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D, MATERIALI PER SMINIRE AD UNA STORIA: DEGLI STAMBRCCIN Venture generazioni rimprovereranno alle nostre, che mentre con febbrile precipitazione abbiamo distrutto tutte le forme d’ animali superiori, che non si sono sottomesse al giogo dell’uomo o non hanno voluto coadiuvarlo facendosi di lui complici in modo diretto o indiretto nella distruzione delle altre, quelli fra di noi a cui ne incombeva il dovere, non si sono nemmeno curati di preservare in numero ed in modo sufficiente per le attuali e future esigenze della scienza, le reliquie delle vittime di quello stato di cose che ci piace chiamare, con eufemismo, la civilizza- zione progressiva. Sulle definitive e non lontane sorti dello Stambecco delle nostre Alpi non può correr dubbio. Se per una malaugurata combinazione venisse a cessare la protezione sovrana della quale godono gli Stambecchi sulle alte montagne della Valle d'Aosta, o le caccie vi si facessero troppo sterminatrici, ben presto dovremmo annoverare la Capra Ibex tra le molte specie con feroce imprevidenza estinte dall’ uomo. Toccherebbe in prima linea ai musei italiani di raccoglierne a centinaja per scopi scientifici gli avanzi più importanti, cioè crani e scheletri interi. Eppure non ci fu possibile di costatare più di tre scheletri nelle collezioni pubbliche di tutto il Regno, e crediamo non sbagliare asserendo che il numero dei crani non sorpassa la dozzina. Se. Nat. Vol. IV, fase, 1,° 1 2 C. I. FORSYIH MAJOR Degli Stambecchi di altri gruppi montuosi, al giorno d’oggi non conosciamo neanche bene la forma esterna, la quale fino a poco tempo fa ed in parte anche oggi, forma l’ unico oggetto di studio di molti Zoologi, e non ne conosciamo nè la distribu- zione geografica, nè i rapporti degli uni cogli altri. Nelle colle- zioni essi non sono rappresentati che da poche pelli montate; i loro crani o scheletri sono fra le più grandi rarità nelle col- lezioni d’ Europa. E già vengono notizie della diminuzione del numero di talune di queste forme! Quindi se sono scarsi i materiali che faccio conoscere affinchè possano servire ad una futura Storia naturale degli Stambecchi, la ragione non sta solamente nell’ insufficienza dei miei propri mezzi, ma è anche conseguenza in parte dell’ indirizzo che aveva in passato lo studio della Zoologia, in parte di quello che ha attualmente. Per il passato, come abbiamo detto, la forma esterna occupava quasi esclusivamente i Zoologi; ora invece lo studio della Zoologia sistematica, screditato dalle esagerazioni dei naturalisti della vecchia scuola, sembra essere alquanto passato di moda in alcuni paesi. Confronto dei crani di Stambecchi europei. I. Capra pyrenaica, Bruch e Schimper. confrontata colle C. Ibex e C. hispanica. Ta v\SVIESt RIEN 5 TRA VV IAA oo MG: Lo scarso materiale a mia disposizione, troppo scarso per poter arrivare ad una conclusione definitiva, è il seguente. 1) La figura di un cranio di femmina preso in profilo ed in parte a volo d’ uccello, da uno dei cataloghi del Museo Bri- tannico di Gray ('). 2) La figura di una testa per illustrare la forma delle corna, nel Blasius (?). (4) Catalogue of the Specimens of Mammalia in the Coilection of the British Museum. Part. III Ungulata Furcipeda, 1852. Tab. XX, fig. 4-6. (2) Naturgeschichte der Siugethiere Deutschlands und der angrenzenden Làn- der von Mitteleuropa. 1857. MATERIALI PER UNA STORIA DEGLI STAMBECCHI 3 8) Le indicazioni del Busk nel suo lavoro sulla fauna qua- ternaria di Gibilterra ('). 4) Due fotografie poco soddisfacenti del cranio di un in- viduo di sesso maschile, l’una cogli astucci cornei, l’altra senza. L'originale si trova nel Museo di Tolosa, ed è probabilmente uno dei crani menzionati dal Busk nella memoria sopracitata. Le fotografie, che debbo alla gentile mediazione del Prof. Ruti- meyer, servirono per la figura 1 della tavola VI. L'unico autore il quale, da quanto io sappia, faccia menzione del cranio della Capra pyrenaica, è il Busk. — Dalla forma esteriore dell’ animale e sopratutto da quella delle corna, egli conclude (1. c. pag. 118) che abbia tali analogie colla C. Rispa- nica da doverle considerare come due varietà molto affini, ed ha ragioni per supporre che il Professor Schimper sia presente- mente dello stesso parere. In appresso il Busk confronta prima la C. pyrenaica, poi la C. hispanica colla C. Ibex, senza però darci, in appoggio della sua opinione surriferita, un confronto diretto delle due forme spagnuole. Il raffronto del cranio di C. pyrenaica £ del Museo Britan- nico — senza dubbio quello figurato dal Gray — col cranio di uno Stambecco delle Alpi non adulto (*) conduce l’autore citato alle seguenti conclusioni: Maggiore lunghezza dell’jugale nella C. Ibex, cagionata dal maggiore prolungamento in addietro del processo zigomatico. Il frontale, misurato nella linea mediana, è più lungo nella C. Ibex (3.6 : 3.9.) mentre che i parietalia sono più lunghi nella C. pyrenaica (1. 5: 1. 4). La fossa profonda che nello Stambecco delle Alpi si trova intorno e sopratutto davanti al foro infraorbitale, manca quasi completamente nella C. pyrenaica. Il fronte in quest’ultimo è piuttosto più dombé o in altre parole più depresso nella regione della origine dei nasalia. Però la figura data dal Gray (*) non mi pare confermi quest’ultima asserzione. (') On the ancient or quaternary Fauna cf Gibraltar, as exemplified in the Mammalian Remains of the ossiferous Breccia by George Busk. Transactions Zool. Soc. London X, part. II, 1877, (ON pacaH9% (3) Ice. Tab. XX, fis. 4. MOST C. I. FORSYTH MAJOR Più avanti (‘) viene asserito che anche 11 Falconer abbia piena- mente riconosciuto la stretta somiglianza (simiarity ) fra lo Stambecco dei Pirenei con corna a forma di lira e lo Stam- becco della Spagna meridionale, e quindi debba necessariamente aver considerato come sinomini la C. pyrenaica e la C. hispa- nica . Radunando le indicazioni sparse del Busk su queste due forme, rilevo fra di esse le seguenti analogie: 1) Mancanza quasi completa della fossa profonda che cir- conda il foro infraorbitale. in uno dei crani della C. Wispanica (N.° 3743, del R. College of Surgeons) essa, quantunque poco estesa, è profonda. i 2) Il margine inferiore del lacrimale non è parallelo colla cresta dell’jusale; ma forma con essa un triangolo (vedi più avanti la descrizione della ©. hispunica). 3) Gli astucci cornei sono debolmente scavati dal lato interno. 4) Tanto nella C. Ibex quanto nella pyrenaica le punte delle corna tendono a piegarsi all’ interno, meno però ( less markedly) cae nella C. hispanica. — Secondo il mio materiale però le corna della ©. pyrenaica sono più curvate all’ interno che quelle della C. Rispanica. 5) In tutte due le forme spagnuole l’ osso jugale è più ‘ breve che nella C. Ibex. Dallo stesso Busk noto le seguenti differenze fra la C. pyre- naica e la C. hispanica. 1) Praemaxillaria sottili (slender) nella prima, più grossi, sopratutto verso l’ apice, nella seconda. 2) Fronte più dombé nella pyrenaica, che nella C. Ibex, in quest’ ultima maggiormente che nella C. Wispanica. 8) La forma della mandibola nella pyrenaica corrisponde colla C. Ibex: nella Rhispanica è “ forse , più sottile, più slan- ciata, ed il processus coronoideus è meno curvato. 4) Nella pyrenaica i nuclei cornei divergono a cominciare dalla loro base, come nella Capra Ibex; nella C. hispanica da principio sono più paralleli fra di loro e non divergono che dopo. Il mio materiale mi permette di aggiungere ancora i seguenti caratteri differenziali fra le due forme: () Lc. p. 123. MATERIALI PER UNA STORIA DEGLI STAMBECCHI 5) 1) I nuclei cornei sono curvati molto più all'infuori nella pyrenaica. 2) La regione frontale è fra le orbite nella pyrenaica più larga che nella /ispanica nella quale, poi come vedremo, è meno larga che nell’ /bex; quindi le orbite sono più sporgenti. Questo carattere è evidente tanto nella fotografia di un cranio ma- schile di pyreraica, quanto nella figura del Gray di un cranio di femmina. 8) I lacrymalia sembrano decisamente più larghi nella C. pyrenaica, quantunque io non sia in grado di provarlo con misure, mancando per la fotografia della pyrenaica ogni indi- cazione delle proporzioni. 4) I nasalia della pyrenaica sì avvicinano maggiormente alla forma di quei della Capra Iber, cioè convergono meno verso la punta col loro margine esterno. Insomma l’analogia fra le due non è tanto grande quanto vorrebbe ammetterla il Busk, il quale evidentemente si appoggia maggiormente sui caratteri esterni. Ma anche la forma, delle corna, alla quale si vorrebbe dare tanto peso, è meno simile che fra altri Stambecchi, e precisamente 0. sibirica, Beden, caucasica ed Ibex. Le corna della €. Rispanica sono meno a forma di lira, o secondo l’espressione del Blasius (') , etwas schwàcher schrau- benformig im Raume gebogen , (meno curvati nello spazio a forma di vite), che nella pyrenaica. II. Capra hispanica, Schimper. Confrontata principalmente collo Ntambecco delle Alpi. Della Capra hispanica posseggo due disegni in grandezza naturale (di faccia ed in profilo) eseguiti colla tavola di Lucae dal rinomato artista Griesbach sopra il più bello di tre crani di maschi conservati nel museo del R. Surgeons College a Londra. Busk (*) ha di già istituito confronti fra la €. Rispanica e la Ibex, e mi trovo d’accordo con lui sui punti seguenti: (4) Sàugethiere Deutschlands p. 480. ()cleopi 120,124 6 C. I. FORSYTH MAJOR 1) La proporzione fra la circonferenza dei nuclei cornei alla base e la loro lunghezza è la medesima. 2) La proporzionedella larghezza alla lunghezza dei nasalia è quasi la medesima nei due Stambecchi; non mi risulta però che questa proporzione sia minore per lo Stambecco delle Alpi nel mezzo, ma i nasalia della Wispanica sono decisamente più larghi verso la loro radice, vicino all'angolo frontale, e di quì sì assottigliano gradatamente verso l'apice, di modo che i loro margini esterni convergono molto più verso l’apice che nell’/ber. 8) La lunghezza dei lacrymalia è la medesima. 4) L’jugale è più lungo nello Stambecco delle Alpi. 5) Il diametro dell'orbita è un poco più grande nella €. hispanica. Nelle altre dimensioni date da Busk non sono differenze sen- sibili fra le due forme. Ciò che il Busk dice (') della differenza dei nuclei cornei risulta anche a me; ed aggiungo: mentre che le dimensioni totali dei crani sono le medesime nell’ Ibex e nell’ Rispanica, i nuclei dell’ /ber sono più lunghi e più grossi. Sempre secondo il Busk, nell’/bew il margine interno ( sup- pongo sia un lapsus calami invece di esterno ) od inferiore del lacrimale sarebbe più arcuato essendo parallelo alla cresta sub- orbitale dell’ jugale, ed infatti coincide quasi con essa, mentre che nella ispanica il margine è detto esser più'rettilineo, e sotto di esso trovarsi uno spazio triangolare fra il medesimo e la cresta dell’jugale suaccennata. Queste osservazioni del Busk non vengono confermate dal mio materiale; suppongo quindi che vi siano sotto questo rap- porto variazioni individuali. Fra itre crani della C. Ibex esistenti nel Museo di Firenze, in quelli provenienti da una femmina vec- chia e da un maschio non adulto, il margine inferiore del lacrimale è infatti poco più arcuato che nella ©. Risparica, a giudicare dal mio disegno; però nel cranio di un maschio adulto non trovo differenza, nell’andamento della sutura, dalla C. hispanica. Invece il triangolo formato dalla sutura jugo-lacri- male colla cresta jugale, è alquanto più aperto nel maschio or ora menzionato della ©. Ibex che nella Rispanica, ed anche (1) 1. c. pag. 12. MATERIALI PER UNA STORIA DEGLI STAMBECCHI 7 negli altri due crani d’ Ibex la cresta jugale e la sutura coin- cidono molto meno che nello Stambecco di Spagna. Del resto ciò che asserisce il Busk, si trova in contradizione con quanto egli aveva detto espressamente (') nel confrontare un cranio femminile di C. pyrenaica con quello di una C. Ibex; » that in both forms the lower border of the lacrymal does not run parallel with the lacrymal ridge of the malar, but forms a triangle with it below ,. La profonda depressione intorno al foramen infraorbitale (*) la trovo nel medesimo modo anche nei crani d’Ibex del Museo di Firenze, mentre risulta esser molto più debole nella mia figura della Rispanica. Confermo l’ osservazione del Busk, che la regione frontale sia più bdombée nello Stambecco delle nostre Alpi. Lo stesso si dica del fatto da lui annunziato, che 1’ arco zigomatico dell’jugale sia più sporgente nella Capra Ibex, ciò che si verifica sopratutto nei crani di maschi. A giudicare del resto dalle figure della C. pyrendica a mia disposizione, sembra sporgere più ancora in questa che nello Stambecco delle Alpi. ‘ D'altronde, come ho esposto innanzi, non sono punto convinto con Busk e Falconer dell’ identità della O. ispanica colla C. pyrenaica. Mandibola. La mandibola è detta essere , forse “ più slanciata nella Hispanica,ged il processo coronoide meno curvo. A giudicare dall’ unica mandibola presentemente a mia disposizione e che è di un maschio non adulto dell’ /bex, nello stambecco di Spagna sa- rebbe più slanciata, cioè la sua mandibola è relativamente ed as- solutamente più lunga ed assolutamente più bassa. Il processo coronoide dello Stambecco delle Alpi è in ogni modo più verticale e quindi meno arcuato. Ma per questi particolari occorrerebbe un maggiore materiale di confronto. I praemarillaria sono più grossi, secondo il Busk, nella C. hispanica verso il loro apice. Non posso giudicarne, ma trovo invece che, veduti di profilo, i margini anteriore e posteriore dei praemarillaria sono più verticali nello Stambecco di Spagna. Non trovo neanche costante la forma della sutura fronto- nasale della 0. Ibex la quale, secondo il Busk, forma tre lati (4) 1. e. pag. 119. (Buste np 424% Ò C. I. FORSYTH MAJOR di un esagono mentre che nella C. rispanica forma un semicerchio uniforme. Sempre però questa sutura nell’ Ibex è più convessa, in direzione posteriore, che nella C. Rispanica. Altre differenze da me notate fra le due forme sono le seguenti: Il lacrymale è visibilmente più largo nell'/bex, mentre a giu- dicare dalla mia fotografia, è almeno altrettanto largo nella pyre- naica quanto nell'Ibex. L'orbita è più alta ma più stretta nella C. ispanica; più regolarmente circolare nell’ Ibex. L’ jugale è più alto nell’Iber. La regione frontale posteriore appare più larga nella kRispanica nella veduta di faccia; e così anche i praemarillaria nel mezzo della loro lunghezza, sporgendo essi alquanto convessamente al di fuori nella C. ispanica, mentre che nell’ Ibex convergono debolmente ma regolarmente l'uno verso l’altro dall’indietro al- l’avanti ('). III Capra sibirica, Pallas. Tav. VII, fig. 4. Non ho altro materiale di confronto che lo schizzo in gran- dezza naturale, di un cranio di maschio conservato nel Museo di Basilea. 1 disegni, in due posizioni (di faccia ed in profilo), mi furono gentilmente favoriti dal Prof. Ritimeyer. (1) Nella seconda edizione di Brehm' s Thierleben (I. 3. 1877, pag. 307-313) l’autore ci da, dietro comunicazioni del proprio fratello residente in Spagna, un accurata descrizione della forma esterna e dei costumi degli Stambecchi spagnuoli. L’ habitat è secondo il Brehm la Sierra de Gredos — ove è frequentissimo, la Ser= rania de Ronda e la Sierra Nevada nell’Andalusia, la Sierra de Segura in Murcia, la Sierra de Cuenca ed il Monte Carroche in Valencia, la Sierra Morena, i Montes de Toledo ed i Pirenei — (l'A. erede dover riunire le Capra pyrenaica all’ hispa- nica) — e tutte le alte catene della Spagna settentrionale e centrale, « mentre che sembra mancare affatto alle montagne della costa Cantabrica ». -- Però mi fu comu- nicato dall’ egregio Amico Dott. E. Levier, il quale con altri due botanici, i Signori Boissier e Lerèche, intraprese nella scorsa estate (1878) un viaggio in Spagna, che essi videro sul Picos de Europa, una delle cime delle montagne Gantabriche, nella località allas Grammas, a circa 2700 metri sul livello del mare e sopra di loro e in lontananza quattro «Cabros montes » come li chiamarono gli uomini del paese. Dai viaggiatori furono presi per Camosci; però « Cabramontes » è il nome che in Spagna si dà allo Stambecco (vedi Brehm l.c. pag. 308); e quindi resta provato che anche le montagne Cantabriche albergano uno Stambecco. Se trattasi della G. hispanica 0 della €. pyrenaica sapremo da future investigazioni. MATERIALI PER UNA STORIA DEGLI STAMBECCHI 9 Lo Stambecco della Siberia ha strette relazioni con quello delle Alpi, e forma quindi ‘un gruppo naturale colle C. Ide», hispanica e pyrenaica; mentre poi, come le tre forme nominate, è più discosto, come vedremo, dalla Capra Beden. La direzione e la forma dei nuclei cornei è quella dell’ Ibex; i nuclei sono però alquanto meno grossi nella C. sibirica ed un poco più divergenti fra di loro. — Confrontata coll’Iber, la O. si- birica mostra la regione del muso e principalmente 1’ apice dei praemarxillaria più largo; ed è anche più larga e quindi più sporgente al di fuori, nella veduta di faccia, la parte del mascel- lare intorno al tuber maxillare, e anche la parte anteriore del- l’jugale. Anche la regione frontale è più larga, più larga anzi che nella Wispanica, e per lo meno larga tanto quanto nella pyrenaica: però non sono in grado di dare misure per quest’ ultima. I margini esterni dei nasalia sono alquanto concavi al di fuori nella loro metà posteriore. Di dietro sono larghi e rassomigliano in ciò alla C. Rispanica. Nella veduta di profilo colpiscono subito le seguenti differenze colla C. Ibex e C. hisvanica, (della C. pyrenaica non posso giu- dicare sotto questo rapporto). Mentre che nella Capra sibirica la regione postero-superiore del cranio, dalla base posteriore dei nuclei delle corna fino al tubercolo occipitale, è più breve che nell’/ber, è più lunga invece nella prima la distanza dalla base anteriore dei nuclei alla punta dei nasali. Inoltre, prendendo di mira la linea interiore di profilo del cranio, rileviamo quanto segue: nella C. Ibex, e così anche nel gruppo degli Aegagrus, sì riscontra un angolo abbastanza pro- nunziato nella regione della base dei pferygoidea. Il profilo inferiore nello Stambecco della Siberia invece è molto più rettilineo: appena si trova una traccia di angolo nella regione indicata superiormente. In una altra maniera ancora differisce sotto questo rapporto la Capra Beden, che descriverò quì appresso. Nella C. sibirica la parte del malare che forma il margine inferiore dell’orbita è, nella sua metà posteriore, evidentemente più alta — verticalmente — che nell’'/bex e nella pyrenaica; si accosta sotto questo rapporto alla C. Beden. Quella parte dell’jugale che si trova fra il margine anteriore dell'orbita e la sutura maxillo-jugale, è più lunga (nella dire- zione dell'asse longitudinale del cranio) nell’ Ibex. 10 C. I. FORSYTH MAJOR Considerando la linea superiore del profilo, appare che nello Stambecco della Siberia essa è meno incavata, all’origine dei nasali, di quello che appare nell’ /ber. La sutura parieto-temporale nella sibirica è più discosta su- periormente dal processo malare che nella C. Iber ed Hispanica e sopratutto nel gruppo degli Aegagrus; nel tempo stesso è con- vessa con la convessità diretta superiormente ('). Gruppe Aegagrus. IV. La Capra selvatica di Creta confrontata colle C. aegagrus (Tav. VI, fig. 4: Tav. VII, fig. 3) C. hircus (Tav. VI, fig. 6; Tav. VII, fig. 1) ed i veri Stambecchi. Agli antichi erano note le Capre selvatiche di Creta e delle Cicladi, come lo dimostrano vari passi dei loro scritti (£). Il primo a descrivere quella di Creta è stato Pietro Belon, verso la metà del secolo XVI: esso dedica un Capitolo intiero che scrisse nelle sue Observations ad , una specie di Becco selva- tico frequente in Creta, che i Francesi chiamano Boue estain (*) ,.. A’ suoi tempi ve n'erano in gran numero. Egli ne vanta l’agilità e narra che spesso i giovani presi vivi venivano addomesticati. Il Belon attribuisce loro la grandezza delle Capre domestiche, però , elles ont bien autant de chair comme un grand cerf ,. Il pelame è fulvo (fauve) e corto, egli dice, come quello del Cervo. I maschi portano una grande barba bruna; diventano grigi col- l'età; hanno una riga nera lungo la schiena. Il Belon descrive anche la caccia che gli abitanti delle alte montagne di Creta fanno alla Capra selvatica, che però non sa distinguere dallo (') Sarebbe qui il luogo di rammentare la Capra caucasica Gill. la quale, come dimostreremo qui appresso, fu quasi generalmente confusa colla €. Pallasii Rouill. Non essendo rinscito a procurarmi nè cranio della €. caucasica, nè disegni di cranio, non posso istituire confronti colle altre forme. Sembra però che abbia molte analogie colla (€. sibirica ( Vedi A. Wagner, Schreber's Saugthiere, V, 2, pag. 1302). (*) Odissea, IX, 118, 154. — Cicerone de nat. deor. Lib. II. (8) Les Observations de plusieurs S ngularitez et Choses mémorables, trouves en Grèce, Asie, Iudée, Egypte, Arabie et autres pays étranges, redigies en trois livres par Pierre Belon du Mans. Paris 1588 (la prima ediz. è del 1553 ). Chap. XIII, p. 31 sg. MATERIALI PER UNA STORIA DEGLI STAMBECCHI 10) Stambecco delle Alpi, poichè soggiunge , nous en avons aussi en nos montajgnes ,,. A. Wagner nel 1836 dichiara non essere possibile decidere se lo Stambecco delle montagne di Creta differisca o no dallo Stambecco delle Alpi ('). Un poco più tardi lo stesso autore dice che non sarebbe impossibile che lo Stambecco di Creta fosse identico coll’ Aegoceros caucasicus, a cagione della colorazione e della gran barba che attribuisce il Belon alla specie da lui de- scritta (?). Nel 1840 il Keyserling ed il Blasius emisero il parere che lo Stambecco trovato da Belon in Creta debba considerarsi come specie differente dalla ©. ber, e che per considerazioni geogra- fiche potrebbe essere identico alla capra del Sinai, cioè alla C. Beden (*). Poco tempo dopo, l’uno di questi autori, il Blasius, conferma questa supposizione basandosi sopra un esemplare del Museo di Kònigsberg, il quale si vuole (, angeblich ,) provenire da Creta, ed è certamente identico colla CU. Leden ('). I. E. Gray segue il Blasius, enumerando la , Capra selvatica di Creta, Belon , fra i sinonimi della Beden, il cui habitat sarebbe per conseguenza , Egitto, Arabia, Creta (°) ,. Nella sua , Naturgeschichte der Siugethiere Deutschlands (°), il Blasius dà, senza motivare le sue asserzioni, per patria del Beden , il Nordest dell’Affrica, l’isola di Creta e qualcuna delle Cicladi: cioè Antimelos e Joura ,. Dopo Belon il primo a darci una descrizione de visv dello Stambecco di Creta fu Erhard (7). Nel 1854 questo autore aveva (5) Die Saugthiere in Abbillungen n. d. Natur mit Boschreibungen von I. C D. v. Schreber et A. Goldfuss. Furtges. von L A. Wagner, V, 4. 1836, p. 1262. (2) Wagner |. e. p. 1302 (3) Die Wirbelthiere Europa's von A. Graf. KeyserZing und Prof. I. H. Blasius. Erstes Buch. Braunschweig 1840, p. V, (System. Verzeichniss der Wirbelthiere Europa's). (4) Blasius, im Bericht d. Versammlung d. Naturf. zu Braunschweig, p. 91; a me conosciuto sul'anto per la citazione di A. Wagner nell’ opera citata, Supplementband IV, 1844, pag. 494. Anm. 23. (3) I E. Gray, Catalogue of the specimens of Mammalia in the Collection of the British Museum Part. ILL. Ungulata fureipeda. London 1852, p. 152. (5) Braunschweig, 1857, pag. 4N5. (?) Dr Erhard. Fauna der Cykladen. Erster Theil. Die Wirbelthiere der Cykla- den. Leipzig 1858. 12 C. I. FORSYTH MAJOR descritto una Capra selvatica di Antimelos, una delle Cicladi, che chiama Aegoceros pictus, e menziona il giudizio di ufficiali inglesi, i quali avendo avuto l’ occasione di fare la caccia tanto alla Capra selvatica di Creta come a quella d’Antimelos, le avevano dichiarate identiche. Egli stesso ci lascia dubbiosi sulla specie zoologica alla quale deve riferirsi lo Stambecco di Creta ('). Qualche anno dopo avendo lo stesso autore ottenuto dall’isola di Creta la pelle di un animale di sesso femminile, la descrive minutamente, e dà notizie sulla vita e sui costumi della specie (>). Delle cose da lui dette mi sembra meritevole d’ essere rilevata, la notizia, che in quell’epoca esistevano tuttora in numero relati- vamente grande gli Stambecchi, e che non erano rari i bastardi di questi colla Capra domestica. Erhard conclude che lo Stam- becco di Creta, nonchè quello dell’ isola di Joura (la Io\darros degli antichi), una delle Strofadi, e quello dell’isola di Skopelos (Sporadi) siano indubbiamente la Capra Aegagrus, mentre che un individuo vecchio di Antimelos o Ereromelos, sarebbe da conside- rarsi per lo meno come una varietà, per ragione della curvatura delle corna e della barba affatto differente. Abbiamo già detto che Erhard a quest’ultimo impone il nome di Aegoceros pictus. Dello Stambecco di Creta si occupa in seguito lo Sclater (?), dando la figura di una femmina, e chiamandolo Aegoceros pictus o Capra picta. Qualche anno dopo, presentando la pelle montata di uno di due individui dello Stambecco di Creta, lo stesso autore dichiara (5) che in seguito a nuovi esami sembra che la Capra selvatica di Creta e delle Cicladi, sia realmente da identificare con la Capra aegagrus Pall. dell’Asia occidentale. Con questa identificazione s'accordò anche il Busk, dietro esame del cranio dell’ individuo in questione. Finalmente W. T. Blanford, nel presentare alla Società Zoolo- gica di Londra alcune corna della Capra aegagrus, dichiara essere probabile che la Capra selvatica della Persia settentrionale, dell'Asia minore e di Creta, sia identica con quella della Persia meridionale e del Sind (?). (4) 1. c. pag. 30. (*) lle: pi 97-42) (*) Proc. Zool. Soc. London, 1871, pag. 627; 1872 II, pag, 689. PI. LVII. (4) Proc. Zool. Soc. 1874, I, p. 89, 90. (5) Proc. Zool. Soc. 1874, IL. p. 248. MATERIALI PER UNA STORIA DEGLI STAMBECCHI 6) Poco tempo fa fu mandato al Museo Zoologico di Firenze, da Miss Yule, una signora inglese la quale si dedica allo studio delle scienze naturali in Creta, una pelle nello spirito, col cranio completo, della capra selvatica di quell’ isola, e io ho potuto studiare questo cranio favoritomi dal prof. Enrico Giglioli, di- rettore del gabinetto dei vertebrati nel R. Museo di Firenze. Si tratta di un’ individuo maschio, di forse due anni, colla prima dentizione ancora in posto. Secondo le indicazioni della donatrice, questi animali, chiamati Agrimi, non sono rari sulle alte montagne dell’ isola. Quantunque non sia a mia disposizione cranio di giovane C. Beden, e benchè di tutti i veri Stambecchi da me cono- sciuti, la Capra Beden sia quello che presenta le maggiori ana- logie colle C. aegagrus ed Capra hircus, nel confrontare col mio materiale il cranio in questione, ho potuto escludere assoluta mente che si trattasse della Capra Beden, e la grande analogia colla Capra aegagrus, della quale pur troppo non ho che un cranio di femmiva, mi colpì subito. Lo Stambecco di Creta è detto trovarsi oggidì sui pendii del- l’ Ida e delle montagne bianche, catene che raggiungono un’ al- tezza di 8000 piedi. Siccome vivono su roccie inaccessibili, a cominciare dall’altezza di 4000 piedi, questi animali vengono poco molestati. Descrizione del cranio. Qui appresso do la descrizione del cra- nio sopra menzionato di un giovane maschio dello Stambecco di Creta, confrontandolo con un cranio di Capra aegagrus £ di Persia e con la Capra hircus è e 9. Anticipando fin d’ora i resul- tati di questo esame, sono d’avviso che fra tutte le forme cono- sciute di Capre selvatiche, quella di Creta si avvicina maggior- mente alla C. aegagrus: nonostante mi sembra desiderabile un confronto ancora più esteso, fatto anche su altre parti dello scheletro e basato sopra un materiale più ricco, per poter rendersi conto del valore delle qui sotto indicate differenze coll’ aega- grus, le quali per ora sembrano di poca entità e troveranno senza dubbio la loro spiegazione nella differente distribuzione geografica. Premetto i caratteri comuni al gruppo degli Aegagrus, che distinguono cioè queste capre da tutti gli Stambecchi descritti nel presente lavoro. Comprendo in questo gruppo degli Aegagrus 14 C. I. FORSYTH MAJOR la Capra aegagrus della Persia e dell'Asia minore, la Capra di Creta e la Capra Mreus domestica. La lacuna esistente in tutte le Capre, da ambedue i lati, fra il frontale, il lacrimale ed il nasale, nel grappo Aegagrus è molto più larga, nient' affatto a forma di fessura come generalmente vedesi negli Stambecchi. In individui molto vecchi di quest'ultimi sparisce affatto; ciò ho potuto constatare sulla C. Ibex, C. Beden e Capra Pallasti. In rapporto con quel che ho detto, si trova quel- l’altra particolarità del gruppo Aegagres, che cioè i lacrymalia rimangono più discosti dai rasalia, e non mandano neanche un appendice in avanti nella direzione dei premazxillaria, di modo che queste due ossa rimangono più discoste l’ una dall'altra che nei veri Stambecchi. La poca altezza in senso verticale dei praemaxrillaria è una particolarità comune alla Capra di Creta ed alla C. aegagrus, confrontate coll’ Ibex. Il frontale non termina a punta nell’angolo fra il nasale ed il lacrimale, ma a faccia più larga. I nuclei cornei hanno solchi paralleli più lunghi e più pro- fondi che negli Stambecchi veri, nei quali questi solchi sono di- stribuiti più irregolarmente e sono anche più numerosi e meno profondi. La sutura fronto-nasale è molto più estesa che non nei veri Stambecchi, cioè i nasali si addentrano maggiormente nei frontali. La cresta lacrimale dell’jugale è marcatissima, anche in indi- vidui femminili ed in giovani, scorre un poco (circa 2 a 4 mil- lim.) sotto la sutura jugo-lacrymalis, quindi non coincide con la, sutura stessa e le è parallela quasi per tutta la sua lunghezza. Capra di Creta: Nel mezzo dei frontali, equidistante dall’ori- gine dei nasali e dalla base dei nuclei cornei, si riscontra una forte protuberanza, nella di cui estensione la sutura, in questo ani- male tuttora giovane, è di già obliterata. Da questa protube- ranza partono due creste salienti, ma smussate, verso la parte interna della base di ogni nucleo delle corna; lo stesso si trova, quantunque molto più debolmente, in crani di Capra domestica $, appena acccennato è nel cranio di una ©. Aegagrus 9 quasi adulta. Tanto la protuberanza nel mezzo del frontale quanto le due creste smussate che ne partono posteriormente, si tro- vano al medesimo grado di sviluppo in maschi di Capra kireus, come osservo in un cranio di giovane C. hircus 3 dell’ Egitto MATERIALI PER UNA STORIA DEGLI STAMBECCHI 15 ( Museo di Firenze), il quale, quantunque un poco più vecchio della Capra di Creta, avendo già perduto la dentizione di latte, serve benissimo di confronto con essa. Anche l’obliterazione della sutura ha avuto luogo nella C. Xircus, nella regione della mag- giore protuberanza. I lacrymalia sono posteriormente più larghi, anteriormente più stretti di quei delle capre domestiche maschi e femmine e della C. aegagrus della Persia. I nasalia si inoltrano molto in alto tra i frontali; nella loro metà anteriore diventano sensibilmente più stretti, essendo i loro margini esterni alquanto incavati all’ infuori. Confrontando colla C.hircus 4, nasali della Capra di Creta appajono più pianeggianti; quei della C. hireus si alzano più verticali dai loro lati esterni. Ve- duti di profilo i nasali della Capra di Creta fanno vedere verso la loro metà una curva a sella molto più accentuata che nella C. hircus. La forma generale dei nuclei delle corna è quella caratteri- stica delle C. aegagrus e C. hircus, cioè a due tagli (compressi lateralmente); la cresta anteriore situata verso il margine interno è più tagliente di quella posteriore situata verso il margine esterno, la quale non diventa tagliente che nella sua metà supe- riore. Il lato esterno è convesso, quello interno, che nella Capra hircus può esser chiamato piano, è debolmente convesso nella metà inferiore nella Capra di Creta. Nel tempo stesso, in quest’ul- tima sono poi i nuclei in tal modo contorti, che il lato esterno, a misura che sì avvicina alla punta superiore, diventa gradata- mente lato anteriore, ed il lato interno diventa posteriore. La punta dei nuclei è diretta all’ infuori. Nella Capra aegagrus fem. della Persia trovo i nuclei meno compressi lateralmente, più arrotondati: la cresta posteriore non esiste quasi come tale, anche l'anteriore è molto più ottusa; il lato interno è convesso come quello esterno. Confrontati colla C. hircus &, i nuclei cornei della Capra di Creta sono più lunghi e meno divergenti. Gli astucci cornei nella Capra di Creta non sono niente pie- gati al di dentro colle loro punte come vedonsi generalmente nei maschi della Capra aegagrus ('), anzi un poco all'infuori, come in modo molto più pronunziato ha luogo negli adulti della C. hircus. (4) Blasius l. e. fig. 264. Vedi più avanti. 16 C. I. FORSYTH MAJOR Intorno e sopratutto davanti al foro infraorbitale, abbiamo nella Capra hircus fem.e C. aegagrus fem. una fossa profonda; che nella Capra di Creta manca quasi completamente. Il contorno inferiore dell’orbita ha nella Capra di Creta i due terzi anteriori a margine più largo, in grado maggiore di quel che troviamo negli Stambecchi, mentre che il margine in questione è strettissimo nelle C. aegagrus 9 ed Wircus. I praemaxillaria della Capra di Creta sono alquanto arcuati convessi all’ infuori, più rettilinei nella C. aegagrus. I foramina incisiva sono corti come nelle C. aegagrus®, hircus e Beden del Museo di Pisa. Nell’ [ber essi sono sempre più lunghi; del resto sono di lunghezza variabile nei vari crani dello Stambecco alpino da me osservati. Mentre che nell’/ber ciò è stato da me verificato su tre crani i forami palatini sono situati dietro la sutura maxiZlo-palatina, nella C. aegagrus, hircus ed in quella di Creta si trovano in questa sutura medesima oppure un poco davanti ad essa. Non ho fatto osservazioni a questo riguardo su altre specie di Stam- becchi. Riguardo alla conformazione della detta sutura, essa nel gruppo Aegagrus è più ad angolo acuto, cioè si spinge maggior- mente innanzi che nell’ Ibex. In tutto il gruppo Aegagrus i praemarillaria terminano in un apice meno largo e meno grosso che nell’Ibex. La metà anteriore della sutura parieto-temporale nella Capra di Creta è appena più alta del processo malare; nella C. hircus e nella C. aegagrus è più alta di circa un centimetro. Può darsi però che questi rapporti si cambino alquanto coll’età. Le precedenti investigazioni hanno dimostrata la stretta re- lazione della Capra selvatica di Creta colla C. aegagrus. Però non avendo potuto confrontare direttamente degli individui maschi di quest’ ultima col giovane maschio di Creta, è neces- sario aggiungere alcune parole sulle corna del maschio dell’aega- grus, quali vengono descritte dagli autori, confrontandole con quelle della Capra di Cret». La differenza che a prima vista mag- giormente colpisce sta in ciò che le corna dell’aegagrus maschio hanno le punte rivolte all’ interno, mentre il contrario ha luogo per il giovane Stambecco di Creta, le cui corna però, tanto gli astucci che inuclei, mostrando tendenza a ravvolgersi a spirale, tendenza che si trasforma in fatto evidente nei maschi delle MATERIALI PER UNA STORIA DEGLI STAMBECCHI 17 Capre domestiche, lasciano nel dubbio, che abbiamo a che fare con un bastardo delle capre aegagrus ed Ahircus. E ciò tanto più perchè, al dire di Belon fino dal secolo XVI era uso nel- l’isola di Creta lo addomesticare gli Stambecchi presi giovani ('); ed Erhard riferisce espressamente (?) che non di rado i maschi della Capra selvatica di Creta si accoppiano colle capre dome- stiche; e che i bastardi che ne nascono, si ritirano lontano da ogni abitazione umana sulle cime quasi inaccessibili dell’Ida. Nel tempo in cui scriveva questo autore (1856) fu detto esistere sulle così chiamate Corna nere di quella montagna un maschio bastardo, più grande di tutti i suoi congeneri, e la cui età avanzata si rilevava dai peli diventati bianchi. Lo stesso Erhard asserisce poi (*) che le corna della Capra aegagrus dell'Asia minore e della Siria, divergono nel modo stes- so che nei maschi della Capra hircus, ed è precisamente questa particolarità, da lui trovata in un giovane maschio dell’isola di Joura, nonchè in un adulto non vecchio dell’isola di Skopelos, che gli fa dichiarare che essi appartengono indubitatamente alla C. aegagrus ('); mentre per me questa stessa particolarità è anzi una ragione per esitare ad identificarli senz'altro colla C. aega- grus stessa. Erhard sbaglia asserendo che la forma delle corna accennata sia caratteristica per la C. aegagrus; e le sue anno- tazioni sulle capre selvatiche dell'Asia minore continentale evi- dentemente non riposano sopra osservazioni dirette. Per noì la forma delle corna dei due individui di Joura e di Skopelos suscita il medesimo dubbio emesso sul giovane Stam- becco di Creta, inquantochè quella forma rammenta anch'essa la Capra hircus. Abbiamo alcune recenti osservazioni di autori inglesi sulle variazioni delle corna della C. aegagrus. Il Blanford (5) nel presen- tare alla Società Zoologica di Londra alcune corna della C. aega- (4) I. e. pag. 31: « Si les habitans du pays peuvent prendre les faons du Bouc estain (dont y a grande quantité) errants par les montaignes, ils les nourrissent avec les Chevres privees, et les rendent appriuoisez ». (ale pa n98: (8) Ice. p. 39; 40. (4) 1. c. p. 42. () Proc. Zol. Soc. London 1874, IT, p. 248. Se. Nat. Vol, IV, fase. 1,° 19 18 C. I. FORSYTH MAJOR grus di Persia, rammentò che essi, confrontati colla figura data dal Blasius ('), sono meno rivolti all’ interno. Il Danford (*) osserva che l'estensione delle corna varia molto nei maschi della C. aegagrus, ma che la direzione delle punte in individui del Caucaso e dell’ Asia minore è quasi sempre al- l'interno. Prosegue inoltre dicendo, che in alcune corna da lui osservate, che furono dette provenire dal Sind, la direzione delle punte era decisamente verso l'esterno, e che in una testa proveniente dall’ Afghanistan le corna avevano una larghezza di 22 */, pollici. In un altra serie di corna presentate da Danford, le corna in uno caso s'incrociano addirittura, in un altro sì toccano colle punte, e tutte si incurvano all’interno, con una sola eccezione, in un animale cioè di otto anni di Chander (catena di Soli- man) nel quale le punte delle corna distano fra di loro non meno di 27 pollici inglesi. Nello stesso tempo appare una de- bole tendenza alla forma spirale, che fa dubitare all’ autore non essere quella la testa di un Aegagrus puro, poichè l’autore as- serisce di avere trovato in tutte le corna da lui osservate di bastardi dell’Aegagrus colla Capra domestica, una tendenza alla forma spirale, e le punte rivolte all’esterno, e non mai una reversione al vero tipo Aegagrus. Bisogna però osservare che il Blasius (*) indica come carat- tere dei maschi vecchi che le corna descrivono in essi più di un semicerchio, escono alquanto dal piano, il corno destro ri- voltandosi a spira colla punta un poco a destra, il sinistro a sinistra. A cominciare dalla base fin' oltre la metà si scostano fra di loro, ma si ravvicinano nuovamente colle punte. Quindi anche le corna che sono dirette all’ interno colle punte, hanno una tendenza a spirale verso l’ esterno; e risulta dalle ulteriori indicazioni del Blasius, che soltanto nell'animale vecchio le punte si avvicinano, inquantochè egli dice: , nel continuare a crescere le punte delle’corna di C. Aegagrus si ravvicinano di nuovo , (*). Essendo giovani animali tanto i due maschi di Joura e Skopelos dall’Erhard descritti, quanto quello da me descritto di (4) I. c. pag. 485, fig. 264, 265. (£) Notes on the wild Goat, Capra aegagrus Gm. P. Z. S. 1875, pag. 458 sgg. (3) 1. c. pag. 485. (4) I. c. pag. 486. MATERIALI PER UNA STORIA DEGLI STAMBECCHI 19 Creta, mi sembra che ponderato tutto, la direzione delle corna che essi hanno in comune, non debba necessariamente conside- rarsi quale prova che siano bastardi. — Quando sarà stato ra- dunato un più ricco materiale della Capra selvatica di Creta, e sopratutto di maschi adulti e vecchi, allora sapremo se le sue corna si rivoltano o no definitivamente all’indentro, come è la regola per la C. aegagrus del continente ('). Confrontando crani di Aegagrus maschi del continente, sapremo quale valore attri- buire alle particolarità da me esposte pel cranio del giovane maschio di Creta. Se la Capra selvatica deve avere un nome linneano di specie già esistente nella scienza, non le spetta altro che quello di Capra aegagrus. Oggidì però l’aver dato un nome che richiama una diagnosi basata sopra un numero ristretto di individui, non basta più. Nel nostro caso speciale avrà anzi un interesse gran- dissimo l’investigare quali differenze, per piccole che possano sem- brare, distinguono la Capra selvatica dell’isola di Creta dal suo parente continentale, dal quale certamente da migliaia e mi- gliaia di anni, per cambiamenti geologici venne separata. Differenze sessuali nel cranio. Non possedendo io crani femminili delle Capre che mi ri- mangono a descrivere, mi sembra opportuno l’aggiungere qui qualche parola sulle differenze sessuali proprie dei crani femmi- nili di Capra hircus, (Tav. VI, fig. 6; Tav. VII, fig. 1), di C. ae- gagrus (Tav. VI, fig. 4; Tav. VII, fig. 3), e di C. Ibex (Tav. VI, fio. 5, Tav. VII, fig. 6), che sono a mia disposizione. Le ossa del cranio sono più massiccie negli Stambecchi maschi. Nasalia: Considero come caratteristica per le femmine delle Capre in genere, in prima linea la particolare conformazione dei nasalia, che si trova identica in crani di tre specie: cioè C. Ibex 9, C. hircus 2 e C. aegagrus g. Ai due lati della linea mediana i (') Nella figura che il Belon dà della Capra selvatica di Creta, le lunghissime corna vanno in un arco direttamente all’ indietro e finalmente divergono un poco. — Erhard (1. c. p. 33), rileva quale particolarità del suo Aegoceros pictus di Anti- melos, che le corna si alzano direttamente in alto, e formano un regolare segmento di cerchio, 20 C. I. FORSYTH MAJOR nasali sono depressi, quasi piani. Nei due crani citati di aega- grus e di hircus i nasali hanno una parte inferiore piana e si ri- piegano, formando uno spigolo smussato longitudinale, e scen- dono ai lati quasi verticalmente. Nella C. Ibex 9 lo spigolo longitudinale è meno sentito, però è evidente la depressione nella linea mediana, sopratutto nella metà anteriore delle ossa nasali. I nasali degli Stambecchi maschi invece sono convessi nelle due direzioni, cioè dal davanti all'indietro e da un lato all’altro. Frontalia: Il fronte è sempre più convesso (bombé) nei maschi di Capra. Parlando in ispecial ‘modo della Capra Iber, la de- pressione ai lati della linea mediana del frontale, dietro i nasali, è più marcata nei crani di maschi. Così anche la depressione davanti alla parte antero-interna della base dei nuclei delle corna, che è evidente anche nei crani dei giovani maschi, manca nella femmina, il di cui cranio invece possiede una protuberanza nel mezzo delle ossa frontali, dietro la depressione, la quale a sua volta si trova dietro l'origine delle ossa nasali. Sotto questo rapporto un cranio di giovane maschio sì accosta maggiormente a quello della femmina. L'andamento della sutura mazillo - jugalis è alquanto più verticale in un cranio di femmina vecchia che in quello di maschio adulto. La fossa infraorbitalis è più profonda e spaziosa nel maschio. I nuclei delle corna delle femmine hanno circa '/, della lun- ghezza di quei dei maschi. La grossezza è in proporzione. Essi sono meno divergenti nella femmina. In rapporto col minore diametro dei nuclei si trova il fatto che nella femmina la di- stanza fra le basi dei due nuclei è più considerevole, e così anche la distanza fra l’esterno della loro base ed il margine posteriore dell’ orbita. Capra Beden. Miao WILD Gia oa MI 2 Le fotografie che hanno servito alle figure, provengono da un cranio di una Capra Beden $ conservato nel Museo d’Anatomia comparata di Napoli. Inoltre ebbi l' occasione di confrontare un MATERIALI PER UNA STORIA DEGLI STAMBECCHI 21 cranio di provenienza ignota, forse affricana, del Museo d’Ana- tomia comparata di Pisa, e che è di un maschio molto vecchio colle suture in parte obliterate; finalmente un cranio di maschio adulto, del Sinai, del Museo di Firenze. Il cranio della. ;C. Beden presenta maggiori differenze da quelli degli Stambecchi finora descritti, che non questi fra di loro. D'altra parte è quello fra gli Stambecchi a me noti, il quale si avvicina di più alla forma degli Aegagrus. Uno dei caratteri il quale colpisce di più nella figura presa a volo d’ uccello, è quello delle parti laterali formate dal mascel- lare ed in piccola parte anche dal jugale, le quali non sono presso a poco verticali come negli altri Stambecchi, ma si pro- tendono molto all’ infuori. In parte certamente questo aspetto insolito deve provenire dalla posizione che sarà stata data al cranio da fotografarsi, disponendolo non verticalmente ma col muso alquanto diretto all’avanti. In parte però deve esser cagio- nato da una più forte sporgenza laterale di quelle parti, poichè nei crani di C. Beden dei Musei di Pisa e di Firenze che osservai in proposito, il tubercolo mascellare è straordinariamente svilup- pato, ciò che spiega come le parti vicine sporgano più all'infuori. La regione frontale è relativamente più larga che in tutti gli altri Stambecchi osservati; le orbite quindi sporgono più all’ infuori. La forma dei nuclei cornei è poco diversa da quella delle forme del gruppo Aegagrus: essi nuclei sono compressi lateral- mente. Dal lato anteriore, quasi sul suo margine interno. vi è uno spigolo; così anche si trova posteriormente una cresta più smussata di quella anteriore. La lunghezza nei maschi adulti è considerevole. Ho misurato la curva superiore di un nucleo cor- neo della Beden di Pisa, e la ho trovata di 0, 510®", Le corna (astucci) dell'individuo di Pisa hanno un’ ampia curva diretta in giù e al loro termine divergono debolmente al di fuori. Lo spazio vuoto tra il frontale, il lacrimale ed il nasale ha una conformazione simile a quella degli Aegagrus, inquantochè è più largo, triangolare, meno allungato‘e più a forma di fessura, che ordinariamente negli Stambecchi. Però nel vecchissimo indi- viduo di Pisa questo spazio è sparito quasi interamente; lo stesso è accaduto in un cranio, anch’ esso vecchio, dello Stam- becco del Caucaso, C. Pallasti. 29 C. I. FORSYTH MAJOR I nasalia s' addentrano grandemente nei frontali, in modo simile a quel che ha luogo negli Aegagrus, però nell’individuo di Napoli non terminano posteriormente a forma di angolo molto acuto, mentre poi terminano molto più a forma di punta in quello di Pisa. I lacrymalia appaiono nella figura molto larghi nella parte posteriore, ciò che forse in parte sarà da ascriversi alla posi- zione particolare in cui fu messo il cranio per essere fotografato. Nel cranio di Pisa le suture del lacrimale sono quasi completa- mente obliterate: anche in questo stato è evidente però che le ossa lacrimali sono strettissime anteriormente. Quest’ ultima osservazione vale anche per i lacrymalia dell'individuo di Firenze. Nel profilo della C. Beden di Napoli colpisce a prima vista la fronte ripida, in tal modo che un angolo quasi retto si trova, all'origine dei nasalza. Questo carattere è più marcato che nel- l’Ibex $ adulto, e nell’Rispanica e sibirica. Similmente hanno fronte ripida la C. Beden nella figura data dal Gray (!), la Capra hir- cus$ (*), e la testa di una C. aegagrus è figurata dal Blasius (8). Abbiamo già detto come è conformata la fronte della capra di Creta. In crani della C. aegagrus £ e C. hircus9 (tav. VII, fig. 8 e 1) la fronte è anzi pochissimo inclinata. — Nel cranio di Beden (vecchio maschio) del Museo di Pisa, i frontali salgono quasi verticali dietro le ossa nasali; la protuberanza frontale però non è così pronunziata quanto nei maschi di C. aegagrus e di C. hircus. Nella C. Beden del Museo di Napoli appare inoltre come il processo orbitale del jugale e quello del frontale siano più lar- ghi che nelle C. hispanica e pyrenvica: a giudicare dalla figura di Gray dell’ Ibex nubiana, questo è evidente sopratutto anche per la parte superiore del processo orbitale del frontale. Nel cranio di Pisa il margine posteriore dell’ orbita è largo altret- tanto, quindi relativamente più largo che in un cranio assai più grande dell’ [ber delle Alpi che servì di confronto diretto. Il margine inferiore dell’’orbita è largo anche nei due terzi an- teriori, come in un cranio di C. Ibex di Pisa, meno però che nella C. aegagrus. Il margine posteriore del mascellare, dal molare terzo fino alla (1) Ibex nubiana è Gray I. c. Tab. XIX, fig. 3. (®) ib. Tab. XX, fig. 1. (3) I. c. p. 485. fig. 265. MATERIALI PER UNA STORIA DECLI STAMBECCHI 23 sutura maxillo-jugalis, e così anche tutta la parte posteriore, sono più alte nello Stambecco del Sinai che in qualunque altro, ciò che è in rapporto coll’ andamento della sutura maxille-jugalis. È degno di nota che questo carattere non si trova punto nel medesimo grado nella L nubiana, a giudicare almeno dalla ve- duta di profilo data dal Gray (1. c.). Nel cranio di Pisa l'altezza del mascellare, misurata in linea verticale sopra il margine posteriore dell’ ultimo molare, è di m. 0, 0205 (in un cranio di C. Ibex adulto di m. 0, 0175); dietro la serie dei molari, verso il termine posteriore del mascellare, la differenza è ancora maggiore, cioè m. 0, 0240 pel Beden, m.0,0175 per lo Stambecco delle Alpi (sempre misurato più che possibile verticalmente ). La sutura mazillo-jugalis è più vicina all’ orizzontale che nell’Ibex. La cresta jugale, sotto il lacrimale, è sempre sviluppatissima nella C. Beden; ed è uno dei caratteri che essa ha in comune col gruppo Aegagrus. Le seguenti osservazioni furono fatte sull’ esemplare di Pisa. L'altezza dell’orbita è nella C. Beden di m. 0, 0425, e così an- che nell’ ber; quindi è relativamente più grande nella C. Beden. Il foramen infraorbitale è sprovvisto di fossa interna. I foramina incisiva sono cortissimi; altro carattere comune al gruppo Aegagrus. La regione dei parietali è quasi piatta nella Beden di Pisa, negli altri Stambecchi è fatta a vòlta in ambedue i sensi, cioè dall’avanti all'indietro e da destra a sinistra. La fotografia della C. Beden del Museo di Napoli ha invece maggiori rassomiglianze sotto questo rapporto coll’ Ibex; senza dabbio perchè è di un individuo meno vecchio di quello di Pisa. Anche il cranio figu- rato dal Gray ed il cranio del Museo di Firenze sono confor- mati come quello di Napoli. Tutta la parte posteriore del cranio, situata dietro le orbite e le corna, è più allungata nella Beden che in qualunque altra Capra (!). () Sotto questo rapporto il cranio di Pisa, che per notizia di patria non porta altra indicazione che « Africa », concorda col cranio di Napoli, il quale se- condo recenti informazioni avute, fu comprato al Cairo; la sua provenienza dal Si- nai non è certa. Faccio questa osservazione perchè il cranio di Firenze ed il cranio 24 C. I. FORSYTH MAJOR Nella veduta laterale del cranio il profilo inferiore forma un angolo il quale negli altri Stambecchi si trova fra il secondo e l’ultimo terzo del profilo stesso, mentre nella C. Beden si trova spinto molto più anteriormente, trovandosi collocato dietro il margine inferiore dell’ orbita; di modo che due quinti si trovano dietro, tre quinti, circa, davanti. Del resto l'angolo è molto più ottuso nella Beden di quello che ho osservato in tutti gli altri Stambecchi. Capra Pallasii 1840. ?Ovis cylindricornis Blyth. An amended List of the Species of the genus Ovis. Proc. Z. S. 1840, p. 68. 1840. Aegoceros Pallasii Rouillier, Bull. Moscou, 1841, p. 110. 1844. Aegoceros Pallasii A. Wagner, Schreber' s Sdaugethiere. Supple- mentbd IV. 1844, p. 497. 1845. Capra Pallasii, Schinz, Systemat. Verzeichniss d. Séùgethiere Il, p. 459. È 1857. Capra caucasica Blasius, Naturgesch. d. Sàugethiere Deutschlands etc. p. 479, Fig. 259, 256. 1877. Ibex caucasica, E. Deyrolle, Revue et magasin de Zoologie. 3.° Sé- Cie Yes an PA pas5Sì Il fatto oggidì provato che le cime del Caucaso albergano non meno di tre forme di Capre selvatiche assai differenti fra di loro, spiega perchè durante tanto tempo figurarono nella re- lativa bibliografia delle notizie contradittorie sullo , Stambecco del Caucaso ,, inquantochè esse si riferivano ora all’ una ora al- l’altra delle tre forme accennate. Ma anche dopo che Rouillier aveva fornito sulla specie che quì ci occupa, le prime notizie precise, ma scarse perchè basate soltanto sopra un esemplare preparato, alcuni autori continuarono a numerare nella sino- nimia della C. Pallasii anche la C. caucasica per il primo de- scritta da Guldenstàdt ('), e in recenti pubblicazioni di Comba, figurato dal Gray (I. c.), che tutti due sono del Sinai, non hanno la loro parte po- steriore allungata come gli altri due. Suppongo che si tratti di varietà la cui ra- gione sarebbe da spiegarsi colla distribuzione geografica differente. (4) Carl Sundevall, Method. Ùbers. d. wiederkàuenden Thiere, Linné's Pecora. 1843, pag. 92. — I. E. Gray, Catalogue Mammalia III, 1852, p. 147. — I. H. Blasius, Saugethiere Deutschlands, 1857, p. 479. MATERIALI PER UNA STORIA DEGLI STAMBECCHI 25 Brehm, Girtanner ('), figura , lo Stambecco del Caucaso , (Capra - caucasica) quale solo abitante caprino di quella catena, oltre la Capra aegagrus..: E vero che finora si sapeva assai poco sulla C. Pallastì. Il Rouillier ne ha di già rilevato i caratteri più spiccati, di- cendo che questo animale potrebbe essere riferito con uguale diritto tanto al genere Capra quanto al genere Ovis. , È una capra colla conformazione delle corna, la forma della testa, il corpo allungato ed i piedi di pecora; ma potrebbe anche chia- marsi una pecora colla barba, le orecchie di capra e senza fosse lacrimali appunto come le capre ,. Dà inoltre una descrizione particolareggiata delle corna, che viene riprodotta da A. Wagner. Schinz dice (1. c.) che la conformazione delle corna della C. Pallasii la ravvicina allo Stambecco dei Pirenei. Nella sinonimia della Capra caucasica il Gray enumera anche l’Ovis cylindricornis Blyth, del Caucaso (?). A questo proposito A. Wagner osserva: , Non può certo stare che l’ Ovis cylindri- cornis sia identica colla Capra caucasica , (*). Senza dubbio la specie del Blyth non ha niente che fare colla C. caucasiea di Giuldenstidt; ma vi è molta probabilità che si tratti della C. Pal- lasti. Blyth aveva fondato la sua specie sopra lo schizzo di un paio di corna comunicatogli da Hamilton Smith. L'asserzione che le corna abbiano uguale grossezza alla punta come alla base — , cornibus.... sine diminutione curvatis ,, — sorprende in- fatti, ma può spiegarsi colla supposizione di Blyth, che le punte siano state rotte e smussate. Le dimensioni molto forti non fanno però difficoltà. Rouillier dà la lunghezza delle corna mi- surate nell'arco di 2° 8° 1’, il loro massimo diametro alla base di 11° 10; quelle dell'O. cylindricornis sarebbero, secondo una .Valutazione approssimativa del Col. Hamilton Smith, tre piedi in lunghezza e circa 15 pollici in diametro. Il Blasius ha dato i disegni di fronte e di profilo della testa della C. Pallastii — che egli chiama Cl. caucasica — presi da un (4) Comba. B. Poche parole sugli Alpinisti, sullo Stambecco e sul Camoscio (Boll. Glub. Alp. Ital. Vol. VIII, 1875, p. 382.) — Brehm Lc. I, 3. 1877, p. 294. — Girtanner. Der Alpensteinbock (Capra Ibex L.) mil besonderer Berùcksichtigung der letzten Steinwildkolonie in d. grauen Alpen. Trier 1878, p. 25. le (3) A. Wagner, Schreber's Sàugethiere. Supplementband 5.'° Abthlg Leipzig 1855, p. 462. Nota. 26 C. I, FORSYTH MAJOR robusto maschio che il Brandt ricevette fresco dal Caucaso nel- l'inverno del 1841. Egli accompagna le figure con una accurata descrizione delle corna. Anche il sig. E. Deyrolle confonde (1. c.) la Capra caucasica colla C. Pallasti, figurando e descrivendo le corna di quest’ultima sotto il nome di Ibex caucasica Gildenst. Ecco tutta la magra bibliografia intorno al nostro argomento. Nello scorso anno il Museo Zoologico di Basilea acquistò un individuo maschile della Capra Pallasii, proveniente dalle vici- nanze di , Sagodechi (?) presso l’ Elbruz ,. Il Prof. Ritimeyer ebbe la compiacenza di fare eseguire per me un disegno, in gran- dezza naturale, del cranio veduto di fronte e di profilo, ed inoltre uno schizzo della testa dell'animale preparato. Così mi trovo in grado di contribuire alla conoscenza della C. Pallasti, dando una descrizione dettagliata del cranio che è molto singolare. La forma delle corna è stata accuratamente descritta da Rouillier e da Blasius. — I nuclei cornei fino dal principio sono diretti fortemente all’esterno, molto maggiormente che in qualun- que altro Stambecco; proseguono poi in arco verso il basso e l’interno. La faccia interna, superiore, è debolmente convessa, quella esterna lo è molto maggiormente; tutte e due si conti- nuano senza limite marcato nella faccia arrotondata anteriore ed in quella appiattita posteriore. Così almeno si offre la sezione del corno a 16 mill. circa sopra la sua base. È conosciuto che la direzione dei nuclei cornei è una delle differenze principali fra Ovis e Capra. Secondo il Blasius (') in tutte le specie di Ovis il massimo diametro del corno è obliquo all'asse longitudinale della testa, mentre che in tutte le specie di Capra è parallelo. Ritimeyer esprime come segue questi rap- porti (?): , Nelle Capre l’asse maggiore della sezione a forma lenticolare del corno, è parallela all’ asse (longitudinale) del cranio, e le corna stanno ripidamente erette. Nelle Pecore, ed anche in vecchi /bex le corna stanno in sbieco sul cranio, di modo che i loro maggiori diametri divergono indietro , (*). (4) Bericht ib. d. Versamml. der Naturf. zu Braunschweig, p. 89. (2) Versuch einer nat. Geschichte des Rindes I, p. 38, 39. — Vedi anche Qwen, British fossil Mammals and Birds. p. 490. (3) Il testo non dice 7ndietro, ma avanti « vorne », che è senza dubbio un lapsus calami. MATERIALI PER UNA STORIA. DEGLI STAMBECCHI 27 Ecco quello che le mie osservazioni proprie mi hanno dimo- strato. Preso il piano inalzato sull’asse longitudinale del nucleo corneo nel suo insieme, neanche nella Capra il suo maggiore diametro obliquo è affatto parallelo all’ asse longitudinale del cranio; quasi parallelo è nelle femmine dell’ Aegagrus, ed in ge- nere nella C. aegagrus maggiormente che in individui adulti del gruppo Iber. È bensì vero che nell’ Ovis il diametro mag- giore dei nuclei ossei si allontana più dalla parallela. Quantunque nella Capra Pallas la direzione generale delle corna rammenti gli Ovis, in modo tale che Blyth, fondandosi su di esse, credette dovere collocare la C. Pallas appunto tra gli Ovis, tuttavia la posizione dei nuclei cornei di essa si avvicina più a quella del genere Capra. Perchè, se prendiamo in conside- razione il maggiore diametro dei nuclei subito al disopra della loro base, troviamo che la loro direzione è quasi parallela al- l’asse longitudinale del cranio, molto di più che in qualunque Ovis; anzi fanno vedere una debole tendenza a divergere all’ in- nanzi, come avviene anche negli /ber, all'opposto di quanto ha luogo nel gruppo Aegagrus. — E così anche la forma della sezione del nucleo, sopra descritta, non è di Ovis, ma di Capra. Oltre i caratteri esterni di Capra già rammentati nella C. Pal- lasti da altri autori, cioè la presenza di una barba, e la mancanza di fosse lacrimali ('), alla quale ultima circostanza corrisponde poi anche nella C. Pallasti, come era da aspettarsi, la confor- mazione dell’osso lacrimale, caratteristica delle Capre (*) — ne troviamo degli altri nel cranio: I praemarillaria s' incurvano fra 1 marillaria ed i nasalia, ed i loro margini si pongono per un certo tratto contro quelli dei nasali (22 mm. circa), mentre che nell’ Ovis i praemarillaria raggiungono bensì i nasalia, senza però incunearsi fra mari/laria e nasalia. Quantunque i praema- xillaria si addentrino discretamente all’indietro nella C. Pallasti, non ostante non arrivano fino al punto che essi raggiungono nelle altre specie di Capra, di modo chè i nasalza rimangono pur sempre più lunghi dei praemaxilIaria, come nell’ Ovis. Ne segue inoltre che il margine superiore del mascellare il quale è relativamente più breve nella Capra che nell’ Ovis, nella C. Pal- lastù sì comporta come in quest’ ultimo genere. (4) Le fosse lacrimali del resto mancano anche nel Tragelaphus. (*) A. Wagner, Schreber’s Sàugethiere, Supplemtbd III, 1844, p. 489. 28 C. I. FORSYTH MAJOR Il primo biografo del nostro animale, il Rouillier, aveva rile- vato nell’individuo preparato il muso alquanto curvato, convesso. Wagner, il quale dà un sunto della descrizione di Rouillier, du- bitò che questa convessità fosse artificiale, giacchè per la man- canza del cranio poteva essere alterata la forma della testa nel preparare l’animale ,.('). L'esame del cranio però mostra che il dubbio di Wagner non era giustificato. I nasali sono infatti alquanto convessi, e tengono sotto questo rapporto il mezzo fra la forma che assumono in un maschio adulto di C. Ibex e quella che prendono nell’ Ovis. Un’ altra particolarità, che viene citata come caratteristica del genere Capra (?), mi sembra non tanto rilevante. Trattasi della, fessura fra il lacrimale, il nasale ed il frontale, la quale manca nella C. Pallas. Infatti in individui molto vecchi di C. Ibex e di C. Beden manca altresì questa fessura. Caratteristica per il genere Ovis però è un’ altra particola- rità della C. Pallast: il margine orbitale è diretto obliquamente in avanti, mentre che nelle Capre e negli Stambecchi lo è più direttamente all'infuori. In quanto alla forma dell'orbita, essa è soggetta a certe variazioni fin’ anche nei varii individui delle medesime specie tanto di Capra che di Ovis. Di modo che le seguenti differenze fra 1 due generi non si possono prendere che molto generica mente: nell’ Ovis il maggiore diametro dell'orbita è parallelo alla linea mediana del cranio; nell’ Aegagrus (Capra hrcus; C. aegagrus e sua varietà di Creta) è maggiore il diametro verti- cale, o più precisamente un diametro che scorre alquanto obli- quamente dall’ alto al basso e dall’indietro all’avanti. Il gruppo Ibex e quello costituito .dalla C. Beden, tengono il mezzo fra i due, inquantochè la circonferenza dell’ orbita è quasi circolare. — L'individuo di Capra Pallasii del Museo di Basilea dimostra nei contorni della sua orbita più i caratteri di Capra che di Ovis: esso si avvicina più al gruppo Aegagrus. In proporzione delle dimensioni totali del cranio l’orbita della C. Pallas appare anzi singolarmente stretta. Il processo zigomatico dello squamoso nell’ Qvis si stacca dal (4) 1. c. Supplementband IV, 1844, pag. 497. (£) Giebel, Sàugethiere, 2.'° Auflage 1897, p. 283. — Rutimeyer, Versuch einer nat. Geschichte des Rindes. I, p. 39. MATERIALI PER UNA STORIA DEGLI STAMBECCHI 29 corpo dello squamoso anteriormente al meato auditivo; nella Capra invece si stacca posteriormente al meato e passa sopra di esso; così avviene anche nella C. Pallasti. Nelle Capre e nelle Pecore in genere il piano tangente al margine superiore del processo zigomatico dello squamoso è poco più alto del piano che passa per la sutura squamoso-parietale; nella Capra Pallasii la distanza tra i due piani è evidentemente maggiore. Ho detto che in genere nelle capre e nelle pecore la distanza è piccola: però la si osserva alquanto maggiore nelle pecore, per il chè da questo lato la ©. Pallasit mostra esagerato il carattere dell’ Ovis. Abbiamo riservato per ultimo la esposizione del carattere più rilevante del nostro cranio. Una delle differenze più salienti fra i crani di Capra e quelli di Ovis guardati di profilo, differenza già rammentata da Owen, è la seguente: nel confrontare il con- torno superiore del cranio, dalla cresta occipitale alla punta dei nasali, si vede che nelle Capre esso si piega superiormente ad an- golo quasi retto con lati uguali; nelle Pecore invece forma angolo più aperto, il di cui lato anteriore ha il doppio di lunghezza del posteriore. La veduta in profilo del cranio caucasico ci insegna al primo colpo d’occhio, che la Capra Pallasii ha più la forma or ora assegnata alle pecore che quella delle capre. Ciò si deve al rac- corciamento sorprendente della parte del cranio situata dietro i nuclei cornei, quale raccorciamento è anzi molto più ragguarde- vole di quello che troviamo nei rappresentanti del genere Ovss, ad unica eccezione forse dell’ Argal:, il cui cranio io non co- nosco. Sopratutto la regione parietale appare ridotta ad un mi- nimo, e ciò in proporzioni maggiori che nel Zragelaphus (') — (la cui regione occipitale è anch’ essa molto ridotta) —, in tale modo che la parte occipitale presso a poco verticale principia quasi direttamente dietro il margine posteriore dei nuclei cornei, da essi distante 21 mill. incirca. Nel suddetto raccorciamento è compresa inoltre una parte della base del cranio: cioè il timpano e la bulla ossea. Invece quella porzione del periotico — la porzione mastoidea — la quale è situata fra il margine posteriore dello squamoso e l’exoccipi- (4) Non conosco i cranii del Nahur e del Burrhel. 30 C. I. FORSYTH MAJOR tale, e che nelle Capre forma sempre una maggiore parte della parete craniense che nelle Pecore, nella C. Pallasti ha il carattere del genere Capra. Così lo studio del cranio di C. Pallas conferma il giudizio emesso dal primo osservatore, Rouillier, e da noi riportato, il quale si basava sui soli caratteri esterni. A. Wagner (') ha formato il gruppo Ammotragus col Nahur, Burrhel e Tragelaphus, formandone un sottogenere che inter- pone fra la Capra e l’ Ovis, sottogeneri anch’ essi del suo genere Aegoceros, esprimendo in questo modo benissimo gli stretti rap- porti esistenti fra le Capre e le Pecore le quali sono maggior- mente ravvicinate per mezzo degli Ammotragus. Se si volesse assegnare alla nostra C. Pallasiù un posto in questa serie, con- verrebbe farne un sottogenere a parte, chiamandolo Tragammon, inserendolo poi fra Capra ed Ammotragus, per indicare col nome e col posto assegnatogli la sua forma intermedia, tendente più verso le Capre; mentre gli Ammotragus, da quel poco che ne sappiamo, sono forme intermedie più tendenti verso 1’ Ovîs. In fine di questo lavoro diamo tutte le misure prese sui crani e sui disegni di crani degli animali descritti nelle pagine pre- cedenti. La discussione di altri rapporti fra i crani in questione sarà data insieme alle convenienti spiegazioni circa le misure. Gli avanzi fossili di Stambecchi. Nella rivista che il Busk ha dato (*) della bibliografia rela- tiva agli avanzi fossili del genere Capra, è omessa fra le altre una citazione del H. v. Meyer sopra un frammento di cranio trovato vicino a Klagenfurth in Carintia, in una cava di rena di St Veit (San Vito) (*). Il H. v. Meyer dice che esso ha la massima rassomiglianza con quello figurato dal Gervais sotto il nome Ibex Cebennarum. A giudicare dalle figure quest’ultimo sarebbe appena più piccolo, con i nuclei delle corna poco più arrotondati, di modo che, dice l’autore, non vi è ragione di am- mettere differenza di specie. (4) Sà gethiere. Supplementband V, 4855, p. 462. (*) Quaternary Fauna of Gibraltar |. c. p. 115-117. (*) Jahrbuch f. Mineralogie etc. 1856 pag. 330. MATERIALI PER UNA STORIA DEGLI STAMBECCHI 31 Per ciò che riguarda i fossili citati da autori francesi sotto la denominazione Capra primigenia, mancano descrizioni suffi- cienti per giudicarne. Quando si tratta del ritrovamento di denti isolati, ed anche di mascelle o mandibole, più o meno complete, bisogna stimarsi felici se si arriva ad escludere con qualche probabilità il genere Ovis; per me ritengo affatto impossibile potere, con avanzi soli di dentizione, determinare le differenti forme di Stambecchi. Nella sua bella opera sopra la fauna quaternaria di Gibil- terra, il Busk esordisce il paragrafo relativo al genere Capra col dire, che intende dimostrare “ spettare tutti gli avanzi di Capra di Gibilterra, quantunque differenti assai in dimensioni e di periodi discostissimi, ad una medesima specie, la quale tuttora esiste in numero considerevole nelle Sierre montuose della Spa- gna, dal Nord al Sud, se non anche sui pendii meridionali dei Pirenei — cioè la Capra hispanica di Schimper (') ,. Nel seguito (*) vien riferito, che il Falconer nel 1865 con- frontò tre crani di Capra pyrenaica del Museo di Tolosa con alcune delle ossa recate da Gibilterra, e trovò, a parte le diffe- renze di dimensione e di età, che si corrispondevano nel modo più stretto (în the closest manner). I nuclei delle corna di uno Stam- becco dei Pirenei corrispondevano esattamente con quelli di un giovane maschio che erano fra i fossili di Gibilterra. La fem- mina di Tolosa era più grande e più vecchia che l’individuo di Gibilterra, ma nel rimanente uguale. Dopo queste considerazioni preliminari, il Busk comunica alcune osservazioni sugli avanzi fossili dello Stambecco, per cer- care di segnalare i suoi rapporti (ts relation) colla forma vivente in Spagna (*). Debbo però confessare che ho cercato invano, nelle poche osservazioni sui detti avanzi, i caratteri che giusti- fichino lo ascriverli ad una forma piuttosto che ad un' altra. L'essere la Capra hispanica geograficamente la più vicina a Gibilterra fra le forme di Stambecchi attualmente viventi, non può essere addotta come una ragione aprioristica per chiamare i fossili con questo nome. (4) 1. c. pag. 115. (*) lt cc. p. 121, 422. (are: 123: 32 C. I. FORSYTH MAJOR Così per modo d’esempio, la Capra Cenomanus che sto per descrivere, trovata ai piedi delle Alpi, sì discosta maggiormente dallo Stambecco alpino, che gli avanzi trovati nella caverna di Campagna presso Eboli in Principato Citeriore, i quali a loro volta hanno maggiori rapporti colla C. sibirica. Gli avanzi fossili di Stambecchi che mi accingo ora a de- scrivere, furono già da me segnalati qualche anno fa ('). I. Lo Stambecco della Caverna di Campagna presso Eboli (Principato Giteriore). (Capra sibiricae aff. ) Manzi 1006, DAY, Nel 1866 O. G. Costa descrive fra i fossili trovati nella Grotta di Campagna (?) un cranio di ruminante che ritenne essere il Cervus capreolus, accompagnando la descrizione con due belle fotografie. Queste più che quella non poterono lasciare in dubbio che non si trattasse del genere Cervus: la posizione nella quale è rappresentato il cranio nella Tav. B in profilo, poteva fare nascere il dubbio che si trattasse di Ant:/ope. Avendo, mercè la gentilezza del Professor Guglielmo Guiscardi, ricevuto il cranio in questione (portante il numero 117) per farne uno studio accurato, lo citai nella memoria surriferita ‘col nome di Capra Ibex (}). Il Gervais, che aveva veduto il cranio nel Museo dell’Univer- sità di Napoli, aveva nella seduta dell’ 8 gennaio 1872 della So- cietà geologica di Francia, dichiarato che gli sembrava provenire da uno Stambecco (‘). Lo stesso Gervais, parlando nuovamente (4) Remarques sur quelques mammiferes post-tertiaires de l’Italie, suivies de Considérations générales sur la Faune des mammifères post-tertiaires (Estratto dagli Atti della Società Italiana di Scienze naturali Vol. XV. 1873) p. 4 nota 13, 14. (*) Descrizione degli avanzi scheletrici rinvenuti nella Grotta ossifera di Cam- pagna (Atti dell’ Accademia delle scienze fisiche e matematiche di Napoli. Vol. III, 1866. Tav. A. B.). î (3) 1. c. p. 13. (4) Bulletin de la Société Géologique (8 janvier 1872). MATERIALI PER UNA STORIA DEGLI STAMBECCHI 38 dei mammiferi fossili d’Italia ('), citando questa volta la caverna di Campagna, dimostra con ciò trattarsi del nostro fossile. — Il Ritimeyer che vide questo cranio a Pisa, ne dice: , Dass der Schàdel aus der Grotta di Campagna zu Capra Ibex gehòrt, habe ich am Original priifen kònnen , (?). Quantunque di tutte le misure che più avanti metto in con- fronto con quelle dello Stambecco delle Alpi, risulti che il fossile aveva dimensioni alquanto maggiori di un grande cranio di maschio della C. Ibex (Mus. Fir.), nonostante i nuclei delle corna nel fossile non sono più grossi che in quest’ ultimo. Nasalia: la larghezza dei nasulia confrontata con quella di altri Stambecchi viventi, è in proporzione colle maggiori dimen- sioni di tutto il cranio. Nel loro terzo posteriore i nasalia non sono soltanto concavi dal di dietro al davanti, come nella Capra Ibex, ma anche da destra a sinistra. Non credo ché ciò sia da ascriversi a pressioni o stiramenti violenti che abbia avuto a soffrire il fossile. Nei crani di C. Dex 3 il frontale fa vedere una depressione nella linea mediana dietro i nasalia, depressione che da ambedue i lati è limitata da una protuberanza, la quale alla sua volta termina all'infuori con un solco, nella cui parte posteriore si trovano i foramina supraorbitalia. Di dietro la protuberanza con- fina con altra depressione piana che va alla base antero-interna dei nuclei delle corna. Di tutti questi caratteri soltanto gli ul timi, le depressioni cioè alla base dei nuclei, si trovano nel fossile, di modo che la fronte è meno dombée di quel che troviamo in tutti i crani maschili di Stambecchi viventi. Questo fatto, e quell’ al- tro della relativamente poca grossezza dei nuclei, sono caratteri che il nostro fossile ha in comune colla Capra sibirica. Il jugale e la parte confinante del mascellare sono quasi verti- cali nei crani delle C. Ibex, hispanica, pyrenaica, vedute di fronte; meno verticali, quindi più sporgenti lateralmente ed all'infuori, nel fossile e, come abbiamo detto, nelle C. sibirica e C. Beden: (1) Paul Gervais, Coup d’ ocil sur les Mammiferes fossiles de l’ Italie. Journal de Zoologie I, 1872, p. 215. (®) Uber Pliocen und Eisperiode auf beiden Seiten der Alpen. Ein Beitrag zu der Geschichte der Thierwelt in Italien. 1876, p. 69, nota. Ritimeyer cita lo Stambecco anche della Buca dell’ Orso sul Lago di Como. Ho le mie buone ragioni per ammettere cbe si tratti di una confusione avvenuta nel Museo di Milano di avanzi di Stambecco trovati nella Grotta di Levrange. Sc. Nat. Vol, IV, fasc. 1.0 3 Na 34 C. I. FORSYTH MAJOR x nella C. Ibex il tubercolo mascellare è più concentrato verso un punto solo; nel fossile è più sviluppato ma anche più diffuso, di modo che anche l’osso mascellare sporge maggiormente nel cranio veduto di fronte. Nel cranio di Campagna la maggiore larghezza fra i punti più spiccati del tuber mascellare è di m. 0,91; nella C. Ibex di m. 0,73-0,75. Lacrymale: Per quanto si possono verificare i contorni del lacrymale, esso è più stretto nel fossile che nell’/bex. Nel cranio di Beden del Museo di Napoli abbiamo trovato la forma del lacrymale alquanto diversa da quella dell’/bex, più stretta nella metà anteriore, col margine interno concavo, di modo che la fossa etmoidale diventa più larga, e relativamente più larga poi nella sua metà posteriore ed esterna, con andamento alquanto differente della sutura lacrimo-frontale. Nelle figure del cranio di Campagna l'andamento della fessura jJugo-lacrimale è stato pur troppo accennato in un modo affatto insufficiente. Per un tratto di circa m. 0,10 nella sua parte an- teriore è indicato esattamente ma non abbastanza chiaramente; in questo tratto è diretta un poco obliquamente al di dietro e si riunisce in un angolo acuto colla cresta che soprasta alla fossa jugale. A partire da questo punto essa coincide nel fossile completamente colla detta cresta, quindi è stata portata troppo all’indentro nel disegno (Tav. III), di guisa che il lacrimale appare strettissimo, in un modo affatto contrario al vero. L' ombreggiatura la quale nel disegno accenna alla cresta, corrisponde nel suo tratto posteriore esattamente all’andamento della sutura. — Nella sua parte anteriore il lacrimale del cranio fossile è assottigliato, come nella C. Ibex, in.un processo che delimita la parte anteriore della fossa etmoidale all’ infuori. Questo è indicato nel disegno sul lato destro del cranio, a si- nistra è coperto da una incrostazione di stalagmite, che non fu tolta che dopo compiuta la figura. Insomma, per ciò che si può giudicare, visto che il fossile è mutilato, la forma del lacrimale è più quella dell’/bex che quella della Beden. La fossa etmoidale nel suo tratto posteriore ap- pare, è vero, un poco più larga che nell’ Ibex, ciò che può essere accidentale, perchè la parte corrispondente del margine interno x del lacrimale non è punto così evidentemente concava come MATERIALI PER UNA STORIA. DEGLI STAMBECCHI 35 nella C. Beden. Del resto la detta fossa, esistente fra il frontale, il nasale ed il lacrimale, è sempre un poco più estesa in individui giovani, ed il cranio fossile, a giudicare dai denti, non era punto vecchio. L'andamento della sutura fronto-lacrimale, per quanto può esser rintracciato, è più rassomigliante a quello del gruppo Ibex. E bensì vero che il lacrimale è relativamente stretto nella sua parte anteriore, ma posteriormente non diventa largo come nella Beden, e rimane anche più stretto che nel gruppo Ibex: La larghezza del lacrimale contro l’estre- mità superiore della sutura maxillo- jugale è nel cranio di Campagna . . m. 0,013 ur uollotdi (ebete. 0,014 incirca, Al principio della sutura fronto-lacrimale, quindi nell'angolo, il lacrimale del cra- nio di Campagna è largo . . . . . m.0,0155 lei e e a i 0,019 Il tratto del lacrimale, dalla sutura lacrymomaxillaris fino al principio della sutura fronto-lacrimale, è molto breve nel cranio fossile: 16, 5®" è il massimo sul lato destro; su quello sinistro è ancora minore: circa 14, 5"", Non essendovi punti fissi di par- tenza, le misure riescono alquanto incerte. Nonostante la diffe- renza colpisce a prima vista, e certamente non è accidentale, da ascriversi, per modo d’ esempio, ad uno spostamento. Nell’ Ibex questo tratto, misurato lungo il margine interno del lacrimale, è di 26”", Nella Beden è più lungo ancora, cioè circa 28 "m, È possibile che vi entrino qui anche differenze indi- viduali. Nella €. Hispanica è come nell’ Ibex; nella C. sibirica come nel fossile. In altre parole: Il tratto libero sul lato in- terno del lacrimale, nella Cupra di Campagna e nella C. sibirica è brevissimo in confronto al tratto occupato dalla sutura fronto- lacrimalis; nella C. Ibex e nella C. hispanica le lunghezze delle due porzioni sono quasi fra loro eguali; nella C. Beden il tratto libero è anzi più esteso di quello occupato dalla sutura fronto- lacrymalis. Veduta di profilo: Nella Capra Beden l’ andamento della sutura maxillo-jugale è molto obliquo; nell’ Ibex, pyrenaica, hispa- nica nel terzo inferiore questa sutura è quasi orizzontale, paral- lela presso a poco al margine mascellare; nei due terzi superiori e molto più verticale che non nella C. Beden. 30 C. I. FORSYTH MAJOR Nella C. sibirica l'andamento di detta sutura è simile a quello che si osserva negli Stambecchi europei; soltanto nei due terzi superiori sì avvicina ancora maggiormente alla verticale; nel fossile è precisamente lo stesso ('). — In questo poi la fossa jugale non è tanto profonda quanto nella Beder, ciò che è in rapporto diretto colla profondità della fossa; la cresta che gli soprasta, è meno marcata che nella Leden, ciò che nuovamente ravvicina il cranio di Campagna a quello degli altri Stambecchi. Nel cranio di Campagna manca tutto il margine orbitale formato dal jugale, a cominciare dal punto ove la sutura lacrimo- jugale raggiunge l'orbita. La veduta di profilo potrebbe simu- lare all’ occhio inesperto un'orbita sproporzionatamente grande ed estesa in basso, in modo contrario alla natura. Anzi si riceve l'impressione che questa mutilazione sia artificiale, prodotta da mano inesperta. A giudicare dalla dentizione, lo Stambecco di Campagna non era punto vecchio, anzi appena adulto, inquantochè nell’ ultimo molare (m;) le due vallecole trasversali sono tuttora riunite fra di loro e coll’insenatura interna. Essendo il cranio fossile mutilato, non ho potuto trovare che pochi punti di partenza appropriati per prendere misure, da ciascuna delle quali però risulta che l’ individuo deve aver avuto proporzioni grandissime: metto in confronto un grande cranio di Capra Ibex & del Museo di Firenze. Cranio Capra di Campagna Ibex Larghezza del palato fra le parti ante- riori degli ultimi molari . . . . mm. 52 43 Larghezza del palato fra i praem.,. . , 84 34,5 Larghezza di un nasale contro l'angolo di riunione delle suture fronto-nasale eHronvo-lacrimalo eee » 20,5 17 Larghezza di un nasale nella metà circa dis suagiunghezza AME » 17,5-18 15 Larghezza del cranio fra le fosse jugali ( Masseterdepression) . . . . . 1082 73 Distanza dalla punta posteriore dei na- (4) L’andamento della sutura maxillo-jugale è indicato giustamente nella fi- gura in profilo: è distinta nei due terzi superiori, almeno aceennato nel terzo in- feriore: l'ombra, sotto l'apparente margine orbitale, indiea l'andamento della saturu. MATERIALI PER UNA STORIA DEGLI STAMBECCHI 37 Cranio Capra di Campagna Ibex sali al mezzo dei nuclei delle corna sullaglimeagimediana An ISIMUNTAO) 70 Massimo diametro assoluto alla base del nucleofdel&cornogsinistro (è. =. 61 66 Diametro trasversale del nucleo nel pri- MONCrZoRganberorest, cc. 00. 2, — Massima:lunshezza del. praem.,, ... .-.j.9 8,5 : È PEPE th 10 È; ; ENO TIT OO A SE SENI 10) 14 3 È AMT Ol SET) 16,5 i, E. Semola enne 2 17 Conclusioni: Il cranio dello Stambecco di Campagna, quan- tunque mutilato, permette i ravvicinamenti seguenti colle forme viventi: esso presenta i maggiori rapporti con quel gruppo al quale appartengono le Capre Ibecr — pyrenaica — hispanica — sibirica; si discosta maggiormente dalla Capra Beden, inquan- tochè quei pochi caratteri che ha in comune con quest’ultima, scostandosi dall’ /bex, sono caratteri anche della €. sibirica; mentre che d’ altra parte non possiede nessuno dei caratteri che danno alla £Leder la sua posizione a parte, come la forma lateralmente compressa dei nuclei delle corna — il profilo supe- riore del cranio — l'andamento della sutura maxillo-jugale, ecc. Fra i componenti il gruppo che chiamerei Ibex, e che com- prende le tre forme europee Ibex, pyrenaica, hispanica e lo Stam becco della Siberia, è con quest’ultimo che il cranio di Campa- gna presenta le maggiori analogie: esse sono: 1) in prima linea la-poca grossezza dei nuclei delle corna, considerate le altre dimensioni. 2) il fronte poco prominente (dombdé) nella veduta di pro- filo. 8) la breve distanza dalla sutura lacrimo-mascellare all'an- golo nel quale vengono a contatto il frontale, il nasale ed il lacrimale. 4) l'andamento quasi verticale della sutura maxillo-jugale. 5) la larghezza della regione mascellare. 38 C. I. FORSYTH MAJOR Questo fatto di una specie quaternaria che ha i maggiori rapporti con una forma asiatica, non è senza analogia nella nostra fauna postpliocenica. Ho descritto altrove (!) il Canzs delle breccie ossifere di Cagliari, che spetta al grappo asiatico dei Cyon. — Nelle medesime breccie ossifere di Monreale presso Cagliari, si trova in grande abbondanza un roditore, il Ayola- gus Sardus Hensel, da me costatato anche nelle breccie ossifere di Bastia (Corsica). I Lagomidi oggidì non esistono più in Buropa; prescindendo dall'America settentrionale, si trovano nell’ Asia: in Siberia, nell'Asia centrale e sull’Imalaia. È vero che i Myolagus sono un genere fossile, mentre che i viventi Lagomidi vengono ascritti al genere Lagonys; ma è vero altresì che la dentizione di ben pochi Lagomid: viventi è stata studiata finora, ed è preci- samente sulla conformazione e sul numero dei denti che Hensel fondò il suo genere 1/yolagus, il quale prima veniva, e talvolta ancora oggidì viene, confuso col genere Lagomys. Anche il Cricetus che fu da me avvertito nella Grotta di Parignana presso Pisa, è un tipo più asiatico che europeo: ad ogni modo per spiegare la sua presenza nel nostro quaternario, è più naturale ammettere una immigrazione dali’ est, che dal nord. Secondo l’ultima supposizione avrebbe dovuto passare le Alpi, e come animale nordico vi avrebbe certamente trovato un clima confaciente, mentre che manca anche oggidì alle Alpi ed ai paesi limitrofi, come la Francia e la Svizzera. II Capra Conomanus, Maj. Tav sI ole Con questo nome ho già altre volte (*) accennato ad un fossile, che nel 1861 fu trovato da operai, a grande profondità, sulla riva sinistra del Chiese, nel fare i lavori necessari per la ricostruzione del ponte fra Cavalgese e Goglione (Provincia di Brescia), il quale qualche anno prima era stato fatto saltare dall'esercito austriaco. (') Considerazioni sulla fauna dei Mammiferi pliocenici e postpliocenici della Toscana. p. 64, 73. (Estratto dagli Atti della Società Toscana di Scienze Naturali, residente in Pisa, Vol. I e Vol. III.) 1877. (?) Forsyth Major. Remarques sur quelques Mammiferes post-tertiaires etc. p. 13. 14. MATERIALI PER UNA STORIA DEGLI STAMBECCHI 39 E dovuto al professore G. Regazzoni di Brescia la conserva- zione di questo fossile. Si compone della porzione occipitale, in- terparietale e di piccola parte del frontale colla base dei nuclei delle corna, dei quali quello destro è conservato per un tratto di 5 a 6 centimetri. Differisce da tutti gli Stambecchi recenti per qualche particolarità dell’occipite e della regione interparietale. La circonferenza alla base dei nuclei delle corna è di 260", ciò che fa supporre delle dimensioni totali che oggidì certa- mente non sono raggiunte nè dalla Capra Ibex, nè dagli altri Stambecchi viventi. Nonostante si conservano in Svizzera, in qualche collezione dei secoli XVI e XVII, corna dell’Ibex le quali provano che altre volte ha dovuto raggiungere delle dimensioni inudite oggidì ('), e la misura che il Ritimeyer (?) dà della base di un nucleo di corno trovato in una delle palafitte del- l'epoca neolitica, corrisponde con quella del fossile. Anche le dimensioni dei denti isolati che passeremo in rivista qui sotto, oltrepassano di molto quelle degli Stambecchi viventi. I nuclei cornei nella C. Cenomanus divergono molto più, a co- minciare dalla loro base, che nell’ [dex ed anche negli altri Stam- becchi, colla sola eccezione della C. Pallasti. 11 loro lato anteriore, vicino alla base, è appiattito in modo insolito; mentre che nel l’Ibex, e nella sibirica è il lato esterno che si mostra più piatto. Il foramen magnum occipitale, circolare nell’ Ibex, nella Ceno- manus ha il diametro trasversale maggiore degli altri. — L'occipite è meno verticale che negli Stambecchi viventi. La conformazione dei parzetalia è affatto particolare, inquan- tochè sulla linea mediana e presso questa essi sono più brevi che in qualunque Stambecco vivente. Negli Stambecchi viventi poi, ad eccezione di vecchie C. Be- den, i parietali sono convessi; nella C. Cenomanus invece sono piani, anzi un poco depressi; una piccola protuberanza che si vede nel bel mezzo dei parietali, è senza dubbio un'anomalia. — Verso i due lati i parietali della Cenomanus scendono in un modo meno verticale che negli Stambecchi viventi. Nella ve- duta verticale il contorno esterno dei parietali è curvo all’ inden- tro nel modo rappresentato schematicamente dalla figura ) (' »I nella C. Ibex invece è quasi rettilineo. (4) F. è. Tschudi, Das Thierleben der Alpenwelt. 7 Aufl. 1865, pag. 525 nota. (?) L. Ritimeyer, Die Fauna der Pfahlbauten in d. Schweiz. Basel, 1861 p. 67. 