti fra banco e banco, fra strato e strato della roccia in posto. È in STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 43 questo modo che si forma un sistema di canali a diaframmi clastici i quali lasciano passare le acque con lentezza operando come filtri natu- rali di valore non trascurabile e ritardando e rallentando lo smaltimento delle acque meteoriche passate per le rotture più aperte nel sottosuolo ed interessanti la compage meandriforme di queste roccie. Di fronte però a queste fratture riempite più o meno completamente da materiali clastici ne stanno altre beanti e spesso ingrandite dal- l’azione dell’acqua carbonata stessa. Queste in generale sono le maggiori e quelle che possono avere dato luogo anche a vacui e a caverne più o meno estese frequentemente occupate da depositi di acque. Per questo secondo sistema di drenaggio le acque passano e non filtrano e quindi si smaltiscono con relativa rapidità, per modo che le sorgenti in queste re- gioni calcaree sogliono presentare notevole incostanza molto risentendo delle magre. Ad ogni modo nelle speciali condizioni primieramente esposte anche le sorgenti di queste roccie e più specialmente dei calcari scre- ziati e nummolitici possono avere un certo valore e darci acque sorgive con una relativa costanza d’efflusso. In quanto alla formazione marnosa e galestrina questa non ha cer- tamente l’importanza delle due prime, però costituendo nella nostra plaga più ordinariamente l’imbasamento delle arenarie e dei calcari ci rappre- senta lo strato relativamente impermeabile su cui o presso cui adunan- dosi le acque sgorgano spesso in prossimità del piano di contatto, ed allorchè vi si raccolgono in grande quantità determinano le frane e le falde unitamente a tutti quei terreni detritici che giacciono a valle delle formazioni arenacee ed ancora più estesi e potenti a piede di quelle calcari e calcareo-marnose. Le marne rosee ed i galestri come roccie imbrifere hanno per noi scarsa importanza, giacchè la loro compage, anche se interessata dalle acque non lascia ad esse facile lo sgorgo all’esterno per modo che il coefficiente di cubicità, per quanto basso, si smaltisce sporadicamente e si divide in piccoli e numerosi stillicidii i quali sogliono più di frequente far capo in corrispondenza delle discontinuità fra strato e strato ove spesso si veggono druse calcitiche ed anche silicee, forse esse stesse dovute alla proprietà solvente delle acque. Le formazioni galestrine vengono, nella zona qui presa in esame, di frequente a contatto con banchi più o meno estesi di arenarie i quali probabilmente hanno rapporti tettonici con le arenarie più a valle che insieme ai galestri costituiscono la formazione geologica predominante 44 G. RISTORI alla base della catena chiantigiana su cui riposano direttamente le argille e sabbie plioceniche del Valdarno ed anche gli appoggi più a riva dei banchi lignitiferi. In corrispondenza delle linee di contatto dei galestri e delle arenarie prima ricordate sogliono sgorgare delle sorgentelle e degli stillicidii i quali smaltiscono la potenzialità imbrifera di questi banchi arenacei e forse in parte anche quella dei galestri. Le frane e l’accumulo dei detriti di falda sono pure notevoli in corrispondenza di queste for- mazioni, per modo che si hanno frequenti accolte di acqua che devonsi ritenere di duplice provenienza, sorgive e freatiche di falda. Ad onta di ciò queste acque non sono da trascurarsi e convenientemente utilizzate, stante la loro frequenza, possono sempre dare incremento ad una con- duttura che nel suo sviluppo passi loro vicino. Ultima roccia imbrifera della serie sono le formazioni detritiche di frana e di falda. Accumulate con variabile potenza a valle lungo i semi- coni d’erosione dei torrenti e torrentelli ci rappresentano ed occupano una superficie piuttosto notevole. Su queste sono principalmente stabi- lite le coltivazioni, ed i poderi più fertili debbono alla miscela delle varie roccie, elaborate dall’azione meccanica delle frane medesime e da quella meccanica e chimica delle acque, la loro fertilità e la prospera cultura della vite e dell’olivo. La potenzialità sorgiva di questi terreni detritici è nel suo complesso abbastanza importante, ma per la cultura intensiva che su di essi è andata e va continuamente esplicandosi, le acque che in generale ne provengono non possono nè debbono essere utilizzate per potabili, giacchè facilmente si comprende come siano soggette ad in- quinamenti molto pericolosi per le vicine abitazioni e per le concimazioni del soprassuolo, le quali stante la notevole permeabilità del detrito roccioso, possono arricchire le acque più profonde di sostanze organiche e di microrganismi anche patogeni. Non sempre però le formazioni de- tritiche sono sottoposte a cultura, se ne hanno molte coperte da vege- tazione boschiva, specialmente quelle più a monte, per modo che non di rado acque sorgive le interessano costituendo acquitrini e pollini assai estesi ed importanti dai quali, con le debite cautele, potrebbesi ritrarre una certa quantità d’acqua potabile, sempre che si abbia cura di esa- minare, nelle magre più accentuate, la potenzialità sorgiva che esse con- servano. D'altro canto queste singolari formazioni servono anche a celare le sorgenti che scaturiscono nei punti più depressi lungo i semiconi d’erosione torrenziale, per modo che esse vengono ad uscire all’aperto . come risorgive da quelli stessi detriti che le hanno occultate. In questi STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 45 casi speciali il più conveniente sarà il rintracciare il vero punto di sca- turigine dalla roccia in posto, e quando questo fosse oltremodo difficile, una trincea di sbarramento il più possibile a monte ove il detrito è meno potente potrebbe benissimo costituire un facile lavoro di presa a garan- tire la quantità e la qualità delle acque. Esaurito così l’esame delle rocce imbrifere che costituiscono la prima zona più a monte, che è per molte ragioni preferibile, ci resta di spen- dere qualche parola intorno alla seconda più a valle. I caratteri geolo- gici di questa sono determinati da una singolare promiscuità di roccie arenacee e galestrine con tutti quei lenti passaggi intermedii che co- stituiscono, tanto nelle arenarie, come nei galestri, quelle variabilità di struttura fisica e di natura litologica che danno ragione a distinzioni pe- culiari, come sarebbero scisti galestrini puramente argillosi — scisti ga- lestrini con druse di calcite ed inquinamenti di manganese e ferro — scisti policromi — scisti arenacei — arenarie molassiformi alternate con marne ed argille galestrine — marne coltelline grigie e plum- bee — alberesi scistosi — banchi d’arenarie più o meno compatte, più o meno tenacemente cementate (pietra bigia e serena). Anche in questa zona non mancano le sorgenti. Di frequente appariscono in corrispondenza dei più estesi banchi delle arenarie più compatte e delle molassiformi al- ternanti con le marne grigie e colle argille galestrine. Le plaghe occu- pate dai veri e propri galestri non presentano che stillicidii più o meno diffusi e frequenti. Allo stato dei fatti la zona inferiore arenaceo-gale- strina, che pure ha soffermata alquanto la nostra attenzione, non può ritenersi fra quelle consimili ricca di acque sorgive, come spesso altrove si presenta, anzi si può dire che qui ne faccia difetto: infatti le poche sorgenti che vi si riscontrano hanno portate molto ridotte e le adunate d’acque, fatte per mezzo di scavi interessanti specialmente le arenarie, sogliono dare acque perenni, ma non in grande quantità. In conclusione, da questo esame superficiale consegue che lo smaltimento di questa zona imbrifera si fa in modo molto diffuso e sporadico da togliere gran parte della sua importanza dal punto di vista della idrografia applicata alla ricerca delle acque potabili. Del resto, dal complessivo esame parmi resultare con notevole evidenza che le arenarie ed i calcari della prima zona giacenti sulle marne rosee o sui galestri hanno come roccie imbrifere la maggiore importanza e sono quelle che presentano il maggiore numero e le maggiori sorgenti. Alle altre formazioni appartengono sorgive di minore entità e non sempre 46 G. RISTORI atte a dare acque potabili assolutamente sicure. Ad onta di ciò non poche sorgenti si presentano qua e là in buone condizioni da dare un prezioso sussidio ad una conduttura importante che, movendo dai bacini imbriferi principali della zona più montana, può con profitto utilizzare le acque sorgive che si presenteranno lungo il suo sviluppo. In tesi astratta e teoretica noi dovremmo a priorì scartare anche le sorgenti dei calcari per tema della loro presunta incostanza e per tema che ad esse non siano miste acque superficiali, che passando attraverso alle beanti fratture, non abbiano subìto quella filtrazione che preintende alla loro purezza e potabilità. E quasi questo non bastasse, si aggiunge anche, a farci ulteriormente diffidare di queste acque, la loro possibile ricchezza in sali calcari. Dovremmo quindi scegliere e preferire solo le sorgenti che vengono dalle arenarie o sgorgano fra queste e le roc- cie marnose e galestrine; ma i criteri assoluti e recisi nella scienza applicata alla pratica non sono e non saranno mai quelli che ci da- ranno l’indirizzo più logico e più attendibile per la soluzione delle molteplici difficoltà che sempre si incontrano nello studio idrografico ed idrologico di una regione che vogliasi prescegliere per avere acque po- tabili abbondanti e chimicamente e batteriologicamente pure, di quella relativa purezza tollerata dall’igiene e reclamata dagli ultimi portati della scienza. — Altri criteri, altre osservazioni più speciali e minute debbono entrare in campo se non a sostituire totalmente ad arrotondare le assolute sentenze della scienza puramente teorica. In natura le roccie calcari non sono tutte d’un modo ed il litologo ve ne può presentare una serie infinita con proprietà fisiche, chimiche e litologiche così varie e variabili da ingenerare profonde e sostanziali differenze nel giudicarle sotto il punto di vista di roccie imbrifere. I calcari che prevalgono nella zona imbrifera da me studiata sono di tre differenti tipi, i più abbondanti ed estesi sono i calcari screziati costituiti da piccoli gusci di foraminifere politalamiche, da elementi spi- culari di spugne e di radiolarie e da altri molteplici e vari organismi propri delle faune costiere e di media profondità. La formazione di questa roccia è altresì dovuta all’aggregazione di frammenti clastici di natura litologica variabilissima tutti strettamente uniti e cementati da Ca CO3 e dalla pressione. La loro genesi e la loro natura non è quindi quella di puri calcari, ma di calcari che possono ed hanno anche inelusi in sè non pochi degli elementi stessi delle arenarie più tenaci, per cui - tanto la loro capacità cubica per l’acqua, come il loro carattere d’ag- STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 47 gregazione non esclude che una parte delle acque, che li interessano, possano da essi essere molto bene filtrate. Le fratture che dicemmo attraversarli non sono in generale molto ampie in questi calcari il cui coefficiente di flessibilità non è tanto basso. Oltre a ciò la massima parte delle discontinuità sono compenetrate e ripiene dagli elementi di decom- posizione e da quelli clastici in esse stesse trascinati dalle acque. Le frat- ture beanti ed aperte si riducono quindi a poche, a quelle forse in cui circolano per ultimo le acque, facendosi alla loro volta strada all’esterno. Il secondo tipo dei calcari è quello brecciforme nummolitico propria- mente detto. In questo gli elementi clastici sono ancor più abbondanti ed il cemento è meno tenace per cui più facilmente è soggetto alla degradazione degli agenti esterni ed alla disgregazione. La capacità cubica per l’acqua deve quindi essere tanto maggiore quanto ne è minore la sua compattezza e tenacità di fronte ai calcari screziati. Inquanto agli elementi clastici questi sono prevalentemeate silicei; gli elementi orga- nici sono costituiti quasi esclusivamente dalle conchiglie delle nummuliti- dee spesso calcaree. Oltre a ciò sono presenti elementi eterogenei di varia provenienza, come frammenti di calcari compatti, frammenti silicei, e per- fino quelli delle stesse marne rosee e dei galestri che preesistenti ed emersi, dettero incremento alla degradazione di spiaggia e alla forma- zione di quelle roccie. Come roccia imbrifera le breccie nummolitiche nulla hanno da invidiare alle arenarie, solo il loro sviluppo in superficie ed in potenza essendo immensamente minore, non possono avere la poten- zialità sorgiva di queste e neppure quella dei calcari screziati, perchè anch'essi sono più estesi e potenti. Il terzo tipo è rappresentato dai calcari compatti, che si presentano intimamente connessi ai calcari screziati ed anche alternati colle marne rosee. Queste poi aumentando dal basso all’alto l'elemento calcare deter- minano un graduale passaggio ai calcari medesimi che per la genesi può benissimo mettersi in rapporto con un sollevamento graduale del fondo marino o bradisismo positivo che ne abbia avvicinate le coste. Di fronte a queste peculiari condizioni geotettoniche, il regime sotterraneo delle acque si dispone fra strato e strato in sottili lame seguendo i piani marnosi che presentano minore permeabilità e dando spesso luogo a frane e falde, le quali interessano a quando a quando le masse sovra- stanti dei calcari screziati e nummolitici ed anche quelle delle arenarie. Tutto questo fa sì che le acque sorgive proprie di questa formazione mar- noso-calcarea spesso si mescolano con quelle delle soprastanti e di per 48 G. RISTORI sè non lasciano più giudicare esattamente del loro valore e della loro potenzialità. Del resto le masse marnoso-calcaree come roccie imbrifere sono certamente da porsi fra quelle che presentano le maggiori garanzie anche dal lato chimico, perchè le acque che le interessano anche se primitivamente ricche di Ca CO* hanno poi modo di decalcificarsi suffi- cientemente lungo il percorso sul piano impermeabile qui sempre po- vero di calce. Da tutto questo consegue che nel nostro caso, mille volte riscon- trato consimile nelle propaggini apenniniche pertinenti all’eocene medio e superiore, le acque sorgive delle arenarie saranno le prime a pren- dersi in considerazione per la loro presuntiva purezza che difficilmente verrà meno. Ma anche le sorgenti delle formazioni calcari sudescritte avranno sempre una notevolissima importanza; molto più che lo smal- timento operandosi in esse con carattere meno frazionato è qui che si ritrovano le sorgenti di maggiore portata per quanto esse possano in ge- nerale risentire delle magre e presentare una certa incostanza. Ad ogni modo la bassa temperatura spesso riscontrata in alcune sorgenti di questi calcari è sempre garanzia molto attendibile della profondità e quindi della potenzialità relativamente costante del bacino imbrifero che le ali- menta. Ad onta di ciò, per le sorgenti che provengono dai calcari, come p. es. la sorgente del Fringuello, quella della Vena e anche quelle di Ca- faggiolo, non sarebbe assolutamente superfluo qualche esperimento di co- lorazione fatto nei torrentelli a monte delle sorgenti medesime i quali sogliono, avere acque perenni. Questo al solo intento di escludere asso- lutamente ogni carattere anche parziale di acque risorgive, che potrebbero per avventura concorrere e mescolarsi a quelle più proprie del sottosuolo ed insite alla roccia imbrifera. Del resto io credo, per svariate e com- plesse considerazioni geologiche, molto probabile che gli esperimenti riescano negativi, ma l’assicurarsene sarà sempre prudente, perchè nelle roccie calcari le sorprese di questo genere non sono infrequenti e non potrebbero maravigliare, per quanto nel nostro caso speciale e per queste peculiari formazioni si abbia ragione di sperare 90 su 100 in un responso negativo. Dopo queste riserve e dopo la descrizione sommaria sulla successione stratigrafica e sulla disposizione e sviluppo delle singole formazioni, in rapporto al regime sotterraneo delle acque sorgive ed alle proprietà chi-. miche delle medesime, parmi tempo di accennare ai criteri generali che STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 49 debbonsi seguire nella ricerca delle acque nella regione qui presa in esame. Primo di tutto trovo opportuno parlare dei lavori di presa e più special- mente di gallerie più o meno sviluppate, che empiricamente sono state proposte per avere acque potabili abbondanti da un solo bacino imbrifero, cercando o meglio tentando con queste di poterne sfruttare in un sol punto e con una sola opera d’arte quasi completamente la potenzialità sorgiva. L’idea della ricerca delle acque nelle viscere delle montagne è an- tica, antichissima ed è fondata su teorie d’idrografia sotterranea con- troverse e spesso anche erronee fino a toccare l’aberrazione come nella teorica esposta in Francia nel 1703 dal Fontenelle segretario dell’acca- demia reale delle scienze. Quella teoria fu fatta rivivere recentemente da alcuni Ingegneri ed Imprenditori, che proposero a forfait d’allagare con acque potabili una fra le città più grandi ed artisticamente pùù belle d’ Italia !! Ma non è questo il luogo opportuno a discussioni ed a sfoggio di erudizione: oggi si ritiene universalmente che la potenzialità sorgiva di un dato bacino imbrifero sia dovuta alla media pluviometrica annua, al potere d’assorbimento delle formazioni geologiche o roccie, alla maggiore o minore facilità di smaltimento ed alla disposizione stratigrafica delle formazioni. Studiate queste condizioni ci troveremo in grado di giudicare degli effetti pratici che si possono ottenere con lavori sotterranei intenti alla ricerca delle acque. Le roccie imbrifere che predominano nella nostra zona, giova ripe- terlo, sono le arenarie, i calcari screziati e l’insieme delle formazioni marnose e galestrine. La disposizione stratigrafica ed i rapporti tettonici fra queste ci sono nel loro complesso ben noti, per cui già conosciamo sommariamente il regime sotterraneo delle acque d’imbibizione che le interessano ed i punti ove queste concorrono per poi scaturire all’esterno. Dicemmo già come le marne rosee e le formazioni galestrine costitui- scano generalmente il diaframma impermeabile su cui si formano le falde d’acqua più importanti, sia che esse provengano dalle arenarie o dai calcari. Presso alla linea altimetrica di contatto si veggono appunto sgorgare le maggiori sorgenti e vi si trovano in gran numero stillicidii ‘e piccole sorgive. Questo sta a rappresentarci nel suo complesso lo smal- timento più o meno sporadico, e sempre molto diviso di quel dato bacino. Da ciò ne consegue legittimamente che chiunque volesse pretendere di ricercare con lavori sotterranei acque sorgive non potrebbe svilupparli altro che presso i piani di contatto delle varie roccie suindicate. In 50 G. RISTORI quanto ai resultati pratici, questi anche nella ipotesi più favorevole non giungerebbero che ad accumulare in un sol punto la maggior parte della potenzialità sorgiva del bacino, la quale ci è poi rappresentata dalle naturali sorgenti che sgorgano all’esterno, e che implicitamente servono a mantenere l'equilibrio nella circolazione sotterranea delle acque. Lo sviluppo delle formazioni nelle nostre propaggini apenniniche e la loro compage geotettonica in generale non presenta potenzialità e con- dizioni tali da farci supporre con simili lavori grandi resultati pratici, quali a volte si sono veduti nell’ Apennino e nei massicci orografici di gran lunga più potenti ed estesi. Ma se questo non bastasse, l’esperienza e la teoria stessa ci pongono sull’avviso, che anche quando i primi re- sultati ottenuti con una galleria, interessante un dato bacino imbrifero, sembrano perfino avere superata l’aspettativa, col tempo essi vanno len- - tamente degradando fino a ricondurci nella normalità d’efflusso, che è' sempre proporzionata e proporzionabile alla potenzialità del bacino. Questi effetti immediati, questi fuochi fatui sono tanto più facili quanto più rotta e frastagliata è la compage geologica delle formazioni, per cui nel nostro caso nei calcari saranno più frequenti che nelle arenarie. L’accolte d’acqua più o meno importanti, che possono formarsi nelle diverse roccie imbrifere per dato e fatto dell’esistenza di vacui sotterranei di variabilissima capa- cità, danno sufficiente ragione del fenomeno suaccennato, per modo che io mi risparmio d’insistervi ulteriormente. Anche le gallerie che fossero condotte e molto sviluppate lungo i contatti di due roccie una più, una meno permeabile, come le arenarie e le marne, come i calcari e le marne, come i galestri e le marne ed anche i calcari e le arenarie, potrebbero dare resultati positivi, ma sempre entro limiti ristretti essendo la potenzialità sorgiva di ciascun dei nostri bacini assai limitata. Si racconta è vero di gallerie ferroviarie che hanno incontrate masse d’acqua considerevoli, e che contemporaneamente o quasi sì sono viste asciugate tutte o quasi tutte le sorgenti di un dato bacino imbrifero. Non nego il fatto, anzi io stesso a Ruta in Liguria fui testimone oculare di un simile fenomeno. Debbo osservare però che queste acque sono come dissi sempre soggette a successiva riduzione fino a raggiungere l’equilibrio determinato dalla potenzialità sorgiva di una data zona. Inoltre non sogliono quasi mai sfruttare superfici imbrifere molto estese ma si limitano a zone relativamente molto ristrette, per modo che in tesi generale non presentano molto notevoli vantaggi di fronte ai resultati che STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 51 si possono avere coll’allacciamento bene studiato delle principali sorgenti di un dato bacino, quando ci si valga dell’utilità e dei vantaggi molte- plici e vari che possono spesso ottenersi con bene intesi lavori di presa. A conferma di queste pratiche e teoriche considerazioni non parmi superfluo richiamare l’attenzione su le acque sorgive trovate in alcune gallerie praticate nell’arenaria dell’Apennino mugellese lungo il tronco ferroviario Ronta-Crespino. Le acque sgorgarono da prima in tale abbon- danza che si trovò opportuno condurle a valle per il servizio ferroviario medesimo. Queste sorgive seguitarono per parecchio tempo a mantenere una relativa costanza ed una portata considerevole, la quale però, in un lasso di tempo assai lungo, andò lentamente degradando e si ridusse no- tevolmente; tanto che le speranze di potere utilizzare con molto profitto queste acque, in gran parte, si dovettero abbandonare. Il fatto è per noi tanto più eloquente ed atto a metterci in guardia, perchè nell’esempio citato le condizioni geotettoniche e litologiche della formazione arenacea apenninica erano delle più favorevoli sotto tutti gli aspetti fra cui primeggia lo sviluppo e la potenza veramente notevole che ivi quelle roccie raggiungono specialmente nella parte montana. Bisogna dunque concludere che mentre simili lavori sono sempre di dubbia riuscita, non hanno, poi che ben lontana probabilità anche nelle migliori condizioni, di risolvere il problema e ritrovare me nostri monti in generale e nella catena chiantigiana in particolare, acque nella quantità sufficiente ai bisogni di ciascuno dei popolosi paesi del Valdarno supe- riore. Nella migliore ipotesi le gallerie interessanti molto le roccie im- brifere più importanti possono fare da collettori di quasi tutte le acque sorgive di un dato bacino imbrifero che occupi una plaga relativamente molto limitata. Del resto la potenzialità sorgiva di questo sarà d’altronde rappresentata dalle sorgenti che in esso sempre si ritrovano; purchè si usi somma diligenza e cura nel ricercarle e non si risparmino escursioni, fatiche ed informazioni. Le spese occorrenti per l’escavazione di galierie nelle roccie sudde- scritte sono tutt'altro che indifferenti ed @ priorì si può affermare che superino di gran lunga quelle necessarie per il maggiore sviluppo delle condutture libere occorrenti a fare convergere tutte le sorgenti di un dato bacino nella località convenientemente scelta per iniziare la con- duttura principale. In quanto al presunto aumento di portata che po- trebbe ottenersi con una o più gallerie questo oscillerà entro limiti assai ristretti e tali da non francare la spesa; tanto più che gli speciali lavori So. Nat. Vol. XIX 4 52 G. RISTORI di presa che si possono e si debbono suggerire per ciascuna sorgente pos- sono quasi sortire il medesimo effetto, anche nella supposizione più ot- timista che fare si possa a favore delle gallerie. I lavori di presa considerati per ora in modo astratto, per meglio specializzarli e concretizzarli nella seconda parte di questa memoria, possono riassumersi così: 1.° Brevi gallerie o grotte artificiali praticate al punto d’efflusso delle sorgenti per potere con opportuni lavori in muratura impedire qualsiasi mescolanza d’acque esterne e raccogliere in un solo pozzetto sorgente e gemitivi collaterali. 2.° Trincee più o meno profonde praticate lungo i detriti di frana o di falda, interessati dalle acque sorgive, allo scopo di ritrovare la vera sca- turigine dalla roccia imbrifera in posto; oppure allo scopo di raccogliere ad una profondità, che nel miglior modo garantisca dagli esterni inquina- menti, le acque sorgive avvicinandosi il più possibile al piano impermeabile su cui va formandosi la principale falda acquifera. 3.° Trincee trasversali praticate in testa a quelle longitudinali allo scopo di potere profittare non solo della scaturigine principale, ma anche delle secondarie e quindi utilizzare la massima parte delle acque sor- give nei luoghi ove presentano un carattere sporadico, che in generale va esplicandosi in una zona molto ristretta ed attorno alla principale scaturigine naturale. 4.° Lavori semplicissimi di presa con pozzetti murati per le sorgenti di secondaria importanza, che si presentassero in opportuna ubicazione per essere immesse nella conduttura principale lungo il suo sviluppo, magari con semplici condutture di piombo. 5.° Trincee praticate nei luoghi e nei terreni detritici ove si mostrano abbondanti stillicidii ed ove si abbia probabilità di rintracciare la sea- turigine naturale dalla roccia in posto, molto più se questa si sviluppa a poca distanza od è ricoperta da formazione detritica di poco spessore. 6.° Sbarramenti e scavi più o meno profondi allo scopo d’interessare totalmente, presso le roccie in posto, le formazioni detritiche per impe- dire che da queste sfuggano le acque sorgive. i Con questo pongo termine allo studio generale e sintetico della re- gione imbrifera prescelta e mi accingo a svolgere con maggiore dettaglio la parte speciale ed a descrivere partitamente i diversi bacini imbriferi per intuire il valore intrinseco delle singole sorgenti che in essi si trovano. STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 53 Parte Il. Studio speciale dei Bacini imbriferi e delle Sorgenti. La regione che ho presa ad esaminare specialmente sotto il punto di vista della idrografia sotterranea, per i suoi caratteri orografici ed orotettonici, ben si presta ad essere divisa in tre distinti bacini imbri- feri ciascun dei quali presenta sorgive più o meno importanti. Questi tre bacini possono distinguersi coi seguenti nomi: il primo più a S. può dirsi bacino imbrifero di Coltibono-Saliceto, il secondo procedendo a NNO. in continuazione di questo ed estendendosi a monte fra Secciano e Casignano potrebbe benissimo prendere nome da questi villaggi; men- tre il terzo è comunemente conosciuto col nome delle sue principali sor- genti la Vena e Cafaggiolo. I caratteri orografici di questi tre bacini si somigliano notevolmente, per modo che anche la disposizione dei corsi d’acqua che superficialmente li interessano hanno in comune molti caratteri. A valle in corrispondenza della quota altimetrica di circa 300 metri i fossi o torrentelli montani tendono a convergere ed a costituire torrenti di maggiore importanza e meglio individualizzati nel loro corso, i quali assumono caratteri più costanti. Il primo bacino posto in relazione coll’orografia e coll’idrografia è il più vasto, specialmente nella sua porzione a monte. Esso comprende la linea di spartiacque fra Monte-Maione e M. Grossi, e solo notevol- mente si restringe fra Luceto e C. Ripoli per il convergere dei due con- trafforti quasi perpendicolari alla dorsale chiantigiana, i quali distaccan- dosi dalle due alture summentovate, limitano lateralmente la vallecola torrenziale del Bruciomo il più importante affluente del Cerbia. A mano a mano che il bacino si allarga i torrentelli, che ne solcano la superfi- cie a monte si dividono e suddividono e prendono una quasi regolare disposizione ventagliforme, iniziando una serie numerosa ed intricata di piccoli semiconi d’erosione i quali insieme al torrentello che li ha costituiti infilano e convergono nei principali contigui i quali alla loro volta, e proporzionalmente alla potenzialità d’ erosione e di trasporto, hanno escavate vallecole più o meno profonde ed interessanti la compage tettonica delle varie formazioni geologiche. 54 G. RISTORI La disposizione ed il numero dei torrentelli più montani, i quali pre- feribilmente iniziano il loro corso presso il riposo delle arenarie e dei calcari sulle marne e sui galestri, ci segna, con un’ approssimazione rela- tivamente esatta, la zona altimetrica delle sorgenti e delle scaturigini più o meno diffuse (stillicidii) delle acque sorgive, che provengono dai mas- sicci arenacei e calcari che costituiscono la giogaia di spartiacque fra il Valdarno ed il Chianti. La disposizione orografica, geologica ed orotet- tonica delle formazioni in questo bacino si presenta con peculiari carat- teri. Anzi tutto si nota uno sviluppo prevalente delle roccie arenacee, le quali occupano una zona assai estesa più a monte e costituiscono le prin- cipali vette della giogaia suindicata; mentre le più depresse sono formate dai calcari screziati e dalle breccie nummolitiche. Tutte queste forma- zioni, come abbiamo più volte ripetuto, riposano indistintamente sulle . marne rosee e sui galestri, che unitamente ai banchi d’arenarie più com- patte e più dure si dispongono lungo una linea altimetricamente inferiore che è poi la linea delle sorgenti principali, unitamente a quella d’ origine della maggior parte dei torrentelli montani. Questi mentre da una parte escavarono i loro semiconi d’erosione nelle roccie in posto ed in quelle detritiche di frana e di falda, dall’ altra resero più agevoli gli scoscen- dimenti dei calcari e le frane delle roccie arenacee. La tettonica delle arenarie è quella a pieghe ampie ed a larghe on- dulazioni, cui contrastano alcuni ripiegamenti locali stretti e serrati, che provocati dall’instabilità della roccia marnosa sulla quale giacciono, hanno poi determinate le fratture nei banchi ed anche facilitate e provocate le frane. L’immersione degli strati alla cascina di Monte Lucci è di 30 gradi ad O. 15° S. pendenza che si mantiene costante per la direzione e per l’angolo d’immersione a S.Lorenzo ed a Coltibono, mentre a Poggio Mar- tini (quota 781) ed a Monte al Porro si volge più decisamente ad O. con inclinazione alquanto meno sentita. I calcari screziati si immergono a N. 25° E. con un angolo di 20 gradi il quale si presenta, causa le molte rotture e dislocamenti degli strati, ben poco costante. Dalla suesposta disposizione tettonica dei calcari e delle arenarie rie- sce evidente come, avendo le une e gli altri per roccia di riposo la for- mazione marnosa 0 galestrina, debbono su quella indistintamente arrecare, come su piano impermeabile, le acque da cui sono interessati per imbi- bizione e per rete acquifera di fratture più o meno complicate. Si deve però osservare che la disposizione tettonica è evidentemente favorevole: pei calcari contraria per le arenarie, giacchè nei primi troviamo la pen- STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 55 denza dei diversi banchi concorrente a scolare le acque su detto piano impermeabile; mentre i banchi arenacei si presentano in generale con- tropendenti e talmente disposti da facilitare il deflusso delle falde d’acqua degl’interstrati nel versante del Chianti. Ad onta di ciò anche le are- narie smaltisecono buona parte delle acque d’imbibizione di cui sono capaci nel versante del Valdarno e specialmente lungo la linea di con- tatto con le formazioni marnose o galestrine, su cui evidentemente si rac- colgono per il carico delle falde acquifere degli interstrati e per il sistema consparso di fratture che gli interessano. La disposizione delle sorgenti che nascono da queste due formazioni, le arenarie ed i calcari, e la loro portata, in relazione con l’ estensione delle correspettive roccie imbrifere da cui provengono, dimostra |’ esat- tezza del concetto suesposto: infatti di contro allo sviluppo dei calcari, molto più limitato di quello delle arenarie in questo primo bacino, ab- biamo che le sorgenti dei primi presentano oggi una portata maggiore quantunque sia caratterizzata, come sempre avviene per le proprietà fisiche della roccia, da minore costanza d’efflusso e da magre più ac- centuate. Nel nostro versante le sorgenti delle arenarie sono invece meno po- tenti più numerose e più sporadicamente disseminate, ma di contro a questo sta la loro potenzialità complessiva e la portata notevolmente maggiore di ciascuna di esse nell’ opposto versante del Chianti. Ma veniamo al singolo esame diretto delle sorgenti del bacino di Coltibono e Saliceto. _ Le prime sorgive che si incontrano sono vari stillicidii lungo il fosso del Fringuello, che si fanno assai frequenti alle falde della formazione calcarea di M. Grossi ed interessano per la maggiore i detriti di frana e di falda accumulati lungo il fosso medesimo. Poco oltre la via provin- ciale a N. del ponte presso all’antica via senese, sgorga da un cumulo piuttosto potente di frana precipuamente costituito da marne rosee e ricoperto da detriti e massi di calcari screziati e compatti rotolati dal- l’alto, una sorgente. Presso questa furono tempo indietro praticati dei lavori di saggio che ne spostarono a monte la scaturigine. Indipenden- temente da questo efflusso artificiale, la sorgente seguita a sgorgare in carica fluendo dal basso all'alto. Questo dipende da chè la sua origine dalla roccia in posto trovasi un poco più in alto e certamente nei calcari o fra questi e l’arenarie che lì presso prendono sviluppo, mentre alla base degli uni e dell’altre sta la formazione marnosa e galestrina, 96 G. RISTORI Questa sorgente nel 6 aprile 1902 dava, misurata presso il fosso del Fringuello, ove si raccolgono tutte le acque che interessano la formazione detritica di falda, Litri 2 a minuto secondo ed una temperatura alla sca- turigine di 12 centigradi. Le sue acque sono alquanto incrostanti quindi piuttosto ricche in Ca CO. L’analisi potrà con esattezza determinarne la quantità e giudicare in concreto delle proprietà chimiche di queste acque sorgive. Volendo utilizzare questa sorgente abbisognano dei lavori di presa, i quali devono essere diretti alla ricerca della vera e propria scaturigine. Seguendo il corso delle acque sotterranee con un fosso longitudinale fino all’ incontro delle masse calcaree, questo ci condurrà sicuramente al punto d’efflusso dalla roccia in posto che con ogni probabilità sarà il calcare screziato presso il suo contatto colle arenarie e il suo riposo sulle marne - o sui galestri. Questo lavoro relativamente facile e spedito avrà l’effetto sicuro di raccogliere e riunire tutte le acque sorgive, ed ovviando alle perdite, potrà forse anche accrescere la portata della sorgente specialmente nelle magre estive, allorchè la diffusione nelle roccie detritiche non può che aumentarne la evaporazione e quindi le perdite. Dopo questa sorgente principale seguendo il corso del fosso del Frin- guello alla sua destra, da una lente di arenarie che si sviluppa in mezzo ai galestri manganesiferi scaturisce una sorgentella in buone condizioni. Essa proviene dalle arenarie e la roccia in posto è lì prossima, traversa però per poco tratto detrito di falda. La temperatura è 12 centigradi la portata il 6 aprile 1902 era di Litri 0,30 al minuto secondo. Le acque non sono affatto incrostanti e non giustificano nessun sospetto circa le loro proprietà chimiche. Un poco a monte lungo il sentiero per Valle Strana in piena forma- zione arenacea, presso due fossatelli affluenti del Fringuello, sì trovano due sorgenti l’una all’altra vicine, il Fontino ed il Fontone. Escono dalle arenarie in posto presso la formazione marnosa e galestrina e traversano pochi detriti. Le acque hanno 12 centigradi di temperatura non sono affatto incrostanti e presentano notevoli garanzie sotto ogni rapporto. Il Fontino al 6 aprile 1902 dava Litri 0,33 a minuto secondo, il Fontone Litri 1.67. Risalendo verso la fattoria di Coltibono presso la via troviamo la fonticella di S. Lorenzo, così nominata per un tabernacolo dedicato al Santo di cui pure sta presso un effige in arenaria molto degradata dal. tempo. Un’antica iscrizione latina su una tavola pure d’arenaria ci dice che STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 57 le acque sorgive disperse furono a quel luogo artificialmente ricondotte. Una muratura a nicchia forse ci rappresenta il punto artificiale di sca- turigine. Oggi la sorgente è raccolta per un doccetto ed attorno ad essa abbiamo stillicidii e perdite diffuse non indifferenti, il fosso stesso lì presso prende incremento d’acque sorgive lungo il suo corso ed in basso a Valle Strana ha considerevole portata. La sorgentella il 6 aprile 1902 dava Litri 0,16 di portata con 12 centigradi di temperatura. Procurando con un lavoro di presa d’interessare le arenarie da cui scaturiscono le acque potremo ottenere da questa sorgente una portata maggiore ed una costanza d’efflusso molto notevole. Un poco più a monte nel bel mezzo delle arenarie molassiformi che costituiscono il Poggio Martini (781) abbiamo una cavernetta artificiale praticata per la presa d’acqua che serve alla Fattoria di Coltibono. Il pozzetto di presa è alimentato da scaturigini che si manifestano in senso ascendente e che provengono probabilmente dai banchi delle arenarie, che per una delle tante pieghe d’assettamento, convergono con lieve pen- denza verso quel punto. Queste acque sorgive hanno una temperatura di 12 centigradi ed una portata che al massimo potrà giungere a Litri uno per minuto secondo. Nella regione arenacea di Coltibono abbiamo poche manifestazioni esterne di acque sorgive, mentre escavando pozzi nella roccia ad una profondità di 5 a 6 metri si trovano spesso acque abbondanti: infatti il pozzo nel cortile della Fattoria escavato proprio nelle arenarie è ali- mentato da una falda acquifera, assai potente e mantiene costantemente un’ altezza nelle sue acque di 2 ai 3 metri. Non è improbabile che con- simili escavazioni praticate nella massa arenacea di Poggio Martini sieno per dare buoni resultati, però entro certi limiti, giacchè la roccia im- brifera non presenta in generale molta estensione e la disposizione tet- tonica non è, come già accennammo, favorevole per il massimo deflusso delle acque sorgive nel nostro versante. Ad ogni modo consimili espe- rimenti praticati p. es. in corrispondenza della fonticella di S. Lorenzo potrebbero aprire un campo ad investigazioni speciali, i cui resultati pra- tici non saranno negativi. Le manifestazioni esterne delle acque sorgive si fanno invece più fre- quenti in basso presso il podere Valle Strana; qui il fosso stesso che scende da Poggio Martini va notevolmente arricchendosi d’acque ed una prima sorgente, in parte proveniente dai detriti di falda su cui si sono costituite le coltivazioni intensive, serve a parziale irrigazione e ad uso 58 G. RISTORI domestico della colonìa suddetta. La sorgentella il 16 aprile 1902 dava 12,7 centigradi di temperatura ed una portata, escluse le perdite, di Litri 0,20 a minuto secondo. A NE. della casa colonica verso monte, alla lente di calcare screziato che si sviluppa a sinistra del fosso che scende da S. Lorenzo succedono le arenarie mantenendo, uniforme, continuo e prevalente il loro sviluppo; solo più a valle ricompaiono i calcari screziati e poi l’imbasamento co- stante della formazione marnosa e galestrina. Fra i calcari e le marne si di- spongono a brevi intervalli, presso il sentiero che mena a Saliceto, una serie di sorgentelle delle quali le più importanti sono:1.° Lo stillicidio fra il bosco ed il campo a NE. della casa colonica di Valle-Strana. — 2.° La fontanella degli Alberini — 3.° La fonte dei Marroni di Riesci. Lo stilli- cidio esce dalle arenarie che sono quivi a contatto coi galestri manga- - nesiferi e subito interessa il detrito di frana ed ivi si perde. Alla me- glio fu potuta misurare la sua portata il 16 aprile 1902 e fu trovata di Litri 0, 25 a minuto secondo con una temperatura di 12 centigradi. Nelle condizioni attuali della sorgiva non sono possibili esatte misure e le per- dite non possono assolutamente evitarsi. Il facile lavoro occorrente per la ricerca della scaturigine naturale di queste acque dalle arenarie, ne- cessario per l’allaccio, facilmente accrescerà la potenzialità di questa sor- gentella che trovasi nelle migliori condizioni per essere utilizzata. La fonticella degli Alberini esce da un ammasso di terreni detritici che con poca potenza ammantano una depressione tettonica. Si presenta sul sentiero divisa in tre scaturigini diffuse per modo che difficilmente possono essere riunite per una esatta e complessiva misura. Ad onta di ciò si potè ottenere un getto riunito, che, non considerando le molte perdite, ci dette Litri 0, 20 a minuto secondo e la costante temperatura di 12 centigradi. Una trincea trasversale che interessi le attuali divise scaturigini potrà raccogliere facilmente le acque da un sol punto ed evi- tare le perdite. Procedendo poco a monte, sempre lungo il sentiero in una larga de- pressione di frana ammantata dai detriti delle arenarie che prendono a monte notevole sviluppo, esce una sorgente non lunge dalla roccia in posto. La sua portata notevolmente diminuita dalle perdite il 16 aprile 1902 era di Litri 0,33 con una temperatura di 9,5 centigradi. Questa sorgente che prende il nome dai Marroni di Riesci è a mio avviso degna di molta considerazione, perchè, allacciata alla sua scaturigine dalle are- - narie, potrà dare notevole e costante incremento d’acque sorgive stante STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 59 la disposizione stratigrafica locale dei banchi arenacei e stante la sua bassa temperatura che ne attesta origine profonda, e quindi una poten- zialità di carico assai notevole. Un'altra sorgente che alimenta un torrentello ricco di acque, assai discosta dall’ antecedente, si incontra lungo il solito sentiero in condizioni speciali di scaturigine, giacchè una piccolissima parte delle acque sorgive che interessano pochi detriti di falda vengono raccolte da un doccetto di legno, mentre la massima parte si espande e si riversa successivamente nel torrentello surricordato. La scaturigine dalle arenarie in posto non può essere che molto prossima e solo la folta vegetazione boschiva ne ha impedito l’accesso: infatti il torrentello poco a monte della via non ha acqua. Queste peculiari circostanze mi costrinsero a misurare la. por- tata di queste sorgive nel torrente medesimo che il 16 aprile 1902 fu trovata di Litri 0,70 al minuto secondo, mentre il termometro centi- grado al doccetto segnava 11 gradi. Per questa sorgente manca dunque di rintracciare il punto di scaturigine, ma nel resto si presenta in condi- zioni molto favorevoli sì per la temperatura come per la portata e per la potenzialità di carico che qui hanno le roccie imbrifere da cui è ali- mentata. Poco lungi da questa sorgente abbiamo il fosso della Forra o Croce alla Forra, che arreca notevoli quantità di acque sorgive raccolte lungo il suo semicono d’erosione operato nelle arenarie. Probabilmente il ca- rattere sporadico dei numerosi gemitivi non ci darà modo di potere effi- cacemente utilizzare la potenzialità sorgiva di questa plaga, che per la roccia inbrifera potrebbe essere di non scarso valore. Risalendo a monte, presso una mulattiera che si conosce col nome di strada di Firenze, ci si imbatte presso il culmine di spartiacque sopra a Porcigliano, sempre però nel versante nostro, in una profonda frana ab- bastanza recente, che ancora lascia scorgere le vestigia della fiumana da cui probabilmente fu travolta. Dall’ammasso detritico sgorgano ancora acque in abbondanza, ma la sorgente che di lì, a dire dei boscaioli, scaturiva è del tutto scomparsa. Il rintracciarla in un terreno così pro- fondamente franoso riuscirebbe malagevole e di dubbio resultato pratico; pur non tenendo conto delle gravi difficoltà che offrirebbero i lavori di presa. Non potendosi raccogliere i dati positivi sul valore di questa sor- gente e dovendo stare semplicemente alle informazioni, così spesso fal- laci ed inesatte, non credo opportuno prenderla per ora in considerazione altro che sotto il punto di vista della potenzialità sorgiva di questo ba- cino imbrifero. 60 G. RISTORI Più a valle verso Saliceto nel versantello solcato dal fosso che scende dalla suindicata sorgente oggi scomparsa, fra Campocorto e Lavatoio anzi a NE. di quest’ultimo casolare a valle della mulattiera che vi mena, abbiamo una estesa frana tutta interessata da acque sorgive che proven- gono poco a monte dalle arenarie in posto. La verdeggiante superficie costituita di terreno detritico ora limaccioso fa scorgere di lontano que- sta località. Il suo nome è quello di Acqua viva, nome significativo per indicare acqua perenne. Le scaturigini sono diverse ed incerte, ed espan- dono le loro acque all’intorno nel terreno di falda. Il fossatello a valle le raccoglie in parte, tanto che fu possibile misurarne la portata appros- simativa che il 16 aprile dava Litri 0,50 a minuto secondo con una tem- peratura di 12 centigradi. Lavori di presa simili a quelli proposti per la fonte dei Marroni di Riesci potrebbero utilizzare queste acque sorgive. in quantità sufficiente a dare un contributo non indifferente. Molto prossima a questa sorgente in una gola determinata da due elevazioni l’una d’arenarie (Monte-Palione) l’altra di calcari screziati (Marroni grandi) abbiamo due sorgenti, quella così detta del Sodo dei Marroni che interessa estesi ma poco potenti detriti di falda, e quella del Doccino di Lavatoio, che esce da un banco arenaceo fesso nel senso verticale. La prima che potrebbe utilizzarsi, il 16 aprile 1902, dava Litri 0, 45 a minuto secondo, la seconda Litri 0,33, la temperatura era in ambedue 12 centigradi. L'origine di queste due sorgentelle è forse co- mune. Le acque sotterranee seguono la linea di contatto fra le arenarie ed i calcari per cui il modo d’allaccio sarebbe facile e sicuro. Dal lato pratico bisognerebbe lasciare in disparte il Doccino di Lavatoio, perchè serve al casolare, ma si potrebbe utilizzare la fonte del Sodo dei Mar- roni che ha maggiore portata ed oggi espandendosi nel terreno detritico non serve ad alcuno. Facile riuscirebbe il rintracciarne la scaturigine, perchè i gemitivi attualmente si iniziano sulla linea di contatto delle arenarie in posto e dei calcari col terreno detritico, e ben si scor- gono i punti ove le acque sgorgano più abbondanti. Una trincea o fosso trasversalmente condotti ci indicheranno subito ove sono le naturali sca- turigini che probabilmente a poca profondità si fonderanno in una sola. Fra Lavatoio e Secciano comparisce un jatus di sorgive che a priori non trova plausibile spiegazione; tanto più che le propaggini del mas- siccio arenaceo di Monte Maione, prevalentemente costituite di arenarie presentano una superficie imbrifera molto importante. La pendenza dei banchi arenacei si volge a questo punto più decisamente ad O. e l’angolo STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 61 d’inclinazione è più piccolo, giacchè il clinometro segna 43 gradi ad 0.10°S. Queste caratteristiche tettoniche spiegano forse la povertà delle acque sorgive nel versante valdarnese, mentre sappiamo che queste sono assai abbondanti in quello chiantigiano e più precisamente in quello della Pesa, ove si volgono specialmente anche quelle del principale mas- siccio rappresentato da Monte Maione. Ad onta di ciò nel contiguo bacino imbrifero ed anche immediatamente sotto Monte Maione alla quota di circa 700 metri compaiono delle sorgenti irregolarmente disposte, le quali hanno un valore relativo per noi e poco si prestano per l’ ubicazione e per la distanza. Riepilogando brevemente l'esame che abbiamo fatto della massima parte delle sorgenti che si trovano nel bacino imbrifero di Coltibono- Saliceto dobbiamo concludere che delle 15 a 17 sorgenti studiate e misu- rate solo 11 dovrebbero e potrebbero essere utilizzate per la conduttura. La loro portata complessiva oggi ammonta a Litri 6,89 al minuto secondo così distribuita: Temperatura Portata Centigradi Litri al secondo 1. Fonte al Fringuello . . . . IO 2,00 2. Fontino dei Marroni a destra del torrentello nos nese e n. i 12 0, 30 SUONATO NI TE 12 0, 33 MBEGRLONe E CARE Riga e 19 JR: sglionte St Lorenzo, i iL 12 0, 16 6. Stillicidio di Valle Strana . . . 12 0, 25 igebonte degli Alberini =... 12 0, 20 8. Fonte dei Marroni di Riesci . . 95 0, 33 9. Fonte le forre al Docciolo . . . 11 0, 70 ioseBonte Acqua viva. 0, 4 12 0, 50 11. Fonte del Sodo dei Marroni presso RAvab010: Ti esa SMR 12 0, 45 Portata totale Litri al secondo 6,89 Questa considerevole portata dovrà essere notevolmente ridotta nelle magre estive, e per esperienze e misure fatte in anni addietro su alcune di queste sorgenti, e per le considerazioni geologiche ed idrografiche spe- ciali che abbiamo svolte non sarà esagerato contare su circa 3 Litri d’acqua a minuto secondo, 62 G. RISTORI II secondo bacino imbrifero, a monte di Secciano e di Casignano, che potrebbe anche prendere nome da S. Pancrazio, è prevalentemente costituito da formazioni arenacee, le quali a valle presso Secciano assu- mono un singolare carattere trasformandosi lentamente in scisti are- nacei alternanti con filari di arenarie e di marne grigie coltelline. Tutte queste roccie costituiscono una peculiare formazione promiscua che si in- cunea fra i banchi arenacei più sviluppati a monte e la formazione marnosa e galestrina. Presso questa ricomparisce il calcare screziato con sviluppo da prima più limitato poi sempre più notevole mano a mano che sì pro- cede a NO. verso Monte Pescinale ove il predominio dei calcari screziati e nummolitici sulle arenarie si fa assoluto e non più interrotto. I limiti laterali del bacino qui preso in esame sono determinati dai due contraf- forti su cui sono costruiti i villaggi di Secciano e di Casignano. Lungo - questi contrafforti da valle a monte si succedono le formazioni che ab-' biamo enumerate e bene si vede come le marne, i galestri ed i calcari, per limitato che sia lo sviluppo di quest'ultimi, sono in discordanza con le are- narie nel modo stesso e colla stessa disposizione stratigrafica che notammo nel bacino di Coltibono. A monte le arenarie riprendono l’inclinazione ad O. 23° S. ma il clinometro segna in molti punti anche un immersione di 40 gradi. Strette pieghe d’assettamento che sembrano perfino ribal- tate si notano presso la Petraja (quota 768). La vicinanza dei calcari screziati ed i loro notevoli scoscendimenti non avranno avuta influenza negativa nel peculiare assettamento stratigrafico delle arenarie nella limitata plaga qui presa in esame. Resulta quindi che la roccia imbrifera in questo bacino è prevalentemente costituita dalla zona superiore delle are- narie e più in basso da quelle scistose, a lasso cemento calcareo argilloso, alternanti coi galestri e specialmente colle marne grigie coltelline. L’imba- samento di queste roccie marnoso-arenacee con la zona delle marne rosee e dei galestri si fa più a valle, e non è su questo contatto che abbiamo il principale deflusso delle acque sorgive, le quali principalmente si accumulano in quella zona intermedia che dicemmo costituita dalla for- mazione promiscua di arenarie di scisti arenacei e di marne coltel- line, le quali ultime possono ben fare da diaframma impermeabile. Per questa costituzione geologica ed anche per quella tettonica si può spie- gare bene come in questo bacino la maggior parte delle sorgenti si trovi ad una quota altimetrica superiore a quella comunemente occupata dalle marne rosee e dai galestri, che nel primo bacino costituivano il piano impermeabile ove accoglievasi la più cospicua falda acquifere STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 63 originata dalle arenarie e dai calcari. Lo stesso villaggio di Secciano non trovasi in condizioni molto propizie di avere acque sorgive abbondanti, ed è costretto servirsi di sorgenti quasi direi artificiali, che si otten- nero interessando più o meno profondamente gli scisti arenacei ove qua e là, presso il contatto colle marne grigie coltelline presentano stillicidii più o meno diffusi ed abbondanti. Lungo questa linea altimetrica infatti non riscontriamo che acque sorgive consimili senza mai vedere una vera e propria sorgente degna di tal nome almeno per la sua portata. Lo smaltimento di questo. bacino e della massa arenacea, sviluppata più a monte, si fa assai più in alto da dove prendono generalmente origine i fossi o torrentelli montani, i quali avendo coi loro semiconi erosivi assai profondamente interessata la zona arenaceo-galestrina, su cui dicemmo accogliersi la falda d’acqua proveniente dalle vere e proprie arenarie, si presentano molto ricchi di acque ed accrescono con notevole rapidità ed in un percorso relativamente molto breve la loro portata. Uno di questi torrentelli è quello di Casignano l’ultimo più a NO. che affluisce al torrente che solca la depressione orografica fra S. Pancrazio e Casi- gnano. Del resto anche gli altri due, che confluiscono più a valle e prendono origine quasi al vertice di spartiacque sopra Secciano, hanno acque perenni ed abbondanti senza che la loro origine si inizii da una vera e propria sorgente. L’eccezionale abbondanza di acque recate dal primo torrentello de- scritto ( 15 Litri a minuto secondo senza calcolare le molte perdite) mi consigliò a risalire il torrente fino alle sue origini. In questa escursione mi potei convincere della potenzialità sorgiva della località e nello stesso tempo, assai in alto, si trovarono un gruppo di sorgenti o meglio una zona acquifera molto importante ed in condizioni tali da essere facilmente sîiuttata con notevole profitto. Poco sotto Monte Pratilungo (quota 768) una leggera depressione tettonica ed in parte anche erosiva, ammantata da un detrito di falda molto esteso ma poco potente, determina l’ origine principale del torrentello di Casignano. Quivi si trovano alcune sorgenti, ma quello che più interessa un terreno profondamente limaccioso e ricco d'acque, le quali mano a mano che si sprofonda il letto del torrentello a quello fluiscono con crescente misura. Queste caratteristiche, pure comuni a tutta la zona montana delle arenarie le quali costituendo la porzione frontale di questo secondo bacino imbrifero e per ragioni tettoniche più volte ripetute smaltendo precipuamente nel versante del Chianti la loro potenzialità sorgiva, limi- tarono le nostre ricerche alla zona più alta in cui si trovano 9 sorgenti. 64 G. RISTORI La prima deve considerarsi quella prossima a Secciano, la quale, come già accennammo, consiste in una raccolta d’acqua artificialmente determinata interessando le roccie arenacee con una escavazione poco profonda praticata in corrispondenza di uno dei più abbondanti stillicidii che a brevi intervalli si succedono in quella zona. La temperatura di queste acque è di centigradi 11,5 ma la portata non può misurarsi non avendo la sorgente efflusso esterno. La seconda sorgentella poco più in alto è determinata da uno stil- licidio che si manifesta lungo il sentiero che conduce al vertice di spar- tiacque. Queste acque sgorgano da detrito di frana quantunque eviden- temente provengano dalla zona superiore delle arenarie. La loro tem- peratura è centigradi 12, con una portata approssimativa di Litri 0,12 a minuto secondo. Il villaggio di Secciano potrebbe profittare pure di queste acque praticando presso lo stillicidio una raccolta artificiale, molto più che nelle magre le sorgive più prossime ed attualmente utilizzate si mostrano insufficienti ai bisogni. Più a monte ancora in testa al semicono d’erosione di uno dei prin- cipali torrentelli montani di questo bacino, abbiamo una sorgentella a cui fa seguito un detrito di falda limaccioso e ricco di acque. Il torren- tello prende da queste notevole incremento ed accresce in breve tratto la sua portata, la quale diviene notevolissima nel punto ove è traver- sato dal già indicato sentiero. Le misure di queste acque non furono potute eseguire per le speciali e difficili condizioni in cui le sorgive si trovano e per il loro sporadico deflusso, mentre sarebbe stato se non inutile superfluo il rendersi conto della portata complessiva del tor- rentello. : La quarta sorgente dell’ Albola o Petraja, pur non essendo situata nel nostro versante ma in quello del Chianti, appartiene per la sua ubicazione assai a monte alla zona imbrifera delle arenarie superiori se pure non riceve una parte d’acque sorgive provenienti dai calcari scre- ziati che già prendono un prevalente sviluppo a NO. di Petraja. Questa sorgente che dà origine ad uno dei torrentelli montani della Pesa è fra le maggiori, e perchè fluisce nel senso della pendenza delle masse are- nacee ne rappresenta il principale coefficiente di smaltimento ; come del resto lo attesta la sua notevole portata che si mantiene abbastanza alta anche nelle magre. Sgorga presso il sentiero che conduce a Petraja sotto un culmine segnato nella carta con la quota 704. Per la sua vici- nanza ai bacini imbriferi di Cafaggiolo e della Vena si pensò di poterla STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 65 aggiungere a queste sorgenti; ma essendo all’uopo necessaria una gal- leria di qualche chilometro, in roccie di carattere franoso come sono i calcari poggianti sulle marne rosee e le marne rosee stesse, non ci sembra oggi opportuno utilizzarla per la nostra conduttura che può meglio es- sere alimentata dalle sorgive che si trovano nel nostro versante. Non insisto ulteriormente a dimostrare la poca convenienza di simile lavoro che io scarterei come inadeguato ai vantaggi che se ne potrebbero otte- nere aumentando di 2 o 3 Litri al secondo la portata della nostra conduttura, mentre altrettanta acqua sorgiva puo attenersi con allacci più numerosi, ma più semplici fatti per le sorgenti del nostro versante che vado a descrivere. Già accennai come il torrentello di Casignano si mostri ricchissimo di acque e come esso nasca a monte da una depressione in parte tettonica in parte erosiva completamente interessata dalle acque. In questa plaga si trovano anzi tutto tre sorgentelle e due stillicidii che impregnano alcuni detriti di falda. La prima di queste sorgentelle assai a monte sul comodo sentiero che conduce a Casignano sgorga quasi sulla via e subito defluisce nel fosso surricordato. Esce da una profonda fessura delle arenarie a destra del torrentello, ha una temperatura di centigradi 11 ed una portata (16 aprile 1902) di Litri 0,60 a minuto secondo. I lavori di presa per questa sorgente non possono essere di grande importanza. Un’ escavazione nella roccia arenacea in posto potrà accogliere in un pozzetto di presa convenientemente murato tutte quante le acque che è capace di dare. i Le altre due sorgentelle, che si trovano un poco più a monte quasi sul limitare del deposito detritico che ingombra, con notevole esten- sione ma poca potenza, la depressione surricordata, sgorgano a pochi metri l’una dall’altra dal detrito di falda, ma lì a poco si vede com- parire la roccia in posto. Si conoscono col nome di fontini di Berci. Le loro acque che, attese le molte perdite, non si possono misurare diretta- mente alle scaturigini, immediatamente si raccolgono nel fosso vicino ed ivi riunite il 16 aprile 1902 davano Litri 2,20 a minuto secondo, ed ai fontini l’acqua aveva una temperatura di 11 centigradi. Poco più a valle, avanti di giungere alla prima sorgentella descritta che sgorga presso la via mulattiera per Secciano, troviamo ai due lati del solito torrente due stillicidii che invadono estesamente i detriti di frana e costituiscono un terreno limaccioso che dà acque da ogni parte. Ben presto queste si riversano nel torrente, il quale dopo averle ricevute 66 G. RISTORI aumenta del doppio la sua portata. La temperatura delle acque stillanti è circa 12 centigradi, ma nel loro percorso per quanto breve, hanno certamente modo di riscaldarsi. È a credere quindi che quest’acque, non possano per le loro proprietà fisiche e chimiche essere in nulla differenti da quelle dei fontini di Berci li prossimi. L’ utilizzare la potenzialità sorgiva di questa zona mi sembra per il caso nostro molto utile ed opportuno, sì perchè con un fosso e trincea di sbarramento possono raccogliersi molte acque con poco dispendio, sì perchè riesce facile e spedito muovere da questo punto un braccio di conduttura che, sviluppato sul comodo sentiero per Secciano, presto raggiunga i pressi di quel villaggio ove pure dovrebbe fare capo la con- duttura principale delle sorgenti di Cafaggiolo e della Vena. Ad ogni modo per non invadere campo non mio, mi affretto al rie- - pilogo delle sorgenti di questo bacino che secondo le esposte conside- razioni potrebbero utilizzarsi. Solo cinque delle nove passate in rassegna mi parrebbero atte a dare incremento vantaggioso alla nostra condut- tura sì per la qualità come per la quantità delle acque. Queste cinque sorgenti oggi hanno in complesso una portata di Litri 4,05 a minuto secondo così distribuita: Temperatura Portata Centigradi Litri a secondo 12. Sorgente sulla via mulattiera per Secciano a destra del torrente . . 11 0, 60 15. Stillicidio e pollino di frana. . . 196 1,00 TR ASRrimosfontimnog dif .erc o 11 susa 14. Secondo fontino di Berci. . . . 11 “al 16. Stillicidio a sinistra del torrente e Pollinogrelativo Reese sane 12 0,25 Totale portata Litri al secondo 4, 05 Tutte le considerazioni che ho svolte, sì nella parte generale, come in questa speciale descrittiva, concordano a farci ritenere questo bacino e le singole sorgenti prescelte in condizioni assai buone, sia per le roccie imbrifere che le alimentano, sia per la loro ubicazione, sia per le spe- ciali caratteristiche tettoniche della limitata zona che le comprende. Ad onta di ciò non possiamo pretendere che la portata odierna, dopo un. Sì piovoso inverno possa mantenersi costante, o poco risentire delle magre, per cui sarà ragionevole ridurre il minimo di portata complessiva da 4 STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECCO. 67 a 2 Litri al minuto secondo. Questa notevole riduzione, in questo bacino e per le sorgenti prescelte è probabile non sia mai raggiunta, molto più che lungo il sentiero per Secciano esistono altre sorgentelle tutte in condizioni d’ubicazione molto opportuna per una facile immissione di esse nella conduttura principale. Ma se questo non bastasse i lavori di presa presso i fontini di Berci ripromettono un aumento di portata non indifferente, che necessariamente influirà e modererà con sensibile van- taggio l'abbassamento di massima magra. Il terzo bacino imbrifero o bacino della Vena e di Cafaggiolo ha carattere più uniforme degli altri fin qui esaminati. Per vastità poco differisce da quello contiguo di Secciano e Casignano ed è al pari di questo limitato lateralmente da due contrafforti perpendicolari alla dire- zione della catena chiantigiana che includono il borro di Pianale e delle Masse che scende a Castelnuovo dei sabbioni. I torrentelli che conver- gono fra il Casino e Maestrino alla quota altimetrica di circa 400 metri si dispongono a ventaglio ed i loro coni erosivi prima interessano pro- fondamente le marne rosee ed i galestri e più a monte le frane dei calcari sereziati e finalmente i calcari medesimi. Si contano ben cinque torren- telli che hanno eroso le roccie fino quasi al culmine di spartiacque; ma specialmente si sono sprofondati nei detriti franosi e nelle marne rosee e galestrine presso il cui contatto con i calcari si notano le mag- giori sorgenti. Queste precipuamente alimentano i torrentelli suindicati e ne rendono incessante la loro azione erosiva. Il carattere litologico della formazione imbrifera più interessante è dato dai calcari screziati e nummolitici, i quali costituiscono tutti quanti i rilievi più a monte lasciando che le marne ed i galestri, su cui evidentemente riposano, si sviluppino solo alla quota di circa 500 metri, mentre essi toccano quella di 756-777-761 a Monte Cafaggiolo, a Monte Pescinale ed a Monte Piano Orlando. Fra i veri e propri calcari screziati ed i galestri si adagia una formazione promiscua di marne rosee e di massi ingenti dei cal- cari medesimi probabilmente franati dall’alto. Questo peculiare giaci- mento, che avrebbe per il suo carattere promiscuo tutta l’apparenza di terreno di frana, in alcune trincee naturali ed artificiali si presenta come stratificato con alternanze successive di marne rosee e di massi di cal- care. Siccome è ormai dimostrato che le marne ed i galestri sono stra- tigraficamente inferiori ai calcari non può implicitamente ammettersi un’alternanza ed una promiscuità senza ricorrere alla plausibile spiega- zione che questi giacimenti abbiano origine relativamente molto antica Sc. Nat. Vol. XIX 5 68 G. RISTORI da estesissime frane e scoscendimenti che interessarono largamente tutta la regione sconvolgendo in parte la successione stratigrafica, le pieghe tettoniche ed orogenetiche, e prendendo da per sè un assettamento speciale che oggi simula una successione ed un’ alternanza estrinseca all’origine ed alla formazione delle singole roccie cronologicamente distinte. Ad ogni modo questi terreni rimpetto al regime sotterraneo delle acque che pos- sono interessarli non hanno da considerarsi come detritici di frana e di falda ma sibbene come roccie in posto che hanno insita quella compattezza e continuità di struttura da esercitare sulle acque che le traversano un'azione filtrante comparabile a quella esercitata dai calcari nelle in- tricate fratture che dicemmo riempite da materiali clastici di decomposi- zione provenienti dalla roccia medesima per l’azione delle acque carbo- nate. Ma neppure in questa regione ed in questo bacino mancano le - formazioni detritiche di frana e di falda, le quali più frantumate e più ’ confusamente disposte nel loro precario assettamento e nei loro ele- menti rocciosi si lasciano troppo facilmente riconoscere. Questi terreni detritici però nel bacino di Cafaggiolo e della Vena prendono sviluppo assai più a valle della zona ove sgorgano le maggiori sorgenti. Ad onta di tutto ciò, mi permetto di ripeterlo, la roccia imbrifera di questo bacino è principalmente rappresentata dai calcari screziati e dalle breccie nummolitiche che vi assumono un notevole sviluppo. Queste for- mazioni che regolarmente si succedono dal basso all’ alto, in senso altimetrico e stratigrafico, hanno varia potenza, maggiore i calcari screziati sottostanti, minore assai le breccie nummolitiche superiori. I banchi del calcare screziato si presentano con inclinazione di 25 gradi a SE. e discordano con le marne rosee e coi galestri che si immergono nella opposta direzione, ma con pendenze che s’avvicinano molto a rad- drizzamenti sulla verticale senza escludere pieghe strette ed anche ribal- tate specialmente ove compaiono le pendenze degli strati molto meno sentite ed invertite nell’orientamento stratigrafico, come può vedersi presso la Vena. La lieve pendenza dei calcari screziati specialmente nella regione più alta e la continuità dei banchi, che appariscono spesso denudati dall’e- rosione, pone in evidenza che questa formazione non è stata così pro- fondamente interessata e sconvolta dai cedimenti e dagli assettamenti della zona marnosa e galestrina sottostante; o per lo meno questi feno- meni ebbero effetti grandiosi e continui solo in tempi assai remoti, . quando si costituirono e si assettarono quei terreni promiscui di cal- STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 69 cari o di marne rosee franiformi di cui già tenemmo parola. Al pre- sente i cedimenti e le frane sono in periodo d’arresto forse determinato dalla stessa formazione pedemontana promiscua che serve alle sopra- stanti roccie come di base e di sostegno. I banchi dei calcari screziati si presentano qui ben poco dislocati e le fratture che li interessano, per quanto numerose ed intricate, pure non sono in generale molto aperte. Ad onta di ciò esistono qua e là delle cavità formate dalle acque carbonate e da esse incrostate, che ci mostrano la costante natura cavernosa e meandriforme di simili formazioni, le quali per quanto profondamente modificate da un complesso di fenomeni intrinseci ed estrinseci alla loro natura, pure sempre mantengono certi caratteri che devonsi tenere presenti dal geologo che studia queste roccie in rapporto all’idrografia sotterranea e dall’idrologo che deve avere di mira le pro- prietà chimiche delle acque. Ad ogni modo richiamo qui una osserva- ‘ zione che ebbi occasione di fare nella parte generale di questo lavoro, quella cioè di usare sempre prudenza somma nella scelta delle sorgenti che provengono da queste roccie, nulla trascurando per assicurarsi in modo assoluto che le acque sorgive non vengano mala mescolarsi e ad inquinarsi per acque superficiali che si aggiungano ad esse per la via di aperte fratture. Le esperienze di colorazione estese ad una zona relati- vamente ristretta a monte delle scaturigini che si vogliono utilizzare, sarà sempre un provvedimento prudente che non dovrebbe essere trascurato. Ed a questo proposito non si obietti che l’analisi chimica e batterio- logica potrebbe, opportunamente ripetuta, indirettamente assicurarci della non esistenza assoluta degli inquinamenti esterni, perchè è ormai dimo- strato dalla esperienza che simile teoria è spesso riuscita fallace ed è stata a volte smentita dalle esperienze medesime che mi è parso in- dispensabile proporre. Il pericolo esiste in astratto, bisogna assicurarsi che in ogni caso possa o meno verificarsi. Il bacino imbrifero della Vena e di Cafaggiolo è provvisto di 7 sor- genti fra cui due molto importanti e degne di diligente studio. Procedendo con ordine topografico la prima di queste sette sorgenti che si riscontrano è quella conosciuta col nome di fontino del Felciaio. Questa sorgentella giace in un’ insenatura erosiva dovuta ad uno dei soliti torrentelli montani e scaturisce da alcune fessure che interessano un banco assai potente di calcare screziato. L’efflusso all’esterno non è riunito, ma la roccia in posto presenta per un estensione frontale di circa 5 metri abbondanti gemitivi che, interessando immediatamente al- 70 G. RISTORI cuni detriti di falda, vanno lì a poco a riunirsi nel torrentello, il quale solo da questo punto scorre con acque perenni più o meno abbondanti. Il 9 aprile 1902 si potè riscontrare una portata, non comprese le note- voli perdite, di Litri 0, 25 con una temperatura di centigradi 10. Le condizioni di carico di questa sorgentella sono in tutto simili a quelle della Vena lì prossima e pochi e facili lavori di presa intenti a remuo- vere i detriti di falda ed a mettere a nudo il più profondamente pos- sibile il calcare screziato che presenta molteplici e diffusi gemitivi, dei quali buona parte se ne perde nelle stesse intricate fratture della roccia imbrifera, ci daranno un certo aumento di portata, che potrà servire a compensare le sensibili diminuzioni probabilissime nelle magre. Fra il fontino del Felciaio e la sorgente della Vena comparisce un tor- rentello di immediata origine con acque sorgive che vi affluiscono dai - calcari screziati, i quali presentano su questa linea molte rotture sempre interessate da numerosi e spesso abbondanti gemitivi. È evidente che questa zona che pure comprende la sorgente della Vena è ricchissima di acque sorgive e forse la potenzialità di questo bacino si smaltisce, per peculiari condizioni geotettoniche e per caratteri fisici delle roccie, prin- cipalmente in questa plaga. Il torrentello dà Litri 0, 25 a minuto secondo ed una temperatura di 12 centigradi. La temperatura però non è cer- tamente quella delle acque sorgive che non possono essere direttamente misurate alla scaturigine. Essa all’efflusso deve trovarsi assai inferiore e non vi è ragione alcuna perchè non sia identica a quella del fontino del Felciaio ed a quella della Vena. Questi stillicidii potranno io credo fa- cilmente essere utilizzati interessando la roccia calcarea con qualche trincea più o meno profonda, la quale potrà svilupparsi in ragione del- l'utilità pratica che potremo giudicare dagli effetti immediati ottenuti dai primi saggi e dalle prime escavazioni. Ed eccoci alla Vena. — Questa sorgente che è da inscriversi fra le principali fluisce da una spaccatura piuttosto ampia che deve profonda- mente interessare i calcari screziati sviluppatissimi in questa regione e spesso contradistinti da fratture e da cavernosità. Il suo efflusso è pros- simo al sentiero che conduce a Cafaggiolo un poco a monte di esso. Quando la visitai fu necessario aprirsi la via fra una folta macchia di spine che la celavano e rendevano oltremodo difficile l’accesso alla vera scaturigine dalla roccia in posto. Superate queste prime difficoltà potei vedere come la sorgente sgorgasse in carico, e l’acqua fluisse dall’alto al basso con una spinta assai notevole. Il fatto ha, secondo me, molta STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 71 importanza per giudicare della vera origine di queste acque sorgive. Non molto a valle nè molto lungi dalla scaturigine affiorano le for- mazioni marnose e galestrine su cui dicemmo appoggiarsi i calcari scre- ziati. La disposizione stratigrafica delle marne rosee e più specialmente quella dei galestri manganesiferi che compaiono poco a valle nel con- trafforte a destra del torrentello del Felciaio è quasi concordante con quella dei calcari screziati stessi e per giunta presenta una lieve inclina- zione. È per tal modo che il piano degli strati marnosi e galestrini tro- vasi nelle più propizie condizioni per fare da piano impermeabile su cui facilmente possono raccogliersi le falde acquifere. D’altro canto i calcari screziati coi loro potenti banchi presentano un’immersione a SSE. di 35 gradi, che deve necessariamente coadiuvare il deflusso delle acque che interessano gl’interstrati e le fratture sul piano suindicato delle marne. Tutto questo concorre efficacemente a rendere ben ricca questa plaga di acque sorgive e bene spiega come accogliendosi masse di acque no- tevoli sul diaframma impermeabile al riposo della roccia imbrifera (cal- cari screziati) e non potendo facilmente per peculiari ragioni e circo- stanze sgorgare all’esterno sulla linea di contatto delle due formazioni surricordate, esse acque risalgono in carica per le fratture stesse dei calcari sovraincombenti e ne escono per quelle medesime all’ esterno. La portata della Vena al 9 aprile 1902 era di Litri 3 a minuto se- condo con una temperatura all’ efflusso di centigradi 10. Questa bassa temperatura che pure tale abbiamo trovato per il fontino del Felciaio depone molto favorevolmente per questa sorgente e per tutte quelle ad essa vicina. Discorda però con la portata di magra che fu dall'ing. Mor- FEO MORFINI, nell’agosto del 1897, trovata di litri uno a minuto secondo. Riferendosi però alle osservazioni ed alle considerazioni idrografiche, che per il modo speciale d’efflusso di questa sorgente credetti rilevare, si può nell’ abbassamento della falda d’acqua, rispondente alla magra estiva, trovare la ragione della notevole riduzione di portata in questa sorgente che in ultima analisi ci rappresenterebbe un sifone in carica alimentato dallo strato acquifero giacente sul piano impermeabile delle roccie mar- nose e galestrine. Allo stato dei fatti non occorrono per questa sorgente lavori speciali di presa, il solo consigliabile sarebbe quello d’abbassarne di alcuni metri il punto d’efflusso per vedere se con questo potessimo ottenere una ca- rica più costante e quindi una magra meno accentuata. Trovo anche superfluo il ritornare sulla questione della ricchezza di queste acque 72 ' G. RISTORI sorgive in sali calcari e sulle loro proprietà incrostanti come pure sui probabili inquinamenti per acque esterne. Di tutto questo tenni parola e ne proposi già le precauzioni da prendersi avanti di dare un giudizio assolutamente inappellabile sul valore di questa sorgente, che oggi giu- dicherei se non ottima certamente buona ed atta a darci notevole in- cremento. A NO. della Vena ed assai più a monte si trovano le sorgenti di Cafaggiolo, le quali escono da quella singolare formazione pedemon- tana di frana che ha riunite e confuse le marne rosee con i calcari scre- ziati rotolati dall’alto. L’assettamento speciale di queste roccie di cui già tenni parola, garantisce sufficientemente dagli inquinamenti dell’ acque superficiali e da quelle freatiche di frana e di falda e pone dette sor- genti nelle migliori condizioni. Oltre a ciò il passaggio delle acque, che evidentemente provengono dai calcari screziati, attraverso alla sudescritta formazione caotica costituita dai detriti delle marne rosee e dei calcari - e più da quelle che da questi, le sottopone ad una seconda filtrazione e ad una decalcificazione così sensibile da togliere ad esse buona parte del Ca CO? disciolto, riducendo questo sale a proporzioni tali che le acque sgorganti all’esterno non lasciano incrostazioni di sorta. In questa plaga è da notarsi un sempre crescente sviluppo delle formazioni galestrine ed una correspettiva riduzione dei calcari screziati, per modo che questa presunta roccia imbrifera quivi presenta una po- tenzialità sorgiva ridotta di fronte a quella della Vena. Le due sorgenti di Cafaggiolo forse riunite al loro primitivo deflusso dalla roccia in posto, entrando nella zona franosa antica, hanno in questa modo di separarsi e sgorgare l’una all’altra vicina forse depauperate di una certa quantità di acque le quali fino sul ciglio del fosso di Pianale interessano i ga- lestri ed i detriti di falda più recenti. Le due sorgenti riunite davano il 9 aprile 1902 Litri 1,67 al minuto secondo, con una temperatura di centigradi 11,5. Alcune escavazioni fatte presso l’efflusso hanno posto in evidenza la singolare natura e di- sposizione del terreno da cui escono le acque sorgive. Un escavazione meglio intesa più sviluppata in profondità ed in superficie, che interessi tutto il terreno di antica frana costituito da un rilievo la cui sezione frontale può misurare circa 50 metri, facilmente riunirebbe tutte le acque sorgive di questa plaga in una sola scaturigine evitando altresì la mag- gior parte delle perdite che ora sono notevolmente diffuse e non facili a . calcolarsi nella loro entità. STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 73 Ad ogni modo dal complesso di queste considerazioni e vista la natura speciale delle roccie imbrifere principali (calcari sereziati) e quella delle secondarie (detritì precipuamente marnosi di antichissime frane nuova- mente ricomposte e rese compatte) le magre a cui potranno essere soggette queste sorgenti non potranno essere con ogni probabilità sensibili quanto quelle della Vena. Presso queste due sorgenti principali da un detrito di falda su cui stanno i terreni a cultura del podere di Cafaggiolo abbiamo uno stillici- dio diffusissimo che probabilmente è da ascriversi a perdite e deviazioni delle sorgenti suddette per cui non mi sembra il caso di parlarne espres- samente. Un ultima sorgiva ci è rappresentata dalla fonte della Giuncaja che giace presso la via mulattiera di Cajano alle falde di Monte Piano-Or- lando (quota 761). Anche queste acque, che sgorgando in senso ascen- dente formano un laghetto, provengono dai calcari del rilievo surricordato. Fluiscono all’esterno in carica, nello stesso modo e per l’identiche ragioni che ebbi occasione di esporre dettagliatamente per la Vena. Le marne rosee ed i galestri che di lì a poco assumono un prevalente sviluppo ap- punto ci rappresentano il piano impermeabile su cui si accoglie la falda aquifera che con ogni probabilità alimenta dal basso all’alto la sorgente. L'ubicazione di questa sorgiva e la sua portata non molto notevole (9 aprile 1902 Litri 0,40 a secondo, temperatura 12 centigradi) mi di- stolgono dal proporla per essere allacciata alla conduttura che dovrebbe iniziarsi alle fonti di Cafaggiolo. Resterà ad ogni modo come riserva non priva d’interesse e sempre atta a dare un non trascurabile incremento essendo le sue condizioni molto simili a quelle che furono poste in evi- denza per le acque della Vena. Le 5 sorgenti che da questo bacino imbrifero potrebbero essere pre- scelte ed utilizzate con notevole vantaggio danno una portata complessiva di litri 5,17 a minuto secondo così distribuita : Temperatura Portata Centigradi Litri a secondo RornimodeleFelciaio: tei 0. . 