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PER BX4878 .B64 no. 103-106

Bollettino della Society di studi valdesi.

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ANNO LVI

N . 104

BOLLETTINO

DELLA

SOCIETÀ DI STUDI VALDESI

DICEMBRE 1 958

Nel pubblicare gli atti del II" Convegno su Eresia e Riforma in Italia (Torre Pellice 29-30 agosto 1958), ringraziamo vivamente i parte- cipanti e i relatori per le ottime giornate che hanno visto il rinvigo- rirsi dell'iniziativa presa nel 1957 dalla nostra società. Il Convegno ha già fissato per il 28-29 agosto prossimo la sua terza edizione, che ci auguriamo fin d'ora proficua e riuscita come le precedenti; ad essa sono invitati fin d'ora tutti gli amici e gli studiosi dell'argomento.

Le comunicazioni che qui sono pubblicate furono completate da altre due: quella di G. Spini, sugli interessi americani al problema teligioso italiano e quella di L. Marini sulla famosa Escalade del 1602. Entrambe erano però previste per un volume commemorativo del quar- to centenario dell' Accademia Ginevrina. Si aggiunge inoltre l'intervento di Guichonnet con documenti sulla comunicazione Marcelli, e la vivace ed interessante discussione sulle relazioni, che coronò degnamente il 11° Convegno.

Il Seggio

Fra Dolci no : storia e mito

Debbo dar ragione del titolo del mio studio (1). Effettivamente la figura di fra Dolcino si trova sulla linea di confine tra verità storica e proliferazione leggendaria.

Anzi, non solo di leggenda si tratta, ma addirittura di agiografia e di mito, che non da ora egli è stato assunto come simbolo ed esem- pio di lotta di classe, o, quanto meno, di lotta fra il libero pensiero e un non ben precisato oscurantismo, secondo ben noti e frusti sche- mi di polemica; egli è stato e vien tuttora usato come una sorta di « falso scopo », per battere ben altri obbiettivi, il che non ha nulla a che vedere con le esÌL"'nze della verità storica (2).

E' in sostanza un particolare aspetto di quella che può dirsi la fortuna storica di fra Dolcino, la sua « sopravvivenza ». Anzi, da questo punto di vista, direi clie si tratti di un caso tipico e di valore paradimmatico. Se sovrapponiamo il Dolrino « mitico » su quello « storico », vediamo che le due immagini non coincidono quasi per nulla: ma non è la prima volta che la fortuna storica di un perso- naggio si risolve in una deformazione, spesso quasi irreparabile, del suo vero essere: si pensi al Machiavelli e alla sua triste e del tutto immeritata fama di « machiavellico ».

Si impone dunque un lavoro di revisione (3). Non vi è tema u argomento storico che. a distanza di tempo, non possa anzi non

(1) In questo articolo svolgo alcune idee che ho presentate alla discussione nel nostro convegno e poi ho rihadite in una conferenza presso la Facoltà val- dese di teologia in Roma. Poiché non intendo per ora di affrontare il tema del dolcinianesimo come eresia, rinuncio a una presa di posizione critica sulla lette- ratura relativa, nonché a una completa elaborazione erudita.

(2) Si veda la documentazione adunata nel chiaro e intelligente saggio di G. Miccoli, Note sulla fortuna di fra D., « Annali della Scuola normale sup. di Pisa », serie II, vol. XXV, 1956. Rinvio ad essa per la necessaria bibliografìa, che vi è considerata in gran parte, ma in relazione al particolare tema preso a trattare.

(3) Manca tuttora uno studio serio ed esauriente su Dolcino e sugli Apostoli. Il lavoro di F. Tocco, Gli Apostolici e fra D„ « Arch. st. ital. », serie V, XIX, 1897, è veramente assai poco soddisfacente. Lo stesso può dirsi di quanto si legge nell'altro suo scritto: Quel che non c'è nella Divina Commedia, o Dante e l'ere- sia, Firenze, 1899. Da ricordare anche, sebbene altrettanto poco redditizio per il nostro scopo, ciò che disse A. Labriola, in una famosa lettera al Sorel del 1897, con riferimento a un suo corso su fra D., che purtroppo non pubblicò. Si tratta di una interpretazione nettamente in chiave di lotta sociale: « il moto dolciniano è uno dei momenti della gran catena delle sollevazioni delle plebi cristiane » ecc.

debba esser ripreso e ripensato. In questi tempi, in cui tutti noi siamo fortemente interessati al fatto sociale, per il quale abbiamo acquistato veramente una speciale sensibilità, è ben lecito che si riprenda a parlare di fra Dolcino, per cercare di vederlo come fu realmente.

Sul suo conto nella comune cultura credo non si sappia di più di quel che il cronista Giovanni Villani (4) ci racconta: « nel detto anno 1305, del contado di Novara in Lombardia fu uno frate Dol- cino, il quale non era frate di regola ordinata, ma fraticello senza ordine; con errore si levò con grande compagnia di eretici, uomini e femmine di contado e di montagne, di piccolo affare, proponendo e predicando il detto frate Dolcino, essere vero apostolo di Cristo, e che ogni cosa dovea essere in carità comune, e simile le femmine essere comuni, e usandole non era peccato. E più altri sozzi articoli di resia predicava, e opponeva che '1 papa e' cardinali e gli altri ret- tori di Santa Chiesa non osservano quello che doveano la vita vangelica, e ch'egli dovea essere degno papa.

Ed era con seguito di più di tremila uomini e femmine, standosi in su le montagne vivendo a comune a guisa di bestie, e quando fal- liva loro vittuaglia, prendevano e rubavano dovunque ne trovavano, e così regnò per due anni. Alla fine, rincrescendo a quelli che segui- vano la detta dissoluta vita, molto scemò sua setta, e per difetto di vivanda e per le nevi ch'erano, fu preso per gli Noaresi e arso con Margherita sua compagna, e con più altri uomini e femmine che con lui si trovano in quegli errori ». Al che si debbono aggiungere anche un brevissimo accenno di Dante, nel 28° dell'Inferno, e che anzi potrebbe essere una delle fonti del Villani (5), e un brano del commento di Benvenuto da Imola.

E' proprio questa singolare sua vicenda di guerra, che c'in- vita addirittura a usare il modernissimo vocabolo di « resisten- za », questo patetico finale della sua vita, reso anche pili degno di commiserazione per averlo soartito con la sua compagna, che è tradizione fosse bella, e che per accrescimento di crudeltà venne torturata e poi bruciata in presenza di Dolcino stesso; è dunque questa resistenza sul piano politico- sociale-religioso, condotta nelle montagne della Valsesia e poi del Biellese, che gli ha assicurato una fama del tutto particolare ed una rinomanza non comune, per un personaggio di tempi così remoti Certo, il grosso pubblico ha sentito parlare assai più di lui che non di Gioacchino da Fiore o di Gerardo da Borgo S. Donnino o di Pietro di Giovanni Olivi e di Ubertino da Casale, personalità di tanto più grandi e interessanti che non Dolcino, ma non come lui protagonisti di spettacolari episodi.

(Discorrendo di socialismo e di filosofia, lett. IX). Fatto con una certa cura, ma senza nuovi sviluppi, il libro di p. L. Spaetlinc, De apostolicis, pseudoapostolis, apostolinis, Monaco, 1947, è però comodo per la diligente raccolta dei dati; vi si troveranno indicati i lavori tedeschi sul tema, alcuni di essi buoni, ma invecchiati.

(4) G. Villani, Cronica, Vili, 84.

(5) Per questa connessione, più che probabile, vedi Miccoli, p. 250.

Tutto ciò spiega in qualche modo perché oggi ci occupiamo di fra Dolcino. Vi è però anche un particolare motivo per la ripresa di tale tema: la possibilità di valerci di una fonte di altissimo inte- resse, gli atti dell'inquisizione bolognese della fine del '200 e del- l'inizio del '300, fonte che io non ho certamente scoperta ma ho per la prima volta sistematicamente studiata, e che ci offre nuovo mate- riale su Dolcino stesso c sui suoi seguaci (6).

