BIBLIOTECA RARA

PUBBLICATA DA G. DAELLI VoL. XXI.

PETRONIO

Proprietà letteraria G. Daelli e C.

TIP. DI A. LOMBARDI.

SATIRE

DI

TITO PITROMO lltBITBO

VOLGARIZZATE ED ANNOTATE

DA

VINCENZO LANCETU

CON l'aggiunta dei frammenti

TRADOTTA DA MARCELLO TOMMASINI

E DI DUE SAGGI

DI UN NUOVO VOLGARIZZAMENTO

DI PETRONIO

PER LUIGI CARRER ED ANTONIO CESARI.

VCL. UNICO

MILANO

6. DAELLI eCOMP. EDITOR MDCCCLXIII

vili

Weidmannos, 1862); di che se abbiamo le sozze inventive di Elefanlide , le abbiam almeno di mano di Giulio Romano.

Il Burmanno lode a Petronio di avere rapprC' sentalo con parole onestamente velate le cose diso- neste che aveva a mano; ma ci pare sollecitudine d' ingegno^ che raffina le idee del piacere, non studio di modestia. Sarà quella nube di lino, queWaer tes- suto, (nebula linea, ventum textilem), com'egli chia- mava il velo onde si velavano le sallatrici, che il Du- four dice essere state le stesse che queW almee , le quali hanno conservato neW Indie la tradizione del- l' antica voluttà. Nube che non nascondeva la bel- lezza, ma ne facea maggior bramosia. Anche questo velo è tolto nella presente versione, e l'idioma ita liano, meno sfrontato del latino, ne sente rossore.

IX

Vincenzo Lance Hi nacque a Cremona nel 1767 e venne a Milano co' suoi nel 1780. D'ingegno facile e versatile ebbe quella curiosità che lo trasporta per tutti i sentieri della scienza e talora noi lascia mai fermarsi in uno studio e riuscirvi eccellente. Gio- vanni Gherardini , prima d' essere un gran filologo fu medico ; */ Lancetti prima d' essere un polistore fu chirurgo. Curioso anche di novità o meglio de- sideroso del progresso politico consentì co' novatori francesi e ne seguì la fortuna. Nel 1799 emigrò in Francia ; tornò con loro in Italia, s'impiegò in cose di governo e singolarmente presso il Ministero della guerra del primo regno italico. Caduto Napoleone , e venuta questa nobile terra in man dell'Austria, il Lancetti fu custode dell'Archivio militare del caduto governo, e come quel deposilo fu trasferito a Verona,

rarchivisla ebbe riposo e pensione. Ond' egli prese più che mai gli sludj ad occAipazione e conforto, e s'abbandonò alla mania del bibliofilo, mania che pare innocente anche ai despoti. Egli spendeva il tutto in libri, e ci narrano che la moglie gli volasse le tasche prima eh' uscisse di casa, perchè trovandosi senza denaro si temperasse. Egli morì pieno d'anni in Milano il iS aprile del 1851.

Nel beato rifiorimento delle lettere classiche nei troppo brevi anni del bello italo regno il Lancetti si volse a Petronio, e lo ritrasse, come direbbero i pittori, di colpi, con franchezza e disinvoltura sin- golare, non lasciando perù talora d'essere spada alle scritture, torcendole a suo modo, accettando per buoni e genuini i supplimenti del Nodot, e sciabolando, ci si permetta questa parola che come si vede deriva

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da Dante , i verbi assai crudelmente , e scegliendo nelle colonne del Mastro fini , le forme eh* eran per Vappunto biasimale o reiette. Onde il dissimo, il posimo, e con doppio barbarismo feciruo de'baci ; e lombardeggiando senza un rispetto al mondo; ma facendosi perdonare i suoi trascorsi con la sua faci- lità e grazia, come si perdonano i suoi peccati ad un libertino di spirito. Sicché noi, sebbene ci sentissimo accapponare la carne da tutti i suoi solecismi, non toccammo il dettato seguendo solo a puntino V edi- zione bresciana del Bettoni 1806 e resecammo le note che non contenessero spiegazioni del testo e giustifi- cazioni della versione, ma solo raffronti volgari e altre cose inutili. Levammo la dedica ch'egli fece della sua versione a Giuseppe Luoso gran giudice e mini- stro di giustizia del regno d'Italia, in data di Milano

XII

1 dicembre Ì80Q, che ci parve allresì inuUle, ma lasciammo intera la sua prefazione, la quale con vi- vacilà e chiarezza ragguaglio dell'idee del suo tempo sulla satira di queW epicureo , che mori come uno stoico , e si vendicò di Nerone con spirilo mandan- dogli forse in questo libro medesimo il racconto delle sue occulte lascivie.

Forsechè il perdono di colpa e pena non si può concedere ai versi, come alla prosa del Lancetti, massime che egli scriveva sotto il regno di Monti e Foscolo, re doppi, come a Sparta e discordi come tulli i re doppi. Ma, sommato tutto, crediamo che questo suo tradurre piaccia più che non quello del Cesari, puro e talora a dello dei fiorentini improprio; a dello di tulli caricato che sarebbe parso un pedante anche a Firenze nel cinquecento.

XIII

Abbiamo aggiunto i frammenli^ di Petronio che trovammo nella Biblioteca degli scrittori latini di Giuseppe Antonelli (Venezia 1838) tradotti da Mar- cello Tommasini, e due saggi di traduzione di Luigi Carrer e di Antonio Cesari.

Quel gentile ingegno del Carrer aveva pubblicalo nella Strenna Italiana la versione dei primi para- grafi della Satira, e datala poi rivista e corretta al- VAntonelli, e il Cesari a petizione del Dottor Carlo Bologna, buon filologo, tentato la Matrona efesina. L'erede del Bologna concesse all'editor veneto il saggio che ora noi ristampiamo, perchè, se errammo a dire che il Cesari piacerebbe al presente meno del Lan- celli, possa, com'egli direbbe, riscuotersi, notando però che lo stile affaticato più affatica quando si distende non solo per una breve novella ma per tutto un libro.

X)V

Noi non inUndemvio dare un* edizione critica di Petronio ; siatene una versione che lo facesse gu- stare. Ci parve che il Lancetti potesse ben valere a questo fine, e che il latino non v' avesse luogo. Am- mettendo il testo, avremmo dovuto seguire in assai parti r edizione già citata dal Drechelero, e rifare il lavoro del Lancetti, peso non dalle nostre braccia, ovra da polir con la nostra lima; anche muti- larlo nelle parti che i migliori giudici non credono genuine. Se non che ci parve di dover servire al facile diletto di coloro che d'un libro piacevole non voglion farsi un rompicapo. È vero che a tal rag- guaglio avremmo dovuto lasciare parecchi frammenti che non hanno utitilà che per la lingua latina, e tradotti non servono. Ma non volemmo mutilare il lavoro del Tommasini, e i belli e gli arguti acqui- stino grazia o perdono agli altri.

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speriamo che questa rislampa non ci Uri addosso gV incerti che toccarono ai versi d'Eumolpione. Che siano le Satire di Petronio Arbitro,

Assai la voce lor ciliare l'abbaia.

v'ha luogo l'inganno della vecchierella che guidò male Encolpo: Subinde ut in locum secre- tiorem venimus centonem anus urbana reiecit et hic , inquit , debes habitare. Senzachè tulio non è osceno in Petronio. Egli è il critico più fine della corruzione romana ; ei la dipinge con tal verità che muove più stomaco che riso. Scendiamo in questa tomba come Andreuccio in quell'arca dell'arcivescovo di Napoli, per trarne il caro anello ; involiamone il bello stile, e le curiose notizie dell' antichità^ tu- randoci il naso.

xvn

PREFAZIONE

DBL

TRADLTTOUE.

Petronio Arbitro è per comune sentenza de' critici annoverato tra i classici della latinità. 0 percln* i fram- menti che di lui ci pervennero, destano vivissimo desi- derio del rimanente, o perchè troppo liberamente abbia scritto de' costumi de' tempi suoi , o per la difficoltà di bene intenderlo, o infine per le controversie che a suo riguardo si sono agitate nella repubblica letteraria, egli ha sempre eccitata la curiosità de' studiosi. Merita dun- que a mio avviso che alla traduzione dell' opera sua venga premesso un discorso , col quale , dopo tante e tanto discordi opinioni de' dotti, abbiasi con buone ra- gioni a conoscere chi veramente egli fosse, a quale età vivesse, qualsia l'oggetto delle sue Satire, e qual conto di esse abbiano fatto in orni tempo i 'etterati più in- signi di tutte le colte nazioni.

Che la famiglia de' Petronj fosse Ro. na, e addetta air ordine equestre, sono tante le prove prodotte dagli scrittori, e conser ateci dalle antiche iscrizioni, che non è pur lecito il dubitarne. Forse da quella derivarono i Petronj di Marsiglia , che il marsigliese Gennadio ha Petronio a

XVllI

celebrati ncU' opera sua degli uomini illustri , da cui gli scrittori francesi traggono quasi tutti argomento per collocarvi anche l'autor nostro. Ma perchè i monumenti della famiglia Komana sono di più antica data di quelli dell'altra famiglia, cosi, mancando più valevoli ohic- lioni , io stimo che a quella il nostro Arbitro debba appartenere.

Che egli avesse il prenome di Tito datogli da Ta- cito, e non quel di Gajo attribuitogli da Plinio (1), a me ssmbra egualmente sicuro. Imperocché, concesso che egli sia il Petronio rammentato da Tacito nel sedicc- simo de' suoi annali, come una dello molte vittimo della crudeltà di Nerone, e Plinio accordandosi con Tacito sulla morte inflittagli dalla ferocia di quel Principe, è da credersi piuttosto alla esattezza dello storico, che a quella del naturalista , e per conseguenza doverglisi mantenere il prenome di Tito. Cessa poi ogni dubbio 8U questa denominazione, ove ritiettasi che quasi tutti i codici, dai quali si è tratta la presente opera, portano in fronte la sigla T. nella iscrizione

r. Petronii Arbitri Satyricon.

Il cognome di Arbitro ha occasionato tra i critici assai più discussioni ed indagini che il prenome. Ma- lamente Pier Daniele Aurelio in una sua prefazione pretende che Tacito gli attribuisca il cognome di 7'ur- piliano. Altro b presso Tacito il Petronio Turpiliano, altro è il Petronio Arbitro. Il Turpiliano fu console nell'anno 815 di Roma insieme a C. Giunio Cesonio Peto, e ci resta di essi la legge Gitmia Petronia, che può riscontrarsi nel libro 24. Digesto de manumissioni- bus. Costui mori sotto Galba, come si ha da Tacito nel primo libro delle sue storie, e l'altro mori sotto Nerone, come ci riferisce egli stesso nel sedicesimo degli annali. Tuttavia Tacito, parlando deW Arbitro, dice ch'ei fu

(1) ilisu Nalnr. lib. 37, cap. i.

viceconsolo in Bitinia , indi consolo ; e noi dalla serie cronologica de' consoli altro Petronio non rileviamo che il solo Turpiliano summentovato. Ne segue adunque che Tacito ha commessa una inesattezza attribuendo all' uno le dignità dell' altro, laddove questi due Petronj fossero realmente due persone diverse. Che se per iscu- sar Tacito si vuol che fossero una sola persona , noi allora l'accuseremo di una inesattezza ancor più grande quale sarebbe il farlo morir due volte, e in diversi tempi, cioè prima sotto Nerone , poi sotto Galba. 0 nell' un caso, 0 ncir altro non può evitarsi a cosi illustre isto- rico questo leggero rimprovero, quand' anche si suppo- nesse che Arbitro fosse fratello di Turpiliano , e seco lui viaggiasse in Bitinia , e seco a Eoma in occasione del consolato tornasse, dove poi dal favor di Nerone, del quale regolava i piaceri ad arbitrio suo, gli venisse il cognome, o soprannome di Arbitro. Supposizione che a me sembra accettabile, e che diminuirebbe di molto r error dello storico che 1' uno confuse coli' altro.

Ma per essere pienamente informati del nostro Pe- tronio Arbitro veggasi il racconto che Tacilo nel ci- tato luogo ne ha lasciato. Io ne riporto la traduzione del Davanzati. u II. giorno dormiva, e la notte trattava u le faccende e i piaceri. Come agli altri l' industria , u a lui dava nome la trascuranza ; fondeva sua fa-

- coltade non in pappare e scialacquare , come i più , ma in morbidezze d' ingegno ; quanto più suoi fatti e

^ detti pareano liberi , tanto più , come non affettati ,

- piacevano. Viceconsolo in Bitinia, e poi consolo, riu- u sci desto e intendente. Ridato a' vizj, o lor somiglianze u. diventò de' più intimi. Fu fatto maestro delle delizie: u ninna ne gustava a Nerone in tanta dovizia, che Pe-

tronio non ne fosse Arbitro. Onde nacque invidia in u Tigellino , eh' ei seco competesse , e de' piaceri fosse

miglior maestro : adoperando adunque la crudeltà, più « possente nel Principe di ogni altro appetito, corrompe

XX

u uno schiavo a rapportare che Petronio era tutto di u Bcevino : non gli è data difesa : la famiglia quasi tutta u rapita in prigione. Cesare per sorte era in Terra di u Lavoro; e Petronio, giunto a Cuma, vi fu ritenuto; u ma non corse a torsi la vita: fecesi tagliar le vene, u poi legare , poi iscioglicrle a sua posta , e disse alli tf amici parole non gravi, da riportarne lode di co « stante: e fecesi leggere non l' immortalità dell' anima u non precetti di sapienti, ma versi piacevoli: ad alcuni ti donò: altri fc' bastonare: andò fuori, dormi, acciò la « morte , benché forzata , paresse naturale ; non come molti che moriauo , adulò nel testamento Nerone , o •« Tigellino , o altro potente ; ma al Principe mandò

scritte le sue ribalderie con tutte le sue disoneste

- foggie, sotto nome di sbarbati e di femmine, e le si-

- gillò e ruppe 1' anello, perchè non fosse adoperato in a danno d' altri. Ilaravigliandosi Nerone in che modo

le notturne invenzioni si risapessono , si ricordò che «t Silia, donna conosciuta come moglie di un senatore,

e sua, tolta in ogni sporcizia, era tutta di Petronio: tt e caccioUa in esiglio per odio, ma sotto colore di aver u ridetto quanto avea veduto e patito. "

Plinto (1) attribuisce la morte di questo cortigiano ad una ricchissima tazza di pietra orientale, di cui venne vaghezza a Nerone di farsi erede.

Dopo un racconto cosi circostanziato e preciso , chi crederebbe che uomini dottissimi non solo abbian con- teso al nostro Petronio il merito di aver composte que- sto Satire , ma fin anco lo abbiano creduto uu nomo immaginario, e mentito ?

Quest'ultima opinione fu lanciata leggermente da Pietro Burmanno (2) , come semplicissima sua conget- tura. Egli osserva che alcuni libri in luogo di portare

(1) ÌAK. Cit.

(t) N«1U prefazione alla ricchissima saa «dizione di Petronio

XXI

in fronte il nome di coloro che gli scrissero , adottano il nome di colui che grandeggiò nell' arte , della quale è in essi trattato, e adduce l' esempio de' libri intitolati Apicius de re ctilinaria, e Calo libellus dystichorum, i quali Apicio, Catone sicuramente composero, ma cosi furon detti , perchè Apicio fu uomo sommo nella ghiottoneria, e Catone neUsL severità de' costumi. Questa congettura, sulla quale il Burmanno non si ferma gran fatto, riconoscendola troppo debole e sfiancata, è stata ultimamente con molto apparato logico accettata ed ammessa come una verità incontrastabile dal signor Jgnarra sapientissimo Napoletano nella veramente dotta ed erudita sua dissertazione de Palaestra Neapolitana. Chi forzò Cicerone, dice egli, a dare il nome di Filippiche alle orazioni eh' ei scrisse contro Antonio , se non perchè eran dettate a simtglianza di quelle di Demostene contro Filippo , come è noto sino ai fanciulli f Sappiamo che il Petronio console riferito da Tacilo nel sedicesimo era salito in fama per tracuranza e morbidezza , che i suoi fatti e detti, quanto parean più liberi, tanto piacevano più. Dal- l' impudentissimo Nerone egli era stato innalzato Arbitro di sue delizie : scriveva leggiadre poesie e facili versi ; e cangiata poi la fortuna , e da Nerone costretto a morire volontariamente, ei mandò scritte al Principe le sue ribal- derie con tutte le disoneste sue foggie, sotto nome di sbar- bali e di femmine. E ciò potrebb' essere ragione più che bastante , perchè un libro di argomento ed ingegno quasi consimile, ove gareggiano /' erudizione, V eleganza, e il con- corso di molli versi e di oscenissime ribalderie , atteso il costume d'imporre que' nomi che pili convengono alle cose, venisse intitolalo Petronio Arbitro : imperocché solamente con questo titolo il lettore riman prevenuto, che il libro cosi intitolalo esce come daW officina di Petronio, e quasi è scritto di sua mano.

Io non capisco in qual modo questa opinione cosi ragionata possa persuadere non dico un Jgnarra, uomo

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dottissimo , ma il più piccolo principiante tra i critici. Gli esempj prodotti dal Durmanno , e da lai i^tesso ri- conosciuti per poco sodi, riduconsi all'opera de re cu- linaria, che dice attribuita ad Apicio e ai distici mo- rali, che dice attribuiti a. Catone, mentre Apicio, Catone gli scrisse. Questi due libri anche nel loro titolo primitivo non ne annunciano altrimenti per autori Api- cio, 0 Catone \ al contrario essi portano un frontispizio, che toglie la presunzione che Catone o Apicio gli scri- vesse. In quella forma che il trattato delle buone creanze del nostro Giovanni della Casa è intitolato Galateo , dal nome di una persona che in fatto di urbanità sapea passar per modello, cosi di quei due trattati uno è in- titolato Apicio, ossia dell' arte ntcinesca, l'altro Catone, ostia distici morali , per la giìi dcttji ragione che e Catone ed Apicio erano sommi uomini rispetto all' ar- gomento di quei trattati); ma il loro titolo non dice es- serne essi gli autori. AH' incontro tutti i codici delle Satire di Petronio non hanno il titolo di Petronio, os- sia Satire, ma bensì quello di Salire di Petronio: Titi Petronii Arbitri Satyricon, cioè aggiungono al titolo il nome dell'autore. Quanto poi all' esempio prodotto dal- l' Ignaira esso è ancora più debole, perchè il titolo di Filippiche dato da Cicerone alle sue orazioni contro M. Antonio, non è applicabile all' autore, alla persona combattuta, ma soltanto al carattere di quelle orazioni, il cui oggetto rassomigliavasi all' oggetto per cui De- mostene inveiva contro Filippo.

Tale esempio varrebbe, se il titolo dicesse Salire Pe- troniane ; perchè alcuno potrebbe intendere che tali Sa- tire fossero scritte sullo stile e sul gusto di quelle di Petronio. Ma noi dobbiamo assolutamente prestar più fede a ciò che ne portano i codici, che ad una opinione vaga e sforzata di un erudito. Conchiudiamo dunque che il nome dell' autore non è mentito, immaginario, o almeno che le ragioni prodotte dal Burmanno e dal- l'/yimrra non provano nulla.

XXIII

L' altra accusa data al Petronio di non aver egli com- poste le presenti Satire, viene principalmente dal Bur- manno medesimo. Egli fa un lungo ragionamento , col quale tenta persuaderci che non poteva un uomo ridotto a morte pensare a vendicarsene collo scrivere queste Satire, per le quali abbisognava tempo e tranquillità ; tanto più (segue egli^ che esse erano contenute ne' co- dicilli dal condannato mandati al Principe, i quali per la loro natura e forma ( di cui va con molta dottrina parlando ) non potevano tanta scrittura rinchiudere , quanta l'opera ne esigeva. Egli certamente non mal si apporrebbe, se fosse vero che Petronio avesse aspettato a scrivere quando cadde in disgrazia , ed era per finir la sua vita. Ma 1' ordine , la leggiadria , 1' eleganza , e la varietà che in queste Satire si ammirano , non po- trebbero ottenersi giammai da scrittore anche valentis- simo nel termine di tre o quattro giorni, e molto meno il Poemetto della Guerra Civile che vi è inserto. si può dubitare che gli scritti mandati a Nerone non do- vessero essere voluminosi, giacché le ribalderie, e tutte le disoneste foggie e notturne invenzioni ( che poche e leggieri non furono) contenevano di quel regnante. L'au- tore adunque non aveva perduto tempo a registrarle e porle in ordine ; e ben si vede che non aspettò a farlo quando fu condannato, perchè anzi a tutt' altro in quei pochi giorni die opera, che a scrivere, come Tacito nota. Dal che procede ch'egli avea già disposti i suoi codi- cilli, e che scelse il momento della sua morte per man- darli a Nerone. Evase adunque le difficoltà sopraccen- nate, perchè non crederem noi che Petronio sia il vero autore di queste Satire ? Se Tacito ci assicura eh' ei mandò scritte al Principe le sue ribalderie sotto nome di sbarbati e di femmine, dove è andato a finir quello scritto? E se Nerone 1' avesse bruciato, crediam noi che l'autore non ne avesse conservato almeno il primo schizzo e che questa sia la cagione delle lagune che vi si tro-

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vano per entro anche al di d' oggi T Se il Salyricon è appunto la storia delle ribalderie del Principe sotto il nome di sbarbati e di femmine, perchè non la crede- remo l'opera che Tacito attribuisce a Petronio? E per- chè il Burmanno e l'Ignarra, quando trattasi di tacciare d' immaginario e mentito il nome di Petronio come autor delle Satire, attengonsi alla testimonianza di Tacito y a la rifiutano poi quando trattasi di accordargli il merito di averle scritte? Quando una opinione è chiara, con- veniente, e sufficientemente provata e probabile, perchè hassi a forzar la ragione per rifiutiu-la e correr dietro a chimere ed a sogni V

Ma qui si fa innunzi il signor Ignarra , e ponendosi alla testa di tutti i commentatori, interpreti, e critici di Petronio, dice egli il perchè. Perchè Petronio Autor delle Satire non visse altrimenti al tempo di Nerone, ma a quello degli Antonini , e probabilmente di Commodo. Ecco le sue ragioni , che trovansi tutte nell' indicata opera de Palaetlra Neapolilana, a pag. 200 e seguenti. Egli nota che Ermero dice (nel Capo L'i della mia tra- duzione): lo servii quaranC anni, pur nessun seppe, se io mi frìssi libero o schiavo. Venni fanciullo ancor chiamato in questa colonia, pria eh' Ella fosse Basilica, cioè Augu- sta, o Imperiale , come il nostro erudito ha riccamente provato. Dunque (dice a ragione il sig, Ignarra) quando l'Autore scriveva, Napoli , che è la colonia sopra indi- cata , doveva essere recentemente [elevata al rango di Colonia Augusta , ossia di Città Romana. Ma Napoli non ebbe questo favore che dopo i tempi di Adriano , e forse a quelli di Antonino Pio; dunque l'Autore non è il Petronio di Tacito , e non è a Nerone , eh" egli ha voluto far onta. Osserva oltre a ciò che Petronio si lagna di quella vaniloquenza testk recata dall' Asia , onde il bello stile era caduto , e trova verosimile che il testé sia applicabile ad Apollonio chiamato a; Roma da An- tonino con tutta quella sua caterva di sofisti, che tanta

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licenza introdussero nel bel parlare. Inoltre osserva che non parla mai della Palestra di Napoli: ma bensì dei giochi Circensi, ch'egli assicura esservi stati introdotti dopo l'impero di Commodo; e finalmente argomentando dallo stile fiorito Petronio , dalla bizzarria delle in- venzioni, dalla riverenza agli astrologi, dalla trascuranza de' Dei gentili, da qualche oscuro sarcasmo al rito Cri- stiano, e da alcune voci e modi di dire che sono comuni ad Apuleio, prima usati dai buoni scrittori, egli con- chiude a crederlo posteriore di poco a S. Giustino martire, e in somma lo colloca tra la fine del secondo secolo e il principio del terzo, cioè all'epoca di Luciano, di Fi- lostrato, e di Apuleio.

Di tutte queste prove la prima sola è quella che ci conviene combattere , come la più calzante e robusta , se fosse vera. Che quanto alle voci non usate da buoni scrittori, prima di Petronio, noi vedremo tra poco colla scorta del Burmanno, che ciò dipende dall' aver voluto in alcun luogo usar le parole vernacole del paese, ove è posta la scena del suo romanzo; quanto ai frizzi vi- brati al Cristianesimo, non ve n'ha uno che veramente si possa conoscer per tale, nemmeno fra quelli avvertiti dal signor Ignarra-^ quanto alla trascuranza de' propri Dei, ella era in voga anche avanti Nerone , come ab- biamo dagli scrittori contemporanei ; quanto alla fede negli astrologi, e nelle stregherie, ne abbiam tanti esempj anteriori in Orazio ed altri fin dal tempo d'Augusto, che sarebbe inutile di citare ; quanto alla bizzarria delle invenzioni, ed allo stile fiorito, ciò è qualità dell'inge- gno, e non dei tempi , e quanto alla falsa eloquenza , ella era di già iaiputata da Orazio e da Quintiliano , all' età loro ; cosicché tutti questi argomenti non servono in verun modo ad ottenere l' intento di trasportare l' età del nostro Petronio dai tempi di Nerone a quelli di Com- modo , 0 anche più tardi. il cenno che vi si ha dei giochi Circensi in Napoli, e il silenzio della Palestra,

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induce alcuna certa prova di posteriorità^ ai perchè Del corso dell'opera non gli occorse parlare della Palestra, come perchè in bocca a quel volgo i trattenimenti della Palestra potevano aver nome di giochi Circensi, perchè cosi chiaraavansi nelle città romane vicine a Napoli , attesoché Napoli essendo già municipio, ed aspirando alla qualità di Colonia Augusta, poteva aver adottate anche preventivamente voci e forme di dire Romane , onde corteggiare anche in tal guisa i suoi dominatori. Finalmente il signor Ignarra accorda egli stesso che trovansi tuttavia alcune lacune nelle Satire di Petronio e può darsi che ne' periodi che se ne sono smarriti, vi fosse fatto cenno della Palestra, seppur vi si presentava occasione di nominarla. Non resta dunque a distruggere che la prima prova, come la più forte, e ciò riuscendo, tutto r edifizio dell' ypnarra dovrà cadere.

Ei dice in primo luogo che il nostro Autore doveva essere contemporaneo all' epoca di cui Napoli fu eretta Colonia Augusta, appoggiandosi alle parole testé citate poste in bocca di Ermero. Benché questa prima propo- sizione, che é la base di tutto il ragionamento, potesse in vari modi combattersi, tuttavia io la trovo buona ed ammissibile, ed accordo che Ermera, ossia Petronio che il fa parlare, vivesse circa queir epoca. Ma Napoli, con- tinua il signor /j/narra, ancor non era Colonia Augusta ai tempi di Adriano , dunque Petronio è posteriore di Adriano. Ammetterei la consegueuza, se mi avesse pro- vato invincibilmente, che Napoli non fosse Colonia Au- gusta ai tempi di Adriano ; ma le prove , eh' egli ne adduce, sono si deboli a parer mio, o almeno si impu- gnabili, che io non so accettarle. Egli confessa prima di tutto che ignorasi assolutamente il tempo in cui Napoli ottenne di essere Colonia Augusta : accorda non esistere alcun monumento che ne faccia pur cenno: e per supplire in qualche modo a codesta ignoranza ei va rintracciando in Petronio se trovisi cosa che indichi

xxvn a quale età egli avesse appartenuto, perchè la sua età sarebbe press* a poco V epoca di detta Colonia ; e avendo pur bisogno di trovare a che appigliarsi , ammassa la qualità delle voci, i supposti sarcasmi ai riti Cristiani, la credenza agli astrologi , e tutte quelle altre indica- zioni , che noi abbiam® poc' anzi veduto quanto sieno inattendibili. Finalmente considerando che ai tempi di Adriano tutto era in Napoli foggiato alla greca, i ma- gistrati , i giochi , le cerimonie sacre , e che Sparziano parlando di questo Cesare dice ch'egli era dittatore ed edile ne' paesi latini, Demarca a Napoli, ed Arconte in Atene, conclude che dunque ancor non aveva codesta Città acquisiti i diritti e i nomi di colonia romana. Ma questa conseguenza non regge ; imperocché , essendo provatissimo anche per osservazioni ben ragionate del signor Ignarra medesimo, che l'azione della Satira di Pe- tronio è evidentemente in Napoli, ed essendosi ammesso che Petronio fosse vivente quando Napoli divenne Co- lonia Augusta, ciò nondimeno Petronio stesso la chiama città greca e non romana, perchè veramente ella fu tale, e sappiamo da Tacilo nel 15 degli annali che Nerone (cui sicuramente deve alluder Petronio) Keapolim quasi graecam urbem delegit. Quindi le foggie e le voci greche, massimamente rispetto alle cose pubbliche ed ai magi- strati non dovevano si facilmente tralasciarsi , anche divenuta colonia, in quel modo che anche ai di nostra una nazione qualunque venuta sotto il dominio di na- zione straniera non dimentica si facilmente le sue voci e costumanze per adottare del tutto quelle de' conqui- statori. Diffatto r Ignarra medesimo cita Slrabone, il qual testifica che il nome de' magistrati a Napoli parte eran greci , parte campani , cioè latini : cita alcune lapidi napolitane contenenti nomi greci latinizzati , ossia con desinenze latine , come noi tante volte adottando voci straniere diam loro la desinenza italiana, cita in somma decreti e formole di lingua greca, ma in foggia latina,

xxvni e somministra egli stesso argomenti e prove che distrug- gono implicitamente il suo raziocinio. E per qual ra- gione sarà egli permesso all' Ignarra nella mancanza assoluta di monumenti provanti 1' epoca della qualità coloniale data a Napoli, di supporla posteriore all'im- pero di Adriano, appoggiandosi a prove che n»n sono palesemente attendibili , e non sarà jiormcsso a me di supporla contemporanea a Nerone, per gli indizj so- praccennati, come per la facile congettura che può aver- sene dall' aver Nerone eretto in colonia la città di Poz- luolo, come si ha parimenti da Tacito, e quindi essere probabilissimo che la egual dignità accordasse a Napoli, città più ragguardevole di Pozzuolo, e che egli, come vedemmo poco fu, prediligeva?

Finalmente le prove addotte di sopra che l'oggetto della presente Satira sia Nerone, non lasciano, a mio avviso, dubbio ulteriore che il Petronio autor di essa non sia quello stesso Petronio che dannato a morir da Nerone, gli mandò scritte le sue ribalderie. Dal che ne procede che come Petronio era a Nerone contemporaneo, cosi Napoli venisse eretta in colonia ai tempi Idro.

Notisi poi che il liunnanno medesimo , che pur in parte ha promosse codeste diflìcoltà sull'epoca e sulla identica esistenza del nostro autore, in altro luogo della sua prefazione è di parore che Petronio possa aver ve- duto gli ultimi anni di Cesare Augusto, e impratichitosi poi delle licenze di Tiberio, di Caligola, e di Claudio, le abbia volato pungere e satirizzare, senza però dero- gare a quella urbanità e decenza, che ne' più bei tempi d'Augusto aveva imparata. Locchè essendo, ognun vede quanto il signor Ignarra siasi allontanato dal vero.

Ma passiamo ora ad esaminare qual veramente fosse lo scopo che ebbe Petronio in iscrivere queste Satire. Dal cenno che qui sopra ne abbiam dato , pare che il Burmanno sia d'avviso che sotto i diversi nomi di Tri- malcione, di Lica, e di Eumolpione abbia descritti i co*

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stumi osceni di Tiberio, di Caligola, e principalmente di Claudio, facendone di tutti un impasto e formandone questa sua favola. Se il parere dell' Ignarra avesse trion- fato , era d' uopo credere che si avessero presi di mira i vizj di Commodo , o di Eliogabalo ; ma abbastanza abbiam rifiutata questa opinione, e nessuno ha fin qui ammessa quella del Burmanno , anzi l'universale con- senso de' commentatori ed interpreti ha determinato sulla fede di Tacito che Nerone ne sia il protagonista. Io sottoscrivo interamente a questo parere; perchè è ben vero che a Claudio, ed a Messalina sua moglie ed agli scostumatissimi loro favoriti e liberti possono applicarsi molte parti della Satira di Petronio, ma nell' intutto non è suscettibile di questa applicazione; laddove all'incon- tro ogni piccolo frizzo , come io vo avvertendo nelle note, è allusivo ai costumi di Nerone, de' quali tanti scrittori illustri ci hanno lasciato memoria. Oltre di che due forti argomenti si hanno (senza far nuova menzione della testimonianza di Tacilo) per escludere l'opinione dell'editore e commentatore olandese, e sono il nome di Trimalcione, uno degli eroi della favola, e il carat- tere spiritoso de' personaggi, sotto la maschera de' quali è nascosto Nerone. Il primo argomento è somministrato dal Bourdelot, il quale nella bella edizione da lui fatta di Petronio assicura in una sua nota essere stata co- niata in onor di Nerone una medaglia colla iscrizione C. NERO. AUGUST. LMP., e sul rovescio TRIMAL- CHIO. Ciò mi induce a credere che questo nome, che vuol significare ter mollis, fosse a quel Principe prover- bialmente attribuito dalla plebe di Napoli, che doveva conoscere la di lui vita deliziosa e lasciva. Ognun sa quanto il volgo di ogni paese e di ogni tempo inclini ad affibbiare altrui qualche soprannome o di onore o di derisione, fondandolo sopra circostan:^'^ o qualità par- ticolari di colui, al quale lo affibbia. Cosi forse il Pe- tronio nostro ebbe il soprannome di Arbitro, perche era

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a comune notizia essere egli il direttore de' piaceri del Principe.

L'altro argomento riceve solidità e certezza dai co- nosciuti caratteri di Claudio e di Nerone. Claudio era uomo torpido, ozioso, e di pochissima levatura; al con- trario Nerone aveva ingegno, somma vivacità, memoria, ed amava le lettere e la poesia greca e latina, e facea pompa di dottrina e di spirito. Perciò Petronio fa sj)iri- tosi, pronti, vivaci, e non di studio digiuni, malgrado qualche caricatura perdonabile in un satirico , i suoi Trimalcione, bica, ed Eumolpione, il carattere de' quali non potrebbe nullameuto convenire con quello di Claudio,

Qualunque però stato fosse lo scopo di queste Satire, e qualunque l'autor loro, e il tempo in cui visse, tanto e cosi universale è il grido in cui son salite per la leggiadria della invenzione, e per la purezza dello stile, che passano tra le cose classiche della latinità. Il piano di Petronio, che Apuleio ed altri imitaron dappoi, fu di dipinger la vita di Nerone nelle diverse situazioni alle quali prestavasi questo Principe , e di spargere il più acuto ridicolo su' suoi cortegiani. Scrivendo separati poemetti, come Lucilio ed Orazio, egli non avrebbe ot- tenuto si bene il suo intento, quanto tessendone una favola in tal modo connessa, che i tratti principali che egli avea tolto a descrivere, sembrassero continuazione, e progredimento delle cose antecedenti. Ma perchè a- vrebbe il Romanzo o perduta la sua qualità poetica , se fosse stato scritto interamente in prosa, o preso un aspetto di poema epico , se fosse stato tutto in versi , cosi con molto giudizio ha frammischiato le prose e i versi, i quali tendono anche a dare una nuova scossa al lettore, e ad impedire quella specie di noia, che so- pravviene dopo una lunga lettura di prose. Petronio scrive egregiamente nell'uno e nell'altro stile, e il fa con una certa sprezzatura e famigliarità, che non soprav- vien mai un momento di stanchezza o languore in chi lo

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legge. Egli non assume giammai il tuono sublime, salvo che nel poemetto sulla Guerra Civile. Dal quale ben si comprende che in quel modo eh' egli è graziosissimo ne' piccioli epigrammi di sapor catulliano, e di argo- mento amoroso e galante, così convinto che ne' grandi argomenti è indispensabile quell'

Os magna sonaiurum

di Orazio, vi si manifesta abilissimo.

In aggiunta poi al merito morale comune a tutti gli scritti satirici , che è quello di svergognare il vizio , ovunque si trovi, onde gli uomini se ne guardino, merito in quest'opera grandissimo, perchè di più vizj, e difetti di ogni genere va mostrando l' immagine , ha quello altresì d' istruirci di varie usanze, pratiche, e forme del viver sociale, le quali o furon credute di posteriore in- venzione , o per la simiglianza che hanno con alcune de' tempi nostri, inducono maggior interesse. Veggon- visi, per esempio, certe magistrature di campagna, certe istituzioni di buon governo rassomiglianti a quella della Polizia odierna , certe leggi marinaresche , al- cuni giochi, ed una specie di lotto fra questi, e cento altre cose , che è piacevole di saperle praticate dagli antichi avi nostri , ai quali noi remotissimi discendenti professiamo si alta estimazione.

Quanto alla lingua di Pelronio, alcuni lo accusano di aver usato parole vili, inusitate, e non prima ammesse da buono scrittore. A ciò prima di tutto può rispondersi esser egli il primo buono scrittore che le usasse , e quindi dal suo esempio essere divenute buone quelle parole, come buone divennero tutte le altre , di mano in mano che i buoni scrittori le collocarono ne' loro scritti. In secondo luogo egli scrivendo con quella sprez- zatura e famigliarità che di sopra accennammo, e non avendo forse avuto il tempo di dar l' ultima mano alle

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cose sue, come dice egli stesso del suo poemetto ddla Guerra Civile^ (' caduto in voci forse allora comuni noi discorso domestico ; e non perciò meno belle , benché non per anco depositate negli scritti de' suoi purissimi antecessori. Aggiungasi a ciò che siccome a Napoli ove Nerone principalmente esercitava le sue lascivie, stabi» lisce Petronio la scena del suo roinaneo, e v' introduce persone abbiette e viziose che parlano, cosi usa talvolta parole del paese, e degne di cotali interlocutori, siccome anche il liurmanno ha diligentemente avvertito. Oltre di che egli ha frasi e maniere sue proprie , come le hanno i grandi scrittori ; e in quel mod» che Vollioue tacciò Ttlo Livio di padovancria, e Stalili* Massimo ac- cusò Cicerone di alcune singolarità nella lingua , cosi puossi incolpare Petronio di certa venustà e trascura- tezza, che forse amabili dovean riuscire 'a' suoi tempi, e che a noi si remoti, e si imbarazzati per bene inten- derlo, può parere difetto, come difetto e scempiaggini veggo sembrare a taluni non abbastanza nella vaghis- sima italiana favella versati le maniore e frasi dei nostri scrittori Fiorentini dall' età del Boccaccio sino a tutto il buon secolo di Leon decimo.

Per altro il liurmanno, che già vedemmo riconoscere in Petronio uno scrittore che deve aver veduto gli ul- timi anni di (.*esarc Augusto, non lascia di riconoscerlo per tale, anche quanto alla lingua ed alio stile. Anzi a coloro , che come l' hjnarra da alcune voci e modi petroniani usati ne' tempi posteriori, ed anche ne' secoli bassi, voglion dedurre doversi questo scrittore quasi al medio evo trasportare, rivolge egli arditamente il loro argomento, e dice che appunto negli scrittori ,de' bassi tempi trovansi cotai voci e maniere, perchè leggevano essi Petronio più volentieri degli altri antichi, e aggiunge che per l'inclinazione degli uomini alle lascivie ed agli scherzi erasi questo autore reso famigliare ai letterati d'allora. E BÌccome que' letterati (segue il Burmanno)

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erano pressoché tutti monaci, cosi quis non credat pru- rientes illos nebulones, qtii in pubblico magnam pietatis speciem mentiebanlur , intra claustra sua lascivissimum quemque tcriplorem assidue versasse?

Questa veramente un poco maligna osservazione ad un'altra il conduce, relativa alle lacune, che in tutti i codici di Pelronio finor conosciuti trovansi rimaste. Io ho accennato di sopra, ciò forse procedere dal non es- serci pervenuto lo scritto originale che l' autore mandò a Nerone , il quale potrebbe per odio averlo distrutto , ma soltanto quel primo abbozzo , che ne doveva aver preparato. DiflPatto la maggior parte degli scrittori, dopo aver disposti i materiali necessari alla formazione della loro opera, e averne stabilite le divisioni, cominciano per iscriverla con quella rapidità che 6 figlia della mente calda e piena del suo oggetto, senza troppo cu- rarsi 0 della lingua, o dello stile, o alcun voto che per qualche inatteso ostacolo convien lasciarvi, e com- piuta che l'abbiano, e grossamente pulita, la rifanno da capo, sia scrivendola essi stessi, sia ad altri dettan- dola , e in questa occasione modificano , correggono , perfezionano, e la loro fatica riducono nel modo in cui è poi esposta alla luce, lasciando il primitivo autografo originale con que' difetti, che non si veggono nel se- condo, e molto meno nel terzo, se questo pure fu ne- cessario. Il signor di Voltaire ha invece creduto che tali lacune procedessero dal non essere altrimenti questa l'opera originale di Petronio , ma dall'essernc semplice mente un estratto, locchè non discorda gran fatto dal mio parere. Il Burmanno però vuole che alla turpe negli- genza di que' monaci oziosi (son sue parole) abbiasi da attribuire che non intero ci sia giunto il Petronio , m* quelle parti soltanto, quae monachis Icntigine ruplis, hi- sciviae et libidino>ae protcrviae manife>>tissimis argumenlis blandiebanlur. Comunque ciò sia e qualunque perfezio- namento abbia di mano iu mano ottenuto questo ele- Petronio !■

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gantissimo lavoro di Petronio^ siccome avvertiremo fra poco, resta sempre nella letteraria repubblica desiderio ardentissimo di ricuperarlo interamente. Anzi 1' autore della Biblioteca de' Romanzi accenna a questo proposito una piacevol novella, che noi per interrompimento di queste controversie dei critici non crediamo inopportuno di esporre.

Fiorivano in Germania nel secolo decimosettimo tre insigni letterati della famiglia de' Meibomii, i quali alla professione della medicina, in cui erano peritissimi, ag- giugnevano estese cognizioni nelle altre scienze , come dalle opere loro può rilevarsi. Un di costoro, non so se Giovanni Enrico, o Errico suo figlio, leggendo per av- ventura non so qual descrizione d'Italia, pervenne ad un capitolo , ove parla vasi di Bologna , e vide fra le altre cose queste parole: Bononiae videtur Pelronius in- teger. Amantissimo dell' aurea latinitìi del nostro Arbi- tro , e informatissimo dejHe tante lacune, che, a' suoi giorni massimamente, il deformavano, ni' ad altro Pe- tronio che a questo volgendo egli il pensiero, rimase da gran maraviglia sorpreso, come avesse a trovarsene in Bologna un codice intero, mentre gli altri sino allora noti agli eruditi apparivano tutti guasti e sciamati a pregiudìzio delle buone lettere, e con indiclbil dispetto degli studiosi. Lesse e rilesse più volte quel passo , e persuaso di rendere un servizio importantissimo alla re- pubblica de' letterati, e trarne egli non picciola gloria, ove fosse riuscito ad aver copia dell'immaginatosi ma- noBcritto Bolognese, fé' chiamar tosto una sedia di po- sta , e preso frettolosamente commiato dalla famiglia , in quella adagiossi , e alla volta d' Italia i postiglioni €on generose mance affrettò, si che in pochi di trovossi a Bologna. Egli vi conoscea per carteggio e per fama un insigne medico e letterato, e a lui dopo brevissimo riposo si diresse. Cessati i primi complimenti , e le ur- banità consaetc , accostòglisi all' orecchio , acciò {>er

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avventura altri ascoltandolo non gli rapisse l' onore della scoperta , e si gli disse : egli è gran tempo , mio caro amico, che io contava di venire in Italia, si per esser ella il serbatoio e la nodrice delle scienze e delle arti, come per visitar di persona gli uomini insigni eh' ella produce , e voi principalmente e questa vostra chiaris- sima patria, madre feconda di altissimi ingegni ; ma forse quest'anno, ne l'altro avrei per più ragioni potuto il mio desiderio appagare, se una causa impor- tantissima non mi vi determinava senz' altro ritardo. E qui si fece a narrargli il sommo onore in che teneva Petronio Arbitro : il comun lagno de' letterati, che le sue Satire avessero dal tempo tanta ingiuria patito : il van- taggio che dall'averle complete ridonderebbe alla lati- nità : e la gloria invidiabile, che otterrebbe colui , che fosse tanto fortunato di rinvenire un codice dal tempo, dalla cattivezza o trascuranza degli uomini lacerato e logoro. Il dotto Bolognese approvava all' intutto il discorso del buon Tedesco, e i propri voti aggiungea, onde si degno scrittore potesse aversi come in origine deve essere stato. Allora Meibomio stringendosi nelle spalle, cosi riprese a dii-e : egli è pur vero , mio caro , che le ricchezze e i beni domestici sono dalla comune degli uomini men custoditi e pregiati di que'che sono a più gran distanza, e al conseguimento de'quali sono mag- giori gli ostacoli. Ed io non vi nascondo la meraviglia anzi la indignazione , che mi ha presa contra voi Bo- lognesi, che tanta fama pel mondo spargete di dottrina e di sagacità, i quali avendo in vostra casa quel tesoro, che in nessun' altra parte della terra si è fino ad ora trovato giammai, non solamente a' letterati d' Italia ed agli stranieri non ne fate parte, ma voi stessi noi cono- scete ; perlocchè non palavi strano che io non vi tenga per que' sapientoni che il mondo vi dice. Voleva il me- dico replicar per le rime al Tedesco , ma questi non dandogli tempo, e con certi suoi giri di parole correg-

XXXVI

gendo in qualche modo il mal digesto auo raziocinio , fini con generosa ira rimproverandolo che sin anco a lui fosse ignoto custodirsi in Bologna un intero Petronio, applaudendo a medesimo che di laibccca venuto era l»er fargli conoscere questa gemma. A siffatto annuncio il medico rimase attonito, e andava alla meglio iocosan- dosi dell' assoluta sua ignoranza , o dicendo parergli impossibile non aver egli saputo, nfc sapere che alcun Bolognese il sapesse, che un codice di Petronio si bello e raro, com'ei dicea , nella sua patria si conservaMC. Il so ben io , replicò Meibomio ; e trattosi di tasca il libro, donde cotal notizia avea rii>e8cato, sotto agli oc- chi del Bolognese lo squadernò, e col dito accennando- gli, gravemente gli disse, leggete. Come il medico ebl)c letto alcuni periodi , ove delle rarità di Bologna quel libro parlava, e che giunse alle paro! le videtur

Pelronius integer, qui, qui, con voce !■ i e vitto-

riosa, gridò il tedesco, qui.vi aspettava. Che ve ne par egli? E voi volete dettare in Cattedra agli stranieri, mentre lo cose vostre non conoscete ? Ed io ho ad attraversar fiumi e monti per venìrvene ad istruire ? e una dozzina di sif- fatte esclamazioni infilzò con orgoglioso compiacimento. Il Bolognese, facendo fatica a tenersi le risa, s'infinse mortificato, e gli rispose: che v'ho io a dire? Il libro vostro non mente ; voi v' avete ragione , io me ne era scordato, abbiate pazienza ch'io mi vesta, onde accom- pagnarvi tosto a visitare l' intero Petronio da voi disco- perto. E chiamata la fantesca fecesi recar la parrucca, le scarpe , e la zimarra , e abbigliatosi in un batter d'occhio, prese per mano il viaggiatore, dicendogli: venite meco. A costui sprizzava fuor degli occhi 1' al- legria, e benché urbanissimo fosse e rispettoso, tuttavia non sapea frenarsi in modo, che il medico non si ac- corgesse del suo pavoneggiarsi e boriare, vedendo lui cosi incaponito, com' e' pareva. Finalmente egli arrivò alla chiesa cattedrale, e chiamatovi lo sagrestano, gli

XXXVII àusurrò nell'orecchio, e quegli rispondendogli uu tosto vi servo, il medico voltosi al tedesco disse: pazientate un momento, tanto che il chierico possa aprire la stanza ove sta chiuso ciò che cerchiamo. Messer lo sagrestano non tardò guari, e fattosi loro innanzi, gli altri due lo seguitarono. I quali veggendosi condurre in chiesa , il tedesco strabiliava, e andava pensando ^ra sé, che il luogo ove Petronio si custodiva , e la gelosia con che era tenuto, ben palesavano essere conosciuto dai Bolo- gnesi , e avuto in grandissimo pregio. Imperocché glj venne mostrata sotto 1' aitar maggiore una cassa di bronzo con rabeschi indorati , e denlrovi un' altra di cristallo, alla quale il chierico indicando, lor disse : ec- colo. Il sapiente di Lubecca die due passi indietro per maraviglia , e gli cascarono di mano le lenti , eh' egli avea preparato per esaminare le pergamene o le scorze del codice, e il medico con un sorrisetto non però con- tumelioso gli disse: questi è il Petronio, di cui parla il vostro libro ; osservate quanto e' sia ben conservato, che appena comincia ora a divenire uno scheletro; e sap- piate che da lui, che fu già nostro apostolo e vescovo, questo tempio chiamasi S- Petronio , e noi slam detti Petronj, o Petroniani , come più vi aggrada , ne altro Petronio abbiam noi, fuorché coloro che con questo nome si appellano, e fuori che gli esemplari delle diverse edi- zioni di quel Petronio, di cui vi credevate trovar qui il codice intero. Non è possibil di esprimere la confusione del buon Tedesco , il quale strettosi al braccio del medico, e pregandolo per lo amore dell'uno e dell' altro Petronio di non palesare ad anima vivente questo ver- gognoso suo sbaglio , sorti immantiuente , e senza pur desinare, al che il medico lo esortava ed invitava , ri- montò in calesse, e chiotto chiotto a Lubecca in tutta fretta tornò.

Ad onta per altro di tutte codeste lacune, le quali ai tempi nostri sono in minor numero che non fossero

xxxviri a quelli di Meibomio , Petrùiùo vicue dal consenso ani- versale de' letterati, se tutt'al più se n'eccettui VUezio ( che in una sua lettera a Gretto , tolse a biasimarlo ) collocato fra i migliori scrittori della latinità. Giuito Lipsio lo chiama auclor purissimae impurilati$ : lo Sdoppio, tanto il pregiava, che scrii^se la sua Sirenet Petroniana $eu eleganliorts phrates ex Petronio colUetat ; il Walchio nella sua storia critica della lingua latina lo colloca alla metà del secol d'argento, e ne esalta lo stile come molto elegante: il P. Beverini gli accordò il triumvirato della lingua latina innieuic a Plauto ed a Terenzio in quella sua applaudita raccolta che ha per titolo: .•^Ww- liores dicendi formulae, e per non riportar qui il giudizio che tutti i grandi scrittori ne hanno dato, I tasta il far cenno , che più di trenta uomini insigni han preso a commentarlo , interpretarlo , ed ischiarirlo , e che tante edizioni se ne son fatte , che riescirebbe quasi impossi- bile il noverarle.

Giova rammemorare però che pochi e atfatto distac- cati frammenti se ne conoscevano, quando circa l'anno 1662 Marino Stallejo o Statilio Dalmatino ( e non già Pietro Petit come ingiustamente pretendono i signori Chaudon e Delandine compilatori del Nuoto Dizionario Storico stampato recentemente a Lione) scoperse a Traù in casa di Niccolò Cippico anjico suo un codice assai più perfetto, come quello che conteneva la cena di Jrimalcione, uno de' più belli episodj di queste Satire ; e trattone copia a Padova il mandò, ove fu stampato nell'anno medesimo. Adriano Valesio francese, e Gio. Cristoforo Wagenselio tedesco, giudicarono questo fram- mento opera dello Slalilio medesimo, e nel 16GG lo im- pugnarono con veemente acrimonia ; ma lo Statilio si ben difese e con tanto vigore V opera di Petronio , che per giudizj formalmente emanati , e per la successiva generale sentenza de' critici , il frammento dalmatino non incontrò eccezione ulteriore. Non perciò potea dirsi

XXXIX

completo il testo Petroniano, anzi gran dovizia di vuoti vi rimanea tuttavia. Francesco Nodol ufficiale francese sul finir del secolo XVII pubblicò una nuova edizione di Petronio con nuovi frammenti , eh' egli assicurò di avere scoperti a Belgrado , e che malgrado 1' approva- zione deli' Accademia Arelatense furono fino ai nostri di creduti una impostura. Il Burmanno fra gli altri at- taccò vivamente il Pelronio del Nodol, volle pur dar luogo ai di lui frammenti (checché ne dica l'autore della Biblioteca de' Bomanzi) nella edizione magnifica ch'egli ne fece, ove raccolse tutte le minuzie che a queste Sa- tire fossero relative. Dopo il giudizio di tant'uomo pa- reva deciso che le aggiunte Nodoziane avessero a con- siderarsi per una letteraria ciarlataneria, quando il si- gnor Ignarra nella gis'i citata dottissima dissertazione de Palaeslra Neapolitana , che fu pubblicata a Napoli nel 1770 imprese a difenderle. Credo indispensabile di riportarne il suo intero giudizio , perchè avendole io adottate nella traduzion mia , non paia che il facessi per un biasimcvol capriccio, u Io so ( dice egli nella

- nota ottava del Cap. V. ) che molti hanno sferzato

- Xodot come venditore di merci false , ma so altresì « che molti antichi monumenti, che un tempo si rifiu- » tarono, sono ora saliti in grandissimo pregio. Non è » egli vero (per tacer di tant' altri), che i Cenotafi, Pi- « sani riputati dallo Scaligero , come se fossero scritti » ieri , o ier l' altro , il Beinesio li ha verificati , ed il» Norisio con amplissimo commentario li ha erudita- r mente illustrati V Per la stessa ragione io credo am- fl missibile il supplemento Nodoziano, tanto i)iù che le f cose che gli si oppongono come contrarie alla ele- » ganza della lingua latina, non mancano del tutto di ■n difesa. Ma ciò esigerebbe indagine troppo lunga per " potercene sbrigar presto. Se avvi però cosa favore- n vole al Nodot, ciò è in primo luogo l'aver situato in " borgo vicino al Portico d' Ercole, che oggi si chiama

XL

» Portici. Io uou mi saprei certamente di qual borgo T) qui si face83e''ineuzione, fuorché di Ercolano ; massi- » mamonte per l' incidenza di aver nominato Ercole. »> Ed Ercolano fu già un borgo di qualche fama , la » quale si accrebbe per le sciagure , che di mano in ji mano soffri. Imperocché le di lei mura rovinarono " per terremoto ai tempi di Nerone, corno riferisce Se- lf neca nella sesta questione cap. 1. Dipoi ai tempi di " Tito veime per la massima i)arte in tal modo se- 1 polta sotto i torrenti del Vesuvio , che rimase espO' n sta al calpestio di passaggieri. Dietro tali calamità " scorgesi facilmente come restasse Ercolano senza al- n cuna celebrità e un picciolo borgo , qunHi senza al< » cun nome, rimanendovi appena il tcmi»io d' Ercole n col portico, cui i vicini visitavano nelle solennità <• r> quel nume. Dal qual jiortico il luogo che lentameutt » in ({uella vicinanza si accrebbe, fu detto Portici. Clu n poi la villa di Portici si trovasse d' appresso all' an- >• tico borgo di Ercolano, ci è ora manifesto uoH'opera n del felicissimo genio di Carlo III. Ile di Spagna, il " quale nel 1738 facendosi colà innalzare un palazzo n espose in Ince le sepolte rovine di Ercolano. Senza n di ciò chi ne avrebbe scoperto il vero sito, o chi » avrebbe affermato che l'odierna villa poco più di tre r> miglia distante da Napoli non fosse edificata cogli anti- » chi avanzi di quel borgo? Infatti i nostri maggiori se » ne allontanavano alquanto cercando Ercolano nelle » vicinanze di Porapeja , e nella tavola l'eutingeriana n erroneamente vi ò detto che distasse da Napoli 6 e » H miglia. Quindi se il 8up})lemento Nodoiiano fosst n una pretta impostura, chi avrebbe detto a Nodot cin » quant' anni prima che venissero scoperte le vestigia n di Ercolano, che dove una volta era il portico (oggi n Portici ) ivi fosse un picciol borgo destinato a solen- >• nizzarvi le feste d'Ercole ? E tanto più volontieri as- tt solvo il Nf)dol dalla taccia di falso, quanto meno avevi

XLI

n egli il pensiero e ad Ercolano, e alla villa Portici; » perchè nelle noterelle aggiunte al testo (se egli n' è n l'autore) commenta queste parole il Portico d' Ercole n nel seguente modo: l'azione è in Napoli, ma l'autor K finge : vi soli' intende Roma , e qui parla di Tivoli ci- r> cino borgo, dov'era un tempio sacro ad Ercole. Nel qual » giudizio ei s' inganna , ma scorgesi appunto da tal " inganno , che stimando egli doversi intender di Ti- voli , non ebbe pensiero al Portico , al borgo r d' Ercole. Tralascio altri non meno riguardevoli in- n dizj desunti da varj passi del di lui supplemento o n compimento a Petronio , i quali fanno fede che le r> cose ivi narrate non potevano da altri essere scritte » che di man del Petronio. Io non difendo però il ^odol ■n in modo che io dica essere il suo Petronio un'opera n del tutto compiuta , ma dico tra tutte le edizioni di r> Petronio quella Nodoziana essere la più copiosa, seb- n bene non anco intera , giacche vi si trovan tuttora »i molte lacune , e spesso vi si desidera maggior con- B nessione nelle parole e nelle sentenze. Il Codice sco- ti pertone a Belgrado essendo forse scritto in disteso n e senza interpunzioni , e presentando assai più cose fi degli altri , facilmente ne avrà imposto al Nodol , il " quale non conoscendone la lingna più che tanto » potè credere intero e genuino un informe Petronio. y> Ma, com'io dicea, questo spinosissimo argomento esi- ti gerebbe lunghissimo ozio a ben discuterlo, n

Sembra adunque ragionevole e plausibil cosa il ritenere per merce di Petronio il supplemento che ci ha trasmesso Nodot. Dopo tal supplemento , non è a mia notizia che altro sia stato in questi ultimi anni pubblicato, donde le presenti Satire acquistino maggior compimento.

Altra evidente prova del sommo lor pregio si è la versione che se ne è fatta o in tutto o in parte nelle lingue viventi da uomini studiosissimi. Il celebre Ad-

XLII

di$on non isdegnò di occuparsene, e la sua tmauziouf inglese riscosse l'applauso universale dei dotti. Il primo che interamente le traducesse in francese, fu lo stesso signor Nodot, il qual vi aggiunse una sua apologia ai frammenti da esso divolgati. Gli tenne dietro il medico Nicola Venetle, poi il signor larditi sotto il nome di Boispreaux , indi il signor de la Periarède spesse volte citato dal Presidente Bohier , il qual tradusse in versi il poemetto delta Guerra Civile, che l'instancabile Abb. di Marolles aveva prima tradotto in prosa. Alcuni squarci trovansi pure tradotti nell'opera d'autore anonimo uscita a Parigi l'anno 1802 intitolata lìeliogabale, ou Esquitsf morale de la dissolution Homame sous let Kmpereurs. Per- chè qui non facciamo un trattato bibliografico, non credo necessario di citarne le varie edizioni, che se ne hanno. Ma mi giova il far riflettere, che le traduzioni francesi, più o meno buone che siano, hanno resa più comune la lettura di Petronio, fuvvi ecclesiastica o laica magistratura, che si avvisasse di impedirla. Il che serva per tutta risposta a coloro che riguardano come pernicioso ai costumi lo scherno che de' licenziosi co- stumi va liberamente facendo il nostro Satirico. Dico liberamente, perchè non credo che verun lettore di buona fede sia per passar buono il giudizio del Burmanno che trova in questo autore una somma verecondia. Nullum enim (dic'egli) in tolo hoc scripto sodaticum et otjscoenum origine et prima signi firatione verbum deprehendas , sed translatio semper et ìionestissimis verbis ad nequitias ex- primendas summa cum vereoundia utilur.

Nessuna completa versione delle presenti Satire aveva finora l'Italia, mentre di ogni altro antico scrittore an- che non classico non le mancano più traduzioni. Il di- ligente Argelati nella sua Biblioteca dei Volgarizzatori cita il seguente libro : / successi di Eumolpione portati nella nostra lingua da Ciriaco Basilico. Napoli presso Gia- como Bulifon 1678 tn-12. Un egual titolo si trova nella

XLIII

Biblioteca Casanatense : non ho verun dubbio che que- st'opera esìsta veramente, e sìa una traduzione di Pe- tronio ; ma per ostinate e grandissime indagini che io abbia praticato e fatto praticare in quasi tutte le Bi- blioteche di qua dagli Apennini, non mi fu possibil mai di trovarla. Concesso però che il Ciriaco abbia tradotto le Satire di Petronio, il titolo da lui dato alla sua ver- sione m' induce a supporre che non avesse conosciuto il bel frammento della cena di Trimakione pubblicato po- chi anni prima dallo SlatUio , altrimenti doveva più presto accennare nel titolo del suo libro il nome di Trimakione. che quello di Eumoìpione, e che per conse- guenza egli abbia tradotta quella sola parte, che con- tiene le avventure di quest' ultimo , che in mancanza dell'altro può considerarsi per principale attore in que- sta favola. Ad ogni modo però il Ciriaco non conobbe assolutamente i frammenti dati in luce dal Nodot, quindi incompleta è 1' opera sua. Può adunque la nostra tra- duzione presente riguardarsi tuttavia come la prima che se ne abbia in Italia.

1j' Argelati cita eziandio le opere di Petronio Arbitro tradotte in versi italiani da Giulio Cesare Becelli, dicendo che rimasero manoscritte, e adducendo in testimonio il P. Zaccheria, come colui che le avesse citate nel cata- logo degli scritti del Becelli riportato nel Tomo 2. della Storia Letteraria d'Italia. Ma ne il P. Zaccheria riporta questa notizia , giammai forse il Becelli V asserita versione esegui, perchè avendo io con ottimi mezzi ten- tato di verificarla ne' manoscritti rimasti alla famiglia sua di Verona , nessun indizio ne è risultato. Non di- versamente mi avvenne del poemetto sulla Guerra Civile, che V Argelati dice tradotto in ottava rima dal P. Gio. Azzolini chierico regolare Salentino, col titolo la Di- scordia di Petronio. E resto maravigliato come il P. Pai- toni, e l'Abb. Villa, uomini della italiana lettura erudi- tissimi e benemeriti, i quali alla Biblioteca dell' Argelati

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hanno fatto moltissime aggiunto ed annotazioni , non abbiano , eaai che meglio il potevano , verificato o la realtà di codeste versioni, o lo sbaglio che VAì'yelati ne ha preso. Ma di siffatti sbagli, e di moltissime mancanze è ridondante la liiblioteca de' Ko/j/arizza/or» italiani, e sarebbe util cosa alla letteratura nostra che qualche paziente ed erudito scrittor moderno imprendesse * ri- fonderla, e riprodurla.

Stefano Tafuri dottissimo Napoletano citato egli pure dal nostro Bibliografo diesai parimenti a volgarizzare il Petronio, ma dopo sei pagiuette sospese il lavoro, più il prosegui. Questo frammento di traduzione, man- cante anch'esso de' supplementi Nodoziani , leggosi nel Tomo tì. della Nuova Raccolta d' opuscoli scientifici, ecc. del P. Calogero. Vuoisi da alcuni, che l' eminentissimo Flangini di ancor viva memoria abbia stampata in Uoma una traduzione completa di Petronio, verso l'anno 1770. e che tutte le copie ne venissero poi ritirate per ordine superiore. Io non so darne altro ragguaglio, ni: produrne alcuna prova.

La novella della Matrona di Efeso, che incontrasi oltre la metà delle Satire di Petronio, e che ò una satira essa pure, scosse più frequentemente l' ingegno imitativo dei novellatori, o novellieri , che molti in ogni tempo e di bellissima dicitura fiorirono in Italia. Forse Petronio la copiò egli pure da Esopo, le cui parole sono dal signor Manni riportate appiedi della Novella 56. del Novellino, ossia cento Novelle antiche, la qual non è altro che que- sta stessa favola trasportata ai tempi di Federigo Im- peradore, e dall'Autore abbellita coli' indurre la moglie a romper un dente di bocca al cadavere del marito , acciò meglio rassomigliasse al ladrone dalle forche ra- pito. La novella mi^desima fu in latino recata da LO' renzo Astemio di Macerata ne' suoi libri Hecatomythum , ma ben lungi dalla eleganza di Petronio: dipoi trovasi nuovamente fatta volgare e colle grazie del parlar no-

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stro abbellita nel libro delle Novelle Amorose degli Ac- cademici Incogniti di Cremona {per opera di Alessandro Campeggi uel seicento, poi dal dottissimo Eustachio Man' fredi verso la metà del settecento , e finalmente ai di nostri dal pulitissimo scrittor di Novelle e mio vecchio e vero amico il P. Cosimo Galeazzo Scotti Barnabita , che nella prima parte delle sue graziose Giornate dtl Brembo stampata in Cremona nel 1800 ne fa soggetto della sua seconda novella. Ad essa alluse eziandio Vol- taire nel suo Zadig, che unitamente al Candido, e ad altri ingegnosi romanzi di tanto scrittore , può a buon diritto alla Satira di Petronio confrontarsi.

Il P. Bisso ristampando a Palermo nel 1755 la testé citata opera del P. Beverini, e rendendo toscanamente i bei modi di dire degli enunciativi Triumviri della la- tinità, può jiarimenti annoverarsi tra coloro clie qualche cosa del Petronio hanno tra noi volgarizzato. Luigi San- vitale nella prefazione del suo bel Saggio di Novelle ul- timamente pubblicato in Parma coi tipi Bodoniani pre- tende altresì che dal Petronio abbia tratta il Boccaccio la sua Novella del Re di Cipri.

Di buon grado pertanto alla fatica di questa tradu- zione mi sono io indotto non solamente, per alleviamento dell'animo, e per esercitazione nelle due lingue, ma si anche per compiere la serie de' volgarizzamenti, la quale per la mancanza di questo nella sua totalità rimaneva interrotta. Nulla però oserò io dire di questa mia ver- sione, salvo esser ella fedele e letterale sino allo scru- polo ; imperocché non sono io del parer di coloro , i quali dall'una all'altra lingua traslatando uno scrittor classico, si permettono di fargli dir copo o non dette o diversamente dette, ed altre aggiugncnic, ed altre sop- primerne , e in somma dargli una forma del tutto di- versa, non si curando de' costumi, nr Idle cognizioni del secolo in cui visse l'autore, per farlo parere aver vissuto in quello del traduttore. Il qual mf todo potendo

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aver pure qualche vantaggio , come il mio ha qualche discapito , uon altrimenti a mio giudizio potrebbe con lode adottarsi, che imitando Agtiolo da Firenzuola, che nel suo volgarizzamento di Apuleio mise bc medesimo in luogo del Protagonista, e le città e i costumi toscani in luogo de' greci, ove ben gli parve, introdusac, man- tenendo però tutto quello che era favola e testura di queir aureo romanzo , sicché di copia si fece testo , e giusti e larghissimi applausi potè riscuoterne.

Io non ho voluto escludere dalla mia versione i fram* menti Nodoziani, benché tanto dubbio tuttavia rimanga della loro autenticità. Essi certamente riempiono molte lacune dell'antico testo, legano le parti, che giacean separate, conciliano i fatti , e la serie della favola ne rimane passabilmente bene ordinata.

Forse 1' opera di Petronio era in origine divisa in libri. Il Durmanno, ed altri ;)rr.'.ia di lui si avvisarono di dividerla in capitoli , ma con tanta abbondanza , e con si poca necessità, che ben vi si vede la minutezza gramaticale. Io ho creduto di allontanarmene, e giacché nessun Codice ha indicata la division primitiva de'libri ho prescelto di separar l' opera in tanti capitoli, quanti la naturai serie e giacitura delle cose mi è sembrato esigerne, e ne ho con breve cenno indicato il contenuto.

Finalmente sebben mi sembrasse che la chiarezza della mia traduzione escludesse ogni bisogno di com- menti e di annotazioni, e che fosse un bel contrapposto alle tre mila pagine in quarto stampate dal Burmanno in carattere minutissimo, un testo semplice e non inter- rotto da interpretazioni e da glosse , e in pochi fogli ristretto , tuttavia per non parer nemico del lutto di que' schiarimenti che alcuno potesse desiderare , e per non essere tacciato di pi<,'rezza, o di austero contegno, ho sparso qua e alcune noterelle, anche a fine di far conoscere o le applicazioni dell'autore a qualche passo di alcuno scrittor più antico, o l'uniformità dc'costumi

xLvn dal Petronio dipinti con quelli descritti dai contempo- ranei, o la ragione di aver io interpretato più tosto in un senso, che in un altro, o finalmente quelle persone e cose di passaggio menzionate nel testo con qualche allusione.

Quanto alle varie lezioni, io seguo il sistema dell'in- gegnosissimo Vincenzo Monti col non riportarle. Forse nessun antico è stato letto e ricopiato discordemente come il mio. Ne dirò d' essermi servito di moltissime edizioni , ma di quelle soltanto di Bourdelot del 1577., del Frellonio del 1618., di Nodoi del 1709., e del Bar- inanno del 1743. Quanto al poemetto 5t4//a Guerra Ci- vile ho assai consultato il testo del Presidente iJouftjcr, al quale per altro non sempre mi son conformato.

Forse questa mia fatica ecciterà alcun altro a ren- derla migliore. A me basta di averla il primo affrontata in Italia, e di ottenerne alcun plauso dagli intelligenti.

NOMI

CHE LEOOONSI NELLE SATIRE

DI

PETRONIO ARBITRO

Abinna, piccolo Magistrato di campagna , la cui giu- risdizione credo press' a poco simile a quella de' nostri Deputati 0 Rettori di Comunità. Uomo viziosissimo , opperò di Trimalcione, ossia di Nerone, intimo amico.

Agamennone, nome già dato da Van'one ad un pedante declamatore da lui satireggiato nella sua Virgula divina , per la ragione che Agamennone Re de' Re presso Omero è lungo e instancabile parlatore. Petronio, imitando Var- rane, lo ha applicato ad Anneo Seneca, retore e filosofo precettor di Nerone, il quale diffatto nella cena di Tri- malcione lo chiama suo maestro. Seneca fu predicator di morale e ne scrisse ex-professo , come ognun sa ; ma è fama ch'ei fosse di coloro i quali , giusta il pro- verbio, vogliono che si faccia com' essi dicono , e non come fanno. povero, n^ temperante, n^ liberale era Petronio e

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costui, ma ricchissimo, e tal divenuto per le concussioui ed usure esercitate in varie proviucie dell' impero. E perchè più volte Petronio prende a parlare di lui, come d' uomo che cortigiano ed accortissimo era, e però lo conoscea nella cute , cosi stimo opportuno di riferire i rimproveri che Tacilo nel tredicesimo degli Annali rac- conta avergli pubblicamente fatto Publio Suilio in oc. casione di non so qual giudizio. Suilio adunque lo accusò che perseguitava gli amici di Claudio , perchè egli ne fu giustamente scaccialo ; che avetzo a insegnare a' giovani lellere da trastullo , odiava chi difendeva i cittadini con viva e reale eloquenza ; che era sialo questor di Germa- nico, e adultero di quella casa... Qual sapienza, quai filo- sofi avergli insegnato, in quattro anni ch'ex serve la corte raspare sette milioni e mezzo d'oro f A' testamenti, o' rie- ehi senza erede tendere le lungagnole per tutta Roma; l'I- talia e le Provincie con le canine usure seccare. (Davanzali) Queste parole ho creduto di riportare, acciò contro mo non si adiri l'animo virtuoso di Teodoro Accio da Asti che in una nota della recente sua aurea traduzione di Giovenale prende vivamente le difese di Seneca contro coloro che il dichiarano un impostore. Veggasi poi comò di quei ricchi senza erede , e de' speculatori di eredità da Petronio si parli, e nuove freccio riteugansi, che egli intende vibrare all'avarizia di Seneca precettore , e di Nerone discepolo.

Agatone, profumiere.

Aiace, scalco di Trimalcione.

Ammea, già corteggiato da Trimalcione.

Appellete, forse un comico.

Ascilto, giovane dissoluto, amico di Encolpo, poi ve> nuto a discordia con lui , indi rappattumatosi. Egli è un discolo in tutti i sensi. Per l' un caso la natura gli fu generosa de' doni suoi; per l'altro il suo aspetto e la maestria lo rendevano amabile. In questo personag- gio immaginario ha forse Petronio voluto descrivere al- cun giovinastro di Roma e della corte.

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Bargate, Ispettore di polizia.

Barone, giocoliere.

Calva, servo favorito di Abinna.

Carrione, schiavo di Trimalcione viaggiatore.

Cassandra, menzionata da Trimalcione ne* suoi discorsi eruditi.

Cerdone, uno dei Penati di Casa Trimalcione.

Cicarone , fìgliuol di Enchione , il qual ne conta prodigi.

Cinnamo , tesoriere di Trimalcione. Giovenale nella prima e nella decima delle sue Satire parla di un Cin- namo stato barbiere, e poi salito ad agiatissima condi- zione.

Circe, gentildonna di Crotone, bella, galante e capric* ciosa. Alcuni hanno creduta ch'ella rappresenti Silia, già amica di Petronio, come abbiamo veduto in Tacito.

Corace, servitore mercenario di Eumolpione, e ministro di sue lussurie. La sua qualità prova che i Romani non solamente si contornavano di schiavi , quanti ne potean mantenere , come si vedrà in Trimalcione , ma altresì di uomini liberi, cui davan salario, come si usa fra noi.

Corinto, Orefice.

Creso, favorito di Trimalcione.

Crisanto, galantuomo di cui si narra a tavola vita, morte e miracoli.

Criside, cameriera di Circe, capricciosa e galante, quanto la signora sua, e forse non meno bella.

Dedalo, cuoco di Trimalcione.

Diogene Cajo Pompeo, uno de' commensali la cui sto- ria non è assai rara anche ai di nostri.

Dionisio , giovane [schiavo di Trimalcione , da lui in tempo della cena fatto libero.

Doride , moglie di Lica ; ritratto di qualche moglie Romana de' tempi di Nerone.

Efeso, recitator di tragedie.

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Enchione, coinmcusalc.

Encolpo , nome del Protagonista di tutta la Satira » in bocca del quale ella ò messa. Sotto questo nome Petronio rappresenta qualche insigne cattivello, seppur non parla di se medesimo, comunque a lui non conven- gano né la povertà, la rapacità, che gli attribuisco. M'induce a credere che esso prima sotto il nome di Encolpo, e poi di Polieno nasconda sfc medesimo, si per- chè a guisa di testimonio e compagno rinfaccia a Nerone le di lui tresche ed infamità , come perchò il morde sulla concorrensa per St/ia, la qual può supporsi esser la donna chiamata Circe , o 1' altra per none Trifena. Oltre a ciò la filosofia di Encolpo parmi tanto d'accordo con quella che Tacilo attribuisce a Petronio, che la sup- posizione diventa a' miei occhi del tutto probabile.

EodimioDe, ragazzo.

Enotea, sacerdotessa di Priapo. Ìj' autore ha intro- dotto varie superstizioni e pie stravaganze della teli- gion de' pagani , a fine di dar la baia a Nerone , che tutte le proteggeva, senza che sempre le adottasse.

Ermero, sfacciatissimo liberto di Trimalcione ; costui sarà stato sicuramente il ritratto di alcuno dei fa- voriti.

Ermogene, nominato in grazia della figlia sua, moglie dico.

Eso, viaggiatore, e cagion de' malanni, che avvengono nel vascello di Lica. La faccenda di quel vascello, come altri ha ben riflettuto, non è che un accomodamento della favola, onde darle ordine e progressione.

Eumolpione. Ecco un soggetto principalissimo della Satira. Io tengo per fermo che lo schizzinoso Petronio abbia voluto dipingere in lui tanto Nerone , quanto il poeta Lucano della famiglia degli Annei, e fratello o cugino di Seneca, come ognun sa ; ni io sono il primo ad avere siffatta opinione. Egli è troppo noto che Ne- rone avea la smania di far versi, e di declamarli, ed è

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Ugualmente notissimo quanto mal riuscisse ne' primi, e il poco garbo , che avea nella declamazione , sebbene riportasse corona di attore eccellente. Ora Eumolpione è introdotto ridicolo recitator d' Epigrammi, e si fasti- dioso e seccante, che ad ogni tratto ne busca di buone sassate ; ed è pure il più lascivo e maligno vecchietto del mondo. il rappresentarlo vecchio e calvo osta all'allusione, perchè è costume de'satirici il rendere più che possono caricato il loro soggetto. Ciò tuttavia può meglio convenire a Lucano, cui parimenti quel nome ferisce. Perchè il poemetto della Guerra Civile, che si fa recitare ad Eumolpione, è una delle migliori cose di questo libro , e Petronio , benché non gli avesse data r ultima mano, com'egli si esprime, ha con esso voluto insegnare allo scrittore della Farsaglia, che un poema epico non si detta altrimenti a guisa d'una gazzetta in versi , com'altri ha detto , ma esige fuoco , sublimità , scelta , e ridondanza d' immagini , giusta il modello che ne presenta.

Felicione, nome di un Dio lare di Trimalcione.

Filargiro, schiavo di Trimalcione.

Filerò, legista di Roma, altre volte facchino.

Filerone, insieme a Plocrimo, Seleuco, Echione , Gani- mede , Nicerola , ed altri, tutti liberti di Trimalcione , è un di coloro, che dialogizzano in tempo della cena. Co- storo non altro possono raffigurare, che uno stuolo di viziosi, mal educati, e di nessuna origine, favoriti dal principe, i quali sono divenuti ricchi , non si sa come , del che principalmente intende l' autore satirizzarli.

Filomena, donna Crotonese, la quale in sua gioventù erasi applicata a buscarsi qualche eredità ; speculazione allora iu pratica presso le scostumate persone di Roma, come si disse alla voce Agamennone, e come si ha da Orazio, Marziale, Giovenale, e da quasi tutti gli scrittori contemporanei. Divenuta vecchia introduce due suoi giovinetti figliuoli in casa Eumolpione, uomo celibata-

LIV

rio, e creduto ricco, prostituendoli con quella spcrania di successione alla di lui brutalità.

Fortunata , schiava giunta ad esser moglie di Tri- malcione, e degna di tal marito. Alcuni pretendono do- versi in essa conoscere Altea liberta di Nerone , e si amata da lui , che postosi in capo di farsela mogli© acciò il Senato non li opponesse, la disse nata di real sangue, ed ebbe testimonj che ne fecero fede.

Ganimede. V. FiUrone.

Gavìlle, donna del contado.

Gitone , vezzoso giovinetto amato ardentemente da Encolpo, cui Ascilto il contrasta. Il liatillo di Anacreonte r Alessi di Virgilio, e il Gitone di Petronio sono presa'a poco la medesima cosa.

Giulio Procnlo , commensale di Trimalcione divenuto ricchissimo da becchino ch'egli era, poi impoveritosi pei disordini.

Glico, uomo ricco, la cui moglie dilettavasi più del suo cassiere, che di lui.

Gorgia, aspirante alla eredità di Eumolpione.

Lica. Se con questo nome non ha voluto P«fron io prender di mira qualche gran barbassoro di Nerone, e impiegato nelle cose di mare o di traffico, siccome è probabile egli può avervi nascosto Nerone istesso , onde rappre- sentandolo in diverse figure mostrar eh' egli era disso- luto e brutale in tutte le situazioni della sua vita.

Licurgo, Patrizio Romano, che s' invaghisce di Ascilto il qual finisce per isvaligiargli la casa. Esempio di quegli imbecilli, che di altro non si danno pensiero che dei loro piaceri. Lucrone, altro degli Iddii domestici di Trimalcione.

Mammea, ricco cortigiano, e forse rivai di Norbano.

Manicio, padron di locanda.

Margarita, nome della cagnuola di Creso.

Massa, schiavo favorito Abinna.

Melissa , moglie Terenzio locandiere, amata da Nieerota.

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Menecrate, maestro di cappella.

Menelao, ripetitor nel Ginnasio.

Minofilo, schiavo di Trimalcione.

Miselio, già servo di Scissa.

Mitridate, schiavo di cui si legge la morte.

Nicerota. V. Filerone.

Norbano. Alcuni interpreti suppongono ch'ei rappre- senti TigelUno, il gran favorito di Nerone.

Pannicchina, ragazza di sett'anni, la quale nelle orgia notturne descritte vivamente dall' autore è fatta sposa del bel fanciullo Gitone.

Pansa, padre del cuoco di Trimalcione.

Plocrimo, V. Filerone.

Polieno, altro nome, che Petronio a medesimo, avendol dato ad Encolpo. Questo giovine incontra varie avventure amorose , che sono leggiadramente narrate. Ma non soddisfacendo egli all' ardore di Circe, gli con- vien sofFrire umiliazioni e fastidj. Che se abbiasi ad in- tendere che il nome di Polieno celi quel di Nerone , come altri ha voluto, avremo allora un' altra figura di codesto principe, derisa e resa pubblica per infamarlo. Polieno ìi in forma di schiavo , e Tacilo racconta che spesse volte Nerone vestivasi in questa forma, e andava la notte ai bagordi e bordelli^ ove sentiva di esser me- glio che in trono.

Pompeo, V. Diogene.

Priamo, uno de' parlatori al convito.

Procalo. V. Giulio.

Proselenide, vecchia incantatrice , che si propone di restiuire a Polieno le forze mancategli. Nuovo frizzo alla sciocca superstizione de' Romani , ed a quella di Nerone , il qual per altro in questo caso manifesta di non prestarvi fede. E ciò mi è di ulteriore argomento a credere che Polieno sia Petronio medesimo , che degli altri parlando , medesimo non risparmia , si per ab- bellir variamente il suo libro, come per acquistarsi mag- gior credenza ne' leggitori.

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Psiche, damigella di Quarlilla, e miniatra de' suoi ca- pricci. Criside e Psiche sono il ritratto di tutte le came- riere delle donne galanti. Questo nome di Psiche, come quelli di Circe , Doride , e simili , fa conoscere che fu sempre costume nel mondo gentile e voluttuoso di torre ad imprestito i nomi più graziosi delle favole e de' ro- manzi, ed appropriarseli.

Quartina, sacerdotessa di Priapo, e molto di vota di lui.

Safinio, uomo, di cui raccontasi a tavola.

Scauro, romano, la cui villeggiatura era nella Cara- pania.

Scilace, cane di Trimalcione.

Scintilla, moglie di Abinna, donnicciuola loquace ed insipida , quale sarà stata alcuna di coloro che erano ammesse ai crocchj neroniani ; ma non si potrebbe plausibilmente affermare, anzi pur sospettare, chi abbia l'autore voluto in essa percuotere.

Scissa, uomo ricco della Campania.

Scilano , uno de' commensali , come Filerone. Nella Satira 10. Giovenale rammenta un personaggio di simil nome, e di egual merito.

Serapa, zingaro greco.

Stico, servo di Trimalcione.

Terenzio, oste.

Tito. V. Diogene.

Trifena, donna dal buon tempo, mantenuta da Lica, e che innamorasi di Encolpo e di Gitone. Si direbbe che Petronio abbia voluto mordere in lei l' incostanza e la sfrontatezza di gran parte di quelle femmine , che noi chiamiamo mantenute.

Trimalcione, eroe principale della Satira, uomo estre- mamente appassionato d' ogni sorta di voluttà, fornito di vivacità e di cognizioni confusamente ammassate, e ri- tratto principal di Nerone, al quale, come abbiam veduto piti sopra, fu già coniata una medaglia con questo nome.

Trincia, scalco di Trimalcione.

SATIRE DI TITO PETRONIO ARBITRO

CAVALIERE ROMANO

CAPITOLO I

ELOQUENZA E PEDANTERIA.

Egli è 81 gran tempo, eh' io vo' promettendo di rac- contarvi le cose mie, che oggi, dacché in buon punto ci troviam radunati per favellare non solamente di materie scientifiche, ma anco di gaie, e per condirle di piacevoli fandonie, mi son pure risolto di mantener la parola.

Fabrizio Veientone ci ha sinora con molta finezza parlato dei difetti della religione , e manifestato come i sacerdoti con mentito furore di profezia isvelino sfac- ciatamente di quei misterj , che esai medesimi per lo più non intendon-^. Ma forse che i declamatori non son pur essi d'altra specie di furore agitati , allor che gri- dano: io queste ferite per la libertà pubblica riportai, quest'occhio ho perduto per voi : datemi una scorta che a'miei figli mi guidi, ora che le storpie ginocchia non mi reggon le membra ?

Tollerabili tuttavia sarebbero queste maniere, se a coloro che studiano l' eloquenza spianassero il calle ; ma quando costor si presentano al foro , altro non ne guadagnano, sia per l'ampollosità delle idee, sia per il voto rumor delle voci, che di credersi trasportati in un mondo nuovo. Io stimo perciò che i fanciulli divengano stoltissimi nelle scuole, perchè nessuna di quelle cose, che sono in uso tra noi, veggono essi o ascoltano, ma

i CAPITOLO PRIMO

soltanto 0 corsari su pei lidi con le catene, o tiranni in atto di comandare ai figliuoli, che mozzino la testa ai padri loro, o oracoli pronunciati in occasion di conta- gio, e prescriventi il sacrificio di tre o più vergini , o finalmente discorsetti affastellati e svenevoli, e parole e fatti piccantelli e leggieri.

Quelli che di codeste maniere si nutrono, tanto pos- son sapei-e,'qiianto coloro, che soggiornano fra i tegami, mandar buon odore. E i primi corrompitori della elo- quenza (sia detto con pace vostra) voi foste, o Retori, i quali con siffatte gonfie e vote espressioni suscitando non so quai fantasmi, avete fatto , che la forza del discorso si è snervata e perduta.

La gioventù non esercitavasi ancora all' arte decla- matoria, allorché Sofocle, ovvero Euripide, trovarono i termini da bene adoperarsi parlando. Ancora nessun fosco pedante avca guasti i cervelli, allor che Pindaro, e i nove Lirici non ardivan cantare i versi d' Omero. io veggo, per non parlar solamente de' Poeti , che Platone e Demostene si applicassero giammai a questo genere di esercizio. L'orazione nobile, e, per cosi espri- mermi, vereconda, non e impastricciata , ampol- losa, ma si regge colla sua beltà naturale.

Non è gran tempo che tale ventosa e sesquipedale loquacità passò d'Asia in Atene, e a guisa di inHuenza epidemica infettò le menti giovenili disposte ai begli studj, e corruppe le regole della eloquenza, la qual fu costretta cedere, e ammutolirsi.

Chi è più giunto alla fama altissima di Tucidide e d' Iperide? Un sol verso di buon gusto più non com- parve, anzi nessun scritto (essendo tutti nodriti del me- desimo latte) potè giu^^nere alla vecchiezza. meglio riusci la pittura, dopo che osaron gli Egìzj ridurre a compendio codest'arte sublime.

Queste ed altre cose stava io un di declamando , quand' ecco Agamennone venire alla volta nostra, e cu-

ELOQUENZA E PEDANTERIA 5

riosamentc guardare a chi tanta attenzion si prestasse: e mal soffrendo di vedermi arringare sotto i portici più lungo tempo di quel ch'ei sudi nella sua scuola, figliuol mio, mi disse, poiché tu parli in termini fuor dell' uso comune, ed ami il buon senso (locchè è si raro), io voglio istruirti dei segreti dell' arte. In tal sorta di esercizj non bassi a incolpare i professori , perchè e' son costretti d'impazzire co' pazzi ; e se non dices- sero a modo degli scolari, soletti si rimarrebbero nelU scuole , come già disse Tullio. A guisa di que' furbi parassiti, i quali accaparrandosi le cene de' ricchi stu- diano prima ciò che suppongono dovere esser accetto alla comitiva; altrimenti, se già non avessero insidiosa- mente adescate le orecchie , nulla ot,terrebbero di quel che bramane; e a guisa di pescatore, che sdraierebbesi sullo scoglio senza speranza di preda , se non attac- casse all'amo quell'esca, di cui sa che i pesciolini van ghiotti : così è oggi un maestro di eloquenza- Che vuoi? La colpa è de'genitori, che non vogliono sottoporre i loro figli ad una disciplina severa. Perchè in primo luogo e' sacrificano all'ambizione , come tutto il resto, cosi le loro speranze; e in secondo luogo, quando han fretta di conseguire i loro voti, gli spin- gono al foro con studj ancor mal digesti , e nell' atto che essi confessano niente esservi di più grande che l'elo- quenza , l'attribuiscono poi a' ragazzi ancora in fasce. Che se avesser pazienza che tutta scorsa fosse la scala delle fatiche, acciò i giovanetti studiosi per via di se- vere letture si correggessero, acciò l'animo accomodas- sero ai precetti della sapienza , acciò con inesorabile punta alcune voci raschiassero, acciò sentissero a lungo ciò che lor piacesse imitare: se nulla di .juello che ai fanciulli par buono , trovassero essi magnifico : allora la grande orazione potrebbe in tutta la sua maestà presentarsi. Ma ora i ragazzi giuocano in iscuola , i giovani son derisi nel foro, e ciò <fche poggio è , nessun

G CAPITOLO PRIMO

d'essi invecchiando vuol confessare di aver nulla im- parato. Finalmente, acciò tu non dica cìie io disapprovi sin anco le cose scritte colla semplicità di Lucilio, ti dirò in versi come io la pensi.

Chi al nome aspira di orator sablimc,

E pascer vuol d' idee gravi la mente.

Segua le antiche usanze, e parco viva

SI che n'abbia a portar pallido il viso.

Fugga la corte altera e cruda: sprezzi

Le cene de' potenti, e de' malvagi

L' orme schivando lo spirto affoghi

Entro i bicchieri, ne pagato sieda

In sulla scena lodator di mimi.

Ma o sia che alberghi ove il bastion grandeggia

Di Palla armipotente, o dove i campi

Solca aratro Spartano, o nella terra

Delle Sirene, i primi anni consacri

Ai concenti di Pindo, e di Meouia

Onda riempia il suo petto capace.

Colmo poi di Socratica dottrina

Lasci libero il freno, e l" arme vibri

Del sublime Demostene: ma sia

Man romana che l' usi, onde il suon greco

Sorga cangiato nel sapor nat'io.

Al foro allor coi bea vergati scritti

Offrasi, e tuoni del parlar suo franco

L'applaudita tribuna ; allora, e citi

Le guerre in verso barbaro cantante,

E volga a suo piacer del fero Tullio

Le parole magnifiche. Di questi

Pregi ti adorna, e di eloquenza un fiume

Tu verserai dall'Apollineo petto.

CAPITOLO SECONDO

CURIOSO INCONTRO.

In tempo che io abbadava a costui , non vidi che Ascilto era fuggito , e mentre a quel furor di parole io tutto attendea , giunse ne' portici uno stuol numeroso di studenti, i quali, come poi seppi, avendo udita una declamazione estemporanea di non so chi, non davano accesso alla fìlnstrocca di Agamennone. Ma io, intanto che costoro si facean beffe delle sentenze, e tutto l'or- dine del discorso scherniano, colto il momento, mi di- leguai, e velocemente mi posi a tener dietro ad Ascilto. la strada però io ben ricordava , sapea dove avessimo la locanda, onde più volte mi avvenne di ri- trovarmi d'ond'cra passato. Perlochè stracco del correre e molle di sudore mi affacciai a certa vecchietta, che vendeva erbaggi , e si le dissi : di grazia, sai tu , co- mare, ove io abiti? Ed ella ridendo di un complimento si sciocco, perchè noi saprò io? rispose, e rizzatasi co- minciò a ire innanzi a me. Io la credetti una strega. Poi che fummo arrivati in luogo solitario, la civil vec- chierella trattasi dietro la pezzuola mi disse : qui tu devi abitare.

Mentre io stava negando di conoscer quel sito, vidi frammezzo ai cartelloni alcuni uomini, e alcune sgual- drinelle ignude , che di soppiatto vi si aggiravano , e tardi mi accorsi d'esser condotto al bordello. Io per la insidia della vecchia arrabbiato mi nascosi la fac-

S CAPITOLO SECONDO

^ia, e fuggendo attraversai quel postribolo, quand'ccco in sulla uscita mi incontrai con Ascilto, che faticatis- BÌmo era e mezzo morto. Stimando io che la yccchie- rella medesima qui lo avesse diretto , il salutai sorri- dendo , e gli chiesi come in luogo si infame si ritro- vasse. Egli asciugatosi il sudor con le mani rispose : oli se tu sapessi quel che mi avvenne !

Che v'ha di nuovo? io replicai.

Ed egli mezzo isvenuto riprese : correndo io tutta la città per trovare ove diavolo avessimo lasciata la lo- canda, mi abbattei in un vecchio, il quale molto cor- tesemente si esibì di condurmici ; e attraversando per oscurissimi e torti viottoli qui mi ridusse, dove mosso fuora il peculio diessi a cercarmi piacere. La sgual- drina, che b costi, aveva già esatto il nolo della ca- mera ; costui mi avca già posto le mani addosso, e se io non era il più forte, avrei dovuto soccombere.

Mentre Ascilto mi esponea 1' avventura , il vecchio medesimo accompagnato da bella donna ci raggiunse, e ad Ascilto volgendosi pregollo di entrare in casa , assicurandolo non esservi nulla a temere, e che anzi di paziente in agente sarebbesi almeno convertito. Dal- l'altra parte la donna istigava me a seguirla. Noi dun- que andammo con essi, e giunti tra quei cartelloni, assai gente d' ambo i sessi vedemmo insiem divertirsi per le camere, si che mi parca avesser tutti bevuto un filtro amoroso.

Appena fummo veduti, costoro con isfacciata puttar neria fecer di tutto per averci in mezzo, ed uno di ( ssi montato sino al bellico assaltò Ascilto, e distesolo sur un letto tentò di romper seco una lancia : ma volato io al soccorso, e unite le forze nostre, delusimo la di lui molestia. Ascilto sorti, e fuggissene, me lasciando esposto alla libidine di costoro ; ma io più vigoroso e più cauto seppi liberarmene.

CAPITOLO TERZO

GIURISDIZIONE VIOLATA, K DIVERB.T.

Come ebbi corsa mezza la città, mi abbattei in Gi- tone, il qual vidi trammezzo alla nebbia star sull' an- golo della strada presso la porta dell' alloggio , dove entrai tostamente. Chiestogli cosa ci avesse il mio ca- merata preparato da pranzo , il ragazzo si gittò sul letto, asciugandosi col pollice le dirotte sue lagrime. Io commosso a tal vista il richiesi di ciò che gli fosse avvenuto , ed egli , tardi veramente , e quasi per forza dopo aver io mischiate le minacce alle preci, cosi mi disse: codesto tuo, o camerata,© fratel ch'egli sia, ar- rivatosi a casa poco prima di te mi si mise intorno per violare il pudor mio , e avendo io cacciato dei strilli, e' cavò la spada, e mi disse : se tu sei Lucrezia, hai pur trovato un Tarquinio.

In ascoltar questo fatto io balzai agli occhi di Ascilto dicendogli : Or che rispondi tu , o infamia de' proati- tttti, che nulla hai di puro, nemmauco il fiato ?

10 CAPITOLO TKRZO

Ascilto mostrò iViufurmrsi, e con cesti più vibi-ati, o con voce maggior della mìa, ti ftai, j;itto, mi disse, 0 gladiator da bordello, rifiuto de' trabocchetti dell'an- fiteatro , ne' quali uccisor del tuo ospite dovevi ca- dere? Né ti stai zitto, 0 assalitore notturno, impo- tente a più combattere con donna di garbo , sebben c'impiegassi ogni tua forza? A cui mi son io nell'orto prestato per quell'uso medesimo, al qual poc'anzi qui nell'albergo fci servir quel ragazzo ?

Per ciò adunque, io soggiunsi, ti sottraesti ai discorsi del maestro ?

Ed egli : che doveva io fare colà, o bagordo, poi che io mi moria di fame? Avre' io dato retta a chiacchere più inutili de' rottami del vetro , delle spiegazioni dei sogni ? Tu sì, per dio, sei più vile di me, che per bu- scarti una cena hai lodato un poeta. E tra questi vi- tuperi 8C(»ppiammo a ridere, e tranquillamente j)assam- mo ad altre cose.

Io poi non sapendomi dar pace dell'affronto, cosi gli dissi : ben vedi , Ascilto , che noi non potiamo accor- darci più insieme : dividiamoci adunque il nostro co- mun fardelletto , e cerchiamo di guadagnarci il vitto ciascun di noi separatamente Tu se' letterato , ed io per non pregiudicare ai tuoi vantaggi eserciterò qual- che altra cosa : altrimenti noi avremo ogni di mille discordie, e farem parlarne tutto il paese.

Ascilto accettò la proposizione : oggi però, disse egli, siccome in qualità di scolari abbiamo promesso d' in- tervenire ad una cena, non perdiam l'allegria di questa notte : dimani poi , giacché si ti piace , troverommi un altro alloggio, e un altro Gitone.

Io risposi che non bisognava differire una cosa quando la si è risolta. Ad un separamento si precipitoso mi stimolava il piacer mio, ed era gran tempo che io de- siderava allontanarmi una guardia importuna , onde rinnovare col mio Gitone gli antichi dritti.

GIURISDIZIONE VIOLATA, E DIVERB.T 11

iMal soffrendo Ascilto una tal villania, bruscamente senza dir nulla sorti. Questa si improvvisa partenza male mi presagi, perchè io conosceva la violenza del- l'animo suo, e lo sregolato suo amor per Gitone. Per- ciò gli tenni dietro, onde osservar che facesse, e po- terglimi opporre: ma egli mi sfuggi dagli occhi, e in- darno lungo tempo di poi lo andai cercando.

Dopo scorsa tutta la città rivenni all'alloggio, dove finalmente tra i più ingenui baci mi annodai con stret- tissimi abbracciamenti al fanciullo, e ne presi invidia- bil solazzo. tutto ancora compiuto era , quando Ascilto furtivamente avvicinandosi all' uscio , poi spa- lancatolo con grandissimo impeto , trovommi in quella scherzevole positura. Perlocchè empiendo la stanza di risate e di batter di mani , e strappando il lenzuolo , che ne copria , che fai tu, mi disse, o fratel modestis- simo? Perchè sotto una sola coltre ambidue? re- stossen- alle parole soltanto, ma sciolta la cigna della sua bisaccia diessi a staffilarne robustamente, dicendo al tempo stesso con molta insolenza: impara ora a ri- fiutarmi la comunanza.

La inaspettata sorpresa mi costrinse a dissimulare l'ingiuria e le sferzate: presi dunque il partito di ri- derne, e fu cosa prudente, altrimenti avrei dovuto bat- termi col rivale. Da questa finta ilarità la collera fu sedata , sicché egli pure ne rise , e dissemi poi ; tu , Encolpo, immerso nelle delizie, non pensi che manchiam di denaro, e che le suppellettili che ci rimangono non hanno nessun valore. A questi giorni estivi la città non produce nulla, e la campagna sarà più allegra ; andiamo a trovarvi gli amici.

CAPITOLO QUARTO

VIT.LEGGI ATURA, ED AVVENTURE DOONI SPECIE.

Il bisogno mi astrinse ad abbracciare il consiglio, « dar tregua allo sdegno. Onde caricato Gitone de' no- stri fardelli, sortimmo di cittìi, e andammo al castel di Licurgo cavaliere romano. Siccome Ascilto era stato altre volte il suo mignone, cosi ci accolse egli gi-azio- samente , e la comitiva che vi trovammo ci rese più allegro il divertimento. Eravi tra le altre la bellissima Trifena , che vi era giunta con Lica padron di una nave, e possessore di alcuni fondi in riva al mare.

I piaceri, che in quel giocondissimo luogo godemmo, seben Licurgo ci trattasse frugalmente, nessuna voce può esprimere. Basti il dire che Venere ci congiunse tutti in brevissimo tempo. A me piacque la bella Tri- fena, la qual di buon grado die retta a' miei voti: ma appena io venni agli abbracciamenti con lei, Lica adi- ratosi volle che i piaceri a lui di soppiatto rapiti io

VILLEGG., ED AVVENTURE d'OGNI SPECIE 13

gli ricompensassi , atteso che era essa un' antica sua druda ; e così si' pose alacremente in assetto per rifarsi meco dei danni. Egli stavami intorno pien di lussuria, ma io perduto aiFatto nell' amor di Trifena , nessuna orecchia prestava a lui , il qual divenuto più ardente pel mio rifiuto, mi seguia dappertutto, sino a entrar la notte in camera mia , dove trovando schernite le sue preci , die mano alla forza , cosicché io alzai tanto le grida , che svegliata la famiglia , ed assistito da Li- curgo, potei pur liberarmi dagli impeti di quello im- portuno.

Poi eh' egli s' avvide non esser comoda a' suoi pro- getti la casa di Licurgo, tentò di persuadermi a pas- sar nel suo albergo : e rifiutando io la proposizione , egli si valse dell' autorità di Trifena , la quale tanto più volentieri pregommi di acconsentire al desiderio di Lica, quanto più liberamente ella sperava di colà vi- vere. All' amor mio tenni dunque dietro ; ma Licurgo , rinnovate con Ascilto le antiche pratiche, non volle che da lui si partisse; onde ci accordammo che egli con Licurgo si rimarrebbe , e noi andremmo con Lica ; e fecimo patto che ognun di noi , offrendoglisi occasione avesse ad insaccar qualche cosa per poi giovarcene insieme.

Inesprimibile fu la gioia di Lica in veder accettato il suo progetto , e si ne affrettò la partenza , che dato il buon giorno agli amici, il di medesimo passammo a casa sua.

Con tanta accortezza Lica tutto dispose, che in viag- gio egli sedeva al mio lato , e Trifena a quel di Gi- tone ; e così avea egli ordinato , come colui che la di lei incostanza molto ben conoscea ; s' ingannò, per- chè ell'arse subitamente di quel fanciullo. Facil mi fu di accorgermene, e Lica stesso premurosamente me ne avverti e convinse ; perlocchè io con miglior garbo ac- coIbì lui , che lietissimo ne fu , persuaso che per l' in-

14 CAPITOLO QIAUTO

giuria fattami da quella bagascia sarebbcmi uato di- sprezzo di lei, ed esso più di buou grado avrei soddi- sfatto.

Cosi passavan le cose in casa di Lica : Trifeua era pazza dell'amor di Gitone; Gitone con ogni vigor suo la servia : e l'uno e 1' altro erano disgutosi a' miei oc- chi. Lica infrattanto bramoso di piacermi , meditava ogni di nuovi allettamenti, cui Doride sua leggiadra consorte non men dava mano , e con tale squisitezza , che ben presto mi usci del cuore Trifena. A cenno di occhi io feci conoscere a Doride l'amor mio , ed ella colla audacia de' sguardi suoi mi assecondò in guisa, che questa muta eloquenza prevenendo l'espression della lingua furtivamente svelò la inclmazione, che sentivam l'un per l'altro nell'animo nostro.

La gelosia di Lica, già da me avvertita, era cagion del silenzio, e l'amor della moglie fece intendere a lei qual per me fosse la passione del marito. Quando po- temmo liberamente parlarci , le confessai ingenua- mente la cosa, e le dissi quanto severamente lo Jivessi accolto ; del canto suo l'accortissima donna mi avvisò che facea d' uopo esser destri ; e cosi , giusta il con- siglio di lei, per posseder da una parte m'adattai dal- l'altra.

CAPITOLO QUINTO

GARBUGLI, BATTERIE, RUMORI, E COSE SIMILI.

In quel frattempo Trifena, dopo avere estenuato Gi- tone , a me di bel nuovo si avvicinò , ma vistasi re- spinta cangiò in rabbia 1' amore. La frasconcella in- collorita scoperse il mio commercio con ambo i coniugi, e infingendosi sulla follia del marito per me , che non recava a lei danno, perseguitò i furtivi amori di Do- ride, e li fé' noti a Lica ; il qual vinto di gelosia pensò tosto a vendicarsene: ma Doride prevenuta dalla ca- meriera di Trifena sospese i trattenimenti segreti, sino che la tempesta fosse passata.

A 'questa notizia, indispettitomi della slealtà di Tri- fena e della ingratitudine di Lica, deliberai di andar- mene ; e favorevol mi fu la fortuna , dacché il giorno innanzi una nave carica di merci consecrata ad Iside erasi ne' vicini scogli inviluppata.

Consigliatomi perciò con Gitone, egli aderì volentieri, dappoiché si accorgea del cessato amor di Trifena, or che l'avea spossato. Andammo dunque a mare di buon mattino, e salimmo la nave tanto più facilmente, quanto che eravani conosciuti dai miaistri di Lica, chen'eraa

Hi CAPITOLO QUINTO

custodi. Ma tacendoci essi l'onore di corteggiarci, e perciò non lasciandoci campo a rubare, io abbandonai Gitone con essi, e dileguatomi cautamente montai sulla poppa, dov'era la statua d'Iside, la spogliai della ricca veste, e di un sistro d' argento , e molti ricchi mo- bili dalla cella del piloto levai, indi si nascostamente per la corda discesi, che il solo Gitou se ne avvide, il qual parimenti.^ai custodi si liberò, e di soppiatto mi tenne dietro.

Appena che il vidi , il furto gli palesai ; perlocchò risolvemmo di andar tosto a raggiugnere Ascilto; ma non potemmo alla casa di Licurgo prima dell' indomani arrivare. Trovato Ascilto, in poche parole gli raccontai le rapine, e come fummo il gioco di quegli amorazzi. Egli ci consigliò di prevenir Licurgo in favor nostro, o fargli credere che le nuove licenze di Lica fossero ca- gione della improvvisa e" occulta nostra partenza. E ciò udendo Licurgo , ei promise la sua costante assi* stenza contro i nemici.

Rimase ignota lo fuga nostra sino a che Trifena e Doride risvegliate si alzarono ; perchè avevamo costu- me di sederci galantemente ogni mattina , mentre si acconciavano. Mancando noi dunque contro il so- lito, Lica spedi esploratori, massimamente alla riva, e ben seppe che noi fummo alla nave, non però del furto, che ancora scoperto non era, perchè la poppa era verso alto mare, e il piloto assente dal vascello. '

Certi finalmente della fuga nostra, I^ica arrabbiatone, infuriò grandemente contra Doride, cui l'attribuì. Non dirò le ingiurie di parole e di mani, perch'io ne ignoro le particolarità: sol dirò che Trifena causa di questo guaio persuase Lica a rintracciare i fuggiaschi presso Licurgo, ove forse ci eravam rifugiati , e volle unirsi a lui , onde sopraffarci con le villanie , che ci meri- tavamo.

Il di seguente partirono e giunsero al castello. Noi

GARBUGLI, batterìe, RUMORI, ECC. 17

eravamo assenti, perchè Licurgo ci avea condotto ad una festa d'Ercole, che celebravasi ìv, un vicin borgo ; locchè intendendo avviaronsi tosto verso noi , e e' in- contrarono sotto i portici del tempio. Assai ci tur- bammo vedendoli, e Lica amaramente del fuggir no- stro con Licurgo lagnossi, il quale con si alto soprac- ciglio, e con si rugosa fronte lo accolse, che io fatto ardito gli rimproverai francamente le iniquità e soz- zure , che ne' suoi empiti di libidine mi aveva usato , si in casa di Licurgo , che nella sua , Trifena , che mi contraddicea, risparmiai, manifestando le di lei igno- minie a tutti coloro, che al remore erano accorsi, e in prova di verità additai l'estenuato Gitone, e me quasi ucciso dal suo puttanesco furore.

Confusi e malinconici rimasero gli avversar]' per le risa de'circostanti ; onde partironsi meditando vendetta. E perchè si accorsero che noi l' animo di Licurgo ci avevamo acquistato, cosi andarono ad aspettarlo a casa, a fin di ravvederlo dell' error suo.

Per essere troppo tardi finite le solennità , non po- temmo ritornare al castello, e Licurgo ci drizzò ad un villaggio posto a metà del cammino, donde il giorno dopo, lasciandoci ancor nel sonno, andossene al castel suo per ispedir sue faccende. trovò Lica e Trifena che lo aspettavano, e che si accortamente gli parlarono, che lo indussero a rimetterci in mano loro. Licurgo na- turalmente crudele e niancator di parola, studiando come avesse h consegnarci, suggerì a Lica di munirsi di gente, mentr'egli sarebbe venuto al villaggio per custodirci.

Venne al villaggio, e al primo incontro ci accolse , come accolti ci avrebbe Lica, poi colle man sui fianchi ci rimproverò le falsità nostre contro Lica , e fé' chiu- derci nella camera ove eravamo, toltone Ascilto , dal qual non volle le difese nostre ascoltare; e menandol seco al castello, noi in mano ai guardiani lasciò, per- chè sino al suo ritorno ci custodissero.

Petronio Voi I. 2

18 CAPITOLO QUINTO

Inutilmente Ascilto, cammin facendo, tentò cambiar l'animo Licurgo, cui non commossero le preghiere, l'amor, le lagrime. Ma il buon camerata risolse di liberarci, e sdegnato della ostinazion di Licurgo ri- cusò di dormir seco lui, e così ebbe agio eseguire ciò che avea meditato.

Quando tutti eran sepolti nel sonno, Ascilto incari- catosi delle nostre bisacce , e attraversando per certa rottura ch'egli avea già vista nel muro, giunse di buon mattino al villaggio, dove senza ostacolo entrò e venne alla camera nostra, che i guardiani tenevano chiusa. Non fu però diffìcil di aprirla, perchè legno era l'u- scio, e con un ferro potè spalancarlo ; onde al cadere del chiavistello noi ci svegliammo , giacché ad onta dello infortunio ce ne dormivamo saporitamente.

Anche i guardiani, dopo aver molto vegliato, dormi- vano profondamente, maniera che noi soli fummo ì destati. Entrato Ascilto , quel che avea fatto per noi raccontò breve breve, vi era bisogno che dicesse più. Intanto che in fretta ci vestivamo , mi saltò in pensiero di ammazzare ì guardiani , e saccheggiare la villa. Comunicai il progetto ad Ascilto , e gli piac- que, ma ci die modo di eseguirlo senza spargimento sangue ; perché conoscendo egli tutti i pertugi della casa, ci condusse alla guardaroba, che egli apri, e da cui levammo quanto eravì di più prezioso; indi par- timmo, che ancora era l'alba, e lasciandoci a'fianchi la via maestra, non ci arrestammo sino a che non ci parve di esser sicuri.

CAPITOLO SESTO

NUOVI FURTI E BARATTERIE.

Allora Ascilto, ripreso fiato, die sfogo alla sua grande allegrezza di aver saccheggiata la casa di Licurgo uomo avarissirao, della cui stitichezza a ragion si la- gnava, perchè nessuna mercede avea ricevuto delle sue notti, e assai parcamente il trattava a mensa ; poiché tanto sordido era colui , che ad onta d' immense ric- chezze risparmiava persin le cose che gli erano neces- sarie alla vita.

Non può tra l'acque bere Tantalo sciaurato. i frutti ritenere Che. si rimira a lato. Mentre aguzzan sue brame E la sete e la fame.

Tal ricco avaro in mezzo A' suoi tesori geme, E d' ogni cosa il prezzo Con tanto affanno teme, Che a dente inaridito Mastica l'appetito.

'20 CAPITOLO SESTO

Voleva Ascilto entrare in Napoli lo stesso di ; ma gli è imprudenza, diss'io, metterci iu luogo, dove por quanto si può supporre, sareni ricercati : meglio è che infrattanto peregriniamo, giacché non ci manca di che star bene. Fu accettato il consiglio, e andammo ad un borgo per la bellezza delle case giocondissimo , dove molti de' nostri amici godevansi la bella stagiono : ma appena eravamo a metà del cammino , una pioggia grossissima ci obbligò di rifugiarci in un vicino villag- gio, dove entrati in una locanda , molti altri vidimo raccolti per evitare il mal tempo. La folla fu cagione che non fummo osservati, e potemmo cosi più facil- mente cogli avidi occhi indagare se nulla potevamo ghermire, quando Ascilto senza che altri si avvedesse, raccolse di terra un sacclietto, in cui trovò assai mo- nete d'oro. Di questo primo felice augurio assai lieti noi fummo, e temendo che alcun reclamasse , noi zitti zitti uscimmo per la porta de' carri, e qui vedemmo uno schiavo che insellava certi cavalli ; il quale sendosi di- menticato non so cosa, lasciati i cavalli rientrò in casa: perlocchè io, lui partito, sciolte le firabie, una egregia valdrappa levai: poi tenendoci lungo le botteghe ci salvammo in un bosco vicino.

Nel più folto del bosco, e dove ci tcnevam più sicuri, molto pensier ci demmo del modo di nasconder quel- l'oro, si per non essere del furto redarguiti, si per non venir noi stessi rubati : e infin risolvemmo di cucirlo nel soppanno di un vecchio abito, che io poscia mi ac- cavallai sulle spalle; e data la valdrappa in cura ad Ascilto, ci avviammo per obliqui sentieri verso la città : nell'uscire udimmo a man manca un che dicea: non isfuggiranno, e' son venuti nel bosco , ccrchiamli per tutto, e ci sarà facile d'attrapparli.

A queste parole tanto timor ci prese , che Ascilto e Gitone fuggironsi per mezzo agli spini alla città, ed io si precipitosamente nel bosco tomai, che non m'av-

NUOVI FURTI E BARATTERIE 21

vidi essermi il prezioso abito dalle spalle caduto; sino a che stanco e incapace a ir più oltre, mi adagiai al- l'ombra di un albero, e qui della smarrita veste mi accorsi. Allora il dolore mi rese le forze , e rialzatomi mi posi in traccia di quel tesoro : mìi lungamente e in vano mi aggirai, tanto che di fatica e di pena abbat- tuto, nel più folto del bosco mi ascosi, ove dimoratomi quattr'ore, infastidito di quell'orror solitario , cercai la via di sortirne. Feci pochi passi , e vidi non so qual villano. Allora si che mi fu d' uopo di tutta la mia franchezza, la qual non mancommi; perchè arditamente ver lui avanzatomi, il richiesi per qual sentiero si an- dasse in città, lagnandomi del lungo tempo , che io stava gironzando pel bosco. Egli impietosito dello stato mio, dappoiché io era più pallido di morte, e tutto co- perto di fango , m' interrogò se nessuno avessi visto nel bosco. Nessuno, io risposi ; ed egli gentilmente allor mi condusse sulla strada maestra , dove incontrossi in due suoi compagni , che gli riferirono di avere scorsi tutti i viottoli del bosco, e nulla avervi trovato, fuorché una veste, la qual mostrarono.

Non mi die il coraggio, come ognun può credere, di reclamarla , benché io sapessi di quanto valore ella fosse. Allora il dolor mio si fé' più grave, e gemendo sul rapitomi tesoro, e la mia fiacchezza crescendo, len- tissimamente senza che quei mi abbadassero, lor tenni dietro.

Assai tardi giunsi in città, ed entrato in locanda vi trovai Ascilto mezzo morto sul letto, ed io mi gittai sopra un altro, senza potere profferir motto. Turbatosi egli a non vedermi la veste, me ne dimandò inconta- nente , ed io quasi svenuto , ciò che non potei colla voce, gli manifestai colla languidezza degli occhi: ma a poco a poco tornato in forze, Ascilto della disgrazia informai. Egli pensò ch'io scherzassi, e quantunque con un profluvio di lagrime io giustificassi la cosa , pur

22 CAPITOLO SESTO

egli ne dubitò, credendo che io frodar lo volessi di quell'oro. Intanto Gitone sta\ asi tristo al par di me, e il dolor suo accresceva la mia mestizia; ma ciò che più mi pungea, era la perquisizione che di noi faceasi ; e avvertitone Ascilto, egli non turbossene gran fatto , perchè si era bellamente cavato d' intrico ; oltredichè egli era persuaso che noi fossimo sicuri, si perchè non eravara conosciuti, come perchè nessun ci avea visti. Tuttavia fìngemmo di trovarci ammalati , onde senza sospetto restar qualche giorno all'albergo : ma la man- canza di denaro fé' sortirci più presto di quel che vo- lessimo, e l'urgente necessità ci costrinse a vendere i nostri furti.

Suir imbrunir della sera vennimo in piazza , dove scorgemmo quantità di cose vendibili, non veramente preziose , ma però tali, «he 1' oscurità potesse meglio coprirne la mala provenienza. Di si propizia occasione noi pure ci approfittammo, recando la rapita valdrappa, e appostatici ad un angolo ne esponemmo una falda, acciò la bellezza potesse per avventura attirar com- pratori.

Poco dopo un villano, ch'io conobbi di vista, in compagnia di una donnicciuola si avvicinò , e attenta- mente si mise ad osservar la valdrappa. Ascilto dal canto suo fissò gli occhi sulle spalle del compratore, e improvvisamente smarritosi ammutolì. Io parimenti non senza un po' commozione osservai costui , poiché parevami esser quel desso, che avea nel bosco trovato l'abito, siccome egli era diffatto. Ma Ascilto non fidan- dosi agli occhi suoi, e per nulla fare scioccamente, a lui dapprima qual compratore si appressò, e aalle spalle un lembo sollevandogli della veste con maggior dili- genza r esaminò. Vedi strano scherzo della fortuna ! L'uom di campagna ancor non avea le curiose mani entro le cuciture introdotto , all' incontro come uno straccio d'accattone, e quasi vergognandosene, la vendea.

»

NUOVI FURTI E BARATTERIE 23

Poiché Ascilto intatto riconobbe il deposito , o il venditore imbecille, tirommi alquanto in disparte , e si mi disse: sai tu, fratello, che il tesoro cagion de' miei lagni ci è ritornato ? quella è la. veste , ancor , come parmi, di tutto l'oro fornita. Che farem dunque, e con qual dritto ricupereremo la roba nostra ?

Io consolatomi , non solo in rivedere il bottino , ma SI pure per essere dalla fortuna liberato di un vergo- gnoso sospetto , dissi che non conveniva operar con raggiro, ma apertamente e in via giudiziaria, cosicché s'ei negasse di rendere l'altrui roba al padrone, venisse citato a comparire.

Che giovan leggi, ove sol regna l'oro, il pover uom vi può mai prevalere ; Vendon persino a prezzo i voti loro Quei che a cinica mensa usan sedere ; Son le sentenze un pubblico mercato, E i traffici ne approva il Magistrato.

Ascilto all'incontro avea timor delle leggi, e diceva : chi è che qui ci conosca V Chi ci crederà ? A me piace comperare addirittura, benché la sappiam cosa nostra, e con pochi soldi ricuperare un tesoro, anzi che esporci alla incertezza di una lite. Ma appena due lire, e qual- che monetuccia avevam noi da prenderci quattro lu- pini. Acciò adunque non ci sfuggisse la preda , tro- vammo meglio di vendere la valdrappa a minor prezzo, acciò il minor guadagno da un lato compensasse la perdita dall'altro.

Appena tuttavia la merce nostra ebbimo esposta, che la donna dal capo velato venuta col villano , osserva- tine attentamente i contrassegni, ne afferrò a due mani la frangia, e ad alta voce gridò , che avea trovato i ladri.

Noi dall'altra parte turbati, e per non parere stor-

24 CAPITOLO SESTO

diti, afferrammo noi pure la logora stracciata veste, e colla stessa forza gridammo che quella anzi era pro- prietà nostra e non sua. Ma troppo ineguale era la causa, e la gente che era accorsa al remore , rideva , secondo il solito delle nostre querele; imperocché ri- clamavan coloro un drappo ricchissimo, e noi un cencio, manco buono a far schiavina. Ma Ascilto fe'cessaro le risa, e chiesto silenzio disse: noi vediamo che tien cara ciascuno la roba sua ; rendanci essi il nostro abito, e riprendansi la valdrappa.

Sebben quel cambio al villano ed alla donna pia- cesse, tuttavia gli avvocati notturni che volcano lu- crare sulla valdrappa, insistevano che ogni cosa fosse in lor mano deposta, e che il di vegnente il giudico ne avrebbe deciso-, tanto più che non solo trattavasi del merito della quistione, ma quel che ò più, di co- noscere in chi cadesse il sospetto del furto.

Già il pensier del sequestro piacea , quando non so chi tra que' schiamazzanti, calvo e di fronte assai rile- vata , che facea talvolta il procuratore , s' impadronì della valdrappa, e disse, che l'avrebbe resa all'indo- mani. Del resto egli era chiaro, che altro non cercavan costoro, se non che depositalo una volta quel drappo, ingoiarselo tra loro ladroni, e che noi per timor del delitto non avessimo a comparire alla citazione. Questo volevamo noi pure ; cosicché il caso giovò ad ambe le parti ; onde il villano sdegnato che noi tanto instassimo per quello straccio, buttollo nel viso ad Ascilto, e volle che tolta di mezzo la quistione , deponessimo la val- drappa, solo oggetto di tanta lite. Riacquistalo cosi , come ci credevamo, il tesoro, corremmo all'albergo, e chiusi gli usci, risimo della finezza si della comitiva, che degli accusatori, i quali con tanta scempiaggine ci avean reso il danaro.

CAPITOLO SETTIMO

MALATTIA E MEDIOIHA MAL RIUSCITA.

Intanto che scucita la veste ne tiravamo l'oro, udim- mo alcuno chiedere al locandiere che razza di gente fosse testé entrata in locanda.

Io di tal dimanda spaventatomi , quando colui fu flortito, discesi per saper cosa fosse, e seppi che il lit- tor del pretore, che avea cura di scrivere sui pubblici registri i nomi de' forestieri, avendo visto due stranieri entrare nell'albergo, i cui nomi ancor non aveva negli atti, vi era perciò venuto a cercare della lor patria ed impiego.

Cosi ragguaglia varai l'oste, ma con tal flemma, che mi svegliò sospetto che noi fussimo mal sicuri ; laonde per non ingannarci scegliemmo di escire, e di non tornar che la notte; e cosi partendoci ordinammo a Gitone che prendesse pensier della cena.

Siccome nostro consiglio fu di evitare le strade pò-

26 CAPITOLO SETTIMO

pelose, cosi ce ne andammo pe' luoghi solitari della città, in uno de' quali, essendo già sera , incontrammo due leggiadre, femmine col velo, cui pian pianino teu- nimo dietro sino ad una cappella , nella quale en- trarono, dove udimmo un susurro insolito, come di voci che uscissero dal seno di una caverna. La curiosità ci spinse ad entrar nel tempietto ; e vi scorgemmo più donne a foggia di baccanti, che stringevano nella mano destra de'rigogliosi priapi: ma non potemmo nient'altro osservare, perchè avendoci esse veduto, alzarono si gran rumore, che ne tremò la volta del tempio, e tentarono di attrapparci. Ma noi scappammo velocemente all'albergo.

Appena ci sentivamo soddisfatti della cena, fattaci dalla attenzion di Gitone disporre, che udimmo battere con sonori colpi la porta; impalliditi chiedemmo chi fosse, e ci fu risposto : apri e il saprai. In questo mez- zo, il chiavistello schiodatosi cadde, e cosi la porta die accesso alla persona chiedente senz'altro ritardo. Ella era una donna col capo coperto, quella cioè che poc'anzi Btavasi col villano, e voi, ci disse, voi vi credeste di farvi gioco di me. Ma cameriera di Quartilla son io, i cui riti , nella Grotta voi testé disturbaste. Ora qui ella stessa e venuta e cerca di potervi parlare. Non datevi pena però. Ella non vuole accusar ne punire la vostra insolenza; al contrario ella è sorpresa, sa qual Dio abbia in questa sua contrada portato si ama- bili giovinetti.

Nulla erasi ancora per noi risposto , incerti del pa- rere cui attenerci, quando colei accompagnata da una fanciulla entrò, e sedutasi sul mio letto pianse per un buon pezzo. parola alcuna allor pure dicemmo, ma sorpresi attendevamo la fin delle lagrime , che tanto dolore manifestavano. Come quel torrente di pianto cessò , alzò il velo del maestoso suo viso, e congiunte le mani sino a farne iscrosciar le nocca : che ardire è codesto, diss'ella, e chi v'insegnò quelle menzogne e

MALATTIA E MEDICINA MAL RIUSCITA 27

quei furti ? propriamente io ho pietà di voi , perchè nessun vide giammai cose da non vedersi, il qual non ne andasse pimito. Sappiate che qui abitano tanti Numi eh' egli è più facile trovarci un Dio , che un uomo. Ma non crediate, ch'io qui venga per amor di vendetta ; più all'età vostra, che alla mia ingiuria ho riguardo , persuasa che voi per imprudenza abbiate commesso un si grave peccato.

Io parimenti stanotte mi trovai agitata e presa da terribile intirizzimento, che ebbi timor di un accesso di febbre terzana ; e così cercando al sonno un rime- dio, mi sentii ispirata di venire in traccia di voi, e al- l'impeto del mio mal sottile trovar sollievo. Pure non è del rimedio , che io mi prenda maggior cura ; ciò che più mi tormenta, sino a ridurmi all'angoscia , egli è il timore che voi spinti da giovenil baldanza divul- ghiate quanto nella cappella di Priapo vedeste, e ciar- liate tra '1 volgo de' misteri degli Iddii. Sino ai vostri ginocchi alzo adunque le mani, e prego e supplico che quei notturni riti non facciate oggetto dell'altrui scherno, vogliate scoprire questi si antichi arcani che non tutti i Misti hanno pur conosciuto.

Dopo questa prece di nuovo sgorgaron le lagrime, e da gran gemiti abbattuta, colla faccia e col petto il mio letticciuolo premea. Allora io di pietà e di timore commosso presi a confortarla e assicurarla che nessuno avrebbe le cose sacre divulgato , e che se il Nume le additava alcun altro rimedio alla terzana, noi avremmo secondata la celeste ispirazione, a costo ancor di pencolo.

Rallegratasi a questa promessa la donna, molti baci mi diede, e dal pianto passando al riso, coi diti a guisa di pettine mi ricompose i capegli che lungo le orecchie scendevanmi , dicendo : io faccio tregua con voi , e ri- nuncio alla lite intimatavi. Che se a codesto rimedio, cui aspiro, voi non assentivate, già vi era gente dispo- sta, che dimani l'ingiuria mia e il mio onor vendicasse.

28 CAPITOLO SETTIMO

Fa il disprezzo vergogna,

E il poter comandar mette in orgoglio : Io, quanto a me, sol voglio Andarmene e venir quando bisogna; Degli altrui scherni il vero saggio ride, E vittoria ha colui, che non uccide.

Battendosi poi palma a palma scoppiò ad un tratto in tanto ridere, che noi ce ne spaventammo ; cosi fece dal canto suo la cameriera, che era prima venuta, cosi la fanciulla che l'accompagnava ; tutto rimbombava di un riso teatrale. Intanto che noi, ignari del motivo di cosi improvviso cangiamento , or ci guardavamo V uu l'altro, or quelle donne, Quartilla disse : insomma io ho proibito che oggi si accetti chicchessia in questa lo- canda, onde avermi da voi senza interrompimento il rimedio alla mia terzana.

A queste parole Ascilto restò alquanto stupito, ed io fatto più freddo dei ghiacci del settentrione, non seppi profferire motto : e se nessun male io temea, n' era ca- gione la compagnia ; poiché, se qualche fatto volesscr tentare, eli' erano tre deboli donnicciuolc ; noi all' in- contro , quando anche ogni altro viril soccorso man- casse, eravamo pur maschi. Difatti stavamcene di già bene in armi ; anzi io avea già disposte le coppie , in modo, che se a combatter si avesse , io mi affrontassi con Quartilla , Ascilto colla cameriera , Gitone colla fanciulla.

Mentre io volgea in mente queste cose, mi si accostò

Quartilla, ond'essere medicata della terzana : ma non

riescitomi il colpo, ella sorti furiosa, e tornatasi un mo-

* mento dipoi ci fé' prendere da gente sconosciuta , e in

magnifico palazzo trasferire.

k

CAPITOLO OTTAVO

I

INVIOLABILITÀ DE MISTERI VIOLATA. FESTE IN ONORE DI PRIAPO.

Allora veramente storditi noi perdemmo ogni co- stanza, e cominciammo tapini a guardar come certa la morte. Il perchè io dissi : signora, se tu ci prepari qual- che malanno, adempii© al più presto, giacché non ab- biam commesso si gran delitto da farci morir tor- mentati.

Dopo ciò la damigella , che chiamavasi Psiche, di- steso attentamente sul pavimento un tappeto, venne a bezzicarmi nell'anguinaglia già per mille morti gelata.

Ascilto si copri la testa, avvisandosi esser cosa pe- ricolosa lo star osservando gli altrui segreti. Intanto la cameriera levatisi dalle gambe i legacci, coU'uno ci annodò i piedi, e coU'altro le mani.

Cosi legato, diss'io, la tua padrona non potrà ap- pagar le sue brame. Lo veggo , disse la giovine : ma io ho pronto un altro e più sicuro rimedio; e portò

50 CAPITOLO OTTAVO

subito un vaso pien di filtro; e in mezzo a molti scherzi e chiacchere agitandolo , te' si che io bevetti quasi tutto il liquore, e perchè poco prima Ascilto avea disprezzati i suoi vezzi, gìttogliene addosso l'a- vanzo, ch'ei non bo ne avvide.

Quando Ascilto udì che eran cessate le chiacchere , disse: non son io dunque degno di berne? la cameriera, da un mio sorriso tradita, battè le mani, e disse : io te ne ho dato, o ragazzo, l' hai tu forse bevuto tutto V

E Quartina disse: è egli vero che Encolpo abbia bevuto il filtro, quanto ve n' era V E un gentil riso le sommovea i fianchi. Insomma persin Gitone non potè trattenersi del ridere, massimamente dopo che'la fan- ciulla lo ebbe abbracciato al collo, e dati innumerabili baci a lui, che non vi si opponea.

Noi volevam gridare, meschini , ma non era chi po- tesse aiutarci, e da un lato Psiche con uno spillon da capegli pungeva le guance a me desideroso di gridare accorr'uomo, e dall'altro la ragazza inquietava Ascilto con un pennello intinto nel filtro. Finalmente soprav- venne un bardassa vestito di un gabbanello color di mirto, legato a mezzo da un cintolino , il quale or le natiche rilevando ci dava un colpo, or e' imbrattava di sporchi baci, fino a che Quartilla stringendo un nervo di balena, e colle gonne assai rialzate, comandò chea noi malavventurati si dasse commiato. Ciascuno di noi giurò colle più sacre parole , che quell' orribil segreto sarebbe rimasto sepolto con noi.

Entraron dipoi molte gladiatrici, le quali, ungendoci con olio che teneaa nell' orciuolo , ci ristorarono. Co- munque la cosa fosse, la stanchezza cessò, e ripresa la veste da cena ci portammo nella stanza vicina , nella quale eran distesi tre letti intorno a lauta mensa magnificamente disposta. Cosi comandati ci stesimo, e cominciando per un egregio antipasto, ci empiemmo di vin falerno. Gustammo poi tant' altre vivande , che

ikviolabilita' de' misteri violata, ecc. 31 divennirao dormigliosi. Cob' è, cos' è ? disse Quartilla , pensate voi di dormir nuovamente , quando sapete che si ha a vegliare in onor di Priapo ?

Ma Ascilto da tanti fastidj abbattuto cadde addor- mentato, e la damigella ch'egli avea con disprezzo re- spinta, gli imbrattò tutto il viso di fuligine polverizzata e, poiché nulla sentiva, gli dipinse con carboni spenti le labbra e le spalle.

Ed io pure stanco di tante molestie sentivami con- sumare dalla svenevol dolcezza del sonno : lo stesso accadea al resto della famiglia, si fuor della stanza , che dentro ; ed altri giacevan qua e a'piedi de'com- mensali, altri appoggiati alle pareti, alcuni colle teste dell'un sull'altro russavan suU'iascio; persin le lucerne mancanti di umore mandavano lume leggiero e mori- bondo , quando due schiavi siriani con disegno di carpire una bottiglia entrarono nel triclinio , e men- tre disputavansela con calore in mezzo ai coperti , la bottiglia si ruppe, cadde la mensa e il vasellame , e un bicchiero lanciatosi d'alto tagliò il capo a una fan- tesca che dormia sur un letto. Perlocchè ella gridò, e ad un tempo stesso scoperse i ladri , e alcuni degli ubriachi svegliò. I ladroncelli vedutisi attrappati si di- stesero parimenti lungo un letto, che sarebbesi creduto esservi stati e giacervi da lungo tempo.

Lo scalco ridestatosi avea già rifuso l'olio nelle ago- nizzanti lucerne, ed i valletti, fregatisi cosi un poco gli occhi, rimetteansi in servizio, quando una sonatrice di cembalo avanzatasi e facendo strepitar lo stromento , risvegliò tutti gli altri. Eicomiuciò allora il convito , Quartilla spinse a bever di nuovo, e la sonatrice ac- crescea l'allegria de' Commensali.

Intanto entrò un altro bardassa, uomo fra tutti in- Bipidissimo, e ben degno di quella casa , il quale , co- m'ebbe battendo le mani schiamazzato , cantò questi versi :

32 CAPITOLO OTTAVO

Su venite adesso qui,

Su danzate, o bagascioni, Carolate, saltate, o mignoni, Qui la coscia ed il fianco vibrate, Con la mano ritrosi non siate, Sbarìiatelli, castratelli. Divertitevi cosi.

Finita la cantilena costui sputacchiommi con un bacio schifoso, di poi sul letto si stese, e contro il voler no- stro ci discopri. Un pezzo e in molte guise inutilmente mi macinò 1' anguinaglia, Colavagli i)cr la fronte in- sieme al sudore il belletto , ed avea tanto cmpiastro tra le rughe delle guance, che l'avresti detto un muro dilavato dalla pioggia.

Io non potei trattener più oltre le lagrime: ma al colmo della tristezza vedendomi, deh ! signora, sciamai, foste voi certamente, che siffatto baciucchiator mi man- daste.

Ed ella con maggior gentilezza battendo le mani , oh, disse, il furbo che tu sei, oh il grazioso motteggia- tore ! e non ti sovviene , che al bardassa pur si dice baciucchiatore? allora io, affinchè il mio collega non stasse meglio di me, perdio, sclamai, il solo Ascilto ri- marrassene ozioso in questo triclinio?

Si ? rispose Quartilla ; vadasi a baciucchiar anche Ascilto. A quest'ordine il ragazzo cambiò cavallo , e fatto passaggio sul mio compagno, di natiche e di baci l'affogava.

Gitone, che era fra noi , tencvasi i fianchi pel gran ridere; onde Quartilla guardandolo cercò con la più precìsa richiesta cui quel donzello appartenesse. E di- cend' io eh' egli era mio famigliare, perchè dunque, sog- giunse, non mi baciò egli ? e chiamatolo a gli ap- piccò un bacio sul viso: indi messagli sotto la mano', e trattone un cotal piuolo non anco esperto, con que»

inviolabilità' de' misteri violata, ecc. 33 sto, replicò, dimani farà battaglia , per antipasto alla mia libidine , giacché oggi dop' essermi ben pasciuta altro piatto non curo.

Quando ebbe così parlato, Psiche ridendo le si ac- costò all'orecchio, e dettole non so cosa, brava, brava, disse Quartina, bene hai pensato , perchè non si sver- ginerà ellaj or che bellissima n'è l'occasione, la nostra Pannichina *? E f u tosto condotta questa fanciulla, assai bella, che non mostrava aver più di sett'anui, ed era quella medesima, che insieme a Quartilla venne la prima volta in camera nostra. E come tutti applaudivano e solle- citavano, si stabiliron le nozze.

Io mi maravigliai, e sostenni che Gitone, ragazzo verecondissimo, era capace di tale sfrontatezza, era la fanciulla per l'età sua al caso di poter accoglier lo scettro cui son le donne soggette. Oh t disse Quartilla, è fors' ella più giovane di quel che foss'io , quando la prima volta mi sottoposi ad un uomo ? Che Giunon mi punisca se io pur mi ricordo d' essere stata vergine. Perchè fanciulla con fanciulli mi abbarbicai, poi , cre- scendo gli anni, attesi a garzoni maggiori di me , fin ch'io giunsi alla età presente : quinci nacque forse il proverbio

Chi un vitel portato ha già, Anche un toro porterà.

Laonde perché il ragazro non avesse mio malgrado a soffrir maggior male, mi alzai per assistere alla nuzial cerimonia.

Già Psiche avvolgea il capo della fanciulla nel velo, già il baciucchiatore portava innanzi la fiaccola, già le donne ubbriache seguiano in lungo ordine con gran baldoria , e aveano della nuzial veste ornato il ta- lamo , quando Q uartilla dalla libidine de' trastullanti commossa, alzò, e afiferrato Gitone il condusse in ca*

Petronio. Voi, I. 3

34 CAPITOLO QUINTO

mera. Il Garzoncello veramente non rifiutò, e neppur la fanciulla ebbe molto spavento al nome delle nozze. AUor dunque che chiusi in camera insicm giaccano , noi ci sedemmo sull'uscio, e fu Quartilla la prima, che avvicinò il curioso occhio ad una fessura maliziosa- mente dispostavi , ed osservò con lasciva attenzione quei puerili trastulli. Me pur dolcemente ella trasse a quello spettacolo, e perchè i volti nostri allor si tocca- vano, ella ojjni volta, che dal guardar si traea, porgea di traverso le labbra, e quasi furtivamente andavami ribaciando.

Ma si infastidito era io della frega di Quartilla, che pensai alla via di sottrarraene, e comunicai il mio pen- siero ad Ascilto, cui molto piacf|ue, desiderando egli pure di liberarsi dalle molestie di Psiche. Questo non ci ca difficile, quando Gitone stato non fosse in ca- mera chiuso, perchè lui pure volevam condur via, to- gliendolo dalla ingordigia di quelle sgualdrine. Intanto che noi volgevam nella mente cosi spinoso disegno , Pannichina cadde giù del letto, e strascinò seco Gitone, il qual non si fece alcun male , ma ella restò legger- mente ferita nel capo , di che alzò tante grida , che Quartilla spaventatasi accorse precipitosamente al ru- more, e cojì ci die campo di andarcene ; dìffatto senza fermarci giammai Volammo al nostro albergo, dove ada- giatici in letfo passammo il rimanente della notte senza disturbo.

Uscendo il giorno dopo incontrammo due di coloro, che ci avevan rapiti, ed Ascilto vedendoli, coraggiosa- mente ne assaltò uno, e vintolo e gravemente feritolo venne in mio soccorso contro l'altro investito da me; ma costui si portò con tanto valore , che noi due leg- giermente feri e illeso fuggissene.

CAPITOLO NONO

LUSSO E MAGNIFICENZE DI TRIMALCIONB.

Intanto era il terzo di arrivato, cioè il giorno della cena di liberazione annunciata da Trimalcione , ma a noi di quelle ferite turbati più la fuga che la quiete piaceva. Onde prestamente ce ne tornammo in locanda, e con vino ed olio ci medicammo ; stando in letto , le leggieri nostre ferite.

Ma il rapitor stato vinto giaceva sul terreno , e noi temevamo di non venir conosciuti. Mentre adunque rattristati pensavamo come evitar questa nuova tem- pesta, un servo di Agamennone di noi cosi paurosi ri- chiese, dicendo : Ecchè, non sapete voi presso chi oggi si faccia baldoria ? Egli è Trimalcione , uomo magni- fico, che ha nella stanza del pranzo un orologio, ed un trombetta istruito ad avvertirlo di tutti i momenti , eh' egli nella vita sua consuma. Noi quindi ci rivestimmo prestamente, obbliando i passati mali, e comandammo

36 CAPITOLO NONO

a Gitone, che ci avea assistito graziosamente come uu famiglio, di seguirci al bagno.

Frattanto ci diemmo a gironzare , anzi pure a tra- stullarci, e entrar pe' circoli dc'gìocolieri, quando ad un tratto vidimo uu vecchio calvo vestito di un palandrano rossiccio, che stava giocando alla palla con alcuni fan- ciulli a lunghi capegli. furou tanto i fanciulli, che a quello spettacolo ci trattenessero, sebben degno ne fosse, quanto quel nonno che alla palla esercita vasi coi calzari. Ei non ribattea la palla, ch« avea toccato il terreno, ma un servo ne avea pieno un sacco, quanto ai giocatori bastava.

Varie altre novità rimarcammo. Eranvi due Eunuchi posti in diversi punti del circolo, de' quali un teneva una mastelletta d' argento, 1' altro noverava le palle , non quelle però, che gioco facendo lanciavausi colle mani, ma quelle che cadeano.

Intanto che ammiravamo cotai splendidezze, Menelao venne a noi dicendo : questi 6 colui , presso il qual mangerete. Non vedete voi che cosi principia la cena ?

Ancor discorrea Menelao, quando lo splendidissimo Trimalcione fé' scoccare i suoi diti , e a questo segno r eunuco mise una mastelletta sotto al giocatore , il quale scaricovvi entro la vescica , poi chiese l' acqua alle mani, e i diti appena umidi sul capo di un ragazzo asciugò. Lunga cosa sarebbe descriver tutto. Entrammo iitì' bagni, e al momento che il sudor ci coperse pas- sammo al fresco.

Trimalcione già tutto strofinato di manteche faceasi fregare non con leuzuoli di lino , ma con mantelli di finissima lana. Tre di quei mediconzoli intanto tran- gugiavan falerno alla di lui presenza, e perchè gareg- giavano a chi più ne versava, Trimalcione dicea loro, che bevessero pure allegramente il suo vino. Involto quindi in una tovaglia di scarlatto fu messo in lettica, cui precedeano quattro adorni lacchè ed una carretta

LUSSO E MAGNIFICENZE DI TRIMALCIONE 37

a mano, dove portavasi un vecchio e cisposo mignone , più brutto del suo padron Trimalcione , di cui era la delizia. Cosi trasportato e accompagnato da alcuni ar- moniosi flautini si avvicinò alla di lui testa, e come se gli parlasse segretamente all' orecchio , canticchiò per tutto il cammino. Noi , stanchi oramai di maraviglia , teniam dietro, e insieme ad Agamennone arriviamo alla porta, sullo stipite della quale era un cartello inchio- dato con questa iscrizione:

QUALUNQUE SCHIAVO USCIRÀ'

SENZ'ORDINE DEL PADRONE

BUSCHERA' CENTO SFERZATE.

Stava 3uir ingresso un guardaportone vestito di verde chiaro con una cintura color di ciriegia , il qual mon- dava piselli in un catino d'argento. Pendeva poi sopra la soglia una gabbia d'oro, dalla quale una gazza va- rio-pinta salutava i concorrenti. Io poi tante cose stordito, fui per cader tombolone a rischio di fracas- sarmi le gambe, per causa di un cane , che alla sini- stra dell'ingresso vicino alla camera del guardiano era dipinto sul muro, legato con catena, colle parole cubi- tali al disopra GUARDATI DAL CANE. Ciò fé' ri- dere i miei colleghi ; ma io raccolto il mio spirito non rimasi dal proseguir lungo il muro. Il sito ove si ven- don gli schiavi era tutto dipinto a cartelloni insieme al ritratto di Trimalcione, il qual chiomato col caduceo in mauo entrava in Roma, e Minerva ne reggea le re- dini. Più innanzi era figurato in atto d' imparare ì conti, e più oltre in foggia di tesoriere; e il bizzarro pittore ogni cosa avea diligentemente rappresentata con la iscrizione: sul finir poi del portico eravi Mercurio che lui col mento rialzato ponea sopra un alto tribu- nale. Ivi appresso era la fortuna ornata del corno del- l' abbondanza , e le tre Parche che filavano penecchi d' oro.

38 CAPITOLO NONO

Osservai pure nel portico una mandra di lacchè, che veniva esercitata da un istruttore. Oltr'a ciò , vidi in un angolo un grande armadio, ne' cui stipi cran chiusi i lari d'argento, una statua in marmo di Venere , ed una scatola d'oro ben grandicella.

Io presi poi a dimandare il custode quai pitture vi fossero nel mezzo del portico, e mi disse eh' cran l Iliade, e l'Odissea, e dalla parte sinistra due giuochi di gla- diatori.

Non era possibile di osservar più oltre: venimmo perciò alla sala del convito, al cui ingresso un maestro di casa registrava i conti: ciò che più mi sorprese fu il veder attaccati alla porta del triclinio i fasci colle scuri, la cui estremità pareva uno sproD di nave in bronzo, sul quale era scritto :

A CAIO POMPEO TRIMALCIONE

SESTOVIRO AUGl'STALE

CINNAMO TESORIERE.

Al disopra di questa iscrizione stava una lucerna a due lumi pendente dalla volta , e due tavole infisse sulle due imposte, delle quali una, se ben mi ricordo , avea questo scritto :

I DUE GIORNI AVANTI LE CALENDE DI GENNAJO CAIO NOSTRO CENA FUORI.

Nell'altra vedevasi dipinto il corso della luna e dei sette pianeti, e distinti con un segno i di buoni , ed i climaterici.

Colmi di tante delizie andammo per entrar nel tri- clinio, quando un de'fanciulli, che a quest'uilicio abba- dava, gridò : COL PIE' DESTRO. A dir vero noi tremammo alcun poco, che alcun di noi [non passasse contro il divieto. Ma introdottici tutti col pie diritto ,

LUSSO E MAGNiriCENZE DI TRIMALCIONE 59

un ignudo schiavo prostrossi ai nostri piedi, e si pose a pregarci, che il liberassimo dal castigo, giacché grande non era il delitto, pel quale era in pericolo, essendogli stato rubato ne' bagni l' abito del Tesoriere, che appena valer potea dieci sesterzj.

Retrocedemmo adunque col pie diritto , e fummo a pregare il Tesoriere, che stava contando danaro, voler perdonare allo schiavo. Egli orgoglioso alzò la fronte dicendoci: non la perdita, ma la negligenza di quel pessimo servo mi arrabbia ; egli ha peiduta la veste da camera , regalatami da un mio cliente il di della mia nascita, la qual era sicuramente di porpora, ed una volta soltanto fu lavata. Comunque sia però, in grazia vostra gli perdono.

Riconoscenti a si gran beneficio rientrammo in sala, e venneci incontro quello schiavo medesimo , per cui avevam pregato, e moltissimi baci con sorpresa nostra ci diede, ringraziandoci della nostra umanità. E disse: vi accorgerete pure chi abbiate beneficato. Dare il vin del padrone è un favor del coppiere.

CAPITOLO DECIMO

CEKA.

Finalmente ci sedemmo , e i famigli Egiziani altri versarono acqua gelata alle mani , altri ci lavarono i piedi, togliendoci con esperta diligenza ogni bruttura dall'unghie. tale molesto servizio faceau essi tacendo, ma cosi a caso canticchiavano; onde mi venne pcnsier di provare se la famìglia tutta cantasse ; perciò chiesi a bevere , ed eccomi un ragazzo prontissimo , che mi favorì parimenti di un'acida cantilena: cosi insomma usava ogni altro, cui qualche cosa era chiesta, in modo che l'avresti creduto un triclinio da pantomimi , anzi che da padre di famiglia.

Ma un lautissimo antipasto fu recato, e ciascheduno già si era steso fuorché il sol Trimalcione , al quale conservavasi il primo luogo , per nuova disposizione ; del resto il suo vaso a questo uso era di metal di Co- rinto, e rappresentava un asinelio con una corba, nella quale da una parte stavano olive bianche , dall' altra nere. L'asinelio era da due scodelle coperto , suU orlo delie quali si vedea scolpito il nome di Trimalcione ,

CENA 41

ed il peso dell' argento. V erano anche de' ponticelli saldati sostenenti de' ghiri conditi con miele e papa- vero ; e v'erano mortadelle caldissime cotte sulla gra- ticola, sotto la quale stavano pruni siriaci con granelli di pomo granato.

Stavamo tra queste morbidezze, quando Trimalcione portato a suon di musica, e collocato sopra piccolis- simi guancialetti, trasse il riso di qualche imprudente. Perocché gli spuntava la testa pelata fuori d: un man- tello di porpora, e intorno alla collottola carica di quel vestimento teneva una cravatta guernita d' oro , le cui estremità pendeano di qua e di : avea pure nel dito mignolo della man sinistra un grande anello indorato, e all'ultimo articolo del vicin dito un meno grande tutto d'oro, come a me parve, ma saldato con de' fer- ruzzi, in forma di stelle. E per non mostrarci queste ricchezze soltanto, e' si discoperse il braccio destro, or- nato di smanigli d'oro legati in un cerchietto d'avorio con alcune lamette lucicanti. Come poi con un ago d'argento ebbesi nettati i denti, miei amici, disse, non piacevami ancora di venire al triclinio , ma perchè la mia assenza non vi facesse troppo aspettare, ogni mio divertimento ho sospeso. Permettete però, ch'io finisca un mio giuoco.

Avea dietro un ragazzo con uno sbaraglino di tere- binto e con dadi di cristallo. Cosa poi sopra le altre delicatissima osservai, ed era , che in luogo di pedine bianche e nere usava monete d'oro e d'argento.

Intanto mentr' egli giocando avea distrutta la schiera opposta, e che noi eravamo ancora all' antipasto , una tavola fu portata con una cesta, in cui era una gallin'a di legno colle ale distese in cerchio, come sogliono es- sere quando covano. Venner tosto due schiavi, ed allo strepito della mu-ica si posero a investigar nella paglia, e toltene alcune uova di pavone distribuironle ai convitati.

Trimalcione allora rivoltandosi, disse: amici, io ho

42 CAPITOLO DECIMO

ordinato che si mettessero sotto questa gallina delle uova di pavone ; e temo, per bacco , che non abbian già il feto : provìam tuttavia se son bevibili.

Noi preaimo de'cucchiaj non nien pesanti di mezza libbra, e ruppinio l'uova, che cran fatte di pasta. Io fui quasi per gittar la mia parte , perchè m' era sem- brato che avesse il pulcino; ma poi, sentendo da un vec- chio commensale, che alcuna cosa di buono doveva es- servi, continuai a rompere il guscio, e vi trovai un grasso beccafico contornato dal tuorlo dell'uovo sparso di pepe.

Trimalcione avea già sospeso il gioco, e d'ogni cosa richiesto, ed a voce alta data a ciascun facoltà di ber nuovamente il vin col miele, quando tutto ad un tratto l'orchestra die' un segno, e i cibi del primo servizio fu ron cantando rapiti dagli stessi suonatori. In mezzo a questo rumore cadde a caso una scodella d' argento , ed uno schiavo levolla dal pavimento. Se ne avvide Trimalcione, e, fatto schiaffeggiare lo schiavo, comandò che la rigettasse. Il credenziere le fu intorno, e tra le altre lordure colla scopa la spinse.

Entraron di poi due chiomati Etiopi con alcuni pic- cioli otri, simili a quelli co'quali s'innaffia l'anfiteatro; e porsero il vin con essi, giacché nessun contenca acqua.

Applaudito il signore per siffatte morbidezze , disse : MARTE FA TUTTI EGUALI ; ordinò dunque allo Scalco di assegnare a ciascuno la propria mensa , e soggiunse: e questi servi troppo numerosi tolti di qui ci sminuiranno il calore.

Portaronsi tosto bottiglie di vetro egregiamente tu- rate, che avean di fuori un biglietto con questo titolo :

FALERNO D' OPIMIO D'ANNI CENTO.

Intanto che leggevamo i cartelli, Trimalcione battu- tesi le mani sclamò: ohimè, ohimè! il vin dunque vivi

CENA 43

più vecchio che l'omiciattolo ? E noi , cosi essendo , facciamone gozzoviglia. Il vino è vita. Io assicuro che esso è vero d'Opimio. Jeri noi fei porger si buono, ben- ché i convitati fossero più cospicui.

Bevendo noi ed ammirando si squisite magnificenze un servo portò una figura d'argento cosi accomodata , che d'ogni parte se ne volgevan gli articoli , e le ver- tebre, col rallentarle. Quando ei l'ebbe una e due volte gittata sulla mensa , e in varie forme aggiustata col mezzo del mobile incatenamento, Trimalcione soggiunse :

Ohimè, miseri noi !

Oh quanto ogn' uomo è zero! Quanto presto si perde Di nostra vita il verde ! E tutti zero poi Sarem, quando il severo Orco ci rapirà. Viviam dunque, viviamo. Intanto che potiamo Starcene allegri qua.

Tenne dietro agli applausi una portata, non si grande a dir vero, quanto credevasi. La novità tuttavia trasse gli occhi di tutti. Ella era in forma di una credenaa ritonda, e aveva in giro le dodici costellazioni distinte, sulle quali il cuoco avea posto il cibo proprio a con- veniente alla figura. SuU' Ariete i ceci di Marzo , sul Toro un pezzo di bufalo , testicoli e reni sopra i Ge- melli, una corona sul Cancro, sul Leone un fico d'Africa, sulla Vergine una vulva di troia lattante, sulla Libra una bilancia , che da una parte conteneva una torta , e nell'alti a una focaccia, sullo Scorpione un pesciolino da mare, che chiamano scorpione, sul Sagittario un gambaro marino, sul Capricorno una locusta marina, sull'Acquario un'anitra, sui Pesci due triglie. In mezzo

44 CEKA

poi v'era un cespuglio di erbe recise, con uu favo di sopra.

Il famiglio Egiziano recava il pane intorno sopra un tamburino d' argento, ed egli pure con pessima voce canticchiava una goffa canzone sul succo dell'assa fe- tida. Noi ci accostavam tristamente a quelle trivialità, ma Trimalcion disse : Ceniamo , che tale è l' ordine della cena.

Quando così ebbe detto sopraggiunsero alcuni, i quali ballando un quartetto a suon di musica, carpirono la parte superiore di quel credenzìno, e allora vidimo pei di sotto, cioè in un altro servizio, ventresche e grassi circondanti una lepre ornata di ale, che pareva il cavai pegaseo. Osservammo pure intomo ai canti del crcden- Bino quattro statuette di satiri, da' cui ventri versavasi un liquore impcpato sopra i pesci, i quali vedevansi nuotar nel mare.

Noi applaudimmo tutti, facendo eco ai domestici, e lietamente assalimmo quelle squisite vivande. Trimal- cione del pari contento del buon ordine, Trincia, sclamò, e tosto lo scalco si fé' innanzi, e a suon di musica si furbescamente lacerò le vivande , che l'avresti creduto un cocchiere in lizza tra lo strepito dell'organo idraulico,

Nondimeu Trimalcione andava a bassa voce repli- cando: Trincia, Trincia. Il perchè io supponendo, che questa replica si frequente fosse una galanteria del buon tono, non ebbi difficoltà d'interrogarne colui, che mi giaceva al di sopra. E costui, che piti volte erasi a quelle feste trovato, mi disse: vedi tu colui, che taglia le vivande? E' chiamasi il Trincia, cosicché ogni volta ch'ei gli dice : trincia, con una sola parola e il chiama, e gli comanda.

CAPITOLO UNDECIMO

CONVERSAZIONE SUI COMMENSALI.

Io non sapea più che mangiare, onde voltomi ad esso i fin d'informarmi di molte cose, presi da lungi a in- ìlzar molte chiacchere, e a dimandar finalmente chi Fosse quella femmina, che andava scorrendo qua e là.

Ella è, rispose, la moglie di Trimalcione, per nome Fortunata, che misura i danari col sacco. E perdonimi il tuo genio, se ciò ch'ella era ti celo ; tu avresti ricu- sato il pane dalla sua mano. Ora il come il perchè si in alto sia tratta dirò, come ella sia il Pactodo di Trimalcione. Insomma, s'ella dicessegli di bel mezzodì, ch'egli è notte, ei le crederebbe. Costui è b'i ricco, che non sa egli stesso quanto possieda : ma la buona castalda ha cura di tutto, e la trovi dove non la credi. Secca, sobria , di buon conjiglio, ma di pessima lingua, gazza da mercato : ell'ama chi ama, e chi non ama, non ama.

46 CAPITOLO UNDECIMO

Trimalcione ha pur tanti fondi, quanti ne volan uibbj, fruiti delle sue ricchezze: egli ha più' dan: nella camera del suo guardiano, di quel che n'ab chiunque altro fortunatissimo uomo. Quanto ai 8 famigli, caspita I io non credo, per Dio, che la deci parte conosca nemmanco il padron suo; e che è \ ei potrebbe ficcare codesti mocciconi in una foglia ruta. pensarti, che gli occorra giammai di compe qualche cosa : tutto nasce in sua casa, la lana, la crt il pepe; vi troveresti il latte di gallina se tu il vole

Basta il dirti, che lana poco buona gli nascea, egli comprò de' montoni a Taranto , e ridusseli mandra ; e per avere in sua casa il mìcie attico fec portar l'api da Atene, benché, a dirla fra noi, le mestiche sien talvolta migliori delle greche. Sappi i in questi di scrisse, che gli si mandasser dall'In semi di fungo, imperocché egli non ha pure una mi che non sia nata da un asin selvatico. Vedi tutti qut origlieri ? Nessuno ha tal borra che non sia tinta porpora o di scarlatto : or mira felicità di costui ! gu dati però dal farti beffe degli altri suoi liberti. E' grassi. Vedi colui, che se ne sta ultimo nell'ulti luogo ? adesso ei possiede i suoi ottocento talenti ; vien dal nulla : poc'anzi usava portar legna sulle spalle. Ma dicono, come ho udito (che io noi so), ch'c abbia rubato il cappello ad un folletto, e che trov^ tesoro. Io non invidio nessuno , a cui Dio sia larj ma costui è ancor soggetto allo staffile del padre il qual però non gli vuol male ; cosicché ultimarne ei mise fuora questo cartello :

CAIO POMPEO DIOGENE

DAL PRIMO DI LUGLIO IN AVANTI

DA' IN AFFITTO UNA SALA,

AVENDO EGLI COMPERATA LA CASA.

CONVERSAZIONE SUI COMMENSALI 47

Che ti dirò io come stia bene colui, che vedi laggiù in quel posto di liberto? Non fo per dir male, ei rad- doppiò dieci volte il suo avere, ma poi falli. Io credo ch'egli abbia ipotecati per sino i capegli, e non per sua colpa, per Dio, perch' egli è il miglior uomo del mondo, ma per colpa de' suoi scellerati liberti, che si impadroniron di tutto. E tu sai, che quando la caldaia non bolle, e la fortuna declina, scompaion gli amici. Pur qual distinto impiego credi tu che egli esercisse per esser degno di quel posto ? Ei fu beccamorti. Egli usava pflre di mangiar come un re: cignali interi, pa- sticci , uccelli , cuochi , fornai : consumavasi più vino sulla sua tavola, di quel che nessuno abbia in cantina. Ma ei fu larva e non uomo. Andati poi a male i suoi affari, e nel timore che i creditori non si risolvessero di molestarlo, publicò un'asta con questa cedola :

GIULIO PROCULO

VENDERÀ ALL'ASTA I SUOI MOBILI

SUPERFLUI

ONDE PAGAR I DEBITI.

CAPITOLO DODICESIMO

ASTROLOGIA, B RADDOPPIAMBSTO DI CIBI.

Questi ameni discorpi Trimalcione interruppe, perchè le vivande giìi si cran levate, e i convitati fatti allegri dal vino ponevansia cianciare sonoramente. Egli adunque rilevatosi sul gomito, bisogna, disse, che voi questo vin confortiate; bisogna che i pesci nuotino. Credete voi forse che io sia contento di quella cena, che avete osservato in quel credcuzino ? Cosi conoscete Ulisse? Ma che perciò? ci giova anche tra i cibi ti attenersi di filologia.

Ben riposino l'ossa del mio avvocato, che volle ch'io fossi pur uomo tra gli uomini: giacché nulla può a me portarsi di nuovo ; io tengo al par di lui giocondo possesso d'ogni cosa.

Questo cielo, in cui abitano dodici diì, trasformasi in altrettante figure : ora diventa Ariete, onde chiunque nasce sotto quel segno, molti armenti e molta lana possiede : oltre a che ha un capo duro, una fronte che non patisce vergogna, un corno acuto. Moltissimi sco- lari e becchi nascono in questa costellazione.

Lodando noi l'acutezza del matematico, ei quindi

iSTROLOGlA, E RADDOPPIAMENTO DI CIBI 49

continuò : in seguito il cielo divien Toro. Nascono al- lora gli ostinati e i bifolchi, e coloro che medesimi mangerebbero. Sotto ai Gemini nascon le coppie, e i bovi, gli steli , e color che lisciano l' una e l' altra pa- rete. Io nacqui nella costellazione del Cancro , ed è perciò che m' innalzo su molti piedi, e che molto pos- siedo in terra e in mare, perchè il Cancro a questo o a quella conviene: e perciò poc'anzi nulla volli met- tergli sopra, onde non macchiare il mio stipite. Il Sol- lione produce i divoratori e i prepotenti. Vergme pro- duce le donne, i timidi, e gli irresoluti. In Libra na- scono macellaj , farmacisti e tutù quei che vendono. Nello Scorpione gli avvelenatori, e i tagliacantoni. In Sagittario i loschi che guardano al gatto, e rubano il lardo. Nel Capricorno gli affannati cui nascono , lor malgrado, le corna. In Acquario, gli osti, e le zucche. Ne' Pesci i cuochi e i rettorici. Cosi va il mondo come una ruota, e fa sempre alcun male, sia che nascan gli uomini, sia che si muoiano. Vedeste poi quel cespuglio in mezzo, e quel favo sopra il cespuglio? Or io nulla faccio senza il suo fine. La madre terra sta in mezzo ritonda a guisa di un uovo e contiene tutte le cose buone, come il favo.

Noi tutti allora lo acclamammo filosofo, e alzate le mani alla soffitta giurammo che Ipparco ed Arato non erano cotali uomini da paragonarsi a lui. In questo mezzo venner valletti, che agli strati sovrapposer co- perte, su cui eran reti dipinte, e cacciatori colle aste, e un intero apparecchio di caccia. Non ancor sapevamo che pensarci di ciò, quando fuor dal triclinio alzatosi un gran romore entrarono tutt'a un colpo alcuni cani di Sparta , che intorno pure alla mensa si diedero a correre. Un altro desco tenne lor dietro, sul quale era posto un cignale imberrettato di prima grandezza, da' cui denti pendevan due cestelli tessuti di palma, un de' quali colmo di datteri della Siria, e l'altro di dat-

Pttronio. Voi. I. 4

50 CAPITOLO DODICBSIMO

teri della Tebaide. Allo intorno eranvi de' porcellmi fatti di torta, come se fosser lattanti, per significare che il cignal era femmina ; e (piesti pure erano inghir- landati.

Del resto a tagliar il cignale non venne quel Trincia, che avea rotte le altre vivande, ma un gran barbone, colle gambe ne' borzacchini, e con un abitino di più colori, il quale impugnato il coltello da caccia gli per- cosse gagliarmente un fianco, dalla cui piaga volaron fuora de' tordi. Pronti furono colle canne gli uccellatori, che tosto li presero mentre svolazzavano per la sala. Dipoi, avendo Trimalcione fattone dar uno a ciascuno, soggiunse : voi pur vedete come questo porco selvatico hàssi mangiate tutte le ghiande. Allor tosto i donzelli corsero ai cestelli, che peudevan dai denti, e i vari datteri egualmente divisero tra i commensali.

Intanto io, che stavami quasi solo in un canto , mi diedi a pensar seriamente per qual ragione il cignale fosse col berretto, ma poichti ebbi esaurite tutte le fan- tasie, determinai di confidare a quel mio interprete ciò che mi affannava. Ed egli: ciò ti spiegherebbe facil- mente sino il tuo servo; giacché qui non ci è enigma, ma cosa chiara. Questo cignale essendo rimasto intatto all'ultima cena di ieri, e dai convitati rimandato, oggi torna al convito come liberto. Io allora condannai il mio stupore, e null'altro richiesi, per non parere di non aver mai cenato con galantuomini.

Tra questi discorsi un bel ragazzo, di viti e d'edera cinto, che or Bromio dicevasì, or Lieo, ora Evio, portò intomo in un panierino delle uve , cantando con voce acutissima le poesie del suo signore : al cui suono vol- tosi Trimalcione: DIONISIO, gli disse, TU SEI LI- BERO. Allora il ragazzo tolse al cignale il berretto , e sul proprio capo lo pose ; e Trimalcione di nuovo sog- giunse : or non negherete, che io non possieda il padre Bacco. Lodammo il motto di Trimalcione , e fecimo assai baci al ragazzo, che venne intomo.

CAPITOLO TREDICESIMO

ELOQUENZA DEL VINO.

Da queste vivande Trimalcione passò alla seggetta. Noi trovatici soli senza il tiranno cominciammo a sti- molar la fecondia de' convitati ; onde Priamo com'ebbe pieno il bicchiere, sclamò cosi :

0 giorno, diss'egli, tu sei zero: intanto che tu passi, la notte s'avanza. Nulla dunque più giova, quanto dal letto passar tosto alla tavola. Noi abbiamo soiferto as- sai freddo: il bagno appena m'intiepidì: ma il vin generoso supplisce ai panni. Io le ho vuotate larghe , e per certo io vacillo ; il vino mi è montato al cervello.

Seleuco prese parte al discorso, ed io, disse, non tutti i giorni mi lavo, perchè codesti bagniraani son come i lavatori : l'acqua morde, e fa ogni di più impicciolirci il cuore; ma qnand' io ho nello stomaco una scodella di vino santo, ne incaco alle punture del freddo. E veramente non potei oggi bagnarmi , perchè intervenni

52 CAPITOLO TREDICESIMO

ad un funerale. Il bello, e si buon Crìsauto rese 1' a- nima : son pochi momenti, ch'ei mi ha chiamato ; parmi esser ancora con lui. Ohimè, ohimè , noi paaseggiam* come palloui gonfi, e siamo meno che mosche, le quali hanno pure qualche virtù : non siamo dappiù di quelle pallottole, che i ragazzi fanno con acqua e sapone. Che sarebbesi detto s'ei non fosse stato si temperato ? Non gli entrò in bocca per cinque giorni una gocciola d'acqua, non una fregola di pane, eppur è morto. Ma i tanti medici lo han rovinato; o per dir meglio, il contrario destino. Imperocché il medico non è altro cho un conforto dell' animo. Pur egli è basito sopra un letto sanissimo, con ottime lenzuola. Egli è pianto da tutti: ha fatto qualche Uberto: ma forse le lagrime della moglie sono un poco bugiarde. Che avrobb'ella fatto s'ei non l'avesse ottimamente tenuta? Ma la donna è del genere de' nibbj : non Insogna usar bene con al- cuna, perchè gli è come buttarlo in un pozzo. Un amor vecchio è pure un imbarazzo.

Filerone molestamente interruppe, dicendo : Parliam de' vivi : Crisanto ha avuto quel che gli competeva : Iben visse, e ben mori: di che può lagnarsi ? ei si levò dal nulla, e fu sempre disposto a raccor colla lìngua un quattrin da una fogna: cosi si fé' grande, e crebbe a guisa di un favo. Io penso perdio che egli abbia, lasciato cento mila scudi, e tutti in danaro sonante.! Pur io voglio dir di lui quel che è vero , giacché io BOn la bocca della verità. Ei fu disobbligante, linguac- ciutOj discordia e non uomo. Il fratel suo fu forte, amico dell'amico, colle mani forate, e facea mangiar bene. A principio egli avea poco pelo in barba ; ma alla pi ima vindemmia aliargossi ne'fìanchi, perchè vendette il vin quanto volle ; e, ciò che gli fece alzar la testa , ebbe una eredità, della quale però è più quel che ha rubate di quello che gli è rimasto. E poi quel tanghero, es- sendo in rotta con suo fratello , lasciò la sua roba

ELOQUENZA DEL VIKO 53

non so quale avventuriero. Assai va lontano chi dai suoi s'allontana. Ma egli ebbe de' servi spioni , che il rovinarono. E certo, non fa mai bene chi tosto crede, massimamente s'egli è negoziante. E ben vero che fin eh' ei visse se la godette, perchè non solo il potea, ma il volea. Egli fu veramente figliuol di fortuna, in mano a cui il piombo diventa oro. Ma nulla è difficile dove tutto corre a seconda. E quanti anni credete voi eh' ei portasse? Settanta e più. Ed erasano come un corno, sosteneva bene l'età, e di pel nero al par di un corvo. Io lo conobbi qnand' e'fabbricava olio ; egli era ancor vispo, e credo, perdio, eh' ei non lasciasse a casa il suo cane, perchè gli piacean le fanciulle, e appiccava il suo voto ad ogm immagine. Di che io gli do ragione : che finalmente ciò sol di buono ha portato con sé.

Queste cose dicea Filerone, e Ganimede entrò poi in discorso cosi : Ci va costui raccontando cose che non appartengono ne al ciel alla terra, e nessun pensa intanto alla carestia che ci affligge. Io non ho potuto, perdio , trovar in tutt' oggi un boccon di pane. Come diavolo ? continua l'asciutto, ed è ormai un anno che io patisco di fame. Venga la peste agli ^dili , i quali van d'accordo coi fornaj ; mangia tu che mangio an- oh'io. Intanto il popol minuto soflre , mentre codeste mascelle signorili stannosi in gozzoviglia. Oh se aves- simo que' leoni, ch'io trovai qui la prima volta ch'io venni dall'Asia ! quello era vivere ! del paro sofferse la Sicilia nel suo interno. Ma coloro accomodaronsi ben quelle maschere, come se Giove le avesse colpite. Ri- corderai di Safiuio, il quale , essend' io fanciullo , abi- tava all'arco vecchio. Egli era un gran di pepe; do- vunque andava egli abbruciava il terreno ; ma retto , sicuro, amico dell'amico, con cui potevi al buio giocare alla mora sicuramente. Nella curia poi , oh che bra- v'uomo! egli avea in pugno tutti come tante palle. parlava già per sentenze, ma si come uomo piacevole.

54 CAPITOLO TREDICESIMO

Nel foro però egli alzava la sua voce al par di una tromba, senza mai sudare sputare. Io credo ch'ei tenesse un po' dell'asiatico. Ei rendeva graziosamente il saluto, chiamava ciascun pel suo nome, come fosse un de' nostri. Al tempo suo poi il vivere non costava nulla. Tu non potevi mangiare insieme al compagno un pane intero che valeva un soldo; ora un occhio di bue è maggiore che il pan da un soldo. Ohimè ohimè, questa colonia ogni di peggiorata cresce al rovescio, come la coda di un vitello. E perchè^ perchè abbiamo un Edile, che non vale un rotol di fichi, e che tien più conto di un soldo per se, che della vita nostra. Perciò si sta allegri in sua casa perchè ei prendo più danaro in un giorno, di quel che altri abbia di patri- monio. Io so bene dond'egli abbia avuto mille ruspi, ma se noi non fossimo si rotondi, ei non farebbe tanta baldoria. Ora la gente in propria casa è leone, e fuor di casa è volpe. Quanto a me mi son già mangiato gli abiti , e se così continua questo vivere , venderommi anche le mie casupole. Che sarà dunque di noi, se gli Iddii ne gli uomini hanno compassione di questa colonia? Ben abbia l'anima de' morti miei, com'io credo che tutto ciò addivenga per colpa nostra. Perchè più nessun pensa al cielo, nessuno osserva il digiuno, nes- suno fa più di cappello a Giove, ma tutti cogli occhi bassi altro non curano che le proprie ricchezze. Una volta andavan le donne coperte di velo, e a piedi nudi, coi capegli sparsi, colle menti pure, sul colle Clivio, e impetravan l'acqua da Giove, e tosto piovea a diluvio, e ciascun si allegrava. Ora tanto rispettansi i Dii quanto i sorci. Perciò essi hanno poi i pie d'oca, e dacché noi manchiamo di religione, le campagne languiscono.

Allora il milionario Enchione interrompendolo disse: io ti prego di parlar meglio. Or la va. or la viene, disse quel villano, che avea perduto il porco grigio. Quello che non avvien oggi avverrà dimani: cosi passa

ELOQUENZA DEL VINO 55

la vita. Non si potrà, perdio, dir migliore la patria, quand'anche avesse degli uomini ; oh adesso ella soflFre ! non è sua colpa : noi non dobbiam essere si dilicati. Tutto il mondo è paese. Tu , se fosti altrove , diresti che qui vanno attorno i porci begli e cotti. Ma noi frattanto andiamo ad avere un eccellente spettacolo in questi giorni d'allegria, non di gladiatori ordinari, ma di moltissimi liberti. E il nostro Tito ha gran coraggio, e grandissimo quand'egli ha bevuto. 0 l'una o l'altra cosa insomma gli gioverà: locchè è certo, perch'io sono suo familiare. Egli non ha remissione ; somministrerà ottimo ferro, senz'altro quartiere: s'ha a fare un ma- cello, e che l'anfiteatro ne goda. gli manca il modo. Suo padre gli ha lasciato morendo quasi tre milioni; quand'anche spendesse centomila ruspi, il suo asse non ne sofiFrirebbe gran cosa, e si farà un nome immortale. Egli a quest'ora tiene alcuni lacchè, e una donna che guida il carro, e un tesoriere come quel di Glico, il qual fu sorpreso in atto che dava diletto alla sua pa- drona. Bisognava allor veder le gare del popolo, chi in favor de' mariti gelosi; chi de' zerbini. Ma Glico avea de' quattrini, ed espose alle bestie il suo tesoriere; locchè è quanto espor se medesimo. Che colpa ci ha il servo, quand'è forzato a fare ? Ben più merìtavasi esser dal toro straziata quella puttanella. Ma chi non può batter l'asino, batte il basto. Pensavasi dunque Glico che una figlia d'Ermogene potesse mai ben riuscire ? Eppui'e egli saprebbe mozzar l'unghie ad un nibbio volante. Il serpente non genera corda; Glico, Glico ha ingiuriato a' suoi, onde fin ch'ei viverà ne porterà tal impronta, che morte soltanto gli potrà scancellare. Ma chi pecca è suo danno. Io ho presentito che Mammea sia per darci un pran'o, e regalar me ed i miei. Se ciò eseguisce, egli toglie a Norbano tutto il favore ; saper bisogna che costui va a gonfie vele. E per dir vero cosa ci ha egli mai fatto di buono sin qui ? Diecci un gioco di

56 CAPITOLO TREDICESIMO

gladiatori pezzenti, decrepiti, che cadeano ad soffio : io ne vidi de' meno vili tra gli esposti alle fiere. E' vi aggiunse un combattimento a piedi a lume di fanali; ma gli avresti creduti pollastrelli : l'uno snello come un gatto di marmo, l'altro co' piedi torti, il terzo mezzo morto per aver visto co' nervi recisi e basito il suo antecessore. Uno però di Tracia ve n'era di certa sta- tura il quale pugnò secondo gli veniva indicato : tutti infine apparvero feriti, perchè sortivan pure dalla folla del grosso volgo, atti soltanto a fuggire. Io ti ho dato un divertimento, ei mi disse; ed io risposi, bravo! ma facciamo i conti, ed io ti do più di quel che ricevo. Una man lava l'altra.

Tu mi sembri Agamennone, il qual mi dica : che va fantasticando questo importuno *f Perchè tu , che puoi parlare, te ne stai muto; e non essendo della nostra comitiva, perciò deridi i discorsi degli ignoranti. Bea sappiamo che tu sei pazzo per lo studio: ma che perciò? un qualche giorno io ti persuaderò a venire in cam- pagna, e vedere le mie casupole. Vi troveremo a man- giare, polli, ova: staremo allegri; e benché la stagione abbia in quest'anno disposto tutto a guastarsi, troverem tuttavia di che satollarci. Oltre a ciò il mio Cicarone si prepara per esserti scolaro, e già recita le quattro parti dell'orazione: s'ei vive, avrai al fianco un servi- toretto, perchè, ogni momento ch'egli ha, non alza il capo dai libri : egli è ingegnoso e di bella figura ; seb- bene cosi bravo è però di poca salute : io un di gli ammazzai tre cardellini , e gli dissi che li avea man- giati nna donnola : onde ad altre occupazioni si at- tenne ; ei dipinge di bonissima voglia. Del resto egli ha già studiato il greco, ed ha cominciato a gustar felicemente il latino, benché il suo maestro sia troppo compiacente. Non iatà mai fermo in un luogo, dimanda che gli dia da scrivere, e poi non vuol lavorare.

Ho un altro figlio , non molto dotto , ma curioso , o

ELOQUENZA DEL VINO 57

che ama d'insegnare più che di sapere. Laonde e' viene a casa soltanto ne' di di feria, e si contenta di ciò che gli si dà. Ora ho comperato a questo ragazzo alcuni libri di legge, perchè voglio che egli per custodia delle ragioni della casa sappia qualche cosa del diritto. Questo è un mestier che guadagna. Quanto alle lettere ei ne puzza abbastanza. In caso poi che ricusi, ho destinato d'insegnargli un'arte o di barbiere, o di banditore, o almen di causidico, che fuor che la morte nessun possa torgli. Onde tutti i di gli vo predicando : primogenito, bada a me, quanto impari, lo impari per te. Vedi tu il dottor Filerone? s'egli non avesse studiato, or non avrebbe di che levarsi la fame: ieri o l'altr'ieri ei facea il facchino: ora quasi quasi si pareggia a Norbano. La letteratura è un tesoro, ma con un mestiero non ai muor mai.

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

SAPIENZA DI TRIMALCIONE.

Andavasi cosi chiaccherando , allorché Trimalcione rientrò, e strofinatasi con unguento la fronte, lavossi le mani, e dopo brevissimo intervallo , perdonatemi , disse, 0 amici: già son più giorni, che il ventre non mi opera a dovere, e i Medici non sanno che dirmene. Tuttavia la scorza di pomo granato cotta nell'aceto mi ha fatto bene. Ora spero che debba essere più ritenuto, s'egli non si sovraccarica, altrimenti stammi un romor nello stomaco, come il muggir di un toro. Per la qual cosa se alcun di voi volesse a sua posta ruttare, non ha di che vergognarsene. Nessun di noi è nato d'ac- ciaio, ed io penso non darsi maggior tormento di quello del contenersi. Giove stesso non può impedirci un flato. Tu ridi, eh Fortunata, che sai esser tuo co- stume lo svegliarmi la notte con quel romore. Perciò io Qon ho proibito a nessuno di fare a tavola tutto ciò

SAPIENZA DI TRIMALCIONE 59

che gli giovasse ; diffatto i medici vietano il contenersi; che se maggiori bisogni sentiste, qui fuori tutto è di- sposto, acqua, vasd e le altre minuzie. Credetemi che quando \ vapori montano al cervello, cagionan poi la flussione in tutto il corpo. Io so che molti son morti per non aver voluto persuadersene.

Noi di quella sua liberalità e indulgenza il ringra- ziammo, soffocando poi le risa con frequenti bicchie- retti bevuti a sorsi. sapevamo che in mezzo a tante lautezze noi fossimo ancor, come dicesi, a metà del cammino. Allora diffatto levate a suon di musica le mense si condussero nel triclinio tre bianchi maiali , ornati di nastri e di campanelli, de' quali il cerimoniere diceva aver uno due anni, l'altro tre, e il terzo esser già vecchio. Io mi pensai che insieme ai porci venissero i giocolieri, onde, com'è costume ne' circoli, far qualche maraviglia. Ma Trimalcione prevenendo ogni dubbio, qual di codesti, disse, amereste voi che in un istante si mettesse in tavola ? Cosi i fittaiuoli pur fanno de' polli, d'un fagiano o di simili bagattelle : ma i miei cuochi usano cuocere un vitel tutto intero. E in questa fé' chiamare il cuoco, cui comandò, senz'altro aspettare la nostra scelta, che ammazzasse il più vecchio. Poi ad alta voce gli chiese: di qual decuria sei tu? e avendogli risposto, della quarantesima, gli disse : fosti comperato o nascesti in casa ? l'un l'altro , ri- spose il cuoco, ma vi fui lasciato per testamento da Pausa. Bada ben, gli soggiunse, a sollecitarti, altri- menti io ti caccerò nella decuria de' lacchè. E cosi il cuoco da questa minaccia stimolato andossene col ma- iale in cucina.

Trimalcione dipoi rivoltosi a noi dolcemente, se il vino non vi aggrada, ci disse, lo cambierò, ma sta a voi il mostrar che vi piaccia. Grazie al cielo, io non lo compro, ma ogni cosa che spetta al gusto nasce in un mio Campetto, che io per altro ancor non conosco.

60 CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Mi si dice che termini con Terracina e con Taranto. Ora io penso di unir la Sicilia a quelle mie zolle, per- chè volendo io andare in Africa, non abbia a navigare per altri confini, che per i miei.

Ma tu, Agamennone, contami : di qual controversia hai tu oggi declamato ? l'crchò, sebbene io non tratti cause, tuttavia ho fatto i miei studj partitamente; e acciò tu non creda, che io me ne sia annoiato, ho tre Biblioteche, una greca, e le altre latine. Dimmi dun- que, se ti piace, l'argomento della tua declamazione.

Agamennone rispose : un povero ed un ricco erano in lite. E Trimalcion disse : cosa è un povero ? Gra- zioso ! rispose Agamennone , e gli recitò non so qual controversia. Trimalcione riprese tosto : se questo 6 un fatto, non è più una controversia ; so non è. un fatto, ei non è nulla.

Noi lodammo ampiamente questi e simili discorsi. Ed egli prosegui: ti prego, mio carissimo Agamennone, a dirmi se ti ricordi delle dodici fatiche d'Ercole, o della favola di Ulisse. In che maniera il Ciclope con un bastoncello stroppiògli il pollice ? Io da fanciullo accostumai di leggere queste cose in Omero. Oltre a che io stesso cogli occhi miei ho veduto la Sibilla Cu- mana sospesa in un pignatto; e quando i fanciulli la interrogavano. Sibilla che vuoi? ella rispondea: morire.

Ancor non avea svaporate queste fandonie, quando un altro desco carico di quel gran maiale copri la tavola. Noi ci dicmmo ad ammirare tanta prestezza , ed a giurare che neppure un pollastro pote^asi cuocere si rapidamente, e ciò tanto più quanto molto maggior ci parea quel porco di quel che ci era prima sembrato il cignale. Indi Trimalcione guardandolo attentamente, ecché'? disse, questo porco non è stato sventrato? No, perdio, ch'ei non l'è. Chiama , chiama subito il cuoco.

Il cuoco comparve malinconico, e avendo detto ch'egli erasi dimenticato di sventrarlo, che dimenticato? gridò

SAPIEMZA DI TRIMALCIONE 61

Trimalcione ; pensi tu che trattisi di non avervi messo il pepe, e il cimino ? spogliati.

Senz'altro indugio il cuoco viene spogliato; il qual tutto mesto starasene in mezzo a due carnefici. Tutti allora ci posimo a pregarlo, e dire: questo è un acci- dente ; lascialo ti preghiamo : e se altra volta ei man- casse, nessun di noi pregherà più per lui.

Io crudelmente severo non potei trattenermi, che piegandomi all'orecchio di Agamennone non gli dicessi : questo servo deve per certo essere un gran birbante. Avvi alcun che si scordi di sventrare un maiale ? non gli perdonerei perdio, se si trattasse di un pesce. Non fece però cosi Trimalcione, il qual fatta allegra la fronte, disse : or bene, poiché tu sei di si cattiva me- moria, sventracelo qui pubblicamente. Il cuoco, ripreso il grembiale, strinse il coltello, e con man timorosa tagliò qua e il ventre del porco, ed ecco, dalle ferite allargantisi per l'urto del peso, scappar fuori salsiccia e sanguinacci.

A questo spettacolo tutta la macchinai famiglia de' servi fé' plauso, e con istrepito felicitò Gaio ; e il cuoco non solo fu ammesso a bere tra noi, ma ricevette eziandio una corona d'argento, ed un bicchiero sopra un bacin di Corinto, il quale da vicino osservando Agamennone , Trimalcion disse: io sono il solo che abbia il vero metallo di Corinto.

Io aspettavami, che per colmo d'insolenza, costui dicesse, che a lui da Corinto si portassero i vasi. Ma egli rispose meglio, dicendo: tu cercherai forse come io solo possegga i veri vasi di Corinto: sappi adunque che l'artefice da cui li compero, si chiama Corinto ; chi dunque può dire di aver Corinto, se non chi è padron di Corinto f E perchè non crediate eh' io sia uno stra- vagante, io conosco assai bene l'origine del metal di Corinto.

Quando Troia fu presa, Annibale uomo scaltrito e

62 CAPITOLO QUATTOnniCRSIMO

scellerato ammassò sopra un rogo tutte le statuo di bronzo, d'argento, e d'oro, e mise loro il fuoco; da questa mistura si composo un sol metallo, e da questo composto i fabbri formarono vasi, bacini, e statuette. Cosi dalla mistura di tanti metalli obbesi quel di Co- rinto, che non ò l'un iv- l'altro. Permettetemi ancor ch'io vi dica, che io amo più il vetro, ma costoro il ricusano. Se non si romj)esse, io lo terrei più caro del- l'oro ; ma adesso egli è decaduto.

Vi fu già un artefice, il qual fabbricò vasi di vetro di tanta solidità, che non più si rompevano di quel che facesscr quei d'oro, o d argento. Avendo adunque fatta un' ampolla di questo vetro purissimo, ed unica- mente degna, a parer suo, di Cesare, recossi a lui col suo regalo, e fu introdotto. Ne fu lodata la bellezza commendata la manifattura, accettata la divozion del donante. L'artefice per convertire l'ammirazione de riguardanti in istupore, e conciliarsi del tutto la grazia dell'Imperadore, ripresa dalle mani di Cesare l'ampolla la gettò fortemente contro terra, e con tanto impeto che sarebbcsi frantumato il più solido e duro metallo Cesare a questa vista non soltanto istupi, ma spaven- tossi. Il fabbro levò da terra l'ampolla, che non era rotta, ma soltanto confusa, come se una sostanza me- tallica avesse usurpata la specie del vetro. Trattosi di poi dal seno un martelletto, corresse egregiamente la contusione, riparandola con molti colpi, come si farebbe di un vaso di rame. Dopo ciò ei si credette di avei toccato il ciel col dito, stimando di essi.rsi meritata la confidenza di Cesar>3 e la comune ammirazione. Ma accadde altrimenti. lm{:erocchè Cesare gli domandò altri sapesse codesta manifattura ; locchè egli avendo negato, l'Imperadore ordinò, che gli fosse mozzato il capo, dicendo che se quel segreto si manifestasse, l'oro e l'argento sarebbero inviliti come fango.

Io son passionato per l' argento. Tengo dell' urne

SAPIENZA DI TRIMALCIONE 63

grandi darpiù al meno quanto quelle, in cui Cassandra ripose gli uccisi suoi figli, e vi sono si bene scolpiti i ragazzi morti, che li diresti veri ragazzi. Ne tengo una lasciatami dal mio aio, su cui vedesi Dedalo, che chiude Niobe nel cavai troiano, e Mercurio con Amore, Gilde significare, che nei bicchieri sta la verità. E questi pezzi son tutti gran peso ; ed è perciò che io quando possiedo una cosa, non me ne privo a qualunque prezzo.

Mentre così parlava, un ragazzo lasciò cadérsi un bicchiero ; e Trimalcione, postigli addosso gli occhi, gli disse : castigati subito da te medesimo, giacche sei si sventato. Il ragazzo diessi tosto a pregare sommes- samente ; ed egli : di che mi preghi 1 quasi io voglia soverchiarti : io ti dico soltanto che tu ti castighi, onde non esser più sventato Finalmente per nostra interces- sioiie lo rimandò assoluto. Costui liberato si pose a correre intorno alla tavola, gridando: fuori l'acqua, e dentro il vino. Aggradimmo questa leggiadra piacevo- lezza, ed Agamennone sopra tutti, il qual sapeva per quali suoi meriti sarebbe stato altre volte invitato a cena.

Finalmente Trimalcione in mezzo a tanti applausi bevette più allegramente; anzi già era quasi ubbriaco, allor che disse : nessun di voi prega dunque la mia Fortunata a danzare ? Credetemi, che nessuno meglio di lei balla la ridda; e si dicendo levò le sue mani alla fronte si bene imitando il comico Siro, che tutti gli spettatori gridarono : oh dio ! quant'è bravo ! oh dio ! E sarebbe saltalo in mezzo se in quella non gli si ap- pressava all'orecchio Fortunata, e credo gli dicesse non convenire alla sua gravità quelle ridicolaggini. Niente fu mai in maggior contrasto, quanto egli tra la sua Fortunata, e il suo proprio umore. Del tutto poi inter- ruppe codesto prurìto di ballare il suo Agente, il quale, come venisse a recitare i fasti di Roma, lesse quanto segue :

Il giorno 25 luglio. Nati nel territorio di Cuma, di

64 CAPITOLO QUATTORDICESIMO

ragione di Trimalcione , 30 fanciulli maschi e 40 tern- mìne: portati dall'aia nel granaio mille cinquecento moggia di frumento : buoi domati cinquecento. Nello stesso di, Mitridate schiavo, impiccato alla croce per aver bestemmiato il genio tutelare di Gaio nostro. Nello stesso di riposto in cassa cento mila lire, che non si poterono impiegare. Nello stesso di , accesosi il fuoco negli orti pompeiani, cominciato la notte in una casa da villano.

Aspetta, disse Trimalcione ; da quando in qua ho io comperato gli orti pompeiani?

L'anno scorso, rispose l'Agente : per ciò non erano ancor messi a libro.

Trimalcione adirossi, e disse: qualunque fondo mi si compri, se dentro sei mesi io non ne sarò avvertito, proibisco che mi si porti in conto.

Si lessero di poi gli editti degli Edili, e i testamenti degli Ispettori de' boschi e foreste, ne' quali costituivano con molte lodi erede Trimalcione. Dipoi si lessero i nomi de' fittaiuoli, e il fatto del capo-squadra che ri- pudiò la moglie liberta per averla sorpresa in camera del custode de' bagni; e quello dell'usciere deportato a Baia ; e del tesoriere già dichiarato colpevole ; e del giudìzio pronunciato nella causa de' camerieri.

Entrarono finalmente i saltatori, ed un certo Barone uomo sciocchissimo, si presentò con una scala sulla quale fé' salire un ragazzo, a cui comandò che saltasse e cantasse, tanto salendo, quanto essendovi in cima. Il fece in seguito attraversar de' cerchj di fuoco, e tener co' denti una bottiglia.^ Il solo Trimalcione maraviglia- vasi, e dicea che quello era un ingrato mestiere: nelle umane cose però due sole essere quelle ch'egli con molto piacere osservava , i saltatori , e le beccacce ; e gli altri animali e divertimenti esser baie, e fanfaluche ; perchè, soggiunse, io comperai dei commedianti, e volli poi che recitassero farse, ed al mio corista ordinai, che cantasse in latino.

SAPIENZA DI TRIMALCIOXE 65

Intanto che di si gravi faccende parlava , un fami- glio gli cadde addosso. Tutti i servi, non che i con- vitati , alzarono un grido , non per quel fetido omi- ciattolo, di cui avrebbero anche viste di buon grado fracassate le tempia, ma perchè mal finisse la cena, e ci fosse d' uopo di andar a piangere un morto che non ci apparteneva.

Triraalcione altamente lagnandosi, e sul braccio chi- nandosi, come se fosse ferito, accorsero i medici e For- tunata tra i primi co' capegli all'aria, un bicchiero in mano, e misera e sciagurata chiamando.

Il famiglio , che era caduto , a' piedi nostri si era prima strisciato àntercedendo la sua libertìi. Io ne avea tratto pessimo augurio che da tali preghiere non deri- vasse qualche dolorosa catastrofe, perocché ancora non erami uscito di mente quel cuoco, che avea dimenticato di sventrare il maiale. Perciò mi posi a guardare in- torno a tutto il triclinio per vedere se non sortisse dalle pareti qualche fantasma ; e molto più quando si venne a sferzare uno schiavo, il quale avea involto il braccio contuso del suo padrone con lana bianca , e non porporina. molto lontan dal vero andò il mio sospetto, perchè in luogo di cena arrivò un decreto di Triraalcione, col quale ordinava che quel famiglio ri- manesse libero, acciò non si avesse a dire che un si gran baccalare fosse stato offeso da uno schiavo.

Noi a questo fatto applaudimmo, e ciarlammo dipoi in cento maniere sulle vicissitudini delle cose umane. E vero, Trimalcion disse, e fa d'uopo, che questo caso non passi senza che se ne scriva. E chiesta subito la tavolozza, dopo un breve pensiero, recitò questi versi :

Quando men tu gli aspetti Nascono i strani effetti: Che fortuna fa suoi

Petronio.

Gtì CAPITOLO QUATTOKDICKSIMO

I nostri affari e noi.

Ma a che darci pensiere? Versa, fanciul, da bere.

(Questo epigramma die occasione di parlar de' poeti, e lungamente si lodò il merito de' versi di Marso di Tracia, finché Trimalcion disse: io ti prego, Agamen- none, che tu mi dica qual differenza passi tra Cicerone e Publio V io credo che 1' un fosse più eloquente , e l'altro più dilicato. Cosa può dirsi meglio di questi vci si ?

Sol di lussurie Or, Roma, hai cura, E imputridiscono Le marzie mura.

II pavon, vittima Del tuo palato, Per te si pascola Nello steccato.

Tu vesti r aure Sue vaghe piume Con babilonico Molle costume.

Tu le numidiche Chioccie raanuchi, Tu i galli morbidi Già fatti eunuchi.

L' errante, ed ospite Cicogna grata. Pietosa, gracile, Ai fisclij usata ;

SAPIENZA DI TRIMALCIONE 67

Che il ghiaccio abbomina, E che la bella Portaci tepida Età novella;

Anch' essa il calido Suo nido l^a tratto ( Cibo carissimo ) Sopra il tuo piatto.

Quelle tre d'India Preziose perle, A quali orecchie Vuoi tu vederle?

Forse onde femmina, Di questi adoma Fregi marittimi, Dove soggiorna,

Estranio talamo

Vada, e il non anco Domato eserciti Pieghevol fianco?

A chi quei nobili Smeraldi ardenti, E i calcedonici Sassi lucenti ?

Perchè desideri Siffatti vezzi ? Sol perchè splendono Forse gli apprezzi?

68 CAPITOI-O QITATTORDICKSIMO

Sai qual carbonchio, Qual gemma tiene Suir altre merito V L' esser dabbene.

Sposa, che d'aria Tessuta vesta, Che in nube serica Ignuda resta.

Si che ne appaiano Di fuor le membra, Iniqua e laida Cosa mi sembra.

Qual crediam noi, segui Trlmalcioue , il più difficile studio dopo quel delle lettere? Io penso che sia quel del medico, e del banchiere. Il medico , il qual deve sapere cos' abbiam tra le viscere noi omiciattoli , e il tempo in cui vien la febbre; ( sebben io gli abborra , perchè mi van sempre ordinando de'diluenti) ; e il ban- chiere, che è soggetto a prender le false per le vere monete.

Laboriosissime bestie sono i bovi e le mute pecore. I buoi, perchè è lor benefizio il pan che mangiamo: le pecore, perchè della lor lana noi^ andiamo pomposi. Ed è pure una grande malvagità , che alcuno mangi una pecorella, intanto che del suo pelo si veste. Ma bestiole divine credo io le api, le quali vomitan mele, checché si dica, che lo ricevan da Giove: con tutto ciò , esse pungono, perchè dap'jertutto ove è il dolce, trovasi ivi appresso r amaro.

CAPITOLO QUINDICESIMO

GIUOCHI, FANFALUCHE, E CKXA PROLUNGATA.

Continuava egli cosi a tor la mano ai filosofi, quando portaronsi intorno in un vaso alcuni viglietti , ed il paggio, che ne era incaricato, ne lesse le sorti. Un di- ceva: danaro buttato iniquamente; e si portò un pre- sciurto con branche di gamberi sopra, un orecchio, un marzapane, ed una focaccia bucata. Kecoasi dipoi una scatoletta di cotognato, un boccone di pane azimo, uc- celli grifagni, insieme ad un pomo, e porri, e pesche, e uno staffile , ed un coltello. Uno ebbe passeri , un ventaglio, uva passa, miele attico, una veste da tavola, ed una toga, una fetta di marzapane , e tele dipinte : un altro ebbe un tubo, ed un socco: portossi pure una lepre, e un pesce sogliola, e un pesce morena, e un sorcio acquatico legato con una rana, ed un mazzo di biete.

70 CAPITOLO QUINDICESIMO

Ridemmo lungamente di questo gioco ; cran seicento i viglietti, de'quali altro non mi ricordo. Ma Ascilto con somma licenza e colle mani alzate, iacea beffe di tutto, e piaugea del gran ridere; pcriocchò uno de' li- berti di Trimalcione, die restava appunto al di sopra di me, ne prese collera, e si gli diase: che ridi tu, ca- stroucello? forse non ti piacciono le splendidezze del mio padrone? se' tu più felice di lui^ Hai tu migliori conviti? Cosi mi sia propizia la divinità di questo luogo, come io, se fossi vicino a colui, gli avrei di giù appli- cato uno schiaffo. Bel soggetto veramente da farsi beffe degli altri! Un biante notturno, che non vai 1' urina, eh' ei piscia ! Che s'io mi metto a pisciargli addosso , non sa dove fuggirsene.

Io non soglio, perdio, scaldarmi assai presto , ma e' non bisogna aver carne per non sentir de' vermi. Ei ride ; e cosa ha egli da ridere ? forse tuo padre ha comperato gli agnelli non nati per trarne lana ? se' tu caralier Romano ? Ed io son figlio di re. Perchè dun- que hai servito? tu mi dirai: perchè mi resi, schiavo volontariamente, volendo piuttosto essere cittadino ro- mano, che principe tributario : ed ora spero io di vi- vere in modo, che nessuno abbia a beffarsi di me : qual uomo libero io vo' colia fronte aita in mezzo agli altri, e non devo un soldo a nessuno. Non mi fu intimata mai veruna citazione, in alcun tribunale mi fu mai detto: paga i tuoi debiti. Ilo acquistato qualche solco, ho i miei paiuoli, do a mangiare a venti bocche , non compresi i miei cani, ho redenta la moglie mia, onde nessuno si asciugasse le mani ne' suoi capegli , e spesi mille ruspi per torle questa macchia : poi venni fatto gratuitamente un de' sei, e spero di morire in tal guisa, che io non abbia ad arrossir dopo motte.

Ma tu sei dunque si occupato da non poterti guar- dar dietro? Tu vedi dunque il pidocchio sugli altri, e non la zecca sopra di te ? a te solo scmbiiain uoi dun-

ftlUOCHI, FANFALUCHE, E CENA PROLUNGATA 71

que ridicoli V vedi il tuo maestro , uomo di venera- bile età, al qual noi piacciamo; e tu, fanciul da latte, che non sa dire mu, ne ma, vuoi censurare ? vaso di terra, anzi lista di cuoio macerato nell' acqua , ma più duro e non migliore. Se' tu più ricco ? desina due volte, cena due volte : io valuto più la mia coscienza, che tutto l'oro del mondo. In somma, chi ha mai chie- sta a me due volte una cosa? Io ho servito quaran- t'anni, pur nessun seppe se schiavo o libero io mi fossi. Venni fanciullo ancora chiamato in questa colonia pria ch'ella fosse Basilica. Ma in modo mi diportai che piacqui al mio padrone, uomo di alto bordo, e insignito di carica, un' unghia del quale valeva più che non vali tu intero. Vi erano in casa alcuni che mi tendean dei lacci qua e ; pur per grazia dell'angiol mio, me ne cavai. Questa è la vera mia storia. Gli ò tanto facile ad un uom nato libero diventare un atleta, quanto ve- nire in questo luogo. Or di che prendi tu istupore, come fa un becco della mercorella ?

Come cos'i ebbe detto, Gitone, il quale sedea sotto a lui , dopo essersi lungo tempo compresso , indecente- mente si pose pur egli a ridere ; locchc osservatosi dal nimico d'Ascilto, rivolse la sua invettiva al ragazzo , dicendogli: anohe tu ridi, o gazza ricciuta? o che bac- cano! E egli giunto il dicembre, di grazia? Quand' è che tu hai passata la tua vigesima V Or che farà que- sta ciambella inchiodata ? sarà pasto di corvi. Io avrò cura che Giove si adiri con te, e con costui, che col- l'autorità sua nou ti raffrena. Cosi sarò soddisfatto ; e tanta mia moderazione dono io al mio collega ; altri- menti io ti avrei di già dato a quest' ora ciò che ti meriti. Noi non istiam bene, ne lo stanno codesti Sciti, che non ti san governare : qual padrone, tal servo. Ap- pena posso io contenermi, perchè son caldo di tempe- ramento, e quando il moscherin m'c saltato, non guardo in faccia ncmmanco a mia madre. Or va bene: io ti

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guarderò nel pubblico come si guarda ad uu topo , anzi puro ad una tartufala, (.'he io più non mi mova di qua, di lù, se io nou involgo il tuo padrone iu una foglia di ruta : perdonerò a te, quand'anche . perdio, invocassi Giove olimpico. Io farò ben iu modo che ti sia rasa codesta zazzera che pare una bieta,ccbetu perda quel tuo padrou du un quattrino. Oh mi capiterai sotto i denti ; e o non sarò io, o tu certo non riderai , quan d'anche avessi la barba d'oro. Farò che la befana per- .seguiti te, e chi primo ti ha si bene educato, lo non istudiai Geometria, Critica, codest' altre buf- fonerie, ma intendomi di Lapidaria , e sciolgo cento difficoltà sul danaro, sul peso, sulla moneta, sui conti. Se nulla vuoi, cosi tra noi due, io sono pronto a scom- mettere, o fantasma.

Benché io non sappia di Kettorica, ben ti so dire, che il padre tuo consumò i suoi salarj. Nessuno, vedi, è da me assai distante, perché io arrivo lontano. La- scia un po' eh' io ti chieggu, chi di noi due faccia più strada senza pur moversi dal suo posto , e chi parer voglia il più grande, e sia piccino. Tu corri, tu ti ma- ravigli, tu ti affanni come un topo nell' orinale. Taciti adunque, o nou molestare il più forte, il qual non sa pure se tu sei nato, a meno che tu non creda, che io m' inchini a quegli anelli di paglia, che hai rubato alla tua druda. .Mercurio ci aiuti! Audiamo ora in piazza a prender danari a mutuo. vedrai il credito. Questa é bene la bella cosa, o volpaccia da fosso ! Cosi possa io arricchire e morir contento ! Ma il popolo giurerà la mia morte, se io non ti avrò messa in cento pezzi la veste. La bella cosa, che é costui che t insegna ; egli è non maestro, ma mosto. Noi si che imparammo : Il maestro dicea : questi sono i vostri doveri , salutare , andar a casa addirittura, non ingiuriare i maggiori, e non fermarsi a contar le botteghe. Ciò non ostante , nessun si approfitta. Quant' a me, ringrazio gli Iddìi di

GIUOCHI, FANFALUCHE, E CENA PROLUNGATA 73

avermi data tale destrezza , per la qual mi vedi comodo.

A queste ingiurie Ascilto incominciava a rispondere, ma Trimalcion divertendosi della eloquenza del suo li- berto, disse : troncate gli insulti , e siate più miti ; e tu, Ermero, perdona a quel fanciullo , e siccome egli ha il sangue che bolle, tu sia il più prudente. SEMPRE VINCE CHI È VINTO IN TAI CONTRASTI. Anche quando eri cappone, facevi cocò cocò , avevi pur tanto èuore. Stiamcene adunque allegri, prima di tutto, che gli è il meglio, intanto che aspettiam gli Omeristi.

In questa entrò uno stuol di costoro, che fecero stre- pito battendo l'aste sui scudi; Trimalcionc si assise sopra un guanciale ; e intanto che gli Omeristi coU'ac- costumata loro insolenza recitavano que' versi greci , egli con alta cantilena leggeva un libro latino. Fattosi poi silenzio, ei disse: sapete voi la favola che rappre- sentano ? ^

Diomede e Ganimede erano due fratelli , de' quali Elena era sorella. Rapilla Agamennone, e pose in suo luogo la cerva di Diana. Ora Omero in questo passo racconta come tra lor combattessero i Troiani , ed i Parentini. Ma egli vinse, e die sua figlia Ifigenia per moglie ad Achille : di che Aiace divenne pazzo ; e cosi r argomento vi sarà noto.

Dopo queste parole di Trimalcionc , gli Omeristi al- zarono un gran gridore , perchè in mezzo ai famigli , che d'ogni parte correano, fu portato sopra un gran- dissimo bacino un vitello intero cotto a lesso, e con un caschetto sul capo. Aiace gli veniva dietro , il qual come furibondo, imbrandito il trinciante , il- tagliò , ri- voltandone i pezzi colla punta, a guisa di ciarlatano , or di sotto, or di sopra, e distribuendolo a noi, che lui ammiravamo. ^la non potemmo quegli eleganti lavori a lungo osservare, perché tutto ad un tratto sentimmo Bcricciolac la soffitta , e tutto il triclinio tremare. Io

74 CAPITOLO QUINDICESIMO

m'alzai spaventato, temendo che qualche saltatore non scendesse dalla parte del tetto, e gli altri convitati non men sorpresi alzarono i volti, curiosi della novità che venir potesse dal cielo. Ed ecco che apertasi la soffitta vide nn gran cerchio che quasi da larga cupola di- staccandosi venne giù, e gli pcndeano d' intorno varie corone d'oro, e scatolette d' alabastro piene di unguenti odorosi.

Mentre ci era ordinato di prenderci questi prosenti, io volsi l'occhio alla mensa, sulla quale vidi già riposto un servizio di alcune focacce, e in mezzo un Priapo fatto di pasta, che nel largo suo grembo tenea, secondo il solito, uve e poma d' ogni qualità.

Noi con avidità allungammo le mani a quei frutti , ed improvvisamente un nuovo ordine di giuochi accrebbe la nostra allegria, perchè le focacce ed i pomi appena colla minima pressione toccati diffusero intorno tale odor di zafferano, sino a^riescirci molesto.

Persuasi adunque, che una vivanda si religiosamente profumata fosse cosa sacra, noi ci rizzammo in piedi, e augurammo felicità ad Augusto padre della patria. Alcuni però avendo anche dopo questa venerazione rapiti quei frutti, noi pur ce ne empiemmo i mantili , ed io soprattutto, cui parea non aver mai abbastanza regalato il mio Gitone.

Tra questi fatti entrarono tre donzelli involti in can- dide tonicelle, duo de' quali misero in tavola i Dei lari inghirlandati, ed uno recando intorno una tazza di vino gridava: CI SIENO PROPIZI I DEI. Dicea pari- menti, che l'un di e^si chiamavasi Cerdone, l'altro Fe- licione, ed il terzo Lucrone. E come fu portato intorno il ritratto di Trimalcione, che tutti baciarono, noi non potemmo sebben con rossore scansarcene.

Poiché dunque ebbersi tutti augurato lieto animo, e buona salute, Trimalcione voltosi a Ni^erota gli disse: tu solevi essere amabile nelle comitive : or non so per-

GIUOCHr, FANFALUCHE, E CENA PROLUNGATA 75

che ti stii zitto, a guisa di muto. Io ti prego , se mi vuoi bene, contaci qualche cosetta a tuo piacimento.

Nicerota, allettato della affabilità dell'amico, rispose : possa io divenir povero, s'egli non è già qualche tempo che io son contentissimo di vederti tal qual ti veggio. Ora dunque stiamcene pure allegri , benchò io abbia soggezione di codesti dottorelli, che rideranno. Ma non importa : io racconterò ; perchè finalmente che mal mi fa un che rida? Egli è meglio far ridere, che esser derisi.

Queste parole avea finite, quando incominciò quest'altro chiaccheramento.

Essendo io nella servitù, abitavamo in un viottolo , dove ora è la casa di Gavilla. Là, come piacque a Dio, presi amore alla moglie di Terenzio locandiere: voi dovete sicuramente conoscere quella bellissima baciuc- chiona di Melissa da Taranto. Ma non crediate perdio, che io la amassi carnalmente e per frascherie di Ve- nere, ma si perch'eli' era bene accostumata. Ella non mi negava mai cosa eh' io le cercassi. Quand' io avea uno scudo, due scudi, deponeali in sua mano, e quando mi abbisognavano, me ne servia. Avvenne che il ma- rito suo mori in campagna, ond'io mi adoperai colle mani e co' piedi per andarla a trovare , giacché gli amici si conoscono all'occasione. Diessi il caso che il mio pa- drone sorti di Capua per andar a vendere con profitto alcuni suoi vecchi stracci. Approfittando io della con- giuntura persuasi l'ospite nostro a venir meco per cin- que miglia: era costui un soldato forte come il diavolo. Partimmo verso l'ora in cui cantano i galli ; la luna splendea come il mezzodì; arrivammo dov'erano de'se- polcri, e il mio uomo si mise ad invocar gli astri, intanto che io canticchiando numerava le stelle. Volto poi lo sguardo sopra di lui vidi che si era spogliato, e posti tutti i suoi abiti in mezzo alla strada. Io presi paura, e sfavami come morto. Ma egli pisciò intorno a'suoi abiti, e subito dopo convertissi in un lupo.

7G CAPITOLO QUINDICESIMO

Non crediate ch'io scherzi ; non direi una bugiti per tutto r oro del mondo. Ma per continuare il mio di- scorso, dopo che fu diventato lupo cominciò ad urlare e fuggi nei boschi. Io dapprima non sapeva dove io mi fossi : andai poi per levarne i vestiti, ma essi eran diventati di sasso. Chi morirà di paura, se io non mo- rii ? strinsi tuttavia la spada, e tagliai l'aria di qua e di Ih, tanto che giunsi al villaggio delia mia bella. Appena fui entrato nella porta credei di basire; cola- varai il sudor pei calzoni, gli occhi erano tramortiti, appena insomma potei rinvenirmi. La mia MelÌ9«a ma- ravigliavasi come io avessi viaggiato di siffatta ora ; 8C tu fossi venuto prima, mi disse, mi avresti almanco aiutato: imperocché egli venne un lupo nel paese, e peggio d' un macellaio ci ha svenato tutto il gregge Pur sebben sia fuggito, ei non ha troppo a riderne, perchè il nostro famiglio gli ha passato con una lancia il collo da una parte all'altra. Quand' io sentii questa cosa i' non potei più batter palpebra, ma venuta 1' au- rora me ne volai qui a casa del nostro ospite come un mercadante svaligiato e giunto al luogo, ove gli abiti eran divenuti di sasso, altro non vi ritrovai che sangue. Allora poi ch'io giunsi a casa, il mio soldato giaceva in letto come una bestia, e un chirurgo fasciavagli il collo. Seppi di poi ch'egli era stregone, e dopo quel di non volli più mangiar pane con lui, quand'anche mi avesse ucciso. Nulla mi cale che altri tenga di ciò opinion diversa della mia : ma s' io dico bugia , voglio che gli Iddìi vostri mi puniscano.

Questo racconto avendoci tutti storditi, Trimalcion disse: oltre che tu l'hai detto, egli dov'essere certissimo ciò che hai detto, e che mi ha fatto dirizzare i capegli, perch'io so che Nicerota non suole dir fandonie , anzi ch'egli è veritiero, e non fanfarone; diffatto io pure cosa orribile vo'narrarvi, quanto orribil sarebbe un asino che volasse.

GIUOCHI, FANFALUCHE, E CENA PROLUNGATA 77

Essendo io ancor giovinetto (giacché fin da ragazzo io menai vita deliziosa) un mio dolce amico mori. Egli era un gioiello, per bacco, garbatissimo, e di mille belle qualità. Intanto che la sua povera madre il pian- gea, e che molti di noi la stavam confortando, improv- visamente le streghe lo rapiron più presto che il cane non prosiegue la lepre. Avevamo fra noi un uomo di Cappadocia, lungo, assai temerario , e che avrebbesi preso a lottar con Giove fulminatore. Costui impugnato arditamente l'acciaro corse fuor dalla camera, avvolta sagacemente la man sinistra nel suo mantello, e feri nel mezzo una strega, propriamente in questa parte, che il cielo mi tenga illesa. Udimmo un gemito , ma per dir vero nessuna vedemmo di costoro ; rientrato poi il nostro campione buttossi sul letto, ed avea livido tutto il corpo, come dopo una flagellazione, e ciò senza dubbio perchè una mano infernale lo aveva toccato.

Noi, chiusa la porta, tornammo al piagnisteo, ma nell'atto che la madre si fe'ad abbracciare il corpo del figliuol suo, tocca e vede un mucchio di lordure, in cui non vi era ne il cuor, ne le viscere, ne altro: per- chè le streghe aveano di già involato il fanciullo, e messi in suo luogo que'vuoti cenci. Ditemi in grazia : ei bisogna proprio crederlo: le donne ne sanno più di noi, le soa maliarde, e mettono tutto co' piedi insù. Del resto quel lungo valentuomo, dopo un tal fatto, non riacquistò mai più il suo colore, anzi di li a pochi giorni mori frenetico.