10 0, 25 Fontanella e stillicidio presso la Vena. 12 0, 25 EATER RSI O RC E DE CAZIANA 10 3, 00 Fonte prima di Cafaggiolo. . . . Mb Fonte seconda di Cafaggiolo . . . LIS ui Portata totale al secondo Litri 5,17 T4 G. RISTORI Questa portata oggi (9 aprile 1902) così notevole deve essere molto ridotta nelle magre, tanto più che la roccia prevalente, in questo bacino, è rappresentata dai calcari screziati e dalle breccie nummolitiche che minutamente esaminai sotto il punto di vista del loro valore imbrifero. Ad ogni modo io credo che si possa sempre calcolare su un minimo di Litri 2 a minuto secondo; giacchè lo sviluppo della conduttura libera da Cafaggiolo a Casignano può darci favorevoli opportunità di facili e spe- diti allacci di sorgentelle secondarie, le quali potranno ad ogni peggiore ipotesi compensare ad usura magre e perdite più sensibili delle previste; per quanto queste siano state calcolate con una riduzione che @ priori avremmo diritto di ritenere eccessiva. Riepilogando finalmente le portate di tutte quante le sorgenti pre- scelte, delle quali eseguimmo le misure il 6, il 9 ed il 16 aprile 1902 queste ci danno un complessivo di Litri 16,11 a minuto secondo che nelle magre estive calcolai ridotto a Litri 7, sembrandomi questa riduzione abbastanza notevole anche in casi eccezionali di prolungate siccità. Ad onta di ciò mi riserbo di ripetere gli esperimenti di misurazione nella secca stagione per procedere con le debite cautele avanti di pronunziarmi definitivamente sulla scelta delle diverse sorgenti che dovrebbero fornire le acque potabili da condursi a Montevarchi. Alla fine di questo studio mi è grato ricordare il dott. Canuto Rrz- ZATTI già R. Commissario di Montevarchi, il quale affidandomelo, mi diede modo d’illustrare sotto il punto di vista idrografico un interes- sante regione che potrà con profitto essere utilizzata. Eguale sentimento di riconoscenza mi fa rammentare il dott. Gru- sePPE PARIGI e l’ing. Morreo MORFINI, che mi furono graditi ed utilis- simi compagni nelle escursioni, coadiuvando con tutti i mezzi l’opera mia e gli studi analitici di campagna che mi convenne di fare. A tutti rendo sentiti ringraziamenti. APPENDICE ee OSSERVAZIONI SULLE ACQUE FREATICHE IN RAPPORTO ALLA NATURA E DISPOSIZIONE DELLE DEPOSIZIONI FLUVIALI DELL'ARNO VALDARNO SUPERIORE La relativa povertà di acque sorgive dei monti che limitano e cin- gono il bacino del Valdarno superiore e la notevole distanza di questi dalla pianura alluvionale dell'Arno, specialmente dovuta all’ interposi- zione delle estese e potenti formazioni plioceniche pedemontane, altre volte fece nascere l’idea di profittare delle acque del sottosuolo onde approvvigionare di acque potabili 1 più popolosi paesi. I comuni pozzi di cui in generale oggi sono provviste le abitazioni di questi paesi non rispondono più all’ esigenze ‘della igiene, giacchè gl’inquinamenti per le sostanze organiche, delle quali è ormai ricchissimo il sottosuolo immediato, troppo influiscono sulla natura delle acque frea- tiche che li alimentano. Queste speciali condizioni in cui ci troviamo nel Valdarno superiore e la tendenza che i profani hanno di generalizzare e di applicare ovun- que i dettami ed i ritrovati della scienza, partendo dal concetto che gli esperimenti e le applicazioni riuscite in una data regione non possano, per analogia, mancare in altre, influirono a diffondere la pratica di ricercare anche da noi le acque potabili per mezzo di trivellazioni artesiane. Ne furono praticate dai Comuni e perfino dalla Società delle ferrovie Adria- tiche. Io stesso interpellato direttamente ed indirettamente ne previdi i resultati pratici, ma indarno ne sconsigliai coscienziosamente l'esecuzione, solo riuscii forse a ridurne il numero, mentre le difficoltà pratiche da una parte ed il dispendio dall’ altra ne limitava lo sviluppo in profondità. Facile profeta, allora predissi che le acque della lama freatica delle alluvioni recenti del fiume Arno potevano in certe speciali località e circostanze riuscire se non ottime discrete come acque potabili. Le più 76 G. RISTORI profonde invece che interessavano le formazioni plioceniche rispondenti a quelle che costituiscono il sistema collinesco pedemontano sarebbero state generalmente ricche di elementi e sostanze organiche vegetali, di sali metallici e terrosi, ed avrebbero contenuto ed anche tenuto sospesi elementi silico-alluminiferi (argille smettiche) in tale quantità da riuscire impotabili per il gusto e per la velata loro trasparenza (acque albule). Inquanto al sollevamento delle acque nel pozzo tubulare questo non po- teva verificarsi, fino a che si traversavano terreni alluvionali e forma- zioni plioceniche, perchè quelli e queste non tenevano acque in carica essendo la loro stratificazione, specialmente a valle, in perfetta orizzonta- lità. Le acque solo sarebbero risalite allorchè avessimo raggiunto le for- mazioni eoceniche (arenarie galestri calcari) che costituiscono l’imbasa- mento delle caotiche plioceniche e si continuano nelle propaggini apen- niniche della catena chiantigiana ed in quella di Pratomagno. A questo intento occorreva una perforazione molto profonda che con larga appros- simazione doveva calcolarsi non minore di 200 metri di profondità nel perimetro occupato dalle alluvioni dell’Arno e solo poteva divenire minore, via via che ci fossimo avvicinati ai monti. Interpellato oggi sullo stesso argomento nulla ho da aggiungere e nulla da togliere a quello che fin d’allora ebbi occasione di manifestare a voce e per iscritto. Ma poichè si desidera sapere ciò che io pensi in tesi generale delle acque freatiche dell’alluvioni del fiume Arno dirò senza reticenze che spesso ho ad esse rivolta la mia attenzione e diligente- mente ne ho seguiti gli esperimenti pratici, i quali mi fu dato di co- noscere e studiare specialmente nei dintorni del mio paese nativo (Fi- gline). Per personale convinzione che mi sono formata in un lasso di tempo assai lungo e per ripetuti esperimenti non sarei punto alieno dall’uso di queste acque come potabili, nè potrei scartarle a priorì come sempre sospette e sospettabili, seguendo le teorie di molti Idrologi ed Igienisti. Le notevoli masse di acque freatiche che si incontrano nel sottosuolo alluvionale del nostro Arno per la loro stessa abbondanza dovrebbero e potrebbero presentare delle garanzie non spregevoli, purchè le condi- zioni peculiari dei giacimenti caotici che le racchiudono non lascino troppo facile passaggio all’inquinazione del soprassuolo e all’influenza delle acque dell’ Arno da una parte e di quelle dei suoi affluenti dall’ altra . Gli esempi di malattie epidemiche che si sono sviluppate in molte città europee che usarono delle acque dei fiumi vicini e di quelle frea- OSSERVAZIONI SULLE ACQUE FREATICHE ECC. 17 tiche soggette all'influenza più o meno diretta delle prime (Vienna, Pa- rigi, Berlino, 1877-1886-1889) sono state troppo frequenti e troppo vi- cine; perchè non si debbano tenere ognora presenti quando si studiano le acque freatiche delle alluvioni fluviali di fronte all’influenza che il fiume può esercitare su quelle nelle piene e nelle magre. Indipendentemente da queste riserve, a me resulterebbe che le acque freatiche della pianura alluvionale intorno a Figline (Valdarno sup.) si presentano ovunque mediocri ed in qualche limitata plaga, se non ottime, buone. L’esame della costituzione peculiare delle formazioni alluvionali in questa località dà ragione sufficiente dell’incostanza riscontrata nella na- tura chimica ed organica delle acque freatiche ed anche delle speciali e propizie condizioni in cui i pozzi di alcune plaghe si trovano. Il piano alluvionale generalmente si presenta costituito da un imbasamento di limo argilloso (stelliccione) che fa da diaframma impermeabile, sì per la sua estensione e continuità, sì per il suo notevole spessore. Su questo sedimento giace uno strato di sabbia grossolana turchiniccia ricca d’ele- menti quarzosi, la quale è appunto interessata totalmente o quasi dalla falda d’acqua freatica che ordinariamente sta alla profondità media di 6 a 7 metri, che in casi speciali salgono a 5 o scendono anche a 12. La lama o falda d’acqua ha in piena un’altezza media di met. 1,80 a 2 che in massima magra difficilmente scende al disotto di met. 0,70. Lo strato sabbioso acquifero è di solito ricoperto da una lente più o meno estesa e potente di limo argilloso sulla quale riposano e si succedono con variabile alternanza banchi di sabbie e ghiaie sabbiose e finalmente il terreno e terriccio vegetale generalmente tenuto a cultura intensiva. Allorchè si pratica in aperta campagna, nel piano alluvionale dell’Arno il più possibile lontano dall’abitato, un pozzo, interessando queste forma- zioni alla distanza di 200 o 300 metri dal fiume e ci imbattiamo, dopo avere traversati i banchi sabbiosi e ghiaiosi, in una lente di limo argilloso molto estesa e potente (la potenza spesso è in rapporto diretto dell’estensione e viceversa), passata questa, troviamo la falda freatica che ci dà sempre acque assai buone, le quali per giunta sono poco o punto influenzate da quelle del fiume, che in questo caso speciale dei sedimenti fluviali si tengono al disopra della lente di limo che fa ad esse da strato imper- meabile o le sottopone a lenta filtrazione. Se al contrario dopo traversati i banchi sabbiosi ed arenacei ci imbattiamo in una lente di limo poco spessa, quindi poco estesa e facilmente permeabile, le acque della lama 78 G. RISTORI acquifera sottostante sono influenzate da quelle del fiume e si presentano incostanti per massa e per proprietà chimiche e spesso inquinate da sostanze nitrogenate. Queste, in modo sommario, le condizioni, saltuaria- mente ed in modo capriccioso, presentate dalla pianura alluvionale dei dintorni di Figline. Le deposizioni fluviali caotiche e clastiche, di qualunque natura, si dispongono, allorchè i fiumi sono liberi nel loro corso, in modo molto irregolare ed anche incostante. Questa irregolarità ed incostanza è il resultato di leggi e di forze idrauliche di trasporto che hanno in fun- zione un numero molto notevole di elementi vari e variabili, i quali de- terminano continuamente mutamenti nell’alveo fluviale e quindi nei de- positi di magra e di piena. Ma non è qui il luogo di teorizzare, il rilievo che deve farsi riguarda solo la costatazione dell’incostanza delle depo- sizioni che possono variare notevolmente da luogo a luogo anche a pic- cole distanze, tanto che le analogie apparenti e superficiali non ci danno modo ad intuire a condizioni simili nel sottosuolo alluvionale di una data zona. Solo l’esperienza edi saggi sono atti a renderci conto delle reali condizioni esistenti nella successione dei depositi alluvionali. Del resto molto indirettamente possiamo formarci un giudizio assai attendibile sulle condizioni del sottosuolo rispetto alle acque freatiche. L°influenza delle acque fluviali esercitata in modo più o meno accentuato sulla lama freatica che alimenta i pozzi di una data località è quella che ci rivela l’esistenza o meno di quello strato impermeabile superiore che esercita un’azione depurativa tanto per le acque che lo raggiungono in senso verticale come su quelle che vi si stendono orizzontalmente pertinenti al fiume o ad una falda acquifera superiore a quella la quale deve sem- pre raggiungersi per avere un pozzo nelle migliori condizioni di resi- stenza e potabilità. I pozzi che più o meno lontani dall’alveo dell’Arno risentono delle piene e delle magre del fiume hanno in generale acque potabili poco costanti per proprietà chimiche e per inquinamenti organici, sieno essi provenienti dal fiume o dal soprassuolo coltivato. Al contrario se questa influenza sarà nulla o poco sensibile e non immediata, ma me- diata per un tempo abbastanza lungo, le acque freatiche di questi pozzi riusciranno all'esame chimico e batteriologico se non ottime buone ab- bastanza, e quindi la plaga da essi occupata adatta per fornire acque discretamente potabili ed assai costanti nelle loro proprietà. Non insisterò ulteriormente su questi fatti di cui l’esperienza mi fece edotto; solo mi permetterò di osservare che è proprio la peculiare OSSERVAZIONI SULLE ACQUE FREATICHE ECC. 18) costituzione del sottosuolo alluvionale che molto bene li spiega. La presenza o l’assenza del diaframma argilloso superiore alla falda acquifera che ordinariamente è da raggiungersi per avere se non altro acqua ab- bondante, è evidentemente condizione essenziale per avere o meno un’acqua discretamente potabile. RICCARDO UGOLINI RESTI DI FOCHE FOSSILI ITALIANE (CON UNA TAVOLA) Studiando lo scheletro quasi completo di foca trovato nelle argille plioceniche di Orciano !), ebbi opportunità di conoscere che alcuni autori avevano ricordato resti di foche di altre località conservati in diversi musei italiani. Mi parve utile di riunire il detto materiale e farne 0g- getto di una breve nota. Alla mia richiesta corrisposero gentilmente i professori DE STEFANI, IsseL e PARONA, respettivamente direttori dei mu- sei di Firenze, Genova e Torino. Il prof. SimoneLLi di Parma, al quale mi ero rivolto per avere quei resti colà esistenti, secondo le indicazioni comunicate dallo StroseL al VAN BENEDEN %), mi rispose che in quelle collezioni paleontologiche, generale e degli anzichè Stati, non esisteva assolutamente nulla. Il prof. Bassani ebbe poi la cortesia di man- darmi in esame alcuni denti molto danneggiati, fra cui quello de- scritto e riferito dal Costa 3) al gen. Phoca, e dal GeRrvaIS 4) ascritto più tardi insieme agli altri al Physodon leccense. Il bellissimo frammento di testa descritto dal Guiscarpi 5) con il nome di Phoca Gaudini, con- 1) UgoLINI R. — Di uno scheletro fossile di Foca trovato ad Orciano (Nota preventiva). Atti Soc. tosc. Sc. Nat., Proc. Verb., vol. XII, pag. 147. Pisa, 1900. IpaM. IZ Monachus albiventer Bonn. del Pliocene di Orciano. Palaeontographia Italica, vol. VIII, pag. 1, tav. I-III. Pisa, 1902. 2) VAN BENEDEN P.-J. — Description des ossements fossiles des environs d’ An- vers. Pinnipédes oa Amphithériens. Ann. du Mus. d’Hist. Nat. de Belgique, tome I, pag. 37. Bruxelles, 1877. 3) Costa 0. G. — Paleontologia del Regno di Napoli, parte I, pag. 12, tav. I, fig. 1. Napoli, 1853. 4) GERVAIS P. — Coup d’oeil sur les mammifères de l Italie. Bull. Soc. géol. de France, tome XXIX, sér. II, pag. 101. Paris, 1872. 5) GuiscarDI G. — Sopra un teschio fossile di Foca. Atti Accad. Sc. Fis .e Mat. di Napoli, vol. V. 1871. RESTI DI FOCHE FOSSILI ITALIANE 81 servato del pari nel Museo di Napoli, data la sua fragilità non potè essermi comunicato. Non potei infine avere in esame i denti provenienti dal calcare miocenico di Lecce che il FLorEs !) citò sotto il nome di Phoca sp. ind. E neppure il bel dente canino di pinnipede che il Simo- NELLI 2) disse di aver veduto, con l’indicazione di Phoca Gaudini GuIsc., nella collezione di fossili della Pianosa che il Museo di Firenze ebbe dal Pisani: dente che egli omise nell’elenco delle specie studiate, perchè in- certo se veramente provenisse dal Pliocene dell’isola e perchè il dente non corrispondeva alla descrizione del GuiscarDI. A tutti i ricordati pro- fessori porgo i miei più sentiti ringraziamenti. Dirò subito che uno degli esemplari esaminati proviene da terreni miocenici ed appartiene, secondo me, alla Phoca Gaudini; gli altri dal Pliocene, e si riferiscono tutti questi al Monachus albiventer. Fa eccezione una vertebra che probabilmente appartiene ad un pinnipede, di genere però incerto. Phoca cfr. Gaudini Guisc. Tav. I [I], fig. 1. 1871. Phoca Gaudini GuiscarpI. Sopra un teschio fossile di foca. Atti Accad. di Sc. Fis. e Mat., vol. V. Napoli. 1895. Palacophoca Gaudini FLores. Catalogo dei mammiferi fossili dell’ Italia meridionale continentale. Atti Accad. Pontan., vol. XXV, pag. 39 (estratto). Napoli. 1897. Pristiphoca occitanica De AressanpRrI. La pietra da Cantoni di Rosi- gnano e di Vignale (Basso Monferrato). Mem. Mus. civ. St. Nat. e Soc. ital. Sc. Nat., vol. VI, fasc. I, pag. 17, tav. I, fig. 1. Milano. Alla specie del GuIscARDI, istituita sulla testa trovata nel terreno probabilmente miocenico di Roccamorice (Chieti), credo riferire il dente canino inferiore sinistro che il DE ALESSANDRI riunì invece con la Pristi- phoca occitanica Gerv. La forma infatti della corona, le dimensioni di questa rispetto a quelle della radice, la presenza di due carene longi- tudinali percorrenti i due margini anteriore e posteriore della corona e i) FLorEs E. — Catalogo dei mammiferi fossili dell Italia meridionale conti- nentale. Atti Accad. Pontan. di Napoli, vol. XXV, pag. 40 (estratto). 1895. ?) SIMONELLI V. — Terreni e fossili dell’isola di Pianosa nel mar Tirreno. Boll. Com. geol. ital., vol. XX, pag. 209, Roma, 1889. 82 R. UGOLINI concorrenti all’apice, ed infine l’aspetto generale del dente, sono altret- tanti caratteri propri del dente canino inferiore della Phoca Gaudini, dal quale diversifica solo per la mancanza della terza carena situata sulla faccia interna in mezzo alle due su ricordate. Non credo però che tale piccola differenza abbia l’importanza di un carattere specifico. DIMENSIONI Lunghezza massima del dente . . ; . mm. 49 Larghezza » » 6 c : î » 15 Lunghezza » della corona . ; c o DINRANT Come si rileva da queste dimensioni la lunghezza della corona è quasi un terzo della lunghezza totale del dente, e non un quinto come forse per inavvertenza disse il DE ALESSANDRI. Il riferimento proposto da questo autore non parmi giustificato, perchè nessuna analogia passa fra il dente in esame e quello delle argille mio- ceniche di Poussan, tra Montpellier e Clermont-l’Hérault, figurato dal GERVAIS (tav. 38, pag. 8), ed al quale fu paragonato. Si noti poi che lo stesso GERVAIS, quantunque parli di questo dente nel capitolo in cui tratta della sua nuova specie: Pristiphoca occitanica, pur nonostante non lo riferisce effettivamente a questa; nella spiegazione poi della tavola 38 lo chiama soltanto Phoca. Devesi finalmente aggiungere che tale dente ed altre parti schele- triche che il GERVAIS considerava come di Phoca, dovrebbero invece se- condo il giudizio di competenti !) riferirsi a Delfinoidi o a Xifioidi. Il dente in esame proviene dal Miocene di Vignale (Basso Monfer- rato) e fa parte della collezione VascHETTI del Museo geologico dell’ Uni- versità di Torino. Monachus albiventer Bonn. Tav. I [I], fig. 2-7. 1785. Phoca albiventer BonpaerT. Elenc. Anim. 1859. Pristiphoca occitana GervaIs. Zoologie et Paltontologie Frangaises, pag. 272, tav. 82, fig. 4 e 4a (non tav. 8 fig. 7, 7a, tav. 20 fig. 5, 6, tav. 38 fig. 8. 1) ALuen J. A. — History of North American Pinnipeds. A Monograpk of the Wabruses, Sea-Lions, Sea-Bears and Seals of North America, pag. 268. Wa- shington, 1880. RESTI DI FOCHE FOSSILI ITALIANE 83 1875. Pristiphoca occitana Law1ev. Dei resti di pesci fossili del Pliocene to- seano. Atti Soc. tosc. Sc. Nat., vol. I, pag. 66. Pisa. 1876. Pristiphoca occitana? LawLev. Nuovi studi sopra è pesci ed altri ver- tebrati fossili delle colline toscane, pag. 103. Firenze. 1877. Pristiphoca occitana Forsyra-Mayor. Considerazioni sulla fauna dei mammiferi pliocenici e postpliocenici della Toscana. Atti Soc. tosc. Sc. Nat., vol. I, pag. 239. Pisa. 1893. Pristiphoca occitanica Zirter. Handbuch der Palaeontologie. Parte I, Palaeoxoologie, vol. IV, pag. 683. Miinchen u. Leipzig. 1893. Phoca sp. Zisren. Ibidem, pag. 684. Miinchen u. Leipzig. 1902. Monachus albiventer UGoLInI. Il Monachus albiventer Bonn. del Pliocene di Orciano. Palacontographia Italica, vol. VIII, pag. 1-20 tav. I-II. Pisa. Le parti scheletriche che riferisco a questa specie provengono da terreni pliocenici della Toscana. Esse furono raccolte, insieme ad altri resti consimili ora dispersi, per la prima volta dal LawLEY, che ne parlò, sino dal 1875, in due lavori già citati, ed appartengono a tre località diverse, e cioè: vicinanze delle Saline nel Volterrano, Orciano nelle colline pi- sane, e dintorni di Volterra stessa. Saline. — Sono delle Saline due denti canini inferiori isolati ed un bellissimo esemplare di mandibola (fig. 2 a, 26) appartenenti ri- spettivamente a due diversi individui e di età evidentemente assai avan- zata. I denti isolati mancano quasi totalmente di corona; però dall’e- same della forma generale della radice fu facile di determinare la specie alla quale sono stati riferiti. La mandibola poi consiste di ambedue i rami separati. La porzione superiore della branca quadrilatera manca in tutti e due; invece sono ben conservate tanto la sinfisi, quanto la re- gione occupata dai denti. Il corpo di ciascun ramo è robusto, più spesso in prossimità della sinfisi, più sottile nella regione opposta. La sinfisi è relativamente breve, ma ben delineata e distinta da tutto il resto del corpo mandibolare. Dei denti alcuni, gli /, mancano affatto e tutti gli altri, eccetto il C di sinistra che è quasi completo, sono mal conservati e privi della corona; le loro radici trovansi però ancora saldamente impiantate nei respettivi alveoli ed in posizione caratteristicamente serrata ed obliqua. Ciò che permise di riconoscere la forma uniradiculata dei Pm! e quella biradiculata dei successivi e quindi il gruppo cui doveva con sicurezza venir riferito l’esemplare in esame. Il C di sinistra è robusto e prov- Se. Nat. Vol. XIX er 84 R. UGOLINI visto di una corona così profondamente consumata che dello smalto non vi è rimasta più alcuna traccia. i Le dimensioni principali del ramo mandibolare sinistro sono le seguenti : Lunghezza . : ì 4 " 7 i . mm. 184 Spessore massimo al principio della sinfisi . 7 » 120 Altezza massima a metà circa della lunghezza . » 28 Lunghezza della sinfisi . 3 : - ì 5 DIE Spessore della radice del C' sinistro . ; ; po Lil Lunghezza della corona dello stesso . 5 7 duale Dall’insieme dei suddetti caratteri si riconobbe dunque trattarsi di una specie del gen. Monachus, e del M. albiventer, di cui già un bell’esem- plare proveniente dal giacimento pliocenico di Orciano fu da me recen- - temente descritto. Si potè inoltre a un dipresso calcolare che la statura ‘ di questo individuo dové raggiungere non meno di due metri e mezzo circa di lunghezza. Questi esemplari appartengono attualmente al Museo geologico di Firenze al quale furono donati molti anni or sono dal LAawLEy. Orciano. — Provengono da questo giacimento, ormai già noto per la varietà dei suoi vertebrati marini, vari resti scheletrici di foca, e cioè alcuni denti ed un frammento di mandibola, appartenenti a tre individui evidentemente differenti per età e statura. Ad uno di questi si riferiscono certamente il dente incisivo perfettamente conservato, ed il molare incompleto che ora descriverò. L’incisivo è piccolo, ha la radice relativamente robusta, rigonfia presso al colletto, acuminata ed un po’ ricurva a guisa di uncino all’estremità inferiore, e la corona piuttosto sottile, rivestita di uno smalto legger- mente e fittamente rugoso, provvista di tre cuspidi di cui quelle laterali piccolissime, posteriormente riunentisi in un rilievo cerciniforme assai accentuato ed avente una lunghezza uguale ad un terzo circa. della lun- ghezza totale del dente. Il molare manca quasi totalmente delle radici ; ha però la corona quasi perfettamente conservata, formata anch’ essa da tre cuspidi ricoperte di smalto non consumato, carenate, rugose, di cui la mediana, più sviluppata delle altre due e ricurva un po’ in dentro, e le due laterali, più piccole, riunentisi caratteristicamente sulla faccia in- terna della corona a formare il solito rilievo cerciniforme assai promi- nente. Tali caratteri, che negli individui adulti specialmente divengono - ancora più accentuati, concordano pienamente con quelli dei denti con- RESTI DI FOCHE FOSSILI ITALIANE 85 simili del Monachus albiventer, ed a questa specie vennero perciò riferiti, ritenendosi che essi abbiano appartenuto ad un individuo molto giovane, come ne attestano lo smalto perfettamente conservato e le dimensioni loro qui appresso indicate : Incisivo Molare Lunghezza massima del dente . 5 . mm. 10 mm. ? Spessore massimo } È c " 0 » 5 ER Altezza della corona . ) : ò o DINO DIRLO, Larghezza » . : 3 : ; di 18) DAME, Spessore » c . o o . DIS » 8 Se poi questi denti facessero parte della mascella superiore o piut- tosto della mandibola non si potè con sicurezza determinare. Va riferito ad un altro individuo della stessa specie un dente molare isolato che, sebbene si trovasse in collezione confuso coi due precedenti, va da essi certamente separato a causa del diverso grado di sviluppo. Esso manca della radice anteriore e di una parte della posteriore, e deve molto probabilmente avere appartenuto al lato sinistro della mascella superiore. La corona è conservata per intiero, distintamente tricuspidata, carenata, rugosa, nettamente separata dal principio della radice per un solco abbastanza pronunziato, fornita dal lato interno di cercine, e prov- vista insomma di tutti quei caratteri, niuno eccettuato, che sono propri dei molari del Monachus albiventer. A questo perciò l’abbiamo riferito, tanto più che la porzione di radice che ancora si conserva non presenta caratteri diversi da quelli propri delle radici dei molari della specie suc- citata. Le dimensioni relative alla corona di questo dente sono le seguenti: Altezza massima . 7 ; - 5 b pai 6) Larghezza » 0 : 0 . . 5 c » d11 Spessore massimo . È 5 ; ; 5 ; DINANS L’usura abbastanza accentuata del dente in esame, ci indica inoltre che esso dovette avere appartenuto ad un individuo già adulto. Il frammento di mandibola più sopra ricordata (fig. 3) appartiene al terzo individuo. Esso presenta le seguenti dimensioni: Lunghezza massima . : . . ; o Sinn TAL Altezza » o . ò , 5 5 » 32 Spessore massimo : , 6 7 ; } o 10 Massimo diametro dei due alveoli dentari di un medesimo dente presi insieme ; . : » 15 Profondità media di ciascun alveolo . È , SILA: 86 R. UGOLINI Tale frammento che appartiene al lato destro rappresenta quella por- zione della branca mandibolare che è compresa fra la metà circa della sinfisi e l’alveolo posteriore del M?. Dei denti nessuna traccia; si può tuttavia dalla forma, dalle dimensioni e dalla disposizione caratteristica degli alveoli, a un dipresso desumere la forma e lo sviluppo all’in- circa da quelli posseduto. Gli alveoli presenti sono in un numero di otto, larghi, profondi e corrispondenti rispettivamente alle radici del Pm? e Pm3, ed a quelle del M* e del M?; è da notarsi che l’alveolo posteriore del M? è ancora riempito dalla rispettiva radice. È superfiuo di osser- vare inoltre che i pochi caratteri di tale frammento sono perfettamente simili a quelli che già abbiamo avuto occasione di riscontrare nella branca mandibolare destra della foca delle Saline testè descritta: carat- teri che sono propri della specie MM. albwwenter, più volte ricordata. Si è potuto calcolare che l’intero ramo mandibolare dell’individuo in esame raggiunse non meno di 22 centimetri di lunghezza, e che la statura del- l’animale fu di poco inferiore alla lunghezza di due metri e mezzo circa, vale a dire molto prossima a quella della foca delle Saline. Volterra. — Appartengono alla stesa specie un certo numero di ossa provenienti dai dintorni di Volterra. Di queste, parte sono inerenti alla testa, e parte agli arti anteriori e posteriori di due individui di dif- ferente età, come attestano il loro diverso grado di sviluppo. Le ossa appartenenti all’ individuo più vecchio sono in maggior nu- mero, ma così danneggiate e mal ridotte che a poche soltanto di esse fu possibile di assegnare un posto sicuro nella serie scheletrica dell’a- nimale. Tali sono: a) Una porzione considerevole della faccia, contenente parte delle ossa frontali, l’origine delle nasali, ed un frammento del mascel- lare destro (fig. 4). © 5) Due pezzi della cresta occipitale ed uno molto piccolo della sutura sagittale dei parietali. c) Un Pm!, da ascriversi con molta probabilità al lato destro della mascella inferiore. d) Le radici di due C superiori. Quelle tra di esse che più c’interessano e di cui maggiormente ci oc- cuperemo sono per altro il frammento facciale, primo ricordato, ed i denti. Il frammento facciale ha una lunghezza di 11 centimetri e mezzo ed una larghezza minima di 38 millimetri circa, misurata in corrispon- denza della origine dei nasali. Le suture, in gran parte obliterate e RESTI DI FOCHE FOSSILI ITALIANE 87 perciò anche difficilmente riconoscibili, ci danno prova sufficiente della non giovane età dell'individuo, ed il loro andamento, unitamente alla speciale conformazione delle ossa che sono delimitate da queste suture, ci fanno maggiormente certi della esattezza del nostro riferimento; ciò che meglio potrà vedersi mediante un accurato esame dei denti posseduti. L’unico Pm! conservato appartiene, come dicemmo, al ramo mandi- bolare destro, e misura una lunghezza totale di 19 millimetri, dei quali non meno di 15 appartengono alla radice: ciò per la ragione che la corona è talmente corrosa in tutti i sensi, che dello smalto che la ri- vestiva non vi è rimasto più traccia. La radice è grossa, fortemente ricurva in dietro, compressa sui lati ed avente un diametro antero-po- steriore di 10 millimetri ed un diametro trasverso di 7. Le dimensioni adunque di questo dente, e la corrosione da esso subita per l’uso, con- fermano ancora trattarsi di un individuo già abbastanza adulto, ciò che avemmo occasione di osservare testè: la sua speciale conformazione ed i caratteri della radice, simili perfettamente a quelli dei Pm del IMona- chus albiventer, servono poi ad avvalorare maggiormente l’esattezza della determinazione. Gli altri due denti, che rappresentano rispettivamente l’ uno il de- stro e l’altro il sinistro della mascella superiore, mancano quasi com- pletamente di corona. Ma osservando accuratamente quest’ultimo non è difficile di riconoscervi le traccie del colletto ed una piccolissima por- zione di corona priva affatto di smalto. DIMENSIONI 5 Diametro Diametro Lunghezza antero-posteriore trasverso Frammento del C destro mm. 33 mm. 18 mm. 14 » » sinistro » 38 » 18 » 14 È ovvio di avvertire che la differenza in lunghezza di tali due fram- menti non sta a rappresentare altro che il pezzetto di corona ancora superstite nel C' sinistro. Ed inoltre che l’aspetto particolarmente tozzo e robusto delle due radici e la forma spiccatamente arrotondata delle loro estremità inferiori stanno a dimostrare che essi appartennero alla mascella superiore di un individuo già abbastanza avanzato di età e di statura non certo superiore alla lunghezza di due metri e mezzo circa. Le ossa appartenenti all’ individuo più giovane consistono: dello scafoide del carpo sinistro (fig. 5), dell’astragalo incompleto del del medesimo lato (fig. 6), dello scafoide (fig. 7) e dei tre cuneiformi 88 R. UGOLINI del tarso destro, e di varie falangi ridotte in frammenti più o meno indecifrabili. Qui appresso sono indicate le dimensioni di alcune fra le più im- portanti di esse. DIMENSIONI ‘ Massimo diametro antero-posteriore . È . mm. 18 Scafoide carpiano » » trasverso . o o 7 c x7029 Altezza massima . 6 5 ; ò : ; 0 ir Lunghezza massima del frammento . 3 È DETRI Larghezza » » ; : . » 32 Spessore massimo » ; 3 3 DST, Astragalo . Di San Line int ; iametro longitudinale del condilo di articolazione con la tibia ed il perone - o . È » 18 Diametro trasverso dello stesso . . : È PINMNZO Diametro antero-posteriore esterno ò c : DIRSI » » interno : 5 0 » 20 Scafoide tarsiano » trasverso : ; 3 . ; - » 26 Altezza massima . ò 0 5 ò : È » 24 » minima . ò c o . o o » 9 Dai confronti istituiti con le ossa corrispondenti del Monachus al- biventer, si potè stabilire la perfetta somiglianza esistente tra di esse e quelle in esame, così per l’aspetto generale come per la qualità e pel numero dei caratteri loro propri. Siamo perciò in grado di ritenere suf- ficientemente esatto il riferimento di questi residui alla specie tipica vivente, ed aggiungiamo che l'individuo in questione, oltre all’ essere giovane, siccome dalle succitate dimensioni anche risulta, raggiunse una statura relativamente assai piccola e tale da non oltrepassare la lun- ghezza di un metro e mezzo circa. Come gli esemplari delle Saline, anche quelli di Orciano descritti, e questi dei dintorni di Volterra si conservano nel Museo geologico di Firenze. Phoca ? sp. ind. Tav. I [I], fig. 8. Già da qualche tempo nelle marne plioceniche di Savona fu rinve- nuta, insieme a diversi altri tipi di animali, una vertebra caudale di un pinnipede che IsseL e SQuINABOL !) credettero di riferire dubitativamente 1) A. IsseL e S. SQquinaBoL. — Sui fossili pliocenici di Savona. Boll. Soc. geol. it., vol. VI, pag. 455. Roma, 1887, e RESTO DI FOCHE FOSSILI ITALIANE 89 ad una specie del gen. Phoca. Avendo io, per gentilezza del prof. IssEL, potuto esaminare accuratamente il detto fossile, sono in grado di dire che essa presenta ben poca somiglianza con le vertebre caudali dei pinnipedi della famiglia delle foche, e che per lo stato imperfetto di conservazione in cui la detta vertebra si trova non potè farsi alcun con- fronto utile per riconoscere a qual gruppo dell’ordine possa essa con qualche probabilità di esattezza appartenere. Solo può dirsi che questa vertebra ha appena manifesti i rudimenti delle apofisi, è di piccole di- mensioni ed ha le epifisi incompletamente fuse con il corpo vertebrale ; ciò che permise di determinare la giovane età dell’ individuo. Si conserva nel Museo geologico dell’ Università di Genova. Pisa, Museo geologico, Agosto 1902. Fic. 1. » 5-1. SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA I [I] Phoca Gaudini Guisc., dente canino inferiore sinistro veduto dalla parte esterna; Miocene di Vignale (Basso Monferrato) — Colle- zione VascARTTI del Museo geologico di Torino, — pag. 4. Monachus albiventer Bopp., mandibola; @)ramo sinistro; 6) ramo destro; Pliocene delle Saline (Pisa) —- Collezione LawLEY del Museo geologico di Firenze, — pag. 6. Idem, frammento di ramo mandibolare destro di un altro indi- viduo; Pliocene di Orciano (Pisa) — Collezione idem, — pag. 8. Idem, frammento facciale della testa di un altro individuo mo- strante parte delle ossa frontali, delle nasali e del mascel- lare destro; Pliocene di Volterra — Collezione idem, — pag. 9. ldem, ossa carpiane e tarsiane di un altro individuo: 5) sca- foide del carpo sinistro; 6) astragalo sinistro incompleto; 7} scafoide del tarso destro; Pliocene di Volterra — Collezione idem, — pag. 10. Phoca? sp. ind. — Vertebra caudale incompleta veduta dal lato sinistro; Pliocene di Savona — Collezione del Museo geologico di Genova, — pag. ll. (Eccetto le fig. 2a e 25, che sono impiccolite di 1/7, tutte le altre sono in grandezza naturale). Laboratorio di farmacologia sperimentale dell’ Università di Camerino DIRETTO DAL PROF. BENEDICENTI _____=î PROF. DOMENICO FILIPPI VICE-DIRETTORE DELL'ORTO BOTANICO L'AZIONE DEGLI ANESTETICI SULLA TRASPIRAZIONE DEI VEGBTALI Non è argomento nuovo quello dell’azione degli anestetici sulla tra- spirazione dei vegetali; è argomento però tuttora discusso e sul quale fisiologi e botanici non hanno ancor detto l’ultima parola. Consigliato dal prof. BENEDICENTI io ho ripreso a studiare questo problema, a ciò indotto anche dalla lettura di due recenti lavori che riguardano l’anestesia dei vegetali. Il primo è un lavoro del Drxon *) il quale cominciò col dimostrare che la traspirazione nei vegetali non è dovuta alla pura capillarità, ma è veramente un fenomeno vitale. Collocò un ramo, munito di foglie, in una soluzione acquosa di eosina, poi saturò di vapor d’acqua la cam- pana sotto la quale il ramo era posto e vide ugualmente ascendere fino alle foglie la soluzione colorata. In un’ atmosfera di ossigeno osservò che il ramo traspirava come 135,8, nell’aria come 100, nell’acido car- bonico come 87,3, nell'atmosfera carica d’etere come 82,3 e in quella carica di vapori di cloroformio come 66,4. Una gran parte di queste differenze venne ascritta dal Dixon alla minore o maggior rapidità colla. quale può il vapore acqueo diffondersi nell’aria comune o in ambienti fatti d’altri gas o saturi di altri vapori. Egli evaporò dell’acqua nell’aria comune e in altre atmosfere e ottenne valori assai differenti fra loro, ma concordanti tuttavia con quelli che indicherebbero la traspirazione dei vege- tali nei differenti ambienti. L'acqua evaporò nell’ossigeno nella propor- zione di 104, nell’aria come 100, nell’acido carbonico come 89, nell’etere come 81 e nel cloroformio come 59. La differente azione attribuita alle diverse sostanze anestetiche sulla traspirazione sarebbe poi anche da ascri- 1) Drxon. — Proced. of the Roy. Irish Society. Ser. III, vol. IV, 1898. Sc, Nat. Vol. XIX x 92 D. FILIPPI vere, in parte almeno, ad una seconda causa d’errore e cioè alla maggiore 0 minore rapidità colla quale le diverse sostanze penetrano nei tessuti vege- tali. Infatti avendo le differenti sostanze sperimentate un diverso peso spe- cifico è impossibile, secondo il Drxon, che tutte penetrino nei tessuti colla stessa rapidità e facciano sentire sul vegetale nello stesso tempo e colla stessa intensità la loro azione. Con altre esperienze il Dixon venne inoltre a concludere che, come l’etere e il cloroformio, così rallentano la tra- spirazione anche gli olii essenziali ai quali, come è noto, già compete l’ufficio di difendere la pianta dalla soverchia temperatura: l’ essenza di Arthemisia absinthium rallenterebbe notevolmente, a quanto egli dice, la traspirazione della Syringa e del Cytisus. L'altro lavoro, cui ho testè accennato, è dovuto al KosArorr ') il quale più specialmente studiò l’assorbimento acqueo e la traspirazione nei rami - delle piante durante l'inverno, quando cioè essi sono completamente sprovvisti di foglie. Im un vaso cilindrico, della capacità di 200 cm?, introdusse un ramo. Questo ramoscello veniva reciso sott'acqua e la su- perficie di sezione era mantenuta immersa impedendo che venisse co- munque in contatto dell’aria. Il cilindro era chiuso ermeticamente da un tappo munito d’un foro pel quale il ramo passava, e alla base, per mezzo di una tubulatura laterale, era poi unito ad un lungo tubo ca- pillare disposto verticalmente e graduato. Il livello del liquido discendeva in questo tubo man mano che la pianta assorbiva e la discesa era tanto più rapida quanto più attivo era l’assorbimento. Kosarorr determinò quantitativamente 1° acqua traspirata dal ramoscello pesando il vaso e, per maggior costanza nelle sue osservazioni, sperimentò dalle 9 !/, alle 12 del mattino e dalle 2 alle 4 di sera, periodi in cui la traspirazione è meno variabile. Per rami di Prunus la quantità di acqua traspirata dalle 9 alle 5 fu di gr. 1,8 (8 ore) e dalle 5 alle 9 del mattino fu di gr. 3,1 (16 ore) vale a dire che l'oscurità modificherebbe ben poco la traspirazione dei rami privi di foglie. Le soluzioni molto concentrate di alcool, al 25°/, di etere al 20°/,, e l’acqua carica di acido carbonico diminuirebbero l’assorbimento dell’acqua nei rami sfogliati, ma vivi. Il sublimato alla dose di 0,1-0,2-0,5°/o rimane senza effetto; dosi più forti di 1-2-4-8°/, aumenterebbero l’assorbimento dell’acqua e la traspirazione. Nei rami secchi e morti di Persica, Morus, Prunus ecc. queste sostanze 1) Kosarorr. — Wasseraufnahme der Pfanzen. Beiheft d. Botan. Cen- tralblatt, Bd. XI, Heft. 2. L'AZIONE DEGLI ANESTETICI SULLA TRASPIRAZIONE DEI VEGETALI 93 rimangono tutte senza alcun effetto. Anche la temperatura bassa che deprime e l'elevata che attiva la traspirazione rimangono senza effetto alcuno sul ramo privo di vita. La tecnica usata in questi lavori è così imperfetta, le dosi delle so- stanze adoperate sono talmente enormi che difficilmente le conclusioni alle quali questi autori sono giunti possono essere del tutto attendibili. Di più, in queste esperienze, come in quelle fatte da altri autori, la traspirazione è confusa coll’assorbimento dell’acqua, cose queste che non sono del tutto fra loro identiche. Un’ altra causa d’ errore si ha pure in ciò che le esperienze furono fatte su rami staccati dalle piante e in condizioni fisiologiche non del tutto normali. In simile errore cadde anche il JomeLLE !) al quale si devono numerosi e interessanti esperimenti sulla traspirazione. Egli ammise la traspirazione clorofilliana sostenuta dal WIESNER e, guidato da questo concetto, venne alla conclusione che ogniqualvolta i raggi luminosi non possono essere utilizzati dalla cloro- filla per l’assimilazione, essi vanno ad aumentare l’altra funzione cloro- filliana, cioè la traspirazione. In questo caso i raggi luminosi trasformati in calore aumentano la tensione del vapor d’acqua, e la traspirazione necessariamente s’accresce. Questa sua conclusione JUMELLE crede legit- timata dal risultato di alcune esperienze fatte sugli anestetici. L’etere che ritarda i fenomeni assimilatori aumenta la traspirazione, ma sola- mente se la pianta è alla luce, poichè la diminuisce all’oscurità. Il primo risultato si spiegherebbe coi concetti sopra ricordati; in quanto alla di- minuzione data dall’ etere all’oscuro, JUMELLE non tenta di trovarne la ragione. La teoria della traspirazione clorofilliana difesa precipuamente dal WiesNER ?) ha trovato, come è noto, molti oppositori. Fra questi ram- menterò solamente il PrinesHEIm 5) e il KorHt *) i quali, insieme a pa- recchi altri autori, ammettono che l'influenza della clorofilla sia pura- mente meccanica, destinata cioè a funzionare quale schermo protettore dei plastidi contro certi determinati raggi della luce solare. Per tutti costoro le esperienze del JUMELLE avevano sapore di cose poco atten- ') JumeLLE. — Revue générale de Botanique. N.° 1, 1889; N.° 22, 1890; N.° 31, 1891. ?) WIesNnER. — Annales des Sciences naturell., 1876 e Ber. der deutsch. bot. Gesellsch. 2. 1891. °) PRINGSHEIM. — Lichtwirkung und Olorophylifunetion. 1881, 4) KoHL, — Die Transpiration der Pflanzen. 1886, I 94 D. FILIPPI dibili ed esatte cosicchè non mancarono coloro che si incaricassero di ripetere le sue esperienze e di sottoporle a rigoroso controllo. Lo ScHNEIDER !) pubblicò in proposito recentemente un accurato lavoro e colle sue esperienze venne a conclusioni opposte a quelle del JUMELLE. Egli, a differenza di quest’ultimo, sperimentò su pianticelle intere ser- vendosi di un apparecchio ideato dal KogL e adoperando, di solito, pic- coli esemplari di Solanum tuberosum. Egli pure stabilì l'intensità della traspirazione dalla quantità di acqua assorbita nell’unità di tempo dal vegetale il quale era ricoperto da una campana entro cui si faceva circo- lare lentamente dell’aria secca. Per studiare l’azione dell’etere, del cloro- formio, del nitrito d’ amilo lo ScaNEIDER imbeveva un batufolo di cotone nell’una o nell’ altra di queste sostanze e le lasciava liberamente eva- porare sotto alla campana; in breve l’ambiente diveniva saturo di va-- pori così che sovente le foglie della pianta ne soffrivano gravemente. Egli venne tuttavia alla conclusione che la quantità di anestetico usata non modifica notevolmente l’intensità della azione: le quantità minime richiedono un tempo più lungo per agire, ma in ultima analisi giungono allo stesso effetto. Però siccome l’aria continuava a circolare nella cam- pana queste diverse quantità di anestetico adoperato non potevano evi- dentemente essere calcolate che con approssimazione. Dagli esperimenti fatti sui Solanum, come da altri fatti su pianticelle di Fuchsia e di Gera- nium SCHNEIDER venne alla conclusione che gli anestetici rallentano la traspirazione tanto alla luce come all’oscurità. Le variazioni della tem- peratura, l’infuenza dei diversi raggi dello spettro solare, le condizioni di maggiore o minor saturazione della atmosfera con vapor acqueo non modificano l’azione degli anestetici sulla traspirazione dei vegetali. L’etere (e come questo tutti gli anestetici in genere) ritarda la traspirazione e l'assimilazione paralizzando l’azione del protoplasma. L’aumento trovato dal JUMELLE è, secondo lo SCHNEIDER, spiegabile con ciò che gli aneste- tici possono talora alterare i tessuti vegetali profondamente per modo che non si ha più a che fare colla funzione di traspirazione, ma con un fenomeno puramente fisico di evaporazione. La traspirazione non es- sendo funzione clorofilliana viene dall’etere arrestata o rallentata in tutte le condizioni possibili. Ma, a rendere più complesso lo studio delia traspirazione, compar- 1) SCHNPIDER. — Influence of anaesthetics on plant transpiration. Botanical Gazette, N.° 2. 1893. L'AZIONE DEGLI ANESTETICI SULLA TRASPIRAZIONE DEI VEGETALI 95 vero in questi ultimi anni, oltre a quelli già ricordati, parecchi altri lavori i quali, o direttamente o incidentalmente, dimostrarono come que- sta funzione possa facilmente essere modificata da un numero svariatis- simo di fattori. WiLLms !) che si occupò delle condizioni che possono favorire la cultura delle patate, notò che la quantità di liquido conte- nuta nel suolo può di molto favorire la traspirazione rendendo più com- pleta e facile l'apertura degli stomi. Vide inoltre che non tutte le foglie di un vegetale traspirano nello stesso modo: le foglie più basse della patata traspirano per esempio molto meno delle foglie più elevate. SEELHORST *) studiò il rapporto che passa fra la ricchezza delle sostanze nutritive contenute nel suolo e l’assorbimento dell’acqua da parte del vegetale, e vide che questo è inversamente proporzionale alla quantità di sostanze nutritive disponibili. BònM *) si occupò più specialmente della traspirazione delle gemme appena sbocciate, e concluse che questa funzione è rallentata dal nitrato potassico, dall’acido ossalico e dal su- blimato corrosivo. OLIVER 4) che studiò in un lavoro interessante l’azione dei componenti del fumo sulla vegetazione, vide che anche l'anidride solforosa può modificare la traspirazione, rallentandola enormemente an- che a dosi relativamente piccole. _ Taccio poi di tutti i lavori che riguardano l’azione della luce solare, della temperatura, dell'umidità atmosferica e di tante altre condizioni sull’importante funzione della traspirazione, come pure di quelli che ebbero più specialmente di mira lo studio delle variazioni diurne che sì constatano nella traspirazione. Che le piante non traspirino ugualmente di giorno e di notte è cosa nota già da tempo, ma dati assolutamente esatti in proposito non si hanno ancora, per quanto io ne sappia. HartIe °) già fino dal 1863 stu- diando gli apici dei rami constatò che essi traspiravano diversamente nelle diverse ore del giorno, cioè la traspirazione andava aumentando dalle prime ore del mattino fin verso mezzogiorno per diminuire poi col venir della sera. KnoP *) sperimentò su rami di Corylus, immersi in un cilindro ripieno d’acqua, che pesava con intervalli di tempo dai 10 ai 70 1) WiLLms. — Dissertazione di Jena. 8°, 46 pp. Merseburg, 1899. ?) SeeLHORsT. — Journal f. Landwirtsch. XLVII. Heft. 4. pag. 369-78. 3) B6HM. — Bericht. d. deutsch. botanisch. Gesellsch. X. 1892. 4) OLiver. — Journal of the Horticoltur. Soey. XVI. 5) HarTIG. — Botanisch. Zeitung. pag. 261. 1863. 6) Knop, — Landwirtschaft. Versuchsstation, VI. 1864. 96 D. FILIPPI minuti e venne alla stessa conclusione, cui giunsero pure con simili metodi EDpER !), WIESNER e PACHER ?), BùRGERSTEIN *) e molti altri. Il KosAROFF, nel lavoro che già ho ricordato, ha pure determinato ogni mezz’ora la traspirazione del ramo privo di foglie e, sperimentando nei periodi di tempo dalle 9 !/, alle 12 e dalle 2 alle 4, la trovò costante nei diversi intervalli sia che il cielo fosse sereno o nuvoloso sia che la tempera- tura fosse mite o cadesse abbondante la neve. Egli sperimentò sotto una tettoia in aperta campagna e i suoi risultati sotto questo punto di vista sarebbero più interessanti se prendessero a considerare anche i_ rami muniti di foglie. Volendo ora studiare con metodi il più possibilmente precisi l’azione degli anestetici sulle piante, dal punto di vista della traspirazione, non si può far a meno di tener presente la somma facilità colla quale questa - funzione può da un momento all’altro modificarsi e conviene prima di’ tutto formarsi un’idea esatta della funzione fisiologica normale per stu- diarne le alterazioni che gli anestetici vi possono apportare. Per tale ragione io mi sono prima di tutto preoccupato di determinare esatta- mente la curva della traspirazione, e i mutamenti che vi si presentano per una oscurità di breve durata o per la continua oscurità della notte. Ho studiato poi l’azione dell’acido carbonico e dell’ etere a dosi minime, a dosi elevate e continue e a dosi refratte riserbando ad una prossima memoria lo studio interessante dei rapporti che passano fra la costi- tuzione chimica di alcuni anestetici, ancor poco noti, e la loro azione sulla traspirazione. L'apparecchio del quale mi sono servito nelle mie esperienze è rap- presentato nella figura 12. Esso consta di un pallone A a triplice tubu- latura. La tubulatura più ampia 5, che rappresenta il collo del pallone, è chiusa da un tappo a due fori. Uno di questi è traversato da un tubo di vetro che serve all’adduzione dell’aria destinata a circolare nel pal- lone, l’altro permette il passaggio di un ramo che deve essere intro- dotto nel pallone e sul quale si vuole sperimentare. Delle altre due tu- bulature più piccole e laterali una C serve all’ uscita dell’aria, l’altra D all'introduzione di un termometro per determinare la temperatura nello interno del pallone. L'aria che vi giunge è misurata in un contatore E e 1) Eppr. — Sitzungsber. Kaiser. Akademie. Wien, 1875. 2) WIESNER e PACHER. — Osterreich. botan. Zeitsechr. Jahrg. XXV. Heft. V. 3) BURGERSTRIN, — Osterreich, botan, Zeitschr. Jahrg. XXV. Heft. VI, 1875. L'AZIONE DEGLI ANESTETICI SULLA TRASPIRAZIONE DEI VEGETALI 97 quindi seccata nella boccia di lavaggio 7 contenente acido solforico con- centrato. Allorquando si voglia sottoporre il vegetale all’azione di un ane- stetico questo viene versato nella boccia G; la corrente d’aria lo fa eva- porare; i vapori sono poco alla volta condotti nel pallone ed escono poi, commisti coll’aria, all’esterno. Siccome poi l’etere, o altro anestetico usato, può contenere traccie di acqua così queste sono, per ogni evenienza, trattenute nei due tubi a cloruro di calcio H e L cosicchè l’aria, per- fettamente secca e carica o no di vapori anestetizzanti giunge nel pal- lone in contatto col ramo. Io ho preferito servirmi di un ramo unito alla pianta ed in perfette condizioni fisiologiche piuttosto che d’ un ramo reciso per le ragioni che già ho indicato: non ho poi adottato il metodo dello ScHNEIDER perchè permette di operare solo su pianticelle tenere e piccolissime e munite in genere di un numero assai ristretto di foglie. L’aria destinata a circolare nel pallone veniva spinta con un gasometro attraverso tutto il sistema ed è superfluo il dire che non cominciai ma un’ esperienza senza prima essermi assicurato che tutte le chiusure fos- sero perfette, cosa della quale facilmente mi convincevo osservando ces- sare il gorgogliamento dell’aria traverso l’acido solforico della boccia 7, non appena chiudevo l’ apertura del pallone C per la quale era unica- mente permessa l’uscita dell’aria. L’acqua traspirata dalla pianta, e tra- scinata dalla lenta corrente d’aria, era costretta a passare traverso il tubo a cloruro di calcio JV dove veniva fissata. Questo tubo a cloruro di calcio, pesato accuratamente prima e dopo l’esperienza in una bilancia d’analisi al decimo di milligrammo, dava l’esatta misura dell’intensità della traspirazione. Ma d’una grave causa d’errore mi avvidi subito fino dalle prime esperienze nelle quali volli sperimentare l’azione dell’etere e questa consiste in ciò che il tubo 27 ripieno d’aria comune o d’aria satura di vapori d’etere ha peso assai diverso, pesando notevolmente di più in quest’ultimo caso. Da ciò la necessità di scacciare lentamente i vapori d’etere senza per altro perdere traccia dell’umidità fissata sul cloruro di calcio. A questo sono pervenuto colla seconda parte dell’ap- parecchio disegnato nella figura 1. L'aria giunge dal gasometro diret- tamente in un tubo a due vie N. Da una branca una parte dell’aria va al contatore e traverso il sistema già descritto giunge al pallone; dal- l’altra branca un’ altra porzione è condotta in una boccia a lavaggio P e quindi in una torre a pomice solforica O dove viene perfettamente seccata. Il tubo a cloruro di calcio M, prima di venir pesato, è unito allora per quindici minuti alla torre O in modo che la branca in cui 98 D. FILIPPI l’umidità si è raccolta (ed è sempre in quantità minima) sia messa di- rettamente in rapporto colla torre stessa, quindi si fa traversare da una corrente d’aria lentissima. Le traccie di vapor acqueo di cui l’aria si carica al penetrare nella prima porzione del tubo I sono cedute al ri- manente cloruro di calcio prima d’uscirne e solo i vapori d’etere ven- gono eliminati. Molte esperienze in bianco mi hanno assicurato che in tal modo il peso di un tubo a cloruro di calcio, già contenente vapor d’acqua, non variava nemmeno di decimi di milligrammo: pesato, riem- pito di vapori d’etere, scacciati questi vapori e ripesato mi dava co- stantemente lo stesso peso. Con questo apparecchio dal quale era esclusa, a quanto mi sembra, ogni possibile causa d’ errore io ho eseguito nelle più diverse condi- zioni 237 determinazioni della traspirazione ed ora riferirò i risultati ai quali esse mi hanno condotto. Tutte le esperienze che io ho fatto finora, ebbero a soggetto 1’ Evo- nymus japonica L.; in seguito mi riprometto di studiare la traspirazione anche in altre specie vegetali come già HartIc !) fece in tempi rela- tivamente più recenti. Per le ragioni, che ho già più sopra accennato, io ho cominciato col determinare d’ora in ora la quantità d’acqua traspirata da un vigoroso ramo di Evonymus japonica e questo per un periodo consecutivo di pa- recchie ore onde farmi idea del decorso diurno e notturno della curva della traspirazione. Si sa infatti che le piante traspirano meno di notte che di giorno, ma non era ancora determinato se esistessero, indipen- dentemente da ciò, variazioni notevoli nella traspirazione da un’ora al- l’altra e se vi fossero di giorno e di notte dei massimi e dei minimi quali si possono verificare nel decorso di altre funzioni fisiologiche ve- getali, come ad esempio nella respirazione ?). i Delle molte esperienze che ho eseguito due sole io riferisco e i ri- sultati di queste sono consegnati nelle curve delle fig. 7 e 2 che accom- pagnano questo lavoro, dove l’ ascissa indica il tempo e le ordinate la quantità di acqua traspirata in centigrammi. La determinazione del- l’acqua traspirata fu fatta d’ora in ora senza alcun intervallo di tempo; 1) HartIG. — Sitzungsber. d. botanisch. Vereins Miinchen. Flora Bd. LXVI. pag. 361. 1883. ?) BENEDICENTI e De-TONI. — L'azione della formaldeide sul ricambio respi- ratorio nei vegetali. Atti Istituto veneto 1902, L'AZIONE DEGLI ANESTETICI SULLA TRASPIRAZIONE DEI VEGETALI 99 le condizioni rimasero durante tutta l’esperienza costanti. L'aria fatta circolare nel pallone ogni ora fu di litri «sei precisi, la velocità della corrente fu sempre uguale in ogni esperienza e ho anche tenuto conto della temperatura e delle condizioni di luce più o meno intensa che si potessero verificare nell’ambiente. La prima determinazione dalle 9 alle 10 nell’esperienza rappresentata dalla fig. 7 dà come acqua traspirata la quantità di gr. 0,1195 (Temperatura 18°; luce diffusa, cielo sereno); dalle 10 alle 11 gr. 0,1219 (stesse condizioni) dalle 11 alle 12 gr. 0,1174 e quindi trovo successivamente i valori 0,1204 — 0,1351 — 0,1287 — 0,1332 — 0,1328 — 0,1369 — 0,1420 — 0,1296 — 0,1238 — 0,1229 — 0,1032 — 0,1158. Quest'ultimo valore dalle 11 a mez- zanotte, come i due che lo precedono, furono ottenuti nell’oscurità assoluta della notte. Essendo l’esperienza fatta il 7 giugno, in una stanza bene illuminata non si ebbe l’oscurità quasi assoluta cne dopo le ore 8 di sera. La temperatura durante la giornata si mantenne costante a 18° e discese a 17° verso le 9 di sera. I valori ottenuti di poi furono: 0,1176 {dalle 12 alle 1); 0,1162 — 0,1228 — 0,1008 — 0,1046 — 0,1076 — 0,1038 — 0,1050 — 0,1052 (dalle 8 alle 9). Una luce abbastanza chiara si ebbe nella stanza alle 5 del mattino. Dalle 9 alle 10 ottenni il valore 0,1209 indi i valori 0,1202 — 0,1220 e finalmente dalle 12 all’ 1 il valore 0,1354. Se prendiamo a considerare la curva della fig. 7, in cui i valori so- pranotati sono graficamente esposti, vediamo subito che da un’ ora al- l’altra la traspirazione in un grosso ramo di Evonymus subisce delle notevoli oscillazioni, rimanendo tuttavia inalterate tutte le condizioni di luce, di temperatura e di saturazione dell’ atmosfera. Nella prima ora del mattino la traspirazione è meno attiva che nelle ore del pomeriggio. Un massimo si ha verso le 2 e le 3 pomeridiane e questa maggiore e più attiva traspirazione dura fin verso le 7 di sera. Col diminuire della intensità luminosa diminuisce pure la traspirazione la quale, durante le ore di assoluta oscurità, è segnata nella curva da una linea punteggiata. Vi è una rapida diminuzione fin verso la mezzanotte, quindi una nuova ascesa che raggiunge il suo massimo verso le 3 antimeridiane per poi discendere di nuovo pronta a risalire all’albeggiare vale a dire appena ricominci di nuovo ad agire sulla pianta la luce. Il rimanente della curva è somigliante nel decorso alla prima parte testè descritta. La prima cosa che noi possiamo concludere da questa esperienza è che la traspirazione deve considerarsi come un fenomeno veramente vitale che numerose cause le quali sfuggono alla nostra indagine sono capaci di mutare sensibil- 100 D. FILIPPI mente. È davvero singolare ottenere da un’ora all’ altra, nella piena oscurità della notte valori diversi per la traspirazione di un ramo rin- chiuso in un pallone in cui la temperatura è costante e in cui pure è immutata la corrente d’aria secca che lentamente vi scorre. Come spie- gare i massimi ed i minimi che si verificano nella curva diurna e not- turna se non come effetto di ricambi chimici più o meno attivi che si verificano in seno ai tessuti della pianta vivente? E in questa ipotesi ci conferma maggiormente l’esame della traspirazione in un altro ramo fornito di pochissime foglie e già malandate in parte e ingiallite per le numerose esperienze sull’etere alle quali questo ramo era stato assog- gettato. L'esperienza cominciò alle ore 3 pom. del giorno 12 giugno e la curva indicante i diversi valori ottenuti d’ora in ora è delineata nella stessa figura 7, immediatamente al disotto della precedente. Anche in. questo caso, come nell'esperienza prima citata, la temperatura discese solamente d’un grado e la quantità d’aria circolata e la sua velocità furon costanti per tutte le determinazioni. I valori, come si vede dalla curva, sono assai più bassi di quelli ottenuti sul ramo vegeto e ricco di foglie e le oscillazioni sono meno sensibili durante il giorno per divenire quasi inapprezzabili poi durante la notte. Molte foglie ingiallite caddero prima del mattino. Dalla curva (in cui però i decimi di milligrammo sono tra- scurati) è facile farsi un’idea sommaria dei valori ottenuti d’ora in ora ed io mi dispenso quindi dal riportare qui, inutile documento, un arido elenco di cifre. Su un’ altra curva, come già dissi, voglio invece richiamare l’attenzione del lettore ed è sulla curva 2? la quale ripro- duce graficamente il risultato di una determinazione fatta su un ramo fresco e molto fronzuto di un altro esemplare di Evonymus japonica. Dico qui, una volta per sempre, che le piante usate per le mie espe- rienze erano trasportate direttamente dall’orto botanico in Laboratorio, ove venivano mantenute sempre in condizioni propizie alla loro vege- tazione e inaffiate tutte le sere alla stessa ora (quando non si faceva esperienza) con 100-150 cm di acqua comune. La curva o fig. 2.* dimostra il decorso della traspirazione dalle 7 del mattino alle 10 di sera, ma essa colpisce l’attenzione per le oscillazioni enormi che vi si riscontrano. Quest’ esperienza cominciò alle 6 antime- ridiane del 15 giugno ed i valori successivamente ottenuti d’ora in ora furono gr. 0,1469 — 0,1388 — 0,1904 — 0,1814 — 0,1409 — 0,1901 DI 0,1647 — 0;1468/— 0;1408— 0,1836 — 0;2022 — 0,2124 — 0,1780=- 0,1612 — 0,1820 — 0,1426. Anche in questa curva come nella prece- L'AZIONE DEGLI ANESTETICI SULLA TRASPIRAZIONE DEI VEGETALI 101 dente vi è un massimo che viene raggiunto nelle ore dalle 5 alle 7 pom., ma nelle ore antimeridiane nella funzione traspiratoria si osservano sbalzi srandissimi cosicchè l’acqua eliminata dalla pianta è caeteris paribus assai diversa da un’ ora all’altra. Verso .sera vi è pure una discesa e verso le ore 10 (dopo il massimo) la traspirazione ha raggiunto i va- lori minimi normali per discendere poi molto al disotto nelle ore suc- cessive. La curva punteggiata, descritta immediatamente al disotto della precedente, riguarda una esperienza fatta il 14 giugno sullo stesso ramo dalle 4 alle 10 di sera. Essa dimostra la stessa discesa serale ma la traspirazione è meno attiva nelle ore in cui la pianta fu esposta alla luce e ciò forse per la minore intensità luminosa trattandosi di una gior- nata con cielo coperto e nuvoloso. Noi dobbiamo adunque ammettere in base alle nostre esperienze anche gli altri fatti seguenti: 1.° La funzione della traspirazione varia molto da un’ ora all’altra nello stesso individuo non solo, ma i massimi ed i minimi non si verificano regolarmente e non seguono una legge costante. 2.° L'unica regola generale è questa che la traspirazione va aumentando fino nelle ore tarde del pomeriggio per diminuire poi nella notte e risalire al mattino sotto l’azione della luce; 3.° Le oscillazioni sono tanto meno sensibili quanto meno il ramo è vegeto e ricco di foglie. Stabiliti questi fatti è facile comprendere come debbasi parlare di azione depressiva o eccitante di una sostanza sulla traspirazione sola- mente quando i valori trovati sotto la influenza di quella siano talmente superiori o inferiori ai normali da rimanere escluso che si tratti delle oscillazioni e variazioni che potremo dire fisiologiche. Vediamo adesso se, e in quale misura, questo valga per l’etere e per l’acido carbonico che sono le sostanze da me, per ora, sperimentate. Prima però di as- soggettare la pianta a queste sostanze, come per saggiare la sensibilità della funzione traspiratoria di fronte a condizioni rapidamente anormali ho voluto vedere che cosa accadesse allorquando ‘durante il giorno la pianta fosse esposta momentaneamente ad una oscurità assoluta, cosa che facilmente potevo ottenere coprendo il pallone con un panno nero. La fig. 6 dà idea dei risultati di una simile esperienza. La linea con- tinua indica il decorso della traspirazione nella pianta esposta alla luce; la linea punteggiata il decorso della funzione durante l’oscurità che durò dalle ore 3 alle 6. Mentre in queste ore normalmente la traspirazione si accentua, in modo da superare i massimi precedentemente raggiunti, noi vediamo invece la curva sotto l’azione di una oscurità temporanea 102 D. FILIPPI diminuire indi risalire lentamente senza però raggiungere i valori nor- mali primitivi. Mantenendo la pianta all’oscurità noi abbiamo cioè potuto sopprimere dalla curva quotidiana il caratteristico rialzo delle ore po- meridiane, rialzo che si osserva come già dissi costantemente. In altre esperienze questo fenomeno si manifestò ancor più marcato e cito per esempio quella del 16 giugno nella quale operai su un ramo nuovo e fronzuto cominciando alle 9 antimeridiane par terminare alle 8 di sera. I primi tre valori sul ramo esposto alla luce furono 0,1900 — 0,1940 — 0,2078; messo il ramo all’oscurità trovai: 0,1527 — 0,1484 — 0,1450 — 0,0970 — 0,1016 e finalmente esposto nuovamente alla luce ebbi i valori seguenti: 0,1484 — 0,1426 — 0,1364 valori questi che dimostrano come l’azione dell’oscurità temporanea abbia anche in questo caso agito sopprimendo l'aumento della traspirazione nelle ore pomeridiane così che anche esposto il ramo alla luce i valori che si riscontrano invece di essere superiori sono molto inferiori a quelli normali delle ore anti- meridiane. Un fatto simile avviene per l’azione dell’etere, ma è solo facendo un numero grande di esperienze che si può constatare l’azione deprimente dell’etere sulla traspirazione. In alcuni casi il fenomeno ap- pare semplice come è rappresentato nella curva della fig. 5*. I valori ottenuti normalmente in questo caso sono molto costanti. La tempera- tura si accrebbe d’un grado (da 14° a 15°) durante le prime tre ore, poscia rimase costante. I valori normali ottenuti furono 0,1149 — 0,1164 — 0,1156 — 0,1121 —- 0,1164 — 0,1164 — 0,1168. Assoggettato il ramo per un’ ora intera all’azione dell’etere ottengo 0,1002 e quindi due va- lori normali di 0,1182 e 0,1120. Nella curva l’azione dell’etere è rap- presentata da una linea punteggiata, la quale indicherebbe adunque una notevole e pronta diminuzione della traspirazione. Questa diminuzione si continua però in realtà anche dopochè fu cessata l'immediata azione dell’etere perchè i valori che si raggiungono nelle ore pomeridiane sono contrariamente alla regola anche in questo caso di poco o nulla su- periori ai normali. Ma in altri casi questa azione dell’etere è meno evidente o si può prestare facilmente ad interpetrazioni erronee come per esempio nel- l’esperienza rappresentata dalla fig. 10. In questa figura sono delineate due curve. Quella superiore indica il decorso normale della traspirazione nelle ore dalle 3 alle 11 pomeridiane; quella inferiore il decorso della traspirazione nello stesso ramo e nelle stesse ore ma sotto l’azione del- l’etere, Nella prima ora dalle 3 alle 4 sottoposi il ramo per 15 minuti L'AZIONE DEGLI ANESTETICI SULLA TRASPIRAZIONE DEI VEGETALI 103 all’azione dell’etere (linea punteggiata) e chi si limitasse a prendere in considerazione il risultato di tale esperienza per la sola durata di 1 ora dovrebbe concludere che l’etere non ha alcuna azione sensibile ovvero che eccita tutt’ al più leggermente la traspirazione, ma non direbbe cosa . esatta poichè il decorso ulteriore della curva ci dimostra che mentre normalmente la traspirazione deve andare aumentando in questo caso decresce invece notevolmente nell’ora successiva. Sottopongo ancora dalle 6 alle 7 (periodo della massima traspirazione) la pianta all’azione del- l’etere e questa volta per la durata di 25 minuti. La traspirazione si accresce sotto l’azione dell’etere, ma non raggiunge nemmeno il valore normale primitivo e nell’ora successiva poi ricade rapidamente in basso. A questo punto si uniscono due azioni deprimenti la traspirazione; cioè l’etere e la oscurità e noi vediamo la curva mantenersi inferiore ai va- lori ottenuti sullo stesso ramo il giorno precedente in condizioni normali. Non mi dilungo in altre considerazioni; desidero invece richiamare l’at- tenzione sulle curve della fig. 9.* e 4.* le quali pure mostrano l’azione dell’ etere su rami di Evonymus japonica. L'esperienza della fig. 9 fu eseguita il 31 maggio. La temperatura di 17 gradi rimase quasi co- stante in tutta l’ esperienza variando solo di alcuni decimi di grado verso sera. L'esame di queste curve dimostra all'evidenza che l’azione del- l’etere (rappresentata in questa curva dalla linea continua) non si estrin- seca solamente nei periodi di tempo nei quali la pianta è sottoposta alla sua azione, ma è duratura. Essendo il valore normale della traspi- razione dalle 9 alle 10 uguale a 0,0936 diviene nell’ora successiva sotto l’azione dell'etere 0,1142 per discendere poi a 0,1026 e 0,1084 quando la pianta venga sottratta all’azione dell’anestetico. Facendo agire l’etere nuovamente dalle 2 alle 3 si ottiene il valore di 0,0842 e a simili valori bassi rimane anche nelle esperienze successive in cui i vapori d’etere non agiscono più nella pianta. Ai valori di 0,0904 e 0,0886 sussegue sotto l’azione dell'etere il valore 0,0978 e questo dalle 5 alle 6 nel periodo cioè in cui normalmente la traspirazione dovrebbe raggiungere i più elevati valori. L'esperienza consegnata nella grafica della fig. 4 fu fatta il 24 mag- gio mantenendo per un’intera giornata il ramo sotto l’azione dell’etere. La quantità d’etere introdotta nella boccia G ed evaporata fu di 150 cm?. Il primo valore ottenuto normalmente fu 0,0972 (dalle 9 alle 10) e quelli successivi sotto l’azione dell’etere furono 0,0856 — 0,0880 -— 0,0786 — — 0,0938 — 0,0794 — 0,1002 — 0,0752 — 0,0928 — 0,0812 il che signi- 104 D. FILIPPI fica che durando a lungo l’azione dell'etere la traspirazione non cessa ma presenta delle oscillazioni periodiche rimanendo però sempre nella sua totalità notevolmente inferiore al normale. I massimi che caratte- rizzano la curva normale della traspirazione non si verificano più e il decorso della curva diviene irregolare. Giunti a questo punto, e ricordando gli studi del Dixon citati in principio di questo lavoro, potrebbesi confermare a prima vista l’idea che il rallentamento della traspirazione per effetto dell’ etere sia dovuto al fatto che il vapor d’acqua si diffonde meno rapidamente in un am- biente saturo di vapore d’etere di quello che nell’aria comune, ma le nostre esperienze dimostrano non essere questa la ragione del fenomeno. Se così fosse i valori trovati sotto l’azione dell’ anestetico dovrebbero essere sempre inferiori ai normali mentre basta consultare le fig. 9 e 10: per convincersi del contrario. Anzi il fatto osservato più volte nelle curve che il ramo sotto l’azione dell’ etere presenta talora una linea ascen- dente estrinsecandosi solo in seguito l’azione depressiva (fig. 9 e 10) ci fa ammettere che questa sostanza in un primo momento produca un vero e proprio eccitamento della traspirazione. E questo fatto sarebbe impor- tante perchè ravvicinerebbe ancor una volta di più, sotto il punto di vista farmacologico, il protoplasma. vegetale al protoplasma animale. E che tale periodo di eccitamento della funzione traspiratoria esista, meglio che coll’ etere si può constatare coll’acido carbonico. La fig. 8 rap- presenta appunto una simile esperienza. L'aumento repentino, della tra- spirazione che si ottiene riempiendo il pallone di acido carbonico, è così notevole che non ha bisogno di descrizione. Il periodo di tempo durante il quale la pianta si trova sotto l’azione dell’acido carbonico è rappre- sentato nella figura con una linea punteggiata ed è facile constatare come nell’ore successive pur perdurando l’azione della anidride carbo- nica la curva discenda rapidissimamente per raggiungere poi verso la sera dei valori notevolmente inferiori al normale. Ma la figura 3, che dimostra un risultato quasi simile, ottenuto col- l'etere, merita due parole di delucidazione. Questa figura dà il decorso della traspirazione in un ramo pressochè privo di foglie essendone già cadute la massima parte in seguito a ripetute esperienze fatte coll’etere. Ora è facile constatar come la curva della traspirazione sotto l’in- fluenza dell’ etere (linea punteggiata) salga in questo caso notevolmente per mantenersi poi anche nelle ore successive a valori molto elevati. Cessata l’azione dell'etere la curva ridiscende rapidamente in basso per salire di nuovo sotto l’azione dell'etere e di nuovo assai sensibilmente. L'AZIONE DEGLI ANESTETICI SULLA TRASPIRAZIONE DEI VEGETALI 105 L'aumento della traspirazione in rami deperiti e quasi secchi per effetto dell’etere fu da me constatato più volte. Se questo fatto possa spiegarsi, come vorrebbe lo ScANEIDER, aminettendo che non si abbia qui a fare colla funzione traspiratoria ma col fenomeno fisico della evaporazione non saprei. Ad ogni modo questa spiegazione sarebbe in contradizione colle ri- cerche del Dixox secondo le quali, come dissi, l’acqua evaporerebbe meno in un ambiente carico di vapori d’etere che non nell'aria comune. Io lascio per ora da parte questo problema e mi limito a riassumere i risultati delle mie presenti esperienze nei periodi seguenti: 1. — La traspirazione non è un fenomeno puramente fisico; essa è un fenomeno veramente vitale, complesso assai e può mutare da un momento all’ altro per cause molteplici e diverse; 2. — La curva della traspirazione normale presenta dei massimi e dei minimi. La traspirazione massima è verso le 6-7 di sera (nei mesi estivi) e diminuisce poi rapidamente per raggiungere il minimo nelle ore notturne; 3. — Pur conservandosi questo tipo generale di curva traspiratoria esistono differenze notevoli nello stesso ramo da giorno a giorno e pur notevoli differenze negli individui della stessa specie; 4. — L’oscurità temporanea altera il decorso della curva diurna e impedisce il manifestarsi del massimo della traspirazione; 5. — L’etere deprime la traspirazione e ne inverte la curva produ- cendo una diminuzione in luogo dell’ aumento normale. La sua azione postuma è duratura. Per piccole dosi non si ha alcuna azione. Per dosi medie può osservarsi talora un periodo breve di ecci- tamento della funzione traspiratoria al quale succede poi il periodo lungo della depressione; 6. — L'acido carbonico produce in un primo periodo aumento note- vole della traspirazione, quindi una diminuzione pronta e duratura; 7. — Nei rami con poche foglie ingiallite e profondamente alterati l’etere pare produca un aumento dell’ evaporazione dell’ acqua. GIOVANNI D'ACHIARDI LIBERO DOCENTE DI MINERALOGIA NELL’ UNIVERSITÀ DI PISA METAMORFISMO SUL CONTATTO FRA CALCARE E GRANITO AL POSTO DEI CAVOLI PRESSO S. PIERO IN CAMPO (ELBA) Già fino dal 1898 descrivendo un caso di metamorfismo di contatto da me osservato a Berdiauch negli Urali !) fra il granito e il calcare vi poneva in confronto un caso assai analogo nell’ isola d’ Elba nella lo- calità indicata col nome di Posto o Punta dei Cavoli. Delle rocce di questa ultima località non dava che una descrizione sommaria del calcare metamorfosato in marmo sul contatto granitico, mancandomi dirette osservazioni e materiale da me stesso raccolto, onde a colmare questa lacuna recatomi sul posto nel maggio del 1899 insieme al mio amico dott. E. MANASSE cercai con ogni cura di osservare le par- ticolarità tutte del contatto e raccolsi numerosi esemplari di granito e calcare, lo studio dei quali forma l’argomento di questa nota, alla quale altre ne seguiranno per studiare diversi dei fenomeni di contatto fra il granito che forma l’ossatura del Monte Capanne, e altre rocce che vi si adagiano sopra o ne sono compenetrate dalle sue apofisi. Il calcare di Posto dei Cavoli appartiene a quella formazione di rocce sedimentarie metamorfiche del Monte Capanne che il LortI dice costi- tuita 2) “ da scisti diasprini, ftanitici e felsitici con piriti e con vene granatiche, scisti micaceo-arenacei, scisti variegati manganesiferi e scisti ardesiaci macchiettati; calcari e compatti ceroidi a lastre, calcari e cì- pollini saccaroidi per lo più grigi o verdi chiari. In pochi punti soltanto, direttamente a contatto col granito, sono gneis a grana fine o media, micascisti gneisici e scisti quarzitici, che devono ritenersi con molta pro- babilità corrispondenti a quelli presiluriani della parte orientale ,. 