Certamente egli non compare nella storia improvvisamente, senza connessione col suo tempo. E' anzi intimamente legato con esso ed espressione di quella erande ansia di rinnovamento religioso e spirituale che attraversa tutto il Duecento e che era stata imper- sonata per la prima volta da Gioacchino da Fiore, veramente, accanto a Francesco d'Assisi, il patriarca del pensiero e della fede duecen- tesca. Dolcino «i trova per l'appurilo nel grande filone della corrente gioachimitica, che, se nella prima metà del secolo, come è stato det- to (6) con felice espressione, si era venuta quietamente espandendo, ora, specialmente dopo il 1260. l'anno di svolta preconizzato, come si diceva da Gioacchino, l'a anno zero », per dirlo in ter- mini odierni, aveva assunto un inatteso mordente, divenendo il segno della contraddizione; aveva animato i grandi movimenti emo- zionali ma ancora ortodossi dei flagellanti e le grandi pacificazioni cittadine clamorosamente teatrali; aveva ravvivato la fiamma dello escatologismo, dn troppo tempo attutita; si era immessa nell'ordine dei miuoriti, interpretandone anzi inasprendone le tensioni interne, ad esso congenite da quando il suo fondatore aveva lanciato il nuovo verbo, così squisitamente rivoluzionario, della totale rinuncia al mondo.

Dolcino presuppone per l'appunto la crisi dell'ordine minori tico, che già aveva dato l'avvio alla potente meditazione di Gerardo di Borgo S. Donnino e di Pietro di Giovanni Olivi. Ma presuppone anche la crisi del papato di quel tempo e della Chiesa, divenuta trop- po temporale e curiale, quella crisi che, proprio mentre Dolcino sta- va costruendo il proprio movimento, si era espressa in modo straor- dinariamente crudo nel contrasto fra papa Celestino e papa Bonifacio; e \i si rifletteva anche la crisi del potere imperiale, uscito assai mise- ramente dal grande interregno e tuttora dominato dalla gigantesca ombra di Federico II e dal problema della eredità sveva.

Tutto questo assumeva la colorazione livida e impressionante di un tramonto di tempesta, di attesa di tempi nuovi, di tempi ultimi : è il clima di apocalissi, di ripresa escatologica che poi caratterizzerà ancora tatto il Trecento. Escatologismo sulla traccia di Gioacchino da

(6) Ne ho fatto la presentazione nel mio studio su L'eresia a Bologna nei tempi di Dante, negli « Studi storici in onore di Gioacchino Volpe », Firenze, Sansoni, 1958, I, p. 381 sg. (per i dolciniani, 430 sg.). Degli atti dell'inquisizione sto preparando l'edizione integrale, che apparirà a cura dell'Istituto storico ita- liano per il Medioevo. Li citerò con: Atti Bologna.

(7) Nell'ottimo libro di R. Masselli, La « Lectura supra Apocalipsim » di Pietro di Giovanni Olivi. Ricerche sull' escatologismo medievale, Roma, presso l'Istituto st. ital. per il M.E., 1955, p. 105.

Fiore, che doveva anche ispirare e dar « tono » a nuove eresie e semieresie, mentre le vecchie eresie, il catarismo e il valdismo, anda- vano o scomparendo o scolorandosi e certamente perdendo terreno.

All'inizio del secolo XIII il mendicantismo aveva largamente po- larizzato l'ansia religiosa delle masse, togliendo proprio alle vecchie eresie molte delle loro giustificazioni, e difatti la spinta ereticale si era notevolmente affievolita, almeno come fatto collettivo, che i problemi ed i dubbi e le intuizioni dei singoli non erano più usciti dal chiuso dei conventi. Ma ora questa ansia riprendeva a dilagare nel mondo dei laici, e si complicava con una certa insoddisfazione verso gli or- dini mendicanti, e specie il francescano, da più parti attaccato (8).

Stato d'animo generale, anch.? se indistinto, più espressione di disagio che non cosciente opposizione: disagio verso la ecclesiasticiz- zazione degli ordini regolari, verso ciò che appariva come una rinun- cia di essi alla iniziale tensione rivoluzionaria, per adattarsi alla vita nel mondo. Sembrava che troppo facilmente si conformassero alla Chiesa gerarchica e curiale e « mondana », più che non al Cristo, al Dio vivente di cui Francesco aveva portato il sigillo; si aveva la desolata impressione che patteggiassero con il secolo, rinunciando .1 dominarlo attraverso la sua radicale negazione.

Si ricominciava pertanto a cercar altre vie e nuovi esiti per questi rinnovati stati d'animo. Non certo con intenzioni eterodosse, almeno in partenza, che ormai si aveva appreso a diffidare dalle eresie.

Ma era inevitabile che, in tale sconcerto degli animi, riprendes- sero vigore le antiche istanze etico-religiose, che tanto avevano con- tribuito, nel secolo XII, a render popolari le eresie: l'evangelismo, cioè la condotta di vita secondo l'Evangelo inteso letteralmente, e il pauperismo, la vita povera, l'ideale così presto abbandonato dai frati mendicanti. E siffatte istanze, per loro natura radicali, portavano ine- vitabilmente verso posizioni di critica e con ciò verso un distacco, più o meno conscio e appariscente, dalle posizioni ortodosse.

Proprio dopo il 1260 (e si è tentati di attribuire anche noi a que- sta data un valore per così dire causale), in Italia soprattutto assistia- mo al sorgere di nuove forme di religiosità organizzata, tra laica e « regolare », in quanto si reclutavano nel laicato, ma poi si distacca- vano da esso, assumendo modi da congregazioni religiose, da « reli- gioni », da « regole ordinate », per valerci della bella espressione villaniana; esse imitavano o contraffacevano i grandi ordini già esi- stenti, specialmente quelli mendicanti e più ancora il minoritico (9).

(8) E' noto come Guglielmo di St. Amour proponesse addirittura la soppres- sione degli ordini mendicanti, in quanto praticavano indebitamente la predica- zione e chiedevano l'elemosina (cit. presso Manselli, p. 119 sg.). Era un attacco che partiva dal clero secolare, ma poi lo avrebbe ripreso fra Dolcino, riferendosi però a una generica decadenza dei due ordini, specificamente in rapporto al pro- blema della povertà.

(9) Il notissimo cronista minorità Sali m bene, nella sua Cronica (la cito se- condo Ted. Bernini, nei « Classici Laterza »), protesta nel suo modo vivace contro il vezzo di prendere a modello anzi di copiare le caratteristiche dei Minori. Per es. : « Nos et fratres praedicatores docuimug omnes homines mendicare, et quili-

Comunità irregolari in sostanza, più o meno selvagge, e di certo più facilmente minacciate dal pericolo di cadere nella eterodossia. Tra esse, quella degli Apostoli, della quale ci occuperemo.

Era un fenomeno che non mancò di preoccupare la S. Sede. Gre- gorio X nell'ultima sessione del concilio di Lione, nel 1274, soppri- meva tutte le religioni e gli ordini mendicanti « inventati » dopo il concilio generale del Laterano (1216) (10), con la specifica motiva- zione che erano troppe, erano « quasi una moltitudine sfrenata ». E fra Salimbene nel riassumere con parole espressive il succo di quella disposizione, notava anche che i troppi ordini mendicanti ingeneravano « fastidio e tedio » n~lla cristianità (11).

L'intenzione di quel pontefice e dei suoi successori era indubbia- mente di tutelare i due « autentici o ordini mendicanti (12) contro ogni imitazione o contraffazione da parte dei nuovi ordini, fossero essi di nuova « invenzione » oppure il prodotto dalla scissione di ordini più antichi (13).

Fra Salimbene parla con una certa ampiezza di uno di tali piccoli ordini, che mostrava una certa analogia con gli Apostoli e ne aveva condiviso per qualche tempo la sorte: l'ordine dei Saccati (14) o peni- tenti, che avevano imitato e francescani e domenicani, in tutto e per tutto.