Noi femmo le maraviglie, e d'accordo credemmo agli uditi prestigj, anzi baciata la mensa pregammo le streghe di rimanersene a casa loro, quando noi sor- tirem dal convito.

E a dir vero e' pareami di già che molte lucerne splendessero, e che tutto il triclinio avesse cambiata figura, quando Trimalcionc, rivoltosi a Plocrimo, gli disse: ebbene, l'iocrimo, tu non diti nulla V tu non ci

78 CAI'ITOLO QUlN"DICKSIM<ì

diverti in vcrun modo ? pur solevi esser grazioso, can- tar delle ariette, e recitar bellamente qualche squarcio drammatico. Ohimò ohimè ! voi passaste, o bei tempi !

Ah si, rispos'egli, i miei carri hanno compiuto il lor corso, ond' è eh' io son fatto gottoso: allorché per^ io era giovane, divenni, cantando pressoché tisico. Che saltare? che recitar scene? che Accomodar barbe? Ap- pena AppcUete potea starmi del paro.

Dopo ciò messo la mano alla bocca fischiò un certo qual suono, che poi disse esser di maniera greca: locchè affermò Trimalcione, dandosi ad imitare i flau- tisti, e volgendosi poi alla sua gioia, che chiama vasi Creso. Era costui un ragazzaccio cisposo, con sporcis- simi denti, il qual volgea in una fascia color di porro una cagnuccia nera e grassa fino alla nausea, e ponea sopra il letto un mezzo pane, che le facea mangiare sino al vomito; della qual gtuitilezza Trimalcione av- vedutosi ordinò che fosse condotto Scilacc, che era il guardiaiv della casa, e di tutta la famiglia. All'istante venne condotto un cane di grandissima mole, legato alla catena, cui il portiere ordinò con un calcio di sdraiarsi, ed egli si distese davanti la mensa. AUor Trimalcione gittandogli un pan bianco, non avvi, disse, nessuno in mia casa, che mi ami più di costui. Sde- gnato il ragazzo ch'ei lodasse Scilace cosi sbracatamente, mise in terra la cagnuccia e l'aizzò contro lui. Scilace, secondo il costume cagnesco, empiè la sala di orrendi latrati, e stracciò quasi la Margarita di Creso. a questa lite fermossi il rumore, perchè venne altresì ro- vesciata una lampada, di cui si ruppero i cristalli, e si sparse l' olio bollente addosso ad alcuno dei com- mensali.

Trimalcione per non parere in collera di questo ac- cidente, baciò il ragazzo, e gli comandò di salirgli sulla schiena. Egli andò subito, e messoglisi cavalcioni gli batteva col palmo delle mani le spalle, e ridendo chic-

GIUOCHI, FANFALUCIIK, E CEKA PKOLUKGATA 79

devagli: conta, conta, quanti fanno? Trimalcione ri- messosi per un poco, ordinò che si empiesse un gran fiasco, ,e si distribuisse a bevere a tutti gli schiavi, che sedevano a'nostri piedi, con questa condizione; se alcun, disse, non vuol bevere, versagli il vin sul capo. E così or facea il severo ed ora il pazzo.

A queste famigliarità venner dietro gl'intingoli, la cui memoria vi giuro che mi fa stomaco. Poiché tutte quelle grasse galline erano contornate di tordi, con uova d'anitra ripiene, le quali Trimalcione ci pregò con or- goglio di mangiare, dicendo che le erano galline di- sossate.

CAPITOLO DECIMOSESTO

LA C0KVER8AZI0MK S'iNUROSRA.

In mezzo a ciò un littore picchiò all'uscio della sala, ed entrò uno vestito di bianco, accompagnato da mol- tissima gente. Io atterrito da quella maestà mi credetti che entrasse un Pretore, onde feci per levarmi e pormi a piò nudo sul terreno. Agamennone rise di questo mio timore, e dissemi: sta quieto, sciocchissimo che tu sei. Costui è il Sestoviro Abinna , scultore in marmo , ed eccellente in cose sepolcrali.

Confortato da tai parole mi rimisi al mio posto , guardando con grande ammirazione Abinna , che en- trava. Costui di già ubbriaco appoggiavasi colle mani alle spalle di sua moglie ; egli era carico di varie co- rone, e per la fronte gli colava sino agli occhi 1' un- guento : postosi al primo luogo, chiese d* subito vino, ed acqua calda.

Piacendo a Trimalcione codesta ilarità, volle che gli si portasse il bicchier più grande, e gli domandò come fosse ita.

Nulla ci mancò, lispos'cgli, fuori che te: qui era io col cuore, ma davvero, che tutto andò bene. Scissa ce-

LA CONVERSAZIONE S' INGROSSA 81

lebrava il nono anniversa»4o del suo servo Misello, che egli fé' libero dopo morte: ed io credo che oltre alla sua vigesima ei si avesse una buona giunta , poiché dicono ch'egli avesse cinquanta mila scsterzj. E seb- bene dovemmo versar la metà del nostro vino sulle ossicelle del morto, tuttavia fummo allegri.

Cosa aveste però da cenare ? disse Trimalcione.

Lo dirò, se il potrò, rispose l'altro: perchè io sono di si fragil memoria, che talvolta lo stesso mio nome dimentico. Ebbimo dunque per prima pietanza un porco coronato con salciccie intorno, e colle interiora benis- simo condite; eranvi biete, e pan bigio, che io prefe- risco al pan bianco ; e siccome egli fortifica, cosi, poi- ché mi giova, non me ne lagno. La seconda pietanza fu una torta fredda, sulla quale era sparso un eccellente miele caldo di Spagna, cosicché io nulla mangiai della torta, e molto meno del miele. Quanto ai ceci ed ai lupini, ed al resto de' frutti nulla piìi ne mangiai di cjuel che Calva mi suggerisse ; due pomi però mi son preso via, che tengo chiusi in questo tovagliolino, per- ché se io non porto qualche regaluccio al mio servito- rello, ei sgriderebbemi ; del che madonna saviamente suole ammonirmi. Oltre a ciò avevam dinanzi un pezzo di orsa giovane , di cui Scintilla avendo imprudente- mente gustato, fu per vomitar le budella; io al contrario ne mangiai quasi una libbra, perchè sapea di cinghiale. Se l'orso, diceva io, mangia l'omiciattolo, quanto più l'omiciattolo mangiar deve l'orso ! Finalmente ebbimo del cacio molle, del cotognato, delle chiocciole senza guscio, della busecchia di capretto, del fegato ne'bacini, dell'uova accomodate, e rape, e senape, e bazze che parean pinte ; benedetto Palamede, che le inventò! E furon portate intomo in una marmitta le ostriche, che noi non troppo civilmente ci presimo a piene mani , perchè avevam rimandato il prosciutto. Ma dimmi un po'. Caio, per qual ragiono Fortunata non è qui a favola ?

Petronio. 'i

82 CAPITOLO DECIMOSKSTO

Tu ben la conosci, rispose Trimalciouc ; ella non si metterebbe un sorso d'acqua in bocca, se prima non ha ordinata l'argenteria, e divisi gli avanzi ai servidori.

Ma iO; soggiunse Abinna, s' ella non viene , me ne vo ; e facea per alzarsi, se, dato il segnale, quattro e più volte non chiamavasi Fortunata da tutta la fami- glia, lufin ella venne, succinta con un casacchin verde, sotto al quale apparia la gonna color di ciliegia , e i calzari attraversati intorno alle gambe, e le scarpcttiue alla greca indorate. Allora asciugandosi le mani iu un fazzoletto, eh' eli' aveva al collo, si assise sul guancial medesimo, ove giacca Scintilla moglie di Abinna , cui fé' un bacio, meutr' ella rallegrandosi le dicea : E per* messo di salutarti ? I discorsi arrivarono poi a tale , che Fortunata levandosi dalle braccia le sue grosse smaniglie le andava mostrando a Scintilla, che ne stava maravigliata. Finalmente ella sciolse anche i calzari , e l'aurea sua reticella, dicendo ch'ella era d'oro finis- simo.

Trimalcione che vi avea badato, foce portare il re- stante degli ornamenti , e disse : osservate quanti in- ceppamenti che han le donne: cosi noi golìi ci spo- gliamo per esse. Queste smaniglie denno pesare sei libbre e mezza ; ed io ne ho pure di dieci libbre, fatte coi frutti di alcuni miei capitali. In ultimo, perché non parese di avere esagerato, fé' portare una bilancia, su cui si pesaron tutte una dopo l'alti a. Scintilla non volle esser da meno : e levossi di testa una scatoletta d'oro, eh' ella chiamava la sua gioia, e due gemme in forma di crotali, e dielle a sua posta a vedere a Fortunata, e disse: ninno al certo ha più bei gioielli di questi datimi dal mio signore.

Caspita ! riprese Abinna, tu mi hai spolmonato, per- ch'io ti comperassi queste fave di vetro. Oh davvero, che s' io avessi una figlia, le mozzerei le orecchie. Se non ci fossero donne, tutto ciò parrebbeci fango ; ma ora ci biiogua mangiar caldo e bever freddo.

LA CONVERSAZIONE S' INGROSSA 83

Le donne intanto ridevansi di questi frizzi, e ubbria- che baciaronsi, l'una esaltando nell' amica la diligenza di una, madre di famiglia, e l'altra la delizia e la bontìi del marito. Mentre cosi stavano abbracciate, Abinna Icvossi pian piano, e presa Fortunata pei piedi rove^ sciolla sul letto. Ah , ah ! gi-idò ella , sentendosi la gonna rialzata al de' ginocchi; e indecentemente in grembo a Scintilla nascose il rossor della faccia , coprendola col fazzoletto.

Poco dopo avendo Trimalcion comandato che si por- tasse il secondo servizio, i servitori levaron tutte le mense, e ne portaron dell'altre, spargendo limatura tinta di zafferano e di minio, e sottil polvere di pietra spe- culare, locchè io non aveva più veduto.

Tosto Trimalcione soggiunse : io potrei esser contento di quanto si è mangiato; ma poiché la tavola è rimessa, se nulla hai di buono, porta.

Intanto il donzello d' Alessandria , che distribuiva l'acqua calda, prese ad imitar l'usignuolo. Ma Trimal- cione gi-idò: si cangi; ed ecco farsi un'altro gioco: lo schiavo, che sedeva ai piedi di Abinna, stimolato, credo io, dal suo padrone, diessi tutto ad un tratto a can- tare:

Intanto Enea spinto dal vento in alto Veleggiava a dilungo ecc.

Giammai peggior suono mi percosse gli orecchi, perchè oltre ai strafalcioni di quel barbaro, e la voce ora bassa, or falsetta, ci vi mischiava de'versi comici, cosicché fu allora la prima volta, che mi dispiacesse Virgilio. Quando finalmente per istanchezza ei si tacque, Abinna disse: non è egli vero che costui impara V Altre volte io udia che bisognava mandarlo ai circoli ; pur vedete eh' ei non ha pari, o imiti egli i vetturini, o i saltimbanchi. Egli ò poi ingegao9Ì3aimo, quando non ha un soldo j

•^4 i APITOLO DECIM08EST0

allora gli è calzolaio, cuoco, fornaio, allievo insomma di tutte le muse. Egli ha però due vizj, i quali se non avesse, non mancherebbogii nulla: egli ò stordito e dor- miglione; giacché non faccio alcun caso, che egli sia losco. £i guarda come Venere, ed k perciò che non sa tacere: lo pagai appena 300 denari, credendo che gli mancasse un occhio.

Scintilla lo iuterruppc, dicendo: tu non racconti tutte le malignità di questo birbautcllo. Gli e il tuo favorito; ma io saprò ben io farlo bollare.

Sorrise Trimalcionc, e disse : io conosco quel Cappa- padoce : ei non vuol perder nulla, e perdio, io ne lo lodo perchè ei non ha il suo simile ; ma tu , 'Scintilla , non volerne esser gelosa: credi a me, te pure io conosco. Cosi, poipsa morir s'io mento, cosi io ho usato di asse- diare lo stesso Ammea, sicché il padron nostro ne so- spettò, onde mi relegò in campagna. Ma sta zitta, o io ti darò pan pe'tuoi denti.

Lo schiavo briccone, quasi di ciò si tenesse lodato, trasse di seno una luceruetta di terra, e si fece a suo- narla a guisa di trombetta per più di mezz'ora, accom" pagnato da un versacelo di Abinna, il qual colla mano tiravasi in giù il labbro inferiore. Finalmente ei si avanzò nel bel mezjso, ed or danzava battendo certe canne fesse, or coperto di una zimarra e colla frusta imitava il parlare de' mulattieri, finattanto che Abinna chiamatolo il baciò, e diègli a bere, dicendo: sempre meglio, o Massa; io ti regalo un paio di calze.

Non sarebbe mai giunto il termine di questi fastidj, se non fosse venuta l' ultima portata composta di un pasticcio di tordi, di zibibbo, e di noci condite. Tenner dietro i pomi cotogni contornati di chiodelli di garo- fano, che pareano tanti porcispini: e (atto ciò era pur passabile, se non si fosse data un'altra si pessima vi- vanda, che prima di mangiarne avremmo voluto morir di fame. Quando fu in tavola, noi pensammo che fosse

LA CONVERSAZIONE S' INGROSSA 85

un'oca ripiena contornata di pesci e d'ogni sorta d'uc- celli; di che Trimalcione avvedutosi disse: tutto questo piatto sorte da un corpo solo.

Io, come uomo intelligentissimo, m'avvidi tosto di quel che era, e volgendomi ad Agamennone dissi: io resto maravigliato, come tutti codesti ingredienti sieno accomodati, in guisa che paion fatti di creta. E so di aver veduto a Roma nel tempo de' Saturnali di simili cene finte.

Ancor non finivano queste mie parole, che Trimal- cione disse: cosi possa io crescer di ricchezza se non di corpo, come tutti questi intingoli il mio cuoco ha fatti col maiale. Non può darsi più prezioso uomo di lui Se il volete, egli di un conno vi fan'i un pesce, col lardo un piccione, col presciutto una tortora, delle bu- della di porco una gallina; perciò gli stato a genio mio posto un bellissimo nome, perchè egli chiamasi Dedalo ; e siccome ha egli gran fama, uno gli portò da Roma de'coltelli di Baviera. E si dicendo comandò che gli si recassero, li osservò con ammirazione, e ci per- mise di provarne la punta sui nostri labbri.

Al tempo stesso entrarono due schiavi in aria di li- tigar tra di loro un cingolo, di quelli cui si attaccano i vasi, che costoro si tenean sulle spalle. Trimalcione avendo pronunciata la sua sentenza, nfe l'un l'altro volle accettarla, ma ciascheduno ruppe co' bastoni il fiasco dell'altro.

Sopraffatti noi dall' insolenza di quegli ubbriachi li tenevam d'occhio, e vidimo che da quei rotti vasi eran cadutf ostriche e pettini, 1.? quali un donzello raccolse, e in una miirmitta ci recò intorno.

Il cucinicie ingegnoso secondò queste splendidezze, perchè portò lumache sopra una graticola d'argento, e cantò con voce tremula e spaventosa. Io ho rossore a narrare ciò che segui. Imperocché i chiomati donzelli, 'fosa non più udita) portando unguenti in un catin

86 CAPITOLO DECIMOSESTO

d'argento, unsero i piedi agli sdraiati commcnBali, dopo aver loro allacciate e gambe e piedi e calcagni con vario ghirlande. Poi l'unguento medesimo fecer colare ne'vasi di vino, e nelle lucerne.

Fortunata avea giù dato segno di voler saltare, già Scintilla facea più applausi che parole, quando Tri- malcione disse: Permetto a te , Filargiro , e a te Car- rione, che sei famoso viaggiatore, ed alla tua moglie, o Minofilo, di sedervi a tavola.

Che più? Noi fummo quasi cacciati dai nostri cuscini, tanto la sala crasi tutta empiuta di domestici. Io vidi collocato sopra me quel cuoco, che di un pezzo di maiale aveva fatto un'oca: c'puzzava di salamoia e di condimento: e non pago di sedersi a tavola cominciò a declamare per un buon tratto il tragico Tespi, indi provocò il padron suo a scommettere, che egli messosi nel partito verde avrebbe ne' prossimi giochi circensi riportato il primo premio.

Tutto allegro Trimalcione di questa disfida, amici, disse, gli schiavi sono pur uomini, ed han bevuto Io stesso latte di noi, benché un perverso destino gli op- prima ; pure, se il ciel mi salvi, essi respireranno presto un'aria libera. Insomma io li sciolgo tutti di schiavitù nel mio testamento.

Io lascio a Filargiro un campo e la donna sua. A Carrione lascio un' isola, 1' un per cento sopra i miei beni, ed un letto compiuto. Quanto alla mia Fortunata io la faccio erede universale, e a tutti gli amici miei la raccomando. Tutte queste cose io rendo pubbliche, onde la mia famiglia tanto ora mi ami, quanto mi amerà allorché s.arò morto.

Mette vansi tutti a render grazie di tanta bontà al padron loro, quand'egli, sospendendo ogni facezia, si fe'portar copia del testamento, che tutto egli lesse da principio sino alla fine, in mez-^o ai sospiri della fami- glia. Rivoltosi poi ad Abinna, che ne di tu, carissimo

LA CONVERSAZIONE S' INGROSSA 87

amico, gli disse; stai tu fabbricando il mio sepolcro, come ti ho ordinato? Io ti prego caldamente, che ai piedi della mia statua tu scolpisca la mia cagnolina, e le corone, e gli unguenti, e le battaglie da me so- stenute, in modo che io possa vivere dopo morto per opera tua. Fa inoltre che la facciata sia lunga cento piedi sopra ducento di altezza. Io voglio parimenti che intorno al mio cadavere si piantino pomi d'ogni qua- lità, e assai vigne. Perchè ei sarebbe cosa bene strana, che i luoghi de" quali io ebbi tanta cura vivendo, fos- sero negligentati, quand' io vi ho da stare si lungo tempo. Perciò voglio sopra tutto che vi si metta questa iscrizione :

QUESTO SEPOLCRO L' EREDE NON ABBIA.

Finalmente io disporrò nel mio testamento le cose in modo, che nessuno debba farmi ingiuria quand'io sarò morto : perchè io destinerò un liberto alla custodia del mio sepolcro, onde il popolo non venga a sconcacarvi. Ti prego altresì che le navi che scolpirai sulla tomba, camminino a vele piene, e che io sia seduto in tribu- nale, colla toga, con cinque anelli d'oro, e con un sacco di danari in atto di spargerli al pubblico; giacché ben sai, che io ho dato un pasto, e regalate due monete d'oro a ciascuno : onde puoi pure rappresentarvi il po- polo in massa facendo baldoria. A destra mi pon*ai la statua della mia Fortunata con un colombo in mano, e conducente la sua cagnolina annodata ad un nastro; porrai anche il mio Cicarone, e grossi fiaschi ben tu- rati, onde non ne svapori il vino, un de' quali rappre- senterai rotto, e un fanciullo piangente appoggiatovi: siavi in mezzo un orologio posto iu guisa che ciascuno che osservi le ore, debba, voglia o non voglia, legger

88 CAPITOLO DECIMOSESTO

pure il mio nome. Quanto all'Epitaffio vedi un po' at- tentamente se questo ti paia alibastanza conveniente:

e. ix^MPi, . rUIMALCIONK MECEKAZIAKO

QUI RIPOSA

A MI ARSENTE FU IL 8E8TOVIRATO

CONCESSO

E POTENDO IS TUTTE LE DECIIRIE AVER LUOGO

, PUR NOL VOLLE

PIO, FORTE, FEDELE.

CREBBE DAL POCO

E LASCIÒ TRECESTOMILA 8ESTKRZJ

''•'•' *'M DIE* RETTA A* FILOSOFI.

IMITALO.

Come ciò Trimalcione ebbe detto si mise a piangere amaramente: Fortunata anch' ella piagnea, e piagnea Abinna; tutta finalmente la famiglia empiè la sala di lamenti, come se si trovasse presente ai funerali: laonde io pure mi diedi a lagrimare. Allora Trimalcione disse: dappoiché sappiamo di dover morire, perchè dunque non ci affrettiamo a vivere? Pel piacere di vedervi fe- lici, andiamo a gittarci nel bagno; rispondo io che non ci sarà motivo a pentirci, perch'egli è caldo al par di un forno.

Vero, vero, rispose Abinna: io non ho paura a ba- gnarmi due volte in un giorno; e rizzossi a pie' nudi, seguendo Trimalcione, che era allegrissimo.

Io volsi l'occhio ad Ascilto, e gli dissi: che pensi tu? quant'a me, il bagno, solo in vederlo, mi fa morire.

Assentiamoci, egli rispose, e intanto che essi vanno al bagno, noi usciamo insiem colla turba.

CAPITOLO DECIMOSETTIMO

FINE DEL CONVITO.

Cosi essendoci convenuti , Gitone accompagnandoci, per lo portico arrivammo alla porta, dove un cane posto alla catena ci accolse con tanti latrati, che Ascilto cadde nel vivaio; ond'io ubbriaco, che sin del cane di- pinto mi spaventava, portatomi a dargli soccorso fui strascinato nello stesso gorgo. Ma ci salvò il portiere che venne, e il cane placò, e noi tremanti ridusse al- l'asciutto. Gitone però con sottilissima astuzia erasi sot- tratto agli abbaiamenti del cane, gittandogli dinanzi tutto ciò che avevano trasportato della cena , cosicché allettato dal cibo si mitigò.

Finalmente intirizziti pregammo il custode di metterci fuor della porta , ma egli rispose : assai t' inganni se pensi uscir per di qua, donde sei entrato. Nessun con- vitato giammai sorte dalla porta medesima : entrasi per V una e per l' altra si parte.

90 CAPITOLO DECIMOSETTIMO

Che faccvam noi , sgraziatissimi uomini , avviluppati in un labirinto di nuova specie, e che avevamo già in- cominciato a sapere che bisognava lavarci? PregammQ dunque di esser condotti al bagno, nel quale entrammo dopo esserci levati gli abiti, che Gitone ebbe cura di* stendere suU' ingresso, onde farli seccare. Stretto era il bagno, e somigliante alla cisterna rinfrescativa, in cui Trimalcione trovavasi tutto ignudo ; e noi non potemmo schivar di vederlo in quella vergognosa situazione. Ei diceva non esservi cosa migliore quanto il bagnarsi fuor della gente; e che altre volte quel luogo era stato un prestino. Di poi, trovandosi affaticato, si assise, e invi- tato dal rimbombo del sito , alzò la voce ubbriaca sino alla volta, e si mise a guastare gli inni di Mene- crate, come giudicaron coloro che ne intendeano la lingua.

Intanto gli altri commensali correvano intorno al ba- cino tenendosi per mano , e l'un 1' altro solleticandosi alzavano un rumor grandissimo : altri colle mani legate sforza vansi a levare dal pavimento gli anelli : altri stando ginocchioni piegavan la testa all' indietro toccandosi la punta de' piedi.

Mentre costoro cosi divertivansi, noi scendemmo nello stanzino , ove riscaldavasi un bagno per Trimalcione. Di poi, essendoci oramai svanita l'ubbriachezza , arri- vammo in un altro salotto, dove Fortunata avea messe in assetto le sue ricchezze, in guisa che al di sopra os- servai lucerne, e statuette di pescatori in bronzo, e la- stre di argento massiccio ; all' intorno vasi di terra in- dorati, e dirimpetto una fontana di vino.

Allora Trimalcione disse: amici, quest'oggi un mio schiavo si fa rader la barba per la prima volta; egli è uomo tranquillo, dabbene e a me caro. Facciam dun- que gozzoviglia, e ceniamo finché il viene.

In questa si udì un gallo cantare: per la cui voce Trimalcione confuso ordinò che si spandesse vino sotto

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FINE DEL CONVITO 91

la tavola, e se ne mettesse nelle lucerne; di più tra- sportò l'anello nella man destra, e disse, non senza il suo perchè codesto trombetta ha dato un tal segno: giacché 0 bisogna che vi sia incendio in alcun luogo, o che alcuno del vicinato trovisi in punto di morte. Lungi da noi si tristi augurj; epperò chi mi porterà questo mal nunzio avrà una corona in regalo.

Appena ebbe detto, che il gallo trovato nelle vici- nanze venne portato, e Trimalcion comandò che si po- nesse nella caldaia. Messo quindi in pezzi da quel dottissimo cuoco che poc' anzi avea col maiale fatto pesci ed uccelli, fu gittato nel paiuolo, e intanto che Dedalo accudiva a quella sollecita bollitura, Fortunata stritolava il pepe con un pestello di bosso.

Mangiate finalmente queste ghiottomie, Trimalcione volse l'occhio alla famiglia, dicendo: ecchè? voi non avete ancor cenato? andate, acciò gli altri vengano al loro ufficio.

Ne comparve tosto un altro drappello ; quei che par- tivano dissero: sta sano, Gaio; e gli altri diceano: salute a Gaio.

Di qui cominciò a turbarsi la nostra allegria, perchè in mezzo ai nuovi ministri essendo entrato un donzello avvenente, Trimalcione di lui s' impadroni , e si die a baciarlo per lungo tempo. Laonde Fortunata, come si fu veramente accorta di cotale associazione, cominciò a maledir Trimalcione, e gridare che un che non sappia frenar la libidine è un sudiciume ed una marcia vergo- gna; e finalmente gli scappò detto: cane.

Dall'altra parte Trimalcione mortificato, e punto da quella ingiurìa scagliò un bicchiero nel viso a Fortu- nata; ed ella, come se avesse perduto un occhio, stre- pitò, e tremando la faccia nelle mani si ascose.

Scintilla trovossi ella pur costernata, e la spaventata donna nel suo grembo raccolse: anzi un pulito donzello le appressò alle guance una tazza di acqua fredda,

'■^■J CAPITOLO DECIM08ETTIM0

sulla quale Fortunata curvandosi, cominciò a sospirare ed a piangere.

Trimalcionc all'incontro dicea: ecchè dunque? questa carogna ha giù dimenticato, che io la levai dalla madia e la misi all' onor del mondo? Ella gonfiasi corno la rana, e si sputa addosso : rompimento di testa , e noa donna è costei. Hen si vede che chi nasce nell'orto non sogna palazzi. Tossa io morire, so non saprò domare qnesta Cassandra instivalata. Ed io, quand'era ancora un pitocco, ho potuto prendermi dugento mila scudi di dote, e tu sai che non è menzogna. Ancora ieri il pro- fumiere Agatone mi si avvicinò per sedarmi, e mi disse, io ti consiglio a non sofTrire che la tua razza spenga. Mai io mi do veramente la zappa sui piedi trattando costei con si buona fede, o curandomi di non parerò uno sventato. Meglio farò, se ti ridurrò a venirmi cer- car carponi; e perchè tu intenda fin d'ora cosa ti sei guadagnata, Abinna, io non voglio che tu ponga la di lei statua sul mio sepolcro, onde io non abbia a liti- gare anche morto. Di più, aflìuchò comprenda che io le potrò far' danno, proi'olsco che mi baci quando sarò estinto.

Dopo questo fulmine, Abinna cominciò a pregarlo, che cessasse della sua collera, e disse: NESSUN DI NOI E' INFALLIBILE: UOMINI SIAMO E NON DEI. Cosi Scintilla, lagrimando, parlò, e chiamandolo Caio il supplicò pel suo genio di acquetarsi.

Più non potè Trimalcione trattenere le lagrime, e disse: io ti prego, o Abinna, e il ciel ti conservi le tue ricchezze, se io qualche male ho commesso, sputami in fìiccia. Io baciai quel bonissimo ragazzo non per la sua figura, ma perchè gli è buono: ei recita dieci parti, legge un libro in un colpo d'occhio ; cogli avanzi della/ sua giornata si è formato un capitaletto, e si è com- perato del suo un banco pel pane, e due boccali. Non si merita egli di esser presentato nelle comitive? Ma

FINE DEL CONVITO 03

Fortunata noi vuole. Tu la pensi cosi, o calore degli anni mici ; ma io ti esorto a valerti de'beni tuoi, o po- iana, e non indispettirmi, gioia mia, altrimenti tu pro- verai questa mia testa. Ben mi conosci; una volta che io risolva una cosa, ella è fissa con un chiodo da trave. Ma ricordiamci de'vivi.

Io vi consiglio, miei amici, a starvene allegramente; perchè io pur fui meschino siccome voi, e a questo stato pervenni col mio giudizio. Egli è un dito di cervello quel che fa gli uomini, tutto il resto è zero. Io compro con vantaggio, e vendo con pari vantaggio ; un altro vi parlerebbe diversamente: io son colmo di felicità. E tu, ubbriacona, tu piangi ancora? frappoco io ti darò ben di che piangere il tuo destino.

Ma, com'io diceva, a questa fortuna il mio giudizio mi ha portato. Io venni d'Asia che era non piìi grande di questo candelabro, col quale io solea misurarmi ogni giorno , e perchè mi nascesse la barba al pili presto usava ungermi d' olio le labbra. Durai tuttavia quat- tordici anni ad essere per lo mio meglio la donna di piacere del mio padrone; vi è male in ciò che il padron comanda. Io però soddisfaceva eziandio alla padrona mia. Ben capite quel che mi dico, giacché non uso io di millantarmi. Alla fine, come piacque agli Dei, io divenni padron di casa, e cominciai a prender cervello. Che più ? ci mi lasciò coerede collo Impera- dore, e mi buscai un patrimonio senatoriale. Ma nes- suno ne ha mai abbastanza: vennemi capriccio di ne- goziare; e per non trattenervi di troppo, fabbricai cinque navi, le caricai di vino; e allora venia danaro per un altro verso. Un tratto le diressi a Roma, e (puoi ben credere ch'io non l'ordinai) fecer tutte naufragio: questo è fatto e non menzogna. Mettuno in un sol di m'ingoiò due milioni. Pensate voi, ch'io perciò mi disanimassi? No, perdio, questa perdita io me la godetti, come se nulla fosse : altre navi fabbricai più grandi, più buone,

94 CAPITOLO DECIMOSETTIMO

e più felici, onde uossun dicesse che io non fossi uomo coraggioso. Sai che molta forza ha una grossa nave. Feci un nuovo carico di vini, lardo, fave, acque distillato di Capua, e schiavi. In questa circostanza Fortunata mi fece un bel servizio, perchè tutte le sue ricchezze, o tutti gli abiti vendette, e mi pose in mano cento mo- nete d'oro le quali furono il lievito del mio peculio. Quando il ciel vuole aasisterci, tutto va bene: in una sola velata mi lucrai dugento cinquanta mila scudi. Svincolai tosto tutti i fondi, che furon del mio padrone: fabbricai una casa, comperai bestiame da mercato ed ogni cosa che io iuiiapreudeva crescevami in mano come un favo di miele.

Poiché mi trovai possedere più che non possedesse tutto il mio paese, mi levai dal banco, lasciai il com- mercio, e mi posi a far prestanza ai novelli liberti. E come io m'era annoiato di attendere a questo negozio, consigliommi a continuarlo un astrologo, che capitò accidentalmente nella nostra colonia, il qual era mezzo greco, e chiamavaui Serapioue, ed era conHultatore degli Iddii. Costui diysemi anche più coso che io avea dimen- ticate, e tutto quello che mi era avvenuto da capo ai piedi mi indovinò. Ei conosceva si ben le mie viscere, che Oli avrebbe deuo cosa avessi io mangiato il di in- nanzi, e avresti detto che egli avesse abitato sempre con me.

Dimmi, Abinna, io credo che tu fossi presente quando ei mi disse: tu alla tua bella hai donato tutto il tuo: tu poco sei fortunato negli amici: nessuno corrisponde alle tue grazie: tu possiedi una gran masseria: e tu nodrisci una vipera nel tuo seno. E perchè non vi dirò io, eh' ei pur mi disse che ancor mi restavan di vita trent' anni, quattro mesi e due giorni ? e di più che avrei presto fatta una eredità.

Cosi mi dicea l'astrologo. Ma se mi riesce di unire insieme tutti i miei fondi di Puglia, io Burò diventato

PINE DEL CONVITO 95

ricco abbastanza. Per ora intanto che Mercurio invigila sopra di me, questa casa ho edificato, la qual come sapete era un trabaccolo, ed ora pare un tempio; so- novi quattro sale da pranzo, venti camere, due portici di marmo, e di sopra un torrioncino, che è la stanza, ov'io dormo; il gabinetto di questa vipera, un'ottima stanza per il guardiano, e una foresteria capace di mille ospiti. Insomma, quando Scauro vien qui, non vuole abitare altrove, sebben egli abbia il casino di suo padre in riva al mare. Molti altri comodi vi sono, che fra poco vi mostrerò. Credete a me : abbiti danaro, e farai danaro. Ne hai? Ne averai. Cosi l'amico vostro, che già fu rana, ora è re.

Intanto portami, Stico, gli arnesi mortuari, nei quali voglio essere involto. Porta pure l'unguento, e togli da quella bottiglia il balsamo, di cui voglio cho si lavino le mie ossa.

Stico non fu lento , e portò nel triclinio una coper- tina bianca , e la toga. Trimalcione ci ordinò di esa- minare se fosser tessute con buona lana ; poi sorridendo, bada ben, disse, o Stico , che i topi o le tignuolc non tocchino queste cose ; altrimenti io ti fo bruciar vivo. Io voglio esser trasportato con magnificenza, onde tutto il popolo abbia ad augurarmi del bene.

Aperse di poi 1' ampolla del nardo , e ci unse tutti, e spero, disse, che questo debba giovare a me morto , come vivo mi giova. Fece altresì versare vino in un vaso , dicendo : fate conto di essere invitati alle mie esequie. ^

Questa faccenda diveniva fastidiosissima, quando Tri- malcione cadente per turpissima ubbriachezza comandò che si conducessero nella sala i sonatori di corno, per fare una nuova musica , e sostenuto da molti origlieri si stese sul catafalco, e disse : fingete che io sia morto, e dite su qualche cosa di bello.

I cornetti alzarono un funebre strepito , ed uno fra

liG CAPITOLO DECIMOSETTIMO

gli altri, servo di codesto fingitore di esccjuie, che pur era il più galantuomo di tutti, si altamente intonò, che mise a romore tutto il circondario: cosicchò le senti- nelle del vicino quartiere pensandosi che la casa di Trimalcione abbruciasse , gittaron giù tosto le porto, e si posero all'usanza loro tumultuando con acqua , o con scuri. Noi approfittandoci di si bella occasiono diemmo volta ad Agamennone , e ce ne fuggimmo di di rapidamente , come se fossimo fuggiti dall'in- cendio.

CAPITOLO DICIOTTESIMO.

LEGGEREZZA OIOVENILE.

Non vi era nessun fanale , che indicasse il cammino ai passanti, il silenzio' della notte ornai giunta al suo mezzo ci lusingava d' incontrarci in alcun lam- pione. Aggiugni a ciò l' ubbriachezza, e la nessuna pra- tica dei luoghi, che anche di giorno eran bui. Come ci fummo dunque avviluppati ben quasi un'ora per quei ciottoli e rottami di pietre, fino a lacerarci i piedi , la destrezza di Gitoae finalmente ce ne liberò. Perchè egli il giorno innanzi per timor di smarrirsi anche di pien meriggio, avea prudentemente segnati di gesso tutti i pilastri e colonne ; e quel biancume vincendo la densità della notte additava con sufficiente chiarore la strada a noi barcollanti. Ma non minor pena trovammo anche di poi che fummo giunti all' albergo ; imperocché quella vecchia, altamente ubbriacata^i ^oi forastieri, non l'a- Pctronio. 1

98 CAPITOLO DICIOTTESIMO

vrebbe svegliata il fuoco addosso; e forse avremmo do- vuto dormir suU' uscio, se un procaccio di Triinalcione non sopravveniva con dieci carretto, il quale trattenutosi un momento a picchiare , buttò abbasso la porta , e ci die luogo ad introdurci per la stessa apertura.

Entrato in camera mi misi in letto col mio ragazzo , dove lautamente pasciuto, e pien di prurito m'ingolfai ne' piaceri.

Oh che notte fa quella! Che molli piume, oh Dei! Caldi ci avviticchiammo, £ coi labbretti aguzzi Diffusimo qua e lìi l'anime erranti. Addio cure, e da questo A morire m'avvezzai.

Ma non ho ragion di allegrarmi. Perchè liberato dal vino e colle mani intorpidite, Ascilto, d'ogni ingiuria ritrovatore, mi rapi quella notte istcssa il ragazzo, e lo portò nel suo letto, e divertissi senza alcun ostacolo con persona non sua; la quale, sia che non sentisse l'in* sulto, sia che lo simulasse, addormentossi tra le altrui braccia dimenticandosi degli umani diritti. Io risveglia- tomi tasteggiai pel letto vuoto del mio piacere: e, se credere si deve ad un amante , stetti in pensiero se io avessi ad infilzarli col ferro , e il sonno loro maritar colla morte. Ma preso poi un più savio consiglio, sve- gliai Gitone collo staffile , e furiosamente guardando Ascilto, gli dissi: giacché empiamente la fede hai vio- lato, e la comune amicizia, prenditi tosto le cose tue , e cercati un miglior luogo alle tue sozzure.

Ei nulla oppose: ma quando ebbimo con ottima fede divisi tra noi i nostin furti , or bisogna , diss' egli , che anche il ragazzo ci dividiamo.

LEGGEREZZA GIOVEKILB 99

Io ini credetti che costui scherzasse innanzi andarsene, ma egli con mano parricida afferrò la spada, e disse: tu non goderai solo di questa preda, sulla quale ti di- stendi: Bisogna darmi la parte mia, o io di buon grado con questa spada la dividerò. Lo stesso feci io dall'altra parte, ed avvoltomi intorno al braccio il mantello, mi misi in positura di battermi.

Tramezzo a questo trasporto di furore il fanciullo afflittissimo ci abbracciava, piangendo, le ginocchia, e umilmente pregava, che quella vile taverna testimonio non fosse di uno spettacol tebano, del reciproco san- gue macchiassimo luoghi consecrati alla più amichevole famigliarità. Che se fa pur d'uopo (sclamava egli) di un misfatto, eccovi la nuda gola, qui rivolgete le mani, qui i coltelli piantate : a me spetta il morire , che il sacramento dell'amicizia ho tradito.

A codeste preghiere ritirammo le spade, e Ascilto fu il primo che disse : Io pon-ò fine a questa contesa. Re- sti il fanciullo stesso con chi vuol egli, onde abbia al- meno la libertà di scegliersi il camerata.

Nessun timore mi presi io di questo patto, parendomi che l'antichissima convivenza si fosse convertita in vin- colo di parentela, onde l'accettai tostamente, e la lite deposi nel giudice : il quale non deliberò in modo, che paresse di aver esitato, ma sul finire delle mie parole alzatosi inoutamente , disse che in suo camerata eleg- gevasi Ascilto.

Io fulminato da questa sentenza, cosi senz'armi co- m'era, caddi boccone sul mio letticciuolo , e mi sarei per dispetti» offeso colle mie mani , se non avessi sen- tito invidia della vittoria del mio nimico.

Ascilto sorti orgoglioso colla sua conquista, e cosi lasciò derelittto in luoghi stranieri un compagno poc'anzi carissimo, e per eguali fortune non dissimil da lui.

100 CAPITOLO DICIOTTESIMO

Dura il nome d'amico in sin che giova. Questo mobile affetto È di calcolo effetto. Sin che dura fortuna , amici . voi Bella cera tenete, E con vii fuga poi

Altrove il volto al suo cessar volgete. Tai sono i mimi su la scena: quale Genitore si chiama, Qual si dice figliuolo, Qual di ricchezze ha fama. Ma al calar della tenda, in cui rinchiuse Stan le parti facete. Toma a ciascuno la sua vera faccia, E la finta ne scaccia.

Non però troppo mi abbandonai alle lagrime , che sospettando di non esser fra tanti mali sorpreso solo nella locanda dal vice-maestro Menelao , raccolsi i miei cenci, e me ne andai malinconico in un luogo so- litario , vicino al lido. Colà iitetti chiuso tre giorni, e rivangando col pensiero la presente solitudine e il pas- sato disprezzo, mi rovinai co' singhiozzi lo stomaco in- fermo, e in mezzo a tanti profondi gemiti spesse volte eziandio sclamai: Non può dunque la terra ingoiarmi ne' suoi abissi, il mare si funesto anche agli inno- centi? Ho io ucciso il mio ospite, schivato il castigo, fuggitomi dall'arena, per trovarmi oggi, malgrado que- sti nomi pomposi, mendico, esule e derelitto in un'o- sterìa di città greca? E chi a questo abbandono mi astrinse? Un ragazzaccio sozzo d'ogni lascivia, e per propria sua confessione meritevol di forca; fatto libero pe'suoi stupri, e pe' suoi stupri ingenuo, che non anco fuor delle bucce fu come una fanciulla goduto da chi appena sapea che era maschio. Che dirò di quel-

LEGGEREZZA GIOVESILE 101

l'altro, oh Dei! il quale nello stesso di, in cui dovea vestire la toga virile, s'indossò la stola, che non seppe fin dalla culla di esser uomo: che nelle galere si prostituì come donna, che dopo aver dissipato il mio, e sconvolto il subbio della sua libidine, or abbandona i nodi d'una vecchia amicizia, e a guisa di puttana tutto infamemente sagrifica per la tresca di una notte? Ora stannosene tutte le notti annodati gli amanti , e nella fiacchezza delle loro oscenità burlansi forse della mia solitudine; ma non impunemente per dio! perchè non 80n uomo, libero, se io non vendicherò la mia ingiuria nell'empio lor sangue.

Ciò detto cingomi di spada il fianco, e perchè la de- bolezza non diminuisse il mio sdegno guerriero, eccito le mie forze con maggior copia di cibi: sortii poscia, e come un furibondo m'aggirai per i portici. Ma intanto che con istupido e feroce viso ad altro non penso che a stragi ed a sangue, e che ad ogni tratto portava il pugno sull'elsa, che dovea vendicarmi , un soldato mi tenne d' occhio , che forse era o un vagabondo , o un assalitore notturno, e dissemi: di qual legione sei tu, camerata, e di qual compagnia? Avendogli io con fran- chezza falsificato il nome del capitano e della legione: oh bella, soggiunse egli, i soldati del vostro corpo vanno cosi in iscarpette? allora il mio volto e il tremor mio avendo scoperto l'inganno, ei m'impose di ceder l'aimi, e schivare un mal maggiore. Privatone quindi, e cosi sfumata la mia vendetta, me ne tornai dietro alla lo- canda, e passatami a poco a poco la collera, mi trovai contento dell'insulto di quel monello.

CAPfTOLO DROIMOXONO.

I BEGLI INGEGNI S'iNCONTBANO.

Ma facil non m'em di vincere il desiderio di vendi- carmi, e agitato trascorsi la metà della notte; per al- leviarmi però dalla malinconia e l'offesa dimenticare, quando fu giorno sortii, e gironzando pei portici giunsi ad una galleria, maravigliosa per varietà dei quadri; imperocché ne vidi di mano di Zeusi non ancor guasti dalla ingiuria del tempo, e toccai non senza certo ri- spettoso orrore alcuni abbozzi di Protogene, che rìva- lizzavano colla verità della natura. Venerai pur anco un Apelle, ossia un Monocromate, come dicono i greci, dove i contorni delle figure eran di tanta eccellenza, e si precisamente simili al vero, che avresti creduto che perfin l'animo vi fosse pinto.

un'aquila alta portava pel cielo Giove: qua il candido Ila cacciava da se la impudica Naiade; e altrove Apollo rodevasi le mani omicide, e la sdraiata sua cetra adornava del fior testé nato.

In mezzo alle sembianze di questi amanti pitturati, io, come se fossi in luogo solitario, sclamai : amor dunque colpisce sia anco gli Iddìi ? Non ha Giove nel cielo suo chi sciegliersi f ma venendo a peccar sulla terra non fa ingiuria a veruno. La Ninfa rapitrice

I BEGLI INGEGNI S INCONTRANO 103

d'Ila avrebbe frenato il suo amore, ove sapesse che Er- cole vi si opponeva. Apollo converti in fiore l'anima del giovinetto ; tutte insomma le favole ebbero i loro abbracciamenti senza rivalità. Ma io mi ho tolto in compagno un ospite più crudel di Licurgo.

Intanto che io mi sto cosi borbottando all'aria, ecco entrare nella galleria un vecchio canuto, di faccia ma- cilente, che pareva promettere non so che di grande ; ma ei non era pulito negli abiti e facilmente m'accorsi esser egli di quella classe di letterati , che sogliono essere odiati dai ricchi. Ei si fermò dunque vicino a me, e dissemi : Io son poeta, e non forse degli infimi, se puossi dar fede alle corone che ottenni, le quali però la protezione suole accordare anche agli ignari.

Perchè dunque, gli rispos'io, sei si mal vestito?

Per ciò stesso, ei soggiunse. Amor di studio non fa' mai ricco nessuno.

Chi al mar s'aBBda è di gran lucri altero, D'oi*o ha le fasce chi combatte in campo, Il vile adulatore ebbrio si sdraia Su preziosi drappi, e va premiato Il seduttor delle altrui mogli. Sola Sotto i logori panni intirizzisce Letteratura, mentre in fioca voce Tenta onorar le belle arti sprezzate.

Ed è certamente cosi: quand'uno di tutti i vizj ne- mico rettamente intraprenda il cammin della vita, in- contra in primo luogo l'odio altrui per la diversità de' costumi , non essendovi chi si adatti ad usi contrari ; in secondo luogo coloro che tendono solamente ad ammassar tesori, vogliono che nulla dicasi esser meglio tra gli uomini fuorché l'esser ricco. Perciò corbellano in mille modi gli amatori delle lettere, onde indursi essi ^ure ad esser ligi dell'oro.

104 CAPITOLO UKUIMONONO

10 non so, diss'iu sospirando, come la povertà sia sorella del buon ingegno. Ken a ragione, rispose il vecchio, la sorte compiangi de' letterati.

Ah, non b questo, diss'io, il motivo de' mici sospiri; altra cagione ho di dolermi e ben più grave: e al tempo stesso, giusta l'umana inclinazione di confidare altrui le proprie sciagure, gli esposi il mio caso, ed esagerai soprattutto la perfidia di Ascilto, sciamando fra questi gemiti : ben vorrei che codesto nemico della tua Voluttà fosse tanto innocente, che iscusar si potesse: ma egli ò un provetto ladrone, e ne sa più de' ruffiani.

11 vecchio veggendo questa sincerità diessi a confor- tarmi, e per mitigare la mia tristezza mi raccontò quello, che in altri tempi era a lui stesso avvenuto in genere di amore.

Condotto io in Asia, dii^s'egli, da un Questore presso cui era impiegato, presi in Pergamo un alloggio, dove volentieri abitava non solo per gli addobbi de' gabi- netti, ma anch>; pel vaghissimo figlio dell'ospite, a cui studiai di esser amante senza che il padre ne sospet- tasse. Imperocché ogni volta che ragionavasi a pranzo sull'uso de' bei ragazzi, io montava in tanta collera, e con tanta severa austerità mi dolca d'insudiciarmi le orecchie di quelle oscenità, che la madre principal- mente riguardavami come un filosofo. Diffatto io co- minciai per condurre il giovinetto alla scuola, io re- golare i suoi studj, io insegnargli, e metterlo in avver- tenza che non s' introducesse nella casa alcun predator del suo corpo.

Un di trovandoci a caso sdraiati nel tinello, perchè essendo giorno festivo non ci era studio, e la molta gozzoviglia avendoci messo in pigrizia di partircene, io m'accorsi verso la mezza notte che il ragazzo era desto: ond'io cosi sottovoce bitbigliando feci questa

I BEGLI INGEGNI s' INCONTRANO lOù

preghiera : o Venere signora , se io questo ragazzo avrò baciato, si ch'egli non se ne accorga, dimani da- rògli un paio di colombe.

Udì il fanciullo il premio offerto pel mio piacere, e diessi a russare : ond'io appressatomi usurpai qualche bacio sul finto doi-miente. Pago di questo principio molto di buon mattino mi ahai , e scelto un paio di colombe a lui che le aspettava le portai, e cosi sciolsi il mio voto.

La notte seguente, trovandomi nella stessa occasione, cambiai desiderio, e dissi : se io potrò con licenziosa mano palparlo e ch'egli non senta, o il soffra, io gli donerò due valentissimi galli. A queato voto il giova- netto mi venne più appresso, e credo prendesse timore che io non m'addoniientassi. Perciò non perdei tempo, e in tutto il mio corpo un piacer più che sommo provai. Quando poi fu giorno recai quanto promisi a lui che ne fu lieto.

Col favor della terza notte mi accostai all'orecchio suo, mentre fingea dormire, e dissi : o Dei immortali, se io da questo addormentato riporterò un compiuto invidiabil piacere io per tanta contentezza donerò di- mani al fanciullo un eccellente ginetto di Macedonia, a condizione però ch'ei non se ne avveda. Il giova- netto non dormi giammai più profondamente. Le mani adunque sul morbidissimo seno prima di tutto applicai, poi strinsimi a lui con un bacio, finalmente tutti i miei desiderj in un solo accoppiai.

La mattina egli trattennesi in camera aspettandomi giusta il costume. Tu sai quanto più faci! sia comperar colombe e galli, che un ginetto; oltracciò io temea che un si gran r-^galo non facesse nascer sospetto della umanità. Divagatomi dunque alcune ore tornai a casa, ed altro non feci che baciarmi il fanciullo. Ma egli guardandosi intorno, e tenendosi abbracciato al mio collo, di grazia, signore, mi domandò, dov'è il ginetto?

106 CAPITOLO DECIMONONO

La difficoltà di incontrarne un bello, risposi, mi ba sforzato a differire il regalo, ma fra pocbi la mia promessa avrà effetto. Il ragazzo capì benissimo com'era la cosa, e manifestò sulla Taccia l'interno disi>etto.

Nondimeno, benché per questo inganno mi fossi chiuso il sentiero ch'io avea fatto, tornai di nuovo al mio vizio : poiché passati pochi giorni ed uno stesso acci- dente avendoci riuniti nello stesso luogo, quand'io udii suo padre a russare cominciai pregando lo scolaretto, che mi restituisse la di lui grazia, cioè che mi permet- tesse di dargli piacere con tutti i modi che una raffi- nata libidine sa suggerire. Ma egli assai corrucciato nient'altro mi rispondea se non che: o dormi, o ch'io dirollo a mio padre.

Ma niente ò così diftlcile che il desiderio ostinato non superi. Intanto eh' ei dice, sveglierò mio padre, io l'an- nodai con impeto, e di lui, che mal s'opponea presi per forza piacere. Ma egli non adiratosi della mia dissolu- tezza, dopo essersi lungamente lagnato del mio inganno e del vedersi deriso e ballottato tra i suoi condiscepoli, co' quali erasi vantato del mio promesso regalo, vedrai, mi disse , che non voglio però somigliarti , fa pure di nuovo ciò che più brami. E così dimenticato ogni dis- sapore tornai in amistà col fanciullo, e dopo essermi servito della sua cortesia mi addormentai. Ma non fu contento di questa replica lo scolaretto , che vi si era pienamente adatto, ed aveva un'età appropriata a co- tale esercizio; onde sveglioinmi, e disse: non vuoi tu altro? Dal che chiaramente compresi non dispiacergli quel giuoco. Com'ebbe adunque non senza molta fatica e riscaldamento ottenuto ciò che voleva, io stanco dei piaceri m' addormentai nuovamente. un' ora peranco era scorsa ch'egli si diede a punzecchiarmi coi diti, e dirmi, perchè non faeciamnoi? Allora io di frequente svegliato montai davvero in molta collera, e gli resi pan per focaccia dicendogli: o donni, o ch'io dirollo a tuo padre.

CAPITOLO VENTESIMO.

QUALCHE SCAPPATA SULLE BELLE ARTI.

Confortato da tai discorsi io cominciai a consultare costui più di me sagace sull'antichità di que' quadri, e sopra alcuni soggetti che io non intendeva, e al tempo stesso sulla causa della presente incuria , e perchè le bellissime arti decadessero, e la pittura fra queste orma di non lasciasse. Allora ei mi rispose: l'avidità del guadagno di questo rovescio è cagione. Ma ai tempi antichi, quando ancor piacea la nuda virtù, le liberali arti erano in vigore, ed eravi la più gran gara tra gli uomini, acciò nulla che giovar potesse alla immortalità rimanesse lungo tempo nascosto. A questo fine Demo- crito spremette in vasi di creta i sughi di tutte le erbe, e consumò il tempo suo negli esperimenti onde scoprire la virtù delle pietre , e dell' erbe. Cosi pure Eudosso invecchiò sulla cima di un altissimo monte per inten*

108 CAPITOLO VENTESIMO

dere il moto degli astri e del cielo, e CrÌ8Ìj)po tre volte coir elleboro si purgò onde riuscire nelle scoperte.

Ma per parlar di scultori Lisippo mori di miseria per avere studiato indefessamente ai contorni di una sola statua, e Mironc che col bronzo dava quasi la vita agli uomini ed ai bruti, non ebbe clii presentasse per suo erede. Noi però immersi tra i bagordi e lo ba- gascie non osiamo nemmanco di conoscere le arti già inventate, ma, biasimando gli antichi, di vizj soltanto siamo e maestri ed esecutori.

Dove ò la Dialettica , dove l' Astronomia ? dove la rettissima via della sapienza ? Chi è colui che più venga nel tempio, e faccia voti per conseguir l' Eloquenza ? o per iscoprir la sorgente della Filosofia? anzi non cercan pure costoro mente sana e buona salute , ma tosto pria che tocchin l' orlo del Campidoglio qual pro- mette dono se il ricco parente torrà di vita, quale se gli scaverà il tesoro, quale se giunga senza fastidj fino al milione. Il Senato medesimo, di giustizia e di bontà precettore, suole offrir mille libbre d'oro nel Campido- glio , e perchè nessuno si faccia scrupolo di appetir le ricchezze usa di implorar Giove col mezzo del danaro. Non maravigliarti adunque se la pittura è venuta meno, dacché a tutti gli Iddii ed uomini più caro riesce un mucchio d'oro di quanto abbian fatto giammai quei poveri grechetti di Fidia e d'Apelle. Ma io veggo che tu sei tutto intento su quel quadro , che rappresenta Troia distrutta : perciò io tenterò di dartene la spiega- zione in versi.

Il decim'anno già volgea, che intomo Eran stretti d'assedio i Troian m^sti Fra il sospetto, e il timor. Non men tra i Greci Si paventava, per la incerta fede Che si pouea nell'indovin Calcante. Apollo alfin parlò: per suo comando

QUALCHE SCAPPATA SULLE BELLE ARTI 109

Traggonsi già dai vertici dell'Ida Gli alberi svelti, e coi robusti troaclii Alzasi mole, cui si figura Di superbo destrier; nell'ampio ventre S' apre l' ingi-esso , e dentro il buio speco Gli accampati guen-ier sono introdotti. Ivi s' appiatta la virtù sdegnata Di cosi lunga guerra, ed i compagni Del pesante cavai turano i fori. Mentre la mole, ove si celan gli altri, Gridan esser de' Greci un voto ai Dii. Oh patria mia! noi credevam che lungi Le mille navi andassero respinte, E che di guerra il suol libero fosse, E le parole sulla bestia incise Ne accrescean la credenza, e l' accresce» Sinon, che la fatai frode compose, E il suo mentir si in danno altrui potente. Libera e senza guerra incontro al voto Sino alle porte già la turba affretta: Già s' innondan di lagrime le guance. Ed il piacer degli abbattuti spirti Versa quel pianto, che il timor versava. Già, disciolti i capei, Laocoonte Di Nettun sacerdote, in mezzo al vulgo Eccita gridi clamorosi , e tosto Vibrando l'asce del cavai sul ventre Lo striscia appena, che il destino a lui Rallentò il pugno, e ritrocesse il colpo, E aggiunse fede al non temuto inganno. Pur di nuovo innalzò la debil mano, E ne' fianchi il colpi colla bipenne. La chiusa dentro gioventù frenica. Ma il suo bisbiglio ed il timore altrui Naturai sofiio del cavallo parvo. L'inceppato drappel s'inaoltra intanto,

110 CAPITOLO VBNTE8IM0

E Troia i già ne' ceppi, or che la guerra Consiste tutta in quel si uovo inganno. Altri prodigj appaion poi; dal lato Donde Tenedo eccelsa il mare incalza Coir immobile dorso , oltre il costume Gonfiansi i flutti, e sino all' ultim' onda In spruzzi minutissimi ricade. Fragor si udia quale iu tranquilla notte Spandesi lunge il suon de' remi, quando Armate navi al mar premano il tergo, E al Bovrappor dell' albero pesante Cigoli e gema l' incavato marmo. Noi volgemmo gli occhi; ed ecco due Spinti dal flutto in sul terren serpenti Attortigliati , co' i superbi petti Alti, a guisa di nave, e traggon dietro Spuma sui fianchi lor: suonan le code: Fiammeggian gli occhi, le volgenti scaglie Risplendon lunge sopra il mare , e quasi Destanvi incendio co' fulminei sguardi: E al loro sibilar tremano 1' onde, Stupia ciascun: ivi di stole adomi E de' Troiani vestimenti i due Diletti figli di Laocoonte Stavano: ed ecco d'improvviso a tergo Gli avviticchiaro i lucidi serpenti. Le pargolette mani alzanti ai volti. Essi , e r un l' altro liberar vorria , E la pietosa cura ognun rivolge Verso il fratel, si che il morir dell'uno Per l'alterno timor fu all'altro morte. Miseri! Il genitor le fredde membra Raccoglie de' bambini. Ahi fiacca aita: Sovr' esso pur gli angui pasciuti vanno , E il traggon morto in sul terren. Tra l'are Vittima giace il Sacerdote, a cui

QUALCHE SCAPPATA SULLE BELLE ARTI 111

Della patria il destin cagionò pianto. Cosi già al suo perir Troia vicina , Col profanar delle persone sacre, A perir cominciò perdendo i Dii. Del fraterno splendor piena, già il bianco Velo alzava la luna e conducea Col chiaro raggio le minori stelle, Quando dalla trincea spandonsi i Greci Fra i sepolti nel vin Teucri e nel sonno, E gli scannan cosi. Con tale orgoglio Usano l'armi quei guerrier, col quale Suol tessalo cavai cui la cervice Lungo tempo curvava il duro giogo, Vibrarsi al corso, e l'alto crin quassare. Givan le spade in cerchio, e selci e sassi Rimovendo dal suol ripiglian guerra. Qui agli ubriachi un tronca i capi, e il sonno Prolunga lor sino all'eterna notte, col foco dell'are un altro accende Le incendiatrici fiaccole, ed invoca A danno de'Troian di Troia i Dii.

CAPITOLO VENTUNESIMO.

DUE OBIOTTI A CM DESCO.

Alcuni, tra la gente che andava gironsando pei por- tici, scagliaron sassi dietro Eumol pione, ma egli che sapeva gli applausi che si facevano a' suoi talenti coprissi il capo, e scappò fuori del tempio. Io ebbi paura che me pure non eliiainasser j)oeta, e perciò te- nendo dietro al fuggitivo anivai sulla riva, e tostochè potei tratteuerini fuor del tiro de'strali, cosi gli richiesi: dimmi : tu sei stato meco men di due ore , e mi hai parlato più da poeta che da uomo: non istupisco se il popolo ti accoglie a sassate : io pure provvederò di ciottoli le mie saccoccie, onde ogni fiata che tu sorta di cervello io ti tragga un po' di sangue dal capo.

Fece egli un brutto cefi'o e rispose : o figliuol mio , non è oggi la prima volta ch'io son trattato cosi: anzi quand'io vo' sul tea'ro a recitare qualche cosa, suolmi assai di frequente toccar questi incerti. Ma affine che

PUF. OniOTTI A UN DESCO. US"

io non abbia a quistionare anche teco, io per futt'oggi mi asterrò da un tal pasto. Ed io, ripresi io, se tu per oggi a questa smania rinunci, vo' che ceniamo insieme ; al tempo stesso mandai dicendo al locandiere che ci^ apparecchiasse una cenetta. Dipoi andammo a' bagni dove io vidi Gitone con fregoni e striglie appoggiato al muro tutto tristo e confuso: ben vidi ch'ei non era contento del suo servizio. Intanto che io per assicurar- mene attentamente il guardava, egli rivoltosi a me con volto giubilante, miserere, mi disse, o fratello ; ora che non vi son armi liberamente lo dico. Toglimi dalle mani di un crudel ladrone, e punisci con qual tu vuoi penitenza afflittiva il tuo giudice. E' mi sarà assai di sollievo il sapere che io meschino soffrissi per tua volontà.

Io gli accennai di tacere, onde nessun capisca l'in- tenzion mia, e lasciato Eumolpione, perchè erasi messo a recitar versi nel bagno , ne feci uscir Gitone per un passaggio buio e sudicio, e cautamente volai al mio al- loggio, dove chiuse le porte lo strinsi con trasporto al mio seno, asciugandogli col mio viso la bocca bagnata di pianto. Ciascun di noi per un pezzo stette zitto : perchè il ragazzo erasi rotto lo stomachino coi molti «^nighiozzi. Oh somma iniquità, sclamai dopo, l'amarti benché tu m'abbi abbandonato I ancora è cicatriz- zata nel mio petto la larga piaga che tu vi facesti. Pare a te darti in braccio ad un amore ambulante ? Meritava io questa ingiuria?

Quand'ei s'accorse d'esser tuttora amato mostrò un sopracciglio più altero. Ma (io proseguii) nessun altro giudice voglio io che dell'amor mio decida : se tu sin- ceramente ne sei ])entito io più non mi lagno di nulla, più nulla mi ricordo.

Esprìmendomi io con sospiri e con lagrime, egli col mantello asciugommi le guance, e disse : io mi riporto, Encolpo, alla tua stessa memoria. Son io che t'abban- donai, 0 tu che mi consegnasti ? Non nego, anzi il con- Pffronio, 8

114 CAPITOLO VENTUNESIMO

fesso, che quand'io vi vidi entrambi v armati, m'appi- gliai al più forte.

Allora io gli baciai quel petto si pion d'accortezza, e gli tenni tra lo mani \n testa ; e perchè non dubi- tasse d'essermi tornato in grazia, e che sincerissima rinasceva la mia amicizia di tutto cuor lo abbracciai.

Già era interamente riotte, e l'ostessa avea disposto la cena, allorché Eumolpione picchiò alla porta. Quanti siete? io domandai, e diligentissimamente guardai per una fenditura, se Ascilto forse con lui non venisse. In- fine quand'io vidi ch'egli era solo prontamente l'accolsi. Com'egli si fu assiso sul letticciuolo, e che vide in faccia Gitone il qual mi scrvia, chinò la testa dicendo: ap- provo questo bel Ganimede: bisogna oggi starcene al- legri.

Poco mi piacque si bizzarro principio, e 80S))ettai di non aver messomi in casa un altro Ascilto. Eumolpione continuò sullo stesso stile e avendogli il ragazzo ver- sato da bere, gli disse : io ti voglio più bene clic a tutto il bagno insieme , e avidamente votato il bic- chiere disse ch'ei non ebbe giammai la bocca più asciut- ta: perchè (soggiunse) intanto ch'io era ai bagni corsi ri- schio di venir bastonato per aver voluto recitar poe- sie a coloro, che sedeano intorno al bacino. Dopo che mi scacciaron dal bagno, come già fecero dal teatro, presi a rivolgermi per tutti i canti, ed a chiamare En- colpo con tutta la mia voce. Dall'altra parte un gio- vine ignudo, che avea perduto i suoi abiti, con fracasso non minore misto di rabbia chiamava Gitone. Me in- tanto que'garzoni deridevano come un pazzo , contraf- facendomi con impertinenza, ed a lui molta gente andò intorno facendo plausi e maraviglie non senza molta cautela -, imperocché egli aveva un cotale si prodigioso, che avresti detto che il resto del corpo ne fosse 1 orlo. Oh che giovine affaccendato t io credo che s'ei si mette in opera oggi, appena dimani la termina. Laonde ei

DUE GHIOTTI A UN DESCO 115

trovò pronto aoccorso, perocché non so qual cavaliere romano, a cui davano dello infame, copri della sua veste lui che andava girando, e menosselo a casa per fruir solo, per quanto io penso, di tanta fortuna. Io però non avrei riavuti i miei abiti, se non ne avessi pro- dotto un testimonio; tant'è vero ch'egli è meglio avere un buon cotale che un buono ingegno.

Mentre Euraolpioue dicea queste cose, io ad ogni tratto arricciava la fronte, ora lieto delle ingiurie fatte al mio nimico, ora afflitto della sua fortuna. Tuttavia presi il partito di tacermi come nulla sapessi del fatto, e gli dichiarai l'ordine della cena.

Appena io finia, che la cenetta comparve , la qua- r era di piatti comuni, ma sugosi e nutritivi , che Eu- molpione, dottor famelico, si divorò- Quando fu ben pasciuto ei si diede a cavar fuora i filosofi, e ad in- veir grandemente contro di loro come disprezzatori delle usanze volgari, e solo delle cose rare estimatori. Egli è effetto di spirito guasto, diss egli, non avere in pregio ciò che è facile, e l'animo, in*emovibile nel suo errore, ama la difficoltà.

Quel ch'io desidero non io pretendo D'ottener subito, prepai-ata Vittoria piacemi. Cari al palato Son gli uccei d'Africa , ed i fagiani Comprati in Colchide: perciò di plebe Puzza la candida oca e la fresca Colorii' anitra. Cercasi, e s'ama Tratto dall'ultime sponde lo Scaro, E il nobil Arata, per cui s'avvolse Ne' scogli naufrago il mercadante. La triglia or nausea: or sulla moglie La druda supera: ora la rosa Teme del ciunamo: insomma quello Or dicesi ottimo, eh' è fra noi raro.

116 CAPITOLO VENTUNESIMO

Questa è adunque diss'io, la promessa, che tu mi hai fatto di non dir versi per tutt'oggi? Perdio, abbici almen riguardo , poiché non ti abbiam lapidato. Che Be alcun di coloro qui fosse, che vengon a bere in que- sta taverna, e s'accorgesse, che qui hacci un poeta, metterebbe a rumore tutto il vicinato e noi per cagiou tua subbisserebbe. Abbi compaseioue, e sovvieuti della galleria e de' bagni.

Sentendomi purlaro in tal guisa quel buon ragazzo di Gitone rimproverommi , dicendo non istar bene in- giuriare un vecchio, e ch'io mi era dimenticato della buona creanza, dacché mal trattava a tavola chi per mia cortesia vi sedea, e aggiunse molte altre parole di moderazione e di verecondia, che convenivano egregia- mente alla sua bel Uzza.

Benedetta la madre che ti ha partorito, disse Eumol- pione. Prevaliti delle buone sue qualità. Raro è che la beltà s'imparenti colla saviezza. Onde, perchò tu non ti creda di aver gittate le tue parole, sappi che trovi in me un atiezionato. Io celebrerò in versi le tue belle doti. Io maestro ed aio ti seguirò quand'anche tu non me r ordinassi: ne perciò potrebbe sdegnarsene Encolpo, il quale ha un altro amore.

Ben ebbe Eumolpione a ringraziar quel soldato, che mi avea tolto la spada, altrimenti io avrei presa nel di lui sangue quella vendetta, ch'io voleva fare di Ascilto. Di che si accorse Gitone , il qual per questo usci di camera quasi per bisogno d'acqua, e cosi calmò la mia collera col prudente suo dipartirsi. Acchetatasi quindi a poco a poco la bile , cosi dissi ad Eumolpione : Io amo meglio che tu mi parli in versi di quel che tu in cotal modo a lui manifesti il tuo desiderio; io sono ira- condo, tu lascivo; vedi perciò che l'un costume all'al- tro contrasta. Pensa dunque che sono un furioso, cedi a questo mio difetto, e, per dirtela più chiaramente, esci tosto di qua.

DUE GHIOTTI A UN DESCO 117

Sorpreso Eumolpione da siffatta risolutezza, non cercò la cagìon del mio sdegno, ma sorti tosto tirandosi ap- presso l'uscio della camera, e mi serrò dentro, che non me l'aspettai, portando seco furtivamente la chiave, e correndo a cercar di Gitone.

Trovandomi cosi chiuso io risolsi di troncar la mia vita con un laccio , e già io aveva annodata la mia cintura ad una colonna del letto vicina al muro, e già intorno al collo me 1' era posta, quando riaperto l'uscio Eumolpione entrò con Gitone, e mi rese a vita ^ stor- nandomi del mio proposto. Gitone soprattutto preso di rab- bia pel gran dolore, alzò le grida, e spintomi con ambe le mani mi precipita sul letto, dicendo: tu t'inganni Encolpo , se credi potersi dar che tu muoia prima di me. Io ci pensai pel primo, e cercai perciò in casa di Ascilto una spada ; se non ti avessi trovato io sarei ito a buttarmi giù pei dirupi ; e perchè tu veda , che ad un che voglia morire la morte non è mai lontana, osserva tu ora a tua posta ciò, di che tu volevi me spettatore.

Cosi dicendo, strappò di mano al domestico di Eu- molpione un rasoio , e una o due volte ficcatoselo nella gola ci cadde ai piedi. Io atterrito gridai , e ca- dendo sopra di lui tentai di ammazzarmi col ferro me- desimo. Ma Gitone avea pure un segnai di ferita , io sentii dolore , perchè il rasoio era grossolano , e senza filo, ad uso de' ragazzi che imparano a rader la barba, onde vi si pungano colla franchezza necessaria al barbiere. Perciò ne spaventossi il domestico per l'arma strappatagli , si oppose Eumolpione a questa morte da teatro.

CAPITOLO VENTIDUESIMO.

ALTERCHI ED AVVENTURE D* OSTERIA.

Mentre cotal commedia rappresentavasi tra noi rivali, sopravvenne l' ostiere colla seconda portata del suo ce- nino, e osservando che tutto era sottosopra e in confu- sione, e che, diss'egli, siete voi ubbriachi?o volete voi fuggirvene? o l'uno e l'altro? chi ha sconvolto questo letticciuolo? e che vuol dire questo monipolio segreto? scommetto io, che voi volevate stanotte fuggirvene al fresco per non pagare la pigion della camera; ma voi non vi rioscirete , imperocché giova che sappiate che questa non è altrimenti la casa della vedova, ma si di Marco Manicio.

Rispose Eumolpione, fors' anche minacci? e al tempo etesso fegli cader dall'alto un marrovescio solenne; ed egli scagliogli un fiasco da terra, in cui bevevano-tanti avventori, e ruj)pe la fronte a lui che gridava, poi fug*

ALTERCHI ED AVVENTURE D' OSTERIA 119

gissi di camera. Mal soffrendo Eumolpione siffatta in- giuria, die mano ad un candelliere di legno e tenne die- tro al fuggitivo, vendicando la sua fronte con moltissimi sgrugni. Eccoti accorrere tutta la famiglia, e una quan- tità di crapuloni imbriachi. Io poi valendomi della op- portunità di vendicarmi chiusi fuora Eumolpione, e resa la pariglia a quel brutale, e rimasto senza cmoli, della camera e della notte mi approfittai.

I cuochi frattanto e gli altii valletti gli si mettono intorno , chi cercando infilzargli gli occhi collo spiedo 8U cui era l'arrosto che abbi-ustoliva, e chi presa una forchetta dalla credenza si mise in positura di battersi con lui, e soprattutto una vecchia cisposa , che avea un grembiale sucidissimo, con due scarpe di legno di- suguali, menò per la catena un cane sterminato , e lo istigò contro Eumolpione, ma egli col candelliere da ogni pericolo si liberò.

Noi vidimo tutto per un buco, che poco prima erasi fatto neir uscio per la rottura di un occhiello , ed io benediceva colui che batteva. Ma Gitone non ti-alasciaudo di essere compassionevole proponea che si riaprisse, e si desse soccorso a quel povero diavolo: io però, cui non anco era passata la stizza, non potei tenermi e gli sonai un buon buffetto sul capo, tanto che egli buttossi piangendo sul letto. Intanto or uno or l' altr' occhio io avvicinava al forame , e applaudiva iu mio cuore ai malanni d' Eumolpione, e a guisa di un buon boccone me ne pascea. In questa Bargate ispettor del quartiere partitosi da cena si fé' portare in lettiga, perchè avea la podagra, in mezzo ai litiganti; e com' ebbe un pezzo con rauca e rabbiosa voce sgridato contro gli ubria- chi ed i bianti, vedendo Eumolpione, gli disse: oh sei tu fior de' poeti ? E questa canaglia non va via subito, e non finisce i litigi? E avvicinandosi a lui dissegli sotto voce: Mia moglie mi fa inquietare; perciò se mi vuoi bene , fa de' versi contro essa , onde abbia ad ar- rossirsi.

120 CAPITOLO VENTIDUESIMO

Mentre Eumolpione j)arlava segretamente a Bargate, entrò nella locanda un trombetta con un sergente jìub- blico insieme ad altra gente non poca , il quale sco- tendo una sua torcia che mandava più fumi» che fiamma, cosi proclamò:

SI É SMARRITO POCO FA NE' BAGNI

UN RAGAZZO DI CIRCA DICIOTT' ANNI,

COI CAPEGLI RICCI,

DELICATO, AVVENENTE,

E SI CHIAMA GITONE:

SE ALCUN LO VUOLE 0 CONSEGNARE

0 INDICAR DOVE STIA,

AVRÀ' UNA MANCIA

DI MILLE NUMMI.

Poco lungi dal Banditore stava Ascilto con un abito cangiante, tenendo entro un bacinetto d'argento il re- galo promesso.

Io ordinai a Gitone di nascondersi sotto il letto, in- tralciando le mani e i piedi nelle cint^hie che sosten- gono i materazzi, onde distesovi sotto come già fece Ulisse nascosto sotto il ventre del montone, eluder po- tesse le mani de' perquisitori.

Ubbidì Gitone senza ritardo, e in un momento attac- cossi alle cinghie, vincendo l'astuzia di Ulisse nel caso medesimo. Io per non dar luogo a' sospetti misi le mie vesti sul Ietto, figurandovi il nicchio di un uomo della mia statura.

Ascilto infrattanto com'ebbe scosse tutte le camere col banditore an-ivò alla mia, e quivi la sua speranza si accrebbe, per aver trovato l'uscio assai ben chiuso, Il messo pubblico, introducendo la scure nella commes- sura, apri agevolmente.

Io mi buttai a' piedi di Ascilto, e in nome della an.

ALTERCHI ED AVVENTURE d' OSTERIA 121

tica amicizia, e delle comuni disgrazie, il pregai che mi lasciasse almeno veder Gitone, anzi per meglio co- lorire la mia finzione gli dissi: io so Ascilto , che tu sei venuto per ammazzarmi; altrimenti a qual fine por- tavi la scure? Appaga adunque il tuo sdegno, eccoti il collo, spargi quel sangue, di cui col pretesto di una perquisizione andavi in traccia.

Negò Ascilto questa imputazione, dicendo di niente altro cercare che il suo fuggiasco, ne bramar la morte di alcuno, di me supplichevole, cui anzi dopo quel litigio fatale teneva carissimo.

Il sergente non istassi però "melenso, ma spigne sotto il letto la canna presa all'oste e visita tutti i buchi delle pareti. Gitone evitò i colpi tenendosi bene io su, e non fiatando di paura , quand' anche i cimici gli mordesser la faccia.

Appena furon costoro partiti, Eumolpionc, accortosi che nessuno avrebbe potuto più chiuder l'uscio della camera, che era sgangherato, saltovvi entro bruscamente, e disse: io ho guadagnato i mille nummi, perchè io vado a raggiugnere il banditore, e trattandovi qua! meritate, fargli sapere che Gitone è in sua mano.

Io abbracciai le costui ginocchia, vedendol fisso in tale proponimento, e gli dissi : tu avresti ragione di riscaldarti, se potessi provare di essere stato deluso. Ora il ragazzo si è dileguato tra la folla, io posso pur sospettare dove sia ito. Io ti supi)lico, Eumolpione, riconducimelo, o almeno rendilo ad Ascilto.

In quella che io stava persuadendolo, e ch'ei sei credeva. Gitone gonfio pel fiato trattenuto, sternutò tre volte di seguito in guisa che il letto ne tremò. Eumolpione voltosi a quel rumore , augurò salute a Gitone. Poi rimosso lo stramazzo vide questo Ulissetto, cui il più affamato Ciclope avrebbe perdonato. Indi a me rivolgendosi, disse: come, o ladrone? Sin colto sul fatto osi tacermi la verità? di maniera che se alcun

122 CAPITOLO VENTIDUESIMO

Dio arbitro delle umane cose non avesse carpito uk segnale dui ragazzo nascosto, io deluso sarei ito cer candolo per le osterie. Gitone però più dolce di mt fasclògli i)rinia di tutto con tele di ragno inzuppate nell'olio la piaga che avea nel soj)racciglio, di poi le^ vatagli la veste il copri col suo mantelletto, ed esseO' dosi giìi raddolcito abbracciollo, o dicgli ])iù baci quasi a medicamento, e disse : noi siamo , carissimo padre noi siamo, sotto la tua salvaguardia. Se tu ami il tue Gitone comincia per volerlo salvare. Dio volesse ch( un fuoco nemico me solo incenerisse! Dio volesse, cht un cuor procelloso m' ingoiasse! perchè di questi in fortunj sono io il soggetto, son io la cagione. Che s( io perissi, tutti i rivali ne avrebber vantaggio.

Eumolpione commosso agli affanni si di Encolpo che di Gitone, e principalmente non insensibile ai vezz del fanciullo, voi siete al certo bene sciocchi, ci disse che forniti di tante qualità potete esser felici, e ave vate invece una vita affannosa, ed ogni giorno andat* crucciandovi con nuovi guai. Io per me ho sempn vissuto, come se fossi presso a finir i miei giorni , ( non tornar più indietro, cioè in santa pace: se volete imitai'mi, lasciate tutti questi fastidj Qui vi perseguiti Ascilto ; fuggitelo, e venite con me in paese straniero ove son per andare. Io anderò sopra una nave, ch( forse parte stanotte: son conosciuto e sarem bene accolti

Prudente ed utile parvemi questo consiglio, perch» mi liberava dalle molestie di Ascilto, e più felice vits prometteva. Vinto dalla umanità di Eumolpione m jjentii grandemente della ingiuria poc'anzi fattagli ( della mia gelosia cagione di tanti mali.

Dojjo molte lagrime io il pregai ed esortai che mecc si rappattumasse, dicendogli non essere in poter degl amanti il furore della gelosia, ma che avrei ben curate di nulla più dir fare che l'offendesse, e ch'egli come maestro di buone arti, doveva ogni stizza toglier dal

ALTERCHI ED AVVENTURE D' OSTERIA 123

l'animo senza lasciarvi alcun resto. Sugli inculti ed aspri terreni lungo tempo durar la neve, ma per pic- cola pioggia dileguarsi in un istante dove la terra è dall'aratro domata: cosi ne' petti umani lo sdegno, se l'animo è feroce rimane, se colto, svanisce.

Perchè tu veda, rispose Eumolpione, quanto sia vero quel che tu dici, ecco che ancor con un bacio do 6ne alla collera : ora se Dio ci assista disponete tosto la valigietta, e seguitemi, o se vi piace guidatemi.

CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

SAVIOAZIONE, E COMITIVA INASPETTATA.

Ancor parlava quando la porta fu con frastuono ri spinta, e comparve sull'uscio un marinaio con on-idt barba, il qual disse: E pur ti trattieni, Eumolpioue come se non sapessi ch'egli è quasi giorno?

Noi tosto ci alzammo, ed Eumolpione fece sortir co fagotto il suo famifrlio, che avea dormito fin allora : i( con Gitone raffazzonai tutte le cose mie iu un sacco e dopo aver adorati gli astri me ne entrai nel naviglio

Scegliemmo un luogo isolato verso il pian delli poppa, e non anche il giorno era sorto che Eumolpiom dormigliava : ma io, Gitone potemmo pur chiude] occhio. Io era in un affannoso sospetto per aver raec( Eumolpione, rivale più formidabil di Ascilto, locchè m aflliggea grandemente. Ma la ragione vincendo il do lore, io dissi tra me : egli è un fastidio che questo ra gazzo piaccia a costui, ma che perciò ? forse non de- v'esser comune ciò che di ottimo fece la Natura ? A tutti risplende il sole ; la luna da innumerevoli stelle accompagnata persin le bestie a pascolarsi dirige Cosa può dirsi piìi bella dell'acqua? pure la scorre pubblicamente. Amor dunque soltanto sarà un furtc anzi che un premio ? Or io non voglio più aver altri beni fuor di quelli che siano invidiati dalla moltitu-

NAVIGAZIONE, E COMITIVA INASPETTATA 125 dine. Ne questo rancido vecchio può darmi gran fasti- dio, perchè se anche qualche faccenda tentasse, man- cherebbegli il fiato e l'impresa.

Come in' questa fiducia mi racchetai ingannando l'a- nimo mio diffidente, copertomi il capo col mantelletto finsi di prender sonno ; quando tutto ad un tratto , quasi che la fortuna distrugger volesse il mio propo- nimento udii gemere questa voce sul ripian della pop- pa : Ei mi ha dunque deluso ? E questa, che era voce d'uomo, e assai conosciuta alle mie orecchie, scosse il mio seu palpitante. Dipoi una donna da pari sdegno alterata proruppe in quest'altre parole, dicendo: oh se alcun Dio rimettesse Gitone in mia mano, come saprei ben accoglierlo il banditello!

Colpiti da queste inaspettate voci, sentimmo ciascun di noi raggrupparcisi il sangue. Io soprattutto , come oppresso da un sogno spaventoso , tardi ricovrata la voc;', con man tremante tirai per la veste Eumolpione, che pur cadeva del sonno, e si gli dissi : o padre, puoi tu dirmi, per dio di chi è questa nave, o almen chi trasporti? Egli inquietatosi ebbe a male di esser de- stato, e rispose : ti è dunque piaciuto che occupassimo sul cassero della nave questo luogo segretissimo, per poi impedirne il riposo? Cosa gioverebbe il dirti che ci è padrone Lica di Taranto, e che porta a Taranto la viaggiatrice Trifena?

Stordito da questo fulmine un tremore mi prese, e scopertomi il gorgozzule ; 0 fortuna, sclamai, tu mi hai pur vinto del tutto. E Giton parimenti steso sul mio petto fu quasi per morire, ma lo sparso sudore richia- mandoci a vita io abbracciai le ginoccliia ad Eumol- pione, e misericordia, gli dissi, di noi agonizzanti: ponci tu la tua mano per quello amore che entrambi c'infiamma. La morte ci sovrasta, la quale, se non puoi tu trattenere, può pur esserci un premio.

Attonito Eumolpione a siffatta condoglianza giurò

126 CAPITOLO VENTESIMOTERZO

per gli Iddìi e le Dee che nulla sapeva egli dell'oc- corso, e che non avca colpa alcuna in quel contrat- tempo, ma con animo schiettissimo e di buona fede ci avea condotti per compagni su quel naviglio, dt-l quale già da qualche tempo contava egli valei'si. Ma cosa 8on queste insidie ? ei richiese : qua! altro Annibale naviga insidi. e a noi V Lica di Taranto è uomo saviis- simo, e non solo di questa nave, ch'egli comanda, è padrone, ma anche di alcuni fondi, e di una casa di negozio , di cui trasferisce il carico su per le })iazze. Questi è il Ciclope, il gran pirata, che ci ha imbar- cati : oltre a lui havvi Trifeua bellissima sopra tutte le donne, la quale va qua e viaggiando per suo diporto.

E costoro appunto, disse Gitone, son quelli che noi fuggiamo; e al tempo stesso rapidamente espose allo spaventato Eumolpione la cagione degli odj , e il so- vrastante pericolo.

Egli confuso e bisognoso di consiglio, volle che cia- scun proponesse il proprio parere, e disse : Fate conto che noi ci trovassimo capitati nell'antro del Ciclope: è forza cercar qualche scampo, a meno che non pre- ferissimo di naufragare, e così liberarci d'ogni pericolo.

Al contrario, rispose Gitone, di al piloto, che ad- drizzi la nave a qualche porto, e promettigli un regalo, e dagli ad intendere che un amico tuo mal sostenendo il mare trovasi in agonia. Tu potrai dar vigore a questa finzione si colle lagrime, come colla confusion del tuo volto, onde il piloto da pietà mosso abbia ad esaudirti.

Eumolpione osservò che ciò non potea farsi, perchè difficilmente le grosse navi entrano ne' porti, sarebbe verisimile che cosi presto fosse venuto meno un de' viaggianti. Aggiugni che forse Lica per creanza vorrà veder l'ammalato. Or vedi se convenga di essere visi- tato dal padrone, da cui si fugge. Ma poni che possa

NAVIGAZIONE, E COMITIVA INASPETTATA 127

la nave declinare dal robusto suo corso, e che Lica non sia per andar nelle camere degl'infermi; come possiam noi sortir della nave senza esser visti da tutti ? colle teste coperte o ignudo^ se coperte, chi non vorrà porger la mano ai languenti ? se nude non è egli lo stesso che tradirci da noi medesimi ?

E perchè, rispos'io non ricorriamo ad un colpo ar- dito, e calandoci per la corda non discendiamo nello schifo, e tagliata la gomena non ci commettiamo dipoi alla fortuna ? Ma io non costringo Eumolpione a en- trare in questo pericolo, imperocché a che giova mi- schiar gli innocenti nel rischio altrui? Io soncontento se il caso ci aiuti a discendere.

Non è cattivo il pensiero, soggiunse Eumolpione, se potesse riescire. Ma chi non ci vedrà partire? e il pilota massimamente, che la notte vegliando tien cura per sino de' movimenti degli astri ? E potrebbesi forse, benché non dormisse, ingannarlo, ove si tentasse di fug- gire da un'altra parte del bastimento; ma ci bisogna calar per la poppa, e dov'è il timone , perchè di pende la fune, che tira il palischermo. Oltracciò mi maraviglio, o Encolpo, che non ti sovvenga, che un marinaio sta sempre di guardia nello schifo, puossi allontanarlo fuorché ammazzandolo, o a tutta forza precipitandolo in mare. Locché se giovi fare, interro- gatene il vostro coraggio. Che per ciò che riguarda la mia compagnia, io non ricuso verun pericolo, dal quale appaia qualche speranza di salvezza; ma arrischiare senza motivo la vita come cosa da nulla, voi stessi, per quel ch'io penso, non lo vorrete. Or vedete se vi piaccia quest' altro espediente. Io vi caccerò in due bolge di cuoio , e legativi colle cigne insieme ai miei abiti vi farò passare per mio bagaglio , tenendo però una qualche apertura, donde possiate prendere e fiato e alimento; dipoi pubblicherò che i miei servi si sono la notte precipitati in mare per timore di maggior

128 CAPITOLO VENTR.SIMOTKR/.O

jicna : e quando sarein giunti al porto, senza cngionare vcrun sospetto, vi farò trasportare come mio equipaggio.

E cosi, rispos'io, legarci come marmi, cui non soglia il ventre dare verun fastidio, o come gente non usa a sternutar, a russare ? o forse per essere a me ben riuscito una volta questo genere di furberia V Ma sup- poni che potessimo resister cosi legati per tutto un giorno, che farem noi se una calma, o una conti-aria fortuna, ci ritardasse soverchiamente ? Le vesti lunga- mente annodate corrodonsi alle piegature, e le soprac- carte a lungo andare consumansi. Giovani non anco avvezzi alle fatiche, dovrem come statue sopportare legami, e soppanni? Bisogna studiare una miglior via di salvarci. Sentite ciò che io ho pensato. Eumolpione come uomo di lettere porta con se dell' inchiostro. Noi dunque con questo mezzo cambierom colore dai capegli sino alle ugne; e cosi, noi, come schiavi mori, gli sta- remo allegramente d'intorno senza l'affauno de' castighi, e col cambiato colore ne imporremo ai nemici nostri.

Perchè non dici tu, ripigliò Gitone, che ne circon- cida, onde farci passar per Giudei, o ci fori le orecchie a imitaziou degli Arabi , o imbiancarci la faccia ondi; parer uomini della Gallia? come se questo solo cangia) di colore possa pure cangiar di figura, e non bisogni combinar molte cose, e non traspaia la falsità dal lin- guaggio ? Ma fa conto che possa durar lungamente siffatto impastricciamento del volto ; fingi che gli spruzzi dell' acqua possano lasciar qualche macchia sul corpo , lo inchiostro colar buU' abito , locch^ tuttavia accade di frequente anche senza che vi si mischi veruna lega , dimmi , potrem noi forse ri- durre i nostri labbri a si enorme gonfiezza, forse arric- ciar col ferro i capegli, forse marcarci la fronte di ci- catrici, forse arrotondarci le coscie, forse strisciar cam-| minando 1 talloni, forse aggiustarci la barba alla foj già straniera f Un colore composto ad arte ben guast

NAVIGAZIONE, B COMITIVA INASPETTATA 129 il coi-po, ma non lo cangia. Ora udite che suggerisca un _ matto : annodiamci gli abiti intorno alle teste , e buttiamoci in mare.

Non piaccia agli Iddii ne agli uomini, sclama Eumolpione, che voi abbiate a finire con si vile riu- scita i giorni vostri. Fate piuttosto quel ch'io vi dico: il mio servidore, come già dal rasoio vi avvedeste, è barbiere : ch'egli vi rada tosto non solamente le teste ma eziandio le sopracciglia : io poi verrò dopo a scol- pirvi destramente una iscrizion sulla fronte, si che sem- briate essere stati bollati. In questo modo siffatte note allontaneranno ad un tempo il sospetto degl'indagatori, e l'apparenza del delitto nasconderà i volti.

Piacque il partilo, e non differimmo ad eseguirlo ; ritiratici furtivamente in un angolo della nave offrimmo al barbiere i capi e le sopracciglia per raderle. Eu- molpione ci copri le fronti con lettere altissime, e con mano generosa ci delineò su tutta la faccia la nota iscrizione de' disertori. Il caso volle che uno de' viag- giatori, il quale ritiratosi nell'angolo stesso della nave vi scaricava lo stomaco nauseato, osservò al chiaror della luna il barbiere applicato si fuo^> d' ora al suo ministero, e bestemmiando un presagio, che esser soleva l'ultimo sagrificio de' naufraganti , andossi a sdraiar di nuovo sul suo letticciuolo. Noi non dandoci intesi della superstizione di quel nauseato, tornammo a star- cene tristi, e passammo in rigoroso silenzio e quasi senza dormire il resto della notte.

Pelronio.

CAPITOLO VENTESIMOQUAKTO.

PROCESSO, GUEBRA, E TRATTATO DI PACE.

li di seguente tostocliò Eumolpione seppe clic Tri- fena crasi alzata di letto entrò in camera di Lica, dove poi che ebbe parlato della felicissima navigazione, che la serenità del cielo promettea, Lica rivolgendosi a Trifena, jìarvemi, disse, mentr'io dormia che Priapo mi dicesse : Sappi che io ho condotto nella tua nave quell'Encolpo c^ tu ricerchi.

Inorridì Trifena, e rispose : Ei parrebbe che noi avessimo dormito insieme, perchè parve a me pure, che la statua di Nettuno che è a Baia, alla quale io feci tre incisioni, mi dicesse ; Tu troverai Gitone nella nave di Lica.

Comprendi da ciò, soggiunse Eumolpione, essere stato uomo divino Epicuro, che condanna con tanta grazia siffatti fantasmi.

I sogni che di notte Ingannano le menti, opra di numi Non sono, e non gli invian gli Dei dal cielo. Falli ognun da per se. Quando il riposo Regna su i membri nel sopor prostrati

PROCESSO, GUERRA, E TRATTATO DI PACE 131

Libera d'ogni peso

Vaga ranima intorno,

E riproduce quanto avvenne il giorno.

Colui che nella guerra Fa crollare la terra, e fiamme e foco Usa crudel nelle città meschine Sogna le frecce, e vede Rovesciate falangi, E le esequie de' regi, ed inondati Di sangue sparso i campi. Sognano gli Avvocati Il Pretorio e le leggi, e palpitanti Al chiuso tribunal credonsi avanti.

Altre ricchezze in suo pensier si crea L'avaro, e dalla fossa Scava novi tesori. Il cacciatore Spigne i suoi cani, ed il noccbier vicino A l'estremo destino 0 più sommerge il riversato abete, 0 lo salva dai flutti. <

Scrive al drudo la druda, L'adultera regala, e mentre sogna Il can latrando dietro il lepre agogna. De' miseri mortali La notte insomma prolungar fa i mali.

Del resto Lica quand'ebbe espiato il sogno di Tri- fena disse : Chi vieta di visitar la nave, onde non paia che noi trascuriamo le ispirazioni celesti ?

Allora colui, che scoprì nella notte il segreto di noi disgraziati, il qual chiamavasi Eso, sclamò pronta- mente : Chi son dunque coloro, che stanotte radevansi al chiaror della luna 1 E fu per mia fede un pessimo esempio, perchè odo non esser lecito a chicchessia di

132 CAPITOLO VENTESIMOQUARTO

tagliarsi nella nave le ugne o i capegli, fuorché nel caso che il vento s'infurii col mare.

Lica da queste parole turbato montò in collera, e disse : alcun dunque si rase nella nave i capegli , e ciò in una notte si placida? Traetemi tosto dinanzi codesti rei, onde io sappia con quali teste debbasi purgare il vascello.

Diedi io quest'ordine, rispose Eumolpione, non cer- tamente per fare una fattucchieria alla nave, dov'io pure mi trovo : come coloro avean capegli orribilmente lunghi, acciò non sembrasse che della nave io facessi una galea, ordinai che si levasse tale squallore da quei birbanti, anche ad oggetto che i caratteri, non dal concorso delle chiome coperti, si affacciassero interi all'occhio de' leggenti. Tra le altre cose essi consuma- rono il mio danaro con una druda loro comune, dalla quale nella notte passata li cacciai, tutti pieni di vino e di unguenti: insomma, costoro amoreggiano ancora il resto del mio patrimonio.

Dopo ciò per placare il nume tutelar della nave si ordinò che ci fossero date quaranta sferzate: vi fu tempo tra mezzo : i marinai furibondi ci assalirono colle corde, tentando di appagare il nume con sangue abborrito. Ed io pure tre sferzate mi digerii con una gravità spartana : ma Gitone al primo colpo gridò si forte, che la sua notissima toce feri gli orecchi a Tri- fena. Non ella sola però conturbossi, ma eziandio tutte le ancelle mosse dalla conosciuta voce accorsero verso il paziente.

Di già colla sua mirabil bellezza Gitone disarmava i marinai, e ancor non parlando erasi posto a pregare que' manigoldi, quando le ancelle sclamarono ad un tempo : egli è Gitone, Gitone, trattenete quelle barbare mani, egli è Gitone : padrona, soccorrilo.

Trifena tese le orecchie, già disposte a credere, e corse verso il fanciullo.

PROCESSO, GUERRA, E TRATTATO DI PACE 133

Lica, il qual mi conobbe benissimo, accorse egli pure come se avesse udita la voce mia : e non guardommi alle mani, al viso, ma tosto chinati gli occhi a' miei lombi, distese galantemente la mano , e mi disse : buon giorno, Encolpo.

Ora chi più si maraviglierà che una balia dopo ven- t'anni riconoscesse una cicatrice, di cui sapea la ca- gione, poiché quest'uomo sagacissimo, malgrado la confusione di tutti i delineamenti del corpo e della fi- sonomia arrivò si abilmente a conoscere un fuggitivo con questo solo argomento ? Trifena piangea, ingan- nata dall'apparenza del castigo, perché veraci credea le incisioni impresse sulla faccia degli arrestati e diessi a interrogar sottovoce in qual prigione ci tenesse chiusi cammin facendo, e quali si barbare mani infligger po- tessero si gran supplicio ? Ben però meritarsi alcuna pena cotai disertori che i di lei beneficj avean di- sprezzato.

Lica saltò su pien di collera dicendo : sciocca fem- minella tu sei! come se queste lettere fossero ben ad- dentro stampate in quei tagli ! Cosi avesser costoro questa infamia scolpita sulla fronte ! noi ne avremmo un piacer sommo. Ma noi slam delusi con artificj da scena, e ingannati da mentita bollatura.

Trifena, la qual non erasi affatto dimenticata degli avutisi godimenti volea, che si perdonasse, ma Lica ancor sovvenendosi della moglie sedotta e delle ingiurie ricevute sotto i portici di Ercole, con volto burbero impetuosamente gridò : io credo, o Trifena che tu debba esserti avveduta che gl'Iddii immortali si danno pen- siero delle cose di quaggiù, dappoiché hanno indotto nella nostra nave questi spensierati monelli, e della loro sceleraggine ci avvertirono con sogni conformi. Vedi ora se giovi che a costoro si perdoni, i quali Giove stesso ha trascinati al castigo. Rispetto a me io non sono un crudele, ma temerei che sopra di me ricadesse la pena ad essi risparmiata.

134 CAPITOLO VENTESIMOQUARTO

A questo superstizioso discorso Trifena cambiando favella negò di aver voluto risparmiare il castigo, anzi concorrere ella pure ad una ben dovuta vendetta, ed essa non trovarsi men di Lica adirata, per essere stato in pubblico vilipeso l'onore della sua verecondia.

Quando Lica vide Trifena uniforme , ed inclinata a vendicarsi volle che ulterior pena ci fosse ingiunta, il che sentendo Eumolpione tentò con queste parole di miti- garlo.

Questi sciagurati, diss'egli, la cui morte dipende dalla tua vendetta, implorano, o Lica, la tua misericordia e me a quest'ufficio hanno scelto, come persona qui nota; pregandomi di conciliarli coi loro antichi amici. Voi tenete per certo che questi ragazzi sieno caduti a caso ne' presenti lacci : laddove ogni navigatore di nulla primamente s'informa che di colui, alla cui dili- genza si affida. Raddolcite adunque gli animi già da tal penitenza soddisfatti, e permettete ad uomini liberi di andarsene senza oltraggio ove si vogliono. Anche i più crudeli ed implacabili padroni frenano la lor se- vizie, quando il pentimento riconduce i disertati; e noi perdoniam pure ai nimici , che spontaneamente si danno. Che pretendete di più ? che più bramate ? sup- plichevoli al nostro cospetto si giacciono, giovani, no- bili, galantuomini, e quel che ò più a voi per familiar nodo in altro tempo congiunti. Se essi vi avesser per dio carpito il danaro, se tradita la fede, di questa pena che pur avete sott'occhi dovreste esser paghi. Osservate sulla lor fronte le marche della schiavitù, osservate quei liberi volti per la volontaria applicazione delle leggi penali infamati e proscritti.

Interruppe Lica la difesa dell'avvocato, dicendogli:, non imbrogliar la causa, ma tutto esponi con ordine.

E prima di tutto, se costoro son venuti di lor vo- lontà, a che tagliarsi i capegli ? E chi si trasforma la faccia è più disposto ad ingannar che a dar soddisfa- zione.

PROCESSO, GUERRA, E TRATTATO DI PACE 135

Dipoi se voleano ottener grazia per via di un inter- cessore, perchè hai tu fatto tante cose per nasconder coloro che tu assistevi ? Dal che si deduce che a caso que' tristi son caduti ne' lacci, e che tu hai usato astuzie onde eluder la forza del nostro risentimento.

Perchè, rispetto al rimprovero che ci fai, gridando che liberi sono e galantuomini , pon mente che con questo argomento tu non renda peggior la tua causa. Che devon fare gli offesi, quando i rei si presentano al castigo ? Ma essi ci furono amici ; tanto maggiore perciò ne dev'esser la pena; perchè chi offende gli ignoti si chiama ladrone, e chi gli amici , chiamasi poco meno che parricida.

Eumolpione distrusse questa non equa declamazione, dicendo; Io capisco che ciò che più nuoce a questi sgraziati fanciulli si è l'aversi tagliati i capegli di notte, e sembra da ciò che non siano venuti da se nella nave, ma capitativi. Io vorrei spiegarvi la cosa tanto schiettamente , quanto semplicemente fu fatta. Essi voleano pria d'imbarcarsi alleggerirsi la testa d'un peso molesto e superfluo ; ma il vento assai propizio sospese la proposta acconciatura, poterono imma- ginarsi che fosse il pregio dell'opera studiar il luogo dove eseguire ciò che voleano, nulla sapendo essi di augurj, di leggi marinaresche.

A che serviva soggiunse Lica, che venendo per pre- gar si radessero ? forse perchè le teste pelate muovon più compassione ? Ma che giova cercar di saperne il vero dall'avvocato ? Che ne di tu , o ladrone ? Con qual salamandra ti sei bruciate le sopracciglia ? A qual Dio hai appeso in voto la capigliatura ? Rispondi, 0 tossico.

Io spaventato dal timor della pena stavami tutto stordito, sapeva che dirmi in cosa si manifesta ; oltracciò io era mesto, e diiforme, non solo per vergo- gna della testa pelata, ma anche della nudità delle so-

136 CAPITOLO VENTESIMOQUARTO

pracciglia pari a quella del capo, sicché io nulla osava far dire. Quando poi con umida spugna ci fu lavata la faccia lagrimosa, e che l'inchiostro si distese su tutto il viso, e tutti i lineamenti quasi da un nembo di caligine rimaser confusi, 1' ira diventò furore. Eu- molpione si dichiarò che non avrebbe sofferto che al- cun ci offendesse centra i diritti e le leggi, « si oppose alle minacce di que'manigoldi non solo con la voce, ma ancor colle mani. Il suo garzone si uni a lui, poi un marinaio, ed un altro, deboli però, e più buoni a far maggiore la quistione, che ad aiutar colle forze.

Io non pregai altrimenti in favor mio, ma alzando le unghie agli occhi di Trifeua, gridai fuor dei denti e ad alta voce, che mi sarei servito delle mie forze se quella rea donna, che sola in tutta la nave era da castigarsi, non si fosse distaccata da Gitone , e ch'io l'avrei insultata.

Lica per questa mia insolenza più iratamente s'invi- perì, sdegnato che io tanto gridassi per un altro , ab- bandonando la mia causa.

fu meno istizzita delle ingiurie Trifena ; sicché tutta la turba del vascello si divise in fazioni.

Di quìi il barbier mercenario distribuì a noi i ferri del suo mestiere, armandosene egli stesso: di la fa- miglia di Trifena si dispone colle mani vote. E lo schiamazzo delle ancelle dissipò gli accampati, l'av- visar del piloto, il quale nicnt'altro dicea che di vo- lersi tome dal governo del naviglio, se non cessava un tumulto cagionato dalla libidine di alcuni malvagi.

Ciò non pertanto il furore de'combattenti continuò, quelli per vendicarsi , noi per salvar la pelle. Molti quindi cadeau semivivi da una parte e dall'altra, molti sozzi del sangue delle ferite ritiravansi come da una battaglia; ancora indebolivasi in veruna parte lo sdegno.

Allora il valoroso Gitone accostando il fatai rasoio

PROCESSO, GUERRA, E TRATTATO DI PACE 137

alla sua virilità minacciò di voler troncare la causa di tanti guai, ma impedi Trifena un delitto si grande, promettendogli perdono. Più volte io pure mi posi alla gola un coltello da barbiere, con tanto pensier di uc- cidermi, quanto ne avea Gitone di far quello ch'ei mi- nacciava. Ma egli rappresentava più francamente la parte sua, perchè vedeva di aver quel rasoio, col quale già erasi tagliata la gola.

Erano i due partiti in faccia un dell'altro, parca che il combattimento avesse a rallentarsi, tanto che il piloto stimolò bruscamente Trifena , acciò a guisa di parlamentario provocasse una tregua. Data dunque e ricevuta la vicendevol promessa, giusta l'antica usanza, ella distese un ramoscello di ulivo preso dalla imma- gine della divinità protettrice del legno, ed entrata ar- ditamente a parlare, cosi disse:

Qual di guerra furor pace a noi toglie ? Or che fecimo noi ? non qui trasporta Il nemico troian la dolce moglie, De l'ingannato Atride , Medea furibonda Col sangue del fratel tra noi combatte ; Ma un disprezzato amore Qui spiega il suo furore. Deh chi l'arme incalzando infra quest'ire Chi affretta la mia sorte ? V'ha cui non basti la mìa sola morte ? Ah non vogliate vincere

Il mare in crudeltà !

Ah non scavate il vortice

Che poi c'inghiottirà.

Come la donna si fu con questo appassionato gri- iore manifestata , la zuffa rimase alquanto sospesa,

138 CAPITOLO VEKTESIMOQUARTO

indi dateci pacificamonte le mani, tutta la guerra ebbe fine. Di questo istante di pentimento valendosi Eumol- pione nostro capitano , die prima di tutto una solenne lavata di testa a Lica, poi firmò il trattato di pace, di cui questo era il tenore.

Che tu, o Trifena, per tua propria risoluzione non ti debba lagnare dell'insulto avuto da Gitone, che tu abbi a rimproverarlo o a vendicarti, o in qual siasi altro modo a perseguitarlo, per quanto può essere sin qui avvenuto : e che nulla tu debba comandargli con- tro sua voglia, abbracciamenti, baci, copula venerea, fuorchò pagando per ciascuna di queste cose cento denari moneta corrente.

Cosi pure che tu, Lica, di tua propria risoluzione, non abbi ad ingiuriare Encolpo con parole minacciose, o con bruscheria, a cercarlo dove dorma la notte : e in caso che lo cerchi, pagherai per ciascuna ingiuria dugento danari moneta corrente.

Stabiliti i patti in questi termini, deponemmo le armi, e perchè anche doj)0 il giuramento non rimanesse nel- l'animo alcun resto di collera, ci baciammo , per di- struggere la memoria del passato.

Sparvero gli odj per comune disposizione, e vivande recate nel luogo della zuffa ci unirono in allegro con- vito. Tutta quindi risuoua la nave di canti, e siccome una calma improvvisa ritardava il cammino, chi i pesci guizzanti cacciava col forchetto, chi oogli ami lusin- ghieri seduceva la preda mal volenterosa. Venivan pure a posar su per gli alberi degli augelli marini, che l'accostumato nocchiero sapea ingannare con sue cannimede coperte, sicché allacciandosi sopi-a il vischio, prendeansi con le mani ; l' aria portavasi a volo le piume, e la leggiera schiuma ne attortigliava pei flutti le penne.

CAPITOLO VENTESIMOQUINTO.

ALLEGRIA. NOVELLA DELLA MATRONA d' EFESO.

Intanto Lica incominciava a ravvicinarmisi , e già 'ifena gittava addosso a Gitone le ultime goccie del 0 bicchiero, allorché Eumolpione, che era assai prov- jto di vino, volle recitare alcuni suoi motti contro i Ivi ed i bollati ; tantoché fatte mille insipide sman- rie venne a'suoi versi, e si mise a raccontarci que- i elegietta sui capegli.

Cadder le chiome, ed ahi !

Primo onor di beltà sono le chiome ;

Il tristo inverno le rapi ; dogliose

Stanno le tempia or che di fregio prive

Mostran lucida chierca,

De l'onorato pel spogliata e rasa.

0 natura ingannevol degl'Iddi!,

Che de'nostrì begli anni il piacer primo

Prima pur sciogli ! ahi lassa t

Tu poc'anzi splendevi

Pei tuo bel crin, cui non eguaglia Apollo,

di Apollo la suora ,

Or con la testa più del bronzo liscia

E più del fungo ovai, che in mezzo agli orti

140 CAPITOLO VENTESIMOQUINTO

Sorge figlio dell'acqua

Fuggi gli scherni, e le fanciulle schivi.

Or perchè ti convinca

Che a te morte sollecita s'appressa,

Vedi che in parte già il tuo capo è morto.

Più altre cose volea recitare , e peg{?iori credo io delle prime, quando una damigella di Trifena condotto Gitone sul fondo della nave adomògli la testa con una parrucca della padrona. Cavò pur da una scatola de'sopraccigli , e destramente coprendo le tracce del rasoio, gli restituì la sua intera bellezza.

Allor conobbe Trifena il vero Gitone, e lagrimando e commossa allor primamente die un bacio di cuore al fanciullo.

Io benché lieto che il volto del ragazzo fosse tor- nato alla sua prima avvenenza, pure spesso copriami la faccia, ben comprendendo di essere mostruosameqte deforme, poiché Lica persino mi tenea degno di parlar seco. Ma a questo affanno la stessa damigella provvide, la qual cliiamatomi a parte mi ornò di ca- pigliatura non meno bella, anzi parvi più vezzoso per- chè la mia parrucca era bionda.

Intanto Eumolpione stato protettor ne'pericoli, e di questa riconciliazione autore, acciò non cessasse l' al- legria per mancanza di barzellette, si mise a declamar mille cose contro la leggerezza dello donne, come fa- cilmente s'innamorino, come anche presto si dimenti- chino degli amanti ; e non esservi si casta femmina, la quale non si riscaldi sino al furore per ingordigia di altr'uomo. Aggiunse che se volevano ascoltarlo ei ci racconterebbe non fatti di antiche tragedie, o nomi in ogni secolo celebrati, ma avventura occorsa a 'tempi suoi. Ciascuno adunque gli occhi e le orecchie a lui rivolgendo, cosi egli parlò.

Fu già in Efeso una matrona di si celebre castità,

ALLEGRIA. NOVELLA DELLA MATRONA D' EFESO 141

che le donne de'paesi vicini correvano a vederla per maraviglia. Avendo essa perduto il marito, non solo, giusta l'usanza comune, ne seguitò il funerale co'cape- gli rabbuffati, e battendosi ad ogni tratto in presenza di tutti il nudo seno, ma volle seguirne il cadavere sino al cimitero, e custodirlo anche dopo che era, se- condo si pratica in Grecia, riposto nel monumento, ed ivi abbandonarsi alle lagrime i giorni interi e le notti ; i parenti poterono, ne gli amici, lei così desolata, e di morire desiderosa, di distaccare: i magistrati stessi ne partirono senza frutto ; di modo che l'esem- plar donna da tutti compianta già il quinto giorno toccava senza aver preso cibo nessuno.

Una fedelissima cameriera teneva compagnia all'af- flitta, le proprie alle di lui lagrime mescolando, e riac- cendeva la lucerna posta nel monumento ogni volta che si spegnea. D'altro non parlavasi in tutto il paese, e gli uomini d'ogni qualità convenivano essere questo un luminosissimo ed unico esempio di l'pudicizia e di amore.

In questo mezzo il comandante della provincia fé' crocifiggere alcuni ladri in vicinanza al sepolcro me- desimo, dove la matrona piagnea sul cadavere. La notte vegnente il soldato che facea guardia alle croci, onde nessuno ne staccasse i morti per seppellirli, avendo abbadato si alla lucerna risplendente tra quelle tombe, come ai gemiti della piangente gli venne curiosità, co- me suol accadere, di sapere chi, e cosa fosse. Discese perciò nel cimitero, e vista quella bellissima faccia, so- prastette al primo colpo quasi spaventato da non so qual fantasima o larva infernale; dipoi osservato il giacente cadavere, e scorte le lagrime , e il viso lace- rato dall'ugne, s' accorse bentosto di quel che era , e non potere la donna il dolore dell'estinto superare ; al- lora ci portò nel sepolcro la sua Genetta, e cominciò ad esortar la piagnente a non ostinarsi in una inutile

142 CAPITOLO VENTE81M0QUINTO

afflizione, e guastarsi i polmoni con gemiti che a nulla giovavano : tale essere il comune destino, e il domicilio comune; e dirle insomma tutto ciò che vale a restituire la calma negli animi esacerbati. Ma ella offesa daque- sto inaspettato conforto tornò a grafìiarsi il petto con maggioro trasporto ed a spargere le strappatesi chiome sul disteso cadavere.

Non ristette perciò il soldato; ma con egual pro- mura tentò di somministrare alcun cibo alla poverina, fino a che la damigella, allettata senz' altro dall' odor grato del vino, fu la prima che persuasa tese la mano al pietoso sollecitatore, e di poi, rifocillata della be- vanda e del vitto, cominciò a combattere l'ostinazione della sua padrona, e così lo disse : che ti avrà giovato questo luttu , se poi resterai morta di fame? se qui viva rimarrai sepolta ? se l'anima renderai non ancora chiamata, e pria che il destino l'esiga.

, . . Una gran cura certo Han di ciò l'ombre, e il cenar de' sepolti !

Vuoi tu contra il volere del fato risuscitare un estin- to ? vuoi, finché ti lice, abbandonando la femminile ignoranza, godere del piacer della vita? a ciò deve pure esortarti questo stesso cadavere.

Come non havvi alcuno che di mala voglia ubbi- disca, quando si tratti di prender cibo , e di vivere ; cosi la donna indebolita per lunga astinenza , pie- gossi a vincere la sua caparbietà, e il ventre si ristorò non meno avidamente della sua damigella , che prima ne die l'esempio. Ora voi ben sapete quali stimoli so- gliono sopravvenire quand'uno è ben pasciuto. Con que- sta gentilezza medesima che il soldato avea messo in opera, onde madonna vivesse, con quella si fece ad assaltare la di lei pudicizia. Ne già parve alla buona donna che il giovine fosse brutto zotico; tanto

ALLEGGIA. NOVELLA DELLA MATRONA d' EFESO 143

più che la damigella il mettea in grazia , e andavale dicendo

Ma poi eh' ami , ad amor sarai rubella , E ritrosa a te stessa? Ah non sovvienti Qual cinga il tuo reame assedio intorno?

Ma a che tenervi più a bada ? La donna dal vincitor soldato persuasa non seppe nemmanco per l'altra parte restar digiuna ; laonde giacquero insieme non quella notte soltanto, in che fecer le nozze, ma quella ap- presso, e la terza ancora, e intendi colle porte del ci- mitero si ben chiuse, che chiunque o straniero o dime- stico vi fosse venuto avrebbe stimato che la castissima donna avesse l'anima sul corpo del marito esalata. Di modo che il soldato invaghitosi e della beltà della donna, e di quella solitudine, comperava quant' ci po- teva secondo le sue forze, e ne faceva scorta nel ci- mitero sul principiar della notte.

Infrattanto i congiunti di uno de' crocifissi , accortbi della negligenza della guardia, distaccarono di notte tempo l'appeso, e gli resero gli estremi ufficj. Quando il soldato, altrove occupato, osservò il di vegnente una delle croci senza il cadavere, spaventatosi del castigo andò a nan*ar la cosa alla donna, e ch'ei non era per aspettar sentenza di giudice, ma del suo fallo volersi col proprio ferro punire, e ch'ella disponesse a lui pure uno spazio, si che il fatai sepolcro all'amico suo ed al marito avesse accomodato.

Madonna tanto pietosa quant' era casta : Deh, disse, ciò non permettan gì' Iddìi , eh' io debba a un tempo stesso essere spettatrice della morte di due uomini a me carissimi : io vo' che si appicchi l' estinto, pria che il vivo si scanni. Fatto questo proposito, ordinò che il corpo di suo marito fosse levato dall'arca, ed attaccato alla vota croce. Il soldato approfittossi del ripiego della

144 CAPITOLO VENTE8IM0QUINT0

prudentissima femmina , e il di seguente il popolo ri* mase attonito corno fosse il morto sulla croco tornato. Ascoltavan ridendo i marinai questa novella, o Tri- fena arrossitasi in volto nascondevalo gentilmente in seno a Gitone. Ma Lica non rise, anzi crollando irata- mente la testa disse : se il comandante volea usar giu- stizia, doveva rimettere nel sepolcro il corpo del ma- rito, e far impiccare la donna. Costui ricordossi al certo i tradimenti della amica, o la derubata sua nave , da cui pe' miei lascivi diporti dovetti fuggire. Ma non era permesso il parlarne si per lo disposto dal trattato di pace, come per 1' allegria di cui tutti eran colmi , la quale non dava adito a nuovi sdegni.

CAPITOLO VENTESIMOSESTO

VIOLAZIONE de' TBATTATI. NAUFRAGIO.

Trifena stavasi intanto in grembo a Gitone, or mille baci sul petto imprimendogli, ora accomodandogli sulla calva fronte i capegli.

Io malinconico e indispettito di questa rinnovata amicizia, ne di cibi di bevande curavami , Dja al- l'uno ed all' altra volgea di traverso occhiate torve e feroci. Tutti que' baci, tutti que'vezzi, e ogni altra mol- lezza che l'oscena femmina a lui facea, erano tante fe- rite al mio cuore ; ne ancora conosceva io stesso , se più del fanciullo sentissi dispetto, perchè mi rubava l'a- mica, o più dell' amica , che il fanciullo mi seducea. L'una e l'altra cosa era orribile agli occhi miei , e più affliggente della schiavitù passata. Aggiugni che Trifena parlavami come confideijte e già suo ben ac- cetto adoratore, Gitone giudicavami degno di finire il suo bicchiero, né, ciò che è peggio, il discorso mi ri- volgeva forse temendo , per quel eh' io credo , di non riaprire la piaga ancor fresca di Trifena, sul bel prin- cipio che riacquistava la di lei grazia. Lagrime figlie del mio dolore innondavanrai il seno, e gemiti dal sin- ghiozzo interrotti, quasi mi uccidevano.

Petronio. . 10

146 CAPITOLO VENTESIMOSESTO

Trovandomi cosi afflitto, ma reso pivi vago- dalla bionda mia zazzera , Lica acceso esso pure di nuovo amore, drizza vami obliqui sguardi, e tentava di rimet- termi a parte de' suoi piaceri : sosteneva altrimenti la serietìi di un padrone , ma pregava con 1' aifabilità di un amico , e stette un pezzo , ma sempre invano , istigandomi : infine , costantemente rispinto cangiò l'a- more in furore ; e usò ogni modo per ottener colla forza il suo capriccio ; ma in quel punto entrata inaspetta- tamente Trifena vide il disordine di lui, ond' egli tur- batosene si raffazzonò presto presto, e scappò fuora.

Dall'altra parte l'rifena vieppiù riscaldatasi chiese a che tendea quella sfacciata aggressione di Lica, e mi obbligò d'informamela; ella fatta pel mio discorso più ardente, e le antiche dimestichezze ricordando ^ procu- rò di ricondurmi alle primitive delizie ; ma stanco io di tanti incitamenti, mi schermii da' »uoi vezzi. Per il che fatta ella furibonda d'amore mi cinse con larghis- simo abbraccio e mi serrò si stretto che io gettai un gridot Accorse al rumore una delle damigelle, e nata> talmente pensò, che io tentassi rapire a Madonna la grazia che io a lei rifiutava , sicché scagliandosi tra mezzo ci distaccò. Trifena per tal modo schernita, e non appagata nel suo .libidinoso furore mi si rivolse con fierezza, e minacciandomi, corse a Lica a fine di vieppiù stimolarlo contro di me , e di opprimermi con reciproca vendetta.

Bisogna però sapere che io fui altre volte carissimo a questa damigella, quand'io era il drudo di Madonna, onde mal sostenne l'avermi sorpreso in quel modo con Trifena, e mandava grandissimi sospiri, de' quali chie- stale io istantemente la causa , ella dopo alquanto di ripugnanza cosi proruppe : se alcuna gentilezza pur ti rimane non far più conto di colei quanto di una ba- gascia ; e se ti senti d'esser uomo , bada, non appres- sarti a quella chiavica.

VIOLAZIONE de' trattati. NAUFRAGIO 147

Queste cose mi affliggevano , e ciò che più m' in- quietava si era che Eumelpione venisse a sapere il fatto : perchè codesto intemperatissimo verseggiatore potea volermi vendicare contro la creduta rea , e tale indiscreta premura mi avrebbe senza dubbio messo in ridicolo, ciò che mi teneva in maggiore agitazione.

Ma intanto che io studiava tra me come fare che Eumolpione nulla sapesse, ecco che egli entra improv- visamente, informato di tutto, perchè Trifena ogni cosa avea riferito a Gitone, a di lui carico tentò avere un compenso del mio rifiuto : laonde Eumolpione era in grandissima stizza, tanto più che siffatte insolenze vio- lavano dirittamente la contratta alleanza.

Quando il vecchio mi ebbe veduto dolermi del mio destino, volle, ch'io gli narrassi come la faccenda era ita. Io adunque a lui, che già ben lo sapea, dissi in- genuamente tanto l'arroganza sfacciata di Lica, quanto i trasporti lascivi di Trifena: locchè udendo Eumol- pione giurò con termini chiarissimi eh' egli ci avrebbe assolutamente vendicati , e che gli Iddìi erano assai giusti per non lasciare impunite tante scelleraggini.

Intanto che in queste parole e discorsi si occupavano il mare erasi fatto brutto, e le nuvole sparse dintorno aveano oscurato il giorno. Spaventati i marinai accor- sero all'opera loro, procurando a forza di vele sottrarsi alla procella, ma il vento spignea i llutti diretta- mente, né il piloto sapea ove drizzare il cammino: tal- volta il soffio cacciavaci verso Sicilia , e più spesso aquilone, che domina i lidi d'Italia , volgea da questo e da quel lato la- combattuta nave, e ciò che divenne più pericoloso di ogni bufera, improvvise e dense tene- bre nascosero in modo la luce, che il piloto non arri- vava a veder tutta la prora. Laonde, vista apertamente ogni speranza perduta, Lica il prepotente Lica, tre- mando alzò supplichevole le mani a me, dicendomi: 0 Encolpo : Aiutaci tu pure in questo periglio, col resti-

14H CAPITOLO VENTESIISIO.SKSTO

tuìro al vascello quella sacra veste, e quel Bistro. Ab- bici, per dio, compassione, siccome b tuo costume. Ei parlava tuttavia quando un colpo di vento lo scagliò in mare, ove tornatosi a galla, la tempesta cou un fatai gorgo lo involse, e lo inghiotti.

Quanto a Trifena alcuni schiavi fedelissicni la pre- sero rapidamente, e postala nel palischermo colla mag- gior parte do' suoi arnesi, la liberarono da una morte . sicura.

Io abbracciatomi a Gitone gridava piangendo : que- sto almeno meritavam dagli Iddii , che in una egual morte ci avviticchiassero : ma la crudcl fortuna non vuole : le onde ornai rovesceranno la nave : il mare sdegnato omai dividerà i nostri teneri amplessi. Ah ! se tu amasti Encolpo.di vero cuore, baciami finché vi è tempo, e ruba quest'ultimo piacere al destino che ci sovrasta.

A queste parole Gitone si levò la sua veste, o della mia coprendosi accostoìnmi la faccia ai labbri, e per- chè i flutti invidiosi non ci dividessero, ci legò dintorno ambedue con una cintura, dicendo : il mar, se non al- tro, assai più lungo tempo ci porterà congiunti : che se di noi pietoso ci spigncsse ad un lido medesimo, o alcun passaggiero per naturale misericordia ci darà se- polcro, 0 alla fin fine ce lo darà l' inerte sabbia porta- tavi da nuova ira di mare. Io questo estremo nodo soffersi, e come giacente sul letto dell' agonia aspetta- vami la morte, che più oramai non mi affliggea.

La procella intanto compi il volere del fato, e gli ultimi avanzi della nave distrusse. Più non rimanea albero , governo , cordaggi , remi , e come rozza ed informe materia andavasene a seconda de' flutti.

Sui piccoli legni accorsero speditamente alcuni pe- scatori pensando di far bottino , ma come videro per- sone disposte a difendere le cose sue, cosi mutarono il loro crudel consiglio e vennero ad aiutarci.

VIOLAZIONE de' TRATTATI. NAUFRAGIO 149

Allora standocene tutti insieme, udimmo un gridare insolito, che sortia di sotto dalla camera del piloto, ed un gemito simile a quel di una bestia , che cerchi liberarsi. Tenendo noi dunque dietro a quel chiasso trovammo Eumolpione seduto, che schiccherava versi sopra un grandissimo foglio. Maravigliandoci noi che costui sull'orlo della morte si occupasse a scriver poe- mi, lo trassimo di colà in mezzo ai suoi gridi, e gli di- cemmo che facesse cervello. Egli però cosi frastornato andò in collera, e gridò : lasciatemi far la chiusa: la diflScoltà della poesia sta nella fine. Ma io messe le mani addosso a codesto pazzo, accennai a Gitone che accorresse , onde strascinare a terra quello schia- mazzante.

CAPITOLO VENTESIMOSETTIMO.

VIAGGIO ALLA VOLTA DI CKOTONK. PROGETTI PER FAR DANARO.

Finì, quando Dio volle, tanto travaf^Iio, ed entrammo abbattuti in una casupola da pescatore , dove ci risto- rammo colle vettovaglie affatto guaste dalla tempesta, e passammo una pessima notte.

Il giorno dopo, mentre tenevam consiglio a qual parte indirizzarsi, vidi ad un tratto il cadavere di un uomo sulle acque, che da un leggier gorgo fu traspor- tato a riva. Ciò mi stare sopra pensiero, e trista- mente mi posi a considerare con attenzione la perfidia del mare.

E gridai : forse in alcuna parte del mondo la mo- glie aspetta con fiducia costui, o forse un£glio, che di questa procella non ha notizia , o fors' anche ha egli abbandonato suo padre, cui partendo baciò. Or ecco i progetti de' mortali , ecco 1' esito degli ambiziosi dise-^ gni ; ecco come navighi l'uomo. Ij

Ancora per un incognito si compiangea colui, quando gittato a terra dall'onda, senza esser guasto, conobbi essere quel terribil poc' anzi e implacabile Lica, ora quasi calcato da' miei piedi.

VIAGGIO ALLA VOLTA DI CROTONE., ECC. 151

Non potei trattener più a lungo le lagrime, anzi una e più volte battutomi il petto sclamai : dov' è ora la tua collera ? ove la tua forza ? eccoti fatto giuoco di pesci e di fiere, e tu, che le forze del tuo dominio poco fa decantavi , adesso una tavola pur non ti resta nel tuo naufragio di cosi ampio vascello. Ora andate, o mortali, ed empietevi l'animo di superbi pensieri : usate vostre precauzioni , e preparatevi a contar per mille anni sulle ricchezze malamente acquistate. Ieri ei fece i conti di tutte le sue entrate : ieri avea disposto anche il giorno del suo ritomo in patria. Oh numi del cielo, quanto è costui lontano da' suoi disegni ! Ma non è il mar solamente, che questa perfidia usi ai mortali. Chi combattendo cade vittima dell'armi, chi mentre sta pre- gando gli Iddìi resta sepolto sotto la rovina de 'suoi tetti, chi rovescia dal cocchio e s'ammazza. Il cibo morte all'ingordo, il digiuno allo astinente. Se tu ben guardi, dappertutto vi è pericolo. Ma l'annegato non ha sepol- tura, alcun dirà : come se ad un corpo , che è giunto a morire, possa importare se il fuoco o l'onda, o una lenta consunzione il consumi. Fa pur quanto sai, che ad ogni modo bisogna a questo passo venire. Ma le fiere mi dilanieranno ; forse il fuoco ti tratta meglio? questa anzi reputiamo gravissima pena, colla quale ci sfoghiamo contra gli schiavi. Che pazzia è dunque co- desta di far di tutto perchè nulla del nostro rimangasi senza sepoltura , quando ha pure cosi stabilito il de- stino anche per chi non ci pensa ?

Dopo tali riflessioni resimo gli estremi ufficj al ca- davere: e Lica venne cosi incenerito sopra un rogo di- spostogli da gente a lui nemica: ed Eumolpione, met- tendosi a fargli l'epitaffio, stendea lontani i suoi sguardi, onde risvegliar l'estro.

Adempiuto di buon grado questo dovere, ci avviam- mo per il proposto sentiero, e in poco tempo giugnem- mo sudati alla cima di un monte, poco lungi dal quale

152 CAPITOLO VENTESIMOSETTIMO

vidimo uu paese con un alto castello , sapcvamci qual fosse, fiuchò un villano ci ebbe istruiti, che quella era Crotone, città antichissima, e già principale in Ita- lia. Cercando poi con magfiior diligenza qual fosse il carattere di color che abitavano quella illustre città, ed a qual genere di traflìco principalmente si dedicas- sero, dopo aver tanto perduto nelle continue guerre, il villan ci rispose: o viaggiatori miei cari, se mercadanti voi siete, cangiate consiglio, ed altro mestiere cerca- tevi per mantener la vita : se poi come uomini di i)iii gentil costume sapete navigare costantemente in mezzo alle doppiezze, siate certi di trarne guadagno. In que- sta città non si onoran gli studj delle amene lettere, non si conosce eloquenza, ne frugalità, in tanti co- stumi acquistan con lode lo scopo loro , ma gli uo- mini, che costà vedrete, formano per vostro avviso duo classi, di cui l'una inganna , l' altra è ingannata. Qui nessuno raccoglie i suoi figli perchè un che abbia eredi necessari non è introdotto a cene , a spettacoli, ma privo di tutte le dolcezze della vita va a nascon- dersi trainmezzo alla feccia del volgo. Bensì ottengono i primi onori color che non hanno obbligazioni di pa- rentado, e soli sono considerati guerrieri, valorosissimi, e financo dabbene. Vedrete insomma, diceva, un paese simile ad un terreno appestato, dove non altro vi ha che i cadaveri lacerati, e i corvi che li lacerano.

Eumolpione più savio di tutti noi diessi a pensare su questo nuovo sistema , e dichiarò che non gli di- spiaceva un cotal modo di arricchirsi. Io mi credetti che il buon uomo poeticamente scherzasse, quand' egli soggiunse: Cosi avess'io teatro più comodo, ed abiti più sfaraosi, onde accattar fede alla mia impostura ! io non indosserei più per Dio questa valigetta, e voi ben presto di molte ricchezze farei possessori !

Io gli promisi quanto fosse per chiedermi , perchè partecipando al mio furto accettasse la veste, e tutto^

VIAGGIO ALLA VOLTA DI CKOTONE., ECC. 153

ciò che poteano dare coloro, che avean saccheggiata la villa di Licurgo ; giacché la madre degli Iddii ìq pre- mio della nostra fede ci avrebbe rimborsato le spese, che in questo incontro avessimo fatto.

Rispose Eumolpione a che dunque tardiam più oltre a disporre questa commedia? fatemi adunque vostro capo, se il progetto vi piace.

Non fuvvi alcuno che ardisse opporsi ad uno arti- ficio, che nulla ci costava. E perchè questa trappole- ria rimanesse tra noi segreta, giurammo fede ad Eu- molpione, sotto pena di essere abbruciati , legati , bat- tuti , ammazzati , e quant' altro fosse esatto da lui , consecrandogli religiosissimamente , come i veri gla- diatori consacrano a' loro padroni , i corpi nostri e le vite.

Fatto il giuramento ci misimo in aria di schiavi , e salutammo il padrone, il quale ci istruì a fingere, che a lui fosse morto un figliuolo, giovine egi-egiamente fa- condo, e di grande speranza, e perciò l'aftiittissimo vecchio esser partito dal suo paese per ischivar la vista della tomba e de' seguaci e colleghi del figlio suo , cagioni a lui di continuo pianto, Aggiugnersi a questa disgra- zia un poc' anzi sofferto naufragio , per cui avea per- duto 400 sesterzj : di che però non rattristarsi egli tanto quanto di non poter palesare la sua nobiltà per la perdita del suo corteggio. Oltre a ciò possedere in Africa un capitale di 30,000 sesteraj in teiTc; ed uo- mini, per, avendo si numerosa famiglia sparsa nelle campagne della Numidia , financo conquistare Car- tagine.

Dopo questa intelligenza avvisammo Eumolpione di tossire di spesso come un che abbia lo stomaco gua- sto, e che mostrasse nausea di ogni sorta di cibi , e avesse sempre in bocca oro ed argento, e i terreni in- gannevoli, e la perpetua sterilità delle campagne. Si ritinvsse oltr'a ciò tutti i giorni a far suoi conti e riu-

154 CAPITOLO VENTESIMOSETTIMO

novasse gli scritti del suo testamento, e a compimento della scena ogni qual volta volesse cliiamare alcun di noi, scambiasse i nomi, onde ognun si accorgesse che come padrone ricordavasi pur di quc' servi , che non Gran con lui.

Disposta in tal modo la macchina, e pregati gli Id- dìi, che a felice esito la conducessero, ci mettemmo in cammino. Ma non resistea Gitone al peso della vali- gia, cui non era accostumato, e il servitore Corace, ar- rabbiato di quell'ufficio, riponea spesse volte i fagotti, bestemmiava quei che correvano, e giurava che avre1)bo gittato il carico, o sarebbesi fuggito con esso. Pensato voi, diceva egli, che io sia un asino , o una barca da trasporto ? Io mi son dato in affitto per servir come uomo, non come cavallo ; e sono libero al par di voi, benché mio padre mi abbia lasciato i)Overo. E non con- tento di questi improperj , andava di tratto in tratto rialzando la gamba, e la strada riempiendo di sucidi e fetenti crepiti.

Gode vasi questa stizza Gitone , e ad ogni scoppio di colui con-ispondea similmente , onde mitigarne il puizore.

CAPITOLO VENTESIMOTTAVO.

ARTE POETICA. POEMETTO SULLA GUERRA CIVILE.

Ma qui Eumolpione tornando alla sua dottrina disse* la Poesia , o Igiovanetti , molti ha ingannato ; perchè come uno sa quanti piedi formino un verso, e sa le- gare in un giro di parole un pensier delicato, credesi tosto aver toccato la cima di Elicona. Perciò taluni nelle faccende giudiziario esercitati si rifugiano spesso alla calma delle muse, stimando essere cosa più facile il comporre un poema, che una allegazione ricca di periodetti pungenti. Ma uno spirito magnanimo schiva la vanità , "un sano ingegno immagina o pubblica una composizione, s'ella non sia inafHata da una ab- bondante corrente di letteratura. Bisogna guardarsi da ogni plebeismo, per cosi esprimermi, di parole e sceglier voci non usate dal volgo, cosicché possa dirsi

Abborro e fuggo la profana plebe.

Conviene oltr' a ciò aver cura , che le sentenze non si alzino al di del genere , in cui si scrive , ma ab- biano quello splendore, che corrisponda al colorito della

156 CAPITOLO VENTESIMOTTAVO

veste. Ne sia modello Omero , e i lirici , e il romano Virgilio, e la graziosa felicità di Orazio ; che gli altri, o non conobber la via per cui si giunse al Poema , o conosciutala spavcntaronsi di tentarla. Chiunque per esempio aspirasse alla grand' opera della guerra civile se di molte cognizioni non ò provvisto, soccomberà sotto il peso. Imperocché non trattasi di descrivere ne' versi le azioni seguite, locchè assai meglio si fa dagli isti'uiti, ma deve liberamente lanciarsi l'ingegno in mezzo alle passioni, alla influenza degli Iddii, ed all'invenzione mec- canica delle sentenze , sicché paia piuttosto estasi di animo riscaldato , che esattezza di im racconto fedele , testificato da' documenti. E se voi sifl'atto impeto cono- scete, uditene un tratto, benché ancora non abbia avuto l'ultima mano.

Già il Roman vincitor l' intero mondo, Ov' è mare, ov'è terra, ove s'aggira L'un astro e l'altro possedea, ne pago Era però. Già su le carche navi Scorreansi i domi flutti, e se apparia Qualche mal nota piaggia, o terra alcuna Del biondo oro feconda, era nemica, E a cruda guerra la dannava il fato.

Sol di ricchezze oravi sete, e il volgo Più non amava i passatempi usati. Ne i piacer dal comune uso avviliti. Ed il guerrier, cui la conchiglia, tratta Fuor dell' acque di Assiria, era si grata, Or pel cinabro dalla terra svelto. Rifiutando la porpora, pugnava. Qua il Numida togliea dai monti il marmo , spogliava il suo suol l'araba gente , Ed il Serio filava il bozzol novo.

ARTE POETICA. POEMETTO, ECC. l.'')T

Ma piaghe e duol la mal coudotta pace Offre peggior. Ne'raauritani boschi, E sino all'affricano ultimo Amenobe Si va di fere avidamente in traccia , Onde la belva dall' egregia zanna Alle mortali sue feste non manchi. L'estrania tigre sulle navi giugne Alto portata nell' aurata gabbia, Acciò tra il ]>lauso popolar poi beva Umano sangue. Ahi che il parlare, e i fati Spinti allo estremo palesar mi è grave 1

Son mutilati alla persiana foggia I giovanetti non affatto adulti, Si che pei membri dal coltel mozzati N'abbia la genial Venere scorno, E quel ritardo i rapid'anni freni, E il voi rallenti dell' età fugace ; Cerca di se Natura, e se non trova.

Sozza lussuria a ciascun piace, e il passo Per fiacchezza interrotto, e i capei lunghi, E i tanti nomi del vestir moderno, E quanto insomma ad uom lascivo piace.

Mense di cedro all'Affrica rapito Si pongon or d'ostro e di servi ricche. Le cui vili ombre più dell'or pregiate Crollan di tanti la fortuna. Intorno Al combattuto* e mal vantato desco Nel vin sepolta quella turba giace; E del mondo le ricchezze ammucchia Guerrier che lungi l'armi ardite spinse.

Ingegnosa e la gola: ancor guizzante Lo scaro figlio della aicuronda

158 CAPITOLO VENTESIMOTTAVO

Portasi a mensa, e l'ostrica passata Ne' lucrin lidi , che le cene allunga , E per danno maggior fame rinnova. L'acqua del Fasi già d'augelli è priva, E appena suona su la muta sponda L'aura soliuga tra le vuote foglie.

men guasto è l' esercito , che ornai I comprati Keniani offrir son usi I richiesti sutfragj ove maggiore E rumor di guadagno e di bottino.

Venal senato, popolo venale; Chi più spende ha favor : anche ai vecchiardi Venuta è men la liberal virtute. L'autorità gli avidi sguardi volge Sui diffusi agi , e per danar corrotta Prostrata è sin la maestà latina.

Vinto è Caton dal popolo ed espulso. Ma più infelice è il vincitor, cui pesa (Pubblica infamia e de' costumi peste) I fasci avere ad un Caton rapiti. Non l'uom fu espulso, ma fu vinta in lui La podestà, l'onor di Roma; ond'essa Svergognata cosi di se fa prezzo. Schiava si fa , v' è chi la riscatti E de' pegni oltr'a ciò l'ingorda usura, E i frutti del danaro, han divorato Le ricchezze sui due mari predate. Nessun dell'aver suo, della sua casa Senza mallevadore è più sicuro. Dal pestifero umor tacitamente Ne' midolli raccolto furibondo Con acerbo dolor le membra scorre. Sol dell'armi il mestiere ama il meschino

ARTE POETICA. POEMETTO, ECC. 159

Che riparar con le ferite cerca Gli agi per lusso consumati. Ai rischi Un disperato con ardir s'avventa.

Immersa Roma iu tanto fango, in tanto Sonno sepolta omai , qual veramente Forza più la scotea, fuorché il furore, E guerra, e speme nella guerra posta?

Tre la fortuna avea duci prodotto, Che poi neir urto di diversa pugna La sanguinaria Enio tutti distrusse. Crasso dei Parti vincitor, Pompeo Dominator del mar di Libia , e Giulio , Che Roma ingrata del suo sangue sparse. Le lor ceneri Enio divise, quasi Non bastasse una teira a tante tombe: E questi, ahi, sono della gloria i doni!

Tramezzo a l'ampie di Pozzuol campagne E il suol partenopeo , luogo havvi tutto In profonda voragine sommerso , Irrigato dall'onda di Cocito, Da cui s'alza vapor, che intorno intorno In calore mortifero si spande. qui verdeggia nell'autunno il suolo, spunta in prati ameni erba dal cespo, fra' virgulti il Zefiro d' aprile Col vario mormorio suona o susurra. Ma il caos qui, qui siedono macigni Dalla squallida pomice anneriti E intorno chiusi da feral cipresso. Ivi il dio dell' inferno alzò la testa Coronata di fiamme sepolcrali , E di smorte faville, e in questi detti Provocò la fortuna svolazzante :

IGO , CAPITOLO VENTESIMOTTAVO

O regina degli uomini e de' numi , Fortuna, a cui nessun potere aggmda Che troppo saldo sia, che cose ognora Nuove arai, e tosto le abbandoni avute, Ecchòf ti senti dal romau colosso Ti senti vinta tu? puoi più tanta Sostener mole al suo perir vicina ? Non pregia più la gioventù di Roma Il suo proprio vigor, gli agi ammassati Usa stolidamente. Osserva quanta Licenza nelle vesti, osserva quanto Ruinoso di spendere furore, D'oro fanno edificj, e sino al cielo Alzano case; ove con densi muri Lungi dai lidi spingon l'onde, ed ove Introducono il mar ne' campi loro: Scompiglian tutto, cambian luogo a tutto, Sino inoltrar ne' regni miei li vedi. Da tali traforata insane moli S' apre la terra : pei scavati monti Gemono gli antri omair-che mentre il marmo A vario uso s' impiega, a nuova luce Son costrette aspirar l'ombre infernali. ^ Dunque, o fortuna, fatti core, aggrotta Quel tuo placido ciglio , i romani urta E invia funebri al regno mio convogli. Già da tempo lunghissimo le labbra Ha inumidite a me sangue nessuno , Ne Tisifone mia le sitibonde Membra mi ristorò dal di che Siila Dissetò la sua spada, e che la terra D'ossa insepolte orridamente sparsa Biade nodrite in sangue uman produsse.

Disse, e tentando la sua destra a quella Stringere della Dea con ampia foce

ARTE POETICA. POEMETTO, ECC. 161

Il terreno spaccò. Fortuna allora Dal facil petto queste voci trasse:

Padre , che agli antri di Oocito imperi , Se il vero impunemente a me dir lice Fian paghi i desir tuoi , che in questo sono Non ferve ira minor , minor fiamma Le midolle mi accende. Io quanto feci , Onde Roma sia forte, abborro, e sdegno Ho de' miei doni : ma lo stesso Dio Abbatterà quel che innalzò colosso : Che in cor mi sta di struggere costoro E di sangue impinguar si ingordo lusso. Ben io già veggo di Filippi i campi Degli alterni cadaveri coperti, E i roghi di Tessaglia, e i funerali Della iberica gente , e Libia veggo , E le tue sponde altogementi, o Nilo. Già fragor d' arche negli orecchi mugge Intimoriti , e negli azziaci flutti , Che gli strali paventano d'Apollo. Or tu del tuo dominio i sitibondi Regni spalanca , e nuove ombre vi accogli. Ma tante non potrà Caron varcarne Nella barchetta sua : di flotta è d' uopo. 0 pallida Tesifone potrai Ir tanta strage satollarti allora , Allor lambir le sanguinose piaghe, A brani il mondo piomberà tra' i morti. Mentre il suo dir finia, da rotta nube Un chiaro lampo strepitò, poi svenne L' uscita fiamma. A quel tuonar curvossi Il Signor dell' inferno , e impallidito Per lo timore de' fraterni strali Si nascose nel grembo della terra. Petronio. ^^

162 CAPITOLO VENTK.SIMOTTAVO

Per gli auspicj divini apparve tosto Le stragi e il danuo agli uomini vicino , E già nata parca la civil guerra : Poiché di sangue e di caligin tetra Febo coprissi il deformato volto , E il pieno aspetto suo Cinzia eclissando I raggi ne sottrasse a tanto oiTore. Al frantumarsi delle alpine vette Mugghiavan lungi i dirupati gioglii, sopra i lidi soliti vagando Ivano i fiumi , sempre gonfi , or scarsi , Strepito d'armi per le nubi rugge, OiTÌda tromba desta Marte in cielo, Non usa fiamma il Mongibel divora Fulmini all'aer vibrando, e fra le tombe E fra r ossa insepolte ecco de' morti Con funesto stridor minacciar 1' ombre. Cinta d' ignote stelle una cometa Seco tragga gli incendj, e pioggia versar Improvvisa di sangue in terra Giove.

Presto i presagi avverò il ciel , dappoi Che Cesare troncato ogni ritardo , E dal desir della vendetta spinto , L'armi gettando, onde pugnò tra' Galli, Quelle imbrandi della civil discordia.

Dell' alpi graie su la estrema cima , donde svelte caggiono le rupi , un passo offrono altrui , luogo avvi sacro Per gli altari di Alcide, a cui l'inverno Siepe alza intorno di ghiacciata neve, E sino agli astri il confin bianco spigne: Di là, diresti, cade il ciel: non raggio Di estivo sol , non il tepor di Aprile Mite lo rende mai : ruvido , duro

ARTE POETICA. POEMKT'l'O, ECC. 163

Per la brina invernai , per lo gel denso Terrebbe il mondo sulle orrende spalle.

Cesare, allor che a queste rupi giunse , E vi accampò 1' esercito robusto , Dall'altissimo giogo intorno intorno Suir italico suol girò lo sguardo E alzate al cielo ambe le mani disse:

0 Giove onnipotente, o di Saturno Terra , che un dell' armeggiar , de' miei Trionfi adorna e gloriosa fosti, Io vi protesto che tra' queste schiere Centra mia voglia io reco Marte, e l'armi Centra mia voglia impugno. Onta mi sforza. Me la patria esigilo , mentre di sangue Impinguo il Ren, mentre dall'Alpi i Galli Avidi ancor del Campidoglio io scaccio , Ogni vittoria a me l'esilio acquista: E incominciar dalle tedesche vene, E i sessanta trionfi or mi son colpa. Eppur color, cui la mia gloria è peso. Quei , che la guerra per lo premio han cara , Roma , oh viltà ! matrigna a me , protegge. Ma pentirassi, io spero, e vinto ancora, Vinto non rimarrei senza vendetta. Itene adunque o vincitori ardenti, Ite, 0 compagni miei: co' vostri acciari Difendete la lite : ivi ci chiama Un delitto comune , ivi ci aspetta Un comune castigo. A noi fa d' uopo (Non a me sol, poich'io solo non vinsi) In grazia ricondurci. Or se una pena Sovrasta a que' trofei , se il vincer nostro Gli scherni meritò, scaglisi il dado Come fortuna vuol. Pugnate, ardite;

164 CAPITOLO VENTESIMOTTAVO

La mìa lite è decisa : armato in mezzo

A tanti bravi io vinto esser non posso.

Disse, e il delfico augel l'aure fendendo

Lieti presagi offri : non uso voci ,

Da una fiamma seguite al manco lato

Del sacro bosco risonaron poi ,

E in maggior cerchio i suoi rai sparse

Incoronando d' aurea luce il volto.

Cesare altero de' felici augurj Mosse i segni di Marte, e arditamente Primo avanzò nell' inaccessa via. il ghiaccio antico* la bianca neve Testé gelata , il tcrreu si oppose , Che in mezzo a tanto orror fu mite a lui; Ma poi che rotti gli addensati nembi Ebber le torme, e che spezzò que' ghiacci Il cavai timoroso, allor le nevi Si dileguaro^ e nati appena , giuso Precipitaro dalle eccelse rupi Torrenti , cui di novo il gel strìgnea , E al par di pria ne istupidiva l' onde , Che indurate giacean, come poi fosse Opra d'incanto. Vacillaro allora

I passi già non ben sicuri, e i piedi Si scivolaro, che i soldati a frotta L'un su l'altro cadeau d'ira fremendo, E lungi tratte si aramucchiavan l'armi. Anche le colme nubi ecco versare

II peso che le aggrava, ed ecco i venti In vortice rapiti, e in grandin grossa Rompersi il cielo, e i nembi stessi a squarci Sugli armati piombare , infuriando

Al par della gelata onda d'Eusino. Nascosta entro le nevi era la terra. Nascosti gli astri in ciel, nascosti i lidi

ARTE POETICA. POEMETTO, ECC. 165

Agli inerenti fiumi. Eppur non vinto Fu Cesare perciò, ma ì luoghi orrendi Franco rompea su lunga asta appoggiato , Come d'Amfilrion l'audace figlio Giù dal Caucaso scese, e al par di Giove Il di che bieco negli sguardi a tergo Lasciò la somma dell'Olimpo vetta , E venne a dissipar gli strali insani De' figli della terra a cui die morte.

L'agile fama spaventata intanto L'ale dispiega, e vola ove s'innalza Verso le nubi il palatino colle, E al sorpreso Roman tant'oste annunzia. Armate navi galleggiar sul mare, Formicolar su tutte l'Alpi schiere Ancor macchiate del tedesco sangue , Dice, e l'armi già sembra, e le ferite E le stragi e gli incendj , e della guerra Tutti i mali vedere. Impetuoso E atterrito del par tra' i due partiti Palpita il cor ne' petti. E come allora Che dall'alto imperversa austro furente Ed iscompiglia i combattuti flutti. più giova ai nocchier prudenza ed arte, E l'uno i pini fortemente annoda, L'altro un golfo rintraccia ove sicuri Sieno i lidi e tranquilli , e un altro al vento Spiega le vele, e s'abbandona al caso: Tal nella fuga sol Roma confida, E i Quiriti abbattuti a quel frastuono Le desolate case e i vecchi padri Lasciansi indietro, e al faticar non usa La robustezza giovenil ciò solo Che più preme al suo cor seco si reca. Chi mal accorto ogni aver suo trasporta,

166 CAPITOLO VENTESIMOTTAVO

Che de' nemici poi divien bottino, Chi per cammin terrestre , e chi pel mare Procaccia scampo, che la patria ornai Offre un asilo, più che il mar, dubbioso. Altri vuol tentar l'armi, altri del fato

I decreti seguir. Quanto più grande

Sorge il timor, tanto ò il fuggir più presto, E tra questo agitarsi, il popol pure Fuor delle mura solitarie, ahi vista! Corre ove il caccia l'atterrita mente. Stringonsi al sen gli afflitti sposi, e l'uno Con la tremola man conduce i figli, L' altra i penati si nasconde in grembo, E le pareti lagrimando lascia, E al nemico lontan morte desia.

Ma perchè narro si leggieri cose? Coir un Consolo e l'altro (oh scorno!) fugge Quel gran Pompeo, terror del mar, spavento Del fero Idaspe, e de' pirati scoglio; Colui che Giove con stupor tre volte Trionfante mirò, cui la procella Dei flutti eusini , e la bosforic' onda Sommessa rispettò; costui pur fugge, D'essere imperador dimenticando, E in quel turpe fuggir Roma abbandona E la fama sua propria: E cosi il tergo Vedesti anche di lui, volubil Diva, E ancor le spalle degli Iddìi celesti In sciagura si ria : che a quella fuga

II timor degli Iddii prestò consenso.

Ecco infatti vagar per l'universo De' pacifici Dei la turba afflitta Abbominando quegli irati luoghi , E la folla degli uomini fuggendo

ARTE POETICA. POEMETTO, ECC. 1G7

Che vuol depressi il fato. Ecco tra' i molti ,

Battendosi le braccia alabastrine

E col serto di ulivo ombrando il viso ,

A fuggir più sollecita la Pace ,

Che nel regno implacabile di Dite

Dalla terra partendo asilo cerca.

La fede umiliata a lei si accoppia ,

E la Giustizia con le chiome sparse ,

E guasta i panni la Concordia mesta.

Ma su la soglia de' tartarei chiostri Largo schierato sta l'infernal coro. Ivi è l'orrida Erinni], ivi Bellona Minacciatrìce , ivi di faci armata Sorge Megera , ivi è la Frode , e il Lutto , E la pallida faccia della Morte. Qual belva sciolta d' ogni fren , la testa Sanguinolenta in fra costor sfacciato Alza il Furor ; tinto di sangue ha 1' elmo Ove la guancia d'assai piaghe scabra Usa celar. Con la sinistra mano Stringe di Marte il logorato scudo Di dardi innumerevoli coperto , E con la destra minacciosa porta Struggilor di paesi acceso tizzo.

Sentì la Terra nel suo grembo i Dii : E perchè tutta celeste reggia due partiti si divise , gli astri Seguian le traccie del cambiato centro. Del suo Cesare pria le imprese guida Venere , a cui Pallade e Marte , 1' asta Altissima quassando , al fianco stanno. Apol , Diana , e di Cillcno il figlio A Pompeo son propizj , ed Ercol anche , Al qual Pompeo si assimigliava.

168 CAPITOLO VENTESIMOTTAVO

Suonarono le trombe , o il cria strappando L' inferual capo alzò Discordia al cielo. Sangue coagulato avea su i labbri, Piagnean gli occhi contusi , erano i denti Macchiati d'aspra ruggine, marciume Per la lingua colava , assediata Avea la fronte dai serpenti , rotta La veste innanzi al petto , e colla destra Tremebonda scotca face sanguigna. Quando 1' averno e di cocito 1' ombre Lasciò costei , del nobil Appennino Gli alti gioghi sali , donde potea Veder tutte le terre e tutti i lidi , E le innondanti in tutto il mondo torme ; Indi queste eruttò voci furenti: Or l'armi, o genti, intrepide stringete. Stringete, i ferri, e alle cittadi in mezzo Fuoco e fiamma vibrate. A chi si cela Morte sovrasti: non fancrul, non donna , E non vecchiezza già degli anni guasta Scamperà quel furor. Tremi la terra , ScoRvolgansi, sobissino le case. Marcello , tu salva le leggi : il volgo Tu , Curion , sommo vi : e tu la forza Tu , Lentulo , il teiTor sveglia di Marte. A che dormi tu ancor sopra il tuo scudo , 0 divo Giulio, e al liminar ti arresti? Perchè non struggi le acquistate mura? Perchè i tesori non rapisci ai vinti ? E tu , Magno Pompeo , non sai tu dunque Delle romane rocche esser difesa? Corri alle mura di Epidammo , e spargi Nei Tessalici flutti umano sangne. Disse la furia , e ciò che volle avvenne.

CAPITOLO VENTESIMONONO.

DIVERTIMENTI , E AMORI P&CO PLATONICI IN CROTONE.

Quando Eumolpione con immensa versatilità di voce ebbe declamato questi versi, noi finalmente entrammo in Crotone ; dove, ristoratici prima in una osteriuccia, il vegnente cercando un alloggio di più ricca ap- parenza ci abbattemmo in una quantità di raggiratori, che informaronsi tosto chi eravamo , o donde venissi- mo, noi, giusta gli avuti concerti , accennammo , ma- gnificandoci , donde e quai fossimo , con tal decenza , che coloro cel credettero ; sicché tostamente con reci- proca gara presentarono essi le loro ricchezze ad Eu- molpione , e coi regali sollecitarono tutti la di luì grazia.

Di questa maniera usando noi lungo tempo in Cro- tone, Eumolpione colmo di felicità dimenticavasi il pri- miero suo stato, sino a vantarsi con noi che nessuno potea quivi al favor suo rinunciare, e che se alcun dei suoi vi commettesse alcun delitto, ei ne lo avrebbe col mezzo degli amici suoi senza pena salvato.

Ma io, sebbene ogni giorno per la soprabbondanza

170 CAPITOLO VENTESIMOXONO

de' beni ÌDgrassassi, e credessi aver pure la fortuna cessato di guatarmi biecamente, tuttavia spesse volte riflettea meco stesso non tanto allo stato mio attuale, quanto alla causa, che il producca. Che sarebbe, di- ceva io, se un furbo speculatore mandasse in Africa ad esplorare dell'esser nostro, e ne scoprisse la falsità? Che sarebbe, se anche il domestico stanco della pre- sente prosperità ne facesse alcun cenno «gli amici, o per invidia tutta la macchina con tradimento pale- sasse ? allora converrcbbeci fuggir di nuovo , e tornar- cene a viver tapini dopo aver superata quella prima miseria. Oh Dei del cielo, che vita meschina b quella de' licenziosi ! e temon sempre quel che si meritano.

Con questo pensier nella mente uscii di casa pieno di mal umore, affine di svagarmi alquanto all' aria li- bera : ed appena era entrato sul passeggio puliblico vennemi all'incontro una pulita fanciulla, e chiamatomi per nome Polieno, come mi si aveva stabilito in questa furberia, mi disse che la padrona sua mi pregava che io le accordassi il piacer di parlarmi.

T'inganni, rispos'io conturbato; schiavo forestiero son io, e affatto indegno di tanto onore.

Ella rispose: A te precisamente son io mandata; ma perchè tu conosci le tue bellezze, monti in superbia, e vendi i tuoi vezzi, e non li accordi. A qual fine que' capegli arricciati ? perchè quella faccia acconcia, e quel petulante girar degli occhi per ogni parte I A che quel portamento aff'eltato, e que' passi cos'i misurati, che le orme stanno sempre ad egual distanza? se non per far pompa di bellezza, onde porla a prez;.o ? Quanto a me, vedi , conosco augurj , mi curo de' pianeti degli astrologi ; ma comprendo dai volti i costumi degli uc mini, e solo in vederti passeggiare ho saputo ciò che hai nel cuore. Insomma o tu ci vendi quel ch'io ttl chiedo, e il mercadante è bello è disposto: o se tu doni,' locchè è più gentile, fa che a te se ne debba l'obbli-

DIVERTIMENTI, E AMORI POCO PLATONICI, ECC. 171

gazione. Quanto al dirti schiavo ed abbietto, questo è lo stesso che accendere il desiderio di colei che ti aspetta ; perchè hannovi alcune donne che dilettansi di sucidume, e non sentonsi brulichio se non alla vista di schiavi , o di sergenti bene infiancati ; ad altre un mulattiere coperto di polvere, ad altre un attore che figura su per le scene. Insigne tra queste è la padrona mia : ella sale dalla orchestra al quattordicesimo or- dine, e in mezzo all' ultima plebe rintraccia chi più le piace.

Colpito da questo graziosissimo discorso , io le dissi : di grazia colei che mi ama, sarestù mai? A questa scempiaggine grandi risa alzò la damigella, e dissemi: non avere tanta opinione di te : io non mi sono peranco avvilita ad uno schiavo, e il ciel non permetta che io tenda i miei abbracciamenti ad una forca. Cerchin le donne i segni delle sferzate per baciarli, io, sebben cameriera, non mi degno che di patrizj.

Io di si differente lussuria maravigliandomi, tra i mi- racoli annoverai, che una serva avesse orgoglio da dama, e la dama l'abbiezion di una serva.

Prolungatisi intanto siffatti scherzi io dissi a costei, che conducesse la sua padrona nel bosco de' platani. Piacque alla ragazza l'invito, e così rialzatasi alquanto la gonna piegò in quel viale che corrispondeva al passeggio, e poco dopo trasse Madonna fuor di un cespuglio ov'era nascosta, e misemi al fianco una fem- mina migliore d'ogni più finita scultura. Non ho pa- role che valgano a dire quanto fosse bella, e per cosa ch'io ne dicessi, sarebbe sempre minor del vero. Le chiome naturalmente ricciutelle spandevansi sulle sue spalle: piccola era la fronte, su cui scorgeansi le ra- dici de'cappgli, che volgeano allo fndietro ; le sopra- ciglia scendeano sino al rialzo delle guance, e dall'altro lato univansi quasi tramezzo agli occhi : i qtiali eran più lucenti delle stelle quando lontane dalla luna ri-

172 CAPITOLO VENTKSIMONONO

splendono : le narici erano alquanto rivolte, e lai boc- cuccia , quale immagìnossi Prassitele, che l' avesse Ci- prigna. E il mento, e il collo, e le mani, e la bian- chezza de' piedi, che tralucea tra il leggiero coturnetto d'oro, avrebber fatto vergogna al marmo di Paro. Al- lora insomma per la prima volta io antico amante di Doride, ne sentii disprezzo.

Come, o Giove, de' fulmini, Più non curando, puoi Muta indolente favola Starti fra'i numi tuoi?

Qui della fronte ruvida Devi abbassar le corna, Qui la tua pelle candida Finger di piume adoma.

Questa, ben questa è Danae : Abbracciala se sai , E per le membra scorrere Il foco sentirai.

Costei compiacendosi mi sorrise con tanta avvenenza, che avrei creduto veder la luna sporgere fuor delle nubi la bella sua faccia. Dipoi accompagnando la voce co' gesti ella disse : Se non ti annoia una donna galante, e che soltanto in quest' anno sa cosa sia ma- schio, io ti otfro 0 giovine, una sorellina. Tu hai pure un fratello, poiché io non ho lasciato di informarmene, ma cosa impedisce che tu pur non addotti una sorella? Io mi ti presento in tal qualità ; piacciati di degnartene e di gustare quando tu vuoi i miei abbracciamenti.

Son io, risposi,, che prego te per la tua bellezza di non isdegnarti di ammettere tra ì tuoi spasimanti uno straniero: mi avrai divotissimo , se tu mi permetti di

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idorarti : E perchè tu non creda, che io a mani vuote mi accosti a questo tempio d'Amore, io ti regalo il fratel mio.

Come ? ella soggiunse , tu mi regali colui , senza il ^ual non puoi vivere ? dalla cui bocca tu pendi ? che tu ami tanto , quanto io ho voglia di te ? E cosi di- jendo, ella esprimeasi con_^tanta grazia, bella voce agitava quell'aria, che avresti detto colà diffondersi la melodia delle sirene. Finalmente mirando intorno a lei e vagheggiando non so quale splendore maggior della luce, presi ardimento a chiedere il nome della mia diva.

Dunque la donna mia , rispose , non ti disse che io mi chiamava Circe? Non sono a dir vero figlia del sole, ne mia madre lo trattenea a piacer suo quando scendea nel mar d'occidente: ma, se il destino ci unisce, io ne farò pompa in faccia al cielo. Anzi sento un Dio che mi ispira non so quai confusi pensieri ; e certo non senza cagione una Circe ama un Polieno. Havvi sem- pre tra questi nomi una comun simpatia. Prenditi dunque se non t' incresce , un abbraccio ; ne aver timore che alcun ci veda poiché il fratel tuo è assai lontano di qui

Cosi parlò Circe, e strettomi con braccia piìi mor- bide d'ogni piuma strascinommi sopra un sedil di terra sparso d'ogni sorta di erbette.

Come di fior la madre terra sparse

D'Ida la vetta il di che al nodo santo Scese Giove con quella onde tant'arse E spuntovvi la rosa e l'amaranto, E'I vago ramerino e il giglio bianco, Che il praticello rallegrava tanto : Scender cosi quel terren pvir anco Venere in su l'erbetta , e '1 di sereno Non fu al segreto amor propizio manco.

Egualmente distesi sopra le erbette noi mille baci scoccammo procurandoci un piacor più robusto. Ma

174 CAPITOLO VENTESIMONONO

Circe rimase delusa per una mia inaspettata fiacchezza di nervi; che oftesa e sdegnata mi disse: che vuol dir questo ? forse ti fanno nausea i baci miei? o il mio fiato acido pel digiuno ? 0 il sudor delle ascelle negli- gentato ? 0, se ciò non è, temi tu di Gitone?

Io mi fei tutto rosso, e se qualche vigor mi avan- zava quello pure perdetti, sicché sentendomi quasi sfi- nito risposi : O mio regina, non f;ir di grazia più grandi le mie miserie. Io sono amnialiato.

Questa scusa si sciocca non acquietò altrimenti lo sdegno di Circe, la qual volti altrove gli occhi sprez- zatameute, e alla damigella guardando: dimmi Criside, ma di vero, son io spettinata ? oppure ho io qualche naturai difetto che guasti la mia bellezza ? Non in- gannare la tua padrona: certamente dev'esservi qualche cosa a rimproverarmi.

Strappò dipoi dalle mani di lei che tacca uno spec- chio, e dopo esservi guardata in tutti quegli aspetti, che sogliono destar piacere agli amanti, scossasi la veste che si era scompigliata contro il terreno, entrò rapidamente in un vicino tempietto di Venere.

Io dall'altra parte confuso, e quasi da non so quale spettro inorridito, presi ad interrogare me stesso, com'io sfuggir mi lasciassi un tanto piacere.

Come tra l'ombre della notte, quando Giocano i sogni con l' error degli occhi , S' apre la terra , e chiuso oro dimostra E per ghermirlo avara mano in quello Tortuosa si aggira: intanto gronda Sudor dal volto, e gran timor sta in mente Che a tartassare la pesante bolgia Non arrivi colui per avventura, Che già il tesoro ivi giacer sapea. Ma poi, tornate le primiere forme, E fuggito il piacer dal cor deluso,

DIVEKTIMENTI, E AMORI POCO PLATONICI, ECC. 175

Desio riman delle perdute cose, E il pensier si rivolge interamente Nella svanita immagine soave.

Codesto accidente a me parea veramente un sogno, anzi una fattucchieria, e tanto rimasi spossato, che non potea nemmen rialzarmi. Scioltosi finalmente a poco a poco l'abbattimento dello spirito, e tornatemi lentamente le forze, me ne andai a casa, ove fingendo non sentirmi bene mi posi in letto. Poco dopo Gitone, intendendo ch'io era ammalato, entrò malinconico nella mia camera ; per calmare la sua apprensione lo assi- curai che a solo fine di riposarmi io era venuto a letto, e di mille cose ciarlai, fuorché del caso avvenutomi, troppo temendo io la di lui gelosia; anzi, per tornegli ogni sospetto, fattolo sdraiare al mio fianco, tentai di dargli una prova dell'amor mio, ma a nulla riescìrono Ip mie fatiche cosicché egli alzossi indispettito , e rim- proverandomi la debolezza di nervi e un cangiamento dell'animo, disse già alcun tempo essersi avveduto che io sicuramente avea prima consumato- altrove il mio vigore, e' miei desiderj.

No, risposi io ; sempre fu eguale, o caro, l'amor mio verso te ; ma ora l'amore ed i trasporti sono vinti dalla ragione.

Per questo appunto, riprese egli con riso sardonico, io ti sono obbligato, poiché mi ami con socratica pu- rità e certamente Alcibiade non sorti irtai più intatto dal letto del suo maestro.

Credimi , soggiunsi io subito , credimi , o caro , che io non capisco sento di esser uomo. Morta è ora quella parte del corpo, in cui già parvi un Achille.

Sentendomi Gitone cosi snervato, e temendo che, se fosse stato sorpreso solo con me, non ne nascessero delle baie, partissene ritirandosi nell' interno dell' al- bergo.

176 CAPITOLO VENTESIMONONO

Appena fu egli sortito, che Criside entrò nella mia stanza, e mi consegnò una lettera della sua padrona, nella quale era scritto ciò che segue.

Circe a Polieno salute.

Delusa , come fui, se io fossi esigente mi lagnerei ; ma invece ti so buon grado della tua fiacchezza ; assai mi compiacqui dell'apparenza del piacere. Pur dimando corno tu stia, e se hai potuto arrivar a casa appiedi ; giacché i medici dicono non poter camminare gli uo- mini senza nervi. Ti avverto, o giovinetto: guardati dal non cadere in paralisia. Io non vidi giammai am- malato in maggior pericolo. Tu sci davvero bello e spedito. Che se un ugual gelo ti prende alle ginocchia ed alle mani, fa conto di mandare pei flautisti. Tutta- via che vuoi fare ? benchò tanta ingiuria ho ricevuto, pur non voglio ad un pover' uomo rifiutare la medi- cina. Se vuoi tornar sano, raccomandati a Gitone : tu riacquisterai i tuoi nervi dormendo tre giorni senza il ragazzo. Quanto a me poi non ho paura che alcun mi manchi, al quale io piaccia meglio che a te, se pur non m'inganna lo specchio, la mia riputazione. Sta sano se il puoi.

Come Criside intese che io aveva letti tutti quei rimproveri, si disse: le son cose che avvengono, mas- simamente in questa città, dove le donno scongiurano persin la luna. Ciò non ostante si avrà pensiero anche del fatto vostro : rispondete ora graziosamente alla mia padrona, e tranquillizzate l'animo suo con ischictta ur- banità. Io vi confesso il vero : dal momento ch'ella sof- fri quell'affronto, ella è fuori di se.

Ubbidii di buon grado alla damigella , e queste pa- role scrissi sulla tabella :

Polieno a Circe salute.

Ti confesso, signora, che io ho commesso assai falli, perchè son pur uomo, e giovine ancora; ma non mai

DIVERTIMENTI, E AMORI POCO PLATONICI, ECC. 177

fino ad oggi si criminalmente mancai. Eccomiti reo confesso. Qualunque sia la tua volontà, io l'ho meri- tata Son traditore, omicida, violatore del tempio : trova tu una pena a tante scelleraggini. Se vuoi che io muoia io ti offrirò il mio pugnale ; se ti piace di fla- gellarmi, nudo mi presenterò alla signora mia. Sovven- gati solamente, che non mia, ma dei miei organi fu la colpa. Disposto alla guerra mi mancarono l'armi; chi le disordinasse non so: forse la mente pervenne la pi- grizia del corpo, forse nella foga de' miei desideri, per- detti, trattenendomi in essi, il maggior diletto. Non so nemmen io cosa mi abbia fatto. Tu però mi avvisi di guardarmi da una paralisi, come se potesse accaderne una maggiore di quella che mi impedì , che io ti pos- sedessi interamente. Ma la conclusione delle mie scuse è questa : io ti piacerò , se tu mi accorderai di emen- dare il mio fallo. Addio.

Licenziata Crìside con queste promesse , presi con ogni diligenza cura del mio corpo maliato , e dopo il bagno fregatomi con leggiera pomata , poi alimentato- mi di cibi riforzanti , come a dir cipolline , e capi di lumache non cotte, mi bevetti un tantiu di vino : dipoi pria di dormire feci una brevissima passeggiata, e me ne venni a ietto senza Gitone. Tanto mi premea di placar Circe, ch'io ebbi timore che quel fanciullo non mi obbligasse a fiaccarmi.

Petronio, lii

CAPITOLO TRENTESIMO

CONTINUAZIONE.

Il di seguente levatomi sano di corpo e di mente mi avviai al bosco de' platani, ancorché lo riguardassi co- me un luogo malaugurato, e mi posi tra gli alberi ad aspettar Criside per accompagnarmi. molto rimasi seduto ove fui l'altro giorno, ch'ella comparve insieme ad una vecchierella , cui dava mano. E poi che mi ebbe salutato, disse: E cosi, signor disdegnoso, comin- ciate voi dunque a riprender lena?

Cosi dicendo, la vecchia si trasse di seno un legac- cio formato di fili a più colori, e me ne cinse il collo: poi impasticciando della polvere collo sputo ne prese sulla punta del dito di mezzo , e ad onta mia me ne segnò la fronte.

Fatta questa incantagione, mi disse che io sputassi tre volte, e mi buttassi tre volte in seno alcune pie- truzze magiche, ch'ella teneva involte nello scarlatto, e appressando le mani cominciò a tentare la forza deii lombi miei. AU'ordin suo tosto ubbidirono i nervi , le mani empierono della vecchietta con istraordinaria gonfiezza; sicché ella tutta festeggiante disse: guarda.

CONTINUAZIONE 179

guarda, Criside mia, il bel lepre che io ho suscitato })er altri.

Giova sperar sin che si resta in vita : Or tu, rozzo guardian dai nervi tesi Priapo, accorri, e favorevol sia.

Ciò fatto la vecchia mi riconsegnò a Criside, la quale era contentissima del tesoro riacquistato a Madonna, e perciò affrettandosi mi condusse rapidamente a lei, in- troducendomi in un leggiadrissimo ritiro, dove si vedeva quanto la natura produce di bello a vedersi.

Le estive ombre spargea 1' eccelso platano , E il pin tonduto dalla cima tremula , E il pieghevol cipresso, ed il già carico Delle sue ghiande allòr. Tra quei volgeasi Spumoso fiumicel colla volubile Onda che i sassolin traendo mormora. Ben era il luogo atto all'amor; e il rustico Usignuol quivi con l'urbana rondine A' bei virgulti e alle viole tenere Intorno svolazzando celebravano Il villereccio suol col gentil fischio.

Ella sdraiata posava il collo alabastrino sopra un letto dorato, e scotea l'aria con alcuni ramoscelli di mirto fiorito. In vedermi aiTOssì alcun poco per la me- moria dell' affronto di ieri, di poi quando partiti gli al- tri mi fui seduto presso lei che me ne invitò, un ramo- scello pose sopra ì miei occhi, e da questa specie di muro frapposto resa più ardita disse: ebben, paralitico, sei tu oggi venuto intero?

Tu me ne domandi, risposi io, anziché cimentarmi? e tutto gittatomi nelle sue braccia colsi fino alla sa- zietà quanti baci ella volle. Le belle attrattive del suo

180 CAPITOLO TRENTESIMO

corpo mi incitavano alla lussuria : già i labbri incon* ti antisi romoreggiavano pei tanti baci : già le mani iiitralcianlisi inventavano mille maniero di amore : di già i corpi avvinti in reciproco nodo, produceano pure 1.1 coniunzione delle anime: ma in mezzo a si eccel- l'inti principj , chinandomisi repentinamente i nervi, non potei giugnere al piacer sommo.

Colpita Madonna da questo replicato insulto ricorse finalmente alla vendetta , e chiamati i famigli ordinò di pettinarmi a dovere. soddisfatta costei di tanta ingiuria provocatami contro, radunò tutte le filatrici, e la più vii feccia di servi, dicendo loro che mi sputassero addosso. Mi feci della mano scudo agli occhi, alzai veruna preghiera, ben sapendomi quello eh' io meritava, e. a forza di flagelli o di sputi fui cacciato fuor della j>orta. Proselenide è cacciata del paro, Criside bastonata e. l'intera famiglia penando mormora tra se, e chiede (•hi abbia alterato l'allegria di Madonna.

Quanto a me curate le battiture, e ripreso coraggio, ( oprii cautamente le lividure, acciò Eumolpione di questa mia disgrazia non avesse a ridere, Gitone ad afflig- /jersi. Quello solamente che io senza vergogna potei limulare, fu di fingermi ammalato, e messomi nel let- licciuolo, tutto il fuoco del furor mio rivolsi contro colui che tanti mali mi occasionò.

Terribile coltello Ben tre volte afferrai: tre volte poi Languido più di giovine baccello. Ebbi timor di quello, Che a me tremante mal servir potea ciò ch'io proponea Eseguir più sapea. Che per tema costui freddo venuto Più del rigido ghiaccio, Tutto in grinze ristretto,

CONTINUAZIONE 181

S'era dentro le viscere perduto;

Quindi scoprirne appena

La testa non potei per dargli pena !

Ond'io deluso dal mortai deliquio

Di quel pendol di forca incontro a lui

Scagliai motti , da cui

Quanto seppi maggiore

Gli avesse a derivar duolo e rancore.

Sostenendomi quindi sul gomito investii lo scellerato con questa specie di invettiva: Che puoi tu dire, o scorno degli uomini e degli Iddii ? giacché non meriti pure di avere un nome tra le cose esistenti. Questo ho io dunque meritato da te, che dal cielo ove io mi precipitassi al- l'inferno? che mi involassi i floridi anni del primiero vigore per opprimermi con la debolezza dell' estrema vecchiaia? Dammi dunque, per dio, un attestato della tua morte.

Vibrate sdegnosamente queste parole ,

Fisso il nemico avea lo sguardo al suolo. a quel parlar più sollevava il volto Di quel che faccia il salcio illanguidito , 0 il piegato papavero cadente.

Ma io, finita questa sciocca sgridata, cominciai pari- menti a pentirmi del mio parlare, ed a sentire una se- greta vergogna per avere, in onta della mia modestia, rivolte le voci a quella parte del corpo, cui gli uon;ini più austeri non volgon pure il pensiero. Indi, lisciatura! per qualche tempo la fronte, che ho io fatto di mnle, dicea , se ho voluto con uno sfogo naturale alleggiìrir la mia pena? Forse non abbiam costume di bestem- miare contra il corpo umano, quando il ventre , o la gola, 0 il capo ci dolgono, come accade spesso? Forse Ulisse non se la prese contro il suo cuore? E i tragici

182 CAPITOLO TRENTESIMO

i propri! occhi puniscono, come se ascoltassero, i poda- grosi maledicono i loro piedi , i chiragrosi le mani , i lippi gli occhi, e coloro che si fan male ai diti, ogni volta che ne sentono il dolore, se la piglian co'piedi.

A che, o Catoni, con rugosa fronte Mi sogguardate, condannando un tratto Di non comun semplicità? Diletta Certa avvenenza del parlar sincero, E ingenua lingua ciò che il popol opra Narra fedele. Or chi di Veuer mai Gli annodamenti ed i piaceri ignora? Chi vieta mai, che nel tepor di un letto Si riscaldin le membra? E ciò prescrisse Il gran padre del ver dotto Epicuro , Tal dicendo gli Iddii vita condurre.

Nulla è dunque più falso delle sciocche ostinazioni degli uomini, e nulla più sciocco di una bugiarda au- sterità.

Terminata questa declamazione, chiamai Gitone , e gli dissi : raccontami , o caro , ma con ischiettezza ; in quella notte, che Ascilto mi ti rapi , stette egli desto sin che fu soddisfatto , o rimase pago di passarla ve- dova e pudica? Il fanciullo toccandosi gli occhi giurò chiarissimamente che Ascilto non gli usò forza veruna.

GAPITOLO TRENTESIMOPRIMO.

SUFFUMIGI ED INCANTAGIONI.

Da tutte queste cose agitato io nou era a dir vero assai presente a me medesimo, ne sapea giustamente ciò che mi parlassi. A che, diceva io, richiamare alla memoria cose passate, e ancor disgustose? alla fine nulla trascurai onde rimettere i nervi. Volli persino far voti agli Dei: sortii quindi per supplicare Priapo , e comunque andar potesse la cosa, feci apparenza di con- fidarne, e inginocchiatomi sulla porta cosi pregai :

Compagno delle ninfe e di Lieo, Tu, che la bella Venere fé' nume Delle selve abbondanti: a cui si inchina L'inclita Lesbo, e la feconda Taso: Tu che dai Lidj dalle lunghe vesti Se' venerato, e ti sacraro il tempio Sopra r Ipepo : o guardian di Bacco , 0 piacer delle Driadi, qui vieni E le timide mie preghiere accogli. Non io cosperso di uman sangue vengo, contra i templi l'inimica destra Empio vibrai ; ma poverino e guasto

184 CAPITOLO TRENTESIMOPRIMO

Tutto il mio corpo a inutil prova esposi Sol mezzo è reo chi per bisogno pecca. Deh tu il mio cor per queste preci allieva , E la leggiera mia colpa perdona. Se l'ora suoni a me della fortuna, Non senza onore i' lascerò ì tuo culto Monton cornuto delle agnello padre, E di querula troia il figlio, svelto Dalla poppa materna, ostie cadranno, 0 Dio, sull'are tue. Di vecchio vino Spumeranno le tazze, e intomo intorno Al tempio tuo la gioventù vivace Tripudiando girerà tre volte.

Intanto che io orava, e premurosamente teneva d'oc- chio al mio moribondo, la vecchierella entrò nel tempio coi capegli rabbuffati, o con veste nera che spaventava, e afferratomi fuori del vestibolo mi strascinò tutto tre- mante e mi disse : quali streghe hanno divorato i tuoi nervi'/ o quali mondiglie o qual cadavere hai tu di notte pestato ne' trivi ? già ti sei rifatto sul tuo miguone, ma languido, debole, affaticato, come un ca- vallo che arrampica , hai gittato l'opera ed il sudore, e non contento della tua propria mancanza, hai contra me eccitato lo sdegno degli Dei. Ora non ti casti- gherò io?

Dipoi, senza che io mi opponessi, ella mi fé' rientrare nella cella sacerdotale, mi rovesciò sur un letto, e stac- cata dall' uscio una canna, diemmene un buon carpic- elo, ed io mi tacea. Che se la canna rottasi al primo colpo non avesse minorata la veemenza delle battiture, costei forse mi avrebbe fracassate le braccia ed il capo.

Io n' era afflittissimo , anche per la noia delle sue m3.nipolazioni, e cadendomi in abbondanza le lagrime, copertami la faccia colla man destra mi abbandonai sul cuscino. Ella egualmente singhiozzando si assise dall'ai-

SUFFUMIGI ED INCANTAGIONI 185

tra parte del letto, e cominciò a lagnarsi con voce tre- mante della lunghezza della sua vecchiaia. In quella entrò la Sacerdotessa, e disse: Perchè siete voi venuti nella mia camera, come se foste iti ad un funerale? e ciò pure in un giorno festivo , in cui anche gli afflitti si confortano.

0 Enotea, rispose la vecchia, il giovinetto che tu qui vedi nacque sotto un astro maligno giacché ei non può dispensare le cose sue ne al ragazzo alla druda. Tu non vedesti mai più gramo uomo. Uno straccio bagnato ha egli e non un pivolo. Egli è insomma qual vedi che esser deve un che sorte dal letto di Circe senza averne preso piacere.

Ciò udito , Enotea venne a sedersi tra noi due , e tentennata per qualche tempo la testa disse : Io son la sola, che possa guarir questo male: e perchè non cre- diate che io ci metta alcun dubbio tra mezzo, domando che se io prima non glielo rimetto sodo al par di un corno, abbia il giovinetto a dormir meco una notte.

Quaggiù tutto a me serve. AUor ch'io voglio * La fruttifera terra i sughi addensa, Inaridisce e langue ; e allor eh' io voglio Frutti produce. Orride balze e scogli Mi spillano acqua a paragon del Nilo. A me sommette il mar l'onde tranquille; Taciti a' piedi miei depongon l'ale I Zefiretti : mi ubbidiscon fiumi , E draghi e ircane tigri alla mia voce Fermano il pie: ma tutto questo è nulla. In terra scende da miei carmi spinta L'immagin della Luaa, e il Sol per tema, Poi che trascorso ha della terra il cerchio, Rivolge addietro i destrieri ardenti; Tanto ha forza il mio diri Dei tori il fuoco Al parlar d'una vergine si estinse;

186 CAPITOLO TRENTESIMOriUMO

Con i magici suoi carmi i compagni

Circe, figlia del Sol, cambiò di Ulisse:

Sa Proteo figurar ciò che più vuole.

Tal io, signora di quest'arte, pianto

Gli alberi d'Ida in mezzo all'acque, e posso

De' fiumi il corso rimontare all'erta.

Io rimasi spaventato e atterrito di si ammirabili vanti e mi posi a guardar la vecchia con maggior diligenza, Ella sclamò allora: E tempo, Enotea, che tu eserciti il tuo potere. E lavatesi minutamente le mani si piegò sul letto, e baciommi una e due volte.

Enotea collocò in mezzo all'altare un'antica tavola, che caricò di carboni accesi, e con pece dileguata rac conciò una tazza sdruscita, tanto era vecchia. Rimise poi nell'affumicata muraglia un chiodo, che era venut( dietro alla tazza levatane; dopo cintasi del suo piviah quadrato mise a fuoco un largo orcio, e tolse col for chetto dalla moscaiuola , un sacco di panqo , ov< stavan rinchiuse le fave per suo uso, ed un rancidis Simo boccone di tempia roso in mille luoghi. Sciolti poscia il sacchetto , sparse una porzìon delle fave su tavolo , e mi comandò di mondarle diligentemente Mi prestai tosto , segregando esattamente i grani chi erano ancor coperti di sordide buccie. Ma accusandom ella di lentezza mi ributtò sgarl)atamente , e co' dent abilmente cavò le scorze, sputandole in terra, dove pa rean tante mosche. L' ingegno della povertà è al cert' mirabile; la fame insegnò più arti singolarissime. Ve devasi cosi divota di questa virtù la sacerdotessa, eh la facea conoscere nelle più piccole cose. Il suo alloggi massimamente era un vero tempio della povertà.

Intersiato nell'or non vi splendea L'indie' avorio, per lisci marmi Lucicava la terra, in grembo a cui

SUFFCMIGI ED INCANTAGIONI 187

Nascon aspri e non lisci. Inetta paglia

Su graticcio di salci affastellata

Vidi, e d'argilla boccaletti nuovi

Di ruota dozzinal facil fattura.

Dall'altro lato un tino d'acqua, e appesi

Più canestri di vimine ad un tronco

E un' anguistara sucida di vino.

Di fango e paglie combinate a caso

Era il muro formato, e in quel ficcati

Più cavigli di legno, e un verde giunco

Da cui pendeva la pieghevol canna.

Le sue ricchezze poi l' umìl casuccia

Serbava appese alla soffitta bruna;

Sorbi maturi misti ai feston sacri ,

E vecchie timbre, e di zibebbe grappi.

Tal nell'attico suol l'ospite casa

D' Ecale parve un di, che poi fu degna

Di divin culto, e che ne' più tardi anni

Allo stupor de' posteri trasmise

La vecchia musa del figliuol di Batto.

Ella frattanto mondate le fave, gustò un cotal poco di carne, e il resto della tempia , sua coetanea , ripose con la forchetta nella moscaiuola , ma salendo per ar- rivarvi sopra una seggiola tarlata , questa si ruppe , e la vecchia tratta dal proprio peso fece cadere sul fuoco, sicché la cima dell' orcio andò a pezzi, e il fuoco, ornai svanito, si spense del tutto ; anzi ella battè del gomito in un tizzo ardente, e si copri la faccia della cenere sollevatasi.

Dispiacquemi, e corsi non senza ridere a rialzare la vecchia, la qual tosto, perchè nulla più ritardasse il sacrifizio, camminò pel vicinato a riaccendere il fuoco. Appena era giunta all' uscio della sua casuccia, quando ecco tre oche sacre, le quali a mio credere, eran solite a venirsi a prendere al mezzodì il loro cibo dalla vec-

188 CAPITOLO TRENTESIMOPRIMO

chia, mi corsero addosso, e con oiTÌdo o quasi rabbioso stridore, mi stettero intorno con mia grande paura, o l'una mi lacerava la tonica, e l'altra mi sciogliea i nodi de' calzari e rapivameli, ed una persino, che guida e capo ne era , non ebbe difficoltà a morsicarmi una gamba con quel suo becco segato , che mi tormentò Onde, lasciando le corbellerie, afFerrai il piede d'un ta- volino, e scagliatomi con quest'arma contro il feroce animale, gli diedi una picchiata mortale, e per vendetta l'uccisi.

I Stimfalidi augci cosi, cred'io, Da Alcide spinti verso il ciel fuggirò. Cosi le Arpie profluvianti , poi Che le inutili mense di Fineo Sparse di tosco avean. L'etra atterrita Tremò pei stridi insoliti , ed uscita Parve per lo terror dai cardin suoi L'empirea reggia, e scorsa oltre il suo cerchio.

Le altre oche aveano intanto raccolte le fave disperse per lo pavimento, e afflitte a parer mio della lor guida ritornarono al tempio. Io contento al tempo stesso e della preda e della vendetta, posi la uccisa dietro il letto, e la piccola ferita della mia gamba lavai di aceto; dipoi per ischivar le quistioni feci disegno di andarmene, e raccolte le cose mie m'avviai per uscire. Ma ancora non era giunto di dell' uscio, che vidi tornare Enotea con una tegola piena di fuoco. Perciò tornai addietro, e cavatami la veste , in atto di aspettarla mi fermai sul passaggio.

Posò essa il fuoco ammonticchiato sopra cannuccie rotte, e buttatavi su molta legna, si scusò meco del ritardo per averle l'amica sua impedito di tornare, se prima non avessi vuotati, secondo il solito tre bicchieri. E intanto che hai tu fatto? mi disse; e dove sono le fave?

SUFFUMIGI ED INCAKTAGIONI 189

Io stimandomi aver fatto una bella cosa le raccontai ordinatamente tutta la zuffa, e perchè non fosse lunga- mente afflitta mi offersi a ricompensarDcla. Poi mostran- dole l'oca, e la vecchia veggendola, alzò si grande schiamazzo , che avresti detto che le altre oche voles- sero rientrare.

Confuso io , e della novità del mio delitto maravi- gliandomi, la richiesi a che tanto gridasse, e come piut- tosto dell' oca le rincrescesse che di me.

Ma ella battendo le mani rispose: hai pur cuor di parlare, o scellerato? Non sai la grave colpa che com- mettesti? Tu hai uccisa la delizia di Priapo , l'oca a tutte lo donne gratissima ; or vedi se picciol male hai commesso; che se la giustizia il sapesse ti impicche- rebbe ; hai poUuto col sangue la casa mia fino ad ora inviolata, ed hai fatto si, che qualunque mio nimico volesse destituirmi dal sacerdozio, il potrebbe.

Disse, e strappossi le canute chiome Dalla tremola testa, e graffiò '1 viso, E tanto lagrimò quant' acqua traggo Giìi per le valli impetuoso fiume Al dileguar delle gelate nevi Quando col tuo tepore i ghiacci scioglie Austro, e alla terra vita novella. Tal quel volto coprian gorghi di pianto, E mormorando nel turbato petto Udiasi il suon de' gemiti profondi.

Le dissi allora, non gridare, per dio: io per un'oca ti darò uno struzzo.

Intanto ella sedutasi [sul letticciuolo , deplorando la disgrazia dell' oca sua, ed io standomene tutto smarrito, entrò Proselenide col denaro del sagrificio, e vista l'oca I ammazzata, e chiestaci la cagione della nostra afflizione,

190 CAPITOLO TRENTESIMOPRIMO

cliessi a lagTimare dirottamente ancor essa, ed a com- piangermi, come io avessi ucciso, non un oca pubblica ma il padre mio. Finalmente stanco di tal seccatura dissi: Se io vi pregassi caldamente, non potrei per die pagando espiarmi, ijuand' anche fossi reo d'omicidio? Eccovi due monete d'oro, acciò vi compriate i Dei < le oche.

E vedendolo Enotea, perdona disse, ragazzo, io sonc inquieta per te ; abbilo per segno di amore e non di malizia. Perciò faremo si che nessun sappia la cosa. Ora tu prega gli Iddìi acciò ti perdonino quest'azione,

A chi ha danar spiran propizi i venti, E la fortuna a' suoi capricci serve. Con Danae si giaccia , ei può sicuro Rendere Acrisio che sua figlia è casta. Scriva o reciti versi, ei fa furore; Tratti ogni carsa a suo piacer, le vince; E men grande Catone appetto a lui. Giudice sia, decreti, ordini, imponga,

A Servio, a Labeon può gir del paro. E' molto dir: ma col danaro in mano Ogni cosa che brami acquisterai; Giove possiede chi Io Bcrigno ha pieno.

In seguito ella mi pose in mano una scodella di vino , e alquanto distendendomi i diti con pon-i e con aglio mi purgò , e immerse nel vino alcune noci avel- lane, e secondo che stavano a galla o discendevano, ella traeva sue coi ^hietture: in ciò m'ingannava, perchè naturalmente le noci senza midollo, e colme di aria doveano stare di sopra, e le piene andarsi a fondo.

Dipoi ripresa l' oca e sventratala , ne cavò il fegato sanissimo, e da quello mi predisse i casi futuri. Anzi , acciò orma non rimanesse della colj^a, tagliatala a pezzi la infilzò nello spiedo, e imbandì un lauto mangiare a colui, che poc'anzi ella diceva doversi impiccare.

SUFFUMIGI ED INCANTAGIONI 191

Spesseggiavauo intanto i bicchieri di vino, e le vec- chierelle divoravansi allegi-amente 1' oca, oggetto della passata afflizione. Quella finita, Enotea mezzo imbriaca a me rivoltasi disse : or compiremo il mistero onde tu ricuperi i nervi : e al tempo stesso trasse un amuleto di cuoio , il qual bagnato nell' olio e. sparso di pepe minuto , e trita semenza di ortica , a poco a poco me lo andò introducendo nell'ano; di questo unguento la atrocissima vecchia mi unse dopo le coscie; dipoi me- scolando sugo di nasturzio con abrotano, e fattomene bagno ai genitali, prese un mazzo di verde ortica , e mi flagellò leggermente sotto al bellico ; allora io scot- tato dalle ortiche, scappai, e le vecchierelle mi corser dietvo ansanti , e benché fossero disfatte pel vino e per la concupiscenza, pur tennero la mia strada, e seguen- domi per molti vicoli gridavano al ladro , dagli dagli. Fuggii tuttavia, ma ebbi in quella scappata tutti laceri i diti.

CAPITOLO TRENTESIMOSECONDO.

FINE DELLA FAVOLA.

Quando finalmente giunsi a ricoverarmi in casa con a letto tutto stracco , però potei prender sonno , t cagion de' pensieri della mia disgrazia che mi distui bavano ; e considerando nci^suno esservi piìi di me svec turato , io dicea che la fortuna a me sempre nimic avea chiesto in soccorso i tormenti dell' amore ond maggiormente cruciarmi. Oh me tapino! Fortuna e amore unendo le loro forze cospirano alla mia mina e cotesto cattivello d' amore non mi fu propizio giam mai , dappoiché e amante e amato sono afflitto egual mente. Or vedi Criside, che mi ama perdutamente , n lascia di molestarmi, costei, che nell' offerirmi la sua droua mi disprezzava come uno schiavo abbietto , di cui abito io era vestito, costei dico, la quale odiava i mio stato primiero , or ai è messa a perseguitarmi ar che con suo pericolo, e nel dichiararmi la violenza del l'amor suo giurò di volermi sempre attaccato al su fianco. Ma io sol di Circe mi curo , le altre disprczzc Diffatto che vi ha di più avvenente di lei ? qual be lezza simile a questa vantar potrebbe Arianna o Ledai Che sarebbero appetto a lei Elena, o Venere? Parie

FINE DELLA FAVOLA 193

stesso giudice tra le emule dive se costei vedeva al confronto con quegli occhi si vivaci, le avrebbe sagri- ficato Elena, e quante si conoscano dive. Almanco mi concedesse un bacio, mi lasciasse almanco abbracciare quel seno celeste, divino! forse il mio corpo tornerebbe robusto , e le parti che io credo malefiziate , rivivereb- bero. Non mi sgomentano le ingiurie ricevute, non mi ricordo delle percosse , 1' esserne cacciato via mi pare uno scherzo: basterebbemi tornare in sua grazia.

Queste e simili cose e l' idea della bellissima Circe mi riscaldaron la mente in maniera, che io guastai il letto pel mio continuo agitarmi, come s' egli contenesse la mia fiamma. Eppure ancora a nulla riuscirono i miei movimenti. Si ostinata disgrazia ruppe finalmente la mia pazienza , e bestemmiai 1' avverso mio genio di avermi aduggiato. Tuttavìa rimessomi in calma mi diedi a cercare qualche sollievo trammezzo agli antichi eroi, che furono' in cotal guisa perseguitati dagli Iddii, e proruppi in questi versi.

Non sono io solo, cui persegua un Dio. E l'implacabil fato: Ercole afflitto Dalla irata Giunon del ciel sostenne Il peso un di, Pelia tremolio innanzi Poi che la profanò : Laomedonte , sapea contra chi , vibrò lo strale : Telefo l'odio dei gemelli dei Fu astretto sostener: Nettunno il volto Fé' impallidir di Ulisse; e me la grave Sulla terra e nel mare ira persegue Del nume Ellespontiaco Priapo.

Da tali inquietudini tormentato passai tutta la notte

in agitazione, e al primo albeggiare entrò Gitone in

mia camera, il quale avea inteso che io avea dormito

in casa, e stizzosamente mi rinfacciò la vita mia licen-

Petronio. 13

194 CAPITOLO TRENTESIMOSECONDO

ziosa, dicendo che tutta la famiglia lagnavasi fortemente della mia negligenza , per cui rare volte io assisteva alle faccende, e che quella mia pratica mi sarebbe pro- babilmente stata funesta.

Compresi da ciò , eh' egli era consapevole de' fatti miei, e che erasi forse venuto a cercarmi a casa: quindi mi diedi a interrogare Gitone se alcuno aveva chiesto di me. Oggi nessuno, rispose, ma ieri venne una donna pulitamente abbigliata, e dopo avermi lungamente par- lato , e stancomi col suo tanto fiscaleggiarmi , fini, col dire, che tu meritavi castigo e che sarai flagellato come schiavo se chi hai off'eso durerà nella sua collera.

Mi dispiacquero grandemente queste notizie, e tornai da capo a lagnarmi della fortuna : ancora eran finiti i miei lagni che sopravvenne Criside, la qual corsami addosso con caldissimo abbracciamento, io pur ti tengo, disse, come ho sperato: tu se' il mio desiderio, tu la mia gioia, questo mio ardore tu spegnerai, se col sangue tuo non 1' ammorzi.

Assai mi turbò questa sfacciataggine di Criside , e studiai di mandarla via con belle parole, perch' io te- meva che lo schiamazzo di questa matta non giugnesse alle orecchie diEumoIpione, il quale insuperbito della sua prosperità avea usurpata sopra noi un'aria da padrone. Studiai dunque ogni mezzo per acquietar Criside, finsi di volerle bene, le susurrai dolci parolette, insomma si astutamente mi comportai, ch'ella mi credette innamo- rato : le esposi dipoi in qual pericolo ci trovassimo en- trambi s'ella venisse «orpresa in camera mia, per essere Eumolpione corrivo a castigare per ogni menomo che. Ciò udendo ella sorti frettolosamente , tanto più che scorse Gitone ritornare in mia camera, dond'era uscite un momento prima ch'ella venisse.

Appena partita, uno de' nuovi servi corse ad un tratte a me, dicendomi che il padrone era in grandissima col lera per aver io mancato due giorni al mio ufHcio , «

PINE DELLA FAVOLA 195

che io farei beae trovare una scusa qualunque , che valesse; poiché era quasi impossibile che si mitigasse tant'ira senza una flagellazione.

Turbato di bel nuovo ed aftlitto mi rivolsi a Gitone, acciò nulla mi dicesse della donna: diffatti egli non parlò di Eumolpione, suggerendomi che secolui facessi viso allegro, anziché sostenuto. Così feci, e ad esso mi presentai con faccia si gaia, eh' ei non bruscamente, ma con gentilezza mi accolse , e scherzò meco delle mie amorose fortune, e lodò la mia avvenenza e attillatura in pregio a tutte le donne, e dissemi; non ignoro che di te spasima una delle più belle, e ciò, soggiunse, or potrebbe in questo luogo giovarci, o Encolpo : sostieni tu dunque la parte di drudo, ed io sosterrò quella che ho intrapresa.

Stavamo tuttavia chiaccherando allorché entrò una delle più savie matrone del paese, per nome Filomena, la quale ne' suoi bei giorni avea carpite molte eredità, e che allora vecchia e brutta introduceva per le case de' vecchi celibi un suo figlio ed una sua figlia , per mezzo de' quali ella continuava quel suo artifizio. Ella dunque presentossi ad Eumolpione raccomandando alla di lui prudenza i suoi figli, e e le sue speranze con- fidando nella di lui bontà. Disse esser egli il solo in tutto il mondo, che oggi sapesse allevare la gioventù con dottrina ancor sana, e eh' ella insomma lasciava i figli suoi in casa Eumolpione, perchè lo udissero par- lare, locchè era la sola eredità chea que' giovani potea lasciare. altrimenti fece di quel che disse , perchè lasciògli in camera una ragazza bellissima con un fra- tei giovinetto, e finse di andarsene al tempio a far sue preci.

Eumolpione, il qual era si castigato, che io persino gli parca tuttora bardassa, non tardò ad invitar la fan- ciulla ad un sacrificio a Venere. Ma avendo egli detto {d'essere podagroso e tutto sciancato ne' lombi , se non

106 CAPITOLO TRENTESIMOSKOONDO

pei-severava costantemente questa finzione , andava n pericolo di rovesciar tutto il dramma. Perciò, onde ac' ereditare la sua menzogna, pre^ò la fanciulla a sedert sopra di luì adagiato, e ordinò a Corace di stendersi sotto il letto, ov' egli giacca, e appoggiando le man: contro il pavimento sommovesse co' suoi reni il padrone Costui ubbidì gentilmente al comando, soddisfacendo con pari contraccolpi l'abilità della fanciulla; e quandc la cosa s' avvicinava al suo termine, Eumolpione alzata la testa esortò Corace a movere più lesto : nel qual modo il vecchio situato tra il servidore e la bella parea che giuocasse all' altalena.

Una e due volte Eumolpione esegui con grandissime riso anche suo questa faccenda. Ond'iopernon perdere ezian^o le buone usanze, mentre il fratello guatava pet una fenditura il meccanismo di sua sorella, me gli ap- prossimai per tentare se resisteva alla prova. Questo bravissimo ragazzo non rilirossi alle mie carezze , ma qui pure trovai nemico il nume.

La presente fiacchezza non mi afilisse tanto, quanto le anteriori; oltr' a ciò mi ricomparvero poco dopo i nervi, e sentendomi in quell'istante vigoroso sclamai: I Dei di prira' ordine mi hanno restituito alla mia in- tegrità , ed è Mercurio , cui la partenza ed il ritorno delle anime ò confidato, che mi ha per sua grazia reso ciò che tolto mi avea una mano atroce , onde io sarò ora più accetto che non fu Protesilao , o altro <iual vogliasi antico.

Dopo ciò mi rialzai la tonica e mi palesai tutto in- tero ad Eumolpione , il quale a prima vista inorridì , indi, per meglio accertarsi, volle a due mani abbran- care quella grazia di dio.

Un tanto beneficio avendoci messo di buon umore , ci diemmo a ridere della prudenza di Filomena, e della pratica, che avean del mestiere i di lei figli , i qual rispetto a noi non avevano di che migliorare , giacchi

FINE DELLA FAVOLA 197

colei avea consegnato il fanciullo e la ragazza unica- mente per lusinga della eredità. Da ciò venutami ooca- 9Ìon di pensare tra di me a codesta sordida industria di circondare i poveri vecchi , scesi a ragionare sullo stato presente della nostra fortuna, e osservai ad Eu- molpione che i furbi potevano ingannarsi con pari fur- beria. Tutte le azioni nostre, gli dissi, devono andar di concerto con la prudenza. Socrate , per giudicio degli uomini e degli Dii sapientissimo, solca gloriarsi di non aver giammai veduta veruna bettola, adunanza ve- runa soverchiamente affollata. Niente dunque vai meglio, she parlar sempre colla filosofia sulle labbra. Tutto questo è verissimo, perciò nessun uomo deve più solle- citamente rovinarsi di colui che l'altrui roba desidera. Di che viverebbero i bianti, e i monelli, se non sapes- sero adescar la plebe col suono del danaro, che le mo- strano nelle borse e ne'saccoccini ? In quel modo che jli animali muti s'ingannan coli' esca, cosi non pren- lerebbonsi gli uomini per la sola speranza se nessun |)Occone gustassero. A questo fine i Crotouesi ci hanno inora lautamente accolti. Ma non per anco giugne dal- 'Affrìca la nave carica de' tuoi tesori e de' tuoi servi da e promessa. I furbi già esauriti rallentano nella loro iberalità. Laonde o io m' inganno, o la comun fortuna 'avvia di nuovo alle primiere angustie.

Io ho pensato, rispose Eumolpione, come rendere piìi ertesi i nostri furbi verso di noi ; e tratti al tempo tesso di tasca alcuni scritti, lesse questo suo testamento. « Tutti coloro che in questo mio testamento ottengono Icun legato, eccettuati i miei liberti, non riceveranno eredità se non col patto che abbiano a tagliare a ezzi il mio corpo, e mangiarlo in pubblico. E perchè i ciò non inonridiscano più di quel che conviene, è oto che presso alcuni popoli esiste una legge, che gli stinti siano mangiati dai loro parenti, sino a ingiuriar pesse volte gli infermi , per cagione che la lor carne

198 CAPITOLO TRENTESIMOSECONDO

li fa peggiore. Con ciò intendo ammonire gli amici mie a non ricusare ciò che ordino , ed a consumare il mi< corpo colla stessa alacrità colla quale offrono l'animi mia agli Dii, n

Intanto eh' egli leggeva queste prime righe , alcun de' più famigliari d'Eumolpiono vennero incamera sua e vedendogli in mano i fogli del testamento lo pregaroi caldamente a metterli a parte della lettura ; egli accon discese immediatamente, e tutto lesse dalla prima al l'ultima parola. Udendo però essi la necessità di man giarne il cadavere , rimasero oltre modo afflitti di s straordinaria condizione: ma il suo gran credito accie cava gli occhi e la mente di quei miserabili, e stavans innanzi a lui si umilmente , che non osarono lagnare di tal novità. Anzi un di costoro , per nome Gorgia era disposto ad eseguire il patto, purché non avesse ai aspettar lungo tempo. Al che Eumolpione rispose: L non ho certamente alcun dubbio sul rifiuto del tuo sto maco, il quale eseguirà la legge, se tu gli prometti pe un' ora di nausea il compenso di tante ricchezze. Noi hai che da chiuder gli occhi, e immaginarti d'ingoiar non viscere d'uomo, ma centomila sesterzj. Aggiugn che puoi inventare qualche condimento, col quale cac giarne il sapore ; giacché non evvi carne che piaceli per se medesima , ma si acconcia in qualche maniera e rendesi gustosa agli stomachi più delicati. E se vuo cogli esempj persuaderti di ciò, ch'io dico, i Sagontin bloccati da Annibale mangiarono umane carni , senzi che ne sperassero veruna eredità. Lo stesso fecero 1 Petavj in un'estrema carestia, altro guadagnavan in cotal pasto , se non che non si morivan di farai Quando Numanzia fu presa da Scipione, furon trovat alcune madri che nascondevansi nel grembo i corj mezzo manucati de' lor bambini. Finalmente siccome fastidio di mangiar questa carne non può nascere ci dalla opinione, bisogna vincere con ogni sforzo codesi

PINE DELLA FAVOLA 199

avversione, onde lucrarvi gli immensi legati, che io vi lascio.

Eumolpione disse queste sue nuove stravaganze con una maniera si derisoria, che que' malandrini comincia- rono a prendere sospetto delle sue spampanate , onde postisi ad esplorar più d'appresso la nostra condotta e i nostri: discorsi, si accrebbero con tal prova i sospetti e si accorsero che noi eravamo garbuglioni e gabba- mondo. Oltre a ciò alcuni forestieri avevanci riconosciuto: laonde coloro che ci aveano trattato con maggior pro- fusione deliberarono di porci le mani addosso, e vendi- carsene giusta il merito nostro. Ma Criside, che di tutte codeste macchinazioni era consapevole, m'informò della risoluzione presa dai Crotonesi contro di noi: la qual notizia spaventommi in guisa, che all'istante io me ne scappai con Gitone, abbandonando Eumolpione al suo infelice destino. Seppi dipoi di a pochi giorni, che i Crotonesi in-itati che codesto vecchio birbante avesse lautamente vissuto tanto tempo a loro spese, l'avevan servito alla marsigliese. Per intendere cosa questo si- gnifichi, bisogna sapere che i Marsigliesi ogni volta che erano afflitti dal contagio, uno dell' ultima plebe offeri- vasi per essere alimentato tm anno intero a spese pub- bliche e de' cibi i più squisiti; poscia ornato costui di verbena e delle vesti sacre, conducevasi intorno a tutto il paese in mezzo alle esecrazioni, acciò sopra lui rica- dessero i mali della città , indi gittavasi da una rupe.

FINE DELLA SATIRA.

FRAMMENTI

DI

PETRONIO IIj satirico

TRADOTTI DA

MARCELLO TOMMASINI

e

SAGGI DI VERSIONE

DI

LUIGI CARRER

E

ANTONIO CESARI.

FRAMMENTI

DI PETRONIO IL SATIRICO

Scintillano i tuoi grandi occhi lucenti Siccome stelle, e par di rose il collo Mollemente cosperso: più dell'oro E fulgida la chioma , e dilicate S' infiorano d' un letto le tue gote Color vermiglio, e il sangue con il latte Purissimo commisto, il largo petto A te ricolma. Ogni bellezza, o cara , Di posseder t'è dato, onde una diva T'appalesi in sembiante, e con l'eletto Etereo magistero di tue forme Ne fai la bella Venere men bella. La tua man pare argento, e con le molli Dita versi lo stame, onde ne traggi Seriche fila. Il vago pie non calca Minuta ghiaia, e scellerata cosa Savia che t'offendesse aspro terreno La molle pianta; e se sovresso i gigli Tu movi il pie, sotto il tuo lieve incarco Ei s'incurvano appena. Altre donzelle

204 FRAMMENTI DI PETRONIO IL SATIRICO

A vezzi ornino il collo ed a monili , E a gemme il criu; ma tu piacente sei Senza di loi*. Rara è bellezza intera , Quale è in te: se vederti occhio potesse, Non vedria più perfetta altra beltade. Delle Sirene il canto e di Talia II dilicato plettro ammutolito Avrieno alla tua voce, onde si parte Dolcissima paroia , e quel possente Dardo che le ferite alme innamora. Anche il mio cor la ti-afittura sente, Che da te viene, ed argomento alcuno Non V'ha che la risani. Oh le tue labbra Miste alle mie questo crudele affanno Mi cessino una volta: a medicina Di tal valor l'oppressa alma piagata Vincerà la tua doglia. Oh non pi-ecida Il tuo troppo rigor queste infralite Fibre, sia per te a morirmi io tratto; Che se troppa io t'ho chiesto, e una preghiera Pur non disdegni, almen dopo la morte Degna il defunto d' un tuo caro amplesso , E fra le nivee braccia, un'altra volta Forse il defunto sentirà la vita.

II.

Albuzia.

III.

Donzelle a Menfi nate Compre alle sagre usate, E bruni le sembianze Garzon sonanti i crotali Menano Egizie danze.

FRAMMENTI DI PETRONIO IL SATIRICO 205

IV.

La soprintendente ai bagni .... Roso il pollice fino a rischio di perirne.

V.

A vecchia avvinazzata Trema la bocca enfiata.

VI.

Risposero le messi al mio sudore.

VII.

Mena con muta triplice Trivia pel ciel la tua notturna luce, E Febo rapidissimo conduce Intorno all' orbe il di.

VIII.

Di chi ben olezza fuore

Vien da dentro, ingrato odore. >

IX.

L'alma agli umani infusa Sta nelle membra chiusa.

X.

Non rode, no, crudo avvoltoio il core, Come è lepido moto di poeta; Del core ogni vital fibra segreta Rodon solo l'invidia ed il dolore.

506 FRAMMENTI DI PETRONIO IL SATIRICO

XL

A incentivo di libidine ei beve una porzione di rain-a Mi cacciai in un armadio ... Con labbro contorto a de risione.... Quasi tutto il mondo è un mimo in comme dia.... Non insisto a contendere, quando in ciò conve niamo; che quasi tutto il mondo la fa da commediante^

XII.

Pietà celeste diva, a gran ventura Sotto l'ammanto tuo l'uora s'assecura.

XIII.

Ulula orrenda, e infesta La tigre la foresta.

XIV.

Perocché me bene acconciato molestavano le zanzare di primavera.... Poi che gli fu recata la vivanda... La preda di tanti re fu ritrovata presso il fuggitivo.... E noto, ch'essi non sogliono travalicare il sotterraneo napolitano, se non curvi della persona .. E secondo che porta il petauro or di sopra.... Eecaci l'alabastro co- smiano... Sotto i pie... Tullia.

XV.

Ineluttabil Fato.

XVL

La tremebonda asta sorvola.

XVII.

Nuoce chi affetta impero : e eh' io non mento

Affida il gran Pompeo,

Che non fu dell'intero orbe contento.

FRAMMENTI DI PETRONIO IL SATIRICO 207

XVIII.

Con pietra estratta da un'aperta cava.

XIX.

Alta pie cinque è la funerea volta,

Che in poca polve ha si gran salma accolta.

XX.

Di ragni al par tenue lavoro ordimmo.

XXI. Mistlo di mille saporite biade.

XXII.

Disvien sola beltà: non dee donzella A piacer come a piace il volgo , Se vuol parere esser venusta e bella.

Gli scherzi, i sali, i motti ed il linguaggio Pieno di grazia, e il riso, di natura Sovra r alme bellezze hanno vantaggio.

Che gli ufficj dell' arte alla beltade Tolgon piacenza , e se traspare un tratto Brama d' amor , tutta la grazia cade.

XXIII.

Non basta ancora a tue furenti brame ,

Ria gioventù , poi che a noi danno e bando Desti a virtù con la tua tresca infame?

208 FRAMMENTI DI PETRONIO IL SATIRICO

Che sprecan la riposta ampia ricchezza In licor peregrini entro degli orci

I vii mancipj usi alla vile ebbrezza f

Gli aver d'un regno occupa un servo abbietto, E d' un prigion la stanza oggi disgrada Di Vesta il tempio ed il romuleo tetto.

Onde virtù giace sommersa e ascosa In mezzo al fango , e ne va a bianche vele La nave d' ogni infamia ebra e pomposa.

XXIV.

Timor al mondo i numi , ove dal cielo

II fulmin ruppe , e alle città le mura Incese, ed al percosso Ato le vette. Poi Febo , come 1' orbe ebbe raggiato , Risurto all' oriente , e della luna

Ora lo scemo , or di sua vaga luce

Il novello incremento , e per la volta

Eterea i seminati astri diversi ,

E il succeder de' mesi , onde a vicenda

Si parte 1' anno , han quest' enorme vizio

Via via per 1' universo orbe diflfuso.