40 C. I. FORSYTH MAJOR III. Lo Stambecco della Caverna di Levrange e quello della Grotta dei Colombi (Isola di Palmaria). La fig.7 Tav. V rappresenta un molare superiore da me attribuito allo Stambecco: esso è uno dei pochi denti riferibili a detta specie, che furono trovati dal sig. Ettore Regalia nella Grotta de’ Colombi nell'isola Palmaria ('). Le figure 13 a 27 rappresentano molari superiori ed inferiori di Stambecco della Grotta di Levrange (Provincia di Brescia), già da me menzionati qualche anno fa. Sarei nell’imbarazzo se dovessi sostenere che tutti quei denti, i quali hanno proporzioni molto maggiori di quelli degli Stambecchi viventi, siano da ascriversi alla C. Ibex delle nostri Alpi piuttosto che ad un’ altra forma di Stambecco. Per ciò che riguarda l'insieme della Fauna da me ravvisata nella caverna di Levrange, essa corrisponde così perfettamente a quella attuale delle nostri Alpi, compresavi qualche specie ora ivi spenta ma segnalataci in tempi storici, che vi è qualche ragione per supporre che i denti summenzionati siano da ascriversi allo Stambecco alpino piuttosto che ad altra forma. Dalla configu- razione di questi denti però non si può trarre nessuna conclu- sione, e per parte mia non riesco a trovare differenze fra i denti delle varie forme o specie dei nostri Stambecchi viventi. Certamente però i denti di Levrange e della Palmaria ap- partengono al gen. Capra. Sarà opportuno il dar posto qui ad alcune osservazioni che fortunatamente ho potuto fare sui caratteri che possono servire a distinguere i denti delle Capra da quelli delle Ovzs. L'argomento, come è noto, è difficilissimo. Mi affretto ad aggiungere che i caratteri che io accennerò, non hanno che un valore relativo, e si basano sul confronto delle specie selvatiche di Capra, degli Stambecchi cioè da un lato e dell’ Qvis musimon (Tav. V, fig. 3, 6, 11, 12) dall’altro; ma dalle poche osserva- zioni che ho potuto fare in proposito, ho avuto 1’ impressione che valgano anche per le razze domestiche. (*) E. Regalia. — Swi depositi antropozoici nella Caverna dell’ Isola Palmaria, Ricerche paletnologiche. (Archivio per l’Antropologia ec. Vol.V, fasc. 3-4, Firenze 1876). MATERIALI PER UNA STORIA DEGLI STAMBECCHI 41 Molari superiori. Nell’ Ovis la comunicazione del seno interno (Innenbucht) colle vallecole cessa sempre molto presto e ben tosto si forma, un poco all’esterno del primo, un piccolo anello di smalto, spesso anche due. Quell’anello nella Capra è più pic- colo e si riscontra più di rado, e ciò va detto in ispecial modo per gli Stambecchi. Nella Capra la conformazione seguente per- siste per un tempo più lungo: cioè il seno interno comunica liberamente colle due vallecole trasversali. Questa conformazione nell’Ovis è sempre affatto passeggiera, cioè si riscontra soltanto superiormente per minor tratto, inquantochè 1) il corno ante- riore ( Vorderhorn) della semiluna (Halbmond ) posteriore si riunisce con un’ appendice che gli vien mandata incontro dalla parete esterna (la quale appendice è sempre più allungata nel- l’Ovis), e così ben presto cessa la comunicazione del seno in- terno colla vallecola trasversale posteriore; 2) la parte più pro- fonda del seno interno, cioè quella situata più verso l’ esterno, viene presto staccata dal seno sotto forma di anello di smalto. Del resto 1) succede prima di 2), di modo che nell’ Ovis più fre- quentemente che nella Capra troviamo il seno interno comuni- cante colla vallecola trasversale anteriore, mentre che la comu- nicazione con quella posteriore è giù cessata. Questa contorma- zione dunque si riscontra più di rado nella Capra, nella quale invece un’ altra conformazione si riscontra più spesso, perchè persiste per un tratto di tempo più lungo, cioè la comunicazione del seno interno con tutte e due le vallecole trasversali. Le coste della parete esterna sono generalmente più rilevate nella Capra. In quest’ ultimo genere anche la conformazione delle vallecole è più semplice, in questo senso — che in gradi” medii di logorazione i piccoli sproni sporgenti nelle vallecole sono meno frequenti che nell’ Ovis. Insomma si può dire che i molari superiori della Capra con- servano per un maggior lasso di tempo il carattere giovanile. Molari inferiori. Lo stesso vale anche per i molari inferiori in- quantochè le vallecole si chiudono all’indentro più presto nell’Ovis, mentre nella Capra, ed in ispecial modo nell'ultimo molare, esse si aprono liberamente dal lato interno per un tempo maggiore, ciò che si può costatare nella figura 25 rappresentante il lato interno di un mol.; inf., lungo il quale scorrono due fessure, le quali accennano appunto al tratto delle vallecole. 49 C. I. FORSYTH MAJOR Si confrontino inoltre la fig. 1, che rappresenta una man- dibola di C. Ibew non adulta, colla fig. 3 (mandibola di giovane Ovis musimon). Mentre risulta dal confronto dell'ultimo molare in ambedue le mandibole, che quello del Muffione è meno logo- rato, e che quindi la mandibola di quest’ultimo è più giovane di quella dello Stambecco (fig. 1), nonostante nella prima le vallecole del secondo molare non comunicano più col lato in- terno, come nel corrispondente molare della seconda. Si con- fronti anche la fig. 16, mol., di uno Stambecco di Levrange col mol., della figura 6. Sproni sporgenti nelle vallecole s'incontrano anche più spesso nei molari inferiori di Ovis. La C. Ibex generalmente non ha che due premolari inferiori. In una mandibola di individuo non adulto manca ogni traccia di alveolo del p., inf. (premolare primo, o anteriore). Nel cranio al quale appartiene la detta mandibola, il praem., sup. lavora sulla metà anteriore del pr., inf., avendo la medesima lunghez- za; la parte posteriore del pr., inf. combacia con quella anteriore del p., sup. — Nelle mandibole di C. Risparica e di C. Pallast, che conosco ciascuna in un solo esemplare, esiste il pr.; inf., ma sembra che non lavori che colla sua parte posteriore. È degno di osservazione che nella mandibola della Capra di Creta si trovino delle colonnette sul margine esterno del dec., e mol.,, carattere che è considerato come mancante affatto nei generi Ovis e Capra ('). (4) Rutimeyer, Versuch ete. MATERIALI PER UNA STORIA DEGLI STAMBECCHI 43 Misure Poche parole basteranno quale spiegazione delle qui unite tabelle di misure. Nella Tabella I.* sono contenute le misure assolute. Nella Tabella IIL® queste sono convertite in misure relative, mettendole in proporzione colla lunghezza del cranio dal margine anteriore del foramen magnum fino alla punta del- l’intermascellare (misura N.° 1), la quale è fatta = 100. Siccome per le Capra Rispanica, C. sibirica e C. Pallasii, ho avuto a disposizione soltanto disegni e non crani, non ho potuto rilevarne che poche misure e sono stato costretto di scegliere per linea fondamentale e = 100, la lunghezza reale dalla linea che unisce ì punti più posteriori delle basi dei nuclei delle corna all'estremità anteriore dell’intermascellare; ho aggiunto le mi- sure del cranio di C. Ibex 3 adulto, calcolate sulla stessa linea fondamentale ora detta, affinchè servissero di confronto. (Vedi Tabella IIt.*). Nel prender queste misure mi ha aiutato colla sua esperienza l’amico E. Regalia, assistente alla Cattedra di Antropologia del R. Istituto Sup. di Firenze. 44 lei IZ 18. 19. 20. 21. CZ 23. 24. 25 26. 27. C. I. FORSYTIH MAJOR Tra biedataio Lunghezza del cranio: dal margine anteriore del foramen magnum fino alla punta \dellimtermascellate IE Lunghezza del cranio: dalla crista occipitalis (parte più sporgente all’ in- dietro), fino) alla punta (dell*intermascellare #4... RR Dalla crista occipitalis alla radice dei nasali |... Lunghezza del frontale sulla linea mediana (fino a metà della larghezza delle suture) ERRO RI o coco Lunghezza del parietale nel Mezzo ..........L ee Lunghezza dei nasalia(mediatfra le due)... Re Lunghezza del palato (dalla punta dell’intermascellare all’ orlo posteriore dei . palatini, sulla linea mediana). . . . . . ne carat cia ieti a a CSO Dall’ estremità degli intermascellari fino al punto più posteriore di ni sulla linea mediana... ..... DIOR BAN. Dall’estremità degli intermascellari ‘fino al punto più anteriore del primo premolare sulla CARO RR o co . Lunghezza della serie dentare parallelamente alla Îlinea TO e dan a . Lunghezza reale della intermaxilla (media delle due). ...........0- . Minima distanza fra le basi dei nuclei delle corna (misur. al principio delle EUCOSILI) Va IT È ; EI, Massimo diametro trasverso dei frontali alla base ‘dei nuclei. delle corna. . Massima larghezza dei parietali alla sutura fronto-parietale . . . ...... . Massima larghezza dei parietali alla sutura parieto-temporale . . ...... Massima larghezza fra i margini esterni delle orbite, al disopra della sutura fronto-jugale. . . RA BR E oo Larghezza bimascellare fra i tubera masxillaria . A LL SS Massimo diametro trasverso bitemporale dietro e contro il centro del con- COLTORUO IVO REN TRS 005.0 Lunghezza reale dal punto più sporgente della cresta ‘occipitale alla linea ‘che unisce i punti più posteriori delle basi dei nuclei delle corna. . . . Lunghezza reale dalla linea che unisce i punti più posteriori delle basi dei nuclei delle corna all'estremità anteriore dell’intermascellare . .... .. Lunghezza reale dall’estremità anteriore degli intermascellari alla linea che unisce i punti più anteriori delle basi dei nuclei delle corna. . .. ... Da una linea che congiunge i punti più posteriori dei lacrimali sui margini orbitali, fino alla linea che tocca la radice dei nasali. .......... Da una linea che congiunge i punti più posteriori dei lacrimali sui margini orbitali, fino alla Linea che congiunge i punti più anteriori dei frontali. Da una linea che congiunge i punti più posteriori dei lacrimali sui margini orbitali, fino alla linea che congiunge i punti più anteriori dei jugali sul margine orbitario, punti che sono all'incirca i più anteriori altresì del margine orbitario. RO: cal RE e Ceo SIRIA a rie NOS O RP Dalla radice dei nasali fino alla linea che congiunge i DEE più anteriori dei jugali sul margine orbitario . .. . TETI e CA Dalla radice dei nasali fino alla linea che congiunge i punti più anteriori dei TON AA RI AR SS Dalla linea che congiunge i punti più anteriori dei jugali sul margine orbi- tario, alla linea che congiunge i punti più anteriori dei frontali ss (4) Questa misura fu presa raddoppiando la distanza fra il piano mediano ed il punto più Î (0) » » » » » » » » MATERIALI PER UNA STORIA DEGLI STAMBECCHI 45 È 2 40 . E |, pe a sa 40 ER E 5 OE È CS Y MIN ISO So O a D È Fi z s s D D (©) Db) IZ [ah D SL o = ® S S SE “ot | ES A |S Ss A LO dl Tu Si H4O (12) Qu ® a RIliaoi u 3 E 8 8 a 8 E a 10 & Si & (O RR AZ; La ga Si 4 _ Ss [a A [ar “| | eee AE Ò Ò Si STIRO Ò O ERMIDI IIT Ò SE dimmi 20) 190 89 — 176,5) 218 —_ 242 229 216 215 — T05IMN 23765 ei 34195 121,5 LI | 119,5) LI1 | 123,5 93 84 84 al 67 74 64 | 81,5 37 = 32 33 34 31 | 26,5 |35?(mio, 97 88 90 76 67 70 60 79 140 124 Zi INS OR NGIR PICTAlA 98 —_ le due 140 135 127 = 23 9,9 113? 132 69 63 62 i d0 — 47 64 71 72 66 — 68.5 63 64,5 70 osi 64. (90,5 | 78 | 79,5) — 68 87 27 2) 37,09 31 3) Lal 30 ZIO 44? izla/K105;5.| 90,5 79 7 69 82 90 160 (4) 88 81 750) 76 70,5 70 67,5 79 110 (2) 75 68 BON Mori era) 64 58 70 98,5 ages 26 | 114 | 114 | 111) 102 | 124 | 144,3|140,5| 166,3| — miollegbi| 72 | 65,5 ì 69 62 68 73 84 | 85,5) — 97 85 84 MRO ‘T0T no 71,9 92 = _ — 122 81 — = —_ - — —_ a) 72? 607 51 234 — = — — —_ — — 225? | 236 272 2a co — — — _- — — 193? 207 216 3 2 Gees I IS os eee 21 19,5 | 24,5 22 18 18,5 18 28,9 | 18,9 13 io 250 DI Mo Mo 7,5 | 10,5) 7 10 td Ò 15,5 9,9 6,5 9 0 2 18 J6X9N o] 22,5 17 14,5 19 18,5 | 13,9 8 Qisiale bia L6;5 | 5 | 08 10 | 18,5 | 11,5 distante, all’esterno, della base del nucleo esistente. » » della sutura fronto-parietale del Jato destro. 46 C. I. FORSYTH MAJOR Tua bella . Lunghezza del cranio: dal margine anteriore del foramen magnum fino alla ;| punta dellifintermascellare GREEN LI Î 2. Lunghezza del cranio: dalla crista occipitalis ( parte più sporgente all’ indie- tro) fino alla punta dell’intermascellare. . ....... pisa ie ER 3. Dalla terista locepratissallatradice “dei masalil RR EE 4. Lunghezza del frontale sulla linea mediana (fino a metà della larghezza delle suture) seo: ei ©. Eunghezza del parietale nel'imezzo. i. 6. Lunghezza delnasalia2(nediantra Mera ue) ERI ò 7. Lunghezza del palato (dalla punta dell’intermascellare all’ orlo posteriore dei palatini, sulla linceamediana).-. 00. al SARRI 8. Dall’estremità degl’ intermascellari fino al punto più posteriore di m,, sulla linea mediana... Ci. e 9. Dall’estremità degl’ intermascellari fino al punto più anteriore del primo pre- molare, sulla ‘linea ‘mediana... LL, STE 10. Lunghezza ‘della serie dentare parallelamente alla linea mediana. . . .... ll. Lunghezza reale della intermazilia (media delle due). .......... 12. Minima distanza fra le basi dei nuclei delle corna (misur. al principio delle TUROSILO)}:}. La sa ta n LI 13. Massimo diametro trasverso dei frontali alla base dei nuclei delle corna . . | 14. Massima larghezza dei parietali alla sutura fronto-parietale. . ........ 15. Massima larghezza dei parietali alla sutura parietalo-temporale . . .... ill 16. Massima larghezza fra i margini esterni delle orbite, al di sopra della sutura | fronto-jugale sl it IE AE = 0/5, 100000] 17. Larghezza bimascellare fra i tubera maxillaria . . ...... 000 18. Massimo diametro trasverso bitemporale dietro e contro il centro del con- AOLO UGIIVO a O IE 19. Lunghezza reale dal punto più sporgente della cresta occipitale alla linea che unisce i punti più posteriori delle basi dei nuclei delle corna. 20. Lunghezza reale dalla linea che unisce i punti più posteriori delle basi dei nuclei delle corna all’ estremità anteriore dell’intermascellare . . .... 21. Da una linea che congiunge i panti più posteriori dei lacrimali sui margini orbitali, fino alla ee che tocca la radice dei nasali... ..... È 22. Da una linea che congiunge i punti più posteriori dei lacrimali sui margini orbitali, fino alla ‘linea che congiunge i punti più anteriori dei frontali . 23. Da una linea che congiunge i punti più posteriori dei lacrimali sui margini ‘ orbitali, fino alla “linea che congiunge i punti più anteriori dei jugali: sul margine orbitario, — punti che sono all'incirca i più anteriori altresì del Margine orbi faro Re OO 24. Dalla radice dei nasali fino alla linea che congiunge i punti più anteriori dei Jucali (sulimatgine for biCario: tt 25. Dalla radice dei nasali fino alla linea che congiunge i punti più anteriori dei-fronmaliQso ai RIE 26. Dalla linea che congiunge i punti più anteriori dei jugali sul margine orbi- tario alla linea che congiunge i punti più anteriori dei frontali. . . . ._ Capra lbex è Capra Ibex È Jun. MATERIALI PER UNA STORIA DEGLI STAMRECCHI (2) ot ot pe ot P. 5 © £ CD) 3 È ® O ® S.A = COS d A E E ME SE RI SUSE Fa pe Ò Ò Ò Ò 100 100 100 100 114 1835 SZ 54,5 54 60,3 _ 41,8 9763 39,4 — 16 17,4 18 — 44,5 40 35,4 = 60 62,4 59,2 sa 63 — 65 — 31 — 29 — 32,8 — 36 — 49 41 42 — 18,5 16,3 ir ts 45 41,5 37 sul 3749) 40 SUS == 33,8 35,5 35,7 _ 62,5 60 60,3 = 35,8 34,5 34,6 — 41,8 40,8 40,7 — 3,7 -2,4 0,5 _ 12,0 11,5 9,5 — 6,2 5,8 5,5 —_ 2,4 8,1 5 = 8,7 11,8 9 — 6,2 3,4 4 _ Capra hircus o) Junior +0 di (>) uo D A S oi Qu DS (©) 47 48 C. I. FORSYTH MAJOR Tabella 3.° Capra Ibex è Capra hispa- nica È C. sibirica È C. Pallasii È 20. Lunghezza dalla linea che unisce i punti più posteriori delle basi dei nuclei delle corna, all'estremità anteriore dell’intermascellare. . 100 100 100 100 16. Massima larghezza fra i margini esterni delle orbite al disopra della sutura fronto-jugale . . . . 58,1 64,1? 59,5 61,1 17. Larghezza bimascellare fra i tubera mawillaria. i... DZ SAN 356 35,1 19. Lunghezza dal punto più sporgente della cresta occipitale alla linea che unisce i punti più poste- riori delle basi dei nuclei delle COMM RO I 34,6 32? 28,4 18,7 21. Lunghezza dall’ estremità anteriore degli intermascellari alla linea che unisce i punti più ante- riori delle basi dei nuclei delle corna —_ 88? 88 79,4 OO UO O COR GOG ECO O Le principali conclusioni che si possono trarre da tutte queste misure, non sono che conferme delle singole descrizioni conte- nute nel testo. Alcuni altri risultati meriterebbero di essere discussi più a lungo. Siccome però quasi tutte le misure non poterono essere prese che sopra un solo individuo di ogni specie, e quindi non fu possibile rendersi conto preciso del grado fino al quale le differenze costatate debbono attribuirsi a variazioni individuali dipendenti dal sesso, dall'età o da altre cause, ho preferito non fare apprezzamenti o trarre conclusioni che ulte- riori ricerche potrebbero non confermare. Del resto, come ho detto da principio, tutto il presente lavoro non ha altra pretensione che di far conoscere un materiale coscienziosamente raccolto, il quale possa servire di punto di partenza ad ulteriori ricerche sulla storia degli Stambecchi. Fo un'eccezione per le misure contenute sotto i numeri 22 a 27, le quali domandano alcune parole di spiegazione, perchè si riferiscono a conformazioni abbastanza singolari nei vari crani, MATERIALI PER UNA STORIA DEGLI STAMBECCHI 49 e delle quali il testo non fa menzione. Tali misure rendono conto della posizione relativa dei nasali e dei frontali, o piuttosto della parte posteriore dei nasali e della parte anteriore dei fron- tali, non tanto fra di loro, quanto riguardo alle parti laterali del cranio e principalmente all'orbita. Mentre la C. Beden sotto altri riguardi, come abbiamo veduto, occupa una posizione in- termedia fra le Capra Ibex, pyrenaica, hispanica da un lato, e gli Aegagrus dall’ altro, essa, per i caratteri or ora accennati rappresenta un estremo, l’altro essendo rappresentato dal gio- vane maschio della C. aegagrus var. di Creta. Così, mentre nella C. Bedenz del Museo di Firenze, una linea che congiunge i punti più posteriori dei lacrimali sui margini orbitali, resta dietro alla radice dei nasali (Mis. N.° 22) di 10 '/, Millim., nella Capra di Creta la radice dei nasali non solo raggiunge la detta linea, ma anzi la oltrepassa all'indietro di 4 ‘|, millimetri (ciò che fu espresso nella tabella col segno più (+). Inoltre: nella C. Beden la linea che congiunge i punti più anteriori dei jugali sul margine orbitario, punti che sono in genere, e appunto nel caso presente, all'incirca i più anteriori altresì del margine orbitario, dista di 18,5 millim. dalla linea che congiunge i punti più anteriori dei frontali (Misure N.° 27); nella Capra di Creta questa medesima distanza è di soli 6,5 millimetri. Anzi, se si considerassero i punti assolutamente più anteriori dei margini orbitarii, i quali nella Capra di Creta non sono identici con quelli più anteriori dei jugali su essi margini, ma bensì coincidono colla linea che congiunge i punti più an- teriori dei frontali, la differenza fra la Capra di Creta e la Capra Beder risulterebbe anche maggiore. Le altre misure contenute sotto i numeri 23 a 26 non hanno bisogno di ulteriori spiegazioni, dopo quello che or ora abbiamo esposto. Nella figura 3 della Tav. VI, rappresentante il cranio di C. Be- den del Museo di Napoli, non si verificano punto gli stessi rap- porti che nella C. Beden del Sinai, posseduta dal Museo di Firenze. È da attribuirsi alla posizione nella quale fu fotografato il cranio, oppure la ragione è da cercare in differenze individuali o di razza? Basti questo solo esempio a giustificarmi della mia ripu- enanza a trarre fin d’ora conseguenze da certi fatti, la cui por- tata lo scarso materiale non mi permette di apprezzare. So. Nat. Vol. IV, fasc. 1.° 4 50 C. I. FORSYTH MAJOR CONCLUSIONI: Dal momento che con queste pagine, come fu detto espres- samente e ripetutamente, non ho voluto recare che dei Mazerzali, credo di potermi dispensare dal dare qui un riassunto e mi contenterò quindi di dare per conclusione qualche considerazione generale. Queste ricerche sugli Stambecchi viventi e fossili hanno con- dotto a risultati diversi da quelli che mi aspettavo quando prin- cipiai il lavoro. I. H. Blasius, l’ultimo autore che abbia preso in considerazione le varie forme di Stambecco in complesso, sembra disposto a non attribuire loro altre differenze che va- riazioni nella forma e nella direzione delle corna e nel pelame ('). È vero che egli non ha esaminato la conformazione del cranio, sulla quale poggiano invece tutte le conclusioni di questo mio lavoro. Così fui condotto a trovare differenze più essenziali tra varie forme di Stambecchi, di quello che non sono la forma esterna, quella delle corna e la colorazione; e mentre fui @ priori incli- nato a considerare le differenze, credute di poca importanza, come conseguenza della dispersione avvenuta di una sola forma di Stambecco diffusa nell’ epoca quaternaria per quasi tutti i luo- ghi bassi del nostro emisfero, e dopo quest’ epoca localizzata nelle diverse principali catene di montagne, senza possibilità di comu- nicazione tra le varie frazioni; — oggidì, pur attribuendo una parte delle variazioni a questa dispersione, e quindi ritenendole posteriori al quaternario, seno nonostante d’avviso che alcune for- me fossero già differenziate fin da quell'epoca. Poichè gli avanzi quaternari alquanto meno frammentari hanno permesso di sta- bilire che: 1) all’epoca quaternaria esistevano di già varie forme di Stambecchi, entro l’area dell’attuale Regno d’ Italia. (4) I. H. Blasius, I. s. c. p. 478. « Die Steinbòcke aus verschiedenen Gebirgen zeigen unter sich in der Gestalt und in der Behaarung eben so grosse Unterschiede, wie die Schafe ausverschiedenen Gegenden, bei grosser Ubereinstimmung in der ùbrigen Korperbildung. Ich muss es bezweifeln, dass die meisten unterschiedenen Steinbockarten eine gròssere Artberechtigung haben, als die friiber erwàhnten Formen von Schafen » . MATERIALI PER UNA STORIA DECLI STAMBECCHI 51 2) queste forme quaternarie non sono completamente iden- tiche ad alcuna delle oggidì viventi. Quest’ ultimo fatto mi sembra meritare tutta l’attenzione, perchè conferma i risultati ai quali sono giunto nello studio di altri generi, cioè — che ogni volta che mi si offrirono avanzi più completi di mammiferi quaternari, l'identità fra la forma qua- ternaria e quella corrispondente uttuale potè sempre essere negata ('). L’ insufficienza del mio materiale m’impedì di seguire il Rù- timeyer nell’investigare le vie percorse dalla evoluzione dei Ruminanti (?). Le poche mie osservazioni a questo riguardo, tanto sulla dentizione quanto sulla conformazione del cranio, contenute nel presente lavoro, lasciano intravedere che futuri studi potranno provare essersi le Capre meno delle Ovzs allontanate dallo stipite quale lo presentano le Antilopî. Nel gruppo delle Capre la C. Pallasii sarebbe quella forma la quale più di ogni altra si è allontanata da quello stipite. La alquanto apocrifa C. caucasica Gildenst., che sembra es- sersi meno della C. Pallasti allontanata dal tipo delle Capre, forse proverà di non essere altro che una forma giovanile della stessa Pallasti. Con questo intendo pronunziare una semplice sup- posizione, perchè mi manca ogni materiale per comprovarla. (4) Vorrei però fare una riserva per certi gruppi di Mammiferi, i piccoli Ro- ditori, cioè, e i Chirotteri. L'argomento per quanto ha rapporto a questi due gruppi, qui mi condurrebbe troppo lontano, e quindi sarà altrove sviluppato. (2) L. Rutimeyer. Die Rinder der Tertiàr-Epoche ‘nebst Vorstudien zu einer natùrlichen Geschichte der Antilopen. (Abh. d. sehweiz. palaeont. Ges.) Vol. IV, 1877. Fig. » » SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE TANESAIEIIE Capra Cenomanus 3, Maj. — Grandezza naturale. Alluvioni del fiume Chiese (Prov. di Brescia). DAVARGOIIVA Capra sibiricae aff. è, (') della Grotta di Campagna presso Eboli (Principate Citeriore). — Museo geologico di Napoli. TAV. V. 1. Capra Ibex 3 junior. Serie dentare della mandibola destra. Gran- dezza naturale. Alpi Piemontesi. — Museo d’Anat. comparata di Firenze. . Capra Ibex è junior. Serie dentare della mascella sup. destra. Alpi Piemont. — Museo d’Anat. comp. di Firenze. . Ovis musimon È jun. Serie dentare della mandibola destra. Sar- degna. — Museo d’ Anat. comp. di Firenze. . Capra Beden 3. Mol., sup. dextr. — Museo civico di Milano. . Capra Ibex È juvenis. Pr.,; m.,, m., sup. dextr. Alpi Piemont. — Museo di Torino. . Ovis musimon & ad. Serie dentare della mandibola destra. Sar- degna. — Museo d’Anat. comp. di Firenze. Stambecco (Capra sp., Ibex ?) Mol., sup. dextr. Grotta de’ Co- lombi, Isola Palmaria. — Coll. priv. Regalia. . Capra aegagrus 2. Mol.,, m.,, m., sup. dext. Persia. — Museo di Torino. . Capra Ibex £ ad. Serie dentare della mandibola destra. Alpi Piemont. — Museo d’Anat. comp. di Firenze. (4) Le piccole dimensioni dei nuclei cornei non escludono la possibilità che il cranio abbia appartenuto ad un individuo di sesso femminile. MATERIALI PER UNA STORIA DEGLI STAMBECCHI 53 Fig. 10. Capra Ibex 9 ad. Serie dentare della mascella sup. destra. Al- » Fig. pi Piemont. — Museo d’Anat. comp. di Firenze. 11. Qvis musimon $ junior. Serie dentare della mascella sup. destra. Sardegna. — Museo d’Anat. comp. di Firenze. 12. Ovis musimon& ad. Serie dentare della mascella sup. destra. Sardegna. — Museo d’Anat. comp. di Firenze. 13-27. Stambecco della Grotta di Levrange, probabilmente la Capra Ibex. Molari superiori ed inf. isolati. — Museo paleonto- logico di Pisa. 14. ultimo molare (m.,) inf. destro. 25. il medesimo veduto dal lato esterno. 15. ultimo molare (mol.,) sup. destro, veduto dal lato esterno. 16. ultimo molare (mol.,) inf. destro. 26. il medesimo, veduto dal lato esterno. 17, 18, 22, 23, primi e secondi molari sup. destri; in varii stati di logorazione; fig. 17 pochissimo, fig. 23. molto consumato. 19. ultimo mol. sup. destro. 20. primo o secondo molare inf. destro. 24. il medesimo, veduto dal lato esterno. 27. ultimo mol. sup. destro, pochissimo legorato e veduto dal lato esterno. Tutte le figure di questa Tavola V, sono in grandezza naturale. ARVERO VAT 1. Capra pyrenaica È da una fotografia di un cranio del Museo di Tolosa. 2. Capra Ibex è, delle Alpi Piemontesi. — Museo d’Anat. compa- rata di Firenze. 3. Capra Beden $. Da una fotografia di un Cranio del Museo d’ Anat. comp. di Napoli. 4. Capra aegagrus ® jun. Persia. — Museo di Torino. 5. Capra Ibex £ delle Alpi Piemontesi. — Museo d’Anat. compa- rata di Firenze. 6. Capra Hircus®. Grotta de’ Colombi, Isola Palmaria. — Coll. priv. Ettore Regalia. Tutti i disegni di questa Tavola sono in metà di grandezza naturale. FIRASVIS VIALE Fig. 1. Capra Hircus £. Grotta de’ Colombi, Isola Palmaria. — Coll. priv. Ettore Regalia. 2. Capra Beden3. Da una fotografia di un Cranio del Museo d'Anat. comp. di Napoli. D4 C. I. FORSYTH MAJOR Fig. 3. Capra aegagrus £ jun. Persia. — Museo di Torino. » 4. Capra sibirica3. Da uno schizzo in grand. natur. eseguito dal Prof. Rùtimeyer coll’apparato di Lucae. — Museo di Basilea. » 5. Capra Ibex}. Alpi Piemontesi. — Museo d’Anat. comp. di Fi- renze. » 6. Capra Ibex®. Alpi Piemontesi. — Museo d’Anat. comp. di Firenze. Tutte le figure di questa Tavola sono in metà di grandezza naturale. MATERIALI PER UNA STORIA DEGLI STAMBECCHI 05 AGIO IMUENEE I. Capra hispanica e C. pyrenaica. Il sig. Ingegnere G. Prus, Direttore di miniere nelle mon- tagne Cantabriche, che conosce benissimo perchè ivi risiede da anni ed è un abile cacciatore, mi scrive quanto segue in data di Santander, 15 Dicembre di quest'anno 1878: s L’animal dont vous a parlé M. Levier est bien le chamois ou isard des Pyrénées. Nous n’ avons pas dans les montagnes Cantabres le bouquetin, qui ne se trouve en Espagne è ma con- naissance, que dans . . . SU, SIAENE RAI PE AEREI Pare dunque che il nome di Sonar Montes venga dato nelle diverse parti della Spagna ora al Camoscio, ora allo Stambecco; e che la mia supposizione, contenuta nella nota della pag. 8, sulla presenza di uno Stambecco nelle montagne Cantabriche, non sia sussistente. La Capra lispanica è conosciuta però più ad ovest ancora, nella Serra do Gorez, cioè in Portogallo (!). II. Capra Beden. Non essendomi stato possibile un esame abbastanza lungo del cranio di C. Bedenè del Museo di Firenze, se non dopo che era già stampato quanto di sopra è discorso circa alla detta specie, giudico necessario l’aggiungere qui qualche osservazione sui con- torni superiori del cranio stesso veduto di profilo e in confronto sopratutto colla C. Ibex 3. Come risulta dalle misure sopra riportate, i nasali della C. Beden si addentrano meno nei frontali che in tutte le altre forme: ne segue, che mentre in queste, notevolmente nella C. Ibex e in grado massimo nella varietà di C. aegagrus di Creta, la parte posteriore dei nasali partecipa di già più o meno alla direzione ascendente e ripida dei frontali, nella C. Beden la ra- dice dei nasali e la regione circostante dei frontali può dirsi (4) Barboza du Bocage. Memoria sobra a Cabra-Montez da Serra do Gerez apresentada e lida à 1.° classe da Academia Real das Sciencias, na Sessao de 16 d’ Outubro de 1856. — Lisbona 1857. 56 C. I. FORSYTH MAJOR orizzontale. Mancano inoltre alla Beden le protuberanze del frontale descritte nelle altre forme di Capra, di modo che, vista in profilo, la parte anteriore dei frontali della Beden appare quasi incavata, e subito dopo il contorno ascende, più ripidamente che in qualunque altra forma, verso la base dei nuclei cornei, i quali sono anch'essi più prossimi alla direzione verticale che nella stessa C. Ibex. III. Capra caucasica, Guldenst. Quanto siano scarsi nei Musei della stessa Russia le spoglie di questa forma ancora poco conosciuta, risulta dal seguente brano di una lettera gentilmente direttami dal Dott. Alexander Strauch di Pietroburgo: , Nel nostro Museo non possediamo altro della C. caucasica che tre corna: 1) un paio, che il fu Ac- cademico Ruprecht riportò dal suo viaggio nel Caucaso, senza in- dicazione precisa di località, perchè fu comprato da un indigeno, 2) un corno isolato, donato questo anno da un signor Tscher- niawsky e proveniente da un animale ucciso nell’ Abchasia. Tutte e tre queste corna corrispondono affatto nella forma e si distinguono moltissimo (sehr auffallend) da quelle del Tur (C. Pal- last); esse rassomigliano, come Ella ha già osservato, più che altro alle corna della C. sibirica; però sono straordinariamente grosse in proporzione della lunghezza ,. MAZZETTI E MANZONI LE SPUGNE FOSSILI DI MONTESE (con due Tavole litografiche) MEMORIA presentata nell'adunanza del dì 10 novembre 1878. Lo studio delle Spugne tanto viventi quanto fossili si può dire oggigiorno di gran moda, appunto perchè di gran moda diventa nelle scienze di esperimento e di osservazione tuttociò che ad un dato momento si presenta come un campo nuovo di ricerche e di resultati. Con dir questo s’ intende accennare alla nuova fase in cui è entrata la Spongiologia dappoichè Carter, Marshall, Saville Kent, Bowerbank, Wyville Thomson, Wright, Sollas, Haeckel, Schmidt e Zittel ne hanno fatta una specialità di alta micro- scopia. Se per il passato era cosa facile e sbrigativa lo scrivere in- torno alle Spugne, specialmente se fossili, alla guisa di D’Orbigny, Etallon, Pictet, Michelin, Fromentel, Goldfuss, Quensted, Ròmer e Reuss, ecc. (ed anche ai nostri giorni alla guisa di Pomel e di Quensted), i quali autori non si valevano che della forma e struttura grossolana per studiare questi organismi, — altrettanto è da ritenere che sia compito difficilissimo e indaginoso lo stu- diare le Spugne secondo lo spirito moderno della scienza, vale a dire investigandone la struttura microscopica, e sopra questa fondandone la classificazione. Il metodo antico, già passato in discredito, aveva questo di facile e sbrigativo, che bastava al Paleontologo (per non par- 55 MAZZETTI E MANZONI lare qui che di fossili) il coordinare ed agruppare fra loro le Spugne che più o meno assumevano la stessa forma e porta- mento, e mostravano analoga disposizione di aperture e di ca- nali, per poi dare ad ogni gruppo un nome generico e figurare nelle tavole gli esemplari meglio conservati e più caratteristici. Secondo questo metodo la pubblicazione delle Spugne fossili di Montese potrebbe risolversi nella presentazione delle due tavole unite a questo lavoro, e nell’appropriare agli esemplari figurati delle denominazioni generiche e specitiche prese ad imprestito per analogia di apparenze grossolane dall’opera (ad esempio ) del Pomel sulle Spugne fossili del miocene di Oran. Ora appunto questo è il metodo che noi saremo obbligati a seguire nella presente pubblicazione per circostanze da noi in gran parte indipendenti. E ciò noi dovremo fare pur sapendo di presentare un lavoro incompleto ed imperfetto; — un lavoro il quale esporrà noi che scriviamo a quella stessa critica che giustamente lo Zittel (') ha diretta al Prof. Quensted ed al Pomel per aver questi ai nostri giorni pubblicato quel meravi- glioso tesoro di Spugne fossili che proviene dalla formazione giurassica di Svevia e di Franconia e dal miocene della Provincia di Oran, senza tener alcun conto della microstruttura di quegli organismi. Egli è perciò che noi intendiamo di limitarci per ora ad annunziare la presenza di Spugne fossili nei terreni miocenici d’Italia, — a figurarne i pochi esemplari raccolti, — ad indi- carne la località e le condizioni di habitat, e a dare qualche cenno sulla loro natura. Mentre ci duole di non potere, (causa la scarsezza degli esemplari, la imperfetta conservazione di questi ed il modo di fossilizzazione ), presentarne uno studio che sia più soddisfacente e conforme all’indirizzo della moderna Spon- giologia. Le Spugne fossili sono una nuova apparizione nel campo della Paleontologia dei terreni terziari d’Italia. Ciò è tanto più notevole in quanto si sa che in genere le Spugne scarseggiano nei (4) Karl Alfred Zittel. — Studien iber foss. Spongien. Minchen 1878. II Abth. pag. 4-6-41. LE SPUGNE FOSSILI DI MONTESE 599 terreni terziari, ed anzi solamente da poco tempo vi sono state scoperte, appunto perchè in genere questi terreni sono rappre- sentati da sedimenti litorali e di poca profondità marina. Im- porta dunque massimamente 1’ indicare il luogo e le condizioni di sedimento in cui queste nostre spugne sono state raccolte. La formazione della molassa miocenica che ricuopre le alte colline della Provincia di Modena, offre nei dintorni di Montese eccezionale ricchezza di fossili, e specialmente di Echinodermi, come altrove noi abbbiamo avuta già occasione di far cono- scere ('). Ora appunto nel corpo della molassa serpentinosa di Montese, in località ristrettissima e difficilmente reperibile noi abbiamo trovate le Spugne fossili. _ In questa località la molassa è disposta in banchi paralleli di circa un metro di potenza, che si alternano regolarmente con dei letti di una marna compatta, scura ed essenzialmente serpentinosa, la quale contiene le Spugne nella loro posizione normale. Questi banchi di molassa serpentinosa ad elementi grossolani e tenacemente cementati, sì trovano di poco spo- stati dal piano orizzontale, e per questa posizione e per esser di roccia durissima servono di tettoia e di riparo ai letti inter- posti di marna contro gli effetti della denudazione, per modo che lo scuoprimento in questi ultimi delle Spugne non vi si produce che lentissimo e secolare. Da ciò lo scarso numero degli esemplari da noi trovati, e la nessuna speranza di tro- varne altri per molti anni avvenire, a meno che non si voglia ricorrere all'opera delle mine o di consimili mezzi di demoli- zione artificiale ed affrettata. L’alternanza in questa località di banchi di molassa gros- solana e di letti di marna finissima, e la presenza esclusiva in quest’ ultima di Spugne, fa pensare alle diverse condizioni idrau- liche che si debbono esser verificate durante l’alternato deposi- tarsi di questi fondi di mare. È in genere ammesso che le Spugne siano preferibilmente abitatrici di mari profondi, o per lo meno di fondi marini tran- quilli e non compresi dentro la zona di azione violenta delle x onde. Almeno questo è quello che si conosce con precisione in- (') Manzoni e Mazzetti. Echinodermi nuovi della Molassa di Montese. Atti della Soc. Toscana di Se. Nat. 1872. — Manzoni. Echinodermi dello Schlier delle Colline di Bologna. Denkschriften der k. Akad. der Wissenschaften. Wien 1878. 60 MAZZETTI E MANZONI torno all’ habitat delle Spugne viventi dell’ ordine Hexactinellide; e questo è quello che in genere si ammette per le Spugne fossili che, fra tutte le formazioni, prevalgono nella Creta, perchè appunto questa rappresenta un deposito marino di grande pro- fondità. Ora il mare miocenico della molassa serpentinosa di Montese non era per certo in nessun caso nè un mare profondo, nè un mare tranquillo, a giudicarne dalla natura meccanica dei suoi depositi e dalla qualità dei suoi abitanti. Però nel breve tratto di questo fondo di mare dove oggi si riscontra l'alternanza di banchi di molassa con dei letti di marna, deve pure essere in- tervenuto un alternarsi di tempi di agitazione e di quiete in corrispondenza del deporsi di sabbie grossolane detritiche e di melme impalpabili, colla possibilità in queste ultime dell’esi- stenza delle Spugne. In altri termini: una intermittente condi- zione di tranquillità di questo breve tratto di fondo marino avrebbe supplito al difetto della profondità, in modo da ren- derlo adatto all'esistenza di organismi ad habitat di mare pro- fondo e tranquillo. Le Spugne si trovauo in queste marne in posizione normale d'impianto, cioè a dire, colla loro coppa o cratere rivolto in alto. Esse non mostrano per di più di aver aderito colla loro base a nessun corpo fisso, ma semplicemente di esser state in parte immerse nella marna alla guisa di tutte le Spugne che attualmente vivono nei fondi melmosi delle grandi profondità marine. La marna in cui sono rimaste sepolte e fossilizzate ha così tenacemente aderito al loro corpo e ne ha talmente invase le cavità e le trabecole da render difficile il loro isolamento e da lasciar molto detoriorata la loro conservazione. I pochi esemplari di Spugne da noi raccolti a Montese sono quelli che sì trovano figurati in grandezza naturale nelle due Tavole unite a questo lavoro. Oltre a questi esemplari alcuni pochi frammenti sono stati da noi utilizzati per far esperimento e studio intorno alla microstruttura di questi fossili. Disgrazia- mente noi non abbiamo in tale proposito altro che dei resultati negativi da esporre. LE SPUGNE FOSSILI DI MONTESE 61 Quando accada di intraprendere lo studio della microstruttura, delle Spugne specialmente se fossili, è da augurarsi di avere a fare con delle Spugne a scheletro siliceo, poichè in tal caso non si ha che a far macerare la Spugna dentro un acido diluito per ottenere che lo scheletro apparisca in tutta la sua integrità e nitidezza e libero da ogni impurità. Questo sembra esser il caso di certe Spugne di alcune località della Creta superiore della ‘Germania settentrionale ed anche della Creta bianca di Francia e di Inghilterra. Egualmente è da augurarsi che la natura della roccia fos- silizzante sia calcare e non silicea, perchè non accada come in talune Spugne della Creta bianca, incluse dentro i ciottoli silicei, nelle quali il sistema dei canali si trova invaso da una materia silicea farinacea che l’azione dell'acido non vale a spostare. ‘Che si dirà ora delle Spugne fossili di Montese, che oltre ad esser rimaste involte e compenetrate da una marna eminente- mente serpentinosa, hanno per di più mostrato di esser al tutto composte di carbonato calcare? (') Evidentemente condizioni più sfavorevoli di queste non si potevano verificare. La macerazione nell’acido diluito a cui abbiamo sottoposti i pochi frammenti di cui potevamo disporre ha dato per resul- tato di lasciar intatta la marna serpentinosa e di sciogliere com- pletamente il corpo della Spugna. Così pure l'esame delle sezioni microscopiche da noi ottenute da frammenti in natura (ora provenienti dalla base, ora dalla coppa della Spugna), non ci ha mostrato che un irregolare av- vicendamento di maglie e di intercapedini che malamente ricor- dano la microstruttura da noi conosciuta delle Spugne. Sottopo- nendo queste sezioni microscopiche all’azione dell'acido si sarebbe ottenuto quello che Zittel giustamente chiama lo scheletro negativo delle Spugne; giacchè nel caso nostro l'acido avrebbe disciolto il carbonato calcare che forma le maglie traslucide, ed avrebbe per contrario rispettata la marna serpentinosa che riem- pie le intercapedini scure ed opache. In presenza di resultati tanto sfavorevoli noi abbiamo creduto bene di non sacrificare i pochi esemplari che noi possediamo nel tentativo di ulteriori ricerche. Ci contentiamo per ora di esporre (4) Ciò dicendo {s'intende fare eccezione per la Spugna qui da noi descritta col nome di Craticularia e delineata a Fig. 2, Tav. VIII. 62 MAZZETTI E MANZONI le nostre idee sulla natura e classificazione delle Spugne fossili di Montese a seconda di quei criteri che per induzione e per l'esame dei caratteri esterni abbiamo potuto formarci. Cominciamo col dire che noi riteniamo che le Spugne di Montese siano state originariamente pietrose, e per questo caso speciale noi ci schieriamo contro l'opinione di quegli Autori che hanno ritenuto che lo scheletro sia siliceo, sia calcare delle Spugne fossili in genere fosse il prodotto della pseudomorfosi di un corpo originariamente costituto da fibre cornee. Dobbiamo parimente aggiungere che la nostra sorpresa è stata non lieve, allorquando abbiamo constatato che le Spugne di Montese non presentavano traccie di scheletro siliceo. Ci sem- brava infatti che l’impianto di queste Spugne in un fondo di mare a sedimento serpentinoso, cioè a dire a composizione di silicati, avrebbe dovuto preferibilmente somministrare materiali per uno scheletro siliceo, piuttostochè per uno scheletro calcare. Senonchè l'evidenza contraria a questa aspettativa ci ha con- dotti a ventilare la questione se veramente fosse da ritenere che lo scheletro pietroso delle Spugne di Montese sia stato origina- riamente calcareo, o non piuttosto sia divenuto tale durante il processo di fossilizzazione con sostituzione della calce alla silice. In questo proposito ci conviene senz'altro riferirci all’auto- rità competentissima dello Zittel, il quale si esprime nel modo che segue: i » Von beachtenswerther Seite wurde in mindlicher Eròrte- , rung die Vermuthung geiussert, es habe unter den fossilen » Spongien Formen ‘segeben, welche zwar morphologisch voll- » Stàndig mit gewissen lebenden Hexactinelliden oder Lithistiden » ùbereinstimmten, bei denen jedoch das Skelet urspringlich » nicht aus Kieselerde, sondern aus kohlensaurem Kalk zuzam- » mengesetzt gewesen sei. » Eine/mikroscopische Prùfung der verkalkten Hexactinelliden » Widerlegt diese Annahme sofort. Wenn man z. B. an einem ,» Schwammkéòrper aus dem weissen, Jura von Streitberg, der zur » Halfte verkalkt, zur Halfte kieselig ist, einen Dinnschliff des » Verkalkten Theils untersucht, so zeigt sich, dass die rechtwin- » Elich sich kreuzenden Trabekeln, welche cubische Maschen LE SPUGNE FOSSILI DI MONTESE 63 » bilden, aus krystallisirtem Kalkspath ‘bestehen. In der allge- » meinen Form sind die kalkigen Skelettheile von den kieseligen , nicht zu unterscheiden, aber wahrend bei den letzteren im » Innern der Trabekeln die Axencanàle aufs Deutlichste erhalten » Sind, erweisen sich die kalkigen Theile als vollstàndig dicht. » Der Kalkspath bildet eine gleichmàssige, undifferenzirte Masse. » Der Mangel an Axencanàlen in den kalkigen und deren Vorhan- » densein in den kieseligen Theilen ein und desselben Schwam- » mkòrpers scheint mir den unwiderleglichen Beweis zu liefern, » dass Kieselerde die urspriingliche Substanz des Skeletes bildete y und dass die aus Kalkspath bestehenden Hexactinelliden und » Lithistiden nur in Folge des Fossilisations-Processes ihre che- » mische Beschaffenheit geàndert haben. An die Stelle der ur- » Springlich vorhandenen amorphen Kieselerde ist demnach » Kalkspath getreten. » Diese etwas ungewòhnliche Pseudomorphose verlangt, dass » Vor dem Eindringen des kohlensauren Kalkes das Kieselskelet » aufgelòst und weggefiihrt wurde. Bei der verhaltnissmassig » leichten Lòslichkeit von amorpher Kieselerde in einem mit s alkalischen Substanzen imprignirten Wasser bietet dieser » Process nichts Auffallendes, namentlich wenn man bedenkt, » Welche ausgedehnte Querfiche die mit Axencanalen versehe- ‘ » nen und aus concentrischen Lagen bestehenden Kieseltheile » dem ]òsungsmittel darboten. «Halt man obige ao der verschiedenen Erhal- » tungszustiinde fur richtig und bei der morphologischen Iden- » bitàt der fossilen und lebenden Hexactinelliden sind andere » Hypothesen, welche den betreffenden Spongien ein ursprùnglich » horniges oder Ialkiges Skelet zuschreiben, geradezu unan- » hehmbar, so entsteht die Frage, wo die aufgelòste Kieselerde » der Spongiengertste hingekommen sei , (!). Questa dunque essendo la questione, è facile dire dove sia andata la silice delle Spugne quando, come nella Creta, i ciot- toli di Silice abbondano nella formazione e talvolta includono le stesse Spugne; o anche solo quando, mancando pure i nuclei di pietra focaia, si trova invece che il guscio delle conchiglie (4) Zittel. op. cit. I. Abth. p. 12-13. 64 MAZZETTI E MANZONI e degli Echinodermi è rimasto silicizzato. Ma non è più facile rispondere a tale questione per le spugne di Montese, quando nella marna serpentinosa che le contiene non si rinvengono con- centrazioni di selce, e tanto meno quando il guscio degli Echi- nodermi raccoltivi non si mostra selcificato. Vero è che nella molassa serpentinosa di Africo, che è iden- tica a quella di Montese, si incontrano frequentemente grossi ciottoli di pietra focaia: ma che perciò? Se all'incontro poi nella detta molassa non si rinvengono Spugne di sorta alcuna, e se per di più queste due località sono a considerevole distanza fra loro? Evidentemente noi non siamo in grado di risolvere la que- stione dove sia andata la silice delle Spugne di Montese; a meno che non si voglia ammettere senza prove dirette, che questa sia passata a far parte del cemento siliceo che è sup- posto fare della marna serpentinosa di Montese una roccia che non si disgrega sotto l’azione degli acidi. Dopo ciò s'intende che tutto questo ragionamento è fondato sulla persuasione che le Spugne in esame appartengono ai due grandi Ordini delle Hexactinellide e Lithistide. Segue l’esposizione specifica delle Spugne di Montese, prin- cipalmente desunta, come si è detto, dall’analogia delle appa- renze grossolane ed esterne. Ord. Hexactinellide, O. Schmidt. Gen. Craticularia, Zitt. ( Laocoetis, Pomel) Tav. VIII, Fig. 2. Questo esemplare è l’unico che ci permetta qualche indica- zione precisa sulla sua struttura microscopica e classificazione. È nel tempo stesso l’unico che non sia investito dalla marna serpentinosa, e non produca effervescenza immerso nell’acido. La forma generale è semplice, pressochè cilindrica; la base e la coppa sono poco dilatate ed espanse. La superficie esterna è talmente percorsa da corrosioni vermicolari da non presentar traccia di aperture di canali. La superficie interna della coppa è fornita , mit zahlreichen rundlichen oder ovalen Ostien, welche LE SPUGNE FOSSILI DI MONTESE 65 s in verticalen und horizontalen Reihen stehen und sich re- » Chtwinklich kreuzen ,. Con una lente capace di forte ingran- dimento esaminando gli spazi compresi fra le dette aperture dei canali si verifica che lo scheletro si compone , aus grossen ver- » Schmolzen Sechsstrahlern mit dichten Kreuzungsknoten, welche » ein regelmassiges, lockeres Netwerk mit cubischen Maschen » bilden , ('). Tanto basta per stabilire che questa piccola Spugna di Mon- tese, eccezionalmente ben conservata, appartiene all’ ordine delle Hexactinellide ed al Gen. Oraticularia Zitt. Laocoetis Pomel). Tav. VIII, fig. 5. Questo frammento di coppa, colle aperture dei canali rego- larmente disposti dal lato interno e mancanti sulla faccia ester- na, può darsi che provenga esso pure da una Craticularia: solo manca ogni indizio della relativa struttura scheletrica per po- terlo affermare. Ord. Lithistide, 0. Schmidt. Gen. Chenendopora, Lamx. DOVA SsA oso 46. Lav. IX fig. 1, 2,9. Riteniamo che tutti questi esemplari rappresentino lo stesso genere e forse anche la stessa specie, per quanto non ci sia dato poter confermare questo nostro concetto coll’indicazione di caratteri microscopici. La struttura massiccia e ponderosa di queste Spugne di Montese, — la forma della loro coppa, — lo sviluppo considere- vole della loro base, colla presenza di forti radici o digitazioni, ci ha indotti a riferirle al genere Chenendopora, per quanto questo genere sembri esser esclusivo della Creta media e superiore. (*) Zittel. op. cit. I Abth. p. 46. So. Nat. Vol. IV, fasc. 1.° 5 TAVOLE VII, IX. SERA NES SA Tutte le Fioure sono in grandezza naturale Gli esemplari figurati nella Tav. VIII appartengono alla Col- lezione Mazzetti. Gli esemplari figurati nella Tav. IX appartengono alla Colle- zione Manzoni. SULLA BOSSINA DI G. A. BARBAGLIA Insieme al sig. Giuseppe Martini ebbi l’onore di comunicare a questa Società, nell'adunanza del dì 5 maggio, un nuovo ten- tativo di estrazione degli alcaloidi che si contengono nel Buxus sempervirens L. ed i risultati delle nostre esperienze, sommaria- mente descritte in quella occasione, sebbene fosser lungi ancora dalle nostre previsioni, pur tuttavia erano tali da legittimare la speranza ancora viva in noi di raggiungere, con altre spe- rienze, lo scopo che c’ eravamo prefissi. La continuazione delle esperienze venne fatta da me solo, in vista di ciò che il mio caro Amico, sig. Martini, ha dovuto darsi ad altre occupazioni. Innanzitutto devo render noto come, ogni tentativo di pu- rificazione dell’alcaloide (come già dissi inquinato d'una grande quantità di gesso e di materia colorante resinosa), riuscì con pochissimo frutto, imperocchè sia l’alcoole che la benzina usati all’ uopo, se giovarono a separare dall’alcaloide il gesso e ogni qualunque traccia di altro corpo minerale, invece non valsero a nulla a purificarlo dalle sostanze resinose (*). Per cui pensai di applicare diversamente il nostro processo d’estrazione; cioè a (') Per maggiore brevità e chiarezza sotto l’appellativo di Bossina compren- deremo anche la Parabossina, in generale gli alcaloidi tutti che si contengono nel Buxus sempervirens L. (*) Nel Bossolo parrebbe esistere due resine distinte di cui l’una è saponifica- bile colla calce e l’altra invece non saponificabile; ciò almeno sembra dimostrato dalle esperienze che andrò descrivendo. 68 G. A. BARBAGLIA dire, invece di far bollire col latte di calce le foglie e i ra- moscelli giovani del Bossolo, intesi trattare nell’istesso modo il precipitato bruno che si ottiene aggiungendo al decotto acido e bollente del vegetale, una soluzione pure bollente di carbonato di sodio. Il precipitato adunque così ottenuto e stemperato con del latte di calce venne bollito per più di 24 ore poscia filtrato, lavato ed essiccato completamente al sole. Esso non è più di color bruno, sibbene grigio volgente al giallogno, ha in breve le esterne parvenze dell'argilla plastica. Previa polverizzazione, venne trattato in apparecchio a ricadere con benzina commer- ciale rettificata prima sul cloruro di calcio. Il soluto ancora bollente, separato colla filtrazione dalla parte insolubile, si pre- senta di color giallo rossigno, evaporato abbandona una massa solida di colore ambraceo oscuro, fragile a zero, molle a caldo, lucido splendente alla superficie, di sapore amaro debole e di odore alquanto aromatico aggradevole anzichè no, sapore e odore che richiamano subito quelli del vegetale da cui il corpo è stato estratto. Trattato coll’alcoole bollente vi si scioglie completamente, col raffredamento però riprecipita come un corpo bianco apparen- temente cristallizzato, il quale separato dall'acqua madre, ricri- stallizzato due e più volte nell’ alcoole e poscia essiccato spon- taneamente all’ aria, presenta i seguenti caratteri: È insolubile nell’ acqua fredda, nella bollente si fonde por- tandosi alla sua superficie e col raffreddamento successivo rap- prendendosi come in una massa ceriforme. Si fonde a 84—85 C., a temperatura più elevata brucia con fiamma molto fuligginosa senza lasciare residuo fisso veruno. Nell’alcoole freddo è quasi insolubile, è invece solubilissimo nell’ alcoole bollente. in un modo presso a poco analogo si comporta colla benzina, coll’etere e coll’alcoole amilico; nel cloroformio e nel solfuro di carbonio invece è solubilissimo anche a freddo e tutte queste soluzioni si mostrano neutre ai reattivi colorati. Ora per tutti questi caratteri fisici e chimici sarei inclinato a ritenere il corpo in questione per alcoole miricilico. D'altronde se esso veramente sia quest’al- coole o un altro corpo, varrà a dimostrarlo 1’ analisi elementare che istituirò non appena sarò in grado. Tornando al soluto alcoolico, separato, come già dissi, dal SULLA BOSSINA 69 presumibile alcoole miricilico, dirò, essere di un colore giallo (') manifesta reazione intensamente alcalina tanto da arrossare la carta reattiva di curcuma con intensità pari a una soluzione con- centrata di potassa caustica. — Evaporato a secco a bagno maria lascia un residuo ancora d'aspetto ambraceo. L'ho salificato a caldo cogli acidi cloridrico, solforico e ossalico diluiti; il liquido, filtrato dai fiocchi resinosi che vi stanno sospesi e trattato col cloruro di platino, dà un precipitato giallo insolubile nel- l’acqua e debolmente solubile nell’ alcoole. L° istesso liquido cogli alcali e coi loro carbonati dà un precipitato amorfo bianco debolissimamente tinto in pigliarino, aggregantesi in fiocchi inso- lubili nell'acqua e solubilissimi invece nell’alcoole, nell’ etere, nella benzina, nel solfuro di carbonio e nell’alcoole amilico. Scal- dando il precipitato, ottenuto col cloruro di platino, brucia con fiamma fuligginosa lasciando un residuo di platino. Scaldando l’istesso precipitato colla calce sodata sviluppa ammoniaca. Il precipitato invece, ottenuto cogli alcali e coi carbonati alcalini, scaldato sulla lamina di platino, dapprima si fonde poscia si decompone e brucia con fiamma molto fuligginosa senza lasciare residuo. Da tutte queste reazioni chiaro apparisce esistere nel soluto alcoolico, più sopra menzionato, una alcaloide. Seppoi esso sia la Bossina del Fauré (*) ovvero la Parabossina del Pavia di Locate Triulzi (*) ovvero ancora una mescolanza dei due o di altri alcaloidi non saprei dirlo, tanto più che la descrizione fatta dai due e da altri autorevoli farmacologi parmi sia manchevole e insufficiente per potere stabilire un confronto. Il prodotto ottenuto da me nel modo fin qui descritto è, per verità, ben lungi dall’ esser puro, tuttavia è incomparabilmente meno inquinato di resina di quello che, sotto forma di solfato, anni sono è stato messo in commercio dall’ egregio farmacista di Locate-Triulzi, il Signor Baldassare Pavia, ed esperimentato con molto successo dai signori Dottori Vitali, Mazzolini, Tibaldi, Buzzoni, Tiraboschi, Anelli, Albani e Casali, nella cura delle febbri (4) È invece di colore verdognolo se la saponificazione non è stata completa . (*) M. Faure. Examen chimique de l’ écorce du buis, Buxus sempervires L. — Journal de Pharmacie tom. XVI, p. 428. (3) Baldassare Pavia — Parabussima novello alcaloide del Buxus sempervires. Bollettino farmaceutico — dicembre 1868 pag. 60. 70 G. A. BARBAGLIA da malaria. Perciò vorrei raccomandarlo ai Medici-Condotti delle provincie infestate dal miasma palustre per le opportune espe- rienze cliniche. Fin qui per ciò che concerne la prima parte del mio lavoro, che, come è chiaro, ha lo scopo precipuo di offrire al farma- cista un processo facile ed economico per l'estrazione della Bos- sina greggia, la quale, quando nuove esperienze cliniche sulla di lei efficacia febbrifuga, rispondessero affermativamente), sarebbe un farmaco di pochissimo costo, eccellente pel colono le cui ristrettezze finanziarie non sempre gli permettono di ricorrere al solfato di chinina, sovrano, come ognuno sa, degli anti- periodici. Mi sono occupato anche della purificazione dell’ alcaloide greggio allo scopo di averlo bianco, (affatto scevro, cioè, di resina o d’altro pigmento), per le ricerche scientifiche che avrei in animo di istituire più tardi. A tale oggetto ne ho fatto una soluzione nella minore quantità di alcoole possibile indi l’ ho versata a poco a poco nell’ acqua distillata, avendo cura di agitare la massa liquida con bacchetta di vetro. Il liquido, mentre si fa lattiginoso, sulle pareti del vaso, non che sulla bacchetta di vetro, si aggrega e aderisce come un corpo glutinoso, rosso- aranciato ('). Ora, trattato una parte del liquido lattiginoso con acido cloridrico diluitissimo e una seconda parte con una corrente d’anidride carbonica, in entrambi i casi, il liquido si chiarificò, di- venne quasi trasparente; filtrato dai fiocchi di sostanza glutinosa ancora in sospensione, e trattato, sì il primo liquido che il secondo, con una soluzione di carbonato di sodio fornirono abbondanti fiocchi di bianchezza nivea e coi caratteri più spiccati di un alcaloide. Riassumendo. Per estrarre la bossina greggia per gli usi medici, secondo questo mio nuovo processo: 1.° Si fa un decotto acido delle foglie e dei ramoscelli giovani del Bossolo, con acido solforico diluitissimo; con ciò l’al- caloide si trasforma in solfato acido, e l’acido organico col quale esso nel vegetale stava in combinazione, rimane libero. 2.° Si tratta il decotto acido, colato attraverso tela e bollente, con carbonato di sodio in soluzione pure bollente; in tal caso (*) La natura di questo corpo verrà spiegata in altra occasione. SULLA BOSSINA 71 si forma un precipitato complesso che consta per la massima parte dell’alcaloide, di carbonato di calcio e di resina in gran copia. 3.0 Si fa bollire questo precipitato con latte di calce, così la resina acida si saponifica e diventa insolubile. 4.0 Si esaurisce il precipitato saponificato, filtrato prima dal liquido, lavato asciugato al sole e finamente polverizzato, con benzina rettificata sul cloruro di calcio. 5.° Si evapora il soluto, dopo d’ averlo filtrato ancora bollente, fino a secchezza e il residuo si tratta con alcoole pure bollente. 6.° In fine, il soluto alcoolico, raffreddato e poscia separato dal precipitato cristallino (alcoole miricilico?) si evapora di nuovo fino a secchezza. Qualora poi si volesse l’alcaloide bianco, affatto privo cioè d'ogni traccia da resina o d' altro principio colorante, basterà, in tal caso di sciogliere il prodotto greggio, colla minore quantità d’alcoole possibile, di versare il soluto alcoolico in acqua distil- lata, di agitare la massa e trattarla poscia o con acido clo- ridrico, o, meglio, con una corrente di anidride carbonica. Per ultimo i due liquidi filtrati dovranno essere trattati con una soluzione di carbonato di sodio. (Dal Laboratorio di Chimica applicata della R. Università di Pisa). LE ACQUE TERMALI DI PIEVE FOSCIANA CENNI DI CARLO DE STEFANI Per descrivere la natura apparentemente strana di alcuni fenomeni che possono interessare alla geologia, ed anche per far conoscere delle acque termali e minerali fin qui ignorate all'infuori della stretta e segregata cerchia del territorio nel quale pullulano, mi propongo dire alcuna cosa intorno alle terme della Pieve Fosciana nel Circondario di Garfagnana (Provincia di Massa). Fino a qui sono state più accennate che descritte dai varii autori, e più degli altri ne ha parlato il Raffaelli (') in una me- moria diretta al Consiglio provinciale di Massa. Queste acque si trovano a poco più di mezzo chilometro a levante della Pieve e della Strada Nazionale da Livorno a Mo- dena, in un luogo detto Pradilama, parte sur un terreno pra- tivo, parte sulla collina che sta intorno a modo di anfiteatro. Il terreno prativo si trova sur una delle gradinate o terrazzi più bassi che furono formati dal percorso del Sauro e del Serchio nei sedimenti pliocenici lacustri della vallata di Castelnuovo, e precisamente sur uno dei lembi estremi di quella stessa gra- dinata sulla quale è la Pieve Fosciana. Il pendio declive di una gradinata superiore e poi di altre ancora gli fa corona (*) R. Raffaelli — Sulle acque termali di Pieve Fosciana. Pisa, 1869. LE ACQUE TERMALI DI PIEVE FOSCIANA 73 all’intorno, ed è più particolamente sulla gradinata immediata- mente sovrastante, elevata sui prati non più di 20 metri, che si trovano ancora dei crateri e delle polle che tuttora gettano acqua o che sono da lungo tempo cessate. Le acque delle polle termali e minerali od anche dolci scen- dono poi al Serchio per mezzo del Fosso del Bagno il quale ha foce alquanto a settentrione di Castelnuovo, al così detto Ponte dei Sospiri. Il terreno tutto all’ intorno del Pradilama è costituito di argille, di sabbie, e di ghiaie plioceniche, le quali sono coperte spesso da pochi metri di terreno alluvionale e riposano sopra gli strati del Macigno eocenico medio disposti a fondo di bat- tello che poi si ritrovano ad una certa distanza, e più vicini d'ogni altro luogo nel fosso del Pentolaio a tre o quattrocento metri dai prati. In quale epoca cominciassero a sgorgare queste acque non è dato conoscere; ma è quasi certo che debbono essere antichis- sime, giacchè quasi tutte le acque termali, sebbene da corta età notate dall'uomo, per comparire alla superficie del suolo tengono una via aperta già da molti e molti secoli. Convien dire però, che sebbene spesso accanto alle polle sieno stati tro- vati dei laterizii e dei resti di costruzione niuno sa che vi siano state ritrovate monete, arnesi od altre cose che possano rimon- tare ai tempi dei Romani o dei Liguri. Nel 991, come si rileva da uno strumento accennato anche dal Raffaelli ('), esisteva nelle vicinanze della Pieve un lago il quale era verosimilmente for- mato, come lo fù spesse volte anche più tardi, dalle acque sor- give minerali. Come narra poi il Dottore Iacopo Lavelli di Ca- stelnuovo professore di Medicina a Pisa, in una lettera scritta da Venezia l’ 1 Settembre 1609 e pubblicata dal Vandelli nel XVI secolo le acque erano conosciute nei paesi circostanti. Egli dice , quoties ab aliqua causa frigida, aut ab ictu, aliqui pa- y tiebantur, eo recurrere, quasi ad certam salutem, omnes illius » regionis solebant; et virtus illius aquae in eo brevi angulo ignota » remanebat: nec nomen ipsius, ad exteros, aut saltem ad aliquas » Italiae partes pervolabat ,. Alcuni antichi crateri, ora del tutto secchi, che si trovano nella gradinata superiore ai prati di Pra- (1) Memorie Lucchesi. T.V, P. II. 74 C. DE STEFANI dilama, alla Lezza, in Bieri, e specialmente ai Lezzoni sulla sinistra del canale del Pentolaio, sebbene la gente abbia di- menticato che vi sgorgassero acque termo-minerali, debbono essere stati fonti di queste prima del XVII secolo, innanzi che la tradizione e la storia cominciassero a tener conto dei successivi scoppii che hanno avuto luogo. Certo la virtù di quelle acque per uso esterno come per uso interno doveva essere conosciuta e tenuta di conto, se il luogo, come risulta da un rogito Ma- gnani del 1609 di cui dirò qui appresso, aveva già acquistato il nome di Bagno; ed anzi vi si era costruita una casetta ed una cisterna per meglio conservare l’acqua. Il fatto è che nell’estate del 1608 queste acque cominciarono a venir più di moda, e ce lo racconta il Lavelli medesimo colle seguenti parole. , Estate praeterita (quando id advenerit ignoro) » nonnulli ex aqua interioris cisternae Thermarum bibere coepe- yrunt....... Fama per pagos et oppida vicina brevi digressa, » omnes populi ad illam accurrere ,. In quel tempo, come assicura il prefato scrittore, il medico Giuseppe Simonelli di Castelnuovo doveva pubblicare sulle Terme della’ Pieve un trattato che poi non si è mai visto, nè so come sia andato a finire. Nell'anno di poi, cioè nel 1609 (') addì 16 Aprile, Santino, Pietro e Bartolomeo, figli di Luca Santini della Pieve, abitanti a Campori, proprietari della sorgente delle Terme, venderono al signor Cavaliere Bertacchi di Castelnuovo in nome della Ser."* Camera, in vigore di lettere trasmessegli dall’Ill.mo sig. Imola per commissione del sig. Duca di Modena , Balneum da Bagnarsi , cum Domo super se, cum suis pertinentiis, et cum aqua pullae » bibendis, situm in Communi Plehis, Luogo detto al Bagno, iuxta , Viam communem, et bona campiva et prativa dicti venditoris, » et viam vicinalem ,. Di più cedettero un pezzo di prato con- tiguo della misura di uno stariolo, il tutto per scudi 215, » Salvis juribus communitatis Plebis di potersi andare a bagnare »@ bere di detta acqua, e pigliarne a loro beneplacito, e per , uso solamente ,. L'acqua della sorgente del Bagno, secondo il Lavelli che evidentemente si riferisce ad essa, era limpidissima e piuttosto calda: , exit aqua, ad caliditatem potius quam ad tepi- » ditatem vergens, purissimo ac limpidissimo colore, subsalso et () Rogito G. B. Magnani — Archivio Notarile di Castelnuovo. Pr. 2. LE ACQUE TERMALI DI PIEVE FOSCIANA (45) » subamaro sapore, et in fine manifeste percipitur stipticitas , metallorum propria ,. Non è menzionata in quell’ epoca alcuna altra sorgente all'infuori di questa, la quale esiste tuttora ad uno dei lembi del Pradilama adiacente alla strada comunale fra la Pieve ed il Sillico, dalla parte del fosso del Pentolaio. Nel 1722 il Vallisnieri ('), diceva che quest’acqua termale di Pieve Fosciana, trovavasi vendibile in diverse farmacie di Modena, e , fra le tante che nei nostri monti pregevolissime e » Salutevoli molto scaturiscono, queste sole adesso sono in uso , ed hanno a tutte le altre rubato la palma ,. La Comunità della Pieve, a quanto espongono i suoi rappresentanti, non avendo conoscenza che la Serenissima Camera Ducale di Modena (che del Ducato faceva parte la Garfagnana) avesse la proprietà della polla, e fosse perciò obbligata a conservarne ed a pro- curarne lo scolo, vi fece lavorare per lungo tempo a sue spese; e dal 1707 al 1782, per tenere spurgato il Bagno e la Fossa grande che tuttora ne deriva, impiegò 891,18 Scudi di Garfa- gnana, equivalenti a 1116,18 Scudi di iii come risulta da una nota di spese esistente nell'Archivio Comunale della Pieve. Nel 1782 spiacendo il continuare le spese per altri fu fatta istanza al Duca di , rilasciare l'antico libero possesso della Polla e Prato contiguo, alla Comunità ,: istanza rinnovata poi più di una volta, e che non so qual risultato avesse: però sul prin- cipio del nostro secolo il prato contiguo era vennto in proprietà del Bona, rimanendo la polla di uso comunale, con diritto di passo. L'acqua era assai abbondante e calda, del quale carattere è fatta speciale menzione nelle istanze della Comunità del 1782. Nel 1785 il chimico Giovanni Giannotti ed il medico Dott. Rocco Coli di Castelnuovo, analizzarono l’acqua termale (?) e trovarono che una libbra di essa, conteneva: AtiaNfissa;Serani:... 0. : TESSIE, Aria epatica in piana anti VM" Iectagstieiasamimnatante» UO]; Terra calcare aereata . . . dI Ma nese EROI, SOIENILereagl ente e ine (') Supplemento al Nuovo Giornale dei Letterati d’Italia Venezia 1722. (*) Raffaelli Pg. 6. 76 C. DE STEFANI Sale marino a base calcare . . . . 2 Sale marino a base di magnesia . . 0,57, Un poco di materia estrattiva . . .. —— Il Repetti, nel 1812 (') ne fece un breve cenno riportando un’ analisi del Vandelli, secondo la quale essa conteneva: Gas acido idrosolforico e carbonico, Idroclorato di calce in quantità, Acido solforico, Fosfati di calce e di soda, Carbonati di calce e di ferro. Nel 1816, il professore Giacomo Franceschi lucchese ed il chimico Giov. Battista Tessandori fecero una nuova analisi (?) donde risultarono i seguenti elementi, nell’ ordine della loro rispettiva abbondanza. Gas acido carbonico, Solfato di calce Muriato di soda Muriato di magnesia Carbonato di calce Solfato di magnesia Silice e carbonato di ferro. Nel 1828 essendo scoppiata una sorgente nuova, nel prato del Pievano, la polla del Bagno diminuì assai, e mentre prima gettava per 4 o 5 bocche, secondo le osservazioni del Dott. Porta Casucci, 232 libbre il minuto, buttò allora assai meno. Ma poi ritornò e seguitò ad uscire calda ed alquanto abbondante, ed a servire anco per uso di Bagno, al quale scopo era rimasto in quel del Bona, un poco a settentrione della sorgente, un casino costruito pure nel 1826 in sostituzione di altro più antico, il quale poi per opera de’ ragazzi e pei movimenti del suolo andò distrutto ed è oggi completamente scomparso. Però l’acqua del Bagno, forse pelle sorgenti nuove apparse via via in più luoghi, è andata d’anno in anno continuamente e lentamente SALO AMARLO N TO IE NS A OZ DE SALE PSOME O O Re CO SaleaGlauberano0 e ae ON | (4) Repetti — Dizionario geografico, fisico e storico della Toscana. T.I, Pg. 48. (*) Raffaelli, loc. cit. LE ACQUE TERMALI DI PIEVE FOSCIANA 77 a diminuire ed a perdere alquanta della sua salsedine e della sua temperatura. Infatti secondo le osservazioni del Porta, prima del 1827 aveva 35° gradi di calore; nel 1843, secondo esperienze fatte in presenza del Raffaelli ('), ne aveva ancora 25°. Nel 1872, nel quale anno per la prima volta la vidi, era alquanto tiepida e nel Settembre svolgeva de’ vapori; ma di poi, è ancora dive- nuta più fredda, fino a che nel 1875 aveva raggiunto una tem- peratura ordinaria. In una mappa del 1765 esistente nell’ Archivio Comunale della Pieve, oltre la polla del Bagno, ne è indicata un’ altra soltanto nel prato che è tuttora in proprietà del Torriani, un metro o due sopra il Pradilama, sotto la Lezza, quasi a mezzo fra i due fossi del Pentolaio e della Capanna o Capannaccia. In quell’ epoca vi era un Casino, tratteggiato pure sulla mappa, sicchè la sorgente doveva essere abbondante e servire pur essa di bagno; questo d'altronde è attestato da uno scritto della Deputazione di Sanità in data del 10 Settembre 1790, che chiama quella sorgente del Torriani, Bagno della Casetta. Nel 1797, trattandosi di levare le esalazioni cattive emanate dal Pradi- lama, per cagione delle acque stagnanti, si deliberava di man- dare nel prato il fosso della Capanna, e di voltare verso il Bagno del Torriani un fosso esistente nei prati della comunità, per dare migliore sfogo alle acque che ne derivavano. Nel 1828, come narrano i vecchi, della Casetta non erano rimasti se non i ruderi, ed ora non si vedono più nemmen quelli. Esiste però nell'antico recinto del Bagno una pozza fangosa d’ acqua la quale sgorga continuamente in piccola quantità, e scende al prato inferiore, fredda, molto salina, e fetida per l’ idrogeno solforato, che decomposto a contatto coll’atmosfera lascia nelle pozzette più stagnanti dei sedimenti di solfo. Un acquitrino più piccolo, e di eguale natura, segnalato ugualmente dalle can- nuccie che vi nascono, si trova sullo stesso ripiano, due o tre metri a levante. Raccontano poi i vecchi, sebbene storicamente non ne sia fatto cenno, che sul principio di questo secolo, circa il 1818, scoppiassero varie polle a levante del Bagno comunale, lungo le siepi sotto la strada che deviando presso il detto Bagno 78 C. DE STEFANI dalla via comunale del Silico mena alla selva dei Torriani ed ai Lezzoni. Le acque erano molte calde e saline; ma poi cessa- rono; forse da quel tempo o da altra epoca più antica, sono rimaste due discrete sorgenti di acqua or quasi al tutto dolce, buona per abbeverare gli armenti ma non per cuocere i legumi, le quali sgorgano per appunto lungo la siepe suddetta, ed una assai dappresso al Bagno. Ma uno degli scoppii più notevoli a memoria d’ uomo ebbe luogo nell’autunno del 1827, nel prato del Pievano. Il Dottor Porta Casucci in una sua lettera del 18 marzo 1738, scrisse che il 15 Agosto 1828 , l'antica sorgente (quella del Bagno) » deviò portandosi in massima parte nel nuovo cratere comparso » Verso Settentrione in luogo basso ,; ed il Raffaelli cita quel giorno come data dello scoppio. Ma, se può darsi che in quel giorno d’Agosto l’acqua scomparisse dal Bagno antico, tutte le testimonianze da me udite provano che lo scoppio nel prato del Pievano ebbe luogo ai primi di Settembre, dopo la fiera di Ca- stelnuovo, circostanza adattata a far ricordare quell’ evento. Uno dei più anziani del paese, in una pietra d’un suo metato sopra il Pradilama, incise la data del 27 Settembre 1827, che si può vedere tuttora, alcuni giorni dopo che era avvenuto lo scoppio, e per questo fissa la data del 7 Settembre 1827. Nei primi di Agosto di quell’anno circa alle 3 pomeridiane, un cappellaio del Pontardeto era a fare il bagno nel casino del Bona alla polla antica; in quel mentre, i tubi di terra che portavano l’acqua si erano staccati, e l’acqua si perdeva: egli li riattaccò, ma di nuovo si staccarono; s'alzò e vide che dappoi che egli era a fare il bagno, si era screpolato tutto il terreno all’intorno; crepe che si formarono poi qua e lè anche nei giorni successivi. Il giorno innanzi allo scoppio, il terreno nel prato del Pievano si abbassò, formandovisi una piccola pozza: la mattina di poi circa alle 11, chi dice con uno scoppio ed un rombo, chi senza tali rumori, si formò una voragine d’acqua salina della circonfe- renza di circa 44 metri, e della profondità di circa 11 metri nel centro. Due pioppi rimasero sprofondati nell’ acqua, ed uno più piccolo sparì del tutto, l’altro rimase nel mezzo, verticale, colla sommità emersa, finchè col tempo esso pure scomparve. L'acqua gettò fuori dei gran pezzi di lignite e grossi tronchi di albero, uno dei quali lungo metri 3,60, che dicono fossero LE ACQUE TERMALI DI PIEVE FOSCIANA 19 di castagno e di abeto: narrano pure che sopra uno dei tronchi di abeto foggiato a cono erano delle tracce di istrumento ta- gliente; io non ho veduto questi tronchi, ma dubito che fossero di qualche legno fossile quale di frequente si trova in quei ter- reni pliocenici. L'acqua termale, con intenso calore e con vee- menza, sgorgava nel mezzo del lago, e traeva seco una quan- tità di materia argillosa che, pella sua tenuità, trasportata dalle acque, intorbidava il Serchio per lungo tratto del suo corso, e qualcuno mi disse, fino a Lucca. Le screpolature del terreno e degli edifizii si erano estese tanto nel prato come nella collina circostante, ma sempre limitate ai terreni pliocenici, per un giro quasi di tre chilometri all’intorno del lago, e verso la Pieve qualche crepaccio giungeva a circa 300 metri, fino al Ponticello sulla Fossa del Bagno. L'ampiezza del lago, la miscela delle acque dolci e salse, e lo stagnare di queste, cominciarono fin d'allora a produrre malsania e febbri intermittenti nei territorii della Pieve, di Chiozza, di Castiglione, e di Castelnuovo; ma il Canale del Pentolaio scaricando le sue torbe nel recipiente delle acque termali, a poco per volta lo restrinse, e finì per riempirlo sì che nel 1842 era quasi scomparso togliendo un sollazzo a’ fan- ciulli ed anche agli uomini che nell’estate vi andavano a nuo- tare. Oggidì il lago è scomparso ed il terreno è tornato prativo: però la sorgente minerale non è del tutto sparita e vi geme ancora sebbene in piccola quantità, discretamente salina, fornita di sali ferruginosi, ed accompagnata da sviluppo di acido car- bonico e di piccola quantità d’idrogeno solforato. Più che una vera sorgente, è un fango, ed ancora il 22 Ottobre del 1876, quando l’osservai, in un punto aveva la temperatura di 21 grado Réaumur, che però non ritrovai nell’anno successivo. Dappresso al prato del Piovano, nel prato Lorenzetti esiste pure oggi qualche gemito di acqua un poco salina e fredda: ma non so se appa- risse per la prima volta nel 1827, o se invece sia più antico. Ho detto che nel 1842 la sorgente del Piovano era quasi del tutto coperta dalle pietre e dalle torbe recate dal Fosso del Pentolaio. Forse per questo, nel 1842 si ebbe un nuovo grande scoppio dell’acqua termale, che io descriverò seguendo le tracce del Raffaelli il quale ne fu testimone di vista. La sera del 15 (') (4) Il Porta pur testimone di vista indica la data del 15, il Raffaelli dice il 14. 80 C. DE STEFANI febbraio 1843, ad ore 10 si manifestò una nuova sorgente di acqua molto calda, con getto alto, nel prato della Comunità, quasi accanto alla strada comunale, a mano sinistra andando dalla Pieve al Quario ed al Sillico, nel punto in cui quella strada, lasciati i campi, comincia a rasentare il Pradilama. L'Ingegnere Luigi Bonini trovò che le nuove polle mescevano 120 litri per minuto primo. Il 20 Marzo 1843 la temperatura dell’acqua era di 30° Reamur, mentre il termometro all'aria aperta segnava 12°, e nel Bagno antico 25°. Un’ analisi chimica diede allora i seguenti risultati: Solfato di calce Idroclorato di calce Carbonato di calce Solfato di magnesia Solfato di soda Idroclorato di magnesia Gas acido carbonico in quantità. Gas idrogeno solforato che si palesava all’ olfatto quando l’acqua era fortemente agitata. Il 21 ed il 22 dello stesso mese di marzo 1843 comparvero altri 7 sbocchi d’acqua. ]l 24 del successivo mese d'aprile, alle 5 pomeridiane, facendo un gorgo, improvvisamente sparve l’acqua della polla per scaturire poco dopo impetuosa circa 10 metri verso levante, nello stesso prato comunale e poco più lon- tana dalla strada , divisa in tre sbocchi alla distanza di metri » 8 circa l’uno dall’altro, e conducendo grandissima quantità della » solita argilla plumbea che colorava le acque del Serchio fino » al di sotto del Ponte alla Maddalena, cioè alla distanza di » Oltre a chilometri 24 ,. In quella circostanza comparvero nuove fenditure e si estesero nelle case e nei terreni vicini. , Nel corso » di un mese le tre sorgenti sovraccennate riunivansi in una sola, ,€ le acque talora effluivano limpide e pure, talora colorata ,»0 frammiste alla solita argilla ,. Da allora in poi, come di solito, quelle sorgenti sono andate sempre diminuendo di forza, di salinità e di calore, fino a circa il 1860: oggidì vi sono ap- pena delle pozze di acqua quasi dolce e quasi stagnante, nella quale nascono delle canne; vi si svolgono continuamente delle gallozzoline d’acido carbonico, e può darsi che ancora vi sia qualche stillicidio d’acqua salata; ma non potendovisi accostare LE ACQUE TERMALI DI PIEVE FOSCIANA 81 per causa dello stagno non si può verificare bene la cosa. Con- temporaneamente al primo scoppio nel Prato comunale, nel Feb- braio, erano comparse altre due sorgenti quasi colla tempera- tura normale, nel podere delle Fornaci di proprietà del Bona, una a 16 metri, l’altra a circa 22 nella gradinata sovrastante al piano di Pradilama a dritta della strada comunale, andando al solito dalla Pieve al Quario. Una di queste sorgenti secon- darie sgorgò accosto alla collina di sopra, e continuò sempre di poi, non termale, ma limpida e salina, e per la quantità di gente che accorreva a beverla, onde impedire i guasti ne’ campi, il Bona la fece chiudere nel 1847 entro un casino, lasciandone la chiave ai contadini del prossimo podere delle fornaci, e facen- dola pagare sul posto cinque centesimi il fiasco. Nel 1872 es- sendo scoppiata una nuova polla nel campo adiacente verso set- tentrione, a circa 25 metri di lontananza, cessò per qualche tempo di mescere; ma poi riprese, sebbene sempre assai torba e carica di finissima argilla, e pare eziandio, in minore quantità di prima. L'altra sorgente scoppiata in mezzo ai campi, fù pochi anni di poi ricoperta, per poter continuare la coltivazione nel terreno di sopra, e mediante un condotto venne portata al prossimo viottolo vicinale, che venendo dal podere del Bagno, di proprietà del Giannotti, costeggia il campo del Bona. Sù quel viottolo forma una pozza d’acqua limpidissima, detta la Fon- tana, che serve per abbeverare le bestie ma non per gli usi domestici, essendo sempre alquanto salina, sebbene mista come dicono ad una sorgente d’acqua dolce. Il calore pure di quella sorgente fù a poco per volta perduto del tutto. Circa due metri a ponente, sempre sullo stesso viottolino è un’ altra piccola sorgente di acqua dolce limpida ma poco più potabile, che non so a quale epoca rimonti, e certo in origine dovette essere termale e minerale come le altre. Nel 1861, ai primi di giugno, la sorgente scoppiò caldissima, nel ciglione di un campo sopra Pradilama, in quel del Giannotti, pochi metri a mezzogiorno della casa del podere del Bagno, e circa 30 metri lontano dalle polle scoppiate ne’ poderi del Bona nel 1843. Il 13 od il 14 del mese, l’acqua scomparve di lì, e scaturì più in basso a levante, poco sopra il Pradilama, for- mando un ampio cratere ed ingoiando un buon tratto di campo. Sc. Nat. Vol. IV, fasc. 1.° 6 82 C. DE STEFANI Il 16 dello stesso mese di Giugno sgorgò una nuova abbon- dante e calda polla, un poco più in basso ancora, a ponente, nello stesso podere Giannotti, quasi rasente la strada comunale a destra di questa andando dalla Pieve al Quario. Intanto nella sorgente prossima, accanto allo sbocco dell’acqua salina termale, se n'era formato un altro d’acqua più dolce e fredda. Nel luogo dell’ ultimo scoppio l’acqua aveva 30° Réamur, ed analizzata dall’ egregio chimico e farmacista Francesco Pierotti si ebbero i seguenti risultati, cioè: Gas acido carbonico in piccola quantità. Carbonato di calce Carbonato di ferro Solfato di potassa e di calce Cloruro di sodio in massima parte Cloruro di calcio Cloruro di magnesio Solfato d’ allumina. Il padrone del fondo vi fece costruire una capanna per co- modo di quelli che volessero fare i bagni, e per due mesi, fino a quasi tutto l’agosto del 1871 grandissimo fu il concorso della gente; però alla fine d’ Agosto la sorgente termale sparì e fu sostituita da un’ acqua presso che dolce, che nel 1873 trovai popolata da buon numero di Planordis spirorbis, e che dall’ estate del 1876 in poi rimase quasi del tutto seccata. La sorgente accanto, che pur essa aveva perduto prestamente il calore, fù coperta ed incanalata, per rimettere il terreno a prato; però la sorgente centrale versa ancora dell’acqua fredda alquanto salina che esce in un rigagnoletto presso la siepe della strada, e presso a quella, come nello stesso pezzo di prato nel quale era la capanna della sorgente scomparsa, sono ancora altre due o tre polle dalle quali sgorga dell’acqua limpidissima e più o meno salina. Nel 1872 di Maggio nel podere delle Fornaci, una trentina di metri a settentrione del Casino, ed allo stesso livello di questo, scoppiò nel mezzo ad un campo coltivato una sorgente calda e salina ed al solito torba. Qualche mese dopo il pa- drone, per aver agio di coltivare il suo campo e per evitare LE ACQUE TERMALI DI PIEVE FOSCIANA 83 il passaggio della gente, la ricoprì, e per mezzo di un condotto di pochi metri la portò a sboccare al muricciolo che è lungo il viottolo che viene dal podere del Bagno, 8 0 9 metri a S. E. della polla della Fontana sgorgata, come fu detto, nel 1843. L'acqua di questa nuova sorgente del 1872 cadendo sulle pietre sottostanti le ricopriva d’una patina sottile d’ ossido di ferro: nel 1876 mesceva un pochino torba; era la più abbondante di tutte le sorgenti saline ed affatto fredda. I paesani 1’ avevano appellata col nome di Fontanella, e quando credevano aver bi- sogno di acqua salina sì provvedevano ad essa senza spesa al- cuna. Nel 1876 quando visitai quei luoghi nel campo al di sopra della sorgente coperta, il terreno giù seminato a grano era umido e coperto da rifioriture saline per un tratto di 6 o 7 metri. Nel 1878 essa scomparve, allo scoppiare di una nuova sorgente più bassa. L’ inverno dell’anno 1876 era stato molto piovoso, e di Marzo s'erano formati dei crepacci nella cantina annessa alla casa del podere del Bagno. Or nella notte antecedente al 14 Aprile in un piccolo prato del Giannotti, accanto alla siepe che fiancheggia la strada comunale del Quario, a sinistra andando verso il Quario ed il Sillico, e poco prima del viottolo che mena al po- dere del Bagno, si formò improvvisamente un getto d’acqua ter- male non molto abbondante e torba pella finissima argilla tur- china che portava, sì che ne rimaneva insudiciata l’ acqua del Serchio fino a Castelnuovo: esso trascinava minute ghiaiette e pezzi di lignite, detta volgarmente apilegno, pesanti anco più d’una libbra. Il cratere donde l’acqua usciva non aveva più di 2 a 8 braccia di circuito. Il 29 dello stesso mese questa sor- gente si smarrì: nella mattina presto, lungo la strada comunale, di fianco agli sgorghi formati nel prato comunale nel 18483, passato, per chi vien dalla Pieve, il viottolino del podere del Bagno, il terreno era soffice ed elastico; poche ore dopo, a di- stanza di circa 15 metri dalla sorgente cessata, vi si era formata una pozza larga 13 0 14 metri e profonda fin 3 o 4, che aveva interrotto la strada comunale, ed il movimento del terreno non era cessato se non alle 4 pomeridiane. Nel mezzo della pozza era sprofondato un ontano, che durò un pezzo ad emergere per metà, ritto e secco del tutto. La pozza era piena di acqua dolce 84 C. DE STEFANI che esciva però in piccolissima quantità: perciò era diventata limacciosa e quasi stagnante; cessò quasi del tutto in quell’oc- casione la piccola sorgente d’acqua dolce che era rimasta un poco più alto, nel cratere formatosi nel podere del Giannotti nel 1861, e che per qualche mese, come fu detto, aveva servito di bagno; ed il P/anordis spirorbis che prima vivea colà emigrò nella nuova pozza. La formazione di questa costrinse il muni- cipio a far deviare la strada comunale portandola un poco più in alto verso il podere del Bagno; ma poi la pozza fu ad arte riempita. i Finalmente la sorgente si manifestò di nuovo nell’ Agosto dell’anno 1877. L'estate era durata molto asciutta tanto che parecchi dei pozzi della Pieve erano quasi seccati, cosa non ordinaria. Ai primi d’Agosto nella casa del Bagno cominciò a formarsi qualche piccola crepatura. Il 2, alle 4 pomeridiane, la polla scoppiò di nuovo improvvisamente, proprio nel mezzo alla strada comunale pel Silico, sotto la casa del Bagno, due o tre metri a N.0. dal posto della pozza formatasi l’anno in- nanzi. L'acqua accompagnata da fortissimo sviluppo d’acido carbonico e da tracce d’ idrogeno solforato che si sentiva a volte all’ odore, con un calore di 38 a 39 gradi centigradi presso la superficie, salata come d’ordinario, sgorgava con impeto ed in abbondanza trascinando una quantità di sabbia micacea tenuis- sima e d'argilla turchina così fine, che tenuta in sospensione e portata al Serchio lo insudiciava visibilmente fino al Borgo, e taluno disse fino al Ponte a Moriano. Acciocchè il passo non venisse interrotto, il Comune della Pieve quattro o cinque giorni dopo lo scoppio fece coprire la sorgente, lasciandole lo sfogo lateralmente nel Pradilama, e rifece la strada. L’acqua si aprì allora un altro piccolo sgorgo a meno di un braccio verso S. E., in direzione d’ una chiavica ivi esistente, e cominciò ad uscire da questa in quantità minore assai che dall’ altro sgorgo adia- cente. Il 4 Settembre, nel qual giorno cominciai a visitare la polla, alle 12 meridiane, l’acqua allo sgorgo principale aveva 38, alla chiavica dove il tragitto per uscire nel Prato era più lun- go, 87 gradi. La temperatura esteriore all’ ombra era di 16 cen- tigradi, al sole di 23. Nello stesso giorno le altre polle antiche avevano le tempe- LE ACQUE TERMALI DI PIEVE FOSCIANA 8° rature seguenti, diverse secondo la posizione loro più o meno esposta al sole. Pozza d’acqua dolce nel posto del terzo scop- pio del 1861, in quello del Giannotti. 16 centigr. Polla del Giannotti nel posto del se- condo scoppio del 1861. . . . . 