La disposizioni' di Gregorio X, secondo Salimbene, si sarebbe ri- ferita direttamente ai Saccati ed agli Apostoli. Non si tratta però evi- dentemente del canone 23 del concilio di Lione, ma forse di qualche altro decreto, non conservato: ai due ordini sarebbe stato ingiunto non lo scioglimento immediato, ma il blocco delle ammissioni, che avessero a scomparire gradatamente. Un trattamento di favore, che per j Saccati si «piega in quanto erano un ordine piuttosto antico.

bet assumi! sibi raputium et vult Tacere una m reeulam mendica ntem » e poi: « quirumque volant noviter aliquam regulam facere, semper mendicant aliquid ab ordine beati Francisci, aut soleas aut cordam aut etiam habitum » (ambedue i passi alla p. 365, ma vedi anche p. 368). Il p. Gratien, nella sua Histoire de la fondation & de l'évolution de l'ordre des frères mineurs, p. 441, attribuisce co- desta imitazione delle particolarità dell'ordine minoritico al proposito di « mieux séduire les foules ». Può aver ragione, ma deve ancor più aver contato il fascino del « viver povero », ch'era un po' la « moda religiosa » del tempo. E poi deve aver esercitato una notevole influenza anche la profetica asserzione di Gioacchino da Fiore, che nella terza ed ultima fase la Chiesa sarebbe stata guidata dai mo- naci e religiosi.

(10) Vedi il canone 23 del concilio, presso Hefele-Leclercq, Histoire des conciles, VI, 1, p. 201.

(11) Salimbene, p. 366.

(12) Tipica anche questa motivazione del canone 23: il divieto non tocca francescani e domenicani, « quos evidens ex eis utilitas ecclesie universali pro- veniens perhibet approbates ».

(13) Sulle successive vicende di questa non facile lotta contro il disordinato pullulare dei nuovi ordini, c'informa in modo sufficente lo Spaetunc, p. 113 sg. Vedi anche appresso, p.

(14) Salimbene, p. 364 sg. Li presenta però come se fossero stati fondati in quel torno di tempo: vedi invece Heimbucheb, Die Orden und Kongregationen der katholischen Kirche, 1933, III. ed., I, p. 539.

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anteriore probabilmente al 12] 6 (e perciò, almeno implicitamente, già approvato dal concilio Lateranense), ma non si spiega per gli Apostoli, di recente creazione. Cor.iunque, ì Saccati si erano obbe- dientemente sottomessi all'ingiunzione papale, glj Apostoli no, e di- fatti durarono ancora a crescere, « finché non li sopprimerà qualche altro papa » (15).

* * *

E veniamo finalmente a parlare di loro. Non sarebbe esatto defi- nirli senz'altro come eretici, ché mancano gli elementi « tecnici » per un tale giudizio. Infatti il loro fondatore non volle creare una nuova set- ta o chiesa, ma una congregazione dove si manifestasse quel ravviva- mento di vita evangelica che era nelle aspirazioni del tempo.

Forse il termine che li designa meglio è quello di « movimento », con tutta la carica espressiva che questo moderno termine comporta, di mistico slancio e d'irrazionale dedizione verso la personalità di un « capo » trascinatore di masse (e tornano a proposito le interessanti considerazioni di Max Weber sul « potere carismatico »). Movimento, dunque, anzi il primo ed unico movimento che sorgesse sulla base dell'escatologismo di stampo gioachimitico.

Sappiamo sui primi tempi degli Apostoli soltanto ciò che ne dice, ma senza alcuno scrupolo di obbiettività o di compiutezza, il cronista parmense fra Salimbene (16): notizie comunque preziose, perché in- tegrano il pochissimo che poi sappiamo degli Apostoli sotto fra Dol- cino (17).

Anzitutto notiamo il carattere essenzialmente popolaresco, anzi forse addirittura plebeo del movimento. Gli Apostoli sono per Salim bene dei ribaldi, degli ignobili cioè dei non nobili, e poi dei rustici,

(15) Saìimbene, p. 386.

(16) Caratteristico per la sua incredibile prolissità è che, per radunare le non molte notizie che sul Segarelli e gli Apostoli, dobbiamo scorrere ben 60 pagine dell'ed. Bernini (precisamente dalla 367 alla 425); e poi vi ritorna ancora sopra, più avanti. Non manca però di vantarsi di ciò che ha fatto: «de eo et se- quacibus suis magnum tractatum composui et descripsi » (p. 889).

(17) La massima parte della documentazione intorno agli Apostoli è riunita, a cura e col commento del Secarizzi, nel vol. IX, parte V, dei Rerum ital. scriptores, nuova edizione. Predominano per importanza la Historia fratris Dui- cini del cosidetto Anonimo sincrono, e il De seda illorum qui se dicunt esse de ordine Apostolorum, dell'inquisitore Bernard Gui. 11 Segarizzi vi ha aggiunto una buona scelta degli Atti dell'inquisizione di Bologna (di cui alla mia no- ta 6), ed alcuni altri lesti. Sul nome degli Apostoli dice il Gui, p. 17, che il Segarelli « sic eos voluit appellari, qui viverent sub nullius obedientia nisi 6olius Dei », e poi che volle « sectam... Apostolorum ordinem nominari, qui per mun- dum discurrerent sicut pauperes mendicantes et de elemosinis viventes et predi- carent populis ubique " penitentiam agite, appropinquabit enim regnum ce- Iorum " ». Avevano però anche altri nomi: «pauperes Chrisli sive minimi sive apostoli » (Atti dell'inquisizione di Bologna, editi dal Segarizzi nel detto volu- me, p. 57); « faciunt se appellari et vocari pauperes Christi sive minimes et consueverant appellari apostoli » (ibid., p. 56). Può darsi che fossero i dolciniani a portare le due qualifiche di Poveri di Cristo e di Minimi (con evidente signi- ficato di critica ai Minori), lasciando in disuso l'antica qualifica di Apostoli.

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i quali farebbero bene ad attendere piuttosto al loro vile mestiere di zappaterra, di guardiani di porci e di vaccai (18).

Ciò che a lui più fastidio, e che probabilmente era una spic- cata caratteristica degli Apostoli, è che essi non lavorano (19), ma vivono soltanto di elemosine e .-i aggirano tutto il giorno per le vie, predicando. Ciò è confermato dagli atti dell'inquisizione bolognese: quando un apostolo veniva interrogato, una delle prime domande, dunque una di quelle che con più sicurezza lo facevano individuare, era se lavorasse o no, e, nel caso venisse poi assolto, gli si faceva preciso obbligo di cercarsi un lavoro (20).

Gli Apostoli non possedevano nulla: il primo loro atto (21) dopo la conversione era che, secondo il precetto evangelico, vendevano il loro patrimonio; ma invece di darlo poi ai poveri, insinua fra Salim- bene, lo sperperavano in gozzoviglie.

Andavano in giro vestiti al modo degli apostoli di Cristo, incolti la barba ed i capelli (per questo erano detti dal popolo gli « scarmi- gliati »), e con tuniche e manti di foggia e colore (il bianco) parti- colari, e sandali ai piedi La prima idea di codesta acconciatura Ge- rardo Segarelli l'aveva desunta dalle figure di apostoli che aveva con- template nella chiesa dei Minori in Parma (22).

La loro congregazione era veramente un qualche cosa d'insolito, perché, a prescindere dal non avere una sede e tanto meno una pro pria chiesa (23), e dal non rispettare la fondamentale regola mona- stica della stabilità (ma sarebbe eccessivo ricercare in loro veri con notati da religione regolar**), non avevano nemmeno una gerarchia un capo. Almeno agli inizi : Gerardo non aveva voluto esserlo, ammo- nendo che ognuno poteva e doveva regolarsi da sé. Ma poi sembra che una qualche forma di organizzazione l'avessero: prima di Dolcino sappiamo dell'esistenza di diie loro capi (24).

(18) Gli accenni alle loro condizioni sociali sono alle pp. 369, 370, 372, 394, 417, 424 della Cronica.