Si vano error che 1' agreste in prima

Porse a Cerere onore, e della messe

Le sacrò la primizia : indi di grappi

Sul palmite materno ondoleggianti

serto a Bacco ; e de' pastori Pale

Gradi le offerte. Onda non dorme in lago ,

in mar volvesi flutto , ove Nettuno

Non nuoti immerso ; e quel che volge assiduo

Le dotte carte alla notturna face

A Pallade è sommesso. E chi sua speme

Vide adempiuta , e chi per oro e prezzo

FRAMMENTI DI PETRONIO IL SATIRICO 209

L' orbe tradì , vansene folli a gara Inventandosi il dio che li governa.

XXV.

D'un solo unguento a me non piace il crino Sempre impinguar , ne mia ventresca dura All' usata bevanda d' un sol vino.

Ire in vallea eh' erbe diverse appresta

Ama anche il tauro , e a que' diversi paschi Vie più la truculenta erge sua testa.

Lo stesso di giocondo a noi ritorna , Perchè avvicendan 1' ore , e iilternamente Nel fine annotta e nel principio aggiorna.

XXVI.

E adagio : amar nella tua moglie dei Un giusto patrimonio; ma pur sempre Amar mio patrimonio io non vorrei.

XXVII.

Di desir 1' universo e di vaghezza Pari non è : garba il disforme , e spesso Altri la rosa , altri la spina apprezza.

XXVIII.

Dacché in nulla t' abbatti , ove non trovi. Alcun vantaggio , e negli avversi eventi Fia che quanto schernisti , a te poi giovi.

Tal greve 1' or , se sia la nave assorta , L'affonda più; ma la natante salma Da legger remo alla marina è scorta.

Se squilla tromba, alla sua atroaza volto

Petrovio. 14

210 FRAMMENTI DI PETUONIO IL SATIRICO

Vedcsi un brando il ricco; ma le pugne Ride il tapin , che di vii cencio è avvolto.

XXIX.

Lascia il tuo tetto, o giovincello, e cerca Altre contrade , ove t' attende serie Maggior di cose, e negli avversi eventi Del cor fa rocca. Te 1' estremo ormai Istro conosca , te 1' algente Borea , E ì possenti reami di Canopo , E quanti alluma il sole ove si corca , 0 dove surge ; e come ad altro Ulisse Le terre peregrine a te dian senno.

XXX.

Che più presto comporta uomo le fiamme Tra le labbra affogar , che la commessa del segreto: ove un tuo motto sfugga In fra l' auliche tresche , e' di sua voce Via via diti'usa empie cittadi a un tratto , Empie castella : e chi l'arcano infranse Male allor si ricerca : di sue larve Quel nero tradimento si ripara , E primo autor ne vien notando il grido. Tale di porre il vituperio in volgo Del suo signor , fra timido e bramoso , Il garrulo valletto ebbe il terreno Cavato intorno , e la segreta infamia Del re parlarvi. Le concette voci Articolò il terreno, onde i commossi Calami consci ondoleggiando all' aura Ripeteano di Mida il disonore.

PRAMMKNTI DI PETRONIO IL SATIRICO 211

XXXI.

Gli occhi ne illudono , e menzognero Neglige il senso *Ia ragione , Guida infallibile che scorge al vero.

Torrazzo adergersi quadrato vedi Ma se distanza ti divieta Notarne gli angoli , ritondo il vedi.

Satollo stomaco l' ibleo liquore Patir non puoto, e della cassia Le nari fuggono lo spesso odore.

Ne esser potrebbero più o men gradite Le cose, se incostanti i sensi Non contrastassero fra loro in lite.

XXXII.

L' autunno ornai le inaridite fronde Delle piante scrollava , e le lor ombre N' avea già rotto, e con men calde briglie Volgeva Febo al verno. Di sue chiome Scemando l' adornezza iva l' ombroso Platano omai, e sui sermenti brulli Di lor fronde la vigna annoverava GÌ' innostrati suoi grappi : e ciò che 1' anno Promesso avea , tutto offeriasi al guardo.

XXXIIL

Cosi suol l'aria entro le membra addursi Pe' suoi spiragli alle più acute fibre. Poi come fuor spinge , il suo meato

212 FRAMMENTI DI PETRONIO IL SATIRICO

A forza schiude; e non fa sosta prima Quel , che V ossa ne astringe e vi serpeggia : Gelido orror, che l'allentata cute A tepente pudore apra l'uscita.

XXXIV.

Così contro il processo , onde ne dona

Suoi ben natura , annida il corvo in quella Che la bionda il cultor messe accovona.

Cosi ai parti difformi orsa dar suole

Forma lambendo, e senza tresche e amori Figliano i pesci numerosa prole.

Cosi febea tcstuggin , poi che l' uova Sgravidata depose, di sue nari Sol col tepore le fomenta e cova.

Cosi le pecchie entro le in teste cere Fervendo van, senza connubio nate, E il campo adempion di gagliarde schiere.

Non sempre ad una foggia è di natura L'immenso magistero; attemperata Con alterne mutanze è la sua cura.

XXXV.

Chi nel mar ruppe e fu condòtto a male, D'altri non va, con cui plorarne, in traccia, Che di chi incolto è da iattura eguale.

E chi rapir dal turbine la messe

Vide e l'annata, il suo cordoglio affida Meglio a chi tocche ha le distrette stesse.

FRAMMENTI DI PETRONIO IL SATIRICO 213

La morte amica ì tristi: addolorati Mescon lor pianto i padri orbi rimasi, Cui quell'ora funesta ebbe appaiati.

Noi pure al ciel co'nostri caldi accenti Palpiteremo insieme: è di già fama Più le preci congiunte esser possenti.

XXXVI.

Come che orrenda, ogni distretta cessa, Sol che si voglia; che il clemente numa In nostra man la medicina ha messa.

L'umile ortaggio e la mora pendente Dai ruvidi roveti hanno talvolta Satolla la digiuna epa gemente.

Ben uscito è di senno chi lungh'esso Le linfe asseta, o che s'agghiada all' Euro , Mentre accesa catasta arde dappresso.

Veglia rigida legge all'interdetto Limitar d'una moglie; ma tal legge Non teme, no, d'una donzella il letto.

Onde se aflfami, ampia è natura; avrai Di che sbramarti; ma se a gloria aspiri, Affami sempre, e non ti sazii mai.

XXXVII.

Il vii Giudeo, ch'empie ecatombe appresta Al ciacco, e il cielo a propizio invita Coi porti voti all'asinesca testa:

214 FRAMMEKTI DI PETRONIO IL SATIRICO

Se del legai coltello alla ferita Il vel sottragge, onde la stirpe umana La viril sua potenza è rivestita;

Svelto da'suoi, se ne va in terra estrana Da lor bandito, ove il digiano gode Beffeggiar dell' ebraica settimana.

Solo ignobile è il fiacco: si da lode E titolo d'ingenua alma gagliarda Solo a quell'un che della mano è prode.

FRAMMENTI

ATTRIBUITI A PETRONIO.

XXXVIII.

Euscio di T. Petronio Arbitro.

XXXIX.

Entro a breve casuccia, che di tetto Securo si protegge , io mi dimoro , Ciondola dai fecondi olmi pregnante L'uva d'umor: sulle sue rame spessa S'impingua la ciriegià , e rubiconde Mele il bosco , ed a' frequenti ulivi , Da Pallade diletti, per gran frutto Si fiaccano le cime. Ove la breve Di deviate fonti aia s'inaffia, Surge il Coricio erbaggio, e la supina Malva, e il poltro papavero , che largo Di non torbidi sonni a me poi fia. Talor con il zimbello io mi diporto Tesser frode ai pennuti , od i calappj , Por trama intorno, ove di petto dia Fuggevole cerbiatto, o il paventoso

216 FRAMMENTI ATTRIBUITI A PETRONIO

Pesce inamar , e con la tenue lenza Trarlo a ripa : uè' frodi altre che queste Seppe mai mia villetta. Or ne va pure , E di queste fugf^enti ore di vita Menane spreco infra le ricche mense D'alto signore. Oh se morirmi io deggio, Qui qui la mìa suprema ora mi colga Quale son visso , e della calma etade Che travarcai , qui me ne chiegga usura.

XL.

0 piaggia a me piìi dolce della mia Stessa vita! o felice onda che d'ire Hai spesso alla mia villa ampia balia !

0 bellissimi giorni! in quo' beati Recessi la rapita alma accendea II ferver d' Ilio e dei millanta armati.

Qua s' allaga una fonte , alghe ne mette il maricel : sono devote ai fidi Segreti amor queste dimore elette.

A lungo io vissi Q la maligna sorte Più rapir le delizie a me non puote , Che da pria le beate ore m' han porte.

r ire con le vaste onde mal fide Alterna il ciel : qua da tranquillo rio Bagnata la ospitai terra sorride.

s' ange il navigante che li feggia La nave empia fortuna: il pastorello Qua disseta a tranquilla onda la greggia.

FRAMMENTI ATTRIBUITI A PETRONIO 217

la morte spalanca le sue spesse Voragin ghiotte ; qua cadérsi tronca Sotto il curvo falcione ama le messe.

suol sete le fauci in fra cotante

Acque infiammar, qua lo spergiuro ì baci Infiamman si che ne ritorna amante.

Mareggi ed affatichi onda infinita Mendico Ulisse: la sua casta sposa Serene berrà in terra aure di vita.

XLI.

Chi serbarsi ama in parte più matura Età , ne i fati astringe anzi al suo tempo A scior gli stami , onde la vita dura ,

Non ispii la tremenda ira dell' onde Oltre a tal segno : ecco il pie franco in acqua Il flutto che si sdraia sulle sponde.

Ecco tra le verdigne alghe s' appiglia Lento il mitillo , e del suo glauco senno Lungi si trae la lubrica conchiglia.

Ecco u' r onda mareggia e con versa La mossa rena , esce sterrata a vista La pietruzza che tinta abbia diversa.

Quei cui tali sostanze ne si dia

Calcar , fida è la piaggia , si diporti , E giudichi che il mar sol questo sia.

XLII

Forense Cerbero era il causidico.

218 FRAMMENTI ATTRIBUITI A PETRONIO

XLIII.

Del reo congiungersi la gioia è breve , Che sazia Venere vien tosto greve. Oh non agognisi quel reo contento Con la libidine del cieco armento ; Che così estinguesi d' amore il foco. Miglior diletico dia assiduo gioco. Pasciam , giacendoci , di baci amore , Che non ci lassano , ne dan rossore. Tal gioia amabile , che sempre giova Non mai s' invetera, e sempre è nova.

XLIV.

Amar 1' oggetto , ma dirlo già reo , Ercole stesso a gran pena il potèo.

XLV.

Celan lo scudo si che non si veggia.

XLVI. Sol si chiudea sotto la torva fronte.

XLVII.

Delo già scevra da terre intorno , Suir onde lucide natava un giorno , E air urto suddita del vento mosso Scorreva instabile dei flutti il dosso. Ma in doppio vincolo il dio la strinse, E all' alta Giare lei quinci avvinse , E quindi a Micono, che immoto sta.

FRAMMENTI ATTRIBUITI A PETRONIO 219

XLVIII.

Spacci ghiotto le tue malleverie , Qual lupa che si spaccia in sulle vie.

XLIX.

Mette ogni amor scompiglio entro la mente.

L.

Fine di T. Petronio Arbitro.

LI.

DECLAMAZIONE DI T. PETRONIO RETORE.

Che cosa è dolo, o giudice? Certo, quando vien fatta alcuna cosa, che offende la legge. Eccovi il dolo; ora intendete che voglia dir malo.

LII.

FRAMMENTO DI PETRONIO GRAMMATICO.

Disse Orazio: Quia te redonavit Q,uirilem diis pa- ' triis'i dove il nominativo è Me Qtdrites . . . . La voce clastica viene da calare che significa chiamare.

SAGGIO D' UNA VERSIONE DI PETRONIO

PER

L- C A R R E R.

(Gap. I)

Promiai, è si gran tempo, di raccontarvi quanto mi accade, che quest'oggi (da che opportunamente ci tro- viamo adunati, non solo a ragionare di scienza, ma si a condire i giocondi colloquj di ridevoli novellette) ho deliberato attenervi la mia parola :

Fabricio Veientone argutamente narrò non ha guari gli abusi religiosi, e con che maschera di profetica in- vasazione i sacerdoti dichiarino sfrontatamente misteri che spesso ignorano egli stessi. Ma forse non sono esa- gitati da un'altra specie di furie i declamatori che gri- dano : queste ferite le ho tocche per la pubblica libertà, per voi ci misi quest'occhio ; datemi cui m'appoggi per venirne a' miei figli, che i piedi storpiati non possono più reggere queste mie membra?

E sarebbe toUr-rabile tutto questo, se agevolasse il cammino a coloro che studiano eloquenza; ma la tur- gidezza de' pensieri, e il vanissimo strepito delle sen- tenze riescono solo a far si che appena entrati nel foro, si trovino come in un altro mondo. S'io stimo che ì ragazzi inasiniscano nelle scuole, egli è perchè nulla veggono e ascoltano de' fatti nostri 5 ma pirati con ca*

SAGGIO d' una versione 221

tene sul lido; tiranni che compilano editti, pei quali s'ingiunga a' figliuoli di mozzare il capo a' parenti, re-' spensi in tempo di pestilenza di tre o più vergini da sagrificare; giri lusinghevoli di parole; detti e fatti, ogni cosa, come a dire, insaporato di sesamo e di pa- pavero.

A chi s' alleva di tal maniera tanto è possibile ad- dottrinarsi, quanto gettar buon odore chi bazzica per cucine. Foste voi primi, portatelo in pace, a mandarne a male l'eloquenza; da che gonfiando con voti e inetti vocaboli non so che bolle, toglieste al corpo dell' ora- zione il nerbo e la vita.

Non ancora esercitavansi i giovani nelle declamazioni, quando Sofocle o Euripide trovarono parole appropriate al discorso. Non ancora il pedante zoticone aveva al- loppiati gl'ingegni, quando Pindaro e i nove Lirici non s'arrischiarono di cantare omerici versi. E per non ci- tare soli poeti, certo Platone ne Demostene sonosi dati, eh' io sappia, a siffatto genere d' esercizj. La no- bile, e, a cosi dire, pudica orazione, non è imbellettata tronfia ma per naturale avvenenza grandeggia.

Testé questa ventosa e importabile garrulità tragi- tossi dall' Asia in Atene, e spirò nel petto de' giovani meglio disposti quasi un influsso pestilenziale ; onde che l'eloquenza perduta la buona direzione, rimase e si tacque.

Da indi chi gareggiò con Tucidide, chi con Iperide ? pure un verso spiccò per sano colore ; ma tutti nu- driti d' uno stesso latte, impediti furono di giugnere a canuta attempatezza. Fu il somigliante della pittura, da che bastò l'animo agli Egiziani di ridurre si grande arte a compendio.

Cosi a un dipresso declamava già tempo; ed ecco Agamennone accostarcisi , e sguardato di chi s'ascol- tassero tanto attentamente i chiacchieramenti, gli seppe male ch'io declamaasì più a lungo ne'portici di quello

222 DI PETRONIO

sudasse lui nella scuola ; e, giovinotto, mi disse, poiché discorri fuor del comune, e (rara cosa !) ami il retto giudizio, t'introdurrò nell'arte secreta. In questi esercizj non è de'maestri la colpa, costretti ch'e'sono ad impaz- zare co' pazzi. Si provino a non andar a versi degli scolari; toccherà loro, come disse già Cicerone, inse- gnare alle panche. Come gli adulatori provetti, uccel- lando le cene de' ricchi, nulla pììi mirano che a dar nel genio della brigata, ne d'altra maniera otterrebbero il loro intento che tendendo, quasi dissi, lacciuoli agli orecchi ; similmente chi insegna eloquenza, se all' uso de' pescatori non inescasse gli ami di ciò che meglio appatiscono i pesciatelli, se ne starla sullo scoglio a desiderare^ la preda.

Che monta? Dovrebbesi attaccarla ai parenti, che non vogliono e' loro figliuoli sieno ammaestrati severa- mente. Sulle prime assoggettano all' ambizione, come tutto, le proprie sper.n nze ; di poi, impazienti di venirne agli efi'etti, cacciano al foro oratori in erba, e come che confessino eglino stessi nulla avervi più grande del- l'eloquenza, lasciano professarla a' fanciulli col guscio in capo. Che se sofferissero si andasse passo passo, ac- ciocché i giovanetti studiosi con severe letture si tem- perassero, a'precetti della sapienza gli animi compones- sero, stornassero con inesorabile stilo il già scritto, a lungo udissero ciò ch'indi imitare, nulla avendo a ma- gnifico di quanto allucina i ragazzi , 1' alta orazione ricovererebbe la primitiva importanza. Ora i fanciulli si danno bel tempo alla scuola, i giovani sono beffati nel foro ; e, ciò ch'è pei'gio, nessuno, invecchiato, vuol con- fessare di non aver nulla appreso.

LA NOVELLA

DE li LA MATROIVA EFESI IV A

DI PETRONIO

Volgarizzata da ANTONIO CESARI.

Fu già in Efeso una matrona in tanta fama di pu- dicizia, che eziandio dalle terre vicine tirava le femmine a vederla per meraviglia. Ora essendole morto il marito, non contenta di seguitar, com'era in costume general- mente, il funerale di lui co' capelli scarmigliati, e di darsi coram populo nel nudo petto, accompagnò il corpo altresì dentro del monumento, ed essendo posto (come fanno i Greci) sotterra, si mise a guardarlo di e notte piangendo continuo. Macerandosi adunque cosi, e deliberata di voler morire di fame, non fu mai potuta da ciò rivolgere ne da' genitori, da' parenti; ed es- sendovisi messo da ultimo eziandio il maestrato, n'an- darono con la repulsa. Onde compianta da tutti per donna di esempio miracoloso, era già venuta al quinto di senza romper digiuno. Stava allato seduta all'addo- lorata donna una fante sua fedelissima, la quale pre- stavale eziandio le sue lagrime, ed ogni volta che la lucerna posta nel monumento fosse venuta meno, rifor- nivala d'olio. Adunque in tutta la città non si parlava

224 LA NOVELLA DELLA MATRONA EFESINA

che pure di questo fatto ; protestando {affermando) tutti gli ordini delle persone unico al mondo essere quello specchio di pudicizia ed amore che cosi risplendcva.

In questo mezzo tempo il governatore della provincia avea fatto impendere alle forche alquanti ladroni lun- ghesso quel luoghicciuolo medesimo, nel quale stava la donna piangendo sul morto. Ora era stato ordinato la notte appresso un soldato a guardia di quelle forche; non forse alcuno ne levasse i corpi per loro dar sepol- tura. Costui avendo posto mente al lume, che in uno de'monumcnti splendea più chiaro, e udito il nicchiarsi che facea la donna piangendo; come porta il vezzo degli uomini, entrò in desiderio di sapere quello che fosse ciò, e chi sei facesse. Si mise giii pertanto nel mo- nimento , e veduta la donna bellissima, al primo, a vedere un mostro od una larva d' inferno, turbato si resse ; appresso come gli venne veduto il cadavere posto, e ragguardate le lagrime e la faccia di lei solcata dalle ugne, indovinando (quello che era) la donna dal dolore del morto essere spasimata {non trovar luogo), le arrecò laggiù quel po'di cenetta che avea ; e pian- gendo lei, la cominciò confortare. Non volesse menar più in lungo queir inutil dolore, trassinar il petto con un (quel) gemito che a nulla le gioverebbe; tutti gli uomini convenir venire a questo, come anche al medesimo domicilio ; e di questa fatta altri conforti, da ricondurne a sanità gli animi esulcerati. Ma la donna trafitta da quella ignota {ignota consolatione percussa) consolazione, rimise mano a fendersi il petto più dura- mente {fieramente), e svellendosi i capelli, li pose ad- dosso al cadavere. Ma non per questo si parti il soldato anzi coi conforti medesimi si provò di condurre a man- giare la fanticella {muliercula;. Intendo della fante): finché essa certamente da lui vinta (soggiogata) all'o- dore del vino, ed alla pietosa profferta cominciò a stender la mano. Cosi dal cibo e dalla bevanda rifo-

LA NOVELLA DELLA MATRONA EFESINA 225

cillata (riavuta), mise mano ad espugnare l' ostinato {V ostinazione) proponimento della padrona ; ed, or che ti farà, disse, che disfatta dal digiuno tu muoia ? che viva ti seppellisca ? che prima del destinato tempo (in- nanzi ora) ne mandi l'anima non condannata ? 0 credi tu che la cenere e'morti seppelliti facciano di ciò gran caso? 0 speri forse, in dispetto dei fati, il morto tornare a vita? 0 non vuoi tu anzi che riscossa da questo er- rore donnesco , goderti il ben della luce ? quanto gli Dei tei consentano ? ma esso cadavere di questo morto ti dee confortare d'aver cara (di guardarti) la vita. Non è al mondo persona che indispettisca, perchè di man- giare e di vivere gli sia fatta forza. Per queste parole la donna attenuata (assottigliata) per l'inedia di tanti giorni, si lasciò piegare dal duro proposto ; e non meno cupidamente che la convertita fante l' avesse fatto mangiò quanto potè capirvene. Del resto, sapete voi forza di tentazione che soglia avere negli uomini la sazietà? Colle lusinghe medesime, onde il soldato re- cato avea la padrona a consentire di vivere, con le me- desime ebbe altresì espugnato (assalita) la sua pudici- cizia. Il soldato, che era giovine, non parve alla casta donna una befana ne mal parlante; mettendoglielo in amore la fante (riscaldandola nel costui amore la fante), la quale seguì dicendole: 0 repugnerai tu ancora ad un amore che ti solletica ? (che ti va a genio f che ti gradisce f) e non ti sovviene anche il luogo, nel quale tu sei ? Che bado io più ? In questa parte eziandio gli si rendette la donna più malagevole (fu più ritrosa la donna): e il soldato vincitore come dell'una cosa cosi dell'altra la- tirò ad esser contenta. Giacquero adunque insieme ; e non pur quella notte delle sponsa- lizie, ma e il seguente ed il terzo ; avendo chiuse (s'intende) le porte del monimento, per far credere ai conoscenti e agli strani, se alcuno colà ne fosse venuto, la castissima moglie essere spirata sopra il cadavere Petronio. 15

226 LA NOVELLA DELLA MATRONA EFESINA

del morto marito. Adunque il soldato assai contento si della bella donna, e si del segreto del loro amore, tutto quel po' di bene che gli dava la sua possibilità, com- pratolo, di presente portavalo nel monumento.

Ma i genitori di uno degli impiccati, veduto che la guai dia era fatta loro più al largo [lor più cortese), di notte ferma nel dispiccarono e gli diedero sepoltura [fecero il mortorio, il meatiero). Mentre adunque il sol- dato cattivello {affascinato , circumscriptus. Altri ha circumspectus, o circumpectus) se la piglia un po' con- solata, l'altro di vede da una delle forche spiccato il morto. Il perchè aspettandosi la morte, raccontò ogni COSA alla donna; protestandole ch'egli non aspetterebbe sentenza del giudice, ma colla spada sarebbesi im- posta la pena della sua scioperaggine, solamente ella gli desse al morire la mano, {leggo : manum morituro commodaret sibi) e concedesse il fatai monumento a comune all'amico e al marito. La donna, non meno pietosa che casta; Cessi Iddio, rispose, che io nel me- desimo tempo voglia essere spettatrice di due morti di due persone che di tutte ho carissime : io patirò meglio d' impendere un morto, che un vivo ammazzare. Cosi detto, l'aiutò levare {così mi par da voltare il jusait <o^^/) dall'arca il cadavere del marito e impendere alla croce rimasa vota. Il soldato non si lasciò scappare {usò, prese a Locca baciata, di bel patio), l'argomento {il trovato) della savissima donna : di che il appresso la gente uscita di diceva: Or come dee essere stato che il morto è risalito sopra le forche ? La commedia fu risa da' navichieri ; arrossando non poco Trifena » che si lasciò amorosamente cadere sul collo di Gitone. Non rise già Lica ; ma crollando per ira il capo, ri- 1 spose: Se il governatore avesse voluto esser giusto, egli era da far riporre nel moniraento il cadavere del marito, ed in costui scambio cacciar sulle forche la donna.

LETTERE 227

Cariaaimo Sig. Don Carlo

Verona li 19 del 1826.

0 fatta 0 guasta, io n'ho pur cavate le mani : dico, che ho fornita di voltar nella nostra lingua la novella della Matrona Efesina. Ella mi dirà, quanto a pozza le sarà parata calante da quella che si aspettava. Non successi^ at feci seduto, dicea Davo o Siro. Ella ve- drà che qui e qua io lessi variamente , secondo Jiltri testi : e mi dirà se abbia colto nel segno. Ma colui non iscrisse il puro romano : di che non si può sempre ac- certare nel senso inteso da lui. Ella nrii segua ad amare, come

Al Chiariss. Sig. Abate. Prof. D. Carlo Bologna nel Seminario

Tutto suo Cesari.

a Vicenza

Chiariss. e Cariss. D. Carlo

Verona li 6 Febb. 1826.

Il ritardo da lei messo a rispondermi circa la no- vella Efesina, mi facea quasi temere, non forse... che so io ? Or lodato Dio ! che ne fu altro ; e mi piace, che tanto le sia piaciuta. Vengo alle osservazioni sue. Ben dice dell' hypogaeum : non vi posi cosi mente : che an- che a me quel sotterra parca poco. Direm dunque

228 LETTERE

grotta, volta, cella sotterranea, ridotto sotterra. Il no Btro sotterraneo sostantivo, sarebbe tutto desso il Greco Complorata, non è il compianta, appunto dal luctus \ Vorrebbe ella aggiungervi mutando cosi ? Pianta pei morta ? nel qual caso direi cosi : Onde pianta da tutti per morta, questo esempio miracoloso di donna. Ovvero Onde essendo già fatto il corrotto a questo esem.... Cla rius (lumen). A me parve appunto avverbio compara tivo, a cagione dell'in^er monumenta ; il che accenns (ed è verisimile) che altri lumi erano negli altri sepol cri, ma questo della matrona splendeva più, perchè la fante il tenea racconciato d'olio. Io dunque non mute rei. Quis aut quid faceret, lessi io, e lo scritto da lei non intendo ; e il dire che fosse ciò e chi sei facesse mi pare il vero. Superoacuo et nihil profuturo : bene sta, cacci il le dicendo, che nulla montava, ovvero c/t< non facea nulla. Ignota consolatione perculsa. Volendo servare il modo di Petronio, mi parve da dire, da quelle ignota consolazione, per non fare una chiosa della pa rola ignota: tuttavia, se le piace, diremo esacerbate dal conforto datole da non sapea chi. Supra pectus. . fu un mio fallo di occhi o di penna : legga pure soprc il petto del morto. Midierculae. Io già ne dubitava che egli accennasse alla matrona; e tuttavia non s( vedere il perchè solamente qui le dia questo nome. L sarei tentato in luogo di femminella, donnicciuola, ec dire la tapinella, finché la fante, ecc. I versi latin volterei sottosopra cosi :

u Dunque anco pugnerai contro un amore Che t'è si dolce (caro) e non ti viene in mente In qual terra tu sii? »

e gli altri:

u Or credi che ella cenere e agli spirti Sotterra d'este ciance importi un frullo ? «

LETTERE 229

Nec hanc quidem corporis partem, eie. Se Petronio accenna alla cosa di Rustico , come vuol ella serbar il pudore? Io tenterei cosi: di questo servigio del corpo tziandio gli fu men la donna cortese ; ovvero, di questo la donna gli si risparmiò; ovvero eziandio da questo lato gli fu la donna meno di stessa cortese ; ovvero eziandio da questo lato si tenne la donna di fargli copia di se. Del resto quel che io aveva scritto, gli si rendette più malagevole, ovvero ritrosa, non era una mala cosa. Certo a me par che meglio si penerebbe a trovare. Quanto al pudicissima, perchè non usarlo, e con questa collocazione ? essere sopra il corpo del gia- cente marito la pudicissima moglie spirata. Locum ser- veremo, invece di manum. Solamente, dovendo egli mo- rire, le prestasse il luogo. Forse Petronio adopera locum, per comodità,, ec. nel qual caso quello che io dissi, gli desse al morire la mano, sarebbe ben detto; ovvero lo accomodasse al morire. Dica pure salito sulle forche.

Ecco ogni mio parere. Resta che ella me ne ridica il suo ; e se vuole, non badi tanto a farlo, e lo faccia in lettera meno araba, che certo dovei sudare a rico- glierne il senso. Vale, et me ama.

Al Oliar. Sig. Abate Sig. D, Carlo Bologna nel Seminario

Il suo Cesari

a Vicenza.

Cariss. Sign. D. Carlo.

Parmi che siamo quasi in ogni cosa accordati. Quanto al tapinella, e al donnicina, va bene... ma che raro

280 LETTERE

■chorzo è qui di Petronio, dopo aver sempre nominat la tionna o matrona o mulier, uscire in questo mulieì culiie f non so vederlo. Mi creda (vorrei quasi dirle noi mcttiam forse in capo agli scrittori morti di quell cos % che loro non passarono mai per la mente. Die il medesimo del ripeter le voci medesime, l'una vicin all' altra. Io notai in Cicerone e nel Boccaccio e n( Classici, come essi non posero punto cura a queste so tili osservanze : e quando la voce va bene nel luog suo, ve la lasciano : e stieno le altre simili nel lor luo,;o. Questo ho notato io cosi mille volte come una Il ])rima nocte debba essere sul far notte, o sulV an Tìot'are. Quanto al j^artem corporis, ec. ella nota ben quel medesimo che io : ma qual bisogno è cosi strctt A&W astinenza, o (ìi^W astenere quando altri verbi e mod dicono quel medesimo ? Se le piace questo. in que sta parte fu piti ritrosa la donna (ed è coperta l'oscu rìtà col parte, la quale ha doppio senso e triplo, no; dic>!ndo3Ì parte del corpo), stia con esso; ovvero pigi questo : in questa parte fu la donna più continenti ov\ero ritenuta; che in fine in fine hanno in corpo l abstinuit. Ma perchè non s'acqueta clls. dei piìi chiare pel clarius Or non è troppo ragionevole che in que sepolcri (erano molti) fossero molti lumi? e che que della matrona avesse fiamma più chiara, essendo dall fante rifornito d'olio, che non erano gli altri? Tornand al corporis partem : or non sarà inteso il volgare, fi non leggendo il latino ? egli dee cosi essere inteso in h\ tino come in volgare; e chi non intende quello, quesl (Questo mi pare che basti ; e mi creda con vero affefe

Tutto suo A. Cesari, Virona li 9 Febb. 1826.

Al Chiar. Sig. Professore Big. Carlo Bologna

nel Seminario a Vicenza

LETTERE 231

Carie». Sig. D. Carlo.

.... Lo hypogaeum della matrona Efesina sarebbe forse meglio voltato in sotterratorio, che è del Firen- zuola nell'Asino d'oro. Ella mi ami come fa

Verona li 24 di Maggio 1826,

Al Oliar. Sig. Professore

Sig. Carlo Bologna

nel Seminario

Il suo Cesari

a Vicenza.

NOTE

Pagina 3, linea 7.

Senatore, autor di due satire , l' una contro i sacer- doti del tempo suo , 1' altra contro ì senatori , che fa- cean traffico di giustizia. Per quest' ultima Nerone lo esiliò. Taci'o negli Annali lib. 14. Giovenale nella sat. 4 fa menzione della sperticata sua cortigianeria. Pag. 4, lin. 6.

Conditi di papavere e di sesamo , dice il testo : due ingredienti di un gusto piccante, ma senza sapore : forse io avrei meglio reso la lettera, e il senso originale tra- ducendo discorsetti dolciati, e brodi lunghi. Pag. 4, lin. 18.

Nove lirici principali contò la Grecia : Pindaro, Al- ceo, Stcsicoro, Anacreonte, Ibico, Bacchilide, Simonide, Alcmano e Saffo. Pag. 5, lin. 10.

Nella orazione in favor di Celio. Pag. 6, lin. 3.

Poeta satirico paragonato da Orazio ad un torrente che insieme a quantità di fango trasporta qualche gemma,

NOTE 233

Pag. 6, Un. 15.

Atene. Pag. 6, lin. 16.

Taranto, colonia de' Lacedemoni. Pag. 6, lin. 16.

Napoli. Pag. 7, lin. 19.

Fazzoletto di lana , con che le donne volgari si co- privan la testa , presso a poco come il mezaro delle Genovesi nostre. Altri lia creduto che la vecchia in questo luogo si avesse alzato il gonnellino, ed altri che allargando il mantello allo smarrito giovine, gli usasse un atto sconcio. E che non credon gl'interpreti? Ma poi ch'ella indicò una casa, dove il giovine entrò, que- sto modo di scoprirsi nell' atto stesso la faccia , è una gentilezza, parmi che giovi malignar sulle voci per ispiegarle oscenamente , tanto più che Petronio non scrupoleggia gran fatto in queste materie, e le scrive

Senza velami o giri di parole.

Pag. 7, lin. 22.

Ne' luoghi di postribolo, come anche ai tempi nostri in alcune grandi città, una iscrizione posta sopra ogni uscio annunciava il nome della cortigiana che vi abi- tava , e il prezzo eh' ella esigeva. Giovenale dice di Messalina , che ita in uno di codesti bordelli prese il nome di Licisca , tituìum mentita Liciscce (sat. 6), e cosi fece porre sul cartello , giacché la voce titulum indica l' iscrizione. Abbiamo da Apollonio Tirio una di codeste iscrizioni , eh' è riportata in quasi tutte le edizioni di Pefronio nelle note , ed è questa : Quicum- que Tarsiam defloraverit, mediam libram dabit,postea populo patebit ad singulos solidos. Pag. 10, lin. 3.

Avvertono alcuni commentatori , che un gladiatore

284 NOTE

condannato a morire, ei-a mandato a combattere sopra un tavolato eretto nell' arena , il quale spalancavaai improvvisamente, gittando il reo in bocca ai leoni, che vi eran sotto appiattati. Pag, 16, Un, 5.

Il Sistro era uno stromento di metallo consagrato dagli Egizj alla dea Iside , i cui sacerdoti se ne va- leano per accompagnar colla musica i loro sacrifizj , e da ciò eran detti Sistriati. Pag. 17, lin. 4.

Da queste parole il signor Ignarra nella sua disserta- zione De Palaestra Neapolitana deduce due prove : la prima che il luogo qui citato fosse Ercolano , che ai tempi di Tito rimase sepolto sotto le lave del Ve- suvio , e che ora dal portico di cui era ornato il tem- pio d'Ercole chiamasi Porrci, ed è villeggiatura reale ; la seconda che le aggiunte attribuite al signor Nodot, e- che la maggior parte de' critici rifiuta , appartengano veramente al testo originale di Petronio, e quindi ab- biansi ad avere come parte integrante di quest'opera. Del che noi abbiamo abbastanza parlato nella prefazione. Pag. 19, lin. 9.

Questo Epigramma trovavasi prima tra i frammenti di Petronio, appartenenti ai Satiricon , che non sape- vasi ove collocare. Ma il Codice di Belgrado trovato del signor Nodot lo pone in questo luogo, e par che ci calzi. Pag. 22, lin. U.

Credono alcuni, che qui si alluda al luogo, dove Nerone mandava a vendere quanto egli nel furore delle sue notturne pazzie, e per una invincibile inclinazione al furto, come avverte Tacito nel libro 15, andava ru- bacchiando. Pag. 24, lin. 12.

Forse specie di sgherri, o d'imbroglioni, che stavano sullo spiar le occasioni di buscar danaro alle altrui spalle.

NOTE 235

Pag. 26, lin. 8.

L'ortolana che accompagnò Encolpo, e la donna ve- nuta poco sopra col villano, e queste, ed altre in se- guito, sono sempre descritte aver la testa velata. Fu diffatti costante uso delle donne romane di non sortire giammai sen^ia velo o pannolino sul capo, come in tutti i tempi e quasi in tutte Je nazioni le femmine hanno praticato, e spesso per un precetto di religione, Pag. 26, lin. 22.

Il signor Ignarra in una sua nota a pag. 187 della citata opera avverte esistere tuttavia codesta Grotta in vicinanza di Napoli, e cita in proposito questo passo di Petronio. Pag. 27, lin. 4.

Est dignus Roma lociis quo Deus omnis eat. Pag. 27, lin. 13.

Cosi mi è sembrato poter tradurre le parole monstrata subtilitate per alludere ad una maniera di dire italiana, colla quale per indicare malattia etica, o all'etisia ten- dente, per disordini giovanili, o per debolezza di petto, suoi dirsi mal sottile. Pag. 27, lin. 22.

Misti, forse derivazione dalla voce mysterìum, erano detti i sacerdoti che ad un tempo stesso servivano al culto di Bacco e di Priapo. Nelle cerimonie relative a Priapo portavano alcune immagini dette Phalli, d'onde eran detti Phalliphori. Pag. 30, lin. 33.

Ognun sa che i Romani usavan mangiare distesi sopra letti presso a poco della forma dei moderni sofà, te- nendosi rialzati sul gomito sinistro, onde servirsi libe- ramente della mano destra. Svetonio nella vita d'Au- gusto fa osservare che tre di tai letti intorno ad una tavola, e non più di tre persone per ciascun letto for- mavano il più compiuto e civil convito di que' tempi, ed erano, per cosi dire, il sommo dell'etichetta. Vedremo

236 NOTE

più innanzi, che le mense presso i grandi erano di te* gni finissimi, e principalmente di cedro, d'ebano, e si- mili, per lo più di lastre d'argento contornati o coperti. Pag. 31, lin. 3.

Era nel culto di molte divinità de' gentili l'onorarle con vigilie, o veglie, le quali duravano tutta una notte, e consistevano per lo più in enormi prostituzioni, che bisognò finalmente proibirle. Credo che tutta questa scena di Quartilla altro non sia che un divolgamento de' misteri delle Baccanti. Pag. 33, lin. 17.

Cosi detto dai tre letti che stavano hitorno alla ta- vola. Pag. 36, lin. 9.

Ecco le prime pennellate (dice il sig. Nodot) che l'autore dh al ritratto del suo eroe. Egli lo rappresenta vecchio, e il fa giocare con ragazzi osceni, quali erano codesti fanciulli dai capegli lunghi, giusta il sentimento di S. Ambrogio, il qual riportando il proverbio de' tempi suoi, dice: nullus e orna tua , qiii non idem cinaedua.

Trimalcione gioca coi calzari, soleatus, per mostrare che fa ogni cosa a controsenso, perchè questa calzatura si usava soltanto al sortir del bagno per passare a ta- vola, e non si entrava nel bagno che dopo aver gio- cato: perciò il gioco della palla trovavasi parimenti ne' luoghi de' bagni. Pag. 36, lin. 27.

Praticavasi veramente di passare dalla Cella caldaria alla tepidaria, poi alla /W^ tenaria, ma qui si balza dalla prima all'ultima senz'altro pensiero, e ciò sicuramente

Ut solidet calidam frigida lympha cutem, come dice Sidonio Apollinare.

Pag. 37, lin. 22. Seneca nel III libro De ira dice che alle porte de'

NOTE 237

palazzi stavano grossi cani per assalire; e Artemìdoro narra che alcuni contentavansi di farne dipingere, o porre in rilievo sulla parete presso la camera del cu- stode con questa iscrizione CAVE CANEM ; locchè fece dire a Varrone nel T. delle Eumenidi Cave canem inecribi Jubeo. Alcuni credono che tali parole rinchiu- dano una morale, cioè di stare in guardia de' maldi- centi, che abbaiano contro tutti. Nota del signor Nodol. Pag. 37, Un. 26.

Alcuni trovano in questa descrizione un doppio senso. Pag. 38, iin. 17.

I Sestiviri 0 Seviri augustali , erano confraternite, 0 sacerdozj istituiti in onore d' Augusto imperatore, dopo che venne deificato. Cosi Claudio, Flavio, Vespa- siano, Elvio, Pertinace, Adriano, ed altri essendo stati posti nel novero degli Dii, ne ebbero i sacerdoti che dicevansi seviri, a sodali Claudiali, Flaviani, Elviani, Adrianali, ecc. Il Sevirato era però una dignità ad tempus, che poteva essere confermata, come rilevasi dalle antiche lapidi riportate dagli storici, e dagli an- tiquarj. Pag. 38, Iin. 30.

Inciviltà e funesto augurio sarebbe stato entrare ne' templi, o nelle case de' grandi , cominciando col piede sinistro. Pag. 39, Iin. 5.

Sesterzj piccoli, cioè poco più di cinque paoli romani. Pag. 39, liu. 11.

Fu sempre costume che i maggiori venissero ne' giorni anuiversarj della loro nascita regalati dai mi- nori. I clienti mandavan presenti, i ponti recitavano versi, e cosi del resto. Simili regali si fucean pure, e si fanno gli amici fra loro , perchè l'uso de' regali re- ciproci fu sempre in voga presso ogni nazione civilizzata. Pag. 41, Iin. 35.

L'uovo di pavone era uno de' più cari alimenti ai

238 NO IT!

leziosi Romani. Ecce res non miranda aolum, sed pu- denda, ut ora pavonum quinis denariis vendant, dice Macrobio nel lib. 3, cap. 15 de' Saturnali ; ed abbiam da Vairone che un tale Aufidio vendette una partita di codeste uova oltre a 60 mila scudi nostri. Pag. 42, lin. 21.

Come gli schiavi della Siria, cosi quelli della Media e dell'Etiopia, e generalmente delle più lontane regio- ni, formavano un articolo di lusso presso i Romani. Pag. 42, lin, 31.

Nell'anno 632 della fondazione di Roma, essendo console Opimio, la stagion fu asciutta, che ogni sorta di frutti rimase squisitissima. Il vino principal- mente riesci egregio, e tanto se n'ebbe cura, che col- l'andare del tempo usavasi dire vino Opimiano ogni vino vecchio che servivasi alla mensa de' grandi.

Jpae capillato diffuaum Conaule potai, Calcatamque tenet bellis socialibua uvam,

dice Giovenale nella Satira 5, perchè oltre all' epoca di Opimio quella pur fu celebre in questo proposito della guerra sociale, e quella di Anicio, menzionata da Plinio (lib. 14, cap. 4 e 14), e quelle di Torquato, e di Bibulo, delle quali dice Orazio:

Tu vina Torqttata move

Conaule preasa meo. Epod. od. 13,

Cesaantem Bibuli conaulia amphoram. lib. 3, od. 28.

ed altre finalmente che gli scrittori rammentano. Pag. 44, lin. 23.

Cioè della musica, la qual traevasi da alcune canne disposte a guisa d'organo , le quali urtate o in altro modo dall'acqua agitate rendevano un suono rumoroso. Sembra che Nerone introducesse nell'Anfiteatro questo

NOTE 239

istromento onde render più grate le corse de' carri, come ad imitazion degli antichi (salva la diversità degli istroraenti) usiamo noi pure in tali occasioni. Veggasi Svetonio in Ner. Pag. 45, Un. 7.

Nella religion de* romani ammettevasi l'assistenza di un genio particolare a ciascuna persona, presso a poco simile a ciò che si ammette da noi rispetto agli Angioli custodi. Pag. 45, lin. 10.

Adopero volentieri questa voce corrispondente alla greca tapanta di Petronio, perchè usolla Lalli nell'E- neide travestita, e credo che trovisi anche nel Mal- mantile. Pag. 46, lin. 1.

Modo proverbiale per indicare una grande estensione di terreno. Dice Persio nella sat. 4.

Divea arai curribus quantum non milvua oberre. Giovenale nella 9.

Die passer , cui tot montes, tot praedia servas Apula, tot milvos intra tua pascua lassosf

Pag. 46, lin. 26.

Gli spiriti incubi, giusta l'antica credenza, custodi- vano i tesori nascosti sotto terra, e portavano un cap- pellino, che bisognava toglier loro dal capo, onde for- zarli a dichiarare dove fosse il tesoro. Pag. 47, lin. 13.

Nella edizione di Bordelot è detto: Nam inihi nihil novi potest ad/erri ; sicut illi fericulo : melleam habuit praxim. Confesso che io non saprei tradurre queste parole, si che accordassero fra loro. Ma sin dal prin- cipio avvertii che non riporto le varie lezioni del mio testo, altrimenti se ne triplicherebbe il volume.

240 NOTI

Pag. 49, liu. 36.

Molte specie di datteri racconta Plinio, ma quei di Siria e Palestina, e quelli dei deserti di Tebe, cioè del l'Egitto vicini al gran Cairo (illustri presso noi pel ro- mitaggio degli Anacoreti) aveano fama, e l'hanno, di essere i più squisiti. Pag. 50, lin. 35.

Da ciò e derivato , che il cappello e il berretto e i capei lunghi son divenuti insegna di libertà. Perciò (dice il signor Nodot) i primi Franzesi furon detti Co mali e Fileati, tosto che ebbero scosso il giogo de' Romani. Pag. 51, lin. 15.

Nessuno di noi ignora cosa sia vino santo in Italia Egli è un vino aftatturato con diversi metodi, e cIk comunemente si ammette come una ghiottornia ricer cata, I Romani usavan una quasi simil bevanda, mas simamente ne' conviti. Essi avean pur vari metodi pei comporre questo vino, e il più comune era quello d mescervi il miele col succo di alcune erbe odorifere Nondimeno egli era più volte uua specie di spirito, ( forse in questo luogo vuol accennarsi da Petronio uni bibita spiritosa, come il punch ai di nostri. Pag. 53, lin. r,0.

La gente Safinia apparteneva a Napoli. Pag. 54, lin. 3.

Cioè, fosse ampolloso e figurato. Nel principio si i visto che Petronio attribuisce la decadenza del bell< stile alle maniere asiatiche introdotte nella Eloquenzi latina. Pag. r.4, Un 31.

Avere i pie d'oca, e averli di lana, come porta i testo, parmi tuttuno. Ognun conviene che l'espression in questo luogo suona lo stesso quanto fare il sordo. Pag. 55, lin. 20.

Questa è una scappata improvvisa, applicabile sicu

NOTE 241

ramente alla moglie o amica di Trimalclone, quella cioè che conduceva il carro, com'era costume di alcune donne Romane, per quanto nel primo de' Saturnali av- verte Giusto Lipsio. Pag. 55, lin. 24

Gli adulteri erano condannati al furore de' tori. Eran puniti colle corna, dice un Francese, perchè ne avean prodotto. Pag. 55, lin. 34.

Alcuni credono, che questo Norbano abbia a inten- dersi per Tigellino divenuto il favorito di Nerone, Pag. 56, lin. 9.

Traduco apparvero feriti, perchè accadeva talvolta che i gladiatori per timor di soccombere si ferissero da 80 medesimi , onde ottener di ritirarsi e scampar dal pericolo:

. . . . Segiolua jam radere guttur Coeperat. Et eecto requiem sperare tacerlo.

Giov,

Pag. 58, lin. 6.

Da questo rimedio scorgesi, che il disordin del ventre di Trimalclone era una diarrea, anziché una stitichezza, come qualche interprete ha detto. Quindi il ventrem pudere, che segue, non vuol già dire evacuare, com'essi pensarono, ma ritenere, come anche dal significato me- taforico del verbo pudere parmi potersi arguire. Pag. 58, Un. 13.

Questo tratto indica evidentemente, che la Satira di Petronio ha per oggetto Nerone. Sappiamo di lui, ch'ei permise agli amici suoi di dar libera uscita alle vento- sità anche alla sua mensa. Pag. 59, lin. 24.

Fin da tempo antichissimo ogni qualità di artefici ed operaj formava Corpo ovvero Università, come tro- vasi attualmente in più luoghi, e come trovavasi presso Petronio. 16

242 NOTE

noi ne' tempi di Giuseppe II, che poi saggiamente abol siffatte corporazioni. Abbati dicevansi da noi i aapi d codeste Università, e decurioni eran chiamati dai Ro mani, perchè ogni corpo era diviso in decurie, che orane come altrettanti gradi di perfezione ; cosicché il gio vine, o il meno abile entrava nella decuria prima, clu è quanto dire era di prima classe : il provetto o il piì abile nella seconda : l'abilissimo nella terza. In genen di domestici occorreva pure lo stesso che a noi : e Tri malcione, che ne avea tanti , metà de' quali non cono sceva l'altra metà, ben sapea che essi eran divisi ir cursori, cucinieri, camerieri, custodi, ecc., cosicché rite nendo una classe più abbietta dell'altra potea minac- ciare il cuoco di metterlo tra i lacchè, e premiare il lacchè promoveudolo alla carica superiore di cuoco rispettabile certamente alla corte di Nerone ed a' suoi parassiti.

Pag 60, lin. 22.

Omero non riferi mai questo accidente. Ma vi ha da contraddire a un Trimalcione? Il pollice rotto di Ulisse, e la prigion di vetro della Sibilla sono spiritose inven- zioni, delle quali la comitiva dovea fare elogi maravi- gliosi.

Pag. 60, Un. 24.

S. Giustino martire e Pausania accordansi nel far menzione dell' urna ove a' tempi loro raostravansi a Cuma le ceneri della Sibilla. La voce ampulla del testo non potevasi per tanto interpretrar per bottiglia, 0 fiasco, come altri l'intese, ma un vaso, la cui figura equivalga a quello che noi chiamiam pignatta, o mar- mitta.

Pag. 61, Un. 36.

Or vedi Annibale all'assedio di Troia, e uniscilo al dito rotto di Ulisse, e alla prigione di cristallo della Sibilla.

NOTE 243

Pag. 62, lin. 10.

Questa storia non è, come le passate, un sogno. Plinio la riferisce al cap. 26 del libro 36, e Dione ed Isidoro. Costoro assicurano che l'artefice fu messo a morte, e Plinio dice che gli furon distrutti gli utensili e le fucine per ordine di Tiberio. Ecco una delle molte arti che sono perdute con danno della società. Pag. 63, lin. 5.

Altre storielle, come quella di Annibale dinanzi a Troia. Gli anacronismi sono perdonabili ai Trimalcioni. Pag. 63, lin 25.

Sorta di ballo non troppo modesto che si fa tra due o più persone girando intorno intorno. Cosi alcuni cre- dono fosse questa danza, che Petronio chiama Cordace, e di cui fa cenno Meursio nella sua Orchestra. Credo che possa compararsi alla nostra friulana , che alcuni dicon furlana, ovvero alla monferrina. Pag. 65, Un. 21.

Dicono alcuni che tra le superstizioni de' Romani quella vi fosse di fasciarsi le ferite con lana rossa, e che di aver usato goffamente la bianca fosse qui ca- stigato lo schiavo. Io credo che Petronio, come in tutta questa descrizione, cosi in questo luogo abbia invece espressa una caricatura di Trimalcione, come colui che in qualunque caso voleva ottenere le distinzioni cui pretendeva. Pag. 66, lin. 5.

Domizio Marso, di cui sappiam da Marziale che avea composto un poema in lode delle Amazoni. Pag. 66, lin. 8.

Publio Siio, quello stesso che Trimalcione poco sopra imitò ponendosi le mani sulla fronte. Egli era eccellente scrittor di commedie, e più eccellente attore. Fu il Molière de' suoi giorni. Ma come si può paragonare il comico Siro all'orator Cicerone?

2 14 NOTE

Pag. 06, liu. 13.

Non 6 dubbio che questa satira attribuita a Publi Siro debba applicarsi interamente a Roma. Pag. G6, lin. 22.

Nuinidia, provincia dell'Africa, oggi Bildulgerid, sere ministrava ai Romani i polli più squisiti. Pag. 68, Un. 7.

Ho cambiato linea in serica per meglio indicare 1 leggierezza di un velo e far vieppiù sentire l'applics zione delle antiche mode donnesche colle moderne. Pag. 71, lin. 13.

Pretende qualche interprete che qui si alluda ad u uso invalso presso i grandi di tenersi l'unghia del dit mignolo della mano destra molto lunga, ciò che è assii indocente ai di nostri, benché taluno fra noi manteng tuttavia questa pratica. Pag. 71, lin. 35.

Il testo dice: e quando io ho bevuto sugo di ceci Proverbio romano. Pag. 72, lin. 9.

I Dei principali erano dai gentili ornati con barbe d'on

Praecipui sunto, sitque illis aurea barba, dice Persio nella sat. 2 , verso 58.

Pag. 72, lin. 25.

Di bosso, dice il testo, per disprezzo . Parmi che l'ir giuria sentasi egualmente dicendo di paglia, e che l'ir telligenza sia più rapida e alla portata. Si la pagli che il bosso, hanno un color d'oro; a che vuol alluder il testo. Pag. 72, lin. 26.

Cioè : guardimi dai ladri, qual è costui, che sino g anelli che porta, rubò all'amica sua. Pag. 72, lin. 32.

Cioè nemmen vino nuovo, non che buon vino, Y«ccbìo.

NOTE 245

Pag. 73, lin. 11.

Sorta di comici, che recitavauo lunghi squarci de' poemi di Omero per divertire la brigata. Ateneo al capo 0, lìb. 14, come avverte Nodot, li chiama Ehap- sodi, donde la voce Rapsodia. Pag. 73, lin. 19.

Aggiugnì questa storiella a quella della Sibilla nel- l'ampolla, di Annibale sotto a Troia, dei figliuoli di Cassandra, ecc., di cui Trimalcione ha regalata erudi- tamente la compagnia. Pag. 74, lin. 19.

Lo zafferano serviva presso i Romani ad uso dei sacri riti, presso a poco come l'incenso presso noi. Sucre per conseguenza tenevasi ciò che di zafferano era con- dito 0 asperso. Pag. 74, lin. 28.

Questa ghirlanda o altro ornamento d'onore che ap- pendevasi alle statue degli Dii, e principalmente de' Penati, ond'eran detti bullati, è pur accennata da Per- sio, nella sat. 5. Pag. 81, lin. 4.

La manumissione de' schiavi, mentr'erano moribondi, avea per oggetto principale la cupidigia d' impadro- nirsi in quel momento di maggior copia de' beni, di quel che fosse la vigesima parte, la quale per diritto passava ai padroni. Pag. 81, lin. 6.

Specie di libazione, o abluzione che facea parte dei riti funerari. Pag. 83, lin. 13.

Quella che presso noi chiamerebbesi sabbia d'argento, prodotta dallo sminuzzamento di alcuni che i natura- listi chiamano quarzi in mica argentea. Pag. 84, lin. 5.

Parmi aver letto altrove, che Venere fosse losca: qui sembra che le sìa attribuito questo difetto, quasi come una bellezza, Or va e giudica de' gusti.

246 NOTE

Pag. 84, lin. 28.

Questo Massa fu celebrato anche da Giovenale e da Marziale. Il primo dice di lui nella satira 2. Pag. 85, lin. 19.

Notisi come le manifatture di ferro erano sin da que' tempi perfezionate in Germania. Pag. 86, lin. 9.

Tra i modi praticati per dare la libertà ad uno schiavo, cioè inter amicos, ovvero per epistolam, apud Consilium, ovvero apud Conaulem, quello pur v'era per meiisam, facendo sedere lo schiavo alla tavola del pa- drone, e dichiarandolo libero. Cosi Nodot. Pag. 87, lin. 14.

Che è quanto dire : questo monumento ad altri mai non appartenga che a Trimalcione. La sua famiglia, e i di lui successori vadano a farsi seppellire altrove. Orazio nella satira 8, lib. 1.

Mille pedea in fronte, trecentoa cippua in agrum Heic dabat: haeredes monumentum ne aequeretur.

Pag. 87, lin 28.

Costui è figliuolo del liberto Enchione, il qual sopra ne ha raccontato i talenti. Forse egli era predi- letto anche da Trimalcione, il qual non avea figli. Pag. 100, lin, 18.

Ognun si ricorda che il maestro era Agamennone, e Menelao il ripetitore. Pag. 101, lin. 2.

Ella assumevasi a diclott'anui ; Gitone, come vedremo fra poco, era di questa età. Pag. 102, lin. 5.

Dai portici della galleria qui menzionata, e dalla vi- cinanza del mare, accennata poco sopra, rilevasi aper- tamente, col confronto di un passo di Filostrato assai dottamente citato dal signor Ignarra, una incontrastabile prova che il luogo di questi avvenimenti sia Napoli, V. Ignarra a pag. 192.

NOTB 247

Pag. 102, lin. 10.

Cioè pittura di un color solo. Di Zeusi, di Protogene, e di Apelle non è chi non abbia notizia. Pag. 102, lin. 15.

Ila fu amato da Ercole, e assai più da una Naiade cui ricusò sempre di compiacere, talché indottolo in un fiume, vi rimase affogato. Pag. 102, lin. 17.

Si allude alla favola di Giacinto. Pag. 107, lin. 12.

Democrito , Eudosso , e Crisippo , celebri filosofi del- l'antichità. L'elleboro credevasi giovare all'ingegno. Egli è un purgante assai attivo, e il migliore riputavasi quel che nasceva in Auticira. Comunemente dicevasi ad un uomo stravagante che aveva bisogno di elleboro , ov- veramente di navigare verso Anticira. Pag. 108, lin. 3.

Lisippo era scultor si eccellente ai tempi di Alessan- dro Magno , che questo principe a lui solo permise di far la sua statua , come al solo Apelle fargli il ri- tratto. Pag. 108, lin. 5.

Mirone anch'esso statuario eccellente, sopra tutto nel rappresentare animali. Pag. 108, lin. 16.

Dov'era il tempio di Giove. Pag. 108, lin. 22.

Il Senato faceva oblazioni al Tempio in caso di pub- bliche disgrazie. Abbiamo in Livio la preghiera che il Pontefice pronunciava alla testa del Senato in que- sta occasione. Petronio vuol però pungere l' uso di arricchire i tempj quasiché gli Iddii potessero come gli uomini abbisognare o aver desiderio delle ric- chezze.

Dicite ponlifices in tempio quid facil aurum f

■248 NOTE

dice egli in un altro luogo, e Persio a ciò pur volle alludere col verso

Quid juval hos lémplis nostros immitere mores f Pag. 108, liu 29.

Nerone anch'esso scrisse un poemetto sull'incendio di Troia, la cui storia piacevagli a segno di volerla in parte verificare col fuoco fatto appiccare in alcuni luoghi di Roma , mentr' egli dalla Torre di Mecenate riguardan- dolo, stava cantando sulla cetra i versi analoghi, non 60 poi se di Omero o suoi. Veggansi Giovenale sat. 8, Tacito, Dione, Svetonio ec. Pag. 115, lin. 1.

Forse Afranio Quinziano, di cui parla Tacito nel L. 14 degli annali. Pag. 117, lin. 20.

Costui doveva essere il barbiere di Eumolpione , e trovarsi con quel rasoio fra le inani dopo aver forse tagliata la fune , cui questo pazzo di Encolpo erasi appeso. Pag. 119, lin. 28.

Ecco finalmente anche l' ispettore di polizia , o forse meglio l'ansmno, o il console o il vigilante, come diceai in qualche luogo d'Italia. Pag. 120, lin. 2

Codesti pubblici servidori esistono tuttavia dapper- tutto. Pag. 120, lin. 21.

Nel nono libro dell'Odissea, Omero fa dire ad Ulisse questa sua strana invenzione, che lo scampò dalla fu- ria di Polifemo. Pag. 120, lin. 31.

Pare da ciò che costoro partecipassero della qualità de' littori. Pag. 121, liu. 32.

Antichissimo è il costume di augurar salute a chi sternuta. Aristotile ne parla ne' suoi problemi ; e Plinio nella sua Storia naturale.

NOTE 249

Pag. 129, lin. 9.

Cicerone nella Orazione in favore di Roscio parlando di certo Famio Cherea, dice ch'egli avea sempre il capo e le sopracciglia rase , si che non gli restava un sol pelo da galantuomo. Radevansi diflfatto i capegli agli schiavi , e le sopracciglia agli scellerati , ed ai di- sertori. Pag. 129, lin. 10.

Il bollo è un marchio d'infamia, che si usa tuttavia in alcuni fori criminali , e per certi determinati de- litti. Pag, 129, lin. 24.

Il radersi de' capegli quando si viaggiava per mare non avveuia che in caso pressoché disperato di burra- sca a titolo di sagrificio agli Dei. Pag. 131, lin. 26.

Soleano espiarsi i sogni lavandosi il capo e le mani con vino misto ad acqua, od immergendosi interamente in un fiume , al che allude quel passo di Persio nella ; seconda Satira, et noctem (lumine purgas. Pag. 133, lin. 7.

Allude a ciò che Omero narra di Euriclea nodrice di Ulisse, la quale dopo vent'anni di assenza lo riconobbe ad una cicatrice che avea in una gamba. Pag. 154, lin. 22.

Notisi in questo passo, che il far prigionieri i nimici, allorché cedeano le armi, e non trucidarli, come più an- ticamente si usava, era già ai tempi di Nerone tenuto per massima inalterabile nel gius delle genti. Locchè non tutti vogliono accordare. Pag. 135, lin. 30.

Il sangue della Salamandra , dice Dioscoride , fa cader i peli, ove tocca. Il tutto sta a trovare una Sa lamandra , checché dicansi alcuni Naturalisti , e co- munque assicuri quello strano cervello di Benvenuto Celliai di averla veduta una volta nel fuoco della sua cucina.

250 NOTE

Pag. 139, lin. 2.

Segno di amore. Pag. 140, lin. y.

Tra le superstizioni della religione de' gentili quella vi era, che Proserpina venisse a radere un po' di ciuffo a colui, che poco tempo dopo dovea morire. Neil' Ai- ceste di Euripide questo ufficio è assegnato a Mer- curio. Virgilio dice di Didone che penava a morire perchè

Nondum UH (lavum Proserpina vertice crinem ahi- tulerat . . .

Pag. i40, Un. 35.

Petronio non fu il primo a scrivere questa novella, ma ben fu il primo che si leggiadramente la scrivesse. Apu- leio ne fa cenno nel primo libro dell'Asino d'oro, e v'è chi pretende che sia vera storia. Pag. 142, lin. 19.

Eneid. lib. 4. v. b4. traduzione di Aunib. Caro. Pag. 143, Un. 5.

Eneid. v. 38. lib. 4. traduzione di Annib. Caro. Pag. 152, lin. 3.

Crotone, città della Calabria ulteriore, o meridionale poco distante dal Golfo di Taranto. L' antica Crotone fu già, come Sibari sua vicina e sua rivale, una delle più fiorenti repubbliche d' Italia. I Romani la conqui- starono, e sin dai fondamenti distrussero. Oggi appena vi rimangono alcune rovine di case, di sepolcri, e di tempj, fra i quali veggonsi de' frammenti considerabili del tem- pio dì Giunone Lucina , e chiamasi Capo Colonna. Di- stante sei miglia havvi una nuova Crotone, piccola ed infelice città situata in mezzo alle paludi, ed al pan- tano. Veggasi Filati a pag. 238 del Tomo II, de' suoi Voyages en differens pays de l'Europe.

NOTE 251

Pag. 152, lin. 22.

Il celibato fu sempre dalle saggie nazioni considerato perniciosissimo, perciò è vietato, o almeno multato. E un segnale di corruzione trovano i politici nel numero soverchio di celibatarj di un popolo qualunque. Pag. 153, lin. 27,

Era r Affrica reputata la più fertile e la più ricca Provincia del mondo. Pag. 155, lin. 8.

Pare da questo luogo che Petronio indichi Lucano e Silio Italico, i quali mal riuscendo nel foro si diedero a far poemi. Pag. 156, Un. 6.

Ciascun vede che qui accenna il Poeta Lucano. La Bua Farsaglia è da molti diflPatti considerata più pre- sto una storia che un poema ; e Petronio ne ha voluto manifestare un egual giudizio, e proporre un modello di poema sul grande argomento della guerra civile. Pag. 156, lin, 16.

Di tutta r opera di Petronio Arbitro questo poemetto è quello che ha sofferto più varietà di lezioni , e più incertezza ed inesattezza di parti, lo ho conciliati i te- sti , per quanto ho potuto , si che il senso e 1' ordine non rimanessero offesi. Pag. 156, lin. 31.

La Numidia rendeva marmi finissimi , cioè diaspri , porfido, ed alabastri, di che le pareti delle case, e de' templi s' incrostavano ( Numidw crustas giacché ogni al- tra lezione di questo passo non è intelligibile). L'Arabia era feconda di legni e gemme preziose, e la provincia de' Seri somministrava al lusso romano lane sottilis- sime, e sete. Pag. 157, lin. 4.

Quid novi feri Africa ? dicevasi proverbialmente a " Roma , perchè da quella provincia traevunsi continua- mente mostri di nuove specie. Nella Mauritania e nei

252 NOTB

deserti della Libia si cacciavano le tigri ed i lioni , che poi servivano di spettacolo ne' Circhi. Il tempio di Giove Ammone, già edificato da Bacco, era situato nella estremità orientale dell'Africa. Pag. 158, lin. 2.

Dal lago Lucrino in Terra di Lavoro si ebbero sem- pre ostriche eccellenti ; Giovenale ed Orazio ne parlano spesse volte. Pag. 158, lin. 20.

Catone avea chiesta la Pretura , e gli fu preferito Vatinio ; ricercò il Consolato , e non l' ottenne ; difese più volte la pubblica libertà massimamente contro il tribuno Metello, che fece richiamar Pompeo dall'Asia sotto colore di proteggerla, ma certamente per farlo signor dell'impero, e fu sempre cacciato fuori di Eoma. Egli godeva grandissima riputazione di virtù e di me- rito, ma non avea partito. Di lui più che d'altri può dirsi che fu l'ultimo dei Romani. Pag. 158, lin. 29.

Durissima era la condizione de' debitori insolvibili. Essi e i figli loro poteano divenire schiavi de' creditori. L'usura era al sommo della sua gloria. Del resto quanto è qui scritto dei vizj di Roma trovasi parimenti in Giovenale, in Persio, e in presso che tutti gli scrittori vicini a quell'epoca. Pag. 159, lin. 12.

In tre fazioni era diviso il popolo romano, e da ess ebbe principio la guerra civile. L'una seguiva Crasso, il qual cadde in mano de' Parti e miseramente peri. L'altro Pompeo, sornomato il Magno, perchè veramente era per tale considerato a preferenza di qualunque al- tro, e che rimase trucidato in una barchetta mentre ri- tiravasi dall'Egitto; l'ultima tenea per Giulio Cesare, il qual guerreggiava trionfalmente nelle Gallie, e la cui fine non è chi ignori. Egli solo mori a Roma : al che vuole alluder Petronio dicendo che Enio, cioè Bellona ne avea divise le ceusri.

NOTE 258

Pag. 159, lin. 17.

Lago d'averno, oggi Solfatara. Pag. , lin.

Filippi, Tessaglia, (nella cui provincia era compresa la Faj;saglia) Libia, ed Egitto furono i teatri, ove eb. bero luogo questi grandissimi avvenimenti, pei quali lo stato politico dell'universo cambiò d'aspetto, e di forma. I funerali della gente ibera accennano la strage fatta da Cesare in Ispagna delle armi pompeiane, delle quali più di 33. m uomini rimaser sul campo. La Libia e r Egilto esposti egualmente al furore della guerra ci- vile sono detti gemenlia, perchè ivi perirono Giuba re di Numidia, Tolomeo, Cleopatra, ed Antonio. Quest'ul- timo fu rotto nella battaglia navale seguito al Capo d'Azzio, oggi Capo Figaio, sul quale ergevasi un Tem- pio dedicato ad Apollo , alla cui protezione Dione at- tribuisce r insigne vittoria di Cesare , per la quale rimase signore del mondo. A ciò alludono i versi che seguono. Pag. 162, lin. 26.

Le Alpi Graie compreudouo il Moncenìsio, e il pic- colo San Bernardo. Cesare discese da questo, sulla cima del quale dovea trovarsi un tempio dedicato ad Ercole, come oggi vi è quello del sopra detto Santo. Più altri passaggi ebbero luogo per codeste quasi inaccessibili rupi , ma quel di Cesare del qual parla Petronio , e quello più ammirabile ancora di Napoleone nel 180O vin- con la fama di ciascun altro. Pag. 163, lin. 16.

Neil' anno 564 di Roma i Galli condotti da Brenno entrarono conquistatori in Italia, e si avanzarono sino al Campidoglio , dove trattenuti dalla costanza de' Se- natori , dieder tempo a' Romani di riprender coraggio , assaltare e scacciare i nemici , e respingerli fuor d' I- talia.

254 NOTE

Pag. 163, liti. 24.

La voce Jgnavus del testo vuoisi che alluda al Cneus prenomo di Pompeo. Non mi parrebbe un felice equi- voco, massimamente in cosa si sostenuta , com' è tutto questo poemetto. Io ho stimato di non renderla, si per- chè combattuta dagli interpreti, e perciò troppo incerta, si perchè non necessaria all'intelligenza. Pag. 164, lin. 3.

Fu sempre l'aquila di felice augurio ai Romani, tal- ché ne fecero insegne d'armata, e come le chiama Ta- cito Legionum numina. Pag. 165, lin. 21.

I venti versi del testo, cominciando dal presente, sono posti in quell'ordine, in cui li ha collocati il Presiderite Bohier. Presi, come si vedono presso il Burmanno, è as- sai difficile di trovarli conseguenti e opportuni. Pag. 168, lin. 25.

Essendo Consoli P. Lentulo, e Claudio Marcello par- tigiani di Pompeo, Marcello accusò Cesare, che coman- dava nelle Gallio, di piii delitti, e colpe verso la Pa- tria. II Senato deliberò che Domizio Enobarbo andasse al comando dell'armata di Gallia, e che Cesare ne la- sciasse il governo prima del termine consueto. Ciò fu causa che Cesare passò 1' Alpi , e venne in Italia alla testa dell' armata. Allora il Senato ordinò che Pompeo si ponesse in battaglia e che Cesare disarmasse. Ma questi sempre maggiormente irritato, passò il Rubicone, e incusse tanto spavento che Pompeo si ritirò colla truppa a Durazzo abbandonando vilmente la patria , come gli rimprovera Cicerone. Lentulo era uomo elo- quentissimo , e Curione Tribuno della plebe avea già sollevato il popolo contro Cesare , ma poi e il popolo e Curione furon per lui. Questa è la storia della guerra civile. Pag. 168, lin. 32.

Epìdamno , cioè Darazzo\ città greca dirimpetto al

NOTE 255

golfo di Venezia, dove, come dicemmo, si scioccamente ritirossi Pompeo. Petronio ne lo rinfaccia , tanto più che il nome stesso di quella città era di cattivo au- gurio ai Romani, locchè non poteva da Pompeo igno- rarsi. Pag. 171, lin. 8.

Intende dell'anfiteatro, le cui logge più alte servivano alla plebe. Pag. 171, lin. 23.

L'erudissimo Marcorelli autore dell'opera intitolata De Theca Caiani aria vuole clie questa Plalanone o luogo de' platani fosse in Napoli nel quartiere oggi detto Fiatamonc Ma il signor Ignarra avverte che qui la scena della satira non è più Napoli , ma Crotone , o sue vi- cinanze, e che il signor Marcorelli splendidamenle s' in- ganna. Pag. 172, lin. 12.

Si accennano ie imprese amorose di Giove , conver- titosi in toro, in cigno, e in pioggia d'oro. Pag. 173, lin. 13.

' L' antica Circe amante di Ulisse era figlia del Sole e di Perseide ninfa marina. Ulisse avea preso nome di Polieno, come si ha da Omero nel 12 dell' Odissea. E questa Circe trova pure un Polieno, giacché Petronio ha stimato opportuno di adottar simili nomi per simil sorta di amori. Pag. 174, lin. 21.

Coloro che tanto gridano contro la rilassatezza dei presenti costumi, non vogliono giammai convenire che in paragon degli antichi noi siamo , si per la santità della nostra religione, come per la saviezza della odierna legislatura, di gran lunga più astinenti. Ma i riti della religion pagana giustificavano assai quel libertinaggio. I misteri Eleusini,, quei di Bacco, e non so quali altri rendevan lecito ciò, che sarebbe empietà presso di noi. Venere avea dappertutto qualche tempio. Ella adora-

2.56 KOTE

vasi in tutti i luoghi. Una cappella le era dedicata iu quasi tutti i giardini, la quale chiamavasi Sacellum Ve- neris Hortensis. Aggiungi che Priapo era Dio degli orti: E in que' tempietti qual miglior culto esercitare, che sagrificare a Venere , e a Priapo ? Essi erano adunque religiosamente lascivi come alcuni de'nostii furono relij^iosaraente barbari. Ma si ò meu lascivi o men barbari, malgrado il pretesto della religione ? Pag. 175, lin. 28.

Pretendesi che Socrate giacesse con Alcibiade senza violar le leggi della castitìj. , come disse Plutarco. Al- cuni credono che il facesse per raffinare la sua virtù , come negli ultimi tempi alcuni buoni religiosi solevano e fare e dire. Veggasi la Therése Plulosophe che non è altrimenti un romanzo come pare. Tuttavia questa rara virtù non cominciò a praticarsi solamente nel secolo ora scorso. Il signor Nodot cita in proposito una lettera di certo Gotofredo di Vandomo, il quale scrivendo a san Bernardo di questo mirabile esercizio , il qualificava Novum marhjrii genus. Pag. 176, lin. 14.

Costoro servivan di musica ai funerali. Pag. 177, lin. 21.

Questo cibo non è troppo usitato dai galanti mo- derni ; ma qualche medico avverte che se si inghiot- tano , come si ingoian le pillole, cioè senza masticare, fanno 1' effetto desiderato , e non lasciano quel puzzor di fiato, di cui tanto si spaventano i nostri zerbini. Pag. 179, lin. 24.

Il mirto era sacro a Venere. I

Pag. 181, lin. 17.

Apodixis defuncloria era precisamente ciò che noi di- ciamo Estratto mortuario. Vedi Svetonio nella vita di Nerone. Pag. 184, lin. 19. 1

Doveva essere considerato quasi uno stregamento i'

NOTE 257

toccare un corpo umano morto. Questa credenza forse proveniva dal costume degli Ebrei, presso i quali chi toccava un cadavere era dichiarato impuro , e dovea purgarsi, come si ha al primo de' Numeri cap. 60 v. 9, Le superstizioni sono sempre passate di luogo in luogo e da nazione a nazione più felicemente che le scienze. Pag. 185, lin. 14.

Costei è Sacerdotessa di Priapo come già vidimo es- ser Quartina. Le danze dell'una, e le cerimonie di que- sta, indicano gran parte de' riti, coi quali esercita vasi il culto del nume di Lampsaco. Pag. 187, lin. 20.

Callimaco cantò della ospitalità di Eiale , donna greca , che albergò Teseo la prima volta eh' ei scese aeir Attica , per cui istituì egli una festa annua , che ihiamavasi Ecalesien. Pag. 188, lin. 11.

Questi augelli infestavano l' Arcadia nelle vicinanze iel lago Stinfale. Ercole consigliato da Minerva spa- ventandoli con istrepito di paiuoli e campane li fece allontanare , e li ridusse nell' isola d' Arezia. Perciò è ietto Herculea arte, per non confondere questo fatto coi prodigj della forza Alcide. Pag, 188, lin. i3.

Per ciò che ne hanno scritto Virgilio ed Ariosto, la Favola delle arpie è troppo nota. Questi mostri avean lorpi di avoltoio, e viso femminile. Esiodo ne ha con- jervato il nome di tre, Aello, Ocipite, e Celeno. Costoro perseguitaron Fineo re di Francia che gli Dii volevan punire delle barbarie usate ai propri figli per amore ii Idea sua seconda moglie. Pag. 190, liu, 2e.

Celebri giureconsulti romani. Pag. 191, lin. 5.

Le Tribadi Greche furono le prime inventrici co- iestì amuleti , o stromentì suppletori , che chiamavano

Pf.tro'ìi.in. \i

258 NOTE

Phalloi ; onde Phallovitrobuli chiamavano i latini coloro che ne usavan di vetro. Noi Italiani non ne abbiamo, eh' io sappia , nome veruno ; i Francesi, presso i quali nello scorso secolo i costumi erano molto licenziosi , seppero acconciamente inventarne un vocabolo.

FINE DELLE NOTE.

INDICE

-V'CCejoo

ivvertenza degli Editori Pag,

Prefazione del Traduttore r>xvn

Vomì che leggonsi nelle Satire lix

Capitolo I. Eloquenza e pedanteria .... » 3

^Ap. II. Curioso incontro 7

^AP. III. Giurisdizione violata e diverhj . . « 9

'ap. IV. Villeggia tura ed avventure d'ogni specie n 12

vAP. V. Garbugli, baratterie, rumori e cose simili « 15

'^P- yi. Nuovi furti e baratterie 19

'Ap. VII. Malattia e medicina mal riuscita . n 25 'ap. Vili. Inviolabilità de' misterj violata. Feste

in onore di Priapo n 29

"2H0 INDICE

Gap. IX. Lusso e magnificenze Trimalcione Pag. 35

Gap. X. Cena «40

Gap. XI. Conversazione sui commensali. . . » 45 Gap. XII. Astrologia e raddoppiamento di cibi « 48

Gap. XIII. Eloquenza del vino « 51

Gap. XIV. Sapienza di Trimalcione .... « 58 Gap. XV. Giuochi, fanfaluche e cena prolungata " 69 Gap. XVf. La conversazione s'ingrossa ... r 80

Gap. XVII. Fine del convito « 89

Gap. XVIII. Leggerezza giovenile n 97

G.^. XIX. 1 begli ingegni s'incontrano ... « 104 Gap. XX. Qualche scappata sulle belle arti . » 107 Gap. XXI. Due ghiotti a un desco .... « 112 Gap. XXII. Alterchi ed avventure da Osteria » 118 Gap. XXIII. Navigazione, e Comitiva inaspettata r> 124 Gap. XXIV. Processo, guerra, e trattato di pace n 130 Gap. XXV. Allegria. Novella della Matrona d'E- feso n 13ij

Gap. XXVI. Violazione de' trattati. Naufragio « 14f| Gap. XXVII. Viaggio alla volta di Crotone. Pro- j

getti per far danaro « 15

Gap. XXVllI. Arte poetica. Poemetto sulla guerra

civile "15

Gap. XXIX. Divertimenti, e amori poco platonici

in Crotone 16

Gap. XXX. Continuazione « 17

INDICE 261

Cap. XXXI. Suffumigi, ed incantagioni . . « 183

Gap. XXXII. Fine della favola « 192

Frammenti di Petronio tradotti da Marcello

Tommasini » 203

Saggi di versione di Luigi Carrer e Antonio

Cesari " ^20

FINE dell'indice DI PETRONIO.

t/i&LI AMORI ^^

(li Abrocome ed Anzia d* scrini da ^r J^ SENOFONTE EFESIO, lesto

^C^^'^^y '% ' oii'iiinale della ver-

/ ^ \ '• r * ,

^ ^ siune di Anion

Va

^P Jlaiia Sai

m

vini,

^^''1 CON L'AGGIUNTA

delle emendazioni di Ennio Quirino Visconti; e con un'avvertenza dell' Edi- tore.

BIBLIOTECA RARA

PUBBLICATA ])A <t. DAELLI

VCL. XX II,

ABIIOCOME ED ANZIA

DEGLI AMORI

ABROCOME ED ANZI4

riSni T. TRADOTTI DA

ANTON MARIA SALVINI

NUOVA ACCURATA EDIZIONE

DEL TESTO DEL SALTINI

CON l'aggiunta in FINE DELLE EMENDAZIONI

IJI

ENKiO QUIRINO VISCONTI

MILANO

G. DAELLI C COMP. EDITORI M DCCC LXIll.

AVVERTENZA DELL'EDITORE

Sogliono ora, nel bel mondo, i giovani sposi , datasi la fede e benedetti, esalare i primi e fervidi amori per le vie e gli alberghi della Svizzera e deir Italia : costume il quale ha alcunché della rapina, simulata talora nei matrimonj di antichi popo'i, e un certo picco di avventuroso e d'im- previsto alla pacifica solennità dell'unione legale. Se quegli spiriti innamorati non vanno per vie corse dagli eroici ladroni che difendono il trono del Borbone e T aitar del Papa, se non s'abbat- tono a disgrazie di ferrovie, tornano lieti al dolce nido, e con in cuore qualche soave memoria, che forse vale di amuleto negP incontri pericolosi delle veglie lucenti , le quali non lasciano tutta- via vedere i trabocchetti, onde quelle sale son se- minate assai più pericolosamente che i palchi delle s^ene teatrali.

Uno di questi viaggetli , dopo celebrato e eoa-

sumato santa e lietamente tutti i riti del matri- monio, svia Abrocome ed Anzia per una selva selvaggia, da cui escono salvi di seduzioni e di pericoli e senza aver lasciato ai pruni neppur un bioccolo della loro fedeltà. Un oracolo an- nunzia e impone loro questa lunga e tormentosa prova, per Peleroo onore del gineceo, che si sente tutto rassicurato alla po<:sibilità di tanta costan- za. — È il Pilgrinis Progress del matrimonio e se non vi fosse quel ladrone d' Ippotoo, che ama grecamente fperante e poi distene, che finalmente adotta a figlio, non potendo egli fargliene, il ro- manzo di Senofonte Efesio,' sarebbe edificante, e piacevole come non soglion esser gli scritti edi- ficanti, se ne levi quelle lettere dei Reverendi Pa- dri Gesuiti , che sapevano appiacevolire tutte le materie più gravi

Gli amori di Abrocome e d'Anzia fanno contra- sto alla Fidanzala del Re del Garbo, che in quat- ta anni viene alle mani di nove uomici, e final- mente per pulcella ne va a marito , avverando il proverbio che : Bocca baciata non perde ventura, anzi rinnova come fa la /«/«a. Ma se il fine è più onesto, gli accidenti non sono meno svariati e sin- golari che in quella novella del Boccaccio, e sarà facile alla memoria di ciascuno notarvi molti di quegli espedienti e mezzi , che servirono ai ro- manzieri susseguenti^ e T autore in breve spazio gli ha affollati senza però nuocere air andamento delia favola -^ e sono di efletto cosi belio , e come

dell'editore. vii

dicemmo così spesso imitato, che questo racconto si potrebbe dire un raccolto di luoghi topici, o la topica del romanziere.

DelPetà e della vita di Senofonte Efesio non si può trarre nulla di certo dalle testimonianze de- gli antichi^ dal suo stile si può ritrarre che fiorisse nel terzo secolo delPòra nostra o più tardi. Ex prava Grwcilnle, qua utuntur , illos ad seriora swcula, idest S. Ili , sqq.^ p. Chr. re- ferendos esse palei dice di Achille Tazio, di Longo e del nostro Senofonte, Guglielmo Adriano Hers- chig, editore degli scrittori erotici greci (Parigi, Didot 1856). Un dotto editore italiano lo dice al- l'incontro puro ed elegante e si Ta forte del Po- liziano, che nelle sue Miscellanee al cap. 51 la- sciò scritto: Sic utique Xenophon scribil,non qui- dem Atheniensis ille , sed alter eo non insuavior Efesius. Cosi Senofonte scrive, non però quello Ateniese , ma un altro Efesio non meno elegan- te. — Forse era meglio tradurre letteralmente-, non meno soave -^ che di soavità è abbondevole P Efe- sio, checché ne paia all' acciglialo tedesco.

Fu ventura che questa soavità passasse di vaso in vaso, per dirla con Dante, perchè Tape attica cadde nell'alveare toscano^, e Antonmaria Salvini tradusse qu sti Amori con la sua usata purezza e disinvoltura. La scomunica del Foscolo al tra- duttore di Omero, e lo scredito che gli seguì dal- l'appropriare al pessimo tradurre il nome di w Sal- viaiario" non tolsero che i buongustai non facesser

vili AVVERTENZA

ilivariodal vorso alla prosa e non tenessero per un gioiello questo lavoro, e non aggradissero meno tutte le correzioni fatteci da quel sommo Ennio Quirino Visconti; tantoché noi nel ristampar Se- nofonte Efesio, ci attenemmo alle vecchie edizioni, ponendo le emendazioni del Visconti in fondo al volume.

Fin dal suo tempo il Salvini era appuntato di mal tradurre, e il Magliabechi raccontava motteg- giando di non esser mai riuscito, per quanto se ne sfarzasse, a persuadere a dotti forestieri , che le versioni poetiche del S Ivini non fossero in prosa. Ma se il morso di colui che il Lami chia- mava nostrcB (eiatis Cynicum è troppo liero, è forza convenire che la sollecitudine che il Salvini ebbe più del senso e intelletto delle parole che della soavità poetica, per valerci della frase dello slesso Lami, lo tirò spesso non solo al far prosastico, ma eziandio ad un andamento troppo abbietto o sgar- batamente inversivo. Nel che però s'aggiusterebbe al Boccaccio, il quale, diceva il Salviali, non fece mai verso eh* avesse verso nel verso. Ma cosi del Boccaccio come del Salvioi è eccessivo il biasimo^ trovandosi bellissimi versi nelPuno e nelP altro e neir Omero tanto infamato non sono si rari*, lasciando il pregio assiduo della proprietà della lingua. Onde barbara è la sentenza del De Angeli^ nella Biographie Michaud : Nommé profeswiir à rdge de vingt-lrois am. il enlrcprit un grand noni bre de traductions ^ daiis lesquelles eu voulant se

Dell EDITORE. IX

montrer un interprete lidèle il ne fut qiiiin traiUi- cteur barbare.

Ma se in versi il Salvini peccò sovenle, in prosa è (Ji gran lunga migliore, elegantissimo nel Casau^ 6o?io, arguto e vibrato nei Cinict di Laerzio, e va- ghissimo in questo libro di Senofonte Efesio.

È poi da notare che il Salvini faceva questi suoi lavori a corso di penna, e traduceva, leggendo un libro, talora in margine, ed accertava più egli con la sua furia, che altri col lungo studio: tanta era in lui la padronanza delle lingue, la maestria dello stile toscano, e la prontezza dell'" ingegno. Così nel leggere gli antichi greci , latini e to- scani faceva spesso extempore in margine osser- vazioni, scoi], raffronti arguti, e sovente col semplice variare delfinlerpunzione correggeva fe- licemente la lezione del testo ch'avea per mano.

E quei disr.orselti come li chiamava il Fonta- nini (che gli cede tanto nel bello e saporUo scri- vere), fatti alPAccademia degli Apatisti, riboccano di graziosa erudizione, e vincono il vizio del se- colo, che, secondo il Lami notò, si placca spesso di oscuri problemi, che andava snocciohndb con au- torità di celebri scrittori-, e più grande era T acervo più viva era P ammirazione^ formiche cru .ite, che, appunto come vogliono certi naturalisti moderni, non salvan neppure per mangiare o per uso, ma per raccogliere ed ammontare. Si compari il Salvini air avviatore degli Apatisti, Biaiedctto Fioretti, che nel suo soprannome di Udeno Nisieli portava

\ \V\F,RIF.>/\ DF.1.1, KUnORE.

l'impresa della scaola indipendonle che ei voleva fondare nella critica-, e il caposcuola si vedrà liillo lessulo di citazioni £?rechtì e Ialine, che af- fogano il suo per altro arguto ingegno, e il se- guace più veramente accademico e vago , e sce- gliente il fior fiore del sapere e addolcendolo a più potere a fine di piacer all'universale.

Noi abbiam voluto che la tavola delle loro av- venture appesa da Abrocome ed Anzia agli Dii , espressa si bi'n dal Salvini , fosse con eleganza e utilità di raffronti stampta ed adorna.

11 Salvini nato in Firenze nel iiììì'ò , vi mori nel 1729, ordendo la lunga vita di squisiti studj e lavori ed empiendola di gloria.

CARLO TÉOLI.

FINF. DKLLA PRKI AZIONE.

AGGIUNTA ALL'AVVERTENZA DELL" EDITOKE

Fra le lettere del Salvini al suo amico Anto- nio Montanti scultore, ve n'ha una in data della villeggiatura di Uliveto, 2 novembre, 1722, ove gli parla della presente versione in questi termini;

* Mi fovo aver finito la traduzione greca d'un Ro- manzo galantissimo mai oscritlo di Badia pel signore d'A- veoaiìi, Invialo d'IngtiiU^^rra, che iillimamente fu in Fi- renze a licenziarsi. Copiai questo manoscritto vcntidue anni fa quando staro sulla Costa in compagnia dell'abate Fanloni. Io scendeva la Costa ogni maltma a bonis- sim'ora, e me ne andavo da quei Padri impiegandovi tutta la mattina. Da ctie io aveva fatta questa fatica, io ne feci copiare il primo libro in greco, e in volgare, di cinque, che e' sono in tutto. Gli altri quattro, ohe resta- vano, gli ho finiti quassù. A Firenze al mio ritorno gli manderò, e ne ritrarrò, a quello , che m'è stato d^tto, una buona ricognizione. Questo libro greco per dirvi anco questo, è una istoria amorosa di due persone, un giovane,- e una giovane, l'uno, e l'altra bellissimi. Il giovane altrettanto bello, quanto superbo, che si vantava di non essersi mai innamorato, e si burlava d'Amore. Amore che ti fece? se ne piccò; gli f'^ce innamorare in una certa festa e processione di Diana. Si sposarono l\^

XII

ralmeiito, ma pssendovi un certo oracolo, per lo quale si dovoario partire, e andare chi in una pnrie del mondo, « chi in un'altra, si diedero prima la parola di m.inie- nersi feilcli e casti. Ne' lunghi loro via«<,M tulle lo donne s'innan. orano del giovane; lutti jfli nomini della gio- vane. Tulli e (lue provano per questo fjrandis^ime tri- bolazioni, ma sem[ire ne scappano e n'escono a onore senza intaccare la Utro castità, o per inganno, o per in- dustria, 0 per m racoli falli dagli Dei per le loro pre- ghiere , e finalmente tornano a casa lieti e trionfanti con acchmazioni di lutti i ciliadini. Qui v' è accidenti, e il tutto -otto brevità, e con chiarezza maraviglioja... »

In u n'olirà del 31 maggio 1716, diceva al Mon- tauli ch'egli soleva digerir non sapea qual vena di malinconia nella dilcltusa fatica delle traduzioni, e so lo il 10 ottobre 1713 irli scriveva di aver tra- dotto in due giorni in versi tre alti del Cinna di Cornrille, a istanza delTInvialo d'Ingliillerra per paragone del Catone di Addison, vollulo già lu versi da esso Sabini.

GLI AMORI

DI

ABROCOHIE ED ANZI A.

ARGOMENTO

Abrocome giovane bellissimo, e Anzii giovane bellissima, incontrandosi i loro oc- chi nella processione di Diana, s'accendono fieramente di vicendevole amore. Non hanno bene, trovano quiete, fino a che non si sposano. Dopo lo sposalizio, per un loio non so qual destino sbalzati, si mettono in viaggio separatamente. Per tutto ove capitano innamorano tutto il mondo. Dalle insidie e dagli assalti amorosi ne scappano illesi, o per accidente, o per industria, o per mira- colo ; e mantenutasi tra loro la coniugai fede costantissimamente, ritornano in patria festosi e trionfanti.

DEGLI AMORI

DI

ABROCOME ED ANZU

LIBRO PRIMO.

Era in Efeso un uomo de'grandi e possenti del luogo, per nome Licomede. A questo Licomede d'una donna del pat-se, chiamata Temisto, nasce un figliuolo, detto Abrocome, una gran cosa per fattezze di corpo oltre- passanti ; d'una beltade che in Ionia, in altra terra per avanti non fu. Questo Abrocome sempre e di d'i in cresceva in bellezza, e gli fiorivano insieme colle belle qualità del corpo anche le buone dell'animo, con- ciossiachè l'universale erudizione studiava, e la varia musica esercitava; la cetra, la cavallerizza, e la scherma erano i consueti suoi eserci/.j. Era pertanto in pregio molto tenuto non solo da tutti quanti gli Efesini , ma eziandio da quei che abitano il restante dell'Asia, e grandi in lui avevano le speranze eh' e' fosse per venire un cittadino segnalato ; e consideravano il giovane come un nume; talché havvi ornai alcuni che ancora l' adorarono

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in vedendolo, e porsergli preci. Avea il giovane in gran rigoglio, e balilanzoso andava dflle prerogative dell'animo, e molto più ilella bslià del corpo. L'altre cose tutte, qualunque si diceano belle, come inferiori U- neva a vile, e ninno a lui o speitaco'o o udita sembrava dtjgna d'Abrocome ; e se alcuno giovane ben fatto, fan- ciulla di vago sembiante essere udisse, si rideva di co- loro che il dicevano, come non iscientl essere bellOi Certamente egli non istiraava l'Amore meno Iddio, ma del tutto lo ributtava come avendolo per niente, di- cendo che non mai alcuno s' innamorerebbe o si sotto- porrebbe allo Iddio, non volendo E se a sorla tempio 0 statua d'Amare vedt^va, se ne burlava, e sentenziava stesso essere d'ogni CupiJo più bello, e della bel- lezza medesima, nel corpo, come nello spìrito. Laonde così andava la bisogna, che dovj Abrocorae compariva, statua spiccava, néim nai{ine si commendava. S'adira per questo Cupido, poiché egli è un Dio piccoso, orgo- glioso, inesorabile. Ora cercava un' astuzia conira il gio- vane, poiché anche allo Iddio pareva egli ditficilmente preodibile. Armandosi adunque di tutto punto, e lutto l'esercito delle amorose magie attorno mettendosi, mosse contro ad Abrocome. Celebravasi la festa di Diana, so- lennità del paese, andandosi dalla città al tempio per lo spazio di selle oliavi di migho. Era d'uopo che gis- sero in processione tutte le donzei e di queila contrada soniuosauienle adorne, e tulli quei giovanetti che erano della stessa età d' Abrocorae, il quale si trovava avere intorno a sedici anni, e andava co' pupilli e nella prò* cessione portava il vanto. Molta molliiudi ne concorsa era allo spintacelo, molta del paese, moLa di fuori; poiché costumanza era in quella raguiiaia di trovare gli sposi alle pulzelle, e le donne ai garzoni. Andava per via or-

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dinataraeald la processione. Primi i sacri arredi, e le torco, e i canestri, e gl'incensi; poscia i cavalli, e i cani, e gli arnesi da caccia, quasi cose guerriere, ma le più erari di pace. C'ascuna s'era acconcia, come pel damo. Guidava l'ordine delle fanciu'le Anzia figliuola di Me- gamerle e di Evippa, gente del paese. Era la bellezza d'Ancia di maraviglia, passando d' assai l'altre fanciulle, ed anni r.vea da quattordici. Fioriva la sua persona in leggiadria di fattezze, e il mollo ornanento dell' asset- tatura conferiva alla bellezza. Chioma bionda, la molla disciolta. la piccola intrecciala, all'aure sventolante : oc- chi bruscbeiti, gai come di pulzella, terribili come d'as* sennala. L'abito una gonnelletta purpurea, cima, andante al ginocchio fino alle braccia. Pelle di daino sopra, tur- casso pendente, archi, arme, dardi, cani dietro. Più di una voi la veggendola nel sacro luogo gli Efe>j adora- ronla quU Diana, ed allora alla sua comparsa sclamò il popolo, e varie uscivano dai riguardanti le voci ; al- cuni dallo spavento affermaniio esser ella la Dea; altri una (ale dalla D.^a adottala. Porgevano preghiere tutti e adoravanla, e i genitori di lei felicitavano, e da tulli quanti era acclamata Anzia la bella. Or quando pas- sava la moltitudine delle fanciulle niu la alira cosa che Anzia aveva in bocca. Ma quando Abrocome co' fanciulli sopravvenne, d' allora in poi, avvengachè bella fosse in visla delle fanciulle, tulli nel vedere Abrocome di quella si dimenlicaro, e gli sguardi in lui rivolsero dalla ve- duta slorditi, gridando con dire : Bello Abrocome, niuno è fatto come egli! Simolacro del bello Iddio! Ebbevi alcuni, che passaroQ più e dissero : che sposalizio saria quello d' Abrocome e d' Anzia! Questi erano i primi studj dell' artifi>iio di Cupido. Prestamente vimne ad ambedue il sentimento che di loro si avea ; e si

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Anzia era venuta in disio di vedere Abrocome, come il fin allora disamorato Abrocome bramava vedere An- zin. Adunque come fu fornita la processior.e, e tutto il popolo venne nel tempio per sacrificare, e l'ordinanza della processione si sciolse, ed insieme ad essere ven- nero uomini e donne, garzoni e donzelle; quivi l'un r altro si mirano ; presa è Anzia da Abrocome, e Abro- come vinto da Amore. Sguardava continuo nella fan- ciulla, e togliersi dalla vista volendo, non potea; che sopra lui aggravato il riteneva Iddio. Stava Anzia an- cora male ; con tutti e con ispalancati occhi la beltà d' Abrocome in loro sboccante ricevendo, e le maniere ornai delle fanciulle proprie sprezzando, poiché cinguettò un poco, perchè Abrocome udisse, e le parli della per- sona ignudò, quelle che si potevano, perché Abrocome vedesse, il quale si pose a vagheggiare, e già era pri- gioniero dello Iddio. Per allora dopo avere sacrificato si partirono dolenti, accusando la troppo presta partila, talonio avendo l' un l' altro di rimirarsi, rivoltandosi e soffermandosi trovavano molti pretesti d' mirattenersi. Ma quando fu ciascuno da sé, allora conobbero a qual segno di sciagure eran venuti, e in ciascuno di essi sub- entrando la considerazione della vista delTallro, l'Amore in loro venne a rinfocolarsi, nel rimanente del giorno crescendo il desiderio; quando andaro a dormire, ven- gono nel colmo del male, e l'amore in ambedue era da non si poter raltenere. Svellendosi adunque la chioma Abrocome, e strappandosi il vestilo: Ahimè le mie dis- grazie, disse! Che accideole patisco io meschino? Quello infino a qui virile Abrocome^ quel disprezzanle del- l'Amore, quegli che a questo iddio dicea villanie, preso sono e son vinto, e son forcato a servire a fanciulla, e sembra già da alcuno più bel di me, e chiamo IJ-

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dio l'Amore. 0 del lutto vile ed ullro a ciò malva- gio t Non sosterrò ora, nen durerò geimroso ? Non sarò più bello dell'Amore? Or da me si vuol vincere un Dio, eh' è nulla. Bella donzella t Come? a' tuoi occhi, Abrocome, vaga é A izia senza marito e tenera ? Non aver questi pensieri. L' Amore me mai non vincerà. disse; e lo Iddio più gagliardo lo premeva, e iraealo contrastante, e crucciavalo mal suo grado. Non po- tendo adunque più soffrire, gitlaiidosi per terra, vin- cesti, disse, 0 Amore; gran trofeo da te è eretto coiilra Abrocome il temperatiti. Hai per supplichevole il tuo dis- leale, che si rifugia a te padrone del luito; non mi abbandonare, troppo voler punire un temerario. Ine- sperto ancora essendo, o Amore, delle tue cose, venni in superbia; or via rendici Anzia ; sii non solo acerbo a chi ti contraddisse, ma Dio benefattore a chi è vinto. Questo disse; e l'Amore più si crucciò, e pensò di ri- scuotere da AI)rocome una gran punizione dell' orgoglio. Slava anche Anzia male; e non potendo più soffrire, risveglia se stessa ingegnandosi che quegli ch'erano in casa non se n' avvedessero. Che accidente, dice, o dis- graziata, è questo ? Fanciulla oltre all' età m'innamoro, e mi dogliu in nuove fogge, e non condecenti a don- zella fo paz/.ie per Abroi;ome bello si, ma superbo: e qual tia del desio II termine? e qual la line del male? Fastoso è questo vago; io fanciulla beo guardala quale prenderò per aiuto? A cui il lutto comunicherò? Dove vedrò Abrocome? Questi lamenti l'uno e l'altro di loro lulia nulle faceva, e avevano davaiili agli occhi i loro aspetti, fuiaiaudcfneiraniina l'uno i rilratii dell'altro. Ma quando fu giorno andò Abrocome a' consueti eser- cizj. Andò la vergine all' accostumala adorazione della Dea. Aveano i corpi loro dalla passala notte palilo : la

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guardatura smorta e il colore cambiato, e questo fu p^r un pezzo, e non veniva loro aloun prò. In qtieslo nel tempio della Dea soggiornando, facevano agli occhi dire il vero, per paura scambievolmente vergognandosi. Sol- tanto sui>pirava di quando in quando Abrocome, e la- crimava, ed intendeva nella fanciulla compassionevol- mente ascoilante. Ànzia sentiva la slessa passione, ma di molto maggiore calamità era presa: se per ventura altre fanciulle, o donne vedesse in lui riguardanti (e tutte rimiravano Abrocome), si scorgeva chiaramente at- tristarsi, temendo di non esser passata in islima. Le pre- ghiere di lult'e due erano alla Dea in pubblico, nascose s) ad altrui, ma simigliatiti. In progresso di tempo il giovane non resse più, e a lui tU'to il corpo era omai spento, e il coraggio abbattuto, talché in gran confusione si trovavano LicomeJe e Temisto, non sapendo che fosse accaduto ad Abrocome, ma paventando da ciò che ve- devano. In somigliante paura eran posti Megamede e Evìppa per Anzia, veggendo la ballez/.a di lei guastarsi, e non apparendo cagione di disavventura. In Qne intro- ducono da Anzia indovini e sacerdoti come per ritro- vare il proscioglimento del mile. Quegli vegnendo sa- crificarono vittime e varie libagioni feciono, e disservi sopra voci barbariche, dscendo di propiziare alcuni spi- rili, e fìngevano che il male venisse dagli Iddi! .sotter- ranei. Molto ancora sacrificò per Abrocome e pregò Li- comede. Ma non veniva fatta a ninno di loro due ve- runa liberazione del male: ma vio maggiormente ardeva TAmore. Giaceano luti' e due gravemente infermi ed ìd pericoloso stato, di punto in punlcf aspettando di avere a morire, non potendo contare loro calamità. F^n limante mandano i Padri di ambedue agli Dei per indovinare e la cagione del male e il rimedio. Poco è discosto il

bt ABROCOME ED ANZIA ì I

tempio d' ApoUine colofonio, lungi d' Efe^o una naviga- zione di dieci miglia. Qui pervenendo i mandali del- l'una e dell'altra parte, supplicano lo Dio a indovinare il vero. Giunsero insieme. Risponde l' Oracolo, comuni presagi a tuit' e due, in versi queste parole :

Che bramate del mal saper la fine

E 'I principio ? uno solo ad ambi è il male:

Indi ne sorge la liberagione.

Accidenti a costor veggio terribili.

Ed opre da non ne venire a fine.

Ambi ne fuggiran sovra del mare

Dalla rabbia cacciati, e gravi cose

Patiraii da color eh' usano il mare.

E ad ambi fla il talamo sepolcro,

E'I fuoco struggitore ; e presso all'onda»

Del fiume Nilo, a Isi reverenda,

Salvatrice, in futuro ricchi doni

Presenteranno; ma ancor dopo i mali.

Quando eh» fla, miglior avran ventura.

Come questi vaticini furono portati in Efeso , tosto i loro genitori erano in isbigollimento , e che cosa terri- bile si fosse questa assai dubitiivano, ma indovinare le parole d'Iddio non poterono, poiché qual male quale scampo quali legami qual sepolcro qual fiume qual da Dio soccorso. Parve adunque a loro, molte cose pensanti, consolare l'Oracolo per quanto pò- feasi, e congiugnere in matrimonio i figliuoli, quasi que- sta fjsse la volontà d'Mdio, per quello che avea vati- cinato. Ciò parve loro, e giudicarono dopo Titte le nozze mandarli fuori per qualche tempo a viaggiare. Piena omai la città era di bancheUanti. Ogni cosa festoni e ghirlande, e divulgate le fuiire nozze. Ora tutti erano fòlicitaii con dire: quegli condurrà (di che sorta) mo- glie! Anzia! e questa con qual giovinetto si corcherà t

DROU AMOlit

Ora Abrocome come inlese e l'Oracolo e *l maritaggio, dell'avere a avere Anzia grandemente gioiva; nulla poi lo spaventavano i valicinj ; ma sembrava che d' ogni spavento il presente stato fosse più dolce. Appresso que- sto ancora Anzia godeva d'avere a avere Abrocome. Ma che esilio, che sciagure? D spregiava tutte le disgrazie avvenire avendo per consolazione Abrocome. Quando adunque sopravvenne il tempo delle nozze, e si facevano le vigilie, e vittimi; molle si sacrificavano alla Dea ; e poiché queste cose furono fornite venendo la notte, e pareva un'ora mill'anni a Abrocome e a Anzia, mena* reno la fanciulla nel talamo colle faci cantando Imeneo; acclamando e iniroducendoli li misero a letto. Ed era a loro la camera aggiustata, letto d'oro coperto di co- perle purpuree, e sopra il letto era un padiglione. Bil- dacchino storiato, scherzanti amorini, parte corteggiando Venere, parte cavalcando sopra passere, pane intrec- ciando ghirlande, parte fiori recando. Vi avea ancora l'immagme di Venere. Qu'islo in una parte del padi- glione. Nell'altra era Marte non armalo , ma come per l'amata Venere abbigliato, coronato colla clamide; l'A- more gli facea scorta lenendo la face accesa. In questo padiglione coricarono Aozia menandola ad Abrocome, e chiusero le porte. All'uno e all'altro venne un acci- dente medesimo; più poteaiio tra loro parlarsi, mirarsi al rincontro negli occhi. Giaceano dal piacere abbandonati, vergognando, temendo, ansando, godendo palpitavano loro i corpi, e agitavansi loro l'anime. Alla line Abrocome rinvenuto abbracciava Anzia; quella la- crimava, l'anima sua mandando innanzi i segnali del disio, le lacrime. E Abrocome, oh a me, dice, disiatis- siraa notte, cui a fatica ricoverai, molle notti prima di- savventurate perdendo 1 0 della luce a me più diletlosa

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donzella, e di quelle, delle quali giammai ragiona, piìi avventurata i L'amante hai per tuo uomo, con cui vi- vere e morire avvenga a donna savia; e in ciò dire la baciava, e riceveva quelle lacrime; e a lui parevano d'ogni nettare più beverecce quelle lacrime, e d'ogni lenitivo medicamento più possenti. Quella poche cose parlandogli : si, Abrocome , disi-e , ti paio bella , e ap- presso la tua formosità piaccioti. Vile, 0 codardo! Quanto tempo innamorato indugiasti? quanto fosti trascurato appresso i miei mali? Glie cosa ho patito sapevi. Or ecco ricevi le mie lacrime, e la bella tua chioma beva amo- rosa bevanda, e attaccati fra noi congiungiamoci. Inaf- fìamo ancora le ghirlande colle nostre mescolate lacrime, acciocché ancora quelle con essonoi s' innamorino. Cosi dicendo tutta la faccia di lui abbracciava, e tutta la zazzera a'suoi occhi applicava, e lo ghirlande riprende- vano, e labbra con labbra baciando cucivano insieme ; e tutto ciò che pensavano, per le labbra dall'anima del- l'uno nell'anima dell'altra per bacio si tramandava. Ora baciando ella gli occhi di quello, oh voi, dice, che me noiasle sovente! oh voi, che nell'anima mia il primo ago metteste! già orgogliosi ora amorosi. Bene mi ser- viste e all'amor mio bene nell'anima d'Abrocome faceste strada. Adunque voi amo, e bacio molto, e a voi com- bacio gli occhi miei servi d'Abrocome. Voi ora sempre vagheggiar possiate le stesse cose, a Abrocome altra bella mostriate, a me paia alcuno altro appariscente. Abbiate l'alme che voi bruciaste. Queste alla pari guar- date. Tal cose diceva; e abbracciati strettamente si giacquero, e la prima volta gli amori di Venere gode- rono. Tenzonavano poscia tutta la notte tra loro gareg- giando chi apparirla più innamorato. Ma poiché fu giorno si levarono molto più piacevoli e as^'ai più con-

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tenti, godendo l'uro dell'altro quei be' tempi che desi- deravano. Tutta quanta la vita era loro una festa , e pieno di ricreazione il tutto; e ornai anco de' valioinj oblio; ma non già se lo dimenticava il Destino; mane quel Dio, cui ciò era parso , sei metteva in non cale. Passato poco tempo , pensarono i Padri di mandarli fuori della città secondo il fermalo: pcichè dovtauo altra lerra vedere o altre cittadi, e l'oracolo d'Iddio, per quanto possibile era, consolare, stando lontani qual- che tempo da Efeso. Apparecchi arcnsi tutte le cose loro per la partita. Navi grosse e nocchieri presti a con- durre, e le cose necessarie dentro vi furon poste. Molti abiti e vari, molto argento ed oro , e di cibi una so- prabbondanie provvisione. Sacriiìcj avanti 1' andata a Diana, e orazioni del popolo luito, e lacrime di tutti come se dovt-sser partire figliuoli comuni. Era la na« vigazione loro apparecchiata verso Egitto; or quando venne il della partenza, molti servi e molte serve, ed essendo la nave per partire, lutto vi era presente degli Efesiani accompagnanti ; e molli di loro con faci e sacritkj. In questo adunque Licomede e Temìsto ve- nuti in ricordanza di tutte le cose insieme, dell'oracolo, del pellegrinaggio del figliuolo, giaceano in terra co- sternali. MegameJe e Evippa, aveano la medesima pas« sione, ma erano più contenti, mirando le riu>cite delle cose vaticinate. Ornai adunque tumultuavano i nocchieri, si scioglievano i poppesi, e il piloto prendeva il suo posto, e raoveasi la nave. Grido degli uni dalla terra mollo, e degli altri che nella nave, tramescolato. Quegli, 0 figliuoli, dicendo, carissimi, vedremvi piìi noi che v'in- generammo? E questi, o Padri, dunque vi lasceremo? Lacrime allora e strida. E ciascuno per nome il con- giunto chiamava, gran ricordo lasciandosi tra loro, U

DI ABROCOMB ED ANtlA IH

ncme. E Megimede presa una guastada e libando pre- gava talDRerte, che fosse udibile da quei della nave. 0 figli, dicerdo, grardissiDoamente siale felici, e funghiate i duri vaiicinj; e voi salvi ricevano gli Efesiani, e la diletJissima patria ricuperiate. Che se altro accaggia , ciò sappiate, che anche noi più sarem per vivere. Vi mandiamo a un cammino sciagurato si , ma neces- sario. Mentre ancor favellava, lo impedivan le lacrime, e costoro si partivano verso la cìttade , la moltiiudino confortandoli a star di bucn cuore ; e Abrocrme e An- zia abbracciati tra loro giacevano, molte ecse ripensando, i genitori compassionando, la patria bramando, l'oracolo temendo, dello siar fuori sospettando. Ma teneva loro luogo d'ogni consolazione il navigare insieme, e quella giornata, avuto prosperevole vento, fornendo il viaggio, s'incontrarono in Samo, isola sacra di Giunone, e quivi sacrificato, e renato, e fatto molti voti, la vegnente notte partirono. Ragionari fra loro molti scambievoli. Giù- gnertmo mai noi a stare insieme? E Abrocome tratto un grave sospiro, venuto in rimembranza delle cose sue, Anzia, disse, della vita a me più cara; principalmente avvenga l'avere buona ventura, e campare tra noi. Ma se destino fia che alcuna cosa ci accaggia, e come l'uno dall'altro staremne lungi? Giuriamoci entrambi, dilet- tissima, che tu a me ti manterrai pura, ed altro uomo non sosterrai ; ed io che con altra donna non mi ac- caserò. Udendo ciò Anzia, forte strideva : e perchè que- ste cose, disse, Abrocome hai credute? Che se io par- tita sia da te, dell'uomo ancora contra di me consideri? Che pure anco viverò punto senza di le ? il Sole rimirerò? Queste cose Anzia diceva; e sopraggiurò anco Abrocome. E l'occasione faceva i loro giuram'^nti più tremendi. In cjueslo la nave passa T wola di Coo , e

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Gnido; ed appariva l'isola di Rodi grande e bella. E loro qua d'uopo era che apprrdnss(ro del tutto, peroc- ché afTermavano i norchifri, che hisoprava fare acqua e rinfrescarsi, dovendo cadere in lunpra navipazione. Fu condotta la nave a Rodi e .«-barcati i navicanti, sbarcò anco Abrocome tenendo per mano Anzia. Erano ragù- nati tutti i Rodiani, stupiti delle bellezze dei giovani , vi ha de'veggenti chi passasse tacendo. Altri dice- vano quello avvenimento degli Iddìi; altri adoravano, e con gli alti il dimostravano. E prestamente per tutta la città rigirava il nome di Abrocome e d'Anzia. E orano a loro pubblicamente, e sacrifici sacrifìcan molli; e fanno la festa del loro avvenimento. Ora eglino tutta la città visitarono, e offerirono nel tempio del Sole un' armatura intera d'oro, e scrisservi sopra per memoria l'inscrizione degli offerilori.

Gli ospiti a te offerir qaeste armi d'oro Anzia e Abrocome, d'Efeso nativi.

Queste cose avendo offerte , pochi giorni stando nel- l'isola, affrettando i nocchieri, mossero con aver fatta provvisione di viveri. Tutto il popolo de' Rodiani gii accompagnava, e dapprima erano portati con favorevole vento, ed era loro la navigazione benigna; e quel giorno e la notte vegnente eran portati misurando l'egiziano mare. Il secondo cessò il vento; bonaccia, e tardo viag- gio; e pigrizia de'naviganti, e bere in questo, ed ebria- chezza , e cominciamenlo delle cose vaticinate : sopra Abrocome viene a piantarsi una femmina a vedersi spaven- tosa; di grandezza più che 'I naturale, avente vestito vermi- glio, e stando sopra la nave parea che di quella facesse strage, e che gli altri perissero, e che esso con Anzia si sal- vassero a nuoto. Qu(>3te cose com'egli vide si turbò, ed

m ABROCOME ED ANZIA i?

aspettava la disgrazia appresso il sogno, e la disgrazia venne. Erano in Rodi corsali che appresso loro approdarono, Feniej di nazione, in galea grande, ed approdarono come avendo carico di mercatanzia , e molti , e prodi. Questi aveano appreso che nella nave oro e argento ave\avi, e schiavi molti , e di pregio. Fermarono adunque tra loro, assalendo quegli che facessero resistenza, d'ucci- dere, e gli altri menare in Fenicia a vendere co' da- nari e colle robe, e dispregiavanli come non degni di battaglia. Il capo de' corsali si appellava Corimbo, gio- vane grande a vedersi, nella guardatura tremendo, la zazzera avea rabbuITita , spiovuta. Come queste cose i corsali ebbero determinate, primieramente navigarono accosto a Abrocome di cheto ; all'ultimo (era intorno al mezzodì, e tutti giacevano quei della nave per l' ebria- chezza e pigrizia, parte dormendo , parte addolorati) è loro addosso la gente di Corimbo colla nave a luita voga. Era galea di molta celerità. Or come furono presso saltarono sulla nave armati colle spade iguude. E qui alcuni si gettarono dallo spavento in mare e perirò ; al- tri volendo difendersi restarono uccisi. Ma Abrocome e Anzia corrono intorno a Corimbo corsale, e prenden- dolo per le ginocchia: i danari , dissero, o padrone e noi servi tu tienti. Perdo na la vita, e non più uccidere quegli che ti si rendono volontari , non per la stessa D ?! del mare, non per la destra tua. Menandoci dove vuoi, vendi i tuoi servi; solo abbi pietà di noi, metten- doci sotto un sol padrone. Udendo Corimbo, tusto ordinò, che restassero d'uccidere , e trasportando le robe più preziose, e Abrocome e Anzia , e certi altri pochi di servi, die fuoco alla nave, e tulli gii altri furo abbru- ciati ; che il menar tutti poteva, sicuro il vedea. Era lo spettacolo laiserabile di questi che eiaa coadulii

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vi) nella galea; di quegli che abbruc/iavano nella nave, e le mani da quella stendevano , che lamentavansi. Gli uni d;cevat»o : dove mii ne conduirele, o padroni? Qual terra ci acco^Mierà? Equ;il ciltado abiterete? Gli altri: oh beati que' chd son per morire f.dicemeiile avanti di provare le catene, vedere la corsaresca schiaviiudine. Queste cose dicendo, questi eran menali, quegli bruciati! In quesio il balio dAbrocome, vecchio oinii venerando in vista, e per la veccliicz',a, meschino , non sollrendo menalo via Abracoine, gitiando stes-io nd mare, no- tava, come per gnigiiere la galea. Dove lasserai, Aglio, dicendo, me vecchio, il tuo maestro? Dove andando, o Abrocoiiie, tu slesso me uccidi sventurato e seppellisci : posciachè a me che è vivere senza le? Quesi»* cose di- ceva, e airuUirao disperando di poter arrivare Abro- come, accomandando stesso ali'ond<), morì. Ciò anco a Abocome era di tutte le cose la più miserabile. Con- ciossiachè e le mani distendeva in verso il vecchio, e confortava i corsali a ripigliarlo ; ma questi non fa- cendo alcun conto, in capo a tre giorni di navigazione portati furono alla città della Fenicia, Tiro, ove i cor- sali aveano il loro rad lotto. Ma loro nella città propria non isbarcarono, b-^nsi in un vicino luogo, di un uo:iio, capitano di corso, Assirto per nome, di cui Corimbo era ministro con soldo , e partecipazione della preda. Ora nella intermissione del navigare , dalla molta quo- tidiana veduta , Corimbo s' innamora d'Abrocome e di gagliardo amore. E lui verso il giovinetto la consuelu- diiift più che mai accendeva, e nel travaglio persua- dere non sembrava es^er possibile, poiché vedeva come stavano per lo disanimameuto male ; e veJevalo d'Au- zia innamorato ; ma anche lo sforzare, forte cosa pareagli, poiché dubitava non gli facesse alcuna cosa fiera. Ma

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poiché see?ero in Tiro, iioa più bsiiM- potendo , pri- miera nenie seguiva Abrocoine , e conforlavalo , e ogni diligenza gli usava ; ed egli pensava che Corimbo per compassione avesse cura e solleciludme di lui. In se- condo luogo comunica Corimbo l'amore a uno de' cor sali compagni, nomato Bussino, e pregato che io voglia aiutare, e consigliare in qual guisa potesse persuadere il giovinetto. Eussino brtoignamente ode l'afTare di Co- riiub), poiché esso per Anzi» slava male , e amava la donzella d'un fiero amore. E dicea Corimbo ancora le sue cose; poiché affermiva per molto cosa codarda for- tuneggiando, e la vita a repeniaglio ponendo , non go- dere in franca pace delle fatiche guadagnale : e potremo loro, diceva, cappati da A ssirio ricevere in dono. Que- ste cose dicendo, agevolmente persuase lui amante. E concertino nello stesso genere fare fatiche l' uno per l'altro : e sforzarsi di persuadere , questi Abrocome , e Corimbo Anzia. In questo tempo giaceanosbigotlili molto ose aspettando, tra lor ragionando, continuo giurando di osservare l'accordalo. Vengono adunque a loro Co- rimbo e Eussino , e spiegando di volere privaiamanle alcuna cosa dire, appartano l'uno Anzia, l'altro Abro- come; a questi l'anime palpitavano, e niente di sano d-jntro pensavano. Dice Eussino a Abrocorae in favor di Corimbo.

Giovinetto, è dicevole oltre alla disgrazia il portar malvolentieri d'essere venuto di libero schiavo, e invece di felice povero. Ma fa ili mestieri , che tu colP animo del tulio facci ragione, ed abbracci la dominante ven- tura ed ami 1 fatti padroni. Poiché sappi, che sta in te il ricoverare e f;licità e Ubarla se vorrai ubbidire al padrone Corimbo. Gjnjiossia;hè ti ama di fiero amore; ed è presto a farli padrone di tiiUo il suj. Nulla di ru-

so bEGLI AMORI

vido patirai, ma più benevolo il pìdrone ti farai. Con- sidera iu die stalo al presento ti trovi. Soccorritore ninno, il paese straniero, e i padroni corsali , e di niun sup- plizio v' è scampo a chi dispetti Corimbo. Che uopo è ora a te di moglie e d'intrighi? Che dell'amata a uno doll'elà tua? Tuito abbindona ; bisogna che tu al solo padrone riguard: ; a questo quando comanda ubbidischi. In udendo Abrocome, tosto si stava a bocca aperta, trovava cosa da rispondere. Ma lacrimava e sospirava fra sé, guardando in quali frangenti era venuto ; e cosi dice a Eussino: Concedi padrone, eh' io pensi un poco, e a tutte le cose risponderò da te dette ; e Eussino si ritrasse. Corimbo d'altra parte contava a Anzia V inna- moramenio d'Cussino, e la presente necessità, e che in ogni maniera ò giuocofor/.a che ella faccia a senno dei padroni , e prometteale molle cose e maritaggio legit- timo e danari , se si lasciava persuadere , e gran roba. Ella a lui fece una simigliante risposta, chiedendo di pensare breve tempo. E Eussino e Corimbo erano in- sieme aspettando tra loro che cosa fossero per udire, e speravano di facilmente avergli a indurre a fare la vo- glia loro.

Fl.NE DEL LIBUO PHIMO.

DEGLI AMORI

ABROCOME ED ANZIA

LIBRO SECONDO.

Abrccome e Anzia andarono nella camera dove erano solili a dormire, raccontando tra loro le cose udite, get- tandosi per terra piangeano, lamenta vansi. 0 padre, di- esano, 0 madre, o patria, o cari amici e domestici e parenti; ed in ultimo ripigliando Abrocome : o infelici noi, disse, che faremo dunque in terra di barbari cor- sari all'insolenza conse<^-nali di corsari! Cominciano a adempiersi gli oracoli. Riscuote da me ornai lo Iddio il supplizio dell'orgoglio mio: è innamoralo Corimbo di me; di te Bussino. 0 intempestiva ver l'uno e l'altro bellezza t A questo adunque io infin' a ora ca^^to son riservato , acciò soitomeita me stesso a un ladrone amante, d'un disonesto desio? E qual vita mi rimane divenuto invece d'uomo meretrice , e privato d'Anzia mia? Ma per la finora compagna castità, da fanciullo

li DEGLI AMORI

allfrata con esso ni«'co . pinro ohe me non sottoporrò a Corimbo ; morrò anzi , ed apparirò un morto casto. Queste parole acrompaprava epli aA pianto. E Anzi», oimé, dicea , che disgrazie! Tosto a'pinramenti forzati slamo; tosto proviamo la scliiaviiù. Ama nno me, ed ha pia speralo d'indnrmi con persuasioni di venire nel ietto mio flopo Abrrcome, e di coricarsi meco, e di far la sua voplia? Ma non co«l io sia tenera della vita, soffra ollracrgiata mirare il sole! L'affare è risoluto; mo- iamo. Abrocom**, ci possederem dopo morte da niuno Dolali. Questi cosi feimaror.o. In questo Assirto , il ca- pitano de* corsari stimando che venisse Corimbo, e che molte e mrravipliose robe e danari recasse , venne al luopo e vice Abrocome; stupì della bellezza, e subito pensando ciò essere un pran piiadapno , pli chiese. Gli altri denari e robe e fanciulle quante se n' eran prese, distribuì a Corimbo. Eussino e Corimbo conira voglia concederono Abrocome ad Assirlo. Ma il concederono per necessilà. Quegli si partirono. Ma Assirlo preso Abrocome e Anzia. e due servi, L^ucone e Roda (o vo- pliau) dire Bianchino e Ro«a) condiissepli alla città di Tiro, Era rappuardala da tulli la lor proce.ssione , e ognuno, dopo avere ammirato la lor belle/za come uo- mini barbari, che non avemo mai ile' suoi piorni ve- duta una tale formosità. Dei stimavano essere i riguar- dati da loro, e felice predicavano Assirlo per posseder tali schiavi. Questi, condonigli in .casa , li consept)a a uno schiavo fedele, ordinandogli che ne tenesse cura , come essendone epli per farne gran mercato, se epli pli vendesse. Trovavasi Abrocome in questo sialo di co.se. Parsati pochi giorni A.ssirto parli per Soria a fare altri traflichi di mercalanzie. La sua tìgliiiola per nome Manto 9'iDDamorò d'Abrocome., Eila era bella ej^nubile; ma

DI ABROCOMB BD ANZIA 2S

mollo ira lasciata irdiplro da Abrocorre in bellezza. Questa Marte dal convivere con Abrocome vien presa, e por ?i To\(-\t{ tenere , e ron sapea che farsi ; poiché non ardiva di dirlo ad Alrocome che area propria mo- glie; e ron isperando piammai con lui di venirne a capo, arche osando di dirlo ad alcuno de' suoi per tema del padre; e perc'ò più ancora s'accendeva e stava male. Ma non più potendo stare alle mosse , pensò di partecipare il suo amore a Roda, allevala con Anzia, sua coetanea e fanciulla, perciocché questa sola ella si dava a credere che fosse per cooperare al suo desiderio ; e prendendo il tempo, conduce la fanciulla nella eay pella domestica del padre, e prepala a non le contraddire, pigliandone da lei pinr?mento. Le dice adnnnue l'amore d'Abrocome, e supplicala ad accudire, e accudendo molle promesse le fece. Disse: sappi che sei mia schiava; sappi che proverai la mia ira d'una barbara e offesa. Appresso queste parole licen7iò Roda , la quale si trovò in un pazzo guaio. Perciocché amando ella Anzia, rifiutava di palesarlo ad Abrocome, e dall'altra banda assai temrva dell'ira della barbara femmina. Parvele in fine che tor- nasse bene di far prima consapevole Leucone delle cose dette da Manto. Erano a Roda confidenzie spezialmen'e fatte con Leucone, e avevano avuto che fare insieme in Efeso. Allora preselo a solo a solo : o Leucone , dis>e , Siam morti affatto : non avrem più i nostri compagni. La figliuola del padrone Assirto è innamorata d'Abro* come fieramente; e minacela, se non conseguisce, di farci di brutti scherzi. Guarda adunque che cosa biso- gna fare. Il coniraddire alla barbara è pericoloso, lo stac- care Abrocome da Anzia impossibile. Udito ciò Leucc ne si rico.mò di lacrime, aspellando da lutto questo {irandi disgrazie. Mal dopo un pezzo riavutosi, taci, disse, Roda'

14 DEOLI AMOHI

io il lulto governerò. Questo dello , se ne va da Abro- corae, il quale altra faccenda ntn aveva che amare An- sia ed essere da quella amalo, e parlarle e udirla par- lare. Venuto dunque a loro: cbe facciamo noi compa- gni? Che deliberiamo noi servi? A uno de' padroni tu sembri, o Abrocome , bello. La figliuola d' Assirlo sta male per le, e conirsddire a una innamorala barbara fanciulla è difficile. Ora tu, come ti pare deliberando, salva noi tulli quinti, e non permettere che cadiamo sotto Tira de' padroni. Udilo ciò Abroccnae, s'empie di sdegno ; e guardando fiso Leucone: o scellerato disse, e di questi Fenicj,più barbaro! osasti di dire a Abrocome queste parole ? E presente Anzia , d'un' altra fanciulla mi narri? Sono schiavo, ma i patii io so osservare. Hanno potestà del mio corpo , ma l'anima ho franca; Minaccimi ora, se vuole Manto, spade, e lacci, e fuoco. e tulle quelle cose, che può soffrire un corpo di schiavo, io mai non m'indurrò volontario a far torto ad Anzia. Mentre dicea queste cose, Anzia dalla disgrazia giaceva, colla bocca chiusa, e senza poter batter parola. Final- mente, e a gran fatica rinvenutasi: io [osseggo, dice, 0 Abrocome il tuo affetto, ed essere in eccellente guisa amata da le e apprezzata tengo per fede. Ma ti prego , 0 sire della mia vita, a non tradire te stesso, a get- tarti dentro la barbaresca Ira. Condiscendi alla voglia della padrona , ed io me ne vado via , togliendomi da voi coir uccidermi. Di tanto io ti prego. Seppellisci tu, e vogli bene a chi è caduta, e sovvengati d'Anzia. Que- ste cose tutte in maggior calamità condussero Abrocome 8 non sapea chi egli divenuto si fosse. Erano in que- sto stato costoro. Ma Manto, iudugian do Roda a venire, scappatale la sofferenza, scrive un viglietto a Abrocome; il cui tenore era questo: j A Abrccomo il bello la sua pa-

DI ABROCOME ED ANZIA

« drona salute. Manto ti ama, e non ne può più. Inde- t cento cosa per avventura a fanciulla, ma forzosa ad « una che vuol bene. Pregoti a non mi abbandonare, e « a non fare oltraggio a chi ha preso il tuo partito; « poiché se tu li piegherai , io persuaderò il mio padre « Assirto ad accasarmi con esso teco, e di quella mo- « glie che tu hai ci disfaremo. Arricchirai, e sarai beato. « Ma se conlraddici, considera quali cose soffrirai, l'ol- « Iraggiata da le vendicandosi, e quali quei che son « teco, partecipi della tua arroganza, tuoi consiglieri ». Prendendo questo biglietto e sigillandolo, lo consegna a una schiava sua, barbara di nazione, dicendo : portalo a Abrocome. Ricevetielo egli, e lesselo. Dolsesi di tutte le cose ivi scritte , ma sopraltullo l'addolorò il fatto d'Anzia. E quel viglietlo tenendo, fa la risposta, e dàlia alla serva di questo tenore. « Padrona, fa ciò che vuol, t e serviti del corpo come di schiavo, e se uccider vuoi, « son pronto, o martoriarlo, come tu vuoi, martorialo; « ma nel letto tuo io già non venga, in questo fatto « obbedisca a' tuoi comandi ». Ricevendo questa rispo- sta Manto, viene in una ira disfrenata, e facendo un miscu- glio di tutto, d'invidia, di gelosia, d'afflizione, di terrore, si mise in cuore come vendicarsi dello altiero. Accadde che in questo eccoti dalla Soria Assirto, conducendo un certo di quei paesi, per isposo alla figlia per nome Me- ride. Ora come egli fu venuto. Manto mise insieme una invenzione centra Abrocome , e lacerandosi le chiome, e stracciandosi la vesta intorno intorno, fallasi incontra il padre, e cadutaglisi alle ginocchia : pietà, disse, padre, della lua figlia oltraggiala da uno schiavo; poiché il ca- sto Abrocome tentò di distruggere la verginità mia, e insidie ti lese con dire d'essere di me innamoralo. Tu adunque per così grandi attentati , riscuoti da lui un

Sto DEGLI AMOk '

degno gastigamenlo. E se lu allochi la flglla tua con iscliiavi, io prpv riò,roirucciclfrFni. racrasameiito. Udendo ciò Assillo, e pai end' gli che ella dicesse da vero, non si cuiò di fame >llro processo, e fallo chiamare Abro- come: o ardimeniosa, e sciaurata lesta! gli disse; e ar- disti di fare oltraggio a' tuoi padroni? E violare volesti una verpine. essendo In sfiliamo? Ma non te ne ride- rai; perocché io ti ga?ti|!herò; e agli altri schiavi farò che '1 tuo scempio e la (uà ignominia serva d'esempio. Dopo questo non volendo incontra sentire meno una parola , comandò a' servi «he squarciassi ro il suo ve- stilo, recassero fuoco e flagelli, e (he bailessero il gio- vinetto. Era lo spettacolo compassionevole, conciossiachè i tormenti tutto il corpo deformavano, che non era av- vezzo allo schiavaggio; il sangue colava tuUo; e dile- giiavasi la bellezza. Fecegli \enire e catene terribili , e fuoco; e particolarmente usò i tormenti contra di lui per mostrare allo sposo della figliuola, cho avrà una casta fanciulla, in questo anche Anzia si butta a' ginoc- chi d'Assirto, e supplicava per Abrocome, Ora, e mag- gio! mente, disse, p«T amor tuo sia gastigato, perchè a te ezian lio fece ingiu-itizia; avendo moglie, e amando un'altra. E in qu'^l i unto comandò che fosse legato, e chiudo in una scura segre'a ; cosi fu preso e incarce- rato. Fiera costernazione lo piglia, e massimamente per- ciocché Anzia non vedeva. Cercava guise molte di morte, e niuna trovavano , essendo molte le guardie. Assirto celebrava le nozze della figliuol » , e la solennità durò più gjorn-. A"zia era tutta lutto; e se mai poteva fare che s' contentassero i soprastanti delle carceri, entrava di furto da Abrocome, e querelavasi della disgrazia. Ma quando ornai s'appartcchiavanoa partire per Soria; man- dò innanzi Assirto la figliuola con molto corredo. Abiti

DI ABROCOMB £D ANZIA 17

babilonesi e oro e arperfo le diede in buon dato; e tra- l'al're rrgalolle Ariyia, e Roda, e Leurone. Come adiin» qiie ciò pefpe Arzia, e che «ara portala in Soria colla Manto, avendo polulo erlrare nella prgione, alibrac- ciatasi con Abncome, padrone, disse, ?on condotta in Soria regalala alla ?po?a Manto, e son data nelle mani della rivale, e lu stando in carcere miseramente ti muori, senza avere ehi pur ti aggiusti morto, e seppel- lisca. Ma giuroti per lo Dio Genio d'entrambi che io li aspetterò e viva, e quando che du^po fia, morta. Nel dir queste parole lo baciava ed abbracciavalo , e le catene salutava, e davanti a' ceppi atterrala si rivolgea. Final- men'e uscì della carcere, ed egli come si trovava , ab- battuto sopra la terra gemeva e sospirava, o carissimo padre, esclamando , o madre Temislone, ove è quella ielicità, che pareva una volta 'n Efe-o? Ove gli splen- didi e ragguardevoli Anz'a e Abrocrme, i belli? Quella se ne va lungi dal suo paese schiava ; ed io sono spo- glialo del solo mio conforto, e morrò infeliee in carcere solo. Mentre ei diceva questi lamenti, il sonno Io prende, e il snpno gli è «opra il capo. Sembravagli di vedere il padre Lieomede in ves!e negra, errante per terra e per mare, e venuto alla carcere, scioglierlo e scarcerarlo, e divenuto cavallo portarsi per molta terra , seguitando altra cavalla femmina, e alla fine trovar la cavalla , e divenire uomo. Queste rose siccome gli parve di vedere, cos'i saltò su, e un poco si fece di buona speranza. In- tar.to egli dimorava chiuso in earcere, e Anzia era con- dotta in Soria con Leucone e con R'ida. Quando giunse Manto in Anii( rhia, poiché di li era Meride , perchè te- neva cattiva memoria di Roda e odiava An/.ia , perciò snbito ordina ihn Roda, insieme con Leutone, certuni gì' imbarchino, e che lunlanissimo dalla terra d»' Soriani

•8 nEr.L! AMOR!

sleno venduti ; o Anzìa faceva pensiero di accasarla con uno schiavo, e questo vilissimo, a un certo capraio vil- lano : volendo con questo vendicarsi d'Abrucome. Fa ve- nire a il capraio Lampone per nome, e gli consegna Anzia, e comandagli che l'abbia in moglie; e se non ubbidisse, ordinava che fosse costretto a forza. Ed ella era condotta al campo per avere a far le nozze col ca- praio. Giunta dunque nel podere , dove Lampone pa- sceva le pecore, si butta in ginocchi a' suoi piedi, e lo supplica di compassione, e di guardia : contagli chi ol- Tera, la primiera nobiltà, il marito, la schiavitù. Lam- pone ciò udito, compatisce la fanciulla, e giurale di cu- stodirla inviolata, e confortolla a farsi animo.

Ora questa slava presso il capraio nel luogo, tulio il tempo facendo lamento sopra Abrooome. Assirlo fru- gando la piccola stanza, ove Abrocome prima dell'esser fatto prigionipro si dimorava, s'abbatte nel viglietto di Manto ad Abrocome, e riconosct^ i caratteri, e che in- giustamente gastiga Abrocome. Subito adunque coman- dò che fosse liberato, e che fosse condotto al suo co- spetto. Avendo patito malvagi trattamenti e compassio- nevoli, si getta ai piedi d'Assirto. Egli lo drizza. Ani- mo, disse, 0 giovinetto; a torlo ti condannai credendo al discorso della fi;?liuola. Ma ora invece di servo ti farò libero; e ti do il governo della mia casa; e ti ac- catterò moglie, la figliuola d'un cittadino; voler ri- cordarti di ciò ch'è passato; perciocché di propria vo- lontà mia non ti offesi. Questo disse Arsirlo. Ma Abro- come: grazie, disse, a le padrone, perchè e il vero co- noscesti, e della temperanza mi guiderdoni. Gioirono latti quegli della casa per Abrocome, e di lui sapevan grado al padrone. Ma egli era in grande infelicità per conto d'Anzia. Pensava fra stesso spesse volle: chQ

DI ABROCOME ED ANZIA Ì9

mi fa la libertà, che le ricchezze, e la soprantendenza della roba d'Assirto? Non debbo io esser tale: oh puro trovassi lei o viva, o moria ! E^li si trovava ìq questo grado, governando la casa d'As>irto, e pensando quan- do e dove trovare Anzia. Leucone e Roda erano stati trasportati in Licia alla città di X.into. Oltra il mare è la città. Quivi furono comprati da un certo vecchio, che gli teneva con tuila diligenza, come se fossero suoi fi- gliuoli, poiché egli era senza prole. Non mancava loro niente; anzi aveano abbondanza di tutto. Ma gli attri- stava il non vedere Anzia e Abrocome. Anzia per al- cun tempo fu col capraio; allorché Meride sp3so di Manto, venendo continuamente nel luogo, s'innamora d'Anzia con fiero amore ; e sul principio s'ingegnava di tenerlo nascoso. Alla fine appalesa al capraio il suo amore, e molte promesse gli fece, se egli con esso luj il teneva celato; con Meride lo attenne; ma temendo Minto, va a lei e le dice l'innamoramento di Meride. QiftUa entrata in collera: lo disse, di tutte le donne la più infelice, rigirerò la sgraziata p.}r la quale la prima volta in Fenicia mi fu tolto il vago, ed ora porto pe- ricolo del marito? Ma non rìderà Anzia apparita bella anco a Meride, poiché io sopra le cose falle in Tiro le farò pagare il fio. Persleite queia. Ma andato di fuora Meride, manda per lo capraio, e gli ordine, che pi- gli Anzia, e condottala nel più forte della macchia, l'uc- cida; e di questo gli prom;tie la mancia. Il capraio compatisce piangendo la fanciulla: ma tornendo di M»n- to va di Anzia, e narrale ciò che era contra lei riso- luto. Quella prese a urlare e lamentarsi: oiraè, dicen- do, di questa bellezza insidiosa ad ambedue per tutti i luo.^hi, per intempestiva sembianza, Abrocome in Tiro é morto, ed io qui! Ma ti prego per l'avvenire, o ca«

30 DBGLt aW;ori

praio, che ti porli coma ti sei portalo fmora, relìgio* sainnato. Dopo che mi avrai ucciso ; seppelliscimi eoa un poco di lerra, die quivi presso si giace; e pani so- pra gli oc'.'iii miei le mini tue, e sotttM'randoini chiama Abiojom3 coniiiuo. Q.rsla a me sarà f-licecou Abro- wjme sepoliura. Disse, e 'l capraio enirò nella cumpas- sioue, pm.sand'i come scellerato f ilio f irà uf-ciden lo fan- ciulla, che non avea mal nessuno operaio, e fanciulla cosi bella. Presa d inque il capraio la giovane, non gli dieJe l'animo di amma/.zaria, e spiega a lei qui^'Sto pen- siero: Anzia, tu sai che la padrona Manto mi ordinò di pigliarli e d'ucciderti. Io per limar degl'IdJii, e per comi)assione dt tua bellezza, vo-;lio anzi venderti ia qualche parte lontana da quo to paese. Non sapendo Manto che tu sia moria, mi farà mai^giormente del male. Q iella con lacrime, prendendo i piedi di lui, disse: o Di, e Diana d'Efeso, il capraio pjr questo bine che mi fa, nmuieraiel o confortollo a vendijrla. Il capraio con esso Anzia se n'andò al porto, e irovanio quivi mer- catanti Uomini di Cincia, venie la pulcella, e riceven- done il prezio, tornò al campo. I mercaianii presa An- zia la misero sopra la nave, e li iioUe seLjuente s'av- viarono alla volta di Cilicia; mi ratienuii da vento Contrario, e squarciatasi la nave, salvatisi sopra una tavola, giunsero a una certa spiaggia, insiems con An- zia. Bravi in quel luo^o una fona boscaglia: ora qnlia notte smarriti in quella boscaglia, da IppoDo ladone furono presi. In quisto v;ime di Sona un servo por- tando lettere di Minto al padre Assirlo, di questo te- nore, t Allogastimi in terra forestiera. Anzia, la quale « con altri schiavi mi donasti, dopo aver fatti molli « mali, ordinammo che abitasse alla campagna; di qne- t sta» nel podere coatinaameate vedendola, il bel Me -

bl AfiftOCOME KD AXllA 31

« ride s'innamora; io non polendo più soffrire, m:\n- dai pel capraio, e orJ nai, ohe la fiaciulla si riven- f drisse in alcuni città della Siria. i> Inteso questo Abrocome, non potette stare alle mosse, adu.ique di eh ?to fu^'gendo da Arsirlo, e da tutti di quelli casa, se ne va in cerca d'Anzia. Pervenuto adunque nel po- dere, ove Anzia ol capraio dimorava, conduce lungo la spiaggia Lam,ione il capraio, a cui aveva Manto data in malrimoiio Anzia, e prega lo slesso Lampone a dirgli, se alcuna cosa sa della fanciulla di Tiro. Il capraio gli disse : volete dire d'Anzia. Ora per filo e per segno gli disse il matnmjnio, e la sua pia con- dotta intorno a quello, e l'innamoramento di Meride; l'oriine contro di lei, e'I viaggio in Gilicia. Dissegli in oltre, che un certo Abrosome sempre ricorda la fan- ciulla. E^li non dice che egli sia desso; ma levatosi per tempo, muove verso la Gilieia, sperando d'aver Anzia a trovar quivi. L\ gente d'Ippotoo il ladrone quella notte si stettero banchettando, la dimane attesero a sagrificare, ed erano tutte le cose apparecchiate, e lo statue di Marte, e le legna, e i tì.iri per le ghirlando; e bisognava eh a il sacrifico si facesse secondu l'ordine consueto. La vittima, che si dovea sa^^rificare, o uomo, 0 animale che si fosse, attaceanlo a un albero e tiran- dosi in dietro, tr leanle darli ; e di quanti di loro da- van nel segno. Iddio sembrava che accettasse il sagri- ficio, e quinti sbagliavano, di nuovo placavano Iddio. E bisognava che Anzia in qu'Sta guisa fosse sacrifi- cata. Come adunque tutto era allestito, e vulcano at- taccare all'arbore la fanciulla, strepito del bosco s'udì, e calpestio d'uom.ni. El era il PresiJeote della Pace in Gilicia^ per nome Perilao, uomo de' principali, e po- lenti della Gilicia. Questo Pdriao sopraggiuose ai

DEGÙ A.M )Kl

droni cqq moila geute, e tutti gli uccise; e alcuni po- chi prese vivi; solo Ippotoo potè fuggire, tenendo in alto l'armi. Prese Anzia Perilao ; e intesa la disgrazia, che le dorea venire addosso, la compali; e si ebbe al- lora un gran principio del su) mile, il compatimento d'Anzia. Conduce lei, e i ladroni presi con esso lei a Tarso di Cilicia. La consueta visla della donzella Io mise in amore, e appoco appoco Perilao restò prigione d'Anzia. Giunti che furono In Tarso, i ladroni mise in prigione, e stava coltivando Anzia. Erano donna a Perilao, figli, e una massa di pecunia non pie- cola. Disse adunque a Anzia: che ella sia il tutto a Perilao; donna e madonna; e in luogo di figliuoli. Ella a princi|)io resistè; non sapend* poi che partito prendersi, mjntre egli la Violdntava, e pressavala molto temendo non egli lentinse quilctia maggior violenza consento il matrimonio; ma b3nsi lo prega a volere a^pL'itare un poco di tempo, come di trenta giorni, e di guardarla intatta. Questo fu il di lei avviso. Perilao si contenta, e giura di guardarla pura dalle nozze, fino a che il tempo sia passato. Ora ella dimorava in Tarso con Perilao, attendenJo il tempo delle nozze. Abrocome seguitava il viaggio ver la Cilicia; e non molto lontano dilla grotta Issica (conciossiaehè avea smirrito la dritta via) s'incontra in Ippotop armato. Q'iegli ved-^ndolo gli corre avanti, e carezzalo; e lo prega d'essergli com- pagno di viaggio, perchè io ti miro, dice, o giovanetto, chiunque tu ti sii, e bello a vederti, e per altro forte e virile. La via è ornai smarrita del tutto. Andiamo dun-i que, lasciala andare la Cilicia, in Gappadocia, e al Ponte di quella; poiché dicesi, quivi abitare uomini opuleiit e ricchi. Abrocome non palesa la cerca d'Anzia, m; acconsente a Ippotoo che lo forzava ad andare. Fanne

DI ABROCOME ED ANZIA 53

scambievoli giuramenti di fare da buon compagni, e aiutarsi l'un l'altro. Sperava Abrocome nel molto an- dar vagando d'avere a trovare Anzia. Quel giorno adunque ritornando nella grotta, se vi aveva qualcosa da fare, ripigliarono i cavalli, poiché a Ippotoo era un cavallo nascoso dentro la macchia.

FINE DEL LIBRO SECONDO.

DEGLI AMORI

ABROGOME ED ANZIA

LIBRO TERZO.

Il giorno seguente lasciarono la Cilicia, e dirizzarono il cammino alla città di Mazaco della Cappadocia, grande e bella. Poiché quinci Ippoloo aveva in testa di racco- gliere giovani nel fior dell'età, e formarne di nuovo una compagnia di ladroni. Passando loro per villaggi e castelli grossi, era abbondanza di tulio il necessario. CoQciossiacliè Ippjtoo era pratico della lingua di Cap- padocia, e tulli trattavano con lui come uno del paese. Alla fine dopo aver falle dieci giornale arrivano a Ma- zaco, e ivi presso della porla presero abitazione ; e sta- bilirono di ristorarsi per alcuni giorni dalla fatica. Ora, mentre pranzavano allegramente, Ippoloo gettò un so- spiro, e gli venner dietro le lagrime. Abrocorae l'in- terrogò della cagione di quel suo piangere. Ed egli: grandi sono i miei raccua;., e che tengono in loro assai del tragico. Invitollo Abrocorae a dire, promettendogli

DI ABROCOME ED ANZIA 35

allo incontro di contargli le sue avventure. Questi rifa- cendosi da capo (ed erano soli) narra le cose avvenu- tegli. Io, dice, sono per nascita della città di Perinto vicina della Tracia questa città) ed era de' primi del luogo. Avete inteso, come Perinto è famosa, eie persone come son ricche. Quivi nella mia giovanezza m'inna- morai d' un giovine bello, eJ era il giovine di quei del paese, il suo nome Tperanle (quasi soprafflorido); e venni in questo amore a principio vedendolo nelle scuole de- gli esercizi fare alle braccia, e non ressi alla passione. Facendosi una festa del paese, e la sua vigilia celebran- dosi, m'accosto a Iperante, e lo supplico di compassione. Udendo ciò il garzone, tutto promette compassionandomi ; e'I primo incamminamento dello amore furono baci, e abbracciari, e molte lagrime dalla mia parte. Alla fine potemmo, collo il tempo, restar soli tra noi ; e l'ugua- glianza dell' et^ ci rendeva senza sospetto, e ci godemmo molto tempo portandoci molto affetto soprabbondante- mente ; fino a che una maledetta Versiera invidiò la nostra fortuna. Venne uno da Bizanzio presso di Perinto Bi- zanzio) uomo quivi de'grandi e possenti, il quale, per ric^ cbezze e per opulenza superbo, si chiamava Aristomaco, Quosli venendo subito a Perinto, come mandato da alcuna Iddio centra di me, vede Iperantecon esso meco, e addirit-. tura resta preso dal giovane, ammirandola sua bellezza, che valeva ad attrarre e rapir chicchessia. Innamorato, non più misuratamente ratteneva l' affetto ; ma sul prima mandò ambasciate al giovane : ma quando vide essera impossibile, perchè Iperante per la benevoglienza die mi portava non ammetteva ninno, guadagna il padre di lui, cattivo uomo, schiavo del danaro; il quale gli consegna Iperante sotto pretesto d'insegnargli; poiché si vantava essere professore di Retlorica. Ricevutolo» la

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prima cosa lo tenne serralo a chiave, o poi navigò a Bizanzio. Ed io il seguiva, sprezzando tutte le cose mie; quanto per me si poteva, mi trovava col giovine ; ma poteva poco. E a me il bacio era di rado, e il parlarci difficile. Era io tenuto guardato da molli. Alla fine non polendo piij contenermi, facendomi animo, ritorno a Perinto; e vendute tutte quelle robe, che io aveva, per far danari, mo ne vo a Bizanzio; e preso uno stiletto, di concerto con Iperante entro di notte nella casa di Aristomaco, e trovolo coricato col fanciullo. Io colmo d'ira colpisco in pieno Aristomaco. Ed essendo silenzio, e lutti a riposare, escomene di furto, siccome io venni, portando meco anche Iperanle. Egli tutta la notte viag- giando a Perinlo, subito imbarcato in una nave, senza saputa d' alcuno navigai in Asia, e in Qno a un certo che andò bene la navigazione. All'ultimo quando fummo in- torno a Lesbo, venne un vento gagliardo, e arrovesciala nave, ed io con Iperante notava di conserva andando sotto lui, e facendogli più agile il nuoto. Sopraggiunta la notte, il giovine non potendo più reggere, fu abban- donato dal nuoto, e muore. Io solamente potetti salvare il corpo alla terra, e seppellirlo con molti pianti e so- spiri, togliendo quegli avanzi ; e avendo potuto aver copia d'un' idonea pietra, piantai una colonna su '1 se- polcro, e sopra vi scrissi in memoria dello sfortunato giovane un epigramma cosi allora formato:

Ippotoo questo al bel fece Iperante

Non sepolcro dei buono Cittadino,

Da terra in fondo ; inclito flor, cui in mare

Sorte rapì al soffiar d'avverso vento.

Di quindi innr." '. non pensai d'andar più a Perinto, ma pei" l'Asia me n'andai alla volta di Frigia la grande.

DI ABROCOME ED AN£IA 37

3 della Panfilia, e quivi per carestia di vitto, e per lo a;ran dolore della disgrazia occorsa , diedimi al ladro- leccio ; e in prima ministro essendo de'ladroni, alla fine Jirizzai intorno la Cilicia una ladronaia assai famosa , anche furono presi i miei compagni non molto avanti li veilerli. Questa è la sorte delle mie avventure. Ma ;u, 0 caro amico, dimmi le tue, perchè mi sembri che jna gran necessità abbi provato nel tuo viaggio, Abro- jome gli dice ch'è d'Efeso, che s' innamorò d'una don- sella, e che la sposò ; conlògli gli oracoli , e'I pellegri- laggio, e i corsali, ed Assirto e Manto, e la prigione , ì la fuga, e '1 capraio , e '1 viaggio infino in Cilicia. Mentre ch'ai raccontava, faceva insieme de' lamenti Ip- joloo, dicendo : o miei genitori, o patria , cui più non redrò f 0 caro a me sopra tuite le cose Iperanle I Ma ,u, 0 Ahrocome, ancor vedrai l'amata ; io non potrò più ?edere Iperante. Cosi dicendo, si strappava la chioma, ì lagrimavavi sopra. Dopo che nei lamenti si sfogarono imbidue , Ippoloo rivolto ad Abrocome, un'altra avven- ura, disse, per poco io trapassai, non la coniando, poco nnanzi che la nostra compagnia fu presa. Giunse alla jrotla una vergine bella, smarrita; d'una etade come a tua, e diceva d'essere della tua patria ; più non ap- )resi. Costei fa determinato di sacrificare a Marte; tulio ;ra preparato pel sacrificio; sopravvennero quei che la serseguivano; io scappai; di lei non so che cosa av- venisse. Era bella assai, o Abrocome; e abbigliata or- iinariaraenle, chioma bionda, graziosi occhi. Menlr'egli incora ragionava, sclamò Abrocome : la mia Anzia tu lai veduto, o Ippoloo. Ma dove, dove fuggi? qual terra a tiene? Volgiamo il viaggio alla Cilicia; cerchiamola, ^on è lungi dal luogo de'corsari. E per l'anima d'Ipe- ■ante, che è la stessa colla tua, non mi far torto, ma

S8 DEGLI AMORI

andiamo ove polronio per vedere Anzia. Promette Ip- potoo far lutto. Solamente disse che bisognava pochi uomini meilere insieme per sicurtà dol viaggio. Questi erano a quesio segno, pensando come addietro a Cilicia tornassero. Ad Anzia erano passati i trenta giorni , e si preparavano da Perilao le vittime per le nozze, e si conducevano dai poderi ; e molta copia d' altre robe. Erano presemi con esso lui i famigliari e i parenti , e molti do'cilladini solennizzavan la festa delle nozze di Anzia. Nel tempo che Anzia [resa dalla compagnia de' ladroni venne a Tarso, un vecchio efesino , medico di professione, per nome Eudosso, era quivi per accidente di uaufiagio, navigando egli verso Egitto. Questo Eu- dosso andava attorno, e a queste e quelle persone, che orano de'più celebri di Tarso , chiedeva a chi robe da vestirai, a chi danari, narrando a ciascuno la disgrazia; s'accostò eziandio a Perilao, e disse eh' era Efesino , e jirofessava medicina, e quegli prendendolo lo conduce da Anzia, estimando che ella fosse per allegrarsi , ve- dendo un uomo d'Efeso. Ella accolse allora, e accarezzò Eudosso, e gli aJdimandò, se egli di suoi affari aveva da dirle cosa alcuna. E quegli disse, che non ne sapeva nulla, per essere la sua assenza d'Efeso stata lunga. Ma nondimeno fu lieta di lui Anzia; e era ammesso gior- nalmente da lei, godendo di tutto il necessario, sempre supplicandola d' essere trasmesso , e accompagnato a Efeso ; e veramente aveva moglie, e figlinoli. Quando adunque tutto l'apparecchio delle nozze fu fornito da Perilao, e che vi era la sposa, e che loro un convito sontuoso fu imbandito, e Anzia era in abito adorno di sposa, la quale non ristava mai di, notte di pian- gere, ma sempre avanti gli occhi aveva Abrocome; poi- ché riandava col pensiero molte cose, l'amore, i giura-

DI AEROCOME ED ANZIA 39

meati, la patria, i genitori, la necessità , le nozze : ora ella rinvenuta in stessa, preso il tempo, stracciando le chiome, oh me del tutto ingiusta, disse, e sciaurata , che Lon rendo la pariglia a Abrocome! Egli perchè mi si conservi marito, prigione soffre, e martirj , e forse è morto. E io dimenticata di lutto questo, vado a nozze , infelice, e l'Imeneo canterà alcuno sopra di me? e an- drò a leito con Perilao? Ma, o cara a me sopra tutte anima lì'Abrocome, non ti attristare punto per me, che io non mai volontaria t'oltraggerò: verrò anche fino alla morte, perseverando tua sposa. Si, disse; e venuto da lei Eudosso efesino medico, ritiratasi in una camera queta, gli si getta a' piedi, e lo supplica a non voler ridire niente di quelle cose, che ella è per dire, e scon- giura la patria dea Diana a dar fine a tutte quelle cose, che ella a lui chiederà. Eudosso la leva di terra, men- tre ella si lamentava fortissimamente, e la confortava a star di buon cuore, e giurò di vantaggio promettendo di far tutto. Ella gli conta l'innamoramento d'Abrocome, e i giuramenti a lui fatti , e le convenzioni di mante- nersi casti ; e se fosse possibile, dice, che io viva rico- verassi vivo Abrocome, e fuggissi nascosamente di qui, di ciò delibererei ; ma poiché quegli è morto, e fuggire è impossibile, e non ci è caso , che io mi sottoponga alle future nozze, perciocché non trasgredirò i patti fatti con Abrocome, spregerò il giuramento ; tu adunque vieni in mio soccorso, trovando in qualche modo una medicina che me infelice tragga d'affanni. Di ciò ne sarai meritato ancor dagli Dei, i quali io nella mia fine molto pregherò per te, ed io stessa ti darò danaro , e procurerò che sii accompagnato, e potrai , prima che ciò da alcuno si sappia, imbarcato sopra una nave na- vigare verso Efeso. E quivi giunto ricercati i genitori

40 DEH LI AMORI

Metamede ed Evippa, avvisa loro la mia morte, e luUi i particolari delia mia assenza , e di' che Abrocome è morto. Appresso queste parole si gettò voltolandosi" a' suoi piedi, e pregava che egli non le contraddicssse nulla, e dessele il beveraggio. E tratte fuori venti mine d' arienlo, e suoi vezzi, e collane, che ne avea in ab- bondanza, poiché tenea in suo potere tutti i beni di Perilao , tutto questo a Eudosso. Egli consultate molte cose, e compatendo la fanciulla dello infortunio, e desiderando di tornare a Efeso, e vinto dall'argento , e da' regali, promette di dare il veleno, e parlesene per . recarlo. Ella in questo mentre fa molli rammarichìi , lamentandosi della sua età , e dolente d' avere prima del tempo a morire. Molto chiamava a nome Abrocome, come presente. In questo , dopo breve tempo ritorna Eudosso, portando medicina mortifera no, ma sonnifera^ acciò non patisca alcuna cosa la donzella, ed esso con- seguita la provvisione pel viaggio , si salvasse. Pren- dendola Anzia, e sapendogliele molto grado, lo licenzia. Egli subito messosi sur una nave si pose in viaggio. Quella cercava tempo a proposito per bere il veleno. Era ornai notte e si preparava la camera degli sposi , e vennero gli ordinati sopra ciò a levare Anzia. Ed essa contra sua voglia e lacrimante se n'esce occultando in mano il veleno ; e quando viene presso del talamo , quegli della casa acclamavano l' Imeneo. Ed ella di nuovo si lamentava, e piangeva, cosi dicendo: io prima fui menata ad Abrocome sposo , e ci accompagnò il fuoco d'Amore, e s'adduceva Imeneo sopra nozze felici : ora che farai Anzia ? oltraggerai Abrocome Io sposo , l'amato, quello eh' è mono per te ? Non cosi io sono poco virile, nelle miserie codarda. Già è risoluto ; bevo il veleno. Abrocome esser dee mio marito. Lui

DI ABROCOME ED ANZIA 41

ancor morto voglio. Così disse, ed era condotta al ta- lamo, e sola quivi si dimorava ; perciocché ancora Pe- rilao con gli amici era a convito. Prendendo pretesto d'esser presa da una bramosa sete, comandò ella stessa ad alcuno de' servi di recar dell'acqua come per bere ; e portato il bicchiere, prendendolo, non vi essondo al- cuno di casa presente, vi getta il veleno, e lagrimando, oh anima, dice , del mio amatissimo Abrocome t ecco che io l'attengo la parola, e m'avvio per quella via , che mena a te; sfortunata bensì, ma necessaria. Rice-- vimi volentieri, e porgimi il tuo felice convitto costi: dette queste parole beve la medicina; e subito il sonno la prese, e cadde in terra, e la medicina operò quanto potè. Quando venne entro Perilao, subito vedendo An- zia caduta, slupi, e gridò. Fu assai il bisbiglio e'I tu- multo di quei di casa, e passioni rimescolate, urla, paura, sbalordimento. Alcuni compativano quella che pareva essere spirata ; altri si condolevano con Perilao; tutti poi piangevano l'accidenle. Ma Perilao squarcian- dosi la veste, caduto sul corpo, oh carissima mia don- zella, dice, oh avanti le nozze lasciarne l'amante! pochi giorni stata sposa di Perilao, in qual talamo, nel se- polcro ti metteremo ? Fortunato colui, chiunque si fosse Abrocome! beato quegli veramente, che cosi grandi regali dall'amata ha ricevuti I Sfogavasi costui in tai lamenti, s'era intorno a lei tutto abbandonalo, e le ab- bracciava e carezzava le braccia e le gambe, sposa, di- cendo, infelice, femmina più miserabile I L' assettò ve- stendola di molti abiti, e molto oro mettendole attorno. E non più sopportandone la vista, appresso lo spuntar del giorno, ponendo nel cataletto Anzia (ella era senza sentimento) la condusse a'sepolcri presso della città , e quivi deposela in una certa stanza , scannando molte

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42 DEGLI AUOBI

vittime, e molte vestimenta, e gli altri ornamenti bru- ciando. Egli avendo fatti i convenevoli che far si so- gliono da'congiunii , si restituì in città. Quando Anzia compresa nel sepolcro, rinvenutasi , o accortasi che il veleno non era sialo mortale , gemendo e lacrimando : 0 veleno che mi hai burlata, dice, o proibente di viag- giare ad Abrocome por una via fortunata! ho sbagliato dunque? Tutte le cose or son vane del desiderio di morie : si può stando nel sepolcro eseguire 1' operazion del veleno colla fame; perciocché niuno di qui mi levi io miri più il sole, venga a luce. Dello questo prese a non mangiare, attendendo la morte generosa mente. Sopravvenuta in questo la notte, certi ladri sa pendo che una donzella era siala seppellita riccamente e mollo ornalo femminile con essa é riposto, e argento molto ed oro, vennero al sepolcro, e spezzando l'uscio del monumento, entrati, tolsero quel che v' era di pre- gevole ; e Anzia veggiono viva ; e estimando esser que- sto un grosso guadagno, la fecero rizzare , e voleanla menar via. Ella buttatasi a'ioro piedi, mollo gli pregava dicendo : uomini, chiunque voi vi siate , questi orna- menii tutti, quali e' sieno, e tuite quante l' altre robe consepolte, portatevi con voi; ma risparmiate il corpo, lo son sacrata a due Deità, la Morte , e l'Amore. La- sciatemi vacare a queste. Certamente per gli Dei della patria vostra, non mostri me il giorno, che in cose de- gne di notte, e di tenebre, stala son sfortunata. Disse : ma i ladroni non persuase ; e traendola del sepolcro , la fecero scendere al m ire , e imbarcandola sur uno schifo, pigliarono la via d'Alessandria, e nel naviglio la coltivavano, e conforlavanla a farsi d' animo: ma ella in quali sciagure si trovava novellamente considerando, lamentandosi e dolendosi, di nuovo diceva: corsali, e

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mare, di nuovo io presa, e fatta schiava, ma ora più infelicemente, perciocché non con Abrocome. Qaal terra adunque m'accoglierà? quali uomini vedrò io? non Meri più, Manto; non Perilao, non la Cilicia. Oh io venga in parte, dove la sepoltura d'Abrocome solamente io miri ! Con questi pensieri ad ogni momento piagnea, e bevanda, cibo di suo volere prendeva , ma la costringevano i ladroni ; e questi terminata in giornale non poche la navigazione , giunsero in Alessandria , e quivi sbarcarono Anzia, e fecero pensiero dopo il viag- gio di darla ad alcuni mercatanti. Perilao poi , inteso lo scasso del sepolcro, e la perdita del corpo , era in una afflizione, e in una smania grande. Abrocome dal- l'altra parte cercava, e ricercava curiosamente , se al- cuno sapesse d' una giovane , dovunque ella fosse , fo- restiera, condotta schiava in compagnia di corsari. Quan- do niente trovava, stanco se ne tornava e disperato al- l'albergo. Cena a loro Ippotoo apparecchiato avendo, tutti gli altri stavano allegramente mangiando ; Abro- come stavavi a malincuore, e gettandosi a giacere sul letto piaogea, non pigliando nulla ; ma inoliratosi il be- re del convito, una certa vecchia quivi venendo, il cui nome era Chrysio (come se noi dicessimo l'Aureola, ovvero Dorina), comincia a novellare. Udite, disse, o fo- restieri, un accidente non mollo tempo fa seguito nella città. Un certo Perilao, uomo de' più possenti, fu eletto a soprintendere alla Pace in Cilicia; e uscito alla cerca de'ladroni, presene e condussene alcuni, e con loro una bella fanciulla, e questa indusse a maritarsi con lui , e tutte le cose per le nozze erano all'ordine. Quella en- trata nel talamo, o impazzata, o innamorata d'alcun altro, bevuto non so come veleno, muore; perciocché questa maniera di morte di lei si contò. Ascoltando ciò

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4i DEGLI AMORI

Ippoloo: questa è dessa la fanciulla, disse, cui Abrocom e cerca. Abrocome mentre udiva il racconto rimaneva senza cuore ed esanime. Alla fine riscossosi alla parola d'Ippoloo : ora, disse, manifestamente Anzia è morta, e la sepoltura per avventura di lei è in questo luogo, e il corpo si conserva; e pregava la vecchia Chrysio a condurlo alla sepoltura di quella, e mostrargli il corpo. E quella traendo dal petto un sospiro, disse: questo è quello, che alla tua sventurata donzella accadde di più miserabile. Perciocché Perilao e la seppellì sontuosa- mente e l'abbigliò. Ma avendo l'intesa delle robe con lei seppellii; i ladroni , scassando la sepoltura tolsero 'tutto il prezioso, e il corpo fecero sparire; contra i quali da Perilao molta e grande inchiesta si fa. Udendo ciò Abrocome, si squarciò la tanica, e prese fieramente a far lamento sopra la bene e saviamente morta Anzia, e dopo morte infelicemente perduta. Qual ladro cosi inclinato all'amore, che anche s'invaghisca di le morta, in maniera che porti via anco il corpo? Sono spoglialo di te, 0 me infelice ! e del mio solo conforto. Non ci è altro; è risoluto il morire. Ma primieramente, sosterrò in fino a che il corpo tuo io trovi , e abbracciandolo , me slesso con quello seppellisca. Queste cose diceva piagnente, e addolorato; ma Ippoloo il confortava a star di buon cuore. Riposarono poi tutta la notte; ma a Abrocome il pensamento di tulle quelle cose si pre- sentava alla mente; d'Anzia, della morte, della sepol- tura, della perdila. E non potendo più resistere , senza che niuno se n'accorgesse, poiché tutti giacevano so- praffalli dal vino, esce, come per alcun suo bisogno , lasciando lutti. Va a mare, e s'abbatte appunto in una nave, che andava ad Alessandria, e imbarcando parte ; sperand) d'avere a trovare in Egitto i ladri che tutto

DI ABROCOME ED ANZIA 45

involarono. Guidavalo però a questo una speranza in- felice. Questi adunque navigava alla volta d'Alessandria. Fattosi giorno, Ippoioo si doleva della partenza d'Abro- come. Rinfrescatisi adunque pochi giorni, fermarono di andare per la Siria, e Fenicia, rubando, e corseggiando. I ladroni avevano data Anzia in Alessandria a merca- tanti con pigliare molli danari ; e quegli la trattavano sontuosamente, e tenevano conto di sua persona, cer- cando ognora il compratore idoneo. Viene uno in Ales- sandria dall'India dei re di quel paese , per vedere la città, e per bisogno di mercanzie, per nome Psan^mide. Questo Psammide vedendo Anzia presso i mercatanti , resta preso a quella vista, e argento in copia mesce a i mercatanti, e prende lei per serva. Compratala il bar- baro uomo, subito tenta sforzarla , e servirsene per le sue voglie. Non volendo ella, contraddisse alla prima, all'ultimo pensa un'invenzione verso Psammide. Sono superstiziosi per natura i barbari ; che lei il padre tosto che fu nata, votò ad Iside infino al tempo delle nozze, e disse, che ancora ci era che fare un anno. Se adun- que, dice, farli insolenza a una sacrata alla Dea, quella s'adirerà, e il suo gastigo è crudele, Gredesela Psam- mide, e adora la Dea; e da Anzia s'astiene. Ed ella ancora presso Psammide era custodita , come stimata essere d'Iside. La nave poi, su cui era Abrocome, sfal- lisce la navigazione verso Alessandria, e nelle boc- che del Nilo, e in quella, che si addimanda Paraetios , e della Fenicia, quanta è lungo il mare. A costoro^ che aveano smarrito la strada, accorrendo di quei Pastori , le robe dirubano, e gli uomini legano , e conducongli per un gran deserto a Pelusio, ovvero a Damiata città d'Egitto, e quivi fanno baratti. Compera Abrocome un vecchio soldato giubilalo, per nume Arasso. Questo Aras-

46 DEGLI AMORI DI ABROCOME ED ANZU

SO aveva una donna piccola a vedere, ma di fama assai peggiore, oltre passante ogni incontinenza, Cinone per nome (come se uno dicesse cagna): questa Cinone s' in- namora d'Abrocome, tosto che egli fu portato in casa, e non era abile a palesargli eh' ella era innamorata , e voleva satisfare il suo talento. Arasso amava Abrocome, e l'adottò in figliuolo. Cinone mette fuori ragionamento di godersi insieme, e prega che egli ubbidisca , e pro- mette che lo avrà per marilo, e che ucciderà Arasso. Fiero negozio sembrava questo a Abrocome , e molte cose insieme sgu.irdava; Anzia , i giuramenti , quella, che sovente la sua castità oltraggiava. Finalmente dopo le molte, pressandolo la Cinone, acconsente; e venula la notte, quella, come per avere per uomo Abrocome , uccide Arasso, e rappresenta il fatto a Abrocome. Que- sti non sopportando la disonestà della femmina, si parti dalla casa, piantandola, affermando di non voler mai giacere con una micidiale, imbrattala nel sangue umano- Quella entrata in sé, subito a giorno andando dove era il popolo de'Pelusiolli, faceva lamento del marito , di- cendo, che uno schiavo di fresco compro l'avea ucciso, e facea sopra questo molti pianti, e parea alla moltitu- dine, che dicesse cose credibili. Quegli tosto arrestarono Abrocome; e legato lo mandarono a quello, che in quel tempo governava l'Egitto; e questi, come per es- serne processalo, era condotto in Alessandria , percioc- ché pareva Indiziato d'avere uccìso Arasso.

FINE DEL LIBaO TERZO,

DEGLI AMORI DI

ABROGOME ED ANZIA

MBHO QUARTO.

Ippotoo co' suoi movendo da Tarso, andava verso la Scria, tutto ciò che incontravano soggiogando; incen- diavano i villaggi, e uomini scannavano assai, E cosi partitisi a Laodicea di Sonia pervengono, e in essa abi- tarono, non come ladrooi, ma come venuti per vedere la città. Qui Ippotoo cercava diligentemente per che via potesse trovare Abrocomo; ma come niente approdava, con quei che erano rimasi, fecero la via di Fenicia, e. di poi quella d^ Egitto, conciossiachè parve ad essi di correre l'Egitto, e raccolta una gran compagnia, vanno alla volta di Damiala, e navigando pel fiume Nilo aEr- mopoli d' Egitto^ e meLlendosi sopra un fodero, nel fosso del fiume, fatto da Menelao, trapassarono Alessandria, e vennero alla città di Memfi sacrata ad Iside, e di li a Mende. Presero seco della gente del paese per com- pagni del latrocinio, e per guide del viaggio. Aggiustate

-48 DEGLI AMORI

queste cose e passando avanti, giungono a Leontopoli, e passando altri non pochi villaggi, de' quali molti igno- bili 0 distrutti, arrivano a Copto vicino dell'Etiopia. Qui pensarono d'esercitare il lor ladroneccio; poiché gran moltiluiliiie di mercanti quivi era di passo; che passa- vano all'Etiopia, e all'Indie. Era la loro banda di cin- quecento uomini. Occupate le sommità dell'Etiopia, e po- nendosi alla 'ncontra, determinarono d'assassinare i pas- seggieri. Abrocome, dopo che ei venne al Governatore delTEgitto (gli avevano scritto i Pelusiotti le sue av- venture e l'omicidio d'Arasse, e che essendo servo si fatte cose attentò), non avendo adunque anche in- teso, né addi mandato tutti i particolari, ordina che va- dano a prendere Abrocome, e sospenderlo in croce. Ora egli dalle disavventure era mutolo; consolando stesso della morte, perciocché credeva che Anzia fosse morta. Ma a quegli che lo conducevano questo era stalo ordi- nato. Alle rive del Nilo (ove ci era un dirupo scosceso, che guardava nella corrente del fiume) rizzando una croce lo appendono, con canapi stringendogli lo mani, e i piedi; poiché questo è il rito della crocifissione in quel paese, e lasciandolo se n'andarono, come stando in sicuro lo appeso. Ma egli risguardando nel sole, e vedendo il corso del Nilo; oh tra gli Dei, disse, uma- nissimo, che l'Egitto possiedi , per cui e terra e mare a tutti gli uomini appare, se in alcuna cosa Abrocome ha errato, io muora miseramente, e maggior supplizio di questo, se ve n'ha alcuno, io sostenga! Ma se sono da una rea femmina tradito, il corso del Nilo sia macchiato mai da un corpo ingiustamente morto, tu fatta vista rimiri, un uomo che in niente ha errato, perduto. Questa preghiera egli fece; e tosto e lui Iddio compassiona, e di repente sorge un soffiare di vento,

m ABROCOME ED ANZIA 49

e nella croce, e porta via il terreno della rupe, in cui stava la croce alzata, e cade Abrocome nella cor- rente, ed erane portato, l'acqua nulla offendendolo, impacciandolo i legami, danneggiandolo gli animali ; ma via via conducendolo la corrente, portato. Anche fu ricevuto nelle foci del Nilo , ove egli nel mare si scarica; e quivi le guardie lo pigliano, e come fuggia- sco del supplizio lo menano al Governante dell'Egitto; e quello vie maggiormente sdegnato, e stimandolo per- fettamente malvagio, comanda che facendo una catasta di legne cel mettesser suso, ed ardesserlo. Era il tutto apparecchialo, e la pira alle foci del Nilo; e fuvvi messo sopra Abrocome, e'I fuoco v'era già posto; e andando la fiamma tra poco a toccare il corpo, foce breve preghiera quanto egli potette, d'essere salvato dalle presenti miserie; e tosto s'enfia il Nilo, e cade sulla pira l'ondala, e spegne la fiamma. 11 fatto fu re- putato da quegli, che vi si trovarono presenti, miraco- lo; e presolo menano Abrocome al Governatore dell'E- gitto, e raccontano il seguito, e il soccorso del Nilo de- scrivono. Ammirò nell'udire il fatto, e ordinò che egli fosse guardato nella carcere, e usassero ogni diligenza, finacchè, egli disse, riconoschiamo che uomo egli è, che cosi l'amano gì' Iddii. Egli era in prigione. Ma Psam- mide, che avea comprato Anzia, pensò d'andarsene a casa, e tutto fu all'ordine pel viaggio, e bisognava che egli camminando per l'Egitto di sopra, venisse in Etio- pia, ove era la compagnia d'Ippotoo. Era in punto ogni cosa. Cainmelle molte, e asini, e cavalli da soma; oravi molta copia d'oro, molta d'argento, e molti abiti, e conduceva ancora Anzia. Questa, passata Alessandria fu in Memfi, e porse preghiere a Iside stando in piedi avanti al tempio. 0 massima tra gli Dei, infino ad ora

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50 DEGLI AMORI

casta permango, riputala tua, e matrimonio immaco- lato conservo ad Abrocome, Di quindi vado all'Indie, lungi dall'efesia terra, lungi dalle reliquie d'Abrocome; 0 salva da quest' ora la sventurata, o se del tutto è destinato, che l'uno dall'altro separatamente muoia, fammi questa grazia, che mi mantenga casta al morto. Cosi ella orò; e s'avanzavano nel viaggio, e omai pas- sato aveano Copto, e salivano le montagne degli Etiopi; e Ippotoo gl'incoiitra, e lo slesso Psammido uccide, e molli eh' erano con lui, e le robe piglia, e i danari, e Anzia schiava ; e raccogliendo la presa pecunia la por- tò nella grotta mostrata loro per depositar quella. Colà andò Anzia, non riconobbe Ippotoo, Ippoloo lei. Quando la interrogò chi ella fosse, e donde , il vero non disse, ma affermò essere egiziana del paese, e il nome suo MenQlide. Ora ella era a Ippotoo nella grolla degli assassini. In questo manda a citare Abro- come il Governatore d'Egitto, e lo interroga, e s'in- forma dell'affare. Compatisce la disgrazia, lo fornisce a danari, e prouìetiegli di far che sia condotto a Efeso. Egli seppe a lui tutto il grado di sua salvezza, e lo pregò che gli permettesse d'andare in traccia d'Anzia. Egli ricevuti molti regali, imbarcatosi sur uno schifo, prese la via d'Italia; quivi studiandosi d'intendere, col- l'inierrogare, alcuna cosa d'Anzia. Il Governatore d'E- gitto, inlesa la cosa d'Arasso, citata Cinone la condan- nò alla eroe;. Anzia stando nella grolla, se ne inna- mora uno delle guardie per nome Anchialo. Questo Anchialo era di quegli di Soria, che erano andati con Ippotoo, laodiceno di nascila, ed era stimalo da Ippotoo, essendo giovanetto, e molto valente nel corseggiare. Innamorato di quella, a principio le foce apertura di parole, come per indurla, e diceva, che l'avrebbe presa

DI AiBROCOME ED ANZIÀ ÌJJ

in parola e l'avrebbe cliiesia in dono ad ìppotoo. Ella rifiutava lutto, e nulla le facea caso, non grotta, non catene, non ladron minacciante; ma si conservava an- cor per Abrocome, benché paresse che fosse mono, e sovente sclamava, come poteva essere inosservata, di permanere donna del solo Abrocome, benché fosse duo- po morire, e patir travagli maggiori di quegli che avea patito. Queste cose in maggior calamità guidarono An- chialo, e la vista quotidiana d'Anzia lo rinfocolava in amore; ma non valendo più a soffrire, comincia a sfor- zare Anzia, e una notte coU'occasione che non era pre- sente Ippoloo, ma era con altri nel luogo della com* pagnia, si levò su, e si messe a dirle del male, e a sforzarla. Ella trovandosi in un disperato caso, sguai- nando l'adiacente spada, ferisce Anchialo, o la ferita fu mortale. Egli in atto di volere abbracciare, e baciare, tutto era sopra di lei; ella entrandogli sotto colla spada gli lasciò andare una stoccata nel petto, e Anchialo pagò il g'uslo fio della malvagia sua voglia. Anzia viene in paura di ciò che ha fatto, e molte cose pensava; ora d'uccidersi; ma ancora per Abrocome avea qualche spe- ranza di fuggire dalla grotta ; però questo era impos- sibile; poiché strada si trovava a lei facile, chi le mostrasse il cammino; deliberò di starsi nell'antro, e soffrire ciò che alla fortuna piaceva. Quella noti.; stette ferma; non potendo dormire, e molte cose rivol- gendo per la mente. Quando fu fatto giorno, venne coi suoi ìppotoo ; vede Anchialo morto, e Anzia presso del corpo. S'immagina come il fallo sia andato, e esami- nanJùla, comprendono il lutto. Parve loro d'avere in ira il fatto, e di vendicar l'amico morto, e consultavano varie cose contro Anzia: u/io era di parere che fosse uccisa, e col corpo d' Anchialo sotterrata; un allro che

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fosse crncillssa. Ippotoo si doleva per conto d'Anchialo, e pensava contra Anzia una maggior punizione. Ora ordina, che cavando una fossa grande e profonda, vi gettino Anzia e due cani con essa, acciocché in questa maniera pagasse il fio del suo ardire. Quegli fecero il comandamento, e Anzia era condotta alla fossa; e i cani erano egizj , grandi per altro, e in vista terribili. Quando furono gettati giù, buttandovi grandi legno, col- marono la fossa, la quale era poco lontana dal Nilo ; e costituirono guardiano uno deMadroni Anfinomo. Que- sto Anfinomo già ancor di prima era preso dell'amore d'Anzia. Allora adunque maggiormente gliene venne pietà, e dolsesi della disgrazia, e pensava in che modo potesse ella da vantaggio vivere, e come j cani non le *'acessero danno ; e di quando in quando togliendo delle legna poste sopra la fossa, vi gettava pani, e porgeva acqua. E p«r questo capo confortava Anzia a star di buon animo; ei cani pasciuti niente ancora di male le facevano; ma ornai domestici divenivano, e piacevoli. Ma Anzia riguardando a stessa, e avendo nella mente la presente avventura: oimè, disse, per ogni parte sven- turata! qaal soffro supplizio i fossa, e prigione, e cani racchiusi, molto piìi domestici, e de'ladroni men fieri. Le medesime cose di te, io sostengo, o Abrocome. Poi- ché ancor tu fosti in una simile disavventura, e te la- sciai in Tiro in prigione. Ma se vivi ancora, non è mal nessuno, poiché una volta ci possederemo insieme; ma se di già morto sei, in vano io ambisco di vivere, e in vano costui, chiunque egli sia, compassiona me sventurata. Queste cose e simili dicea, e lamentavasi CO! tinuamente. Ella nella fossa era racchiusa coi cani; e Anfinomo giornalmente e lei consolava, e i cani ren- dea, col dar loro da mangiare, domestici.

DEGLI AMORI

ABEOCOME ED ANZJA

LIBHO QUINTO.

Abrocome, fornito avendo la navigazione d' Egitto, nell' Italia non viene, perciocché il vento rispignendo la nave Io fece smarrire il diritto viaggio, e trasportoUo in Sicilia: e si condussero alla città di Siracusa, bella e grande. Quivi essendo Abrocome pensò di girar l'Isola, e cercare Anzia, se a sorte ne intendesse novella. E in vero, pi- glia casa intorno al mare, presso un uomo chiamato Egialeo, vecchio, pescatore di professione. Questo Egia- leo povero era, e forestiere, e tollerabilmente campava della sua arte. Ricevette Abrocome volentieri, e figliuol suo il riputava, e amavalo in eccellenza. E ora fu che dalla molta tra loro consuetudine Abrocome gli raccontò la vita sua, e d' Anzia gli disse, e dello amore, e del viaggio qua o ; e Egialeo principia a raccontar le sue cose. Io, dice, figliuolo Abrocome, non son siciliano, del paese, ma spartano lacedemonio, dei principaU

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m DEGLI AMORI

del luogo, 0 abbienli molta roba. Essendo giovine, e an- cor tra' pupilli annoverato, m'innamorai d'una fanciulla (Iella città, per nome Telsinoa; ed ella mi corrisponde. Facendosi nella città la vigilia d' una festa, venimmo ad essere insieme, ambedue guidandoci lo Iddio, e godemmo quello per lo the eravamo venuti. Per un certo tempo ci unimmo clandestinamente, e giurammo entrambi spesse volle di trovarci insieme anche fino alla morl.^. Fece questo ad alcun degli Iddii invidia, ed io era ancora pupillo. Telsinoa allo;:arono i genitori a un certo gio- vinetto del paese, per nome Androdo; e di lei ancora era innamoralo Androdo. Sulla bella prima la fanciulla molti pretesti adoperava per differire le nozze. All' ultimo avendo potuto trovarsi insieme meco in uno slesso luogo, pattuisce d'uscire di notte di Lacedemone con me. Ve- siimmoci giovanilmente. Tosai la chioma di Telsinoa la stessa notte delle nozze. Usciti della città andammo ad Argo, e a Corinto ; e di quindi parliti navigammo alla Sicilia. I Lacedemoni scolila la nostra fuga, ci con- dannarono alla morie; e noi qui venivamo in penuria del necessario; ma allegramente, e parendoci di goder lutto, perciocché stavamo insieme. Morì qui non molto tempo fa Telsinoa, e'I corpo non ebbe sepoltura; ma io sempre V ho meco, e sempre l' amo, e conservola : e mentre eh' ei diceva queste parole, introduce Abrocome nella stanza più a dentro, e mostragli Telsinoa, donna vecchia, slata già bella, eziandio a Egialeo fanciulla. Il suo corpo era seppellito all'uso egizio, perchè era io queste cose perito il vecchio. A questa, disse, o figliuolo Abrocome, sempre come a viva io ragiono, e giaccio con esso lei, e sto a convito; e allora quando vengo dalla pesca stanco ed affaticato, ella guardata mi con- sola ; perciocché non quale ora da te si mira, tale a me

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appare, ma la considero, o figlio, come ell'erain Lacede- mone, come eli' era nelT esilio, considero le celebrate insieme sacre vigilie, Mentre ancora parlava Egialeo, Abrocome l'interruppe dicendo: o di tulle la più sven-. turala gio\/anp, quando li troverò benché morta? Con- ciossiachè ad Egialeo è un gran conforto della vita il corpo di Telsinoa ; eora veramenle ho appreso che il ve- race amore non conosce termine d' età ; e io vo vagando per ogni terra, e per ogni mare, ho potuto ancora udir novella di te. 0 vaticinj infelici I 0 Apollo, che a noi valicinasii cose le piii crude del mondo! Pietà I Rendi ornai finite le cose da te predette, E Abrocome di ciò facendo lamento, consolandolo Egialeo, passava la sua vita in Siracusa, ornai anco facendo nell'arte compagnia a Egialeo. Ippotoo co' suoi avean già costi- tuito una grossa banda di ladroni, e determinarono di partire d' Etiopia, e di dar di mano a maggiori imprese. Conciossiachè non pareva a Ippotoo esser sufficiente il ladroneggiare a minuto, se non assalisse e castella e citladi. Ora prendendo egli coloro che avea seco, e caricando tutte le robe sopra giumenti molti, e cammelle non poche, lasciò l'Etiopia, e se n'andò alla volta d'Egitto, e d'Alessandria, e avea in pensiero di rivedere di nuovo la Fenicia, e la Seria; e Anzia aspettava che fosse mona: ma Anfinomo, che cuslodivala nella fossa, amorosamente affezionato, non soffrendo d' essere stac- cato dalla giovane per l'aEfetlo che le portava per la sventura venutale addosso, non seguitò Ippotoo, ma stelle ritirato con altri molti, e ascondesi in una spe- lonca, messo insieme tutto il bisognevole. Venuta la notte, Ippotoo colla sua compagnia venne a un castello d'Egitto, chiamato Arco (o vogliam dire di Marte) volen- dolo saccheggiare ; e Anfinomo scava la fossa, e tragge

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fuori Anzia, e confortala a farsi animo. Ma ella ancor temendo, e sospettando, scongiura il sole, e tutti gl'Id- dìi d' Egitto a mantenerla casta e pura di nozze, anche in caso che ella persuasa volesse acconsentire ; ub- bidisce a' giuri d' Anlìnomo Anzia, e lo segue. I cani non la lasciarono, ma l' accarezzavano amandola, venuti di già sua conversazione. Vengono a Copto, e quivi fecero conto di slarvi giorni, sinacchè Ippotoo, e suoi compagni fossero avanzati nel viaggio, e tenevano conto dei cani, che avessero il necessario. Ma la gente d' Ip- potoo oppugnando il castello di Marte, molti uccisero degli abitanti, e le case incendiarono, e fecero non la stessa via, ma pel Nilo, perciocché raccolti dagl'inirapposti castelli lutti gli schifi, imbarcali navigarono alla Sche- dia, e di quindi sbarcando alle rive del Nilo, viaggia- rono a traverso per lo rimanente dell' Egitto. In questo il Governatore d' Egitto, intese le cose intorno alla terra di Marte, e la compagnia de' ladroni d' Ippotoo, e che vanno a Etiopia, allestendo molli soldati, e facendo loro capitano uno de'suoi parenti Poliido giovanetto, grazioso nel sembiante, ma generoso, e di razza nell' operare, mandollo contro i ladroni. Questo Poliido, assunto seco l'esercito, in Damiata nella compagnia d' Ippotoo, e subito lungo le ripe si fa una loro battaglia, e cadonc molti dall' una parte, e dall' altra. Sopravvenuta la notte si mettono alla fuga gli assassini, e tulli dai soldati sor tagliati a pezzi, e ebbevi di quegli, che fuxon falli pri. gioni. Ippotoo solo gittando via V armi, fuggendo, scampò e la notte venne in Alessandria; e quindi avendo luto stare occulto, monlando un naviglio, che andavi via, se ne part'i. Tutto il suo disegno era volto alla Si cilia; perchè ivi gli parea di poter più tenersi nascosi e provvedere al suo nutrimento ; e udito avea l' Isol:

DI ABftOCOME ED AiNZIA b7

essere grande, e opulenta. Poliido non pensò bastargli d' avere riportato vittoria del conflitto degli assassini, ma conobbe eh' e' faceva di mestieri di ricercare, e nettare l'Egitto, se forse o Ippotoo, o alcuno de' suoi si ritro- vasse. Presa adunque una parte della milizia, e i presi degli assassini, acciò, se alcuno apparisse, a lui l' indi- casse, navigò il Nilo, ricercò le città, e pensò di andare infìno a Etiopia. Vengono ancora in Copto, dove era An- zia con Antìnomo; ella stavasi in casa, ma Anfinomo è riconosciuto dai presi degli assassini. Diconlo a Poliido, e Anfinomo è preso, e messo all'esame, narra le cose d' Anzia. Ciò udendo, ordina egli che Anzia ancora a lui sia condotta. Venuta, le addimanda chi sia, e di che patria. Ella non dice niente del vero, ma che è egiziana, stata presa dagli assassini. In questo s' innamora Poliido d' Anzia di fiero amore: ed era la sua moglie in Ales- sandria. Innamorato sulle prime tentò d' indurla, grandi facendo le promesse. AH' ultimo se ne andarono alla volta d'Alessandria. Quando furono in Memfi, cominciò Poliido a usar la forza con Anzia. Ella avendo avuto agio di scappare, se ne va al Tempio dèlia Dea Iside, a quella raccomandandosi. Tu me, disse, o padrona as- soluta d'Egitto, di nuovo salva, quella, a cui desti soc- corso più volte. Risparmi Poliido me, che sono per le castamente serbata ad Abrocome. Poliido nello stesso tempo temeva la Dea, e nello stesso tempo amava An- zia, e compativala della sventura. S' accosta al tempio solo, e giura di non isforzare mai Anzia, farle al- cuna insolenza, ma di conservarla casta, quanl'ella vorrà; perciocché a lui, che ben le volea, e che suo amico era bastava solamente guardarla, e parlarle. Credette a'giu- ramenti Anzia, e scese dal tempio. E perciocché avean fatto pensiero per tre giorni di pigliare un poco di rin-

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fresco, vanne Anzia nel tempio dello Iddio Api, insi- gnissimo tempio in Egitto ; e lo Iddio a chi vuole pro- feteggia. Poicliè quando uno accostandosegli fa orazione e supplica il JNume, egli esce fuori; e i ministri del tempio egiziani, parte in prosa, parte in versi, predicono ciascuna cosa avvenire. Venutavi Anzia, si getta a' piedi d* Api: 0 Iddio,disse, umanissimo e benignissimo, il quale hai pietà di tutti i forestieri, compassiona anche me scia- gurata, e predicimi qualche vera predizione d'Abrocome ; poiché se lui ancora sarò per vedere, e per ricuperare il mio uomo, io ferma e queta si mi starò. Ma se poi ir incontro egli è morto, partire ancor me è bene da questa miserabii vita. Ciò detto, colle lagrime agli occhi , esce del tempio, e allora i fanciulli avanti al tempio scherzando insieme sclamarono : Anzia ricupe- rerà Abrocome prestamente, lo sposo suo. A questi gridi divenne più tranquilla, e fa di nuovo orazione agl'Iddii, e nello stesso tempo partirono per Alessan- dria. Idtese la mo;,'lie di Poliido che egli conduce la giovane amala, e paventando di non essere dalla fore- stiera scavallata, a Poliido non dice nulla, ma conlra di lei macchinò di pigliarne la sua vendetta ; la quale le pareva che uccellassn alle nozze. Ora Poliido confessò al Governatore d' Egitto quel che s' era fatto, e nel campo amministrava il resto del suo comando. Lui as- sente, Renea, che così chiamavasi la donna di Poliido, manda a chiamare Anzia, la quale era in casa, e squar- cia il vestito, e si macola la persona; o sciaurata, di- cendo, 0 del maritaggio mio insidialrice! In vano paruta sei a Poliido bella: che non ti farà prò colesta tua bellezza. Poiché p?r avventura tu potesti allettare con lusinghe gli assassini; e dormire con molli giovani briachi; ma il letto di Renea tu non oltraggerai mai, che tu ne goda.

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Dello questo, tosò la chioma di lei , e legame le metie intorno ; e consegnandola a un fido servo per nome Cliloe gli comanda che imbarcandola sur una nave, la con- duca in Italia a vendere a un ruffiano : Anzia, poiché cosi, disse, potrai o bella cavarti la libidine, e saziare l'incontinenza. Era condotta via Anzia da Clito, pian- gendo ella e lamenlandosi. 0 bellezza Iradilora o in- felici sembianze! perchè mi durate per travagliarmi? perchè divenute mi sieie di molti mali cagione? Non bastano le sepolture, gli omicidj, le catene degli assas- sini, gli alberghi? Ma omai sarò posta in bordello: e quella fino ad ora ad Abrocome conservata fedeltà con- iugale il lenone mi sforzerà a disciorre? Deh padrone, gitiatasi disse alle ginocchia di Clito, a quel gasligo non mi condurre; ma tu stesso mi uccidi: non comporterò un ruffiano per padrone. Siamo avezze, credimi, a stare oneste. Di queste cose supplicava, e Clito compativala. Ella fu portata in Italia, e ReneaaPoliido tornato dice Anzia è scappata. Ed egli dagli aìitefaiti le prestò fede . Anzia approdò a Taranto città d' Italia. Ivi Clito temendo i comandamenti di Renea la vendè a un lenone. Quegli mirando bellezza, non mai più per lo innanzi da lui veduta, estimò, che la giovine j;ran guadagno gli fosse per arrecare; e in tre giorni la curò, e riebbe, affaticata dalla navigazione, e da' tormenti della Renea. Clito se ne venne ad Alessandria, e contò 1' ordine eseguito a Renea. Ippoloo terminata la navigazione, approdò in Si- cilia, non già in Siracusa, ma a Taormina, e cercava occasione per avere da sostentarsi. Abrocome in Sira- cusa dimorato lunga pezza, cade in costernazione, e con- fusione profonda; perciocché Anzia non trova, ha modo di rimpatriare. Pensò adunque, navigando alla volta di Sicilia, passare in Italia; e quindi, se niente

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non trovi di ciò che cerca, navigare a Efeso, di una na- vigazione infelice.

Ornai i loro genitori, e gli Efesj tulli in mollo lutto erano, da loro venendo messaggio lettere, man- dati aveano per tulle le bande chi gli cercasse. Ora dalla vecchiezza, e da cordiale dolore, non valendo a resistere i genitori dell' uno, e dell' altra, stessi cacciaron di vita. Abrocome tenne la via d'Italia ; Leucone e Roda, compagni insieme allevali d'Abrocome e d'Anzia, morto loro nella città di Xanto il padrone, e l'eredità, ch'era copiosa, a loro lasciata, pensarono di navigare a Efeso, come già fosser loro i padroni salvi. Nel loro peregri- naggio avendo sufficientemente la disgrazia provala, ca- ricando di loro robe la nave, sciolsero verso Efeso. Dopo non molte giornale seguitando la navigazione, vennero a Rodi, e inleso avendo, che Abrocome e Anzia non si sieno salvali, e che son morti i loro padri, pensarono di non tornare a Efeso, dimorando in Rodi alcun tem- po, fino a che udissero qualche cosa dei padroni. Il ruffiano, che comperalo aveva Anzia, passato un certo tempo, la costrinse di stare al casotto del bordello ; e assettatala con un bello abito e molto oro, la condusse come al postribolo: ed ella forte urlando: ahi lassa! disse, 0 miserie! Poiché non fur bastanti le passate di- sgrazie, le catene, gli alberghi de' ladroni, che nuche a puitaneggiar son costretta! 0 bellezza a ragione oltrag- giata! perchè a noi inopportunamente duri? Ma perchè di ciò mi lamento, e non trovo alcuno ingegno per lo quale guardi la castità fino a questo tempo salvata ? Ap- presso a queste parole andò al postribolo del ruffiano ; il quale parte la confortava a slare allegramente, e parte minacciavala. Ora quando fu venuta, ed esposta al lu- panare, calò quantità di ammiratori di sua beltade; i

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molti erano presii a sborsare argento per far lor vo- glia. Quella, trovandosi in un disperalo infortunio, ri- corre a un artifizio per lo scampo. Casca in terra, ab- bandonata della persona; contraffacendo coloro, a' quali si quel benedelto male. Quegli che vi si trovavano presenti, assalili erano da compassione, e da timore; e da desiderare il congiungimento s'asienevano, e porge- vano rimedj ad Anzia. Il lenone consideralo a qual dis- grazia era venuto, e credendo che veramente patisse di quel male la giovane, andò in casa, la mise sul letto, e medicavala. Quando parve essere rinvenuta, la interrogava della causa del male, e Anzia : io voleva, disse, prima pa- lesarti la mia sventura, e narrarti questi miei accidenti : ma mi stava cheta per la vergogna ; ma adesso non vi ha difficoltà di dirtili: che di già hai appreso il mio fare. Essendo io ancora bambina, in una festa e vigilia smarritami da' miei pervenni a una certa spelonca di uomo di fresco morto ; e allora apparvemi uno saltante fuori della sepoltura, e si provava di tenermi ; io fug- giva e gridava. Quell'uomo era terribile a vedere, e avea un grande e crudo tuono di voce. Alla fine si fece giorno, e nel lasciarmi, mi dieJe un colpo sul petto, e disse di avermi gettala addosso questa infermità. Quindi principiando ora una fiata, ora l'altra, sono posseduta dalla disgrazia, che cosi ha portato. Fregoli, o padrone, che meco di ciò non l'adiri ; perché io non ci ho colpa. Perciocché potrai vendermi, e niente perdere del daio pregio. Udito ciò il lenone ne fu dolente in vero^ ma la compativa, e le perdonava, coma che coalra voglia di lei era il caso. Ella era curata come malata in casa del lenone. Abrocome traportalo dalla Sicilia, approdò a No- cera d'Italia. Per mancanza del necessario a vivere non sapca come si fare. Primieramente andava attorno cer-

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cando Aiizia, poiché ella era a lui il sogi!:eUo di luUa la vita, e del suo girar qua e là. Or quando niente tro- vava (poiché era in Taranto la giovine appresso il le- none) s'acconciò con alcuni scarpellini e segatori di marmi, e riuscivagli di fatica il lavoro ; perciocché non vi aveva usata la persona, avvezzo era di sotiomet- lersi a lavori gagliardi, o duri. Slava indisposto, e so- vente dolendosi altamente di sua disavventura, ecco, dice, Anzia, il tuo Abrocome, lavorante d'arte sciagurata, e il corpo sottoposi a srliiavitù : e se io avessi alcuna speme di trovarti, « in avvenire vivere insieme tutti i nostri giorni , questa sarebbe la miglior consolazione del mon- do. Ma ora forse io sfortunato in vano e senza prò mi affatico, e tu forse sei morta per desio dello amato Abro- come: poiché son persuaso carissima mia, che anche morendo tu sarai di me dimenticata. Egli cosi si dolca, e le fatiche portava dolorosamente. A Anzia si presentò un sogno in Taranto, ni tempo del suo dormire. Pare- vate d'essere con Abrocome, bella lei con lui bello ; e che loro fosse quello il primo tempo dello amore, e che comparisse una certa altra bella donna, che da lei strap- passe Abrocome; e finalmente gridando egli, e chia- mando per nome, ella si risentisse, e cessasse il sogno. Come le parve di veder questo, subito balzò su, e rico- minciò il lamento, e vera la visiono credette : oimè le mie sciagure, dicendo; io tutti i travagli sostengo, e varie provo sfortunata calamitadi ; e artifizj di castità oltre la portata delle femmine ritrovo per Abrocome ; e a te forse un'altra par bella, poiché ciò mi significano i sogni. Or perchè ancor vivo? perché mi addoloro? è me- glio adunque perire, e liberarsi da questa disavventurosa vita, liberarsi da questa disconvenevole e perigliosa cat- tività. Perciocché Abrocome se i giuramenti non ha

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alleriuti, gi'IdJii punio uon lo gastighino. Peravventura ha fatto alcuna cosa a forza ; ma a me sta bene il morir casta. Queste cose diceva ella piangendo; e la maniera della sua fine cercava. Ippotoo pervenuto in Taormina la faceva male, per iscarsezza delle cosa necessarie. Nel processo del tempo una vecchia s'innamorò di lui, e prese, dalla necessità forzato, la vecchia; e dimorato con lei poco tempo, morta ella, reda una gran ricchezza e opulenza. Gran processione di servi , una gran guar- daroba di vestimenti, e sontuosità d'arnesi. Pensò di na- vigare in Italia, e comprare schiavi avvistati, e schiave, e altro servizio d' utensili per la casa , quali e quanti ci vogliono per un ricco uomo; ma sempre si rammen- tava di Abrocome , e ardeva di rinvenirlo : stimando mollo di farlo partecipe e compagno di tutta la sua roba ed averi. Ora egli navigando, finalmente giunse in Ita- lia. Al suo seguilo era un giovine dei ben nati di Si- cilia, per nome distene, ed era a parte di tutti i beni d'Ippoloo, essendo bello. Il lenone, Anzia ornai parendo aver riavuta la sanità, pensava come venderla, e la mise fuora in mercato , e mostravala ai compratori. In que- sto, Ippotoo visitpa la cillà di Taranto, cercando se vi fosse nulla di buono da comperare. Vede Anzia, e la riconosce; e si stupisce delTavvenimenlo, e molte cose ragionava fra medesimo. Non è questa quella gio- vine, che io una volta nell'Egitto, in vendetta dell'omi- cidio d'Anchialo, feci mettere nella fossa, e cani con esso lei rinchiusi? ora, che mutazione è questa? in che ma- niera s' è ella salvata? come è scappala dalla fossa? quale è questa inaspettata salvezza ? Detto questo ; andò come per comprarla; e accostandosele: o giovane, disse, non sei stata iìi Egitto? non desti nelle mani de' ladroni in Egitto ? altra cosa calamitosa patisti in quella

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terra ? Di' francamente ; perchè io ti riconosco, per averli veduta in quel luogo. Sentendo ella Egitto, e ricordan- dosi di Anchialo, e dell'albergo de' ladroni, e della fossa, cominciò a urlare e a piangere : e riguardando ella Ip- poloo , non lo ravvisò allrimenli. Ho patito, disse , in Egitto molle coso, o forestiere, chiunque tu ti sii, diedi ne' ladroni. Ma tu come sai i miei casi ? per qual ma- niera affermi di conoscere me svenlurala? perciocché Ilo palilo cose celebri e famose. Ma te punto io non co- nosco. Udendo Ippoloo, e maggiormente da quello, che ella diceva, riconoscendola, per allora stette quielo ; e compratala dal lenone, la conduce a casa, e confortala a star di buon animo, e a dire chi ell'ò; e rammenta le cose seguite in Egiiio, e la sua propria ricchezza rac- conla, e la fuga. Quella gli domandò perdono ; e nar- ravagli, come uccise Anchialo, che straboccava in la- scivia ; e la fossa, e Anfinomo , e la domestichezza dei cani , e lo scampo suo gli racconta. Ebbe di lei pietà Ippoloo ; e ancora non le domandò chi ella era. Ma dalla quotidiana conversazione, e convitto colla giovane, viene anco Ippoloo in desiderio d'Anzia ; e voleva unirsi con esso lei, e molle promesse faceale. Ella a principio gli contraddiceva, dicendo d'essere indegna del letto si- gnorile : alla fme , quando Ippoloo insisteva, non sa- pendo che cosa farsi, pensando esser migliore il palesar- gli gli arcani, che trasgredire le convenzioni fatte con Abrocome, racconta d'Abrocome efesio l'innamoramento, i giuramenti, le disgrazie, i ladroni, e Abrocome pian- gendo ricordava conlinuo. Ippoloo , sentendo che era Anzia, e che era moglie del più caro amico che avesse, l'abbraccia, e la conforta a farsi cuore, e la sua amistà in verso Abrocome le racconta; ed egli, la teneva in casa, usandole ogni cura e diligenza, per riverenza d'A-

m ABROCOME ED ANZIA 6S

rocomn. Ma tuilu eyii ricercava per liovacc a sortii brocome. Ma Abrocome in prima duramente in No- ira lavorava. In ultimo , non più sopportando le fa- che, pensò, prendendo una nave, di viaggiare verso ff'so ; e la notte disceso al mare , previene una nave !ie appunto si partiva ; e montando suso, navigava di uovo alla S cilia, come di quindi fosse per venire a reta, e Cipri, e Rodi, e poscia per essere in Efeso. Spe- iva nella lunga navigazione udire qualche cosa d'Aii- a; e poco del bisognevole avendo, partitosi, e facendo navigazione, prima viene in Sicilia, e trova l'ospite gialeo morto: recandogli le funerali sacre libagioni, e ersando molte lagrime , imbarcato di nuovo , e Creta Itrepassando , veinito in Cipro, e trattenutovi pochi iorni, e fatta orazione alia Dea paesana de' Cipriani , innanzi, e pervenne a Rodi. Quivi presso del porto rese l'albergo, e ornai era vicino a Efeso. Allora sov- ^nnegli di tutte le fiere cose e terribili , della patria, 'padri, di Anzia; e sospirando: cime le mie miserie, sse. A Efeso tornerò solo : e da' genitori miei sarò ve- lo, senz'Anzia? E avrò navigato, infelice eh' io sono, la navigazione vana? E conterò racconti per avven- ra incredibili: compagno alcuno, e partecipe di quello 'io «offersi non avendo? Ma mantienti o Abrocome, venuto in Efeso tanto tempo sopravvivi, che tu eregga 1 sepolcro a Anzia, e pianghila, e libagioni sopra irsi, e le oiiiai appresso a quella conduci. Queste cose ceva, e dolente giva attorno alla citiade ; con poco segno di trovar Anzia; con poca speme di aver da vere. Leucone. in questo e Roda, dimorando in Rodi, dicarono un regalo nel tempio del sole appresso alla tara armadura d'oro cui Anzia e Abrocome dedicata eano. Dedicarono una colonna scrina a lettere d'oro; so-

5

66 DF.GL1 AMORI

r-ra Abrocome e Anzia; e eranvi scritti 1 nomi de" dedi- canti, Leucone e Roda. In questa colonna s' avviene Abro- come, che era entralo a far preghiera allo Iddio. Leg- gendo adunque, e ravvisando i dedicaluri, e la benevo- glienza d«' servi, o vicino vpg;,'endo la panoplia, ovvero arraadura di tulio punto, fit^rainimio si lamentava as- siso presso della colonna. 0 io, diceva, sfortunato in lotte le cose! Io son giunto alla fine della vita, e alla coin- naemorazione delle mie proprie calamità. Ecco , questa armadura insieme con Anzia consacrai , e con quella andai navi;;ando da Rodi. Ora io vengo senza condurla: e questa colonna de' miei fratelli di latte è una dedica per tutti due. Che cosa dunque io farò solo? Dove tro- verò io i più cari ? Questi lamenti egli faceva, quando in quel punto sopraggiungono Leucone e Roda, secondo il solito, per far orazione allo Iddio: e mirano Abro- come sedersi appresso la colonna, e ragguardante l'ar- madura; e non lo ravvisano. Ma si maravigliano , chi mai sia quello, che stia appresso le offerte altrui. Ora Leucone disse : 0 giovane , quale è il tuo pensiero , di sederti appresso le offerte altrui , e dolerli , e lamen- larii? E che parte hai tu con quelli che soii qui scritti"! Che l'importan costoro? Rispondegli Abrocome. Mie sono, disse, mie le offerte di Leucone e di Roda , i quali ic ardo di vedere dopo Anzia; io Abrocome lo sfortunato Udendo ciò, Leucone subito rimase senza favella; tornato in a poco a poco, il riconobbe dalla fi^Mira dalla voce , dai suoi detti , dal mentovare 'Anzia. Gag giono a' piedi di lui, e narrano i loro avvenimenti ; i viaggio in Soria da Tiro; l'ira di Manio, l'allogagione la vendita in Licia; la morte de' padroni , la ricchezza la venuta a Rodi, e presolo con esso loro , lo portane nella casa, ove erano alloggiati; e gli consegnano li

m ABROCOME ED ANZI A ^1

loro r-jb?, e iit- liMif-ano conto, e lo servivano, e cnnfor- lavanlo a star di buon cuore. Ma a lui niente era più prezioso d'Anzia, che ad ogni momento la pia^^meva. Stava eg i in Rodi co' servi insieme allevati , coosul- tando che cosa debba fare. Ippotoo pensò di condurre Aozìa d'iialia a Efeso; come per renderla ai genitori, e per udir qu vi alcuna novella d'Abrocome. Mettendo per t.into tulle le sue robe sovra una nave grossa efe- sina, se ne parli coti Anzia, e tenendo assai prospera navig.izione, in non molti giorni approda a Rodi di nolie. E qui ancora alloggia da ima donna ve<-clii;i per nom^ Allea, presso del mare; e Anzia la fa slare pres- so l'ostessa. Egli quella notte riposò: e il giorno se- guente si rimisero in viaggio. Gelebravasi una certa magnifica solennità pubblica, che facevano i Rodiani al sole; e processione, e sagrificainenio, e moltitudine di c'iitadmi festeggiatiti. Quivi erano inlervenuli Leueone e Roda, non tanto per partecipare della fesla, quanto per cercare se alcuna cosa sentissero dire d'Anzia. E appunto venne nel tempio Ippotoo cooducenle Anzia. Essa sguardando nei voti e nelle olferte, e rinvenuta in memoria delle cose passate: o sole, disse, che le cose lutte degli uomini ragguardi, sola me infelice trapas- sando, la quale prima fui in Rodi, e con buona grazia l'adorai, e sacrificai sacrifizj con Abrocome : e allora giudicata io era felice: ora schiava in vece di libera, schiava infelice in vece di beata; e in Efeso vengo sola e mi lasserò vedere ai congiunti senza Abrocome? Que- ste cose diceva con versar molte lacrime. Prega Ippotoo a permetterle di recidere la sua chioma, e consacrarla al solo, e fare alcuna preghiera per Abrocome. Conce- delo Ippotoo; e tagliando ella delle trecce, quanto poié, e preso il destro, quando eran lutti parliti, le dedica

bÉGLl ÀMoni

scrivendo sopra: pkr lo sposo ab. an. (cioè Abrocomé, Aiuia) la chioma allo Iddio dedicò. Fallo queslu, e oralo, partosi coti Ippoloo. Leucone e Roda, che intìno allora erano nella processione, vou'^'ono al lempio, e vepgiono le offerte, e ravvisano i nomi de' padroni; e prima sa- Inlano la chioma, e mollo fecer lamenio, come se An- zia vedessero. AiTulluno anJarono ationio per vedere so a sorte trovare la potessero. E ornai il popolo dei Kodiani con ibburo i nomi dilla prima volta che ivi furono ; e quel giorno ni^-nle Irovandi), partirono. E ad Abrocomé l-ì cose che eran nel tempio, mostrarono. Egli pali nelTaninio per l'ammirabilità del fallo, ma era pieno di buona speranza d'avere a ritrovare Anzia. La manina seguente venne di nuovo Anzia al tempio con Ippotoo, non essendo loro il tempo per la navigazione; assisa alTiifferte, lagrimava e sospirava. In questo en- trano Leucone e Roda, che avoano lascialo in casa Abrocomé, per le medesime cose messo in coslernaziO' ne. Venuti veggono Anzia, ed era ancora incognita a loro, ma combinano ogni cosa, amore, lagrime, regali sacri, nnmi, figura. Cosi in breve vennero in cogni- zione di lei, e buttatisi alle ginocchia, giacevano senza alitare. Ella si maravigliava, non sapendo chi si fosse- ip, e che volessero: che non mai Leucone e Roda avrebbe aspettali li. Quegli rinvenuti, o padrona Anzia, dissero, noi servi tuoi Leucone e Roda, che siamo siali compagni nel viaggio, e nella casa de' ladroni. Ma quale qua fortuna ti teca? Sta di buon'animo, padrona; Abrocomo A salvo, ed è in questo luogo, che sempre li piagne. Udendo ciò, Anzia, sbalordì dal discorso; ma appena riavendosi e riconoscendoli, gli abbraccia, o fa loro festa, e chiarissimamente le cose d 'Abrocomé ap- prende. Concorse tutto il popolo di Rodi, udito il ri-

DI ABROCOME ED ANZIA 69

Irovamenlo d'Anzia, per mezzo la città gridando: An- zia. Correa come impazzalo Abrocome, e appunto s'in- contra Anzia al tempio d'Iside; molto popolo di Rodi la seguia. Quando ira loro si videro, subito si conob- bero; poicbè questo volevano le loro anime; e abbrac- ciandosi Tnn l'altro, caddero giuso in terra. Fossede- vangli molte e diverse passioni; piacere, dolora', timore; la memoria delle cose passate, la paura delle future. Il popolo di Rodi si sfogava in acclaraaziimi, e in ululati di giubilo: Gran Dea, appellando Iside, dicendo : di nuovo rivegglamo Abrocome e Anzia, i belli. Questi pigliandosi per la mano, levandosi dalla turba, nel tempio d'Iside entrano; a te, dicendo, o grandissima Iddea, sappiamo grado della salute nosira. Per le, o a noi !a più venerabile del mondo, noi stessi ricuperam- mo. Proslraronsi davanti al tempio, ed all'aliare giù si buttarono. Allora gli conducono da Leucone nella casa, e Ippoioo aveva le sue roba mandale a Leucone, ed erano lesii pel viaggio d'Efeso. Come ebbero sagrificato quel giorno, e banchellaio, molti e vari a tavola fu- rono di tutti i racconti ; quante cose ciascuno pati ; quante operò; e questo tirò in lungo mollo il simpo- sio. Venula la notte, tutti gli altri riposarono dove ben venne loro; Leucone e Roda; Ippoioo e 'I giovane di Sicilia, che l'avea seguitato nel viaggio d'Italia, diste- ne il btillo; Anzia riposò con Abrocome. Or quando tutti gli altri addormf^nlaii furo, ed era quiete perfetta, Anzia piagneva Abrocome : Mirilo, disse, e padrone, t'ho ricuperato errando p^r molte terre e per molli mari; dalie minacce di ladroni scappando, e dille insidie di corsali, e dagli oltraggi de' lenoni, e catene, e fosse, e l^gna, e veleni, e sepolcri ; ma io vengo a te, o si-

DEGLI AMOBI

giiuit; dell'anima mia Abrocomo, quale ti lasciai quan- do la prima volta partii per Soria da Tiro. Indussemi a peccare n.uno; non Meri in Soria, non Perilao in Cilici? non in Ejjillo Psammide, e Poliido; non An- chialo in Etiopia, non m Taranto il [ladrone: ma casta a le ne venjjo, ogni macchina avendo inventala per mantenere la castità, se non te ne avesse lolla la glo- ria un'altra bella, o se alcuna non t'avesse forzalo a obliare i giuramenti e me. Si fatte cose ella dicea, e baciavalo e nbiciavalo contumammite. Ma Abrocome, ti giuro, ti giuro, dice, per quella desiderata giornata, che ci è a gran filica arrivata, che riè fanciulla a me alcuna è parola beila, alcun' altra donna veduta mi piacque. Ma tale hai ricevuto Abrocome puro, quale il lasciasti in Tiro nella carcere. Queste apologie tutta notte si passavano tra loro, da che ciò volevano. Ma poiché fu giorno, montando in una nave, e mettendoci le robe loro, sciolser dal lido , accompagnandoli tutto il popolo de'Roliani, e con loro partissi anco Ippotoo, tutte le cose sue portando, e distene ; e in pochi giorni terminando %, navigazione, pervennero ad Efeso. Ante- cedentemente aveva inlesa la loro salvezza la città tutta quanta. Ora quando sbarcarono, subito a quel modo, come si trovavano, al tempio di Diana se n'andarono; e fecero molta preghiera, e sacrificando altri voli of- frirono, e tra l'alire cose la pittura alla Dea dedicarono, rappresentante tutte quelle cose che patirono, e fecero. Dopo questo, salendo al a città, su i loro genitori, se- polcri eressero grandi ; perciocché dalla vecchiezza, e dalla costernazione eran morti. Ed essi in avvenire quivi stettero; il loro convivere servendo loro di una festa continua. Leucone e Roda erano con loro, ch'erano al-

ni ABROrOME ED AXZIA 71

levati insieme, di tulle le cose partecipi e compagni. Pensò anche Ippotoo tutto il rimanente della vita pas- sarlo iu Efeso; e di già aveaiio drizzato in Lesbo un sepolcro magnifico ad Tperanle: e Ippotoo avendo fallo suo figliuolo adottivo distene, stette in Efeso con Aliro- come e Anzia.