18 centigr. Rontana ie Ra a se ao 17) OI NA AG 05) Casino delMBonato ne o RESTO ICRRS CIR ae n E BRENTA e O Casetta del Torriani iodio iaia NA | Le acque erano tutte limpide, anche quelle del Casino del Bona che l’anno antecedente erano state torbe, e l’ abbondanza loro era uguale, salvo che nelle polle del Torriani e nelle altre a N. E. del Pradilama le quali erano diminuite, o pella siccità della stagione o pella nuova polla comparsa; anzi la piccola polla accanto alla Casetta del Torriani, la polla del Lorenzetti, e la polla del Piovano erano ridotte a fanghi appena umidi, nè in quest’ ultima vi erano più gemiti di acqua termale come ne erano stati nell’anno innanzi. La quantità di acqua fangosa che usciva dai due sgorghi, dopo che la strada era stata rifatta, era di 6 litri per minuto secondo, (litri 360 per minuto primo, 21,600 l'ora, 518,400 il giorno). Un terzo del volume era però di argilla, ed oltre alla quantità che fù portata nel Serchio, ne° 12 o 13 giorni durante i quali durò lo sgorgo più forte, ne venne riempita la parte bassa del Pradilama. Per questo volume di argilla tolto agli strati pliocenici circostanti e sottostanti, ad una profondità relativa- mente piccola, si comprende come si formassero nel suolo plioce- nico tutto all’ingiro fino a distanza di circa 400 metri, special- mente dalla parte del poggio fra N. 0. e S. E., delle crepature concentriche alla sorgente e talora parallele si loro, lunghe fino a 20 metri, larghe nella loro apertura esterna anche un decimetro. Nell’interno si restringevano sempre più, e verosimil- mente terminavano a qualche ventina di metri di profondità là donde l'argilla era stata portata via: qualche volta si notava un 86 C. DE STEFANI piccolissimo abbassamento del margine posto dalla parte della sorgente. Per continuare la storia di questa dirò che il giorno 6 set- tembre l’acqua termale cominciò ad uscire in piccola quantità dallo sgorgo primo chiuso sotto la via, e si fece strada quasi tutta pel secondo sgorgo che usciva dalla chiavica: la quantità complessiva non sembrava però alterata. Il giorno 6 verso le 5 antim. la polla si fece largo, sempre in mezzo alla via comunale, un braccio o due più là a S. E., ed uscendo impetuosa cominciò a scalzare il terreno ed a for- mare una pozza che ingrandiva a vista d’ occhio: la quantità dell’acqua pareva aumentare, ma non sì potè misurare; la tem- peratura, la salinità e la fangosità erano le solite, e si sentiva, l'odore dell’idrogeno solforato. Per le frane che si formavano nel terreno alluvionale e pliocenico, anco sotto al livello della acqua, questa era in continuo movimento, e pella grande quan- tità del gas acido carbonico il quale si sprigionava in piccole bolle da tutta la superficie essa pareva in ebollizione. La sera del giorno dopo (7) alle 6 pom., la pozza aveva già una pro- fondità massima di 6 metri, e un diametro di 7 a 8 metri. La sorgente vecchia, il cui bacino si era mantenuto distinto, era diminuita. d’ assai, e andò diminuendo ancora, talchè dopo due o tre giorni ne usciva appena un piccolo filo d’acqua; ma poi, sia pel rodere dell’ acqua, sia pell’ intervento dei ragazzi i quali contribuivano a franare il terreno, vi si jestese la nuova pozza, la quale durò ad aumentarsi sempre notevolmente fino al 12 Settembre dopo del qual giorno continuò ad estendersi assai lentamente per un’ altra ventina di giorni. Le sorgenti più forti apparivano qua e là, senza regola, nel mezzo alla polla; le pareti di questa erano quasi a picco, anco sotto il livello delle acque; e la profondità che nel giorno 9 Settembre era di 3 metri nell'estremo N.0., andava lentamente aumentando fino a metri 9,50, a forse 40 centimetri dall’ estremo margine a S. E.. Il giorno 8 Settembre trovammo anzi nel punto della massima ebollizione, misurando con un filo a cui era legato un grosso peso, una profondità di metri 15, 25. Quel giorno nel quale st formò la pozza, che divenne poi tanto estesa e tanto profonda, il fenomeno raggiunse la sua intensità, che durò stanzionaria LE ACQUE TERMALI DI PIEVE FOSCIANA 87 ‘8 o 4 giorni, e cominciò poi a decrescere lentamente. Le scre- polature non continuarono più ad estendersi, e quando poi co- minciarono le pioggie e le lavorazioni nei campi le loro tracce vennero a sparire. Le polle forti che quà e là prima apparivano, cominciarono a venir meno, sebbene l'acido carbonico continuasse un pezzetto a svolgersi da tutta la superficie in minutissime ed abbondanti bollicine che formavano un rumore come il crepitare di un fuoco. Sebbene il diametro della pozza aumentasse, la profondità diminuiva, pell’argilla tenwissima che vi si fermava; l’acqua cominciò ad uscire con'gran lentezza, però sempre meno torba e sempre meno abbondante; e perciò, il calore mentre prima si era mantenuto alto e costante in tutto l’ambiente, si limitò dintorno alla polla principale, la quale si era ridotta a 2 metri dall’estremità Sud della pozza accompagnata da getti irregolarmente intermittenti di gas acido carbonico. Agli ultimi di Settembre questa polla principale si portò due metri più ad E., però assai diminuita: le bollicine continue di gas non si sviluppavano se non in quel punto, e le bolle maggiori erano sempre meno frequenti: le pollicine intermittenti che prima sgorgavano qua e là erano divenute assai rare, e l’acqua calda sempre a 38° rimaneva ad una certa profondità. Il 19 Ottobre, quando visitai la sorgente pell’ ultima volta, le crepe circostanti erano sparite; la pozza era quasi perfetta- mente circolare con un diametro di metri 19, 80, e si era for- mata un poco di scarpa all’intorno; il fondo era divenuto quasi uniforme a tre metri sotto il livello delle acque: la profondità maggiore era di metri 8,82 intorno alla polla principale che era quella ultimamente accennata, con bolle non grandi di gas. L'acqua usciva alquanto meno salina in poca quantità, e quasi affatto chiara; aveva preso anzi una tinta verde palustre e co- minciava ad essere abitata da varii insetti, e dai ranocchi che erano stati i primi a entrarvi. Alle 10 antim., mentre la tempe- ratura esterna al sole era di 11 gradi, l’acqua alla superficie ne aveva 18-19 in tutto l’ambiente; non potendo poi avere in quel momento un termometro a massimi, calai dove l’acqua sorgeva una bottiglia chiusa con un tappo; quando fu al fondo l’apersi; ritirandola trovai che l’acqua la quale vi era entrata era quanto mai torba, salata come in addietro, e calda fuori a 32 gradi cen- 88 C. DE STEFANI tigradi, la qual cosa potrebbe mostrare che in fondo l'acqua conservava la temperatura di 38 gradi che aveva sempre avuto prima; è notevole intanto questo fatto che l’acqua più calda fosse in fondo e non alla superficie, la qual cosa si spiega pen- sando che dessa era altresì più salina e più fangosa quindi più pesante. Quella differenza di tanti metri meno nella profondità che la sorgente aveva sui primi giorni, e che rappresentano un riem- pimento di finissima ed impermeabile argilla, spiega a parer mio, almeno in gran parte, il come l’acqua trovando quell’ostacolo che essa stessa si formò, oltre poi all’avere chiuse le uscite cogli abbassamenti e colle frane avvenute nell’ interno, sia come il solito sempre più diminuita in quantità, mentre ha acquistato in limpidenza e perduto in calore ed in salinità (!). Pochi giorni dopo la formazione della pozza, io ed alcuni miei amici pensammo di fare uno scavo nella prossima polla formata al terzo scoppio nel 1861 al Casino del Giannotti. Lo scavo cominciò parte nel cratere della sorgente del 1861 e parte nel terreno contiguo, e giunse fino a 3 metri e mezzo dalla superficie, dopo di che non continuammo pella quantità d’acqua che si trovava e per la insufficienza dei mezzi meccanici di cui si disponeva. Dalla parte dell’ antico cratere si rinvenne fino in fondo un terreno di riempimento con pezzi di mattoni e di embrici che si dovevan trovare là da tempo molto anteriore al 1861; nell’ altra parte per metri 2, 70 trovammo ghiaie alluvionali e sabbie tenui; poi incontrammo 30 centimetri di argilla pliocenica tenuissima un poco sabbiosa. A 2 metri di profondità dalla parte del riem- pimento, trovammo una polla limpidissima e discretamente ab- bondante di acqua salina più che tutte le altre dei dintorni, di sapore astringente, ma fredda; sopra le argille poi trovammo anco dall’ altra parte due polle non piccole d'acqua limpida, meno salina ma parimente fredda; la quantità complessiva delle (4) Questi cenni che ora pubblico furono presentati alla società toscana di scienze naturali nel dicembre del 1877. Dopo d’allora la polla scoppiata nell'agosto del 1877 fu artificialmente riempita e coperta; non pochi mesi di poi, nella primavera de! 1878, è comparsa quasi nello stesso posto abbondante, calda e salina quanto mai; seguendo il solito suo corso, nell’ autunno dello stesso anno era già riempita. LE ACQUE TERMALI DI PIEVE FOSCIANA 89 acque saline era tale che una pompa con tubo del diametro di 5 centimetri, lavorando continuamente, a mala pena poteva estrarle; presentemente quel tentativo di pozzo è ripieno di acqua superficiale poco salina. Non terminerò la descrizione delle sorgenti saline che si tro- vano intorno al Pradilama senza accennarne altre due che non si sa quando si formassero, e che dai vecchi sono sempre state vedute tali e quali. Una di queste, poco abbondante, e ridotta si può dire ad un fango, si trova in quel del Grilli, in un prato confinante colla strada comunale del Silico, a sinistra di questa, nemmeno cento passi innanzi al Pradilama; essa è fredda e discretamente salina. Un’ altra sorgente fredda ed altrettanto salina, un poco più abbondante, accompagnata da sviluppo di idrogeno solforato, si raccoglie in una piccola pozza, nel luogo detto le Edere, nel podere del Bona, qualche centinaio di metri ad 0. della casa colonica. Riepilogando quello che ho detto, esistono al dì d'oggi nei dintorni di Pradilama per lo meno 10 polle di acqua più o meno salina e più o meno abbondante, e sono le seguenti: La polla della Casetta in quella del Torriani, che non si sa quando si formasse, già esistente nel 1765, ricca d'idrogeno sol- forato e di sali, ridotta ad un ampio fango la cui acqua lenta- mente sgorgante si perde nel prato sottostante. Polla del Pievano scoppiata nel 1827, l’unica in cui sia oggi qualche gemito d’acqua termale a 21 grado Réaumur, ridotta pur essa a fango od acquitrino la cui acqua discretamente sa- lina sì perde nel prato. Polla del Lorenzetti scoppiata forse pure nel 1827, ridotta a fango salino di minore estensione degli altri. Polla del Bagno in quel del Bona, d'uso comunale, esisten- te già prima del 1608, formante un laghetto largo circa 5 me- tri che tutti gli anni viene ripulito per cura del comune. Vi campano anguille, rospi, rane, larve d’ insetti, parecchi coleot- teri, e la Bythinia Aponensis, unico mollusco che vi stia, della stessa specie di quello che abita le Terme di Abano e che senza dubbio vi cominciò ad abitare quando l’acqua era termale. L'acqua non è delle più saline, ma è abbastanza limpida e più abbondante delle altre sorgenti perchè ne esce un litro ogni 90 C. DE STEFANI 1] minuti secondi; viene condotta nel fosso del Bagno per mezzo della Fossa grande. Polla nuova sgorgata nella Primavera del 1878 nella strada comunale, e che ha formato un laghetto donde l’acqua esce ora in discreta quantità ma non molto salina e quasi fredda alla superficie. Polla poco salina e stagnante, formata in quel del Giannotti nel 1861 nel posto del terzo scoppio. Polla del Giannotti assai limpida, ma meno salina di quella del Bagno, formata il 13 o 14 Giugno del 1861 nel posto del secondo scoppio, che sgorga in un cisternino coperto e viene condotta fuori da un fossetto che poi rasenta la strada comunale. Polla della Fontana in quel del Bona sgorgata nel 1843, che esce limpida e discretamente abbondante, ma poco salata, sotto un campo ed è menata fuori da un condotto. Polla del Casino in quel del Bona, scoppiata nel 1843, che è parimente delle più saline, ma poco abbondante e torba quanto mai. Polla delle Edere, limpida, ed alquanto salina. Tralascio d’indicare una polletta accanto alla Fontana, due o tre accanto alla polla del Giannotti, e due accanto alla Polla del Bagno, perchè sono quasi d’acqua dolce sebbene non pota- bile. Del resto si può dire che tutte le acque le quali sgor- gano in Pradilama e nelle adiacenze immediate sieno un poco saline. Di quelle polle che ho espressamente accennate, le tre prime sono a destra del Fosso del Pentolaio, le altre nove sono a sinistra; le prime cinque poi sono a destra della strada co- munale andando dalla Pieve al Sillico, le altre sette sono a sinistra in uno spazio relativamente più limitato, e a distanze assai minori l’una dall'altra. Ho indicate nell’abbozzo qui di fianco le sorgenti principali segnando presso alle medesime la data dell’anno nel quale sono sgorgate. L’abbozzo è nella proporzione di E Il signor Carlo Giovannetti recentemente ha rilevato un piano più esatto del Pradilama e delle sorgenti, che avrei riprodotto se già non fosse stata eseguita l’annessa pianta. N Fosso À n del Lenlola ie © 18761) Antico GE % S La 3. A > Nago lleg” È i ER _ 1461(8) il I 7 ; qabagno MOT I IRR: vvanil Pisa 92 C. DB STEFANI Fino dal 1609 il Dott. Lavelli magnificava queste acque della Pieve, ritenendole giovevolissime come quelle di Monte Catini in Val di Nievole, in molte malattie, sia per uso interno che per uso di Bagno. Egli diceva , Quantitas sumenda sunt > decem ant duodecim librae singulo mane, plus aut minus se- » cundum ventriculi capacitatem; et eo modo et ordine sumitur » quo acqua Tettucciorum sumi consuevit ,. Anche il Vallisnieri ed il Prof. Franceschi, per non parlare di molti egregi medici tuttora viventi, hanno riconosciuta la grande efficacia di quelle acque: ed una volta esse devono avere avuto assai più credito che non ora, se vi ha taluno che si rammenta di aver veduto a Parigi, nel 1830, sulle vetrine di una farmacia, annunziata fra le altre medicine l’acqua termale di Pieve Fosciana, e se tuttora a Modena in qualche farmacia vendono falsata dell’acqua che chiamano acqua di Pieve Fosciana. Oggidì quando l’acqua esce fuori termale, se dura qualche tempo, accorrono frequente- mente a bagnarvisi quelli che sono affetti da malattie della pelle o da reumatismi; ne’ tempi ordinarii, quando l’ acqua salina è fredda, se ne servono quelli che hanno ostruzioni de’ visceri o degli intestini, prendendone varii bicchieri per mattina, Per quanto finora non sia stata fatta una precisa analisi quantitativa di queste acque, si pare nondimeno ch’ esse abbiano natura consimile a quella delle acque termo-minerali di Monte Catini, ed anche alle acque termali, però molto meno saline, di Torrite in Garfagnana lungi quasi 5 chilometri in linea retta dalla Pieve, delle quali fece un’analisi il Campani di Pisa. La natura simile di tutte queste acque termali può mostrare che unica è l'origine e la cagione della salsedine loro, acquistata certamente, come è naturale, nel traversare varii strati interni di rocce. Brevemente mi fermerò ad esaminare cotale questione, essendochè in generale poco studio si faccia intorno alle sorgenti minerali che sono pure il mezzo per cui si formarono tanti fi- loni metalliferi, e che, ad eccezione dei vulcani, sono l’unico mezzo dato per far comunicare in qualche modo le regioni più interne della terra con la superficie della medesima. È ben noto che per quanto penetrino a piccola od a grande profondità, le acque d’ogni specie scendono nell’ interno della terra dalla superficie, e rimontano poi formando un sifone, e sgorgando sempre ad un livello inferiore a quello per cui sono penetrate. LE ACQUE TERMALI DI PIEVE FOSCIANA 93 Le acque cadute dall’ atmosfera, perciò, in origine quasi per- fettamente dolci, tolgono alle rocce che traversano le particelle solubili, e portandole seco ricompariscono all'aperto più o meno ricche di sali. Le acque termo-minerali della Pieve, come ho detto nelle descrizioni fatte a principio, sono più volte sgorgate mandando dei getti forti di una certa altezza sopra la superficie del suolo, lo che dimostra ch’esse derivano da punti molto più alti, e per conseguenza non prossimi, la qual cosa non sarà molto difficile a comprendersi quando si pensi che il Pradilama giace quasi in fondo alla valle del Sauro, a meno di 500 metri di altezza, mentre da ogni lato stanno le cime dell’Appennino e delle Alpi Apuane che giungono a 1500 e 2000 metri. Più dif- ficile è il ricercare da quali strati esse traggano i sali di cui son ricche durante il loro tragitto, la cui lunghezza, oltre che dalla forza con cui sgorgano, può essere provata dal fatto del- l’essere termali. Ho detto ch’esse sgorgano in mezzo a terreni pliocenici la- custri posati sopra arenarie dell’eocene medio: ma non è certo superficialmente dai terreni pliocenici alti non più, forse, di 40 o 90 metri, ch’esse tolgono il cloruro di sodio ed altri sali; poichè i pozzi del piano della Pieve che traversano un buon tratto di quelli stessi terreni recano acque pure e buone a bere, fornite tutte al più di piccolissime quantità di solfato di calce e di carbonato di soda. Nemmeno le arenarie eoceniche, per solito sì prive di sali e conduttrici delle migliori acque dell’ Appen- nino, potrebbero fornire quegli elementi; conviene perciò ricer- care la loro origine in terreni ancor più profondi. Le arenarie stanno, all'Isola lungo il torrente Sauro, sulla sinistra del Serchio sotto le Tre terre, e nell’ Alpe di Corfino, sopra ad una piccola zona di argille scagliose appartenenti alla creta media che poi alla loro velta ricoprono con stratificazione discordante delle rocce liassiche od anche più antiche. Però nelle Alpi Apuane e nell’Apen- nino Toscano adiacente nessuna roccia, cominciando dalle più an- tiche fino a quelle dell’eocene, è apparentemente ricca di cloruro di sodio e di sali alcalini sì che le acque le quali le traversano possano impadronirsene. È vero bensì che, siccome lo dimostrano i recenti studii, non v’ ha roccia nei meati della quale non esi- stano acque contenenti delle particelle alcaline, che trascinate ed accumulate da altre acque filtranti, dopo un lungo percorso, 94 C. DE STEFANI possano formare un discreto insieme salino; ma se ci venga fatto di esaminare le diverse circostanze nelle quali sgorgano le acque termali, non solo della Pieve ma anche degli altri luoghi che ho mentovati a principio, potremo pensare con qual- che fondamento che il punto di partenza più interno di tutte quelle acque sia più profondo, e tocchi a rocce più antiche an- cora di quelle che per le prime si palesano alla superfice, e forse più antiche per esempio delle rocce carbonitere le quali appariscono nel Monte di Jano nella provincia di Firenze e nelle valli del Frigido e della Versilia nelle Alpi Apuane. Infatti, le acque dei Bagni di Lucca sgorgano è vero da terreni eocenici; ma quelle di Monte Catini, aventi la stessa natura di quelle della Pieve, escono da terreni del Lias superiore, e quelle termali di Monsummano anche dal Lias medio. Le acque termali di Tor- rite escono da schisti intercalati a calcari del Lias inferiore, e parimenti da rocce antiche escono le acque termali, per quel che pare ugualmente saline, di Equi pure nelle Alpi Apuane. Sembrerebbe adunque che le origini dei sali alcalini di tutte queste acque, per conseguenza anche di quelle dei Bagni di Lucca e della Pieve che sgorgano da terreni più recenti, sieno da riporsi in rocce più antiche assai di quelle del Lias inferiore. Che quei terreni ricchi di sali sieno a profondità non piccola lo prova pure l'alta temperatura delle sorgenti, che a Monte Catini è di 31 centigradi, ai Bagni di Lucca di 43 gradi Réaumur ed alla Pieve fu talora di 43, 75 pur del termometro Réaumur. Tenendo la regola, per verità molto incerta quando la si applichi a casi particolari, che la temperatura aumenta sotterra di un grado centigrado ad ogni 33 metri, per trovare un posto dove l’acqua potesse diventar termale a 43,75 gradi Réaumur, bisognerebbe scendere almeno a 1749 metri sotto il suolo; ma, ripeto, quella regola rappresentando una semplice media, è incerta in tutti 1 casi; e poi conviene ammettere che l’acqua filtrando attraverso a strati sempre meno caldi deve perdere alquanto del suo calore ed apparire meno calda di quello che fu al principio. Tornando alle acque della Pieve e parlando esclusivamente dei fenomeni ch’esse presentano, per isradicare un pregiudizio che si ha intorno alle medesime, dovremo riconoscere anzitutto la stabilità e la continuità del loro corso. Infatti vediamo la Polla del Bagno essere sempre esistita dove ora è per lo meno LE ACQUE TERMALI DI PIEVE FOSCIANA 95 dal secolo XVI in poi, e le altre polle della Casetta, del Pievano, del Lorenzetti, del Giannotti, della Fontana, e del Casino, aver sempre continuato rispettivamente dagli anni 1763, 1827, 1843, e 1861, e se queste sono diminuite ed altre sono del tutto cessate, ciò si deve molte volte alla mancanza di criteri ed alla non cu- ranza, anzi alla stessa volontà contraria degli uomini. Vero è che taluni degli sgorghi via via formati si esaurirono poi; che, specialmente negli ultimi trent’ anni si sono formate d’improv- viso delle sorgenti in luoghi dove prima non ne esistevano; e che queste sorgenti nuove, come pure le antiche, e più di tutte quella del Bagno, sono andate perdendo via via in abbondanza, in sa- linità ed in temperatura: ma tutti questi fenomeni diversi vanno attribuiti non alla sorgente stessa, ma alla natura del terreno ch’essa incontra presso al suo sbocco sul suolo. L'acqua vuole uscire in un luogo o nell’ altro, e la successione de’ suoi scoppii lo dimostra; ma appena uscita dai terreni eocenici compatti, prima di sgorgare, deve traversare per lo meno da 30 a 90 me- tri di terreno pliocenico argilloso o sabbioso, che quanto facil- mente è movibile, altrettanto facilmente la ostruisce e ne arresta o ne rallenta il passo, costringendola a perdersi od a formarsi un nuovo sgorgo in altro luogo. Quando sì potesse tener pulita l'apertura della sorgente questa si manterrebbe facilmente più a lungo, ed i fatti mostrano ch’essa si è conservata meglio dove per una cagione o per un’ altra è stata serrata in un recinto, 0 coperta, e dove le si è fatto uno scavo intorno. Quando invece, come-fu fatto pella sorgente del Pievano, vi sono state dirette le torbe di un torrente per empirla, quella è stata costretta a farsi strada altrove: coperta quasi del tutto nel 1842, l’anno di | poi ricomparve nel prato comunale; coperta poi quivi da giunchi e da vegetali marci, ricomparve altrove nel 1861, e d'allora in poi non ha quasi più avuto posa. La sorgente comparsa nella primavera dello scorso anno co- perta oggi da parecchi metri di sedimento argilloso, non tar- derà a comparire altrove. L'acqua che esce continuamente quà e lù e che porta fuori ghiaiette e pezzi di lignite negli scoppili straordinari e tenuissima argilla quasi ogni giorno, col tempo forma dei vuoti estesi nel sottosuolo pliocenico; onde ne deri- vano le fenditure del terreno, che non giungono però ai solidi colli eocenici circostanti, sebbene talora, come nel 1827, si esten- 96 C. DE STEFANI dano per molto tratto all’intorno; e ne derivano gli spacchi alle case, e l’affondarsi continuo del prato, e il formarsi delle pozze, e l’impaludamento delle acque che nulla vale ad impedire, dap- poichè se le torbe dei piccoli torrentelli del Pentolaio e della Cappannaccia possono servire per un dato termine di tempo a riempire l’acquitrino, non giovano però a toglierne la cagione che dura e durerà sempre finchè durerà la sorgente delle acque termali mal regolata. Messa in chiaro la natura di questa sorgente, apparisce non essere difticile allacciare almeno qualche braccio di essa, e condurla ad uscire, a volontà, nel luogo che sembri più conve- niente, ben inteso entro lo spazio nel quale l’acqua è solita scoppiare. Per ciò fare occorrerebbe mediante una trivella arte- siana fare un foro profondo 40 a 90 metri, attraverso a tutti i terreni pliocenici, fino a trovare la solida arenaria eocenica. La riuscita sarebbe anche più certa scegliendo alcuno dei luoghi nei quali l’acqua esce da più antico tempo, e di preferenza nel livello inferiore di Pradilama nel quale hanno tendenza a sgor- gare le acque, giacchè, come si è veduto, sebbene spesso scop- pino nell’ alto, il più delle volte finiscono col scegliere una via giù in basso. Potrebbe farsi così, con circostanze che mi paiono più facili assai, quel che si fece non molti anni sono in una sor- gente termale in Ungheria, la quale era scomparsa, e fu ricer- cata e trovata mediante la trivellazione. Col regolare così la sorgente si avrebbero parecchi vantaggi importanti. Uno sarebbe di assicurarne l'uscita perenne, e di averla in maggior quantità, calda, e salina quale esce dal terreno eocenico, giacchè in questo modo non si perderebbe, ed evitan- done la dispersione come sollecitandone lo sgorgo, non dimi- ‘ nuirebbe la temperatura; uscirebbe eziandio più limpida perchè non insudiciata di argilla pliocenica. Si avrebbe poi l’altro van- taggio non piccolo di rendere più stabile e più salubre il terreno e le abitazioni intorno, e di impedire il possibile impaludarsi delle acque che qualche volta fù sì malefico. Le torbe de’ tor- rentelli riempirebbero il Pradilama, e 1’ applicazione del dre- naggio potrebbe asciugarlo e bonificarlo ancora di più. L'utilità delle acque termali, e la situazione magnifica dei dintorni, ora più accessibili di una volta a cagione delle bel- lissime strade che di recente vi hanno fatto, meriterebbero che C. DE STEFANI — LE ACQUE TERMALI DI PIEVE FOSCIANA 97 alcuni se ne occupasse, e che intorno alle medesime si facesse qualche lavoro, come da lungo tempo ne hanno espresso desi- derio benchè invano anco il Dott. Raffaello Raffaelli consigliere provinciale della Garfagnana, ed il sig. Sebastiano Lorenzetti benemerito Sindaco della Pieve ('). (') Dietro istanza del Comune della Pieve la sorgente fù nello scorso anno visitata dall’Ingegnere della Provincia; il Comune poi fece istanza al Ministero del- l'Agricoltura e Commercio perchè fosse inviato sul luogo un ingegnere del R. Corpo delle miniere. — Il Ministero al quale privatamente io ne feci richiesta, ha gen- tilmente promesso d’inviare una trivella per fare de’ pozzi, qualora ne sia fatta domanda dal Comune. Nell’ anno 1877 e nel 1878 le acque furono visitate dall’ Imgegnere provinciale e da un Ingegnere governativo delle miniere, e furono fatti alcuni rapporti in pro- posito. Fù manifestata l’opinione da essi che le acque suddette derivino late- ralmente da poca distanza verso il Mezzogiorno, sicchè, facendo un taglio superfi- ciale profondo pochi metri in quella direzione, le acque sarebbero intercettate; altri crede che essendo queste superficiali possano diventare termali per l'alterazione di piriti di ferro esistenti nei terreni pliocenici circostanti. Che non sieno superficiali e che il calore e la salinità derivino da tutt’ altra cagione che da quella ora ac- cennata o da altre simili, si palesa troppo chiaramente dal grado della tempera- tura, dalla quantità loro, dal loro pullulare in qualunque stagione e secca e pio- vosa, dalla loro ricchezza in clornro di sodio ed in altri sali i quali non hanno che fare coi solfuri di ferro, dall'antichità loro e dalla costanza de’ caratteri dopo tanti secoli, oltre chè dalla mancanza assoluta di massi di pirite nel terreno circostante profondo del resto non molti metri, e dalla mancanza di tutti quei fenomeni che si dovrebbero inevitabilmente manifestare se cagioni superficiali producessero sia per caso sia periodicamente quelle sorgenti -termo-minerali. Da quel che ho detto è facile dedurre che una fossa trasversale superficiale non servirebbe ad altro che a gettare denari. Gioverebbe invece fare dei fori artesiani profondi. Se. Nat. Vol, IV, fasc. 1.0 SOPRA ALCUNE SALE AIMMONICE NETTI (CITRATO, FOSFATO, FOTOSANTONATO ) NOTA DI FAUSTO SESTINI Studiando nel 1870 alcuni derivati dell'acido propionico (') ebbi occasione di preparare il propionato neutro di ammoniaca che non trovavasi ancora descritto, e non mi fu possibile otte- nerlo cristallizzato, che esponendo la soluzione di questo sale, resa alcalima con ammoniaca libera, ad evaporare sotto una campana in vicinanza di molta calce viva e di un miscuglio di potassa caustica in lastre e di cloruro ammonico. Fin d’ allora credei che operando nello stesso modo si sarebbe potuto ottenere allo stato solido la maggior parte dei sali neutri di ammoniaca, e forse tutti, i quali non si conoscono ancora che in solùzione: e mi confermai in tale pensiero, quando nel 1874 il sig. Berthelot (?) pel primo ottenne ben cristallizzato l’acetato ammonico neutro fino allora non isolato, evaporando a bagno maria la soluzione di questo sale in una corrente di gaz ammoniacale secco. Ora, approfittando dell’ espediente semplicissimo da me posto in opra per avere il propionato neutro di ammoniaca ho potuto ottenere allo stato solido il citrato triammonico, che non era stato, che io mì sappia, da alcuno preparato, non che il fotosan- tonato biammonico ed il fosfato triammonico. (4) Nuovo Cimento — Pisa — Ser. 2.° Tomo IV 1876, pag. 21. (*) Bulletin de la Société Chimique de Paris. N. S. Tom. XXXI pg. 440. SOPRA ALCUNI SALI AMMONICI NEUTRI 99 Citrato triammonico. Una certa quantità di acido citrico fu disciolta in un eccesso di soluzione concentrata di ammoniaca, e la soluzione venne riposta sotto una grande campana chiusa con lastra idrargirica in presenza di molta calce viva. Passati 8 giorni, sulle pareti della cassola di vetro, contenente la soluzione citrica, comincia- rono a formarsi dei piccoli cristallini prismatici, che a poco a poco andarono aumentando di numero e di grandezza. In 16 giorni la maggior parte del sale aveva cristallizzato: allora si separò l’acqua madre, si compressero i cristalli tra carta asciugante, e poi si racchiusero in vaso adattato. Il Prof. Antonio D’ Achiardi della R. Università di Pisa, che sì compiacque esaminare i cristalli ot- tenuti, potè determinare il sistema che è clinoedrico certamente, e con ogni veri- simiglianza monoclino; ma non avendo potuto fare misure goniometriche a causa della deliquescenza rapidissima del sale, gli fu impossibile ogni ulteriore determi- nazione. I cristalli sono assai somiglianti nell’ abito loro a quelli del gesso; pre- sentano molto sviluppate le facce 010, poco e quasi lineari le 100, assai estese quelle di un prisma obliquo (m n p) e di un prisma verticale, che può ritenersi 110, molto meno quelle di altro prisma pur verticale (m n 0). Presentano in oltre due faccettine presso a due angoli opposti del cristallo, che ci possono rappresentare le basi. I cristalli del citrato triammonico sono deliquescenti ed hanno odore ammoniacale; lasciati a contatto dell’ aria si scom- pongono per spontanea dissociazione: esposti a calore di stufa perdono rapidamente acqua ed ammoniaca, e si trasformano in citrato diammonico. Per determinare l’acqua di cristallizzazione si è dovuto sta- bilire prima quanto il sale perdeva alla stufa tra 105 e 1100 Ci; valutare poi la quantità totale di ammonica nel sale cristallizzato, 100 F. SESTINI detrarre da questa la porzione rimasta nel sale disseccato alla temperatura ora indicata; e per tal modo conosciuta la quantità di ammoniaca svoltasi pel calore, è stato per differenza trovato quanto figurava l'acqua nella perdita avuta verso 110° C. La determinazione dell’ ammoniaca si è effettuata seguendo il metodo di Schlòsing, adoperando soluzione normale di acido solforico (= '!, H? SO* per 1000 c.c.) e soluzione titolata di soda caustica, ogni c.c. della quale corrispondeva a 0,50171 di N H?. a) Determinazione complessiva dell'acqua di cristallizzazione e dell’ammoniaca volatile tra 1050 e 1100 C. 0,520 di sale cristallizzato perdè 0,072, che ragguaglia alo S80AUA b) Determinazione dell’ammoniaca totale: Esp. 1.* 0, 432 di sale critallizzato, svolse entro l’appa- rato di Schlòsing, tanto gas ammoniaco da saturare una quantità di acido solforico cor- rispondente a 5,10 di soluzione sodica: D,1 X0,50171= 0,5 08721 di N Hs cioè a dire svolse 20, 18%, di N B? » 2. 0,580 di sale cristalizzato svolse gaz ammonico equivalente a 6,°° 5 di soluzione sodica: COLONNA cioè 19, 15 0, di NH* 13 20, 18 1 3 0 2° 19, 15 media 19, 67 N H?° totale %, c) Determinazione dell’ ammoniaca fissa a 110» C. Esp. 1.8 0, 448 di sale seccato a 110° C. saturò nell’ ap- parato di Schlòsing tanto acido solforico cor- rispondente a 4, 1 di soluzione sodica: LIONE: cioè 15, 65 N H? 0, © —‘SOPRA ALCUNI SALI NMMONICI NEUTRI 101 | Esp, 2.° 0, 668 di sale seccato a 110° C. saturò acido equi- valente a 6,° 25 di soluzione sodica: 6,25 X 0,8-0171 = 0, 10675 di N H*; cioè 15,99 N H*%. 1° 19,65} nedia 15,82 NH* in" di sale seccato a 110°C ga 15,59 È OI D'lo ale seccato a Jo Quindi in 86, 15 di sale secco (ottenuto da 100* di sale idrato, e perciò in 100 *" di sale idrato) si trova N H? fissa 13, 63. Riepilogando si ha: In 100* di sale cristallizzato ammoniaca totale . . . .. 19,8” 67 Bi A fissa a 110° C. 13, 61 Quindi: ammoniaca volatile (per differenza) 6, 04 Perdita totale alla stufa tra 105 e 110° C. 13, 85 Ammoniaca volatile a 5 6, 04 O UTC ta IRE Quantità calcolate secondo la formola Quantità trovate C°H8 0° (NH?) + H° 0 Acqua di cristallizzazione 6,90%... 7,81 Ammoniaca, totale; 19, b4 0 19, 607 Il sale cristallizzato ottenuto, adunque, era veramente ci- trato triammonico e conteneva una molecola di acqua di cri- stallizzazione. Fosfato triammonico. Questo sale si forma aggiungendo ammoniaca in eccesso ad una soluzione concentrata di fosfato ordinario ammonico, e si depone in forma di massa bianca cristallina, che esposta all'aria perde ammoniaca. Manca ai trattati, per quanto io sappia, l’analisi quantitativa di questo sale; avvi anzi chi dubita per- fino che possa veramente esistere. Per la qual cosa io mi son dato cura di prepararlo nel modo stesso del citrato trammo- nico sopra descritto; e l’ ho, difatti, ottenuto, ma non sono riuscito ad avere cristalli di forme tali da potersi sottoporre a misure goniometriche. Il sale aveva odore assai forte di ammo- niaca: per sottoporlo all'analisi, appena tolto dall’acqua madre, 102 F. SESTINI esso venne fortemente compresso tra carta bibula e sotto pesanti mattoni. L'analisi fu condotta presso a poco come pel sale pre- cedentemente descritto; soltanto ho da notare che venne adope- rato l'apparecchio di Boussingault, col quale potendosi appli- care il calore la determinazione riesce molto più sollecita che con quello di Schlòsing; ed aggiungo che 1° della soluzione so- dica corrispondeva a 0,5017 di NH?. a) Determinazione complessiva dell’acqua e dell’am- moniaca volatile a 1100 C. 0 lo Esp. 1.* sale adoperato 0. 539 perdè 0, 2607... 49, 54 ga ;; 0 STE 0, EEA 82 Media 49, 18 I eterminazione 7 niac ale. b) Deter 2 dell’ammoniaca total. Soluzione alcalina corrispon- dente all’acido saturato. NH? ——NH?0%% Esp. 1.* sale adoperato 0, 778 95582 0, 1564 20,10 PRIZE È I, 026 13,05 0, 2295 22, 37 Media 21 24 c) Determinazione dell’ammoniaca fissa a 110° C. Esp. 1.° sale seccato a 110° C. 0, 173: soluzione alcalina corrispondente all’ acido saturato 1,°° 6 = N H?, = 0, 0272, che ragguaglia a 15, 72 %,- Indi in 50, 82 di sale seccato a 110° C. (ottenuto da 100 * di sale idrato) si conteneva N H° fissa 7, 99. Riepilogando si ha: In 100” di sale cristallizzato ammoniaca totale 21, 24 ” DI D) ” fissa 1, 99 Indi: ammoniaca volatile. ....... 13, 25 Perdita totale a 110°. 49.718 Ammoniaca volatile. ... 13, 25 Quindi: acqua .... 35, 93 SOPRA ALCUNI SALI AMMONICI NEUTRI 103 Quantità calcolate secondo la formola Quantità trovate PH?04(NH?)? + 5.H°0 Acqua di cristallizzazione 37, 66 .... 86, 93 Ammoniaca totale RM 21026 Il sale cristallizzato da me ottenuto era realmente fosfato triammonico, e conteneva 5 mol. di acqua di cristallizzazione. Fotosantonato hbiammonico. Allorquando, pochi anni or sono, studiai l'acido fotosanto- nico () non putei occuparmi punto dei suoi sali ammonici: la difficoltà incontrata nella preparazione dei fotosantonati alcalini cristallizzati mi distolse dal preparare i corrispondenti sali di ammoniaca. Era, quindi, ben naturale che io profittassi dell’espe- diente felicemente messo in opra per il citrato ed il fosfato triam- monico per ottenere il fotosantonato neutro di ammoniaca. Trattando con una soluzione molto concentrata di ammo- niaca l'acido fotosantonico cristallizzato, si forma una combina- zione bianca, che deposita al fondo del liquido, e che si scioglie poi adoperando molto liquido alcalino. Esponendo tale soluzione nell'atmosfera secca e satura di gaz ammonico della campana di sopra descritta, si formarono dopo alcuni giorni croste cristalline, che tolte e ben compresse tra carta manifestavano odore ammo- niacale. Raccoltene in quantità conveniente furono asciutte con cura tra carta e mattoni, e poi sottoposte all'analisi quantitativa. Anche per la determinazione dell’ammonica nel fotosanto- nato ha servito l'apparecchio di Boussingault; ma per titolare l’acido saturato dall’ammoniaca svolta con la magnesia si è adoperata una soluzione sodica che corrispondeva a 0, 0171 di N H? per ogni c. c. a) Determinazione complessiva dell’ acqua e dell’ am- moniaca volatile a 100° C. Sale adoperato 0, 159; perdè alla stufa 0," 500, che rag- guaglia a 31, 447%. (i) Sull’ Acido Fotosantonico, di Fausto \Sestimi: Gazzetta Chimica Italiana 1876. Tom. VI. 104 F., SESTINI — SOPRA ALCUNI SALI AMMONICI NEUTRÌ b) Determinazione dell’ammoniaca totale. Sale adoperato 0, 270: soluzione sodica corrispondente all’acido saturato 1,° 25:NH* svoltasi (1, 25 X 0, 0171) = 0,5 021375, cioè 7,917 %. c) Determinazione dell’ ammoniaca fissa a 100° C. Sale seccato (a 100° 0.) 0,109: soluzione sodica cor- rispondente all’ acido saturato 0,55: NH® svoltasi 0, 009405; cioè 8, 628%: ma in 68,553 di sale seccato ottenuto a 100° C. da 100 gr. di sale idrato, (e quindi in 100* dello stesso sale idrato) l’ammoniaca fissa ‘era 5, 915. ; Riepilogando si ha: In 100” di sale idrato ammoniaca totale 7,917 . ” 2) 5 fissa 5,915 Quindi: ammoniaca volatile a 100 cent. 2, 002 Perdita totale a:100 cent. 31, 447 Ammoniaca volatile . .. 2, 002 Quindi: acqua di cristallizzazione 29, 445 Quantità calcolate secondo la formula Quantità trovate 045 H®° H4 (NH5)? DE 7H?20 ese e n______sa—0 cossa TT ss TT _ Acqua di cristallizzazione 29, 724% 29,45% Ammoniaca . . . . totale 8,02 TS Il sale ottenuto era fotosantonato hiammonico o neutro con 7 molecole di H?0. Dai resultamenti conseguiti parmi poter prevedere che l’ espe- diente con assai buon successo da me usato per ottenere alcuni sali neutri di ammoniaca di difficile preparazione, (che consiste nel fare evaporare in atmosfera racchiusa e satura di gaz am- monico le soluzioni concentrate dei sali ammonici in presenza di molta calce viva) sebbene un po’ lungo, potrà essere gene- ralmente messo in opra con pari fortuna per tutti i sali am- monici neutri. RESTI FOSSILI DELLA SELACHE TROVATI A _RICAVA PRESSO SANTA LUCE NELLE COLLINE PISANE NOTA letta dal Socio ROBERTO LAWLEY nell’ adunanza del dì 5 maggio 1878 Curver fece il suo genere Selache per uno squallide di corpo immenso, a denti piccolissimi, conici, non seghettati, e per un’ uni- ca specie, cioè per il Selache maxima Gunner, oggi accettata dagli autori; ma fin ad ora ben poco conosciuta. La storia di questo genere non fu mai così ben discussa e tracciata come dal Prof. Pavesi nella sua memoria “ Contribu- zione alla Storia Naturale del genere Selache , inserita negli annali del Museo Civico di Genova diretti e pubblicati a cura del Marchese Giacomo Doria, opera di Storia Naturale a nessuna seconda. Questa memoria offrirà ampie cognizioni a chi ne desi- derasse: in essa il distinto Prof. mette in luce quanto è stato fatto negli studi sopra ad esso genere e propone una seconda specie Selache rostrata Macri, per la quale specie ben presto ci fornirà nuove e più precise cognizioni, avendo il Museo di Genova avuto la fortuna di trovarne un secondo individuo ('). Il primo . individuo di essa specie, che fu preso nell’ aprile 1871 a Lerici presso la Spezia, misurava m.' 2, 95 e pesava K.' 70; ed il secondo a Vado presso Savona di lunghezza m.' 3,25 era di peso oltre K. 160. Per ora però non saprei dire se questa sia la massima (4) Di una Setache presa recentemente nel Mediterraneo Ligure, cenno del S. C. Prof. Pietro Pavesi, letto nell’ adunanza del 21 Giugno 1877 del R. Istituto Lom- bardo di Scienze e Lettere. 106 R. LAWLEY grandezza alla quale questa specie possa giungere, o se le di- mensioni maggiori o minori debbano riferirsi a differenze di età. La Selache maxima Gunn. però secondo gli autori può giun- gere alla lunghezza di M. 12 a 18, e certo se volessimo desumere la sua grandezza dalla sua dentizione ben vi sarebbe da ingan- narsi, perchè molte delle specie degli Squalidi viventi portano denti molto più grossi e lunghi quantunque siano di corporatura molto più piccola. Il maggior merito del Professor Pavesi fu quello di precisare il posto, la disposizione, la forma, e la composizione dei fanoni branchiali dando egli disegni nelle tavole illustrative della sua memoria che possono con gran vantaggio consultarsi. Questi organi singolari, costituiti da setole disposte come se fossero sottili denti di un pettine, compressi, falcati alla loro base, di apparenza cornea, e molto simili per la loro natura ai fanoni di Balena, sono destinati, chiaramente si vede, a trattenere le piccole sostanze che entrano per la bocca, e denotano eviden- temente che questo colossale squalide preferisce di nutrirsi di piccoli animalucci, stacciandoli col fare passare la sola acqua attraverso a questo fitto e singolare apparato, che rende così caratteristico e distinto il genere Selache dagli altri squalidi. Furono trovati questi resti allo stato fossile da molto tempo, e per la loro configurazione destarono sempre molta curiosità. I primi che furono trovati in Italia provengono dai terreni terziari superiori dell’ Astigiano, e ora si trovano nelle collezioni paleontologiche del Museo di Torino. Furono pure trovati nei terreni del Belgio cioè nel crag d’Anversa, prova evidente che di quelli squalidi esisteva un qualche tipo al tempo delle formazioni terziarie, e che giunse, mantenendosi, fino a noi a rappresentarne il genere. Il Dott. Hannover studiò questi fanoni fossili esistenti nei musei di Cristiania, Kiel e Copennaghen col mezzo di prepa- razioni microscopiche, concludendo la struttura di questi resti essere la stessa delle placche dermiche della £azabatis; (') le” quali aventi la forma quasi di denti, potevano esser disposte sopra ad una di queste specie estinte. Fu allora che il sig. Prof. (') Hannover — Sur la structure et le developpemani des écailles, et des èpines chez les poissons cartilagineue (Bull. de la Soc. Roy. Dan. des sciences. 1867). RESTI FOSSILI DELLA SELACHE 107 Van-Beneden (') in onore del Dott. Hannover creò il genere Han- noveria, di cui la specie Han. aurata fa da me pure citata e fi- gurata fra i fossili delle colline toscane (*), e posi quella specie fra le Raiadi; oggi però, essendo oramai ben stabilita la sua vera natura dovrà essere riferita al genere Selache, cioè fra gli Squalidi. Che il Selache maxima Gunn. fosse fino ad ora ben poco cono- sciuto, quantunque molti autori ne abbiano parlato, sia ciò avvenuto per la scarsezza degli esemplari che esistono nei mu- sei, sia perchè per la sua rarità ben pochi si trovarono in condi- zioni favorevoli per bene studiarlo, vien pur dimostrato ancora dal seguente fatto. Fu dal Prof. Giinther constatato che sugli organi appendiculari maschili del Selache, esistono sul bordo superiore e perciò interno, due sproni, cioè un corpo solido del quale la sola punta resta all’esterno ed è lucida, mentre il restante è infisso nella pelle quasi dente nella sua gengiva; mentre le appendici maschili stesse offrono tuttii caratteri propri degli altri Plagiostomi; i quali sproni possono essere destinati a ritenere la femmina nell’atto della loro unione. Fatti osservare questi resti al Prof. Van-Beneden ben presto riconobbe che queste parti solide esistevano pure fra i resti fossili del crag d’Anversa, i quali ancora essi avevano dato luogo a molte supposizioni, e nell'agosto 1876 all'Accademia Reale del Belgio egli lesse una sua comunicazione sopra di essì, dandone le relative figure. Era ben naturale che dove esistevano i fanoni si potessero trovare altre importanti spoglie, come quelle che oggi appunto qui vi presento. È questo l’unico esemplare che ho per ora tro- vato nelle nostre colline, e precisamente in quelle di Orciano insieme a dei fanoni; avverto però che è un poco danneggiato nella sua conservazione, ma sempre ben riconoscibile; ed in quanto poi alla sua grandezza egli non raggiunge quella delle specie di Bruxelles. Non è a mia notizia però, che fino ad ora sia stato da nessuno costatato e parlato di denti fossili della Selache. Io feci delineare (4) Van-Beneden — Recherches sur quelques poissons fossiles de Belgique. Acca- démie Royale de Belgique, Vol. 34, juin 1871. (£) Nuovi studi sopra ai pesci ed altri vertebrati fossili delle Colline Toscane. R. Lawley, Firenze 1876. — Pag. 44, tav.I, fig. 17. 108 R. LAWLEY nella mia tav. 1 fig. 11 i denti dei quali parlo a pag. 89 (!) e descrivo come resti di pesci fossili incerti, o da me non cono- sciuti, ma che però ritenevo meritevoli di essere illustrati. Di essi dicevo, questi denti offrono una certa analogia colla descri- zione e col disegno dato dall’Agassiz vol. 3 pag. 78, 245, 308 tav. F fig. 8.° 8. che figura appunto i denti della vivente Selache maxima Gunn. Dietro questo mio dubbio feci per lettera dimanda al sig. Prof. Issel del suo parere se questi denti potessero appartenere alla specie di Genova, ed egli gentilmente mi rispondeva nel 17 Febbraio 1877 la seguente lettera interessante. “ 1 denti rappresentati nella tav. 1 fig. 11, ec. della sua opera (Nuovi Studi ec.) non corrispondono perfettamente a quelli della SeLAcHE ROSTRATA conservata nel Museo di Genova, ma appertengono senza dubbio al medesimo genere. La differenza sta in ciò che net denti del pesce di Genova è più spiccata la forma a capocchia obliqua, per effetto di una strozzatura che nei disegni non apparisce. Questi hanno dimensioni almeno sei volte maggiori di quel che non sieno negli anzi detti esemplari. Quanto alla maggiore o minore obliquità di tali denti, è carattere di poco momento perchè varia secondo la posizione ,. Oggi però ho la certezza che essi appartengono a questo genere, avendo nella località di Ricava presso Santa Luce, nelle tenacissime argille che vi sì trovano, raccolti oltre ben duemila Fanoni branchiali, ai quali erano uniti oltre cinquanta denti uguali a quelli che qui sopra descrissi; così per il mio primo dubbio, poi per l'autorevole giudizio del Prof. Issel, e per avere trovati in copia i denti uniti ai fanoni, mi sembra che possiamo ritenerli come appartenenti al genere Selache, sia pure la specie differente da quella di Genova. Il sig. Prof. Paolo Gervais nel suo “ Journal de Zoologie ec. ,, Tomo V, pag. 319, tav. 13, 14, 15, dà pure notizie di una Se- lache marima, secondo cio che dice, di lunghezza M.' 3, 65 e del peso di K.' 250, la quale fu presa a Concarneau (Finester). Figura nelle sue tavole molte delle parti da lui studiate di questo pesce, fra le altre alla tav. 14 presenta le sezioni microscopiche di un dente della specie vivente, come pure altra di un fanone di (4) Nuovi studi ec. Lawley. RESTI FOSSILI DELLA SELACHE 109 Selache vivente, al quale mette a confronto alla fig. 4 una sezione microscopica pure traversale di quello fossile avuto dal crag d’Anversa. To pure volli preparare un dente ed un fanone del fossile trovato a Ricava che qui vedete; e fattone i dovuti confronti per il dente non trovo davvero nessuna differenza di entità con quelli della specie vivente e meritevole di essere notata; cosa che pure il Gervais annunzia per il fanone dicendo “ che la strut- tura del fossile è assolutamente la medesima di quella dei denti piliformi del vivente ,. Ora resterebbero a trovarsi le vertebre del fossile per con- frontarle con quelle della specie vivente, le quali, essendo molto caratteristiche, furono dal Gervais disegnate nella sua tav. 15, fig. 1 a 4, ma al loro facile reperimento si oppone la rarità della specie, che tale sembra fosse ancora nei tempi terziarii, alla quale difficoltà è da aggiungere la consistenza cartilaginea ri- conosciuta molto minore di quello che si riscontri negli altri squalidi. Resterebbero pure da confrontare i denti, ed i fanoni bran- chiali con quegli della specie vivente Selache (Squalus) maximus Lin., ma questa cosa mi resterà molto difficile, e non potrò forse giammai raggiungere lo scopo che, confesso, sarebbe per me una delle cose le più interessanti. Esaminiamo ora come debbansi chiamare queste tre parti di uno stesso pesce: il Prof. Van-Beneden ne ha distinto i fanoni branchiali col nome di Mamnoveria aurata; questo nome generico verrebbe a stabilire per il genere già adottato pei viventi di Selache un sinonimo pel fossile, ciò che sembrami un aggiunta noiosa ai tanti nomi che giù esistono; l’abolire il nome specifico già per essi accettato di aurata non sarebbe nè doveroso nè giusto. Così che credo ovviare a tutti gli inconvenienti, nomi- nando tutti e tre questi resti, ed altri che potessero sopragiun- gere pei fossili di questa specie. Selache (Zannoveria) aurata, Van. Ben. Ecco o signori ciò che mi sembrava interessante dire intorno a questo pesce raro vivente, presentandovi i suoi avanzi fossili 110 R. LAWLEY — RESTI FOSSILI DELLA SELACHE ancora piu rari, trovati nelle nostre colline pisane, avanzi dei quali qui stanno esposti. 1.° Un campione delle argille con fanoni al posto. 2.° Denti di diverse forme secondo la posizione. 3.° Fanoni di forme diverse provenienti dalla loro posizione. 4.° Preparazione microscopica di un dente. 5.0 id. microscopica di un fanone. Tutto proviene dalla località di ficava presso Santa Luce e tutte offro al nostro egregio Presidente, onde, se egli li creda meritevoli, possano questi resti fossili esporsi nel nostro Museo di Pisa per essere esaminati dagli studiosi quando a loro piaccia. C. I. FORSYTH MAJOR ALCUNE PAROLE SULLO SPHAERODUS CINCTUS (DI LAWLEY) DEL PLIOCENE VOLTERRANO NOTA presentata nella seduta del 10 marzo 1878 Le mascelle dal nostro socio Lawley scoperte nel pliocene del Volterrano e che egli descrisse e figurò col nome di Sphae- rodus cinctus ('), hanno dato luogo ad osservazioni di alcuni paleontologi francesi. Paolo Gervais riproduce nel suo giornale di Zoologia (*) la nota e le figure del Lawley, facendo seguire alcune sue osservazioni. Rammenta che il genere Sphaerodus fin dal 1852 non ha più ragione d’esistere, perchè allora fu dimo- strato dal Quenstedt come i denti del Giurese designati con que- sto nome dall’Agassiz, siano da riunire ai Lepidotus di Agassiz, che sono dei Ganoidei. Per ciò che riguarda i denti di Sphaerodus segnalati nei terreni terziari da Agassiz pel primo ed in seguito da altri osservatori, il Gervais dice di avere dimostrato fin dal 1859 che devono essere attribuiti a dei Chrysophrys, pesci acantopterigi della famiglia dei Sparoidei. — Dopo di aver confrontato le eccel- lenti figure date dal Lawley colle preparazioni del Museo di (4) Alcune osservazioni sul genere Sphoerodus, Agass. — Nota del socio Roberto Lawley, letta nell'adunanza del 9 maggio 1875 (Atti della Società Toscana di Scienze Nat. residente in Pisa. Vol. Il, 1876, pag. 60-63. Tav. lI.). (3) Observations sur une Machoire fossile provenant du genre Sphoerodus, trouvee en Toscane dans le Pliocene de Volterrano; par M. Robert Lawley (P. Gervais, Journal de Zoologie, tome IV, 1875, p. 511-515. — Additions au Memoire precedent; par M. Paul Gervais (p. 516-517). 112 C. I. FORSYTH MAJOR Parigi, il Gervais non può dubitare che anche il fossile di Vol- terra spetti ad una specie di Ckrysophrys, la quale anzi differisce pochissimo da una di quelle, delle quali Cuvier e Valenciennes hanno fatto figurare la mascella superiore nella istoire naturelle des Poissons (T. VI, PI. 63, fig. 10), e che proviene di Cayenne; questa forma è tuttora senza nome specifico. Uno dei caratteri distintivi del Chrysophrys della Guiana è quello di avere i grossi molari presso a poco uguali fra loro, giacchè nessuno di questi denti acquista, confrontato cogli altri, delle dimensioni così sproporzionatamente grandi come acquista il grosso molare del Chrysophrys auratus. La medesima dispo- sizione si ritrova esattamente nella specie del Volterrano. — Il Gervais conclude come segue: , È d’uopo riunire questa specie allo Sphaerodus cinctus di Agassiz, il quale anch'esso è un Chry- sophrys, oppure farne una specie distinta? È una questione assai difficile da risolvere, e credo che non sia fuor di luogo di darle, fino a più ampie informazioni, una denominazione specifica pro- pria ,. Propone quindi di chiamarla Chrysophrys Lawleyi. Delfortrie, d'accordo col Gervais nel sostenere che il fossile dal Lawley pubblicato non ha niente che fare coi Picnodonti, ma appartiene alla famiglia degli Sparoidei, è però d’ avviso che non sia un C4hrysophrys ma bensì un Pagrus. Ecco le sue ragioni: Il carattere dei Chrysophrys è di avere i molari tondi, più o meno appiattiti a lastrico (en pavé), in almeno tre serie, e fino a cinque serie; di avere in parecchie specie, particolarmente nel Chr. auratus, il molare posteriore, di ambe le mascelle, a forma di fava (fève). Di più, nei Chrysophrys i denti anteriori sono robusti, molto smussati all’ estremità, la quale è quasi grossa quanto la loro base. — Ora, secondo il Delfortrie, il fossile del Volterrano non ha che due serie di denti nella mascella inferiore, e si può quasi dire (et on peut presque dire ) anche due sole serie nella mascella superiore; i denti anteriori destri sono robusti, a punta acuta, di forma cilindrico-conica; i molari, invece di essere appiattiti come nei Chrysophrys, sono a forma di colonna (de forme columnaire). Di più, e questo è un carattere che manca essenzialmente nei Chrysophrys, tutti i denti senza eccezione, han- no un anello sporgente. , Tutti questi caratteri ,, dice il Delfor- trie, , noi liritroviamo nei Pagri e nei Pagelli, i quali differiscono fra di loro soltanto per il numero delle serie dei denti, che è ALCUNE PAROLE SULLO SPHAERODUS CINCTUS DI LAWLEY 118 di due nei Pagri e di tre nei Pagelli ,. Per causa dunque del- l’affinità che esiste fra il fossile del Volterrano ed i Pagri, il Delfortrie mantiene la sua opinione, manifestata anche prima della nota pubblicata dal Gervais, che si tratti cioè di un Pagrus. In appoggio del suo modo di vedere egli cita un Pagrus delle Antille esistente nel museo di Bordeaux, dicendo: “ la rassomi- glianza (similitude) che esiste fra questo pezzo ed il fossile del Volterrano toglierà tutti i dubbi che potrebbero elevarsi sul- l’interpretazione da me data all’interessante fossile del pliocene toscano (') ,. Nei suoi “ Nuovi Studi , sopra i Pesci del nostro Pliocene (?) il Lawley riferisce sulle opinioni dei paleontologi francesi, man- tiene il nome Sphaerodus cinctus A%., e dichiara che , esponendo le diverse opinioni non si farà giudice in questione tanto difficile e delicata; solo seguendo il metodo di adottare la priorità non farà che porre la specie fra gli Sparoidei secondo il modo del sig. Van-Beneden, ravvicinamento del quale sì mostra del tutto convinto, con lo stesso nome di Agassiz , (?). Arturo Issel (*) dopo di aver dichiarato che “la scoperta degli stupendi avanzi di Sphaerodus pliocenici testè illustrati dal signor R. Lawley pone in chiaro come le mandibole di questi pesci, tanto per la configurazione loro quanto per la distribuzione dei denti, ripetono i principali caratteri delle parti similari nei veri Picnodonti ,, e di aver quindi imposto il nome di Sphaerodus a denti isolati delle marne di Genova, ebbe cognizione delle os- servazioni di Gervais e di Delfortrie; egli ne dà le conclusioni » affine di mitigare o di rettificare ,, son sue parole, , quanto vi può essere di troppo assoluto ed erroneo nei miei giudizi (°) ,. Mercè la cortesia del sig. Lawley, il quale mi ha permesso di studiare l'originale del fossile volterrano ed il modello del Pagrus delle Antille speditagli dal sig. Delfortrie, sono stato in grado di formarmi un'opinione propria intorno all'argomento, la quale si discosta da quella emessa dal signor Delfortrie. (4) M. E. Delfortrie — Eclaircissements sur une Machoire fossile provenant du Pliocèéne Toscan de Volterrano, attribuee par M. Roberto Lawley au genre Sphoerodus (Actes de la Soc. Linnéenne de Bordeaux. T. XXXI. 1876). (*) Nuovi studi sopra ai Pesci ed altri Vertebrati fossili delle Colline Toscane di Roberto Lawley. Firenze, 1876. p. 58-60. (*) Appunti paleontologici. I. Fossili delle marne di Genova. (Annali del Museo Civico di Storia naturale di Genova; Vol. IX. 1876-77, p. 219). (‘) Appunti paleontologici ec. — Appendice vol. IX, 1786-77, p. 401-403. Se, Nat, Vol. IV, fase, 1.° 8 114 C. I. FORSYTH MAJOR Primadi tutto, per quanto riguarda i caratteri dal Delfortrie at- tribuiti al genere Chrysophrys, è da osservare che nella figura data da Cuvier e Valenciennes, di una mascella superiore di Chrysophrys, della Guiana ('), i molari non appariscono punto a lastrico (en pavé), ma hanno piuttosto la forma di quelli anteriori del fossile volterrano, sono cioè coniformi. — Il Chr. auratus presenta, nella metà, posteriore della mascella inferiore, ancora meno di tre serie di denti, cioè solamente due. — Quando poi dice il Delfortrie che , nei Chrysophrys i denti anteriori sono robusti, molto smus- sati alla loro estremità la quale è quasi altrettanto larga quanto la loro base ,, si possono citare in contrario i denti anteriori superiori del Chr. auratus, che non differiscono punto nella forma da quelli del fossile. Riguardo all’asserzione del Delfortrie, che il fossile di Volterra ha due sole serie di denti alla mascella inferiore, il fatto è, che di dietro, ove i molari hanno maggiori dimensioni, si contano due serie, e nella parte più anteriore, ove i denti sono più pic- coli, esistono anche tre serie, precisamente come nel Chr. auratus. In quanto alla mascella superiore del fossile, nei due quinti posteriori sì vedono due serie, nei tre quinti anteriori tre serie. Lo stesso sembra aver luogo nella citata figura di Cuvier e Valenciennes, almeno per quanto si può giudicare da essa. Nè è più conforme alla realtà che i molari, invece di es- sere appiattiti, “ come nei C4rysophrys ,, siano di forma colon- nare. I molari posteriori, tanto di sopra quanto di sotto, sono anch’ essi appiattiti; per lo meno nello stesso grado dei piccoli molari di hr. auratus, e molto più di quelli della più volte ci- tata figura dell’ “ Histoire naturelle des Poissons ,. Finalmente, per ciò che riguarda gli anelli sporgenti intorno al denti, si può constatare sulla specie più comune, il Chr. au- ratus, che ìi denti tutti li posseggono. — Chiunque ha qualche pratica nel maneggiare denti fossili, sa che caratteri di questa sorta appariscono spesse volte più spiccati per effetto della fos- silizzazione. Del resto anche la figura 10, Tav. 163, di Cuvier e Valenciennes mostra denti con simili anelli. In quanto al Pagrus del mare delie Antille, col quale Del- fortrie appoggia il suo dire, esso lo chiama (?), , un Pagrus ou (*) Historre naturelle des Poissons. T. VI; pl. 163, fig. 10. (3) Lc. p. 4. ALCUNE PAROLE SULLO SPHOERODUS CINCTUS DI LAWLEY 115 voisin de l’espèce ,. Di quale specie? — Il modello, non troppo ben riuscito, della mascella superiore non fa vedere alcuna trac- cia di anelli nei denti, ciò che senza dubbio è dovuto ad omis- sione del modellatore. Sul lato interno vi è un vero pullulare di piccoli molari, di modo che in parecchi posti se ne potrebbero contare trasversalmente 5 o 6, invece dei 2 che il Delfortrie dà come caratteristici del Pagrus. Del resto Cuvier e Valenciennes danno come carattere di alcune specie straniere del genere, l’ave- re dietro i canini numerosi piccoli denti granulosi (, grenues ,,); di modo che non vedo nessuna ragione d’infirmare la deter- minazione di Pagrus dal Delfortrie attribuita alla mascella delle Antille. In quanto però alla rassomiglianza col fossile volterrano, sulla quale insiste il Delfortrie, essa, anche sotto altri rapporti oltre quelli dei quali già si è parlato, non si verifica. La mascella delle Antille ha i margini esterno ed interno rettilinei; essa è relativamente stretta ed appena diminuisce in larghezza verso la parte posteriore. Nel fossile invece la parte anteriore è la più stretta; esso si allarga nel mezzo, soprattutto dal lato interno, per poi restringersi nuovamente un poco nella parte posteriore: il margine interno quindi è convesso. La ma- scella delle Antille, quantunque assolutamente più lunga di quella fossile, nel suo mezzo ha appena la metà dello spessore di que- st ultima; nella parte anteriore diventa un poco più grossa. I molari della prima sono nel loro insieme più svelti, quindi meno appiattiti (, en pavé , ) di quelli del fossile, nel quale sono coni- formi, massime gli antero-esterni . In conclusione: divido il modo di vedere del Gervais, di chia- mare cioè, fino a più ampie informazioni, C4rysophrys Larleyi il fossile dei dintorni di Volterra. Però non posso tralasciare di fare un’ osservazione. Il ravvicinamento proposto dal Gervais si basa più che altro sulla supposizione che la mascella della Guiana più volte citata ('), alla quale più specialmente rasso- miglia il fossile, sia veramente un C4rysophrys. Sembra che (4) Cuvier et Valenciennes, l. c. Tav. 163, fig. 10. 110 C. I. FORSYTH MAJOR — ALCUNE PAROLE SULLO SPHAERODUS EC. di quella forma di pesce sia conosciuta questa sola mascella, la quale, è vero, nella sua dentizione ha maggiori rapporti con quella dei Chrysophrys che con quella di altri generi. Ma bisogna anche convenire che, a giudicare dalle dentizioni; il genere Chry- sophrys comprende delle forme alquanto eterogenee, e che il carattere dato da Cavier e Valenciennes per distinguere i C4ry- sophrys dai Pagrus, cioè i molari in tre serie per lo meno nei primi, in due serie solamente nei secondi ('), non è, come ab- biamo veduto, perfettamente conforme alla realtà nè anche nella Dorada comune. Nel nostro caso è d’incaglio, come è generalmente agli studi paleontologici, la mancanza di sufficienti conoscenze intorno alle dentizioni di specie viventi. Terminando ripeto la riflessione da me fatta nell’ ultima seduta, riflessione a cui la storia dei denti così detti di Sphae- rodus serve di nuova illustrazione: che non dobbiamo essere corrivi a fondare conclusioni riguardanti le affinità fra 1 pesci, su certe forme molto semplici di denti, massimamente quando si tratta di denti isolati. (') Jc. p. 81. LA QUESTIONE DEI TULIPANI DI FIRENZE ESAMINATA DA. T. CARUEL Tra i fatti di maggiore momento che fermano l’attenzione del botanico studioso della flora di Firenze, è da mettersi la presenza di molti Tulipani salvatici che ne adornano in prima- vera i campi coltivati. Le piante di questo genere sono ritenute caratteristiche dei paesi dell’ Oriente, sono (ad eccezione di una sola) più o meno rare e sparse erraticamente per l’ Europa me- ridionale; e pertanto Firenze ne vanta buon numero di forme diverse, alcune delle quali le sono affatto proprie, e tutte di recente comparsa e diffusione. Nel tempo che io mi occupava di studi speciali sulla flora toscana, fui condotto ad esaminare il fatto più da vicino e a cercarne la ragione. Risultato delle mie ricerche (vedi Prodr. ff. tosc. p. 629, Di alcuni cambiamenti avvenuti nella fl. della Tosc. in Atti soc. ital. sc. nat. TX, p. 469-471, Stat. bot. della Toscana p. 357-359) si fu di confermarmi nella opinione, ch’ era quella allora generalmente accettata dai botanici toscani, tanto pareva ovvia e naturale (vedi Parl. 77. ital. II, p.378), essere i nostri Tulipani di origine straniera, specie venute per la maggior parte dal Levante e fattesi indigene presso di noi, dopo di essere state dai giardini delle ville cacciate nei campi circostanti. Il Dott. Levier, medico svizzero stabilito in Firenze da pa- recchi anni, ed esimio conoscitore della flora europea, ha sotto- posta la questione a nuovo esame, ed è giunto a ben diversa conclusione. In uno scritto recentissimo: { Tulipani di Firenze e il Darwinis.no (Rassegna Settimanale IL, n. 17, 1878), egli cerca 118 T. CARUEL è dimostrare erronea la supposta provenienza diretta dall'Oriente delle forme fiorentine del genere, e propugna l’altra ipotesi che siano originate, le più se non tutte, là dove ora si vedono, per trasformazione bensì di forme da giardini, ma trasformazione tale che ne siano venuti tipi specificamente nuovi, diversi dagli antenati Orientali. Il pregevolissimo lavoro del Dott. Levier è scritto coll’intento palese di dare un argomento in appoggio alla teoria trasformista. Prima di decidere a quale fra le due supposizioni spetti la maggiore plausibilità — perchè all'una e all'altra manca la prova di fatto — conviene riandare più minutamente i particolari noti intorno alle varie forme in causa. Il primo autore a parlare di Tulipani salvatici in Toscana è stato Cesalpino, nella seconda metà del secolo XVI, e precisa- mente l’anno 1583. A pagina 412 del suo libro De plantis egli descrive in modo evidentissimo sotto il nome di Lonchitis la pianta che ora conosciamo sotto quello di Tulipa sylvestris Linn.; e già vent'anni prima egli ne aveva collocato un saggio nel suo erbario (Car. IMustr. hort. sicc. Caesalp. p. 99). Del luogo na- tivo dice: , oritur in Apennino apud Bargenses. , Nel territorio di Barga ossia nell'alta valle del Serchio non trovasi ora che si sappia la 7. sylvestris; ma in due località altissime del vicino Apennino, il monte Pisanino e il monte Rondinaio, nasce la T. australis Link (T. Celsiana Cand.) che le rassomiglia moltis- simo, a segno che Bertoloni per esempio (7. ital. IV, p. 85) non la distingue specificamente. È dunque presumibile che Cesalpino, confondendo le due forme, assegnasse il luogo nativo della 7. australis spontanea alla T. sylvestris coltivata: dico coltivata, supponendo che il saggio da lui descritto e disseccato fosse di giardino, poichè sappiamo a testimonianza di contemporanei (Matt. De plant. epit. p. 958) che a quel tempo la 7. sylvestris coltivavasi negli orti, mentre che generalmente la si conosceva spontanea dai soli dintorni di Bologna, donde il nome che le dette Lobel di Bononiensis Lilionarcissus luteus (Plant. hist. p. 61). Checchè ne sia di tutto ciò, essa comparisce quale pianta fiorentina per la prima volta nel primo terzo del secolo XVIII, in un manoscritto lasciato] da Micheli: Catalogus plantarum in agro Florentino sponte nascentium, dove a p. 46 del tomo VI n'è detto: , Fiorisce circa la metà d'Aprile appresso la Città fuori LA QUESTIONE DEI TULIPANI DI FIRENZE 119 della Porta a S.Gallo in quel podere ch’ è attraversato dalla Gora che va........., Da questa indicazione si rileva che in allora la 7. sylvestris era rarissima, ristretta a quella unica lo- calità. Un secolo più tardi, nel 1822, l’ emigrato francese Reboul, che si era dato ad uno studio speciale dei Tulipani di Firenze, pubblicando il suo primo scritto su di essi: Nonnullarum spe- cierum Tuliparum in agro florentino sponte nascentium propriae notae, la dichiara (a p. 3.) frequente nell’agro fiorentino. Adesso è fra le pianti più comuni; ed altrove in Toscana trovasi pure in vari luoghi dei dintorni di Lucca, ed è stata veduta di recente nei pressi di Pisa verso Marina. Nel resto d’Italia la si ha gran- demente sparsa per tutta l’Italia alta e media, più rara nella bassa Italia, dove preferisce i luoghi boschivi montuosi (Parl. FI. ital. II, p. 394, Guss. FU. sic. syn. I, p. 400, ec.). Fuori d'Ita- lia nasce in Francia dove la dicono frequente (Gren. Godr. 77. de Fr. III, p. 177, ec.), e da dove sì spinge più al nord nella Gran Brettagna, nel Belgio, in Prussia, nella Scandinavia meridionale, nei quali paesi tutti è però ritenuta o sospettata avventizia (Cand. Géogr. bot. p. 695, Crép. Man. fl. Belg. p. 413, Aschers. F7. Brand. p. 711); nasce nella Penisola Iberica all’ovest, e all’est si distende per i paesi del Danubio e dei Balcani e per la Russia meridio- nale fino al Caucaso, giusta il recente egregio lavoro monogra- fico di Baker su questo genere (Lev. of Tul. in Journ. Linn. soc. XIV, p. 290, ec.). Tutti questi fatti sembrano indicare per questa specie una se- de originaria orientale e meridionale in Europa, e una diffusione sempre crescente verso l’ovest e verso il nord. Ad ogni modo per la Toscana devesi riguardare quale pianta avventizia, insal- vatichita fra i tempi di Cesalpino e quelli di Micheli. .Neanco è difficile vedere come si sia introdotta. Potrebbe essere stato per semi, portati con quelli dei cereali fra mezzo ai quali vive; ma qualora si pensi alla rarità del caso che maturi i semi (com’è anche di tutti i congeneri), e si avverta come l'insal- vaticamento ne sia avvenuto nei contorni delle due città di Fi- renze edi Lucca, che sono quelle appunto cospicue in Toscana per le innumerevoli ville con giardini antichi dove sì sono sem- pre coltivati Giacinti, Gigli, Anemoli, Tulipani ed altre piante bulbose e tuberose, e da dove tuberi e bulbi di rifiuto sono fre- quentemente buttati nei campi circostanti: sorgerà la convin- 120 i T. CARUEL zione che così e non altrimenti ha potuto la 7. sylvestris entrare a far parte della flora toscana e fiorentina. Cesalpino non conosceva nessun'altra specie del genere; poichè il Dulipan del quale parla a pagina 402 della sua opera è tut- t altra cosa, e probabilmente l’Ormithogalum arabicum. Dal che si può inferire che quando egli scriveva era arrivato il loro nome, ma non era ancora stato introdotto nei giardini di Toscana alcuno di quei Tulipani che si coltivavano altrove in Europa, dopo il primo fiorito nel 1559 in Augsburg da semi venuti da, Costantinopoli, o pure dall’ Asia minore, secondo che racconta Gesner nella sua edizione delle opere del Cordus. Ma la introdu- zione non ne tardò guari, poichè ne fa menzione un certo P. Del Riccio di Firenze in un manoscritto del 1595 e 1596, citato da Ant. Targioni (Introd. di varie piante nell’agric. ed ort. tosc. p. 288). Si sa che rapidamente se ne allargò la cultura per tutta Europa, e specialmente in Olanda, dove divenne moda anzi vera manìa per un periodo di più anni intorno al 1630, tanto che erano pagati a prezzo d’oro i bulbi delle forme più ricercate, e le forme tutte se ne trovarono moltiplicate ad esuberanza, tanto per produzione ortense in Europa, quanto per importa- zione di semi e di bulbi da Costantinopoli (Clus. far. plant. hist. p. 137-152). Linneo nelle Species plantarum riunì tutte queste forme sotto la denominazione specifica di T. Gesneriana: 0 piuttosto le confuse, attesochè da quanto ne lasciarono scritto i botanici anteriori, risulta evidente che se molte erano mere varietà di colori, altre per la fioritura precoce o tardiva, per il bulbo lanoso in dentro o liscio, per la statura alta o bassa, o per altri caratteri ave- vano fra loro di quelle differenze che oggi fanno le specie nel genere. Cosa da notarsi per rintracciare la storia dei Tulipani toscani. All’infuori della 7. sylvestris il Micheli non ne rammenta altre salvatiche in Toscana. Bensì in altro suo manoscritto: Enumeratio quarundam plantarum sibi per Italiam et Germaniam observatarum, parla di un Tulipano giallo diverso dalla. 7. syl- vestris, raccolto a Foligno in Umbria; ed ancora di un Tulipano bianco e rosso che dalla descrizione subito si riconosce per la T. Clusiana Vent. Non ne dà la località; ma il Dott. Levier ar- guisce dall’esserne la descrizione associata a quella di due altre LA QUESTIONE DEI 'IULIPANI DI FIRENZE 121 specie spontanee, e non ripetuta nel catalogo Micheliano (ma- noscritto) delle piante coltivate al giardino botanico di Firenze, e dall’aggiunta del nome popolare di /ancelta ancora vigente, che sia permesso supporre che anche questa specie si trovasse già ai tempi del Micheli, o selvatica o in via di diventare, in qualche punto dell’agro fiorentino. Ora il primo argomento non pare che possa aver valore di fronte al titolo stesso del ma- noscritto, che racchiude piante di diversissima provenienza; il secondo è annullato dal fatto che nell’indicato catalogo sì trova la specie in discorso registrata tre volte (vol. XVI, pag. 177, vol. XVII, p. 61, vol. XVIII, p.99) col suo nome Bauhiniano di T. variegata, Persica; il terzo desunto dalla denominazione popo- lare significherebbe poco esso pure, anche se il nome di /ancetta fosse autentico di quel tempo, perchè potrebbe essere stato in uso altrove che a Firenze, o a Firenze ma per indicare una pianta da giardino, peraltro nella sua forma precisa data da Micheli: Lancetta rossa e bianca di foglie strette e ondose, quel nome porta manifesta impronta di essere stato fabbricato da lui, per metterlo in corrispondenza con quello di lancetta che comunemente vien dato anche alla simigliante 7. sylvestris. Del resto tutti gli argomenti indiretti devono cadere di fronte alla mancanza della specie nell'elenco surriferito della flora fioren- tina compilato da Micheli con somma diligenza, e dove non è supponibile che ne avesse taciuto se allora fosse principiata mi- nimamente a insalvatichire. La 7. Clusiana fu fatta conoscere da Clusius (Cur. post.), al quale l’aveva mandata nel 1607 Matteo Caccini, Fiorentino, che se l'era procurata dal Levante (Sav. FI. Ital. II, p. 53). Dal che sì desume che primo luogo dell’ Europa occidentale a vederla coltivata fu la città di Firenze, dove il Caccini aveva un giar- dino di piante belle e rare, e v' introdusse da Costantinopoli l’Anemolo (Anemone coronaria) e il Giacinto (Ayacinthus orien- talis) (Sav. o. c. I, p. 57, II, p. 4), altre due specie ora fatte indigene in Toscana. Da quanto si è rilevato più sopra, questo Tulipano a’ tempi del Micheli ancora non era uscito dai giardini. Al principio di questo secolo era invece comune digià intorno a Firenze (Reb. Nonn. spec. Tulip. p.3), ma in altri luoghi di Toscana ancora non era stato avvertito. Adesso oltre che a Fi- renze trovasi presso Lucca, presso Pisa, e presso Sarzana, in una 122 T. CARUEL sola località per ognuna delle tre città. Nasce ancora nelle Mar- che, vicino a Bassano, a Nizza (Parl. FI. Ital. II, pag. 391), in Provenza e in Linguadoca (Gren. Godr. 7. de Fr. II, pag. 176), in Spagna e in Portogallo, e dall'altro lato in Grecia, nell’ Ar- cipelago, fino a Costantinopoli (Kunth Enne. pl. IV, p. 223, Bak. Rev. p. 281). È voce, non so se fondata, che sia pure in Persia. Ad ogni modo per noi è pianta oriunda Orientale, fug- giasca ia da’ giardini. Nel già più sole ricordato scritto di Bici trovansi anno- verate, na la 7. sylvestris e la T. Clusiana, altre 5 forme campestri da lui osservate nei dintorni di Firenze: 7. Oculus- solis St. Am. — T. Raddii Reb. — T. Gesneriana Linn. — T. strangulata Reb. — 1. Bonarotiana Reb. La T. Oculus-solis già vi era comune a tempo suo, come adesso ancora lo è; ed era nota per l’innanzi di due luoghi della Francia meridionale (Cand. F7. fr. III, p. 200), dove poi è stata trovata in parecchi altri (Gren. Godr. F/. de Fr. III p. 176); nonchè a Sion nel Vallese (Bak. ev. p. 285). In Italia trovasi parimente sparsa qua e là, nella Riviera di Ponente, a Bologna e a Cesena, nell’ isola d’ Ischia, in Corsica a Bonifacio (Bert. FI. ital. IV, p.81, Parl. FY. ital. II, p. 386). Kunth (Enum. pl. IV, p. 222) l’indica pure di Grecia, e Baker (Rev. p. 278) di vari luoghi dell'Asia più occidentale, però sotto forma di varietà di- stinte dal tipo europeo. Jl ritrovamento sicuro di questa specie allo stato salvatico è tutto dei tempi moderni ('), mentre che più addietro non era conosciuta che come pianta da giardino, se è vero che le si debbano riferire certi sinonimi di Clusius e di Lobel addotti da Bauhin alla sua 7. minor rubra (Pin. p. 63). Questa d'altronde non vedesi registrata in alcuno dei cataloghi di orti toscani. La T. Raddii di Reboul era già stata antecedentemente de- scritta da Tenore col nome di 7. praecox. È uno dei Tulipani più sparsi per l’Italia bassa e media (Bert. Fl. «tal. IV, p. 80, Parl. FI. ital. TI, p. 388), e per la Provenza (Gren. Godr. Fl. de Fr. II, p. 177); Tenore (.Sy2. fl. neap. p. 171) gli assegna i pascoli per stazione nella bassa Italia. Baker (ev. p. 281) lo dà an- cora dell’isola di Chio, di Aleppo, della Palestina, della Persia, (') Garidel nella sua Mist. des pl. d'Aix a pag. 475 parla però di un Tulipano rosso, che potrebb’ essere questo qui. LA QUESTIONE DEI- TULIPANI DI FIRENZE 123 scopertovi da recenti esploratori. A Firenze è comunissimo, e per tale l’ indicava già Reboul. Fra altri sinonimi di autori del seicento, che non sono in grado di verificare, riferiti a questa specie da Bertoloni, ve n’ è uno del Parkinson (Parad. p. 53, fig.) confermato da Baker, che perciò ne comprova la cultura ortense sin da quel tempo, cultura che sì è protratta nei giardini di To- scana sino ai giorni nostri. Alla 7. Gesneriana di Reboul, e degli autori fiorentini, che sembra l’ istessa di quella di Baker (Rev. p. 284), converrebbe ridare il nome di 7. spathulata proposto da Bertoloni ( Flora ital. IV, p. 85), per la ragione già detta che la 7. Gesneriana di Linneo è un complesso di tutte le forme ortensi e racchiude quasi tutto il genere. Intesa nel senso più ristretto, sarebbe secondo Baker pianta nativa di quel tratto dell’ Asia che va dall’Altai insino al Kurdistan e all’Armenia, e si estenderebbe alla vicina Russia meridionale e centrale. Nell’Europa occidentale è indicata nel Banato, e a Sion nel Vallese, e in Toscana dove nasce presso Lucca e presso Firenze, però non comu ne, ristretta a poche località, e senza tendenza a propagarsi maggiormente. La T. stranyulata è per ora conosciuta della sola località fiorentina dove la scoprì Reboul, ossia dei campi posti nella val- letta detta Gamberaia; e di una località di Bologna, dove poscia la rinvenne Bertoloni. Questi (F7. è. IV, p. 86) vi riferisce tre sinonimi del seicento, al solito di piante ortensi, ma resta a ve- dere con quanta certezza. La 7. Bonarotiana veniva data da Reboul di unica località, fiorentina. La si credeva perduta dopo la scoperta fattane da lui, ma ultimamente è ricomparsa (Levier o. c. p. 5). L’anno 1823, successivo a quello in cui pubblicò il suo primo scritto, Reboul vi aggiunse un’Apperdix, per descrivere un’altra specie nuova, la 7. maleolens, scoperta in due località fiorentine assai distanti fra di loro; dove si è mantenuta, ed è stata ve- duta anche altrove. È stata poi trovata anche presso Lucca, e presso Genova (Parl. #7. » DE ERE » >». dalla parte posteriore. » » 2. Es. maggiore della stessa specie veduto di fianco. >» >» » 3. Linea dei lobi copiata da altro esemplare della. stessa specie alquanto logorato, raccolto dall’Ab, Ludovici sul M. Guallo. DESCRIZIONE DEI NUOVI CEFALOPODI TITONICI 133 Simoceras Ludovicii Mgh. ID IMI CICORIA ERE e ca 145mm Altezza dell’ ultimo giro . ..... 0, 26 Spessore massimo dello stesso .. 0,19 Larghezza dell’ombellico. . . ... 0,55 : Conchiglia a forma di disco, molto compressa sui fianchi, largamente ombellicata, a regione ventrale larga e poco con- vessa. Giri della spira lentamente crescenti in altezza, che su- pera notevolmente la larghezza; ben piccola porzione di essa altezza mascherata dalla sovrapposizione dei giri successivi, ri- manendone quasi limitato l’abbracciamento all’ampia faccia ven- trale;- piani sui fianchi, scendono con rapida curva alla sutura ombellicale, con rapida curva pure unendosi all’ ampia faccia ventrale leggermente convessa. La sezione trasversale ne risulta pressochè quadrangolare, di poco più larga presso al contorno ombellicale di quello che al confine fra i lati e la faccia ven- trale. Coste raggianti, per la maggior parte semplici, tondeg- gianti, eguali in larghezza agli spazi interposti, nella maggior porzione dell’ ultimo giro, ma più ravvicinate fra loro nei giri precedenti, più largamente spaziate invece sul finire della spira; sommano a 58 nell'ultimo giro, e ad un numero certamente maggiore nel penultimo, ch’ è incompletamente conservato; sor- gono giù grosse dalla sutura ombellicale e, lentamente ingros- sandosi e sporgendo sempre più, terminano quasi come in nodi al margine esterno; diritte nella direzione de’ raggi sulla mag- gior porzione del fianco, s'inflettono sensibilmente all’avanti sul margine esteriore. Ne rimane libera la faccia ventrale; ma limi- tata dagli accennati ingrossamenti terminali delle coste, essa lo è solamente nei giri interni e sul principio dell'ultimo, sul ri- manente del quale le estremità delle coste, digradando e sempre più inclinate all’avanti, restringono la fascia liscia, sulla quale, con leggero rilievo e con forte curva all’ innanzi, terminano per connettersi le coste d'un fianco con quelle dell'altro. Bifide sono solo poche coste; quattro nel penultimo giro, ad intervalli varii ed in rispondenza alle strozzature; ed una strozzatura sola, pre- ceduta e seguita da costa dicotoma, presenta l’ultimo giro, non lungi dalla sua fine: è un solco profondo e più largo degli altri, 134 G. MENEGHINI limitato posteriormente da costa acuta che diverge da altra in tutto simile alle precedenti, risultandone più obliqua la direzione, ch'è poi serbata tale e dalle tre coste più sottili e dalle sei di consueta grossezza e sempre più spaziate che succedono fino alla frattura terminale, dalla quale sembra dovesse poco essere discosta l'apertura della conchiglia. Manca infatti di setti tutto l’ultimo giro, ed è solo: nei giri interni che si possono trave- dere indizii dei lobi nelle rotture del guscio che, qual’ è conser- vato dalla fossilizzazione, sembra dover essere stato molto sottile. Manca invece il guscio, ma la superficie del modello interno è anehe profondamente logorata, in un’ altro imcompleto esem- plare trovato dal Canavari nello stesso giacimento di Monte Primo. Doveva avere circa 70%" di diametro, e conserva solo il principio dell'ultima camera, preceduta da una strozzatura e con una delle coste successive bifida verso la metà del fianco, qualche strozzatura e questche costa bifida vedonsi pure nei giri interni. La linea dei lobi presenta lo stesso tipo che quella del Sim. Fa- varense figurata dal Gemmellaro (Sopra alcune faune giuresi ec. 1872, Tav. VIII, fig. 4): grandissimo il lobo sifonale, divisa da grande lobulo secondario la sella esterna, ciascuna delle cui due parti è suddivisa in due festoni; appena più lungo del sifonale il lobo laterale esterno, il cui ramo terminale interno è molto ante- riore rispetto all’esterno, dal quale sembra spiccarsi 11 mediano, risultandone una apparente obliquità di tutto il lobo verso l’ester- no; sella laterale molto più angusta e più profonda dell’ esterna, divisa in due,festoni; lobo laterale interno piccolissimo ed obliquo, del pari che la sella ed il lobo accessorio. Anche attribuendo a logorazione l'apparente povertà della frastagliatura, non n'è al certo supponibile la ricchezza caratteristica della specie ci- tata a titolo di confronto. .Paragonata ad esso Sim. Favarense Gemm. questa forma, si vede inoltre differirne per la molto maggiore compressione, per il numero molto minore delle coste, e per le più rare biforca- zioni. In quanto alla strozzatura dell'ultimo giro, anche la fi- gura del. Sim. Favarense Gemm. (1. c. p. 50, Tav. VII, fig. 4) ne mostra una di analoga forma, nè la si potrebbe riguardare come sufficiente carattere specifico. Nella serie del Sim. Agrigentinun Gemm. (ved. Gemmellaro 1. c. p. 213), questa forma costituirebbe un settimo termine e quasi un passaggio al tipo del Sim. Ve- DESCRIZIONE DEI NUOVI CEFALOPODI TITONICI 135 netianum Zitt. Non esitiamo perciò a proporre una nuova specie intitolandola al Signor Ab. Ludovici, ch'è solerte raccoglitore de’ fossili nei monti Gemmo e Primo, presso Camerino, ed il quale ce ne favorì l'esemplare figurato. Appartiene evidentemente alla stessa specie un bell’ ese:n- plare il quale potè solo incompletamente esser denudato dalla roccia che lo includeva, la calcaria rossa incarnata di Sant’ Anna sopra Breonio al confine Tirolese in Val d’ Adige. Ha 180°" di diametro, e, per rapporto ad esso, le proporzioni sono esattamente le indicate per il grande esemplare di Monte Primo, come eguali ne sono tutti gli altri essenziali caratteri. Circa metà del giro esteriore appartiene all'ultima camera preceduta da una costa bifida, ma senza distinta strozzatura, mentre parecchie più o meno distinte strozzature e coste bifide vedonsi nel penultimo giro. La linea dei lobi, per quanto si può rilevare togliendo il guscio spatizzato, è qui pure poverissima di frastagliature. Tav. X, fig. 4* Esemplare raccolto dall’ Ab. Ludovici nella calcaria titoniana di Monte Primo, veduto di fianco. » » 4 Lo stesso veduto di profilo nella faccia ventrale. » » 5. Lineadeilobi copiata dal modello interno trovato nello stesso Monte Primo dal Canavari. Aspidoceras Montisprimi Canav. DEVIATO RU ERRO CORE a 10 Ajtezzalidell'ultimotgiro... ug 0, 45 NE aSSiMrORSPAS SONE csi e he 0, 50 Parghezzasdell'ombellico. a ....43 0, 28 Conchiglia discoidale compressa involuta, a mediocre e pro- fondo ombellico, rotondata sulla faccia sifonale, ornata di una sola serie circumombellicale di numerosi tubercoli conici diretti al centro della spira. I giri sorgono quasi verticalmente a costi- .tuire l'alta parete dell’ ombellico, curvandosi poi rapidamente sui fianchi con uniforme convessità e con decrescente larghezza, per rotondarsi sulla faccia sifonale; hanno rapido accrescimento e si ricoprono per circa la metà dell’ altezza, risultandone la sezione ovale tozza per la eccedenza dello spessore in corrispon- denza al contorno ombellicale, ma ad apertura molto più bassa 136 G. MENEGHINI per l’intaccatura che vi produce il ritorno della spira. È sul con- torno rotondato dell’ ombellico, ove la parete se ne unisce al fianco, che l’ uno all’ altro si susseguono i tubercoli, rapidamente crescenti in grandezza e lentamente l’ un dall’ altro sempre più discosti. Se ne contano quindici sul giro esteriore, pressochè tutti troncati, rimanendone a designarli le sole fratture, ma i primi e quelli che si poterono denudare nella porzione visibile del giro precedente sono di forma conica e diretti nel piano della spira. La porzione di spira conservata è tutta concamerata: solo ad una estremità della irregolare frattura è visibile il principio dell'ultima camera. E conservato in massima parte è il guscio: la superficie n° è ornata di pieghe radiali, pochissimo manifeste sulla faccia ventrale, che attraversano con leggera convessità all’innanzi, perdendosi gradatamente sui fianchi, la- sclando incerto se convergano in più o meno gran numero & ciascuno dei tubercoli. È solo con opportuna incidenza di luce che si possono discernere, e la corrosione impedisce di prenderne esatte misure: cinque su circa 15"", compresi i leggeri solchi interposti. Ma con l’ajuto della lente, vedesi inoltre la super- ficie tutta finissimamente ornata di sottili strie raggiate, ciascuna delle quali, ove furono meglio preservate dalla corresione, sem- bra formata dall’allineamento di minutissime papille risultan- done l'aspetto di fina sagrinatura. Ove gli strati superficiali sono rotti, vedesi lo strato più profondo, esso pare striato, a strie della stessa sottigliezza ma semplici e perciò più distinte. La preparazione dei lobi è troppo incompletamente riuscita, per poterne dare esatto disegno: più largo del primo laterale e lungo al pari di esso il lobo sifonale, ampia la sella esteriore, corrispondente al contorno ombellicale la prima sella accessoria, lungo e frastagliato il primo lobo accessorio. Nell'insieme la linea dei lobi somiglia a quelle dell’ Asp. Avellanum Zitt. (Pauna der aeltern Titonb. Taf. 31, fig. 3 6) e dell’ Asp. insulanum Gemm. (Zona con Peltoceras transversarium, p. 123, Tav. XIV, fig. 4), ma colle frastagliature più svelte, senza per altro che raggiungano la complicazione che mostrano nell’Asp. circumspinosum Quenst. (Cephal. Tab. 16, fig. 14) o più ancora nell’ Asp. Altenense d’Orb. (Neum. Die Fauna der Schicht mit Asp. acanth. Tab. XLII, fig. 2.). Benchè, trattandosi di unico ed incompleto, esemplare, possa rimaner dubbio su qualche carattere, e benchè manchi la cogni- DESCRIZIONE DEI NUOVI CEFALOPODI TITONICI 137 zione, in questo gruppo di specie (serie dell’Asp. lparum Opp.) più che in altri importantissima per i confronti, dei giri interni, non che dell’ultima porzione della spira, questa forma eminen- temente distinta dalla consorella (Asp. Avellanum Zitt.) per l'ampiezza dell’ombellico, per il gran numero e per la direzione dei tubercoli spinosi, devesi, per ora almeno, riguardar come distinta anche dall’Asp. insulanum Gemm., col quale ha comune la collocazione ed il numero dei tubercoli, nonchè somiglianti le proporzioni, differendone per il contorno ombellicale rotondato anzichè angoloso ed acuto, oltre agli ornamenti esteriori del guscio, ch’ è tuttora ignoto nella specie siciliana. Tav. X, fig.6.a Esemplare di Ap. Montisprimi Mgh. veduto di fianco. » » »b Lo stesso veduto sulla faccia posteriore. » » » e Porzione della superficie veduta con forte ingran- dimento. Rhynchoteuthis titonica, Mgh. Becco allungato, a pinnacolo molto grande, rispetto al capuc- cio, ed inclinato su di esso ad angolo ottuso; alette del capuccio acute ed oblique, quelle del pinnacolo rotondate; spigolo me- diano della faccia interna ottuso. Lunghezza totale ...... nta LO RFI A Aa Lungh. del capuccio sulla lin. med.* . . 4,5. . 10 Largh. c fra le alette. ...4,5.. 10 3, del pinnacolo È ARI Spessore e e i nat 2,5 6 La minore larghezza che la base del pinnacolo presenta, in con- fronto a quella del capuccio, nell’esemplare maggiore, è forse dovu- ta all’incompleta conservazione del margine, ch'è assottigliato. Le alette invece del capuccio, del pari che l’intaglio, pel quale sulla faccia interna si uniscono pinnacolo e capuccio, hanno margine ingrossato e sporgente all’interno. Gli spigoli ottusi della faccia esteriore del pinnacolo sono attraversati da rughe oscure ed. irregolari. i Ambedue gli esemplari furono dal Canavari trovati nella calcaria titoniana rossa di Sanvicino, 138 G. MENEGHINI Questa specie non ha alcuna somiglianza colla A. tenuis Neum. (Acanthicusschichten Taf. XXXI, fig. 3), e somiglia alla Eh. minuta Neum. (ibid. fig. 2.) solo in quanto all’ angolo del pinnacolo col capuccio, e per le proporzioni delle due parti, ma con forme differenti; nè si può ravvicinare ad alcuna delle forme del EAyncholithes acutus Quenst. (Cephal. Tab. 34, fig. 16-19). Tav. X, fig. 7. Il maggiore dei due descr'tti esemplari, nelle tre po- sizioni, ed in grandezza naturale. Rhynchoteuthis denticulata Canav. Becco alquanto allungato, a pinnacolo grandicello, rispetto al capuccio, poco inclinato su di esso; alette del capuccio acute trasversali; spigoli esteriori del pinnacolo sporgenti più dei fianchi non prodotti in alette; spigolo della faccia interna ap- pena indicato; margine posteriore del capuccio denticolato. Lunghezza totale... .(.. RE RES Lunghezza del capuccio sulla lin.® med.* . 5 s del pinnacolo N DERISO Larghezza Wdelteapuccio eee . 