(19) Per es.: « tota die ociosi, tota die vagabondi per civitates et mundum discurrunt nec operari volunt, sed vivere ex aliorum sudore et labore », Salim-

RENE, p. 373.

(20) Vedi nella scelta degli atti bolognesi fatta dal Secamzzi, pp. 54, 56, 57.

(21) Salimbene, p. 390: «Isti autem, seu aliqui eorum, vendunt domunculas suas, ortos, agros et vineas et non dant pauperibus, sed reservant et portant flo- rinos aureos secum ». E' una prova indiretta che gli Apostoli si reclutavano an- che tra le persone di un certo grado sociale.

(22) E' il racconto, ben noto, di Salimbene, p. 367 sg. Così il Segarelli cre- deva « apostolorum habitum demonstrare ».

(23) Salimbene, p. 375, una curiosa spiegazione: un abate cisterciense (di Fontanaviva presso Parma), interpellato dagli Apostoli, avrebbe dato loro il consiglio: « quod non facerent loca convenrualia nec congregarentur in domi- bus, sed irent per mundum sicut inchoaverant... et quod in diversis domibus hospitarentur ». Si noti però che in Parma vi era una « domus religionis aposto- lorum » (Bernini, Apostoli, p. 354, cit. alla nota 37). Riguardo alla loro avver- sione per le chiese (che poi è addirittura un luogo comune per gli eretici), si veda il paragrafo 19 dell'elenco degli « errores Geraldi Segarelli » del Gui, p. 25.

(24) Dopo questo rifiuto di Gerardo, del loro « primius » (termine che Salim- bene usa spesso per indicare i fondatori di ordini o sètte), gli Apostoli si erano

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Quanto al modo di vita, predominava il precetto della povertà più assoluta, più aderente che possibile al Vangelo, e correlativamente campavano di questua: sembra che il popolo li considerasse con sim- patia e fosse abbondante nelle elemosine, cosa che naturalmente irri- tava fra Salimbene (25). Si comportavano come gli antichi apostoli, soprattutto nel praticare In predicazione itinerante. Finché non ven- nero perseguitati, erano soliti di girare, soli o a coppia, annunciandosi nelle vie e nelle piazze con le parole del Battista: « penitentiam agite, appropinquavit eniin regnum coelorum ». Era questo il loro motto ti- pico (26), e tanto spesso ripetuio e poco compreso dal volgo, che essi, almeno nel bolognese, erano chiamati comunemente i « celoni », e le loro pratiche devote erano dette « lacere celonum » (27).

Per completare il nostro modesto quadro, diremo ancora che ave- vano anche una specie di secondo ordine femminile, quello delle « apostolesse »: nel bolognese le chiamavano anche le « prevedes- se » (28). Naturalmente ciò dava esca ai maldicenti, tra i quali è anche fra Salimbene. Sembra però che praticassero anche certi ambigui espe- rimenti di continenza sessuale (29), che corrisponderebbero ad altri di altre sètte, specie di quella del Libero spirito, e che si fondavano sulla persuasione che colui che ha raggiunto la perfezione, non possa peccare, anche volendo. Ma può anche darsi che in questo campo la fantasia popolare si abbandonasse alla gratuita invenzione e calun- nia: non è un fatto isolato nella storia delle sètte.

Tra accuse e irrisioni e ingiurie, Salimbene trova a un tratto, inattesamente, due meriti negli Apostoli (30). L'uno è che si vestono, appunto, al modo degli antichi discepoli di Cristo. L'altro è che essi sono apparsi intorno all'anno 1260, « quo eliam anno, ut Ioachite dicunt, inchoatus est status Spiritus sancii, qui in tertio statu mundi in viris religi osis operari debet ». Ammissione importante, che ci fa certi come allora si mettesse ;n relazione la profezia gioachimitica

rivolti al parmense Guido « Pulagius » o dei Putagli, di nota e nobile famiglia, il quale « viriliter assumpsit sibi dominium, quod tenuit annis multis ». Il suo fare irrita gli Apostoli: un gruppo di essi, marchigiani, fa una sorta di scisma e si per capo fra Matteo della Marca. In Faenza si viene a un urto fra le due fazioni, e Guido finisce per rinunciare, nell'anno 1274 (Salimbene, p. 376 sg.; cf. Bernini, Apostoli, p. 353). Non sappiamo quel che avvenisse poi, sino alla comparsa di Dolcino, del quale Salimbene non parla, almeno per la parte della Cronica che si è conservata, e che arriva al 1287 (ed. Bernini, pp. 922 e 939).

(25) « Et plus et liberiti us dabant eis Parmenses concives mei viri et malie- res, quam fratribus minoribus et predicatorìbus darent », Salimbene, p. 372 e altrove.

(26) Salimbene, p. 370, afferma che l'ignorante Gerardo non era nemmeno in grado di pronunciarlo rettamente, ma diceva « penitençagite ».

(27) Atti Bologna, c. 107: gli Apostoli in una casa « faciunt et dicunt celo- num et lalia (sic, forse « et alia ») secundum modum dictorum apostolorum ».

(28) Per queste donne, vedi Salimbene, p. 808; Atti Bologna, c. 95 v.: «que mulieres vocantur 'le preveese' ». Vedi anche la nota 37, per l'accenno alle « so- rores aposlolisse ».

(29) Salimbene, pp. 370, 382, anche 381. Vi si accenna ai paragrafi 15-16 del testo del Gui.

(30) Salimbene, p. 425.

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con la comparsa di codesti strani predicatori vaganti e poveri; e può aiutarci a spiegare il grande ascendente che avevano sulle folle.

Si noti ancora che Salinibene non parla per loro di eresia, ma solo li accusa di inosservanza verso il divieto papale del 1274. Li gin- dica però scrocconi e imbroglioni (31), e ritiene sospetto il loro movi- mento, perché, e il ragionamento del minorità è tipico per quel tempo, saturo di misteriose significazioni, gli Apostoli non erano stati « prefigurati », dalla Scrittura da Gioacchino: « si ex Deo fuissent, abbas Joachim nequaquam eos sub silentio preterisset » (32)

Salimbene praticamente non dice nulla di concreto e di notevole intorno a Gerardo. Si ha la impressione che non fosse altro che un tipo ispirato e strambo di predicatore popolare, non alieno da qual- che forma di « santa pazzia » (33), forse cou poche idee ma cocciuta- mente ripetute. Quali fossero, possiamo soltanto supporre, perché nemmeno l'inquisitore Bernard Gui (34), che ebbe per qualche tempo ad occuparsi della setta, dice gran che sul conto del suo fondatore. Parla di una sua « nova doctrina », una « nova via », un « novus vi- vendi modus », ma non consta che fosse altro che la pratica della vita apostolica, nei suoi tipici aspetti dell'itinerantismo e del pauperismo, al che si aggiungeva la predicazione della penitenza. Non credo che in quei primi tempi gli Apostoli dovessero vivere nascosti: finché l'in- quisizione non si occupò di loro, e cioè per almeno un quarto di se- colo, dovettero aggirarsi indisturbati, nel loro pittoresco costume, per le strade di città e di campagna.

E tuttavia il Gui parla di loro private confabulazioni e occulte conventicole. Se egli non confonde quei tempi con quelli di fra Dol- cino, dobbiamo ritenere che si trattasse di adunate segrete, nelle quali Gerardo, più che praticare una qualche forma di culto, di cui nulla sappiamo e che non appare probabile vi fosse, parlasse « contro il comune stato di Santa Romana Chiesa, tanto dei prelati e di tutto il clero, quanto dei religiosi e di tutti gli ordini e anche dei laici » (35): ma non sapremmo dire se tali critiche ricalcassero o no la traccia gioachimitica, il che è però possibile.

L'importante è che gli Apostoli al tempo di Gerardo non erano ancora considerati eretici, almeno (pianto collettività. Si noti che, quando nel 1286 papa Onorio IV rinnovò il provvedimento di Gre-

(31) L'imbroglio sta nell'accettare le elemosine senza dar nulla in cambio: « ipsi vero nec pro benefactoribus sais orabant nec celebrabant nec predicabant nec ecclesiasticum officium decantabant nec confessione» audiebant », il che era naturalmente anche una conseguenza dell'essere gli Apostoli dei laici (Salimbene, p. 372, anche 367).