FfME DEt.LI AMORI 1)1 A URO CO ME F. [) ANZIA.

EMENDAZIONI

EM\IO QlllRli\0 VISCONTI.

EMENDAZIONI

Cj

Edizione nostra,

i'afi. Un. "t 4 iinaprancosaperfaliezze coriio oltrepassanti; d'una hollade rhe

6 U d'ogni Cupido più bello,

e della bellezza medesi- ma, si nel corpo come rx'l 0 spirilo f. 29 co' pupilli

7 3 quasi cos? guerriere, ma

le più

7 13 assennala. L'abito una gonnt-lletla purpurea, cinta, andante al ginoc- chio (ino alle braccia.

7 19 spavento

7 20 dalla Dea adottata.

7 29 fallo cume egli! Simo-

lacro del bello

8 8 e nlinuo « 13 fanciulle

9 3 Or da me si vuol vin-

cere un Dio, i Come? a' tuoi occhi, ;; vaga è Anzia sen/a ma- rito e tenera? Non aver tu questi pensieri 9 17 più si crucciò e pensò. 10 C ed intendeva nella fan- ciulla compassionevol- mente ascollanie.

(*) in prima colonni cnnt ene le parole, del nostro trslo; la secoììila le cmendazinni del Viiconli, ginnla l'edizione parigina del B'^nouard del ISOO.

Edizioiu: Parigina.

di si gran bellade per fattezze di corpo oltrepassanti; che

d'ogni Cupido più gentile si nella beltà delle membra come nella virtù.

ornai co' giovinetti altri di guerra, ma i più

assennata: l'abito una gon-

nelletla purpurea , raccolta

dalla cintura sino al ginocchio

con maniche al gomito.

slupore

dalla Dea medesima al'a sua

sembianza formata.

é come egli ! Simolacro perfetto

del ecc.

egli continuo

vergini

E dovrà vincermi un Dio,

Ma che? .. pe' tuoi occhi, vaga ò Anzia; ma se tu'l vor- rai, non per le Sia ciò nsolulo.

luttnvia si cr\icciavae jtensava. e la fanciulla ascoltando com- passionevolmente prct: iva.

76

EMENDAZIONI

Pag. Il IO sn

IO 28

41

4i

11

II)

11

•46

l'i

13

il

15

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13 30

14 9 <i 11

14 20 14 20

H 23

1-1 1 45 10

4j 48

45 23

45 28 45 98

Edixìone noRtra. n,

e disscrvi ma vie

Dalla rabbia caceioli, e gravi cose OH filante Nilo, consolare inlroducendogli e sopra il leilo era un padiglione. Baldacchino storialo, padiglione roncarono

con cui vivere e morire, avvenga a donna savia; d'oftni nettare più he- verecce quelle lacrime imluKiasii

quanto fosti trascuralo appresso i miei mali ? Che cosa ho patito sapevi, abbracciava, a e le ghirlande nprendi^- vano. e labbra con lab- bra baciando cucivano insieme ;

Abbia e l'alme che voi briiciaste. Queste alla pari guardate, gli ariiViri consolare Navi grosse degli Efi'siani e molli di loro con faci e sacri fipj.

iel pellegrinaggio del fi- gliuolo, una guastada di buon cnorc; e Abro- ''ome

Giugneremo mai noi a stare insieme? e come l'uno dall'altro staremmo lungi ? Giuria- moci

Abrocome hai credule ? Che se io partila da le, dell'uomo ancora con- tro di me consideri? (Jhe pure anco viverò punto senza di te? il sole rimirerò?

Edixìone Parigina.

e pronunziaronrl ecc. anzi vie

Dalla rabbia cacciati, e le ri- torte

Del Hume sacro mitigare introdotti

0 sopra il letto Jiaidacchinó storiato,

baldacliino e cosi avanti collocarono

con cui savia moglie vivere e morire, avvengasi quelle d'ogni nettare più be- ve recce indugiarli

quanto fusti trascurato? ap- presso a' miei mali quei che tu hai sofferto istimo. baciavi, e

e le ghirlande inumidiva, e le sue proprie labbra colle labbra di lui baciando cuciva ecc.

Governate l'alme; e queste che voi bruriasie del pari bru- cianti conservale, rio' doiii mitigare Grossa Nave la turba degli ecc. e molte delle sacre vergini con faci e arredi di sacrificio, del figliuolo, del pellegrinag- gio,

un nappo

di buon cuore. Intanto Abro- come ecc.

Avverrà egli a noi fornire in- sieme r età?

0 che per alcun modo l'un dall'altro dobbiamo star lungi, giuriamoci

Abrocome hai pensate? Che se io parlila sia da te, al- tr' uomo ancora pfT me tu vada (livisanio, per me , che nì; il primo momento senza di te saprei vivere? Per lo die giuro la gran Dea de' nostri padri , la Diana degli Efesiani , che

EMENDAZIONI

Edizione nostra.

pag. Un,

pochi giorni stando sopra Abro'omi^ (li quella facesse strafie, parie rtorm n<io, parie addolorali e loro ne condurrete, ci accoglierà D<ive andando, accomandando non facendo e nel

sembrava esser come slavano sforzare

nello stesso genere fare fatiche l'uno per Taltro: giaceano

olire alla disgrazia soliti a dormire, raccon- tando tra loro di barbari corsari aU'in- solenz.'i adempiersi

ed apparirò un morto casto

sperato d' indurmi con persuasioni di venire In questo Assirto vide Abrocomr^ ; Abrocorae ad Assirto. Ma il

processione se egli gli vendesse

23 6 osando

23 t3 contraddire

23 17 proverai la mia ira d'una

23 -.6 C'inip gni

23 32 si ricolmò

23 27 Seppellisci tu . e vogli

bene a chi è caduta,

24 30 si fosse

25 11 Prendendo questo vi-

glifiio e sigillandolo Sa 17 e servili del corpo come

16 19

16 27

16 30

17 16

18 3

18 3

"18 12

18 16

18 19

18 29

18 30

18 31

18 rvi

19 16

19 18

19 26

21 2

21 6

21 8

22 2

22 6

22 H

22 U

22 18

22 22

22 29

Edizione Parigina.

questo mare che navighiamo, e quello Iddio, che in buon punto ha reso noi Pun del- l'altro imp.izzili ; siccome io neppure un istante da te se- parata vivrò; il sole rimi- rerò.

pochi giorni stanti siivra Abrocome che dormiva quella incendiasse parte abbattuti; e loro

sarete condutti,

vi accoglierà

D've ten vai ?

abbandonando

non ne facendo

ma quello nel

sembrava

com'egli stava

sforzarlo

nello stesso modo l'uno per

r altro con parole adoperarsi

giaceano costoro

nella disgrazia

soliti dormire, e contatesi tra

loro

di barbari all'insolenza

compiersi

e sarò reputato un morto ecc.

sperato di persuadermi, e di- venir'"

Intanto Assirto

vide Abrocorae e la mogliera; Abrocome e la donna ad As- sirto. Ma li venula,

se egli a prezzo convenevole gli vendesse osava tradire

proverai Tira ecc. frati Hi di latte si bagnò Hiponi e bacia rcstinla

s irebbe

Preso questo viglielto e sigil- latolo e servirti di questo corpo come

78

KMENUAZIO.M

Edizione noaira, Pag, Un.

•li scliiavo, e se ucci-i. r vuoi, .«on pronto. 0 ni:ir- loriarlo, come tu vuoi marto'iar'o; ma nel lei lo hi'i iopiànun venira, in (luesio fallo obbedi- sca.

t6 ?4 «')>• fu preso e inrarce- ralii Fiera cosk'rnaz'oiie lo retila,

57 iMilrone,

47 2{ p (1. Vi nulo

28 U (|ursli

28 16 flel.'esser fallo prigio- niero

28 21 Avendo

29 3 Ktrii «i trovava

29 6 Olirà il mare è la cillà.

29 U cfin llrro

99 tu pli fere, si» egli

29 17 c(.n Meriile lo alt' nnc;

29 19 lo. (Ii«.se

29 23 |K»if ho io sopra le cose

fatte 29 24 Persici le

29 32 per intempestiva sem-

bianza. ?n 5 Questa a me sarà

30 1'» Non s.ipondo .Miinlo che

lu sia morta, mi farà

30

18

con psso Amili

30 20

pulcella.

31

6

Pervenuto adunque nel poilere, ove Anzia ci capraio dimorava , con- duce lungo la spiaggia Lampone il capraio

31

9 lo Slesso F.atnpoiie

31

21

lc?na

31

2i

atla-cando

32

*

lenendo in alto l'armi

ó2

4

e si ibbt' allora un gran prii.:ipio del suo male, il Cd npalimentod'Anzia.

32

r,

egli la violentava.

3-2 19

Questo fu il di lei av-

viso.

32 ^4

proti a Issila

32

24

smarrito

32 28

e per altro

Ó2

30

e al Ponto di nuellu ;

Ediziono Parigina.

di i(Mel d'uno schiavo; e se ni-cidfr mi vuoi, snn pronto; o ma'ioriami, come tu vuoi, niarioriarmi, ma nel letto tuo non fi.i già ch'io venga, in (jues'o fililo obbedisco.

Preso e incarceralo Abrocome cadde in llera costerna/ione

Signor mìo,

e divenuto

costei

nella punizione

Questi che avea

Kra egli

Iti-costa è la cillà dal mare,

di fiero

gli fa, se egli d'accordo

costui a Meride il promello;

(Mi disse

poiché delle cose eziandio falle

P r allora si slette (ler queste inl'mpcslive sem- l)'an/.f, A me sia

Perchè risapendo Manto che tu non sei morta non mi fac- cia

con Anzia giovane,

l»>'rvenuto nel podere, ove An- zia co' capraio si dimorava, va ad alb rgare presso lo stesso capraio Lampone

Lampone sp< glie attaccavano tolte le sue armi e si fu allora principio di gran- de sventura questa compas- sione per Anzia. egli insisteva Questo pretesto ella prese

grò la de' ladroni

smarrita anch' egli

oltre a ciò

e nel Ponto eh' è colà presso

EMENDAZIONI

79

adizione nostra.

Edizione Parigina.

33 '4

34 1^

35 5

33 n

36 ii

36 13

36 13 3r, 23 36 li

57 8

37 16

37 17 37 19

37 21

37 25

37 32 57 32

38 3 3S Ili 38 24

se vi aveva qualcosa da fare; ripigliarono i ca- valli,

e che tengono Avete ma su'l

siicome io venni, anche Iperanle. Egli tutta

viaggiando

togljend'i quegli avanzi.

Ippotoo questo al bel fuce

(Iperante

Non sepolcro del buono

(CU l'I di no,

Da terra in fondo; inclito

(fior cui in mare

Sorte r(ipì al soffiar d'av-

(vtrso vento.

che una gran necessità

abbi provalo nel tuo

viaggio

ancora vedrai l'amala; io non potrò

Gfsì dicendo, si strappava la eh orna,

un'altra avventura, dis- se, ':er poco io fu

che la perseguivano Non è

E per l'anima d' Iperante, che è la stessa tua, Questi erano celebri

di luì Anzia; e era am- me.sso

38 27 aveva

38 29 e che vi era la sposa , e

che loro un convito son- tuoso fu

39 2 ora ella rinvenuta in

stessi. 39 12 Eudos.so efesino medico, 39 13 e scongiura la pania dea

Diatia a dar fine a

Ìi9 17 la confortava 39 18 giurò

se cosa a''',una vi aveatio la- sciata, quella e il cavallo ripi- gliarono, e leng no Avrete su 'I

seiua frappor dimora. anche lpi>ranto, ed avendo

tutta viaggiano sino togliendone alcuna reliquia. Ippotoo questo ol bel fece Ipe-

{rante Umil sepolcro del buon Citta-

(dina. Inclito fior, che dell' Egeo, nel

(fondo Sorte rapi al soffiar d'avverso (vento. che una grande calamità del Ino andar ramingo sia la ca- g one.

ancor vedrai l'amata, e t'av- ve;rà ancora un tempo di ri- cuperarla: ma io ei'c Cosi dicendo mostrava a lui le serbale chiome, un'altra piccola avventura,

disse, io fiisse che ne perseguivano Non sarà

Deh! per l'anima dello .stesso luo Iperante, E castoro eran ragguardevoli

di lui Anzia , ricordandosi di sua casa: (d egli si addime- sticò co' familiari, ed era am- messi!

aveva egli colà

e che il gorno destinato fu giunto, iiii convito sontuoso era già loro < ra trovatasi sola,

Eudo.sso.

e lo .scongiura per la patria

dea Diana a voi rie dare aiuto

in

la conforta

^iora

so

Ediiione nostra, Pa(j. Un.

39 31 e procurerò che sii ac-

compnpn.'io, e i') ì Meliint'dtì

40 29 e s'uild liceva

41 4 presa da una bramosa

se lo

ii 33 lina certa

4"2 a ErIì avendo fatti i con- venevoli elle far si so glioiio da' cnd^'iiinti , resiitui in citia Quando Anzia compresa

42 8 Tuil<- le eose or son vane del d siderio di morte :

si può ecc. Ai 10 percioichè niuno li li hello (|iiesto, prese a

nuli inaiigart', i-ì 23 il corpo

42 25 Cerlauienle

4i 20 non mostri me il giorno, che ì(i ctisrt dejjne di notte, e di tenebre, stala son sroriunala

4i 28 e iraenilola

43 io e quivi

43 10 fecero pensiero Uopo il viapu'io di

43 21 ma inoltratosi il bere d'I

lonvilo. una certa vec- cliiaqiiivi venendo, ecc.

44 19 in maniera che porli via, 43 26 e 'là nelle bncelie del

Ni'o, e in quella che si addiit'anda l'araelios e della Keiiieia , quanta e lungo il mar-.

45 28 A cosiorit , che aveano

smarrito la strada,

46 1 donna pìccola

46 5 e non era ahi e a pale- sargli ch'ella era inna- morala , e voleva sati- sfare il suo talento.

46 12 quella , che sovi me la sua castità oltraggiava.

46 14 quella com^ per avere per ui'ino Abrocome,

46 25 e questi,

47 4 E cosi partitisi

47 7 approdava, con quei che erano rimasU

EMENDAZIONI

Edixion* Parigina,

I- e ti fornirò mezzi per la di'' partenza; sicché .Megamede t- si can'ava nella smania presa da sete,

una

Egli fitti eli estremi ufilzi , fu da suoi licomlolto in cillà. Ma .\nzia lasciata

Tulio nel Hn'O caso è nuovo! non riesco pure nel deside- rio della morte. Masi può ecc. perloi'hé non (la che alcuno. Dello questo indurò nel pro- posilo ecc. il mio corpo Deh !

non mostrate me al giorno, me le cui sventure di notte, e di tenebre sono degne

e tratta E (luifi'li

e fecero pensiero appena uscita dalla nave di

s'accosta fraiianlo ad Ippoloo il padrone dell'albergo, e in- sieme una certa vecchia, ecc. che anche si porti via. e 'lale bocche dal Ni'o, da quella che si addimanda Pa- raetios vien trasportalo sulle coste della Fenicia.

A costoro cosi perduti,

donna trista

e' non si poteva tenere ; vio- lenta anche nell' unamora- menio, e voleva satisfare la sua voglia.

e quella sua casltà, che più d'una volia gli avea nociuto, colei come sicura che avrà per marito Abrocome, ed egli,

e cosi andando innanzi approdava ristoratisi alquanto.

EMENDAZIONI

Png. 47 i

Edizione nostra.

Un.

1 pel fiume Nilo a Erino- fioli d'Egitto, e metten- dosi sopra un fodero nel fosso

47 16 Aggiustate queste cose

e [wssaiido avanti giun- gono

48 2 igniibili e distrutti arri-

vano

48 8 e ponendosi alla 'ncon- tra

48 19 non avendr» adunque

48 17 Ma a quegli ctie lo coii- du<'evanoquestoerastato ordinato.

48 31 che in niente ha errato, perduto finché fu

passala Alessandria f salivano le montagne degli Etiopi : mostrata loro manda a citare Egli ricevuti coir interrogare essendo govanello l'avrebbe presa in pa- rola

ril 6 di permanere donna del solo Abriicome, benché fosse d'uopo che av' a

con altri nel luogo delia compagnia, si levò su, e si messe a dirle del male, e a sforzarla per Abnvonie avea qual- che speranza di e i cani erano bnitandovi grandi legne, colmarorifi la fossa, la qualt^ era poco lontana dal Nilo;

E per questo capo piacevoli

e cani racchiusi, molto più domestici , e de' la- droni m';n fieri

53 1 Abroc-ime fornito avendo la naviga/.ione d'Egitto

.»3 5 e rercare

04 it Androdo

49 r,

49 31

oi) 8

oO 1 ì

SO 17

31! 23

50 25

50 31

50 33

51 51

7 12

51

5:2 52

6

8

52 J7

S2 19 52 22

Edizione Parigina.

per il fiume Nilo sino ad Er- mopoli d' Kgitto e a Schedia-, quindi mettendosi nei fosso

Poscia lasciata indietro Tava,ec.

ignobili, arrivano

e destinate diverse spelonche

non avendo questi pertanto Ma co oro ai quali ciò era stalo destinato il conducevano

che in niente é erralo, qui

sulla terra disfatto.

cosi fu

hisciata Alessandria

ed entravano nei confini degli

Etiopi

disegnata da loro

manda a chiamare

Poi ricevuti

inlTrogando

essendo animoso

1' avrebbe tolta in moglie

d' Abrocome .solo mi rimarrò donna, benché mi sia d' uopo

eh' io abbia

con altri in ladroneccio, si levò su, e tentò di farle ver- gogna

intnrno ad Abrocome aveva qualche siieran/.a ora di ecc. e cai essa i cani che erano posero sopra h fossa grandi legne, e le ricoprirono di terra; (erayla fissa poco lontana dal

E in questo

mansueti

e cani raci-hiusi meco, mollo

de' ladroni men fieri

Abrocome in sul fornire la suu navigazione dall' Egitto far ricerca Androclo

82

BMBNDAZIONI

EdU-one nostra. Pag. Un.

54 IG Veslìmnioii giovanil-

meiile ."4 20 vt'iiivumn in penuria

55 il Kemii uinai Unite le cose

da le pridi'lle

55 24 f Anzia aspel'ava che

fosse hpoi la : S*) 3 aiiL'hi- in caso clie ella

36 (4 nav';rarono ala Schedia

e ili quindi

56 19 vantio a

56 27 la.liaii a pezzi, e ebbe vi

di q Uff; li,

57 Sei presi

37 17 iiidnria

58 3 fi orazione e supplica il

Numi-, egli es e fuori ; e i minislri del tempio egiziani

58 II il mio nomo

58 15 Anzia ricniiererà Abro-

coiiic prestamente , lo

snoso suo 58 23 che ncceilasse alle nozze.

Ora F'oliido confessò 58 27 e sqnarcia il vestito, e

si macola la persona.

iiiibarciindola Ih catene dejtli assassini, {,'li alheiglii:' credimi a stare oneste dice:

e in tre giorni navigando alla volta di Sic dia passare Abrocome tt-nne Lcncone, e Reda ciirraiido

andò in casa ,

a nna certa spejf nca d' uomo

nn grande e cru'Io tuono di voce.

Perciocché Abrocome non ha al tenuti e a dire chi ell'è; e ram- menta

racconta d'Alirocome efe- sio l'innamoramento Ma tutto egli ricercava

59

3

59

IO

59 16

39 18

50

H

59

3-2

60

8

60

8

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IO

61

17

61

21

62 33

63

1

64 13

64-27

63

i

Edixìoue Parigina.

Vtsiimmoci da giovanetti

vivevamo in penuria Porti Oliai a lompimento il lermine di lue predizioni e Anzia teneva per morta:

insino a lauto ch'ella navigarono alla Schedia, e ad Krmopoli e di quindi vingono di tagliati a pezzi, toltine alcuni

e i prigioni

sedurla

e .alla orazione, e supplic;ito

il Nume, avviene ch'egli esca

fuorij allora quelli Egiziani,

diesi trovano all'intorno del

tempio ere.

il mìo marito

Anzia avrà tosto Abrocome, suo

sposo

che tendesse insidia al mari- lacgio Ora Poliido espos» e le squarcia indo.-so le vesti- menta e le fa onta nella per- sona

imbarcala Anzia le catene, i ricetti degli assas- sini ?

credimi, a vivere ecc. d i.sse :

e per alcuni ecc. partirsi dalla Sicilia, e (ia>s. lu

Teneva Abrocome- iiiianto Leucoiie. ecc. e caricala ecc. la ricondusse ecc. a un sepo'cro ecc.

un tuono di voce molto più

spaventevole.

Quanto ad ecc.

non ha egli ecc.

le dice chi egli ('>; rinimnita

racconta d' Abrocome e di Efe- so ecc. E tutto ecc.

EMKNDAZTOm

83

Edizione iiQ»tra.

P'Q.lin.

6j 28 con poco (iisppno lii lio-

var An/.ia; t5 29 con (" ca speme di aver

(li vivere.

65 33 D rlicarorio una colonna

sonila a leltere d'oro;

sopta Abroconie, e Ali •zia; eoe-

66 26 Leiicoiie subito rimase

senza favella;

66 26 poi tornato 6() 30 l'alloiiagioDe

07 13 Ejj'i lineila notte riposò: e il giorno seguente si rimisero in via>;gio.

67 "24 la quale prima fui in

«udì

67 26 ora schiava in vece di

ihera,

68 8 E ornai il popol(j de'Ro-

diani conobbero i nomi dalla prima volta che ivi furono : e quel ginroo 68 18 messo in costernazione

68 33 dissero noi servi tuoi ec.

69 2? in lungo molto il simpo-

sio. Venula la notte

69 '28 An/ia piagneva Abroco- me: Mar io, disse

69 33 Coni-orse mito il popolo di Rodi udiio il riirova- meiiiod'Anzii, per mezzo la città gridando : Anzia. Correa come impa/^/alo Abrocome, e appunto s' inronira Anzia al tempio d'Iside;

Edizione Parigina.

70 6 ogni macchina avendo inventala P' r manti'iiere la castità, se non te ne avesse tolto la gloria un' altra bella, o se a'cuna

con [>oca speme ere.

con molto dubbio (il aver di che ere.

Dedicarono per Abrocome ed Anzia una colonna scritta a leltere d'oro ecc.

Lencone e sua moglie rimasero iiiimanlimente ecc. pi)i lurnati rallontanamenlo Egli quella notte riposò appal- lalo: e il giorno seguente si apprestavano ornai al viaggio, io già fui ecc.

ora serva ecc.

0 già il popolo de' Rodiani co- nosceva quei nomi per la di- mora 'Iella prima volta. Essi ([liei giorno li esso in agita-'ione dissero, siam noi i servi ecc. in lungo molto il simposio: fioichè dopo assai tempo si racquistavano. Venuta ecc. Anzia abbracciava Abrocome, e piangendo ; ecc. ('onclrse tutto il popolo di Hod', udito il ritrovamcnlo d' Anzia e d' Abrocome: que- sto Ippotiio si fa innanzi, e si a conoscere a Leucone e a linda, ed egli impara chi essi ermo. Ogni altra cosa andava a dovere; tua .\brocotne an- cora non sapea nulla di tutto ciò. Corrono senza frappor di- mora alla casa: ed egli app na inteso da alcuni di;' Rodiani il ritrovamento d' Anzia. corre come impazzato per mezzo la città grillando; ,\nzia! E con ,\nzia appniiio s' incontra al tempio d'Iside;

ogni macchina avendo inven- t.ila per inanienere la castità. M i tu, Abrocome, ti conserva- sti tu casto? 0 altra bella ti fu più di me gradita; o li

84

KMBNDAZnNI

CJiiionA nostra.

/'.ij. IhK

nuli l'avesse for/ato a oliliare ì gìuranieiili u

IIK.'

7ii \-> uriiviit i

70 IG si |»;is<:ivaiio Irai. IO, da che ciò vo e vano.

70 10 pirlis-si ;inco Ipfio'oo, 70 26 e Ira l':iliri' coso la pil- Inra alla Di'a tledicaro- 110 ra|i|)rcsentaiile tinte qii'lle cose che patirono e fercro 7J 3 e già aveano drizzato in Lesbo.

Ediiione Parigina.

costrinse altra donna a oblia- re ecc.

giunta

si passavano tra loro, e faciU menle irovnvan fede da che ciò essi vo'evaiio. partissi ancora ecc. e Ir» l 'altre «ose una (avola alla iJea dedicarono contenenie lutto ciò che patirono e fe- cero

e ben tosto ebbe drizzalo ecc.

KIM: KEl.LK KMEM).\7JOM E DEL VOLUMETTO.

ìndi e ti

ivvertenzà deìV Edit

ore

. Pftf).

V

\rf/ omento . . .

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3

\brocome ed Anzia.

Libro

I. . .

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5

^ l'i

1?

II. . .

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21

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III. . .

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IV. . .

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V. . .

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o3

emendazioni di E. (

7. 17.S

f-onti . .

w

75

FINE.

lltANO - 0. DAELLI CZ-CDITORI

L POLITECNICO

REPERTORIO MENSILE il itUii afplie&ti alli [ìntferità e coltiri tseitlt

y^ ^?M^ . L POLITECNICI)

.'>-'T.:rjsv^ s* \ rnjuariU 1 Ar«.«- nel «uu ifuto li

^ -^)y n3^ ninna ■(" "■' •'otto |>Ih •«<•

^,^l{^jL( S'^ tm convivenza, i.jonde ibbrno-

iT^J^^*v aV *'* """ '"'" '' i'PI>''>=*'it"'l dell»

r/i'-v^ iTt^'^^.jrieiiie fiaiclie t inatcim«it(«

^,w07^;^~^"«>iie. ma eiiaiidio I economia, (•

-'^^^^ legislazione e gli «Uri JludJ ■«-

Vy^<!la>', l'ediiiar.ione, U linguistiita

■^e le «lire di.ivipline eli" proim»

tono \u .iviluppo delle facolU !«•

tvlisttnalli e flnalnieiite l'art*

l«I1i pirelt « tntt* le arti initativci le quali malerle T«n-

"■' fODO ripartile in apposite Seii^uni.

In co>l vasto campo, qucsib periodico l'impone però seui»

rr« lo itretto incarico di furti iiit'-rpreie fra le aitralle speculaiioiii •i dotti « la prallta giornaliera dell universale, e di condurre le ili- Ttne.materir ;illi> nia^);ior postillile agevolezza e senipliciU.

E proposito dei Hedntturi. l * di non amaiettrre in generale tra- dnxiini se non d> semplici notixir o di processi industriali: i.' dt porgere nelle nuutr piullo^to «ili estratti ragionati delle opere eh» un arido f ii.diiio :i.* d inserire il niagvior luinicro possibile di me- kV^^ j ' ■aorieorl^innll, diiuodiicliè il f'ottteoiiJCH p05sa col tempo acqui»

V' \^' '.': starsi lo stabile pr'gio d'una llaccoita d'opuacoll. k-*»'' ;', ( , Fidando U' I buon voler»- dei dotti italiani e stranieri, i Iiedatt(>il

!tf^^, -j: iperano di poter dare d'anno in anno sempre maggior incremento «

1^:* '^~ (viluppo a questa impresa la quale mira a imprimere in lutti gli

l|^^'* llad] una tendenza pratica e fruttifera, ad animare d'una vicendevole bene- ^7^ T»lM>aa eoniidera ione i seguaci delle diverse discipline, ed a propagar* 'J'\ Bolla società civile l'amore e il cullo della scienza e degli ingegni. Q^ 1/ Nostro Intendimento ^ pertanto di farci inanii come una delle mille voci

L. P 4airiulU pensante. Chi ha pensieri venga a noi se il suo pensiero prevalt In V. a! aoslio. egli sari la guida dei nostri pa.^si, il timoniere dal nostro lego», ^ Il posto dell'idea sork ilposin nell'udiuo.

Cagionar di scienza e d arie ni>n ^ sviare Ir menti dal supremo pensici* I lalvaiu dell'o'iire della patra. ta legislazione è seieota ; la milizia k scienza; ivlgaiioor è scienza; alla hic* della flsica e della cbimica si vanno trasformini lo le arti onde si nutrono i popoli e si ingros.saoo i nervi della guerra. L'agricultu* etusia msdrt della nostra nazione, sta per tradur^^i tutta io Calcolo icientiUco, Ila è fon».

Nuiirio e inierpret* d«lU irti utili e della arti balle 11 nostro PaKCeenieo tei^ al suo nume.

Ksce menillmonte In fiteleoll non minori di 7 fogli BUI di 1( pagine ciascuno. It h, e le iiitiaiiioi, viene d.<lo gratuitamente agli alibniiatl. Il pretro d'abbonanifoM ato come segi.e franco a domicilio-

ITALIA, fr. 36 | EUROPA, fr. 40 | FUORI D'EUROPA, 50 CCOLTA COMPLETA DEL POLITECNICO 1839-1863: QUINDICI VOLUMI

Abbiamo dlspuu.tiili alcune copie complete delle Serie del Politnonle* Ino ad iscile. La prima «erie consta di sette grossi volumi in otuvo , con tavole, loci» ecc. La seconda consta quattro volumi. La terza è in corsa di publicazione. si vendono ani lie ^epn^ata^|enle : si i-oiiii.let.-inn i viiinml Incompiuti.

Iih|«r« dinuiit * n|iit {«siili «Ili .Sii tori (. DAELLI «Ci lilui.

JWtLANO - 0. DAELLI . C* - EDITORI.

Uflica fdizioBe aulorimta - Proprietà delli hlitori G. DAELLI e C.

SCKITTI

DI GIUSEPPE MAZZINI

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S:

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on h codetta una fciliplle* r

uroliuzioiir «lenii scruti politici Utlervrl dell'uuiuo che (■(■niivi riiiteri esltleni» .ll'unitk i berik della |>alrlk noitr», eh i ratlcat>lle dell* lotta, iiupa siliile ne' pencoli, ìnvincìbila seduiioiii di tempi e ri'uoiuii serbò iiicoJ>taiuiiulo luoic; scrisse e operO Kr>»'li cosa 1 bene d' lalia Benché non «sia una raccolta degli scritti de l'illustre patriota, « b nrhè p '!• ostinate persecuiloni di cui f ronn oniflt». pei te ipi )} CUI furono detuti, e per l'inilole loro fugKevole e fruu^uie lar a. la >ala nproduiione di essi possa co>tltuire un'opera soiuiua inii'Oilania e che k piU un vero servigio reso al leitere e all'liali» . la nostra eiluii. ne, che è la i rima co» pietà, diretta dall'autore, oooidinata da lui. ha il <lupll earaliere di una autobii.grudu politica e letteraria dell'uomo e una storia d cuinentata del perielio torico di cui egli fu anin prlncipaiissima. Niuiiu da ora iini.nui pub dettare il racconto 0 aioli gloriosi die inmarono, primi •• soli, l'opera del ris i Kiin. n Itallaiio, e promossero una ben più vasta opeia di irasf.irin:t7.i"! nell'Inter.' Kuropa, sema aver ricorso agli Hcrlttl <iieiu««pf Hai.xlBl, . quali, voce non d'iiiditidiio ma di popolo, non di I. l rat., ma di apostolo, conirnuono le cagioni e iiisi<-nie le ngioni auell'ata duo lavoro di rigeneraiion- ed insnrre/ione, di cui principiali ««a veder . frutti, di cu:, a giusto lemp... vedremo gli eO,.lt ullii - l\^\i eU inattesi. Ma £ini parlò ii. Italia, quando tutti lacevam. . m dopo I a JfWff !" 00 lui, parlarono i oiill*. e per la fede da lui pn.fessuta moriron. yT'Srl mille- siichè la sua voce, la su;, anima la tua iiienle si Ira.lussero li ^ ÉUt4 ^.10 tentativi, che oggi .Ja moUl con vllana •i...nn»cc„,a. sono o obblii o iidsV ma cl.e *"!"• •> "<>" -""' coiidusser.. la p tria nostra punto ove or» si trova. I Mille ohbidienli a ouella »fiBH »oce, a p •■ •' '-- conquistarono un regno.

Mita eh» eoi dedicare gli Scritti . ■„..„,

U .resente raccolu è divisa m une ..-ri . p*iui«« •='"""'

ditposU IO ord ne di tempo, e ad ogni volume precede un proemi-

ritti SOI he ne riassume il i

r,°l Z^^Ò^Zù/^ii^\^'^^^-^^^^'^'^^'^'* f«''« msuucb.l. di cui é .pie IriusTmeió l'iute aVu. vita; per cu, .1 lettole è messo addentro t|. s.,retl più i fi» ili 1. .r.piriniV «e'»"^^ ■'"• i erse.-.uloai, de' suo. ImuiuUb

proposrll.

J:;;. «m. prùpTre -«a-e^ che .r uova iu foado

' ttiri|ire 4mui« * n{li> j^muIi «Iti MU»ri S- P*KUI t.' i HUm.

; ^-^OTEC^

IL LIBRO

ELLA BELLA DONNA

di FEDERIGO LLlGIXImiova-

nicnle stampalo, con un saggio delle sue Ri- me.

i^^f^-lì NUOVA EDIZIONE ^'^ «seguila sulla rarissima aii- r-'^Va lica del io 34; co:i ^^^f^'f

un'avvertenza '?c^^»*

dell'Edi- tore.

i^-i

p$^^^B.

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0^1 ^rr^'^

MILANO su --> /" ^^ DAE L L I e C./"^ y ^'" A;>>à^ ^,

ITOR I l^v, ^.

BiBLIOTECA RARA

PUBBLICATA DA G. DAELLI

VOL. XXIII

LA BELLA DONNA

IL LIBRO

DELLA

BELLA DONNA

DI

FEDERIGO LUIGINI

NUOVA E CORRETTA EDIZIONE

MILANO

G. DAELLI e COMP. EDITORI M DCCC LXIII.

Hi

AJ.i

PROEMIO

Bartolomeo della nobil famiglia de' Lovisini 0 Luvigini d'Udine fu insieme al fratello Lodo- vico, mentr' erano in corte del cardinal di S. Marco 0 patriarca d'Aquileia Marco Barbo, creato conte palatino lateraneuse dall'imperadore Federigo III con diploma dato in Koma nel palazzo aposto- lico il giorno di Imiedì , secondo del mese di gennaio l' anno 1469. Di Bartolommeo e Paola Manina, sorella di Francesco Manini, canonico di Cividale del Friuli, uomo dotto, nacque il nostro Federigo; ma Gian Giuseppe Liruti nelle suer No- tizie delle vite ed opere scritte da letterati del Friuli ( Venezia^ Modesto Fenzo, 1762) non potè accertare l'appunto dell'anno della nascita, quello della morte; altre notizie di conto. Solo ei parla a lungo di altri letterati di questa nobil casata;

VI PROEmO

di Francesco, Luigi, Bernai-do e Riccardo fratein di Federigo e di Marcantonio e Giambattista suoi cugini.

n Capodagli nella sua Udine illustrala scrive di Federigo : Fu poeta non meno illustre di sangue, che chiarissimo d'erudizione, come si vede da molte sue opere così volgari, come latine, leg- giadramente e dottamente spiegate. Scrisse an- che in prosa tre libri mtìtoìsiii: Della bella Donna, li quali essendo pervenuti in mano di Girolamo Ruscelli, (il quale tema con lui più che amicizia strettissima fratellanza) li diede egli in luce e li dedicò a Lucrezia Gonzaga Manfrona l'anno 1554 ( Venezia per Plinio Pietrasanta in ) , con lettera del 4 gennaio dell'anno medesimo. Dettata è que- st'opera in forma di dialogo, aggiunge ilLiruti, e sono gl'interlocutori Jacopo Codroipo, nella cui villa di S. Martino si finge fatto il colloquio in tempo di caccia, Pietro Arrigoni, Nicolò della Fornace, Vinciguerra e Ladislao, e lo stesso Lui- gini, tutti gentiluomini friulani. Diviso in tre libri 0 sia in tre giornate è questo dialogo, ed è indiritto dal Luigini a monsignor Giovanni Manini suo amicissimo e parente.

Elpinice, sorella di Cimone, si lasciava dipin- gere da Polignoto , nel Pecile , o portico vario d'Atene, e andava altera , s' altri dicesse che la

PKOEMO VII

mano che l'aveva ritratta l'aveva anche aooui ez- zata. Le belle italiane del secolo decimosesto erano sommamente vaghe di vedere adombrate le loro sembianze nei dipinti de' gran maestri ed eziandio ne' libri de' retori. E quando pure una sola parte di loro avesse ad essere illustrata coi colori 0 con la parola, consentivano all'amputa- zione della bellezza, cedendo i capelli, o il lab- bro, od altro ad una imagine esemplare, che poi crediamo , per singolare astrazione , non rimi- rassero che in quello eh' avea di loro , quasi il capolavoro ignoto di Balzac, di cui non restava intatto che il pie divino, fondamento alla fantasia per ricreare la meravigliosa figura.

Il Firenzuola, e il Luigini da Udine facevano così lo Zeusi, e componevano la Della Donna delle più belle parti di signore, che nominavano e cele- bravano. Quella parte diveniva come loro, e forse era la breccia per onde entravano nella rocca.

Il Luigino , ad essere più libero con le sue modelle , finse un sogno , Ove alcuni gentiluo- mini, non bene jìaghi delle esterne bellezze, s'in- ternano altresì nelle occulte. La sua mente dalle vaghezze naturali trapassa ai poeti, quasi pittore che in una galleria pingesse un' Elena, e girasse l'occhio ora alle leggiadre do.nn^, che s'igaudan per lui, ora ai ritratti della feminile bellezza eh©

vili PROEMIO

quivi spleudouo degli ottimi artefici. P]gli ammi- rava Trivia ora nel sereno del cielo , ora nello ijpecchio della notturna onda. Il Luigino si la- scia andare all' estasi di questa contemplazione voluttuosa ; e crediamo che lo squillo delle trombe di gueria, e il rumore delle armi non lo fareb- bero avventarsi alla spada e allo scudo come già Achille tra le figlie di Licomede, ma piut- tosto darsi alla fuga, e seppellire come Paride la viltà nelle dolcezze dell'involato talamo.

Plinio lodò Polignoto di essere stato il primo a far sorridere le sue imagini, rompendo la ri- gidità dei lineamenti, solita ai pittori che furono innanzi a lui. L'imagine del Luigino è della vec- chia maniera; non apre la bocca, e i goffi scherzi de' suoi formatori non la terranno di certo dalla ..ma indifferenza.

Manca il riso e forse manca la varietà dei l'olori. Forse è pur di quei vecchi greci, che non )ie adoperarono che quattro. Ma il graduarli e l'intonarli è quello che importa. Velasquez, dice il Beulè, ha dipinto V Incoronazione della vergine, ( on non altro che rosso ed azzurro, ed ell'è tutta- ^ ia un miracolo di varietà di colorito. Che pochi colori ebbe il Petrarca a ritrar Laura? ma qual varietà, e quale armonia!

Narra il Magalotti in una delle sue lettere, che cinquantasei anni prima egli aveva ascoi-

PROEMIO IX

tato un' arietta di Giulio Kospigliosi ( sulla cat- tedra di S. Pietro Clemente Vili ), la quale gli era entrata in cuore, che la recitava dal con- tinuo tra e sé.

Vaghi fiori già sparsi di gelo,

Fanno pompa di rara beltà,

E di perle cadute dal cielo

Ogni rosa conchiglia si fa. « 0 poter del mondo, soggiunge il Magalotti, vaghi j5ori, sparsi, pompa, gelo, rara beltà, perle, cielo, rosa, conchiglia. Si può egli imijiaginare specie più graziose e suoni più delicati? »

Così diremmo del libro del Luigino ; è tutto lieto di specie graziose e di suoni delicati. Se riguardiamo all'economia del libro è debole e in- feriore al Firenzuola ; se al dialogo, non è bene spezzato e ripreso ; se alle sentenze , non troppo rare; se agli scherzi, infelici; ma v' è un tal sentimento e amore della beltà feminile, questo sentimento ed amore si esprime con tal genti- lezza, che l'animo n'è invescato, e non sa levarsi da questa visione popolata di belle forme e sem- bianze soavi. Ci sentiamo trasformare, ma non é la trasformazione di Circe, sibbene il gustar del- l'erba di Glauco,

Che '1 fé' consorto in mar degli altri Dei.

Dell'altre opere del Luisini il Liruti cita pa- recchie poesie italiane, un sonetto in lingua friu-

X PROEMIO

lana, la versione italiana un'operetta spirituale (li Erasmo , un libro di Proverbj : Liher Provcr- biorum Federici Lxdsini. Esso è a un di presso, soggiunge il biografo, sul gufato lavorato degli adagi del Manuzio , facendo a molti proverbj , ed altri detti latini la sua erudita spiegazione. Del suo valore nella poesia latina cita il Liruti a saggio il seguente tetrastico, il cui argomento è questo : De muliere mixta patri, acciaiente spon- sum fìUum susccplum ex patre.

Yir, conjux, genitrix, natus, fraterque, sororque, Hic duo sint quamvis, nomina plura jacent.

Error enim sceleri causam dedit. Inscia nupsit Illi, quem genuit Alia mixta patri.

Notevole è la leggenda medieva di S. Grego rio Magno, descritta in versi in dialetto nor- mando, della quale parla il Littrè nella sua Storia della lingua francese ( Paris, Didot 1863). Gre- gorio nasce dall'amore incestuoso di un fratello con sua sorella ed esposto per nasconder l'onta, torna, non conosciuto, e non conoscente, presso '^lià madre, e la sposa. Svelato il mistero , ab- bandona tutto e fa penitenza diciassette anni. 1 Eomani, per divina istigazione, lo fanno papa a suo malgrado , ed egli assolve la madre , che senza conoscerlo, va a confessarsi da lui, e fini- sce santamente la vita.

PROEMIO XI

E deservit, aprés sa mort

Aveir el ciel verai confort

E la corone pardurable

Ensemble o vie es[)iritabl\ Gli è maggior conforto che uii epigramma del Luigi Ili,

A saggio delle poesie del Luigini diamo due suoi sonetti, che troviamo nel Tempio della di- vina S. Donna Giovanna d'Aragona, stampato ili Venezia per Francesco Eocca nel 1565.

Il Luigmi pare si desse singolarmente alla let- teratura, direm così, femminile e galante. E le donne italiane, in quell'età felice, per coltura, per ispirito e per grazie eran degne ispiratrici degli scrittori, e quelli che più le amavano me- glio scriveano. Certo la leggiadria ariostesca fu rara nei [prosatori; ma se non era quel fiore di gentilezza che arieggiava talora alla spuma del- l'acque, onde emerse Venere , era però un trat- teggiar più libero e più vago; e la bellezza delle donne sommergea la pedanteria. E dal conversar delle donne più che dalle disputazioni erudite ebbe il dialogo allora una forma spesso spedita e snella e talora vivace ; forma che non potrebbe conseguire adesso che risuonano soltanto le di- scussioni del parlamento.

Il Lessing, parlando degli sforzi del cronista Costantino Manasse a descrivere la bellezza di

XII PROEMIO

Elena, dice « Mi sembra di vedere dei macigni « strascinati a grande stento sulla cima di mi « mente per servire alla fabbrica d'un palazzo, « i quali, appena giunti colà, precipitano dalla « parte opposta. Che imagine presenta alla mente « questa congerie di parole E il medesimo , a un di presso, egli dice delle cinque ottave spese dall'Ariosto a pingere Alcina. Egli concede al Dolce che il poeta vi si dimostri perito della bellezza feminile, ma sostiene che il suo ritratto non gli nessuna idea precisa della fata, e lo commuove solo in quei tratti che descrivono il moto e la grazia. Ora del Luigini si può ben dire che sia un Sisifo della pittura verbale; e che la sua Elena abbia qualchecosa di vaporoso e d' incerto , che non avea per fermo quella dei Crotoniati; se non che egli, più che pingere il bello, ne discorreva e teorizzava ; e ad ogni modo non è senza diletto l'indefinito che ci permette di figurarci leggendo la donna che più amiamo. Il Luigini parla altresì della virtù e de' bei costumi; come Pigmalione ottiene da Venere che gli animi la sua statua. Dal Daelli ottiene una riferma d'immortalità con la corretta ed elegante ristampa.

Cablo Téoli

DUE SONETTI

DI

FEDERIGO LUIGINI

IN LODE

DELLA DONNA SlUNORA

GIOVANNA D' ARAGONA

r^^^^^oNNA fulgor di quella altera, e invitta [ jiW'l Stirpe Real de I'Aragonia gente, Jl^p^ Quando vi fece la divina mente, E non fu al vostro bel meta prescritta. Il Sol (se vero '1 Sol mi spiega e ditta) L'orizzonte lasciò chiaro e lucente, E nel canto ogni angel mostrossi ardente, E con la fronte '1 Mondo alta e diritta. Segno aperto , che '1 Ciel ci avea prestato Uno, e forse '1 maggior de' suoi splendori. Ch'illustrasse qua giù l'oscuro, e '1 vile, E dopo '1 suo simile aver purgato , E ricondotto a stato almo e gentile. Tutto l'empiesse di celesti ardori.

IL

Quando, aonna del Ciel ampio e stellante, Oriiaoaeuto, e splendor primo, e secondo. Volgo il pensiero a ricercare il fondo De le 'nvitte virtù vostre cotante ,

Stampo, e somiglio lui, che con le piante Tenta in un giorno misurare il Mondo, Chiuder in picciol vetro un mar profondo* E le stelle contar poi tutte quante

io manco qui sol, ma quanti mai Largo bebbero al fonte del Cavallo, E tutti ingegni più vivaci, e pronti.

Ben dunque avete meritato assai

Il Tempio non di marmo, o di metallo, fabricato di stili alti, e conti.

DELLA BELLA DONNA

DI

M. FEDERICO LUIGINO

A

MONSIGNORE GIOVANNI MANINI

DELLA BELLA DONNA

LIBEO PKIMO

Sovvenendomi , magnanimo e generoso monsignore , quasi di continuo le alle cortesie e le dolcissime acco- glienze, che per bontà vostra infinita usate di fare a ciascheduno comunemente, e massime a coloro che mo- strano d'amarvi, e tenervi caro ogni giorno più, come sono io, astretto dai lacci della gratitudine, non ho po- tuto non ricordarmi i meriti grandi ancora, che voi cer- cate pure di conferirmi sempre, poco ai passati, de' quali posso dire con verità d'avere ricevuto un monte, l'animo vostro splendido e reale rivolgendo; per la qual cosa n'è nato in me un desìo si fatto, già son più mesi, di rico- noscere almeno in qualche particella, se non in tutto, que' benefici che mi avete sempre con larga mano di- stribuiti ; che , non potendo in alcun modo più celarlo ,

i DELLA BELLA DONNA

mi è stato forza aprirvelo qui , e qui farvelo, quasi in purissimo specchio, rimirare. Perciocché, sapendo io voi poco man sin dalle fasce quasi aver avuto in sommo pia cere la contemplazione di qualche bella e leggiadra donna, cosa veramente degna de' vostri pari, cioè di spiriti ben creati e gentili ; insomma ho deliberato di farvi qui vedere una bellissima , e quale so ben io , che mal non vedeste addietro cogli occhi vostri , donna dipinta e perfetta da cinque pennelli di cinque perfetti ed accorti signori, che per voi, ove fosse bisogno, esporrt-bbono la vita ad ogni pericoloso rischio, e ad ogni pruva. Ben si converrebbe, o monsignore, che voi pagaste per guatar cosi bel ritratto, il che fece a molti fare Zeusi pittore si famoso, se vol- lero rimirar la vag;i Elcna, cu "esso si leggiadramente di- pinse. Ma io per due rispetti non voglio che voi paghiate. L'uno è che questa donna, per siffatto mezzo veduta, potrebbe chiamarsi, come l'antidetla Elena, femina di mondo; cosa che a me per ogni rispetto non dee piacere. L'altro è che così io non verrei a sodisfare al desiderio mio di sopra accennato, del debito che ho con la molta cortesia vostra. Non pagherete adunque , no ; ma io sib- bene, facendolavi vedere , scemerò con la prontezza del- l'animo in qualche parie il gran numero di tanti e tanti obblighi eh' io vi tengo.

Avete adunque da saper per introduzione di poter mi- rare questa di perfetta beltà dotala e adorna donna, che tornalo io i mesi addietro dalla villa, ove con tanti so- lazzi tutti dilettevoli, voi ed altri gentiluomini assai e io avevamo quindici giorni continui spesi senza punto aver da lagnarci della fortuna, e standomi una notte in letto mi parve in sonno di vedere al vostro camino il signor Giacomo Codroipo, di quella stirpe cosi bello e felice ramo, e il qual tutto voi somigli? in goni sorta di virtù

LIBRO l>ftIMO 5

vera , onde se ne fa ogni più chiaro , e seco era ii suo cognato M. Pietro Arigone, gentilissinao signore , in cui rilucono quasi tutti quei lampi, che ponno luminoso rendere un gentiluomo, ed eravi altresì l'eccellente Dot- tore della Fornace, che, per essere il nido della bontà, della gentilezza e della mansuetudine, vi si accompagna volentieri con essi; e cosi ancora vi erano altri due splendidissimi ed onoratissimi signori , l' uno il signor Vinciguerra, e l'altro il signor Ladislao, de' quali il primo è più vostro che suo , ed il secondo ama per bontà sua me tanto, che a me solo, so io onde ciò ne avvenisse, voleva egli allora volontariamente cedere.

Ora ritrovatisi costoro al luogo detto, dove ancora voi e io eravamo, e ragionandosi di non so che dolcemente, il signor Giacomo, interrompendo il parlare che era per andare in lungo, e tagliando ragionamento, disse que- ste parole : Signori, se a voi piacesse quel che a me non dispiace, io direi qui che rea cosa non sarebbe in altro tempo dilTerire i rai^ionamenti, e voi tutti venirne meco a falcone a S. Martino, ove, avendo io un luogo, il quale alcuni di voi hanno potuto più volte vedere, mi sforzerei per tre giorni ( che tanti sono per tiattenermi ivi) di farvi conoscere che io ho un falcone de' buoni che oggidì vivano, e che a lato a lui quel di Federigo degli Alberighi sarebbe riuscito un cappone. I giorni si spenderanno in cacciar gli aironi e le anitrelle, e qualche altro spasso; le notti poi in dolci parlari, come più a voi vedrò aggradare e dilettare. Deh venitene dunquo con esso meco, e, venendo, venite allegri. Piacquero molto a tutti le parole del vostro parente, e dove innanzi avevamo poco in grazia di uscire alla campagna e della terra fuori, ora quasi aMevamo tutti di ritrovarci insieme a S. Martino. Ma voi, mousjguure, solo ricusavate tale

Q nKUA BELLA DONNA

andata incolpando i molti affari voslri^ ne' quali eravate tutto involto^ e biasimando l'empio destino, a cui non era piaciuto di far si che, con noi venendo ancora voi, non fosse alquanto rimaso tronco ed imperfetto il bene ciie avevamo d'avere egualmente tutti. Alla fine, veduto voi stare duro , e ragionevolmenta non vi poter venire dove avevamo disegnato, convenimmo in questo di par- tire noi altri, e cosi, lasciato voi, dopo il congedo ne andammo a casa del signor Giacomo, dove trovati in bell'ordine e in punto 1 cavalli, (cha buona pezza di tempo innanzi anno, a ciò fare, stati mandati da lui i paggi) su vi salimmo, chi involto in pelle di cinghiale, e chi di lupo e chi di volpe per la Aera stagione , nella quale si sentiva un gran freddo : inviati poi con ciò che facea di bisogno al cacciare, speronammo i destrieri che vi arrivammo innanzi notte. Laonde, smontati, e fatti presso a un buon fuoco, il quale ardeva in una ca- mera del palagio { quello che mi avete voi tanto com- mendato, e che a me parve il più bello del mondo ) tutti ci ricreammo, e poi cenammo in mezzo dell'allegrezza, e in fine, per ritrovarci anzi stanchi che no, e per le- varci per tempo, ci riducemmo al riposo lieti, e cantando chi madriale, chi qualche canzonetta e chi qualche so- nettino, ciascuno però in lode di colei, che più ammirava e più gli piacea. Ma guardate bel caso, roonaignore; cia- scuno nel suo cantare voleva e faceva più bella la sua di tutte le altre donne, il perchè ne nacque questo, che, non potendo noi convenire con noi e comporci in modo alcuno, fu (che cosi piacque loro) dato il carico a me di terminare questi litigj , e udite come. Il signor Pietro Arigone, veggendo crescere e farsi maggiore il bisbiglio fra noi, incominciò a dire così: A me parrebbe, signori e fratelli, che, avendo a trapassare noi le future tre notti

Uì'.lXO PULMO 7

che (jui siamo i>er fare ia dolci e soavi ra^jicnamenti , come ci cenno nel!' invitarci a questo luogo il mio caro e buon cognato, noi fossimo contenti di formare una donna tale, quale forse non si vide giammai ^ cioè bella a perfezione, e che manchi d'ogni opposizione che le si potrebbe fare , cosa nel vero pur di* parlarne ira noi , a degna dei nostri ragionamenti; e chi alla fine verrà a dimostrare più alla costei beltà le ricchezze e le bellezie della sua diva avvicinarli che di qualunque altra, questi abbia vinto, e tenjisi por fermo lui aver la più bella delle nostre donne, che u t!;u;\ lodiamo, e ci sforzltimo ciascuno per di f'irnelo riraunen» In più belle t lo più vaghe. Surse a queUo parole il si^'nor Dottoro e disse: Bella immagin:i;'.iouo i siala quosu del siguor Pietro; ma cosi ancora io le nostiu liti chetato non ve^yio, percioc- ché, se non ai fu un giudico il qu.Uo abbiii w git.dicArc chi più di bellezza ivviciiunle.ii a qucsii. donna elio ab- biamo a formare scoprA ritrovurai nella sua, io veggo indeterminata scntenta^ e potremmo cento niill' anni con- tendere cosi, cbe mai non ne verruino a capo; perchè chi non sa eh' io non cederei, che voi e voi, questi e questi ( non yi aendo chi giudichi ) avo^aio niostro siiirr.i nvU l'idolo suo più di bollo e vago, simile a quello Jl qiicoth madonna, che io nel mio veramente divino? Sicché sa- rebbe ben fatto che tra noi vi si el'ì(5(;fiMe uno, il quale pigliasse questo peso, e, invece di ragionare, avesse a giudicare. Cosi detto, tacque l'eccellente Bollore. Allora io fui (la loro buona mercè) eletto giudice, ma non mica senza questa condizione , che , non potendo io in mia persona celebrare la niia novella signora, la signora Lu- crezia Toronda, e da lei torre quel bello, che mille non che una donna potrebbe perfetlamente far belle, altri in luogo avesse ad esercitare questo ulficio o m'fcsla impresa.

8 DELLA BELLA DONNA

Mentre adunque ch'io mirassi iii faccia di loro ognuno per vedere qual si levasse per me, e si volesse affaticare per far chiaro che la mia gentilissima Lucrezia, stupor della natura e onor del secol nostro, fosse la più bella ^ e che più si assomiglierebbe alla donna, che si dovea bellissima e senza macchia formare, ecco i signori Vin- ciguerra e Ladislao allontanarsi alquanto da noi, e poco dopo appresentarsi sorridendo. Al sorriso dei quali non tacque il signor Giacomo, ma disse con alta voce, uden- dolo tutti : Io so che questi gentiluomini mi ridono, per- ciocché sanno di ottenere indubitatamente vittoria, ma pazienza. A queste paroh quisi tutti dissolutamente ri- demmo, «r-emlo che ossi vighs^sfiavano e amavano due, che invero men bi.lle della noitre erano assai , e più si vedea in loro della bruttezza di Gabrina che della bel- lezza di Angelica. Finit<> il riso, da che, soggiunsero 1 beff.nl, pur voi ci dato la burla, noi non polendo rima- nere vittoriosi, faremo altrui rimanere; e cui? rispose il signor Giacomo; Monsignore e Luigino, replicarono i due. Allora io non mi potei contenere di non baciare e l'uno e l'altro, e ringraziamoli da. parte vostra e dalla mia ben mille volte Cildis^iraamente. Volle il signor Vinciguerra in vostra vece prender ra.-v?unto, e in mia il signor La- dislao. Or picifl.^ati cosi un poco , quasi che non so chi di noi volse da nuovo porre intrico, dicendo che egli non parea a lui , che la bella innamorata di voi dovesse di bellezza contendere con le nostre, perchè voi non v'era- vate con noi ( onde n' era uscita e venuta la gara ) tro- vato in modo alcuno. Costui non fu udito; laonde ancora voi aveste loco, e poteste, mercè delle belle parole del difensore della vostra degnissima donna la signora Ot- tavia Picezza , ch'é la gloria d'amore , impetrare somma grazia e sommo favore. Cosi adunque trovatisi d'accordo

LIBRO PRIMO 0

incoininciaimno a lasciarci vincere da quietissimo e dol- cissimo sonno, avendo primieramente disegnato al com- parire dell'alba di levarci, e trovarci ognuno col suo fal- cone in pugno, e poi, trapassato in siffatto piacere il giorno , ridurci al luogo , ove eravamo allora , per dare felice principio all'antidetta donna.

Già l'alba aveva data volta a noi, e il sole era vicino al nostro emisfero, quando, lasciate le oziose piume, e levali, e posti in ordine, uscimmo fuori alla caccia. Ma io non son per dir altro quanto spetta a quella, perchè r iritenzione, che mi fé' prender la penna, me lo vieta e non vuole. Insomma tenete certo, che quinci e quindi» passando , correndo , fuggendo , e dall' uno all' altro lato attraversando, avemmo solazzo e diporto assai, e calando alla marina il gran pianeta, con grassa e molta preda ce ne ritornammo al nostro alloggiamento. Dove poi che noi e i cavalli e i falconi furono con buon governo ri- posti, l'apprestata cena si scoperse di subito, e, cenato che noi tutti avemmo, ci accostammo al fuoco, e, recate dai famigliari le sedie , a sedere vi ci ponemmo al din- torno, dove, ragionate venticinque parole in materia della caccia e dei falconi , il signor Dottore levossi in piedi e disse cosi: Conciossiachè il giorno sia da noi, si- gnori, stalo, come deliberammo, ispeso, e, egli passato» abbia dato ritorno la notte, io direi che la nostra bella donna non si lasciasse, ma che incominciassimo oggimai a prendere i pennelli nostri e i nostri colori , acciocché ispeiidessimo anco, se non tutta, almeno parte della pre- sente notte , secondo l' ordine dato , e la comune nostra deliberazione. Al parlare del signor Dottore vi si comin- ciò intorno ad udire un concento e un plauso di tutti mostrantisi vaghi e desiosi di tal cosa, quanto era pos- sibile di mostrarsi il più ; per la qual cosa , sendo ogn

iO DELLA BKLLA DONN.'.

cosa piena di silenzio, ed io posto in disparte alquanto per udire, e giudicare in fine chi più belle parti somi- gliantisi a questa donna nella sua donna essere, facesse vedere e più; ecco risorgere con licenza di tutti Tanti- detto signor Dottore, il quale dopo un brieve riso così ruppe il silenzio e parlò : Poiché piace alla vostre signo- rie, ch'io colui sia che dia principio a questa donna, io colui sarò senza ritrarre il piede, e senza qui far divieto alcuno al cospetto onorato di voi , e cosi incomincerò. Egli è vero che ufficio a me più dicevole e conveniente assai sarebbe stato, se io di quello che Bartolo, Baldo, Ulpiano, Paolo, Papiniano e gli altri degnissimi legisti hanno scritto , mi avessi posto a favellare ; ma nondi- meno, quando ch'io mi penso d'essere con le vostre si- gnorie qui ridotto per mezzo di consolazione e di tra- stullo, io scorgo bene che il ragionare anche di quelle cose, che mie non sono, come quelle, di che parlano gli antidetti dottori, non mi si disdirà, mi si disconverrà pur un punto. Dico adunque che noi siamo a tal partito, volendo dipingere una donna senza opposizione alcuna, 0 senza pur un nevo , a quale si trovò il dipintore , di cui sopra n'è stata fatta menzione; perocché disegnando egli di volere in Crotone, od in Agrigento che si fosse, fare una immagine perfetta, la qual dovea collocare nel tempio di Giunone, elesse da tutto il drappello delle Cro- toniate, o pur Agrigentine vergini ignude, al cospetto di lui accolte, cinque donzelle sole di bellezza vieppiù delle altre tutte dalla Natura dotate, delle quali egli se ne avesse a servire in quel perfettissimo e singolarissimo ritratto, a questa questa parte, a quella quella parte to- gliendo, e al simulacro suo meravigliosamente adattan- dola. Ma voglia Iddio che noi ablnamo in questa impresa, lìom' egli, un felicissimo fine , fortunata uscita, e favore-

LIBRO PRIMO 11

vole il cielo, di che io non ho paura e dubbio niuno, qualora solamente volgo gli occhi laiei a mirare la mia, che tanto mi piace, donna bella, gentile, onesta e santa; anzi mi cresce la speme più e più ognora di farnelo ri- manere scornato e inferiore , e vincemelo d' assai anzi che no. Qui fatta un poco di pausa soggiunse l'eccellente Dottore : Due sono le bellezze, delle quali si vede qualche uomo andare adorno ; l' una è dt;ir animo , l' altra è del corpo. Quale sia quella dell' animo voi lo sapete , quale parimenti quella dei corpo egli vi è pur troppo chiaro. Adunque imitiamo qui l' arte , scimia della natura , la quale si attacca per lo più in sul principio alle cose men perfette e men difficili , e così pian piano trapassa alle più perfette e più difficili. Voler ritrarre una beltà este- riore, pare a me che vi sia un peso molto più lieve assai che non è quello di voler ritrarre una interiore. E però se piace a voi, piacerà a me dal bello di fuori incomin- ciare a formar questa donna prima che da quello di dentro, il quale, alla perfezione che le cerchiamo e procuriamo di dare, è necessarissimo. Così detto, ebbe risposta il si- gnor Dottore quale aspettava, cioè di cominciar la donna esteriormente; il perchè egli così riprese il parlar suo: Principiando io questa donna esteriormente, dico che il principio può esser difforme, altri da questa, altri da quella parte incominciando ; ma io in ciò poco mi curo, e vo' cominciare dai capelli primieramente; e siccome in prima tolgo questi, così io giudico essi in una donna la più importante parte essere di qualunque altra, che, per dire il vero, senz'ella sarebbe tale quale senza fior prato, 0 senza gemma anello ; ella sarebbe tale quale una selva spogliata del suo onore , o un rivo senza il suo corso; ella sarebbe finalmente tale quale alcune volte si vede essere la notte senza )e stelle , e 11 giorno senza il

12 DELLA BELLA DOVXA

Sole, che lo suole così vago e cosi ragguardevole far dU venire a noi, che lo rimiriamo. Per questi massimamente le domie s' insuperbiscono , e vi si veggono andare pet- torute e gonfie, e di qui nasce la tanta cura, che di con- tinuo hanno di loro senza stancarsi mai , ch'essi ancora sanno quanto loro ornamento e quanto abbellimento que- sti sien loro, delle quali qual che si voglia una, e sia quanto vuol bella, di questi priva dispiacerà affatto; se fosse ben la dea Venere scesa dal cielo , nata nel mare , allevata nell'onde, cinta e accompagnata dalle Grazie e dalla pargoletta turba de' faretrati Amori insieme, cir- condata del suo cinto, spirando amomo, e spargendo in- torno goccie di balsamo, la quale senza crini se ne an- dasse or qua or là, ella non potrebbe pure al suo Vulcano piacere; e per dire brevemente quel che io sento, iodico che alle donne tanta dignità e tanta bellezza arrecano i capelli, che, benché d'oro, di veste, di gemme e del resto che le abbellisce si mostrino adorne, nondimeno, se non avranno quelli con bell'arte distinti, e sotto legge ridotti, io ardisco dire , eh' elleno non potranno parere ornate e belle in modo niuno. Questi crini adunque, di che noi abbiamo da ornare la donna nostra , saranno di colore che s* assomigli al forbito , puro e ben fino oro , perchè invero le saranno dicevoli vieppiù che se di altro colore essi fossero. Onde in ogni luogo per gli scrittori potete aver letto, auree chiome , crini d' oro, e siffatte voci : il Petrarca nei sonetti. Onde tolse Amor l'oro, e in quello, Se la mia vita, ^ in quell'altro, Amor e io si pien, e Laura, che'l verde lauro, e nella canzonetta. Perchè quel che mi trasse, e in quella sestina. Giovine donna, e in quella, Verdi panni, e Chiare, fresche e dolci acque , e in mille altri luoghi chiaramente per mezzo di Laura, che tali gli avea, ce l' ha dimostro, che aurati debbono essere in ogni

LIBRO PRIMO i3

modo. Ce l' ha dimostro il Bembo nel sonetto, Crin d'oro crespo, e in quello, Da que' bei cririj e in queir altro, 0 superba e crvdele, e in ogni luogo quasi ; e se non fosse eh' io così apporterei tedio a V. S. , io anderei citando oltre all'Ariosto, il Sannazzaro e gli altri divinissimi spi- riti, tanti poeti latini , che, veggendo fra loro tanta con- cordia, direste ben, che la chioma donnesca dee essere quale io la vi ho dipinta. Ad alcuni non è dispiaciuta quella, che del co'ore dello elettro o ambra si dimostra. Il perchè il Petrarca non tacque in quel sonetto, L'aura celeste, ove dice che l'ambra perde sua prova paragonata con le bionde chiome di Laura. Non ne tacque il Bembo nel su allegato suo sonetto. Onde si legge che Nerone chiamava ambro i capelli della sua Poppea dal colore, ambro dico, il cui colore si scorge quasi simile al dia- fano, o trasparente oro puro, misto però con qualche parte di bianco argento. Ma perchè meno lodevoli e meno cantati sono siffatti crini, io vo', che quelli che stampano meglio il più bello e lucido metallo, che l'auro è, que' siano, come di sopra è stato detto, che hanno da adornare la testa di bella e compita donna, e che poi sieno cre- spi, come il Petrarca, il Bembo in alcuni luoghi de' com- ponimenti loro sopra citati e' insegnano, e nel suo poema l'Ariosto. Ultimamente fieno lunghi, che siccome il capei brieve all' uomo è alquanto più dicevole, così alla donna viene il lungo a conferire grazia maggiore. Queste tre qualità, eh' io ho posto ne' capelli di questa donna, sono state non senza giudizio tutte in quelli d'AIcina dall'Ario- sto descritti. Ora lasciando da canto che la chioma dee es- sere ancora folta e spessa, che siccome la spessezza e foltez- za di lei accrescono grazia, cosi la rarità la toglie, io vengo a considi^rare "on voi, signori, se male sarebbe questo, benché più su parmi d' avervi fatto vedere il contrario ,

14 DELLA BELLA DONNA

darle capelli fuori di legge, e farla andare con essi sopra il collo sciolti, e ricadenti or sull'omero destro, e or sul aianco. Virgilio a Venere fattasi allo incontro al suo pie- toso figlio Enea , che non sapeva dove si fosse , gli sciolti e diCfusi al vento. Ma il medesimo poi a Camilla gli annodati, e a Didone insieme. Laonde si cava, che m amendue le foggio può parer bella una donna. Al 'empo del Petrarca , che fu in quegli anni , che in Avi- gnone facea residenza la Chiesa . si costumava in quelle parti delia Francia, ove nacque la sua famosa Laura, di portare, sendo donzella, lo chiome sciolte, e sendo mari- lata avvolte in perle^ in gemme, od in altro, secondo la condizione d'ognuna. Il che non senza qualche fondamento pare, che un avveduto interprete di lui in quel sonetto, L'aura serena, voglia mostrare, o perciò maritata essere stata la Laura, perchè allora che fu composto il sonetto, dice il poeta ch'ella aveva legate le chiome, le quali al tempo che di lei s' innamorò, che fu secondo alcuni l'anno duodecimo, il decimo mese e il secondo giorno dell'età sua, erano sparte e sciolte. Ma questo se è vero o no, altri più curiosi cerchino^ e io tornando al lavoro e se- guendo, dico, che Ovidio induce Atalanta la figlia di Scheneo comparire alla caccia d'un terribile cinghiale col crine semplice, e in un nodo avviluppato. Ma non più di questo, e la conclusione in ciò sia, che questa donna tenga e porti i capelli suoi dorati, crespi, lunghi e folti, in bionde treccie avvolti, e non già celati in rete niuna d'oro 0 di seta, ma scoperti si, che ciascheduno li vegga senza maledire cosa alcuna, che li contenda agli occhi suoi.

Era, parlando, trascorso inflno a qui l'eccellente Dot- tore, e già tacevasi, quando il signor Pietro disse: Deh^ signor Dottore, non vi rincresca palesarci qual sia stata

LIBRO PRIMO 15

colfìi, la cui bellissima cùioma riducendovi a mente, voi l'avete data a questa donna, che procuriamo di formare or ora caldi, come si vede , e anzi attenti che no. A tal dimanda il signor Dottore , e per non mostrarsi scortese e duro , e per scoprire che non in vile e sozzo , ma in gentile e bel luogo aveva santissimamente collocato il cuor suo , lietamente cosi rispose : Fu la gentilissima ed onestissima sorella vostra la signora Ortensia Arigona, quella, signore, i cui folgoranti e biondissimi capelli veg- gendo io col pensiero (non li potendo con questi occhi scorgere ) mi misi a porre l' idea di loro, e a donargli a questa donna nostra per tale dover essere, quando fia fornita , quale ella è , cioè da tutte le parti bella e per- fetta a meraviglia. Risero qui i compagni, e poi soggiunse dolce ridendo il signor Pietro : Adunque voi, come chiaro qui veggio, siete il vago della sorella mia, ch'io non so come 0 quando d' averlo più compreso da voi , e meno da altrui ; ma ben caro e dolce vi può essere l'averlomi scoperto qui alla presenza di questi signori , eh' io vi giuro di far con esso lei, che crudele, fera ed empia non vi sarà giammai , ma in tutti quei modi , che una gentildonna pari a lei scarsa del suo onore più che di cosa alcuna, può esser, larga e cortese per lo innanzi vi si dimostrerà. A questo : o me beato , gridò 1' eccellente Dottore , e rendè per allegrezza lagrimando mille grazie al signor Pietro , il quale , come l' amante sua ne avesse l'onore in avere i capelli della donna, avendoli pur troppo simili la sorella , che le li aveva dati , non ne fé' più conto. Ma gli altri tre furono di parer contrario, e l'uno dopo l'altro pianamente si sforzò di far chiaro apparerò, che se le condizioni de' capelli concessi alla donna più minutamente si considerassero , altra donna non do- veva niiurlaro il vuuiu ^xììW:^. vittoria, salvo che la sua,

16 DELLA BELLA DONNA

e questo , soggiunsero poi , con pace di qualunque si trova offeso. Non ha la mia, diceva il signor Vinci- guerra , sostentando l' onore della vostra , che sua chia- mava, onorata signora Ottavia Picezza, tutte le date qua- lità? Io non credo che Venere co' suoi bellissimi crini, possenti a smarrir l'oro, l'ambra o il Sole potesse In modo alcuno contrastar co' suoi bellissimi crini; non anderebbe di pari il biondo Apollo, e con quelli della mia, quasi purissimo specchio lucenti, e tersi quali si potrebbono agguagliare? Disse poi il signor Giacomo : Io non mi fo a credere che mai Ninfa niuna , o Grazia , al tempo dolce dell'anno, quando per le verdi e fiorite campagne accolte van danzando , e scherzando insieme , spiegasse all'aura soave i più vaghi, i più netti e i più amorosi capelli. Ed io, soggiunse il signor Ladislao, che dirò della mia ? anzi pur mia , diss' io allora , e tacqui poi seguendo lui così: Abbia ognuno di voi la chioma della sua donna per la più bella e per la più riguarde- vole, pure eh' io non vaneggi come voi per amore, e non giudichi torto, che torto giudicare non mi credo, non sendo l'amante di colei, che qui onoro e difendo. Ma sendo si messer lo giudice, il perchè dico non ingannato da amore, che ha in voi, come mi sono accorto, diritto giudicio spento. Che la signora Lucrezia Toronda, dove ha il rispetto con la castità suo nido, di tai capelli na- tivi è slata dalla Natura donata, di quali fu già mille e mill'anni donato il biondissimo Absalone, e veramente potrebbe essere, che di loro innamorato il cielo su gli traesse , e concedesse a quegli parte vieppiù degna assai di quella , dove si stanno que' di Berenice or ora in sommo favore di lui. Avrebbe più detto , secondo l' alto mio desio, il signor Ladislao, ma non fu lasciato, pe-

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Toccìiè \(A\e il signor Pietro con belle ragioni , il che è proprio di lui, che si valicasse ad altro, e qui tempo più non si consumasse.

Compito adunque il ragionare della chioma conve- niente alla bella donna, e non aspettandosi altro, salvo che si levasse l'eccellente Dottore per darle qualche altra parte perfettissima, eccolo in piedi di nuovo risorto e dire : A me più non spetta egli, signori, di così tosto ra- gionare intorno al resto di questa donna, e può essere assai questo presso alle signorie vostre l' averle dato io un buon principio. A queste parole disse il signor Gia- como: Voi mi parete assai debole barbero a tal corso eccellente Dottore, poiché già vi dimostrate stanco, non avendo appena principiato l'arringo, e, per dirvi il vero, quello è avvenuto a noi, che io già intesi dal mio mae- stro di scuola essere avvenuto al cavallo d' un Sulpizio Galba, il quale avendo fuori a cavalcare e fare gran viaggio, come fu giunto alla porta per uscire, ecco ca- dérgli sotto e tutto stenderglisi in terra , come se egli fosse stato più stracco del mondo, e avesse camminato dalla Tana al Nilo. Bella comparazione è questa vostra per la prima, che in mezzo ci avete arrecata, gli rispose il signor Dottore , e , cosa eh' io non avrei di leggieri creduto, a tempo sereno ho sentito cadérmi la gragnuola in su la testa. Signor Dottore, voi siete troppo sottile ad Intendere le mie parole così sconciamente, le mie parole semplicemente mandate fuori e senza malizia ninna, gli ridisse il signor Giacomo, quando inflne l'eccellente Dot- tore replicògli: volete ch'io vi dica il Vangelo? Voi siete malizioso più che il fistolo , che vi venga , eh' io non dissi quasi , la fistola. Ridemmo qui tutti. Alla fine che- tati, facemmo tanto, che non fu discaro al signor Vinci- la bella donna Lib. I> 2

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guerra di prendere Io incarco su le spalle sue, e di co- minciare, poi che si vide dare graia udienza, in queste parole : Sarebbe stalo mio sommo piacere , e forse più bella ventura di questa donna, se o tutte le parti che le si debbono, l'eccellente Dottore, o di voi altri più sa- puti di me, a' quali io non sono ne di età, d'inge- gno, né d'autorità da essere paragonato, fosse stato alcuno che, non ricusando quest' imprésa, si fosse levato a con- cedere un' altra o due parti in mia vece all' antidetta donna. Ma avvenga ciò che si vuole, ch'io non mi curo di nulla, purché si sodisfaccia a voi, che mi potete man- dare e per fuoco e per armi , qualora ve ne venga ta- lento. Rendute a lui perciò grazie infinite, prese il cam- mino dal signor Dottore lasciato, e seguitò cosi: Questa donna infln'ora ha solamente i capelli avuti, ai quali io aggiungerò gli occhi e la fronte. E sappian le signorie vostre che , quantunque una bella chioma molti cuori allacci, come nel lamento d' Isabella e nelle bellezze d'O- limpia l'Ariosto, e il Petrarca nel sonetto, L'aura celeste, e il Bembo in quello, Son questi quei begli occhi, e in quello. Da que' bei crin , e di nuovo il Petrarca nella canzone, Quando 'l soave mio fido conforto, ci hanno mostrato e fatto chiaro, non di meno gli occhi di una donna sono quei che p'ù attirano e allettano l' uomo ad amare, ed a farsi servo d'amore, per giudicio mio, che ciascheduna altra bella parte e riguardevole. Laonde il Petrarca nel suo primo sonetto ci scopre, che gli occhi bei di Laura tutta vaga furono quelli che Io legarono e involsero nell' amorosa rete : il medesimo alTerma Pro- perzio; e, ditemi per cortesia, quando Cimone vide gli cechi della bellissima Ifigenia, non restò egli del tutto preso, e senza verun sentimento? Dimandate la figlia del 5'.>lo, (lirce a che partito fu ella quando scorse la luce

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degli occhi del re Pico. Dimandate quella innamorata matrigna presso ad Apuleio nell'Asino, quando le venner veduti gli occhi del figliastro, e vedercte come amore più s'asconde negli occhi che in qualunque altra parte che vi sia. Questi , per essere fra gli altri sensi nobilis- simi, ha voluto l'alma Natura porre in su la cima di tutti, e a tutti sovrastare. Questi, secondo alcuni, distin- guono la vita dalla morte. Mancar di questi egli è una sorte più crudele di qualunque più crudel morte. Il per- chè non mi sazio mai dal meravigliarmi di alcuni e di alcune, che se gli cavarono gli occhi e poterono vivere più oltre. Io non leggo mai di Tiresia, di Antipatro, di Didimo, di Omero, di Diodoro stoico, di Caio Druso, di Appio Claudio, di Sansone, di Asclepiade, di Lippo, di Annibale , di Tobia , e finalmente del re di Boemia Gio- vanni, che fu al tempo del Petrarca , che non mi venga una pietà di loro più che mezzana. Non bisogna andare con ragioni false sofisticando che alcuni fecero bene di privarsene; egli si vede chiaramente che fu una pazzia la loro. Oh come diversamente da questi tempi cammi- lava Stesicoro, il quale, avendo inleso che la luce degli

jchi suoi gli era stata tolta non per altro che per aver biasimato la bella Elena, subito per riaverla mutò canto, jB dove di lei aveva detto male per lo addietro, inco-

linciò per lo innanzi a dirne altrettanto bene , e così riebbe la cara cosa perduta. Ma io torno agli occhi della ìonna. Questi io vo' che negri sieno come una matura jliva, come una pece, come un velluto, e tali che si as- somiglino a due carboni negrissimi. Questo ha piaciuto sempre ai romani ed ai greci nelle loro donne, ed ora pare che comunemente in Italia piaccia. Il Petrarca nella seconda canzone delle tre sorelle loda in Laura l' occhio nero , e In quella , Verdi panni. L' Ariosto parimenti in

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Alclna e in Angelica. Il Fontano in Fannia nel primo libro de' suoi Amori; Properzio in Cintia nel secondo de' suoi; e Orazio in Lieo nell' ode, il quale anche nella po- lemica ne parla di siffatti ocelli. Il Boccaccio, se la me- moria non m'inganna, della Fiammetta parlando, dice ch'avea a quel d'un falcone simili gli occhi suoi, i quali occhi sono anzi vivi che no, come noi abbiamo più volte potuto vedere. Ma qui mi sovviene quello eh' io ho letto presso un buono scrittore framxwe. Questi, avendo detto quel che di sopra ho io riferito , cioè che ai romani ed ai greci altresì piacque l'occhio nero, soggiunge poi, che egli non può non meravigliarsi come st<a questo, che francesi e germani amino di vedere nelle loro donzelle l'occhio sereno , e, com' io credo, di zaffiro , poiché tutti i ritratti che mi sono venuti agli occhi dalle parti della Magna recati, hanno si fatti lumi in dipinti. Di questi occhi ne vegg o fatta menzione dal Petrarca in quella canzone, Tacer non posso. Ma stia ognuno nel suo parere; a me piacciono gli occhi neri. Ahi, diss'io allora rivolto al signor Ladislao, come potrà mai la mia dolcissima Toronda, perfettissima opera di Natura, in questi occhi neri , avendogli ella zaffirini , assomigliarsi alla donna ? Ma consolato per essere ancora questi begli occhi e fa- mosi assai, come pure conferma nella sua lettura il Ru- scelli, terrò che dalla bellezza e perfezione di lei pren- dano denominazione di bellissimi e perfettissimi non men questi che gli altri da voi descritti; e cosi il signor Vin- ciguerra riprese il parlar suo. Vorrei poscia, soggiunse, che fossero non vaghi no, ma parchi a muovere e pietosi jn riguardare, il che in quei d'Alcina ci dipinge l'Ariosto, e in vero pur troppo ben«, perchè un occhio, nel quale suole abitar l'animo e vedersi chiaro s'egli è incostante e mobile scopre poco cervello, come allo iucyuuo molto

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quando però alle volte si gira e ruota dolcemente intorno e con quella pietà che si conviene alle belle vergini, alle quali se bella faccia e il tutto bello ha conceduto Natura, non però vuole ch'elleno abbiano petto ferrigno e cuore di diamante verso coloro, i quali l' hanno invece di Sole alla lor vita dolcissimo e chiarissimo. Queste ultime pa- role del signor Vinciguerra giudicammo noi tutti essere state da lui dette in dimostrazione della fierezza che a voi, monsignore, avesse usato, o usasse la vostra bella e amorosa Picezza; e tanto più venimmo in questa opi- nione prestamente , che sapevamo lui essere nostro di- fensore in tener ch'ella fosse la più bella donna delle nostre, e non avere poi il medesimo bella innamorata; ma egli negò questo con dire, che dove procurava di mostrare prima e maggiore bellezza, che non è nelle no- stre, essere e ritrovarsi nella nostra Diva, e che in bella donna non dee crudeltà annidarsi, egli farebbe contro accennando questo , e torrebbe alla donna nostra al- quanto del suo bello. In fine poi disse , che ciò eh' egli avea detto allora che fu interrotto, aveva detto per tas- sare il vizio delle belle donne , cioè la crudeltà , e non attribuirlo a quella donna, da cui esso ogni imperfezione voleva essere lontanissima. Così detto si mise a seguire, soggiungendo : Poiché ho dimostrato gli occhi di questa donna dovere esser neri, non erranti e pietosi al guardo, io voglio anco che sieno luminosi e sfavillanti in guisa, che contendere con le chiarissime stelle nel limpidissimo e serenissimo cielo scintillanti possano senza vergogna ninna. Tali erano quelli di Dafne fuggitiva; tali quelli di Narciso, come ci scopre Ovidio; tali quelli di Laura, come ci mostra il Petrarca nel sonetto, Amor, e io pien di meraviglia, e in quello, Quel sempre acerbo, e in altri luoghi assai; tali quelli di Amaranta presso ai Saunazzaro;

IJ DELLA BELLA DONNA

tali quel di Antla bella innamorata di M. Tito Strozza il padre, presso al primo libro de' suoi Amori ; tali quei di Sulpizia presso a Tibullo al quarto libro; tali quei di Cintia presso a Properzio al secondo ; l'Ariosto in Alcina paragona gli occhi di lei iperbolicamente al Sole. Il che veggio aver fatto il Petrarca ne' sonetti, Qual ventura mi fu, e /' vidi in terra. Ma in questo vien piuttosto a per- ferirgli al Sole che altrimenti, dicendo:

Ch' han fatto mille volte invidia al Sole.

Le palpebre sieno degna casa di loro, cioè belle a me- raviglia. Le ciglia negre come indiano ebano, e tran- quille anzi che no; cosa che mostra il Petrarca aver avuto Laura ne' sopra allegati suoi due sonetti. Le so- vracciglia poi, chiamate archi dall'Ariosto, saranno ne- grissime , sottilissime e minutissime. Ma tempo è che io venga alla fronte della donna, la quale , senza eh' io mi stia troppo ad intricare in parole, sia larga, alta, lucida e piena di divine bellezze, e brevemente tale, quale il Petrarca vuole essere stata quella di Laura nel sonetto, Onde tolse Amor l'oro, e quella della sua amorosa nel secondo libro de' suoi Amori lo Strozza il figlio.

Già pagato il debito e sodisfatto alla promessa, aggiunse poi al suo ragionare queste quattro parolette il signor Vin- ciguerra : Onestissima cosa pare a me, e tanto giusta del mondo che abbia ad esser questa , onoratissimi signori , che, avendo io mostrato quali occhi e qual fronte si ri- chiegga a questa donna, voi non vi lagniate in guisa niuna se io le agguagllerò gli occhi neri e ampi e pieni di bella gravità con naturale dolcezzx mescolata, lam- peggianti come due fuochi del cielo, minori nei lor vaghi e vezzosi giri della bella Picezza, vita del nostro mon- signor Manino, fondamento singolarissimo del r^^gno di amore, e unica sostanza delle tre Grazie; se io le 3ggua-

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glierò, dico, gli oc:ni con le vaghe palpebre, nere ciglia

0 <^ovrprcie1)3 di I^i, lasciando la fronte, (nel che io so ben eh' io potrei ancor contendere e riportarne anzi ono- re che no) ad alcuna delle vostre, onde poi ella si pa- reggi all' antidetta donna. Non riuscì l'avviso del signor Vinciguerra, perocché tutti baldanzosi e instantemenle n^avano ciò doversi con ragione ammettere, e tanto più che ne cadrebbe vergogna nelle donne loro, succedendo il suo proponimento. Il signor Ladislao, che poco in questi Cicchi s'avviluppava, attendeva ad accordar le parli, perchò -si seguisse, dicendo: Se gli occhi della riguardevole Picezza sono sembianti a quei di questa donna, gli occhi come il Sole proprio lucenti, e quello che per appresso dimandate voi, signor Vinciguerra, della non mai abbastanza lodata donna dell'eccellente Dottore, l'Arigona altiera, dico, non vi si disconvengono. Non vi si disconvengono gli occbt della candida Rosa del qui gentilissimo signor Giacomo,

1 quali soavi, anzi la stessa soavità e dolcezza, e chiari più di ogni chiarezza, hanno forza di far giorno sereno l'oscura notte. Non vi si disconvengono gli occhi della, signora Ginevra da Coloreto, co' quali potè far si, che il cuore del giocondissimo signor Pietro lasciò l'antico al- bergo e ricovrossi in loro, onde continuo n'escono saette fuori d' invisibile fuoco, che arde e strugge cosi come il Sol neve. Perchè, signor Vinciguerra, considerate bene il caso , e troverete che mal fa colui , il quale vago di uno onorare, a grandissimo torto cerca di tre infamare; e tanto più fa egli male se quelli, cui procura disonore, vengono ad essere cosi degni di onore come colui , cui egli vuole esaltare e a tutto suo potere innalzare, l'^h piuttosto a quella guisa, che veggiamo le Alcioni racche- tar le marine tempeste, le alte azioni di questi signori gelosi della fama delle donne loro, e conseguentemente

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veri am;mtt, paciflcate e quietate, esponendovi nelle mani di colui , che per ciò è stalo fatto giudice e non per altro da noi tutti che qui siamo. Piacquero somma- mente a tutti le parole del signor Ladislao, e così nel giudicio mio fu rimesso qual donna delle loro doveva con giustizia e ragione a quella che si formava cogli occhi, quale colle palpebre, quale con le ciglia, quale con le sovracciglia e quale con la serena fronte d'allegro spazio dante segito di purità andar di pari, oppur quale con r anlidette cose tutte. Io non negherò qui , monsi- gnore , eh' io mi ritrovai allora avvolto in grande im- paccio, e volentieri la soma avrei in sugli omeri altrui scaricata ; ma pure avendo io loro già fatto vedere come il giudizio non doveva esser precipitoso, ma riposato e maturo, a persuasione mia conlentaronsi ch'egli si dif- ferisse infino che fosse data intera perfezione alla donna, che allora non solamente si giudicherebbe di ciò, ma ancora delle altre tutte parti, e cosi agevolmente ne ap- parirebbe quale fosse delle loro donne la più bella e la più vaga. Così ridotte le cose, e prolungato e tramutato il giudizio, che si dovea fare di particolare in universale, ch'egli adunque si segua l'impresa, disse il signor Gia- como, e non si stia a perdere più tempo. Ohi lieve per- dita è questa, soggiunse il signor Vinciguerra. Non mica, rispose l'eccellente Dottore; perocché non si può risto- rare, ma ben più grave sarebbe stata la nostra con voi, e delle nostre con la donna che difendete, se perdevamo, e che? credete di guadagnar con meco? replicogli 11 si- gnor Vinciguerra; non sapete voi qual sia il mio nome? si, Il so, ridisse a lui il signor Dottore, e proprio per questo io e gli altri speriamo di vincere con voi, perchè tutto di udiamo un nano chiamarsi Atlante, un moro cigno, una plcciola e storpiata donzella Euiopa, l cani

LIBRO PRIMO 2SJ

pigri e per l' antica scabbia pelati e leccalucorne Tigri , Pardi , Leoni , e se qualche cosa è che più terribile sia. A queste parole stette mutolo, ma sorridendo il signor Vinciguerra, e venne presso al signor Dottore per vedere, dacché egli era stato pungente come il tribolo nel par- lare, se aveva lo scilinguagnolo in bocca. Il che avendo noi preveduto, credemmo di smascellar per le risa, e fa- cemmo si, che non ne fu altramente accorto il signor Dottore. Compite le risa, e non facendo motto cenno alcuno della compagnia, il signor Giacomo e gli altri vollero che per cortesia fosse contento il signor Pietro di seguitare, e egli, poi che alquanto ebbe tenuto a terra chinato il viso, tutto festevole incominciò: I crini il si- gnor Dottore, gli occhi con non so che aggiunta e la fronte il signor Vinciguerra, e io vi darò perfetta la testa di questa donna , se le signorie vostre non si gra- veranno d' udire , e di prestarmi per poco spazio , che poco spazio chieggo, le purgatissime orecchie loro. Ta- cendo tutti , e lutti mostrandosi intenti : Dal naso , sog- giunse il signor Pietro, prenderò del ragionamento mio principio. Questo, se io non eiro, riguardevole è tanto in noi animali razionali che per avventura non si esti- merebbe giammai; e siccome finte treccie le donne, e gli uomini capelli trovano alle volte per servirsene, e altresì gli occhi , così n' ebbe di quelle già e di quelli , e forse n'ha in qualche luogo ora, che senza vero naso veg- gendosi, appararono un modo di così ben attaccarne un falso in quella vece, che vero e naturale egli potè a qual uomo, che vi riguardò e pose cura intorno, apparire anzi che no. Gli Egizj per pena del commesso adulterio volevano, e chi sa che oggi parimenti non vogliano, che l'adultero fosse stranamente flagellato, e l'adultera senza naso ne rimanesse, per altro se non perchè la faccia

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sua In quella parte venisso a farsi deforme e sozza, nella quale massime suol bella e vaga a' riguardanti mostrarsi. Questo adunque, che si dee dare alla donna, fia per la mia estima picciolo, che invero un grande deforma assai una donna, come mi sovviene d'aver già letto, al tempo ch'io era scolare, in Orazio alla seconda satira; in Ma- rio Equicola in quell'opera ch'ei fece della natura del- l'amore ; e , se ben io mi ricordo , poco fa nell' Ariosto , dove parla delle bellezze d'Alcina; fla, dico, picciolo e graziosamente locato in tanto, che Momo ne lo possa lodare, e l'invidia n'"»n emendare. Ora spedito cosi bre- vemente dal naso, stendo a farvi vedere quali devono essere le guance di questa donna. Le guance di questa donna saranno tenere e morbide, assomigliando la loro tenerezza e bianchezza con quella del latte, se non in- quanto alle volte contendono con la colorita freschezza delle mattutine rose. Empiranno di vaghezza gli occhi , che le mireranno; se vermiglie e bianche insieme ver- ranno a figurare quelle della vergine e cacciatrice Dea dei boschi, qualora ella si giace e si riposa dopo l' aver perseguito e cacciato i fuggitivi vivaci e ramoruti cervi, le damme imbelli, i cavrioli leggeri e i timidetti lepri. Piaceranno sommamente se si scoprirà in loro il bianco giglio e la vermiglia rosa, il purpureo giacinto e il can- dido ligustro; e finalmente sesieno tali quale n'è data a vedere talora l' aria , ove gelata al suo antico soggiorno incomincia prima a correre l'aurora, e indi a poco, le- vato il sole, oggimai imbiancarsi, e divenire candida e tutta neve. Tali non spiacquero all' Ariosto , ove scopre le bellezze d' Alcina. Non spiacquero al Petrarca nel so- netto. Io canterei d'amor^ e alla canzone, il cui principio è , In quella parie. Non spiacquero al Bembo al secondo <le' suoi Asolani. Non spiacquero al Sannazzaro nelle bel-

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lezze di Amaranta. Non spiacquefò a messer Ercole Strozza nel secondo de' suoi Amori. Non spiacquero a messer Fausto Andrelino nel terzo de' suoi, e finalmente a ninno, eh' io mi sappia, giammai. Cosi detto, e pensato un poco: Alla bocca con vostra licenza trapasserò, sog- giunse il signor Pietro. Questa di picciolo spazio con- tenta, viene non poco di grazia ad una vergine a por- gere, e però in Dafne fugace picciola la pone Ovidio nel primo delle sue Tramutazioni; picciola in Polissena nel terzo decimo delle medesime; Virgilio altresì nel primo della sua Eneide picciola la alla dea degli amori Ve- nere bella ; picciola alla Fiammetta la il Boccaccio ; picciola il Bembo nel suddetto luogo ad ogni damigella che vaga vuole apparire. Ma le labbra, ove lascio io? Queste piacque al Boccaccio, pur parlando della Fiam- metta, di rassomigliare a due vivi e dolci rubinetti ; e al Bembo air antidetto luogo ai medesimi, ma aventi forza di riaccendere desio di baciargli in qualunque fosse più freddo o svoglialo. Piacque al Sannazzaro di agguagliarle alle mattutine rose neH'aik'gato sonetto di sopra, anzi di preporle. Agli Strozzi, padre e figlio, delle sue belle donne parlando, non spiacque il medesimo. 11 Petrarca contentossi nel secondo capitolo della Morte farlene simili, parlando

della sua Laura cosi ; poi mise in silenzio

Quelle labbra rosate insin eh' io dissi, Altri, come Ovidio, le istesse labbra, o pur le gote hanno paragonate al porfido; ma insomma non vi è differenza nel colore , eh' egli è tale nel porfido quale ne' rubini e nelle rose. Ora è da vedere quali devono essere i denti di questa bellissima donna, della quale se nel parlar mio vi pare eh' io troppo mi affretti st;isera per ispedirmcne, iscusimi appo voi il non essere naturalmente io lungo e tedioso nel mio ragionare; iscusimi il signor Dottore, che

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ha favellato langamenle e il signor Vinciguerra, benché l'uno e l'altro divinamente, iscusimi l'ora tarda, e vicina oggimai di posarsi. Queste quattro parole traposte nel suo ragionamento segui poi il signor Pietro: li Petrarca nel sonetto, Onde tolse amor l'orOy e in quello , Non pur qiieW uìia bella , e in queir altro , Quel sempre acerbo ; l'Ariosto nelle bellezze d'Alcina, il Sannazzaro in quelle di Amaranta, e parecchi altri scrittori, che, per esser breve, qui non allego, vogliono e sommamente lodano in una donna denti simili a perle. Denti simili a perle essere stali que' della sua ci mostra il Bembo nel sonetto, Crin d'oro crespo, denti d'avorio commenda l'antidetto Petrarca nei dialogo ch'ei fa della rara bellezza del corpo; gli commenda nella sua Diva messer Ercole Strozza nel secondo de' suoi Amori, gli commenda messer Ortensio Landò nella gen- tilissima boccuccia del morto pidocchio di frate Puccio. Queste parole mandate fuori così, ridendo alquanto e sogghignando, dal signor Pietro fecero si, che di noi non fu pur uno che non ridesse e sogghignasse insieme con esso lui, il quale poi così riprese adire: Della carissima signora e animosa Zenobia io mi credo ben che le si- gnorie vostre molte e molte cose abbiano perinflnora letto, ma io non so , e forse che si , se questa giammai. E quale è questa cosa di questa reina d'Oriente? disse qui il signor Ladislao. Questa, gli rispose il signor Pietro, che molto è al proposito nostro: Che ella, come scrive il Petrarca nel dialogo de' dolori de' denti, fra le altre sue bellezze ebbe così bei e così candidi denti, che a' ri- guardanti , qualora avveniva eh' ella parlasse o ridesse , pareva che la sua bocca /osse ripiena non di de ti no, ma di bianchissime margarite; e che dirò della figlia del re di Ponto Mitridate , la quale si legge aver avuto le fllge e gli ordini di denti gemini e doppi ? che di Prusia

LIBRO PT5TM0 ?0

re della Bitlnia, o, per dir meglio, di suo figlio, a cui la Natura, cosa che d'alcun altro non mi ricorda mai di aver letto, concesse in vece de' denti di sopra un sol dente uguale a tutti quei di sotto, cioè un osso steso dall'una all'altra mascella, e non già senza vaghezza? Resterebbemi a dire, volendo del tutto attendere alla promessa, del mento di questa donna, e delle orecchie» il che fatto, fornita si troverebbe la testa di lei , ma non veggendfr io farsi menzione da scrittore ninno di queste due parti, isforzerorami di pagare il debito con dire che elle devono esser simili a quelle , delle quali inflnora se n' ha ragionato assai , cioè riguardevolissime e vaghissi* me in ogni modo. Qui pose fine al suo ragionare il signor Pietro, e volle, non ricusando ciò il piacevolissimo e ve- ramente gentile suo cognato, e meno noi altri per esser l'ora assai tarda, che fosse in piacere di tutti l'andarsi ognuno ogginiai a posare, che la sera poi seguente si tornerebbe alla intralasciata donna ed agli intraiasciati ragionarienti di lei.

yraE DEL LIDRu JftlMO

DELLA BELLA DONNA

LIBRO SECONDO

Noi veggiamo oggidì con gli occhi, monsignore messer Giovanni, e toccliiamo, come si usa di dire, con la mano, che delle cose principiate tanto è grato non puro all'uomo, ma ancora agli altri animali privi di ragione e d' intel- letto di vedere il mezzo e poi la fine. Glie quello e que- sti non si veggono cessare mai dall'operare inlìn che non hanno le cose 1' ultima e debita perfezion loro ; e ciò ne accade vedere più sovente assai , e con maggior verità allora quando il principio felicemente da tutte le parti si mostra di essere riuscito. L'uomo ricco incomincia un ampio e magnifico palagio ottimamente, e veggendo bello e vago il fondamento, non può, tirato dal desìo di vederlo fornito, non fare che non s'affatichi per vederlo quanto pia lOMc è ^^vftjiiDUt^ pciiello Un pittore, s'egli da qualche»

52 M:LLA XÌVAA..K nONN'A

hellissimo esempk) ha rapportato pia in carta o In asse vagamente la testa di qualche figura antica, o moderna che si voglia, come può non ridurre a fine la sua pit- tura e il suo leggiadro laverò? Degli animali bruti chi è che dubiti non avvenire il simile? Per la qual cosa, trovandoci noi ancora d' avere poco più che principiata nel precedente libro la donna nostra, e d'averla lasciata, come già più di mille e mill' anni lasciò per morte la seconda Venero che dipingeva a' suoi Coi il tanto famoso e celebrato Apelle imperfetta e non compiuta, strano desio avevamo tulli ne' cucn nostri di vedernela fornita, e di non lasciamela cosi andar male poi che succeduto gloriosamente n era il bel principio, e sofferto per lei avevamo alquanto di fatica, se fatica o non piuttosto sommo piacere si dee nomare quello che intorno a lei avevamo speso di tempo. Laonde, partorito il giorno dal Sole, e illuminato il monte e il piano, ievanuno veloci, e, giratici int'^mo co' nostri falconi, pigliammo, mercè del buono del signor Giacomo e di quello Jel signor Pie- tro, anitre e aironi assai. Venuti poi per tempo alquanto al palagio simile a quello di Alcina, di Logistilla, di At- lante, d'Adamo, e della fata Manto descritti dall'Ariosto, simile a quello del Sole appo Ovidio e della 7ama, e simile a quello di Psiche appo l'Asino d'oro di Apuleio, ci ristorammo con delicatissime vivande, à il rimuncnte del giorno, che tornammo a casa per giudicio mio di luce ancora tre ore, passammo a certi giuochi dilettosi e dolci. Ma venuta ì ora della cena , e cenatosi poi indi a poco realissimamente, furono gli scanni tosto appresso al fuoco portati dai servidori , e, invitatici noi a vicenda ad ap- pre5.?or£rlisi . vi ci appressammo quasi eh' io non dissi prova l'nn dell'altro. Ove eosi radunati per comune con- sentimento, piacque a riascnno di fissare gli occhi di

LlB«0 SECONDO 33

dentro alla testa intralasciata della donna, e guatando tutti lei molto per minuto e per sottile, ecco udirsi una voce del signor Dottore, tale: Leggesi , onorati signori e compagni, che costumava Apelle, dal quale solo volle Alessandro il Magno esser dipinto, di esporre agli occhi del popolo le opere sue, acciocché, udendo poi da questo e quello gli errori e le pecche di loro, in questa guisa le potesse far del tutto perfette e naturalissime ; il che usando così di fare venne in tanta eccellenza poi, che a voler lui lodare secondo il merito e secondo che si con- viene , bisognerebbe accorre tutte le lodi di quei , che oggidì sono dipintori famosi, e furono mai per l'addietro, e donarle a lui , e cosi donate , confessar poi ancora di non poter agguagliare con parole , e giugnere in modo niuno all'altissimo segno della perfettissima virtù sua. 11 perchè faremmo gran senno ancora noi se, prima che trapassassimo alle parti restanti di questa donna, consi- derassimo un poco diligentissimamente, se così sguar- dando in lei, vi potessimo ritrovare pecca o menda al- cuna noi stessi, dacché non abbiamo altrui che ci avvisi e ci faccia chiari, E così guardinghi , venuti in questo accordo noi, e stando in quest'avviso, trovammo averle dato somma perfezione, ma pure essere stati poco scaltri nelle tempie e nella collottola, le quali due cose le ve- nivano a mancare. Laonde, concedutele e datele tosto, convenimmo che si dovesse seguire l' impresa senza più dimora. Al che fare, alzato in piedi il signor Ladislao: Io non so, disse, quando eh' io mi abbia mai veduto cor- tesia in alcun gentiluomo tanta quanta io veggio di con- tinuo nel signor Giacomo^ il quale, pregato dalle signorie vostre ieri a parlare dopo l' eccellente Dottore , quando egli n' era degno per ogni ragione al pari d' ognuno di voi, non volle mal accettar la maggioranza ma rifiuta La bella donna., Lib. II. :j

34 DELLA BKLLA DONNA

lala fece che il signor Pietro ancora rifiutollc:, e se non eravamo tulli addosso al signor Vinciguerra, io non so come passavano le cose nostre allora. Dipoi combatte tanto col cognato, che gli fu forza per sodisfazione e sua e nostra di prendere il terzo luogo. Ora egli e io soli , fuor solamente messer lo giudice poiché egli altrimenti non ha da favellare , siamo rimasi a parlare ordinata- mente di questa donna ; e volendo io , come giusla cosa mi pare, udir lui in prima, e dargli luogo, vedete come si mostra schifo di tale offerta ; ma egli n' ha da avere uno scongiuro e uno sforzo or ora tale, che contra non potrà, ch'io mi creda, in guisa ninna prevalersi. Tacquesi a queste parole il signor Ladislao, e poi soggiunse cosi: Signor Giacomo, per l'ardentissimo amore che mostrate tuttodì di portare a quella bianchissima Rosa, la quale non hanno tutti i giardini del mondo, io vi prego che vogliate esser contento stasera innanzi a me di comin- ciare a dire sovra la materia della donna quanto a voi Ga in piacere e in grado, e nulla più. A ciò la risposta del signor Giacomo fu questa , essendosi col viso verso lui, che gli aveva parlato, dolcemente rivolto : Voi avete trovato un bel modo di vincermi , e vi so dire che un altro simile non trovereste in cento mill'anni. Per quella candidissima e adoratissima Rosa adunque, per la quale voi mi avete pregato, anzi sforzato a qui far le vostre voglie, e per la quale io non posso negare nulla a chi per lei mi prega , io sono più che contento di ragionare della incominciata materia con esso voi e con questi altri gentiluomini, amici e signori miei. Cosi risposte, con un viso mezzo ridente egli incominciò: La gola vi si dee per mio giudicio in prima supporre a questa testa da ogni parte compiuta. Il perchè la vorrei di colore di marmo t^.le qu;;k' mi noria trav-^re non ao a^ letto o udito dira

LIBRO SECONDO Sa

ritrovarsi nell' isola di Paro, cioè candida sì, che candi- dezza maggiore non apparisse in cigno, in giglio, in armellino, in neve. Pur mo' scesa dal cielo? disse qui il signor Vinciguerra , ha egli nevicato forse ? No, gli rispose il signor Giacomo; ma voi non m' inten' dete. Io dico , eh' io vorrei che la gola di questa donna fosse vieppiù bianca che non è la fresca e ancora intatta neve fioccata nuovamente dal cielo. Ah I rispose l' altro ora v'intendo, e fece che qui noi altri ridemmo alquanto' infin che il signor Giacomo riprese a dire: Simile gola c-ommenda in Amaranta il Sannazzaro e altri assai , dei quali ora non mi sovvenendo il nome, io verrò al collo che bianco più che latte dice essersi ritrovato in Laura Il Petrarca nella canzone che comincia, In quella parte; d'avorio fu quello di Narciso, come già lessi in Ovidio. Ohi come è vero, gridcf trapostosi qui pure il signor Vin- ciguerra, ch'egli l'avesse d'avorio? Questa è simile alla favola di Pelope, di cui Virgilio nel terzo della Georgica, Tibullo al primo delle sue colte elegie, e il medesimo vo- stro Ovidio al sesto delle trasformazioni ne fanno men- zione, nella quale dicono , che avendoli Cerere mangiato l'omero sinistro in quel convito, che l'empio e crudele Tantalo fece agli Dei, glie ne restituì uno d'avorio, cose del tutto vane e di niun segno di verità colorite. 0 che voi non siete in buon senno, o che mi avete stasera tolto a darmi la beffe, signor Vinciguerra, gli disse il signor Giacomo, seguendo poi: Quando ch'io dico che Narciso ebbe il collo d'avorio, io non intendo, come voi, ch'egli l'avesse veramente d'avorio , ma bianco come avorio , e così vuol essere inteso Ovidio. E il Bembo altresì, quando nel sonetto, Orin d'oro crespa . dic« in lode della bianca msno (^eila donna sua cu'si;

^'^ DELLA nw.f-A finVNA

Man d'awrio, che i < or distringe e fura ; D'avorio fu quello della diva dello Strozza il figlio, corno, egli testifica nel sewntlo de' suoi Amori. Quel che ne dice l'Ariosto nelle tanto da voi allegate bellezze d'Alcina, egli ci è chiaro. E però io vo' che proprio sia tale il collo di questa donna quale fu quella. Ora scendiamo più giù un poco, e veggiamo di darle un seno che le si convenga. Questo sarà candido, come fu quello di Laura, per testi- monio del Petrarca in quel sonetto. Amor e io si pien di meraviglia, e come fu quello dell' amorosa di messer Er- cole Sti-czza, che ne lo loda egli nel su allegato suo luogo; sarà bello e tale che si possa dire degnamente angelico, il che piacque al Petrarca nelle canzoni. Quando il soave mio fido conforto; ChiarCj fresche e dolci acque. Ma che si dee dire delle poppe, o mammelle che le vogliamo chia- mare? Elle fieno, come a me pare di dirittamente giu- dicare, picciole, tonde, sode e crudette, e tutte simili a due rotondi e dolci pomi. E tali l'ebtero Amaranta appo il Sannazzaro, e la garzonissima Sabinetta appo il Bembo? Dell'Ariosto mi taccio, che io ?o bene ch'egli non si al* lontana o diparte dal parere di costoro. E meno il Boc- caccio nel suo Laberinto d'amore, dove parlando di quei due bozzacchioni , che così appella le poppe di quella vedova tanto da lui maledetta e punta, dice che già forse acerbi pomi furono a toccar dilettevoli, e a vedere simil- mente. Qui giunto , il signor Giacomo tacevasi , quando il signor Dottore risguardandolo disse: Egli mi pare che mi si è scoperta bella occasione, signor mio, di potervi rendere pane per ischiacciata. Perocché , s' io non m' in- ganno, il fine del parlar nostro tanto è lontano dal prin» cipio e il principio dal fine, quanto sono i piedi, oppure gli occhi nostri l'uno dall'altro. Ma so ben io quel che è. Nei falli nostri noi siamo l'nccei di Minerva, e negli al-

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trai veramente quel di Giove. Laonde con gran giuaiCio Prometeo, avendo formato l'uomo, gli attaccò in spalle due bisaccie, delle quali quella di dietro figurata per la nostra era piena di delitti , e quella d' innanzi figurata per l'altrui era scema, e vota di loro. A tai parole il si» gnor Giacomo levando : Eccellente Dottore, disse , poiché la mia semplicità impetrarmi grazia e perdono appo voi non ha potuto, e che mi avete pure voluto mordere e trafiggere, io ( cosa che non avete fatto voi, e che è pure di magnanimo, come potevate imparare dal gran Giulio Cesare, il quale di nulla scordar si solea, salvo che delle ingiurie fatteli ) qui lo vi perdono, e non voglio gareggiar con esso voi, di cui la disgrazia mi sarebbe tanto discara quanto saprei dire il più. Ma sono ben certo che se vo- stra eccellenza avesse saputo l'amore eh' io le porto, ella mi avrebbe iscusato , e si saria temperata in ogni modo nel parlare ch'essa mi ha usato. Ma ritornando alla donna nostra, dico ch'io era poco fa, sedi memoria non pecco, occupato nella qualità delle poppe, e avendovi io divisato quali elleno debbono essere in lei, convenevole cosa sarà per mio parere eh' io mi volga ora alle spalle e alla schiena. Quelle all' uomo , ove larghe e spaziose egli le viene ad avere, essere dicevoli ce Jo scopre al secondo della Eneide sotto la persona di Enea il gran Virgilio ; e benché io non abbia autore per la donna, nondimeno, se in ella fossero tali, io non le direi appellerei brutte, e massimamente se io le vedessi terse e belle, e dritte appresso, come voglio ch'elle sienOj e ch'elle vi si tro- vino. Questa poi sarà anzi vaga che no, quando ai ri- guardanti si mostrerà da ogni parte leggiadra e dolce, e morbida sì, che di pianamente percuoterla, e come Amore insegna, appunto loro ne verrà voglia e talento. Delle braccia poi, per venire a lor^>, non picciola bellezza

33 i)::u.A bella do:\.\a

scorgerassi ss delicaU', grosselle e dolci al tutto fieno o gentili, come quelle di Laura alla canzone cbe incomin- cia, Sì è debile 'l filo, e se saranno, il che voglio clie sia in loro, di quel potere delle medesime, il quale ci è noto I»er quel sonetto, il cui princi^pio è, Da più begli occhi, non potranno non esser bellissime e di somma e perfetta beltà adornate; ma questo non avverrà cosi agevolmente se prima elleno non avranno in so la purissima candi- dezza di quei della bella Amaranta noi Saunazzaro, e dellt) non indegne compagne e amiche tutte di lei. A queste sono congiunte le mani, delle quali, volendone io parlare, dico ch'egli mi piac'jrebbe stranamente di vederle bian- che. Laonde il Petrarca nella su allegata canzone tali le pone in Laura, e nel sonetto, Orso, e' non furon wiai. Le vorrei, dico, tanto bianche che di bianchezza si appres- sassero all'avorio, come il Bembo nel cosi spesso addotto sonetto, Crin d'oro crespo , mostra d'averle avute la sua bella innamorata ; cosi vengono ad esser belle e meritare un colai titolo, il quale ebbero quelle di Laura gridando il Petrarca : 0 btlXa man. Le vorrei sottili, ciò togliendo pure dall'antidetto nelle due volle citata canzone, e lun- ghe, in ciò seguendo Properzio nel secondo , che siffatte scrive essersi ritrovate in Cinlia ; e messer Ercole Strozza pure nel secondo de' suoi Amori , il quale aggiunge un meraviglioso candore essersi potuto vedere in quelle della sua Diva ancora. Vorreile tenerelle, e tutte pulite si, che lo dita loro potessero contendere con quelle di Bacco, alle quali rassomigliò quelle di Narciso Ovidio, ed esse poi belle mani far d'invidia molta ir piene Giunone, Venere e la casta sorella di Febo, come scrive messer Tito Strozza il padre aver potuto fare quelle della sua pura e vaga An/ia; vorreile grassette e senra vene apparenti; vorreile liualmtui*; colorite e rusal-j aiiiuaato, e l'unghie del.'c;

LIBRO SECONDO 39

belle dita somiglianti a perle orientali; il che appare in quel sonetto poco fa citato essere suto in Laura,

Ora tempo mi pare di trapassare ai fianchi , I quali senza alcun dubbio, a voler essere riguardevoli, bisogna che siano anzi rilevati che no; e l'Ariosto, nel bello di Olimpia occupato, disse, i rilevati fianchi, e nella Cassaria commedia di lui cosi intitolata, dove parla del granlis- simo studio che hanno le donne di abbellirsi, in rilevarsi nei fianchi, disse. I castigati fianchi, disse lo Strozza mes- ser Ercole, parlando della sua donna nel citato luogo di sopra. Quanto spetta alle anche io mi spedirò con una parola tale, eh' io vo' che sieno belle e quali furono quelle di Olimpia, di cui ragionando pure TAriosto, dopo l'aver detto de' fianchi, e le bell'anche, disse poi. Del ventre' che al ventre posso oggimai valicare , dirò questo , che egli dee esser netto, anzi nettissimo e tutto piano , onde l'Ariosto pure d'Olimpia vaga parlando, E netto più che specchio il ventre piano , diss'egli. Sarà ancora gonfio. che cosi amo meglio di vederlo, che quale si scorge nel Moreto di Virgilio aver avuto Cibale ancella del vigilante e faticoso Similo, cidè compresso e attratto, il che nelle donne non è dicevole , ma sibbene e piuttosto biasime- vole viene egli ad essere appo qualunque buono cono- scitore delle donnesche e bruttezze e bellezze. Quivi così ragionando pervenuto il signor Giacomo , e raccogliendo nella meinona. prestamente quello che dire dopo questo dovea, prima ch'egli parlasse incominciò a sorridere seco stesso, il che veggendo noi, che tuttavia attendevamu ch'egli pur dicesse , ce n'accorgemmo perché , e volendo ch'egli oltre passasse con dire quali devevano nella donna essere le altre parti restanti , il signor Ladislao levossi , Onorati signori, dicendo, gli uffici, non le discrezioni dar Si aicouu. tijli par tcui^o ch'io iùcoiùiùci oggiuji<;i

io DELLA BELLA DONNa

l'ultimo corso, e ch'io, non il signor Giacomo che assai fi- nora ha favellato, e vi si può contentare, abbia a finir que- sta donna esteriormente; che, se li piacerà poi, e a vostre signorie insieme di correre ancora e di parlare della me- 'Jesima materia, restaci campo assai di ciò poter fare, vi so dir io, e l'argomento visi mostra ampissimo. Ahi ri- spose qui il signor Giacomo a lui, non rinnovellate, caro signor mio Ladislao, queir iniquo e poco lodevole costu- me degli antichi , il quale a coloro che pigliavano a di- fendere le cause prescriveva il tempo della difesa, come ancora agli accusatori il tempo dell'accusa, dato loro, e concessi gli oriuoli d' acqua , la quale consumala , e a goccia a goccia furata, vietava ad essi il dire, onde le . cause poi così vi si venivano a precipitare il più delle volte per lo picciolo spazio che si dava loro; non lo rin- novellate, dico, per cortesia, e non permettete eh' lo mi trovi ora a que' termini, ora ch'io sono in sul mostrarvi quali una per una devono essere della donna nostra le parti con le parole e con l'animo riscaldato. Senza che io non sono aratore, per così dir più acconciamente che oratore. Non potè a queste parole non rendersi il signor Ladislao, e contentarsi di quanto piacque al signor Gia- como, il quale dopo il vinto impedimento e ostacolo del suo ragionare, in questa guisa si pose da nuovo a seguire: Al luogo, onde tutti venimmo al mondo, già mi trovo arrivato cosi passo passo ragionando, e prima ch'io vi scopra come egli mi ha da piacere in questa donna, io dirò con licenza di voi ch'io non posso non meravigliar- mi assai onde ciò sia, che sendo egli il nido del piacere, e bello quantunque si voglia, tutte le donne femmine usino di nasconderlo e celarlo a noi a tutto suo potare. I^oi veggiamo ciò appo l'Ariosto in Ullania e nel!" compagne. Noi il veggiamo in Fetide appo l'Asino a' oro J'Apuleif»,

LIBRO SECONDO 41

Egli ci è chiaro per Diana da Atteone colta con tutta la sua schiera ignuda nelle chiare acque appo le Trasforma- zioni di Ovidio. Egli ci è chiaro per Olimpia appo l' an- tidetto Ariosto. L' abbiamo appo li Petrarca nella gran canzone. E leggendo io , benché altra cagione ci mostra Ovidio, che Tiresia fu cecato da Pallade da lui veduta ignuda, come piace a Properzio al quarto libro, a Seneca nella tragedia intitolata Edipo, al Poliziano nell'Ambra, nella Nutricia e nelle sue Miscellanee, e finalmente all'A- riosto in un capitolo che incomincia. De la mia negra penna ecc. , mi penao che ciò n' avvenisse non per altra cagione, se non per averla cosi ignuda contro la sua vo- lontà sguardata e scoperta, cosa che spiace stranamente alle donne per non volere che degli uomini alcuno miri r antidetto luogo, cui il coprire tanta cura mostrano di avere, che insino sul morire non la lasciano le generose e veramente donne. Per la qual cosa leggo appo Ovidio, die Polissena, di cui si ricordò il Petrarca al sonetto, In tale si£lkt, , giunta al punto della morte non la lasciò. Leggo appo Giustino che Olimpiade, madre del grande Alessandro, con la testa e co' capelli isforzossi di velare questo luogo morendo. Veramente la Natura ha qui ope- rato in modo , eh' io le vederci , s' io potessi , volentieri nel seno per poterne cavare ragione di ciò che mi sod- disfacesse e mi acchetasse un poco. Ma quando ho bene il mio pensiero in questo stanco , io trovo che per ciò ella tale istinto nelle donne ha posto , perchè fra i loro membri ha voluto questo disonesto e quello onesto chia- marsi, e però questo scoprirsi e quello coprirsi ; e di qui è che la testa , quasi membro onestissimo , il più delle volte si mostra ignuda, come le mani ancora ed altre parti ; ma quelle clie sotto il ventre si celano , quasi di- lonectc si vengono da noi a celare, e velare 11 più altresì,

42 UKLLA BELLA DONNA

da noi dico, perchè noi ancora abbiamo questo naturale, e non le donne pure; onde il divino Agostino al quar- todecimo della Città di Dio dice, che tutte le genti taf- niente hanno in u^o e in costume di celare le parti ver- gognose, che alcuni barbari le vengono a coprire insino nei bagni o con brache o con che si sia. Appresso i ro- mani i giovani che in campo Marzo ignudi si esercita- vano, queste parti scerete coprivano. Ma se di questa cosa la ragione antidetta è buona, e vi pare non indegna di essere accettata per buona, come non si potrà dire che 0 queste cotali parti sieno più sozze nelle donne che ne gli uomini, 0 che nel sesso loro vi si richiegga più onestà e vergogna che nel nostro, quando la medesima Natura ha fatto sì, che per caso e mala sorte annegato un uomo e insieme una donna , quegli giace resupino in mare e questa rivolta col ventre in giù? Ma lasciamo di dire più in tal materia, e torniamo onde pur ora ci partimmo. Io aspettava , disse qui al signor Giacomo rivolto il si- gnor Pietro, che voi ne faceste menzione di quel pro- verbio che si usa contro coloro, che non fanno pure niente differenza fra l'onestà e la disonestà. Il proverbio è che questi cotali non sanno quanta sia la differenza fra il capo e la natura cosi dell' uomo come della donna. Edi io, disse poi l'eccellente Dottore, aspettava ch'egli ci recasse in mezzo quello che de' nostri primi parenti av- venne, i quali, avendo disobbedito l'Altissimo, subito si accorsero d'essere ignudi e mostrar le vergogne, le quali poi con foglie vennero a coprire così al meglio che po- terono. Noi veramente, soggiunsero gli altri due, aspet- tavamo che sua signoria per esempio ci adducesse Omero, il quale nell'Odissea induce Ulisse appena campato dal- l'ira del furibondo mare ridursi sotto un albero ignudo nel paese di Alcinoo, oggi nomato Corfù, e quivi, nascono

LIBRO ST!OONDO 43

dendo le scerete parti , esser vagheggiato dalla figliuola del prence chiamata Nausicaa. Oh I rispose il signor Gia- como, poteva e a me e a voi insieme bastare quanto io avea detto, e ch'egli era pur cosi. Ora mostrata anco di ciò la ragione , veniamo finalmente a vedere l' antidetto luogo, e a considerare un poco quale egli dee essere in questa bellissima donna. Sarà adunque picciolo e poco fesso, ma si lascivo, giocondo ed amoroso che oltre mi- sura venga a piacere ai riguardanti, se a riguardanti sia Concessa tal grazia, il che non mi piace, poiché Natura il viene, e sia quanto vuol bello, a nascondere. Gli por- remo adunque, che l'abbia a coprire, oppure ad ombrare, un velo di sottilissimi fili tessuto e d'ogni intorno d'oro e di seta fregiato, perchè altrimenti simile e convenevole a lui non mi parrebbe. Vo' che stampi proprio con la va- ghezza sua e sua somma beltà un giardinetto, quale agli occhi nostri, ove la dolce, candida e vermiglia primavera a noi ritorna , e si sente per le campagne I' usignuolo dell'antico infortunio lamentarsi, è dato talora di potere rimirare , e cosi rimirando godere intanto che i nostri spiriti grandissima ricreazione ne prendono. Questo non dispiacque di dire all'Ariosto in lode di quello della bella Angelica , eh' egli si assomigliava pure ad un giardino vago e fiorito, ove ciò che vi è dentro noi veggiamo par- torire in noi non so che, che ci tira e alletta a vagheg- giare solamente lui, e solamente lui avere in bocca, e di lui solamente parlare. Vo' che si giudichi e creda da ognuno ivi la grazia essere nata, ivi cresciuta e allevata, e ivi felicissimamente starsi e godersi. Alle altre parti deretane è tempo da ritirarsi, le quali ampie pic- ciole m' han da piacere , ma partecipanti tanto dell' uno quanto fl^^U' altro, che in vero egualmente reca ad una (lonna disgrazia, e le disdice (juanJo ella si mostra o

*4 1>KLI,A HKI,I,\ DONNA

troppo gonfl.i e naticuta , o troppo scema e qiiasf sftnza nati. Orazio può aver l'uno e l'altro nella seconda satira accennato in una parola, ma oggi il volgo solo il vuole ben naticuto, e quinci è, come dice il Boccaccio nel suo Laberinto d'amore, che quella vedova, di cui abbiamo di sopra fatta menzione, delle due cose che studiava di far che in lei fossero pienamente vedute , questa era l' una che voleva che si vedesse in sé, cioè le natiche ben so- spinte in fuori , cosi giudicando non poca parte di bel- lezza ad una donna aggiungersi. Ma stia ella e il volgo nel suo parere, ch'io starò nel mio volentieri. Alle co- lonne d'alabastro, 5ulle quali tutto quello di cbe ho par- lalo, quasi un bellissimo edificio si siede, e stassi, io dico le belle cosci'e, ora è da volgere il parlar mio, delie qmli che dovrò dirlo alla presenza delle signorie vostre? Ve» ramenttì e' mi pare meglio, come di Cartagine disse lo Islorico, tacere di loro che dirne poco; pure non mi ri- marrò per ciò che io non dica, che elle debbono essere iiiorbidelte, lascive, tremanti e piene di tutto quel bello che in somma e perfetta bellezza le ponno ridurre, e tali alia fine che vi si possa pensare, non dalle mani di Fidia 0 di Lisippo famosissimi scultori, ma da quelle della Na- tura solo , in ciò vieppiù dotta di alcun di loro quando ella vuole, essere state fatte e uscite. Fermossi qui al- quanto il signor Giacomo, poscia disciolse di nuovo la lingua in queste parole: Già s'incomincia a vedere la meta dove io ho da arrivare correndo, alla quale poiché io pur sono vicino, egli non mi bisogna cessare dal corso, ma piuttosto affrettarmi più. Il perchè dico che le gambe, alle quali cosi partitamente ragionando mi trovo d'esser giunto, denno trovarsi in quella guisa formate in questa donna, nella quale vi si vede una ma.rmorpji colonna, l'io*! i"oU>ud« iju ian^j u uyu iiUraw^^ulc; com traziu a

LIBRO SECONDÒ k^

vuole in una donna nel secondo de' suoi carmi, il qualt; non pare che in un bel fanciullo le rifiuti nell'Epodo ancora. Se così vi si vedranno, appariranno anzi molli , delicate e succose che no, e conseguentemente belle e ri- guardevoli. Biasima nel suo Morelo Virgilio le gambe in Cibale , di cui è stato di sopra detto , sottili e ossute , e poi la pianta ancora larga e spaziosa de' piedi , ai quali scendendo, voglio che nella donna nostra bianchi come quelli di Tetide si veggano , alla quale d' argento gli Omero, e di neve Stazio per la eccessiva loro candidezza. Voglio , per ispedirmene in una parola , eh' ella tali li abbia quali in Alcina commenda l'Ariosto , cioè brevi asciutti e ritondetti. Qui si trattenne e tacque il signor Giacomo, flne a un tratto e al suo ragionare e alla donna esteriore imponendo; ma dubitando noi di qualche im- perfezione, e opposizione che le si potesse fare, incomin- ciammo tutti a minutissimamente e diligentissimamente adocchiarla, e mentre in ciò fummo occupati, e spendem- mo tempo assai , non potè fare il signor Pietro che non usasse queste parole, e levato in piedi non parlasse così: Leggesi che Zeusi pittore, avendo dipinta Elena, come di sopra vi è stato detto, non stette ad aspettare il giudizio altrui, ma subito disse: Non è cosa disconvenevole e ver- gognosa ai Troiani , e manco ai Greci per simil donna soffrire mille e lunghissimi travagli, perocché chi con occhio discernevole guarderà lei, giudicheralla pur trcppo degna d'essere paragonata con le eterne Dee. Noi , se io diritto giudico, possiamo ctìn ragione usare qui le ultime sue parole e dire, che questa donna nostra tanto bella di fuori si può agguagliare giustissimamente con le Dee, e con quali Dee poi? Veramente con quelle che bellissime e ignuiie nel colle ideo Paride felice pastore ebbe a mi- rare; e se di queste ancora a qua! più ella si rassomigli

4d t)ELLA DELLA DONNA

vorroiuo considerare , agevolmonle troveremo die a lol , che lieta n'andò del pregio, per cui arse e cadde Troia; jO parlo di Venere bella. Se ben ora que' dae cotanto fa- mosi ritratti di lei , che fece Prassitele nobilissimo scul- tore, si trovassero al mondo, e quello massimamente che egli vendè agli abitatori di Gnido ( il quale per la sua somma e non mai abliastatìza lodata perfezione potè a trarre molli e molti peregrini vaghi di vederlo, e di accendere e invaghire uno siffattamente, che la notte si giacque seco), nondimeno chi di noi è che, amendue questi ritratti pareggiati col nostro, non giudicasse di grandissima lunga restarnegli inferiori ed essere veramente men belli e men vaghi ? Chi di noi è, signori, che s'egli si potesse vedere quel divinissimo di Venere sorgente dal mare, il quale l'ingegnoso e grazioso Apelle con tanta arte fece, e poi il divo Augusto dedicò nel tempio di Giulio Cesare, non tenesse per fermo lui rimaner vinto, e vincitore il nostro? Io sono più che sicuro che, se il medesimo Apelle avesse data perfezione a quello che vo* leva ai suoi compatrioti fare più bello dell'antidetto, e di cui solo potè fornire politissimamente il capo ed il I etto ( posto terrore a tutti i dipintori di quel tempo sì, che non fu pur uno che avesse avuto ardire di succedere a lui e fornirlo ) non sarebbe riuscito in guisa tale che potuto avesse degnamente porsi a fronte e agguagliarsi col nostro? Ma vogliamolo, prima che ad altro si venga, vestire o no? soggiunse poi; a cui l'eccellente Dottore rispose : Negare non si può che , come dice l' Ariosto , una beltà talora non accresca un bel manto; ma il più delle volte se ne vede il contrario, e di qui è che il me- desimo, parlando della bellissima e vaghissima Olimpia, disse e cantò questi leggiti drissimi versi:

LIBRO SECONDO Ì7

Ma si bella seta, o fin oro Mai fiorentini industri tesser fenno, chi ricama fece mai lavoro. Postovi tempo, diligenza e senno. Che potesse a costei parer decoro , Se lo fesse Minerva, o 'l Dio di Lenno. Poi non abbiamo noi chiaro il parere anco di Plutarco , il quale dice: Una donna ignuda bella è più bella che dj porpora vestita; senza che ci avvisa nel suo Asino d'oro al secondo Apuleio molle ritrovarsi che, per dimostrare il suo bello e per piacere più ignude che coperte d' oro» si spoglian tutte le vesti e la camicia ancora. Laonde m^ ricorda d' aver letto che Frine meritrice , chiamata una fiala in giudizio e temendo di rea ventura, alzò le vesti- menta suso e mostrò ignudo il corpo, per la bellezza del quale commossi i giudici, le diedero libera andata, e così rimase sciolta da ogni inlrico. Vedete che ciò, che oprare non valsero le bellezze delle vesti, di che si può credere ch'ella, che era ricchissima, andasse superbamente ador- na, oprarono quelle delle scoperte e ignude mostrate carni. tacerò qui l' esempio di Candaulo altresì , il quale , come narra Giustino, avendo ad un suo amico nomato Gige ignuda mostrata la bellissima sua moglie, fu cagione che Gige, lei innamorato e agramente acceso, uccìse lui, e lei tenne per insieme col regno. Il che non av- venne giammai finché egli la vide vestita. Il perchè, a conchiudere^ io direi che, se le signorie vostre facessero per mio consiglio, elleno non dovrebbero in modo ninno cercare di vestire questo ritratto di leggiadra dcnna, avendo io cosi chiaramente fatto lor vedere che una donna bella , qua! è questa , eh' è più che bella , e più bella assai ignuda, che vestimenti ornata d'ogni in. torno. Oh I disse motteggiando il signoi" Vinciguerra , se

t^ DKLLA BELLA DONNA

non si veste non morrà ella di freddo per questo JemrC cosi fiero? Mai no, che già ancor non è nata, risposo l'eccellente Dollore. Adunque, soggiunse l'altro , s'ella non e ancor nata vestiremola ancor noi di vestiti ancor non fatti. Deh! lasciate questi sillogismi per ora, che vi tirerebbero di palo, come dice il proverbio, in pertica, disse loro il signor Giacomo, e segui poi oltre col parlare: Appigliandoci al parere del signor Dottore, e non vestendo delle sue ricche vesti noi questa donna altramente, non le vogliamo ( cose che pure le gran gentildonne usano di fare tuttodì, e delle piccole ancora) concedere le sue ac- que rose, le sue acque nanfe, il suo muschio, lo zibetto^ Taiiibracane , il moscato, e simiglianti cose a donne ap- partenenti? Concediamle queste delicate misture si, gli rispose il cognato cosi mezzo salito in isdegno ed ira> e poco appresso pacificato nel viso, soggiunse: 0 che voi dite questo da dovero, signor Giacomo, o che scherzato per tentarci. Se dite da dovero, vi si risponderà, che ri- solutamente simili cose non sono dicevoli alla nostra au- gustissima e bellissima in perfezione madonna; perchè, s'ella è sommamente bella, a che queste acque? E questo muschio e ambracane che le volete dare, perchè gliele volete dar voi ? Esce forse da lei qualche lezzo caprino? Pute ella forse e ammorba la contrada d'attorno? Mala- detto colui che di tali e simili cose fu inventore, egli n'è stato principale e sola cagione de' nostri danni. Ma come, andate a vedere il Petrarca nel dialogo ch'egli fa del buon odore, e ne rimarrete chiaro, e troverete ancora di quello che nuovo vi parrà forse per entro. Signor Gia- como, egli non mi piace insomma che quesla donna ab- bia e reihi seco siffatte bazzicature, e massime non fa- cendo di bisogno in lei tutta pura e tutta bella. Ora se Il vwti'O parlare è stato per motteggiare io lo lodo e

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commendo assai, perchè cosi cercate di farci un poco ridere e passar tempo anzi che no ; ma se pure volevate vedere questo in noi, perchè non dicevate piuttosto che buono sarebbe suto di darle un poco di fattibello , che noi diciamo, o di liscio, o belletto, come dicono per altri luoghi d'Italia, e di quel rosso e bianco della si- gnora, come dice l'Ariosto, del signor Chinacela? Io mi meraviglio più che mezzanamente, rispose il signor La- dislao a queste parole, e perchè voi, signor Pietro, non acconsentite di dare le sue acque a questa donna, e per- chè ci avete addotto in mezzo certe vostre ragioni poco lodevoli nel vero. Deh ditemi per cortesia: credete voi di trovarne pur una , e parlo pure delle belle , che non abbia almeno qualche sorte di odorifere acque, con le quali si bagni il delicato e amoroso suo viso ? Io per me non giudico che ve ne sia una; adunque se non ve n'è una, r usanza e contro la vostra prima ragione eh' avete (isato, perchè non sia concessa acqua ninna delicata a questa donna, e volere voi disfare questa usanza ? Poi ci avete detto che le interdite le antidette misture per ciò eh' ella non è puzzolente , e non si mostra d' essere tale che n'abbia bisogno. 0 signor Pietro, egli mi pare che avete un gran torto, perocché giovani vaghi e donne in- namorate, che si dilettano di portare addosso i suoi zi- betti e ambracani, non gli porlaBO perchè essi sieno quel mezzo, per lo quale a loro sia tolto il puzzo, di che elle non vanno punto ingombrate, ma gli portano si per va- ghezza, e perchè eglino sono una buona cosa. Laonde vi consiglierei a non torre queste cose alla donna nostra , la quale, se vi vedrà così duro e ostinato in volerle ne- gar ciò che sommamente le piace, tenete certo che essa vi avrà quell'odio, che veggiamo che si suole avere alle ?crpi, 0 alla verità nelle corti. Oh come, soggiunse poi, ò La bella donna. Lib. IL 4

BO TJRT.TJ^ Ttr.htK DONNA

vero che al compagno sovente quello si niega, che non averemmo in piacere ch'egli a noi negasse giammai. A ciò fattosi bello, quasi animoso sparviere che levar vegga 0 anitra o colomba, il signor Pietro rispose: S'io non persuado alle signorie vostre che a questa donna e odo- rate acque e zibetti non si convengano in modo niuno, veramente io non so qual cosa, ch'io mai potrò a quelle persuadere alla mia vita. E poi rivolto al signor LAdislao disse : Se le mie ragioni infinora usate non vi paiono pe- sate, e degne di essere ammesse, non giudicate altramente delle vostre in contrario mandate fuori pur ora, che dove dite eh' io non debbo disfare l' usanza comune di tutte le belle di bagnarsi il volto con odorate acque e tacete perchè voi mi *vete fatto ridere un poco, perchè nel vero il parlar senza ragione non piace a persona di mente sana , e se vorrà l'eccellente Dottore dir il vero , egli ci dirà che i suoi giureconsulti e dottori ancora usano di dire, ch'eglino si vergognano quando senza la legge in mano si ritrovano a parlare in qualche luogo. Ma voi mi direte che l' usanza è buona , e io dirò a voi eh' ella è cattiva. Ditemi un poco; queste donne, che costumano di così usar queste acque, a che fine costumano di usarle? pur per divenire più belle e riguardevoli. Adun- que, se per ciò l'usano, non andrà la conseguenza e la conclusione eh' esse non si contentano della faccia che Dio ha dato loro f II che quanto sia a lui discaro, e ini quamente fatto, ogni sano intelletto agevolmente ne può trar giudicio chiaro. Ma di ciò parleremo diman da sera a sufficienza quando del belletto si ragionerà, che ne vo- gliamo pur alquanto ragionar tra noi. Ora io vengo alla seconda vostra ragione. Voi mi dite che questi giovani galanti e queste donne leggiadre, non per discacciare il puzzo, che non è In loro, ma per piacere altrui, e perchè

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sono buoni usano di andare profumati e profumate deli- ziosamente ; io rispondo, che voglio concedere che ve ne abbia di quelli e di quelle che non per piacere altrui usano di portare i zibetti e i muschj addosso, con patto che voi concediate a me ancora non esser poca quella parte che si sforzano con questa via di coprire molti difetti loro. II che Marziale e il Petrarca vollono che fosse cosi. Ma presupponiamo che non sia così, sarà però ben fatto che per altrui piacere gli usino? Veramente no, perchè destano in molti il concupiscibile appetito; e se non me lo credete , credetelo al Petrarca nell' allegato poco dianzi dialogo. E di qua è che raesser Ortensio Landò nel sermone funebre, ch'egli fa fare a monna Tessa da Prato nella morte di un suo gallo, disse cosi: Io credo fermamente che se il gran Turco sapesse questo segreto non userebbe il muschio sciloppato, siccome usa quando va alla giostra nel serraglio : egli parla della gio- stra amorosa in quel luogo. Quanto a quello che mi dite che questi zibetti sono cosa buona, io credo di aver già risposto; ma pure io non mi rimarrò di dire che sono cosa mala piuttosto, e udite, se non vi spiace, quello che per a voi provarlo sono per dire alla presenza vostra e di questi altri gentiluomini, che, la lor mercè, volentieri mi ascoltano. Io trovo che un Planzio gentiluomo ro- mano, veggendosi in gran periglio della morte, per paura di lei s' ascose assai bene In non so che luogo ; ma che avvenne? Avvenne che, essendo diligentemente cercato di lui, e non si trovando al mondo, il muschio lo venne a scoprire, del quale egli era tutto pieno, e d' intorno si sentiva l'odore, che sentito, e venuto al naso di quei che Io cercavano , fu cagione eh' egli fu miseramente morto. Io trovo altresì che, stando alla presenza di Vespasiano impHiatortì un giovane tutto profumata, per ringraziarlo

82 t)RM,A P'^.U.A nONNA

d'unì prpnìin<»n7.a che gli avea concedala, subito che Vespasiano senti l'odore, sdegnoso con terribile ciglio Cd aspra voce gli disse: Io avrei voluto piuttosto che al naso tu mi avessi mandato un puzzo d'aglio; e così avendolo molto bene ripreso, senza onore ( che le lettere della già conceduta grazia volle che fossero lacerate ) li- cenziollo col suo moscato e col suo ambracane. Ora giu- dicate voi se a questi efletti procedenti dagli antidetti zibetti essi denno esser nomati buoni, o pure, il che fia .più vero, cattivi. Giudicolli cattivi la valorosa e inclita città di Roma , quando l'anno della sua edificazione, CCCCCLXV. fece un editto che in lei ninno recasse peregrini odori. Cosi fosse egli durato inflnora; ma le sceileraggini e vizj de* posteri non lo permisero, perocché, com'è uso de' moderni di rompere i decreti degli antichi, il ruppero e l'annullarono del tutto, e cosi ella, che gli arabi , gli as5irj e i sabei aveva con le sue armi domati e vinti, fu dai loro zibetti e odori domata e vinta, e in- tanto che infino nei con vi li usava questi , e infino nel bere e negli spettacoli. Giudicolli tristi la città di Sparta, quasi un' altra Roma de* greci , quando a questa peste dell'Asia vegnente, come ad armata schiera di nemici, con fieri e severi costumi ed editti si fece incontro; ma poco le valse, perciocché in ultimo la molle e delicata squndra e degli odori e delle scelleratezze ingannò e corruppe le guardie , e passando nell' Europa soggiogolla e vinsela. Che dirò io d'Annibale? Questo cosi fiero ne- mico del popolo romano , capitano tanto aspro , faticoso e duro, rimase vinto col suo prode e valentissimo eser- cito in sul mezzo delle guerre, tal ch'io mi credo, che ben mille volte maledisse e bestemmiò gli odori, onde molle e delicato egli e i suoi soldati a un tratto diven- ijcro. Ma che mi voglio più andare aggirando negli csem-

LIBKO SECOTTDO S3

pi, per 1 (jnalì può apparir più chiaro che il Sole di me- riggiana, che questi odori, zibetti e moscati sono cattivi anzi che buoni, e dagli effetti una cosa si dee giudicare e conoscere quale ella sia o buona o mala? Quivi tacque il signor Pietro, aspettando d' udire ciò che all' incontro gli dicesse l'avversario, il quale, come se dal sonno si fosse desto e isvegliato allora allora, levossi e riparlò in tal maniera: Voi, signor Pietro, quel tanto che per voi fa- ceva, e che a proposito vostro essere conoscevate, ci avete leggiadramente qui in mezzo recato ; ma certo non l'avete ancora vinta. Perocché so ben io che di queste misure e di questi zibetti gli effetti non sono sempre tri- sti, ma buoni alle volte e forse il più; e perchè non mi possiate tassare qui come più su nella ragione eh' io tacqui, io voglio essere contento di addurre un esempio, e forse un paio, secondo che usate voi bene spesso di fare ragionando. Leggesi , che un certo barcaruolo chia- mato Paone era nell'arte sua tanto giusto, che mai non avrebbe egli giuntato ninno, e si mostrava si fatto, che da persona che non potesse pagarlo non pigliava mai pagamento. Ora avvenne che in Lesbo, ove esercitava sua arte, nacque de' suoi costumi non poca ammirazione, e lodandolo tutti , anco Venere loro Iddio , che rosi la chiamano j lodollo e commendollo sommamente; indi a poco se gli appresentò davanti in forma di vecchia chie- dendo che la volesse in su l' altra riviera traghettarla. Paone senza altro la fece in sua barca salire, e poi usando suo ulBcio al destinato luogo la condusse, ove non volle mercè paga veruna. Ma che operò per lui poscia Ve- nere? operò questo, che dandogli in dono un vasetto di soavissimo moscato, lo fece, di vecchierello ch'egli era, divenire snb'fo il più bel giovane che mai si trovasse in Lesbo, 0 forse in tutto il mondo. Che dite qui^ soggiunse'

8* DELtA BKT.T.A nONNA

poi, signor Pietro, non fu nieraviglioso qufìsto effetto di questo moscato? non fu egli buono a fare che un uomo, che putiva di cimiterio, tornasse nella più fiorita età, e poi si bello quale mai ai suoi giorni non fu? Oh, rispose il signor Pietro, voi sareste bene di grossa pasta formato, e avreste anzi del grossolano che no. se voi ciò credeste, e se pure volete credere questo miracolo, attribuite una si meravigliosa possanza a Venere e non al moscato, il che ha più del verisimile assai, e più sta al martello. Ma seguite, se avete altro che dire , eh' io mi credo che no. Guardate pure che non sia che si, disse qui l'altro, e seguitò. Non abbiamo noi nel Vangelo che chi per noi volle in su la croce star pendente e morire, acconsenti che di odorate e preziosissime moscate acque e unzioni li fossero i santissimi piedi lavati e unti ? Il che non avrebbe mai sofferto il gran figliuolo di Dio se buono ef- fetto da loro non avesse aspettato, ov^'ero non avesse avuto caro e sommamente lodato come buone quell'acque e queir unguento. Deh I tacete in cortesia , rispose il si- gnor Pietro ; e poi n'andò dietro dicendo : Io vi dico che altro effetto non venne da loro, e che buone non furono, e patì Gesù questo , non perchè n' aspettasse alcun bene no , e meno perchè ei fosse ( come tutti si può creder'» essere che l' usano ) molle, delicato e amico delle delizie, ma sibbene perchè gli piacque la pietà e le lagrime di lei che gliele offerse. Ma da che pur la volete con meco, signor Ladislao, e non volete perdendo cedere, togliete questo per ultimo esempio, che vi potrà forse ridurre al voler mio, dove gli altri, non oprando nulla eh' io vegga in voi , sono stati vanamente per voi recitati da me. Si scrive che Domenico Silvio doge, XXXI secondo il Sabel- lico, 0 pur XXX secondo altrui, delb '^itià miraeolosa di Viuegia ebbe per moglie una cosuuunopolitaua, la quale

LIBUO SECOOT)0 Bo

disprezzando l'acqua comune, costumava di lavarsi con la rugiada , e , non volendo i cibi toccar con mano , gli toccava coi dorati pironi. La camera poi, dove usava di posare, oliva tanto eccessivamente d'odori soavi, che qualunque v'entrava i sensi rimanevano vinti e perduti. Ma che fece la intera giustizia di Colui che regge l'uni- verso e il tutto scopre ? fece , che alla fine questa si fatta amica degli odorati zibetti e moscate acque, le quali pur voi volete concedere alla donna nostra contro il de- bito e la ragione, infermò di sozzissima e lordissima in- fermità, della quale si mori finalmente in grandissima miseria. Non vi piaccia adunque, signor Ladislao, più la vostra opinione inflnora tenuta, e sappiate stasera che questi odori e queste acque non solamente disconvengono a noi, ma disconvengono ancora alle donne che dell'one- stà propria hanno qualche cura, come voglio io che la nostra abbia continuamente, e da lei mai non si parta. E perchè mi potreste pur dire, che sono alcuni fatti odori che conferiscono alla salute assai, e però si deono porre addosso, io vi rispondo che, se per riavere la salute questa si fa e non per vanagloria e per piacere, ognuno è iscusato pure ch'egli non trapassi la linea della medio- crità, condimento di tutte le cose. Fermatosi qui alquanto il signor Pietro, seguì poi con questa esclamazione : Oh ! chi potrebbe a bastanza, e quanto si dovria, mai biasi- mare quello eh' io ora biasmo e biasmerò quanto si sten- derà la mia vita ? chi di sano intelletto ( e questo sia una aggiunta alle cose antidette) loderebbe uno, o una, che sia vaga di tai cose, le quali sendo in esso lei, altri ne venisse "d avere qualche piacere, e essa ne rimanesse digiuna e senza? Veramente qualunque donna, o uomo, ha seco gli odori e le acoue eh' fo sprezzo , egli $ * si- inilcì ujumiiouo, percue ntroyjuwv*! (fuelli e quesu in

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lui, esso, che non sente nulla di quella soave óra, non gode nulla, ma solamente gli altri di fuori, e a pieno poi s'avviene ch'ella sia perfetta in boutade, la quale si co- nosce, qualora essa ha potere di volgere e invitare a se le persone, ancora che ad altro sieno intente e rivolto con l'animo. Ma io mi voglio spedire oggimal , e da che hanno inleso le signorie vostre come disdirehbono gli odori e le acque odorate alla singolarissima donna no- stra, e chente sarebbe questo errore, ora non mi piace di tacere che essendo siffatte cose per natura dilettevoli e dolci, non si dee così l'odorare quelle come recarle ad- dosso interdire e vietare a niuno. Vi si seguirà adunque il parere del buono Agosthio, il quale, degli attrattivi odori parlando, dice: Di questi io non mi curo, quando rai sono lontani io non li vo a cercare, e quando mi sono vicini io non gli rifiuto, essendo mai sempre appa- recchiato di mancar di loro, e vivere senza essi Ja vita mia. Cosi conchiuso dal signor Pietro, e buona pezza quasi trapassata di tempo senza altro dire, l'eccellente Dottore ruppe il silenzio, e come veggiarao talora far la peregrina gru, che cammina un poco prima e poi si leva a volo. Cosi in voce sommessa, aumentandola pian piano, si mise a favellare: Hacci il signor Pietro con la sua dolcissima favella, simile tutta a quella di lei che cara mi è, che piU lungi non veggo, veder bramo, per- suaso, come ci disse al principio del suo ragionare, che nella donna nostra non si deono trovare zibetti acque muschiate, ora ci persuaderà egli forse anco que- sto, che in lei non convengano le rose, i fiori, le viole, e qualche bello e amoroso pomo? No'l vogha il cielo, no'l voglia la fortuna, no'l voglia il mondo. Gli odori di questi non sono da essere in modo alcuno ripresi come gli antidetti , e nei vero non mi sovviene d' aver letto

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mai che nelle donne morbide e garzone^ e meno nei gio- vani leggiadri e amorosi ad uomo alcuno dispiacessero in veruna stagione. Virgilio in una sua bella Elegia co- manda alle verginelle che colgano delle rose, come quelle che bene si convengono con loro. Induce Ovidio Proser- pina nel quinto delle sue Trasformazioni insieme con le sue eguali compagne intendere a rose circa il fresco, verde, e tutto fiorito Iago, nomato Perguso. Induce Salmace al- tresì a corre fioretti nel quarto, e darsi quel piacere. Induce il Sannazzaro Amaranta, e delle altre assai, spo- gliare l'onore de' prati , e così empirsi il seno di fiori e violette. E parlando poi egli quasi disperato alla sua diva, che l'avea solo abbandonato, ed erasi via fuggita sdegnosa e con turbato viso, dice così : Sciti dimenticata de' primi gigli e delle prime rose, le quali io sempre dalle cercate campagne ti portava. II Petrarca scrive in quel sonetto. Due rose fresche, che a Laura e a lui giovane ancora furono certe rose donate da un uomo antico d'anni, e consapevole de' loro amori. Scrive in quella canzone, Chiare, fresche e dolci acque, il medesimo, che l'antidetta Laura fu un giorno, e forse Venerdì santo, tutta coperta da una pioggia di fiori scendenti da certi bei rami , al tronco de' quali, come a colonna sta vasi, appoggiata ella forse stanchetta alquanto per lo cammino che aveva fatto. Vedete il sonetto , Amor e io si pien di meraviglia. Per li quali tutti luoghi vedendosi apertissimamente che alla giovinezza, e massime a quella delle belle donne si con- viene l'andar adorna il capo di fiori, e così dipingerlo, come talvolta d' occhi veggiamo la coda del pavone di- pinta, io non mi meraviglio se la dea delle bellezze Ve- nere e il suo fanciullino, andando un giorno per dipor- tarsi in certe campagne fiorite, come si legge, isfidaronsi l'un l'altro a corre fioretti e rose a gara. Io non mi me-

ftS DELLA BELLA DONNA

raviglio se la medesima Venero ( come Libanio Sofista greco presso al Poliziano ù buon testimonio j volle, avendo a contendere della bellezza con Pallade e con Giunone sotto il giudicio di Paride , ornarsi di rose bene olenti , e colorirò le tempie e V auricome capo suo intorno in- torno. Io non mi meraviglio se Catullo e l'Ariosto disser» che lo innamorate giovani e vaghi garzoni le amano, o massime tolte di su la spina allora allora. Queste rose e fiori e viole, oltre che fanno coloro che l' hanno più ri- guardevoli (come appare per l'esempio di sopra addutto (li Venere, che se ne volse adornare l'aurea sua testa) ricreano gli spiriti ancora , e gli vengono a confortare non poco, come si vede tuttodì. E se il signor Pietro, volgendosi a noi reccellento Dottore, poi non vorrà, disse, che per ornamento questa donna, come lei, che poco ne abbia bisogno, rechi in testa o nel candido seno queste rose, fate vjì eh' egli si contenti almeno eh' ella per ciò le abbia seco e ne le porti , che esse sono buone f. non cattive come gli odori, che il signor Ladislao contra lui tenne che fossero buoni, a gran torto, s'egli mi perdoni e mi tenga nella grazia sua. Fate voi , signor Giacomo , che se ne contenti per quella bella e fresca alba che vi luce ognora , e vi reca cosi dolci e cosi soavi giorni dipinta il viso del rosseggiante sangue di Venere. Come del rosseggiante sangue di Venere? disse a lui qui il si- gnor Giacomo; ohi, rispose l'eccellente Dottore, s'io avessi congiunta rosa con alba voi mi avreste forse inteso; ma udite perchè qui vi ho detto che la vostra signora Alba- rosa, dove tutt' i pensieri vostri terminano, ha le guance colorite e sanguigne. Leggesi che Venere, di cui abbiamo ragionato di sopra, amava il bello Adone, e Marte lei. Ora avvenne che Marte, ingelosito, deliberò d'uccidere Adone, cosi pensando che l'amore, il ifuale Venere grande

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li portava contro il suo volere, avesse a cessare. Trovala ^'dunque bella occasione , e scopertosi un beli' agio , egli fen Adone ed ucciselo. E correndo Venere per dargli aita, così frettolosa venne a cadere in un cespuglio di spini fioriti, e foratosi l'un de' piedi, col sangue che d' indi usciva fece che la rosa divenne colorita , e così dove in prima era candida cangiossi in purpurea e ver- miglia. Concedendo adunque, come ben si conviene, queste rose, fiori e viole, delle quali i giardini di Pesto vanno così spesso ornati, alla donna nostra, non le concederanno ancora una delle tre palle d' oro d'Atalanta ? un pomo , dico, quale fu quello onde beffata rimase Cidippe? e quali erano quelli degli orli delle Esperidi ? e quelli del ortunato e felice re Alcinoo? e quello finalmente che 'pose gara l:a le dive, delle quali abbiamo più suso ra- gionato a sifficienza? Si, le concederemo in ogni modo, e perchè sono di odore convenevole, e perchè non sono rea cosa i pomi , de' quali alcuna gente vive , e alcuna del solo odore. Il che è pur miracoloso ad udire, ma noi n'abbiamo il Petrarca nel sonetto, Si come eterna vita è veder Dio; e nella canzone. Ben mi credea passar; e nei dialogo di sopra allegato del buono e soave odore. Noi abbiamo Plinio al secondo capitolo del settimo libro della sua naturale istoria; n'abbiamo Solino e gli altri, che ciò ci confermano per vero. L' istoria è tale, che sul Gange in India sono certi popoli nomati Astomi , senza bocca , pelosi per tutto il corpo, e vestiti di non so che, che in su le frondi degli alberi trovano in quelle parti. Questi senza altro mangiare ( il che non polrebbono s'eglino vo- lessero) si nutriscono del solo odore che spirano certi pomi, che seco portano. Quando sono per ire in peregri- naggio nulla recano con seco, salvo che gli antidetti po- mi vitali, e sono cosi impazfenti del fetore e del puzzo^

6G DELtA BELLA DONNA

fiiie sJ come il puro odoro gli nutrisce, cosi il tristo gli ammazza. Questo mi è piaciuto di dire alla presenza vostra, soggiunse poi, e per dimostrare, che buoni sono 1 pomi (il che lo avere! potuto a mille altre foggie mostrarvi e perchè io qui scoprissi l'errore d'alcuni, e massime del Bonfadio in quella epistola che, nel secondo delle Volgari di vari autori accolte, scrive a messer Plinio To- macello. Egli dice in somma, che se alcuni hanno detto, che in certa parte del mondo sono animali, che vivono d'odore, hanno detto ciò intendendo, che ivi gli uomini per tal cagione, oltra che vivono più tempo, vivono an- cora più lieti e sani , che questa tale è veramente vinta. Questo è falsissimo, perchè è cosa certa, come gli autori più su citati mi mostrano, che questi popoli non hanno bocca, e non avendo bocca bisogna credere, che vivano d'odore veramente, e non più tempo, e più lieti e sani. Aveva avuto One il ragionare dell'eccellente Dottore, quando il signor Pietro voltosi a lui umanissimamente gli disse: E' mi pare, che V. Eccell. abbia avuto dubbio in tutto il parlar suo, ch'io non scendessi ad esserle con- forme in concedere queste rose, fiori, viole e gigli insieme con qualche vago e aurato pomo alla donna, e però n'è ricorsa ad aita a questi gentiluomini, come s'è veduto. Io, per discoprirvi il segreto deiranimo mio, signor Dot- tore, queir istesso sento che n'avete sentito voi , e se in qualche particella discordo, che meraviglia n'è? quanti sono gli uomini tanti sono i pareri. Oh io la veggo, che voi volete con queste vostre moine trovare una certa via e modo che io non vi abbia a ribattere quanto siete per dire contro me; ma incominciate, ch'io non ve la per- dono no, rispose l'eccellente Dottore. A cui il signor Pie- tro : La picciola discordanza, eh' io tengo con voi è, che lo ho per formo che questi odori ancora, che voi ci avete

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detto essere ricreativi e nudrilivi e buoni affatto, e con- venire alla donna, ponno cagionare pocc bene alle volte. E come"? dissegli il Dottore. Perchè, rispose il signor Pie- tro, io trovo che i giardini ameni sono come zolfanelli, e mezzani di farci divenire incontinenti e lascivi. senza cagione è che il grande oratore Cicerone , mentre che gittava in occhio l'adulterio al reo suo nemico, volle descrivere gli ameni luoghi , dove fosse suto commesso ciò, come stimoli e sprone al peccare. Quel che fece Ti- berio imperatore a Gesare luogo tanto delizioso e ameno, dove egli per diporto usava di gire, io mi credo che pur uno non vi sia che no'l sappia. E, per venire al punto, come ciò si potrebbono indurre ad operare queste si va- ghe chiostre, sencn v'intervenissero gli odori delle rose, de' fioretti, de' gigli e violette, che commendate in questa donna? Veramente voi mi tentate con tai parole, rispose qui l'eccellente, e disse poi : Io vi rispondo, che se l'animo nostro fìe ben disposto, egli non ci lascerà mai vincere da luoghi siffatti, anzi in noi si vedranno effetti contrari alla lascivia in tutto. E di x[ui è che alcuni per avere un animo che tali luoghi ha saputo usare , sono levati alla contemplazione delie cose celesti, e si sono dati alla penitenza, come al sonetto, Gloriosa colonnuj e al dialogo de' giardini ci manifesta il Petrarca. Ma ditemi, non vo- lete voi che alla donna già perfetta esteriormente conce- diamo un animo, una volontà pura, e nna creanza divi- nissiraa ? Si bene, rispose il signor Pietro. Adunque non dubitate , soggiunse l' eccellente , che le rose e i fioretti abbiano a destare in lei men che buoni pensieri giammai. Non dubitate di veruno avvenimento sconcio e strano. Voglia Iddio che così sia, ma pure non so che non mi lascia ben risoluto e sicuro ancora, disse il signor Pietro, lo no detto il vero e ne potete bene star slcuco, repIicògU

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l'eccellente. In ultimo il signor Giacomo, veggendo que- sti da un lato garrire e dall'altro gli altri due, de' quali uno voleva udire del talletto , e l' altro » ma troppo pre- stamente, del giudicio dello donne, delle juali si deveva quella giudicar più bella che più s'appressasse alle bel- lezze sovrane, di che avevano formata e perfetta la donna esteriore, così disse: È mi pare, signori, che l'ora oggimai sia giunta di lasciare i litigj, le dispute e i ragionamenti nostri. 11 perchè voi sarete contenti di porre flne per amor mio ; diman da sera , avendoci a formare la donna Intcriore , più vi dimoreremo, e non si mancherà di par- lare del belletto, e meno del giudicio che si ha a fare delle donne nostre in su la flne. Qui tacque ; e tutti allora, dopo l'averci gli stanchi spiriti con un poco di finissimo e dol- cissimo vino, di che erano piene le volle del signor Gia- como, ricreati a bastanza, come la sera dianzi fatto ave- vamo, nelle nostre camere per dormire ci rinchiudemmo.

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LIBEO TEKZO

Dubbio, fi gran dubbio nel vero nanno avuto già i savj del mondo Intorno alla dlQnizione dell' uomo , onorato monsignor mio. Perocché alcuni vollono che l'anima sola, alcuni che il corpo solo fosse l'uoitu, animai sovra tutti gli altri creato, e di tutti gli altri di grandissima lunga il più degno e il più meraviglioso ancora. Quelli, difen- dendo r opinione e il parer suo come buono , dicevano cosi : Siccome questa voce cavaliero propriamente favel- lando non viene a significare cavallo, ma solamente l' uo- mo, né r uomo ancora si chiama cavaliero s'egli non usa il cavallo , cosi l' anima sola si dice essere l' uomo , ma non però s* ella non si trova ad essere nel corpo. Questi» per lo opposito, argomentano così: Siccome questa pa- rola bicchiere solamente viene a sigoiflcare il vaso,

gj DELLA BELLA PONNA

'i/i4 Si però che alle volte aggia il vino dentro di sé, così li corpo è solamente l' uomo , pure eh' egli tenga In l'anima serrata e chiusa. Chiunque considera queste due opinioni tanto diverse, e iontana 1' una dall'altra, trìva alla fine che quelli questi hanno il suo intenf. Perciocché quelli quantunque dicano V anima sola esser l'uomo, pure il corpo è n.^n so che, poi che ve la rin- chiudono dentro , e senza non ponno fare. Questi pari- menti mi pare che s'avviluppano il cervelli e si contra- dicono , perciocché volendo eglino che il corpo solo sia l'uomo, ma non però s'egli ncn ha l'anima in sé, egli è di necessario pure che l'anima sia qualche cosa anzi che no. Platone, come recita ancor nell'Idea del teatro suo messer Giulio Camillo, induce Socrate nel dialogo intitolato Primo Alcibiaae, ammettere la prima opinione. Perciocché, dice il Camillo, siccome la testa zhe portiamo non è noi, ma cosa usata da nei, casi il corpo, ancor che sia portato da noi non è noi, ma cosa usata da noi. Le quali parole ci danno ad intendere , che Socrate ap- presso Platone si faceva un poco meglio intendere, e vo- leva veramente che l'anima sola, o giunta o n:>n giunta al corpo, fosse l'uomo. Poi she ix Camillo paragona il corpo alle vesti, delle quali benché l'uomo sia privo e senza, nondimeno egli é pur queir uomo che è con esse, e in esse. Quinci è che il detto Platone, ( il quale indu- cendo a parlare così Socrate suo maestro, con poteva aver per giudicio d' ognuno altro parere ) usava di dire che non era l'uomo quello che si poteva mostrare col dito. Quinci é che Seneca chiamava il corpo casa dell'uomo. Laonde credo che uscisse perciò quel motto contro Galba imperatore gobbo, Galba non abita bene. Quinci è che Cicerone nel sogno del minore Scipione ( 'l cha toccò nella sua .\frica il Petrarca, e in uno de' suoi dialoghi^ volle

CÌM fosse il corpo quasi una rocca o torre, alla cui guar- dia stesse l'uomo. ciò spiacque all'acuto Landino alla vigesimaquarta ode di Orazio. Quinci è che or ricetto, or gonna, or prigione, or velo, ora spoglia nel Petrarca e nel Bembo è chiamato il corpo. Quinci è finalmente che il san- to e afili Ilo Giobbe diceva al Signore: Di pelle e di carni tu mi hai vestito , e d'ossa e nervi mi hai composto e fab- bricato. Della seconda opinione parmi coloro essere stati fautori, che han detto che il corpo è solo nostro, e che con noi nasce e muore: e l'anima poi generale sì, che le più volte trapassi in altri corpi , e però non nostra. Ma noi vegnamo, da che la vera definizione stacci ancora ascosa, a definire veramente l'uomo come si dee. Dico adunque che l'anima sola, il corpo solo, ma l'uno e l'altro vengono a definire l'uomo, e crediamo ferma- mente che l'anima razionale e la carne insieme facciano un uomo, e che altramente egli non sia, e s'egli è, egli è mezzo e non intero in ogni modo. Ma dirò bene che la migliore e maggiore parte dell'uomo è l'anima, pe- rocché è durevole e sempiterna, dove l'altra è debole e mortale. Il che così essendo senza dubbio ninno, gran meraviglia mi viene alle volte pensando onde ciò nasca, che di piacere al corpo ci affatichiamo quanto per noi si può generalmente ciascuno; all'animo non cosi molti risguardano, e, per dir meglio, pochissimi hanno cura e pensiero. Ma chi non vede che quegli uomini, i quali nelle ardenti e sanguigne porpore, e nelle terse e lucide sete, e nell'oro stesso cotanto pregiato, curano di fasciare l'esteriore, è delle più rare gemme adornarlo, lasciando ignudo lo interiore uomo dalle vere e sode virtù, e non pure adombrato d'alcun velo o filo del buon costume, si ponno ragionevolmente pareggiare ai tempj d'Egitto, i quali, bellissimi di fuori e con meravigliosa arte diriz La bella donna. Lib. HI. Q

68 DRT.T.\ rwi.r.k nn^vA

zati, aveano di dentro, invece di quaicbb simulacro di vino, 0 gatto, o aglio, o cipolla che pazzamente vi s'ado- rava? 0 pure a qualche sepolcro, il quale dentro essendo arido e incolto, di fuori mostra a' riguardanti btlle iraa- glni di marmo ad oro lavorate, e polite con grande spesa, e con non poco disdegno degli arleflci f Non furono tali, e non sono i gentiluomini , di cui abbondevolmente è stato ragionato negli anlidetli libri, perciocché , siccome eglino sono di virlute albergo, e pieni inflno in colmo di bei costumi e di cortesia, e finalmente di tutte quelle parti che si convengono ad essi , cosi volendo ciò nella donna loro vedere ( che altramente non la giudichereb- bono con tutte le sue e tanto perfette bellezze esteriori bella ) sursero secondo l' usanza, venuto che fu il matti- no , e secondo l' usanza fatti , ma non indarno , volare i falconi, e tornati al veramente divino palagio, e ristorati al debito tempo per mezzo della superba e ricca cena , si fecero appresso il vicino e ardente foco, dove poi che assisi tutti si furono allegri quanto si potria dire il più e nella fronte e nel cuore, si misero un poco cosi vicen- devolmente a pungersi, ma non fra 1' unghie e la carne, e così poi a ridere dolcissimamente dopo la lieve e non dolente puntura. Alla fine, veggendo eglino che quella dovea essere l'ultima notte, e che la donna dipinta e formata bellissima, quanto spetta alla parto di fuori, si dovea da loro dipingere e formare ( perchè così venisse ad essere perfettissimamente bella si che nulla le man- casse ) ancora quanto spetta alla parte di dentro , ven- nero a dire che, ragionato alquanto per ischerzo in ma- teria del belletto che usano quelle donne, che sono sute malamente avvezzate di porsi in sul viso, non sarebbe se non buono di cominciare la impresa, e non lasciare an- darsene il tempo, che mal non torna indietro poi che

LIBRO TERZO ()7

una fiata se n'è fuggito e scorso. Per la qua! cosa fu dato l'assunto di fare il tutto al signor Ladislao, mio fedele Acate, perché egli meno per l'addietro di tutti avea ragionato, e perciò ne faceva istanza, perchè di spedita lingua e dolce parlare dotato, non poteva non sommamente a tutti piacere ed essere pienamente in grado, e ancora perchè mostrava di aver un fianco e una lena siffatta, che senza stancarsi mai avrebbe potuto la notte intera intera trapas- sare ragionando. Il perchè egli, senza usare gli increscevoli e cerimoniosi giri delle belle parole, dopo che ebbe tutti ringraziati e lodati per l'onorato incarico che gli avevano conceduto di dire, a così favellare incominciò tutto allegro: Della stomacosa e piena di lezzo composizione del bel- letto, di cui si adornano, anzi sconciano delle donne assai così nella nostra come nelle altrui terre, io, si- gnori, non mi voglio porre al rischio del parlare, che lor- dissima cosa e sozzissima essendo , come ognuno di noi può saper chiaramente, egli potrebbe di leggieri av- venire che me ne verrebbe tal fastidio e nausea, che non che quello, che nello stomaco ho di cibo preso, ma appena gli spiriti riterrei nel petto; e poi io non vi avrei buoni ascoltatori, essendo simili e conformi a' me voi, ai quali cerco che il mio ragionare piaccia, e non porga dispiacere, e talento di via fuggire e la- sciarmi qui solo, come forse accaderebbe se io vi ra- gionassi di quello che non mi piace e non mi aggrada in modo niuno di ragionare. Parlerò io adunque più che volentieri della spiacevolezza, della vergogna, e del danno doppio di quelle cotah , che per questa via e per questo mezzo procacciano di parere belle e colorite ai riguardanti , sendo tutte simili a quelle maschere, che modanese s'addimandano, o a quei pomi (o vendetta di Dio chi te n'obblia?) che Gomorra produce e crea; la

G8 TiPi.T». r^TTi TvftWA

spiacevolezza adunque é anzi grande che no, p io rlirò questo di me, che non mi viene mai veduta (che pure me ne viene veduta alcuna) alcuna di queste colali donne, ch'io non le fugga con maggiore prestezza, e più volentieri assai, che se senza questo fattibello an- dassero per le calli, e per le contrade vieppiù brutte, che non fu mai, come dice il Boccaccio, il Saracino delia piazza, 0 qual si voglia de' Baronci. Elleno fanno come coloro, quali, volendo schifare la cariddi, s'intoppano nella Scilla, e, come dice il proverbio, cascano dalla pa- della nella brace, quella donna imitando, la quale es- sendo stata da una sua vicina chiamala fuori di casa, avendo ella allora il capo raso e senza capelli, venne, e ragionando con la vicina s'avvide che non avea pur una cuflìa in testa che le la appiattasse. Il perchè la si co- perse con la veste, ma in quella vece scoperse e mostrò quelle parti, che non pur senza vergogna si nominano. Ah, ah, gridarono qui quei gentiluomini, e il signor La- dislao passò oltra senza segno niuno di ridere, dicendo : Egli avviene ben così, che (io non vo' dire come alcuni che dicono niuna donna esser savia) delle donne assai ha, le quali per mancanza di buono avvedimento s'at- taccano al peggio, e fanno ridere la brigata con queste e simili loro operazioni in parte niuna lodevoli o buone. Ma che diremo noi di quelle che , essendo naturalmente belle e riguardevoli, amano meglio d' andare lisciate che no? cercano ancora di aitare e fare maggiore con l'ar- tificiata la naturale bellezza? hanno queste le traveg- gole? hanno queste date le cervella a rimpedulare? Non sanno elle dove elle sono? e non sono finalmente in buon senno? 0 Dio buono, dammi pazienza! Egli è volgare proverbio che una beltà naturale si fa sozza e de- v'orma mediante il liscio; ma sapete che dicono queste che

l'adoprano? dicono che ciò eh' è Lello in loro per na- tura egli diviene più bello s'egli si adorna, e si pone cura di abbellirlo ancor più. Oh savie sibille che sono queste tali 1 Egli non è sempre vero , anzi falsissirao in loro, e in moltissime cose, ciò che esse dicono, alle quali cose belle per sé, se vi si aggiunge altro per più abbellirle, accade che, dove naturalmente erano in vago e ottimo stato, elleno si fanno e divengono men belle e men riguardevoli assai. Non si sa questo, che se una casa magnifica tutta di marmo sarà fatta in qualche luogo della nostra città di Udine, ella fle così bellissima e vaghissima? Ma se il padrone poi cercherà di dipin- gerla e d' inalzarla , non farà egli una pazzia di Grillo ? Non farà questo, che dove ella si scorgeva da tutti ri- guardevole, e di beltà ripiena, ella si scorgerà men vaga e men bella? Poi a cui non è chiaro quello che si legge di Alcibiade? il quale soleva dire, che delle orazioni ve- stite e tutte artificiate di quel Pericle , nelle labbia del quale, come si dice, sedeva la dea Pilo che lo faceva to- nare, folgorare e persuadere ogni impossibil cosa, niente vi si commoveva, ma sibbene per le parole ignude e semplici di Socrate. Io vorrei che conoscessero queste donne, che siccome sogliono il più delle volte gli alti e spaziosi alberi negli orridi monti dalla Natura prodotti più che le coltivate piante da dotte mani purgate negli adorni giardini a' riguardanti aggradare, e molto più per li soli boschi i selvatichi uccelli, sop'-a i verdi rami cantando a chi gli ascolta piacere, che per le piene cit- tadi dentro le vezzose e ornate gabbie non piacciono gli amniaestrati , così elleno vengono a piacere più, e sono nel vero più belle, quando, contentandosi della bel- lezza loro naturale, non curano di belletto, o di che che sia che le faccia andare più adorne e più lfggjad;'e, so

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DETXA DELLA nONNA

questa falla viene ad eòsere leggiadria. Il che non mi place in modo niuno. Io vorrei che sapesser le mede- sime, che siccome l'edera per viene assai più bella, e più belli sono i fiori colorili della lerra senza altro la- voro, che vi si ponga e ispenda, cosi elle ci sono, ove non vaghe ghiolle di liscio vanno ornale della pro- pria freschezza della carne del viso, e del proprio bello. Io vorrei finalmente che tenessero per fermo, che siccome alle umane menti aggradevole più è una fontana che naturalmente esca dalle vive pietre attorniata di verdi erbette, che tutte le altre ad arto fatte di bianchissimi marmi risplendenti per molto oro, e i liti de' loro nativi sassolini dipinti vieppiù dolcemente lucono e folgorano, così elle più meno ci sono in grado allora che, disprezzate le sozze vie di farsi vaghe , danno a cal- care e seguire quelle, che più essendo degne di loro, più degne e più nelle e più polite le rendono anzi che no. Spiace certo ad occhio onesto in ogni donna il belletto, e massime nelle belle e ben create vergini , delle quali il proprio è la semplicità e purità colombina, che tanto piace e diletta in loro. E, oimè, come mai per mezzo dell'amalo e adoperalo liscio ci ponno esse piacere co- tanto, quando che inflno alle mura afTumicate, non che 1 visi loro ponendovisi la biacca diventano bianche, e olire a ciò colorite secondo che al dipintore di quelle piacerà di porre sopra il bianco ? quando che inflno per lo rimenare la pasta, che cosa è insensibile, non che lo carni vive, gonfia, e dove mucida pareva divien rilevala? Non così per mezzo di falla spurcizia , che potrebbe far per la stomacaggine uscir le pietre de' muri^ e voglia venir di recere l' anima a qual si voglia, accese tanti colei, che ha il titolo d'essere stata cotanto bella, Elena dico. Non cosi la bella Ippodaraia, non Penelope. Non ^

piacque così all'iracondo, fiero e gagliardo Achille Po- lissena; non Iole e Onfale al possente e forte Ercole, e meno Deianira; non Ippolita e Fedra a Teseo crudele e perfido; non a Demofonte la sventurata ^illi ; non a Gia- sone Isiflle ; non a Paride la fedele Enone ; non ad Oreste Ermione; non a Protesilao la infelicissima Laodomia; non a Bacco la derelitta Arianna ; Dafne al biondo Apollo; Proserpina a Plutone; Venere a Marte, ad Anctiise, a Mercurio e al suo caro Adone; Danae, Europa, Leda, e mille e mille a Giove. E per passare nel campo delle istorie, non piacque così al sollecito larba la castissima, (e taccia qui il volgo ignorante ) e bellissima Didone; non così la modestissima Verginia a quel tiranno, che le fece usar forza. Non così Ersilia a Romulo ; Sofonisba al buon re Massinissa; Stratonica ad Antioco. Non cosi la bella Rachele al paziente padre Giacob; Bersabea al re David; Tamar ad Amone; e la saggia, casta, forte e vaga ludit al misero Oloferne. Non piacquero così le sabine ai ro- mani; Livia ad Augusto; e finalmente la famosa Lucre- zia a Sesto Tarquinio, alla quale , e ad antidette assai, se la vera e non finta bellezza recò danno, non per altro fu, salvo perchè, come disse il Petrarca, la beltà talora è nociva. La beltà dico, di cui queste donne poco scaltre e avvedute si mostrano di essere vaghe e desiose sì, che non potrebbono fare senza liscio e senza biacca, anzi, e dirò meglio, senza il suo disnore, che, passando alla vergogna che ne risulta loro, non è disnore questo e grande disnore? Nel vero si; perciocché le sfacciate me- ritrici usano di così ugnersi e colorirsi il viso, e fare intorno a quelle tutte cose, che il Boccaccio danna e biasraa di cuore nella Vedova, che di sopra abbiamo posta nel ragionar nostro. Alle damigelle di buon nome e di buona piega bastar puote 1' andar monde da tutte

^ ftRT.T.A BELLA DONNA

parti, che certo la uiondjzia cosi cunvifeue loro, come a noi la fatica non disconviene : oh come bene il Poliziano disse in una epistola scritta alia signora Cassandra di casa Fedele , eh' ella dipingeva la carta d'inchiostro e non il viso di' liscio, il quale anch'esse sanno eh' è loro di vergogna e di vituperio assai; e per segno e esempio di ciò, "Udite quel che io n' ho udito dire altrui buon tempo fa nella nostra terra. Erasi maritato un gentilis- simo e nobilissimo cavaliere lombardo in una sua pari e bellissima giovine, e volendosi celebrare e onorare, se- condo che si conveniva al grado di lui e di lei, le nozze splendidamente, furono comprate mille confezioni, mille fagiani, starne, quaglie, capponi grossi, lordi grassi, tor- torelle, colombi. Non vi mancò l' apparecchio di mille frutta. Non vi mancarono le loro zuppe, le lasagne ma- ritate, le frittellette sambucate, i migliacci bianchi, i bra- mangieri e il formaggio di Parma. Vi si trovare poi tutti i colori di vini, il bianco, il giallo, il sanguigno, il nero, perocché vi fu del greco, del corso, del sanseverino, del Salerno, del fascignano, del roccese, dell'amabile, del brianfesco, del trebbiano, della vernaccia da Gorniglia, e delle altre sorti assai , delle quali , per non parere un Cinciglione, mi taccio per ora ; mi taccio i vari e bellis- simi drappi, le ricamate e preziose vesti , e tutte quelle cose che spettano ad un paio d'onorevolissime nozze. Ora avvenne che in un superbo e suntuosissimo desi- nare, che vi si fece, vi si trovarono ad essere convenuti conti, cavalieri e gentiluomini assai, e donne pregiate, belle e ricche altresì, molte fra le quali , come accade, v'ebbe di quelle che lisciale e sbellettate comparvero. Per la qual cosa gran desio nacque a qualunque di loro, che diipaturaie bellezza andava ornata, di fare tutte le Hllru, che di artilìciata vi si vedevano colorile e Wancbfi,

LIBRO TET^ZO 7.1

rimanere In mezzo di tanti signori beffate e schernite, perchè non avessero mai più di cosi abbellirsi e ornarsi voglia e talento. Il pesche fecero, di tante che erano, una la quale avesse ad incominciare qualche giuoco, e tutte poi caraminassono per le sue vestigia, e quel fa- cessero che essa faceva. A questo accordo stettero ancora le bellettate , per cui , noi sapendo elle , vi si tesseva e ordiva una tal trama. Colei adunque , eh' era fatta loro presidente, surse, e fece che tutte sursero dopo il disnare allegre. Andò poi nel mezzo di esse in giro stanlisi, e cosi lieta dopo l'aver fatto molte cose, nelle quali fu imitata e seguita da tutte le altre, che ciascuna, secondo la legge del giuoco, facea sempre quello, che ella primie- ramente incominciava a fare; finalmente, rivoltasi ad un' ancella, comandolle che le recasse un bacino d'acqua pieno, il quale venuto, ella il prese, e fermatolo su uno «canno, mise dentro l'una e l'altra mano e lavossi il viso, che venne di bello ancora quasi più bello; cosi fe- cero le sue compagne. Le altre, veggendosi quasi topo- lini dalla gatta presi , voUono tirarsi indietro e rifiutar di far questo ; pure tremanti vi si posero a farlo, e fu- rono conosciute con lor grande vergogna alla fine per grinze e crostate, e aventi il viso verde e qual piede d'astore, o bosso giallo, mal tinto, d'un colore di fumo pantano, e intanto contrarie a quel che parevano dianzi, che ninno l'avrebbe potuto credere che vedute non le avesse. Oh come sarebbe stato il meglio a queste di com- parire con quella faccia che loro aveva concessa la Na- tura, e non con biacca, con lisci, con olj, con pezzuole, pelandosi, strisciandosi , e facendosi quel tutto intorno, che l'Ariosto nella Cassarla e in una satira accenna a chi attentamente la legge I Non sarebbono rimase ver- gognale no, perchè, siccome la sola virtù fa l'uomo e la

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donra gloriosi, cos? il solo vizio li la anilare infami e pieni di vergogna, e denigra la fama loro vieppiù che pece e corbo non è. Ma perchè oggidì la verità viene a partorire in alcuni uomini e in alcune donne piuttosto odio che amore, e disdegno che benevolenza, cosa buona sarà ch'io lasci assai di quello che avrei e mi resterebbe da dire intorno alla vergogna, che le lisciate donne hanno e sofferiscono di continuo, e valicherò brieve- mente ragionando al danno grave del corpo loro e della vita che abbelliscono, come dell'anima, che lasciano, oimè pure sconciamente, troppo deformarsi, e irrugginire a pieno. No, no, dissero qui i compagni tutti ; seguite pure della vergogna di queste bellettale, e verrete poi al doppio danno, e poi ad altro che vi resta anco di dire al cospetto nostro, e non abbiate paura di rinnovare l'e- sempio antichissimo d'Orfeo. Chi mi assicura di voi, ri- spose loro il signor Ladislao, che non m'abbia a cader in sul capo qualche ruina? Io vi dico, soggiunse poi, che non valse la poesia , la cetera , l'archetto, Calliope, quanto ebbe di buono al già detto Orfeo centra il furore delle donne, che a brano a brano l'an- daro stracciando. Non valse nulla a Tamira contro quello del'e Muse che lo cecaro. E se non fosse stalo savio Stesicoro che si mise a lodare Elena, dove l'avea dianzi, come di sopra tocco n' abbiamo, biasimata , vi so dir io che gli bisognava, quando stendeva la vita, o il bastone di Tiresia, o il fanciullo d'Asclepiade. E per conchiudere vi dico insomma che le donne non si tengono le mani, come si dice, a cintola quando sono mordute e sprezzate il perchè lasciatemi dire quel tanto che mi resta de danno, ch'io ve ne prego ; e mi perdonate se il procedere del gambaro non mi piace per ora. 11 danno adunque che il liscio reca alle donne, di cui parliamo, é gravissimo, e

se non fosse altra giunta pet appresso, elleno doverebbono, se avessero del saggio e cauto Prometeo, e non dello stolto e incauto Epi meteo, fuggirlo come gru falcone , e come timida pastorella il serpe velenoso e crudo; perciocché elle vengono innanzi tempo a fare il viso incavato a guisa d'incavate colonnelle, e a segnarlo di disdlcevoli, e quali veggiamo nei vecchierelli antichi, solchi e falde assai; la bocca incomincia a corrompersi, a mandar fuori un flato fetido, puzzolente, e quale n'esce o da quella della scaltra e maliziosa volpe, o da quella del generoso e terribile leone. E questi, che furono bei denti forse, poi si fanno negri, e pur bastasse ciò, ma non avviene cosi, perchè eglino vacil- lano, e dopo il vacillare cascano sì, che pochi armano la bocca, e que' pochi restano tali, che, come n'è dato a veder la fistola del dio Pane talora^ o come sguardiamo le dita no- stre, l'uno sendo lunghissimo, gli altri successivamente vanno abbreviando più e più. Ma di ciò ci può bastare quel che n' ha lasciato scritto nella prima sua di sopra allegata satira l'Ariosto, e io verrò all'altro danno mag- giore eh' è dello spirito immortale, si privano della beati- tudine eterna e del trionfo celeste altresì queste donne. Perciocché ugnendosi col belletto la faccia che Dio ha loro dato, di non si contentare di lei, come ci disse ieri il signor Pietro, chiarissimamente dimostrano, e non si contentando offendono Colui , che meno di tutti dovreb- bono offendere , io dico , l' artefice infinitamente buono , infinitamente giusto e infinitamente misericordioso, Iddio Ottimo Massimo. E perchè io non passi cosi senza pro- varlo, udite queste parole verissime di San Cipriano, che grida: L'opra e la fattura di Dio non si dee adulterare in modo ninno, con colore giallo, con negra polvere^ con rosso, con altra invpnzionp corrompente e gua- stante i nativi lineanieaii, il che qualunque uuuiO e qua-

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luiKjue donnfi fa, e \iiol puro refoimarfc e trasfigurare con ogni sforzo o industria il inclesiino punlalmente fa, che s'egli li ponesse le mani addosso, e li dicesse: Sta saldo, tu non mi bai fallo secondo la volontà mia. Cosa pure a riferirla spaventosa, e possente ad arricciare tulli i ca- pelli di chi ha qualche favilluzza almeno di religione, e di cognizione di Dio. E per conoscere un poco meglio quanta sia questa offesa ch'elle fanno all'altissima Divi- nità, presupponiate che vi fosse un prence sovra tutti i prenci , che avesse lant' oro quanto non ebbero mai , se raccolto fosse stato, Crasso, Creso, Mìda, Lucullo, il Iago, il Fattolo, Ermo, e meno le cave e mine di tutto il mondo, a cui venisse voglia iri dare in dono centomila scudi per uno a mille mendici, sventurati o tulli pieni di loto, e v/iraiss poi in hriove fameli con un snn figUolelto eredi di tiitU i suoi beni Slabili e moòili, e cho ojC' li facesse venire dianzi a sé, e annoverasse ad alcuni scudi in oro, ad alcuni in ar- gento, e che questi, ricevuti gli scudi in argento, piglias- sero con le mani in sul pelto quel prence, e volessero ch'egli desse ancor loro gli scudi in oro, che vi parrebbe signori allora? Non vi parrebbe ella la maggior ingrati- tudine del mondo? Non vi parrebbe che siffatti ingrati non sarebbono degni di ritrovarsi sopra la terra? si certo. Similmente sono contro di Dio ingrate e sconoscenti tutte quelle donne che, non contentandosi della naturale fac- cia, adoprano il liscio. Perocché il prence, che ha tanto oro, è Dio, in cui sono rinchiusi tutti i tesori. Il dono di centomila scudi egli è la vita, che hanno da lui tanto cortesemente. I mille mendici carichi di fango sono le donne nate e concette nel peccato originale , come noi , e come noi di limo create. I coeredi son pur le istesse, le quali da Dio sono state formate a Une che con Gesù.

QrUlo HTifco fli Lui Urlinolo afabiano etornnmente a go= dere (l'-.ilfi delizie de! Paradiso. I mendici, che hanno gli scudi d'oro sono quelle donne che, oltre alla vita, impe- trano ancor la bellezza del sommo Iddio. Quelli che gli hanno d'argento sono quelle, che con la vita riportano tanto di bruttezza paragonate con le belle, quanto ne riporta l'arrgento agguagliato all'oro. Quegli ardiscono di porre la mano al suo benefattore addosso, e dire che vo- gliono anch'essi gli scudi d'oro e non d'argento, così quelle fanno, quando col belletto mostrano di volere bel- lezza appresso la vita concessa loro benignamente dal cortesissimo e prudentissimo governatore dell' universo. Grande è adunque il danno dell' anima di queste donne siffatte, e infìno ch'esse non si rappacificano col creatore sbandendo e rosso, e bianco, e moscate acque, e quel tutto che lo può offendere, che se ne dee sperare? Ma io pure spero, che veggendo esse senza queste cose, e pura qual colomba la donna nostra che mezza è formata ( da che la integrità nostra consiste nell'anima e nel velo, ohe è questo corpo) si ravvederanno, e ravvedendosi, quasi chi ha smarrita la strada e torna indietro, torne- janno a miglior senno, e sforzerannosi ancora, non po- tendo r infinita bellezza esteriore , d' imparare la inte- riore, che tosto le siamo per concedere e perfettamente donare. E perchè non debbo io sperar questo? Sono pur le donne tanto pronte e gagliarde al bene quanto al male, pure in loro si mostra un ardentissimo desio di salvarsi, e se peccano peccano più per semplicità e igno- ranza; né sono, e so ben io che non erro, pigre e tarde a camminare per la via d'onore e di salute qualunque volta vengono avvisate ch'esse fanno il contrario. Pieno adunque di questa detta speranza, io condescondo a voglia vostra a dir della donna interiore , e delle parti che 13

7*^ DRLT* PFI.LA DONNA

si convengono 2 >ol;!iia vodeic bel ^ in perfezione, o si che amabile divenga inflno ai duri e insensali sassi , nonché agii uomini generalmente, e alle donne. Quiw, qual caduto nel corsa veloce barberesco, che ratto dopo la caduta si leva , che si può dire che non abbia interrotto l'arringo, slette, esegui poi il signor Ladislao; Primieramente adunque le sarà in cura e in protezione vieppiù che cosa del mondo il suo onore e la sua castità, altissimo e singolarissimo pngio di ciascheduna donna, della quale qualunque per mala sua sorle priva resta, donna è più, viva, siccome ci avvisa Laura nel sonetto. Cara la vita, e la nutrice di Macario presso allo Sperone nella tragedia intitolata Canace, della quale ca- stità qualunque riman senza, che può aver più di buono 0 di bello, come rispose la sfortunata Lucrezia al marito appresso Livio, e Angelica ralferniò nel suo lamento ap- presso l'Ariosto? Ogni virtù, perduta la pudicizia, va per terra in una donna, la quale, mentre che salvo reca con seco il suo bel llore verginale, è simile, come ben disse Catullo, e l'Ariosto in ciò sua scimia, alla rosa, che in bel giardino d'ogni intorno serrato e chiuso su la nativa spina riposandosi, e non avvicinandolesi greggia o pastore alcuno, é dall'aura dofce e soave, dall'alba rugiadosa, dall'acqua o dalla terra favorita in colmo, e giovani as- sai vaghi , e donne infinito innamorate e leggiadre de- siano d' averla per ornare di lei e il seno e le tempie sue. Ma se quel flore della castità è perduto subito, quella donna perde con esso lui tulio il favore e tutto l'amore, che le si voleva dal mondo a similitudine pure della rosa, la quale, rimossa dal materno stelo e verde ceppo, viene anco a rimovere U quel tanto di bene, di grazia e di bellezza, che dagli uomini e dal cielo aveva con tanta benignità, che vi si può aver inteso di

sopra Stando adunque nella salvezza questa castità lo- nore, 3 nella perdita il vituperio del sesso femminile, qual meraviglia è se di quelle, che veramente donne sono, molle se ne sono ritrovate che hanno a lei voluto posporre la propria vita-? lo lascerò di dire quello che che n'ha scritto di ciò il formator del Gortegiano, quel che si legge della casta Isabella appresso il Furioso, quel che si mostra ap- presso Livio intorno al flne del primo libro, appresso Ovidio intorno al fine del secondo de' suoi Fasti, appresso Dionisio al quarto, appresso Servio al Commentario ottavo sopra Virgilio, appresso il Petrarca ne! sonetto, In tale slella, e in quell'altro, Cara la vita, e in mille altri luoghi della nomata poco dianzi e infelice Lucrezia. Io lascerò di dire delle tede- sche, di cui Valerio Massimo al capo della pudicizia, ed il Petrarca in quello della castità n'hanno parlato. Io lascerò di dire ancora d'Ippo femmina greca, di cui ai citati luoghi fanno menzione e Valerio e il Petrarca anlidelti; e finalmente lascerò di dire di mille e mille, che piutto- sto morire che perdere l' onestà hanno avuto in grado , e se non hanno potuto innanzi che fusse lor tolta ( ben- ché contro la volontà tolta si può dire che non sia tolta, che la mente pecca e non il corpo) sono rimase morte dopo con la propria mano, come Lucrezia ; si sono precipitate in qualche fiume per l'estremo dolore, come quella di cui l'esempio viverà in eterno nelle dotte carte dell'al- legato pur formatore del Gortegiano. S' io non dirò adunque nulla di tante e tante, non dirò io d'alcune no- stre vicine e meno antiche? bene, or udite. Presa da Attila la città d'Aquileia, la quale si potè ben tre anni da lui gagliardissimamente difendere, vi fu dentro una donna nomata Bugna, ricca di bellezza e possente di ricchezza, la quale, come le vennero veduti i nemici li- cenziosamente e crudelmente usanti la vittoria , perchè

non le avvenlsar di perdere la pudicizie sul) som una torre, che giunta era alla casa sua e riguardava sopra la Natissa fiume vicino scorrente, e involtosi il capo in che che si fusse, vi si gettò precipitosamente. Nella me- desima presa, ruina, uccisione e disfncimento d'Aquileia trovossi un*aUra bella e pudica donna chiamata per nome Onoria, la quale, mentre che si menasse via rapita da' fieri e orgogliosi soldati, si venne a caso ad incontrare nel se- polcro, ove giaceva il marito di lei. Quivi fermatasi, e quello con lamenti abbracciato, e l'amato nome del ma- rito spesse fiate chiamando, non si potè mai d' indi stac- care inflno che da un empio e crudelissimo di quei sol- dati, che rapita l'avoano, non fu colla spada dall'uno all'altro lato trafitta, e miseramente morta. Mi resta an- cora un altro esempio di dire, il quale è che, sendo stala la perfida Rosmunda , quella che potè tradire e dare la città di Cividale in mano di Catanno re degli ungari, di cui ella n'era invaghita, in sn un palo affissa poi, che di lei fu fatto ogni scherno, restarono due sue figlie, il cui nome era Appa e Giala. Queste essendo già cresciute vergini, e così di rara beltà come d'onesto rossore dotato, trassero a gli occhi di lutti incontanente; ma dubi- tando elleno del suo onore, si posero in seno fra le mam- melle ( 0 potenza della laude e del pregio I ) crudi pulcini, perchè putrefatti venissero a discacciare da loro qualun- lunque si volesse appressare, col fetore e con lo estrano puzzo suo. Così diedero un memorabile nel vero esempio di conservare intatta e sincera la pudicizia alle vergi- nelle, e più nostre che d'altrui. Ora se per salvare l'onor suo non hanno avuto cura della vita queste e dell'altre infinito, qual di noi è che non abbia pianto appresso Ovidio al sesto delle Trasformazioni con Filomena stu- prata a forza dal crudele cognato? Qual di noi è che non

I.TPRO TERZO *i

abbia avuto compassione, e lagriinaio con la sventurata Didone appresso Virgilio al quarto, dove nelle caldissime preghiere e chiusa per fare seco star Enea si che non parta da lei, dice che per lui ha perduta la castità e quel bel nome, per cui solo n'andava a volo inflno alle stelle? Ma queste sono favole. Qual di noi è che abbia tenuti gli occhi asciutti leggendo le amorose narrazioni di Plutarco, dove egli pone che, sendo per forza due so- relle svergognate da due, e stando esse oltramisura ( come quelle che giudicavano di aver troppo perduto, avendo l'onore perduto) malinconiche e addolorate, furono alla fine dai corruttori in un pozzo per ciò precipitate e se- polte? Qual di noi è che leggendo appresso il Landò di quel suo molto intrinseco amico, che per opra d' un ser- vidore, non potendo altrimenti, venne a godere delle rare bellezze d' una fanciulla padovana , che sempre gli era stata dura, non curando caldi prieghi larghe of- ferte, venne a godere, dico, al suo dispetto, non bestem- mi a pieno lui, e della donzella non divenga tutto difen- sore, e non le aggia pietà e compassione? A cui poscia degna non parrà d' ogni laude la figliuola di Varrone , Marzia^ la quale, essendo eccellente nella scultura e nella pittura , mai non si mise in animo di voler dipingere l'uomo, per non dipingere ancora Io parti di sotto ver- gognose? A cui non parrà Zenobia, della quale di sopra è slato favellato , poi che pur con l' istesso marito non si congiungea se non per cagione di generare ? A cui non parrà Baldacca abietta damigella peregrina, la quale ad Ottone imperadore promettentele (che povera era, e anzi bisognosa che no) monti, come si dice, e mari, non volse mai acconsentire? Ma della castità, della quale vogliamo che tanto la donna nostra sia di continuo guardinga, basti averne detto fin qui senza andare più La bella donna. Lib. III.

oltra, d me e voi con soprabbondanti parole tK<ì)nnAo. Ora le daremo un'altra bella parte e un'altra beila dote dell'animo, la quale fle l'onorata vergogna, nella giovi- nezza lodevolissima e tanto dicevole, che viene addiman- data il colore della virtù, e la tintura della lode da' savi uomini. Il che Diogene affermò quando vide quel fan- ciullo tutto per rossore e vergogna nel viso divenuto vermiglio e colorito. E qual donna troverete voi di buon nome per gli scrittori, a cui non abbiano essi, come ot- timo segno, conceduto la vergogna? Virgilio induce La- vinia vergognosa nel decimosecondo della sua Eneide; Aconzio appresso Ovidio Cidlppe; il medesimo Ovidio al terzo delle sue Trasformazioni Diana; al quarto Andro- meda; al sesto Filomena; al settimo Procri, Tibullo; ma lasciamolo ora. L'Ariosto induce Angelica legala allo ignudo scoglio, e , dove l'eremita le pose arditamente le mani in seno, e poi Bradamante e Marflsa quando vi- dero Ullania in terra si male in arnese. Il Bembo ap- presso gli Asolani induce e Lisa e Sabinetta e madama Berenice e quella damigella che, concordando la voce sua al suono della viuola , cantò la vaga canzonetta , Amor la tua virtute. Il Sannazzaro induce Amaranta nell'Arcadia, dove la rossezza venutale nel volto chiamò donnesca, come Tibullo ancora virginea; però che in vero, s'ella non si trova nelle vergini , vi si dee trovare ed essere con ragione almeno e con debito. Il perchè Apuleio nel primo del suo Asino d'oro anco chiamolla verginale. Io lascio di provare a voi che ai giovani al- tresì conviene questa vergogna, vergogna non villanesca dico, perchè mi fo a credere che la prova sarebbe quale ho sentito d' alcuni uomini , 1 quali vannosi volentieri mescolando e avviluppando intorno alle cose chiarissime per sé, come inprovare che il sole gira, e il vento spazia,

e la fiamma monta e il rivo corre all' ingiù, e eh! non sa questo ? E chi non sa parimente che i giovani bisogna che sieno vergognosi ? Adunque non accade provarlo , e meno accade provare che questa vergogna e questo ros- sore momentaneo disdica, come piacque di dire ad Ari- stotile nel quarto dell'Etica ai vecchi ed agli attempati, però ch'egli si sa bene, che in loro non è degna di lode, ma di biasimo e vitupero anzi che no. Sarà adunque, tornando alla donna, il che vuole pur l' antidetto Ariosto nella prima Satira, vergognosa, sarà modesta, sarà ri- spettosa, che il rispetto, oltre che conviene ad ogni pel- legrino ingegno e bene allevato spirito- pure nelle donne vieppiù, che così ne vengono ad apparire in non so ch(^ modo, come accennò il medesimo Ariosto parlando dello donzelle d'Alcina, più belle, più vaghe e più colorite. Oltre a ciò non m'ha da spiacere il fuso, l'ago, la co- nocchia , r arcolaio in lei , e se questo, eh' io non so al- trimenti, parrà di fatta donna indegno alle signorie vostre, e cosa, nella quale di lei le belle e sovrane mani, non vi si debbano in modo alcuno tramettere e logorarsi, io spero che una cotale falsissima opinione e credenza di ciò s'annullerà, sottentrando la verissima mia in quella vece, quando intorno a materia tale d'un poco di tempo mi avranno con diligenza, il che la lor mercè fanno pur troppo, prestate orecchie. Cosi detto si mise a ridere. 0 che questo ch'io procaccio di dare alla donna, comò proprio e convenevole a lei, è cosa appartenente all' uo- mo , 0 pure appartenente alla donna. Ch' ella sia cosa appartenente all'uomo ninno il mi dica, che la verità e l'esperienza contraddice. Adunque segue che sia apparte- nente alla donna, ma voi mi direte: o ancora noi con- fermiamo questo; ma siamo discordanti in ciò che vo- Rlianio, cke i'à^'j, il fuso, e il rimanente che tu ci hai

6& nPt.t A PVM K DONKA

dello, sconvengono alla donna e alle sue pari, e conven* gono allo minute, vili, meccaniche e plebee femmiuelie; e lo rispondo che , oltre che li nome vi poteva fare in- tendere eh' io intendeva delle magnanime e gentili, delle magnanime e gentili questo dovrebbe essere, caso che non sia, ufficio, non però negando ch'egli non appar- tenga a tutte le altre ancora. E perchè ci concordiamo, e di gareggiare prestamente cessiamo, utile cosa sarà ve- dero e produrre nel mezzo quello che gli antichi scrittori ci hanno intorno a ciò lasciato nelle lor carte. Io trovo che Cesare Augusto non iLsava cosi di leggieri di portare altra veste che quella, che per mezzo delle mani della mogliera, della sorella, della figlia e delle nepoti gli fusse stala fatta e compitamente ridutta al fine. Or ditemi qui: se un tanto principe, quanto fu Augusto, ebbe donne si fatte che gli fecer» le vestimenta, pure di necessità con- viene che questo succeda, che elleno si dilettavano, quasi di suo ufficio, di cucire almeno. Qual donna adunque sdegnerassi delle nostre gentili di cucire con una moglie, figlia, sorella e nepoti d'un imperadore? Virgilio al set- timo, parlando della virile e bellicosa Camilla , dice che ella non era avvezzata e usa alla canocchia e ai cesti di Minerva, dove si pongono gli strumenti femminili. Il che non è detto in favor vostro, ma bene in mio; peroc- ché il poeta volendo mostrare Camilla aver rivolto l'ani- mo solo all'arme, e alle sanguinolenti e oscure battaglie, ci avvisa ch'essa aveva postergato quello, che delle pari di lei e del suo sesso è proprio. Il medesimo ci si scopre nel Furioso di Bradamante, che fu colta da Fiordespina con la spada, e non con la conocchia al lato. E qual di voi non ha sentito o letto poscia quello che fece Ales- sandro il Magno 7erso la madre dello sconfitto già e vinto re de' Persi Bario? Lon le offerse pur egli, secondo

LIBRO TERZO ftf?

l'usanza macedonica, subito ch'essa H venne veduta, la conocchia ? Bidone la beila appresso Virgilio al quarto non diede in dono al troiano Enea una vesta d' ardente porpora fregiata d' oro , la quale ella con le sue mani aveva fatta ? Onfale reina di Lidi , quando Ercole era il suo vago, no 'l fece sedere appresso a sé, e con seco ma- neggiare il fuso e la lana? Ma che? Rammentiamoci un poco di lei, che sovente viene ad onorare i nostri ra- gionamenti. Io dico Lucrezia, la bella romana, di cui si legge che, essendo nata una gara tra Collatino suo caro marito e Sesto Tarquinio, e Arante e altri della casa del re Tarquinio superbo al tempo eh' egli tenea l' assedio intorno Ardea, quale di loro avesse la più sollecita, one- sta e buona moglie, e perciò saliti a cavallo e inviati verso Roma, e poi verso Collazio per chiarirsi, ella fu colta da loro non come dianzi le nuore reali fra canzoni , salti , banchetti e carole , ma ( o anima veramente degna d' impero assai e di lode e luna, 1 ) dare opera con le sue ancelle, e forse a quest'ora o poco più tardi, alla lana e alla conocchia. Catullo ntll' Argonautica mostra essere stata usanza della nutrice e baila della madre del feroce Achille, Tetide, di recarle ogni mattina il filo ch'essa la sera aveva filato, perchè seguisse e n'andasse dietro. E lasceremo Minerva noi pur detta la dea dell'armi, e famosa al pari d'ogni altra? Questa non vinse ogni ricamo, ogni lavoro per bellissimo ch'egli fusse?ma lo invilupparsi nelle favole io so che proprio è un torre la fede alla verità, e però lasciala Minerva, a cui ( presupponendosi che vero non sia quanto si scrive ) pure le si l'ago e la tela, come a lei convenevol cosa, passiamo alla conclusione di ciò, e dicia- mo che sconvenevolezza niuna no, ma sibbcne onore e pregio l'ago, il fuso, la conocchia e l'arcolaio potranno arrecare a questa donna in ogni tempo e in ogni etate.