6 È del: pimnacologtt eee 4,5 SPESSOre i LA ai 2,5 Altri due incompleti esemplari, uno un po’ minore, l’altro alquanto maggiore, furono, al pari del descritto, rinvenuti dal Canavari nella calcaria titoniana rossa di Sanvicino. La somiglianza colla E). minuta Neum. sì riferisce unica- mente alle proporzioni fra il capuccio ed il pinnacolo. Tav. X, fig. 8. L’ esemplare descritto è rappresentato con debole in- grandimento nelle tre posizioni. NUOVA: SPLCIR DI TROCHOCYATMUS NELLA CALCARIA TITONICA DI MONTE PRIMO PRESSO CAMERINO NELL'APPENNINO CENTRALE NOTA IRA ENE UO NO: DE RATC ERA SRIIDII presentata nell’ adunanza del dì 9 gennaio 1879 Fra i molti fossili del terreno titonico illustrati dallo Zittel (Die fauna der aeltern Cephalopoden fuehrenden Tithonbildungen. Cassel 1870), due sole specie di corallarj egli descrive, cioè: Trochocyathus truncatus Zitt. e Caryophyllia primaeva Zitt., ambedue nuove ed ambedue della calcaria rocciosa (Alippen- Kalk) di Rogoznik nei Carpazi, nessuna dell'Appennino centrale. È quindi la prima specie che qui comparisce la seguente, che imprendo a descrivere e che fu trovata dal giovine paleontologo Mario Canavari nel così detto dallo Zittel marmo titonico di Monte Primo, presso Camerino, insieme a molte ammoniti e altri cefalopodi. Trochocyathus Canavarii, d Ach. Tav. X, fig. 9 a. Polipajo al naturale. » >» 9 d. Calice del medesimo. » >» 9 c. Id. ingrandito. Polipajo conjeo allungato, quasi dritto e solo in alcuni esem- plari un poco più ricurvo dell'individuo effigiato, inferior- mente assottigliato in assai grosso peduncolo o pedicello, che per la rottura avvenutane è impossibile dire se libero o affisso. Altezza dell'individuo maggiore mm. 50; in taluni altri assai 140 1. D'ACHIARDI -— NUOVA SPECÎE DI TROCHOCYATHUS meno. Calice quasi circolare, i diametri maggiore e minore stan- done fra loro come 18 : 17. Muraglia non molto grossa, percorsa da coste grossolane, sranulose, subeguali e qua e lù ricoperta da tracce di un epiteco rudimentale. Quattro cicli completi di setti e nei calici maggiori anche un qualche setto del 5° ciclo, che però sparisce nelle sezioni orizzontali fatte a una qualche distanza dal calice. I setti sono smarginanti, granulosi ai lati e disuguali. Quelli del 1° e 2° ciclo poco diversì fra loro; quelli del 8° ciclo più corti di tutti, quelli del 4° ciclo intermedj per lunghezza ai setti dei due primi cicli e del 4°. Pali manifestissimi ai setti del 1°, 2° e 8° ciclo, man- cando affatto dinanzi ai setti del 4° ciclo. Quelli del 3° ciclo sono molto più grossi ed estesi di quelli del 1° e del 2° fra loro pres- sochè uguali; tutti si dipartono per altro alla stessa distanza dal centro calicinale. L'estensione dei pali del 3° o penultimo ciclo è pur anco molto notevole in profondità, onde avviene che mentre nelle sezioni fatte a non molta distanza dall’orlo calici- nale non si osserva più traccia dei pali del 1° e 3° ciclo, quelli del 2° persistono tuttora e si osservano sempre molto sviluppati. La columella è rappresentata da un fascio di bacchettine, che in alcune sezioni sì contano fino a 12. Dei Trochocyathus conosciuti nessuno corrisponde a questo di Monte Primo. Così fra quelli che più gli si avvicinano per le forme e per la giacitura nei terreni secondarj differisce dal Trochocyathus conulus (Phill. sp.) del gault di Cambridge, Speaton (Yorkshire), Ardennes ec. per maggiori dimensioni del polipajo, che è inoltre assai più dritto, onde la forma generale risulta molto diversa, e per la grande. disuguaglianza dei setti del 3° ciclo da quelli dei due primi; differisce dal Trockocyathus truncatus del terreno titonico di Rogoznik oltrechè per dimensioni notevolmente maggiori per nessun certo segno di .affissione basilare e per la maggiore estensione dei setti del 4° ciclo in paragone a quelli del 3°, mentre dalla figura che lo Zittel dà del Trochocyathus truncatus apparisce essere i setti del 4° ciclo assai più brevi di quelli del 3°. Dei pochi Trockocyathi giurassici nessuno gli assomiglia, onde la necessità di farne una specie nuova, che ho intitolata al suo scopritore. Forsyth Major. Alt SocTos. Se. Nat Vol I Tav ha GWenk Bologna: 0.Nannini lit dal vero. Att.Soc.Tos. Se. Nat. Vol. [Tav Forsyth Major. 0Nannini lità dal vero. Tit. GWenk Bologna. Ki ATEI MAINE VEGGOI EUbog Yuaj:g TT 'DI9A IEP odi TUIWWEN) GE] DA TV 9g 980] 908 UW oleyy jpAsiog » Att Soc Tosc. Sc Nar Vol IM. Tav2 ONannini bt' &l vere Forsyth Major. « asc. Sc. Nat.Vol II Tav. 3 Forsyth Major IP enz ghi lit. Cromo-lit.fior.Fir gpe. Tosc. So Nat Vo. Ill Tav. 8 Forsyih Major Cromo-lit.fior.Fir Li ».Soc.Tose So Nat Va mTaxv4 | Forsyth Major Cromo-lit.fior. Firenz Ata Soe.Tosc.S0. Nat Vol. Tav.4 Forsyth Major Stanghi lit Cromo-lit. fior. Stab: Lit. Ach.Paris Firenze. F'orsyih:Major. Stambecchi viventi e fossili Tav.V A.Figlinesi dis. Miti SocTose:ScNat Cra vg fossili Tav.VI. l viventi e Forsyih. Major. Stambecch ATM'SOC TOSC SC NAT R.Stanghi dis. lit Stab. Lit Ach Paris, Firenze. 7 î È RI, En È "AI i X VE Di 3 Ò È îi Forsyth. Major. Stambecchi viventi e fossili Tav.\L. Atti Soc. Tosc, Sc. Nat. R.Stanghi dis. lit Stab. Lit Ach Paris. Firenze. Stab. lit Ach Paris Firenze eRoma R.Stahghi dis .lit. i Atti Soc. Tose Se Nat. Vol TavVIl. Stab. lat Ach Paris Firenze eRoma dr mv x ; Spupne fossili. È: E. Contoli dis. . i Lit.C.Neri, Bologna Soes Fasc. Sc. Nat. VoL.] O TX. 1 Spupne fossilt. | TR e CORE ee = LS 3 E.Contalì dis. Lit.C.Neriì, Bologna vI FATTO is Tse iN VOL IVA Meneghini e D'Achiardì. i FOSSE Tir Mita tan ooo SEI È apri RRrrinda s07 Lit.GozaniPisa Atti Soc.Tosc.Sc Nat. Vol IV. Tav. X. Meneghini e D'Achiardi. DEA ISLTOATIZONI Cristofani dis. e lit. % Lit.GozaniPisa mr — SUI FOSSILI DEL LIAS INFERIORE NELL’ APPENNINO CENTRALE NOTA DIRINNCARSIO RICCA NCARVIATRST ( Adunanza del dì 12 gennaio 1879 ) SH La calcaria massiccia, raramente stratificata, talora cristal- lina, che forma gli assi di tutte le diverse ellissoidi di solleva- mento nell'Appennino centrale, o parallele le une alle altre o longitudinalmente disposte, ritenuta dallo Spada e dall’ Orsini (') dolomia, fu prima dubbiosamente da questi e più tardi da altri geologi, riferita stratigraficamente al Lias inferiore. Questa cal- caria, come tale riconosciuta dallo -Zittel (*) anche laddove per la sua struttura cristallina e per alcuni altri caratteri fisici po- tesse richiamare la dolomia, quantunque non contenga che una piccolissima quantità di carbonato di magnesia, assai di frequente è d’una bianchezza di neve, altre volte leggermente 'tinta in rosato o in giallastro o in bruno chiaro; non raro il caso nel quale sia accompagnata da un calcare cavernoso o brecciforme. Sebbene non si conosca la roccia sotto ad essa giacente, tuttavia per emergere in alcuni punti per più centinaia di metri d’al- tezza, si può arguire d'una notevolissima potenza. A cagione della sua compattezza è difficilmente lavorabile, però spesse volte è d’ una struttura oolitica o pisolitica e presenta pochissima (1) Spada et Orsini Quelg. obs. geol. sur les Ap. de l Itahe centrale. — Bull. de la soc. géol. de France, 2.° sér. t. XII, p. 1202, Paris, 1855. (*) Zittel — (Geol. Beob. aus den Central-Ap., nelle Geog.-palaeoni. Beit. di Bene- cke. Zw. B., II H., Minchen, 1869. Sc. Nat. Vol. IV, fasc. 2.° 10 142 M. CANAVARI durezza, talchè sembra travertino e come tale difatti tenuta dai cavatori di pietra di parecchie località; in questo caso viene ado- perata come un eccellente materiale da costruzione. Tale parti- colarità del Lias inferiore non isfuggì nè allo Zittel (') nè al Mici (?), ambo i quali la osservarono al monte Nerone. Lo Zittel, nel suo classico lavoro sull’ Appennino centrale, così si esprime: » Gli strati a Terebratula Aspasia (Lias medio) . . ........ . . Vengono sostenuti da una calcaria massiccia, bianca, con rinconelle mal conservate; in alcuni punti essa offre una distinta struttuta pisolitica. Gli irregolari e rotondi grani pisolitici oscil- lano dalla grossezza di un gran di miglio a quella di una noce, e si dividono non in istrati, ma in cumoli e per lo più a seconda della roccia si hanno quasi sempre grani della stessa forma e du- rezza ,. Questa struttura oolitica o pisolitica, che alcune volte assume il Lias inferiore, la notai sviluppatissima alle Grotte di S. Eustachio, presso Sanseverino-Marche, com’ebbi altra volta occasione di dire (?). Tutti 1 geologi, che si occuparono dell’ Appennino centrale, riferirono, come abbiam detto, al Lias inferiore la descritta cal- caria d’ apparenza dolomitica, tranne il sig. Giovanni Battista Villa, il quale ritenne colà come formazione più antica un calcare, che considerò analogo alla Dolomia a Gastrochena del Trias superiore . Il Villa difatti scriveva in una sua , Gita geologica sugli Ap- pennini centrali della Provincia di Pesaro e Urbino (*),: Da Rocca Leonello passammo di balza in balza sempre fra la scaglia rosea e cinerina a fucoidi ed il neocomiano, fino nel fosso sotto la balza dell’ Eremo; poi al torrente Candigliano e sulla strada che viene da Piobbico ove la valle si rinserra fra due balze, sì trova la for- mazione jurese, che si presenta cogli strati revesciati, cioè sulla cima la Dolomia a Gastrochena (Dolomia a Megaladon) più sotto ove passa il sentiero, vedonsi sviluppati gli schisti verdi e rossi, che a tutta prima sembrarebbero quelli del Keuper, ma invece potrebbero essere il rappresentante dell’ Infralias, e più sotto il (4) Zittel — Geol. Beob. ec. (*) Mici — Iterreni dell’ Urbinate, Urbino, 1873. (3) Canavari — Le Grotte di S. Eustachio, presso Sanseverino-Marche, appunti] geologici sull’Appennino centrale — Boll. delr. com. geol. d’Itatia, n.07 e 8. Roma, 1878. (4) Villa — At. della soc. ital. di sc. nat., Vol. XVI, fascie. II, Milano, 1874. mil SUI FOSSILI DEL LIAS INFERIORE NELL’ APPENNINO CENTRALE 143 jurese con un calcare grigio come il nostro Saltrio (Lias infe- riore) a strati inclinati a nord. ....,. La località ricordata dal Villa, fa prima di lui diligentemente visitata tanto dallo Zittel come dal Mici, nè alcuno de’ due citano in essa rovescia- menti di strati, nè Infralias o terreni più antichi di questo. Non mi sembra perciò cosa improbabile che la creduta Dolomia a Gastrochena del Villa corrisponda al Marmo titonico dello Zittel e gli schisti verdi e rossi, tanto caratteristici nell’ Appennino cen- trale, agli Schistt ad aptici. Lo Zittel (') cita del Lias inferiore nell’ Appennino centrale parecchi piccoli gasteropodi e bivalvi indeterminabili, di certo nota semplicemente la Posidonomya (Avicula) Janus, Mgh. del Furlo, identica alla forma rinvenuta nel Lias inferiore del Cam- pigliese in Toscana. Questa elegante conchiglia è anche caratte- ristica nella calcaria bianca del Lias inferiore di Monticelli, presso Roma. Dietro l’ unico dato paleontologico della Avicula janus, Mgh., lo Zittel sincronizzava il Lias inferiore dell'Appennino centrale con il calcare ad arieti di Saltrio ed Arzo nelle Alpi Lombarde, col marmo biancastro ad Avicula Janus di Campiglia e col cal- care nerastro ad ammoniti e con la marna gialliccia a piccoli ammoniti della Spezia. Il De-Stefani, analogamente allo Zittel, considerava il Lias inferiore dell'Appennino centrale come cor- rispondente a quello di Campiglia, Montieri, Gerfalco, Monte pi- sano, Spezia, riferendolo al piano A, alla parte cioè più antica del Lias inferiore toscano. Le prove paleontologiche in appoggio a queste vedute si limitano per ora solo alla Avicula Janus e alla Chemnitzia pseudotumida, le quali poi non sono neanche uniforme- mente diffuse nel Lias inferiore toscano, e finchè quindi non si abbiano nuovi datì certi non sì possono accettare che sotto molte riserve. E un fatto però che, considerata dal lato litologico, la calcaria del Lias ivferiore nell'Appennino centrale, ha moltissime analogie con il calcare ceroide del Monte pisano e di altre loca- lità della Toscana, ma il solo carattere litologico non è certo suf- ficiente per dedurre la contemporaneità tra due lontani giaci- menti. Non potendosi poi nell’ Appennino centrale suddividere (!) Zittel — Geol. Beob. ec. (*) De-Stefani — Geologia del Monte pisano, nelle Mem. per serv. alla descr. della car. geol. d’ Italia, puòbl. a cura del r. com. geol. del regno. Vol. HI, par. I, Roma, 1876. 144 M. CANAVARI il Lias inferiore in piani distinti, come suddividesi quello della Toscana e di moltissimi altri posti, si aumentano anche per ciò le difficoltà di sineronizzarlo con quelli già conosciuti. Stando sempre nel campo delle probabilità esso trova qualche confronto con i calcari cristallini delle montagne di Casale e di Bellampo nella provincia di Palermo, dei quali il Gemmellaro sta ora illu- strando la fauna ('). Il Lias inferiore appenninico oltr° Alpi poi presenta la stessa facies dei calcari di Hierlatz (?), con la parte inferiore dei quali, riferibile al Lias inferiore, trova moltissima rassomiglianza. Nes- suna analogia litologica si nota poi tra l'antico Lias dell’Appen- nino e quello di Francia, mentre poi, come vedremo, ha con esso qualche corrispondenza paleontologica. Visitando alcune località dell’ Appennino centrale rinvenni alcuni strati fossiliferi del Lias inferiore, come giù ricordai in un altro mio scritto (*). Dei fossili che raccolsi la maggior parte sono indeterminabili a cagione del modo di fossilizzazione e del loro cattivo stato di conservazione; in questa nota mi propongo quindi descrivere solo quelle specie, che offriranno caratteri suf- ficienti per poterle determinare. Aggiungerò pure le specie, di precisa provenienza appenninica, che si conservano nel museo geologico di Pisa, ove, sotto la direzione dell’illustre paleontologo Meneghini, ho avuto la fortuna di studiarle. i Ordinariamente la zona fossilifera del L'as inferiore nell’ Ap- pennino centrale occupa un orizzonte speciale, che si può consi- derare come la parte più antica del Lias infer.ore, separando da questa la zona superiore non fossilifera, che‘si trova sottoposta alla Calcaria a Terebratula Aspasia del Lias medio, riferendola per ora e sino a che resti organici non ne faccia esattamente conoscere la età relativa, alla parte più recente. Una nota preliminare della fauna antica del Lias inferiore dell'Appennino centrale la inserì nei , Cenni geologici sul Came- rinese e particolarmente su di un lembo titonico nel monte San- vicino ,; credo però opportuno nuovamente ricordarla con l’ ag- giunta anche di quei generi, che poi ho avuto campo di osservare. (4) Gemmellaro —Sop. ale. fau. giur. e lias. di Sicilia, fasc. 6, Palermo, 1879. (2) Stoliezka — Ue. die Gastr. u. Ac. der Hierlatz Schichten, Wien, 1861. (3) Camavari — Cenni geol. sul Camerinese e particolarmente su di un lembo ti- tonico nel monte Sanvicino. — Boll. del ». com. geol., n.0 41 e 12, Roma, 1878. SUI FOSSILI DEL LIAS INFERIORE NELL’APPENNINO CENTRALE 145 CrraLoponi. — Gli ammoniti sono in generale rarissimi e la facies a cefalopodi è del tutto mancante in questo piano liassico nell'Appennino centrale. Gasreroponi. — I generi Natica, Chemnitzia, Straparollus, Pleuro- tomaria, Cerithium, Turritella, Phasianella, Emarginula, So- larium, sono frequenti, ma il più spesso siffattamente com- messi con la roccia, che difficilmente si possano da ‘essa estrarre per rilevarne le specie. Acrravi. — l generi Pleuromya, Cypricardia, Lucina, Astarte, Opis, Avicula, Arca, Pecten, Lima, sono pure abbastanza frequenti, ma presentano le stesse difficoltà di studio dei precedenti per il cattivo stato di conservazione. Bracrioponi. — I brachiopodi, ordinariamente rarissimi o man- canti del tutto nel Lias inferiore di moltissime località, sono invece nell’ Appennino centrale abbastanza frequenti e rap- presentati dai generi Terebratula e Rhynchonella ('). Crostacei. — Un solo frammento di chela, dal quale non si può neanche dedurre il genere, proveniente dalle Grotte di S. Eu- stachio, presso Sanseverino-Marche. Ecmmopermi. — Moltissimi radioli di cidaris. Tutti i fossili citati si trovano conservati nel museo geologico di Pisa. RSS: Cefalopodi Gen. Arietites, Waagen. Arietites, sp. ind. L' Abb. Ludovici ha raccolto nel Lias inferiore di monte Gemmo un'impronta di Arvetites; un altro frammento di Arzetites (') Anche nel calcare ceroide del Monte pisano, cosa fin qui non ricordata da alcuno, sono i brachiopodi abbastanza frequenti. Mi furono difatti comunicate dal sic. De-Bosniaskiì parecchie specie di Rhymnchonellue e di Terebratulae, una delle quali ha moltissima analogia con la 7. gregaria, Suess, raccolte nelle cave di marmo di monte Rotondo. Nella medesima località, in una gita che feci col sig. De-Bosniascki e con l’amico Vittorio Simonelli, ho trovato aneh’io alcuni frammenti di brachio- podi. Nessuno però di questi può riferirsi ad alcuna delle specie raccolte fin qui nel Lias inferiore dell’Appennino centrale. 146 M. CANAVARI è pure conservato al museo geologico di Pisa, rinvenuto dal conte Alessandro Spada nella calcaria d’ apparenza dolomitica del monte Vettore. Per la disposizione delle costole e per le diverse proporzioni questi due ammoniti moltissimo si assomigliano e trovano entrambi un qualche riscontro nell’Arietites semicostatus, Young et Bird. Gasteropodi Gen. Chemnitzia, D'Orbigny. Chemnitzia pseudotumida, De-Stef. Dave gle 1876. Chemnitzia pseudotumida, De-Stefani — Geologia del Monte pisano, nelle Mem. per servire alla des. della carta geol. d’ Italia, pubbl. a cura del r. com. geol. V. III. par.I, pag. 76, Roma. Conchiglia coniforme, acuta, composta da circa otto anfratti, mediocremente convessi, senza alcuna traccia di linee trasversali, nè di linee d’accrescimento a cagione dello stato di conserva- zione. Altezza ‘approssimativa. ae e nr: Diametio Sole eo 2 0RE: Altezza relativa dell’ ultimo anfratto . 0,44 Apertura dell'angolo spirale... ... 353° Questa specie, gentilmente comunicataci dal conte Toni di Spoleto, è stata rinvenuta nella calcaria del Lias inferiore di Cesi ( Umbria). Essa è identica a quella frequentissima nella lumachella ( Lias inferiore, piano A) del monte Rotondo, presso Pisa, che il De-Stefani chiamò Chemnitzia pseudotunida, a ca- gione della grande simiglianza che presenta con la Ch. tumida, Hornes ('), del Trias di Wildanger (Tirolo). Da questa però fa- cilmente può distinguersi non presentando in prossimità della (*) Hornes — Ueber einige neue gastropoden aus den Ostlichen Alpen, pag. 3, taf. I, fig. 2,3, Wien, 1856. SUI FOSSILI DEL LIAS INFERIORE NELL’ APPENNINO CENTRALE 147 sutura degli anfratti quell’ angolosità, poco pronunziata del resto, ma molto caratteristica, che si osserva nelle due figure che l’ Hòrnes (') dà della sua specie, ondei giri della C%. pseudo- tumida risultano anche meno convessi di quelli della C%. tumida. Notiamo poi che l'apertura dell’angolo spirale rimane pressochè eguale in ambedue le specie, come ho constatato misurando parec- chi esemplari della O%. pseudotumida del monte Rotondo conser- vati nel museo di Pisa e paragonando queste misure con quelle relative alla Ch. tumida, Hòrnes. Per far rimarcare maggiormente il fatto dell’ esistenza nel Lias inferiore dell'Appennino centrale di una specie identica a quella, che sì rinviene frequentissima nella zona (piano A, De- Stefani) più antica dell’inferiore Lias toscano, ho figurato accanto all’esemplare descritto, uno di monte Rotondo, presso Pisa. Spiegazione delle Figure Fig. 1. Chemnitzia pseudotumida, De-Stef., del Lias inferiore di Cesi. L'originale nella collezione del conte Toni, in Spoleto. Fig. 2. » » De-Stef., del Lias inferiore di monie Rotondo, presso Pisa. Gen. Straparollus, Montfort. Straparollus circumeostatus, n. sp. laveexgno 9a: Conchiglia depressa, discoidale, largamente e poco profon- damente ombellicata, a spira destrorsa alquanto obliqua, costi- tuita da tre giri, ornata anche nella parte ombellicale da rile- vate costole trasversali tubercolose, non molto fitte, le quali successivamente vanno diradandosi dal primo all'ultimo giro, e da quindici a venti strie longitudinali irregolarmente distanti le une dall’ altre. Bocca ovale e un poco obliqua. Furono raccolti due esemplari di questa conchiglia nel Lias (4!) Hornes — |, c. 148 M. CANAVARI inferiore delle Grotte di S. Eustachio, presso Sanseverino-Marche, ed uno nel Lias inferiore del monte Sanvicino. L’esemplare figurato è il maggiore e proviene dalle Grotte di S. Eustachio; esso offre le seguenti dimensioni: DIAMO CE. fe n SIR or Spessezza (dell'ultimo giro (e ente Altezza relativa all'ultimo giro... . 0,37 Larghezza relativa dell’ombellico . . . 0, 41 Lo Chenu (') dice che nel genere Straparollus l’ombellico è molto aperto e Zisse ou simplement strié en travers, jamais crénelé. Nella nostra specie invece la spira tanto dalla parte ombellicale come da quella apiciale presenta i medesimi esterni ornamenti, e le costoline trasversali tuberculate la fasciano tutta. Anche dalle descrizioni particolari e dalle figure che il D’ Orbigny, il Martin ed altri paleontologi danno di parecchie specie di Straparollus, si osserva sempre in esse dalla parte ombellicale il carattere citato dallo Chenu. Il che farebbe allontanare la nostra specie dal genere Straparollus, ma se si pon mente alla descrizione che ne dà lo stesso D’ Orbigny (*) non sì può certamente cadere in dubbio sul posto zoologico che ad essa compete. Difatti il D'Orbigny così definiva il genere Straparollus: , Animal incon. Coquille orbiculaire, dèprimée, è ombilic si ouvert que les tours sont quelquefois aussi concaves d’un còté que de l’autre; cepen- dant des espèces ne laissent pas que d’avoir la spire saillante. Les tours sont ronds ou carrès, sans canal en dedans de l’ombilic, et cette partie le plus souvent sans bourrelet crénelé au partour. Bouche ronde ou carrée ,. Spiegazione delle figure Fig. 3.2 Straparollus circumeestatus, n. sp., veduto dal lato ombellicale, proveniente dal Lias inferiore delle Grotte di S. Eusta- chio, presso Sanseverino-Marche, alquanto ingrandito. Fig. 3.. Lo stesso, veduto dalla parte anteriore. enu — Man. de conch. et de pal. conch. T. 1. pag. 234, Paris, 1859. Orbigny — Pal. franc. Ter. juras,, t. 2, pag. 309, Paris, 1850. NS) Da SUI FOSSILI DEL LIAS INFERIORE NELL’'APPENNINO CENTRALE 149 Gen. Pleurotomaria, Defrance. Pleurotomaria, sp. ind. Conchiglia trochiforme, a spira allungata, a sommità ottusa, con sei anfratti a gradini piegati quasi ad angolo retto, ornato da dieci a dodici tubercoli, da ognuno dei quali partono supe- riormente ed inferiormente costicine abbastanza rilevate dap- prima, ma che vanno poi gradatamente scomparendo in prossi- mità alle suture dei giri successivo e precedente. nitezzan ona ai a e araeno Wiee Diamefro:. +... DER da Raiti omne Altezza relativa dall'ultimo anfratto . 0, 33 Apertura dell’angolo spirale... ... 55° Amoologsuitarale ze 103° Ho raccolta l'impronta di questa pleurotomaria nel Lias inferiore del monte Sanvicino, ed ho potuto rilevarne i caratteri descritti mercè un modello in gesso. Non ho creduto conveniente crearne una nuova specie, sebbene a nessuna delle conosciute si avvicini, perchè probabilmente parecchi ornamenti esterni, sottili, assai frequenti e caratteristici nelle pleurotomarie, non sono rimasti conservati nell'unica impronta che io posseggo, e quindi la descrizione che ne ho data è certo molto incompleta. Pleurotomaria, sp. ind. cfr. Pleurotomaria rotundata, Munster in Goldfuss — Petrefacta Ger- maniae, drit. th., p. 73, pl. 186, fig. 1, Diisseldorf, 1841-1844. » » Dumortier — Et. pal. sur les dép. juras. du Bassin du Rhone, 2, par. Lias inf., p. 44, pl. IX, fig. 2, Paris, 1867. Conchiglia trocoide, alquanto compressa, più larga che alta, spira formata da quattro anfratti subpentagonali, l’ ultimo dei quali leggermente arrotondato verso l’ombellico e tutti di rapido accrescimento. L'insieme di questa pleurotomaria, sebbene non sì possa to- talmente caratterizzare a cagione del suo cattivo stato di con- 150 M. CANAVARI servazione, trova tuttavia moltissima analogia con la Pleuroto- maria rotundata, Munster, alla quale ho creduto avvicinarla. ATEZZA i i E e SOT Diametro e Re ea 4] mm Altezza relativa dell’ ultimo anfratto . 0, 47 Apertura dell'angolo spirale... .. . 70° Amgologsutura|eRsseSE ce 1200 Dalle citate dimensioni, le quali non sono che approssimative, la specie appenninica sembra presentare analogia di proporzioni con quella del Bacino del Rodano, citata dal Dumortier ('), ma con sviluppo assai minore. x Pleurotomaria, sp. ind. cfr. Pleurotomaria Suessi, Hòrnes in Stoliezka — Ue. die Gastrop. u. . Aceph. der Hierlatz-Schichten nei Sitz. der K. der Wis. Math.-Nat. clas., XLIII B., p. 199; (af Vi) fis. .I,,a-d, Wien, 1861" Due esemplari di Pleurotomaria raccolti nel Lias inferiore del monte Sanvicino si avvicinano moltissimo alla fig. 1 a, tav. V, che lo Stoliczka dà della Plewrotomaria Suessi, Hòr. Come questa nei nostri esemplari la spira è composta di cinque anfratti e più larga che alta; ma il loro cattivo stato di conservazione non ci permette di identificarli ad essa. i Gen. Phasianella, Lamarck. Phasianella moreneyana, Piet. 1856. Phasianella morencyana, Piette — Bull. de la soc. géol. de France, 2.e série, t. XIII, pag. 204, pl. 10, fig. 12, Paris. 1860. » » Terquem et Piette — Le lias inf. de l’ Est de la France nelle Mém. de la soc. géol. de France, 2. série, t. VIII, pag. 50, pl. 4, fig. 9-11, Paris. » Coquille conique, lisse, è sommet aigu; spire allongée, com- posée de six tours legèrement convexes, le dernier très-renflé, (4) Dumortier — Èt. pal. ec. SUI FOSSILI DEL LIAS INFERIORE NELL’APPENNINO CENTRALE 151 plus grand que le reste de la spire; ouverture ovale, labres externe et interne aigus; base lisse, arrondie, non ombiliquée , ('). Parecchi esemplari di P/lastanellae che ho raccolti nel Lias infe- riore delle Grotte di S. Eustachio, presso Sanseverino-Marche, corrispondono perfettamente alla descrizione che i due paleonto- logi francesi danno della Phasianella morencyana. La forma del- l'Appennino si allontana però alquanto da quella di Francia per il suo maggiore sviluppo e per le proporzioni, non tanto però da doverla considerare come specie da essa distinta. INIOOZZA N tn A O MITA n LE Altezza relativa dell'ultimo anfratto. . 0, 60 La Phasianella morencyana in Francia si trova insieme al- l'Ammonites (Aegoceras) angulatus, che caratterizza colà il secondo piano, in ordine ascendente, del Lias inferiore. Gen. Emarginula, Lamarck. Emarginula Meneghiniana, n. sp. Tav. XI, fig. 4 a-c. Conchiglia obliquamente conica, a sommità alquanto poste- riormente incurvata, alta quanto larga alla base, ornata da un numero assai variabile di costicine longitudinali (dalle 20 alle 40) e da sottili strie d’accrescimento parallele alla base. Nella sua parte anteriore presenta una depressione, che dalla base, ove assume la massima ampiezza, dai mm. 2 al mm. 3, 5, va successivamente restringendosi coll’ avvicinarsi alla sommità. Nel mezzo di questa depressione sì ha una ‘costicina longitudinale, la quale è appena segnata alla sommità, e sì protende, aumen- tando leggermente in rilievo, sino alla parte superiore dell’inta- glio, il quale occupa circa un quinto dell'intera altezza della conchiglia. La base è circolare. Ho raccolti parecchi individui di questa elegante specie di emarginula nel Lias inferiore delle Grotte di S. Eustachio, presso (4) Terquem et Piette — Le lias inf. cc. 152 M. CANAVARI Sanseverino-Marche, ov’ è frequentissima ed ove assume per lo più le seguenti dimensioni: Altezza vo nno: TETRA 1 gauo Diametrotalla base ee e e che variano ben poco. Ordinariamente non sì ha della Emarginula Meneghiniana che il modello interno nella cavità della roccia, che includeva la con- chiglia ed il guscio scomparso ha lasciato sulla impronta la scultura dei suoi esteriori ornamenti; le figure quindi disegnate sono state in parte ricostruite con la massima cura. Sino ad ora, per quanto io sappia, una sola specie di Emar- ginula era stata notata nel Lias inferiore, Vl Emarginula liasina, Tqm., rinvenuta nel Grès ad Ammonites ( Aegoceras ) angulatus di Hettange ('). Il Terquem così definisce la sua specie. , Coquille obliquement conique, è sommet réfiéchi, et ornée de còtes longi- tudinales qui alternent avec d’autres plus petites, toutes croisées par de fines stries d’ accroissement; le base est obvale ,. Si vede adunque che la mia specie diversifica da quella del Terquem per avere una sola serie ed uniforme di costicine longitudinali e per essere alla base circolare. Essa poi sì avvicina notevolmente all’'Emarginula Goldfussi, Roe. del Coralrag (®), che dal Morris e dal Lycett (*) viene dubbiosamente riferita al genere fimula. Si distingue però con facilità 1 Emarginula Meneghiniana dalla specie che il Romer così definiva , E. festa elliptica oblique conica lon- gitudinaliter 15-19 costata, interstitiis transverse costulatis, apice elato subspirali antrorsum incurvo , per non avere, oltre alle co- sticine longitudinali negli intervalli compresi tra essi, anche le costicine parallele alla base e per non avere I’ apice subspirale. L'esistenza di moltissimi individui dell’ Emarginula Meneghi- niana nel Lias inferiore delle Grotte di S. Eustachio, mi par (4) Terquem — Pal. du syst. lias. inf. du grand-duché de Luxembourg et de Hettange du dep. de la Moselle nelle Mem. de la soc. géol. de France, 2.° série, t. V, sec. par., pag. 279, pl. XVII, fig. 12, Paris, 1859. — Terquem et Piette - Le Lias inf. de V’ Est de la France nelle Mem. ec. 2.° sér. L. VIII, pag. 67, Paris, 1865. (2) Romer — Die Ver. d. Nordeut. Ool.-Geb., pag. 136, tab. IX, fig. 23, Han- nover, 1836. (8) Morris and Lycett -- A mon. of the Mol. f. t. Gr. Ool. ec. pag. 86, pl. VIII, fis. 1, 1 a-c, nella Pal. soc., London, 1850. SUI FOSSILI DEL LIAS INFERIORE NELL’ APPENNINO CENTRALE 153 cosa assai rimarchevole, poichè il genere Emarginula è scarsissimo nell'antichità e in tutto il lungo periodo secondario non si conta di esso che qualche specie ben rara. Spiegazione delle figure Fig. 4.° Emarginula Meneghiniana, n. sp., veduta lateralmente e in- grandita. Fig. 4.» La stessa veduta anteriormente. . Fig. 4.° La stessa veduta superiormente. Gen. Solarium, Lamarck. Solarium, sp. ind. efr. Planorbis liasinus, Dunher — Palaeontographica, n.° 1, p. 107 pid, f 20. Straparollus liasinus, sp. D’Orbigny — Prodrome, t. I, p. 214, n.° 49. Solarium liasinum, Terquem et Piette — Le lias inférieur de l' Est de la France nelle Mém. de la soc. géol.' de France, 2° sér. t. VIII, p. 46, pl. II, fig. 31-34. ? Conchiglia compressa, liscia, spira lenticulare, composta di tre giri leggermente arrotondati, apertura obovale. Questi soli sono i caratteri che posso rilevare da un unico esemplare in parte incastrato nella roccia, raccolto nel Lias inferiore delle Grotte di S. Eustachio, presso Sanseverino-Marche. UO ZIA A RSA MT e rire hexza toe eo a lo Altezza relativa dell’ ultimo giro . .. 0,57 Esso trova qualche analogia con il Solarium lasinum, Dkr., dal quale diversifica notevolmente nelle proporzioni, massima- mente nella larghezza; tuttavia ho creduto conveniente avvici- narlo ad esso più che a qualunque altra specie. 154 M. CANAVARI Acefali Gen. Avicula, Klein. Avicula Janus, Mgh. Tav. XI, fig. 0-8. 1853. Posidonomya Janus, Meneghini — Nuovi fossili toscani în appendice alle considerazioni sulla geol. strat. tos. dei prof. cav. P. Savi e G. Meneghini. — Est. da- Size 0885 Ia 09, 1869. » » Zittel — Geol. Beob. aus den Central-Ap. nelle Geog.- Pal. Beit. di Beneke, pag. 119, Munchen. 1876. Avicula Janus, Mgh. in De-Stefani — Geologia del Monte pisano nelle Mem. per serv. alla desc. della car. geol. d’ Italia, vol. Ill, par. I, pag. 81, Roma. Il Meneghini pubblicava sin dal 1853 la descrizione di que- sto fossile caratteristico del Lias inferiore di Campiglia in To- scana riportandolo allora al genere Posidonomya e così definen- dolo: P. testa suborbiculari, subaequilatera, ad ambitum compressa, umbonibus prominulis, radiatim costata et concentrice plicata, tum costis vel plicis carente, tum et omnino levi; latere buccali rotundato, anali obtuse anguloso. Più tardi invece esaminando esemplari maggiormente conservati di quelli, che gli servirono a stabilire la nuova specie, notò in essi la presenza di orecchiette, onde fu indotto a riferirli al genere Avicula. Questa rettificazione avvertita nelle collezioni del museo geologico di Pisa, fu poi pubblicata dal De-Stefani nel 1876 nel suo interessante lavoro geologico sul Monte pisano. Il Meneghini inoltre scriveva: , Gli individui maggiori giungono a circa due centimetri di lun- ghezza e poco meno di larghezza; vi sì contano circa venti coste uniformente raggianti, ma ineguali, che svaniscono più o meno prontamente o verso il margine o verso l’ umbone e talora anche mancano intieramente. Le pieghe concentriche, delle quali in al- cuni individui se ne vedono dodici a quindici, sono pure talvol- ta pronunciatissime, talora invece intieramente mancanti, e ciò indipendentemente dalla presenza delle coste, inducendo così una serie di aspetti svariatissimi, i cui due termini estremi si pren- SUI FOSSILI DEL LIAS INFERIORE NELL’ APPENNINO CENTRALE 155 derebbero a prima giunta per due specie distinte., Così l’ illustre paleontologo caratterizzava la sua nuova specie. L’estinto abb. Mariotti di Cagli, solerte e intelligente rac- coglitore di fossili dell’ Appennino centrale, rinvenne nel Lias inferiore del Furlo un pezzo di roccia (fig. 8), tinta leggermente in rosato, costituita intieramente da gusci di avicule, nei quali il Meneghini potè riconoscere la medesima forma toscana; colla differenza però che mentre in Toscana predominano individui ben piccoli, che raramente assumono le massime dimensioni accen- nate dal Meneghini, al Furlo invece predominano individui pres- sochè della medesima grandezza, che poco oscilla dai 14 milli- metri in lunghezza e poco meno in larghezza. In quanto poi agli ornamenti esteriori, relativi alle pieghe concentriche e alle coste raggianti, la forma del Furlo non assume tutte quelle variazioni, quasi innumerevoli, che si hanno nell’ Avieula di Campiglia; ordi- nariamente presenta circa venti coste uniformente raggianti, che dal margine gradatamente vanno diminuendo in rilievo e final- mente a svanire all’umbone e da venticinque a trenta pieghe con- centriche irregolarmente pronunciate e irregolarmente disposte, ma sempre più fitte alla regione umbonale (fig. 5). Questo carat- tere relativo alla spessezza delle pieghe concentriche in prossimità dell’umbone è assai notevole anche nell’Avicula Janus di Toscana. È frequente poi al Furlo la forma (fig. 6) nella quale le coste raggianti sì presentano alternate di rilievo, costituendo così due serie distinte di coste, delle quali talune volte è visibile ad occhio nudo semplicemente la serie di maggior rilievo. Tra i diversi esemplari raccolti dal Mariotti abbiamo notato due sole valve, nelle quali mancano del tutto le coste; in una di queste (fig. 5), riferibile probabilmente alla sinistra, sono ben visibili le orec- chiette, prive di qualunque ornamento. La diversità di dispo- sizione di coste o di pieghe concentriche così frequente nella forma toscana, credevo poterla attribuire a diversità di valva, ma un accurato esame di moltissimi individui tanto del Cam- pigliese come del Furlo e d’ altre località non ha comprovato la mia supposizione. Si vede che esso è un carattere puramente accidentale e che varia gradatamente da individuo a individuo, come notava il Meneghini. Alla forma del Furlo è somigliantis- sima quella, che si rinviene nel calcare bianco di neve e in parte cristallino del Lias inferiore di Monticelli, nella parte orientale 156 M. CANAVARI della Campagna Romana. Tranne il carattere dell’ alternanza di costicine di maggiore e di minor rilievo, che è ben raro negli individui di Monticelli, per tutti.gli altri esteriori ornamenti e per le dimensioni ricordano totalmente quelli del Furlo. Da tutte le specie di Aviculae liassiche è distinguibile 1° Avicula Janus, nè con alcuna di esse trova qualche analogia. La forma però priva di costicine longitudinali (fig. 5) si avvicina molto all’ Avicula concinna, Hòrnes del Trias di Someraukogel presso Hallstatt, dalla quale diversifica per avere le orecchiette liscie e per essere di forma suborbiculare . Spiegazione delle figure Fig. 5. Avicula Janus, Mgh., valva probabilmente sinistra, ingrandita, del Lias inferiore del Furlo. Fig. 6. Porzione di guscio, fortemente ingrandito, di un’ Avicula Janus del Furlo a strie alternate di rilievo. Fig. 7. Porzione di guscio, fortemente ingrandito, di un altro esemplare di Avicula Janus del Furlo a strie di uniforme rilievo. Fig. 8. Frammento di roccia con Aviculae Janus del Furlo. Brachiopodi Gen. Terebratula, (Lhwyd.) Davids. Terebratula Eustachiana, n. sp. Tav. XI, fig. 9 a-d. Conchiglia di forma subovale, leggermente troncata nella re- gione frontale, ornata da una serie di pieghe (circa 18 su ciascuna valva) longitudinali e inegualmente disposte e convesse, appena se- gnate nella regione frontale e latero-frontale, le quali vanno gra- datamente scomparendo in vicinanza alla regione apiciale, e da una serie di linee, difficilmente visibili ad occhio nudo, del pari alle prime longitudinali, assai vicine le une alle altre, che si estendono su tutta la superficie esterna. In ambedue le valve si osservano tre forti linee d’accrescimento, la prima delle quali occupa la parte mediana della conchiglia e l’ultima è situata vicinissima alla commissura delle valve. La piccola valva pre- SUI FOSSILI DEL LI\S INFERIORE NELL’ APPENNINO CENTRALE 157 senta una gibbosità nella sua parte centrale assai più sviluppata che non sia quella che si osserva nella grande valva, la quale raggiunge la massima convessità in vicinanza alla regione api- ciale. La gibbosità mediana della piccola valva si protende in forma di lobo frontale assai caratteristico, con una depressione longitudinale appena visibile; a questo lobo corrisponde nella grande valva un leggerissimo rialzamento, limitato da due pieghe ben pronunciate. La commissura delle valve, la quale si effettua sotto un angolo alquanto acuto, dà luogo nella fronte ad una in- flessione in cui si contano quattro pieghe su ciascuna valva. L’apice della grande valva è assai robusto e ricurvato in modo da lasciare un sufficiente spazio per il deltidio, il quale è leggermente con- cavo, non molto ampio e troncato all’ apice dal forame. Inoltre l’apice è pochissimo carenato nelle sue parti laterali, le quali con una dolce insenatura si abbassano sulla piccola valva, non offrendo che limite indeciso alla falsa area (méplat). Il forame ha forma pressochè ovale, con un diametro massimo di due mil- limetri. L'esemplare descritto presenta le seguenti dimensioni: WU ENezza e e ic n do LO Rene e LIT SHESSEZAA RE e i 20 Quantunque siano del tutto sconosciuti i caratteri interni della 7. Eustachiana, nè sia nella sua piccola valva visibile al- cuna traccia del setto mediano, tuttavia l'insieme della sua forma e di alcune sue particolarità la farebbero ravvicinare alla sezione delle Waldheimiae (King), cosa che per ora si deve accennare solo come probabile. la T. Eustachiana, sebbene sia meno dilatata della 7°. (Wal- dheimia?) basilica, Opp. della zona a Pentacrinus tuberculatus (!), pura ad essa più che a qualunque altra specie del Lias inferiore per alcuni caratteri si avvicina. Maggiormente poi si scorge l’analogia paragonando la 7. Eustachiana con la T. basilica rin- venuta a Saint-Cyr nella zona ad Ammonites (Arietites) Buklandi, (i) Oppel — Ue. d. Brach. d. unt. Lias nel Zeit. der d. geol. Gesell., XIII, B., Berlin, 1861, pag. 582, tav. X, fig.1a, Db, c. Se. Nat. Vol, IV, fasce. 2.° 10 158 M. CANAVARI descritta e fisurata dal signor Dumortier ('). La T. basilica rin- venuta nel Lias inferiore a Gryphea arcuata dei dintorni di Lan- gres (Haute-Marne) descritta dal signor Deslongchamps (è) esclu- dendo il caso che essa sia una Waldheimia, si avvicina più alla specie tipica dell’Oppel e presenta quindi maggiori differenze con la nostra di quello che non offra l'individuo citato dal Dumortier (°). Qualunque confronto si faccia però tra la 7. Eustachiana e la 7. basilica dei varì autori, non trascurando quella variabilità di forme e di alcuni caratteri secondarî, che spesso si osservano nelle terebratule, la specie che noi proponiamo come nuova ri- mane totalmente distinta da quella dell’Oppel, tanto per la maggiore convessità delle valve, quanto per la commissura di esse e per gli ornamenti esterni, carattere per cui si avvicina a quella varietà della T. fimbriodes, Desl., specie del Lias medio, corrispondente alla fig. 3, pl. 44 (‘'). Riguardo poi alla regione apiciale, che forma per le terebratule una parte di altissima importanza laddove non si conosca di esse l’ apparato apofisario, è del tutto diversa da quella della 7°. basilica; e se si volesse di questo carattere della nostra specie cercare qualche analogia con quello di altre specie, si troverebbe forse nella 7. Andleri, Opp., del Lias inferiore di Hierlatz (°). L'esemplare descritto è l’unico che io abbia rinvenuto com- pletamente conservata nel Lias inferiore delle Grotte di S. Eusta- chio, presso Sanseverino-Marche. Spiegazione delle figure Fig. 9a-d. Terebratula Eustachiana, n. sp., del Lias inferiore delle Grotte di 9, Eustachio. (4) Dumortier — Etudes pal. sur le dèép. juras. du Bas. du Rhone, Paris, 1867, tav. XIV, fig. 1,2. (°) Des longchamps — Brachiopodes jurassique nella Paleontologie francasse, p. 72, tav. 8 bis, fig. 9, 10, Paris (in corso di pubblicazione). (3) Dumortier — Il. c. (4) Deslongchamps — 1. c. (5) Oppel — Ve. d. Brach. ec. SUI FOSSILI DEL LIAS INFERIORE NELL’APPENNINO CENTRALE 159 Terebratula Micii, n. sp. Tav. XI, fig. 10 a-d, 11 a-d. Conchiglia globulare, ma a rapporto variabile tra lunghezza e larghezza secondo l’ età, brillante per microscopica punteggia- tura, ornata da sottilissime linee concentriche, che vanno infit- tendo e quasi scomparendo in prossimità alla regione apiciale. Le valve sono egualmente convesse ed offrano ciascuna un leg- gero seno o depressione mediana, maggiore nella grande valva e minore nella piccola, appena sensibile nella giovine età. Questa depressione si estende dalla fronte sino ad un quarto o poco più della intera lunghezza. Le valve presso alla regione apiciale sono riunite in una linea leggermente curva, con la convessità rivolta verso la piccola valva, lmea che diviene quasi diritta alle regioni latero-frontali per poi inflettersi alla fronte ancora verso la piccola valva, corrispondentemente alla depressione mediana. Le valve sono riunite sotto un angolo acuto alla fronte, angolo che diviene ancora più acuto alle regioni latero-frontali. L’apice della grande valva non è molto ricurvo e termina alla estre- mità con un piccolo forame rotondo; ai lati è notevolmente ca- renato e presenta quindi una distinta falsa area (mèplat). 11 deltidio, benissimo definito, è basso, alquanto troncato dal fo- rame e molto concavo ed ampio. Dopo aver sacrificati parecchi esemplari di questa elegante conchiglia per studiarne l’interno, sono riusciti a vedere qual- che traccia dell'apparato apofisario, il quale non si protende che assai poco dalla regione apiciale e sebbene non possa de- scriversi esattamente, tuttavia non fa punto esitare a riferire la specie descritta alle terebratule propriamente dette. Le misure di due individui, che rappresentano gli estremi della serie esaminata, sono le seguenti: IL II. Lunshezza e eg di e DAEShezza Re eg Di a e o SPESSOZZAN Ro RT AT Deo, oe DEI L’esemplare maggiore, che, a giudicare dalle molte e spesse linee d’ accrescimento, è a riferirsi ad un individuo adulto, 160. M. CANAVARI presenta proporzioni al tutto diverse dall’individuo giovane, dal quale si distingue anche per alcuni caratteri secondarî. Notiamo però che la conformazione degli apici e la linea di commissura delle due valve sono caratteri, che rimangono sempre costanti in tutti gli esemplari esaminati. A nessuna delle forme fin qui conosciute credo attribuibile la specie descritta e che propongo come nuova. Essa trova solo ur riscontro, molto lontano del resto, in qualche carattere ester- no con la Terebratula (Waldheimia) . Ewaldi, Opp. del Lias in- feriore di Hierlatz ('). Ho raccolti dieci esemplari della 7. Mico nel Lias inferiore del Monte Sanvicino. Spiegazione delle figure Fig. 10 a-d. Terebratula Micii, n. sp., del monte Sanvicino, ingrandita. Fig. 11 a-d. » » » della stessa località, ingrandita. Terebratula, sp. ind. cfr. Terebratula sphenoidalis, Mgh. in Gemmellaro— Sopra alcune faune giuresi e liasiche di Sicilia, p. 62, tav. X, fig. 16-19, Palermo, 1874, Lunghezza eee enne darne Fatohezza i e IO SPESSOZZA Ri n E si AGO Questa conchiglia, raccolta nel Lias inferiore del monte San- vicino, ha mancante in parte la regione frontale, non offre quindi tutti i caratteri essenziali per poterla esattamente descrivere. Paragonata con un individuo della 7. sphenoidalis, Mgh. di Si- cilia, conservato nel museo di storia naturale di Pisa, presenta con esso molti caratteri a comune, specialmente quelli relativi alla conformazione della regione apiciale, alla finissima punteg- giatura e agli eleganti ornamenti consistenti in linee sottili rag- (4) Oppel — Ue. d. Brach. d. unt. Lias nel Zeit. der d. geol. Gesell.,- XIII B., Berlin, 1861, pag. 587, tav. XI, fig. 1 bd, c. rt" SUI FOSSILI DEL LIAS INFERIORE NELL'APPENNINO CENTRALE 161 gianti e vicine fra loro, che dagli apici della conchiglia scorrono sino al suo contorno esterno e più pronunciate verso i lati delle due valve. Confrontando poi la terebratula rinvenuta al Sanvi- cino con la figura 18° nella tavola X, che il Gemmellaro (') dà della 7. sphenoidalis, Mgh., 1’ analogia tra queste due specie di- viene anche maggiore. Non possiamo giudicare nulla riguardo alla linea di commissura delle valve nella regione frontale, però in quella parte in cui è visibile è identica a quella della 7. sphe- noidalis, Mgh. Diversifica poi da questa per la maggiore am- piezza del forame e per la maggiore convessità delle valve. Gen. Waldheimia, King. Waldheimia Neronis, Meneghini, col. Tav. XI, fig. 12 a-d. Conchiglia di forma globulare, quasi egualmente lunga quanto larga ('|, millimetro di differenza) fortemente troncata alla parte anteriore, liscia e brillante per sottilissima punteggiatura. Le sue valve sono egualmente e pressochè regolarmente convesse se si toglie una leggera gibbosità che presenta la grande valva in vicinanza alla regione apiciale. Esse si connettono sotto un angolo ottusissimo e in linea pressochè retta nelle regioni la- tero-frontali, linea che repentinamente diviene flessuosa alla fronte, designando un largo V rivoltato con l'apertura verso la piccola valva. Questa presenta alla regione frontale due sottili pieghe longitudinali, che si estendono per un '/, circa della lun- ghezza totale della conchiglia, separate da una depressione pro- fonda, corrispondente alla sinuosità della commissura delle valve, e ripiegata alquanto verso la grande valva, e su di questa anche leggermente segnata. L’apice della grande valva è molto ro- busto, leggermente carenato a’ suoi lati e assai ricurvo, non tanto però da nascondere il deltidio, il quale è ben distinto: il forame assai piccolo è di forma circolare. I caratteri interni sono sconosciuti, è però visibile nella pic- cola valva traccia del setto mediano. L’esemplare, che servì al nostro illustre maestro Meneghini (‘) GG. Gemmellaro — Sopra alcune faune giuresi ec. 162 M. CANAVARI per stabilire la nuova specie e che ora è stato descritto, si con- serva nella collezione paleontologica dell'Appennino centrale nel museo di storia naturale di Pisa e fu raccolto dal prof. Fede- rico Mici nella Tana delle capre al monte Nerone nel calcare chiaro, massiccio, riferibile al Lias inferiore. Presenta le seguenti dimensioni: EUNENezza tI Tarchezza ao e a e SPessezza: sl ee et Sr MERO La MW. Neronis, Mgh. ha qualche parentela con la T. cera- sulum, Zitt. rinvenuta nel Lias medio tra Cagli e Cantiano nel- l'Appennino centrale ('), e il Meneghini difatti aggiungeva nel cartellino della collezione dopo averla chiamata W. Neronis, cfr. T. cerasulum, Zitt. a qua differt fronte emarginata. Dalle figure e dalla descrizione che dà lo Zittel (?) della 7. cerasulum, si vede che negli individui di giovine età la sinuosità frontale della commissura delle valve non è che accennata per divenire poi maggiormente pronunciata negli individui più adulti, senza però raggiungere mai quella che si osserva nella Wa/dheimia Nero- nis. Un altro carattere che distingue la MW. Neronis dalla specie dello Zittel è quello relativo alla convessità delle valve, assai più sentita nella W. Neronis di quello che non sia nella 7. ce- rasulum. Difatti facendo il paragone tra le dimensioni della specie del Meneghini e quelle del grande esemplare della specie dello Zittel, al quale maggiormente si avvicina la Waldheimia descritta, si trova che mentre la W. Neronis ha una spessezza di 10", 5 sopra una lunghezza di 10""- 5 la 7. cerasulum non ha che una spessezza di 8"" sopra 12""* di lunghezza. Prescin- dendo però da questi caratteri secondarì, a cui non bisogna at- tribuire molto valore, quello che individualizza la W. Neronis e che la separa senza eccezione dalla 7. cerasulum è relativo alla conformazione dell’apice della grande valva, il quale sebbene molto robusto e ricurvo nella W. Neronis non lo è tanto da nascondere totalmente il deltidio, come accade nella 7. cerasu- (') Zittel — Geol. Beob. ec. pag. 125, tav. XIV, fig. 5 a-d e Ga, D. (3) Zittel — I. c SUI FOSSILI DEL LIAS INFERIORE NELL’ APPENNINO CENTRALE 163 lum dello Zittel e per l’indizio del setto mediano nella piccola valva. Per questi stessi caratteri è nettamente separata la W. Neronis dalla T. rudis, Gemm. della zona a Terebratula Aspasia di Sicilia, specie che molto si avvicina alla 7. cerasulum (). Spiegazione delle figure Fig. 12 a-d. Waldheimia Neronis, Mgh., del Lias inferiore del monte Nerone, in grandezza naturale. Gen. Rhynchonella, Fischer. Rhynchonella variabilis, Schloth., sp. 1813. Terebratulites variabilis, Schlotheim — Beit. zur Nat. der Vers. in Leonhard’s Min. Tash., vol. VII, pag. 1, fig. 4. 1852. RAynchonella variabilis, Davidson — A mon. of Br. ool. and las. brach., pag. 78, pl. XVI, fig. 1-6, and XV, fig. 8-10, nella Pal. Soc., London. 1865. » » Terquem et Piette — Le lias inf. de l'Est de la France, nelle Mém. de la Soc. Géol. de France.- Deux. sér., tom.8.°, pag. 114, Paris. 1864-69. » » Dumortier — Et pal. sur les dép. juras. du Bas. du Rhone. Prem. par. Infra- lias, pag. 165, pl. XXV, fig. 5 à 10; deux. par. Lias inférieur, p. 80 et 230, pl. XLIX, fig. 8-10; trois. par. Zias moyen, pag. 150, pl. XXII, fig. 13 et 14, Paris. 1869. RAynchonella triplicata, Dumortier — Et ecc. Trois par. !Lias moyen, pag. 151, fig. 10 à 12, Paris, 1871. Terebratula triplicata, Quenstedt (pars) — Die Brach., nelle Pe- trefact. Deut.- Der er. Abth., zw. B., pag. 70, 75, tab. 37, fig.176-183, tab. 38, fig. 1-22, Leipzig. 1878. ARhynchonella variabilis, Davidson — Suppl. to the juras. and trias. sp., pag. 208, nella Pal. Soc., London. Si conserva nella collezione paleontologica dell’ Appennino centrale nel museo di storia naturale di Pisa una Rhynchonella, (') GG. Gemmellaro — Sopra al fau. giur. e lias. di Sicilia, pag. 60, tav. X, fig. 20-22, Palermo, 1874. 164 M. CANAVARI che il Meneghini riferiva alla R. variabilis, Schloth. Essa pro- viene dal Lias inferiore della Tana delle capre al monte Nerone, ove fu raccolta dal Mici insieme alla Waldheimia Neronis, Mgh., già descritta (pag. 161). È una piccola conchiglia iliosolannicnio triangolare, più larga (5"®"*) che lunga (82"*) e un poco com- pressa. La grande man presenta un seno ben marcato e non molto ampio; il lobo corrispondente nella piccola valva è defi- nito da due pieghe laterali maggiormente pronunciate delle altre. Si contano 7 costicine angolose su di una valva ed 8 sull’altra. L’apice della grande valva è poco incurvato sulla valva minore e non molto acuminato. Questa AAynchonella sebbene per alcuni caratteri si scosta da tutte quelle varietà della R%. variabilis citate dai moltissimi paleontologi, che si occuparono di questa specie, che Aas caused great confusion from its variable shape ('), tuttavia sembra doversi ravvicinare a quella forma della varzabilis corrispondente alla fig. 9, pl. XV, riportata dal Davidson (°). Riferisco inoltre alla PR. variabilis, Schloth. varietà tripli cata, Phil., una Ehynchonella non totalmente conservata, che ho raccolta nel Lias inferiore del monte Sanvicino. Essa presenta le seguenti dimensioni: LUASNOZZa SA ne dro RarShezzin SS a o Roma SPESSEZZa SOS Suu e corrisponde perfettamente alle figure 10-12 che il Dumortier dà della RX. triplicata, Phil., proveniente dalla parte inferiore ‘del Lias medio di Monteillet (*), e trova inoltre qualche analogia con la Terebratula (Rhynchonella) gryphitica pilula figurata dal Quenstedt (‘). Lo Zittel (£) nel Lias inferiore del monte Catria rinvenne una Rhynchonella della quale notò la somiglianza con la RAyn- chonella variabilis, Schloth., senza per altro identificarla con essa. (4) Davidson — Brit. col. and lias. brach.. nella Pal. Soc., pag. 79, London, 1852. (2) Davidson — |. c. (3) Dumortier — Étu. pal., 3.° par., Lias moyen ec. Paris, 1869. (4) Quenstedt — Die Brach. ec. pag. 41, tav. 37, fig. 27. (3) Zittel — Geol. Beob. aus den Cent.- ‘Ap. nelle: Geog.-Pal. Beit di Benecke, p. 118, Munchen, 1869. SUI FOSSILI DEL LIAS INFERIORE NELL’APPENNINO CENTRALE 165 Rhynchonella suavis, n. sp. Tav. XI, fig. 13 a-d, fig. 14 a-d. . Conchiglia piuttosto piccola, generalmente lunga quanto larga, di forma orbicolare negli individui di giovine età, tendente alla triangolare negli individui adulti. Le sue valve a struttura fi- brosa sono ornate da sottilissime linee concentriche d’accresci- mento parallele alla regione palleale. La grande valva, unifor- memente e non molta compressa, presenta alla regione frontale un ampio seno pochissimo marcato, che si estende per circa un quarto dell'intera larghezza. In questo seno scorrono tre pieghe profonde, angolose o leggermente arrotondate, che vanno gra- datamente diminuendo in rilievo in prossimità alla regione api- ciale. Esso è limitato lateralmente da due costicine, a ciascuna delle quali ne succedono ancora due più piccole delle altre, dopo di che si ha la commissura laterale delle valve in linea ben poco ondulata. Nella piccola valva, alquanto più convessa della grande, corrispondentemente al seno mediano di quest’ ultima, si ha un lobo appena marcato con tre costicine longitudinali, limitato da due ampie pieghe laterali a cui ne succedono altre due. Si contano così otto costicine su di una valva e nove sull’ altra, che irradiano dagli apici, andando aumentando in rilievo coll’av- vicinarsi alla regione palleale. Le dentature del margine frontale, che è rialzato verso la piccola valva, si presentano ordinaria- mente acute e talora alquanto arrotondate. L’ apice della grande valva è leggermente ricurvo, non molto acuminato, e non offre punto spigoli laterali: la falsa area è pochissimo sviluppata. Il forame, di mediocre grandezza, è compreso dalle due linee ben visibili, che determinano il deltidio. I caratteri interni sono sconosciuti. I limiti delle dimensioni dei varî individui esaminati sono i seguenti: I. II. RANA TA AAA ao rtchezA e ee na SPESSOZzani n ns eee ne DR, do Sebbene nei molteplici esemplari della P%. suavis osservati 166 M. CANAVARI sia rimarchevole ia grande uniformità di tuttii caratteri esterni e specialmente quello relativo al numero e alla disposizione delle costicine, tuttavia non formando questo un essenziale carattere specifico a testimonianza dei più dotti paleontologi, siamo con- dotti a ravvicinare, come varietà quadriplicata, alla E%. suavis tipica quattro esemplari che diversificano solo da essa per avere nel seno mediano della grande valva quattro pieghe invece di tre e corrispondentemente quattro costicine nella piccola valva. Uno di questi individui (fig. 14) presenta le seguenti di- mensioni: LURChezza RR E (CH Trarehezza a tarti RE Sai d SPessezza: CI SE ATO) Il grandissimo numero di specie di AAynchonellae, descritte dai paleontologi, che tanto poco diversificano le une dalle altre, costituendo una lunga serie di passaggi graduali e appena sen- sibili da individuo a individuo di specie anche differenti da ren- dere per tal maniera oltremodo difficile il posto che a ciascuna di esse compete, mi ha indotto a proporre come nuova la specie descritta, la quale si avvicina, considerando ora alcuni ora altri caratteri, ora a questa, ora a quella specie liassica. Così per esempio riguardo al numero e alla disposizione delle costicine l’ esemplare figurato come tipico trova qualche analogia con quella varietà della EAynchonella triplicata (Phil.) corrispondente alle fig. 11, 12, tav. 38, nei Brackiopeden delle Petrefact. Deut. (') e che il Quenstedt torna a considerare come specie distinta dalla E%. variabilis, Schloth., alla quale fu già rapportata dal Davidson (?) e da altri. A giudicare dalle figure 11 e 12, tav. 38, che dà il Quenstedt (*) della F%. sriplicata mi sembra doversi separare da questa la E%. suavis tipica per la conformazione dell’apice e per la minore profondità del seno della grande valva, carattere, che, nella nostra specie, rimane invariato in tutti gli esemplari (12) esaminati. Per le stesse ed altre ragioni la R%. suavis è poi anche separata dalle altre forme (4) Quenstedt — Petrefact. Deut. Der ers. Abth., zw. B., Leipizig, 1874. (2) Davidson — A mon. of Brit. col. and lias. brach., nella Pal. Soc., pag. 78, London, 1852, — (8) Quenstedt — I. c. SUI FOSSILI DEL LIAS INFERIORE NELL’APPENNINO CENTRALE 167 della E%. variabilis, Schloth. Basta difatti per convincersi di ciò dare uno guardo alle figure che do della mia specie e a quelle che il Davidson (') ed altri riportano della R%. variabilis, Schloth. Inoltre la E%. suavis tipica trova qualche riscontro con la Eh. Briseis, Gemm. (?) raccolta nella zona a Terebratula Aspasia, Mgh. di Palermo; dalla quale poi diversifica per la minore acu- tezza dell’apice, per la maggiore ampiezza del deltidio e per la minore profondità del seno mediano della grande valva. Questo ultimo carattere dà alla nostra specie una forma del tutto di- versa da quella della £%. Briseis, Gemm., come si osserva com- parando la fig. 11°, della F%. suavis con la fig. 21°, tav. 11 (*) della specie del Gemmellaro. La varietà quadriplicata della Eh. suavis più che a qualunque forma della FR. variabilis, Schloth., o della 7. Briseis, Gemm. trova invece una notevole analogia con quella varietà della A%. plicatissima di Quenstedt corrispondente alla fig. 40, tav. 37 (‘) raccolta presso Rommelsbach nella zona superiore a quella ad Arieti (Lias inferiore). Ho rinvenuti 16 individui della R%. suavis, compresi i quat- tro della varietà quadriplicata, nel Lias inferiore del monte Sanvicino, e tutti aggrupati pressochè nel medesimo posto. Spiegazione delle Figure Fig. 13 a-d. RAynchonella suavis, n. sp., del Lias inferiore del monte Sanvicino, ingrandita. Fig. 14 a-d. » » n. sp., varietà quadriplicata, della stessa località, ingrandita. Rhynchonella, n. sp.? Tav.XI, fig.15 a, b. Alle Balze del monte Vettore, sopra Le Petrare, nel calcare massiccio d’ apparenza dolomitico (Lias inferiore) raccoglieva il (‘) Davidson — |. c. (Fig. 8-10 nella tav. XV e fig. 1-6 nella tav. XVI). (2) GG. Gemmellaro — Sopra alc. faune giur. e lias. di Sicilia, pag. 77, tav. XL, fig. 19-22. Palermo, 1874. (3) GG. Gemmellaro — |. c. (4) Quenstedt — Die Brachiopoden ec. 168 M. CANAVARI prof. F. Mici una bella specie di E/ynchonella, che per essere in parte rotta e in parte ancora incastrata nella roccia, quan- tunque siasi cercato ogni mezzo per denudarla, non si può che incompletamente descrivere. È una conchiglia triangolare, molto dilatata, che proba- bilmente aveva una larghezza di 26"", sopra. una lunghezza dai 15 ai 18 millimetri. La grande valva, la sola e non com- pletamente visibile, è uniformemente convessa. Essa ha un seno mediano pochissimo profondo, che dall’apice si protende sino alla fronte, ove assume la massima larghezza di 3", 5. In questo seno scorrono due costicine, maggiormente rilevate in prossimità alla regione frontale, costicine che vanno gradata- mente diminuendo di rilievo coll’avvicinarsi alla regione apiciale, nella quale poi scompariscono del tutto. Questo seno è limitato lateralmente da due coste angolose o alquanto arrotondate, alle quali dovevano succederne ancora quattro, che si avanzano dalla regione palleale, diminuendo in rilievo, fino all'apice, il quale si presenta robusto, acuminato e alquanto ricurvo. Sotto di esso può scorgersi un piccolissimo forame, ma non si vede alcuna traccia del deltidio. Nulla si può dire sulla conformazione della piccola valva, nulla riguardo alla linea commissurale delle due valve. Il carattere che abbiamo accennato delle costicine longitudinali nel piccolo seno mediano della grande valva, di rilievo minore di tutte le altre, non fa ravvicinare questa specie a nessuna delle conosciute; mentre poi la conformazione dell’ apice della grande valva e la piccolezza del forame la farebbero ravvicinare alla EA. Fraasi, Op. del Lias inferiore di Hierlatz ('). Spiegazione delle figure Fig. 15 a, b. #Aynchonella, n. sp.?, del Lias inferiore del monte Vettore, in grandezza naturale. (!) Oppel — Ue. die Brach. ec. SUI FOSSILI DEL LIAS INFERIORE NELL APPENNINO CENTRALE 169 Echinodermi Gen. Cidaris (Lam.) Desor. Cidaris laevis, n. sp. lay Xtiog o ba, b. Radiolo fusiforme, di variabilissime dimensioni, a superficie liscia, a cingolo parimenti liscio, a superficie articolare alquanto conicamente escavata. , Le dimensioni più frequenti sono: Wonshezzi ee. a. 0 Diametro massimo ... .... RIE e Me Diametro della superficie articolare. . 1°" Nel lias inferiore delle Grotte di S. Eustachio, presso Sanse- verino-Marche, il Cidaris laevis è il fossile prevalente insieme all’ Emarginula Meneghiniana, Canav. Spiegazione delle figure Fig. 16. Cidaris laevis, n. sp., delle Grotte di S. Eustachio, presso Sanseverino — Marche, in grandezza naturale. Fig. 17. Frammento di Cidaris laevis della stessa località, ingrandito. Fig. 17.. Sezione della superficie articolare del precedente, ingrandita. QUa po della fauna sino ad ora notata nel Lias inferiore dell’ Appennino centrale TROTTO TU 28 "5 [al (c} ai CH > Con E ai e [SANS [SÌ = » Fi 3 El s 5) ì o a è Co) © dI (o) ==] ® CH E oagl 2 Zi > H S_[QL_| E © 5 S| S| eee ce © Sera e le = 3065 Cefalopodi Arietites, sp. ind. ò + + Gasteropodi Natica, sp. ind . + . 3 . Chemnitzia Pseudotumida, ‘De- Stef. o PORCA 5 sia Chemnitzia, Sp. ind. ol o x Esa + 3 Chemnitzia, sp. ind. ò IP | . Straparollus circumcostatus, Canav. + + o Pleurotomaria, sp. ind. dl 0 0 | + Pleurotomaria cfr. rotundata, Mon. È | + Pleurotomaria cfr. Suessi, Hùr. ; + Pleurotomaria, sp. ind. + i Cerithium, sp. ind. +. | Turritella, sp.ind. . , ò + | Phasianella morenoyuna, Piet. + + Emarginula Meneghiniana, Canay. + Solarium cfr. liasinum, Dkr. + Acefali Pleuromya, sp. ind. dis + 7 E 5 Cypricardia, sp.ind. . . + + È 5 t Lucina, sp. ind.. G 3; A= | ò . Astarte, sp. ind . 0 o 0 + . Opis, sp. ind. © . a olio + 0 i Avicula Janus, Mgh. . . . è ò + a Arca, sp. ind. . 9 + . . Pecten, sp. ind. . + gdo + Ò Pecten, sp. iud. . olo + Lima, sp.ind. . . è. oo GP Brachiopodi Terebratula Eustachiana, Canav. + . : Terebratula Micii, Canav. . + 5 Terebratula cfr. sphenoidalis, nigh. + 5 Terebratula, sp. ind. . è. + do . + a Waldk eimia Neronis, Mgh. . 0 + 5 E Ehynchonella variabilis, Schloth. sp... + + A Rhynchonella suavie, Canav.. Ce o È Rhynchonella, n. Sp? . . . + o Crostacei Un frammento di chela indeterminabile. . + 5 . Echinodermi Cidaris laevis, Canav. . c + 3 } Cada y:e8595 011 dI E RTS IT o RO + " 6 . x 5 Etra i 00 0900 00 0 o + Bal . 5 . | M. CANAVARI — SUI FOSSILI DEL LIAS INF. ECC. 171 CONCLUSIONE Prescindendo dalle specie nuove e da quelle indeterminabili la sola EAynchonella variabilis, Schloth. della fauna citata si rinviene senza legge in ogni divisione liassica, nè certo si può prendere come tipica per definire l'età di un orizzonte geologico, molto più poi se si consideri a quali innumerevoli variazioni essa vada soggetta; la Terebratula cfr. sphenoidalis, Mgh. sembrarebbe specie del Lias medio. Invece la Pleurotomaria cfr. rotundata, Munst, la PI. cfr. Suessi, Hòr. e il Soliarium cfr. liasinum, Dkr. hanno moltissime analogie con quelle specie del Lias inferiore alle quali sono state paragonate. Le specie poi: Chemnitzia pseudotumida, De Stef., Phasianella morencyana, Piet., Avicula Janus, Mgh., sono decisamente del Lias inferiore e possono considerarsi come tipiche di un tale orizzonte. E pur vero ch’esse nell'Appennino centrale non sono uniformemente diffuse, ma la calcaria nella quale si rinvennero occupa sempre la medesima posizione statigrafica ed aggiungerò anche sì pre- senta sempre con i medesimi fisici caratteri, come fu descritta sin dal principio di questa nota. Sicchè io credo che si possa defi- nitivamente stabilire che , l'orizzonte fossilifero della calcaria d’apparenza dolomitica, che forma nell’ Appennino centrale gli assi di tutte le diverse ellissoidi di sollevamento, appartiene al Lias in- feriore e forse alla parte più antica ,. Fig. 1. Chemnitzia pseudotumida, De-Stef., in grandezza . 10 a-d, 11 a-d. Terebratula Micii, n. sp., in grandezz RASVIO EAT Spiegazione delle Figure Località dell'esemplare figurato naturale (col. Toni). Cesi (Umbria). 9. » » » M.'° Rotondo, presso Pisa. i a : Grotte S. Eustachio, pres- 3 a, b. Straparollus circumcostalus, n. sp... .... | so Sanseverino (Marche). 4 a-c. Emarginula Meneghiniana, n. sp., ingrandita . » O=850 VADICHATTANUS AMEDEO Monte Pietralata al Furlo. 9 a-d. Terebratula Eustachiana, n. sp., in grandezza Grotte S. Eustachio, pres- naturale... .... so Sanseverino (Marche). à Monte Sanvicino. naturale . ...... 12 a-d. Waldheimia Neronis, Men erede zano: | Monic NS Fondi Monte Sanvicino. 14 a-d. » » var. quadriplicata, in- grandita | 15 a, b. Rhynchonella, n. sp?, in grandezza naturale. Monte Vettore. » DION, . » Grotte S. Eustachio, pres- 16. Cidaris laevis, n. sp., in grandezza naturale . i so Sanseverino (Marche). 17a,b. » » INC LAN AO » STUDII CHIMICI I SULLA IEULANDITE SULLA: STILDITE DI S. PIRRO: (ELBA PER IL PROF. G. GRATTAROLA E DOTT, F. SANSONI E STUDI CHIMICI E OTTICO-CRISTALLOGRAFICI SU CN VARIETA: DI ZIRCONE B SU VARIE PRODOTTI ARTIFICIALI PER G. GRATTAROLA Nell’eccellente “ Mineralogia della Toscana , del Professore A. D'Achiardi trovansi registrate le analisi delle suddette due zeoliti. L'analisi della stilbite, eseguita da un allievo del prof. E. Bechi di Firenze, (Min. della Toscana, IL pag. 117) e ripor- tata nel quadro più sotto compilato, nen corrispondeva alla so- lita formula del minerale; di qui l’idea di riprendere lo studio analitico della sostanza e decidere sui resultati antecedenti. L'analisi della heulandite, eseguita da un allievo dello stesso prof. Bechi (Min. della Toscana II, pag. 115), non corrisponde- rebbe neppur essa alla formula tipica del minerale; e nemmeno non vi corrisponderebbe (benchè meno se ne discosti), l’ analisi che di tal sostanza fu fatta da Francesco Stagi (loco citato, App. p. 366). Il 2.° quadro comprende tali due analisi. E quindi anche per questa ben definita e ben cristallizzata specie era opportuno di ripetere le analisi. Ecco il processo e i resultati: Stasi te La sostanza sottoposta all'analisi si mostra sotto forma di pallottole sferiche, la cui superficie è costituita da facce di pic- Se. Nat. Vol, IV, fasc. 2.° 12 174 GRATTAROLA E SANSONI coli cristalli, più o meno sporgenti: spezzate, queste pallottole manifestano costantemente (almeno per tutti gli esemplari da noi osservati) una disposizione fibroso-raggiata. Il colore è bian- co, la lucentezza madreperlacea, e le facili prove che si possono instituire la fanno certamente riferire alla specie stilbite. Ed in questo senso procedè la determinazione quantitativa. Avendo a disposizione una quantità di materia relativamente abbondante, si ebbe scrupolosa cura, a che la sostanza sottoposta all’analisi fosse pura stilbite. Fu finamente ridotta in polvere: esposta quindi per un’ ora alla temperatura di 100 C.: essa perdè 2,38% di acqua. Lasciata per 86 ore alla temperatura ordinaria, essa ne aveva perduto solo 0, 31%, Esposta di nuovo per 3 ore a 100° resultò aver perduto 2,19%. Calcinata violentemente al cannello, l’acqua rappresentò il 19,23%. Così disidratata, fu trattata con acido cloridrico, e non ottenendo completa decom- posizione si ricorse al trattamento coi carbonati alcalini. Deter- minata la silice con questo mezzo, avemmo la proporzione .di 92, 54;/°. Si precipitò l’ allumina con ammoniaca colle solite av- vertenze. Si ebbe 17,04,/° Trattando il residuo chiaro con ossa- lato di ammoniaca, si ottenne per la calce 9,96%. Per la ma- gnesia precipitata con fosfato sodico-ammonico si ebbe 0,45%. Fu ripresa l’analisi della stilbite seguendo altra via: fu sot- toposta direttamente all’ azione prolungata per vari giorni del- l’acido cloroidrico debolmente diluito: sebbene idratata, essa non si disciolse che in piccola parte, rimanendo sul filtro circa il 76 0: si eliminò la silice rimasta, ricorrendo all’altro processo di analisi usato per i silicati, cioè al fluoruro d’ammonio e acido solforico. Le basi furono determinate coi metodi suddescritti; e si ebbe 16, 15%, per l’allumina, 8,48%, di calce, 0,39, di magnesia. Allo scopo di determinare gli alcali (specialmente potassa e soda) fu ripresa di nuovo l’analisi. Avemmo, con li stessi pro- cessi che sopra, 17,64%, di allumina. Dopo avere tolta quindi la calce e la magnesia, della quantità delle quali non fu tenuto conto, si ridussero gli alcali allo stato di solfati. Gli alcali v'erano complessivamente rappresentati da 1,80%. STUDII CHIMICI SOPRA LA HEULANDITE E LA STILBITE 175 Confronto di diverse analisi di stilbite di varie località | Stilbite Stilbite -_-=[ r-—/ Dell’ Isola d’Elba Gustafsberg ie {| {#" "_——m » Cie (Svezia) | Standa | Laboratorio di Mineralogia | Allievo Sa Fuchs e | i del | Sjògren | Firenze Bechi | Gehlen I. II. III. | media | | ri Siero 102,134 — — | 52,34 | 56,00 | 57,00 | 55,07 Allumiza. | 17,04 | 17,15 | 16,64 | 16,94| 9,00 | 16,14 | 16,58 Calce. ..| 9,96) 8,48 se 220 00, SESTO (8 | | | | Î Magnesia | 0,43 | 0,39 — 0, 4D1 | 3,00 | #racce = Potassa . — _ ( \ | _ 1,04 | ) 1,80) 1,80 ) 1,50 Soda. . . — | — | 00 Hi, 2 Acqua. . | 19,93 -— CS O23A MI Z00N MCO. 19030 — — | 99,94 |101,00 |101, 00 |100, 03 Dal suesposto quadro comparativo, resulta che all'analisi da noi eseguita, vi corrisponde meglio di ogni altra, quella eseguita sulla stilbite dell’ Islanda, da Fuchs e Gehlen, riportata dal Dana a pag. 442 del System of Mineralogy. JLeulandite Minerale ben cristallizzato, a facce lucentissime : aspetto mi- caceo, lucentezza madreperlacea, color giallo pallido ec. Esposto alla temperatura di 100° C, per 4 ore essa perdè 1, 84% d’ acqua Calcinato fortemente, l’acqua giunse alla proporzione di 16, 80%. T'rattata coi carbonati alcalini dette 57,15 |) di silice. L’'allu- mina, precipitata con l’ammoniaca, si trovò nella proporzione di 17, 72%. La calce trovata fu di 9, 53°. Trattando il residuo chiaro con fosfato sodico ammonico, si son potute avvertire tracce di magnesia, desunte da un leggerissimo intorbidamento della soluzione, sensibile appena dopo 24 ore. Anche per gli 176 GRATTAROLA E SANSONI alcali (soda e potassa) possiam dire essere dessi rappresentati da piccole tracce, tantochè non sempre le loro reazioni si pro- ducono al cannello in un modo sensibile. Anche di queste so- stanze si procurò di sottoporre all'analisi, e di ridurre in pol- vere della sostanza pure rappresentata da cristalli completi. | Heulandite | : Heulandite | Dell’ Isola d’ Elba | | Igloo | Faroe nn Laborat, | Allievo 7 R r Q ammel- Firenze | Bechi Stagi | stero Thomson Sile co] 000000032 59 Allumina. | 17, 72| 7,273 14,00) 17,6 Mz 2 Gale | GE Sol 2 7,65 Magnesia | tracce 4, 1123 — — = Potassa . | tracce Steri E = <= SO 0 0 | Waece 7 213 9,80 — — Acqua. . | 16,80 | 11,700| 10,00 | 16,0 15, 40 | 101, 20, | 98,850] 99,80 | 99,0 |100, 12 Si rileva che la heulandite di S. Piero in Camp» Elba) concorda meglio per ciò che si riferisce alla sua composizi»ne con la heulan- dite d'Islanda, di cui l’analisi fu eseguita da Rammelsberg e riportata dal Dana, pag. 445 (loco citato). BECCARITE, VARIETÀ DI ZIRCONE DEL CEYLON 177 Beccarite, Varietà di Zircone di Ceylon per G. Grattarola. Dall’ultimo suo viaggio (1878) alle Indie orientali, N. Guinea, Australia e N. Zelanda, il Dott. 0. Beccari riportava in patria una nuova e importante messe di materiale scientifico, special- mente zoologico e botanico. Non aveva però affatto trascurato l’altro ramo di scienze naturali, la Mineralogia; e infatti, insieme ad altro materiale, di cui renderò conto ove sia il caso in altra occasione, donava al Museo Mineralogico che ho 1’ onore il di- rigere nell'Istituto Superiore di Firenze un qualche centinaio di frammenti e cristalli più o meno rotolati ghe aveva acqui- stati a Point-de Galles, Ceylon, dagli indigeni. Avendo trovato in mezzo a questo materiale alcunchè di interessante, merita conto ne sia tenuta speciale parola. _ La maggior parte del materiale consiste in quei cristalli e ciottoletti che s'è soliti vedere di quella provenienza; come gra- nati; spinelli; corindoni di vario colore; crisoberilli; quarzi ame- tistini; zirconi giallo-rossastri. Nelle collezioni si trovano gene- ricamente indicati come provenienti da Ceylon; alcune volte da Matura nel Ceylon; ma la loro vera località originaria è quella località nel Ceylon detta Saffragam, bellissima serie di colline al cui piede si distendono piani alluvionali, che per la loro ric- chezza in gemme hanno dato alla capitale della regione il nome di Ratnapoora (letteralmente “ città dei rubini ,) ('). In mezzo ai pezzi che pel loro aspetto erano facilmente ricordati, si mo- stravano due specie che non s'era soliti a vedere nelle colle- zioni. La prima era una sostanza incolora, vitrea, durissima, che alle solite prove si dimostrò topazzo con grande angolo degli assi ottici. La seconda era rappresentata da ciottoletti (rara- mente da cristalli) color verde-oliva, talvolta con riflessi opalini, rassomiglianti talvolta all’ epidoto, talvolta alla crisolite, assai duri (durezza 8), intrattabili al cannello e eogli acidi; talvolta a struttura zonata o stratificata, talvolta compatta ed omogenea, con splendore vitreo-resinoso, lucente nella frattura; caratteri, che salva la colorazione, concordano con quelli dei comuni zir- (') Chi volesse conoscere più particolarmente di questo giacimento, può con- sultare il «Ceylon» by Sir James Emerson Tennent, Londor: 1860. Vol. 1. pag. 28-58. 178 G. GRATTAROLA coni rossi del Ceylon. Trovandosi, come è detto, dei cristalli più o meno rotolati' fra i ciottoletti, abbastanza mantenuti per po- terne tagliar delle sezioni in direzioni determinate e poter anche misurare approssimativamente gli angoli delle facce, ne impresi anche lo studio chimico per la possibilità che si trattasse di una interessante varietà di quel minerale. La fig. 1, mostra l’ esterno aspetto del cristallo ingrandito Fig; quattro volte. Su un prisma quasi qua- drato si elevano due ottaedri pur essì quasi quadrati. Tal forme corrispondono appros- simativamente alle facce I, 3, 1, della fi. 249 del System of Miner sog Y del Dema (p ag. 273); come appare dal seguente qua- dro di valori angolari ottenuti usando, per la misura, dell’ aiuto dei vetricini da microscopio. UZÀ Zona ciba da bic c' b' 160. 14. 30. bia io 2402 aela A OA ao 90 IT, becisiole208 fora oa ao e, a” c° 131. 47. 40. a lo 1955) ao 2490) apo A A0) DCO 0: a‘ e“ 133. 15. 40 (calcolato). YOUR ecc CRCAd0 RorA0Ì CACHIZAZO. CRCIRolo20. CLIC: Da cui appare, come fatta la debita parte agli errori di mi- surazione, rimanga sempre troppa differenza fra i valori angolari corrispondenti, per poter accettare, anche dal solo lato cristallo- grafico, per sistema cristallino di questa sostanza, il dimetrico. BECCARITE, VARIETÀ DI ZIRCONE DEI CEYLON 179 Tagliata dal cristallo stesso, che aveva servito per la misu- razione, una grossa lamina perpendicolare all’ asse verticale, si poterono studiare le proprietà ottiche. La lamina riuscì singo- larmente trasparente e lustra, per cui Pig. 2. sì potettero già vedere ad occhio nudo cinque piani di geminazione, alquanto inclinati sulla superficie della lamina, le cui tracce si vedono segnate sul piano della sezione stessa, raffigurata nella fig. 2. Queste tracce anche ad occhio non sono simmetricamente disposte ri- spetto alle linee principali del cristallo; come si scorge infatti dai valori 132° e 140° ottenuti colla diretta misurazione che le due branche for- mano colla linea mediana. Alla luce polarizzata parallela la sezione presenta fenomeni in parte poco decisi; ma resulta però evidente che i quattro set- tori, che dai suddetti piani di geminazione o sutura sono di- visi, non hanno comune il punto di massima estinzione, quando si faccia girare la sezione nel suo proprio piano. Nessuno dei settori presenta poi quella proprietà dello zircone descritta dal sig. Mallard nell’ ,, Explication des phénomènes optiques des mi- néraux etc. , negli Ann. des Mines X. 1876. 60. tav. III, fig. 51. Alla luce polarizzata convergente i quattro settori si mani- festano come altrettanti individui cristallini, geminati secondo quei piani di sutura, e costituenti quel complesso prismatico quasi quadrato che è il cristallo naturale. Di più queste quat- tro porzioni si mostrano decisamente biassiche, offrendo ben manifesti e staccati i due rami delle iperboli; e finalmente il piano degli assi ottici, per ciascuna delle quattro parti del cri- stallo, ha una posizione sua propria e differente dalle altre. Queste rispettive posizioni sono segnate nella figura da rette con due ingrossature indicanti le tracce dei piani e degli assi ottici. L’ inclinazione rispetto ad una retta costante (spigolo c') è rappresentato dal numero di gradi che vi si trova accanto; il segno + indica se l'inclinazione è a sinistra o a destra. Sulla porzione più favorevole fu determinato pur anco l’an- golo assiale nell’aria alla luce ordinaria; esso risultò di 14°. 16°. Finalmente l' analisi chimica da me eseguita su un esemplare 180 G. GRATTAROLA uguale a quello studiato cristallograficamente ed otticamente diede: Perdita QUO 0 Silice i Ere e eni0 00) ZICCONIA: n ERO OZAMO Allumina Gi rea Calce Ro AO 0 98, 92 Nel qual resultato è notevole la sensibile deficienza della silice (silice teorica 33); della zirconia (Zr 0 teorica 67); e per contrapposto la sensibile quantità di allumina e di calce. Se adunque la chiara geminazione (?) di questa varietà; la decisa biassicità; la discreta variazione di composizione giustificano la creazione di una varietà nello zircone, proporrei che essa fosse nominata Beccarite in onore all’ illustre viaggiatore che la ripor- tava dal suo viaggio e la donava al Museo Mineralogico di Firenze. (4) Come particolarità costante di questa specie bisogna notare un'estrema difficoltà a filtrare il residuo di silice proveniente dal trattamento coi carbonati al- calini; tanto da sorpassare dimolto la ben nota difficoltà di lavaggio del”’allumina e terre consimili. (2) La tendenza ad una geminazione congenere è piuttosto comune in questa verietà. Parecchie altre lamine di altri cristalli si sono mostrate come costituite da porzioni biassiche con piano ottico variabile di posizione da punto a punto; senza però possedere sempre dette superficie di suture così piane e nette; sono invece per lo più irregolarmente curve. STUDII SULL’ ACIDO LITOFELLICO, FC. 181 Studio cristallografico ed ottico dell’acido litofellico, litofellato baritico e del litobilato baritico per G. Grattarola. Il prof. Giorgio Roster, dell’Istituto di Studii Superiori in Firenze, ha recentemente ripreso i suoi antichi studii sulla co- stituzione chimica e le altre proprietà dell’ acido litofellico e suoi derivati; ed ha pubblicato i risultati del suo studio. , Sull’acido litofellico e sopra alcuni litofellati , Firenze, Civelli, 1879, e s Sopra un nuovo acido organico, Acido litobilico, che si trova nei bezoari orientali insieme all’ acido litofellico , Firenze, Civelli, 1879. A tali pubblicazioni può ricorrere chi desiderasse occuparsi più intimamente dell’ argomento. Io non riporterò qui altro che i risultati dello studio cristallografico ed ottico, di cui quell’egre- gio mio amico mi volle con tanta bontà incaricare. Acido litofellico: C,, Hyg O, x La forma abituale dei cristalli è quella rappresentata dalla fig. 3; cioè di un prisma esagono approssimativamente regolare, finito dalle facce basali, e cogli spigoli orizzontali modificati da un romboedro. Parrebbe dunque appartenere al sistema romboedrico. Lo studio ulteriore non permette di adot- tare questo concetto. L'estrema piccolezza dei cristalli e l’imperfezione delle loro facce non permettono la solita misurazione al goniometro di Mitscherlich; il più delle volte, invece della riflessione di una mira luminosa conviene contentarsi di fissare i massimi di lumi- nosità per le facce da misurarsi. L'applicazione dei vetricini sussidiarii per le ragioni suddette non conduce a buoni resultati. Scelto, fra il materiale discretamente abbondante, il cristallo più perfetto, si ottennero le seguenti misure (riferite, per le Se. Nat. Vol. IV, fasc. 2.° 13 182 G. GRATTAROLA lettere. alla fig. 4, che rappresenta il cristallo proiettato su una delle sue basi), NB TA AC 88 22 20 ADANI 48 10 AGR 44 30 LOLA 57 30 \ angoli polari. AG 88 47 50 AH indeterminabile AZ IT 30 AR 187 2 10 Da cui appare come ritenendo la faccia A come piana, le tre facce prismatiche C, G, K, corrispondenti alle smussature fanno un angolo (vero) ottuso colla faccia A, e le tre E, D, K fanno invece un angolo acuto. E da notarsi la grande analogia delle facce B, F, I per quello che riguarda la loro inclinazione colla faccia A. Non essendo possibile misurare con sufficiente approssima- zione al solito goniometro gli angoli del prisma, si dovette ap- profittare dell’ approssimata normalità delle facce prismatiche sulla base per valutare gli angoli prismatici col goniometro del microscopio ('). 1° approssimazione non può evidentemente essere maggiore di 1 grado. Questi valori sono: CH 119 Dean. Hi (22 ica 19300 GD. .|l9:, RCN Da cui, fatta pure la debita parte agli errori di lettura ed all’esigua obliquità del prisma; gli angoli rimangono sempre discretamente differenti fra loro. Fig. 4. Alla luce polarizzata si possono osser- vare fenomeni interessanti. Collocato il cri- stallo su una delle sue basi, e osservato alla luce polarizzata parallela, a nicols in- crociati, nella direzione assiale del prisma, il prisma esagono si mostra costituite da sei prismi triangolari (emiprismi rombici) geminati secondo un piano approssimativa- (4) Microstauroscopio di Fuess, con correzione per centrare il tubo sulla tavola girante. STUDII SULL’ ACIDO LITOFELLICO EC. 183 mente verticale. L’esagono di base si divide in 6 triangoli come indica la fig. 5, con tinte differenti l'una dall’ altra e aventi per di più (durante la rotazione del cristallo attorno al suo asse prismatico) posizioni l’una dall’altra differente di estinzione lu- minosa. Questa esageminazione resulta anche più dimostrata usando la luce polarizzata convergente ('). Per ogni triangolo fu potuta constatare una ben decisa biassicità mediante la comparsa dei rami d’iperbole ben staccati. Il valore di questa biassicità, stante la esigua dimensione dei cristalli e la mancanza del relativo apparecchio di von Lasaulx non fu potuta determinare; approssima- tivamente però può ritenersi variabile fra 1 15 e i 20 gradi. Ogni triangolo possiede inoltre una sua propria posi- zione di piano ottico, sensibilmente dif- ferente da quella degli altri; e questa è posizione raffigurata approssimativamente nella fig. 5, e nu- mericamente poi è rappresentata dai seguenti valori, in cui il segno + indica l'inclinazione a sinistra o a destra. Fig. 5. Deviazione (in gradi) ME Cel rg da una retta normale al la'o C C ATO E + 56 K — 54 D — 10 G + 68 Hi — 75 Da cui appare come il piano degli assi ottici è approssima- tivamente perpendicolare alla faccia esterna di ciascun emiprisma. (') Stante l'estrema piccolezza dei cristalli (da ‘[, a 1 mm.) resultano assai indecise le differenze fra le varie parti del cristallo usando il solito microscopio «polarizzante, p. es. quello di Groth. Serve invece cccellentemente il metodo di von Lasaulx con cui si può usare il noto mierostauroscopio di Fuess e studiare le pro- prietà ottiche quasi colla stessa minutezza ed esattezza che i caratteri micro-pe- tragrofici. 184 G. GRATTAROLA Una leggera dissimetria delle iperboli rispetto al reticolo del microscopio non permette nemmeno di ritenere questo piano degli assi ottici come perpendicolari alla base A. Concludendo: i cristalli esagonali di acido litotellico sono una esa-geminazione di emiprismi rombici leggermente obliqui, con emi-pinakoide, con simmetria non maggiore della monoclina. La poligeminazione è inoltre un fenomeno costante, benchè non sempre così evidentemente distinto, nei sette od otto cristalli in cui la struttura permetteva il relativo esperimento. Litofellato baritico. C,, Hj Ba 0g La fig. 6 mostra l’ abituale forma dei cristalli sufficiente- mente grande da poter essere misurati al gonio- metro di riflessione. Un prisma principale esa- 2 _ gono regolare, (0) unito ad un notevole numero ani bee di altri prismi secondarii e che rendono striata longitudinalmente le facce del primo; sormon- tato dalle facce di un romboedro, costituiscono (IS la forma generale del cristallo, che ricorda la | forma di alcune rubelliti di S. Piero in Campo, | Elba. L'abito è adunque romboedrico; il sistema e cristallino, secondo lo studio cristallografico che SS sì potè eseguire, non si deve esso pure scostar molto dal romboedrico. I cristalli, essendo di una straordinaria fragilità di per sè stessi, aumentata per di più dalla facilità con cui perdono acqua e da limpidi si riducono opachi, e farinosi, non possono sotto- stare molto tempo alle operazioni di misurazione; quindi i re- sultati sono incompleti e indecisi. Ecco quelli che usando pre- cauzioni speciali si potettero ottenere. IO cristallo. Angoli del romboedro 100 (facce a) 100 A 010 96080207. 010 A 001 55. 58. 001 A 100 AI 0 STUDI! SULL’ ACIDO LITOFELLICO EC, 185 II? cristallo. 100 / 010 940, 21 III. cristallo. 100 A 010 30. 010 / 001 540, 28, Nel I° cristallo furono anche determinate le seguenti posì- zioni di facce maggiormente sviluppate nella zona prismatica: 00-90, 20776628750; 83. 49. 207 123. 26; 145.3. 30; 185. 15; 208. 28; 236. 49; 305. 46. Provvisoriamente sì possono quindi ritenere come approssi- mativamente uguali gli spigoli concorrenti del romboedro; e la romboedricità della sostanza sarebbe di (180° - 55°) 125°. La forma della fig. 6 è presentata nella sua completezza dagli individui microscopici, che sono generalmente adagiati su una faccia del prisma esagono, e quindi alla luce polarizzata mo- strano tre zone di cui la mediana uniformemente colorata e le due laterali con tinte sfumate. I massimi d’estinzione coincidono sensibilmente colle direzioni longitudinale e trasversale dei pri- smettini. Per l’estrema fragilità e alterabilità dei cristalli di litofellato baritico non fu possibile di ottenerne soddisfacenti sezioni per- pendicolari all’ asse ottico. Litobilato baritico, Cso Hixj Ba Oa Nella stessa acqua madre dei cristalli surriferiti trovaronsi rari cristalletti di una nuova sostanza descritta dal Prof. Roster nella Memoria sull’acido litobilico e che presentavano la seguente figura interessantissima (fig. 7). È un prisma esagono d’altezza in generale così esigua da apparire, ad ingrandimenti mediocri, come una semplice e sottile linea M N 0. Da una parte di questo si eleva una piramide esagonale E F GH che ad una certa 156 G. GRATTAROLA altezza è modificata da una piramide meno acuta A B C D. Dall'altra parte del prisma suddetto s’inalza una pi- ramide esagona P_Q R S, che verso la sua sommità è spuntata dalla pi- ramide IU V Y ec. La linea MNO divide così il cristallo in due parti diseguali e dissimetriche; e questo che è evidente anche all’occhio, è di- mostrato anche da quelle misure go- niometriche che si potettero prendere. I cristalli sono tanto esigui che è inutile pensare a misurarli col gonio- metro a riflessione; nemmeno sono pos- sibili le ricerche ottico-polari; quindi per criterio del sistema cristallino non si ha che la misurazione degli angoli rettilinei dei varii spigoli al goniometro del microscopio ('). Tali angoli sono: NI IO % W Y (calcol.) 63. BC 13% CD 52 BH 168/000 as 169. CG 1691, DF 1723, AE 163! WP 167. FM 90 FQ 151 EM 80 EP 137‘, HS 139. SY 116‘. XW 126... Alcuni degli angoli corrispondenti dalle due parti del cristallo hanno valori discretamente vicini; altri invece anche tenuto conto degli errori indispensabili in questo modo di misura, sono note- (°) In questa determinazione si inclinò il sostegno del cristallo in modo che il piano della zona M NO fosse verticale, STUDII SULL’ ACIDO LITOFELLICO EC. 187 volmente differenti. Cristallografieamente dunque la simmetria massima che conviene a questi cristalli è la monoclina; in cui per assi potrebbero ritenersi: per z la retta che unisce la punta A B col mezzo della retta X; per x una retta parallela alla retta X; e per y una perpendicolare alle due x, y; e piano di simmetria il piano di figura. In questo concetto s’avrebbe una serie di 7 prismi rombici monoclini, cioè a, b, c, d, e, f, g, e il pinakoide h che avrebbe per simbolo 001. Per i prismi mono- clini manca il mezzo di determinare i valori numerici dei loro simboli. AZIONE DEL CALORE SULLA MESCOLANZA D’ISOBUTIRRATO E FORMIATO DI CALCIO ee EE ZETA G. A. BARBAGLIA presentata nell’ Adunanza del di ff maggio 1879, Già fino dal 1851 il WeZamson (') propose un processo generale di preparazione delle aldeide che consiste nello distil- lare una mescolanza di un sale di un acido grasso con un for- miato. Tale idea venne tradotta in atto nel 1856 dal Pirza (3) per le aldeidi della serie aromatica e dal ter (€) per quella della serie grassa. Nel 1871 Lieben e rossi (‘) distillando una mescolanza di butirrato e formiato di calcio prepararono l' al- deide butirrica per trasformarla poscia, coll’idrogeno nascente, in alcoole butilico. Lo stesso Lieden con Paterno (*), sottoponendo alla distillazione secca il formiato di calcio, ottennero alcoole me- tilico e punto ‘aldeide formica. Il Pagliani (9) rinvenne, fra i pre- dotti secondari della distillazione della mescolanza di butirrato e formiato di calcio già usata da Lieben e fossi, insieme all’aldeide butirrica, anche il butirrone. Quest'ultimo pubblicò il suo lavoro quando io a Roma, nel laboratorio del sig. Prof. Cannizzaro, se- guendo il processo generale di preparazione delle aldeide, aveva ottenuto i corpi corrispondenti della serie isobutilica cioè a dire l’alcoole isobutilico, l’aldeide isobutirrica e il dipropilisochetone, (isobutirrone). (4) Annales de chimie e de physique, 3, XL, 110. (2) Nuovo Cimento. III, 126. (3) Annalen d. Chemie u. Pharm. XCVII, p. 368. (4) Gazzetta chimica italiava. A8TA, p. 133. (5) Gazzetta ch. it. 1873, p. 290. (9) Gazzetta ch. ît. 1878, p. 2. AZIONE DEL CALORE SULLA MESCOLANZA EC. 189 Distillai infatti, a porzioni di 10 grammi per volta, una me- scolanza di isobutirrato di calcio (preparato da me stesso col- l’acido isobutirrico della fabbrica Kahlbaum di Berlino, — punto d'ebollizione dai 151 ai 158° C. — e purificato con un pajo di cristallizzazioni) e di formiato di calcio. Il distillato è di colore rosso-bruno e di un odore misto di aldeide e d’ empireumatico; lo trattai con una soluzione satura di bisolfito di sodio e ne ottenni un abbondante precipitato cristallino, il quale, filtrato, lavato con etere, decomposto poscia con carbonato di sodio e distillato in una corrente di anidride carbonica, mi diede un liquido di odore etereo, soave, inebriante aggradevolissimo. Ora questo li- quido, essiccato sul cloruro di calcio e di nuovo distillato in una corrente di anidride carbonica secca, passò tutto dai 61 ai 64° C. e nell’apparecchio si solidificò in parte sottoforma di aghi setacei splendenti. Questi ultimi sono solubilissimi nell’ alcoole, insolubili nel- l'etere e fondono a 60° C. Ricristallizzati nell’alcoole e sottoposti all'analisi elementare diedero i seguenti resultati: Teorici Esperimentali CADONO 0 COMO e 004 Idroseno rar e I OSSIDENORAt. a RZ, 28 e 100, 00 i quali condurrebbero alla formola semplice = C,Hy 0. — Se non che per la forma cristallina e per il punto di fusione, cor- rispondendo esattamente a quelli dell’aldeide polimerizzata, e da mejottenuta alcuni anni addietro, (') così senza sottoporre il corpo a una determinazione di densità di vapore mi credo sufficientemente antorizzato a ritenerlo per aldeide paraisobutirrica = C,3 Ha, Oy. L’'aldeide isobutirrica polimerizza adunque non solo col cloro, coll’iodio e col bromo, ma ben anche spontaneamente; seppure nel nostro caso l’ anidride carbonica, usata allo scopo di espel- lere l’aria dall’ apparecchio, non v'abbia esercitata qualche in- fluenza. Il liquido distillato dai 61° ai 64° C. venne sottoposto a una (1) Berichte der deutschen chemischen Gesellschaft. Berlin 1872, p. 1052 — 1873, p. 1064. 