(32) Salimbene, p. 425. Alla p. 418 allude alla prefigurazione dei due ordini mendicanti che si trova presso Geremia e che era stata individuata da Gioacchino.

(33) Vedi presso Salimbene, p. 382, come il vescovo di Parma, Obizzo de' Sanvitale, si dilettasse a mensa delle sue buffonate (ma il Bernini, Apostoli, p. 354, ritiene che Salimbene abbia deformato il vero).

(34) De secta illorum, cit. Fu scritto nel 1316, come egli stesso dice, a p. 23.

(35) Gui, p. 17.

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gorio X nei loro riguardi (36), prescrisse che deponessero l'abito e, se volevano continuare a condurre vita religiosa, si trasferissero in qualcuna delle « religioni approvate ». Non una recisa condanna, dun- que, anzi un tentativo di recupero.

Andò tuttavia fallito, ché gli Apostoli continuarono a sussistere, appoggiati del resto ufficialmente dal comune di Parma (37), e con- tinuarono a godere il favore delle popolazioni, o dei « semplici », come dice il Gui, che si lagna anche della colposa tolleranza che mostravano verso loro i vescovi (38). Nel 1290 papa Niccolò IV ripeteva la ingiun- zione di deporre l'abito, e in più (la cosa va notata) prescriveva che venissero interrogati « de articulis fidei » (39). Certamente si accre- scevano i sospetti che stessero slittando verso l'eresia. Finalmente in- tervenne l'inquisizione. Nel 1294 il vescovo Obizzo, forse per consi- glio o ordine di essa, toglieva a Gerardo il suo favore e lo gettava in carcere. Il Segarelli avrebbe potuto concludere la sua vita, come tanti altri infelici, ma per non sappiamo qual motivo egli venne poi anche incolpato di eresia dall'inquisitore Manfredi da Parma e condannato al rogo, il 12 luglio 1300 (40). I suoi seguaci naturalmente vennero perseguitati: parte abiurarono, parte furono puniti, altri fug- girono.

Ma il movimento degli Apostoli doveva superare questa crisi, ap- parentemente mortale, e consolidarsi in vera setta o chiesa ereticale, ormai del tutto clandestina.

Gerardo, come attesta il Gui, aveva formato « più discepoli e mae- stri » (41). Senz'altro fra questi ultimi va messo fra Dolcino, colui che veramente costruì una dottrina e setta degli Apostoli e diede loro del tutto la propria impronta, tanto che potremmo meglio denominarli ora i « dolciniani ». Non sappiamo quando egli fosse entrato a con- tatto con Gerardo e con gli Apostoli. Poiché Salimbene non fa il suo

(36) Il testo della lettera apostolica « Olim felicis recordation is » dell'll mar- zo 1286 è riportato integralmente anche dal Gui, p. 18, probabilmente per la sua importanza come la prima presa di posizione ufficiale della S. Sede nei loro ri- guardi. Vi leggiamo che tra gli Apostoli erano stati trovati « nonnulli pravitatis heretice vitio laborantes ». Lo Spaetlinc rileva giustamente che Salimbene non dovette averne notizia, altrimenti ne avrebbe certo parlato, e in senso favorevole, o almeno avrebbe attenuato il suo duro giudizio sul morto Onorio IV (p. 886).

(37) Vedi: F. Bernini. Apostoli e flagellanti in Parma nel duecento secondo nuovi documenti, « Religio », 1935 ( poche pagine ma di un certo interesse ; è curioso che l'autore non citi questo scritto nella propria bibliografìa, edita in appendice all'edizione di Salimbene!). A p. 353 ricorda due provvedimenti del comune di Parma in favore degli Apostoli, ed a p. 354-55 riporta una lettera del vescovo Obizzo per le « sorores apostolisse ».

(38) Gui, p. 19. Anche Saijmbene, p. 403: « miseria et pigritia episcoporum permittit eos per mundum infruttuose vagari ».

(39) Spaetunc, p. 115. Il testo si legge presso Raynaldi, Annales ecclesiastici, ad a. 1290, n. 51.

(40) Gui, p. 19: notare l'espressione « deprehensus est in heresi ». Vien da chiedersi come mai Gerardo, stando in carcere, avesse potuto cadere in eresia; oppure era stato rilasciato ed era « relapsus »? Il Gui mette come data del suo supplizio il 1301, ma si tratta del 1300.

(41) Gui, p. 19.

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nome nella parte della cronaca che si è conservata, possiamo ritenere che prima del 1288, circa, Dolcino non fosse ancora venuto in primo piano. Può darsi che, come è stato supposto, il suo momento sia giunto quando Gerardo venne incarcerato e gli Apostoli restarono senza gui- da, dunque nel 1294. Era del resto anche l'anno in cui ebbe luogo l'altamente drammatica vicenda di Celestino V, motivo di scandalo per tutti gli « spirituali », ed anche questo fatto potè contribuire a dargli l'ultimo impulso per iniziare la lotta contro la Chiesa ufficiale e più specialmente contro Bonifacio Vili.

Sul conto di Dolcino come persona non sappiamo quasi nulla. Le poche notizie biografiche che ci Benvenuto da Imola non convin- cono troppo, ma non abbiamo altro (42). Tutto lo fa credere persona di una certa cultura. Conosceva certamente gli scritti di Gioacchino da Fiore o a lui attribuiti, e forse anche quelli di Gerardo da Borgo S. Donnino e di Pietro di Giovanni Olivi, suoi contemporanei. Doveva avere una discreta conoscenza della S. Scrittura e anche della storia della Chiesa: affermava di essere mandato da Dio a spiegare quei testi e interpretare quelle vicende, nonché a profetare le future.

Di lui non si è conservato nulla in forma autentica. L'inquisitore Bernard Gui riporta in riassunto (e vogliamo credere che l'abbia fatto con onestà) due lettere (43), specie di encicliche che Dolcino aveva diramate: certamente manifesti programmatici e scritti di propagan- da e polemica, non opere di sistematica costruzione, non trattati di me- ditata doltrina. Dagli atti bolognesi inoltre apprendiamo, e la cosa è del tutto nuova, che Dolcino aveva redatto due altri scritti, dei quali ignoriamo però tutto (44).

Non ritengo a ogni modo che egli, anche se persona di cultura, fosse stoffa di teologo e di pensatore: lo vedo piuttosto come un uomo di azione (45) nel campo dell'apostolato, e un trascinatore di folle. Sul finire della sua vita sviluppò forse anche inattese qualità di uomo di guerra, in quella tal resistenza nelle Prealpi del Biellese, della quale diremo ancora.

(42) Presso Secahizzi, p. IX.

(43) Gui, p. 19: la prima dell'agosto 1300, la seconda del dicembre 1303.

(44) Inquisizione di Zaccaria Bondi Balbi, presso Atti Bologna, c. 93 b: tale Secondino da Brescia « scripsit plora de operibus Dei et ministerio eius, secun- dum compillationem quam fecerat Dolcinus de Novaria » (non è proprio certo the si tratti di un suo scritto); ibid., c. 94: « ipse Dolcinus docet quandam me- nam (= storia) et modum fidey et operum, et incipit sic: Omnes grossi et omnes sitiles, qui cognoscunt bonum a malo, ecc ». Vedi anche in uno dei testi editi dal Secarizzi, p. 52 : il prete Comasino de Panelli» menziona « unum librum in quo scripta erat fides et credentia et doctrina Dulzini et Federici Grampe et eorum sequatium ». Non so se sia stato rilevato questo contributo del Grampa alla costruzione della dottrina di Dolcino. Per lui vedi anche più avanti, p. 19.

(45) Però vedi Secarizzi, p. 80: Dolcino era stato bene accolto da quei di Arco nel Trentino, perché « videbatur bonus homo et dicebat pulchra verba et habebat bibliam et exponebat evangelia et dicebat de futuris ».