1) Due esempi di metamorfismo di contatto. Atti Soc. Tose. Se. Nat., Mem., vol. XVI. Pisa, 1898. i ?) Descrizione geologica dell’ isola d'Elba. Mem. deser. d. Carta geol. d’Italia, pag. 53. Roma, 1886. METAMORFISMO SUL CONTATTO FRA CALCARE E GRANITO 107 Il calcare cristallino di Posto dei Cavoli dice il CoccHI *) che fa pas- saggio all’alberese, ma il LotTI *) non riescì ad osservare tale passaggio, nè a me fu possibile il constatarlo nel 1899, nè or sono pochi giorni essendomi a bella posta di nuovo recato in Cavoli. Il calcare è sempre più o meno cristallino, più o meno scistoso con filaretti, bande e straterelli d’aspetto selcioso, e ricorda certamente, come dice il LortI, alcune varietà del calcare presiluriano così detto di Cala- mita e di cui ho potuto in quest'anno raccogliere esemplari diversi. ‘Granito e calcare per un tratto assai grande si vedono alternare alla superfice in masse più o meno considerevoli e spesso esili apofisi granitiche traversano le masse calcari, le quali terminano col ridursi, col divenir sempre più fogliettate e con lo scomparire per esser poi sostituite in alto e dalla parte del colle di Palombaia dalla formazione scistosa. La zona di contatto da cui fu presa la maggior parte dei cam- pioni si trova circa a un centinaio di metri sul livello del mare, che batte poco lungi alle falde del monte, e di là a chi guardi verso il mare restano in basso le cave di granito e la piccola cala di Punta dei Cavoli a breve distanza. Una vegetazione poco rigogliosa ricopre il terreno e fu l’abile ricercatore di minerali elbani, Lurci CELLERI 8), che mi con- dusse a raccogliere i miei campioni nello stesso punto in cui fu per la prima volta ritrovata la wollastonite elbana, che il Savi 4) ritenne per grammatite e mio padre °) e vom RaTH %) determinarono per wollastonite. Il granito più o meno alterato, incotto alla superfice dalle intem- perie, dal sole e dal salmastro, a pochi centimetri sotto la scorza su- perficiale di alterazione si mostra resistente, inalterato, di color grigio, grana mezzana e abbondanza di mica nera con aspetto del tutto simile a quello che costituisce la massa del Monte Capanne, quando sì osservi ad una certa distanza dal contatto calcare. In vicinanza di esso invece comincia a cambiar d’aspetto, assume una colorazione biancastra, scar- 1) Descriz. geol. dell’isola d’ Elba. Mem. Com. Geol. d’It. I. 1871. 2) Op. cit., pag. 56. 3) LuiGr CELLERI è morto or sono due anni lasciando largo rimpianto di sè in tutti coloro che l’ ebbero guida ed ajuto intelligente nelle escursioni attra- verso la sua isola natale. 4) Cost. Geol. dell’ Elba. 1833. °) Sopra alcuni minerali dell’ Elba. Pisa, 1870. 5) Die Insel Elba. Bonn, 1870. Sc. Nat. Vol, XIX 108 G. D’ACHIARDI seggia la mica nera ed è tutto attraversato da filoncelli a grana minu- tissima bianco-grigiastra di un microgranito, che per il suo colore ancor più chiaro, per la quasi mancanza di mica e per la minutezza della grana si stacca dalla massa rocciosa circostante. Questi filoncelli corrono pa- ralleli o quasi fra loro e mostrano nella massa biancheggiante dei fila- retti seguenti per il solito l'andamento della vena, più raramente con- vergenti, dalla cui massa si differenziano per il colore giallastro e gros- sezza maggiore dei minerali da cui risultano (tav. IV, fig. 2). Indipendentemente anche da questi filoncelli, mano a mano che ci sì avvicina al contatto il granito continua a mutar d’aspetto insensibil- mente, la pasta si rende sempre più uniforme, il colore tende al verdo- gnolo per disseminazione di puntolini o plaghette verdi, più raramente verde-nerastre, finchè al contatto si ha una formazione di pochi centi- metri di spessore, verdastra, talora giallo-verdastra o giallo-rossastra; sempre con tendenza al bigio, costituita da una roccia molto dura a grana minutissima, nella quale luccicano talora lamine di calcite, e che passa per gradi insensibili, verso il calcare, ad una banda più piccola giallastra per abbondanza di vesuviana, che a sua volta si connette e si mischia al calcare divenuto grossolanamente cristallino, talora sacca- roide, più o meno farinaceo, friabile alla superfice, di color bianco o leggermente verdognolo, a formare in alcuni punti un vero e proprio cipollino scherzosamente fogliettato. Sul contatto fra il calcare e questa banda d’apparenza selciosa, e nel calcare stesso compaiono quasi sempre, simili ad inclusioni, cristalli ma- croscopici, isolati e riuniti in gruppi od in fasci di specie mineralogiche di- verse fra le quali predominano wollastonite ora bianca, ora leggermente rosea, vesuviana giallo-verdastra, gialla-miele più o meno intenso fino a brunastra, a cui si associano massarelle fibroso-raggiate o laminari di scapolite, cristalletti di granato giallo-colofonia, talora uniti a vesu- viana, condrodite ecc. ecc. 1. — Granitite normale. Solo per confronto osservai diverse sezioni del granito normale di Monte Capanne già da tanti autori descritto. Per le mie osservazioni e per quelle degli altri i minerali suoi essenziali sono: ortoclasio, oligo- clasio, albite, biotite e quarzo. METAMORFISMO SUL CONTATTO FRA CALCARE E GRANITO 109 I plagioclasi sono più abbondanti dell’ortose e fra questi l’oligoclasio, sembra più frequente dell’albite. L’ortose, meno fresco di tutti gli altri materiali, mostra spesso inizio di alterazione caolinica molto limitata, quasi sempre allotriomorfo e non di rado con geminazione di Carlsbad. I plagioclasi presentano spesso struttura zonale con differenze pic- colissime di acidità da una zona all'altra ed estinzioni spesso ondulate; comunissima la geminazione dell’albite; spesso i cristalli hanno un man- tello micropertitico e talora sono parzialmente idiomorfi. Il concrescimento dell’ortose con l’albite non è raro, sia come man- tello nei cristalli freschi di albite, sia in vere e proprie lamine allotrio- morfe. Nelle sezioni da me studiate non ho trovato concrescimento mi- cropegmatitico, nè lamine di microclino l’uno e le altre ritrovati invece da VIOLA !). Il quarzo abbondante, ma in minor copia dei feldispati, è limpido incoloro, con numerose inclusioni solide, liquide e gassose. La mica nera, assai abbondante è per il solito fresca, fortemente pleocroica e assorbente: talora è convertita in sostanza cloritica. La copia del ferro svelata dall’analisi del dott. MAnaSSE ?) potrebbe far credere alla presenza di una mica nera più ricca in ferro della biotite, ma le lamine sottili di sfaldatura e quindi parallele alla base, mostrano figura di interferenza quasi uniassica, carattere della biotite, mentre ad es. per il lepidomelano, che potrebbe supporsi presente, si ha un angolo degli assi ottici di 7°-8° circa. Anche la mica bianca, benchè del tutto subordinata alla nera, non è molto rara sia come originaria, sia come prodotto di alterazione dei feldispati insieme a granuli epidotici quasi incolori e leggermente pleo- eroici, e di fascetti pure pleocroici dal verdolino-chiaro al verdolino di un minerale a bassissimi colori di interferenza che ritengo zoisite. Di minerali accessori va citata l’apatite come inclusione in tutti i minerali precedentemente descritti e in special modo nella mica. Ho trovato un’ unica sezione di un piccolissimo cristallo di torma- lina policroma terminata ad una sola estremità da faccette di {100}, i) Appendice a memoria di LoTTI: Sulle apofisi della massa granitica nelle roccie sedimentarie eoceniche presso Fetovaia nell’ isola d’ Elba. Boll. Com. Geol. Roma, 1894, N.° 1. °) Stilbite e foresite del granito elbano. Atti Soc. Tosc. Sc. Nat., Mem., Vol. XVII. Pisa, 1900. 110 G. D’ACHIARDI incolora a terminazione verdastra, come le così dette teste di moro in sezioni sottili. Così pure un’ unica sezione di minerale a forte rilievo, screpolature ed altri caratteri, fra i quali anomalia ottica, fa ritenere presente anche il granato. Assai scarso il rutilo in esilissimi aghetti e pur rare magnetite ed ema- tite. Invece non molto raro è lo zircone in nitidi cristallini e granuli inclusi nella maggior parte dei minerali principali. L’analisi eseguita dal dott. ManaASSE !) sopra un esemplare tipico di granito proveniente da Fonte del Prete sotto S. Piero in Campo dette i risultati seguenti: da Rapporti molecolari 2) STOSIECINANE 69,92 69,02 i I ZO Re tr. tr. PESO 0,24 0,24 ceo 1 0, 002 INDO 0. 56 15, 68 15, 48 0, 151 | 0.179 Fe,0,(+-Fe0)3) 4,57 4,51 0, 028 Ù Mn0r rai tr. tr. CAO 000 1,85 1,83 0,032 0,055 Mo Oro 0,92 0,91 0,023 | 0.157 RIONE 3,18 3 MAMMN0N033 | IGO \ i NASO oe 4,35 4,29 0, 069 3 , FEO MAIA 0,59 0, 58 Si SOLI RIINT MZ ORO3D 101,30 100,00 Il peso specifico da me determinato col picnometro sulla roccia ri- dotta in polvere è = 2,69, assai superiore a quello determinato dal dott. MANASSE sovra pezzi di granito per mezzo dei tubi graduati. Dai rapporti molecolari non tenendo conto nè dell’acqua, nè dell’a- nidride fosforica si deduce: III I II SiOs : Rs0: : (R2, R)O = 7,28 :1, 14: 1,00; I II R:0 : RO = 1,85 : 1,00 ; Na:0: K:0=2,09:1, 1) Mem. cit. ?) I rapporti molecolari in questa e per le analisi successive furono da me calcolati dai risultati analitici ridotti a 100. 3) Dosato tutto come ferrico, ma da ritenersi in parte come ferroso a far parte della biotite. METAMORFISMO SUL CONTATTO FRA CALCARE E GRANITO 111 da cui si deduce poi il coefficiente di acidità a, dato dal rapporto dell’os- sigeno delle anidridi a quello delle basi e il numero f delle molecole basiche per 100 di SiO» a= 3,29 ; B= 29,40. Dai dati dell’analisi si ricava: H,0 Nas0 K,0 Cao Mg0 FeO FesO; A1,03 P.0; Si0z Apatite. . . . — — — 031 — — —- — 0,24 Gi | RAI SO, . — — 2 — (—..— — ©. 2,29 — ‘8,11 a 3 NaAlSi;0g . — 4,35 — — — — — 7,16 — 25,38 Ei | O Neg E lola] OL alza Biotite . . . . 0,21 — 1,07 — 0,92 1,39 —. 2,30 —. 4,13 (HKMgFeAl,Si,0,3) Gicizoa IR = = = _ = E I i 28,98 Acqua . . . . 0,38 — = = = te dl La: e 4; Ossido ferrico. . — _ — — = — 3,03 — IRE teri 0,59 4,35 3,18 1,85 0,92 1,39 3,03 14,56 0,24 69,92 Composizione mineral. Pesi specifici in peso %/o e (0,05 UE SI Sai re Sg sasa 12,50 2,56 32,00 Feldispati Î » albitica . 36,89 36, 88 2,62 96, 63 » anortitica 7,67 1,67 2,76 21,17 BIO IENA RSA E LO 02 10,02 2,92 29, 26 UArZO TAO NR 28798 28,97 2,65 16,77 AGO eee e e o 0,38 1,00 0,38 BERdorierrico, RI Rie 00 3,03 4,00 12,12 100, 03 100, 00 270, 09 Differenza da analisi . . — 1,27 101,30 Il peso specifico 2,70 è così vicino a quello determinato direttamente, 2,69, che vien quindi in conferma della qui dedotta composizione mi- neralogica, che corrisponde a quella di una comune granitite. 112 G. D’ACHIARDI 2. — Granito alcalino. Il granito normale o granitite di Monte Capanne, man mano che ci sì avvicina al contatto calcareo va insensibilmente cambiando di aspetto e a pochi metri dal contatto stesso la mica nera è divenuta molto scarsa e la massa feldispatica sembra avere aspetto meno vetroso e più bianco. Inoltre in esso spesseggiano piccole vene di bianca aplite. AI microscopio si rivela una struttura granitica; solo in alcune se- zioni si ha accenno a struttura porfirica ipidiomorfa poichè si vedono le lamine maggiori di quarzo e di feldispato come circondate, rilegate da quarzo e feldispato di dimensioni molto minori (tav. IV, fig. 1), con abbondanza specialmente del primo, fatto già osservato dal VrioLa per le sezioni del granito costituente le apofisi negli scisti silicei di Fetovaia *). Predominano su tutti gli altri minerali i feldispati in grani quasi completamente allotriomorfi, salvo il caso che sieno di oligoclasio, il quale presenta invece grande tendenza all’idiomorfismo. Spettano a più specie o varietà, tutte però molto acide e a rifrangenza inferiore al quarzo e al balsamo del Canadà. Assai frequente è l’ortose in grani con geminazione di Carlsbad; ordi- nariamente torbidi per alterazione caolinica, inclusioni diverse e scre- polature. Pur molto torbido e grigiastro per inclusioni è il microclino, che io ritengo più copioso di quel che farebbe credere la struttura a grata dif- ficile a riscontrarsi, perchè d’ordinario cancellata dalla alterazione. Però in alcune lamine se ne vedono evidenti le tracce. Assai frequenti sono piccoli grani di micropertite, se non anche mi- cropegmatite, talvolta riconoscibili pure a luce ordinaria per le loro lu- cide vermiculazioni e sempre per la rifrazione notevolmente più elevata dei feldispati circostanti. A interposizione di esilissime lamelle albitiche in piani paralleli credo sia pure da attribuirsi la finissima striatura, visibile anche a luce ordi- naria per la differenza di rifrazione dei due feldispati associati (tav. IV, fig. 1), che molte lamine presentano, se pur queste non debbano riferirsi addirittura all’anortoclasio, tanto più che carattere di questo è sì fatta striatura, e come in questo si hanno rispetto ad essa estinzioni ad an- golo piccolissimo. 1) Mem, cit. METAMORFISMO SUL CONTATTO FRA CALCARE E GRANITO 113 L’oligoclasio è scarso, molto meno alterato e quindi più limpido degli altri feldispati. Struttura polisintetica per geminazione evidente e ben di- stinta dalla striatura testè ricordata. Indice di rifrazione più elevato degli altri feldispati, ma pur sempre minore del quarzo. È da notarsi come questi diversi feldispati e spesso il quarzo di pic- cole dimensioni, talora idiomorfi, si trovino inclusi nei cristalli maggiori sia di feldispato (tav. IV, fig. 1), che di quarzo e come i cristalli feldispa- tici che si vedono costituire le rilegature sieno molto più freschi degli altri. Il quarzo è assai abbondante forse però meno dei feldispati, dai quali lo distingue anche la maggiore limpidezza, quantunque questa non sia perfetta specialmente per la copia delle inclusioni aeroidriche . spesso disposte in piani apparenti in filari. Si presenta ora come materiale di ripieno fra i feldispati, quindi come nel tipico granito, ora in grani in- clusi specialmente nei feldispati come nelle apliti e nelle pegmatiti a dimostrarne la simultanea generazione, onde il comune allotriomorfismo e la tendenza della roccia alla costituzione pegmatitica. Già dissi del quarzo secondario in vene, spesso con polarizzazione di aggregato, a ri- legare fra loro i cristalli maggiori della roccia. La mica è quasi esclusivamente biotite, se non anche lepidomelano, per trasparenza giallo-bruna, molto assorbente, in lamine stracciformi all’ estremità, talora alquanto alterata. Rarissima, eccezionale la mica bianca, verosimilmente lepidolite, a giudicare dalla disposizione raggiata delle sue lamelle. Assai abbondante l’apatite in microliti bacillari, talora non molto piccoli, con evidenti terminazioni e linee di sfaldatura, spesso accumulati qua e là in numero considerevole. Come inclusione specialmente nella biotite e nei feldispati. I minerali accessori sono scarsissimi; lo zircone in cristalletti prisma- tici bipiramidati, che talvolta formano piccoli gruppetti; il rutilo in esili aghettini; la tormalina in piccole lamine fortemente pleocroiche dal verde- azzurro all’ azzurro-nerastro intenso; pochissime lamine di ematite tra- sparenti rosse-rubino, scarsi granuli di magnetite, pentagonododecaedri di pirite e in connessione con dei prodotti limonitici, i quali eccezional- mente derivano anche dalla alterazione della mica. L'analisi della roccia da me eseguita mostra la differenza che esiste fra essa e la granitite normale di Monte Capanne: 114 Sio, P,0; A1,0, Fe,0,(+Fe0) 1) . Cao Mgo K,0. Na,0 H,0 sotto 110° H,0O per arrovent. G. D’ACHIARDI °/o Rapporti molecolari Tipici 76,46 0,07 OO 13,31 13,20 0,129 0,81 0,80 0,005 | 1,32 1310000021 | d.8ad 0,21 ISIN 1005. Mae 3,21 3,18 0,034 | 0,105 4,39 4,85 0,071 0,05 0/57 0,42 100,85 100,00 P. sp = 2,659 1,266. 0, 0005 0,134 0,134 0, 023 Dai rapporti molecolari, non tenendo al solito conto nè di acqua, nè di anidride fosforica, si deduce: III I II SiOs : R203 : (R,R)O = 9,45: 1: 1; I II R20ETROT_i3R62E MEN Orte 0/_LA09EO da cui: a= 4,725 ; B=21,17. - Partendo dai dati dell’analisi si ottiene: Apatite Feldisp. Biotite . Quarzo . Acqua . Ossido ferrico . K AISi,0;, . NaAl Si,0g . Ca Al, Si,0g . H,0 Na0 K0 CaO Mg0 Fe0 LE ETA ERO e ae = 909 — (= — —. 4g > — SS I O ORO — N02, 00 SM NrO 0 Or 007, Ae Fes0; Al03 3,21 7,22 2,24 0,53 P.0; Si0a d'o7— SMAU — 25,62 (RERONGE 0,42 4,39 3,21 1,32 0,21 0,37 0,40 13,20 0,07 77,11 1) Dosato tutto come ferrico, ma da ritenersi al solito in parte come ferroso a far parte della biotite, nella quale però per la sua alterazione, non può | escludersi che vi esista anche come ferrico. METAMORFISMO SUL CONTATTO FRA CALCARE E GRANITO 115 Una parte dell’acqua deve ritenersi come igroscopica, ma una parte, e forse non la minore, come proveniente da prodotti di alterazione caoli- nici e limonitici. Alla limonite va pure attribuito un poco del ferro, ma la parte maggiore credo che spetti alla mica, qui nello specchio con- siderata non solo come biotite, ma sì anche nella sua composizione nor- male H K MgFe Als Siz 013 più teorica che reale. L’ossido alluminico è sempre sostituito da più o meno d’ossido ferrico che può anche diventar prevalente come in alcuni lepidomelani, onde si spiega facilmente l’eccedenza del ferro sulla supposta composizione, così come la presenza di materia caolinica spiega il piccolo eccesso di Als 03 anche se fosse maggiore, come quando si ritenesse questa in parte sostituita da Fez 03. Dallo specchio precedente si deduce: Composiz. mineral. Pesi specifici %/o PAC Re ON: 0,16 x 3,20 = 0,51 molecola ortosica . 17,54 17,42 2,56 1) 44,60 i » albitica . 37,23 36, 97 2,62 96, 86 » anortitica 6,12 6,08 2,16 16, 78 Battere HE eee 2595 2,38 2,92 6,80 O TUEZO NO RI 000 36, 27 2,65 96,12 INGOIO e n 40 0,37 1,00 0,37 OSsIdogfernico gie 010) 0,40 4,00 1,60 100,70 100,00 263, 64 Differenza da analisi . . — 0,15 100, 85 Il peso specifico di 2, 636 desunto dalla composizione mineralogica solo pochissimo si differenzia da quello direttamente determinato sulla stessa polvere della roccia che ha servito all’analisi, e che si è detto es- sere 2, 659 e che corrisponde a quelli dati dai vari autori per i graniti alcalini. I risultati dell’analisi corroborano lo studio fisico della roccia; in questa come nella granitite precedente non è certo anortite così come, se pre- sente, l’albite non lo è nelle proporzioni indicate nello specchio in cui si 1) RoseNBUSCH. — Z/emente der Gesteinslehre. Stuttgart, 1898. 116 G. D’ACHIARDI dà il rapporto delle molecole di vario tipo che possono oltrechè da sole trovarsi associate in una stessa specie. Le molecole anortitiche fan parte dell’oligoclasio, che l’esame microscopico vi fa riconoscere, così le albi- tiche vanno in parte riferite oltrechè ad esso all’ ortose, al microclino, all’anortoclasio, sempre più o meno sodiferi. Queste cifre valgono a farci riconoscere più la costituzione magmatica che la mineralogica, alla cui interpetrazione porgono non pertanto non piccolo aiuto. Si ha dunque a che fare con un granito diverso dalla comune gra- nitite di Monte Capanne per la scarsezza della mica, per la scarsezza dei feldispati sodio-calcici e abbondanza invece dei sodio-potassici, onde va ravvicinato ai graniti alcalini con tendenza alla costituzione pegmati- tica. Al gruppo aplitico-pegmatitico è la roccia anche da ravvicinarsi oltre- chè per la scarsezza della mica per la quasi assoluta mancanza di ossidi - originari e di silicati non alluminiferi. Anche il tenore dell’anidride sili-' cica, così come il suo reparto nella costituzione delle varie specie mine- rali e il peso specifico confermano il carattere di granito alcalino e il suo ravvicinamento al gruppo aplitico-pegmatitico 1). L'elemento albitico predomina sull’ortosico, ma ciò sembra un ca- rattere delle rocce granitiche elbane. Anche l’analisi del dott. MANASSE ha rivelato più soda che potassa nella granitite di Monte Capanne e nella stessa eurite di Portoferraio, da RoseNBUSCH riferita all’aplite, per 3,67 di K3 O si hanno 5, 28 di Naz O.. Si ha dunque una di quelle facies periferiche delle masse granitiche con tendenza alle forme pegmatitiche, quali il RoseNBUSCE (pag. 89) cita per le granititi di Brossnitz in Sassonia, di Geyer negli Erzgebirge e di Guéméné ecc. nel Morbihan ece. 3. — Vene di aplite nel granito alcalino. Roccia in piccole e bianche vene. entro la precedente a struttura mi- nutissimamente saccaroide. Sul fondo bianco punti quasi invisibili di mica nera. Esili filaretti giallognoli di circa 1 mm. di larghezza percorrono per lungo questi filoncelli parallelamente, o quasi, alle loro pareti. Al miero- scopio occorrono assai forti ingrandimenti per risolvere nettamente nei suoi elementi la roccia, la quale mostra struttura panidiomorfa granu- 1) RosoNnBUScH. — Elemente ecc. pag. 78, analisi 1-4. METAMORFISMO SUL CONTATTO FRA CALCARE E GRANITO TRIET lare a grani piccolissimi (tav. IV, fig. 2), onde la quasi apparente compat- tezza ad occhio nudo, di quarzo e di feldispato quasi isometrici scolo- riti, ordinariamente limpidi e solo alcuni e parzialmente torbidi. Scarse e qua e là disseminate piccole laminette e stracci di mica bruna. Altri minerali del tutto accessori. I feldispati sono quasi completamente allotriomorfi in grani irregolari; la massima parte di ortose, cui van certo riferiti i più torbidi. Altri lim- pidi e con segni più o meno evidenti di struttura polisintetica sono di oligoclasio, ma non sono molti; altri pure limpidissimi ritengo di albite, la quale solo per eccezione è micropertiticamente concresciuta con ortose. Microclino con tipica struttura a grata non ne ho visto; alcuni grani la- sciano però nel dubbio. Tutti hanno rifrazione molto inferiore al quarzo, quindi spettano alle varietà più acide. Nitidi prodotti di alterazione e determinabili non si scorgono; anche nei più torbidi, e sono ben pochi, la torbidezza sembra prodotta e da bolle d’aria e da piccolissime, innumerevoli fenditure che si vedono lu- meggiare a luce riflessa. Il quarzo è pure in grani rotondeggianti con accenn$é talora ad esae- dricità, che non mai appare però per linee rette; piccolissimi anche essi, forse anche più di quelli dei feldispati, fra i quali e dentro i quali in- differentemente si accolgono; forma e modo di presentarsi dell’ aplite e non dei tipici graniti. Del quarzo di questi ha le inclusioni aeroidriche e altre solide. La mica bruna scarsissima e solo in piccolissimi stracci a irregola- rissimo contorno. Mostra segni in qualche sezione di alterazione clori- tica, più spesso leggero intorbidamento e colorazione limonitica. Come minerali accessori si hanno: zircone assai frequente in piccoli cristalletti allungati prismatico-piramidali o in grani; ordinariamente in- cluso nel quarzo, talora insieme forse a qualche aghetto di rutilo. Apatite limpida, scolorita in bacilli inclusi nei minerali essenziali, e non molto abbondante; rara in cristalli più grandi. Tormalina assai rara, con pleocroismo da un cilestro-chiaro a un verde- cupo-turchiniccio; quasi sempre alterata in mica, carattere anche questo dell’ aplite. Granato rarissimo e così la vesuviana quasi scolorita, e l’epi- doto in scarsissimi nè bene accertati grani. Minerali di ferro del tutto eccezionali; solo qualche laminetta di ematite più o meno limonitizzata. I filaretti giallognoli sono pure essi costituiti di grani di quarzo e di feldispato però di maggiori dimensioni e sembrano i primi aver più 118 G. D’ACHIARDI irregolare contorno e più numerose inclusioni aeroidriche di quelli della massa circostante; quelli di feldispato, prevalentemente di ortose, hanno limpidezza molto minore per maggiore alterazione e più numerose in- clusioni fluide. Nell’ insieme dei caratteri rammentano questi piccoli filaretti il gra- nito alcalino circostante nei punti ove manca la mica. Le bianche vene poi sono indubbiamente di aplite di una varietà a grana estremamente minuta. L’analisi da me fattane dette: SIOE Oo 8090) ECO RE TRo 0,09 ALOE n 15,20 Fe,O,(+Fe0). . . tr. Cai 1,20 MEO tr. RO E 4,14 NEO eee 4,49 H,0 sotto 110° . . 0,07 H,0 per arrovent. . 0,36 | 99,45 100,00 P. sp. = 2, 60. Rapporti molecolari 1,230 0, 0006 0,150 0, 022 0,139 00 AE 0,073) 0, 024 Dai rapporti molecolari, come nell’analisi precedente, si ha: III I II STO: 31840 8 (10) = 8001083 1 e di qui II ROIO ZII OTO a=4,17; B= 23,5. Dai dati dell’analisi si ricava: H,0 Nas0 Apalito lea niciae _ — ( K AISi;0;. _ — Feldispati! NaAlSi;0; . _ 4,49 CaAl,Si,0; . — = QUIZ NA N _ — ACQUA, ar 0 — 0,43 4,49 0;12. i —i =; .74,49 SMI =; 7,30 oa OB OT 2,33 METAMORFISMO SUL CONTATTO FRA CALCARE E GRANITO 119 Si ha 1,35 %o di Al: 03 in meno che nell’analisi, differenza in parte imputabile alla mica, qui nello specchio non considerata perchè non poterono dosarsi nè magnesio, nè ferro. Lo stesso è a dirsi per l’acqua dovuta in parte ad alterazione caolinica. Dallo specchio precedente si ricava: Composiz. mineral. Pesi specifici in peso %o IDALILE Re e Re ve OI 09 20M 6r molecola ortosica . 24,54 25,02 2,56 64,05 Feldispati » albitica . 38,08 38, 82 2,62 101,71 » anortitica 5,38 5, 48 2,76 15,12 SIRO BNCESARE: MENTO o ae 29, 460 30, 03 2,65 19,58 ENER A n ORI 0, 44 1,00 0, 44 98,10 100, 00 261,57 Differenza da analisi . . — 1,35 99, 45 Qui pure si ha quasi perfetta corrispondenza fra il peso specifico, 2, 616, calcolato dalla presunta composizione mineralogica e quello ot- tenuto direttamente sulla roccia, 2, 60, e che corrisponde a quello della aplite. E non altrimenti che come aplite deve infatti considerarsi, e fra le rocce di questo tipo ci rappresenta una delle varietà più povere, se non scevre affatto di ossidi metallici e di silicati non alluminiferi, come prova anche il rapporto di quasi eguaglianza fra l’allumina e gli ossidi di radicali mono e bivalenti, che è il rapporto feldispatico. 4. — Granito a immediato contatto del calcare. Sul contatto con la roccia calcare e con l’intermezzo di una sottile banda di color verdastro il granito si trasforma in una massa con appa- renza di quarzo grasso tutta tempestata di piccole granulazioni o mac- chiuzze verdi dello stesso tuono di tinta della banda testè citata che lo separa dal calcare marmoreo, e da più scarsi e ancor più piccoli grani di color giallo-cuoio a lucentezza resinosa. Al microscopio la roccia mostra ancora evidente la costituzione gra- nitica con differenze però notevoli con il granito alcalino e l’aplite testè descritta. 120 G. D’ACHIARDI Di feldispati vi si osservano ortose e microclino molto ricchi di in- clusioni e molto torbidi sia per esse, sia per le alterazioni sofferte e derivatine prodotti secondari, fra cui assai abbondante caolino, e meno una mica bianca in straccetti, verosimilmente muscovite o sericite. Fra le inclusioni oltre l’aria introdottasi nelle screpolature e in piccolissime irregolari bolle aeroidriche, vi si osservano apatite in cristalletti bacil- lari ed ematite in laminette, però rarissima. Taluni feldispati mostrano la finissima striatura lumeggiante prodotta da intromissione di lamelle albitiche, ma sono assai più rari che nel granito testè descritto, mentre invece più frequente che in quello sembra essere il plagioclasio, il quale sia per la estinzione, sia per la rifrazione sempre maggiore di quella del quarzo conviene riferire a termini non meno basici della labradorite e sempre più basici e più calciferi quanto più ci si avvicina al calcare. Nel granito alcalino invece si avevano solò termini, e fra i più acidi, di oligoclasio. Questo feldispato basico si distingue facilmente dagli altri per molta minor copia di inclusioni e quindi maggiore limpidezza dei cristalli e per l’evidenza della sua struttura polisintetica a seconda delle due leggi dell’albite e del periclino. I cristalli sono assai più idiomorfi di quelli di ortose e altri feldispati alcalini, che continuavano ancora ad accrescersi durante la segregazione del quarzo, rispetto al quale sembra in parte anche configurarsi il loro contorno. Per questo granito è del pari a notarsi come i più acidi feldispati e il quarzo si producessero anche contemporaneamente, come ho già no- tato per il granito alcalino, dal momento che si trovano lamine di quarzo e di feldispato con inclusi minori di quarzo e di feldispato. Il quarzo è copioso in grani allotriomorfi: spesso riuniti anche fra loro con disposizione saccaroide, senza colore, limpido, quasi privo di inclusioni salvo le bolle aeroidriche, che talora sono assai grandi, non però in gran numero. La mica nera manca quasi del tutto, io ne ho osservato solo due 0 tre lamine in un numero grande di sezioni, onde anche per ciò differenza dal vicino granito; e differenza non minore si ha nella presenza di assai abbondanti minerali accessori e subordinati, fra i quali giova specialmente ricordare la titanite e la malacolite (tav. IV, fig. 3). È laTtitanite assai frequente in grani irregolari e spesso anche in cri- stalli apparenti in foggia di allungate losanghe di color nocciola dai tuoni chiari in sezioni sottili a tinte volgenti al giallo-verdognolo per pleocroismo, METAMORFISMO SUL CONTATTO FRA CALCARE E GRANITO 121 grani e cristalli che corrispondono alle macchiuzze di color giallo-cuoio, che si vedono anche con la lente sul fondo bianco della massa rocciosa. Ancor più frequente è il pirosseno e tanto più, quanto più ci si avvicina alla banda verde di separazione, rendendosi rarissimo e scomparendo an- che a breve distanza da essa. È del pari in grani a contorno irregolare, spesso anche con aspetto di coccoliti; ha colore nocciola-verdastro, ma con più spiccata tendenza al verde della titanite. Io ritengo anche per la estinzione a circa 38° e per la posizione dal piano degli assi ottici pa- rallelo alla linea longitudinale di separazione sia da riferirsi a una malaco- lite assai ricca in ferro ed intermedia fra il diopside e 1’ hedenbergite come fa credere anche il colore intensamente verde in sezioni non molto sottili. Alcuni pochissimi grani presentano debole pleocroismo dalla stessa tinta verde a verde-giallognola, onde potrebbesi credere alla presenza dell’ epidoto, non contradetta dagli altri caratteri e avvalorata dalla sua presenza nella ristretta zona verde di contatto. Zircone in microliti cristallini molto raro; ematite in laminette rosse rarissima; in alcune sezioni si osservano aree sporche per limonite, pro- dotto di alterazione di altri minerali che circonda. Pure rarissima è l’apatite, che però ricomparisce in assai copiosi cri- stalletti bacillari per poco che ci si scosti dal contatto. Ancor più rara la tormalina, di cui ho ritrovato in tutte le sezioni esaminate un solo e mal definito cristallo. L’analisi chimica da me fattane dette: %/o Rapporti molecolari SIOE Po) 15,60 15,24

—. 0,90 0,860 — e) ER 0,30 Or. 1.0,07 MIiCaSiO, 0. ; i. i BM —. — LL MIL Fee N ee oe £( re RM Az = pg e L Wesuviana . |. . . = —_ _ 0,1 — — 0,05 0,10 — — (CasAl; [OH] [Si0,]z) e e o 0,03 a MO Sta 0 (Mg; (0H,F1), [Si0,],) Acqua i - . 0,09 O,ll — _ — = = = = ae 0,09 0,14 0,24 51,66 0,79 0,70 0,65 17,13 30,01 0,07 4) Dosato tutto come ferrico e calcolato come ferroso. 2) Pesato insieme al potassio. 3) Partendo da FeO=0,70, la magnesia fu qui e nell'analisi seguente calcolata dalla quantità richiesta dalla formula della malacolite, sopra usata, Ca,MgFe [Si0;],. 136 G. D’ACHIARDI Dalle proporzioni calcolate risulta un eccesso di silice di 1,35 e un difetto di soda di 0,19. II. H,0 H,0 Na,0 Ca Mg0 Fe0 A10; Si0, CO, Cl arrov Calcite eee — — — 46,001 _ — — — — 36,15 — |-CaAlSi0g 0 ei 10,28, (0390 =|2((Na,B)A1,S1,0,,0) 004/019 e Me FICO — - OSO e e O —_ | _ — al re SO e ee iL u)45) SEO Vesuviana . . ... — 0,01 — 0,831 — — 0,14 0,28 — — Hume n 0 04 — 0,68 — | e 0,400 Acquatt.o d o10070 — —_ — — = — — — 0,07 0,09 0,19 52,01 0,88 0,45 0,92 9,11 36,15 0,09 Nel dipiro fu computato anche un po’ d’acqua, che le analisi svelano quasi sempre in questa specie a compensare la deficenza della soda asportata forse per alterazione. JE Composiz. mineral. Pesi specifici in peso o Calcite . . . 5 . . 68,20 67,29 x 2,72 = 183,03 Dipiro 4) . . 7 6 0 si 6 2,51 2,62 6, 58 Wollastonite *).. ” ; î . 25,04 24,70 2,85 70, 40 Malacolite Ò > . 0 MTA58 4,47 3,40 15,20 Vesuviana 6 . o 0 . 0,26 0,26 3,40 0, 88 Humite . b 3 è ; o 09 0, 68 3,15 2,14 Acqua . 6 i o . NEIOR09 0,09 1,00 0, 09 101,35 100, 00 278,32 Differenza da analisi . : + 1,05 100,30 1) Computato detraendo l’ossigeno corrispondente al cloro e cioè 0,02. 2?) Dalla quantità di silicato calcico risultante dalle composizioni mineralo- giche ne fu tolto quanto ne richiede la malacolite considerata con la formula già indicata. METAMORFISMO SUL CONTALTO FRA CALCARE E GRANITO 137 KE; Composiz. mineral. Pesi specifici > in peso %o Calcite . 6 7 : ; . 82,16 82,21 x 2,72 = 223,61 Dipiro 4) . . è c 7 A IESZIO) 3,20 2,62 8,38 Wollastonite ?) . . . c MIO CO 9,80 2,85 27,93 Malacolite , : : : MD2Z9 2,9 3,40 9,89 Vesuviana o 3 3 3 . 0,74 0, 74 3,40 2,52 ‘Humite . 5 2 £ 6 SION 1,07 3,15 3,97 Acqua . 5 3 È . 05, 0X7 0,07 1,00 0,07 99,94 100, 00 275,71 Differenza da analisi O, — 0,13 100, 07 I pesi specifici computati dalle composizioni mineralogiche, 2,783 el 2,758, corrispondono a quelli ottenuti direttamente dai due campioni di rocce analizzate 2,81 e 2,72. Lo studio chimico valutato rispetto alla composizione mineralogica conferma la diminuzione graduale dalle precedenti rocce non solo della vesuviana, humite, granato ecc., ma sì anche del pirosseno malacolite o altro verdognolo. La stessa wollastonite poi, che si manteneva pur sempre in proporzioni notevoli, va scemando gradatamente e dalla analisi I alla II la differenza è notevole. 7.— Stratarelli d’aspetto selcioso. Presso al contatto entro al calcare marmoreo vedonsi stratarelli, bande grigio-verdastre d’aspetto petroselcioso, che talora per la sotti- gliezza e frequenza loro e per le ondulazioni che presentano dànno alla roccia apparenza di cipollino. Queste bande grigio-verdastre, cui il LortI dette nome di fiiaretti selciosi, percorse parallelamente all’ andamento loro da striscie di colore più scuro, talora bruno-rossiccio, rassomigliano a ciò che i Tedeschi chia- mano Kalksilicathornfels, cui secondo LoEwInson Lessine!) corrisponderebbe il nome di cornubianite calcare, ma non vi corrisponde perfettamente alle varietà più comunemente descritte la costituzione mineralogica. (1) Lexique pétrographique. C. R. d. VIII. Cong. geol. intern, Paris, 1900. 138 G. D’ACHIARDI Osservata al microscopio la roccia con deboli ingrandimenti appare come una mescolanza microcristallina di elementi non facili a distin- guersi fra loro. Con forti ingrandimenti si nota essere costituita da piccoli granuli verdolini irregolari nel loro contorno, involti ed immersi in un fondo scolorito che, a nicol incrociati, mostra una struttura saccaroide per unione di piccoli grani allotriomorfi. Questi sono limpidi, senza rilievo e con bassissimi colori di interferenza; si direbbero di quarzo, ma a luce convergente la maggior parte si mostrano biassici. Potrebbero credersi di cordierite se la poca magnesia data dall’analisi non ne escludesse la possibilità, onde e per la copia dell’allumina conviene riportarli a fel- dispati calcici, sebbene i bassi colori di interferenza e la quasi costante mancanza di evidente struttura polisintetica lascino ancora qualche dubbio. Di questi grani alcuni, a rifrazione minore del balsamo, sono ve- rosimilmente di albite; gli altri di anortite o altro feldispato molto calcico. Soltanto in piccola parte sembrano riferirsi al quarzo, di cui è dato vedere la figura di interferenza soltanto però nei bracci della croce nera. Limitazione questa attribuibile all’ estrema piccolezza dei grani, dalla quale deve verosimilmente dipendere anche la bassezza dei colori di interferenza. I grani verdolini sparsi fittamente per tutta la massa scolorita pre- sentano in generale notevole rilievo (tav. VI, fig. 5) e mentre a luce ordinaria per questo carattere e per il loro colore eguale in tutti sem- brebbero spettare ad un’unica specie, a nicol incrociati mostrano no- tevole differenza nei colori di interferenza benchè solo raramente alti. Per la massima parte sembrano riferirsi a zoisite; alcuni probabilmente fra i meno rilevati spettano a scapolite, come fa credere anche la pre- senza del cloro svelatoci dall’ analisi, mancano però qui le forme ret- tangolari del dipiro osservate nelle altre rocce, onde probabilmente sì tratta di altra varietà di scapolite, del tipo della wernerite, che suole presentarsi in grani sulle zone di contatto. Non pochi di questi grani e in special modo quelli che presentano linee longitudinali di sfaldatura insieme a forti colori di interferenza, credo vadano riferiti alla solita malacolite, che si presenta in cristalloidi maggiori (tav. VI, fig. 5 a destra) più coloriti in verdastro, con tutti i caratteri essenziali del pirosseno a formare come delle piccole venule, nelle quali anche i grani saccaroidi della massa incolora senza rilievo acquistano maggiore sviluppo. METAMORFISMO SUL CONTATTO FRA CALCARE E GRANITO 139 Con questi pirosseni maggiori si vede talora qualche traccia di an- fibolo verde derivatone per alterazione. Non posso escludere la presenza anche di qualche grano di epidoto e vi si osservano anche rarissimi fasci di fibrosa tremolite. Frequentissimi sono nei granuli di quarzo granuli di zircone in foggia di piccolissime olive, rarissimi invece i microliti bacillari di apatite. Le sezioni sono quasi sempre traversate da strisce giallastre corri- spondenti alle zone bruno-rossiccie sopra ricordate. Queste strisce o mac- chie giallastre osservate al microscopio mostrano oltre ai soliti minerali abbondantissime laminette più o meno alterate, ordinariamente molto, di una mica bruna divenuta giallognola per alterazione (tav. VI, fig, 6), la- minette rotonde e dentate quali RosenBUSCH !) descrive di alcuni mica- scisti nodulari, e quali ho pur osservato io stesso nelle sezioni di una corneana nodulosa (Zmoterhornfels) di Marienberg nell’Harz. Come prodotti derivanti da queste lamine micacee vi si osservano frequenti e spesso anche ben definite laminette di ematite. In questa stessa zona giallo-bruna della roccia, non è raro osser- vare granuli metallici di difficile determinazione, forse di pirrotina. L’analisi chimica fattane mi ha dato: DIO AO do 47,43 CO, TT ITA TA RR NO tr. Psosedlia fedi tr. AO ea e 20. 22 BIOS a pia 2,09 EVER I a RO 5,22 MOON e tai 0,45 (CHO AR 20,17 Me e dis 3,25 REOEEMEIE A Vol 0,59 Na Ob A 0,57 H,0 sotto 110° . . 0,08 H,0 per arrovent. . 0,51 Cile te E 0,09 100, 67 —0= 0,02 100, 65 le, Spa = 8 (02 Da essa si ricava la composizione mineralogica seguente: 1) El. d. Gest. pag. 96. Sc. Nat. Vol. XIX 10 G. D’ACHIARDI ‘ONuOWIt] eTe © © ogmewo,ITe E T 6 £ 1od ogrtogia oquemmeamewsso1dde ny 091119F OPISSO,] *OIIATP OUNTIOI [Op H9JqEIVI t opuequeserd uou ‘ogrperieui Ip eun ® OHUOIRUI IP 9]0D9[OUr ONp ep IIMI1jS00 QUI09 EIE]OO]tO NJ ogrpodeos e] cipenb ogsonb ut 60°0 19 evi 33 ‘08 60‘ oz ‘0 68‘ ‘003 co‘ 5°0 — 0 Cere ct Go = (OC OUN OSN O°N 1660 ON TIe‘o = 80°0 gL ‘0 =i - 80‘0 87 ‘0 = TI ‘0 = “AOIIe 19d IT 09908 O'H » O0'H QIIUOWIIT i OJIgeDaRT enboy OZIENO) EOISUN “OISOA TU9SSOSIT E0ISSHN “OISEO °<— *o*sveo | tqedsIppoa 80°1S TV EN * Pors][Ho]fry°eo eusioz QVoIg To°°0%s°Ty"en | ogpodeog (#"0%1s°Ty*e0)g METAMORFISMO SUL CONTATTO FRA CALCARE E GRANITO 141 Dal quadro precedente si ricava: Composizione mineral. Pesi specifici in peso %/ Diremportemisai ce n, 6,02 6R6Ss 270185036 GIORIO tO ei a ca 5, 66 5, 62 2,92 16,410 ROSTER nn AE 14,03 3,01 46, 439 Feldispati molecola ortosica — 2,12 2,10 2,62 5,502 » anortitica 32,27 32,06 2,76 88, 486 EPFASsEn a... 194,46 34,23 3,40 116, 382 OZONO ta 3,03 3,01 2,65 7,976 AGIO è l'io ISEE 0,08 0,08 1,00 0,080 Pratesi 1,39 1,38 4,00 5, 020 Mimoniberi: daga Cal 0,82 0, 81 3,60 1 2,916 100, 67 100, 00 307, 747 Il peso specifico di 3,077 è vicinissimo a quello direttamente trovato, 3,02. Di tutte le varietà di rocce studiate questa è quella che lascia la maggiore incertezza per la determinazione mineralogica. Da una parte l'estrema piccolezza della grana, a risolvere la quale occorrono i più forti degli abituali ingrandimenti, dall’ altra le difficoltà maggiori che negli altri casi di risalire dalla composizione rivelata dall’analisi alla composizione mineralogica, contribuiscono a lasciare nell’incertezza. Si può infatti da quei dati risalire anche ad altra costituzione mineralogica ammettendo altri silicati ricchi di allumina e calce che non sieno i fel- dispati calcici, tanto più che alcuni caratteri, come la mancanza di strut- tura polisintetica, non s’ accordano con l’abituale apparenza di questi; ma a diversa determinazione oltrechè altri e non meno importanti ca- ratteri ottici s' oppone la discordanza che ne risulterebbe fra il peso specifico determinato direttamente e quello dedotto dalla interpetrazione mineralogica: ciò che credo dimostri che fra le possibili, 1’ interpetrazione più razionale è quella da me adottata, la quale si accorda poi anche bene con la composizione delle altre rocce, che hanno preso parte al meta- morfismo. Si tratta per me senza dubbio di una di quelle forme di rocce d’aspetto selcioso, che i Tedeschi chiamano, come dissi, XalXs:icathornfels. La mancanza di idiomorfismo nei costituenti essenziali e la impossibilità di stabilirne l’ordine genetico confermano la corrispondenza, la quale 142 G. D’ACHIARDI può trovarsi anche fra i termini di quella famiglia cui il RosENBUScH riferisce i suoi Epidotfels, Granatfels, Malakolithfels, Skapolithfels, Wol- lastonitfels ecc. e, piuttosto che di uno o di altro di questi termini si tratta probabilmente di un termine loro intermedio per la promiscuità delle specie e che potrebbe anche dirsi pirossenico-anortitico essendo piros- seno e anortite i minerali prevalenti; in ogni modo si ha sempre un pro- dotto di metamorfismo a struttura criptocristallina d’ aspetto selcioso-cor- neanico in mezzo a rocce calcari presso il contatto granitico. Conclusioni. Per le osservazioni da me fatte sul posto nel 1899 e 1902 e per lo studio fisico-chimico delle rocce calcari e granitiche a contatto al Posto dei Cavoli presso San Piero in Campo a me sembra possano ricavarsi, fra le altre, le conclusioni seguenti : 1. — La roccia calcare si presenta al Posto dei Cavoli strettamente collegata alla formazione scistosa entro alla quale forma talora delle lenti, e tanto il calcare che gli scisti si trovano in vari punti a con- tatto immediato con il granito. 2.— Il calcare sia a contatto diretto con il granito, sia incluso negli scisti, non ha una notevole estensione e a non molta distanza da Posto dei Cavoli termina con l’essere completamente supplantato dalla forma- zione scistosa. È 3. — Tanto la formazione calcarea che quella scistosa mostrano evi- dente metamorfismo in tutta la regione. 4. — La roccia calcare, tanto ad immediato contatto con il granito, quanto a distanza da esso è completamente convertita in marmo sac- caroide a grana assai grossa o in cipollino scherzosamente fogliettato Sola differenza si ha che il calcare è più ricco in minerali accessori nei punti ad immediato contatto con il granito. 5. — Non sono riescito a trovar traccia del calcare originario, albe- rese o altro che sia, e che potrebbe indicarci l’aver esso dato origine al marmo. Ciò d’accordo con le osservazioni del LoTtI che non riescì a ritrovare l’alberese, indicato invece dal CoccHI. 6. — A dividere le due rocce contigue, calcare e granito, si ha una zona molto ristretta di contatto da una parte della quale predominano i materiali granitici, dall’altra i calcarei. Questa zona verde-scura è grossa soltanto pochi centimetri. METAMORFISMO SUL CONTATTO FRA CALCARE E GRANITO 143 Dall’una e dall’altra parte di questa zona granito e marmo presen- tano specie minerali loro non proprie, ma la presenza di questi mine- rali metamorfici presso il contatto cessa molto più presto dalla parte del granito che del calcare. 7.— La normale granitite vicina al contatto perdendo mica si mo- stra attraversata da piccole bianche vene aplitiche, nelle quali la mica è quasi completamente scomparsa. La granitite stessa è più acida che non quella a distanza. Il microclino, l’anortose, l’ albite s’uniscono in copia all’ortoclasio e la granitite si converte in un granito alcalino a grande prevalenza di feldispati sodio-potassici e scarsità di sodio-calcici e con tendenza alla costituzione e struttura pegmatitica. 8. — Le vene aplitiche oltrechè per la quasi mancanza della mica nera sembrano caratterizzate per maggior copia di elementi potassici e sembrano più in relazione alla porzione periferica della massa granitica che ad effetto di metamorfismo di contatto. Di queste vene aplitiche se ne hanno, come si sa, moltissime anche a distanza dal contatto stesso. 9. —Sul contatto con la roccia calcare il granito, che mostra ancora ortose, microclino, pertite, col diminuire di questi si arricchisce di fel- dispati sodio-calcici, che sono ancora del tipo acido. Mentre tende a sparire, fino a sparire del tutto, la mica nera compariscono titanite e malacolite. 10. — La sottil banda di contatto verde-bruna dalla parte granitica è costituita essenzialmente di una fitta granulazione di granuli pirosse- nici ed epidotici, che sembrano sostituirsi alla titanite, che solo osser- vasi, e in tanto minor copia, nella parte più esterna. Il quarzo è scomparso e di feldispati, se qualche grano è presente e in special modo esso pure verso l’esterno, è di termini molto basici ric- chi di calce. Dalla parte del marmo, non solo non più quarzo, ma neppur feldi- spato e inloro vece wollastonite, dipiro e pirosseni qui pure, come quelli precedentemente citati, ricchi di calcio e assai di ferro e poveri di ma- gnesio. 11.— Queste stesse specie pirosseno, dipiro e wollastonite, segui- tano ancora nel marmo al di là della verde-scura zona di contatto, ma fra esse termina per predominare e rimaner quasi esclusiva a qualche distanza la wollastonite. Presso il contatto compariscono anche grossularia, vesuviana, hu- mite ecc. ecc. tutti minerali calcici, come gli altri, meno quest’ultimo ma- gnesiaco. 144 G. D’ACHIARDI 12.— Nel marmo anche a distanza dal contatto granitico alcune di queste specie ricompariscono nelle lenti o stratarelli d'aspetto selcioso, che formano il cipollino, o presso di esse. Anzi talora a me sembra che esse formino concentrandosi dei veri e propri stratarelli che possono con quelli confondersi. 13. — Cambia la qualità e la proporzione dei minerali metamorfici con la distanza dal contatto, ma la metamorfosi interessa con la stessa intensità tutta la originaria roccia calcare convertita totalmente in marmo, onde per me conviene ritenere che qui si abbia un caso di metamor- fismo normale, che sul contatto ha dato luogo alla formazione di minerali diversi per la contiguità di due diverse rocce, senza negare che anche altre cause mineralizzatrici possano essere intervenute posteriormente e indipendentemente dalla marmorizzazione del calcare. Non mancano in-. fatti sulla periferia della massa granitica di Monte Capanne testimo- nianze di azioni idriche, verosimilmente termali. 14. — La quantità maggiore dei minerali metamorfici sul contatto, al pari della natura loro, dipende dalla parte presa da entrambe le rocce contigue alla produzione delle nuove specie, mentre a distanza avve- niva solo la cristallizzazione degli elementi costituenti le rocce stesse. 15. — L’apparenza in filoncelli del granito entro al marmo, l’alter- nanza anche di cipollino e granito presso al contatto non si oppongono al concetto di metamorfismo normale: infatti è noto aversi tutto ciò ‘quasi costantemente alla periferia delle grandi masse granitiche. 16. — La reciproca azione degli elementi delle rocce a contatto è evidente per la natura di minerali formatisi, in nessun posto però si osservano segni di fusione o cottura per azione del contatto. 17.— I minerali formatisi presso al contatto nelle due rocce contigue son quelli stessi che caratterizzano i casi di metamorfismo normale e cioè pirosseni, titanite, wollastonite, granato, vesuviana, mica, feldi- spato ecc. Mancano invece completamente o quasi quelli che contradi- stinguono il così detto metamorfismo pneumatolitico, quali sono la tor- malina, il topazio, la fluorina, e altri minerali boro-fluoriferi che si tro- vano invece abbondanti nelle geodi dei filoni aplitici e pegmatitici nel granito di altre località del Monte Capanne. Infatti fra tutte le analisi solo eccezionalmente furono trovate tracce di fluore e di boro. Laboratorio di Mineralogia dell’ Università. Pisa, luglio 1902. Fig. Fig. SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE TAVOLA IV. 1. — Granito alcalino. Cristallo di anortose con inclusioni. Quarzo e feldi- spati secondari a rilegare cristalli maggiori. Nicol +. Ingrandimento 18 diam. 2. — Vene di aplite nel granito alcalino. Filaretti paralleli ad elementi maggiori. Nicol +. Ingrand. 18 diam. 3. — Granito alcalino vicino al contatto. Cristallo lanceolare di titanite e lamine di pirosseno. Nicol=. Ingrand. 18 diam. 4. — Granito a contatto e zona di contatto pirossenica. Nicol =. Ingrand. 8 diam. 5. — Pirosseni di zona di contatto. Nicol=. Ingrand. 20 diam. 6. — Zona di contatto dalla parte del calcare. Lamine di calcite nelle aree pirosseniche. Nicol +. Ingrand. 20 diam. TAVOLA V. 1. — Zona di contatto dalla parte del calcare con lamina di dipiro. Nicol=. Ingrand. 8 diam. 2. — Calcare bianco saccaroide con lamine di wollastonite e granuli di pi- rosseno. Nicol +. Ingrand. 30 diam. 3. — A destra parte di grossa lamina di wollastonite con numerose inclu- sioni. Nicol +. Ingrand. 18 diam. 4. — Geminato di wollastonite. Nicol {-. Ingrand. 18 diam. 5. — Lamine a struttura polisintetica di humite. Nicol +. Ingrand. 18 diam. 6. — Fascio di wollastonite fibrosa. Nicol 4. Ingrand. 18 diam. TAVOLA VI. 1. — A sinistra lamine e granuli di humite e gruppo di cristalli di vesu- viana. A destra lamine di humite. Nicol=. Ingrand. 18 diam. 2. — Cristalli aghiformi di sillimanite in lamine di humite. Nicol =. In- grand. 30 diam. 3. — Inelusioni globulari di calcite nel dipiro. Nicol +. Ingrand. 18 diam. 4. — Raggruppamento di cristalli di dipiro framezzo a prodotti di altera- zione in parte ferruginosi. Nicol =. Ingrand. 30 diam. 5. — Sezione degli stratarelli d’aspetto selcioso con abbondanza di piros- seno. Nicol=. Ingrand. 30 diam. 6. — Idem. con grande abbondanza di mica nera. Nicol=. Ingrand. 30 diam. IsTITUTO ANATOMICO DELLA REGIA UNIVERSITÀ DI Pisa DOTT. F. PARDI == LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI PSOAS MINOR, ILIO-PSOAS E QUADRATUS LUMBORUM Gli studi di miologia comparata in questi ultimi anni, sia che fossero intesi ad illuminare gravi problemi di affinità zoologica o mirassero a gettare nuova luce sul significato di quelle varietà, che un tempo erano considerate lusi naturae, hanno subìto, per opera di valorosi e pazienti ricercatori, un notevole impulso. Il desiderio di portare un qualche contributo alla conoscenza di quel cospicuo gruppo muscolare che dalla porzione assile, nei Mammiferi, va ai due primi segmenti dell’arto pelvico, mi trasse da prima a fare 0g- getto della mia osservazione i soli muscoli psoas. Ma procedendo nelle mie ricerche mi convinsi della necessità di allargare le linee del mio lavoro, comprendendovi altresì lo studio del muscolo quadratus lumborum. È nota ad ognuno la grande influenza esercitata sugli studi di mio- logia comparata dalla teoria della scuola di Heidelberg, la quale, fon- dandosi sul principio che un muscolo deve considerarsi come organo ter- minale di un nervo, stabilisce nella conoscenza esatta di questo un mezzo sicuro ed infallibile per determinare il significato di quello. KonLBRUGGE 2°!) in una monografia sui muscoli e nervi dei Primati divide i primi, fondandosi unicamente sull’innervazione, in un certo nu- mero di gruppi, ad uno dei quali, al 7°, appartengono il m. quadratus lum- borum, il m. ilio-psoas e il m. psoas minor, innervati, prossimalmente dal ligamento inguinale, dai rami del plesso lombare. Partendo da questo principio fondamentale, oltre che dal fatto del- l’intima connessione delle loro origini, ho completato dunque lo studio dei mm. psoas con quello del m. quadratus lumborum, riunendo questo a quelli in uno stesso gruppo, sebbene la maggior parte degli Anatomici descrivano i primi coi muscoli dell’estremità inferiore e il secondo con quelli dell’addome. a ct LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 147 Notizie storiche.*) È noto come fino dai tempi ippocratici i muscoli occupanti la por- zione ventrale e laterale della colonna lombare abbiano assunto il nome di dé: (da dda, as, lombo). IpPocRATE !) nel libro IEPI APOPON (delle articolazioni) si esprime così: LARA Tapaphoric Èyer pubòy todto modyov tò yopioy în t6v elomdey uepoy, dc dj za)éova. das **) Ma da quanto affermano VEsALIo *) e FaLLoPPIO 4), i Greci chiamavano questi stessi muscoli anche yenpopijrrat 0 venponirepes ed dA@brexes. Non ho potuto farmi una ragione esatta del perchè di queste denominazioni, sopra tutto della seconda. Per la prima possiamo riferirci all’ antico con- cetto dei tendini, quos anatomici aponeurosz:s myuwn, id est nervosas Mu- sculorum propagines, nominare solent (GALENO ”)). I mm. psoas, presentando tendini robusti, potrebbero essere stati considerati come generatori di nervi (vebpopiepar). A meno che non si sia voluto usare quest’ espres- sione per il rapporto che detti muscoli hanno coi nervi del plesso lom- bare, i quali, attraversandoli, apparirebbero come generati da essi. Gareno ?) nel libro de musculorum dissectione, ab AUGUSTINO GADAL- DINO versus, al cap. 25 dice: «.... in inferioribus vero, quae secundum lumbos sunt, tota interior lumborum regio duos maximos habent mu- sculos, quos omnes dissecandi professores, psoas nominant ». E nello stesso libro, al cap. 31: « Cum Psoa quae haud exiguus musculus est, ab undecima thoracis costa incipiat, interior quidem eius portio per va- lidum ligamentum interiori coxendicis parti inseritur, eo praecipue in loco, ubi os quidem pubis vocatum incipit, os vero ilium desinit: exterior autem in principium ossìs ilium inseritur: reliquum vero ipsius psoae universum iuxta interna ossis ilium partes progrediens, densum quen- dam ex illo etiam osse exortum carnosum suscipit: postea, cum ambo *) La ricerca della bibliografia antica mi ha permesso di portare un largo contributo alla storia di questo gruppo muscolare. Ciò giustifica, a mio avviso, la lunghezza apparentemente soverchia delle citazioni. *#) In altri codici trovasi Voir: oppure dia: con or sopra 6. LIiTTRÉ (p. 195) traduce: «....cette région est la seule qui, à la partie antérieure, soit recou- verte par des muscles: on les appelle psoas». 148 F. PARDI unicus evadit, per validum tendonem leniter latum parvo femoris trochan- teri (quasi dicas ratori) inseritur: totam ipsius rotunditatem occupans ,. E nel libro de anatomicis administrationibus, ALOANNAE ANDERNACO latinitate donatus, al cap. 9 aggiungesi: “ Sequens igitur carnes deor- sum tendentes, quas d5x< Graeci nominant, tendines duos has ex ilium osse adeuntes in utraque lumborum carne reperies, quos anatomici apo- neuros:s myon, id est nervosas musculorum propagines, nominare so- lent: Alter ipsorum interior, quem etiam ligamentum rectius, quam ten- dinem, appellet, ei maxime parti inseritur, qua pubis os cum coxa con- nectitur: reliquus in parvum femoris processum (trochantera vocant) pertinet ,. Da quanto dice GaLeNO ?), appare manifesto innanzi tutto come gli antichi Greci chiamassero »52< tutta la massa muscolare occupante ven- tralmente e lateralmente la colonna lombare e non restringessero questa denominazione al nostro m. psoas major. GALENO ?) infatti descrive il m. quadratus lumborum come una porzione della intera massa denomi- nata dirc, e a quello certo si riferisce colle parole: exterior autem in principium ossis ilium inseritur. E a confermarci in questo convincimento possiamo invocare l’autorità di VesaLio *), il quale al cap. XXXVIII (de musculis dorsum moventibus ), p. 226, descrive il m. quadratus lumborum (nonus et decimus dorsum moventium): “....nonus autem, et decimus, quorum utrinque etiam unus est, in illorum musculorum habentur nu- mero, qui déx. et vanconirpar et aXbrexes Graecis dicuntur ,. Ciò stabilito, credo assai interessante insistere su di un altro punto relativo alla storia di questo gruppo muscolare. Dagli anatomici, da DoucLas !8) in poi, viene ordinariamente attribuito a RioLano 1%!) il merito di avere osservato e descritto pel primo il m. psoas minor. Leggendo accuratamente GaALENO ?) invece, ognuno può persuadersi aver questi notato e descritto come parte della massa muscolare deno- minata $das il muscolo che assunse di poi la propria individualità sotto il nome di m. psoas minor. È certamente a quest’ ultimo che egli al cap. 31 surricordato si riferisce colle parole: “.....interior quidem eius portio etc. ,. Ed è sempre del m. psoas minor che parla quando al cap. 9 SURTCRLONO LE ep alter ipsorum interior etc. ,,. VEsaLio *), nel cap. de musculis dorsum moventibus, descrive assai esat- tamente il m. quadratus lumborum e il m. psoas major, di cui ritorna a parlare nel cap. de musculis femur moventibus. Non gli era nota la pre- senza del m. psoas minor: s’indugia bensì a far risaltare l’ errore di LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 149 CLeARCO, il quale aveva chiamato 4éar i muscoli del dorso, e con fine arguzia chiama giudice il lettore della poca fedeltà e chiarezza con la quale GaLeNO ?) aveva descritto i mm. psoas della scimmia. “....Ipsa enim simiae , egli dice “ non admodum quadrat, et longe minus homini: . quod tum demum abunde intelliges, quando haec nostra, adhibitis sec- tionibus, cum ipsius oraculis contuleris ,. FaLLoPPIO 4) non fa che ripetere le cose di VESALIO 3). Fra i commentatori di EUSTACHIO 9) (LANCISI, PETRIOLI, ALBINI) sorse discrepanza intorno alla tavola XXXVIII, ritenendo alcuni che egli non conoscesse il m. psoas minor. ReALDO CoLomBo 5) nel cap. de musculis dorsi descrive primo fra tutti il m. quadratus lumborum, e nel cap. de musculis femur moventibus il m. psoas major. VALVERDE ”), SpIGELIO 3), De MARCHETIS *), BARTHOLINI 19), CowPER !!), VesLINGIO !2) nulla ci dicono d’interessante. RioLano !* 14), cui da DouGLAS !°), come ho già detto, viene attribuito il merito di aver descritto pel primo il m. psoas minor, al cap. XLI del libro V dell’Anthropographia così si esprime: “ psoa parvus dicitur. In mulieribus rarius reperitur, quam in viris, et anno Domini 1631 videre contigit in muliere robustissima Viragine ,. E a pag. 410 dell’ Enchiri- dium ripete press’a poco le stesse cose. “ Hic est musculus , dice Dronis 1) “ille qui hanc adeo teneram partem constituit costarum bubularum quam Galli filum (le filet) vocant ,. VeRHEYEN !°) non fa cenno del m. psoas minor, suscitando le mera- viglie di Morgagni 17): “...... miror quoque, cur Psoas parvus, qui haud ita perraro inveniri solet, ab eodem Verheyenio ne memoretur quidem ,. PascoLi !8), DouGLas 19), WALTHER 2°), HristERO #1), ALBINI ??), LE- BER 23), TARIN 24), SABATIER 2°) descrivono assai esattamente i muscoli di cui mi occupo. SARACENI ?%) e KuLmo 2°) non fanno cenno del m. psoas minor. WinsLow 25) ha trovato quest’ultimo muscolo più frequente nella fem- mina: descrive inoltre un m. psoas minor accessorio. SOMMERING 2°) descrive il m. quadratus lumborum coi muscoli del to- race, e gli psoas con quelli dell’arto inferiore. CLoquer 3°) invece colloca questi ultimi col m. Zongus colli in una regione prevertebrale. CALDANI 31), BicHaT 82), De MICHELIS 33), BoyER 84), GoRrGONE 85), 150 F. PARDI THEILE 36), JAMAIN 87), InzaAnI 88) e RupEL 3°) non ci dicono cosa che meriti speciale menzione. Delle opere più recenti avrò occasione di parlare in altro capitolo di questo studio. Prima di passare oltre, ritengo non del tutto inutile esporre nel seguente quadro le antiche e nuove sinonimie dei muscoli che formano oggetto della mia osservazione. I. — Psoas minor. Psoas parvus: RIioLANO 1% 14), De MARCHETIS °), CowpER 14), DouGLas 19), MorgAGNI 1"), ALBINI 22), TARIN 24). Piccolo psoas o lombare minore: PaAscoti 18). Psoas minor: SOMMERING 29). i Psoas parvus: CALDANI 81). Prélombo-pubien: CHAUSSIER * ). Pré-lumbo-pubien: Dumas 41). II. — Psoas major. Femur moventium sextus: VESALIO 8). Quintus femoris: CoLomBo °). Sextus femur moventium musculus: VALVERDE ?). Lumbaris sive Psoas: RioLano 13:14). Lumbalis musculus: SPreeLIo 8), BARTHOLINI 19). Psoas magnus seu Lumbalis: CowPER 1). Psoas magnus: DoueLas 19), MorgaGnI 17), ALBINI 2°), CAnDANI 31). Psoas seu Lumbaris: DionIs 1°). Lombare o m. Psoas: PAscott 18). Psoas: KuLmo ?). Psoa: SARACENI 2°). Le Psoas ou Lombaire interne: WinsLow 28). Psoas major: SOMMERING 29). Prélombo-trochantinien: CHAUSSIER 4°). Pré-lumbo-trochantinien: Dumas 41). III. — Iliacus. Sextus femoris: CoLomBo $). Iliacus internus: SPIaeLIo 8), ALBINI 2°), SÒMMERING 2°). Iliaco: WInsLow 28). LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 151 Iliaco-trochantinien: CmavssIER 4°), Dumas 41). IV.— Quadratus lumborum. Nonus et decimus dorsum moventium: VEsALIO 3), VALVERDE ?). Primus dorsi musculus: CoLomBo °). Sexti paris dorsi: FALLOPPIO 4). Quadratus: RioLaNo 114), DoueLas !°), KuLmo 27). Paris lumborum quadrati: SPiGELIO 8). Quadratus lumborum: CowPeR 1!), ALBINI 22), CALDANI 81). Triangolare: DronIs 15), PascoLI 8), SARACENI 6). Le Quarré des lombes ou Lombaire externe: WinsLow ?8). Ilio-costal: CHAUSSIER 4°). Iio-lumbi-costal: Dumas 41). Rectus abdominis posticus s. scalenus lumborum: LUuscHKA ?44). Ordine del presente lavoro. Ho studiato filogeneticamente i mm. psoas minor, ilio-psoas e quadratus lumborum, dagli Anfibî sino all’ Uomo. Con maggiore larghezza mi sono occupato — e lo si comprende age- volmente — dei Mammiferi, cui seguono per ordine i Rettili, gli Anfibî e gli Uccelli. In quest’ ultima Classe il m. quadratus lumborum è rudimentale, e non esistono morfologicamente e fisiologicamente gli omologhi dei mm. psoas : donde la brevità con cui ne ho trattato. Per quanto riguarda l'Uomo, più di ogni altra cosa mi sono occu- pato dello studio delle varietà. Quando l’ ho creduto opportuno ho fatto precedere delle brevi note di osteologia (Anfibî, Rettili), quanto cioè era strettamente necessario alla facile intelligenza delle osservazioni: così per ogni Mammifero esa- minato ho creduto conveniente indicare il numero delle vertebre lombari. Ogni Ordine poi è preceduto da rapide notizie bibliografiche e dal riassunto delle osservazioni altrui, mirando così ad estendere, per questo gruppo muscolare, le linee di quell’imponente lavoro che è l’opera ma- gistrale di BRONN 4°). Vengono in ultimo le considerazioni generali e le conclusioni. La classificazione seguita è quella di RICHIARDI 48). Mi sono valso del sussidio delle più importanti opere di Anatomia 152 F. PARDI comparata, antiche e moderne, opere che io ritengo sia meglio qui subito ricordare, come lavori generali cui debba necessariamente rivolgersi chi sì accinga a studi di questa natura, e cioè: Cuvier 44), CuvieR e LAu- RILLARD 45), MecKEL 46), CaRUS 4°), SrannIUS 45), STEBOLD e STANNIUS 4°), MiLNnE-EDwaARDS 59), OwEN 51), Topp 5?), HumPHRy 53), HuxLEY 54), SCHNEI- DER °°), ScHmIpt 56), Ber 57), Voet e Yune 58), WrieDERSHEIM 5°), GEGEN- BAUR %°) e MAURER 81). I. — Amphibia. Brevi note di osteologia. —Il numero dei segmenti vertebrali è molto maggiore negli Urodeli, nei quali subisce notevoli oscillazioni, di quello che non sia negli Anuri. In questi con la lenta metamorfosi regres- siva cui va soggetta la porzione caudale della colonna vertebrale, dalla fù- sione di più vertebre embrionali ha luogo la formazione di un lungo osso stiliforme, 1’ os coccygiîs. Il numero delle vertebre negli Anuri (Rana, Bufo) è di 9, 8 presacrali e 1 sacrale. Tanto negli Urodeli come negli Anuri i segmenti vertebrali sono provveduti di processi trasversi, più lunghi in questi che in quelli. Le coste hanno subìto una regressione notevole. La cintura pelvica tanto negli Urodeli come negli Anuri è costituita di 3 parti: iliaca, pubica e ischiatica, cui nella maggior parte degli Uro- deli aggiungesi la cartilagine marsupiale o epipubica (WIEDERSHEIM 59). L’ilio negli Anuri è rappresentato da un lungo osso volto diretta- mente in avanti per articolarsi col processo trasverso della vertebra sacrale. i I. — Urodela. Ho consultato i lavori di MecxkEL 6?), Mrvart 63), HumPHRyY 54), DE Man, 55), HorFMAnN $$) e quello recentissimo di Osawa 67). Ho studiato: Zrifon cristatus LAuR., Triton taeniatus Lev. e Salaman- dra maculosa LAUR. Ma in quest’ Ordine non possiamo dimostrare entità muscolari che possano riferirsi morfologicamente e fisiologicamente al m. quadratus lumborum dei Mammiferi e tanto meno al m. èl20-psoas. Viene bensì con- siderato come un omologo del m. éliacus dell Uomo il m. èleo-femoralis di DE MAN 55) e HorrmAnn 69): ma Gapow °°) afferma che non si è an- cora arrivati in quest’ Ordine alla formazione di un vero m. èliacus internus. LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 153 MecKeL 5?) in Proteus, Triton e Salamandra descrive uno strato mu- scolare formato da fasci longitudinali ed estendentisi dall’ occipite fino all'estremità della coda. È da questo strato, segmentato assai nettamente, specie nella porzione più craniale, che in vicinanza del bacino origine- rebbero, secondo MEcKEL 5), in avanti e indietro, fasci che si attaccano all’ileo e che sarebbero rudimenti del m. quadratus lumborum. Negli Urodeli esiste assai bene sviluppato ventralmente e in vici- nanza immediata della colonna vertebrale, un piano muscolare, che per importanti ragioni morfologiche, di cui sarà tenuto parola nelle conside- razioni e conclusioni, merita di esser qui descritto. Mi riferisco ai: Mm. vertebro-costales: HoFrMann 86). M. retrahens costarum: Mivart 88). » transversalis: HumPHRY 64). I mm. vertebro-costales sono rappresentati da fasci strettamente ade- renti gli uni agli altri e costituenti un esteso piano muscolare dall’oc- cipite fino all’origine della coda. Questi fasci nascono dalla colonna ver- tebrale e con un decorso cranio-laterale s’ inseriscono all’estremità libera delle coste. II. Anura. Oltre gli antichi lavori di KLOETZKE 98), ZENKER 6°), MECKEL °°), VAN ArtENA “!), LeDEBOER ‘?), Ducés °3), CoLLan 4), ricorderò quelli più re- centi di De Man 5), HorrMmann "5) e quelli recentissimi di MAURER 77), PERRIN "8), GauPP ?°), EckeR e WiepERSHEIM 8°) nella nuova edizione compilata da GaupP 8°). Ho studiato in quest’Ordine vari esemplari di Rana esculenta L. e Bufo vulgaris LAUR. 1) M. iliacus internus. M. ileo-psoas: EcKER 8°). ileo-femoralis anterior profundus: De MAN °5), HoFrMAnN °°). » intra-ileo-fémoral: Duefs ?3). » Iliacus: v. ALTENA 71). iliacus internus: ZENKER 9°), LEDEBOER ??), GAUPP 89). » pectinaeus: CoLLan 74), KLOETZKE 88). » @xtenseur du fémur: PERRIN ?8). 154 F. PARDI Più robusto in Bufo vulgaris che in Rana esculenta, origina dalla superficie mediale dell’ileo e dal margine ventrale della cintura pelvica : volge distalmente e lateralmente, ricoprendo l’articolazione del fianco, e, insinuandosi fra il m. fensor fasciae latae (caput medium del m. triceps femoris) e il m. cruralis, s'inserisce per un lungo tratto al labbro late- rale della crista femoris. È innervato dal n. femoralis. EckeR *°) chiamò questo muscolo ileo-psoas, ma evidentemente esso corrisponde al m. éliacus dell'Uomo e non già al m. ?lio-psoas. 2) M. quadratus lumborum. M. ileo-lumbaris (pars lateralis): EckER e GaupP 89). » transverso-iliaque: Ducés "5). Viereckiger Lendenmuskel: MEcKEL 19). M. quadratus lumborum: ZENKER 5°), KLortzKE 55), Connan °4), v. Ax- TENA "1). » ileo-lumbalis: HorFmann °5). Mrcxet °°) lo descrive con quelli dell'addome come un muscolo al- lungato estendentesi dall’estremità anteriore dell’ileo alla faccia infe- riore delle vertebre. Ecker e GauPP #9) lo comprendono nella descrizione di quell’in- tero tralcio muscolare (m. ieo-lumbaris) che nella Rana è situato la- teralmente al m. longissimus dorsi. Il m. ieo-lumbaris, secondo questi AA., è costituito di 3 specie di elementi: alcuni situati dorsalmente ai processi trasversi, segmentati ed innervati da rami dorsali, altri situati lateralmente e ventralmente ai processi trasversi, segmentati del pari ed innervati da rami ventrali, ed altri infine (pars iliaca ) non segmen- tati, sovrapposti al margine della porzione laterale e provenienti dall’osso iliaco. Questa pars iliaca, che in Alytes, Bufo, Bombinator è assai robusta, viene considerata come un muscolo dell’estremità inserito sul tronco. Horrmann ‘5) afferma non esistere questo muscolo in Pipa americana. MEcKEL ‘°) invece lo descrive come distintamente separato dai muscoli del dorso e lo fa giungere sino ai corpi delle prime 2 vertebre. In Bufo vulgaris (Tav. VII, fig. 1) è rappresentato da una cospicua massa muscolare tesa fra l’ileo e î processi trasversi, di cui ricopre gli estremi e parte della superficie ventrale. Origina dalla superficie laterale dell’estremità più craniale dell’ileo con fibre per la maggior LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 155 parte carnose: da queste origini il muscolo volge cranialmente e me- dialmente, ricoprendo colla sua faccia profonda la superficie laterale dell’articolazione sacro-iliaca, raggiunge gli estremi dei processi trasversi della 8* e 7? vertebra, che ricopre senza aderirvi, e, continuando il suo tragitto, si slarga per saldarsi alla superficie ventrale dei processi trasversi della 6°, 5° e 4* vertebra, confondendosi coi mm. intertra- sversariò dorsi. Il muscolo, considerato nel suo insieme, apparisce di forma triangolare colla base volta in avanti e l’apice indietro: il suo margine mediale, progredendo cranialmente, da prima si avvicina ai corpi vertebrali, poi leggermente se ne allontana, mentre il suo margine dorso- laterale è in rapporto d’intima contiguità col margine laterale di tutta la porzione rimanente del m. èleo-lumbaris, di cui il m. quadratus lum- borum non è che una parte. Innervato da rami ventrali, la sua contra- zione unilaterale avrà per effetto evidentemente di flettere il dorso da quel lato, mentre la contrazione bilaterale avrà quello di flettere ven- tralmente il bacino sul dorso. Per quanto riguarda Rana esculenta, seguo EckEeR e GauPP 5°) nella descrizione che essi danno di tutto il m. èceo-lumbaris. Questo è co- stituito di 2 porzioni: una mediale e l’altra laterale. La porzione me- diale, situata dorsalmente ai processi trasversi ed innervata da rami dorsali, origina dal processo trasverso della 9* vertebra e si spinge, scomposta in 5 segmenti per la presenza di septa tendinea, fino al pro- cesso trasverso della 4°. La porzione laterale, corrispondente, secondo il mio giudizio, al m. quadratus lumborum dei Rettili e dei Mammiferi, origina, come in tutti gli Anuri, dalla parte più anteriore dell’ileo: si- tuata lateralmente e ventralmente ai processi trasversi, di cui ricopre gli estremi, ed innervata da rami ventrali, essa pure ci apparisce pro- fondamente scomposta in 5 segmenti per la presenza di speciali setti tendinei, che continuano secondo una stessa linea quelli della porzione mediale, mentre superficialmente esistono fibre non segmentate. Questa porzione raggiunge, diretta cranialmente e medialmente, la punta del processo trasverso della 4* vertebra. HI. — Reptilia. I. — Ophidia. Ho consultato i lavori di HuEBNER 8!, MreckeL 82), D’ALtoN 8°), Owen 54) e Horrmann 59). Se. Nat. Vol. XIX 1a 156 F. PARDI Ho potuto esaminare un bell’esemplare di Boa constrictor L. Potrebbe apparire strano a tutta prima come in uno studio inteso a stabilire la morfologia dei mm. psoas minor, ilio-psoas e quadratus lumborum, che sulle ossa dell’arto pelvico trovano una delle loro inser- zioni, io mi sia valso del sussidio di un rettile sprovveduto di arti; ma, come potrò dimostrare in seguito, la disposizione dei piani muscolari tesi negli Ofidii tra la colonna vertebrale e le coste e i rapporti loro coi nervi, mi sono di grande aiuto per la interpretazione del m. qua- dratus lumborum della maggior parte dei Mammiferi. Ho esaminato il mio esemplare di oa constrictor in diversi tratti della sua lunghezza, ma presentando in ognuno la stessa fondamentale costituzione, mi sono valso per la descrizione dei singoli gruppi musco- lari della regione o della porzione in cui il rettile aveva il suo massimo sviluppo (Tav. VII, fig. 2). Se noi togliamo i visceri, ci si presenta subito, in vicinanza imme- diata della colonna vertebrale, un piano muscolare assai cospicuo e di- stinto, costituito da singoli fasci di forma romboedrica, che, originando dalla colonna vertebrale, con direzione cranio-laterale prendono attacco alle coste. Questi fasci sono i 1) Mm. vertebro-costales superiores *). Mm. costo-vertebrales superiores: Horrmann 5°). Questi muscoli traggono origine dai corpi vertebrali e, dirigendosi cranialmente e lateralmente, prendono attacco al margine posteriore di 6 o 7 coste situate più in avanti: ogni fascio per conseguenza viene a passar sopra a 6 o 7 coste più craniali di quella articolata col corpo vertebrale da cui il fascio ha origine. Contraendosi abbassano le coste, sono cioè dei veri refrahentes costarum: giacciono ventralmente ai mm. intercostales propriù e ad un altro piano di piccoli muscoli rappresen- tati dai 2) Mm. vertebro-costales inferiores. Mm. costo-vertebrales inferiores: Horrmann 5°). *) Io ritengo sia meglio, in servigio della funzione che essi compiono, chia- marli vertebro-costales superiores, indicandosi così prima la inserzione fissa e poi quella mobile. LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 157 Situati in vicinanza immediata dei corpi vertebrali per tutta la lun- ghezza della colonna, sono piccoli muscoli di forma triangolare, diretti caudo-lateralmente: hanno cioè una direzione opposta a quella dei pre- cedenti. Ognuno di questi fasci origina dalla superficie ventrale dei corpi di 2 vertebre contigue e dal legamento vertebro-costale, e s’ inse- risce, saltando una costa, sul margine superiore dell’ estremo vertebrale della costa seguente. Contraendosi sollevano le coste, le muovono cioè in avanti. I rami ventrali dei nervi spinali, appena originati, s’ insinuano fra i mm. vertebro-costales înferiores, passando fra un fascio e l’altro: de- corrono per breve tratto paralleli alla costa, poi attraversano lo spazio intercostale, dorsalmente ai mm. vertebro-costales superiores e ventral- mente a quelli intercostales proprii. II. — Sauria. Brevi note di osteologia. — In Lacerta viridis, che ho scelto come tipo dei Saurii, la colonna vertebrale è composta di 7 vertebre cervi- cali, di cui le ultime 5 sono provvedute di coste e di processi tra- sversi, 21 vertebre dorso-lombari, 2 sacrali e numerose vertebre cau- dali. Di quelle dorso-lombari, le prime 5 vengono dette sternali, perchè provvedute di coste attaccate allo sterno, le 8 seguenti, dorsali propria- mente dette, hanno delle false coste che si spingono ventralmente verso la linea mediana, e le ultime 8, lombari o presacrali, presentano delle coste assai piccole limitate alla porzione dorsale dell'addome. Una spe- ciale descrizione meritano le 2 vertebre sacrali: queste presentano dei processi trasversi assai sviluppati che in corrispondenza del loro estremo laterale si saldano fra loro, costituendo una superficie articolare, rive- stita di cartilagine, contro la quale viene ad appoggiarsi la superficie mediale dell’ileo. La cintura pelvica è costituita del pube, che ventralmente si unisce a quello del lato opposto costituendo la sinfisi pubica coll’ epipubis, del- l’ischio che costituisce, riunendosi anch’esso con quello del lato opposto, la sinfisi ischiatica col postpubîs, e dell’ileo, che ha forma di lamina leggermente incurvata, e che portandosi caudalmente, dorsalmente e me- dialmente, viene colla sua superficie mediale ad articolarsi col sacro, nel modo che più sopra ho esposto. 