190 G. A. BARBAGLIA nuova distillazione frazionata fuori dal contatto dell’aria e la parte raccolta ai 62°C. (pressione barometrica 757, 2.) sotto- posta all’ analisi elementare diede risultati che conducono del pari alla formula C, Hy 0 cioè: Teoria Esperimento 1,2 Analisi 2.° Analisi Carponio 000000 OSIO 000, ITALO SCO ROME e IS Ossigeno. . .. 23, 23... — — ...- — 100, 00 —CH, Il corpo è adunque aldeide isobutirrica=CH—CH, —COH | L'acqua madre, separata dai cristalli ottenuti, come ho già detto più sopra, versando il bisolfito di sodio nel distillato rosso- bruno, col cloruro di calcio essendosi rappresa in una sol massa cristtallina, e opinando che ciò fosse derivato dalla presenza di un alcoole, ridistillai il tutto con una corrente di vapore d’acqua, il distillato, separato dall’acqua, lo essiccai sulla barite caustica, e poscia lo sottoposi alla distillazione frazionata. A 90° C. in circa raccoglionsi le prime gocce di liquido. — La parte distillata dai 100° ai 110° C. è un liquido trasparente incoloro, di odore ag- gradevole, se fiutato con precauzione, nel caso contrario l'odore è cattivo, provoca la tosse e un senso di costrizione alle fauci; è un poco solubile nell’ acqua, si combina col cloruro di calcio dando origine a un corpo cristallizzato. L’ analisi elementare con- duce alla formola: C, H,, 0. — Teoria Esperimento Carbonio . . ... 164.860 0 648n Tdrogeno o IT e 90 Ossigeno . .... 21,63 .... -- — 100, 00 Arrogi che scaldato con bicromato potassico ed acido solforico si trasforma in aldeide ed in acido isobutirrico. Il corpo è Al- coole isobutilico = —CH, CH—CH, —CH, OH AZIONE DEL CALORE SULLA MESCOLANZA EC. 191 La parte distillata dai 120 ai 180° C. ha un odore aromatico assai aggradevole, odore che richiama quello della menta pipe- rita. — L'analisi elementare disde 73, 03 per cento di carbonio, cifra che è molto vicina a quella centesimale teorica = 73, 68. del dipropilisochetone = CH — C0 — CH GLI... Canon L'origine di quest’ultimo corpo spiegasi facilmente ammettendo che nella miscela eravi eccesso di isobutirrato di calcio, corpo il quale col calore si scinde in dipropilisochetone e in carbonato di calcio. — E ciò parmi abbastanza dimostrato anche dal fatto che nel liquido rosso-bruno proveniente dalla distillazione dei due sali di calcio, non abbiamo riscontrato, neppure una traccia di alcoole metilico che, come è stato dimostrato da Lieben e Paternò, è il corpo principale che si produce nella decomposizione ignea del formiato di calcio. Dal Laboratorio di Chimica applicata della Ri Università di Pisa. AZIONE DEL CALORE SUI BISOLFITI E SULLE LORO COMBINAZIONI COLL’ ACETONE G.A.BARBAGLIA E PIETRO GUCCI presentata nell’ Adunanza del di 7 maggio 1879, Scopo del nostro lavoro sui cristalli composti di bisolfito di sodio e di acetone si è di vedere se o meno quando vengouo scaldati in tubi chiusi ad elevatissima temperatura si scindono in formiato di sodio ed acido tioacetico secondo la equazione chimica: CH, 00 H CH, CH,, NaHS0,= COONa + COSH. Le nostre ricerche ci condussero invece a risultati differenti, che riferiremo brevemente. I cristalli già detti scaldati in tubi chiusi alla temperatura di 125° C. per 7 ore di continuo si scindono in acetone e in bisol- fito di sodio, ma poscia col raffreddamento si ripristinano comple- tamente. A temperatura più elevata, scaldati cioè per un egual tempo dai 150° ai 160°, la loro decomposizione è più profonda e permanente; nel tubo raffreddato si osservano molti cristalli prismatici alcuni di colore rosso oscuro ed altri chiari, nuotanti in un liquido rosso-brunastro. Aprendo il tubo non esce gas veruno, l’aria però dell'interno ha odore intenso di ova fracide e annerisce la cartolina reattiva di acetato di piombo. Sottoponendo il liquido, separato prima dai cristalli colla fil- trazione, alla distillazione, mentre l’ odore sì fa intensissimo, fino a 10.° C. si raccoglie un liquido che consta puramente e semplice- AZIONE DEL CALORE SUI BISOLFITI 193 mente di acetone. Al di sopra di questa temperatura non si rac- colgono che poche gocce di un liquido oleoso rosso-aranciato, solforato che non ci fu dato di identificare perchè si forma in quantità troppo piccola. La parte solida cristallizzata, quella cioè rimasta sul filtro, consta visibilmente di due corpi, di un corpo nerastro, che abbiamo trovato insolubile nell’ acqua, e di un secondo corpo, cristalizzato in prismi e nella medesima solubilissimo. La solu- zione acquosa dei secondi cristalli è acidissima e precipita abbon- dantemente col cloruro di bario. I primi cristalli invece bruciano senza lasciare residuo, con fiamma pallida e spandendo odore di anidride solforosa. Pare adunque dimostrato che, dei due corpi provenienti dalla scissione molecolare dei primitivi cristalli, solo il bisolfito di sodio col calore subisca ulteriore decomposizione chimica. Ora per sa- pere in quali principj) veramente decomponesi il bisolfito abbiamo trattato nell’istesso modo, cioè a dire in tubi chiusi per 7 ore di continuo, 10 Cent. cub. della sua soluzione acquosa satura alla temperatura ordinaria. A 125° C. il sale non dà segno visibile di decomposizione; a 150—160° C. in capo a 6 ore la sua decom- posizione invece è completa.—Il tubo raffreddato presenta nel suo interno un globulo di zolfo nuotante in un liquido incoloro tra- sparente il quale, sia coll’ agitazione, sia ancora aprendo sempli- cemente la punta affilata del tubo, sì rapprende in una massa cristallina. Tale massa si scioglie completamente nell’ acqua e la soluzione arrossa intensamente il tornasole. Opinando che ciò fosse dovuto a presenza di acido solforico nella soluzione di sol- fato di sodio, cioè a dire a presenza di bisolfato di sodio, abbiamo lavato ripetutamente un’ altra parte di cristalli con alcoole; il soluto alcoolico, che del pari è acidissimo, l'abbiamo neutraliz- zato con carbonato di bario e di nuovo filtrato, indi evaporato a bagno maria quasi a secchezza; col raffreddamento il tutto sì rap- prese in una massa risultante dall’intreccio di aghi setacei inco- lori solubilissimi nell'acqua, ì quali, scaldati sulla lamina di platino, lasciano un residuo fisso e insolubile di solfato di bario e bolliti con acido cloridrico o nitrico danno un precipitato in- solubile del pari di solfato di bario. La formazione del solfovi- nato di bario ci autorizza ad ammettere che, nella decomposi- zione del bisolfito di sodio, insieme al solfato di sodio e allo zolfo, sì produce anche dell'acido solforico. 194 BARBAGLIA E GUCCI Il rapporto in ordine al quale questi diversi corpi si for- mano abbiamo determinato coll’ analisi onde offriamo i resultati. Dieci centimetri cubici della stessa soluzione acquosa di bi- solfito di sodio, nella quale si contenevano Gr. 5,595 di sale, scaldati come abbiamo già detto più sopra, ci fornirono: Gr. 0,565 di solfo » 0,882 di acido solforico (') e » 3,884 di solfato di sodio. Ora queste cifre condurebbero all’equazione: 6 NaHSO = 3 Na, SO, + H, SO, + S, + 2 H,j0 e quindi al rapporto centesimale: : Teoretico Esperimentale Solo E LOR 10, 09 Acidoisoltorico So 00 RE ORG Solfato di sodio. 68, 20 ..... 68, 52 AGQUaArIrIiE DE OOO — — 100, 00 Abbiamo ripetuto l’esperienza col bisolfito d’ammonio e con quello di magnesio, e i resultati furono identici ai primi; ovve- rosia, fra i prodotti di decomposizione trovammo, com'era pre- vedibile, in luogo del solfato di sodio, nel primo caso, il solfato d’ammonio, e, nel secondo, il solfato di magnesio. Infatti Cent. cub. 10 della soluzione satura di bisolfito d’Ammonio, nella quale si contenevano Gr. 4,812 di sale, diedero: Gr. 0,510 di solfo » 0,763 di acido solforico, e » 3,219 di solfato d’ammonio; donde il rapporto centesimale: Teoretico Espsrimentale Solto tota eo TOMO eo 10, 59 Acido rsoltorico Rest SV 15, 87 Solfato d’ammonio . 66,660 ..... 66, 89 Acqua, Gere BI 00 — — i 100, 00 (4) L’acido solforico è stato determinato con un assaggio acidimetrico. AZIONE DEL CALORE SUI BISOLFITI EC. 195 Inoltre Cent. cub. 10 di una soluzione di bisolfito di ma- gnesio, nella quale si contenevano Gr. 3,320 di sale, ci diedero: Gr. 0,578 di acido solforico » 2,140 di solfato di magnesio; donde il rapporto centesimale : Teoretico Esperimentale SOM Meet e — — MNeidorsolforico ge AL IN a Solfato di magnesio . 64,75... .. 64, 52 AGG DEE i CA RES — — 100, 00 Laonde le due reazioni si possono esprimere anch’ esse colle se- guenti equazioni: GNH, H $S0,= 3(NH,), S0,--H, SO,+S,-+2H,0 3Ms H, S, 0,=3Mg SO, 4- H, $0,+S, + 2H;0. Concludendo — I bisolfiti di sodio, di ammonio e di ma- gnesio scaldati in tubi chiusi alla temperatura di 150—160°C. si decompongono in solfati: di sodio, d’ammonio e dì magnesio, in acido solforico, in solfo ed in acqua. I cristalli composti di bi- solfito di sodio e d’acetone scaldati nell’istesso modo ed all’istessa temperatura si scindono nel loro due princip] costitutivi e solo il bisolfito di sodio subisce ulteriore decomposizione; 1’ acetone rimane invece tal quale e si limita a sciogliere lo solfo dive- nuto libero ed a ridonarlo col raffreddamento per la massima parte e sotto-forma cristallina. Dal Laboratorio di Chimica applicata della R. Università di Pisa. NUOVI DENTI FOSSILI DIENO TED ANS RINVENUTI AD ORCIANO PISANO MEMORIA letta nell’ adunanza del di ff maggio 1879 dal Socio ROBERTO LAWLEY In un recente lavoro del sig. Prof. Delfortrie sopra un dente fossile impari centrale della mandibola, o mascella inferiore di Notidanus, egli pubblica e descrive una nuova specie di Notidanus distinguendolo col nome specifico di Notidanus Thevenardi Delf, il quale fu rinvenuto nel Bordolese, nella località detta Saint- Medard-en-Jalle, entro al miocene superiore: e riconoscendo quanto questi singolarissimi denti di otidanus sieno più che rari, lo dichiarò il secondo fino ad ora trovato. Riproduce quello da me disegnato nella mia monografia del genere Notidanus per porlo a confronto della sua nuova specie facendone giustamente osser- vare quanta differenza esista fra di loro. Osserva ancora quanta disparità passi fra i denti centrali impari delle tre specie viventi, dandone il disegno di due, ed os- servando che questo dente sarebbe da ritenersi come il giusto criterio per stabilire e definire una specie quando si rinvengano ancora fra i fossili differenze notabili come avviene fra i viventi per specie diverse. Quindi per ogni dente impari centrale e di- verso una specie distinta. Questa osservazione però e questo giustissimo ragionamento potrebbero a parere mio offrire un vero criterio, se lunghi ed accurati studi a questo scopo diretti, venissero fatti sopra le NUOVI DENTI FOSSILI DI NOTIDANUS 197 specie viventi. Per tal modo andrebbesi a riconoscere se ogni specie dei viventi Notidanus mantenga regolarmente in tutti gl’individui una stessa forma, o se nella stessa specie sì trovino delle variazioni. Se non che onde vedere se tali osservazioni constatino la verità di questo fatto, mi nasce l'obbligo di proporre nuove specie possedendo io già diversi di questi rarissimi denti; Ed a ciò mi accingo per non dare agio ad altrui di renderli di pub- blica ragione, e per non togliere col mio inopportuno ritardo ad una località Toscana l’onore della priorità. Frattanto porgendo i miei più sentiti ringraziamenti al di- stinto Prof. di Bordeaux, per le gentili espressioni che egli ha voluto usare in mio riguardo, passo a fare la descrizione delle seguenti specie. N.° 1. Notidanus Delfortriei, Lawley. Dente fossile evidentemente appartenente al genere Wotidanus, ed il quale corrisponde con perfetta analogia a quello impari centrale della mandibola dello stesso genere vivente, e ben di- verso da quelli già descritti: eccone i principali caratteri. Faccia esterna. Egli è coronato da otto piccoli coni tutti disposti a raggio, che dal centro del dente quattro se ne vanno discendendo a sinistra, e gli altri quattro a destra, disposti tutti su di una elegante curva, il raggio della quale è di mill. 4 e mezzo. I due coni centrali sono i più solidi, i più grossi, i più alti, ed i più sviluppati, uniti per la loro base, gli apici di essi vanno molto repentinamente voltandosi in senso contrario l'uno all’altro con curva molto sentita. Il dente porta alla base della corona la solita fossetta caratteristica come l’ hanno tutti gli altri denti delle mascelle. Essendone mutilata la radice, sono nell’ impossi- bilità di descriverla con esattezza; ma dal suo andamento ben sì discerne che grossissima alla sua base andava assottigliandosi gradatamente ai suoi lati, ed in fondo come in tutti gli altri denti; e che da questa faccia la radice si presenta più retta con l’asse centrale dei coni, che dal suo lato interno. Se. Nat. Vol, IV, fasc. 2.° 14 198 R. LAWLEY Faccia interna. I coni da questo lato sono pure disposti a diademia e rag- gianti, offrendo una regolare corrispondenza, analoga pure di spazio come dalla parte esterna; il rigonfiamento solito che pre- senta la radice alla base della corona vi sarà certamente, ed il resto della guasta radice seguirà la inclinazione del sottoposto osso mandibulare come negli altri. Questo dente fu da me trovato nelle colline di Orciano nel 1875 nelle vicinanze delle cave di arenaria presso la casa nuova di Pozzavilla, insieme ad alcuni resti di Cetacei; e da me allora non descritto nella monografia sopra al genere No/idanus, perchè in parte mutilato. Mi faccio un pregio di proporre questa specie dandole il nome del dotto ed egregio Prof. E. Delfortrie mio corrispondente di Bordeaux ed inventore del Notidanus Thevenardi. N.° 2. Notidanus Urcianensis, Lawley. Altro dente fossile impari centrale del genere Notidanus, ben differente dai tre conosciuti, e descritti; di piccola dimensione, non so dire se per appartenere ad una specie piccola, o per altra ragione; ma è disgraziatamente ancora questo in parte mutilato nella sua radice; ed è guasto pure in una punta un suo cono dal lato sinistro. Faccia esterna. Dalla parte esterna questo dente presenta al solito come gli altri, 1 suoi coni disposti ad areola, i quali dal centro si volgono simmetricamente nei due sensi opposti, facendo essi una curva ancora più risentita del precedente; il raggio della quale misura mill. 5 e mezzo main questa specie, invece di otto coni, non si tratta che di numero quattro soltanto, cioè di due per parte; dei due centrali il sinistro è il più grosso, il più rivolto in giù; del successivo cono, che sarebbe il secondo da questo lato, per essere in parte mutilato, non se ne può ben giudicare, ma dalla base ancora in parte esistente, è dato di ritenerlo più NUOVI DENTI FOSSILI DI NOTIDANUS 199 grande del secondo opposto. Il cono centrale destro è più sot- tile e rivolto dal lato destro; il secondo cono da questa destra parte, è alquanto meno appuntato degli altri due restanti, e fa- rebbe, come si vede chiaramente simetria con quello che da sinistra manca. Alla base della corona esiste il solito infossa- mento come negli altri denti; della radice, quantunque meno mutilata della precedente, pure non è da parlarsi; soltanto ben si vede che ancora essa radice si presenterebbe più retta con l'asse dei coni di quello che si presenti dal lato opposto. Faccia interna. Da questo lato pure, come nella precedente faccia, i coni sono disposti e corrispondenti alla faccia esterna del dente. Alla base dei coni del dente esiste il solito rigonfiamento della radice; esiste ancora nel centro della radice un bel solco di di- visione, per dove passava il nervo nutritivo del dente stesso; anzi, se ben si osservi; ad un millimetro da quello centrale esiste il rudimento di un altro solco il quale però non arriva bene fino alla base della radice; questa va al solito assottigliandosi come in tutti gli altri denti, ed i resti della radice mostrano chiaramente che essa va prendendo la forma stessa che aveva l'osso mandibulare, come succede in tutti gli altri denti di que- sto genere, Se non che di questo dente ritrovato esso pure nelle colline di Orciano, non so precisarne con certezza la località; essendo di quelli a me recati dai tanti cercatori che in quel paese si rinvengono; però; esso è proveniente dal pliocene. Intitolo la specie col nome della località di Orciano classica per i suoi resti fossili; la quale fu scoperta, e per la prima volta illustrata dal mio amato maestro Vittorio Pecchioli. N.° 3. Notidanus Stoppani, Lawley. Due denti fossili impari centrali della mandibola di questo genere, eleganti quanto mai, quasi uguali l'uno all’altro, e quasi simili fra di loro, sono pure in perfetto stato di conservazione. Meritano per questi rari pregi, e per le differenze che presentano dalle altre specie conosciute, di essere presentati ai cultori di questo ramo di scienze naturali. 200 — 'R. LAWLEY Faccia esterna, del più grande. Dalla parte esterna presenta al solito i suoi coni disposti ad areola, i quali dal centro del dente si voltano nei due sensi opposti con elegante simetria in numero di dieci; i centrali, come nelle specie precedenti, sono i più grossi, ed i più sviluppati; a sinistra seguono gli altri quattro decrescendo, ben distinti, e visibili; a destra dopo il maggiore cono altri due lo seguono regolari e ben visibili; ma il quinto è appena tracciato ed unito col quarto, quantunque esso sia discretamente visibile. La lar- ghezza del dente è di mill. 10, e di altrettanto alto; il raggio della curva dell’areola è di mill. 5, per cui viene ad essere molto alta e sviluppata. Alla base dei coni esiste il solito infossamento che ritrovasi in tutti, ma in questo di sotto ad esso trovansi alcune pieghe che si dirigono verso l'estremità della radice; che nel centro è grossa e rialta, la quale va assottigliandosi non solo verso le due parti laterali, ma ancora alla sua estremità inferiore, e questa restringendosi pure, misura soli mill. 7 (') alla sua estremità inferiore, e così più stretta che alla base di mill. 3. Da questa faccia la radice si presenta pure quasi in linea con l’asse stessa dei coni, o tutto al più può dirsi fare appena una leggerissima curva rientrante. Faccia interna dello stesso. Da questo lato è da dirsi, che i coni .si mostrano simili, e corrispondenti a quelli dell’ altra faccia; che si trova alla base della radice il solito ingrossamento, il quale in proporzione è grossissimo, e nella sua grossezza è segnato da numerose e ben distinte pieghe e da relativi solchi, che in parte discendono sulla radice stessa, la quale porta nel suo centro un solco per tutta la sua altezza, ben distinto, e ben marcato, per dove passò il nervo nutritivo. L'altro dente è quasi del tutto simile a questo già descritto p erciò non è quasi nulla da aggiungere alla già fatta descrizione; (4) Dò queste misure per semplice norma, sapendo bene che non possono avere niun valore specifico per le determinazioni dei denti. NUOVI DENTI FOSSILI DI NOTIDANUS 201 se non che nel centro della sua faccia interna, è da rimarcare non trovarsi traccia del solco del nervo nutritivo, ma invece una leggerissima traccia di questo si rinviene quasi al lato si- nistro esterno; dal che sembrerebbe che questo nervo non sia costantemente posto nel centro della radice del dente. Il dente ‘è però alquanto più piccolo come già dissi, misu- rando di larghezza mill. 9, e di altezza mill. 8. I lati della sua radice sono quasi di ugual larghezza quanto la base stessa; del resto la radice va sempre assottigliandosi come le altre. Questi due denti eziandio furono ritrovati nelle argille delle colline di Orciano nell’ anno 1877 in due differenti località, onde viene ad essere quasi certo che non appartennero al medesimo individuo. Intitolo le specie al distinto geologo Prof. Stoppani, membro della nostra Società, pregandolo a scusare il mio ardimento. Un altro dente da potersi riportare a questa forma, mi ten- terebbe a farne una quarta specie, ma il suo stato di conserva- zione talmente deplorabile mi mette nella impossibilità di darne una descrizione qualunque, per cui preferisco a far ciò atten- dere migliori esemplari. Ecco dunque come ora risulterebbe 1° elenco delle specie co- nosciute da me nel pliocene toscano. Le specie fatte sopra i denti provenienti dalle forme mediane delle mandibole di Notidanus sarebbero. 1. Notidanus primigenius. . . Agas. 2. 5 QUER. a Siem. 3. È recurvus . . . . Agas. 4. 5 microdoni. +. + id. 9. 3 Targionii. . . . Lawley. 6. 5 Meneghini. .. id. da È D'Anconae. .. id. 8. 5 problematicus. . id. 9 ” anomale... ... . id. Le specie fatte sulle differenze dei denti impari centrali, pure delle mandibole sarebbero le seguenti: 202 R. LAWLEY — NUOVI DENTI FOSSILI DI NOTIDANUS 1. Notidanus primigenius. Agas. 2. 5 Delfortrieri. . . Lawley. 3 > Urcianensis .. id. 3 4. , Stoppanti. ... id. Ma però qualunque sieno i denti dei quali uno si voglia ser- vire per stabilire le specie di Notidanus fossili, essi presenteranno lo stesso inconveniente, quello cioè di aumentare il numero delle specie per le differenze che questi presentano nella stessa man- dibola, a meno che si trovasse con le osservazioni sopra ai vi- venti una qualche regola fissa cui potersi fidare per la sua costanza. Ed uguale osservazione può ripetersi ancora per i denti di qualunque pesce fossile del quale venga stabilita la specie sopra a denti isolati, meno che in quei rari casì in cui la dentizione non abbia una ugual forma per tutta la mascella, o per la mandibola, o sivvero, sia uguale in ambi due. STUDIO ISTOLOGICO DEGLI ORGANI SESSUALI COMPLEMENTARI IN ALCUNI MOLLUSCHI TERRESTRI DEL DOTT. ANDREA BATELLI Memoria presentata nell’ adunanza del di 9 novemhre 1879, Il sistema riproduttore comprende anatomicamente nei Mol- . luschi terrestri la glandula sessuale e l’ insieme degli organi complementari. Essendomi proposto tener conto de’ principali fatti istologici che questi ultimi presentano, |pensai all’ Helix pomatia come più completa e più tipica. La glandula androgina più che ogni altra parte interessò li Anatomisti. Dapprima fu studiata da Swammerdam, poi da Cuvier e Treviranas. A questi due ultimi, discordi nei princi- pali apprezzamenti, tenne dietro una coorte; pel primo furono Defrance, Blainville, Carus pel secondo Brandt, Ratzburg, Pou- chet. Lo studio istologico invece fu impreso dal Wagner nella sua Bemerkungen ber die Geschlechtstheile der Schneken in Wiegm Arch. 1835, I. pag. 368, -- e fu egli che determinò scien- tificamente l’ ermafroditismo —. L’opera più famosa e più cele- brata è a giusta ragione quella del Meckel ('), non tanto perchè tutte le osservazioni sieno giuste, quanto per avere il primo ammessa la separazione degli ovuli dallo sperma. La teorica dei due foglietti da lui proposta svegliò per la sua singolarità, una simpatia, una moda e molte memorie si succedettero. Ora la- (1) Meckel Heinrich — (Mikrographie einiger Drusen apparate der niederen Thiere) in Muller Archiv. XII 1846, PI. 1. 2.3. 204 A. BATELLI sciando le mediocri per le eccellenti, citerò quelle"del Gratiolet ('), del Leydig (?) del Mathias Duval (©), Della glandula sessuale non mi occupai. Mi restavano tutti gli altri organi complementari cioè parte degli essenziali, è copu- latori e gli accessori, secondo la classificazione che ne dette il Laurent (‘). Tuttavia, una divisione molto più razionale di questi organi può farsi negli individui androgini tenendo conto in prima degli organi ermafroditi produttori, indi degli organi di trasporto ed infine di quelli della copula. Ne viene così che ai primi appar- tenga semplicemente la glandula sessuale, ai secondi il canale efferente l’Ovispermidutto con le glandule del Muco e della Pro- stata, l’Ovidutto e dall'altra parte il canale deferente, agli ul- timi la vagina, la sacca copulatrice il vestibulo, le vescicole multifide, la sacca del dardo il fodero del pene ed il flagello. Dà subito nell’ occhio una qualche modificazione di nomenclatura, io mi riserbo a discutere poi le ragioni di tali cangiamenti. Il Moquin Tandon (?) ci lasciò fino al 1856 un monumento di bibliografia fornitissima. Io ricorderò li autori da lui citati, non già per ripetere quello che fecero o pensarono, che trove- remo copiosamente altrove, ma per fare come un abbozzo di critica generale. Il Meckel (°) comparisce primo ad illustrare istologicamente il canale efferente, seguendo, sebbene con un poca più d’ incertezza, la idea dei due foglietti. Semper (7) non descrive sistematicamente l’ apparecchio sessuale, ma si limita a prendere da quello ciò che maggiormente gli si addice per le basi della istologia elementare nei molluschi. Baudelot in Francia (*), Lawson in Inghilterra (°) contem- (1) Gratiolet Pierre — Observations sur les Zoospermes du genre Helix Jour- nal Conchy. Paris I, 1850, pag. 116-236, (3) Ueber Paludina. Ein. Beitrag zur nàhren Kenntniss dieses Thieres in em- briologischer anatomischer und histologischer Beziehung. Zeit. 1850. (3) Sur la spermatogenese de l’Escargot — Revue des sciences Naturelles Montp. 1878. (4) Determination des organes sexuels des Mollusques androgines Bull. soc. 1842 Tanv. (5) Histoire naturelle des Moll. terr. et fluviatiles. Paris chez Bailliere 1855. (6) Op. cit. (*) Beitràge zur Anatomie und Physiologie der Pulmonaten. Zeitschrift fur wissensc. Zoolog. Bd. 8, pag. 381. (8) Recherches sur l’ appareil générateur des Mollusques. Annales des Sciences naturelles. IV, XIX, 1863. (9) Henry Lawson — On the general Anatomy, Histology and Physiologie of Limax maximus. London Jannary 1863. STUDIO ISTOLOGICO DEGLI ORGANI SESSUALI DEI MOLLUSCHI TERRESTRI 205 poraneamente studiarono lo apparecchio sessuale nei molluschi terrestri. Il lavoro del primo è anatomico e fisologico ad un tempo, quello del secondo quasi completamente anatomico. Me- rito principale del Baudelot fu di opporsi in una polemica vit- toriosa ai due foglietti Meckeliani, ed alla ipotesi del Gratiolet sopra la modificazione successiva degli spermatozoi. Esso dimostrò con Ehlers e Heferstein i pretesi spermatozoi del Gratiolet non essere che infusori contenuti nella sacca copulatrice. Hugo Eisig (‘) si occupò in una Monografia istologica sopra li organi sessuali del genere Lymneus. La sua opera sebbene risenta della imperfezione di tecnica, che si aveva anni addietro, tuttavia è minuziosa, completa. Il Dubreuil fu quegli che più completamente d'ogni altro tentò in una serie di pubblicazioni (*) fare un quadro ana- tomico e fisiologico di questo intricatissimo argomento. Il suo lavoro anatomico non segna un’ epoca; egli ritorna a descrivere la glandula e li elementi sessuali non altro che per trarre da quelli un criterio della funzione più logico che sperimentale. La sua ultima memoria è sola per confutare Bourguignat e Ga- spard sulla fecondazione autonoma dei Molluschi terrestri. Io non entro in tanto areopago di nomi con spavalde pro- messe, il mio scopo essendo unicamente istologico mi da l’agio di tenermi riparato dal fuoco della polemica e di descrivere i miei fatti senza badare a vedute più generali. Osservazioni generali In un capitolo che chiamerei fondamentale ho voluto scri- vere di un po' di tutto. Infatti studiando minuziosamente l’ or- gano sessuale, senza avvedermene, mi son trovato dirimpetto (') Beitrige — Zur Anatomie und Entwiklungeschichte der Geschlechtsorgane von Lymneus mit. Tav. XXV, Zeitscrif. fur wissen. 1869-19 Band. (®) Étude anatomique et hystologique sur l’appareil generateur du genre Helix Paris 1871, Brochure de 56 pag. et 1 planch. — Etude physiologique sur l’Appa- reil generateur du genre Helix. 1878 Extrait de la Revue des Sciences Naturelles. Montpellier. — Étude sur l’appareil generateur du genre Helix (supplement) Extrait de la Revue des Sciences Naturelles, 1874, 206 A, BATELLI agli elementi istologici ed alle questioni, non ben risolute la maggior parte, che si riferivano a quelli. Dapprima apparisce quella membrana che tappezza tutti gli organi sessuali e che noi chiameremo sierosa. Essa è formata di due strati da uno cellulare elaborante, da uno anisto e mem- branoso elaborato esterno a quello. La figura presa dalla sacca copulatrice mostra il taglio di questa membrana (Tav. XV Fig. 5) e mostra bensì come le cellule interne (a) non sieno schierate in una sola fila, ma si accavallino le une sulle altre. E qui senza dubbio che sì tratta di una forma particolare di tessuto congiuntivo, forma che potremmo ravvicinare in certo modo alle membrane congiuntive del Kollmann. Noi {indifferenti per questi confronti, descriveremo le cose nella loro apparenza, ri- mandando chi voglia occuparsene più da vicino alla bibliografia. già abbondante dei tessuti congiuntivi nei Molluschi ('). La membrana si fa presto a descriverla [essa è anista ed interrotta da larghe fessure. Queste fessure dipendono da una discontinuità delle cellule madri congiuntive. Sarebbe assurdo voler porre in campo la teoria del Ranvier sui fori delle mem- brane sierose negli Animali superiori. Sopra questa membrana prendono attacco vari elementi istologici, cellule congiuntive, fibre muscolari, fibre e cellule nervose. Una prima osservazione sulle cellule congiuntive dimostra che esse nel nostro caso si limitano alle rotonde, non esistendo per nulla le ramose figurate e descritte dal Kollmann (Tav. XV, Fg. 6). Il primo mezzo che adoperaì per studiarle fu di colorare la membrana direttamente strappata dall’ animale con il Picro- carminio. Gli elementi cellulari erano distinti, il nucleo si colo- rava fortemente in rosso, separandosi nettamente dal proto- plasma che si retraeva all’intorno (Tav. XV, fig. 7). Con questo mezzo potevasi nettamente, e molto meglio colla dissociazione nel siero iodato, distinguere in mezzo al nucleo quella, reticola- tura internucleare descritta in vari elementi dal Flemming, dal Peremeschko in Kiew, dal Klein in Londra, e dal nostro Bellonci. (4) Kollmann Der Kreislauf des Blutes bei den Lamellibranchien, den Aply- sien, und dem Cephalopoden Zeitsehrift f. wiss. Zool. XXVI, Bd. — Flemming. Ueber Bindesubstanzen und Gefàss wandung bei den Molluscken mit 1, Taf, Ro- stock 1871. — Kollmann - Bindesubstanz der Acephalen. — Archiv fir Mikrosco- pische Anatomie. Bonn. 1876. STUDIO ISTOLOGICO DDGLI ORGANI SESSUALI DEI MOLLUSCHI TERRESTRI 207 Queste cellule variano nei loro diametri lunghi da 0,02 mm. a 0,05 mm. passando da tutte le proporzioni intermedie. Le preparazioni al Picrocarminio fanno apparire tra i nuclei piccoli, rappresentanti le singole cellule congiuntive, altri di altra na- tura appartenenti a quelle nervose. Lo studio del contenuto delle cellule congiuntive si può fare in vari modi. Fissando ad es. le preparazioni nell’Acido Osmico, il plasma presenta de’ vacuoli più o meno grandi. I vacuoli ora sono disseminati nel plasma, ora costituiscono una grande ca- vità unica (Tav. XV, fig. 5 g.) più o meno centrale. Tanto nelle preparazioni a fresco, o col siero iodato, o coll’Acido Osmico oltre i piccoli granuli, altri se ne trovano giallognoli, più grossi, più refrangenti e di natura pigmentaria. Nè con tutti questi mezzi giunsi mai a scoprire esservi una membrana, per lo che sarei d’avviso che le cellule presenti si ‘riannettessero a quelle dei Vertebrati anco per questo. Riportandoci alla figura più volte ‘accennata (Tav: XV, fig. 5) è evidente che le cellule interne della parete si riproducono, e che quelle più giovani e per conseguenza più interne presentano, come tutte le cellule giovani niuna eccettuata, il plasma denso e non interrotto da vacuoli. Sono appunto alcune di queste cellule, embriologicamente derivate da quelle della membrana, che a parer mio producono ed elaborano le fibre congiuntive, fibre che noi ritroviamo in tutti gli organi ora confuse ed intercalate coi muscoli, ora esclusive ad una zona sottoepiteliale. Tale ipotesi, da me sostenuta, si riannetterebbe alla Teorica dello Schultze e del Boll, sulla genesi delle fibre congiuntive. Passando ai muscoli il Semper dice (') mostrare questi nel- l’Helix pomatia un sarcolemma e più internamente di tratto in tratto de’ nuclei immersi in una sostanza granulosa. Il me- todo più opportuno per studiare i muscoli si è di mantenerli un giorno nell’Alcool al terzo e tenere le preparazioni per 4 o 5 ore nel Picrocarminato. Or bene al di sopra delle fibre con questo metodo appariscono nebulosità plasmiche continuate (Tav. XV, fig. 8 e 9) ora con un nucleo ora con vari. Potrebbe qui pararsi dinanzi la idea sostenuta dal Kollman (*) che queste cellule fossero congiuntive indipendenti geneticamente dalle fibre (') Beitrige zur Anatomie und Physiologie der Pulmonaten 1857, Zeit. p. 345. (*) Op. cit. pag. 594. 208 A. BATELLI muscolari su cui si adagiano. Comunque sia, chè certo l’intui- zione è molto razionale, i nuclei non vi esistono ma invece cel- lule senza parete. Il Sarcolemma, non colorandosi mai sotto l’ azione del car- minio, sembra di natura elastica. Esso nel suo decorso si re- stringe alternativamente formando siccome delle cellule musco- lari allungatissime (Tav. XV, fig. 9 c). Non sarebbe punto inve- rosimile che questi restringimenti corrispondessero a saldature di cellule, come sostiene il Leydig ('). Tagliando trasversalmente una fibra muscolare trattata con il cloruro d'oro (processo di Ranvier), si vede che il Sarcolemma è una sostanza più gene- ralmente (*) omogenea, la quale intensamente sì colora in nero - per azione di quel reattivo. Ed ora è tempo di venire ad un altra sorta di elementi, che si pone in diretto rapporto colla sierosa, voglio dire il siste- ma nervoso. Le cellule congiuntive inguainano da ogni lato il tronco nervoso, che rimane così intercluso. Ove il nervo contenga cellule nervose, è facilissimo l’ avvertire come le cellule con- giuntive sì riducano a tante callotte, che nel loro cavo abbrac- ciano e cingono le cellule sovraddette. (Tav. XV, fig. 10). Se noi studiamo la sierosa del canale efferente o col Cloruro d' oro o coll’ Acido Osmico, tanto nell’ uno che nell’ altro caso si vede (Helix nemoralis, H, pomatia) avanzarsi in basso un grosso tronco (0,09""-) nervoso colorato in nero. Esso nervo non è cilindrico ma invece schiacciato siccome un nastro ed è mercè questa modalità che quivi, a preferenza che altrove, può osser- varsi la struttura fibrillare dello interno. Esso quà e là sostiene cellule nervose, ora uniche ora molteplici, tanto da formare siccome un ganglio aderente al tronco maestro. Da questo nervo partono i rami secondari e su ciò mi piace d’ insistere inquantochè è dal modo di questa divisione che spicciano fuori i fatti più fondamentali sulla struttura del si- stema nervoso. Il grosso tronco abbandona dei rami che si dividono in tre categorie, rami terminali, rami intermediari, rami derivati da cellule. Ordinariamente i grossi tronchi vanno terminando in (4) Op. cit. (è) Ho detto più generalmente, perocchè alcune volte, come nei muscoli della pelle dei Gasteropteron, il Sarcolemma è vacuoso (Acido osmico). STUDIO ISTOLOGICO DEGLI ORCANI SESSUALI DEI MOLLUSCHI TERRESTEI 209 due suddivisioni a differenti diametri (Tav. XV, fig. 11), talvolta in tre. I rami intermediari (Tav. XV, fig. 11 b) frequentissimi nel nervo del canale efferente, si separano dal tronco principale senza che questo modifichi sensibilmente il suo diametro. Il cono fibrillare di essi è formato in parte da fibre ascendenti in parte da fibre discendenti separatesi dal tronco originale. Il nevrilemma si continua senza interruzione. Nella fig. 11 Tav. XV è rappresentato ancora il terzo modo, di divisione in cui un nervo si diparte da una cellula. Se prescegliamo per tratta- mento col Cloruro d’ oro la sierosa posta a cavalcioni fra la sacca copulatrice e l’ ovispermidutto, troviamo facilmente cellule nervose isolate (fig. 12 Tav. XV) nelle quali una zona più colo- rata nel centro si distingue da un’ altra meno colorata della pe- riferia. È dimostrabile così una distinzione di sostanza come il Buclioltz (!) giù da vario tempo avea determinata. E di più tenendo conto della striatura intracellulare (Schultze (?)) e della esistenza di un ramo afferente ed efferente, giù composti di fibre, mi sembra molto verosimile il concladere, come per altri animali concluse Ranvier (*), che nell’ interno della cellula le fibre elementari sì sfrangino e si dividano per riunirsi a due poli. H. Schultze nel suo lavoro sovraccitato parla ancora del seguito della membrana della cellula nel suo prolungamento, e ciò è completamente vero. La maggiore ricchezza dgi filamenti nervosi si osserva sul canale efferente. Le altre parti della sierosa che tappezzano gli organi sottostanti sono più poveri e i filamenti si riducono te- nui ed a maglie larghissime. Sacca del Dardo Lister è uno dei più antichi autori che si sieno occupati del Dardo e della Sacca del Dardo e strana cosa forse uno dei più completi. -Nella sua opera , Esercitatio anatomica 1694 , parla in questi termini del sacco del Dardo , ex crassimis et (!) Bemerkungen ùber den histolog Bau. d. Central nerven Sistem'’s d. Sus- swassermollusken in Muller ’s Archiv. 1863. (°) Die fabrillare Structur des Nervenlemente bei Wirbellosen Archiv fiùr Mi- kroskop. Anat. Sechszehnter. Band 1878. (*) Ranvier — Traité tecnique d’ Histologie. pag. 712. 210 A. BATELLI pene cartilaginosis muscolis constat ... tanto sensu et vigore prae alis genitalium partibus pollet. Parlando della struttura interna con esattissima frase ,, ab ejus autem corporis pyrami- dalis interna et ima parte exiguum tuberculum assurgit cui annettitur ossiculum , È da osservarsi che nel 1855 il Moquin Tandon non seppe altro che ripetere le magistrali parole. Il Lister, proseguendo nel suo argomento, descrive la sagitta , hujus autem spiculi mucro sursum tendit et e quadruplici acle constat ....,. Di qui comincia la favola, l’autore sostiene aver le chiocciole facoltà di scagliar lontanissimo il dardo loro, e descrive di averlo ritrovato persino confitto nella testa di altri individui. La figura che egli da Tav. II fig. 7 è assai inesatta. Altri autori si occuparono delle modificazioni del dardo così Muller (') e Leidy (?). La sacca del dardo è un organo cupuliforme disposto in tutta vicinanza del foro genitale. Il metodo di studio consiste nel- l’indurarla nell’ acido Cromico 2 per %, o nel Picrico e poi fare a traverso delle sezioni in senso verticale ed orizzontale. Un taglio verticale eseguito nel mezzo (Tav. XVI, Fig. 1) ci mostra che la parete spessissima determina una cavità centrale tappez- zata da epitelio. Questa cavità è slargata nella parte superiore e ciò per modellarsi sulla base del dardo; di più nello slarga- mento penetra dal di sopra un mammellone della parete che in parte lo riempie. Ne viene da ciò uno spazio libero fra le pareti e il mammellone ed è appunto in questo che s’insinuano la coppa basilare ed i denticoli dell'organo calcareo. Il taglio ver- ticale un altra cosa mette in evidenza, che cioè la base della sacca è contornata dalle pareti del vestibulo, e che anzi queste_istolo- gicamente derivano dalla prima (Tav. XVI, Fig. 1 0). Le pareti della sacca del dardo sono formate da due tessuti fondamentali. Muscoli e Connettivo. Le due forme organiche elementari, i muscoli prevalenti all’ esterno, il connettivo pre- valente all’interno, sono relativamente distribuiti in modo vario. Il taglio longitudinale ci dimostra infatti che il tessuto congiun- (!) Muller — Von den Pfeilen der Schneken Schrift. d. Berlin Ges. nat. Fr. 5 Bd. 1784, pag. 394-399. (2) Leidy — On the existence of the Sack of the dart and of the dart in se- veral species of North American. pneumon. Proceed. Boston Soc. His. Nat. vol. 2, 1845, pag. 59-60. | STUDIO ISTOLOGICO DEGLI ORGANI SESSUALI DEI MOLLUSCHI TERRESTRI 211 tivo si mantiene nel suo spessore di poco diametro per gran parte della sacca, che va inferiormente mano mano slargandosi, e che nello slargamento della base forma un bulbo prevalente all’ insieme de’ muscoli. L’ epitelio contenuto nel lume interno è formato di elementi cilindrici allungatissimi (0,07). Questi iso- lati convenientemente con l’° alcool al 3° (Tav. XV Fig. 13, e Tav. XVI, fig. 12) sono rigonfiati un po’ alla base loro od anco appuntati, muniti di un collo lunghissimo. Se a fresco le cellule vengano rilasciate per poco tempo nell’ acqua, la parte basilare si gonfia, facendosi turgida (Tav. XV, fig. 15 e senza traccia di asperità. Il nucleo contiene finissime granulazioni. Il collo, che alla sua volta si slarga superiormente, si tappezza nella parte esterna di un piattello cuticolare più o meno spesso nelle diffe- renti regioni (Tav. XV fig. 14). — Studiando i tagli orizzontali, anzichè prenderli uno per uno, che sarebbe inutile, limitandomi ai più espressivi illustrerò quello fatto attraverso del mammellone superiore interno e l’altro com- piuto in molta prossimità dello sbocco della sacca nel vestibulo. Adunque (Tav. XV fig. 4) nel primo è evidente che esso mam- mellone, costituito da una reticolatura muscolare fittissima, è largamente sfrangiato nella periferia. Le sfrangiature, che si tap- pezzano di epitelio, sono messe in continuità con l’ epitelio della parete interna non ripiegata da strati cuticolari (Tav. XV fig. 4a) i quali negli anfratti delle larghe sfrangiature del mammellone offrono soluzioni (g) di continuità più o meno ineguali, e pro- fonde. È qui che si ospitano i denticoli terminali del dardo cal- careo. Le cavità, nella loro superficie interna in diretto rapporto con il corpo penetrato, sono finamente denticolate, forse per raccogliere le ultime ineguaglianze delle spicule satine. Ed ora all’altro taglio (Tav. XVI fig. 5). La parte esterna non rappresenta che la parete cloacale o del vestibulo, il cerchio interno l’ultima regione al di là dello slargamento. E per co- minciare da quest’ ultima noi vediamo il lume rappresentante la cavità centrale dell’ intiera sacca ed uno smerlo assimmetrico e radiale mettere in comunicazione il centro con la cavità sot- toposta. Lo smerlo assimmetrico rappresenta un solco laterale profondissimo, una doccia che aumenta la superficie di comuni- cazione della cavità della sicca col vestibulo e che facilita l’uscita del dardo, a qualsiasi cosa questa uscita sia destinata. Le pareti 212 A. BATELLI della sacca del dardo, che rimangono così come liberamente nella cavità del vestibulo, sono formate da un epitelio esterno, da una zona connettiva esterna sottilissima, da muscoli in parte radiali, in parte longitudinali, tutti concentrici al lume centrale ed infine da una seconda zona connettiva e da un epitelio. Ho detto in- nanzi che la sacca del dardo rimane liberamente nel centro e ciò invero è nell’ ultimo punto; nel mio taglio è sempre riunita per un peduncolo alle pareti esterne della cloaca. È in questo peduncolo che il tessuto connettivo esterno si spessisce, facen- dosi del tutto prevalente alle fibre muscolari, che pur tuttavia vi penetrano. Da ciò noi veniamo difilato alle pareti del vesti- bulo, che debbono considerarsi, e l’ ho già detto, come una sdop- piatura della sacca del dardo medesimo. Le pareti della cloaca sono sottilissime e formate, come tipicamente, da tessuto con- nettivo e muscolare. Questi due tessuti sì mantengono sempre nelle medesime relazioni di spessore, solo in faccia al solco è un cuscinetto connettivo in cui le pareti, a differenza che altrove sì smerlano regolarmente. ‘La sierosa tappezza la superficie esterna della sacca del dardo e della cloaca. Abbandonata la sacca in una soluzione concentrata di po- tassa, si isola completamente il dardo (Tav. XVI, fig. 3). Questo non arriva in fondo alla sacca, ma in condizioni normali giunge fino al principio dello slargamento 5 (Tav. XVI, fig. 1). Il dardo è composto di quattro creste calcaree (Helix pomatia), le quali decrescendo ciascuna continuamente verso la linea assile, danno a tutto l'insieme l'aspetto aghiforme. Gli anfratti delle creste sono concavi. — La base superiore (Tav. XVI, fig. 3 a) del dardo e una coppa elegantissima di cui i bordi sono irti di denti, fatti da due lamine saldate con l’ angolo cavo interno. Nell’ Helix nemoralis medesimo è il tipo, la differenza precipua è in un re- ticolo calcareo che si stende negli anfratti delle creste assili. Nel vestibulo si hanno quattro aperture l’ una isolata ed è quella del fodero del pene, le altre tre riunite, essendo quella centrale e più grande della vagina, le altre due laterali e più piccole delle vescicole multifide. L'insieme dei tre orifici è riu- nito per alcune fibre orbicolari. Il pannicolo sieroso della sacca è una continuazione dell’ altro che involge in un medesimo fa- scio il tubo deferente, la vagina e la sacca copulatrice. STUDIO ISTOLOGICO DEGLI ORGANI SESSUALI DEI MOLLUSCHI TERRESTRI 213 Glandule multifide. Le glandule multifide furono differentemente chiamate dagli autori vésicules multifides Cuv., vésicules accessoires Prev., vé- sicule rameuse Burdl. L'ufficio fisiologico (Blainville) di queste glandule è poco contrastato, sembra che producano un liquido atto a facilitare la copula, sebbene il De-Siebold le credesse de- stinate a formare la materia del capreolo. Nell’ Helix pomatia ciascuna presenta un tubo basilare e principale, dal quale si partono per un solo lato i tubi secondari, questi tubi secondari ora sì mantengono unici, ora si dicotomizzano, ora ripetono più in piccolo la disposizione della glandula in generale, abbandonando dei rami terziari. Comunque sia o che i rami sieno unici o molte- plici, essi giungono alla medesima altezza, tanto che nel vedere una di queste glandule si abbia proprio l'aspetto di un albero a cui sia rasata la fronda tutta di un pari. Se queste glandule, ad es. nell’ Helix nemoralis si colorino a fresco in. una goccia diluita di Picrocarminio dallo esterno si separa una membranella sottilissima, non altro insomma che la sierosa. Io presento nella fig. 2 Tav. XVI, un taglio di esse glandule in un punto di bi- forcazione, ottenuto dopo induramento del Bicromato d' Ammo- niaca 2 per (°. La parete è formata da fasci muscolari in gran parte orizzontali e da fibre connettive, che vi si confondono. Un epitelio cilindrico caliciforme tappezza tutto l’ interno for- mando le vere cellule glandulari. Questo epitelio però addiviene unicamente cilindrico nel tubo escretore. Le cellule glandulari (Tav. XVI fig. 7) formano uno smalto ad elementi esagonali, come ho fisurato nell’ Helix nemoralis, smalto che in questa specie può facilmente studiarsi per trasparenza attesa la sottigliezza delle pareti glandulari. Isolate le cellule con l’Alcool al terzo, compare a metà del loro corpo l’ orificio a forma di cerchio e sopra quasi una (Tav. XVI fig. £4e 8) nuvola di granulazioni. Resulta chiaro che tali cellule non differiscono morfologicamente dalle altre cilindriche, tanto diffuse, che per. una adattazione ad ufficio glandulare. La sostanza secreta (Helix pomatia) si ferma, si stagna quasi nel cieco della glandula ed è notevole per la sua refrangenza e per disciogliersi nell’ Acido Acetico. Se. Nat. Vol. IV, fasc. 2.0 15 214 A. BATELLI Vagina lo non ho figurata la struttura delle pareti nella vagina in- quantochè sarebbe stato un bel circa ripetere quello che figurai per il fodero della verga (Tav. XVI fig. 17). Ancora qui sono nella parete fibre muscolari orbicolari per lo più non riunite in grandi fasci, e fibre trasverse penetranti nell’ anima delle villosità. Lo spazio rilasciato al tessuto connettivo mentre divide tutte le ap- parenze con quello della figura 17 Tav. XVI, sì discosta all’ in- contro dall’ altro della sacca copulatrice ove, come vedremo, esso forma quasi una zona autonoma periferica all’ epitelio. Sacca copulatrice La sacca copulatrice comincia per un bulbo (Helix pomatia), si allunga in un tubo affilato, termina in una ampolla. La idea più strana che si abbia avuta sulla destinazione di essa fu cer- tamente quella del Van Beneden, che in una serie di memorie pubblicate dal 1835 al 1838 suppose non essere altro che una borsa di porpora. Il Gratiolet descrisse, e l’ ho già detto, che 1 filamenti spermatici, modificandosi nell’ interno della sacca, solamente dopo avervi soggiornato acquistavano l’ultimo stadio di perfezione e di vitalità. 1l Dubreuil (') ammette nella sacca copulatrice disciogliersi il Capreolo, pure avvertendo non avere constatato all’interno la presenza di una membrana glandulosa destinata a produrre tale materia dissolvente. Nel bulbo le pareti esterne, tappezzate dalla sierosa, sono costituite da fibre muscolari circolari e trasverse. Le prime for- mano tanti cerchi concentrici che vanno diradandosi nello avvici- narsì all'epitelio. Le fibre trasverse e convergenti prevalgono alle prime ed in tutta la zona sottoepiteliale si intralciano in una rete fittissima con le orbicolari e le altre di natura congiun- tiva quivi prevalenti. Ed infatti nelle preparazioni ottenute dal Bicromato di ammoniaca, l’Iodio metil violetto mette in evidenza nella suddetta zona una quantità grandissiva di nuclei appar- (') Etude physiologique sur l’Appareil generateur du genre Helix par E. Du- breuil. pag. 24-25. STUDIO ISTOLOGICO DEGLI ORGANI SESSUALI DEI MOLLUSCHI TERRESTRI 215 tenenti alle cellule congiuntive. Proseguendo in alto le pareti vanno sempre più limitando il numero degli elementi istologici, pur mantenendo questi le medesime forme e le medesime rela- zioni. La superficie interna è interrotta da villosità più e meno profonde, tappezzate da epitelio; esse vanno sparendo nella am- polla. L’ epitelio nella sacca copulatrice, almeno negli individui da me esaminati, mantenea la proporzione di 0, 05m», propor- zione come si vede, un po’ inferiore a quella ritrovata negli epiteli finora descritti. Dalla figura (Tav. XV fig. 5), resulta che l’ ampolla della sacca copulatrice è riempita in parte da strati concentrici con- tenenti de’ nuclei. I nuclei si fanno più numerosi nello spazio immediatamente attiguo alla testata dell’epitelio, e con molta verisomiglianza non sono che rappresentanti degli spermatozoi più o meno modificati. Dove può cominciare il dubbio si è nella interpretazione degli strati concentrici. A pag. 280 del suo la- voro Baudelot ci dice: , Lorsque chez un Arion, par exemple, ,on examine le contenu de la vésicule quelques jours après » l’accouplement, on voit qu’ il consiste en un liquide filant, » Visqueux dans le quel flottent des milliers dé tètes de Sperma- » tozoides séparées de leur filamentcaudal, mais tout a fait im- » mobiles ,. Sarebbe forse questo liquido agglutinante che co- stituisce la nostra apparenza? Ovidutto, Ovispermidutto e Prostata lo ho chiamato col nome di Ovispermidutto ciò che fu co- nosciuto fino ad ora col nome di matrice o Utero. Infatti non rimanendo quà le uova stazionarie per svilupparsi, divenia as- surdo che questa parte dovesse chiamarsi così. Inoltre servendo il tubo pel trasporto delle uova in una porzione, per quello dello sperma in un’ altra bisognava che ad un tempo il nome compren- desse le due funzioni. Se è così però nel genere Helix, non lo è più nel Limax (Limax cinereus) ove un tubo per lo sperma ed un tubo per le uova si specificano, fra loro differenti nella strut- tura ('). È per questo che in tal caso si ha un Ovidutto ed un dutto deferente, i quali si possono distinguere nelle parti loro (') Verloren — Comraentatio de organis generationis in Molluscis Gasteropodis pneumonicis Lugduni Batavorum 1837. 216 A. BATELLI adoperando la notazione del Baudelot. Comunque sia per Ovisper- midutto intendo (Ovidutto prostatico Baudelot) quel tubo che dallo sperone giunge fino all'imbocco del canale deferente, per Ovidutto l’altro che, liberatosi dalla Prostata, giunge sino alla vagina. L'ovispermidutto è un tubo più o meno rigonfio ester- namente, di cui il lume interno può dividersi in una cavità più larga destinata al passaggio delle uova ed in un solco comuni- cante colla prima per lo sperma e chiamato Doccia deferente (Helix). In questo solco immettono i tubi secretori di una glandula longitudinale aderente per tutta l'estensione dell’ ovi- spermidutto e che fu distinta, non so quanto propriamente, col nome di Prostata. L'ovidutto è variabile ne’ suoi caratteri per le modificazioni che va subendo nei differenti piani. Ed infatti mentre vicino al punto di biforcazione tutte le apparenze si conservano come nella vagina, un po’ più sopra i caratteri dell’ ovispermidutto sì disegnano con tutta evidenza. Nel decorso di questo tubo va mano mano estendendosi una grande plica, la quale tende a dividere il lume interno in due compartimenti (Helix pomatia). Non importa che ricordi quello che dicemmo sulla struttura della vagina, aggiungeremo soltanto che a scapito del tessuto con- giuntivo sotto epiteliale si organizza il sistema delle glandule tubulari. E siccome la plica si piega nell’interno e viene a for- mare un angolo acuto, è appunto nelle pareti di questo angolo tra loro avvicinate nelle quali il tessuto glandulare fa la prima comparsa. Così a poco a poco le glandule si estendono da per tutto ed il punto che più tardi le acquista si è la estremità del villo, dal lato esterno opposto a quello ove sono comparse con tanta precocia. L'epitelio ben presto nell’ ovidutto si cangia in vibratile ed è ciò una delle differenze che porta ad un tratto a distinguerlo da quello della sacca copulatrice. La transizione delle apparenze generali va di pari passo con la transizione degli elementi e le cellule epiteliali si vedono, dal cominciare della vagina successivamente prendere le dimensioni di 0, 06®®, di 0, 04", di 0,03®", Così veniamo all’ovispermidutto (Tav. XV fig. 1) ove tutte le pareti hanno guadagnate le glandule delle quali avemmo innanzi la prima comparsa. E tanto le glandule crescono in grandezza ed in numero, e li strati muscolari reci- procamente ne patiscono, da essere questi ultimi ridotti a poche STUDIO ISTOLOGICO DEGLI ORGANI SESSUALI DEI MOLLUSCHI TERRESTRI 217 fibre incrociate, siccome ho disegnato. (Tav. XVI fig. 9). Queste fibre, le quali mi hanno offerto un istruttivo esemplare della struttura dei muscoli compenetrano fra cieco glandulare e cieco glandulare. Le glandule sono tubulose coniformi (Tav. XVI fig. 10). L’epitelio secretante è formato di cellule a tipo tabulare, più o meno regolarmente poligonali. L'orifizio della glandula è beante in cavità, determinato dalle cellule epiteliali che lo circondano. Queste glandule possono benissimo essere studiate nei preparati ottenuti per mezzo del Bicromato di Ammoniaca, però ove potei meglio vederle isolate si fu nelle preparazioni indurite nell’ A]- cool a 50 gr. e colla precipitazione successiva del Cloruro d’oro (Tav. XVI fig. 10). L’Alcool al terzo non è opportuno per l’isola- zione delle cellule, infatti ove noi vimmergiamo un frammento d’ovispermidutto tutte le pareti si rigonfiano notevolmente, il plasma delle cellule glandulari modificandosi. Ed è in questa modificazione così intima e completa che i nuclei sì separano da tutto il resto e si mostrano isolati. Tal forma di glandule non si rinviene affatto nell’ovidutto del genere Limax (Tav. XVI fig. 3); si hanno qui de’ ciechi glandulari ove li elementi sono del tutto analoghi a quelli che formano l’epitelio non vibratile della pa- rete, dalla quale sono derivati. Le cavità dell’ ovispermidutto (Helix pomatia) sono tappez- zate da epitelio vibratile. Nell’Helix pomatia l’epitelio non prende le proporzioni relative gigantesche che l’ Eisig descrive per la Planorbis. Il nucleo di ciascuna cellula è ovoide e cacciato in basso; le proporzioni, compresi i cigli vibratili, si manten- gono costante fra 0,03"" e 0,04". L’Eisig ebbe un concetto par- ticolare su questo epitelio, credette, e non mi sembra troppo giustificato, che le cellule fossero ad un tempo glandulari. Io non so vederne in prima anatomicamente le ragione, almeno nel mio caso, giacchè di sostanza elaborata tra il plasma non se ne trova, e fisiologicamente poi essendo questi elementi comple- mentari di un organo eminentemente glandulare. Molto meglio è di localizzare all’epitelio una azione di trasporto pei suoi cigii lunghissimi e resistenti. L'apparecchio sessuale del Lìmax, avendo le sue cellule vibratili solo nel dutto deferente, può addimostrare che i cigli vibratili sono principalmente destinati al trasporto dei lunghissimi Spermatozoi (Tav. XV fig. 3a). Molto probabilmente cotale passaggio è rapido, ed infatti non m’incolse mai di ritro- varne per via in tutta la regione, che è lunghissima. 218 A. BATELLI Nel solco destinato allo Sperma (Helix pomatia Tav. XV fi- gura 1) immettono vari canali di escrezione, nei quali si con- tinua l’epitelio vibratile. Questi canali non sono altro che della Prostata. Circa alla struttura di tale glandula il Lawson si esprime così: , Each follicule is of an ovato-laceolato outline, the apex pointing outwards, and from its surfaces a great quantity of papillary elevations rise which i fancy are follicles ,. Di più egli dice che comprimendo ha visto uscire da ciascuno di questi follicoli alcuni endoplasti, talvolta nucleati. La Prostata è una glandula acinosa, che invece di risolvere i suoi tubi in un solo canale d’emissione, ne getta, come avviene assai di rado, vari a differenti altezze (Helix pomatia). I metodi che possono essere impiegati per lo studio di essa sono l’Alcool, il Bicromato d’Ammoniaca e il liquido di Muller. Comunque sia che questo organo si tratti, si vede esser formato intimamente da tanti acini glandulari, fra loro disgiunti da una reticolatura muscolo-congiuntiva, come il Semper e l’ Eisig ci descrissero. Ogni follicolo si mostra tappezzato di cellule caliciformi con un nucleo distintissimo contenuto nel plasma; e siccome il pla- sma si raccoglie di preferenza alla base d’inserzione è appunto per questo che il nucleo, più o-meno lateralmente si trova sempre (Tav. XVI fig. 6) vicinissimo a quella. Sibbene non vi abbiano differenze sostanziali, è pur vero che gli acini della Prostata nel genere Helix sono ricollegati e piccoli (Tav. XV fig. 1) nel Limax invece liberi e grandissimi, tanto che una larga cavità sia la: sciata nel mezzo a ciascuno di essì (Tav. XV fig. 8). In questa cavità troviamo alcune masse mucose peduncolate, ancora ade- renti alle cellule parietali che le hanno prodotte (Tav. XV fig. 3 Db). Assai vicino al tubo della Sacca copulatrice è nell’ Helix po- matia strettamente aderente alla Prostata un lungo tubo lon- gitudinale (Tav. XV fig. 1 v), che la segue da un capo all’altro. ( Arteria Uterina (')). Questo tubo, figurato nei tagli trasversi, è costituito dalla tunica sierosa esterna, da uno strato di muscoli incrociati e internamente da un endotelio. L’Arteria Uterina getta dei rami a un di presso ortagonali nell'interno della glan- (1) Moquin Tandon. Vol. I, pag. 91, op. cit. STUDIO ISTOLOGICO DEGLI ORGANI SESSUALI DEI MOLLUSCHI TERRESTRI 219 dula, ed i tagli compiuti perpendicolarmente su questa dimostrano come i vasi sieno internamente simmetrici e regolari tanto nella loro distribuzione, quanto nelle suddivisioni principali. Condotto deferente — Fodero del pene e flagello Prima della Glandala del Muco e del Canale efferente è d’uopo ritornare più in basso e riprendere quelli organi che riuniscono in un arco anatomico l’ovidutto ed il vestibulo, cioè il tubo deferente, il fodero del pene ed il flagello. Il condotto de- ferente porta lo sperma dalla doccia prostatica al fodero del pene. Esso non ha cosa che lo renda speciale (Helix pomatia), sinuoso all’interno si tappezza di un epitelio non vibratile. Fibre muscolari incrociate, tessuto connettivo sottoepiteliale, quasi esclusivo nella sua zona, ne formano le pareti. Nell’Helix nemoralis questo tubo è molto più allungato le sinuosità in- terne appena accennate sono coverte di elementi cilindrici a nu- cleo basilare. Nel fodero del pene ( Helix pomatia) le pareti sono spesse (Tav. XVI fig. 17) elementi congiuntivi e muscolari penetrano nell’interno delle pliche, succede un epitelio ed una vernice cuticolare. Nell’ Helix nemoralis il fodero in alto è internamente circolare, si divide in quattro pliche fondamentali più in basso, che suddividendosi alla lor volta formano uno smerlo continuato alla base. Fra le cellule epiteliali non vi sono affatto quelle pa- pille che il Baudelot credette di vedere, ed alle quali attribuì principalmente la formazione del capreolo. Solo nell’ apparecchio digerente dell’ Helix ho potuto osservare alcune cellule, molto differenti dalle altre epiteliali, coniche, ed alla base slargatis- sime. Comunque sia, ciò non esclude affatto che qua non sì pro- duca il capreolo. E da questo concetto non ci dee separare nem- meno la esistenza accidentale di una cuticola, noi sappiamo che nella sacca del dardo esiste una cuticola contemporaneamente all'organo calcareo quivi secreto. Io studiai il ftagello in buonissimi tagli ottenuti, poi d’avere lasciata la preparazione per 2 ore nell’ Alcool assoluto (Tav. XV fig. 2), e colorati nel Picro-carminio. Dalla figura resulta evi- dente che il lume del flagello è interrotto per una sottile ap- pendice mediana (Tav. XV fis. 2 a) la quale sì attacca alla pa- 220 A. BATELLI rete con una base insensibilmente più grande della estremità. Il flagello chiuso superiormente termina la sua cavità in cul di sacco. La struttura delle pareti non differisce da tutte le altre che ritrovammo fino qui, nella periferia i soliti muscoli messi pe’ due sensi, nella zona più vicina all’epitelio il tessuto congiuntivo che da per sè solo con le sue fibre e con le sue cellule forma tutto il reticolo della appendice mediana. L’epi- telio come per tutti questi organi di copula è semplicemente cilindrico; esso varia nel diametro de’ suoi elementi da quelli della periferia alli altri della appendice essendo i primi 0,07" i secondi 0, 01". Il flagello non è traforato alla sua estremità, ond’è che per questa via non passano li spermatozoi. Quello dell’Helix nemo- ralis, sebbene tolto all'animale e sebbene non più in contatto con i liquidi dell’ organismo, mantiene per qualche tempo, dovuti ad un’azione riflessa, i fenomeni di movimento. b) Glandula dell’ Albumine L’istologia della glandula dell’Albumine ecco come fu, illa- strata dal Moquin Tandon , l’organe de la glaire est formé par des lobes agglomérés. On dirait un amas de coecums et d’ utri- cules entrèmelés, pressés, s’ abuchant les uns avec les autres ,. Nè questa incertezza d’idee egli dissimula maggiormente quando chiama nientemeno che Swammerdam, di buona memoria, a parlare di Istologia. Baudelot diresse una iniezione colorata nell’ interno della glandula. Con questo, non aggiungendo nulla alla Anatomia mi- nuta, non vide altro che la struttura acinosa di quella. Il lavoro di Lawson non porta maggiori schiarimenti, si limita ad accen- nare la somiglianza della glandula fra l Helix e la Lumaca. Il Semper dice che la glandula dell’Albumine (Eiweissdruse) è for- mata di.molti piccoli ciechi, che si riempiono di grosse cellule madri contenenti de’ glomeruli albuminosi. Nel 1853 il De Saint- Simon pubblicò nel Journal de Conchyologie una serie di osser- vazioni anatomiche sulla glandula dell’Albumine o Muco. Due metodi si hanno per lo studio di questa glandula; il primo consiste nel fissare la preparazione coll’Acido Osmico, e poi colorare i tagli nel Picrocarminato di ammoniaca, il secondo a (e ZA STUDIO ISTOLOGICO DEGLI ORCANI SESSUALI DEI MOLLUSCHI TERRESTEI 221 di indurirla per 2 o 3 ore nell’Alcool assoluto colorandola poi nel medesimo modo. Il primo metodo è certamente il più van- taggioso ed io ho eseguita nella mia tavola (Tav. XVI fig. 16) una preparazione ottenuta così. Non vi è da chiedere maggiore evidenza nella interpetrazione, sì tratta di una glandula acinosa, che a differenza della prostrata ha un solo tubo di escrezione, il tallone degli autori. Li elementi glandulari si isolano coll’Alcool al terzo, (Tav. XVI fig. 11) (Helix nemoralis) e noi vediamo così che essi hanno un nucleo ricacciato in fondo al plasma, e fino all’ orlo, largamente beante, un reticolo plasmico ove sono interposti i globuli del muco. La dissociabilità delle cellule è nel nostro caso così grande che fino l’ acqua a fresco e per un breve tempo può separarle di netto. Il Baudelot nella sua Tav. V. fig. 18 disegnò queste cellule, ma molto lontane dal vero. Sebbene ogni diligenza di osservazione facessi per discoprire le cellule del Giannuzzi, non vi arrivai. La glandula dell’ Albume è tappezzata dalla sierosa. Internamente, il Baudelot ce lo ha detto, è un sistema di canaliculi pel trasporto della secrezione. Io ho figurato uno di questi tubi principali, le cellule epiteliali sono vibratili, e si segue una biforcazione in mezzo alla foresta degli acini. Il tubo principale va, nell’ uscire dalla glandula, for- nendosi di elementi accessori siccome muscoli e tessuti congiun- tivi ed è forse per questo che il Dubreuil paragona il tallone alle glandule multifide. Io non entrerò sui differenti apprezzamenti fisiologici che sulla glandula dell’ Albumine furono fatti, pure se è permesso dire la sua, fra le varie opinioni mi sembra che l’unica buona sia di riguardarla come nidimentale e destinata a formare una prima teca mucosa alle uova discendenti. Canale efferente Il canale efferente fu differentemente chiamato dagli autori, Epididimo dal Redi, Particula cateniformis dallo Swammerdam Funicolo dell’Infundibolo dal Lister, Ovidutto dal Cuvier, primo ovidutto dal Blainville. Queste differenti nomenclature sono mo- dellate sul differente apprezzamento che si avea della glandula sessuale. Il Moquin ‘l'andon, sebbene riconoscendo la natura an- drogina di questi animali, chiamò il canale efferente Canale VII A. BNTELLI deferente superiore. È inutile insistere come tale nomenclatura possa ingenerare confusione, essondochè nel concetto anatomico per tubo deferente s’intenda unicamente quello che trasporta spermatozoi. Per questo noi accettiamo senz'altro la nomencla- tura del Baudelot. Uno dei lavori fondamentali istologici è quello del Meckel ('). Il Meckel, secendo le idee del Wagner, Laurent e Siebold, am- mise che la glandula dell’ Helix fosse ermafrodita e che formata da due foglietti questi sì proseguissero nel canale efferente. Per lo chè l’ultimo avrebbe due tubi l’uno compreso nell’altro, dei quali lo esterno ovarico, l'interno seminale. A ciò si opposero altri come il Dubreuil, che mostrò evidentemente essere il ca- nale semplice e non composto, sebbene alla fin fine il Meckel non avesse gran torto prendendo pel tubo esterno quello della sierosa, per l’interno l’ altro dell'organo propriamente detto. Il tubo è costituito da poche fibre muscolari e congiuntive tra loro incrociate e da un epitelio il quale va modificandosi di regione in regione. Ed infatti prendendo le figure 14 A e B Tav. XVI noi lo vediamo modificare da A in C, da pavimentoso cioè in cilindrico. Due fatti sono evidenti nell’ Helix pomatia, que- sto epitelio, non è vibratile, come da altri fu sostenuto, ed ogni cellula epiteliale contiene un nucleo, istruttivo per la sua reticola- tura plasmica interna (Tav. XVI, fig. 15). Lasciando un frammento per più giorni nell’Alcool al terzo, si ha il nucleo libero di queste cellule epiteliali ed è allora che per mezzo del Picrocarminato può discoprirsi la reticolatura anzidetta interrotta da granulazioni intermedie. De’ nuclei se ne trovano grandi e piccoli io ne ho veduto dn 0, 01" a 0,04". Con il siero iodato è facile disso- ciare dei lembi più o meno grandi di questo epitelio, ed è così che appariscono de’ vacuoli nell’interno del plasma (Tav. XVI, fig. 13). È molto probabile che tali vacuoli sieno prodotti dalla azione del reattivo, inquantochè col Bicromato di Ammoniaca non sì giungono a discuoprire (Tav. XVI, fig. 14). Il tubo efferente è stivato di spermatozoi i quali tendono ad uscire come in una colonna, appena che esso sia tagliato. Più che alla contrazione della parete, io credo, ciò debba rife- rirsi alla semovenza persistente degli organismi contenuti. (4) Ueber den Geschlechtsapparat einiger hermaphroditischer Thiere in Mull. Arch. XI, 1844. STUDIO ISTOLOGICO DDGLI ORGANI SESSUALI DEI MOLLUSCHI TERRESTRI 223 Lo studio sperimentale degli spermatozoi fu cominciato dal Baudelot ed egli dimostrò che nell’Arion rufus, nell’Helix pomatia, sottoposti che fossero all’azione dell’ acqua distillata, ne moriano. Io ho veduto che li spermatozoi nell’ acqua distillata facevano tutti il loro asse ondulato. Le ripiegature talvolta, in seguito alla azione prolungata di quel mezzo, ammatassavano l’ intiero filamento. Sotto l’azione della potassa al 35 per cento li spermatozoi da prima oscillano lievemente, poi come un saltaleone che si faccia scattare si ravvolgono in una spira fittissima. Il plasma che costituisce la testa dello spermatozoo si discioglie e si ri- solve in piccolissimi granuli. L’Acido Acetico risveglia il medesimo movimento di retra- zione, però meno vivace. A poco a poco la coda diviene meno refrangente, sparisce. La testa si stacca dal filamento con tutti i caratteri del nucleo. Le sostanze coloranti agiscono in vario modo. L’ iodio metil- violetto a fresco colora un po’ più intensamente la testa che la coda, e la intensità cresce d’ assai se lo spermatozoo abbia soggiornato per qualche tempo nel Bicromato d’Ammoniaca e probabilmente in tutta la serie cromica. L' Ematossilina produce i medesimi effetti. Se lo spermatozoo a fresco sia posto in una soluzione colorante di Picrocarminato si vede la coda rimanere quasi incolora, si colora invece intensamente, se la prepara- zione sia fatta innanzi passare pel Bicromato. Lettori miei, vi ho messi sulla strada. Se vi ho guidati per un sentiero faticante e noioso, vi ho condotti almeno al punto che possiate con il lavoro del Mathias Duval, così perfetto nella pratica e negli apprezzamenti, rifinire la Anatomia dell’ appa- recchio sessuale nell’ Helix pomatia. HW 12. 13. 14. 15. a DS DID SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE Tav. XV. . Taglio trasverso dell’ Ovispermidutto. a. Arteria uterina. . Taglio trasverso del pene (H. nemoralis). a. Appendice interna. . Taglio trasverso dell’Ovidutto e del condotto deferente nel Limax cinereus. a. Condotto deferente. b. Acino della Prostata. . Taglio trasverso della parte superiore della Sacca del Dardo. a. Cuticola. g. Cavità per contenere le spicule saline. . Taglio della Sacca copulatrice. a. cellule congiuntive. g. membrana esterna. . Frammento di Sierosa. . Cellula congiuntiva. Fibre muscolari. A. . Altre fibre muscolari. B. C. . Tronco nervoso. . Tronco e cellula nervosa. b. ramo intermediario. c. ramo che si decotomizza. Cellula nervosa. Cellula epiteliale nella Sacca del dardo. Cellule epiteliali della Sacca del dardo. Cellule epiteliali nella Sacca del dardo dopo il trattamento con acqua. A. BATELLI — SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE 225 Tav. XVI. . Taglio longitudinale della Sacca del dardo (figura schematica). a. Cloaca. b. Canale centrale. . Taglio trasverso delle Vescicule multifide. . Dardo. a. Coppa superiore. . Cellule glandulari delle Vascicule multifide (H. pomatia). . Taglio trasverso della Sacca del dardo. . Cellule glandulari prostatiche. . Smalto delle cellule glandulari delle Vescicole multifide nell’ H. ne- moralis. . Altra cellula delle Vescicule multifide (H. nemoralis). . Muscoli dell’ ovispermidutto. . Glandule della parte ovifera nell’ Ovispermidutto dell’ H. pomatia. . Cellule glandulari caliciformi della glandula dell’ albume (H. nemoralis). . Altra cellula epiteliale della Sacca del dardo. . Smalto dell'epitelio del condotto efferente (H. pomatia). . Varie forme d’ epitelio nell’istesso canale efferente A. B. C. . Nucleo d’una cellula epiteliale nel condotto efferente. . Taglio nella glandula del Muce (H. pomatia). . Taglio del fodero del pene (H. pomatia). CONTRIBUZIONI MINERALOGICHE 0;RIZIFEXES# PSEUDO NARO EE DUE NUOVE SPECIE DEL SOTT'ORDINE DELLE ZEOLITI 12 rt (Cri (CARTAILIRAVIRI(OUE VA] NOTA letta. nell'adunanza del 9 novembre 1879 Nello studiare attentamente i rapporti reciproci dei mine- rali più o meno idrati che rivestono le pareti dei grandi pezzi, popolarmente conosciuti col nome di Quattro Evangelisti, che for- mano il più spiccato ornamento della Collezione già Foresi, ed attualmente in possesso del Museo Mineralogico dell’ Istituto di Studii Superiori in Firenze, mi venne fatto di scorgere, fram- mezzo agli altri, un minerale che se ne distingueva a colpo d’occhio. Prendendo ad esame tale sostanza, mi si offerse di più l'opportunità di occuparmi più intimamente di un’ altra specie, che ritenuta da me (Bull. E. Comitato Geologico d’Italia 1872, pag. 284) come natrolite, si mostrò pur essa minerale nuovo. Pel primo minerale propongo il nome di Orizîte; pel secondo quello di Pseudonatrolite. Ecco in breve la loro descrizione. Orizite. I quattro grandi pezzi ricordati (Quattro Evan- gelisti) costituivano le pareti del celebre filone del ,, Masso Fo- resi ,, o della , Fonte del Prete ,, d’ onde vennero fuori tanti celebrati minerali, specialmente tormaline, grossi berilli, polluce in quantità straordinaria, castore, apatite, e la serie abba- stanza lunga delle zeoliti, come toresite, heulandite ecc. Questi grandi pezzi, benchè siano pareti di due geodi consecutive dello ORIZITE E PSEUDONATROLITE, NUOVE SPECIE 227 stesso filone, pure ciascuno di essi possiede fisonomia e minerali affatto suoi propri, come se fossero di località distantissime. Ritornerò su questo argormento un’altra volta con più oppor- tunità. Solo dirò ora che per uno di questi grossi pezzi la parete del filone, è costituita, a cominciare dal vivo del granito, da una notevole grossezza di sostanza farinosa, granulare, bianca o leggermente rosea, con castori interclusi, e con tutti i carat- teri della idrocastorite ( BulZ. KR. Com. Geol. d’ Italia, A. 1872, p. 284, e A. 1876, pag. 328). Al di sopra di questo cuscino di idrocastorite stanno sparsi innumerevoli cristalli di heulandite, isolati, o in gruppi, leggermente aderenti alla massa farinosa da cui si staccano con facilità, fornendo esemplari completi da ogni parte. Frammezzo alle heulanditi, in seno a piccole geodi formate dalla parte più compatta dell’ idrocastorite, ec. stanno i cristalli di orizite, accompagnati qua e là dalle masserelle aci- culari della creduta natrolite, e che in seguito è apparsa come nuova sostanza (pseudonatrolite). iZ , : D%): Figura di un cristallo d’ Orizile I cristalli di orizite ricordano assai pella forma generale, nel colore e nello splendore i grani bianchi del riso; sono però sempre di dimensioni minori di questi grani, non superando i due o tre millim. di lunghezza per 1 e 1 '|, di grossezza. Sono raramente isolati, e il più delle volte raggruppati a croce, a stella, o irregolarmente. La loro forma non è visibile che alla lente; e allora la forma riesce assai semplice, trattandosi di un 228 G. GRATTAROLA prisma rombico verticale a a' a” a”, finito obliquamente da un secondo prisma rombico b b' b” b”, come mostra la figura accanto con un ingrandimento almeno di 30 volte. Le facce dei cristalli sono ruvide, quindi affatto senza splendore; di più sono anche irregolarmente sparse di piccole prominenze; per cui non essendo per sè stesse splendenti, e nemmeno potendovisi adattare i ve- tricini, non fu possibile determinare al goniometro di Mitscher- lich i valori angolari dei cristalli. Questi valori furono invece determinati approssimativamente col goniometro annesso al mi- croscopio di Fuess. Pel prisma a a' a” a” si hanno: 1 Le RE 00 | Media tinge Pel prisma b b' b" b”: eee aa bb” non determinabile, confondendosi le due facce in una sola superficie curva. Angolo dello spigolo a a' collo spigolo b b'. 94,0 Angolo dello spigolo ab collo spigolo b b'. 14°. 30°. Dalle quali misure resulta che sebbene l'aspetto sia di so- stanza trimetrica, pure si deve riferire al sistema triclino. Le costanti cristallografiche sarebbero dunque approssimativamente: YX—= 97 XZ= 90; ZY= 94° IDEE 2021988 in cui gli assi x, y, z sono rispettivamente le rette che uniscono i centri degli spigoli a a”, a'a”; e di più supposte le faccie del prisma bb'b'b” avvicinate al centro in modo che passino per i punti x, x della figura. Le costanti ottiche, stante la forte opacità dei cristalli non furono potute ricavare. Durezza 6 (Riga facilmente il vetro, dubitativamente il fel- dispato). Densità 2,245. Splendore vitreo, tendente al madre- perlaceo. — Translucido. — Mediocremente fragile. — Polvere bianca; scalfittura bianca. ORIZITE E PSEUDONATROLITE, NUOVE SPECIE 229 Ridotto in polvere, nel tubo chiuso, rigonfia, sviluppa mol- t’ acqua, fonde e s° attacca alle pareti. Al cannello rigonfia senza vermicolazione, e fonde in perla trasparente, bollosa qua e là. Reazioni della silice e allumina. La fiamma è colorata inten- samente in giallo rossastro (calce con poca soda); con debole indicazione di potassa e di litina. Nell’ acido cloridrico concen- trato e caldo si scioglie pressochè completamente e con estrema facilità dando silice gelatinosa; anche nell’acido freddo e diluito la dissoluzione si verifica, benchè meno rapidamente; per cui l’ori- zite è da ritenersi come uno dei silicati più solubili. La prova analitica ha dato: di pi Negualigit 14, 8L 14, 38 SIC Re 09, dA 59, 20 AVO; #9) a (ARRE So 8600 10,31 Magnesia . . . | e I vr. 99, 85 99,60 La composizione chimica è dunque come si può verificare, quella t pica dell’heulandite (Vedi Dana, A System of Mineralogy, pag. 445), coincidendovi anzi assai più che non la vera heulan- dite elbana ( Vedi Atti di questa Società, Vol. IV, fasc. 2.°). Siamo adunque in un vero e proprio caso di dimorfismo della heulandite, essendo questo nuovo minerale differente della, heu- landite pel sistema e abito cristallino; per la sua opacità; per la durezza di molto maggiore; per la sua grande solubilità. Ho dato qnindi al minerale un nome nuovo: Orizzte. (più (propriamente Oryzite) dal greco “Opvta, riso, in ricordo della sua rassomiglianza coi piccoli grani di riso bianco. Pseudonatrolite: Nel Bull. del Comitato Geologico, Anno 1872 pag. 284, avevo dato un cenno di una zeolite novellamente (4) In quest’ analisi |’ allumina è riuscit» alquanto maggiore e la calce minore che non nella seconda, perchè in quella prima |’ allumina, precipitata coll’ammo- niaca, non è stata, dopo lavaggio, ridisciolta e riprecipitata una seconda volta per levarle la calce che poteva contenere: operazione che invece fu fatta nella seconda analisi di prova. Quest'ultima dunque è più attendibile. ; Sc. Nat. Vol. IV, fasc. 2.0 16 230 G. GRATTAROLA trovata nelle geodi del granito di S. Piero; la quale per le sue proprietà al cannello e agli acidi avevo ascritto alla natrolite. Soltanto dopo l’ acquisto della Collezione già Foresi potetti avere il comodo e sufficiente materiale per lo studio chimico completo della specie minerale, sulla quale quindi conviene che ripigli la parola. Delle due forme accennate nel citato Bu/lettino, una, quella di sferule poliedriche, va riferita alla specie stilbite come lo provano le analisi che il Dott. Sansoni ed io abbiamo eseguito e pubblicato negli Atti della Società (Vol. IV, fascicolo 2°.) L'altra, quella ad aghetti, analizzata e studiata più larga- mente anche dal lato fisico, si mostrò ben differente dalla na- trolite, ed è anzi una specie affatto nuova per l’ Elba, e ritengo anche nuova per la scienza. L'aspetto suo è quello di piccoli cristalli finissimi, assai sot- tili, arrivando da una grossezza massima di '/, millim. a delle dimensioni veramente microscopiche. Alcune rare volte questi aghetti sono isolati, tal’ altra sono uniti in fascetti poco com- patti, mantenendosi paralleli fra di loro, o anche divergendo e formando così una disposizione radiata e talvolta anche stellare. I cristalli, essendo in generale sempre attaccati per i due capi agli al ri minerali concomitanti, non mostrano le facce terminali che potrebbero guidare alla determinazione più esatta delle loro affinità cristallografiche. Si vede quindi solo un prisma, a sei facce di cui due preponderanti e altre quattro secondarie. Le inclinazioni reciproche (stante la piccolezza dei cristalli, e più ancora perchè i cristalli di discrete dimensioni sono costantemente striati per addossamento di fibre parallele o leggermente diva- ricate), impossibili a determinare. Le facce trasversali di rottura di questi prismettini sono sensibilmente perpendicolari alla di- rezione longitudinale. Al microscopio, ben pochi sono i cristalli, per quanto piccoli, che si mostrino semplici, cioè senza solchi più o meno profondi sulle loro facce prismatiche. Il microscopio non fa vedere nel- l’ interno di questi cristalli alcuna formazione di elementi ete- rogenei. Anche alla luce ordinaria i prismi striati mostrano una leggera iridescenza causata dai molti solchi, le cui facce varia- mente inclinate sulla luce incidente, costituiscono altrettanti prismi rifrangenti. Al microscopio polarizzante i prismi si estin- ORIZITE E PSEUDONATROLITE, NUOVE SPECIE 231 guevano completamente quando coincideva col piano principale di un nicol la direzione longitudinale di un prisma; cioè quattro volte durante il giro completo del piatto circolare mobile, in coincidenza approssimativa dei fili del reticolo. Questo fatto po- trebbe indurci a ritenere come approsimativamente trimetrico il sistema cristallino di questa sostanza. Durezza 5-6; (riga il vetro con facilità e punto il feldispato), densità non determinata. Incolora quando si trova in cristalli semplici; bianca quando in ammassi aciculari; polvere bianca. Splendore vitreo, subperlaceo. Si scioglie con facilità nell’acido cloridrico, benchè non mai completamente; forse per leggere impurità aderenti ai cristalli. Nel tubo chiuso dà acqua e si rapprende; alla fiamma del gaz o della candela gli aghetti fondeno facilmente le masserelle aci- culari, ma con minor facilità della natrolite. Al cannello danno un globulo trasparente, colorando la fiamma in giallo che però scema col seguitar dell’ operazione, sottentrandovi un giallo ros- siccio indizio di calce. Reazioni caratteristiche per la silice e l’allumina. L'analisi ha dato: (media di tre). one i 14,082 Sile ant. 02, 04 Anania i, 60 Calce de. 0, DÉ Magnesia +... tr. Soda, potassa e litina.. 1,00 (') 101, 76 Questa composizione che non ho ritrovata in nessuna delle zeoliti elbane concomitanti, e nemmeno in nessuna delle zeoliti finora conosciute, permette di ritenere il minerale come nuovo, a cui, a causa della notevole sua rassomiglianza colla natrolite aciculare, propongo di dare il nome di pseudonatrolite. È questo un minerale interessante, perchè completa per così dire la lista delle zeoliti elbane, fra le quali essa sta come termine di collegamento. Infatti, mentre da una parte ha meno (4) Determinata col metodo di Szabò. 9232 G. GRATTAROLA acqua di tutte (stilbite 19, 93; cabasite 20, 62; foresite 17, 06; heulandite 16, 80; idrocastorite (zeolite ?) 15, 96 secondo una nuova analisi di F. Sansoni e concorda invece colla nuova ori- zite); tiene per la calce il posto della foresite, essendo superiore alla idrocastorite, alla cabasite (7,50 secondo analisi del Dott. Sansoni); e inferiore alla stilbite. e alla heulandite e alla orizite. Per l’allumina è poi la più deficiente, anche più deficiente del- l'orizite (15, 71) e della stilbite che ne ha 16, 94; essendo la fore- site la più alluminosa contenendone 24, 12 secondo nuova analisi di F. Sansoni. Rispetto alla silice invece è la più ricca, essendo a lei la più vicina la idrocastorite con 58, 13 ‘ secondo recente analisi del predetto F. Sansoni. Di più la riportata analisi della pseudonatrolite riconferma la mirabile corrispondenza che esiste fra le zeoliti elbane per quanto spetta alla loro composizione. In fondo queste zeoliti sono tutte silicati, più o meno idrati, di allumina e calce, con esclusione di forti quantità di alcali; e l'intrusione della natro- lite costituiva davvero una stranezza colla sua enorme quantità di soda (da 9 /° a 16, 5 ;/0). Ridotta la natrolite a pseudonatro- lite, tale dissonanza vien tolta, e vien invece confermata mag- giormente la comunanza d’origine di tutti quei silicati, non solo per quello che riguarda la derivazione, ma anche il tempo di loro formazione che non potette essere soverchiamente di- verso per le diverse zeoliti. CORALLI GIURASSICO] DELL'ITALIA SETTENTRIONALE MEMORIA DITA TNS MO NFCO RED: A CHI ARIDI Prof. di Mineralogia nell’ Università di Pisa PREFAZIONE Quand’ io intrapresi lo studio dei coralli giurassici dell’ Italia settentrionale, già da vari anni stavano nelle collezioni paleon- tologiche del Museo di Pisa non pochi polipai dei terreni ooli- tici di Monte Pastello nella provincia di Verona e delle vici- nanze di Mentone presso Nizza Marittima. Molti di quei polipaj erano anche stati determinati dal prof. Meneghini e non pochi, come specie nuove, distinti con nomi nuovi, senza però essere pubblicati da esso. A quei primi coralli altri se ne aggiunsero di poi per la gentilezza del sig. Achille De Zigno e del prof. Torquato Taramelli tanto di Monte Pastello che di altre parti delle provincie venete; e dal professor Pirona un’ intera e copiosa collezione di corallarj giurassici friulani, non per anco studiati da alcuno, fu con non minor cortesia messa a mia disposizione; onde aumentata di con- tinuo la materia da studio, questo andò mano a mano renden- dosi più arduo e la pubblicazione ritardatane fino a ora. Però, se da una parte mi si rendeva in tal modo più difficile il com- pito mio, d'altra parte non è certo piccolo compenso alla fatica durata la soddisfazione di esser perciò appunto meglio fornito il lavoro. 234 A. D'ACHIARDI Tre dissi essere le principali giaciture, da cui provengono per la massima parte i coralli da me studiati, e cioè: 1. Monte Pastello su quel di Verona. 2. Mentone presso Nizza-Marittima. 