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Con Dolcino il movimento degli Apostoli deve esser uscito dalla sua prima fase anarcoide, ricevendo struttura e lineamenti di setta o di chiesa clandestina (46), con un programma e un corpo di dottrine, che lo portarono nettamente nel campo dell'eresia. Non perché si an- dasse contro il dogma e gli insegnamenti della fede ortodossa (almeno stando a quel che sappiamo), ma perché si revocava in dubbio la essenza stessa della Chiesa cattolica, negando addirittura la funzione di condurre i fedeli cristiani sulla via della salvezza.

L'inquisizione logicamente non diede mai tregua agli Apostoli, e dagli atti bolognesi risulta l'alto grado di pericolosità che si attribuiva loro. Non è un caso che se in tali atti, da un certo momento in poi, le inquisizioni contro i caia ri, - - fino allora assai numerose , ces- sano bruscamente, e si hanno solo interrogatori e condanne di Apo- stoli; e si noti che le assoluzioni di questi furono assai poche e quasi tutti finirono sul rogo.

Non è questo il luogo per analizzare la dottrina di Dolcino, per- ché dovremmo dapprima ricostruirla, dal non molto che ci dicono, con una certa sistematicità Bernard Gui, e del tutto incidentalmente, ma con alcuni particolari nuovi o diversi, gli atti dell'inquisitore bolo- gnese; e poi sarebbe necessario metterla in relazione con il gioachi- mismo. a cui chiaramente s'ispira.

E' da ritenere che Dolcino inizialmente abbia dato al rudimentale evangelismo di Gerardo una certa sistemazione dottrinale, aggravando fortemente le accuse contro la Chiesa; soprattutto lo arricchì e gli diede più ampio respiro mediante l'immissione della dottrina di Gioac- chino da Fiore (specie il suo periodizzamento), dei suoi spunti pro- telici, della sua idea centrale del trionfo della Chiesa dello Spirito. Con ciò accresceva straordinariamente la forza di penetrazione e di diffusione degli Apostoli, facendone una vera pattuglia di punta del gioachimismo : ne aumentava il potere di attrazione sul mondo dei laici e di coloro che erano insoddisfatti della Chiesa ufficiale.

Addirittura affascinante per loro doveva essere quella specie di catarsi che Dolcino poneva al termine della sua drammatica interpre- tazione della storia della Chiesa e dell'umanità. Con una temerarietà che forse non ha l'uguale nella storia della profezia, egli non solo dava sicura la fine della Chiesa carnale, ma l'annunciava vicinissima, anzi ne fissava puntualmente la data al 1305. Allora Federico di Ara- gona, re di Sicilia, popolarissimo fra quegli spiriti inquieti, sarebbe divenuto imperatore, in Roma, poi avrebbe creato in Italia vari re, insieme ai quali avrebbe regnato per tre anni e mezzo (47).

(46) La clandestinità era addirittura prescritta da Dolcino ai suoi segnaci, in quanto dovevano tenersi in serbo per il giorno del trionfo della loro fede. Ma ritengo che non fosse applicata in modo troppo rigoroso, che i dolciniani, es- sendo o ritenendosi veri cattolici, potevano frequentare senza scrupolo le nor- mali pratiche devote e quindi non dar nell'occhio sotto quell'aspetto.

(47) Strana a prima vista, questa indicazione di tempo si spiega con i soliti richiami scritturali, filtrati attraverso Gioacchino da Fiore. Nella Concordia veteris et novi testamenti si parla del periodo di 42 generazioni : « et dicuntur menses

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Anni di sanguinosa retribuzione, che egli, agendo un po' come il braccio secolare della Chiesa dello Spirito, avrebbe ucciso il papa, i cardinali, gli alti prelati e tutti i religiosi; avrebbe tolto alla Chiesa carnale le sue ricchezze e il dominio temporale e ridotto il mondo alle condizioni volute dall'Evangelo. Da ultimo Dolcino medesimo, o un altro, sarebbe divenuto il « papa santo » e perfetto, quale era stato S. Pietro.

Scaduti i tre anni e mezzo, sarebbe venuto l'Anticristo, nemico degli Apostoli, ma Dolcino ed i suoi fedeli gli sarebbero miracolosa- mente sfuggiti, perché sarebbero stati assunti in cielo. Morto poi l'Anticristo, sarebbero ritornati sulla terra e avrebbero convertito alla retta fede tutto il mondo. Poi. la fine dei tempi (48).

* * *

Temeraria profezia, invero, e vano « antivedere », per dirla con Dante. Nel 1305 fra Dolcino si trovava invece assediato sulle monta- gne della Valsesia, e s'era iniziato l'ultimo tempo della sua avventu- rosa vita: la lunga resistenza in montagna, contro un vero esercito messo insieme dai vescovi di Vercelli e Novara, insieme agli armati di una lega dei signori di quelle vallate; e papa Clemente V aveva anche bandito la crociata contro di lui.

Su questo noto episodio abbiamo ora da soffermarci, e non per narrarlo in tutti i suoi particolari bellici, ma per intenderlo nel suo vero significato.

Troppo noto, anzi, questo episodio. Ha finito per sopraffare se non addirittura cancellare il lato più propriamente religioso dell'azio- ne di fra Dolcino, che per me è l'unico autentico e degno di nota. Invece è stato impesta alla comune cultura l'immagine di un Dolcino guerriero e « sociale ». in luogo di lui apostolo, o, in altre parole, si è voluto interpretare l'apostolo in chiave sociale, e il suo movimento è stato assunto « quasi come elemento tipico per dimostrare la validità di un'interpretazione dell'eresia medievale fondata sulla concezione del materialismo storico del Marx » (49).

E' istruttivo vedere come questo specifico aspetto della « fortu- na » (o sfortuna) di Dolcino, dopo una lunga fase nella quale egli vien tramandato come una sorta di diabolico brigante, entri in fun- zione contemporaneamente alle prime affermazioni, e connesse preoccupazioni « borghesi », del socialismo: in una narrazione romanzata del 1837, e. poi venga ripreso a trattare in data non meno significativa, nell'ultimo ventennio del secolo XIX (50).

quadra finta duo, sive tempus et tempora et dimidium tempori»... numéros iste tam solemnis citius quam putatur conaummationem accipiet » (da Apoc. 12, 14, cit. da Buonau ti, Gioacchino da Fiore, p. 228). Quarantadue mesi sono 1260 giorni ossia tre anni e mezzo (calcolati a 360 giorni, naturalmente) e ognuna di queste cifre ha il suo valore simbolico, come è ben noto.

(48) Tutto questo è riferito dall' Anonimo sincbono, p. 8.

(49) Miccoli, p. 245.

(50) Vedi, come sempre, nel Miccoli, passim.

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Oggi, in relazione a novissime drammatiche esperienze, si è certa- mente indotti a guardare con curiosità a codesta « resistenza », che par- rebbe addirittura anticipare certe forme di autonomie partigiane che si sono avute proprio in quella zona: si sarebbe indotti a pensare per analogia a una specie d? repubblica « sociale » dolciniana, difesa da forze di popolo contro una sorta di « reazione » vescovile e feudale. E poiché a capo di quella resistenza vi era indubbiamente fra Dolci- no, si è facilmente portati a postulare dalla identità della persona l'identità dei propositi, a riverberare sulla figura di Dolcino « apo- stolo » la tragica luce del Dolcino « resistente », ad attribuire a quello eli stessi propositi di questo, o, più esattamente, i propositi che gra- tuitamente gli si attribuiscono.

Ma perché non pensare in modo inverso? Per me. ritengo anch'io che Dolcino tra le montagne valsesiane abbia pensato non diversa- mente da quello che aveva predicato in Bologna e altrove: ma non credo che la sua predicazione fosse di natura sociale, che così vada giudicata la sua ultima resistenza.

Sia lecito a questo proposito riferirmi a due intelligenti obbie- zioni fattemi durante il convegno di Torre Pellice, e a me utilissime, come quelle che, invitando alla replica, permettevano di giungere a un sempre maggiore approfondimento della questione.