158 F. PARDI Sui muscoli dei Saurii esiste una letteratura assai ricca: basti ri- cordare i lavori di Mrvart 857) sulla miologia di Iguana tuberculata e di Chamaeleon Parsonii, di RoLLestoN 5), di SAnpERS 5% 99 24) sulla mio- logia di Platydactylus japonicus, Liolepis Belliù e Phrynosoma coronatum, di FilrBrINGER °?), di HumPaRY °*) sulla miologia di Pseudopus Pallasti e quelli più recenti e ormai classici di Gapow 499). Ho esaminato: Lacerta viridis GessN., Lacerta muralis LAUR., Noto- pholys fitzingeri GrAY, Platydactylus muralis Dum. Brer., Varanus arena- rius Dum. BrBr., Ohamaeleon africanus Lavr., Gongylus ocellatus GRAY, Stellio caucasicus GRAY, ma, come in tutti i Saurii, non possiamo di- mostrare in queste specie un omologo del 1) M. ilio-psoas. Mivart 5°, 5”) chiamò psoas-iliacus un robusto muscolo, che, diviso in più porzioni, trae origine dal pube, dall’ischio e dal legamento fi- broso che chiude il forame cordiforme e s'inserisce sul piccolo trocan- tere o vicino ad esso sul femore. Il m. psoas and èliacus di Mrvart8® 8°) corrisponde ai mm. pubo-trochantericus externus et internus di FùRBRIN- GER °°), obturatorius internus di StanNIUS °°), sur-pubien interne et ex- terne di Cuvier °°) etc. Horrmann °5) chiama m. ischio-pubo-femoralis la massa muscolare, che origina dalla faccia interna delle ossa del ba- cino e che s'inserisce, scomposta in 2 o 3 porzioni più o meno distinte tra loro, sull’estremo prossimale del femore. Questa stessa massa è quella che Gapow ?°) chiama m. pubi-ischio-femoralis internus. 2) M. quadratus lumborum. M. carré des lombes: CuviER °°). » quadratus lumborum: StAnNIUS 9°), FURBRINGER °?), Mivart 8587), SANDERS 8% 99; 91), HorFMANN 8), GADow 4). Per porre in evidenza questo muscolo e poterlo studiare convenien- temente, è necessario, quando siasi aperta la cavità addominale e siansi tolti i visceri, incidere la sinfisi pubica e quella ischiatica e spostare ogni metà del bacino, coi muscoli che vi hanno origine, lateralmente. In questo modo ho potuto osservare in Lacerta viridis *) quanto segue: #) Ho esaminato, come ho detto già, esemplari di Lacerta muralis e Platydacty- lus muralis, ma, non presentando queste specie differenze fondamentali dalla disposizione osservata in Lacerta viridis, così mi attengo esclusivamente a que- st’ ultima. LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 159 Subito al di sotto del peritoneo, apparisce teso fra l’ileo e la co- lonna vertebrale un cospicuo muscolo piatto, le cui fibre hanno una di- rezione dall’indietro all’avanti e dall’esterno all’interno: è il m. quadratus lumborum, il quale origina dall’ileo nel tratto immediatamente prossimo all’articolazione sacro-iliaca, dall’articolazione sacro-iliaca e dalla 1 ver- tebra sacrale. Da queste origini le fibre si dirigono alcune cranialmente e medialmente verso la colonna vertebrale, altre direttamente in avanti verso le coste: raggiungono così la faccia ventrale dei processi trasversi e delle brevi coste di cui sono provvedute le vertebre lombari o pre- sacrali, e più cranialmente trapassano in modo insensibile nei mm. èm- tercostales in corrispondenza della loro metà dorsale. Fra il m. ilio-costalis dorsalmente e il m. quadratus lumborum ven- tralmente s’insinua una fascia, la quale si salda all’apice dei processi trasversi e costituisce l’origine posteriore per il m. obliquus internus e il m. transversus abdominis. I rami ventrali dei nervi spinali riposano adagiati sulla superficie ventrale del muscolo. Ma, come in tutti i Saurii, anche in Lacerta viridis il m. quadratus lumborum è ricoperto nella sua porzione più craniale da uno strato mu- scolare continuo e sottile, che dalla colonna vertebrale, dirigendosi in avanti e lateralmente, si attacca alla superficie ventrale delle coste si- tuate più cranialmente. Questo strato, situato ventralmente ai rami ven- trali dei nervi spinali, costituisce il m. transversus dorsalis di TIEDE- MANN ?°), di SCHNEIDER 19°) e di Mrvart 86,87): è quella stessa massa mu- scolare, cui HoFFMANN ?8) e Gapow °4) hanno dato il nome di mm. re- trahentes costarum. In Varanus arenarius (Tav. VII, fig. 3), in cui le vertebre sacrali sono rappresentate dalla 30% e 31 vertebra, il m. quadratus lumborum origina con fibre carnoso-tendinee dal margine superiore della 1* ver- tebra sacrale, come in Lacerta viridis e come in Ophryoessa superciliosa (Gapow °4), e mediante un tendine assai robusto dall’ileo: diretto cra- nialmente e medialmente, raggiunge la superficie ventrale dei processi trasversi e delle ultime coste brevi, spingendosi fino alla superficie la- terale dei corpi vertebrali. Io ho potuto seguirlo in avanti fino al corpo della 23* vertebra e alla costa che da questa si diparte. Il suo mar- gine laterale coincide coll’origine del m. transversus abdominis, il quale (sia detto per incidenza) mostra in questo Sauriano una caratteristica disposizione fascicolata o segmentaria. 160 F. PARDI Il piano dei mm. retrahentes costarum si parte, mediante fibre car- noso-tendinee, dalla superficie ventrale dei corpi vertebrali, per attaccarsi con direzione leggermente ascendente e laterale, alla superficie ventrale delle coste situate più in avanti, in prossimità immediata delle linguette d’origine del m. transversus abdominis. I mm. retrahentes costarum, spin- gendo caudalmente la loro origine fino al corpo della 25? vertebra, rico- prono la porzione più craniale del m. quadratus lumborum. I rami ventrali dei nervi spinali, che nella porzione non ricoperta dai mm. retrahentes costarum riposano adagiati sulla superficie ventrale del m. quadratus lum- borum, più cranialmente li vediamo decorrere fra questo e quelli. In Chamaeleon africanus *) il m. quadratus lumborum proviene con un piccolo tendine splendente dal margine superiore dell’ ileo, e con fibre carnose da quello della 1 sacrale, nonchè da una sottile arcata fibrosa tesa dall’ ileo al sacro: da queste origini volge, come negli altri Saurii, cranialmente e medialmente, per perdersi sulla faccia ventrale delle ultime coste brevi e sul corpo e i processi trasversi delle vertebre presacrali, ma non è possibile, data la sua estrema sottigliezza, poter dire dove esso termini. I mm. retrahentes costarum, se hanno un minore sviluppo che nelle specie sino ad ora esaminate, presentano per contrario una disposizione assai complessa in Chamaeleon africanus, giacchè fra ogni corpo verte- brale e la costa corrispondente esistono 3 distinti fascicoli, che si ve- dono assai bene, sopra tutto quando si disponga il preparato in modo da farvi cadere incidentalmente la luce: a) un primo fascicolo, più ventrale, meglio sviluppato degli altri, splendente (è costituito di fibre tendineo-carnose) si porta dalla porzione più craniale della superficie anteriore del corpo vertebrale, con direzione caudo-laterale, al margine posteriore della costa, occupando, dall’estremo vertebrale in fuori, un’ estensione di 1 cm. circa, nella regione, ove questi muscoli hanno il loro maggiore sviluppo, b) un secondo fascicolo, assai breve, dorsale al primo, dal quale per un piccolo tratto vien ricoperto, va, con decorso cranio-laterale, dal corpo vertebrale (un po’ più indietro del precedente) al margine posteriore della costa, c) il terzo infine, diretto esso pure cranio-lateralmente, è teso fra la superficie ventrale del corpo della vertebra (nella sua metà poste- *) Le vertebre sacrali sono rappresentate dalla 23% e 24% vertebra. LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 161 riore) e il margine posteriore della costa, lateralmente al precedente. Questi fascicoli, poco sviluppati nella regione presacrale, decorrono ventralmente ai rami nervosi ventrali. In Gongylus ocellatus il m. quadratus lumborum ripete la ormai nota costituzione fondamentale; solo è da aggiungere come in questo Sauriano sia evidentissima la origine del muscolo dalla capsula dell’articolazione sacro-iliaca, oltre che dall’ ileo e dal sacro. I mm. retrahentes costarum, bene sviluppati, spingono assai caudal- mente la loro origine, ricoprendo quasi del tutto il sottoposto m. qua- dratus lumborum. È noto come il piano dei retrahentes mostri in genere tendenze involutive nella regione presacrale; ma in Gongylus ocellatus, in cui le vertebre sacrali sono la 41° e 42? a partire dalla 1* cervicale, i mm. retrahentes costarum raggiungono caudalmente il corpo della 38?, spingendosi quindi assai vicino al sacro. Questa disposizione ricorda esat- tamente quella descritta da Gapow °4) in Cyclodus Boddaerti. Per quanto riguarda Stellio cavcasicus (Tav. VII, fig. 4), in cui le vertebre sacrali sono rappresentate dalla 25* e 26% vertebra a partire dalla 1° cervicale, ho potuto seguire il m. quadratus lumborum fino al corpo della 15? vertebra e fino alla costa che da essa si diparte: quivi trapassa in una maniera insensibile nella massa intercostale. I mm. re- trahentes costarum caudalmente non oltrepassano il corpo della 18* vertebra. In Notopholis fitzingeri, come in Gongylus ocellatus, il piano dei mm. re- trahentes costarum sì spinge caudalmente assai vicino al sacro. III. — Crocodilia. Per quanto riguarda la miologia dei Coccodrilliani o Idrosaurii oltre gli antichi lavori di BurTMANN 191!) e di HaUuGHTON !°?) sui muscoli di Orocodilus, abbiamo quelli un po’ più recenti dello stesso HAuUGHTON 193) e di Harr!°4) sui muscoli di Alligator. A questi debbonsi aggiungere quelli oramai ricordati di HorrMann 19°) e di Gapow !°6) a proposito dei Saurii. 1) M. ilio-psoas. In quest’ Ordine Gapow ?°) dimostrò esistere l’omologo del m. iliacus. Il m. pubi-ischio-femoralis internus è costituito di tre porzioni; la 1? e la 2* riunite corrispondono per le loro inserzioni al m. pectineus dei Mammiferi. La 3° porzione, in Alligator mississipiensis ad esempio, è una cospi- cua massa muscolare, che dai corpi e dai processi trasversi della 25% e 162 F. PARDI 26 vertebra, unendosi ad altre fibre provenienti dall’ ileo e in parte anche dall’ischio, va, assottigliandosi distalmente, ad inserirsi sulla faccia interna del terzo prossimale del femore. In Crocodilus acutus questa massa proviene dalle vertebre 23%, 24% e 254. Questa 3% porzione del m. pubi-ischio-femoralis internus è secondo Gapow 5) omologa morfologicamente e fisiologicamente al m. iZiacus dei Mammiferi, ma io trovo più giusto, data la sua origine, oltre che dal- l’ileo anche dalla colonna vertebrale, riferirla addirittura all'intero m. éli0- psoas. 2) M. quadratus lumborum. StANNIUS 197) dice che negl’ Idrosaurii: “ il m. élio-costalis origina dal- l'estremità anteriore dell’ ileo con un tendine che non è solo l’origine di esso, ma anche quello di un m. quadratus lumborum subcostale, il quale, diretto con le sue fibre obliquamente innanzi e in dentro, passa sotto le coste e sopra i rami nervosi ventrali ,. Le ricerche di Gapow °), d’accordo con quelle di Gorsk1 198), Butt- MANN 191) e MecKEL 19°) hanno ormai stabilito che negl’Idrosaurii il m. qua- dratus lumborum, originato dalla superficie interna dell’ estremo vertebrale delle coste, dai processi trasversi e dai corpi vertebrali delle ultime 6 vertebre presacrali e della 1° sacrale, s'inserisce con un largo legamento tendineo o con due, come in Alligator, sul trocantere esterno del femore. IV. — Chelonia. Brevi note di osteologia. — Nei Chelonii una porzione della co- lonna vertebrale, quella dorso-lombare, è rigida e immobile nelle sue varie parti, giacchè si fonde in sinostosi con le ossa dermatiche dello scudo dorsale, mentre il collo e la coda godono di una grande flessibi- lità e mobilità, come quelle parti che vengono retratte sotto la cassa toraco-addominale. In genere nei Chelonii vi sono 8 vertebre cervicali, sprovviste di coste e di processi trasversi, 10 vertebre dorso-lombari, di cui 8 (dalla 2* alla 9°) sono intimamente fuse coll’ esoscheletro, e 2 o 3 sacrali, cui seguono un numero vario di vertebre coccigee. Le ultime 4 vertebre dorso-lombari possiamo considerarle con RaATHKE !!?) come vertebre lombari. Le coste a breve distanza dal loro punto d’articolazione fra il corpo vertebrale e l’arco neurale trapassano in una larga piastra ossea, che si connette per sutura con quelle contigue (piastra costale). LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 163 L’ileo è mobile sulle vertebre sacrali. Della muscolatura dei Chelonii si sono occupati numerosi ricercatori. Dei più antichi ricorderò WIEDEMANN !!°) e Boyanus !!!), che in un la- voro vecchio ormai di più che 70 anni, fece l’anatomia di Testudo eu- ropaca. Seguirono a varia distanza di tempo RaTHKE !!?), PrEIFFER 118), StANNIUS 114) e Owen 155). Fra i moderni, FURBRINGKR 1!6), HorFMann 117) e Gapow !!8) hanno potentemente contribuito con lavori ormai classici allo studio della morfologia dei muscoli in quest’Ordine di Rettili. Io ho potuto esaminare vari esemplari di estudo graeca L., Cistudo europaea ScEn., un bell’esemplare di Thalassochelys caretta L., e un al- tro di Emys crassicollis GRAY. In tutte queste specie ci è possibile dimostrare l’omologo del 1) M. ilio-psoas. M. psoas: Boyanus 111), StANNIUS 114), Owen 115). Runde Lendesmuskel: WIEDEMANN 110). TNliaque: CuviER 11°). M. psoas-iliacus: MECKEL 129) *). » dorso-femoralis: HoFrMann !!7). s pubi-ischio-femoralis internus (2? porz.): GaApow 95). *) HoFFMANN ‘!”) parmi non sia nel vero quando fa corrispondere quello che egli chiama m. dorso-femoralis al Birnmuskel di MecKEL !29). Questi a pag. 409 del vol. V così si esprime: «...... se trouve un protracteur de la cuisse, qui a deux tétes. La téte interne, qui est transversale et plus forte que l’autre, vient de toute la face antérieure et supérieure du pubis, et se réfléchit en dehors, en passant par-dessus l’estrémité externe de la branche antérieure de cet os. La téte esferne, qui est plus longue, mais plus mince, tire son origine de la face interne de l’iléon, tout à còté du muscle fessier, et en haut mème des verte- bres lombaires; elle se dirige d’avant en arrière et de haut en bas. « Ces deux téètes ne se réunissent entre elles qu’ à une petite distance de leur point d’ insertion à la région supérieure du còté interne du fémur, immédiate- ment en arrière du petit trochanter. « Ce muscle tire la cuisse en dedans et en avant: il correspond incontesta- blement, par son ventre externe, aux muscles psoas et iliaque, et, par son ventre interne, vraisemblablement au muscle pectiné ». Evidentemente questo m. pro- tracteur de la cuisse di MecKEL °°) corrisponde ai mm. dorso-femoralis+pubo-fe- moralis internus di HorFMANN!!) e al m. pubi-ischio-femoralis internus di GaDpow °°). 164 F. PARDI Questo muscolo, assai bene sviluppato in Testudo grueca (Tav. VII, fig. 5), apparisce ai lati della colonna vertebrale intimamente fuso, nella sua porzione craniale, con un altro muscolo anche più cospicuo e che gli è situato lateralmente, il m. dWeo-testo-femoralis di HorrMAnN !!”), descritto esattamente sopra tutto da RATHKE !!?) in Zerrapene, Pentonyx capen- sîs, Trionyx, Chelonia imbricata, Emys punetularia etc. In Testudo graeca la inserzione fissa dei due muscoli si fa alla superficie laterale dei corpi delle ultime 3 vertebre dorso-lombari, nonchè alla faccia inferiore dello scudo dorsale per il tratto corrispondente alle ultime 2 o 3 piastre co- stali. Caudalmente i due muscoli, differenziandosi, trovano la loro inser- zione mobile, mediante tendini cospicui, in due punti differenti del fe- more. Il m. deo-testo-femoralis prende attacco al gran trocantere, che nei Chelonii in genere è fortemente sviluppato e rappresenta una grossa tuberosità ossea, il cui maggior diametro è in senso trasversale. L'altro, l’omologo del m. ilî0-psoas, mediale al precedente, fondendosi distalmente col m. pubo-femoralis internus (Horrmann !!") si attacca in prossimità del piccolo trocantere. Ma profondamente dal margine superiore dell’ileo e del pube partono fibre, che si gettano sul corpo carnoso del muscolo, fibre che stanno a rappresentare senza dubbio il m. &iacus non diffe- renziato. Fra i tendini dei due muscoli ora descritti s’insinua l’estremo craniale di un capo (cruraeus di Bosanus 11!) del m. extensor cruris triceps. In Cistudo europaea (Tav. VIII, fig. 6) abbiamo una notevole differenza per ciò che riguarda l’inserzione fissa e comune dei due muscoli, èeo- testo-femoralis e dorso-femoralis (ilio-psoas). Quivi detta inserzione si fa per un estremo abbastanza ristretto alla superficie laterale del corpo della 8% vertebra dorso-lombare, immediatamente all’ indietro della estrema origine caudale del m. dorso-ocerpitis, manca cioè la inserzione alla superficie ventrale dello scudo dorsale. Per il resto ì due muscoli, volgendo ventralmente, lateralmente e caudalmente, dopo aver ricoperto per piccola parte un esiguo muscolo raggiato, di cui fra breve terremo parola, accavallano il margine superiore dell’ileo e del pube, dal quale ricevono molte fibre muscolari, e prendono mediante due tendini distinti la loro inserzione mobile sul femore, come in Testudo graeca. In Thalassochelys caretta (Tav. VIII, fig. 7) il muscolo dorso-femoralis origina dalla superficie laterale del corpo della 17% e 18° vertebra (9* e 10° dorso-lombare). Situato in avanti fra il m. festo-iliacus (Qquadratus lumborum) lateralmente e il m. sacro-femoralis medialmente, è un robusto LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 165 muscolo fusiforme, che si dirige indietro e lateralmente per raggiungere il margine superiore dell’ileo, dal quale riceve abbondanti fibre musco- lari: s'insinua poi fra il m. rectus femoris, col quale in parte è confuso, e il m. pubo-femoralis internus (pectineus), e con un forte tendine s’in- serisce, riunito a quest’ultimo, sul trocantere esterno e sulla faccia ventrale e laterale del femore, fra le due origini del m. extensor cruris triceps (femoro-tibialis di GADow °°). La disposizione osservata da me in Thalassochelys caretta è in tutto simile a quella descritta da Ganow °) in Testudo tabulata. In Emys crassicollis il m. dorso-femoralis si comporta esattamente come in Cistudo europaea, salvo che invece di provenire, come in questa ultima specie, dal corpo della 8* vertebra dorso-lombare, proviene da quello della 9? (corrispondente alla 17?, a partire dalla 1° cervicale). 2) M. quadratus lumborum. M. quadratus lumborum: RATHKE 112), GaApow °4). Viereckiger Lendenmuskel: MECKEL 1°0). Adducens pelvim + abducens pelvim: Bozanus !!!), OwEN 115). M. testo-iliacus: HoFFMANN 117). HorrMANN !!7), che ha studiato questo muscolo nei generi Triony® e Chelonia, lo descrive come un muscolo giacente subito sotto la metà po- steriore del dorso al di fuori del diaframma, e saldato con un estremo largo ed arrotondato alla superficie ventrale di alcune piastre costali, e con l’altro estremo, ristretto, tendineo, o anche in parte carnoso, all’ileo. Lontano per quasi tutta la sua lunghezza dalla colonna vertebrale nel genere Trionyx, è a contatto con essa in Emys punctularia. RaTHKE !!?) lo ha trovato assai bene sviluppato nel genere 7rionyx, meno nei generi Chelonia, Platemys e Terrapene, e di dimensioni assai piccole in quelli Pentonye e Testudo. Ecco le osservazioni mie: assai più sviluppato in Cistudo europaea (Tav. VIII, fig. 6) che in Zestudo graeca (Tav. VII, fig. 5), apparisce come un piccolo muscolo raggiato, avente una direzione dall’avanti all’indietro e dall’esterno all’interno. Ricoperto nel suo estremo caudale dai due muscoli riuniti, m. dorso-femoralis (ilio-psoas) e m. ileo-testo-femoralis, si salda alla superficie ventrale della 7% e 8° piastra costale da una parte e alla porzione superiore dell’ileo dall’altra. In Thalassochelys caretta (Tav. VIII, fig. 7) è fortemente sviluppato. 166 F. PARDI Origina dalla superficie laterale del corpo delle vertebre 15°, 16% e 172 (72, 8* e 9* vertebra dorso-lombare) e dalle piastre costali corrispon- denti. Le sue fibre, a partire dalla colonna vertebrale, si estendono sulla superficie ventrale dello scudo dorsale per un tratto di 11 cm. circa, ed hanno direzione varia: alcune, quelle più mediali, originate dalla colonna vertebrale, si dirigono caudalmente e lateralmente, altre, quelle mediane, direttamente indietro, e finalmente quelle laterali volgono caudalmente e medialmente, per riunirsi tutte in un robustissimo tendine, che si at- tacca all’ileo, in vicinanza immediata dell’articolazione sacro-iliaca. In Emys crassicollis il m. quadratus lumborum, abbastanza bene svi- luppato, proviene dalla superficie ventrale delle piastre costali corrispon- denti alle vertebre 15%, 16% e 17 (72, 82 e 9* vertebra dorso-lombare), ma non raggiunge la colonna vertebrale: le sue fibre si riducono in un corto e robusto tendine, che, come nelle altre specie, prende attacco all’ileo. Evidentemente questo muscolo ha per ufficio nei Chelonii di flettere l’ileo sulle vertebre sacrali. XII. — Aves. Molti sono, fino da antico tempo, i ricercatori che si sono occupati della miologia degli Uccelli. Per non citare che i principali, ricorderò i lavori di WiepeMANN !?!), TrepeManN ‘??), CuvieR 125), MEcKEL 1%), UccELLI 125), D’ALTON 12%), GurLT 127), Owen +23 129), Carus 139), ALmx 131), DE Man 182), Watson 153) e Gapow 154 135), Ho esaminato: Athene noctua Bore, Anas domestica L., Gallus do- mesticus BRrIss., Larus canus L., ma negli Uccelli, giusta anche le an- tiche osservazioni di Cuvier 12), MecKeL !?4), UccenLI !°°) e ALIx 181), manca ogni e qualsiasi traccia dei mm. psoas. Esiste invece ben diffe- renziato l’omologo del m. eiacus della specie umana nel 1) M. ilio-femoralis internus. M. flexor femoris profundus: WIEDEMANN 121), TIEDEMANN 122). » lliaque: CuvieR 123). Darmbeimmuskel: MECKEL 124). Iliacus internus: p’ALron 12%), GurLTt 127), Owen 12%), DE Man 183). Pectineus: Watson: 155). Ilio-femoralis internus: Gapow 194 159), LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 167 MreckeL !?4), pur dimostrandone la presenza in molte specie, non era riuscito, malgrado le ricerche più minuziose, a scoprirlo nei Rapaci not- turni, ammettendo che a causa della sua vicinanza coi visceri addomi- nali questo muscolo, in genere assai piccolo, si fosse decomposto colla putrefazione. Più o meno sviluppato nei vari Ordini di questa Classe, sembra raggiungere le massime dimensioni in Struthio camelus, mentre in Rhea americana, Apterye australis e Casuarius galeatus è molto piccolo (GApow 134). In Athene noctua (Tav. VIII, fig. 8) è piccolissimo, nè riesce facile il metterlo in evidenza. Ciò giustifica l’antica asserzione di MeckeL 124). Proviene dal margine ventrale e dalla faccia esterna dell’ileo (e più da questa che da quello), poco al di sopra dell’acetabulum, per gettarsi sulla superficie interna dell’estremo prossimale del femore. Assai più sviluppato si presenta in Anas domestica, in Gallus dome- sticus e in Larus canus. In queste specie proviene, come in Athene noctua, dal margine ventrale e dalla faccia esterna dell’ileo, per inserirsi, diri- gendosi fra il m. ambiens e il m. femori-tibialis, alla superficie interna dell’estremo prossimale del femore. 2) M. quadratus lumborum. Secondo Carus 19), gli Uccelli, in cui non esiste la necessità di un apparecchio motore per la porzione lombo-sacrale della colonna verte- brale, non posseggono un muscolo, che per la sua posizione e per le sue inserzioni possa ritenersi un m. quadratus lumborum. Per quanto pochissimo sviluppato e non sempre ben differenziato, dobbiamo ormai ritenere errata l’antica opinione di Carus 189). La ragione del suo poco sviluppo, dobbiamo ricercarla senza dubbio nella grande vicinanza dell’ultima costa al margine libero dell’ileo e nella conseguente brevità dello spazio compreso fra queste porzioni ossee. Il m. quadratus lumborum negli Uccelli viene considerato da Gapow 154) come la continuazione dei mm. infercostales interni e del m. obliquus abdominis internus nella regione dorso-lombare. Talora, come in Rhea americana, si hanno due piccoli mm. quadrati lumborum. Assai meglio differenziato in Athene noctua (Tav. VIII, fig. 8) e in Larus canus che in Anas domestica e in Gallus domesticus, appa- risce sotto forma di un piccolo muscolo triangolare teso fra l’ultima 168 F. PARDI costa e l’ileo. Per la speciale inclinazione dell’ultima costa rispetto al margine libero dell’ileo, il quale fa con quella un angolo assai acuto ad apice volto in avanti e verso la linea. mediana, le fibre del muscolo appariscono dirette quasi trasversalmente. Originate dal margine libero dell’ileo per un tratto che in estensione può essere calcolato ad 1 cm., volgono lateralmente per attaccarsi alla superficie ventrale e al margine posteriore dell’ultima costa per un’ estensione di cm. 1, 5, a partire dal l’estremo vertebrale. IV. — Mammalia. *) I. — Monotremata. Oltre l’antico trattato di MeckEL !°), ho potuto consultare i lavori di Mivart !3”), Cours 138) e Aix 159), A. — Psoas minor. — In Echidna hystrix (Mivar 3") è il più grande dei muscoli subvertebrali: origina, come in Ornithorynchus pa- radoxus (MeckeL 18°), dalle ultime 3 coste e dalle ultime 3 vertebre toraciche. Secondo ALtx !8°) in quest’ultima specie originerebbe invece dalle 4 ultime vertebre dorsali, dalle 4 ultime coste e dalle vertebre lombari. Psoas major. — Piccolo in Echidna (Mrvart !3"), è più cospicuo in Ornithorynchus, e la sua inserzione distale si estende dal piccolo tro- cantere fin presso il condilo interno del femore (Cours 138). Niacus. — Nulla di notevole. Quadratus lumborum. — Im Echidna (Aux !8?) il muscolo è rappresentato da fibre #io-costali e ilio-trasversarie: in Ornithorynehus (Aix 189), mancando i processi trasversi, le inserzioni si fanno sui corpi vertebrali. II. — Ditremata. x La miologia di quest’Ordine è stata oggetto di una grande quantità di lavori per parte di MecxeL *5°, Hauenton 1454), Cours 14), MACcALI- stER 143, 144,145). Youne 14°), Cunninezam 14"), Mac Cormicx 145), e LecHE 14°), *) Per evitare inutili ripetizioni, ogni Ordine è preceduto da brevi note bibliografiche: con la lettera A intendo indicare il riassunto delle osservazioni altrui, con la lettera B le osservazioni personali, LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 169 A. Psoas minor. — È straordinariamente sviluppato in que- st' Ordine. In Dasyurus viverrinus (Mac Cormicgx 148) origina, insieme al m. psoas major, dalla superficie antero-laterale dei corpi della ultima dorsale e di tutte le lombari. In Halmaturus (MeckEL 14°) è dieci volte più grande del m. psoas major, e proviene dai corpi di tutte le ver- tebre lombari, l’ultima eccettuata, e dall’ultima costa, ove si confonde colla porzione lombare del diaframma. In Phascolarcetos cinereus secondo MacaristeR 1°) è uguale per grossezza al m. psoas major, mentre se- condo Youne !*5) sarebbe di dimensioni maggiori. È più sviluppato in Sarcophilus ursinus che in Phascolomys wombat (MacaLIsTER 14). Psoas major. — In Dasyurus viverrinus (Mac Cormick 148) è co- stituito di tre porzioni distinte, disposte in serie: dorso-lombare, lom- bare e sacrale; le due prime sono quasi a contatto alle loro origini, mentre alle inserzioni sono separate da un largo intervallo, entro il quale sta il m. iliacus. In Myrmecobius, LecHE !4°) ha trovato un pic- colo muscolo, che dalla prossimità dell’ acetabulum andava direttamente al collo del femore: egli lo considera come un prodotto di differenzia- zione del m. èio-psoas e lo ritiene analogo a quel medesimo muscolo de- scritto come m. glutaeus quartus (scansorius) nei generi Thylacinus (CUN- NINGHAM !4°), Dasyurus (Mac Cormicx 148) e Didelphus (Cours 142). In Phascolomys wombat e in Sarcophilus ursinus (MacatisteR 14) origina da tutte le vertebre lombari e dalle ultime dorsali. Iliacus. — In Phascolomys wombat, Sarcophilus ursinus e Macropus Bennettiù (MacaListeR 14) è intimamente unito al m. psoas major: la separazione dei due muscoli si fa meglio nel Macropus giganteus e nell’ Opossum che in Parameles lagotis (MacaLIstER 14°). In nessuno di questi Marsupiali esiste il m. éeo-capsularis (MacaLISTER 148). In Dasyu- rus viverrinus (Mac Cormick !58) origina dalla superficie interna del- l'osso iliaco e da un sepimento tendineo comune ai mm. sartorius, glu- taeus medius e minimus. Quadratus lumborum. — In Phascolarctos cinereus, mentre Maca- ListeR !4°) descrive un m. quadratus lumborum coi suoi tre ordini di fibre, Youne 14°) afferma non esistere in questa specie come muscolo distinto. In Halmaturus (MeckeL 14°) è lungo e forte. HauGTHON 141) considera questo muscolo come un intfercostale lombare. In Phascolomys wombat (MacaristeR 153) è largo, triangolare ed è costituito degli stessi elementi che nell’ Uomo. 170 F. PARDI III. — Cetacea et Sirenia. Per quanto riguarda questi Ordini, mi riferisco ai lavori di MEz- cxeL !°9), StAnNIUS !5!) e sopra tutto a quello di Carus 19?). Secondo MecgeL !°°) e Carus !°), in questi animali privi in genere di una cintura pelvica completa, il m. quadratus lumborum sarebbe con- tenuto nel m. sacro-coccygeus (Niederzieher des Schwanzes), oin altre pa- role detti AA. considerano questo muscolo come un omologo dei mm. qua- dratus lumborum, psoas major e iliacus insieme. La muscolatura caudale, x avendo una parte così importante nella locomozione, è enormemente sviluppata: il m. sacro-coccygeus è rappresentato da una potente massa muscolare, che occupa la superficie laterale e ventrale dei corpi vertebrali e dei processi trasversi, a partire dalla 9* vertebra toracica fino alla punta della coda. In Manatus australis le inserzioni craniali si esten- dono anche alle coste posteriori. IV. — Anisodentata. Frai numerosi lavori intorno alla miologia degli Anisodentati ho po- tuto consultare quelli di Pouc®eT !°*), Macatister 194, Ganron 199), Humpary !°°) MacxintosHa !°) e quelli recentissimi di WinpLe e PAR- sons 158), e di BurnE 159). A. — Psoas minor. — In Cyclothurus didactylus (GALroN 155), il muscolo s'inserisce ad un tubercolo aguzzo, che trovasi nella faccia in- terna dell’ileo e nel tratto di unione di quest’osso col pube. In Cho- loepus didactylus (MackintosE !57) origina dalle 5 vertebre dorsali po- steriori. In Bradypus tridactylus (MAckintosH !57) proviene dai corpi delle 2 vertebre lombari superiori. Psoas major. — In Bradypus didactylus, Bradypus tridactylus, Manis Dalmanni e specialmente in Cyclothurus didactylus (HumPARY 199) l’inserzione del m. è/î0-psoas si estende per un tratto considerevole lungo il femore. Per quanto riguarda Bradypus tridactylus e Cyclothurus didac- tylus i resultati di HumPaRY !°5) concordano con quelli di MACcALISTER 1°) e di GALTON 15°). Iliacus. — In Cyclothurus didactylus (GALtON 155) dal margine la- terale del muscolo alcune fibre si gettano sul m. rectus femoralis. Nella stessa specie, secondo HumPaRyY !°%), il muscolo si estende per un pic- colo tratto sulla superficie esterna della spina iliaca, incrociando un po’ il territorio del m. glutaeus medius, col quale si trova in stretta con- LA MORFOLOFIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 171 nessione. In Manis Dalmanni (HumparY !°%) si estende in basso oltre alla metà del femore. Quadratus lumborum. — Completamente trascurato in quest’Or- dine lo studio suo. V. — Perissodactyla. Ho consultato, oltre i trattati di CHAuveAU e ARLOING 15°), FRANK 151), ELLENBERGER e Baum 1°), GurLT !53) e MECcKEL 1°), i lavori di TURNER 154), MurIE e Mivart !°°), HaueHtoN 199), MurIE 167), StreL!°8) e LesBRE 15). A. Psoas minor. — In Tapirus indicus (MurIe 15”) origina dalle ultime 3 coste in corrispondenza della loro articolazione colle vertebre e termina con un tendine robusto ed arrotondato al margine della cin- tura pelvica. Ilio-psoas. — Nell’ Hyrax (Murie e Mivar !°°) i due muscoli ap- pariscono distinti. In AWinoceros (HAUGHTON !66) origina dalle vertebre lombari e dal margine interno del bacino. In Tapirus indicus (MurIE 15”) il m. psoas major è largo ed ha le stesse origini del m. psoas minor. Quadratus lumborum. — Nell’ Hyrax (MeckeL !°°) è fortemente sviluppato: origina da una piccola porzione della superficie interna del- l’ileo e va fino alla 11* vertebra toracica (22 vertebre toraciche). Nel suo decorso ascendente emette due sorta di fasci, alcuni mediali che vanno ai corpi vertebrali, altri laterali che nella regione lombare rag- giungono il processo trasverso e in quella toracica la costa. Nei Peris- sodattili, secondo LesBRE !5*), è poco sviluppato, mentre uno sviluppo maggiore lo assume il m. psoas major. B. Ho esaminato di quest’ Ordine: Equus caballus L. (2 esempl.) ed Equus asinus L. (2 esempl.). Equus caballus L. (5 vert. lomb.). Psoas minor. — Situato medialmente al m. psoas major, origina con fibre carnose dalla superficie ventrale delle ultime 3 coste in cor- rispondenza del loro estremo vertebrale per un’estensione che va au- mentando dalla terz’ ultima all’ ultima costa, dalla superficie laterale del corpo delle 3 vertebre dorsali posteriori e di tutte le lombari, e dai processi trasversi di tutte le vertebre lombari. Al ventre carnoso del muscolo segue in corrispondenza della 3* lombare un robusto tendine, che si attacca all’eminenza ileo-pettinea, espandendosi ampiamente al- tresì nella fascia iliaca 0 aponevrosi lombo-iliaca. Sc. Nat. Vol. XIX 12 172 F. PARDI Psoas major. — Largo e robusto, origina con fibre carnose dalla superficie ventrale delle 2 ultime coste (dalla penultima per un’ esten- sione di 2 cm. circa, dall'ultima per un’estensione di 17-18 cm.), dal corpo e dai processi trasversi di tutte le vertebre lombari, meno l’ultima. Le sue fibre convergono indietro verso un tendine robusto, il quale viene accolto fra le due porzioni in cui è distinto il m. iliacus, e trova attacco, insieme a quest’ultimo, sul piccolo trocantere. In uno degli esemplari da me esaminati, esisteva, separato dal mar- gine laterale del m. psoas major, un fascio distinto, carnoso, largo 3-4cm., il quale, originando dalla spina iliaca anteriore superiore (angolo del- l’anca, CHAUVEAU !6°), dirigevasi caudalmente e medialmente per gettarsi sul corpo del m. psoas major. Veniva a costituirsi così fra il margine mediale di questo fascio accessorio e il margine laterale del m. psoas major un ampio spazio triangolare colla base in avanti e l’apice indietro, nel fondo del quale appariva la faccia ventrale del m. quadratus lum- borum, attraversata dai rami del plesso lombare. Iliacus. — Distinto in due porzioni, una laterale più cospicua ed una mediale più piccola rispetto al tendine del muscolo precedente, ori- gina da tutta la superficie iliaca, dall'angolo esterno dell’ileo e dalla cresta ileo-pettinea. La inserzione mobile è quella già descritta sul pic- colo trocantere. Il n. femoralis, decorrente in avanti fra il m. psoas minor ed il m. psoas major, indietro trovasi compreso fra la porzione mediale del m. iliacus e il m. psoas major. Quadratus lumborum. — Lateralmente troviamo fibre, che par- tendo dalla cresta iliaca e dalla sinfisi sacro-iliaca, dirette cranialmente, prendono attacco ai processi trasversi di tutte le vertebre lombari e alla superficie ventrale dell’ ultima costa (fibre èio-trasversarte e ilio-costali). Medialmente troviamo fasci muscolo-tendinei, complicatamente scam- biantisi delle fibre tra loro, che dai corpi delle 2 ultime vertebre dor- sali, dalla superficie ventrale dell’estremo vertebrale delle ultime 2 coste e dalla faccia ventrale dei processi trasversi delle prime 2 o 3 vertebre lombari, vanno a trovare la loro inserzione mobile sull’apice dei processi trasversi lombari (fibre dorso-lombo-trasversarie) *). *) Ho usato questa denominazione, che non è rigorosamente esatta, per in- dicare qui, come in altri Mammiferi, i fasci muscolo-tendinei, che dalla colonna dorsale e lombare, ove hanno la loro inserzione fissa, volgendo caudo-lateral- mente, trovano la loro inserzione mobile sull’apice dei processi trasversi lombari. LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 173 Gli Anatomici veterinari descrivono col m. obliquus abdominis inter- nus (Caauveau 15°), e lo considerano come dipendenza di questo, un pic- colo muscolo triangolare teso dall’apice dei primi 2 o 3 processi tra- sversi lombari al margine posteriore dell’ultima costa. Questo piccolo muscolo, retractor costae, contraendosi, ha una funzione importante nella espirazione. A me pare che, pur avendo diverso significato — e lo vedremo nelle considerazioni generali — debba esser considerato e descritto col m. qua- dratus lumborum. Non rappresenta esso infatti l'elemento trasverso-costale dell'Uomo e di alcuni Carnivori? Equus asinus L. Come in Equus caballus. VI. — Artiodactyla. Oltre i più noti trattati di anatomia degli animali domestici (CHAU- veau e Arnone !°!), Gurur !°2), FrANK !°3), ELLENBERGER e Baum 1%), ho consultato i lavori di MecxeL *°°), di MurIe °°), Bel1 !°5), LesBRrE !°8) e LòmBERG 17°). A. — Psoas minor. — In Camelus dromedarius (MeckeL !°°) na- sce dalle ultime 2 vertebre dorsali e da quelle lombari. In Sus scrofa (MeckeL !°5) ha la stessa estensione del m. psoas major. Ilio-psoas. — In Sus scrofa (MeckeL !°°) il'm. psoas major proviene da tutte le vertebre lombari. Quadratus lumborum. — Anche in quest’ Ordine, come nei Pe- rissodattili, esiste, secondo LesBrE !°*), un rapporto inverso fra lo svi- luppo del m. quadratus lumborum e quello del m. psoas major, questo essendo assai più sviluppato di quello. B. — Ho esaminato: Capra hircus L. (1 esempl.) e Ovis aries L. (1 esempl.). Capra hircus L. (6 vert. lomb.). Psoas minor. — Origina dalla superficie antero-laterale dei corpi della ultima vertebra dorsale e di tutte le lombari. Le fibre del muscolo s'impiantano in una maniera semi-pennata su di un lungo tendine, che apparisce all'altezza del disco fra la 1° e la 2° lombare: l’ inserzione del tendine ha luogo all’eminenza ileo-pettinea. Dal tendine, in prossimità della sua inserzione, originano alcune fibre aponeurotiche del m. sarto- rus (lungo adduttore della gamba, CaAUvEAU e ARLoING 171). » 174 F. PARDI Psoas major. — Origina: 1°, con fibre carnose dalla superficie la- terale del corpo della ultima vertebra dorsale e di tutte le lombari, dai dischi interposti a queste vertebre, e, mediante fascetti che si pongono assal bene in evidenza rovesciando medialmente il muscolo, dalla super- ficie ventrale e dal margine posteriore dei processi trasversi delle prime 5 vertebre lombari: 2°, con fibre aponeurotiche, dirette caudalmente e medialmente, dalla superficie ventrale e dal margine posteriore delle ultime 2 coste, e dall’apice del processo trasverso della 1 lombare. Tutte queste fibre, nate da così diverse origini, volgono verso un robusto tendine, nel quale si continuano: il tendine, accolto caudalmente in una specie di doccia costituitagli dal m. eliacus, trova la sua inser- zione, insieme a quest’ ultimo muscolo, sul piccolo trocantere (trocantino degli anatomici veterinari). i Iliacus. — Origina: dall’angolo esterno (spina iliaca anteriore e superiore) e dalla cresta dell’osso iliaco, dalla superficie iliaca interna e dalla cresta ileo-pettinea. L'inserzione mobile del muscolo ha luogo, insieme al m. psoas major, sul piccolo trocantere. È fondamentalmente costituito di 2 porzioni, una laterale ed una mediale rispetto al tendine del m. psoas major. Il n. femoralis decorre, come nei Perissodattili, fra il tendine del m. psoas major e la porzione mediale del m. &iacus. Quadratus lumborum. — Complicatissimo nella sua costituzione, possiamo fondamentalmente considerarlo come costituito di due ordini di fibre: slio-trasversarie e dorso-lombo-trasversarie. Le prime traggono origine dalla porzione più mediale della super- ficie ventrale dell’ileo in prossimità dell’ articolazione sacro-iliaca: dirette in avanti, per la massima parte aponeurotiche ventralmente, s’impian- tano alla superficie ventrale e al margine posteriore dei processi tra- sversi delle ultime 4 vertebre lombari. Alcune, più laterali, sì spingono fino all'apice dei processi trasversi delle ultime 5 lombari. Le seconde costituiscono 6 fasci muscolo-tendinei, complicatamente scambiantisi delle fibre fra loro: originati dai corpi delle ultime 4 vertebre dorsali, dalla superficie ventrale dell’estremo vertebrale delle ultime 4 coste e dalla superficie ventrale dei processi trasversi delle prime 3 lombari vanno, mediante robusti tendini appiattiti, all’ apice dei processi trasversi di tutte le vertebre lombari. Ovis aries L. Come in Capra hircus. LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 1079) VII. — Proboscidea. Soltanto nel lavoro di MraLr e GREBNWOOD 18°) si fa qualche cenno dei muscoli di cui mi occupo. A. —- Psoas minor. — Esiste in Elephas indicus, ma non presenta nulla di particolare (MraLL e GREENWOOD 18°). Ilio-psoas. —I due muscoli appariscono distinti in Elephas in- dicus (MraLL e GREENWOOD 189). Quadratus lumborum. — In Elephans indicus (MIALL e GREEN- woop 15°) il muscolo sorge dalle 2 coste inferiori per raggiungere la parte più interna della cresta iliaca. VIII. — Rodentia. Ho letto, per quanto riguarda quest’Ordine, i lavori di MECcKEL 181), TurNnER 182), Mivart e MuRrIE 188), Dosson 184), KrAUSE 185), BeDDARD 18%), PaRSONS 187 194,195) Voet e Youne 188), WinpLE 189), LESsBRE 19°), REMY Sarnt-LouP 19!) e ALEZAIS 19? 193), A. — Psoas minor. — ALEZAIS 1°?) ha trovato questo muscolo una volta sola in Cavia cobaya: PARSONS 194) per contrario afferma averlo ‘riscontrato due volte su tre. In Sciurus vulgaris, Dipus aegyptius, Ar- ctomys marmotta e Lepus cuniculus (ALEZAIS 19?) è bene sviluppato: lo è poco in Capromys melanurus, in cui sorge dalla 1-4? vertebra lom- bare (DoBson 184). Psoas major. — Mec€et !8!) ci dà qualche breve cenno di questo muscolo in Lepus timidus, Sciurus vulgaris, Castor fiber e Dasyprocta cri- stata. In Dipus aegyptius (ALEZAIS 1°?) origina dal corpo delle 4 o 5 prime vertebre lombari ed è costituito da un sol fascio: in Sciurus vulgaris, Arctomys marmotta, Cavia cobaya e Lepus cuniculus (ALEZAIS 1°?) invece è formato di due porzioni, psoas esterno ed interno, separate dal n. fe- moralîis. WinpLe 18°) in Dolichotis patagonica descrive il muscolo come originante dai corpi delle vertebre lombari posteriori e dalla superficie ventrale del sacro: caratteristica la sua inserzione distale, rappresentata da un tendine ad Y, il quale per un corno si attacca al trochanter mi- nor e per l’altro alla superficie interna del femore alla distanza circa di 1 cm. dal precedente. In Dasyprocta isthmica (WinpLe 189) il muscolo ha la stessa disposizione che nell’Uomo. In Capromys melunurus (DoBsoN 184) origina dai corpi delle ultime vertebre lombari. In Lepus cuniculus, Voer e Youne 188) descrivono questo muscolo come proveniente dalla fac- cia ventrale dei corpi e dei processi trasversi lombari: le mie ricerche 176 F. PARDI dimostrano, d’accordo con quelle di KRAUSE 185) e ALEZAIS 192), come ab- bia invece un’origine più craniale. È Iliacus. — In Dipus aegyptius (ALezAIS 192) origina dal margine inferiore dell’osso iliaco: in Cavia cobaya, Sciurus vulgaris e Lepus cu- niculus (ALEZAIS 192) è costituito di due porzioni, una superficiale e l’altra profonda. Quadratus lumborum. — Poco studiato in quest’Ordine. Soltanto Krause !8°) ci dà una descrizione dettagliata del muscolo in Lepus cu- niculus. B. — Ho esaminato: Cavia cobaya ScHREB. (10 esempl.), Lepus cuni- culus L. (4 esempl.), Myoxus glis ScHREB. (3 esempl.), Myoxus avella- narius L. (2 esempl.) e Mus decumanus PaLL. (5 esempl.). Cavia cobaya ScareB. (Tav. VIII, fig. 9). (6 vert. lomb.). Psoas minor. — Su dieci esemplari non l’ho mai trovato. Psoas major. — Robusto, addossato ventralmente al m. quadra- tus lumborum, col quale in parte si confonde in avanti. Origina: con fibre mediali dalla superficie ventrale del corpo dell'ultima vertebra dorsale, di tutte le lombari, delle prime 2 sacrali e dei dischi inter- posti: con fibre lateralè dall’apice dei processi trasversi delle prime 2 lombari e dalla porzione più craniale dell’aponevrosi del m. fransversus abdominis *). Questi due ordini di fibre, convergendo caudalmente gli - uni verso gli altri, si riuniscono all’altezza della 2% lombare all’incirca, costituendo così un angolo aperto in avanti, il cui fondo è occupato dal m. quadratus lumborum. Ma il n. femoralis, nell’attraversare il muscolo, divide o segna la di- visione del grosso fascio delle fibre mediali in due fasci minori, che se non sono ben distinti l’uno dall’altro in corrispondenza della loro ori- gine alla colonna vertebrale, lo sono invece assai spiccatamente indietro. Il primo, laterale e craniale, che io chiamo costo-dorso-lombare, e al quale si uniscono le fibre laterali ora ricordate, origina dalla superficie ven- *) Credo a questo proposito opportuno ricordare le ricerche di DALL’AGQUA 198) sulla morfologia delle aponevrosi addominali: egli ha dimostrato come nei Ro- ditori le aponevrosi d’invoglio dei mm. quadratus lumborum e psoas major, esilissime, si congiungono strettamente col m. fransversus abdominis. LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 177 trale dei corpi delle prime 4 vertebre lombari e del disco interposto fra la 4% e la 5*; il secondo, mediale e caudale, che io chiamo 7ombo- sacrale, proviene dalla superficie ventrale dei corpi delle ultime 2 lom- bari e delle prime 2 sacrali. Ognuno di questi fasci termina indietro con un tendine; i tendini prendono attacco, riuniti nel loro estremo, sul piccolo trocantere. Iliacus. — Proviene dalla cresta iliaca, dal margine inferiore della porzione più laterale del ligamento inguinale, dall’articolazione sacro- iliaca e dalla superficie ossea immediatamente sottoposta all’articola- zione. La porzione più cospicua del muscolo, quella laterale, si getta sul margine laterale del tendine del fascio dorso-lombare del m. psoas major, mentre le fibre provenienti dall’articolazione sacro-iliaca e dalla sotto- posta superficie ossea si uniscono intimamente al fascio Zombo-sacrale dello stesso muscolo. Quadratus lumborum. — Ricoperto dal m. psoas major per la maggior parte del suo tragitto nell’addome, scende, addossato profon- damente alla colonna vertebrale, dalla porzione più craniale della’ co- lonna dorsale fino all’ileo. Origina per mezzo di fascetti carnosi dalla superficie anteriore e laterale dei corpi della 6-13* vertebra dorsale, dalla superficie laterale del corpo di tutte le vertebre lombari, dai di- schi interposti a tutte queste vertebre e dalla base dei processi trasversi di tutte le vertebre lombari. Ai fasci carnosi seguono caudalmente lunghi e robusti tendini appiattiti, i quali vanno via via impiantandosi serial- mente sull’apice dei processi trasversi delle vertebre lombari: l’ultimo tendine, più robusto e splendente degli altri, si attacca ad un rilievo osseo sul margine ventrale dell’ileo (spina iliaca anteriore ed inferiore). Notevole è in questo roditore il rapporto che la porzione più cra- niale del muscolo assume con quella più caudale del m. Zongus colli. La dissezione ci dimostra infatti come la porzione caudale o posteriore del m. longus colli (obliquus inferior colli) spinga la sua inserzione alla co- lonna vertebrale fino alla superficie ventrale del corpo della 82 vertebra dorsale, trovandosi così ad intimo contatto col margine mediale dell’estremo più craniale del m. quadratus lumborum, il quale, come abbiamo già veduto origina dal corpo della 6% vertebra dorsale. Nei Mammiferi esaminati da me, e, per quanto io mi sappia, in quelli osservati da altri ricercatori, non esiste un tale rapporto, o in altri termini vi è sempre nei Mammiferi un tratto più o meno lungo di colonna dorsale sprovvisto ventralmente di muscoli, fra la estrema ori- b) 178 F. PARDI gine caudale del m. Zongus colli e la estrema origine craniale del m. qua- dratus lumborum. La serie dei muscoli prevertebrali mediali (longus colli, longus capitis, rectus capitis anterior), che nei Mammiferi occupa ventral- mente la colonna cervicale e parte di quella dorsale, viene in Cavia cobaya continuata per tutta la rimanente porzione di colonna dorsale e lombare dal m. quadratus lumborum. Lepus cuniculus L. (7 vert. lomb.). Psoas minor. — Situato medialmente al m. psoas major, di cui ricopre la porzione lombo-sacrale, è abbastanza robusto e proviene con fibre carnose dalla porzione mediana del corpo delle ultime 5 vertebre lombari. All’altezza dell’ ultima lombare il fascio carnoso trapassa in una larga fascia, di cui una parte termina, sotto forma di un robusto ten- dine contorto sul proprio asse, all’eminenza o tubercolo ileo-pettineo, mentre l’altra, avvolgendo l’estremo caudo-laterale del m. psoas major, si continua nella parte superiore e laterale del ligamento inguinale: tra le due porzioni rimane uno spazio ovale, per cui passa l’arteria iliaca esterna. Ventralmente alla fascìa ora descritta notasi una striscia ten- dinea, assai rigida e splendente, che a guisa di cingolo, abbracciando la fascia stessa e il sottoposto m. psoas major, si attacca da una parte alla superficie ventrale della 1° vertebra sacrale, e dall’altra si perde nella porzione superiore del ligamento inguinale. Psoas major. — Lungo e robusto, assottigliato cranialmente, è distinto fondamentalmente in due parti: una più cospicua, craniale, che io chiamo costo-dorso-lombare, e una caudale, lombo-sacrale. La 1? ricopre in parte il m. quadratus lumborum, ed è intimamente fusa con esso. Origina per mezzo di 3 sottili striscie tendinee, laterali, dalla superficie ventrale e dal margine posteriore delle ultime 3 coste, e, per mezzo di altrettante striscie tendinee, mediali, dalla superficie ven- trale dei corpi delle ultime 3 vertebre dorsali: proviene altresì dalla superficie antero-laterale dei corpi delle prime 5 vertebre lombari e della porzione più craniale della 6°, dai dischi interposti, nonchè dalle radici dei processi trasversi delle prime 5 lombari. La 2? porzione, intimamente fusa col m. ilîacus, trae origine dalla superficie antero-laterale dei corpi della 6%, 7° lombare e 1° sacrale, dai dischi interposti, e dalle radici dei processi trasversi deile ultime 2 lombari. LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 179 Da tutte queste origini, le due porzioni del muscolo trovano, fuse tra loro e col m. iliacus, la loro inserzione comune sul femore. Più par- ticolarmente può dirsi che la porzione lombo-sacrale si attacca, mediante un tendine, manifesto ventraimente, al piccolo trocantere, mentre alla por- zione costo-dorso-lombare segue distalmente un altro tendine (più mani- festo quando si rovesci indietro la inserzione dell’intero muscolo), il quale si fissa poco al di sotto (2-3 mm.) del piccolo troncantere: nel breve tratto interposto ai due tendini prendono attacco fibre del m. dliacus. Iliacus. — Sottoposto al muscolo precedente, proviene dal corpo dell’ ultima lombare, dalla superficie laterale delle prime vertebre sacrali, dall’articolazione sacro-iliaca e dalla sottostante superficie dell’ileo: si unisce, come abbiamo già detto, al m. psoas major. Quadratus lumborum. — È costituito di fasci mediali e laterali. I primi originano dalla superficie laterale dei corpi delle ultime 5 vertebre dorsali, di tutte le lombari e dei dischi interposti: questi fasci hanno una direzione leggermente obliqua dall’avanti all’indietro e dal- l’indentro all’infuori, e terminano differentemente, gli anteriori dai po- steriorì. Gli anteriori (dorso-lombo-trasversari), provenienti dalle vertebre dorsali, dalla 12 lombare e dai dischi interposti, s'inseriscono, me- diante 6 striscie tendinee, sull’apice dei processi trasversi delle vertebre lombari, dalla 1° alla 6%; i posteriori (ilio-vertebrali), provenienti dai corpi delle ultime 6 vertebre lombari e dai dischi interposti, conver- gono verso i fasci /aterali e con questi prendono attacco all’ ileo. I fasci laterali (ilio-costali ed ilio-trasversari) dal margine posteriore e dalla superficie ventrale delle 5 ultime coste, nel loro estremo verte- brale per un’estensione che diminuisce sensibilmente dalle coste poste- riori alle anteriori, dai processi trasversi delle ultime 5 dorsali e di tutte le lombari si portano, decorrendo leggermente obliqui dall’avanti all’in- dietro e dall'esterno all’interno, fusi coi fasci posteriorì della porzione mediale, alla spina iliaca anteriore ed inferiore. Il muscolo, nella sua inserzione all’ileo, presenta ventralmente alcune fibre aponeurotiche. Myoxus glis ScHREB. (6 vert. lomb.) Psoas minor. — Dalla superficie antero-laterale delle 3 prime ver- tebre lombari e dai dischi fra queste vertebre si porta, espandendosi ampiamente nella fascia iliaca, all’eminenza ileo-pettinea. 180 F. PARDI Psoas major. — Come in Lepus cuniculus, è fondamentalmente co- stituito di due porzioni, separate dal n. femoralis. La porzione mediale (lombare) origina dai corpi delle ultime 3 vertebre lombari e dai dischi interposti: la porzione laterale (costo-dorso-lombare) proviene dalle ultime 2 coste, dalla superficie laterale del corpo delle ultime 4 dorsali, me- diante 4 sottili striscie tendinee, e con fibre carnose dalla superficie la- terale del corpo delle prime 3 lombari e del disco fra la 3? e la 48. L'inserzione si fa, col m. siacus, al piccolo trocantere. Iliacus. — Come in Lepus cuniculus. Quadratus lumborum. — Come in Lepus cuniculus. Myoxus avellanarius L. Come in Myoxus glis. Mus decumanus Pant. (Tav. VIII, fig. 10). (6 vert. lomb.) Psoas minor. — Manca. Psoas major. — Fortemente sviluppato, confonde cranialmente le sue fibre con quelle del m. quadratus lumborum. Proviene dalla su- perficie ventrale del corpo di tutte le vertebre lombari, dai dischi in- terposti, e dalla base dei processi trasversi di dette vertebre: il tendine, in cui trapassa il corpo carnoso del muscolo, s’impianta, col m. èdiacus, al piccolo trocantere. Come varietà, in un esemplare ho potuto vedere come alcune fibre del m. psoas major, provenienti dalla superficie ventrale del corpo della ultima lombare, si continuassero nel m. pectineus. Questa disposizione ricorda quella descritta da HumpaRry ?*3) in Pteropus Edwardsiì. Credo opportuno rilevare il rapporto esistente in questo Roditore fra il m. psoas major e il m. sacro-coccygeus, il quale spinge cranialmente la sua origine fino alla superficie ventrale della 1 vertebra sacrale: con- trae così lateralmente un importante rapporto di contiguità col margine mediale dell’estremo distale del m. psoas mayor. Iliacus. — Come in Lepus cuniculus. Quadratus lumborum. — È fondamentalmente costituito di fibre dorso-lombo-trasversarie e di fibre èio-trasversarie. Le prime originano aponeuroticamente dalla superficie antero-laterale del corpo delle 4 vertebre dorsali posteriori e delle prime 2 lombarì: LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 181 seguono ben presto fibre carnose, le quali gradatamente trapassano in 6 lunghi tendini, che vanno ad impiantarsi con decorso caudo-laterale all'apice dei processi trasversi di tutte le vertebre lombari. Le seconde, originate dalla cresta iliaca, dirigendosi quasi vertical- mente in avanti trovano attacco al margine posteriore dei processi tra- sversi delle ultime 2 o 3 lombari: queste fibre, in corrispondenza della origine loro dall’ileo, presentano ventralmente una sorta di guaina apo- neurotica. È da questa guaina, in prossimità immediata dell’ileo, che si partono fibre, le quali, unendosi ad altre provenienti dalla superficie me- diale dell’ileo, costituiscono il m. ilio-caudalis 0 ilio-coccygeus di LecHE 14°), quello stesso muscolo che Mrecxet !5!) chiama dleo-sous-caudien (flessore superficiale della coda). DIC — Pinnipedia. Per quanto riguarda quest’ Ordine mi riferisco ai lavori di DuvER- NoY 197), MecKEeL 198), HumPHRy 19°) e TURNER 200), A. — Psoas minor. — MeckEL!?8) in Phoca vitulina considera il muscolo come costituito di 2 capi, di cui uno s’inserisce al femore e l’altro sull’eminenza ileo-pettinea. In Phoca communis (HumPARY 199) dai corpi delle vertebre lombari e dal margine dell’ultima costa va ad un’apofisi sporgente del pube, medialmente al m. psoas major. In Phoca vitulina (TURNER 299) il muscolo origina dalla superficie ventrale della 14% e 15° vertebra dorsale, dalle coste corrispondenti e dalla superficie ventrale dei processi trasversi di tutte le lombari. In Phoca darbata, Phoca hispida, Macrorrhinus e Arctocephalus gazella (TURNER 299) pro- viene dalle estremità dei processi trasversi della 2%, 3% e 4% lombare. Psoas major. — In Arectocephalus gazella (TURNER 299) origina per una serie di linguette muscolari dai corpi delle ultime 4 vertebre dorsali e dalle prime 4 lombari, dalla superficie ventrale delle 4 ultime coste e dai legamenti costo-vertebrali anteriori. Nelle Phocinae e in Macrorrhinus leoninus (TURNER ?99), mancando il piccolo trocantere, il m. psoas major s'inserisce sulla spina posterior ventralis iliî. Come psoas tertius si descrive in quest’ Ordine, meno che in Macrorrkinus, un pic- colo muscolo ricoperto dal m. psoas major e che s’inserisce distalmente sul femore: in Arctocephalus gazella (TURNER 2°) proviene dalle ultime 2 lombari e dal disco interposto ad esse. Iliacus. — In Phoca vitulina, secondo DuveRrNoY!??), non esi- 182 F. PARDI sterebbe; MEckeL !98), HumPHRY !99) e TURNER 209) ci asseriscono il con- trario. l Quadratus lumborum. — Assai cospicuo in Phoca communis (HumPHRy 199). X. — Carnivora. Ho consultato oltre i trattati di SrtRAUS-DUuRCcKEIM 291) (Anatomie du Chat), ELLENBERGER e Baum 2°?) (Anatomie du Chien) e il libro recen- tissimo di REIGHARD e JENNINGS 292) (Anatomy of the Cat), i lavori di CaRUS 294), MACALISTER 295206), MACKINTOSH 2°), Warson e Youne 298), Youna 299), SHEPHERD?!9) e di LESBRE 211). A. — Psoas minor. — In Ursus americanus (SHEPHERD 21°), il muscolo, fuso cranialmente col m. psoas major, s'inserisce, mediante -un forte tendine, alla linea ileo-pettinea e alla spina del pube. Largo e forte in Nasua fusca (MAckINTOsH?°?), è piccolo in Nasua narica e manda una digitazione all’articolazione sacro-lombare. In Martes foina (MACKINTOSH?97) proviene dai corpi della 3-6? lombare, in Viverra civetta e Galictis barbara (MACALISTER 29%) dai corpi della 3°-5* lombare e dal margine dell'osso iliaco, in Aonèx (MacaLIsTER 295) dai corpi delle prime 2 lom- bari. In Canis familiaris (CHAUVEAU e ARLOING ?!2) è relativamente più considerevole del m. psoas major. Caratteristico è il suo contegno in Felis concolor, ove, secondo CARUS ?94), spingerebbe fino alla 9* vertebra toracica la sua inserzione craniale. Psoas major. — Dalle ricerche di SHEPHERD?!°) resulta originare in Ursus americanus dai processi trasversi e dai corpi delle 3 ultime ver- tebre dorsali e di tutte le lombari, meno l’ultima. In Nasua fusca (MACKINTOSH 2°?) è più grande che in Nasua narica: in Martes foina (MackintosH ?°") origina dalle 3 vertebre lombari posteriori, in Aonix (MAcALISTER 2°) proviene, fuso col m. éliacus, dalle ultime 2 lombari e dalla porzione ventrale del legamento ileo-lombare, in Viverra cè- vetta (Youne?99) è assai sviluppato. In Canis familiaris (CHAUYVEAU e ARLOING 12) non comincia che a livello della 3* e 4* vertebra lombare. Iliacus. — Piccolo in Ursus americanus (SHEPHERD *1°) e in Vì- verra civetta (Youne 29). Quadratus lumborum. — Vedansi le descrizioni che ne danno ELLENBERGER e Baum 2°?) in Canis familiaris e StTRAUS-DURCKEIM °°!) e REI- GHARD e JENNINGS 293) in Felis domestica. In Viverra civetta (Youne *°9) x è assai debole e va dalla parte posteriore dell’ileo al primo processo LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECCO. 183 trasverso lombare: nessuna fibra raggiunge l’ultima costa. In Ursus ame- ricanus (SHEPHERD ?!°) ha la stessa disposizione che nell’ Uomo. CARUS 94) dà una descrizione particolare di questo muscolo in Felis domestica e Felis concolor, rassomigliandolo per la sua morfologia a quello dell'Uomo e di Simia satyrus. B. — Ho studiato di quest’ Ordine: Felis domestica BrIss. (3 esempl.), Felis tigrina BrIss. (1 esempl.), Canis familiaris L. (2 esempl.), Canis vulpes L. (2 esempl.), Mustela foina BrIss. (2 esempl.), Mustela martes L. (2 esempl.), Puforius putorius L. (1 esempl.), Putorius vulgaris L. (1 esempl.) e Vìverra abyssinica RuPPL. (1 esempl.). Felis domestica BrIss. (Tav. VIII, fiig. 11). (7 vert. lomb.). Psoas minor. — È situato ventralmente e medialmente al m. psoas major, col quale in gran parte in avanti confonde le sue fibre: molto vicino alla linea mediana, trovasi separato da quello dell’ altro lato da uno stretto e profondo solco, nel quale sono contenuti i pilastri del diaframma, l’aorta etc. Assai complesso nella sua costituzione, pro- viene mediante fibre carnose, ventrali, dal corpo delle prime 5 vertebre lombari e dai dischi interposti, e mediante altre fibre carnose, dorsali, dalla faccia anteriore di 5 striscie tendinee, che rappresentano l’origine del m. psoas major. Tutte queste fibre trapassano e si continuano in un largo tendine appiattito, il quale si attacca all’eminenza ileo-pettinea. Psoas major. — Ricoperto in parte medialmente dal muscolo precedente, ricopre alla sua volta il m. quadratus lumborum: lungo, slargato verso la metà sua, apparisce assottigliato agli estremi. Origina: cranialmente mediante 5 striscie tendinee dal corpo dell’ul- tima vertebra dorsale e da quello delle prime 4lombari, e caudalmente con fibre carnose dalla superficie antero-laterale del corpo delle ultime 3 lombari e dei dischi interposti. Il tendine più craniale, quello prove- niente dall’ultima vertebra dorsale, si spinge tra i fasci del m. quadra- tus lumborum. Ciascuno dei tendini poi presenta la particolarità se- guente: mentre per la sua faccia o superficie mediale dà attacco, come ho già accennato, a fibre del m. psoas minor, per quella laterale dà impianto a fibre del m. quadratus lumborum. Havvi dunque, specie cra- nialmente, fra questi muscoli, psoas minor, psoas major e quadratus lumborum, intimo scambio di fibre. 184 F. PARDI Indietro le fibre del muscolo, dopo essersi riunite a quelle prove- nienti dall’ ileo e dal sacro (m. iliacus), si gettano su de un lungo e ro- busto tendine, che prende inserzione al piccolo trocantere. lliacus. — Poco sviluppato, è interamente nascosto dal muscolo precedente. Origina dall’ileo, subito al di sotto della spina iliaca ante- riore ed inferiore, e dal sacro: alcune delle sue fibre provengono dalla superficie ventrale di un robusto tendine che appartiene al m. quadratus lumborum. La inserzione mobile è stata già descritta. Quadratus lumborum. — Straordinariamente complicato, tro- vasi addossato alla superficie ventrale dei processi trasversi lombari, estendendosi dal corpo della penultima vertebra dorsale fino all’ileo, dove s'inserisce alla spina iliaca anteriore ed inferiore. Si presenta costituito da un certo numero di fasci, i quali complicatamente si scambiano fibre tra loro. Questi fasci sono di due ordini: èlio-trasversari e dorso-lombo- trasversari. Fasci iio-trasversari: dalla spina iliaca anteriore ed inferiore trae origine una cospicua massa muscolare, la quale ventralmente si conti- nua in una robusta espansione aponeurotica. Delle fibre costituenti questa massa, alcune, quelle più laterali, si dirigono direttamente in avanti e trapassano in un tendine piatto che trova la sua inserzione all’angolo posteriore del processo trasverso della 6% lombare: le altre, quelle più mediali, dirigendosi medialmente e cranialmente, costituiscono vari fasci muscolari, i quali vanno rispettivamente ad impiantarsi al margine po- steriore dei processi trasversi delle vertebre lombari 7, 6* e 5* e in parte alla superficie laterale dell’ultimo tendine di origine del m. psoas major. Fasci dorso-lombo-trasversari: sono rappresentati da fasci muscolo- tendinei, che dai corpi vertebrali dorsali e lombari vanno ai processi trasversi lombari. I più craniali provengono, fusi in una massa comune, dai corpi delle ultime 2 dorsali, della 1* lombare e dalla superficie la- terale del 1° tendine di origine del m. psoas major: diretti caudalmente e lateralmente vanno ad attaccarsi, mediante tendini distinti, all’apice dei processi trasversi della 1°, 22, 3* e 4* lombare. A questi sussegue più caudalmente un altro fascio, che dal corpo della 1* vertebra lombare va al processo trasverso della 5*, dopo aver ricevuto fibre dal 2° tendine di origine del m. psoas mayor. Dal corpo della 2% vertebra lombare trae origine un altro fascio, il quale va ad impiantarsi, mediante un tendine robusto, all’angolo anteriore del processo trasverso della 6° lombare, LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 185 dopo aver dato fibre ai processi trasversi delle vertebre lombari 4° e 5* e dopo aver ricevuto fibre dal 3° tendine di origine del m. psoas major. Infine, dal corpo della 3' lombare ha origine un ultimo fascio, che dirigendosi caudo-lateralmente termina sul processo trasverso dell’ ultima lombare, dopo aver ricevuto fibre dalla superficie laterale del 4° tendine di origine del m. psoas major. Felis tigrina BrIss. (7 vert. lomb.). I muscoli di cui mi occupo ripetono in questo Carnivoro la disposi- zione fondamentale osservata nel precedente. Il m. psoas major distalmente apparisce costituito di due fasci, in mezzo ai quali decorre il n. femoralîs: ognuno di essi si continua con un tendine, di cui quello mediale termina sul piccolo trocantere, e l’altro, laterale, prende attacco sul femore, distalmente, ma in vicinanza immediata del piccolo trocantere. Il m. iliacus è assai esiguo. Canis familiaris L. (Tav. IX, fig. 12). (7 vert. lomb.). Psoas minor. — Robusto muscolo, intimamente unito cranial- mente al m. quadratus lumborum. Origina mediante un tendine, che ri- mane nascosto tra i fasci del m. quadratus lumborum, dalla porzione po- steriore della superficie laterale del corpo della ultima vertebra dorsale e mediante fascetti carnosi abbastanza bene distinti dalla superficie ven- trale del corpo delle prime 4 vertebre lombari e dei dischi interposti. L'origine di questi fasci si fa per modo che ognuno di essi si attacca al terzo inferiore e superiore di due corpi vertebrali contigui e al rela- tivo disco interposto, di guisa che il terzo medio di ogni corpo verte- brale è completamente sprovvisto di fibre muscolari. Al grosso ventre carnoso segue all’altezza della 5° lombare un robusto tendine appiattito, il quale, scorrendo sulla faccia ventrale dal m. psoas major, si slarga in dietro nella fascia ilio-lombare: questa, abbracciando a guisa di cingolo il muscolo sottoposto, si fissa medialmente alla cresta ileo-pettinea, e la- teralmente ai processi trasversi delle vertebre lombari. Psoas major. — Proviene dai corpi e dai processi trasversi delle 186 F. PARDI ultime 4 vertebre lombari, e dai dischi interposti a queste vertebre: unito al m. iliacus, trova la sua inserzione ordinaria al piccolo trocantere. Iliacus. — Originato dal margine ventrale dell’osso iliaco, dalla cresta ileo-pettinea e dal tendine del m. psoas minor, trova, riunito al muscolo precedente, la sua solita inserzione. Il corpo muscolare dell’intero éi0-psoas s’insinua distalmente nella fossa ilio-pettinea, tra i mm. adductor magnus e adductor longus medial- mente, e il m. vastus medialis lateralmente. ELLENBERGER e Baum ?°?) dividono il m. ili0-psoas in tre porzioni: una lombare assai lunga e corrispondente al m. psoas major, e due por- zioni del m. wWiacus, una laterale e l’altra mediale rispetto alla prima. Quadratus lumborum. — È costituito, come in Felis domestica, di fibre ilio-trasversarie e dorso-lombo-trasversarie. : Le prime, più ventrali, originate dalla spina iliaca anteriore ed infe- riore, volgono direttamente in avanti e trovano loro attacco al margine posteriore dei processi trasversi delle ultime 5 vertebre lombari. Le seconde costituiscono una serie di fasci muscolo-tendinei, i quali, scambiandosi fibre tra loro e coll’ estremo craniale del m. psoas minor, traggono origine: dalla superficie antero-laterale del disco fra la 10* e 11? vertebra dorsale, dal corpo delle vertebre dorsali 11%, 12% e 13?, e da quello delle prime 4 lombari. Da queste origini i singoli fasci, di- retti caudo-lateralmente, prendono inserzione, mediante tendini ben di- stinti, sull’apice dei processi trasversi lombari. La Fig. 12 mostra chiaramente rappresentati i fasci più craniali. Un primo fascio origina, come vedesi, dalla superficie antero-laterale del disco fra la 10° e la 11° vertebra dorsale e dal corpo della 11° dor- sale, per portarsi all’apice del processo trasverso della 1° lombare, sal- tando 2 segmenti vertebrali. Allo stesso modo comportansi gli altri fasci. Canis vulpes L. (7 vert. lomb.). Questo Carnivoro presenta poche differenze dalla disposizione osser- vata in Canis familiaris. Il m. psoas major estende più in avanti, per quanto estremamente assottigliata, la sua origine: nascosto fra il m. psoas major, considere- volmente sviluppato, e il m. quadratus lumborum, esso raggiunge cranial- mente la 2° vertebra lombare. LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 187 Il n. femoralis, dopo avere attraversato il m. psoas major, fuoriesce in corrispondenza del suo margine laterale, dove il muscolo costituisce al nervo una sottile arcata fibrosa: quivi il nervo fornisce il ramo, che si distribuisce al m. sartorius, e il n. saphenus. Mustela foina BrIss. (6 vert. lomb.). Psoas minor. — Dalla superficie antero-laterale del disco fra la 2° e la 3* vertebra lombare, dal corpo della 3* e della 4* lombare e dal disco interposto a queste vertebre si porta nel modo ordinario all’emi- nenza ileo-pettinea. Psoas major. — Proviene dai corpi e dai processi trasversi delle vertebre lombari 3*, 4° e 5* e dai dischi interposti. L’origine dai corpi vertebrali ha luogo mediante tendini piatti, splendenti, i quali, come in Felis domestica, per la loro superficie mediale danno attacco a fibre del m. psoas minor e per quella laterale a fibre del m. quadratus lumbo- run: ogni tendine s'impianta ad una speciale rilevatezza ossea della su- perficie laterale del corpo vertebrale, rilevatezza posta nella porzione posteriore del corpo vertebrale stesso *). L’ inserzione è quella ordinaria sul piccolo trocantere insieme al muscolo seguente. Iliacus. — Oltre alla consueta origine dall’ileo, proviene con al- cune fibre dalla superficie laterale del corpo della 6* lombare. Quadratus lumborum.— È costituito, come in Felis domestica, di fibre ilio-trasversarie e dorso-lombo-trasversarie, alle quali si aggiunge in questo Carnivoro un altro elemento, trasverso-costale. L’origine dei fasci più craniali si spinge fino al corpo della terz’ ul- tima vertebra dorsale e alla superficie ventrale ed al margine posteriore delle 3 ultime coste. Le fibre trasverso-costali sono rappresentate da un largo e sottile muscolo triangolare, che dai processi trasversi delle prime 3 lombari va, diretto cranialmente e lateralmente, a trovare la sua inserzione al mar- gine posteriore dell'ultima costa per l’estensione di cm. 2 '/» dall’estremo vertebrale costale. #) Evidentemente queste speciali apofisi dei corpi vertebrali sono omologhe alle ipoapofisi degli Ofidii. StRAUS-DuRCKBIM 204) chiama os upsilotdes due pic- coli ossi avvicinati e uniti fra loro in forma di V, che si trovano sulla super- ficie ventrale del corpo delle vertebre caudali di Felîs domestica. Sc. Nat. Vol. XIX 5 13 188 F. PARDI Mustela martes L., Putorius putorius L., Putorius vulgaris L. Come in Mustela foina. Viverra abyssinica RùppL. (Tav. IX, fig. 13). (7 vert. lomb.). Psoas minor. — Origina dal corpo delle vertebre lombari 3° e 4°, e profondamente dalla superficie mediale di 2 striscie tendinee, provenienti dal corpo delle stesse vertebre e che sono insieme ad altre immediatamente susseguenti striscie tendinee di origine del muscolo seguente. Psoas major. — Mediante fibre carnose proviene dal corpo della 3*, 4°, 5" e 6° lombare, e mediante 3 striscie tendinee dalle vertebre lombari 3*, 4° e 5°. Iliacus. — Niente di notevole. Quadratus lumborum. — Presenta la stessa fondamentale co- stituzione che in Mustela foina. Meritano però una speciale descrizione le fibre trasverso-costali. Queste costituiscono un largo e sottile muscolo triangolare, situato ventralmente ai rami anteriori dei nervi spinali ultimo toracico e primo lombare. Dai processi trasversi delle prime 4 vertebre lombari e dal margine laterale dei tendini terminali dei fasci dorso-lombo-trasversari, questo muscolo si dirige cranialmente e lateralmente per trovare attacco al margine posteriore delle 2 ultime coste, per un’estensione di 3 cm. circa dall’estremo vertebrale sull’ ultima costa, e per quella di 1 !fa cm. sulla penultima. XI. — Insectivora. Scarsa è la letteratura riguardante quest’Ordine. Io ho potuto con- sultare i lavori di DoBson 21214) e di LEcHE 21°). A. — Psoas minor. — In Centetes e Crocidura origina dalle ul- time vertebre toraciche e dalle lombari anteriori, in T'upaia ferruginea dai corpi delle lombari posteriori, in Eriînaceus europaeus dal processo trasverso della 2° lombare e dai corpi della 3° e 4% in Talpa euro- paea dalle ultime lombari (LecHE ?!5). L'inserzione ha luogo sul tuber- colo ileo-pettineo, ma in Gymnura Rafflesiù (Doson ?!4) termina insieme al m. élio-psoas sul piccolo trocantere. È intimamente confuso con questo LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 189 muscolo in Tupaia e Macroscelides (Lecar?!5). Negli Erinaceidi (DoB- son 213) il muscolo s'inserisce al legamento sacro-iliaco anteriore e al margine del bacino. Psoas major. — In Tupaia ferruginea proviene dai corpi delle ultime 5 vertebre lombari: in Talpa europaca e Chrysocloris dai corpi delle ultime toraciche e di tutte le lombari (LecHE ?!). L'inserzione in Talpa europaea si fa, insieme al m. iliacus, non solo sul piccolo trocan- tere, ma anche sulla cresta che da questo si diparte (LecHE?!5). Iliacus. — In Tupaia ferruginea (Lecne ?!5) è costituito di 2 capi, uno laterale proveniente dalla faccia ventrale dell’osso iliaco e uno me- diale che origina dalle 3 vertebre lombari posteriori. In Chrysocloris (Le- cHe 215) origina anche dalle vertebre sacrali anteriori. Quadratus lumborum. — In Gymnura Rafflesii (Dosson 214) è rudimentale: parte mediante fascicoletti dalla 15* vertebra toracica e dall'ultimo muscolo intercostale, e si fissa dalla 2° alla 5* lombare: altre fibre, partendo dal processo trasverso della 5* lombare, raggiun- gono la cresta iliaca, per la maggior parte confuse col m. sliacus. Negli Erinaceidi (DoBson 2!) è bene sviluppato e più carnoso che in Gym- nura Rafflesti: si estende senza interruzione dall'ultimo spazio interco- stale e dalla base dell’ ultima costa alla cresta iliaca, inserendosi suc- cessivamente per mezzo di piccoli tendini all’estremità di ciascun processo trasverso lombare. B. — Ho esaminato: Erinaceus europaeus L. (6 esempl.). Erinaceus europaeus L. (Tav. IX, fig. 14). (6 vert. lomb.). Psoas minor. — Proviene dalla superficie antero-laterale del corpo della 2°, 3°, 4° e 5° lombare e dai dischi interposti, e con fibre tendinee dal corpo della 6° lombare e dal disco fra la 6* ed il sacro: segue in corrispondenza del promontorio un tendine appiattito, che si fissa all’eminenza ileo-pettinea, dopo essersi espanso ampiamente nella fascia iliaca. Questo muscolo, in corrispondenza delle prime lombari, trovasi in rapporto medialmente coi pilastri del diaframma, i quali, giusta l’osser- vazione di BERTELLI 2!5), mandano fibre al muscolo stesso. Il tendine del m. psoas minor, in prossimità della sua inserzione, dà origine per il suo margine laterale al m. sartorius. 190 F. PARDI Psoas major. — Situato dorsalmente e lateralmente al prece- dente, origina dal corpo e dai processi trasversi della 3°, 4%, 5° 6* lombare, e dai dischi interposti a queste vertebre. Le fibre che proven- gono dalla 6* lombare e dal disco fra la 6? ed il sacro costituiscono un piccolo fascio a sè, il quale caudo-lateralmente si unisce alla porzione più cospicua, laterale: rimane così fra le due porzioni un piccolo spazio triangolare, nel fondo del quale appariscono i nervi del plesso lombare. Il muscolo trova, riunito al m. éliacus, la sua inserzione sul piccolo trocantere. Iliacus. — Assai sviluppato, origina dalla cresta iliaca, dalla sin- fisi sacro-iliaca e dal margine ventrale dell’osso iliaco. Quadratus lumborum. — È costituito di fibre ilio-trasversarie e dorso-lombo-trasversarie. Le prime costituiscono un fascio, il quale dalla cresta iliaca, dirigen- dosi cranialmente e medialmente, trova attacco sull’apice dei processi trasversi delle vertebre lombari 3% 4% e 5°: situato ventralmente al m. ilio-costalis e lateralmente ai mm. psoas major e minor, apparisce quasi completamente isolato dalle fibre dorso-lombo-trasversarie. Le seconde provengono dal corpo della ultima dorsale, dai corpi e dai processi trasversi delle vertebre lombari 1°, 2°, 3* e dai dischi in- terposti: come d’ordinario, ai singoli fascicoli muscolari seguono piccoli tendini, i quali s’impiantano serialmente sull’apice dei processi trasversi delle vertebre lombari 2*, 3% 4% e 5°. I rami ventrali dell’ultimo nervo toracico e del 1° lombare attra- versano la porzione più craniale del muscolo ed hanno un decorso quasi trasversale: i rami ventrali del 2°, 3°, 4°, 5° e 6° nervo lombare in- vece, addossati profondamente alla colonna vertebrale, volgono diretta- mente indietro medialmente al m. quadratus lumborum e dorsalmente ai mm. psoas major e minor. Il n. femoralis attraversa, come vedesi dalla fig. 14), il m. iliacus. XII. — Cheiroptera. Oltre i trattati di Cuvier 21°), MecKEL?!8) e UccELLI ?!