3. Monte Cavallo nel Friuli. D'altre e pur sempre dell’Italia settentrionale, di dove io abbia studiato poche o mal definite o indeterminabili specie, dirò sol- tanto come in appendice a quella delle tre giaciture fossillifere principali, cui più si ravvicinino. Forse con nuovi materiali si potrà in avvenire completare o per lo meno rendere meno im- perfetto lo studio anche di queste giaciture, fin qui e per quanto io ne so povere di coralli fossili; ma per ora debbo,°come car- dini del mio lavoro, attenermi soltanto alle tre principali sum- mentovate. Molte sono pur troppo! le specie nuove, per non poche delle quali ebbi la fortuna di trovarle, se non descritte, già battez- zate dal prof. Meneghini; e poichè il nuovo studio da me fattone con nuovi esemplari e nuovi libri non ha che in rari casi rese necessarie altre denominazioni, così quando ho potuto ho scru- polosamente conservate le antiche, benchè non rese di pubblica ragione; e ciò non solo per sentimento di dovere, quanto per rispetto a lui, che con amorevole cura negli studj paleontolo- gici mi fu sempre guida e maestro. E ora, riserbando alla fine le conclusioni cronologiche, eccomi senz’ altro alla descrizione delle specie, cominciando da Monte Pastello. CORALLI GIURASSICI Z05 MONTE PASTELLO (Prov. di Verona) La prima e unica descrizione geologica, che io conosca, di Monte Pastello è quella di Pellegrini e Pizzolari, che fu pub- blicata nella Gazzetta Ufficiale di Verona nel 1847 ( Ann. III, num. 48). Essi così descrivono, o meglio danno la successione degli strati, quale fu da loro osservata nel luogo detto Cavalo alle falde del monte; e cioè cominciando dal basso. a ,Strati calcarei grigio-cupi, assai resistenti, grana finis- sima, spezzatura sovente scagliosa; cominciano con un metro circa di spessore e vanno sempre più assottigliandosi sino a ri- dursi in schisti; sono divisi gli uni dagli altri da venarelle mar- nose fragili dello stesso colore, in cui si rinvengono alcuni modelli di Gasteropodi sformati dalla pressione; percossi mandano un forte odore bituminoso e gli inferiori scintillano all’ acciarino;; presentano vene irregolari ed arnioncelli di cristalli calcarei, che sporgendo dalla superficie corrosa dagli agenti atmosferici simu- lano talora i contorni di grandi bivalvi. È una forte successione di ben 60 metri ,. » I fossili quivi sono così avvolti ed immedesimati nella pasta tenace della roccia che riesce difficile il ravvisarli, più difficile ancora il raccorli. Negli strati superiori poi e nei schisti si potè raccogliere la Terebratula insignis, la Strygocephala, dei Mega- lodon specialmente, delle Gervillia e tracce d’ avanzi vegetali bituminizzati; e taluno anzi degli schisti assume l’aspetto pres- sochè di lumachella per l’abbondanza dei fossili, ma in assai cattivo stato di conservazione ,,. » 0) Sopra questa serie s' alzano forti banchi, anco nello spessore di più metri, d'un calcare bigio più o meno chiaro, compatto, ineguale nella frattura, con lamelle spatiche per entro che a poco a poco assumono la struttura oolitica, a granelli più o meno grossi, più o meno fitti; può calcolarsi metri 40 e 236 A. D’ ACHIARDI più. Anche quivi i fossili sono rari e difficili ad isolarsi e di più scomposti dal metamorfismo. I raccolti sono Terebratule, Lime e parti abbondanti di crinoidi ,. i » €) Siedono sopra altri strati talora ad colite minuta e rara, che si lasciano distinguere per innumerevoli articolazioni di Pen- tacriniti ed aculei di Cidariti emergenti dalla superficie corrosa della roccia, la quale così presenta un aspetto singolare al- l'esterno, e nella spezzatura assai lamelle spatiche lucenti; talora un quarzo piromaco stratificato od in arnioni. Noi quivi li accenniamo distintamente perchè un così fatto carattere lo abbiamo riscontrato costante in molti luoghi della provincia nostra e del Tirolo. I più superiori di tali strati inoltre sì fanno rimarcare in questa località per una quantità enorme di polipai giganteschi delle forme più squisite e della più perfetta conser- vazione ,. » d) Poi ancora una serie di strati parimenti calcarei, di colore rossigno con macchie bianco-rosee, rare volte giallognole, onde assumono un aspetto di breccia; duri e potenti in basso, più marnosi e volgenti allo schisto nella parte superiore ,. » Quivi abbondano le Terebratule, gli Aptici, alcuni Echini e Belenniti e soprattutto gli Ammoniti; onde si può di leggèri riconoscervi la calcaria rossa ammonitifera tanto estesa nella nostra provincia e che chiude la formazione giurassica ,. » Questo piano riconosciuto dai più dei geologi, e che occupa nella serie dei sedimenti un piano non controverso, ci rende certi . senza ulteriori analisi che noi siamo ascesi fin qui per varie divisioni del giura; e se vi aggiungiamo i dati litologici raccolti ed i pochi dati paleontologici, avremo in basso alcun poco del periodo liasico (strati a Melagodon), poi la grande oolite (%. c), indi il rappresentante dell’ osfordiano (d); e quindi il bruno, il bianco e il rosso giura ,. Fin qui Pellegrini e Pizzolari, nè dello scritto loro fa me- stieri riportare altra parte, bastando questa a dare idea della, posizione in cui furono ritrovati i coralli da me studiati e che ora passo a descrivere, avvertendo soltanto come la fossilizzazione in calcare, tranne rare eccezioni in silice, ne abbia mantenute perfettamente conservate le parti esteriori, onde il loro studio riesce generalmente possibile anche senza ricorrere a sezioni levigate, che ne dimostrino l’ interna struttura, CORALLI GIURASSICI 237 ZOANTHARIA MADREPORARIA APOROSA MONASTREAE Fam. lLithophylliaceae. Montlivaultia Smithi? Tav. XVII, fig. 7. Montlivaultia Smithi, Milne Edwards et Haime. Brit. foss. Cor. pi LI0, tab. 21, fig. 1, 1851. Giovane individuo parassito sopra un polipajo della La/imaean- dra Taramellii D'Ach., sulla quale s' impianta per una base assai - larga. Altezza del polipajo 13—14"" Calice quasi circolare, largo da 22—24"" Cinque cicli completi di setti smarginanti. I setti dei primi tre cicli quasi uguali arrivano fino alla piccola fossetta calicmale, che è leggermente ellittica. 1 setti del 4.° ciclo pur essi molto sviluppati vi arrivano quasi: assai più piccoli, benchè distintintissimi e mediocremente sviluppati, sono i setti del 5.° ci- clo. I margini di tutti appaiono denticolati: i lati quasi scan- nellati vedendoli per di sopra. Dagli esemplari effigiati da M. Edwards e Haime differisce questo di Monte Pastello per minori dimensioni del polipajo, calice meno circolare e fossetta calicinale un po’ ellittica. Ciò non ostante, mentre ne noto le differenze e pongo il segno du- bitativo (?), non ho creduto doverne fare una specie distinta. ll nostro esemplare s’avvicina assai anche alla Montlivaultia cylindrata De From., trovata nel coralliano inferiore di Nattheim nel Wirtemberg, ma che però ne diversifica per il polipajo più cilindrico, le coste più sottili, minor differenza nei setti dei vari cicli e esso pure per la mancanza di spazio columellare allungato. Esemplari esaminati 1. La Montlwaultia Smithi è nota della grande-oolite di Bath, 238 A. D' ACHIARDI Montlivaultia ? Cavali, D'Ach. n. sp. May i OSVIISeno ele 1. a. Polipajo al naturale. — 2. bd. Calice del medesimo. Piccolo polipajetto, verosimilmente un individuo giovane, rac- colto da Taramelli a Cavalo, onde il nome, e che non sono riuscito ad identificare con alcuna delle tante specie, che di questo genere sono state descritte ed effigiate in particolar modo da Milne Edwards e Haime, da De Fromentel e da Milaschewitsch ('). Questo polipajo presenta una base assai larga d’ affissione. (7-9"m- ), verso la quale appare un po’ ripiegato. Altezza del polipajo 18®®-; diametri del calice ellittico 12-16""- Epitecio a pieghe bene sviluppato, che arriva poco distante dall’orlo cali- cinale. Coste numerosissime, alternativamente disuguali; sem- brano corrispondere a 6 cicli, l’ultimo dei quali però nel nostro esemplare è molto incompleto. Cinque cicli di setti; forse anche qualcuno di un sesto ciclo, però sempre rudimentari. Quelli dei primi 4 cicli tutti bene sviluppati a margine che sembra den- ticolato e a lati granulosi, presso la superficie quasi scannellati. Fossetta calicinale assai profonda. Di tutte le specie a me note si avvicina più che alle altre alla M. trochoides e in particolar modo, salvo le dimensioni minori, alla figura che ne danno Milne Edwards e Haime (Brit. fossil. Corals, tab. XXVI. N.° 3.). Ne differisce però essenzial- mente per la ellitticità del calice e minor numero dei setti; ed è senza dubbio tutt'altra specie. Se i setti non fossero dentati, del che non mi sono potuto accertare, sarebbe il caso di una Epismilia e lo stesso nome specifico le converrebbe egualmente: nè cambierebbe per questo il significato cronologico delle specie, ambedue i generi (Montlivaultia ed Epismilia) essendo propri degli stessi terreni. Esemplari esaminati 1. (!) Die Korallen der Nattheimer schicten. Cassel 1876. CORALLI GIURASSICI 239 DISASTREAE Fam. Stylosmilinae Placophyllia elegans, (Menegh. sp.) D’ Ach. n. sp. Tav. XVII, fig. 2. 2. a. Polipajo al naturale. — 2. 5. Calice ingrandito. Piccoli polipajetti a polipieriti cilindrici prodotti per evidente gemmazione come nelle Cladocorae, cui molto si rassomigliano. I giovani polipieriti si drizzano sollecitamente e procedono in alto allungandosi come nelle Cladocorae stesse. La muraglia esterna è ricoperta da un epitecio completo, molto sviluppato e a leggère pieghe. Dove fu asportato vedonsi delle coste su- beguali. Calici circolari o solo leggermente deformati i maggiori; larghi per il solito 5-6""*, rarissimamente 6-7. Setti bene e di- versamente sviluppati, non smarginanti, a margine integro. Se ne contano 4 cicli completi: quelli del primo e del secondo as- sal più sviluppati dei setti degli altri due si avanzano poco e soltanto in basso verso l’asse del polipierita, onde i calici appa- riscono molto profondi. Traverse endotecali evidenti. Columella lamellare breve, sottile e visibile solo in pochi calici. Fra le varie Placophylliae si assomiglia più che alle altre alla Placophyllia? rugosa Becker degli strati di Nattheim, ma ne differisce per maggior numero di setti, che sono 48 e non già 24-29. Esemplari esaminati 4. La specie di questo genere note fin ora sono del coralliano inferiore di Nattheim e di Rupt (Haute-Saòne) in Francia. Thecosmilia annularis ? Caryophyllia annularis J. Fleming Brit. Anim. p. 509, 1828. Thecesmilia annularis Milne Edwards et Haime. Pol. foss. ter. paleoz. p. 77, 1851 e Brit. foss. Cor. p. 84, tab. 13, fig. Le tab. 14, fig. 1. 1851. Nei belli esemplari di Monte Pastello, da me riferiti a questa specie, vedonsi i polipieriti subcilindrici, che nel dividersi si su- 240 A. D' ACHIARDI perano l’un l’altro, onde i due calici che se ne producono tro- vansi a diversa altezza. Lo stato di conservazione non permette di giudicare dell’epitecio. Cinque cicli di setti bene sviluppati, che però non arrivano, nè meno i maggiori, a toccarsi al centro del calice, ove esiste una fossetta circolare od oblunga assai profonda. I setti sono smarginanti, ineguali, denticolati e ilati loro coperti da forti granulazioni e riuniti da traverse endotecali. Larghezza dei calici 12—18""-, quindi un poco minore che nella tipica Th. annularis di Milne Edwards. Si tratta dunque di questa specie? Dalle succitate figure la Th. aunularis sembrerebbe avesse dimensioni maggiori, calici più ampli e più frequentemente e in vario modo sinuosi; ma sono differenze specifiche o dipendenti forse dalla giovinezza degli esemplari esaminati? Comunque sia la rassomiglianza, l’ affinità con la 7%. annularis sono molto notevoli. La Th. annularis è propria del Coral-rag di Steeple Ashton (Wiltshire), Malton, Slingshy presso York e molti altri luoghi dell’ Inghilterra. Esemplari esaminati 3, dei quali uno in foggia di polipierita isolato ha molta analogia a prima-vista con la figura che Mi- laschewitsch (') dà del sno Epistreptophyllum tenue; ma nel caso nostro non si tratta certo di una Mungina. Un frammento di polipierita alto e largo circa 3 conta presenta per le sue dimensioni maggiore analogia dei tre pre- cedenti con la .Thecosmilia dii ma sembra dotato di una columella minutamente bacillare, onde non credei ben fatto identificarvelo. Io credo appartenga ad altra specie e verosi- milmente anche ad altro genere. Se di polipajo semplice questo frammento parrebbe appartenere al genere Cyathophyllia, ma a specie ben diversa dalla Cyathophyllia liasica De From.; ma non potendo escludere il caso che abbia appartenuto a polipajo composto, stimai opportuno astenermi da un’immatura deter- minazione. (4) Mem. cit. CORALLI GIURASSICI 241 POLYASTREAE Fam. Diplocoenideae Diplocoenia profunda, d’Ach. n. sp. Tav. XVII, fig. 3. 3. a. Polipajo al naturale, parte superiore. — 3. b. Id. parte inferiore. — 3. c. Parte superiore ingrandita. Polipajo disteso in lamina sottile, a superficie subplana leg- germente ondulata, sorretto inferiormente da breve penducolo. Pagina inferiore del polipajo ricoperta da denso epitecio a pieghe concentriche. Polipjeriti non o appena sporgenti con una cavità o camera mediana circolare, larga 1 ',, — 2"" e limitata da una muraglia interna colonnare nascosta dai setti. Là ove i polipieriti si sal- dano fra loro per la muraglia esterna, che io peraltro non ho per sezioni riscontrata, appare un rilievo poligonale risultante dalla saldatura delle due contigue muraglia. Da ciò deriva non piccola rassomiglianza con alcuni polipai tavolati, con le Acer- vulariae per esempio, fra le quali |’ A. pentagona effigiata da M. Edwards e Haime (Brit. fos. Cor. tab. 53, fig. ba) si ras- somiglia molto alla Diplocoenia di Monte Pastello. A questo rilievo murale poligonale esterno si connettono le coste confluenti. Larghezza degli spazi compresi fra queste mu- raglia parietali varia secondo gli esemplari, in media circa 5" Negli esemplari a calici maggiori, con cavità cioè di 2"", l’am- piezza di questa cavità supera lo spazio compreso fra le due muraglia esterna ed interna; in altro a cavità minori, che però non oso riferire a specie distinta, accade l’ inverso. Gemmazione periferica dimostrata dalla mancanza di giovani polipieriti nel mezzo del polipajo. Tre cicli di setti non sempre completi. Per il solito se ne con- tano 20 subeguali e poco sporgenti nella porzione superiore della cavità calicinale, che perciò appare molto profonda (onde il nome della specie) e in basso della quale si connettono ad una columella stiliforme. Solo in alcuni calici anche il 3° ciclo è completo e sì contano allora 24 setti; raramente se ne hanno meno di 20, 242 A. D'ACHIARDI come avviene nell’ esemplare succitato, che dissi non osare rife- rire a specie distinta. E di fatti non credo che ciò sarebbe ben fatto, essendochè su questo stesso esemplare si abbiano notevoli differenze da un punto all’ altro, il numero dei setti variandovi da 16 a 20. Non si può asserire esservi setti di un 4° ciclo o almeno con- vien dire essere del tutto rudimentari e non visibilmente spor- genti nella cavità calicinale, quantunque vi corrispondano coste assai sviluppate. Il margine dei setti sembra essere dentato; in tal caso il posto di questo genere, o almeno dei nostri esem- plari, non sarebbe più fra le Eusmilnae. Le coste si continuano ai setti nascondendo le muraglia interne e sono in numero doppio dei setti, quindi abitualmente 40, talora meno, di rado più, raggiungendo un massimo di 48. Quelle corrispondenti ai setti principali (16-24) sono subeguali e molto sviluppate in grossezza; le altre fra mezzo e corrispon- denti ai setti rudimentarj sono uguali alle prime in estensione, ma più sottili. Tutte giungono però al rilievo poligonale, che separa l'uno dall’ altro polipierita. Columella stiliforme. Questa specie differisce dalla Diplocoenia corallina De From. del coralliano inferiore di Charcenne e Ecuelle (Haute Saòne) per la forma più laminare del polipajo, per la superficie più pianeggiante, per maggiore profondità delle cavità calicinali, non che per un maggior numero di setti e di coste, le quali per giunta sono anche più differenti in grossezza fra di loro. Somiglia poi immensamente alla Stylina spissa Becker (Die Korallen der Nattheimer Schichten 1875. S. 27. Taf. 2. fig. 4) del coralliano inferiore di Nattheim, la quale però non so se debba ascriversi anch’ essa al genere Diplocoenia. Certo l’ analogia con i nostri esemplari e con le altre Dipocloeniae è grandissima. Le figure succitate di essa Stylina spissa e della mia Diplocoenia profunda dimostrano chiaramente questa analogia e dirò anche che sospetto possa trattarsi di un’ unica specie. Che se io non ho identificata la mia alla specie di Becker, sia pur riferendola sempre al genere Diplocoenia, si fu perchè dalla figura con piccolo ingrandimento della Stylina spissa (fig. 4a), apparisce minore quell’ analogia, che si rileva dalla figura di maggiore ingrandimento (fig. 4 8), e perchè le coste si dicono essere quasi uguali fra loro ed anche finalmente perchè fu quella CORALLI GIURASSICI 243 specie determinata da Becker come una Stylina. Ma, mi piace ancora ripeterlo, l’ analogia è grandissima, se non la medesima, specie, certo è l’ una la derivata dall’ altra. Esemplari esaminati 4. Un quinto esemplare (Tav. XVII fig. 7) parassito sulla La- timaeandra Taramellii sembra avere i setti più sviluppati; ma questa apparenza dipende forse dalla corrosione, ond’ anco le cavità calicinali appaiono meno profonde. Del resto la somi- glianza con i precedenti esemplari è assai grande, nè io ho creduto dover farne una specie distinta. Fam. Stylinîdeae Stylina ‘Taramellii, D'Ach. n. sp. Tav. XVII, fig. 4. 4. a. Frammento di polipajo al naturale. — 4. b Porzione del mede- simo ingrandita. A questo genere riferisco alcuni frammenti di polipajo ramoso o per lo meno cespitoso, avuti da Taramelli, nei quali si hanno calici poco sporgenti, molto vicini fra loro e larghi da 1',—2 "=. Spazi intercalicinali leggermente concavi e per- corsi da coste subeguali e ben distinte, che sembrano in numero doppio a quello dei setti, cioè 48 intorno ai calici maggiori. 24 setti diversi per estensione, ma in generale bene sviluppati; in qualche calice anche qualche setto rudimentare di un 4.° ciclo. I setti dei primi due cicli arrivano fin quasi al centro del calice, ove vedesi un’esile columella stiliforme. I setti minori, taluni almeno, sembrano saldarsi ai maggiori; e questa apparenza mi ha tenuto molto esitante anche sulla determinazione generica. La specie, cui più si ravvicinino i summenzionati esem- plari, è la Stylina sertifera, (Pocillopora sertifera di Michelin), del piano di Bath; ma in questa i setti del 3.° ciclo sono ru- dimentarj; quindi la necessità almeno per ora di un nome nuovo. Esemplari esaminati 5. 244 A. D’ACHIARDI Stephanocoenia pentagonalis? Astraea pentagonalis Goldfuss. Petref. Germaniae. t. 1. p. 102, taf. 38. fig. 12. Stephanocognia? pentagonalis Becker — Die Kor. d. Nattheimer Sch. 185 SA la fe 2) Polipajo che mal si giudica che forma avesse dal piccolo frammento esaminato, che non è altro che la terminazione di un ramo di polipajo lobato o sub-dendroide. Calici fitti, per la massima parte pentagonali, larghi da 1'|,—1 ®®. 3 cicli di setti diversamente sviluppati. I setti del 1.° e 2.° ciclo quasi uguali fra loro, grossi ma gradatamente assottigliantisi verso il centro del calice, arrivano fino a quasi rag ggiungervi la colu- mella stiliforme e piccola. In qualche calice maggiore vedesi anche un qualche setto di un 4.° ciclo rudimentale. I setti del 3.° ciclo sono molto meno sviluppati per grossezza ed esten- sione di quelli del 1.° e 2.° Non posso dire con certezza della esistenza dei pali, ma in alcuni calici mi sembra di averne veduto un qualche segno. I caratteri corrispondono dunque perfettamente a quelli della Stephanocoenia pentagonalis (o Astrocoenia se manchino i pali) di Nattheim. Soltanto dal piccolo frammento da me esa- minato mal si può dire se la forma del polipajo vi Corsini e Per ciò il punto dubitativo (?) Questo frammento s' assomiglia anche assai all’ Astrea dissimilis Michelin dell’ oolite inferiore di Luc e Langrune (Calvados), da Milne Edwards e Haime riferita con dubbio al genere Isastraca e probabilmente Astrocoemia o Stephanocoenia essa pure. Esemplari esaminati 1. Fam. Astraeinae Isastraea Goldfussana Astraea helianthoides (pars), Goldfuss. Petr. Germ. t. 1, tab. 22, fig.4-6 1820. Isastraea Goldfussana, Milne Edw. et Haime. Pol. foss. des terr. paleoz. p. 105, 1851; e Hist. des Corall. 18597, t. 2. p. 532. Polipajo massiccio a superficie subplana. Calici ineguali da S a 180 più millimetri di larghezza. Nei maggiori 48 setti poco CORALLI GIURASSICI 245 diversi fra loro, subconfluenti e a margine tutto denticolato. Non columella. Endotecio abbondante. Questa specie differisce dalla /sastraea explanata per mag- gior dimensione dei calici e maggior numero di setti; del resto per l’ aspetto molto vi si rassomiglia. A_ prima giunta si scam- bierebbe anche con 1° Isastraea Greenoughi del Coral-rag di Bottey Hill, Belfort, ec., della quale dettero la figura Milne Edwards e Giulio Haime (Brit. fossi! Corals tab. 18, fig. 2); ma nell’ Zsa- straea Grenoughi ì setti sono abitualmente più di 48, arrivando fino a 56. In ogni modo, sia che si tratti di questa, sia dell’ altra specie, cui fu da me riferito l’ esemplare di Monte Pastello, si ha sempre nell’un caso o°nell’ altro a che fare con specie del Coral-rag. i L° Isastraca Goldfussana (helianthoides Goldf.) è nota del co- ralliano inferiore di Nattheim. Isastraea explanata Astraea eaplanata, Goldf. Petr. Germ. t. 1, p. 112, tab. 38, fig. 14. Isastraea explanata, Milne Edwards et Haime. Brit. foss. Cor. p. 94, tab. 17, fig. 1. 1851. Due polipajetti di Monte Pastello si rassomigliano perfetta- mente alle figure, che Giulio Haime e Milne Edwards danno di questa specie; uguale il portamento, uguale l’ epitecio, uguali la grandezza e la figura dei calici, non chè l’ apparenza dei setti. Leggendo però la descrizione vi si riscontrano alcune diffe- renze, segnatamente nel numero dei setti, che è detto essere fra 28 e 44, mentre in uno dei nostri esemplari sono fra 48 e 60 e nell’ altro quasi sempre 48. Di più anche l’ ampiezza dei calici sembra alquanto minore, perchè se è vero che la è assai diversa dall'uno all’ altro, è pur vero che nell’ esemplare a calici minori di poco sorpassa, se pur sorpassa, i cinque millimetri, mentre nell’ altro a calici maggiori raramente raggiunge gli 8 e raris- simamente i 9 ®©. Ma intanto nella succitata figura il numero dei setti e l’ ampiezza dei calici perfettamente vi corrispondono, ond’io non esito a ritenere che si tratti della stessa specie. L’Isastraea explanata è fossile del coral-rag di Steeple-Ashton, Se. Nat. Vol. IV, fasc. 2.° 17 246 A. D' ACHIARDI Malton, Hacknes, Stanton presso Highworth, Shippon e altri luoghi delle Isole Britanniche; di Lifol nei Vosgi; di Stenay nelle Ardenne e di Heidenheim in Germania. Becker la descrive an- che degli strati coralliferi di Nattheim (Wurtemberg). Altra specie, cui pur si ravvicinano i due polipajetti di Monte Pastello, e segnatamente quello a calici maggiori, è l'/sa- straca Grenoughi, che però ne differisce per l’ampiezza dei calici anche maggiore che nella . explanata. Potrebbe anche darsi che si trattasse di quella specie e i calici non avessero anche rag- giunta sul margine del polipajo, ove soltanto gli ho potuti osservare, la loro finale grandezza. Mi sembra per altro poco probabile; in ogni modo si tratterebbe sempre di una specie del coral-rag. Isastraea Montispastelli, D'Ach. n. sp. Tav. XVII, fig. 5. 5 a. Polipajo al naturale. — 5 d. Calici ingranditi. Polipajo subplano, leggermente convesso alla superficie. Calici poligonali, larghi da 3-5 ®"* 48 setti di varia grandezza, gra- nulosi e denticolati. Columella rudimentale. Diversifica dall' Isastraea explanata, sopra descritta, per la minore dimensione dei calici e per essere inoltre un poco più profondi. Esemplari esaminati 2. Diversi altri esemplari in cattivo stato di conservazione sem- brano ravvicinarsi a questa specie; ma non posso escludere il caso che anche non vi appartengano. Isastraea limitata. Astrea limitata, Lamour. in Michelin. Icon. Zooph. p.239. pl. 54, fig. 10, 1845. Isastraea limitata, M. Edw. et Haime. Brit. foss. Cor p. 114, tab. 23, fig. 2 e tab. 24, fig. 4 e 5, 1851. Un solo e ben conservato esemplare sembra doversi riferire a questa specie trovata nella grande oolite di Luc, Ranville e Lan- grune in Francia e di Bath e Hampton Downs nelle Isole Bri- tanniche. Questo esemplare differisce dagli altri da me riferiti CORALLI GIURASSICI 247 all’ Isastraea serialis soltanto per la minor dimensione dei calici e minor numero dei setti. Isastraea serialis. Isastraea serialis, Milne Edwards et Haime. Brit. foss. Cor. 1851, p. 116, tab. 24; fig. 2, e Hist. des Corall. 1857, vol. 2, pag. 533. Quattro esemplari ben conservati dei quali uno di gigante- sche dimensioni. Passa grande rassomiglianza fra essi e taluni altri esemplari da me riferiti alla n. sp. Latimacandra multi- septata, e quindi anche con la Latimaeandra pulchella Beck. del coralliano inferiore di Nattheim. L' Isastraea serialis fa già trovata a Comb Down presso Bath, nella grande colite secondo Duncan (Brit. foss. Cor. Palaoent. Soc. vol. 26 London 1872). Latimaeandra multiseptata, D'Ach. n. sp. Tav. XVII, fig. 6. 6.a. Polipajo al naturale — 6.6. Porzione del medesimo ingrandita. Polipajo massiccio di piccola mole, a superficie rotondeggiante, a muraglia comune percorsa da coste mediocremente sottili, fitte e subeguali. Polipieriti separati da muraglia sottilissime spor- genti in esile orliccio fra un calice e l’ altro; talvolta uniti in serie abitualmente molto brevi. Centri calicinali sempre ben distinti e molto profondi. La ove più calici sono in una vallecula due o tre setti procedono sul fondo della vallecula stessa da una all’ altra cavità calicinale. In gran numero sono i calici circoscritti e poligonali e in essi si ha una larghezza da 5 a 7 ®", che è per il solito un poco superiore a quella delle brevi vallecule. Setti numerosi, fitti, sottili: nei maggiori calici circoscritti se ne hanno perfino 4 cicli completi, di cui però la metà rudi- mentarj o poco meno; se ne arrivano a contare fino a 8 nello spazio di 2", Sembrano essere granulosi ai lati e denticolati al margine, di grandezza varia e apparentemente irregolare e più o meno flessuosi. 948 A. D'ACHIARDI Gli esemplari di Monte Pastello sembrano, tanta è la loro rassomiglianza, rappresentati dalle figure che danno Milne Ed- wards e Haime della Latimaeandra Davidsoni ( Brit. foss. Cor. tab. 27 fig. 10) e Becker della Latimaeandra pulchella (Die Korallen d. Nattheimer Sch. Cassel 1875. Taf. 4 (XXXIX) fig. 6); e all’ una e all’ altra specie, giudicando dalla sola figura, pur con- veniva riferirli; ma intanto leggendone le descrizioni si trovano non insignificanti differenze. Alla Latimaeandra Davidsoni, che è dell’ colite inferiore di Cheltenham, Milne Edwards e Haime assegnano valli poco pro- fonde, larghe da 4—5 "= e un numero di setti non conside- revole, che De Fromentel dice essere di 30—40. Or bene per quanto possa essere, ed è infatti, variabile da un calice all’al- tro il numero dei setti, pur questi, anche non contando i rudi- mentarj, rimangono sempre assai più numerosi nella L. multi septata che nella L. Davidsoni, onde per ciò e anche per la mag- giore ampiezza e profondità dei calici non si possono identificare con questa specie gli esemplari qui descritti di Monte Pastello. Dalla Latimacandra pulchella Beck., specie degli strati coral- liferi di Nattheim, e quindi di un piano assai superiore a quello di Cheltenham, differiscono questi stessi esemplari per la forma molto convessa, per maggiore ampiezza dei calici e delle val- lecule (differenza che non apparisce per altro dalla figura) e per maggior numero di setti, benchè con minor divario che per la L. Davidson. Dunque la necessità di un nome nuovo, pur restando la spe- cie per molti caratteri assai vicina all' una e all’ altra delle sur- ricordate. Debbo notare ancora come passi non piccola rassomiglianza fra questi esemplari ora descritti e altri da me riferiti all’ /sa- straea serialis. Debbono separarsi gli uni dagli altri? Credei ben fatto separarli, ma non sono perfettamente sicuro di aver ben fatto realmente, come non sarei se li riunissi. Esemplari esaminati 3. i CORALLI GIURASSICI 249 Latimaeandra Taramellii, D’Ach. n. sp. Tav. XVII, fig. 7. 7.a. Polipajo al naturale. — 7. 5. Porzione del medesimo ingrandita. Polipajo massiccio a superficie convessa. Calici poligonali per la massima parte circoscritti e solo in parte fusi in brevi val- lecule, sempre poco profondi e a cavità centrali ben distinte. Muraglia assai grossa. Larghezza dei calici circoscritti varia da 6-9", rarissimamente 10". Quattro cicli di setti bene sviluppati e taluno rudimentario di un 5° ciclo nei maggiori calici circoscritti, mentre nei minori ne manca taluno del 4° ciclo. I setti sono gradatamente diversi a seconda dell’ ordine loro; soltanto quelli del primo e del secondo ciclo, fra loro quasi uguali, arrivano fin presso,al centro del calice, ove non scorgesi traccia di columella. Tutti indistintamente, meno irudimentarj, appaiono ingrossati nella loro porzione in- terna. I margini ne furono senza dubbio ornati di grossi granuli, verosimilmente tanto più grossi quanto più interni, e granulosi ne appariscono anche i lati. Soltanto taluno dei minori setti si riunisce di tanto in tanto al suo vicino d’ordine più antico. Questa specie per la figura, dimensioni e circoscrizione dei calici ha molta rassomiglianza con la L. brevivallis Beck. degli strati coralliferi di Nattheim; ne differisce peraltro per la mag- gior grossezza delle muraglia e dei setti, questi e quelle sotti- lissimi nella specie del Becker. Anche maggiore rassomiglianza ha poi con la Latimaeandra circumscripta Reuss, di Monte Grumi presso Castel Gomberto, un polipajo oligocenico, con il quale non avrei esitato a identificarlo, corrispondendovi descrizione e figu- re, se Reuss non ci avesse lasciato scritto di aver fondata la sua specie sopra un unico e mal conservato esemplare. Le sole differenze che dalla descrizione e figura appariscono consistono nell’ essere quasi pianeggiante il polipajo della Latimaeandra oligocenica e i calici divisi da più sottile muraglia. In tutto il resto non vi ha alcuna sostanziale differenza. Esemplari esaminati 2, sul maggiore dei quali si affigge un individuo ancor giovane della Montlivaultia Smithi e si distende una lamina di Diplocoenia profunda, 250 A: D'ACHIARDI Latimaeandra GCavali, D’ Ach. n. sp. Tav. XVII, fig. 8,9. 8. Polipajo al naturale: — 9 a. Altro polipajo al naturale veduto per di sopra. — 9. Id. veduto per di sotto. — 9c. Porzione di po- lipajo ingrandita. Polipajo massiccio, affisso per un peduncolo piuttosto sottile, a superficie ineguale e leggermente convessa, formato talvolta a palchi (fig.8). Muraglia comune percorsa in tutta la sua estensione da coste subeguali. Vallecule grandemente variabili. Ora si hanno dei calici non solo circoscritti, ma che pur tendono ad isolarsi dagli altri, ora e pur sempre sullo stesso esemplare più calici raccolti in vallecule più o meno lunghe, talvolta tanto (fig. 3), che dal centro del polipajo si distendono fino alla periferia. La larghezza delle vallecule varia da un punto all’ altro, da 4 a 8 e anche in rari casi fino a 9"", Queste vallecule, assai profonde, sono separate l’ una dall’altra mercè di colline a cresta piuttosto acuta, più raramente e quasi per eccezione da solchi. I centri calicinali sono distintissimi sia per l’apparirvi di una profonda fossetta calicinale, sia per la direzione dei setti, nel fondo delle vallecule confluenti dall'una all'altra cavità calicinale. Setti nu- merosi; se ne contano di bene sviluppati, benchè fra loro disu- guali per grossezza e per estensione, da 40 a 48 per ogni calice, apparendone alcuni meno soltanto nei periferici, anch’ essi per altro ben circoscritti. Oltre a ciò molti altri setti rudimentarj si veggono fra i maggiori presso alla cresta delle colline, cui s' accavalciano. Dei maggiori se ne contano 26-30 nello spazio di un centimetro; fra grossi e rudimentari poco meno che il doppio. I margini dei setti portano fitti, grossi e rotondi gra- nuli, che negli esemplari da me esaminati appajono tanto mag- giori, quanto più profondi. La qual differenza per altro non oso asserire che sia essenziale, come pare, potendo forse dipen- dere anche dall'essere i granuli più interni, come meglio difesi, anche meglio conservati. Manca affatto la columella in tutti i calici da me osservati, tranne in uno, ove, per mostruosità certo, apparisce grossamente papillare. CORALLI GIURASSICI 251 Fra le specie a me note s’' avvicina più che alle altre alla Latimacandra Raulini del coral-rag di Saint Mihiel, Andeyron ec. e alla Latimaeandra caryophyllata De From. del coralliano di Ecuelle. D’ ambedue queste specie sono però così imperfette la descrizione e le figure datene da Michelin (/conog. Zooph. 1843, pl. 18, fig. 8.) e da De Fromentel (Polip. des énv. de Gray, 1864, pl. 15, fig. 19) che ogni identificazione è impossibile, onde la necessità di un nome nuovo, che trassi dal luogo di sua giacitura. Esemplari esaminati 5. Latimaeandra aulonica, Mng. Tav. XVII, fig. 10. 10 a. Polipajo al naturale. — 10 d. Porzione !del medesimo ingrandita. Polipajo massiccio a superficie leggermente ondulata. Poli- pieriti uniti in serie più o meno brevi e composte di 2, 3, 4 e anche più individui. Calici circoscritti rari. Vallecule più o meno flessuose, larghe da 3-5”, poco profonde, se pur tali non appariscano per sofferta corrosione. Colline semplici. Quat- tro cicli di setti completi soltanto nei calici maggiori non riu- niti in serie o in serie brevi. Setti disuguali, sottili, flessuosi; taluni dei minori si riuniscono ai maggiori. Nelle vallecule se ne contano circa 40 nello spazio di 1 centimetro. Sembrano es- sere stati denticolati o per lo meno granulosi. Centri calicinali distinti e privi di columella, se non°sia rudimentale. Esemplari esaminati 2. Fam. Comoserinae Comoseris amplistellata. D’'Ach. n. sp. Nav SSW LI. 11 a. Polipajo al naturale —- 11. 6. Porzione del medesimo ingrandita. Frammento di polipajo, onde mal si giudica della forma di questo, che però sembra essere stato a superficie pianeggiante. Nulla si può dire dell’ epitecio. Vallecule assai larghe, nell’unico esemplare da 8 a 14”", mediocremente profonde. Colline dritte, che sorgono dal mezzo della vallecula ove questa si slarga. Ca- 252 A. D' ACHIARDI lici disposti senz’ ordine con tendenza però a formare una sola serie per ciascuna vallecula. Centri calicinali ben distinti sia per il convergervi dei setti, sia per una manifesta cavità. Setti cor- renti dall’ una all’ altra cavità calicinale, flessuosi e riunentisi i minori ai maggiori nel fondo delle vallecule; dritti e fra loro paralleli sulle colline. Quattro cicli di setti non sempre completi, e i setti tutti piuttosto grossi. Sulle colline se ne contano 24-26 nello spazio di un centimetro. Columella rudimentale. Differisce dalla Comoseris irradians M. Edw. et H. per l’al- tezza e ampiezza maggiore delle colline, maggior dimensione dei calici, onde il nome, maggiore regolarità nella distribuzione delle colline e maggior numero di setti. Esemplari esaminati 1. Le specie del genere Comoseris spettano a terreni di varia età; le prime descritte appartenevano al coral-rag e alla grande colite, ma indi se ne rinvennero anche in terreni assai più gio- vani e se ne conoscono alcune anche dell’ oligocene veneto. CONCLUSIONI Dallo studio fatto delle varie specie quali conclusioni si pos- sono trarre sull’ età del terreno, donde provennero? Nessun dubbio vi ha che non si tratti di terreno oolitico; a ciò conduce lo studio tanto dei generi che delle specie, e tanto delle specie già note altrove quanto delle nuove in grazia dei possibili ravvicinamenti ad altre di diverso paese. Tra tutte le specie da me studiate nessuna ne ho trovata che sia dell’ colite inferiore, quale viene’generalmente ammessa e anche da Duncan ('), escludendone cioè il piano di Bath. Sol- tanto alcuna di esse specie vi trova qualche termine di rasso- miglianza, ma la distinzione specifica ne rimane sempre indi- scutibile; e quindi si può escludere addirittura che si abbia a che fare con il piano inferiore dell’ oolite. Della grande oolite invece o gruppo di Bath già comincia (5) Fossil Corals, Pt. 3. Oolit. Palaeon. Soc. vol. 26, 1872. CORALLI GIURASSICI 258 a mostrarsi una qualche specie; fra certe e incerte ho determi- nato le seguenti: Montlivaultia Smithi 2, Isastraea limitata, Isastraea sertalis, delle quali la prima tutt’ altro che indiscutibile; e anzi rispetto a essa giova notare come presenti qualche analogia con alcune forme di Montlivaultiae descritte da Milaschewitsch degli strati di Nattheim. E debbo pure avvertire come fra le /sastreae della grande oolite le due succitate trovino termini affini fra i fossili del Coral-rag, e per esempio l'Isastraea serialis, almeno negli esem- plari di Monte Pastello, s' avvicina assai alla Latimacandra pul- chella Beck. del coralliano inferiore di Nattheim. Tutte tre le summentovate specie son note di Bath e la se- conda anche di Luc, Ranville e Langrune in Francia, senza dire di altre giaciture inglesi, che a quella prima si corrispondono cronologicamente. Fra le nuove specie, una sola, la Stylina Taramelli, si ras- somiglia assai alla .Stylina sertifera di Langrune, onde contri- buisce anch’ essa ad aumentare questo barlume di facies bdatho- niana; ma sia per il ristretto numero delle specie, sia per la incertezza delle determinazioni, in gran parte dovuta a piccole differenze con le specie tipiche, siamo ben lunge da poter dire che si abbia a fare con la grande oolite; si può anzi escludere che ne sia il caso. Maggiori rassomiglianze si hanno invece col coral-rag, cui corrispondono le seguenti specie, taluna delle quali per altro de- terminata con una qualche incertezza, onde per queste il punto dubitativo (2). Inghilterra Francia Germania 455 .:-0i Steeple Ashton, Mal- # Sor Thecosmilia annularis? È tone (098 {shire) Stephanocoenia penta- X LE Nattheim gonalis? l 1 Isastraea Goldfussana — — Nattheim Champlitte (Haute Nalthoinie Saòne ); Stenay i; } (Ardennes) . Heidenheim Steeple Ashton ec. Isastraea explanata . { (Wiltshire) Il maggior numero delle specie a comune si ha dunque con gli strati coralliferi di Nattheim, che, se furono riferiti da ta- 254 A. D’ ACHIARDI luno alla parte superiore dal J/alm o giura bianco, i recenti studj e fra gli altri anche di Milaschewitz (') sincronizzano in- vece con gli strati a coralli dell’ Alta Saona (Haute Saòne), da De Fromentel giudicati appartenere alla parte inferiore del co- ralliano. E De Fromentel stesso riferisce a questo medesimo piano del coralliano inferiore anche i coralli di Nattheim, che quindi insieme a quelli dell’ Alta Saona verrebbero nella serie dei ter- reni coralliani ad essere un poco inferiori ai coralli del Wiltshire in Inghilterra. Duncan (op. cit.) divide in quattro piani il cora/-rag del Wilt- shire, e cioè cominciando dall’ alto: 1. Arenaria calcarifera superiore (Upper calcareous grit) 2. Strato a coralli (Coral-rag). 8. Argilla (Clay). 4. Arenaria calcarifera inferiore (Lower calcareous grit). onde appare, se non precisamente nella parte superiore del co- ralliano, i coralli del Wiltshire stare piuttosto in alto che in basso; e ciò forse basta a spiegare la minore analogia della fauna corallina di questa giacitura inglese con la fauna di Monte Pastello, che ha pure un qualche legame di parentela con i co- ralli della grande oolite. Delle 4 specie summentovate una sola non lascia alcun dub- bio nella sua determinazione, l’ Isastraca explanata, specie molto diffusa nei giacimenti coralliani d’° Europa; le altre lasciano una qualche incertezza, che è minore, quasi nulla per 1’ Zsastraea Goldfussana. Pertanto non mi sembra potersi ammettere corri- spondenza assoluta nè con Steeple Ashton, nè con Nattheim, nè con altro dei giacimenti succitati del coral-rag. Quel che rimane però provato è l’analogia con gli strati di Nattheim, analogia confermata anche dalle specie nuove, che in gran numero e con stretti legami si avvicinano ad altre già note di questa o di corrispondente giacitura. K di fatti: La Placophyllia elegans, specie di un genere del coralliano inferiore, è somigliantissima alla Placophyllia rugosa Beck. di Nattheim, dalla quale diversifica essenzialmente soltanto per mag- gior numero di setti, malgrado l’ ampiezza minore dei calici. La Diplocoenia profunda ha tale affinità con la Stylina spissa (*) Die Korallen d. Nattheimer Sch. Gassel 1876. CORALLI GIURASSICI 255 Beck. di Nattheim, che propendo ancora a riunirvela; e non piccola analogia presenta pure con la Diplocoenia corallina De From. del coralliano inferiore di Charcenne (Haute Saòne). L' Isastraea Montispastelli è molto affine all’ Isastraca expla- nata del coralliano inferiore di Champlitte (Haute Saòne), delle Ardenne e di Nattheim. è Delle Latimacandrae la L. multiseptata s° assomiglia moltis- simo alla L. pulchella Beck. di Nattheim, tanto che a giudicarne dalla figura datane dal Becker quasi vi si confonderebbe; la L. Taramellii per certi caratteri si ravvicina alquanto alla L. cir- cumscripta Beck. dello stesso luogo: la L. Cavali finalmente ha un po’ di rassomiglianza con la L. caryophyllata De From. dei dintorni di Gray (Haute Saòne). Delle altre specie nuove già dissi come una sola si possa rav- vicinare ad una specie della grande oolite e cioè la Stylina Ta- ramellii alla St. sertifera; delle rimanenti la sola Comoseris am- plistellata offre qualche analogia con la C. irradians del coral-rag di Steeple Ashton, dalla quale per altro differisce per essenziali caratteri. Risulta quindi che mentre da una parte non viene per que- sto studio comparativo aumentata l’ analogia con il cora/-rag in- glese, analogia che si riduce quindi a minimi termini, dall'altra cresce a dismisura l’ analogia con gli strati di Nattheim. Ma siamo dunque nello stesso piano geologico ? Certo, mi giova ripetere, l’ analogia è grande; ma d' altra parte più che di vera identità, più che di perfetta corrispondenza parmi essere il caso di semplice, benchè strettissima, affinità. E poichè da una parte l’ analogia scema con l’ inalzarsi del piano geologico anche senza uscire dal coralliano, e dall’ altra, benchè incomparabilmente minore, ma pur sussiste con alcune specie della grande oolite, quindi vien da per se come logica la con- clusione, che il piano donde provengono i coralli di Monte Pa- stello debba ascriversi jnella serie dei terreni fra la grande oolite e il coral-rag, ma di tanto più vicino a questo che a quella di quanto è maggiore l’ analogia delle faune. Il suo posto è sotto l'orizzonte o piano a coralli di Nattheim e dei dintorni di Gray (Haute Saòne); forse nell’ oxfordiano; senza che con ciò io possa nè meno escludere il caso, che come ultimo, inferior termine possa pur esso ascriversi al coralliano. 256 A. D’ ACHIARDI La questione potrà solo essere definitivamente risoluta dallo studio degli altri fossili, poichè mentre in generale abbondano coralli nelle grande colite e nel cora/-rag, mancano abitualmente nei terreni intermedi del Kelloviano e dell’ Oxfordiano, nei quali molluschi e altri animali pur lasciarono copiose le spoglie loro. In uno studio quindi fondato unicamente sui coralli vengon meno i termini di paragone relativi a quei piani intermedj e per ciò l’imperfezione del giudizio. Ciò non pertanto mi sembrò non del tutto inutile accennare i resultati, cui mi ha condotto lo studio dei coralli di Monte Pastello, per i quali con un po’ di larghezza è vero, ma pur viene determinato il piano corallifero di Cavalo come inferiore agli strati a coralli del Wiltshire non solo, ma anche di Nat- theim e verosimilmente dei dintorni di Gray. Altre giaciture corallifere della provincia di Verona In appendice ai coralli di Monte Pastello dirò solo breve- mente di alcuni pochi polipaj avuti da De Zigno di vari luoghi della provincia di Verona, riportando testualmente l’ indicazione della giacitura comunicatami dallo stesso De Zigno; quale cioè ho trovata scritta sul cartellino di ciascun esemplare. ROVERÈ DI VELO I polipaj, per il solito mal conservati e difficilmente deter- minabili, sono abitualmente silicizzati, e portano le indicazioni di giacitura sottosegnate alle lettere A. B. O. CORALLI GIURASSICI 257 A — Dogger — Strato giallo sottoposto alla zona ad Ammonites acanthicus. Fam. Lithophylliaceae Montlivaultia trochoides? Montlivaultia trochoides, Milne Edw. et Haime — Ann. Sc. Natur. Ser. 3, t. 10, p. 259, 1849 e Brit. foss. Cor. p. 129, pl. 26. fig. 2, 9, 4 e 10 e pl. 27, fig. 2 e 4, 1861. Piccolo individuo appartenente con ogni verosimiglianza alla suddetta specie, benchè sembri differirne per un minor numero di setti, che non sorpassano i 5 cicli, e per assai larga base d’affis- sione. Ma dell’ una e dell'altra differenza può ben trovarsi la ragione nella giovane età del polipajo. La Montlivaultia trochoides è specie dell’ oolite inferiore di Charlcomb. L’ esemplare di Roverè di Velo somiglia pure assai ad alcuni giovani polipajetti della Montlwaultia rugosa Duncan et Wright del piano o zona ad Ammonites raricostatus (lias) di Marle Hill, Honeyburne ec. nelle Isole Britanniche. A — Dogger — Strato giallo a Pentacrini sottoposto al calcare ammonitico inferiore. Fam. Stylinideae Stylina sp. Unico e mal conservato esemplare apparentemente analogo alla figura che Michelin dà della sua Sarcinula quincuncialis (') dell’ arenaria verde inferiore di Uchaux (Vaucluse). Lo stato di conservazione ravvicina pur molto questo esemplare ad alcune mal conservate Stylinae (S. tubulosa, alveolata ec.) di Nattheim nel Wiirtemberg. Ma con ciò non intendo di ravvicinarla più all'una che all’ altra specie; intendo solo di notare la somi- gliante fisonomia, ed è tutto quanto si può dire. (*) Icon. Zooph. 1840-47, p'anche 6, fig. 7. 258 A. D' ACHIARDÎ Fam. Latimaeandrinae Latimaeandra? qualiformis D’Ach. n. sp. Tav. XVII, fig. 12. 12 Polipajo al naturale. Polipajo quasi trocoide, come canestra piena di fiori, e dalla for- ma il nome. Muraglia comune solcata da coste subeguali, in gran parte nascosta da alghe incrostate, che ricuoprono anche buona porzione dei calici. Questi ora isolati, ora uniti in brevi serie, mediocremente profondi e larghi, se circoscritti, da 3-4». Setti numerosi, disugualmente ingrossati dalla fossilizzazione, ma senza dubbio anche disuguali fino dall’ origine; sembrano den- ticolati. Se ne contano, difficilmente però, da 30 a 40, che scendono obliquamente ai centri calicinali, ove non vedesi co- lumella. Essi confluiscono anche da un calice all’altro come nelle Thamnastreae, onde la incertezza della determinazione ge- nerica. Se fra i due generi preferii il genere Latimaeandra fu perchè, oltre alla più o meno grande profondità dei calici, si osserva talora un solco nelle creste di separazione fra un calice e l’altro. Esemplari esaminati 1. Un altro esemplare è talmente ricoperto di Nullipore, che ne è impossibile ogni descrizione. La fossilizzazione ne rende analoga la fisonomia al precedente: ma io credo si tratti però di cosa diversa e cioè di una Thamnastraea a calici assai profondi. Fam. Comoserinae Oroseris? sulecata, D’ Ach. n. sp. Tav. XVII, fig. 13. 13. a. Polipajo al naturale — 13. è. Porzione del medesimo ingrandita. Polipajo a superficie pianeggiante così mal conservato nella parte inferiore, che è impossibile dire se la muraglia comune fosse o no ricoperta d’ epitecio. Superficie del polipajo solcata da lunghe e poco flessuose vallecule calicinali, larghe da 4 a CORALLI GIURASSICI 259 5", separate da colline, sul cui vertice osservasi un solco, onde il nome. Valli e colline irraggiano verso la periferia. Per cia- scuna vallecula è una sola fila o serie di calici; soltanto verso Ja periferia, ove quelle si allargano, si vedono talvolta più ca- lici. Questi hanno i centri distinti, cui corrono i setti tanto dal vertice delle colline quanto sul fondo della vallecula da un individuo all’ altro, onde si hanno veri e propri calici confluenti a centri distinti. Setti subesuali; nello spazio di un centimetro se ne contano circa 26. Columella nulla o rudimentale. Ma si tratta di un’ Oroserîs ? Fra tutti i generi conosciuti certo vi si avvicina più che ad altri. Delle specie note somiglia alle seguenti e cioè alla Mean- drina rastellina Michelin di Lifol nei Vosgi, di S. Mihiel ec.; alla Latimaeandra gragilis De Froment. del coralliano di Betan- court (Haute Marne), Champlitte e Charcenne (Haute Saòne) e all’ Oroserîis graciosa, Mich. sp. di Lampigny, tutte specie ooli- tiche. Dalla prima differisce, anche ammesso che non sia Mean- drina, per minore ampiezza delle vallecule, minore sviluppo di columella e tanto maggior numero di setti. Dalla seconda e dalla terza differisce per le vallecule un poco più larghe e per il solco sulle colline. Ma come può darsi'rassomiglianza fra specie appartenenti a tre generi diversi ? Fa mestieri notare come la prima e la terza siano state riferite con incertezza ai generi sopra mentovati per esse, e la seconda credo poco che possa essere una Lati- maeandra. Ma almeno per il caso nostro sì ha a che fare con un’ Oroseris® Molte incerte determinazioni sì hanno in questo genere. Anche Reuss (D. Ant. n. Bryoz. d. Sch. Crosara, 1869) sentiva questi miei stessi dubbi nel determinare la sua Oroseris D’ Achiardù, che per il portamento pur paragona all’ Oroseris ? graciosa. In quanto a me ritengo come appartenenti al mede- simo genere il fossile descritto da Reuss e questo di Roverè di Velo; e se ho prescelto il genere Oroseris al genere Meandrina e Latimacandra è stato perchè nelle Meandrinae i centri calici- nali non sono mai così distinti, e perchè anche con alcune se- zioni fatte appositamente e levigate mi è parso di vedere segni di sinatticule. Esemplari esaminati 1. 260 A. D' ACHIARDI C. — Oolite di Roverè di Velo inferiore allo strato a piante. Singolare è il fossile con questa indicazione! Non è siliceo , come i precedenti ed è incluso in una roccia calcare, quasi corpo straniero. Ha tutta l'apparenza di un fossile paleozoico e per me è del tutto analogo al Chetetes irradians Fisch. del terreno carbonifero di Russia e d’ Inghilterra. Come mai ciò? Forse si tratta di un fossile rimaneggiato, almeno che, come non credo, non ne abbia errata la determinazione. Per i coralli di Roverè, a parte questo Chetetes problema- tico, l’unico giudizio che possa darsi sulla età del terreno, in cui furono raccolti, è che con ogni verosimiglianza spetta ai tempi oolitici. Nulla contradice la determinazione fatta da De Zigno, che lo riferisce al dogger, dappoichè l’unica specie deter- minata come nota altrove non sia con tutta certezza corrispon- dente alla Montlivaultia trochoides, che è dell’oolite inferiore. Questa determinazione abbasserebbe ancora il piano; ma d'altra parte, anche senza tener conto dell’ incertezza con cui fu fatta, le altre specie indeterminate o considerate come nuove trovano anche qualche rassomiglianza fra i coralli del piano di Bath, che corrisponderebbe al dogger, e fra quelli pure del Coral-rag. Per tanto il meglio che per me possa farsi è di non dare alcun giudizio per ora, limitandomi a ripetere di nuovo, che lo studio di queste poche specie mentre non contradice affatto la deter- minazione cronologica di De Zigno, non ci assicura nè meno che non si abbia a che fare con qualche cosa di cronologica- mente diverso, ma sempre nei limiti dell’oolite. ERBEZO IN VAL PANTENA Dogger — Orizzonte del calcare a Pentacrimti, inferiore alla zona ad Ammonites acanthicus. Di questa giacitura, così definita da De Zigno, ho veduto un solo esemplare, singolarissimo, che all’ apparenza è del tutto analogo alla Favosites reticulata del devoniano, per modo che crt CORALLI GIURASSICI 261 la figura data da Milne Edwards e Giulie Haime di questa specie (British. foss. Cor. tab. 48, fig. 1) pare immagine del nostro esemplare. Peraltro non sono riuscito in niun modo a scorgere i perbugi nelle muraglia, quali si osservano, se non nella succitata figura, nelle Aavositidae; quindi malgrado la rassomi- glianza è a ritenersi come cosa diversa. CAMPO ROVERE Impronta di un calice di Montvaultia? dello strato iîmmediata- mente sottoposto all’ Ammonites acanthicus (De Zigno). MONTE ECHELE VERONESE Strati del dogger molto inferiori alla zona ad Ammonites acanthicus (De Zigno). Fam. FThamnastraeidae Thamnastraea sp. Polipajo massiccio globoso. Calici larghi 4-6 millimetri; me- diocremente profondi e ben distinti nei loro centri. Quattro cicli di raggi setto-costali più o meno scompleti; in generale trenta e fra loro subeguali. Columella formata di diverse piccole pa- pille. Nulla più posso dirne. MONTE ALBA (Dogger) — MONTE RAULT (Str. a piante). SETTE COMUNI (Dogger) — Strati contenenti la Lathiotis problematica Gumb. Fam. Chaetetinae Baumontia? Zignoi, D'Ach. n. sp. WavoeeVvrifie., 14: 14 a. Apparenza della massa del polipajo sporgente dalla roccia calcare: — 143. Sezione longitudinale del medesimo in grandez- za naturale. — l14c. Sezione trasversale al naturale. Delle tre summentovate località, l’ultima delle quali nella provincia di Vicenza, e con le indicazioni di giacitura sopra tra- Se. Nat. Vol. IV, fasc. 2.° 18 262 A. D' ACHIARDI scritte ho pur ricevuto da De Zigno parecchi polipaj, per la massima parte però di Monte Alba, che appena osservati ci col- piscono per la loro fisonomia, richiamando alla mente tanto per la loro struttura che per il colore grigio cupo della calcaria incledente alcuni polipaj devoniani e carboniferi. E la meravi- glia diventa anche maggiore quando studiato il polipajo nelle sue particolarità, mercè anche di sezioni fatte in più versi, vi sì riconosce la struttura di una Favositide. Il polipajo somiglia proprio a quello di una avosites e a prima giunta potrebbe scambiarsi con taluni esemplari della Favosites Goldfussi da me esaminati. Dico anzi che non avrei esitato a riferire a questa specie devoniana gli esemplari di Monte Alba, se mì fosse riuscito di scorgervi anche un sol per- tugio nelle muraglia, che hanno notevoli grossezze, mentre nelle sezioni fatte per confronto di Favosites son sempre riuscito age- volmente a vedere i fori murali. Dunque Favosites no; ma delle Favositidae sarebbe il caso di una Chaetetina, ma di qual genere? Un Chaetetes, o una Beaumontia? Il polipajo si presenta come una massa lobata o rotondeg- giante in gobbe, formato da esili e lunghi polipieriti prisma- tici irraggianti e con tutta evidenza fissipari. Muraglia assai spessa, imperforata. Tavole irregolari, leggermente convesse, di rado perfettamente orizzontali, complete, onde l’ incertezza fra i generi Beaumontia e Chaetetes. Calici ineguali, raramente più larghi di 1"®., irregolarissimamente poligonali, resi anche più irregolari per la facile e frequente fissiparità, resultandone, veduto il polipajo in una sezione orizzontale (fig. 14 c.), come un tessuto a maglie in gran parte rotte. Ma si tratta dunque di una Beaumontia® Nelle Beaumontiae tipiche la larghezza dei calici suole essere d’assai maggiore, e le tavole sono per il solito scomplete; la differenza è quindi no- tevole, e dubito pur molto della determinazione generica. Le Beaumontiae sono, almeno le tipiche e prime descritte, o devoniane o carbonifere; ma Reuss ne ha pur descritta una specie terziaria (5. inopinata ) dell’ Australia, quindi, se Beaw- montia, questa veronese cronologicamente, come mesozoica, sa- rebbe intermedia fra le specie paleozoiche e la terziaria. Basti per ora avere indicate queste poche specie di tipo singolare. In verità che io non so spiegarmi questa fisonomia CORALLI GIURASSICI 263 di fauna in terreni che si stimano oolitici o tutt’ al più liassici. Ne errai forse la determinazione? Si trattasse di una sola specie potrei sospettare di sì; ma si tratta di tre specie e tali da po- tersi agevolmente studiare. Non mi resta dunque, dopo aver fatto menzione di tali singolari fossili, che risparmiare ogni ulteriore giudizio, che con questi soli dati potrebbe ben’ esser fallace. 264 i A. D' ACHIARDI MENTONE PRESSO NIZZA I coralli provenienti dalle vicinanze di Mentone presso Nizza Marittima e più particolarmente da Ponte San Luigi e Punta San Martino e altri posti fra Mentone e Monaco, stanno racchiusi in una calcaria a grossa grana, un vero marmo co- rallino. La corrosione della roccia assai friabile, che inviluppa i coralli, ne rende sporgenti alcune parti alla superficie, onde se ne può in qualche modo comprendere la forma. Del resto nel bel mezzo della roccia poco o nulla si vede e nulla o quasi nulla sì riesce a vedere con sezioni levigate, che spesso producono anzi effetto opposto a quello desiderato. Imperfettissimo è dunque il modo di conservazione di questi coralli, dei quali riesce per tanto difficile e in taluni casi anche impossibile la determinazione. ZOANTHARIA MADREPORARIA APOROSA MONASTREAE Fam. Lithophylliaceae Montlivaultia sp. Frammento di polipajo a epitecio completo e grosso, affisso per larga base. Ne è impossibile la determinazione specifica. Esemplari esaminati 1. Mentone. CORALLI GIURASSICI l 265 DISASTREAE Fam. Calamophyllideae Rhabdophyllia sp. Tav. XVII, fig. 1. Polipajo in lunghi rami, quasi cilindrici. Nelle fratture su- periore e inferiore appajono i setti, che sono più di 24, e una columella, che sembra essere stata spugnosa. Le Rrabdophylliae, cui più si ravvicina questa di Mentone, sono la È. Phillipsi M. Edw. et H. (Brit. foss. Cor. p. 87. tab. 15. fig. 3, 1851) e la R. Edwardsi, Michel. sp. (Icon. Zooph. p. 96, pl. 2. fig. 2. 1843); ma la corrosione delle coste, l’ essere il polipajo in frammenti sciolti, in poche parole la cattiva conser- vazione del fossile non ci consente di riconoscere 1’ angolo di biforcazione dei polipieriti, il modo di granulazione delle coste, tutti quei caratteri insomma, sui quali si fonda la distinzione di quelle due specie. Non posso nè meno assicurare che all’una o all'altra debba necessariamente riferirsi; dico solo che ad esse si ravvicina, essendo loro intermedia per le dimensioni. La Rhabdophyllia Phillipsi e la Rhabdophyllia Edwarsi (Michel. sp., non M.' Coy) sono ambedue del cora/-rag; trovata la prima a Malton e Cunnor Hill, la seconda a Verdun. Esemplari esaminati 1. Mentone. Calamophyllia Stokesi Calamophyllia Stokesi. Milne Edwards et Haime. Brit. foss. Cor. p. 89, tab. 16, fig. 1, 1801. Ciuffetto di polipieriti perfettamente corrispondente alla specie succitata del cora/-rag di Steeple Ashton. Esempjari esaminati l. Mentone. 266 A. D'ACHIARDI Calamophyllia Mentonensis, Menegh. n. sp. Tav. XVII, fig. 2. Polipajo al naturale. — Uno degli esemplari minori. Il prof. Meneghini denominò mentonensis una Calamophyllia, che differirebbe dalla Stokesî per minor dimensione dei polipie- riti e minor numero di setti, onde si ravvicinerebbe alla Cala- mophyllia striata (Guett. sp.) o Lithodendron flabellum di Michelin (Icon. Zooph. p. 94, pl. 21. fig. 4. 1843). Dalla figura per altro, che Michelin dà di questa specie, la Calamophyllia mentonensis differisce per la minore costipazione l’ uno sull'altro dei poli- pieriti, e perciò la mantengo distinta; ma non escludo nè meno la possibilità che i mal conservati e corrosi esemplari di Men- tone prima o poi vi si debbano ascrivere, così come non escludo neanche il caso che si abbia sempre a che fare con la Calamophyllia Stokesi, la minor dimensione dei polipieriti poten- dosi in parte attribuire a varietà di esemplari e in parte alla corrosione sofferta. Quest’ ultima supposizione ha per me un gran fondamento di verità; non per tanto, anche se specie di- stinta, rimarrà sempre molto affine alle due specie summento- vate, che sono entrambe del coral-rag, e cioè di Steeple Ashton la C. Stokesi, di Verdun, Mazey-sur-Vaize, Besangon in Francia e di Sondersdorf nell’ Alto Reno la C. striata. Esemplari esaminati 4. Pont Saint Louis nelle vicinanze di Mentone, Punta S. Mar- tino fra Mentone e Monaco e spiaggia occidentale della baja di Fosse S. Ospizio. Calamophyllia radiata? Eunomia radiata, Lamour. Esp. Meth. p. 83, pl. 81, fig. 10-11, 1825. Lithodendron eunomia, Michel. Icon. Zooph. p. 223, pl. 54, fig. 6, 1845. Calamophyllia radiata, Milne Edw. et. Haime Brit. foss. Cor. p. 111, tab. 22, fig. 1, 1851. Vari esemplari con aspetto diverso, in alcuni essendosi con- servati i polipieriti o soltanto il loro ripieno, in altri la esterna impronta nelle cavità, che solo si vedono nella roccia includente; CORALLI GIURASSICI 267 aspetti diversi, che pur ci si appalesano nelle succitate figure di questa specie. Polipajo in forma di un gran ciuffo di polipieriti lunghi, sottili, biforcantisi ad angolo molto acuto e a lunghi intervalli. Calici abitualmente circolari, larghi da 2 a 2',””. Difficile riesce vedervi i setti; pure son riuscito, ma per un calice solo, a contarne ventiquattro fra loro alternativamente disuguali. La rassomiglianza con la C. radiata non vi ha dubbio che non sia grandissima. Soltanto il numero dei setti appare un po- co maggiore, 24 anzichè 16 a 20; nè son riuscito a vedere i col- laretti murali, che talvolta si uniscono da polipierita a polipie- rita nella C. radiata; ma sì fatta mancanza, che io credo appa- rente, trova forse sua ragione d’ essere nell’ imperfetta conser- vazione degli esemplari. Sarebbe dunque stato il caso di farne una specie nuova? Non credo, trattandosi di esemplari mal conservati e quindi mala- mente determinabili. Mi è bastato accennare le differenze e l’in- certa determinazione col punto dubitativo (2). La C. radiata è della grande colite di Bath, Comb-Down, Westwood e molti altri luoghi d’ Inghilterra, non che di Lan- grune, Luc e Ranville presso Caen e Billy presso Chanceaux nel dipartimento della Costa d'Oro (Cote d’Or) in Francia. Esemplari esaminati 6. Punta San Martino fra Monaco e Mentone. Thecosmilia Spadae, Menegh. n. sp. Tav. XVIII, fig. 3. Polipajo al naturale. Col nome di Thecosmilia Spadae il prof. Meneghini determinò un polipajo, che per l’ abito suo sta quasi fra mezzo alle The- cosmiliae cespitose e alle Thecosmiliae massicce, ravvicinandosi però più a quelle che a queste. Lo stato di conservazione degli esem- plari è imperfettissimo, e la descrizione che ne tentassi poco più direbbe della figura datane. La forma dei calici vi appare irre- golarissima, più o meno ellittica, spesso in figura di 8 non chiuso per principiata fissiparità; caratteri che pur sì riscontrano talora nella Thecosmilia annularis del coral-rag (M. Edw. et H. Brit. 268 A. D' ACHIARDI foss. Cor. tab. 14. fig. 1) e abitualmente nella T%. gregaria del- l’oolite inferiore. Vi si contano numerosi setti e numerosissime traverse endotecali; ma non vi si scorge segno di columella, se pur la non sia del tutto rudimentale. Dalle due succitate specie credo anch'io che debba mante- . nersi distinta, differendo dalla T%. gregaria principalmente per non essere i polipieriti raccolti in mazzi così regolari come in essa e per maggior numero di setti; dalla T%. annularis per il portamento molto meno cespitoso, quantunque la succitata figura (tab. 14. fig. 1), diversa dalle altre figure date per questa specie da Milne Edwards e Haime (op. cit. tab. 13) vi si avvicini non poco. Esemplari esaminati 2. Punta S. Martino fra Monaco e Mentone. Cladophyllia mentonensis, D’ Ach. n. sp. Tav. XVIII, fig. 4. 4. a. Polipajo al naturale. — 4. d Calice ingrandito. Polipajo cespitoso, ma pochissimo elevato, avente lo stesso portamento della Zhecosmilia Wrighti Duncan (Brit. foss. Cor. ser. 2. part. 3. in Palaeont. Soc. Trans. vol. 26. tab. 17. fig. 2). Polipieriti cilindrici, brevi, fissipari, ricoperti da epitecio, che in qualche punto lascia a nudo le coste, che sembrano essere state disuguali. Calici larghi da 6—9 ®®., quindi meno che nella succitata Thecosnilia, non perfettamente circolari, ma sì bene debolmente ellittici, se pur questa apparenza non dipenda, al- meno per alcuni, dall’ obliquità di loro rottura. Tre cicli di setti con qualche setto in più o in meno a seconda della grandezza del calice. In taluni calici si vede un setto, che molto più esteso e più grosso degli altri si spinge nel bel mezzo del calice, ove sembra funger le veci di columella, lo che secondo De Fromen- tel (') è carattere del genere Cladophyllia, e non è estraneo an- che al genere Placophyllia, di cui Becker (op. cit.) ricorda alcune specie di Nattheim, un genere cui pur molto si ravvicina il po- lipajo di Mentone. In un calice, forse per rottura avvenuta di (‘) Zooph. du terr. crétacé. Paleont. Franc. Tom. 8, livr. 26, p. 415, 1873. CORALLI GIURASSICI 269 questo setto maggiore, sì ha proprio l’ apparenza di una colu- mella lamellare; ma in altri vedesi addirittura la continuazione del setto fin oltre al centro del calice. I setti del 1° e 2° ciclo e taluno pure del 3°, assai discosti l’uno dall'altro, sogliono avere molto sviluppo in estensione, benchè di gran lunga subordinati e specialmente in grossezza al setto columellare. Traverse endo- tecali evidenti e piuttosto fitte. Il genere Cladophyllia ha rappresentanti dalla creta al trias. Esemplari esaminati 5, che dovevano però far parte di un sol pezzo, Punta San Martino fra Monaco e Mentone. SYRRASTREAE Fam. Eugyrinae Pachygyra costata, Menegh. n. sp. Tav. XVIII, fig. ©. 5. a. Porzione di polipajo al naturale. — 5. d. Parte della stessa ingrandita. Bellissimo polipajo costituito da vallecule molto sinuose e assai distanti fra loro, gl’ intervalli fra una vallecula e l’altra essendo più larghi delle vallecule stesse, meno però che non sieno nella Pachygyra labyrintica Mich. sp. (Icon. Zooph. pl. 66. fig. 3. 1847), cui per il portamento si rassomiglia. Vallecule calicinali alla su- perficie del polipajo larghe da 4-6 ®®*, quindi presso a poco come nella Packygyra di Monte Cavallo, che a suo tempo de- scriverò. Coste molto sviluppate, onde il nome, alternativamente disuguali. Setti smarginanti e confluenti con le coste. Sembrano riportarsi a 8 cicli, se si tien conto anche dei rudimentari; al- trimenti a due. Dei setti maggiori se ne contano 6-7 nello spazio di 1 centim.; essi arrivano fin quasi alla columella. I setti di 2° ordine e più quelli di 8°, ove esistano, sono esilissimi. Il margine settale è integro. Columella lamellare, sottilissima continua. Questa specie è molto affine, credo anzi sia la stessa Pa- chygyra di Monte Cavallo nel Friuli, 270 A. D' ACHIARDI Il genere Packygyra è specialmente rappresentato nel coral- gra e nella creta inferiore. Esemplari esaminati 3. Punta San Martino fra Monaco e Mentone. POLYASTREAE Fam. Stylînideae Stylina nicoensis, D’ Ach. sp. n. Tav. XVIII, fig. 6. 6. a. Polipajo al naturale. — 6. d. Calici ingranditi. Polipajo massiccio. Polipieriti uniti per le coste e da eso- tecio abbondante. Calici poco salienti, perfettamente circolari, larghi 3%. Tre cicli scompleti di setti poco smarginanti e molto assottigliantisi verso il centro calicinale. Se ne contano 8 mag- giori degli altri e 8 minori, onde il tipo ottomerale della specie. À;i setti corrispondono in numero e grossezza altrettante coste visibili in tutto lo spazio compreso fra un calice e l’altro. Co- lumella stiliforme, profonda, difficilmente visibile nei calici spesso ripieni di materia straniera, visibile però benissimo in alcuni e nelle sezioni orizzontali. Fra le specie conosciute a tipo ottomerale si avvicina più che alle altre alle Stylina pistillum De From. e Stylina octonaria M. Edw. et H., dalla prima delle quali differisce per minore e dalla seconda per maggiore ampiezza dei calici. S' avvicina anche molto alla Stylina explanata De Froment. (Pol. coral. des énv. de Gray 1864, pl. 18, fig. 1-3), che per altro è a tipo decame- rale. Del resto la rassomiglianza è grande, non differendone che per qualche setto di meno, cagione della differenza di tipo octo- merale nell’una, decamerale nell’altra. Le ho dato il nome di nicoensis dalla vicina Nizza. Esemplari esaminati 1. . Punta San Martino fra Monaco e Mentone. CORALLI GIURASSICI 271 Stylina pleionantha, Menegh. sp. Tav. XVIII, fig. 7. 7. a. Polipajo al naturale visto di fianco — 7. d. Id. visto di sopra — 7 c. Porzione di polipajo ingrandita. Sotto al nome di Holocoenia pleionantha stavano nel Museo di Pisa parecchi esemplari d'un corallo, che io ritengo sia piuttosto una Stylina, quantunque sieno i due generi fra loro molto affini. Polipaio cespitoso, a rami subcilindrici, talvolta anche più o meno compressi e a contorno irregolare, stipati uno a canto dell'altro, di forma quasi digitata, avendosi nel portamento, per citare un qualche esempio conosciuto, grande rassomiglianza con la Microselena excelsa effigiata da Milne Edwards e da Haime (Brit. foss. Cor. Tab. 25, fig. 5). Grossezza dei rami varia, in generale da 1 '|, a 2 cm. Calici assai fitti, larghi poco più di J =: si può dire da 1—-14,”*"; per eccezione più. Il loro contorno circolare è scavalcato da 16 setti, che si continuano esternamente in altrettante coste subeguali, che sembrano non allontanarsi molto dall’ orlo calicinale, quantunque talvolta pur raggiungano quelle dei calici vicini, ove questi sieno molto fitti. Margine sottocostale integro, tagliente, almeno sull’ orlo del ca- lice, dappoichè le coste sembrino divenire granulose in basso. Otto setti molto estesi arrivano fino alla columella stiliforme distintis- sima e saliente; gli altri otto di poco s’ allontanano dalle pareti della camera polipifera. Di tutte le specie a tipo octomerale si avvicina più che alle altre alla St. ramosa del coralliano di Tonnere, Oltingen, Chatel- Chensoir e Champlitte, differendone però per il diametro minore dei rami polipiferi e dei calici. Per il portamento si avvicina anche alla St. caespitosa Etall., ma ne differisce, oltrechè per la quasi uguaglianza delle coste, anche per il tipo octomerale, es- sendo la St. coespitosa a tipo examerale. Del resto anche la St. coespitosa, trovata a Valfin, è del coralliano ; quindi ha presso a poco lo stesso significato cronologico della St. ramosa. Fra le Stylinae di Monte Cavallo, da me descritte in seguito, più che alle altre si approssima alla St. ardorea n. sp., ma ben 272 A. D' ACHIARDI diversa ne è la forma dei rami, il tipo dei calici ec., tanto che la ritengo specie del tutto distinta. Ei riman dunque sempre più confermata la parentela di questa specie con le sopraricor- date del coralliano. Esemplari esaminati 4. Punta San Martino fra Monaco e Mentone. Stylina anthemoides, Menegh. sp. Tav. XVIII, fig. 8. 8. a. Polipajo al naturale — 8. 5. Sezione normale alla superficie calici- fera — 8. c. Sezione parallela alla superficie calicifera, ingrandita. Polipajo massiccio a superficie irregolarmente ondulata. Po- lipieriti tanto accosti l’uno all'altro che non sempre appajono separati, e in tal caso per la stipatezza dei calici alla superficie e conseguente loro tendenza alla poligonalità si ha più che di Stylina apparenza di Astrocoenia, al qual genere infatti era stata sì fatta specie riferita dal Meneghini nelle collezioni del Museo Pisano. È il caso proprio di restare incerti fra un genere e l’altro; e se io mi attenni piuttosto al primo che al secondo fu perchè là ove i calici non appajono tanto fitti mi è parso scorgere i caratteri di Stylina. I polipieriti procedono quasi verticalmente (v. fig. 8 b.), paralleli l’un l’altro e senza indizio di quell’ irradiamento a ven- taglio, quale si dirà aversi nella St. irradians di Monte Cavallo, che è specie molto affine. Calici ordinariamente circolari, fitti, ac- costi uno all’ altro, contrariamente al maggior numero delle specie di questo genere, e separati soltanto da poco esotecio, che però presenta i caratteri del genere. Larghezza ordinaria dei calici adulti 1 ‘|, — 1 '!/,”®. Coste poco sviluppate e solo visibili presso all’orlo calicinale. Tre cicli scompleti di setti. Di questi 6 più sviluppati degli altri si protendono fin quasi al centro cali- cinale, ove vedesi una piccola columella.stiliforme. Indi seguono per grandezza i setti del 2° ciclo, mentre quelli del terzo, poco meno che rudimentari, d’ordinario appariscono in due sistemi soltanto, rarissimamente in più. Traverse endotecali evidenti ed assai fitte, CORALLI GIURASSICI 273 Questa specie a prima giunta corrisponde perfettamente ad alcuni esemplari di Monte Cavallo, da me ravvicinati alla St. irradians, n. sp. di questo stesso luogo, ma ne differiscono, come già, dissi per il loro andamento irradiante dei polipieriti. È suf- ficiente carattere di distinzione? Non può dipendere il quasi parallellismo dei polipieriti nell'unico esemplare di Punta S. Mar- tino da semplice varietà o dal punto in cui fu fatta la sezione ? Potrebbe anch’ essere; nè posso quindi escludere la possibilità di avere a che fare nei due casi con un’ unica specie. In ogni modo l’ affinità sussiste e grandissima; solo nel dubbio prima che confondere, ho creduto meglio mantener distinti i coralli dei due luoghi, riservando a quello di Punta S. Martino il nome specifico datogli da Meneghini. Esemplari esaminati 1. Punta San Martino fra Monaco e Mentone. Stylina sp. Polipajo sottile, ramoso, molto rassomigliante ad alcune $ty- linae di tipo esamerale del coralliano di Valfin, Geingen ec. Ma a quale debba e se riferirsi è impossibile decidere per il cattivo stato di conservazione del fossile. Fam. Astreinae. Diplocoeniastraea, n. gen. Genere affine al genere Diplocoenia, da cui diversifica per la denticolatura dei setti e per la spugnosità della columella. Polipajo costituito da polipieriti immersi in una massa comune compatta. Gemmazione periferica. (’oste procedenti orizzontal- mente alla superficie del polipajo. Columella spugnosa. Diplocoeniastraeazitalica, d’Ach. n. sp. Tav SVI ig.9. 9. a. Frammento di polipajo al naturale. — %. Porzione del mede- simo ingrandita. Polipajo disteso in lamina assai spessa, a superficie pianeg- giante e a prima giunta molto simigliante alla Diplocoenia so- 274 A. D' ACHIARDI pradescritta di Monte Pastello. Calici circolari immersi nella massa comune del polipajo, che appare densa e compatta (se pur non sia ridotta tale per fossilizzazione) come nelle Cyphra- streae. Gemmazione periferica. Larghezza dei calici 2 ®». A una qualche profondità questi sono completamente ripieni, così come avviene nelle Oculinidae. Coste, che paiono aver proceduto da un calice all’altro orizzontalmente, in gran parte abrase dalla fossilizzazione. Ove confluiscono quelle dell’un calice con quelle dell’ altro sì veggono dei sottili rilievi poligonali, proprio come nelle Diplocoeniae. Venti setti denticolati; 10 più estesi arrivano fino a una columella spugnosa; gli altri 10 meno sviluppati sì, ma non dif- feriscono molto dai principali. Si ha dunque un perfetto tipo decamerale, come si osserva pure in alcuni calici della succitata Diplocoenia di Monte Pastello. Ma quale ne è dunque 1’ essen- ziale differenza. Più che nella denticolazione dei setti ritengo che consista nella spugnosità della columella, che suole essere stiliforme nelle Diplocoeniae. La denticolatura dei setti mi ha fatto ascrivere questa specie all’ Astreinae e per denotarne l’affi- nità con la Diplocoeniae dissi il nuovo genere Diplocoeniastraea. Esemplari esaminati 1. Presso Mentone. Fam. Ciadocoraceae Pleurocora? Roccabrunae, Menegh. n. sp. Tav. XVIII, fig. 10. 10. a. Polipajo al naturale. — 10. 5. Calice ingrandito. Con questo nome chiamò il prof. Meneghini un piccolo poli- pajetto proveniente dalle rupi di Roccabruna nelle vicinanze di Mentone, costituito da polipieriti brevi, un poco compressi, a pochi setti, a columella papillosa saliente. La figura meglio che la descrizione ne può dare un’ idea; del resto, anche perchè non son riuscito a scorgervi traccia di pali non sono perfettamente convinto della determinazione generica, che pur non ostante ho mantenuto, perchè a nessun altro genere son riuscito a ravvicinare sì fatto polipajo. Esemplari esaminati 1. Roccabruna. CORALLI GIURASSICI 275 MADREPORARIA TABULATA Fam. FThecostegitinae Criptocoenia incerta, D’Ach. n. sp. Vedi la descrizione di questa specie datane per un fossile di Monte Cavallo. Esemplari esaminati 1. Punta San Martino fra Monaco e Mentone. Oltre ai fossili sopra descritti altri pochi ve ne hanno pure, che non sono riuscito a determinare; forse una Clausastraea e senza dubbio un polipajo poroso, che però non so nè meno a qual genere ravvicinare, tanto imperfettamente è conservato. D'altronde a nulla giovando per il caso nostro una più che incerta determinazione, stimai ben fatto non occuparmene ulte- riormente, tanto più che il piano donde provengono i fossili sopra descritti rimane per essi ben determinato. CONCLUSIONI Dallo studio dei polipaj di Mentone egli appare manifesto aversi a che fare con un piano corallifero, se oolitico anch'esso, però più recente di quello di Monte Pastello. E di fatti mentre a Monte Pastello la facies bathoniana non era del tutto cancellata nella fauna corallina, e varie specie vi erano che con altre della grande oolite presentavano una qualche affinità; qui presso Mentone una sola specie si trova, fra quelle almeno da me studiate, che parrebbe a prima giunta specie della grande oolite, e cioè la Calamophyllia radiata M. Edw. H;j ma per il suo cattivo stato di conservazione non potei identifi- carvela con piena sicurezza di giudizio. E invece si riscontra una grande prevalenza di forme molto affini a specie note 276 A. D' ACHIARDI altrove nel coralliano, e quel che più monta la Calamophyllia Stokesi M. Edw. et H., specie tipica del coral-rag superiore di Steeple Ashton nel Wiltshire, la quale fu da me determinata sopra un esemplare perfettamente conservato. E se poi a questa specie debbano anche ascriversi gli esemplari da me riferiti con qualche incertezza alla nuova specie C. mentonensis, viene essa in tal caso ad essere per la sna grande frequenza una delle più - comuni specie del banco corallifero di Mentone. La massima parte delle altre specie di questo banco, benchè descritte come nuove, pure hanno le più strette analogie con specie coralliane. Tali sono le seguenti. Rabdophyllia sp. Calamophyllia mentonensis Thecosmilia Spadae Stylina nicoensis Stylina pleionantta Stylina sp. 1. La Rhabdophyllia, innominata a cagione del suo cattivo stato, pur si rileva essere assai affine alla &. Phyllipsi M. Edw. et H. del cora/-rag di Cumnor Hill e di Malton, e alla &. EQuardsi Michel. del coralliano di Verdun. 2. La Calamophyllia mentonensis già dissi doversi forse riu- nire alla O. Stockesi del coral-rag superiore di Steeple Ashton; in ogni modo essere specie a lei molto affine e affine pure alla C. fiabellum (Michel. sp.) di Verdun, Besangon e Mazey-sur-Vaize, che è pure specie del coralliano superiore. 3. La Thecosmilia Spadae, se da una parte presenta qual- . che analogia con la T%. gregaria M. Edw. et H. dell’ oolite in- feriore, dall’ altra ne presenta anche maggiore con alcune forme delle Th. annularis M. Edw. et H. del coralliano superiore di Steeple-Ashton, Malton ec. 4. La Stylina nicoensis si ravvicina alle Stylinae pistillum ed explanata De From. del coralliano inferiore di Charchenne (Haute Saòne) e alla Stylina octonaria M. Edw. et H. del corallia- no superiore di Valfin (Giura), Chatel-Chensoir (Yonne), Oyonnax (Ain) ec. 5. La Stylina pleionantha s' assomiglia assai alla St. ramosa M. Edw. et H., molto diffusa in tutto il coralliano a cominciare CORALLI GIURASSICI 277 dalla sua parte inferiore, per es. a Champlitte (Haute Saòne), fino alla superiore, come a Chatel-Chensoir (Yonne) e più in su anche fino a Oltingen (Alto Reno), fino cioè alla calcaria ad Astarte, che rappresenta la parte inferiore dei terreni Kimme- ridgiani, immediatamente soprapposta al coralliano. E non pic- cola rassomiglianza, almeno nel portamento, si ha anche con la St. caespitosa Etall, trovata nel coralliano superiore di Valfin. 6. Finalmente anche l’innominata Stylina rassomiglia assai ad alcune forme, che di questo stesso genere ci offre esempio la parte superiore del coralliano di Valfin presso Saint Claude (Giura). A differenza dunque con Monte-Pastello, per la qual giaci- tura corallifera tanto la corrispondenza che l'affinità delle specie ci portarono a concludere che si avesse a che fare con la parte più bassa del coralliano, se non con un termine anche inferiore, per il caso presente ci conducono invece ad ascrivere il banco corallifero di Mentone a quanto vi ha di più alto nel coralliano. E questa conclusione è anche convalidata dalla comparsa di due nuove specie la Criptocoenia incerta e la Pachygyra costata, che si trovano pure nel piano titonico inferiore di Monte Cavallo nel Friuli. S' aggiunga che il genere Pachygyra è particolarmente rappresentato nei terreni coralliani e cretacei e non ne mancano esempj terziari; s' aggiunga che anche la Stylina anthemoides sì ravvicina non poco alla Stylina irradians pur di Monte Pastello, e anche senza tener conto della Pleurocora Roccabrunae, apparte- nente a genere cretaceo, essendochè determinata con grande in- certezza; e si avrà più che a sufficenza per ritenere, che, se al coralliano appartengano i coralli della calcaria marmorea di Mentone da me descritti, è senza dubbio alla parte superiore che debbono riferirsi. La questione potrà farsi se al piano di Steeple Ashton, Valfin, Chatel-Chensoir o un po' più in alto deb- bano collocarsi; potrà questionarsi anche se al coralliano o alla parte più inferiore del Kimmeridgiano, non mai se alla supe- riore o alla inferiore del coralliano, almeno se la diligenza da me usata nelle determinazioni e comparazioni mi abbia condotto a giusti apprezzamenti. Lo studio degli altri fossili e dei fossili degli strati sopra e sottogiacenti potrà anche per questo caso risolvere definitiva- mente la questione; ma intanto credo che non si possa mettere in dubbio che lo studio dei coralli le abbia fatto fare un qualche Se. Nat. Vol. IV, fasc. 2.° 19 2978 A. D' ACHIARDI passo. E son lieto che sì fatto studio abbia portato a resultati non discordi da quelli, cui Coquand, Poitier e altri giunsero per lo studio dei fossili trovati nella continuazione di queste stesse rocce al di là del Varo. Coquand (') parla di calcarie bianche che dalle Cevenne fino oltre Mentone formano una zona notevole per l’ uniformiià dei loro caratteri petrografici e per la costante soprapposizione « potente massa di dolomie; e queste calcarie con resti di Diceras e di Cidaris, trovati anche a Mentone e da me pure osservati fra i fossili delle collezioni del Museo di Pisa, considera come corrispondenti al coralliano dell’ Echaillon e d’Angoulins, che è un po’ superiore al Diceratiano, senza che si oltrepassi per altro il livello astartiano. Poitier (*) fa pure menzione di queste calcarie bianche, im- mediatamente sopraggiacenti alle dolomie e senz’ altri fossili, come egli dice, che Polipaj, Nerinee e qualche bivalve (Diceras?), fin'ora non determinati, e che sembrano non potersi nè meno rigorosamente determinare; e paragona egli pure questa calcaria corallifera della Provenza e delle vicinanze di Nizza al coralliano d' Echaillon. Da uno spaccato geologico dato da Poitier stesso nella citata memoria (pag. 340 e tav. 18 fig. 4) si rileva che gli strati a Diceras riposano immediatamente sopra a una cal- carla marmorea sopraggiacente alle dolomie. Nella carta geologica dei dintorni di Vence, pubblicata da Camerè (*) la stessa calcaria bianca appare interposta fra la dolomia e i terreni cretacei. Le osservazioni fatte sulla destra del Varo non solo dunque non contradicono, ma vengono anzi in conferma dei resultati cui giunsi per lo studio dei coralli raccolti nella calcaria bianca mar- morea alla sinistra dello stesso fiume. (4) Sur les calcaires blancs jurassiques du.Midi de la France. Bull. Soc. geol. France. ser. 3, t. 5 p. 813, 1877. (*) Sur les Dolomies des Alpes Maritimes. Bud. Si geol. France Ser. 3, t. 5, p. 836, 1877. (8) Bull. Soc. geol. France ser. 3, t. 15, pl. 16. 1877. CORALLI GIURASSICI 979 MONTE CAVALLO nel Friuli. I polipaj di questa regione da me studiati furono raccolti sulla china sciroccale (SE) del Monte Cavallo, nei poggi che fian- cheggiano la valletta di San Michele e precisamente sulla Costa Cervera e sulla Costa San Michele, poste quella a tramontana, questa a mezzogiorno della detta valle. Tutti mi furono inviati per lo studio dal prof. Andrea Pirona, cui si deve l’ illustrazione degli altri fossili di questa medesima giacitura. Senza entrare nelle particolarità stratigrafiche e litologiche prese in esame nel bel lavoro del Pirona, mi limiterò soltanto a notare come i coralli provengano parte da un banco arenaceo marnoso e parte, la minore, da altro banco calcare. »Il calcare, così mi scriveva lo stesso Pirona, sta sotto all’are- naria; alla Costa Cervera questo è assai poco fossilifero, e anzi lo è esclusivamente sul lembo del Rio di S. Michele; è molto fossilifero invece sulla destra del rivo, cioè nella Costa S. Mi- chele. Il contrario ha luogo dell’ arenaria soprastante al calcare, la quale è molto fossilifera sulla sinistra del rivo, cioè a Costa Cervera e lo è pochissimo a Costa S. Michele. A Costa Cervera l’arenaria è anche molto più cloritica e quindi assai meno te- nace, specialmente nella parte superiore. La località è però unica, e havvi solo la sopra indicata differenza di giacitura, cioè o nel calcare, che sta sotto, o nell’arenaria che gli sovrasta immediata- mente. Per ciò che riguarla i Molluschi sono le stesse specie tanto nel calcare che nell’ arenaria. Dei polipa] trovasi maggior frequenza nell’ arenaria e specialmente in quella di Costa Cervera , 280 A. D' ACHIARDI Sia che provengano dal banco calcare, sia dal banco arena- ceo, i coralli appajono tutti in cattivissimo stato di conserva- zione. Ma intanto quelli dell’ arenaria strusciati e levigati in ogni verso mostrano distintissimamente tutte le loro partico- larità di struttura, rese evidenti anche nel bel mezzo del poli- pajo dalla diversa natura del corallo calcare e della materia che ne riempie le cavità. Gli altri invece, cioè i coralli del banco calcare, ci appajono come immedesimati nella roccia stessa che gli racchiude, e non riesce facile isolarli in modo da poter giu- dicare delle forme loro esteriori. L’ essere poi pur calcare la ma- teria riempiente le cavità del corallo stesso, senza sensibile dif- ferenza di tinte fra l’ uno e l’altra, fa sì che a nulla 0 poco meno giovino le sezioni levigate, per le quali non si riesce o solo difficilmente e sempre in modo incompleto a travedere le par- ticalarità della interna struttura. Giova quindi far precedere lo studio e la descrizione dei coralli dell’ arenaria, come più nume- rosi, meglio conservati, più facilmente e con maggiore esattezza determinabili. IE Specie dell’arenaria corallifera di Coltura di Sotto (Comune di Polcenigo) nel Monte Cavallo. ZOANTHARIA MADREPORARIA APOROSA DISASTREAE Fam. Aplosmilinae Aplosmilia aspera? Lobophyllia aspera, Michel. lc. Zooph. p. 83, pl. 20, fig. 3, 1843. Aplosmilia aspera, D'Orb. Prod. de Paléont. t. 2, pag. 37. 1843. Grosso cespo di polipieriti pur grossi, biforcantisi ad angolo acuto, le cui sezioni appariscono ora circolari, ora ellittiche e talvolta anche un poco sinuose nel mezzo. Larghezza dei calici CORALLI GIURASSICI 281 molto varia; nei piccoli, che sono circolari, 6—7"", nei grandi, per il solito a contorno più o meno irregolare, raggiunge an- che 15, 16 e più mm. nel diametro maggiore. Dodici setti più sviluppati degli altri e fra essi uno che si protende maggior- mente in mezzo al calice, ove ingrossandosi sì produce una sorta di columella lamellare, che si vede distintamente in tutti i calici. Setti di ordine inferiore poco estesi. Coste corrispondenti ai setti maggiori molto sviluppate, crestiformi, a creste ampie e striate. Le coste intermedie indicate da piccole creste. Traverse endo- tecali sviluppatissime. Lo stato di conservazione dell’esemplare da me studiato, mentre non mi lascia dubbio nella determinazione generica, me ne lascia però assai sulla corrispondenza con la Aplosmilia aspera che è specie del coralliano, tanto inferiore come a Vagnon nelle Ardenne, quanto superiore come a Saint Mihiel (Meuse). Potrebbe anche darsi che fosse il caso di una specie nuova, in ogni nodo sempre affine all’ Aplosmilia aspera. Le Aplosmiliae sono tutte coralliane ad eccezione di una spe- cie, lA. magnifica, che è kimmeridgiana. Esemplari esaminati 1. Fam. Calamophyllideae Calamophyllia substokesi, D'Ach. n. sp. Tav. XIX, fig. 1. l.a. Apparenza esteriore della superficie.— 1.0. Sezione trasversale al naturale. — 1. c. Id. ingrandita. — 1.d. Sezione longitudinale al naturale. — 1. e: Id. ingrandita. Polipajo cespitoso accrescentesi per evidente dicotomia ad angolo molto acuto. Polipieriti, lunghi e fitti, subcilindrici, che anche nelle sezioni mostrano i collaretti murali. Larghezza loro misurata nelle sezioni stesse varia da 4—6"". Grossezza delle muraglia in queste stesse sezioni circa '/,®". Calici raramente circolari, per il solito a contorno irregolare, ineguali secondo la più o meno progredita fissiparità e aventi le stesse apparenze, salvo le dimensioni minori, che nelle C. Stokest M. Edw. et H., ond’ anco il suo nome. Coste numerosissime; se ne contano circa 100, se non più, nei calici, che appena incominciano a deformarsi; assai più in 282 A. D' ACHIARDI quelli in cui si vede più progredito il processo di fissiparità: poco diverse fra loro danno l’ apparenza di un cerchio dentato al contorno calicinale. Setti del pari numerosissimi. Cinque cicli più o meno scompleti nei calici che non offrono segno di fissipa- rità; anche più che © cicli completi in quelli più o meno defor- mati per cominciata fissiparità. Per la metà sono molto estesi, un po’ flessuosi, e i principali di essi arrivano fino al centro del calice, ove non vedesi columella; gli altri si uniscono spesso « questi maggiori; per l’altra metà sono brevissimi e visibili solo con lente d’ ingrandimento. Tutti i setti sono sempre molto sot- tili e hanno l’ apparenza di essere stati granulosi. Per lo stato di conservazione è impossibile giudicare se fossero dentati. Tra- verse endotecali fitte, sottilissime, ma molto oblique, onde si vedono meglio nelle sezioni orizzontali che nelle verticali. Tra tutte le specie conosciute si avvicina alla Calamophyllia Stokesi succitata del coral-rag superiore di Steeple-Ashton, dalla quale non differisce che per il minor diametro dei polipieriti e numero di setti pur ciò non ostante maggiore, almeno stando alla descrizione di M. Edwards e Haime, e non già paragonan- dovi la figura d’ ingrandimento (1. d), che essi stessi ne danno ('), nella quale si ha perfetta corrispondenza nel numero dei setti. Non si tratta dunque della medesima specie perchè troppa, nè attribuibile a minore età, è la differenza nelle dimensioni dei polipieriti; ma certo di specie affine, e si direbbe una Calamophyllia Stokesi impicciolita. Vedremo anche per altre specie verificarsi questo fatto, che cioè mentre solo in rarissimi casi si riesce a riferire i coralli di Monte Cavallo a specie già note, si ravvicinano però quasi sem- pre a taluna o a talaltra dell’ colite superiore e più raramente della media. Si direbbe le specie di Monte Cavallo essere di- scendenti di queste specie più antiche, come meglio si mostrerà a suo tempo. La Calamophyllia substokesi s° assomiglia pure alla C. striata (Guett. sp.) pur essa del coralliano superiore di Maxey sur;Vaise (Meurthe), dalla quale specie differisce per altro per minore am- piezza dei calici e maggior numero di setti. Esemplari esaminati 3. (!) Brit. foss. Corals. tab. 16. London 1854. CORALLI GIURASSICI 283 Rhabdophyllia Edwardsi Lithodendron Edwardsi, Michel. Icon. Zooph. 