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Potè con queste parole e altre simili «»sdi il signor La- dislao mutare di proposito tutti , che pur uno non fu che non li desse largo consenso; il perchè egli poi sog- giunse arditamente, e lutto allegro in questa maniera: Quando ch'io leggo appresso Virgilio Circe tessente, e di Penelope in mille luoghi per gli autori, come appresso Omero, Ovidio, Giuvenale, Properzio e il Bembo, io non posso non essere di parere tale , eh' io giudichi dovere apportare anzi laude il pettine della tela ancora a questa donna che no; e siccome la goffa e quasi mendica fem- mina, che si leva appresso Virgilio la notte a Alare, e la vecchierella appresso il Petrarca, non hanno potuto oprare in voi sì, che per essere ufficio di loro questo, voi no '1 lasciaste anco alla donna nostra, cosi io vi prego che avvenga che il tessere oggi sia arte delle bisognose per lo più, non però vi cada in animo di volere negarle questa giammai. Vi muova l'esempio delle due antidette e generose donne, e vagliavi contro ogni colpo di con- traria volontà, che vi assalisce, il terzo ancora di Pallade. Alle quali famosissime e nobilissime tanto gli uomini saggi hanno giudicato convenirsi la testura quanto è l'ago e il fuso, di cui n'abbiamo parlato pur ora, e arcolaio e la conocchia. Queste arti, dove utilità solo nelle pove- relle apportano, solo onore (e che altro dee una genti- lissima apprezzare, e di che altro le dee calere?) alle ric- che, e nobili e belle donne usano di conferire e di arrecare. Oh che dolce cosa è l'udire d'una qualche generosa: Ella fa così, ella sa così, ella si diletta di sa- pere che ogni cosa che spetta alla peifezione del sesso femminile e donnesco, ella non vuole ninna di quelle sentire che potrebbe essere dannosa circa il pregio e l'onore. E poco dopo : Benedetta lei , benedetta chi tale l'ha allevata, chi ben le vuole, e chi ben le brama. Ri

LIBRO fSffcZO ft7

tiriamoci un poco ora al suonare, al cantare, al ballare col nostro ragionamento, e se possibile è, che la nostra donna s'adorni, e se le accresca beliate alla sua beltate con tai mezzi altresì, altresì adorniamola, e abbelliamola a tutto nostro potere, il che quanto con più diligenza ci sforzeremo di fare, tanto più ci verrà fatto, come si dice, a filo, e siccome desideriamo, se il giudicio mio, che ciò mi va dettando, non erra e non esce di via. Io adunque tengo fermissimo la musica, dove le tre cose antidette intravvengono, tra l'oneste professioni potersi annoverare: e quinci è che Socrate già vecchio e antico volle impa- rarla, e volle che i giovanetti bene allevati e di buona creanza in essa si ammaestrassero, non perchè avesse ad essere loro un solfanello di lascivia, no, il che può avvenire ai dissoluti , ma un freno, il quale 1 moti del- l'anima reggesse, e sotto regola e ragione li tenesse. Per- ciocché siccome non ogni voce, ma quella solo che ben consona viene alla melodia del suono a spettare, così non tutti i moti dell'anima, ma quelli solo che conven- gono con la ragione appartengono alla diritta armonia della vita. Volle Pericle ancora che il nipote Alcibiade si desse allo studio di cotale arte onestissima tanto ap- presso greci e apprezzata, che, oltre che la posero nel numero delle liberali, fecero che qualunque uomo di essa indotto e senza si trovava, era giudicato imperito e igno- rante; il che, come scrive Marco Tullio, avvenne a Te- mistocle ateniese uomo chiarissimo, il quale ricusò in un pasto la lira ; e Epaminonda Tebano schifò questa infa^ famia cantando, anzi sonando divinissimamente con esso lei. La musica può acquetare gli animi furiosi, le passioni tranquillare per grandi ch'elle si sieno, e levare noi da queste tenebre e folta aria alla lucidissima mac- china distinta di tanti folgoranti e bellissimi lumi cUo

*^ DKLLi BEU.A DONNA

CI ^vrastano, d nud>ì laicoiiiero col logoro ci chiamftno, e ci sgridano di continuo perchè a loro pervegnamo quasi alla nostra primiera origine e descondenza, quando che sia un giorno tolti al sonno gravissimo che ci chiude e opprime continuamente gli occhi di dentro. Ma a che stendermi io in lode della musica? Non sarebbe questo, avendo già mille preso l'assunto, un portare, cojn'è lo proverbio, alberi alla selva, acqua al mare, foco a foco, vasi a Samo, nottole ad Atene, crocodili ad Egitto? Non sarebbe un volere ritessere la tela dell'antica Pene- lope? E che farebbono poi in servigio di lei centomila mie laudi, eh' io le dicessi di buon cuore ? per giudicio mio, nulla ; perocché io mi fo a credere che essa (il che Simmaco appresso a Macrobio di Virgilio parlando non tacque) siccome per maldicenza di chi si vuole non viene a scemare e a diminuire la sua gloria , cosi parimente per loda non viene in modo alcuno a farlasi maggiore e più ridondante di quella, ch'ella continuo vedesi avere in ogni luogo e in ogni stagione dell'anno appo, quasi ch'io non dissi, ogni persona e ogni condizione di stato e di grado. Voi averete pazienza a questa fiata , signor Ladislao, dissero, sendo egli qui giunto, i compagni; e perchè ei non lasciasse di dire alquanto in grazia e in onore , come aveva disegnato di fare , della tanto, ma brievemente, da lui commendata musica, incominciaro a dannarla come maligna e rea che si fosse, e non di buoni e casti, ma di perversi e impudichi effetti produ- citrice; e sovra ciò non pochi esempi, e autoritati pir loro facenti allegati fecero ch'egli incominciò cosi: Voi dite che Alcibiade usava di dire, che gli strumenti posti alla bocca , perchè si sonasse , diformavano 11 musico, perciocché gonfiando egli le guancie a pena vi si cono- sceva dagli amici non che da altrui , e che esso per ar

LIBRO TERZO 80

Tossilo un giorno ruppe lo stormento offertogli dal mae- stro, e potè far si (avvenga eh' egli fosse garzone) che allora con consenso di tutto il popolo V uso di sififatli stormenti vi si lasciò in Atene. Voi mi dite che per la medesima cagione Pallade gittò nel flessuoso e indietro tornante Meandro la sua sonora tibia, la quale poi tolta dal male insuperbito satiro Marsia (ma tacete questo) fu cagione ch'egli provocò, come ben disse il Sannazzaro, Apollo agli suoi danni. Voi mi dite che Apollo anlidetto strangolò un flstulaio, e che i Persi e Medi regi avevano i musici per parasiti , e che Filippo biasmò Alessandro suo flgliuolo, perchè una volta fra le altre dolcemente l'aveva udito cantare, e che Antigono suo pedagogo, tro- vandosi esso intento pure al cantare, gli spezzò la cetera. Voi mi dite che gli Egizj , biasmando la musica come cosa inutile, dannosa e lasciva, la vietarono ai giovani, e che non per altro ella fu trovata, salvo per ingannare gli uomini, e che le Cicone femmine perseguirono Orfeo, perchè col suo canto dilettava i maschj, facendoneli rag- gioire, e che i cento lumi d'Argo furono per mezzo d'una sola fistola chiusi in sempiterno sonno. Voi mi dite, che Atanasio vescovo di Alessandria uomo di gran santità, e di profondo sapere, alla cui lezione San Girolamo in- stantissimamente ci esorta, la scacciò dalla chiesa, per- chè troppo mollificava e inteneriva gli animi nostri, disponendoli alle lascivie, e a vani piaceri, e che poi oltre, ch'ella aumenta la maninconia, se per avventura avviene che da quella prima assaliti siamo. Aurelio Ago- slino maestro di santa chiesa non l'approvò mai, e meno Aristotile quando disse che Giove non cantava sonava di cetera. Voi mi dite finalmente che alcuno si è trovato, il quale cantando vieppiù dolcemente del solito tra i sospiri del suono se n' è passato aJl' altra vita ; e

M DEI.T.A BEM.A DONNA

conchiudete per queste tulle auloritatl, ragioni w! eswiipj (aggiungendo che Antislene filosofo, avendo udito dire che Ismenia era un ollimo ed eccellente citaredo,© pure sonatore di tibia, mandò fuori quelle parole: egli è un uomo goffo, rubaldo e da poco Ismenia , che s'egli fosse uomo dabbene non si sarebbe dato a tale arte ed a tale mestiere) conchiudele, dico, che la musica è di sua na- tura tutta rea, tutta malvagia, e che si dee da tutti, non che dalla donna, a cui io procaccio di farla imprendere, fuggire e odiare a morte. Ma ditemi qui, volete voi ch'io ribalta quanto avete detto or ora per burla, quanto ch'io mi creda, contra la musica, oppure evvi in grado e in piacere, ch'io senz'altro fare in prodedica? Che in prode diciate, risposero eglino, e quali ciò che avevano detto, avevano detto per udire della musicale lode favellar lui, il quale quasi che subitamente disse : La musica è arte di tanto eccellente grado, signori, che inflno le Aere, gli augelli e i pesci è possente di raddolcire, inflno i sassi può intenerire, inflno lo inferno può far gioire. Il perchè Orfeo ben si dipinge, poiché egli potè per mezzo della sonante celerà oprare ciò, in mezzo degli uccelli , degli orsi, tigri, lupi e leoni ; e non sarebbe fuori di proposito a dipingerlo ancora in mezzo dello inferno vinto col suo dolcissimo canto e giocondissimo suono. D'Anflone mi taccio per ora, che inflno i calzolai e i barbieri sanno quanto egli potè col soavissimo concento della celerà nell'edificazione della rocca tebana. Stupiscono i paurosi cervi col canto della tibia e più che cervi? tutti gli animali , come è su stato detto. E perchè pure di pesci pare meravigliosa cosa vieppiù, non v' incresca d'udire una tale istoria appresso gli autori volgatissima e cantalissima. Fu Arione eccellentissimo citaredo, il quale, repatriando con alcuni, e veggendosi da loro con-

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giurati contro a lui appareccMarsl le insidie, mentre che fosse in mare e navigasse, per le ricchezze che seco ne recava a casa, presa la celerà sua, e in prima sonato un poco, si gittò in mezzo il mare , per lo cui canto vi si mosse un Delfino, il quale toltolo in su la schiena lo portò salvo al lido, dove egli a cavallo del pesce na- tante fu un immagine di bronzo intagliato per memoria di cotale avvenimento. Le acque sentono la forza della musica ; laonde egli si legge, che in una certa regione ha una fcnte, la quale al suono delle tibie non può fare che non salti e guazzi di subito; e per dire di lei partita- mente alquanto, che maraviglia è, (poiché le fiere de' boschi, gli augelli dell'aria, i pesci del mare, i sassi delle vie, le anime dannate dell'abisso, e le acque le stanno soggette) se l'anima nostra tanto viene a dilettare, che nulla più? l'anima nostra, dico, la quale dalle celestiali armonie discesa ne' nostri corpi , e di loro sempre desi- derevole, di quest'altre a sapere di quelle s' invaga più gioia sentendone, che quasi non pare possibile, a chi ben mira, di cosa terrena doversi sentire. Benché non sia terrena l'armonia, anzi pure in maniera con l'anima confacevole, che alcuni dissero già essa anima altro non essere che armonia. Per questa ella ad un santo e devoto piacere, e alle volte a pietose lagrimette si muove e vanne. Laonde certissimo sono che per ciò il buono e divinissimo Ambrogio non volle la musica dalla chiesa isbandire. E Agostino non tanto vi s'attaccò ad Atanasio, di cui voi n'avete sopra fatto menzione, quanto ad Am- brogio; perciocché nelle sue confessioni dice l'una e l'altra averli piaciuto di queste due opinioni, e averli partorito gran dubbio nella mente sovra ciò. Che meraviglia è se j poeti ne' convivj e ne' pasti vollero che la musica in- travvenisse, la quale veuisse mirabilmente ad ingombrare

i-2 LmLLA nr.l.l.K DONATA

i seni di tutti di allegrezza infinita? Omero (il perchè vero si può giudicare quel che disse Timagene, la musica essere antichissima) nel primo della Iliade induce nel convivio degli Dei a cantare lo Muse con soavissima voce concorde al suono, come dice l'Ariosto, della cor- nuta cetra d'Apollo. Virgilio nel primo altresì della Enei- da sua induce nel convivio reale di Didone il crinito lopa sonante ; cosi gli altri poeti di minor grido, e dopo nati, ad esempio e similitudine fanno ne'flnti loro con- viti e banchetti onorati. Cosi fa Apuleio nel sesto del suo Asino d'oro nelle nozze di Cupidine e Psiche, dove delle muse due cantano, Apollo colle delicate e musiche sue mani tocca la cetera, e Venere bella va danzando e carolando intorno ; e Aristotile, che è tenuto il maestro di coloro che sanno, nell'ottavo della Politica non biasma questa costuma, anzi poi che ci ha avvisato la musica doversi usare nelle cose allegre, soggiunge, allegando Omero, essere ben fatto che il citaredo suoni fra le de- lizie convivali , il quale aggia tutti a rallegrare quelli che presenti sono al banchetto e al convivio. Che mera- viglia è se comune opinione è in piedi sorta, che Pla- tone ( il quale nel secondo delle leggi dice che i Dei, avendo compassione a noi di questa faticosa vita, insti- tuiro le ricreazioni delle fatiche, e ci diero ancora le Muse, e Apollo loro duce, e Bacco, i quali con piacere e' inducono a ballare e saltare bene spesso ) che Platone, dico, a cui non spiacquero i salti e balli , senza la mu- sica, e massime nel Timeo non si può intendere? 0 mu- sica sovra ogn'altra cosa dolcissima e vaga, io credo che senza te noi non potremmo vivere al mondo, siccome senza gli elementi non si può in vero in modo niuno ; senza te non vivono le anime beate e gli angeli celesti, i quali con perpetue e dolcissime voci lodano quella

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prima ed eterna causa, eh' è Iddio Ottimo Massimo; senza le (se vera è quella dolce armonia, la quale ne' cieli pose e affermò con dotta persuasione il divino Pita- gora) non si ruotano e girano le spere mai. Tu inanimivi e accendevi gli eserciti spartani. Tu non fosti isprezzata, ma commendata da Licurgo purissimo legislatore. Te Platone ( il quale insieme con Aristotele comandò che primieramente fosti imparata, e ti giudicò non senza giudicio buona mezzana di comporre i costumi della re- pubblica) credette necessaria all'uomo civile e politico dover essere in ogni modo. Te senza dubbio gravi filo- sofi, e prudenti uomini , te le muse amano, per lo cui mezzo venisti in cognizione al mondo. Marica Iperbolo nulla per tuo mezzo diceva di aver apparato, salvo che le lettere. 0 guadagno inestimabile! Aristofane mostra che gli antiqui volevano che i suoi fanciulli apparassero te; il perchè si legge in Menandro di quel vecchio, il quale, dimandando che ciò che in allevazione del figliuolo aveva speso renduto gli fosse, dice che molti denari aveva dato a' musici e a' suoi seguaci. Orando Gracco, un suo amico gli stava dietro con la fistola so- nante. Pitagora, veggendo certi giovani accesi, e disposti ad isforzare e combattere una pudica casa, con accen- nare e comandare ad un musico che sonasse il canto spondeo, gli venne a pacificare e chetare pur per te. Crisippo volle che le nutrici e balie avessino parte di te, perchè i bambini traessero al suo canto, e gli racchetas- sero qualora piangevano. Sarebbe una fatica da spaven- tare un Ercole a dir tutte le lodi tue; sarebbe un voler proprio ad una ad una annoverar le stelle, e in picciol vetro chiuder tutte le acque, come di:^e il Petrarca. Per la qual cosa, tornando io alla donna, raffermo che le ha da essere di non poco onore; se d'imparare a toccare o

t>4 DELLA BELLA DONNA

viuola, 0 liuto, (che questi due strumenti più mi piac- ciono) leggiadramente non si disdegnerà. Tenete certo che quelle vaghe damigelle appresso il Bembo sonanti l' una di liuto con maravigliosa maestria e i' altra di viuola, grandissima laude app» la reina di Cipri, e altre gentildonne, e onorati signori convenuti in Asolo per onorare le nozze che si celebrarono cosi gaiamente, vennero anzi a riportare che no. Il medesimo Bembo nei secondo degli Asoiani viene nelle giovani a commendare, quando sotto persona di Gisn.ondo dice così: Oh con quanta soavità ci suole gli spiriti ricreare un vago canto delle nostre donae, e quello massimamente che è col suono d'alcuno concordevole stormento accompagnato, tocco dalle loro delicate e musiche mani. Suonerà adunque la donna nostra alle volte a tempo e a luogo, ma sempre modestamente, ma sempre riverentemente, e non pur suonerà, ma canterà e danzerà ancora, come le si con- viene e non più , cioè con rispetto grande e vergogna nel volto. Il che sempre le ha da essere dicevole e con- venevole assai fra gli uomini. E se non fosse ch'io m'ap- parecchio a dire delle altre cose appartenenti alla donna, io mi occuperei a provare per gli autori, e non pur per l'uso buono che vi è, più diffusamente che le conviene il sonare, che le conviene il cantare, come ci ha mostro il Petrarca per mezzo di Laura nel sonetto, Dodici donne : Onde tolse Amor l'oro : Grazie, eh' a pochi il del : Amor m^ha posto: Quand'Amar i begli occhi, e che le conviene il danzare. Il che si cava dal sonetto, Real Natura, e forse da quello, Avventuroso più d'altro terreno, per pas- sarmene via delle Grazie e delle Ninfe , le quali i poeti, come Orazio al quarto de' Carmi suoi all'ode settima, in- ducono carolanti e danzanti al tempo che ringioviP'«<5« rnnno, e gli aU)eri sJ rivestono; ma ora io non posso

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senza mio e vostro gran disagio in ciò trattenermi, per- cioccliè, qui dimorando, e restandomi a favellare assai circa la donna, quando avrei io compito? E quando avremmo tempo di andarci a riposare ? Meglio è adunque che quel poco di tempo che ho di poter qui ragionare con esso voi intorno alle cose appartenenti pure alla donna, io venga a partire in guisa e in maniera, che non in una solo, ma in tutte tutto io Io spenda, e, come si chiede, io lo sparta e il consumi. Il perchè dell'osti- nazione, la quale suole essere alle volte difetto nelle belle donne non altrimenti che soglia essere ne' bei ca- valli il restio, dirò cosi alla distesa quattro parole in prima ch'io mi volga ad altro. L'ostinazione, vizio pure abominevole, non voglio che vi si trovi in questa donna nostra per modo niuno. Perciocché, siccome in un bellissimo e finissimo panno disdicevole è vieppiù, che in uno non così bello cosi fino, una macchia che suso vi segga e vi stia talora, così un vizio in un bel corpo e in uno non men bello animo stranamente viene più a bruttare e a deformare o uomo o donna che si sia, che s'egli in sozza persona e non dissimile animo si tro- vasse allogato, e ivi tenesse il suo nido, e dimorasse come in propria stanza. II medesimo ci è dato a vedere della virtù, qualora accade di potere vederlo. Ma tor- nando all'ostinazione dico, che essa spetta alle mule spa- gnuole, e non alle belle donne, delle quali scarse del pregio e del suo onore non sarebì)e se non loda il di- mostrarsi a chiunque si fosse esorabili e arrendevoli quantunque volte loro vi si scoprisse l'agio e l'occasione di poterlo fare. E perchè mi sovviene una dilettevole facezia ora d'una femmina ostinata, anzi ostinatissima, anzi r istessa , per quel ch'io mi creda, ostinazione ^ io voglio che noi ridiamo un poco ; ma uditemi prima

Co nELLA UKLLA DONNA

s'egli non vi è discaro e in dispiacere l' udire. Era adun- que una femmina, la quale maritatasi in non so chi (che il volgo e bassa gente, come amendui erano, giace senza nome e senza fama ) aveva detto a suo marito, qual che si fusse la cagione, ch'egli era pidocchioso. Questi, salito in colera, volle allora allora ch'ella si disdicesse, e In- cominciolle a dare di buone pugna e di buoni calci; ma ciò era nulla con lei, e, come dice il proverbio, un pe- stare acqua in un mortaio, un parlare a sordi, e un vo- lere imbianchire un Etiope e lavare un mattone. Alla flne, veggendo egli che non solo non si voleva ritrattare essa in averlo chiamato pidocchioso, ma perseverava in tale villania, prese una fune, e legata con essa la moglie al traverso come vi si legano le some, a suo malgrado giù per un pozzo calolla , e non venendosi ella per ciò a pentire, ma pure all'usanza stando ostinata e salda nel suo proposito, ftce che il marito la mise giù infìno alia bocca, e cosi pian piano, non giovandole ciò punto, in- fino sopra la terra; il perchè, non potendo essa parlare e chiamarlo pidocchioso ancora, com'aveva voglia e som- mamente desiderava , incominciò ( oh ostinazione singo- lare e a ni un' altra seconda I ) a urtare le unghie una contro l'altra in quella guisa che ci è dato a vedere i furfanti fare, qualora (il che sia con vostra riverenza detto) i lividi, o negri che vogliamo dire, soldati pugliesi, 0 flamminghi, s* hanno il filo della schiena nero, o levan- tini se sono del tutto bianchi , o quali portarono già i primi fondatori dell'Ordine Minore se sono d'uno schietto e vero bigio, vengono loro in mano e in pugno frettolosi di farneli andare alla morte. Non poteron tenere qui le risa i gentiluomini si per la novelletta in pur bella, si anco perchè nel flne vi si mostrò un poco anzi sfac- ciato che no il signor Ladislao , il quale, poscia che an-

ch'effH rm loro ebbe riso alquanto, si rimise a dire: Non superba, non maledica, non chiacchieriera , non accusa- trice sarà la donna nostra ; superba non sarà, perciocché cosa niuna è di questa più odiosa e nemica e spiacente al magno Iddio, il quale l'angelo da lui creato più bello volle che fusse per ciò relegato in parte oscura e cava senza mai potere più su ritornare, onde co' suoi maligni e perversi seguaci con perpetuo scorno venne a cader ' giù. La superbia è un principio, '' un fonte onde i ru- scelli d'ogni peccato spicciano, ed un ceppo onde i rami, cioè i delitti di ciascheduna sorte germogliano, e per lei Nabuccodonosor qual bue sett'anni andò pascendosi d'erba e di fieno, e quinci e quindi errando come selvatica be- stia e animale irrazionale. Oimè, eh' io non so quale che sia quella cosa, per lo cui mezzo noi e' insuperbiamo ! lo non la trovo s'io bene la cerco; se forse non fusse questa ( ah infehci e stolti noi ) che siamo terra e cenere , op- pressi dal fascio di mille peccati, soggetti a morire, espo- sti a mille sventure, miseri, come disse Omero, più di qualunque cosa che la terra nutrichi, ciechi fra le vane speranze e perpetue paure involti , del passato pieni di oblivione, del futuro e del presente pieni d' ignoranza , insidiati da' nemici , abbandonati per morte dalli amici , accompagnati da continua avversità, lasciati da fuggitiva prosperità. Il che, se madonna Cianghella (di cui dice il Landino sovra Dante essere stata tanta la superbia, che un giorno venuta ad udire la predica, e non le sendo dalle donne quell'onore fatto ch'essa averebbe voluto, molle ne prese per li capelli e per l'orecchie ) avesse con- siderato un poco per minuto, io voglio ben credere che faccenda ad ogni bocca sopra gli fatti suoi ella non avreb- be dato giammai , e meno se l' avrebbe pensato di dare. Maledica non sarà, che (avvenga 'lì'^a il proverbio essere La bella donna, Lih. TU, 7

9Q DELLA DELLA DON?,'A

ciò il quinto elemento) il dir mal d'altrui è vizio gra- vissimo, e chiunque dice che li pare e piace, quel che non li pare bene e li dispiace viene ad udire bene spesso poi, e non fusse peggio. Ma vi è peggio , che la vita si perde alle volte, e bene il seppe Dafita il grammatico, il quale, preso per avere infamati e morduti co' velenosi suoi denti regi, fu senza pietà e compassione ninna cro- cifisso in su '1 monte Torace. Il perchè fece che n* uscì fuori e ne nacque il proverbio con le male lingue, il quale è, Guardatevi dal monte Torace. Vedete Plutarco nel libric- ciuolo ch'egli fa deirallevazione de' figliuoli, e troverete che un Sotade e un 'i.eocrito filosofo divennero partecipi della mala sorte che hanno alle fine questi latranti cani. Considerate eh' è vero proverbio che si ha in bocca tut- todì, la lingua cioè non aver osso, ma ben farsi ella dare giù ptr lo dosso. Considerate che se Cicerone e Demo- stene avessero posto un freno alla strabocchevole e scape- strata lingua loro, eglino avrebbono vissuto forse più alla lunga, e meno crudelmente sarebbono morti che non morirono. Niuna parte del corpo nostro, come ben disse il Petrarca ch'ebbe flor d'intelletto, è più pronta a noccre e più diffìcile a frenarsi che la lingua nostra, della quale soleva dife Esopo di Frigia, favoleggiatore eccellentissimo, niuna cosa ritrovarsi più buona, più cattiva. Il per- chè io non mi meraviglio di Zenocrate se dimandato e chiesto da un di quei compagni maldicenti, co' quali esso si trova\a ad essere, perchè anch' egli non pungesse e non dicesse male d'alcuno, rispose cosi: Io sono perciò tacito, che il maledire altrui m' ha fatto alcuna volta pentire; ma non già mai il tacere. Il che poi è da Probo ne' Carmi attribuiti a Catone, e dall'Ariosto, dove dei pSochi 'l'Alcina e de' seoroti parla , leggiadramente stato imitato con dire,

LlPnO TERZO

Cfie raro fu a tener Ir. labbra chete

99 Biasmo ad alcun, ma ben spesso virtute.

La maledicenza è tanto odiata dagli uomini che la fug- gono, cb'io non lo vi potrei unqua agguagliare a parole. E se non fosse, che '1 proverbio usato dal Petrarca ne' suoi dialoghi, cioè oggi essere meglio ferire Ercole, che pur un villano, mi tiene a freno, e mi dissuade, io mi andrei aggirando intorno gli esempj , non solo antichi, ina moderni , in provare quanti odj , e morti ella susci- tati, e levati ha ne' nostri tempi , ma mi taccio. Chiac- chieriera non sarà, perchè l'avere del parabolano, o ci- calone chi è che dubiti , che più non disconvenga alla donna, che all'uomo? E tanto viene questa sconvenevo- lezza ad essere maggiore, quanto più sono pregiati, e orrevoli quella, e questi. Bisogna sapere, per potersi rattemperare nel parlar nostro , che l' alma e migliore Natura, ch'è Iddio, ci ha voluto dare due orecchie, e una bocca, e questo per scoprirci ella, che più le piacerebbe, e le sarebbe più in grado assai , vederci poco favellare, e udire più in servigio e utilità nostra; ma noi non avver- tiamo a questi secreti, che sono in noi dal Cielo infusi, e cosi di berlingare, cinguettare, e ciarlare non facciamo mai fine, mai non molliamo, mai non finiamo, dalle, dalle, dalle, dalla mattina inflno alla sera. Il perchè, se vero è ciò che dicono questi fisici, che quel membro, il quale fra gli altri, l'animale bruto, l'uccello, e il pesca viene più ad esercitare, viene anco più a piacere al pa- lato, come più saporito, e ad essere più sano allo sto- maco, ninno boccone dee nel vero essere più piacevole, e ghiotto , migliore che la lingua nostra, anzi che la lingua delle donne, disse qui l'eccellente Dottore, e tacqui poi, non avendo quasi interrotto un punto il signor La-

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dislao, Il quale seguendo; io so bene, rispose, come 1 par- tegiani degli uomini, e i nemici delle donne hanno fa- vellato; ma io avrei avuto a caro , che eglino avessero postergato la passione e l'odio che immeri tovolmenlc hanno portato a questo sesso, e a questa schiera donne- sca, che adorna e abbella pure a lor mal grado il mondo, e forse altro giudicio, e diverso molto oggidì vi si leggereb- be nelle carte loro, che non si legge. Io dico, che le donno non sono tanto ciarlatrici , quanto per iscrittura vi si mostra, e siccome qui hanno gli scritteri errato, di leg- gieri ponno nell'altre cose aver fatto il simigliante anzi che no ; deh guardiamci un poc« noi , e diciam poi di loro. Ma io torno al luogo, onde io mi partii, perchè al- cuno non ftica, che avendo io gittato in occhio altrui, ch'essi hanno fatto male per astio, odio ed invidia, a me starebbe bene, e converrebbe che mi si fosse gittato l'aver fatto bene per l'opposilo, cioè amore e benevolenza ingannatrice, ccme usava di dire Platone, di veri giudicj. II che se bene mi fle opposto, non curerò mai delle oppo- sizioni, cn'io amo piuttosto di lasciarmi ingannare, il che non concedo, da amore che da odio, come questi malvagi e maldicenti si lasciano il più delle volte. Ma tornando pure, come di sopra ho detto, onde mi venni a partire , noi siamo, dico, troppo linguuti, il che non voglio che sia nella donna nostra, la quale ancora schiferà di tutto potere di non amare il vizio delle accuse, che queste tali sono fuggite dal mondo, come sono le croci dal diavolo, e più sono odiate, ch'egli non è da lui. Chi ha un cotal vizio è stranamente macchiato, e io non credo mai che sia caro al Cielo, dove, acciocché salga, isforzare si dee ognuno per mezzo delle virtuti. Soleva dire Domiziano imperadore, che chi non castigava gli accusatori, gli ve-

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nlva ad inflammare, e a farneli più, e più accusatori. Ma yegniamo ad altro oggimai. Della religione sarebbe da dire, ma non mi piace, che se mi avesse piaciuto, dal principio, ch'io incominciai a descrivere interior- mente qual essere dee questa donna , n' avrei ragionato alquanto. E se mi dimandassero vostre signorie perchè qui me ne passo col piede, come si dice, asciutto, io ri- sponderei loro quel che già mille e mille anni a coloro che '1 dimandarono , perchè egli non avesse posto nelle sue leggi la pena ed il supplicio che n'avesse a patire un occiditore del padre, rispose Solone; cioè, non mi poter persuadere, che v'abbia donna alcuna empia e irreli- giosa, com'egli non potè credere, che v'avesse di quelli, che osassero con estrema malvagità di torre quello al padre o alla madre che essi avessino da loro avuto con grandissima cortesia, la vita dico. Come adunque ella si debba intorno al bere -e al maiigiare con regola, e mi- sura a lei convenevole instruire, io ne dirò dieci parole or ora. Egli si sa da ognuno che Noè , sendo fuori del- 'Arca uscito (come ci insegnano le sacre lettere), si mise iiligentemente ad arare la terra, e con le proprie mani a piantare le viti, dalle quali s'avesse a produrre e ge- nerare l'almo liquore, che addimandiamo vino, il quale poi generato è stato per tutto il mondo, come veggiamo, diffuso. Ma non è piccola briga appo alcuni questa, s'egli meglio sarebbe stalo, che non vi fusse mai nasciuto. Considerati gli effetti suoi buoni io, e con la volontà di- vina la cattiva e irregolata nostra umana, risolutamente dico, e assertivamente affermo, che meglio è stato, che senza lui non vivesse la generazione razionale, cbe l'uso, dove l'abuso è cattivo, è buono, e niente è da credere,

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che s'avesse posto a fare Noè, se l'allissìmo Iddio non gliele avesse rivelato , e se la nostra ingordigia , per lo suo mezzo viene a cagionare molti e molti mali , non bisogna per ciò dire e conchiudere che non sia cosa buona il vino, e che Ix^ati noi se non l' avessimo. La colpa è nostra di quanti quinci scandali si levano, e mai si leveranno. Il vino (pure che non ci parliamo dalia giusta misura) maravigliosamente ci accresce le forze del corpo, ci accresce e ci aguzza lo ingegno, il che non spiace al divino Platone principe de' lìlosofi. Egli vale a potere allegrare i cuori nostri afflitti e sbattuti da lunghissimi travagli, e da lunghissime cure. Chi non no bee, non è ben atto al generare, è privo e casso d'ardi- mento e di robustezza corporea, ha debole e inferma la virtù concottrice , e finalmente tosto \iene a morire. Il vino raffrena il vomito, fa digerire, aita lo stomaco, e giova a' nervi. E s' io volessi annoverare tutto il bene, che ne viene all'uomo per mezzo di lui moderatamente bevuto, non è dubbio, che infino al di non mi sten- dessi ragionando; ma perchè studio d'essere breve, e di non \i attediare lascerò questo, e narrerò gli sconci, che non per sua colpa, ma per la nostra può di leggieri ca- gionare, acciocché poi la donna nostra, veduti gli effetti che dalla sobrietà risultano, e dal contrario di lei, con tutte le forze sue procacci di schifare l' ebbriachezza e ogni superfluità del bere, amando piuttosto d'essere detta sobria, che ebbrìaca dal mondo. Dal vino adunque in buono, ove immoderatamente si bee, si cangia la mente, sorge il furore, si scoprono i secreti dell'animo. Egli non lascia guatare il sole nascente, fa prestamente mo- rire; quinci '1 pallore si genera, la imbwillità, la guerra, la sfacciataggine e l'ardire di commollere ogni delitto;

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quinci si fanno le gote pendenti, gli occhi infermi, le mani tremanti , i sogni furiosi , e il dormire inquieto; quinci sorge la lascivia, e pieni di fetori mattutini rutti, l'oblivione quasi di tutte le cose, e la morte della me- moria. Avrà adunque riguardo la donna di non essere tanto vaga del vino che incorresse in fatti errori, ne' quali , o vergogna degli uomini 1 alcuni ben sovente si veggono incorrere tuttodì. Ella berrà con quella mo- destia, che le si conviene e le si dice, e mai non si al- lontanerà dalla non picciola, e poco lodevole virtù della mediocrità, la quale altresì ingegnerassi nel mangiare di tenere, perciocché troppo e superfluo mangiare ci fa smemorati, e non ci lascia pervenire a quella grandezza di corpo, alla quale perverremmo attenendoci alia me- diocrità. Quanto viene a spettare alla favella, di cui non abbiamo ancora favellato, e pure ne bisogna favellare, io voglio ch'ella sia onesta sempre, e sempre piena di onore, che se fosse inonesta e carca di disnore, tanto si converrebbe a lei, quanto ad un bellissimo fodero una spada fatta di cattivissima tempra, o piuttosto ponderoso, e debole piombo. Qui mi pare non disconvenirsi quel che del Piovano Arlotto mi ricorda già d'aver letto e notato : Egli aveva veduto un giovane benissimo in arnese, il quale tanto sozzo nel parlar suo si mostrava, che nulla più; il perchè a lui rivolto: o tu, disseli, usa parole con- formi alle vesti e' hai nel dosso , o veste conformi alle parole e' hai usato e tuttavia usi; oltre a ciò ella sarà (il che fu in Laura, come abbiamo nel sonetto, Quand'A- mor i begli occhi ) chiara, soave, angelica , divina, e del potere che si vede nel sonetto, Oimè il bel viso, aver avuto pure quella dell'antedetta Laura. A queste parole molte n'aggiunse doJi'altre, e quasi infinite continenti, o

101 DELLA BKLLA DONNA

insegnanti la perfeziono della donna interiore, il signor Ladislao, tutto in ciò solo intento, e con la lingua, e con l'animo poco,o piuttosto niente segno di stanchezza, 0 di pausa dimostrante di volere ancora dare. Alla fine scorgendo passata essere l'ora, nella quale egli, e gli altri nelle due precedenti notti solevano finire i ragionari , e dopo andarsene al letto, per ultima dote, che diede alla interiore donna, le diede le lettere, delle quali ci mostrò con esempi antichi e moderni , e con autoritati assai , e con ragioni più, s'io non erro, mille, non altri- menti essere men capaci le donne, che gli uomini anzi , s' io bene mi ricordo , ci fece vedere , che an cora più. Appena aveva tocco la meta il signor Ladislao, che, lui lasciato di sguardare, si rivolsero tutti a far ve dere con ragioni vive uno dopo l'altro la sua Diva avvi cinarsi più alla donna, e poi dirizzarono a me gli occhi desiosi di conoscere quale delle amorose loro venisse da me per la più bella e per la più leggiadra, dopo tanto aspettare, e dopo tanta incresciosa dimora, risolutamente giudicata. Io qui pregai loro caldamente, che due parole (e ciò larghissimamente mi concessero) mi lasciassero innanzi eh' io scendessi al giudicio eh' aveva da fare, dire sole, e incominciai rivoltomi al signor Giacomo così: Tale donna, quale in questo vostro realissimo, e solo degno di voi altiero Palagio è stata e da voi e dai com- pagni formata, ha da venire col crescer degli anni suoi fanciulleschi ancora, signor mio caro, la vostra figlio- letta, la quale è di voi e della vostra cara e orrevole mogliera solo bene, singolare piacere, unico conforto, speciale contentezza. 11 perchè voi vi avete da rallegrare, e, ringraziando il cielo di si fatto dono, di perpetuamente gioire, e di perpetuamente godervi in seno. Tacqui a

LIBRO TERZO (OS

tanto; e poi volendo incominciare a fornire il rimanente, ceco appresso a questo lasciarmi, e via partirsi il sonno, nel quale, con mia non poca dolcezza e contento, aveva tutte le sovra dette cose ampiamente vedute, ed occhiate. M' increbbe, monsignore, ciò stranamente, perciocché s' io avessi potuto anch'io un poco ragionare (come a me pare, che vi si chiedea) io so bene, che quantunque la signora Ortensia, perfettissima opra di natura , ov* ella sparse tutto il seme della vera bellezza e del vero va- lore, a cui non si dee agguagliare in niuna dote dell'a- nimo, 0 del corpo, niuna donna presente od antica (se non vi s'agguagliasse nella favella dolce vieppiù, che non è miele , zucchero, manna quella antica, e fa- conda tanto, di cui ella n'ha il nome) avesse avuto da me la sentenza, e il giudicio in favore, nondimeno l'altre le sarebbono si state vicine nel pregio d'amendue le bel- lezze , che la differenza sarebbe stata anzi poca , che no fra loro. E per dire della mia tanto bella quanto onesta Toronda, (delle tre restanti divine più nel vero, che mortali donne in apparenza non mi ponendo ora a favellare) quale altra in tutte quelle parti, che la donna perfettissima hanno stampata, le si potrebbe con ragione non dirò porre innanzi, ma pur appressare, non <he anco pareggiare? Ora restami a dire, Monsignore iaio onorato, che se vi parrà in queste mie tre notti, in qu sto mio sogno, e, per dire quel che più mi piace, in qu(ìsta mia bella donna quale ella si è , eh' io non aggia of.ser- vato il decoro in tutto, e eh' io aggia ben sovente re- plicato quella voce, signore, massime ne' primi dui 1 ibri, avendo potuto porre la prima lettera de' nomi de' gen- tiluomini in quella vece loro significante, e finalmente, ch'io aggia qualche cosa per inavvertenza lasciato, e

J^

106 DELLA BKLLA DONNA

dormito un poco, non vogliate porciò meco {sdegnarvi, e cessare di difendere l'onore mio contra qualunque 11 si venisse ( il che non pos?o non temere ) ad opporre, e farlisi allo 'ncontro, die quale mi è venuto di potere ve- derlo, tale mi ha piaciuto, nulla aggiugnendo, nulla di- minuendo, e nulla cangiando, di mandare e di spiegare In carte, e poi a voi consacrare e dedicare questo mio giocondo e dilettevole sogno. Addio^

PIMK

L'ASINO D'ORO ^^^

di LUCIO APULEIO Iradolto i:i ilalia:i3 da Angelo Firc:ìz;i;)la a\ siipplemcnlo disila n;j- vella dello Slcriiulo Ira- lasfiala dal Firen- zuola e Iradolla da Malico Boiar- do.

NUOVA E COKUETTA EDIZIONE 5*^^

adorna di scssanladue inci- zioni anlichc ; con un'uvvcrliMiza dell'Edi- tore.

^

BIBLIOTECA RARA

PUBBLICATA DA 0. PAELLI

VOL. XXIV

L'ASir^O D'ORO

L'ASINO D'ORO

DI

LUCIO APULEIO VOLGARIZZATO AGNOLO FIRENZUOLA

CON l' aggiunta DKI.l.A

NOVELLA DELLO STERNUTO

TRADOTTA DA MATTEO BOIARDO

¥

NUOVA EDIZIONE ADOUXA DI ANTICHE INCISIONI

MILANO

G. DAELLI e COMP. EI)IT,)Ur

M Dr:CC LXIII.

AVVERTENZA DELL'EDITORE

D* Bastiano de"* Gìovannìni da Firenzuola e da Lucrezia figlia di Alessandro Braccesi (i) nacque Agnolo in Firenze nel 1493 a' 28 di settembre. Studiò a Siena e a Perugia, com'egli stesso narra nel principio della versione Q''Apuleio, riferendo a gli avvenimenti che questi, trasformato in asino, di stesso racconta. Trasferitosi a Roma, pa- trocinò cause per alcun tempo in quella curia, e fu caro a Clemente VII, che gustava molto gli scritti di lui. In Roma rifermò P amistà che a Perugia avea preso con Pietro Aretino, e a** piedi di questo santo con lettera del 5 ottobre 1541

(1) Braccio ha B. Bianchi seguendo lo stesso Firenzuola; Brac- cesi è nei ricordi di Ser Carlo avo del nostro Agnolo, (che cosi ridusse i nomi di Michciagaolo Gerolamo, onde fu chiamato al battesimo) citati nella vita premessa alle sue opere nell' edizione di Firenze (Venezia, Colombanì) del 1765-6 ed abbreviata da quella di D. M. Manui.

VI AVVERTENZA

confessa un morbo cte Tinfestò undici anni, e che gli SUggeri forse il capitolo del Legno santo.

Eran ventisei mesi o poco manco, Ch' attorno avevo avute tre quartane,

Ch' avrian logoro un bufol, non cbe stanco. Avevo fatto certe carni strane,

Ch'io parevo un Sanese ritornato

Di Maremma di poche settimane. Tristo a me, s'io mi fussi addormentato

Tra i frati in chiesa ! in sul bel del dormire

E' m' arebbon per morto sotterrato. Quanti danari ho spesa per guarire,

lìbe meglio era giucarseli a primier/*,

Che tutt' uno alia Qn veniva a dirft. Ho logorato una spezieria inlepa;

Solimi fatto a' miei più serviziall,

Che '1 Vescovo di Scala quando ci era. flredo aver rotto duecento orinali;

E qui in Roma prima, e poi in Fiorenza,

Ho straccati i maestri principali. Ilo avuto al viver mio grande avvertenza

Alia fila alla Ala uno e due mesi,

Ed altrettanto vivuto a credenza. Ho mutato aria, ho mutato paesi.

Or ho abbracciata la poltroneria,

Or in far esercizio 1 giorni ho spesi. Ma per non far più lunga diceria,

Conchiuderò, che non pigliando il legno,

Io ero bello e presso andato via.

Vestì Tabito di monaco vallombrosano e in quel- Tordine ottenne ragguardevoli onori, cioè la Badi? di S. Maria di Spoleto, e quella di S. Salvadoi di Vaiano. Cosi il Tiraboschi, il quale s''appos( che fosse senza più abate commendatario.

dell' editore vii

non che Brunone Bianchi chiarì megjio la cosa. « Da un Breve , egli dice , veduto dal Canonico Moreni nel Bollarlo Arcivescovile di Firenze, che porta lo scioglimento di esso Firenzuola da'" voti religiosi, ed è spedito del 15^fi a nome di Cle- mente VII dal generale vallombrosano Giovam- iBaria Canigiani, si rileva, che il vestimento e la professione di liii oon furono secondo le re^ole^ e che d^v''esservi stato alcuno di quei tanti^husi che in tal materia s''erano in.trodotti e si vedevano, prima che il Concilio di Trenta vi provvedesse, prescrivendo termini e modi d"" assoluto rigore. Imperocché vi si allega come notabile la causa stessa del prender PabitOf, si dice pretesa Vesibi- zione, 0 portamento, di quello:^ e vi è chiamai non legittima la professione. Dal che si potrebbe non assurdamente inferire che Messer Agnolo^, oual che si fossero le circostanze che accompa- gnarono questo suo mal passo,.... non si mostrasse mai pubblicamente in veste di frate, abitasse convento^ ma, pochi forse consapevoli della sua professione, si vivesse a se, sciolto d'ogni regola di disciplina, e tutto al più considerandosi come un devoto o aggregato di queir-Ordine*, sinché o coscienza, o amor di sua pace lo persuase a farsi togliere legittimamente una qualità che lo noiava, e a cui per repugnante natura non avrebbe mai saputo accomodarsi. a questa opinione farenbe ostacolo il nome d''a&a/e che in diverse antiche scritture gli è dato-, che non sempre siffatta ap- pellazione importa governo di religiosa famiglia^ ma spesso non è che un titolo beneficiario, o commenda. E tanto è ciò vero, che il Papa di- chiara nel suo Breve non volere che sia impedi- mento a dispensar con lui, si quo tempore mona- sterium aliquod dicli Ordinis in titulum, vel com-

Vni AVVERTENZA

mendam, aul aliaa guovis modo obtinuerit^ e nel 1539, cioè 43 anni dopo questa dispensa, tro- viamo il Firenzuola abate di Vaiano su quel di Prato ^ che volea dire usufruttuario e amministra- tore perpetuo di quella badìa. «

Quesfabito ecclesiastico più o meno attillato e stretto alla vita fu di gran noia al Firenzuola, più buongustaio che ghiotto in amore, ma tutto dato alle piacevolezze ed al riso , che non può essere mai schietto e franco, o almeno dicevole ed accetto nella gravità del sacerdozio. Secondochè il Guerrazzi disse saporitamente a un abate, per quanto i preti si abbaruffin le chiome, ci si vede la chierica*, il che non si allega per far rimpro- vero del lor carattere, ma per avvertirli che non ne escano, e tutta la fine coltura dei Bembi e dei Casa si richiede a far loro perdonare le loro ca- pestrerie. Se non che in quelPetà il sacerdozio era più spesso andazzo che vocazione, più spesso speculazione mondana che missione ispirata^ tan- toché dicono che Pietro Aretino aspirasse alla unterà. Il fatto è che tutti gli spiriti più elevati erano amici di lui, e non per paura, come i Principi, ma per conformità di gusto e per sim- patia. E come se T intendesse col nostro Angelo lo mostri questa lettera che il cinico di Arezzo gli scrisse , con bel ricordo della loro scapiglia- tura :

Nel vedere io, M. Agnolo caro, il nome vostro iscritto sotto la lettera mandatami lagrimai di sorte, che l'uomo che me la diede fece scusa meco circa il credersi di aver- mi arrecato novelle tanto triste, quanto me l'aveva por- tate buone. Ma se il ricevere carte da voi mi provoca a piangere per via d'una intrinsica tenerezza, che sarà di me in quel punto , che Cristo mi farà dono del potervi

dell' editobe li

stampare i baci dell' affezione nell'una gota e nell'altra ? •per Lio, die egli è siffatto il desiderio, ch'io tengo in far ciò, ctie lo metto ora in opra con la veemenza del pen- siero. Onde mi pare veramente gittarvi al collo le brac- cia ; e nel cosi parermi , i miei spiriti commossi dalla isvjscerata carità dell'amicizia ne dimostrano segno non altrimenti , che la imaginazione fusse in atto. Ma , chi non si risentirebbe nel pensare agli andari nobili della conversazione di voi, che spargete la giocondità del pia- cere negli animi di coloro , che vi praticano con la do- mestichezza, che a Perugia scolare, a Fiorenza cittadino ed a Roma prelato vi ho praticato io : che rido ancora dello spasso , che ebbe Papa Clemente la sera , che lo spinsi a leggere ciò, che già componeste sopra gli Ome- ghi del Trissino. Per la guai cosa la santitade sua volse insieme con monsignor Bembo personalmente conoscervi. Certo che io ritorno spesso con la fantasia ai casi delle nostre giovanili piacevolezze ; crediate che mi sia scor- dato la fuga di quella vecchia , che isgomberò il paese impaurita dalla villania, che di bel di chiaro, e di su la finestra, voi gli diceste4n camicia ed io ignudo. Ho anco in mente il conflitto, ch'io feci in casa di Camilla Pisana allora, che mi lasciaste ad intertenerla : e mentre me ne rammento, veggo il Bagnacavallo, il quale mi guarda e tace ; e guardandomi e tacendo odo dirmi dal suo stu- pire della tavola arroversciata ; egli ci sta bene ogni male. Intanto sento la felice memoria di lusliniano Nelli ca- dere là per allegrezza di tale rovina , come caddi io per la doglia tosto, che intesi il suo essere morto a Piombino ; danno grande a Italia tutta , non che a Siena sola. Im- perocché egli oltre il possedere la eccellenza e dei costumi, e della dottrina . e della bontade ; fu non pure uno dei primi sostegni della propria republica , ma dei più per-

X AVVERTENZA

(etti Usici, che mai curasse infermìtade umana. Si chi onoriamolo con l' esequie delle laude, da che noi, che fummo fratelli in dilezione, non lo possiamo riverire cor altro. Di Venezia, il XXXVI d' ottobre, M.D.XXXXT.

Poscritto. Il chiarissimo Varchi non meno nostro, che suo ; per essere venuto a vedermi a punto nel serrare d questa, ha voluto che per mezzo di lei, vi saluti di parte di quello animo, che di continuo tiene a presso delh signoria vostra. »

Degno amico delPAretino si mostra il nostri Angelo per vari lochi delle sue prose e delle sui rime, massime in quel capitolo del guaiaco, o le- gno santo, e nelPaltro delle campane. Se non chi egli nel verso valeva meno , e le sue^ poesie noi hanno il garbo, la leggiadria , la venustà dell prose. A darne un saggio valga questa imitazit)ni d''una delle più graziose odi d''Orazio :

Chi è Pirra, quel leggiadro giovincello,

Per mille odor soave,

Che tutto l'uscio tuo t'empie di rose? Per chi Itghi or le chiome, o vaga e bella ?

Quante volte la fede

Piangerà rotta, e mutati i favori,

(Non solito a mirarlo) e quante volte

Vedrà per aspri venti il mar turbato

Quel ch'or tutta ti godei

Semplice quel che spera solo averti

A' suoi piacer mai sempre!

Poco conosce i muliebri ardori.

0 miseri coloro

Che non provar di donna fede niail

Il perlcol ch'io corsi

Nel tempestoso mar, nella procella

dell' editore XI

Del lor crudele amore,

Mostrar lo può la tavoletta posta,

E le vesti ancor molli

Sospese al tempio dell'orrendo Dio

Di questo mar crudele.

Si vede da quesf esempio , che non è però il fiore de"* suoi versi, com''egli si lasciasse andare e non fai^esse gran caso della poesia. Egli forse rivolgeva a lei il detto di Voltaire sulla prosa alPamico che Tinlerrompeva : Entrez , entrez^ je ne jais que de la vile prose.

Il Bianchi dice esser farjaa che il Firenzuola, il quale, morto Clemente VII avea lasciato Roma per la Toscana, dove se la passava or a Prato or in Firenze, tornasse in quella metropoli verso il 1544 e vi morisse non molto dopo e fosse sepolto in santa Prassede.

Il Giordani, che non credeva ai miracoli, chiamò miracoli di versione italiana VEneide del Caro e il Tacilo del Davanzali^ e per terzo metteva il Te- renzio del Cesari; ma questo va col Papa miraco- lo, che egli aveva salutato alPamnistia e alle riforme di Pio IX. Il vero terzo miracolo è VAsino d'^oro del Firenzuola, il quale avendo a mano queir a- fricano romanizzato di Apuleio , e quel suo dire accartocciato come gPintagli del Bernino , e con prunaie ben più intralciate che gli stillamenti di Tacito lo recò ad una soavità, ad una morbidezza, lalor forse troppo svenevole ^ ma con tale trasfor- mazione che Ovidio non che Apuleio sognò mai regnale : furono veramente le rose deiritalico dire che deirirto latino fecero il grazioso e soave to- scano, deiristrice un armellino. E s'egli mise Agnolo in luogo di Lucio, n'ebbe ben ragione, e nessuno vorrà dargliene biasimo, o tassarlo di presun- zione.

Xn AVVERTENZA

Delle edizioni di questo volgarizzamento lo Ze- no crede la prima la bella e rara, fatta in genti- lissimo garamoncino corsivo in Venezia appresso Gabriel Giolito looO in 12°. La dedicazione di Lorenzo Scala a Lorenzo Pucci, in data di Fi- renze 2o di maggio 1549 ha fatto credere per vera e reale un** edizione dei Giunti dello stesso anno, che probabilmente non esiste. L"'edizione del Giolito è intera, ma le due giuntine del 1598 e 1603 sono castrate. L'annotatore parmense della Biblioteca del Fontanini. sulla fede delP Argelati, sostiene che la prima edizione fu fatta dal Giolito in Venezia il loì8 in 8.° con figure. Non sarà forse quella che lo Zeno cita dello stesso Giolito 1567 in 8.°, (alcuni esemplari hanno l.o66, ma è tutta una edizione» che da quella del l.oSO s'av- vantaggia di postille^ di tavole e di figure.

Noi abbiamo seguito nella nostra ristampa la pregiata edizione di Firenze (Le Monnier 1848) curata dal valente comentatore della Divina Com- media, Brunone Bianchi, tralasciando le sue note, che non ci parvero di gran momento ai fini della nostra raccolta. Aggiungemmo la novella dello Sternuto, imitata e abbellita dal Boccaccio in Pie- tro da Vinciolo, che il Firenzuola aveva saltata, e che noi poniamo in fine al volume seguendo la versione di Matteo Boiardo, parendoci che cosi s'avesse eziandio un saggio del modo eh' egli tenne nel tradurre Apuleio. I fiorentini som- mersero la sua fama-, il Berni fa che non si legga il suo Orlando-^ il Firenzuola, che non si legga il suo Asino. E pure questa versione ha pregi di fedeltà e vaghezza , e forse un giorno, se i fau- tori di questa Biblioteca ci faranno punto d' a- nimo , la daremo con altre cose del Boiardo , ed egli, come già pel trovamento di quei gran

dell' editore xra

nomi romanzeschi , farà sonar di gioia tulle le campane di Paradiso.

Dalla edizione della versione del Boiardo ( in Venezia al segno deirimperadore 1544 o più di- stintamente per Bartolomeo detto V Imperadore e Francesco v iniziano , sulla piazza di S. Marco , presso la chiesa di S. BassoJ abbiam tratto le belle illustrazioni che adornano questa nostra ri- stampa, e la vita d'Apuleio (nato a Madaura nel 114 e morto nel 190) non già per la copia o esat- tezza delle notizie, che si posson vedere nel Bayle, nella Biografia Michaud e altrove, ma per curiosità.

Questa versione è l'opera più originale del Fi- renzuola, perchè egli ci ha messo la maggiore e più squisita parte del suo ingegno e del suo stile. Mentre i restauratori ordinari guastano gli origi- nali, i ritoccatori a modo di Shakespeare gli rin- novano, e ne viene un'originalità più ricca e pos- sente. Tra noi una versione esatta di Apuleio, mi- rabile nel suo stesso affatturamento latino, non sarebbe riuscita come questo ricopiamento libero in una lingua che non vive più tutta, se non forse qua e pei diversi vernacoli della Toscana, ma che pare degna delPimmortalità in ciascuna sua parte. I Discorsi degli Animali non sono così vaghi , in sostanza più originali delPAsmo*, conciossia- chè Pinvenzione sia della prima civiltà indica, e in Europa è stata coltivata a poema dal Roman du Renard^ tanto variamente elaborato, agli Ani- mali parlanti del Casti. Le commedie , sono al- tresì belle e fiorite-, e forse più felici che le no- velle. Ma del Firenzuola si può dire che ogni dove è Paradiso^ e noi saliremo di sfera in sfera, finché sia tutto visto e gustato.

Cari,o Téoli.

AGGIUNTA ALLA AVVERTENZA

Ecco la lettera del Firenzuola , accennata nel testo , alla quale risponde l'altra di Pietro Aretino, che ab- biamo inserita per intero.

Al Divino Signor, Signore e Patron mio Messer Pietro Aretino.

Dirinissimo uomo, quanto ha da ringraziar Iddio il Firenzuola, poi che li tocco a conoscere la prima indole di tanta ditiiiilà, ed in Perugia prima e poi in iìowirt, ha ben ragion da dolersi, poi che non li è stato concesso godi ria in solio maiestatis, perchè una lunga infermità di anni undici, mi ha relegalo in Prato, assai orrevole ca- stello in Toscana. Ora avuto per passo piccola e breve occasione di scrivervi per persona fidata non ho potuto mancar di avvisarvi ch'el Firenzuola è vivo, ed in istato di convalescenza, e desideroso di vostra grandezza, ba- ciandovi le divine mani. Da Prato il di V di ottobre del XLI.

Di V. rande zza Dedilissmo

IL FIRENZUOLA.

BREVE DISCORSO

DELLA VITA

DI APULEIO.

Lucio ApuMo per nnzìme Afro, fu d'un luooo nomalo Madauro, U quai t posto tra confini di Getulia, e di Nu- midia : Ebbe costui un altro fratello, ed amenaue rimasero di ricchezze assai abbondanti, siccome li dimostra nell'Apo- logia. Per il che morto il lor padre, Apuleio non poco tempo si diede a peregrinare, ed alcuna parte de' suoi beni consumò ne' studj ed amicizie , perciocché gran liberalità usava co' famigliari e precettori suoi, ad alcune figliuole de' quali eziandio accrebbe la dote. Cosi egli divenne dotto delle greche lettere, e latine, anzi un nobile accademico. Più ancora fu elegante poeta, e oratore, tenendo nel suo dire uno stile tutto florido e copioso, con cui molte opere compose. Ma venendo da Atene a Roma, ed alloggiato nelle case degli Appii romani nobilissimi, pel mezzo loro, ed a prieghi di Ponziano amico, acconsenti tor per mo- glie Emilia Pudenttlla' vedova ricchbsima in Africa madre di luì, e di Pudente» avvegnaché infermtccta [osse, e al-

XVI

quanto attempata. Cosi venuto poi con Ponziano in Oea città; e dimostro a que' cittadini lo ingepno e àotlrina sua, con una cortese forza fu fatto lor cittadino; e mC' desimamentc non senza travagli sposò la suddetta Matrona. Or finalmente da Emiliano e Ruffino fu accusato, e di ma- gica, e d'altri assai maleficj, de' quali tutti si purga di- nanzi al magistrato con due Apologie, che ancora si leg- gono. Dove si può vedere quanto benigno, discreto, umano, studioso e veramente fUosofo sii stato. Ebbe un flgliuol nominalo Faustino, a cui scrive il libro intitolato del Mondo con alcun'altri. E Avvenga in diverse parti per la sua virtù fossero a lui da molte città poste per de- creto statue, ed altri onori, in Cartagine nondimeno il simile anche ricevè. Dove con grande concorso di gente più volte fece orazione al popolo di tutta éifticu ivi rac- colto, e non senza incredibile lode fu udito da ognuno. Ma fra l'opere sue la invenzione di fatto essere trasfir- mato in asino è tanto degna che rasino aureo si appella. In cui si vede egli essere stato ne' tempi de' Cesari, e dietro a Catullo ? anzi dopo Adriano imperadore, e non già fiorito avere con Ermete, e Plotino, come par dicano i cronografi. Io quasi crederei poco dopo Luciano essere stato lui. Conciossiachè l'asino suo pare essere derltato^ ed accresciuto da quello di Luciano, e non quel di Luciano dal suo : che che si sia, egli avanti Adriano, dopo Teodosio fiorì.

FINE DELLA VITA DELL' AUTOHJI.

L'ASINO D'ORO

D' APUL.EJO

TRADOTTO DA

AGNOLO FIRENZUOLA.

Al molto magnifico e nobilissimo Signore LORENZO PUCCI

Messev Afimlo Firenxuòta, il quale, come vof hm sapete nvendo, fu uno de' più begli e de' iiiù aruull luyeyìii che iì)bia avuto la città nostra già parecchi anni sono, scrisse li molte e molto belle cose, le quali dopo la sua immatura norie son pervenute in mano di diverse quali d'uomini, ilcuni ve ne so7io stati, che per dilettarsi di cose belle e move, giudicando gli scritti del Firenzuola, quel eh' erano n vero, bellissimi e ingegnosissimi, n'hanno avuto quella '■ura, che de' loro medesimi: e mossi non so da che spi- •ito, gli hanno tenuti si cari, che per alcuna maniera di ìrieghi non si son mai potuti indurre a compiacerne gli mici; altri più cortesi e più gentili, siccome diversi sono

costumi degli uowmi, senza aspettare ni- prieyhi ri- ■Meste, n'hanno liberamente accomodato coloro che n'a- erano desiderio, intendendo maggiormente, eh' essi dove- (ano imprimersi, e mostrarsi alla luce del ntondo. Di wsli UNO è stalo messer Girolamo Firenzuola suo fra"

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tetto, it quate quasi tutte te cose, eh' oggi si sono impressi di lui, amorevolmente fia pubblicato; procurando in cii con tutti i mezzi , come bene è suo ufficio , la fama e li gloria di messer Agnolo suo : e fra le molte leggiadri scritture che di lui si sono avute , una ve n' è stata , le quale dal medesimo autore fu sempre giudiziosamente molti stimata e tenuta cara. E dt vero, non l'ingannava in ci( punto l' affezione delle cose proprie, ctiè per quello ancore che ne giudicano tutti nli altri uomini intendenti, fu la pii bella e la più dili'iente fatica eh' egli facesse giammai Questa è adunque la preaente traduzione d' Apuleio , dt lui fatta con quei debiti modi che convengono a simil imprese; cio^, benissimo intesa, e propriamente Ir asportate co' veri e puri e significanti vocaboli nella lingua nostra colle figure del dire , e in somma con tutto ciò eh' a lu $i richiedeva , per acquistarne onore , e per soddisfarm altrui. E ben mostrò egli d' averla approvata , poiché quello che in nessuno altro suo componimento non avec più fatto , volse nel principio di questa sua fatica fan brevemente memoria della vita sua, la quate fu sempre virtuosa e onorata, benché poco lieta, e infelice. Vero è che in questa traduzione s' è trovato mancare alcune carte in diversi luoghi, si sa per cui difetto : le quali dalleì eccellente e mio molto virtuoso e carissimo amico messer Lodovico Domenichi vi sono state supplite, per la grandi affezione che la virtù sua porta al valor di lui: dove s' è talmente adoperato , che avendo egli molla pratico delle cose del Firenzuola , l' ha cosi bene imitato, che le stile dell' uno non è punto differente dall' altro : nello qual cosa grande obbligo veramente gli avrebbe V animo di messer Agnolo, se lassù pervenisse notizia delle cosi che quaggiù si fanno. Dovendosi dunque pubblicare colli slampe questa traduzione, e cercando io , che vivendi

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molto V amai ed ehhi caro, e morto ancora infinitamente lo stimo e onoro , di alcuna onorata persona a cui rac- comandassi la protezione di quella, veniiemi subito ricor- dato dell' amicizia e servilti eh' egli ebbe già con esso voi e colla illustre famiglia vostra : di che egli ne ha fatto lodevole testimonio in molti luoghi de' suoi compo- nimenti. Perchè sappiendo io, ch'egli grandemente soleva, e perchè voi il valete, e perchè egli conosceva i meriti vostri, molto onorarvi e lodarvi (il che farebbe egli oggi, se e' vivesse, assai maggiormente, per essere voi sjmpre ilo avanzando cogli anni in cortesia e in valore), m' è paruto conveniente ch'ella s'intitoli al nome vostro; ren- dendomi sicuro che voi, come cosa di virtuoso e di fe- dele amico (che tale vi fu il Firenzuola) , la gradirete molto, e V avrete in luogo delle vostre cose più care ; onde a lui ne tornerà contento, all' opera riputazione , e a noi altri affezionati suoi piacere e diletto. Prendetela adunque con animo lieto, risguardando alta qualità del dono, eh' è per magnifico e grande, e per la mia af- -'iZione verso voi, riverente e grato. E vi bacio la mano. A' XXV di maggio mdììlix. In Fiorenza

Il vostro affezionalhiimo LoBKNZo Scala.

DELL'ASINO D'ORO

LIBRO PRIMO

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Io ordirò col mio parlar festevole Varie novelle, emp eiidoti l'orecchia Col dolce mormorio delle mie i.ote; Se già non schiferai rivolger gli occhi A queste carte pien di ciancie, e scritta Con lagrime de' calami d'Egitto. Degli uomin le fortune e le figure Incomincio converse in altre immagini, E poi tornate nell'antica forma: Ed a chi ciò incontrasse, ascolta in breve.

Firenzuola, posta appiè delle Alpi che sono ira Fi- renze e Bologna, è picciolo castello, ma come il nome le sue insegne dimostrano, nobilitato e tenuto caro

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da' «uol Signori ; e Fiorenza medesima sono la mia an- tica patria; pcrciocclìò da Firenzuola, ma della più ricca e più orrevol famiglia di quelle contrade, disce- sero l miei antichi progenitori ; ed in Firenze, essendo stato Pietro mio atavo, con auspicio di quello ammi- rando Cosimo, i' quale fu meritamente Padre della Pa- tria appellato, nel numero degli altri cittadini nacquero Carlo mio avolo e Bastiano mio padre in assai stato ed abbondanza de' beni della fortuna, il quale Bastiano fu si caro colla industria, co' costumi, e colla fede sua alla Illustrissima casa de' Medici, che da Clemente VII Ponttflce Ottimo Massimo fu dato ad Alessandro primo duca della Fiorentina Repubblica volontariamente per cancelliere della tratta de' Magistrati di quella; nel quale uflcio egli si acquistò cosi la grazia di quel glorioso principe, eh' e' vide sedere i suoi figliuoli ne' più ono- revoli magistrati. Io adunque di cotal tronco uscendo, trassi la materna origine da Alessandro Braccio, uomo nelle lettere Greche, e nelle fiatine, e nella patria lin- gua, come la traduzione di Appiano dimostra, molto ri- guardevole : il quale, la mercè di Lorenzo il grande e del Magnifico Piero suo figliuolo, non solo fu fatto primo segretario di quella magniflca città, ma a diversi prin- cipi fu da quello mandalo ambasciadore. Nato adunque di cotal seme in si nobìl patria, ivi consumai buona parte della mia adolescenza dii tro agli studj delle buone lettere, sino che arrivato al sedicesimo anno, me n' an- dai entro alla nobilissima e giocondissima città di Siena, dove io attesi con grandissima mia fatica e senza alcun diletto alle mal servate leggi : le quali poi come padron di cause esercitai picciol tempo nella famosissima città di Roma. Laonde abbinmi ora coloro per iscusato, i quali io offendessi colla ruvidezza del mio rozzo stile, perciocché il passare d' una in un' altra professione, non è altro che cangiar la propria forma e la voce in altrui. mi sia imputato quello che racconta Cicerone, che fu imputato a un cittadin Romano, che si scusava, se noa cofl Lena sudd islaceva^ uom Latino, scrivendo

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in Greco le Latine Storie ; cioè : tu potevi mancar di questa scusa non iscrivendo : perciocché questo si do- vria rimproverare a chi è in sua podestà, come forse era colui, non a me, che sforzato da chi m' ha potuto comandare, lasciando la profession mia inculta e soda, mi son messo a coltivare i dolcissimi orti delle dilet- tevoli Muse, appena per l' addietro da me veduti, e ora per volontà della mia bellissima luce e con sua guida fatti desiderio delle mie future vigilie, e guiderdone delle grate cortesie della mia dolcissima Amaretta. Io prin- cipio adunque una Tosca favola. Sta attento, lettore, che se io non m' inganno, tu ne prenderai gran sollazzo.

Io me ne andava per alcune mie faccende nel re- gno di Napoli, provincia assai lontana dalle nostre re- gioni, ma grande e maravigliosa : e quando il poggiar de' monti, lo scender delle v^alli fu finalmente compiuto, quandoché io ebbi trapassato i rugiadosi cespugli e i zollosi campi, cavalcando un cavai paesano tutto bianco, e quello anche assai stanco, acciocché col camminare a piedi io mi ristorassi un poco della fatica sostenuta col lungo sedere sopra di lui, io smontai, e diedilo a un mio famiglio, il quale, posciaché gli ebbe diligente- mente netto la fronte, rasciuttogli il sudore, e stropic- ciatogli gli orecchi, presolo per la briglia, se lo menò dietro pian piano , fino a tanto che egli stallasse. E mentre che il cavallo, lasciandosi indietro i verdi prati, e venendosene cosi a mano, voltando sempre la bocca per lato, carpiva qualche bocconcello d' erba così alla sfuggita, io mi feci terzo a due viandanti, i quali mi camminavano poco innanzi ; e stando in orecchie, per udire quel eh' ei ragionassero, un di loro smascellando delle risa, disse : Deh per 1' amor che tu mi porti, non dir più si sconce bugie. Le quali parole udendo io, come curioso sempre d' intender cose nuove, soggiunsi : Anzi piuttosto fatemi partecipe de' vostri ragionamenti ; che avvengaché io sia curioso de' fatti altrui, sono de- sideroso d' apparare cose assai : ed inoltre la piacevo-

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lezza delle vostre novelle addolcirà l' asprezza di que- sto colle, che noi ora sormontiamo. Per le quali parole quegli, che aveva mosso in prima il ragionamento, se- guitò : Egli è cosi vera colesla hugia, come se altri vo- lesse dire che co' bisbigli dell'arte magica gli snelli ruscelletti ritornassero a' fonti, il mare infingardito si congelasse, 1 venti divenissero senza spirito, e fusse proibito il corso al chiaro Sole, tratta la schiuma della fredda Luna, svelte le chiare stelle del concavo Cielo, toltone il chiaro giorno, e lasciatone la oscura notte in quello scambio. Allora io, che era divenuto con loro un poco più ardito, dissi : 0 tu, che fusti il primo a entrare in questi ragionamenti, deh non f incresca di seguitarli. E voltomi all'altro, soggiunsi: E tu che con piacevole orecchio e ostinato cuore non vuoi prestar fede a quello che è per avventura verissimo, or non sai tu che per una caitiva usanza quelle cose sogliono essere estimate non vere, le quali o sono insolite a udirsi, 0 difficili a vedere, o trapassano le debili forze della nostra estimazione? le quali se tu considererai un poco più attentamente, non solo le conoscerai cer- tissime, ma t' accorgerai eh' egli è anche agevol cosa metterle in comparazione. Io mi ricordo già , che ri- trovandomi una sera fra l' altre a mangiare con una brigata di divoratori, e volendo un poco troppo sicu- ramente trangugiare un pezzo assai ben grandicello ù' una schiacciata incaciata, che, perchè la viscosità di quel cibo, appiccandomisi al palato, mi riteneva lo spi- rito entro alle canne della gola in guisa, che egli mancò poco che io non affogassi: e nondimeno io vidi in Siena, in sulla piazza eh' e' chiamano il Campo, un giocatore di bagattelle a cavallo per ghiottornia di pochi quattrini Inghiottirsi una spada appuntatissima, e cacciarsi in corpo uno spiedo porchereccio, da quella parte eh' egli ha la punta : ed eccoti in un tratto appresso al ferro di queir asta, la quale egli avendosi messa dalle parti da basso, riusciva appunto nella memoria, saltar su un bel fanciulletto tutto lascivo, e cominciare a ballare con,

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certe capriolette così minute e cosi preste, eh' e' non pareva eh' egli avesse nervi ossa : voi avreste detto, eh' egli fosse stato quel serpente, che attorcigliavano i Gentili sopra del nocchieruto bastone di Esculapio, Dio, secondo loro, e ritrovator della medicina. Ma oggimai seguita tu di grazia, che avevi incominciato la novella ; ed io solo ti presterò fede per costui; e son contento in guiderdone della tua fatica pagarti un buono scotto alla prima osteria che noi ritroviamo : vedi adunque quello che tu guadagnerai. E colui allora: Io ti rin- grazio della tua offerta ; ma egli non accade : e non per questo lascerò lo intralasciato ragionamento : ma io ti prometto ben questo, che io non mi partirò niente dalla verità ; e se voi arriverete a Benevento, città qui a noi propinqua, voi non avrete dubbio veruno, perciocché quivi si raccontano elleno in ogni luogo, per ogni per- sona, e in quella guisa appunto eh' elle sono interve- nute : ed a cagione che voi primieramente conosciate chi che io sia, e di che gente, e dove io vo a guada- gnare, uditemi, lo sono Boturo, e vo portando mele Si- ciliano, cacio, e altre simili grasce di qua e di per tutto : e avendo inteso che in Capova, che è una delle migliori città del Regno, vi era del cacio fresco buono, e a buon mercato, io me n'andai subito per com- perarlo tutto ; ma io misi, come egli interviene spesso, il pie manco innanzi : conciossiacosaché la speranza di questo guadagno mi gabbasse ; perciocché Lupo, che ò uno de' primi faccendieri di questi paesi, 1* aveva il dinanzi mercatato : sicché ritrovandomi, per aver cam- minato assai ben in fretta, un poco stracco, quasi sul farsi sera io me n' andai alle stufe ; dove io ritro- vai uno mio amicissimo e parente sedersi per terra in- volto in un mantelluccio tutto stracciato : e percioc- ch'egli aveva un coloracelo livido sopra le carni, ed era magro eh' e' non gli si vedeva se non 1' ossa e la pelle, e non pareva altro che un di quegli storpiati che stanno a chieder le limoline intorno alle chiese ; ed avvengachè io altra volta per èsser mio domestico

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r avessi riconosciuto assai da lungi, per allora Io stelli un i czzo sopra di me, pensando s' egli era desso. Per- chè fattomeli più vicino, Udissi: OChimenli, che vuol dir questo? che viso è il tuo? che crudeltà veggio? già ora in casa tua se' tu stato pianto per morto : già son fornite r esequie, u a' tuoi figliuoli per decreto del Reg- gente della citta sono stati dati legittimi tutori. La donna tua, divenuta per le continue lagrime e per l' aspro do- lore come una fiera, avendo finite tutte le cerimonie del bruno, è costretta da' suoi parenti a dover con nuo- ve nozze rallegrare alquanto la sconsolata casa ; u tu se' qui, con grandissima nostra vergogna, ombra di pes- simo spirito. 0 amico, rispose egli, udendo il mio par- lare, or se* tu cosi ignorante delle sdrucciolevoli rivol- ture della Fortuna, de' suoi instabili discorrimenti ? E subito dette queste parole, volendosi con quella misera vesticciuola ricoprire il viso, per la vergogna già dive- udlo vermiglio , dal bellico in giù tutto discoperse : potendo io sopportare cosi brutto spettacolo, por- togli la mano, faceva forza che egli si rizzasse. Ma 2gli col capo coperto, siccome era, lasciami, disse, la- sciami: fruisca la Fortuna il suo trofeo, e quello me- desimo, eh' ella si ha posto, seguitilo, e finiscalo. Al- lora io di due veste che aveva, trattomene una, di su- bito il rivestii (dicolo io, o pure il debbo tacere ?) , e prestamente lo menai a lavare, dove io lavandolo di mia mano, e stropicciandolo tutto dal capo alle piante, gli levai d'addosso il molto fastidio del quale egli era ripieno : e cosi curatolo ottimamente, io menai me e lui, amendue stracchi si che appena ne potevamo sos- tenere in piedi, a uno albergo; e fattolo entrare nel ietto, gli diedi da mangiare, gli diedi da bere. Io trat- tenni con piacevoli ragionamenti: e già si lasciava an- dare al motteggiare, già venivano in campo le piace- volezze, e già 8' era messo mano alle facezie, e davasi alle parole un poco maggior tuono che '1 consueto; quando egli mandando fuori dell' angoscioso petto un profondo sospiro, picchiandosi la fronte colla man de-

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stra : mìsero a me, disse, il quale tratto d' un folle de- sio di veder fare due valenti uomini alle coltellate, e andando lor dietro, caddi nel profondo baratro della pre- sente calamità ; perciocché, come tu sai bene meglio di me, poich' io ebbi molto ben guadagnalo, partendomi da Salerno pieno di danari, me ne ritornava a c:isa; e poco avanti che io arrivassi a Eboli, vedendo cosi per transito quello abbattimento, passando per una scuris- sima valle, fui da crudelissimi ladroni assalito ; i quali avendomi tolto ogni mio arnese, me ne andai a una ostessa chiamata Megera, vecchia, ma per altro arguta e gentile; alla quale raccontando la cagione del mio viaggio, e '1 desiderio d' irmene a casa, e sforzandomi, col raccontar la passata disgrazia, muoverla ad avere compassione del fatto mio, ella mi cominciò a trattare assai umanamente, e senza farmi pagar Io scotto, mi diede una buona cena, e poco poi assalita da una lus- suriosa rabbia, mi menò seco a dormire , e subito (o meschino alla vita miaf) che io mi misi seco allato, mi sentii entrare addosso il mal della vecchiaia ; e quelle poche vesticciuole, che i buoni ladroni mi avevan do- nate, a cagione che io ricoprissi le mie carni, insieme con certe coserelle, le quali ancor giovane, andando ri- vendendo le tele, io mi aveva guadagnate, io gli ne diedi ; sicché a quello stato, che tu mi vedesti poco fa, mi condussono la buona femmina e la mia mala fortuna. Per mia fé', dissi io, udendo le sue parole, che tu se' degno di sostenere ogni estrema miseria, se altra mi- seria di questa si ritrova maggiore ; poiché tu hai fatto più conto d' una venerea dilettazione, e d' una vecchia e vieta concubina, che della tua casa, e de' tuoi figliuoli. Ed egli, sentendomi dir queste parole, mettendosi alla bocca quel dito che al grosso è più propinquo, e dive- nuto in un tratto lutto attonito, e quasi balordo : taci- tamente, disse ; e guardando d' un luogo, dove egli po- tesse parlarmi senza essere udito da persona, seguitò: Non offendere, non offendere questa donna, acciocché la intemperata lingua non ti sia cagione di qualche male.

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Tu vorrai dire finalmente, soggiunsi io, eòe qaesta sii una qualche potente reina : or che diavol sarebl»' ella mai, se non una ostessa t Una maga valentissima, disse egli allora, e che può, s' ella vuole, per Ja sua divi- nità mettere il Cielo in Terra, la Terra in Cielo, sec- care i fonti, liquefare le montagne, porre i diavoli in Paradiso , gli angeli entro allo 'nferno. Io ti priego, dich'io allora, che tu lasci da canto queste tue tragi- che tappezzerie, e sviluppi le tele della commedia, e par- lami con parole comuni. Vuoi tu, rispose egli a questo, udire uno, o due, anzi infiniti de' suoi miracoli? Come l'amino fieramente non solo gli uomini del paese, ma gì' Indi, gli Etiopi Orientali e Occidentali, «• quelli che abitano sotto a Tramontana, è una favola a dire. Ma odi quello eh' ella fece in cospetto più oersone. Un suo amante, perciocché egli avev* usalo con un' altra donna, ella il trasmutò in un Castore ; perchè quella be- stia temendo di non esser presa, libera dalle mani de' cacciatori col tagliarsi le parti genitali ; a cagione che colui avendo conosciuto altra donna, quella parte, con che l'aveva offesa, patisse la penitenza. Un oste suo vicino, e per quello astiandosi l'un l'altro, fu da lei convertito in una ranocchia: ed al presente quel povero vecchio, notando per un doglio del suo vino, tutto divenuto fioco, chiama con certi amorevoli scroc- chi a bere i suoi avventori. Che dirai tu d' un certo procuratorello, il quale, perciocché e' disse non so che contro di lei, ella il fece diventare un montone? e or montone egli procura medesimamente. Alla moglie d* un •uo guasto , perciocch' ella le disse non so che ver- gogna, ella le ha serrato il ventre, interdetto il parto- rire, e dannata a una perpetua gravidezza : e già sono, come sa ognuno, otto anni, che quella meschina, come se avesse nel ventre un liofante, è caricata da cosi fatto' peso. E perciocché ella aveva nociuto a molti, ella co- minciò a venire in fastidio a ognuno ; laon 'e egli fu ordinato per pubblico consiglio, che il di vegnente ella, fusse senza compassione alcuna, da tutto il popolo la-j

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pidata. Il quale ordine ella per virtù de' suoi incanta- menti prevedendo, come quella Medea, che avendo im« petrato da Creonte un picciolo spazio di tempo, abbru- ciò con quel fuoco lavorato in quella corona, lui, la fi. gliuola, e tutta la casa sua ; così costei con sue parole e segni fatti in una certa fossa, siccome ella essendo ubbriaca mi raccontò, quasi tutti con tanta violenzia gli rinchiuse nelle lor case, che per due giorni interi gli anelli si poterono spezzare, non 1* uscio rompere, non il muro finalmente pertugiare, inflno a tanto che per comune consenso, gridando e dimandandole mise- ricordia, coi maggior sagramenti del mondo, le promi- sero non solo di non mai più offenderla, ma volendo altri offeii 'eria o farle oltraggio, porgerle ogni loro aiuto ed ogni favore. Essendo adunque placata per quella guisa, ella liberò tutta la città da così fatto legame; ma colui che fu capo di questo consiglio, con tutta la casa, colle mura, col tetto, col terreno, e co' fonda- menti, cosi serrata com'ell'era, ella'i portò in sulla mezza notte in un' altra città, discosto forse cento mi- glia, posta nella cima d' una montagna così aspra e cosi alta, eh' ella non vede mai acqua di nessun tempo ; e perchè dentro a quella le case vi erano così fonde, eh' egli non vi era luogo per questo nuovo edifìcio, ella postola in sulla porta, se ne ritornò alla sua casa. Gran cose per certo, il mio Ghimenti, dich' io, poi- ché egli si taceva, e non men crudeli, son queste che tu racconti ; sicché non solamente tu mi fai stare col- r animo tutto sollevato , ma mi dai cagione di racca- pricciarmi per la paura, e ha'mi messo nell' orecchio non una pulce, ma un calabrone, che mi ronza tutta- via, e mi fa temere eh' ella per via di qualche incanto non intenda questi nostri ragionamenti: e però andia- mocene tosto a dormire, e levatoci col sonno la strac- chezza della notte, domattina anzi il giorno fuggiamoci quinci più funge che noi possiamo. Io non aveva ancor finite queste parole, che il mio buon compagno, e per aver bevuto più che l' usato, e per aver sostenuta cosi

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gran fatica, essendo già addormentato^ russava gagliar- damente ; laonde io chiuso 1' uscio, e messo il chiavi- stello entro agli anelli, e per più sicurtà disteso il letto sopra la porta, mi vi posi su a dormire. E per la paura grande che mi era entrata addosso, io stetti in quei principio un gran pezzo, innanzi che io mi potessi ad- dormentare ; pur poi oltre alla mezza notte io velai cosi un pochette l' occhio. E appena mi era addormen- tato, ed eccoti un fracasso assai maggiore, che se fus- sero stati assassini ; le porte furono aperte, anzi spa- lancate, le soglie rotte, gli stipiti fracassali, gli arpioni cavati de' gangheri ; e '1 letto, che da medesimo, per esser picciolo, e con un pie manco, stava in tentenno, mosso da cosi gran rovine, cascò per terra ; e nel ca- dere, io restai di sotto rinvolto e ricoperto come un fe- gatello. Allora io mi accorsi che gli affetti si destano negli uomini alcuna volta per contrario movimento ; perciocché come spesso per una grande allegrezza noi veggiamo venir giù le lagrime a ciocche, similmente io tra cosi gran paura non potei tener le risa, veggendomi d' uomo fatto una testuggine : cosi prosteso per terra rimirava cosi solt' occhi che fine avesse aver questa si subita rovina. Io scorsi due donne assai ben oltre di tempo, delle quali «na teneva una lucerna accesi) e una spugna, e una spada ignuda 1' altra ; e posciachè con

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cosi fatti strumenti elle si furono messe intorno a Chi menti, disse quella della spada : questi, la mia sorella è il mio diletto ; questi è il mio Chimenti ; questi ft co lui, che va schernendo il di e la notte la mia giovi nezza; questi è quegli, il quale avendosi cacciati amori miei dietro alle spalle, non solamente di me dice le sconce parole, ma si mette in ordine di fuggire : dunque io sarò abbandonata dall' astuzie di Chimenti, e piangerò eternamente la mia solitudine ? E distesa la man destra, e mostratomile: questi è, disse, il suo buon consigliere, il quale fu autore del suo fuggire, e ora propinquo alla morte, già disteso per terra si giace sotto il letto, e avendo veduto ogni cosa, si pensa senza sua pena e senza suo danno, che io m' abbia a comportar tanta villania ; ma io farò, che avanti eh' e' ci vada mol- to, anzi testé, eh' e' si pentirà del suo dir male e della sua curiosità. Come io meschino sentii fatte parole, mi sentii empier tutto d' un sudor freddo, e gorgoglian- domi le budella, cominciai a tremar si forte, che il letto che mi era di sopra, pareva che volesse ballare. E quella buona donna, mentre io carolava cosi destramente, vol- tasi a queir altra, le disse: che non piuttosto, la mia si- roechia, tagliam noi questo a minuto? o veramente, le- gatoli le mani e i piedi, gli seglii:tmo le parti genitali? E Morgana allora, alla quale piuttosto si conveniva questo nome per li suoi portamenti, che per le favole del Boiardo, rispondendo al suo parlare, disse : Anzi rimangasi vivo almen tanto che egli dia sepoltura a questo poverello. E mandato il capo di Chimenti da un altro canto, gli ficcò nel sinistro lato della gola tutta quella spada insino agli elsi : e poscia preso un orcio- letto, vi ragunò entro il sangue diligentemente, che tu non ne avresti potato vedere una sola gocciola in luogo alcuno. Io vidi tutte queste cose con questi oc- chi : ed acciocché la religiosa femmina non lasciasse nulla di quello che facevano i Gentili intorno a una vittima, ella mise la man destra per la ferita in sino alle interiora, e trassene fuori il cuore del mio misero

FIRENZUOLA 2

'.^ delt/asiko d'oro

compagno, e diligentemente il considerò : ed egli per lo impeto del trargli quella spada, che gli aveva rise- gata la gola, ribollendogli il sangue, mandò fuori una voce , anzi stridore in confuso , che io non potetti di- scerner parola; perchè presa una spugna, e nettan- dogli con essa quella ferita cosi grande com' ella era , disse : 0 spugna nata dove il mar si folce , guarda che tu non passi per acqua dolce. E poscia ch'eli' eh- bero compiuto tutte queste belle faccende, avendomi una di loro levato il letto d'addosso, elle si misero a gambe larghe amendue sopra del mio viso , e non restaroa mai di disgombrare la vescica, insino a tanto eh' elle m'eb- ber coperto d'una orina cosi puzzolente, che mai più non

ebbi paura di ammorbare, se non allora. si erano partite appena, che io vidi riserrar la porta in quel medesimo modo ch'ella s'era prima: gli arpioni ritor- narono alle bandelle , le 'mposte a' loro regoli , 1 chia- vistelli a' loro anelli , e nel muro si rassettarono gli stipiti, e le soglie tornarono a' luoghi loro. Ma io cosi come era per terra, senza spirito, ignudo, freddo e tatto bagnato, come se pure io uscissi allora di corpo a mia madre, anzi mezzo morto, o piuttosto soprav-

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vivendo a me medesimo, e rinato dopo la morte mia, 0 per dir meglio col capestro ai rollo, diceva intra me medesimo che diavoi str^ di me, come le brigate ve- dranno doMiattiua svenato costui ? chi crederà , eh' io gli dica cose verisimili, narran'lnaiìele vere? Almanco avestù chiesto aiuto, se tu s\ fatto uomo non ti sa- pevi contrapporre a una donna : dinanzi agli occhi tuoi è ammazzato un uomo, e tu stai cheto? perchè non amazzarono te ancora in cosi fallo iiitrocinio, in così arande crudeltà, almanco perciocché tu non rive- lassi questo misfatto? quale è la cagione ch'elle li bau perdonato? adunque, posciachè tu hai scampato la morte, torna a morire. Io medesimo replicava meco queste parole: e perchè già s' inchinava la notte verso l'aurora, perciò mi parve meglio, anzi che si facesse giorno, partirmi quindi ascosamente, e andarne volando in altra parte. Perchè pigliando le mie bazzicature;, misi le chiavi entro all' uscio per aprirlo: e quella vene- rabil porta, la quale si era la notte spalancata da pei' lei, allora con gran fatica, e col farinivi voltare entro un pezzo la chiave, si volle aprire. Avendo flnalmento aperto, io me ne andai in capo di scala per chiamar r oste : olà, dove se' ? fa tuo conto , e aprimi la porta eh" io me ne voglio andare auzi ch'egli apparisca il giorno. Sentendomi il porti najo, che giaceva per terra apiiresso l'uscio della stalla, cosi gridare, lutto son- nacchioso : e che diavolo vai tu farneticando a que- sl' ora ? non sai che le strade non sono sicure ? dovo vuo' tu andar testé nottolone? e se tu hai qualche grandissimo peccato addosso, che tu ne vogli far pe- nilenzia , noi altri non aviamo capo di zucca , cho noi vogliamo morir per te. E' non istarà mollo rispos' io a farsi dì. Ma che domin posson torre i ladri a un viandante povero, come son io? Or non sa' tu, pazzo che tu se', che s'è' fusser dieci assassini, ch'eglino non mi potrebhon rubar il mantello? Allora colui, sepolto e nel vino e nel sonno, voiiosi sull' altro canto, e sba- digliando, e proslernendosi , disse: sta purea vedere

io ^ dell'asino d'obo

che tu avrai ammazzato quel tuo compatfno , col qual^ tu venisti qui iersera ad albergare; e ora col fuggirli ti vorrai procacciare la salute. Allora mi parve vedere che la terra si aprisse, e lo inferno m'inghiottisse, e che Cerbero tutto affamato venisse verso me per volermi (divorare, e tenni per certo , che la buona donna non avesse miga lasciato di sgozzarmi per misericordia ch'ella avesse avuto del fatto mio, ma per usarmi maggior crudeltà, mi avesse riservato alle forche. Per la qual cosa, ritornatomene m una camera, andava pen- sando meco stesso d'un modo d'ammazzarmi subitamente. E perchè la Fortuna non mi aveva preparate altre armi colle quali io polessi da me slesso por fme alla mia misera vita, se non quel lelticcinolo dove io era dormito, io mi volsi verso di lui, e dissili : Oletticciuolo mio caris- simo, il quale hai meco insieme sopportate tante fatiche e se' consapevole di tutto quello che è stato fatto in questa notte, e '1 qual solo io posso citar per testi mon della mia innocenzia, tu sii quello che a me, che con prestezza vo* morire , porga le armi salutari. E dicendo queste ultime parole, presa la fune, con che egli era ammagliato da un canto, l'attaccai a un travicello, che sotto alla finestra assai bene altetto sportava infuore, e dall'altro acconcia con un cappio scorsoio lasciatola penzoloni, salii 'n sul letto ; e rittomi in punta di piedi m' avvolsi quel cappio intorno al collo. Ma quando io mi tolsi di sotto il letto , dove io mi sosteneva con due piedi, acciocché la fune, stringendomi per lo peso le canne della gola , mi soffocasse , ella, che era vecchia e fracida, si ruppe; e io, cadendo da molto alto, venni a rovinare sopra il corpo del mio caris- simo compagno , il quale appunto si giaceva sotto di me. E in quello che io mi trovai per terra , quello ub- briaco del garzone dell'oste saltò in camera gridando accorruomo, e dicendo: Olà, dove se' tu, che stanotte a mezza notte te ne volevi andare, ed or li stai involto nelle lenzuola come un fegatello? E mentre che costui cosi gridava, io non so se per nostra ventura, o pur eh' egli

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ne fusse cagione quello sconcio romore, o com' eli' an- dasse, Chimenti si rizzò sopra di me, e disse ; Ora non hanno grandissima ragione i viandanti a dolersi di que- sti imbriacbi e maladelti osti f non vedi, che questo fa- stidioso, mentre che egli entrò dentro con grandis- jsima furia per imbolare ( come io mi penso ) qualche cosa, che lo imbriaco ha fattu così grandissimo rovi- namento, ch'egli m'ha desto? e Dio sa s'io dormiva profondamente. Io mi sforzai subito, tutto lieto e tutto giocondo, non aspettando così fatta novella, e dissi: Ecco, o diligente portinaio, il compagno, il mio padre, il mio fratello, il quale tu mi apponevi, che io aveva ammazzato stanotte : e dicendo queste parole non re- stava d' abbracciare e baciar Chimenti. Ma egli, offeso da quel corrotto odore della orina, della quale m'ave» van bagnato quelle streghe, mi discacciava pure indie- tro, dicendo, eh' io levassi via quel puzzo di così fe- tente carnaio ; e poco poi motteggiando mi domandava perchè io rosi pulissi : ma a me, a cui non era avviso che fusse tempo da ciancie, parve da farli mutare ra- gionamenti ; e però, presolo per mano, gli dissi: Per- chè ne lasciamo fuggir la corno lità di camminare per lo fresco? che nfin ne andiamo noi, anzi che sia più tardi ? E così dicendo, preso le nostre bazzicature, e pagato r oste, ci mettemmo in viaggio Noi eravamo andati già un buon pezzo in là, e i raggi del sole, spun- tando per le cime de' più alti monti, cominciavano a indorar la campagna; ed io curioso riguardava con di- ligenzia la gola del mio compa?no da quel lato che io gli aveva veduto entrare il coltello, e diceva meco me- desimo: 0 viso di pazzo, tu avevi bevuto troppo, e imperò sognavi così gran pazzia : ecco 1' amico intero e sano; dov'è la ferita? dove la spugna? dove linai- mente la margine così grande e cosi fresca ? E poscia Toltomi a lui, dissi : Non senza cagione dicono i buon medici, che a quelli uomini i quali hanno mangiato e bevuto superchio, par poi la notte vedere i miracoli : a me finalmente; che bevvi iersera senza misura, que-

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sta notte sono paruti vedere i più brutti spettacoli o più crudeli cho tu possa inai immasrinare ; e parmi an- cora esser lutto bacrnato e contaminato di sangue. A me non è paruto sopno, disse egli poiché io tacqui, al quale sono state segate le vene; percioccliA e la gola mi dolse, e parvemi proprio eh' e' nai fusse schijintato il cuore ; e pure anche adesso mi sento mancar lo spi- rito, e triemanmi le gambe sotto, e non posso muo- vere i piedi,e voleniier mangerei un pochetto, per ve- dere se io mi potessi niente riavere. Ecco, dich'io al- lora, ch'io ti ho apparecchiato la colezione. E questo dicendo, mi levai la tasca dalle spalle, e diedigli del pane e del cacio, e dissili : Sediamoci qui appresso a questo platano ; e cosi facendo, an(tora io mi misi a mangiare un poco: e vedendoi mangiar così avidamente, io gli scorsi cert' ossa indentro, con un color di bos- solo cosi fatto, che tuttavia mi pareva che egli man- casse. Egli ora finalmente divenuto si giallo, che per la paura che io aveva di lui, come a chi sempre pa- reva avere innanzi le furie della passata notte, aven- domi messo in bocca un pezzo di pane la prima volta, ancorch' e' fusse poco, e' mi si appiccava al palato di sorte che io noi poteva mandar su giù; e l'es- ser noi due soli me la raddoppiava : perciocché chi sa- rebbe mai quegli che credesse, che di due compagni uno ne morisse senza colpa dell'altro? Ma egli come ebbe mangiato molto bene, cominciò affogar di sete ; imperocché egli si aveva trangugiato buona parte di quel cacio: perché udito io un dolce ruscelletto, e chiaro in guisa che se corresse liquido cristallo, che poco di lungi dalie radici di quel platano agiatamente se ne cor- reva, voltomi gli dissi : Perchè non va' tu a trarti la sete laggiù a quell'acqua chiara? Ed egli subito riz- zatosi, e ito verso il fiumi celio, ed appostando la più bassa parte della ripa, con grande avidità di bere vi si mise carpone. Ed a fatica avea tocca colla estremità delie labbra la rugiidosa acqua, che la ferita ch'egli aveva nella gola, apertasi, mandò fuor quella sDugna

LICEO FRTUO 28

con molte gocciole di sangue ; e finalmente ivi moren- dosi, fu quasi per cader nel fiume, se non che ritenen- dolo io per un de' piedi, con grande stento Io tenni

nella ripa di sopra. E posciacb'io ebbi pianto il tapi- nello quanto la presente stagione ne dava luogo, io lo seppellì' entro alla rena vicina alla ripa del fiume : e tutto pien di paura, dubitando grandemente del fatto mio, per li più strani luoghi e più solitari r,he io ri- trovassi, mi misi non a fuggire, ma a volare. E com» se io tenessi per fermo di aver commesso queir omi- cidio, abbandonato la mia casa e la mia patria, e pre- somi un volontario esilio, mi sto ora in Bologna, dove io ho tolto moglie novellamente.

Allora quel suo compagno, il quale nel principio con maravigliosa incredulità non aveva voluto porger fede alle sue parole, disse : Nessuna favola fu mai più favo- losa di questa, ninna bugia fu mai udita più bugiarda di questa : e volto a me disse : E tu uomo, che se', come la presenza tua dimostra e il parlare, persona di<» screta, a queste menzogne credi tu? Io per me, risposi allora, tengo che nessuna cosa possa essere impossibile; e penso che intervengano agU uomini talor di strani

24 rrix ASINO d'oro

accidenti : rercloccliè, e a te, e a me, e a tulli i nior- taìi accaggiono tulio il molle cose maravigliosc, e io quali mal non iiilervonncro ; e raccoute ad un che non mai più le abbia vedute, saranno per falsissime sli- mate : e però io non solo credo a costui, ma per mia fede lo ringrazio, che con Ja piacevolezza di questa sua bella nuvella egli ci ha in modo tenuti sospesi, ch'io ho passato quest'aspra via e piena di tedio senza fastidio e senza fatica alcuna: del qua] beneficio io credo eh' e' se ne allegri il mio cavallo parimente, per- ciocché senza la di lui fatica mi son condutto colle mie orecchie, e non colle sue spalle, insino alla porta di questa città. Queste parole furono a noi la line del comune viaggio e do' nostri ragionamenti. Imperciocché tramenduni i compagni se ne andarono da man man- ca a certe villette; ed io entrando nella città, acco- statomi alla prima osteria che mi si parò davanti, do- mandai ad una vecchia ostessa, se quella era Bologna. La donna mi accennò che si. Ed io, seguitando, la do- mandai, se conosceva un certo Petronio, uomo de' primi della città. Ed ella, udendo la mia domnnda, foriemenle »e ne rise, e disse : Veramente che egli è de' primi di questa terra, poich'egli non solo abita fuor di quella, ma de' sobborghi. Lasciamo andar Je ciancie, la mia donna, dich' io, vedendola cosi parlare ; ditemi, vi prie- go, e chiunque egli è, e dov'egli sta a casa. Vedi tu, rispose ella, quelle ultime finestre fuori, le qu;ili r s- guardano la città , e quelle porte un poco alletto, die sono a dirimpetto di quel portico? quivi abita cotesto ricco e danaroso, ma uomo d'una estrema avarizia, un gran gaglioffo e infame : imperocché egli presta a usura sul pegno, intendi bene, a chi ne vuole, e a chi non ne vuole ; e stassi in una picciola casetta sempre fra la ruggine e la polvere di quei danari, con una moglie, la quale è partecipe della sua meschina vita, non avendo altri al suo servigio che una fanticella, e an- dando vestito sempre a guisa d' uno accaiiapane. Bene sta certamenie, e da amico mi consigliò il mio SilvJo

LIBRO PRIMO S8

(dissi io udendo queste parole, e non senza rìdere), posciachè egii m" ha messo, avendo io a far viaggio, cosi fatto oste per le mani, in casa del quale io non avessi paura di fummo di legne, di puzzo d' ar- rosto. E mentre che io diceva queste parole, non an- dando molto lontano da donde io era, io mi accostai air uscio suo ; e perciocch' egli era molto bene stangato, lo picchiai più volte, e chiamai. Picchiato ch'io ebbi un pezzo, e' compari pure alla fine una giovanetta, la quale, aperto i' uscio, vedendomi colle man vote, disse: Chi è colui che ha tante volte battuto questa nostra porta ? in su che vuoi tu che noi ti prestiamo danari ? or se' tu quel solo che non sai che noi non pigliamo altro pegno che oro o argento? Deh, per tua fede, dammi miglior saluto, e piuttosto rispondimi se il tuo padrone è in casa. Si, che e' è, rispose ella : ma qual cagione te ne fa dimandare? Io li porto, dissi, certe lettere da Firenze, che gliele manda Silvio. Ed ella: Mentre che glielo vo a dire, non t' incresca l'aspettar costi un poco fuor dell' uscio. E così dicendo, di nuovo messo il chiavistello, si fermò dentro; e poco poi ritornando, avendo spalancata la porta, disse : il mio padrone vi domanda. Io m'entrai subito in casa, e tro- vano ch'ei s'era appunto allora posto a una sua pic- ciola tavoletta, e voleva cominciare a cenare, e la mo- glie li sedeva accanto. E com' egli mi vide, fattomi una grata accoglienza , mostromi così la casa : vedi la tornata mia. Bene sia, risposilo; e subito li diedi le lettere di Silvio. Ed egli spacciatamente leggendole, mi disse : Io voglio bene al mio Silvio, il quale m' ha fatto prendere conoscenza di cosi fatto ostiere. E dicendo queste parole, si fece levar la donna da canto, e dis- semi eh' io sedessi in suo luogo ; e perciocché io, pa- rendomi far discortesia, non vi voleva seder per niente, ed egli, presomi per li panni, e tirandomi, disse : Siedi costì; imperocché per la paura de' ladri egli non ci è altra sedia che cotesta ; eh' egli ci tengono in tanto so- spetto, eh' «' non ci lascian provveder delle masserizie

S6 dell'asino d'©ro

che ne bisognano, lo in' assisi ; ed egli «cguitò : Benché la tua grata presenzia e cotesta tua gentil vergogna di- mostrassero che tu se' nato d' onoratissimo padre, do-

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lato di gentilissimi costumi ; nientedimeno il mio Silvio mi significa il medesimo colle sue lettere: e però io ti priego, che tu non abbi a schifo la piccolezza di que- sta mia casetta, la quale sarà presta a tutti i tuoi pia- ceri. Ecco quella cameretta : quella sarà il tuo ri- cetto assai ragionevole : fa che tu stia volentieri con esso noi, perciocché, oltre a che tu farai più gloriosa la mia casa con degnarla, tu ne acquisterai pregio d'u- manità, essendo contento di così picciolo tugurio ; e imiterai la virtù di quel Teseo, il quale non disprezzò r albergo d' Ecale vecchierella. E chiamata la fante, dis- se : Lucia, piglia la valigia e le bolge di questo ospite, e serrale entro in quella cameretta ; e poi va nella dispensa, e arreca prestamente due limoni per i stropic- ciarlo, e gli sciugatoi per rasciugarlo, e l' altre cos9| che fanno di bisogno intorno a ciò; e mena il mia ospite alla più pressa stufa che ci sia , che io so che per la lunghezza della strada, oltre a eh' eli' è molto fastidiosa, egli dee essere assai bene stracco. Avendo

LIBRO PRIMO 27

io considerate tutte queste cose, e rivoltandomi per l' animo la carestia di costui , e volendomelo intrin- sicare più che io poteva, risposi alla sua ultima prof- ferta : E' non bisogna alcuna di cotesto cose, che assai tene siamo forniti di tutto quello che fa di mestiero a chi cavalca ; e della stufa ne potrò domandare io me- desimo assai agevolmente. Ma tu, o Lucia, mi farai ben grandissimo servigio comprarmi con questi danari un poco d' orzo e un poco di fieno per lo mio cavallo, ii quale m' ha si egregiamenle portato ; che questo è quello che io stimo più che cosa ninna. Fatto questo, e messo i miei arnesi in quella camera, io mi dirizzai da me stesso verso la stufa : e desiderando la prima cosa pro- cacciar qualche vivanda, che io potessi cenare, io me ne andai al mercato ; dove trovato un bellissimo pesce, io domandai a quello che lo vendeva, quanto e' ne vo- leva ; e perciocch' egli me ne chiese due carlini della libbra, io me ne feci beffe : e fattomene dar d' un al- tro, spesi un grosso. E allora allora partendomi di quivi, egli mi si avviò dietro un messer Francesco, stato già mio condiscepolo in Siena ; il quale avendomi dopo pic- ciolo spazio riconosciuto, con grande amorevolezza m'as- saltò, e baciandomi e abbracciandomi con una gran tenerezza, disse : Oh il mio Agnolo, che tu sia il ben trovato : egli è pure un pezzo che noi non ci siamo mai riveduti, appunto quanto egli è che noi ci par- timmo da Siena. Quale è la cagione che tu se' qua per questi nostri paesi ? Domani lo intenrlerete, risposi io : ma che vuoi dir questo ? io mi rallegro teco delle tue venture, perciocché io vedo teco e famigli con mazze e altre insegne di magistrato. Noi siamo sopra le gra- sce, disse allora messer Francesco ; e se tu vuoi niente da godere, noi te ne faremo accomodare. Io diceva di no, come quegli che assai ragionevolmente mi pareva esser provvisto da cena. Ma egli vistomi la sporticciuola, e rivoltomi i pesci sottosopra per riguardargli meglio, mi disse: Glie hai lu compero questo rimasuglio? A fatica, risposi io, gli ho potuti per un grosso nuovo

dell'asino d'oro

cacciar di mano a un pescatore. La qual cosa udendo eirli, subito mi prese per mano, e rimenatomi in piazza, disse : Da quale di costoro tiai tu compero questo ma- rame? Perchò io mostrogli un vecclilerollo, che si se- deva Iti in un cantone, e^\ì subito per autorità di magistrato riprendendolo agramente, gli disse : Oggimai Toi non riguardate più in viso ad alcuno? e cosi trat- tate gli amici nostri come i nimici ? e cosi vendete a' forastieri, come a' terrazzani ? Perchè vendete voi così caro questi pesciuoli, e riducete il fior delle città di Lombardia a una carestia cosi grande, come se noi fus- simo in qualche luogo strano? io li farò ben io veder come al tempo mio si gastighino i cattivi. E mentre che egli diceva queste parole, gittatomi la sporta in terra, comandò a uno di quei suoi straordinari, che saltandovi su co* piedi, tutti gli calpestasse ; e soddis- fatto il mio messer Francesco per cosi aspra severità, confortandomi al tornarmene a casa, mi d'sse: Mi ba- sta, il mio Agnolo, aver fatto questa vergogna a que- sto vecchierello: e cosi dicendo, mi diede commiato. Veggendo io queste cosi fatte cose, stava tutto pieno di maraviglia, e quasi fuor di me, posciachè 'I severo consiglio del mio valente Francesco mi aveva fatto ri- maner senza cena e senza danari : sappiendo altro che farmi, me ne andai alla stufa; e lavato ch'io fai, a casa me ne tornai. Ed entrato eh' io fui in camera, eccoti venire la fanticella, e dirmi : Petronio ti addo- manda. Ma io che mi era accorto della sua strettezza, negava di voler andare, scusandomi col dire che io giudicava esser molto più a proposito, a rimuovermi la stanchezza del viaggio, il dormire, che la cena. Avuta eh' egli ebbe questa risposta, e' venne egli in persona in camera, e presomi per mano, con ogni sforzo s' in- gegnava di menarmi a cena. E mentre che io stava pur forte, e più modestamente che io poteva negava il vo- lervi rtniare, e-zli disse giurando : Io non mi partirò mai di qui fino a tanto che tu non vensa con esso meco. Perchè, ancorché mal volentieri io gli fussi obhedieate,

LIBRÒ PRIMO é9

io mi condussi a quella sua tavoletta : e méntre che noi quivi ci sedevamo, egli mi dimandò come Silvio la facesse, quello clie fusse della moglie, e come stavano i suoi figliuoli. Io gli risposi a ogni cosa quanto egli accadeva. Perchè egli mi prese più minutamente a di- mandare della cagione del mio viaggio. Ed io gliel dissi più minutamente. E ridomandandomi e della nostra pa- tria, e di que' primi cittadini, finalmente egli s' accorse che io era pur troppo stracco del camminare, senzachè egli mi rompesse più il capo con quella lunga diceria delle sue favole, e che già ìutto sonnacchioso non prof- feriva la metà delle parole, ed assai bene spesso li di- ceva di si, quando io avrei avuto a dir di no ; per la qual cosa egli si contentò che io me ne andassi a dor- mire. Scapolato adunque da quello atfamato convito, ma garrulo e loquace, di quel rancido vecchio, gravato non di cibo ma di sonno, anzi pasciuto solo di favole, ritornato in camera, mi misi a dormire.

LIBRO SECONDO

Come più tosto dopo la piirtita della notte il nuovo Sole ne rendè il giorno chiaro e luminoso, toltomi e dal sonno e dal letto, sollecito e soverchio desideroso conoscitor delle cose rare e degne di maraviglia, e pen- sando intra me d'esser nel mezzo di Bologna, dove per detto d' ognuno come in proprio prato fioriscono gl'incantamenti dell'arte magica; e ricordandomi della novella del mio buon compagno nata entro al seno di quella città, coli' animo tutto sospeso, con un gran disio e con una straordinaria diligenzia io andava con- siderando ciò che mi si parava davanti. fu cosa ìa quella città, cbe reggendola io mi potessi persuadere

30 dell'asino d'oro

ch'ella fusse quella stessa ch'ella era in verità, anzi che tutto lusso per inc;into trasmutato in quella for- ma ; e che le pietre nelle quali io percoteva, fussero stati uomini rimutati in loro; egli uccelli, ch'io udiva cantare, avessero messe le penne per quella cagione; fili arbori, ch'erano per le ville e per li giardini, aves- sero germogliate le fronde con quella forza; i fonti ripieni di sangue umano avessero la simiglianza del- l'onde. Per simile accidente già mi pensava io che lo statue di marmo, le immagini di cera dovessero anelare; a' muri convenisse parlare; a' buoi e alle altre bestie cosi fatte fusse scienza mostrar le cose avve- nire; al Cielo stesso, e alla spera del Sole credeva essere convenevole dir cose maravigliose. E in questi guisa lutto attonito , anzi por la stemperata voglia mezzo fuor del seminato, non avendo potuto avere arra alcuna della mia cupidigia, e tratto pur da questa vana spe- ranza, me ne andava ogni cosa circuendo. Discorrendo io adunque senza lasciar pertugio alcuno per tutta la cittft, senza saper come, capitai in piazza; arrivato, ch'i' fui, vidi una gentil donna da molte fanti e fami- gli accompagnata camminare d'assai buon passo: l'oro, le perle, e i ricchi vestimenti niostravan veramente eh' ella er.i donna di grande affare. Erale accanto un vecchione d" assai reverenda età, il quale come più tosto mi vide, disse: Per mia fede questo è il mio Agnolo j e datomi un bacio , bisbigliò non so che nell' orecchie di quella donna, e di nuovo si voltò a me, dicendo: Or perchè non tocchi tu la mano a questa tua madre? Perciocché io mi perito , risposi , salutare una donna che io non conosca: e divenuto nel volto simile alle vermiglie rose, abbassando il capo, mi stetti ferme Ma ella, guardandomi fiso, disse: Vedi come si riconosce tutta quella bella effigie della sua santissima madre madonna Lucrezia ! guarda come ciascun membro se le rassomigha, che egli non ne perde nullal quella gran- dezza non disconvenevole, quella buona cera non troppo grassa, non soverchio magra, quelle carni brune, quegli

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'occhi magri e vivi, che sempre par die gettiti faoco ; ^guarda quello andar posato, che voltosi donde vuole, te' dimostra gravita. E poi soggiunse: Oh il mio Agnolo, io mi sono allevata colla tua madre nella mia più tenera "età molti e molti anni, allora quando dimorando in Siena ■col suo padre, che per la vostra Repubblica vi aveva uficio d'ambasciadore, abitava nella casa de' Placidi .Vicino a Santo Agostino, e poco poscia in Gamollia assai vicina alle mie paterne case : e in un medesimo tempo ella nella patria sua e io in questa città n' avemmo sorte di assai felici nozze. Io sono Laura, e penso che tu abbi per avventura sentito fra' tuoi ricordar alcuna ivolta questo mio nome. Vientene adunque a casa a 'sicurtà, anzi fa conto ch'ella sia la casa tua. Allora io , che già per lo suo lungo parlare avea discacciata ogni vergogna, rispondendole assai arditamente, le dissi: Dio mi guardi, la mia donna, che senza cagione abban- doni Petronio, in casa del quale io sono alloggialo; ma, quello che si potrà far senza mio carico, un'altra volta quando mi accaderà capitare in questi paesi, io non mancnerò di venire a scavalcare in casa vostra. (E mentre che noi eravamo in questi ragionamenti, an- ,'dati in pochi passi, arrivammo a casa di Laura. Eran ile logge bellissime colle colonne divisale in quattro maniere, delle quali in ciaschedun de' canti una ne reg- geva il simulacro della Vittoria, il quale, tenendo le sdrucciolevoli piante cosi sospese sopra della basa di ^quelle colonne, aveva certe ale cosi maestrevolmente condotte, che e' pareva che volesse ad ognor volare !in altra parte. Vedevas; poscia nel mezzo di quelle log- Jge di candidissimo marmo la statua di Diana di mano di perfettissimo maestro, colla gonna che parendo spin- 'ta indietro dal soffiar de' venti, discopriva, da lei disco- standosi, parte dello sguardo della bella figura; la quale tutta snella non mostrava se non di correre incontro a quelli che venivano entro in casa: e due cani, da ognun de' canti uno, e quelli eziandio di marmo, pa- reva che guardassero la santa Dea : nel volto della qua!*»

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si scorgeva una certa maesl;'», che tantosto tu la rico- noscevi come cosa divina. Questi mostravan clic cogli ocelli minacciassero; e tenendo 1' oreccliie tese e '1 naso aperto, sembravan due segusii che avesser sentito la flora ; e gi? alla bocca ti sarebbe jiaruto veder la schiu- ma: e se per avventura li vicino avesse abbaialo qual- che cane, tu avresti tenuto per fermo, che quel romore Jusse uscito dalla bocca d' un di questi sassi. E quello in che lo scultore maravigliosamente mostrò il suo gran magistero, fu che i piedi dinanzi in guisa di quei che corrono, e sollevali, e quei dietro posando, mostravano nn impeto grande. Dietro alle spalle della santa Dea sur?ea un sasso tagliato a modo d' una spelonca, con musco ed erbe a foglie e vermene; e in qualche luogo con pampini, e altrove con certi arbuscelli pur di pie- tra, tutti fioriti. Splendeva dentro 1' ombra della figura: e sotto r estremità dell' orlo di quel sasso p jndevan pomi e uve a maraviglia finte ; le quali l'arte invidiosa della natura avea fritte coji eguali, che tu avresti pen- sato, che se il mostoso Autunno vi avesse soffiato il maturo colore, di poterne prendere alcuna per mangiare: e se tu avessi guardato con desiderio intorno al fonte, il quale spingeva le sue onde fra' piedi di Diana , e pareva che lento lento correndo invitasse ognun che quivi arrivava, a trarsi la sete ; tu avresti detto eh' e' pendessero dalle viti, e movessersi, non altrimenti che si facciano i veri alla campagna. Entro a quelle frondi vi si vedeva il simulacro d'Atteone soverchio curioso, con uno sguardo, già con volto di cervo , tirarsi in- dietro, avendovi trovato Diana a lavarsi alla improv- vista. Mentre che io tutto pieno di stupore, mirando or questa or quella cosa, ne prendeva grandissimo pia- cere. Laura avvedutasene, disse: Ciò che e' è, è al tuo piacere. E dopo queste parole, fatto tirare ognun da canto, segretamente soggiunse : Io ti giuro, il mio Agno- lo carissimo, per la santissima Leda, siccome colui dol quale io sto in graniissimo timone, e amolo come fi- gliuolo, né gli vorrei vedere incontrar male alcuno ; ab*

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bili r occhio, guardati dilicrentissimamente dalle cattive arti 0 false lusinghe di quella Bertella moglie di quel Petronio, in casa di chi tu alloggi : ella è tenuta una della maggiori stregone e delle più potenti di questa città; la quale, e con fuscelli, e con petrucciole, e si- mili frascherie saprebbe sommergere tutto questo mondo nell' antica sua confusione : e com' ella vede un giovi- netto di forma niente riguardevole, ella s'accende delle sue bellezze, e dirizzato verso di lui e gli occhi e la mente, ella gì' invola colle sue carezzine l'anima e '1 cuore ; ella lo lega cogl' insolubili lacci del profondo amore dipoi quelli, i quali o non fanno a modo suo, 0 riescono con costumi rozzi e villani, odiandoli, o ella gli converte in sassi, o pecore, o in qualche altro qual più gli piace animale; senza quelli, che non sono però pochi, i quali questa fiera priva in tutto della vita. Queste son quelle cose che mi fan paura del fatto tuo, e delle quali io ti conforto a guardarli come dalla mala ventura ; perciocché ella abbrucia continuamente ; e tu se' giovane, e per la età e per le bellezze capacissimo de' suoi desideri. Queste cose diceva meco Laura assai sollecita della mia salute : ma io altrimenti curioso di questo, come più tosto ebbi udito il desiderato nome dell' arte magica, tanto fui lontano da guardarmi, che eziandio spontaneamente io mi struggeva di darmi a così terribile magistero, ancorché egli mi costasse gran- dissimo pregio ; e bramava gittarmi altutto con un gran saito nel baratro di quella disciplina. Sollecito final- mente, e povero di consiglio, io mi spiccai da lei come da una catena, e detto spacciatamente addio, me ne vo- lai con leggier passo a casa del mio ospite ; e mentre eh' io me ne andava correndo come un pazzo, io dico da me stesso : Orsù, Agnolo, sta desto e in cervello ; tu bai l'occasione cotanto desiderata; tu ti potrai ca- var la voglia di rimirar quelle cose maravigliose che hai cosi gran tempo desiderate: levati dall'animo le paure de' fanciulli, metti mano a questa impresa stre- nuamente, ora che egli ti può così af(evolmente venir

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fatto, e astienti da ogni lussorioso oltraggio della tua ospite; temperati, e onora religiositmcnte il matrimoniai letto del tuo buon Petronio, e piuttosto stimula con ogni sollecitudine quella sua fanticella, perciocch'ella (\ galantina, e tutta saporitina. lersera quando tu an- davi a dormire, ella li menò in camera con assai pia- cevolezze, e ass:ii fjraziosamente ti mise a letto, e assai amorevolmenle ti coperse ; e com' ella si partisse mal- volentieri, ella il dimostrò col volto, rivoltandosi e fer- mandosi molte fiate : la qual cosa mi rivoltino i cicli in felice augurio. E dicendo io meco medesimo qui sle parole, mi accostai a casa, e confermato nella mia opi- nioHP, entrai dontro : e per mia buona sorte io non vi trovai n^ Petronio la moglie, ma la mia cara Lucia sola, la quale preparava un pasticcio a' suoi signori : il vino era apparecchiato copiosamente, e di più sorti, e già si ti prometteva il naso una vivanda reale. Ella aveva una sua vesticciuola lina tutta bianca, ed erasi cinta cosi un poco sotto alle mammelle con una cin- turetta rossa, e voltava l'intriso per lo mortaio con quelle sue manine biancoline, e insieme col pestello ri- volgendo quelle sue membroline; e mandando i fianchi or in qua e ora in L'i, dimenando cosi un poco il fll delle rene, si moveva cosi dolcemente, che tu non avre- sti voluto veder altro. Le quali cose io rimirando, tutto m' empie' di maraviglia ; e stato cosi un poco so- pra di ri e, le dissi : Quanto piacevolmente, la mia Lu- cia, rimeni tu cotesta pentoli insieme col camiciotto I oh che saporita vivanda prepari tu! felice e più beato colui, al quale tu permetterai che vi metta un dito solo ! Allora ella, che naturalmente era tutta piarevo-- lina e faceta, mi rispose : Partiti, poveretto, lontano quanto più puoi da me, partiti da questo focolare; per- ciocché se'l mio picciol fuoco f aggiugne, tu abbruce- rai dentro, e niun potrà poscia spegnere 1' ardor tuo, se non io, la quale so le dolci vivande rimenare dolce- mente e nella pentola e nel letto. E detto questo, mi guardò un tratto cosi sottecchi, e rise. Ed io nondi-

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meno non mi volli partir da lei infinchè io non avessi diligentemente considerato tutte le parti sue. E perchè dirò io dell'altre tessendomi il capo e i capelli stati sempre sommamente carissimi, e avendoli in pubblico guardati volentieri, e in privato godutomeli con mio grandissimo sollazzo, e cosi di questo giudicjo avendomene fatta certa ragione, gli ho sempre avuti in pregio più che cosa veruna; parendomi che questa precipua parte del corpo posta nel più riguardevole lungo, prima appa- risca avanti agli occhi nostri, e quello che negli altri membri gli allegri colori delle rii che vesti sogliono ope- rare, il faccia in capo il nativo splendor de' capelli. Fi- nalmente, volendo molte dar saggio e della belezza e (iella grazia loro, si traggono tutte le vesti, e rimuo- vono tutti i loro abbigliamenti, e bramano mostrar nuda la lor bellezza, confidandosi di piacer più collo splen- dor delle lor carni, che con quello dell'oro e delle perle delle lor vesti; ma certamente (il che è brutto solo a risguardare, piaccia al cielo che egli si truovi mai cosi sozzo esempio), se tu prenderai qualsivoglia bel- lissima donna, e tosera'li i crini, e le spoglierai il capo di quel naturale ornamento, s" ella ben fusse come quella che dicono i poeti che cadde del cielo, partorita in mare, allevata fra l'onde; s'ella fusse Venere, dico, accompagnata dal coro delle Grazie, e circondata dal popolo de' suoi Amori, e cinta del suo preziosissimo cintolo; s'ella spirasse cinnamo, s ella sudasse balsamo, e fosse senza capelli, ella non piacerebbe eziandio al suo Vulcano: dove, per lo contrario, che gran diletto è egli a rimirar sopra de' crini rilucer quel grazioso splendore, volto talor in verso i raggi del sole, spar- ger questi lampi d'ogni intorno, e fra stessi piace- volmente ritenerli I e se, per tua maggior ventura, poco vento gli va in quel mezzo leggermente percotendo, ve- dergli or involare il suo colore all' oro, or simigliare il pregiato mei d'Attica o di Sicilia, e poco poi, in guisa che le semplici colombe col loro volubile collo, or dsl color del ciclo, or dell' ebano, -or deli' onde ma-

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rine fartepli parerei o semiti col lìquor dell'Arabia ti appariranno con eburneo pettine dirizzati, o f?li ve- drai con morbida seta con oro intrecci;ita ritener die- tro alle spalle! e occorrendo poscia agii occhi dello amante, in puisa di specchio gli renderan la immagine della sua donna più bella e più pradita. Che dirai tu, quando gli scorgerai avvolti da maestra mano ricca- mente con mille dolci nodi, o sopra delle bianche spalle darsi in preda alle lascive auretle? Tanta ò finalmente la dignità della chioma, che avvegnaché una donna sia ornata di. perle e d'ostro, vestita di drappi inollissimi, e porti addosso tutto il suo corredo, e non abbia ras- settati i capelli, ella mai pulita bella apparirà. Ma eglino nella mia Lucia non soverchio riordinati, ma negletti ad arto, le davano grazia graziosissiina; imper- ciocché, avendo lasciata andar la folta chioma assai dolcemente dietro alle spalle, e posandosele in sul collo sopra ad una goraeretta increspata eh" ella aveva, e rac- coltogli un poco insieme intorno al fine, con un heni- gno nodo se gli aveva ritirali insino in sulla sommità della dirizzatura. Non potetti io più temperar la voglia Olia, e accostatomele, le diedi un bacio in sul capo, ap- punto in quel luogo, che io vi dissi, eh' ella si aveva legati i capelli. Allora scossa un pochetlo la fronte, e rivoltasi verso di me con certi occhi ladri, mi disse ; 0 scolaretto, tu ti pasci d' una dolce e amara vivanda ; guarda che la dolcezza del mele non ti empia lo stomaco di fele amarissimo. 0 che amaro, risposi io, può esser questo, ben mio? che per un di cotesti baci non mi curerei d' esser messo ad arrostire sopra di cotesto fuoco. E di queste in altre piacevoli parole trascor- rendo, io non restai mai finch'flla non mi promise d'esser la sera vegnente in camera con esso meco. Dopo le quali parole ne dispartimmo. Allora appunto era mezzo di, e Laura mi manda a presentare un buon porco, e cinque galline, e un baril di vin buono e di parecchi anni. Laonde io chiamata Lucia, dissi: liceo il confortatore Venere, ecco il combattitore, ecco il

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vino che si viene a profferire; beiamocelo oggi tutto, acciocch' egli ci lievi la pigrizia della vergogna, e fac- cici forti e animosi alla battaglia : questa vettovaglia non avea già d'altro mestiero , acciocché in quella notte dove il sonno ha da aver bando, e la lucerna sia piena d' olio, e '1 bicchiere di vino. Il resto del giorno noi lo demmo a lavarci prima, e poscia alla cena. Perciocché essendo stat9 chiamato alla buona ce- nerella del mio Petronio, si io v' andai, guardandomi il più ch'io potea dagli sguardi della mogliera; come quegli che mi ricordava degli avvisi della mia Laura: e non altrimenti volgea gli occhi nel volto suo, ch'io mi avessi fatto nel profondo pelago dell' ic^erno; ma riguardando continuamente Lucia, che ne servia a ta- vola, mi ricreava nei volto suo. Era già venuta la sera, e Bertella, guardando nella lucerna, disse: Oh come ben pioverà domani! E domandandola il marito della ca- gione, ella rispose: L'ho saputo dalla lucerna. Della qual cosa ridendosi Petronio, replicò: Veramente noi diam le speso ad una gran Sibilla^ pascendo questa lu- cerna, che d' in sul lucerniere riguarda le faccende dei Cielo, e conosce i segreti del Sole. Perchè io sotten- trando a questi ragionamenti, dissi : Questi sono i pri- mi sperimenti della divinazione ; e non é da maravi- gliarsene, perciocché, avvegnaché questo focherello sia picciolo, e fabbricato da umana operazione, egli é ricor- devole di quel maggiore e celeste Sole, come d'un pa- dre suo, e puocci annunziare quello che si avesse a far nella sommità dell' aria per divino presagio : per- ciocché appresso di noi in Firenze, un forestiero indo- vino per picciol pregio profeta pubblicamente cose mi- racolose della disposizion del Cielo, e segretissime: e quando é ben menar moglie ; se allora si può comin- ciare un edifìcio o qual tu vuoi altra faccenda; se è buono mettersi in viaggio ; se fa a proposito entrare in mare, o fare altre così fatte cose E dimandandogli io dell'esito di questo viaggio, ei mi disse cose mira- bili, e di varie ragioni; e che io ne avea da acquistare

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una fortissima cfloria, e che io ne aveva a compilare una storia cranrlissima, e farne una inrredihil novella; e flnalmenle che n' uscirebbe libri. E Petronio, ridendo per queste mie parole: Di che fattezze, disse, è cotesto indovino, o come ha ncnue? Kiili è grande, risposi io, e un poco nejrretlo, e cliiamasi Diofane. E?ili è desso per mia fé, r spose Petronio, e non può esser altri ; perciocché efrli fu ancor qui da noi, e predisse simili cose a molti; e avendo pnadapnati di buon ducati, e^li occorse a! meschino un caso, non so se mei voglia piuttosto dire crudele che strano: perciocché essendo una volta tra l'altre in un pran circiilo di persone, e dando lor la ventura, un calzolaio, che s' addnmaiidava il Faccendiere, si pli accostò, desiderando d' intendere qual di fusse a proposito a una stia andata : e aven- dogliele e?li detto, e '1 calzolaio messo mano alla borsa, e avendone già tratti i d:<nari, e annoverati quattro giuli, i quali erano il pregio della ventura; eccoti che gli apparisce dietro alle spalle uno de' più nobili gio- vani della terra, e presolo per la vesta, ed essendosi egli già voltato, il cominciò ad abbracciare e baciare assai strettamente : e avendolo l' indovino abbracciato e baciato similmente, se lo fece sedere accanto, re- stato lutto attonito per la repentina vista del giovane; e sdimenticatosi della faccenda del calzolaio ch'egli aveva, disse : Quanto è (che Dio sa s' io ti veggio con desiderio) che tu se' arrivato in questa citt^ ? E '1 gio vane rispondendo disse : Appunto in sul cominciar della sera. Ma narrami, il mio fratel caro, in quello scambio, come tu abbi fatto a varcare dell' Isola di Cipri, e pas- sar que' mari con tanta prestezza ? Alla qual dimanda rispose quel valente indovino senza intelletto e fuor del secolo : A Dio piaccia dare a tutti i nimici nostri, e pubblici e privati, men crudele navigazione men lunga che si fusse la mia; imperciocché la nave, sopra della quale io era, percossa dal soffiar de' venti e dalla gran fortuna, avendo perduti i remi e le vele posciachè con gran fatica ella si fu condotta alla mar-

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gine dell'altra ripa, s'affondò, e noi avendo perduto, ostni nostro avere, appena nuotando scampammo; e tutto quello che per compassione degli strani e per benignità degli amici ci fu porto, tutto ce lo rubaron gli assassini ; all' audacia de' quali volendo resistere Demetrio mio unico fratello, e' fu da loro, misero a me, sgozzato innanzi a questi occhi.

E mentre che egli pieno d' angoscia narrava le sue sciagure, quel calzolaio Faccendiere, raccolti i suoi quat- trini, prestamente se ne fuggi via; sicché ritornato Dio- fane pure alla fine ne' gangheri, s'accorse della sua castroneria. Ma a te solo di tutti, il mio Agnolo, abbia profetato l'indovino il vero: sii felice, e concèdenti gli Dii prospero cammino. Mentre eh' e' ragionava queste cose troppo lungamente, io di me stesso mi rammaricava; il quale spontaneamente avendogli porto materia di ragionare, mi perdea buona parte del tempo de' miei piaceri: pur preso partito della vergogna, gli dissi: Sopporti Diofane in pace la sua fortuna, e di nuovo dia le spoglie di questo e di quel popolo e al mare e alla terra, purché a me, che sono ancora stanco del camminar di ieri , conceda eh" io ne vada a dormire. E subito dette queste parole , io presi la via verso la mia cameretta, dove assai delicatamente era ordinato da far colezione : e acciocché i miei famigli, come io credo, non potessero stare ad origliare le nostre not- turne ciancio, egli era stato disteso il mio lelticciuolo ; ssai ben lungi dalla soglia dell'uscio, appresso del quale io trovai la tavola posta, la quale era piena di tutte le reliquie della passata cena, dov' erano bicchieri ragionevoli mezzi di vino, sicch' egli non vi s' aveva a metter su se non 1' acqua; e la brocca del vino, dolce preludio delle battaglie d' Amore, con assai ben larga bocca si sedeva in parte, eh' egli se ne potea torre as- sai agevolmente. Appena era io entrato nel letto, ed ceco la mia Lucia, che giJi avea messo a letto la sua padrona, tutta di rose inghirlandata, fiorita la fronte, e avendone ripieno il seno di spicciolate, allegra se

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ne venne da me: e posciacli' ella m'ebbe di floH e di zuccherini ripieno, preso un bicchiere mi diede da bere; e avanti eh' io avessi rinite di mandar più tutto il vino, ella con isclierzevol modo, presemi il bicchier di mano, e messoselo a bocca, e riguardandomi cosi per traverso, dolcemente centellava quel poco che m' era avanzato , e due e tre altre volte riempiendo il bicchiere, rifaceva quella medesima danza ; sicché avendo ogpiimai con grandissimo nostro sollazzo bagnato amendue 1' animo e '1 corpo di vino, entrali nei letto, cogliemmo gli uN timi frutti d' Amore, e scherzando e bevendo consu- mammo tutta quella notte; a somiglianza della quale ne trapassammo poi alcune altre. K in quel tempo Laurìi per avventurami richiese con grande instanzia, ch'io fussi contento andare una sera a cenar con esso lei ; e perciocché io gliele negai più volte, ed ella non mai mi volle ammetier la scusa, egli mi fu necessario an- darmene da Lucia, e reggermi col consiglio suo, non altrimenti che i magistrati antichi si facessero coll'au' spicio. La quale avvengaché malvolentieri consentisse che me le discostassi niente, pure assai piacevolmente mi fece esente per una sera dalla sua milizia, e dis- semi : Fa, il mio Agnolo, che tu torni come più tosto tu avrai cenato, perciocché egli va attorno la notte una certa combriccola di giovani d'alio affare,! quali hanno messo a soqquadro la pace di questa città. Ta vedrai gli uomini giacer morti qui e qua per le piazze, ed è una compassione; e i lontani presidi del Signor di questa citta e provincia non la posson liberar da cosi grande calamità: e a te, e la chiarezza del nome tuo, e l'esser forestiero ti potrebhon agevolmente far dare in qualche trappola. Sta senza pensieri, la mia Lucia, risposi io; perciocché, oltre a che io per l'ordi- nario posporrei a' miei piaceri W. vivande altrui, io tor- nerò eziandio più tosto per amor tuo: e in oltre io non andrò solo ; perciocché meltmdonìi a canto le mie ar- me, io medesimo porterò meco la mia salute. Venuto poscia, il di eh' era invitato, l' ora del vespro, cintomi

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la spada, con due miei famigli nae n'andai a casi di Laura. Eravi a quella cena grandissimo numero di con- vitati, e come in casa di gran donna, il fior della città: vedevansi i letti ricchissimi, e di cedro e d' avorio ri- splendenti, le cui cortine parte eran di broccato e di velluto, alcun' altre di teletta d'oro, e di finissimi rasi e dommaschi : bicchieri grandi di varie fogge, ma tutti d'un pregio; quello era di vetro ornato di bellissimi segni, quell'altro di cristallo tutto dipinto; molti vi si scorgevan d' argento finissimo , alcuni di forbito oro; parte ve n'aveva d'ambra intagliata maraviglio- samente ; tutti erano fregiati intorno di preziosissime gioie; sicché egli ti pareva bere e perle e pietre finis- sime, e quello che non era possibile : i donzelli erano assai, ed abbigliati riccamente, le vivande molte e be- nissimo preparate: i garzoncelli con zazzere ricciute e profumate, vestiti con nuove fogge, afesai sovente anda- vano offerendo i preziosi bicchieri di saporoso vino ri- pieni. Già apparivano i lumi in tavola, e mille allegri ragionamenti erano entrali in campo ; già si cianciava e rideva per ognuno, e dicevansi mille facezie ; quando Laura voltasi verso di me, disse : Come ti piace la stanza, il mio Agnolo, in questa città nostra? entro alla quale, secondochè a me pare, sono i tempj, i bagni, e gli altri simili edifici cosi magnifici, che io non mi vergognerò dire che noi avanziamo tutte 1' altre città : dell' altre cose che fa mestiero al vivere, noi ne siamo convenevolmente abbondanti: e inoltre e' ci è una certa libertà oziosa a chi si vuole stare; e a chi piacesse di far faccende, perciocché e' c'è frequentemente il com- merzio delle genti della Romagna, egli e' é sempre da negoziare; e per li forestieri, e massimamente per quelli che hanno del gentile, egli e' è una certa quiete ville- reccia, che non si truova in molti luoghi : finalmente ella è un piacevole secesso di tutta Italia. Alle quali pa- role dissi io, rispondendo : Veramente, Madonna, che tu dici quello che è; perciocché e' non mi pare esser mai stato in luogo alcuno dove io abbia conosciuto quel-

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la libertà del vivere che lo ho fatto in questa terra. Ma io ci ho bene una grandissima paura delle frodi e depl' inK:tnni dell'arte magica: perciocché egli mi è detto, che i sepolcri degli uomini morti per cotali su- perstizioni non ci son gran fatto sicuri, ma cbe degli avelli e de' cimiteri si cavan non so che rimasugli, e unghie, e simili cose ; e certe vecchiarde le adoprano poscia alla rovina de' miseri mortali ; e mentre che an- cor duran le pompe del mortorio, queste stregone con giovenili passi vanno a prendere il luogo nell'altrui sepolture. Io non era appena arrivato al fine di queste mie parole, che un altro soggiunse : Anzi non ci sono sicuri i vivi , imperocché un certo uomo a questi di sostenne cote^ medesimo che tu hai detto de' morii, al quale fu tutto tagliato e lutto guasto il viso. In que- sto mezzo il convito s'era universalmente risoluto in licenziosi sghignazzamenti, e quasi tutti i convitati in on tratto soverchio importunamente avevano voltato gli occhi nel volto d' un certo che si sedeva cosi in un cantone; il quale confuso dall'ostinato sguardo di si gran brigata, sdegnato, e borbottando cosi fra sé, fa- ceva segno di volersi partire. Ma Laura, che se ne ac- corse, subito voltasigli, disse : Deh caro amico, aspetta alquanto, non ti levar, di grazia, ma colla tua solita urbanità raccontaci quella tua novella, acciocché que- sto mio Agnolo, il quale io amo più che figliuolo, frui- sca la piacevolezza del tuo leccato parlare. Ed egli a Laura : Tu, la mia padrona, dici quello che si aspetta alla bontà tua ; ma egli non è da sopportare la inso- lenza di certi. E così dicendo tutto pieno di stizza si taceva. Ma ella, pregatolo e scongiuratolo, per amor suo il fece parlare, ancorché egli non volesse. Perchè rassettatosi a sedere un poco meglio, e spinta in fuori la man destra, e come fanno gli oratori, abbassando il dito mignolo e quel che gli surge accanto, e spingendo in fuori gli altri dui, e il grosso dirizzando, mosse le sue parole in questa guisa. Essendo io giovanetto andato in Candia per alcune

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mie bisogne, e desiderando eziandio di vedere i famosi luoghi di quella isola, avendola cercata tutta, capitai con peisimo augurio alla Gania; ed essendomi in parte

mancato la provvisione del viaggio , mentre che io ri- frustando ogni cantone m'andava provvedendo delle cose necessarie alla mia povertà , arrivato a caso in sulla piazza, io vidi un vecchione assai grande starsi in su un petrone , e con chiara voce gridando diceva, che quelli che volessero venire a guardare un morto , dicessero quanto pregio egli volevano. Laonde io, vol- tomi a un che passnva, dissi: Or che è quello ch'io sento? 0 sogliono fuggire i morti in questo paese? Sta cheto, rispose colui allora, che tu mostri ben d'esser giovane e forestiero, e perciocché non ti ricordi di es- sere in Gandia, ove le streghe per ogni canto vanno morsicando il viso de' morti , e con quelle coserelle fanno poscia i loro incantamenti. Ed io a lui: E quanto, se Dio ti guardi , si egli per far la guardia a que- sti morti ? La prima cosa , rispose, tu avrai una mala notte, senza posarti pur un attimo d' ora, senza levar mai gli occhi d' addosso al morto , voltar le luci , anzi pur torcerle in altra parte; perciocché queste ma-

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ladette vecchiarde si trasmutano d' animale in animale, com' elle vogliono , si nascosamente , eh' elle infjanne- rebbon gli occhi del Sole e delia giustizia ; e or sono uccelli, or cani, e poco poi e topi e mosche; e allora con loro empie parole velano pli occhi di queste guar- die con nebbia di sonno foltissima, e non sarebbe al- cuno che potesse raccontare quante trappole trovano queste male femmine per saziar la loro disonesta rab- bia : e nientedimeno, egli non si per guiderdone di cosi faticosa faccenda mai più che la mercede di quat- tro 0 al più sei ducati d'oro. Oh (quel che imporla più, ed io me n'era quasi scordato), se alcuno non restituisce poscia la mattina il corpo intero siccome egli era , tutto quello che si li trovasse manco , tutto quello è sforzato il guardiano a rappiccargliele col viso suo. Avendo io adunque inteso queste cotali cose, non impaurito miga per cosi gran pericolo, anzi fa- cendo un cuor di leone, me ne andai dal banditore, e dissi : Ola, non chiamar più, ecco il guardiano appar- reccbiato: quanti danari si danno? Sei ducati saranno depositati : ma vedi, quel giovane, guarda che tu cu- stodisca con diligenzia da queste male arpie costui, che è figliuolo del primo gentiluomo di questa città. Tu vuoi la baia, non è il vero ? dissi allotta, e da'mi ciance: non vedi tu un uomo di ferro, e da non dor- mir mai, che vede più discosto che Linceo, o Argo f io son tutt' occhi finalmente. Appena aveva io finite queste parole, eh' egli mi prese per mano, e condussemi a una certa casa : nella quale, perciocché le porte eran serrate, io entrai per uno sportello, dove mi fu mostro una certa stanza che aveva chiuso 1' uscio e le finestre, ed era tutta scura ; appresso della quale si sedeva una matrona tutta piena di lagrime, e vestita a bruno ; a cui disse quegli che mi menava : ecco costui, il quale è condotto alla guardia del tuo marito, venuto senza paura veruna. Alle cui parole ella, mandandosi parte de' capelli che le pendevano dinanzi, da un lato, e parie dall' altro, potendo fra tante lagrime nascondere la

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sua maravigliosa bellezza, voltamisl, disse: Vedi quei giovane, di far i' uflcio tuo vigilantemente. Non aver pensier di nulla, risposi, purché tu mi usi di soprappiù qualche cortesia. Ed ella, accennando di far ciò che io voleva, subito rizzatasi, mi menò a quella camera dove era il morto, e, in presenza di sette testimoni, levatili d' addosso alcuni sottilissimi veli, me lo scoperse ; e posciach' eir ebbe pianto un pezzo, con gran sollecitu- dine dimostrandomi le di lui parti per ordine, secondo ch'elle erano scritte in su un foglio, diceva: Ecco il naso intero, ecco gli occhi senza mancamento, ecco gli orecchi sani, ecco le labbra tutte, ecco il mento saldo: voi, gli miei cittadini, ne renderete testimonianza. E avendo dette queste parole, e suggellato quel foglio, vo- lendosi partire, io le dissi : Ordina, Madonna, eh' egli mi sia portato tutte quelle cose che mi fanno bisogno intorno a di ciò. E che cose son queste? diss' ella. Una lucerna assai ben grande, risposi, e olio che basti a far lume sino al giorno, e dell' acqua, con un fiasco di vino, e un bicchiere, e una tavoletta piena di quelle cosette che vi sono avanzate questa sera a cena. Allora ella, scotendo il capo : Deh va via, pazzo : che cena in casa dove si fa bruno? e vuoi le reliquie donde tanti di sono che e' non ci s' è veduto mai fummo, non che fuoco ? e credi tu venire a sguazzar qua, dove non è convenevole fare altro che piagnere e lamentarsi? E cosi dicendo, voltasi a una sua serva, seguitò : Va por- tagli dell' olio e una lucerna spacciatamente ; e serra- tolo poi in camera, vientene allora allora. Lasciato adunque solo a quel sollazzo di quel corpo morto, strofinandomi gli occhi, per armargli alla veglia, e trastullandomi con alcuna canzonetta, eccoti la notte, ecco le due ore, ecco le quattro, e la paura tuttavia cresceva : e in sulle cin- que, allora quando il filatoio girava davvero, eccoti venire una donnola, e permisi dirimpetto ; la quale guardando fiso fiso, non mi levava mai occhi d'addosso. Volete voi altro? che un cosi picciolo animaletto, per la sua perfidia di quel guardarmi, mi conturbò più che

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cosa che mi fosse iuconlrata (]uella notte ! Pur la paura mi dieJe al fine tanto ardire, die voltandomele con mal piglio, le dissi: Glie non li parli tu, lirutta besticciuola, e vaiti a riporre co' topolini sinnli a te, se tu non vuoi sperimentar le mie forze adesso adesso? che non ti parti tu? Ed ella allora allora, voltatemi le spalle, spari via: vi andò guari, che egli n)i entrò addosso un sonno SI grande, che altri non avrebbe saputo troppo agevol- mente discernere chi di noi due che giacevamo, fosse stalo il morto; sicché senza sensi rimaso, e avendo bisogno d' un che guardasse me, me n' era andato al- trove, e stetti cosi tanto, che i galli cantando, facevano la parte della lor gu rdia : al cui romore destomi tutto pien di paura, me ne andai da quel corpo morto, e le- vato il velo, e accostato il lume, il guardai con dili- genza. E mentre che io mi rallegrava, veggendo che e' non gli mancava niente, quella lueschinella della mo- glie, co' testimonj del di dinanzi, s' entro in camera tutta alTaniiala, e gittatasi subilameute sopra di quel

corpo, e baciatolo infinite volte, così colla lucerna ia mano, gii ricnnnbbp. tutte lo membra ^ncFcrflié vol- tasi, diuiaude di JSiccoio, t; f^u iaifjobe, cfie senza ìp.d'i'

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gìo egli desse al buon CTuanliauo la sua mercede : Ja quale come prima ebbi ricevuta, ella mi disj;e : Giovane, noi ti ringraziamo sommamente; e in verità, che per questa lua estrema diligenza, noi ti avremo sempre in luogo degli altri famigliari. Ed io ctie per lo inaspet- talo guadagno tutto mi stemperava d'allegrezza, abba- glialo in quello splendor di que ducati, che mi balla- van per mano, risposi : Anzi, la mia padrona, fa stima ch'io sia uno de' tuoi servi; e facciati pur bisogno dell' opera mia, come ti accorgerai che io ti son sem- pre per servire fedelissimamente. Appena aveva io fi- nite queste parole, che gli famigliari di casa mi furono intorno alle costole; quello mi percoteva le guance colle pugna, quell'altro mi caricava le spalle colle go- mitate, chi mi batteva i fianchi colle palme, altri mi dava de' calci; molti mi tiravano i capelli, e non man- cava chi mi stracciasse la veste ; e in guisa del misero Orfeo, tutto fracassalo e pieno di sangue fui cacciato di casa. E mentre che io tutto angoscioso per ricrear- mi un poco mi stava su una piazza li vicina, e che ricordatomi, ma troppo lardi, delle inconsiderate mie parole, da me slesso confessava d' essere stato trattato troppo più modestamente che io non meritava ; eccoti arrivare il morto che io aveva guardato, il quale, fi- nito tutte le cerimonie secondo il costume di quella città, era menalo per li più celebrati luoghi al sotter- ratorio con una grandissima pompa. Veniva appresso alla bara un vecchio tulio canuto , pieno di lagrime e di angoscia, e spingendo assai sovente ambe le mani verso il morto corpo, con voce stridente, ma da molti sospiri impedita, gridava: Per la vostra fede, i miei cittadini , per la pubblica pietà soccorrete al morto cittadino, o punite severamente 1' empio fallo di que- sta scellerata e impurissima femmina: questa sola, que- sta, e ninno altro, per compiacere al suo adultero, e mettere le rapaci unghie nella di lui eredità, ha con veneno ammazzato il misero giovinetto, d' una mia so- rella desideratissimo figliuolo. Con questi e altri cosi

^'^ T)EU,*ASTXn d'oro

latti rammarichìi empieva il vecchione le orecchie di tutti coloro che quivi arrivavano; laonde il popolo, perciocché la cosa aveva del verisimile, assalito da una liera crudeltà, gridava ch'ella aveva meritalo il fuoco; e instigavano i fanciulli a correre a casa della malva- gia donna a lapidarla : la quale, essendosi armata delie donnesche armi, piena di lagrime, con quella più si- mulala religione che poteva, chiamando Dio e i santi per testimoni, negava aver commesso l' abbominevol peccato. Perchè disse il vecchione: Rimettiamo il giu- dici© di questa cosa nello arbitrio della divina provi- denza. Egli ci è Zacla egizio, profeta grandissimo, il quale già si ("• convenuto meco per ingordissimo pregio di far tornare dal profondo inferno la costui anima, e di nuovo porla entro al morto corpo. E mentre che egli diceva queste parole, egli fece venir quivi nel mezzo un certo giovane, vestito di sacco, col''^ scarpe tìi palma, p col capo raso: e avendogli più flalt baciate le mani, e abbracciale le ginocchia: Abbi misericordia, gli disse, sacerdote, abbi misericordia di me per le stelle del cielo, per i mobili angeli, per li naturali elementi, per i taciti silenzj della notte, per gli argini delle ron- dini, e per le inondazioni del Nilo, per li segreti mi- steri dell'Egitto, e li cembali di Faro; presta a costui un picciolo spazio di vita, e inspira un poco di luce in quegli occhi, che sono accecali in sempiterno: noi non lo rivogliamo per sempre, alla terra neghiamo il suo tributo; ma per sollazzo della vendetta chieg- giamo un brevissimo intervallo di vita. Scongiurato il profeta per quella maniera, senza altro dire, pose una erbetta alla bocca del morto giovane tre volte, e un' al- tra al petto; e poscia voltosi verso l'Oriente, e taci- tamente adorala la potenzia dello illustrante Sole, con cosi venerevole spettacolo trasse tulli i circostanti a vedere un cosi fallo miracolo. Io mi cacciai la fra la turba, e salito sopra d'un sasso, ch'era vicino alla bara, assai ben sollevato, curiosamente slava riguar- dando che fine dovesse aver questa faccenda. Già

LIBRO SECONDO 49

vedea gonfiargli il petto, già era ritornato il polso en- tro alle vene, ed era già ritornata 1' aniiia al luogo antico. Rizzasi il morto, parla il giovane, e dice: Deh per qual cagione, posciach'io ho bagnale le labbra en- tro alle onde di Lete, e solcata la stigia palude, mi ri- ducete voi di nuovo per questo picciolo spazio al di- spiacevole uficio dell'amara vita? non fate, vi priego, non fate ; lasciatemi stare nella mia quiete. Udendo il profeta queste parole, con voce un poco sdegnata disse: Perchè non racconti tu all'aspettante popolo il fatto tutto intero, e apri le segrete cagioni della tua morte? Dunque non credi tn eh' io possa colli miei incanti in- vocare le furie infernali, e tormentarti le affaticate membra? Perchè egli udendo le minaccevoli parole, rizzatesi di nuovo a sedere in sulla bara, e voltosi al popolo, prese a dire in questa guisa: Io sono stato tolto da quef* 'che voi chiamate vita per gl'inganni della mia novella sposa, e sf rzato dal venenoso beveraggio lasciai con violente prestezza vuoto allo adultero suo il santo letto matrimoniale. Allora la gentil moglie tutta divenuta altiera, sacrilegamente e con efficaci parole rispondendo alle accuse del marito, diceva che egli si partiva dalla verità. 11 popolo in quel mezzo rugghiava, e chi l'intendeva in un modo, e chi nell'altro: una parte avrebbe voluto che la pessima femmina fusse stata insieme col marito messa cosi viva a sotterrare: altri diceva che non era da prestar fede alle parole e menzogne di quel corpo morto, alle prestigio di quell' Egizio. Ma il giov-^ne colle sue parole prestamente tolse via questa contenzione ; e spirando di nuovo più profondamente: Io vi darò, disse, i' vi darò indubitata chiarezza della pura verità, e dirò cosa che alcun di voi non intese giammai. E dopo queste parole, addita- tomi, soggiunse: Perciocché le vecchiarde streghe, de- iiderose delle mie spoglie, trasformatesi indarno più i^olte, essendo costui sagacissimo custode del corpo nio, non avevan potuto ingannare la sua diligenza ; ìnalmente avendolo sotterrato in un profondo sonno,

FlRBNrUOLA 4

HO dell'asino d'oro

non restaron mai di chiamare il mio nome, sintanto che le fredde mie membra obbedissero alle lor voglie: per la qual cosa costui vivo veramente, ma morto nel sonno, avendo il medesimo nome, senza sapere altro, rizzato al suono del nome suo, ancor dormendo, cosi come (anno l'ombre, ancorché le porte fusser diiijfen- temente serrate, se ne andò fuori per un picciol per- tugio ; e quivi pli fu tagliato il naso e gli orecchi, e in mia vece sopportò cosi bruito macello : ed a cagion che nulla mancasse a questo inganno, formando un poco di cera in quella guisa che erano le troncate parti, a misura gliene r.ippiccarono: e ora si sta qui il poverello annoverando il pregio della sua non in- dustria ma del suo sminuimento. Impaurito io adun- que per cosi fatte parole, desiderando chiarirmi s' egli diceva il ve'-o, mi volsi pigliare il naso, ed egli mi cadde: volmisi toccare gli orecchi, ed egli se ne ven- nero: e mentre che colle dita e colle fise guardature io era per cosi fatta maraviglia notato da tutti i cir- costanti, e ognun crepava delle risa del fatto mio, di- venuto tutto pieno d'un sudor freddo, me ne scampai il più tosto potei fra i piedi di quelle brigate; e tro- vandomi poscia e sanza orecchie e sanza naso, e cosi ridicolo, non mai poscia mi diede il cuore di ritornare a casa mia. Come più tosto Ambrogio ebbe finita la sua novella, le brigate, piene di vino, di nuovo si ri- solvevano in riso soverchio liberale; e non restando conlultociò di chieder da bere. Laura voltoli suo par- lare verso di me: Domani è il solenne giorno nel quale furono gittali i primi fondamenti di questa città, nel quale noi con allegre e gioconde feste ci sforziamo ogni anno far grande onore all'affetto del Riso, e sempre cerchiamo nuova materia d' aver donde ridere e ralle- grarci tutto quel giorno : la tua presenza ce .0 farà ancor parere vie più allegro :, e Dio voglia che tu ri- trovi qualche cosa piacevole da te slesso in onor del lieto giorno. Bene sta, diss'io allora, e' sarà fatto la tua voglia : e nel vero io vorrei ritrovar qualche cosa,

LIBRO SECONDO SI

i quale abbondevolmente vi soddisfacesse. Dopo le uali parole, per a'nmonimento del mio famiglio^ il uale mi fece intendere cii'egli era alta notte, assai en pien di vino mi rizzai da tavola; e presa licenzia a Laura, con non saldi passi me ne inviai verso casa :

come noi arrivammo alla prima piazza, perciocché ' traeva un grandissimo vento, e' ci si spense il lume, i maniera che per essere il buio grande, io percossi piedi per quanti sassi erano per la strada : pure ar- ivato alfine vicino a casa, e' mi venne veduto intorno ll'uscio tre grandi e grossi uomini, 1 quali facevano l sconcio romore intorno a quella porta, che io dissi :

la vorranno rovinare : e avvengachè noi fussimo ar- vati loro addosso, e' non mostravano aver temenza i nulla, anzi a gara l' un dell' altro con maggior forza s erano intorno; sicché a tutti noi, e a me massima- lente, e non senza cagione, pareva che fussero crude- ssimi ladroni : laonde, trattomi da canto un mio col- Ilo, che per colali bisogne meco portavate sanza

dugio assaltatili, lo cacciai per li fianchi a ciascun

loro, secondochè io gli trovai combattendo intorno

la porta: tantoché io me li vidi cadere a' piedi. Ges-

52 dell'asino d'oro

salo adunque il romore per quella guisa, io me ne ac- costai a casa, e chiam;ita Lucia, che subito mi aperse r uscio, tutto sudato e tutto trambascialo me n' entrai dentro; e stracco, come chi avea combattuto con .tre ladroni, in iscambio della Decisione di r.erione, presta- mente entrato nel letto, subilo mi addormentai.

LIBRO TERZO

Già aveva la rossepirìante Aurora preso in mano le cerulee briplie de' suoi rosati corsieri, e con allegrezza di lutti i mortali se ne cavalcava per lo cielo; e ?[\^ la notte, toltomi dalla sicura quiete, mi rendeva al chiaro del giorno; quandoché la ricordanza dell'omi- cidio della passata notte mi aveva di mille mali pensieri ingombrata la mente: laonde tirate a me le ganibe, e aggavipnaie le ginoechia colle intrecciate mani, seden- domi in sul letto sopra dell'anche, piangeva amara- mente : e già mi pareva veder la Corte circondarmi, e già mi avvisava d'essere imprigionato: già ascoltava la crudel sentenza condennantemi alla morte ; e già m' immaginava avere il manigoldo dintorno : e diceva meco mef'es mo: chi sarà quel giudice cotanto mansueto, cotanto amico, cotanto pieghevole, il quale possa libe- rare uno che sia macchiato nel sangue di tre cittadini? questo è adunque quel viaggio jl quale volea queiTosti- nato astrologo che m'avesse a esser cosi glorioso ? E men- tre che io, con queste e simili altre parole, a caldi occhi piangeva le mie disavventure, io udii intorno all'uscio un gran romore; e in quello che io ascollava che ciò potesse essere, tutta la casa ad un tratto s'empiè di birri; e due di loro di comandamento del bargello messomi le mani ad- dosso, senza ch'io facessi difesa alcuna, allora allora me

LIBRO TERZO 83

ne menarono fuor di casa : e alla prima strada che noi arrivammo, tutta la città corse a rumore, e ci si mise a seguitare: e benché io, come ctìi era pien di manin- conia, me ne andassi col capo basso, anzi fitto nel centro della terra, pur sruardando alcuna volta cosi per traverso, io m' accorsi d' una cosa degna di mara- viglia; e quest'era che fra tante brigate, che mi erano dietro, egli non ve n'era alcuno che non isniascellasse dalle risa. Or quando noi avemmo, in guisa di quelli che fanno le processioni per impetrar grazia dal grande iddio, circuite tutte le piazze, e aggiratoci per quanti fiutoni v'era, io fui condotto in ringhiera dinanzi al t ibunale della giustizia : vi era tetto o luogo al- curio, che non fosse stivato di gente : chi stava abbrac- ciato alle colonne, chi si spenzolava dalle statue, e molti si mostravan mezzi dalle finestre : infiniti eraa su per li palchi : e tanta era la cupidità del vedere, che e' non pareva che per ciò fare eglino stimassero pericolo 0 disagio alcuno. E posciachè ognun di loro si fu assettato chi qua e chi il meglio eh' e' poteva, essendo menato entro in guisa d una vittima, fui fatto fermare innanzi dove si sedeva il presidente della giustizia, e gli altri più onorati uomini della cut3 S allora il banditore, imposto silenzio a tutto il popolo, al modo antico, citò lo accusatore che proponesse la causa sua: perché un vecchione, andatosene in un luogo eminente, donde e' potesse essere inteso e veduto da tutto il popolo, posciachè egli ebbe voltato un suo orinolo, e' parlò in questa guisa. Non è picciola cosa, discretissimi cittadini, quella che io intendo porvi da- vanti in questo giorno, ma riguardante la pace e la quiete di tutta la vostra citta, e la quale col santo esempio le ha ad arrecare grandissimo giovamento: egli i è adunque conveniente per lo mantenimento della quiete, per la pubblica dignità, con ogni maggior diligenza provvedere che lo scellerato omicida non ab- bia empiuto tutta questa citta dello innorpute sangue della abbominevole occisione di tanti ciiudini, senza

S4 dell'asino d'oro

che egli ne sìa punito severamente. pensate già che io mi sia per private inimicizie mosso ad incrudelire contro a questo empio e scellerato lo sono preposto, come sapete, alle notturne guardie di questa citta ; credo che alcuno, per vigilantissimo ch'egli si sia, possa incolpare la mia diligenza. Io vi racconterò adun- que la cosa; e quello si sia fatto di notte, fedelmente vi farò sapere. Essendo andato io adunque, poco dopo la mezza notte, minutamente ricercando tutte le parti di questa città, e' mi venne veduto queli'iniqui- loso giovane colla spada ignuda per ogni canto far carne ; e già giacerne a' suoi piedi tre, tutti imbrodolali di s:ingue, che ancor davano i tratti, tutti stramazzati per le sue crudelissime mani. Perchè egli punto, e me- ritamente, dalla sua coscienza, subito spari via; e per essere il buio grande, egli entrò in non so che casa, dove egli è stato nascosto tutta la notte: ma por di- vina provvidenza, la quale non lascia alcun f.illo im- punito, anzi che egli d' indi se ne scapolasse per alcuna segreta strada, aspettata la mattina io provvidi che egli fusse menato dinanzi al vostro illustrissimo co- spetto. Voi avete un reo macchiato di tante occisioni, un reo preso in sul fatto, un reo forestiero : date adun- que la sentenzia costantemente contro a costui, il quale, dato mille volte che fusse vostro cittadino, io vi cono- sco cosi giusto e cosi animoso, che voi non lascereste che voi non lo puniste con grandissima severità. più tosto ebbe fermo la crudel voce il fiero accusatore, che il medesimo banditore mi fece intendere, che vo- lendo io rispondere cosa veruna, io cominciassi. Ma che poteva io per allora fare altro che piagnere? mi spa- ventava per mia fé' tanto l'acerbità dell' acrusa, qufinto faceva la macchiata coscienza ; pur sentendomi, la mer- cé del Cielo, destare entro al petto un subito ardire, cosi risposi: lo so molto bene quanto e' sia diffìcile ad uno che sia incolpato d'aver dato alla morte i corpi di tre cittadini, e confessi il delitto spontaneamente, persuadere, ancorcliè dica il vero, a tanta moltitudine

LIBRf» TERZO 58

la sua Innocenza ; ma se per vostra umanità voi ne porgerete pubblicamente le pazienti orecchie, io non dubito di farvi toccar con mano, che io sono in peri- colo della vita non per mia colpa, ma per fortuito caso d'una ragionevole indegnazione, e a torlo sostengo i gridi di si gran p ccato. Perciocché, tornando iersera un poco tardetto da cenar fuor di casa, essendo assai ben carico (io non posso già negar quello che io co- nosco esser vero) cosi del cibo, come del vino, io ri- trovai avanti alla porta del mio alloggiamento, cioè intorno a casa di queir uom dabbene di Petronio vo- stro cittadino, tre crudelissimi ladroni, i quali cercavan di levar l' uscio d' in su i gangheri, avendo già per forza rotti gli anelli del chiavistello (che Dio sa s' egli era acconcio con diligenza) ; e cominciando già seco a deliberar della rovina della brigata di casa, uno, il più robusto e di maggior persona, invitava gli altri con queste parole: Orsù giovani, assaltiamo virilmente e con allegra fronte questi dormiglioni; ogni indugio, ogni viltà disgombri il vostro petto; colla spada ignuda in mano non si veda altro che sangue: chi giacerà addormentato, diamogli la morte ; chi volesse contra- stare, sia rimesso colle ferite: e allora ritorneremo salvi e sicuri, se non rimarrà in casa alcuno salvo o sicuro. Io confesso, pietosi cittadini, che pensandomi di far r ufi ciò di buon gentiluomo, e de' miei ospiti e di me stesso forte dubitando, eh' io volli con un pic- ciol pugnale, eh' io per cosi fatti pericoli era usato di portare allato, dar la caccia, e impaurire quei ribal- doni : ma eglino ostinati e crudeli, non si vollon dar miga a fuggire; anzi, posciachè egli mi videro coli' ar- me in mano, fecero una valorosa resistenza : la mischia fu grande; e avendomi alla fine il capitano e bande- raio degli altri assaltato con una gran forza, e presomi per li cappelli con ambe le mani, e tiratomi all' indietro per volermi dar un sasso nel capo; il quale mentre che egli chiedeva a un de compagni, io gli menai con salda mano un colpo con tanta felicità, che io lo di-

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stesi per terra: e poco poi diriiio a un altro, che coti mordace boci'a mi si era avviluppato intorno a' piedi, un colpo per le spalle, pli feci il medesidio scherzo: il terzo infilzandosi da stesso per lo gran buio im- provvisamente in quel coltello, si passò per lo petto da banda a banda. Avendo io dunque in colai guisa acquistatomi la pace e la difensione della casa del mio» ospite e la mia salute, non solamente mi persuadeva non ne dovere esser punito, ma ne attendeva pubblica lode. Io mai più non fui richiesto a corte alcuna per qual- sivoglia minimo peccatuzzo; ma tenuto prode e valo- roso al mio paese, sempre preposi la innocenza a qualunque modo particolare. so io per qual cagion vedere d' una giusta vendetta, la quale io ho usato contro a di questi iniqnissimi ladroni, ora ne sostenga questa accusa, quando niuno può dimostrare che fra noi fossero vecchie inimicizie, o eh' io mai avessi avuto commerzio alcuno con questi assassini, e che egli non si vede alcuna preda, per cupidità della quale io sia incorso in questo misfatto. E posciach' io ebbi detto queste cose, di nuovo incominciato un dirotto pianto, e facendo delle braccia croce, per la pubblica miseri- cordia, per l'amor de' figliuoli, or pregava questi e or quegli altri ; e chiamando fra tante lagrime e fra tante preghiere in testimoniiinza della mia innocenza gli oc- chi della giustizia, veggenti tutte le cose, e raccoman- dando il mio calamitoso caso alla divina providenza; quando io mi pensava che la loro natia umanitfi, so- praggiunta per li miei pianti da una carnai tenerezza, movesse la maggior parte di loro ad aver misericordia della mia sventura; io mi accorsi aver fatto tutto il contrario, e vidi tutto il popolo non ridere, ma crepar delle risa: e quello, che mi parve più strano, fu lo ac- corgermi che '1 mio buon Petronio, mio padre e mio ospite, non rideva manco degli altri. Perchè raddoppiato il rancore, diceva cosi tra me: Questa è adunque la fede? questa è la carità? la coscienza è questa? Ecco che io per ia salute dei mio ospite, divenuto omicida,

LIBRO TERZO «7

mi ritruovo in pericolo della vita: a lui basta l'a- vermi mancato la sua difensione, e l'essermi avvocato, che egli si ride della mia rovina. E rammaricandomi io per cosi fatta maniera, eccoti venire correndo, per lo mezzo della piazza una donna vestita a bruno, con un picciolo fanciullo in collo, tutta piena di lacrime, appresso della quale una vecchierella di grossi panni vestita, non manco romor di lei col pianger facendo, se ne veniva; e avendo amendue portato alcuni rami d'ulivo salvatico, subito arrivato, gli misero intorno al cataletto; e poscia, levate le strida al cielo, lamen- tevolmente gridavano: Per la pubblica pietà, per lo comune laccio della umanità, abbiate compassion di Questi giovani tagliati a pezzi indegnamente; abbiate misericordia della nostra vedovanza, della nostra so- litudine, del danno nostro ; soccorrete a questo picciolo fanciullo, privato ne' suoi più teneri anni d' ogni suo bene ; dateci almeno il sollazzo della vendetta, e col sangue di questo scellerato fate sacrificio e alle vostre leggi e alla pubblica disciplina. Dopo le quali parole il presidente della giustizia in pie levatosi, rivolto al po- polo, disse : Della scelleratezza, la quale si dee con se- verità non picciola castigare, noi non avemo dubitanza veruna, quello stesso che l'ha commessa, comecché egli non la nieghi, non potrebbe volendo anche negarla ; ma un solo scrupolo ne rimane : e questo è, che noi cerchiamo di sapere chi furono i compagni a grande ribalderia; conciossiacosaché egli non è verisimile che un uomo solo abbia ammazzato tre giovani cosi ga- gliardi. Laonde egli é da spiarne il vero co' tormenti; che così vi accorgerete eh' egli non era solo ; e la cosa é stabilita in questo, che per sua esamina egli ci con- fessi chi furono i compagni, a cagione che egli si sbar- bichi fino a' fondamenti questa brutta fazione. vi andò guari dopo queste parole, che un' infinità d' istru- menti da dar martorio furono preparali ; la qual cosa certamente mi accrebbe, anzi raddoppiò il dolore; im- perocché avendo a morire a ogni modo, io desiderava

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(li morire intero. Allora quella donna, la quale co' suoi

pianti aveva conturbato tutto il popolo, disse: Avanti

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che voi, spettabili cittadini, poniate alla tortura il de- struttor de' miei cari figliuoli^ lasciatemi discoprire i lor morti corpi, acciocché contemplando tutto a un tratto la loro bella presenza e la verde etade, voi mag- giormente vi accendiate alla vendetta. Fu consentito alla sua domanda; e però mi comandò uno de mini- stri della giustizia, che io stesso gli discoprissi lo non voleva per niente, come colui al quale pareva fare il suo peggiore a porre di nuovo innanzi agi occhi del popolo cosi spaventoso spettacolo: il medesimo mini- stro, per un comandamento del presidente, con gran- dissima istanza mi costringeva a ciò fare : e veduto al fine, che io pure stava renitente, presami per forza la mano, a mio dispetto n\n la mise sopra della bara. Vinto adunque dalla necessità, io divenni obbediente: e tirata a me la coltre, a mia onta gli discopersi. 0 buono Dio, che cosa fu quella! Che mostro! Qual re- pentina mutazione ebbero le mie miser el E parendomi esser già fra i sergenti di Lucifero per uno della fa- mìglia dell'inferno, in un tratto mi parve ritornare in

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vita; ma parevami nondimeno non esser quel ch'io era, dove io era, ma un altro, e in un altro modo: posso io già espriinere colle parole come si stesse quella nuova Immagine ; perciocché i corpi morti di quegli tre uomini erano non uomini, ma tre otri gon- fiati, e secondochè la memoria della passata sera mi ammoniva, sforacchiati appunto in que' luoghi nei quali mi pareva aver fitto il mio pugnale. Allora la gente, che per astuzia d' alcun di loro aveva ritenute le risa un pezzo, tutta si diede a smascellare: e mentre che per la soverchia allegrezza l' un voleva far festa all'al- tro, egli era lor mestiero, per non crepare, porsi le mani a' fianchi : e cosi tutti allagati in un mar di le- tizia, e guardandomi fiso fiso, sgombraron la piazza. Ma io, come più tosto ebbi rimossa quella coltre , ri- masi freddo, non altrimenti che se io fussi stato una colonna, o qualcuna di quelle statue della piazza : prima mi parve esser ritornato, se non allora quando il mio ospite da me se ne venne. II quale, perchè io di nuovo piangeva e singhiozzava, presomi per mano, ancorch'io gliel negassi, con una clemente violenza seco me ne menò, e per le più solitarie strade e più segreti chiassolini che potè, mi ridusse a casa sua ; dove il meglio che egli seppe mi attese a consolare; ma non mai potè far tanto che egli mi levasse dal cuore una certa indegnazione, che mi v'era per la ri- cevuta ingiuria troppo altamente penetrata. E mentre ohe noi cosi ne dimoravamo, due gentiluomini de' primi della città con pubblico mandato da noi se ne vennero; ed entrati in casa, con queste parole cercarono tormi dal cuore il conceputo sdegno: Noi non siamo igno- ranti, il nostro Messer Agnolo, dell'esser tuo de' tuoi maggiori; imperciocché le opere dell'avolo tuo materno, lasciamo star le tue, furono tali, che eziandio in questa nostra città si leggono alcuna volta ; e questo di che tu li duoli cosi agramente, non é stato f.Uto per farti villania. Scaccia adunque da te ogni rancore, e leva cotesto verme dall' animo tuo ; imperciocché

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questo giaoco, che noi ojiiii anno celebriamo per ri- dere per la noviU della sua invenzione, e questo al- legrissimo e dolce affetto accompagna continuamente con grandissima amorevolezza in ogni luogo lo suo au- tore, né mai comporta che egli si dolga davvero, anzi assai soventi' empie il suo seno d'una modiìslissiiaa allegrezza. Per lo qual beneficio tutta la citt.1, oltre alla grande obbligazione che ha teco contratta, ti ha offerti onori grandissimi; perciocch'eila t'ha scritto tra' suoi difensori, e ha avuta una provvisione che la tua immagine stia di bronzo a tuo perpetuo onore sulla piazza sua. Allora io, udendo il lor parlare, risposi : Bella città, e unica di tutte l'altre d' Italia, io ti rendo pari grazie alle profferte, confortandoti nondimeno a riservare le statue agli uomini più degni e di maagior pregio eh' io non sono. E avendo con quMla modestia che io poteva la maggiore, dette queste parole, ridendo cosi un pochetto per mostrar d'esser allegro, con as- sai benigna fronte accompagnai i gentiluomini, che già partir volevano, sin fuor dell'uscio. mi era a fatica spiccato da loro, che un famiglio di Laura a me cor- rendo se ne venne, e dissemi: La tua Laura ti manda ricordando la promessa che tu gli facesti ieri, d' esser questa sera a cenar seco; e perciocch'egli è oggimai l'ora, ti prega che solleciti il venire. Laonde io, che mi raccapricciava udendo di lontano nominar quella casa, risposi: Come vorrei io poter essere ubbidiente a' comandamenti della mia madre, se egli mi fusse le- cito senza rompimento di fede! Il mio ospite, scongiu- randomi per la solenne allegrezza dell'odierna festa, ha voluto ch'io sia con lui, e io glie]' ho giurato; ora mi vuole dar licenzia differiscasi adunque la mia promessa a un' altra volta. Appena aveva io finite que- ste parole, che Petronio, fattosi arrecar tutto quello che faceva mestiero per lavarsi, presomi per mano, ne condusse alla più vicina stufa che vi avesse. Perchè io schifando gli occhi altrui, e quel riso che io stesso mi aveva fabbricato, come meglio poteva sotto di lui mi

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copriva : come io mi lavassi, come io mi rasciu- gassi, 0 me ne tornassi a casa, per la verftogna grande che mi aveva tratto fuor di me, non mi puote ancora tor- nare alla fantasia e cosi guardato da ognuno, e accennato ognuno, pieno di sdegno, ne ritornammo a casa. E avendo poscia con assai prestezza trangugiato quella poca cena di Petronio, impetrata agevolmente licenzia da lui, me n'andai a dormire. E stando sul letto a giacere, mi an- dava rivolgendo per la fantasia i passati travagli ; per in- flno a tanto che Lucia, avendo messa a dormire la padrona, da me se ne venne; ma molto dissimile a quella ch'ella soleva, non colla faccia allegra, non col parlar piace- vole, ma col viso arcigno, colla fronte piena di crespe, timida e sospettosa finalmente mi disse: Io stessa, lo confesso d'accordo, io stessa sono stata la cagione della tua tribulazione. E trattosi di seno un cintol di cuoio,

e porgenlomelo, seguitò: Prendi, che io te ne prego, prendi li vendetta di me perfida femmina, avvegnaché maggior supplizio merita il mio peccato : fammelo adun- que sontir-: ma non creder però che io ti abhia pro- cacciato volontariamente questa miseria: non piaccia uiu ciie per mia cagione tu patisca un minimo tra-

62 deh/ ASINO d'oro

vaglio; e se alcuna rovina pende sopra del capo tuo, rimuovasi da te, e ven^a sopra di me; ristorisi col sanpiue mio opni tuo danno: ma quello che io fui for- zata fare in altrui, per mia trista sciao;ura è ritornato in tua vergogna. Allora io, che per altro era natural- menle curioso d'intendere ogni cosa, desiderando con motteggi di sapere come il fatto fusse passato, le dissi: Questo cintolo crudelissimo di tutti altri e troppo ar dito, il quale tu mi hai arrecato, perciocché egli ti flagelli, tagliandolo in mille pezzi, prima lo farò in nicinte tornare, che egli pur tocchi non che batta la tua delicata e bianca pelle. Stiesi adunque da canto, e 1u in quello scambio mi racconterai, che cosa sia stata quella che da te ordinata in altrui rovina, si sia coivertita in nostro oltraggio. Io ti giuro per lo tuo bellissimo capo, che io non potrei mai credere ad al- cuno, né eziandio a te medesima, benché tu me lo af- fei-massi con giuramento, che tu avessi pensato mai cesa del nìondo per farmi villania: e veramente che Io incerto accidente e contrario al primo instituto non può far degne di colpa le sane cogitazioni. E colla fine di questo parlare io mi beeva gli occhi della mia Lu- cia bagnati e tremuli, e già per la soverchia libidine tutu di fuoco. Perchè ella, mezza racconsolata, anzi (,nà divenula allegra, disse: Abbi, ti priego, tanta pa- zienzia. eh' io serri la porta della camera, acciocché, se per la soverchia licenzia del parlare fussi udita, io non commettessi qualche glande scandolo. E detto que- sto, messa la nottola nel!' uscio, e puntellatolo molto bene, da me se ne ritornò : e gittatomi ambe le mani al collo, Con bassa e rimessa voce mi disse: lo ho paura, io tremo a discoprire gli ascosi misteri, io mi raccapriccio a rivelare i profondi segreti della mia pa- drona ; ma i' piglierei fidanza di te e della dottrina tua, il quale oltre il valore de' tuoi maggiori, dopo il grande ingegno, avendo qualche parte di sacerdozio, certamente hai conosciuto la fede del santo silenzio: tutto quello, adunque,, che io commetierò negi' iatimi prectìxdj del

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tuo religioso petto, to ti prego che sempre rinchiuso ritenga, e ristori colla tenacità del tuo tac3re la sem- plicità del mio riferire ; imperciocché la forza d'amore, colla quale io ti sono insolubilmente allacciata, costri- gne me, che sopra tutte l'altre donne la conosco, a farti ogni cosa palese. Già saprai tutto lo stato di no- stra casa, già intenderai i segreti miracoli della mia padrona, alla quale obbedisce l' inferno, si conturbano le stelle, sono costretti gli spiriti, servono gli elementi; mai fa maggior prova con questa sua arte, se non allora quando amorosamente risi^uarda qualche leggia- dro giovanetto: la qual cosa le suole intervenire assai sovente; ed al presente ella arde d'un giovane, il quale è sommamente bello, ed esercita in lui tutti gli strumenti, tutte le macchine. Io udi' iersera, io lo udì' con queste mie orecchie, che se il sole non affrettava il suo corso, e non dava con prestezza luogo alla notte, tempo capace alla celebrazion de' suoi incanti, ella il coprirebbe d' una caliginosa nebbia, e vestirebbelo d'una perpetua oscurità. Ora avendo costei veduto ieri, men- tre eh' ella tornava da messa, questo giovane sedersi entro a una barbieria, ella mi comandò eh' io rico- gliessi alcuni de' suoi capelli, i quali, perchè il barbiere gli avea tondala la zazzera, erano sparsi quivi per terra. E mentre che io cosi di nascoso gli raccoglieva, il maestro se ne accorse, e perciocché noi siamo infami già per altro di quest' arte, egli mi prese per un brac- cio, e dissemi una carta di villania: Tu non vuoi re- stare eh, vituperio del mondo, diceva, d'andar rico- gliendo le tondature de' capelli de' poveri giovani? Se tu non te ne rimani, io ne porrò richiamo a corte ; e aggiugnendo alle parole i fatti, messomi le mani in seno, tutto adirato, ne trasse parecchi che io di già vi aveva nascosti. Dopo la qual cosa essendo io già gran- demente affannata, ricordandomi infra me del mal co- stume della mia padrona, la quale, adirandosi per ogni piccola cosa, mi suol dare di molte battiture, pensava li fuggirmi; ma lo amor ch'io ti porto mi costrinse

6i dell'asino d'oro

a disgombrare questo pensiero: e per non tornare a casa colle man vote, accortami d' un che con un paio di forbice tondava certi otri di pelle di capra ben gon- fiati, perciocché quelle tondature erano bionde, e simili a' capelli di quel piovane, io ne ricoisl parecchi, e mo- strando rlie lusserò di colui, gli portai alla mia padrona : e rosi ella in sul farsi sera, anzi che tu arrivassi da casa Laura, tutta conturbata salse sopra d' un certo tavolato eh' è sulla più alta parte della casa ; il qual luogo ella, per esser comodo all' arte sua, usa massi- mamente quando vuol fare di segreto qualche incanto: e come prima vi fu arrivata, col suo solito apparecchio ella spiegò la pestifera bottega. Quivi era d'ogni ragione spezierie, e piastre di metallo piene di non conosciute lettere; quivi si scorgevano delle naufraghe navi mille rimasugli; quivi si trovavan de' sepolti corpi infinite membra ; di quello il naso, di questo le dita, e di molti appiccati per la gola i carnosi calli ; più era un' am- polla di sangue di morti da omicida coltello, e da un altro canto stava un teschio d' un uomo stato da cruda fiera divoralo. E avendo d(!tte molte parole, sopra tutte quelle cose vi spruzzò su acqua di fontana, latte di vacca, mele di monti, eziandio della cervogia ; e avvi- luppando que' capelli insieme con molti odori, gli gittò

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ad abbruciare: allora allora per la podestà di quel- l'arte, e per una vecchia violenza di demoni costretti da lei,.juegli otri, de' quali fummavano gli peli, si em- pieron di spirito, e andarono; e dove gli traeva il puzzo delle loro spoglie, oltre forzatamente se ne vennero; e in cambio di quel giovane, pieni di desi- derio d'entrar dentro, facevano quel rovinio dintorno alla porta; allora quando tu, altetto un po' dianzi, e ingannato dall' oscurità della notte tenebrosa, tratto fuori il pugnale animosamente, in guisa dello stolto Aiace, non come egli già in un branco di pecore in- crudelisti, ma assai più valorosamente distendesti per terra tre otri di capra; acciocché io ti potessi senza che tu fussi macchialo di sangue, posciachè tu avevi ammazzato i nimici, abbracciar non come omicida, ma come otricida. Sentendomi io adunque beffeggiare dal piacevo 1 parlare della mia Lucia, le dissi : Orsù, io posso adunque annoverare questa prima boria delie mie virtù a comparazione d'una delle dodici di Ercole, o vuoi quella di Gerione che aveva tre corpi, o quella di Cer- bero che si trovava tre capi, avendo ammazzati tre come lui ; ma come io volentieri ti rimetto quella in- giuria per la quale tu mi hai fatto stare in tanta an- goscia, dammi quello ch'io vo cercando con grandis- simo desiderio: mostrami la tua padrona, quando ella fa una di queste maraviglie: io ho una voglia ch'i' mi stempero, di vedere una volta cogli occhi miei un fatto cotale. Benché io penso oggimai, che anche tu ne sia ignorante: io so questo, che certamente lo provo, che essendo per altro poco vago de' matronali abbrac- ciamenti, tu m' hai con cotesti tuoi occhiolini sfavil- lanti, con cotesti capelli risplendenti, e con quella ri- dento bocca, con quelli amorevoli basciozzi, con quelle crude e odorose mammelle, fattomiti in modo suggello 0 obbligato, ch'io ti sono schiavo, e volentieri; e di- menticatomi oggimai della mia casa, non mi curo più 0 pur penso di ritornarvi ; è cosa alcuna, che io an- teponessi a questa notte. Come vorrei, rispos' ella a

FIRENZUOLA 3

6fi dell'asino d'oro

questo, il mio Annoio, polor s.i/.iaro la voglia iiinf nia per {ili ruvidi costumi altrui, avendo ella l' animo sem- pre pieno di sollecitudine e di paura, è costumata, o^ni volta eh' ella mette in opera questi suoi seo:reti, fu?sir sempre il cospetto delle brigale : ma io posporrò il mio pericolo alla tua richiesta, e osservata ia opporiunitJi del tempo, vedrò con ogni dilipenza di saziarti ; purché, come io ti pregai nel principio, tu sia contento non ne far parola. E cosi garrendo l'un coli' altro, una mutua vogliane partecipi con ogni mio vantaggio delle dol- cezze di Venere: ed entrato poscia ne' miei occhi, strac- chi giri per lo soverchio vegghiarp, un dolce sonno, mi dormii fino che la notte rendesse al giorno le pompe sue. E in quella guisa con assai mio sollazzo passarono alcune poche notti ; sino che un di, fra gli altri, )a Lu- cia tutta affannala e timorosa mi venne dicendo, che la padrona, non profittando dell'amor suo con altro modo che con queste sue arti, si voleva la seguente notte trasmutare in uno uccello, e in quella guisa vo- larsene in grembo al suo desiderato; per la qua! cosà io mi mettessi a ordine se bramava saziare il mio ap- petito. E venuta ella, fra le tre e le quattro ore, io fui con cheti passi condotto vicino a quel terrazzo di le- gname ch'io vi dissi di sopra: e giunto che io fui lassù, ella mi fece vedere per una certa fessura del- l'uscio tutto il convenente. La prima cosa, ella si trasse tutte le vesti, e aperta una cassetta, ne cavò fuori pa- recchi bossoletti; dell'un de' quali levatone il coperchio, e trattone certa unzione, posciaché se la fu rimenala un pezzo per le palme, si unse dalla cima del capo in- sino ."He punte de' piedi, e avendo parlato un pezzo di segreto colla lucerna, si scosse oo?t un pochetto : dalla quale a poco a poco si videro spuntar prima certe piume, poi nascer le penne ; il naso divenne torcen- dosi un becco, le unghie appuntandosi si aoncinarono; finalmente ella divenne un assiuolo : e mandando fuori uno di que' suo' urli maninconosi, facendo prova prima delfatlo suo, a poco a poco si alzava da terra; e poco

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poi levatasi in aria, si mise a yoIo per lo ciclo. Ma a me, non incantato da parole alcune, ma rimasto immo- bile per cosi fatta maraviglia, pareva esser ogni altra cosa che Agnolo, e fuor di me attonito e balordo veg- ghiando sognava; perchè stropicciatomi più volte gli occhi, guardava pure con diligenza se io dormiva: pur

finalmente ritornato ne' sensi, presa la mano di Lucia, 0 accostatamela agli occhi, dissi: deh sia contenta, eh ti io te ne prego, mentre che ne è concessa l'occasione, eh' io fruisca un singoiar frutto della tua affezione, e fammi parte d' un poco di quella stessa unzione : io te lo chieggo per coleste tue maminelle, la mia dolcezza ; e con questo irremunerabil beneficio obbligati in per- petuo questo schiavo, e fa di grazia, che io possa colle piume fruir teco, come Giove con Leda, gli amorosi desiderj. Ah cosi mi tradisci, diss'ella, il mio amante, 0 fa' mi da me stessa colla mia asce percuotere nelle mie gambe? Dunque vuoi ch'io conservi il mio amoro per le meretrici di Bologna? E dove ne andrei ricer- cando, posciachè egli fusse divenuto uccello? quando lo rivedrei io? Allora io le. risposi: Rimuova Dio cosi

68 dkil' ASINO d'oro

gran fallo ; e sia certa, ancorch'io avessi le porrne aqui- line, e iiolessi alzarmi per tutto il cielo, nunzio fldelis- sinio e lieto provvisionalo di Giove, eh' io, posto giù la dignità delle penne, non me ne volassi al mio dolce nido, lo ti giuro per lo soave nodo di questi tuoi ca- pelli, col quale tu mi hai allacciata l'anima, che io non vorrò mai altri che la mia Lucia; anzi ho que- sto sopra tutti gli altri pensieri, che come io fussi ve- stito di quelle penne, di star lontan dalle case un trar d'arco almeno. Oh come bello e come festevole amante Si goderebbono le matrone, godendosi uno assiuolo I e, che è peggio, quando un di cotesti uccellacci entra in qualsivoglia casa, or non lo vediamo noi prendere con ogni sollecitudine, e appiccare alle porte, e fargli pagar quel danno, che cogl' importuni loro voli e' minacciano altrui, colla morte loro? Ma quello di ch'io mi era presso che dimenticato di domandarti, con che parole, 0 in qual modo trattomi le penne ritornerò io al mio essere? Sta di buon animo, rispose ella, che tutto quello che fa mestiero int' rno a ciò, io il so troppo bene; perciocché la mia padrona mi ha mostrato tutte 1(3 vie, le quali possono far gli uomini di nuovo ritor- nare alle lor forme : creder già eh' ella abbia fatto questo per amore che ella mi porti, ma a cagione che ritornando essa, io le possa ministrar le cose che le bisognano. Guarda adunque con che picciola, con che frivola materia si procuri cosi gran cosa. Prendesi un poco d' aneto, e messo con parecchi foglie d' alloro neir acqua, e dato bere, o fattone una lavanda, ne rende la forma di prima. E posciach' ella ebbe queste cose più volte affermato, entratasene con gran cura di non esser veduta in quella stanza, e tratto fuori un bossolo di queir arca, me lo diede; il quale subito che ebbi, avendo io imprima abbracciato e baciato, il pre- gai che mi fosse favorevole al volare. Quivi spogliatomi subitamente tutte le vesti, vi misi le mani assai avi- damente, e cacciato molto bene di queir unto, me ne stropicciai tutte le membra, e poscia battendo or que-

Sto e or quel bràccio, per la ^rdn brama che io avea di volare, parendomi tuttavia che fusser divenute due ali; ma ninna piuma appariva, niuna penna non ispun- tava: anzi i miei peli s'ingrossavano in setole, e la mia pelle s'indurava in cuoio; le dita perdendo il lor numero,, s' inceppavano in una unghia sola; e oltre, dove terminava il fil delle rene, calava una pannoc- chiuta coda: la mia faccia divenne bruttissima e lunga, li naso si aperse, le labbra cresciute in carne mi pen- zolavano, e r orecchie rivestite di orridi peli, appun- tatesi, crebbero sconciamente. Non polendo più la Lu- cia mi vedeva crescere tutte le membra: le quali per povertà di salute mentre ch'io andava considerando, io mi accorsi d' esser convertito non in uno uccello.

■ma in un bello asino: della qual cosa mi voleva ram- maricare con Lucia, ma io era privato e della forma e della voce dell'uomo; e quello che io solo poteva, spinto solo innanzi T ultima parte delle labbra, e con umidi occhi cosi per lo traverso riguardandola, tacita- mente me le raccomandava. Ma ella, come più tosto mi vide IQ quella guisa, percossasi fronte con im-

70 DKI.l' ASINO d'ouo

porluna roano, grillava : misera alla vita mia , io sono disfatta: la paura e la fretta insieme m'hanno ingan- nato , e la sinrifflianza de' bossoli : ma manco malo è , posciachè egli con agevol medicina si potrà «medicare; imperciocché eoroe tu n'avrai piti tosto morseccbiato parecchie rose , tu lascerai d' es<er asino, e ritornerai nel mio bello Agnolo : e Dio volesse che cosi conie lo soglio , io ne avessi colto iersera qualche gbirlandetta, che non patiresti disagio pur d' una sola notte : ma come prima egli apparirà il di , sia di buona voglia, che io preparerò la medicina. Cosi parlava ella pian- gendo ; e io, ancoraché fussi asino interamente , e in cambio d'uomo una bestia, nienledimanco riteneva il senso umano; e però pensava fra me, se io doveva co' calci e co' morsi ammazzare quella tristissima fem- mina : dal qual pensiero temerario , più sano consiglio mi rivocò, e considerai che castigandola col darle morte, io mi privava d'ogni aiuto e d'ogni consiglio. Perchè, abbassando il capo e scotendo , e rugumandomi così fra me la temperai contumelia, e servendo al mio duro accidente, m' inviai verso la stalla del mio cavallo, dove era eziandio un altro asino, il quale era di Petronio ospite per 1' addietro : ed estimava che se alcun tacito e naturai sagramento era fra i muti animali , che quel mio cavallo, riconoscendomi , mosso a misericordia mi dovesse dare spazio nei più netto e miglior luogo di quella stalla. Ma, o Rettor dell' universo , e segreta di- vinità della Fede t quel gentil mio palafreno, accordato coir asino a' miei danni, temendo che io non togliessi lor la biada, appena mi vidono approssimare alla man- giatoia, che rizzando le orecchie, che prima erano lan- guide e penzoloni, mi diedero parecchie coppie di calci delle cattive, e cacciaronmi un pezzo lontano da quel- r orzo , il quale aveva dato io colle mie mani a quel mio valente corsiere la sera dinanzi. Laonde, mal con- dotto, tutto solo me ne andai in un canto della stalla: e mentre che tra me 5165^80 io ripensava la insolenzia de' miei compagni , e deliberava che venuto il giorno.

LIBRO TERZO 71

ritornato al mio proprio essere, di vendicarmene sopra del mio cavallo, e' mi venne veduto attaccato a una colonna, che essendo nel mezzo sosteneva la trave del palco, un taberAacoletto, entro al quale eran dipinte in carta non so che figure, il quale era stato di fresco tutto di rose inghirlandato. Perchè io, conosciuto il buono aiuto, tutto pieno di speranza mi rizzai co' piedi dinanzi con quella più gagliardia che io poteva, e al- lungato il collo, e stese le labbra in fuori, cercava di aggiugnere qualcuna di quelle rose : e come volle la mia mala sorte, mentre che io si mi spenzolava, un mio famiglio, al quale io aveva dato la cura del mio cavallo, come più tosto mi vide, tutto sdegnato si rizzò su, dicendo: E iosino a quando sosterrem noi quesK. animalaccio, molesto poco fa alla biada di quest' altre bestie, e ora alle figure de' Santi ■? Deh perchè non az- zopp'io e non carico di bastonate oramai questo sacri- Ie??o? E cercando di qualche cosa da mazzicarmi, e' percosse in un fascio di legne; e trattone un pezzo il più grosso e nocchieruto che vi fusse, egli non restò mai di battermi, insintanto che impaurito per un gran fracasso del vicinato, che gridava al ladro al ladro, egli si fuggi. vi andò guari, che un gran viluppo di ladri, aperte le porte di casa per forza, entraron dentro, e la misero a soqquadro tutta; e discacciata per forza una masnada d'armati, che del paese ivi vi- cino eran venuti per soccorso di Petronio, e tutti con fiaccole e con armi facevano giorno della notte (impe- rocché il fuoco e le spade risplendevano non altrimenti che si facci il sole quando e' si leva) se gli lasciando accostare, messasi colle scuri intorno a una guardaroba, che nel mezzo di casa era, ripiena de' miglioramenti di Petronio, la quale era con fortissimi serrami chia- vata, fer tanto che la spezzarono, ed entrativi dentro per forza, misero a bottino ciò che v'era; e fatto far- dello, spacciatamente se lo divisero infra di loro: e il numero delle robe era tanto, che avevan carestia di chi le portasse. Sicché venutisene alla stalla, ei ne tras-

72 ©BtL* ASTKO d' oro

s«?To noi dtfe asini e 'I mio cavallo^ e con quante raag- 9:ior some poterono ci caricarono: e avendo vota la casa, e lasciato in paese un di loro, che spiasse quello che si dicesse di questo loro assassinamento, e riferis- selo , con buone bastonate avviaronci , e ci menaron «mpro fuor di strada e per alpestri monti più ratto

che galoppo. Ed io che già per lo gran peso di quella soma, e per la erta repente di quelle montagne, e per la lunga via non era punto differente da un che ft morto, passando da una villetta , dove appunto il di , per esservi il mercato, era una gran gente, e' mi venne voglia chiamare aiuto da un di loro : e volendo sfor- zare il natio parlare asinino, e dire olà; gridai oh solo, e perfettamente e forte ; ma Io avanzo io non lo potetti profferire: perchè avendo i ladroni per tema di essere scoperti avuto per male il mio sconcio ragghiare , mi batter forte la pelle da ogni canto , eh' ella non sa- rebbe eziandio stata buona a fare un vaglio. E passando noi poscia da certe belle case e grandi, e' mi venne ve- duto uno orto assai ameno, entro al quale , oltre alle altre erbe odorifere , vi «si vedevano molte verginelle rose, tutte piene di rugiada ; alle quali io, volonteroso

LIBRO TERZO 73

e allefjvo per la speranza della propinqua salute, su- bito mi vi accostai viciii vieino ; e quando vi aveva quasi che sopra le labbra, e' mi sopraggiunse un mi- glior pensiero, parendomi che se io, partendomi allora dall' asino, ritornava di nuovo ad essere uomo, di por- tar manifesto pericolo di non trovar fra le mani di questi ladroni una evidente rovina , o per suspizione dall'arte magica , o per paura eh' io non discoprissi i furti loro: sicché per allora, e necessariamente per certo, io mi astenni dalle rose ; e sopportandomi la presente fortuna, in forma d'asino mi andava rodendo il duris- simo fieno.

LIBRO QUARTO

\ Essendo già arrivato il sole alla metà del suo viag- gio, pervenuti a una certa villetta, noi ne ponemmo a riposare con certi vecchiardi , amici e conoscenti di que' ladroni , secondochè io sulla prima giunta per lo lungo ragionar loro , per le mutue carezze , ancorché io fussi asino, accorger mi potetti: imperocché, leva- tomi daddosso non so che coserelle, e' le donarono loro, e con un certo ghigno cosi ascosto pareva eh' e' voles- ser dire : noi 1' abbiam rubate. E avendoci dopo que- sto scaricati di tutta la soma , e' lasciarono andar noi altre bestie a nostro piacere entro a un prato, che quivi era assai vicino : ma il comune pascolo non mi potè coir asino col mio cavallo ritenere , come colui che non era avvezzo a pascer fieno : perchè , avendo veduto appresso della stalla un orto, e morendomi di fame , io me ne entrai dentro alia libera , e ancorché quegli erbaggi fossero crudi, ne presi una buona satolla, e raccomandandomi al cielo, guardavi nondimeno per tutto il paese, se egli per avventura mi venisse veduto

^* dell'asino d'oro

qualche* bel rosaio; che oramai il solitario luo{?o, l'es- ser fuor di strada, coperto e nascosto da ognuno, mi davano buona speranza, che preadendo quella medicina, d'una bestia di quattro gambe a carponi, ritornerei uomo diritto in su due piedi, e potre'mene agevolmente andar libero a mio viaggio. E mentre eh' io ondeggiava nel mar di questi pensieri, e' mi parve veder cosi da discosto entro a un fronzuto boschetto una valletta assai spaziosa, fra le varie erbette e i ridenti virgulti della quale rosseggiasse lo acceso color delle fresche rose : perchè entro al mio cuore, che non però era d'a- sino affatto affatto , nacque un pensiero , che dove fra le riposte ombre scintillava lo splendore de* lam- peggianti fiori, ivi proprio fusse il ricettacolo di Venere e delle Grazie. Laonde, pregato Dio che ne desse pro- spero e felice successo, mi diedi a cerrer forte, ch'egli mi pareva essere, in buona fé', non un asino zoppo e stracco, ma un valente cavallo: con tutto c'ò il mio veloce sforzo non potè vincer la crudeltà tìei!^ mie., fortuna; conciofussecosachè come più ratto m'ap- prestai al luogo, mi accorsi che quivi non eran le vive rose bagnate delle divine gocciole di nettare e di ru- giada, le quali generano i felici rovi e le beate spino»* vidi valle alcuna, anzi mi si appresentò la margina della ripa d'un fiume ripiena di spessissimi arboscelli, 1 quali erano di molte frondi rivestiti, e grandi non al- trimenti che si sieno i nostri allori; e quelle che mi erano parute rose, erano alcuni fiori in modo di cal> cetti senza odore alcuno rosseggianti, i quali lo igao- rante vulgo di quel paese, con villeresco vocabolo, 19 chiama rose d' alloro, ovvero rose laurine, il cibo delio quali tiene ognuno per certo che sia velenoso a tutto il bestiame. Ritrovandomi adunque fra tante fortune, schivo oramai della propria salute, spontaneamente bramava pigliare il veleno di quelle rose: e in quel tempo che io me ne andava cosi pian piano per pa- scerle, un certo giovane, secondo il mio giudicio qucl- r ortolano al quale io aveva poco avanti guasti tutti

LIBRO QUARTO 73

gli ortaggi, accortosi di si gran danno, con un buon bastone se n' era corso alla volta mia, e giuntomi alla sprovvista mi diede tante bastonate, eh' e' fu presso che per ammazzarmi, e avrebbemi Unito certamente, se io, savio eh' io fui, non mi fassi aiulato da me stesso: im- perocché, mostro i ferri all' aria, gli diedi ce' piedi di dietro parecchi coppie di calci cosi bene, che io lo di- stesi per terra come morto. E andandomene poscia co- sta costa per un monte ivi vicino, mi era liberato da quella furia; se non che una certa donna, la moglie sua, come più tosto s' accorse dei fratto, scesa d' un monte dov' ella era, correndo se ne venne da lui; e a cagione, per compassion di lei, mi procacciasse la pre- sente rovina, invitò tutti i villani dintorno contro a di me colle sue strida : i quali chiamati i lor cani, e, ac- ciocché e' venissero con maggior rabbia a divorarmi,

aizzatigli da ogni canto, me gli mandarono addosso. Al- lora io, senza dubbio alcuno vicino alla morte, veg- gendo tanti cagnacci, e cosi grandi e così fieri, che non avrebbero avuto paura degli orsi de' leoni, incrudelirsi ognor vie più contro di me per le lor grida,

7fi Tovrr* knnjf) Tv*nRo

preso consiglio In sul fatto, restai di fuggire, e dato la volta addietro, con presti passi me n'entrai nella stalla di quella casa, donde io mi era partilo poco fa. Perchè eglino, avendo con gran fatica rilegati i cani, attaccatomi con una buona fune a una caviglia, di nuovo mi cominciarono a mazzicare : e avrebbonmi senza dubbio alcuno ammazzato, se non che il ventre, pien di bietole e di altri erbaggi, assaltato, la mercè di quelle bastonate, da una sdrucciolevole soccorrenza, schizzando come un nibbio, di loro una parte ne rico- perse, e un'altra ne ammorbò con quello odore; sic- ché, per lo miglior loro, e' furono forzati a tormisi d' in sulle spalle. Inchinandosi il di vegnente il sole verso il mezzo giorno, i ladroni, avendoci molto ben carichi, e massimamente me, ne cacciarono in viaggio : e quando noi avevamo fatta già buona parte della strada, e per la sua lunghezza, e per la sconcia soma, e per le molte battiture, avendo l' unghie guaste, andando zoppo e barcolloni, potendo più la vita, io mi fer- mai dentro ad un fossatello, che assai pigramente sotto mi correva; e invitato da quella occasione, mi posi gi- nocchioni in queir acqua, con saldo e fermo proposito, per molte bastonate che" mi dessero, non mi volere d'indi rizzare, mettermi in cammino; anzi mi era deliberato non solamente col bastone ma co' pugnali lasciarmi ammazzare ; che, a dire il vero, e' mi pareva pur giusto oggimal, per esser debole e zoppo, e mezzo morto, meritar come cagionevole, esenzione dalla mi- lizia asinina. Volevano adunque i ladroni, per la gran fretta ch'egli avevan di fuggire, e per non metter tempo in mezzo, levarmi la soma daddosso, e distribuirla so- pra quelle altre due bestie ; e per vendicarsi ben della ingiuria, che lor pareva avessi fatta loro, lasciarmi quivi soletto, pasto de' rapaci lupi e de' fieri uccelli: ma la mia cattiva sorte impedì così salutevole consi- glio. Imperocché queir altro asino, indovinando, come io mi credo, il mio pensiero, fece in un tratto le viste d' «sere stracco, e distesosi in terra con tutu iomi,

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e giacendo in forma di morto , non col punzecctiiarlo , non col mazzicarlo , non col tirarlo per gli orecchi , non coir alzarlo per la coda , con assettargli sotto le gambe, o altro aiuto, fece mai segno di volersi crol- lare, non che levare in piedi. Laonde que"ladroni, strac- chi e fuor d' ogni speranza del farlo rizzare , parlando non so che fra loro , deliberati di non vi perder pia lempo Intorno a quella bestia mezza morta, anzi di pietra, e di non metter più indugio al fuggir loro, com- partita la soma sua fra me e il mio cavallo, e messo mano per una spada, gli tagliarono tutte quattro le gam- be, e tiratolo cosi un poco fuor di strada su un alto monte, gli diedero la spinta, mentre che egli ancora alitava, in una profondissima valle. Allora, ripensando meco medesimo la disgrazia del mio commilitone, deli- berai, posto da canto gì' inganni e le frodi, d' essere un buono e un dabbene asino; e tanto più volentieri il faceva, che io m' era accorto per lor ragionare, che lo alloggiamento non era lontano, e che tosto avevamo a venire a capo del nostro viaggio. Avendo adunque trapassato un dolce monticeilo, noi arrivammo final- mente al desiderato luogo; dove presesi ognun le cose sue, e ripostelesi dentro, io rftnasi scarico della soma; e per levarmi la stracchezza, dalla qnJe io era affan- nato maravigliosamente, in cambio di andare alle stufe, io mi diedi a voltolarmi molto bene su per la polvere : ma non fui mai da tanto, eh' io potessi dar la volta tonda.

La opportunità del tempo e la cosa in se par che il richieggano, che io vi descriva il luogo e la spelonca, entro alla quale abitavano quei ladroni: perciocché, oltre al far pruova in quel mentre dell'ingegno mio, voi vi accorgerete, so, come era il corpo, era asino eziandio co' sensi e colla mente. Era adunque un monte altissimo, alpestre, scuro, e tutto di salvatichi arbori ripieno, fra le cui ravviluppate spalle, di aspri sassi, e per questo inaccessibili, abbondantissime, apparivano l'cuni profondissimi valiuuij e eoa iirofondissimi fossi

Mi;n'A«:wri n'ono

d' acqua, di iMingcniissimi slerj)! senza numero rico- perti, i quali circuendo quel monte giù da l)asso d' o- gni intorno con naturalo siepe, vietavano il potervisl valicare. K' veniva quesl' acqua da una fontana, clic in sulla cima del monte, sempre di sonagli ripiena e bril- lando, era abbondevolissima d'ogni tempo: e nasceva sulla più alla parte della montagna una altissima torre, con graticci di legname, comodo stallaggio per le pe- core ; e innanzi alla porta si distendevano due ali di chiudenda, ovvero steccato di legname in guisa di muro da ogni lato. A rifar sia di mio, se alla prima giunta tu non l'avessi giudicala una stanza da ladri: appresso alla quale non vi era altro che una picciola casetta con una coperta di canne assai leggiera, dove ogni notte alcuni del numero di quei ladroni tratti per sorte, come mi accorsi poi, in guisa di sentinelle facevan buona guardia. Giunti adunque che furono costoro a questo luogo, posciach^ egli ebbero legate noi altre bestie con buone funi innanzi alla porla, entrali tutti in casa senza' aspettarsi 1' un l'altro, e' si diedero assai importuna- mente a chiamare una certa vecchierella, che per li molli anni già aveva fatto arco delle schiene, e alla quale sola pareva che fulse commessa la cura di tutta quella famiglia; e dicevano: Tu sola, vecchia grinza, vituperio del vivere, unico rifiuto dello inferno, ti sta- rai scherzando per casa, senza darci alcun sollazzo o refrigerio dopo tante e cosi pericolose fatiche; e non attendendo il di e la notte ad altre che a cotesta go- laccia, ti tracannerai il vin pretto, come se tu fossi una pevera, e noi staremo a denti secchi ? Ma ella tutta tremando, e dando lor del buon per la pace, con una voce stridente: 0 fortissimi giovani e fedeli, sola cagion della mia salute, con grandissima cura e con soave sapore sono preparate tutte le vivande : ecci del pane a dovizia, e il vino 6 già in tavola, i bicchieri sono benissimo lavati, e secondo la vostra usanza è ordinata l'acqua calda per lavarvi a vostra posta. prima ebbe dette costei queste parole, che i ladroni

t.Tmnn Qr.».TìTo

spofrlialip', e fallo una Luona baldoria, lutli si ricrea- rono; G bagnati coli' acqua calda, e iinlisl coli' olio, e lavatisi molto bene, si misero a tavola, dove era ab- bondevolmente da mangiare. E a fatica si erano posti a sedere, ed eccoti venire più che altrettanti giovani, i quali subito che io gli vidi, io giudicai che fussero si- milmente ladroni; imperocché, ed essi ancora, oltre a che e' non avevano la miglior aria del mondo, vennero carichi e d'oro e d' arienlo, di veste d'oro e di seta, e d' altre robe di pregio: i quali lavatisi colla medesima acqua, senz' altro dire, si misero a tavola con quegli altri; e tratto per sorte chi avesse a servire, mangia- rono COSI alla carlona: 1' una vivanda era sopra l'al- tra, l'un pane addosso all'altro; una squadra di bic- chieri, una filatessa d' orciuoli erano in sulla tavola: mettono la casa a roniore cianciando, cantano gridando, e scber/.ando si dicono villania: pareva altrimenti questo lor convito, che si paresse quello, secondochè scrivono i poeti, de' Centauri e de' Lapiii. E mentre tutta la casa rimbombava del lor gridare, e' si rizzò su uno, il quale mostrava essere e colle forze e coli' ar- dire superiore a tutti gli altri; e disse: Noi avemo con grande animo certamente espugnata la casa di Petronio, e oltre alla copia di cosi gran fortuna acquistata per nostra virlù, noi siam tornati colla salvezza di tutto il nostro esercito; e se egli ci mancava nulla, aviamo menato otto piedi di più; ma voi altri che andaste a Vinegia, siete tornati senza il vostro fortissimo capitano, avete diminuito il vostro numero; la salute del quale io anteporrei, e meritamente, a tutte coteste robe che voi ne avete portate: la sua virtù, l'animo suo grande ce lo hanno tolto. Sieno adunque celebrate le prodezze sue tra le memorie degl'incliti re e de' vittoriosissimi capitani: e voi altri ladroncelli andatevene per le stufe e per le case delle povere vecchierelle rubando ogni rosellina, e mettendo in pericolo se alcuno ve n'è fra voi che abbi in pregio 1' onore, per picciola anzi per ncssuaa cosa talora. Allora un di que'ch'eran venuti

«0 dell'asino D^nRO

«lipoi, sentendolo cosi jiarlare, riinese le parole, e disse; Or se' tu quel solo cbe non sappi, eh' egli è mollo più agevole ad espugnar le case de' grandi (i quali, avven- pachè con gran famiglia entro vi dimorino, ne lassano la guardia a chi pensa sempre più alla propria salute che a quella del padrone), più agevole, dico, che non 8on quelle de' manuali? imperocché questi colali buoni omicialii, che con poca famiglia si ritrovano, guardano la poca roba ch'egli hanno, o l'assai che con avara mano tengono rinchiusa, con maggior diligenza di que- gli altri; ed essi medesimi, senza Qdarsi d'altrui, con pericolo del proprio sangue vi hanno una estrema cura. L' esperienza finalmente dia fede alle mie parole : noi eravamo appena arrivati in Ancona (che sapete che quivi fiorisce lo studio di nostra disciplina), e andando diligentemente ricercando lo stato di que' cittadini, fi- nalmente noi scoprimmo eh' egli vi era un cerio Lodo- vico, il quale avea di molli danari, e faceva un po' di banco, e per tema delle gravezze con assai grande astuzia dissimulava questa sua ricchezza, e solo soletto in una picciola casetta, ma forte e ben guardata, si di- morava, e mal vestito e peg?io calzalo si stava covando tutto 'Idi i sacchetti di que' suoi danari. Per la qual cosa noi deliberammo che costui fusse il primo fedito; tenendo per fermo, che appiccando la battaglia con un solo, noi non avremmo difficultà ad espugnar tutta quella roba: e però la vegnente notte senza indugio alcuno gli fummo intorno all'uscio, il quale trovammo cosi ben serrato, che nji non lo potemmo mai pur muovere, non che sgangherare; ci parendo a pro- posito, per non destare tutto il vicinato a nostro danno, lo spezzarlo, quel generoso nostro banderaio confidan- dosi nella molta virtù sua, messa la mano a poco a poco per quel buco, dove si metteva la chiave, eh' era assai ben grande, ed egli con un suo ferro l' aveva fallo maggiore, voleva sconficcar la loppa: ma quel Lodovico, pessimo di tutti quelli che vanno in su due piedi, essendosi desto un pezzo innanzi, e avendo ve*

LIBRO QUARTO RI

duto Ogni cosa, senza far remore alcuno, ne venne alla porta, e preso un buon chiovo, conficcò la mano del nostro fortissimo capitano in una di quelle tavole del- l'uscio; e lasciandolo attaccato a così crudel modo, se ne salse sul tetto della sua casetta, e d'indi gridando quanto mai della gola gli usciva, e chiamando i vicini lutti per nome, e ricordando loro il ben pubblico, di- ceva che in casa sua era appiccato il fuoco: laonde i vicini, ognun per tema delle cose sue proprie, corsero prestamente a dargli aiuto. Trovandoci noi adunque nel mezzo di cosi taglienti forbici, e bisognandoci o abbandonare il compagno, o esser giunti tutti in sul furto, pigliammo, di suo consentimento però, quel mi- glior rimedio che ne porgeva la presente strettezza: e messo mano un di noi per un tagliente coltello, e me- nandogli uno gran colpo sulla appiccatura della spalla, che passò a sesta per la commettitura dell'osso, gli spiccammo il braccio, e dipoi fasciata la ferita, e ri- voltatala con molti panni, a cagione che le gocciole di sangue non discoprissero, cadendo, donde noi eravamo andati, prestamente nel riportammo. E mentre che noi ce ne venivamo, forzati, per tema d'esser copraggiunti, a darla a gambe, essendo abile quel valente uomo a correr quanto bisognava, a rimaner quivi senza manifesto pericolo della vita e di scoprirne lutti noi altri, dolendosi della sua disgrazia, e rammarican- dosi, ci pregava per la buona compagnia, per la fede, e per lo saramento che era fra noi, che noi liberassimo il nostro buon commilitone e dalla pena del tagliato braccio, e dal pericolo dell' esser preso e messo a mille strazi : concioffussecosachè egli non era onore a uno fortissimo ladrone, come egli era, sopravvivere a quella rapace mano, colla quale egli era avvezzo a l-ubare, ad assassinare e sgozzare uomini; e che gli pareva es- sere assai beato, ogni volta che gli fusse concesso, vo- lendo egli, morire con colpo d' amica mano. E accor- gendosi finalmente, che egli non poteva persuadere ad alcun di noi, che a^ontanoamente commettesse cosi fatta

FIREiNZUOU C

W dell' Asiwo d'oro

omicidio, preso eoa queil' altra mano, che gli efi re- stata, il suo coltello, e baciatolo più volte, con gran- dissimo impeto se lo ficcò pel mezzo del petto. Allora lodando noi e onorando lo egreD;io fatto e il valoroso animo del nostro capitano, raccogliemmo il restante dei corpo suo; e ricoUolo assai dilipeiUemente in una ve- ste di panno lino, il pittammo in mare, a cagione che egli non fusse per alcun tempo conosciuto: e cosi ha ora il nostro capitano per suo sepolcro uno do' quattro elementi tutto Intero, avendo dato fine alla sua vita con quell'animo che meritavano le virtù sue. Che di- remo noi di Truffaldino, il quale altresì non poteo ri- muovere i crude. i cenni della Fortuna dalle vigilantis- sime imprese? perciocché, avendo rotto la porta d' una casetta d' una addormentata vecchierella, ed essendo già salito nella catnera, ed allora allora dovendola stran- golare, prima volse gitiare d'una finestra tutte le sue bazzicature, a cagione che noi via ne le portassimo, e avendo già ogni cosa strenuamente rassettato, per non perdonare eziandio al letto della dormente vecchia, presa una coltre colla quale ella si ricopriva, appunto su quel ch'egli la volea gittare donde erano quell'al- tre robe, la mala vecchia saltata giù del letto, e po- stosigli a' piedi ginocchioni, disse: Deh dimmi, flgliuol mio, per tua fé', qual cagione t'indusse a scagliar que- ste mie miserie nella casa di questi vicini, dove riesce colesta finestra? conciossiacosaché eglino sieno pur troppo ricchi da per loro. Dalle cui sagaci parole in- gannato Menichido, e vere credendole, dubitando che quelle altre cose eh' egli vi avea gittate, non a' com- pagni suoi ma nelle altrui case fussero pervenute, egli si fece a quella finestra, e spenzolandosi molto bene in fuori, per voler con diligenza considerare come stesse quella casa; avendo detto la mala vecchia eh' el- r era di uomini ricchi, e che robe vi potessero esser dentro; quel tristo fascio d' ossa, veggendolo spenzoloni ed immoto, ancorché con picciola ma con repentina e iua.sp*:ttatA syiinUi ella ii fece tombolare a capo di sotto:

donrte U mfserello, oltre al cadere da alto, percuotendo sopra d'un sasso, che era appunto sotto alla finestra, rotte e fracassate tutte le costole, spargendo un fiume di sangue, avendoci racconto imprima il fiero caso, senza mollo stentare passò di questo mondo : e noi datolo per compagno al primo, il sotterrammo in un medesimo se- polcro. Sicché, privati, e percossi da doppia piaga, pa- rendoci oramai tempo di lasciar l' imprese maritime, ce ne andammo in Ricanati, città assai vicina di Ancona ; e quivi intendemmo che un gentiluomo di gran nomi- nanza per que' paesi, chiamato Democrate, doveva fare una caccia di molli e più silvestri animali. Era costui^ de' primi della terra, ricco maravigliosamente, ma più liberal che ricco, e ordinava pubbliche pompe conde- centi allo splendor della sua dignità. Chi avrebbe ma* tanto ingegno, chi tanta facondia, il qual potesse con sufBcienli parole esprimere il magnifico apparato di quelle feste ? Quivi erano per combattere le prime spade della Marca, i più leggier cacciatori e i miglior corri- dori di quelle contrade; uomini usi a cavalcar tori, e combatter con simili fiere; castelli di legname, in guisa di queste casette che si portano in qua e là, con di- pinture da maestra mano colorite, bellissimi ricettacoli della futura caccia. Quale, dopo tutte queste cose, era il numero delle fiere, e come terribili I E per esser quel Democrate caro a tutti questi paesi, e dilettarsi di pascere il popolo di questi spettacoli; e oltre a tulli gli altri sontuosissimi apparecchi di quella festa, non perdonando a spesa alcuna, egli aveva ragunato un nu- mero incredibile di orse, e delle maggiori che fusser viste giammai: imperocché, senza quelle che egli stesso si aveva prese in caccia, e quelle ch'egli avea compe- rate con ingordissimi pregi, glien'era state donate dagli amici suoi non piccolo numero; le quali egli tutte con larghissima spesa e con diligente cura nutricava. po- tette imperciò un cosi leggiadro, un cosi ricco spettacolo, ordinato per pubblico piacere, fuggire i nocevoli occhi della perversa e mordace invidia: Imperocché quelle

fi4 t)ELL' ASINO D'onO

fiere orse, marcite per lo star tanto tempo rinchiuse, e per lo gran caldo della slate ct>nsQmate, e per lo lungo giacere pervenute languide, assalile da una re- pentina pestilenzia, si ridussero quasi a nienle, n*^ si vedeva altro per le piazze, che qualcuna di loro giacersi la oltre mezza moria: e la meschina genie, la quale, senza guardare quel che si sia, è coslrella dalla inrulia povertà e dal vuoto ventre cercare quelle vivande rhc non costan cosa del mondo, prendendolesi, se le man- giava. Laonde, occorsoci un buon consiglio, lo e 11 mio Rerbulo quivi pensammo questa Irappola Noi pigliammo una di quelle orse, la quale ci pareva più Brandt, e infingendo di volercela mangiare, ne la portammo al nostro allosgiamenio; e scorticatala destramente, la- sciando imperciò 1' unghie, e il capo sino in sulle spalle bello e' mero, e netto la pelle da ogni carne, e rasola molto bene, ci spargemmo su della cenere, e poscia la meltenimo ai sole a rasciugare ; e mentre che le fiamme del celeste vapore ne la purgavano, noi ci mangiammo le sue polpe valentemente; e convenimmo fra noi con giuramento, che uno, non quello che di corpo sola- mente, ma di animo, superasse tulli gli altri, coprendosi con quella pelle, e mostrando di essere una di quelle orse, se ne entrasse in casa di Democrate, e cosi per l'opportuno silenzio della notte desse la via di entrarvi ancora a noi. fur pochi quelli del nostro valoro- sissimo collegio, i quali s'offerissero a cosi magnifica impresa; tra i quali fu eletto Trasilione, come uomo da far faccende: il quale, espostosi al giuoco della fu- tura macchina, con serena fronte entro a quella pelle, già falla molle e trattabile, si nascose, posciachè noi con sottile ago ve lo avemmo cucito, e colle folte se- tole ricoperte le costure, eh' elle non si potevan vedere in modo alcuno; e al confino, dove era stata tagliata fa gola dell' orsa, avevamo fatto entrare il capo del forte compagno, e datogli luogo donde e' potesse spi- rare e vedere ; e fattolo parere una bella bestia, com- perammo con plcciol pregio una buona gabbia, e dcn-

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tro vi mettemmo il nostro lortissimo Trasìlione, e posciachè noi avemmo condotto la cosa sino a quesio termine, in questa guisa demmo compimento all'avanzo del nostro inganno. Domandato dell' essere d' un certo Nicànore Albanese, il quale si diceva tenere grande amistà con quel Democrate, noi fingemmo certe lettere, che gli mostravano che il buon amico lo facesse, per cagione della bella festa, partecipe delle primizie della sua caccia : ed essendo già venuta la notte, ricopertici col mantello delle sue tenebre, noi presentammo in- sieme con quelle lettere adulterine la gabbia del no- stro Trasilione; il quale, lodato la grandezza della be- stia, e rallegratosi dell' opportuna liberalità dell' amico, comandò che a noi arrecatori de' suoi piaceri fussero incontanente annoverati dieci ducati. Allora, come ac- cade delle cose nuove, che sempre traggono a la moltitudine a rimirarle, infiniti uomini tutti pieni di maraviglia corsero a vedere questa bestia: i troppo cu- riosi sguardi d' alcun de' quali se non che con minac- cevole empito vietava il nostro Trasilione, egli era pericolo eh' e' non ci facessero danno. Ora Democrate era tenuto per voce d' ognuno assai felice e beato, po- sciachè dopo la morte di tante bestie, comprandone di nuovo, egli resisteva a' colpi della Fortuna. Il quale, come gliele parve aver veduta a suo piacere, e lascia- tola vedere ad altri, e' comandò eh' ella fusse menata fuori dove le altre, imponendo eh' e' la portassero con grandissima diligenza. Allora io gli dissi : Guarda, si- gnore, che essendo ella e per le gran vampe del sole e per la lunghezza del cammino assai bene stracca, che tu non la metta tra la moltitudine dell'altre, le qual. anche, secondochè io ho inteso, non son molto sane. Che non la metti tu piuttosto in casa tua, in qualchi luogo aperto, dove spiri un poco di fresco, e vi sia presso qualche poco d'acqua? Or non sai tu, che que- sta sorte di bestie dimorano sempre tra folti boschi, tra rozze spelonche, e freschi colli e ameni fonti ? Im- paurito Democrate per (jueste mie parole, e peusaudo

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seco al numero grande che egli ne aveva perdute, senza difficuUA acconsenti alle mie ragioni, e aRevolmenle ci coucedetle che noi mellessima quella gabbia ove meglio ci pareva. iNoi, diss'io allora, siamo apparecchiati, quan- do bisogni, starci la notte appresso di lei; i quali sap- piendo la natura sua, potremo, or che ella è stracca e affaticata, porgerle il cibo quando ne paresse il tempo opportuno. Non ci è mesiier della vostra fatica, rispose Democrate allora ; imperocché quasi tutta la nostra fa- miglia, per la lunga consuetudine del governare, sa og- gimai mollo bene quel che faccia lor di bisogno. guari andò dopo queste parole, che noi avendo detto addio, prendemmo commiato da lui: e usciticene un poco fuori della ciltn, e' ci venne veduto un luogo riposto cosi un poco fuor di strada, e appresso una chiesuola una sepoltura : perchè noi levatole il coperchio, che per la lunghezza del tempo era tutto guasto, e trovato che r ossa de' morti erano divenute tutte in polvere, fa- cemmo pensiero che quello fusse assai opportuno luogo da nascondervi entro la futura preda: e per buona re- gola della nostra scuola, appostato il più tenebroso tempo della notte, quello, cioè, nel quale il sonno col primo impeto s' insignorisce de' mortali, appresentammo la squadra nostra tutta armata, come buon mallevadori della promessa ruberia, innanzi alla casa di Democrate. minor diligenza di noi aveva usata in quel mentre il nostro Trasilione; anzi, scelto appunto il tempo ac- comodato a far faccende, se n'era uscito della gabbia, e con un suo coltello aveva ammazzale tutte le guardie, insino al portinaio; e venutosene all'uscio, e volta la chiave, subito ce lo aperse. Perchè noi, senza indugio saltati dentro, fummo menati da lui a una guardaroba, dove egli, secondochè ci disse, aveva la sera dinanzi veduto ripor di molto argento: e come piti tosto noi avemmo fracassato l'uscio, io ordinai che entrati tutti dentro ne portassimo fuori quello più che si poteva d'oro e d'ariento, e nascondendolo oltre nelle case di ^uei fidelissimi morti, di aaovo con veloci passi ri-

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tornassimo per l'altra soma, >5(i io in quel mentre (la qual cosa era molto necessaria) resterei, finché ritor- nassero, sulla porta della casa, per ispiare se alcuno movimento nascesse; immaginandomi infra me, che la figura di quell'orsa sarebbe stata troppo buona a tenere in tremore, se alcuno della famiglia di casa per avven- tura si fusse desta. Chi sarebbe mai stato quello, sia pure audace quanto vuole e senza paura, che per lo sozzo aspetto di si gran bestia, e di notte massima- mente, che non si fusse messo a fuggire, e stangato ben l'uscio, tremando e spiritando di paura, non si fosse rinvolto entro alla coltrice ben volentieri f Avendo noi con prudente consiglio ordinato tutte queste cose, egli ci accadde un fine assai lontano da quel che noi pen- savamo: imperocché, in mentre che io cosi sospeso aspettava i compagni che ritornassero, un fante di casa, il quale, per lo strepito eh' egli aveva udito, s'era de- sto, se ne venne pian piano a dove noi eravamo, per vedere che questo dir volesse : e veduto quella bestia andar per casa a suo piacere, e aver fatto grandis- simo danno, cheto cheto diede volta addietro, e andos- sene a raccontare agli altri tutto quello eh' egli aveva veduto. vi andò guari, che la casa s'empiè tutta di uomini, di torchj, di fiaccole, e di lucerne, sicché le tenebre spariron via : vi fu alcuno fra tanta gente, che venisse senza arme, ma chi con istanghe, altri con lance, molti con ispade ignude; e in un tratto presero tutti i passi. bastò lor questo, che fatti venire alcuni di quei cani da caccia con grandissimi orecchi e ar- ricciati gli peli, gli aizzavano contro a quella bestia. Al- lora io mentre che ancor bolliva quel primo tumulto, preso cosi pian piano la via dell' uscio, me ne uscii di casa; e nascondendomivi dopo, vidi Trasilione resistere cosi valentemente a quei cani, che ancoraché egli si vedesse esser giunto allo estremo della sua vita, e' non si dimenticava del comune del particolare onore, n* della pristina forza. Ed essendo già nelle fauci di Cer- bero, faceva cose da qoo le aredere ; e riteaeada (juella

$R DELI.' ASINO d'oro

maschera eh' egli spontaneamente s' avea vestita, in- sieme colla vita, or fuggendo, or saltando, or difenden- dosi con vari gesti e con diversi modi, e' fece tanto

eh' e' s'uscì di casa: ma non potè per questo schivar l'ultimo colpo della Fortuna; concioffussecosachè uno stuolo di cani assai fieri, ch'era in un portico ivi vi- cino, congiuntisi con quei di casa, che tuttavia lo se- t?uitavano, in un tratto gli furono intorno. Io vidi il nostro Trasilione assediato da quella moltitudine di quei rabbiosi cani, stracciato e pertugiato da una infi- nita di morsi. bastandomi l'animo a sofferire tanti dolori, messomi fra una schiera di quelle brigate ch'eran corse fuori, e cercando, con quello solo eh' io poteva, porgere aiuto al mio buon commilitone, dicea a' capo- rali di quella caccia : Egli è pure . un gran peccato la- sciare ammazzar questo animale: noi perdiamo vera- mente una grande e una preziosa bestia. Ma poco aiuto porsero l'astuzie del mio parlare al misero giovane : impe- rocché, uscendo non so chi di casa, grande e ben com- presso, e messo mano per un lancioae, gliene cacciò per mezzo delle budella; 8 un altro dopo lui, il sorai-

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glianto facendo, fé' che gli aliri, posto giù la paura, fa- cevano a gara chi le potesse dar delle coltellate. E Tra- silione, veramente il perno di tutti noi, sentendo espu- gnare finalmente quello spirito eh' era degno della im- mortalità ; non so se io mi debba dire più valentemente, ebe con una incredibile pazienza , sopportando , non colle grida , non coli' urla , con altro segno ruppe mai la fede del comune nostro saramento ; tutto stram- bellato da' morsi, sforacchiato dalle ferite, con infinite mugghia e ferino fremito , generosamente la presente fortuna sopportando ; a riservò la gloria, e alla ne- cessità de'fati restituì la vita. Egli aveva, difendendosi nondimeno , messo tanta paura addosso a tutta quella moltitudine, che per infino all' alba, anzi levato il sole d'un buon pezzo , egli non vi fu alcuno tanto ardito , che pur con un dito toccasse la giacente bestia : se non che pure alla fine un certo beccaio, un poco più ani- moso che gli altri, assai pigramente accostatolesi , la sparò ; e cosi tolse alla pelle dell'orsa il magnifico e ge- neroso ladrone. E in questa guisa ne fu rapito il nostro Trasilione ; ma a lui non puote già essere involato il pregio della sua florida gloria. Essendoci adunque inter- venuto si fiero accidente, noi altri senza dimora presti quelle poche robe che ne avevan conservate quei fede- lissimi morti , con frettolosi passi abbandonammo il paese della Marca : e pensavamo per la via cosi fra noi , che egli si puote dire meritamente , che la fede non si truova tra noi viventi , ma che per odio della nostra perfidia se ne sia scesa allo Inferno, ed ivi stia dimorandosi co* morti. E in questo modo, maceri per la gravezza delle robe , che noi avevamo portate ad- dosso , e per 1' asprezza della via stracchi e rovinati , morti tre de' nostri compagni , avemo portata a casa questa preda che voi vedete. Dot- il quale ragionamento, coppe d' oro piene di vin puro in onore de'morti com- pagni bevendo, all'usanza gentile fecero lor sacrificio, e poscia cantate non so che lor canzoni, si quietarono alquanto.