°), notevoli in quest’Ordine sono i lavori di ALix 229), MAISONNEUVE *?!), MACALISTER °°°) e HumPHRyY ??3). A. — Psoas minor. — Cuvier 21°), MecKEL °!8), MACALISTER 3?) affermano essere costante questo muscolo in tutti i Chirotteri, ciò che coincide col grande sviluppo dell’eminenza ileo-pettinea. CuvieR ?!) gli LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 191 assegna come origine la 1° vertebra lombare. MACALISTER 2?) in Noctulina e Cephalotes lo dice costituito da una corta porzione muscolare e da un lungo tendine, mentre in Megaderma esso è corto e carnoso per tutta la estensione sua. In Pteropus Edwardsi, secondo ALIxX 229), proviene dalle apofisi mediane dei corpi delle prime 5 lombari, mentre HumpHRY???) dà per origine di questo muscolo 2-3 vertebre dorsali ed altrettante lombari, ed aggiunge che alcune fibre di esso si continuano nel m. pecti- neus: MACALISTER 22?) in tutti i casi da lui osservati è riuscito a sepa- rarlo nettamente da questo muscolo. Psoas major. — In Cephalotes origina dalla 2° e 3* lombare, in Me- gaderma e in Artibeus dalle vertebre lombari, dal sacro e dall’osso iliaco, in Oynonycteris manca la origine dal sacro (MAcALISTER ???). In Pteropus Edwardst, HumPHARY??3) lo dice originare dalle vertebre lombari, dal sacro e dall’ileo, mentre secondo ALix 229) proviene dai corpi delle 3 ultime lombari con delle digitazioni che sono confuse con quelle del m. qua- dratus lumborum. MeckeL?!8) nei Chirotteri in genere gli assegna per origine tutte le vertebre lombari, e Cuvier 217), cosa strana, asserisce che non esiste. Ilîiacus. — Per CuvieR ?!°) non esiste. In Pteropus Edwardsii (ALtx 22°) lateralmente al m. iliacus trovasi un fascio ben distinto e spesso (iliacus minor), che originando dalla spina iliaca anteriore e superiore termina sulla linea aspra del femore al di sotto del piccolo trocantere. AtIx?29), omologizzando la fossa iliaca interna a quella sotto-spinosa, il m. iliacus al m. infraspinatus e il piccolo trocantere alla tuberosità late- rale dell'omero, crede che detto fascio stia a rappresentare nell’ arto pelvico il m. feres minor dell’arto toracico. Quadratus lumborum. — UccELLI ?!°) asserisce erroneamente che manca. Componesi in Pteropus Edwardst (ALtx??°) di due ordini di fasci: 1°, di una serie di muscoli corti intertrasversari; 2°, di una serie di fasci sottotrasversari, che dai corpi delle ultime 2 dorsali e delle prime 5 lom- bari vanno a terminare, mediante tendini, sull’apice dei processi trasversi lombari, e l’ultimo sul tubercolo laterale della cresta iliaca. B. — Ho studiato Vesperugo noctula ScEREB. (2 esempl.) e Plecotus auritus L. (2 esempl.). Vesperugo noctula ScHREB. (5 vert. lomb.). Psoas minor. — Assai sviluppato, si stacca dal corpo delle ver- 192 F. PARDI tebre lombari 1°, 2* e 3* con fibre che si avvicinano sempre più alla linea mediana dall’avanti all’indietro: il tendine appiattito che fa se- guito al ventre muscolare si fissa al tubercolo ileo-pettineo, assai svilup- pato sotto forma di un’apofisi aguzza volta cranialmente. Psoas major. — È costituito di due fasci assai cospicui, confusi alla loro origine. Il fascio mediale proviene dal corpo e dai processi trasversi delle vertebre lombari 4* e 5°, dal disco interposto ad esse e dalla superficie ventrale del sacro: diretto caudo-lateralmente, s’inse- risce con un tendine, fuso coll’estremo distale del m. pectineus *), sul piccolo trocantere o trocantere anteriore, giacchè per la speciale rota- zione che gli arti hanno subìto in questi Mammiferi ciò che è interno diventa anteriore. Il fascio laterale origina dal corpo e dai processi trasversi delle ver- tebre lombari 3* e 4° e dal disco interposto: riceve il m. éiacus e con un tendine distinto si attacca poco al di sotto del piccolo trocantere. Il n. femoralis decorre fra i due fasci del muscolo. o Iliacus. — Ricoperto interamente dal m. psoas major, non è molto cospicuo e proviene dal margine laterale dell’ ileo in prossimità della cresta: è separato dal m. glutaeus medius per l’interposizione dell’estremo craniale del m. extensor cruris, e s'inserisce, come è stato detto già, insieme al m. psoas major, sul femore. ; Per porlo in evidenza è necessario spostare medialmente il fascio la- terale del m. psoas major: la esiguità del muscolo e la difficoltà di sco- prirlo spiegano forse perchè Cuvier?!") abbia detto non esistere questo muscolo nei Chirotteri. Quadratus lumborum. — È costituito di fibre ilio-trasversarie, ilio-costali e dorso-lombo-trasversarie, che ripetono la costituzione ormai descritta nella maggior parte dei Mammiferi. Plecotus auritus L. Come in Vesperugo noctula. *) La inserzione comune del tendine del fascio mediale del m. psoas major con l’estremo distale del m. pectinevs sul piccolo trocantere è da tenersi pre- sente per speciali considerazioni anatomo-comparative, di cui meglio sarà detto nell’ ultimo capitolo di questo studio. Basti per il momento accennare come tale disposizione ricordi esattamente quella di aleuni Rettili. LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 193 XIII. — Prosimiae. Per quest’ Ordine mi riferisco sopra tutto ai lavori di BURMEISTER??4), ALIx?25), Owen 226), Murie e Mrivart 22”), OuDEMANS??8) e ZUCKER- KANDL °?9). A.-- Psoas minor. — In Chiromys madagascariensis (ZUCKER- KANDL??9) è debole, rudimentale ed origina dal processo trasverso della 1° lombare e dalle vertebre lombari 2?-5*: s'inserisce, lateralmente al- l’arteria femorale, sul tubercolo ileo-pettineo. Secondo OupEMANS??8), Murie e Mrvarrt 22°) origina in questa stessa specie dall’ ultima dor- sale e dalle 3 prime lombari. OwEN??5) considera questo muscolo come un ventre superficiale del m. psoas major. Psoas major. — Assai robusto, proviene in Chiromys madagasca- riensis (ZUCKERKANDL °°°) dalla 4°-6* lombare. MurIiE e MIvarT???) non descrivono questo muscolo, mentre OupEMANS??3) lo fa originare dalle ultime 3 lombari. In Tarsius spectrum (BURMEISTER?24) è doppio e ben distinto dal m. &Wiacus. i Iliacus. — Nel Galago (MurIE e Mivart ?2°) è doppio. In Chiromys madagascariensis (ZUCKERKANDL 2°?) il n. femoralis attraversa la parte sporgente del muscolo. Quadratus lumborum. — Debole e stretto, in Chiromys mada- gascariensis (ZUCKERKANDL °°°) è costituito di due porzioni: la superiore, confusa col m. psoas major, dalla 12° costa va ai processi trasversi delle vertebre lombari superiori, la inferiore, meglio sviluppata, dalla colonna lombare va al margine superiore dell’osso iliaco e al processo trasverso della 1° sacrale. XIV. — Primates. Ho potuto consultare i lavori di OweN?3°), DuveRNOY 231), WILDER?8?), GratIoLET ed ALix?33), CHAMPNEYS?34), MACALISTER?35), BISCHOFF 236), DENIKER?3"), KoBLBRUGGE?58), HePBURN®39), Fick?40) e SPERINO?41). Duolmi non aver potuto avere i recenti lavori di PRIMROSE?4?: 243). A. — Psoas minor. — In Troglodytes niger è bene sviluppato, ed origina dalla 13° e 14* dorsale secondo GratIoLET ed ALIx 238), dalla 13* dorsale e dalle prime lombari secondo CHAMPNEYS 34), mentre nell’esemplare di SPeRINO 24!) proveniva dalla 1° e 23 lombare. HeP- BURN?5°) lo ha descritto tanto in Zroglodytes niger come in Simia satyrus, ove lo ha riscontrato del pari Fick 24°). HEPBURN 23?) non lo ha veduto 194 F. PARDI in un esemplare del genere Hylobates, ma stando alle ricerche di DENI- KER 237) e di KoHLBRUGGE ?38) origina in Hylobates agilis dalle 3 prime lombari. In Troglodytes gorilla [MacaLIstER 235), DuverNoY 231), Hrp- BURN?39)] è presente: secondo DENIKER 23") però mancherebbe 3 volte su 5. Esiste bene sviluppato in Cynocephalus anubis (CHAMPNEYS 234). Psoas major. — In Troglodytes niger [HEPBURN 239), SPERINO 241) ] proviene dai corpi e dalla base dei processi trasversi delle vertebre lombari 2°, 3°, 4* e 1° sacrale: GRATIOLET 233), ALix 233) e WILDER 282) avrebbero osservato un'origine più craniale, mentre CHAmPNEYS 284) ha notato che il muscolo estendeva la sua origine al margine inferiore del- l’estremo vertebrale dell’ultima costa. In Troglodytes gorilla[ DuvERNOY 231), BiscHoFF 36), MACcALISTER?35), HePBURN?39)] si parte dai corpi delle 3 prime lombari, dai dischi intervertebrali e dal processo trasverso della 3° lombare: in Simia satyrus | HEPBURN 239), Ficx 24°)] dall’ultima dorsale (12°) e da tutte le lombari (4). In Cynocephalus anubis (CHAMPNEYS 234) componesi di due porzioni separate dal decorso dei nervi lombari: una, craniale, innervata dal n. femorale anteriore, e l’altra, caudale, innervata dal 3° n. lombare. In Pithecus satyrus (OwEN 3°) è più lungo che nel- 1’ Uomo. Iliacus. — In Troglodytes niger |SPERINO?4!), CHAMPNEYS?34), Hrp- BURN ?39)], in Zroglodytes gorilla |[MAcALISTER?3*), HEPBURN ?39)] e in Simia satyrus [HEPBURN 239), Fick ?24°)] come nell’ Uomo. CHAMPNEYS 234) in 0y- nocephalus anubis descrive, oltre l’ordinario m. siacus, 2 fasci sopran- numerari. Il pròmo origina mediante un capo dal margine laterale del m. psoas major e mediante un altro dal m. iliacus: questi due ventri, riunendosi, costituiscono un tendine rotondo, che prende attacco sul pic- colo trocantere. Si ha così un doppio m. ili0-psoas. Il secondo, staccatosi dall’ileo e dal tendine del m. rectus femoris, s'inserisce sul femore se- condo una linea, che partendo dalla porzione superiore della linea aspra decorre a spirale in basso ed in avanti. In Pithecus satyrus OwEN ?3°) descrive un piccolo muscolo distinto, che dalla parte anteriore dell’ileo, passando sopra all’articolazione del fianco, con cui contrae aderenza, va ad inserirsi alla radice del piccolo trocantere. Quadratus lumborum. — SPerINO 24!) ci dà un’ esatta descri- zione del muscolo di Troglodytes niger, in cui mancano i fasci trasverso- costali, e Fick ?4°) quella del muscolo di Simia satyrus, in cui la por- zione élio-costalis apparisce piuttosto isolata. Del resto anche in quest’Or- dine il m. quadratus lumborum è stato scarsamente studiato. LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 195 B. — Ho potuto esaminare: Cercopithecus cephus L. (1 esempl.), Ma- cacus cynomolgus L. (1 esempl.), Cynocephalus babuin Desw. (1 esempl.), Hapale penicillatus GroFFR. (1 esempl.). Cercopithecus cephus L. (Tav. IX, fig. 15). (6 vert. lomb.). Psoas minor. — Dalla superficie laterale del corpo delle ver- tebre lombari 1°5*% e dai dischi interposti va, mediante un tendine appiattito, alla linea innominata, subito al davanti della sinfisi sacro- iliaca. Psoas major. — Staccatosi dalla superficie antero-laterale del corpo delle vertebre lombari 4#-6*, dai dischi interposti ad esse e da quello fra la 6° ed il sacro si porta, fuso col m. éliacus, al piccolo tro- cantere. Iliacus. — Origina dalla cresta iliaca e dalla faccia ventrale del- l’ileo, immediatamente al di sotto del muscolo seguente. Quadratus lumborum. — Esile ed allungato, è costituito di tre ordini di fibre: ilio-trasversarie, ilio-costali e dorso-lombo-trasversarie. Le prime dalla porzione più craniale della superficie ventrale del- l’ileo e dal legamento ileo-lombare vanno, dirette cranialmente e me- dialmente, al margine posteriore dei processi trasversi delle vertebre lombari 6* e 52. Le seconde costituiscono il margine laterale del muscolo: originano dall’ ileo insieme alle precedenti, e, dirigendosi direttamente in avanti, vanno ad attaccarsi al margine posteriore delle ultime 2 coste per un’e- stensione di 2-3 mm. dall’estremo vertebrale delle coste stesse. Le fibre dorso-lombo-trasversarie infine si staccano dalla superficie laterale del corpo delle 2 ultime dorsali e, delle prime 3 lombari, per portarsi, come d’ordinario, mediante tendini appiattiti, più profondi quanto più craniali, all'angolo anteriore di tutti i processi trasversi lombari. Rapporti coì nervi del plesso lombare. — Il ramo ventrale del- l’ultimo nervo toracico, il n. ?20-Rypogastricus 0 grande addomino-geni- tale (ramo ventrale del 1° n. lombare) e il n. ilio-inguinalis 0 piccolo ad- domino-genitale (ramo ventrale del 2° n. lombare) attraversano il m. qua- dratus lumborum. Il n. genito-femoralis, costituito dalla riunione di radici provenienti dal 3° e 4° n. lombare, attraversa invece il m. psoas minor, per scorrere sulla faccia ventrale di questo muscolo, e più caudalmente 196 F. PARDI su quella del m. psoas mayor. Il n. cutaneus femoris lateralis, originato dal 3° n. lombare, attraversa il m. psoas major nella sua porzione più craniale, scorre quindi sulla faccia ventrale del muscolo per raggiungere il m. Wiacus: situato fra questo e la fascia, si perde caudalmente nella regione della coscia. Il n. obturatorius origina dal 4° e 5° n. lombare per due radici, che si riuniscono nella spessezza del m. psoas major: esce da questo muscolo in corrispondenza del suo margine mediale, e decor- rendo direttamente indietro, ricoperto per breve tratto dal m. psoas minor, arriva al foro sotto-pubico. Il n. femoralis proviene dal 4° e 5° lombare, attraversa esso pure il m. psoas major, e volge lateralmente e caudal- mente per porsi fra il m. psoas major e il m. iliacus. Macacus cynomolgus L. (6 vert. lomb.). Psoas minor. — Si stacca dal corpo delle prime 4 vertebre lom- bari, dai dischi interposti a queste vertebre e da quello fra la 4° e la 5. La inserzione è quella ordinaria: merita soltanto di essere accennato come dal tendine del muscolo, in prossimità della sua inserzione all’ileo, originino fibre del m. èlio-coccygeus. Psoas major.-— Proviene dal corpo e dai processi trasversi delle vertebre lombari 3-62. Iliacus — Come in Cercopithecus cephus. Quadratus lumborum. — Come in Cercopithecus cephus. Cynocephalus babuin Desm. (6 vert. lomb.). Psoas minor. — Assai sviluppato, confonde cranialmente le sue fibre con quelle del m. psoas major. Origina: dalla superficie laterale del corpo dell’ultima dorsale e delle prime 2 lombari, nonchè dai di- schi fra queste vertebre. Il tendine, in cui si continua il fascio carnoso del muscolo, indietro si espande ampiamente nella fascia èdliaca, fissan- dosi all’eminenza ileo-pettinea. Psoas major. — Si stacca dal corpo e dai processi trasversi delle vertebre lombari, compresi i dischi intervertebrali: origina pure con fibre carnose dalla linea innominata per tutto il tratto che corre dalla sinfisi sacro-iliaca all’eminenza ileo-pettinea, e dal margine mediale del LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 197 tendine del m. psoas minor. Quest'ultima origine si pone assai bene in evidenza tagliando verso la metà il tendine del m. psoas minor, e ro- vesciandolo medialmente. Iliacus.— Proviene dal legamento ileo-lombare, dalla cresta iliaca (labbro interno), da tutta la fossa iliaca interna, dalle spine iliache an- teriori (superiore ed inferiore) e dallo spazio ad esse interposto. La inserzione si fa, col m. psoas major, sul piccolo trocantere. Quadratus lumborum. — Consta di una porzione mediale e di una laterale. Quella mediale origina dalla superficie laterale dei corpi delle ul- time 3 dorsali e di tutte le lombari, e s'inserisce, mediante tendini de- correnti caudo-lateralmente nella spessezza del muscolo, sull’apice dei processi trasversi lombari (fibre dorso-lombo-trasversarie). La porzione laterale, assai cospicua, proviene dal legamento ileo- lombare e dalla cresta iliaca: costituita di fibre dirette cranialmente, trova la sua inserzione sui processi trasversi lombari e sul margine po- steriore dell’ ultima costa per un’estensine di 3 cm. circa a partire dalla colonna vertebrale (fibre iio-trasversarie e ilio-costali). Hapale penicillatus GEOFFR. (6 vert. lomb.). Psoas minor. — Staccatosi cranialmente dalla superficie laterale del disco fra la 2° e 3% lombare, dal corpo della 3, dal disco fra la 3* e la 4°, dal corpo della 4° e dal disco fra la 4° e la 5°, s'inserisce, come d’ordinario, sull’eminenza ileo-pettinea. Psoas major. — Dalla superficie laterale del corpo della 4 e 5° lombare e dalla superficie ventrale della 1° sacrale si porta col m. iliacus sul piccolo trocantere. Iliacus. — Come in Cercopithecus cephus. Quadratus lumborum. — Come in Cercopithecus cephus. Homo sapiens L. 16 Per non accennare che ai più recenti, la maggior parte degli Ana- tomici considera i mm. ili0-psoas e psoas minor con quelli dell’ estremità inferiore, e pone il m. quadratus lumborum nel piano posteriore dei mu- 198 i F. PARDI scoli dell’ addome. Così LuscHKA?**, KrAuse?4°), HvRrL?46), RAUBER?4"), GEGENBAUR 248), BraunIS e BoucHARD?4°), PorrIER?5°), Quarn 251), Ro- MITI 252), HENLE- MERKEL 95). CRUVEILHIER 254), STRAMBIO 255), TENCHINI 255), SAPPEY 257), TESTUT 258) per contrario li riuniscono tutti in un solo gruppo, appartenente alla regione lombare. HenLE?5?) li considera coi muscoli dell’ estremità inferiore. LANGER e ToLpT?6°) riuniscono il m. quadratus lumborum al m. dia- phragma, e pongono i mm. psoas con quelli del fianco. DEBIERRE 25!) sotto il nome di muscoli interni del fianco descrive il m. diaphragma, il m. ilio-psoas, il m. psoas minor, il m. quadratus lum- borum e il m. transversus thoracis. Oltre a questo, nei libri di anatomia umana viene, certo per comodo didascalico, riunito il m. psoas major al m. iliacus. LE DouUBLE 262) giustamente osserva: “On a tort de réunir dans les livres d’anatomie l’iliaque et le grand psoas. L’iliaque appartient au bassin et le grand psoas, qui naît des apophyses costiformes des ver- tèbres lombaires, appartient au système des còtes; l’un paraît dériver du feuillet profond de la masse musculeuse qui donne naissance aux mu- scles dorsaux de la cuisse, l’autre du feuillet profond du muscle ventral (HumPHRy 263), l’un a pour homologue le muscle sous-scapulaire, l’autre n’a pas d’homologue au membre supérieur ou en a un sur le déter- minisme duquel on ne s’entend guère; enfin, dans la série animale: l’iliaque est tantòt interne, tantòt externe, le grand psoas toujours in- terne; l’iliaque peut exister sans étre accompagné d’un muscle grand psoas, et réciproquement ,. In GEGENBAUR ?°4) leggesi: “ Dem Psoas entsprechende Muskulatur ist wohl aus subvertebraler entstanden (Rue ?5), was davon nicht verschieden ist, wenn man jene Stàtte nur unter Querfortsitzen von Lendenwirbeln annimmt (EISsLER 28) ,,. Credo perciò sia razionale scindere il m. psoas major dal m. iliacus, la cui vera sede è tra i muscoli del bacino, e riunire il primo al m. psoas minor, in un gruppo di muscoli, che io chiamerei prevertebrali lombari. A questo gruppo ritengo poi sia giusto, per ragioni morfologiche, di cui meglio sarà detto nelle considerazioni generali, aggiungere il m. qua- dratus lumborum, che nella maggior parte dei Mammiferi ha assunto il carattere di vero muscolo prevertebrale. LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 199 II. Nella costituzione del m. quadratus lumborum della specie umana entrano, com’è noto, vari elementi, i quali hanno servito di base agli Anatomici per sostenere che il muscolo stesso rappresenta la riunione o la fusione di varie entità muscolari, distinte in specie animali infe- riori. I trattati descrivono infatti tre ordini di fasci: 4lio-costali, ilio- trasversari e trasverso-costali. Questi ultimi [ricordati a buon dritto come muscolo speciale, pars lumbo-costalis di LuscHKa?44), transversalis lumborum di altri AA.|] sono rappresentati da 2 o più fasci muscolari lunghi e sottili, situati ventral- mente alla massa principale del muscolo, fasci, che nascendo dai pro- cessi trasversi lombari, vanno alla testa dell’ultima costa. Dopo numerose osservazioni, ho potuto convincermi che i fasci tra- sverso-costali sono d’ordinario assai esili e ben poco distinti dal corpo principale del muscolo. Originano talora con fibre carnose, talora con fibre tendinee, dai processi trasversi delle vertebre lombari (2-52), e spingendosi cranialmente si attaccano, mediante una laminetta aponeu- rotica, al margine inferiore e alla superficie ventrale dell’ ultima costa, in prossimità del suo estremo vertebrale. Ma quello che a me più d’ogni altra cosa preme porre in evidenza è il rapporto che questi fasci, o meglio la laminetta aponeurotica, che ne rappresenta il termine, ha coi rami ventrali dei nervi spinali (ultimo toracico e 1° lombare): questi trovansi situati dorsalmente alla porzione trasverso-costale, o in altre parole i nervi ora ricordati decorrono fra la massa principale del muscolo (fasci dlio-costalì ed èlio-trasversari) e il sottile piano ventrale (fasci trasverso-costali). Ciò ha, secondo il mio giu- dizio, un alto valore morfologico, giacchè da questo rapporto apparirà manifesto più oltre il significato dello strato più ventrale del m. qua- dratus lumborum. Per quanto riguarda il significato dell’ intero muscolo, ricorderò come secondo MEecKEL °°") esso rappresenti i mm. Zevatores costarum (sopraco- stali), levator scapulae, scaleni e pyramidalis. Meyer 58) chiama m. ileo- lumbaris la porzione posteriore del m. quadratus lumborum (fasci ilio- trasversari) e m. scalenus lumborum quella anteriore (fasci trasverso- costali), omologizzando quest’ultima al m. scalenus colli. Però l’opinione generalmente seguìta oggidì è che la porzione ven- trale, omologa ai mm. scaleni, rappresenti un certo numero di mm. im- 200 F. PARDI tercostales longì, e quella dorsale, più cospicua, sia omologa del m. ser- ratus anterior. Ma niuno dei moderni Trattati accenna agli studi importantissimi di Gapow °4), alle nuove idee da lui svolte. Già Hauenton !4!), a proposito dei Marsupiali, aveva considerato il m. quadratus lumborum come un intercostale lombare, ma spetta senza dubbio a Gapow ?4) il merito, rimasto sino ad oggi oscuro, di aver dato del muscolo una nuova interpretazione, alla quale ora solo brevemente accenno, per riprenderla in momento più opportuno. Egli, che ha potuto fare lunghi studi di miologia comparata, ritiene che il m. quadratus lum- borum della specie umana sia derivato da quello dei Rettili, e lo consi- dera come un m. intercostalis, il quale, per l’accorciamento subìto dalle coste nella regione presacrale, abbia perduto il primitivo carattere, tra- sformandosi in un muscolo unico. Riporto senz’altro quanto Egli dice: “....Indem nun die Vertebralstùcke der Rippen eine Verkilrzung er- leiden, verliert die Muskellage ihren intercostalen Charakter, der nur theilweise noch durch aponeurotische Septa angedeutet bleibt, und wird zu einem einheitlichen Muskel (Quadratus lumborum), der in Ermange- lung der aus ihm fòrmlich zuritekgezogenen Rippen von der Innenflàche der Proc. transversi, und wie gewonhlich ausserdem von den Wirbelkòr- pern selbst, fleischig entspringt ,. III. Varietà. 1. Assenza del m. psoas minor. — La questione della maggiore o minore frequenza del m. psoas minor nella specie umana è stata lun- gamente dibattuta tra gli Anatomici, i quali hanno ottenuto resultati straordinariamente discordi. Alcuni, e sono per la verità i più, hanno stabilito, dopo un gran nu- mero di osservazioni, doversi ritenere che il muscolo è con maggiore frequenza assente, donde la necessità di porlo fra i muscoli soprannu- merari, allo stesso modo dei mm. omo-trasversario, occipito-scapolare, dorso-epitrocleare ecc., 0, come vuole LE DouBLE 25%), fra i muscoli passò vamente progressivi. Basterà ricordare come TarILe?"°) lo abbia trovato una volta sola su 20 cadaveri esaminati, PeRRIN?°!) 32 volte su 112, Testur ?"?) 8 volte su 32, Le DouBLE ?°?) 263 volte su 600. Dwriear®°3) lo trovò mancante nel rapporto del 60%, ScawaLse e Prirzner 7) in quello del 57%, THomson °°) in quello del 59%; LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 201 MrecxeL ?5°) d’altra parte afferma che manca di rado e GRUBER ?75) su 1500 osservazioni lo ha trovato presente 769 volte. Io stesso ho voluto portare il mio piccolo contributo, e da 100 os- servazioni (505 e 50 9) sono venuto alle conclusioni che riassumo nel presente quadro : Numero Muscolo assente Muscolo presente dei soggetti esaminati 100 52 48 Da A A ambo i lati| destra sinistra 26 9 13 Si è voluta anche invocare per questo muscolo la influenza etnica, essendosi osservato che presso certi popoli è più frequente di quello che non sia presso altri. CHUDZNISKI 2"), ad esempio, crede caratteristica della razza negra la mancanza del muscolo, ma dalle osservazioni di Frower e More"), Giacomini #°?) e TestuT ?"?) dobbiamo ormai rite- nere che ciò non è conforme alla verità. 2. Il m. psoas minor secondo il sesso. — È stato attribuito al m. psoas minor un carattere sessuale. Riorano !*) nell’ Anthropographia afferma: “...in mulieribus rarius reperitur quam in viris ,. WinsLow 25) e BeLL ?5°) per contrario hanno asserito esser più frequente nella fem- mina che nel maschio. i Le ricerche di GruBER 275), Dwicar 2°), THomson 27°) e LE DOUBLE 25?) portano a stabilire che il m. psoas minor manca più spesso nella femmina. Allo stesso resultato conducono le mie osservazioni, riprodotte nel quadro seguente: È Muscolo assente 21 Muscolo assente 31 | da ambo i lati 20 da ambo i lati 7 | id. presente 29) adestra . . 2 id. presente 19 Î a destra . . 6 | \ a sinistra . tdi a sinistra . .6 | Totale 50 29 Totale 50 19 202 F. PARDI 3. M. ileo-capsulo-femorale. — |M. petit iliaque di WinsLow 28); iliacus minor di QuAIn ?°!); ilio-capsulo-trochantérien di CruveLLATER?94)]. FioRANI 281) in un recente lavoro si è occupato di questo muscolo, de- scritto per la prima volta nell’ Uomo da WixsLow ?5), e successivamente noto per le ricerche di molti altri, di cui qui io non ricorderò che i principali: DENONVILLIERS 282), THEILE 3%), CRUVEILHIER 254), SAPPEY 25") ecc, Ma Fiorani 281), estendendo le sue ricerche agli Anfibî, Rettili, Uc- celli e Mammiferi, ha di questo muscolo stabilito l’omologia, confermando l'opinione già espressa da TrHEILE 86), CruveILHIER 254), SApPEY ?57) e Trs- TUT ?"2): che il muscolo in parola debba considerarsi come normale nel- l'Uomo. HEPBURN 283) ha descritto come origine accessoria del m. iliacus un forte nastro tendineo, che, partendo dalla superficie di osso iliaco situata immediatamente al di sotto ed esternamente alla spina iliaca anteriore inferiore e dalla capsula dell’articolazione, si riuniva, passando al di die- tro del m. rectus femoris, al m. iliacus. Bryce 284), confermando le precedenti osservazioni di Testur ?°?), ha descritto nel Negro uno speciale lacerto muscolare, proveniente dalla spina iliaca anteriore ed inferiore, lacerto muscolare, cui devesi indub- biamente dare la interpretazione di un m. èeo-capsulo-femorale. Io stesso, in varie osservazioni praticate su cadaveri umani, ho ve- duto, in corrispondenza del margine laterale del m. siacus, un fascio mu- scolare, interamente distinto da questo, partirsi.dalla spina iliaca anteriore ed inferiore, al di sotto dell’inserzione del tendine diretto del m. rectus femoris, e prendere attacco isolatamente, dopo aver contratto rapporto colla superficie ventrale del legamento ileo-femorale anteriore, al di sotto del piccolo trocantere. E in un caso, nella dissezione del cadavere di una bambina di circa due anni, ho notato come alcune fibre del fascio in parola provenissero dal tendine diretto del m. rectus femoris. Questa disposizione ricorda assai da vicino quella riscontrata da HEPBURN?3°) e da KoHxLBRUGGE??5) in Hylobates, nel quale una parte del m. éliacus prendeva origine dal mar- gine esterno del tendine del m. rectus femoris. Per quanto riguarda l’anatomia comparata del m. è/eo-capsulo-femorale, rimando il lettore agl’importanti lavori di Testur?"?) e Le DouBLE 5°). Ad essi aggiungerò soltanto come CHAMPNEYS:?4) e SPeERINO 4!) in Troglodytes niger, OwEN 239) in Simia satyrus, DENIKER ®3") nel feto di un Hylobates abbiano descritto il muscolo di cui mi occupo. LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 203 Questo, secondo Testur?"?), sarebbe specialmente sviluppato, rap- presentandovi da solo la porzione iliaca del m. ilio-psoas, in quei Mam- miferi (Chirotteri ad esempio), con élio prismatico (SABATIER 28°), 0 sprov- visto di fossa iliaca interna. Ciò per la verità non concorda con l’osser- vazione di Artx??°), che in Pteropus Edwardsii descrive lateralmente al m. dliacus uno spesso e distinto iliacus minor. 4. Fascio soprannumerario del m. iliacus (Tav.IX, fig.16). — In un cadavere di adulto ho notato, ventralmente al m. iliacus, la presenza di un fascio muscolare assai cospicuo, appiattito, il quale dalla sua origine nella porzione media del labbro interno della cresta iliaca, veniva, con una direzione obliqua dall’alto al basso e dall'esterno all’interno, a con- fondere le sue fibre con quelle del m. diacus. Il n. femoralis, nell’attra- versare obliquamente la fossa iliaca interna passava fra il m. iliacus e il fascio soprannumerario ora descritto. Nella letteratura non trovo che i casi di MACALISTER ?85) e di Woop 287), i quali possano rassomigliarsi a quello descritto da me. MACALISTER ?86) parla di un fascio muscolare appiattito che originatosi dalla fascia iliaca, dopo aver ricoperto il m. diacus sottostante, si confonde in basso con esso. Woop?57) pure ha notato un fascio accessorio del m. iliacus stac- carsi, completamente distinto dal corpo principale del muscolo, dalla metà della cresta iliaca e gettarsi sul tendine del m. éli0-psoas. 5. Varietà del m. psoas major coesistente a varietà del n. femoralis (Tav. IX, fig. 17). — DEBIERRE?88) nel suo lavoro (des ano- malies des muscles coexistantes et correlatives des anomalies des nerfs) fra le varietà che non si possono spiegare coll’atavismo e che sono determi- nate dall’anormale decorso dei nervi, descrive quella della presenza di un piccolo fascio indipendente del m. iliacus per la divisione in due rami del n. femoralis, dei quali rami uno passava sopra e l’altro sotto al fa- scicolo muscolare, per poi nuovamente riunirsi distalmente. Io stesso ho due osservazioni consimili. In un bambino di due anni circa ho veduto, a destra, il n. femoralis presentare nel suo decorso at- traverso la fossa iliaca interna un vasto occhiello della lunghezza di em. 3 ‘/,, in mezzo al quale passava un fascicolo muscolare del m. psoas major: questo fascicolo, proveniente dal margine inferiore del processo trasverso della 3* vertebra lombare, in basso, dopo avere attraversato l’occhiello anzidetto, si gettava per mezzo di sottili fibre aponeurotiche sul tendine del m. ili0-psoas. Osservazione quasi simile a questa ho fatto in un cadavere di adulto. Se. Nat. Vol, XIX 14 204 F. PARDI Considerazioni generali e eonclusioni. 1. Psoas minor. Di questo muscolo, che OwENn??5) a ragione considera come un ventre superficiale del m. psoas major, non troviamo traccia nei Vertebrati in- feriori. Esso apparisce distinto e- bene sviluppato soltanto nei Mammi- feri, ove assume la speciale funzione di tendere la fascia iliaca. Sviluppatissimo nei Monotremi, ove in talune specie (Echidna hy- strix, Mivart 187) è il più grande dei muscoli subvertebrali, è del pari assai cospicuo nei Ditremi, nei quali talora ( Halmaturus, MrEcKEL 4°) giunge a proporzioni dieci volte maggiori del m. psoas major. Negli Anisodentati (Oholoepus didactylus, MAcKINTOSA 15?) può spin- gere le sue origini fino al corpo delle 5 vertebre dorsali posteriori. Nei Perissodattili (Equus caballus, Equus asinus) proviene, oltre che dalle 3 ultime vertebre dorsali, anche dalle 3 ultime coste. Negli Artiodattili (Capra hircus, Ovis aries) dall’estremo distale del tendine ha origine, con alcune fibre, il m. sartorius. È bene sviluppato ordinariamente nei Roditori: manca in Mus de- cumanus e quasi sempre in Cavia cobaya. In quest’ultima specie, su 10 esemplari io non l'ho mai trovato: ALEzaIs!??) lo ha veduto una volta sola fra numerose osservazioni, PARSONS 194) per contrario due volte su tre. Nei Carnivori è intimamente unito, specie cranialmente, col m. psoas major, provenendo, come in Felis domestica, dai tendini di origine di quest’ultimo muscolo. Negl’ Insettivori termina, come d’ordinario, sul tubercolo ileo-pettineo: solo in Gymnura Rafflesii (DoBson?14) s'inserisce, col m. élio-psoas, sul piccolo trocantere. Ciò costituisce insieme ad altri su cui avrò occa- sione di ritornare più tardi un bell'esempio delle modificazioni, talora estese, che può subire un muscolo nelle sue inserzioni. Il m. psoas minor è costante in tutti i Chirotteri, ciò che coincide col grande sviluppo del tubercolo ileo-pettineo. Nelle Prosimie (Chiromys madagascariensis, ZUCKERKANDL °°°) è rudi- mentale. Nei Primati invece è bene sviluppato: in Macacus cynomolgus dal tendine del muscolo, in prossimità della sua inserzione, hanno origine fibre del m. èlio-coccygeus. LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 205 2. Psoas major. Anfibì e Rettili. — EckeR 8°) negli Anfibî Anuri aveva chiamato ileo- psoas un cospicuo muscolo, che in Bufo vulgaris e Rana esculenta ori- rigina dal bacino per portarsi al labbro laterale della crista femoris, e Mivart 8987) chiamò nei Saurii psoas-diacus un robusto muscolo [ischio- pubo-femoralis di HorrMAnn °8), pubi-ischio-femoralis internus di GADOw 9°)], che diviso in più porzioni trae origine dal pube, dall’ischio e dal lega- mento fibroso che chiude il forame cordiforme per inserirsi sul piccolo trocantere o vicino ad esso sul femore. Ma, come si comprende, questi due muscoli sono di pertinenza esclusiva del bacino, nè possono esser considerati come corrispondenti all'intero ‘ilio-psoas della specie umana. Le prime traccie del m. psoas major le troviamo negl’Idrosaurii 0 Coccodrilliani e nei Chelonii. Nei primi GApow ??) ha dimostrato che il m. pubi-ischio-femoralis internus è costituito di 3 porzioni, di cui la 1* e la 2? riunite corrisponderebbero per le loro inserzioni al m. pectineus, e la 3°, proveniente dalla colonna vertebrale e dall’ileo, vien conside- rata come omologa del m. sliacus dei Mammiferi e dell'Uomo. Ma, dal momento che questa 3* porzione proviene, oltre che dall’ileo, anche dalla colonna vertebrale prossima al bacino, qual difficoltà vi sarebbe a con- siderarla addirittura come corrispondente all’ intero m. ilio-psoas? Frai Chelonii, nel m. dorso-femoralis di HorrmaAnn 1!) [2* porzione del m. pubi-ischio-femoralis internus di Gapow !!8)] abbiamo il corrispon- dente morfologico e funzionale del m. ilio-psoas. In Testudo graeca ad esempio (Tav. VII, fig. 5) il m. dorso-femoralis proviene, come abbiamo veduto, dai corpi delle ultime 3 vertebre dorso-lombari, dalla faccia inferiore dello scudo dorsale e dal margine superiore dell’ileo e del pube, per portarsi, fuso col m. pubo-femoralis internus (pectineus), al piccolo trocantere o in prossimità di esso. In Thalassochelys caretta (Tav. VIII, fig. 7), del pari che in Zestudo tabulata (Gapow 118), il muscolo sposta la sua inserzione distale dal trocantere interno alla su- perficie ventrale e laterale del femore, fino a raggiungere il trocantere esterno. Uccelli. — In questa Classe, come già avevano osservato CuUvIER!?3), UcceLLI!5), MeckeL *24 e Arrx!3!), manca ogni e qualsiasi traccia del m. psoas major. Mammiferi. — È bene sviluppato nei Monotremi e nei Ditremi: in questi spinge cranialmente le sue origini fino alle ultime vertebre 206 F. PARDI dorsali, ed è in Dasyurus viverrinus (MAc CormicK 148) costituito di 3 porzioni distinte: dorso-lombare, lombare e sacrale. È del pari bene sviluppato negli Anisodentati, Perissodattili, Artio- dattili e Proboscidati. Caratteristica tra i Roditori è la disposizione descritta da WinpLE!89) in Dolichotis patagonica, ove la inserzione distale del muscolo si fa per un tendine ad Y, di cui un corno va ad attaccarsi al piccolo trocan- tere, e l’altro alla superficie interna del femore alla distanza di circa 1 cm. dal precedente. In Cavia cobaya, Lepus cuniculus e Myoxus glis il muscolo è distinto in 2 porzioni, che io ho chiamato costo-dorso-lom- bare e lombo-sacrale, separate dal n. femoratis. Tra i Pinnipedii, nelle Phocinae e in Macrorrhinus leoninus (Tur- NER 29°), mancando il piccolo trocantere, il m. psoas major s’inserisce sulla spina posterior ventralis ilit. Come psoas tertius si descrive in que- st Ordine, meno che in Macrorrhinus, un piccolo muscolo ricoperto dal m. psoas major e che s'inserisce distalmente sul femore. CLARKSON e RaInY?8°) hanno descritto nell’ Uomo, come varietà, 4 mm. psoas per parte, e li omologizzano così coi muscoli omonimi dei Pinnipedii: Pinnipedii Uomo Psoas magnus ESOASNIASDUSI A AU AC Psoas parvus Ps0as'PaArvus i. it NEO AS CRS Prsoas tertiUs” ona Laglio RAS AURA Più o meno complicato nella sua costituzione, presentasi d’ordinario bene sviluppato nei Carnivori, Insettivori, Prosimie e Primati. Notevole, a mio avviso, è nei Chirotteri la fusione del tendine del fascio mediale del m. psoas major con l’estremo distale del m. pectineus. Questa disposizione ricorda assai esattamente quella descritta negl’Idro- saurii e nei Chelonii, ove i corrispondenti morfologici dei muscoli sur- riferiti sono distalmente fusi in un’unica porzione. 3. Iliacus. Anfibî. — Negli Urodeli venne considerato come omologo di questo muscolo il m. deo-femoralis di De MAN) e HorFMAnN 55), ma Gapow99) afferma ragionevolmente che non si è ancora arrivati in quest’Ordine alla formazione di un vero m. 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Sacro-coccygeus. ile = m. ilio-coccygeus. vs = vertebra sacralis. eg = 0s coccygis. il = os ilium. (Nomenclatura: Ecker — Wiesersheim — Gaupp 8°). Fig. 2. — Boa constrictor L. ves = mm. vertebro-costales superiores. vcî = mm. vertebro-costales inferiores. rtel = mm. retrahentes costarum longi. rteb = mm. retrahentes costarum breves. intp= mm. intercostales proprii. ns = nervus spinalis. e = costa. (Nomenclatura: Hoffmann *). Fig. 3. — Varanus arenarius Dum. Bir. qdl = m. quadratus lumborum. rtc = mm. retrahentes costarum. ipf = m. ischio-pubo-femoralis (H) = m. pubi-ischio-femoralis in ternus (G). trab= m. transversus abdominis. inte = mm. intercostales. cìf_ = m. caudi-ilio-femoralis (G). cd = m. caudi-femoralis (G). if = m. ischio-femoralis (G). sc = m. sacro-coccygeus. Sop = Symphysis ossium pubis. Sc. Nat. Vol. XIX 16 236 F. PARDI Soî = Symphysis ossium ischii. DIA = os ilium. ptvs = processi trasversi delle vertebre sacrali. XXIV= 24 vertebra a partire dalla 12 cervicale. XXX = prima vertebra sacrale. XXXI= seconda vertebra sacrale. (Nomenclatura: Hoffmann *), Gadow 9,95) Fig. 4. — Stellio caucasicus Gray. XVIII= 182 vertebra a partire dalla 12 cervicale. XXV ps = plexus sacralis. | prima vertebra sacrale. Le altre indicazioni come nella fig. 3. Fig. 5. — Testudo graeca L. (Arto posteriore destro). do = m. dorso-occipitis (H). rp = m. retractor penis (H). le = m. lumbo-coccygeus (4)= m. lumbo-caudalis (G). pfi = m. pubo-femoralis internus (7)= m. pubi-ischio-femoralis in- ternus pars I (G). df = m. dorso-femoralis (7) = m. pubi-ischio-femoralis internus pars II (G). itf = m. ileo-testo-femoralis (H)= m. ilio-femoralis (G). ect = m. extensor cruris triceps (7)= m. femoro-tibialis (G). (Nomenclatura: Hoffmann 8), Gadow *). TAVOLA VIII. Fig. 6. — Cistudo europaea Scan. (Arto posteriore sinistro). ti = m. testo-iliacus (47) = m. quadratus lumborum (G). Le altre indicazioni come nella fig. 5. Fig. 7. — Thalassochelys caretta L. (Arto posteriore sinistro). ti = m. testo-iliacus (7)= m. quadratus lumborum (G). dj = m. ilio-femoralis (4)= m. extensor ilio-tibialis (G). Le altre indicazioni come nella fig. 5. (Nomenclatura Hoffmann 8), Gadow *). Fig. 8. — Athene noctua Bore. qdli = m. quadratus lumborum. ili = m. ilio-femoralis internus. (Nomenclatura: Gadow434), LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 237 Fig. 9. — Cavia cobaya ScHERER. Le = m. longus colli. qdl = m. quadratus lumborum. inte = mm. intercostales. ile = m. ilio-costalis. edl = fascio costo-dorso-lombare del m. psoas major. Ls = fascio lombo-sacrale del m. psoas major. il = m. iliacus. nnl = nervi lumbares. nf = nervus femoralis. i Fig. 10. — Mus decumanus Pant. psm = m. psoas major. il = m. iliacus. sc = m. sacro-coccygeus. ile = m. ilio-coccygeus. nf = nervus femoralis. no = nervus obturatorius. Fig. 11. — Felis domestica Briss. Fig. 12. Fig. 13. A destra sono stati tolti i mm. psoas major e minor, per porre in evi- denza il sottostante m. quadratus lumborum. psmi= m. psoas minor. psma= m. psoas major. td = tendine di origine del m. psoas major. dlt = fasci dorso-lombo-trasversari del m. quadratus lumborum. it = fasci ilio-trasversari del m. quadratus lumborum. TAVOLA IX. — Canis familiaris L. int = mm. intercostales. psmi= m. psoas minor. psma= m. psoas major. dlt = fasci dorso-lombo-trasversari del m. quadratus lumborum. it = fasci ilio-trasversari del m. quadratus lumborum. — Viverra abyssinica RiuppL. int = mm. intercostales. te = m. trasverso-costale. dlt = fasci dorso lombo-trasversari del m. quadratus lumborum, ile = m. ilio-costalis. nt = nervus thoracicus ultimus. nl = nervus lumbaris primus. 238 Fig. 14. Fig. 15. Fig. 16. Fig. 17. F. PARDI — Erinaceus europaeus L. dlt = fasci dorso-lombo-trasversari del m. quadratus lumborum. it = fasci ilio-trasversari del m., quadratus lumborum. psmi= m. psoas minor. psma= m. psoas major. tl > = m. iliacus. iîlc = m. ilio-costalis. pe = m. pectineus. sr = m. sartorius. rf = m. rectus femoris. vm = m. vastus medius. gr = m. gracilis. gre = m. gracilis accessorius. smi = m. semitendinosus. nt = nervus thoracicus ultimus. ni = nervus lumbaris primus. nf = nervus femoralis. — Cercopithecus cephus L. A sinistra sono stati tolti i mm. psoas major e minor, per porre in evi- denza il sottostante quadratus lumborum. dlt = faszi-dorso-lombo-trasversari del m. quadratus lumborum. ic = fasci ilio-costali del m. quadratus lumborum. di = fasci ilio-trasversari del m. quadratus lumborum. psmi= m. psoas minor. psma= m. psoas major. il — m. iliacus. ile — m. ilio-costalis. — Homo sapiens L. — Fascio soprannumerario del m. 2/2acus. qdl — m. quadratus lumborum. psma— m. psoas major. CI) — m. iliacus. fsil — fascio soprannumerario del m. iliacus. nf — nervus femoralis. — Homo sapiens L. — Varietà del m. psoas major coesistente a varietà del n. femoralis. qdl — m. quadratus lumborum. psma— m. psoas major. il — m. iliacus. fsps — fascio soprannumerario del m. psoas major. nf — nervus femoralis. EMPEDOCLE GOGGIO e SULL'ABBOZZO E SUL PRIMO SVILUPPO DEL POLMONE NEL DISCOGLOSSUS PICTUS (Tav. X, XI [I, II]). Sull’origine del polmone dei Vertebrati dall’endoderma, la maggior parte degli Autori sono d’accordo. Taluno però non è di questo avviso. Il RoBIN !), per es., sostiene l’origine del polmone in dipendenza dal- l’ectoderma, basandosi, in appoggio alla sua idea, sulla struttura delle mucose. Il Caprar ?) conferma quest’ipotesi in seguito ad osservazioni fatte sull’embrione di pollo e sopra un montone mostruoso in cui lo svi- luppo degli archi branchiali si era arrestato e persisteva la 1° fenditura branchiale. Egli dice “il est bien démontré.... que l’appareil respira- toire est entièòrement une dépendance au feuillet externe.... L’appareil respiratoire provient de la région pharyngienne, mais de cette région qui correspond aux fentes branchiales et qui est entièrement tapissée par le tégument externe ,. Su altre questioni gli Autori meno concordano, come, per es., su quella che si riferisce alla duplicità o unicità dell’abbozzo pulmonare. I primi embriologisti 3) (BAER, RATHKE, BiscHorr) credevano che l’abbozzo dei polmoni fosse pari sin dal principio della sua formazione ; il REMAK, il Coste, il SeEssEL, il KOLLIKER ritennero invece quest’ abbozzo sem- 4) Ch. RoBIN. — Citato da CapIAT (M. CADIAT Des rapports entre le déve- loppement du poumon et sa structure. — Journ. de l’Anat. et de la Phys., 1877, p.591; V. anche Du développement..., Ib., 1883). 2) M. CADIAT. — Du développement des fentes et ares branchiaux chez Vem- bryon. — Journal de l’Anat. et de la Phys., 1883, p. 38. 3) Le notizie che seguono su questo punto sono prese in gran parte dal trat- tato di embriologia del PRENANT. 240 E. GOGGIO plice !): se si era potuto credere ad una dualità primitiva del rudi- mento pulmonare, l’ errore dipendeva dal fatto che si erano studiati em- brioni in un grado troppo avanzato di sviluppo: lo stadio primitivo del- l’abbozzo pulmonare, supposto doppio dal BAER, non è cioè, come dice il SEESSEL, iniziale, ma è preceduto da un altro in cui i polmoni sono un leggero diverticolo semplice ed unico della parete anteriore dell’in- testino boccale. Per l’Uskow anzi, il dire che l’apparecchio pulmonare è un abbozzo impari che deriva da una doccia dell’intestino faringeo, equivale a far pensare che si è esaminato uno stadio troppo avanzato. In realtà, secondo lui, l’apparato pulmonare non risulta da un cambia- mento di forma di un tubo intestinale già costituito ma è contempo- raneo al faringe-esofago, e, come questo rappresenta una regione dor- sale dell’ intestino anteriore, esso ne è una regione ventrale. Un altro punto discusso è questo: i polmoni, almeno in ispecie non | molto lontane, sono da principio solidi o cavi? Nella rana, per limi- tarmi agli Anuri, essi sono, secondo il REMAK, corpi pari e solidi i quali non divengono cavi se non secondariamente. Il GoETTE invece, ammette che nel Bombinator i polmoni appariscano sin dal principio come diver- ticoli cavi del tubo digestivo. Il primo ?), parlando dell’abbozzo dei polmoni, dice: “Sie besteht aus zwei zapfenformigen Anhangen des Spei- serohre, die unter spitzem Winkel von der Bauchflàche derselben ab- gehen. Diese Anhinge sind anfànglich durchaus solid und sehr schmai; spiter, wenn der Darm bereits Krilmmungen zu machen beginnt, er- scheinen sie plotzlich weit dicker und man unterscheidet alsdann an ihnen eine diinne umbhiillende Membran als Fortsetzung der Faserschicht des Darmrohres und einen aus kòrnigen, einander begrenzenden Zellen bestehenden Axentheil als Fortsetzung des Drisenblattes ,. Il secondo 8) invece: “ Hinter der Kehlkopfgegend bleibt nicht bloss der dorsale Ab- schnitt des Lungendarms als vordere Speiseròhre etwas erweitert, son- dern auch der ventrale buchtet sich seitlich aus und bildet so die breite Lungenwurzel, deren Hohle mit dem Kanal der vorderen Speiseròhre noch einige Zeit gleichsam durch eine hintere Fortsetzung der Stimmritze in Verbindung bleibt. 1) Il REMAK però per la rana ammette che l’abbozzo sia pari. V. R. RAMAK. — Untersuchungen iiber die Entwickelung der Wirbelthiere, 1850-58. 2) Op. cit. 3) A. GonTT®. — Die Entw. der Unke. — Leipzig, 1875. SULL’ABBOZZO E SUL PRIMO SVILUPPO DEL POLMONE ECC. 241 Inoltre: l’abbozzo della trachea è contemporaneo o no a quello dei polmoni? Il KòLLIKER *), in opposizione agli altri Autori, sostiene che il rudimento della trachea non nasce certamente più tardi di quello dei polmoni: forse anche prima. Ma, comunque si formi l’abbozzo pulmonare, come avviene l’accresci- mento di esso? L’inviluppo mesodermico del polmone prende parte alle trasformazioni del tubo epiteliale, oppure questo, in una maniera del tutto indipendente, prolifera nel tessuto circostante? Il BoLL ?), per il pollo, suppone che sia l’inviluppo fibroso coi suoi vasi che entra primo in azione e determina la successione dei fenomeni seguenti. Il REMAK invece, e il KOLLIKER suppongono che il fattore essenziale sia l’epitelio interno. Come si vede dunque, le questioni che ci si presentano riguardo all’abbozzo del polmone sono numerose e piene d’interesse: io ho cer- cato di studiarle, almeno in parte, su larve di Discoglossus pictus OTTE. raccolte nei dintorni di Palermo e sviluppate in laboratorio sotto con- dizioni normali. Il materiale fu fissato in sublimato alcoolico acetico o in liquido di FLEMMING (più raramente in sublimato con NaCl, sublimato osmico, acido picrico). Le larve imparaffinate e quindi ridotte in sezioni di 10 furono colorite con varî metodi. I coloranti che mi hanno dato migliori risultati sono il carmallume, l’emallume, il carminio boracico (in toto) coll’ematossilina (sulle sezioni), e quello del CHENZINScHY (eosina e bleu di metilene): le sezioni, incollate sui vetrini col metodo dell’acqua di- stillata, tenute per mezz'ora in quest’ultimo colorante e poi passate rapidamente nei varî alcools, acquistavano una bellissima colorazione bleu intensa dei nuclei, mentre il resto prendeva una leggera colora- zione azzurra 3). Anche i limiti delle cellule riescivano con questo me- todo evidenti in molti punti. Le sezioni colorate e passate negli alcools furono poste in balsamo-xylolo. Ho fatto le sezioni in tre direzioni: sagittale, frontale, trasversale: mi sono valso in prevalenza per gli stadî giovani di quelle sagittali e trasversali, per quelli più avanzati, di queste ultime e di quelle fron- 1) A. KOLLIKER. — Entwickelungsgeschichte d. Menschen u. d. hòh. Thiere. — Leipzig 1879 (Trad. frane. Paris 1882, p. 896). 2) F. BoLL. — Das Princip des Wachsthums. — Berlin 1876. 3) Questi buoni risultati ottenni su sezioni di pezzi fissati in sublimato. 242 E. GOGGIO tali, che si prestano molto bene a mostrare i rapporti dei polmoni colla cavità ad essi comune. Le mie figure sono disegnate colla camera lucida: in esse ho appena tratteggiato le parti che non hanno stretta relazione coll’organo di cui mi sono occupato: le prime otto sono semischematiche. Il WeyssE, nel suo recente lavoro sugli abbozzi del fegato, dei pol- moni e del pancreas nella rana !), così descrive l’abbozzo del polmone in una larva di Rana temporaria “ .... zwischen Leberanlage und Chorda sieht man eine Dotterzellen-Ansammlung, die einen Hohlraum enthàilt, welcher dorsalwàrts und ventralwàrts differencirt ist. Dieser Hohlraum ist an seinem dorsalen Ende erweitert, in der mittleren Gegend kom- men die W:ainde beinahe in Beriihrung, an dem ventralen Ende aber ist er wiederum erweitert und dehnt sich nach der linken und nach der rechten Seite hin aus.... Die dorsale Erweiterung ist... der Darmkanal, die ventrale dagegen stellt: ohne Frage die erste Anlage der Lungen dar, die sich eben schon bilden, wahrend die Dotterzellen erst theil- weise differenziert sind ,. — Quindi osserva che in questo processo si trova poca somiglianza con una evaginazione della parete dell’intestino anteriore. Anche nel Discoglossus pictus si può in un certo stadio osservare un che di simile a quello che il WeyssE descrive per la rana (Tav. X [I], fig. 4), ma io credo che anche in uno stadio più giovane possano almeno indi- carsi le parti che daranno luogo all’abbozzo dei polmoni. Il WErssE stesso, dopo avere accennato alle condizioni delle cavità contenute nella massa vitellina in una larva di rana con tre protover- tebre, in cui ancora non è riconoscibile l’abbozzo del fegato se non per il fatto che un gruppo di cellule vitelline poste dietro alla cavità boc- cale, il quale appunto darà luogo ad esso, è pigmentato, dice che in uno stadio successivo si forma nella massa del vitello una fenditura dorso- ventrale e antero-posteriore che procede e dalla cavità boccale e dal- l'intestino: da essa fenditura egli fa derivare l’abbozzo del fegato. Nel Discoglossus pictus non ho osservato questa fenditura. Nello stadio più giovane in cui io credo sì possa indicare con una certa ap- prossimazione la parte che darà luogo all’abbozzo degli organi respi- ratori aerei (vescicole ottiche appena abbozzate e appena distinte dalla 1) A. W. Wrissn. — Ueber die ersten Anlagen der Hauptanhangsorgane des Darmkanals beim Frosch. — Arch. mikr. Anat., Bd. 46, H. 4 (1895). SULL'ABBOZZO E SUL PRIMO SVILUPPO "DEL POLMONE ECC. 243 vescicola corrispondente del cervello) la cavità boccale, molto ampia, si continua posteriormente, in modo quasi insensibile, con un’altra cavità meno larga della prima, ma forse più alta, la cui parete ventrale relati- vamente sottile, poggia su quella del corpo, quella dorsale sta al di sotto della corda, quella posteriore è formata dalla massa vitellina, al di sopra della quale corre l’intestino, che sbocca nella parte dorsale della cavità, mentre da quella ventrale parte il prolungamento posteriore del lume epatico. Questa cavità può forse paragonarsi, per lo scopo a cui è de- stinata, alla fenditura di cui parla il WEyssE. Le cellule che la limitano non danno luogo interamente all’abbozzo del fegato; a questo, secondo me, spetta la porzione posteriore di essa, mentre quella anteriore ap- partiene in un primo tratto all’abbozzo della camera laringo-tracheale 1), in un tratto seguente a quello dei polmoni. Non è possibile in uno stadio molto giovane il determinare dove la porzione spettante all’abbozzo dei polmoni e della camera laringo-tra- cheale si continui in avanti colla cavità boccale e dove cessi all’indietro per dar luogo alla regione epatica, e ciò perchè la cavità che diremo pulmo-laringo-tracheale-epatica, che è molto larga, si continua insensi- bilmente con quella boccale e non presenta differenziazione nelle sue parti 2); ma è certo, per le condizioni dell’abbozzo pulmo-laringo-tra- cheale in uno stadio in cui sulla natura di esso non vi è più luogo a dubbio, che il pavimento e parte delle pareti laterali di un tratto della comunicazione della cavità boccale coll’abbozzo epatico spetta al rudi- mento dei polmoni e della camera laringo-tracheale. Gli schemi uniti al presente lavoro mostrano come questo rudimento debba essere inteso: le figure x dei primi due rappresentano ciascuna una sezione condotta attraverso alla cavità pulmo-laringo-tracheo-inte- stinale in ùna larva dello stadio di cui abbiamo parlato: la parte supe- riore di ognuna spetta all’intestino *), la parte inferiore si riferisce alla camera laringo-tracheale, in due tratti successivi. La fig. 1, Tav.X [I] non è 1) Poichè nel Discoglossus pictus non esiste una vera trachea, così ho desi- gnato, come fanno molti dopo HENLE, col nome di camera laringo-tracheale, la cavità in cui si aprono i polmoni. 2) Io credo però che si possa designare come ultima porzione del rudimento pulmo-laringo-tracheale, quella che si trova press’a poco all’altezza della regione in cui si forma il primo infundibolo del rene cefalico: è questa la parte desti- nata a dar luogo ai polmoni. 3) Per il I schema spetta alla primissima parte dell’ intestino anteriore. 4A ° E. GOGGIO che la a dello schema II ingrandita e, per così dire, completata, allo scopo di mostrare i rapporti della regione pulmo-laringo-tracheale con le parti circostanti. Le pareti di essa si mostrano in questo stadio ben regolari, mentre in uno stadio un po’ più giovane erano irregolarissime, specie lateralmente, e risultavano di cellule (disposte in più strati) non certo molto diverse da quelle costituenti la gran massa vitellina; ora invece le cellule, collocate ancora in più strati, tranne che nella parte dorsale, a formare le pareti della cavità pulmo-tracheo-laringo-intestinale, sono procedute nella loro regolarizzazione ; quelle limitanti il lume sono spesso allungate nel senso perpendicolare alla direzione dello strato che esse formano. Finora le cellule formanti il pavimento della regione che abbiamo detto spettare all’abbozzo pulmo-laringo-tracheale hanno poggiato direttamente sulla parete ventrale del corpo perchè fra di esse e questa non si è intro- dotto il mesoderma, che si è limitato solo lateralmente (fig. 1, Tav. X [I]); ma in seguito avviene che al di sotto di una parte della cavità boccale e di un tratto ad essa seguente s’introduce il mesoderma che darà luogo al cuore e al pericardio !). Questo processo essendo più accentuato nel tratto che segue immediatamente alla cavità boccale, ne viene che cessa la comunicazione diretta fra la base di quest’ultima e l’abbozzo epatico, cosicchè, mentre prima si passava dall’una all’altro senza in- contrare nessun ostacolo, ora si deve invece rimontare il tratto solle- vato al di sotto del quale si trova il cuore o, prima che questo si formi, il mesoderma che ad esso darà luogo: inoltre l’abbozzo pulmo-laringo- tracheale, che si trova appunto sulla parte sollevata, viene man mano meglio delimitato: infine, la cavità boccale si riduce, almeno in gran parte, nel suo diametro dorso-ventrale. Quando il processo sarà ben pro gredito l’abbozzo pulmo-laringo-tracheale sarà rappresentato da due docce poste latero-ventralmente al tratto che serve di comunicazione fra la cavità boccale e l’abbozzo del fegato: in avanti, esse si continuano colle pareti laterali della cavità boccale, dorsalmente coll’abbozzo del- l’intestino e sono riunite l’una all'altra dalla parete poggiante sull’ab- bozzo del cuore; la loro porzione posteriore mette nell’abbozzo epatico: noi, avuto riguardo agli organi a cui daranno luogo, le diremo docce respiratorie. 1) Io qui ammetto, come adesso si tende a fare, che il cuore sia interamente < dovuto al mesoderma, SULL’ABBOZZO E SUL PRIMO SVILUPPO DEL POLMONE ECC. 245 La fig. 2, Tav. X [I], che rappresenta appunto una sezione trasversale di una larva in cui è cominciata la formazione della cavità pericardica, in una regione un poco anteriore a quella della fig. 1, mostra come il sollevamento di cui abbiamo parlato, si inizî. Si comprende bene come si passi dalle condizioni della fig. 1 a quelle della fig. 2 quando si pensi che la massa mesodermica, introducendosi al disotto delle pareti vitelline, ne arrotonda gli angoli inferiori, mentre, come molto più chiaramente apparisce in seguito, per le condizioni ge- nerali dello sviluppo, la cavità dell’abbozzo intestinale-respiratorio si riduce in ampiezza. Nel punto rappresentato dalla fig. 2 il mesoderma non si vede spinto completamente al di sotto del pavimento vitellino, ma più avanti quello di un lato si congiunge con quello dell’altro al di sopra della parete ventrale del corpo. In questo stadio le pareti dell’intestino e della regione che darà luogo alle docce respiratorie differiscono da quelle dello stadio prece- dente inquantochè sono più sottili e talora, anche in altre parti che non siano quella dorsale, formate da un solo strato di cellule. La fig. f dello schema I corrisponde alla fig. 2 e quella di II è alquanto posteriore. La fig.3, Tav. X [I], si riferisce ad una larva più avanzata nello sviluppo, in cui si comincia a trovare l’abbozzo del cuore: il mesoderma si è esteso al disotto della cavità pulmo-tracheo-laringo-intestinale. La parete di questa è più sottile che nello stadio precedente; nella regione posta sul cuore è costituita da un solo strato di cellule molto regolari. La figura dello schema I è di poco anteriore alla fig. 3 e quella del II ne è di pochissimo posteriore. In uno stadio ancora più avanzato, in cui le vescicole ottiche sono bene sviluppate ma senza traccia di cristallino e le vescicole uditive pre- sentano una cavità molto piccola, vediamo in una sezione trasversale come quella della fig. 4, Tav. X [I], una condizione di cose simile a quella della fig. 3, ma con alcune differenze: al disotto dell’abbozzo pulmo-laringo- tracheale troviamo il seno venoso già quasi completamente circondato dal pericardio: solo due sezioni più caudalmente, ad esso si sostituisce una massa di cellule dorsalmente alla quale corrono due vasi: questi sono le vene vitelline che partono dal cuore col quale la massa epatica è in contatto, quella corrisponde alla parete anteriore dell’abbozzo del fegato: infatti, sollevatasi, come abbiamo visto, la base della comuni- 246 E. GOGGIO LS cazione fra quest’ultimo e la cavità boccale, esso è rimasto limitato anteriormente dalla parete posteriore del tratto sollevato, che è diven- tata la sua parete anteriore: questa poi, spingendosi verso l’abbozzo car- diaco, si colloca sotto alla cavità che ha per base il tratto medesimo cioè sotto all’abbozzo pulmo-laringo-tracheale, dando luogo ad un diver- ticolo epatico anteriore. A ciò si aggiunga che, forse per lo sviluppo continuo del cuore, il lembo anteriore della comunicazione dell’abbozzo epatico colle cavità vicine si spinge sempre più posteriormente, mentre la parete dell’abbozzo stesso che si trova al di sotto di questo lembo resta innanzi: la presenza di un diverticolo epatico anteriore deve forse attribuirsi, nei diversi periodi dello sviluppo, ora in prevalenza a questa causa, ora ad un vero e proprio spingersi della parete craniale dell’ab- bozzo del fegato in avanti. Riguardo alle pareti della cavità formata dall’intestino e dalle docce respiratorie, è degno di nota il forte ravvicinamento della pagina interna di quelle laterali nel tratto posto fra il canale intestinale superiormente e le docce respiratorie inferiormente, ravvicinamento dovuto a due bozze formate, io credo, per proliferazione delle pareti laterali. Può darsi però, data la restrizione della cavità anzidetta e l’ inspessimento relativo delle pareti, che al processo abbia potuto prender parte un dislocamento di cellule. La fig.5, Tav. X[I], rappresenta una sezione trasversale della stessa larva condotta 80 » posteriormente alla precedente: vi si vede bene come la cavità racchiusa fra le cellule endodermiche sia divisa in tre porzioni: una superiore che rappresenta l’ intestino anteriore !), una media ed una inferiore che si riferisce all’abbozzo epatico. La seconda potrebbe per la sua forma sembrare una continuazione delle docce respiratorie, ma questo è da escludersi per ciò che avviene in seguito: essa non rappre- senta che la via per cui dalla cavità comune a quelle si va al fegato. Le pareti che, sebbene incompletamente, la limitano al disotto in seguito si continueranno l’una coll’altra: allora le docce respiratorie saranno sempre più indipendenti dall’abbozzo del fegato. È da osservare come, anche avvenuto il sollevamento della parete 1) Poichè in questo stadio e per parecchio tempo ancora non sono differen- ziate nell’ apparato digerente molte almeno delle sue parti, così ne indico coi nomi di intestino anteriore, medio e posteriore i varî tratti a partire dalla cavità boccale. SULL’ABBOZZO E SUL PRIMO SVILUPPO DEL POLMONE ECC. 247 endodermica per opera del cuore, l’asse longitudinale di ciascuna doccia respiratoria non presenta alcuna curva: le due docce, partendo dalla cavità boccale, procedono verso l’abbozzo epatico convergendo un poco, ma sempre diritte. La fig. 6, Tav. X|[I], ci mostra i rapporti passanti fra la cavità boccale, la prima parte dell’intestino, l’abbozzo del fegato ed il cuore: sì riferisce ad uno stadio un poco più avanzato di quello delle due figure precedenti: la sezione rappresentatata dalla fig. 4 s’ intende bene quando s’imagini con- dotta un po’ innanzi all’abbozzo epatico in modo da tagliare tangen- zialmente la parete posteriore della cavità pericardica. Il tratto che si nota fra la doccia respiratoria e l’intestino è la sezione tangenziale della bozza posta dorsalmente alla doccia di destra. In seguito, e perchè il tratto per cui la cavità comune alle due docce respiratorie si continua con quella boccale comincia a restringersi, e perchè le docce si evaginano alquanto, ognuna appare curva o me- glio si presenta come un diverticolo respiratorio: Esse però continuano a mantenersi in comunicazione colla cavità boccale anteriormente, col- l'intestino anteriore al di sopra e colla via che mette all’abbozzo epa- tico posteriormente. Il processo di curvatura delle docce comincia a mo- strarsi quando il cristallino è già formato, sono ben distinte le cinque tasche branchiali (ma non comunicanti all’esterno per mezzo di fendi- ture) e le branchie esterne. La fig. 7, Tav. X [I], ci mostra appunto come si presentano le docce re- spiratorie in questo stadio: raffigura una sezione sagittale condotta alquanto a sinistra della linea longitudinale mediana: in essa si vede al di dietro della cavità boccale e al di sopra del cuore la doccia respiratoria, il cui lume appare in questo punto ancora in comunicazione con quella; ma, procedendo a sinistra della linea mediana, subito nella sezione seguente si vede del tutto isolato dal resto, e ciò ancora per due sezioni; in se- guito al suo posto appare una massa solida poichè la parete della doccia viene tagliata tangenzialmente: questa parete però non fa sporgenza considerevole in seno al mesoderma circostante. — Ciò si ripete per il lato destro. — Anche in questo stadio al di sopra delle docce troviamo due bozze. Forse lo sviluppo del cuore e di parte dei vasi ha intanto fatto sì (o almeno vi ha contribuito) che il lembo anteriore dell’apertura per cui si accede all’abbozzo epatico si è spinto ancora più indietro per modo che ora fra le docce respiratorie e la cavità del fegato resta un 248 E. GOGGIO tratto abbastanza lungo: procedendo a partire dalla sezione della fig. 7 verso la linea mediana, si vede appunto come dalle docce si passa, at- traverso a questo tratto, nell’abbozzo del fegato e si possono vedere anche le relazioni in cui ora esse stanno colle cavità circostanti, rela- zioni che è necessario conoscere perchè si possa bene intendere l’ulte- riore sviluppo dell’apparato respiratorio aereo e il suo isolarsi dagli organi vicini. Consideriamo dunque il sistema di cavità che, nello stadio di cui ora ci occupiamo, seguono a quella boccale: abbiamo qui un vano sviluppato nel senso dorso-ventrale; esso è un po’allargato nella regione dorsale che ci rappresenta in parte il lume dell’intestino anteriore: questo si continua posteriormente col resto dell’intestino, dal lato ven- trale, successivamente nei suoi varî tratti e senza interruzione di sorta, procedendo dall’avanti all’indietro, colla cavità comune alle docce respi- ratorie, colla via che, in continuazione di questa, conduce all’abbozzo del fegato !) e con quest’abbozzo medesimo. Le dimensioni delle diverse parti sono: ? Larghezza dell’intestino anteriore nel punto in cui sbocca nella cavità boccale. . . . CORTONA Mr o e sO 0 Massima larghezza della cavità compresa co) le pareti delle dOCCe respiratorie e eee MM a n Do, Minima distanza fra le due bozze coast alle docce RESPIEATOLI CAI RR SI TARE BUE, ca OO Larghezza della via che Di queste mette al LOU (presso allo ‘sbocco n: questo)... ti na eo RR I Larghezza dell’intestino nel tratto immediatamente se- guente ‘allo sbocco della ‘cavità epatica»... 0 A far intendere le relazioni passanti fra la cavità boccale, l’inte- stino, l’abbozzo epatico ecc., come pure parecchie delle cose dette sui mutamenti che queste parti subiscono durante lo sviluppo possono va- lere in qualche modo, sebbene si riferiscano alla rana, le fig. 9-12 che A. HammaR dà nel suo lavoro sullo sviluppo del fegato pubblicato nel XIII volume dell’Anatomischer Anzeiger ?). 1) Questa via non è poi altro se non un tratto - ventrale dell’intestino : io lo considero separatamente dal resto per rendere più chiara l’ ulteriore deseri- zione. i ?) A. HAMMAR. — Ueber einige Hauptziige der ersten embryonalen Leberentwi- ckelung. — Anat. Anz., XIII Bd. (1897), pp. 241-242. SULL’ABBOZZO E SUL PRIMO SVILUPPO DEL POLMONE ECC. 249 In seguito le docce respiratorie continuano a crescere e fanno spor- genza nella splacnopleura; ciò mentre ancora conservano il loro sbocco nella cavità boccale e nella porzione d’intestino ad essa seguente. Si giunge in ultimo ad un punto in cui i rudimenti polmonari si presen- tano sotto forma di veri e proprî tubi: però la formazione di questi non è diretta; la porzione ultima delle docce respiratorie, cioè quella che spetta unicamente ai polmoni, infatti, non si separa dall’intestino sotto forma di tubo per il ravvicinamento delle sue labbra: il tratto più codale della parete dei diverticoli respiratorî dà luogo invece ad uno zaffo solido che si parte dalla futura camera laringo-tracheale e che solo più tardi, per l’allontanarsi e il regolare disporsi delle cellule che lo formano, diventerà un tubo: lo zaffo poi, colla proliferazione delle sue cellule, o con l’aggiunta alla sua radice di cellule vitelline provvede, come vedremo, al proprio accrescimento. I tubi cominciano ad apparire in una larva con coda lunga quasi quanto il rimanente del corpo, fornita di due branchie esterne la prima delle quali frangiata: in essa si può vedere come, all’altezza dell’aper- tura nel celoma del 1° infundibolo del rene cefalico, si passa dalla por- zione laringo-tracheale delle docce respiratorie, che si sono molto svi- luppate lateralmente, in due tubi angustissimi che cessano dopo bre- vissimo tratto (circa 20 p) per dar luogo ad una massa solida, lo zaffo pulmonare, che si continua ancora per 8 sezioni cioè per 80 p 1). La fig. 1, Tav. XI [II] rappresenta una sezione che, per la sua leggera obliquità, si presta molto bene a mostrare i rapporti fra i tubi pulmonari e la camera laringo-tracheale: infatti essa passa a destra proprio all’altezza dello sbucco del tubo pulmonare in questa; a sinistra invece troviamo iltubo pulmvnare isolato: i due fuglietti quasi accollati che si vedono a destra in * potrebbero far credere ad una separazione della doccia respiratoria direttamente sotto forma di tubo; invece essi non rappresentano che la sezione quasi tangenziale di quella parte della parete endodermica che sta a cavaliere del passaggio al tubo pulmonare e le cui pagine dorsale e ventrale fanno un angolo molto acuto: nella sezione seguente (proce- 1) In qualche larva pochissimo meno avanzata ho potuto osservare come il rudimento di uno dei polmoni (il sinistro) è rappresentato da uno zaffo intera- mente solido che parte dalla doccia respiratoria corrispondente mentre l’altro è già, sebbene per piccolissimo tratto, tubulare. Forse intorno a questo stadio il polmone destro si sviluppa un po’ più ra- pidamente. 250 E. GOGGIO dendo verso la coda) non si vedono più due foglietti, ma uno solo; poi il rudimento pulmonare apparisce completamente separato dall’intestino. Lo zaffo solido è formato da una massa di cellule senza disposizione regolare, la quale è impegnata fra la splacnopleura e l’ intestino. Le due docce laringo-tracheali ') hanno la parete formata da un solo strato di grosse cellule cilindriche (meno allungate, anzi quasi cubiche, nel tratto ventrale, più allungate nel resto) fortemente pigmentate, specie dal lato interno. Il tubo seguente alle doccie è formato pure da un solo strato di grosse cellule pressochè cilindriche. Le docce sono rivestite da uno strato di mesenchima e, al di fuori di questo, dalla splacnopleura; uguale rivestimento hanno i tubi e gli zaffi pulmonari seguenti; qui il mesen- chima forma uno strato sottile dal lato distale, più spesso dal lato pros- simale cioè da quello che guarda l’intestino; fra questo e quelli la spla- - cnopleura non si distende completamente, di modo che i due abbozzi pul-' monari non sono separati dall’intestino che dalla massa mesenchimatica. Riguardo al rivestimento mesenchimatico è da notare come fra le cel- lule che lo costituiscono se ne distinguono alcune più tondeggianti, più regolari, simili a quelle che formano il primo accenno dei vasi e ciò in ispecie dorsalmente all’inizio dei tubi pulmonari. Queste cellule forse rappresentano l’abbozzo dei vasi del polmone. La splacnopleura che riveste le docce e i tubi e gli zaffi pulmonari si mostra formata da cellule piuttosto grosse, pressochè tondeggianti. Essa fa, naturalmente, sporgenza nella cavità generale e la bozza che ne risulta si continua ancora posteriormente all’estremità dei rudimenti pulmonari per buon tratto senza che in essa si continui lo zaffo endodermico. I tubi e gli zaffi pulmonari col loro rivestimento mesodermico fanno tale gobba nella cavità celomatica da venire in contatto colle pareti laterali di questa. Questa gobba e quella puramente splacnopleurica che la con- tinua hanno un cammino obliquo verso il dorso. Si noti ancora in questo stadio (fig. 8, Tav. XI [II]) lo schiacciamento che comincia a presentare l'intestino superiormente ai tubi pulmonari. Il processo di accrescimento del rudimento pulmonare (tubo e zaffo) è ora meno rapido del regolarizzarsi dello zaffo sotto forma di tubo. Infatti in uno stadio poco più avanzato del precedente, mentre lo zaffo è pro- 1) Chiameremo così le docce respiratorie ora che i polmoni sono rappresen- tati dai tubi e dagli zaffi. SULL’ABBOZZO E SUL PRIMO SVILUPPO DEL POLMONE ECC. 251 ceduto solo di 0.®” 02, il tubo pulmonare si è esteso per circa 0.” 06 1). Così il rudimento pulmonare è meglio accentuato. La posizione di quello destro rispetto agli organi circostanti è un poco diversa da quella del sinistro: infatti tanto l’uno che l’altro hanno al di sopra la parete dor- sale del celoma nella regione in cui si trovano i glomeruli vascolari del rene cefalico e anche un po’ anteriormente ad essa; dal lato esterno la parete della cavità generale in corrispondenza della regione occupata dai canalicoli del rene medesimo; dal lato interno l’abbozzo dell’inte- stino; ma, mentre quello destro ha al di sotto, cioè dalla parte ventrale, il cuore in avanti e l’abbozzo del fegato più indietro, quello sinistro, pur poggiando nel suo primo tratto sul seno venoso, poggia poi non sul fegato ma sulla parete dell’abbozzo intestinale che forma appunto un’ansa dorso-ventrale la cui parte convessa si trova a sinistra e sostiene il pol- mone sinistro, mentre a destra della parte concava rimane gran parte del- l’abbozzo epatico: per questa ragione, il tratto posteriore del polmone sinistro è molto più spinto verso il dorso di quello che non sia il resto o il tratto corrispondente del polmone destro. Il lume dei tubi pulmonari è molto angusto: la loro parete spessa è formata sempre all’interno da un epitelio cilindrico semplice le cel- lule del quale sono pigmentate specialmente sulla loro faccia interna cioè su quella volta verso il lume. Si è accresciuto il rivestimento mesen- chimatico e si è meglio delimitato quello splacnopleurico le cellule del quale si conservano ancora relativamente grosse. Sono più evidenti le cellule tondeggianti che abbiamo visto trovarsi fin dallo stadio prece- dente in seno al mesenchima. Oltre a queste modificazioni nei tubi pulmonari, un’altra e impor- tantissima ne troviamo: infatti, mentre prima le ‘docce respiratorie si continuavano liberamente nella cavità boccale, ora fra questa e le docce laringo-tracheali troviamo quasi completo un tratto divisorio che, insieme . al forte ravvicinamento delle pareti soprastanti alle docce, ci dà accenno che non è lontana la separazione della camera laringo-tracheale e dei tubi pulmonari dalle cavità circostanti. Finora, anche nel penultimo stadio considerato, in cui i tubi pulmo- nari si erano già costituiti, abbiamo visto come questi si aprivano nella camera laringo-tracheale che comunicava anteriormente colla cavità boc- 1) Queste cifre valgono per il polmone destro il quale, come si è detto, forse si sviluppa, almeno intorno a questo stadio, più rapidamente del sinistro. Sc. Nat. Vol. XIX 17 252 E. GOGGIO cale, superiormente coll’abbozzo dell’intestino e posteriormente si conti- nuava colla via che mette al fegato: ora la comunicazione diretta colla cavità boccale è quasi sparita e negli stadî successivi si compie un pro- cesso per cui a poco a poco spariscono completamente anche tutte le altre. Mentre ciò avviene, si oblitera il lume dell’esofago le cui pareti dorsale e ventrale si accollano: a questa chiusura dell’esofago prelude lo schiacciamento dell’intestino notato nella fig. 8, Tav. XI [II] e ancora più accentuato nell’ultimo stadio. La separazione degli organi respiratorî aerei dalla cavità boccale e da quella dell’esofago e, posteriormente, dalla via che mette al fegato, è dovuta ad un sollevarsi del pavimento e ad un avvicinarsi delle pareti laterali di quel tratto che fa comunicare la regione delle docce respiratorie colla cavità boccale, al ravvicinamento ed al contatto delle pareti sopra- stanti alle docce stesse, ed al ravvicinamento di un tratto delle pareti li- ‘ mitanti la cavità per cui dalla camera laringo tracheale si passa al fegato. Ma a fare intendere come si svolga il processo di separazione, val- gono più che ogni altra cosa gli schemi della Tav. XI [II]. Il I si riferisce alla separazione della camera laringo-tracheale dalla cavità boccale. Le figure 2, B, { sono state spiegate. In è si vede come la cavità dell’intestino cominci ad espandersi superiormente e questo pro- cesso si accentua in e, 2, n, che rappresentano stadî via via successivi: essi mostrano come le pareti della parte anteriore della camera laringo-tracheale vadano sempre più avvicinandosi fino ad accollarsi completamente. Il II mostra come la camera laringo-tracheale si separi dall’ intestino per l'avvicinamento e il contatto delle pareti interposte fra questo e quella. Nel III si vede come gli organi respiratorî aerei si separino posterior- mente dalla via che mette al fegato. La fig. x segue immediatamente alla e di II; le f, x succedono alla 2 dello stesso schema. Il tratto vf che mette all’abbozzo del fegato resta abbracciato dai due tubi pulmonari. Quando le pareti poste fra intestino e camera laringo-tracheale saranno comple- tamente accollate, vf non potrà più comunicare con quest’ultima. Delle tre comunicazioni fra l’abbozzo dell’apparecchio respiratorio aereò e la cavità boccale, anteriormente, l'intestino anteriore, superior- mente, e la via che mette al fegato, posteriormente, quella che scom- pare avanti alle altre è la prima. Infatti in uno stadio in cui la coda è alquanto più lunga del rimanente del corpo e le branchie esterne sono ben pronunziate, ma nessuna fenditura branchiale si è aperta all’esterno, nè la lamina stomodeale è sparita, troviamo completamente chiusa la SULL’ABBOZZO E SUL PRIMO SVILUPPO DEL POLMONE ECC. 253 detta comunicazione (schema I, n): dietro alla cavità boccale, al di sopra dell’abbozzo del cuore, dove questo è maggiormente sviluppato, troviamo al di sotto dell’esofago, che qui è fortemente depresso sicchè le sue pareti dorsale e ventrale lasciano tra loro uno stretto spazio pressochè laminare, una massa solida in seno a cui si riconoscono ancora le pareti della pri- mitiva comunicazione diretta colla cavità boccale, completamente accollate. Poco dopo invece si vede comparire il lume, quasi laminare anch’esso, della camera laringo-tracheale e questo si vede comunicare per una stretta fen- ditura coll’intestino anteriore (schema II, 2); questa fenditura si continua anche posteriormente col lume del tratto d’intestino che scende verso l’abbozzo del fegato !) (schema III, f, y). La comunicazione dorso-ventrale (in senso perpendicolare all’asse della larva) tra intestino anteriore e camera laringo-tracheale si nota solo per due sezioni. I rudimenti pulmonari giungono quasi all’altezza dello sbocco del 3.