Sosteneva uno dei presenti, fondandosi sulla sua esperienza di partigiano di montagna, che Dolcino avesse commesso allora un fune- sto errore, abbandonando la pianura, -love avrebbe potuto condurre una tattica manovriera, agile quindi e atta a feconde improvvisa- zioni, laddove si arroccò in impervie vallate, condannandosi da solo all'immobilità e cioè alla sconfitta.

Ottima, e tecnicamente adeguata, l'osservazione. Partiva però dal presupposto non dimostrato che Dolcino volesse combattere, e con quell'intento si fosse ridotto verso le montagne che meglio conosceva, salvo poi a commettere quel tale errore. Ora è chiaro che ci si può battere sia per offendere sia per difendersi. Non vedo proprio, nella prima ipotesi, a che cosa potesse mirare Dolcino prendendo le armi: forse ad accelerare la fine della Chiesa « carnale » o, più modesta- mente, a indebolire la potenza dei vescovi di Novara o di Vercelli? Ho forti dubbi sulla verisimiglianza di questi due scopi; in ogni caso, non ci si batte che con armi ed armati già predisposti e raccolti, e tale preparazione non abbiamo assolutamente le prove, e tanto meno possiamo configurarci i dolciniani come una specie di milizia ereti- cale, Q al modo degli Ugonotti del XVI - XVII secolo.

Con il che cade o si riduce grandemente anche l'ipotesi di un* difesa armata: occorrerebbe anche, a suffragarla, che da parte vesco- vile si fosse già adunato un esercito e che questo avesse già messo in difficoltà l'eresiarca e costrettolo a chiudersi in difesa; ma nulla si sa di tutto ciò.

Invece di continuare a far ipotesi, vediamo ora con una certa attenzione ciò che ci dice, sulla prima fase dell'estrema avventura di fra Dolcino, l'unica fonte che ne parla diffusamente, la relazione

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dell'« Anonimo sincrono », che, con la sua esattezza di dati topogra- fici, dimostra d'essere uno del luogo.

Nel 1304 Dolcino, « homo incognitus... cum quibusdam compii - cibus suis de remotis partibus venit », su invito a quanto pare di un « rusticus dives ». Il particolare non è senza interesse per farci indi- viduare il motivo della presenza di Dolcino in quella zona, dove non sembra fosse mai stato visto (51).

Può anche aver qualche peso la constatazione che uno dei suoi più diretti collaboratori era, come sappiamo, tal Federico Grampa, che assai probabilmente era dell'alta Valsesia, dov'è il paesino di Grampa: non è da escludere perciò che Dolcino, ormai ricercato dal- l'inquisizione, accettasse volentieri da lui l'invito o consiglio di rifu- giarsi tra quelle montagne, dove aveva anche qualche altro fautore

Dapprima però egli prende dimora in due località prossime alio sbocco del Sesia in pianura: Gattinara e Serravalle. Non- rinuncia tuttavia a compiere anche la sua solita azione di apostolato, con il risultato che ben presto l'inquisizione è sulle sue tracce. Aiutato da quei valligiani (che poi furono processali per fautoria) egli, con di- versi suoi seguaci (probabilmente venuti con lui e non del posto), si addentra nella Valsesia, stabilendosi per più mesi in Campertolio (oggi Campertogno), presso quel ricco contadino che lo aveva invitato. Affluiscono intanto a lui uomini e donne « de diversis mundi parti- bus », per ascoltare la sua parola profetica suas falsas predieatio- nes et erronea documenta »).

Ma l'inquisizione è tenace e riesce a scovare anche quel suo rifu- gio. Nuovo spostamento di Dolcino, accompagnato non solo da quei suoi seguaci forestieri. che avranno avuto tutto l'interesse a evi- tare l'arresto, - ma anche da molti villici del luogo, « et aliis locis circumstantibus, cum omnibus eorum bonis ». Questa volta non può risalire molto più indietro nella valle, a poca distanza sbarrata dal Monte Rosa: ecco che per la prima volta Dolcino con i suoi si alla montagna, « ubi dici tur ad Balmam », e si sistemano per vari mesi.

Intanto si costituisce il piccolo esercito vescovile e feudale che deve affrontarlo, e che si fa sempre più vicino. Nuovo spostamento, sulla « Parete Calva », uno dei famosi luoghi di codesta « resistenza » dolciniana. Ora la fama delle angustie in cui si trova l'eresiarca va lontana, onde « convenerunt de diversis mundi partibus homines et mulieres de secta ipsius Dulcini, tot et tanti quod fuerunt in numero mille quatuorcentorum et ultra... et ibi domos quamplures et habi- t acuì a construxerunt ». L'anonimo ci fa sapere che Dolcino è il capo

(51) Benvenuto da Imola (presso Sec ab i zzi, p. IX) ci parla di Dolcino come se si fosse occultato ininterrottamente nelle montagne, di Brescia, Bergamo, Como, Milano, a et tandem ex montibus depnlsus, reversas est ad partes natalis soli » (cioè nel Novarese). Non sappiamo fino a qual punto egli fosse informato: sta il fatto che Dolcino fu anche a Bologna. Però è possibile che le località menzio- nate da Benvenuto ci riproducano effettivamente l'itinerario che Dolcino seguì nel tempo che precedette immediatamente la sua comparsa in Valsesia.

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di tutti, da tutti riconosciuto e strettamente obbedito, senza discus- sione.

Arrestiamoci per il momento a questo punto. Anche se non pre- tendiamo assoluto rigore di verità dall'anonimo, che però è l'unica nostra fonte, e bisogna riconoscere che è ben ricco di dati, è chiaro che non ci assolutamente alcun indizio di preparativi bellico- mililari da parte .li Dolcino, mentre ce li per la parte ecclesia- stica. Ritengo che Dolcino inizialmente, quando si era presentato a Gattinara, non avesse alcuna intenzione di impugnare le armi. Poi però vi fu costretto, ed è probabile che, quando dovette riparare sulla Pietra Calva, abbia anche mandato a tutti i suoi seguaci l'or- dine di raggiungerlo, armati, e questa volta per combattere, ma in difesa della propria, della vera fede, e certamente garantendo l'eter- na beatitudine a chi morisse nella lotta.

Veniamo all'altra obbiezione che mi fu fatta, e in modo non meno acuto, anzi con più adeguatezza al tema: che io dovessi tener conto della alta carica di « esplosivo sociale » che ogni eresia porta con sé, e ancor più quella su base evangelica. Proprio quell'episodio con- clusivo ci darebbe la prova della natura fondamentalmente sociale del movimento e setta degli Apostoli, che risulterebbe anche confermata dalle parole del Villani, riguardanti la condizione di quei che erano in montagna con Dolcino, « uomini e femmine di contado e di mon- tagne, di piccolo affare »^

Anche a questa obbiezione si può rispondere, e sia pure con un discorso un po' lungo.

Prima di tutto vorrei riprendere un certo mio punto di vista, cui ho avuto occasione di accennare in altra sede (52).

Nessuno può mettere in dubbio che il fatto religioso, conside- rato di per sé, abbia continui e naturali addentellati col fatto sociale. Anche maggiormente li aveva allora l'eresia su base evangelica, quella che applicava letteralmente precetti e consigli dell'Evangelo, dove si parla assai più di poveri che non di ricchi, di umili che non di potenti, e soprattutto ci si presenta il modello sublime della povertà santa in Cristo stesso.

Tali relazioni e addentellati non bastano però e non autorizzano a farci confondere tra loro il fatto religioso e quello sociale. Per me l'eresia è primariamente un atto di fede, che è frutto di un'opzione che ha per posta e scopo la salute eterna, almeno se si considera l'eretico come un sincero credente E' indubbio, sì, che ogni eresia, ogni deviazionismo (anche politico) ha alla sua radice un senso di disagio, di malcontento, un desiderio di evasione su vie nuove: ma si ricordi che qui siamo sul piano della religiosità, e su tale piano è anche da ricercare e collocare e spiegare il disagio. Possono avervi contribuito anche motivi di natura economica, ma in via secondaria e non sempre; e poi codesta inserzione del fatto economico nella vita

(52) Mi sia lecito rinviare a ciò che ne ho detto in Problemi di eresiologia medioevale, in questo « Bollettino », a. LVI, 1957.