1840-47 p. 96, pl. 21. fig. 2. Rhabdophyllia Edwardsi M. Edw. et H. Foss. terr. pal. 1851, p. 83. Frammento di polipajo dicotomo ad angolo acuto. Larghezza dei polipieriti, immediatamente al di sotto del punto di bifor- cazione, circa 12 "%; nel resto assai minore, proprio come nella figura di Michelin. Coste subeguali, corrose. 8 cicli completi di setti, quelli di un medesimo ciclo essendo non tutti ugualmente sviluppati. I setti del 1° ciclo sono sempre assai grossi, e così pure taluno, 4 per il solito, del 2° ciclo. Columella spugnosa con trabiculina mediana quasi lamellare, onde sì ha pure una qualche rassomiglianza con le Aplosmiliae, altro genere oolitico. La Rhabdophyllia Edwardsi è specie del coralliano superiore di Verdun (Meuse). SYRRASTREAE Fam. RKugyrinae Pachygyra costata, Mng. sp. Tav. XIX, fig. 2. 2. a. Sezione orizzontale al naturale. — 2. 6. Id. ingrandita. — 2. c. Se- zione verticale ingrandita. Grossi frammenti di polipaio, della cui forma non si può giudicare da essi. Polipieriti confusi in serie, che formano val- lecule flessuose e larghe 4-5""- nelle porzioni dritte, raramente più e soltanto là ove s' incurvano. Fra l'una e l’altra valle- cula è un tessuto spugnoso (fig. 2 8.) formato dalle coste e dal- l’esotecio, l uno e l'altre sviluppatissimi. Centri calicinali del tutto indistinti. Setti di tre ordini; i principali grossi ed estesi sino a quasi raggiungere la columella, presso alla quale sembra che s’ ingrossino; i secondarj esili, ma pur essi assai estesi; i terziari ancora più sottili, brevi, nè sempre visibili. I primarj e i secondarj si continuano con le coste, che non sono visibili dinanzi ai setti di 3.° ordine, e dinanzi agli altri hanno gros- 984 A. D' ACHIARDI sezza proporzionale a quelle dei setti corrispondenti. Si contano circa 30 setti nella larghezza di 1 centimetro e nella stessa larghezza sei dei principali. I lati ne sono granulosi e riuniti da fitte e bene sviluppate traverse endotecali, contandosene da 16 a 18 nello spazio di 1 cm. Muraglia sottile. Columella lamel- lare bene sviluppata e seguente senza interruzione le flessioni delle vallecule calicinali. Le prime specie descritte del genere Packygyra erano ooliti- che e quasi esclusive del coralliano superiore; indi da Reuss e da me ne furono descritte altre eoceniche trovate nelle Alpi Venete. Or bene la specie di Monte Cavallo, che è la stessa di quella di Mentone, si allontana assai per il suo portamento dalle specie eoceniche, mentre s’avvicina a talune del coralliano superiore. Esemplari esaminati 2. POLYASTREAE Fam. Faviaceae Septastraea colturensis, D’Ach. n. sp. Tav. XIX, fig. 3. 3. a. Polipajo al naturale corroso e visto di fianco — 3. 6. Sezione tra- sversale al naturale. — 3. c. Id. ingrandita. — 3. d. Sezione lon- gitudinale ingrandita. Polipajo massiccio, della cui figura non si può giudicare dai frammenti mal conservati, che ho dinanzi: soltanto dalle sezioni levigate si deducono i seguenti caratteri. Calici irregolarissima- mente poligonali, che mostrano fra l’ uno e l’altro, ove appa- jono saldati, una linea di separazione estremamente piccola (fig. 3c.) e solo visibile con lente d'ingrandimento. E poichè lungo questa linea la corrosione del polipajo fu più facile, quindi ci si mostrano i polipieriti alla superficie come se fossero separati uno dall’ altro (fig. 3 a). I calici, con segni evidenti di fissiparità, sono larghi da 3—5 ®"* nel loro diametro maggiore, eccettuati però quelli cir- coscritti da brevissimo tempo, che sono anche più piccoli. Mu- raglia comune, compresavi la linea di separazione, onde sarebbe forse meglio detta doppia muraglia, assai grossa, quasi ',°”. CORALLI GIURASSICI 285 Tre cicli di setti completi, un quarto scompleto; in generale circa 30 setti nei calici adulti. I setti del 1° ciclo e taluni an- che del 2° sono assai sviluppati e molto più degli altri, che sono tutti piccolissimi. Parrebbe che fossero stati granulosi. Traverse endotecali esilissime, fitte. Columella rudimentale o nulla. Di questo genere Milne Edwards e Haime (Mist. des Coral. 1857, vol. 2. p. 449 e seg.) non ricordano che specie mioceniche ed eoceniche, e io pure ne ho descritte trattando dei polipaj ter- ziari del Piemonte e delle Alpi Venete. Per altro ne furono in seguito trovate specie anche più antiche, taluna anzi se ne cono- sceva fino dal 1856, da quando cioè la Septastraca dispar (per altro sotto il nome generico di /sastraea) veniva descritta da De Fromentel ('). Oggi se ne conoscono specie anche del lias e quattro ne ricorda il Duncan (°). Si ha dunque a che fare con un genere, che al pari e più ancora del precedente cominciò a vivere fino da remoti tempi. Il fossile di Coltura, onde il nome, non corrisponde ad alcuna dalle specie note, benchè da una parte si ravvicini alla S. dispar del portlandiano di Marcey-sur-Saòne (Francia), dall’ altra alla S. Evershami, descritta dal Duncan (mem. cit.) del lias. All’ ap- parenza si avvicina anche un poco all’ /sastraea Richardsoni dell’oolite inferiore di Dundry (*), ma ne la separa la sua evi- dente fissiparità. È in ogni modo specie del tutto diversa dalle precedenti e cioè S. dispar e S. Evershami, e se ne notai un qualche punto di rassomiglianza non fu già per ravvicinarla di troppo, ma solo per notare esservi maggiori affinità fra la nostra Septastraca e queste secondarie che fra esse e le terziarie. Essa è poi senza dubbio la stessa cosa di un piccolo esempla- retto lapidificato, che in foggia di tavoletta levigata fa parte da molto tempo delle- collezioni del Museo di Pisa, senz’altra indicazione di provenienza, che Inghilterra, oolite superiore. (*) Bull. Soc. geol. France. Ser. 2, t. 13, p. 801. 1856. (*) A monogr. of the Brit. foss. Cor. (2 ser. p.' 4, N.° 2) in Pal. Soc. Trans. vol. 21 London 1867. (3) M. Edw. et H. Brit. fossil. Corals. Tab. 29, fig. 1. 286 - A. D’ ACHIARDI Fam. Faviaceae Gen. Phillastraea De Fromentel (') propose il nome generico di P7y/astraca per le Favie a columella lamellare. Non so se questo genere fosse da lui fondato in prevenzione o se realmente conoscesse polipaj che vi si potessero riferire. Comunque sia fatto è che a questo genere vanno ascritte più specie di Costa Cervera o di Masared presso Coltura. Phyllastraea forojuliensis, D’Ach. n. sp. Tav. XIX, fig. 4. 4. a. Polipajo al naturale. — 4. b. Sezione orizzontale ingrandita. — 4. c. Sezione laterale ingrandita. Polipajo massiccio, composto di polipieriti connessi fra loro in qualche punto mercè delle coste e nel resto per un esotecio celluloso (fig. 4c.). Calici ellittici con evidenti segni di fissi- parità; vari in grandezza a seconda dell’ età, da 5-10 ®® nel diametro maggiore (fig. 4a ). Per la massima parte sono se- parati da solchi, non occupati dalle coste, che solo appariscono verso l’orlo calicinale, e quindi corrono soltanto da calice a ca- lice quando questi sieno molto vicini. Muraglia esilissime, quali si veggono nella sezione trasversale (fig. 4 b). Quattro cicli di setti disuguali; quelli del 1.° e 2.° ciclo molto sviluppati, robusti e sporgenti in punte sull’orlo calicinale, come vedesi anche in alcune Favie viventi; quelli del 3.° ciclo meno sviluppati; quelli del quarto rudimentarj e in parte mancanti. Vi ha tutta l’ apparenza, che fossero fortemente dentati e si veggono ancora verso l’asse del calice i resti di un forte dente, che dovette essere l’ultimo interno, carattere anche questo delle Favie. Traverse endotecali spesse e grosse. Columella lamellare assai lunga occupante la fossetta calicinale. Dunque dalle vere e proprie Faviae l’ unica differenza con- siste nella columella lamellare. (*) Zooph. du terr. crétacé. Paleont. Franc. Tom. 8, livr. 27, p. 480, 1877. CORALLI GIURASSICI 287 Per le affinità zoologiche e conseguenti deduzioni crono- logiche, non conoscendo se e da quali specie sia stato rappre- sentato fin’ ora il genere Phyllastraca, converrà attenerci ai ge- neri affini e in particolar modo al genere Yavia, che è il più affine fra tutti. Or bene le Haviae cominciano dall’ colite, se ne conoscono anzi parecchie specie coralliane, e sono largamente rappresentate nei terreni di tutti i tempi fino al presente, vi- vendo in gran numero nei mari d’ oggi giorno. Esemplari esaminati 3. Phyllastraea dubia, D’ Ach. sp. n. Tav. XIX, fig. 5. 5. a. Sezione orizzontale al naturale.— 5. 6. Id ingrandita. — ©. c. Se- zione verticale ingrandita. Frammenti di polipajo corrosi, onde mal si giudica della loro esterna configurazione. Calici irregolari, mal definiti, larghi da 5—9"". Muraglia varia nel suo spessore; ora grossa, ora appe- na visibile (fig. 5 a) in alcune sezioni. Setti confluenti o quasi; molto diversi in grandezza; grossi quelli del 1° ciclo e taluni del 2°, esili, rudimentari od anche mancanti quelli del 3°. Sono flessuosi in special modo alla loro confluenza da un calice all’ al- tro. In molti calici vedesi una columella lamellare, in altri no; e pare sia piuttosto la continuazione di un setto maggiore; ma in alcuni calici vi si vede bene ed affatto indipendente. Traverse endotecali esili, fitte, 24—26 nella spazio di 1 cm. All’ aspetto suo nelle sezioni orizzontali questa specie si rav- vicina molto alle Clausastreae, tutte oolitiche, dalle quali però si differenzia per la grossezza dei setti, in queste esili tutti, e per la disposizione irregolare delle traverse entodecali non ap- parenti in modo da simulare tavole imperfette e finalmente an- che per la presenza di una columella lamellare. Esemplari esaminati 4. Fam. Stylinideae Gen. Stylina E noto la massima parte delle specie di questo genere ap- artpenere al coralliano, soltanto poche al piano di Bath o al 288 A. D’ ACHIARDI kimmeridgiano, pochissime ad altri piani. Or bene le specie di Monte Cavallo, indubbiamente appartenenti a questo genere pre- sentano la maggiore analogia con le specie coralliane, nessuna con quelle dell’ colite inferiore; ma dalle stesse specie coralliane differiscono un poco, ciascuna trovandovi la sua affine, non la corrispondente con pienezza di caratteri, onde si direbbe aversi un'’affinità per discendenza; e dico per discendenza, essendochè l’in- sieme della:fauna di Monte Cavallo porti ad escludere l’ascendenza. Taluna delle specie coralliane e Kimmeridgiane descritte da Etallon e anche di quelle da lui riferite al,genere eZiocoenia, che però De Fromentel riunisce alle Stylinae, corrispondono Pose PI talune delle nostre; ma è assai difficile stabilirne la corrispon- denza su mal eseguite figure e troppo generali descrizioni. Due specie soltanto, e pur esse con un qualche dubbio, ho potuto ri- portare a due delle Stylinae descritte da Etallon. Stylina Bernardana ? Stylina Bernardana, Étallon, Et. paléont. sur les terr. jur. sup. du Jura Bernois. p. 365, pl. 51, fig. 4. Per la imperfetta conservazione degli esemplari da una parte, per l’ imperfette figure che di questa specie pubblicò Etallon dal- l’altra, è impossibile asserire con sicurezza che si abbia effet- tivamente a che fare con la Stylina Bernardana, dalla quale i nostri esemplari sembrano differire per maggiore costipatezza dei calici. Del resto fra le specie conosciute è quella, cui più si ravvicini, somigliando anche un poco alla Stylina limbata del coralliano inferiore di Nattheim. La Stylina Bernardana è del sopra-coralliano (Epicorallien d’ Etallon ) di Laufon e della zona astartiana di Vieille-Route ed Essert-Tainie nel Giura Bernese. Esemplari esaminati 3. Stylina irradians, D’ Ach. n. sp. Tav. XIX, fig. 6. 6. a. Polipajo al naturale. — 6. d. Sezione orizzontale al naturale. — 6. c. Id. ingrandita. — 6.d. Sezione longitudinale. Numerosi frammenti di un polipajo, ora conservato con le stesse sue parti lapidificate, ora con il modello di riempimento CORALLI GIURASSICI 9289 delle sole camere polipifere, per la scomparsa dell’ esotecio aven- dosi quell’ apparenza per la quale Lamark dava al genere il nome di Fascicularia. Il polipajo è massiccio, compresso, gobboso, verosimilmente polimorfo. I polipieriti irraggianti, onde il nome, sono molto vicini fra loro, spesso quasi a contatto, riuniti fra loro mercè di sottilissime traverse esotecali, di cui si contano circa 40 per centimetro. Calici piccoli, disuguali; se adulti larghi da 1-1 '|, ®, se giovani anche meno; e questi più piccoli appariscono fra mezzo al maggiori. Ordinariamente 12 setti, dei quali 6 più sviluppati degli altri arrivano sin quasi alla columella, che in qualche caso anche raggiungono. Talvolta si vedono anche dei piccoli setti del 3° ciclo, e in tal caso quelli del 2° acquistano anche mag- giore sviluppo fino ad uguagliare, benchè di rado, i primi sei. Muraglia grosse con evidenti coste. Columella stiliforme piccola. Traverse endotecali sottili e meno fitte dell’ esotecali. Fra le specie conosciute si rassomiglia all’ Astrea daccifor- mis Michelin (Icon. Zooph. p. 225. pl. 54, fig. 11. 1845) riferita con dubbio al genere Stylina da Milne Edwards e Haime. A que- sta specie, che è propria del datkoniano di Langrune (Calvados) avrei riferito gli esemplari, ora descritti di Monte Cavallo, se non fosse dubbia la determinazione generica della specie fran- cese, e se in generale i calici non fossero maggiori in questa e non evidente (almeno nella figura) la columella; onde è a rite- nersi come specie distinta. S’ avvicina poi molto alla Stylina microcoma D'Orb. del co- ralliano superiore di Chatel-Chensoir, Tonnère ec., dalla quale differisce per altro per i calici anche un poco maggiori e per i setti ben distinti del 2° ciclo. Non poca rassomiglianza si ha pure con alcuni esemplari da me riferiti alla Stylina Bernardana, nè posso escludere ogni sospetto che non sì tratti di una medesima specie. Finalmente trattando dei coralli di Mentone già dissi come una Stylina di questa giacitura vi si ravvicinasse del pari. Esemplari esaminati 3. 290 A. D'ACHIARDI Stylina stipata, D’ Ach. n. sp. Nave XE 7. a. Sezione trasversale ingrandita. — 7. 0. Sezione longitudinale in- grandita. Differisce dalla specie precedente (St. irradians) per il mag- giore sviluppo della columella, sviluppo che potrebbe anch’ es- sere solo apparente e dipendere dalla fossilizzazione, e differisce anche per il numero dei setti, sedici per il solito, e conseguente tipo octomerale. Peraltro in alcuni calici si passa quasi al tipo examerale, onde il.dubbio che si abbia effettivamente a che fare con una specie distinta. Ciò non ostante io propendo per rite- nerla diversa, tanto più che le traverse endotecali sono molto più fitte e di tanto in tanto appariscono anche più grosse. I setti principali si fondano con la grossa columella. Fra le specie conosciute a tipo octomerale si ravvicina alla Stylina Bernardina o Bernardana Etall. (Pseudocoenia Bernardina D’Orb.) che Milne Edwards e Haime ravvicinano alla St. micro- coma; ma ne differisce per essere i calici, anzichè poco stipati, stipatissimi, onde il nome. Del resto si ha tal passaggio fra le tre specie Sf. Bernar- dana, îrradians e stipata, che se le mantengo, almeno per ora, distinte, mi par di prevedere fin d’ ora che prima o poi con- verrà riunirle in un’ unica specie. E per quest’ unica specie con le sue varietà le maggiori correlazioni converrà cercare nelle Stylinae dell’ epicoralliano e dell’ astartiano, in poche parole nei terreni fra il coralliano superiore e il kimmeridgiano, o in altri termini alla base del titoniano. Esemplari esaminati 1. Stylina arborea, D’ Ach. n. sp. Day XXS 1898: 8. a. Polipajo al naturale. — 8. 5. Sezione orizzontale ingrandita. — 8. c. Sezione verticale ingrandita. Polipajo dendroide a rami irregolari, in un esemplare poco e in altro molto compressi, benchè senza dubbio appartenenti am- CORALLI GIURASSICI 991 bedue gli esemplari alla medesima specie. I rami han tutta l’ap- parenza di essere stati anostomizzati. Calici alquanto, ma non molto rilevati, vicini fra loro, piccoli, larghi fgeneralmente da 1-14,” Due cicli di setti, dei quali 6 bene sviluppati arri- vano fino alla columella o molto vicino; gli altri sei pochissimo sviluppati. Soltanto in qualche calice dei più grandi anche un qualche setto del secondo ciclo acquista maggiore sviluppo pro- ducendo per eccezione un’ apparenza octomerale; e allora anche un qualche setto del terzo ciclo vi apparisce, benchè rudimentare. Columella stiliforme manifestissima in tutte le sezioni. Coste pur manifeste dove la superficie del polipajo sia meno corrosa; per il solito abrase.:Muraglia grossa. Tra le specie, cui più si avvicina, conviene citare la Stylina intricata De Froment. del portlandiano di Mantoche, dalla quale per altro diversifica per la maggior grossezza e per la compres- sione de’ rami, e la Stylina microcoenia De From. del coralliano di Charcenne, che ne è pure specificamente diversa; onde la ne- cessità di un nome nuovo. Esemplari esaminati 2. Stylina ramosa? Pseudocoenia ramosa, D' Orbigny Podr. de palgont. t. 2 p. 34, 1850. Stylina ramosa, Milne Edw. et H. Hist. Corall. 1857. 2. 243. Stylina ramosa, Étallon. Ét pal. sur les terr. jur. sup. jdu Jura Ber- nois. p. 369, pl. 52, fig. 1. Sopra un piccolo frammento non ho potuto identificare as- solutamente questa specie di Monte Cavallo alla Stylina ramosa. Nessun carattere contradittorio vi ha, tranne la minor dimen- sione dei rami, ma comejgiudicare da un piccolo frammento che forse non rappresenta che la sommità di un ramo maggiore. Fatta astrazione da questa differenza, per il resto si ha più che a sufficenza per credere che sì tratti della stessa cosa; e la fi- gura data da Etallon per questa specie, quantunque male ese- guita, pur lascia travedere non piccola rassomiglianza. Caratteri del frammento di Monte Cavallo sono: Polipajo verosimilmente dendroide. Polipieriti uniti per le coste e per l' esotecio. Muraglia grossa. Calici larghi, se adulti 3": generalmente un po’ meno; i più giovani e minori prodotti 292 A. D' ACHIARDÎ per gemmazione appajono fra mezzo ai maggiori. Le coste prin- cipali si congiungono dall’ uno all’altro polipierita; le secondarie no. Tre cicli scompleti di setti; otto, e nei calici maggiori anche dieci, arrivano fino alla columella, che è stiliforme. Gli altri setti in numero uguale ai principali sono però molto minori e anche rudimentari. La Stylina ramosa è citata da Etallon del suo epicoralliano di Caquerelle (Giura Bernese) e da Milne Edwards e Haime del coralliano superiore di Tonnère e del kimmeridgiano inferiore di Oltingen. Esemplari esaminati 1. Fam. Astraeaceae Haliastraea lifolensis Astrea lifoliana, Michel. Icon. Zooph. 1843. p. 106, pl. 24, fig. 1. Heliastraea lifolensis, Milne Edw. et H. Hist. Coral. 1857. t. 2. p. 463. Grosso frammento di polipajo massiccio. Calici circolari o el- littici, assai fitti, larghi 8-10""- nel diametro maggiore. Coste quasi uguali. Tre cicli di setti completi. Quelli del 1.° ciclo assai più grossi ed estesi degli altri, quelli del 2.° più sottili, ma pur sempre assal estesi; quelli del 3.° sottili e brevi. Nelle sezioni non sì vedono setti di un 4.° ciclo. Columella spugnosa poco sviluppata. Traverse endotecali evidenti. L’ Heliastraea lifolensis è del coralliano superiore di Lifol. Esemplari esaminati 1. Isastraea italica, d’Ach. n. sp. Tav. XX, fig.1. 1. a. Polipajo al naturale. — 1. 3. Sezione orizzontale al naturale — 1. c. Id. ingrandita. — 1. d. Sezione verticale ingrandita. Polipajo a superficie irregolarmente convessa. Polipieriti uniti direttamente per le muraglia, che si vedono benissimo nelle sezioni, ove appariscono sottili sì, ma sempre assai più grosse dei setti. Calici irregolarmente poligonali, spesso allun- gati ed anche fusi in brevissime serie di due, rarissimamente CORALLI GIURASSICI 293 di tre. Larghezza dei calici maggiori e più regolarmente poli- gonali, e misurata nelle sezioni, 3-8 ‘|, ""., raramente più; solo in quelli già in parte allungati e deformati anche 5" nel diametro maggiore. Setti numerosissimi, da 50 a 60, rarissima- mente più nei calici non deformati; irregolarissimi, almeno ap- parentemente, nel loro sviluppo, han tutto l’ aspetto d’ essere stati granulosi. I minori, visibili solo con la lente, si uniscono al maggiori, tutti essendo esilissimi e curvi. Non columella, tra- verse endotecali esilissime, fitte e molto inclinate in basso. Fra le specie conosciute questa di Monte Cavallo si avvi- cina all’/sastraca profunda Reuss della creta di Gosau; ma ne differisce per la mancanza di columella, per i setti flessuosi e riunentisi fra di loro, anzichè dritti e liberi, tanto da esserne certo nettamente distinta. Sì ravvicina anche all’ Isastraea serialis, o per dir meglio alle forme di Monte Pastello da me riferite a questa specie, ma ne differisce essenzialmente. Si direbbe essere la stessa specie impicciolita; la stessa figura dei calici, la stessa disposi- zione in brevi serie dei polipieriti, la stessa sottigliezza, flessuo- sità ec. dei setti, Ja mancanza di columella; tutto vi corrisponde, tranne le dimensioni dei calici, costantemente e assai minori e non soltanto su pochi esemplari, ma su tutti. Si direbbe dunque la derivata dall’ Isastraea di Monte Pastello. Esemplari esaminati 15 oltre a non pochi difficilmente de- terminabili. È una delle specie più diffuse a Monte Cavallo. In un esemplare i calici apparrebbero anche più piccoli e in minor numero i setti; 36-40 nei calici ben circoscritti. Se sia il caso di una specie nuova o di varietà della precedente o se debba ravvicinarsi ad altre già conosciute non è il caso di giudicare su di un solo ed imperfetto esemplare. Non poca rassomiglianza si ha con l’ Isastraea favulus Etall. della zona astartiana di Vieille-Route e di Essert-Tainie nel Giura-Bernese, specie che da Etallon stesso è detto avere una qualche rassomi- glianza con l’Isastraea limitata M. Edw. et H., cui pur si ras- somiglia il nostro esemplare. Sc. Nat, Vol. IV, fasc. 2.0 i 20 294 A. D' ACHIARDI Fam. Bhamnastraeidae Thamnastraea lamellîstriata ? Astrea lamellistriata, Michel. Icon Zooph. p. 18. pl. 4, fig. 8, 1841. Thamnastraea lamellistriata, M. Edw. et H. Hist. des Corall. 1857, t. 2, p. 907. Per l’imperfetto stato di conservazione del fossile è impos- sibile giudicare in modo assoluto della sua identità con la 7%. lamellistriata. Certo la rassomiglianza è grande con la succitata figura del Michelin, ma è pur grande con un fossile del cora!- rag di Malton nell’ Yorkshire, inviatoci da Krantz sotto al nome di Astrea inaequalis, Phil. La Thamnastraca lamellistriata è della creta di Uchaux. Esemplari esaminati 1. M. TABULATA POLYASTREAE Fam. 'E'hecostigitinae Gen. Cyathophora e Cryptocoenia Il genere Cyathophora fa ascritto da Milne Edwards e Haime agli Zoantari imperforati; ma De Fromentel scriveva nel 1861 (Introd. a l’Et. des Pol. foss. pag. 278): che avendo per tipo la C. Richardi di Michelin, questo genere non poteva altro che ascriversi al Tabulati per cagione delle tavole bene sviluppate e dei setti rudimentar), che non sono come sospettava Haime, resti di setti interi. Al tempo stesso (ivi pag. 197) ripristinava il genere Cryptocoenia di d’ Orbigny per quelle Cyathophorae di M. Edwards e Haime, che da quelle del tipo della C. Richardi differiscono per la estensione più o meno grande dei setti e con- seguente minore apparenza di tavole e che non differirebbero dalle Stylinae se non per la mancanza della columella. CORALLI GIURASSICI 295 Dell’ uno e dell’ altro tipo numerosi esemplari io ho ricevuto dal Pirona e tutti del Monte Cavallo; e studiatili tutti attentis- simamente mercè di sezioni levigate fatte in tutti i versi, men- tre da una parte ho infatti riscontrato la differenza notevolis- sima per lo sviluppo dei setti, ho pur riconosciuto dall’ altra parte che se si voglia su di essa fondare una distinzione gene- rica non si può certo arrivare a due gruppi tanto diversi, le specie dell’ uno e dell’ altro genere nessun’ altra differenza pre- sentando che nello sviluppo dei setti. Ed infatti mentre nelle specie a setti non rudimentarj si ha l'apparenza più di traverse che di tavole, quelle però, sempre orizzontali, sempre si corri- spondono per modo da una loggia all’ altra da simulare vere tavole, quali poi appariscono nel bel mezzo della camera co- mune, ove ì setti non arrivano. Sezionando infatti le Crypto- coeniae di Monte Cavallo, ho potuto nei punti in cui la sezione passava per il bel mezzo di ciascun polipierita costatare la stessa apparenza che in generale presentano le vere e proprie Cyatko- phorae a setti rudimentari (ved. tav. XX, fig. 2 d). D'altra parte sezionando una vera e propria Cyathophorae se sì riesce, caso rarissimo, ma non impossibile, a far cadere la sezione sui setti rudimentarj, ivi si vede la stessa apparenza di traverse endotecali orizzontali, corrispondentisi da loggia a loggia come nelle lryptocoeniae. Se dunque a due generi diversi sì vogliano riferire sì fatte specie, sia pure; ma non si pensi già a riferirle a gruppi tanto distanti! Ma ora l’altra questione. Si tratta di Tabulati o no? Per me ambedue i generi debbono essere ascritti ai Tabulati; ma qui poi mi piace di notare che io credo siasi attribuito troppo va- lore nelle classificazioni alla differenza fra Tabulati e non Ta- bulati. Questi sono come i rappresentanti di quelli in generi più moderni. Gli stessi tipi di forme si ritrovano fra gli antichi Tabulati e i moderni Zoantarj non tabulati, solo pochi generi di quelli hanno conservato i loro caratteri fino al presente. Dunque, lo ripeto ancora, due generi diversi sì, ma di una stessa famiglia. Le specie descritte da De Fromentel del genere Cryptocoenia sono quasi tutte del coralliano o del neocomiano. Più specie ne ho io riscontrate fra i coralli di Monte Cavallo, e sono: 296 A. D' ACHIARDI Cryptocoenia subbrevis, D’Ach. n. sp. Ave 2: 2. a. Polipajo al naturale. — 2. 0. Sezione orizzontale al naturale. — 2. c. Sezione orizzontale ingrandita. — 2. d. Sezione verticale ingrandita. Polipajo massiccio a superficie che parrebbe essere stata ir- regolare. Polipieriti uniti per le coste e per l’ esotecio e molto ravvicinati fra Joro. Calici poco elevati, assai fitti, a contorno circolare, da cui si dipartono le coste, che fra loro disuguali, si riuniscono da un calice all’ altro. Se ne contano più di 3 cicli; 8 più sviluppate delle altre, indi altre 8, le altre pochissimo. Larghezza dei calici 2—2 '|, ®%; degli spazi intercalicinali spesso anche meno di ! »», I piccoli e giovani calici sì veggono fra i maggiori. Muraglia grosse. 3 cicli di setti con tipo octomerale. Di questi setti 8 maggiori degli altri, uguali fra loro in gros- sezza, arrivano a circa ?/, del raggio calicinale, arrestandosi tutte alla stessa distanza dal centro e in alcuni calici apparendo ivi un poco ingrossati; ma credo per effetto della fossilizzazione, poichè in altri invece tanto più s’ assottigliano quanto più s’ ap- prossimano al centro calicinale. Tra i primi 8 setti ne stanno al- tri 8, pure uguali fra loro; ma in paragone dei precedenti più brevi e più sottili. In qualche calice se ne vedono anche altri minori, rudimentarj però, davanti alle costicine minori, la cui presenza è dato peraltro di constatare anche là dove non è se- gno alcuno di setti corrispondenti. La columella manca affatto. Traverse o tavole esotecali semplici, orizzontali, brevi, da 22 a 24 nello spazio di 1 cm. Traverse endotecali manifestissime, oriz- zontali e corrispondentisi da una loggia all’ altra, costituendo vere tavole, quali meglio che in altri punti appariscano là ove la sezione interessa la parte media della camera del polipierita, ove non arrivano i setti. Anche delle traverse o tavole endotecali se ne contano 22—24 per centimetro. Fra le Cryptocoeniae descritte da De Fromentel più che alle altre si avvicina alla Or. Brevis (onde suo nome) del coralliano di Charcenne, Champlitte, Chatel-Censoir; ne differisce però per l'ampiezza un poco maggiore dei calici (2—2 '/,”* anzichè c.* 2) CORALLI GIURASSICI 297 e per la non presenza dei 16 setti rudimentarj, ma solo in nu- mero minore, fra i 16 maggiori. Del resto siccome non conosco esemplari di questa specie, potrebbe anche darsi che i nostri esemplari vi corrispondessero; intanto per altro mentre noto le differenze, che dalla sola e imperfetta descrizione datane si pos- sono rilevare, mi piace nominarli in modo, che anche dal nome appaia manifesta la stretta parentela con questa specie del co- ralliano. Esemplari esaminati 1. Cryptocoenia colturensis, D' Ach. n. sp. Tav. XX, fig. 3. 8.a. Figura al naturale. — 3.5. Sezione orizzontale al naturale. — 3.c. Id. ingrandita. — 3. d. Sezione verticale ingrandita. Polipajo massiccio. Polipieriti prevalentemente uniti per l’eso- tecio, molto più sviluppato che nella specie precedente (0. sub- brevis), costituito come da un tessuto a maglie (fig.3c. e 34.) e che scomparendo talora nella fossilizzazione lascia nelle parti esterne del polipajo sciolti o quasi i polipieriti, risultandone un aspetto come di un fascio di bacchette rigate per lo lungo, in modo analogo a quanto si osserva pure nelle Stylnae. Calici pochis- simo rilevati, larghi 2 !|.—3 "" e generalmente più distanti che nella C.-subbrevis, di cui ha pure, almeno proporzionatamente, più sottile muraglia. Sedici coste alternativamente disuguali cor- rispondono ad altrettanti setti. Esse allontanandosi dall’ orlo calicinale si assottigliano sollecitamente e finiscon» per perdersi nell’esotecio, che già dissi essere molto sviluppato e spugnoso. Tre cicli incompleti di setti. Otto di questi setti perfettamente uguali s'assottigliano molto allontanandosi dalle muraglia, e giun- gono fino a %, dal centro calicinale. Tra mezzo a questi setti maggiori altri S8 pochissimo sviluppati e taluni di essi anche rudi- mentari. Nè setti, nè coste d’ordine inferiore. Nessuna columella. Traverse endotecali un poco convesse, che sì corrispondono da una loggia all’ altra, e formano vere tavole ove non arrivano i setti. Se ne contano anche qui da 22—24 nello spazio di un centimetro. Differisce dalla specie precedente (C. sudbrevis), che è quella che più le si assomigli, per la maggiore ampiezza dei calici, per 298 A. D' ACHIARDI la struttura e maggiore abbondanza dell’ esotecio, ond’ anco la maggiore distanza fra loro dei calici, che pur rimangono sem- pre assai fitti, se non quasi contigui come nella C. subbrevis; e differisce per minor numero di setti e coste, che sono quindi più rade; pur tuttavia l’' affinità mi sembra notevole. Esemplari esaminati 1. Cryptocoenia? incerta D’Ach. n. sp. Tav. XX, fig. 4. 4. a. Porzione di polipajo con calici al naturale. — d. Id. ingrandita. Polipajo massiccio, a superficie con ogni verosimiglianza ir- regolarmente convessa. Calici ravvicinati, rotondi, larghi circa 2nm-. Dodici setti, dei quali 6 bene sviluppati arrivano oltre a |, dal centro calicinale, ove non scorgesi affatto columella; gli altri sei generalmente poco sviluppati. Le coste si continuano coi setti, cui corrispondono. Traverse esotecali orizzontali e cor- rispondentisi fra loro in tavole; 18—20 nello spazio di 1 centim. Non sono riuscito a scorgere nè traverse, nè tavole esotecali, onde l'incertezza della determinazione generica e il nome della specie. Tranne queste apparenze, che io credo fallaci, perchè dav- vero non saprei a qual gruppo ascrivere sì fatto polipajo, si hanno tutti i caratteri delle Crypiocoenzae, cui di fatti ho rav- vicinato questa specie. Che se non sia Cryptocoenia, potrebbe forse essere Converastraea; in ogni modo sempre specie di genere prevalentemente oolitico. Se Cryptocoenia, la si ravvicinerebbe alle C. lucensis e O. (Cya- thophora Duncan) tuberosa della grande oolite di Cirencester (In- ghilterra). Dalle specie precedenti differisce per il sistema di setti costantemente esamerale. Esemplari esaminati 1. Cyathophora Pironae, D’ Ach. n. sp. Tav. XX, fig. 5. 5. a. Rolipajo al naturale. — 5. 6. Sezione orizzontale al naturale. — 5. c. Id. ingrandita. — ©. d. Sezione verticale al naturale. Polipajo massiccio in masse più o meno rotondeggianti. Polipieriti fitti, cilindrici, uniti mercè delle coste, che si vedono CORALLI GIURASSICI 299 alla superficie, e dell’ esotecio, che solo si vede nelle sezioni fra polipierita e polipierita, i quali talvolta par quasi si saldino direttamente per le loro muraglia, che sono sempre bene svi- luppate. Calici circolari o leggermente deformati ove sono più fitti, larghi a completo sviluppo circa 5". 24 setti rudimen- tar), che nell’ interno della muraglia danno quasi immagine di 24 rigature. Sei sono un poco maggiori degli altri, a lor volta degradanti in grossezza secondo il ciclo, cui spettano. La dif- ferenza per altro fra i setti di un ordine e quelli di un altro è a prima giunta quasi inavvertibile. Tipo perfettamente esame- rale. A ciascun setto corrisponde una costa del pari pochissimo sviluppata. La columella manca del tutto. L° endotecio forma accosto accosto alla muraglia traverse orizzontali, corrispon- dentisi da un solco all’ altro segnati su di essa dai setti, nel mezzo della cavità forma invece vere e proprie tavole. Si con- tano 12—13 tavole endotecali e 14—15 traverse esotecali per centimetro. Ho nominato questa bella specie in onore del prof. Pirona, da cui ebbi questa e le altre del Monte Cavallo. La Cyathophora Pironae differisce dalla 0. Bourqueti M. Edw. et H. o C. Richardi Michel. (Icon. Zooph. p. 104, pl. 26, fig. 1) per la mancanza dei setti di un quarto ciclo, che non sono riu- scito a scoprirvi. Del resto le è così affine che propendo per ritenerla o la stessa specie o la da lei immediatamente derivata. La Cyathophora Bourqueti è del coralliano inferiore di Nat- theim e dell’ Alta Saona. Esemplari esaminati 6. MADREPORARIA POROSA POLYASTREAE Fam. P’oritinae Microselena tuberosa Alveopora tuberosa, Michel.Icon. p. 110, pl. 25, fig. 7. 1848. Microselena tuberosa, D'Orb. Prod. de Paléont.t. 2. p.37. 18951. Quattro esemplari corrispondenti alla figura sopraccitata; nessun carattere contradittorio con la breve e imperfetta de- 300 A. D' ACHIARDI scrizione che si ha di questa specie, ecco il fondamento per ri- tenere che verosimilmente sì tratti di essa. Un esemplare in forma ramoso-digitata s’' avvicina alla Mi- croselena excelsa Milne Edw. et Haime (Brit. foss. Cor. pl. 25, fig. 5); ma nulla più; maggior rassomiglianza si ha invece con la Microselena Julii Étall. (Étud. pal. sur les terr. jur. du Jura Bernois pag. 410, pl. 58, fig. 2) dell’ ipovirguliano di Cacquerelle. La Microselena tuberosa è del coralliano superiore di Saint Mihiel (Meuse). Esemplari esaminati 6. II. Specie della calcaria corallifera immediatamente sottoposta all’arenaria di Coltura, Mentre per i coralli conservati nell’ arenaria riesce assai facile la determinazione, perchè malgrado che ne sia in gran parte cancellata la forma esteriore, con le sezioni levigate si pongono bene in evidenza i caratteri tutti dell’interna struttura, qui invece per il modo diverso di fossilizzazione a nulla appro- dano quelle sezioni, e difficile per il solito, anzi quasi impossibile riesce un sicuro giudizio, fondato esclusivamenfe sui caratteri esteriori, anche in queste specie, almeno in parte, abitualmente cancellato dalla fossilizzazione. La maggior parte degli esemplari hanno l'apparenza di es- sere stati rotolati, sono come piccoli ciottoli o ghiaje calcari, ma non so se come tali trovati nella madre roccia o nel letto di un qualche torrente. MADREPORARIA APOROSA MONASTREAE Fam. BLithophylliacceae Montlivaultia sp. Pochi esemplari corrosi e indeterminabili, Esemplari esaminati 2, CORALLI GIURASSICI 501 Fam. Calamophyllideae DISASTREAR Rhabaophyllia Edwardsi? Lithodendron Edwardsi, Mich. Icon. Zooph, p. 96, pl. 21, fig. 2, 1843. Rhabdophyllia Edwardsi, Milne Edwards et Haime. Pol. foss. terr. paleoz. 1851, p. 83. Il cattivo stato di conservazione del fossile non mi permette d' identificarlo in modo assoluto con la Rrabdophylia Edwardsi dell’arenaria dello stesso luogo; la rassomiglianza è però tale da rendere probabile che nell’ un caso e nell’ altro si tratti della medesima specie. Esemplari esaminati 1. SYRRASTREAE Fam. Eugyrinae Dendrogyra rastellina? Meandrina rastellina, Mich. Ic. Zooph. p. 99, pl. 18, fig. 7. 1843. a [©] Dendrogyra rastellina, Etallon. Etud. pal. sur les terr. jur. sup. du Jura Bernois. pag. 263, pl. 50, fig. 13. 1l nostro esemplare differisce dalla descrizione data di questa specie per minore larghezza delle brevi serie calicinali e per i centri dei calici distinti; perciò il punto dubitativo (9). Ma d’altra parte sia per la sua cattiva conservazione, sia per la sua ras- somiglianza con la figura, che Etallon dà della Dendrogyra ra- stellina, non ho creduto dovernelo allontanare. La Dendrogyra rastellina è del coralliano superiore di Lifol, Chatel-Chensoir, Saint-Mihel, ec. e dell’epicoralliano di Cacquerelle. Esemplari esaminati 1. POLYASTREAE Fam. Faviaceae Phyllastraea forojuliensis, D'Ach. n. sp. Esemplare corroso, ma di cui è facile pur non ostante con- statare l'identità con gli esemplari della soprapposta arenaria, 302 A. D' ACHIARDI Fam. Stylinideae Stylina Bernardana Stylina Bernardana, Étallon, Ét. paléont. sur les terr. jur. sup. du Jura Bernois. p. 365, pl. 51, fig. 4. Polipajo lobato. Calici ineguali, distanti fra loro, larghi circa 2", Otto setti quasi uguali, ma più sviluppati degli altri, rag- giungono la columella, che appare sviluppatissima. Gli altri setti rudimentarij. Gli esemplari della calcaria s° assomigliano ancor più di quelli dell’ arenaria alla Stylina Bernardana, e taluno fra essi sembra quasi rappresentato dalla succitata figura di Ktallon. La Stylina Bernardana descritta da Etallon è dell’ epicoral- liano di Laufon e della zona astartiana di Vieille-Route e di Essert-Tainie. Un’ altra specie, cui per certi caratteri si ravvicina alquanto, è la Stylina ramosa (Pseudocoenia ramosa e digitata D'Orb.) del coralliano superiore di Oltingen nell'Alto Reno. Esemplari esaminati 2. Stylina digitiformis, D’ Ach. n. sp. Tav. XX, 'fig. 6. 6. a. Polipajo al naturale. — 6, 8. Id. ingrandito. Polipajo ramoso-digitiforme. Calici larghi poco più di 1". assai distanti fra loro. 2 cicli di setti, dei quali i sei primari si congiungono alla columella stiliforme assai grossa; ì secon- darj molto meno sviluppati. Nell'insieme si ha quasi l’appa- renza di Stylophora. Lo stato di conservazione dell'esemplare non permette dire di più. Si ha grande rassomiglianza con gli esemplari da me rife- riti alla Stylina Bernardana Etallon del piano epicoralliano e astartiano del Giura Bernese. La differenza consiste nella minor dimensione dei calici e nel tipo settale decisamente esamerale. CORALLI GIURASSICI 303 In quanto alla forma non ci trovo differenza sostanziale; e mi resta ancora il dubbio che possa trattarsi della stessa specie nei due casì, poichè, mi giova ripeterlo ancora, dubito molto che si possa prendere come termine assoluto di distinzione spe- cifica la disposizione esamerale od ottomerale dei setti, avendo io stesso e più volte riscontrato sullo stesso esemplare calici a due tipi e talvolta anche a tre per aggiunta del tipo decamerale. Esemplari esaminati 3. Stylina miecrocoma? Stylina microcoma. Podr. Paléont. 1850. t. 2, p. 34. Polipajo massiccio a superficie inegualmente convessa. Ca- lici piccolissimi raggiungendo raramente la larghezza di 1", separati da grossa muraglia. Due cicli di setti; sei bene svilup- pati arrivano fino alla columella stiliforme, sei rudimentarj. Esemplari esaminati 2. La Stylina microcoma è specie del coralliano medio (Ile de Rhé) e superiore (Chatel-Chensoir). Stylina sp. Parecchi esemplari sono così mal conservati che riesce im- possibile riferirli ad alcuna delle specie conosciute. Noterò sol- tanto come taluni sembrerebbero ravvicinarsi ad alcune delle specie descritte da Etallon dei piani epicoralliano ed astartiano del Giura Bernese ed altre a taluna delle specie dell’arenaria stessa di Coltura da me sopra descritte; ma ogni giudizio di comparazione è impossibile, Esemplari esaminati ©. Stephanocoenia sp. Esemplari indeterminabili specificamente. 304 A. D' ACHIARDI MADREPORARIA POROSA Fam. Proritinae Microselena tuberosa? Alveopora tuberosa, Michel. Ic. Zooph. p. 110, pl. 25, fig. 7, 1843. Microselena tuberosa, D'Orb. Prod. de Paléont. t. 2, pag. 37. 1851. Esemplari malissimo conservati, ma che pur sembrano rife- rirsì a questa specie, già ricordata come propria anche dell’ are- naria soprastante. Esemplari esaminati 5. CONCLUSIONI Nel caso presente non si tratta, come per Monte Pastello e per Mentone, di dare un giudizio sull’ età della giacitura coral- lifera fondato esclusivamente o quasi sullo studio dei coralli da me descritti; si tratta invece di vedere se sì fatto studio con- fermi o no le deduzioni -cronologiche, che altri trasse dall'esame dei Molluschi fossili, rinvenuti in questi stessi terreni di Monte Cavallo. Si ha di fitti la fortuna di avere pubblicata per le stampe dal prof. A. Pirona una bella memoria Sulla Fauna fos- sile giurese del Monte Cavallo ('), nella quale memoria, accompa- gnata da una carta geologica dei dintorni di Aviano e di Pol- cenigo e da otto tavole ltografiche, sono descritte ed effigiate ‘6 specie di molluschi, delle quali fortunatamente solo 11 nuove. Quindi prima di passar oltre mi giova vedere a quali conclu- sioni giungesse il Pirona dallo studio da lui sì bene compiuto, nè ciò posso far meglio che riportando le sue stesse parole. » Delle 76 specie (da lui descritte) più che °/, spettano al gruppo delle Nerinee e dei sottogeneri, nei quali l’antico genere fu di- viso, le Itieria, le Ptygmatis, le Nerinea ed i Cryptoplocus sono (1) Mem. dell’ Ist. Veneto di Sc., Lett. e Arti. Vol. XX, 1878. CORALLI GIURASSICI 305 copiosamente rappresentati, ma vi mancano le Aptyxis come si riscontra a Inwald, a Plassen, a Wimmis ed in Sicilia. Appa- risce ancora che della fauna totale 21 specie (circa il 30%) si trovano nel coralliano o kimmeridgiano e nel portlandiano; che 11 (circa li 14°|) si trovano anche negli strati di Stramberg, e che 49 (oltre il 65 %) sono comuni alle faune d’ Inwald, di Plassen e di Wimmis (strati a Terebratula Moravica e Ter. di- phya), e in particolare a quella ricchissima dei contorni di Pa- lermo, così egregiamente illustrata dal prof. G. G. Gemmellaro. Se al numero complessivo leviamo le 11 forme nuove, le 10 dub- bie e le 5 indeterminate, il rapporto della nostra colle citate faune si eleva al 95%.» » Una tale copia di specie comuni dimostra incontrastabil- mente, che i calcari corallini del Monte Cavallo sono contempo- ranei ai calcari a Terebratula janitor e Ter. diphya nel nord della Sicilia, al Weissen Jura d' Invwald, al coralliano di Wimmis, al calcare di Plassen e del Monte Lascek (Tarnowerwald), ai depositi di Murles presso Montpellier ec. i quali tutti vengono ora considerati come località tipiche del tonico inferiore ,. Così e fin qui il Pirona; guardiamo ora se alle sue corri- spondano le mie deduzioni. Le specie da me descritte del Monte Cavallo sono: Dei anrnenmnaria Esempl,. esaminati Aplosmilinae Aplosmilia aspera. . . . . . 1 Coll acne (| Calamophyllia substolesi . . 3 STAMOpay IC e8e ) phabdophyllia Edwardsi .... 1 Eugvrinae Pachygyra costata. ..... 2 ( Septastraea colturensis . .. 2 Faviaceae ? Phyllastraea forojvuliensis . 3 ( » dubia. . -.«.. d VOI Stylina Bernardana. . . . + 3 DR CAVANSIATR 3 Stylinideae DIES DAOISRRATOE 1 N Aarani edera è 2 | DINAMO SIIT 1 IMESE ( Heliastraca lifolensis . ... 1 \ RA A | Isastraca italica . . .. +... 19 Thamnastraeidae Thamnastraea lamellistriata 1 306 A. D' ACHIARDÎ M. porosa Poritinae Microselena tuberosa . 6 | Cryptocoenia subbrevis ... 1 pena » colturensis . 1 M. tabulata Thecostigitinae 9 O 1 Cyathophora Pironae .... 6 Diedlilfa:lelallieratehtà Esempl.. esaminati Lithophylliaceae Morntlivaultia sp. . ..... 2 Calamophyllideae Rhabdophyllia Edwardsi. .. 1 \ Eugyrinae Dendrogyra rastellina?.. . 1 Faviaceae Phyllastraea forojuliensis . 1 M. aporosa DA | Stylina Bernardana . .... 2 \ Di CMNINIAINIS È 3 Stylinideae y DI IICHOCOMAIZIRE 2 | dI: SIE Si ee 5) \ Stephanoccsenia sp. ..... 2 M. porosa Poritinae Microselena tuberosa?. ... 5 Molte sono pur troppo le specie nuove, lo che per altro non recherà meraviglia quando si pensi che si tratta di un piano geologico, di cui finora pochi polipaj son noti, e i noti spesso non completamente descritti e peggio effigiati. Ciò non per tanto, se molte le specie nuove, non ne mancano di già note altrove, e le nuove presentano poi tali correlazioni con le specie dei‘ piani cronologicamente vicini da contribuire esse pure alla determina zione dell'età, cui si riferisce il piano corallifero di Coltura. Nessuna specie che sia più antica dell’oolite o riveli intimi legami di affinità, che è ben altra cosa di semplice rassomi- glianza, con specie più antiche dell’ colite; ecco il primo carat- tere della fauna corallina del Monte Cavallo; ma si può dire anche di più; nessuna specie le appartiene che sia più antica del coralliano. E di fatti delle più che 20 specie summentovate nessuna è comune alla fauna di Monte Pastello, che pur dissi appartenere a tempi posteriori alla grande colite e doversi consi- derare come immediatamente anteriore all’infimo coralliano, se non spettante alla parte più bassa di esso. Da ciò solo si potrebbe anche concludere che non soltanto si ha a che fare con terreni non più antichi dei coralliani, ma certo anche nè meno con il coralliano inferiore. Ciò conferma non solo la natura tutta diversa delle specie fra Monte Pastello CORALLI GIURASSICI 307 e Monte Cavallo; ma sì anche la facies tutta diversa della fauna manifestata dai generi, facies per quest’ ultimo luogo assai più moderna. E di fatti mentre a Monte Pastello predominano i ge- neri Montlivaultia, Thecosmilia, Isastraca, Latimaeandra, a Monte Cavallo prevalgono invece i generi Stylina, Cryptocoenia, e quel che più monta già compariscono i rappresentanti di alcune più giovani famiglie, come la aviaceae, che mancano a Monte Pastello. Di specie già note si annoverano le seguenti fra i coralli del Monte Cavallo. Ne Sscnzria Cor-* med. || Corall° sup. | Epicoralliano | Astartiano Creta e inf. ( Etallon) | (Etallon) Aplosmilia aspera? .....| Vagnon St. Mihel _ —_ _ Rhabdophyllia Edwardsi . . —_ Verdun _ _ si Stylina Bernardana? . . . . = _ Laufon ore a SARAI MOSSE = _ Cacquerelle —_ _ Heliastraea lifolensis? ... — Lifol = = "2a Thamnastraea lamellistriata — — CS = Uchaux Microselena tuberosa .. .. = St. Mihel _ _ _ Nella calcaria | Rhabdophyllia Edwardsi? . = Verdun _ = — ‘ Lifol, Chatel- Dendrogyra rastellina?. . . — Chensoir,'S?, |Cacquerelle —_ _ Mihel ete. Stylina Bernardana. . . . . — = Laufon ATA _ » microcoma?..... Ilede Rhè |Chatel- Chensoir —_ —_ _ Microselena tuberosa?.... — | St Mihel _ — = Ai coralli dell’ arenaria si può anche aggiungere la Packy- gyra costata, specie nuova, ma che riscontrai pure fra i fossili di Mentone, che già dissi doversi ascrivere al coralliano supe- riore, onde viene essa pure ad aggiungersi alle specie sopralle- gate di questo medesimo piano. Cinque sono sì fatte specie tratte dall’ arenaria, delle quali una soltanto propria anche del coralliano inferiore (Verdun). Tranne questa, nessun’ altra che possa ascriversi a quest’ultimo 308 A. D' ACHIARDÎ piano fu da me osservata; e questa stessa con l’ essere anche del coralliano superiore non infirma menomamente il significato cronologico delle altre quattro. Le rimanenti tre specie spettano a terreni anche superiori; la Stylina ramosa è dell’epicoralliano (Etallon) di Cacquerelle nel Giura Bernese; la Stylina Bernar- dana di, questo stesso piano a Laufon e dell’ astartiano di Vieille- Route e di Essert-Tainie pur sempre nel Giura Bernese; 1° He- liastraea lifolensis finalmente della creta di Uchaux. La stessa prevalenza di specie del coralliano superiore si ripete per la fauna della calcaria; e qui pure una specie, che è a un tempo comune al coralliano superiore e al medio, e al- tre dell’ epicoralliano e dell’ astartiano. Nè basta; tre delle cin- que specie summentovate sono comuni anche all’ arenaria, onde conviene concludere con il Pirona non aversi essenziale diffe- renza nelle faune dell’arenaria e della sottoposta calcaria. Am- bedue presentano la maggiore affinità con le fanne note del coralliano superiore e dell’ epicoralliano, e su ciò parmi non po- tersi ammettere dubbio. È vero che non poca confusione regna fra queste divisioni del giura superiore; e l’epicoralliano di Etal- lon corrisponde per esempio al coralliano superiore di altri, e ne è riprova il piano di Cacquerelle riferito ora a questo ora a quello; ma ciò non scema l’ analogia della fauna corallina del . Monte Cavallo con questi termini forestieri sieno chiamati nel- l'un modo o nell’ altro. Per lo chè, anche senza tener conto degli incerti rappresentanti dell’ astartiano e della creta, si ha pure assai per potere asserire che lo studio dei coralli tanto dell’ arenaria che della calcaria conferma pienamente le dedu- zioni tratte dal Pirona dallo studio dei molluschi. Evidentemente abbiamo a che fare o con ciò che vi ha di più elevato nel co- ralliano o meglio anche con qualche cosa di più recente; dirò addirittura con il Pirona siamo nel titonico inferiore, fatto a spese del coralliano superiore e del kimmeridgiano. A questa medesima conclusione conducono anche i ravvici- namenti, che si possono stabilire con le specie nuove tanto del- l’arenaria che della calcaria. E di fatti: La Calamophyllia Substokesi fa da me così detta per la sua grande affinità con la Calamophyllia Stokesi M. Edw. et H. del coral-rag di Steeple-Ashton, da me osservata anche fra i fossili di Mentone, specie dunque del coralliano superiore, cui appar- CORALLI GIURASSICI 309 tiene anche la Calamophyllia striata (Guett. sp.) di Maxey sur Vaise (Meurthe), che pur molto si rassomiglia alla specie del Monte Cavallo; la quale già dissi potersi quasi considerare come la C. Stokesi rimpicciolita. La Septastraea colturensis è precisamente la stessa cosa di un esemplare, posto nelle collezioni del Museo di Pisa con la sola indicazione Inghilterra, oolite superiore. Le due PhyMastreae sono le prime di questo genere, e quindi soltanto dall’ affinità loro al genere Yavia può trarsi argomento a giudicare del loro significato cronologico. E del genere Favia sì sa che, cominciato nell’oolite, perdura e con grande sviluppo anche al presente. La Stylina irradians, se a prima giunta s' assomiglia molto all' Astrea bacciformis Michelin del dDathoniano di Langrune, ne è certo specificamente e forse anche genericamente distinta. Invece la si ravvicina assai alla Stylina microcoma D'Orb. del coralliano superiore di Chatel-Chensoir (Yonne) ec.; e lascia pur sospettare che nient' altro sia che una varietà a piccoli calici della Stylina Bernardana Étal. dell’ epicoralliano del Giura Bernese. La Stylina stipata ha con la precedente e quindi anche con la St. Bernardana Étal. strettissima affinità. La Stylina digitiformis della calcaria ha pur essa non piccole analogie con la medesima Stylina Bernardana Etal. La Stylina arborea sì ravvicina alla St. intricata De From. del coralliano di Charcenne. L' Isastraea italica si direbbe l’ Isastraea serialis di Monte Pastello rimpicciolita; e vari esemplari d’ Isastraea non specifi- camente determinati s' avvicinano a specie proprie del coralliano superiore o dell’ astartiano. Delle Cryptocoeniae la subbrevis fu così detta da me per la grande analogia con la C. drevis, De From. del coralliano tanto inferiore che superiore di Champlitte (Haute-Sa0ne) e di Chatel- Chensoir (Yonne); la colturensis si ravvicina molto alla subbrevis el’ incerta alle Cr. lucensis e Ciathophora tuberosa Duncan della grande colite di Cirencester (Inghilterra), dalle quali già dissi differire per il sistema di setti costantemente esamerale. La Cyathophora Pironae finalmente è così affine alla C. Bour- queti M.Edw. et H. del coralliano inferiore di Nattheim, chè se non è la stessa cosa, ne è certo la derivata. Sc. Nat. Vol. IV, fase. 2.9 21 310 A. D’ ACHIARDI n Il paragone di queste specie è importante anche perchè ci dimostra non solo le affinità, ma in taluni casi ci fa travedere anche la discendenza di alcune specie; in altre parole studiando queste faune dell’ colite superiore, ci par quasi di assistere alla trasformazione dell’ una nell’altra. Nè minore importanza offre il paragone delie specie nuove con altre già note per le deduzioni cronologiche, essendochè aggiunga nuova e valida conferma a quanto giù concludevasi per lo studio delle specie trovate anche altrove; avere cioè i coralli del Monte Cavallo le maggiori affinità fra le specie del coralliano superiore e dell’ epicoralliano, e doversi quindi ascri- vere, come già fece il Pirona per i Molluschi, al titonico in- feriore. i La fauna corallina del Monte Cavallo è adunque la più re- cente delle tre principali da me descritte, essendo più antica quella di Monte Pastello e intermedia l’altra di Mentone. Passa peraltro maggior distanza fra queste due che non fra la prima e la terza, che pur hanno qualche termine a comune, e se non del tutto corrispondentisi cronologicamente, sono però a ritenersi come molto prossime. Tale fu la vita madreporica durante il giura superiore in questi paraggi italiani, nei quali soltanto in tempi molto poste- riori, cioè dall'eocene al miocene, ed in particolar modo nel tempo così detto oligocenico, si ripeterono le condizioni atte allo svi- luppo di scogliere madreporiche, le di cui specie già formarono soggetto dei miei primi stud]. Errata Corrige Pag. 247 lin. 30 — 4 5 DA 30 SS 83 89 » » » 29 — 1843 1850 » 292 5 dd — Haliastraea Heliastraea CONTRIBUZIONI MINERALOGIOHE SULLE ZHOLITI DELL'ISOLA D'ELBA NOTA DEL DOTT. FRANCESCO SANSONI presentata nell’ adunanza del di 9 novembre 1879 Nella formazione granitica della parte occidentale dell’ isola d’ Elba, e precisamente a S. Piero in Campo, località oramai ben conosciuta dai mineralogisti, e resa celebre per la ricca serie di minerali che di là si trasse, si rinvennero da non molto tempo le Zeoliti di cui è parola in queste pagine. Il granito che le contiene, è assai diverso secondo il prof. Cocchi ( loc. cit. pag. 250) da quello che invece trovasi dalla parte orientale dell’isola stessa, e il sullodato autore, nell’ opera citata, con una serie di dotte considerazioni, mette in rilievo tal differenza appoggiata a caratteri petrografici e geognostici. — Senza ad- dentrarmi in tale argomento, che troppo si scosterebbe dall’ in- dole di queste note, mi basterà ricordare, che il Cocchi afferma che ,, il Granito della parte orientale dell’ isola è privo di Tor- maline, e vi stanno dentro diche e filoni di granito di qualità diverse, e non penetra mai nei terreni secondarii , e il granito della parte occidentale, sviluppato principalmente a Monte Ca- panna, Campo, S. Piero, contiene abbondanti cristalli, di tor- malina, polluce ec. Assegna a quest’ ultimo un’ origine poste- riore all'altro. — È in questa roccia che si trovano le geodi 312 F. SANSONI ove principalmente stanno annidate quelle belle cristallizzazioni di tormalina, berillo, polluce ec. che hanno ‘arricchito tante collezioni: sono poi le pareti interne di queste geodi, che si mo- strano tappezzate, e incrostate dalle nostre zeoliti. — Sono queste geodì di varia forma; ovali, spesso conformate ad amigdale, più o meno allungate, in altri casi sono fenditure più o meno larghe, che s’ insinuano nella roccia granitica, con un anda- mento assai irregolare. — Nota il prof. Cocchi, e di questo avrò l’ opportunità di discorrerne in seguito, che in prossimità delle druse il granito è più bianco, ed ha caratteri diversi da quelli della massa circostante. Dissi che le Zeoliti si rinvennero da poco tempo; nonostante non mancarono gl’ illustratori, e i lavori dei signori vom. Rath Grattarola e D’ Achiardi, di cui non poco mi giovai nella com- pilazione di queste note, ne resero pressochè completa la sto- ria. — Nonostante mi propongo dirne anch’ io qualche cosa, sebbene l’ argomento sia stato trattato: ma l’ avere avuto i sullodati esperimentatori scarso materiale a disposizione, ed aven- done essi discorso a varii intervalli, non considerando l’ intero gruppo riunito, fè si che credessi opportuno ripetere l’ analisi quantitativa di tutte, riprendere complessivamente lo studio degli altri caratteri, ed istituire cosi un confronto fra di esse specie non solo, ma anche con quelle di altre località. — Però è principalmente dal lato chimico che mi diffusi di più, spro- nandomi da un lato l'abbondanza dei materiali di cui potei di- sporre, dall’ altro la poca concordanza che si ebbe nei resultati analitici fin qui addotti. Debbo alla gentilezza e all’ assistenza dell’ egregio mio mae- stro prof. Grattarola, che mi fu largo di consigli, l'aver messo a mia disposizione un materiale assai abbondante quale trovasi nella collezione speciale dell’ Elba del museo di Firenze, già collezione Foresi. — Fra questo materiale e per ogni specie, procurai che la sostanza sottoposta all’ analisi quantitativa e qualitativa, fosse scevra da ogni impurità, tantochè i resultati per questo lato fossero attendibili. Stilbite — Il prof. D’ Achiardi per il primo fece conoscere questa specie, riportandone anche l’ analisi fattane da un allievo del prof. Bechi. — Si presenta questo minerale generalmente in pallottole più o meno sferiche, le quali come dissi, insieme COTR. MIN. — SULLE ZEOLITI DELL'ISOLA D' ELBA 313 ad altri minerali incrostano le geodi del granito di S. Piero. — Non sempre le pallottole sono finite; talora sono inugualmente sviluppate non solo nella parte per cui si attaccano, ma ancora per quella che sporgono, e ciò per la diversa lunghezza dei singoli cristalli componenti le sferule: in questo caso la stilbite ricorda l’ altra Zeolite, dalla quale a S. Piero in Campo almeno giammai va disgiunta, cioè la foresite, di cui dirò più avanti — La superficie curva delle pallottole non è continua, ma sivvero formata da tante faccette piccolissime, di cui colla lente si può in alcuni casi delineare i confini, ma che però non sono tanto estese da servire come facce di riflessione per la misurazione al goniometro, anche perchè appariscono sempre curve — De- durne il sistema cristallino è quindi difficile, però da una di queste pallottole del diametro di circa 18°", potei staccare un cristallo, il quale con una faccia piana, ed assai estesa spor- geva dalla superfice sferica. — L’ angolo che essa faccia dette con l’ altra di sfaldatura resultò di 94°, 18’, 20”, valore assai vicino a quello riportato dal Dana: di 94° 16' ( Dana: System of mineralogy. pag. 444). _ Osservato al microscopio, mostrava qualche piccola inclusione di cui non fu possibile stabilire la natura. — Il colore è giallo- gnolo allorchè le sferule sono complete, la lucentezza è madre- perlacea, mentre i singoli individui sono incolori subtrasparenti con lucentezza vitrea, ed allorchè sono isolati non si mostrano molto differenti da quelli della foresite. — ll peso specifico uguale 2,071. Sottoposto alle prove del fuoco e determinando gli alcali col metodo di Szabò si ebbe per la Soda la proporzione di 1-2 % per la potassa di 0-1 %,. Per la determinazione quantitativa della stilbite, si fecero tre analisi: in due procedei alla disaggregazione per mezzo del Carbonato di Soda, nella terza, allo scopo di determinare gli alcali (Potassa e Soda), fu trattata la sostanza con fluoruro d’ ammonio e acido solforico — Pongo i resultati da me otte- nuti in confronto con quelli ottenuti da altri, per la stilbite della stessa località e di altre — Avverto che i resultati ana- litici tanto della stilbite che della heulandite, furono già pub- blicati negli atti della Società di Scienze naturali di Pisa, 914 F. SANSONI F Sansoni | Laboratorio mineralogico Firenze| Bechi | Siògren | Fuchs e Gehlen Elba Elba |Gustavsberg Islanda Silice. . . . | 52.34 — — 52.34 | 56.00 | 57.04 55. 07 Allumina. . | 17.04 | 16.15 | 17.64 | 16.94 9.00 16. 14 16.58 Calce... . 9.96 | 8.48 — 9,122 8.00 8.97 7.58 Magnesia . | 0.43 | 0.39 — 0. 4l 3.00 | trac. — Potassa. . . — — 7 — 1.04 1.80 | \1.80 {1.50 SOR e Si; | AGO NBT O21 l Acqua ...| 19.93 — — 10893 18. 00 16. 60 19.30 99.94 | 101.00 | 101.00 100. 03 Dal suesposto quadro comparativo resultò che all’ analisi da me eseguita vi corrisponde meglio di ogni altra, quella della, stilbite d’ Islanda eseguita dai signori Fuchs e Gehlen riportata dal Dana, pag. 442. Heulandite — Anche per questa specie, che il D' Achiardi per il primo studiò, sono dati estesi ragguagli nel suo pregiato lavoro “ Mineralogia della Toscana , ed in varie comunicazioni al Bullettino del Comitato geologico. — Tuttavia, non sarà su- perfluo aggiungere alcunchè per ciò che si riferisce all’ analisi quantitativa. — Come ben nota il sullodato autore, la heulan- dite trovasi ad incrostare come le altre zeoliti, il granito reso friabile e disgregabile per alterazione subita. — Però è rimar- chevole il fatto, che laddove fu abbondante la formazione di questa specie scarseggiò o mancò del tutto quella delle altre, tranne dell’ Idrocastorite, il che è facile constatarsi negli stu- pendi e grandi esemplari di granito con zeoliti, polluce, tor- maline, esistenti nella collezione speciale dell’ Elba di questo museo. — Intanto comunemente sì presenta sotto la forma di cristalli ben definiti, che gli autori riferiscono al sistema mo- noclino. — L'abito dei cristalli è sempre lo stesso. — Sono combinate le forme 110, 101, 100, 001, (Miller): assai estese CONTR. MIN. — SULLE ZEOLITI DELL’ ISOLA D'ELBA 315 le facce di 101, molto meno, e talora incompletamente quelle di 110 — Le facce spettanti a 001 hanno riflessi argentini, micacei, e secondo esse avviene la sfaldatura. — Stando ai re- sultati goniometrici, sarebbe da mettersi in dubbio la mono- clinicità di questa specie, e ritenerla invece triclina come già sembrò al Breithaupt. — Del resto anche il Prof. D’ Achiardi sembrò che inclinasse a ritenerla come tale, (Bollettino Comit. geol. pag. 310) perchè appunto i valori estremi da lui ottenuti non consentivano di riporre questa specie nel sistema mono- clino. Però tanto della cristalligrafia che dei fenomeni ottici di questa e delle altre zeoliti elbane, mi riserbo dare in seguito più complete notizie. Il colore della heulandite elbana è giallo scuro, la lucentezza, è madreperlacea, la polvere bianca. Peso specifico 2,339 — È assai fragile, ma molto meno della stilbite. Per essere sempre cristallizzata, e per l’ abito speciale dei suoi cristalli, riuscì facile studiarne i caratteri ottici: ed il Descloiseaux nel suo celebre trattato ( Manuel de Mineralogie, Paris 1862) ne da estesi ragguagli. In quanto alla heulandite elbana, ecco quanto potei osservare. A luce convergente i cristalli mostrano deboli colori d' in- terferenza; si verifica un assai facile dispersione degli assi ottici. Sebbene Descloiseaux indichi per questa specie evidentissima la dispersione incrociata, pure attesa la poca trasparenza dei cri- stalli sì manifestò poco sensibile, e per una lamina il cui piano era parallello al piano di sfaldatura si ebbe o. Porzione della sinistra. 11°. Lato posteriore della stessa. 12-15. Cypricardia similis, n. sp. 123, 12%. Valva sinistra a numerose pieghe concentriche. 13%, 13°. Valva destra. 14%, 14. Valva sinistra a una sola piega. 15. Piccola valva sinistra a più pieghe. 16-17. Corbis aequalis, n. sp. 16°, 16°. Valva destra. 17. Valva sinistra. 18. Pecten semiarticulatus, n. sp. 18°. Valva destra. 18%. Parte della stessa veduta obliquamente ed ingrandita. 18°. Porzione della superficie molto ingrandita. 362 1-5. NC O, LOSS 10° Ius, Jolie: SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE Tav. XXII. Rhynchonella Clesiana, Leps. 1°-1°. Esemplare maggiore molto assimmetrico. 2°— 2°. Esemplare minore con assimmetria inversa a quella del precedente. 3°—3° Esemplare meno turgido e meno assimmetrico. 4°—4°. Esemplare turgido, compresso, quasi regolare. 5°—5°, Esemplare depresso e simmetrico. Chemmitzia cfr. lineata, d' Orb. Chemnitzia ctr. Niortensis, d’ Orb. Porzione di esemplare maggiore che sembra appartenere alla specie stessa del precedente. Chemnitzia, sp. ind. Turritella Pizzolarti, n. sp. Uno dei giri ingrandito. Porzione di esemplare ad angolo spirale più acuto. Sezione verticale della stessa. 12. Nerilopsis vortex, n. sp. JSì Lima angusta, n. sp. Porzione della superficie molto ingrandita. Di questo volume sarà pubblicato un 3. fascicolo contenente un lavoro del D. Bosniaski Sui pesci fossili del Gabbro, cui si riferiscono le tavole XII, XIII e XIV, che dovevano essere comprese in questo stesso fascicolo 2.° Atti Soc. Tose.Sc Nat .Vol.IV. Tav.XI. MCanavari-fos del LE inf M Canavari dis. A __ E Cristofani Sit. LitGozani Pisa Mi a os Sc Nat sessuali Molluschi a Cromu-litog.fior Firenze dia inerti n ca. DU -__® i ere ARC e SE NALI Tav AV. 1 Batelli- Istol. org. Sessuali Molluschi terrestri 5 6 Hd Ximenes hi Auct.del. Cromo-lilog fior firenze ae Mt Soc. Tos. Sc. Nat.Vol Wpssuali Molluschi terrestri 1 19) Ed Ximenes.ht. Cromo-itog. fior Firenze IA H) v A (4 LAS, È cv Di Ri ta) AttSoc. Tos Se. NatVoLMTay XL i — Batelli-Istol. org. sssudi Molluschi terrestri | Ed Ximenes.hi Auct. dell Cromo-litogfion Firenze rea i I i AttiSoe.Tose Sc Nat Vol. Il D'Achiardi Coralli i O D DIRI E LETEAA CI 7A Rn IO) CH vi EER LURZA Ud) ANI 7 4. ‘ \\ pa (75) Wuz Cristofani lit: R.Lit. Gozani Pisa pastelli. sulcata. da Y | AttiSoc.Tose Sc NatVol. IV. Tav. XVII D'Achiardì Coralli giurassici | R.Lit Gozani Pisa Cristofani lit: , i 1 Montlivaultia Cavali. 2. Placophyllia elegans. 3.Diplocoenia profunda 4 Stylina Taramellii. 5. Isastraea Montispastelli. 6.Latimaeandra multiseptata7iLTaramellii. 8-9.L.Cavali.10.Laulomica Il. Comoseris amplistellata.12.L qualiformis 13. Oroseris sulcata. 1 giurassici. ardi Corall 1 ì D'Ach AS Seo N Tai SDOFBIEBEDBEREIBIVBBEIBRE TT UIITITYI, RESARERORI) III TTI LILLA ALLAIZII ) FEPRBESIE ILL LIMITI LIA, FPAAZIAAZOT TION Mall ATL o SIISEONE NERO ERE" ee mossanirinazivansa p80BEBRBR}) PRETRETABEBABARIEEIERAA: \j RIARIDARBEBIBEIBADAZE RANE MALONE R Lit Bozani Pisa Cristofani lib. 2. (o) RABIRABABEBABA LARA SIARNPANBEBIREIPEEMIE IAA D'Achiardi Coralli giu rassici. Atti SocTose SeNat.Vol. IV. Tav.VIII. R Lit Bozani Pisa 1Rabdophy]lia sp.2.Calamophyllia mentonensis. 3Thecosmilia Spadae. 4 Cladophyllia mentonensis.5.Pachygyra costata. 6. Stylina nicoensìs./9t.pleionantha. 8. St. anthemoides. 9. Diplocoenia italica. 10. Pleurocora Roccabrunae. TALI vr: Atti Soc Tose. Sed D'Achiardì Coralli giurassici. Fidi : FFFFERLE CECPEREErEECICEE CECRAICAILIIA b i Ed t VEEEPECEECPPERRERCCREA! CCCEEEEEEE VALAIS dava dada { ES DA A Ri LIE$S i sa RAS dune A9422994A9B2A0A5DA Cristofani lit. Lit. Gozani Pisa” juliensis. D'Achiardì Coralli giurassici. Atti Soe.Tose. Sc Nat Vol.IV Tav.XDX ‘È VI ATTRITI RTLA A A AAA A A ASA AA AAA SAIAI LARA A RIA TAI PPELEREAPERFERFEREEBErEEO mne ST. E pe e pe ge RO E PO MII E RT IERI aeree MENELEEELENENEEY RUSTICI II IT TT, PEASURUNENIGERR:ERanBARERÌ DUREAEBORESREIBIERAnEDERE PREEBETERENMNIReBTEtte sorto pere EEnrintE (3) (SÌ (in RONYIVIIAZIOA ( Ni VIDI NA si mernmazanm mes ma neo i CITI NTTRO Eos uneocemanee IMUAZIALDIVI 10) SES 1) 3 i 1 _ 9) Ide SUI (LACAN MALA Loch VANNI VERE EESRELERSE ERRE i ara LI ASSET settica è Lit Gozani Pisa okesi.2Pachygyra costata.3.Septastraca colturensis, 4. Phyllastraea forgjuliensis. G.Stylina inradians.7 Stylina stipata.8. Stylina arborea. 1.Calam ophyllia subst S.Phyllastraea dubia Cristofani lit. | I È | CASCA ZV NIE D'Amiardi Coralli giurassici. PERSIA] DAI 3% : ESROREE ara de Pa E, » sega veet: Csooccsesteali. MI LI | MI Mi GER N th ti Fr - | SSR pg alla FT GE a ARTI psi] CE a Ra 280 pm ge 29N bi = H=F SSR poanon g e! | gravi ma m 1588 a, pes E SO N SENI gn 7 MERE ESHAE A So # gran È PIVA gi ra È guna x i ISS "a Bo aes \v | BENE LE VECTE Lit. Gozani Pisa. E.Cristofani lit Ù Ò "i E) fi dp À x li va Ù D'Achi ardi Coralli giurassici. 3) CIG 29 D CECCCCE BE nrpzempserea DI (CCECIA sm pid e Uras eo ND e: 3 BENE E BE VOERBEELEG KCCKICCO Atti Soc Tos Sc. NatVol IV TavXX. PALDIEEEECIENLEpEEETEEA IEBCCRCEETEnIEREGCERIFSEÌ EUCELBEEELLE WURUELERLE 8! AREGEELEBRE MAT, CFEESSSNT! EMcRencE IATAIIZZA ANIA EATAII(AATTTI TSI [AAA 4 A] dA AEREI PAS AAA TA GRIGI È TMESERETE\NE LU GULSLE ALINA SI o Lit.Gozani Pisa. .Isastraea italica. 2.Cryptocoenia subbrevis.3.Cryptocoenia colturensis.— 4 Cnyptocoenia 2 incerta. 5.Cyathophora Pironae. 6.Stylina digitiformis. E Cristofani lit = mr venier e lag rea Lasi) irene Meneghim= Foss. cohboi Atti Soc: Tosc. Sc Nat Vol IV Tav stola f 19 Mircea ma ze e Ror Lit Ach.Paris, Firen dis.e lìr. Gristofani ds a, \ SULL'INNERVAZIONE DELLO STOMACO NELLA RANA STUDIO SPERIMENTALE DEL DOTT. ARTURO MARCACCI Sommario. — I. Cenni anatomici sull’ innervazione dello stomaco: probabile unità anatomica del vago e del simpatico. — II. L’ influenza del vago, del simpa- tico e dei centri nervosi sulla motricità dello stomaco secondo i diversi autori. — III. Storia critica dei metodi impiegati per lo studio delle funzioni dello stomaco, e descrizione di quello usato dall'A. — IV. L'unità fisiolo- gica del vago e del simpatico dimostrata coll’ esperimento. — V. Studio degli effetti dell’ eccitamento dato nei vari periodi della contrazione: legge che ne deriva. - Rapporto tra il momento dell’eccitazione e la durata del tempo di contrazione latente. - Necessità di ammettere un’ attività diasto- lica stomacale. — VI. Gli effetti del taglio del vago e del simpatico ne confermano l’unità fisiologica. — VII. Come si deve con probabilità consi- derare l’azione dei centri nervosi cerebro-midollari sulla motricità stoma- cale. — VIII. Ipotesi per spiegare il meccanismo dell’ azione nervosa sui movimenti stomacali, dedotta dalle prove sperimentali. — Conclusioni. I. Premetto, a titolo d’introduzione, alcuni dati anatomici sulla innervazione motrice dello stomaco, che sono, in parte, risultato di osservazione personale. Nello stabilirli, mi sono convinto che una delle cause, (oltre la imperfezione dei metodi di ricerca, di cui dirò a suo luogo) che hanno mantenuto e mantengono la incertezza delle nostre cognizioni sulla natura dei fenomeni mo- tori del canal digerente, risiede appunto nella trascuranza in cui sono stati tenuti certi piccoli dettagli anatomici, l’ aver vo- luto considerare di natura anatomica ben differente i due nervi Se. Nat. Vol. IV, fasc. 8.° 1 364 A. MARCACCI che si distribuiscono a quello, e il non avere infine saputo sta- bilire un rapporto necessario di causa a effetto tra la variabilità apparente dei resultati sperimentali e la variabilità reale delle condizioni anatomiche nei differenti animali. Il vago e il simpatico sono i due nervi che dipartendosi, a diversi livelli, dai centri nervosi, si recano allo stomaco e al- l’ esofago della rana. Abbandonando insieme la cavità cranica, - il vago e il simpatico si immedesimano in un ganglio unico, quello del vago: da questo ganglio ne escono per conseguenza e fibre del vago, ragguardevoli fino da questa uscita loro, e fibre del simpatico, rappresentate, in principio, da un cordoncino esi- lissimo: quest’ ultimo però, a partire dal terzo ganglio cervicale sì ingrossa per l’ aggiunta dei rami che sorgono dai nervi spi- nali. Risulta evidente come all’ uscita dal cranio questi due nervi sieno da considerarsi tutt’ altro che ben distinti anatomicamente. Nè risalendo nel cranio questa distinzione appare più evidente, giacchè oramai i più ritengono che nella rana, vago e simpatico sieno uniti alla loro origine. Il tronco del vago e del simpatico si può infatti considerare come unico, e non è che a livello del ganglio di Gasser che alcune fibre se ne staccano per portarsi a questo ultimo, fibre ritenute molto dubbiamente simpatiche. Ma un'altro fascio di fibre simpatiche rimarrebbe sempre e in- timamente accollato al. vago, fino a che, tanto quest’ ultimo fascio quanto l’altro che si era portato al ganglio di Gasser, vengono nuovamente ad unirsi in quello del vago. L'osservazione dunque anatomica macroscopica non ci di- mostra punto che si possa stabilire un’ origine, un percorso e dei caratteri differenti pel vago e pel simpatico. Ma neppure l’ osservazione microscopica ci ha rivelato nulla di concludente a questo proposito. Bidder e Volkmann (') so- stennero pei primi una differenza specifica delle fibre a mielina del simpatico, caratterizzandole per la finezza del calibro loro: opinione già precedentemente accennata da Treviranus(*). “ Tutte queste vedute però, dice lo Schwalbe, non possono sostenere la prova di uno spregiudicato e accurato esame critico (*) ,. (4) Bidder u. Volkmann — Die Selbstindigheit des Sympathischen Nerven în Rana esculenta. Muller 's Archiv. 1838, p. 277. (2) Treviranus — Bewtrdge. Bd I. Heft 2. 1835. (3) Schwalbe — Veber die Kaliberverhdltnisse der Nervenfasern. Leipzig, 1882 p. 2. SULL’ INNERVAZIONE DELLO STOMACO NELLA RANA 365 Per mio conto mi son potuto facilmente persudere come le idee dei tre primi autori sieno inesatte, prendendo in esame nella rana e confrontando la struttura del vago e del simpatico. Le prove di confronto sono state praticate più specialmente sui ramuli gastrici del vago, e sui rami spinali del simpatico: le osservazioni venivano praticate dopo che i nervi erano stati ma- cerati e colorati convenientemente nell’acido' osmico. Senza far qui dei numeri assoluti sulle differenze di calibro delle fibre dei due nervi, posso con sicurezza asserire che il simpatico e il vago contengono ugualmente nei loro tronchi delle fibre grandi e delle piccole, e che per conseguenza nè queste ultime son caratteristiche del simpatico, nè le prime del vago. Non si può quindi su questo carattere stabilire una differenza di natura dei due nervi, o per lo meno si può dire che per la via del sim- patico passano delle fibre che non sono simpatiche, il che poi per noi torna lo stesso. Ma neppure il modo di distribuzione del vago e del simpa- tico nello stomaco servono a farci ammettere una specialità nelle attribuzioni loro. Per stabilire il territorio d’innervazione del vago mi sono servito del metodo seguente: con una forte pressione esercitata da una calonna d’acqua, e prolungata per un certo tempo, dilatavo l’ esofago e lo stomaco di una rana lasciandolo però in sito. Nel frattempo preparavo accuratamente il vago, e lo seguivo fino alla sua entrata nell’ esofago, che si mostrava, in confronto allo stomaco propriamente detto, enor- memente disteso. Staccavo poscia l’ esofago, lasciandovi però ap- peso una lunga porzione del moncone periferico del vago: l’ eso- fago e lo stomaco rimanevano distesi dall’ acqua, perchè prima di staccarli, praticavo una forte legatura all’ esofago e al piloro. Tenuto così il pezzo a macerare nell’ acqua per 12-24 ore, cer- cavo di seguire, sempre sott'acqua, la distribuzione del vago nello stomaco fino alle ultimissime sue diramazioni: mi aiutavo in ciò con una forte lente d’ ingrandimento, e, per la dissezione, mi servivo di aghi finissimi. Quando non potevo più, per la loro piccolezza, seguire i filetti del vago, segnavo con un taglio tra- sversale a tutta sostanza i limiti estremi a cui ero arrivato colla dissezione, e mettevo il tutto a macerare in un miscuglio d’acqua, glicerina e acido nitrico a parti uguali: miscuglio da 366; A. MARCACCI me usato con vantaggio. in altre ricerche ('). Dopo 24-48 ore la separazione delle diverse membrane dello stomaco diveniva facilissima: separata la muscolaris mucosae, si scopriva con tutta chiarezza la muscolare propriamente detta, la quale mostrava i suoi anelli concentrici di un bel colorito perlaceo, che a par- tire dall’ alto presentavano il loro primo e forte ispessimento a livello della strozzatura che divideva la parte dilatatissima dell'esofago dalla più ristretta dello stomaco. Questo robusto ‘ ispessimento rappresenta all'evidenza e nettamente il cardias della rana; la parte al di sopra di esso si può quindi conside- rare come l’esofago propriamente detto, il quale non presenta che lasse e rade fibre circolari, intrecciate da alcune ancor più rade fibre lungitudinali. Con questo mezzo io poteva vedere con esattezza fino a che punto avevo seguito il vago, punto indicatomi dal taglio della muscolare. Ebbene mai le sue fibre passavano al di là del cercine cardiaco, 0 solo di pochi millimetri. Ma voglio ammettere che io, malgrado la più accurata dissezione, non sia riuscito a se- guire il vago in tutta la sua estensione: riuscirà però anche più difficile supporre che il vago si potesse prolungare molto più in là di quegli ultimi suoi confini: ed era logico, anzi necessario l’ammettere che lo stomaco venisse per la massima parte inner- vato dal simpatico. Concludendo dirò che, a mio modo di vedere, l’ innervazione dello stomaco e dell’osofago si deve anche anatomicamente, con- siderare di natura unica. Nel vago e nel simpatico non si pos- sono ammettere differenze nè di origine, nè di struttura: nella distribuzione essi si completano a vicenda, dividendosi inugual- mente due territori contigui, l’esofago e lo stomaco, ma non si confondono. Essi possono in qualche guisa considerarsi come di- visioni dello stesso tronco nervoso. A livello del ganglio del vago avverrebbe una prima divisione di questo tronco, il quale man- derebbe un ramo all’esofago e al cardias, e un altra scendendo in basso riceverebbe a partire dal 3 ganglio cervicale dei rin- forzi midollari, sempre della stessa natura, finchè formato un cordone ragguardevole, anderebbe a gettarsi nello stomaco, for- nendogli la massima parte dell’ innervazione. (4) A. Marcacci — I muscolo areolo-capezzolare, Giornale della R. Accademia di Med di Torino. nov. e dic. fase. 11, 12. RT sede de ii SULL’ INNERVAZIONE DELLO STOMACO NELLA RANA 367 Questa maniera di vedere, la quale non toglie nulla alla ve- ridicità ed esattezza anatomiche, è poi assolutamente conforme _ ai resultati delle ricerche sperimentali, che io esporrò in seguito. II. Il vago, il simpatico e i centri nervosi, come organi della motricità dello stomaco e dell’esofago, hanno tutti una storia particolare, perchè considerati sempre come tre individualità ben distinte dagli sperimentatori: la più completa e la più esatta è quella del vago, e le ragioni di ciò son facili ad intendersi. Langet (') per il primo emise l'opinione che solo a stomaco ripieno il vago ha un influenza sui movimenti dello stomaco; non però a stomaco vuoto, o soltanto ripieno di gas. Edoardo Weber (°) trovò che lo stomaco del Ciprinus tinca contiene dei muscoli striati, e che per conseguenza dietro eccita- mento del vago si contrae prontamente come tutti gli altri mu- scoli dello scheletro, per l’eccitamento dei nervi che vi si portano. Sanders (*) e Braam Houckgeest (*) vollero vedere una dif- ferenza d'azione tra il vago destro e il vago sinistro. Il fatto è vero in sè stesso, ed io ho potuto dimostrarlo sulla rana cogli eccitamenti meccanici: però non è il prodotto che di una pura accidentalità d’ esperimento, come vedremo. Bonsdorf (*) ritiene come molto problematica l’ influenza del vago sullo stomaco. Sigmund Mayer (5) conferma con alcune ricerche sul coniglio l'influenza motrice del vago sullo stomaco quando venga ec- citato : stabilisce anche alcuni caratteri interessanti, che esami- neremo più tardi. Il Russo Giliberti (*) con metodo grafico, conferma i resul- tati del Mayer; crede anzi che il vago sia il nervo che for- nisce il massimo dell’innervazione stomacale. Il Morat (8) ritiene anch’ esso il vago come l’ unico nervo (') Longet — Traîté de Physiologie. I. (3) p. 148. (2) Ed. Weber — R. Wagner's Handwòrterbuch. d. Phys. III, 2. p. 49. (3) Tares. ber. ib. die Fortschr. d. Med. von Constatt u. Wivchow 1871,1. p. 116. (4) P)liigev Archiv fur die gesamm. Physiol. VI, 1872, p. 266-302. (©) Henle u. Pfeuffer — Zeit schrift f. rat. Med. 1859. 3 Reil. Bd. 36, p. 28. (6) Sig. Mayer — Handbuch der Physiologie von Hermann. 2.8" Theil. p. 430. (?) Archivio per le scienze mediche. Vol. VII, n.0 19, 1873. p. 291. (8) Lyon medical. n.° 27, 1882. 368 A. MARCACCI motore dello stomaco, anzi lo riguarda come antagonista del simpatico (nervo d’ arresto secondo lui). Il taglio dei vaghi, mentre dovrebbe fornirci la controprova dei risultati ottenuti coll’ eccitamento, ci offre invece la massima incertezza. La paralisi dello stomaco non sussegue al loro ta- glio, perchè come ognuno sa, lo stomaco ha movimenti propri indipendenti dal sistema nervoso periferico. Il taglio dei vaghi infine produce tali e tanti disturbi generali negli animali ope- rati da rendere incerta ogni e qualunque conclusione. Se però si devono creder vere le due opinioni che il taglio dei vaghi dia ora paralisi ora no, bisogna anche ammettere che lo stomaco non è innervato dal vago in modo diretto e nella stessa guisa che gli altri muscoli dai loro nervi ('). Nelle rane il taglio dei vaghi, non portando disturbi gene- rali apprezzabili, ha anche un significato più importante quanto agli effetti. Goltz (*) per il primo trovò che il taglio di ambedue i vaghi o la distruzione del midollo portano qualche volta uno spasmo continuo dell’ esofago, e incessanti movimenti dello sto- maco. Esso dice che se si versa nella gola di una rana cura- rizzata del liquido, l’ esofago e lo stomaco rimangono (dopo che i primi movimenti peristaltici, avendo fatto discendere le prime porzioni di liquido, sì son dileguati) perfettamente tranquilli, in uno stato di enorme distensione, giacchè la contrazione del pi- loro impedisce la discesa del liquido nel duodeno. E ciò finchè i vaghi e il midollo allungato rimangono intatti. Il taglio dei vaghi o la distruzione del midollo origina lo sviluppo di molte ande peristaltiche, mercè le quali lo stomaco si raggrinza, e la cima dell’ esofago si chiude; questi movimenti durano finchè dura l’irritabilità degli organi. Durante il riposo sì può iniziare l’azione peristaltica temporanea stimolando il vago direttamente o, in modo reflesso per via del midollo, colla stimolazione della pelle o dell’ intestino. Goltz interpreta questi fatti supponendo che i detti movimenti sieno sotto la dipendenza di centri mo- tori locali situati nell’ esofago e nello stomaco, i quali sareb- bero d’ ordinario inibitì dall’ azione di un centro collocato nel midollo. Quando questa inibizione venga rimossa colla distru- (1) Dumas Ch. L. — Principes de Phystiologie. Paris 2.2 ed. 1806, T. I, p. 267. (?) Goltz — Ueber die Bewegungen der Speiseròhre und des Magens der Fròsche. Pfluger' s Archiv VI, 1872, p. 588, belin Mi ttt» Fine SULL’INNERVAZIONE DELLO STOMACO DELLA RANA 369 zione del midollo o la sezione dei vaghi, l'energia dei centri locali rimane libera d' agire. Quest’ opinione di Goltz è suscettiva come vedremo, di una seria critica: per ora ci basti l’ aver fatto bene intendere che egli riguarda il vago come nervo d’ arresto dei centri nervosi stomacali e esofagei, e come egli abbia tralasciato di praticare il taglio dei vaghi o l'eccitazione loro quando lo stomaco era in riposo o in movimento: la quale esperienza gli avrebbe di- mostrato subito la falsità delle sue vedute. E prima di finire la storia fisiologica del vago, per quanto riguarda lo stomaco, mi preme mettere anche in sodo, come secondo esatte ricerche di Bernard, di Chauveau e di Goltz il taglio dei vaghi porta la paralisi solamente della parte superiore dell’esofago, mentre l' in- feriore continua ad essere in preda a prolungate contrazioni tetaniche. Questa limitata paralisi quindi dell’ esofago accenne- rebbe anche a una limitata distribuzione del vago: e allora questo effetto del taglio sarebbe in contradizione coi resultati dell’ eccitamento dei vaghi, che accennerebbe a un territorio d' in- nervazione del vago, molto più esteso, ottenendosi con l’ ultimo mezzo contrazioni non solo della parte superiore dell' esofago , ma ben anco di tutto lo stomaco. A conciliare questa apparente contradizione io credo debba invocarsi la ragione seguente, /’im- possibilità di limitare l’ eccitamento come si limita la paralisi, alla sola parte innervata dal vago: di qui l'impossibilità di confron- tare i resultati dell’ eccitamento con quelli del taglio; di. qui la ragione di avere attribuito al vago un territorio d’innervazione molto maggiore del vero. Ma su quest’ argomento torneremo a suo luogo, appoggiandolo con fatti. Le ricerche sulla seconda e ricca sorgente d’ innervazione dello stomaco, sul simpatico cioè, sono più scarse e più incerte che per il vago: il simpatico è stato posto a questo riguardo in seconda linea, e ne è stata dai più disconosciuta 1’ importanza sua rispetto all’ innervazione stomacale. I. Muller (') e Oehl (?) negarono a questo nervo qualunque influenza sui movimenti dello stomaco. Longet (#) è della stessa (1) I. Mùller — Handbduch der Physiologie des Menschen. 3 Aufl, 1837-1840. p. 499. (%) Schmidt s Iahresbericht. 113 Bd. p. 279. (3) Longet — Anatomie et Physiologie du systeme nerveux. Paris 1842, p. 325, 30 A. MARCACCI opinione; solamente egli attribuisce al simpatico i piccoli mo- vimenti vermicolari, che si osservano anche dopo il taglio dei vaghi. Braam Houckgeest (‘) riguarda gli splacnici come nervi d'arresto dello stomaco. Fowelin (*) emette l'ipotesi che i vaghi contengano delle speciali fibre di movimento le quali possono chiamare in atti- vità i centri motori dello stomaco, i gangli del simpatico; egli ammette quindi implicitamente che l’ eccitamento possa. andare al di là del territorio d’innervazione del vago. Budge (#) Donders (‘) e Brinton (*) osservavano dopo l’ ecci- tamento del plesso celiaco, del primo ganglio toracico e di am- bedue i simpatici, la comparsa di movimenti nello stomaco. Anche Schiff, Adrian (5) e Goltz ottennero per l’ eccitamento del plesso celiaco e del plesso solare evidenti contrazioni dello stomaco. Il Russo Giliberti (loc. cit.) attribuisce al simpatico un in- flnenza motrice, ma secondaria rispetto a quella del vago. Quest’ autore poi considera a parte le fibre provenienti dal mi- dollo spinale, e dice che la loro influenza sullo stomaco è ancora minore di quella del simpatico stesso. Queste suddivisioni, come ognun vede, sono eminentemente artificiali, giacchè le fibre spi- nali, non possono in certo modo considerarsi che come facenti parte del gran simpatico. Il Morat, (loc. cit.) e il Convers (") che non fa che riflettere le idee del primo, considerano il simpatico come un nervo mo- deratore o d’ arresto dei movimenti stomacali. “ L' irritazione meccanica e galvanica del gran simpatico, dice il Convers (8), non solo non è seguita da contrazione, ma di più essa fa sparire (1) Pfliiger Archiv fur die ges, Phys VI, 1872. — Schmidt' s Jahr bucher der gesam. Medicin. Bd. 157, p. ll. (2) Fowelin. — De causa mortis post nervos ragos dissectos. — sc Dor- pat 1861. (3) I. Budge — Die Lehre vom Erbrechen. 141, p. 96. (4) Donders — Phys. des Menschen. p. 293. (5) Brinton — Die Krankhetten. p. 20. (6) Eckhard' s Beitrige zur Anatomie u. Physiol. III, p. 59. (A) I. Convers — Contribution à | étude des mouvements de ©’ estamac. - Th. de Doctorat. Aout. 1882. Lyon. (8) id. ib. p. 38. SULL’ INNERVAZIONE DELLO STOMACO DELLA RANA 371 completamente. i movimenti, essa abbassa il tono e sopprime il ritmo gastrico ,. Quest’ autore, come dimostreremo, si è spinto tropp’ oltre con le sue conclusioni, sviato forse dal parallelo se- ducente che egli fa tra l’ innervazione del cuore e dello stomaco, volendo cioè dimostrare che i nervi che sono moderatori dello stomaco (il simpatico) sono acceleratori del cuore, e quelli mode- ratori del cuore, (il vago) acceleratori dello stomaco. Il numero degli autori sì fa sempre più piccolo e le opinioni più incerte e più confuse, se sì passa a esaminare l’ ultimo punto della questione che ci occupa, l’ influenza che esercitano cioè i centri nervosi sui movimenti stomacali. L'indipendenza dei mo- vimenti peristaltici dello stomaco, e in generale di tutti i vi- sceri provvisti di muscoli lisci, fa dimostrata con l’ esperienza fondamentale che, separati dai loro nervi periferici, i movimenti sì conservavano. Che il sistema nervoso centrale però abbia una influenza sui movimenti dello stomaco non può esser messo in dubbio: non si è riusciti però finora a dimostrare di qual natura sia questa influenza, nè che cosa debba intendersi per questi centri motori stomacali situati o nel cervello o nella midolla spinale. Quest’ ul- tima questione è rimasta finora, non che irresoluta, neppur posta sul tappeto. Budge (') a questo riguardo fin dal 1845 si vedeva costretto a ritirare le sue prime conclusioni sopra il significato dell’ ecci- tamento della midolla, del talamo ottico, del corpo striato e del cervelletto, in parte confutato da Stilling (#), il quale nel 1850 dichiarava che per l’ eccitamento elettrico dei corpi striati, del talamo ottico e della parte interna degli emisferi cerebrali sì possono ottenere fenomeni di movimento nell’ esofago e nello stomaco. x Hirsch è il solo, mi pare, a credere che il centro. per i movimenti peristaltici risieda nella parte inferiore del midollo spinale. Abbiamo già accennato all’ opinione di Goltz, rispetto al- l'influenza dei centri nervosi sui movimenti stomacali della rana; opinione su cui torneremo in seguito. (1) I. Budge — Die Lehre vom Erbrechen. p. 15. «Id. — Untersuchungen tiber das Nervensystem. Heft. I, p. 149. (*) Haeser' s Archiv fur die gesam. Medicn. Jena IV, 1843. 