° infundibolo del rene cefalico nel celoma e si sono quasi completamente regolarizzati a formare due tubi la cui cavità è però strettissima. La parete epiteliale interna di essi è ancora formata da un solo strato di cellule grosse, fortemente pigmentate (come lo sono anche le pareti dell’inte- stino), ed è circondata dal mesenchima e dalla splacnopleura come nello stadio precedente (quest’ultima un poco più sottile). Nella parte dor- sale di ciascuno, nel punto in cui sbocca nella camera laringo-tracheale, .si nota un vaso, forse risultante dall’ allontanarsi, dal regolare di- sporsì e dal trasformarsi delle cellule tondeggianti notate precedente- mente in seno al mesenchima nello stesso punto: però esso non ha an- cora una parete ben delimitata ma è piuttosto formato da uno spazio in cui si trovano scarse cellule sanguigne: è l’arteria pulmonare la quale sì vede staccarsi dall'ultimo arco aortico; essa però si arresta ben pre- sto e non penetra che per brevissimo tratto tra la pleura e l’epitelio del tubo pulmonare: fra questo e quella però, e più che negli stadî precedenti, si notano, qua e là, cellule rotonde in mezzo alle cellule mesenchima- tiche. Quanto alle vene pulmonari, esse si presentano come due cavità correnti latero-ventralmente (dal lato interno cioè da quello che guarda l’intestino) a ciascun tubo pulmonare: giunte dietro alla camera laringo- tracheale, si aprono, senza riunirsi, nel cuore sottostante. L'osservazione degli stadî seguenti ci mostra come la seconda chiu- sura completa è quella della comunicazione diretta dorso-ventrale col- l'intestino anteriore: infatti troviamo degli stadî (uno è quello della 1) È il tratto che finora abbiamo chiamato « via che mette al fegato ». 254 E. GOGGIO larva di cui si parla qui sotto a proposito della fig. 2, Tav. XI [II]) in cui, pur essendo cessata la comunicazione diretta, corrente in senso perpendi- colare all’asse della larva, fra l’intestino anteriore e il lume della ca- mera laringo-tracheale, persiste ancora una via obliqua dal basso all’alto e dall’avanti all'indietro che parte da quest’ultima e mette in quella porzione d’intestino che scende ventralmente verso lo sbocco dell’ ab- bozzo epatico. Finalmente anche quest’ultima comunicazione sparisce. I tubi pulmonari si vanno sempre più regolarizzando e meglio si distinguono l'arteria e la vena pulmonare. La fig. 2, Tav. XI [II] mette in mostra i rapporti di questi due vasi col polmone. È una sezione tra- sversale del polmone destro di una larva in cui una fenditura branchiale, sebbene strettissima, si è formata, condotta dieci sezioni dietro allo sbocco nella camera laringo-tracheale: vi si vede la vena dal lato interno e l’ar- teria dorsalmente ma spinta verso il lato esterno. Il rivestimento splacno- pleurico è relativamente sottile. Finalmente in una larva un poco più avanzata di quella della fig. 9, subito al di dietro della cavità boccale troviamo le due pareti dell’in- testino completamente accollate; al di sotto di queste, la massa compatta che separa il lume della cavità boccale da quello della camera laringo- tracheale; un poco posteriormente, il lume laminare di questa che non comunica più con nessuna delle cavità circostanti, poichè le pareti al di sopra di esso si sono del tutto accollate. L’abbozzo pulmo-laringo-tracheale si è dunque completamente isolato. Ora che abbiamo visto come quest’abbozzo si stabilisce, facciamo al- cune considerazioni sul modo col quale deve essere interpretato. E prima di tutto: deve ritenersi l’abbozzo dei polmoni pari o impari? Dalla descrizione fatta risulta la parità: infatti, la porzione delle docce respiratorie che è destinata a dar luogo ai polmoni produce gli zaffi pulmonari e questi cominciano a trasformarsi in tubi mentre è an- cora aperta la comunicazione fra la camera laringo-tracheale e la via che mette al fegato (fig. 1, Tav. XI [II]); i rudimenti dei polmoni così sepa- rati da questa mostrano di essere indipendenti l’uno dall’altro 1). Ma si potrebbe pensare, e forse giustamente, che anche prima dello 1) Si potrebbe qui obiettare che, separatasi in seguito la camera laringo- tracheale dalle cavità circostanti, una parte delle pareti limitanti il tratto per cui dalla camera stessa si passa alla via che mette al fegato viene a far parte - dei polmoni (Vedi schema III, fig. 7). Non mi pare però che quest’obiezione possa indurre ad ammettere un’ ori- gine impari dei polmoni. SULL’ABBOZZO E SUL PRIMO SVILUPPO DEL POLMONE ECC. 255 scavarsi della massa vitellina posta dietro alla cavità boccale per la for- mazione dell’abbozzo pulmo-laringo-tracheale-epatico, una parte delle cellule vitelline in mezzo a cui avverrà in seguito la detta escavazione sia per così dire predestinata a dar luogo all’abbozzo dei polmoni; può darsi infatti che alcune delle cellule vitelline contengano in sè dei ca- ratteri, forse anche a noi invisibili, che le designino molto precocemente a formatrici del rudimento pulmonare. Questa supposizione è appunto fatta dal WeryssE nel lavoro citato in seguito a considerazioni che io non ripeterò: citerò per altro ciò che egli dice intorno alla massa vitellina contenuta nel corpo delle larve di rana, e che si può ripetere per i Di- scoglossus “ Die in dem Kòrper der Larve eingeschlossene Dottermasse, deren Zellen einem friiheren Entwicklungsstadium entsprechen als die ibrigen Zellen des embryonalen Kòrpers, lisst sehr friih eine Differen- zirung in Zellgruppen erkennen, welche theils durch ihre Stellung in der Dottermasse selbst, theils durch ihre Verhaltnisse zu den iibrigen Lar- venorganen fur die Bildung bestimmter Organe des ausgebildeten Kòr- pers praedestinirt sind. Theoretisch ist anzunehmen, dass schon im Ga- strulastadium durch ihre Stellung gewisse Zellgruppen zur Bildung ge- wisser Organe vorherbestimmt sind ,. Ora, anche se in uno stadio di sviluppo molto giovane -voglia supporsi in un gruppo di cellule collocate dietro alla parete posteriore della cavità boccale la predisposizione a dar luogo all’abbozzo dei polmoni, perchè non deve questo gruppo sup- porsi fin da allora diviso in due parti ben distinte, l’una a destra spet- tante all’abbozzo del polmone destro e l’altra a sinistra spettante a quello del sinistro? È chiaro poi, che, secondo la descrizione fatta, e anche che non si voglia ricorrere all’ ipotesi del WeyssE, l’ectoderma non entrerebbe af- fatto nella formazione dei polmoni. Segue ancora da ciò che abbiamo detto che l’abbozzo degli organi della respirazione aerea non può ritenersi dovuto interamente ad eva- ginazione dalla parete dell’intestino: si tratta invece in gran parte di un processo di differenziamento delle cellule vitelline, le quali si allon- tanano l’una dall’altra convenientemente, si dispongono a poco a poco in modo regolare e si modificano. Anche le prime trasformazioni di esso non sono dovute ad evagina- zione ma piuttosto, almeno in gran parte, a cambiamento di forma delle pareti di una cavità determinata: l'osservazione delle figure 1-4 ce lo mostra chiaramente. — Un processo di evaginazione si ha invece quando, 256 E. GOGGIO differenziatesi bene le docce respiratorie, queste si spingono in parte al- quanto lateralmente: quindi esse dànno luogo agli zaffi pulmonari nella massa solida dei quali accade in seguito una escavazione 0, meglio, le cellule che la formano si allontanano l’una dall'altra dando luogo ad un tubo. i Per decidere se il rudimento dei polmoni debba considerarsi cavo 0 no, bisogna prima di tutto fissare bene che gosa debba intendersi per il rudimento stesso: se esso non si vuole riconoscere stabilito se non quando sono già formati i tubi pulmonari, allora è naturalmente da considerarsi come cavo; ma se invece ci si riferisce agli zaffi o, prima ancora che questi siano formati, alla porzione di parete delle docce re- spiratorie che ad essi darà luogo, l’abbozzo dei polmoni va considerato come solido: la cavità delle docce respiratorie infatti non ha nulla a - che fare con quella dei polmoni la quale si forma invece in seno agli‘ zaffi pulmonari. Si può ancora asserire che il mesoderma è quello che, almeno in un periodo, entra primo in azione per dar luogo alla bozza che i rudi- menti pulmonari formano ai lati dell'intestino nella cavità celomatica: noi abbiamo infatti notato come in un certo stadio la gobba si continui, esclusivamente mesodermica, molto al di là del punto in cui a formarla prende parte anche lo zaffo endodermico; allora certamente la parte en- dodermica del polmone non spinge avanti a sè il rivestimento meso- dermico, ma questo di per sè si dispone in una bozza nella quale la parte endodermica penetra gradatamente. Con questo io non intendo negare che nei primissimi stadî il fattore essenzialmente attivo sia la parte endodermica e nemmeno voglio escludere che anche negli stadî successivi essa abbia un’azione importante nel determinare la successione dei fatti; faccio solo notare che la presenza di una bozza esclusivamente mesodermica in continuazione di quella mesodermica ed endodermica, mostra come non sia solo l’azione dell’endoderma quella che fa proce- dere innanzi l’abbozzo pulmonare. Quanto a decidere se si abbozzi prima la camera laringo-tracheale o i polmoni, io credo che la precedenza debba attribuirsi a quella: è infatti dall’avanti all’indietro che si forma nella massa vitellina posta dietro alla cavità boccale, la cavità che rappresenta in una sua parte l’ab- bozzo degli organi di respirazione aerea: è dall’avanti all’indietro che avviene, per lo sviluppo sempre crescente del cuore, il sollevarsi del pavimento della parte in cui l’escavazione è avvenuta. È vero che ì ru- SULL’ABBOZZO E SUL PRIMO SVILUPPO DEL POLMONE ECC. 257 dimenti pulmonari sono già determinati come proliferazioni solide e anche come tubi prima ancora che la separazione della camera laringo- tracheale si compia, ma chi vorrebbe negare che, come i tubi rappre- sentano l’abbozzo dei polmoni, la cavità in cui essi mettono rappresenti quello della camera laringo-tracheale? E si noti che, prima della for- mazione degli zaffi pulmonari, la camera laringo-tracheale è già rappre- sentata da una cavità, sebbene a pareti incomplete, mentre i polmoni non sono riconoscibili che in una parte della parete delle docce respi- ratorie. Finalmente è opportuno fermarsi un poco sul fenomeno di separa- zione dell’abbozzo pulmo-laringo-tracheale da quello dell’intestino: ab- biamo già detto come il processo si compie; mettiamo ora un poco i due abbozzi in relazione cogli organi circostanti mentre esso avviene. Su questo punto io voglio limitarmi ad osservare un fatto che certo non può sfuggire, cioè lo sviluppo che prende il cuore al di sotto del- l’abbozzo pulmo-laringo-tracheale: esso coll’ accrescersi, tende ad occu- pare uno spazio che non gli può essere dato se non dal ridursi delle cavità circostanti: ora il sistema delle cavità racchiuse in parete endo- dermica e poste al di sopra del cuore quando questo non è ancora molto sviluppato (fig. 4), mostra già una tendenza, meglio ancora accentuata in seguito, a separarsi in una porzione ventrale spettante all’ abbozzo degli organi respiratorî aerei ed in una dorsale spettante all’intestino anteriore. Lo sviluppo dell’abbozzo cardiaco favorisce forse questa sepa- razione, poichè le pareti laterali della cavità endodermica, mentre quella dorsale e quella ventrale si avvicinano, durante l’ accrescimento dello spazio occupato dal cuore, tendono a correre l’ una verso l’altra e final- mente si saldano (schema II, figg. î-n). Mentre avviene il ravvicinamento delle pareti laterali endodermiche e si separa così la cavità intestinale da quella laringo-tracheale, 1’ una e l’altra di queste cavità si deprimono tanto che le pareti dorsale e ventrale della prima si accollano: abbiamo visto così chiudersi l’esofago. Questa chiusura temporanea dell’esofago, notata dal BAaLFOUR !) per gli Elasmobranchi e per i Teleostei e dal De MEURON ?) per gli altri Vertebrati tranne che per i Mammiferi, è, secondo il primo, forse dovuta 1) F. M. BaLrouR — A Treatise on comparative Embryologye. — London, 1879-1881, (Trad. frane. — Paris 1885. Tomo II, pp.58 e 697). 2) Comptes rendus Ac.Sc. V. CII,, (1886). 258 E. GOGGIO al fatto che, a una certa epoca, la regione esofagea del faringe sia stata fornita di fenditure branchiali: il De MEURON pensa che si tratti di un fatto accessorio e d’ordine piuttosto meccanico. Il MArsHALL e il B1Es !), i quali hanno osservato come nella fara temporaria l’esofago è solido per un periodo che comincia prima dell’apertura della bocca e dura an- cora qualche tempo dopo che l’apertura è stabilita, credono che questa condizione non abbia significato morfologico. Quello che in ogni caso mi pare evidente è che in larve come quelle degli Anfibî in cui, per la quantità abbondante di vitello che esse con- tengono, non è necessaria, per un certo tempo, una perforazione del- l’esofago, il cuore possa assumere uno sviluppo grande a spese magari dello spazio disponibile dagli organi ad esso vicini come la camera laringo- tracheale e l’esofago. Lo sviluppo ulteriore dei polmoni, per un periodo abbastanza lungo, si può riassumere in due fatti principali: il continuo assottigliamento delle pareti, che accompagna l’estendersi della loro superficie, e lo svi- luppo dei vasi sulle pareti stesse: un momento importante è poi l’aper- tura definitiva della camera laringo-tracheale nella cavità boccale. Nell’ultimo stadio da noi considerato i rudimenti dei polmoni si esten- dono un poco al di là del terzo infundibolo del rene cefalico e hanno forma di tubo quasi per tutta la loro lunghezza: la bozza terminale esclusi- vamente mesodermica si estende solo per brevissimo tratto. I tubi pulmonari hanno struttura non essenzialmente diversa da quella degli stadî precedenti: però è da osservare come la pleura li circondi comple- tamente quasi subito dopo il loro punto di distacco dalla camera laringo- tracheale, mentre negli stadìî precedenti, almeno per un tratto più o meno grande della loro lunghezza, i due foglietti della pleura, dal lato interno, cioè da: quello addossato all’intestino, non si congiungevano; il processo di penetrazione della splacnopleura fra il tubo pulmonare e l'intestino avviene però, come ben s'intende, a grado a grado. In uno stadio parecchio più avanzato in cui tre fenditure branchiali sono aperte, le branchie esterne sono bene sviluppate, ma l’opercolo sì estende già per un certo tratto al di sopra di esse, non troviamo il polmone molto 1) A. M. MarsmaLL & E. J. BLAS. — The development of the kidneys and fat- bodies in the Frog. în: Stud. Biol. Lab. Owens Coll. Manchester, Vol. 2, p. 133- Db: SULL’ABBOZZO E SUL PRIMO SVILUPPO DEL POLMONE ECC. 259 esteso nella cavità generale, poichè esso giunge poco al di là del terzo infundibolo del rene cefalico, ma troviamo invece notevoli cambiamenti nella sua struttura: l’epitelio interno è divenuto più sottile e le sue cellule più piccole; nell’invoglio mesenchimatico posto fra esso e la pleura, che è piuttosto sottile ed è formata da cellule leggermente schiacciate in senso parallelo alla sua superficie, si notano meglio che negli stadî precedenti in mezzo alle cellule di forma irregolare, altre cellule ton- deggianti o ellittiche: l’arteria pulmonare si vede chiaramente introdursi fra la pleura e l’epitelio interno nella regione dorsale del rudimento pulmonare; io non l’ho potuta però seguire che per piccolo tratto. Le vene pulmonari in questo stadio si presentano ancora come vasi a parete non bene definita e si estendono sino a poca distanza dall’ e- stremità posteriore dell’abbozzo di ciascun polmone: ognuna corre latero- ventralmente a questo dalla parte in cui esso è addossato all’intestino e si congiunge dietro alla camera laringo-tracheale e davanti all’intestino con l’omologa dell’altro lato: ne risulta un vaso unico che scende al cuore ed è naturalmente brevissimo dati i rapporti di posizione fra l’ab- bozzo pulmo-laringo-tracheale e quello cardiaco; è però da notare come esso esista ora, mentre nell’ultimo stadio considerato le due vene pul- monari sboccavano separatamente nel cuore. La fig. 3, Tav. XI [II] rappresenta una sezione frontale di una parte del polmone sinistro nello stadio di cui ora ci occupiamo: poichè, come abbiamo detto, il tratto posteriore del polmone sinistro, è molto spinto dorsal- mente 1), è accaduto che la sezione corre quasi lungo l’ asse del tratto posteriore mentre quello anteriore è tagliato quasi tangenzialmente nella sua parete dorsale: nella regione posteriore quindi si possono ve- dere tutte le parti formanti la parete dell’abbozzo pulmonare, in quella anteriore invece, si vedono solo la pleura ed il rivestimento mesenchi- matico; in seno a questo si nota anche l’arteria pulmonare. L’ epitelio interno sembra in alcuni punti formato da più strati di cellule, mentre realmente lo strato è unico: il fatto è dovuto specialmente a ciò che la sezione, essendo in questi punti obliqua, per la forma del rudimento pulmonare, alla parete di esso, taglia più cellule poste l’una accanto all’ altra. Nella fig. 4, Tav. XI [II] che rappresenta una sezione frontale del pol- 1) Il tratto corrispondente del polmone destro è ora invece quasi alla stessa altezza del resto, anzi talora a livello più ventrale. 260 E. GOGGIO mone destro di una larva in uno stadio un poco più avanzato di quello della precedente, la vena pulmonare apparisce quasi in tutta la sua lunghezza e ciò perchè, come abbiamo detto (v. nota a pag. prec.), il polmone destro non ha in questo stadio la parte posteriore più dorsale del resto, anzi talora, come è avvenuto appunto nel nostro caso, l’estremo posteriore è spinto un po’ più ventralmente. In uno stadio in cui le branchie esterne non sono ancora riassorbite e nuotano in parte liberamente nell’ acqua circostante, ma cominciano già a svilupparsi le branchie interne che si presentano come leggere sporgenze delle pareti laterali degli archi, vediamo più accentuate le modificazioni degli stadî precedenti e ne notiamo ancora qualche altra importante. Prima di tutto è da osservare che la camera laringo-tracheale è se- parata dalla cavità boccale solo da una sottile parete ‘che in un punto anche manca sicchè possiamo dire che, sin da questo stadio, si ristabi- lisce la comunicazione fra l’apparato respiratorio aereo e l’ambiente: il punto di comunicazione si trova sulla parete posteriore della cavità boc- cale a metà altezza fra la piega che, attraversando il pavimento della cavità stessa, unisce l’ultima fenditura branchiale di destra con la cor- rispondente di sinistra e il punto in cui si passa all’intestino. Questo si conserva al di sopra della camera laringo-tracheale ancora molto depresso ma fra le sue pareti si distingue chiaramente un lume. L'apertura per cui si accede all'apparato respiratorio aereo corrisponde a quella delle comunicazioni primitive fra l’abbozzo dell’apparato stesso e gli organi circostanti che lo riuniva colla cavità boccale: le altre comunicazioni spariscono completamente. I tubi polmonari si sono parecchio estesi: essi giungono sino oltre il terzo della distanza passante fra la parete posteriore della cavità boccale e quella pure posteriore del celoma. Quanto alla loro forma si può dire che si adatti a quella degli organi circostanti: così il polmone destro ha la superficie ventrale leggermente concava nel suo terzo medio cioè nella regione di contatto colla parte del fegato che sta immediata- mente dietro al cuore, poi si volge bruscamente verso la parte dorsale: quello sinistro invece descrive, quasi per tutta la sua lunghezza, una curva colla convessità dal lato del dorso e la cui parte estrema è la più dorsale; si noti però che l’ultimo tratto del polmone corre in linea retta quasi secondo l’asse della larva o forse anche volgendosi un po’ dorsal- - mente; il tratto curvo si adatta sopra una parte dell'intestino che gli corre trasversalmente al di sotto. SULL’ABBOZZO E SUL PRIMO SVILUPPO DEL POLMONE ECC. 261 Gli organi che circondano dalle diverse- parti i tubi pulmonari sono quelli stessi di cui abbiamo parlato in uno degli stadî precedenti. Il sistema vascolare dei polmoni è ora meglio accentuato. Dal quarto arco branchiale, che è posto subito dietro alla parete posteriore della cavità boccale, si vede chiaramente staccarsi l’arteria pulmonare un po’ al di sotto del livello al quale si trova il primo infundibolo del rene cefalico e in un piano un poco più interno; essa penetra quasi subito nel polmone e corre lungo la parete dorso-laterale esterna di questo mandando parecchi rami, alcuni dei quali sono forse in comunicazione con altri rami mandati dalla vena pulmonare: questa corre lungo la pa- rete latero-ventrale interna e si unisce dietro alla camera laringo-tra- cheale con quella dell’altro lato, formando un tronco unico che sbocca nel cuore. Il lume dei tubi pulmonari si è ingrandito ma non è ancora molto ampio. L’epitelio interno si è assottigliato specialmente in parecchi punti e ciò prova che, in gran parte almeno, l’accrescimento di esso è dovuto a segmentazione delle cellule che primitivamente lo hanno formato. An- che la pleura si è assottigliata, le cellule che la formano sono depresse ed hanno i margini sottili. La fig. 5, Tav. XI [II] rappresenta in parte una sezione sagittale della parete ventrale del tubo pulmonare destro: essa si presta bene a mostrare che l’epitelio interno è assottigliato in corrispondenza dei vasi bene svilup- pati: ciò parmi corrispondere a quello che il Bor afferma per il pollo e che il KòLLIKER non ha potuto vedere per il coniglio. Il Borx !) dice appunto come nei polmoni dell’embrione di pollo in corrispondenza delle reti va- scolari l’epitelio si assottiglia, mentre è inspessito fra una rete vascolare e l’altra: questo parmi avvenire anche nel polmone del Discoglossus pictus, almeno nello stadio che noi consideriamo?). E ciò, insieme al fatto già no- tato della esistenza, in un certo periodo, di una bozza esclusivamente me- sodermica dietro all'apice endodermico del polmone, avvalora l’ipotesi che, nello sviluppo di questo, il mesoderma abbia una parte certo non ultima. Nello sviluppo successivo dei polmoni, mentre le pareti di questi continuano ad assottigliarsi sia in tutto il loro spessore che in quello dei varî strati che lo formano, non sempre ne segue un ampliamento del 1) Op. cît. ?) Laddove però i vasi sono poco sviluppati, l’epitelio si mantiene inspessito come mostra la parte inferiore della figura 5, Tav. XI [II]. 262 E. GOGGIO lume, il quale si presenta nelle preparazioni per un certo tempo ancora angusto, poichè le pareti spesso si accollano o si ripiegano: nè io credo che ciò sia per intero dovuto all’azione-dei reagenti, sebbene talora abbia potuto osservare come uno dei polmoni conservi lume abbastanza am- pio mentre l’altro ha le pareti quasi accollate. La camera laringo-tracheale si ingrandisce continuamente fino ad un certo punto: inoltre la sua parete si assottiglia in generale in ‘modo più rapido di quella dei polmoni. In uno stadio in cui sugli archi branchiali si trovano le frange delle branchie interne e l’opercolo si estende su quelle esterne che sono am- massate nelle camere branchiali e sporgono dalle aperture opercolari, ancora separate latero-ventralmente al corpo nella regione del cuore, vediamo come la camera laringo-tracheale, già ampiamente aperta nella cavità boccale, ha le pareti in gran parte sottilissime mentre i polmoni hanno ancora pareti relativamente grosse, ripiegate e quasi accollate. La camera laringo-tracheale forma una larga tasca posta al di sopra del cuore e al di sotto dell'intestino anteriore che abbraccia in parte: i due polmoni si distaccano posteriormente da essa, abbracciano l’intestino e si estendono nel celoma fino ai due terzi circa della lunghezza di esso a contare dalla parete posteriore della cavità boccale, mantenendosi però sempre al di sopra della massa dei visceri. La rete dei vasi si è andata meglio sviluppando e non si può dubitare che si sia estesa sopra gran parte delle pareti dei tubi pulmonari. I vasi, speciamente le vene pul- monari, non si possono seguire in alcuni tratti nelle sezioni che con gran- dissima difficoltà a causa dello schiacciamento che essi subiscono: ciò ac- cade più di tutto lungo la parete della camera laringo-tracheale, dove le due vene pulmonari si uniscono in una sola: però la posizione ed il decorso dei vasi principali rispetto ai tubi pulmonari sono essenzialmente uguali a quegli degli stadî precedenti 1). Quando le branchie esterne sono in uno stadio avanzato di atrofia e l'apertura opercolare è unica, sebbene molto larga, si ha essenzial- mente la medesima disposizione. I polmoni però si estendono a non molta distanza dall’estremo posteriore della cavità generale, .il loro lume è abbastanza ampio >); la loro parete, piuttosto sottile, non è regolare; 1) Questo non oso affermare con certezza per le vene pulmonari a causa dell'enorme difficoltà che s’ incontra a seguirle sulle sezioni. 2) Il polmone destro ha nella sua porzione poggiante sul fegato lume al- quanto più ristretto. SULL’ABBOZZO E SUL PRIMO SVILUPPO DEL POLMONE ECC. 263 mentre in alcuni punti troviamo la pleura quasi addossata all’epitelio interno, in altri punti fra i due epitelii troviamo un considerevole strato mesodermico. In uno stadio più avanzato ancora, in cui le branchie esterne sono quasi completamente sparite e l’apertura opercolare è molto ristretta, la camera laringo-tracheale, che nel suo primo tratto è a sezione quasi circolare mentre ben presto si espande moltissimo dai due lati in modo da formare un sacco estendentesi, al di sotto dell’esofago, da una parete laterale all'altra della cavità celomatica (cioè fra i due reni cefalici), posteriormente si va strozzando lungo la linea longitudinale mediana, finchè, riunitesi sulla linea stessa le pareti dorsale e ventrale, si passa quasi in modo insensibile nei tubi pulmonari; questi sono amplissimi, corrono immediatamente al di sotto della parete dorsale del celoma e al di sopra della massa viscerale; il sinistro giunge sino a 0.®*" 44 dal- l'estremo posteriore della cavità celomatica, il destro resta un poco più indietro: inoltre è a notare come, mentre quello mantiene lume piutto- sto ampio fino quasi presso al suo estremo, questo a buona distanza da esso sì raggrinza, il suo lume diviene piccolo e poi sparisce. E insisto su ciò perchè uno sviluppo maggiore del polmone sinistro in questo o in istadî vicini l'ho in grado maggiore o minore riscontrato in tutte le larve da me osservate. La camera laringo-tracheale, a cominciare dal punto in cui sporge liberamente nel celoma, acquista parete sottilissima: ciascuna delle due arterie pulmonari forma dorso lateralmente ad essa una sporgenza ben marcata la quale si può seguire anche sui tubi pulmonari fino a non molta distanza dal loro apice; essa diviene però sempre meno voluminosa in ragione dei rami che l'arteria va mandando. Le vene pulmonari invece non si possono seguire che molto difficilmente lungo le pareti dei pol- moni e al di sotto della camera laringo-tracheale, sotto cui ora scorrono, riunite in un tronco unico, per tratto abbastanza lungo. I due tubi pul- monari sono rilegati all’intestino, per più di un terzo della loro lunghezza da una lamina del peritoneo, poi restano completamente liberi nella ca- vità del celoma. L’epitelio dei tubi pulmonari è sottilissimo: risulta di cellule molto ridotte nel loro diamentro perpendicolare all’asse del tubo, è simile a quello formante la pleura (la quale presenta, ma molto più accentuati, i caratteri ultimamente descritti); le sue cellule, che appa- iono in sezione affusolate, presentano dai due lati (sempre in sezione) della parte centrale inspessita prolungamenti sottili ma non molto lunghi. 264 E. GOGGIO Lo schiacciamento dell’epitelio è anche qui più marcato in corrispon- denza dei vasi bene sviluppati: in alcuni punti l’epitelio è estremamente sottile. Fra esso e la pleura troviamo spessissimo dei vasi contenenti corpuscoli sanguigni non di rado molto ammassati; talora però l’epitelio interno e la pleura vengono direttamente in contatto. In uno stadio di poco ulteriore troviamo analoghe disposizioni : solo è più evidente la vena pulmonare, che ha lume abbastanza ampio, ed è più sviluppata la rete sanguigna nelle pareti dei polmoni; l’epitelio interno è più sottile. Io non ho fatto minute osservazioni in istadî seguenti di sviluppo; solo dirò come la condizione di cose or ora descritta si mantiene, al- meno nelle linee generali, ancora per parecchio tempo; così in una larva abbastanza più sviluppata della precedente, il polmone sinistro si pre- senta come un sacco ampio e a pareti ben distese tranne all’estremità codale, dove esse, venendo in contatto colla parete posteriore del celoma, si ripiegano: il polmone#destro è meno sviluppato, le sue pareti sono raggrinzate e non arrivano perciò a toccare la parete posteriore del ce- loma. La camera laringo-tracheale è, rispetto agli stadî precedenti, re- lativamente meno ampia. Le mie osservazioni mi conducono a pensare: 1. Nel Discoglossus pictus l’abbozzo dei polmoni e della trachea è dovuto all’endoderma. 2. Non è dovuto che in parte ad evaginazione delle pareti dell’intestino. 3. Esso è pari. 4. È solido. 5. L’inviluppo mesodermico prende parte attiva al suo accrescimento. 6. Questo accrescimento è dovuto, almeno in gran parte, a segmenta- zione delle cellule primitive formanti l’abbozzo. 7. La camera laringo-tracheale si abbozza forse prima dei tubi pulmonari. È mio debito di ringraziare qui pubblicamente 1’ Illustre Prof. Rr- CHIARDI il quale mi agevolò il lavoro apprestandomi il materiale neces- sario e permettendomi il più largo uso dei libri della sua biblioteca privata nonchè il Prof. RArrAELE a cui debbo le larve di cui mi sono valso ed una parte dei preparati. Istituto Zoologico della R. Università di Pisa, diretto dal prof. G. Richiardi, maggio 1902. Ù Elenco dei lavori citati nel testo. . R. RamAK — Untersuchungen diber die Entwickelung der Wirbelthiere. 1850-58. . A. GontTE — Die Entwick. der Unke. Leipzig 1875. . F. Bor — Das Princip des Wachsthums. Berlin 1876. . Ca. RoBin — Citato da CADIAT (v. sotto n.ri 5 e 6). . M. Capriat — Des rapports entre le développement du poumon et sa structure. Journ. d. l’Anat. et de la Phys., 1877. 6. Lo stesso — Du développement des fentes et arcs branchiaux chez l’embryon. Journal d. l'Anat. et d. la Phys., 1883, p. 38. 7. Fr. M. BaLrour — Traité d'Embryologie et d’ Organogénie comparées. Paris 1885, (dall’ ingl.). . De MeuRroN — Compt. rend. Acad. Sc., T. CII (1886). 9. A. M. MarsHaLL & E. J. BLes — The development of the Kidneys and fat- bodies in the Frog. Stud. Biol. Lab. Owens Coll. Manchester, Vol. 2, p. 133. 10. A. W. Wnrysse — Veber die ersten Anlagen der Hauptanhangsorgane des Darmkanals beim Frosch — Arch. mikr. Anat., Bd. 46, H. 4 (1895). 11. A. HammaR — Veber einige Hauptzige der ersten embryonalen Leberentwi- ckelung. Anat. Anz., XIII Bd. (1897), n. 8-9. uu a 0 NH 0 Recentissimamente, e quando già avevo terminato il mio lavoro sono apparse le seguenti memorie la prima delle quali, sebbene riguardi più specialmente lo sviluppo del polmone a cominciare da stadî non più gio- vanissimi, pure è interessante anche a chi voglia limitarsi allo studio del primo sviluppo del polmone. 12. F. Moser — Beîtrige zur vergleichenden Entwicklungsgeschichte der Wir- beltierlunge (Amphibien, Reptilien, Vogel, Stiuger). Arch. mikr. Anat., LX Bd., 4 H. (1902). 13. L. GIANNELLI — Sullo sviluppo del pancreas e delle ghiandole intraparietali del tubo digestivo negli Anfibi urodeli (gen. Triton), con qualche accenno allo sviluppo del fegato e dei polmoni. Arch. it. di Anat. e d’Embr., vol. 1.9, fasc. 3.0 (1902). » » SPIEGAZIONE DELLE FIGURE ABBREVIAZIONI. aorta. ml. somite. arteria pulmonare. P. polmone. cuore. p'. punto di sbocco del polmone nella cavità boccale. camera laringo-tracheale. cavità della doccia respitatoria. pel. parete anteriore della camera la- cervello. ringo-tracheale. camera laringo-tracheale o luogo | pe. pericardio. in cui questa si formerà. pi. pleura. canale midollare. te. rene cefalico. corda. som. somatopleura. cordone subnotocordale. spl. splacnopleura. doccia respiratoria. SU. . Seno venoso. ectoderma. v. cellule vitelline epitelio pulmonare. va. Vaso. fegato. vf. via che mette al fegato. intestino. vp. vena pulmonare primissima parte dell'intestino an- | vv. vene vitelline. teriore. 2. parete dell’ intestino. TAVOLA X [I]. L’ingrandimento è di 56 diametri in tutte le figure. 1.-- Sez. trasversale di una larva con vescicole ottiche poco più che ab- bozzate, condotta un poco posteriormente alla regione della cavità boccale. ; 2.-- Sez. c. s. un po’ anteriore in una larva un poco più avanzata. 3.— Sez. c. s. ma in una larva con vescicole ottiche ben formate, ade- renti alla parete del corpo, e con l’abbozzo del cuore all’ inizio della sua formazione. La sez. passa 10w avanti al principio del rene cefalico. 4.— Sez. c. s. in una larva con vescicole ottiche bene sviluppate, ma - senza cristallino, vescicole uditive con piccolissima cavità e abbozzo del cuore già ben formato. 5.— Sez. c. s. ma un po’ più caudalmente. 6.— Sez. sagittale, alquanto a destra della linea mediana in una larva un poco più sviluppata della precedente. Dall’ampia cavità boccale si vedono partire due vie: l’una, più dorsale è la prima parte del- l’intestino, l’altra posta sotto alla prima, è la cavità della doccia respiratoria destra la quale si vede continuarsi posteriormente con quella dell’abbozzo epatico: questo si spinge in avanti fino ad ad- dossarsi alla parete posteriore del cuore, il quale è posto in parte sotto alle docce respiratorie, in parte sotto alla cavità boccale. 7. Sez. sagittale, alquanto a sinistra della linea mediana in una larva. con cristallino già formato e con branchie esterne abbozzate: in SULL'ABBOZZO E SUL PRIMO SVILUPPO DEL POLMONE ECC. 267 fondo a nessuna delle tasche branchiali si è aperta una fenditura: comincia a svilupparsi la coda. Nella cavità boccale si vede aprirsi il diverticolo o la doccia respiratoria: per vedere lo sbocco dell’ intestino anteriore, bisognerebbe procedere verso la linea mediana della larva. TAVOLA X [II]. Fi. 1.— Sez. trasversale nella regione in cui i tubi pulmonari sboccano nella camera laringo-tracheale in una larva con coda lunga quasi quanto il resto del corpo e con due branchie esterne la prima delle quali frangiata. — Ingrandimento 56. » 2.— Sez. trasversale del polmone destro, condotta 100 1 dietro allo sbocco di questo nella camera laringo-tracheale in una larva con branchie esterne bene pronunziate, ma con lamina stomodeale ancora inte- gra: una fenditura branchiale, sebbene strettissima, si è formata. — Ingrandimento 260. » 3.— Sez. frontale di una parte del polmone sinistro in una larva ‘con tre fenditure branchiali e con opercolo già parzialmente disteso sulle branchie esterne. — Ingrandimento 214. » 4. Sez. c. s. del polmone destro in una larva un poco più sviluppata. — Ingrandimento c. s. » 5.— Sez. sagittale della parete ventrale del tubo pulmonare destro in una larva in cui cominciano a presentarsi delle leggere sporgenze late - ralmente agli archi branchiali, quale accenno della formazione delle branchie interne. Quelle esterne nuotano in parte liberamente nel- l’acqua circostante. — Ingrandimento 640. ScHemAa I — Tutte le figure rappresentano sezioni condotte nella regione an- teriore dell’abbozzo della camera laringo-tracheale, in istadî sempre più avanzati di sviluppo: mentre la cavità dell’ intestino anteriore va sempre più estendendosi lateralmente e deprimendosi, (almeno a cominciare dalla fig. è) le pareti del tratto estremo della camera la- ringo-tracheale vanno sempre più avvicinandosi fino ad accollarsi. ScHapma II. — Tutte le sezioni sono condotte più caudalmente rispetto a quelle dello schema precedente. Le figure 2, 8, |, = si riferiscono alle stesse larve delle corrispondenti figure dello schema I: così pure la 7 di I corrisponde alla z di II. La è dil appartiene ad una larva un poco più avanzata della corrispondente di II e una relazione inversa esiste fra le n di I e di II. ScHema III — Le sezioni delle figure 4, f soho condotte circa all’altezza dello sbocco del 1.° infundibolo del rene cefalico nel celoma. Quella di segue immediatamente a quella di f. Le figure 4, f si riferiscono alle stesse larve rispettivamente di e, z dello schema II; la |, come si è detto, appartiene alla stessa larva della 2. Tutte le figure degli schemi riproducono esattamente la forma delle sezioni a cui si riferiscono. Sc. Nat. Vol. XIX 18 DOTT. ALCESTE ARCANGELI IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE COVO S'intende oggigiorno sotto il nome di mimetismo quel particolare e meraviglioso modo di adattamento alle condizioni di vita, quel carattere vantaggioso nella lotta per l’esistenza, che posseggono animali e piante, per il quale essi presentano esteriormente somiglianza più o meno fe- dele con la forma, il colore ed altre proprietà fisiche dei corpi che li circondano sia organici che inorganici. Questo interessantissimo argomento, che forma uno dei più splendidi capitoli della teoria trasformistica e che apre la via a vedute e concetti nuovi ed elevati in sommo grado, invaghì tanto la mia giovine mente entusiasta specialmente di tutto cio che riguarda la biologia in generale, che mi proposi di studiarlo il più accuratamente che mi fosse possibile nel mondo dei vegetali. Ed io appunto in questo mio tenue lavoro vengo ad esporre i resultati delle mie ricerche e dei miei studi. Non ho preteso di fare una grande cosa, ma ho cercato, per quanto mi è riuscito, di portare ancora io il mio piccolo contributo alla scienza. A tale scopo ho raccolto, per quanto mi è stato possibile, i princi- pali lavori che sono stati eseguiti sopra questo argomento nel regno ve- getale, li ho esaminati accuratamente accettando tutto ciò che mi è sem- brato giusto e vero realmente, rifiutando quello che mi è parso non essere altro che il prodotto della fantasia troppo accesa: ho aggiunto qualche mia osservazione particolare alle numerose già fatte da altri, cercando nel tempo stesso di accennare nel modo migliore e più preciso alle cause che hanno prodotto e producono questo fenomeno biologico, e tutto ciò in base al giudizio che io mi sono formato riguardo ai concetti e all’in- dirizzo che si devono tenere nello studio del medesimo. Ho capito però essermi strettamente necessario, per entrare bene in - questo argomento, accennare, come introduzione e quindi sorvolando, al IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 269 mimetismo animale, essendochè è appunto nel regno animale per primo, che gli scienziati hanno osservato e studiato questo fatto importante : d’altra parte, esistendo tanto numerosi e peculiari rapporti biologici fra animali e piante, è inutile il dire come riesca, quasi direi impossibile, uno studio completo di questo fenomeno in uno dei regni organici, senza avere cognizione la più estesa possibile del modo con il quale lo stesso sì presenta nell’altro. Già dai più antichi naturalisti ed osservatori fu riscontrato esistere grande relazione fra il colore degli animali e quello dell’ ambiente nel quale essi vivono, sia terrestre che acquatico. Questo fatto costituisce uno dei tanti mezzi di difesa, una delle variazioni utili acquistate per l’a- dattamento, delle quali si può valere l’animale per difendersi dalle con- dizioni a lui molte volte contrarie del mezzo che lo circonda. Ognuno sa che ogni genere e persino ogni specie animale possiede un numero più o meno grande di nemici, dai quali essa cerca di salvaguardarsi con tutti i mezzi che gli offre la natura circostante e la propria attività. Ora, i mezzi di difesa sono delle più svariate catégorie, e si esplicano in ma- niere affatto diverse, dal più perfetto al primitivo, da quello nel quale sì rileva un'intelligenza e manifestazione personale, a quello nel quale agisce la più pura incoscienza e l’istinto più cieco. L’animale, che mediante un progressivo adattamento, assume un co- lore simile a quello degli oggetti che lo circondano, passa facilmente inosservato all’occhio dei suoi nemici; d’altra parte tale condizione gli è favorevole anche per ingannare gli animali che costituiscono la sua preda, allorchè egli si deve dissimulare e mettere in imboscata per sorpren- derli. Un colore diverso da quello dell'ambiente, un colore spiccato come per esempio il bianco, per un animale che vive nelle praterie o nei boschi, risalterebbe troppo sullo sfondo dell'ambiente e metterebbe l’animale troppo in evidenza, quindi in condizioni sfavorevolissime per potersi di- fendere dai nemici e per procurarsi i mezzi di sostentamento. Invece per animali viventi in un ambiente di colore bianco, cioè in un paese coperto di neve e ghiaccio durante una gran parte dell’anno, un colore differente dal bianco nuocerebbe ad essi, mentre questo diviene per loro una condizione protettiva in sommo grado, permettendo agli individui così mantellati di confondersi colla tinta generale del mezzo che essi abitano. Questo adattamento è un effetto della selezione naturale e l’a- nimale lo conseguisce indipendentemente dalla volontà. Negli animali allo stato. selvaggio tendono a sparire tutte le varia- 270 A. ARCANGELI zioni individuali di colore, che costituiscono per l'individuo uno svan- taggio nella lotta per l’esistenza, mettendolo troppo in evidenza, mentre predomineranno a poco a poco e si perfezioneranno quelle che, unifor- mandosi all'ambiente, costituiranno per lui un valido mezzo di difesa, provvedendo così al mantenimento e alla conservazione della specie. Negli animali allo stato domestico, queste variazioni di colore si con- servano ed anche si moltiplicano mediante la selezione artificiale operata dall’ uomo, e ciò non può recar meraviglia quando si pensi anche che, per gli animali ridotti in tale stato, cambiano affatto l’ambiente e le condizioni di vita, per cui si affievolisce quell’attività prodigiosa loro propria allo stato selvaggio, non essendo d’altra parte più bisogno per essi assumere un colore simile a quello dell’ambiente. Il potere sottrarsi allo sguardo è dunque cosa necessaria a quasi tutti gli animali, al forte ed al debole, più specialmente a questo che possiede mezzi di difesa meccanici meno efficaci. Questa relazione fra il colore degli animali e quello dell’ambiente è più generale di quello che sembri a prima vista. Fra gli animali terrestri possiamo citare l’esempio di quelli che vivono nei deserti: essi sono or- dinariamente colorati in fulvo o giallastro, come la sabbia o le pietre, o sono macchiati sempre in modo da imitare con una meravigliosa esat- tezza l’aspetto generale del suolo che abitano. Tali sono il leone, le antilopi, il cammello specialmente, il gatto di Egitto, il Dipo, la volpe dei deserti, molti uccelli come il beccafico, la quaglia, il gallo di steppa (Pterocles), molti rettili ecc. Nelle regioni polari che sono coperte da neve e ghiacci tutto l’anno, gli animali presentano un mantello intiera- mente e sempre bianco: tali sono l’orso polare, che è il solo del suo genere che sia bianco, la lepre polare dell'America. Infine, nelle regioni coperte da neve solamente durante un certo periodo dell’anno, gli ani- mali non sono bianchi che nell’inverno, essendochè questo colore non li protegge che durante questa stagione, mentrechè in estate esso sarebbe più visibile che tutti agli altri colori, riuscendo così più di danno che di protezione. La volpe azzurra, l’ermellino, la lepre delle Alpi ed altri infatti, non sono bianchi che d’inverno. Fra gli uccelli che presentano esempi di colori protettivi WaLacE cita la pernice alpestre (Lagopus), che nell’estate possiede un piumaggio colorito in modo così armonizzante con i sassi coperti di licheni, fra i quali essa si tiene di preferenza, che si può passare attraverso un branco di questi uccelli senza avve- i dersene: in inverno, al contrario, essa assume un mantello bianco che IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 271 la protegge afficacemeute. Altri uccelli come i parrocchetti, piccioni ecc. che vivono in foreste che non perdono mai le foglie, presentano un piu- maggio prevalentemente verde. i La medesima particolarità si riscontra in tanti altri animali: per es. le lucertole, le iguane e molti altri rettili, come serpenti, spesso sono colorati in verde come le foglie degli alberi sopra i quali essi vivono. La raganella comune, infatti, spesso la intendiamo gracidare vicino a noi, senza poter vedere dove si trova, tanto il suo colore armonizza con quello delle foglie. Molti insetti poi, come i moscerini che vivono sopra i fusti erbacei dei prati o le foglie, sono verdi come queste. Riguado all'ambiente acquatico ed al suo numeroso popolo, ricorderò che molti animali marini, quali pesci, molluschi, crostacei, che vivono in mezzo ad alghe fluttuanti come i sargassi, presentano una colorazione identica a queste. Gli animali invertebrati che vivono nel plancton ma- rino pelagico superficiale ed anche alcuni del limmnoplancton si presentano trasparenti, incolori, o con una trasparenza bluastra come quella del- l’acqua. Una colorazione che li fa confondere con il colore del fondo del mare sabbioso, roccioso o coperto di alghe, si riscontra negli animali marini del derthos, da animali infimi quali i celenterati ad animali su- periori quali i vertebrati. Un esempio di questi ultimi lo abbiamo in al- cuni pesci piatti come la sogliola, il rombo, il barbo: anche molti cefalo- podi presentano lo stesso fenomeno. Si potrebbe continuare indefinita- mente con esempi di questi colori protettivi. Questo fatto dell'armonia di colore fra gli animali ed il mezzo che essi abitano costituisce però un fatto poco specializzato, anzi molto ge- nerale. Però è facile dimostrare come da esso si passa per successive gradazioni a fatti specializzati in particolar modo. Seguendo infatti lo studio di questo argomento, si nota che la natura ha accordato agli ani- mali favori ancor più larghi: in molti di essi questa attitudine ad as- sumere un colore simile a quello dell’ambiente si presenta maggiormete evoluta e raffinata, inquantochè essa si localizza a speciali corpi organici che esistono in questo ambiente. È un caso di adattamento più spe- ciale. Possiamo infatti riscontrare tale fatto in un esempio dei più co- muni. La tigre che vive nelle giungle, per rendersi invisibile agli ani- mali che debbono fornirgli il pasto, si caccia fra i cespugli di erbe e di bambuse, ove le eleganti strisce verticali scure del suo pelame, armo- nizzando perfettamente con il colore dei fusti di queste piante, la na- scondono agli sguardi: anche il puma presenta un pelame di colore DZ. A. ARCANGELI bruno cenere molto simile a quello della scorza dei rami sopra i quali esso ha l’abitudine di acquattarsi a ventre steso per insidiare la preda. L’esempio della pernice alpestre, che nell’estate presenta un piumaggio del colore delle pietre coperte di licheni, torna appunto in questo caso e molti altri se ne possono citare. Del resto basterebbe soltanto osser- vare nel mondo degli insetti, dove troviamo gli esempi più belli di imi- tazione. Vi sono sotto i tropici migliaia d’insetti che il giorno si attaccano alla scorza di alberi morti: la maggior parte di essi sono macchiati di tinte grige o brune, che, per la varietà e simmetria con cui sono di- sposte, si confondono tanto facilmente con quelle della scorza, da ren- dere invisibile l’animale a 2 o 3 passi di distanza. Molte farfalle not- turne presentano nelle ali disegni e colorazioni, tali da farle confondere con il colore delle corteccie degli alberi sopra i quali riposano il giorno, o con quello dei licheni e muschi che ricoprono esse corteccie. Vi sono poi molti aracnidi, quali la Linyphia resupina, la L. marginata, molte specie di Platylopus ecc. che portano sopra il dorso disegni tali da imitare una fogliolina. E così tanti altri animali imitano colorazioni di speciali oggetti. Ma andiamo ancora più avanti, sempre per graduali passaggi. A molti animali la natura ha accordato il favore di imitare, non solo il colorito di certi dati oggetti sia organici sia inorganici, ma persino la forma, spesso complessiva, ma talora anche riprodotta fedelmente nei più minuti particolari. A tale perfezione è giunto mediante la selezione questo adattamento! Lo scopo di esso, cioè l’inganno, a questo punto è raggiunto completamente, essendochè il confondere l’animale con l’og- getto imitato è reso csoì ancor più facile. Gli ortotteri della famiglia delle Phasmidae sono tutti più o meno imitativi. Infatti il PhyMlium siccifolium delle Indie orientali, rassomiglia, sia per la nervatura e forma delle ali, sia per il colore ad una foglia secca. WALLACE cita un altro ortottero, il Cerorylus laceratus, il quale è coperto di escrescenze foliacee di colore verde oliva chiaro, in modo da avere l’aspetto di un fusticino coperto di un musco parassita o di un'/wr- germannia. Tale apparenza aveva ingannato persino il DAaracco che glie lo portò, il quale assicurava che quell’insetto era davvero coperto di muschi. Nella nostra fauna poi abbiamo un altro ortottero, il Bacil/us Rossti, che imita completamente, anche per certi suoi atteggiamenti, un fuscello secco. IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 273 L'esempio più rimarchevole ed evidente, riscontrato dal già nominato WarLace nei lepidotteri, di rassomiglianza protettiva sia nel colore, sia nella forma, è presentato dalla XaMlima inachis farfalla comune nelle Indie orientali. In questa la superficie inferiore delle ali, la sola che sia visibile allorchè l’animale si riposa (le ali essendo allora ravvicinate ed in contatto per le facce superiori), offre tutte le tinte diverse, dal grigio al bruno al rosso, che si trovano nelle foglie morte. La farfalla, per la conformazione stessa delle sue ali e per il modo con cui si posa sui ramoscelli, assume somiglianza meravigliosamente perfetta con una fo- glia attaccata ad un ramo, imitandone l'andamento delle nervature com- presa quella mediana. Esistono in oriente (WaLLAcE) dei piccoli coleotteri della famiglia dei Buprestidae, che si posano d’ordinario sopra la nervatura mediana delle foglie: essi rassomigliano così bene a frammenti di sterco di uccelli, che il naturalista stesso esita a prenderli. | Anche in alcuni pesci, come i lofobranchi, si trovano belle imitazioni con alghe. Ma quello che è più meraviglioso ancora, quello che farebbe certa- mente pensare al concorso della volontà nel conseguimento di tali mezzi di protezione, è che in taluni casi un animale imita fino all’inganno, e nel colore, e nella forma, un animale di specie, genere, famiglia e per- sino ordine differente; animale che presenta delle particolarità per le quali viene poco perseguitato dai nemici. Infatti in tutti gli animali imitati da altri si riscontrano sempre delle speciali protezioni, le quali li rendono pericolosi e quindi li preservano dall’attacco di altri. Queste protezioni possono essere svariatissime, consistendo ora in pungiglioni e denti veleniferi, ora in secrezioni velenose o di odore sgradevolissimo, ora in corazze dure e pungenti, le quali rivestendo il corpo costituiscono una valida difesa, altre volte in sapori spiacevoli. Ora gli animali che imitano quelli dotati di queste particolarità, ne risentono non poco vantaggio nella lotta per l’esistenza, inquantochè, assumendo aspetto di specie temute e pericolose, si salvaguardano sempre più dai nemici. Di tali imitazioni abbiamo esempi numerosi. Nell’America meridio- nale esistono certe farfalle del genere Heliconius, le quali, oltre posse- dere colori imitanti il loro habitat, producono una secrezione giallastra nauseabonda, la quale pare che le protegga delle insidie degli uccelli e delle lucertole. Ora, esistono pure certi leptalidi che, a scopo di pro- 274 A. ARCANGELI tezione imitano le prime sia nel colore che nella forma. Tali sono la Papilio hippocoon, P. cenea, Panopaea hirce ed altre. Molti coleotteri imi- tano coleotteri pericolosi per secrezioni fetide o per la potenza delle loro mandibole. Ma come ho detto tale fenomeno si osserva anche fra animali di or- dini diversi. Vi sono farfalle, come la Sesia bombyliformis, S. crabroni- formis, che imitano imenotteri armati di pungiglioni. L'ultima per es. imita la Vespa crabro. Alcuni coleotteri imitano vespi pungenti, come è il caso dell’Odontocera odyneroides che imita una vespa del genere 0dy- nerus: innocue mosche come certe volucelle, imitano pungenti imenotteri, e così si potrebbe dire di tanti altri. Persino nei vertebrati si hanno alcuni esempi, benchè in molto mi- nor numero di queste imitazioni. Fra i serpenti per es. il nostro innocuo ofidiano il Zropidonotus viperinus somiglia molto alla Vipera aspiîs tanto pericolosa. Secondo quanto asserisce WALLACE sì trova nell’America me- ridionale un gran numero di serpenti velenosi del genere Elaps, ornati di colori vivaci e disposti in una maniera affatto particolare. Nella stessa regione si trovano pure più generi di serpenti innocui, che non hanno alcuna affinità con i precedenti, ma che sono colorati proprio nella stessa maniera. Per es. 1’E/laps fulvus, serpente velenoso comune nel Guate- mala, presenta delle strisce nere semplici sopra un fondo rosso corallo: sempre nel Guatemala si trova il Pliocerus equalis che è colorato ugual- mente, ma affatto innocuo. E così di altri. Fra gli uccelli, sempre secondo WALLACE, si trova in Australia e nelle isole Molucche un genere di melifago chiamato Zropîidorkynehus, uccello forte battagliero a becco lungo appuntato e ricurvo, e ad ar- tigli potenti. Nei medesimi paesi esiste un gruppo di Oriolidi, formanti il genere Mimeta: questi uccelli deboli e pacifici rassomigliano così bene ai Tropidorhynchus, che i naturalisti stessi si sono lasciati ingannare da questa somiglianza. Infatti nel Voyage de l’ Astrolabe è designato e de- scritto come un melifago. Anche nei dintorni di Rio de Janeiro esisterebbe uno sparviero car- nivoro (Accipiter pileatus), che rassomiglia molto nel mantello ad uno sparviero insettivoro (Harpagus diodon). Questo caso è confermato dal fatto che l’Accipiter occupa una regione più estesa dell’ Harpagus, e, nei distretti nel quali questo non esiste cessa di rassomigliargli, essendogli allora inutile imitare la specie insettivora della quale gli uccelletti non hanno paura. IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 275 Quanto ai mammiferi, il solo vero esempio di imitazione di altra specie è quello del genere insettivoro Cladobates, che si trova nell’Arci- pelago Malese, e del quale qualche specie rassomiglia molto allo sco- iattolo, sia per la stessa grandezza e colore, sia per la coda ugualmente lunga e folta. Per questa rassomiglianza il Cladobates, essendo scambiato per lo scoiattolo frugivoro ed inoffensivo, può far più facilmente preda degli insetti ed uccelletti che costituiscono il suo nutrimento. Bisogna aggiungere che, oltre i colori di protezione già ricordati, altri ve ne sono pure posseduti dagli animali, i quali sono così vivaci e spiccano talmente sul colore dell'ambiente, da mettere molto in evi- denza l’animale che li porta, anzichè celarlo. Questi colori sono stati detti da alcuni premonitori, inquantochè, essendo portati da animali che posseggono delle particolarità per le quali riescono nocivi, mettono bene in guardia gli animali che vanno in cerca di preda e che facilmente li confonderebbero con altri, se non fossero subito avvisati da questi colori brillanti caratteristici. Si sa che le farfalle sono un alimento prelibato per certi uccelli, ma non tutte fra esse, e precisamente quelle che sono colorate brillantemente hanno al sapore un gusto spiacevole, per cui vengono rifiutate dagli uccelli. Lo stesso fatto si riscontra anche in molti bruchi di farfalle. Questi colori premonitori si sono sviluppati ancor essi per via di selezione, e costituiscono una gran difesa, perchè al bruco o alla farfalla non bastava avere come protezione un gusto spiacevole per gli uccelli, che, senza l'intervento di tali colori, confondendola con altre specie, sarebbero stati condotti spesso in errore e l’avrebbero ingerita per rigettarla magari dopo, ma evidentemente morta o danneggiata certo. Per ciò, per questi animali è di sommo vantaggio e interesse assumere livree spiccate, poichè con questo mezzo si mettono in evidenza, anche da lontano, a quegli animali che essendosi attentati una volta a gustarli, si guarderebbero bene di ritentare la prova. Per ben chiarire le idee che oggigiorno si hanno sopra questi colori e forme protettive, ricorderò che, al fatto per il quale gli animali pos- seggono un colore armonizzante con quello dell'ambiente, si dà il nome di omocromismo, riservando il nome di mimetismo di colorazione a quel modo di colorazione protettiva, in cui si ha imitazione del colore di speciali oggetti naturali, e quello di mimetismo di colorazione e di forma a quel modo, nel quale si ha imitazione non solo del colore, ma anche della forma. Tutto ciò è giustissimo, quantunque io credo potrebbero riunirsi sotto il nome generico di mimetismo anche i fatti di colori simili a quello 276 A. ARCANGELI dell'ambiente o di omocromismo, costituendo già essi il primo, ma pur grande passo, verso la meravigliosa e perfetta imitazione di altri, che sì riscontra in certi animali, nei quali è ottenuto completamente lo scopo di una valida protezione. Vi sono poi alcuni naturalisti che sotto il nome di mimetismo com- prendono esclusivamente i fatti di imitazione di una specie animale da parte di un’altra specie, riservando a tutti gli altri il nome di colori e forme protettive. Però dalla parola stessa mimetismo !), si capisce che dovrebbe essere impiegata per designare tutto ciò che è imitazione, e non casì particolari d’ imitazione. Tutti gli esempi di mimetismo ed omocromismo da me qui riportati, e che sino al principio del secolo scorso si credevano dovuti a strane ed incomprensibili combinazioni del caso, oppure alla volontà del Crea- - tore, non trovano spiegazione presso gli antitrasformisti, i quali si de- vono limitare, come ben dice MarHIAS DuvaL, ad ammirare la saggezza del Creatore, che ha saputo dare a ciascun essere un mantello che gli permetta di confondersi con gli oggetti circostanti, e per conseguenza di sottrarsi più facilmente ai suoi nemici. È inutile dire come questa am- mirazione sia sterilizzante per tutto ciò che è ricerca scientifica. È in- vece in particolar modo riservato alla teoria della selezione naturale una spiegazione molto semplice di questi fatti, che sono prodotti da cause pur semplici e relativamente conosciute. È cosa nota che sono frequentissime negli animali (e vegetali) leg- gere, ma pur talora accentuate variazioni di colore o di forma. Molte di esse scompaiono invero, ma molte anche persistono e si trasmettono di generazione in generazione. Immaginiamo, tanto per dare un’idea, che in un individuo qualunque si sia prodotto per qualunque causa esterna (e quindi anche per bisugno di protezione) un leggero cam- biamento nel colore, o nel colore e nella forma insieme; se questo cam- biamento proteggerà l’animale nella lotta per la vita per il suo colore armonizzante con quello dell’ambiente, o per la rassomiglianza con un altro animale dotato di qualche particolarità utile, e gli renderà più facile il sottrarsi ai nemici e l’assicurarsi la preda, non poco e manifesto van- taggio ne risentirà questo individuo, perchè, mediante questo utile cam- biamento, gli sarà più agevole il vivere, riprodursi e quindi conservare la sua specie. Questa variante perciò, ammenochè non cambino le condizioni 1) Da pynojo, imitatore o puieopa, imito. IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 277 di vita dell'animale e quindi i bisogni e l'utilità che da essa variante ri- sente, si trasmetterà di generazione in generazione, si completerà fino a dare in definitivo i caratteri propri ed esclusivi della specie. I mezzi di protezione, come ho detto, sono svariatissimi e numero- sissimi: gli animali che non presentano casi di mimetismo, studiandone la loro organizzazione e la loro vita, si riconosce che hanno a-loro di- sposizione altri mezzi di difesa e di attacco. Infatti molti fra essi, non solo non hanno il colore proprio dell'ambiente, ma hanno invece dei co- lori che risaltano. Ciò vuol dire che la selezione naturale non ha svi- luppato in essi questa particolarità del mimetismo, rimanendo riguardo ad essa indifferente, ed avrà operato invece riguardo ad altre funzioni. Si nota che gli animali, che presentano casi di vero mimetismo, posseggono scarsi o nessun mezzo di difesa, per cui l'imitazione per essi è la sola difesa contro i nemici numerosi, ai quali non possono sfuggire, sia per la rapidità, sia per l’agilità ecc. Non è mio compito in- trattenermi qui a discutere sopra le obbiezioni che si possono fare re- lative a questo argomento, ed a parlare dettagliatamente della cause che producono it mimetismo nel regno animale, cosa già stata fatta da eminenti zoologhi, riservandomi di fare ciò riguardo al mimetismo nel regno vegetale, sapra il quale ho rivolto i miei studi. CarLo DARWIN rimarcò questa relazione di colore esistente fra gli animali e l’ambiente, ma si occupò molto succintamente di questi fatti, non essendo del resto penetrato a fondo nel significato di essi. Secondo quanto riferisce Warrace, W. Bates, naturalista inglese, che fu il primo a studiare i casi di mimetismo e dimostrò che sono numerosi, dandone pure per il primo la spiegazione, propose di adottare il nome di mime- tismo. Siccome queste rassomiglianze, solamente nell’ apparenza e non nella struttura interna, rassomiglianze delle quali l’ unico scopo è di indurre gli occhi in errore, benchè non implichino il concorso della vo- lontà, pure hanno il medesimo resultato che un’imitazione volontaria, Egli impiega questa espressione mimetismo (mimicry in inglese) in un senso figurato. ALFRED RusseL WALLACE, pure un inglese, che fece numerose esplo- razioni nelle isole Malesi, e che ebbe l’occasione di constatare e di descri- vere dettagliatamente i fatti di mimetismo, fu lo scienziato che se ne occupò maggiormente e che dimostrò come tali fenomeni sono sottomessi a delle leggi, delle quali si può constatare la relazione con la legge generale della sopravvivenza dei più adatti, o della conservazione delie razze fa- vorite nella lotta per l’esistenza. 278 A. ARCANGELI Oggigiorno poi, moltissimi studiosi si sono rivolti allo studio di questi fatti, che, come ben dice WALLACE, getteranno senza dubbio una viva luce sulle leggi e le condizioni che hanno prodotto questa meravigliosa varietà di colori e di tinte, che costituisce uno dei caratteri più attraenti del regno animale, ma le cause immediate dei quali sono ancora difficili a spiegarsi. Credo che basti tutto quanto ho detto per dare un’idea abbastanza esatta del mimetismo nel regno animale, per cui senza indugio passerò a discutere più ampiamente questo argomento nel pure attraentissimo regno vegetale. La teoria del mimetismo nel regno vegetale certamente si può dire che non abbia avuto quella fortuna e quello sviluppo, che ebbe la stessa . riguardo al regno animale. Ciò è derivato dal fatto che tale adattamento: è stato per il primo osservato negli animali, sia perchè esso, se non è più frequente, almeno è più appariscente e più facile a studiarsi di quello che sia nei vegetali, sia perchè a questi ultimi non si attribuiva, ed ancor molti non attribuiscono, un potere differenziatore e proprietà tali da potere acquistare un adattamento, per conseguire il quale si cre- deva necessario l'intervento, quasi direi, della volontà. Le teorie di DARWIN e di tutti i seguaci del trasformismo, le quali certamente si adattano tanto agli animali che ai vegetali, hanno poi dimostrato facilmente che tale adattamento non è conseguito volonta- riamente, ma è l’effetto della selezione naturale, ed oggigiorno i fatti in parola vengono d’ordinario addotti in prova di questa. Sino dai tempi antichi i naturalisti, come erano stati colpiti dalla relazione di colore esistente fra gli animali ed il mezzo nel quale vi- vono, così dovettero osservare certe somiglianze che esistono pure nei vegetali e di cui non seppero dare spiegazione. Che ciò sia vero lo dimo- stra il fatto che molte delle piante designate dai primi botanici, hanno derivato il loro nome sia generico, sia specifico, da molte di queste so- miglianze. Lo stesso grande Linneo derivò i nomi di molte piante da somiglianze che gli presentavano esse, sia nell’abito generale, sia in par- ticolari organi, come ben lo dimostrano i seguenti nomi Trichosanthes anguina, Scorpiurus vermiculata ecc. Anzi dirò che nella sua grande opera Philosophia botanica, parlando dei signatores dice che essi: vères @ simi- litudine inter plantae partem et corporis partem laesam divinarumt: e vi . cita PARAcELSO, Osw. CroLL ed altri. Infatti il metodo di cura di molte IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 279 malattie, detto di Paracelso, era di servirsi di quelle piante che aves- sero una qualche somiglianza con la parte offesa del corpo. Con ciò, badiamo, non si creda che io voglia dire che Linneo abbia intraveduto casi di mimetismo, e che questi in tali casi realmente si abbiano, ma ho fatto solamente tale citazione allo scopo di far notare che si erano osservate e si volevano sfruttare certe somiglianze che apparivano nei vegetali, somiglianze, sia pure meramente casuali: ma certamente se la massima parte di esse sono risultate non dovute ad adattamento mi- metico, per lo meno non si deve escludere il fatto che sono state esse che, al comparire degli studi sui casi di mimetismo esistenti negli ani- mali, hanno fatto pensare ai botanici che tali fenomeni meravigliosi si potessero pure avverare nei vegetali. E così fu infatti. Il mimetismo nel regno vegetale deve allo sviluppo dello studio, che tale ordine di fatti aveva avuto nel regno animale, se gli studiosi si sono rivolti adesso. In verità non è molto facile il poter dire con sicurezza chi sia stato colui che per il primo ha intraveduto in queste somiglianze, non un mero fatto accidentale, ma un adattamento particolare vantaggioso alla pianta, come pure chi sia stato a dettare le leggi del mimetismo per i vegetali; e perciò credo di non errare dicendo che i botanici si sono dati allo studio di questo fatto biologico, senza prima enunciare in modo preciso e con- creto che cosa si deve intendere per vero mimetismo, e quali casi quindi si sarebbero dovuti includere sotto questa denominazione. Ciò forse de- rivò dal fatto che tali leggi erano state enunciate ed accolte per il mi- metismo animale, e si credette di poterle applicare tal quali al regno vegetale, quando fenomeni simili si riscontrarono esistere nelle piante. Ora, benchè questo adattamento sia in fin dei conti lo stesso per ambedue i regni, pur tuttavia le leggi che regolano il mimetismo negli animali, non possono corrispondere del tutto e quindi invocarsi per il mimetismo nei vegetali. È inutile dire che questa mancanza ha portato a gravi errori, ed anche oggi non mancano coloro che includono sotto il nome di mimetici dei fatti che realmente non sono da considerarsi come tali: la causa di ciò consiste nel non possedere essi un concetto, veramente esatto, di che cosa si deve intendere per fatto mimetico. Lo scopo appunto principale di questo mio lavoro è di provvedere, per quarto mi è possibile, a questo inconveniente che ha condotto e conduce molti studiosi, che si occupano di tali fatti, fuori del campo nel quale essi rientrano. A tale uopo è mio dovere anzitutto precisare il IBS A. ARCANGELI concetto vero ed assoluto della parola mimetismo vegetale, quindi pas- sare in rivista i diversi casi di tale adattamento osservati dai biologi. Per mimetismo si deve intendere quel meraviglioso e particolare adattamento, che acquista per via elettiva una pianta, e per il quale essa assume, sia nell’abito generale, sia in particolari suoi organi, una somiglianza più o meno fedele con la forma, il colore ed altre proprietà fisiche sia di un’altra pianta, sia di organi di un’altra pianta, sia infine di animali o parti di animali, sia infine di corpi inorganici. Questa somiglianza è sempre rivolta a scopo ingannativo, e l’oggetto dell'inganno è sempre l’animale che contrae così numerosi rapporti bio- logici con il vegetale. Vi è dunque in questo adattamento una vera e propria funzione ingannativa a scopo di vantaggio non lieve per la pianta, la quale con tal mezzo provvede direttamente od indirettamente - alla sua conservazione. Ripeto che non è facile il potere asserire con sicurezza chi sia stato il primo che, trovandosi di fronte a somiglianze protettive, ne ha in- traveduto il significato e quindi come tali le ha descritte. Per quanto ho potuto rilevare dalle mie ricerche, sembra che Hermann MtLLER sia quello che per il primo ha descritto dei casi di mimetismo esistenti nei vegetali, avendo intraveduto quale funzione importante compisse nella loro vita tale adattamento. Tutti coloro che Io hanno preceduto hanno vagato nell’incertezza e non hanno asserito niente di vero e di con- creto, quantunque avessero nella mente qualche idea incompleta che tali somiglianze dovessero servire a qualche cosa, e non fossero mera- mente casuali. SPRENGEL, famoso biologo del secolo decimottavo, nei suoi grandi studi rivolti alla fecondazione nelle piante, si trovò davanti a diversi casi di mimetismo, che non indovinò e non seppe spiegare come tali. Appunto riguardo alla Parnassia palustris, nella qual pianta fu ricono- sciuto presentarsi un fiore mimetico per gli insetti da H. MÙLLER, SPRENGEL confessa che il significato dei cinque apparecchi nettariferi, che alter- nando con gli stami circondano il pistillo, e la cui struttura è affatto originale ed unica, gli presenta le più grandi difficoltà. Ma su ciò ri- torneremo in seguito. Basterà qui l’averlo accennato. Anche CarLo DARWIN, nonostante le sue belle ricerche sulla struttura fiorale e sulla fecondazione nelle orchidee da parte degli insetti, mì ri- sulta che non ha pensato alla funzione che compiono certe somiglianze, le quali si presentano in particolar modo nella famiglia soprannominata. IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 281 Posso dire, senza tema di errare, che anche riguardo alle relazioni fra il colore degli animali e quelle dell’ambiente, Egli si sia occupato molto succintamente di ciò; perchè, per quanto Egli ammetta che certe tinte sono vantaggiose ad uccelli ed insetti per preservarli dai pericoli, e quindi avesse un’idea lontana dello scopo di queste somiglianze pro- tettive, tuttavia non si può affatto dire che con ciò volesse parlare di quello che s'intende per mimetismo. Riguardo poi al regno vegetale Egli non fa, per quanto ho potuto investigare, accenno a somiglianze e colori protettivi. Ma il principio sopra il quale DARWIN insiste con tanta forza, e che è in effetto una deduzione necessaria della selezione natu- rale e cioè, che nessuno dei fatti positivi della natura organizzata può esistere senza essere od essere stato una volta utile agli individui od alle razze che ne sono provvisti, doveva dare la chiave di più fenomeni rimasti nell'oscurità, e per conseguenza anche dei fenomeni d’imitazione protettiva. Così infatti fu. Come WacLace si servì appunto di tale principio a base dei suoi splendidi studi sui colori e forme protettive nel regno animale, così MtLLER si servì dello stesso principio, alquanto modificato, che lo guidò nelle sue importanti ricerche sulla dicogamia vegetale, a scoprire nume- rosi casi di mimetismo che più tardi rammenterò. Fra i diversi scienziati che precedettero MùLLeR nello studio dei fatti in parola, risulta dalle mie ricerche occupare il primo posto B. SEEMANN, il quale, sebbene non avesse idee esatte e giuste del tutto, pure per l’imperfezione in cui al suo tempo erano gli studi del mimetismo nei vegetali, si rileva dai suoi scritti che egli aveva intraveduto molto di vero e buono, e che, egli voleva precisare i fatti da designarsi come rcalmente mimetici e distinguerli dalle somiglianze dovute a tutt’ altro adattamento che quello mimetico. Secondo quanto Egli riferisce, ai suoi tempi s intendeva per mimetismo il fatto per il quale certe sembianze di una specie riappariscono in un’altra, senza che vi sia affinità fra di loro. Appunto in una nota dedicata a tale argomento Egli riporta varie somiglianze sia nel fusto, sia nelle foglie, sia nei frutti ecc. che si presentano fra piante di diversa specie. (Vedi Journ. of -Botany, volume VI, 1868 pagina 182). Egli insiste principalmente sulla pre- dominanza, che Egli ha notato sulle sponde dei fiumi delle forme delle foglie simili a quelle dei salci, ed anzi a pagina 213 dello stesso giornale Egli dice che le poche osservazioni sul così detto mi- 282 A. ARCANGELI metismo nella natura, che Egli introdusse nella sua nuova opera sul- l'America centrale, particolarmente si riferiscono a tale predominanza di forme. Le somiglianze, a cui fa cenno, sono per la maggior parte estranee affatto al mimetismo: quanto a questa forma di salcio, che si presenta in generale nelle foglie delle piante che vivono sulle sponde dei fiumi, O. BeccaARI in una nota riguardo ad un caso di mimetismo da lui os- servato nella Bellevalia Webbiana, fa giustamente osservare che Egli ha notato questo medesimo fatto nei fiumi e torrenti rapidi di Borneo, ove ha trovato piante appartenenti a famiglie le più disparate, come Clu- siacee, Zingiberacee, Orchidee, Arcidee, Rubiacee ecc., avere foglie unifor- memente lineari o lanceolato-lineari; ma che Egli crede che questo sia, non un caso di mimetismo, ma piuttosto una conseguenza della stazione, essendochè sono solo le foglie molto strette e flessibili che possono re-- sistere, cedendo, all’impeto delle piene improvvise. Queste osservazioni sono giustissime, ma bisogna anche riconoscere che lo stesso SEEMANN non vuole considerare tali fatti come mimetici, e ciò si può rilevare da quanto Egli dice a pag. 213 del giornale sopra ricordato. Infatti così Egli si esprime: Riguardo al termine mimetismo bisognerebbe intendersi con chiarezza. Esso è fin qui affatto discutibile e, tanto impiegato nella zoologia che nella botanica, la questione è pregiudi- cata: infatti sì ammette: 1.° che gli organismi hanno il potere d’ imitare altri organismi; 2.