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Mentre che coloro facevano fra loro cosi lungo ra- gionamento, la buona vecchia ci arrecò dell' orzo, o diedecelo con si buona misura, che io mi penso che quel mio cavallo veggendone tanta copia, e tutto per lui, gli paresse essere ad una di quelle cene che face- vano al tempo de' Romani i sacri sacerdoti: ma ancor- ché altra volta at)bia mangiato sempre molto volentieri 1' orzo ben pesto, e nella minestra bene acconcio; nien- tedimeno veduto un cantone dove erano stati messi tutti i pezzi del pane eh' eran loro avanzati alla cena, lame n'andai, e quivi esercitai le mascella, per lunga fame mal condotte e pieu di fila, per un tratto come io volli. Venuta la mezza ora, i ladroni, levatisi del letto, mossero il campo, e misersi a ordine in più par- tite: una parte di loro con armata mano se n'andò alla espugnazion dell'altrui; un'altra, trasformatasi in ispiriti, con velocissimi passi se ne usci fuor di casa ad ingannar questo e quello. Ma me non potè già im-

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pedir un grandissimo sonno che io aveva, eh' io non biasciassi tutta quella notte: e ancorché prima, quando io era Agnolo, come io aveva mangiato un pane, o al

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più due, io mi levassi da tavola; allora, avendo da em- piere così gran ventre , io maciullai sino al terzo ca- nestro ; e stetti, per abbreviare, invasato tanto intorno a queir opera , che il giorno mi ass-iUò. Pure allora , trafitto da una certa vergogna asinina, partendomi non- dimanco malvolentieri , me ne andai ad un orio quivi vicino, e mi vi trassi la sete a mio diletto. vi andò guari, che i ladroni tutti affamati e stanchi se ne tor- narono a casa senza fardello alcuno e senza pure una vesticciuola aver seco ; e con tante arme , quante egli avevano, e con ogni loro sforzo , e' ne menarono una sola verginella : la quale piangendo a caldi occhi , e stracciandosi le ricche veste e i biondi capelli, col leg- giadro votto, co' modesti lineamenti, col nobile aspetto e una certa degnità matronale , dava indizio d' esser una delle prime fanciulle di quelle contrade. Ell'era fi- nalmente cosi bella, che a me, cosi asino come io era, piacque ella maravigliosamente. Alla quale, messa che l'ebbero in quella caverna, poco conto facendo de'suoi rammarichi, parlarono in questa guisa : Sii certa e si- cura e della vita e dell'onore : ma però dona un poco di pacienza al nostro guadagno, acciocché i tuoi geni- tori, facendoci parte della moltitudine delle loro tante ricchezze, ancorché e' ne sieno soverchio ingannati, soc- corrano, col riscuoterti con pregio alla nobiltà del san- gue tuo conveniente, a quegli i quali la necessità della povertà ha ridotti a fare quest' arte. E avendole cin- cischiate cosi queste parole , indarno cercarono di consolare la poveretta, imperocché ella allora, messosi il capo fra le ginocchia, piangeva più dirottamente che prima. Perchè essi, chiamata quella lor vecchierella, le comandarono eh' ella se le mettesse a sedere accanto , e con quel miglior modo ch'ella sapeva si sforzasse di confortarla. E cosi dicendo , uscitisene fuori, se ne ri- tornarono alle loro ordinarie faccende. potè già la meschina giovane, per alcuni conforti che le desse la vecchia, lasciare ovver diminuire il grave dolore ; anzi alzando più la voce, e tuttavolta rinforzando il pianto.

OS dell'asino d'obo

e battendosi i flancbi, e pcrcoteadosi le tenere guance, m' empiè si di compassione, eh' ella grondare le la- grime ancora a me. E diceva la povera fanciulla ; Dun- que io misera, nata cosi altamente, uscita di si ricca casa, toltami si bella famiglia, abbandonata da tanti sergenti, involata del grembo de' miei sommi genitori, (atta preda di cosi infelice rapina, divenuta di padrona di molti schiava d'assai, rinchiusa, come s' io fossi una vii fanticella, in cosi sozza prigione, privata di (luelle delizie nelle quali io son nata e allevata, senza sapere quello che s' abbia a esser del fatto mio, avendo sem- pre avanti agli occhi questa crudel beccheria, trovan- domi in compagnia di scelleratissimi ladroni, fra si or- renda moltitudine di assassini, potrò io dar luogo al pianto? potrò pensar, vivendo, d'avere a sopportar tante e cosi fatte miserie? Lamentandosi adunque la povera meschina in questa guisa, ed essendo, per lo profondo dolor dell' animo suo, per le grida grandi che le avevano tutta riarsa la gola, per la stanchezza del corpo, tutta affannata, ella concesse gli umidi occhi ad un breve sonno. E a fatica aveva velato 1' occhio, ch'el- la si risenti; e cominciandosi affliggersi più che mai, come una cosa perduta, si percoteva il dilicato petto, e battevasi la splendida faccia. E perchè quella vec- chiaccia con grande studio ricercava della cagion di questo nuovo dolore, ed ella più altamente sospirando le disse: Trista a me, ora certamente, ora senza dubbio alcuno sono io spacciata affatto: ora rinunzio io ad ogni speranza che io potessi aver della mia salute: o il capestro, o il coltello, o qualche gran precipizio bi- sogna che dieno fine alle mie angosce. Le quali parole udendo la mala vecchia, piuttosto turbatetta che no, comandò eh' ella le dicesse che cosa la premeva di nuovo, e perchè dopo quel poro di sonno cosi repen- tinamente rinfrescasse il suo dolore. E che? vorremmo noi, diceva, privar questi miei giovani della grande speranza ch'egh hanno dei guadagno del tuo riscatla- mento ? seguita pure di piagnere ; che si cU' io troverò

t.inno orAnTò Ofi

modo che coleste lagrime ti gioveranno poco! Io so pure che questi miei ladroni ne sogliono far poca stima: in buona fa', che se tu non muti verso, io ti farò bru- ciar viva viva. Impaurita adunque la lapinella per cosi (atte parole, voltossi a quella vecchia, e baciandole le mani, disse: Perdonami, la mia madre, e ricordevole della natia pietà degli uomini, soccorri alla mia perversa fortuna: io non mi persuado però, che perla lunghezza del tempo il fonte della misericordia sia però al tutto risecco in cotesta veneranda vecchiezza: misura adun- que la tela della mia calamità, e porgi benigne orec- chie alla cagione del mio nuovo dolore. Un bellissimo giovane, e fra tutti i suoi cittadini uno de' principali, adottato da tutta la città come pubblico figliuolo, al- l'evato e cresciuto sempre meco in una medesima casa, anzi in una medesima camera, e in un medesimo letto; il quale, avendo più di me tre anni, e con santo e perfetto amore amandomi, ed io lui, con consentimenlo de' nostri padri mi prese per sua consorte: ed era già in sul celebrar del!*^ nozze, accompagnato da infiniti cit- tadini e parenti comuni nelle pubbliche chiese, per udir meco insieme il santo verbo d'Iddio; e offerto il maraviglioso sacrificio, la casa mia era tutta coperta d' alloro, piena di fiaccole, vi si sentiva altro che festa : e'd allora, quando la mia infelice madre, avendomi in grembo, mi adornava cogli ornamenti nuziali, e ba- ciandomi spesso con una materna tenerezza, già si ral- legrava de' futuri nipoti ; questi empi ladroni, in guisa di nimici soldati, incrudelendo coli' arme in mano lu- cide e rilucenti, non ad ammazzare uomini, non a ru- bar roba porser le mani, ma stretti in un tratto as- saltarono la camera dove io era: resistendo loro alcuno della nostra famiglia, io misera, e quasi morta, rapita del greijnbo della mia madre, fui loro troppo ono- rata preda; e furono disturbate le nostre nozze, come fur già quelle, secondochè si dice, di Piritoo e d' Ip- podarr.ia. Ma ora si rinforza, anzi si raddoppia la ma- lignità dello infortunio mio: oimè che ora mi pareva

fi A DRLT,' ASINO D*ORn

essere tratta per forza della mia casa, della camera, de. letto flnalmente, e per luoghi strani e inaccessibili chiamare il nome del mio sfortunatissimo consorte! Ed egli, come più tosto si vedeva privato de' miei abbrac- ciamenti, ancor tutto pieno d'odori e d: profumi e di ghirlande di flori, volendo seguitare eh: con altrui piedi eontra sua voglia velocemente lo fuggiva ; e mentre che egli tutto infuriato per gridare come gli era stata rapita la moglie, chiama l'aiuto del popolo; uno de' ladroni, commosso dalla indignazione della importuna persecuzione, preso un gran sasso che gli giaceva a* piedi, e datogliele in sul capo, l'anmazzò. lo adunque, impaurita da cosi paurosa e orrenda visione, tutta tre- mante dal funesto sonno mi risvegliai. Allora la vec- chia, mossa a compassion della sua disgrazia, sospirando anch' ella, le disse: Deh per mia fé', sta di buonavo- glia, la mia fanciulla, ti spaventare per le vane fi- gure del tuo sognare; imperocché, oltre a che tu dèi sapere che le imagini de' sogni del giorno son vane, eziandio quelle della notte riescono al contrario il più delle volte : il piangere, l' essere battuta, strangolata, alcuna volta significano presto e buon guadagno; e per lo contrario, il ridere, empiere il ventre di saporitis- sime vivande, prendersi delle dolcezze di Venere, rie- scono bene spesso con danno e vergogna di chi le so- gna. Ma io con una mia bella novella, cosi vecchia come io sono, mi voglio sforzare di levarli dal cuore tanta maninconia: e cominciò.

-JOMINCIA :,A FAVOLA D' AMORB E PSICHE,

Fu una volta un re in una certa città, e una reina, al tempo degl' Iddii, i quali avevano tre figliuole tutte e tre bellissime; ma le dua di più tempo, ancorché, come io ti ho detto, fossero di singoiar bellezza, pote- van pure essere annoverate fra le donne umane: ma quella minore era adornata di si maravigliosa e divina bellezza, eh' egli non sarebbe possibile esprimerla eoa

Umane parole.- Finalmente, molti cittadini e forestieri, i quali venivano a rimirare cosi stupendo miracolo, at- toniti per la indicibile leggiadria, mettendosi la man

fleslra, col dito grosso sotto a quelli due che gli sur- jgono accanto, in guisa di color che adorano, alla bocca, come se essa fosse stata Venere, religiosamente l'ado- ravano. E già era scorsa la fama per le città e per li 'paesi ivi vicini, e dicevasi che quella Dea, la quale il ceruleo mare partorì e la schiuma delle sue onde al- levò, data pubblica copia della sua divinità, conversava nel mezzo della moltitudine degli uomini; o veramente, che per nuova disposizion delle stelle, non nel mare come r altra volta, ma in terra una nuova Venere con .virginali bellezze era piovuta. E più Tun che l'al- tro s'andava ampliando questa cotale openione, ed erane già sparsa la fama non solamente per tutte le città pros- sime, ma per le lontane Provincie; e infinite schiere di mortali, molti mari solcando, lunghissimi viaggi fa- cendo, concorrevano per vedere il miracolo di quella età. Nessuno a Pafo, nessuno a Gnldo, niuno più a Ci- terà per veder Venere navigava. I suoi sacrifici si ri-

96 diìll' ASINO d'oro

manevano da canto, i tempj rovinavano, i letti anda- vano male, le cerimonie erano abbandonate, i simularrl erano restati senza corona, e pli altari, divenuti vedovi, con fredde ceneri tutti macchiati ad ognuno si la'^cia- vano vedere. Alla fanciulla si supplicava, la fanciulla si onorava, e nel volto umano si placava la Doità di Venere, e nel mattutino camminare della vergine Ha con vittime e vivande si faceva propizio il nome di Venere. E già insino a' popoli, mentre ella passava per le piazze, con fiori spicciolati e con ghirlande umilmente 1' ado- ravano. Laonde la vera Venere, accorgendosi che le ce- lesti cerimonie erano fuor di modo trasferite al culto d' una fanciulla mortale, grandemente si accese nel- l'animo suo; ne potendo aver più pazienza, piena d'in- dignazione, scotendo il capo altamente e fremendo, cosi diceva seco medesima: Ecco prima madre delie cose della natura, ecco principale origine degli elementi, ecco Venere nutrice di tutto '1 mondo, che ha compar- tito Tonore della sua maestà con una mortai giovinetta: ecco il nome mio nascosto nelle delizie de' cieli, e fat- tosi palese fra le immondizie della terra. Gran fatto sari per certo, se io con comune sacrifìcio dubiterò della scambiata mia venerazione, e adombrerà la immagine mia il volto d'una fanciulla, che dee morirei Indarno adunque quel pastore, la giustizia e la fede del quale approvò quel sommo Giove, per la mia eccessiva bel- tade mi prepose a tante Dee, Ma costei, chiunque ella sia, non si usurperà così allegra i miei onori: io farò ben io, ch'ella si pentirà di questa sua non lecita bel- lezza. E avuto a se quel suo Ogliuolo, quello alato e temerario, il quale co' suoi perversi costumi disprez- zando la pubblica disciplina, armato di fuoco e di saette, e discorrendo la notte per l'altrui case, e disturbando gli altrui matrimoni, commette senza tema e senza danno scelleratezze, e non fa mai altro che male; il quale, avvengachè per sua natia licenza e' sia pur troppo rubesto, preso avendolo colle adirale parole, il menò a quella citfi; e mostratagli Psiche, che così era il

LIBRO Ol'ARTO f)7

nome della giovane, assai dappresso, e racconto«rii come !e cose eran passale, e dettogli della emulazione della bellezza, piangendo, e per la indignanone non potendo capir nella pelle, gli disse: Io ti prego, figlinolo,, per lo legame delia materna carit^^, per le dolci ferite delle tue saette, per le melate arsure di coleste tue fiamme, fa vendetta, ma altamente, della tua genitrice; e nella ru- bella beltà incrudelisci severamente, e fa che questa vergine arda veementissimamente dell' amor d' un uomo vilissimo, il quale abbia la Fortuna privato dell'onore, della ricchezze, e d' ogni suo bene; e tale sia finalmente la sua miseria, eh' ella non trovi paragone per tutto il mondo. Ed insieme con queste parole abbracciandolo e baciandolo con quella più tenerezza ch'ella poteva, ahdatasene vicino al lito del mare, colle rosate piante calpestando la sommità delle risplendenti onde marine, non vi andò guari, ch'ella si ritrovò nel profondo; dove quello che appena ancora le'ngombrava il desio, come se già r avesse comandato, la ubbidienza dei marini Dei le ne procacciava incontanente. Eranvi le figliuole di Nereo, e dolcemente menando un ballo, con belle note vi cantavano una canzone: eravi Portunno colla schiumosa barba: eravi col seno pieno di pesci la Tara Salazia: eranvi i delfini carradori del giovane Paiemone, solcando il mare da ogni canto; eie squadre de' trom- betti di Nettuno non si facevan desiderare. Questi colla sonora tromba faceva soavemente l'acque rimbombare; quelli con tenda di seta discacciava le vampe del ni- mico sole; quell'altro postosi innanzi a Venere ginoc- chionij entro ad uno specchio le mostrava il suo gra- zioso volto; e molti sotto il suo carro destramente notando, co' lor nuovi giuochi la empievano di diletto, E in colai guisa accompagnava la piacevole moltitudine la madre dello Amore che s' era inviata verso l'Oceano. Stavasi in questo mezzo la giovinella Psiche senza prendersi alcun fruito della sua bellezza : era guardala da tutti, lodata da tutti; ma nessuno, non re, non signore, non gentiluomo, o della minuta plebe almanco, veniva a

FIRENZUOLA 7

98 dell' asino d'oro

richiedere le sue nozze : puardavano con maravlj^lia il di vin volto, ma come se e' vedessero una statua di ejjregio artefice perfettamente condotta, niente altro di lei che vederla chiedevano. Dove che le altre due maggiori so- reUe, la temperata hellezza delle quali non era divul- gata così per tutto, essendo da due re loro amanti state chieste per ispose, già più tempo fa felicemente godevano la loro giovinezza. La povera verginella, re- statasi in casa, inferma del corpo, malcontenta dell' a- nimo, si piangeva la sua vedovanza; e quel!) ch'era grato ad ognuno, ella odiava in se medesima, la disor- dinata bellezza. E il misero padre, dubitando dell'odio de' celesti Dei, non sappiendo altro chefaisl, se n'andò dall'antico oracolo del iiiilesio Apollo; e eoa ricchi doni, grassi sacrifici, e umili preci, adorando cosi grande Id- dio, addomandò marito per la non richiesta giovane. Ma Apollo, ancorché Greco e Ionico, e lo fondatore di Miiesia, con toscana voce così risposi

Ferma questa fanciulla sopra un monte. Con ornamenti di funebri nozze; genero sperare uomo mortale . Ma fiero e crudo, o ripien di veleno: Un che, volando, ognun stracca e fatica, E col ferro e col fuoco strugge il tutto: Del quale ha Giove tema e gli altri Dei.. Tremònne (lumi i; le tenebre inferne.

Il già felice re, avendo udito le parole della terri- bile profezia, pigro e malcontento se ne ritorna a casa, e alla sua mogliera manifesta il comandamanto lei re- mendo oracolo. Piangono, dolgonsi lamentans noltl giorni, e già si appropinqua il tempo dell'atroci^ ri- sposta: già si ordina l'apparato delle crude nozze; mu- tansi le allegre fiaccole in maninconosi torchj ; cangiasi il suono de' soavi flauti in urla querule e lamentevoli ; e il lieto canto d' Imeneo si termina con mortifere stri- da: la nuova sposa col velo nuziale le copiose lagrime si rasciuga: e la città tutta malcontenta dello infArtu- nio della dolorosa casa, mostra pubblico cordoglio; e

LIBRO QUAnTO 90

par m3»TerJor dimoetrazione del suo dolore, vieta con pene universali l'amniinistrazione della ragione. E ve- nuto il giorno che la necessità delia ubbidienza de' ce- lesti ammonimenti addomandava la miserella alla de« stinata pena, finite le crudeli cerimonie, fu tratto final- mente di casa il vivo mortorio, accompagnato con largo pianto da tutta la città; ed ella altresì tutta piena di la- grime accompagna non le nozze, ma l'esequie sue. E mentre che i maninconosì genitori, combattuti da tanto travaglio, indugiano di dare efìfetto alla crudele opera, la figliuola medesima con tali parole gli confortava: Perchè cruciate voi l'infelice vecchiezza con si lungo pianto? perchè affaticate voi con cosi spessi gridi quello spirito, il quale più si dee chiamar mio che vo- stro? perchè con non profittevoli lagrime imbrattate voi quelle guance, che dovrebbono esser da me mai sempre onorate? perchè lacerate voi negli occhi vostri le luci mie? perchè stracciate ne' canuti crini i miei biondi capelli? perchè il venerando petto, perchè le sante mammelle percotendovi, mi percotete le mie? Questo dunque vi sarà ricco premio della mia non mai imile veduta bellezza, procacciatovi con piaga mortale alla inquietissima invidia? Tardi oramai, tardi vi ac- orgete del vostro male. Quando la moltitudine della :ente mi celebravano con divini onori, quando per co- nune voce mi appellavano una nuova Venere, allora 'I dovevate dolere; allora ve ne doveva rincrescere; llora mi dovevate pianger© come morta. Già conosco 0, già mi accorgo che io perisco solamente per lo nome li Venere. Menatemi adunque, e, dove la sorte mi ha Indicato, fermatemi a quello scoglio. Io bramo goder on prestezza queste future nozze: io desidero vedere uel mio generoso marito. Perchè differisco io ? perchè iifrpo io, facendomisi innanzi colui eh' è nato per la ovina di tutto '1 mondo? E avendo detto loro la ver- inella queste e altre cosi fatte parole, con veloci assi mossasi nel mezzo della pompa del popolo che seguitava, arrivarono al disegnato luogo. E poscia

100 dell'asino d'oro

eh' egli ebber condotta la fanciulla nella sommità delle

scoglio, abbandonate e lasciate quivi le fiaccole, h

?uali colle infinite lagrime avevan già spente , a cape asso lutti a casa se ne tornarono. E i miserandi nitori per l'angoscia di tanto travaglio, divenuti scliif della luce, serratisi in casa, si diedero alle tenebn d'una perpetua notte. Restata adunque la ubbidienti Psiche sulla cima di quello scoglio, tutta tremante e pian gendo sempre si stette, insino a tanto che Zeffiro colla su? piacevole aura dolcemente percotendola, col suo tran

quìllo flato le fece seno della sua veste e dall' un fianci e dall'altro: il quale per la scesa d'una gran valle che appiè si giacea, leggiermente portandola, pos^ nel fiorito grembo de' suoi rugiadosi cespugli.

lOi

LIBRO QUINTO

Avendo Psiche disgombrata un poco la mentft di tanti travagli, e riposandosi sopra al fiorito s«no delle tenere erbette del soave luogo, un lieve sonno allagò le stanche membra di quello obblio, che discaccia in buona parte le tante cure df^' miseri mortali. Dal quale, posciachè eli' ebbe preso un convenevol ricriamento, con più riposato animo risvegliatasi, e' le venne ve- duto un verde boschetto di natii e grandi arbori tutto ripieno, entro al quale con cristalline acque sorgeva una lontana, e nel mezzo del fronzuto bosco vicino al corso delle chiare onde della bella fonte nasceva un reale e masmifico palazzo, non da terrestri mani certa- mente ma da divine arti edificato; sarebbe alcuno, che nella prima giunta non giudicasse che così ricco e cosi bello edificio non fusse d'un grande Iddio. Im- perciocché, lasciamo stare che agli altissimi palchi, in- tagliati maestrevolmente di avorio e di cedro, sotten- travano colonne tutte d' oro massiccio, ma le mura erano di finissimo argento ricoperte; entro alle quali si vedeano animali quasi d' ogni ragione, che pareva che si facessero incontro a qualunque arrivava in casa, intagliati con tanta maestria, che si poteva giudicare che uomo certamente ingegnoso e grande, anzi un se- mideo, anzi uno Iddìo, fusse stato quello che con st sottile intaglio avesse lavorato quello argento. I pavi- menti erano di musaico di finissime pietre e di gioie sottilmente commesse, per le cui commettiture appari- vano figure maravigliose: beati veramente si potevan dir coloro ben mille volte, a' quali era concesso il cal- pestare i pendenti e le maniglie, come noi facciamo le pietre o i mattoni. Le altre parti della casa, le quali erano senza numero, erano state da buono arcbitottoro

iOJ dell'asino D*0Q0

con convenevole larghezza e lunghezza benissimo com- partite, e le mura di oro schietto rilucevano jn guisa da per loro, che la casa si facea giorno, ancorché il sole r avesse a schifo ; e uguale era lo splendor delle camere, cosi erano luminose le loggie, e in quella me- desima guisa mostravano le porte la lor chiarezza. erano le masserizie e gli ahhigliamenti disconvenevoli alla maestà di tanto palagio. Sicché tu avresti giudicato che quella (usse una stanza celeste, edificala per lo gran Giove, volendo egli alcuna volta avere 1' umana con- versazione. Invitai i adunque Psiche dalla grandissima bellezza dello stupendo e tnaraviglioso luogo, si andava accostando più oltre; e di mano in mano più ardita, se n' entrò dentro alla porta : e prendendo ognora mag- gior piacere della bella vista, e ora una cosa e ora l'altra riveggendo, ella se ne salse su da alto; e veduto le guardarobe con grandissifno magistero condotte, piene di tante stupende ricchezze, s'immaginò quello che era in verità, che egli non fosse cosa al mondo che quivi non si ritrovasse: e quello che soprattutto la empieva di maraviglia, era, che sanza alcuna chiave, sanza al- cuna serratura, senza guardia alcuna si custodiva entro il tesoro di tutto il mondo. E mentre che ella con suo grandissimo piacere riguardava tanta felicità, e' le venne udito una voce di corpo ignuda, che all' im- provviso offertasele agli orecchi, le disse in questo mo- do: Perchè ti prendi, o padrona, tu cosi, fatta mara- viglia di tante bellissime ricchezze, le quali tutte sono le lue? Entratene adunque in questa grande e beJlis- sima camera, e messali nel letto, prendi riposo sin- tantoché da te sia parlila cotesta tua stracchezza, e poscia, quando ti piace, vattene in quel bagno : noi, delle quali tu sola ascolli le voci, preste servitrici a' tuoi bisogni, con gran diligenzia ti amministreremo tutto quello che ti sarà di mesiiero: e curato che ta avrai il corpo, egli non ti mancheranno vivande regali, con gran prostezza e con soavità non picei ola prepa- rate. Conobbe Psiche la beatitudine della divina provi-

LTORO QUINTO 103

(lenza, udendo gli ammonimenti delle invisibili voci; e pria col sonno e poscia col bagno discacciata da ogni gravissima stanchezza, le venne veduto vicino en- tro ad una bella e ricca stanza, fatta in guisa d' una luna, apparecchiata una tavoletta; ed eslimandosi che ciò fusse stato apparecchiato e provvisto per sua ricreazio- ne, tutta allegrala entro se n'entrò: e postasi a sedere a tavola, appena aveva finito di assettarsi i panni sotto, eh' ella vide esserle portato da invisibili spiriti un vino soavissimo, cibi vari, e in grandissima copia, e di fi- nissimo sapore; e senza vedere alcuna persona, non altro di loro co' sensi godeva, che il suon delle voci che lor cadevano ; e sole voci per servire aveva. Levate le tavole, egli entrò dentro uno, e cantò non veduto, e un altro sonò la citara; la citara si vedeva; e un coro di più bellissimi e concordevoli suoni e ac* centi soavemente le empiè gli orecchi; alcuno agli occhi suoi si dimostrava. Finiti quei colali piaceri, es- sendo già r ora assai ben tarda, Psirhe se n' andò a dormire : e quando la notte era assai ben in col suo viaggio, udito un piacevole mormorio ingronibrarle gli orecchi, e veggeadosi in tanta solitudine, tutta tre- mante e pavida dubitava della sua virginità, e più le pareva aver temenza di quelle cose che ella manco po- teva pensare che nuocere le potessero. E già è presente l'incognito marito, e già è entrato nel letto, e già si ha fatta Psiche sua mogliera: e già venuta 1' ora vicina al giorno, egli da lei con gran prestezza se n' è parlilo: ed eccoti la moltitudine delle voci, che compariscono in camera della nuova donna, e con ogni diligenza cu- rano la ferita della rubata virginità: e quel giorno con gli altri con maravigliosa cura la provvedono di tutto quello che le faceva mestiero. E come è naturale a tutti, la nuova usanza di quelle voci per la lor continua conversazione già le cominciano a porgere grandissimo diletto, e '1 lor suono è uno spasso della sua solitudine: sicché assai contenta si passava le non bramate nozze. I miseri genitori ir questo mezzo, sanza saper quello

104 dell'asino r)'ortO

che della lor figliuola avvenuto fosse, nel continuo pianto e nella lunga doglia s'andavano Invecchiando. Ed essendo pervenuta la fama del doloroso accidente agli orecchi dell;' due maggiori sorelle; afflitte e meste, abbandonata la propria casa se n'eran venuta anzi al cospetto de' lor genitori a condolersi con loro di tanta fortuna E la medesima notte che elleno da casa s' erano partite, il marito di Psiche, il quale dal vedere in fuori non era avaro di soddisfare agli altri sensi, prese a par- lare alla mogliera in questa guisa: ^.a crudel Fortuna, la mia dolcissima Psiche, ti tende una pericolosa trap- pola, la quale con grandissima cautela ti (a mestiero cercar eh' ella non iscocchi: le tue sorelle, turbate per la falsa credenza della morte tua, ti vanno ricercando per ogni contrada, e tosto arriveranno a questo scoglio; delle quali se alcuno la-nento ti venisse udito per iscia- gura, non solamente non risponder loro, ma non ti cu- rar pili di riguardarle; perciocché altrimenti facendo, a me procacceresti dolor grandissimo, e a te la tua ma- nifesta rovina. Acconsenti la mogliera agli ammonimenti del marito, e promiseli di far tutto quello eh' egli le 'm- poneva. Ma essendo poscia partito al partir della notte, la miserella con amare lagrime tutto il vegnente giorno s'andò consumando, e dicendo infra stessa, che al- lora conosceva la sua disavventura; posciach^ rinchiusa in cosi bel carcere, priva del colloquio umano, non solaraenie non potea aiutar le sue sorelle, che per lei cercare lusserò affaticate, non con bagno, non con cibo, non con alcuna ricreazione sovvenirle; ma non pur l'era concesso riguardarle. E stata tutto il giorno in questo travaglio, venuto la notte, se n' andò a dormire: vi andò guari, che il marito tornato un poco più avaccio che l'usato, entratosene accanto a lei, e ab- bracciandola e baciandola, che ancora piangeva ama- ramente, come se di lei si volesse dolere, le disse: Cosi adunque, lamia Psiche, mi hai osservato la promessa? che po6s' io dunque tuo marito più ripromettermi del fatto tuo? che sperare? posciachè il di e la notte, e

LIBRO QUINTO JOS

in mezzo a' dolci abbracciamenti, dai luogo al tuo do- lore? Governati oramai come ti piace, e ubbidisci al- l'animo tuo chieditor de' tuoi danni; e ricordati almeno delle mie amorevoli parole, quando, benché tardi, ti pentirai di questi tuoi folli pensieri. Allora ella con pieglievoli parole e con dolci lusinD;he, e dimostrando di voler morire se egli non le consentiva ch'ella po- tesse mirar le sue sorelle, confortarle, abbracciarle, ba- ciarle, e ragionarsi con loro, fece in modo ch'egli fu forzato a voler quel che voleva la sua nuova donna: e soprappiù le concesse ch'ella donasse lor quella quan- tità d' oro, di perle, di gioie e d' altre robe, eh' ella vo- lesse. E poscia infinite volte l'ammoni, assai sovente la minacciò, molte volte la pregò eh' ella non fusse si sciocca , eh' ella mai si lasciasse persuadere dal loro pernizioso consiglio, eh' ella ricercasse della forma del suo marito; e mossa da questa sacrilega curiosità, non si gettasse da lei stessa dal monte di tanti innumera- bili beni nel profondo di tutte le miserie, e privassesi de' congiugnimenti del suo caro marito. Posciachè Psiche lo ebbe ringraziato infinite volte, già tutta divenuta lieta, li disse: Prima muoia io, il mio dolce consorte, ben mille volte, ch'io mai perda la tua dolce compagnia: io ti amo, io ti adoro , e sii chi essere ti vuoli , io ti voglio ben come all'anima mia, con esso Cupidine ti cambierei: ma d'un'altra cosa ti vo' pregare ancora, che tu comandi a quel tuo sergente ZefBro, che in quella guisa ne conduca qui le mie sorelle, ch'egli ne condusse la tua mogUera. E appiccandogli certi confortevoli baci e saporiti, e con dolci abbracciamenti stringendolo, e colle dilicate membra accostandoseli, aggiunse queste casi fatte carezze : Mia dolcezza, mia conlentezza, ma- rito mio, anima soave della tua Psiche. E offertoli le dolcezze dell'ultima mensa di Venere, cosi vinse lo in- namorato Amore, ch'egli, ancorché malvolentieri, tutto lieto le promise ciò ch'ella addomandava. E mentre che egli fra le materne doiopzze si .««tava, accortosi che l'Au- rora voleva lasciar solo il suo Tilone, egli si toJ.se delle

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braccia della sua Psiche, e volò via. Già erano le so- relle arrivate a quello scoglio, dove sapevano che Psi- che era rimasa, sappiendo quivi altro che farsi, strac- cati gli occhi col pianto, percossesi le mammelle colle mani, e colle unghie stracciatesi le molli guance, face- vano cosi sconcio romore, che il suono delle lor grida, sforzando i sassi e le caverne di quello scoglio, forza- rono la misera Eco ad affaticare la voce sua: sicché avendo più fiate chiamata Psiche per il suo proprio nome, la nuda voce portò il penetrabil suono delle loro stride agli orecchi di lei. Perchè ella quasi fuor di per una subita paura che l'assaltò, udendo le repentine grida, uscitasi di casa, se ne corse laddove elle si la- mentavano; e disse: Perchè indarno vi affliggete voi con cosi miserande lamentazioni? perchè si stranamente vi dolete? quella che voi piangete, è presente: lasciate le meste voci , e rasciugale le bagnate guance , poiché voi potete abbracciar colei ch'era cagione che le lagrime piovessero si largamente, e che i lamenti volassero si altamente. E cosi dicendo, chiamato ZefBro, e ricorda- tili i comandamenti del suo signore, gli disse, che al palagio ne le portasse. Ed egli obbedientissimo, allora allora, «spnrn nlciin loro affanno, con lieve aura le con- dussi^ al desiato liio?o. E posrinrb^ mn amon^voii ab-

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bracciarì e lieti baci, posto le due freno alla doglia, si godevan l'una l'altra le tre sorelle , Psiche, piangendo per l'allegrezza, disse loro : Entrate nelle nostre stanze, e ricreate le afflitte anime insieme colla vostra Psiche. E mostrando le ricchezze dell'aurea casa, la bellezza del luogo, e facendo pervenire alle loro orecchie l'ob- bediente suono della popolosa famiglia, entro a un gen- tile bagno, e a mensa non con umane arti fabbricata, con regali vivande abbondantemente le ricreò. Ma la sa- zietà e la gran copia quelle celesti ricchezze già, aveano entro al petto delle due sorelle stuzzicato il veleno della rabbiosa invidia ; restava una di loro di domandare Psiche punto per punto, filo per filo, e segno per segno, chi fusse il padrone di quelle maravigliose ricchezze, chi (usse e come fusse questo suo marito. ella però obbliata de' comandamenti del suo consorte, fece pa- lese pur uno de' segreti del cuor suo ; ma infìngendo così alla sprovvista una sua risposta, disse, che egli era un certo bel giovane, nel cui bel volto appena appariva alcun segnuzzo di barba, il quale i più de' suoi giorni per li boschi dietro alle fiere se n' andava spendendo : e dubitando che alcuna nota del prece- dente parlare non le scoprisse i suoi segreti consigli, avendole 'n prima cariche d'oro e d' ariento, e d'altre robe d'infinito pregio, chiamò ZefBro, che subito le ri- portasse. E mentre che le venerabili sirocchie se ne ritornavano a casa, avendo già il fiele della invidia al- lagato lor tutto il petto, elle andavano con assai di- spettose parole così fra loro ragionando della semplice Psiche; e finalmente disse l'una: 0 cieca, o crudele, p iniqua Fortuna, cosi ti è paruto giusto, che fra quelle che sono d'un medesimo padre e d'una medesima madre generate, si conosca tanta disagguagUanza, che noi, che le maggiori siamo, ci troviamo maritate, anzi vendute per ischiave a mariti stranieri, lontano dalla patria no- stra, dalla casa nostra, e da' nostri parenti, in peggior luogo che se noi fussimo andate in esilio; e questo ri- masuglio, il (^uale lo stiacco. ventre ha gittalo fuori

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nell'ultimo parto, oltre a tante ricchezze, gli è concosso godersi uno Iddio per suo marito, che non sa ella stessa che cosa si sia cosi fatta ventura ? Vedesti ben, la mia sirocchia, quali robe sono in quella casa? quanti pen- denti, quanti vezzi, quante naniglie I che gemme vi ri- lucono, che veste vi risplendono, quanto oro vi si cal- pesta ! Che se per nostra disgrazia il marito fc anche si bello come ella dice, egli non è donna al mondo che sìa più felice di lei: e eh' é peggio, che essendo egli Iddio, e' farà tanto questa lor lunga consuetudine, e tanto lo stimolerà il coniugale amore, ch'egli sarà, co- stretto far diveltare ancor lei una Iddea : anzi l'ha già fatta per mia fede ; cosi si portava , cosi faceva : già ha dritti gli occhi nel cielo, già rende odor di divinità quella donna, a cui le ignude voci servono come don- zelle, a cui obbediscono i venti come famigli : ed io ta- pina, la prima cosa, ho avuto un marito più vecchio di mio padre, più rimondo che una zucca, più voto che una canna; il quale non è buono se non a guar- dar la casa, e serrarla con mille stanghe e con mille catene. E l'altra allora : Lascia dire a me, che ho a sop- portare un marito torlo bistorto, che non ha giuntura addosso che e' non se ne dolga; il quale appena di cento anni un tratto, e quello male, mette i rugginosi e de- bili ferri nel mio giovine orticello ; mai c'è altra fac- cenda col fatto suo, che stropicciarli le dita ; e sai, la mia sorella, ch'egli è come toccar le pietre a fargli le fregagioni o alle braccia, o alle gambe, o presso ch'io noi dissi: e pensa da per te, come quelle puzzolenti medicine con panni sudici e con gl'impiastri fetenti mi conciano queste mie dilicate mani : sono verso di lui i miei ufficj quelli della buona moglie, ma quelli d'una affaticata fanticella. Eh la mia sirocchia, egli mi par che con troppo paziente animo, anzi servile (io dirò liberamente come io l'intendo) che tu comporti cotanto oltraggio : io per me non posso sofferir felice fortuna caduta nelle costei mani indegnamente. Non vedevi tu con quanta-superUJa, eoa q.uaùta-ar«)gaiiz«L.eUa-si por-

IJFRO QUINTO '09

lava con esso noi? e come con qnella vanagloriosa ostentazione ella dimostrava quel suo animo gonfiato? Non ponesti tu mente, che di tante ricchezze come malvolentieri la ce ne diede questa picciola particella? e come tosto, offesa dalla nostra presenza, ella comandò al soffiar de' venti, che ce ne rimenassero? mi parrà mai esser donna, viver certamente, insino a tanto ch'io non la fo tombolar giù di tanta felicità : e se la comune ingiuria t'ha acceso l'animo ancora a te, come sarà conveniente, amendue penseremo del modo, e pren- deremo sopra di ciò saldo e buon consiglio. Queste cose che noi portiamo, a me non par che noi a' nostri genitori ad alcun altro le dimostriamo ; anzi fingiamo di non avere avuto notizia delle sue prosperità ; e quello eh' avenio veduto noi, che ce ne rincresce, non lo ban- diamo a tutto il popolo : sono già ricchi coloro, le ricchezze de' quali e nosce nessuno : e in questa guisa ella si accorgerà che noi non le siamo schiave, ma si ten sorelle maggiori. Andiamo al presente da' nostri mariti, e ritorniamo a veder le nostre povere cose, e poscia armate di miglior pensieri con gran punizione assalteremo la sua incomportabile superbia. Piacque come buono alle due pessime il pessimo consiglio, e ascosi quei grandi e ricchi tesori ch'avea lor donati la tuona Psiche, con. isparsi crini e simulati pianti, colle loro cattive novelle rinfrescarono il dolor de'miseri ge- nitori; e cosi mal consigliate, piene di veleno, e infu- riate, ordinando contro alla incolpevol sorella lo scel- lerato inganno, anzi procacciandole la morte, se ne ri- tornarono alle lor case.

Non restava in questo mezzo infra i suoi notturni ragionamenti il non conosciuto marito di ammonire la sua mogliera; e le diceva: Tu non ti accorgi, la mia Psiche, in che rovina accenni la Fortuna spingerti, stan- doti ancor discosto; nella quale se tu non ti avrai di- ligentissima cura, fattasi più vicina, ella ti farà rovi- nare senza faUo alcuno. Le perfide puttanelle, con quello Slorzo eli tìiitì i)o&syuu li liia^ijiore, ti vanno ad ognor

no dell'asino d'oro

tendendo mille lacciuoli, de' quali questo è il maggiore, ch'elle ti vogliono persuadere che tu veggia il volto mio; il quale, come io li ho già predetto più fiate, tu non vedrai: però se da quinci innanzi quelle pessime stre- ghe verranno da te con si perverso animo (io so certo ch'elle verranno), non parlar loro per niente: e se pur per la tua naturai semplicit.'i , e per la tenerezza del l'animo tuo, egli non ti il cuore di fare il mio vo lere, almeno non porger gii orecchi a cosa ch'elle par lino dal marito, risponder cosa del mondo. E noi gif), la mia dolcezza, moliiplicheremo la nostra famiglia; che porta seco questo tuo giovincello ventre un altro giovincello, il quale, se nasconderai i nostri segreti, sarà divino, se gli discoprirai, sarà mortale. Hrillava Psiche, e per lo sollazzo della divina progenie tutta ardeva di letizia: rallegravasi per la gloria del futuro figliuolo, e della dignità del materno nome si godeva grandemente; e già piena di sollecitudine divenuta e i vegnenti giorni e i preteriti mesi numerava; e riguardando i principi della nuova soma, non poteva non maravigliarsi che di si picciola puntura fusse tanto gonfiato il ricco ven- tre, né se ne poteva dar pace a modo alcuno. Già era venuto il tempo che quella mortai peste, quelle spaven- tose furie, soflìando veleno come le vipere, navigavano alla volta della sua rovina; laonde il momentaneo ma- rito, che di ciò s'accorse, con queste nuove parole la sua moglie confortava: Il giorno ultimo, lo estremo caso, lo infesto sesso, lo inimico sangue già ha preso l'arme contro di te; già hanno mosso il campo, ordinate le squadre, dato il segno; e già le tue iniquissime si- rocchie colle spade ignude non vanno altro chieggendo che la tua gola: oimèf da quanti travagli siamo noi as- saltati, la mia Psiche ! abbi pietà di te e di noi, e con religiusa continenza libera dal soprastante infortunio la casa, il marito, te, e cotesto nostro figliuolo ; volere quelle scellerate donne (cui dopo il pestifero odio, dopo il troncar del vincolo -^^p' nostro sanane, egli non ti è lecito di nominar àuieiie) o vedere, o udire, quando pò-

tTBRO quinti; l 1 1

sle sopra dtìllo scoglio colle spavenlevoli voci elle la- ranno i sassi rimbombare. E Psiche allora, singhioz- zando, che appena s'intendevan le sue parole, rispose : Tu hai veduto già più tempo fa, per quanto io mi do ad intendere, la esperienza della mia fede e delle mie poche parole, per lo avvenire sarà da te manco ap- provata la fermezza dell'animo mio; e però comanda di nuovo al nostro Zefflro, che usi con loro il medesimo uficio dell'altra volta; e invece del tuo negato sacro- santo cospetto, lasciami fruire la vista delle mie siroc- chie; e per questi tuoi d'ogni intorno odoriferi e scher- zanti capelli, per le tenere e ritondette guance, e in ogni parte simili alle mie, se io almeno in questo par-» goletto riconosca la immagine tua , pregato dalle pie- tose parole della supplice e affannata tua donna, con- sentile il frutto de' sirocchievoli abbracciamenti , e ri- cria 1' anima della tua divota e obbligata Psiche : altro più ricerco io del tuo bel volto, mi dan più noia le notturne tenebre, purch' io tenga te mio lume e mio splendore. Da queste e altre simili parole e dolci abbracciamenti incantato lo innamorato marito, rasciu- gando le di lei lagrime co' suoi capelli, fu forzato pro- metter ciò che ella desiderava. E poscia, anzi che le stelle avessero reso al sole il lume loro, partitosi Amore, lasciò Psiche soletta, come era usato, entro al suo letto. In questo mezzo le due concordevoli sorelle, senza pure aver fatto motto al padre loro, montate in nave, senza aspettar buon vento altrimenti, per forza di remi, per la più corta drizzarono le navi verso il nominato sco- glio; e arrivate ch'elle furono, non iscordatosi Zeffiro del regale comandamento, presole nel grembo della spi- rante aura, ancorché contro a sua voglia, le pose ap- piè del bellissimo palagio. Ed elleno senza alcuna dimora entratesene dentro , abbracciando e baciando la lor preda, e ricoprendo il seno delle lor frode col mentito nome della sirocchia e con allegro volto, cosi l'anda- vano adulando : 0 Psiche nostra, non fanciulla più ora- mai ma donna, posciachè tu se' madre, quanto nostro

iii DEU* ASINO d'oro

bene pensi tu di portare entro a cotesto grembo f con quanta allegrezza allagherai tu tutta la casa nostra t 0 beate a noi, cui empierà di letizia quello che ò fra tanto oro nutricato; il quale se, come è necessario, risponderà alla bellezza del padre, io non dubito che egli nascerà un altro Cupido. E simulata in questa forma una carnale affezione, pigliavano i passi per as- saltare a man salva il disarmato animo della semplice sorella. E come prima col sedersi un pezzo elle ebbero discacciata la stanchezza della via, la buona Psiche, fattole passare entro a certe magnifiche stanze, con ot- timo vino e soavissime vivande le ricreò. E posciachò furon levate le tavole, comandato alla citara che parlasse, egli si udì la sua melodia; a' flauti, che sonassero, esse ascoltarono i dolci accenli; a'consertl , che spiegassero le lor note, esse sentirono i lor canti: le quali musi- che tutte, senza che alcuno si vedesse, con soavissima melodia pascevano gli animi di tutti coloro che l'udi- vano. Ma egli non furon però cosi dolci, ch'egli ram- morbidassero la perDdia delle scellerate femmine, le quali , annestando ragionamenti che conducessero la povera Psiche ne' destinati Ucci delle lor frodi , senza che paresse lor fatto, la cominciarono a domandare chiunque fusse questo suo marito, e di che schiatta venisse la chiarezza de' suoi maggiori. Allora ella per soverchia semplicità, dimenticatasi del parlare dell'altro giorno, trovò un'altra sua nuova favola, ch'egli era d'una grandissima provincia, e trafficava di molti da- nari, e che egli era già arrivato a mezzo il viaggio del comun corso dell'umana vita, e appunto allora comin- ciavano i crini, ove uno e ove un altro, a imbiancarsi. dimorando guari in questo ragionamento, avendo loro di nuovo empiuto di preziosissimi doni, le rendè alla ventosa treggia. Le quali mentre che dal tranquillo flato del soave Zefflro erano rimenate verso casa, con pa- role cosi un poco soprammano ragionando, disse una di loro: Che diciamo noi, la mia sirocchia, di quella scon- cia bugia di quella pazzerella? Poco fa era giovanetto

LIBRO QUINTO H3

colle guance appena di tenera lanugine ricoperte, ora di mezzo tempo, sopra de'cui crini è già cominciato a nevicare. Chi è quegli, il quale essendo giovane, che in picciolo spazio divenga vecchio? niente altro ri- troverai, la rnia sirocchia , che o questa pessima fem- mina infìnge una grandissima menzogna, o ella non sa come si sia fatta la forma di questo suo marito: delle quali cose sia quale essere voglia, egli è da sterminarla di tanto bene: e s'ella non conosce il volto del suo ma- rito, ella è sanza dubbio alcuno maritata a uno Iddio, e porta dentro al ventre un altro Iddio. Oh io li dir.» ben, che se io udissi mai che costei ^fusse madre, la qual cosa tolga Iddio, d'un divino fanciullo, che io mi appiccherei per la gola: e però ritorniamo in questo mezzo dal nostro padre, e alla tela del nostro primo parlare tessiamo quelle maggior fallacie che noi sap- piamo; e ritornando poscia da costei, vedremo con ogni miglior modo di dar efletto al nostro ragionevole pensiero. prima fur giunte, che stimolate dalle furie della pestifera invidia, che giorno e notte le molestava, detto addio assai rincrescevolmente a' lor genitori, di notte tempo messesi in via, la mattina a buon'ora se ne giunsero all'usato scoglio: e d'indi col solito aiuto volatesene alla casa di Psiche , e fattosi collo stropic- ciarsi gli occhi piover giù un rovescio di lagrime, con questa nuova trappola parlarono alla fanciulla: Tu fe- lice e beata ti stai certamente per la ignoranza dei tuo male, senza esser de'tuoi pericoli curiosa; ma noi che con estrema diligenzia avemo cura alle cose tue, per li tuoi danni siamo miseramente cruciate. Noi avemo inteso per cosa certa (nò a te il possiam celare, ben che appena soffra l'animo di raccontarlo, tanto è si grande infortunio), che uno smisurato serpente, il quale tuttavolta sta colle venenose fauci per imbrattarsi del sangue tuo, nascosamente si giace teco tutte le tue notti. Ricordati al presente dello spaventevole oracolo di Apol- line, il quale disse che tu eri destinata alle nozze di un'atroce bestia. Molti lavoratori e cacciatori, che quivi iriBINZUOt^ d

U4 dell'astio d'oro

intorno costumano di iiiruvarsi, e altri paesani lo vi- dero iersera, tornando da cibarsi, andare qua notando per questo fiume vicino; e tutti afftirmano per una voce, che le sue carezze non dureranno molto, ma ch'epli, come più tosto il tuo ventre sarà vicino all'ora del desiderato parto, essendo allor più grassa e più piena, ti divorerà. Oramai sia tuo il pensiero, se tu vuoi prestar fede alle parole delle tue sorelle sollecite per la tua salute, e schifata la morte, viverti con noi sicura da tanto pericolo; o veramente, sprezzando il nostro consi- glio, brami piuttosto rinchiuderti nelle viscere di quella bestia. E sebben, la solitudine di queste voci , questa solitaria villa, e i puzzolenti e pericolosi congiupniiiienti della non veduta Venere, e i velenosi avvoljjimenti di questo crudel serpente ti dilettano, a noi basterà aver fatto l'uficio delle buone sorelle. Udendo la povera Psiche cosi fatta novella, come semplice e tenera d'a- nimo ch'ella s'era, tanto timore la soprag?iunsp, che uscita fuor di sé, e dimenticatasi de' buon ricordi del marito e delle sue promesse, ella si «ittò nel profondo del pelago delle sue calamità; e divenuta nel volto come di terra, e tremando a foglia a foglia, con parole tronche, e con inferma voce, disse: Voi, le mie caris- sime sirocchie, come era convenevole, avete osservato il debito uficio della vostra pietà; e coloro che vi hanno detto così gran cosa, non credo già che dicano le bugie ; perciocché io non ho mai veduto il volto di questo mio marito, seppi mai di che gente o donde egli si fusse- ma ascoltando alcune sue notturne voci' mi ho sopportato un non conosciuto animale, e uno che è nimicissimo della luce, e come molto ben dite voi, una qualche bestia, la quale sempre mi ha fatto paura con questo suo aspetto, e minacciatami d'una gran rovina, ogni volta ch'io sia curiosa di volerlo ve- dere. Ora se voi potete, procacciate alla vostra inferma sorella qualche giovevole medicina: soccorretemi ora- mai, e fate che la straccurataggine degli ultimi rimedj non guasti il beneflcio de' primi provvedimenti. Rilro-

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vato adunque le scelleratissime donne il nudo animo della meschinella colle porte aperte, lasciati i coperti lacci da canto, impugnate le spade, con manifeste frodi assaltarono le sue paurose copritazioni ; e disse una di loro : Perciocché il vincolo della nostra origine non ci lascia a benefìcio della tua salute scorgere alcun peri- colo, noi ti metteremo per quella strada, che, secondo da noi è stato più e più fiate pensato, sola ti può con- durre al bramato porto della tua salute. Prendi adun- que un ben arrotato rasoio, e ascondilo in quella parte del letto dove tu se' solita giacere ; e abbi una buona lucerna piena d' olio, che faccia il lume chiaro, e na- scondila dietro ad un panno d'arazzo o 'n qualche al- tro simile luogo, sicché ella non apparisca in modo al- cuno; e dissimulato tutto questo apparecchio, aspette- rai la sera. E posciachè egli colli suoi sohti ravvolgi- menti se ne sarà salito in sul suo letto, che tu'l sen- tirai russare, scesa del letto, a piedi ignudi, pian piano andrà' tene con sospesi passi a pigliar quella lucerna. Posciachè tu avrai scoperto il lume, tu potrai col tuo valoi oso ardimento prender ^quel partito che la oppor- tunità s'a ti consiglierà ; e impugnato il tagliente col- telln alzando la destra con quella forza che tu potrai la macgiore, taglia audacemente il capo del venenoso serpente ; e noi poscia non ti mancheremo, bisognando, del nostro aiuto. E come più ratto colla tua mano ti sarai guadagnata la tua salute, con grande sollecitudine ti aspetteremo, menatone teco queste tue compagne; q congiugnendo te donna con uomo, felicemente celebre- remo le tue magnifiche nozze. E avendo colle accese fiamme di queste parole riscaldato le viscere della sfor- tunata, dubitando del fatto loro, per essere state le consigliere di così pessimo consiglio, fattesi portare colla forza dello usato vento sopra dello scoglio, abban- donata la sorella, subito se ne fuggirono. Ed ella rimasa sola, an' i in compagnia delle inquiete furie, e divenuta per la lor rabbia simile alle acque marine, ora verso lo scoglio e ora verso il porto guidava la ricca barca

116 dkll' ASINO d'oro

de' saol pensieri. E avvegnaché con ostinato animo gi\ inclinasse al doloroso consiglio, ancora in dubbio di sft stessa ondeggiava cc'lla nietite, ed era cotiibaitiita da infiniti affetti della sua calamità: sollecita, differisce, ardisce, teme, spera, diffidasi, adirasi, s'acquieta; e quello che era più maraviglioso, in un medesimo tempo ha in odio la bestia, e amavr il marito. Appropinquan- dosi nondimanco la sera, con assai sollecitudine ella appresta tutto quello che faceva mesliero intorno al Aero suo proponimento. Già era apparito la notte, già era venuto il marito, e avendo rotto nel campo di Ve- nere le prime lance, già era seppellito nel sonno; quando Psiche, d'animo e di corpo non sana, aiutata dalla cru- deltà del suo fato, tutta divenuta fiera , e cangiato il

femminil timore in maschio ardimento, trasse fuor I ^ lucerna, e prese il rasoio per insanguinarlo col sangue del suo marito. Ma come più avaccio i segreti del non conosciuto luogo per lo discoprimento del lume si ma- nifestarono, ella scorse di tutte le fiere una mansueta e dolcissima bestia, quello slesso Cupido bellissimo di tutti gl'Iddii bellissimamente dormire ; per lo cui aspetto,

LIBRO QTJmTO 117

'alle^fratosi eziandio il lume della lucerna, divenne più splendido e più lustrante, e il taglio del sacrilego ra- soio, eziandio divenuto in guisa d' una stella, pareva cbe se ne volesse volar verso il cielo. Ma Psiche in su questo principio impaurita, e divenuta del color del aossolo, tutta tremando, cadutasi a sedere sopra delle gambe, non sapp.endo altro che farsi, volea nascondere il coltello entro al suo seno ; e sarebbele venuto fatto, se non che il ferro per tema di gran peccato, vo- lando, non si li fusse tolto di mano. Sicché priva d ogni aiuto e dogni consiglio, guardando interamente la di- vina bellezza del divin volto, tutta nell'animo si ri- criava, e mirava la bionda chioma dell'aureo capo tutta d' ambrosia profumata : vedea gl'innanellati crini mae- strevolmente disordinati pendere sopra della bianca Ironie e sopra le purpuree guance; ed era lo splen- dor loro si chiaro e si potente, che il lume della lu- cerna appariva a latica : contemplava le rubiconde penne, che dietro alle spaile del volante Iddio in guisa di mat- tutine rose flammeggiavano; e godeva a vedere fra le più grosse penne alcune teuerine piume ballare al suono d'una dolce aura che vi spirava: cosi traboccava di le- tizia a vedere ii giovin corpo e delicato, cotale che Ve- nere non si poteva sdegnare eh' e' fusse suo figliuolo. Innanzi a' piedi del letto giaceva 1' arco, la faretra, le saette, arme proprie del grande iddio. Le quali tutte cose mentre che Psiche interamente considerava, men- tre che ella quelle arme andava toccando , cacciata della faretra una di quelle saette, e' le vien voglia di tentar come la pungeva : perchè accostatasela alla polpa del dito mignolo, ella sei punse in guisa, che ne uscì alcune p.cciole gocciole di sangue. E cosi la semplicella, senza saper come, da a s'accese dello amore di esso Amore: e divenuta soverchio cupida di Cupido, postas. bocconi sopra di lui, stemperandosi per lo amor grande, dubitando nondimeno che 'I tempo non pas- sasse del suo soverchio dormire, con lascivi e dolci baci baciandolo^ cercava di ammorzare ia parte il suo

118 delt/astno n'oBO

gran fuoco. E mentre clie e ila, ubbriaca divenuta per tanta dolcezza, non sapeva che farsi, quella lucerna, o per sua natia perfidia, o che la invidia dell'altrui con- lento la stimolasse, o che pur un subito disiderio di toccare e baciare anch'ella quel bellissimo corpo le na- scesse, ribollendo cosi un poco in sulla cima del lu- cignolo, ella schizzò una gocciola sulla destra spalla del grandissimo Iddio. 0 audace e temeraria lucerna, ministerio vilissimo di Amore ! tu dunque lo Iddio di tutto il fuoco abbruci? essendo uno amante stato la cagione dell'esser tuo ; il quale, per potere eziandio la notte godere il suo disiderio, fu di te il primiero in- ventore Sentendosi adunque Amore inceso in quella guisa, subito si rizzò; e per difTalta della manifestata fede, spiegate le ale, incontanente volandosene, si volse tor dagli occhi e dalle munì delia infelicissima moglie.

Ma ella, come più tosto il vide muovere, preseli con ambe le mani la destra gamba, e stretta tenendola, cosi pendendo per l'aere il seguitò, sinchi^ stracca, non po- tendo pili stringere le mani, se ne cascò per terra ; la volendo però l'amante Iddio, mentre ch'ella cosi già-

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ceva, abbandonare, volato sopra d'uno arcipresso, che e:e quivi vicino, dall'alta cima tutto sdegnato le disse : Facendo io poca stima, o semplice Psiche, de' coman- damenti della mia madre, la quale m' impose, che ri- scaldando il petto tuo dello amore del più vile e più vituperoso uomo che fusse al mondo, io fussi cagione che 3gli ti divenisse sposo , in quello scambio tuo amante divenuto, da te me ne volai : ma io fui in ciò soverchio leggieri, il conosco or troppo bene, che come destro arciere mi trassi sangue colle arme mie, e re- citi mia mogliera, acciocché io ti paressi una bestia, e che tu mi tagliassi colle arme tue quel capo, in cui dimorano quegli occhi che ti amavano cotanto. Quante flate ti dissi che tu ti guardassi da questo ? con che amorevoli parole te ne pregava io ? Ma quelle tue va- lorose consigliere tosto tosto pagheranno la pena di cosi bel magistero : a te non darò io altra punizione che '1 fuggir mio. E battendo le penne, insieme con gli ultimi accenti di queste parole se ne volò via.

Himasa Psiche come una cosa balorda, non sappiendo altro che farsi, riguardando dietro al marito Anch' ella il potè vedere, gli avrebbe voluto chieder mercè; ma la voce la mente erano capaci delle forze loro. Come il volar delle amorose piume portarono Cupido in parte dove non arrivava la speranza di poterlo o prendere o vedere, ella, fuor di sé, accostatasi ad un' alta ripa d' un fiume eh' era quivi vicino, si volse torre dalla penosa vita; e lasciatasi ire, si ritrovò entro al seno delle fuggitive onde. Mail clemente fiume in onor di quello Iddio che suole alcuna volta mettere il fuoco in mezzo alle acque, dubitando di medesimo, con piacevole rivolgimento del corso suo la riportò sopra d'una ripa di tenere erbette e di fiori odoriferi ripiena. Sedevasi appunto allora, per ventura, sulla ripa di quel fiume il rusticano Iddio Pane, e avendo in mano la bella Siringa, le insegnava ritenere entro a la dol- cezza di tutte le voci ; e vicino a lui alquante caprette, rodendo or questo or quel virgulto, scherzavano colle

HO dell'asino d'oro

verdi frondi: perchè veduto il piioso Iddio la stanca e affannata giovane, non ignorante delle sue fortune, e di lei tutto compassionevole divenuto, con benigna vo^e a cbianiandola, con queste amorevoli parole confor- tandola, si le disse: Bella fanciulla, ancorch'io sia un rozzo guardiano di lanosi armenti, nientedimeno per benefìcio di molti anni io ho apparato assai cose ; laon- de, secondo eh' io posso far conghiettura ( che è quello che i prudenti uomini chiamano indovinare^, a quel dubbio andare, a que' tremuli passi, a quella soverchia pallidezza, a' continovi sospiri, agli occhi lagrimosi mai sempre , tu mostri d' essere innamorata agramente : ascolta adunque le mie parole, essere cosi presta a gittarti giù per le balze; ricerca con altra morte spe- gner la tua eccessiva bellezza; lascia il pianto, pon freno al dolore, e cerca piuttosto colle preghiere miti- gare Amore, grandissimo di tutti gli Iddii, e obbligartelo colle parole: la qual cosa ti fìa vie più agevol che tu non credi, essemio e?li giovanetto dilicato, e lascivo sopra tutti gli altri Iddìi. Posciachè il pastore Iddio le ebbe delle queste parole, Psiche, senza rendergli altra risposta, adorata prima la sua salutare deità, senza sapere dove si gisse, seguitò suo viaggio: e innanzi che ella fusse andata gran fatto in là, ella arrivò ad una certa città, nella quale legnava il marito d'una delle sue sorelle. La qual cosa udendo Psiche, subito se ne venne al real palagio, e fallo intendere alla si- rocchia, come aveva disiderio di parlarle, subito intro- dotta dentro, posciach' elle ebber fatte le vicendevoli accoglienze, e che queir altra la ebbe domandala della cagion della sua venuta, ella le disse : Io so che voi vi ricordate del vostro consiglio, col quale voi (i.i persua- deste che io con tagliente coltello ammazzassi quella bestia, prima cha colle bramose zanne egli m' inghiot- tisse, che con mentito nome di marito si giaceva con esso meco; ma come più tosto, secoudochè noi eravamo rimase d'accordo, io scopersi il lume, e vidi il volto suo, ic vidi un divine, un maraviglioso spettacolo: io

LIBRO QUINTO 121

Vidi quello figliuol di Venere, quello stesso Cupido bel- lissimo di tutti gl'Iddii dolcemente dormirsi; e mentre che io commossa dalla subita vista di tanto bene, e al- terata dalla soverchia copia di si grandissimo sollazzo, io combatteva colla carestia del godermelo (o crudel Fortuna t), la invida lucerna schizzò una importuna gocciola d'olio caldo sopra d'una delle sue spalle; per lo cui dolore egli subitamente risvegliatosi, e di arme e di fuoco armata veggendomi, disse : Tu, che dunque ardisci tanta crudeltà, partiti subito del mio letto, e pigliati le cose tue, ed io mi prenderò la tua sorella ( e nominotti per lo tuo proprio nome ) per mia cara donna: e detto questo comandò a Zeffiro subitamente, che me ne portasse fuor de' termini della casa sua. avea Psiche finito appena questo parlare, che la pazza sorella, agitata da' furiosi stimoli delle false nozze, e da una crudele invidia, che di continovo la rodeva, in- finto non so che menzogne, e dato ad intendere al ma- rito, eh' avea inteso non so che romore della morte del padre, d' indi partitasi, se ne montò in su una nave, e dato de' remi in acqua, il più tosto che potè se ne venne al bramato scoglio. E tratta dalla falsa credenza, sanza guardare che vento si traesse : Prendi, dicendo, 0 Cupido, quella mogliera che a te solo è convenevole ; e tu, Zeffiro, ricevi la tua padrona : si gittò giù di quel sasso; ebbe tanta grazia, che almeno cosi morta ella arrivasse al desiderato luogo ; imperocché lacerando e stracciando le sue membra su per quei taglienti sassi> seminò le sue interiora per quelle balze, e fu pasto delle rapaci aquile e degli altri simili uccelli: e cotale fine ebbe la cieca invidia e la folle speranza della ma- ligna sorella. indugiò lungo tempo la vendetta di queir altra ; imperocché Psiche con incerti passi arri- vata alle sue case, e indottola colle medesime fallacie nella medesima speranza, ella le fece fare un medesimo fine. Non lasciava in questo mezzo Psiche alcuna parte del mondo, che ella non ricercasse, per vedere se po- tesse il suo caro marito ritrovare , il quale, per la do-

12i dell'asino d'oro

glia del cociore di quella lucerna rammaricandosi, si giaceva nel letto della sua madre. Allora quel bianco uccello che suole del continuo colle acquatiche anitre guerreiìgiare, tuffatosi entro alle onde, se ne andò in- fino nel profondo dell'Oceano; e ritrovata Venere, che notando su per le marine acque si lavava le dilicate membra, accostatosele, le raccontò 1' arsura del suo fi- gliuolo, e il dubbio della sua salute, e com'egli, lamen-

tandosi, altro non faceva che giacere; aggiugnendo cho per comune voce di tutti i popoli oramai si parlava soverchio disconvenevolmente della famiglia di Venere; che Amore per li monti colle meretrici, ed ella per I3 onde marine diportandosi, dal consorzio umano si sta- vano sequestrati ; perchè egli non si gustava più pia- cere alcuno, nessuna grazia si scorgeva, ninna genti- lezza s' usava : anzi ogni cosa era in dispregio, il mondo insalvatichito, gli uomini rozzi e villani diventati; non nozze sollazzevoli, non amicizie compagnevoli, non a- mor di figliuoli ; ma una pioggia di squallidi congiu- ?ninienti, e un fastidio d'ogni cosa cresceva sopra la terra. Queste e altre simili parole soffiando negli orec-

ìbro quinto 123

chi di Venere, lacerava quel garrulo e soverchio cu- rioso uccello il suo figliuolo. Laonde ella, messa subito una p-andissiriia voce, disse: Adunque si tiene quel mio fisliuolo la concubina? deh I di grazia tu, che solo se' cosi amorevole ne' miei servigi, dimmi il nome di colei. Il qinle ha stimolato per si fatta maniera un nobii f nciullo senza barba, o se ella è del gregge delie Ninfe, 0 dei numero delle Iddee, o del coro delle Muse, o della famiglia delie mie Grazie. Non celò ancor que- sto segreto il loquace uccello, e disse: Io non so ben, la mia padrona, le sue qualità; pur mi par essere ac- corto eh' ella sia donna mortale, e se io me ne ricordo bene, Psiche la ho sentita nominare. Non potè più Ve- nere, udendo fatto nome, e raddoppiato, anzi per ognun cento accresciuto lo sdegno, gridò forte : E tanto peggio : Psiche adunque, 1' emula della mia bellezza, la mia vicaria, la involatrice del nome mio, ama qaesto pessimo di tutti gl'Iddii? E quello che mi raddoppia la stizza, che ci sono stata adoperata per ruffiana ; po- sciachè per lo mio mostrargliele, egli ne è amante di- venuto. E con queste e altre più querule parole ram- maricandosi, con gran fretta uscitasene del mare, se n' andò alla sua aurea camera ; e ritrovando esser vero tutto quello che le era stato detto, cominciando a gri- dare fin dalla porta, diceva : Belle opere son queste per certo, e convenienti alla nostra nobiltà! la prima cosa mettersi sotto a' piedi i comandamenti della sua madre, anzi della sua signora: e un fanciullo dell'età che se' tu, prendersi per sua colei, che come mia capitalis- sima nimica io ti aveva imposto che con vilissimo amore tu cruciassi; e congiugnersi con si ignobil fem- mina a' suoi non leciti e immaturi abbracciamenti, ac- ciocché Venere avesse a sopportare di vedersi per nuora una sua vii fanticella. Ma tu ti dai forse ad intendere, sciocco che tu se', guastatore d' ogni cosa, che non se' buono se non tra il tuo fuoco p fra Ip tue fiamme, che io sia cosi vecchia, eli .o uou sia piu ajjile ad ingra- vidare^ lo voglio adunque che tu sappi, che io sono

lai dell'asino d*obo

per generare un altro figliuolo, il quale sarfi molto mi- gliore che non se' tu : anzi, accioccliè tu li accorga meglio dello orror tuo, io voglio adottare un di quel miei schiavetti, e a lui donar le penne, le fiamme, 1' ar- co, le saette, e tutta la mia masserizia, la quale io ti diedi, à cagione che tu l'usassi ad esercizio migliore; delle robe del padre tuo, non ce n' è alcuna che sia alle tue arti accomodata. Ahimè t che tu fusti troppo male allevato nella tua fanciullezza: tu hai le mani troppo ben preparate a far male; e tante volte con poca riverenza hai battuto i tuoi maggiori, e la stessa madre tua, me dico, me medesima, omicida crudele, ogni di mi vituperi, ogni di mi percuoti e dispregimi, non altrimenti che s'io fussi una povera vedovella. E in olire li fai beffe del patrigno tuo, di quel ferocis- simo e gran guerriere; e per mio maggior dispregio e dolore mille e mille volte gli hai procacciale.... Ma io ti prometto di trovar via, che tu sarai punito di cote- sti tuoi scherzi, e che coleste tue nozze ti sapranno d'amaro. Ma or che io son la favella di ognuno, che fr.rò io? dove mi volgerò io? ih che modo restrignerò io questa tarantola ? chiederò io aiuto dalla Sobrietà , che so pur quanto ella mi è nimica, e come per la co-* stui lascivia io l'ho offesa infinite volte? Infine egli mi bisogna sanza fallo alcuno esser con questa villana donna, la quale è si -secca e si vinclda, che io ne irie- mo: nientedimanco io non posso dispregiare il sollazzo d' una tanta vendetta; e però me la conviene chiamare, ancorché io non voglia: niun' altra è al mondo rhe meglio possa gastlgar questo cianciatore, sfondargli la faretra, spuntargli le saette, spezzargli l'arco, spegnarli le faci; anzi il corpo suo con aspri rimedj ristrignerlì com' ella vuole: allora mi parrà essere in parte soddi- sfatta di cotante ingiurie, quando io gli avrò Losale quelle chiome, le quali io ho tante volle con lacci l'o- ro con queste stesse mani ristrette e annodate ; e quan- do io gli averò tarpate quelle penne, che cosi spesso ristrignendomele in seno, io d'ambrosia ho allagale. E

LIBRO QUINTO 125

avendo dette queste parole, tutta infuriata, tutta tinta, tutta in collora se n' uscì fuori. Allora Cerere e Giu- none accompagnandosi con lei, vegrgendola così contur- bata^ la presero a domandare qua! fusse la cactione, che con si brutto pif;lio ella adombrasse la venustà de' suoi occhi scintillanti. Ed ella: A tempo veramente venite a far violenza al mio ardente petto, per volermi miti- gare il giusto sdegno: deh perchè non piuttosto con tutte le vostre forze mi ritrovate voi quella volatile e fuggitiva Psiche? io so ben che egli non vi è nascoso la pubblica favola della casa mia, e l'egregie opere de) mio.... anzi noi voglio chiamar più il mio figliuolo. Al- lora elle , disiderando spegnere in parte cotanta ira, cosi le dissero: E in che cosa, dicci, padrona nostra, ha fallato Amore, che con ostinato animo tu ti opponi a' suoi piaceri e desiderj, per rovinar la sua innamo- rata? per che cagione gli abbiamo noi attribuire a pec- cato lo aver con suo diletto risguardato una bella gio- vinetta? Or non sai tu che egli è maschio, e che egli è giovane? se' ti tu già dimenticata degli anni suoi? e perchè egli ne porti cosi destra la sua persona, ibarba copre le sue tenere guance, batti egli però a parere sempre un fanciullo ? Tu gli se' madre tu, e se' donna astuta e sagace: e spierai tu dunque sempre mai i sollazzi del tuo figliuolo, e in lui dannerai la lascivia? in lui riprenderai gh amori e 1' arti tue, e biasimerai le tue delizie in così bel fanciullo? Chi dunque degl'Id- dii, chi degli uomini ti potrà oggimai più sofferire? la quale vai per ogni canto i tuoi desiderj seminando, e or non vuoi che in casa tua amino gli Amori, e serri la pubblica Jiotlega de' presenti delle donne. In questa guisa prestavano il lor patrocinio le due Iddee, per tema delle sue saette, a Gupidine, ancorché e' fusse as- sente. Ma Venere veggendo prendersi altrui in giuoco le ingiurie sue, posciach' elle fur parlile, sdegnata più che mai, con velocissimi passi di nuovo se ne prese la via verso l' Oceano.

IJ6 dell'asino d'oro

LIBRO SESTO

/n questo mezzo Psiche, per varie parli del mondo il e la notte discorrendo, con ofmi macrptior diligenza eh' ella poteva, andava il suo marito cercando ; e pen- sava intra che, ancorché fusse con lei adiralo, ch'e- gli non (ora gran fatto, so non colle matrimoniali ca- rezze, almeno con preghi e ufirj servili, renderselo be- nivolo e proprio. E mentre che ella si stava in questo pensiero, le venne veduto sulla cima d' uno alto monte un tempio; e però disse da sé: e perchè non potrebbe egli essere il mio Signore 1.1 entro ? E cosi dicendo, con gran prestezza dirizzò lassù i suoi debili passi, a' quali ne prestarono e la voglia e la speranza quelle forze, che loro avea tolto il lungo viaggio. Avendo adunque salito queir altura assai francamente, e accostandosi agli altari della sacrata casa, ella vide molte spighe di grano e assai d' orzo, altre in mazzi, infinite in arren- devoli ghirlande: videvi eziandio un gran numero di falci con tutti gli altri strumenti che si adoperano alla mietitura, ma tutti a caso giacevano distrsi per terra, e come interviene, da mani di stanchi lavoratori e of- fesi dal soverchio caldo gittate cosi dove ben lor veniva. Perchè Psiche, come colei che stimava che egli non fosse a proposito d'alcuno Iddio dispregiar la re- ligione, ma da cercar di guadagnarsi di tutti loro la be- nivola misericordia; fattasi da un canto, ogni cosa com- pose per ordine, e rimise al luogo suo. E mentre ch'ella assai diligentemente usava il pietoso ufficio, l'alma Ce- rere sopraggiuntala in un tratto, gridò forte: Ahi po- verella Psiche, e degna di compassione. Venere tutta infuriata ti cerca per mare e per terra con ogni sol- lecitudine, né altro bramando che il tuo ultimo ester- minio, con taue le forze della sua Deità va cMedeudo

LIBRO SESTO 127

la sua rendelta; e tu, badando a rassettare le cose mie, pensi ad ogni altra cosa che alla tua salute. Allora Psiclio giltatascle innanzi iuginocchione, bagnando colla sue copioso lai^rime i santi piedi, e co' suoi capelli spaz-

zando la terra, con umil prece e pietose parole le di- mandava perdono, dicendo : Io ti priego per cotesta tua frugifera destra, per le allegre cerimonie delle biade, per li tacili mister] de' tuoi tabernacoli, per gì' impen- nati carri de' tuoi sergenti dragoni, per li solchi delle siciliane zolle, per lo carro rapace e terra tenace, per li descendimenti delle buie nozze di Proserpina, per gli saglimenti de' luminosi ritrovamenti della tua figliuola, e per le altre cose le quali la sagrestia dell' Attica tleusi con sacrato silenzio ne tiene ascose; soccorri alla passionata anima della tua supplice Psiche, e consen- timi, che io mi asconda in quella bica di quelle spighe almen tanti giorni, che le mie forze debilitate per la lunga fatica ritornino nel suo valore, la mercè di que- sta piccola quiete. E Cerere: Le tue lagrime mi com- muovono e le tue preci, e bramo di porgerti aiuto ; ma egli mi è tolto il potere, perciocché io non mi voglio perder la grazia di Venere : imperocché, oltreché ella ò

128 OTLt' ASINO d'OBO

una donna dabbene, ed è mia nipote, io tengo con lei una strettissima amicizia. Partiti adunque senza tar- danza alcuna di questo tempio, ^ pensa eli' e' sia per lo tuo migliore, che tu non sia stata da me ritenuta custodita. Scacciata adunque Psiche da Cerere fuor d'ogni sua credenza, e affannata per doppio dolore, diede la volta addietro: era andata in la molti passi, eh' e' le venne veduto entro ad un boschetto non molto follo un altro tempio con grandiMima arte lavorato; volendo lasciare alcuna via, benché dubbia, che le mo- strasse migliore speranza, anzi avendo diiiberato im- petrar perdono da tutti gì' Iddii, si approssimò alle sa- crate porte, le quali, insieme con alcuni arbori che erano all'intorno, tutte di bellissimi doni ripiene si di- mostravano, fra i quali erano moltissime vesti; e cor lettere d' oro, delle quali elle eran circondate, insieme colla grazia ricevuta m.anitestavano il nome di quella Iddea. Allora Psiche inginocchiatasi innanzi all'altare, e abbracciatolo con ambe le mani, posciachè si ebbe rasciutte le lagrime, cosi mosje le preci sue: 0 sorella e mogliera dei gran Tonante , se ora ti ritrovi ne' ve- tusti templi di quella isola, la quale del tuo querulo parto, e de' tuoi primi pianti, e del primiero latte si tien si cara; o pur frequenti le beate sedi della gran Cartagine, la quale ti adora in forma d' una vergine ascendente al cielo, la mercè del forte lione ; ovvero lungo la riva del fiume Inaco, il quale già ti predica mo- glie del Rettor del cielo e Reina delle altre Iddee, cu- stodisci le inclite mura de' tuoi cari Argivi; la quale, Zi- gia chiamandoti, onora tutto 1' Occidente, e l'Oriente, appellando Lucina, t'invoca nel tempw del partorire; porgi aiuto, o Giunone, agli estremi miei danni, e li- bera oggimai la stanca anelila tua dalla tema dello im- minente pericolo. E per quanto io ho più fiate inteso, tu suoli pure spontaneamente sovvenire alle pregnanti, e soccorrere coloro a cui fa mestiere dello aiuto altrui. Supplicando Psiche in questa maniera. Giunone con quella sua augusta dignità, fattasele incoatro, le disse :

LIBRO SESTO 129

Come \orre' io, la mia Psiche, per lo sacrato vincalo della fede accomodare il mio favore alli tuoi prieghi! ma contro alla volontà di Venere mia nuora, la quale io ho sempre amata come figliuola, egli non mi sarebbe

ecito sanza mia gran vergogna porgerti soccorso ve- runo: ed inoltre le leggi, alle quali io non posso debbo far contro, me lo proibiscono; le quali vietano contro alla voglia de' padroni il poter Faccettare gli altrui fuggitivi schiavi. Impaurita adunque Psiche per la seconda ripulsa, dandole più il cuore di ricercare il volatile suo marito, perduta ogni speranza, non sap- piendo più altro che farsi, prese fra stessa questo consiglio, e disse: Che altro rimedio si può egli ora mai cercare alle mie disgrazie, alle quali le Iddee me- desime, eziandio volendo, non hanno avuto baldanza di porgere aiuto? Come scamperò io i mìei pied.i da' tesi lacci? in che casa, in che tenebre ascondendomi, fuggirò io gl'inevitabili occhi di Citerea? Che non prendi adunque un virile animo, e renunzii gagliarda- mente ad ogni vana particella di speranza che ti re-

FÌRENZUOLA 9

130 deli/ ASINO D'ono

alasse? Rappresentati volontariamente innanzi alla tua padrona, e con una lunfja umiltiv mitiga i crudeli im- peti dell' ira sua. E che sai tu, se colui che tu hai cer- calo tanto tempo, tu lo trovassi in casa delia madre? Fermatasi adunque in questo proposilo, e preparala alla dubbia servitù, anzi al manifesto pericolo, andava seco stessa jiensando il principio delle future preghiere. E Venere, avendo in questo mezzo rinunziato ad ogni occasione di ricercarla in terra, se n'era andata in cielo, e avea comandato che le fusse fatto un carro, il quale Vulcano con gran diiigeuzi i condotto, anzi ch'ella gli facesse conoscere le dolcezze de' suoi abbracciamenti, ne le fece un presente. Era inarcato il bel carro in quella guisa che è la Luna, allora quando il fratello, non le polendo per lo componimento della terra por- gere tulio il suo splendore, la fa cornuta parere; e il forbito oro, che in ciaschedun corno veniva diminuendo, lo faceva col suo danno parere assai più bello: e delle molte colombe che intorno alla di lei camera dimora- vano, quattro candidissime, con allegri passi girando il dipinto collo, sotlentrarono al gemmalo giogo, e rice- vuta la padrona lietamente, spiegarono le ale loro, e accompagnando il nuovo carro con uno stridulo canto, andavano scherzando lo lascive passere e altri infiniti uccelli; e co' loro dolci accenti facevano risonar le valli, e soavemente spiegando le lor voci, annunziavano lo avvenimento di Citerea. Fuggivaasi le nugole, aprivasi il cielo alla figliuola, e il purificato aere con allegrezza riceveva la bella Iddea : temeva la musica famiglia dell' alma Venere il riscontro delle rapaci aquile o degli aCfamati sparvieri. Andatasene adunque in questa guisa alla casa del gran Giove, con assai arroganti parole, domandato di Mercurio, gli disse , che seco se ne ve- nisse; perciocché facendole bisogno di mettere un certo bando, ella aveva mestier dell' opera sua : e cosi tutta lieta insieme con Mercurio ritornandosHne, ragionando seco per la via, gli disse queste parole : Tu sai, il mio fra- tello, oh* la tua sorella Venere non ha mai fallo cosa

IJBRO SESTO 131

alcuna sanza la presenza tua ; e anche so che egli non t' è nascosto quanto egli è eli' io non ho potuto ritro- vare una mia anelila; e però io voglio che colla tua tromba tu metta un bando per tutto il mondo, e pro- metta a quegli che me la insegnassero un buon beve- raggio; fa adunque che con ogni prestezza tu eseguisca il mio comandamento. E a cagione che se alcuno frau- dolentemente la tenesse celata, e' non abbia cagione di difendersi, col dire: io non la conosceva: egli sarà ben che tu manifesti gl'indizj, co' quali ognuno la possa chiaramente conoscere. E dette queste parole, gli porse una scritta, dove si conteneva il nome di Psiche e gli altri suoi contrassegni : e avendo eseguite tutte queste cose, torse il carro suo inverso casa. lasciò di far Mercurio con ogni dillgenzia 1' uficio impostogli. E di- scorrendo per le bocche di tutti i popoli, cosi esponeva la imbasciata delia sorella- Chi avesse o sapesse dove fusse una fuggitiva figlia d' un re, chiarnata Psiche, an- elila di Venere, sia contento di andarsene dietro al- l'oratorio Murzio, e quivi la faccia palese a Mercurio banditore: e Venere per premio del suo indizio è con- tenta donargli sette dolci baci, e uno, mercè della sua lingua, dolcissimo di tutti gli altri. Avendo bandito in questa guisa, il dislderio di tanto premio aveva acceso l'animo di tutti i mortali a ricercar la fuggitiva donna. Della qual cosa Psiche accorgendosi, rimosso da ogni indugio del gui preso partito, con presti passi se ne andò verso la casa della sua Signora. fu prima ar- rivata alla porta, che una delle di lei sergenti, chia- mata per nome la Consuetudine, fattasele incontro, con grida quanto mai della gola l'usciva, disse: Tu ti se' pure accorta finalmente, iniquitosa schiava, d'aver pa- drona: fingi tu di non sapere, temeraria e pessima di tutte l'altre, quanti disagi, quanti affanni abbiamo sop- portali per ritrovarli? ma ringraziato sia Iddio, che tu se' primieramente capitata alle mie mani, che ben ti so dire, che tu ti se' già accostata al cancello di quel luogo dove tu pagherai la pena della tua contumacia. E men-

133 DHu/ ASINO n'ono

tre diceva queste pai oiu, messole le audaci mani entro

a' biondi capelli, senza eh' ella facesse alcuna resistenza,

la strascinò dinanzi alla padrona. La quale, come prima la vide, con un licenzioso riso, e come so<?lion far que- gli che sono adirati davvero, scotendo il capo, e stuz- zicandosi l'orecchio f'estro, le disse: Tu ti se' pur de- gnata alla fine di venire a far motto alla suocera tua! se tu non se' gii venuta per vedere il tuo gentil ma- rito, il qui le per li tuoi buon portamenti si potrebbe bello e morire: ma sia di buona voglia, ch'io ti rice- verò come è convenevole una buona nuora. E dove sono la Sollecitudine e la Tristizia, mie serve? E fattele chiamare, senza altro dire, la diede loro a tormentare. Le ubbidienti anelile, posciach' eli' ebbero rigidamente fatto il volere della padrona, tutta alUitta e tormentata la presentaron di nuovo innanzi al cospetto di Venere. La quale un'altra volta alzando le risa, disse: Ecco co- stei che col ruflìanesimo del gravido ventre ci crede muovere a compassione. Beata a me, posciachè egli mi farà avola di cosi chiara progenie I felice veramente.

LIBRO SKSTO 133

poiché nel fior della mia età io sono chiamata suocera, e un flgliuol d'una vii fanticella si sentirà nominare nipote di Citerea! Ma io son ben pazza a chiamarlo fi- gliuolo: le nozze diseguali fatte in villa, senza testi- monj, senza il consentimento del padre, non si posson chiamar legittime; e però sarà bastardo questo che na- scerà, se noi avremo tanta pazienza, che noi te lo la- sciamo condurre al tempo. E il dir di queste parole, e lo avventarsele addosso, stracciarle la veste, e scompi- gliarle i capelli, e sconquassarle il capo, fu tutt' uno. E posciachè per una volta ella le ne ebbe dato un car- picelo de' buoni, preso del grano, dell'orzo, del miglio, del seme di papavari, de' ceci, delle lenti, e delle fave, e fatto un mescuglio d'ogni cosa, le disse: Tu mi par così brutta schiavolina, che io non so pensare in che altro modo tu ti possa guadagnar la grazia di alcuno amadore, se non con una diligente servita: e io ne vo- glio veder la prova. Sceglieraimi adunque questi semi di queste biade, che sono in questo monte, e porrai ognun da per sé; e innanzi che sia sera fa che tu me l'assegni in tanti monti, quanti ci son semi differen- ziati. E dette queste parole, essendo già venuta 1' ora, se ne andò a cenare. Non dava il cuore alla poverella Psiche di poter fare l' una delle mille parti del crudele comandan into; e però senza mettersi a sceglierne gra- nello, si stiva come una cosa insensata: laonde la pie- ciola contadinella, la diligente formica, mossa a com- passione della incomportabile fatica della mogliera di tanto Iddio, e dispiacendole insino al cuore la crudeltà della suocera, senza curar disagio, discorrendo or qui or qua, ragunò tutte le squadre delle formiche di quel paese, e disse loro: Abbiate compassione, o snelli al- lievi della onnipotente Terra, abbiate misericordia della moglie di Amore; soccorrete con ogni prestezza al gran- dissimo pericolo delta vaga pulzella. Corrono queste, vengono quelle, e come 1' onda, 1' un formicaio segui- tava r altro. Le quali giunte al desiderato monte, con ogni maggior prestezza attesero a trascegliere quei semi

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l'uno dall'altro; e compile che ell'ebbono la bisogna tutte alle lor buche prestamente se ne ritornarono. vi andò guari, dopo la partita loro, che fu là, sul ri- torno della oscurissima notte, avendo Venere già ce» nato, tutta di perle incoronata e di vermiglie rose, e riempiendo opni cosa di odor soavissimo di finissimi «ì odoriferi profumi, se ne ritornò da Ps'cbe, e vedua la incredibile esecuzione della maraviglie sa opera, disse: Non tua faccenda ft questa, pessima e scellerata e in- gorda femmina, delle tue proprie mani, ma di colui, al quale con tua mala ventura se' tanto piaciuta: e senza dirle altro, prestamente gli portò un pezzetto di pane, e se ne andò a dormire. Stava Cupido in questo mezzo tutto solo riserrato entro alle più segrete parli delia casa in una cameretta guardata con grandissima diligenzia, parte perchè egli con qualche lussurioso di- sordine non lusso cagione che la ferita inciprignisse, e parte per torgli il modo di ritrovarsi col suo disiderio; e cosi sotto ad uno medesimo tetto sequestrati e dì- sgiunti i due ferventissimi amanti si p issarono quella orrenda notte. E poscia l'Aurora col suo rosato carro ne apportava la novella del vegnente giorno. Venere già levata in piedi, e avendo fatto chiamare a s:^ Psiche, le disse queste parole: Vedi tu quel fronzuto bosco, il quale è circondalo dalle profondissime ripe di quel corrente fiume, i cui più bassi pelaghi risguardano quel fonte vicino? quivi alcune risplendenti pecorelle a loro diletto si vanno liberamente godendo quella pastura: io voglio che della preziosa lana delle auree chiome ta me ne arrechi un fiocco, con quel miglior modo che tu potrai. Andando Psiche, senza aspettare altro, più che volentieri, non già per adempire il rigido coman- damento, ma per dar fine, col giltarsi giù per un di que' balzi di quel fiume, alle sue fatiche; come fu vi- cina al fiume, la nutrice della soave musica, una verde canna, da un dolce mormorio d' una lieve aura divi- oamente inspirati., confortandola, cosile disse- Psiche, óa tante augocice tribuiala, noa macchiare le mie su*

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rene acque colla tua miserrima morte; muovere eziandio gli stanchi passi contro a quelle formidabili pecore di quel bosco, insino a tanto cUe 1' acqua del- l' oceano non avrà cominciato ad intepidire i raggi del cadente soie: perciocché allor che egli ugualmente di- stando dalle sue onde con maggior forza ne flere^ elle sono usate uscir fuori, cacciate da una rabbiosa furia, e con acute corna e dura fronte e avvelenati morsi incrudelire in danno de' mortali; ma posciachè il sole sarà vicino al suo albergo (essendo stata nascosta sotto quel platano, che tu vedi là, il qaale meco insieme bee r acqua di questo fiume), perciocché le bestie, per la serenità dell' aura di questo fiume rinfrescate alquanto, avranno un poco addolcito il rigido animo, tu te ne potrai uscir fuori : e ricercando tra le frondi del bosco ivi vicino, ritroverai alcun bioccolo dell' aurea lana, i quali ad ogni passo rimangono attaccati su perii sterpi e per li pruni. E avendo insegnato in questa guisa la gentil canna alla povera Psiche la sua salute, ed ella avendo con gran cura osservato le sue parole, man- cando di far quanto vi si conteneva, con agevol rapina empiutosi il grembo di quella lana, a Venere ne la portò. Non potè perciò il pericolo della seconda fatica acqui- star fede alla seconda testimonianza, anzi con turbato ciglio ridendo, tutta veleno le disse: Ancorché adesso egli non mi sia nascosto io adulterino autore di que- sta impresa, contuttociò io voglio fare al presente cer- tissima pruova se tu se* di cosi forte animo e di tanta prudenza, quanto le altrui forze ti fanno mostrare. Vedi tu in sulla sommità di quello altissimo monte, cinto di grandissime ripe, il negro fonte dal quale piovono quelle oscurissime acque, le quali rinchiuse nel profondo della valle che gli è vicina, corrono per la Stigia pa- lude, e nutrono il picciol fiume Cocito? Prendi questa brocca, e portalami piena dell'onde interiori di quella fonte. E cosi dicendo, le diede un vaso lavorato a tor- nio, che era di finissimo cristallo; e minacciandola di più aspre fatiche, s' ella non la portava, le diede coni-

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nìiato. Ed ella certa d' avere a morir quivi, ancorché non volesse, affrettando i passi per cotal cagione, se ne salse sull'estremità del mostrato monte: e come prima ella fu sul piogo, ella cognobbe le impossibili dif- flcultà del mortale comandamento: imperciocch»^ un sasso altissimo fuor di misura, lubrico e repente ch'egli era impossibile salirvi col pensiero, non che co' piedi, spargeva del mezzo delle sue fauci le acque dello spaventevole fonte, le quali per alcuni piccioli pertugi cadendo a basso, per certi tortugli canaletti, e d' ogni intorno ricoperti, ascostamente se ne discende- vano nella propinqua valle: e dal destro e dal sinistro lato in certe grotte erano alcuni dragoni, condannati per sempre a star quivi senza mai dormire, per averne la cura: e fuor di loro le parlanti acque da lor mede- sime si facevano la guardia: imperocché: «E parliti: e che cerchit vedi quello che tu fai: guardati, e fuggiti: e tu capiterai male» si sentiva dir lor continuamente. Divenuta adunque Psiche, per la insuperabil difficulta , fredda come una pietra, e benché fusse quivi col corpo, volata co' sensi in altra parte, essendo ricoperta al tutto dalla inestimabile macchina del manifesto periglio, era ftiiandio privata delle lagrime , ultimo sollazzo delle miserie de' itiortali. fu ascosta la calamita della in- nocente anima aiti giusti occhi della divina providen- zia: imperocché il regale uccello del gran Giove, la rapace aquila , spiegate ambedue l' ali , se ne volò da lei; e ricordevole dell'antico uficio, quando, la mercè di Cupido, ella avea portato a Giove il frigio coppiere, e onorando la sua deità nelle fatiche della moglie , di- sideroso di porgerle rimedio opportuno, le prese a dire in questa forma : 0 semplice donzella , e ignorante di quei segreti, hai tu speranza di potere involare o toc- care almeno pure una gocciola di questo non men tre- mendo che santissimo fonte? Or non imparasti tu in- sieme col parlare, che le onde stigie fanno paura agi' Id- di!, e a Giove stesso ? e che cosi come voi giurate per la lor deità , egli giurano per la maestà di queste ? E

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COSÌ dicendo , fattasi porgere la brocca , e tostamente presala ed empiutola, e battute le maestre penne fra le mascelle de' crudeli denti e fra il brandire delle infer- zate lingue de' dragoni , e dirizzando il volar suo e da questa e da quell' altra parte , perciocché elle minac- ciavano di rivoler le acque , che cosi le promettevan lasciarla partire senza oltraggio alcuno , ella fìnse, che tutto quello eh' ella facea era per comandamento di Ve-

nere, e che a lei le portava : laonde assti le fu age- vole il poter.nela portare. Avendo Psiche fuor d' ogni sua credenza ricevuta la piena brocca, tutta allegra, con presti passi da Venere se ne ritornò. manco potè per questo placare il crudel ciglio della adirata Iddea ; la quale ridendo , tutta stizza , e minacciandola di maggior male, così le parlò : Oramai , se io ti ho a dire il vero, io credo che tu sia una valente maga,po- sciachè così gagliardamente tu hai obbedito a questi miei comandamenti; e però voglio io, la mia luce, che tu mi faccia ancor questo altro servigio: prendi questo bossolo, e vattene immediate infino all'inferno; e arrivata che tu sarai alla casa del crudel Plutone,

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d:\llo a Proserpina; e di' ch'io la prego, che sia con- tenta di mandarmi tanto della sua bellezza, che sia ba- stevole per un di ; perciocché mentre eh' io sono slata intenta alla cura del mio infermo figliuolo, io n'ho perduta quanta io n' avea : e fa che tu sii di buona tornata, perciocch'egli mi è necessario fra picciol tempo ritrovarmi nel teatro cogli altri Iddìi, e non voglio pirer cosi sozza. Allora parve bene a Psiche, eh' e' fusse ve- nuto r ultimo trabocco delle sue rovine, e che a viso scoperto eli' era mandata alla beccheria ; avrebbe creduto altrimenti , veggendosi sforzare a suoi piedi andare intìno nel profondo dell' inferno. volendo perdere più tempo, messasi in via, se ne andò da una altissima torre , per volersi di quivi gittare in piana terra ; che niun' altra via sapeva la meschinella meglio di quella per condursi all' inferno. Ma come ella vi fu presso, la delta torre mandò fuori per una delle fine- stre queste parole: E per che cagione, bella giovane, ti vuoi tu tor del mondo con (atta caduta ? perchè ti arrendi tu in questa ultima fatica cosi inconsidera- tamente'? e se lo spirito tuo si separerà per questa guisa dal corpo, tu andrai bene al profondo del baratro d Ilo inferno; ma il tornar poi non sarà a tua posta, che di quindi non si esce per modo alcuno. Ascolta adunque le mie parole. Non molto lungi da qui è una città chia- mata Lacedomene , nobilissima di tutte le città dell' A- caia ; vicino alla quale in luogo assai remoto è un promontorio , che quelli del paese appellano Tenaro. Quivi entro degli spiracoli dello inferno , e per aper- tissime porte vi si mostra lo scuro cammino , per le cui soglie entrando , potrai agevolmente arrivare alla casa di Plutone. Ma egli non si debbe andare per quelle scure tenebre cosi a man vote, perciocché in ciascuna delle mani egli ti fa mestiere portare una schiacciata, ed entro alla bocca due quattrini ; e quando tu avrai varcata buona parte della mortifera strada, tu riscon- trerai uno asino con una soma di legne, con un vettu- rale carico come lui ; il quale ti pregherà che tu gli

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ponga alcune fascine della cadente soma ; ma tu facendo le vista di non lo udire, camminerai a tuo viaggio : vi andrà guari dopo questo, che tu arriverai al morto fiume , al cui passo è preposto il vecchio Garone , il quale subito ti chiederà il passaggio; imperocché egli con picciola l)archelta varca tutti i passe,'gieri : sicché, come tu puoi comprendere , 1' avarizia vive nel regno de' morti , Garone quel grande Iddio fanno cosa alcuna senza premio: e morendo un poverello, gli fa mestiere di cercare danari per pagar questo passo ; e se per disgrazia egli non avesse cosi in pronto la mo- neta , nessuno lo lascerebbe finir di morire. Adunque degli due quattrini che tu porterai, darà' ne uno per tuo passaggio allo squallido vecchio; ma in questa guisa: cioè , che egli di sua mano lo pigli della bocca tua. E mentre che tu passerai per lo pigro fiume , un morto vecchio e puzzolente, notando per quelle onde, alzando ambe le mani , ti pregherà che tu sia contenta pren- derlo entro alla barchetta; ma non ti lasciar muovere alla non lecita pietade. avrai gran fatto camminato, posciachè sarai smontata del picciol legno, che tu tro- verai certe vecchie tessitrici , le quali ti pregheranno che tu sia contenta di aiutar loro un poco a tessere una tela eh' eli' hanno in sul telaio e questo manco farai, perciocch' egli non ti è permesso toccar quella tela per cagione alcuna. E tutte queste trappole e questi inganni ti avverranno, la mercè di Venere, a cagione che tu ti lassi trar di mano una di quelle stiacciate : pensare che cosi fatta perdita sia da non essere slimata molto; perciocché perdutone una , e' te ne seguirebbe la per- dila di questa luce; e la cagione è, che egli sta sem- pre innanzi alla soglia del palazzo di Proserpina un forti-ssiino cane a far la guardia alle vacue stanze del gran Plutone; il quale con rabbiose zanne, ancorché indarno, cerca mettere paura a quegli uomini, che es- sendo morti non sono capaci d' altro male. II cui fu- rore alTrenando con una di quelle cofacce, egli agevol- mente li lascerà passare : e così te ne verrai al palazzo

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di Proserpina. Ed cullala clic lu sarai, ella con lieta fronte ricevendoli , li pregherà die tu ti assida sopra d'una ricca sedia, e prenda delle sue realissime vi- vande: ma lu postali a seder per terra, chiederai del pan nepro ; il quale come più ratto avrai mangiato, esporrai la cagjon della tua venula. E preso quello ch'ella li darà , suhilainente ritornerai : e placando la rabbia dello affamalo cane con queir altra schiacciata, e dando all'avaro barcaiuolo quell'altro quattrino , e passato ch'avrai il fiuine , per la medesima strada te ne ritor- nerai al ballo di queste celesti stelle. Ma una cosa so- prallullo ti bisogna avvertire: che egli non ti venga voglia di aprire di guardar quel bossolo, che lu porli, d'esser curiosa di scoprire l'ascoso tesoro della divina beliade. E in questa guisa la misericor- diosa torre diede line al propizio uficio della sua divi- nazione. Non messe tempo in mezzo Psiche , avendo uditi i sunti aiiimonimenii ; ma andatasene a Tenaro

prestamente, e provvisti i quattrini e le schiacciate, se n'entrò nella sdegnata strada: e fattasi beffe del debile

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vetturale , e data la sua mercede al barcaiuolo , e di- venula sorda alle raccomandazioni del notante vecchione, e finto di non udir le ingannevoli preci delle vecchie tcssitri.ci, e mitigata con una delle schiacciate la rabbia del crudel cane, se ne passò in casa di Proserpina: dove medesimamente disprezzando l'offerta della deli- cata seggiola, e rifiutato i soavi cibi , postasele avanti umilmente, e d' un solo pane contentasi, espose la im- basciata di Citerea. Perchè Proserpina , senza indugio empiuto segretamente quel bossolo , e dandogliene in mano, le diede commiato. Ed ella dando la volta ad- dietro, sedato il canino abbaiare come 1' altra volta, e dato al nocchiere il restante quattrino, più ratta che mai se ne ritornò al paese de' viventi. E ritrovata e adorata questa chiara luce , ancorché volentieri ella desse fine all'uficio impostole, e' l' entrò nella mente una temeraria curiosit/i, e disse Ira sé: vedi s'io son pazza , che essendo portatrice della divina bellezza , io non me ne so prendere una particella, colla quale io possa poscia maggiormente piacere a quel mio bellis- simo amatore. prima ebbe finite queste parole, che ella aperse quel bossolo , entro al quale bel'ezza ri era cosa alcuna, ma un sonno infernale e stigio ve- ramente; il quale, subito levato il coperchio, se n'usci fuori ; e ingombratole gli occhi e tutte le altre mem- bra d una foltissima nebbia, sicché ella non sentiva niente, la fece cadere in terra come morta. Ma Cupido, al quale già la margine dell' arsura era assai ben ras- sodata, sicch' e' si poteva dire quasi guarito, non po- tendo più sopportar l'assenzia della sua bella Psiche, scapolato per una strettissima finestra di quella camera dove egli era ristretto , rifattesi per la lunga quiete le penne assai migliori, con maggior velocità che 1' usato volando, se ne venne laddove ella dormiva ; e levatole .1 sonno daddosso, e con diligenza rinserratolo in quel vasetto medesimo, puntola con una picciola e non no- cevole puntura, la risvegliò, e poscia disse : Ecco, che per la tua medesima curiosità tu eri perita un' altra

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voltó, xua fluisci nondimeno i>er ora strenuamente il precetto della mia madre , e delle altre cose a me la- scia il pensiero, che io l'esepuirò. E avendole dette queste parole, spiegale le penne, via se ne volò. E Psiche, senza indugio andatasene da Venere, le portò lo addo- inandato presente. In questo mezzo l'agile amatore ac- ceso d'uno incomportahile desiderio della sua donna, e temendo grandemente della repentina severità della ma- dre, fece pensiero di aprir la borsa delle sue frode; e con preste ali penetrato la sommità del cielo, esposta la sua causa al gran Tonante, supplichevolmente si gli raccomandò. Allora Giove prese la sua picciola e bella bocca, e accostatasela alla sua, e baciatola più volte, gli disse: Avvenga, il mio figliuolo e padron mio, che tu non mi abbia fenduto mai queir onore che mi è stato concesso e decreto da tutti gli altri altiiisimi Iddìi, anzi abbi più fiale questo petto mio, entro al quale dispongono le leggi degli elementi e gli scambiamenti delle stelle, e con più e più colpì ferito, e assai sovente macchiato col fango della libidine de' terrestri amori, e contro alle disposizioni delle leggi e della giustizia, e massimamente , e fuor quel che vuole la pubblica onesta e disciplina, sminuito la mia fama co' brutti adullerj e la mia estimazione, in serpente, in fuoco, in fiere, in uccelli, e in altri simili animali il mio volto sozzamente trasformando, nienledimeno, perciocché non posso mancar della mia natia modestia, e poiché tu se' cresciuto tra queste mani , io farò il tuo volere , pur- ché tu ti ricordi che egli si vuole aver 1' occhio agli emuli tuoi ; e inoltre , che se adesso alcuna pulzella é giù nel mondo vaga e gentile, che tu mi se' obbligato col- r amor suo a ricompensar il presente beneficio. E avendo finito queste parole , fattosi chiamar Mercurio, gli co- mandò che allora e' bandisse il consiglio di tutti gì' Id- dìi, con condizione, che se alcuno mancasse, egli s'in- tendesse esser caduto in pena diecimila ducati. La cui tema fu cagione che tutti con maravigliosa pre- stezza si pruscniabstTO nel teatro : dove seUendo Giove

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sopra ad una eminente sede, imposto silenzio ad ognuno, fece questa orazione. Iddii descritti nella matricola delle Muse, questo giovane, il quale io mi sono allevato con queste mani, come io so che tutti voi vi ricordate, io Lo giudicato che egli sia oramai bene con qualche freno ritenere i caldi impeti della sua gioventù, eh' e' non Irascorrino più oltre di quello che egli hanno fatto. Assai è egli per li molti adulterj e per altre corruttele infamato insino ad oggi; e però egli è da tor via ogni occasione, e raffrenar la puerile lussuria co' fortissimi lacci del matrimonio. Egli medesimo si ha eletto una fanciulla, ed halla privata della sua virginità: tenga- sela, posseggasela; ed abbracciando Psiche, sempre si goda i suoi amori. E voltosi verso Venere, seguitando le disse: ti contristar per questo, la mia figliuola, aver temenza della tua schiatta, del tuo stato, per lo mortai matrimonio; che provvedere in modo che queste nozze a uguali divenute sieno, e secondo la disposizion delle leggi civili. E cosi dicendo comandò a Mercurio che ne menasse in cielo la bella Psiche, subito ch'ella fu giunta, datole a bere un bicchiere d'ambrosia: prendi, disse, o Psiche, che sia inimortale, mai si sciolga Cupido da' legami tuoi. E dato ordine alle nozze, ch'elle fussero magnifiche o grandi, in breve spazio fu preparato un realissimo convito. Sedevasi nel principal luogo della tavola il novello sposo, e in grembo aveva la sua bramala Psiche: accanto a lui era Giove colla sua Giunone : e poscia ordinatamente secondo le lor preminenze seguitavano gli altri Iddii di mano in mano. A Giove porgeva il nettare, che è il vino di quel del cielo, il coppier suo, quel rustico Ganimede; agli altri dava Bacco da bere: Vulcano fece la cucina: le Ore e colle rose e con altri fiori fioriron la casa: le Grazie la profumarono : le Muse ferono doppia musica : Apollo cantò in sulla citara: Venere al suon d'un soave conserto dolcemente ballò. Il consorte era in questa guisa: le Muse cantavano, e un Satiro sonava i flauti, e Pauisco una sampogna. E in questa guisa arrivò Psiche

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nelle mani d'Amore. La quale, posciachè egli fu venuto il tempo del partorire , fece quella piacevol figliuola , che noi altri chiamiamo la Voluttà.

FINISCE LA FAVOLA D* AMORE E l'slCllE.

Queste cose raccontava quella sciocca vecchia e mezza cotta alla prigioniera fanciulla. E trovandomi io per avventura assai lor vicino, mi doleva a cielo di non avere i fogli e la penna, che io potessi notar cosi bella novella, in questo mezzo i ladroni , avendo fatto non 80 che grande espugnazione, carichi di roba a casa se ne vennero : e disiderando di ritornar prestamente per certe altre cose che, secondo che egli dicevano, avean lasciate nascoste in non so che spilonche , trangugia- tosi il dlsinare, lasciando imperciò alcuni di loro i più valenti , che erano feriti , in casa , acciò si potessero curare, tratto fuori me e 'I mio cavallo, si rimisero in via ; e per erte e chine e balze e sassi straccatoci e

rovinatoci, sul far della sera ne condussero alla disiata spilonca : dove caricatoci senza discrezione , e' se ne

lornrirono por la medesima via: e per lo sospetto grande, cho egli aveau di esser trovali, soHecilandoci a cam- Jiijnare, e' mi diedon tante e tante percosse, eh' e' mi fociono arrovesciare in su un sasso che era in mezzo (lelli via: e ancorch' io fussi a giacere, non restando di bastonarmi ia gami. a d'astra «ì l'un-rhia del pie manco, mi fecero l«v:ire in pieiU; il perchè disse un loro: Ed insino a quanto avrem noi pacienza a gittar via le spese che noi diamo a questo asinaccio tutto guasto e azzoppato di nuovo? E un altro: Tanto più ch'io credo e' portasse seco in casa nostra tutti i cattivi au- gurj del mondo; cliè poicliè noi 1' aviamo, e' non s'è mai fatto guadagno che da veder sia; anzi sono stati morti i più valenti uomini che noi avessimo. E quel primo soggiunse : Io ho diliberalo, che com'egli ha por- tato questa soma, eh' e' porta così n alvolentieri , di gittarlo a terra d'un qualche balzo: se non altro, io darò pure una buona cena a parecchi uccellacci. E cosi mentre che i piacevoli uomini contrastavano della morte mia, noi eravamo già arrivati a casa; perciocché la paura de' loro ragionamenti m'avea fatto ale delle un- ghie. Né fummo a fatica giunti, che senza pensar più a' casi nostri o alla mia morte, e' ci tolsero daddosso quelle robe; e chiamati i compagni, ch'eran rimasti in casa feriti poco anzi, presto alla caverna se ne ri- tornarono, con animo di pagarci, secondo eh' e' dice- vano, del tedio ch'eglino aveano avuto della nostra tardità. E a me nondimeno era entrata una pulce nel- l'orecchio non picciola, considerando alle crudeli mi- uaccie; e però diceva infra me: che indugi, Agnolo? ch'altro attendi ? la morte, e anche quella crudelissima, per decreto de' ladroni ti è stata ordinata; e la cosa non ha bisogno d'un grande si'orzo: tu vedi qua que- ste rovine non guari lungi da noi, e quelle pietre aguzze che vi sono, le quali da ogni canto che tu cadrai ti sforacchieranno in mille parti ; imperocché quella tua preclara maga, ancorché non solamente ti desse il volto, ma e le fatiche tutte dell'asino, ella non ti fasciò d'una

FIRENZUOLA i'O

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pelle si grossi, come lianno gli altl-i animali cosi fatti, ma ti coperse di quella cartilagine che hanno dentro le canne. Per che cagione non ti porli tu oramai da uoin maschio , e mentre che lu puoi cerchi la tua salute ? tu hai una opportunit.^ grande ; fuggiti, mentre che i la- droni sono assenti: avrai tu paura della guardia d' una vecchia mezza morta ? la quale lu potrai finire con un sol calcio de' tuoi piedi , ancorch' e' sieno zoppi. Ma dove diavol fuggirò io? chi mi raccelterà? Deh come sono inetti e veramente asinini questi miei pensieri f degli uomini che vanno per via , chi sari\ quegli che non prenda volentieri seco un che lo porli ? E con al- legro sforzo rotta la fune colla quale io era legalo, mi diedi a correre quanto mai m'usciva di tulli quattro i piedi : nientedimanro io non potetti scampare gli occhi di nibbio di quella falsa vecchia, la quale veggendomi sciolto, preso ardire alla et.'i a donna conveniente, corse da me ; e raccolta la fune, eh' io mi strascinava dietro, sforzandosi di menarmene a casa, tirava quanto

mai ella poteva. Ed io allora ricordevole del mortai proponimento de' miei padroni, ponendo da canto ogni

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pietf), le lasciai andar co' pie di dietro un paio di calci si piacevolmente, ch'io la feci battere per terra: ed ella, ancorché fusse prostrata in quella guisa, tenendo pur quella fune pertinacemente, ed io tirando quanto più poteva, me la strascinava dietro: perchè ella con grandissime strida chiamava aiuto da più forti braccia; ma tutto era indarno, che niuno non compariva. Ma chi voleva comparire? conciossiachè in casa non era niuno altro che quella verginella; la quale udito il suono di quella voce, prestamente se ne venne fuora, e vide una bellissima commedia : quella vecchia non ad un toro, ma ad un asino stava attaccata : perchè ella preso un maschio ardire, si mise a fare un egregio fatto, e tratta la fune per forza delle mani di quella vecchia, con piacevoli risa rivocatomi dallo impeto del correre, mi salse addosso, e di> nuovo a correre mi die campo. Laonde io per lo volontario disiderio del fuggirmi, e per veder s'io poteva liberar la misera verginella, e anche per la tema delle minacciate busse, che mi era un continuo sprone, mi diedi a correre come un ca- vallo. E avrei voluto poter rispondere alle delicate pa- role della gentil fanciulla; ma non potendo altro fare, simulando alcuna volta di volermi grattar le reni, tor- cendo il capo, le baciava i bellissimi piedi. Ed ella al- tamente sospirando, e volto il viso inverso il cielo, disse: Porgete finalmente, o celesti Iddii, aiuto alle mie supreme angosce: e tu, dira Fortuna, cessa oggimai d'incrudelire conlra d'una innocente verginella; a ba- stanza ti dovrebbero pur già, aver placata le mie di- sgrazie. E tu, 0 presidio della mia libert.à e della mia salute, se tu alla mia casa salva me ne rimenerai, e alli miei genitori e al mio formoso amante mi renderai; che obbligo ti averò io? che onor ti farò io? che cibi ti donerò io? E pettinati primieramente questi tuoi crini, co' miei vezzi verginali e colle mie collane te gli tutti adornerò; ma prima ravvierò la ravviluppata fronte: e i peli della coda per la straccurataggine rabbaruffati, con estrema diligenza ti pulirò; e con belle borchie e

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fibbie e rosette tutte d'oro adornandoti, ti farò allegro delle belle pompe rilucere, come cielo stellato; e portando nel mio ricco prembo e fra la morbida seta soavissimi pinocchiati, osjni dì, o mio liberatore, te ne darò una satolla. Ma anche, oltre a' dilicati cibi e il profondo ozio e la beatitudine della vita tua, ti man- cherà la gloria e la dignità; perciocché con perpetuo testimonio sarà segnata la ricordanza della mia presente fortuna e della divina providenza: e facendo dipignere in una tavola la storia della presente fuga, a tuo per- petuo nome l'appiccherò nelle logge della casa mia. Ve- drassi, udirassi fra le altre novelle, e colle penne degli uomini dotti sarà fatta immortale questa rozza storia:

FCGGENDO UNA REGIA FANCIULLA SU UNO ASINEI.LO, SI LI- BERA ÒALLA servitù' dk'pessimi LADRONI. Sarai ancor tu fra gli altri antichi miracoli numerato; e crederanno por la verità del presente esempio, che Frisso sopra del montone notasse, e Arione collo aiuto del delfino scapolasse, ed Europa sopra del toro si riposasse. E come egli si dice, che Giove già si nascose entro a quel toro; perchè non potrebbe egli essiTC, che in questo mio asi- nelio fusse nascosto o il volto di uno uomo o qualche divino spirito? E mentre che la fanciulla mescolava con infiniti sospiri queste parole, noi arrivammo ad un certo trebbio; dove ella tirando il mio capestro, faceva ogni cosa per voltarmi dalla man destra, perciocché quella era la via che arrivava a casa del padre. Ma io, che sapeva che i ladroni erano andati di per lo restinte di quelle robe, me le contrapponeva il più ch'io poteva : Che fa'tu, infelice fanciulla ? che cerchi ? perchè l'affretti tu d'andarne allo inferno? che ti sforzi ludi fare co'piedi miei ? tu non rovinerai te sola, ma me in- sieme con essoteco. E cosi l'un tirando in qua, e l'al- tra in là, nella causa de' confini e della proprietà del terreno, anzi della divisione della strada contendendo, stemmo tanto, che i ladroni, che tornavano carichi di roba, ci ritrovarono: e per lo splendor della luna ri- conosciutici da discosto, e con un maligno riso salu-

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tandoci, un di loro ci disse; E dove sete voi avviati con tanta prescia, or clie egli è di notte? temete delle ombre degli spiriti che vanno attorno in que- sto tempo ? Dove ne andavi tu, buona fanciulla f a ri-

vedere il tuo padre e la tua madre f ma noi, a cagiona che tu non vadi sola, ti farem compagnia, e ti mostre- remo una via più breve per ire a'taoi. E mentre ch'egli parlava in questa guisa, presale la cavezza di mano, mi rivoltò indietro ; restò mai con un baston pien di nodi, ch'egli avea fra mano, di darmi all'usato di strane tentennate: e perciocché io ritornava malvolen- tieri alle mie rovine, ricordandomi del dolor delle un- ghie, menando il capo in su e in giù, cominciai a zop- picare. Perchè quegli, che mi aveva fatto tornare indie- tro, disse. Di nuovo vai zoppo, e non puoi muovere; e cotesti tuoi piedi sciancati posson fuggire e non an- dare? poco fa vinceva egli la celerità dell'impennato cavallo di Pegaso E n:entre che'l buon compagnone, non restando di inayz c'umi, cianciava cosi con essome- co, noi eravamo arrivati agli ultimi ripari della lor casa : è alzando il capo, io vidi quella povera veccbia, che

180 dell'asino D'ono

si era eoa un capestro attaccata per la gola ad un ramo d'un arcipresso: la quale i ladroni come ebber veduta, spiccandola, e con quel medesimo capestro legandola, la gittarono a terra da una di quelle balze: e sciolta la fanciulla, e andatisene in casa, con ferina fame sin- ghiottirono quella cena che la infelice vecchierella con estrema diligenza avea lor preparata. E mentre eh' e' diluviavano ogni cosa e' cominciaron a ragionar della nostra pena e della lor vendetta; e come fra una fu- riosa brigata è conveniente, e' vi furon vari pareri: il primo voleva che la fanciulla si abbruciasse viva : l'al- tro ch'ella si desse a mangiare alle Aere: il terzo ch'ella si appiccasse per la gola: mancò chi dicesse, che da- tole di molti tormenti, ella si tagliasse in mille pezii: e finalmente, secondo la sentenzia di tutti, eli' era de- stinata alla morte. Laonde uno de'principali di loro rac- chetò il tumulto di tutti, e cosi cominciò: alla setta del nostro collegio, alla mansuetudine di tutti noi, e molto manco alla mia modestia é convenevole di sop- portare che voi incrudeliate contro a costei fuor de* termini del delitto: le fiere, la forca, fuoco, tormenti, frettolosa morte caccin costei nel ba- ratro infernale: ascoltando adunque i miei consigli, do- nate la vita a questa fanciulla; ma in quel modo ch'ella l'ha meritala. Io so eh' egli non vi è ancora uscito di mente quello che voi diliberaste fare di quello asinac- cio infingardo, ma un diluvione de'voraci, e bugiardo, che infingendosi sempre d'esser zoppo, è slato al pre- sente autore e ministro della fuga di questa fanciulla, piacciavi adunque domani di sparare questa bcstiaccia: e cavatole di corpo tutte le interiora, cucirgli nel mezzo del venire questa rea femmina ignudata ; e lasciando solamente il viso di fuori, l'altra parte rimanga in que- sto modo, cioè ristretta dentro alla pigra fiera , e pò- scia espostola sopra qualche altissimo masso, la rilasciate al più ardente sole: e in questa guisa amendue soster- ranno tutte quelle pene che voi possiate aver ragionato. L'asino avrà la morte che egli ha meritato un pezzo faj

IJji^r, «PTTTMrt 1.51

le membra di costei saranno straccate da' morsi delle fiere e dalle punture de' vermini, e il sole, quando avrà, ben riscaldato il gravido ventre , si farà 1' effetto àel fuoco; e la forca e i grandissimi tormenti provera, quando i cani e gli avoltoi la stracceranno tutta s, pezzi a pezzi. Ma considerate le altre sciagure e le atro- cissime pene: ella viva abiterà nel ventre d'una bestia morta, empienlo continuamente il naso di quel corrono fetore; e stando in questo modo, senza prender cibo alcuno, si mancherà per la fame, avrà pur tanto contento, che ella si possa almeno affrettar la morto colle sue mani. Avendo dato adunque il crudele uomo tanto orrendo consiglio, non co' piedi, come si dice, ma con tutti gli animi andarono i ladroni nella sua sen- tenzia. La quale posciachè io colle mie grandi orecchie aveva udita, che poteva altro fare, se non piagnere la mia trista e disavventurosa morte ?

LIBRO SETTIMO

Come prima, scacciate via le tenebre, il giorno co- minciava a biancheggiare, e il dorato carro del risplen- dente sole illustrava tutte le cose, uno di quei ladroni, secondochè mostravano le accoglienze ch'e'si facevano l'un l'altro, arrivato quivi, si pose a sedere sulla prima entrata di quella spelonca; e posciachè egli ebbe ria- vuto un poco il flato, egli fece al suo collegio questa imbasciata : Quanto alla casa di Petronio Luppatino, la quale noi mettemmo a sacco pochi giorni sono, noi ne possiamo dormire con gli occhi sicuri; imperocché, poi- ché voi, fatto fardello d'ogni cosa, ritornaste al vostro campo, mostrando che questa cosa mi dispiacesse in- sino al cuore, io mi cacciava fra le ragunate di quel popolo, per ispiare che partito si pigliasse sopra il ri-

ÌS3 dell' asino u'oro

trovar questo furto, e s*e' volevano, e come e' volevano investigare i malfaltori, per venirvi poi a rajrguagliare, secondochè voi mi avevate imposto, d'ogni cosa. Laonde io intesi che non so quale Agnolo, non con dubbj ar- gomenti, ma con ragioni probatissime, per voce di tutto il popolo, e come cosa notoria, era incolpato di que- sta preda : e dicevano che egli aveva pochi di innanzi finte certe lettere di raccomandazioni a quel Luppatino, e perciocché egli V aveva trovato di buona pasta, egli «ra fatto suo grande amico ; e che egli era stato rice- vuto in casa, e tenuto fra i piti intimi fanìiliari; e che per aver cagione di dimorar quivi molti giorni, accioc- ché egli potesse considerar ben le serrature delle porte, e in qual luogo costumava di tenere Petronio gli ar- nesi suoi, e gli dava ad intendere essere innamorato di non so che fante che era in casa; e che la medesima notte in sul dar della battaglia, egli s'era fuggito in su un cavallo buono, che egli teneva in casa, e mai poi non sera lasciato rivedere; e che egli era stato trovato un suo servidore nella stalla, il quale era stato messo in prigione, perchè egli confessasse le ladroncellerie di questo suo padrone ; e che il di dipoi egli era stato tor- mentato con tanti martorj, che egli era mancalo poco ch'e'non si fusse morto; ma che egli non aveva mal confessato cosa del mondo; e che egli erano slati man- dati nella patria di quell'Agnolo alcuni, che, ricer- candolo, lo facessero pagar le pene dello error suo. Mentre che costui narrava tutte queste cose, io non poteva fare che io non mi dolessi amaramente, L:cendo comparazione di quella amica fortuna del beato Agnolo alla presente disgrazia dello infelice asino : e però giu- dicava, che non sanza cagione avevano finto quegli an- tichi uomini di quella prima dottrina, e detto che la Fortuna era cieca, e senza segno di occhio veruno ; la quale dona sempre i beni suoi a' più pessimi uomini e a quegli che non li meritano, e fuor d' ogni sano giu- dicio s'elegge per amici coloro i quali, ogni volta ch'ella gli vedesse òiscoslo, dovrebbe fuggire ; e quello che è

LIBRO SKTTÌMO '•'?'^

peggior di tutto, ci attriua.sce assai sovente altro nome da^quello che comportano le opere nostre ; sicché il cattivo si gloria della fama del buono, e lo innocente sopporta la infamia dell'altrui colpa. Io adunque, il quale il crudelissimo empito suo aveva convertito in una be- stia di quattro gambe, delle più vili che si trovino, e della cui disgrazia doveva ragionevolmente increscere ad ogni uomo empio e dispietato, era accusalo come rubatore del mio carissimo ospite; il qual peccato, non solo latrocinio, ma parricidio ognuno chiamerebbe più rettamente; e nondimeno egli non mi era lecito pur con una sola parola, dicendo : io non sono stato : di- fender la causa mia. Nientedimanco, perchè «gli non paresse però che col tacere, essendo presente, io con- sent ssi d'aver fatto quel latrocinio, la impacienza mi cond isse a quello, ch'io volli dire ; non l'ho fatto: e gri- dando pronunziai la prima parola più e più volte, ma la seconda io non ebbi mai forza di poterla esprimere; e benché io contorcessi le pendenti labbra, e le aguz- zassi il più ch'io poteva, io mi rimasi nella prima voce, e più e più volte ragghiai : no, no. Ma perchè mi ram- marico io più della crudeltà della Fortuna, posciachè ella non si vergognò farmi conservo e congiunto del mio cavallo e del mio famiglio? Or mentre che io on- deggiava fra cosi fatti pensieri, io mi ricordai che io aveva ad essere vittima alla infelice anima della povera vergme e lasciando andare ogni altro dolor da canto, cominciai a rammaricarmi dello scellerato ordine di quelli, non ladroni solo, ma peggio che beccai di carne umana ; e riguardando spesso il mio misero ventre, egli mi vi pareva già vedere entro cucita la meschinella. E in questo, quello che di me aveva portata la falsa no- vella, cavati fuor mille ducati, i quali egli aveva cuciti entro ad una sua vesta, e secondochè egli medesimo dis>e, eraii danari ch'eali aveva rubati a più viandanti, per sua liberalità euli ne fece un presente al loro co- mune E cominciando dappoi a domandare assai curio- samente come la facesisro i compagnoni, e avendo in-

164 dell' asino d'oro

teso che alcuni di loro i più valenti, per vari accidenti,

ma animosamente, erano mal capitali, egli cominciò a

persuadere, che assicurando il cammino per qualche di, e facendo un poco di triegua co' nimici loro, che egli attendessero a ricercar di nuovi compagni, e con fre- sca gioventù reintegrassero la bellicosa squadra, e ri- ducesserla al numero di prima: e che quelli che non volessero, e' gliele facessero far per filo e quelli che russerò contenti, e' gli allettassero a venir più volentieri con larghe promesse e liberali doni : affermando eh' e' non sarebbono pochi coloro i quali, da una povera e servii vita partendosi, venissero alla lor setta, la quale era simile ad una potente tirannide. Ed egli, per la parte sua, aveva già convenuto con un giovane alto di per- sona, smisurato di corpo, e valentissimo delle mani, e avevalo fatto capace che egli finalmente svegliasse le addormentate braccia per la continua pigrizia, co» qual- che egregia fatica, a migliore opera; e mentre che egli ne aveva il tempo, godesse il comodo della sua sanità, e non porgesse si potente mano a chieder per Dio; anzi la esercilasse in attignere oro continuamente. Accon-

LIBRO SETTIMO ISo

eentirono tutti alle parole del prudente ladrone, e die- dero subito ordine che colui di chi egli aveva ragionato poco innanzi, per uno fusse chiamato, e a supplemento del resto se ne ricercassero degli altri. Allora colui, partitosi prestamente, non istette guari a tornare, e menò un giovane, come egli aveva promesso, grande e grosso, e tale, che io non so se egli si poteva parago- nare ad alcun di loro; perciocché, oltre alle altre cose, egli avanzava lutti gli altri quanto egli aveva grande il capo, e allora allora gli era cominciato a venire in- torno alle gote un poco di lanugine, che appena si ve- deva : ma egli aveva una sua vesticciuola in dosso rat- toppata con più di mille pezzi, e così misera, che a fa- tica lo copriva mezzo, sicché il petto e il corpo, con una pelle veramente da uomo, non poteva fare che non si discernesse. E come egli fu giunto, e' disse loro: Guar- divi Iddio, 0 fortissimi giovani, e ormai fedelissimi miei compagni, ricevete volentieri un uomo d'un grandissimo coraggio; posciaché egli è divenuto de' vostri volentieri: ricevete uno, il quale con maggiore allegrezza aspetta le coltellate nel corpo suo , eh' egli non prende l' oro nelle mani ; come mendico uomo mi dispregiate , o stimate le virtù mie da questi panni; perciocché io sono stato capitano d'una bellissima compagnia, e ho colle mie mani assassinata quasi tutta Macedonia. Io sono un famoso malandrino, quello Emo Teamista, il nome del quale fa paura a tutti quei paesi vicini, nato di Colle famosissimo ladrone, e nutrito ne'pozzi di sangue degli uomini, erede ed emulo delle paterne virtuti; ma in picciolo spazio mi ha tolto la Fortuna tutti i miei va- lenti compagni, e privato di tutte le mie ricchezze: e questo fu, avendo io assaltato un certo agente dello im- peradore, il quale aveva avuto onorevole condizione nella guerra, dipoi venuto a più bassa fortuna. Ma io vi voglio raccontar la cosa per ordine.

E' fu un certo nella corte di Cesare per molti uf&ej chiaro e riguardevole, e conosciuto benissimo dal detto principe , al quale avendo la maninconosa invidia ap-

ICO dell' ASINO D' ORO

posto per astuzia d'alcuni cortigiaiii non so che man- camento, gli aveva tolto la grazia del padrone, sicché egli avea avuto bando di corte ; ma la mogliera sua Plotina, donna di rara fede e di singoiar pudicizia, e la quale col decimo parto avea fondata la famiglia del suo marito, dispregiate le cittadinesche delizie, e divenuta partecipe della fortuna del marito, tosatisi i crini, e ve- stitasi in guisa di maschio, fatto danari di tutte le sue gioie e veste sue, e cucitiseli addosso, non ricusando pericolo alcuno, fra le squadre de' cavalli e frale spada ignude divenuta sicurissima, senza mai attendere ad al- tro che alla salute del suo marito, con virile animo ia- flnili disagi sopportava. Avendo adunque costoro soste- nuti assaissimi pericoli..., dove costui era stato confi- nato per non so quanti anni : ma come prima egli dio in terra al porto di Durazzo, nel quale noi venuti del Reame poco innanzi andavamo ogni cosa rubando; o avendo avuto indizio ch'egli per isfuggir l'onde del mare se n'era entrato in una certa botteghetta assai vi- cina al mare e alle nave, in sul primo sonno noi l'assaltammo, e togliemmogli ogni cosa: ma nondimanco noi non ci partimmo senza un gran pericolo, imperoc- ché come quella matrona senti il primo strepito della porla, correndosene in camera, e gridando accorruomo, sollevò ogni cosa: chiamava i famigli a uno a uno, e Analmente tutto il vicinato, che venissero a darle aiuto;, e se non che non vi fu uomo (avendo ognuno temenza del fatto suo) che volesse uscir fuora, noi non ci par- tivamo forse cosi agevolmente. Ora ivi a non molto tempo quella santissima donna (il si dee dire sempre mai), donna veramente di rara fede, per le sue buone parti graziosa ad oznuno, porto grandiss me preghiere alla grandezza di Cesare, impetrò al marito prestissimo ritorno, e a quello msulto pienissima vendetta. E mo- strantlo il principe la voglia sua, il collegio di Emo la- drone subito fu disfatto : tant < pjO ezianlio un sol cenno dun gran prmcipe ! che ritrovali finalmente tutti gli uo- mini della mia banda, alcuno non ne rimase che noa

LiDRO SETTIMO 1^7

fusse ferito e morto. Ed io con una mia astuzia fura- tomi loro, a fatica solo me ne usci' della bocca di Plu- tone; e l'astuzia fu questa: io presi una veste da donna tutta piena di frappe e di fiocclii, e misimi in capo una rete, e calza'mi un paio di calze bianche pur da donna, e ricopertomi e nascostomi l'altrui sesso, mi posi a se- dere in su uno asino, che era carico di certe spighe d'orzo ; e cosi mi misi a passare per mezzo delle schiere de'nimici: i quali pensandosi (perciocché le prole senza aver segno alcuno di barba sembravano quelle d' una verginella) che io fussi una guidaiuola d'un asino, mi lasciaron passare liberamente. Ma io non per questo feci vergogna o alle mie virtiidi o alla gloria paterna; anzi, fra tanti sospetti trovandomi, e nel mezzo di tanti sol- dati, ricoperto sotto l'abito altrui, e ville e castelli as- salt.mdo, solo soletto m'andai rubacchiando le spese per la strada. E scinti i panni, cacciò quivi nel mezzo due- mila ducati, e soggiunse' Questi sieno per mancia, anzi per la bene entrata del vostro collegio, al quale io mi offerisco del continovo perfidissima guida: le quali of- ferte quando voi non recusiate, io vi prometto che que- sta casa, la quale al presente è di pietra, in breve tempo diverrà d oro massiccio. Veggendo questi passimi ladroni il grandissimo presente, e udendo le magnifiche e grandi promesse, senza pensare più altro, tutti d'accordo ad una voce lo fecero lor capitano: e ritrovata subito una miglior veste, e fattili spogliare quei r,icchi stracci, ono- revolmente lo rivestirono. Il quale, poiché li ebbe ba- sciati con una gran festa tutti ad uno ad uno, essendo già ordine da cena, fu messo in capo di tavola; e in quella guisa con assai vivande e con agiati bicchieri fecero allegrezza della creazione del novissimo Principe. E ragionando, mentre che e' cenavano, or l'uno or l'al- tro, come accade, e del fuggir della giovane, e del mio menamela, egli intese della crudel morte allj quale ci avevano destinati. E domandato dove fusse la fanciulla, e fattosi menare dov'ell'era, e vedutola carica di le- gami, col naso arricciato, come chi l'altrui opere di-

13S dkll' ASixo d'ouo

spregia, se ne ritornò dove e' cenavano, e disse: An- corch' io non sia cosi rozzo cosi temerario, clie io mi contrappontia a quello che vi è una volta piaciuto, nientedimeno io sarei meritamente da essere incolpato di pessima natura, se io non vi avvisassi di quello che a me par che sia il migliore. Date adunque a me, sol- lecito per la vostra salute, fidanza di poter dire il mio parere; atteso spezialmente, che se il mio consiglio vi dispiacerà, voi potrete agevolmente ritornarvi all'asino. Conciossiacosa che egli mi sia paruto sempre convene- vole, che i ladri, e quelli massimamente che hanno qualche cervello, debbano posporre ogni cosa al ior guadagno; perciò mi pare che se voi perdete in questo asino questa vergine, che voi non facciate altro pro- fitto, che con vostra perdita soddisfare alla vostra in- dignazione: e però io vi consiglierei, che voi la mena- ste ad una qualche città, e quivi deste ordine di ren- derla a qualch' uno ; imperocché una di cosi giovane età non vi apporterà utile di pochi danari: ed io me- desimo, che ho la pratica già più tempo fa di certi ruf- fiani, vedrò di darle bonissimo ricapilo; e s'io non m'inganno, io ne penso cavare un gran numero di du- cati, senza trarvi di mano tanto emolumento. E in que- sta forma la fuggitiva se ne andrà a slare in luogo con- decente alla sua nobiltà ; e servendo a cosi vituperoso esercizio, senza potere andarsi più fuggendo in qua e in là, vi pagherà buona parte della pena del suo pec- cato. Io ri ho detto quello ch'io giudico essere il mi- gliore, e secondo che l'animo mi dettava : or voi siete signor di me, de' miei consigli, e di tutto il mio avere : fate quello che più vi piace.

Divenuto adunque costui avvocato della camera di quei ladroni, aveva assai ben difeso la causa nostra, ed era stato dell'asino e della vergine uno egregio pro- curatore; ma gli altri colla Ior lunga deliberazione mi facevano tutte tremar le budella. Pur finalmente tutti d'accordo, acconsentendo alla sentenzia del novizio la- drone, trassero quella giovane di catena: la quale in

MBUO SETTIMO ISd

quel mentre che avea veduto quel giovane, e uditolo ragionar del postribulo e de' ruffiani, s'era tutta comin- ciata a rallegrare; in guisa clie egli, e meritamente, mi venne un subito fastidio di tutte le donne ; veggendo una verginella, la quale sino allora aveva saputo cosi ben simulare il disiderio del suo giovane amante e delle caste nozze, aver preso consolazione dello sporco nome del postribulo e del ruffiano. E cosi erano per allora, per 1 apparente colpa d'una sola, giudicati i costumi di tutte le donne da un asino. Or posciachè e' rimaser d'ac- cordo ch'ella si vendesse, quel giovane riprese le parole, 0 disse: Posciachè egli vi piace seguire il parer mio, io voglio che domani dopo desinare noi ce ne andiamo a Milano, dove e' mi basta l'animo e di vender questa don- zella, e di trovar de' nuovi compagni; e in questo mezzo attend amo a sguazzare e far buona cera. Ma s' io ri- sguardo bene, egli non e' è vettovaglia per molti giorni: darelem adunque dieci compagni, che io me ne voglio que ta notte andare nel più propinquo castello che sia qui intorno; e vedrete se io vi provvedere da mangiare e da bere, e di tutto quello che ci fa di bisogno per trionfare. E senza altro dire, in sulla mezza notte se n' andò a suo viaggio, presi dieci di loro. era ap- pena arrivato il giorno, che egli e tutti gli altri che seco menati aveva, carichi di vino, di bestiame e di mille altre cose, se ne ritornarono. E messo ad ordine immediate un grande e grasso desinare, disse il novello ' ladrone. Voi non mi avrete a conoscer solamente per caporale delle vostre espedizioni e delle vostre prede ; ma per ministro de' vostri piaceri e de' sollazzi vostri. E datosi da fare per casa, gentilmente il tutto ammi- nistrava: egli spazzava, egli apparecchiava, cosse, fece i fegatelli, e soprattutto con ispessi bicchieri e grandi dava da bere alla brigata. E simulando nondimeno, che è che è, d'andare per ogni cosa che faceva mestiere intorno alla tavola, e tolto alcuna cosa di nascosto, se ne andava da quella fanciulla, le portava da mangiare, e porlwle il b.ccii'.oro iovc egli av-ea bevuto allora al-

*^0 t)ELL" ASINO DOIlO

lora, le porgeva da bere; ed ella mangiava e bevea al- legramente : e se talora egli la voleva baciare, ella co n dolce modo lo invito accettando, troppo più sicuramente che io non avrei voluto, rispondeva al suo volere. Della qual cosa io non ne pigliava altro dispiacere, die so ella fusse stata una mia cara cosa; e diceva cosi fra me: o vergine donna, se' li tu cosi tosto dimenticata di quella onorcvolezza delle lue nozze, e di quello amanto che tu amavi cosi caldamente? e a quel tuo non so chi novello sposo, che li avevano dato i tuoi carissimi ge- nitori, bai preposto uno straniere, a cui grondano con- tinuamente le mani di sangue umano? le ne rimorde punto la coscienza; anzi postoti ogni altro amor dietro alle spalle, fra le spade e fra le lance ti basta l'animo di lussuriare? 0 se questi altri ladroni se ne accorgono per verso alcuno, non ti sarà egli a te giuoco forza ri- tornar nell'asino, e a me un'altra volta procacciar la morte? alla fé', alla fé', che egli si p»re bene che tu scherzi sopra la pelle altrui. E in mentre che accalo- gnando costei, con una grandissima indignazione dispu- tava meco medesimo queste parole, io mi accorsi per alcuni coperti ragionamenti, ma non oscuri ad un pru- dente asino, come era il mio, che questo giovane non era quello F.ino famoso ladrone, ma Lepolemo, io slesso sposo di quella fanciulla; il quale, perciocché egli non si risparmiava per la mia presenza, mandando innanzi le parole, le disse: Sta di buona voglia, la mia Carile dolcissima, perciocché tosto tosto io li darò in manO' que' tuoi inimici prigioni. E avendo mescolalo non so che nel vino, il quale egli aveva con picciolo vapore riscaldato, senza assaggiarne gocciola egli, non reslava colla maggiore inslanza del mondo di ficcarlo loro giù per la gola; e già gli aveva per modo alloppiali e sot- terrati nel vino e nelle molte vivande, eh' e' giacevano per terra stramazzali, che tu avresti detto: e' son tulli morti. Ridotti che gli ebbe finalmente lutti in questa guisa, posciachè egli senza fatica alcuna gli ebbe legali strettamente ad uno ad uno, e posta poscia sopra di

LIBRO SETTIMO 161

me quella fanciulla, se ne prese la via verso casa sua. Dove arrivati che noi fummo, noi scontrammo tutta la

clttJi, che era tratta a vedere il desiderato nostro ritorno : correva il padre, veniva la madre, comparivano i pa- renti, la incontravano gli amici di casa, l'accompagna» pnavano gli allevati, e i famigli tutti allegri gli segui- tavano : egli ti sarebbe certamente paruto vedere un pomposo spettacolo, e degno di esser celebrato fra le antiche memorie: d'ogni ragion gente, d'ogni età si ve- devano correre a vedere una vergine entrar nella città trionfante in su uno asino. Perchè io, veggendo tante allegrezze, per non essere discrepante dagli altri, volli pf r la mia parte far segno di non essere manco di loro, e tesi gli orecchi, e gonfiato il naso, ragghiai quanto mai della gola mi usciva; anzi misi un grido grande, che parve il tuono che vien dopo una saetta. Or con- dotta che fu la fanciulla nel ricco palagio, mentre cha ella si riposava nel seno della sua cara madre, e pen- deva dalle braccia del suo disiderato padre, e piangeva, e gli altri con lei per l'allegrezza, Lepolemo, con una gran moltitudine di cittadini, e con un gran mimpro di

ICl dell'asino D'OItO

bestie da some, se ne ritornò da. quei ladri, ed io con loro; che Iddio lo sa, s'io vi andai più che volentieri: perciocché e l'ima, eh' io era soverchio curioso di ve- der cose nuove, io sperava veder la vendetta di quei ladroni, i quali avendoli Lcpoiemo e i compagni ritro- vati ancor più dai vino che da altri ledami avvilup- pati, gli trassero fuor dell'uscio; e posciach'egli ebbero ritrovate tutte le robe, e eh' e' ci ebbero caricali noi altri d'oro e d'ariento e d' altre cose di pregio, e' die- rono ad una parte di loro, cosi legati e rinvolti come egli erano, la spinta giù per una di quelle ripe; e am- mazzati il resto colle loro armi medesime, gli lasciarono a dar pasto alle fiere e agli uccelli : e cosi tutti allegri e lieti per cosi fatta vendetta, ce ne ritornammo inverso casa. Le robe furono messe in custodia del pubblico, e a Lepolemo fu renduto, secondo le leggi, la riguadagnata sposa: la quale, chiamando-ni il suo liberatore, comando che nel di delle nozze egli mi fusse empiuta la mangia- toia di buono orzo insino all'orlo, e fccemi dare tanto fieno, che sarebbe bastato ad un cammello b itlriano. Laonde io quello crudeli bestemmie uguali alli suoi meriti mandava alla mia Fortuna, la quale mi avesse non in un cane, ma in uno asino trasformato; veggendo che tutti i cani erano pieni e pinzi de' furti e delle re- liquie della grassa cena, ed io mi aveva a empier d'orzo « di fleno. Or posciachè e' furon consumate le dolcezze della prima notte, la nuova sposa non restò mai di rac- comandarmi a' suoi genitori e al suo marito, insino a tanto eh" e' non le promisero di ordinarmi supremi e magnifici onori: e chiamati i più cari amici di casa, presero parere in che modo e' mi potessero degnamente rimunerare. Ad un di loro piaceva eh' io mi stessi in casa rinchiuso sanza affaticarmi, e con buon orzo, buone fave e buone vecce e buono strame fussi pasciuto a mio piacere : ma tutto il consigho finalmente si risol- vette nella sentenzia d'un altro, che ebbe maggior ri- guardo alla mia libertà, il quale gli persuase eh' e' mi lasciassero dar piacere e buon tempo per le foreste, e

LTB.HO 3ETT;M0 163

discorrere come ben mi venisse tra i brandii delle ca- valle; imperocché, olire a che efrli mi darcbbono gran- dissimo sollazzo, egli riempierebbono col mio generoso concubito la mandria di molte bellissime mule. Perchè, fatto chiamare il pastore delle cavalle, eglino me gli assegnarono con grandissime raccomandazioni; e gli dissero che me ne menasse. E certamente eh' io me n' andava tutto contento, estimando che oltre a eh' io sarei esente dal someggiare e da tutte 1' altre fatiche, essendo libero di me, avrei al principio della primavera sopra delle pungenti siepi ritrovato delle fresche rose ; e spesso diceva così da me: 0 s'egli è stato renduto tante grazie e fatti tanti onori ai mio asino, or non me ne sarà egli, come più tosto io abbia ricevuta la forma umana, rendute per ogn' un cento? Ma quanto fu lungo il successo dalla speranza ! imperocché come quel pa- store m'ebbe tratto fuori della città, io non gustai ca- rezza alcuna, mai seppi di che saper si fusse la li- bertà ; anzi subito che la sua moglie , eh' era la più avara e la peggior femmina di quelle contrade, mi ebbe veduto, ella mi mise a far girare la macine d'un mulino a secco, eh' eli' aveva; e trovandomi del continovo con un buon bastone, provvedeva colla mia pelle il pane a e a tutti i suoi. E non le bastava d'affaticar me per lo bisogno di casa, che ella macinava ancora a prezzo al vicinato; e a me poverello non era pur dato per premio di tanta fatica l'ordinario del mangiare; chò quella perversa femmina vendeva a' lavoratori della con- trada l'orzo macinato col sudor mio, e a me non toc- cava altro che in sulla sera un poco di crusca piena di sassi, di terra, e di mille ribalderie. fu contenta la crudel Fortuna d'avermi messo sotto a tanto martoro, ch'ella mi mise in assai maggior travaglio, acciocché esercitandomi, come dicon costoro, in casa e fuori, egregiamente io adornassi il nome mio con una perpe- tua gloria. Quello valente pastore adunque divenuto, ma un poco tardi, ubbidiente al suo padrone, mi mise nella mandria delle cavalle; laoad'io, che mal sapeva

ìù'k dell' /SINO d'oro

che incontrar mi dovesse, parendomi esser divenuto asin di me, allegro e lieto, e tutto lascivo divenuto, me ni! passeggiava largo eoa una grandissima boria, andando aoccliiando quelle cavalle che mi paressero che fussero al proposito per essere mie concubine. Ma picciol tempo senza far frutto alcuno fiori in me quella lieta speranza, e tosto ritornai nel colmo delle mie di- sgrazie; perciocché gli stalloni di quella mandria, che per esser ben tenuti e ben pasciuti, e non durare fatica alcuna, erano gagliardi e terribili, come tu puoi pensare, avendo gelosia del fatto mio, e volendomi proibire il disuguale adulterio, senza aver riguardo alla ospitalità, si cacciarono intorno al povero rivale, e con tanta stizza e con si fatta tempesta li furono addosso, ch'io non so mai come io ne scapolassi vivo: questo a capo ritto alzando all'aria il bel riscontro, mi percoteva col pie dinanzi: quell'altro, voltatomi la polputa groppa, con quei di dietro mi dava di molti calci: quello con maligno volto annitrendo, e col naso arricciato minac- ciandomi, con quei dentacci lunghi tutto mi morsicava. Cosi mi ricordava d' aver letto nelle storie del re di Tracia, il quale dava gl'infelici ospiti a divorare agli efferati cavalli. 0 avarizia pessima di tutti i vizj? tanto incresceva adunque a quel disonesto tiranno logorare un poco di biada, che traea lor la fame colle membra de' corpi umani. Lacerato io adunque in quello istesso modo da' vari assalti di quegli stalloni, io fui costretto a bramar tornare di nuovo a far le giravolte intorno a quella macine, per manco male. Ma non parendo alla insaziabile Fortuna, eh' e' fusse martirio bastevole al suo disiderio, trovò modo di mettermi tra più taglienti forbici. Levatomi il pastore dallo esercizio dello stallone, e messomi a conducer legne da certo monte, emmì dato per guida un fanciullo doloroso di tutti gli altri fanciulli, al quale non bastando la fatica che mi dava quell'alto monte, parendoli a sufficienza, che i sassi, de' quali era piena la strada, mi guastasser le unghie, nii macerava con si fatte bastonate, cbe quel dolore mi

LTORO SETTIMO Ifio

penetrava insino alle midolle: e aveva un maladetto costume, eh' egli mi feriva sempre nella destra coscia^ e in un luogo stesso, sicché mi vi ruppe la pelle di sorte, che mi vi si fece una gran piaga, anzi una fossa, o per dir più il vero, una finestra, la quale, avvegnaché del continuo grondasse sangue, egli non reslava di ri- trovare con quel bastone; ed inoltre, egli mi caricava sconciamente con quelle legne, che tu avresti detto: a costui non pare por la soma ad un asino, ma ad un liofante. E se per mia mala sorte la soma pendeva in su un lato, dov'egli dovea da quel canto ch'ella cadea levarne qualche pezzo di legne, o pareggiarla colle spalle, egli vi metteva delle pietre, e cresceva la soma quelle poche libbre. era anco contento dopo tante mie fa- tiche del soverchio peso di quella soma, eh' ogni volta che noi passavamo un certo fiume, per non si bagnare j piedi, egli mi saltava in groppa: picciolo soprassello davvero a tanto peso. E se per disgrazia, camminando sopra della ripa, che era sempre piena di fango, io sdrucciolando cadeva; essendo l'ufficio d'un buon vet- turale porgermi la mano, alzarmi col capestro, solle- varmi colla coda, o levare una parte della soma sino a che io mi rizzassi , egli, poveretto a me, senza aver cura eh' io fussi stracco o carico, non solo non mi por- geva aiuto veruno, ma cominciandosi dal capo, anzi dalle orecchie, tutto mi pestava colle mazzate, insino a tanto che quelle percosse in luogo d'aiuto mi face- vano sollevare. 11 medesimo mi ordinò eziandio questo martorio: egli prese certe spine, di quelle che portano in sulla punta il veneno, e strettele così insieme con non so che legaccio, alzatomi la coda, e' mi ve le legò sotto; che sapeva il tristo, che come io mi crollava, io le moverei si, ch'elle mi darebbon mille trafitte: sic- ché io mi trovava, come si dice, fra l'uscio e '1 muro; Imperocché, s' io per voler fuggire mi metteva a correre, quelle punture aiutate dall'impeto mio mi ferivano più profondamente; e se divenuto paziente del primo dolore, io mi voleva fermare, io era sforzato a correre dalle

166 dell'asino d'oro

bastonate. In fine, e' non pareva che quel pessimo fan- ciullo avesse altro pensiero, se non trovar modo ch'eftU mi ammazzasse; e più volte minacciandomi, mi avea in sul viso giurato la morte addosso. E conducendolo ognor questa sua scellerata voglia in più atroci cogi- tazioni, io medesimo ne l'aiutai: imperocché, essendo vinta un di dalla sua insolenza la pazienza mia, io gli diedi parecchi de' miei calci; sicch'io lo affrettai ad ordinarmi questa bella trappola per sua vendetta. Egli mi mise addosso una buona soma di stoppa, e legatomi subitamente con certe funi , e inviatomi non so dove , quando e' fu appiè d'una villa assai vicina a casa, fat- tosi porgere un carbon di fuoco, e' lo pose appunto nel mezzo di quella stoppa; la quale, come fu riscaldata, levò ad un tratto una fiamma si grande, che io comin- ciai ad ardere d'ogni intorno: perchè assaltato allo im- provviso da tanta vampa, vedeva alcuno che mi aiutasse, sapeva da me imaginare via da fuggire tanto pericolo; e l'ardor grande non chiedeva indugio, e aveva bisogno di aiuto e non di consiglio; e non sa-

peva che farmi; se non che la Fortuna, non so ai^ ««e per preservarmi a maggior rovina, o che le pur veuisse

LIBRO SETTIMO 167

fatto , mi mostrò assai allegramente in si crudel caso il volto suo, e per allora mi liberò da una certa e in- dubitata morte. Egli mi venne cosi in un tratto veduto una gran pozzanghera d'acqua, che era rimasta per una gran piova che era stata il di davanti; perchè io, non aspettando a dir che c'è dato, spiccato un salto, subito mi vi cacciai dentro, e molto ben mi vi rivoltai : e in quella maniera spento il fuoco, e scarico della soma, scansai tanto manifesto pericolo. Ma quel temerario fan- ciullo disse ch'io era stato cagione di quel peccato, e afferiiò a tutti quei pastori, che passando volontaria- mente da un fuoco di non so che vicini, mi vi era la- sciato ire su, e m' era abbruciato a bella posta : e vel- losi poscia verso di me, e ghignando così un pochetto, aggiunse queste parole: E insino a quanto darem noi le spese a questo cercafuoco? Negli bastò d'avermi fe- rito con cosi pugnente coltello; imperocché egli non vi andò guari, che tendendomi una maggior trappola, egli mi fece cadere dentro, senza darmi ad assaporare il ca- cio: e questo fa, che vendute le legne ch'io portava, a certi vicini, e rimenatomi a casa vuoto, e' cominciò a gridare, che egli non era appena arrivato, e dire eh' e' non poteva più col fallo mio, e non voleva essere più mio vetturale; e continuando il gridare, diceva: Vedete voi questo pigro infingardo e più che asino? il quale, oltre all' altre sue poltronerie , mi mette ogni di tra mille pericoli, e non trova donna alcuna , o vecchia o giovane eh' ella sia, per la strada, vede fanciulletto, che egli o non faccia allentare la soma, o non la faccia cadere, e tutto infuriato il gentile amadore non corra loro addosso, e non le arrovesci per terra; e biasciando, che par proprio che si stemperi dentro, non tenti la non mai più sentita libidine, chiamando le umane lasci- vie con non conceduto concubito alle nozze asinine. E quello eh' è peggio, che struggendosi di baciarle il di- suti laccio, egli le 'mbava tutte, e mordete con quella inetta boccaccia si, che egli rovina tutte quelle brigate ; la qua] cosa è forza, che sia un cagione di qualche

168 DELI.' Asiyo d'oro

grande scandolo, e fuccici lare qualche villania. ErIì non ha guari che questo j;eiilil drudo, subito che egli ebbe veduto una giovane dabbene, pittala via la soma cb' e' portava, e' so le cacciò addosso cosi piacevolmente, che egli la rinvoltò tutta per quel fango, e in presenza di chiunque passava si sforzò di farle di quelle cose che io mi vergogno a raccontarle : e se non che, per lo gran gridare che faceva la donna, e' vi corsero alcuni vian- danti ad aiutarla, la poverella avrebbe fatto male l fatti suoi, li mescolando con queste bugie inlinite altre non vere paiole, le quali più afigravassero il mio vergognoso silenzio, accese grandemente l'animo di quei pastori ne' danni miei; laonde un di loro disso: E perchè diavoi, dunque, non sacriflchiaino noi questo pubblico marito, anzi adultero del comune, e secondo che meritano le sue mostruose nozze prendiamone la vendetta? li vol- tosi a quel fanciullo: Sai tu quello che tu hai da fare? ammazzalo subito, e a mangiare le budella a' nostri cani, e serba l'altra carne per dar cena agli operai: e acconciando poi la pelle colla cenere, e con quel che bisogna, la porteremo al padrone, al quale agevolmente daremo ad intendere che l'abbiano ammazzato i lupi. Tutto allegro della data sentenzia (e ricordandomi quanto io avessi malfatto a non finirlo, poiché io poltrone co- minciai ad ingiuriarlo con quelle coppie di calci), quel mio valente accusatore senza indugio alcuno corse ad arrotare un suo coltello, per dare esecuzione al coman- damento di quel pastore ; se non che un altro del nu- mero di quei villani, con villana compassione: Vera- mente, disse, egli è pur un peccato di ammazzare cosi bello e cosi buono asino, e per un poco d'erroruzzo di sua lussuria privarsi dell' opera sua e del suo servigio, che Dio sa il bisogno che noi ne aviamo; dove che noi potremmo col sanarlo trargli il ruzzo del capo, sic- ché noi saremmo fuor d' ogni pericolo , e useremmo l'opera sua, ed egli n^ divenirebbe più grasso e più grosso che mai. lo ho veduto molti cavalli, non pure asini, che sono infingardi naturalmente, assaltati da un

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soverchio caldo di libidine, essere divenuti spiacevoli, ch'egli non si poteva con esso loro; curali per questa guisa, in breve spazio essere divenuti si piacevoli e mansueti, ch'egli eran come una pecora; e nondimeno si potevano adoperare alla soma, al cavalcare, e a tulli gli esercizi gagliardamente come prima. Sicché, se voi vi contentate di questo mio consiglio, io posso, senza mettere molto tempo in mezzo , andando al mercato, come io aveva già fatto pensiero per alcune altre mie faccende, farmi prestare i ferri alti a questo esercizio; e ritornato ch'io sarò da voi, vedrete ch'io ve lo farò mansueto più ch'uno agnello. Ritratto da questa seconda sentenzia, la quale fu approvata da ognuno, dalla bocca dello inferno, parendomi d'essere riservato ad una pena assai più orrenda che la morte, mi lamentava da me stesso, e dolevami di avere a patire in si preziosa parte del corpo mio: e però m'era deliberato, o col non mangiar niente, o col gittarmi giù per qualche balza, tormi del mondo da me da me; che slimando di dover morire in ogni modo, giudicai che e' fusse pur migliore morire senza mancamento di alcun membro. E mentre che io perdeva il tempo nell'eleggere 1' una delle due morti, quel fanciullo, anzi la rovina mia, menatomi la mattina per tempo per la solita strada a quel monte per una soma di legne, posciachè noi fummo giunti al bosco, e che egli mi ebbe legato ad un ramo di un al- bero, che era sopra di una profondissima ripa, e' se n'andò cosi un poco fuori di strada a tagliar quelle legne eh' e' voleva che io portassi ; e in quel mentre che le tagliava, eccoti uscire correndo alla maggior fu- ria del mondo d'una tana vicina, laddove io era legato, una orsa piena di rabbia e di slizza: la quale come più tosto io ebbi veduta, senza aspettare miga d'essere sciolto, gittatomi tutto in sulle gambe di dietro, e al- zato il capo inverso l'aria, %)ezzai la fune con che io era legato, e diedila a gambe, che io pareva non un asino, ma un velocissimo cervio; e gitta' mi giù alla china non colle gambe solo, ma con tutto il corpo, e

170 dell'asino n ono

rivoltatomi per quei i)alzi, voloiUeroso di fufr;i!rc non

l'orsa solamente, ma quel fanriiiilo più crudele verio

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di me, clic non saroì)be sfata quell'orsa, o qualsivoglia fiero animale : arrivai prima alla strada , che un A. laudante, vedutomi cosi solingo, mi prese per un pezzo di fune che mi era restata, e salitomi in sulle spalle, e con un buon bastone, che egli aveva in mano, so- nandomi, mi mise per certe straduzze si fuor di mano, che epli era impossibile di pensare mai d'avermi ritro- vato persona. E benché quelle bastonate per altro non mi avessero fatto uscir di passo, come quec^li che ora- mai, la mercè di quel fanciullo, vi aveva fatto il callo, nondimeno io mi accomodava al correre volentieri, per liberarmi dalla beccheria delle mie più care membra. Ma l'aspra Fortuna, che troppo era pertinace nelll miei danni, voltommi tosto in amaro la dolcezza di quella fuga, e di nuovo mi rimise nel medesimo laccio: im- perocché, ricercando i miei pastori d'una vacchetta che egli aveano smarrita, per mia mala sorte ne r scon- trarono; e riconosciutomi, subitamente mi presero per la cavezza, e volevanmene menar via: ma quello che

LTTÌRO SETTIMO 171

mi era sopra, audacemente resistendo, voleva pure an- dare a suo cammino; e chiamando aiuto dagli uomini e dagl'Iddii, come se egli mi avesse compero pur al- lora, gridava accorruomo, che l'assassinavano, e oh' e' gli facevano villania. Tu hai ragione per mia fé', disse un di quei pastori, a dolerti, perchè noi ti trattiamo troppo civilmente : tu faresti meglio a dirci dove tu hai nascosto quel fanciullo che lo guidava : e con queste parole, tirandolo a terra dell'asino, lo macerarono colle pugna e co' calci ; e il poverello, gridando e raccoman- dandosi, giurava e saramentava, che egli non avea ve- duto fanciullo alcuno, ma eh' e' m'aveva trovato solo e sciolto, e per guadagnarsi un beveraggio, mi aveva preso, per rimeuarmene al mio padrone. E volesse Id- dio, che esso asino, il quale e' non vorrebbe mai aver veduto, potesse favellando render testimonianza della sua innocenza, eh' e' non dubiterebbe punto, che egli increscerebbe loro d' avergli fatto si grande oltraggio. Wa poco profìttavan le sue parole e i suoi giuri ; im- perocché quei pastori, legatolo per lo collo, il condus- sero a quelle boscaglie, dove il fanciullo era costumato d' andar per le legno ; e poich' egli ebbero cercato un pezzo, lo trovarono sbranato in mille pezzi, e giacersene dove uno e dove un altro. La qual crudeltà io m' in- dovinai subito che era stata fatta da' denti di quella orsa : e per mia fé', che s' io avessi avuto la facultà delle parole, che io avrei detto come io la intendeva; ma non potendo, io faceva solamente quello che mi era concesso: io mi rallegrava della tarda vendetta di quel mio guardiano. Ora avendo ritrovate quei pastori tutte le membra dello sbranalo corpo, messole insieme, entro al medesimo bosco facendogli il sepolcro, le renderono alla terra; e chiamando il mio nuovo Bellerofonte ladro e assassino, cosi legato lo condussero alle lor case, con animo secondo eh' e' dicevano, di menarlo il di di poi al magistrato, aceiocch' e' pagasse la dovuta pena del verisimile peccato. Gin erano ritornati a casa, e il pa- dre e la madre piangevano quel fanciullo amaramente ;

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quando quel conladino, che era andato al mercato per gii ferri, avendo in pronto ogni cosa, voleva farmi il giuoco che eglino il di dinanzi avean deliberato; ma un di loro disse : Non vien di coiesta parte la nostra presente rovina; e voglio che domani tu tagli a cotesto asinaccio non solo le membra genitali, ma il capo e le gambe, che noi non li mancheremo dello aiuto nostro. E cosi senz'altro fu conchiuso che la mia morte si differisse al giorno seguente: laonde io quasi mezzo allegro rin- graziava quel mio buon fanciullo, che colla sua morte mi avesse prorogalo almanco un giorno la mia. Ma egli non mi fu dato pure una mezza ora di tempo, che io mi potessi riposare con questa nuova allegrezza: im- perocché la crudelissima madre del morto fanciullo, con bruna veste ricoperta, stracciandosi con ambe le mani la cenerosa chioma, piangendo, lamentandosi, e gridando, se ne venne correndo alla stalla; e battendosi e lace- randosi il petto suo, senza aver di so alcuna misericor- dia, diceva: Ecco che questo disutile asinaccio, lieto e sicuro, col capo fitto sempre nella mangiatoia, attende a divorare ed empiere quel suo profondissimo corpo; e senza punto ricordarsi delle fatiche di me poverella, 0 dell'empio e doloroso caso del suo misero maestro, disprezza la mia vecchiezza e le mie debili forze, e ere- desi avere a restare impunito di una cosi fatta ribal- deria, e pargli non aver fatto mal veruno: egli 6 usanza di quelli che hanno macchiato la coscienza, mostrar buon volto di fuori, per non parer d'essere stati loro i malfattori. Deh! per la fede tua, scelleratissima bestia, se egli li fusse lecito accattar la voce umana almen per un'ora, a chi potresti tu persuadere, per inetto cli'e' fusse, che questo gran peccalo non fusse accaduto per colpa tua, avendo tu potuto con morsi e con calci di- fendere il povero fanciullo? Tu potesti ben, mentre che egli era vivo, dargli de' calci parecchie volle; e mentre eh' e' moriva non lo poiesli co' medesimi calci soccor- rere? E chi dubita, che se tu te l'avessi cacciato in sulle spalle, che tu non fussi stato abile a trarlo delle

LIBRO SETTIMO t73

«anguinose mani dell'empio e scellerato ladrone ? E che fu peggio, che lasciato lui solo, abbandonato un tuo conservo, un tuo compagno, un tuo maestro, un pastor tuo, te ne fuggisti non miga solo, ma in compagnia dei crudele omicida. Or non sapevi tu, che quelli che nie- gano di porgere aiuto a coloro che sono in pericolo di morire, perciocch'e' fanno contro a' buon costumi, ch'e' sogliono esser puniti? Ma tu non sarai allegro molto tempo delle mie rovine, omicida, ribaldo; io farò che tu ti accorgerai che lo smisurato dolore mi ha ora fatte ritornar le mie forze. E dette queste parole, e sbraccia- tasi insin sopra al gomito, si sciolse una certa fascia, e con essa mi legò tutti e quattro i piedi a certi legni dispersi l'un dall'altro, a cagione che egli non mi re- stasse alcun modo di tornii dinanzi alla sua gran furia : e com' ella mi ebbe finito di legare, recatasi per mano la stanga dell'uscio, non restò prima di battermi, che

per istracca la stanga le cadde di mano. Laonde ella adiratasi colla stracchezza delle sue braccia, prestamente se ne corse al focolare, e preso un tizzone acceso, me lo flccò di dietro, inlintantochò io mi aiutai con uu

174 dell'asino d'oro

solo rimedio che mi era restalo : e questo (u, che io le sparsi nel volto un poco d'acqua non molto chiara, eh' io mandai fuora del mio liquido ventre, e imbrat- laila tutta quanta; sicché fra ch'ella non vedeva più lume, e eh' e' le fu convenevole fufrgir quel pazzo, io mi levai daddosso quella peste; altrimenti, un asino, come Mtìleafjro , sarebbe certamente morto per lo do- lor del tizzone della impaizita Altea.

LIBRO OTTAVO

Passata che fu la mezza notte, un giovane, e secon- dochè egli mi parea, servo di quella fanciulla che meco appresso de' ladroni aveva sopportate tante fatiche, ar- rivò alla rasa di quei pastori; e postosi a sedere fra loro intorno al fuoco, e narrando cose terribili, e della n)orte di lei, e della rovina di tutta la casa, diceva: 0 guardiani di cavalle, o pecorai, o bifolchi, noi avemo perduta la sventurata Caritè, e per crudelissimo acci- dente, e non senza compagnia se n' è ita alla casa del negro Plutone : ma acciocché voi sappiate puntualmente come son passate le cose, io mi voglio far da capo, e narrarvi il fallo tutto intero; sicché gli uomini dotti, a' quali ha somministralo la natura un bello stile, pos- sano vergar le carte con questa storia.

Egli era in una nobile città a noi vicina un giovane d'alto legnaggio, e de' beni dolla fortuna abbondantissi- mo; ma dalo a stare tutto il di fra sgherri e ladri su per le taverne, e fra le meretrici a mangiare e bere, e lussuriare, e talora ad imbrattar le mani eziandio col sangue umano; ed era da tutti chiamato Scannadio; si e '1 nome di lui e la fama facevano fede dell'opere sue. Era costui innamorato di Carile, sinch' eli' era picciola fantina, si ferventemente, che egli non aveva mai bene.

LIBRO OTTAVO i75

se non quanto la vedeva; per la qual cosa, come prima ella pervenne all'etcà del maritarsi, egli fu de' primi che con grande istanza chiese le sue nozze: e ancorché egli fusse di maggior condizione che alcuno altro che la vo- lesse, e che con larghi e magnitìci doni egli avesse cer- cato d'inclinar l'animo e del padre e della madre al suo volere; contuttociò la sua cattiva boce gli aveva fatto tornar vano ogni suo disegno ; e fu maritata la vergine a Lepolemo, giovane veramente dabbene e costumato. Perchè nutrendo Scannadio con grandissima costanza lo amore eh' e' le portava, e mescolandovi la indigna- zione del negato parentado, andava del continuo ricer- cando una via per la quale e' gli venisse fatto d' arri- vare alla morte del povero Lepolemo; e ricercando dell'oc- casione, egli s'apparecchiava alla destinata e sanguinosa crudeltà. E venutosene a visitare Lepolemo, in quel di che egli colle sue astuzie e virtuti aveva cavata la mo- gliera delle unghie di quei ladroni, e mostrando d'es- ser contentissimo e della di lei liberazione e delle nuove nozze, fu ricevuto fra i più cordiali amici di casa; e or si trovava a ragionar tutto quanto il di co' novelli sposi; e talor chiamato a desinare e cena, egli era ve- nuto carissimo a tutta la casa. La qual consuetudine lo aveva affondato nel pelago amoroso si eh' egli non ci era più via da ripescarlo. ci dee di ciò maravi- gliare; conciossiacosaché le amorose fiamme, sebben ne' primi ardori riscaldano un poco e par che ne porgano grandissimo diletto, avvampate poscia del fuoco della consuetudine, con grandissimo struggimento abbruciano gli uomini interi interi. Non veggendo adunque lo in- namorato giovane modo alcuno di discoprire segreta- mente alla fanciulla il suo grandissimo dolore, e con- siderando che l'un di più che l'altro la copia delle bri- gate che l'erano intorno, gli toglievano ogni speranza; immaginandosi verso alcuno donde potesse nascere occasione che disciogliesse lo amoroso laccio , che ad ognora più strigneudosi, teneva legati i novelli sposi, e faceva, che se la fanciulla volesse, avvengachè ella non

\7^ DK.!,!,' ASfxo n'rmo

potrebbe volere, trorerebbe tarato ogni calle che il conducesse al suo desiderio: e quanto più si vedeva impedito il cammino, più si sforzava di camminarvi; parevali che Amore, impennando oiinor più 1' ale del suo sfrenato disio, pli sturasse tutti i valichi, e gii ac- cortasse e appianasse la strada : perchè la speranza, l'età

finalmente Ma state attenti, che io ve ne prego, e

vedete dove lo spinse la cecità della sua furiosa libi- dine. Andondo un di fra gli altri il valoroso Lepolemo ad una caccia, egli menò seco lo scellerato e crudele Scannadio; e perchè Caritè non voleva che questo suo marito andasse dietro alle fiere armate o di dente o di corno, egli andarono in paese dove solevano essere infinite lepri e altri simili piacevoli animali: e giunti appresso di un monticello, tutto di arbori e di virgulti ripieno, e messo per lutto le cailaiuole a' valichi, e teso le lungagnole, e posti i cacciatori alle poste, sciol- sero i bracchi; i quali ricordevoli della lor sagace di- sciplina, posciach'egli ebbero con grandissimo silenzio cercato una buona parte del paese, avuto il segno dal capocaccia, con grandissimi e discordanti urli introna- rono ciò che vi era; lepre, damma, di tutto l'altre fiere la mansuetissima cerva si lasciò vedere mai il giorno ; ma in lor vece saltò fuori un cignale grande e smisurato, con una pelle callosa, eh' e' non 1' avria passato un verrettone, ed eransigii ritte in sul fli della schiena certe setolacce, che non parevan altro che spiedi ; e dirugginando i denti, grondava la schiuma da tramen- due le guance, e aveva certi occhi infocati, e un viso minaccevole, e tanto fremito faceva colla bocca, ch'e' pareva, che quando e' si moveva, eh' e" cadesse una saetta : e assaltati con quelle appuntate sue zanne al- cuni cani di quei più bravi, che gli s'erano accostati, e gittatoli morti per terra, sforzò un pezzo di rete, che aveva ritenuto alquanto quegli suoi primi furori, e se ne passò via. Laonde noi altri, tutti impauriti, come poco usi a caccie pericolose, trovandoci senza arme o difensionc alcuna, non sappiendo altro che farci, ci an-

LIBRO OTTAVO 17"?

davamo nascondendo per le macchie, o sagliavamo su per gli arbori i più alli. Ma Scannadio , rilrov.uo il

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tempo opportuno alle sue fraudi, vollosi a Lepolemo, disse: Da qual paura abbracciati, da che stupore con- fusi, divenuti vili non altrimenti che i nostri servi , ci tiriamo addietro come se fussimo donnicciuole ? per qual cagione ci lasciamo noi uscir di mano così bella preda? che non montiam.o noi a destrieri ? perchè non lo seguitia' mo noi spacciatamente ? piglia uno spiede, e io piglierò un giannettone. vi andò guari, che saliti a cavallo, per gran prestezza si misero dietro a quella fiera ; la quale, non si dimenticando delle sue naturali forze, anzi riscal- dando la sua fierezza col caldo della presente stizza, posciachè ebbe fatto resistenza al primo empito loro, recatasi in piedi, e dirugginando i denti, mentre deli- berava qual prima di lor due volesse ferire, Lepolemo, prevenendola, le lanciò un dardo che egli aveva in mano, e percossela in sulle reni: e lo scellerato Scan- nadio in questo, veduto il bello, perdonando alla fiera, diedp nelle gamhe di dietro del cavallo, sul quale era Lepoiemo, u.i co. fatto, che egli arrovesciandosi i<mii;:iZuoLA 13

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ili terra trasse per forza il suo signore di sella: nt^ si era potuto ancora levare in piedi, che quel cinfjhiale assalitolo, posciacliè pli ebbe tutta stracciata la vesto, mentre '1 poveretto pur si sforzava di levarsi, lo sbranò tulio quanto. si era pentito il fedelo amico per la vista di si ?ran crudeltà de' suoi iniquitosi pensieri, o aveva sazialo la sua efferata voglia; anzi, chiamandolo il meschino giovane, e pregandolo cbc gli porgesse aiuto, l'empio non si vergognò lasciare andare molte giannet- tate per lo giA ferito corpo d'ogni intorno: e tanto più gli dava confidentemente, quanto più egli eslimava le sue ferite dover essere simili a quelle de' denti di quella fiera; la quale con agcvol mano, poichò vide essere at- terrato il compagno, passò più volte da banda a banda. Morto che fu il povero giovane nella guisa che voi avete potuto udire, tutti noi altri, usciti de' luoghi ne' quali ci eramo nascosti, corremmo laddove egli giaceva : e quello Scannadio, ancorché, por avere adempiuto il suo desiderio, fusse sopra tutti gli uomini contentissimo, conluttociò, coprendo l'allegrezza con mesto volto e con turbata fronte, e' simulava grandissimo dolore: e abbracciando con finta amorevolezza quel corpo che egli slesso aveva privalo di questa luce, non avrebbe mancato d'ufficio alcuno che si appartenga ad un fido amico che cosi sgraziatamente abbia perduto il suo compagno ; se non che le lagrime sole non vollero ob- bedire al finger suo: conformato adunque a similitudine di noi altri, che veramente ne lamentavamo, egli po- neva la soma della crudeltà delle sue mani sopra lo spalle della morta fiera. Appena aveva avuto fine lo scellerato ardimento dello infedele amico, che la fama colle sue piume nel portò via; e '1 primo volo fu inver la casa del misero Lepolemo e negli orecchi della in- felice sua sposa. La quale, come più tosto ebbe sentita la trista novella, montata in sulle furie, messasi a cor- rere alla impazzata per le popolose piazze e per le di- serte campagne, con disconvenevoli strida e con disor- dinatissimi pianti si lamentava della moi-te del suo ma-

tTBRO OTTAVA HO

rito: Correvano le squadre degli addolorati cittadini, e ritrovata la miserella, accompagnavano il suo dolore, e tutta si era vota la città, non potendo credere, se e' noi vedevano con gli occhi, l'atroce misfatto. Arrivata clic fu la sconsolata donna al luogo dove giaceva 11 morto giovane, gittataseli addosso con grandissimo em- pito, non pareva che altro quivi far volesse, se non iscio- glier lo spirito dal suo corpo, acciocché libero di quello incarico e' seguitasse quel del morto marito: e certa- mente che, secondochè era il suo desiderio, ella vi si sarebbe morta; se non che tolta d'indi per forza de' suoi carissimi genitori, pur si rimase in vita. Ma quivi più assai di lei si lamenta Scannadio, chiamando quel suo amico, fratello ; e le lagrime, che prima non erano volute uscire, ora per allegrezza largamente si dimo- strarono. Or fornite l'esequie, delibera Caritè al suo ma- rito accompagnarsi, non per laccio, per coltello, ma per fame lentamente morendo. Scannadio con ostinata instanza, or per stesso, or per altrui, e finalmente per lo padre e madre di lei, al vivere la costringe; ma quella pur nelle radici del petto, anzi nelle midolle estreme avea il dolore infisso del morto marito, la im- magine del quale, fatta formare con gli ornamenti del Dio Baerò, adorava, stando tutti i giorni e tutte le notti nel lagrimoso desiderio, ch'avere più non isperava. Ma Scannadio, d'animo strabocchevole in ogni cosa, e te- merario in questa ch'egli tinto desiderava, non aspettò che il dolore piangendo saziato fusse, invecchiato dal tempo avesse minor forza a contrastare al suo vo- lere; anzi con molla instanza si mosse a dimandare il matrimonio di lei: di che tanto fu Caritè smarrita, quanto d'altro uomo percossa non sarebbe. E già nella mente s' indovinava il falso tradimento da Scannadio composto : pure, mossa da ottimo rispetto, prolungò il desiderio suo sotto incerta speranza. In fine, brevemente, tra questi indugi la misera anima dell'ucciso Lepolemo apparve in sogno alla moglie, sanguinosa ; e con pallida faccia, mostrando le ferite, pareva cosi dire : Moglie mia

180 tìRT.T.'Astyn d'ora

clolro, odi quello ^lie d.i nitri noi» ti può <^sser tl^tf»"). Se nel tuo petto più non rimane menioiia di quell'amore che per buon tempo ne tenne confriunti, e se il cruiìel caso della mia acerba morte cacciò ad un tratto lo spi- rito dal mio petto, e Ja pietosi affezione che mi mo- strasti del tuo cuore; maritali ad altri più felicemente che al traditore Scannadio; fnp?i la sanguinosa mano di colui che m'ha morto: perciocché quelle ferite che tu facesti nette di sangue col tuo pianto, non furono tutte fatte d;il cinghiale, ma dalla lancia del perfido Scannadio. Aggiunse ancora altre parole, scoprendo tutto quanto il fatto com'era passato. Essa colla faccia sui letto, dormendo, tutto di lagrime nel doloroso sogno l'avea bagnato: e svegliata, maggior pianto rinnova, e battpsi il petto, e stracciasi i capelli : nft però con al- cuno partecipa la noltui-na visione, fra desiderando di punir quel perfido assassino, e, morendo, andare a ritrovare il suo amato marito. Ed eccoli lo sciagurato chieditorc dellimprovido piacere toglie l'orecchie della meschina: ed ella, che dandogli una gentil repulsa, e una cosa nel volto mostrando, e un'altra nel petto ser- vandone, lo andava intertenendo per condurlo al suo pensiero, per meglio tenerlo a bada, nn di fra gli altri gli disse: Ancor mi resta negli occhi quel volto del tuo carissimo fratello e mio dolcissimo consorte, ancor pe- netra il mio naso quell'odor di cennamo del suo dili- catissimo corpo; vive entro al mio cuore il bellissimo Lepolemo ancora: tu farai adunque il tuo migliore, se al pianto di questa sconsolata donna tu concederai quel termine che è di mestiere; e questo sarà fino a tanto che il resto di questo anno se ne trapassi: la qual cosa, e l'onor mio e '1 tuo comodo riguardando, sarà cagione che noi per la soverchia fretta non suscitiamo lo spi- rito del mio marito con giusta indignazione ad im ru- delire contro a di te. Non solo non si mitigò Scanna- dio per questo parlare, o ahi^no s^ rtc.no per liv. pir- ciola dilazione; anzi ol'H. òJ )iiu ron. pendole II capo, le diede occasione di inellere ad esecuzione il suo pou-

LIBRO OlTAYO 181

siero. E infingendosi d'esser convinta da' suoi preghi, trattolo un giorno in disparte, gli disse : Scannadio, egli è necessario che inQno a che questo anno trapassi, che tu sìa almen contento di questo, che senza alcuno di casa il sappia , ti trovi alcuna fiata meco a prenderti il gui- derdone del tuo lungo amore. Fu contento Scannadio a quanto voleva la donna, e giunto dalle fallaci sue promesse, si accordò a' notturni abbracciamenti. Perchè ella soggiunse: Ma vedi, il mio Scannadio, egli è me- stiero che questa sera sul primo sonno, senza menar teco persona alcuna, tu te ne venga segretamente alla mia casa; e travestito in guisa che ninno ti riconosca, e fischiando una sol volta cosi pian piano, aspetterai che questa mia balia, la qual vegliando intorno alla porla, attenderà la tua venuta, aprendoti l'uscio, ti meni al buio in camera mia. Piacque a Scannadio 1' ordine delle crudeli nozze, e senza dubitar di cosa veruna, attendeva il tempo impostoli: e tutto il restante di quel giorno incresceudoli lo aspettare, e della lunghezza delle ore e della pigrizia del sole e del tardo avvenimento della sera seco medesimo agramente lamentandosi; pur finalmente, avendo il sole già dato luogo alla sorella, ed essendo venuta l'ora determinata, mutatosi i panni, e fatto quanto da Caritè gli era suto imposto, ingannato dalla fraudolente veglia di quella balia, pian piano se ne venne alla desiderata camera: dove la vecchierella, presa scusa che la fanciulla indugiava a venire, per- ciocch'ell'era intorno al padre, che si sentiva di mala voglia, facendogli mille carezze, di consentimento e or- dine della padrona preso un buon fiasco di vino, entro al quale era mescolato una bevanda da far dormire quanto poteva più spesso gli dava da bere; ed egli, senza sospettar di cosa veruna, perciocch'egli era stracco, ne bevve più. volte avidamente : laonde in cosi profondo sonno si seppellì, che egli, non altrimenti che se morto fusse, s'espose a ricevere tutti gli oltraggi del mondo. Come più tosto la vecchierella si avvide che la medi- cina aveva fatta buona operazione, corsasene da Caritè,

183 dell'asino d'oro

entro ne la menò : la quale non fu si tosto Riunir, che con maschio animo ed efferato impeto ingiuriosa- mente se le mise intorno; e tutta piena d'un mal ta- lento diceva : 0 fido compagno del mio marito, o egre- gio cacciatore, o mio caro novel consorte, questa è quella mano, la quale sparse il sangue mio ; questo è quel petto, entro al quale si ordinarono i fraudolenti inganni; questi son quegli occhi, a' quali io son cotanto infelicemente piaciuta; questi son quegli occhi, i quali non so io già come, indorinandosi le perpetue future tenebre, hanno già prevenuto la lor pena. Riposati si- curamente, sogna beatamente: non coltello, non ferro alcuno saranno cagione della tua morte : non piaccia a Dio, che ancor nella pena tu sia uguale al mio marito. Mentre che ti durerà la vita, ti negheranno gli occhi il loro uficio, vedrai cosa alcuna, se non dormendo : io farò ben che tu sarai sforzato a dire, ch'egli è stata più felice la morte dell' Inimico tuo, che la vita che ti avanzerà. Certamente tu non vedrai la luce, e flati me- sliero coll'alirui lume supplire al tuo difetto: tu non possederai Caritè, tu non goderai le sue nozze, sarai dalla quiete della morte ricriato goderai i sollazzi della vita; ma, dubbio simulacro, andrai vagabondo fra il sole e fra le tenebre, e indarno cercherai di quella mano che ti ha cacciate le empie luci del crudo volto: e quello che è nelle miserie miserrimo, tu non saprai di chi ti rammaricare ; ed io farò gli estremi onori al sepolcro del mio carissimo Lepolemo col sangue delle luci tue, e alla sua santa anima farò sacrifici con que- sti occhi. Ma perchè col mio indugio guadagni tu un picciolo intervallo di riposo? E forse in quel mezzo ti immagini i pestiferi miei abbracciamenti : lascia le son- nolenti tenebre, destati ad un altra caligine, alza la di- minuta faccia, e riconosci la giusta vendetta; assapora lo infortunio; annovera le fatiche: in questa gui^a sono piaciuti gli occhi tuoi ad una pudica donna, cosi hanno ad alluminare le fiaccole nuziali la camera tua: or pren- deranno la vendetta quelli Angeli, a cui è cura del ma^

LIBRO OTTAVO 183

trimonio; e la cecità, tua fedel compagna, senza mai da te partirsi, sarà perpetuo stimolo della iniquissima coscienza. E avendo detto la giovane queste e altre simili parole, le quali il convenevole rancore e il giu- sto sdegno le sumministravano, preso un dirizzatolo

d'acciaio, e fittolo per mezzo d'ambe le luci di Scanna- dio, lo dannò ad una perpetua notte. E in mentre che col non conosciuto dolore egli discacciava da e la crapula e il sonno, la giovane tutta infuriata, presa la spada, che fu già del suo marito, con essa ignuda, come una cosa pazza, si mise a correre per lo mezzo della città, e andossene al sepolcro del suo Lepolemo. Laonde a noi narrando, come il marito le fosse in sogno ap- parso, e qual vendetta del suo nimico avesse presa, stessa uccise, e fu col suo carissimo marito rinchiusa in una medesima sepoltura. Ma Scannadio, non molto dipoi conosciuto tutto le cose come erano passate, sti- molato da doglia e da vergogna, volontariamente si mori di fame.

C4OSÌ, piangendo e sospirando molto, riferiva il fami- glio a quei contadini: i quali temendo la novità del mu-

iS4 dell'asino d'oro

tato padrone, deliberarono di fugprirsi. Il cavallaro, che

mi avea ricevuto con lauta cura di ben trattarmi, pose

sopra le spalle mie e degli altri f^iunicnli ciò che era lu casa di valuta alcuna. Noi portavamo fanciulli e fem- mine, portavamo polli, capretti e cagnolini; e ciò che non poteva camminare co' suoi, andava co' nostri piedi: mi gravava la soma, benché grande fosse e sconcia, poiché io fuggiva quel ribaldo che castrar mi doveva, Or passato un aspro colle di monte, e camminato gran pezzo per un largo piano, giungemmo già presso a sera ad un castello grande, e di molta gente popoloso; gli abitatori del quale ne vietarono, disconfortando, il par- tirsi a queir ora, dicendo, tutto que\ paese esser pieno di grandi e ferocissimi lupi, i quali non solamente le pecore e gli armenti danneggiavano, ma gli uomini uc- cidevano; e che per tutta la strada, dove passar dove- vamo, si trovavano corpi umani da loro stracciati, e tutti i luoghi dintorno essere biancheggianti di ossa; e che per questo bisognava andar con molto risguardo, prima che il lempo fosse ben chiaro, e il sole levato :

LIBRO OTTAVO 185

imperocché la furia di quelle crudeli bestie più si fa pigra per la molta luce. Ma quei ribaldi fuggitivi che noi conducevamo, per tema di esser seguiti, lasciando questo buono avviso, circa la mezza notte alla strada caricati ci condussero : io, per la paura dell' udito pe- ricolo, quanto più potfva in mezzo della torma mi ac- costava, e tenendo la coda ristretta, mi pareva aver tuttavia nelle anche i denti degli affamati lupi. Maravi- gliavasi ciascuno della mia gagliardezza, e che carico essendo, l'andare de' voti cavalli agguagliassi; ma non era questa gagliardia, anzi paura : cosi stimava io, quel Pegaso generoso cavallo essere stato imputato aver l'ali, per la tema de' focosi morsi della Chimera. Que' pastori che ne conducevano, in forma battaglia s'erano ar- mati, alcuni di lance, altri di acuti pali ; tutti di sassi, che nella strada erano rotondi e copiosi, erano forniti ; ma soprattutto di fiaccole accese risplendeva la nostra compagnia, altro ci mancava che una tromba a di- mostrare una schiera armata da guerra. Cosi passammo questo timor vano, e incappammo in un altro daddo- vero: perciocché, i lupi non ci assalirono, forse smar- riti dallo strepito della nostra moltitudine, o spaventati dalla luce del fuoco, ovvero ch'altrove fossero iti a pro- cacciare : noi non vedemmo alcun lupo. Ma passando allato ad una villa, gli abitatori di quella, stimandoci ladroni, con molti gridi ci attizzarono addosso grandis- simi cani; i quali con molta rovina ci assalirono, strac- ciando senza rispetto e gli uomini e le bestie, che spa- ventati, qua e fuggendo, stramazzavano, non essendo ancora ben chiaro il giorno ; e degli uomini e delle be- stie fecero si fatto macello, che era una compassione: eran giunti quei che si fuggivano, erano atterrati quei che slavano fermi, erano strainbellati quei che eran per terra; finalmente egli non vi era scampo per persona. sazia la Fortuna di tanto danno, anzi che questo restasse, ce ne scoccò addosso uno assai maggiore : im- perocché quei contadini che ci avevano ammessi i cani, ti in su' tetti delle lor case, e in sulla cima di certi col-

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ietti, che erari sopra di noi assai bea rilevati, ci Rida- vano addosso si fatto rovescio di s;issi, clie noi non sapevamo discernere, qual piuttosto delio due rovine lusse utile a fuggire, o quella de' cani che ci gastiga vano da presso, o quella de' sassi che ci ferivano da lontano. E mentre che le cose passavano in questa guisa, un di quei sassi feri una donna che mi sedeva sopra, assai sconciamente: perchè ella, piangendo e gri- dando, chiamava il marito, che le venisse a porgere aiuto; ma egli fra tante angoscie non sappiendo più che farsi, rasciugando il sangue della mogliera, e degli uomini e della Fortuna rammaricandosi, con profonde urla diceva : Per qual cagione assaltate voi con si cru- deli animi gli aiTaticati viandanti ? perchè danneggiate voi cotanto i poveri uomini? perché ci distruggete in questa guisa? che preda guadagnate voi? che rovina dlscostate voi dal vostro capo? che ingiurie vendicato Toi? Voi non abitate imperció per le spelonche come le llere, voi non abitate però per le caverne come gli nomini barbari ed efferati : perchè dunque vi rallegrate delle nostre piaghe? perchè prendete sollazzo del nostro sangue? Egli non aveva ancor llnile queste parole, che la pioggia di quei sassi restò, e la tempesta de' cani, per essere stati richiamati, si rasserenò , e uno, che era montato in sulla cima d uno arcipresso r'spondendo a questi suoi rammarichi, disse. Non per cupidità delie vostre spoglie v' andiamo noi assaltando ;na por cercar di rimuovere dal capo nostro colesla slessa rovina: or finalmente voi ve ne potete ire colla nostra pace sicu- ramente : seguitate il vostro viaggio. E posciachè egli si tacque, noi, cosi feriti come eravamo, seguitammo il restante della nostra via : e mentre che noi cammi- navamo, era una compassione a udire contare ad ognuno le sue disgrazie: chi era stato morso da un cane, chi ferito da un sasso, e chi aveva avuto un colpo in un luogo, e chi in un altro. Ora posciachè noi fummo ol- tre un buon pezzo, noi arrivammo ad uno amenissimo luogo, dove era un bosco di cosi grandi e si fronzuti

UBBO OTTAVO !87

arbori vestito, che e' gettava entro al petto di chi il ve- deva una riverenza non picciola ; sicché i pastori, in- vitati dal piacevole sito, fecero pensiero di posarvisi alquanto, e rinfrescarsi, e curarsi e medicare un poco le piaghe loro : perchè distesi per terra chi qua e chi su per l'erbetta, cercarono primieramente di rivocar lo smarrito spirito col fare un poco di colezione, e di- poi si dierono a medicare i feriti corpi; questi con acqua di chiaro fiume levava il sangue dintorno alle sue fe- rite; quegli col bagnarle cercava di farle disenfiare; quell'altro con fascinole di lino legava le larghe piaghe; e cosi ognuno, il meglio che poteva, provvedeva alla sua salute. In questo mezzo un certo vecchione, di cui alcune pecorelle che gli pascevano intorno, ne davano indubitato segno che egli fosse un pastore, veduto da un de' nostri in sulla cima d'un colle ivi vicino, fu do- mandato, se egli avesse da vendere un poco di latte, 0 che non fusse rappreso, o che di fresco ne fusse stato fatto il cacio. Ma il vecchione, posciach' ebbe cosi un pezzo scosso la testa, disse: Dunque alcun di voi pensa al presente al mangiare e al bere e ad altro suo ristoro, sa dove egli si sia posto a sedere? prima ebbe finite queste poche parole, che ragunato le pecorelle, egli diede la volta addietro, e dileguossi un gran pezzo lontano : la cui voce accompagnata dalla subita fuga, fece a quei pastori una gran paura. E desiderando di domandar delle qualità di quel luogo, e non vi essendo chi rispondesse, un altro vecchione di grande statura, e ne' molti anni aggravato, tutto abbandonandosi in su un bastone, potendo a fatica muovere il passo, pian- gendo amaramente, ci si venne accostando. E messosi intorno alle ginocchia di quei giovani, cosi pregando diceva: Per lo vostre piii care cose, per Tanime vostre, deh! venite a rendervi all'avanzo della mia vecchiezza, e pronti e arditi porgete aiuto al carico d'anni ; e ri- togliendo un picciol mio fanciulletto all' inferno, resti- tuitelo a' miei canuti crini: un mio nipotino, dolce com- pagno in questo mio viaggio, seguitando una cantante

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passera per volerla prendere , è caduto in una fossa non ?uari lontana da voi, tutta di pruni e di pungenti arbuscelli ripiena, ed è posto in manifestissimo pericolo delia vita; pur, secondo il gridare ch'egli fa, chieden- domi aiuto, egli vive ancora, ed io per la debolezza del vecchio capo, come voi accorgere vi potete, non lo posso soccorrere : dove che a voi per lo beneficio della vostra giovine età e della vostra gagliardia sarà agevol cosa porgere aiuto a quel fanciullo, unico successor delle mie faiiciie, e tronco solo della stirpe mia, e rendere insieme un misero vecchio a' comodi di questa vita. V«ggendo questi pastori, che costui cosi elTicacemente gli pregava, non poterono non gli aver gran compassione; perchè uno fra gli altri, e più forte d'animo, e di età più robusto, e di maggior gagliardia, e il qual solo era uscito della passata battaglia senza ferita, levatosi in piedi, subito il dimandò del luogo ove era caduto quel fanciullo: ed egli mostrandoli cosi col dito alcuni ar- lìuscelli non molto da lungi, quel giovane gli andò die- tro. Or posciachè i nostri pastori si furono riposati a lor beli' agio, ricaricato ad ognun di noi l'usata soma, diedero ordine di rimettersi in cammino, come più to- sto colui fusse tornato. Posciach' egli ebbero aspettato quel giovane presso ad una nìezz' ora, veggendo eh' e' non tornava, lo chiamarono ad alta voce più volte; e perchè egli non rispondeva, e' mandarono uno a cercar di lui, acciocché ritrovatolo, e rimessolo nella buona via, nel rimenasse. Il quale, posciachè fu dimorato al- quanto, tornatosene smorto e interriato, eh' egli pareva un corpo uscito d'una sepoltura, raccontò cose di quel povero uomo, da far pianger le pietre ; e diceva che egli l'avea veduto giacere per terra rovescio, e che so- pra di lui era uno smisurato serpente, che 1' avea già quasi divorato presso che mezzo ; e il malvagio vecchio si vedeva o si udiva in alcun luogo. 11 quale cru- dele accidente accozzato colle parole di quel vecchio pastore, che come chi doveva sapere che egli quivi del continuo dimorava, gli aveva ammoniti, fece a tutti una

unno OTTAVO i69

(Trandissima paura ; e senza indugio alcuno, toccando a noi altri di buone bastonate, si dierono a fufjgire quanto e' poterono più ratti. E posciachè noi avemmo fatto un lunn:o viaggio, noi arrivammo ad un borgo di case, e quivi ne riposammo per quella notte. Io desi- dero narrarvi un caso certamente degno delle orecchie altrui, che di quei di era accaduto in quella villa.