372 A. MARCACCI Concludendo da questo lungo riassunto storico possiamo dire che: 1.° Il vago è considerato dai più core nervo motore dello stomaco, e da alcuni come nervo d’ arresto. 2.° Il simpatico da pochi come nervo motore, dai più come nervo d' arresto. 3.° Nulla si sa sulla natura e sulla sede dei centri motori cerebro-medullo-stomacali. III. In tempi relativamente recenti furono sostituiti, alla semplice osservazione oculare, alcuni metodi di ricerca più precisi per lo studio dei movimenti stomacali. In passato infatti gli sperimentatori si limitavano a mettere allo scoperto lo stomaco o l’esofago, o gli intestini tutti, a irritare o tagliare i nervi che vi si distribuiscono, e ad osservare l’ effetto di questa irri- tazione o di questo taglio: l’ estrazione del viscere, il suo pro- lungato contatto coll’ aria, il suo disseccamento necessario, ci mostrano a quali inconvenienti e a quali errori dovevano con- durre questi grossolani metodi d’ osservazione. Gli antichi si sono serviti anche delle fistole gastriche, osservando attraverso al- l'apertura praticata nelle pareti dello stomaco gli effetti del- l’eccitamento: anche questo mezzo era insufficiente perchè at- traverso a una fistola non si possono scorgere che limitatissime porzioni dello stomaco, senza poter così darci un idea completa del modo di funzionare dell’ organo: l’ esistenza poi della fistola sto- macale non poteva che esser causa di disturbo al regolare fun- zionamento dell’ organo. Non è che nel 1872 che Van-Braam Houckgeest e Sanders, colpiti dall’ insufficienza di questi metodi, cercarono di miglio- rarli. Essi collocavano gli animali in una soluzione di sal ma- rino al 10, e alla temperatura di 38.° centig.: mettevano, ciò fatto, lo stomaco al nudo. In questo modo essi evitavano il con- tatto dell’ aria, il raffreddamento, il disseccamento, e l’ iperemia dei vasi: potevano inoltre continuare lungamente le loro osser- vazioni, poichè la soluzione di sal marino agiva come mezzo quasi indifferente. Ranvier si servì anch'egli più tardi del metodo di Van-Braam; ma invece che al coniglio, come aveva fatto questo ultimo, lo SULL’ INNERVAZIONE DELLO STOMACO DELLA RANA 3783 applicò alla rana. Trovandolo però insufficiete, mise lo stomaco dell’ animale in rapporto con un piccolo manometro. Egli potè constatare così che lo stomaco si contrae spontaneamente; che le sue contrazioni sono dapprima poco intense e irregolari, ma che poi si regolarizzano, aumentando d’ energia: le quali cose del resto erano già conosciute per la semplice osservazione oculare. Il Morat e il suo allievo Convers (luog. cit.) trovando forse che l’ estrazione dello stomaco, malgrado le precauzioni prese da Van-Braam, presentava ancora degli inconvenienti, ricorsero a un metodo che, pur lasciando lo stomaco in situ, poteva per- metter loro di osservare le contrazioni stomacali. Tolgo. dalla memoria del Morat la descrizione del suo metodo ('). “ Una si- ringa di gomma, munita alla sua estremità di una palla a pareti elastiche e sottili, è introdotta nello stomaco: la manovra è quella del cateterismo esofageo: l’ estremità esterna della sonda “per mezzo di un tubo di gomma si continua con un altra palla elastica e esterna per coaseguenza: un tubo laterale in comu- nicazione col tubo di gomma serve a introdurre, sotto debole pressione, una certa quantità d’aria che si spande in tutto l'apparecchio, distende, arrotondandola, la palla esterna, e, ap- plicandola contro le pareti stomacali, la palla interna .... al- lorchè quest’ aria ha raggiunto una tensione sufficiente, viene imprigionata chiudendo ermeticamente il tubo laterale durante tutta la durata della esperienza..... La palla esterna è impri- gionata in un vaso a pareti rigide, nel quale può liberamente svilupparsi: la cavità di questo vaso è in rapporto con la ca- vità di un tamburo a leva ,. Il modo di funzionare dell’apparecchio si capisce dalla sola descrizione. Mi permetterò invece di fare due osservazioni a questo metodo: 1.° che la presenza di una palla rigida nello stomaco può alterare il regolare funzionamento dell’organo: e il Morat stesso ne dubita; ma conclude che non può nuocere, visto che lo stomaco continua a contrarsi e l'apparecchio a funzionare per delle ore; ragione poco convinciente, come tutti posson pen- sare. 2.° La palla introdotta nello stomaco non può trasmetterci che parte limitatissima delle contrazioni stomacali, giacchè male (‘) Morat — Loc. cit. p. 290, 374 A. MARCACCI - si adatta a tutte le piegature della muccosa, e perchè non oc- cupa che una parte molto limitata della cavità stomacale: quest’ ultimo fatto risulta all’ evidenza dello schema dell’ appa- recchio, che ne danno e il Morat e il Convers. Il Russo Giliberti ha voluto rimediare a questi inconvenienti, ma è caduto in molti altri più gravi. Per registrare i movimenti egli si è servito del pletismografo del Mosso: operava sui co- nigli: “ isolati i vaghi e i simpatici, egli dice ('), alla regione mediana del collo e legato ivi / esofago, venivano cloroformiz- zati. Aperta allora largamente la cavità addominale, tagliato il duodeno a due centimetri dall’ orifizio pilorico, s° introduceva nello stomaco una cannula che vi si legava a doppio nodo, si passava alla lavatura dello stomaco con acqua tepida; e sba- razzatolo d’ogni traccia di cibo, di acqua tepida si riempiva, e si metteva in rapporto col pletismogrofo, tenendo i visceri sempre coperti con una pezzola inzuppata in acqua alla tem- peratura di 38° C, che veniva rimutata ogni dieci minuti. — Per l’ eccitazione dei nervi ho fatto uso dell’ apparecchio a slitta di Du-Bois-Reymond;..... e trovandosi il rocchetto allo zero della graduazione ,. Gl'inconvenienti di questo metodo sono innumerevoli: pri- missimo quello di dovere estrarre lo stomaco, maltrattarlo con la lavatura interna, ma più che tutto col ripetersi delle ‘appli- cazioni delle pezzuole a 38° ogni 10 minuti: è evidente che alla fine dei dieci minuti lo stomaco era raffreddato, e che l’ appli- cazione di una nuova pezzuola a 38.° doveva far l’effetto d’ una applicazione calda, e provocare sullo stomaco delle condizioni eminentemente disadatte a una buona osservazione. In questo modo il Giliberti non tien conto delle buone qualità del metodo di Van-Braam, e non raggiunge i vantaggi dei metodo di Morat. Ma vi è di più; la legatura praticata in alto sull'’esofago non poteva che intercettare molti tronchi nervosi del vago che si portano allo stomaco, accollandosi all’ esofago, limitandone così sommamente l’azione, e annullando l’importanza dei resultati. E tralasciando di molti altri appunti che potrebbero farsi al metodo del Giliberti, dirò che anche Ja forza degli eccitanti da lui adoperati, mi sembra straordinariamente esagerata; dicendoci (4) Loc. cit. p. 293. SULL’ INNERVAZIONE DELLO STOMACO DELLA RANA 375 che egli teneva il rocchetto secondario della slitta di Du-Bais- Reymond allo zero della gradazione ci fa anche intendere la estrema potenza delle correntì impiegate. Inutile trattenersi a dimostrare gli inconvenienti che si dovevano verificare con tal mezzo d’ eccitamento, specialmente riguardo alle alterazioni che dovevano subire nervi d’ indole delicatissima. A proposito della intensità delle correnti mi preme far ri- marcare qui un fatto di somma importanza: nessuno degli autori citati ha mai pensato a dirci qual'era la forza delle correnti impiegate: è questo un errore gravissimo, a mio modo di ve- dere, giacchè, come proverò in seguito, una corrente debole può avere effetti opposti di quelli fornitici da una corrente forte. Per conto mio mi son servito di un metodo molto più sem- plice: somiglia un po’ a quello usato da Ranvier, ma non ci costringe a ricorrere alla estrazione dello stomaco, e ci per- mette di eccitare i nervi che vi sì distribuiscono senza alterare minimamente le condizioni locali dell’ organo. Mi costruivo un piccolo manometro di vetro dell’ altezza di 15-18 ec.; la branca più corta del manometro era provvista di una strozzatura. Nell’ esofago della rana indroduceva una cannula a T, che legavo con forte legatura alla parte superiore dell’ esofago, molto distante dal punto in cuii vaghi si gettano in quest’ organo: il filo veniva passato facilmente con un ago ricurvo e smusso tra il tessuto lasso retro-famigeo. Fatto questo, mettevo la cannula a T con la branca opposta a quella che era introdotta nell’ esofago, e per mezzo di un tubetto di gomma, in rapporto con la branca corta del manometro, sorretto da un supporto; l’ altra branca della cannala a T era in rapporto, per mezzo di un lungo tubo di gomma, con una boccia di Mariotte ripiena d’acqua, il cui livello superiore corrispondeva a circa la metà della branca lunga del manometro: un pressa arterie era tenuto sul tubo che metteva in comunicazione la boccia di Mariotte col manometro. Per riempire lo stomaco e il manometro d’acqua bastava levare il pressa arterie: riempito lentamente l'apparecchio, e fatta uscire tutta l’ aria che potesse contenere, bastava collocare un galleggiante al manometro ad acqua, per poter registrare le contrazioni stomacali. ll galleggiante era co- stituito da un cilindretto di sughero, il quale entrava senza sfre- gamento nel manometro, ma che non doveva avere un diametro 376 DG MARCAGOI molto inferiore a quello del lume esterno del manometro stesso: in questo caso si sarebbe facilmente affondato nell’ acqua. Questo galleggiante sopportava un asticella filiforme di vetro tirato alla fiamma, e coll’ estremità superiore piegata ad angolo retto. Questo galleggiante era tenuto nel centro del manometro, da un cappuccio rovesciato sul manometro stesso, e con un apertura centrale che lasciava passare l’asticella di vetro; apertura che corrispondeva precisamente al centro del lume del manometro. Il livello del manometro veniva sempre mantenuto costante per ciascuna esperienza: quando esso veniva a scemare era facile farlo ritornare alla posizione primitiva col far rientrare nuova acqua. La pressione esercitata dalla colonna del manometro sulle pareti dell’ esofago e dello stomaco era sempre minima, e tale che poteva esser vinta dalle più leggere contrazioni del viscere. Per assicurarsi di questa estrema delicatezza dell’ ap- parecchio bastava esercitare anche il più lieve sfregamento sulle pareti addominali della rana (passarvi ad es. una penna di pollo) per vedere oscillare la colonna manometrica. fl momento dell’ eccitazione veniva dato dafun segnale Des- prez: le contrazioni o naturali o provocate venivano scritte su cilindro affumicato che girava lentissimamente. Un ascissa se- gnata da una prima fissa, ci indicava i dislivelli di pressione, e ì momenti in cui potevamo dare un eccitamento nelle stesse condizioni del precedente, cioè alla stessa pressione, o in con- dizioni differenti. Gli eccitamenti erano dati per mezzo di correnti indotte di varia intensità. In tutte le mie ricerche ho tenuto conto della forza degli eccitamenti forniti: avevo stabilito convenzionalmente di chiamare deboli le correnti che ottenevo tenendo il rocchetto secondario della slitta Du Bois-Reymond a 15 c. dal ‘primario: medie quelle a 10 c., forti quelle a 5: la sorgente di queste correnti, due pile Grenet, era mantenuta sempre la stessa. Per trasmettere l’ eccitamento ai nervi mi servivo di un eccitatore a fili di platino, piegati a uncino, e a punte rivolte in alto, piccolissimo, circondato da ceralacca in tutte le sue parti, ad eccezione di quelle che dovevano sopportare il nervo: evitavo così gli stiracchiamenti dei nervi, potendolo tenere anche in mezzo ai tessuti senza che questi risentissero degli effetti del- l’ eccitamento. SULL’ INNERVAZIONE DELLO STOMACO DELLA RANA 377 La preparazione del vago veniva fatta secondo i metodi or- dinari indicati in tutti i manuali di dissezione. Quella del sim- patico era varia a seconda dei livelli in cui volevo eccitarlo, o al collo, o nell’addome, oppure se volevo eccitare i rami spinali. In ogni caso riusciva facile dominarlo facendosi strada dalla parte del dorso, ai lati della colonna vertebrale. Le rane erano costantemente curarizzate, e fissate su ta- volette di sughero; per impedire il loro disseccamento le tenevo costantemente coperte con un pannolino bagnato: in questa guisa ho potuto continuare un esperienza per due o tre giorni. Disposto così tutto l’ apparecchio, davo la pressione allo stomaco, il quale si lasciava distendere: ottenuto il livello vo- luto, l'apparecchio veniva lasciato a se, e non sì tardava a ve- dere comparire le contrazioni spontanee, le quali talvolta pro- cedono con tale regolarità da simulare quelle del cuore di una rana o di una tartaruga. Mi veniva così porta l’ occasione di studiare l’ effetto degli eccitamenti del vago o del simpatico a stomaco in riposo o in attività, vedere quali erano gli effetti loro nei vari momenti della sistole o della diastole stomacale; entrare insomma in un campo di ricerche molto più esatte di quel che non era stato fatto finora. IV. Dal riassunto storico che ho fatto circa i resultati ot- tenuti coll’ eccitazione del vago e del simpatico per quanto ri- guarda lo stomaco, si può rilevare che il vago è ritenuto dai più come nervo motore per eccellenza dello stomaco; da pochis- simi nervo d'arresto; che il simpatico dai più è ritenuto nervo d'arresto; per alcuni anzi sarebbe antagonista del vago: tra questi il Morat. “I nervi motori del cuore, dice quest’ autore, vengono dal simpatico, quelli dello stomaco dal vago; e inver- samente, quest’ ultimo contiene i moderatori del cuore, e il sim- patico i moderatori dello stomaco. Spero poter dimostrare come tutte queste maniere di vedere sieno inesatte, almeno per la rana, e come invece ambedue i nervi possono funzionare ora da nervi d'arresto ora da nervi acceleratori; e che inoltre fra il simpatico e il vago non vi è diversità di sorta rispetto alla natura del loro modo d’ azione sullo stomaco e sull’ esofago. La ragione delle gravi discrepanze che esistono a questo 378 A. MARCACCI riguardo tra i vari autori stanno principalmente in questo: pra- ticando essi degli eccitamenti sui nervi vago e simpatico, non si sono occupati di vedere se lo stomaco, al momento in cui riceveva l’eccitamento era nel periodo attivo di contrazione 0 in quello di riposo: è ora evidente che quelli che hanno eccitato il vago o il simpatico durante il periodo attivo e con correnti forti possono aver trovato che i movimenti venivano, come av- viene in realtà, arrestati, e quindi aver considerato i due nervi come organi di arresto. D' altra parte se l’ eccitamento veniva dato nel momento del riposo, vedendo ricomparire i movimenti, dovevano considerarli come nervi motori. Un’ altra causa che ci spiega, come ho detto, la variabilità dei resultati, sta nel non aver tenuto conto della forza degli eccitanti: io potrò facilmeate dimostrare come con un eccitazione debole si ottenga un effetto contrario di un eccitazione forte, se vengono date nel periodo attivo di contrazione, mentre am- bedue possono risvegliare la normale funzionalità dell’ organo se date nel periodo di riposo. Ho detto, deducendolo dall’ esame anatomico, che il vago pre- siede alla innervazione dell’ esofago e in parte a quella dello sto- maco. Im questo sono in disaccordo con tutti gli autori: i quali invece {asseriscono che lo stomaco è la via maestra (die hRauptbahn dei tedeschi) dell’innervazione stomacale. E invero, se non mi fossi basato su nozioni anatomiche, la sola esperimentazione fisiologica; avrebbe condotto me pure a crederlo; giacchè se si osservano ad occhio nudo gli effetti dell’ eccitamento del vago sullo sto- maco, si vede che tutto l’ organo partecipa della contrazione, e non solo l’ esofago e la porzione cardiaca dello stomaco. Ma di questa apparente contradizione si trova con facilità la ragione: l’effetto dell’eccitamento del nervo non può limitarsi alla sola regione da quello innervata, ma si trasmette alle regioni contigue per la catena gangliare di cui è provvisto lo stomaco: e ciò è provato dal fatto che anche, a organo diviso dal corpo, un ec- citamento meccanico praticato, ad es., al cardias si trasmette rapidamente al piloro o in’ altra direzione. È dunque questa la causa che indusse tutti gli sperimentatori, ad eccezione forse di Fowelin, a credere che lo stomaco ricevesse la massima parte della sua innervazione motrice dal vago. Premesse queste poche considerazioni vediamo quali sono i resultati delle: SULL'INNERVAZIONE DELLO STOMACO NELLA RANA 379 A — Ricerche praticate sullo stomaco in movimento con eccitamenti di varia intensità del vago e del simpatico. Pel vago le eccitazioni deboli sembrano accelerare il ritmo stomacale (Tr. I. A 15); quelle di media intensità tendono a ral- lentarlo (id. B 10): le forti lo rallentano enormemente (id. O 5) o lo arrestano il più delle volte, dopo provocata una contra- zione tetanica. Tracciato N. I. Pel simpatico non ho potuto con abbastanza sicurezza stu- diare gli effetti delle correnti deboli sull’ organo in movimento, le quali spesso rimangono infruttuose, ma ho potuto bensì ac- certarmi degli effetti delle correnti medie e forti, le quali come per il vago, hanno azione arrestatrice sui movimenti dello sto- maco (V. Tr. II. S. 5. Lo stomaco aveva prima dell’ eccitamento un ritmo regolare: per semplicizzare il tracciato ho riportato una sola delle sue curve, in tutto simile alle precedenti. Tracciato N, II. 380 A. MARCACCI Per cui, eliminando gli effetti dubbi delle correnti deboli e medie, rimane fisso che quello delle forti è identico tanto per il vago che per il simpatico: a stomaco in movimento, l’ eccita- zione di questi due nervi ha effetto inibitorio 0 d’ arresto. B — Ricerche praticate sullo sfomaco @ riposo con eccitamenti di varia intensità del vago e del simpatico. Le eccitazioni deboli sono spesso prive d° effetto, specialmente per il simpatico, ma se ne hanno uno positivo il carattere loro è comune a quelle di media intensità e forti, provocano cioè le contrazioni stomacali, le quali si possono mantenere anche a lungo dopo l’eccitamento. Questo carattere è comune tanto al vago che al simpatico. © Per dimostrare come sia falsa l’ opinione che il simpatico debba considerarsi solo come nervo d'arresto, riporterò due tracciati ottenuti a stomaco in riposo per l’ eccitazione di quel nervo. Il tracciato N.° III in S 5" è il più eloquente. Si trattava Tracciato sN. III. di uno stomaco di rana che io aveva lasciato in riposo per pa- recchie ore: per caso eccitai dopo questo tempo il simpatico con corrente forte (a 5): esso dopo aver fornito una forte contra- zione riprendeva, come si vede, regolarissimamente le sue con- trazioni, le quali erano poi arrestate da una corrente di uguale intensità, data mentre lo stomaco era in movimento, come dimostra il tracciato N.° II che non è che la continuazione del N.° III: ho voluto prendere lo stesso stomaco, lo stesso nervo e la stessa forza d’ eccitante per rendere più chiara la dimo- strazione. SULL'INNERVAZIONE DELLO STOMACO DELLA RANA 381 La cosa stessa è provata dal tracciato N.° IV, dove con corrente di media intensità (a 10) ap- plicata al simpatico son riuscito ad otte- nere la ripresa del- le contrazioni sto- macali. Inutile insistere a dimostrare che il vago può far ripren- dereimovimentisto- macali quando que- sti cessino: su questo punto son d'accordo come ho detto quasi tutti gli autori: per cui mì limito a ri- Tracciato N. IV. portare il solo tracciato N.° V, (in V 10) dove ciò è dimostrato all’ evidenza, con una eccitazione di media intensità. Da queste prove instituite sullo stomaco in riposo e sullo stomaco in movimento sono au- torizzato a concludere: che / vago e il simpatico possono am- bedue funzionare da nervi d’ ar- resto se lo stomaco è in movimen- to, e da nervi motori 0 accele- ratori se l organo è in riposo: sono quindi di natura identica rispetto al loro modo di fun- zionare. Tracciato N. V. La teoria di Morat e del Convers dunque, che considera il vago come nervo motore e il simpatico come nervo d’ arresto dello stomaco è non solo insufficiente ma erronea, almeno per quanto riguarda la rana. I suddetti autori sono stati evidente- mente tratti in errore dal fatto seguente: volendo dimostrare che il simpatico era nervo d’ arresto lo hanno eccitato a sto- maco in movimento; mentre volendo provare che il vago era 382 A. MARCACCI nervo motore lo hanno eccitato a stomaco in riposo o quasi: questi fatti son dimostrati all’ evidenza dai due tracciati che riporta il Convers nella memorie più volte citata, a pag. 37 e 89: era evidente che la risposta, secondo quanto abbiamo di- mostrato, non poteva esser che consentanea alle idee degli autori; mentre non lo sarebbe stata se avessero anche eccitato il simpatico a stomaco in riposo, e il vago a stomaco in mo- vimento. Nè la teoria di Goltz regge pur essa alla critica sperimentale: egli considera infatti i centri motori stomacali come d' ordinario inibiti da un centro che si trova nel midollo, e che trasmette- rebbe ai primi la sua inibizione per mezzo dei vaghi; tagliati i vaghi o distrutto il centro inibitore, i centrì motori stomacali si troverebbero liberi di agire. Per spiegare la comparsa delle contrazioni stomacali dopo il taglio dei vaghi o la distruzione del midollo, non vi è bisogno di ricorrere alla ingegnosa, ma pur sempre arbitraria, supposizione di un centro inibitore nel midollo; se si considera il taglio dei vaghi o la distruzione del midollo come un eccitamento meccanico fche venga trasmesso ai centri motori stomacali in riposo ne avremo a sufficienza per spiegarci la comparsa delle contrazioni: che così debba conside- derarsi poi la cosa lo dimostreremo in seguito. Ma vi è di più: se il taglio dei vaghi interrompe il trasporto della loro azione inibitoria, tanto che i centri motori dello sto- maco si trovino liberi d’ agire, perchè eccitando il moncone pe- riferico del vago, rifornendogli cioè la sua forza inibitrice, noi possiamo ottenere la ripresa delle contrazioni stomacali? È evi- dente che la teoria di Goltz regge ancor meno che quella di Morat a una critica spassionata. Alla fine di questo lavoro, cioè dopo l’esame di tuttii fatti che ho potuto accumulare, formulerò la teoria che mi pare conveniente di dover sostituire alle precedenti. V. Ma l’eccitamento elettrico del vago e del simpatico si mostra anche ben più interessante, nei suoi effetti, se esso col- pisce lo stomaco in diversi periodi del suo rilasciamento o della sua contrazione. Nelle mie ricerche mi sono servito per calcolare, se lo sto- maco era in contrazione o rilasciato, del livello a cui si trovava SULL’ INNERVAZIONE DELLO ST@QMACO DELLA RANA 383 la pressione al di sopra o al di sotto di un ascissa che veniva tracciata sul cilindro, allo stesso tempo della curva stomacale, da una penna fissa: era evidente che se la curva si trovava al di sopra di detta linea lo stomaco poteva considerarsi come più contratto di quando la curva scendeva al disotto: era però altresì evidente che due punti diversi della contrazione potevano con- siderarsi relativamente l’ uno maggiore dell’ altro, rispetto alla forza loro, anche se essi sì trovavano ambedue o al di sopra o al di sotto dell’ ascissa; il più alto dei due punti rappresentava sempre uno stato di maggior contrazione dell’ organo. i Per non stare a riportare tutti i tracciati che occuperebbero troppo posto, ho ridotto a un metodo lineare semplicissimo i resultati di un certo numero d’ esperienze, mantenendo esatta- mente le misure ottenute nelle ricerche. Nella tavola I sono riportate sei esperienze per il vago, e sei per il simpatico. Le linee al di sopra dell’ ascissa, non pun- teggiate, rappresentano il massimo dell’ altezza a cui è stata fatta salire la curva, dall’ eccitamento elettrico o del vago o del simpatico: la forza di esso eccitamento è segnata in gradi della slitta du Bois-Reymond sotto ciascuna linea. Le linee pun- teggiate al di sotto, indicano col loro estremo più basso, il grado maggiore o minore di contrazione dello stomaco, in cui veniva som- ministrato l’eccitamento: in ciascuna esperienza una linea parte direttamente dall’ ascissa; ciò indica naturalmente che il punto d’eccitamento si trova sull’ascissa, cioè a un livello superiore a tutti gli altri, e che quindi esso venne somministrato nel massimo di contrazione, (relativamente a ciascuna prova ) del- l'organo. Dall'esame di queste tavole, ossia dei resultati sperimentali, sì rileva la legge seguente. “ L'altezza della curva di contrazione, ossia la forza della sistole stomacale non stà in rapporto colla forza dell’eccitamento, ma bensì del punto in cui lo stomaco viene da quello sorpreso: , così nelle esperienze Ie II del vago un eccitamento forte (a 5.°) ha avuto nella prima un effetto molto minore che nella seconda, e viceversa per un eccitamento fortissimo (a 2). Meglio ciò si rileva dall'esame dell’ esperienza V del vago, dove si vede che, eccitamenti di media forza e sempre della stessa intensità, hanno effetti differenti, se dati in momenti differenti. Quel che dico per il vago vale anche per il simpatico. 884 . A. MARCACCI . Da queste esperienze quindi si può concludere che: gli eccitamenti del vago e del simpatico hanno effetti maggiori o minori a seconda che colpiscono lo stomaco in uno stato di maggiore o minore rila- scramento. Questa legge da me enunciata ci da ragione di molti fatti, e ci spiega molte apparenti contradizioni che si riscontrano leg- gendo la storia fisiologica del vago; e tra le altre ci fa capire perchè alcuni autori videro e altri no, svilupparsi le contrazioni stomacali dietro l’eccitamento del vago: ciò dice, ad es:, perchè Langet vedeva evidenti queste contrazioni eccitando il vago a sto- maco ripieno e non a stomaco vuoto: è evidente che, a organo di- giuno o contratto, la funzionalità sua non poteva essere risve- gliata o soltanto in grado minimo e tale da non potere essere apprezzata a occhio nudo, mentre ciò poteva farsi benissimo « stomaco rilasciato, e dilatato dagli alimenti. Ma ben altre considerazioni interessanti si possono fare su questi risultati. Se di due eccitamenti uguali, quello che coglie lo stomaco in un momento di maggior contrazione ha effetti minori, ciò significa che parte della sua potenza è andata per- duta, ossia si è trasformata in un altro lavoro, è stata impiegata cioè a distruggere una potenza contraria prima di manifestare i suol consueti effetti: e questa potenza contraria non può essere che una forza attiva di dilatazione, una diastole attiva. Se ciò non fosse non ci sarebbe ragione perchè l’eccitamento che coglie lo stomaco in stato di maggior contrazione, non dovesse far raggiungere a quest’ ultima quel grado di intensità che si era ottenuto eccitando lo stomaco in un momento di rilasciamento maggiore. La distruzione di questa forza contraria per opera di un ecci- tamento forte avviene con leggi determinate, a seconda che l’ecci- tamento stesso coglie lo stomaco nei diversi momenti del periodo diastolico, o nel periodo di riposo o di equilibrio che divide due sistoli, o al principio di una sistole spontanea. Nel primo caso l'eccitamento forte, prima di poter manifestare i suoi ‘effetti contrari, sembra favorire la diastole: nel ,secondo caso, o nel periodo d’equilibrio, si trasforma tutto in lavoro sistolico; nel terzo caso, o al principio di una sistole spontanea, sembra som- marsi alla forza che la provoca. Questi tre fatti distinti, si ve- dano dimostrati nel tracciato N. VI. In A, l’eccitamento coglie dci Fabia ti Ar CU OL TT again rrimoneneneni e SULL’ INNERVAZIONE DELLO STOMACO NELLA RANA 385 lo stomaco nel periodo diastolico in x: dopo aver fatto progre- dire la discesa fino in N provoca una contrazione. In B coglie lo stomaco nel periodo di riposo (in x') e provoca direttamente la contra- zione: in C non fa che sommare la sua forza a quella naturale che ave- Va già iniziata la sistole. Gli eccitamenti forti si addimostrano dunque in un primo periodo fa- vorevoli alla diastole stomacale, e contrari un un secondo, in cui distruggono o esauriscano la forza che manteneva la prima. Era quindi presumibile che dovessero esistere degli eccitamenti di una forza tale da fare quel che fanno i forti solo nel primo periodo, da favorire cioè per tutta la loro durata, unicamente la diastole stomacale, senza potere arrivare a distruggerla. E ciò infatti si verifica nei casi in cui l’eccitamento somministrato nel periodo diastolico non superi per intensità quello che ha provocato la sistole. Supponiamo di aver dato un forte eccitamento allo stomaco e tale da provocare una contrazione tetanica dell'organo. Se alla fine del periodo tetanico noi somministriamo un eccitamento, che non sia però maggiore per forza di quello che provocò il tetano, iuvece di veder sorgere una nuova contrazione, sia pure debole, si vede la linea discendere; e discende con maggior rapi- dità di quel che avrebbe fatto se fosse stata lasciata a se. Nel tracciato N. VII la contrazione era stata provocata da un eccitamento a 5.(forte): un eccitamento a 10, come si vede non ha fatto che far precipitare la linea di discesa, vale a dire favorire la diastole stomacale. La forza diastolica viene dunque distrutta, nel caso degli eccitamenti forti, per essere stata dapprima sover- chiamente eccitata: nel caso degli ec- citamenti deboli (chiamiamoli così per brevità) essa vien favorita Tracciato N. VI. Tracciato N. VII. 386 A, MARCACCI e aiutata, perchè essi non hanno potenza di esaurirla. Gli ec- citamenti forti e i deboli non differiscono per conseguenza nella loro essenza: essi modificano solo i loro effetti per la natura speciale dell’ organo sul quale agiscono. Un eccitamento elettrico forte sì trasforma, per quanto ab- biamo detto, in un lavoro sistolico tanto più forte, quanto mag- giore è il rilasciamento dell'organo: la dispersione della sua forza quindi diminuisce coll’avvicinarsi alla diastole completa. Era da prevedersi per conseguenza che quanto più l’eccitamento avesse colto l’organo in stato di contrazione, tanto maggior tempo avrebbe impegnato a produrre una sistole, o, in altri termini, il tempo di eccitazione latente avrebbe dovuto decre- scere a misura che ci sì avvicinasse al periodo di riposo o di equilibrio che divide due atti sistolici. E così è difatti: il tempo di eccitazione latente è tanto minore quanto maggiore è il ri- lasciamento dell’ organo. Nella Tavola N. II sono riportati i resultati sperimentali che dimostrano appunto il rapporto che esiste tra la contrazione e l’eccitamento, dato in diversi momenti del periodo diestolico. Al di sopra di un ascissa sono riportate, in linee punteggiate le altezze massime a cui arrivano le curve delle contrazioni stomacali: l'intensità dell’eccitamento è segnata al di sotto dell’ascissa in gradi della slitta Dubois-Reymond. Sempre al disotto dell’ascissa in linee unite, è segnata la lunghezza del tempo di eccitazione latente, intercorsa tra l’eccitamento del vago o del simpatico, e la comparsa della contrazione. Un punto nero tagliato in croce da un X segna il momento in cui veniva dato l’eccitamento, cioè il grado di minore o Iagiae rilasciamento dell’ organo . Dall'esame di questa tavola si rileva con facilità la legge che abbiamo già annunciata. , Il tempo di eccitazione latente è tanto maggiore, sia per il vago sia per il simpatico, quanto mag- giore è lo stato di contrazione dell’organo: e l'altezza della linea - di contrazione sarà quindi tanto maggiore quanto minore sarà » il tempo di eccitazione latente , Ciò vedesi all'evidenza, ad es, nell’Esp. V. del vago, dove con lo stesso eccitamento nella terza prova è occorso, a provocare una debole contrazione, un tempo triplo di quello impiegato per la seconda e la prima; e ciò solo perchè nella terza prova lo stomaco si trovava in stato di mag- Em atta min SULL’ INNERVAZIONE DELLO STOMACO DELLA RANA 387 gior contrazione che nelle altre due. Inutile insistere a dimo- strare che qui non trattasi di effetti di stanchezza: un esame, anche superficiale, delle diverse esperienze basta a dimostrarlo senz’ altro. VI. Il taglio di un nervo, per quel che sia azione immediata, non può fare a meno di portare un irritazione sul nervo stesso; irritazione che deve manifestarsi o con movimento o con dolore a seconda della natura del nervo. A mio modo di vedere essa rappresenta anzi la più esatta forma di eccitamento meccanico. Ammesso questo, se il resultato del taglio di due nervi (a sto- maco in riposo) darà risultati identici, avremo anche la prova assoluta della identità di natura di questi stessi nervi: e ciò in- vero si verifica per il vago e per il simpatico: # loro taglio dà luogo ad energiche contrazioni degli organi ai quali si distribuiscono: essi quindi si possono considerare ambedue come nervi di natura identica. Goltz, a dir vero, non aveva interpretato in tal guisa l’azione del taglio dei vaghi: per lui il taglio dei vaghi non era che una semplice causa d’ interruzione del trasporto dell’ azione inibitrice che il midollo esercitava sui centri motori stomacali. Questa interpretazione non è nè giusta nè necessaria, come abbiamo dimostrato altrove: nessuno infatti ha mai pensato a suggerir- cela per render conto della contrazione che sussegue al taglio di uno sciatico: eppure tanto in questo come nel caso del vago, il taglio è seguito da contrazione: e nessuno dubita che per lo sciatico ciò sia dovuto ad ecccitamento meccanico: perchè dunque non ammetter questa causa anche per il vago? La differenza negli effetti di queste eccitazioni meccaniche del vago e dello sciatico, più che nella natura dei nervi, deve cercarsi in quella degli organi in cui tale eccitazione vien trasportata: nei due casì esse hanno un effetto a comune, che si manifesta più o meno prontamente; una contrazione muscolare, ma nel caso dello scia- tico però questa contrazione è unica, il muscolo volontario non essendo capace di altre contrazioni se non dietro nuove irrita- zioni: Nel caso del vago l’ irritazione trasmessa a un organo capace di mantenersi da se in movimento, dopo ricevuto il primo impulso, provoca un seguito indefinito di contrazioni, senza però esser necessario che la causa che le ha provocate persista o si 388 A. MARCACCI rinnuovi: ciò è tanto vero anzi che, quando lo stomaco sia stato messo da lei in movimento, il suo rinnuovarsi può produrre ef- fetti opposti. In quest’ ultimo fatto è riposta principalmente la condanna della teoria di Goltz, come abbiamo detto altrove. Il simpatico si comporta come il vago rispetto alle eccita- zioni meccaniche: il suo taglio cioè e sempre susseguito da ener- giche contrazioni dello stomaco. Ciò si verifica non tanto per il suo tronco principale aortico, quanto anche per i suoi rametti spinali. Nel tracciato N. VIII. ho riunito la dimostrazione degli effetti che susseguano al taglio del vago, del simpatico e dei rametti spinali: i resultati sono stati ottenuti tutti sulla stessa rana quindi sono meglio comparabili : Tracciato N. VIII. In A.TV è stato tagliato il vago, in B.TS il simpatico, in O.T6S i filetti spinali del simpatico. Credo di essere il primo a metter bene in chiaro gli effetti del taglio del simpatico: effetti che ce ne dimostrano in modo indiscutibile la natura talvolta motrice, gli danno cioè attribu- zioni simili a quelle del vago. Termino col richiamare l’ attenzione su un fatto che ci spiega il perchè Sanders e Braam Houckgeest credettero alla predo- minanza d’azione del vago destro sul sinistro. Se si taglia un vago, sia pur esso il destro o il sinistro, e, appena la curva della contrazione che ne sussegue è ridiscesa al livello che aveva al momento del taglio, si recide l’altro vago, l'altezza della contrazione in questo secondo caso non raggiunge mai quella SULL’ INNERVAZIONE DELLO STOMACO DELLA RANA 389 della prima. Se però si aspetta che scorra qualche tempo tra il primo e il secondo taglio questa legge non si verifica più: dunque noi dobbiamo attribuire questo minore effetto del secondo taglio ad un fenomeno d’inibizione che il primo eccitamento produce sui gangli stomacali, i quali non possono esser sul su- bito, chiamati ad azione da un secondo eccitamento, ma bisogna, perchè ciò avvenga, lasciar trascorrere qualche tempo. Ho supposto finora che i due tagli fossero fatti allo stesso punto della contrazione stomacale, ed a brevissimo intervallo: ma il secondo taglio può dare minori effetti del primo anche se fatto a grande distanza di tempo da quest’ultimo; ma per- chè ciò sia, bisogna che il secondo taglio sorprenda lo stomaco in un periodo di contrazione maggiore che nel primo caso: ed allora il fatto si spiega col ragionamento ‘che abbiamo fatto parlando delle irritazioni elettriche date a diversi periodi della contrazione stomacale. In tutti questi fatti si trova la ragione dell'opinione di Sanders e Braan Houckgeest: e se il fenomeno da loro riscontrato è vero qualche volta, non ha in sè stesso nessuna importanza, e tale da autorizzarci a fare una differenza tra vago destro e vago sinistro: esso è dovuto o a una mera accidentalità o a condizioni indipendenti affatto da potenza mag- giore di uno più che di altro nervo: ciò è tanto vero che noi possiamo a nostra volontà provocare il fenomeno, rendendo maggiore o minore l’azione ora di uno ora dell'altro vago, senza distinzione nè di destro nè di sinistro. VII. Si stabilisce la sede di un centro motore cerebrale o spinale, o eccitando o distruggendo un punto determinato di questi due organi: coll’eccitazione si deve avere movimento e colla distruzione paralisi dell'organo a cui quel centro sì crede presiedere. Nel caso nostro, come nel determinare la sede di qualunque altro genere di centri motori, la prova dell’ eccitamento elettrico è assolutamente inammissibile; prima perchè sono stati osser- vati movimenti nello stomaco coll’eccitamento dei punti i più svariati del cervello o della midolla, secondariamente perchè sì possano risvegliare con un eccitamento della pelle gli stessi mo- vimenti che si suscitano eccitando il cervello; avendo così ugual 390 A. MARCACCI ragione chi sostenesse che i centri motori dello stomaco risie- dano nel cervello, o chi pensasse che essi sono collocati nel tes- suto cutaneo. ì La prova della distruzione del centro creduto motore, fa pure assoluto difetto nel nostro caso; lo stomaco anche separato dal corpo continua i suoi movimenti: quindi non ha bisogno per ciò nè della midolla nè del cervello. La distruzione anzi di questi due organi ha effetti opposti a quelli che si potevano prevedere: quando essa sì effettui a stomaco, ad es., in riposo, ne pro- voca le contrazioni, nello stesso modo che noi le abbiamo ve- dute insorgere dopo il taglio del vago o del simpatico: si ha quindi diritto di ritenere che la distruzione del cervello o della midolla spinale non debba considerarsi che come un irritazione meccanica delle origini cerebrali o spinali dei nervi che si por- tano allo stomaco. Che si abbia una contrazione tetanica dello stomaco per distruzione del cervello e del midollo spinale, simile in tutto a quello che si ha per il taglio del vago, lo aveva dimostrato Goltz: io ho potuto confermarlo col metodo grafico in modo indiscutibile. Se sì prendono, ed es., due rane curarizzate, e ad ambedue si sottopone lo stomaco a ugual pressione di una colonna d’acqua (col metodo da me descritto ) si vede che nella rana semplice- mente curarizzata la pressione scende con rapidità e senza scosse, nella rana invece a midollo distrutto con lentezza e a scosse: il che è quanto dire che nel primo caso lo stomaco e l’esofago si lasciano distendere con più facilità che nel secondo, perchè in questo lo stomaco si trovava in stato di contrazione, provocata dalla distruzione del midollo spinale o del cervello. Togliere però ai centri nervosi ogni e qualunque influenza sui movimenti stomacali, sarebbe errore: ad essi, io credo, spetti unicamente l’ufficio di fornire ai nervi che sì portano allo sto- maco la forza necessaria per favorire o moderare le contrazioni stomacali. Questa secrezione (mi si permetta l’espressione ) di forza nervosa sarebbe di una natura unica; il trasformarla ecci- tatrice o moderatrice, spetterebbe ai gangli stomacali: e che questo sia lo abbiamo dimostrato col fatto, che lo stesso ecci- tamento dato in momenti differenti può dare effetti opposti: quindi la trasformazione di questa forza unica proveniente dai centri nervosi, in lavoro d’indole opposta, a seconda dei momenti in cui arriva, è tutto ufficio dei gangli stomacali. SULL INNERVAZIONE DELLO STOMACO NELLA RANA 391 VIII. L'insieme dei fatti da me citati e provati coll’ espe- rimento, essendo per la massima parte in disaccordo colle idee in corso sul meccanismo nervoso che presiede alla motilità dello stomaco, mi obbligano a riassumerli in un ipotesi probabile, che mi par conveniente di sostituire, sia pure provvisoriamente, a quelle che già esistevano; e ciò per il fatto solo che essa riveste il carattere necessario, indispensabile a una ipotesi, quello cioè di renderci conto dei fatti osservati, facendocene inoltre cono- scere i loro rapporti reciproci. Due di questi fatti, messi in sodo coll’esperimento, mi preme richiamare a questo punto; cioè : 1.° Lo stesso eccitamento del vago o del simpatico può arrestare o mettere in movimento lo stomaco a seconda che lo coglie nello stato di attività o di riposo. 2.0 Un eccitamento può favorire e aiutare la diastole sto- macale purchè dato nel periodo di contrazione dell'organo. Tralasciando di considerare ora il modo d’agire degli ec- citanti artificiali, elettrici o meccanici, prendiamo a esaminare l'organo quando venga in contatto cogli eccitanti naturali, quali sono, ad es., gli alimenti. Lo stomaco a digiuno è evidentemente contratto, e, molto probabilmente, in riposo assoluto: il non averlo trovato tale tutti gli autori che si sono occupati di esaminarlo in questa condizione, non implica nulla; perchè essi furono obbligati ne- cessariamente, per esaminarlo, o a metterlo allo scoperto, o in- trodurvi meccanismi tali che potessero rivelarne all’esterno i movimenti. Ora è provato che l’esposizione all'aria, e l'in- troduzione di qualche oggetto estraneo nell'interno dell’ organo, possono agire da eccitanti: per cui noi siamo nella impossibilità di provare che lo stomaco non è mai in riposo: tutto invece ci spinge a credere che, essendo organo a funzione intermittente, esso debba avere dei momenti di quiete assoluta. Supponiamo dunque che lo stomaco sia allo stato di riposo, ossia di contrazione, e che a un dato momento una massa di alimenti penetri nello stomaco stesso. La presenza degli alimenti non può riuscire indifferente per l'organo, e deve ne- cessariamente provocare un eccitamento; quest’ultimo però 392 A. MARCACCI non provoca una contrazione, giacchè l'organo si lascia disten- dere fino a un grado estremo senza reagire. (Goltz). Siccome . non si può credere che lo stomaco non senta un eccitamento nel periodo non breve che corre tra il principio della penetra- zione di una massa alimentare e quel punto di distensione che precede l’iniziarsi delle contrazioni, bisogna anche necessaria- mente ammettere che questo eccitamento produca uneffetto favorevole alla penetrazione della massa alimentare), aiuti cioè il dilatarsi dell’ organo. Quest’ ultimo fatto noi lo abbiamo provato coll’ esperienza: un, eccitamento dato nel momento della contrazione ha favorito la diastole (V. T. VI). Questo eccitamento diastolico però non potrà esser sentito come tale dai gangli stomacali che per un periodo determinato e arriverà un punto di esaurimento, di stanchezza diastolica: ma, .l’ecci- tamento continuando ad arrivare, i gangli sì incaricheranno allora di trasformarlo in lavoro sistolico; il quale, dal canto suo, sarà seguito da stanchezza sistolica; in questo momento en- trerebbe di nuovo in azione l’attività diastolica; e così via. Anche queste ultime asserzioni sono provate dai fatti, giacchè lo stesso eccitamento può produrre effetti opposti ‘a seconda dei momenti in cui è dato. È dunque necessario d’ammettere che, allo stato di digiuno o di contrazione dello stomaco, le due forze sistolica e diastolica, esistano allo stato potenziale, o d’equilibrio nei gangli stoma- cali: un eccitamento provocherebbe una dilatazione e poi una, contrazione dello stomaco, col meccanismo che abbiamo descritto, mantenendo, quantunque la natura e la forza dell’eccitamento sia la stessa, il ritmo gastrico. Ai gangli a spetta dunque la facoltà di elaborare, in due modi diversi, l’eccitamento di natura unica trasmesso dai nervi vago e simpatico. Questi funzionerebbero invece da nervi sensitivi e motori: il loro centro di riflessione sarebbe nel midollo allungato e spinale. Questo atto riflesso è dunque, in parte simile agli ordinari atti reflessi che si verificano fra organi della vita di relazione, ma ne differisce essenzialmente nell’ ul- tima parte: nel primo caso l’eccitamento si scarica direttamente nel muscolo, e non è capace che di un solo effetto finale, qua- lunque sia la sua natura e la sua potenza, la contrazione mu- scolare: nel secondo caso invece l’eccitamento è ricevuto da un SULL'INNERVAZIONE DELLO STOMACO NELLA RANA 393 organo intermediario, il quale ha la facoltà di sentirlo in modo diverso, di trasformarlo cioè in due sorta di eccitamenti opposti, i quali alla lor volta provocano anche movimenti opposti (si- stolico, e diastolico). I gangli rappresenterebbero quindi, presi nel loro insieme, un cervello stomacale, capace di ricevere, sen- tire e trasformare in modi diversi uno stesso eccitamento esterno. Nelle condizioni ordinarie dello stomaco, è naturale che l’ec- citamento, variando pure d’intensità nei diversi momenti d' at- tività dell’ organo, in un momento dato deve esser sempre lo stesso sia per l’ atto sistolico che per il diastolico : e ammesso che questi due atti sieno il risultato di due potenze attive, non ‘ si capirebbe il ritmo stomacale se non vi fosse un organo capace di sentire e trasformare lo stesso eccitamento in due atti op- posti. Se però questo eccitamento continuo ed uguale per i due atti viene d’un colpo accresciuto, l'andamento ritmico deve essere necessariamente o interrotto o disordinato; mentre lo stesso eccitamento pnò rimetterlo in moto quando sia in riposo: è il caso di una macchina in moto che riceve un urto in senso contrario al suo movimento e si arresta, mentre può esser ri- messa in moto dallo stesso urto quando essa sia allo stato di riposo. Soltanto gli eccitamenti deboli si possono sovrapporre ai naturali, e favorire il moto stomacale (V. T. I). Una obbiezione potrà farmisi rispetto al modo con cui ho stabilito il meccanismo dell’atto reflesso tra i due nervi vago e simpatico e i gangli stomacali, che cioè lo stomaco, per muoversi, non abbisogna di quest’azione reflessa; giacchè, estratto dal corpo, può contrarsi o rilasciarsi per molto tempo anche dopo il taglio necessario dei due nervi citati. Quest’ obbiezione però non è seria. Per separare lo stomaco dal corpo son necessarii due fatti: 1. il taglio dei nervi ai quali abbiamo attribuito l’effetto reflesso che mantiene il ritmo stomacale: ora questo taglio, ossia questo eccitamento meccanico; ci spiega come i movimenti possono e debbono manifestarsi e mantenersi per un certo tempo dopo l'estrazione dal corpo. 2. Con l'esposizione all’aria un’eccitante anormale si sostituisce ai fisiologici, giacchè l’aria stessa, la di- versità di temperatura, il disseccamento possono agire come tante cause d’eccitamenti anormali. Volendo considerare come fisiolo- gici i movimenti a cui vanno incontro i visceri dopo che questi ultimi sono rimasti per qualche tempo all'aria, bisognerebbe 394 A. MARCACCI anche considerare come espressione di una funzione fisiologica le contrazioni fibrillari che sì verificano nei muscoli striati, quando questi ultimi sono messi allo scoperto e subiscono ]’azione del- l’aria. Si può anzi con sicurezza affermare che le deduzioni tratte dagli esperimenti fatti sullo stomaco estratto dal corpo, si devono accettare con la massima riserva: le condizioni in cui si son messi gli esperimentatori in simili casì sono, per la massima parte, difettosissime, quantunque abbiano cercato di renderle buone e di avvicinarsi con artifizi allo stato naturale delle cose. Alcuni (') poi hanno considerato lo stomaco estratto dal corpo come un muscolo liscio semplice, cioè come un tessuto invece che come un organo: e questo è errore più grave che l’'essersi messo in cattive condizioni sperimentali: giacche noi abbiamo dimostrato come le presenza di gangli possa far variare i re- sultati di un eccitamento, quantunque dato in condizioni appa- rentemente identiche. Sigmund Mayer del resto aveva già fatta questa giustissima osservazione, che è stata del tutto trascurata dai detti autori. , Non possiamo studiare i muscoli lisci isolati dal sistema nervoso, come facciamo coi muscoli striati, libe- randocene col curaro: rimangono sempre i gangli intramusco- lari (dimostrati con sicurezza in alcune parti, intraveduti in altre ) i quali non ci permettono di poter fare con certezza delle deduzioni dirette , (?). Gli uffici che io attribuisco in conclusione ai nervi vago e simpatico, ai centri nervosi cerebro-midollari, e ai gangli sto- macali si possono riassumere nel modo seguente: 1.° Il vago e il simpatico sono dei nervi misti, i quali pre- siedono all’ atto reflesso, che provoca i movimenti dello stomaco e li mantiene coordinati. Essi non trasportano che eccitamenti di natura unica per i due nervi, in modo continuo durante il periodo d'attività dello stomaco, e d’intensità differenti nei di- diversi momenti. Si possono dunque considerare come nervi, indi- rettamente, gastro-dilatatori e gastro-costrittori. 2.° Il centro di riflessione sarebbe nell’ asse cerebro-spinale: a questi centri di riflessione non spetta che fornire al nervo (1) A. Capparelli — Sulla fisiologia dei muscoli lisci. Ricerche fatte nel lab. di Fisiol. di Torino. - Giorn. dell’Acc. di Med. di Torino, Anno XLVI. Vol. 31, 1883. p. 303. (2) Sig. Mayer — Hermann Handbuch der Physiologie. V Band. lI Theil. s. 71. SULL’ INNERVAZIONE DELLO STOMACO NELLA RANA 395 motore la forza motrice richiesta dall’ intensità dell’ eccita- mento. i 5. I gangli stomacali hanno l’ ufficio di trasformare l’ec- citamento, (di natura unica, trasmesso loro dal vago e dal sim- patico ) in due forme d’ attività differenti, la sistolica e la dia- stolica. Le fibre che ne escano, e che ricevono 1’ eccitamento trasformato, lo trasportano direttamente nei muscoli lisci, i quali rispondono o con una dilatazione o con una contrazione, a se- conda che ricevono un eccitamento di una natura piuttosto che di un altra. Le fibre efferenti dei gangli spinali possono quindi chiamarsi direttamente gastro-dilatratici e gastro-costrittrici. NB. La parte sperimentale di questo lavoro fu eseguita nel Laboratorio di Materia Medica dell’ Uwwersità di Torino. So. Nat. Vol. IV, fasc. 3.° 3 INSETTI IN ALTO MARK NOTERELLA DI E. FICALBI Non v’ha naturalista cui ignoto sia l'istinto migratorio, che anima diversi insetti a compier più o men lunghi viaggi, a cambiar patria e soggiorno: le peregrinazioni di quei vispi lepidotteri che sono le vanesse trovansi certo a conoscienza di ognuno. Tuttavia non credo cosa addirittura oziosa il render breve conto con due parole di diversi incontri di insetti, specie lepidotteri, che ho avuto agio di fare in alto mare viaggiando. Percorrendo nel Settembre dello scorso anno il Mar Rosso ho incontrato di quando in quando qualche farfalla, specialmente vanessa, ed ho notato che questi insetti apparentemente dirige- vansi dall’affricana all’asiatica riva; oltre che lepidotteri, sempre in Mar Rosso, mi è capitato osservare non infrequentemente delle Zbellule, agilissime, come sempre, nel volo e delle quali nessun individuo cui riuscì catturare. Deve essere nelle abitudini di questi animali avventurarsi in mare, ed anche il Prof. Giglioli ( Viaggio della Magenta ) vide in Oceano libellule, a circa 120 miglia dalle isole Keeling. La presenza dei girovaghi i. che ho accennato in un mare stretto e fiancheggiato di terre, per quanto aride e inospi- tali, quale è il Mar Rosso, perde di interesse in confronto di altri fatti analoghi, che vado accennando. Nell’ Oceano indiano, a molte miglia dalle coste dell’ Indostan ho visto liberamente INSETTI IN ALTO MARE 397 volar per l’aria qualche incauta farfalla e ne ho viste e cat- turate altre, che si posarono sul bastimento, molto lontano da terra in corrispondenza delle bocche del Gange, farfalle che poi vidi non rare nella bassa parte gangetica dell’ India, tanto presso Calcutta, quanto anche più dentro terra. E queste farfalle ho visto in mare sia con calma di vento, sia che un po’ di vento, spirasse, per quanto non molto violento. Un bellissimo lepidottero notturno ( del quale ho perduto spia- cevolmente la spoglia, come di altri, perchè divoratami dalle blatte ) catturai a presso che cinquanta miglia dall’isola di Ceylan nel mese di Novembre dell’anno passato; ebbi poi oc- casione di rivedere individui simili in quella terra meravigliosa, sì feconda di gioie al Naturalista, che la visita: uno di questi notai a Kandy, nella parte montagnosa e centrale dell’isola, at- taccato al soffitto di una camera. — Altri lepidotteri notturni ho visto in Mediterraneo, passato di una trentina di miglia capo spartivento in Calabria, ed è davvero curioso vedere come questi insetti abbiano manìa di viaggiare: il Prof. Giglioli una farfalla notturna racconta aver preso a ]20 miglia dalle isole Keeling sopra rammentate. La quantità maggiore di lepidotteri, che mi sia occorso di vedere, percorrendo il mare, mi è capitata sott'occhio in un re- cente e brevissimo viaggio che ho avuto agio di fare fra l’Italia ‘ el’Egitto. Trattavasi della nota vanessa del cardo, di questa pe- regrina e infaticabile farfalla, che non pochi Naturalisti e pro- fani ha meravigliato per la pertinacia sua nel viaggiare. Dirò subito che in pieno Mediterraneo, fino a oltre trecento miglia da ogni costa non è passato giorno che non abbia visti esem- plari di vanesse, la cui approssimativa direzione, era meridio- nale. Di queste vanesse mai vidi, come sovente si suole, dei branchi numerosi, ma sempre individui isolati o quasi, che viag- giavano per proprio conto. In sè considerato questo viaggiar di vanesse non avrebbe nulla di nuovo, se non fosse la distanza loro tanto grande in alto mare, quanto può essere trecento e più miglia da terra. Fartalle han visto altri, ed ho rammentato più sopra Giglioli; anche Darwin ( Viaggio intorno al mondo) parla di simili casi, e specialmente dice aver visto nei mari dell'America meridionale numerosi voli di Colias, ma non scrive di averli incontrati molto lontano da terra e certo non più che 398 k. FICALBI a una ventina di miglia. Quelli che io vidi erano individui portati nelle solitudini marine dai venti? È certo che volavano con forza, non curandosi sovente della presenza del bastimento. È un fatto altresì che le vanesse han grande pertinacia e costanza nel viag- giare: potrebbero questi fatti aver rapporto con la diffusione presso che cosmopolitica di questa specie di insetto? — La mania migratoria di simile lepidottero è meravigliosa invero, quando: sì pensi al numero straordinario di individui, che staccandosi dal lido per tentar l’infido mare, devon soccombere al temerario istinto loro. Io, infatti, con una certa meraviglia, ho potuto, senza tema di cadere errato, osservare, nello scorso Agosto, come lungo le coste romane, napolitane, calabresi ad anche sicule, al davanti di Catania, fino a venticinque e trenta miglia da terra si trovassero nelle placide acque del mare numerose vanesse an- negate, rimaste galleggianti ad ali aperte e quindi evidentissime all'occhio. Rappresentavano esse sicuramente molte delle viag- giatrici, che già erano state sopraffatte da morte al cominciare del folle viaggio. Certamente questo suicidio incoscio di insetti, in piena balìa di loro stessi, non spinti nel pericolo dall’ înfu- riare degli elementi, perchè li ho incontrati sovente in piena bonaccia di vento e di mare, deve solleticare la curiosità di chi ama indagare il movente degli strani viaggi e di altre apparenti bizzarrie, di cui non rarissimi esempii cì dan gli animali. — L’ac- cennato fatto di vanesse in gran numero, che ho trovato morte in mare e viaggianti è completato da un’altra asservazione, che feci due anni or sono e che ciascuno, cui piaccia, può confermare coi propri occhi. Alludo alla partenza, è questo il vocabolo ap- propriato, di lepidotteri, che ho potuto esservare sulla spiaggia dell’ Ardenza, presso Livorno. Per due anni consecutivi, nel mese di Agosto, recandomi nelle ore matutine sul mare, vedevo va- nesse e pieridi partirsi da terra e dirigersi con celere volo sul mare, ove sparivan di vista; mai una ne ho veduta tornare in- dietro, per quanta attenzione, mattina e sera, vi abbia posto. Scambio poi di farfalle ho veduto avvenire tra 1’ isola di Pianosa e quella d’ Elba, nel breve tratto di mare, che queste due isole separa. Circa agli insetti in mare, voglio dir anche due parole sulle mosche, mosso da una asserzione di Darwin; dice l’ immortale Naturalista inglese che questi ditteri, i quali spesso accompa- INSETTI IN ALTO MARE 399 gnano una nave nel suo viaggio da un porto all’ altro, andando attorno al bastimento, si perdono in breve e scompaiono tutti. Ora io, se non fosse presunzione contradire un tanto osservatore, non ho potuto constatare, questo fatto: ho anzi notato che questi noiosi insetti si trovano a loro bell’ agio a bordo e vi prosperano, producendo larve, che poi si trasformano in nuove ‘mosche. In pieno oceano, ho visto persistere a bordo le mosche. Ciò dipenderà forse da questo: che Darwin viaggiava in un ba- stimento più netto, che non lo siano forse gli attuali vapori. DI UNA PARTICOLARE. DISPOSIZIONE DI ALCUNI VASI VENOSI DEL COLLO NELL SCALE E DELLA POSSIBILITÀ DI SPIEGARE GON ESSA ALCUNE ANOMALÌE VENOSE REPERIBILI NELL’ UOMO NOTA DEL DOTT. E. FICALBI AIUTO ALLA CATTEDRA DI ANAT. COMP. E ZOOL. DELLA R. UNIVERSITÀ DI PISA E in oggi notissimo ai cultori dell’ Anatomia umana come buona parte delle anomalie e varietà anatomiche, che incontrar sì possono nella conformazione dei singoli apparecchi organici nell’ uomo, abbiano riscontro in altrettanti stati normali, repe- ribili nei Mammiferi all’ uomo inferiori e, qualche volta, negli altri Vertebrati ('); così è superfluo ricordare che numerosissime disposizioni vascolari, muscolari, ossee, nervose, sovente anche splacniche, che di rado e solo per combinazione rinvengonsi nel- l’anatomizzare umani cadaveri, sono invece cosa di regola in altri Vertebrati specialmente Mammiferi. In questo concetto, le varietà e anomalie anatomiche reperibili nell’ uomo, rappresen- tano sovente semplici casi di atavismo, rappresentano, cioè, il ritorno momentaneo a qualche singolo carattere morfologico dei nostri antenati, nella serie filogenetica. Nel far della Anatomia, (4) A questo proposito ritengo, però, che sia mestieri non esagerare: non deve credersi che ogni varietà o anomalia anatomica ritrovabile nell’uomo sia sempre cor- rispondente a un fatto normale nei vertebrati all’ uomo inferiori; nemmeno sto a dire che ogni minimo lacerto muscolare, ogni minimo ramoscello vasale in più o in meno che si osservi, non deve esser di legge ritenuto come un caso di atavismo, ma sibbene come semplice accidentalità senza importanza, DI UNA PARTICOLARE DISPOSIZIONE DI VASI VENOSI NELLE scimmie EC. 401 specialmente umana, non devono mai perdersi d’ occhio le sue- sposte nozioni, perchè sono il fondamento di quell’ indirizzo com- parativo che deve darsi, e che in oggi si dà allo studio del- l’Antropotomia, la quale altro non deve esser considerata che una branca della Morfologia animale. Qual profitto, infatti, po- trebbe ritrarsi dallo studio della umana Anatomia, in oggi che i libri d’ indole descrittiva registrano ogni particolarità, se non fosse il compito di mettere in rilievo ogni fatto anatomico, più o men raro, che sempre più serva a rendere evidente il nesso che esiste nella organizzazione vertebrata? In questa breve nota voglio prima render conto di una sin- golare disposizione di alcuni vasi venosi, che riscontrasi nel collo delle Scimmie, disposizione che, se non erro, non fu mai descritta, almeno con un po’ di dettaglio. In secondo luogo voglio porre il problema, se la disposizione stessa possa spiegare certe ano- malie vascolari, che qualche volta si riscontrano nello ordina- mento delle vene del collo nell’ uomo. Ho dovuto convincermi, nel far ricerche bibliografiche, che il sistema vascolare sanguifero delle Scimmie è stato, special- mente per ciò che si riferisce alla distribuzione delle vene, assai trascurato. Per poter venire con chiarezza e dettaglio a parlare della disposizione vasale, la cui descrizione è tema di questo breve scritto, darò un cenno del modo, secondo il quale si distribui- scono le vene, che concorrono a formare la cava discendente, o superiore, o, pei Mammiferi inferiori all’ uomo in generale, anteriore, prendendo ad esempio le vene di una Scimmia comune, di un giovine Cinocefalo (Fig. 1, Tav. XIV). Seguirò le vene in modo centrifugo, partendo, cioè, dalla radice della cava ante- riore e andando ai singoli e principali rami, che, direttamente o indirettamente, in essa sì gettano. La vena cava anteriore, come mostra la Fig. 1, si suppone staccata dall’ orecchietta e disposta, con tutti i rami che la originano, in un piano, in modo da vedere di tutti i singoli rami la faccia anteriore o presso che anteriore. Poco prima che la vena cava anteriore si getti nell’ atrio destro del cuore, riceve, verso la sua su- perficie posteriore, lo sbocco della vena azigos (Fig. 1, va 2). Quindi si continua verso il giugulo e si divide, prima di giun- gervi, e dopo breve percorso, nei due tronchi venosi brachiocefalici 402 E. FICALBI o innominati (tvb), dei quali il destro, come nella specie umana, è più corto e tozzo del sinistro e disposto molto più verticalmente. I due tronchi venosi brachiocefalici o innominati ricevono, nella loro faccia anteriore (considero in posizione eretta la Scimmia) lo sbocco delle vene mammarie interne (v m i), delle quali, come nell’ uomo, la sinistra si getta nel tronco venoso innominato vero e proprio, la destra gettasi invece, per usar più precisione, verso il punto di congiungimento dei due tronchi venosi bra- chiocefalici tra loro, ma sempre un po’ più verso destra. Oltre che delle vene mammarie interne, i tronchi venosi innominati ricevono lo sbocco delle vene vertebrali (v v), le quali, come nella specie umana, sì gettano ciascuna nel tronco del proprio lato, e nella superficie sua posteriore. I tronchi venosi brachiocefalici sono costituiti dalla riunione delle vene giugulari interne (v g i) con le vene succlavie (v s); circa alle vene giugulari interne nulla ho da dire, circa alle succlavie dirò che, divenute ascel/ari, (non sì dimentichi che per comodo seguo una via centrifuga) sovente ho visto che si biforcano assai precocemente. Il dutto toracico sbocca, come nell’ uomo, nel punto di confluenza tra vena giu- gulare interna e succlavia di sinistra: lo sbocco stesso si fa dalla parte esterna del punto di immissione della giugulare, cioè tra il punto di sbocco di questa vena e quello della vena giu- gulare esterna, che ora vengo a descrivere. Nella vena suc- clavia destra e nella sinistra della specie umana, come si sa, immediatamente all’ infuori della giugulare interna, gettasi la giugulare esterna. Ora, se si osservano le vene del giovine Ci- nocefalo, che ci ha fornito la Fig. 1, vedremo che in fuori delle giugulari interne gettansi di fatto nella succlavia due tronchi venosi (2), uno per lato: e questi non rappresentano altro che le vene giugulari esterne. Ma tra la conformazione di queste vene giugulari esterne della nostra Scimmia e quella che, a cose nor- mali, riscontrasi per le vene giugulari esterne della specie umana, corre, come può vedersi con una semplice occhiata, molto di- vario. Della vena giugulare esterna della Scimmia esaminiamo la conformazione, partendoci dai suoi rami di origine. I rami di origine della vena giugulare esterna ho osservato che possono nelle Scimmie variare di numero e di provenienza, ugual- mente a quello che si verifica per la specie umana. Ho osservato talvolta che a generare la vena giugulare esterna in questione si DI UNA PARTICOLARE DISPOSIZIONE DI VASI DEL COLLO NELLE SCIMMIE EC. 403 hanno due rami principali, cioè una vena auriculare posteriore è una vena temporomascellare: il Cinocefalo che mi ha fornito la Fig. 1, ed un Macaco, da cui ho tratto la Fig. 2, che da ora in avanti prenderemo in considerazione, ci danno esempio della accennata disposizione (Fig. 1 e 2,vap,v t m). Le due rammentate vene di origine della giugulare esterna, vena auricolare posteriore, cioè, e vena temporomascellare, può darsi o che si riuniscano assai presto in un tronco unico, come mostra la Fig. 1, o che non faccian ciò, come mostra la Fig. 2. Nel primo caso, il tronco comune loro è senza dubbio la vena giugulare esterna. Seguendo questa vena si trova che è così peculiarmente conformata, da meritare una speciale descrizione. Nell’ uomo una volta originatasi, la giugulare esterna, nei casi normali, scende direttamente in basso, per gettarsi nella succlavia: nel suo cammino riceve piccoli tronchi venosi e, per sboccare nella succlavia rammentata, passa sempre dietro alla clavicola. Nelle Scimmie, che ci han fornito le Fig. 1 e 2, vanno ben eltrimenti le cose, come facilmente può vedersi. La vena giugulare esterna, infatti, lungi dal rimanere unica fino al punto di sbocco nella succlavia, circa al livello del terzo inferiore del muscolo sternocleido-mastoideo, si biforca, si fa doppia, in modo che si hanno due tronchi venosi superficiali, che scendono verso la clavicola. Se interessante è questo fatto dell’ essersi resa du- plice la vena giugulare esterna, non meno interessante è il modo, secondo il quale i due tronchi originatisi per la divisione della giugulare esterna rammentata, terminano al loro estremo in- feriore, ed hanno rapporto con la clavicola, prima di giungere al loro punto di sbocco. Dirò subito, a questo proposito, ch' essi, prima di immettersi nella vena succlavia, si riuniscono in un tronco comune, passando l'uno al davanti, l’ altro al di dietro della clavicola. Ma è d’uopo accennare meglio e con un po’ più di dettaglio le cose. Dei due rami di divisione della giugulare esterna uno (con- siderando eretta la Scimmia) può chiamarsi posteriore: infatti, appena originato dal punto di biforcazione, si dirige [in dietro (Fig. 2, » p), e si situa nello spazio compreso tra il margine postero-esterno del muscolo sterno-cleidomastoideo e il margine antero-esterno del muscolo cucullare. Questo ramo in alcuni casi è di un calibro un po’ maggiore di quello del ramo anteriore, 404 E. FICALBI che descriverò or ora, in altri molti ho trovato che ha un dia- metro uguale o presso che uguale a quello dell’ altro ramo. Giunto, il ramo posteriore che descrivo, a livello della clavicola, in corrispondenza del terzo suo interno, passa indietro di que- st’ osso e, prima di gettarsi nella succlavia, si riunisce, come ho già accennato e come dirò meglio tra poco, al ramo ante- riore. Nel suo tragitto fa, così, una specie di arcata a conves- sità posteroesterna. Riceve lo sbocco di due o tre vene muscolari e cutanee, che si gettano nella sua convessità: di queste vene le più importanti sono dei rami scapolari superiori e posteriori, che si gettano nel ramo giugulare posteriore che descrivo, ge- neralmente per un unico tronchettino (Fig. 1, v s ce). — L' altro ramo di divisione della giugulare esterna può dirsi anteriore (Fig. 2, 7 a); esso è situato sul muscolo sternocleidomastoideo, verso il margine posteroesterno del muscolo istesso, che sovente costeggia completamente; anch’ esso si dirige verso la succlavia. Ma, contrariamente a ciò che fa il ramo posteriore, giunto in corrispondenza della clavicola; sempre a livello del terzo interno di essa, le passa dinanzi, e si unisce, tra la clavicola e la suc- clavia, all’ estremo del ramo opposto, col quale forma un piccolo tronco comune. Questo breve tronco (Fig. 1 e 2, 2), la cui dire- zione è alquanto obliqua in dentro, si getta nella vena succlavia, in fuori ed un po’ anteriormente allo sbocco della vena giugulare interna, Il tronco comune dei due rami posteriore e anteriore, situato tra la clavicola e la succlavia, ci rappresenta la giugulare esterna ricomposta. Il ramo anteriore, per riunirsi al suo cor- rispondente posteriore, passa tra la clavicola e il muscolo suc- clavio, che perfora: esso ramo poi riceve vene dal muscolo ster- nocleidomastoideo e dal tessuto connettivo sottocutaneo sopra- stante. — Come spero si sia inteso dalla mia succinta descrizione, il singolare della disposizione dei due rami venosi, originati dalla biforcazione della vena giugulare esterna della Scimmia è questo: che essi, col ricomporsi per originar di nuovo un breve tronco giugulare, formano un anello venoso completo, attraverso il quale passa la clavicola. Non ho ancor parlato di una vena ben nota nella Anatomia umana, e che nelle due Scimmie, che mi han fornito le più volte ricordate Fig. 1 e 2, ha una peculiare disposizione. Intendo dire della vena cefalica, una delle più caratteristiche tra le SAT ST N RT DI UNA PARTICOLARE DISPOSIZIONE DI VASI VENOSI NELLE scimmie EC. 405 provenienti dall’ arto toracico. Nell’ uomo questa vena, dopo aver percorso l’ arto superiore, ed essersi situata nell’ interstizio muscolare deltoideopettorale, viene a gettarsi nella vena ascellare, subito sotto la clavicola. Nella Scimmia della Fig. 2, come può vedersi, segue lo stesso decorso, situandosi nel rammentato in- terstizio deltoideo-pettorale, ma lungi dal gettarsi nella vena ascellare, viene a sboccare nell'ultima porzione del ramo anteriore, derivato dalla biforcazione della giugulare esterna, ramo anteriore che, per ciò, può dirsi giugulo-cefalico (Fig. 1 e 2, v c). Ed è molto marcata, come sì vede, sotto questo riguardo, la diffe- renza tra ciò che avviene nella specie umana, e ciò che si ve- rifica nelle nostre Scimmie. Brevemente descritta, così, la singolare disposizione di alcune vene del collo, e dello sbocco della vena cefalica dell’ arto to- racico, come sì verifica nelle due Scimmie, che ho preso a sog- getto, mi affretterò a dire che identica disposizione trovasi pure in molte altre Scimmie e in Lemuri, da me esaminati. Non so cosa accada per le Scimmie antropoidi, perchè non mi è toccata la fortuna di averne allo stato fresco tra mano; ma posso ri- petere e assicurare che in molti gruppi (forse tutti) di Primati e Prosimie le cose stanno come le ho descritte, tolte ben s’ in- tende, quelle varietà individuali, tanto facili a verificarsi pei vasi venosi. Nella ricca raccolta di cuori, tra cui molti di Scimmia, convenientemente iniettati e preparati, e coi vasi principali afferenti ed efferenti in sito, raccolta che si conserva nel fornitissimo Museo d’ Anatomia comparata di questa Uni- versità di Pisa, può ognuno, quando voglia, rendersi conto de visu delle particolarità, che sono andato descrivendo. Qual significato deve darsi ai due rami, anteriore e poste- riore (formanti l’ occhiello per cui passa la clavicola), in cui si decompone, per ricomporsi poi, la vena giugulare esterna delle Scimmie e dei Lemuri? Io ritengo che si tratti della esagera- zione di una di quelle disposizioni, che Sarrey chiama anastomosi venose per comunicazione longitudinale. Le nozioni embriologiche ed anatomocomparate mi sembra non si prestino a spiegare diversamente la cosa. Così dunque io interpreto il fatto descritto, e confesso ch’ esso mi sembra molto singolare. Il passaggio in- nanzi alla clavicola di tronchi venosi assai grossi (passaggio che non sì ha nell’ uomo) sembra nelle Scimmie esser cosa di pre- 406 E. FICALAI dilezione. In un Cercopiteco sabeo infatti, ho notato che non si aveva affatto 1’ occhiello venoso ormai noto (ed è questo il primo caso che mi capita e lo ritengo quindi eccezionale); tuttavia la vena giugulare esterna, per andare a gettarsi nella succlavia, passava innanzi alla clavicola. La vena cefalica poi sboccava nel- l’ ultima porzione della giugulare esterna e non nella ascellare. Concludo dunque, e per aprirmi la strada a ciò che sono per scrivere, ripeto che nelle Scimmie e nei Lemuri (almeno nella maggioranza delle specie) si ha il peculiare fatto di un occhiello venoso giugulare, che abbraccia la clavicola, o il fatto del passaggio anteriormente alla clavicola stessa di un vaso assai grosso giugulare; di più sì ha che la vena cefalica sbocca nel ramo o tronco giugulare anteriore alla clavicola. A cose normali non passano nell’ uomo al davanti della clavicola, ossia tra essa e la pelle, nè vasi venosi, nè arteriosi di importanza. Solo qualche vasellino venoso può trovarvisi, cui non sì può dare importanza; così, esaminando qualche cadavere, ho visto che a passare innanzi alla clavicola possono riscontrarsi due ramuscoli, o due gruppi di ramuscoli venosi, dei quali uno, nascendo superficialmente nella regione del muscolo grande-pet- torale, verso le inserzioni sternali del muscolo istesso, e passando al davanti della clavicola nel suo quarto interno, prima del- l’ inserzione del fascio clavicolare dello sternocleidomastoideo, si getta nella vena giugulare esterna; un altro, avendo origine dalla superficie del muscolo deltoide e dall’ interstizio deltoideo- pettorale e passando sopra al terzo esterno della clavicola, si getta, esso pure, nella vena giugulare esterna. Un’ altra venuzza, che merita di esser ricordata, può trovarsi a passare al davanti della clavicola: essa è rappresentata da una sottile anastomosi, che qualche volta si stabilisce tra la vena cefalica, prima del suo sbocco nell’ascellare, e la succlavia, anastomosi che, quando esiste, può passare sia sotto, sia talvolta sopra alla clavicola. Ad eccezione, lo ripeterò, di questi accennati vasellini venosi insignificanti, non passano tra la clavicola e la pelle nell’ uomo, a cose normali, tronchi venosi di una certa importanza, special- mente di natura giugulare. Ma non rare varietà di disposizione vascolare possono riscon- DI UNA PARTICOLARE DISPOSIZIONE DI VASI VENOSI NELLE scimMIE EC. 407 trarsi nel far dell’ Anatomia sui cadaveri umani, per le quali tronchi venosi giugulari, a similitudine di ciò che avviene nor- malmente nelle Scimmie, vedonsi passare innanzi alla clavicola; e per le quali la vena cefalica dell’ arto toracico, lasciata la sua ordinaria sede di sbocco nella ascellare, mettesi coi vasi giugulari in rapporto. Già MecgeL si era accorto che la vena giugulare esterna può, per giungere al punto di sbocco, deviare dal suo decorso. Così pure se n'era accorto Krause (!). —— Ma verrò senz’ altro al caso di Nvrn (?), il quale osservò che la vena cefalica prima di get- tarsi nella succlavia (Fig. 3) dava un ramo, che, passando in- nanzi e sopra alla clavicola, imboccava nella ultima porzione della giugulare esterna; così si aveva la formazione di un anello venoso circondante la clavicola, anello costituito dal ramo ana- stomotico rammentato (giugulo-cefalico), dalla giugulare esterna e dal punto di confluenza della giugulare esterna, della cefalica, e della succlavia tra loro. Questo caso di NurNn ricorda moltis- simo la disposizione venosa normale nelle Scimmie: infatti cosa abbiamo in esso? Abbiamo un anello venoso attorno alla cla- vicola, anello in cui imboccano la vena cefalica e la giugulare esterna; tralasciamo di discutere se il ramo venoso anteriore alla clavicola sia piuttosto proveniente dalla cefalica nella giu- gulare o piuttosto da questa nella prima: chiamiamolo addirit- tura branca giugulo-cefalica e riconosciamo che, per esso, si ha un anello venoso circumcelavicolare con sbocco delle due vene cefalica e giugolare esterna. — Ma casi più classici di omologia tra anomalie o varietà venose dell’ uomo e disposizione normale nei Primati ci vengono presentati dalle osservazioni di GRUBER (*). Questo anatomico ha descritto tronchi giugulari esterni, talvolta di calibro uguale alla vena giugulare interna, che passavano innanzi alla clavicola, per gettarsi nella succlavia. Talvolta il vaso giugulare esterno gettavasi nella succlavia, passando sì innanzi alla clavicola, ma non circondandola in un anello: ed (‘) Krause Fr. Th. — Handb. d. menschi. Anatomie. Hannover, 1838. (£) Nuhn. A. — Beobacht. und Unters. aus dem Gebiet der Anat. ete. Tav. IV, fig. 4. Heidelberg, 1849. (3) Gruber W. — Vier Abhandl. a. d. Gebiete A. medie-chir. Anatomie. Ber- lin, 1847. — Neue Abweichungen der Vena jugularis externa posterior. Bulletin de l' Académie imperiale des Sciences de St.-=Pétersbourg. T. XII, N. 3. 1867. 408 E. FICALBI è questa una perfetta corrispondenza con ciò che io ho detto aver osservato in un Cercopiteo sabeo, in cui non si aveva anello circumclavicolare, ma la giugulare esterna gettavasi nella suc- clavia, passando innanzi, non di dietro come normalmente nel- l’uomo, alla clavicola. Altre volte, dice Gruser aver visto la clavicola abbracciata in un anello venoso giugulare, alla cui costituzione partecipava, col suo sbocco, la vena cefalica, e queste anomalie ricordano la ormai mille volte rammentata di- sposizione normale nelle Scimmie. Anche nell’ eccellente Anatomia di Quan (') si legge: che la vena giugulare esterna fu vista talvolta passare innanzi alla clavicola, unirsi alla cefalica e aprirsi poi nella succlavia. Si legge anche che la vena cefalica passa alcune volte sopra e dinanzi alla clavicola e termina nella giugulare esterna; tutto Ciò è in perfetta corrispondenza col caso surrammentato del Cercopiteco sabeo. Nel libro di Quan si trova anche che sovente vena cefalica e giugulare esterna sono riunite da una branca comunicante o giugulo-cefalica, che scorre al davanti e sopra la clavicola: e questo caso ricorda l’ anello venoso normale delle Scimmie, in cui quello che ho chiamato ramo anteriore di di- visione della giugulare esterna può considerarsi la branca giugulo- cefalica ora rammentata. Sarebbe bene che sui cadaveri umani chi ne ha l’ opportunità non trascurasse di cercare le descritte anomalie per sempre meglio porle in luce, ed io farò ciò, ove mi si presenti il destro. Certo qualche volta l’ osservatore potrà trovarsi innanzi a semplici anomalie per inversione di volume, come direbbe Sarrer: così se si ingrandisce molto quella venuzza, passante sopra la clavicola, che ho detto in dietro trovarsi spesso tra vena cefalica e suc- clavia, si avrebbe questo genere di anomalia. Ma oltre al fatto che anche le anomalie per inversione di volume possono sovente esser considerate come veri e proprii casì di atavismo, si ha che le anomalie delle quali ho trattato, sono molto più interes- santi di un fatto di semplice inversione di volume, e rappre- sentano con più evidenza degli atavismi. r (1) Quain’s. — Elements of Anatomy. Ninth edit. London, 1882. Pag. 499 e Pag. 510. — Vedi anche: Henle J. — Handb. der sistematischen Anatomie des Menschen, Band III, Gefésslehre. Braunschweig, 1876. Pag. 414. DI UNA PARTICOLARE DISPOSIZIONE DI VASI VENOSI NELLE SCIMMIE EC. 409 Concluderò dunque e ripeterò: che nelle Scimmie e nei Lemuri (nella maggioranza delle specie almeno) si trova che la vena giu- gulare esterna si biforca poco dopo nata in due rami, che abbrac- ciano la clavicola in un anello, passandole uno indietro, uno innanzi, prima di gettarsi nella succlavia: di questi due rami l'anteriore alla clavicola riceve lo sbocco della vena cefalica dell'arto toracico e può dirsi, per ciò, [ramo giugulo-cefalico. Quando 1’ anello venoso suddescritto non esiste, si trova almeno che la giugulare esterna passa anteriormente alla clavicola, prima di gettarsi nella succlavia, e riceve lo sbocco della cefalica. — Nell’ uomo a cose normali non si ha nulla di tutto ciò; per anomalia vasale, tuttavia, possono aversi disposizioni omologhe alle suddescritte: può aversi, cioè, un anello venoso attorno alla clavicola, formato dalla giugulare esterna e da un ramo giugulo- cefalico, può aversi anche che la giugulare esterna entri nella succlavia passando innanzi alla clavicola, e avendo rapporto con la vena cefalica. Tutto ciò ho voluto dire, non per la vanità: di una pub- blicazione, ma per aguzzare la curiosità degli investigatori, i quali potranno giudicare se nulla v'è di buono in questo mio scritto. SPIEGAZIONE DELLE FIGURE Tav. XIV. Fig, 1. Vena cava anteriore di un giovine Cyrocephalus Sphinx, ILLIG. con tutti i suoi rami di origine visti anteriormente. — vc a vena cava; va z vena azigos alquanto spostata a sinistra; #» è tronco venoso brachiocefalico o innominato sinistro ; vm è vene mammarie interne; vs vene succlavie; vgi vene giugulari interne; vv vene vertebrali; 2 tronchi di ricomposi- zione della giugulare esterna, che sta per gettarsi nella succlavia; va p vena auricolare posteriore; v# m vena temporomascellare ; v 9 e vena giu- gulare esterna, che si biforca tosto in un ramo anteriore, o giugulo-cefalico, ra, e in un ramo!posteriore, rp; vsc tronco di vene muscolari, spe- cialmente di scapolari superoposteriori; x m ramo venoso muscolare; vc vene cefaliche, provenienti dall’ arto toracico. Fig. 2. Raffigurazione in sito della vena giugulare esterna destra di un Macacus Sinicus, Desm. (La Scimmia è posta in posizione eretta, con la testa for- zatamente rialzata). — vap vena auricolare posteriore; v#m vena tem- poromascellare; le due rammentate vene si riuniscono senza generare un vero e proprio tronco unico giugulare esterno, come nella Fig. 1, ma dal loro punto di unione tosto si staccano il ramo anteriore, r a, o giugulo- cefalico, e il ramo posteriore, r p, costituenti la giugulare esterna, i quali, dopo aver abbracciato la clavicola, si riuniscono in un tronco comune, 4, che sbocca nella vena succlavia; vs vena succlavia, tirata un po’ in basso: su essa si vede appena la origine della gingulare interna, gi; vc vena cefalica; gp muscolo grande pettorale; w d muscolo deltoide; c 2 clavicola; mt muscolo cucullare o trapezio ; sm muscolo sternocleidomastoideo. Fig. 3. (secondo Nuhn). Anello venoso anomalo circondante la clavicola nel- l'Uomo. — vg e vena giugulare esterna; vc vena cefalica; c 7 clavicola. PESO 2 DE eee Nidi DELLE MATERIE GONTENUTE NEL QUARTO VOLUME C. J. ForsytH Mayor. — Materiali per servire ad una storia degli Stambecchi PE AIR SORA . CM Manzoni E G. Mazzetti. — La spugne fossili di Morino , A. BarBAGLIA. — Sulla Bossina ia De SreFANI. — Le acque termali di Pieve Fosciana SesTINI. — Sopra alcuni sali ammonici neutri. Ra zie- LawLEey. — Resti fossili della Selache trovati a Ricava presso DHOAP Santa Luce È ; % È È C. J. ForsytH MAJOR. — E DOS sor SRI cinctus s di Lawley A RE i) IS” IO T. CarueL — La questione dei Tulipani di Firenze Sa E G. MeNnEGHINI. — Descrizione dei nuovi Cefalopodi titonici di Monte Primo e di Suavicino . scio LE A È a", A. D'AcHIARDI. — Nuova specie di Trochocyathus era Licia titonica di Monte Primo presso Camerino nell'Appennino centrale. M. CanaAvARI. — Sui fossili del lias inferiore nell'Appennino centrale. G. GrattAROLA E F. Sansoni. — Studi chimici sulla Heulandite e sulla Stilbite di S. Piero (Elba) . : s : G. GratTAROLA. — Studii chimici e ottico- li su di una varietà di zircone e su varii prodotti artificiali . È G. A. BarRBAGLIA. — Azione del calore sulla mescolanza d' isobutir- rato e formiato di calcio. E PIERA MES RIRDAN G. A. BaRBAGLIA E P. Gucci. — TOCE del calore sui bisolfiti e sulle loro combinazioni coll’ acetone . » » » » » » 105 1ll 117 131 139 14l 173 177 188 192 412 INDICE R. LAawLEY. — Nuovi denti fossili di Notidanus rinvenuti ad Or- ciano Pisano .- ile eee Ra A. BATELLI. — Studio istologico degli organi sessuali complementari Invalcuniemo]luschi erre Str E 05 G. GRATTAROLA. — Contribuzioni mineralogiche. - Orizite e Pseu- donatrolite: due nuove specie del sott’ordine delle Zeoliti . . » 226 A. D’'AcHiarDi. — Coralli giurassici dell’ Italia settentrionale . . » 233 F. Sansoni. — Contribuzioni mineralogiche. - Sulle Zeoliti dell’ Isola d'Elba a e I e I SI A. Manzoni. — Echinodermi fossili pliocenici . . . e SI G. MenEGHINI. — Fossili oolitici di Monte Pastello 5 provincia dil=Verona.: 0 fe E TI EI RESO A. MaRcacci. — Sull’ innervazione dello stomaco nella rana, studio sperimentale: > Vani i a LS DO ES RrcAnzo = Mnsevtiintalto mare eee 06 » — Di una particolare disposizione di alcuni vasi venosi del collo nelle Scimmie e della possibilità di spiegare con essa alcune anomalie venose reperibili nell’ Uomo . . . . . . . >» 400 ERRATA CORRIGE Pag. 5 verso 9 (del sommario) contra- eccitazione latente zione latente > 7 >» ll persudere persuadere >» 9 >» 9 Langet Longet » .ib. >» nota(*) Tares Tahres » 15 verso 17 Du-Bais Du-Bois >» 26 >» 10 Langet Longet » 29 » 3leseg. più o meno pron- più o meno prontamente, una contra- tamente; una contra- zione muscolare; ma... zione muscolare, ma... » 32 » 34 trasformarla occitatrice trasformarla in eccitatrice se DEI: e di= diversi diversi Non avendo il Dott. De Bosniaski presentato ancora il manoscritto, cui sì riferivano le tavole XII, XII e XIV del volume IV, la Società per non tardare ancora la pub- blicazione del terzo fascicolo, con cui deve chiudersi quel volume, ha sostituito alla memoria del Dott. De Bosniaski î lavori e le tavole, che fanno parte di questo stesso fa- scicolo. Att. Soc. Tose.Se. Nat. Vol.IV. Tav. XII A.Marcacci. Inn. Stom.Rana. A {heumogasbrico I Simpulico | è ) | | | ST: Î pil] | | | | | ] | | | | | | | | API i i i di : i i 5° 2° s° 2° SR: POCO Sag d° 2° VAZZZZZZARIA sa. 5° VEZIEZEZZZ 3 10° SMTR° SES Lsporienze SE MF MU VALS Ve VIE ME NE VE VE Att. Soe. Tose.Se. Nat. Vol.IV. Tav. XIII A [heumogastrico ì il I | : I | ai \ealic ( les si : , na o per Fd esa L . ii LEA A I | Resa FE gl SO) ra ea da im A ERE ica Lea Redi AA e Se Lsperienze IE ILE rar, dA A-Marcacci - Inn. Stom.Rana. 4 Simpatico HAT EE L I Vene nelle Scimmie ecc Ficalbi dis. Cristofani lit. Tit. Gozani. Pisa _ 1 x MAT, LIE l) DEI Le X pay - (ne cupi pa PEA AIR a Aa dia "alepnge ndo pe enti Gao fe PAR MU sera te ma ianioi LI o ari IR primi in et prede Re ap ne namento » Med dose did dig et pid pipe tr 09 hdi dr Lo PR ZEATA LSARIE E AL x SMITHSONIAN Pr iprpibripepd id dd ati D' bdn de pel OC: DSSSCCOCSASo Po si ea Mipcge inep (Ro tae pio CPI TNRIS Lp VS fee pin pere rt nt | ) RURALI SENI Pg pedi DPI III LL to pmi OI INS È E E nta cene o sora i . erp e nai Rete piene re ee Pete pere ISTANTI RALLPIEPITESEO 4 VI RO I Paisiemiv pet ha n pe ITA +33 Deo da Pene A ns - pigri mraco ppi pri e: pistein pia (4 e ATTO Mme) PRIA . a Pine pn poso pui Dnast a etnie pit a IERIden SLIRSTA: GTO SIN RA te Hive Pre SR EER R perh Rin prora en de a Solis (RAR A RICA ERARIALI OI IRINA DI unpane * ao TW. RIE DOCS ROSS nnt ANOCISOSOLSOO i SIGLA AT dI ila SCR CISon ardito neh rane AO NIE Ra en viene ne vieni crt PESATA MEANA E Viswrd in rti fp poro ppi Mieca posero pento i arte potete ‘EA Mad Edera 4 O Rie Senda Ie) 16 Re ICI RIO GI SAI peroze po det rtomee È ie di AR PRAIA puts iie aio ; ro DOTE dirt Peio T pi alta dra aa n Sono i Kaka nia: ns G cedere mpeg a nent A di OTO prmei p rn vr ene nina Firma 9 RIDIRE Rd cp 90 re Sett 6 E 9 pe 8) 09 RENI DEC i, ILTAI e Nip sedere di : } DOSSCOS fi Bd RA dgr dA a PI god mid forget ont i roneata; Pm o wise pd Spie pra pardeiateieaa MASO, RE ap AAA IR) ® pipa Hp dior Moiboe Jon pito poi ne DOGS % * riot iraesra ta ti e si dale cos CSI at tana t ume a DE n puitio eni Afidie e sh iglesiene te ca 5 Lepre ù aiepracn Nulg lane I perni art CEE Irene PIttA: CITI STI SII è eremo Spia piena hea i CISSODDO CO gra nr t REI, $ ppi DÒ pis PI AA crd i Reperti Pi REA " 4 PIERA pi io, i A - ISSBGON Mrasip bath uno ENT tern TILOLiI Materazzi De Saracena nl ARRE vee pirb At pegtare (58 % ; ; ; te a arte RESCISOSEA ni AME Lentiai % Bert er Ade Pareri a pra dirai e = 3 Pa i ‘ È î pp adatte bri n — » i à, IRE 7 È Ù 1 : ta ) } ° 4 za: a titalzion 223000 rta Li È co » Ri dari ne rena sa e dA a Ù fs " F AUREA delta ne : V re Pr telicate ati re terre tha È È Ò b r0ayatd 4 x ELENCO GIS. 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Ù a è n» t: ao : E da È + fl * ? x È pie: gain + È : È ù L s o y prata DI } do ° # PEC ; NO e PIPE TONO] DE sa Verse arene i DES È % 6, ta NIN OZONO E w x DOT net Let) BOSSO DOGO IO . x Ret Fi er » ri trim et de a ur pe è Ù sl î N x P É » e , on di ERO NON T AULA i 4 ea brina in panto as G Mist » 1 alal cienza a e E DODO COGLI ‘ À i; , LAI A Fiato ve, s < ; DETTE ir? PEA vis ai atei Pi Pi sf > mula stima rdrare rd rd ie dARI ACACIA ‘ È Pi 3 INCACI Vere } P : CN RE e e I SA EN I SIE È è È RIOLO CORONE nt Ria drdst wlecore dti dd + derspig o , COCO. è n s 4 v Me toseicl eterna sncee 3 SACRO » Rita een are rreare r usero nad: detprent ene pg RE pl re pdo dad b e + ALA h TI Ararat paia dci da cedro ed OOO MORO ME NERI per 20 ESE IE LEI LI RS 9 @ Repeat ie eta i ire }aWet PEA POE SIO DIS PR e di e va > : l'eponte e ' RAT RI v- 6 c CISA Pret sara mn ignari irene d e er s CT Freda y P i s x we idozr petto è + » V . 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