° che essi sono stati în relazione con quelli che si sup- pone che imitino. Impiegando il termine esterno rassomiglianza, invece di mimetismo, siamo sopra un fondamento neutrale ed indiscutibile. SEEMANN dunque capiva che queste somiglianze erano soggetto di discussione ampia e complicata, che non poteva includere le stesse sotto la parola mimetismo, perchè non aveva ragioni ed argomenti, nè pro, - nè contro tale ipotesi, e che con l’impiegare il termine esterna somà- glianza, non incorreva in nessun errore e ne scongiurava molti. Quindi un concetto se non esatto e completo, ma almeno approssimativo di ciò che si deve considerare come fatto mimetico, Egli lo aveva, altrimenti non avrebbe evitato di cadere in errore con il fare uso di tale termine. Piuttosto dirò che Egli non è voluto andare a fondo nella. questione, e si è contentato di richiamare l’attenzione dei botanici sui fatti a cui fa cenno. Con molto ‘spirito SEEMANN rammenta molte somiglianze, che hanno condotto ad errori gravissimi alcuni botanici ed anzi botanici specialisti, somiglianze delle quali non è improbabile che qualcuna, studiata nei suoi IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 283 rapporti biologici con gli animali, si riconosca dovuta ad adattamento mimetico. Sotto l’espressione però di mimetismo, come s’intendeva al tempo di SEEMANN, si comprendevano i fatti d’imitazione di una specie vegetale per parte di un’altra specie vegetale; e ciò perchè, anche per quanto riguarda il regno animale, i più dei naturalisti riservavano la solita espressione a fatti d’imitazione di una specie animale per parte di un’altra speciale animale. Oggigiorno conviene assegnare alla parola mimetismo un significato alquanto diverso e più esatto. La conclusione, cui giunge il naturalista inglese, si è che, non avendo Egli una teoria da proporre su tale argomento, il termine esterna somi- glianza si deve applicare ugualmente tanto al regno animale che al ve- getale, e che non si debbono considerare le somiglianze, cui Egli ha fatto cenno, come puramente accidentali, finchè ciò non sia provato. Dopo SEEMANN merita di essere ricordato il nome di un illustre bo- tanico italiano, quale è il dott. OpoarRDo BECCARI; e se non posso tro- varmi d’accordo con questi riguardo a tutte le sue vedute, bisogna che io gli riconosca il merito non piccolo di essere stato, posso dire, il primo fra i botanici italiani che ha richiamato l’attenzione dei colleghi sopra i fatti in questione. Infatti mi risulta che a pag. 158 del volume primo (1896) del Nuovo giornale botanico italiano, il BEccARI adduce un fatto di mime- tismo che, secondo il suo parere, si riscontrerebbe nella Bellevalia Web- biana. Questa pianta appartenente alla famiglia delle Liliacee fu descritta dal prof. PARLATORE il quale la trovò con sicurezza in Toscana: dal fatto che poi si è andata scoprendo in alcune altre località, Egli deduce che si riscontri in molte altre parti d’Italia, perchè è una specie che si confonde facilmente con il Muscarì comosum, altra Liliacea, della quale ha interamente l’aspetto generale. Da ciò l'Autore arguisce che si abbia nella Bellevalia un vero caso di mascheramento delle forme o di mi- metismo. Ho potuto riscontrare anche io questa grande rassomiglianza, ma essa, secondo il mio modo di vedere, è dovuta a niente altro che al- l’appartenere la Bellevalia Webbiana ad un genere vicinissimo al Mu- scariì comosum, benchè ne differisca per certi caratteri che indussero il PARLATORE a separarla da questo ultimo. Non posso poi credere che questa rassomiglianza abbia per scopo di favorire la fecondazione della Bellevalia con gli insetti che frequentano il Muscari, perchè nessuna ragione sufficiente sussiste, e nessun valido esperimento ha potuto pro- Sc. Nat. Vol. XIX 19 284 A. ARCANGELI vare la verità di tale ipotesi; e posso poi aggiungere che non vi è al- cun motivo di pensare che l’adattamento mimetico si sia sviluppato da parte della Bellevalia piuttosto che da parte del Muscari, A parer mio, non si deve vedere nella somiglianza, che spesso si riscontra fra piante appartenenti a generi molto prossimi fra di loro, come è nel caso in parola, un fatto di mimetismo, perchè anche qua- lora si constati in una delle due piante che si somigliano, l'avere una di esse acquistato a causa di tale somiglianza un vantaggio, non si può asserire che questa somiglianza si sia sviluppata nella pianta allo scopo di ottenere tale vantaggio. Piuttosto siamo più inclinati a credere che la somiglianza derivi dall’ appartenere le due piante a due generi molto vicini, i quali hanno a comune molti caratteri: e che anche, per l’accre- scimento effettuatosi in simili condizioni di vita e per altre cause, ne - possa essere derivata tale corrispondenza esteriore. Il vantaggio che po-' trebbe avere l’una pianta acquistato, sarebbe quindi casuale e non col- legato alla presenza dell'adattamento mimetico. Se si accetta come caso mimetico la somiglianza esistente fra la Bellevalia ed il Muscari, tanti e tanti altri se ne potrebbero citare esistenti fra specie affini, ma che non si debbono in verun modo con- siderare in quel senso, le somiglianze essendo in gran parte dovute al- l’appartenere le due piante alla stessa stirpe. Ed eccoci ora ad HeRMaNnN MuLLER. Questi, contemporaneo di SEE- MANN, non prese in considerazione i colori e le forme imitative che molto più tardi, almeno da quanto ho potuto rintracciare. Infatti in un discorso del 1869, sull’applicazione della teoria darwiniana ai fiori ed agli insetti visitatori dei fiori, nel quale, il mimetismo doveva entrare in giuoco, Egli non ne fa cenno affatto, riconoscendo solo nei fiori entomofili la proprietà di attirare e con gli odori, e con i colori, i pronubi. Fu nel 1877 e negli anni successivi ch’ Egli espose parecchi casi mimetici per- sonalmente osservati, ma al solito, pur considerandoli nel loro vero signi- ficato, non si occupò di formulare nessuna teoria, come fondamento delle sue osservazioni. Io non ho potuto consultare il giornale Kosmos, nel quale sono stati riportati i lavori originali di MULLER, e mi son dovuto limitare a quello che riporta KnurH riguardo ai casi di mimetismo scoperti dal primo. Sono esempi di tale adattamento manifestissimi, ed ormai come tali considerati dai più: non sarà inutile quindi che io mi trattenga su di essì, IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 285 Per primo viene segnalato dall’ Autore quello che si presenta nel- l’Ophrys muscifera. Questa pianticella appartenente alla famiglia delle Orchidee, nelle quali come verrò dimostrando in seguito si hanno nu- merosi esempi di mimetismo, presenta un fiore ingannevole per le mo- sche. È evidente che Hupson, il quale assegnò a questa pianta tale nome, fu indotto a scegliere il nome specifico dalla somiglianza che si pre- senta nell’aspetto del suo fiore con un insetto. Giova ricordare che in questo fiore si ha un labello tribolo, che cam- peggia penzolone in sul davanti, a color bruno porpora vellutato, con una macchia gialla azzurrognola media, quasi quadrata, glabra. Secondo MuLLER questa macchia per il suo colore, che fa sensazione come qualche cosa di materia in putrefazione, richiamerebbe gli insetti avidi di so- stanze putride. Oltre ciò, in certe condizioni una striscia mediana del labello, che racchiude in sè la macchia giallo-azzurra, si copre di nu- merose gocce, sulle quali l’autore vide posarsi una mosca carnaria del genere Sarcophaga. Queste gocce manifestamente non sono affatto pro- duzioni nettarifere, come l’esperienza ha dimostrato, ma semplici gocce di acqua, la cui produzione non si può attribuire che ad una funzione mimetica. Ma vi è ancora di più. Alla base del labello .esistono due gobbe nere lucenti, che, per l'apparenza che hanno di due gocce liquide, MuLLER considerò come falsi nettarii. Esse avrebbero sempre lo scopo di attirare gli insetti per agevolare la fecondazione incrociata, alla quale la pianta non potrebbe certo provvedere efficacemente in altro modo, non avendosi nel fiore produzione di nettare, il quale è tanto ricercato dagli insetti stessi. La spiegazione infatti che l'Autore dà del modo con cui si effettua l’incrociamento, confermerebbe l’ipotesi del mimetismo. Mentre l’insetto si avvicina ad uno di questi falsi nettarii, si imbatte con la testa nel rostello che sporge, una clava pollinica si attacca ad essa e quando egli corre ad un altro fiore, attratto sempre dall’ apparenza ingannevole delle gocce, la clava pollinica in basso viene a battere contro lo stimma, e così ha luogo la fecondazione. Un adattamento mimetico dello stesso genere fu osservato pure da MuLLER nel fiore della Paris quadrifolia, pianta appartenente alle Aspa- ragacee, a conferma maggiore dei fatti in parola. Si noti prima di tutto che il fiore al solito non presenta nettare da potere offrire agli insetti. Nonostante, il mimetismo che si manifesta nel- l’ovario sembra attiri certi ditteri: questo ovario splende in mezzo al fiore per il suo colore porpora scuro, coronato da quattro stimmi di 286 A. ARCANGELI egual colore, come se fosse coperto di liquido, particolarità che, unita all’ odore ripugnante, serve ad attirare le mosche avide di sostanze in putrefazione, le quali credono di trovarsi in presenza del loro cibo pre- diletto. MùLLER infatti ha potuto sorprendere spesso una piccola mosca (Ceratopogon?) ed alcuni muscidi (Scatophaga merdaria), che volavano al fiore e si trattenevano sugli stami e di preferenza sull’ovario. Molte particolarità poi della struttura del fiore e che io per brevità ometterò, concorrono insieme all’adattamento mimetico ad assicurare la fecondazione incrociata mediante la visita degli insetti. Non dovrei qui riportare un altro esempio di mimetismo che MULLER fa rilevare nella sua opera Alpen Blumen del 1881, dovendo per seguire l’ordine cronologico, citare altre sue osservazioni anteriori a questa epoca: purtuttavia lo riporto, essendo esso dello stesso genere dei già rammen- - tati, e come tale da riunirsi con gli stessi. Esso si presenta nel fiore della Parnassia palustris, pianta apparte- nente alle Saxifragacee. Non sarà inutile ricordare che in questo fiore la corolla è composta di 5 petali patenti, più lunghi del calice, ovati, ottusi, concavi; contrapposte alla loro base stanno altrettante squame petaloidi, concave, stipitate, frastagliate in molte lacinie tubulate, digi- tiformi, ghiandolifere (apparentemente) all’ apice (staminodi). Orbene, queste cinque squame petaloidi, che alternano con gli stami e circon- dano il pistillo, appaiono a prima vista come cinque apparecchi netta- riferi, ed infatti come tali furono ritenuti per alcun tempo. Dissi già che SPRENGEL avendo osservato questo fiore non potè spie- gare tale struttura: si deve ad H. MùLLER dunque l'avere intraveduto in tale fatto un caso di mimetismo, avente lo scopo sempre di attirare gli insetti ed agevolare quindi la fecondazione incrociata. I globuli gialli che terminano l’ estremità degli staminodi, dice MùLLER, simulano tal- mente goccioline liquide, che occorre l’esperienza per persuadersi che non sî ha da fare con goccioline, ma con corpiciattoli solidi. Queste false goc- cioline di miele che terminano l’estremità delle ciglia degli staminodi, sono circa una cinquantina e servono a simulare del nettare. Ora, nel fiore della Parnassia non esiste che poco nettare, per cui se esso non possedesse questo mezzo di richiamo, non potrebbe essere agevolato dalla visita degli insetti nella fecondazione. Il non potere produrre abbastanza nettare da poter fare concorrenza a quella quantità che altri fiori pos- sono offrire agli insetti, deve avere sviluppato nella Parnassia l adat-. tamento mimetico, per ingannare gli stessi e con tal mezzo sopperire. IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 287 Da quanto dice Knura sembra che i principali visitatori di questo fiore siano insetti stupidi, cioè muscidi, perchè quelli accorti non si lascereb- bero ingannare così ripetutamente: ciò sarebbe stato confermato da H. MùLLER figlio, il quale vide un insetto, 1’ Eristalîs nemorum, che cercava di leccare le presunte goccioline nettarifere. L'esame microsco- pico, bisogna aggiungere, dimostra poi non aversi alcuna produzione ghiandolare mellifera: perciò a quale altra funzione si devono ritenere devolute la forma ed il colore di questi speciali apparecchi, se non a quella già enunciata? To stesso sono convinto di tutto ciò che l’ Autore asserisce, ma più che altro a dimostrare la verità di tali asserzioni basta il fatto che da tanti anni che sono esposte alla critica dei biologi, nessuno, per quello che mi risulta, ha potuto portare delle valide obiezioni o dare un’altra spiegazione di così curiosa struttura. Ma le osservazioni di quell’ingegno elevato che era MULLER, non si limitarono a questo solo. Egli vide una corrispondenza sommamente meravigliosa tra i colori dei fiori psichefili e la colorazione delle far- falle che li frequentano, nelle quali pare che il senso dei colori sia molto sviluppato; come pure notò la sorprendente somiglianza. che presenta l’odore delle farfalle e dei fiori da esse fecondati. L'Autore non vuole attribuire all’accidentalità il fatto per cui le farfalle diurne, che nelle Alpi si presentano come più frequenti visitatrici dei fiori, e che per lo più sono colorate in rosso vivace (molte Argynnis e Melitaca, molti Polyommatus e Vanessa), frequentano con assoluta preferenza i fiori vi- vacemente colorati in rosso. Infatti Egli stesso notò che i fiori del Lilium bulbiferum sono ricercati esclusivamente da specie color rossofuoco, quali Argynnis Aglaia, Polyommatus Virgaureae e P. hippothoé var. eurybia, e così di frequente che spesso più di esse al tempo stesso si posavano sullo stesso fiore, e per essere dello stesso colore si rendevano invisibili, quindi sommamente protette da tale adattamento. Anche le Composte a fiori color arancio, dice MULLER, Crepis aurea, Hieracium aurantiacum, Senecio abrotanifolius, sono nelle giornate splendide una vera palestra delle psiche rossofuoco già sopra nominate. Pure sui frutti di Rumex di color rosso vivace, Egli vide spesso volare dei Polyommatus e 1 Ar- gynnis paphia, e osservò pure che gli azzurri capolini di Phyteuma alpina erano di preferenza visitali da farfalle azzurre. A quale dei due organismi, all'animale od al vegetale si deve attri- buire l’adattamento protettivo? A prima vista sembrerebbe con tutta 288 A. ARCANGELI probabilità di doversi attribuire alla farfalla, ma, ripensandoci bene, si viene alla conclusione cui è giunto MuLLER. Costui infatti pare inclinato a credere che tale corrispondenza di colori sia derivata da una scelta fiorale operata da parte delle farfalle, scelta che è stata determinata dalla preferenza stessa che le psiche hanno per certi colori, la quale prefe- renza si preannunzia nel particolare abito ornamentale da esse prodotto per elezione generativa. Ma certamente tale scelta fiorale non può non aver determinato un’ influenza sopra il colore del fiore psichefilo, il quale, ricavando vantaggio dalla visita dell'insetto, avrà avuto interesse a mo- dificare il suo colore, in modo da renderlo il più che gli fosse possibile uniforme a quello dell’ ospite. Siamo nel caso di un reciproco adatta- mento, cioè di un adattamento che si è andato sviluppando da parte di tutti e due gli organismi, e questa cosa ha fatto sì che tale adatta- mento si sia andato completando più facilmente di quello che sarebbe accaduto se si fosse sviluppato in uno solo di essi. Da quanto riferisce KnutA, dal quale ho attinto tutti questi studii di MuLLER, che non ho potuto consultare sull’originale, ma che mi ri- sultano chiaramente esposti dal relatore, anche E. K6HNE *), che si è oc- cupato del mimetismo, e del quale non so a quale epoca rimontino le osservazioni, avrebbe spiegato in simile maniera questa corrispondenza di colori. Egli osservò non lungi da Wangerin in Pomerania, che sui pallidi capolini del Cavolo cardo (Cirsium oleraceum) si posavano di preferenza maschi e femmine della farfalla cedrina (Rhodocera Rhamni). La superficie inferiore delle ali di questo lepidottero, la sola che sia visibile altorchè l’animale si riposa, specialmente nelle femmine più bian- che, presenta un tono di colore che corrisponde così bene con quello del capolino della detta pianta e delle brattee che lo circondano, che non si può apprezzare la più piccola differenza con l’esame più accurato. Ma qui si ha anche qualche cosa di più della imitazione del colore, poichè le brattee, che in parte oltrepassano l’infiorescenza, somigliano per la forma ed anche per le nervazioni le ali delle farfalle posate. Tale somi- glianza di colore e di forma faceva sì che KòHNE, anche a piccole di- stanze, alla viva luce del sole, non poteva dire se sopra una.di tali infio- rescenze si trovava posata una farfalla, e la riconosceva solo quando al suo appressarsi volava via. La farfalla cedrina per tale somiglianza è straordinariamente difesa dai suoi nemici, quando è posata sui capolini 1) Verh. d. bot. V. d. Pr. Brandenburg. Bd. 28, $. VI, VII. IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 2:89 giallicci, quindi nei luoghi dove cresce il C. oleraceum essa si conserva e dà luogo a numerosa prole: la pianta dal canto suo non poco van- taggio deriverà da tale somiglianza, perchè offrendo alla farfalla un asilo sicuro, provvede, mediante le numerose visite dell'insetto, alla feconda- zione e maturazione dei suoi semi, e per tal modo anche essa si molti- plica e si conserva. Anche qui dunque si ha un reciproco adattamento. Per parte della pianta poi sarebbe maggiore, inquantochè, come ho detto poco avanti, le brattee somigliano le ali delle farfalle cedrine anche per la nervatura. Che tale fatto sia dovuto al caso mi pare impossibile, e vi deve essere una ragione della sua esistenza. La nervatura delle foglie delle brattee in generale rassomiglia a quella delle trachee delle ali delle farfalle sia pure, ma io sarei di opinione che in questo caso tale con- formazione si è andata accentuando appunto allo scopo mimetico. Da prima probabilmente le brattee, che in generale tendono a prendere un colore più pallido delle foglie, compivano una funzione vessillare; per il fatto poi che questa richiamava le farfalle, si saranno andati modi- ficando, il colore e la forma di esse brattee, in modo da uniformarsi al colore ed alla forma delle ali delle farfalle, dalla visita delle quali la pianta risentiva vantaggio. Si tratterebbe, in fin dei conti, di una modificazione leggera, per la quale non è stata messa in giuoco una grande quantità di forza differenziatrice. Bisogna aggiungere che la far- falla possiede molti altri mezzi di difesa, quali il volo oscillante, il co- lore stesso, che pare serva a mettere in guardia gli uccelli insettivori (risultando da esperienze che le farfalle colorate più brillantemente sono quelle che più ripugnano agli uccelli) ecc.; mentre la pianta per le sue stesse condizioni, si deve quasi esclusivamente affidare all’ opera degli insetti per provvedere alla sua fecondazione e conservazione, ed a tale scopo ha interesse a produrre nei suoi fiori, non solo colori smaglianti e quindi tali da attirare i pronubi, ma anche colori e conformazioni speciali, che offrano a questi un sicuro riparo dalle insidie dei loro nemici. Non sarà inutile che qui io aggiunga un’ osservazione di KxnuTH il relatore. Egli dice di avere osservato una sorprendente relazione di co- lore pure tra i fiori della Primula acaulis ed il colore delle farfalle ce- drine stesse, le quali sono i più assidui visitatori e ricercatori dei fiori di tale pianta. Per tale caso valgono le spiegazioni che poco sopra ho esposte riguardo a casi consimili. Ma passiamo ancora avanti. 290 A. ARCANGELI Dopo MùLLER merita di esser per primo ricordato S. Le Moore, na- turalista inglese, il quale si è occupato del mimetismo dei semi e dei frutti, e delle funzioni delle loro appendici seminali, come risulta da una nota preliminare dedicata a tale argomento, la quale porta la data del 1879, ed è perciò quasi contemporanea alle osservazioni del prece- dente autore. Bisogna premettere che l’adattamento mimetico si presenta in sommo grado sviluppato nei semi, per i quali, essendo devoluti alla riprodu- zione e diffusione della pianta, e d’altra parte avendo un’infinita schiera di nemici, si capisce bene di quanta necessità ed utilità sia stato l’as- sumere speciali sembianze, allo scopo di adempiere nel miglior modo possibile all’ufficio che la pianta produttrice ha loro affidato. Ben a ra- gione quindi Le Moore, nella nota della quale io faccio la relazione, dice che la sorprendente differenza in dimensioni, forma, colori, caratteri ecc. dei semi, fanno certamente sospettare che la selezione naturale abbia avuto qualche influenza nel modellare la loro storia. L'Autore fa un’accu- rata dimostrazione del modo con il quale i semi possono corrispondere ai doveri loro affidati: perciò, prima di toccare la questione del mime- tismo, Egli considera i diversi mezzi di protezione, i quali sono di più sorta. A tale uopo fa Egli osservare che il festa, oltre ad essere suffi- ciente a proteggere il seme contro i puri agenti fisici, può talvolta per la sua spessezza essere di gran servizio alla protezione del seme, come anche il pericarpo del frutto, durante il passaggio attraverso il canale digerente degli uccelli, come pure le sculture di esso sembrano essere utili a diminuire i danni dei piccoli insetti. Altre particolarità, quali la rapida germinazione, la piccolezza che, al contrario della grossezza rende i semi adatti a sfuggire, 1’ acredine già da lungo tempo riconosciuta come una condizione di selezione, la secrezione di olii volatili dal festa, i rivestimenti pelosi e le tante e svariate appendici prodotte dall’epidermide, il colore eguale a quello del terreno, sono tutti mezzi di difesa, quali più, quali meno efficaci: l'imitazione poi di animali o di altri oggetti ne rappresenta il tipo più raffinato e più evoluto. i Molti sono gli esempi mimetici citati da Le MooRE e con ogni pro- babilità veri. Fra le Poligalacee infatti, oltre il vasto genere Polygala con semi elegantemente strofiolati e coleotteroidi, Egli cita il genere Bre- demeyera. In questo il seme presenta uno strofiolo ridotto, dal quale sì dipartono, in numero, dei peli morbidi e lunghi con tendenza a dispo- IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 291 x sizione bilaterale; oltre a ciò il seme è stretto, e, per essere fiancheg- giato da questi curiosi peli, presenta in modo sorprendente l'apparenza di un dittero. Nelle famiglie delle Leguminose pure si hanno molte specie che pro- ducono semi e frutti, nei quali l’imitazione d’insetti è manifesta. Infatti i semi dell’Abrus precatorius, quelli di molte specie di Lupinus somi- gliano il corpo di ragni: nel genere lZedicago, una o due specie pro- ducono legumi che rassomigliano fino ad un certo punto l’invoglio lar- vale delle Mantis, e altri di altre somigliano conchiglie od altri animali. Viene rammentata da Le Moore pure una specie di Scorpiurus, lo Scor- piurus vermiculata, i legumi della quale presentano un adattamento pro- tettivo speciale. Questi legumi sono curiosissimi e conformati in modo tale che, giacendo sul terreno, offrono a chi li osservi l’aspetto di un verme. Tale apparenza si riscontra anche in altre Hippocrepidee. Nelle Cucurbitacee si avrebbe il genere Dimorphochkhlamys con semi curiosi si- mili a verghette: nelle Turneracee e Passifloree i semi sono trasversal- mente solcati, in modo da somigliare, fino ad un certo punto, anima- letti articolati. Sempre seguendo quanto riporta Le MoorE, questi sarebbe di opi- nione che si abbia una funzione entomomimetica anche nei frutti della Magydaris tomentosa: come pure quelli di altre Ombrellifere, con i loro stili persistenti, probabilmente compiono la stessa funzione. Ma non basta. I semi caratteristici delle Sapotacee rassomigliano alquanto a conchiglie, quelli della Martyria diandra, nei quali le due grandi appendici ricurve agiscono certo come uncini per attaccarsi al vello degli animali, rassomigliano uno scarabeo o scarafaggio a lunghe antenne. Nell’ Antirrhinum poi le sue curiose cassule somigliano ad un insetto, e, ad aumentare la somiglianza, i pori di deiscenza rappresentano gli occhì e lo stilo persistente l’appendice della testa. Anche i semi del- l’ Ischnosiphon delle Cannacee, con la loro ascella elegantemente crenata, ed i frutti coleotteroidi di molte specie di Scleria e di Rutacee molto probabilmente hanno una funzione entomomimetica. Questa funzione si presenta per eccellenza nella famiglia delle Euforbiacee, molte delle quali producono semi imitanti insetti. I semi di molti generi di questa fami- glia sono caruncolati, cioè forniti dell’appendice caratteristica del seme detta caruncola e che è produzione della placenta. Il possedere questa caruncola fa sì che taluni, come quelli del genere 7ragia ed Argyro- thamnia somigliano ragni. Altri invece somigliano in modo sorprendente 299, A. ARCANGELI coleotteri: in essi infatti si ha una linea mediana, la linea del rafe, che rappresenta lo spazio interposto fra le elitre, ed alla parte anteriore del seme la caruncola persistente, che rappresenta la testa ed il torace dell’in- setto: si aggiunga poi che il seme è quasi sempre macchiato o simme- tricamente listato sopra un fondo più pallido, ad accrescere la somi- glianza con 'i varii colori caratteristici del rivestimento esterno degli insetti. Le Moore cita fra i più manifestamente mimetici i semi di fici nus, Jatropha, Croton, Baliospermum, Stipellaria e specialmente Manthot. Dei semi delle diverse specie di questo ultimo genere Egli fa una ‘descrizione, allo scopo di mostrare la seminale differenza presentata dalle specie stesse, delle quali alcune producono semi che rassomigliano molto a scarabei della tribù Calligraphidae. Basterà l’avere accennato al mi- metismo che si presenta nei semi del genere Manihot, senza riportare la descrizione di Le Moore relativa ai semi delle diverse specie: bisogna aggiungere poi che nel genere Jatropha, ad accrescere la somiglianza coleotteroide del seme, la linea mediana del rafe posteriormente si bi- forca e diverge, e sembra che fra essa si mostri l'estremità dell’ ad- dome. — Premesso tutto quanto ho riferito, Le MoorE giustamente si fa la domanda se siano piuttosto gli insetti che somigliano i semi, anzichè i semi gli insetti, e, se si avvererà questo ultimo caso, in qual modo la somiglianza può essere vantaggiosa ai semi. Certamente la risposta non è tanto facile, e, benchè l'Autore arrivi per le sue osservazioni ad una conclusione giusta, quale è quella che ammette l'imitazione da parte del seme, io non trovo molto chiare e precise tali osservazioni. Infatti io dirò che il possedere l’organismo animale un’attitudine (parola molto più adatta di forza, che usa Le Moore) differenziatrice e trasformatrice maggiore di quella che possiede l'organismo vegetale, e ciò a causa della complicazione della sua struttura, che lo rende molto più sensibile all'influenza delle forze esteriori e quindi a modificarsi in relazione ad esse, indurrebbe a credere di gran lunga più probabile che l’animale imiti il vegetale, anzichè questo il primo. Ma, ammesso pur questo, io osservo che l’attitudine differenziatrice, se è maggiore nell’organismo animale, non manca nell’organismo vegetale: quindi non si può escludere che questo ultimo si possa modificare al punto da imitare il primo, tanto più che nel caso presente, giudicando imparzialmente quali vantaggi ricaverebbero î due organismi dall’imitazione, tutto fa credere che il seme imiti 1’ insetto. Infatti, considerando il caso dei semi somiglianti coleottori, pensiamo IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 293 un poco, quale vantaggio potrebbe ricavare l’insetto dall’imitare il seme? Probabilmente il vantaggio di sfuggire ad animali insettivori, che, scam- biandolo per un seme, non ne avvertono la presenza: ma faccio osser- vare che, se da una parte l’insetto sarebbe avvantaggiato da tale somi- glianza, questa d’altra parte gli sarebbe dannosa, inquantochè esso sarebbe per essa sottoposto ad essere sbagliato dagli uccelli granivori con un seme e quindi ingerito, 0, se non ingerito, almeno danneggiato in modo rile- vante. Si aggiunga che tutto fa supporre che nell’insetto non si sarebbe operato alcun adattamento mimetico nella forma. Dico questo perchè, se si trattasse di una forma modificata in rapporto appunto al seme di una’ data specie vegetale, allora si potrebbe pensare al mimetismo, ma siccome è una forma che si riscontra comune a molti coleotteri, che non hanno alcun interesse a somigliare e non somigliano semi, tutto induce a credere che essa sia stata sviluppata da cause ben diverse da quella supposta. Al eontrario, considerando la conformazione dei semi, la forma coleot- teroide è una forma che si riscontra soltanto relativamente in pochis- sime specie vegetali: quindi è molto più logico ammettere il mimetismo per il vegetale, considerando la rarità delle specie vegetali, supposte imitatrici, rispetto alle specie animali, supposte imitate. Se pure potrebbe darsi che da parte del coleottero l’adattamento fosse avvenuto nel colore, e allora si potrebbe parlare solo di mimeti- smo di eolore, il quale non so se debba ammettersi, dopo quanto ho detto: da cui ben si comprende non potere avere l’insetto alcuno od al- meno poco interesse ad imitare il seme. Passiamo ora a considerare l’utile che ne ricaverebbe il seme, imi- tando l’insetto. Imitando l’insetto, il seme protetto da un testa resi- stente si mette in condizioni tali da essere sbagliato da animali inset- tivori, specialmente uccelli, e con tutta probabilità ingerito o certamente rigettato a distanza, riconosciuto che abbia l’animale l’ errore. Essendo particolare a molti semi il poter resistere all’azione mec- canica (e chimica) del canale digerente degli uccelli (e si può dire spe- cialmente degli uccelli insettivori o non esclusivamente granivori), e quindi essendo restituiti al terreno quasi intatti, ed anzi preparati ad un facile germogliamento, tale imitazione è loro sommamente utile per la diffusione, e quindi per la conservazione della specie della pianta che li produce. D’altra parte l’imitare l’insetto salvaguarda il seme dal- l'attacco degli uccelli granivori, all’azione meccanica del tubo digerente dei quali non potrebbe resistere il suo testa, e perciò esso sarebbe di- 294 A. ARCANGELI gerito, o dall'attacco di altri animali che si cibano di semi e frutti che vi passano sopra come ad un insetto. Da ciò si capisce bene che tutto torna a favore del seme o frutto, per la somiglianza che questo può assumere con un insetto od altro ani- male. Per me ben poco importa che la pianta possegga un’ attitudine differenziatrice minore; poichè la possiede tuttavia, la differenziazione si compirà più lentamente, ma si compirà: aggiungendosi poi che nel no- stro caso dei semi e frutti, come ben dice Le Moore, essendo richiesta solo una piccola modificazione, occorre una piccola quantità di forza per ottenere questa. Quindi, indipendentemente dall’attitudine differenzia- trice, l'adattamento mimetico si compirà in quell’organismo, che risen- tirà un vantaggio nell’imitare l’altro e si sarà trovato in condizioni da averne bisogno. Spesso l’appendice seminale o caruncola col suo vivace colore, serve ad attirare l’attenzione di animali seminivori, e quindi provvede alla diffusione del seme: nei casi già citati sembra che essa abbia lo scopo di imitare la testa ed il torace dell’insetto, perchè l'ipotesi che essa sia un serbatoio di nutrimento per l’ embrione è stata del tutto messa fuori di questione, dietro esperimenti eseguiti dal signor NICHOLSON DI Kew con i semi di Ricinus communis. Da questi esperimenti, infatti, è stato dimostrato, che la caruncola non esercita alcun effetto apprezzabile per il germogliamento, e, tanto ch’ essa ci sia, come non ci sia, non sì hanno in questo differenze. Non si può, è vero, del tutto escludere che il mimetismo si sia potuto sviluppare da parte di ambedue gli organismi, ma, da quanto ho detto poco avanti, mi sembra che tale adattamento sia con molta probabilità da attribuirsi solamente al vegetale. Basti quanto ho esposto per dare un’idea esatta del lavoro di Le Moore. Con questo certamente l'Autore ha portato un largo contributo allo studio di queste disposizioni, che, come ben Egli dice, considerando il ciclo delle funzioni da esse compite, si devono ritenere fra le più meravigliose nel regno vegetale. L'entusiasmo, che hanno eccitato in me gli studi sopra questo ar- gomento, non mi impedisce però di rifiutare energicamente tutto ciò in cui io vedo la deviazione dal concetto vero e giusto che si deve avere riguardo al mimetismo. Ed infatti eccomi davanti ad un caso, ritenuto per mimetico, e che io dichiaro di non potere assolutamente accet- tare come tale: dico di quello che il dottor Les avrebbe riscontrato IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 295 esistere fra il Selinum carvifolia ed il Peucedanum officinale, ipotesi che però sarebbe fondata sopra una superficiale rassomiglianza. W. H. BEEBY appunto è sorto a fare alcune osservazioni a quanto afferma il preno- minato dottore, ed io stesso le riporterò, aggiungendovene delle mie particolari. È noto che una specie edule od altrimenti utile può sfruttare la somiglianza con una specie nociva o priva di uso, in maniera da sfuggire all'occhio degli animali erbivori, e quindi ad un’eventuale estin- zione: e appunto per ciò BreBy dice che bisognerebbe mostrare come il Selinum od il Peucedanum potrebbe essere avvantaggiato dallo sbaglio, perchè non apparisce che l’una pianta possegga qualità nocive o vene- fiche sufficienti a render vantaggioso per l’altra l’imitarla. Il fatto che i frutti del Selinum hanno, secondo quanto dice Les, un particolare gusto forte e pungente, debolmente aromatico, ma piuttosto fra il ginepro ed il puleggio, mentre il Peucedanum si dice possedere qualità stimolanti, non dice che poco o niente: quindi dal canto mio, alla domanda che si fa BeEBY, se questo sia un caso di una pianta che assuma somiglianza con un’altra a scopo di protezione, risponderò che ciò non si può affatto ammettere. Infatti è molto ma molto superficiale, da quanto ho potuto constatare in diversi esemplari di ambedue le piante, questa somiglianza osservata da LeES; ed in vero si può notare che anche dalla descrizione del Selinum e del Peucedanum si rileva non poca differenza. Nel Selinum carvifolia abbiamo un fusto eretto poco ramoso, solcato, angoloso: foglie ovali, bislunghe, le inferiori lungamente picciolate, bi- tripennatosette, a segmenti profondamente divisi in lamine lineari o lanceolate: fiori bianchi in ombrelle con 15 o 20 raggi, frutto ovoide, g'abro con ali laterali più lunghe delle dorsali. Invece nel Peucedanum officinale si ha un fusto eretto, sottilmente striato, ramoso in alto: foglie rigide, le basali grandi, 5 volte ternatosette, lungamente picciolate a di- visioni lineari-acuminate più strette o più larghe: fiori giallastri in om- brelle terminali erette: frutto obovato, bislungo. Siamo in un caso quasi identico a quello che già dissi essere stato osservato dal BeccaRI, e le ragioni che io ho addotto per non ammet- tere quello si possono addurre anche qui. La molto superficiale rasso- miglianza non deriva altrochè dall’appartenere le due piante ad una stessa famiglia, famiglia nella quale le somiglianze sono frequenti: anzi farò notare che si hanno somiglianze più manifeste fra specie di altri generi della stessa famiglia, per le quali non si può am- 296 A. ARCANGELI mettere il concetto di una funzione mimetica, per quanto ho in prece- denza detto riguardo a casi consimili di rassomiglianze. Il non trovare poi ragioni sufficienti, per le quali si possa ammettere che l’una pianta avrebbe interesse ad imitare l’altra, mi pare che decida la questione, anche quando si tratti di una somiglianza molto spiccata: salvo il caso in cui si possano addurre, in seguito ad osservazioni, cause produttrici dell’adattamento mimetico diverse da quelle sin ora esposte, ma che però qui vanno, da quanto pare, assolutamente escluse. Basti quanto sopra per far vedere che anche .Lees non aveva un concetto esatto e chiaro del mimetismo: tale inconveniente lo ha tra- scinato infatti a deviare dalla via giusta che si deve seguire nello studio di tali fatti. Seguendo sempre per ordine cronologico lo sviluppo che man mano : è andato acquistando lo studio del mimetismo nel regno vegetale, ho giustamente l’orgoglio di annoverare fra i nomi di illustri scienziati che si sono occupati di ciò, quello di mio padre G. ArcaneELI. Egli non soltanto è un degno sostenitore della esistenza del mimetismo, ma, a provare maggiormente la verità delle sue vedute, ha voluto anche egli portare non lieve contributo alle numerose prove già esistenti, col no- tare alcuni interessantissimi casi mimetici, sopra i quali credo opportuno il trattenermi. Studiando la fioritura e l’impollinazione di alcune Aracee, G. AR- CANGELI potè esservare verificarsi in molte di queste piante una decisa funzione mimetica. Nel Dracunculus vulgaris sarebbe la caratteristica sua infiorazione la quale presenterebbe un curioso caso di mimetismo, detto dall’Autore stesso mecromimismo. Come la parola stessa lo dice, significherebbe che in questa pianta l’infiorazione, tanto per il colore della spata porpora livido, quanto per quello dello spadice, che è di un porpora più cupo e superiormente neroviolaceo, rassomiglia a materia e specialmente a carni in decomposizione. È realmente una somiglianza che fa impres- sione a chi osservi una di queste piante in fioritura, ed è aumentata dal fatto, che tale infiorazione emana un odore cadaveroso spiacevolis- simo e sensibile a notevole distanza. Questo odore proviene dallo spadice e precisamente da tutta la sua parte superiore ingrossata dotata di co- lore nero violaceo e lucida detta osmoforo. Tale disposizione mimetica della infiorescenza servirebbe, insieme ad altre disposizioni particolari, ad attirare i coleotteri necrofili che: in questa pianta compiono la parte principale nella fecondazione dico- IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 297 gamica. Il fatto che questi animaletti accorrono a questa pianta e ne sono i principali pronubi sta a significare che essa ha saputo sfruttare il loro gusto e la predilezione che essi hanno per le sostanze putride, a proprio vantaggio, e cioè sviluppando per via di selezione generativa l’imitazione di tali sostanze, e così provvedere, mediante le visite dei coleotteri necrofili, alla propria fecondazione. L'intento d’ingannare è ottenuto in modo meraviglioso: attratti dal colore e dall’odore proprio alle sostanze putrescenti, credono di trovarsi in presenza di queste e si precipitano avidamente sopra l’infiorescenza: particolari disposizioni della spata servono ad incarcerare questi animaletti, per rilasciarli dopo che essi si sono cosparsi di polline, e così per mezzo di essi viene as- sicurata la fecondazione incrociata. Mentre il Dr. vulgaris presenta uno dei più belli esempi di necro- mimetismo, il Dr. canariensis, secondo mio padre, offrirebbe nella sua infiorescenza un caso di carpomimismo, come lo chiama l'Autore, de- stinato al richiamo dei coleotteri carpofagi. Appunto riguardo ad essi così si esprime G. ArcanGELI nel suo lavoro Sulla impollinazione in al- cune Aracee: “ In questo caso la conformazione della spata e dello spadice, “la disposizione dei fiori, il colore della spata, l'odore di melacotogna 0 “ di popone che esala la parte superiore dello spadice ed il suo colore an- “china inducono ad ammettere che, in questo caso gli insetti che funzio- “nano da pronubi siano dell'ordine dei coleotteri e principalmente di quelli “che si cibano di frutta. Anche qui dunque un meraviglioso esempio di “mimismo, per il quale l infiorazione, simulando i caratteri di un frutto, “richiuma a sè gli insetti che debbono cooperare alla fecondazione , . — Tutto ciò è stato poi confermato da numerose esperienze, dopo le quali non si potè più affatto dubitare della verità di tale funzione mimetica. Questa funzione mimetica 0, per meglio dire, questo carpomimetismo si riscontrerebbe anche in un’altra Aracea e cioè nell’Arum italicum, la cui infiorazione deve, secondo quello che pensa mio padre, considerarsi come un’infiorazione carpomimetica. Essa attrae per mezzo del colore biancoverdastro della sua spata, che funziona da vessillo, gli insetti ap- portatori del polline; ma a tale richiamo più che altro coopera la parte superiore claviforme dello spadice, che è colorata in giallo e per tale colore somiglia alquanto ad un frutto, e che emana un odore che non risulta sgradito e che può pure rassomigliare a quello di certi frutti in decomposizione. Ed infatti la fecondazione in questa pianta è operata da piccoli ditteri, i quali molto probabilmente si nutrono di sostanze or- ganiche in decomposizione e più che altro di frutti. 298 À. ARCANGELI Altri casi mimetici furono osservati e descritti da G. ARCANGELI, ma di essi parlerò in seguito. — È necessario che io venga ora a parlare di un interessantissimo caso di mimetismo, il quale si presenta nei frutti di certe Composte, e che è stato rimarcato dal norvegese A. N. Lunpsrrom. Egli fa una molto interessante relazione sul fatto che si riscontra in molte piante, detto da Sir JoEN LuBBOCK eferocarpia, cioè sulla proprietà che esse hanno di pro- durre diverse forme di frutti. Esso si presenta in special modo in un certo numero di generi della famiglia delle Compositae, ed è appunto facendo accurate ricerche sui frutti polimorfi di differenti specie del genere Calen- dula e Dimorphotheca, allo scopo di spiegare la differente forma dei frutti in relazione al loro modo di diffusione, che LunpstròMm ha potuto in alcuni di essi rilevare l'adattamento mimetico. Fra le forme di frutti del genere Calendula, le quali spesso si pre- sentano tutte sulla stessa pianta, Egli distingue tre tipi principali che sono: 1° Frutti da vento od anemofili; 2° Frutti uncinati; 3° Frutti larviformi. Non sarà male che io riporti qui un’osservazione originale che mi è stato dato di fare riguardo alla funzione che compiono i frutti del primo tipo, e che non sarebbe del tutto d’accordo con quanto dice il nominato Autore. Questi attribuisce ad essi la proprietà di essere conformati in modo da favorire la dispersione mediante il vento, ed appunto perciò li chiama frutti da vento od anemofili. A me non sembrò che tale conformazione si potesse attribuire ad una funzione anemofila, ed ho derivato le mie osservazioni dalla descrizione stessa che LunpsTROM ne fa, dicendo che questi frutti sono un poco arcuati ed hanno l’esterno invoglio accresciuto in espansione aliforme in forma di navicella o di coppa. Questa forma di navicella o di coppa è evidentissima per chiunque osservi questi frutti, e pensai subito che tale conformazione per sè stessa non si poteva considerare come devoluta ad una funzione anemofila ; perchè crederei che, se in tale tipo di frutti si fosse andata producendo e modificando per elezione generativa la espansione dell’ esterno invo- glio, in modo da risultare adatta ad offrire presa al vento e quindi al trasporto del seme, acquistando così un vantaggio enorme per la sua diffusione, la forma invece di navicella o di coppa sarebbe stata ben poco adatta a tale ufficio; mentre una forma dell’espansione dell’esterno invoglio distesa quasi ad ala, come si riscontra in molti altri frutti, dove. appunto si verifica spiccatissima la funzione anemofila, sarebbe stata di IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 299 gran lunga più proficua. Perciò io pensai che tale forma sì potesse at- tribuire ad una funzione diversa, e cioè ad una funzione idrofila. Non manca infatti niente a questo frutto per costituire una vera e propria barchettina: i bordi rientranti dell’ espansione dell’invoglio esterno, la carena dentellata che si presenta sul dorso, la curvatura che offre il frutto stesso, non sono tutti adattamenti meravigliosi per favorire il trasporto ed il galleggiamento sull’acqua? Quando poi io provai a prendere un pugno di questi frutti ed a sparpagliarli sopra la superficie dell’acqua corrente, mi convinsi ancor più che le mie osservazioni erano giustissime. Parrebbe inverosimile, ma essi tutti ricadevano sul dorso, ossia sulla carena, e galleggiavano come tante barchettine, lasciandosi trasportare velocemente dalla corrente. Questo fatto, se non può considerarsi di una grande importanza, per lo meno non si deve trascurare. Io non nego che la leggerezza, pro- veniente dalla costituzione anatomica del frutto, non possa esser giove- vole al trasporto anche per parte del vento, ma certo sempre in linea molto secondaria, la diffusione essendo evidentemente affidata in spe- cial modo all’ acqua. Questa diffusione non è certo minore di quella che può operare il vento: aggiungasi poi che la presenza dell’ acqua nel frutto stesso può influire a preparare i semi al successivo germoglia- mento, nel luogo dove finalmente esso sarà dalla corrente depositato. Tutto quanto ho detto si riferisce al primo tipo di frutti: passando agli altri due, dirò che i frutti del secondo tipo, cioè i frutti uncinati mancano dell’appendice aliforme, ed in luogo di essa hanno sul dorso numerosi aculei incurvati all'apice, coi quali si possono attaccare ad 0g- getti estranei, come al vello di animali. Fra i tipi già rammentati si presentano forme intermedie, nelle quali certo l’unione delle due forme ha lo scopo di facilitare la dispersione dei frutti in ambedue i modi. È nel terzo tipo di frutti, detti da LunpstRroòm larviformi, che appunto si presenta evidente il fatto del mimetismo. Questi frutti sono forte- mente incurvati, non hanno aculei, nè espansione membranosa: l’invo- glio esterno in essi si limita a produrre delle ondulazioni od increspa- ture, le quali dànno l’apparenza al frutto di larve di lepidotteri insieme avvolte. Anche la costituzione anatomica interessante di questi frutti, l'essere per esempio, l’invoglio interno del frutto, che negli altri è molto duro, più molle e non così secco come nei frutti anemofili, l’avere degli spazi aerei subepidermici, che loro dànno spesso una lucentezza sericea tanto da aumentare la somiglianza con larve di farfalle, sono tutte par- ticolarità che confermano l’opinione di LuNPSTROM. Sc. Nat. Vol. XIX 20 300 A. ARCANGELI I fatti, dai quali egli rileva che qui si ha un caso di mimetismo in connessione con la disseminazione sono i seguenti: 1.° si ha in questi frutti una particolare forma, che probabilmente è propria della maggior parte delle specie di Calendula. 2.° Questi frutti, allorchè evoluti, so- migliano straordinariamente certe larve di farfalle, particolarità che può essere vantaggiosa per la diffusione. 3.° La forma e la struttura della parete del frutto in tutte le altre forme di Calendula sta in relazione al modo di disseminazione. 4.° Vi è appena altro modo di spiegare la cosa. Si aggiunga che i frutti imitanti larve stanno nella fruttificazione al di dentro di quelli delle due forme nominate, e che quindi in essi sarebbe ancor più difficile la disseminazione, qualora non intervenisse l’adatta- mento mimetico. Giustamente osserva LunpsTROM che non si può decidere con sicu- rezza come avvenga questa disseminazione, senza prima avere osservato queste piante nel loro luogo natìo; ma con molta probabilità ad essa cooperano uccelli insettivori. — Tutte le particolarità menzionate furono osservate dall’Autore, senza che Egli avesse cognizione del lavoro di A. BATTANDIER, Sur quelques cas d’ hétéromorphisme. In questo BATTANDIER, parlando delle piante etero- carpee, dice di avere osservato anche lui questa forma vermicolare nei frutti di Calendula. A tale uopo egli cita la Calendula arvensis, nella quale distingue quattro sorta di frutti, e cioè, progredendo dal centro verso l'esterno della fruttificazione, frutti vermiformi, frutti cimbiformi, frutti alati piatti e frutti uncinati. Non è mio compito discutere sopra la giu- stezza di questa repartizione: solo dirò che anche questo naturalista non si è accorto della disposizione idrofila che si presenta nei frutti da lui chiamati cimbiformi. Quanto ai frutti vermiformi, egli fece delle espe- rienze, per vedere se il mimetismo, così rimarchevole di questi frutti del centro, fosse collegato con la dispersione per parte degli uccelli. Dalle sue osservazioni risultò che questi non mangiano i frutti vermiformi, li rigettano immediatamente se li hanno inavvertitamente afferrati col becco; e così tutte le esperienze che ha fatto con polli, anitre, merli addomesticati, non gli hanno affatto dimostrato che questi uccelli fossero ingannati dall’ apparenza di tali frutti. LunpstRòM dice che, nonostante questo, egli pensa che la dispersione avvenga per opera di uccelli affatto differenti da quelli nominati, e ciò io credo molto probabile. Egli si è accorto che le cutrettole si trattengono volentieri presso le piante di Calendula, ma non ha potuto vedere ciò che esse fanno: però si potrebbe IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 301 negli organi digestivi e negli escrementi degli uccelli insettivori ricono- scere i frutti, tanto più che tale opinione è confermata dalla struttura anatomica particolare delle rughe dell’invoglio interno duro del frutto, che lo rendono resistente alle azioni meccaniche dell’apparato digerente di tali uccelli. Tutte queste ipotesi per spiegare tale somiglianza certamente hanno grande ragione di sussistere, e se non ci si può accertare del fatto si è perchè non si può seguire tutto ciò che fanno gli uccelli. Del resto faccio osservare che anche un inganno momentaneo è sempre di gran giova- mento per la dispersione, la quale poi non è detto che possa essere fatta esclusivamente da uccelli insettivori. Altri animali può darsi che siano tratti in inganno: la diffusione può essere operata, come suppone Lunp- stRòM, a mezzo degli insetti, specialmente formiche, le quali siano ingan- nate dall’ aspetto di larva; ed il fatto che Egli stesso ha osservato formi- che che si occupavano di questi frutti, è di grande importanza, essendo ben noto che molte formiche portano via larve di insetti simili a frutti. Non si può escludere poi, secondo il mio modo di vedere, la probabilità che questa forma di larva abbia un doppio scopo, e cioè di ingannare gli animali insettivori e gli animali granivori. Certamente questo doppio inganno torna sempre di utilità per il conservamento della specie. Le differenze che esistono fra i frutti della stessa pianta hanno per scopo manifesto, come pensa Sir JonN LuBBocK, di variare le condizioni di disseminazione della pianta, e di moltiplicare gli eventi di riproduzione. Ora il mimetismo nei frutti larviformi è l’unico adattamento che essi hanno acquistato, favorevole alla disseminazione, non presentando essi quelle particolarità di forma e di struttura, per le quali gli altri frutti si prestano invece alla disseminazione per parte dell’acqua, del vento o di corpi estranei a cui si attaccano. Non vi può essere, secondo me, alcun dubbio, e non sarà difficile certamente convincersi un giorno con la prova della verità delle asser- zioni di LunpsrRòM. Appunto per il fatto dell’imitazione protettiva Egli giustamente osserva che le specie del genere Calendula meritano il posto più elevato nelle Composte, tanto per le molte forme dei loro frutti, che per le relazioni dei loro fiori. Anche in alcune specie del genere Dimorphotheca lo stesso Autore ha osservato un caso simile d’imitazione protettiva. Infatti in questo genere, che presenta eterocarpia, egli distingue due forme di frutti di- stinti affatto e senza forme intermedie. Esse sarebbero: frutti anemofili 302 A. ARCANGELI piatti che ricordano i frutti di Pastinaca, e frutti larviformi. Questi ul- timi somigliano molto bene a larve di scarabei, specialmente curculionidi. AI solito anche qui il mimetismo sarebbe favorevole per la dissemina- zione, molto probabilmente effettuata da animali insettivori. La struttura anatomica li rende molto dissimili dai frutti anemofili, presentandosi essa adatta in sommo grado a poter resistere all’azione meccanica dell’appa- recchio digestivo, e per questa dissimiglianza non si possono considerare come frutti rudimentari o ridotti. Con ragione fa osservare l'Autore che non si può spiegare come nei detti frutti i semi abbiano bisogno di una parete 5 o 6 volte più spessa di quello che è negli anemofili, se ciò fosse solo per difenderli dagli agenti atmosferici, perchè nei frutti anemofili basta a tale difesa il sottile guscio della loro parete, e certa- mente il fatto della eterocarpia è in relazione al loro modo di dissemi- - nazione. Anche per questi frutti larviformi ripeterò quello che ho detto per quelli di Calendula, cioè che in essi tale forma probabilmente ha lo scopo, non solo di favorire la disseminazione per parte di animali insettivori, ma anche di preservarli con tale apparenza dall’azione di- struggitrice degli animali seminivori. Ho potuto constatare io stesso tutte queste rassomiglianze riferite da LunpstRòM e sono molto inclinato ad accettare quanto egli opina. È degna di ricordarsi pure la somiglianza, notata dallo stesso, che esiste nei frutti di certe specie di Melilotus con gli afidi, somiglianza che lo aveva sorpreso, nel vedere una formica trascinare uno di questi frutti. Ulteriori studi getteranno più viva luce sopra questi adattamenti mera- vigliosi, e mi auguro che vengano un giorno a provare la giustezza della spiegazione che di essi porge lo scienziato norvegese. Passiamo ora a considerare un caso mirabiissimo di adattamento mimetico, che si riscontra in un’orchidea terrestre dell'America centrale, la MaxiWMaria Lehmanni. Tale adattamento fu per la prima volta osser- vato e studiato dal sig. I. M. JANSsE, del cui lavoro fece un’ intelligente relazione in italiano il prof. A. Borzi. Non sarà inutile che anche io riporti quanto dice JANsE, per dare un’idea della forma vistosa dei fiori di questa orchidacea. Essi sono di un bel bianco candido a riflesso ce- raceo e provvisti di un labello colorato in giallo, il quale si può dividere in tre parti: la prima, cioè la regione basale; si attacca al ginostemfo, di cui la parte anteriore è pure colorata in giallo, ed è inclinata dal basso all’alto: la seconda si raddrizza verticalmente correndo parallela al ginostemio: la terza si piega orizzontalmente e porge una comoda IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 303 tavola d’appulso ai pronubi. Nella parte media del labello si scorge un ampio rilievo calloso, il quale è coperto da una massa gialla pulverulenta Orbene, questa massa polverosa fa credere all’ossevatore di trovarsi in presenza di una massa di polline, che si trovi in quel punto quasi per caso depositata, tanto grande è la somiglianza che ha con esso. Lo studio microscopico ha dimostrato non trattarsi affatto di polline; ed infatti, se si studia la struttura di questa regione del labello, si nota che al- cune cellule dell’epidermide portano dei peli formati da cellule quasi sferoidi, disposte in serie, le quali facilmente si distaccano e si isolano a costituire così quella massa polverosa somigliante a polline. Un fatto curioso e che non era mai stato segnalato si è che, nelle cellule costituenti questi peli ed in quelle che confinano con l’epidermide, si trova una grande quantità di grani di amido. Questa particolarità è di grande importanza, e certamente non si può credere che l’amido quivi accumu- lato vi si trovi per una combinazione, ed anche JANSE giustamente non ammette che esso possa servire di riserva alla pianta; ma forse, come Egli pensa, la rassomiglianza con polline deve compiere la funzione di allettare gli insetti pronubi, specialmente api, destinati all’impollinazione, i quali trovano nella regione media del labello una preziosa riserva di materia alimentare. Il fatto della mancanza del nettare in questo fiore giustifica tale asserzione, inquantochè si comprende che la pianta, non essendo fornita del nettare per allettare gli ingordi insetti, non ha po- tuto spiegare la sua attività, per sopperire alla mancanza di esso, e quindi provvedere alla sua fecondazione, altro che con il produrre questa massa pulverulenta gialla, per trarre in inganno gli stessi animali e quindi giungere al medesimo scopo. Infatti, come dice JANSE, allorchè un’ape va a visitare un fiore di MaxWMlaria, si trova in presenza di quella massa che essa prende per polline: siccome questo costituisce la preda ordinaria di molti insetti, essa per far bottino si precipita nella cavità del labello, ma nel ritirarsi urta contro i pollinî che trasporta con sè, e nel visitare un altro fiore, lascia questi sul ginostemio e così assicura la fecondazione incrociata. Con tale inganno, io aggiungo, può darsi anco che la pianta prov- veda a difendere dall’azione distruggitrice degli insetti il vero polline, che probabilmente non deve avere l’apparenza di polline, e perciò può essere trasportato involontariamente dagli insetti senza essere distrutto. È una pura ipotesi che mi son permesso di fare. Non si può negare che questo caso osservato da JANSE sia con molta 304 A. ARCANGELI probabilità dovuto al mimetismo, e le osservazioni che Egli fa per spie- garlo sono molto giuste e ragionevoli, tantochè nessuno ha potuto muo- vergli obiezioni: lo stesso prof. Borzì, nella relazione che ne fece, si di- mostrò dello stesso parere dello scienziato tedesco, ed io mi associo in tale opinione ai nominati Autori. Ricorderò pure che un caso simile di mimetismo del polline è stato osservato dal prof. PeNzIG nei fiori della Rondeletia strigosa. i i i Se ho potuto consultare l’originale del lavoro di JANSE, non così posso dire del lavoro di I. T. RorERocK, Mimiery among plants. Da quanto è rife- rito in un riassunto riportato nei Proceedings of the Academy of Nat. Sc. of Philadelphia, 1888, n. 1, p. 12-13, ho rilevato che l’Autore probabilmente ha considerato questi fatti di rassomiglianza sotto un aspetto diverso, e non si è fatto un giusto concetto di ciò che s’ intende per mimetismo. In- fatti RorHRocK fa notare la somiglianza sorprendente nell’aspetto este- riore, che, come negli animali, si rileva pure fra due piante di differente parentado, per la quale non gli sembra affatto adattato il nome di mime- tismo, perchè nessuna delle cause che vengono adottate in spiegazione per il regno animale può essere presa in considerazione per il regno vegetale, e le forze che qui agiscono sul fenomeno per ora non si possono addurre. Faccio subito notare che queste asserzioni sono un poco troppo re- cise. Prima di tutto io non posso ammettere che nessuna delle cause, che si adattano alla spiegazione di tali somiglianze per il regno animale, non si possano addurre anche per il regno vegetale, e che anzi molte sono comuni ai due regni. In secondo luogo Egli riporta esempi di so- miglianze, che io stesso riconosco non essere affatto dovute a mimeti- smo. Ma ciò forse esclude che si abbiano realmente rassomiglianze fra piante di differente parentado dovute a mimetismo? Non ne vedo la ragione. Il mimetismo, lo ripeto, è quel particolare adattamento che acquista un vegetale allo scopo di provvedere a certe funzioni, che per le sue stesse condizioni esso non potrebbe compiere; adattamento sem- pre rivolto ad ingannare gli animali con i quali le piante contraggono numerosi rapporti biologici. Non si deve vedere il mimetismo dove non è, dove cioè la somiglianza è dovuta sia al caso, sia alle simili condizioni di vita, ma si deve vedere nelle piante in cui questa somiglianza è devoluta a speciali fini biologici, che vengono messi in evidenza da uno studio accurato dalle intime relazioni delle piante stesse con il mondo esterno. Certo, se si comprendessero sotto il nome di mimetiche tutte le somiglianze che si riscontrano nei vegetali, senza convincersi se queste sono devolute a IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 305 speciali fini per il conseguimento dei quali l'imitazione si presenta adatta, o se sono strane combinazioni, esse costituirebbero un cumulo di fatti non studiati scientificamente, e quindi una vera confusione. L'Autore poi parla delle somiglianze fra piante, senza considerare che non esistono soltanto di tali disposizioni protettive, ma che si com- prendono sotto il nome di mimetismo molti altri fatti, quali sono l’imi- tazione di speciali organi che la pianta non potendo produrre si limita ad imitare, o di animali, sempre allo scopo di favorire la sua esistenza. Vorrei sapere che cosa Egli pensa di questi fatti? Quale altra spiega- gazione dà di essi, fuorchè quella generalmente data dai biologi? Se Egli mi devia dal vero campo dello studio del mimetismo e mi va per esempio, come ha fatto, a considerare la conformazione a scodella dello stimma delle Lobeliacee e delle prossime Goodeniacee, la quale si presenta pure nel genere notevolmente discosto Gaura delle Onagrariacee, mi entra in un altro ordine di fatti. Certamente in due o più piante, nelle quali lo sviluppo e la funzione di uno stesso organo saranno re- golati dalle identiche leggi, questo organo, uniformandosi ad esse, pren- derà in queste piante tutte presso a poco la stessa forma. Ma si trat- terà allora di mimetismo? No davvero: tale somiglianza non implica certo quella specie, od apparenza, di preintenzionalità ingannevole che carat- terizza il fatto dell’imitazione mimetica. Non solo RormRocK ha fatto delle osservazioni di tal genere, come ho esposto, ma molti altri naturalisti ancora: purtuttavia, benchè si debba tributare ad essi lode, perchè hanno cercato di portare il loro contri- buto alla scienza, bisogna riconoscere che hanno deviato affatto dall’or- dine dei fatti in questione, e forse senza avere tanta colpa, per il fatto che non è stata formulata una teoria del mimetismo nel regno vegetale, la quale, io credo, li avrebbe condotti sulla via della verità. Il già rammentato dott. O. BECCARI, che tanto si è occupato del mi- metismo, anche per quello che riguarda il regno animale, dette nel 1884 !) una spiegazione nuova e diversa affatto da quella che dà la dottrina della selezione naturale. Sopra ciò ritornò a parlare abbastanza estesamente in una sua nota sulla fioritura dell’ Amorphophallus titanum, una aracea che vive nelle foreste di Sumatra e produce una infiorescenza gigantesca e mostruosa. Dice l’Autore che nella foresta Egli rimase in- 1) Vedi in seguito. 306 A. ARCANGELI gannato dalla rassomiglianza che il gambo molle della foglia dell’ Amor- phophallus presenta con un tronco d’albero a scorza liscia macchiata da licheni, tanto da confondere questo gambo con gli altri innumerevoli tronchi d’albero della foresta. Aggiunge che altre specie di Amorpho- phallus hanno il gambo delle foglie, e talvolta anche quello dell’ infiora- zione, macchiato come la pelle di un serpente. Per il mimetismo adunque l’unica foglia erbacea e molto succulenta che possiede ciascuna pianta di Amorphophallus, non corre pericolo di essere distrutta dagli animali er- bivori, perchè questi non si accorgono delia sua presenza, per il fatto che essi la scambiano con i tronchi degli alberi. Ragionando e discutendo sopra la parola mimetismo, il BeGcARI giu- stamente osserva che gli sembra opportuno dovere assegnare ad essa un significato assai più largo di quello che intende WALLACE, e con tale parola distinguerebbe, non solo l'imitazione delle apparenze esterne fra specie di organismi consimili, ma ancora quei casi d’imitazione delle forme di certi particolari oggetti, come stecchi e foglie, non che quelli di colorazioni speciali con cui certi animali e certe piante sfuggono alle ricerche dei nemici, confondendosi con gli oggetti vicini o con quelli su cui si posano. Non starò a riportare tutto quanto l'Autore dice riguardo a questi fatti, che richiederebbe troppo: solo dirò che l’ipotesi, cui Egli giunge per spiegare la colorazione del gambo della foglia di Amorphophallus, è che le cellule della sua epidermide abbiano ricevute e ritenute le im- pressioni delle colorazioni offerte dagli oggetti circostanti, o con i quali sono venuti in contatto, presso a poco come aveva supposto essere ayv- venute le colorazioni mimetiche nei fiori delle Orchidee 3). Ma sopra questa spiegazione ritornerò in seguito, e passo avanti per venire a dire che riguardo al caso mimetico, che sarebbe stato osser- vato da un valente biologo quale è il prof. DELPINO, mi astengo da ogni giudizio sia favorevole che sfavorevole ad esso. Da quanto questo Autore riporta nel suo lavoro Note ed osservazioni botaniche, sembra che Egli sia convinto esistere nei frutti di Ephedra un sorprendente mimetismo con quelli del Zaxus. Così Egli si esprime ri- guardo ad essi. “ I semi sono avvolti da una cupula, la quale per di- mensioni, per forma, per colorì e per la sostanza vischiosa dolciastra, pre- senta un'estrema analogia con quella del tasso; analogia tutt’affatto biolo- 1) V. Malesia, vol. II, p. 32. IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 307 gica, perchè sotto l'aspetto morfologico la cupula dei semi di tasso è una escrescenza placentaria, mentre la cupula di Ephedra è anamorfosi delle due brattee supreme dell’infiorescenza. È verosimile che Vuna e l'altra ma- niera di frutto s° indirizzi per la disseminazione alla stessissima specie di uccelli carpofagi. , Ma, io aggiungo, ciò bisogna che sia provato, e quando anche lo sia non è confermato del tutto l’adattamento mimetico. È de- siderabile quindi che siano fatte apposite ed accurate indagini sui co- stumi di queste piante nel loro luogo nativo per risolvere la questione. Basterà qui l’avere accennato a questa somiglianza, da me riferita più che altro per rammentare il nome di un valente scienziato, quale è il DeLPINO, l'appoggio del quale in favore della esistenza del mimetismo non è certo di poco valore. A provare poi maggiormente Che, come nel regno animale così nel vegetale, si riscontra evidentissimo questo meraviglioso adattamento co- stituente il mimetismo, anche nella flora subacquea pare che si sia po- tuto osservare qualche caso mimetico, dei tanti che forse si hanno nella flora sommersa a noi molto imperfettamente conosciuta. Certamente si deve al compianto prof. A. Piccone l’aver notato dei casi di mimetismo esistenti fra animali ed alghe. Egli si occupò col suo amico prof. Parona di questi casi, che Egli ritenne essere forse più fre- quenti di quanto si può credere a primo aspetto, e di essi si era promesso di dare estese cognizioni in una pubblicazione, alle quale Egli fece precedere una nota preventiva. A me non è stato dato di poter consul- tare altro che questa nota, e non mi risulta avere il nominato professore pubblicato il seguito. Dalla nota di cui farò la relazione, bisogna che io dica però essermi convinto di non aversi a che fare, nel caso in essa citato, con un fatto mimetico, e di ciò esporrò le mie ragioni. In essa nota il Piccone si manifesta convintissimo che si abbia il mimetismo nei vegetali, ma per quanto riguarda il caso da lui consi- derato, mi pare che Egli consideri tale adattamento come sviluppatosi da parte di ambedue gli organismi animale e vegetale, e ciò con reci- proco vantaggio a proteggersi dai loro nemici e provvedere alla loro conservazione. Appunto, basandosi sul reciproco vantaggio Egli non fa una netta distinzione, se l'imitazione sia compiuta dall’animale piuttosto che dall’alga; poichè l'Autore vuole richiamare con la sua nota l’atten- zione degli algologi e dei malacologi sopra una sorprendente rassomi- glianza, che esiste fra le masse di ooteche di un mollusco gasteropodo prosobranchiato del genere Buccinum ed un’alga, la Valonia aegagropila. 308 A. ARCANGELI Queste ooteche si presenterebbero riunite le une alle altre in guisa da rappresentare con sufficiente esattezza la disposizione e la forma dei rami, e più specialmente delle proliferazioni della fronda della nominata specie di Valonia. Di tali masse di ooteche se ne ritrovano frequente- mente lungo il litorale ligustico, rigettate sulla spiaggia dopo forti mareg- giate. Tale somiglianza avrebbe ingannato naturalisti specialisti, e lo stesso Piccone, in esemplari di Valonia utricularis, classificati come tali dal prof. Levi-MoRENOs, constatò non aversi a che fare con un’alga, ma con una massa di ooteche di Buccinum vuotate dei loro vitelli. Ci vuole, Egli dice, un esame accurato ma facile, per constatare che si tratta pro- prio di ooteche: ed infatti, dal possedere ciascuna di queste un forellino che serve all’uscita dei piccoli nati, forellino che non si riscontra mai nei rami e prolificazioni della fronda"della Valonia, e dall’esame micro-. scopico e microchimico della membrana delle ooteche, non vi potè es- sere alcun dubbio sulla verità dell’asserzione del PicconE, il quale avrebbe constatato che la specie che tali masse di ooteche somigliano, non è già la Valonia utricularis, ma la V. aegagropila. Non è mio compito mettere in campo delle ipotesi per spiegare questa somiglianza, che io non credo affatto dovuta a mimetismo. Infatti da quanto ho potuto rilevare, la somiglianza è abbastanza grossolana, e non è derivata altro che dalle condizioni nelle quali i due organismi sono stati trovati. L'errore del considerare tale caso come mimetico, è dovuto dunque al fatto che si sono confrontati l’alga e la massa di oote- che fuori del loro ambiente, quindi naturalmente molto diversi nell’aspetto. Nell’erbario dell’Orto pisano esistono esemplari di Valonia utrieularis ed uno di uova di Buccinum, classificato da Levi-MoreNos per Valonia, e, se ho notato fra essi questa somiglianza, ho potuto notare la differenza manifestissima, la quale consiste nelle dimensioni delle cellule della Valo- nia, che sono più piccole delle eoteche, ed in tutto l’ insieme. Si aggiunga poi che nell’alga vivente, oltre al portamento notevolmente diverso, si ha che le sue cellule sono colorate in verde per la dorofilla che contengono, mentre le ooteche presentano un colore giallastro assai diverso, e la con- sistenza quasi cornea dell'involucro delle ooteche non si può confrontare con quella membranacea delle pareti cellulari dell’alga. i Puo darsi benissimo che l’alga invecchiando e morendo acquisti, per la decomposizione della clorofilla delle sue cellule, un colore simile a quello delle ooteche, insieme alle quali essendo rigettata sulla piaggia, può essere con esse a primo aspetto confusa: d’altra parte arrivando le IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE . 309 ooteche alla spiaggia, vuote dei loro vitelli e rese più molli dal continuo movimento delle onde, l’errore sarebbe reso più facile. Questa somi- glianza dunque deriverebbe da modificazioni che subiscono i due orga- nismi quando le loro funzioni sono esaurite, e quindi non ha nessuno scopo e fondamento. Il solo fatto della differenza di colore fra l’alga vivente e le uova di Buccinum, avrebbe dovuto consigliare il PICCONE a non ammettere in questo caso il mimetismo, essendo necessario per tale adattamento in primo luogo la somiglianza del colore. Se mai un’ipotesi si potrebbe fare in favore dell’animale, il quale potrebbe aver prodotto per via di selezione le ooteche somiglianti a questa alga decomposta, per salvaguardarle dai distruggitori di uova; ma anche questa seconda ipotesi non ha nessun serio fondamento, quindi ritengo doversi escludere assolutamente qualunque funzione mimetica da ambedue le parti. Non voglio con ciò dire che non si abbiano nella flora acquea casi mimetici. La grande difficoltà o, per meglio dire, l’impossibilità di se- guire passo passo la vita di molti organismi vegetali ed animali nel- l’ambiente acquatico, non ci permette di riportare con sicurezza esempi di tali adattamenti, i quali però furono con ragione annunciati dal Pic- cone e non sarà difficile che ulteriori studi portino in viva luce. Dopo il Piccone, sempre seguendo l’ordine cronologico, trovo di nuovo il nome di G. ARCANGELI, il quale osservò e descrisse un caso di mime- tismo fiorale che, con ogni probabilità, anche io ritengo come tale e che si presenterebbe nell’ Hermodactylus tuberosus. I fiori di questa Iridacea, giova ricordare, presentano il loro peri- gonio colorato in verdastro, con macchie di color violaceo fosco, macchie strane, le quali secondo l’Autore compirebbero una funzione mimetica importante imitando il corpo di insetti, che debbono funzionare da pro- nubi in questa specie, e mostrandosi in tal modo sommamente adatte al richiamo di questi. Se infatti, dice Egli, si osservi a qualche distanza un ceppo di piante di questa specie in fiore, esso ci presenta Ia strana apparenza come di un ciuffo di erba sparso di macchie scure che ram- mentano il corpo di certi pecchioni. Dalle osservazioni del DELPINO, per le quali è stato dimostrato che nella ris l’impollinazione è appunto effettuata da grosse apiarie o pecchioni (Xylocopa violacea), egli deduce che anche in questa pianta la impollinazione deve essere effettuata dalla Xylocopa violacea: ed anzi egli ammette che tale specie sia la forma più specialmente in relazione con tale importante funzione di richiamo. Molto 310 A. ARCANGELI giustamente l'Autore osserva che questo singolare mimetismo probabil- mente si deve essere sviluppato in relazione ad altre particolarità che si riscontrano nei fiori di Hermodactylus. Infatti dall’esser essi affatto, o quasi, privi di odore, dal mancare di colori vivaci o splendidi in con- fronto di quelli della maggior parte delle Iridacee, dall’ avere quindi un’ apparenza poco adatta al richiamo dei pronubi, dal fatto che i fiori si schiudono prima di quelli delle altre Iridacee nostrali, cioè nel feb- braio e nel marzo, epoca in cui, per essere i pronubi piuttosto rari, sarebbe stato vantaggiosa una speciale designazione per certe forme, anzichè per certe altre, ne viene di conseguenza che la pianta per provvedere alla sua fecondazione, e quindi al conservamento della sua specie, deve anche essa avere sviluppato e perfezionato, per quanto gli era possibile, quell’adattamento il quale si presentava favorevole al compimento di tale funzione, o per conseguire il quale essa si sentiva più facilitata e disposta. Ma non basta: anche nei semi del Pancratium maritimum (Giglio marino), un’Amarillidacea, G. ARCANGELI avrebbe intraveduto l’esistenza di una funzione mimetica. Dice l'Autore che questi semi, alla diffusione dei quali coopera in gran parte il vento, non avendo la pianta, per il modo con cui si effettua la deiscenza della cassula, mezzo proprio di propul- sione per scagliare i semi a distanza, spiccano, in grazia del loro tegu- mento nero sul colore baio chiaro o cenerognolo della sabbia dove ve- geta la pianta. Questo risalto farebbe sì che sarebbero veduti a distanza dagli animali e specialmente dagli uccelli, per cui potrebbe darsi che, con la loro tinta nera simulando il corpo di certi coleotteri che vivono sulle spiagge, venissero inghiottiti o trasportati a distanza dagli uccelli stessi. Da ciò egli ritiene come probabile che in queste piante coope- rino alla disseminazione tre agenti differenti, il vento, gli uccelli e l’acqua del mare, sopra la quale galleggiando possono essere portati a distanze notevoli. Per dire quello che io penso, mi permetto di osservare che tale somiglianza posseduta da questi semi non si può avvertire altro che ad una certa distanza, quindi non posso credere che gli uccelli sì lascino ingannare da essa, sino al punto di scambiare uno di questi semi per un coleottero e quindi ingerirlo. Piuttosto io credo che in tali semi esista un adattamento mimetico non ancora perfezionato, o, per meglio dire, in via di formazione: questo poi, dal canto mio, non avrebbe lo scopo. di ingannare uccelli insettivori, ma sibbene uccelli granivori, i quali non IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 311 avvertendo a distanza in essi semi la presenza di semi vi passerebbero sopra come a coleotteri od animali di consimile aspetto. È una ipotesi questa che io faccio, come pure è un’ipotesi quella che adduce mio padre. Prima di tutto bisognerebbe decidere se questi semi vengono in- geriti da uccelli, ciò che io ritengo improbabile, od almeno momenta- neamente confusi con coleotteri, e, ammesso questo, se gli uccelli che li ingeriscono sono insettivori o granivori. Ipotesi per ipotesi sostengo la mia, la quale in ogni modo sarebbe comprovata dal fatto che in questa pianta due agenti differenti coope- rano molto potentemente alla disseminazione, il vento e l’acqua; quindi è molto più ragionevole ammettere che la pianta abbia sviluppato nei semi il mimetismo, allo scopo di proteggerli dall’ attacco degli uccelli granivori, anzichè allo scopo di ottenere una diffusione più facile, diffusione che è già compiuta in modo efficace dai due agenti suddetti. È stato quindi, secondo il mio modo di vedere, un bisogno potente di sottrarsi alla distruzione che ha sviluppato in questi semi l'adattamento protet- tivo che probabilmente essi posseggono: dico probabilmente perchè, al- meno per ora, le osservazioni non hanno dimostrato niente che possa avvalorare tale ipotesi. Se i nomi, che sino a qui ho riportato, di scienziati i quali si sono occupati del mimetismo, sono tutti europei, ciò non vuol dire che fuori di Europa non sieno state divulgate ed accettate dagli studiosi queste teorie, che vengono a spiegare dei fenomeni strani davanti ai quali de- vono esser rimasti sorpresi ed ammirati gli osservatori di tutto il mondo. Ed eccomi infatti a riportare il lavoro di un giapponese, il professor Toguraro Iro, cui bisogna riconoscere il merito di avere richiamato l'uttenzione dei botanici sopra un caso di stretta rassomiglianza esterna, che esiste fra la Bischoffia® javanica BL. della famiglia delle Euforbiacee, e la Turpinia pomifera DC. delle Sapindacee. Questa somiglianza super- ficiale, già rilevata da HIERN, si manifesta nell’abito generale, nella forma e dimensioni dei loro frutti disposti in pannocchie, e specialmente nella forma delle foglie. La somiglianza poi di queste ultime sarebbe tanto grande, che l'Autore crede che MaxImowIcz, come può essere accaduto ad altri botanici, si sia ingannato sulla determinazione del saggio rac- colto da DòDERLEIN in Satsuma, col riportarlo ad una varietà della Bi- schoffia javanica. Due ipotesi si possono invocare per spiegare questo caso di somi- glianza. L'una in riguardo al fatto che la ragione delle rassomiglianze 312 A. ARCANGELI degli abiti di certe piante si deve ricercare nel crescere di queste in simili condizioni, essendo ben noto che gli adattamenti a certe esterne condizioni spesso alterano i generali abiti delle piante; ed allora non si potrebbe parlare di mimetismo, tale adattamento non rientrando più nell'ordine dei fatti in esame. Iro dice però che, benchè la Bischoffia java- nica e la Turpinia pomifera crescano entrambe comunemente nelle foreste dell’Asia tropicale e subtropicale, a lui sembra che non vi siano tali esterne condizioni per il loro adattamento alla somiglianza, e che quindi questa si debba ricercare in altre condizioni e cause, sulle quali è basata la seconda ipotesi, che cioè l’una pianta imiti l’altra, allo scopo di ottenere con questa imitazione qualche vantaggio per la sua conservazione. Il fatto che la Bischoffia appartiene alle Euforbiacee, cioè ad una famiglia nella quale figurano numerosi esempi di piante velenose, in- durrebbe a credere che la 7urpinia rivestendo l’abito della prima, possa ricavare un benefizio nel senso che, imitando una specie nociva e ve- nendo confusa dagli animali erbivori con essa, non risente quei danni contro i quali la natura non le ha favorito altri mezzi di difesa. Iro stesso dice, e questo sarebbe favorevole, che nell'isola di Kiusiu nel Giappone meridionale, dove si trova soltanto Turpinia pomifera, i frutti rossi di questa sono mangiati dagli uccelli, i quali vi è ragione di cre- dere che non abbiano mai avuto abitudine di assaggiare i frutti di Bischoffia jav. Bisogna però che anche questo sia provato, e appunto perciò Egli invita i botanici, che risiedono in quei luoghi dove crescono la 5?