Un certo servo a cui il padrone avea commessa tutta la cura della casa sua, e il quale il più del tempo di- morava in quel villaggio, avendo della medesima fami- glia una conserva per moglie, si era fieramente acceso dell'amor d'una donna libera sua vicina : del quale amo- razzo essendosi accorta la moglie, per far vendetta del gran dolore che le dava la smisurata i,'elosia, montata in sulle furie, mise in sul fuoco tutte le scritture del marito, e tutti i miglioramenti di casa, e abbruciò ogni cosa: contenta di questa vendetta, anzi incrudelendo contro a di medesima, avvoltosi un laccio intorno al collo, e legato colla medesima fune un piceiolo figlio- lino, ch'ella aveva di quel marito, e itasene sopra d'un profondissimo pozzo, e e il fanciullo vi gittò den- tro. La cui morte dispiacendo al padron loro insino al cuore, lo accese a dover prender vendetta di colui, il quale colla sua lussuriosa vita era slato cagione di tanto scandolo; e presolo, e spogliatolo ignudo nato, aven- dolo unto di mele dal capo al piede, lo legò stretta- mente ad un certo fico, che entro al suo pedale, per esser vecchio e marcio, aveva un grandissimo numero di quelle formiche, che costor chiamano puzzole. Le quali, come è loro usanza, tutto il giorno camminando in giù e in su, come più tosto s'accorsero di quel mele, ad un tratto imbrunirono quel corpo, che bruno vi si vedeva ; e poscia co' lor piccioli, ma acuti morsi, a poco a poco il consumarono inflno all'ossa, senza se- gno alcuno di carne elle rimasero attaccate al tronco del mortifero lieo. Lasciando noi adunque questo abbo- minevole paese, nel quale p.^r lo atroce caso erano tutti gli uomini addolorati, di nuovo ci mettemmo in viaggio;

100 dell'asino d'oro

e camminando tutto il di per un piano, stracchi e lassi capltamino ad una bella e buona citta, nella quale fer- matisi i pastori, e conosciuta l'abbondanza del vivere e la frequenza del popolo, e' deliberarono che quella fosse la stanza loro e la lor patria. Deliberati adunque di fermarsi quivi, e pensando levarsi daddosso tante be- stie, eglino per tre di ci diedero mollo ben da mangiare, acciocchf^ rifacendoci un poco, noi avessimo miglior oc- chio in sul mere lo: e quando parve loro che noi fus- simo un poco più vistosi, menatici alla piazza, e con- segnatici ad un banditore, e cavalli e asini tutti fummo messi allo incanto. Ma i compratori, come egli mi ave- vano visto molto ben p r lo minuto, e guardatomi i denti, per vedere quanto tempo io mi trovava, tutti mi lasciavano indietro, come una cosa disutile: e tanto mi era venuto in fastidio quel brancicar della bocca, che

accostandomisi uno con certe manacce che puzzavano come una carogna, per far l'elTetto medesimo; io gli presi la destra , e tutta quanta gliela schiacciai : la qual fu cagione di rimuovere tutti i circostanti dalla

LIBRO OTTAVO 191

mia compra, se aimio ve ne aveva che badasse al fatto mio. E il banditore, che digià era venuto roco per lo tanto gridare, beffandosi di me, diceva : E a che fare avemo noi messo in vendita questo aslnaccio vecchio, disutile, spiacevole, poltrone, con l'unghie guaste, con tristo mantello, che oramai non è buono ad altro che a farne un vaglio? e però doniamolo a qualcheduno, s'egli ce ne è di quegli che non gl'incresca giltare via un poco di fieno. E con queste e altre cosi fatte ciance faceva morir delle rise il banditore tutta la brigata. Ma quella mia crudelissima Fortuna, la quale mi aveva per cosi strani paesi già tanto tempo perseguitato, cui non il fuggir mio, non tante avversità l'avevano mai potuta o da me tener discosto, o placare almeno, di nuovo mise nelle mie chiome 1 suoi feroci artigli: e ritrovato un compratore atto alle mie disavventure, me gli diede nelle mani; e sapete a chi? ad uno della feccia di quei ciurmadori, i quali, fingendo d'esser sacerdoti, e copren- dosi col mantello di santo Antonio, vanno barando il mondo, e spogliando e ingannando quelli buoni omi- ciatti e semplici donnicciuole danno lor fra le mani, in iscandolo e disonor grande dei veri religiosi e della no- stra religione. Ora costui per la fretta di comprare, senza guardare altro, domandò donde io fussi. A cui il banditore rispose, eh' io era di Cappadocia, e assai ben gagliardazzo: e ridomandandol del tempo, il bandi- tor, beffandosi, rispose: Un certo astrologo, che ha ve- duta la sua natività, il quale allora, gli annoverò gli anni, te lo saprebbe dir me' di me; perchè dunque non lo comperi tue? egli è un de' buoni e dabbene asini, che sieno in su questo mercato; il quale e in casa e fuor di casa ti potrà aiutare in tutti i tuoi bisogni. Ma quel fastidioso di quel compratore gli rompeva pure il capo col domandargli or d'una cosa e or d'un'altra, e faceva una grande instanza, per voler sapere come io era agevole. Allor disse il banditore : Di questo non ti fa mestier domandare ; eh' egli è una pecora, non un asino; mansueto, che se ne può fare o?ni cosa, e non

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morde e non trae ; e^li 6 in inoiio flnalmenfe, che sa- rebbe da dire che uno uomo fusse venuto ad abitar nel cuoio di questa bestia: la qual cosa non 6 molto difficile ad esperimentare, imperocché se tu metti il viso tuo fra le sue cosce, tu conoscerai agevolmente ]a sua pacienza. In questa guisa uccellava quel bandi- tore questo imbriacone. Ed egli, che si accorse della baia, divenuto simile ad uno che lo avesse avuto per ma- le: Ahi corpo disutile, e sciocco banditore, che ti possa abbruciare il fuoco del barone santo Antonio ; che ta hai oramai troppo cianciato sopra del fatto mio. Credi tu che io voglia commettere il tabernacolo del barone santo sopra d' una bestia spiacevole, acciocché come egli aombra, e' gitti per terra il santo tabernacolo? Come più ratto io udi' le costui parole, pensava far qualche sconcia pazzia, acciocché il compratore impau- rito della mia flerezza, stornasse il mercato : ma la di lui sollecitudine prevenne il mio consiglio; e sborsato il pregio della mia compra, che fu ben sedici lire, il quale il mio padrone prese più che volentieri, come colui che oramai era stracco del fatto mio, e ricevute eh' e' l'ebbe, subito mi consegnò a Filebo, che cosi era il nome del nuovo signore: ed egli, messosi innanzi il sergente novello, tutto allegro, parendogli avere fatto una bella e una bonissirna 8[)esa, mi mono alla casa sua; e non avendo pacienza d'entrar dentro, come egli fu in sulla soglia, egli incomincio a gridare : 0 fanciulle, io vi ho menato dal mercato un tallissimo servo. Erano quelle fanciulle concubine di quei venerabili religiosi ; fra le quali alcuna ve ne aveva, che ancorché si ope- rasse in quei servigi che la natura ha provviste le donne, non altro aveva di femmina, che le vestimenta e i perversi costumi. Le quali, credendo ch'egli dicesse davvero, che egli avesse menato un uomo che le ser- visse, tutte comineiarono a gridar per l'allegrezza, ch'elle parevano impazzate. Ma posciach' elle si accorsero, che non una cervia in eambio d'una vergine, ma uno asino invece di un uomo vi era arrivato , arricciando il naso,

LIBRO OTTAVO I9S

cominciarono a beffeggiare il loro maestro : che egli non aveva menato un servo, ma un suo marito, e ctie e' guardasse a non si goder da stesso cosi bel giova- netto, ma che alcuna volta e' ne fesse partecipe le sue colombine. E queste e altre simili ciance dicendo, io fui legato appresso ad una mangiatoia. E un certo gio- vane, il quale, fuori sonando una sua viola, accompa- gnava alcun di loro che cantava in banca, e in casa faceva copia del corpo suo; come più tosto mi vide nella stalla, datomi da mangiare abbondevolmente, tutto allegro mi diceva : Tu se' finalmente arrivato, succes- sor delle mie fatiche ; vivi adunque lungamente e in grazia de' miei padroni, e porgi aiuto a' miei oramai debili fianchi. Le quali parole udendo io, come colui che da lunge prevedeva le fatiche mie, meco stesso della mia disgrazia mi lamentava. vi andò molti giorni, che parendo a' miei padroni il tempo accomo- dato di fare la lor vendemmia, messisi in arnese di tutto quello che a gravi e buoni religiosi fusse conve- nevole, e desti i breviari e i paternostri, che cria avean

dormito un pezzo, e messo sopra di me il tabernacolo

del baron santo Antonio, e preso lor privilegi e scar*

viheuzuoul. 13

|(V4 dbu/asixo D'ono

tafaccì, si misero in viap«io. E posciaclK^ con assai guadagno, per non dir rubare, egli ebbero cerco una infinità di castelli, e sottratto da chi quattrini, da cbi cacio, da cbi latte, da chi vino, da cbi farro, da chi segala, da altri dell'orzo per dare alle bestie, e da quello questa cosa, e da quell'altro quell'altra, cacciatele in certi sacchi fatti a bella posta, tutte me le misero so- pra delle mie misere spalle : a ragione che aggravato da doppia soma, io fussi, camminando, in un medesimo tempo un granaio e una chiesa. E mentre che egli an- davan predando in questa guisa tutto quel paese, io vi voglio contare la terribile astuzia che egli usarono con- tro ad uno, che volle ritor loro certi panni che aveva loro dati la moglie. Erano giunti questi mariuoli, pre- dando piuttosto che predicando, a una certa villa, e d'ogni erba facevan fascio. Passando dunque dalla casa d'un povero lavoratore colle sue ciurmerie, veggendo- gli la moglie sua semplice donnicciuola, si fece loro in- contra : ed eglino chiedendole limosina, per far le to- vaglie dell'altare, d'un poco di filato o d'altra cosa tale, la semplice donna, non avendo altro, diede loro una tela di parecchi braccia; ed essi, fatta la preda, se ne andarono con Dio. Non furono si tosto partiti i valen- tuomini, che il marito giunse; a cui subito la donna disse : Qui furono dianzi i frati del baron santo Antonio, a' quali ho fatto limosi)ìa per Dio, ed essi hanno segnato le bestie nostre colle reliquie loro. 11 marito, conoscen- dola di buona pasta, disse : E che desti tu loro? La tela nostra, soggiunse la donna. 11 marito non aspettò più altro ; ma presa una chiaverina in mano, si diede a correre quanto più poteva verso dove erano andati , talché in poco tempo gli giunse : ed essi veggendolo correr con tanta furia, s'immaginarono di quel che era : perchè subito un di loro, preso l'esca e '1 focile , accese il fuoco da un capo alla tela, e si la coperse. (Hunto il lavoratore a' frati, disse loro un carro di vil- lanie, ed era anco per far loro un mal giuoco ; se non che essi gli restituirono la tela dicendo : santo Anto-

LIBRO OTTAVO 193

nio faccia miracolo. II contadino, riavuta la preda, se ne ritornò alla moglie : fu si tosto a lei, che senti certo fummo; perchè guardato la tela, la vide ardere : onde temendo dell' ira di santo Antonio, e impaurito anco dalle grida della moglie, che gridava miracolo, miracolo , corse dietro a richiamare i frati : i quali giunti alla villa riebber non pur la tela, ma di molte altre cose, ch'erano loro date da que' semplici contadini. Fatto che egli ebbero adunque cosi bel miracolo, e' se n'an- darono ad un certo castello non molto lontano di quivi, e tutti allegri della grassa preda, deliberarono di fare una bella cena; e involato un porco a non so chi con- tadino sotto spezie d'una lor profezia, apparecchiarono questo conviLp : e avendo adocchiata un villanotto gio- vane e ben robusto, con gran profferte e larghi doni il menarono a quella cena, con animo che per lo av- venire egli avesse ad essere de' loro. Alla qual cena e' feciono e dissero cose, e a quello esercizio adoperarono la giovanezza di quel contadino, che ora io me ne ver- gogno a dirlo, e allora con gli occhi miei non poteva sopportare di guardarlo. Io volli gridare ; o cielo ! ma rimastemi nel palato tutte le altre lettere , io solo la prima pronunziai, e chiaramente e altamente dissi: 0. La qual voce, così come non era convenevole ad uno asino, cosi non fu opportuna: imperocché alcuni gio- vani d'una villa ivi propinqua, andando allora appunto ricercando d' uno asinelio eh' era loro stalo furato la notte dinanzi, andavano con gran diligenza spiando per tutte quelle case ivi dattorno, se alcun di loro il tenesse nascosto: perchè udito il ragghiar mio, stimando che entro alla casa dove io era, fusse la preda, corsi- sene subito verso noi, anzi che ninno si potesse accor- gere di lor venire, se ne saltarono in casa* e soprag- i,Munti cosi alia sprovv'ctn. frovarnno qup\e (ìivote per- sone, che facevano e dicevano delle belle cose ch'io vi ho accennato di sopra. Le beffe e le scuse per aliora furono grandi da trambedue le parti , ma la vergogna e la credenza assai minor di quello eh' elle dovevano :

iOf) dem/ asixo D'ono

sicciif!, scoperte per lutti quei paesi le egregie opere di quei santi padri, e dato a conoscere la lor castità per tutto, in tanto odio gli fece venir per quelle contrade, che lor mestiero in una notte ascosamente far far- dello, e partirsi di quindi. E avendo camminato fuggendo di molte miglia, appena era levato il sole, che ritrovan- doci in un luogo molto solitario, io gli senti' bisbigliare non so che l'un coll'altro; e vedeva ch'egli mettevano a ordine per ammazzarmi. Levatomi il tabernacolo e tutte le altre bazzicature daddosso, e trattomi il basto e tutti gli altri fornimenti, legatomi ad una quercia, con un buon bastone di corniola tutto pien di nodi mi dierono tante le bastonate, che poco manco che il lor pensiero non avesse effetto: e per ristoup, quando io credeva eh' e' fusse finito di dar la battaglia, io senti' un di loro, che mi minacciava di tagliarmi le gambe con una scure, posciach'io era stalo quel che aveva sco- perto il trionfo della loro candidissima castità: ma al- cuni altri, non a contempla/.ion della mia salute, ma per non avere a portar quel tabernacolo addosso, e quelle altre cose che erano quivi per terra, giudicarono eh' egli fusse a lor propos to ritenermi in vita. Perchè di nuovo rimessemi addosso tutte quelle cose, senza restar mai di bastonarmi e minacciarmi di peggio, se- guitarono il lor viaggio, sino a tanto che egli arriva- rono ad una (grossa villa, dove abitava un uomo ricco di bestiame e di possessioni: il quale, ancorché per altro fusse molto religioso , per cagion del bestiame era divotissimo di Santo Antonto; e però ricevuto il tabernacolo in casa sua e tutti noi altri, con molte ora- zioni s'ingegnava d'impetrar la grazia di quel Santo, e con buone spese interteneva quei suoi divoti. Quivi fu dove io mi ricordo aver portalo il maggior pericolo ch'io portassi mai nell'asinità; e questo fu, che aven- dogli un certo suo lavoratore mandato a donare una coscia d'un cervio bellissima, il cuoco l'aveva attaccata vicino all' uscio della cucina, cosi bassa, che un certo cane, che bazzicava per casa, accorgendosene, tutto al-

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legro se la fece sua: del qual danno avvedendosi quel cuoco, e incolpandone la sua negligenzia, con non gio- vevoli lagrime si lamentava. E accostandosi 1' ora del far da cena, e il padrone sollecitandolo che egli accon- ciasse quel cervio, il povero cuoco, come quel che du- bitava di cosa peggiore, detto addio ad un suo figlio- lino, e avvoltasi una fune intorno al collo, si voleva appiccar per la gola. Della qual cosa accorgendosi una sua fida mogliera, corse là; che a gran fatica giunse a tempo; e levatogli quel capestro dintorno, dopo molte altre parole gli disse: Se' tu per una cosi fatta disgra- zia uscito in modo del cervello, che tu voglia fare e te e me e il tuo figliuolo malcontenti tutti in un tratto? Or non vedi tu il fortuito rimedio, il quale ti mostra la divina providenzia? E però, se tu rivolti niente l'a- nimo dagli ultimi trabocchi della fortuna, ascoltami con attenzione: prendi questo asino, che hanno in casa que- sti romitonzoli, e ammazzalo in qualche luogo, che tu non sia veduto; e presa poscia una delle sue coscie in vece di quella che ti è stata tolta, e preparatola con soavissimi sapori in pasticci alla spagnuola, e in quegli altri modi che meglio ti parrà, la porterai al padrone; il quale se la mangerà non altrimenti che se fusse cer- vio. Piacque a quello imbriaco cuoco la sua salute per la morte mia; e lodando insino al cielo la sagacità di quella maladetta femmina, prese un suo coltello, e co- minciandolo ad arrotare, si metteva a ordine per far la deliberata uccisione.

19$

DBLL' ASINO d'oro

LIBRO NONO

la colai guisa armava lo scelleratissimo boia contro a di me le crudelissime mani ; laonde io, che mi accorsi dello imminente pericolo, senza perdere troppo teinpo in con- sigliarmi, feci pensiero col fuggirmi scansar le mie po- vere carni da quella scellerata beccherìa: e rotta la cavezza colla quale io era legato, subito la diedi a gambe, e a cagione che niuno mi si accostasse per ri- tenermi, alzato i ferri all'aria mi andava gagliardamente

difendendo co' calci: e veduto uno uscio aperto, sappiendo dove m'entrassi, mi misi in un tinello, dove il signor della casa con quegli imbriachi di quei miei padroni doveva cenar quella sera; e fu tanta If furia che io ebbi nello entrare dentro, che io misi sottoso- pra ciò che era su per le tavole e su per la credenza, bicchieri, guastade, saliere, coltelli, vasi, tovaglie, to-

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vagUolini, e le tavole lìnalmeale: perchè il signor di casa, pieno d'un mal talento, fattomi subito prendere, comandò ad un suo fante che mi guarìasse con gran- dissima cura, a cagione che un'altra volta io non fa- cessi una di quelle pazzie. Legato adunque bene, e messo a buona guardia, me ne stava coU'animo tutto riposato, e parevami che quel carcere fusse pur troppo benigno, posciacbè per suo mezzo io era libero -dalle crudelissime mani di quel ribaWo* di quel beccaio. Ma che bisogna affaticarsi contro al volere della Fortuna, posciachè cosi male puon resistere i nostri sagaci pensieri o la nostra prudenzia alla sua fatale disposizione, si che ella non ne guidi sempre al crudelissipo e destinato sentiera'? Finalmente, quel mio consiglio, che pareva che mi avesse tratto del profondo baratro dello Inferno, mi tuffò in pelago più -profondo e più mortale : e questo fu, che ve- nendosene un fanciullo (secondo il mio giudicio, ch'io mi pensava, ragionavano tra loro i famigli) oltre ove coloro cenavano, riferi al padrone, che egli era uscita di una slradetta ivi vicina. 'ina cagna arrabbiata, ed entratasene per l' uscio di dietro in casa con una furia chf mai la maggiore, aveva assaltati tutti i brac- chi di casa, e d'indi poscia corsasene alla stalla, col medesimo erapito aveva morso quasi tutte quelle bestie: e quello ch'era molto peggio, che ella non si era manco astenuta dagli uomini; imperocché ella aveva ferito il Penna mulattiere, e Chichibio cuoco, e Lenio cameriere, e maestro AppoUonio medico, insieme con tutti quegli altri che si erano voluti contrapporre alla sua rabbiosa e inaudita furia: aggiugnendo che tutti quei bracchi che ella aveva tocchi col dente, erano incorsi nel medesimo furore. La qual cosa turbò subitamente gU animi di tutti quelli che erano ivi a tavola, stimandosi che io avessi fatto poco fa quelle pazzie per essere infetto del medesimo veleno : perchè prese ognuno di loro 1' arme in mano, inanimandosi l'un l'altro ad ammazzarmi, du- bitando che io, mordendogli, non gli facessi similmente incorrere in quella medesima rabbia nella quale egli

SOO dell'asino D'ono

erano incorsi, senza che mi accostassi loro. E senza dubbio alcuno, egli rai avrebbon taglialo tutto in militi pezzi; tante lance, tanti dardi, e tante spade avevano ritrovate; se io, prevedendo la pioggia di questo strano pericolo, non me ne fussi fuggito volontieri al coperto alla camera, dove con riposo dormivano tutti i miei pa- droni. Laonde eglino, serratomi immediate addosso gli usci e le finestre, si deliberarono tenermi assediato quivi dentro, insino a tanto che quello arrabbiato ve- leno mi avesse al tutto Anito di consumare: sap- piendo io altro che farmi , presomi la comodità della presente fortuna, mi misi a giacere sopra del letto il quale poco avanti era stato molto ben rifatto e ordi- nato, e dopo tanto e tanto tempo io presi Analmente il sonno come gli altri uomini. E venuto il di alto, avendo disgombrata da me ogni stracchezza colla mor- bidezza del letto, sano e fresco e gagliardo mi risvegliai ; e stando cosi un poco in orecchi, per udir se quegli che con gran diligenza mi facevano la guardia, ragio- navano niente del fatto mio, io sentii che uno di loro diceva: Pensiamo noi però che questo povero asinelio sia vessato si lungamente da questo suo malvagio fu- rore ? io per me credo che T impeto di quel pestifero veleno avrà fatto suo sforzo, e lo avrà mandato nel paradiso degli altri asini : ma vogliamoci noi chiarirò del tutto ? guardiamo un poco per una fessura dell'uscio, se egli ve ne ha alcuna, e saperrem tutto il convenevole. E cosi facendo, egli mi videro più sano, più quieto e più pacifico che mai : per la qual cosa, aperte le porte, si andavano consigliando di far qualche sperienza, per veder se io fussi guarito affatto. Perchè un di loro, ve- ramente mandalo dal cielo per la mia salute, diede lor questo modo, e disse : eh' e' pigliassero un calino pieno di acqua fresca, e me la dessero a bere, affermando che s' io senza paura alcuna la bevessi come prima, che egli mi avessero assolutamente per sano; dove se, per lo contrario, io mi facessi schifo o del vederla o del toccarla, eh' e' tenessero per certo che ancora non

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era spenta la rabbiosa fiamma: affermamlo che questo rimedio, ollrechè egli era scritto come cosa provata negli antichi libri, egli ne aveva altra volta visto la sperienza. Piacque a tutti il parer suo, e senza indu- gio fu portato un gran catin d' acqua fresca e chiara come un cristallo, tratta allora allora d' una fonte ivi vicina; alla quale, come più tosto io la vidi, senza aspettare altrimenti eh' e' sufolassero, io mi feci incon- tra; e non sólo vi bagnai le labbra, ma vi tufifai ^den- tro il capo tutto intero, e bevvimi quella preziosa me- dicina tutta quanta in pochi sorsi : e percotendosi po- scia alcun di loro un poco più supertizioso le mani l'una coir altra per farmi paura, e un altro ripiegandomi le orecchie, e chi tirandomi per la cavezza, io stava fermo come un porcellin grattato ; imperocché io aveva deli- berato per ogni modo colla mia modestia trarre loro quella falsa opinione che egli avevan preso del fatto mio. Avendo adunque scampato questi due cosi fatti pericoli, mi stetti nella mia santa pace sino al di dipoi: il quale come più tosto fu venuto, col solito taberna- colo e colle altre bagaglie addosso, io fui da' miei pa- droni rimesso a nuovo viaggio. E cercando un gran- dissimo numero di case e di ville, e quivi gabbando una vecchia, e più colà sforzando una giovane, e' si cacciaron sotto tanta roba, che io essi la pote- vamo più portare. Perchè venuticene in un castello, dove per avventura era il mercato, e dato ordine di vender quello che non bastava loro l'animo di portare, ci mettemmo dentro a una osteria dove io senti' con- tare una novella da ridere; della quale e' mi parrebbe far gran torto, se io non ve ne facessi partecipe.

Era un poveretto, che di giorno in giorno lavorando a opere, a vivere s'aiutava. Aveva costui una moglie giovanotta e di viva bellezza, colla quale era ancora giunta quella piacevolezza che volentieri con beltà s'ac- compagna. Ora essendo il marito una mattina ito a la- vorare, siccomp. sempre era usato, la moglie raccolse in casa un bel giovane, che le tenesse il fuso diritto,

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mentre che ella menasse la rocca del lino intorno. E avendo già lavoralo tanto, die in poco d' ora non sa- rebbe stato più diritto il fuso, eccoti il marito improv- viso ritorna a casa: il «juale, siccome più intendente dell'arte del manovale che delle femmine, niente di ciò sospetta; e trovato la sua porta chiusa, ringraziò molto iddio dell' onesta della mofjlie : dopo battè, com' era usato, fc fischiando, fa chiaro ch'egli è venuto. La moglie, dolente a morte di non aver voto il fuso, nasconde l'amante subito in una botte, che in uno de' cantoni della casa stava vota e scoperta ; poi aperto al marito, con t irbato viso gl'incominciò a dire: A questa ora mi torni tu a casa colle mani a cintola? e di che viveremo noi se non ti allatichi, o sciagurato? che credi, che io ti abbia a pascere ? io non sono di quelle che tu credi : io sventurata tutta la notte e tutto il giorno mi stento a filare per tenerti coretto, e potrei anch'io fare come dell'altre fanno: tu meriteresi una femmina, come è la Tullia, che si pascesse di adulterj, lasciando morir di fame il marito. Ah non ti turbare, moglie mia bella, disse il marito, che benché oggi il nostro gran maestro sia ito in villa, possiam lavorare, ho per- ciò trovato modo al viver nostro per parecchi giorni. Tu vedi questa botte, la quale è sempre stata vota , ed è tanto tempo che c'impedisce questa picciola casetta : io l'ho venduta testé cinque danari ad uno, che sarà qui incontanente per portarsela; sicché aiutami un poco, che la nettiamo, perché io ho cosi promesso dargliela netta e forbita. I^a moglie, pigliato d'improvviso nuovo partito, sorridendo gli disse : Beata me, che pure ho per marito un buon mercatante, uomo di molta astuzia, e che sa molto ben fare i fatti suoi e i miei ; che quando gli mancasser le sue mani, pascerebbe la famiglia collo ingegno. E come? non li pare che questa botte tanto grande vaglia più che cinque danari ? Io trista femmi- nella, che non mi spiccai mai dall'uscio tre palmi, ne ho fatto mercato in sette danari. Il marito allora, della buona vendita molto contento, disse: E chi è colui che

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r ha comperata per questo pregio? 0 babbione, dice ella, che pure me lo convien dirtelo, egli è già dentro nella botte per veder s'ella è sana. Colui, che dentro aveva inteso il tutto, saltò fuori con buon viso, e disse: 0 tu, che mi hai venduto questa botte, eli' è molto vec- chia, e per lo tanfo che vi è dentro, non posso vedere se e' è alcun buco. Ma tu, buon uomo, che qui se' ve- nuto, portami una lucerna accesa, eh' io raderò via la feccia, che non intendo comperar quel eh' io non veggo. Ciò non voglio comportar per niente, disse la moglie ; che tu potresti fare alcuna fessura col ferro nella botte ; per distornare il mercato che con essomeco hai conchiuso, ma il mio marito, eh' è qui presente, entrerà egli den- tro, e scopriralla a tuo piacere. Cosi dicendo, io fece spogUare, e miselo nella botte, e presa la lucerna, sopra

l'orlo si pose ella a fargli lume. Il giovane, che conobbe il tempo, prestamente incominciò di fuori a scarpellare ancora egli; ma con manco romore incarnava lo scar- pello, che '1 maestro non faceva nella dura botte: e sentendo la cattivella femmina che egli alquanto scon- cio stava, e temendo di qualche grandissimo pericolo,

*04 dell'asino d'oro

cliR agevolmente intravvenir ne poteva, più pianaincnto si piegò, facendo arco della schiena. E chinatasi col lume più presso al suo marito, diceva: Netta qui, toc- cando sopra il fondo: e qui ancora, e da questa banda, e da quell'altra ; e movendosi dava ad amendue i mae- dlri bonissimo aiuto a compir l'opere loro. Le quali poi- ohè quasi ad un tempo furono fornite, il manovale ri- cevette i sette danari per prezzo della venduta botte, convenendogli anche portar quella sopra le spallo fino alla casa del giovane adultero.

Venuta l'altra mattina l'alba del chiarissimo giorno, i miei padroni , póstisi in assetto di tutto quello che lor faceva mestiero, si misero prestamente in cammino ; e per mia maggior ventura, presero una certa strada •;osi dolorosa e scellerata, che io non so come egli fu mai possibile che noi n' uscissimo a salvamento. La •/rima cosa, non ci lasciavano passare certe gore, che traboccavano; ma più oltre, quando tu ti credevi essere uscito dall'acqua, e tu trovavi certi paludacci, che vi si andaya Ano alle cigne: esci di quei grandissimi pa- buli, e' s'entrava in tanto fango e in si crudeli fìtte, che, lasciamo stare che io vi lasciai dentro ambi i ferri dinanzi, io non ne credetti mai potere cavar le gambe; e dove non erano quelle fitte, e' vi si sdrucciolava di »a' sorte, che i miei carissimi e debili padroni ed io, ad ogni passo che noi faciavamo, tombolavano cosi bei cimbottoli ch'egli era talvolta da ridere. E quando con mille aspre fatiche e mille stenti, tutti rovinati e tutti stracchi, noi eravamo arrivati ad un poco di buona via, e' ci si scoperse addosso una squadra di cavalli tutti armati, e con una furia che mai la maggiore assaltarono Filebo e i suoi compagni ; e presoli tutti, e messo una fune al collo per uno e le manette alle mani, e chia- mandoli ladri, assassini e sacrilegi , e toccando lor tul- tavolta di buone pugna, dicevano, che traessero fuor quel vaso d' oro, il quale con simulata religione egli avevano involato d'in sull'altare della chiesa della Ma- tlre del Signore; come se i ribaldi credessero poter,

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senza supplieio patirne, violare tanta maestà, e che il partirsi di notte gli avesse a torre degli occhi di Col ai

che è essa luce. E mentre eh' e' dicevano queste parole, messosi un di loro a cercar entro a quel tabernacolo i trovarono un bellissimo calice, che i devoti uomini l'ave- vano dato a Santo Antonio, perchè egli dicesse messa allibbi almanco per il discoprimento di cosi fatto sacrilegio quella impurissima gente; ma con false risa, dimostrando d'esser i buoni e belli, dicevano : Vedi che disoneste cose ne conviene altrui sopportare; che per un caliciuzzo, che la Madonna ha donato al suo servo Santo Antonio, odi che villania costoro ci dicono, « quanto oltraggio ci fanno! e senza guardare alla dignità dell'abito, ci mettono in pericolo della testa. E menti e che con queste e altre simili menzogne costoro si cre- devano fargli Calandrini, quegli armali, così legati come egli erano, ritirandogli donde egli erano partiti, gli mi- sero nelle mani della Corte ; e il tabernacolo e il calice fu posto nella lor chiesa con grandissima solennità. K il giorno dipoi, condotto in un mercato, fu' messo ali » 'ncanlo una volta ; e più sette lire, che non mi ave •.

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comprato Filebo, mi pagò un mugnaio, che abitava in un altro castellelto poco lontano : il quale, caricomi di grano, che egli aveva comprato sul medesimo mer- cato, per una strada tutta piena di sassi o di pruni me ne menò al suo mulino: entro al quale non picciol nu- mero di bestie colle loro volle, e il e la notte, sup- plendo al difetto dell' acqua, s' aggiravano intorno alle macine. Ma il nuovo padrone, a cagione che nella prima giunta io non mi sbigottissi per cosi strana servitù, mi mise in una buona stanza, e mi fece traboccar la man- giatoia e la rastrelliera; e volle che il primo giorno fusse feriato. Ma non pensassi però, che quella abbon- danza del mangiare e dell'ozio durasse più che quel giorno ; ch^, venutone poscia l'altra mattina, io fui le- gato ad occhi chiusi ad una di quelle macchine, la mag- giore che vi fusse; e dandomi dietro uno con uno scu- discio, fui forzato a far la volta tonda ; perchè nel pic- ciolo spazio di quel circolo troppo velocemente rivol- gendomi, un de' miei piedi l'altro mi calpestava. E benché spesse volte, quando io conversava tra gli uomini, io avessi veduto voltare di queste macchine, e anche asino ne avessi, com'egli vi può ricordare, voltate un'altra volta , contuttociò mostrandomi ignorante e mai pratico di questo esercizio, stimando, stolto eh' io era, che come inutile per questo mestiero e' mi adoprerebbono a qual- che cosa più ag 'vo!e, o mi d irebbono le spese senza farmi durar fatica , spesso spesso, mostrando una gran- dissima maraviglia, mi stava fermo come una cosa ba- lorda. Ma non solo indarno per allora, ma con mio grave danno esercitai, non vo' dir l'astuzia, ma la mia sem- plicità; imperocché io non mi era prima fermato, eh' e' mi erano parecchi addosso con bastoni, e mettendo a romore ciò che v' era, non restavano di caricarmi di bastonate^ sintantoch' e' mi vedessero camminare: per- ch'io, dato bando a tutti i miei consigli, e messo ogni mia forza ad una fune di giunchi, colla quale era le- gato a quella macine, mi diedi a girare colle più belle volte che voi vi possiate pensare, in modo che questa

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mia mutazione mosse non picciole risa a tutte quelle brigate : e cosi durò la cosa sino all' ora valica di de- sinare; ed allora fui menato alla mangiatoia, dove io, ancorché fussi stracco e avessi gran necessità di man- giare, pure sollecitato dalla mia solita curiosità, lasciando il cibo, del quale io aveva larghissima copia , con non picciolo mio piacere considerava i diabolici strumenti della rincrescevole arte di quella bottega. 0 Signor mio, che omiciatti vi si vedeva egli, pieni di segni di basto- nale, pien di lividori, con mantellucci, che piuttosto om- bravan loro, che e' ricoprissero le macerate membra! senza quelli che non avevano altro indosso che un poco di panno, che copriva loro le parti vergognose ; e perciocch' egli erano aw^ezzi a star tra il fummo, egli avevano quegli occhi scerpellini, sicché e'vedevan poco 0 niente di lume, e in guisa di quei che camminano per la polvere, erano incrostati di farina ; sicché tu non avresti creduto che i diavoli lusserò fatti in altra ma- niera. Che dirò io della mia compagnia? come eran vecchi quei muli, magri quei cavallacci, e avevan quei capacci pieni di piaghe vecchie, e come pendevan quelle froge dei naso, e quanto cimurro gettavano I quanti guidaleschi, quante scorticature gli avevan fatto certi fornitnentuzzi eh' egli avevano di quelle funi di giunchi 1 Che occorre dire ? che l'unghie eran tutte fesse e logore in- sino al vivo; e ch'egli eran sempre pieni d'una scabbia mi- nuta, che gli consumava. Egli non vi era bestia alcuna, della cui pelle se ne potesse fare un vaglio da noci. Temendo io adunque lo spaventevole esempio di questa generosa famiglia, e ricordandomi della fortuna dello antico Agnolo, e or veggendumi ridotto nel profondo del pelago delle miserie; non potendo altro fare, abbas- sato il capo, meco stesso mi rammaricava. Posto adun- que fra tante e così gravi miserie, un solo sollevamento aveva; e questo era quello che mi porgeva la mia so- lila curiosità: imperocché non facendo stima la brigata del fatto mio, ognun diceva e faceva in mia presenza quello che ben gii veniva di dire e di fare. E non senza

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cagione quel grande autore della antica poesia, volendo dlpignere appresso de' Greci un uomo dotato d'una gran prudenzia coll'aver cerco molte città, e coll'aver appa- rato il vivere d' infiniti popoli, io celebrò come ripieno di tutte le virtù: per la qual cosa sono obbligato di rendere infinite grazie all'asino mio, il qual tenendomi ascosto entro alla sua pelle, ed esercitandomi in vari accidenti, se non mi fece prudente, almeno mi fece di molte cose conoscitore. Finalmente, io ho deliberato pascer gli orecchi vostri con una diiicata favola, la quale, mercè dell'asino, io apparai in casa col mio pa- drone: ed ecco ch'io la comincio. Ma prima sarà me- glio, or eh' io ci penso, darvi un poco di notizia della sua moglie, ch'io non dubito che voi avrete caro d'averla conosciuta. Era quel mugnaio, il quale co' suoi danari m'aveva fatto della sua famiglia, veramente una buona e modesta persona; ma egli aveva una moglie ch'era delle più pessime e più malvagie femmine che nasces- sero mai sotto alla cappa del Sole; e aveva tante le brighe e fatte le fatiche col fatto suo, eh' era una compassione; di maniera che io, ch'era uno asino, per amor suo assai sovente meco me ne rammaricava; ned era vizio al mondo, che non fusse in quella scelleratis- sima donna, anzi tutti come in una profonda fogna erano piovuti nell'animo suo: malvagia, crudele, vaga dell'uomo, ghiotta del vino, bugiarda, ostinata, pertinace, nelle lodevoli spese avara e prodiga nelle disoneste, nemica della fede, avversaria della pudicizia, ruffiana ; perocché da lei non era restato di far capitare male una figliastra eh' eli' aveva; e dispregiato e cacciatosi dietro alle spalle l'onore dell'eterno Dio, sotto spezie di esser delle divote di non so che convento di frati, e cignersi non so che corda intorno a' fianchi (che as- sai meglio le sarebbe stata intorno al collo). Ingannando gli uomini , e uccel'ando il marito, aveva fatto profes- sion di fare astinenzia (col bere ogni mattina per tempo) e di macerale il corpo suo (con continui adulterj). Que- sta vener£(\)il femmina mi nortava un odio maravig'ioso:

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e ogni mattina, anzi che tasse apparito il giorno, gia- cendosi nei letto, metteva a romor la casa, eli' io fussi menato a lavorare ; e come più tosto, posciachè a di alto ella si era levata del letto, ella se ne veniva nel mulino, e mi faceva dare un carico di bastonate. Ed essendo dato spazio assai per tempo agli altri animali che andassero a strameggiare, ella non voleva che io fussi legato alla mangiatoia, se non al tardi al tardi: la quale stranezza mi aveva accresciuta la natia curio- sità ne' suoi costumi. E accorgendomi che del continuo entrava in camera sua un certo giovanetto, io aveva gran vaghezza di vederlo in viso; a cagione che, se mai Agnolo fussi ritornato entro agli occhi miei, e' non mi mancasse modo di scoprir la disonestà di quella rea femmina. Ora, volendo una volta fra l'altre una certa vecchia mezzana e aiutatrice de' suoi adulterj, e con chi ella faceva tutto il di mille merenduzze e mille stra- vizzi di nascosto al marito, metterle per le mani non SD che altro bel giovane, ragionandosi un seco, le disse queste formali parole : Di cotesto, la mia padrona, il quale, senza mio consiglio, così pigro e pauroso ti hai preso per amico tuo seguirai il parer tuo; poscia- chè egli non ti noia, che temendo così vilmente la rugosa fronte del tuo odioso marito, e perdendo il tempo, tu ti stracchi i tuoi volonterosi abbracciamenti. Quanto sarebbe miglior per te Filerò, giovane bello, liberale, valente, e contro alle inefTicaci diligenze e vane gelo- sie de' mariti costantissimo ; degno egli solo di portar corona, se non fasse per altro, che per quello ehe egli fece, non ha molti giorni, così astutamente contro ad un de' più gelosi mariti che sieno di qua a cento miglia : ascolta di grazia, e poscia fa paragone dello ingegno di costui con quello degli altri amanti. Ecco che la vecchia mi racconta la novella: se voi siete stati a disagio un pezzo, incolpatene la trista natura della mia padrona, la quale non si poteva con brevi parole così bene esplicare. Tu hai conosciuto Barbato, decurione della nostra città, il quale la brigata per li suoi rozzi costumi chia-

FIRENZUOLA 14

*^'ft Ti-RI.l/ AJMNO n'ORO

iiuilu Scorpione. Avendo costui uiu bellissima moglie e gentile, egli n'era, senza saper la cagione, divenuto 8i geloso, eh' egli aveva paura che gli uccelli non gliela involassero; e guardavala con tanta cura, che egli, o non se le levava mai dattorno, o se pur gli faceva me- stiere per picciolo spazio lasciarla, e' la teneva rinchiusa in una camera con mille chiavi. Il quale, mentre che egli era entrato in questo farnetico, accadendoli di ca- valcare per alcune sue bisogne per molti giorni, e de- siderando di lasciarla guardata di maniera, eh' ella non facesse le vendette di tante stranezze; avuto a uno schiavo chiamato Mirmece, il quale egli aveva sempre conosciuto fedelissimo, e' gli disse tutto quello eh' e' voleva eh' e' facesse circa la guardia di questa sua mo- glie : e minacciandolo di bastonate, di ferri, di ceppi, di prigione, e della morte, finalmente gl'impose che non le lasciasse a uomo del mondo toccare, eziandio per passo, i panni pur con un dito : e con molti giuri e saramenti raffermando quei suoi minacci, se ne andò a suo viaggio. Rimaso adunque Mirmece alla guardia di questa sua padrona, non la lasciava pur tanto sola, che ella avesse agio d'andare a pisciare; anzi sempre standole attaccato a' panni, con maggiore importunità la gridava che il marito stesso non avrebbe voluto. Ma la eccessiva bellezza di questa gentildonna non potè fuggir le vigilantissime mani del giovane Filerò, il quale quanto maggior sentiva il grido della sua castità, quanto più intendeva eh' eli' era guardata con diligenza, mag- gior desio gliene prendeva, e con più prontezza d'animo s'accendeva a qaesta impresa; e finalmente era appa- recchiato a sopportare ogni fatica, ogni disagio, ogni epesa, ogni danno, ogni vergogna, pure che egli avesse l'onor dell'espugnazione d'un cosi ben guardato castello; parendogli (e nel vero egli è cosi) tanto doverne dive- nir glorioso, quante maggiori difficoltà gli s' appresen- lassero. E come quelli che molto ben conosceva l'umana fragilità, ed avea più fiate visto per isperienza, che l'oro è penetrativo, che egli si fa far la strada per ogni

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serrato luogo, e con assai maggior empito spezza le porte, ancorch' elle sieno di durissimo adamante, che non dicono costoro che faccia il sangue di becco; per- chè, fatto d'avere un giorno Mirmece a solo a solo, e' gli scoperse lo amor suo, e quanto più potè umilmente gli si raccomandò; dicendo, che egli si struggeva, e che se e' non otteneva da lui questa grazia, che si voleva dar la morte; e aggiugnendo tutte quelle belle parole che sanno gli amanti quando e' si raccomandano^ si sforzava trarlo alla sua volontà. E perchè la difficoltà non lo spaventasse, mostrandogli la via agevole, sog- giungeva, che stravestendosi una sera, quando non lu- cesse la Luna, sicch' e' non potesse esser conosciuto da veruno, e' potrebbe entrarsene per l'uscio di dìrstro in casa sua; e statosi non guari colla donna, ritornarsene nel medesimo modo; aggiungendo, al fine delle sue pa- role, quello stimolo eh' è cagione della rovina dell'umana generazione, e che importava più che cosa che egli avesse detto, e l'aveva a fare per ogni modo andare a gambe levate : e stesa la mano, gli mostrò trenta ducati d'oro larghi, e belli, e nuovi, usciti di zecca allora al- lora, de' quali e' voleva che ne desse venti alla giovane.

2H DKl.I,' ASINO d'oro

0 gli altri dieci fussero il guiderdoa della sua fatica. Spavenlossi sul primo Mirmece udendo cosi disonesta domanda; e, senza risn)onder cosa alcuna, con orecchi impeciati via se ne fu^gi. Ma e' non potò fare, che quello splendor di quei hei ducati, che pli s'era fitto negli oc- chi, non Io seo;ui tasse; e benché e' fusse lontano un pezzo, e rinchiuso in casa, vegigendo nondimeno quel bel colore, tutto vi si abbagliava, e già gliene pareva essere possessore, e già gli era avviso d'annoverargli: e percotendo il suo debll legno or questo or quel pen- siero, ora stava pr annegare, or lontano dal periglio prendeva la via del porto; quinci lo ritirava la fede, quindi lo sospingeva il guadagno; al porto il menava la tema de' minacciati martirj, agii scogli il ritraeva la bellezza di quell'oro: vinse finaimenie il pregio la te- menza della morte, la fede e la osservanza del suo pa- drone; e non potè avere almen tanto di pacienza, rhe egli indugiasse insino alla mattina. E preso a un tratto partito della vergogna, di bella mezza notte itosene al letto della padrona, tanto le seppe ben predicare, che per cupidigia di quei danari la buona femmina diede bando alla tanto guardata e onorata castit.V Allora al- lora lo infido Mirmece tutto allegro, e parendogli mil- r anni d'aver lo scellerato pregio della venduta fede, se ne andò da Filerò, e raccontogli come il fatto stava, li chiese la promessa mercede: e cosi quella mano che non era pur usa a maneggiare quattrini, possedeva cosi al presente cosi bei ducati. Or, per non ve l'allungare, venuta una notte a lor proposito, il ledei Mirmece con- dusse Filerò colla donna; e mentre che nelle più care vivande d' Amore i nuovi amanti con lor grandissimo piacere si cibavano, quel geloso del marito, presa la opportunità della notte, a bella posta, per vedere se egli, giugnendo all'improvviso, vi coglieva persona, fuor della estimazione d' ognuno arrivò alla porta ; e pic- chiando, • oMamando. ff^ce in morlo che tutti quegli di casa lo seiiiiruuo. t. perchè Mirmece non gli veniva ad a^inr così tosto come egli avrebbe voluto, dubitando

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di quel che era, il minacciava di fargli e dirgli, se egli non apriva allora allora : rpa egli per la repentina giunta tutto perturbato e pien di paura, non sappiendo altro che farsi, quello che solo poteva, e' dava scusa, che per essere al buio egli non {.-'Oteva ritrovar la chiave. E Filerò in quel mentre, presa subitamente una sua ve- ste e tutte le altre cose, e per la gran fretta lasciato un paio di pianelle di velluto, calatosi per una finestra della camera, che riusciva in una stradetta dietro, se ne andò a casa sua. Della qual cosa accortosi Mirmece, ritrovata la chiave, e aperta la porta, mise dentro il padrone : il quale, minacciando e borbottando, se ne corse subito in camera della moglie, per vedere se egli vi era alcuno che se la mangiasse ; avendo ritrovato persona, per quella sera non ne fu altro. Ma venuta poscia la mattina, il buono uomo, che non aveva dor- mito in tutta quella notte un sonno in pace, come più tosto fu levato, andando guardando per la camera, s' e? vedesse segno alcuno che non gli piacesse, e' gli venne veduto sotto il letto quelle pianelle : né- riconoscendole per di casa, rinfrescando il preso sospetto, anzi raddop- piandolo, presele, e messolesi in seno, senxa dir cosa del mondo o alla moglie o ad altri di casa, comandò che Mirmece fusse preso e legato, e in quella guisa gliel menassero dietro verso piazza. E rodendosi per la stizza da a sé, se ne usci fuora, sperando coU indizio di queste pianelle potere agevolmente sapere chi fusse bazzicato colla moglie. E mentre che egli se n'andava così gonfiato e cosi accigliato per la piazza, e dietra gli veniva Mirmece, come io vi dissi, legato (il quale, ancorch' e' non fusse stato giunto in manifesto peccato, stimolato dalla macchiata coscienza, piangeva e lamen- tavasi, in guisa eh' e' ne 'ncresceva a ognuno che lo vedeva), andando Filerò per avventura per far non so che sue faccende, e passando per piazza, e' gli venne veduto quel cattivello, e in sulla prima giunta tutto si conturbò ; e ncorUaudosi delio errore, che per la gran (retta egli aveva commesso lasciando quelle pianelle, e

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tenendo per certo che costui non era legato per altro fatto ; non impaurilo niiga, anzi pensando subito alla di lui salute e all' onor della donna, fatto buono animo, da lui se ne andò, e scansato tutti quelli che gli erano

intorno, se li mise addosso colle pugna, e senza fargli molto male, le vista di dargliene un carpicelo de' cat- tivi. E mentre eh' e' lo percoteva, e' gli teneva detto continuamente: Ladroncello da mille forche, schiavo poltrone, che non so come questo tuo padrone e Iddio insieme, i quali tu hai tante volte bestemmiati e ma- ladetti, ti sostengano in vita, che hai avuto tanta faccia che tu mi rubasti iersera le pianelle sin della stufa; ma non ti curare, che tu stai non già come tu meriti, perchè assai più li si converrebbe una prigione fra un monte di ladri par tuoi, che stare su per le piazze fra tanti uomini dabbene: ma io ho speranza, che se que- sto gentiluomo fa quello che e' dee, ch'egli non ci an- drà guari, che avrai parte del pagamento delle tue la- droncellerie. Tolto Barbato dalla grande astuzia del va- lente giovane da ogni sospetto, rimenato a casa Mir- mece, e avutolo a sé, gli perdonò liberamente, come quelli che poco stimava tutte l'altre ingiurie aooo quelle

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della moglie; e portoli quelle pianelle, il confortò a ren- derle al padrone.

Fu di tanta efficacia la novella della buona vecchia della mia padrona (che non era però così cruda, eh' e' bisognasse gran fatto legne a cuocerla), che si lasciò persuadere a far tutto quello ch'ella voleva: e cesi, senza dire altro, diedero ordine che '1 giovane le met- tesse nel cervello qualcuna delle astuzie sue. E tanto durò la cosa, che il marito una volta fra l'altre ve la giunse ; e non ne potendo più sopportare del fatto suo, e' se la cacciò di casa a suon di bastonate. Laonde la malvagia femmina, oltre alla sua natia malignità, sde- gnata per la villania fattale, benché giustamente, se ne corse allo armario delle medicine delle scellerate donne; e con ogni diligenza fece d'avere a una vecchierella, la quale avea nome di fare con suoi incanti e sue ma- lìe ciò ch'ella voleva ; e con molte preghiere e influiti doni la costrinse a prometterle di fare una delle due cose : 0 che ella la facesse ritornare in grazia del suo marito ; o quando questo non si potesse fare, eh' ella gli cacciasse addosso un qualche spirito, che lo facesse morire di morte violenta. Laonde quella valente fattuc- chiera, messo mano all' armi della sua disonestissima disciplina, cercò la prima cosa di rivocar l'offeso animo del marito dal giustissimo sdegno, e di nuovo piegarlo nello amore della mogliera. La qual cosa avvenendole al contrario di quello che ella si estimava, adiratasi col cielo e con stessa, e stimolata da questa indignazione, dal premio ricevuto e dall'onor dell'arte sua, con tutte le forze si mise a soffocar lo spirito dell'innocente ma- rito; e stimolata l'ombra di una certa donna morta con violenta mano, pose lo assedio alla di lui vita. Ma io temo che un di quei lettori un poco scrupolosi, 1 quali non per altro che per riprendere si mettono a leggere le opere di quelli che vivono (che Dio il sa se egli ce ne ha), usando l'uficio suo, dirà così da sé: donde hai tu, 0 asinelio, risenato sempre entro ai termini del mo- lino, quello che si ragionassero, pensassero, e veramente

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facessero quelle donne? Nota adunque in che modo un uomo curioso, nascosto sotto alla pelle d'un asino, ab- bia conosciute tutte quelle cose che gifi sono state fatte e pensate in danno del mio mugnaio. Un di fra gli al- tri, che il sole era arrivato, o poco manco poteva stare a giugnere, al più alto giogo del suo viaggio, una donna squallida, magra, bruita, con certi capelli mezzi canuti, arrulfati, che le coprivano mezza la faccia, co' pie di- scalza, e coperta d'un manto, negra si eh' ella pareva l'accidia in un campo di funghi, se n'entrò nel mulino; e preso assai benignamente il mugnaio cosi per mano, mostrando di volergli parlar di segreto, il menò nella di lui camera; e serrato molto ben l'uscio, si stettero entro un pezzo : ed essendo finito di andare giù tutto il grano che egli aveva lasciato nelle tramogge, volendo un de' garzoni chiedergliene dell'altro, se n'andò all'uscio della camera, e più volte ad alta voce lo chiamò; e ve- duto che niuno non rispondeva, forte maravigliandosi, potendo pensar che cosa potesse esser questa, po- sciachè egli ebbero picchiato parecchi e parecchi volte, e che dentro non si sentiva romore alcuno, e' si dili- berò di romper l'uscio; e fattosi aiutare dagli altri gar- zoni, che eran tratti a veder quel romore, se ne entra- rono in camera; e senza veder quella donna in luogo alcuno, e' s' avvidero che lo sventurato lor padrone stava appiccato per la gola a un travicello che spun- tava in fuori in un cantone di quella camera. Il pianto fu grande, e i ragionamenti fur molti; e finalmente, le- vatogli quel capestro dal collo, diedero ordine di sot- terrarlo, e onorevolmente il di medesimo, colla compa- gnia di tutti i mugnai di quelle contrade, e altri parenti e amici, fu menato alla sepoltura. E venuto il di dipoi, la figliuola, che di pochi di avanti se n' era andata a marito ad un castello non mollo lontano, lamentandosi altamente, battendosi la fronte, e stracciandosi i capegli, e piangendo lo infortunio del morto padre, alla sua casa se ne venne, affermando che non altri stliele aveva an- nunziato, ma ella medesima per sle&sa lo aveva siv»

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puto: imperocché la notte davanti, mentre ella dormiva, il padre, col capestro avvolto ancora intorno alla gola, e colle lagrime sempre in sulle gote, le aveva racconta l'abbominevole opera della malvagia matrigna, e in che guisa, e per che conto, e come egli si fusse morto. La qual cosa ella distesamente narrò in guisa, che tutti noi che eravamo presenti, lo potemmo intendere. E questo fu il modo per lo quale io seppi cosi dislesamente questa novella : il quale ti basti per tutte le altre volte, che tu ti maraviglierai ch'io abbia inteso le cose così per lo minuto; ch'io non ti voglio ogni volta avere a render ragione del fatto mio. Posciachè la tapinella si fu cruciata per lungo spazio co' pianti e co' lamenti, rac- consolata dagli amici e da' parenti di casa, diede pur finalmente luogo al gran dolore; e consumate che fu- rono tutte le cerimonie che si costumano in quel paese alla morte di un capo di casa, in capo de' nove giorni tutte le cose mobili, bestiame e masserizie, fu messo allo incanto. E cosi la licenziosa Fortuna le robe d'una sol casa, con gran fatica in lungo spazio insieme ragù- nate, ella disgregò in picciol tempo nello arbitrio d'in- lìnile persone; ed io, fra gli altri, capitai nelle mani

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d'un poveretto ortolano, comprato venticinque lire, naa caro, secondo che egli medesimo diceva; e la sua e la mia fatica gli avevano a guadagnar le spese. La qualità della cosa qii par che richieda eh' io esponga eziandio il ojodo di questa mia nuova servitù, Questo mio pa- drone aveva per usanza ogni mattina avanti il giorno menarmi carico con una soma quanto] mai ne poteva portare, ad una città vicina all' orlo dove egli stava ; e quivi lasciando l'erbe a quelli che le rivendevano, messomisi sopra le spalle a sedere, acciocché io durassi pili fatica, se ne ritornava all' orto. E mentre che egli aspettando la sera per rimenarmi un'altra volta, o zap- pava, o annaffiava , o faceva altro esercizio per l'orto, io prendeva un poco di riposo. E aggirandosi 1' anno per le solile rivoluzioni delle stelle, e per lo sòlito nu- mero de' mesi e de' giorni canjininando, dopo le mostose dolcezze dello Autunno inchinandosi alle vernerecce brinate del Capricorno, senza aver mai cencio di ferro in pie, mi faceva mestiero camminare su per quei ghiacci, che tagliavan coinè rasoi; e per ristoro poi, mi stava alle piogge e alle nevi tutta la notte in una stallacela coperta con non so che frasche, che vi pioveva dentro come fuora: imperocché quel mio padrone era si po- vero, ch'egli avea disagio di un po' di strame per dor- mirvi su, non che egli avesse dove mettermi a coperto; come quelli che sotto ad un frascato (che non so se io me la voglio chiamare capanna, tanto avea cattiva coperta) e' si dormiva in piana terra, come farebbe un altro in un letto spiumacciato : e spesso spesso egli ed io avevamo una medesima cena, ma breve; certe lat- tugacce tallite, che era come mangiare scope, e non sapevan se non d'un certo lattiflccio, che era amaro come uno assenzio. Accadde una sera fra 1' altre, che un uomo dabbene, che aveva una Jsua possessione lon- tana di quivi sette o otto miglia, sopraggiunto da una gran pioggia, e avendo il cavallo stracco, non gli bastò l'animo d' andare più innanzi, e ne chiese albergo per quella notte. Il povero ortolano benignamente lo rice-

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Vf/.to; e corso in vicinanza a provvedergli qualclie cosa 'i% oona, non secondo ciie meritava quello uomo dab- l»eno, ma secondo la sua povertà, e come comportava il tempo, il trattò assai piacevolmente. Laonde deside- roso il buono uomo di rimeritarlo di tanto beneficio, gii promise di aiutarlo, e dargli un poco di grano, un poco d' olio, e non so quanto più di due barili di vino. Non isteite il mio padrone a dir: che c'è dato? clu! subito che queir uom dabbene si fu partito, preso un sacco e due barili un poco giusti, e postomegli addosso, ed egli poi messosi a cavalcioni fra essi per soppras- sello, ne mettemmo in via. E appena eramo camminali .sei o sette miglia e mezzo, che noi arrivammo alla pos- sessione di quel valente uomo, dal quale noi ne fummo ricevuti tanto amorevolmente, che io non ve lo potrei mai dire. E ordinato abbondevolmente da fare colezione, egli invitò il padrone, e a me dare del fieno e del- l'orzo; cosa che non aveva veduta, non che assaggiata, poi che io fui di quell'ortolano. E mentre che ognuno di noi attendeva a trionfare, egli accadde un prodigio mriio maraviglioso: una gallina uscita del branco delle aloe, gracidando come se pur allora far volesse l'uovo, se ne corse per lo mezzo dell' aia dove coloro desina- vano con una furia molto maravigliosa ; la quale ve" de<ido il suo signore, disse: La mia buona monnina, l;i quale già tanto tempo ci hai ogni giorno pasciuto col frullo tuo, secondo che a me pare, tu vuoi adesso pa- gare il solito tributo. E chiamando un fanciuUetto, se- guitò: E però prendi quel nidio, dove ella altre volto suole far l'uovo, e mettilo in quel canto, acciocch'ella possa far l'uficio suo agiatamente. E facendo il fanciii'l quanto gli era stato imposto ; la gallina, senza curarsi d'entrarvi dentro, itasene davanti a' piedi del signore, partorì non un uovo, come fanno le altre galline, ma un pollastro colle penne, colle unghie, e colla cresta: il quale, pigolando, subito eomineiò a seguitar la ma- dre. E mentre che tutti noi ripieni di maraviglia eramo intenti a rimirar cosi fatto miracolo; egli ne accadde

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un altro molto maggiore, e fuori di tutti gli ordini della natura: imperocché sotto la mensa, dove coloro desi- navano, in quel luogo appunto dove erano cadute le reliiuie del desinare, la terra si aperse infln del pro- fondo, e subitamenre vi nacque un grandissimo fonte di sangue; e perciocché egli zampillava all'aria ben alto, molte gocciole ne caddero in sulla tavola, e imbratta- rono tutta quanta la tovaglia. E mentre che, tremando per la paura, stavano come balordi a rimirar che cosa volesse esser questa, e' venne correndo uno della cella, e raccontò come tutto il vino, che era per le botti, aveva incominciato a bollire, non altrimenti che se egli fusse stato in una caldaia sopra a qualche gran fuoco. aveva finito di raccontar costui questa sciagura, che noi vedemmo una donnola, che se ne portava un ser- pente morto per bocca. E voitoci dall'altro canto, noi ci accorgemmo che della bocca d' un can da pecorai era uscita una rannocchia viva; e un montone, che era appresso a quel cane, presolo co' denti, allora allora con un sol morso lo strangolò. Queste tante e cosi fatte cose, con grandissima ed isterminata paura di quel po- vero nomo e di tutti gli altri di casa, avevano fatto cadere ognuno che vi era in una grandissima paura e ammirazione. E cosi, mentre che il buon vecchio vo- leva dare ordine con orazioni, digiuni, e limosino, e al- tro pie opere, di placare e rimuovere l'ira del cielo, e' sopraggiunse un altro suo f nte, e raccontògli come a ronfine delle sue posessioni era stata fatta una grandis- sima strage. Aveva costui tre belllssirni figliuoli, ora- mai tutti uomini fatti, letterati, gentili e graziosi, de' quali egli viveva conifitissimo soprammodo. Tenevano ([uesti giovani una stretta amicizia e antica con un po- vero uomo padrone d' una possessioncella non molto lontana da loro, a' confini della quale aveva di molte belle possessioni un giovane, che per essere animoso, ricco e d'una nobilissima famiglia, e' poteva nella sua ritta tutto quello che egli voleva; ma egli non usava questa sua potenzia se non in dispiacere altrui, e iar

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Violenza ora a questa e orn, a quel povero uomo. E perchè quello stecco di quella possessioncella di quel povero uomo ^li era sempre ne^fli occhi, egli aveva in ogni modo deliberato di averla; e perchè ella gli venisse a noia, e da lui venisse il dargliela, egli vi laceva su ogni di qualche danno: e or gli ammazzava le pecore, or gli toglieva i buoi, e or gli dava il guasto alle biade; gli bastando questo, e' cominciò a metter mano alle strisce de' campi; e mossoli non so che lite sopra de' confini, gli andava usurpando a poco a poco ciò eh' egli ave\'a. La qual cosa veggendo quel poveretto, il quale per altro era una persona tutta modesta, e deliberando di vedere se egli si poteva preservar pure almen tanto terreno di quello che gli aveva lasciato il padre, che egli vi si potesse seppellire dentro; avea ragunati molti e amici e parenti, a cagione che egli si vedesse un tratto come stavan quei benedetti confini: e fra gli altri, egli vi erano quei tre fratelli, disiderosi sopra tutti gli altri di porgere qualche aiuto a' bisogni del poveretto amico. Contullociò quel bestiai giovane, senza aver tema o ri- guardo della presenza di tanti cittadini, non solamente non volle rimuover le rapaci mani dalla disonesta im- presa, ma non si astenne da mille parole ingiuriose;© quanto più coloro cercavano colle piacevolezze di ad- dolcire la sua mala natura, allora egli faceva peggio. E voltosi loro con una stizza grandissima, disse: Cosi Dio mi tjuardi me, e tre carissime sorelle ch'io ho, come io fo quel conto di voi altri, che volete comprar l'al- trui brighe, come del terzo pie ch'io non ho; e ogni poco che voi n)i facciale stizzare, io farò prendere a' miei servidori quesio ribaldo per le orecchie, e giltare a terra d'una di queste balze. Empierono le arroganti parole gli animi di lutti coloro d'una ragionevole indi- gnazione; perchè un di quei Ire fratelli, il maggiore, parlando cosi un poco più liberamente che alcuno altro, gli disse: che ancorché egli fusse si ricco, che e' non farebbe àc^ tiranno ms' comp **' 'Pinacr.iava, usereUbu Uima bdij^iljut, u ciie ancora i poven, iiV

224 DRU,' ASINO n'oRO

della morte <\[ innli cUladmi , i (|iuili non per le tuo mani, ma co* morsi de' tuoi arrabbiati cani stanno cosi vilmente distesi per terra ; e ancorctii^ tu abbia predate le possessioni a questo vecchio, e distesi e ailiinctali i termini a modo tuo, ricordati che tu hai a confinare con chi che sia: oramai questa mano, la quale indubi- tatamente avrebbe levatoli il capo dallo imbusto, per- cossa dal passato colpo ha finito i giorni suoi. Per le cui parole esasperato il furioso ladrone, messo mano per un suo coltello, si gli giltò addosso per ammazzar j: ma egli non si riscontrò in uomo men forte di lui; il quale resistendogli con un suo pugnale, e dandogli in- lìniti colpi, li trasse 1' anima del corpo, a dispetto suo e di quanti famigli che egli aveva dintorno; e sano e salvo usci lor delle mani. E non gli hastando l' animo di sopravvivere alli suoi carissimi fratelli, posciach'egli ebbe fatto di loro cosi bella vendetta, cacciatosi nella gola quel medesimo pugnale che aveva ammazzato il nemico, mandò la sua pietosa anima a tener lor com- pagnia. Questo era lo infortunio che avevan significato gli occorsi miracoli: il quale come il povero vecchio ebbe minutamente udito raccontare, senza mai poter dire una parola, non mandare fuora una lagrima, non un sospiro, preso quel coltello col quale poco fa aveva par- tilo il cacio e le altre cose per desinare, in guisa che il suo figliuolo fatto aveva, si scannò; e cadendo in quel luogo donde eran cadute alcune macchie di quel portentoso sangue, con alcune gocciole delle sue le rin- frescò.

Essendo adunque, nella guisa che voi avete potuto comprendere, disfatta in tanto picciolo spazio una cosi fatta casa, quello ortolano non potendo fare alt io che dolersi di tanto infortunio, e rammaricarsi della sven- tura sua, che non gli aveva lasciato cavarne altro che un desinare, e anche quello gli aveva fatto pagare colle sue lagrime; sicché, non sappiencio altro che farsi, ri- messomisi addosso, ce ne ritornammo per la medesima via. Ma posciachè con tanta disgrazia era stata l'andata,

LIBRO NONO 22S

almeno non fusse stato cosi infelice il suo ritorno ! im- perocché mentre amendue noi così addolorati ce ne ve- navamo, egli ci si fece incontro un certo uomo grande, secondochè l'abito e la presenza dimostravano, soldato; e con una voce arrogante e' dimandò il mio padrone, dove egli menasse così voto quello asinelio. Ma egli, che ancora attonito per la passata sciagura, e in oltre non intendeva troppo bene il suo linguaggio, percioc- ché colui parlava francioso, se ne passava senza dir niente. Laonde il soldato, preso sdegno, perch' e' non rispondeva, potendo affrenar la sua naturale inso- lenza, dandogli cosi una spinta, e gittatolo da cavallo, più arrogantemente che prima soggiunse : Villan pol- trone, tu non vuoi dirmi dove tu meni cotesto asinelio? Perchè l' ortolano scusandosi eh' e' non gli aveva ri- sposto per non intendere il suo linguaggio, e il meglio eh' e' sapeva raccomandandosegli, gli disse che andava alla città. A cui seguitò il soldato: Bene sia: io ne ho un poco di bisogno: imperocché io ho a far vettureg- giare certe robe del mio capitano insieme con molte altre bestie, che sono in castello qui vicino. E detto fatto, gittatemi le mant alla cavezza, mi voleva tirare inver lui. E quel poverello, nettandosi ancor colle mani il sangue d'una ferita che egli si aveva fatta cadendo, a più potere gli si raccomandava, e pregavate, che per lo amor di Dio e' lo lasciasse andare; e che io era un asinaccio, che non poteva la vita, e cadeva ad ogni passo, e che avea fatta T ambascia, che appena po- teva portare quattro mazzi di spinaci", e che egli era povero uomo, e non viveva d'altro; e mille altre cose così fatte. Ma accortosi alla fme che le parole giovavan poco, anzi gli facevan tuttavolta toccare qualche buon pugno, egli prese uno astuto e ultimo rimedio: e ingi- nocchiatoseli a' piedi , col mostrare di voler implorare la sua clemenza, abbracciatogli ambe le ginocchia, e' lo prese per tramendue le gambe, e alzatolo così un poco all' aria, gli fece dare il più bello stramazzone in terra, che mai vedeste forse un'altra volta; e poscia monta -

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224 DKM.' ASINO n'ORO

della morte (\ì tanti cUtadmi , i (inali noti per le tuo mani, ma co' morsi de' tuoi arrabbiali cani slaiu'o cosi vilmente distesi per terra; e ancorché tu abbia predate le possessioni a questo vecchio, e distesi e alliinsali i termini a modo tuo, ricordati che tu hai a confinare con chi che sia: oramai questa mano, la quale indubi- tatamente avrebbe levatoli il capo dallo imbusto, per- cossa dal passato colpo ha finito i giorni suoi. Per le cui parole esasperato il furioso ladrone, messo mano per un suo coltsllo, si gli gittò addosso per ammazzar j: ma egli non si riscontrò in uomo men forte di lui; il quale resistendogli con un suo pugnale, e dandogli in- finiti colpi, li trasse l'anima del corpo, a dispetto suo e di quanti famigli che egli aveva dintorno; e sano e salvo usci lor delle mani. E non gli bastando l'animo di sopravvivere alli suoi carissimi fratelli, posciach'egli ebbe fatto di loro cosi bella vendetta, cacciatosi nella gola quel medesimo pugnale che aveva ammazzato il nemico, mandò la sua pietosa anima a tener lor com- pagnia. Questo era lo infortunio che avevan significato gli occorsi miracoli: il quale come il povero vecchio ebbe minutamente udito raccontare, senza mai poter dire una parola, non mandare fuora una lagrima, non un sospiro, preso quel coltello col quale poco fa aveva par- tito il cacio e le altre cose per desinare, in guisa che il suo figliuolo fatto aveva, si scannò; e cadendo in quel luogo donde eran cadute alcune macchie di quel portentoso sangue, con alcune gocciole delle sue le rin- frescò.

Essendo adunque, nella guisa che voi avete potuto comprendere, disfatta in tanto picciolo spazio una cosi fatta casa, quello ortolano non potendo fare aitio che dolersi di tanto infortunio, e rammaricarsi della sven- tura sua, che non gli aveva lasciato cavarne altro che un desinare, e anche quello gli aveva fatto pagare colle sue lagrime; sicché, non sappienrlo altro che farsi, ri- messomisi addosso, ce ne ritornammo per la medesima via. Ma posciachè con tanta disgrazia era stata l'andata,

LIBRO NONO 22S

almeno non fusse stato cosi infelice il suo ritorno ! im- perocché mentre amendue noi cosi addolorati ce ne ve- navamo, egli ci si fece incontro un certo uomo grande, secondochè l'abito e la presenza dimostravano, soldato; e con una voce arrogante e' dimandò il mio padrone, dove egli menasse così voto quello asinelio. Ma egli, che ancora attonito per la passala sciagura, e in oltre non intendeva troppo bene il suo linguaggio, percioc- ché colui parlava francioso, se ne passava senza dir niente. Laonde il soldato, preso sdegno, perch' e' non rispondeva, ne potendo affrenar la sua naturale inso- lenza, dandogli cosi una spinta, e gittatolo da cavallo, più arrogantemente che prima soggiunse : Villan pol- trone, tu non vuoi dirmi dove tu meni cotesto asinelio? Perchè l' ortolano scusandosi eh' e' non gli aveva ri- sposto per non intendere il suo linguaggio, e il meglio eh' e' sapeva raccomandandosegli, gli disse che andava alla città. A cui seguitò il soldalo: Bene sia: io ne ho un poco di bisogno: imperocché io ho a far vettureg- giare certe robe del mio capitano insieme con molte altre bestie, che sono in castello qui vicino. E detto fatto, gittaterai le mani alla cavezza, mi voleva tirare inver lui. E quel poverello, nettandosi ancor colle mani il sangue d'una ferita che egli si aveva fatta cadendo, a più potere gli si raccomandava, e pregavalo, che per lo amor di Dio e' lo lasciasse andare; e che io era un asinaccio, che non poteva la vita, e cadeva ad ogni passo, e che avea si fatta V ambascia, che appena po- teva portare quattro mazzi di spinaci; e che egli era povero uomo, e non viveva d'altro; e mille altre cose cosi fatte. Ma accortosi alla fine che le parole giovavan poco, anzi gli facevan tuttavolta toccare qualche buon pugno, egli prese uno astuto e ultimo rimedio: e ingi- nocchiatoseli a' piedi , col mostrare di voler Implorare la sua clemenza, abbracciatogli ambe le ginocchia, e' lo prese per tramendue le gambe, e alzatolo così un poco all' aria, gli fece dare il più bello stramazzone in terra, che mai vedeste forse un'altra volta; e poscia monta -

FIRENZUOLA l'ò

52fi DKU,' ASINO d'oro

ioli addosso , cbe pareva proprio un galletto su una bica di grano, colle pupna, co' calci, co' morsi, e colle pietre che eran quivi dattorno, pli pi>stò le spalle e tutto ciò che egli era. quel fastellaccio, poscia eh' e' fu in terra, si potè mai o rizzare, o rivolgere, o coprirsi il viso, o far difesa veruna; ma quello che sol poteva, egli attendeva a minacciarlo, che come e' si levava in piedi, lo voleva tagliar a pezzi con una sua coltella che egli avea accanto. Per le quali parole avvertito l'ortolano, gliela levò da lato, e scagliatola discosto da quanto più potè, di nuovo ritornò con più furia che mai a percuoterlo e lacerarlo. vedendo il valente soldato altro rimedio alla salute sua, e' fece vista d'es- ser morto: la qual cosa credendosi l'ortolano, se g)i levò daddosso; e presa la sua spada, e cintosela a' fianchi, se ne risalse sopra di me, e con quella furia

che e' potè la maggiore, senza curarsi pure di veder l'orto, se ne corse verso la città. E andatosene a casi d'un amico suo, e raccontoli il fatto, il pregò che egli lo nascondesse in casa sua insieme con quel suo asino, insino a tanto eh' e' fuggisse quella prima furia di due

ITBRO NONO èa?

0 tre /li. diMienticato quel valeate uomo della vec- cbia amicizia, gli promise benignamente di far tutto quel cn' e' voleva : e legato a me tutti e quattro i piedi, rr-i menò sopra un palcaccio, che era in cima della casa, che non vi capitava mai persona: e l'ortolano cacciò in una stanza terrena sotto una cesta, e molto bene il ricoperse, sicché egli non potesse cosi agevolmente es- sere trovato. Il soldato, secondoché io intesi dipoi, ri- svegliatosi come da una greve crapula, traballando ad ogni passo, appena sostenendo-si sopra di un suo bastone, così mal condotto come egli era, se ne venne cosi pia- namente alia città; e vergognandosi della sua viltà e della sua poltroneria, non ardiva con alcuno de' citta- dini dirne cosa del mondo, ma tacitamente si andava inghiottendo quella ingiuria: se non che pur ritrovati certi soldati della medesima compagnia, e' contò loro questa sua sciagura ; i quali mandandolo subito allo al- loggiamento, gli dissero eh' e' vi si nascondesse per pa- recchi giorni, acciocch' e' non si scoprisse questa sua gran codardia, e non si sapesse che da un villano di- sarmato gli fusse stata tolta la spada cosi vilmente; per lo qual fallo egli meritava, oltre alla vergogna d'es- ser casso, di portar mille altre pene; promettendoli, che in quel mezzo essi ricercherebbono con ogni dili- genza dell'ortolano, e farebbono in guisa ch'egli non se ne potrebbe vantare. duraron molta fatica a ri- trovarci; imperocché uno scellerato e perfido vicino, che ci aveva veduti entrare , e' insegnò loro. Perchè egli senza indugio andatisene al magistrato, disserx) che avevano perduto, andando per la strada, un vaso d'ar- gento di grandissimo pregio, il quale era del loro ca- pitano; e che un certo ortolano, che lo aveva ritrovato, non voleva loro restituirlo, anzi s'era nascosto in casa d'uno amico suo. Allora il magistrato, credendo che la cosa fusse così com'è' la porgevano, mandò tutta la Corte alla casa dove noi eravamo, per pigliarci : e giunto che fu il bargello dove noi eravamo, e'fecero intendere a quel nostro ospite, ch'egli ci desse loro

228 dell'asino d'oro

nello mani, se egli non voleva portare grandissimo pe- ricolo del fallo altrui. Non si spaventò miga per que- sto il buono amico per le loro minacce; anzi avendo più cura alla salute di colui, che egli aveva ricevuto sotto la fede, che alla sua, senza confessar niente, te- neva pur loro detto col più severo volto del mondo, che egli era parecchi e disparecchi giorni che egli non gli aveva mai veduti: ma quei soldati, pigliandone ogni saramento, scongiuravano e dicevano pure che noi era- vamo là entro. Perchè veggendo il bargello, che quanto colui più negava, questi altri più affermavano, e' diede ordine, eh' e' si cercasse la casa per tutto. E mandato entro due a suo proposito, comandò loro, che con ogni diligenza ricercassero per ogni cantone, se vi ci trovavano : i quali avendo cercato un pezzo^ ci sap- piendo ritrovare, riferirono che non avevano saputo vedere ortolano, asino, altra persona. Allora fu il romor grande non solo fra il padrone della casa

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e i soldati, ma con gli sbirri ancora: e' vi sono, e' non vi sono: e' fu per andare a romore tutto quel paese. Perchè io, che, come Ti potete ricordare, era in

LIBRO NONO 229

cima della casa, per intender meglio che strepito fusse questo, mi feci a una fenestra, che riusciva nella, strada; prima mi vi fui affacciato, che uno di que' soldati, accortosi dell'ombra mia, alzò il capo, e si mi vid^e. Perchè levato subito un grande schiamazzo , mi dimo- strò a tutta la brigata. Levossi un grandissimo romone, ed io come prigione fui da non so che guida da quelle scale strascinato : e senza indugio alcuno, cercata più sottilmente tutta la casa, trovarono quel misero orto- lano nella cesta, e nelfa pubblica prigione il condussero a portar pena del commesso male ; ma di me ridendo grandemente si sollazzavano. Per la qual cosa nacque il proverbio che si dice, del guardar dell' om'bra dello asino.

LIBRO DECIMO

Non so quello che si facesse nel seguente giorno il mio padrone ortolano, ma io fui menato via da eolui che fu nella strada così maltrattato. Io era armato so- pra le spalle di elmo, di scudo e di lancia, di maniera ch'io spaventai molti viandanti: e cosi col carriaggio del soldato addosso, per via piana e non molto aspra arrivammo ad una picciola città; e quivi non nella osteria ma in casa d' un cittadino fui consegnato a un servo per lo nuovo padrone, e n' andò prestamente a un suo colonnello, il quale avea il governo di mille fanti. Nel tempo eh' io stetti fermo in quel luogo, intesi una grandissima e scellerata cosa, la quale cosi come fu vera a voi la racconto.

Aveva il padrone di quella casa un figliuolo e di let- tere e d' ogni altra virtù tanto eccellente, che un tale non se ne potrebbe augurare. Morta la costui madre

230 dell' Asmo r>'oRO

già molto tempo avanti, e rnenaia auova moglie, aveva generato un altro figliuolo. Il quale era d'età di dodici anni. Questa matrigna, più di bellezze che di buon co- stumi ornata, alla beltà del figliastro aveva posto gli occhi; 0 che di natura fosse impudica, o che la For- tuna a questo estremo male destinata l'avesse. Sappi, lettore, che non una favola, ma una tragedia leggerai; e però 1' animo all' altezza del fatto apparecchia. Ben potè questa misera femmina con silenzio comportar l'amore, mentre che picciolo fu, nel principio uguale alle sue forze; ma poiché le midolle dellesecrabil fuoco accese la sforzarono cedere allo amore, simulandosi in- ferma del corpo, copriva la ferita dell'animo, mostran- dosi d'occulta febbre assalila; perciocchi^ l'amore e U febbre ne' segni di fuori convengono assai: cosi la dif- forme pallidezza degli occhi sbattuti, le ginocchia strac- che, il sonno interrotto, i tormentati sospiri, e il tre- pidante polso, febbrosa la mostravano in ogni effetto; 88 non che oltre alle soprascritte passioni, ancora, pian- geva. Ahi vane menti de' medici I il polso della vena, lo stemperato caldo, il foiticoso spirare, e le spesse voUa- zìoni or su uno or sull'altro fianco, sono segu» incerti e dubbiosi ; ma il conoscer l'amorosa passione è agevole a ciascuno intendente, quando si vede alcuno ardente senza corporal calore stimolato. Questa.femmina adun- que ardente del focoso pensiero, fece chiamare a il figliastro, il cui nome avrebbe volentieri levato, per non farlo accorto della sua vergogna. Venne il giova- netto alla camera della moglie di suo padre, e madre del suo fratello. Ma ella lungamente con silenzio tor- mentata, siccome ella fusse stata entro una palude di' dubitazione inviluppata, tutte le parole che pensava es- sere attissime al suo ragionamento e lodava e vitupe- rava, né sapeva come si dovesse cominciare. Ma il gio- vanetto, che ogni altra cosa che questa pensava, con piacevole volto la domandò della cagion della sua nia- laiiia. Allora, parendole che le parole lusserò cadute a suo proposito, preso un poco più baldanza, coprendosi

LIBRO DECIMO 231

il viso col lenzuolo per la vergogna, e accompagnando le sue parole con una larga copia di lagrime, gli prese a dire in questa guisa: La cagione e 'I principio del pre-

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sente mio male e del mio grandissimo dolore, e la me- dicina mia e la mia salute se' tu medesimo; cotesti splen- dentissimi occhi tuoi, passati per gli occbi miei alle fim- brie del mio cuore, mi hanno acceso entro al misero petto tanto il grandissimo fuoco, che più sopportar noi posso: abbi adunque misericordia di colei che muore per tua cagione, ti spaventino il vincolo e la ne- cessità paterna ; e perciocché tu sarai quegli che gli pre- serverai la povera mogliera, che senza 1' aiuto tuo non si può più. sostenere in vita, e la quale, in te ricono- scendo la di lui immagine, nel tuo volto ama, e merita- mente, il suo marito ; l' essere noi due qui soli ne por- gono quella fidanza e quella comodità che tu vuoi; e quello che non saprà persona, ancora eh' e' si faccia, è quasi come s'è' non si facesse. Andò tutto sottosopra il costumato giovane udendo l'abbominevol domanda: e ancoraché egli abborrisse cosi grandemente lo enorme peccato , eh' e' fusse per torsele davanti senza mai

J32 dell' asino d' oro

altro rispondere; pur meglio, rìconsigliato , e' non gli parvo da esasperarla col dirle cosi ad un tratto di no : ma pensò di' e' fusse più al proposito con al- cuna dilazione di tempo iutertenerla, per poter ve- dere di torle dalla mente si sozzo e strano pensiero. E però le rispose, che attendesse a guarire, e slesso di buona von;lia, che egli le prometteva di renderle bonissimo guiderdone dell' amor suo ; e come il pa- dre, assentandosi uu poco dalla terra, desse loro agio di poter essere lungamente insieme, e che ella fusse ben guarita, che egli farebbe di s6 tutto il suo piacere: e mille anni gli parve di levarsi dinanzi al temerario de- sio della disonesta matrigna. E pensando infra sé, che una cosi fatta rovina avesse bisogno d'un gran consi- glio, egli giudUcò eh' e' fusse ben riferire ogni cosa ad un saggio vecchione, appresso del quale egli avea util- mente consumata la sua fanciullezza, e ora sostenevano la sdrucciolevole adolescenza. Al quale, come chi cono- sceva bene quello che una infuriata donna potesse, e quanto strano le paresse non esser compiaciuta, parve con veloci passi che egli fusse da fuggire la imminente tempesta della incrudelita fortuna. Ma avanti che la prudente deliberazione sortisse effetto, la impaziente giovane, a cui un sol giorno era un anno vertente, seppe tanto ben fare, che dando ad intendere al marito, che egli era bene che egli andasse ad alcune sue pos- sessioni assai discosto, imperocché ella aveva inteso che egli vi andava male ciò che v'era, ella il sospinse fuori per non so quanti giorni : e subito partito eh' e' fu, fattosi venire il giovane, il costringeva pure ad at- tenderle la promessa. Ed egli or questa or quella scusa prendendo, s'ingegnava tener pasciuto di parole il suo desiderio, finché con un suo lungo viaggio egli dinanzi se le levasse. Ma ella, cui la grande speranza aveva fatto troppo più che 1' usato impaziente, accortasi per la varietà delle debili scuse, che egli quanto le promet- teva più, più si dilungava dallo osservargliele, sdegnata, e voltato in un subito lo scellerato amore in uno odio

LIBRO DECIMO

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vie più scellerato, avuto a uno schiavetto, che ella aveva roeuato seco di casa sua, e al quale ogni gran male sarebbe paruto piccolo, con lui si consigliò del modo che si avesse a tenere a vendicarsi della onesta costanzia (ma perfidia la chiamava ella) dello innocente giovane: parve lor Analmente cosa più al proposito che con veleno torre la vita al meschinello. prese indugio il fellone servo a dare effetto al crudo pensiero; anzi allora allora andatosene fuori, non prima ritornò a casa, che egli portò in un bicchiere una sua bevanda, la quale avendo mescolata col vino, in camera della madonna dentro ad un armario la pose. E mentre che egli aspettava occasione di porgerlo al giovane, come volle la fortuna, quel più giovane, e figliuol naturale della pessima donna, essendo ritornato una mattina dalia scuola, e avendo fatto un poco di colezione, si gli lece sete; e venendogli per le mani quel bicchiere, il quale la imprudente donna, o per istraccurataggine,

o pur perchè cosi la giudicava il suo peccato, ella aveva lasciato in quello armario senza serrarlo;

534 dell'asino d'oro

sappiendo quello che entro vi si fiisse, lutto se lo bevve : piuttosto ebbe bevuto il crudele e destinato pericolo del suo fratello, die egli cascò disteso in piana terra. Della qual cosa accortosi un suo inaeslro, montato in sulle furie per così terribile e repentino accidente, pianjjcndo e mettendo a romore ogni cosa che vi era, fece ivi correr la madre e tutta la famiglia: i quali tutti, conosciuta la cagion della sua morte, chi l'apponeva ad una persona, e chi ad un'altra ; ma tjueiia malvagia femmina, e unico esemplo delle malizie delle matrigne, non commossa per l'acerba morte del picciolo figliuolo, non dalla coscienza macchiata da cosi abbo- minevol peccato, non dalla rovina di tutta la casa, non dal dolor del povero marito, anzi arrabbiata, infuriata, in- diavolata più che mai, cercò modo, con accrescimentc d'occasione, di vendicarsi di quella oPfesa, che essa si aveva fatta da stessa. E spaccialo subito uno a po- sta al marito suo, e fattogli annunziar la morte de! figliuolo, come più tosto fu tornato in casa, copertasi con una maschera d' una indicibile temerità, gridando; e meltendo a soqquadro la casa, diede ad intendere al- l'infelice padre, che '1 veleno del figliastro aveva tolte ia vita al suo figliuolo. Ma in questo ella non diceva però menzogna; coneiossiachè quel veleno, che aveva a trar dal mondo il figliastro, quello stesso aveva morto il suo fratello: e perchè la cqsa avesse più del verisi- mile, ella aggiungeva, che ciò era avvenuto per non avere ella voluto acconsentire alla sua scellerata liBi' dine; e, mentendo, agfriugneva d'essere stata mi nacciats di morte da lui. Quando questo scòpre lo infdiice pa- dre, percosso dalla morte del figliuolo, anzi quasi d'amen- due, assai più del suo infortunio si doleva: perciocché il più giovane g\k si ve^dea portare davanti alla sepol- tura, e '1 maggiore per lo incesto e parricidio sapej di certo dover essere alla morte condannato. Or da' faJs lamenti della moglie ingannat(T, ognora più di rabbiose odio contra il figliuolo s' infiammava. E appena eram l'esequie compiute, che '1 miserabil vecchio si part(

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dalla sepoltura , e siccrom'e era col volto lagrimoso ne va al palagio; e quivi con lagrime e con preghi s'ado- perava alla morte di quel figliuolo, che solo gli era re- stato, chiamandolo incesto per lo paterno letto macchiato, parricida per 1' ucciso fratello, e assassino per aver mi- nacciata la matrigna di morte. E con tanta indignazione aveva mossa la plebe e la corte , miserabilmente par- lando , che ognun gridava , dicendo : Questo si grave peccato doversi pubblicamente punire, lapidandolo, senza perder tempo in accusa difesa. Ma gli ufficiali , per tema del proprio pericolo, ora pregando i signori, ora acquetando il popolo , persuasero che dirittamente e secondo il costume antico fosse la sentenza diligente- mente intesa, a guisa di barbarica fierezza o di ti- rannica potenza fosse condannato alcuno senza udire la sua ragione ; e che esempio tanto crudele non si mettesse in usanza, che per indignazione e non per giu- ste prove s' uccidesse alcuno. Piacque a ciascuno que- sto parere, e però furono chiamati in corte i consiglieri. Fu secondo il costume della legge citato il reo , e de- nunziata la causa all'accusatore. Ma con quai parole r uno accusasse e l'altro si difendesse , non saprei io dire, perchè io mi stava legato alla mangiatoia : e que- sto che fin qui v'ho riferito , intesi dal parlare che fa- cevano insieme le persone. Ora ,• poiché la contenzione del parlare fu Anita, non piacque ai giudici di terminar questi così gravi peccati per congliietture o sospizioni, ma per ferme prove e certa verità. Onde parve loro > che quel servo fosse quivi presentato. Cosi quel servo» continuo compagno della forca, fu condotto, senza smar- rirsi punto, al cospetto di tante onorevoli genti, sbi- gottito della coscienza del male che egli avea fatto; anzi oominciò, mostrando molta paura, a dipingere una certa sua favola, dicendo che questo giovane, sdegnato del fastidio della matrigna, lo avea domandato, che in sua vendetta volesse uccidere il figliuol di lei, prometten- dogli gran premio, e che ricusando questo, egli lo mi- nacciò di morte; per la qual tema egli fu costretto a

236 dell'asino d'oro

comperar quel veleno, il quale stimava lui avere poi d' sua mano dato al fratel minore. Pareva molto presso air immagine del vero quello clje questo ribaldo men- tiva; con tante simulazioni di paura e semplicità di parole aveva quella scellerita ordita. rimase alcun cjiudice tanto amico al giovane, che non giudicasse doversi pc^rre al tormento. Ed essendo già, per iscritti brevi il parer d'ognuno gittar nel bossolo le fave nere e bianche; e dipoi quella sentenza non si poteva distor- nare, che dandosi il malfattore in mano al manigoldo, davasi esecuzione alla sentenza, quando un medico di molta integriti e autorità in quella corte, gettò la mano sopra la bocca del bossolo, coprendolo si che alcuno non vi potesse por dentro le fave; e rivolto agli altri, cosi disse: Io mi allegro poter dire, cha insino a que- sta età sia da voi riputato buono, posso patire, un manifesto omicidio essere da tutti noi commessa, i quali per giuramento siamo astretti di giudicare il di- ritto: ma che sarà, se io solo contra l' affermazione d'un altro mi oppongo? Io però son quello che mi stimate voi, ed egli è un servo ribaldo degno di mille /orche. Io so che la mia coscienza non m'inganna, e però udite la cosa com' ella sta veramente. Questo ri- baldo, son già molti giorni che m' ha sollecitato eh' io gli venda veleno subitano, offerendomi in prezzo cento ducati d'oro; dicendo averne bisogno per dare ad un certo infermo, il quale cruciato il giorno e la notte da una immedicabile idropisia e da mille altri dolori, avea desiderio, la mercè della morte, uscir di tante fatiche; e voleva ch'io gliel'ordinassi: perch'io veggendo questo ladroncello andare cincischiando le parole, mentre egli colali sue artificiose scuse ritrovava, cominciai a du- bitare eh' egli non volesse fare qualche gran male, e fui per dargli commiato; ma pensando poi fra me, che se io gliel negava, eh' egli se ne andrebbe ad un altro manco avveduto di me, che ne lo compiacerebbe, io giudicai che fusse bene dargli una pozione, e gliele diedi, ma di che natura ella fusse, voi l'intenderete più

LIBRO DECIMO 23?

giù di sotto. E tenendo per cosa certa, che questa cosa si avesse col tempo a ricercare, io non volli prender subito il prezzo ch'egli m'avea offerto; ma voltoraigli, dissi: Perciocché io dubito eh' e' non ce ne abbia di quelli che sieno falsi o leggieri, raettera'Ii qui in que- sto sacchetto, e segnera'li col tuo anello; e poscia un altro di, quando avremo maggiore agio, ce n'andremo al banco, e faremogli vedere : e giuntolo in questa guisa, io gli feci suggellar quel sacchetto col suo suggello. Ora ia me l'ho fatto portar dietro da un mio fante, ed ecco eh' io ve lo fo palese : vegga egli e riconosca il suo suggello, e dica in che modo può essere incolpato questo giovane di aver dato quel veleno al suo fratello, il quale ha comprato questo vile schiavo. Mentre che il va- lente uomo diceva queste parole, quel pessimo, divenuto come un corpo di sotterrato, e tremando dentro a verga a verga, gittava di fuore alcune gocciole d'un sudor freddo come un ghiaccio; e movendo i piedi ora innanzi e ora indietro, e or gittando il capo in qua e ora in là, cominciò con una bocca piccina a masticare non so che inezie, in modo che ninno ragionevolmente l'avrebbe potuto giudicare innocente. Nondimanco il temerario ribaldo, fattosi colla sua audacia incontro al timore, e via discacciatolo, ripreso ardire, e cominciato a ritrovar le vecchie astuzie, colla noedesima prontezza d'animo, accusando quel medico di menzogna, negava tutto quello ch'egli avea detto. Ma il ben vissuto vec- chio, per non macchiar la netta sua fama nell' ultimo degli anni suoi, con ogni inslanza s' ingegnava di mo- strare la verità della cosa: e però fatto trarre ad un degli esecutori della giustizia lo anello di dito a quel servo, e confrontatolo col segno di quel sacchetto, e trovato ch'egli era così come il medico diceva, l'ebbero per indizio sufficiente da metterlo alla tortura. Ma corda, dado, stanghetta, uovo, acqua, fuoco, cosa del mondo il poterono mai far cangiare d'opinione. Allora il medico, mosso da una giustissima indignazione: Io non patirò, disse, io non patirò che

J3S dell' Àsmo d'oro

contro ad ogni debito di ragione voi condenniate questo povero giovane alla morte, e che costui, scliernito il vostro tribunale, se n'esca libero sanza danno alcuno e senza pena; e darovvi al presente cosi evidente ar- gomento, che egli non ci (la che replicare. Voi avete dunque a sapere, che volendo questo pertinace scelle- rato, come già vi ho detto, che io il provvedessi quel veleno, nf» mi parendo che egli fusse convenevole ad un buon medico esser cagione della morte di veruno, come quegli che sapeva che la medicina era stata per salute e non per danno dell' umana generazione dimo- strata agli uomini dal cielo; e dubitando, come ezian- dio di sopra vi ho accennato, che se io cosi subita- mente gliel negava, che la inopportuna repulsi non lo facesse o cercare altrui, o a ferro o a cosa peggiore volgere il pensiero; io gli diedi non veleno, ma una pozion di mandragola, che fa dormire si profondamente, :he mentre ch-3 dura la di lei op^ragione, colui che l'ha presa lu... diviene -ilnmentl che se fusse morto. vi maravigliale, c.ij questo empio di tutti gli empj sopporti cosi leggiermente opni martoro ; imperocché egli non è così fuori di cervello, che e' non consideri, che la morte che egli per la sua indicibile ribalderia ha meritato, dee esser tale, che tutti i martirj che voi gli avete dato, sono appo qtiella e dolci e leggieri: e però se quel fan- fanciullo ha pr^^^rvli pozione, che io colle mie mani ho temprato, egli vive, e si riposa, e dorme; e come più tosto la fortez7,a della natura avrà discacciato la folta nebbia di quel sonno, la nostra luce di nuovo bella come prima gli apparirà: ma se egli è morto davvero, ricercate d'altronde la cagione, dubitate che costui 118 3ia stato il mezzano.

Dette che ebbe queste parole il pietoso vecchione, e' p; rve a tutti, che egli fusse, sanza indugiar niente, da audare al luogo dove era sepolto il giovane, per chia- rirsi di questo fatto: nessuno del palazzo, nessuno gen- tiluomo, nessuno della minima plebe rimase, che non iandasio a veder cosi fatto miracolo. E giunti ch'o'fn-

LIBRO tECTMO èSd

rono al luogo, il padi'e del giovane fu quelli che colle sue mani volle rimuover la pietra d'in sul monumento. voleva star più il pietoso soccorso; imperocché già aveva la^natura discacciata da la oscura sonnolenza, ed era il giovane ritornato dal regno di Plutone. Perchè il padre, abbracciatolo con quella tenerezza che voi vi potete pensare, per non avere parole sufBcienti alla presente allegrezza, tacendo il trasse fuori della sepol- tura, e così vestito delle funebri vesti, come egli era, il presentò dinanzi al podestà. Il quale, avendo poscia compiutamente inteso la scellerata opera dello iniquo servo e della scnlleratissima donna, diede a ciascuno il meritalo guiderdone; e al buon medico di comun consenso fu 'lasciato il pregio avuto dal servo per pa- gamento della sonnolente bevanda: e quel padre, che era in pericolo di perdere due figliuoli, barattandogli colia pessima moglie, che fu perpetuamente sbandeggiata, allor vivi e- innocenti gli riebbe, quando la Fortuna pa- reva che morti e colpevoli glieli volesse torre.

vi andò guari dopo così fatto accidente, che quel soldato, che senza vendita altrui mi aveva comprato, e senza danari suoi mi aveva fatto suo, dovendo per co- mandamento del suo capitano portar certe lettere, allor mi vendè diciotto lire a due fratelli, i quali stavano con un signore di casa Orsina, chiamato il signor Gior- dano : uomo, olirà la nobiltà del sangue e le maravi- gliose ricchezze, tanto piacevole e tanto gentile, quanto altro che fusse stato gran tempo fa in quelle contrade: fe un di loro lo serviva a far berlingozzi, ciambellette, zuccherini, e altre così fatte cose; e 1' altro gli ammi- nistrava la cucina. E perciocché egli accadeva loro spesso andar dietro al padrone ora in questo castello e ora in quell' altro, di comune concordia, perciocché e' facevano compagnia insieme di tutti i lor guadagni, egli mi presero a cagione che io portassi loro dietro la cucina e le masserizie del fornaio dove bisognava: e in tutto quel tempo eh' io era stato asino, io non provai mai la miglior fortuna, mi diedi mai cosi bel

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tempo: e questo era dio, lassiamo star ch'io durava una pochissima fatica, e stava i begli otto ili per volta ch'io non usciva dalla stalla, i miei patlroni sparecchiato che eran la sera le ricche tavole, egli portavano in una dispensa, della quale essi due tenevan la chiave, e dove io aveva la stanza mia, tutte le CQse che avan- zavano: pezzi di porci cinghiali, polli interi interi, starne, fagiani, pasticci, pesci, uova, cacio d' ogni sorte finis- simo, pan bianchissimo, berlingozzi, zuccherini in forma di rosette, di uccelletti, d'animali d'ogni ragione, che era una gentilezza a vederli : e aveano una usanza, che quasi ogni sera dopo cena, serrato molto ben la dispensa, e' se n' andavano a sollazzo a casa certe amiche loro , e portavan lor tanta roba, ch'egli era un cordoglio. Aveva io a camminar pochi passi, vi era tramezzo alcuno, che uscito della mia stalla, io saltava nella di- spensa : e non era, ancora eh' io fussi asino, cosi privo d'ingegno, che co' denti non mi sapessi scioglier la cavci- za; e però non domandate se per un tratto io mi empieva il corpo di quelle buone vivande; che, come io vi ho detto pur ora, io non era asino cosi davvero, che po- tendo mangiar di quei dilicatissimi cibi, io gli lasciassi per mangiar del fieno. E sarebbemi durata un tempo questa comodità, senza che ninno se ne fusse accorto, se io, come da principio, con un poco di avvertenza fussi andato cosi gentilmente delle molte cose che vi erano togliendone dove una e dove un'altra; ma io, presa fidanza, come si fa del felice esito del picciolo furto a farne un maggiore, cominciai non solo a divo- rarmi le miglior cose che v'erano, ma mangiava le vi- vande intere intere. Della qual cosa accortisi i due fra- telli, poiché e' l'ebbero messe, secondo che lor pareva, in più sicuro luogo, e che l'ebbero annoverate, e guar- date con maggior diligenza che prima, e veduto che nulla giovava; avendo non picciol sospetta l'un dell'al- tro, ciascuno appostando di scoprire il ghiotto, senza far parola, stava in orecchi per corvi l'altro. Finalmente un di loro, lasciato andare il rispetto del fraterno vin-

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!olo dall'un de' lati, disse ill'aJiro: Questo tuo andarmi ngannando ogni giorno, e furando lo miglior cose ehe M sono, e vendendole ascosaraenlc farti la borsa ga- gliarda, sicché il guadagno sia quasi lutto il tuo, e le atiche vadano a mezzo, oramai non mi pare giusto ragionevole, ed* io non lo posso più comportare: inai mente, se questa nostra compagnia non ti piace, saniamola, e facciamo in guisa cbe nelle altre cose loi possiamo esser buon fratelli, che in questa io non ci veggio ordine, se noi non ci allontaniamo; ch'io veggio questa cosa avviarsi in luogo, ch'egli non sarebbe per un pezzo pace fra noi. Allora seguitò il primo : Per mia fé', fratel mio, eh' io lodo cotesta tua prudenza ; posciachè quando tu hai furato a modo tuo, tu m' hai prevenuto col rammaricarti, acciocché io non mi ram- marichi di te; e quello, di che io tacito mi dolca, a cagione eh' egli non s' intendesse mai eh' io infamassi an mio fratello d'una così fatta poltroneria, tu ne hai fatto schiamazzo, avendo tutti i torti dal canto tuo: 3r sia ringraziato Iddio, ch'egli è tornato il tempo di Diolle Abate : vedi, che la tacita indignazione non ci ara simili ad Eteocle e Polinice. E dette queste parole, imendue presero gran saramenti, eh' e' non erano col- pevoli di quel danno; e rimaser d'accordo, e senza per- lonare a spesa veruna, per giugnere questo ladroncello. i dicean fra loro: L'asino, il qual solo puote entrare n quella cella, non mangerebbe così fatti cibi, e i topi jon vi possono entrare, li quali, come già fecero l'ar- »ie alle tavole di Fineo, avessero a divorar quelle vi- ande; e nondimeno le più elette cose e le migUeri parivano da una ora a un'altra. Ed io pasciuto in que- lo mezzo di qjiei buon bocconi, aveva fatto una trippa, he io pareva pregno: la Relle era divenuta morbida ome un velluto, e il pelo mi riluceva, eh' e' pareva h'io fussi stregghiato ogni mattina. Ma questa mia lellezza fu cagione di discoprire il ladro; imperocché eggendo quelli miei padroni la mia non usata gras- ezza, e accorgendosi che il fieno era la mattina nella

FIRENZUOLA 16

24 J dell'asino d'oro

rastrelliera come e' vel mettevano la sera, e' comincia rono ad entrare nella maggior gelosia del fatto mio, eh voi mai vedeste: e però diedero ordino di chiarirsi de tutto. E fatto le viste d'andare a spasso al modo usate posciach' egli ebbero serrata la porta, e' si misero pe una fessura dell'uscio a veder quello ch'io faceva; i non istettero molto a disagio, eh' e' s' accorsero ch'il andava scegliendo qui e qua i miglior bocconi che v fussero. avendo più riguardo al danno loro, anz riempiutosi in un tratto d'una estrema maraviglia, pe vedere cotanta diligenza in uno asino, misero un ris cosi sconcio, che tutta la casa trasse a quel romore

E mostrasi l' uno all' altro la disonesta gola d' un cos fatto animalaccio, fecero tanto il fracasso, ch'e' pervenn all'orecchie del signore, il quale per avventura passav oltre vicino: e domaidato che importassero le lo grasse risa, e inteso la cagione, volle anche egli veder questo miracolo; e tante le risa abbondarono eziandii a lui, eh' e' fu quasi per crepare. E fatto subito subit aprir la porta, volle vedere se io avea temenza dell brigate : perchè io, veggendo che la Fortuna divenutan

liioRO BECLMO 243

più benigna, mi pur rideva in qualche parte, e preso fldan?» del lor piacere, senza, muovermi donde io era, attesi a maoiallare ; insino a tanto c^ie il padrone, tutte allegro del nuovo spettacolo, comandò ch'io fossi menato, anzi egli colle sue mani mi menò, nella sala doveegH maH»iava: e fettomi apparecchiare una tavola, vi fóce mettere su tante e si elette vivande, eh' e' ne sarebbe stato bene un liofante. Kd io ancorché fussi assai bei satollo, desiderando di compiacerli il più ch'io poteva, come se affamato fussi rai mangiava ciò che mi era po- sto innanzi. Ed eglino immaginandosi quello che più so- lesse essere a schifo ad un asino, e con ogni diligernra cercandone, me lo ponevano alla bocca, per pienamente tentare la mìa mansuetudine: carne nell'aceto, uccelli ripieni di pepe e altre spezierie, pesci ne' più strani guazzetti che voi mai gustaste; e non mancò chi m! portasse un quarto di capretto con uno scodellino di salsa. E mentre eh' io ogni cosa rassettava, tutto il convito si risolveva con riso. Allora un eerto buffo» magro, che era li presente, voltosi al signore, disse: E perchè non date voi anco un poco di vino a queste buon compagnoHe? E' non ha parlato male il ribaldone, rispose il signore: e voltosi ad un di quei giovani che davan bere, seguitò: Emo, piglia quel lazzone, e lavalo molto bene, e a questo nostro novello parasite un tazzon di vin greco del miglior che sia in cantina; e digli, come io ghene ho fatto la credenza. Stette tutto il convito in una grandissima aspettazione di questo fatto; io impaurito miga per questo, rassettatemi l'estremità delle labbra in guisa della lingua, ne bevvi tutto in uno sorso quél grandissimo tazzone di vino. Hai tu mai veduto a Roma quei conviti che si fanno dal Re che e' chiamano della Fatta? che quando quegli ehe tiene il luogo del Re, beve, tutto il convito beva il romore, gridando: il Re beve, il Re beve; cotal fu il ronioré di tutti quei che erano nella sala, a gridare: buon prò ti faccia, buon prò Hi faccia; quando io ebbi tracannato auel vino. Allora il signore, chiamato quel

244 dell'asino d'oro

due miei padroni, coiaaudò cb'e'fusse lor dato due volte il doppio di quello eh e' mi avevano comperalo: e loUonii per suo servidore, mi consegnò ad un suo

carissimo, e mollo caldamenlc me gli raccomandò; il quale e per sua buona natura, e per fare cosa grata al padrone, assai umanamente mi nutricava; e per me- glio guadagnarsi la grazia sua, cercava accrescendo le mie arguzie di accrescere i suoi piaceri. E la prima cosa, egli m'insegnò stare a sedere a tavola come le persone, fare alle braccia, saltare, andar diritto in su' pie di dietro; e quello che pareva ad ognuno maravi- glioso, egli m'insegnò usare i cenni in luogo delle pa- role, e che quello chTo voleva e quello ch'io non vo- leva bere, che col muover d'un ciglio io facessi inten- dere al mio Ganimede che mi porgesse il vino. Ed io agevolmente apparava tutte queste cose, come colui che le avrei sapute fare sanza maestro, se io non avessi avuto timore che se da me in guisa d' uomo io avessi portato il mio asino, molli stimandomi per cosa mo- struosa e contra natura, non mi avessero fatto pasto delle fiere e degli uccelli. Già era sparsa la fama deile

Lieao DfioiMO 2i5

mie virtù per tutti quei contorni, e il nome del mio. padroue era celebrato più la mia mercè che per la sua nobiltà, per la sua magnificenza, e per le altre parti in lui rigoardevoli, quanto in barone di (juei paesi ; e molti che a bella posta venivano a vedermi, se a caso lo incontravano : QuMti è colui che ha quelk) acino^ che salta e baila, c4ie trotta, che intende, clie domaada, e che mangia, e fa flnalmonte tutte le cose ci» fatìno gli uomini: come può egli tener felice d'aver cosi prezioso animale 1 Vedere adunque in che consiste la fama, la chiarezza, e la felicità d'un gran maestToI e però non ci maravigliarao, se alla maggioi parte di loro oggidì più pare da fare stima d'avere un bel nano per casa, che un uòmo litterato; perchè questi faotnbra, e quell' altro il fa conoscere e nominare. Mentre eh" io nella guisa che voi avete potuto intendere mi dimorava, e' parve va questo mio signore di dovere andare a Roma, e mostrar là,>dove non era gran fatto mestiero, un asino che mangiasse i cibi degli uomini, e facesse molte attre cose umanamente: percigcohè mentre ch'io era asino, io ve ne vidi di quegli che mangiavano è bevev'ano, e vestivano panni, e avevano dell'asino pia di me. Ma lasciamo all' Aquinate 1' arte sua per ora, e ritorniamo al tìiiò signore; il quale fu visitato da tutta Roma, più per veder le mie maraviglie, che per vero ufioio di vi- sitazione. Io non vi voglio dire eh' io fui visitato da tal pastore, che non vide mai le sue pecore ; eh' io fui menato a tale, a cui doveva altro cadere in pen- siero: questo vi dirò bene, che egli mi vide dal grande al picciolo tutta Roma: molte ricche cene, molti mara- vigliosi conviti furono celebrati. E fra gli altri che mi posero gli occhi addosso daddovero, fu una famosis* sima cortigiana, la quale preso un gran piacere de' miei giuochi, a poco a poco le cominciò a prendere vaghezza del fatto mio; e coise una nuova Pasife, il giorno e la notte ardeva del mio desiderio : e flnalm_oate, convenuta col mio guardiano, con gran pregio ottenne eh' io al- bergassi una notte nella sua stalla : e appena erftmo par-

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tìti dalla cena del nostro padrone, che noi trovammo la sollccila innamorata, che mi attendeva, in camera del mio guardiano. 0 Fortuna poco conoscente di quello che tu fai ! che casa era quella dov'elia mi menò ! che tappezzerie per le sale, che sergenti l fui prima ar- rivato in camera, dove alcuni doppieri di bianchissima cera vi facevano le notturne tenebre biancheggiare, che tu vedesti quattro bellissime fantesche, a vedere e non vedere, avere disleso un letto di mirabilissimi materassi, con una coltre di teletta d'oro e di dòmmasco incarnato, fregialo d'ogni intorno di tante trine d'oro che era una ricchezza; e sopra veran guanciali chi di velluto, chi di raso, altri di zendado preparati di mobilissima piuma, altri di sottilissima bambagia, due di botlon di rose pro- fumate, altrettanti di odoratissime polveri. Assettato che fu il letto, le amorevoli donzelle, per non dare indugio a' piaceri della padrona, tirate a lor l'uscio, ne lascia- ron libera comodità. Allora la bella donna, dispogliatasi

tutta ignuda, e levatosi per fino a quella fascinola colla quale ella teneva soUalzate le mammelle ; preso un va- setto d' alabastro, e una ampolla con mille belli lavori

LIBRO DECIMO ' 2*7

attorniata, e dall'un tratto una finissima pomata, e dal- l'altra odoratissimo olio di citreljon, posciacliè si ebbe unta in quei luoghi che manco il ritengono, or coll'uno or coU'altro liquore quasi tutto mi stropicciò ; ma con molta più diligenza il tremulo naso, e le pendule labbra volle che partecipi lusserò di quelli odori. contenta di questo, gittatomi sopra un buon piignO di polvere di Cipri, non miga della nostrale, mi si corcò a giacere allato: erano i baci finti, in quella guisa che ella gli soleva porgere agli altri amanti; non domandatori di ricchi drappi, non rattori d'argenti e oro; ma puri, sinceri, di voglia, se le spiccavano d'in sul cuore : che carezze, che amorevolezze mi mostrava ella! che paro- line dolci mi disse ellal voi avreste detto: costei è che tenne in grembo Adone. Vedi che pur posseggo il mio colombino, vedi che pure ho in braccio il mio passerino : io non cerco altri che te, io non posso vivere senza te, io voglio bene a te solo; tu se' ogni mio bene, metà dell' anima, riposo del cuor mio, dolcezza mia. E non

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diceva parola, che con un bacio non la tramezzasse. E posciachè ella mi ebbe usati tutti quegli atti, e fatte

248 DF.ix' ASINO d'oro

tuM quellle carezze colle (]uali le donne inducono altri aa amane, e tanno testimonianza bene spBSSo al con- trario chente sia l'amor loro , ella mi fece far cose, che appena eappion nel mio pensiero or ch'elle son fatte: e perchè vergogna sarebbe a voi l'udirle e a me il dirlo, io le lacerò. Questo vi pur dirò, che dove non pensai mai che l'uscio di quella stalla fusse tanto largo, che io vi fussi capito vuoto, io vi sarei entrato colla soma. Avendo adunque passala buona parte della notte, nella guisa che voi avete polulo comprendere, gii appressan- dosi l'ora che la bianca Aurora suole il suo vecchio marito pien di gelosia nel letto lasciare, la buona fem- mina, vergognandosi pur fra un poco, a cagione li'io non fussi veduto uscire di casa, me ne rimando. K perciocché '1 mio vettureggiare fera assai ben piac utOp ella convenne col mio guardiano, che io scaricass i i.ls'.« l'altre some a casa sua. Narrò costui tutto il fatto ?.l mio signore, il quale ne prese tanto piacere, quanto d'altra cosa che io avessi fatta Uno a quel tempo; e allora gli parve avere un asino che avesse daddovero dell' uomo dabbene : perchè fatto un bel presente alia mia guida, diede ordine che in cospetto di molti signori e gran maestri io esercitassi questa mia nuova virtù. E perciocché quella mia egregia nuova mogliera, altra donna, per trista ch'ella fusse, si potè trovar che volesse in presenzia di tante persone sopportar la mia asineria, egli mandò %pacciatamente ad uno de' suoi- ca- stelli, dove egli aveva una donna in prigione, che di quei di doveva essere abbruciata viva; della quale se ae narrava questa bella novella.

Ella ebbe un marito, il padre del quale, poi che il signore, oltre alle ricchezze che erano grandissime, era il primo uomo di quei paesi; e accadendogli andare una volta in peregrinaggio, come colui che prevedeva per qualche verso la rovina di casa, e' comandò alla mo- gliera, la quale egli di gravida lasciava che se ella partoriva una femmina, ch'ella subito l'ammazzasse: ma U pietosa madre, sopraggiunta da ima naturai mifi^ìri-

LIBRO DECIMO 249

cordia, lasciando indietro il comandamento del marito, nata ch'ella fu, nascostamente la diede ad allevare in vicinanza; e ritornato poscia il marito, gli disse, e ch'el- l'era nata, e ch'ell'era morta. E perchè già il fior del- l'età sua la chiamava al matrimoniai giudicio, ella senza saputa del marito poteva, secondo la fortuna della casa sua dotarla, ella fece quello che ella solo potè; e al suo figliuolo e di lei fratello manifestò il segreto del suo petto. Il giovane, d' una singoiar pietà dotato, prestamente fece quanto i preghi e' comandamenti ma- terni e l'uflcio del fratello richiedeva; e mostrando con una comune misericordia di voler fare una limosina, cosi ricevette in casa il sangue suo, come se ella fusse una po- vera fanciulletta vicina e senza padre, senza madre, e in pericolo di capitar male : dipoi datola con una grandissima dote delle sue proprie facultà ad un suo strettissimo amico, e narratogli chiunch' eli' era, fece tutto quello che ad un buon fratello si apparteneva, Ala le pie, le sante, le buone opere di costui non poterono fuggire i

temerari e mortali assalti dolli rorluiu; iuiperocchè la sna mogliera, quella cho pur urrv condannata alla morto

250 rT!T.T.* ASINO n'ORC

doveva meco essere congionta, cominciò avere una gran- dissima gelosia di questa bellissima fanciulla, e a di- spiacerle insino al cuore; e finalmente le tese i lac- ciuoli intorno per ammazzarla. E pensò, dopo le molle, questa ribalderia: cbe tollo al suo marito il sup anello, una volta che egli andava in villa, e chiamato a so un lanle di casa a lei fedele più che la morte, ma della fede capitalissimo nemico, e datogli quello anello, gli disse, che se ne andasse dalla fanciulla; e fingendo di venir di villa, per parte del marito le dicesse che egli la mandava pregando, che subito subito sola e senza compagnia se ne andasse da lui : e a cagione che ella prestasse maggior fede alle sue parole, che e' le lasciasse l'anello come per contrassegno. Non si lasciò molto pre- gare lo scellerato ambasciatore, e con ogni diligenza fece quanto gli era stato imposto. Ed ella obbedientis- sima al suo carissimo fratello, che a lei sola era noto questo nome, senza tardanza alcuna, tutta soletta si iiiise in cammino. E arrivata in quel luogo, dove la pessima e scellerata cognata le aveva lese le insidie, ella fu presa, e battuta crudelissimamenle; e mentre che la poverella gridava accorruomo, e diceva che el- l'era entrata in vano in cosi fatto sospetto, e che '1 suo marito l' era fratello, e con quel nome il chiamava in aiuto suo; la infuriata donna, ogni cosa finta credendo, preso un tizzone ardentissimr.. tante volte colle sue pro- prie mani gliele ficcò per le tenera earni, che con gran- dissima sua passione la meschinella giovane colla sua crudelissima morie saziò la rabbia della sua crudelis- sima cognata. potendo il buon fratello sopportare il grieve dolore, eh' egli si aveva preso della efferatis- sima morte della povera giovane sorella, così immeri- tamente donatale, anzi giorno e notte per lo stomaco rivoltondoseli, e sollevandoli gli umori malinconici, egli cadde in una grandissima malattia, si che oramai gli faceva mestiero di medicarsi. Laonde la moglie, la quale questo santo nome insieme colla fede avea perduto, con inflngevole uflcio di carità volle esser quella che di me-

LIBRO DECIMO ISI

dice lo provve('.esse : e,andatasene a. uno EbreOj l! quals poteva dirizzar più tiolei dell' espugnazione della viU de' mortali, e nel quale tanto era di perOdia, quanto di fede essere in un medico si ricerclierebbe , ella gli promise di donar cinquanta ducati, se egli un presto veleno le preparava. Finalmente lo avaro medico fu d'accordo, e fìngendo d'avere ordinata una medicina di manna e riobarbaro. se ne andò dallo infermo, e colle sue mani li voleva dar quella morte, cbe la falsa mo- gliera aveva comprata al suo marito cinquanta ducati. E già glie n'aveva appresso alla bocca; se non cboquella audace e temeraria femmina, acciocché ella si levasse dinanzi il conscio della sua ribalderia, e guadagnassesi cinquanta ducati, preso il bicchiere con mano, disse : Non prima, valentissimo medico, non -vprima darai al mio carissimo marito questa bevanda, che tu ne abbi be- vuta una buona parte ; che so io, se dentro vi si ascon- desse alcun veneno? So io che questa mia ragionevole gelosia non offenderà l'animo d'un cosi dotto e prudente» uomo, cpme sete voi ; che sapete che ad una buona e piatosa mogliera è lecito esser sollecita e scrupolosa circa la salute del suo marito. Andò subito sottosopra il mal vecchio, udendo le terribili parole della sua sfac- ciata femmina; e caduto da ogni consiglio, e toltogli dalla angustia del tempo ogni occasione di pensare alcun rimedio, e dubitando, col tardare o col mostrar temenza, di non dar sospetto della sua macchiata coscienza, egli si mise a bocca quella bevanda, e bevvene una buona parte: la cui colpevole fede l'innocente giovane segui- tando, preso il bicchiere di mano al medico, si bevve tutto quello che vi era rimaso. E volendosene il medico prestamente andare verso casa, per poter con qualche subito rimedio spegner la forza di quel veleno, la in- diavolata femmina, presolo per lo mantello, non lo vo- leva lasciar dilungare da pure un dito; mostrando di non volere che si partisse, finché la bevanda non aveva fatta la operazione: pur poiché ella l'ebbe rite- nuto un pezzo, stracca dalle di lui preci, e impaurita

9S2 ni;r.T/ AST?fo n'nno

da alcuni suoi miuacci^ lo làscio ancTare Ma in quel mezzo il crudel furore di quei veleno, avendogli pene- trate tutte le viscere, gli aveva preso tal valore addosso, che oramai era ogni rimedio indarno. appena «ra arrivato a casa, che gli entrò una cosi gran sonnolenza negli .occhi, che egli a fatica potè raccontar la cagione della sua morte alla mogliera, e ricordarle che almanco si facesse pagar dalla pessima donna il pregio della dop- pia morte: egli cadde in quella fossa, che egli stesso colle proprie mani si aveva fabbricata. stette guari il misero giovane, dopo la partita del medico anzi rat- tore della sua vita, che infra le mentite lagrime della falsa moglie, e' pagO il comun debito della natura: e' non molto dipoi che e' fur finite le cerimonie dell'uno e dell'altro mortorio, la donna Ebrea se ne andò a tro- var la mogliera del morto giovane, e chiesele il pregio della doppia vedovanza. La sagace femmina, che in ogni sua azione era ad un modo, con una buona cera rice- vendola, le disse, che era mollo ben contenta di darle tutto quello che ella addomandava; ma una grazia vo- leva in prima da lei, e questo era, ch'ella le desse un altro poco di quella bevanda, a cagione che ella potesse mandare al desiderato fine una sua bisogna: e tanto seppe ben orpellarla, e tante ciance dirle, e tante cose prometterle, che la semplice Ebrea agevolmente si la- sciò indurre a dirle di si : e per meglio guadagnarsi la grazia di si ricca vedova, lasciato stare ogni altra cosa, se ne corse a casa, e spacciatamente le portò ciò che ella chiedeva. Allora la perfida donna, avendo gran materia da fabbricare gran male, in grande opera mise le sue sanguinolenti mani. Ella aveva una picciola figliuo- lina rimasale di quel marito, che, la sua mercè, giace/a morto poco fa ; la quale, perciocché le leggi ovvero sta- tuti di quei paesi le davano la successione di tutti i beni paterni, e- ogni volta ch'ella fusse morta anzi la capace età del matrimonio, ella succedeva ne' beni della flgliuola, malvolentieri sopportava questo soprosso: a però l'empia madre colla morte della prima figliuola

LIBRO DECIMO 233

mise a ordine di guadagnar cosi scellerata crediti, o colale fu madre, che ella era stata mo^Micra; aggiu- gncndo per compagna alla flgliuola la mogliora del me-

dico, a cagione che ella non avesse avuto avere invi- dia al padre, che ne era ito in compagnia del marito. Fece il mortai veleno nelle tenere viscere della dilicata pargoletta presta operazione; ma la vedova Ebrea più potente a resistere al suo furore, come più tosto si senti roder le interiora dal suo grandissimo furore, su- spicata quello che era, se ne andò a trovare il signore; al quale, per le sue grandissime grida spalancate subito le porte, fattasi da capo, ella raccontò tutte 1' egregie opere della donna: ne aveva ancor finito di dire tutto quello che ella voleva, che adombrata da una foltissima nebbia di sonno, fu forzata chiuder l'aperte labbra; e poeo poi, percotendo i denti Tun nell'altro, con gran- dissimo tremito cascò morta a' piedi dello ascoltante signore. Raccapricciossi il gentil signore, subito udì la scellerata rubalderia; e fatto d'aver nelle mani la scel- leratissima donna, e inteso prestamente che tutto era come l'Ebrea gli aveva porto, non per altro non aveva

554 dell' Aswo d'oro

cosi tosto proceduto all'ultimo fine della giustizia, che per non gli parer trovare quali t?i di morte convenevole a tanta e cosi moltiplice iniquità. E in (luel mezzo n-

tenenlola in prigione, con darle mille morti ogni giorno, la fece servare in vita per suo maggiore strazio. Cotale, i miei lettori, era la donna, che io in presenza di tanti grandissimi signori aveva a congiungermi per isposa: ia qual cosa io più e più volte considerando, e ragio- nevolmente abborrendo la contagion di cosi orribile peccato, mi era deliberato prima morire, che consentire a cosi sozza cosa; ma privato delle mani e delle dita, potenuo colla ritonda unghia e tronca strigner la spada, non sapeva che partito mi pigliare. Ma una sola speranza mi consolava fra tante e tante avversità, che già di- pigneva la Primavera colle sue gemme la lieta e buona stagione, e i prati entro al seno delle tremole erbette vedevano i vari fiori inchinare il capo al dolce suono del leggier ZefBro padre loro ; e poco avevano a stare i pungenti smeraldi sopra i focosi rubini delle vive rose, cbc divisi in più parti avrebbon dato luogo al bel co-

LIBRO DE«IMO 255

lore; sicché io avrei potuto prendere in ogni luogo la mia medicina.

E mentre che M travagliato ]?gno della turbata mente mia ondeggiava in questo periglioso mare, egli era già arrivato il 'giorno •delle mie odiosa nozze: la prima cosa, dopo un realissimo convito, cosi largamente, cosi dilicatamente, così ordinatamente, così pulitamente, cosi riccamente, «osi copiosamente, e all'improvvista servito, che egli non vi si disiderò cosa, aleuna ; per maggiore intertenimento de' convitati, i quali erano tanti e tali, eh' io non ardisco di nominargli, egli fu ordinato un bellissimo- e ornato ballo, il quale a me asino piacque tanto che egli mi levò una grandissima parte della ri- cevuta molestia di quelle nozze. Imperocché quivi erano bellissimi giovani e fanciulle di età tenerissimi, di corpo bellissimi, di membra agilissimi, e riechissimi di vesti- menti; i quali, 0 vuoi balletti di che sorte sai addo- mandare, o vuoi di balli gagliardi, o quali balli si sieno, ballavano maravigliosamente, che tu non avresti vo- luto vedere altro : quelle volte preste, quei salti leggieri, quelle capriolette minute, quelle riprese nette, quelli scempi tardetti, quei doppi fugaci, quelle gravi conti- nenze, quelle umili riverenze , e così a tempo , eh' e' pareva che ogni loro movimento fusse degli instrumenti medesimi. Or Anito che fu il bellissimo •giuoco,i'mandato giù una vela, che era dirimpetto ad un grandissimo palco, e' si diede ordine ad una comrtìedia. Era in su quel palco un monte di legname, fatto a similitudine di quello inclito monte cantato si altamente dall'antico Genero, il quale era ripieno di verdissimi prati, di fron- zuti arbori, e di tutte le altre cose che suole in simili luoghi produrre la natura; nella cui sommità una ar- tificiosa fonte sorgendo, del continovo assai larga copia di limpidissime acque versava: su per la schiena del monte alcune lascive caprette andavano or questo e or quello virgulto rodendo; e un giovane maestrevolmente abbigliato in quel pastoreccio abito, che già fu solito Paris per le selve portare, simulava d' esser guardiano

256 dell'asino d'oro

di (piel bestiame. Eravi un fanciullo bellissimo, e tutto Ignudo, salvo che con una veste pmerile egli si rico- priva la sinistra spalla; i cui capelli erano biondi e ricciuti, e fra quei ricci spuntavano alcune penne di finissimo* oro, e parevano naturali come i capelli; e il caduceo e la bacchetta ne dimostravano che egli era Mercurio. Costui, avendo un pomo d'oro nella man de- stra, il diede, correndo cosi un poco saltelloni, a quel pastore; e disse, come il gran Giove gliele mandava: e fatto ch'egli ebbe la sua imbasciata, incontanente si tolse del nostro cospetto. Allora venne in sul palco una fanciulla, con un volto tutto pieno di onestii, vestita in quella guisa che gli antichi addobbavano Giunone; imperciocché, oltre a eh' e' le stringeva i bei crini una candida corona, ella aveva in mano lo scettro dimo- strante signoria. Dopo a lei ne usci fuori un' altra, la quale tu avresti riconosciuta per Minerva; concioffus- secosachè uno risplendente elmo d'una eprona d' ulivo attorniato le coprisse la chioma; e innalzando lo scudo, e pereotendo l'asta, non altrimenti camminava, che quando ella combatte. stette guari dopo le due, che egli ne comparve la terza, la cui eccessiva bellezza, alle mattutine rose che sulla neve nascendo dipignevano il leggiadro volto, la lasciva grazia, e V altre parti del corpo, ciascuna per se maravigliosa , e tutte insieme maravigliosissime, ti davano tale indizio, che tu non potevi giudicar ch'ella fusse altra che Venere, allor che essendo tenera verginella palesava la sua bellezza, senza altro vestimento portare che una sola vesticciuola di sottilissimo fiore, il quale non copriva, ma adombrava appena la sua bellissima giovanezza; la qual vesticciuola assai sovente una curiosetta aura tutta lasciva perco- tendola, or la rimoveva d' in sulle dilicate carni, ora accostandovela, mezzo negava e mezzo mostrava il bello del paradiso. Era ciascuna delle vaghe giovani, che le tre Dee rappresentavano, accompagnata secondo che alla loro qualità si converiia. Seguitavano Giunone, Castore e Polluce, i quali avevano un elmo in capo per uno,

t,TBBO ORfilMO <»•?-

nella cui sommiti nspJeudevano aicune lucentissime stelle: erano i due fratelli due bellissimi giovincelli. Questa giovane, andando per la scena quietamente, e con un modo che pareva naturale, non moveva passo che non fusse accordato coll'armonia d'un coro di dol- cissimi flauti; e accostatasi al pastore, con onesta sem- bianza gli diceva, che se egli le deliberava 11 premio della bellezza, che ella, nella cui podestà erano tutti i regni del mondo, che gli donerebbe il ricchissimo e larghissimo regno dell'Asia. E quella, la quale il culto delle armi facevano Minerva, da due giovani accompa- gnata, il Terrore e la Paura, con Ispade ignuda in mano, e tutti coperti a piastre e maglie, con due trombetti. Che mescolando co' gravi quei tuoni acuti, e facendo andare quelle chiarine insin nelle stelle, destavano eziandio i vili animi ad una non usata gagliardia; con minaccevole capo, e spaventevoli occhi, con presti passi e non diritti, promise a Paride, s'è' le dava la vittoria della beltade, ch'ella 'l farebbe d'incredibile fortezza, donerebbegli influite vittorie con innumera- bili trofei, spargerebbe il nome suo per tutto il mondo. prima ebbe Anito costei il suo parlare, che tu ve- desti Venere venirsene nel mezzo de' suoi Amori, con tanta grazia, ehe egli non era duro cuore, che ella non infiammasse d'amore: e dolcemente sogghignando, con tanta piacevolezza si fermò, che non vi aveva chi SI saziasse di rimirarla. Che maraviglia era a mirare que' begli Amorini! Non eran se non latte e sangue, cosi grassottini, che tu avresti creduto eh' e' fussero stati Cupidini daddovero, che fussero allora discesi di cielo, 0 venuti del mare; che le piume, e le saette, e gli archi, e lo abito tutto era cosi ben ritratto, che gli antichi non credettero che Amor lo avesse in altra guisa. E come se la Dea andasse a nozze, tre verginelle le portavano innanzi tre candidissimi doppieri: queste erano le graziosissime Grazie : dopo le quali seguitavano le bellissime Ore, le quali, posciachè con alcuni loro dardetti ebbero sparso molti fiori e in ghirlande tessuti riRBN^UOLA 17

M8 m5T,T/A<?ivo n'onrt

e splccrolati sopra degli speltaiori, prendendosi per mano, composero un bellissimo ballo; il quale finito che ebbero, con alcuno canzonette cosi addolcirono gli animi di tutti, che pareva che ne disfacessero colia loro dolcezza. Ma molto maggior soavità era poscia a veder Venere muoversi secondo gli accenti di quel lor canto, e con quei lascivi e graziosi passi fra le ondeggianti piume di quei pargoletti camminando, or quelle vive luci in atto mansueto girare, or con benigna ferita e con gentili minacce voltarle, or mostrare che, gli occhi stessi saltando, negli altrui cuori ne facesse far prova, quanta dolce forza abbia la vista nel bel regno d'Amore. La bella giovanetta, subito che fu nei cospetto del bo- schereccio giudice, con si bel modo il salutò, che ancor mi struggo qualora me ne ricordo; e poi con un atto pien di gentil grazia li disse, che s'egli come meritava la sua bellezza, la preponeva all'altre Iddee, ch'ella gli darebbe l'amor d'una donna, e gliele congiugnerebbe per isposa, la quale in ogni cosa si poteva agguagliare alle sue bellezze. Allora il Frigio pastore tutto allegro diede, senza altro pensare, l'aureo pomo, che egli conas segno della vittoria teneva in mano, alla leggiadretta fanciulla. Perchè dunque vi maravigliate voi, v'iissima gente, anzi armenti delle corti, o piuttosto immantel- lati lupi, se i giudici vendono al presente con danari tutte le loro sentenzie ; quando nel principio delle cose, in uno giudici© agitato fra gli Dei e gli uomini, la gra- zia il corroppe, e un rozzo pastorello eletto per giudica dal gran Giove vendè per vilissimo premio d' una fan- gosa libidine, insieme colla rovina di tutta la casa sua, cotanto importante sentenzia? Or non fu cosi l'altro giudicio infra i più incliti capitani dei Greci celebrato, quando colle false esprobrazioui Palamede e in dottrina e in arme valoroso fu dannato di tradimento? e allora che il pargoletto Ulisse nelle cose della guerra fu pro- ferito al potentissimo e grande Aiace? E come quei giu- dicio appresso i datori delle leggi, appresso gli Ateniesi, dico di quei savj, di quei prudenti, de' maestri di latte

l!T!RO DECTMO 2S.0

le scienze? Or non fu egli per frauile, e iier invidia dima iniquissima fazione, dannato come oorrnttore della gioventù quello, il quale le imponeva il freno? quel vecchione di tanta prudenzia dotato, che l'Oracolo Del- fico il giudicò sapiente sopra tutti gli altri mortali? colui, il quale con pestifero tossico fini cosi lietamente i lodevoli giorni, lasciando i suoi cittadini macchiati d'una perpetua ignoranza? E pur vediamo ancora oggi i più saggi filosotì, seguitando la sua setta, ardere nel desiderio delia sua beatitudine. posso tacere il giu- dicio di Martino Spinosa nella romana Ruota de' primi avvolgitori ; il quale corrotto da alto favore, dandomi, contro ad ogni giustizia ed equità, una sentenzia, e domandato della cagione, non arrossì almeno a dire: Perchè mi è piaciuto: ma siagli perdonato, posciachè egli è Spagnuolo, e di quelli a cui per atto di religione è interdetto lo stare in Ispagna; biasimiamo quel paese, come facciamo; anzi dogliamoci di noi, che cóme una sentina e come uno asilo -riceviamo la feccia e la ribalderia del mondo, e gli facciam seder nelle cattedre, e chiamiàngli maestri. Ma a cagione che niuno riprenda lo impeto della mia giusta indignazione, dicendo : Ecco che noi patiremo adesso che uno asino vada filosofando! però" sarà ben eh' io me ne ritorni a donde io m' era partito*.

Posciachè egli fu finito il bel giudicio. Giunone in- sieme con Minerva adirata, e non restando di minac- ciare, si partirono della scena, dimostrando coli' andar loro la presa indignazione: ma Venere tutta allegra e tutta contenta, saltando per la letizia colla sua amo- rosetta famiglia, ne faceva palesi i piaceri suoi. Allora innalzandosi dalla cima del contraffatto monte per un certo ascosto canale una pioggia di odorifera acqua con zafferano mescolata, e piovendo sopra quelle capretta che ivi pascevano, fece lor mutare i bianchi velli nel colore dell' oro. E posci;)chè e' fu ripièno di soavissimo odore tutto il teatro, la terra ad un tratto s' inghiotti quello altìssimo monte. prima fu finito il bellissimo

spnrtacAlo, eh' io vidf muovere un giuvane ia oblio di soldato, e andare per la mia nobilissima donna, E già si preparava il matrimoniai letto, il quale di cove di te- stuggine al modo antico maravigliosamente lavoralo, di morbidissimi materassi ripieno, di ricchissima coltre ricoperto, di finissimi drappi attorniato, pareva che aspettasse non un asino e una scelleratissima donna, ma un Re e una Regina ; anzi, per parlare all' antica, la bella Venere e il suo diletto Marte. E mentre che il mio guardiano era intento con ogni diligenza ad asset- tare il sontuoso letto, e tutta l'altra gente stava ancora occupata a riguardar l'esito delia commedia, e ne dava per questo libero adito a' miei pensieri ; io feci buona deliberazione, col voltar loro le calcagna, di tornii da cosi fatta vergogna. E movendomi cosi passo passo ,' avendo ognun pensato, per la mia mansuetudine, ogni altra cosa del fatto mio, mene usci' fuor della porta: e non avendo visto alcuno, dirittomi verso porta San Lorenzo, camminai quattordici miglia verso Tigoli, senza mai fermarmi cosa del mondo. Corre un fiume non guari lontano da Tigoli, anzi passa per lo mezzo di quello, il quale gli antichi chiamavano Aniene, quei d'oggi chiamano Teverone, lungo le cui amenissime ripe, lon- tan quasi due mislia, in luogo assai solitario mi deli- berai passarmi quella notte. E avendo il Sol già renduto alle stelle il lume loro, vinto da dolcissimo sonno, fra le mormoranti frondi d'un folto canneto riii addormen- tai profondamente.

era ancora delle quattro parti della notte varcata la prima, eh' io mi risenti' ad un tratto con una gran- dissima paura; e guardando verso il cielo, vidi il cir- colo della Luna nella sua maggior grandezza, biancbepr- giando pur allora, sorgere dell'onde marine: e caduto in pensieri sopra de' grandissimi effetti di quella in que- sti corpi inferiori, or qualch'uno di loro crescere, ora scemare, or quietarsi, o perturbarsi, secondo che ella 0 si congiugne o si separa, o più o meno s' accosta o si discosta dalla spera solare : perchè trascorso in coii-

LIBRO DEC15ÌO ^g-?

Siderazione del fallo suo, e pensando tiuando è maggiore e più nobile la cagione del suo effetto, un venne voglia d'implorar 1' aiuto suo, che oramai mi cavasse di cosi brutta servitù. E parendomi (e nel vero egli era così) aver macchiata la coscienza dalli miei grandi e molti- plici errori, e spezialmente di quello che mi aveva porto occasione della presente trasmutazione, e ch'egli facesse mestiero di qualche grazioso intercessore ap- presso d'una tanta maestà; mi ricordai tutto ad un tratto, che i miei maggiori avevano sempre avuto per lor peculiare avvocato quel barbato»' vecchione, che ne copia colla sua eloquenzia e dottrina de' misteri de- gli antichi Ebrei. E voltomili col cuore, poich'io non poteva colle parole, lo pregai il più umilmente e devo- tamente ch'io seppi, che m'impetrasse dalla bontà di Dio perdono e grazia. fui pervenuto prima al fine della mia orazione, che di nuovo m'ingombrò un sonno maggior del primiero; e parvemi così fra '1 sonno udire un venerando vecchione, che mi disse: Vivi lieto, il mio Agnolo, vivi lieto; penetrate sono le preci tue nel cospetto del primo Motore: e però come prima quello che a voi mortali ne rende la luce, avrà illustrato il vostro mondo, prendi sicuro e allegra la strada verso la città, e la prima donna che tu trovi, che sarà una bellissima giovane, ma con aspetto infiammante i cuori degli uomini alle virtuti e alle cose del cielo, fermati dinanzi al suo carissimo cospetto: e se ella vorrà so- pra gli omeri tuoi porre un suo picciolo figliuolo, pren- dilo volentieri, e va con essa ovunque ella ti mena; imperocché ella ti é data dal cielo per guida e scorta della tua salute; e di quanto abbia ella da fare, divi- namente é stata questa notte ammonita: e poi si ta- cque. Tre volte io mi gittai a' piedi della sua ombra per abbracciarla, cosi come io poteva, e ringraziarla di tanto beneficio, e tre volte indarno strinsi le inette braccia; e però, quel solo ch'io potetti, col cuore gii rendei quelle grazie ch'io poteva le maggiori. prima ebbe la seguente mattina il Sole scoperta la lieta fronte

2/5i dell'asino d'oro

sopra del nostro orizzonte, che io me ne presi la vìa verso il colle, fui gran fatto camminato, che io scon- trai la bella donna. La quale subito che mi vide (o gran- dissima potenza del divin amore I) qual piet.1, guai com- passione mostrò madre mai sopra del morto figliuolo, che si agguagliasse a quella che io vidi nella mia bellissima guidai la quale presomi con un atto pieno di benignltfi per la cavezza, e messomi sopra il suo picciolo flgliuo- lino, assai lentamente mi condusse ad una chiesa, che era vicina alla città ; e mostrommi ad un sacerdote, che in sulla porta sedendosi, in laude del nostro Signore an- dava il suo tempo consumando. 11 quale non con acqua, non con ranno, non con liquore alcuno, ma con divine pa- role da me tolse ogni macchia, e non altrimenti purgato e netto mi rendè la mente, che se io fussi pure allora disceso dal cielo. Come la vaga donna, che troppo ben, la mercè d'Amore, penetrò il cuor mio, venuti che noi fummo a casa sua, si accorse che io era cosi netto e cosi bello, volta ver me con un atto si di pietate adorno, che ridir non ve lo potrei, mi disse: Resta, il mio Agnolo, che l'animo tuo puro e mondo ritorni in un vaso, se non uguale alla sua nobilita, almen non tanto disdicevole quanto è il presente, dove leggiadramente operando dimori, insintanto che a Dio piaccia ridurlo alla sua patria libero e sciolto da questo incarico: prendi adunque i bramati fiori, e lieto e vero ritorna al tuo Agnolo, già tanto tempo desiderato. E portomi una ghirlanda di odorifere rose, io con assai soverchia brama me le pascei. mi mancò la celeste promessa; anzi subito ch'io le ebbi prese, egli mi si scansò dad- dosso la ferina faccia: i rozzi peli spariron via, la rozza pelle si venne rammorbidando, e lo sconcio ventre riebbe la forma sua: le unghie di dietro allungandosi ripresero l'antica pianta, e la pianta rivide le primiere dita, e quelle dinanzi, lasciando l'uficio del camminare, si distesero nelle pristine mani: la gran fronte si ri- strinse, e il capo riconobbe la sua ritondita; e la bocca le sue labbre assottigliando, e i suoi denti diminuendo,

LISP.Q DBfìlMO taZ

rividono l'usata bellezza; e l'enormi orecchie spianan- dosi, ritrovaron la lor pargolezza; e quello che sopra ogni altra cosa mi era molesto, la coda se ne andò in

fummo. Della qual cosa e la donna ed io, ancora in- nanzi sapessimo certo che cosi avesse da essere, non potemmo se non grandemente maravigliare. Nan mi bastò l'animo allora di farlo, e però non mi basterebbe ancora a dirlo, quante grazie io avrei voluto rendere, subitQ ch'io mi vidi ritornato in Agnolo, e a Dio prima, e poscia al buon vecchione, e a quella che guida e mi- nistra era stata della divina volontà: ma di lei non tacerò io già questo, che mentre che ella visse, io non lasciai a fare uflcio alcuno verso di lei, che per me si potesse, che prontamente noi facessi e volentieri: ed ella verso di me oprando il sìmigliante, mi fece venir tale, che son forse volato alcuna volta, sua mercè, per le orecchie degli uomini valorosi, ch'io da me non avrei avuto sofficienti piume: e così gentil freno mi mise, che da quel pie, eh' io era solito d'inciampare ad ogai

264 dell'asino d'oro.

passo, io andai cosi riltamenle, che rare volle ho avuto mesliero d'essere stato tolto di terra per quella cagione. Questa fu quella Costanza, la quale fattasi signora del- l'anima mia, svegliò l'ingegno a quelli lodevoli esercizi, che mi hanno fatto fra i virtuosi capere: questa fu quella, che trattomi dello asinino studio delle leggi ci- vili, anzi incivili, mi fece applicare alle umane lettere: questa fu quella Costanza, che avanti se ne tornasse al cielo, tenne sempre la vita mia in grandissima dolcezza: questa è quella, che dopo la morte sua non è restata molle fiate di cielo venirmi a consolare ; e riserban- domi sempre il suo bel nome fermo e costante nella memoria, non mi ha mai lasciato all'asino ritornare.

FI.NK dell'asino D'ORO.

APPENDICE

NOVELLA DELLO STERNUTO

LASCIATA DAL FlRETNZl 01 A SUPPLITA Cól? LA TRADUZIONE

DEL BOIARDO.

/^_— ^

NOVELLA DELLO STERNUTO

Andava tutta via dietro cianciando la veccUierella,

quando quella nostra buona femmina interrompe di- cendo . Oh beata lei che di tale amante avventurosa si ritrova , ma questo mio sciagurato , che quasi teme di esser veduto da quello asino rognoso I rispose la vec- chia, noi potremo molto ben goderci quel bel giovinetto ancor noi, ed io mi ti proferisco condurlo questa sera, e già mi voglio ponere ali' opera. Così dicendo di casa si parte quella buona femmina appareccqia la cena per onorare il nuovo forestiero, che per ventura il suo marito quella sera cenava di fuori. Il sole si nasconde e toglie la luce alla terra, e quando a tutti gli altri è tolto il vedere, a me viene levata la fascia dagli occhi, per altra cosa tanto di ciò mi allegrava, quanto per ispiare le scelleratezze di colei. Ed eccoti la veccnie- rella torna e seco 1' aspettato adultero, pur ora di fan- ciullezza uscito, ed atto cosi ad essere egli dagli amanti sollecitato, come a- sollecitare esso la moglie d'altruit

16(^ IfOVEtLA DRLLO «TERNOTO.

Con molti baci > ed infinite carezzi' \'a rluevato, o co- Diinciando a cenare, nel primo, o nel secondo boccone il marito ritorna non aspettalo in tal tempo. La moglie crudelmente bestemmiatolo fa prestamente nascondere r aupareccbiata cena, e con maravigliosa dissimiilaziono del male che fatto avea , li si fa incontro dicendo . 0 come avete ben da lupi inghiottita quella cena; anzi no l'abbiamo noi gustata, dice il marito, che il mal fuoco tutte le arda queste gaglioUe meretrici, che qu-asi 8on stato in pericolo di perdere quanto ho ai inonlo senza mia colpa. La moglie disiosa, eume tutte sono le femmine, di sapere ogni cosa, lo slimola a n;»rrare tutta la novella, e esso che i fatti della sua casa non sapeva biasimando gli altrui cosi comincia. La moglie del mio compagno , la quale, come tu sai, ha sempre portata buona fama, ed è riputata di somma oncstade, questa sera si avea raccolto uno adultero in casa, ed a punto quando andavamo a cena essi insieme giunti si sollaz- zavano. Ma sentendoci lei venire pose quel giovane in una grande gabbia da polli tessuta di vimini, e sopra quella per ricoprirlo , distende pannilini col zolfo im -

JJOVELLA DEL..0 STERNUTO. ^69

bianchiti, mostrando averli in tal luogo posti per asciu- garli. Così aveufloio al suo parere cautamente nascosto, si pone con noi a cena, con fronte sicura. Fra questo mezzo il giovane dal grave odore del zolfo assalito, non potendo fiatare , stava in molta pena. E la natura di quello vivace metallo lo mosse a sternutare. Era co- stui vicino alle spalle della donna collocato, e però nel primo sternuto essa sotto la mensa appiattandosi mo- strò che da lei ciò procede. II marito con ì^ì usate pa- role le augurò salute, ma seguendo il secondo e il terzo subitamente , non potè lei ben simulare. Onde gittata per terra la mensa, il marito scopre quella gabbia, e tranne fuora un uomo, che a gran fatica potea più fia- tare. Egli infiammato dall'ira, e dallo sdegno torna per un coltello, e certamente lo avreM)e ucciso se io, che per me temea esser giudicato da magistrati consape- vole di quella morte, non l'avessi vietato. Anzi lo con- fortai a portarselo di casa, perchè ad ogni modo senza altro male per stesso morrebbe. E cosi io, e lui lo ponemmo nella strada, la moglie fuggì ancor lei in que- sto romore, e io mi tornai a casa per non stare in quello incendio. Dicendo il pistore queste parole la sua moglie, a cui le cose mal fatte biasimava, incominciando al marito, che geloso era , e pjerò delle ben fatte si pro- vedea, cominciò allora la moglie prosuntuos.i, e maldi- cente appellare colei perfida , disonesta , e universale Vergogna di tutto il sesso femminile : la quale gittatosi dopo le spalle l' onor suo, la casa del marito avea fatto Un bordello , e che perduto il nome della maritale di- gnità, quello d' una meretrice acquisto si avea. E cer- tamente dicea si vorrebbono queste tali ardere vive. Ma tuttavia punta dalla sua maculata coscienza per potere il suo amante trarre più presto di pena, al marito sua- deva, che se ne andasse a dormire. Esso che cenalo non avea, negava poter dormire mai senza cena, e dicendo lei non essere assueta a cuocere alcuna cosa non vi essendo lui, li pone innanzi noci, e pome, oon recando niente della cena destinata ad altrui. Ma io che la pre-

270 NOVELLA DELLO STEIlNUTO.

cedente ribalderia , e la presente constanza di questa maledetta femmina vedea, mi doiea inflno al cuore, ch'Io non potessi a qualche modo questa (raude scoprire , e mostrare colui che come testuggine era nascosto sotto uno alveo di legno, nel quale si solcano i formenti pur- gare. Ora la celeste providenza mi dette aiuto , impe- rocché un vecchio zoppo a cui la guardia nostra era commessa, tutti noi giumenti in quell'ora conduceaad un prossimo lago a beverar^i. La qual cosa mi dette aiuto alla desiderata vendetta. Imperò ch'io avea scorto colui con una delle mani tenere l'alveo da un lato sospeso, 0 per fiatare, o per altra cagione, e per que- sto tenea di fuora le dite della sinistra mano. Onde io passando li appresso gli messi sopra il piede , e cal- candolo fortemente il costrinsi a gridare. Cosi per do-

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lore gittando via 1' alveo molto manifestamente si sco- perse. Non si commosse il pistore per la vergogna che la moglie fatto li avea , anzi con buon volto raccolse quel fanciullo pallido e pauroso. Ed accarezzandolo il prende per mano e dice; non avere tema ch'io non sono barbaro , villano , eh' lo vdglia uccidere un

NOVELLA DELLO STERNUTO, 874

giovinetto tanto bello, per la legge degli adulteri ti voglio accusare, e poner in pericolo della vita. Ma io ti avviso che per ragione , e per giustizia ho parte in tutte le cose di mia moglie, e da ora voglio partire, ed in tal forma che ciascun di noi tre rimanga contento. Io sempre con mia moglie son stato in buona concor- dia, e m'avvedo per questo anco, che quelle cose, che a lei piacciono, a me piacciono ancora. E chiamata la moglie benché brontolando pure fece venire da cena, e postosi irei letto fecero l'uno dell'altro grandissima vendetta. La dimane fé' trarre di casa lo adultero bat-

tuto , come si battono i fanciulli, e dicendogli : tu di tenera età ancora , e di tal bellezza privi gli amanti tuoi di queste notti, consumandoti con queste sporche meretrici. Partito costui di casa, caccia ancor il pìstore faora la moglie.

PINE.

INDICE

Avvertenza deWEditore .... Aggiunta aWAvvertenza .... Breve discorso della vita d? Apuleio

Dell'Asino d''oro

Libro

?5 »

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I

II III

IV

V

VI

vn vili

IX X

ì^omlla d4llo Sternuto

Pag. T . y> XIV

w XV

w 7 « 29 » 52 » 73 M 101 126 y^ 151 » 174 ^ 198 w 229 » 267

FINE DELL INDICB.

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I TRE LIBRI DELL'IRA

(li LUniO AXNSO SE>'ECV

trudiilti ed annoiali da

Francesco Ser-

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< CON L' AGGIUNTA

dulie IfUcre di S. Paelo a Scnei '' cii Seneca a S. Pa:)b valga- ii/.zale nel secolo XIV: Tcsli lin^'ua ridoni a miglior lo- zione ; C'jn pro- fazione del- l'Edilo- rc.

BIBLIOTECA RARA PUBBLICATA DA G. DAELLI

VOL. XXV

DELL' IRA

DELL'IRA

LIBRI TRE

DI LUCIO ANNEO SENECA

TRADOTTI ED ANNOTATI

DA FRANCESCO SERDONATI

NUOVAMENTE RIDOTTI A MIGLIOR LEZIONE

COLL'AGGIUNTA DELLE LETTERE

01 S. PAOLO A SENECA E DI SENECA A S. PAOLO

VOLGARIZZATE NEL SECOLO XIV

MILANO

G. DAELLI e COMP. EDITORI M DCGC LXIII

Proprietà letteraria G. DAELLI o C.

Tip. Orfanolroflo de' Maschi.

AVVERTENZA DELL' EDITORE

Dante non disse di Seneca come di Stazio che fa chiuso cristiano; lo mise tra gli spirili magni nel limbo, e non come l'altro in luogo vici- no a salute. Il signor Amndeo Fleury, nel 1853, scrisse due volumi per provare che fu cristiano, ma lo ribattè bene Carlo Aubertin nel libro che ha lier iholo : Étude sur les rapports supposés entre Sénéque et Saint- Paul (1837) , Il fondamento a cre- dere che Seneca fosse cristiano non è il carteg- gio con S. Paolo , ma i principj di filosofia cristiana sparsi nelle sue opere. Quelle lettere sono universalmente tenute apocrife, e lo stesso Giuseppe de Maistre si restrinse a dire che Se- neca ha veduto San Paolo, e dalla sua conversa- zione ha tratto quella elevata morale che si ap-

VI PREFAZIONE

pareggia talvolta alla purità della predicazione di Bourdaloue e Bossuet. Il fatto ò clic da quel nuovo ambiente morale onde Seneca trasse la sua filoso- fia,Cristo addottrinò la sua ispirazione; e intendia- mo morale nel più alto senso : perchè Seneca vera- mente fia principi grandi, e fecondi di eguaglianza e giustizia sociale. Ne sia esempio questo trat- tato dell' /ro, ove non la considera come un vi- vizio d'inferno secondo fanno 1 casisti, che la mettono per peccato mortale, ma la riguar- da come un affetto), e nelle sue conseguenze privale, giuridiche e sociali. Egli sostiene che gli uomini sono nati per aiutarsi l'un l'al- tro; nò esclude dall'umanità gli schiavi, di cui dice libera l'anima; egli vuole che altri sia severo a so e benigno a chi pecca; egli precorre a Beccaria nel chiedere che si sopprima la pena di morte, e molte bellissime rifiessioni in lui si scontrano, che il sommo giurista Ben- tham ha, non diremo, ricopiate, ma ritrovate nel proprio pensiero, pieno dell'antiche letture.

La bella morte di Seneca il provò vero e grande stoico, e stinse un poco le macchie del mini- stro e del cortigiano. Egli ebbe sempre detrat- tori accaniti e difensori entusiasti. Fra gli ultimi Diderot. Quella gran potenza d'imaginazione che il Malebranche notava in Seneca, e che fu grande quasi come in Bacone, il quale al pari di lui trattò non solo le questioni morali, ma le naturali, animò e colorì il suo stile, che ferisce ed abbaglia. Se- neca si riscontra eziandio con Bacone nell'ar-

PREFAZIONE VII

dorè delle ricchezze , e nel far d' ogni erba fa- scio per acquistarne. Solo Seneca le pose giù come un peso che l'abbatteva, mentre a Bacone, per- dute che l' ebbe, non parve bastevol conforto la filosofia. Eterno disonore di Bacone 1' avere aiu- talo e difeso l' assassinamento legale del suo benefattore, conte d'Essex: eterno disonore di Seneca l'avere agevolalo la morte d'Agrippina, e difeso il matricida. Bacone morì abbietto : Se- neca con maggior coraggio di quegli anlichi che s' infilzavano su un ferro tenuto fermo da mano amica o servile, e di quei moderni soldati che comandano il fuoco contro il proprio petto. Avuto il comandamento della morte, la elesse lenta, la volle sentire, e confermare in quello stremo le sue eroiche dottrine.

Tuttavia, Seneca presunto amico di San Paolo, Seneca, si fervido insegnalor di morale, non po- trebbe invocarsi come Socrate, che Erasmo met- teva nelle sue litanie. Platone fuggì Dionigi ; Se- neca ammaestrò e consigliò Nerone, prima che Agrippina il facesse richiamare dal suo esilio di Corsica, sapeva darsi pace di viver lontano da Roma e dalla corte. Pareva che a disprezzare e calpestare le ricchezze e gli onori avesse bi- sogno di possederli, e che il mele e le locu- ste non gli piacessero che fra il lusso e le ghiot- lornie della cena di Trimalcione. Se non che questa antitesi dell'appetito e della ragione una maggiore efficacia al suo stile, e quella peni- tenza di parola è più efficace nel delicato, nel

vili PREFAZIONE

lussurioso, come la vita cremilìca e di macerazione nei grandi del mondo diesi ritraevano al deserto.

Vorremmo aver di tutto Seneca versioni cosi belle come i Benefizi del Varchi e T /ra del Ser- donali. Il Serdonali ci pare anche più felice del Varchi, che amava un po' andare sai trampoli di quelle sue lunghe clausole; Seneca, si re- ciso , lo corresse affatto affatto. Il Serdonati fioriva allo scorcio del gran secolo decimosesto ; ma la lingua era ancora quasi intatta, e lo stile cominciava a farsi più svelto ed a prendere più vivi colori. Il Davanzali fioriva in quel torno, ed anch' egli procedeva da Tacilo. A Tacilo, la cui idolatria scambiava il culto di Cicerone, si dee re- care in parte, lasciando ora dall'un dei lati la sem- plificazione analitica dello scrivere pel processo della coltura, la felice evoluzione dello stile ita- liano, che fu buona e perfetta nel Davanzali, ed esagerata ed eccessiva nel Marini, che pure nelle sue Dicerie sacre ha bellezze di movimento e gra- zia, per cui indarno cercheresti in altri prosatori.

Questo bel lavoro del Serdonali fu stampato due volte; la prima in Padova (Pasquali, iu69, in 4.*^); la seconda in Genova (Pavoni, 1606, in 8.°). Noi stracciammo quest'ultima edizione, ra- rissima, per la nostra ristampa. L'abbiamo ri- scontrata col testo latino e migliorala assai di lezione. Lasciammo le postille dell'autore ponen- dole a pie di pagina, e frapponemmo al bisogno qualche nostra nolerella o riscontro, contraddi- stinguendo il nostro con 1' abbreviatura Ed. Ta-

PREFAZIONE IX

lora ponemmo soltanto la voce o il passo rispon- dente del latino tale quale come stava, talora aggiungemmo a confronto e chiarezza il francese di J. Baillard (Paris , Hachette, 1860). Avendo trovato nelP edizione del Pavoni il carteggio apo- crifo di Seneca e di San Paolo, volemmo altresì adornarne la nostra, e ci servimmo della versione antica che l'erudito ed arguto Cesare Guasti trasse dal cod. VII della Biblioteca Roncioniana di Prato, e stampò nel primo volume della Collezione di opere inedite o rare nei primi tre secoli della lin- gua (Torino, 1861). toccammo la grafia se non in alcuna cosa di lieve momento. Tra l'altre po- nemmo quasi sempre a preposizione avanti con- sonante, mentre il testo del Guasti ha ad.

Francesco Serdonati, fiorentino, scrisse poco di suo, ma tradusse molto e con raro valore. Egli s' abbattè in generale a buoni testi, come si può vedere dalla notizia che il P. Giulio Negri lasciò di lui, e che , non avendo nulla di meno imperfetto, noi ristampiamo, come già fece il Serassi innanzi alla versione delle storie del Maf- fei, se non che fra parentesi aggiungemmo al- cune notizie ricavate dai Testi di lingua del Gam- ba. Il Serdonati aveva gran possesso del latino e somma maestria nella lingua toscana, e ci pare che ne sia buon testimonio questa versione dei libri dell'ira, come è la sua gran raccolta dei Proverbi, da tutti spogliata e mai impressa. Certo Fra Bartolomeo da San Concordio, od altro di quei felici trecentisti, l' avrebbe vinto

X PREFAZIONE

di brevità ed efficacia , ed esemplalo meglio quell'arena senza calce che pur riteneva in tante pagliuole d'oro; ma il Serdonati tratta da padrone la lingua fiorentina del secolo XVI, che era pur bella, se non cosi sintetica e vi- brala come quella del decimoquarto. Vedasi, per esempio, come negli Ammaestramenti degli Antichi quel vecchio domenicano traducesse questo passo del cap. XXXVI del libro IH dell' /ra:

L'animo nostro si dee chiamare ogni di a rendere ragione. Così faceva Sestio filosofo che, Anito il di, quando egli era andato a posare, domandava T ani- mo suo e diceva: Qual tuo male hai tu oggi guari- to? e a qual vizio hai contastato? e da qual parto se' fatto migliore?... Qual cosa potrebbe essere più bella che questo usato d'esaminar tutto '1 dì? Chente seguitava quel sonno dopo '1 riconoscimento di sé? Come posato e come libero? quando l'animo era lo- dato e ammonito, e siccome segreto cercatore e giu- dicatore di so e de' suoi costumi, riconosceva me- desimo... Io uso e tengo lo detto modo: Quando lo lume mi è levato dinanzi e tace mia moglie perchè sa mio costume, cerco tutto '1 mio dì, e nulla mai nascondo e nulla trapasso. Imperocché, perché temerò io ninno errore mio, quando io posso dire: vedi, nollo fare mai più; aguale ti sia perdonato?

Questo breve tratto basta a provare i pregi e i difetti dei trecentisti. Avevano testi scorretti; non intendevano tutto, e il lor dettato riusciva spesso ravvolto ed oscuro ; ma dove accertavano il senso, erano proprissimi ed efficacissimi. Cosi qui quando egli era andato a posare, è più bello del quando s'era ritirato al notturno riposo: a

PREFAZIONE XI

guai vizio hai contastato del a guai vizio hai fatto resistenza? quando lo lume mi è levato dinanzi e tace mia moglie perchè sa mio costume, ecc. del quando è levatomi il lume dinanzi agli occhi e la moglie tace, informata dell'usanza mia, ecc.

Non si trova più l' amabile e pur forte sem- plicità della lingua nascente ; neppur si trova la elegante e forbita elocuzione del cinquecento. Ma quei libri ci sono aperti, e noi possiamo tuffar- vici : et pieno se proluit auro. Abbiamo poi la voce del popolo, fedele alla sua favella più che i let- terati, i quali ora bene aloruopo vi attingono, e, aiutante il nuovo impulso e la grande energia che porge la libertà, possono promettersi una vicina rinnovazione di tutte le glorie dello stile, come della vita civile. Noi ariamo come la mo- sca; somministriamo qualche curro per agevolare il moto; ci valga il nostro amore ai vecchi scrit- tori; ci valga non a lode, ma ad indulgenza.

Carlo Tèoli.

NOTIZIE

INTORSO

A FRANCESCO SERDONATI

TRATTE

DALL'ISTORIA DEGLI SCRITTORI FIORENTIM

DEL

P. GIULIO NEGRI

DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Viveva nel secolo decimosesto in Firenze sua pa- tria; personaggio fra gli stessi letterati distinto^ mercè r intelletto elevato^ lo spirito vivace^ la franchezza nella lingua latina^ V intelligenza degli scrittori più classici e la varietà dell' erudizione^ che gli conci- liarono un sommo credito. Siccome amò con ardore la lettura de' buoni libri^ così studiossi d' agevolarla ne' meno intelligenti con la loro traduzione in lin- gua toscana. Scrisse pertanto:

L' imprese fatte da' Romani in guerra. In Vene- zia. 1572.

Orazione funerale in morte di Giovanni Ricasoli^ {Giuliano de' Ricasoli. G.) recitata in Firenze nella

XIV NOTIZIE

chiesa di Santa Maria Novella de' padri Predicatori, a' 28 giugno 1590. Firenze, per gli Giunti^ lo stesso anno. (m4.'')

Orazione in morte di Francesco Orsini (barone di Monte Rifondo)^ recitata nella chiesa di S. Lo- renzo di Firenze a 7 maggio del 1593. In Firenze, lo stesso anno, per gli Giunti, {in 4.")

Tradusse dal latino in italiano V Istoria genovese di Uberto Foglietta. Libri A7/, sul fine del secolo decimosesto; e s' impresse tale traduzione in Genova^ in foglio, per (gli eredi di) Girolamo Bjirtoli^ 1597.

Come pure l'Istoria dell'Indie, latinamente dal P. G. Pietro Maffei composta, fu impressa anco la traduzione. {Firenze Giunti, 1589 tn-4.°, Bergamo., Lancellotti, 1749, voi. 2 ink." e altrove).

Compose un libro col titolo De' vantaggi da pi- gliarsi da' capitani io guerra contro i nimici su- periori di cavalleria, in Roma., in 4.**, il 1608.

Spiegò pure in un volume in foglio /'Origine di tutti i Iproverbj fiorentini, t7 cui originale ms. trovasi nella libreria Barberina.

Fatti d' arme de' Romani^ Opuscolo. {Libri HI, Yen. Zdetti e Comp., ma in fine Cristoforo Zanetti 1572, intt.").

(Vita e fatti d'Innocente VII!., papa CCXVI^ ecc. Milano, Ferrario, 1829, tn-8.'').

Casus virorum ac mulierum illustrium libris duobus. Ma questi furono una continuazione ai nove libri latini scritti nello stesso argomento di Giovanni Boccaccio, volgarizzati ed accresciuti con esempj di altre donne famose da Giuseppe Maria Betussi; e

INTORNO A FRANCESCO SERDONATI XV

tutta l'opera^ colle giunte de Betussi e Sei'donati^ fu impressa col titolo di Libro di M. Giovanni Boc- caccio delle donne illustri, in Firenze^ per Filippo Giunti, il 1596, in un tomo, e dallo stampatore con sua lettera dedicata alla serenissima madama Cri- stiana di Lorena, granduchessa di Toscana; e seb' bene il titolo dell'opera è latino , perchè in latino scrisse il Boccaccio, le continuazioni del Betussi e Serdonati furon composte in italiano.

Tradusse dalla latina in toscana favella di Ga- leotto Marzi da Narni V opera intitolata De varia Doctrina; in Firenze, per Filippo Giunta, 1615, in 8.°, e vi fece alcune addizioni. {In fine è 1595, la dedica è del 15 marzo 1594.)

(Tradusse l'Esortazione alla Repubblica di Venezia del Card. Baronio. Roma, Zanetti 1606, in 8.").

Tradusse pure dal latino in italiano il metodo^ ovvero ordine di leggere gli scrittori dell'istoria ro- mana, composto da Pietro Angelio da Barga. Firen- ze, per Filippo Giwn^a, 1611, e va annesso alla tra- duzione de' Cesari di Svetonio , fatta da Paolo de' Rossi,impressa in Firenze, per Filippo Giunta, 1611.

(Rivide la versione dell'istoria fiorentina di Poggio Bracciolini, fatta dal costui figliolo Jacopo e stam- pata in Firenze da Filippo Giunta. 1598, in-^.").

Fece l'elogio in morte di Giovanna d' Austria, moglie di Francesco I, granduca di Toscana, al dir del Moreri.

(Rimangono inediti i suoi Ragionamenti sui co- stumi de Turchi, Marsand, cod. mss. e. 180).

Parlano con encomj di questo scrittore:

\ \ l NOTIZIE INTORNO A FBANC. SERDONATI

Jacobus Caddi in elogiis elogio primo, et in CoroU. Poetico, pag. Ilo.

Michael Poccianti in Catalogo illustrium scrip- torum florentinorum.

Luigi Morcri nel suo gran Dizionario francese, dove parla di Giovanna d' Austria.

Giocanni Cinelli in più scanzie della sua Biblio- teca Volante^ come nella prima, ecc.

DI L. A. SENECA

D E L L' IRA

A NOVATO

TRADOTTI IN LINGUA VOLGARE DA FRANCESCO SERDONATI FIORENTINO

LIBRO PRIMO

CAPITOLO I.

Tu m'hai, Nevato (1), con grand' instanza richie- sto ch'io scrivessi come l'ira si potesse mitigare; senza causa mi pare che tu abbi temuto partico- larmente di qutesto affetto, il quale fra tutti è brutto e pieno di rabbia. Perciocché negli altri é qualche poco di quieto e placato, ma questo é tutto conci- tato e da empito mosso, e sopra la natura umana si compiace di dolore, d'arme, di sangue e di sup- plizi • purché ad altri nuoca, stesso sprezza, s' av- venta contro r arme, mai ad altro pensa che alla pena della vendetta. Laonde dissero alcuni savj l'ira (2), essere breve pazzia, perciocché parimente con quella é priva di poter signoreggiare a stes- sa, non si ricorda dell' onore, non tien memoria delle

(1) Era questo Novato figliuolo di Seneca, come si trae dal proemio delle declamazioni. * M. Anneo Novato era fratello di Seneca. Ed.

(2) Onde Orazio: Ira furor 6ret)t<. Ed il Petrarca :/ra è brevt furore.

4 dell'ira

amicizie; ostinata ed intenta in quello che una volta ha principiato, serra la via alla ragione ed ai con- sigli, ed agitata da vano cause , é inabile a distin- guere il giusto ed il vero , somigliante molto alle rovine, le quali si fiaccano e si rompono sopra quello che hanno oppressato. Ma perchè tu conosca esser pazzi quelli che dall'ira dominati sono, pon mente all'abito loro: perciocché come dei pazzi sono indizj certi il volto audace e minaccioso, la fronte malin- conica, la faccia torva ed aspra, l'andar frettoloso, le mani inquiete, il colore mutato, i sospiri spessi e veementi, cosi degl'irati sono i medesimi segni. Gli occhi sono vermigli e focosi, intatto l'aspetto é un rossore acceso, bollendo il sangue nei più bassi pre- cord j, le labbra si muovono e si stringono i denti; s'arricciano e si rizzano i capelli; lo spirito è in loro ristretto e stride, le membra torcendosi risuonano, essi sospirano, mugghiano e parlano interrotto con voci non bene spiegate, e le mani spesso si percuo- tono, batton la terra coi piedi , e tutto il corpo si commuove, facendo molte minacce di collera, ed han la faccia brutta e spaventevole a vedere; per- ciocché si contraffanno e gonfiano. Tu non sapresti dire se gli é vizio più detestabile o brutto. L'altre cose si possono ascondere e tener coperte; l'ira scappa ed esce in faccia, e quanto é maggiore, tanto più manifestamente trabocca. Non vedi come in tutti gli animali subito che insurgono al nuocere precor- rono indizj, e che in tutto il corpo escono del solito e quieto abito, ed esa.sperano la loro fierezza? Ai ci- gnali esce la spuma di bocca , arrotano ed aguz-

LIBRO PRIMO 5

zano i denti stropicciandoli insieme ; i tori muovon le corna al vento e spargono l'arena coi piedi ; i leoni fremono; i serpenti instizziti alzano il collo; le ca- gne arrabbiate sono spaventevoli a vedere. Non é alcuno animale tanto orrendo e tanto per naturja pernicioso, che non appaia in esso, sendo dalla col- lera assalito, aggiunta di nuova fierezza. Ben so che gli altri affetti ancora mal s'occultano, e che la li- bidine, la paura e l'audacia danno segni di sé, e si possono antivedere. Perciocché non si sveglia cogi- tazione alcuna veemente nell'animo nostro che non muova qualcosa nel volto. Che differenza c'è adun- que? Che gli altri affetti appariscono, questo più di tutti si scopre e si palesa.

CAPITOLO II.

Se tu vuoi riguardare i suoi effetti e danni, nes- suna peste é stata maggiore al genere umano. Ve- drai uccisioni e veleni, scambievoli accusazioni e lutti di rei e rovine di città, desolazioni di nazioni intere, ed i capi dei principi messi a vendere all'in- canto sotto la civile asta , e le fiaccole messe alle case, e fuochi non ritenuti entro alle mura, ma smi- surati spazj di paesi rilucere per la fiamma messavi dagl'inimici. Riguarda i fondamenti di città già no- bilissime che appena scorger si possono; queste ha spianate l'ira. Riguarda le solitudini lasciate per molte miglia senza abitazione; queste ha desolate l'ira. Riguarda tanti capitani celebrati dagli scrit- tori, esempj di tristo fato. L'uno ha morto Tira nel

6 DELL' m A

SUO letto; T altro ha percosso fra i sacrati riti della mensa; un altro ha lacerato in mezzo delle leggi, e spettacolo del foro pieno di popolo; altro è stato forzato dare il sangue al figliuolo parricida; un al- tro alla mano servile ha dato ad aprire la reale gola; un altro ad esserli spezzate le membra in cro- ce. Per ancora vo' raccontando i supplizj dei parti- colari. Ma, se ti piace, lasciando indietro quelli con- tra quali s'è Tira risentita spartitamente, riguarda i popoli radunati a pubblici parlamenti di coltello uc- cisi, e la plebe da soldati tagliata a pezzi ed in perni- zie confusa, i popoli interi privi di vita,.... come se o gli Dei avesser lasciata la cura di noi, o sprezzata l'au- torità loro. Che dirò de' gladiatori? Perché s'adira il popolo, e con tanta iniquità che gli par ricevere ingiuria, perchè non muoion volentieri? giudica d'es- sere sprezzato, e col volto, gesto ed ardore, di spet- tatore diventa avversario. Il che nondimeno non é ira, ma quasi ira: come quella dei fanciulli, quali se cascano, vogliono che si batta la terra, e spesso non sanno pure con che s'adirano , ma solo s' adi- rano senza causa e senza ingiuria , ma nondimeno non senza qualche apparenza d'ingiuria , senza qualche desiderio di pena. S' incannano adunque col fingere di battere, e si placano con le lagrime di chi ad essi si umilia e li prega, ed il falso dolore si to- glie con la falsa vendetta.

LIBRO PRIMO

CAPITOLO III.

"Ci adiriamo, dicono, spesso non con quelli che of- feso ei hanno, ma con quelli che sono per offender- ci; peiché tu sappi che Tira non nasce solo dall' in- giuria (1). n È vero che noi ci adiriamo con quelli che sono per offenderci. Ma ci offendono col pensiero stesso, e quello che é per farci ingiuria già la fa. «Acciocché tu conosca, dicono, che Tira non è cupi- digia di pena, spesse fiate avviene che gli uomini debolissimi s'adirano coi potentissimi , ne deside- rano la pena, che non sperano." La prima cosa ab- biam detto che T ira è desiderio , non facultà di vendetta; e spesso avviene che gli uomini deside- rano quelle cose che non possono conseguire. Se- condariamente niuno é tanto umile ed infimo che non possi sperare la pena d'un uomo grandissimo. La diflnizione data da Aristotile non è molto diffe- rente dalla nostra, perciocché egli afferma Tira es- sere un desiderio di rendere il dolore. Che differenza sia fra questa diflnizione e la nostra sarebbe lunga cosa a discorrere. Si dice contro l' una e l'altra che 16 fiere s' adirano, perché sieno da ingiuria insti- gate, per conto di dar pena o dolore ad altri perciocché, sebbene ciò fanno, ciò non chieggiono Ma si debbe dire, che le fiere mancano d' ira, e ogni altra cosa, fuorché l' uomo. Perciocché , sebbene é

(1) Risponde alle ragioni che si potessero indurre contra la sua opinione che l'ira nasca dall'ingiuria, ossia desiderio di vendeUa.

8 DELL'IRA

inimica della ragione , con tutto ciò non nasce mli se non dove ha luogo la ragione. Le Aere fanno em- piti, hanno in rabbia, fierezza ed assalti. Ma l' ira non hanno elleno più che le s'abbino la lussuria , con tutto che in certi piaceri siano più intemperanti che l'uomo. Non é da credere a colui che dice:

Non si ricorda il rignal ti' adirarsi,

Non di fidarsi nel corso la cerva.

gli orsi d'assalire i forti armenli. (l)

Chiama adirarsi l'insurgere, fare empito ed urtare. Certo non sanno adirarsi più che si sappino perdo- nare. Gli animali muti sono privi degli affetti uma- ni , ma hanno certe inclinazioni e spingimenti ad essi affetti somiglianti. Altramente, se in loro fosse amore sarebbe ancora odio se l'amicizia; e lo sdegno, se discordia; e la concordia ; delle quali cose in loro an- cora sono alcuni vestigj, ma propriamente sono beni o mali de' petti umani. Fuorché all' uomo a nessuno é concessa la provvidenza, la diligenza, il discorso ; solo delle umane virtù sono privi gli animali , ma dei vizj ancora. Tutta la lor forma é dissimile dall' umana, come di fuora cosi di dentro. Percioc- ché quello regio e principale si dice altrimenti in loro; come ancora ben hanno la voce, ma non sciol- ta , anzi perturbata e non efficace, e la lingua , ma legata e non sciolta ai vari moti, così quello prin- cipale in essi 0 é occupato, e poco ha del perfetto. La vista loro é capace delle specie delle cose, me- diante le quali si sveglia agli empiti, ma turbate e

(1) Ovid. Melam. VII, 543, 346. Ed.

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confase. Da questo sono i loro assalti e tumulti veementi; ma la paura e le ansietà, la malinconia e Tira non vi sono, ma certe cose a queste somi- glianti. Però presto cadono e si mutano in contra- rio, e quando son grandemente incrudelite e spa- ventate, si pascono, e dal fremere e scorrere senza considerazione, subito ne segue la quiete ed il sonno,

CAPITOLO IV.

Che cosa sia Tira assai s'è dichiarato; in che sia differente dall' iracondia é manifesto, come è dif- ferente uno imbriaco da uno che spesso s' imbriachi, e quello che teme da chi è timido per natura. Un irato può non essere iracondo; un iracondo può talvolta non essere irato. L' altre cose, che appresso i Greci distinguono con più. nomi Tira in più spe- cie, perchè appresso noi non hanno i loro vocaboli, le lascerò andare: quantunque noi ancora diciamo amaro ed acerbo, meno stomacoso, rabbioso, che sempre grida, difficile, aspro , le quali tutte cose sono differenze deir ira (1). Tra queste puoi porre fastidioso, sorte delicata e leziosa d' iracondia. Per- ciocché sono certe ire che si quietano prima che gri- dino; alcune non meno pertinaci che spesse ; alcune senza movimento (2), più parche di parole; alcune sciolte e licenziose neir amarezza delle parole e vil-

(1) Di queste specie fa menzione ancor Plutarco in quella operetta che egli fa del raffrenare la iracondia.

(2) Lesse sede manent: Il Lipsie sceoa manu. Ed.

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lanie; alcune non escono più che al rammaricarsi e scostarsi; alcune sono alte, gravi e rivolte inden- tro. Mille altre specie sono di questo vario male.

CAPITOLO V.

S*é disputato che cosa sia Tira; se ella cade in al- cuno altro animale che nelTuomo-, in che sia diffe- rente dall'iracondia, e quali siano le sue specie. Vediamo adesso se Tira é secondo natura e se ella é utile, e in qualche parte degna di essere am- messa (1). Se sia secondo la natura o no, sarà ma- nifesto se considereremo V uomo , del quale , che cosa è più piacevole ed affabile mentre ha T animo nel retto abito? E che cosa è più crudele dell'ira? Che più amorevole dell'uomo? Che più dispettoso che r ira? L' uomo è generato per iscambievole aiu- to; l'ira per rovina. Egli vuol congregarsi, ella se- pararsi ; egli giovare, ella nuocere ; questi sovvenire a quelli ancora che ei non conosce, quella affrontare ancora i carissimi; questi é parato a spender non che altro stesso negli altrui pericoli : l'ira è pronta a metter in pericolo stessa, purché conduca seco un altro. Chi adunque é più ignorante della natura delle cose, che chi assegna questo vizio fiero e per- nicioso alla sua ottima e perfettissima opera? L'ira,

(1) E questo perchè volevano i peripatetici che, non solo fossero queste perturbazioni naturali, ma date ancora utilmente dalla natura, come mostra Cicerone nella quarta Tuscalana.

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come abbiam detto, é desiderosa di pena, la cui cu- pidigia naturalmente non è dentro al quietissimo petto deir uomo. Perciocché T umana vita é fondata e si mantiene coi beneflcj e concordia, per paura, ma per amore iscambievole si ristringe in lega ed aiuto comune ? Non è talvolta necessaria la puni- zione ? Perché no ? Ma vuol esser usata con sincera ragione. Perciocché ella non nuoce, ma medica sotto specie di nuocere: in quella guisa che incendiamo alcune pertiche torte per drizzarle, e le percuotiamo adoperando ancora i couj non per spezzarle, ma per farle dritte; così gl'ingegni, per qualche difetto malvagi, correggiamo con dolore dell'animo e del corpo. Certo il medico sul principio non tenta nei difetti leggieri scemar molto della consuetudine or- dinaria ; ma pon ordine ai cibi, bevande ed esercizj, per confermar la con^plessione col mutar solo la so- lita vita ; di poi ne segue che la moderazione giovi. Se il modo ed ordine non giova, ne leva, e sminui- sce qualcosa; se per ancora gli riesce, gli toglie il cibo, e con V astinenza sgrava ed alleggerisce il corpo. Se invano gli son venute fatte queste cose leggieri, ferisce la vena e taglia le membra, se alle parti vicine nuocono e spargono il male, gli par che sia crudele quel rimedio, il cui effetto sia salutifero. Così convien fare a chi é sopra le leggi ed a governo delle città, per quanto può curare gV ingegni con parole, e queste piacevoli e benigne, acciocché persuada quello che sia ben fare, e metta negli animi il desiderio dell'onesto, del giusto, e fac- cia che eglino abbino in odio i vizj, e le virtù inpre-

12 dell'ira

gio: passi poi a più strette parole, con le quali poi an- cora avvertisca e rinfacci; ultimamente ricorra alle pene, e queste per ancora leggieri e revocabili (1). Dia gli ultimi supplizj alle ultime scelleratezze, ac- ciocché ninno muoia se non quello la cui morte a lui stesso ancora sia utile.

CAPITOLO VI.

In questo solo sarà differente dai medici, che eglino fanno la morte facile a chi non han po- tuto dar vita : costui toglie la vita al condan- nato 'con vergogna ed infamia; non perché si di- letti della pena d'alcuno (perciocché tanto inumana bestialità è lontana dal savio) , ma acciocché sia l'esempio di tutti, e la Repubblica si serva della morte di quelli che non hanno voluto giovare ad alcuno. Non é adunque l' umana natura desiderosa di pene; però non é l'ira secondo la natura umana, perché é desiderosa di pena. Ed addurrò un argo- mento di Platone, perciocché, qual cosa ci vieta di servirsi delle cose di altrui in quella parte che sono nostre? " L'uomo dabbene, dice egli, non offende; la pena offende; ad un buono adunque non convien la pena; e perciò ne l'ira, perché la pena conviene al- l'ira. » Se l'uomo dabbene non s'allegra della pena, non s'allegrerà ancora di quello affetto al quale la pena è di piacere: adunque non é l'ira naturale.

(1) Onde diceva Platone per tal causa non s'essere ingerito nel governo delti Repubtilica perchè vedeva non si poter per* suadere il bene agli Ateniesi del suo tempo, ed il forzargli pareva scelleratezza. Cicerone nell'Epistola lunga a Lenlulo.

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CAPITOLO VII.

Che ? sebtene non é Tira naturale si deve ammet- ter e, perché spesso é stata utile? Accresce, ed in- cita gli animi, senz'essa fa la fortezza nella guerra cosa veruna magnifica, se di qui non vi s'è messa la fiamma e se di qui lo stimolo non l'ha commossa, ed ha messo gli uomini audacemente nei pericoli. Ottima cosa adunque stimano alcuni ridur l'ira a temperamento e non la tor via, e cavatone quello che soprabbonda, condurla al termine salutare, ri- tenendo quello senza il quale farà 1' azione fredda , e la forza e vigor dell'animo si risolverà. La prima cosa é più facile mandar via le cose perniciose che reggerle; e non le ammettere, che ammesse mode- rarle. Perciocché quando si son poste in possesso diventano più potenti del rettore, patiscono d'es- ser tagliate o diminuite. Dipoi la stessa ragione a cui si il freno é tanto potente quanto é libera da- gli affetti. Ma se ella s'è mescolata e macchiata con essi , non può contenere quelli che ella avrebbe potuto cavar di sedia: perciocché la mente com- mossa una volta e sbattuta, serve a quello da cui è spinta. I principj di certe cose sono in poter no- stro, ma i progressi ci rapiscono con la loro vio- lenza , ci lasciano tornar indietro. Siccome i corpi mossi alla caduta non hanno arbitrio alcuno di mentre che cascano dal precipizio, innanzi che percuotino la terra han potuto fermarsi o tar- dare, ma la precipitazione irrevocabile taglia ogni

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consiglio e penitenza , e non si può non arrivar dove si sarebbe potuto non andare ; così T animo , se s'è ingolfato nell'ira , nell'amore e negli altri affetti, non gli é permesso raffrenar l'empito; biso- gna che la natura, ancora inclinata ai vizj, Io rapi- sca e tiri il suo peso fino al basso (1).

CAPITOLO Vili.

Ottima cosa è sprezzar subito il primo incitamento dell'ira, e repugnare agli stessi semi ed ingegnarsi di non incorrere in lei, perciocché , se comincia a voltarci a traverso , é difficile tornare alla salute. Perché non ha luogo la ragione ove una volta s'è indotto r affetto e per nostro volere gli s' è data qualche podestà. Farà del restante quanto vorrà , non quanto tu gli avrai permesso. 11 nimico si deve incontrare e scacciare quando e sui confini ; che quan- do é entrato, e fittosi dentro alle porte, non riceve dai vinti il modo e le condizioni. Perciocché l'animo non è posto da parte che di fuora riguardi gli affetti , acciocché non permetta che procedino più oltre che si bisogni, ma egli ancora é forzato imitare lo stesso affetto. Però non può richiamare a senza gran difficoltà quella utile e salutar forza già indebolita

(1) La medesima similitudine è usata/la Cicerone nella quarta Tusculana, ove ancoregli riprova questa opinione de'peripatetici. Chi adunque, dice egli, cerca la moderazione nel viiio, non fa altrimenti che chi pensasse che si potesse ritenere a sua posta (juello che si sia precipitato da Leucade; caè come questo è impossibile, cosi l'animo perturbalo ed incitato non può raf- frenarsi né fermarsi in modo alcuno.

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e quasi perduta. Perciocché, come ho detto, l'affetto e la ragione non hanno le sedie loro separate e divise ; l'animo si può mutare in meglio ed in peggio. Come adunque la ragione occupata ed oppressa da vizj risurgerà, che ha ceduto all' ira ? Ovvero in che modo si libererà dalla confusione sendo ella già stata su- perata dalla mescolanza dei peggiori ? « Ma certi, di- cono, si contengono nell'ira. " Ma contengonsi eglino in modo che non faccino niente di quelle cose che detta l'ira, oppur ne fanno qualcuna ? Se non fanno niente, appare che l'ira non é delle cose necessarie alle azioni, la quale voi chiamavi in vostro aiuto , come se avesse qualcosa più forte che la ragione. Finalmente, domando se ella é più gagliarda o più debole della ragione? Se ella é più gagliarda, come potrà la ragione dargli le leggi, non sendo solite ob- bedire se non le cose più deboli e fievoli? Se ella é più debole, senza questa é la ragione bastante da per agli effetti delle cose , desidera l'aiuto di quella che é di lei più debole. « Ma sono alcuni che adirati non escono de' termini e si contengono. « In che modo? Quando già l'ira svanisce e da per si parte, non quando è nel fervore e colmo; che allora é più potente. « Che è adunque? non la- sciano ire talvolta sani e salvi e senza offesa an- cora in collera quelli che odiano e s' astengono dal nuocergli ? Fannolo. Come? quando l'uno affetto ha ripercosso l'altro, o la paura o la cupidigia ha comandato qualcosa, non s'è quietata allora per benefizio della ragione, ma per infedele e rea pace degli.affetti.

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CAPITOLO IX.

Finalmente ella non ha utilità alcuna; ne inci- ta l'animo alle opere militari: perciocché la virtù non si deve mai aiutare col vizio, che si contenta di stessa. Ogni volta che fa di bisogno di empi- to, non s'adira, ma si sveglia e per quanto stima esser di bisogno si commuove e si quieta; non al- trimenti che le arme che si lanciano per instrumenti e artiglierie (1), sono in poter di quel che le trae, in quanto si traggono. « L'ira, dice Aristotile, é necessa- ria, né si può espugnar niente senza lei, se ella non empie l'animo e accende lo spirito. Ma bisogna usarla non come capitang, ma come soldato." Il che é falso. Perciocché se ode la ragione e la segue ove é guidata, già non é ira, il cui proprio é l'ostinazione. Ma se fa resistenza e non si quieta e posa dove gli é commesso, ma é trasportata dalla libidine e fero- cità, é un ministro dell'animo tanto inutile, quanto il soldato, che sprezza il segno del suono a raccolta. Per il che se sopporta d'esser moderata, si deve dar- gli un altro nome. Resta di esser ira, la quale io intendo essere sfrenata ed indomita. Se non sopporta é perniciosa, si deve numerar fra gli aiuti. L'ira 0 non é ira, o é inutile. Perciocché se alcuno cerca la pena, non desideroso di pena, ma perché cosi con- viene, non si deve annoverar fra gli irati. Questi sarà utile soldato che sa obbedire al consiglio. Certo gli affetti sono tanto tristi ministri, quanto capi.

(1) Tormentii, Ed.

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Però la ragione non riceverà mai in suo aiuto gli smpiti senza considerazione e violenti, appo i quali 3lla non abbia niente di autorità, i quali non possa aaai raffrenare, se non gli oppone affetti pari e so- miglianti, come all'ira la paura, alla dappocaggine L'ira, al timore il desiderio.

CAPITOLO X.

Non sia questo male nelle virtù, no, che la ra- gione rifugga mai a' vizj per aiuto. Non può questo animo pigliare ferma quiete; é necessario che si per- cuota e ondeggi, chi é sicuro per i suoi mali, che non può esser forte se non s'adira; industrioso se non desidera; quieto se non teme; bisogna che viva in tirannide chi viene in servitù di qualche affetto. Non è vergogna sottopor le virtù in clientela dei vizj ? Di poi resta la ragione priva d' ogni podestà, se ella non ha vigore possanza senza l'affetto e comincia ad essergli pari e simile. Laonde che im- porta, se parimenti; l'affetto è cosa temeraria senza la ragione, come la ragione é inefficace senza l'af- fetto? l'uno e l'altro, é pari, quando l'uno non può essere senza l'altro. E chi sosterrebbe che l'affetto si pareggi con la ragione? « l'ira, dice, é affetto utile, se è moderata. » Anzi che per natura sua é utile. Ma se ella non riceve l'imperio della ragione, solo consegua questo con esser moderata che quanto minor sia, meno nuoca (1). L'affetto moderato adunque non é

(l) M. Tullio ancora nella quarta Tusculana batte questa opi- nione dei peripatetici, ma con altre ragioni molto belle. L'Ira. 2

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altro che un male moderato. « Ma dicono, l'ira é ne- cessaria contro i nemici. »

CAPITOLO XI.

Mai é manco necessaria; dove bisogna che gli empiti non sieno inconsiderati, ma temperati e ob- bedienti (1). Perciocché qual altra cosa è che ab- batta i Barbari tanto più robusti e pazienti delle fa- tiche, se non l'ira infestissima a stessa? I gla- diatori ancora sono dall'arte difesi, dall'ira spo- gliati. Di poi, che bisogna l' ira se la ragione fa il medesimo? Pensi tu che il cacciatore s'adiri con le Aere? od opponendosi a quelle che vengono ad in- contrario, 0 perseguendo quelle che fuggono, tutte queste cose fa la ragione senza l'ira. Che fu che uccidesse e consumasse in modo tante migliaia di Cimbri e Teutoni, de'quali le Alpi erano coperte, che non fu il messaggiere, ma la fama, che desse nuova a' suoi di tanta strage, se non l'ira, che ave- vano in vece di virtù? la quale come talvolta ab- batte e atterra quello che se gli fa incontro, cosi le più volte rovina stessa. Chi é più animoso de' Germani ? chi é più veemente agli affronti ? chi é più desideroso di arme , nelle quali nascono, si nutriscono e delle quali solo hanno cura sendo nell'altre cose negligenti? Chi é più duro ad ogni pazienza, come quelli i quali per lo più non han

(1) Tullio nel luogo citato ancora dice, che chi pone modo ai vizj ammette una parte de' yizj.

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provvisto vestimenti al corpo, non ripari e aiuti con- tro il perpetuo freddo che e sotto quel cielo? Non- dimeno gli Spagnuoli, i Galli e gli uomini dell'Asia e Siria molli in guerra gli ammazzano prima che si vegga la legione, non opponendosi (1) eglino con al- tro agli inimici, che con Tira. Orsù accompagna quei corpi, quelli animi non avvezzi alle delizie, alla lus- suria e alle ricchezze con la ragione , dagli la disci- plina; per non dir molto, ci sarà certo necessario ricercare i costumi Romani. Con che altro ricreò Fabio (2) le forze dell' impero indebolite che col sa- pere indugiare, tirar la cosa in lungo e ritardare, le quali non sanno fare gl'irati? Era andato male r Imperio che allora stava in estremo, se Fabio avesse avuto tanto ardire, quanto Tira persuadeva. Ebbe in considerazione la fortuna pubblica ed esaminate le forze, delle quali già _non poteva perir niente, che non andasse male il tutto, messo da banda il dolore e la vendetta, intento solo all'utilità e all'oc- casione, vinse prima l'ira stessa che Annibale. E Scipione? non trasferì egli la guerra in Africa; la- sciato Annibale, l'esercito cartaginese e tutti .quelli con chi bisognava adirarsi, fu tanto lento che cascò ai maligni in opinione di lussuria e dappocaggine? E il secondo Scipione non stette lungo tempo in- torno a Numanzia e pazientemente sofferse questo

(1) Forse esponendoli, r ira gli rende opportuni, faciU a esser vinti. Ed.

(2) Fabio Massimo di cui disse il Petrarca. Vn gran vecchio... Che con arte Anniballe a bada tenne. Onde Ennio disse che egli aveva restituito l'imperio col tardare. (Vedi Cicerone nellibro della vecchiezza e nel primo degli uffloj.)

'jo dell' ira

suo dolore e pubblico che si mettesse più tempo a vincere Numanzia, che Cartagine ? la quale (1) mentre che accerchia di bastioni e con essi racchiudo il ni- mico, la ridusse a tale che gli uomini morirono con il lor ferro proprio.

CAPITOLO XII.

LMra adunque non è utile, ancora nelle gior- nate o guerre; perciocché ella inclina alla temerità,, e mentre vuol metter altri in pericoli, non ha ris- guardo di non v'entrare essa ancora. Quella évirtù^ certissima che lungo tempo, e con molta diligenza 8' é considerata e retta (2) ed é ita innanzi con lento passo e avendo prima ben pensato il tutto. « Che é adunque? l'uomo dabbene, dice, non s'adirerà se vedrà batter suo padre, o sua madre esser rapita?» Non s'adirerà, ma farà le vendette e li difenderà. Che temi tu che la pietà non gli sia picciolo stimolo ancor essa senza l'ira? 0 vero di' nel medesimo modo. Che? quando l'uomo dabbene vedrà che il padre suo sia tagliato a pezzi, o il figliuolo, non piagnerà, non 8' intenerirà tutto nell'animo ? le quali cose vediamo noi accadere alle donne quando son percosse da sospetto d'un leggier pericolo. L' uomo dabbene ese- guisce i suoi ufflcj senza esser confuso, senza timore, e cosi farà cose degne d'uomo dabbene, ancorché non faccia cose indegne d' uomo. Mio padre sarà battuto? lo difenderò; é stato battuto? ne farò le

(1) Numanzia. Ed.

(2) Texit. Ed.

LIBRO PEDIO 21

vendette, perché così conviene, non perché me ne dolga. Quando tu dici questo, o Teofrasto, tu cer- chi carico con precetti più. forti e lasciato il giu- dice vieni per la corona. Perché ciascuno in tal caso del male de' suoi s'adira, pensi che gli uo- mini sien per giudicare che si debba fare quello che fanno ; perciocché ordinariamente ciascuno giu- dica giusto queir affetto che in riconosce (1). S'a- dirano gli uomini dabbene per le ingiurie de'suoi, ma il medesimo fanno se l'acqua non gli vien data calda a lor modo, se s' è rotto un bicchiere, se le scarpe non sono ben nette. Non é la pietà che muove quel- l'ira, ma la debolezza, siccome i putti che piagne- ranno tanto perso il padre, o madre, quanto se hanno perduta una noce. L' adirarsi per i suoi non é atto d'animo pio, ma debole. Questa è cosa bella e degna andare a difendere i padri, le madri, i figliuoli, gli amici e i cittadini, mosso dal debito stesso, sponta- neamente, con giudizio e considerazione, non spinto e rapito (2). Perciocché ninno affetto é più desideroso di vendetta che l'ira, e per questo inabile al vendi- care, piena di rabbia e pazzia (3), siccome quasi ogni cupidità s'impedisce per stessa in quello che ella sollecita: perciò non é stata mai buona, in pace in guerra. Perciocché ella fa la pace simile alla guerra e nelle armi si scorda che Marte é comune e viene in poter d'altri, non essendo suo. Secondariamente non si devono ricevere in uso i

(1) Vedi il quadragesimo capitolo del terzo libro.

(2) Non impuhum et rabidum. Ed,

(3) Prcerabida. Ed,

22 DELL' IRA

vizj (1), perché talvolta han fatto qualcosa di buono. Perciocché, alcune febbri alleggeriscono certe sorte di malattie e per questo non ó eh e non sia meglio esser totalmente senza febbre. É una sorte di ri me- dio abbominevole riconoscer la sanità dal ma le; si- milmente Tira, sebbene talvolta come il v eleno e la precipitazione e il naufragio ha giovato impensata- mente, non per questo si deve giudicare salutare; perché le più volte sono queste cose state pestifere alla salute.

CAPITOLO XIII.

Di poi quelle cose che son da tenere per beni , quanto son maggiori, tanto sono e migliori e più desiderabili. Se la giustizia é bene , ninno dirà che sia per essere migliore , se ne sarà levato qualche cosa; se la fortezza é bene, ninno desidererà che si diminuisca in parte alcuna. Adunque Tira quanto é maggiore , tanto sarà migliore. Perciocché chi ricuserà l'aggiunta d'alcun bene? Ma gli é cosa inutile che ella si accresca , adunque é che ella sia. Non é bene quello che per accrescimento di- ventò male. « L' ira, dice , é utile perché fa gli uo- mini più pronti al combattere (2). « Nel medesimo modo farà l'ebrietà; perciocché ella fa gli uomini, impronti , arditi e molti oppressi dal vino sono

(1) Nel testo latino è vita, ma credo che sia scorretto e che si debba leggere fitta.

(2) Ove Virgilio nel secondo dell'Eneide. Una talut victis mi- lam sperare salutem.

LIBRO PBIMO 23

stati più pronti al ferro. Nel medesimo modo puoi dire che la frenesia e pazzia sia necessaria alle forze, perché spesso il furore fa gli uomini più gagliardi. Che? non ha talvolta la paura stessa fatto un ti- mido divenire audace? e il timore della morte non ha spinto alla battaglia quelli ancora, che dappo- chissimi sono? Ma Tira, l'ebrietà, il timore e l'altre cose tali, sono incitamenti brutti e poco durevoli, instruiscono la virtù, che non ha bisogno alcuno de' vizj, ma talvolta sollevano un poco l'animo pi- gro e dappoco. Ninno per l'ira diviene più forte, se non quello che non sarebbe stato forte senza ira. L'ira non viene in aiuto, ma in vece della virtù. Che? se l'ira fosse bene, ella seguirebbe più cia- scuno, quanto più perfetto fosse. Ma quelli che sono all' ira molto sottoposti sono ignoranti (1), vecchi e deboli e tutto quello che é debole è per natura ram- marichevole (2).

CAPITOLO XIV.

" Non può essere, dice Teofrasto, che l'uomo dab- bene non s'adiri co' malvagi, n In cotesto modo quanto ciascuno sarà migliore, tanto più sarà iracon- do? Guarda che non avvenga il contrario, che egli sia più placato e libero dagli affetti e non abbia in odio alcuno. Ma che causa ha egli di odiare quelli che peccano, spingendoli in questi delitti l' errore ? ma non é cosa da prudente avere in odio quelli che

f(l) Il Lat. infantes —> infanti, bambini. Ed. (2) Querulo. Ed.

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errano: altrimenti avrebbe in odio stesso. Pensi quante cose egli faccia contro ai buoni costumi , quante ne abbi fatte, che desiderino perdono. Di già s'adirerà ancor seco stesso; perciocché il giusto giudice non diversa sentenza sopra la causa sua e quella degli altri. Ninno, dico, si trova che possi assolvere stesso, e ciascuno chiama innocente riguardando il testimonio, non la coscienza. Quanto è più umano aver animo placato e paterno verso quelli che peccano e non gli perseguitare, ma ritirarli ! È meglio mettere nella via dritta quelli che van va- gando per i campi, per ignoranza d'essa, che cacciarli. Bisogna correggere chi pecca con avvertimenti, o con forza, e piacevolmente, e aspramente, e cosi farlo mi- gliore tanto per quanto per gli altri, non senza castigo, ma senz'irà. Perciocché chi é quello che s'a- diri con colui, che egli medica?

CAPITOLO XV.

uMa non si posson correggere e niente si trova in loro di piacevole o di buona speranza capace. " Le- vinsi della congregazione dei mortali sendo per far peggiori le cose che ei toccano, e restino d'esser malvagi in quel sol modo che possono ; ma ciò si faccia senza odio. Perciocché per qual causa ho io da odiare colui, al quale allora giovo davvero quando il tolgo a stesso? È alcuno che abbi in odio le sue membra quando le taglia? Quella non èira, ma sorte misera di medicare. Noi affligghiamo i cani ar- rabbiati, uccidiamo i buoi crudeli e spiacevoli, alle

LIBKO PRIMO 25

bestie malate, acciocché non corrompine tutto il greg- ge , usiamo il ferro (1), i parti mostruosi mandiam via (2). Non é ira, ma ragione lo sceverare le cose inutili dalle sane. Non é cosa che meno si convenga a quello che punisc e , che T adirarsi , sendo che tanto più tende la pena all'emendazione se é fatta con giudizio. Quindi è che Socrate disse al suo servo : « Io ti batterei se io non fossi irato. " Fece più savia- mente a differire ad altro tempo l'emendare il servo, e per allora avvertire stesso. Chi sarà quello che abbi l'affetto temperato, non avendo avuto ardire So- crate fidarsi all'ira? Adunque per correggere chi erra scelleratamente, non fa di mestieri d'un castigatore irato; perciocché sendo l'ira un difetto d' animo, non bisogna che pecchi, chi vuol correggere quelli che peccano (3).

CAPITOLO XVI.

«Dimmi adunque? non m'adirerò con un assas- sino?" No. «Come? non m'adirerò con un maliardo? » No. Perciocché non m'adiro meco medesimo, quando mi cavo sangue. Ogni sorte di pena do in luogo di ri- medio. Tu per ancora ti trovi nella prima parte degli errori, caschi gravemente, ma spesso. Tenterassi di emendarti colla reprensione fatta prima segreta-

(1) Fernim demittimus. Ed.

(2) Virgilio nel terzo libro della Georgica, comanda ciò farsi quando dice : Continuo ferro culpam compesce, prius quam Dira per incautum terpant contagia vulgus.

(3) Nel dodicesimo capitolo del terzo libro narra un atto di Platone somigliante a questo.

26 DELL' IRA

mente , di poi in pubblico. Tu sei ito tanto innanzi che non puoi esser sanato con parole; sarai ritenuto dalla ignominia. Quando devi ricever qualche segno grave, e che tu senta da vero, sarai mandato in esl- glio e luoghi incogniti. In te la indurata e solita (1) mal' vagita desidera rimedj più duri ; s'useranno i pubblici vincoli, e carcere. Tu hai l'animo insanabile e che intesse scelleratezze con scelleratezze, e già non sei spinto dalle cause, le quali mai son per mancare«l maligno, ma al peccare cau.sa bastante, il peccare. Tu hai bevuto la nequizia , e l'hai cosi infusa nelle viscere che non può uscire, se non con esse. Talvolta ritrovandoti in qualche disgrazia e meschinità, chiami la morte : ti faremo questo servizio. Ti leveremo cotesta rabbia e pazzia, dalla quale sei tormentato, e per servizio tuo e d'altri , ti rappresenteremo la morte per supplizio, il che solo di bene ti resta. Per- ché m'adirerò con quello, a cui giovo assaissimo'/ Intanto é ottima sorte di misericordia l'uccidere. Se io fossi entrato in una infermeria esercitato ed intendente , come in casa d'un ricco , non avrei co- mandato il medesimo a tutti quelli che qua e ma- lati giacessero, lo veggo in tanti animi vari vizj, e sono stato messo a governare e guarire la città: cerchisi la medicina conveniente al male di ciascuno. Questo si guarisca colla vergogna, questo col tenerlo fuor di casa, questo col dolore, questo col bisogno, questo col ferro. Per lo che sebbene bisogna che il magistrato si metta la perversa (2) veste, e gli é di me-

(1) Solida. Ed.

(2) Sordida non a rovescio. Ed.

LIBRO PRIMO 27

stieri chiamare il popolo a suon di tromba, ascen- derò al tribunale non infuriato , col mal animo , ma con volto piacevole (1) e più presto grave, che con voce rabbiosa pronunzierò quelle solite parole, e co- manderò non irato, ma severo che s'eseguisca quanto n' impone la legge. E quando comanderò che si ta- gli il collo all'innocente (2) e quando cucirò ilparri- ricida neir otro (3) , quando darò il supplizio mili- tare (4), e quando metterò e precipiterò dal sasso Tarpeo il traditore e pubblico nemico (5), farò senza ira, con quel volto e animo che percuoto i serpenti e gli animali velenosi. « P'a pur di bisogno dell'ira nel pu- nire. « Dimmi, part'egli che la legge s'adiri con quelli che ella non conosce, non ha mai visti e non sperava che dovessero essere? Bisogna dunque vestirsi l'ani- mo di lei , la quale non s' adira , ma delibera; per- ciocché se conviene all' uomo dabbene adirarsi per l'altrui scelleratezze, gli converrà ancora invidiare per la felicità degli uomini malvagi; essendo che non

(1) Lesse Yultu leni; e poi correrebbe meglio dicendo, e con voce più presto grave che rabbiota. Ed.

(2) Noxio, al colpevole . Ed.

(3) Quelli scellerali che uccidevano il padre appresso i Ro- mani erano cucili in un sacco di cuoio , nel quale meltevano un cane, una scimmia, un gallo ed una serpe, e gettati in fiu- me ; e della qual cosa parla Cicerone nell'orazione per Roscio Amerino.

(4) Erano due i supplizj militari, la decimazione, cioè quando s' uccideva la decima parte , ed il fustuario, cioè quando con verghe si battevano i soldati, de' quali ragiona a lungo Poli- bio ne'frammenti del sesto libro, e Celio Rodigino, libro sestOi capitolo quinto delle antiche Lezioni.

(5) Sasso Tarpeio era nel Campidoglio, onde erano precipi- tati quelli che facevano contro la repubblica.

dell'ira e cosa più indeffna che Tessere alcuni m iioro, e usar male il favore della fortuna, ai quali non si può tro- vare alcuna fortuna tanto rea, che sia di loro degna. Ma tanto vedrà l'uomo dabbene i loro comodi senza invidia, quanto le scelleratezze senza ira. Il buon giudice danna le cose abborainevoli , non le odia. u Dimmi adunque, quando il savio avrà qualcosa tale fra mano non si percuoterà l'animo suo e sarà più com- mosso del solito? H Lo confesso. Sentirà un certo moto leggiero e piccolo : perciocché , come disse Zenone , anco nell'animo del savio, ancora quando la ferita è guarita, rimane la cicatrice. Sentirà adunque certi sospetti e ombre d'affetti, ma d'essi sarà privo. Ari- stotele dice, che certi affetti, se alcuno se ne serve in bene, sono in vece di arme. 11 che saria vero se a guisa d'istrumenti bellici si potessero pigliare e de- porre ad arbitrio di chi se ne veste. Quest'arme che Aristotele alla virtù, combattono per stesse , non aspettano la mano. Hanno piuttosto in po- testà loro gli altri che esse in altrui poter sieno. Non fa punto di mestieri d'altri istrumenti; é assai la ragione della quale la natura ci ha ornati ed istrutti. Questa ci ha data un'arme gagliarda, che sempre ci serve, per tutto ci obbedisce, non é tagliente da due bande , si può rigittare contro al padrone. Non solo a provvedere , ma ancora al fare , é la ragione per stessa bastevole. Perciocché qual cosa é più da stolti, che fare che questa domandi soccorso dal- l'ira; cosa stabile da una incerta, fedele da un' in- fida, sana da un'inferma? Che diremo che alle azioni ancora, nelle quali sole par che sia necessaria l'opera

LIBRO PRIMO 29

deiriracondia, la ragione per stessa é molto più forte ? Perciocché quando ella ha giudicato che qual cosa si debba fare, persevera in essa , perché non é per trovare niente meglio di stessa, per la quale si rimuti. Però sta ferma nelle sue determinazioni. L'ira spesso é stata richiamata e fatta tornare in- dietro dalla misericordia ; perciocché ella ha la ga- gliardezza non salda : ma solo il rigonfiamento , e si serve de'principj violenti, non altrimenti che quei venti che di terra sorgono e conceputi in fiumi e pa- ludi sono veementi, ma non durevoli. Comincia con grand'impeto, di poi resta stracca innanzi al tempo, e quella che non s'era rivolta per l'animo altro che crudeltà e nuove sorte di pene, quando bisogna pu- nire, l'ira già é rotta e fiacca. L'aff'etto presto cade, la ragione continua egualmente. Ma ancora quando l'ira é perseverata, talvolta se son più quelli che hanno meritato la morte, dopo il sangue di due o di tre, resta d'uccidere. I primi suoi colpi sono veementi siccome i veleni dei serpenti quando escono del covo nuocono, ma quando lo spesso morso gli ha vóti, non fanno i lor denti molto male. Adunque non patiscono i medesimi supplizj , quelli che avevano fatti i me- desimi errori , e spesso chi ha fatto meu male più patisce, perché s' é fatto innanzi all'ira più fresca. Ed é tanto disuguale che ora scorre più del debito, ora si ferma troppo presto. Perciocché compiace a stessa , giudica secondo il desiderio , non vuole stare ad udire, non lascia luogo alla defensione , e tiene quello che ha occupato, e non si lascia levare il suo giudizio sebbene é sinistro e perverso. La ra-

30 DELL' IRA

gione luogo e tempo ad ambedue le parti. Di poi chiede ancora l'avvocato per aver spazio a trovar il vero; l'ira sollecita (1). La ragion vuol clie si giudi- chi quello che è giusto, l'ira vuol che paia giusto quello che ha giudicato. La ragione non guarda se non quello di che si parla; l' ira si commuove per cose vane, e che fuor di proposito gli s'aggirano in- torno. Il volto sicuro , la voce chiara , il parlar li- bero, il vestito delicato, l'avvocazione ambiziosa, il favore popolare V esaspera. Spesso sendo infesta al defensore condanna il reo; ancorché la verità gli sia messa innanzi agli occhi , ama e difende 1' errore ; non vuole essere ripresa , e nelle cose prese a fare malamente, gli par più onesta l'ostinazione , che la penitenza d' aver deviato. Gneo Piaone fu ai di no- stri uomo da molti vizj remoto, ma perverso, ed al quale invece della costanza, piaceva la rigidezza. Egli avendo in collera ritenuto un soldato che era tornato dal provvedere la vettovaglia e buscare senza il compagno, come se morto avesse quello che egli non rappresentava, chiedeva il meschino qual- che poco di tempo a cercarne; non glielo concesse; e condannato fu menato fuor del bastione, e già por- geva il collo, quando subito comparse quel suo com- pagno che morto si stimava. Allora il centurione, che era sopra il supplizio , comanda al ministro che ri- ponga il ferro, rimena il condannato a Pisone , per

(1) Nel testo latino è parvum , cioè piccolo , ma crf do , clic si debba leggere prat-um, e però ho tradotto in questa guisa: il tempo scopre la verità, dice egli nel ventiduesimo capitolo del secondo libro.

LIBRO PRIMO 31

render l'innocenza a Pisone, poiché la fortuna l'ave- va resa al soldato. Sono menati con gran concorso questi compagni abbracciati T un V altro , con grande allegrezza del campo. Pisone pieno di furore sale sul tribunale e comanda che sieno ritenuti (1) am- bedue, e quel soldato che non aveva ucciso e quello che non era morto. Qual cosa é più indegna di que- sta? Perché uno era apparso innocente morivano due. Pisone aggiunse ancora il terzo : perciocché fece ritenere quel centurione che gli aveva rimeuato il condannato. Per Tinnocenza d'uno furono costituiti alla morte tre nel medesimo luogo. O quanto é sol- lecita l'iracondia al trovare cause di furore. Tu, dice, comando che sii menato al supplizio, perché sei con- dannato ; tu perché fosti causa che il tuo compagno fusse condannato; tu perché sendoti commesso che ammazzassi colui, non obbedisti all'imperatore. Andò investigando come facesse tre colpe , perché non aveva trovato alcuna. L'ira, dico, ha questo male che non vuole essere retta. S'adira con la verità stessa se appare contro sua voglia, perseguita quelli che ella ha giudicati con grido e tumulto e movimento di tutto il corpo, aggiungendo villanie e maldicenze. Questo non fa la ragione, ma se bisogna tacendo e quieta spegne da fondamenti le case intiere e di- strugge le famiglie nocive alla repubblica con le mo- gli e figliuoli , rovina i tetti stessi e gli pareggia alla terra , ed estirpa i nomi che sono alla libertà nemici. Questa non dirugginando i denti, néscotendo il capo, facendo alcuna cosa sconvenevole al giù- {}) Duci. sott. ad necem —• menati a morire.

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dice, il cui volto allora debbe esser placato nel suo stato quando pronunzia cose importanti. Che accade, dice leronimo, volendo battere alcuno, prima mor- derti le labbra? Che direbbe, so gli avesse veduto il proconsolo scendere dal tribunale e torre i fasci di mano al littore e stracciare le sue vestimenta per- ché gli altrui erano stracciati adagio. Che bisogna gettar per terra la tavola? Che rompere i bicchieri? Che accade percuotere ed urtare le colonne? Che sbarbarsi i capelli? Battersi Tancao'l petto? Quanto stimi esser grande quell'ira, la quale, perchè non trabocca contra un altro così tosto come vuole, torna in stessa? Di maniera che è tenuto dai circo- stanti, e pregato che si plachi a stesso: delle quali cose ninna ne fa quello che, voto e libero dal- l'ira, dà la debita pena a ciascuno. Perdona spesso a quello che ha trovato in errore, se con penitenza del fatto promette buona speranza , se conosce che la malizia non viene da alto, ma essere, come si dice, pelle pelle. Darà l' impunità che non sia per nuocere a chi la riceve a chi la dà. Talvolta più leg- giermente raffrenerà le scelleratezze grandi che le picciole, se quelle sono state commesse per errore , non per crudeltà; ed in queste é una astuzia co- perta, ascosa ed invecchiata. Il medesimo delitto in due persone non punirà nel medesimo modo , se l'uno ha errato per negligenza, l'altro ha cercato d'esser colpevole. Osserverà questo in ogni puni- zione, che ei sappia che l'una si usa per emendare i delinquenti, l'altra per levarseli dinanzi. In amen- due non riguarderà il passato , ma il futuro. Per-

IjIBRO primo 33

ciocché, come dice Platone, niuno prudente punisce percliè s'è peccato, ma acciocché non si pecchi. Per- chè le cose passate non posson tornare indietro, ma le future si vietano, ed ucciderà scopertamente quelli che non vorrà che divenghino esempj di nequizia , clie tenda al male (1) non solo acciocché essi muoiano, ma acciocché morendo dieno terrore e distolghino gli altri. Queste cose dehbe ciascuno considerare e giudicare. Vedi quanto debbo esser libero da ogni affetto chi viene a trattare la cosa con somma diligen- za (2), avendo potestà di torre e render la vita. Male si fida il ferro all' irato. questo pure si deve giu- dicare che Tira conferisca punto alla grandezza del- l'animo. Perciocché quella non è grandezza, ma un gonfiamento; come a corpi sollevati per la copia di mal umore non è quel male accrescimento , ma pe- stifera abbondanza. Tutti quelli l'animo dei quali, sendo dall'ira infuriato, gli innalza sopra gli umani pensieri, credono aver in dell'alto o del sublime, ma non v' é niente di solido e stabile , che quelle cose che son cresciute senza fondamento rovinano facilmente. Non ha l'ira ove fermarsi, non nasce da cosa ferma e durevole, ma è pien^ di vento e vana, ed e tanto lontana dalla grandezza dell'ani- mo quanto l'audacia dalla fortezza, l'insolenza dalla fidanza, la malinconia dalla gravità , la crudeltà dalla severità. É gran differenza, dico , tra l'animo grande ed il superbo. L'iracondia non fa nulla che

(1) Et qnosvolet nequitios male eedentis exempla fieri, csemi^'ì del come gli soellerali finiscali male.

(2) Meglio: che licliicdc somma diligenza.

L'Ira. 3

34 UKLi/lKA

abbia del grande e del convenevole. Per l'opposito a me paro che gli animi difettosi e sventurati , e che conoscliino la loro debolezza, spesso si dolghi- no. Siccome i corpi piagati e mal disposti che so- spirano ad ogni leggier colpo, così Tira è un vizio femminile ed affatto puerile. «Oh ella cade anco ne- gli uomini! perchè gli uomini ancora hanno gl'in- puerili e femminili." «Che diremo adunque? Non si i> mandan fucra certe voci dagl'irati che paiono uscite "da grand' animo, conoscono la vera grandezza? H quale è questa crudele ed abbominevole. Abbinmi in " odio, purché mi temano. Sappi che fu scritta nel « tempo di Siila. » lo non so qual fosse peggio a desi- derarsi, 0 d'essere odiato o d'essere temuto. Abliinmi in odio! ne segue, che lo maledischino, gli faccino insidie e l' oppressine. Che agginng' egli? Cili Dei lo sprofondino, che trovò un rimedio veramente de- gno di odio. Abbinmi in odio! Che? purché m'ubbidi- schino ? No. Purché m'approvino? Manco. Che adun- que? Purché mi temano (in questo modo non vor- rei pur essere amato). Stirai che questo sia stato detto con grande spirito? Tu t'inganni, cotcsta non é grandezza, ma bestialità. Non s'ha da credere alle parole degl'irati i cui strepiti sono grandi, minac- cievoli, dentro la mente é piena di paura. Non é da pensare che sia vero quello che si dice appresso Telo- quentissimo Livio, « uomo d'ingegno più grande che buono. " Non si può questo sperare, non sarà buono grande, percliè intendo la grandezza dell'animo tale che per ninna cosa si .scuota, e dentro stabile, uguale e ferma nell'intrinseco, la qual non suole

LIDRO PRIMO 35

essere nei malvagi ingegni. Perciocché possono es- ser terribili e tumultuosi e pestiferi, ma non avranno la grandezza, di cui la bontà è fondamento e nerbo. Ma col parlare, collo sforzarsi e con ogni esterno apparato, faran fede di grandezza. Diranno qualcosa che tu stimi assai, com3 Caio Cesare, il quale, adi- rato col cielo perchè tonava in alcune sue feste e spettacoli di scena, i quali con più studio imitava che non ragguardava , e perchè il suo banchetto e convito era impedito da saette clie percuote- vano or qua or , chiamò Giove a combattere , e certo, senza licenziarlo, dicendo ad alta voce quel verso d'Omero:

0 radro Giove che fra gli Dei tutti Sei più no(ivo ai miseri mortali.