- schoffia jav. e la Turpinia pom., a voler fare osservazioni sopra queste piante ed esperimenti, dando i frutti di ambedue le piante per alimento a vari generi di uccelli che frequentano quei luoghi stessi, per giungere così alla spiegazione delle cause vere che hanno determinato tale so- miglianza. Certamente non è possibile per me il poter dare una spiegazione di questo caso di rassomiglianza esistente in contrade lontane, e davanti al quale per di più si è trovato imbarazzato un valente scienziato quale Iro. Molte ipotesi potrei fare, ma certamente nessuna basata sopra dati certi. Quello che posso dire si è che, riguardo all’ipotesi che spiega questa rassomiglianza, come dovuta al crescere delle due piante nelle stesse condizioni, io sono dello stesso parere del professore giapponese nel non accettare ciò, sapendosi che il vivere nelle stesse condizioni può benissimo influire sopra le piante ‘sino a dar loro nell’aspetto esterno - una certa rassomiglianza di forme, la quale appunto caratterizza la flora IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 313 di speciali distretti; ma una rassomiglianza così grande, e specialmente in due piante appartenenti a due ordini così differenti e lontani, non si può certo attribuire alle identiche condizioni di vita, poichè essa non si manifesta così spiccata in piante che pure appartengono allo stesso genere e vivono negli stessi luoghi, subordinate alle identiche leggi di sviluppo. Un’ altra ipotesi si potrebbe azzardare, oltre la precedente: si po- trebbe cioè credere che l'imitazione fosse in tal caso dovuta alla Bi- schoffia jav., la quale, appartenendo ad una famiglia di piante non ricer- cate per il loro generale potere venefico, pur non essendo essa velenosa, abbia cercato di imitare la Turpinia pom. allo scopo d’ingannare gli uccelli che si cibano dei frutti di questa ultima, in modo da indurli a cibarsi dei suoi, magari per essere questi rigettati dagli uccelli accor- tisi dell'errore, ma ad una certa distanza, e così favorire la dissemina- zione. Ripeto, ipotesi molto azzardata, ma che non si può escludere, come pure non si può escludere la possibilità di uno strano caso di ras- somiglianza, che si presenta fra queste due piante senza nessuna condi- zione speciale, che abbia determinato in esse un adattamento protettivo quale il mimetismo; caso quindi dovuto alla semplice combinazione, 0 per ora inspiegabile. Uno studio interessante però sarebbe da farsi sopra queste piante, il quale tornerebbe di utilità alla scienza, quando anche sì venisse per esso ad escludere il fatto del mimetismo. Non ho potuto consultare l’opera lovers, leaves and fruits di Sir JoHN LUBBOCK, nella quale, da quanto dice Iro, l'Autore si mostra della convinzione che i casi di mimetismo, che sono così manifesti negli ani- mali, possano pure esistere nelle piante. Appunto per ciò viene rammen- tato dal professor giapponese nella sua nota, riguardo ad un caso dallo stesso Sir JoHN considerato di vero mimetismo, che esisterebbe fra l’Ortica (Urtica dioica) ed il Lamio bianco (Lamium album), considerazione fatta solo in base a semplici e generali rassomiglianze. Anche Iro come LuB- Bock, sembra che veda in questa somiglianza un caso mimetico: per parte mia nun credo che si tratti affatto di ciò, poche ed insufficienti essendo le ragioni che si possono addurre in appoggio di tale ipotesi. L’ os- servazione che il Lamio bianco nell’imitare 1’ Ortica consegua un van- taggio, col restare preservato da una possibile distruzione operata dagli animali erbivori, che lo confondono con la seconda, non ha che poca o niuna importanza. Prima di tutto non credo che l’ Ortica venga assolu- tamente rifiutata dal bestiame o temuta, perchò non possiede di per sè 314 A. ARCANGELI stessa proprietà nè venefiche, nè nocive tali da poter far conseguire un reale vantaggio alla pianta che la imitasse, ed anzi è talora usata per foraggio: in secondo luogo non è provato il fatto che il Lamio viene confuso con l’Ortica. Io stesso ho potuto rilevare questa somiglianza, che ripeto è molto generale; ma non soltanto essa esiste fra il Lamium album e 1° Urtica dioica. Molti Lamium, specialmente nelle foglie e nel fusto, somigliano all’ Urtica: sono somiglianze che spesso si notano fra generi affatto di- versi e lontani, ma che però bisogna studiare, avanti di attribuirle a mimetismo. I Lamii e le Ortiche sono piante che su per giù abitano gli stessi luoghi e si trovano a vivere nelle medesime condizioni; quindi niente di più naturale che queste condizioni abbiano sviluppato in am- bedue le piante una somiglianza superficiale, la quale quindi non sarà affatto dovuta all’adattamento mimetico. Ciò si rileva per altre piante’ che appartengono a famiglie ed anche ordini differenti, e non credo di essere in errore affermando quanto sopra: ma anche qualora si tratti di un caso di mimetismo, le ragioni per spiegarlo non si debbono ri- cercare in quello che suppone LuBBock e che a parer mio manca af- fatto di fondamento. Un lavoro che porta lo stesso titolo di quello di LuBBOCK, e che, al contrario di questo, ho avuto agio di consultare, è Flowers, fruits, and leaves di Lord AveBURY, pregiatissimo sotto tutti i riguardi, e nel quale l’Autore parla dei casi di mimetismo esistenti nei semi e frutti, ripor- tando in massima parte le osservazioni, già ricordate di Le MooRE. Anche Egli, come già aveva fatto LunpstRròMm, distingue nella Calendula comune tre forme di semi, cioè frutti alati, frutti uncinati e frutti lar- viformi, e riconosce in questi ultimi una funzione mimetica: però Egli pure non si è accorto della funzione del tutto diversa da quella loro attribuita, che hanno i frutti detti alati od anemofili. Fa notare l’Autore che se vi sono delle somiglianze strane e non spiegabili altro che per essere dovute all’accidentalità, altre ve ne sono manifestamente utili alla pianta. A tale proposito Egli cita il già ricor- dato esempio dei legumi dello Scorpiurus subvillosa, il legume del quale, rassomiglia ad un centogambe. Fra i numerosi esempi di mimetismo (nei semi e frutti) che Egli riporta, e molti dei quali io ho già rammen- tato nel fare la relazione dei lavori di altri autori, come per esempio quelli dei semi di Ricimus, Lupinus, Jatropha ecc., citerò quello dei - semi di certe malve, che somigliano piccole larve e centogambe, e quello IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE olo dei semi del Melampyrum, che somigliano formiche. Il legume della Biserrula Pelecinus ha una sorprendente somiglianza con un centogambe depresso, mentre i semi dell’Abrus precatorius, tanto nelle dimensioni che nel loro vivace colore, simulano un piccolo scarabeo, l’ Artemis cèr- cumusta. Anche in una Cucurbitacea, nella Zrichosanthes anguina, i lun- ghi frutti sospesi somigliano nella forma e nel colore e nell’attitudine serpenti, come lo indica lo stesso nome specifico. Per spiegare tali adattamenti mimetici AveBURY ricorre alle ipotesi già enunciate avanti, considerando i vantaggi che da queste somiglianze deriverebbero ai semi e quindi alla pianta. Conclude purtuttavia che non sì conoscono ancora abbastanza gli abiti di queste piante per risolvere tali questioni, e che in realtà, nel proseguire, egli non dubita che si pre- senteranno molte altre questioni che non siamo in grado di spiegare, perchè not non conosciamo tutto riguardo ai semi e frutti, e che non vi è frutto o seme, anche delle nostre piante più comuni, che non giu- stifichi ampiamente e riccamente ricompensi di uno studio accurato. Non posso tacere che, fra le ultime pubblicazioni riguardanti il mi- metismo, mi fece una spiacevole impressione e meraviglia l’apprendere che un naturalista inglese, Grorce HENSLOWE, contrariamente a quanto è stato già osservato ed asserito dai numerosi suoi connazionali, si è mostrato acerrimo nemico della teoria del mimetismo, tanto per il regno animale che per il vegetale. È inutile dire che per combattere tale teoria Egli non prende a trattare la questione proprio dal lato vero, e adduce osservazioni che hanno poco o nessun valore. Non nego che molti oppositori abbia incontrato la teoria del mimetismo nei vegetali, la quale è venuta alla luce più tardi di quella riguardante gli animali e che pur nonostante dovrà trionfare; ma credo. opportuno notare, che ormai il mimetismo negli animali è quasi univer- salmente riconosciuto, dopo i grandi studi di Bates, WALLACE ed altri. HensLowE infatti non ha potuto attaccare ciò che questi hanno detto, ed ha taciuto riguardo ad'essi, come se non conoscesse i loro studi: cer- tamente portare questi in campo sarebbe stato per l'Autore troppo ri- schioso, ma evitandoli Egli è uscito fuori dell’argomento. L’interpretazione, dice Egli, sembra essere, generalizzando da un vasto cumulo di fatti, che simili abitudini di vita abbiano prodotto gli stessi risultati, nei limiti della capacità della tipica struttura degli animali. Perciò, secondo il suo parere, il colore bianco degli animali artici, il colore fulvo di quelli abitanti i deserti non sono dovuti ad adattamento protet- Se. Nat. Vol. XIX Di 316 A. ARCANGELI tivo, perchè ciò si applica tanto alla preda, quanto al suo nemico: co- sicchè non è facile il poter dire come la protezione favorisca l’uno piut- tosto che l’altro. Ora io dico che la protezione favorisce proprio ambe- due, perchè se la preda cerca di proteggersi dall’assalitore assumendo un colore simile a quello dell'ambiente, anche l’assalitore avrà interesse a compiere lo stesso adattamento, per proteggersi contro le condizioni a lui sfavorevoli dell'ambiente e non essere avvertito dalla preda. Si tratta sempre di protezione contro qualche cosa che è di svan- taggio, per farne così derivare un vantaggio. Nessuno può negare che simili abitudini di vita possano produrre gli stessi risultati, ma ciò non esclude il mimetismo. È appunto per questo che HeNsLOWE pare non sia penetrato a fondo nel senso di questa parola. Non si devono, lo ripeto, riguardare come casi mimetici delle semplici rassomiglianze, le quali, oltre a poter esser casuali, possono esser dovute alle identiche condi- zioni di vita, ma quelle somiglianze, le quali si può rilevare essersi andate sviluppando allo scopo di ingannare gli animali, e ciò a benefizio delle funzioni della pianta. Anche i veri sostenitori del mimetismo non possono negare che lo studio degli abiti delle piante prova che molte esterne rassomiglianze son dovute al loro crescere in simili condizioni. Ciò, come dice HEnsLOwE, apparisce benissimo in piante abitanti di- stretti differenti per condizioni molto marcate come i deserti, l’acqua, le regioni artiche ecc., nelle quali piante si nota una certa facies o somi- glianza superficiale comune. Ma con questo non si ha alcuna ragione di non ammettere il mime- tismo, il quale è una cosa differentissima da queste semplici somiglianze. Capisco che si può in certi casi essere condotti benissimo in errori, però facilmente evitabili mediante uno studio accurato della biologia delle piante nelle quali si notano le somiglianze. HensLowe fa un lungo resoconto di rassomiglianze che esistono fra piante di differenti famiglie, riguardo al fusto, alle foglie, ai fiori, che non starò a ripetere; somiglianze che io stesso riconosco in gran parte dovute alle simili condizioni in cui vivono tali piante: ma non fa alcun cenno alle somiglianze realmente devolute ad una funzione ingannativa. Pare poi che l’Autore abbia inteso sotto il nome di mimetismo sola- mente i fatti di somiglianza che esistono fra piante appartenenti a ge- neri, famiglie ed ordini differenti, perchè non fa. parola delle imitazioni che si riscontrano sovente nelle parti di piante od organi, con oggetti che. uno studio facile dimostra ad esse affatto estranei ed anche delle imita- IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 317 zioni di animali. Vorrei sapere come l’Autore spiega queste sorprendenti rassomiglianze, se non le considera come fatti mimetici, poichè le rasso- miglianze protettive che esistono fra piante differenti, costituiscono una piccola parte dei fatti che si comprendono oggigiorno sotto la parola mimetismo, la quale ha un significato molto vasto. To stesso, da quanto antecedentemente ho mostrato, non ho accettato come mimetici quei casi nei quali mi è sembrato che la somiglianza fosse causata dalle identiche condizioni di vita delle piante. Non credo quindi ‘di errare concludendo che quanto ha affermato HENSLOWE, se non reca alcun contributo alle prove in favore della esistenza del mimetismo, non è di verun danno ad essa; e che delle sue osservazioni non si deve tener conto, se non nel senso di guardarsi bene dal ricercare una funzione mi- metica, dove invece la rassomiglianza è stata prodotta da cause estranee a quella del bisogno di protezione. i Con la nota di HENSLOWE, che porta la data del 1900, termina la serie dei lavori più importanti che sino al giorno d’oggi, per quanto ho potuto racco- gliere nelle biblioteche a mia disposizione, sono stati eseguiti sopra questo interessante argomento, e ciò potrebbe bastare a dimostrare l’esistenza di questo fenomeno nel regno vegetale: pur tuttavia ne aggiungerò alcuni altri. Tempo fa mio padre, studiando le foglie della Drosera rotundifolia e l’attitudine loro a catturare animaletti e digerirli, mediante l'umore vi- schioso acido secreto dalle glandule terminanti i loro tentacoli, intravide un caso di mimetismo molto curioso e verosimile. Non sarà inutile ricordare che in questa graziosa pianticella carni- vora la lamina della foglia è fornita di numerosi tentacoli d’ ordinario colorati in rosso, dei quali i periferici più lunghi stanno patenti e pro- tesi sotto le radiazioni solari, ed i centrali, assai più brevi, eretti. Tale disposizione, per la quale il lembo foliare presenta una certa somiglianza con un piccolo fiore, i cui numerosi stami sarebbero trasformati in ap- pendici glandulifere simili a nettarii e spieganti funzione adescativa, non solo per la loro disposizione e per il loro colore, ma anche per la perla brillante che ne termina l’estremità, costituirebbe secondo G. ARCANGELI un fenomeno di antomimetismo e più specialmente di nettaromimetismo. I piccoli insetti che devono servire alla nutrizione della pianta, sono attratti a questi organi, come sono da un fiore con i suoi nettarii. Ag- giunge l’Autore che, siccome poi la struttura di questi tentacoli molto somiglia quella di certi idatodi, non è improbabile che essi derivino da idatodi che hanno per adattamento acquistato apparenza simile ai net- 318 A. ARCANGELI tarii fiorali, a vantaggio della pianta che li porta, contribuendo al ri- chiamo degli insetti stessi. Secondo mio padre poi, dal fatto che in alcune piante le appendici glandolifere sono colorate in rosso ed in altre sco- lorate, o poco colorate, egli dedurrebbe che la funzione mimetica dovuta alle cellule antocianifere non può ritenersi abbastanza fissata negli or- gani che la presentano, e quindi la sua origine non dovrebbe risalire ad epoca molto remota. L’essermi dedicato a questi studi da poco tempo mi ha impedito di fare osservazioni originali: non pertanto citerò anche io un caso che con tutta probabilità ritengo dovuto ad adattamento mimetico, e che mi fu dato di osservare nell’acquario dell’Orto botanico pisano. Si tratta di una pianticella acquatica, 1’ Aponogeton distachyus, la quale produce dei fiori bianchi in spiga unilaterale, semplice, bifida, alla som-. mità di un gambo ascellare racchiuso in una spata conica, chiusa, mem-' branosa. Nei fiori non esiste perianzio, quindi la funzione vessillare è affidata a brattee bianche, carnose, una per fiore. Gli stami di ciascun fiore in numero di 4 sono più corti dei carpidi, e presentano un’antera al solito fornita di 4 sacche polliniche riunite in due coppie separate dal connettivo. Questa antera ha un colore rosso cupo lucido, che fa un contrasto grandissimo con il bianco candido delle altre parti del fiore o della spiga; colore che insieme alla forma contribuisce a dare l’aspetto all’antera di un piccolo coleottero, la linea del connettivo rappresentando la divisione delle elitre. Infatti ad una certa distanza, nell’ osservare una di queste infiorescenze, si ha come l'impressione di tanti insetti che ivi si siano posati a bella posta. Aggiungerò che molte persone, alle quali feci osservare tale pianta in fiore, mi espressero anche esse di aver no- tato quella stessa apparenza. Non credo dunque improbabile che qui si abbia un caso di entomomi- metismo abbastanza manifesto, il quale avrebbe lo scopo di attirare pic- coli coleotteri o altri animaletti, che molto verosimilmente debbono funzio- nare da pronubi in questa pianta, a fine di rendere più agevole mediante l’opera di questi la fecondazione incrociata. Ciò mi sarebbe stato con- fermato dall’avere io stesso raccolto sopra tali infiorescenze numerosi microcoleotteri, i quali certo dovevano essere stati attratti dalla speciale apparenza delle antere, per le quali non saprei spiegare in altro modo la presenza di un colore “che tanto risalta sulle altre parti del fiore. Si consideri poi che questo è un adattamento per ottenere il quale non . occorreva una grande energia differenziatrice, per la conformazione del- IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 319 l’antera stessa che si prestava ad esso, e che quindi la pianta si è sen- tita, a parer mio, disposta ad acquistare a preferenza di altri. Non tralascerò di ricordare come fenomeni di mimetismo si riscon- trano pure nei funghi. Di essi si occuparono lo SMITH, il PLoWRIGET, il Cook ed il FARLOw, e basterà per essi citare il ben noto Ulathrus can- cellatus, che imita nella sua gleba una reticella di carne in via di pu- trefazione, ed attrae le mosche carnarie a vantaggio della dissemina- zione. Noi abbiamo passato in rivista i più importanti ed evidenti esempi di questo fenomeno biologico esistente nel regno vegetale; ma non sarà difficile il convincersi un giorno che essi sono più numerosi di quello che sì creda a prima vista. Tanti e tanti altri se ne possono osservare anche per uno studio non troppo accurato e superficiale, i quali dimostrano che il mimetismo si può sviluppare nei diversi organi della pianta, dal fusto alla foglia, dal fiore al frutto, e che ha sempre il medesimo scopo di rendere un vantaggio alla pianta che ne è provvista. È di comune conoscenza il fatto che in molte piante, specialmente per esempio negli Arwm fra le Aracee e nelle Aloé fra nelle Liliacee, sovente i piccioli, sia anche le foglie, si presentano macchiati e provvisti di ver- rucosità, in maniera da simulare fusti di piante legnose rivestiti di licheni, od anche la screziatura della pelle di un serpente. Una somiglianza me- ravigliosa con la pelle di un serpente ho potuto notare altresì nelle lun- ghe foglie della 7illandsia zonata, una Bromeliacea, tanto per la screzia- tura di colori che esse presentano, quanto per lo speciale ripiegamento loro proprio. Le Tillandsie sono tutte piante infatti dell'America meridio- nale, terra tanto abbondante di serpenti, e non è improbabile che questa speciale apparenza sia di grande utilità alla pianta, nel salvaguardarla dall’attacco di speciali nemici. Niente di positivo però posso affermare che spieghi e convinca della funzione protettiva, che tale somiglianza molto probabilmente compie. Uno studio di questa 7i/andsia fatto nel luogo nativo della pianta, dovrebbe risolvere facilmente la questione. Nei semi e frutti poi io credo che sia in massima parte sviluppato l’adattamento mimetico. Non è difficile il convincersi che il colore diverso che essi presentano deve avere sempre uno scopo: infatti i semi verdi ven- gono distinti difficilmente dagli animali in mezzo al fogliame ed alle erbe; e così pure i semi ed i frutti che cadono nell’autunno hanno un colore che si uniforma a quello delle foglie od a quello del terreno su cui cadono. 320 A. ARCANGELI Sono questi per lo più i frutti ed i semi che verrebbero mangiati e di- strutti dagli animali. Ma il mimetismo nei semi e nei frutti non si limita solo al colore, come abbiamo visto per lo innanzi, ma si perfeziona ulteriormente sino alla forma molto spesso imitante in modo sorprendente il corpo di un co- leottero o di un altro animale. Si sa che esistono frutti e semi che vengono mangiati dagli uccelli specialmente, senza che i loro semi abbiano potuto perdere la facoltà germinativa, fe dissi ancora più sopra che i semi emessi dagli uccelli insieme con gli escrementi germinano meglio di quelli non toccati. Ora non è senza importanza il fatto che appunto in tutte quelle piante, nelle quali la diffusione è operata in massima parte dagli uccelli, i semi ed i frutti posseggono colori vivaci o tali da attirare gli uccelli stessi, colori x ai quali è stato dato il nome di colori di richiamo. In molti casi, a favorire il richiamo, nei semi si è sviluppato l’adattamento mimetico, in modo da simulare essi il corpo di insetti od altri animali, pasto or- dinario degli uccelli, e con tale inganno la pianta provvede ad una fa- cile disseminazione. Si aggiunga poi che, a mio parere, con tale somi- glianza i semi ottengono un doppio scopo, cioè di favorire la dissemi- nazione operata dagli uccelli e di non essere avvertiti da animali se- minivori, alla voracità dei quali essi non potrebbero sfuggire senza tale inganno. Ultimamente io ebbi la fortuna di avere dal Comm. CARLO SIEMONI un certo numero di semi di Aicinus, la cui somiglianza con coleotteri è tanto manifesta, che ho creduto bene di riportarne annessa a questo la- voro la fotografia. I semi dei numeri 1, 2, 3, 4, della tav. XII, come si può ben vedere, hanno una somiglianza perfetta con coleotteri del gruppo degli scarabeidi: essi sarebbero, secondo quello che mi fu riferito, varietà della specie Ricinus Zanzibariensis. Non sarà inutile che io dia un cenno dei colori che in essi si presentano, per darne un’idea più esatta al lettore. Nei semi del numero 1 si ha un colore nero con tendenza al rosso cupo e rare e minutissime macchioline bianche sparse. Nei semi del numero 2 si ha un fondo bianco con punteggiature e macchie non molto grandi rosso pure e sparse, prevalentemente sulla faccia ventrale, che nella figura non si può vedere, e nel margine. Nei semi del numero 3 si ha un fondo bianchiccio con punteggiature assai fitte e numerose, e macchie grandi ed oblunghe rosso scure piut- tosto rare. IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 321 In quelli del numero 4 si ha un fondo bianchiccio con punteggiature e macchie grandi ramificate, al solito rosso scure, e che vanno estenden- dosi di più nel margine e nella regione ventrale. I semi segnati con gli altri numeri 5, 6 ecc. sono tutti di varietà del R.communis, ed hanno, a vista mia, più l’aspetto di coleotteri curculionidi - che altro. La somiglianza di tutti in generale con coleotteri non potrebbe essere raggiunta in modo migliore: la caruncola simulante la testa ed il torace, la lucentezza particolare, i meravigliosi disegni che derivano dalla disposizione delle macchie, la forma generale del seme, sono tutte particolarità che nell’insieme danno ad esso un’apparenza talmente di coleottero, da ingannare a prima vista qualunque osservatore. Quale specie poi le rammentate forme particolarmente imitino, bisognerebbe ricercarlo nel luogo natìo della pianta, ricerca che non sarà difficile possa essere un giorno eseguita con successo favorevole. È notorio che nei fiori si presentano interessantissime disposizioni, devolute a favorire la fecondazione incrociata (dicogamia) per opera degli insetti: fra queste certo occupa uno dei primi posti il mimetismo, che si può presentare, sia localizzato in alcune parti del fiore, come pure può darsi che interessi tutto l'insieme del fiore. È degno di speciale interesse il fatto che esiste nel regno vegetale, una grande famiglia, quella delle Orchidee, la quale, fra le tanto ma- ravigliose e svariate disposizioni che presenta, ci offre nei suoi fiori, più che in qualunque altra famiglia di piante, esempi bellissimi di mi- metismo, inquantochè il perianzio simula il corpo ora di un pecchione,: ora di una farfalla o di un altro insetto. Per non parlare delle bellissime Orchidee delle flore straniere, spe- cialmente di Australia e Isole Malesi, per le quali non si è potuto, date le grandi difficoltà, fare accurati studi sopra i rapporti che esistono 0 devono avere esistito fra gli insetti ed i loro fiori corrispondenti, ba- sterà che io ricordi le Orchidee dei nostri luoghi. Esse, dice il PARLATORE, posseggono molti fiori, il più delle volte piccoli, distribuiti in un racemo o in una spiga ora fitta, ora rada, che. si allunga per lo più dopo la fioritura, ed aventi una forma bizzarra, perchè il labello ha forma, dire- zione e colore diverso dai tre pezzi esterni del perigonio e dai due interni laterali, e rappresenta spesso una mosca, un’ ape e simili insetti: esso ha spesso macchie e righe di diverso colore, ovvero macchiette scure e lucide di varia forma. Che questa somiglianza fu avvertita già dai primi osservatori e classificatori lo dimostra il nome sia specifico, IL A. ARCANGELI sia generico che hanno avuto molte Orchidee. Infatti abbiamo fra le Orchis della nostra flora, la O. zoophora, la O. papilionacea: fra le 0- phrys, la O. muscifera, la O. insectifera, la O. vespifera, la 0. arani- fera, la O. bombilifera, la O. crabronifera, la O. apifera, la O. arachnites, la 0. oestrifera: nomi tutti derivati dall’apparenza di insetto o aracnide che si riscontra nel fiore di ciascuna delle rammentate specie. Il genere Phalaenopsis di Borneo poi, ha derivato il suo nome dalla rassomiglianza che presenta il fiore di questa pianta con un lepidot- tero. A ragione quindi O. BeccaRI nella sua bellissima opera intitolata Nelle foreste di Borneo, riportando le varie specie di orchidee, che lo meravigliarono nello studio di quella lontana flora, dice che nessun altro ordine di piante produce fiori che così palesemente appariscono model- lati sopra gli insetti, e giustamente fa osservare che, per tale fatto, le Orchidee possono veramente dirsi le farfalle del regno vegetale. Oggigiorno i biologi sono di accordo nell’ammettere che la concor- renza che si fanno gli insetti nel visitare i fiori, si deve essere neces- sariamente tradotta in una concorrenza, che a lor volta si fanno i fiori per attirare gli insetti e per essere i preferiti; quindi dovette essere estremamente proficuo ad ogni specie di piante il produrre fiori discre- panti nel colorito, nonchè nelle dimensioni e forme degli organi fiorali, dai fiori delle specie circonvicine. Se si riconosce dunque che i colori non esistono casualmente nei fiori, ma vi esistono allo scopo di esercitare un’ azione estetica ed at- trattiva sugli insetti, il cui intervento è necessario alla fecondazione, non si deve ritenere casuale il fatto che molto spesso in essi fiori si riscontra l’imitazione, sia nei colori, sia anche nelle forme degli insetti stessi; ma ciò vuol dire che in tali casi la concorrenza, favorita da spe- ciali condizioni e conformazioni del fiore, non si è limitata alla produ- zione di colori smaglianti, ma si è perfezionata sino a produrre il mi- metismo. Molto geniale è la maniera secondo la quale il BeccAaRI spiegherebbe il mimetismo del colore, e perciò degna di esser qui riferita. Parlando delle piante ospitatrici !) Egli dice: “ IZ mimetismo del colore,-ossia la ri- produzione di certi colorì eguali a quelli dell’ insetto che frequenta la pianta, può spiegarsi per la sensazione che certò determinati colorè possono pro- durre sul protoplasma. Un insetto a vari colori, riposando sotto la viva 1) V. Malesia. — Vol. II, fase. I-II, 1884, pag. 32. IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 323 luce del sole sopra un fiore, influenzerà differentemente il protoplasma, a seconda dei differenti raggi solari che vanno a colpirlo, traversando il corpo dell'insetto. Se per esempio l’insetto è a macchie gialle e rosse, la luce influenzerà il protoplasma del petalo sottoposto all’insetto in un modo dif- ferente neè punti dove passano i raggi gialli. L'effetto non può essere av- vertito immediatamente, ma la modificazione del protoplasma può avere avuto luogo, e nella prole potrà dare origine ad un leggero cambiamento nei colori del petalo. Con la ripetizione delle visite la modificazione potrà sempre più accentuarsi, finchè potrà diventare avvertibile anche per V in- setto frequentatore, il quale potrà în seguito acquistare una speciale sim- patia od attrattiva per è fiori che portano i suoi colori a preferenza degli altri ,. Ben a ragione l’ Autore dice che la selezione da sola non avrebbe potuto dare il primo impulso alla riproduzione in un fiore dei colori di un insetto; ma non posso accordarmi con lui circa la spiegazione sopra riferita. Infatti io non credo necessaria una sensazione prodotta dal- l’insetto sopra la pianta per sviluppare il colore analogo: secondo il mio modo di pensare, il mimetismo non è un fatto che si origina, faccio per dire, dal niente, ma esso implica la preesistenza di qualche cosa, di cui rappresenta niente altro che una modificazione. Voglio dire con questo che in una specie, in cui si presenta il mimetismo, avanti che questo si sviluppasse, essa possedeva già delle particolarità le quali si presta- vano per subire delle modificazioni che portassero all’ adattamento mi- metico, e che trovandosi la pianta in condizioni tali da risultarle van- : taggioso tale adattamento, a poco per volta essa lo ha acquistato. Che le sensazioni prodotte da certi determinati colori sul protoplasma, ab- biano dato luogo alle modificazioni che hanno poi prodotto il mimetismo, e che quindi possano essere utilizzate dalla pianta a proprio benefizio, ciò potrà anche darsi, ma certamente entriamo con cotesta ipotesi, per quanto ingegnosa, in un campo nel quale la scienza brancola sempre nella oscurità, non potendosi spiegare come il protoplasma possegga questa sensibilità, e l’attitudine a riprodurre quegli stessi colori; D’al- tra parte tale ipotesi non si potrebbe applicare altro che ai fatti d’ imi- tazione di insetti, relativi ai fiori, alle foglie, ai fusti, ai semi, ma cer- tamente non sarebbe adatta per spiegare altri fenomeni, come per esempio la simulazione di un frutto o di materie in decomposizione, per i quali non possono agire tali sensazioni nel modo indicato, e che fanno nascere l’idea della esistenza di una. specie di intelligenza anche nelle piante. 324 A. ARCANGELI Infatti, se noi si va ad intravedere la prima origine del fatto, per cui una pianta sembra quasi che abbia saputo indovinare il gusto degli insetti pronubi, col preparare loro una simulazione perfetta delle sostanze di cui essi sono ghiotti, sorge quasi spontaneo nella mente il pensiero che ciò implichi quasi l’intenzione di ingannare l’osservatore, e che quindi la pianta possegga, se non un'intelligenza, almeno delle sensazioni e at- titudini semplici, elementari, analoghe a quelle che si riscontrano nei pri- mordi dello sviluppo della intelligenza animale. Giustamente osserva il BeccaRI nella, opera già rammentata, che per chi non ha tenuto dietro agli studi recenti, l’idea di un’ attività vitale nelle piante di natura identica a quella degli animali, sembrerà un as- surdo, per la mancanza nelle prime di manifestazioni esterne appari- scenti e sopratutto per la loro immobilità. Genialmente quindi egli cerca di dimostrare, e con argomenti stringenti, che anche nelle. piante si deve ammettere una sensibilità, paragonabile in un certo qual modo a quella animale, e come uniformi siano le leggi che animano la materia del- l’intero mondo organico. Per parte mia io credo di dovere, nello studio di questi fenomeni nel regno vegetale, mettere da parte, almeno per ora, ogni preconcetto riguardante l’intelligenza nelle piante; poichè, siccome anche per il regno animale si ammette che l'adattamento mimetico sia un effetto della se- lezione naturale, e non può essere conseguito dall’animale per la volontà, si deve con maggior ragione pensare nello stesso modo riguardo al regno vegetale. Questi fenomeni risultanti dunque dalla variazione per selezione na- turale non trovano una spiegazione presso gii antitrasformisti. Si consi- deravano quindi prima come esempi di quelle analogie curiose ed inespli- cabili, che si riscontrano nella natura, oppure si ammetteva che ciascuna specie presentante il fatto dell’imitazione, fosse stata in tal modo creata allo scopo stesso di essere così protetta. La teoria della selezione naturale esposta da Darwin fornì però il mezzo di spiegare questi fatti nella maniera più semplice. Infatti noi sappiamo che nelle specie tutte avvengono leggere variazioni di colore e di forma, e ne abbiamo continuamente esempi numerosissimi: ora, se noi pensiamo che in una pianta qualunque od in suo organo si sia pro- dotta (esternamente) una leggera variazione, che può costituire per essa una manifesta utilità, sia nel proteggerla contro speciali nemici, sia nel favorirla nella sua diffusione, variazione che può consistere nel presen- IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 325 tare essa un colore, ed una forma anche, che le dà una vaga rassomi- glianza con animali dotati di certe particolarità o di mezzi qualunque di difesa, o con qualche altra cosa estranea ad essa, si capisce bene che questa variante, permettendogli di vivere e di diffondersi, si trasmet- terà di generazione in generazione, e l'adattamento del colore e della forma si completerà a poco a poco, per la continua ed incessante azione dell'utilità di cui la pianta risente gli effetti. . La rapidità della moltiplicazione, dice WALLACE, la continuità delle variazioni, anche le più leggere, e la sopravvivenza dei più atti, tali sono le leggi che terranno sempre il mondo organizzato in armonia con sè stesso e con il mondo organico. Noi abbiamo delle conoscenze imperfette riguardo alla vita delle piante, ma con tutto ciò noi sappiamo che esiste una grande varietà nel loro modo di protezione e nei loro mezzi di diffusione. Alcuni di questi mezzi sono abbastanza efficaci per assicurare la conservazione di una specie, e allora si capisce senza sforzo che in questo caso una pro- tezione derivata dalla modificazione del colore e della forma sia super- flua. Infatti è fra i gruppi provvisti ad un alto grado dell’uno dei tanti mezzi di difesa che noi troviamo l’assenza quasi completa di imitazione protettiva. Quanto ai fatti di mimetismo esistenti fra una pianta ed un’altra di gruppo ben diverso, già dissi per lo innanzi quale sia la regola di studio che si deve tenere in casi simili per non cadere in errore, considerando come mimetiche disposizioni nelle quali il mimetismo non entra affatto in giuoco. È provato però che questi fatti esistono, allo stesso modo che esistono imitazioni di una specie animale per parte di un’altra di ge- nere, famiglia, ordine differente. Faccio notare che a queste somiglianze, che si riscontrano in ambe- due i regni, si sono ancora date spiegazioni differenti da quella che vien data dalla teoria della selezione naturale, ed anche si è voluto esclu- dere in esse il mimetismo. Si è preteso da alcuni spiegarle con la teoria delle condizioni simili, le quali hanno effetti simili, come già accennai essere stato fatto da HensLowe, e da altri con la teoria dell’ eredità, cioè con il ritorno di certe specie alle forme ed ai colori dei loro tipi primitivi. Per tale ipotesi il fatto mimetico doventa una circostanza avventizia, che non implica nessun vantaggio per la pianta che lo pre- senta. Però è facile dimostrare che si hanno molti e buoni argomenti per contraddire efficacemente le nominate teorie. Infatti si obietta in 326 A. ARCANGELI primo luogo che queste somiglianze sono circoscritte ad un piccolo nu- mero di piante: ciò non dovrebbe essere se esse fossero dovute alle condizioni simili ed all'eredità, perchè le prime devono più o meno agire sopra tutte le piante di una data regione, e la seconda deve in- fluire in grado eguale sopra i gruppi fra loro affini. Si aggiunga poi che il fatto generale della rarità delle specie imitatrici relativamente alle specie imitate, la presenza frequente di una manifesta protezione qual- siasi nella specie imitata non sono assolutamente spiegate da tali teorie. Il ritorno ad un tipo primitivo poi non spiega il fatto per il quale la pianta imitata e l’imitatrice abitano sempre il medesimo distretto, mentre che delle forme che sono collegate con esse in tutto e per tutto abitano d’ordinario delle contrade del mondo ed anche parti differenti: nè questa teoria, nè quella delle condizioni simili spiegano perchè fra specie di gruppi distinti l’analogia è unicamente superficiale, perchè essa si trova fra specie che appartengono a famiglie, ordini, e classi differenti. Questi argomenti convincentissimi io ho attinto da WALLACE, che per il primo li mise in campo relativamente alle imitazioni di specie ani- mali per parte di altre specie: essi si adattano benissimo ai casi consi- mili esistenti nei vegetali e li spiegano. Da ciò si vede quanta relazione esista fra i fenomeni di questa specie esistenti in ambedue i regni ani- male e vegetale, e come sia logico, se si ammettono nel primo, am- metterli anche nel secondo. Credo di avere a sufficienza dimostrato di quale alta importanza sia lo studio di questi fenomeni biologici meravigliosi, e quale ufficio essi compiono nella economia del regno vegetale. Davanti ad essi, che prima venivano considerati come combinazioni inesplicabili del caso, e che spesso sono portati ad un punto di rifinitezza tale che sembrano implicare l’in- tenzione di ingannare l’osservatore, si arrestano meravigliati gli uomini tutti, dal profano della scienza allo studioso. Come abbiamo veduto, nei fenomeni mimetici dei vegetali noi ab- biamo un’infinità di gradazioni che, cominciando dall’adattamento e dal- l'armonia generale del colore dei fiori con gli insetti che li visitano, vanno a terminare ad esempi di completa imitazione fino nei dettagli, come nei semi imitanti coleotteri, e tali che se riescono momentanea- mente ad ingannare anche l’uomo, si capisce quanto maggiore debba essere l’azione che essi esercitano sugli altri animali. L’opera incessante dello studioso scuopre ognora nuovi esempi di questi fenomeni, dei quali tanti devono essere a noi sconosciuti e non IL MIMETISMO NEL REGNO VEGETALE 327 avvertiti, non solo nelle piante delle nostre località, ma specialmente in quelle delle flore tropicali, la cui storia non è stata ancora studiata altro che in modo molto imperfetto. Il soggetto del mimetismo nel regno vegetale, bisogna riconoscere che è ancora molto più sconosciuto di quello che sia nel regno animale. Quindi il botanico ha davanti a sè un campo infinitamente esteso e poco esplorato, che lo ricompensa riccamente di uno studio accurato: ed io mi auguro che gli studi biologici nel loro cammino trionfale spargeranno viva luce sopra le forze che agiscono sopra questo fenomeno, e delle quali per ora nessuno ha potuto dare una spiegazione tanto chiara quanto sufficiente. Se non ho potuto esporre altro che in modo breve ed imperfetto assai, le diverse maniere sotto le quali si presenta il mimetismo nei ve- getali, mi stimerò oltremodo contento, qualora con questo mio lavoro io abbia saputo richiamare l’attenzione dei botanici moderni sopra questo interessantissimo argomento, per assegnargli quella importanza che esso merita, avendo pure accennato in modo chiaro all'indirizzo che si deve seguire nello studio del medesimo. BIBLIOGRAFIA ARCANGELI GrovannI. Osservazioni sulla fioritura del Dracumculus vulgaris. Nuovo Giornale botanico italiano, vol. XI, Firenze, 1879, pag. 24. ArcanGELI Giovanni. Osservazioni sull’impollinazione in aleune Aracee. Nuovo Giornale botanico italiano, vol. XV, 1883, pag. 72. i ArcanerLI Giovanni. Sul Dracunculus canariensis Kunta. Bollettino della Società botanica italiana, 1892, pag. 87. ArcaneeLI Giovanni. Sul! Hermodaciylus tuberosus. Bollettino della Società botanica italiana, 1895, n.° 6, pag. 182. i Arcanerni Giovanni. 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FAUSTO SESTINI — toro _— STUDI SULLA COMPOSIZIONE CHIMICA DELLE FOGLIE DEL GELSO Gli studi sulla composizione chimica della foglia del gelso furono in- cominciati in Italia da P. OrtAvIo FERRARIO; e forse fu a ciò invogliato dalla mancanza di ogni indicazione su tale argomento nella ben nota opera “ Economie rurale , pubblicata nel 1842 da I. BoussineaAUIT. Poco dopo, e precisamente nel 1845, comparvero le analisi di DomeNICO BLENGINI ?), mentre nel 1846 il prof. Damiano CASANTI 3) dette alle stampe una memoria sopra i suoi studi analitici intorno alle foglie delle piante mangiate dai bachi da seta, che completò con altra memoria stampata nel 1848. Il P. FeRRARIO dalle foglie di gelso; in verità, fece poco più che to- gliere la clorofilla con l’etere, lavò la clorofilla ottenuta, ed evaporando l’acqua di lavatura, ottenne una sostanza di color ambra giallo-rossa, che chiamò morofilla, e che pare fosse una combinazione della materia co- lorante del gelso con acido tannico. Il BLENGINI si propose di determinare l’albumina, o (come allora di- cevasi) di valutare da un lato i materiali plastici, non che la clorofilla e la cera, e dall’altro lato i materiali respiratori (mat. colorante, fibra legnosa ecc.). Con tale intendimento fece bollire il succo espresso dalla foglia (e così separò l’albumina vegetale contaminata, come esso avvertì, da varie 1) Staz. Sp. Agr. Ital. vol. XXXIV, pag 825 bis. ?) Saggio analitico delle foglie del gelso (morettiano e delle Filippine) e della Maclura aurantiaca. Accad. Agr. di Torino, vol. VIII, pag. 180. 3) Accad. dei Georgofili, vol.mi XXIV, XXV, XVI. STUDI SULLA COMPOSIZIONE CHIMICA DELLE FOGLIE DEL GELSO 331 sostanze) e trattò a caldo il coagulo con alcole forte, a 40° B°, per separarne la clorofilla e le materie più o meno solubili nell’alcole; per la qual cosa ottenne cifre troppo elevate per i materiali plastici o azotati (da 16, 36 a 19,44%), e deficienti pei materiali respiratori o non azotati (da 3, 6 a 6,20%). Cosicchè le analisi del BLENGINI sodisfacevano poco meglio di quelle di P. FeRRARIO, che aveva determinata l’albumina sottoponendo la foglia del gelso, prima esaurita con etere e alcool, all’azione dell’acqua bollente a cui era aggiunto idrato sodico, e saturando in gran parte il liquido alcoolizzato, con acido acetico: la materia che si precipitò fu da lui considerata come sostanza amidacea, e ciò che restò disciolto fu qualificato per albumina. DamraNO CASANTI, ispirandosi all’esempio delle analisi pubblicate dai più rinomati Chimici suoi contemporanei, e specialmente a quelle di BoussincAULT, eseguì determinazioni più razionali e meglio specificate, e fece rigorosa analisi chimica delle ceneri: solamente in luogo di dedurre la quantità dei materiali plastici dall’azoto, stimò più opportuno di va- lutarne il peso direttamente, sciogliendoli in acido cloridrico allungatis- simo a mite temperatura, coagulandoli e raccogliendoli sopra filtro per lavarli, seccarli e pesarli, conforme era allora ammesso in seguito alle ricerche di BoucHARDAT e SANDRAS, confermate con ricerche qualitative dall’esperimentatore, ma a quanto pare eseguite con metodi che oggi non si possono più ritenere all'uopo sufficienti. Si sa che E. FiscHER e SkITA, applicando il metodo di ScHwANERT (azione dell’acido solforico) sulla Caseina e la Fibroina, ottennero da questi proteidi acidi monamminici, fenilalanina, 2-ac. pirrolidicarbonico, ed altri consimili prodotti di scomposizione (Berichte d. D. Ch. G. 1901 34. 447). È poi notissimo che gli acidi energici punto punto concentrati, in specie con l’aiuto del calore, possono scomporre le materie proteiche in sostanze molteplici meno complicate (ammidi, acidi ammidati, acidi grassi ecc.); ma probabilmente l’ HCI in soluzione molto allungata, mas- sime alla temperatura di circa 35° al più, è difficile che possa scom- porre quantità notevoli di sostanze proteiche contenute nei tessuti delle piante, in ammidi ed acidi ammidati. Per conseguenza sarebbe stato facile prevedere che col metodo di DAmraNo CAsANTI, piuttosto che scomporre, potessero disciogliersi poco o leggermente alterate, forse soltanto peptonizzate, le predette materie proteiche. Il CAsANTI assicura d’avere verificato che il residuo del trattamento ripetuto cinque volte sulle foglie del gelso con dodici volte il loro peso di acido HCI all’1 per 1000 Sc. Nat. Vol. XIX 22 332 F. SESTINI non conteneva più azoto; onde ritenne che quelle materie si fossero disciolte e non pensò alla loro possibile scomposizione, nè dubitò punto della bontà dei metodi di ricerca qualitativa che allora potevansi usare. Io volli accertarmi se nel trattamento con HCl ad 1 °%oo e a + 35° avvenisse idrolisi delle materie proteiche nella foglia del gelso. A tale uopo operai con 50 gr. di foglie fresche, allora allora staccate dalla pianta, nel modo da lui indicato, e saggiato dopo 24 ore il liquido acido filtrato, con soluzione allungatissima di solfato di rame a cui fu aggiunta solu- zione pure molto allungata di idrato sodico, si precipitò materia di color verde-pisello formata da albuminato rameico, ed il liquido presentò la colorazione rosso-violacea caratteristica dei peptoni; ossia presentò la colorazione biuretica. Questo fatto dimostra, adunque, che almeno una parte delle materie proteiche è peptonizzata dall’HCl 1 °oo in 24 ore di tempo tra + 30° e 35° C.; e siccome i peptoni non si precipitano nelle condizioni indicate, se ne deduce che col metodo CasantI (1846) si deve perdere una parte dell’azoto proteico, restando i peptoni nel liquido sgocciolato dal piccolo filtro su cui raccoglievansi le sostanze albuminiche coagulate. Se, per altro, il metodo del CASANTI, quale fu descritto da lui nel 1846, non può dare speranza di esatta determinazione delle materie proteiche nei prodotti vegetabili, in specie nelle foglie fresche, restava da vedere se fosse pos- sibile modificarlo in guisa almeno da trarre profitto dell’azione dissol- vente e peptonizzante ora riconosciuta nell’ HC1 1 °/oo tra 30° e 35° CÀ. Intanto avvertirò che ripetuto una seconda volta il trattamento con acido cloridrico diluito a 1 °oo sulle foglie fresche (50 gr.) che avevano dato nel 1° trattamento la reazione biuretica, la seconda volta la rea- zione con solfato di rame e idrato sodico fu così debole da destare dubbio se si dovesse o non si dovesse attribuire a quantità assolutamente trascu- rabile di un peptone: inoltre l’azione dell’acido cloridrico diluito, a 35° può, con prolungato contatto con la fibra, trasformare e disciogliere pen- tosane, ossicellulosa ecc. della fibra grezza; onde giudicai soverchi ì 5 trattamenti ripetuti ad intervalli di 24 ore, e dopo il 2.° trattamento mi limitai a lavare con acido cloridrico 1 °oo tre volte le foglie trattate con intervallo, tra lavatura e lavatura, di 8 o 10 ore alla temperatura ordinaria (20° C.'). con H C11°/vw SELE va N. 50 gr. di foglie fresche di gelso, con 5 trattamenti ogni 24 ore, dettero gr. 0,5730 con 0, 0142 con 2 trattamenti 50 ” I) ” ” [H 3 lavature ” ” ” 0, 2717 I) 0, 0356 STUDI SULLA COMPOSIZIONE CHIMICA DELLE FOGLIE DEL GELSO 333 Evidentemente l’azione dell’acido cloridrico a + 35° C.' protratta a 5 giorni è eccessivamente lunga e porta in soluzione una discreta quan- tità di sostanze non azotate. Difatti la quantità di N. = 0, 0142 su 0, 573 di materia azotata coagulata corrisponderebbe a 4,04 °/o minore (circa ?/3) della convenzionale quota di 6,250 che si attribuisce all’azoto delle ma- terie proteiche in generale; ma riducendo l’azione dell’HC11 %oo a 30°-35° da 5 trattamenti di 24 ore ognuno, a 2 trattamenti e tre lavature con in- tervallo di tempo più breve, aumenta grandemente la quantità dell’azoto (da 0, 0142 sale a 0, 0355), mentre diminuisce il peso delle materie preci- pitate. Conseguentemente resulta provato che secondo il metodo quale fu descritto dal prof. DAMIANO CASANTI, non solamente si sciolgono eppoi si coagulano solo in parte le materie proteiche, ma si scompongono in buona parte, e così si spiega la scarsa proporzione dell’azoto che si ottiene; — di più dalla fibra delle foglie, e perciò dai foraggi, si formano eppoi precipi- tano materie colloidi non azotate (xilana). Di fatti il liquido che passa dal filtro su cui si raccolgono le materie proteiche coagulate, e che il CasanTI non curava credendolo privo di sostanze azotate, è stato da me raccolto: da esso ho cacciato l’ammoniaca con MgO, indi vi ho determinato l’azoto organico col metodo di KJELDAHL, e vi ho trovato, per 50 gr. di foglie fresche di gelso, gr 0, 0828 di azoto: ciò prova che piccola è la quantità di materia azotata coagulata, e che facendo i 5 trattamenti con acido cloridrico 1 ‘oo (ossia prolungando per 5 giorni l’azione dello stesso acido sul foraggio) si scompone molta materia proteica. Le foglie del gelso contengono albumina vegetale e qualche altra materia proteica che si avvicina alla conglutina (legumina?) non ben determinata ancora. Per altro son note le relazioni tra queste e le so- stanze proteiehe derivate dagli animali, e il metodo del CAsaNTI non è adunque da seguirsi per la determinazione delle sostanze proteiche, ma non si può negare che avesse un qualche buon elemento analitico. In vero, per la determinazione delle sostanze proteiche nei foraggi si usa prendere il foraggio sospeso nell’acqua, coagulare o precipitare le materie proteiche, filtrare foraggio e materie proteiche precipitate, seccare e valutare nella mescolanza l’azoto organico; da cui moltiplicando X 6, 25 si calcolano le materie cercate. DAm. CasanTI, invece, ha preceduto il metodo di SturzeR per determinare le materie azotate digeribili nello stomaco degli animali: Srurzer ha fatto ricorso alla preparazione del liquido acido pepsinico; il CASANTI faceva assegnamento sopra un liquido digestivo artificiale meno energico, ma prolungava tanto l’azione che 334 F. SESTINI scomponeva buona parte delle sostanze che voleva isolare, e ne discio- glieva altre (pentosane) non azotate. : Se il CasantI avesse determinato l’azoto nelle foglie del gelso (non fece che saggi qualitativi) si sarebbe accorto certamente della parte di- fettosa del suo metodo; ed ora si sarebbe potuto ricondurre il suo lavoro, anche per le materie azotate e grasse, (digeribili e non digeribili) a dati assai soddisfacenti; sebbene i dati che si hanno col metodo di STUTZER non si può pretendere rispondano perfettamente alla digestione dei filu- gelli, giacchè il liquido digestivo dallo stesso StuTzER usato proviene dallo stomaco dei ruminanti e non ha che troppo lontana analogia col liquido digestivo proprio dei bachi da seta. Che tra la digestione dei bachi da seta e quella degli animali superiori corrano non trascurabili differenze, non si può mettere in dubbio, sebbene sia certo che sia conte- nuto, come DARWIN verificò, nel tubo intestinale dei lombrichi e E. VERSON nei bachi da seta, un liquido alcalino in qualche modo comparabile alla se- crezione pancreatica, che ha la proprietà di digerire parzialmente le foglie delle piante. i Tuttavia, non potendosi per ora tenere via migliore, furono da me fatte esperienze sulla digeribilità delle materie proteiche delle foglie del gelso disseccate a 100° Ci. Tolta la determinazione delle sostanze proteiche, ritengo che gli studi analitici del CAsANTI sieno i più estesi ed i più importanti che sono stati eseguiti fino ad ora sopra la composizione chimica delle foglie delle varie specie e varietà del gelso e delle foglie che possono essere surrogate nel- l’alimentazione del baco da seta; e per supplire alla deficienza che, con rin- crescimento, ho dovuto mettere in chiaro, ho cercato di fare studi speciali intorno la quantità delle materie proteiche nelle foglie del gelso contenute. Nella foglia del gelso raccolta in Cina e nel Giappone BEICHENBACH e LieBiG ammettevano che fosse contenuto, al massimo, 3,36 °/o della ma- teria seccata a 100° C', di azoto: successivamente il prof. VERSON verificò nella foglia colta nel Goriziano da 4, 695 sino a 5, 836 ° di N, ed io nel 1873, volendo estendere consimili determinazioni, trovai nella foglia del gelso coltivato in diverse parti della provincia di Udine: . (giorno nella raccolta 2900 RIO SdL RO RIT n e 24 maggio aprile maggio aprile maggio Su 100 di foglia fresca . . . N. 1,499 1,528 1,529 1,440 1,325 1,217 1,366 1671 1,I21 1,68 » 0» Seccata al000C, ,, G,I44 5,324 4,593 3,810 6,006 4,572 4,566 5,461 4064 5,080 n nas tannn _ n nr __ —r— n gelso selvatico gelso bianco g. chin. g. nostr. STUDI SULLA COMPOSIZIONE CHIMICA DELLE FOGLIE DEL GELSO 335 cifre corrispondenti a materie proteiche grezze, concordanti con quelle ottenute prima dal prof. VERSON presso Gorizia, e, come ben si vede, inferiori a quelle del BLENGINI ed anche a quelle del CASANTI. Avucusto Pizzi in un pregevole suo lavoro !) sopra la foglia della Maclura aurantiaca riproduce i risultati dei più recenti lavori eseguiti in Italia sopra le foglie che possono servire di alimento ai bachi da seta, ma non fa nessun cenno delle ricerche del prof. CASANTI, e dice: “ non è a mia conoscenza nessuna analisi chimica di Maclura acclimatata suc ttalia ,.. A parte la valutazione delle materie proteiche che fu eseguita con criteri ormai riconosciuti non adeguati, il lavoro del prof. Damiano CA- SANTI presenta ancora ottime indicazioni sulla composizione chimica della foglia del gelso e dei suoi succedanei nell’alimentazione dei bachi da seta: ed è l’unico che offrisse assai per tempo dati analitici estesi e soddisfacenti sopra i componenti minerali di quelle piante, che egli studiò contemporaneamente e con metodo identico. Diversi Chimici nostrani, avendo poi analizzato questa o quella delle piante affini al gelso, non avendo conosciuto la memoria in discorso, non poterono istituire confronti con i dati nuovamente, e con più moderni metodì analitici, conseguiti. Non mi parve superfluo richiamare in onore il lavoro del benemerito Georgofilo da più di mezzo secolo scomparso, non parendomi disdicevole alla riverente memoria che di Lui conservo come di stimato Maestro, completarlo con lo studio delle materie azotate della pianta dall'Asia trasferita in Europa per la coltura del filugello. IDE Fino ad ora nella foglia del gelso nostrale non era stato valutato che l’azoto totale, e da questo, col calcolo, la quantità delle sostanze proteiche grezze. Ho cercato di approfondire la conoscenza delle sostanze carbo- azotate cominciando dal determinare l’azoto proteico e da questo deducendo le sostanze proteiche pure, e per conseguenza valutando anche la porzione delle sostanze azotate non proteiche contenute nelle foglie del gelso no- strale a grandi foglie, che è una delle buone varietà di gelso coltivato in Toscana. 1) Staz. Sper. Agr. Ital. vol. XVII. 336 : F. SESTINI Sul cader del maggio 1902 fu colto il campione da due alberi che si stavano spogliando per un allevamento di bachi: parte delle foglie fu sot- toposta ad esame subito, parte fu conservata per le operazioni succes- sive, disseccata a 100° C'. La materia secca trovata fu gr. 13,445 ° (media di 3 assaggi): d’onde si trae che la foglia di quei gelsi, come la stagione umida e il cielo da moltissimi giorni coperto facevano prevedere, era molto acquosa; infatti conteneva acqua 86, 555 %/. L’azoto totale trovato e riferito a 100 p. di foglia seccata fu 3, 38, e nella foglia fresca ragguagliava a 0, 4813 %o. Calcolando poi le sostanze proteiche grezze risulterebbe che queste sareb- bero rappresentate dalla cifra gr. 3,008 per 100 di foglia fresca, cioè da una quantità assai bassa, da doversi considerare come un effetto com- plessivo del grande sviluppo delle foglie, del cielo coperto, dell’umidità e dell’aduggiamento del terreno !). Per valutare la quantità di materie proteiche vere e proprie (ossia la così detta proteina pura) nella foglia del gelso, ricorsi all’idrato ra- mico; ma in luogo di usare, come ordinariamente si fa, questa sostanza già preparata, come prescrive STUTZER, convinto di raggiungere maggior precisione, seguii la modificazione di F. BARNESTEIN ?), che ha provato essere più conveniente per la precipitazione totale delle sostanze protei- che vere e proprie l’idrato rameico allo stato di precipitato nascente. In vero RirtHAUSEN e DEMHEL *) proposero sino dal 1880 di preci- pitare l’ossido rameico neutralizzando il solfato di rame con idrato so- dico al momento o poco avanti di adoperarlo: ma il secondo special- mente suggerì il modo seguente: 1 o 2 gr. di sostanza si scaldano con 50 cc. di acqua, e se contiene amido, come ordinariamente avviene nei foraggi, si tiene per 10 minuti a bagno maria bollente; vi si aggiungono 25 ce. di soluzione di sol- fato di rame contenente 60 gr. di Cu SO4 + 5 H, O per litro, ed agitando si versano 25 cc. di soluto di idrato sodico contenente 12 gr., 5 di Na HO per litro; indi nel precipitato raccolto su filtro e lavato con acqua calda, si determina l’azoto organico nel modo solito. Il precipitato si lava bene 1) E.Varson e QuosaT trovarono anche gr. 2,94 nella foglia autunnale del gelso coltivato presso Gorizia: A. PasquaLINI anche 2,215 in 100 p. di foglie raccolte a Forlì, ma con 60,07 di acqua il primo, e 54,20 °/, il secondo nella foglia fresca. 2) Lanpw. Vers. Ital., LIV, pag. 328. 3) LanDw. Vers. Ital. XXIV, pag. 214. STUDI SULLA COMPOSIZIONE CHIMICA DELLE FOGLIE DEL GELSO 337 e i liquidi non si intorbidano affatto. A confronto del metodo di STUTZER, si ottiene un poco più di azoto, circa + 0, 016 N %o: quindi merita la pre- ferenza, specialmente quando, come nei foraggi delle leguminose, sono contenute sostanze alcaloidiche; per i quali foraggi si ha, secondo l’e- sperienza di F. BARNESTEIN !), una quantità di azoto maggiore anche di 0,2 °/o. Così operando trovai in 100 parti di foglia seccata a 100° C' N. proteico DESIRE Salney b) 3,248 che ragguaglia 0, 4276 di azoto proteico nelle foglie fresche e a 2, 6725 di sostanze proteiche pure. La proporzione tra l’azoto proteico e l’azoto non proteico nella fo- glia del gelso da me analizzata, starebbe, adunque, nella foglia seccata a 100°, come: N. proteico N. non proteico 370010200) e nella foglia fresca: 0, 4276 î 0, 0597. Le materie azotate non proteiche (ammidi, acidi ammidati ecc.) adun- que, nelle foglie della varietà nostrale di gelso da me ora analizzate, sono in quantità piccolissima, sia per effetto delle condizioni in cui è stata raccolta, sia per effetto della varietà stessa. Se la ben piccola quantità di sostanze carbo-azotate mon proteiche ritrovate, toglieva la possibilità di potere procedere alla rigorosa valuta- zione delle materie ammidiche e di natura basica nella foglia che stavo studiando, d’altra parte accresceva l’importanza della foglia conside- rata come foraggio; ma per questo rispetto appariva necessario di stabilire la proporzione tra la parte digeribile e la parte non dige- ribile delle sostanze proteiche. Sarebbe superfluo ora ricordare la diffe- renza che corre tra la digestione che si compie nel semplice tubo di- gestivo dei filugelli, e la digestione dei foraggi verdi nel complesso apparato digerente degli animali superiori: tuttavia, per giudicare în vitro della digestibilità delle sostanze azotate, non abbiamo da seguire che 1) Loc. cit. LIV, pag.326. Si noti che i Peptoni non sono intieramente pre- cipitati neppure col metodo di DEHMBL. 338 F. SESTINI il metodo da StuTzER a tal uopo suggerito, preparandosi con le cure raccomandate i liquidi digestivi (soluto pepsinico e soluto pancreatico). Riferirò succintamente i resultati ottenuti con foglia seccata a 100° C. contenente 3,580 °/o di N totale, esaurita prima con etere. Questa, dopo il trattamento prima del liquido pepsinico e poi del liquido pancreatico, lavata accuratamente e seccata, conteneva la materia azotata non digerita. Ho proceduto poi alla determinazione delle materie proteiche dige- ribili, mercè i liquidi digestivi preparati col processo di STuUTZER e fa- cendo precedere, come è prescritto, il liquido pepsinico al liquido pan- creatico, sopra due gr. di foglia seccata a 100° C.' finamente triturata, di- grassata con etere di petrolio, continuando per 24 ore l’azione di 250ce. del primo e per 6 ore 100 ce. dell’altro liquido digestivo, alla tempera- tura di 37-40° Ci. Ù I due grammi di foglia secca contenevano gr. 0, 0745 di azoto totale. Dopo l’azione del succo pepsinico nei 2 gr. di foglia non restavano che gr.0,0203 di N; cosicchè il succo gastrico aveva disciolto 0, 0542, un poco più di ?/3, o meglio quasi 3/4 dell’azoto totale. Dopo l’azione del secondo liquido (pancreatico) di STurzER, invece di trovare ancora diminuito l’azoto totale, con meraviglia, lo trovai lievemente aumentato; difatto da 0, 0203 era salito a 0, 0237 (con aumento di 0, 0024). Ciò mi sorprese tanto, che, per mia quiete, tornai a ripetere la prova: presi altri due campioni, di 2 gr. ciascuno, di foglia di gelso seccata a 100° Ci e ripetei tutto il trattamento: dopo l’azione del liquido pepsinico l’azoto totale rimasto fu 0, 0215 (con la differenza + 0, 0012 dalla prima prova), e dopo l’azione del liquido pancreatico fu 0, 263, con un aumento di 0, 0048 su quello avuto nella prima prova. La necessità di riunire altri dati circa la quantità e diversa natura delle materie carbo-azotate della foglia del gelso, mi portarono a rac- cogliere alla metà del settembre anche un campione di foglia degli stessi alberi da cui l'avevo preso nel maggio precedente. La foglia autunnale raccolta conteneva 73,747 % di acqua; cioè 11,808 di meno di quella che conteneva nella primavera; e ciò sta bene in relazione con lo stato igrometrico delle due diverse stagioni, come era resultato altrove anche da esperienze del prof. E. VeRrson. L’azoto tolale in 100 p. di foglia autunnale seccata a 105° C.' fu 3, 725, quantità, cioè un poco maggiore di quella (3, 580 %) trovata nel maggio, mentre il prof. VERSON l’aveva trovata minore nella foglia autunnale rispetto a quella primaverile. Quanto allo aumento, secondo quel che si sa intorno i me- STUDI SULLA COMPOSIZIONE CHIMICA DELLE FOGLIE DEL GELSO 339 todi digestivi da StUTZER raccomandati per valutare la quantità delle so- stanze carbo-azotate digeribili nei foraggi, non credo possa spiegarsi, se non si voglia ammettere nel liquido pancreatico la esistenza, sia pure eventuale, di una sostanza mucica o colligena, che si possa unire col tannino . della foglia del gelso, per dare origine a precipitazione di un composto azo- tato insolubile, che accresca l’azoto non digeribile della foglia. È un caso che potrebbe non di rado ripetersi nell’analisi dei foraggi; poichè non sono poche le materie vegetabili che contengono tannino e sono usate per mangime: e meriterà che il fatto sia sperimentalmente chiarito ed ogni dubbio eliminato. Per ora non posso aggiungere altro che l’osserva- zione dell’egregio prof. Ave. Pizzi, il quale in alcune digestioni artificiali ha trovato di niun effetto il liquido del pancreas, e quindi raccomanda la sola digestione pepsinica e crede si possa trascurare affatto la dige- stione pancreatica. Nel caso a me occorso ci sarebbe di che concludere che dovrebbe essere abbandonato affatto il liquido pancreatico per non accrescere erroneamente l’azoto indigeribile dei foraggi: ma a ciò non sì è autorizzati se prima non si studiano meglio le cause vere dell’ec- cezionale risultato ottenuto. Accettando, intanto, l’unico dato sperimentale, che secondo le osser- vazioni del prof. Pizzi si può ritenere giusto, sì avrebbe per la semplice digestione col solo liquido gastrico, nelle foglie del gelso seccate a 100°, di fronte a 3, 725 di azoto totale, 1, 045 di azoto indigeribile (media di 2 determinazioni); e per differenza si avrebbe quindi 3,725 —1,045= 2,680, cifra che starebbe a rappresentare la porzione dell’azoto (un poco minore di °/3 del totale) corrispondente a sostanze proteiche digeribili. In conclusione, i composti carboazotati contenuti, secondo queste ri- cerche, nella foglia del gelso, sarebbero rappresentati in gran parte da sostanze proteiche vere e proprie, ed in parte minima da corpi non proteici (ammidici, basici e di altra natura); e le materie proteiche di- geribili, rispetto agli altri foraggi verdi, sarebbero per ?/3 o poco più del totale. Valga questo saggio come promessa di altro o di altri che potrebbero eseguirsi, e siccome so che non manca chi abbia il desiderio di ripetere simili prove sopra altre varietà di gelso nostrale e sopra specie di piante pure consumate dai bachi da seta, sarò lieto che sia seguito, quando che sia, da lavori di maggiore importanza del presente. 3 A. FUCINI IL LYTOCKERAS CREBRICOSTA MGH. (Tav. XIII [1]) Fra le poche Ammoniti de’ calcari grigi chiari con selce dei Monti di Oltre Serchio determinate dal MENEGHINI ed il cui elenco fu pubblicato fino dal 1877 dal De STEFANI !) si trova una specie nuova alla quale lo stesso MENEGHINI impose il nome di A. crebricosta. Tale nome fu ricor- dato poi dal LottI ?) e nuovamente dal De STEFANI 5); la specie però non fu mai da alcuno descritta e figurata. Esistendo nel Museo di Pisa l'originale, penso di far cosa utile per la conoscenza delle Ammoniti del Lias medio, di descriverlo e di rendere così un tributo di affetto al ve- nerato e caro Maestro, autore della specie. La pertinenza al Lias medio dalla formazione che ha dato il fossile in discussione è fuori di ogni dubbio. Ciò che ne scrissero il MENEGHINI stesso, il DE STEFANI ed altri non lascia adito a nessuna incertezza. Tutti i fossili che essa ha dato e che per la massima parte si trovano pure nel Museo di Pisa sono anche sufficienti a dimostrarci che si tratta della parte superiore del Lias medio. Infatti vi si trovano, oltre la nuova specie Lytoceras crebricosta MGA.: Lytoceras cfr. audax Mean. — Paduletta; Lyt. cfr. ovimontanum Gever — Sassi Grossi (= Lyt. fimbriatum (non Sow.) in MH. 4)); i) Dn STEFANI. — Geologia del Monte Pisano, pag. 4l. %) LorTI. — In risposta alle osservo. del De Stefani sopra alcune pubbl. geol. del R. Com. geologico. Proc. werb. Soc. tosc. Se. nat., vol. II, pag. 186. 3) Dn STEFANI. — Di nuovo sui lavori del Comitato geologico nelle Alpi Apuane. Ibidem, pag. 189. 4) MENEGHINI. Ammoniti del Lias medio. Proc. verb. Soc. tosc. Sc. nat., vol. II, pag. 188. IL LYTOCERAS CREBRICOSTA MGH. 341 Deroceras muticum D’OrB. — Repole (= in parte A. Regnardì (non d’OrB.) in MGH.); Coeloceras pettos QueNsT. — Repole e Sassi Grossi (=in parte A. Ly- sterì (non Sow.) (MeH.) in DE STEFANI !)); Arieticeras Algovianum Opp. — Repole; ? Ariet. Bertrandiì KiLian — Filettole; Grammoceras Isselî Fuc. — Repole e Bruceto; Nautilus inornatus D’OrB. — Repole. È singolare che tali fossili dei Monti di Oltre Serchio sono per la maggior parte limonitizzati, al pari di quelli del Lias medio superiore di altre parti della Toscana, non che di Spezia, del Medolo e dei din- torni di Rocchetta presso Serra S. Quirico nelle Marche. Lytoceras crebricosta Mca. 1872. Ammonites crebricosta MeNnEGHINI in schedis. ISYTA _ — De StrranI. Geologia del Monte Pisano, pag. 41. 1881. —_ —_ LomtI. In risposta alle osservazioni del De Ste- fani sopra alcune pubblicazioni del E. Comi- tato geologico italiano sulle Alpi Apuane. Proc. verb. Soc. tosc. Sc. nat., vol. II, pag. 187. 1881. _ — De STEFANI. Di nuovo sui lavori del Comitato geo- logico nelle Alpi Apuane, Proc. verb. Soc. tosc. Sc. nat., vol. II, pag. 191. DIMENSIONI Diametro . > ; - - o o . mm. 200 = 1 Altezza dell’ ultimo giro . È c 5 6 » 70 0,35 Spessore » » - 5 3 ; ; » 53 0, 26 Larghezza dell’ ombelico - 7 . 5 7 DANA: 0, 40 Ricoprimento della spira 5 ; 3 3 7 » 08 0,04 L’esemplare di Lytoceras al quale il MENEGHINI, con etichetta in data del 1872, dava il nome di crebricosta, non è certo benissimo conservato, però mostra caratteri molto distintivi. Esso è fossilizzato in un calcare grigio non tanto chiaro, ha conservato quasi integralmente il guscio, molto spesso, spatizzato e ricoperto da una patina limonitica; mostra traccie di concamerazioni fin presso l’ apertura ed ha subìto delle com- ') De STEFANI. — Geologia del Monte Pisano, pag. 41. 342 A. FUCINI pressioni laterali, se non si vuole ammettere che siasi accresciuto secondo una spira irregolare. Per quest’ultimo carattere le dimensioni compara- tive vanno considerate in relazione alla forma attualmente presentata dal fossile. La conchiglia è discoidale, compressa, avvolta a spira apparentemente irregolare, di accrescimento non tanto rapido e di involuzione relativa- mente mediocre inquanto che l’ultimo giro ricopre il precedente per circa un terzo della sua altezza. L'ombelico resulta quindi non tanto grande e con suture non tanto profonde. I giri sono più alti che larghi, pre- sentano sezione ellittico-depressa ed hanno il maggiore spessore nella parte intermedia dei fianchi. Questi, pressochè piani, cadono all’ombe- lico con una curva regolare alquanto più accentuata di quella che fanno andando verso il dorso, il quale è regolarmente arrotondato. i I caratteri più spiccati della specie si trovano nelle ornamentazioni che consistono in pieghe ed in sottili costicine trasversali. Queste se- guono l’andamento di quelle; sono filiformi; si vedono solo in qualche punto ben conservato del guscio e sembrano più pronunziate negli in- tervalli costali ove se ne contano circa dodici. Le pieghe sono piuttosto grossolane, alquanto irregolari, un poco più strette degli intervalli e nessuna, almeno apparentemente, sembra avere quelle dentellature pro- prie delle coste dei tipici fimbriati. Esse si sviluppano deboli dall’ om- belico e vanno continuamente accrescendosi verso il dorso ove presen- tano la maggiore larghezza ed il massimo rilievo. Da principio, sulla parete ombelicale, sono pressochè radiali; sulla metà dei fianchi fanno una curva più o meno accentuata, con la convessità rivolta in dietro, e sul dorso sono assai distintamente arcuate in avanti. Sebbene, come ho già avvertito, la superficie della conchiglia non sia tanto ben con- servata, pure appare distintamente la irregolarità delle coste delle quali alcune, senza che se ne possa stabilire l’ ordine, si mostrano più grosse, più larghe e più rilevate delle altre. Non sarebbe fuori del caso rite- nere che a tali irregolarità nella ornamentazione della conchiglia cor- rispondano delle soste nell’ accrescimento e delle strozzature peristoma- tiche all’interno del guscio. La linea lobale è stata messa parzialmente allo scoperto corrodendo il guscio presso che al principio dell'ultimo giro, sul fianco opposto a quello rappresentato dalla figura. Essa è, in alcuni punti specialmente, assai erosa. Il lobo sifonale, non tanto ristretto, è sorpassato in profon- dità dal primo laterale, non ben rilevabile inferiormente. La sella esterna IL LYTOCERAS CREBRICOSTA MGH. 343 è più bassa e meno frastagliata della prima laterale. Ambedue le selle ed il primo lobo laterale che resta compreso fra esse, presentano una accentuata obliquità certo dovuta, almeno in parte, allo stiramento subìto dal giro nel punto ove è tolta la linea lobale. Il Lytoceras crebricosta è del tipo del Lyt. ovimontanum GrYER !) al quale corrisponderebbe assai bene per la forma generale della conchiglia e per l’accrescimento e per l’involuzione della spira, gli ornamenti però sono meno irregolari, assai più grossolani e curvati alquanto diversa- mente. La linea lobale è differente, non foss’altro, per l'altezza diversa delle selle; così mentre nella specie del MenEGHINI la sella esterna è più bassa della prima laterale, nel Lyt. ovimontanum GEYER invece essa presenta una considerevole maggiore altezza. Il Lytoceras Sutneri Gever ha pure qualche somiglianza con il Lyt. crebricosta, ma ne differisce per le coste fimbriate, facenti curva diffe- rente, specialmente sul dorso, e per i giri più larghi e con sezione molto diversa. 1) GrvER. — Mittellias. Ceph. d. Hinter-Schafberges, pag. 55, tav. VIII, fig. 1 2) Ip. —L.c., pag. 42, tav. VII, fig. 10. IRINTIDR IO DELLE MATERIE CONTENUTE NEL PRESENTE VOLUME L. Barsanti. — Contribuzione allo studio della flora fossile FE IDE REI PO Sala Sie RARO G. Ristori. — Studio idrografico e i dei bacini im- briferi di Coltibono Secciano e Cafaggiolo nella Catena chiantigiana (Valdarno superiore) . . PN 4 37 Appendice: Osservazioni sulle acque frcatione in rapporto alla natura e disposizione delle deposizioni fluviali del- VV Arno nel Valdarno superiore . . ; LR 79 R. Ugolini. — Resti di foche fossili italiane (Tav. TRO 80 D. Filippi. — L'azione degli anestetici sulla traspirazione dei VESTO (ILE VIALI RAR e SR VASO RD 91 G. D’Achiardi. — Metamorfismo sul contatto fra calcare e granito al Posto dei Cavoli presso S. Piero in Campo (Elba) Vaie i 106 F. Pardi. — La morfologia comparata dei muscoli Psoas Minor, Ilio-Psoas e Quadratus Lumborum (Tav. VIL-IX) » 146 E. Goggio. — Sull’abboxzo e sul primo sviluppo del polmone nelebiscoglossus@pictusi (Lav. ZoEXI) EEN, 0. 04239 A. Arcangeli. — Il mimetismo nel regno vegetale (Tav. XII) » 268 F. Sestini. — Studi sulla composizione chimica delle foglie del gelso. |... . SET (SA A PUOI 3300) A. Fucini. — Il Li Sia crebricosta n gh. (Cave) ene 340, JA V'tioa Atti Soc. Tosc. Sc. Nat. Vol. XIX. Tav. I. UGOLINI, Resti di foche fossili italiane [Tav. I]. FOTOMECCANICO E FOTOCHIMICO =» FIRENZE. FILIPPI - Traspirazione nei vegetali NI | SE pi Fig. 3 5 14 A te se o FILI AN / ì 4, \ U LI CURVA DELLA TRASPIRAZIONE NORMALE GRANI 13 pi STES ti th n v v | h i È | ; | A 21 Gitto 12 ! FA | i ! iii | { i i Ul î ! Lante 11 : VARESE: si N BEE] 3 Ù | : iesenine PEER . ni i 19 10 Si 5 $, t î ' I 18 9 28; i LA Las Li A7 8 i ' LEE SE 16 Fig.4- AZIONE DELL’ETERE 10... 15 Nt 9 \ 13 TS DORIA RE SZ EZAe9710 OTAORI NI 22 324560044 Lit. Salussoliu, Torino. FILIPPI - Traspirazione nei vegetali Tav.Ili OSCURITA TEMPORANEA AZIONE DELL’ETERE 12 i 12 N RE sdetpe ci N ALE i Y 2 Pregiezzaa negziianai ig. Fig. 6 br tEAS SY 52208 Di i 9: 11 Ne 11 DI \ \ v 10 10 : ITRAS9 Ge, CIT 26 be B IO MMI 2728 ACE ez Fig.7 CURVA DIURNA E NOTTURNA DELLA TRASPIRAZIONE 14 pri ZI 13 28 POS NI Ramo fresco Mac o 12 ì di paEeR Rsa el att s SoFiRAIRE Te i \ TAI ' Ramo apra ast bl P 7 11 iI , \ N LI ; x n *, x , U . 7 Ea = vi \ Lt Ia eee PERE: CI uu” Hi 10 ; ea ‘ci e TR SEARS pa een S32n passe; MIONI1 32 1 203 DI Rel oze8o 1011NA:20A 23 455 errato ana Fig.8 AZIONE DEL CO? AZIONE DELL’ETERE o 23 A 1 Tui ii 11 \ (II \ D tai s eN (1 CAN Da : i \ pet “x Bi VA x ETTt 3 \ i Fig.9 10 i : = Fori 7 ' U ' ‘ 9 I 1 ars i ì es n; 20 : i Vi H X ! \ TORELINS TL RE Re2 ES RZ ING, H \ 19 f x U \ : x AZIONE DELL’ETERE ' x , x 2, 18 : stars co i x \ ' ' n E \ a , Xx Do Ste e? pasti 16 1203 s é H Fig.10 i , 15 411 i i ' n ., Ù PA HI 14 10 7 / SS H po LI ai Srion asta tolsiscanrua, 9 9 SEC RC RZAE MOTO = net i se i LISI: Atti Soc. Tosc. Se. Nat. Mem. Vol. XIX. Tav. IV. G. D'ACHIARDI, Mefamorfismo sul contatto, ecc. me; faz 1 4 e. PA ko I i tiSocTos.Sc.NatVol. XIX. Tav. VIL qe Pardi-Morfologia comparata dei mm. psoas minor ete: DEI si 198 Ivo Chini dis. ‘ Ditta Cozani-Pisa. NatVol. XIX. Tav. VIIL ftg.T. unte—=—-—£$ 4%) gal - psm 2 Y 2 SIM (C£ Ditta Gazani-Piga. Ivo Chin Cp I° be val SITA IRC ORI Sie ” A ‘ARE LAS dal SEA a ‘A ad fe ?. »i ia 0,2 13° ERIN IMMIIM ra ‘Tm | Morfologia comparata dei mm. psoas mino pete: SD SÌ Lug: 10. qgdl--——— Ivo Chini dis: Ditta Gozani-Pisa. Wa È ge I gara HEI DE E. Goggio-Svil. polm. Discoglossus. Tav. X (1) | E. Gogguo dis: = 1° c A M È ri 'Sc Nat Vol. XIX. ID, Goggio-Svil. polm. Discoglossus. Tav. XI (II) STO Rec 20) L; Schemi U9000re ©) È & Si In Lo 96, Sa VI CI E. Gogquo dis: È i Ditta Gozani-Pisa » LL va » è: DI 10 Atti Soo. Tosc. Sc. Nat. Vol. XIX. Tav. XII 7 16 A. ARCANGELI - Minelismo. Mem. Soc. Toso. Sc. Natur. Vol. XIX, Tav. XIII Li ORISTOFANI, D FUCINI, Ly/. crebricosta Mgh. [ Tav. I]. av) ELIOT CALZOLARI& FERRARIO-MILANO Mem. Soc. Tosc. Sc. Natur. Vel. XIX, Tav. XIII. FUCINI, Ly/. crebricosta Mgh. [ Tav. 1] E ORISTOPANI, D:S “ j Li na TS RII e le lamenta DI SCIENZE NATURALI RESIDENTE. IN (PISA PISA TIPOGRAFIA SUCC. FRATELLI NISTRI 1903 EN D'ISVE DELLE MATERIE CONTENUTE NEL PRESENTE VOLUME L. Barsanti. — Contribuzione allo studio della flora fossile diano STI ME i G. Ristori. — Studio 20, 00 e AR gico n 0, im- briferi di Coltibono Secciano e Cafaggiolo nella Catena chiantigiana (Valdarno superiore) è Appendice: Osservazioni sulle acque freatiche in rapporto alla natura e disposizione delle deposizioni fluviali del- Arno nel Valdarno superiore 3 ; R. Ugolini. — Resti di foche fossili italiane (Tav. n D. Filippi. — L'azione degli anestetici sulla traspirazione dei vegetali (Tav. II, III) Ur 3 Ea: G. D’Achiardi. — Metamorfismo sul contatto GE cat e granito al Posto dei Cavoli presso S. Piero in Campo (Elba) (Tav. IV-VI) it sie 1 (RA rane F. Pardi. — La morfologia comparata dei muscoli Psoas Minor, Ilio-Psoas e Quadratus Lumboruwm (Tav. VILIX) E. Gig. — Sull’abboxzo e sul primo sviluppo del polmone nel Discoglossus pictus (Tav. X, XI). A. Arcangeli. — Il mimetismo nel regno vegetale (Tav. XII) F. Sestini. — Studi sulla composizione chimica delle foglie del gelso . È rt. A. Fucini. — I Li LA as er er icosta dg (Tav. XIII) . UFFICIO DI PRESIDENZA PER GLI ANNI 1902-903, 1903-904. Presidente . .-—. Prof. Sebastiano Richiardìi, Pisa. ( Prof. Fausto Sestini, Pisa. Vice presidenti ) Prof. Giovanni Arcangeli, Pisa. Segretario . .-— Prof. Mario Canavari, Pisa. Vice Segretario — Prof. Giovanni D’Achiardi, Pisa. Cassiere . . .— Dott. Ernesto Manasse, Pisa. SbDE DELLA Società — Museo di Storia Naturale in Pisa. » 3° 15 80 91 106 146 239 268 330 340 Gli atti della Società (memorie e processi verbali delle sedute) si pubblicano per lo meno sei volte all’anno a intervalli noh maggiori di 3 mesi. >»? 5 INSTITUTIO! LUI FILCKWTNANN }