Che pazzia fu ella! Pensò o che non gli potesse nuo- cere neanco Giove, 0 che egli potesse nuocere anco a Giove. Penso che questa sua voce desse non poco di causa ad incitare gli animi dei congiurati. Per- ciocché parse cosa di estrema pazienza soffrire colui che non soffrisse Giove. Niente adunque è nell'ira (neppure quando par veemente e sprezza gli uomini e gli Dei) del grande e del nobile: o se pare ad al- cuno che Tira produca grand' animo, paiali ancora la lussuria. Vuol reggersi su 1' avorio , vestirsi di porpora, coprirsi d'oro, mutar le terre di luogo a luogo, chiudere i mari, precipitare i fiumi, sospen- dere i boschi. Paiali ancora l'avarizia di grand' ani- mo. Giace soprai monti d'oro e d'argento, e coltiva possessioni con nome di Provincie, e sotto ciascun

•36 DELL' IRA

fattore ha più larghi confini che quelli che traevano per sorte i Consoli. Paiali di prand' animo anco la li- bidine. Trapassa i mari, castra i grej^rgi dei fanciulli, viene la moglie sutto il ferro del marito, sprezzata la morte. Paiali T ambizione di grand'animo. Non si contenta degli onori d'un anno, se è possibile vuole occupare i fasti con un sol nome, e spargere i suoi titoli per tutto il mondo. Tutte queste cose non im- porta quanto s'estendano e s'allarghino: sono stret- te, misere e vili. La virtù sola è sublime ed eccelsa, e niente é grande ch3 insieme non sia placato o quieto.

FIKE DEL LIBRO PRIMO.

LIBRO SECONDO

CAPITOLO I.

Il primo libro, o Novato, lia avuto più piacevol materia: perciocché è agevol cosa lo scorrere i vizj sopra le cose facili ; adesso bisogna venire a cosa più sottili. Perchè noi cerchiamo se Tira comincia per giudizio o per empito, cioè se ella si muove spon- taneamente 0, come la maggior parte di quelle cose che dentro a noi nascono , senza saputa nostra. E deve la nostra disputa abbassarsi in questo, accioc- ché possi poi risurgerc e rilevarsi a quello cose più alte. Perciocché nel nostro corpo ancora pria si for- mano l'ossa , i nervi e le congiunture, fermamenti vitali del tutto, e T altre cose non punto belle a ve- dere: poscia quelle cose dalle quali procede ogni leggiadria nella faccia e nell'aspetto: dopo tutte queste cose, sendo già compito il corpo , s' infonde in ultimo quel colore che rapisce ed attrae gli oc- chi. Non è dubbio che l'apparenza della fatta ingiù-

38 dkll' ira

ria muovo Tira, uia noi dispuliaino se ella segua subito la stessa apparenza e scorra senza che Ta- nimo vi s'aggiunga , o si muova di consentimento di lui. A noi piace clie essa non osi niente da per sé, ma con l'approvazione dell'animo. Perciocché pigliare l'apparenza della ricevuta ingiuria e deside- rarne la vendetta, e coniungere amendue queste coso insieme che egli non doveva esser offeso e che si debbe vendicare, non s'appartiene a quell'empito che si commuove senza nostro volere. Quello è sem- plice, questo composto e contiene più cose. Ha in- teso qualcosa, s'è sdegnato, ha condannato l'avver- sario, fa le vendette; quei?te cose non si posson fare se l'animo di quello che era offeso non ha dato il suo consenso.

CAPITOLO li.

-A che proposito, dici tu. fa adesso questa disputa?" Acciocché sappiamo che cosa sia l' ira: perciocché se nasce centra la voglia nostra , ella non soggia- cerà mai alla ragione: perch>3 tutti i moti che non si fanno per nostro volere sono invitti, si possono sfuggire , come il raccapricciarsi quando si sparge addosso dell'acqua fredda (1), il restare stupefatto e quasi fuor di nel toccare alcune cose, l' arricciarsi i capelli alle male nuove ed arrossire in viso alle brutte e sconcie parole, e che venghino le vertigini e capogiri a chi riguarda luoghi alti e dirupati ; delle quali cose, perchè ninna è in poter nostro ,

(1) Di sollo, nel quarto rapiloio di qurslo libro.

LIBRO SECONDO 39

iiiuna ragione ci persuade che non si faccino. L'ira si scaccia coi precetti; perciocché gli è vizio volon- tario deir animo e non uno di quelli che avvengono per qualche condizione dello stato umano, e però a' più saggi ancora occorrono; fra' quali (!) si deve porre quel primo colpo dell'animo il qual ci muove dopo l'opinione dell'ingiuria. Questo avviene ancora ne' giocosi spettacoli della scena e nel leggere le cose antiche (2): spesso par che ci adiriamo con Clodio quando caccia di Roma Cicerone , e con Antonio quando l'uccide. Chijion si commuove contra l'arme di Mario e contro a Siila quando bandisce tanti cit- tadini? Chi non diviene inimico a Teodoto, ad Achille ed allo stesso putto che osò metter mano in una cosa non punto puerile(3)? 11 canto ancora e l'armonia vee- mente ci commuove. Quel suono marziale delle trombe altresì muove le menti e la pittura atroce, ed il ma- linconico aspetto di supplizj giustissimi. Quindi av- viene che noi ridiamo con chi ride, e la turba di chi piange ci attrista, e ci riscaldiamo agli altrui com- battimenti. Le quali cose non sono più appartenenti all'ira che si sia la mestizia, la quale al veder l'ini- mico far naufragio (4) ristrigne la fronte, non più che il timore, il quale, sendo Annibale dopo la rotta di

(t) Vizj. Ktl.

(2) Il medesimo afferma Tullio nel quinto De finib. e nella duodecima epistola del quinto libro dice che la morte di Epami- nonda porge diletto e compassione a chi legge.

(3) Tolomeo re d' Egitto, il quale, a persuasione di Teodoto S.UO precettore nell'arte del dire, fece uccidere l'onipoo il Ma- gno, ed Achille fu l' esecutore.

(4) Mimiri naufraoj. .Naufragio mimico. Ed.

40 DELI/ IRA

Canne intorno alle mura della città, percuote l'animo del lettore: ma tutte queste coso sono movimenti degli animi che si commuovono contra lor voglia, e non sono affetti, ma principj che prevengono gli affetti: perciocché in questa guisa la troniba desta r orecchie d'un uomo avvezzo alla guerra quando ancora si trova in toga nel mezzo la pace, e lo stre- pito dell'arme incita i cavalli da guerra. Onde di- cono che Alessandro, sentendo cantare Senofante , messe mano all'arme.

CAPITOLO III.

Xiuna di queste cose che muovono l'animo per fortuna (1) si deve domandare affetto: perciocché l'a- nimo piùpresto.per dir così, patisce, che faccia queste tali cose. Affetto è adunque, non il commuoversi alle apparenze delle cose che ti si fanno innanzi ; ma il permettersi ad esse (2) e seguire questo moto fortuito. Perchè, se glie alcuno che stimi che la pallidezza e le lagrime di chi s inchina (3) e l'incitamentodell'umore osceno, o un alto sospiro o gli occhi fatti in un tratto pili rossi ed accesi, o alcuna cosa somigliante sia in- dizio (4) di affetto, e segno d'animo s'inganna, cono- sce che questi sono movimenti del corpo. Laonde le più'volte l'uomo valoroso mentre s'arma impalli-

(1) Fortuito. Ed.

(2) Permiitere te illis. Ed.

(3) Lacrymas procidentes. Le cadenti lagrime. Ed.

(4) S'è tradotto cosi pensando die il Ialino sia scorretto , ed in cambio di iudieitim, che qui non ha luogo, si debba leg- gere indicium.

hlunO SECDNDO 41

disce, e dato il segno della battag-lia, spesso al fero- cissimo soldato tremano alquanto le ginocchia, ed a un grand' imperatore, prima che gli eserciti s'urti- no, batte il cuore ; e alPeloquentissimo oratore, men- tre si mette in ordine per parlare, s'arricciano i ca- pelli. All'ira non basta solo muoversi, ma debbe an- cora scorrere: perciocché ella è un empito, E l'em- pito non è mai senza il consenso della mente: per- ciocché non è possibile che si tratti della vendetta e pena senza saputa dell'animo. Pensò alcuno d'es- ser stato offeso, volle vendicarsi, é dissuadendolo qual- che causa subito si quietò. Questa non la chiamo ira, ma moto dell' animo che obbedisce alla ragione. Ira é quella che trapassa la ragione e la rapisce seco. Adunque quella prima agitazione dell'animo che dal- l'apparenza dell'ingiuria è stata causata, non è più ira che si sia quella apparenza d'ingiuria: ma quello empito che ne segue, il quale, non solo ha accet- tata l'apparenza dell'ingiuria, ma l'ha ancora ap- provata. L'ira è un movimento dell' animo alla ven- detta, il qual procede con volontà e giudizio. È egli dubbio che il timore non abbia congiunta la fuga , l'ira l'empito? Vedi adunque se si può, senza il consenso della mente, cercare o schivar cosa alcuna.

CAPITOLO IV.

Ed acciocché tu sappi come comincino gli affetti 0 creschino o s'innalzino, il primo moto non volon- tario è quasi una preparazione dell' affetto ed un certo minacciamento. Il secondo con la volontà non

42 DKLL'lUA

repugnanto, come si sia di mestiero che io mi ven- dichi sendo offeso, o sia giusto che costui faccia la peuitenza, avendo fatta la scelleratezza. Il terzo moto non è più in poter della ragione, il qual non si vuol vendicare se è giusto, ma in tutti i modi, perché ha superata la ragione (1). Non possiamo con la ragione fuggire quel primo colpo dell'animo, siccome neanco quelle cose che dicemmo avvenire ui corpi, come ò che l'altrui sbadigliare non ci provochi, o che gli occhi a un subito muover delle dita non si chiuggano. Queste cose non può' vincere la ragione; forse la con- suetudine ed assidua osservazione lo sminuisce. Quel- r altro moto, che nasce por giudizio, si toglie col giudizio...

C A 1' 1 T O L U V.

Questo ancora ò da considerare. Quelli elio per l'ordinario incrudeliscono e s'allegrano del san- gue umano, se s' adirano o no quando uccidono quelli dai quali non hanno ricevuto villania, stimano essi averne ricevuta, come fu Apollodoro o Falari (2). Questa non è ira, ma ferità (3): perciocché non nuoce per aver ricevuta ingiuria; ma è parata , purché ad altri nuoca, volerla ricevere. Ella non cerca di battere e lacerare gli uomini per vendetta, ma per piacere. Adunque che é? L'origine di que-

(1) Nel secondo capilolo di qneslo libro.

(2) Libro setlirno, capitolo XIX Dei benelizj.

(3) Nei Icslo Ialino e rerilas, la qua! vo'-c (jiii non lia luogo, epperà pensiamo clic si debba leggere feritat.

LIBRO SKCONDO 43

sto male procede dall' ira, alla quale essendo , per la lunga assuefazione e sazietà, venuta in oblio la clemenza, ed essendosi cavato dall'animo ogni umano patto, ultimamente diviene crudeltà. Ridono (1) adun- que e s'allegrano e sentono molto piacere, e son molto lontani dal volto degl' irati quelli che sono crudeli nell'ozio. Dicono che Annibale, vedendo una fossa pie- na di sangue umano, disse: «Oh bello spettacolo! » Quanto gli saria parso più bello se gli avesse ripieno qualche fiume o lago ! Che maraviglia è se ti diletti grandemente di questo spettacolo, sendo nato al san- gue, e dalla tua infanzia avvezzo alle uccisioni? I,a fortuna ti seguiterà per venti anni propizia, e fau- trice della tua crudeltà e per tutto darà agli occhi tuoi grato spettacolo. Vedrai altrettanto intorno al Trasimeno (2), intorno a Canne ed ultimamente intorno alla tua Cartagine. Yoleso, poco fa scado proconsole dell'Asia sotto il divo Augusto, avendo in un giorno decapitati trecento , ed andando con superbo volto tra i corpi morti, come se avesse fatta una cosa ma- gnifica e degna d'ammirazione, gridò in lingua gre- ca: u Oh cosa regia! n Che avrebbe fatto costui se fusse stato re? Non fu ira questa, no, ma un malo maggiore ed insanabile. '

U) Vidcnl. Cd.

(2) Oggi Lago di Perugia.

41 DELL' mA

{*). CAPITO LO M.

u La virtù, dicono, siccome è favorevole alle coso oneste, così debbo essere irata alle disoneste." E so si dicesso che la virtù deve essere umile e (grande? Ma questo lo dico chi vuole che ella si alzi e si ab- bassi: perchè l'allegrarsi per una cosa ben fatta è cosa preclara e magnilica; lo adirarsi per l'altrui delitto è cosa brutta e d'animo vile. NèmailavirtCì imiterà i vizj, mentre li raffrena ed ha da castigare l'ira, la quale niente è migliore, anzi spesse volte peggiore di questi delitti peri quali s'adira. 11 ral- legrarsi e far festa è proprio e naturale della virtù ; l'adirarsi non è conformo alla sua dignità, non più che r attristarsi. Ma la tristizia è compagna dell' i- racondia, e in questa si rivolge ogni sorte d'ira, o dopo la penitenza o dopo la repulsa. E se è cosa da savio l'adirarsi per gli errori, più s'adirerà per i maggiori e spesso s'adirerà; ne segue adunque che il savio, non solo sia irato, ma iracondo ancora. Ma se crediamo che nell'animo del savio non abbi luogo la grande ira, la spessa, per che conto non lo libe- riamo noi totalmente da questo affetto ? Perciocché non vi può esser modo se bisogna adirarsi con cia- scuno secondo le azioni: perciocché, o sarà iniquo se s'adirerà ugualmente a' delitti disuguali, o sarà grandemente sottoposto all'ira (1). E qual cosa é più

{*) Il testo 1)1 qui il titolo: A che torlo di uomini l'ira iia virtù. FA,

(1) Il Lai. a»g. Si totiis excanduerit quoliei iram scelera meruerint. Se s'adirerà ogni volta clic le scelleratezze l'a- vranno meritato. Ed.

LIBRO SECONDO 45

indegna,. clie volere, clie Taffetto del savio penda dal- l'altrui malvagità? Non potrà più Socrate riportare a casa il medesimo volto chs n' aveva cavato.

CAPITOLO VII.

Ma se il savio si deve adirare per le cose mal fatte e infiammarsi e attristarsi per le scelleratezze, niente é più misero del savio. Tutta la vita si gli consu- merà in stizza e dolore; perciocché qual momento di tempo sarà clie non vegga coso da riprendere ? Ogni volta clie uscirà di casa, gli converrà passare fra gli scellerati, fra gli avari e prodighi e sfacciati, e per tali cose infelici. Non mai si volgeranno gli occhi suoi che non trovino cose da sdegnarsi. Mancherà egli stesso, se vorrà adirarsi ogni volta, che la causa il richiederà. Queste tante migliaia d'uomini che sul far del giorno se ne vanno con gran fretta in piazza quanto brutte liti, quanto più brutti avvocati si pro- cacciano? L'uno accusa il padre in giudizio il quale dovrebbe accarezzare (1). L'altro litiga con la madre. Un altro viene ad accusar uno di quel delitto del quale egli stesso é manifesto reo; e s'elegge il giudice per condannare quelle cose che egli ha fatte, e gli uo- mini radunati in una mala causa son corrotti dalla buona lingua del difensore. Che vo io a raccontar queste cose minutamente? Quando tu vedrai la piazza piena di moltitudine e gli steccati pieni di concorso

(1) AUhs iudicia patris accusai, quce mereri satitfuit. Ac- cusa il giudizio onde il padre l'ha privato dei beni; clic fu già vergogna aver meritalo. Ed.

4fi dkm/ ira

d'ogni frequenza (1); e quel circo, nel quale si vede la mag^gior parte del popolo: sappi questo che quivi sono tanti vlzj quanti uomini. Tra cotesti dio tu vedi in toga, non è paco alcuna; l'uno per leggiero utilità tende alla rovina dell'altro.

CAPITOLO Vili.

Ninno guadagna se non condanno d'altri, hanno in odio il felice, sprezzano l'infelice; da' maggiori son gravati; gravano i minori; sono da diverse cu- pidità stimolati, e, per leggier piacere e preda, desi- derano che ogni cosa vadi in rovina. Non è la lor vita difforentn da quella di coloro che vivono nella scuola de' gladiatori; che con li medesimi vivono e combattono. Questo e un ridotto di fiere, se non che quelle tra loro son mansuete, e s'astengono dal mordere le somiglianti a sé, questi si saziano col lacerarsi l'un l'altro. In questo solo sono dagli ani- mali bruti difTerenti, che quelli s'addomesticano con chi li nutrisce; ma la rabbia di questi divora quelli ancora, da' quali è stata nutrita. Non mai fi- nirà il savio d'adirarsi se una volta comincia, che ogni cosa ò piena di vizj e scelleratezze. Si fa vie più. er- rori, che esso possi col correggere emendargli. Si fa a gara con un certo smisurato combattimento di scel- leratezze; ogni divicn maggiore il desiderio di

(1) Erano Inoglii in campo Marzio chiusi inlorno di legnami, ove si adunava il popolo a rendere i parlili, delti dai I.alini scfta. (Vedi Servio .«sopra la prima egloga di Virgilio.)

LiniJO SFX'ONDO 47

peccare e la vergogna è minore. liSvato il rispetto del migliore e più giusto, la libidine s'avventa dove le pare, ormai si fan le scelleratezze di nascosto, ma innanzi agli occhi d'ognuno. E s'è la scellera- tezza e malvagità talmente messa in pubblico e nei petti d'ognuno s'è resentita, che l'innocenza non è rara, ma non si trova. Dimmi, sono stati tutti a uno a uno, o pochi che abbiano rotto la legge? Da ogni banda, quasi dato il segno, si sono tutti adu- nati a mescolare il giusto con l'ingiusto.

Non è sicuro l'ospite con l'altro

Ne '1 suocero dal gener, i fratelli

Veder insieme uniti è cosa rara.

Cerca il marito d'uccider la moglie,

Ella il marito; e le matrigne ognora

Paran crudi veleni a' lor figliastri.

Ma che? il figiiuol che toni' obbligo gli ave

Cerca estinguere il padre inanzi al tempo.

E che picciola parte è questa delle scelleratezze? non ha disegnato il campo dalla parte contraria e presi diversi giuramenti dei padri e figliuoli (1), e non s' è messo il fuoco nella patria per le mani d'un suo cittadino, e non si veggono le schiere de' cavalieri volare a cercare, ove sieno ascosti, ciuelli che son fatti rubelli, e le fonti avvelenate, e la pestilenza per umana opera indotta, e fatto un fosso intorno e as-

(I) Intende de' giuramenti militari, perchè i soldati appo i Ro- mani giuravano secondo le parole del generale, e senza tal gin- ram.ento non potevano legittimam.inle combattere conlra gli nemici. Del che ha scritto diligentemente, il dottissimo Sigonio nel libro primo, capitolo 15 De j tire civium Itomanorum, e ^ter iliversi giurammi!, intende che il padre seguili una fazione, il tiglio r altra.

•1-1 1>KLI/IKA

sediate il proprio padre, le prigioni piene o gl'in- cendj che abbruciano le citta intere o le signorie pestifere, e i consigli nascosti de' regni e delle pub- bliche rovine, le quali cose son tenuto a gloria, e solo sono scelleratezze, mentre che si possono ancora opprimere : gli sforzamenti e gli stupri e non pure la bocca libera dalla libidine.

CAPITOLO IX.

Agyiuyiii adesso i pubblichi spergiuri delle nazio- ni intere, e i patti rotti e ciò che non era acconcio a far resistenza fatto preda del più potente, gl'in- ganni, i furti, le fraudi, il negare il vero, alle quali scelleratezze non sarieno bastevoli tre fori. Se tu vuoi che il savio s'adiri tanto, quanto ricerca l' in- degnità delle scelleratezze, non gli sarà di mestiere adirarsi, ma impazzire. Discorrerai piuttosto que- sto, che non sia da adirarsi per gli errori. Dimmi, che direstu s' alcuno s'adirasse con quelli che al buio pongono il piede in fallo, ovvero con i sordi che non odino quando tu gli comandi qualcosa? o sa alcuno s'adirasse con i fanciulli che, posto giù l'aver rispetto all'ufficio, attendino a giuochi e leg- gieri trastulli de' loro pari? Che si direbbe, se vo- lessi adirarsi con quelli che son malati, vecchi o stanchi? Fra gli altri incomodi de' mortali v'é ancora I questa caligine delle menti, solo la necessità d' errare, ma l'amore degli errori. Acciocché tu non ti adiri con tutti a uno a uno , bisogna perdonare a tutti insieme ed iscusare il genere umano. Se tu

LIBRO SECONDO 49

f adiri co'' giovani e vecclii, perchè errano, adirati an- che con bambini perchè hanno ad errare. Trovasi alcuno che s' adiri co'putti, la cui età non sa ancora distinguere le cose? È maggiore scusa e più giusta, essere uomo, che fanciullo. Siamo nati con questa condizione, che siamo animali sottoposti a non manco difetti dell'animo, che del corpo, invero rintuz- zati o tardi, ma che usiamo male l'acutezza nostra. 1 vizj dell'uno sono esempj all'altro. Ciascuno segue i primi, che presero male la strada. Che diresti se non avesse luogo la scusa loro, avendo errato per la via pubblica?

CAPITOLO X.

La severità dell'imperatore si eseguisce centra particolari, ma è necessario perdonare quando tutto l'esercito s'è ammutinato. Che cosa toglie via l'ira del savio? la turba de' peccanti. Conosce quanto sia ed iniquo e pericoloso adirarsi col vizio pubblico. Eraclito ogni volta che usciva fuora e si vedeva in- torno tanti uomini che vivevano male, anzi male perivano, piagneva, aveva compassione a tutti quelli che gli si facevano innanzi lieti e fortunati; il che era segno d' animo mite, ma troppo debole, ed egli ancora meritava che altri di lui piangesse. All'in- contro dicono che Democrito non usciva mai fuora che non ridesse, tanto gli parevano da nulla tutte quelle cose che per davvero si facevano (1). Ove ha

(1) Di questi due filosofi parla ancora esso Seneca nel primo libro al cap. W De iranquillitate vitce.

L'ha. 4

50 DELL' IRA

qui luogo r ira? bisogna o ridersi, o piagnere d'ogni cosa. Non s'adirerà il savio con quelli che errano. Perche? perchè egli sa che niuno nasce savio, ma si fa; sa che pochissimi in ogni età divengono savi; che conosce la condizione dell'umana vita e niuno che non sia pazzo s' adirerà con la natura , per- ciocché in qual concetto avremmo noi chi si vo- lesse maravigliare che ne' pruni salvatichi non pen- dessero i pomi? e chi si maravigliasse che nelle macchie non si produca qualche utile biada? Niuno s'adira quando il vizio è difeso dalla natura. 11 savio adunque è placato e mite agli errori, non inimico, ma correttore degli;erranti, questo gli sta contino va- mente nell'animo. Molti mi verranno Innanzi dediti al vino, molti libidinosi, molti ingrati, molti avari, molti stimolati dalle furie dell' ambizione : riguar- derà il savio tutte queste cose non meno benigno, che si riguardi il medico i suoi malati. Colui il cui navilio sendosi d' ogni intorno aperto ha raccolta molta acqua, s'adirerà egli col marinaro e con lo stesso navilio? Soccorre piuttosto e provvede che non v'entri più acqua e cava quella che v'è, serra i fori che appariscono, resiste con fatica continua a quelli che non si veggono, e di nascosto tira la sen- tina (1), per questo resta perchè ve n'entri quanta se ne cava: fa di mestiere d'aiuto non tardo contro mali continui e molti, non acciocché fluiscano, ma che non sieno superiori e soprafacciuo.

(1) Ex occulto sentinim ducentibut li. e. in ima detrahen- tibut. Il Baillard: Lei infillrations cachéet qui remplissent iti' $entiblement la cale. Ed.

LIBRO SECONDO 51

(*). CAPITOLO XI.

« L'ira, dicono, è utile, perchè fa che l'uomo non é sprezzato e perchè terrore agli scellerati, n La pri- ma cosa, se Tira vale quanto ella minaccia, perchè ella è terribile, è perciò ancora odiosa: ed è più pericoloso l'esser temuto, che sprezzato. Ma se è senza forze, à maggiormente esposta ad essere sprezzata, e non fug- ge il non essere schernita: perciocché qual cosa è più fredda che Tira che facci tumulto vanamente ? Se- condariamente alcune cose non sono migliori per essere più terribili ; vorrei che questo si attri- buisse al savio, che 1' essere temuto é arme ancora delle fiere. Dimmi? non si teme la febbre, la po- dagra, le posteme, il male? Per queste trovasi in queste cotali cose punto di bene? Ovvero all'incon- tro per quella cagione che son temute, sono tutte odiose, sozze e brutte? L'ira per è brutta e non degna d'esser temuta. Ma è temuta da più siccome una brutta maschera da fanciulli piccoli : inoltre il timore sempre torna sopra gli spaventatori, ne alcuno è temuto che sia ancor egli sicuro? Vengati per tal conto solo a mente quel verso di Laberìo, il quale, detto nel teatro nel mezzo della guerra civile, rivolse tutto il popolo a sé, non altramente che se fosse stata mandata fuora una voce di pubblico af- fetto.

(*) Il lesto ha qui il titolo : Le ulililà dell' ira.

DKLL'lRA

Forz* è che molti tema sempre quello Che da molti è temuto (1).

Così ha ordinato la natura che quello che é grande per l'altrui timore, non sia senza il suo. Il leone teme gli strepiti leggerissimi. L'ombra, la voce e un odore insolito commuove le fiere ferocissime. Tutto quello che spaventa, teme ancora; non accade adunque che alcun savio desideri di esser temuto.

CAPITOLO XIT.

Non pensare che Tira sia gran cosa, perché ella sia formidabile, perchè si temono ancora le cose abbiet- tissime, come i veleni e quelle cose che uccidono met- tendosele in bocca. Ne è maraviglia, conciossiaché, una linea distinta di penne spaventi grandissimi greggi di fiere e le spinga alle insidie, il timore è detto dallo effetto stesso. Perciocché ai vani fan paura le cose vane. Il movimento d'un carro e la faccia delle ruote rivolta rimette il leone nella tana. Gli elefanti si spa- ventano per la voce del porco. Così adunque si teme Tira, come il buio da fanciulli, dalle fiere una penna rossa. Ella non ha in punto del fermo e forte, ma muove gli animi vani. Fa di mestiero, dicono, levar

(1) Macrobio nel secondo libro, rapitolo seUimo, dice che dette queste parole da Laberio, tutto il popolo volse gli occhi verso r.esare, notando con simil tratto esser stata tocca la sua po- tenza. Isocrate ancora avvertisce il re Nicocle che levi le paure de' cittadini, e che non voglia apparir terribile a quelli che non errano, perciocché, dice egli, tu sarai disposto verso degli altri In quel modo che tu disporrai gli altri verso di te.

LIBRO SECONDO 53

la nequizia e scelleratezza della natura, se vuoi ri- muoverne l'ira, e niuna di queste cose é possibile, n La prima cosa può alcuno non sentir freddo, sebbene per natura sia il verno, e non esser dal caldo offeso, sebbene sia Testate. 0 egli è sicuro contra l'intem- perie dell' anno per il benefìzio del luogo, o con la pazienza del corpo vince il senso d'amendue. Di poi cotesto argomento si può rivolgere in contrario. È necessario che tu cavi prima la virtù dell' animo, che tu ricevi l'iracondia; perchè i vizj non s'accom- pagnano con le virtù. più agevolmente può al- cuno nel medesimo tempo essere irato e uomo dab- bene che si possa essere malato e sano. « Non si può, dicono, estirpar dell'animo tutta l'ira, comporta questo la natura dell'uomo. » Anzi non é cosa tanto diffìcile e malagevole, che la mente umana non vinca e l'assidua esercitazione non riduca in familiarità e uso; sono affetti alcuni tanto fieri e potenti che con la disciplina non si domino (1). L'animo ottiene tutto quello a che far si risolve (2). Alcuni si sono disposti ed hanno eseguito di non mai ridere. Alcuni si sono astenuti dal vino, altri da Venere, e alcuni altri hanno vietato ai corpi loro ogni umore (3). Un altro contento di breve sonno, s'è dimostrato invisibile nel vegliare. Altri hanno imparato a correre su per funi sottilis-

(1) Orazio nella terza ode del primo libro; Nil mortalibus arduum eit.

(2) Orazio nella prima epistola del primo libro: Nemo adeo ferus est, ut non milescere possit. Si modo culturw palicntem commodet aurem. Come Anassagora, Aristosseno, ed Eraclito Eliano libro ottavo De varia historia.

(3)11 Baillard legge: Omnium more, e spiega: renoncer aux habiludes dg tous.

54 DELI/ IRA

Bime e portar pesi smisurati e che non parevasi po- tesser reggere con forze umane (1), e saltando alzarsi assaissimo da terra e senza raccorre il flato far per mare lunghi viaggi (2).

CAPITOLO XIII.

Ci sono mille altre cose, nelle quali l'ostinazione supera ogni impedimento e mostra nulla esser dif- ficile, purché la mente si risolva a patirla. Questi che poco avanti ho riferii o non avevano mercede alcuna di tanto ostinato studio, o l'avevano indegna. Perciocché qual cosa onorata consegue colui che 8' è esercitato a camminare su per le funi tese? e quello che s'è avvezzo a sottomettere il collo a soma smisurata? e chi non sottopone gli occhi al sonno? e chi penetra al fondo del mare? e nondimeno per- viene la fatica al fine dell'opera sebbene non gli è gran premio parato. Noi non cercheremo per no- stro aiuto la pazienza sendoci presto gran premio, com'è la tranquillità immobile dell'animo felice? Quanto è gran cosa fuggire l'ira, male grandissimo, e con essa la rabbia, l'asprezza, la crudeltà, il fu- rore e gli altri affetti suoi compagni? Non accada che noi cerchiamo di patrocinio e licenza scusata (3),

(1) Milone portò un bue vivo e Tilormo si messe sulle spalle e portò un sasso tale, che Milone appena il moveva. Eliano. li- bro 12 De varia historia.

(2) Et in immentam altitudinem mergi. ae sine ulla re$pe- randi vice perpeti maria.E il penetrare al fondo del mare che (lice soUo il Baillard : à pianger à d'immenses profondeurt, et a resier long tempi iou% lei eaux san» reprendre haìeine. F.d.

(:ì) Segue il latino excusata, eie. Scusabile. Ed.

LIBEO SECONDO 55

eoi dire che ella è cosa utile o inevitabile: percioc' che a qual vizio finalmente manca l'avvocato ? Non accade dire che ella non si possa estirpare. Noi ci infermiamo di mali che si posson guarire, e la stessa natura, se vogliamo emendarci, sendo nati al bene, ci aiuta. Non è vero quello che ad alcuni è parso che la via alla virtù sia erta e aspra; si va ad essa per via piana (1). Non vengo ad insegnarvi una cosa vana; e la via che alla vita beata ne guida, é facile, entratevi pure in buon ora e con l'aiuto di Dio. È molto più difflcile far cotesto cose che voi fate : per- ciocché qual cosa è più posata che la quiete dell'a- nimo? qual più travagliata che l'ira? Qual più pla- cata che la clemenza ? Qual più affannata che la cru- deltà? la pudicizia non ha da fare, la libidine è oc- cupatissima: finalmente la tutela di tutte le virtù è facile, i vizj costano assai. Devesi l'ira rimuovere, e questo confessano in parte quelli che dicono do- versi sminuire; lascisi andar tutta, ella non é per giovar punto ; senz' essa, più facilmente e meglio si torran via le scelleratezze, i malvagi saran puniti e tirati al meglio.

(1) Di lai opinione fu Esiodo, similmente Prodico, il quale, come riferisce Senofonte, induce esser apparse ad Ercole, an- cor giovanetto, la virtù e la voluttà in abito di due donne ii| un riscontro di due vie, e la voluttà lo invitava per una via piana, la virtù per erta ed aspra.

Itr.T-L'lKA

CAPITOLO XIV.

Il savio farà ciò che egli deve senza il ministero d'al- cunacosarea, mescolerà niente, la cui moderazione abbia ad osservar con ansietà (1). Non mai dunque si deve aimnetter l'iracondia; ben talvolta si deve fin- gere, se è di mestiero commuovere gli animi lan- guidi degli auditori, siccome noi eccitiamo i cavalli che tardi si riscaldano al corso con pungoli e spro- ni (2). Talvolta bisogna far paura a quelli appo i quali non giova la ragione. Ma l'adirarsi non é più \itile che sia il dolersi e temere, u Dunque che é? non avvengono cause che commuovino l'ira?" Allora massimamente bisogna opporgli la mano.nèèdifflcil cosa vincere l'animo, sendo che gli atleti (3), occupati nella più vii parte d'esso, nondimeno putiscono i col- pi e dolori, per stancar le forze di quello che gli per- cuote; feriscono quando gli persuade l'ira, ma l'occasione gl'invita. Dicono che Pirro, grandissimo maestro de' giuochi giranici, soleva comandare ai suoi discepoli che non s'adirassero: perciocché l'ira confonde l'arte e solo ha l'occhio al nuocere, non al guardarsi. Spesse fiate adunque la ragione persuade la pazienza, l'ira la vendetta, ed avendo potuto uscire

(1) Isocrate ,ancora consiglia Mcocle che non faccia nienle con ira, ma b/n la fìnga, quando par clie il tempo la ricerchi,

e appaia irato agli altri.

(2) Stimtdi$ facibusque. Ed.

(3) Sotto questo nome si comprendono quelli che comballe- vano a lottare, a correre, a far alle pugna, a trarre il disco, ed

:.£ Mltare.

LIBRO SECONDO 57

de' primi mali, ci rivoltiamo in maggiori. La villa- nia d'una sola parola non sopportata pazientemente lia mandato alcuni in esilio, e quelli che non han vo- luto soffrire con silenzio una ingiuria leggiera, sono oppressi da gravissimi mali , ed essendosi sdegnati che si sminuisse punto dell'intera libertà, si son ti- rati addosso il giogo servile.

CAPITOLO XV.

a Acciocché tu sappia, dicono, se l'ira ha in del generoso , tu vedrai libere quelle nazioni che all'ira- condia son grandemente sottoposte, come i Germani egli Sciti." Il che avviene perchè gl'ingegni più forti e saldi per natura, prima che per disciplina si ammol- lischino, cascano nell'ira. Alcune cose non nascono se non ne' migliori ingegni , siccome qualsivoglia terra ancorché negletta e incolta produce arboscelli duri e rigogliosi, e altra è la selva del terreno colto e fertile. Per lo che, e gì' ingegni per natura forti sofferano l'iracondia, essendo caldi eTocosi, non ca- piscono punto del vile e basso. Ma quel vigore è im- perfetto, come in tutte le cose che senza arte, solo per benefizio della natura stessa si risentono, e se non son tosto domate, quelle parti che alla fortezza erano acconcie, s' assuefanno e s'accomodano all'au- dacia e temerità. Dimmi , agli animi piacevoli non son congiunti alcuni vizj più leggieri ? come la mi- sericordia, l'amore e la vergogna (1). Però bene spesso

(1) Come appo gli stoici si sentisse della misericordia, lo mostra Seneca nel secondo libro al capitolo quarto e quinto della clemenza, e della vergogna parla a lungo nell'undecima epistola del primo libro, e in questo libro nel capitolo WII.

58 DELL' in A

ne' tuoi difetti ti mostrerò buono aspetto, ma non è per questo che non sien vizj, se sono indizj di mi- glior natura. Inoltre tutte cotesto genti libere per la fierezza a guisa di leoni e lupi, siccome non pos- son servire, cosi ancor comandare. Perciocché non hanno forza d'ingegno umano, ma fiero ed intratta- l)ile; ma niuno può reggere se non quello che può esser retto.

C.VPITOLO XVI.

Per lo più adunque sono stati grimperj appresso quelli popoli che hanno più benigno il cielo. Quelli che s'estendono verso le parti fredde e settentrionali sono di natura fiera e selvaggia, e, come dice il poeta, sorai» gliantissimi al lor cielo. « Quelli animali, dicono, son tenuti generosissimi che hanno molta ira. « Chi addu- ce per esempio dell'uomo quelle cose che hanno l'em- pito invece di ragione, l'erra: che l'uomo invece del- l'empito, ha la ragione. Ma manco a tutti quelli giova la medesima cosa. L'iracondia aiuta i leoni, la timidezza i cervi, l'empito lo sparviere, la fuga la colomba. Anzi quello é vero che gli animali ottimi sieno all'ira inclinatissinii. Penserò io che le fiere, che vivono di rapina sieno migliori, quanto più sono irate? Io loderò la pazienza de'buoni e de'cavalli che seguono il freno (1), Ma che accade che tu riduca l'uomo ad esempj tanti infelici , avendo tu , il mon-

(1) Secondo la correzione del Gronovio è da leggere con mi- glior senso: Penserò che Ir fiere che vivnno di rapina ticn^ migliori quanto jtiii, tono rate: io lodifrò, ecc. EU.

LIBnO SECONDO 59

do e Dio, il quale Tuomo solo fra tutti gli animali co-» nosce, acciocché solo lo imiti? u GV iracondi, dicono, son tenuti semplicissimi sopra tutti, » perchè s'ag- guagliano a' fraudolenti ed a' maliziosi, e però paiono semplici, come quelli che s'espongono a' pericoli, ì quali io non chiamerei semplici; ma incauti, e in- considerati. Noi diamo questo nome agli stolti , ai lussuriosi, a' prodighi e a' tutti ì vizj poco astuti.

CAPITOLO XVII.

"L'oratore irato, dicono, è talvolta migliore. «Anzi imitando l'irato: perciocché, e gl'istrioni nel reci-, tare (1) commuovono il popolo non essendo irati, ma rappresentando bene un irato: per lo che ed appresso ai giudici, e ne' parlamenti al popolo, e ovunque ci bisogna tirar gli altrui animi all'arbitrio nostro, noi stessi fingeremo or ira, or timore, or misericordia (3), acciocché commoviamo gli altri, e spesso l'imitazio- ne degli affetti fa quello che non avrebbon fatto i veri affetti. languido quell'animo, dicono, che e senza ira. « È vero, se egli non ha nulla più gagliardo che l'ira. Non si deve essere assassino, predone (3), misericordioso , crudele. L'animo di quello è troppo molle, di questo troppo duro (4). Sia il savio temperato, e al far le cose con fortezza usi non l'ira, ma il vigore.

(1) Di sopra nel capitolo XIV.

(2) Onde disse Orazio nell'epistola dell'arte poetica: Si vis me fiere, dolendum est Primum ipsi libi; iunc tua me infoi;lU' nia l(Bdent.

t (3) Nec praedam. vittima. Ed.

(4) Di sopra in questo libro, capitolo quindici.

co deli/ IRA

(*). CAPITOLO XVIII.

Perchè noi abbiamo trattato fin qui le cose che so* pra l'ira si disputano, veniamo adesso ai rimedj di essa; i quali, come penso, son due, cioè, che noi non incorriamo neirira, e che in essa non pecchiamo. Come nella cura de' corpi, altri sono i precetti per conservar la sanità, altri per restituirla; così al- trimenti dobbiamo iscacciar Tira, altrimenti rafTre- Darla per vincerla e superarla. Si daranno alcuni precetti appartenenti a tutta la vita in universale; e questi si divideranno nell'educazione, e ne' tempi seguenti. L' educazione ricerca pranfhssima dili- genza , la quale ha da giovare assai ; perciocché è agevol cosa indirizzare gli animi ancora teneri (1): difficilmente si recidono i vizj, che con esso noi son cresciuti. La natura dell'animo caldo e vigoroso ò molto acconcia all'iracondia: perciocché sendo quat- tro elementi, fuoco, acqua, aria e terra, questi hanno uguali potestà, fredda, calda, secca ed umida (2). La mescolanza adunque degli elementi causa la varietà e de' luoghi, e degli animali, e de' corpi, e de'costu- mi, e per questo sono le nature più inclinate a que- sto costume, che a quello, secondo che è in esse mag- gior coj i i di qualciie elemento. Quindi avviene che noi domandiamo alcune rosjioni umide e secche, calde e fredde, e le medesime differenze sono negli animali e negli uomini.

(*) Nel testo è qui questo titolo: Dei rimedj dell'ira. Ed.

(I) Pare preso da Aristotile nel secondo De generatione «t cor- ruptione.

(2) Galeno nel libro il mi liiolo è: Quod animi moret te-^ quunlnr lemperatttratn corporit, alTprma il int'fl.simfi n lungo.

LIBRO SECONDO

CAPITOLO XIX.

Importa non poco quanto di umido e di caldo cia- scheduiio in so ritenga; perciocché i costumi suoi da quello elemento deriveranno, la cui porzione in esso predominerà. La mescolanza del caldo farà gli uo- mini iracondi; perciocché il fuoco è operativo e per- tinace; la mescolanza del freddo gli farà timidi, per- chè il freddo è pigro e rannicchiato (1). Vogliono adun- que alcuni de'nostri, che Tira nel petto si commuo- va, ribollendo il sangue intorno al cuore. La causa perchè qui particolarmente si assegni il iluogo al- l'ira, non è altra , se non che di tutto il corpo il petto è la parte più calda. In quelli che participano più dell' umido, cresce l' ira a poco a poco ; perchè in essi non è pronto il calore, ma s' acquista con movimento. Perlocché Tire dei fanciulli e delle donne son più acute che gravi , e son leggieri nel princi- pio. L'età secche hanno V ira veemente e robusta , ma senza accrescimento non si augumentando molto perchè il freddo segue il calore quando è sul dimi- nuirsi. I vecchi sono difficili e rincrescevoli, come gl'indisposti, e quelli che sono sul guarire e quelli ne'quali, o per stracchezza, o per essersi scemato il sangue s' è sminuito il calore (2). Nella medesima causa si trovano quelli che da fame e da sete stimo- lati sono, e che hanno il corpo pallido e che malage-

(1) Nel medesimo luogo la pose Platone, come mostra Cice- rone nella prima Tusculana.

(2) Cicerone nel libro della vecchiezza dice questi non esser yizj della età, ma de'costumi.

62 dell'ira

volmente (1) piglia nutrimento e manca. Il vino ac- cende l'ira, perchè accresce il calore secondo la na- tura di ciascuno.

CAPITOLO XX.

Alcuni s'accendono nell'ira essendu hnìnin, uicmu di cibo ripieni, e sazj (2). c'è alcuna altra causa, per la quale i biondi e rossi , i quali hanno tal colore per natura , quale sogliono aver gli altri nell' Ira , sieno iracondissimi; perciocché il sangue loro é mo- bile e agitato. Ma sicome la natura fa alcuni all'ira in- clinati, così occorrono molte cause, che possono quan- to la natura. Altri ha indotti a ciò qualche malattia o ingiuria fattali nel corpo, altri la fatica, e lo star di continuo vigilanti (3), e le notti travagliose, e i desi- derj e gli amori , e tutte quelle altre cose che haa fatto nocumento al corpo, o all'animo, preparano l'af- flitta mente alle querele (4) . Ma tutte queste sono prin- cipj e cause ; ed assaissimo può la consuetudine, la quale, se è grave, mantiene il vizio gagliardamente. Certo il mutar la natura è difficile, si può rivol- tare gli elementi dei nascenti mescolati una volta insieme. Ma in questo giova il conoscere, che agli in- gegni caldi si tolga il vino, il quale Platone vuole- che si neghi a fanciulli, e vieta, che non s'inciti il fuo-

(1) Maligne. Ed.

(2) Quidam saucii. altri - iteci. Ed.

(3) Le continue veglie. Ed.

(4) Onde Aristotile nel sesto dell'Etica, dice la consuetudine, assomigliarsi alla natura, e per questo esser difficile a mutarsi, ed il medesimo aflenna nel primo della Rettorica, e ne' Pre- dicamenti nel capitolo della qualità, dice l'abito farsi da molli

LIBRO SECONDO Co

CO col fooco (1). Nèsi devono empire di cibi, percioc- ché i corpi si distenderanno , e gli animi col orpo gonfieranno. La fatica e gii esercizj senza straccarsi, acciocché il calore si sminuisca, non si consumi , e quel soverchio bollore s'acquieti. Gioveranno ancora i giuochi; perciocché il piacere moderato ricrea e tempera gli animi. Gli umidi e gli asciutti e frigidi molto , non portan pericolo dell'ira, ma hanno da temer maggior vizj -, il timore , la stranezza , la di- sperazione e i sospetti.

CAPITOLO XXL

Si debbono adunque agevolare, e accarezzare tali ingegni, e fargli stare allegri, e perchè altri sono 1 rimedj, che si devono usare contra l'ira, altri quelli che contro la maninconia s'adoperano; solo si devono queste cose curare con rimedj dissimili, ma ancora contrari; sempre ci faremo innanzi a quello che piglia accrescimento. Gioverà, dico , assaissimo che i fanciulli subito sieno bene avvezzi, ed il reg- gergli é diffìcile, perché dobbiamo ingegnarci di non fare in modo, che o nutriamo in essi Tira, o rintuz- ziamo l'ingegno, fa di mestiero di osservazione di- ligente ; perché e quello che si deve innalzare, e quello

atti per mezzo della disposizione. Cicerone nella quinta Tuscu- lana , dice , che la nalura è sempre invitta, e quasi il nw!de- simo afferma nel principio dei libro dell' invenzione.

(1) Fiatone nel secondo dialogo De legibus , dice, che a fan- ciulli si vieti il vino insino agli diciolto anni per non meUere nei corpo e nell'anima il fuoco col fuoco, e di più che si prov- vegga che lo usino moderatamente insino al trigesimo anno.

C4 DBH.'IUA

che s'ha da abbassare si nutrisco con simili cose, u le cose somiglianti ingannano facilmente ancora chi pon buona cura. Lo spirito per la licenza cresce, per la servitù si sminuisce ; se è lodato s" innalza , e si tira in buona speranza di stesso ; ma queste mede- sime cose generano insolenza ed iracondia. Talmente adunque si deve reggere fra l'una e Taltra cosa che ora s'adoperi il freno, e or lo sprone, sopporti al- cuna cosa umile e servile. Non gli sia mai necessa- rio il chiedere supplichevolmente, gli giovi l'aver chiesto, piuttosto spontaneamente se gli concedine e donino le cose convenevoli, e per i buoni suoi por- tamenti fatti per addietro, e per le buone promesse per innanzi. Nelle gare e contese co' suoi pari non sopporteranno, che egli sia vinto, che s'adiri. In- gegnamoci che egli sia famigliare a quelli, co'quali suole gareggiare, acciocché, nel combattere, si assue- faccia a non volere nuocere, ma vincere. Ogni volta che avrà superato e fatto qualcosa degna di lode, permettiamo che si compiaccia, ma non esca del de- coro nel rallegrarsene, perché al gaudio ne segue la esultazione, alla esultazione il fasto e la troppa esti- mazione di stesso. Daremogli qualche pnssatempo, ma non lo lascerem mica scorrere nella infingardag- gine e nell'ozio, e lo terremo lontano dallo immergersi nelle delizie ; perciocché non é cosa che faccia gli uo- mini più iracondi, che la educazione molle e piena di lusinghe; e perciò quanto più si compiace a figliuoli unichi, e quanto più licenzia hanno i pupilli , tanto più corrotto diviene l'animo loro. Non starà forte alle offese quello, a cui niente mai é stato negato ;

LIDKO SECONDO 65

a cui la madre ansia sempre ha rasciutte le lagrime, a cui s'è dato il maestro a sua satisfaziqno. Non vedi come maggior ira accompagni qualsivoglia maggior fortuna ? Nei ricchi e nobili, e nei magistrati appare principalmente , quando ciò che era neir animo di leggiere e di vano s'è per l'aura l)ropiziainnalzato{l). La felicità nutrisce l'iracondia, quando la turba de- gli adulatori s'è aggirata intorno alle superbe orec- chie. Perciocché ti risponderà qualcuno, tu non ti misuri secondo 1' altezza tua , tu ti avvilisci per te atesso, ed altre cose, alle quali appena han fatto re- sistenza le menti sane, e dal principio ben fondate. Per lo che si deve la puerizia rimuovere molto dal- l'adulazione: sentasi dire il vero, ed in tanto tema, sia riverente e sempre si rizzi a' maggiori ; niente ottenga mediante l' ira ; quello che nel pianto gli è stato negato, gli s'offerisca quando sta quieto, e vegga ma non usi le ricchezze paterne, e le cose non ben fatte si gli rinfaccino.

CAPITOLO XXII.

Sarà a proposito dare a fanciulli maestri , e pe- danti piacevoli, che tutto quello , che è molle e te- nero s'appiglia alle cose , che più presso li sono , e cresce a similitudine d'esse ; e di poi nell'adolescenza rappresentano i costumi delle balie e dei maestri. Fu un fanciullo, che allevato appresso Platone, sendo ri- menato a casa, e veggendo il padre che gridava: «non

(I) Onde avevano i Greci un proverbio, nel quaic s'alTcr- mava che il magistrato ù paragone deiruomo.

L'Ira. 5

06 di:m/ ira

mai, dice, vidi questo appresso Platone. " Io non sto in dubbio, che egli non imitasse piuttosto il padre, che Platone(l). Soprattutto sia il vitto pareo e le vesti non preziose, e sia vestito come i par suoi. Quello che da principio tu hai fatto uguale a molti , non^ s' adirerà che qualcuno gli si agguagli. Ma queste cose s'appartengono a' nostri figliuoli. Perchè in noi la sorte della nascita e la educazione non ha luogo di vizio , di precetto; bisogna ordinare il ri- manente. Dobbiamo adunqtie combattere contra lo prime cause; e la causa dell'iracondia è l'opinione dell'ingiuria, alla quale non s' ha da credere facil- mente; neppure si deve subito accostarsi alle aperte e manifeste. Perciocché sono alcune cose false, che hanno apparenza di vere; sempre bisogna dar tempo, perciocché il tempo apre e scopre la verità (2). Non sieno le orecchie facili a quelli che biasimano. Siaci noto e sospetto questo vizio della natura umana; che quelle cose, che noi contra la nostra voglia odiamo, crediamo di leggieri, e ci adiriamo, prima che fac- ciamo d'esse giudizio.

(0 Cosi inalino.- Il nostro lesto avca: pialtosto Platone die il padre. Ed.

(2) Ne! duodecimo capitolo del terzo libro. Onde fu delta la verità esser flgliuola del tempo, come mostra Aulo Gellio nel duodet imo libro all'undecimo capitolo, ed il Volterrano nel li- bro Irenliincsimo deCommf ntarj, noLi esser buon rimedio il- l'ira suiiita interporre tempo o cibo: perciocché II cibo ancora allcfri-'orisrc mollo l'empilo dell'animo.

LIBRO SECONDO 07 '

CAPITOLO XXIII.

Anzi non solo siamo spinti da Inasinii datici, ma da sospetti ancora, e interpretando il volto, ed il riso d'altri in mala parte, ci adiriamo con gl'innocenti? Ter il che bisogna contro di dire le ragioni dell'as- sente , e tener l' ira sospesa , perciocché quando la pena si prolunga , si può cercar di darla ; ma fatta <'.]ie è la cosa non può tornar indietro. È noto quello •congiurato contro al tiranno , che scoperto prima «he Tacesse refTetto, e messo a tortura (1), acciocché confessasse i consapevoli della congiura, nominò gli amici che stavano a guardia del tiranno, a' quali sa- peva essere grandemente a cuore la salute d' esso ; ed avendo egli commesso che fossero uccisi tutti l'un dopo l'altro come erano stati nominati, domandò so ve ne fusse alcun altro? «Tu solo, rispos'egli, per- ciocché io non ho lasciato alcun altro a cui tu fussl caro. 1 Fece r ira che il tiranno si accomodasse (2) le mani del congiurato, e con le sue mani uccidesse le sue guardie. Quanto più animosamente fece Ales- sandro , che avendo letta una lettera della madre, per la quale era avvertito che si guardasse dal ve- leno di Filippo medico, beve la bevanda senz' alcun timore; credette più a stesso dell'amico suo (3). Fa

(1) Da Ippia, agg. il lesto latino. EtL

(2) Tyrannicidce manut commoadret. Prestasse le mani al ti- rannicida. Ed.

(3) Valf;rio Massimo nel fine del terzo libro , e Curzio libro Miarlo e l'iutarco nella vita di Alessandro dicono, (lucsta let- ta essere stata di Parraenione suo grande amico.

G8 dell'i HA

degno d'aver un innocente; fu degno di cosi fare (1); e ciò tanto più lodo Alessandro, quantoniunofu tanto sottoposto airira. Quanto è più rara la moderazione nei PC, tanto più si deve lodare. Ciò fece Caio Cesare quello che con tanta clemenza usò la vittoria civile; perciocché avendo trovata una massa di lettere man- date a Pompeo da quelli che pareva fusscro stati o nella parte avversa, o neutrali, le al)bruciò; percioc- chè,sebbenesoleva adirarsi moderatamente. voUepiut- tosto non potere adirarsi. Stimò una sorta gratis- sima di perdono, il non saper l'errore che ciascuno avesse fatto (2). La credulità fa molto male; spesse flate non ò bene udire; perchè in alcune cose ò me- glio essere ingannato che difddarSi.

CAPITOLO XXIV.

Si deve levar il sospetto e la coniettura dell'ani- mo, che sono incitamenti fallacissimi. Colui mi sa- lutò poco umanamente; colui non s'accostò quando 'il baciavo; colui ruppe tosto l'incominciato ragio- namento; colui non mi chiamò a cena; il volto di colui m'é parso alieno. Non mancherà argomenti al sospetto; fa di mestiero la semplicità e benigna esti- mazione delle cose. Non dovemo credere , se non quello che ci apparirà agli occhi e sarà manifesto, ed ogni volta che il nostro sospetto apparirà vano, ri- prendiamo la credulità; perciocché questa correzione ci assueferà a non esser cosi facili a credere.

(1) Dignus fui qui ìnnocenlcm hnberet ; dignut fini facerel. 11 Daillard: Il {ut digne de l'avoir innncent, digne de le ren- dre à la verta, «'»! Vcùi Irahie. VA.

(2) li Volterrano, iiljro trentunesimo dii siioi Commenlarj.

LinilO SECONDO 69

CAPITOLO XXV.

Onde ne segue quello, che noi non ci esasperiamo per le cose minime e vili. Il ragazzo è poco sollecito, o l'acqua presa per bere è calda , o il letto non è ben rifatto , o la tavola non è bene acconcia. Il commuoversi per queste cose ò pazzia ; coitìe ò di complessione fievole e debole quello che un picciol vento ha fatto aggranchiare; infetti quelli occhi , che una veste bianca abbaglia , e dissoluto nelle fielicatezze quello , a cui duole il fianco per V al- trui fatica. Dicono che Mindiride fu della città dei Sibariti, questi avendo visto un che zappava e alza- va iualto la marra, vietò che egli lavorasse cosi nel suo cospetto, dolendosi e dicendo di straccare men- tre ciò far vedeva, e spesse fiato si doleva venendo in collera, perchè aveva giaciuto su le rose soprap- poste, e non bene distese (1). Quando i piaceri hanno corrotto insieme T animo ed il corpo, niente ci par tollerabile , non perché sopportiamo cose dure , ma perchè siamo molli ed effeminati. Perciocché per qual causa la tosse di alcuno o lo starnuto, o una mosca poco diligentemente cacciata ci muov' a rabbia, o un bicchiere che abbi dato la volta (2), o una chiave ca-

(1) lùliano nel nono Uhro De varia histori i, tSi menzione d'un Smindiride sibarita die sondo dormilo su le rose spicciolate, diceva che per la loro durezza gli avevan fallo enfiare la carne; il quale forse ò questo medesimo, sebbene qui è diiaraalo Min- diride, quivi Smindiride.

(2) Lesse venus caUx invece dìobversatus canis. Ed.

70 DELL' IRA

scata di mano a un servo poco accorto ? Sopporterà costui pazientemente una civil villania; e lo mnl- dicenzc detteli nella conciono o nel senato , le cui orecchie offende lo stridore d' un Unnclictto strasci- nato ? soffrirà costui la fame e la sete del marciare la state che s'adira col servo quando non disfà bene la neve ?

CAPITOLO XXVI.

Niuna cosa nutrisce Tira più che la lussuria (I); l'ani- mo intemperato e impaziente (2) si deve trattare o mancffgiare con durezza, acciocché non senta il colpo se non grave Noi ci adiriamo o con quelle cose dalle quali non abbiamo possuto ricevere villania, o con quelle dalle quali abbiamo possuto riceverne. Delle prime alcune sono senza senso, come il libro, il quale per essere scritto con lettere troppo minute, spesse fiate ubbiam gettato via e stracciato perchè era scor- retto ; come le vesti , le quali abbiamo squarciate , perchè ci dispiacevano. Quanto è cosa stolta lo adi- rarsi con queste cose le quali meritarono l'ira, la sentono. «Ma certo ci offendono quelli che tali cose fecero. " Spesso primieramente ci adiriamo avanti che noi distinguiamo questo appresso di noi ; dipoi per avventura gli stessi artefici ancora addurranno giuste scuse. Questo non ha possuto far meglio che s'abbi fatto, imparò poco con intenzione d' ingiu- riarti. Quell' altro non fece cosi per offenderti. Al-

(1) Plinio nel diciannovesimo libro, capitolo quarto. [%) Questi epiteli nel lat. si riferiscono a Imiuria. Ed.

LIBKO SECONDO 71

rultimo , clie è più sciocca cosa che sfog-are sopra le cose la collera presa contro gli uomini ? Ma come l'adirarsi con le cose prive d'anima è cosa da pazzo, così coi muti animali,! quali non ci fanno ingiuria, ninna perchè mancano di volontà; perciocché ella non è ingiuria se non è derivata da consiglio. Pos- sono adunque nuocerci come il ferro o il sasso, ma non farci ingiuria. Ma sono alcuni che pensano d'essere sprezzati quando cavalcando i medesimi cavalli non se li trovano ubbedienti come sono stati agli altri , come se alcune cose fusser più soggette ad alcuni per giudizio, non per consuetudine e arte di maneg- giare e governare.

CA.P ITOLO XXVII.

E come é cosa stolta l'adirarsi con le dette cose, così con fanciulli , e con quelli che non son molto differenti dalla prudenza de' fanciulli ; perciocché tutti questi errori appresso un discreto giudice in- vece dell'innocenza hanno l'imprudenza (1). Sono al- cune cose, che non possono nuocere, lianno al- cuna forza se non benefica e salutare; come gli Dei immortali, i quali vogliono, possono nuocere: perchè la natura loro è mite e piacevole, e tanto ri- mossa dal fare ingiuria in altri, quanto in stessi. Gli sciocchi adunque ed ignoranti della verità im- putano ad essi la crudeltà del mare, le piogge smi- surate, la pertinacia dell'invernata, non sendo pro- ti) Il medesimo afferma ancora nel quinlodccimo libro del- l'Epistole.

72 DELL' IRA

prlamento Indirizzata a noi alcuna di quelle coso che ci nuocono e giovano: perciocchù noi non siamo cau- sa che al mondo ritorni Tinverno o l'estate; queste cose hanno le lor le{?g:i, con le quali si esercitano le cose divine. Noi ci innalziamo troppo , se ci par es- ser degni che per amor nostro si muovine tante gran cose. Niuna di queste cose adunque si fa ad ingiuria nostra, anzi per l'opposto tutto a nostra salute. Abbia- mo detto essere alcune cose che non possono nuocere; alcune che non vogliono. Fra queste saranno i buoni magistrati (1), i padri e madri, i precettori, i giudici, il cui castigo si deve pigliare come la lancetta del cerusico, e l'astinenza, e l'altre cose che ci tormen- tano avendoci a giovare. Siamo stati puniti? vengaci in considerazione non solo quello che patiamo; ma quello che abbiamo fatto, e consideriamo la vita nostra; se vorremo dire il vero a noi stessi, stimere- mo la nostra lite di maggior gravezza. Se vogliamo esser giusti giudici di tutte le cose , persuadiamoci prima di questo; che ninno di noi è senza colpa. Che di qui nasce grandissima indignazione; io non ho fatto errore alcuno; non ho fatto nulla. Anzi non con- fessi nulla (2). Ci sdegnamo esser stati castigati con qualche ammonizione o correzione; e pecchiamo in questo stesso tempo, aggìugnendo agli errori, l'ar- roganza e ostinazione. Chi ò quello che fa professione

(1) Nel capitolo XXIX del tento libro.

(2) Orazio nella Satira terza del primo libro: Nam vitiit ne- mo fine nascitur , a Dionisio Alicarnassco nell'ottavo libro, dice che non ò possibile nella natura d'un uomo essere tutte le virtù, mai è per nascere alcuno di mortai seme, che sia perfellamcnte buono.

LIBRO SECONDO 73

d'essere innocente in tutte le leggi? Dato che ciò sia, quanto è stretta questa innocenza, esser buono secondo la legge? Quanto si stende più la regola degli offlcj e costumi, che della legge ? Quante cose richiede la pietà, l'umanità, la liberalità, la giusti- zia e la fede? le quali tutte cose son fuori delle ta- vole pubbliche.

CAPITOLO XXVIII,

Ma anco possiamo affermare e assicurarci inno- centi secondo quella strettissima norma. Alcune cose abbiamo fatte, alcune pensate, alcune desiderate, ad altre dato favore, in alcune siamo innocenti perchè non c'è riuscito. Discorrendo queste cose siamo più discreti co' delinquenti, cediamo a chi ci riprende, e non ci adiriamo centra di noi stessi; perciocché con chi non ci adirerem noi, se non la perdoniamo a noi stessi? Non mai con gli Dei. Perciocché non per leg- ge loro, ma della mortalità patiamo tutto quello che di disagio ci avviene. Oh! ci sopraggiungono infermità e dolori. Certo fa di mestiero fuggirsi in qualche luogo sendoci tocco per sorte un domicilio debole e poco durevole. Ti sarà detto che qualcuno abbia spar- lato di te ; pensa se sei stato il primo a ciò fare, pen- sa di quanti tu sparli; pensiamo, dico, che gli altri non facciano ingiuria, ma la vendichino, altri sieno a ciò inclinati, altri sforzati, altri facciano ignoran- temente, e che quelli che fanno volontariamente, ed a posta, non cerchino di fare ingiuria, ma si muo- vano per quella che da noi è stata fatta. 0 egli ó scor-

71 DKI.I/IKA

SO per dolcezza d'urbanità, o ha fatto qualcosa non l)er nuocere a noi, ma perché e<^lì non poteva con- seguir l'intento suo, se non avesse fatto aver la re- pulsa a noi. Spesse finte offende l'adulazione, men- tre che usa le lusinghe. Cliiunque si rivolgerà per l'animo quante volte egli sin cascato in falso so- spetto, o quante sue amorevolezze la fortuna abbia vestite con apparenza d'ingiuria, a quanti dopo l'o- dio abbi posto amore, potrà venirgli fatto di non s'adirare subito; massime se in tutte le cose per le quali si sdegna, dirà seco stesso tacitamente: Que- ste cose ho fatte ancor io. Ma dove troverai giudice cosi giusto ? Quegli che desidera le mogli d' o- gnuno, e stima che sia causa d'amare abbastanza giusta perché sono aliene, il medesimo non vuole che la sua sia guardata, e il perfido vuole che la fede gli sia inviolabilmente osservata, e lo spergiu- ro stesso perseguita le bugie, ed un calunniatore ha per male che gli sia mossa lite. Quello che non ha avuto rispetto alla pudicizia sua, non vuole che si tentino i suoi servi. Abbiamo gli altrui vizj su gli occhi, i nostri li mettiamo dietro alle spalle (1). Quindi avviene che il padre peggiore del figliuolo riprende i vizj, ne' quali lo vede tempo per tempo incorrere.

(i) Serondo l'apologo d'Esopo die fìngeva che ciascuno por- lasse due lasche, una dinanzi, dove melteva gli errori d'allri, e una dietro alle spalle, nella quale melleva i suoi; perù non poteva cosi di leggieri vederli. Onde Cicerone, nel primo degli Ulllcj, avviene, dice, non so come, clic più agevolmente in al- tri che in noi veggiamo gli errori ch'essi Tanno. Ma luUo av- viene per il soverchio amore che portiamo a noi stessi. K co- me ciascuno debba amar medesimo, no dispula Aristotele nel nono dell' Elica.

LI BEO SECOKDO 75

Colui che non s'è risparmiato alcun diletto in lus- suria Bon permette che un altro pigli piacere alcu- no, e il tiranno s'adira con un omicida, e un sacri- lego punisce i furti. La più parte degli uomini s'a- dira non coi delitti , ma co' delinquenti. Il rispetta di noi stessi ci farà più moderati, se ci consigliere- mo con noi medesimi? Abbiamo noi mai commesso un simil errore ? Abbiamo noi errato in questa gui- sa ? Ecci utile che queste cose sian condannate ? Grandissimo rimedio all'ira , è l'indugio. Questa viene da quel principio di pena , non acciocché noi perdoniamo, ma acciocché noi giudichiamo: cesserà l'ira, se aspetta: tenterai di torla via tutta in- sieme, che ella ha i primi empiti gravi, tutta si vin- cerà mentre si consuma a parte a parte (1).

CAPITOLO XXIX.

Delle cose clie ci offendono, alcune ci sono rappor- tate da altri, alcune odiamo o vediamo per noi stes- si. Alle cose che ci son raccontate non doviamo cosi tosto credere; molti mentono per ingannare, molti perchè sono stati ingannati. Alcuno col biasi- mare cerca acquistarsi grado, e finge un'ingiuria, acciocché paia eh' egli abbia per male che ella sia stata fatta . Sono alcuni maligni e che vorrebbo- no disunire le amicizie concordi. Ci sono de' sospet- tosi, e clie desiderano pigliare spasso d'altri, e da loi.tano, e di luogo sicuro risguardare quelli che da

(i) ?lcl capitolo XII del terzo libro, ancora dice che la dila- zione è gran rimedio dell'ira.

76 UEM/lllA

essi sono stati percossi (1). So tu uvessi a dar giudizio sopra una piceiola somma, non la pnssorcstì senza testimone; il testimone non varrebbe senza giura- mento ; daresti azione (2) all' una parte ed all'altra ; assegneresti lor tempo e non gli ascolteresti una volta sola: perciocché la verità si palesa meglio, quanto più spesso viene allo mani (3). Condanni l'a- mico subito, prima che l'oda ed esamini: ti adiri seco prima che gli sia lecito conoscere, o l'accusatore, o l'accusa. Che già hai udito ciò che da ogni banda si direbbe. Questo stesso, che ciò t'ha rai)portato, si ri- marrà di affermarlo, se sarà tentito a provarlo. Non accade, dice, che mi facci comparire, io chiamato dirò di non averlo detto. Altrimenti non ti dirò mai nien- te. Nel medesimo tempo egli instiga e si ritira dal combattere e litigare. Quello che non ti vuole sco- prire una cosa, se non secretamente, quasi non la scopre. Qual cosa C più ingiusta che credere in se- greto ed adirarsi palesemente ?

CAPITOLO XX X.

D'alcune cose noi stessi siamo testimoni. In que- ste risguarderemo la natura e volontà degli agen- ti. É fanciullo? concedasi all'età; non sa se pec- ca, o no. É a noi padre? o egli ha giovato tanto che già la sua ingiuria è giusta, o forse questo che ci

(1) Quoì colliiit. —messi a cozzo. Il B. ccux quii a mit aax pri'.ei. Ed.

(2) Adoocationem. FA.

(3) Sopra nel capito'o XXII dice che il tempo scopre la ve- rità.

LÌDRO SECOKDO 77

offende è benefìzio e util nostro. È donna? ella erra. Gli è stato comandato? chi s'adira con la necessità, se non ringiusto ? È stato offeso? non e ingiuria sop- portar quello, che prima da te è stato fatto. È giu- dice? credi più alla sentenza sua, che alla tua, È re? se ti punisce a ragione, cedi alla giustizia, se inno- centemente, cedi alla fortuna. È un animale muto, 0 a un muto somigliante? tu imiti lui , se ti adiri seco. È una malattia o^calamità? passerà più leggier- mente, se sarai paziente in essa. È Dio? tanto ti af- fatichi invano, quando ti adiri seco, quanto quando Io preghi che egli si adiri con un altro. È uomo dabbene quello che ha fatta T ingiuria (1) ? nonio credere. È un maligno? nori te ne maravigliare, un altro farà le tue vendette, e già egli s'è punito per se stesso col peccare. Due sono le cose che muovono a ira, come s'è detto; la prima, se ci par d'aver ricevuta ingiuria: di questo s'è parlato abbastanza. Secon- dariamente, se ci par d'averla ricevuta a torto; di questo s'ha da ragionare. Ingiuste giudicano gli uomini alcune cose, perchè non dovevano soppor- tarle; alcune perche non le speravano. E le cose non pensate giudichiamo indegne. Per il che ci com- muovono molto quelle cose che sono avvenute fuor di speranza e impensatamente. c'è alcuna altra causa per la quale nc.'lle cose domestiche ci offen- dino le minime, e che chiamiamo ingiuria negli amici la negligenza loro.

(l) ?iIo lo (li ropionarc.

>■■' ì>t:iA. iUA

CAPITOLO XXXI.

" In qual pulsa adunque, dicono, ci muovono lo in- ffiure depr inimici? "Perchè noi non le aspettavamo, o almeno non così prrandi. Questo fa- il soverchio amore di noi stessi; giudichiamo esser dovere cho anco pr inimici ardischino violarci. Ciascuno ha dentro di l'animo di re che vuole si dia licenza a sé, ma non ad altri centra di sé; per il che ci fa ira- condi, o l'ignoranza delle cose, o la poca pratica (1); ri;>noranza; perciocché, come è maraviglia che i mal- vagi facciano opere malvage? Che novità é se un inimico ci nuoce, un amico manca, un figliuolo erra, un servo pecca? Diceva Fabio che ella era scusa di- sonorata e disdicevole a un capitano d'esercito, il dire: Io non pensai. Io la stimo bruttissima a cia- scuno uomo. Pensa ogni cosa, aspetta che anche ne' buoni costumi sarà qualche poco dell'aspro (2). La na- tura umana produce animi insidiosi, produce ingrati, produce avari, produce spietati. Quando tu farai giu- dizio de' costumi d'alcuno, pensa quali sieno i costumi d'ognuno in universale; dove tu arai grande alle- grezza, arai gran timore. Dove ogui cosa ti pur tran- quilla, quivi non mancano delle cose che son per

(1) riatonp nel dialogo inlltolato Kulifronc, o Della Sanlità. tliniostra che lira nasce dall'ignoranza del giudicare alcune cose.

(2) Onde soleva dire Archita: Siccome, ancor che usassi som- ma diligenza, non troveresti pesce alcuno senza spine, cosi non troveresti uomo alcuno, in cui non sia qualcosa <li fraudolento e spinoso. (Eliano m-l decimo della varia Istoria.)

LIBRO SECONDO 79

nuocerli, ma si riposano alquanto, stima sempre che sia per avvenire qualcosa che ti offenda e sturbi. Il marinaro non mai tanto sicuro distese tutte le pie- ghe (l),che non accomodasse speditamente gli stru- menti per ritirar le vele. Discorri principalmente questo, che la violenza e forza del nuocere é brutta ed esecrabile, ed alienissima dall'uomo, per il cui be- neficio le fiere selvaggie ancora si domesticano. Ri- sguarda i colli degli elefanti sottomessi al giogo, le spalle de' tori calcate e peste parimente da' fanciulli, e femmine saltandovi su senza esser offese da essi, ed i dragoni striseiare ne' conviti e seni degli nomini sen- za offenderli con lo scorrer loro (2), e dentro alle case gli orsi e leoni aver la bocca piacevole e innocente, a chi li maneggia ed accarezza. Non sarà vergogna adunque che le fiere abbino mutate le menti con le cose animate? È scelleratezza nuocere alla patria: dunque a un cittadino ancora, perciocché questo è parte d'ella patria; le parti non si devono violare, se il tutto è degno di venerazione: adunque un solo uomo ancora-, perciocché questo è tuo cittadino in una maggior città. Dimmi se le mani volesser nuo- cer a' piedi ? gli occhi alle mani ? Come tutte le mem- bra fra loro consentono (perché è utile al tutto che le parti sieno salve) , così gli uomini perdonano ai particolari; perchè siamo generati alla congregazio- ne: ma la società non può salvarsi se non con Fa-

(1) Sinus. Ed.

(2) Eliano nel tredicesimo libro della varia Istorin, narra un bell'esempio d'un putto che allevò un draconc schorzanilo, « djrmendo con esso, e come il dracene poi {jii fu grato col salvarlo da molli assassini.

80 Dnu/ lUA

more e custodia delle parti. Noi non (1) fuggiremmo eziandio le vipere e quei serpenti clic avvelenano l'ac- que (2), e quelli animali che nuocono col mordere, o percuotere, se potessimo come Taltro domesticargli o far di sorte, clie altri noi portassimo peri- colo da essi. Adunque anco all'uomo nocercmo; perché abbi errato, ma acciocché non erri: mai si rivolgerà la pena al passato, ma al futuro, per- ciocché non s'adira, ma si guarda e s'ha cura. Per- chè se si deve punire chiunque é di natura cattiva e malefica, la pena non eccettuerà alcuuo.

CAPITOLO XXXII.

«Oh Tira ha qualche piacere, ed é dolce cosa ren- dere il dolore (3)." None vero '.perciocché sebbene è cosa onesta ne' beneflzj ricompensare i meriti con i meriti, non é parimente onorato ricompensare le ingiurie con l'ingiurie. Quivi é cosa brutta l'es- ser vinto: qui il vincere. Questa parola vendetta é inumana (tuttocliè sia già ricevuta per giusta), e non è molto differente dalla villania, se non nell'or- dine. Chi rende (4) il dolore solo pecca con un poco più di scusa. l'u uno che nel bagno percosse Marco Ca- li) Effligerimut schiacceremmo. Ed.

(2) .\alrires. Il n. Le$ te.rpentt d'eau. TA.

(3) Platone ancora quasi noi mezzo del Filebo.pone l'ira fra i dolori dell'anima, i quali dolori nondimeno dice trovarsi pieni di cerli maravigliosi piaceli; il clic prova ancora con l'autorità d'Omero, che dice d'un irato, rlie l'alTetlo dell'ira è più dolco del miele.

(1) ncoeril. VA.

LIBRO SECONDO 81

tone disavvedutamente: perciocché chi sarebbe stato quello che a lui avesse fatta ingiuria a posta? Di poi volendosi scusare, Catone rispose: «Io non mi ri- cordo d'esser stato percosso. « Stimò che fosse mi- glior cosa il non riconoscere, che vendicarsi. Niente di male, dici tu, gli fu fatto dopo tanta presunzione ? Anzi molto di bene: perciocché cominciò a conoscer Catone. È atto di grande animo sprezzar l'ingiu- ria (1). Una sorte ingiuriosissima di vendetta è non esser parso da tanto , che altri si degni vendicarsi seco. Molti mentre fanno le vendette , si sono mag- giormente fitte l'ingiurie addosso. Quello é grande e nobile, che a guisa di grande e generosa fiera, ode, senza timore, l'abbaiare de' piccoli cani. « Noi saremo, dicono, manco sprezzati, se vendicheremo l'ingiuria, n Se veniamo a questo come a un rimedio, e ci venia- mo senza ira, non come sia cosa dolce l'esser ven- dicato, ma come utile.

(*). CAPITOLO XXXIII.

Bene spesso e stato meglio dissimular l'ingiuria, che vendicarla. Le ingiurie de' potenti non solo si devono sopportar pazientemente, ma ancora con lieto volto. Faranno di nuovo, se crederanno averla fat- ta. Gli animi insolenti per il favor della fortuna hanno questo pessimo vizio che hanno in odio chi da essi è stato offeso. È notissima la voce di colui, che sendo

(1) Nel vigcsimo (|uinto capitolo del terzo libro, dice, esser proprio della vera grandezza non si sentire percosso.

(') Il testo ha qui questo titolo : Del dissimulare l'ingiuria.Ed. L'Ira. 0

82 dell' ira

invecchiato nello corti del re, o sendo da uno do- mandiitc con che mezzo avesse conseguita la vec- chiezza nelle corti, cosa che rarissimo volte avviene: «col ricevere, rispoa'egli, le ingiurie e ringraziar chi le faceva. » Molte Hate non solo non metto bene ven- dicar r ingiuria, ma neauco il confessarla. Caio Cesa- rei!) avendo in prigione il figliuolo di Pastore, splen- dido cavalier romano, sdegnato solo seco per le suo delicatezze, e capelli con gran cura colti e acconci, Bendo pregato dal padre ch'ei gli concedesse per gra- zia la salute del figliuolo, corno che gli fusse ridotto a memoria il supplizio di esso, incontanente coman- dò che fosso menato alla morto. Ma nondimeno per non essere in tutto inumano e crudele verso il padre, lo invitò quel medesimo giorno a cena seco. Accettò Pastore l'invito, e vi andò col volto che non dava indizio alcuno di rinfacciargli niente. Bevve Cesare a lui una metadella di vino, e gli pose la guardia a vedere se beveva altrettanto; fece forza al cuor suo il misero che stette forte , e duro non altrimenti che se bevuto avesse il sangue del suo figliuolo. Gli man- dò l'unguento e le corone (2), e commesse che si osservasse se le pigliava; le prese: quel giorno che egli aveva sepolto il figliuolo , anzi che non

(1) Della cradcllà di questo imperatore fa menzione ancora nel caititolo XVIII del terzo libro.

(2) Solevano gli antichi ne' ronvili usare di mettersi alcune corone di Jiori e ungersi con alcune cose odorifere, si per mag- gior allegrezza, si ancora perchè credevano che tali odori im- pedissero l'ebrietà; e talora legavano su le corone alcuni uccel- leni, per il cui continuo canto, e spesse imiilure che facevano or col becco, or co' piedi, si faceva che essi, sopraffatti dal vino, non si addormentassero.

LIBllO SECONDO 8'3

r aveva sepolto, giaceva nel convito al centesimo luogo , e sendo vecchio e gottoso beveva misu- re appena convenevoli nel natale de' figliuoli , intanto mandò fuori lagrima , acconsentì al dolore che per alcun segno scoppiasse fuori. Cenò come se avesse ottenuta la grazia per il figliuo- lo. Domandi la cagione? N'aveva un altro. Dimmi quel Priamo non dissimulò egli Tira e abbracciò le ginocchia del re(l)? e si accostò alla bocca quella mano che s'era bagnata nel sangue del figliuolo, e stata d'esso micidiale, e cenò seco, ma con tutto ciò senza unguento e senza corone, ed il crudelissi- mo nemico il persuase con molti conforti che ma- gnasse, ma non ch'egli asciugasse smisurati bic- chieri, avendo posta la guardia sopra la vita (2). Mi ri- derei del padre romano se avesse temuto di solo (3), ora la pietà raffrenò l'ira. Era degno che gli fosso permesso, partendo dal convito, ire a raccogliere le ossa del figliuolo. anco questo gli permesse ; in- tanto come benigno e piacevole giovane, instigava il vecchio con farlo spesso bere, acciocché il pensie- ro si alleggerisse. Ma egli all'incontro si mostrò al- legro, come scordato di ciò che s'era fatto quel gior- no : n'era ito l'altro figliuolo, se il convitato non fosse piaciuto al carnefice.

(1) Appresso gli antichi erano le ginocchia dedicate alla mi- sericordia, però chi suppiichevolniente chiedeva qualcosa toc- cava le ginocchia a quello di chi domandava; la causa ne rende Plinio nell'undecimo libro al capitolo XLV.

(2) 11 B. Sous l'wil d'un témoin apoulé. Ed.

(S) Contempsiiset troianum patrem sibi timuitset legge il l'.uiikopf. Paillard legge anch'egli Romanus patera spiega: Lelio- maineàl brave Calionla s'iln'cùi craint que pourlui méme.EA.

SI DELL'IRA

CAI' ITO LO XXXIV.

Dcvcsi udumiiio astcncr ilmi ira, o sia pari quello che si ha da olTendcrc, o superiore, o inferiore: per- ciocché il contendere col pari é cosa dubbiosa , col superiore, p cosa da pazzi , con l'inferiore, ò cosa \ile. Gli uomini gretti, e miseri si rivolgono a chi gli morde; gli animali deboli stimano essere offesi, quando son tocchi come i sorci e le formiclie, lo quali se tu scosti con la mano, ti rivolgono la bocca contro. Ci farà più miti e piacevoli il discor- rere che talora ci lia giovato colui, col quale ci adi- riamo, e ha ricomperata T offesa co' meriti. Oltre ciò questo ci venga in considerazione, quanta lode ci sia per arrecare la fama della clemenza e quanti utili amici abbi fatto il perdono. Non ci adiriamo co' figliuoli de' nostri avversarj ed inimici. Fra gli esempj della crudeltà sillana é eh' egli rimosse e cavò della repubblica i figliuoli di quelli che da esso erano fatti rebcUi. Non é cosa più iniqua, che esser fatto erede dell'odio paterno. Tutte le fiate che sa- remo al perdonare duri, pensiamo se ci metta bene, che tutti gli altri sieno inesorabili verso di noi. Quante fiate avviene che domanda perdono quello che l'ha negato? quante volte s'è questo gettato a' piedi di quello che egli ha rimosso da' suoi? (Jual cosa é più gloriosa , che mutar l' ira con 1' amici- zia? Quali confederati s' ha trovati il popolo ro- mano più fedeli che quelli ch'egli ebbe ostinatis- simi inimici? Che imperio ci sarebbe oggi, se la sa-

LIBRO SECONDO 85

latifera provvidenza (1) non avesse mescolati i vinti co' vincitori? s'adirerà qualcuno teco? tu all'incon- tro provocalo con beneflzj. Cade subito lo sdegno, se é da una parte rilasciato, e- se non gareggia ugual- mente. Ma se d'ogni banda fa l'ira a gara, si viene alle mani, e quello é superiore die é stato il primo a ritirarsi e vinto resta quello che é stato vincitore. Egli t'ha percosso, scostati: perciocché col render- gli la ferita , e gli darai occasione di ferirti altre volte, e quando vorrai non potrai esserne scusato. Dimmi, trovasi alcuno che vegli ferir gravemente il nemico che egli lasci la mano nella ferita, possa ritirarla dal corpo (2)? L'ira, in vero, é un arme tale; appena si può cavarla, e tirarla indietro.

CAPITOLO XXXV.

Noi ci procacciamo arme ispedite, ci provvediamo spada comoda e abile (3), non sfuggiremo gli empiti dell'animo, che sono di questi più gravi, sendo fu- riosi ed irrevocabili? Quella velocità fmalmente piace la quale, quando gli è commesso, ferma il piede, correndo passa il destinato termine , ed é facile il volgerla, e dal corso rimetterla sul passo. Sappiamo che i nervi sono infermi, quando mal nostro grado si muovono. Quello che quando vuol camminare , corre, è o vecchio, o debol di corpo. Quelli movimenti dell'animo stimeremo sanissimi e gagliardissimi che

(1) Siiuhris providentia. Ed.

(2) Ab irlu Dal colpo. Ed.

(3) Uabilem. Il n. facile d manier.

andranno secondo rurbitrio nostro, non saran tra- sportati dal suo. Tuttavia niente ó tanto utile, quanto il considerar primieramente la bruttezza della cosa, appresso il pericolo. N'iuno affetto ó che renda la fac- cia più turbata; perciocché scontraffà gli aspetti che bellissimi erano, fa torvi quei volti, che erano tran- quillissimi. Tutta la grazia si parte dagli irati ; e co- raechó il suo vestito sia composto ed adorno , ritirerà la veste, e dismettere ogni cura di se stessa. Se l'abito dei capelli, che giacciano per natura o per arte, é leg- giadro, che sarà quando eglino per la collera s'ur- ricciano, e le vene gonfiando, il petto per lo spesso flato si scuote, ed il collo si stende per mandare fuor la voce rabbiosamente; allora le membra trepidano, le mani sono inquiete , tutto il corpo si scuote e commuove. Qual pensi, che sia dentro l'animo, sendo di fuora cosi brutta l'imagine d'esso ? Quanto più ter- ribile è l'aspetto dentro al petto, lo spirito é più atroce, l'empito più intenso: scoppierebbe, se non lo sfogasse. Chentc è l'aspetto dei nemici o delle fiere macchiate nelle fresche occisioni, o che vanno a farne delle nuove; chenti sono i mostri finti da poeti nell'in- ferno succinti di serpenti, e spiranti per bocca fuoco: quali escono le crudelissime furie infernali (1) a con-, citar le guerre e seminar discordia fra popoli, eroni per la pace, tale ci figuriamo l'ira con gli occhi dj fiamma accesi, romoreggiante con sibilo e mugghio, e gemito, e strido, e se alcuna voce più odiosa si trova, scotendo arme da ogni mano; perciocché ella non

(1) Le tro furie. Megera, Tesifone ed Alello le quali son descrillc leggiadrainenle da Dante nel nono canto àoH'Inferno.

LIBRO SECONDO 87

piglia cura di coprirsi ; sendo torva, sanguinolenta, piena di cicatrici, e livida per le sue battiture, inconsi- derata con passo furioso, corrente or qua or con molta caligine, mettendo sottosopra, ed in fuga ogni cosa, e, avente in odio ognuno, massimo stessa; se altramente non può nuocere, desiderante, che rovini la terra, il mare e il cielo, infesta parimente ed odiata, O se ti piace, sia qual é appresso i nostri poeti.

Bellona ch'un ilagel con la man destra Sanguinoso scuole, ovvero:

Con la veste squarciata la discordia.

O se si può imaginare alcuno sembiante più cru- dele di terribile affetto.

CAPITOLO XXXVI.

Ad alcuni irati, secondo clic dice Sestio, ha gio- vato il guardarsi nello specchio; si sono pertur- bati per la tanta mutazione di stessi, perciocché condotti quasi sul luogo non si sono riconosciuti; e quanto della vera bruttezza rendeva quella iraagine ripercossa nello specchio ? se Tanimo potesse mo- strare e se potesse in alcuna materia rilucere, men- tre il guardassimo, ci confonderebbe, sendo negro , macchiato, bollente, distorto, e gonrìato. Essendo così grande la bruttezza d'esso trasparendo por Tossa, per le carni e per tanti impedimenti, che sarebbe se si mostrasse nudo? « Non credo certo, che lo specchio abbi stólto ninno dall'ira. «Che è adunque? quello che venne allo specchio per mutarsi, già s'era mu-

88 DELL' IRA

tato. Gli Irati certo non hanno più bella ofTigio, che atroce e orrida, e quali vogliono essere, tali vogliono apparire. Questo piuttosto si deve considerare , a quanti Tira per so abbi nociuto. Ad alcuni per il so- verchio fervore si son rotto lo vene, e lo sforzarsi troppo nel gridare lia fatto uscire fuora il sangue, e Tumore uscito con veemenza negli occhi ha abba- gliata e offuscata la vista, e per essa sono i malati ricaduti nelle malattie, si può trovare via alcuna che piuttosto ne guidi alla pazzia. PerlocchC molti hanno continuato II furor dell'Ira, mal hanno ria- vuta la perduta mente (1). 11 furore condusse Aiace alla morte, l'Ira al furore; l furiosi pregano la morto a' figliuoli, a stessi la povertà, la rovina alla casa, più confessano di adirarsi che- si confessino d'Impazzare. Agli amicissimi divengono Inimici , ed a' carissimi da essere sfuggiti ; non si rammemorano delle leggi, se non in quanto elle nuocono, e si muo- vono per ogni minima cosa, si può lor parlare , o fargli ufficio alcuno. Fanno per forza ogni cosa, sono presti a combattere con l'arme e ad infilzarsi in esse : perciocché sono da un gran male assaliti ed il quale avanza tutti l vlzj ; gli altri entrano a poco a poco, ma la violenza di questo é repentina e viene tutta insieme, ed alla fine sottomette a stessa tutti gli altri affetti. Vince l'amore ancor che sia ardentlssl- mo. Per 11 che hanno gli irati passati con l'arme l corpi amati, e sono giaciuti nelle braccia di quelli che hanno uccisi. Ha l'ira calcata anche l'avarizia male duris- simo , e non mica pieghevole, e forzatala a sparger (1) Il Petrarca nel sonetto : Yincitor Alestandro l' ira vinte.

LIBRO SECONDO 89

le suo facoltà, e metter fuoco nella casa, e nelle robe adunate insieme. Ma che più? l'ambizioso non ha mediante V ira gettate le insegne, stimate ;da esso gran prezzo, e rifiutato Toner e offertogli? Non é al- cun affetto sopra il quale Tira non domini.

FINE DEL LIBRO SECONDO.

LIBRO TERZO

CAPITOLO I.

Tenteremo adesso, Novato, quello che tu somma- mente hai desiderato, cioè di sradicare l'ira degli ani- mi umani, o almeno rcfrenarla, o moderare gli em- piti suoi. Questo si deve far talora alla scoperta e palesemente, quando la picciola violenza del male il comporta: talvolta occultamente , quando arde di soverchio, e per ogni impedimento si esaspera e cre- sce. Importa molto quante forze ella abbia e quanto intere, acciocché sappiamo se dovemo sbatterla e dannarla, o piuttosto cedergli , inflno a tanto che passi la prima furia, acciocché non porti seco gli stessi rimedj. Sarà di mestiero risolversi secondo i costumi di ciascuno: perciocché alcuni si vincono co'preghi; alcuni sbeffano e svillaneggiano chi ad essi si sotto- mette. Alcuni placheremo con le minacce e spaventi ; alcuni si sono ritirati dall'impresa per le reprensioni, alcuni per la confessione , alcuni per la vergogna , alcuni per l'indugio e tardanza, che è rimedio lento a male cosi precipitoso , però vi si devo venire al-

LIBnO TERZO 91

r ultimo. Perciocché gli altri affetti ricevono dila- zione, e si posson curare alquanto più tardi; ma la violenza di questo , con ciò sia che é incitata e ra- pisce sé stessa, non cresce a poco a poco, ma vien tutta nel principio, ed in subito ; commuove gli animi in quella guisa, che fanno gli altri vizj , ma gli tira a e gli scuote, e cavandoli del poter loro, gli fa in un certo modo del comune male de- siderosi. Né solo furiosamente percuote nelle cose, che s'è proposte, ma in quelle ancora che a caso gl'iucontrano. Gli altri vizj spingono gli animi, Tira gli precipita; gli altri sebbene contro gli affetti suoi non possono resistere , almanco possono stare ne- gli affetti stessi; questa il più che può dirizza la sua violenza , non altrimenti che i fulmini , le pro- celle e se alcune altre cose sono irrevocabili, perché non vanno, ma cadendo rovinano. Gli altri vizj s'ar- ribellano dalla ragione , ma questa dalla saviezza dandosi alla pazzia in preda (1): gli altri hanno le aggiunte temperate, gli accrescimenti fallaci, nel- rira si abbattono ancora gli animi. Niuno adunque ri- sorgerà più attonito e cadente sopra le sue forze, e se gli riesce l'impresa divien superba, se non gli riesce, pazza; neppure per la repulsa si posa e sazia; quando la fortuna ha campato l'avversario , rivolge i denti contra stessa. importa quanto è , che s'è risentita. Perchè da cose leggieri ascende a gra- vissime.

(l) Plutarco ancora in quella operetta che gli fa rìella cica- Icria, dice clic la collera è parente delia pazzia, e .che la ub- Liiachezza le sia poco discosto.

92 deli/ ira

CAPITOLO II.

Non passa alcuna età , non eccettua alcuna sorto 'ruomini. Alcune nazioni per bcnefl/io della poverti'i non conoscono la lussuria, alcune perché sono in con- tinui eserclzj e viapr^i , fuggono la pigrizia. Quello. che sono di costumi incolti e di vita selvaggia non conoscono limitazione o termine alcuno, non fraudo, non alcuno di quei mali, che nascono nel foro. Non è nazione alcuna, che non sia dall'ira instigata, ed ugualmente ó potente fra Greci, quanto fra barbari: meno è perniciosa a quelli che temono le leggi, che a quelli che si fanno la ragione con la misura delle forze. Finalmente gli altri affetti pigliano gli uomini particolari, questo solo si genera talora pubblicamente. Non mai s' é innamorato un intero popolo d'una sola donna: tutta una città ha messo le sue speranze nel denaio , o nel guada- gno; l'ambizione occupa ognuno partitamente l'uà l'altro, l'incontinenza non é male pubblico: ma bene spesso é avvenuto , che una grande schiera è ve- nuta In ira. Sonsi accordati in essa gli uomini , le donne, i vecchi, i fanciulli, i principali, il vulgo, e la moltitudine tutta con poche parole commossa 6 stata più sollecita, che quegli che l'ha istigata. Subitamente son corsi all'arme, e al fuoco : e ban- dite le guerre a'vicini, o fattele co'cittadini. Le case intere sono state abbruciate, con tutta la famiglia ; e quello che dinanzi era tenuto nc'parlamcnti il più

LinUO TERZO 93

favorito nel mezzo deironoro ha provata Tira cle'suoi ascoltatori , le legioni hanno rivolte le"^ armi centra il suo capitano, tutta la plebe s'è divisa da nobili, il senato, pubblico consiglio, non aspettando che si fa- cesse la scelta, si nominasse il capitano, ha eletti subiti capi della sua ira, e perseguitando gli uomini nobili per le tetta della città con le proprie mani n'ha preso il supplizio. Ha violate le legazioni roni- pendo le leggi comuni (1) ed una rabbia nefanda ha commossa e messa sottosopra la città ; s' é dato spazio, che il pubblico gonfiamento si posasse , ma subito si son tratte fuora le armate cariche di sol- dati tumultuari. Il popolo uscendo fuora senza le solite cerimonie , senza gli auspicj , sotto la guida dell' ira sua invece di arme ha portate le cose che gli vennero a caso alle mani, e che egli lia potuto rapire; poscia con grande sconfitta ha patito le pene della temerità usata nel lasciarsi vincere dall'ira.

CAPITOLO ni.

Questo è l'esito, che hanno spesse fiate le guerre de' barbari , che a caso, e senza alcun risguardo pi- gliano le guerre. Quando l'apparenza dell'ingiuria ha percossi gli animi mobili , subito movendosi a guisa d'una rovina cadono per quelle regioni che il dolor gli tira senza ordine, senza timore, senza cura di stessi, appetiscono i pericoli, si rallegran d'es- ser feriti ed opporsi al ferro, e spingere indietro le

(1) Rnplo iure genliam. Ed.

D4 DKLI/IU.V

arme col corpo, ed uscire per lo loro ferite (i). uNon 6 dubbio, dirai tu, che questa non sia gran violenza, o pestifera; però insegnane come si debba guarire. « Ma come s'ò detto negli altri libri, Aristotile all'in- contro difendo l'ira , e non vuole, clic noi l;i estir- piamo; dice, che essa ó uno sprone alla virtù, e le- vata questa, che l'animo diviene disarmato, e pigro alle grandi imprese. Dunque è necessario di mo- strare la bruttezza, e fierezza sua, e metter innanzi agli occhi , che mostro sia uu uomo infuriato con- tro l'altro, 0 con quanto empito rovini , pernicioso agli altri con rovina di sa stesso, e cercando affon- dar quelle cose che noa si poason sommergere se non insieme col sommergente. Che ò adunque ? si trova chi chiama savio questo, il quale come dii tem- pesta assalito non va, ma é trasportato, e serve al furioso male? commette ad altri la sua vendetta, e facendola per stesso , incrudelisce iusieme con l'animo e con la mano, facendosi carneflce di quelli che gli son carissimi, ed i quali é poscia per pia- gnere? C" e nondimeno chi questo afTetto por adiu- tore e compagno alla virtù, il quale turba i consi- gli, senza il cui aiuto la virtù non fa niente? Sono ca- duche, sinistre, e al mal suo pronte quelle forze, nelle quali la malattia e l'accrescimento ha spinto il ma- lato. Non accade adunque che tu pensi che io con- sumi il tempo in cose superflue infamando l'ira, come

(1) E questo avviene perchè gì' irati non considerano il fu- turo, né discorrono che posson ricever gran danno, come mo- stra Aristotile nel secondo della Reltorica, ed il dottissimo mes- ser Pietro Vettori nel suo conimcato sopra di essa.

LIBRO TERZO Oo

se ella fasse di opinione dubbia appresso gli nomi iti, sendosi pur qualcuno, e certo di più illustri filosofi, il quale gli assegna T ufficio, e la chiama come utile e somministratrice di spirito alle battaglie, ed alle spedizioni delle cose, e a tutto quello che con qual- che fervore, e caldezza trattar si deve. Acciocché ella non inganni alcuno, che pensasse che ella fusse in qualche tempo, in qualche luogo per giovarli , è di niestiero mostrare la sua rabbia sfrenata ed attonita, ed é bene assegnargli il suo apparato e fornimento, che sono gli eculei, le fidicule e le carcere, le cro- ci ed i fuochi, con i quali si circondano i corpi con- fitti, e Tuncino con che si tirano i cadaveri, varie sorti di legami e di pene, lo sbranar le membra, le segnature della fronte, e le gabbie da selvagge be- stie (1). Mettasi Tira fra questi istrumenti, stridendo crudelmente e con orribil tuono , sarà più cruda di tutte quelle cose fra le quali s'infuria.

CAPITOLO IV.

Dato che sia dubbio dell' altre cose , ninno af- fetto certo ha peggior sembiante, il quale abbia- mo descritto ne' primi libri , aspro ed acerbo, e or in un subito pallido spingendo il sangue in- dentro, ed ora ritornando nella faccia ogni calo- re e spirito, rosseggiante, e simile a un insangui-

(1) Sono tatti questi generi di tormenti usali appresso gli antichi per far confessare il vero ai rei, e toraienlargli ; di molti dei ijuali fu inventore Tari}uinio Superljo, ultimo re di Roma, so- ■'.'nclo che racconta Eutropio nel primo libro al decimo capitolo.

90 PKLL' IRA

nato con le vene gonnate, con gli occhi or veloci e grossi (1), ora Assi e fermi in un sol luogo (2). Aggiugni adesso lo strepito de' denti dirugginati insieme e percossi, desiderando aver fra qualcuno il qual atto è somigliante a cignali, quando arro- tano, ed aguzzano l'arme loro con lo stropicciar- gli insieme l'un con Taltro ; aggiugni il rumore delle dita percotendosi le mani fra stesse, e il battersi spesso il petto , Io spesso tirare il flato , e i sospiri tirati dal cuore, il corpo instabile, le parole incerte con subite esclamazioni , le lal^bra tremanti , e ta- lora ristrette, mandando fuora un sibilo orribile. Per mia fede, che gli ó meno brutta la faccia delle fiere quando sono o dalla fame, o dal ferro fittogli nelle viscere, stimolate ed esasperate, o ancora quando con l'ultimo morso affrontano il cacciatore che le per- seguita, già mezze morte, che non é quello d'un uo- mo d'ira infiammato. Or su, se tu hai tempo di udire le voci e le minaccio, quali sono le parole dell'ani- mo esasperato, non vorrà ciascuno ritirarsi dall'ira quando ara compreso che ella comincia prima dal mal suo? Non vuoi tu dunque clic io avvertisca quelli che con somma potenza esercitano l'ira, e la stimano un indizio di forze e pongono che l'aver la vendetta preparata sia un de' gran beni della pro- pizia fortuna , che quello che dall' ira è preso non solo non é potente, ma anco libero? Non ti con- tenti che io avvertisca acciocché ciascuno sia più

(1) Trepidis et exsilientibu». lìtì.ces yeux roulant et $'échap- pani pretqite de leur orbile. Ed.

(2) Vedi a qnesto proposito Aulo Gellio libro primo, capitola iillimo delle Notti attiche.

LIBRO TERZO 97

diligente a considerar il fatto suo, che gli altri mail dell'animo s'appartengono a più, e malvagi, ma clie Tira assale ancora , e quasi occultamente entra ne- gli uomini eruditi, e per altro savi; talché dicono alcuni r iracondia essere indizio di semplicità, e vul- garmente si crede che quanto ciascuno é più facile, più sia ad essa inclinato , e soggetto (1).

CAPITOLO V.

« A che proposito questo? dirai tu ? «Acciocché ninno si stimi sicuro dall'ira, sendo ella solita far crudeli e violenti quelli, che por natura sono lenti e piace- voli (2). Siccome contra la peste niente giovala ga- gliardia del corpo, e la diligente cura della sanità (3) ; perciocché ella indifferentemente s'avventa alle cose deboli e robuste; così nell'ira tanto pericolo portano i costumi inquieti, quanto i composti e rimessi, nei quali ella ó tanto più brutta e pericolosa , quanto più ella muta in essi. Ma conciossiachè tre cose si devino considerare, la prima che non ci adiriamo; la seconda che ci temperiamo ; la terza che rime- diamo, e medichiamo l'altrui ira, dirò primiera- mente in qual guisa portandoci non veniremo in ira; appresso , come possiamo da essa liberarci , ultima-

(1) Piuttosto chiamavano i peripatetici l'ira accrescimento, clie indizio (li forze, però è da vedere , se nel testo latino in vece di argumentum , si debba riporre augumenlum, e vedi a questo proposito Aristotile nei terzo dell'Elica, capitolo oliavo. Nel lesto del Ruhkopf è indicium. Ed.

(5J) Aristotile nei primo della Reltorica, e Cicerone nel primo libro delle Epist. ad Attico nell'Episl. 15.

(3) Questo è contra l'opinione di tutti i medici che vogliono con la diligi ntc cura potersi evitare e curare la peste. J/fra, 7

98 DELL'IRA

mente come possiamo sostenere e placare V irato, e ridurlo in sé. Faremo si che non ci adireremo se ci metteremo innanzi tutti i virj dell' ira , e la consi- dereremo diligentemente. Debbiamo accusarla e dan- narla; si debbono considerare e cavar fuora i suoi mali, ed acciocché appaia qual ella sia, si debbe as- somigliarla con lo cose pessime. L'avarizia acquista o restringe, acciocché se ne serva un migliore; l'ira inllarama, a pochi compiace. Il padrone irato é cau- sa che alcuni servi si fugghino, alcuni s'ammazzino; quanto é più quello che ha perso con l'adirarsi elio non era quello che lo fece adirare ? L' ira arreca pianto al padre, al marito divorzio, al magistrato odio, al candidato (1) la repulsa. Ella é ancor peg- giore della lussuria, perchè ella gode il suo piacere; questa nell'altrui dolore. Vince la malignità ed in- vidia, perciocché quelle desiderano che alcuno di- venga infelice, questa farlo; quelle si dilettano dei mali fortuiti, questa non può aspettar la fortuna; perciocché ella vuol nuocere a chi ella ha in odio , non vuol che gli sia nociuto. Non è la più grave cosa che le inimicizie, queste son fatte dall'ira. Non èia più funesta cosa della guerra; in questa rovina (2) l'ira de' potenti; inoltre quella ira plebea, e privata ancora è una guerra senza arme e senza forze. Oltre a ciò l'ira, per metter da.banda i danni che son poscia per seguitarne, le insidie, la perpetua ansietà causata dalli scambievoli combattimenti , mentre cerca far

(1) Con questo nome si chiamavano quelli die domandavano qualclie mai,'islralo, perché si vestivano di bianco.

(2) Prurumfit. VA.

LIBRO TERZO 99

patir le pene ad altri, le patisce ella stessa; corrom- pe la natura dciruomo. Quella ci conforta all'amore, questa all'odio; quella comanda die si giovi, questa che si nuoca. Aggiugni di più che venendo la inde- gnazione dal soverchio sospetto di se stessa, se bene pare animosa, é picciola e vile: percioccliè niuno è che non sia minor di quello, dal quale stima d'esser stato sprezzato. Ma quello animo grande, e vero estimator di stesso non vendica V ingiuria , per- ché non la sente. Siccome le arme percotendo in una materia dura sbalzano indietro, e le cose solide si feriscono con dolore di chi flede, così niuna ingiu- ria ritira un animo grande al senso di stessa (1), perché é più fragile di quello che ella assale. Quanto é più bella cosa relassare (2) tutte le ingiurie e villanie come se niuna sorte d'arme ti potesse penetrare. La vendetta é un confessar il dolore: non è grande quel- l'animo il quale dall'ingiuria é piegato. O quello che ti ha offeso è più potente di te, o e più debole; se egli é più debole, perdonagli; se è più potente, per- dona a te stesso.

CAPITOLO VI.

Non é il più certo indizio di grandezza che quando non può accader niente, da che tu sia instigato (3). La parte superiore del mondo, eia più ordinata, e quel-

(t) Ad senìum sut adducit: si fa scnlirc. Ed.

(2) lieifuere, repulsare. Eti.

(3) Quo insligcris. Ed. Oado disse quel Poeta: Forlior est '/•use, qiiim (ini forliisima viucit tntenia; ncc virtm altiiu

poteJ.

100 DELL' lUA

la che é propìnqua allo otcUe non si ristrignc in nu gole, gcnern temposta, si risolve in turbini e manca d'ogni tumulto, solo le cose inferiori pene rano fulmini. Nella medesima «ruisa T animo subii me é sempre quieto, e posto in tranquillo stato, pre mendo sotio di so quelle cose che cominovono Tira é modesto e venerabile, e ben disposto, dello quali cose niuna ne troverai nell'irato. Perciocché, chi è quello che dato in preda al dolore, e infuriato non metta giù subito la vergogna? Chi e quello cho turbato daircmpito e rovinando contro qualcuno (1) non ponga giù ciò che ci;li di rispetto (2) aveva? A chi sendo incitato e commosso è chiaro il numero, o l'ordine de^l'ufllicj? Chi ha moderato la lingua? Chi ha contenuto parte alcuna del corpo ? Chi ha pos- sutocoprlrsi ed occultarsi (3)? Grandemente ci sarà utile quid salutifero precetto di Democrito, col quale si dimostra la tranquillità (4), se in privato, in pubblico intenderemo a far cose soverchie, o mag- giori delle forze nostre. Non mai passa uu giorno tanto felicemente a chi s'ingerisce in molte faccende, che non gli nasca qualche ofTesa per cagione, o dello persone, o delle faccende, la qual prepari l'animo all'ira. Siccome a chi cammina per i luoghi più fre- quentati della città é di mf^stiero urtare in molti, e talora é necessario sdrucciolare, talora esser sostc-

(0 /n aliqnem ruent. Ed.

(2) rerecundi. Ed.

(3) Quii te regere potuti immiinim? FA.

(4) Chi vuol vivere tranfjuillamcnte, diceva egli, non pigli a. farniolte cose privatarapnle, publicamente s'ingerisca in cose soperclàie. Seneca, hb. primo, cap. 12, Della IranqnillUà delli vita.

LIBUO TICKZO 101

nuto(l), talvolta infangarsi, così a clii scorre, e vaga per questa vita occorrono molti impedimenti e molte querele (2). Quello ha ingaimata la speranza nostra, quello riia tirata in lungo, quell'altro l'ha impedita, le cose che ci siamo proposto non son riuscite se- condo il desiderio nostro ; la fortuna mai é tanto fa- vorevole ad alcuno che tentando egli molte coso , ella ili tutte risponda felicemente ; ne segue adun- que che quello a cui son riuscite le cose a rove- scio di quello che s'cra'proposto, sia impaziente con gli uomini e con i negozj, e per leggerissime cagioni s'adiri or con la persona, or col negozio, or col luo- go, or con la fortuna, or seco stesso. Però acciocché l'animo possi esser quieto non bisogna intrigarlo e affaticarlo, come ho detto , col maneggio di molto cose, e grandi e superiori alle forze nostre. Agevol cosa é acconcixirsi le cose leggieri su le spalle e volgerJe in questa e quella parte senza pericolo che cileno caschino. Ma quelle cose che messeci addosso per altrui mani appena sosteniamo, sopraffatti da esse le lasciamo cadere addosso a chi ci è intorno, e mentre che stiamo sotto la soma , vinti dal peso pendiamo or in qua, or in là.

CAPITOLO VII.

Sappi che il medesimo addiviene nelle coso civili e domestiche. I negozj spediti e convenevoli seguitano li negoziatore; i grandi e soverchi alle forze dell'agen-

(1) lìclinere. Ed.

(2) Noi cap. 2i di questo , e nella (juarla Epistola del primo libro.

102 DI.LL'IRA

te.nùsi porgono facilmente, o se sono occupati, pre- mono e tirano a il ministro, talché quando gli pare tenerli in mano cado con essi; perloche avviene che spesse fiate vadi d'effetto vota la volontà di colui , che non metto mano alle cose facili; ma vuole che siano facili quelle lo (luali egli intende a fare. Qua- lunque volta che tu principierai qualcosa , misura insieme te stesso, e lo cose che tu cominci, ed alle quali t»i ti apparecchi , perciocché la penitenza del non aver compiuto l'opera ti farà aspro. Qui si fa differenza se alcuno è di ingegno caldo, frigido, o umile; il generoso verrà in coUora mediante la re- pulsa, il languido, e freddo s' attristerà. Non sieno adunque le nostre azioni vili, non sieno audaci , non malvage; facciamo che la speranza nostra sia in cose propinque; non mettiamo mano a quelle cose che poi ancora quando l' abbiamo conseguite ci maravigliamo che ci siano riuscite.

CAPITOLO Vili.

Ingegnamoci di non ricever quella ingiuria, la qual noi non sappiamo sopportare. Debbiamo vivere con persone piacevoli e facili, non strane e fastidiose, che i costumi si pigliano da quelli, coi quali si conversa, e come alcuni difetti s'avventano e s'appiccano col toccarsi i corpi l'un coU'altro, cosi l'animo dai suoi mali e prossimani. Quelli che sovente s'imbriacano traggono nell'amor del vino quelli con chi vivono; le pratiche degli uomini dediti alla libidine fanno effeminato ancora r uomo forte e duro; l'avarizia

LIBRO TERZO 103

sparge il suo veleno ne' propinqui. Le virtù fanno il medesimo effetto diversamente, perciocché elleno mitigano tutto quello che seco tengono, tanto giova alla sanità una regione sana, e 1' aria buona quanto agli animi poco formi praticare coi buoni. U che quanto possa conoscerai, se considererai che le fiere ancora s'addomesticano vivendo con esso noi, 0 che ninna selvaggia fiera mantiene la sua violenza se con gli uomini é lungo tempo dimorata: si rin- tuzza tutta l'asprezza e fierezza, e si dimentica a poco a poco, fra le cose pacifiche e quiete conversando. S'aggiugne a questo, che chi vive con gli uomini quieti non solo diviene migliore per l'esempio, ma an- cora, perchè non trova cause di adirarsi , eser- cita il suo difetto; per il che deverà schivare tutti quelli i quali saperà che sìeno per irritare la sua ira- condia.-Chi son questi, dirà qualcuno T^Molti son per fare il medesimo effetto per varie cagioni. Il superbo ti offenderà con lo sprezzarti, il ricco con lo svillaneg- giarti, chi è di poco rispetto col farti ingiuria, l'invi- dioso con la malignità, il contenzioso con l'opportisi spesso, il vantatore e bugiardo con la falsità. Tu non sofferirai dell'esser temuto dal sospettoso, vinto dal pertinace, avuto in fastidio dal delicato. Eleggi i semplici, facili, moderati, i quali non commovino l'ira in te, la soffrine: gioveranno ancor più i sommessi, umani e dolci, non già tanto che pendino all'adulazione, perciocché la soverchia adulazione offende gì' iracondi. Era certo un amico nostro uomo da bene, ma troppo veloce all'ira, al quale non era più sicuro il lusingare, che si fosse il dir villania.

10 J DELI/ IRA

fi chiara cosa, che Celio oratore fu grandemente iracondo, col quale, per quanto yi dice, cenava una fiata in casa un suo cliontulo di natura pazientissi- mo (l); ma gli era dllTìcil cosa carico dal cibo (2) fug- gire di non offender quello che il pasteggiava. Giu- dicò esser meglio approvar ciò che egli diceva, o se- condarlo. Non sofferse Celio, che costui gli acconsen- tisse in ogni cosa: ma gridò ad alta voce; qual cosa contro di me, acciocché siamo due. Ma egli adiratosi, perchè il compagno non s' adirava, tosto cessò (3). Eleggiamo adunque più tosto questi, se sappiamo d'esser iracondi, i quali s'accomodino al volto e al ragionamento nostro; certo ci faranno delicati, e ci indurranno in mala consuetudine di non udir nulla contro al nostro volere, ma ci gioverà il dare spazio e quiete al vizio. La natura ancora d'uno sazievole e in- domito sofferirà chi lusinga; che niente è aspro, e or- ribile a chi adula. Ogni volta che ci sarà una disputa lunga e contenziosa, dobbiamo far resistenza sul principio, prima che pigli forze e vigore. La conten- zione nutrisce stessa, e chi v'è una volta entrato non ne può uscire di leggieri. È più facile astenersi dal gareggiare, che ritirarsene.

CAPITOLO IX.

Debbono ancora gli iracondi non si dare a studj molto gravi, ovvero esercitargli moderatamente, tal-

(1) Di questo oratore fa menzione Cicerone nel Bruto.

(2) In eopulam conieclo. Il lì. jcté dant le téle à téle. Ed.

(3) Il lat. cilo line adversario dcsiit, H D. ti le calme toni de tuile faule d'advcrsaire. Ld.

LIBRO TERZO 105

che non stracchino in essi, e l'animo non si debbo impiegare in più cose, ma volgere allo arti piacevoli. Passi il tempo col leggere versi, la istoria lo trat- tenga con le favole, e maneggisi dolcemente e con piacevolezza. Pitagora mitigava le perturbazioni del- l'amico con la lira(l). E chi non sa che i litui e le trombe sono incitamenti, siccome alcuni canti lusin- ghe, con le quali la mente si mitiga e scioglie ? Agli occhi confusi giovano le verdure , e la vista debolo con alcuni colori si acqueta e ristora; dallo splen- dore d'alcuni resta abbagliata; così i lieti studj di- lettano, e ristorano le menti afflitte ed inferme. Dob- biamo fuggire il foro, le avvocazioni.i giudizj,e tutte quelle cose che esasperano questo vizio e parimente guardarsi dalla stanchezza del corpo ; perciocché ella consuma tutto quello clw è in noi di mite e placido, e per l'opposito commuove T aspero , e lo fa risentire (2). Però quelli che hanno lo stomaco a sospetto dovendo andare a spedire cose difficili , temperino la collera col cibo , la quale è commossa grandemente dalla stanchezza; ovvero perchè la dieta spinge il caldo, e nuoce al sangue, e ferma il corso d'esso, sendo le vene affaticate; ovvero perchè il corpo estenuato, e fievole s'appoggia all'animo, e con esso si sostiene : certo per la medesima causa sono più. iracondi quelli che da malattia, o dall'età

(1) Il medesimo faceva Clinia Pittagoriro, che soleva dire che mitigava l' animo suo con la lira. Eliano nel quattordicesimo libro De varia historia.

(2) Orazio nella Epist. quindicesima libro primo ; Impransus non qui civem dignotcerel hotte.

lOG DELI/IKA

sicno oppressati. La fame ancora e la sete si debbo fuggriro per le medesimo cause , perciocché ella esa- spera ed infiamma gli animi.

CAPITOLO X.

- È antico proverbio cho lo stracco cerca di conten- dere; il somigliante fa chi da fame e da sete ò sti- molato, e ogni uomo che da qualcosa è stretto. Perciocché come le piaghe dolgono quando son leg- giermente tocche, di poi ancora alla sospizionc del fatto; così l'animo indisposto è offeso da ogni mi- nima cosa, talché alcuni vengono alle contese per esser salutati, per esser portogli una lettera, per es« ser parlatogli, e domandati di qualcosa. Le parti in^ fette non si toccanmal.che non dolghino. Ottima cosa è adunque medicarsi subito che si sente il male(l), e inoltro dar poca libertà eziandio alle sue parole e raffi enar l'empito. É facil cosa ripigliare i suoi affetti, quando cominciano. Sogliono venire i segni avanti al male (2). Siccome vengono indizj della tem- pesta e della pioggia, prima di loro , cosi sono al- cuni messi dell'ira, dell'amore, e di tutte questo procelle che tormentano gli animi. Quelli che so- gliono patire del male caduco, già conoscono avvi- cinarsi il male, se il caldo abbandona le estremità, se gli occhi abbagliano, i nervi tremano, se la me*

(1) Onde ben disse Ovidio: Principiii obsta, tero medicina paralur: Luum mala per longa$ conoalitere morat.

(2) Di questi segni ne fa un bel trattato il Scssa raccolto da Aristotile ed altri autori illustri, e dall'esperienza, Intitolalo; De signis pluviw.

LIBRO TERZO 107

moria manca e se il capo gli gira: però prevengono la caduta clie già comincia consoliti rimedj, clie con l'odore e col gusto si scaccia tutto quello che aliena gli animi, ovvero si resiste al soverchio freddo con le fomentazioni, o se la medicina poco giova, fug- gono la turba, e cadono senza testimone. Gioverà il conoscere il suo male e oppressar le forze d'esso pri- ma che s'ingagliardischino. Vediamo che sia quello che più grandemente ci commuove. Questo é com- mosso dalle villanie delle parole, quello delle cose; questo vuol che s'abbi rispetto alla sua nobiltà, quello alla bellezza; questo desidera d'esser tenuto galante, quello dotto; costui non può patire la superbia, quello l'ostinazione. Quello non stima i servi degni di tanto, che egli con essi s'adiri; questo é fasti- dioso in casa, fuora piacevole. Quello si giudica di carico l'esser pregato ; questo ingiuria il non esser richiesto; son le nature tanto diverse, che non le medesime cose offendono ciascuno.

CAPITOLO XI.

Perlocché é di mesticro sapere qual sia la parte debole in te, acciocché tu difenda questa principal- mente. Non è bene vedere ogni cosa, udire ogni cosa; molte ingiurie si dcbbon lasciar passare, la maggior parte delle quali non riceve quello che non le fa. Non vuoi essere iracondo ? non esser curioso. Chi cerca sapere che sia stato detto contra di sé, chi va investigando i maligni ragionamenti ancor che sieno stati fatti segretamente, inquieta se stesso. Una certa

103 DELL'IUA

interpretazione gli conduce a talecho paiono indin- ne: perilchò dobbiamo difTerirc alcuno coso, d'alcu- ne rìderci, alcune donare, e lasciarle passare. L'ira si de!)be cìrconscrivere in molto guise ; la maggior parto delle cose si rivolga in scherzo e burla. Di- cono che Socrate sendogli data una guanciata, non disse altro, se non che a gli doleva che gli uomini non sapessero quando dovessero uscir di casa con l'elmo» non importa in che modo l'ingiuria sia fatta, ma come sia sofferta. veggio per qual causa sia difficile il moderarsi, sapendo io che i tiranni ancora hanno raffrenate le nature già dalla fortuna, e licen- zia gonfiate e rimessa (1) lacrudcltsi loro famigliare. Si legge di Pisistrato tiranno degli Atenesi che aven- do un briaco in un convito dette juoltc cose centra la sua crudeltà, essendovi molti che volevano porvi le mani, essendo qua da uno, da un altro inse- gato ed infiammato, il sofferse piacevolmente, e ri- spose a chi lo instigava « che non s'infiammava per tal cosa altramente clie se avesse urtato in lui uno che avesse coperti e fasciati gli occhi. « La maggior parte si fa le querele per stessa con sospettare le cose false, o aggravar le leggieri.

CAPITOLO XII.

Spesso viene l'ira a noi, ma le più volte andiamo

noi verso lei, la quale mai si dcbbe chiamare, anzi

si dcbbe scacciare quando viene. Ninno dice seco

stesso, io ho fatto, ho potuto far questa cosa, per la

(l) Repres$isse. In questo senso ri.nellere si suole usare più spesso col gcnitivu. Kd,

LliìKO TEiiZO 100

qual m'adiro. Ninno considera l'animo dell'agente, ma lo stesso fatto; ma a quello si debbo aver ri- sguardo, se egli ha fatto studiosamente, o per inav- vertenza; se é stato forzato, o ingannato; se l'ha fatto mosso da odio, o da premio, per compiacere a stesso, 0 per far servizio ad altri. L' età dell' er- rante, 0 la fortuna reca seco qualcosa che fa esser umana cosa, o umile il soffrire. Mettiamo noi stessi nel luogo che si trova quello con chi noi ci adiria- mo; talvolta ci fu adirare lo stimar noi stessi ingiu- stamente, e non vogliamo patire quello che vorrem- mo fare (1). Ninno differisce la cosa, se bene la dila- zione è un grandissimo rimedio all'ira, acciocché il suo primo bollore si scemi, e la caligine che preme e offusca la mente o si posi, o sia meno densa, e spes- sa. Alcune di quelle cose che t' infiammavano si sminuiranno in un' ora, non elio in un giorno ; al- cuno totalmente svaniranno. Se in ciò si ricorrerà all' avvocato (2), apparirà esser giudicio, non ira. Ciò che tu vuoi sapere quale sia , dagli tempo ; niente si conosce perfettamente in un momento. Non pos- sette Piatone ottener da stesso tempo adirandosi con un suo servo, ma subito comandò che ei po- sasse la veste , e porgesse le spallo al bastone , sendo per batterlo di sua mano. Poi come com- prese d' esser irato , teneva la mano sospesa in

(1) Nel secondo libro al capitolo vonlollotcsimo, dice cho la tardanza ò gran rimedio all'ira, e capitolo decimonono del se- condo libro parla del calore dell'ira.

(2) Si nihil crìi pelili advocalio legge il Uuhkopf. Il B. Si e'eit CSI vain que Inaurai pris delai. Se la dilazione non li avrà temperalo. Il Scrdonali lesso con Erasmo: Si in hoc erit. Ed.

1 iU DELL' IllA

quella guisa cho alzata r aveva, e stava in piedi ia quel modo che stanno ciucili cliu sono per butte- re qualcuno. Domandato poscia da un amico che a sorto vi sopraggiunso quello che egli facesse, m Ca> stigo, disse, un uomo iracondo - e quasi stupido scr- l)ava quel gesto di crudele, disdicevolc a un uomo savio, già scordato del servo, perchè aveva trovato un altro da castit^aro. Perilchè tolse a so stesso la potestà ne'suoi e per certo delitto commosso disse (1): K Tu, oSpeusippo, piglia il bastone, e punisci questo servo perchè io sono irato (2)». Non lo battè adunque, perchè non egli, ma un altro l'arebbo battuto. « Io son irato, dlss^egli, farò più che non conviene, Tarò più volentieri. Non sia questo servo in poter di co- lui che non è io poter suo. Ucci adunque clil vuol fidare la vendetta a un irato, sendosi Platone tolto l'imperio? Fa che niente ti sia lecitojuentre sei adi- rato: Per qual causa ? perchè vuoi esserti lecito ogni cosa. Combatti teco stesso, se tu non puoi vincere Pira, ella comincia a vincere te. Se si ascondo, so non se gli di esito, occultiamo i suoi segni, e per quanto sia possibile teoghiamla occulta e secreta.

CAPI T 0 LO XHI.

Questo si farà con nostro gian ui.-piact-iu, tii;i nc- sidera scappare, ed iuUammare gli occhi e mutar la faccia, ma se gli é data facoltà di apparire fuora di

(!) Il Vollcrr.ino nel libro 3l de'Euoi Commentar], (i) l'ercliò scndo irato, e fuor di sua polcslà non pareva che fosse 'luci Platone medesimo.

M3R0 TERZO 111

noi, ella é superiore a noi. Tengasi ascosta nel più basso luog-o dei petto e sia portata, non porti; piut- tosto voltiamo in contrario tutti i suoi indizj. 11 volto si mostri lieto, la voce sia bassa e piacevole , e il passo alquanto lento, e le cose interiori si for- mino e s'accomodino a poco a poco con le esteriori. In Socrate era seg-no d'ira la voce bassa e sommes- sa, ed il parlar poco ; appariva allora che egli ostava a stesso ; però se n'accorgevano gli amici e lo ri- prendevano, né a lui era discaro che gli fosse rin- facciata l'ira che s'occultava. Che diresti tu che egli s' allegrava che molti conoscessero la sua ira, e niuno la sentisse? L'avrebbe ben sentita qualcuno se egli non avesse data facoltà agli amici che il riprendes- sero, siccome egli se l'aveva presa contra gli amici. Quanto è piti di mestiero far questo a noi ? Preghia- mo ciascun nostro amico che allora massimamente si serva della libertà contra di noi quando manco potremo soffrirla, acconsenta all'ira nostra, che é male possente contra di noie favorito da noi, chia- miamo avvocati contra esso, mentre che noi veggia- mo e siamo in poter nostro.

CAPITOLO XIV.

Quelli ai quali il vino nuoce, e che temono la teme- rità e sfacciatezza della loro ebbrietà, commettono a' suoi che li levino del convito prima che in tali cose, caschino. Quelli che nelle inflrmità hanno sperimen- tata la loro intemperanza, comandano che non se gli obbedisca nello loro indisposizioni. Ottima cosa è prc-

112 DEM/ III A

vedere pll impedimenti a conosciuti difetti, e «opra tutto indrizzar l' animo di sorte, clie, sbattuto da coso grarisfiirac e subite, o non senta l'ira, ovvero ritiri nello parti interiori la grandezza nata in esso della impensata ingiuria, confes^si o dimostri il do- lor 8uo(l). Che efò sìa possibii sani manifesto so lo, di una gran copia, addurrò alcuni pochi esempj, dal quali amcnduo queste due cose si posson compren- dere, e quauto di male abbia l'ira in quando ha tutta la potestà dogli uomini patenti, o quanto possi comandare so stessa quando ò da maggior timore raffrenata. Cambise re di Persia fu molto dedito ul vino; questi, seudo avvertito da Prcssaape (2), uno do' suoi più intrinsechi, che beesso più moderata- mente, perché l'ebbrietà é l)rutta cosa in un re, verso il quale ciascuno volge gli occhi e porge gli orec- chi, risposo egli a ciò in questa guisa: u Perché tu sappi che io non esco mai di me, ti farò vedere che, dopo l'aver bevuto, e gli occhi e le mani fanno il debito loro. " Poscia bevve in maggior copia clic mai per addietro con più capaci bicchieri, e, già aggra- vato, avvinazzato e violento, comanda che il figliuolo ' di quello che l'aveva avvertito uscisse fuora dell'u- scio, e quivi stesse in pie, tenendo alzata la man si- nistra sopra il capo. Allora tese l'arco, e passò il cuore del giovanetto (che quivi aveva detto di driz- zare il colpo), e, reciso il petto, mostrò la saetta

(I) Aul magnitudine inopinata iniuria exortam in aìlnm retrahit. Il B. Oue, si la granilcur el la soudaineló de l in- jure la soulèvcnl, elle refoule tout en sol. Ed. (2) Di quf sto rros?3spc fa rncnzion*' Krodoto nel icrzo libro.

LIBRO TERZO 113

penetrata ed attaccata nello stesso cuore, e volto al padre domandò se la mano sua facesse il debito. Apolline, diss'egli, non avrebbe colto più appunto. Gli Dei lo disperdino, che, nel vero, era più servo d' animo che di condizione e fortuna. Lodò quello che pur troppo era stato averlo veduto; stimò che il petto del figliuolo diviso in due parti, e il cuore tremante sotto la ferita gli fosse occasione di adu- lare. Doveva gareggiar seco della gloria e rivocare il colpo, acciocché piacesse al re mostrar la mano più certa nel padre stesso. Oh re crudele, oh re de- gno che gli archi di tutti i suoi si volgessero con- tro di sé! Avendo noi esecrato lui, che mescolava 1 conviti con supplizj e mortorj, nondimeno maggior scelleratezza fece chi lodò queir arme che chi la tirò. Vedremo in che guisa doveva portarsi il padre stando sopra il morto corpo del figliuolo, e sopra quella fe- rita della quale egli era stato causa e testimone. Quello di che adesso si tratta é manifesto che T ira si può ascondere. Non disse villania al re, non mandò fuora parola alcuna pur di dolore, veggendo parit mente passato il cuor suo come quel del figliuola. Si può dire che egli s' inghiottì le parole meri-, taraente : perciocché, se egli avesse detto niente come irato, non avrebbe potuto far nulla come pa-. dre. Può , dico , parere che egli si portasse più sa-! viamente in quel caso che quando avvertì il re del bere moderatamente; quanto era meglio che bevesse piuttosto vino che sangue quello, la cui mano era gran pace se si occupava nei bicchieri. Entrò adun-^ quo nel numero di coloro che, con gran rovine, hanno. L'Ira. 8

114 DELL'IRA

mostrato quanto costino agli amici dei ro i consigli buoni.

CAPITOLO XV.

Non dubito che Arpago ancora non persuadesse qualcosa somigliante al re suo e de* Persi; per la quale sdegnato, gli messe dinanzi a mangiare i suoi figliuoli, e poscia gli domandò se il cibo gli pareva ben acconcio, e quando lo vedde abbastanza carico di mali, comandò che f ussero recati i capi d*essi, e lo domandò come fosse stato trattato. Non mancarono le parole al meschino, ma la bocca non concorse. - Ap- presso il re, disse egli, ogni cena è gioconda, n Che profitto fece egli con questa adulazione? che non fu invitato a quello che v'era avanzato. Non vieto al padre di dannare il fatto del suo re, non vieto che egli cerchi la pena di si crudel mostro, ma intanto intendo provar questo, che quella ira ancora che na- sce da grandissimi mali si può ascondere, e forzarla a dir parole contrarie a stessa. É necessario que- sto modo di raffrenare il dolore a quelli che hanno dalla fortuna avuta quella sorte di vita, e sono stati messi a tavola dei re. In questa guisa si mangia ap- presso di loro, cosisi beve, così si risponde; bisogna riderci della morte dei suoi. Vedremo se la vita vai tanto: questa é un'altra questione. Non consolere- mo una tanto trista servitù (1), non conforteremo a

(I) In vece di quella parola tercilù, nel Ì^Uno è e rgastulum. che signiflca la boUega ove si racchiudono gli schiavi incale- nati a lavorare, e lalvolta «i piglia per quelli che in (al luogo

son chiusi, e viene da if-yaijojxat, che signiQca operare e la- vorare.

LIBRO TERZO ] 15

sopportare gli imperj de' carnefici , mostreremo che in ogni servitù è aperta la via alla libertà. So P ani- mo è infermo e misero per suo difetto , gli è lecito finir seco le sue miserie. Dirò, ed a quello die s'im- battè in un re che passava con le freccio i petti de- gli amici, e a quello il cui signore pasceva i padri con le viscere de' figliuoli: Che piagni, sciocco, che aspetti che ti vindichi qualche inimico con la ro- vina della tua patria, o che voli di lontano qualche re potente? Ovunque tu volgi gli occhi, quivi è il fine dei mali. Vedi tu quel luogo chino e precipito- .so? di si scende alla libertà. Vedi tu quel mare, quel fiume, quel pozzo? nel fondo d'esso siede la libertà. Vedi tu queir albore secco ed infelice (1)? da essa pende la libertà. Vedi tu il tuo collo, la tua gorgia, il tuo cuore ? Queste son tutte vie da fuggir la servitù. Mi mostri esiti t>roppo malagevoli, e che richieggono grand'animo e fermezza. Doman-

(1) Degli alberi felici ed infelici parla Macrobio neiruUimo capitolo dei terzo libro: Dei saturnali. Ma è ad avvertire in questo luogo elicgli Stoici, la cui setta seguilòSeneca, volevano esser talvolta lecito al savio l'ammazzarsi, trovandosi in qualche grande avversità, e questa morte era detta luXo-j'o; l^a-^wYTi', della quale vedi molte belle cose appo messer Pietro Vet- tori, nel sesto libro, capitolo XI Delle varie lezioni. Ancorché ritagora aveva vietato l'uscir della guarnigione di questa vita senza il comandamento dell'imperatore, cioè Dio; ed Aristotile, nel quarto e (juinlo dell'Elica, non vuole che sia mai lecito l'uccidersi. Jla l'iutarco, ancora in quel libro nel quale prova non si poter vivere giocondamente, secondo l'Epicureo, disputa gravemente contra essi; e sant'Agostino, nel primo libro della Ciltà di Dio, meglio di tutti, con molla dottrina e sapienza, impugna questa opinione degli stoici, mostrando che non mai è data ad alcuno giusta cagione di uccidersi. /

Ut". DF.LL'lIlA

di qual sia la via alla libertà? In un corpo sicura ò ciascuna vena (1).

CAPITOLO XVI.

Ialino a tanto che niente ci par tanto intollerabile elio ci scacci «Iella vita, rimoviamo Tira, in qualun- que stato ci troviamo. Ella è perniciosa a chi e in servitù, perciocché ogni indegnazione si rivolge iti tormento loro, e sento irapcrj tanto più gravi quanto più recalcitra ad essi. Così la llcra, mentre si dibatte, strigno il laccio, o cosi gli uccelli , mentre svolaz- zando scuotono il viso, l'appiccano a tutte le pen- ne. Ninno ha il giogo tanto stretto che non olTonda meno chi Io tira che chi repugna. C*ò un solo allega gerimentoui gran mali, e questo é il patire, e servire al bisogno e necessità. Ma sendo utile a chi ù in servitù la continenza degli alTetti suoi, o principal- mente di questo, rabbioso e sfrenato, ella e più utilo ai re. Quando la fortuna permette quanto Tira per- suade, bgni cosa va in rovina, può durar lungo tempo quella potenza che si esercita col male di molti : perciocché, quando il comune timore ha con- giunti quelli che separatamente gemono e sospira- no, si mettono ad ogni sbaraglio e prova. Pcrloohò molti souo stati uccisi talora da un solo uomo ; talor da tutto-il popolo insieme, quando il pubblico dolore gli ha sforzati adunar Tire insieme. Ma la maggior parte esercitano Tira come insegna reale. In questa guisa Dario, che primiero dopo l'imperio de' Magi

(l) Qualibet in corpore tuo vena. Ogni vena del Ino corpo. Ed.

LIBRO TERZO 117

ottenne la Persia e gran parte dell' Oriente, esercitò Pira: perciocché, avendo bandita la guerra agli Sciti che cingevano l'Oriente, pregato da Ebazo, no- bile veccb.io, che di tre suoi figliuoli ne lasciasse uno per conforto al padre, e si servisse dell' opera degli altri due , avendogli promesso più di quello che era pregato, disse clie glieli rimanderebbe tutti tre, e li gettò morti nel cospetto del padre, per non parer crudele se li avesse menati via tutti.

CAPITOLO XVII.

Quanto fu più facile Serse? al quale domandando Pizio padre di cinque figliuoli la esenzione di uno , gli permesse che eleggesse qual ei voleva; di poi avendo diviso in due parti quello che era stato eletto, lo pose dall'uno e V altro canto della strada , e con questa vittima lustrò e purgò l'esercito. Perlochò ebbe il fine che ei meritava ; che vinto e messo da ogni canto in rotta, e veggendo per tutto la sua rovina stessa, passò per il mezzo dei corpi morti de'suoi. Tale fierezza nell'ira ebbero i re barbari, i quali non erano ornati d'erudizione alcuna, o adornamento di lettere. Io ti darò del seno di Aristotile il re Alessandro (1) che nel convito ammazzò di sua mano dito sua ca- rissimo , e allevato seco insieme , e questo perché egli non l'adulava di leggiere, e malagevolmente di Macedone e libero s'accomodava alla servitù persica. Inoltre messe innanzi al leone Lisimaco parimente

(l) Plutarco nella vita di Alessandro. —Ex Aristoteliì iinu. Dalla famigliarità e disciplina di Aristolele. Ed.

118 DELL'IRA

SUO famigliare. Per tal cagione adunque questo Li- simaco scampato per una certa felicità da' denti del leone (1), fu egli più piacevole, quando poi ancor esso regnava? Egli nutrì lungo tempo in una gab- bia Tclesforo Rodio suo amico, avendolo tutto stor- piato con levargli gli orecchi e il naso , come qual- che animalo nuovo ed inusitato, avendo la dlsparu- tczza dell'aspetto tronco, e storpiato levatagli la fac- cia e apparenza umana. S'aggiungeva a ciò la fame, la magrezza , la sporchezza del corpo disteso nel nuovo sterco i2), e inoltre le ginocchia e mani callose, lo quali per la strettezza del luogo cran costretto far rufflcio dei piedi; e i fianchi consumati dal stro- picciarsi continovamentc, le quali tutte cose face- vano non manco brutta che terribile la faccia sua a* riguardanti , e divenuto per tal pena un mostro aveva perduta ancora la misericordia; nondimeno ancor che fosso dissomigliante a un uomo, chi tuli cose pativa, tuttavia più dissimilo era quello che lo faceva patire.

CAPITOLO XVllI.

Volesse Iddio che questa crudeltà si fosse fermata tra gli esempj esterni, fosse? tra Romani ancora trasformatisi i costumi in tanta barbarie dei supplizj, e ire con gli altri vizj venuti di fuora. Lucio Siila comandò che si rompessero le gambe, si cavasscr

(1) Perciocché involta la mano in un pnnno e mess&Ia io bocca del leone gli prese la lingua e l'ammazzò.

(2) In stercore tuo deilituti. Ed.

LIBRO TERZO 119

gli occhi , si mozzasser le mani a Marco Mario, al quale il popolo romano aveva ritte le statue per cia- scuna strada, a cui supplicava il popolo romano con incenso e vino; e come se Tuccidesse tante fiate, quante le feriva, a poco a poco lo lacerò, e membro per membro. Chi era ministro di questo impero, e co- mandamento ? chi se non Catilina , che esercitava ogni scelleratezza con le proprie mani ? in questa guisa lo consumava dinanzi alla sepoltura di Quinto Catulo (1), sendo tuttavia molesto al cenere d'un uomo quietissimo, sopra il quale quell'uomo di tristo esempio, pure popolare, e non tanto meritevole (2), quanto di soverchio amato, gettava il sangue a goc- cia a goccia a guisa di gronda. Era degno Mario di sopportar tali cose, Siila di comandarle, Catilina di farle; ma la Repubblica era indegna di ricevere nel suo corpo parimente le armi degli inimici e de' ven- _dicatori. A che proposito vo io ricercando le cose antiche? Poco tempo é che Caio Cesare (3) batté colle verghe Sesto Papinio, figliuolo di padre consolare, Betilieno Basso, suo questore e figliuolo d' un suo procuratore , ed altri cavalieri e senatori romani in un giorno solo, e gli tormentò, non acciocché confes- sasser cosa alcuna, ma per suo passatempo. Poscia fu tanto impaziente nel differire il piacere , il qual la sua gran crudeltà cercava senza dilazione , che passeggiando intorno al giardino materno in quel

(1) Perdio Catulo era morto prima per opera di Mario, come narra Appiano nel primo libro Delle guerre civili.

(2) Et non tara imn.erito. II B. Qui fut aimé pluiót sani mefure que tan$ motif. Ed.

(3) Cognominato Caiìgula. Ed.

120 DELL'IRA

luogo, Che divide la loggia dalla ripa, fece tagliare la testa ad alcuni di loro con le matrone, e con al- tri senatori a lume di lucerna. Che il sollecitava? qual pericolo, o pubblico, o privato gli minacciava una notte ? quanto v'era ad aspettare il giorno fi- nalmente , acciorchò egli non uccidesse i senatori del popolo romano stando in pianelle ?

CAPITOLO XIX.

Fa a proposito sapere quanto fosso superba la crudeltà sua, sebbene talvolta può parere che noi usciamo del primo proponimento nostro, e della dritta strada, ma questo sarà una parte dell'ira, che incrudelisca fuor del solito aveva battuti con ver- ghe i senatori; egli fece che si potesse dire: l'è cosa solita. Aveva tormentati con tutte le cose, che al mondo sono pessime con lo fldicule, con mettergli all' eculeo , a tabulari (1), fuoco, e finalmente col suo volto (2). Qui mi si risponderà. Gran cosa certo, se egli divise tre senatori a guisa di vili schiavi fra le battiture e fiamme , sendo egli quello che pensava a tagliar a pezzi tutto il senato, che desiderava che il popolo romano avesTse un collo solo , acciocchó egli adunasse le sue scelleratezze sparsi in tanti

(1) Il n. Lei cordei, lei planehes heriiiéei de eloui. Ics ehe- valett. Ed.

(1) Svetonio nella vita di Tiberio. Di questi tormenti parla Celio Rodigino libro sesto , capitolo «juinto. Delle antiche le- zioni.

LIBRO TERZO 121

luoghi e tanti tempi in un sol colpo e un sol giorno (1). Glie è tanto inaudito, quanto il supplizio notturno? sendo in consuetudine di ascondere ì furti nelle te- nebre, ma le punizioni quanto son più note , e pa- lesi, tanto più giovano all'esempio ed emendazione. E qui, mi si risponderà, di che ti maravigli tanto? questo é cosa ordinaria a questa bestia, ella vive per questo, e a questo é intenta. Non si troverà certo alcun altro , il quale abbi comandato che si chiu- desse la bocca empiendola di spugna a quelli che si dovevan per sua commessione dar alla morte, accioC' che i miseri non avesser facoltà di mandar fuorala voce. Oli fu mai quello, che dovendo esser ammaz- zato, non gli sia stato permesso il dolersi ? Temette che l'estremo dolore non mandasse fuora qualche voce libera, e di non udire qualcosa che gli dispia- cesse ? Sapeva bene che v' erano innumerabili cose che ninno se non chi fusse per morire avrebl)e avuto ardire di rinfacciargli. Non si trovando spugne, co- mandò, che si stracciasser le vestimenta dei me- schinelli e si gli inzeppasse il panno in bocca. Che crudeltà é questa , metter impedimento all' ultimo spirito , che non possi uscire ? luogo all' anima che deve uscire; lascia che egli non abbi a mandarla fuora per via che fa la ferita.

(1) Svetonio nella sua vita dice, clie egli una volta irato colla turba gridò: Volesse Iddio che il popolo romano avesse un sol collo ; dove racconta ancora infinite altre crudeltà da esso fatte.

122 DELL'IRA

CAPITOLO XX.

Sarebbe cosa lunga aggrìuffnerc a questo quanti padri ùpgM uccisi egli ammazzò la medesima notte mandando i centurioni per le case, scndo in questo misericordioso, die gli liberò dal pianto : perciocché non ho fatto proponimento di scrivere la crudeltà di Caio; ma il male, che arreca Tira la quale; non tanto s'infuria privatamente in ciascuno uomo , ma lacera le nazioni intero, e disfà le città , e i fiumi , tutto che sieno d'ogni senso privi. Siccome si vede in quel re de' Persi, che nella Siria, fece tagliare il naso a tutto il popolo , dal ciie quel luogo fu chia- mato Rinocolura (1). Tu giudichi che egli perdonasse loro, perché non tagliò tutto il capo; si compiacque d' una nuova sorte di pena. (Qualcosa somigliante avrebbon patito quelli Etiopi, che per il lunghissimo spazio di vita si chiamano Macrobj. Perciocché Cambi- se era con essi irato grandemente, perchè non ave- van con le mani tese accettata la servitii, e perché per loro ambasciatori a posta gli avevan dato risposte da liberi, le quali i re chiamano villane e ingiuriose, e perciò senza essersi provvisto di vettovaglia e man- dato a riconoscere il paese, e le strade si tirava die- tro tutta la moltitudine di combattere per luoghi secchi di umore (2), e senza strade. Però nel principio

(1) Di questo nome fu una cillà in Egitto, come mostra Ce- lio Rodigino nel secondo libro, capitolo trentesimo, con l'auto- rità di Stefano.

(3) Aientia. Il B. Sol aride. FA.

LIBRO TERZO 123

del cammino pli mancarono le cose necessarie; eia regione sterile ed incolta, da uman vestigio se- gnata , non gli somministrava niente. Sostenevano la fame mangiando nel principio le più tenere frondi che trovavano, e le cime degli alberi(l), poscia il cuo- io rammorbidato al fuoco, e ciò che la necessità gli metteva dinanzi pel cibo; poi, quando furono fra rarena, che gli mancaron ancora le radici e Terbe, e apparve loro una solitudine priva ancora d'animali, traevano per sorte fra ogni dieci uno che fosse da- gli altri mangiato, ed ebbero un nutrimento più cru- dele che la fame. E ancora stimolava l'ira preci- pitosamente il re, tutto che avesse persa una parte dell'esercito, un'altra ne fusse mangiata, fino a tanto che temette di non esser chiamato ancor egli alla sorte, allora fece pur suonare a raccolta. Intanto alla persona sua si serbavano preziosi uccelli, e gli istru- mcnti delle vivande si portavano su cammelli, men- tre che i suoi soldati traevano per sorte a chi toc- casse mal morire, e a chi peggio vivere.

CAPITOLO XXI.

S'adirò costui con una nazione incognita e inno- cente, ma con tutto ciò la quale era per sentire; Ciro con un fiume; perciocché quando egli per oppugnar Babilonia sollecitava la guerra, l' importanza della quale consiste nelle occasioni, tentò di passare a guado il fiume Ginde, molto abbondevole di acque; il che é pericoloso ancora la state, quando egli é nel

(1) Il B. Les bourgeons des arbres. Ed.

124 DELL'IRA

inatTi^ior calo (Ij. Quivi uno di quelli bianchi cavalli, che solevano tirare il carro del re, sforzato dall'ac- qua scosse il ro, o grli diede alterazione; perlochù giurò, che lo ridurrebbe a tale, poi che ardiva torre il passo a cavalli reg'J, che si ]>otcsso ancor passare, e calpestare dalle donne. Poscia trasfori qui tutto l'apparecchio della guerra, e fu tanto intento a tuie opera, che diviso il letto d'esso in cento ottanta ca- naletti, lo sparse in trecento sessanta rivi, o io seccò facendo correr Tacque di qua e di h\. Per il che se ne andò ancora il tempo, che nello coso importanti ó gran perdita, e l'ardor dei soldati ai consumò in quella fatica inutile , e passò roccnsiono di affron- tare gli inimici all' improvviso , mentre che egli fa con il fiume queUa guerra che egli aveva bandita al nimico.

CAPITOLO XXII.

Questo furore (perciocché qual altro nome si gli dcbbe dare?) s'appiccò ancora a' Romani: perciocché Caio Cesare (2) rovinò una bellissima villa nel contado Erculanense, perché una fiata sua madre s' era sal- vata in essa, e perciò fece notabile la fortuna sua , che mentre era in piedi gli navigavamo avanti ; ades- so si domanda la causa, per la quale ella fu rovi- nata. E tanto si deve pensare a questi esempj che s'han da fuggire , quanto a quell^ all' incontro che si debbon seguitare per e-sscrc moderati e piacevoli,

(0 Erodoto nel primo libro. (2) Caligola. Ed.

I.I15R0 TERZO 125

tutto che non mancasse lor causa di adirarsi , potestà di vendicarsi. Perciocché qual cosa era più facile ad Antigono che comandar che fusser ritenuti due soldati che sendo alla guardia del padiglione reale facevano quello che con molto pericolo e vo- lentieri fanno (1) quelli che sentono male del re loro. Udiva Antigono il tutto, che fra quelli che parlava- no, e lui che xidiva, era solo un panno in mezzo, jl quale egli mosse leggiermente e disse: Scostatevi un poco, acciocché il re non vi oda. Il medesimo una notte avendo udito alcuni de' suoi soldati che pregavano ogni male al re, che gli aveva condotti in quel viaggio, e fango del quale non si poteva uscire, s'accostò ad essi, quando erano in maggior travaglio, e quando gli ebbe tratti dei fango , non sapendo eglino da chi fussero stati aiutati: u Adesso, disse, maledite Antigono, per il cui difetto siete ve* nuti in queste miserie, e benedite quello che vi ha cavato di questa fitta (2).n Sofferse il medesimo piace- volmente tanto la maledizione de'suoi inimici, quanto de'suoi cittadini. Onde sendo i Greci assediati in un piccolo castello da esso e perchè si fidavano nella fortezza del luogo, sprezzando il nimico , dicevano molte cose burlando la bruttezza di Antigono , e sbeffatido or la picciola statura, ora il naso schiac- ciato ; " Mi rallegro , diss' egli, e spero qualcosa di buono, poiché ho un Sileno nel mio campo. « Sendo questi che il burlavano stati donjati dalla fame , e sendo da esso presi, era usanza che quelli i quali

(1) Meglio : gli uomini, vale a dire sparlavano del loro re. Ed.

(2) E fillc tenaci. Day, in Tao. L. 1, % C3.

126 DELL' IRA

erano utili alla guerra fossero descritti nelle coorti, o gli altri fusscr venduti ullMncanto, egli disse, elio non voleva far ancor «luesto, se non mettesse bene aver padrone a questi, che avevan si mala lingua (1). Nipote di costui fu Alessandro, quello che diede della lancia a'suoi convitati, e di due amici, che io feci menzione poco avanti, ne diede una alla fiera. Tal* tro a stesso. Nondimeno di questi due quello che fu dato al leone, scampò, e vitsc.

C.V TITOLO WIII.

Non ebbe Alessandro questo vizio dair avolo , dal padre ancora; perciocché se in Filippo fu virtù alcuna, vi fu massimamente la pazienza delle in- giurie, la quale é un grand'istrumento al manteni- mento del regno. Venne a lui , tra gli altri amba- basciatori degli Ateniesi, Democare, il quale per la libertà della lingua e troppa licenza era chiamato ParsesiasU: (2); avendo Filippo udita umanamente la commcssione (3) domandò agi' imbasciatori •• che cosa egli potesse fare che fusse sommamente grato agli Ateniesi?» Soggiunse Democare-, - impiccarti.»» Ri- sentissi a tanto villana risposta lo sdegno de'circon- stanti, ai quali Filippo commesse che stesser cheti , 0 ne mandassero quel Tersite sano e salvo. « Ma voi

(1) Slcglio: e sendo da essi presi, quelli ecc. fece descrivere nelle coorli e gli altri vendere all'incanto, protestando che non avrebbe fallo neppur tiueslo, ecc. Ed.

(i) Parola greca, quasi libero parlatore. 11 testo avca Parte- iiade, nel lai. Parchetiaites. Ed.

(3) Lcgatione, 1 ambasciata. Ed.

LIBRO TERZO 127

altri ambasciatori, diss'egli, dito agli Ateniesi, che molto più superbi sono quelli che tali cose dicono , che quelli i quali V odono e non se ne risentono. « Molte cose degne di memoria fece, e disse Augusto, per le quali é manifesto che Tira in esso non predo- minò. Timagene, scrittore di istorie (1), aveva dette alcune cose contra di lui, alcune contralamoglie.e contra tutta la sua casa, le quali erano in bocca ad ognuno: perciocché le piacevolezze temerarie vanno molto attorno, e sovente sono in bocca agli uomini. Spesse fiate l'avvertì Cesare che non sparlasse con tanto poco rispetto; ma non si ritraendo egli da ciò, gli comandò che non capitasse in corte. Dopo al che Timagene frequentò la casa di Asinio Pollione, e qui- vi invecchiò, e per tutta la città fu amato (2), e Tes- sergli serrata la porta di Cesare non gli tolse la pratica di alcun' altra casa. Poscia recitò l'istorie che aveva scritte, e le abbruciò, e messe nel fuoco i libri che contenevano i fatti di Cesare Augusto. Tenne inimicizia con Cesare Augusto; niuno temette l'amicizia sua, niuno lo sfuggì, come se fusse stato fulminato; vi fu chi porse il seno per ricorlo, tutto che cadesse da si alto luogo. Sofferse Cesare que- sto pazientamente,né si commosse ancora perché egli aveva mandati male i libri pieni delle sue lodi , e prodezze. Non si dolse mai con l'ospite del suo ini- mico, solo disse questo ad Asinio Pollione , tu fai

(1) Di questo Timagene fa menzione Orazio nella epistola di- ciannovesima (lei primo libro scritta a Mecenate.

(2) Lesse dilcctui con Erasmo. Altri diì-eptus. U B. tonte la ville se l'arrachait. Ed.

128 DELl/lRA

le spese a una fiera, e mettendos'egli in ordine per scusarsi, si gli oppose , dicendo «goditelo, Pollion mio, goditelo; "6 rispondendo Pollione, «se tu vuoi Cesare subito gli vieterò la mia casa •♦ pensi , sog- giunse egli, che io facessi questo avend' io fatta la pace tra voi? « Perciocché Pollione era stato prima con Timngene irato, ne aveva avuta alcun'altra causa di far la pace , se nnn norché .Cesare aveva preso sdegno con esso.

CAPITOLO XXIV.

Dica adunque ciascuno seco stesso, quando é pro- vocato. Son io più potente di Filippo? nondimeno a lui fu detta villania, senza che egli ne facesse ven- detta. Ho io maggior potenza in casa mia, che aves- se Augusto per tutto il mondo ? egli nondimeno si contentò che di scostasse da esso chi di lui sparlava. Che cosa é adunque? perché debbo io punire con battiture, e con metter ne'ceppi un servo, per aver- mi risposto troppo liberamente, e con viso troppo arrogante, e per borbottar egli sottovoce che ap- pena sia stato sentito da me ? Chi son io che sia scel- leratezza offender le mie orecchie? Molti hanno per- donato agrinimici(l); io non perdonerò a'pigri, a'ne- gligénti, e a'cicaloni? Il fanciullo si scusi per l'età, la femmina rispetto al gesso, Pestrano per la libertà, il domeslico per la familiarità. Se questo è la pri- ma volta che egli ci ha offeso , pensiamo quanto

(I) Onde disse quel Laclicle Tercnziano nell'Erira: Cense le tosse reperì ullam viulierem, qua careal culpa?

LIBRO TERZO 129

tempo egli c'è piaciuto; se ci ha offesi spesso e del- l'altre fiate, sopportiamo quello che noi abbiamo sofferto assai tempo. C'è amico, ha fatto quello che non voleva fare. C'è inimico ? ha fatto quello che egli doveva. Cediamo al più prudente; al più stolto lasciamla passare (I); per qualunque si vogli rispon- diamo questo a noi stessi che gli uomini ancora sa- vissimi fanno molti errori, echeniuno è tanto consi- derato (2) che talvolta non manchi di diligenza ; ninno tanto maturo che qualche caso non conduca la sua gravità a qualche fatto Violento , niuno tanto d' of- fender timido che non vi incorresse mentre schiva ciò fare.

CAPITOLO XXV.

Siccome ad un uomo basso é stato di conforto nei suoi mali che la fortuna de' grandi ancora non stia salda (3) , e più pazientemente pianse il figliuolo in un canto, chi vedde acerbi mortorj ne'reali palazzi; così più pa/.ientemente sopporterà esser offeso, esser sprezzato da qualcuno , chiunque considererà che niun^a potenza e tanto grandeche talvolta non senta qualche ingiuria. E se quelli che son prudentissi- mi ancora prendono errore, qual è quello che non abbi convenevole scusa? Riguardiamo quante volte

(J) Nel capo veniisettesimo del secondo libro.

(2) Circumspectum. Ed.

(3) Onde nella quarta epistola del primo libro disse il mede- simo Seneca che 'a fortuna non alzò mai alcuno a si alto gra- do, che non gli minacciasse tanto, quanto gli aveva permesso.

[/Ira. ' 9

130 DELL'IRA

la nostra adole?ccnza sia stata poco diligente nel- rulllcio, poco modesta nel parlare, poco temperata nel vino. Se cprli é adirato, diamogli tempo che egli possa discernere quello che ha fatto; egli si casti- gherà per stesso; finalmente farà la penitenza; non é bene che noi facciamo il medesimo orrore che ha fatto egli. Questo non é dubbio che chiunque sprezza quelli che lo provocano é uscito del vulgo, ed é superiore agli altri (1). È proprio della vera grandez- za non sentire d^cssere stato percosso. In questa guisa le generose llere ragguardano lente e spensierate Tabbaiar de'cani; cosi le onde marine vanno d'effetto vote a percuotere ne' grandi scogli. Chi non s'adira non si muove per l'ingiuria; chi s'adira é già com- mosso. Ma quello che adesso ho posto superiore ad ogni incomodo, tiene quasi nelle braccia il sommo bene: solo alla persona, ma alla fortuna stessa risponde in questa guisa. Fa pur ciò che ti piace , che non sei bastante a levarmi la mia tranquillità: questo vieta ia ragione, sotto il cui reggimento ho messa la mia vita; mi uoccrebbe più l'ira clic non mi nuoctf l'ingiuria. Come non mi nocerebbe piiì? la misura di questa é certa e terminata, ma non é mica certo quanto l'ira mi fosse per trn<nriit;ire.

CAPITOLO XXVI.

« Io non posso soffrire, dici tu : é grave cosa sostener l'ingiuria. "Non é vero; perciocché chi é quello che non po^si sopportar l'ingiuria, se può l'ira? Aggiu-

(I) Come Catone nei vcnliduesimo capo del secondo libro.

ÌAV.llO TKKZO 131

gai ora che tu fai questo, per sopportar Tira e Tin- giuria: perché sopporti la rabbia d'un malato, le parole d'un frenetico e le ardite mani de' fanciulli? Certo perché non par che sappino quello che fanno. Che importa per quul difetto ciascuno diventi impru- dente? in tutti é un ugual patrocinio dell'impruden- za (1). Che ? dici tu, dunque se ne uscirà senza pena? Immaginati di voler così, tuttavia non n'andrà im- punito. Perciocché la maggior pena della ingiuria é averla fatta; alcuno é peggio trattato, che chi é lasciato al supplizio della penitenza. Finalmente bi- sogna riguardare alla condizione delle cose umane, acciocché siamo giusti giudici di tutti gli accidenti; ma io sono ingiusto avendo rinfacciato agli uomini particolari il vizio comune. Il colore degli Etiopi non è riguardato fra loro per maraviglia, appresso i Germani si sconvengono i capelli rossi, e ricciuti (2). Non giudicixerai notabile, o brutta in uno cosa al- cuna, laquale sia pubblica della sua nazione. E que- ste cose che ho referte son difese dalla consuetudine d'una regione e luogo. Vedi adesso quanto in que- ste cose sia il perdono più giusto, le quali sono di- vulgate e sparse per tutta l'umana generazione. Tutti siamo inconsiderati e imprudenti, tutti dub- biosi, rammarichevoli ed ambiziosi (3). Ma per che ca- gione occulto io il mal publico con leggier parole? tutti siamo rei e malvagi. Per il che tutto quello

(1) Il B. L'aveuglement commuti est l'excvte de <oh5. Ed.

(2) liufus crinis et coactui ia nodum. Il H. Uaaemblè eii Irene. VA.

(3) Ondo disse noi 27 rapitolo dfl secondo libro; Xiuno di noi è sonza colpa.

132 i»KLi/nrA

che in altri si riprende, troverà ciascuno nel suo seno. Perchè noti tu la pallidezza e macilenza di cplui ? Ella ò la pestilenza. Siamo adunque piii piacevoli l'uno con l'altro; noi che siamo malvagi viviamo con i malvagi. Sola una cosa ci può far quieti, Tesser concordi con scaaibievol facilità. Colui già m'ha nociuto, io non ancora ho nociuto a lui; ma già hai tu forse offeso qualcuno; ma l'offenderai.

CAPITOLO XXVII.

Non ragguardar solo a questa ora o a questo pi'^>rno; considera tutto l'abito della tua mente; tuttoché non abbi fatto male alcuno, puoi farne. Quanto e meglio medicar l'ingiuria che vendicarla; la ven- detta consuma molto tempo; a molte ingiurie s'e- spone quello a cui una ne duole. Tutti mettiamo più tempo nello star irati, che non è quello nel quale . siamo offesi; quanto ò meglio tirarsi in diversa parte e non opporre vizj ai vizj ! Parrebbe egli che fosse eostante e savio quello che traendogli una mula dei calci ne tirasse a lei e mordendolo un cane si gli ri- volgesse similmente co'denti ? « Cotesti per esser ani- mali, dirai tu, non conoscono che fanno errore, però non m'adiro con essi." Primieramente quanto sei tu iniquo, poiché nuoce l'esser appresso di te a chie- der perdono! Inoltre se questo difende gli altri ani- mali dall'ira tua, perchè mancano di consiglio, usa il medesimo termine con chiunque manca di consi- glio. Percioccliè non importa se egli ha l'altre cose dissomigliauti agli animali muti, se egli ha Ila me-

LIBRO TEKZO 133

desima caligine di mente, la quale in ogni difetto difende le cose mute. Ha errato, questa è la prima volta, questa é l'ultima. Non accade che tu gli creda, ancorché dica io non lo farò j)iù. Ed egli farà errore di nuovo, e un altro centra di lui, e tuttala vita si rivolgerà fra gli errori. Le cose fiere si devon trat- tare piacevolmente. Quello che si suol dire nel pianto si dirà ancor efficacemente nell'ira. Resterai tu mai 0 durerai sempre? Se qualche volta debbi restare, gli é meglio lasciar l'ira che esser lasciato dall'ira; ovvero durerà sempre questo pensiero? Considera quanto travagliosa vita tu ti pronostichi; quale sarà d'uno, che sempre per l'ira gonfi e s'infiammi.

CAPITOLO XXVIII.

Aggiugni adesso che se tu non t'infiammerai davve- ro e sovente rinnoverai, le cause, per le quali sii sti- molato, r ira si partirà per stessa e il tempo gli torrà le forze. Quanto è meglio che ella sia visita da te, che si vinca per stessal Ti adiri con questo, di poi con quello e prima co' servi, di poi co'liberti ; col padre e madre, poi, co' figliuoli; con quelli cheti son notij poi con chi tu non conosci. Perciocché per tutto sono cause d'avanzo, se non vi corre l'animo per intercessore. Di qui ti porterà il furore colà e quindi altrove, e si continuerà la rabbia perché so- vente nasceranno nuovi incitamenti. Orsù, meschino, quando amerai tu? o quanto buon tempo perdi tu in una cosa rea? Quanto adesso era meglio procac- ciarsi degli amici, placare gì' inimici, governar la_re-

i::i i>Ki.L'iKA

pubblica e trasferire nella cura di casa quel tempo, che ragrguardar d'oijn'intorno che di male tu possa fare a qualcuno, acciocché tu gli dia qualche picchia- ta o nell'onore, o nella roba, o nel corpo, non scndo possibile che questo ti riesca senza coinbattimente e pericoio, ancor che venghl alle mani con un inferiore a te. Ancor che tu l'abbi legato in tuo potere e a tuo arbitrio esposto ad ogni pazienza (1), spesso la troppa violenza di chi batte, o fa svolgere una congiuntura (2), o ficca un nervo in quelli denti che ella aveva rotti 0 fracassati (3). L'iracondia ha storpiati molti, molti n^ha fatti flevoU, ancora quando s'è iml>attuta in paziente soggetto. Aggiugni a questo, che niente è nato tanto debole, che egli perisca senza pericolo di chi lo percuote; ora il dolore, ora la fortuna ed il caso adegua i deboli a' gagliardissimi e forti. Oltra- chè la maggior parte delle cose, per le quali ci adi- riamo, piuttosto ci arrecano sdegno che offesa ; perché importa molto, se alcuno s'oppone al piacer mio, o manca ad esso: me lo tolga o non mei dia. Ma noi non distinguiamo, se alcuno al toglie, o cel niega, se tagli la speranza nostra, o la prolunghi; se fa in disfavor nostro o in favor suo; por amor d'un altro o per odio di noi. Ma alcuni non solo hanno giuste cause di far centra noi, ma ancora oneste. L'uno di- fende il padre, l'altro il fratello, questo il zio, quello l'amico; tuttavia noi non perdoniamo, scusiamo quelli che operano in tal guisa, che se altramente

(1) Omni patientia;. Ad ogni supplizio die si possa patire. Ert.

(2) Àrticulum loco mocil. Il B. Se désarticnle le briU. Krt.

(3) Il B. Seni l'tiii de scs mn-srlr} fixps à la mnrhnirn qu'il a brisée. EfL

LIBRO TERZO 135 ^

facessero gli biasimeremmo; anzi, che è cosa da non credere, spesse fiate lodiamo il fatto e biasimiamo il facitore.

CAPITOLO XXIX.

Alla fede (1) l'uomo grande e giusto ammira cliiun- que fra' suoi inimici è fortissimo e per la libertà e sa- lute della sua patria ostinatissimo, e desidera d'aver appresso di cittadini e soldati ad esso somiglianti. È brutta cosa odiare chi tu lodi; ma quanto più brutta odiare qualcuno per quel conto, per il quale egli é degno di misericordia; se il prigione in un subito ridotto in servitù ritiene qualche cosa della libertà, cosi tosto corre a far le cose vili e faticose ; se quello che per l'ozio è fatto pigro, non pareggia correndo il cavallo e carrozza del padrone; se il sonno l'ha sopraggiunto sendo stracco per le con- tinue vigilie; se ricusa le fatiche rustiche, o non le piglia con prontezza trasportato dalla servitù civile e oziosa ad un' opera dura. Distinguiamo se egli non può 0 non vuole. Molti resteranno assoluti da noi, se cominceremo prima a giudicare che adirarci. Ma noi seguitiamo il primo empito; poi sebbene ci siamo levati su per cose vane, perseveriamo per non parer d'aver messo mano senza causa, e quello che è ini- quissimo, la iniquità dell'ira ci fa più ostinati. Per- ciocché noi la riteniamo e l' aumentiamo, come se l'adirarsi gravemente sia indizio di adirarsi a ra- gione. Quanto é meglio considerare i principj stessi

(1) Mehereulej. Ed.

138 dell'ira

quanto sleno legrgleri e r^uanto poco nuochino. Tu troverai nell'uomo quel medesimo che tu vedi avve- nire negli animali muti ; ci turbiamo per cose de- boli e Tane.

CAPITOLO XXX.

il colore rosso é solo bastante ad eccitare il toro ; l'aspide si risente all'ombra ; una tovaglia incita gli orsi e leoni (1). Tutte lo cose che per natura sono fiere e rabbiose si commuovono per cose vane. Il medesimo avviene agli ingegni inquieti e stolti. Son feriti dal sospetto delle cose; di sorta che talvolta chiamano ingiurie i piccioli benellzj , nei quali bene spesso occorre materia di adirarsi e certo gravemente. Perciocché ci adiriamo con gli amicis- simi perchè ci abbin fatto manco che ci eramo nella mente nostra promesso, o che altri abbin da loro ottenuto, sendoci apparecchiato il rimedio dell'una e dell'altra cosa. Egli ha fatto meglio ad un altro ? dilettiamoci del nostro senza agguagliarlo a quel d'altri: non mai sarà felice quello a chi darà noia un altro più felice. Io ho meno, che non speravo? ma forse speravo più che non dovevo. Questa parte si debbo temere massimamente; quindi nascono ire per- niciosissime,le quali non hanno rispetto a qualsivoglia santa cosa. Furono più gli amici che i nemici che uccisero Giulio Cesare, dei quali egli non aveva adem- piute le loro insaziabili speranze. Voleva egli certo

(1) Delle cose che spaventano i leoni paria Plinio ncH'ollavo libro, capitolo XVI.

LIBRO TERZO 137

ristorargli; perciocché niuno usò mai la vittoria più liberalmente, della quale egli non si appropriò altro che la potestà del dispensare le cose; ma come poteva egli saziare desiderj tanto malvagi, conciossiacosa- ché tutti desideravano tanto quanto egli solo pote- va? perilchè egli vide i suoi soldati e compagni con le armi nude intorno la sua sedia, Cimbro Tullio, che poco avanti era stato difensore a spada tratta della sua parte e gli altri che divenner Pompeiani, poiché Pompeio fu morto.

CAPITOLO XXXI.

Questa cosa volge contr'a' re le loro armi, e con- duce a tale quelli di chi si fidano maggiormente, che pensano alla morte di coloro, per i quali e avanti ai quali avevan voto di morire. A niuno piace lo stato suo, quando ragguarda quel d'altri; laonde ci adi- riamo ancor con Dio, perchè ci vadi qualcuno innanzi non considerando quanti ci sien dietro che portano invidia a noi. Tuttavia ò tanta l'importunità degli uomini, che sebbene hanno avuto assai, si reputano ad ingiuria l'aver possuto ricever piii. Egli mi diede la pretura, ma io speravo il consolato. Mi diede i dodici fasci, ma non mi creò console ordinario. Volse che da me si annoverasse l'anno, ma che mi man- casse al sacerdozio. Io sono stato messo nel collegio, ma perché in uno ? Egli mi ha dato tutte le dignità, ma non m'ha accresciuta la roba. Ha dato a me quello che doveva dare a qualcuno, ma non m'ha dato nulla del suo. Ringrazialo più tosto per quello

Ià8 DEI.I.'IIIA

cose che tu hai ricevute; aspetta il restante e ral- legrati (li non esser ancor pieno; gU è una sorte di piacere che resti d'aspettar qualcosa. Tu hai supe- rati tutti gli altri; ralleg'rati d'essere il primo nel- l'animo dell'amico tuo. Molti superano te; considera quanti più siano quelli che ti vengon dietro che quelli che ti vanno innanzi.

CAPITOLO XXXII.

Che diresti se cercassi in te un vizio grandissi- mo (1) ? Tu fai i conti falsi, tu stimi le cose date gran prezzo e le ricevuto picciolo. Neir uno ci stolga una cosa e neir altro un' altra; con alcuni temiamo di adi- rarci, con alcuni dubitiamo, con alcuni non lo sti- miamo. Arem fatto senza dubbio gran cosa se metteremo in carcere un infelice servo. Perchè sol- lecitiamo di batterlo subito e subito rompergli le gambe? non perirà questa potestà se si prolunga. Lascia che venga quel tempo nel quale comandiamo noi. Adesso parliamo per comandamento dell'ira; quando ella si sarà partita , allora vedremo quanto sia da stimar questa lite: perciocché in questo prin- cipalmente c'inganniamo; noi venghiamo al ferro, a'supplicj capitali e puniamo con i legami (2), con la carcere, con la fame un errore da castigarsi con leg- gieri verghe. «In che modo, dirai tu, vuoi che noi consideriamo quanto picciole, misere e puerili siano quelle cose, dalle quali siamo offesi ?" A nle in vero

(l) Meglio: Vuoi sapere il luo maggior difetto? Eil. (i) Vinculis. Ed.

LIBRO TERZO ìcd

soprattutto par da vestirsi d'un grand' animo e ve- dere quanto siano umili ed abbiette quelle cose per le quali noi combattiamo, scorriamo e ci affanniamo e tali che ninno che sia punto di spirito alto ed ele- vato ne debbe tener conto. Intorno al ddnaio si grida assai, questo stracca le corti, fa venir alle mani i padri co' figliuoli, apparecchia veleni, mette le armi in mano tanto a' percussori, quanto alle legioni; que- sto è macchiato del nostro sangue; per questo son piene di liti le notti fra il marito, la moglie e la moltitudine preme i tribunali de' magistrati, i re in- crudeliscono, saccheggiano e rovinano le città edi- ficate con lunghe fatiche di più secoli, per cercar Toro e l'argento nel cenere d' esse.

CAPITOLO XXXIII.

Si posson vedere i fischi e pubbliche camere per ogni canto (!'. Queste sono quelle mediante le quali le vene per il grido gonfiano, i palazzi rimbombano per il fremito de'giudizj (2), volano (3) i giudici chiamati di paesi lontani per giudicare qual sia più giusta avarizia. Ma che diresti se non pur per il fisco, ma per un pugno di rame, o per esser stato toso (4) un

(1) Lieet intueri fiscos in angulo jacentes. 11 D, Jetons, je le veux hien, un coup d'aHl sur l'obicur recoin gisent ces trésors. Ed.

(2) Il B. Yoilà la cause de ces cris de fureur, de ces yeux sor- iani de leiir orbiteì, des cet hurlementi de la chicane dans nos palali jadiciaires. Eil.

(3) Sedent. Ed.

Cf) Lesse amputatum; altri imputatum, messo in conto. Ed.

140 DKIil/ IRA

denaro da un servo, al vecchio, che debbo morir senza erede, scoppia lo stomaco? E se un usuraio difettoso e mal sano (1) co' pie distorti e con le mani che gli son restate solo per numerar denari grida per l'usura, o millesima parte del credito o neplì augumcnti della malattia richiede il denaro cercando si statuisca il giorno di comparire in giudizio <2)? Se ì\\ mi mettessi dinanzi tutti i denari d'ogni sorte di metallo che noi battiamo, se vi aggiugnessi ciò che è ascosto nei tesori, riportando l'avarizia sotto terra di nuovo quello che ella tristamente aveva cavato fuora, non stimerei tutta questa massa degna di fare che un uomo dabbene ristringa (3) la fronte. Quanto son degne di riso quello cose le quali ci fanno uscire lo lagrime?

(• A I' I T n L O XWIV.

Orsù seguita e aggiugni le altre cose, i cibi, le be- vande, l'ambizione (4), le delicatezze, le battiture (5), le villanie, e i movimenti del corpo poco onorati, i sospetti, le bestie ostinate e restie, i servi infingardi, le maligne interpretazioni dell'altrui voce, per le

(1) Yaletudlnìrius. Ed.

(2) Il n. più rhiaramcnte: Et quaìid, pour moins d'un mil- lième pour cent, cel uturier inflrme, nux pieds di$lordu$ par la goiitle, qui ne lui a pas laitié de main pour préter $er- ment, %'en va eriant et pourtuioanl par mandataire, au fori méme d'un accés, la rentrée de $es atl Ed.

(3) Conlrahat. Ed.

(4) Horumque causa paralam amhilionem anche per tali cose. Ed.

(3) Yerba non Terbcra. Parole pungcnli. Ed.

LIBRO TERZO 141

quali si fa che il parlare dato airuomo, si annoveri fra le ingiurie della natura. Prestami fede; son leg- gieri quelle cose per le quali noi ci accendiamo gravemente e somiglianti a quelle che incitano i fanciulli a gridare e combattere. Ninna importa da stimarsi di queste cose che noi facciamo, come importante. Quindi , dico , deriva la nostra ira e pazzia, che voi stimate grandi le cose picciole. Co- stui m'ha voluto torre T eredità, costui m'ha inca- ricato (1) tenendomi gran tempo in estrema speranza, costui ha desiderata la mia fanciulla. L'esser d'un medesimo volere che doveva esser vincolo d'amore è causa di scandalo e odio (2).

CAPITOLO XXXV.

La via stretta fa venire a contese quelli che pas- sano : ma la strada spaziosa e larga causa che anco i popoli si percuotono e urtano insieme. Cote- ste cose, che voi appetite, perché sono picciole, si posson trasferire in uno se non si tolgono a un altro, fanno venire a contese ed a combatti- menti chi le desidera. Tu ti sdegni, che il liberto, la moglie e il cliente (3) ti abbi risposto; poscia tu

(1) Criminatus at. Ed.

(2) Sallustio ancora (lice essere stabile l'amicizia eli quelli che vogliono e disvogliono le medesime cose.

(3) Non significa questo nome Cliente appo gli scrittori anti- chi solo ftuello che nelle liti è difeso come oggi; ma qualun- que amico inferiore, che ricorreva sotto l'ombra di qualche gentiluomo , la qual cosa fu ordinata da Romolo, per tenere più uniti insieme i patrizj e plebei. l'iutarco nella vita di Ro- molo, Dionisio ed altri.

142 itr.j.i.'inA

medesimo ti lamenti che Pia levata la libertà alla Repubblica, la qual tu levi di casa tua. Inoltre so tace quando é domandato di qualcosa , lo chiami caparbio e arro}?ante. Voglio, dici tu, che egli parli e taccia e rida dinanzi al padrone; anzi al padre di famiglia. Che t?ridi tu? che schiamazzi? Perchè corri al bastone nel mezzo della cena, perchè i servi parlano, perché nel medesimo luogo non è il tumulto di piazza, ed il silenzio della solitudine ? Tu hai To- recchie solo per questo, che elle non ricevino se non le cose misurate, piacevoli, tirate e composte dolce- mente? Fa di mestieri che tu oda il riso ed il pian. to, le lusinjfhc e le contese, e le cose prospere e tri- ste, eie voci degli uomini ed il fremito e latrato de- gli animali. Terchè, meschino, ti spaventi al grido d'un servo, al suono del metallo, allo stropicciarsi una piastra (1)? se bene sei cosi delicato, ti bisogna pure udirei tuoni. Trasferisci agliocchi quello che s'è detto degli orecchi, i quali non son men fastidiosi se sono male avvezzi; son offesi da una macchia, e dalle brutture, dall' argento non ben netto, e dallo stagno che al sole non riluca. Certo questi occhi, che non posson patire se non il marmo vario e ri- splendente per la gran cura , la mensa che non sia distinta con spesse vene, che non vogliono cal- pestare in casa se non le còse preziose per roro,fuo- ra volentieri guardano le viottole scabrose, e aspre e piene di fungo, e la maggior parte delle cose che

(I) Il Lat. Ad ianua: impuìtum. Il U. Au bruii d'mf por- le ou l'ou frappe. Ed.

LIBRO TEEKO 143

gli occorrono squallida, e le mura de'palazzi in isola consumate, minaccianti rovina ed ineguali.

CAPITOLO XXXVI.

Qual altra cosa è adunque, che quello che in pu- blico non gli offende, in casa gli commuove, se non r opinione, che quivi è ragionevole e paziente, in casa è fastidiosa e rammarichevole? Tutti i sensi si debbono ridurre a qualQ^he fermezza: sono pazienti per natura, se T animo resta (1) di corrompergli, il qual si debbe ogni chiamare a render ragione e rimet- ter i conti. Sestio (2) soleva far questo, che fornito il giorno, quando s'era ritirato al notturno riposo, domandava l'animo suo. Qual tuo male hai tu oggi sanato? a qual vizio hai fatto .resistenza? in che parte sei tu migliorato? Si acqueterà Tira, e si mo- dererà se saprà che ogni giorno gli bisogna compa- rire dinanzi al giudice. Qual più bella cosa adunque di questa consuetudine di scuoterlo tutto il giorno? che sonno segue dopo questa recognizione di stes- so? quanto tranquillo, alto e libero, quando Tanimo è stato lodato o avvertito, e come speculatore e cen- sore secreto di stesso piglierà informazione de' suoi costumi? Io uso questa potestà, e ogni giorno

(1) Il Rulikopf destinai. Il B. legge desili e spiega: c'est à lame à ne la plus corrompre. Ed.

(2) Filosofo del quale Seneca fa menzione nel libro decimo- sesto e rtecimonono delle Epiftolc.

144 DELl/lUA

ilico le mie raErioni appresso di me, ed esamino la mia coscienta. Quando é levatomi il lume dinanzi agli nci'tii. e la moglie tace informata dell' usanza mia, lì^.-iinino meco medesimo tutto il giorno, e mi riduco alla mente le cose che ho fatte o dette. Non ascondo nulla a me stesso, nulla trapasso (1); pcrclorchè non ho da temere alcuno de* miei errori quando posso dire: vedi di non cader più in questo errore; per ora te la perdono ; in quella disputa tu parlasti troppo ▼ilUnamente; non venir più alle mani con glMgno* ranti : non vogliono Imparare quello che non hanno mai imparato. Tu avvertisti colui più liberamente che non conveniva , però non lo emendasti , ma Io seandalexzasti. Da qui avanti, vedi non solo che sia ▼ero quello che tu dici , ma ancora se sia della ve- rità naziente quello a chi tu lo dici.

CAPITOLO XXXVII.

L'uomo da bene ha caro d'esser avvertito; ma quanto uno è più malvagio, tanto peggio volentieri patisce d'esser emendato. Le piacevolezze di alcuni nel convito, e le parole dette contra di te ti hanno toccato ? ricordati di sfuggire l' andar a pasti con persone vulgari; dopo il vino la licenza è sciolta, perchè oggidì i sobri ancora sono rispettosi. Tu hai visto un tuo amico adirato col portiere d' un

(1) II somigliante facevano i Pitagorici, come mostra Ocerone n<'l libro ilnlla vo'-r-hiczzn.

LIBUO TKKZO ' 143 '

avvocato(l), ed hai udito, che volendo egii entrare fu spiuto indietro, e tu per amor suo ti sei adirato con \in vii servo. Ti adiri adunque con un cane legato alla catena? e questo, quando ha abbaiato assai, da- togli da mangiare si racqueta; scostati e riditene. Adesso a costui par esser qual cosa, perchè la mol- titudine de' litiganti gli tiene assediata la porta. Adesso quello che dentro giace, è avventurato e fe- lice, e giudica, che l'aprirsi la porta malagevol- mente sia indizio d'uomo beato e potente, e non sa costui, che è durissimo l'uscio della prigione. Mettiti in animo d'aver a patire molte coso. Ecci al- cuno che si maravigli che il verno gli faccia freddo? si maraviglia alcuno ributtare (2) nel mare e nel cam- mino sbattersi (3)? L'animo ò forte a quelle cose, alle uali «gli va provvisto. Sendo tu messo a tavola in un luogo poco onorato, cominci adirarti con chi fa il convito, con chi t' ha invitato, e con quello che è -nteposto a te. Sciocco, che importa qual parte del letto tu prema (4)? Il luogo dove siedi ti può faro più o meno onorato? Tu non hai guardato colui con occhi dritti , perchè non h'a parlato onoratamente del tuo ingegno. Accetti tu questo per legge? Adun- que Ennio ti avrebbe- odiato, perchè ci non ti piace, ed Ortensio terrebbe teco inimicizie scoperte , e Ci- cerone ti sarebbe inimico, se tu sbeffassi i suoi versi ?

(1) Aut divilis, 0 d'un ricco: agg. il testo. Ed.

(2) Saiiieare. Ed.

(3) Concuti. lA.

e») Gli ariticlii mangiavano in su certi IcUi, de' quali inltndc in questo luogo.

L'Ira. 10

14G 1 ^

CAPITOLO XXXVllI.

Vuol tu essendo candidato sopportar i TOti pa* zientemente? T'ha fatto qualcuno villania; è ella maggiore di quella che fu fatta a Diogene filosofo stoico? al qual mentre che egli disputava con gran veemenza dell'ira, un giovanetto sfacciato gli sputò nel viso; sofferse questo il filosofo leggiermente, o da savio. «Certo diss'egli, io non m'adiro, madublto nondimeno sesia bene adirarsi." Meglio foce il no- stro Catone, al quale mentre che parlava sopra una causa, avendo Lentulo, quello scandaloso e inconti- nente (Dappresso i nostri antichi, tirato giù quanto poteva una sciliva crassa e viscosa , e sputato nel mezzo della fronte, egli si nettò il viso e disse: «Io farò fede a ognuno, o Lentulo, che s'ingannano quelli che dicono che tu non hai ! ->- 1 ",' . »

CAPITOLO XXXIX,

" Abbiamo inaino a qui, o Novato, disposto bene l'ani- mo, se egli, o non sente Tira, o è ad essa superiore. Vediamo adesso come possiamo placare Tira al- trui: perciocché non solamente vogliamo esser sani e liberi da questo male ; ma sanare e guarire gli^ altri. Non oseremo di mitigar con parole V ira sul

(1) Impotent. FA.

(i) Cioè rispeUo e vergogna, perchè questa dizione o$ appo i Latini é equivoca, e significa più cose , però sta qui Catone sul doppio significato.

LIBRO TEKZO 147

principio, che ella è sorda e pazza; gli daremo tem- po ; i rimedj giovano grandemente sul calo de'mali: tenteremo gli occhi quando gonfiano ed ingros- sano, che col muovergli, gli faremmo indurire (1), altresì gli altri vizj mentre che bollono. La quiete cura i principi de'mali. « Che poco giovamento, dici tu, arreca questo tuo rimedio , se egli placa T ira quando resta per stessa? -Primieramente egli fa, che ella resti più tosto: appresso lo storrà, che non caggia di nuovo: ingannerà ancora lo stesso empito, il quale egli non osa mitigare. Rimoverà tutti gl'in- strumenti acconci alla vendetta. Fingerà d'esser an- cor esso adirato, acciocché come adiutore e compa- gno del dolore, abbiano i suoi consigli più autorità: metterà tempo in mezzo; e mentre che cerca mag- gior pena, prolungherà la presente. Darà con ogni arte riposo al furore. Se ella sarà veemente, metterà paura o vergogna a quella, alla quale non potrà re- sistere. Se debole gli proporrà ragionamenti, o grati, o nuovi , e col desiderio di comprendergli lo storrà da essa. Dicono che un medico dovendo curare una figliuola del re , possendo far questo senza ferro, mentre che egli piacevolmente toccava e stropicciava la poppa enflata, gli dette della lancetta coperta nella spugna. Non avrebbe questa donzella comportato il rimedio , se gli fosse stato dato palesemente , ma perché non l' aspettava sofferse il dolore paziente- mente.

(I) II \.n^{.Viinrifjenlem movendo incilaturi. U U.l'inflamma- tion cleviendrail plus inknte. Ed.

iM.t.t- ir: A

CAPITO

Sono alcuni mali elio non si : re non per

inganno. A uno dirai: vedi oh** ra non sia di

piacere A* tuoi inimici (l):aira}tro redi, che la enm- dezza dell' nn per la inagr-

l»ior parte si > ...la. L'ho per

male alla fede, e non trovo misura al dolore, ma bl< sogna aspettar r.i ^ la penltonza In

ogni modo. Serba ao tuo, e quando

potrai farai le vendette deirindu^io. Ma Ucastii^ar ; . " *;ra , e sp. .■■■^i-

irlo. 1/ II. i e

piacevolmente, se gift per sorte non urai uomo di tanta autorità, che tu pOE.'': '.ce

Augusto (3) ; il quale mcnt . , .Ilo

Pollione , un servo ruppe un Taso di cristallo; co- mandò Vedio che egli ^u^ ' , e non morte ordinaria ; ma ( , a divorare alle murene, dello quali egli aveva un gran vivaio pieno (I). Chi non penserei) .se ciò fatto per golosità? ella eracru . i il servo dalle mani e ricorse a' piedi di Cesare per do-

(I) Con questo argompnlo si o Omero

nel primo ili'irUiail'?. iltstorre A rial con-

lander (ra loro, acciocché non dicu piacere a Iriauio ed a'suoi flj^liuoli.

(J) Comminuere. Ed.

(3) Gap. del primo libro.

(4) Della costui crudeltà in «incMo genere, parla Seneca nel primo libro della Clenictiza, <ap, is. e l'iinio mi nono libro, cap. 23 (Iella naturai istoria.

LIBUO TERZO 149

liiandar niente altro che di morire d'altra morte, acciocché non diventasse altrui cibo. Si commosse Cesare per la nuova crudeltà , e comandò che egli fosse lasciato andare salvo^, e che tutti i vasi di cri- stallo fosser rotti in sua presenza, e si riempisse il vivaio d' essi. Convenne a Cesare castigar T amico in questa maniera, ed usò bene le suo forze. Tu co- mandi che sieno rapiti gli uomini del convito, e la- cerati con nuova sorte di pene? se è stato rotto un tuo bicchiere , saranno sbranate le viscere d' un uomo? Ti compiacerai tanto , che comandi che sia menato alla morte alcuno di quel luogo , dove ó la persona di Cesare?

CAPITOLO XLI.

I

Fa di raestiero opporsi talmente alla potenza, che r ira non possa assalirci di luogo superiore, e trat- tarci male. Ma solo tale (1) , quale adesso ho referto fiera , selvaggia e crudele , sitibonda di sangue, ed insanabile , se non teme qualche maggior cosa. Diamo pace all'animo , la quale gli darà l'aver del continuo volto il pensiero a precetti salutari ; e le azioni buone e la mente intenta solo al desiderio dell' onesto conferirà non poco. Satisfaccia alla co- scienza-, non ci curiamo della fama; seguiti, non cìiìì altro trista, pur che noi operiamo bene. « Ma il vulgo

(1) Il luogo è guasto. Il latino ha: Si cui lunlam polciili.n

', ut tram ex niperiijri loco aggredì potali, male traclcl : at

lalim (Itintaxal, qualem, ecc. Il U. Eitu aaez vuiisant pour

foudroi/cr la colere du haut de ta superiorité ? Traile la lajit

fitiè, mais teulemenl 'ptavf elle e .' ■■■••'. v '

150 DELL'IRA

ammira le cose animose e gli audaci sono in pregio, i placati son tenuti tlappochi e vili. « Kor«e nel primo aspetto, ma tosto che la Pi|ualilà ilolla vita fa fede, che quella non è dappocaggine , ma pace, il mede* Simo popolo gli onora e reverlsced). Niente di utile adunque ha in so quello affetto brutto ed ostile ; ma per il contrario tutti l mali, il ferro, il fuoco; apre»- zata la vergogna, a' é macchiato h' •'cl-

sioni, ha lacerate le membra de* Ak <^cia

nulla di scelleratezza voto; si scorda della gloria , non teme la infamia, e qn ir ira ha fatto il

callo ncir odio, diviene to' inemendabile.

(API

Liberiamoci «.la ^uc-^tu m-.il--, e purghiamo la mente ed estirpiamo dalle barbe quelli vizj , i quali ancor che sieno usciti d' ogni intorno leggieri , di nuovo rimetteranno; e non temperiamo l'ira, ma rimovia- mola da noi totalmente ; perciocché come si può tem- perare una cosa rea ? Potremo bene pur che ci met- tiamo mano. cosa alcuna ci gioverà più che il pensare che siamo mortali. Ciascuno dica questo seco stesso, come se parlasse con un terzo. « Che giova bandire Tira come se fussimo generati per viver sem-

(l) Di questo può esser roroodo esempio Noma Pompilio »e- condo re appo i Romani, che fu in tanta venerazione e bene- volenza appresso qacl popolo fior" <• f r innanzi assuefallo a. conlinue guerre.

LIBRO TERZO 151

pre e dissipare una età brevissima? Che giova tra- sferire in dolore e tormento di alcuno quelli giorni che possiamo consumare in onesti piaceri ? »» Non per- mettono queste cose d' esser consumate in vano , che non abbiamo tempo da, perderlo (1). Perchè ro- viniamo al combattere ? Perché cerchiamo i combat- timenti e le contese ? Perchè scordati della debolezza nostra pigliamo odj smisurati , e sendo per na- tura fra^li ci svegliamo all'altrui rovina? Tosto la febbre o qualche altro male del corpo vieterà te- nere queste inimicizie che noi abbiamo con animo implacabile. Tosto la morte dividerà un par di uo- mini animosissimi. Perchè facciamo tumulto, e con scandali conturbiamo la vita nostra ? La morte ci sta sopra capo e numera i giorni a chi perisce (2), e sem- pre s' accosta più di mano in mano. Cotesto tempo, che tu destini per l'altrui morte, è forse intorno alla tua.

CAPITOLO XLIII.

Che non accogli tu piuttosto questa breve vita, e menila piacevole e per te, e per gli altri ? Che non ti rendi tu piuttosto amabile ad ognuno mentre che vivi, e desiderabile dopo morte? E perchè desideri di

(1) Neil' orazione che fanno gli ambasrialori toscani mandati a Roma per reconciliarc co'Romani, Tarquinio il superbo, cac- ciato dal regno, ricordano al Senato, che essendo i Romani uo- mini, non prendine pensieri sopra l'umana condizione, ten- gtiino le ire immortali , nei corpi mortali ; appresso Dionisio nel lib. 5. ^2) Pcreunlet. Ed. *

152 ..I.L'IUA

sbassare quo.io cau truppo «la uu" «n i-n' 1-^^.0 ì Perdio tenti ili spaventare con lo tuo fono qupllo che abbaia teco(l), Il quale se bene e umile e !^ to, ó nondimeno aspro e molesto a* suoi supii.... Perehò ti adiri col tuo servo? perché col padrone? perchè col re? perdio col diontulo? Abbi un poco (li pazienza. Ecco che viene la morte, che ci fa tutti uifuali. Sogliamo vedere i2) la mattina fra gli spetta- coli, nello steccato il combattimento d' iro toro 0 d' un orso legati insieme, i quali quando hanno of- fesi Tun l'altro, al fine si veirgono consumati (8). Noi facciamo il medesimo : provochiamo uno che ù le- gato con esso noi, soprastando e al vinto ed al vin- citore il ftne ugualmente propinquo. Passiamo piut- tosto quieti e placati quanto di vita ci resta , non giaccia il corpo nostro, poiché 6 morto, odiato da nessuno. Spesse flato il gridare a fuoco ha sciolto qualche quistione, e T intervento d'una Aera ha spar- titi l'assassino ed il viandante (4). Non ó tempo di combattere co' mali minori , quando si scopre il ti- more de' maggiori. Che abbiamo noi a fare delle con- tese ed agguati? Desideri tu a costui, con chi tu ti adiri, più che la morte ? egli morirà se bene tu stai quieto; tu perdi il tempo; tu vuoi far quello che necessariamente ha da essere. *lo non voglio, dirai tu , ucciderlo , ma farlo mandar in esigilo , svergo-

(1) Tibi. Ed

(2) Ridere. Ed.

(3) 5iiui confcctor exjectat. Il D. Tombent toui l* bra$ qui leur garde le dcrnier coup. Ed.

(4) Corne avvenne dt quel Dragone, che noi accennammo nel

*>.! r ar. 'si^.nriilri lilro, ii.r .Tiil'irilà fli Klinno.

LIORO TERZO 153

gnarlo e daBneggiarlo. « Io scuso più quello che de- sidera ferir l'inimico, che chi vuol dargli unalcggier percossa (1). Perciocché costui non solo è di animo malvagio, ma picciolo. Sa tu, o pensi agli ultimi sup- plizj, o a più leggieri quanto di tempo però passe- rà, che egli o sentirà il tormento della pena sua, o tu sentirai la mala allegrezza dell' altrui? Già man- diam noi fuora lo stesso spirito , mentre che lo ti- riamo a noi. Però mentre che siamo fra gli uomini osserviamo l'umanità; non siamo ad alcuno di timore 0 di pericolo: sopportiamo con grand'animo i danni, le ingiurie, le villanie , le punture , i biasimi , 1 di- spregi e questi brevi incomodi. Mentre che noi guardiamo indietro, e ci rivoltiamo , come si dice, ne verrà la morte.

(1)11 Itulikopf lesse: quam qui insulam eoncupiscit, gli desidera l'eiilio. Il D. Puncliuunculam. e spiega; égratignu- . Il Scrii, aveva già preferito questa lezione.

finì: l'KL THRZO ED ULTIMO LIBRO.

L'EPISTOLE

01 SENECA A S. PAOLO E DI S. PAOLO A SENECA

YOUiARIZZATE NEL SECOLO XIV.

i t-STO DI SASTO lEROXIMO SOPRA I.E PISTOLE DI SANTO ' PAOLO A SENECA E DI SENECA A SANTO PAOLO.

Lucio Anneo Seneca de Corduba, discepolo di Fo- lìiio stoico, e zio di falcano poeta, fu di vita contc- nentissimo. El quale io non porrei nel catalogo de' Santi, se quelle Pistole non me v'inducessino , le quali in molti luoghi si leggono di Paolo a Seneca e di Seneca a Paolo. Ne lo eguale, con ciò sia cosa che fosse maestro di Nerone, ed era potentissimo in quello tempo, dice che desiderava d'essere apo li suoi di quel grado del quale era Paolo apresso li Cristiani. Costui, due anni innanzi che Piero e Pao- lo fussero coronati di martirio, fu morto da Nerone.

EPITAFIO DI SENKCA.

Cura, fatiga, merito, onori ricevuti per guidardo- ne, ite dopo questo; sollicitate altre anime. Me di- lungo da voi Idio chiama: sottrai (]). compiute le cose terrene. 0 terra perigrina, fatti con Dio. Nien- tidemeno tu avara ricevi el corpo ne' solenni sassi; però che 1' anima rendiamo al cielo, e l'ossa a te.

(i) Me procnl a vohii Deus cfocat: ilicet, adii

IhUiii terreni», llospila terra, vale, eie.

Cominciano alcune Epistole mandale da santo Paolo appostolo di Cristo a Seneca filosafo morale, di nazione spagnuolo e cittadino romano , e maestro di Nerone Cesare imperadorc romano ; e certe mandate dal detto Seneca al detto santo Paolo appostolo.

-^-o-

EPISTOLA MANDATA DA SENECA A SANTO PAOLO APPOSTOLO.

Seneca a Pagolo salute. Io credo che a te sia .stato detto come ieri noi , essendo insieme col no- stro Lucilio , avemo ragionamento di te , parlando de' segreti della natura e d'altre cose. Erano quivi con noi alcuni seguaci della tua dottrina, e noi era- vamo andati negli orti salustiani; dove venendo per nostro rispetto quegli tuoi ch'io dico, e vedendoci quivi, s'accostorono a noi: ed in verità, noi avemo grande desiderio che tu fussi stato con esso noi. E voglio che tu sappi , che noi avemo grande recrea- zione leggendo lo tuo libello, cioè alcune delle tue molte lettere che tu hai mandate a certe cittadi, o vero a certi principi della provincia (.); le quali lettere contengono lo stato della vita morale con mi- li) Qiiai ad aliquam cicilattm seii caput procincia: dire-

iìli.

rabilo esercitazione. II RantimentoduUo quali lettùrt!

non p'Mjso ri; tto da te, ran per mezzo di

le; bcncli'io e ,.. : quando che sia elle f»-.-Mn.i

da te e p«r to. E tutto ci parvo la (rraTÌt& d**

toro 0 di tanta eo . i

cbo io credo che l^ ^.. r. "

bastare a potere essere dirizzati, non chMo di -Iti, in <r

L - . jUO. Vali

ta sia ben sa^

EriST

Ad Anneo Seneca Paolo salute. -^ Ieri ricevetti lietamente la tua Ietterà, a la quale di ' * - potuto risjionderc, se io avea:«i avuta la quel giovane che io ti voleva mandare. Ma bene e per cui e a che tempo e n - ' debba dare o couimettcre: ondo coi. qualità della persona tua, ti priego che tu non pensi

che sia rimaso per neffll^cnzia; ma che di ' '■

che tu scrivi, che le mie lettere siano state ' dutc e lette da voi in alcuno luogo, parmi essere felice per giudico di tanto uomo come se' tu: impe- rò che essendo tu maestro di tanto prencipe , e di tutti Cesando tu censore, cioè giudit^p, a tutto non diresti questo, se non perchè è '" '• "''•'" »" '■. Appresso, sia lungo tempo sari'

E DI S. PAOLO A SENECA 161

EPISTOLA DI SENECA A SANTO PAOLO APPOSTOLO.

Seneca a Paolo salute. Io ho ordinati certi miei libri , e con le debite divisioni ho dato loro forma, e ho diliberato di leggergli a lo Imperado- re ; pure che la fortuna prospera mi dia la via, che egli si disponga a udire come cose nuove. E forse che vi sarai tu presente: ma se non vi sarai, impor- rotti il dì, che insieme veggiamo questa mia opera. E ben cognosco ch'io non le potrei publicare, s'io non l'avessi prima teco conferite, in quanto mi sia lecito di farlo sanza pericolo. Questo non ho voluto tralasciare che tu non lo sappia.

EPISTOLA DI SANTO PAOLO APPOSTOLO A SENECA.

Ad Anneo Seneca Pagolo salute. Quante volte io odo tue lettere, tante desidero la tua presenzia : e non penso altro, se nonché tu abbi sempre ad essere con noi: onde quando tu diliberrai di venire, noi ci vedremo insieme, e tosto. Vale, che cosi desidero che tu sia sano,

EPISTOLA DI SENECA A SANTO PAOLO APPOSTOLO.

Anneo Seneca a Paolo salute. Noi abbiamo as- sai fatica per la tua lunga separazione. Or quale è questa separazione? quale è quella cosa che ti fa tardare? Se forse ne sarà, cagione lo sdegno, perché tu ti se' partito dalla tua setta e dalla tua usanza L'Ira. il

162 EPISTOLE DI SEM A A S. PAOLO

antica , e rivoltoti in altra setta , sarà di bisogno che tu ne faccia chiaro chi n' aresse dubbio , acciò che niuno stimi che tu Tabbi fatto per levitado, ma per ragione.

EPISTOLA DI SAKTO PAOLO APPOSTOLO MAKDATA A 8EKICA B A LCCILL".

Ad Anneo Seneea e Lucilio , Paolo salute. A me non ò possibile di parlare con voi con penna o con inchiostro di quelle cose che voi mi scrivete. Delle quali runa cosa non d. La penna figura e di- segna; r altra, ciò é lo 'nchiostro , apertamente di- mostra quello che é con la penna disegnato : e spe- zialmente perché appresso di voi e tra voi é per- sona che intende gli miei andamenti; e a me con- viene onorare tutti gli uomini; e tanto più, quanto alcuni hanno cagione di pigliare sdegno verso di me : e, quali ee noi vorremo con pazienzia sostenere, sanza dubio noi gli vinceremo da ogni parte, si ve- ramente che essi sieno di quegli che si vogliono pen- tere de' loro errori. Bene vale.

EPISTOLA DI SBVICA A SARTO PAOLO APPOSTOLO.

Anneo Seneca a Paolo e Teofllo salute. Io ti confesso che io ho avuto molto caro lo leggere delle tue epistole che tu mandasti a quelli di Galatea e di Corinto e di Acaia; intanto che eziandio con uno orrore e triemito di Dio io le leggevo. Piaccia a Dio che noi cosi viviamo come tu scriyi; imperò che

E DI S. PAOLO A SENECA 163

lo Spirito Santo, il quale è in te più subblime che in tutti gli altri eccelsi uomini , mostra in esse tue lettere essere molto venerabili sentimenti (1). Ma io vorrei, quando tu dici cose tanto magnifiche, lo modo del dire s'accordasse con la gravità delle sentenzie. Ed acciò, fratello carissimo, che io non ti tenga nascosa alcuna cosa, sicché la coscienzia non ne fusse obbrigata, io ti manifesto come lo Impera- dofe si commosse alle tue parole; ciò é che egli aveva grande admirazione, che uno che non avesse ordinatamente studiato nelle scienzie, potessi avere sottile intendimento. A cui io risposi, che gli Iddìi sogliono parlare per la bocca degli uomini, e di co- loro che possinó dissolvere li errori con la dottrina: e si gli diedi lo esemplo di quello uomo villanelle poeta (2); a cui apparvono nel campo di Rieti due uomini, i quali poi furono conosciuti essere stati gli iddei Castore e Polluce. E per la risposta lo Impe- radore ne rimase assai bene edificato. Vale.

EPISTOLA DI SENECA A SANTO PAOLO APPOSTOLO.

Seneca a Paolo salute. - Benché noi sappiamo che lo 'mperadore desideri d' udire cose piene d'ammira* zione di qualunque luogo si venghino, pure a te non fanno elle danno, anzi t' aramuniscono. A me

(1) Spiritas enim Sanetui in te et tupra te exeeUos, subii- mioret valdeque venerabiles temui exprimit. Il testo volgare ha: M Si mostra in esse tue lettere dimostra essere molto ve- M nerabiii sentimenti. «

(2) Exemplum vaticani hominit ruttieuU.

164 «PISTOLE DI - \ i ^ . ^ i

pare che tu firrt^^cmoto peccasti volendo dare a lui notizia di cosa che sia contraria airusanxa e a la setta sua. E adorando egli gli Dil de' Gentili, non so vedere come a te parve di farli noto: onde io ti priego che per lo inanzi tu non lo faccia più; imperò che tu debbi guardare che, amando tu me, tu non offendi la'mperadriee ; la enl oflbM non ha però a nuocere a te. Se ella persevererà nel suo errore, essa oflèsa non ti nooee, e non Tba ad giovare alcuna cosa: se ella sarà vera reina, non ne sdegnerà: ma se ella sarà pure femmina, si terrà ofltaa per questo (\). Bau Mie,

XPISTOLA DI tCRKCA A lAKTO PAOLO APTOITOLO.

Io 80 che tu ti seMurbato della lettera eh* io t*ho scritta, ciò 6 di avere mostrato bene le tue epistole a lo 'mpQradore. non tanto per cagione di te, quanto per sospetto che tu hai preso, eh* elle non sieno ca- gione di rivocare le menti d' alcuni tuoi fedeli da tutte le buone arti e buoni costumi. Per me non bisogna che tu ti turbi, chMo non ho oggi quella dubbiosa admirazione in esse tue lettere chMo soleva avere: però che per molti argumenti io ho questo vostro stato chiarissimo nella mia mente. Pertanto, lasciato andare quello che è fatto, di nuo- vo facciamo in modo, che se per le cose passate s'è fatto per me alcuno atto di leggerezza, priegoti che

(1) Cavendum ett enim, ne, dum me diligii, offeniam domino faeiat; euUi% quidem offenta nec oberit $i perteceraverii ; ne- que, ti non $it, prode rit : ti ett regina, non indignabilur; ti mulier ett offendelur.

E DI S PAOLO A SENECA 165

me lo perdoni. Io V ho mandato '1 libro che é intito- lato De copia verborum. Vale.

EPISTOLA DI SANTO PAOLO APPOSTOLO A SENECA.

Quante volte io scrivo el nome tuo , e dopo poi pongo el nome mio, fo io cosa reprensebile e scon- venevole a la mia setta: imperò che, come spesse volte io ho detto, io mi debbo adattare in ogni cosh a quello observare nella tua persona che la legge romana concede d'onore a quegli del Senato; ciò è porre nella ultima parte della epistola, e non pri- ma, el nome mio: acciò che con fatica e vergogna io non voglia fare quello ch'io non debbo per volere pure seguire el giudicio dello animo mio. Vale, o de- votissimo maestro.

EPISTOLA DI SENECA A SANTO PAOLO APPOSTOLO.

Se tu essendo uomo e per ciò subblimato in tutti e' modi, sarai non dico congiunto ma mescolato meco ed insieme col mio nome, tutto riuscirà in grazia del tuo Seneca; onde essendo tu capo ed altezza di tutti gli altissimi monti, non dei stare celato, ma dei vo- lere ch'io ti sia prossimo, ch'.io sia reputato un altro simile a te Per tanto non ti volere nella pri- ma faccia giudicare indegno della forma delle no- stre epistole, in modo che e' mi paia che tu mi vo- glia più tosto tentare che beffare , e spezialmente sappiendo tu che tu se' cittadino di Roma: imperò che quello luogo che è mio è tuo appresso a te , e

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166 EPISfOLS DI 8BKBCA A 8. PAOLO

cosi quello che é tuo yogliotl pregare che sia mio. Vaie mi Baule (1).

EPISTOLA DI SniKCA A SARTO PAOLO APMMTOLO.

Tuo e mio Paolo earisaimo (V^. O penai tu chMo possa essere sanza tristizia e pianto, che io veggla prima essere condotto a suppliclo e morte la to- stra innocenzia; e appresso, che tutto el popolo ro- mano vi giudichino uomini perTerti e peccatori, sti- mando che per voi si faccia tutto quello che si fa di male in questa citt&? Ma fo questo in pace, e a tanto che mai noi doterremo portare questo in pa- ce, e usare lo giudicio del popolo, come Tuole la fortuna, inflno a tanto che la nostra fciicitade inrin- cibile ponghi fine a questi mali (3). L* antica etade ebbe a sostenere Alessandro di Macedonia figliuolo di Filippo, e Dionisio, e Dario; e la nostra etade sostenere Caio Cesare; acquali ciò che piaceva era lecito. Ancora la città di Roma ha manifestamente sostenute T arsioni delle sue case; e tutti sanno chi rha fatto fare. Ma se gli uomini di piccolo stato aves- sino potuto dire chi n'è stato cagione, e se fusse stato loro lecito di parlare sanza pericolo in queste tenebre, tutti e' cittadini avrebbono già compreso ogni cosa. E cristiani e giudei sono usati d* essere tormentati e puniti come trovatori di quella arsione:

(i) Data X kal. aprilit, ApHano et Capitone eonsuUbui,

(2) Ave, mi Paule chariuime.

(3) Sed feramut aequo animo, et utamur foro , quoA $ors conretiii, donec invida felieitat finem mali$ imponat.

E DI S. PAOLO A SENECA 167

ma lo 'mperadore dice chi che si sia, la cui volontade non cerca altro che fare sangue; e le sue bugie gli sono coprimento: ne sarà punito nel tempo suo. Ogni uomo ottimo pone lo suo capo per molti ; e così que- sto uomo divoto, ciò è lo Imperadore sarà a tempo arso per tutti nel fuoco. Cento trentadue case e isole quattro arsono continovi sei di: lo settimo dìposono fine. Io desidero che tu sia sano (1).

EPISTOLA DI SENECA A SAT^TO PAOLO APPOSTOLO.

Molte tue opere sono state per te in ogni passo bene trattate per allegorie e per figure: e (2) però debbi tu tanto alto intendimento delle cose e di grazia a te data Iddio ornare, non con ornamenti di pa- role, ma con gravitade di sentimento; e non temere di quello che io mi ricordo che tu hai più volte detto: ciò è, che molti i quali vogliono fare el simile, hanno corrotti e' veri sentimenti delle scritture, e lacerato le virtudi delle cose. Appresso io voglio che tu mi faccia questo di grazia, ciò é che tu tenghi le regole della grammatica, e dia bella forma a le oneste materie, acciò che la grazia nobile a te conceduta da Dio , tu la possi degnamente operare. Bene vaie. Data die vini jm/«, essendo Lacone e Sabino consoli (3).

(1) Data Y kal. aprilit. Frigio et Batto eontulibut.

(2) El ideo rerum tanta vis et muneris tibi tributa, non or- namento verborum, ted cutlu qnodam decoranda ett.

(3) Data die Y nonat tutu', Leone et Savino eontulibut.

168 BPI8T0LB DI SEmsOA A 8. PAOLO

BftSTOLA DI SAlfTO PAOLO A tBIIBCA.

Per essere stato tu attento a quello che tu hai adito, Iddio t'ha rivelato quelle cose che egli con* cede a pochi: si che sicuramente io semino nel fer* tue tuo campo Io seme rruttifero. B non è in verità cosa che si possa corrompere; ma la parola di Dio, la quale é fermo fondamento di materia stabile e crescente in eterno : con la quale parola avendo già la tua prudenxla conceputa, ti mosterrà che quello fondamento non verrà mai meno. Appresso voglio che tu fugga le cerimonie de* Pagani e de* Giudei, e che tu ti facci discepolo di lesù Cristo; dimo- strando tu le sue lode con nobili detti rettorici. e con argomenti Inreprensibili di sapienza: imperò che avendo tu già presso che compreso il modo nostro, tu Io debba monstrare a lo Re terreno e a* suoi cor- tigiani e confidati amici; al quale tua persuasione so che parrà aspra e impossibile, conciosia cosa che alcuni di loro non si potranno astenere di leggiere e convertire per le tue dimostrazioni. Per le quali la felicità della vita eterna , e la parola di Dio a te conceduta potrà partorire in loro sanza cor- ruzione nuovo uomo, ciò é nuova e perpetua vita, che poi lo faccia correre verso Iddio. Vale, Seneca carissimo a noi. Data prima kalaugusti, essendo con- soli Lacone e Sabino (1). (l) Data kal. augusti, Leone et Savino eontulibut.

FINE dell'epistole E DEL VOLUME.

INDICE

DEGLI SCRITTI

CONTENUTI NEL VOLUMETTO PRESENTE

Prefazione pag. v

Notizie intorno a Francesco Serdonati . . » xiii

Dell' Ira.

Libro primo t 3

Libro secondo » 37

Libro terzo » 90

Epistole di Seneca a S. Paolo e di S. Paolo a

Seneca * 155