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dello spirito o meglio nel campo parzialmente pratico della religione deve anche esser documentabile. Non ha senso darla per presupposta; sarebbe poi buon metodo assumere una ipotesi, per quanto attra- ente, come base per categoriche afférmazioni.

Venendo poi al nostro caso concreto, dobbiamo chiederci fino a qual punto la figura s l'insegnamento di fra Dolcino siano valutabili sul piano sociale e quindi economico.

Non posso escludere certamente che egli avesse personalmente una certa coscienza del fatto sociale, e nutrisse qualche senso di sim- patia o mostrasse comprensione verso le classi inferiori : sensi ricam- biati da esse e che forse anche contribuirono al suo innegabile ascen- dente sulle masse.

E poi vi è quel suo continuo « lavorare » sul concetto di pover- tà: occuparsi di un simile problema può portare facilmente a un ripensamento organico di esso e anche al proposito di risolverlo sul piano pratico. Ciò ammesso, dobbiamo però constatare che egli pre- senta sempre la povertà come una forma perfetta di vita evangelica, ó non come una ingiustizia o imperfezione o malessere del corpo sociale, da guarire o eliminare. La povertà è non solo considerata sul piano etico, come elemento della vita del cristiano, ma caricata di una forte significazione soterica, valutata dunque positivamente.

abbiamo alcuna prova che Dolcino intendesse scrollare quel principio dell'ordine voluto da Dio, su cui reggeva tutto l'edificio sociale del tempo: è ben arduo supporre che egli si ponesse sul piano pratico certi problemi o meditasse certe soluzioni che sono del tut- to moderne, come la questione di fondo della uguaglianza sociale.

E anche se ammettessimo tutto ciò, dobbiamo tener conto di quella esigenza fondamentale degli studi storici che è la condizione di verificabilità. Debbo dirlo, anche correndo il rischio di esser tac- ciato di positivismo. Tutti noi a un certo momento abbiamo il biso- gno di controllare su testi, prove, documenti, avanzi e così via la bontà delle nostre intuizioni. Orbene, non abbiamo alcuna prova che Dolcino abbia mai promesso ai poveri, ai reietti, ai servi ed agli oppressi un migliore avvenire economico e sociale; non ci consta che mai li avesse incitati alla lotta e alla rivolta in tal senso, che voles- se « distruggere gli ordini tutti per innalzare sulle loro rovine l'egua- glianza e la libertà apostolica », come, con comiziale linguaggio, si esprime uno studioso pur così provveduto come il Tocco (53).

Questo, per quanto riguarda Dolcino. Ma gli atti bolognesi ci dicono anche qualche cosa (non molto, purtroppo) sulla attività pre- dicatoria e propagandistica dei più diretti e autorizzati interpreti del suo verbo. Orbene: non risulta in alcun modo che, nei loro

(53) Tocco, Gli apostolici e fra Dolcino, p. 244. Non direi che si debba at- tribuire molta importanza al passo della lettera di Dolcino del 1300. citato dal Gli, p. 20, dove egli dice che i suoi avversari sono i chierici secolari, « cum multis de populo et potentibus et tyrannis; dal contesto si comprende che non si tratta di una dichiarazione di ostilità ai potenti della terra : Dolcino sta nel generico.

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numerosissimi incontri con fedeli e simpatizzanti, abbiano mai tocca- to argomenti di natura pratico-sociale, sviluppato spunti, segnalati abusi, suggerito soluzioni più o meno radicali. Restarono invece sem- pre e soltanto sul piano escatologico, a spiegare prefigurazioni scrit- turali, a illustrare misteriose vicende e future sorti.

Ma si dirà: proprio questo era l'esplosivo che così veniva disse- minato nella gente e che doveva giungere fatalmente alla deflagrazione, dato che certe conclusioni a fil di logica erano ben facili a trarre (54). Chi erano però questi seguaci? I documenti bolognesi ci permettono di vederli un po' meglio: non sono affatto dei proletari cittadini o dei servi della gleba, ma provengono quasi soltanto dal medio ceto, sono piccoli artigiani e mercanti di città, modesti proprietari di cam- pagna: tutta gente che aveva qualche cosa da perdere, e che nella fattispecie non poteva essere particolarmente attirata da eventuali mi- raggi di eversione sociale. Accettavano il precetto della povertà, evangelicamente assoluto, ma non è detto che poi lo applicassero in concreto, ed è chiaro che piuttosto li attirava l'ideale di perfezione che era insito nella pratica della rinuncia, e particolarmente l'istanza della povertà come critica ad istituzioni vigenti, ma più dal lato nega- tivo che non dal positivo.

Non possiamo escludere, certo, che essi si attendessero che, dopo la grande mutazione del 1305, avesse a sorgere un mondo migliore, forse anche socialmente parlando: ma questa è una speranza o utopia che accompagna da millenni ogni escatologia, e non può dirsi speci- fica del solo dolcinianesimo.

Si dirà ancora che le condizioni sociali dei dolciniani in Emilia non ci danno alcuna prova che valga per quelle dei dolciniani in Piemonte o nel Trentino; e si potrehbe rimettere in discussione il pro- blema dei servi fuggiaschi, che avrebbero ingrossato le fila della rivolta nei suoi estremi momenti, secondo l'acuta e interessante ipo- tesi di Gioacchino Volpe. Non ho alcuna difficoltà ad ammetterlo. La turba dei mille e mille fedeli che su piccolo spazio si accalcava intorno a Dolcino, dapprima con lutto il fuoco dell'entusiasmo escatologico e con « carismatica » fede, e poi con angoscia sempre più gelida nel- l'animo, effettivamente deve aver riunito gente di ogni provenienza e ceto, espresso esigenze e necessità e programmi di ogni genere. Ma nessuno di essi, tranne sempre ancora l'attesa escatologica (da ulti- mo: del miracolo), deve aver predominato al punto da imprimere il proprio suggello su tutta la situazione, da autorizzarci a qualificarla in una sola e obbligata direzione: quella della rivendicazione sociale.

(54) Si consideri per contro che il movimento degli Apostoli, tra fase segarel- liana e fase dolciniana, ebbe a durare più di sessant'anni, dato che ancora nel se- condo ventennio del secolo XIV gli inquisitori trovavano necessario occuparsene. Come mai, in tutto quel tempo, quel tale « esplosivo sociale » non giunse mai a de- flagrare, se non quella sola volta? Come mai non abbiamo il minimo indizio di altre secessioni, di altre resistenze, di altre « repubbliche sociali », di altre lotte a mano armata o in pianura o in montagna? Qualche traccia, sul piano pratico- economico o politico, di un ribollire di animi inquieti e malcontenti, si dovrebbe pur trovare. Nulla, invece.

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Riprendiamo a considerare la « resistenza » nell'ultima e dram- matica sua fase.

Dal nostro esame della prima fase risulta dunque che essa non in- cominciò sotto il segno della resistenza armata, ma questa venne do- po (e la esamineremo subito). Fu perciò un episodio preterintenzio- nale e, secondo me, senza alcuna vera connessione con l'insegnamento e le finalità degli Apostoli.

Abbiamo anche supposto che il vero e proprio concentramento dei dolciniani, quello su ordine del capo della setta (questo punto mi sembra da accettare), sia avvenuto soltanto quando le cose si misero decisamente su una china pericolosa. Una volta che l'inquisizione si era messa in moto, non era più possibile arrestarla: non vi era che resistere il più a lungo possibile, anche se non vi erano molte speranze, e non certo quella di fuggire a un certo momento in Svizzera, cosa praticamente impossibile e prospettiva non certamente più favorevo- le (55).

Si può avanzare anche un'altra ipotesi, che può spiegar meglio codesto imponente afflusso di persone. Può darsi che fra Dolcino ab- bia non soltanto richiesto il soccorso di tutti i suoi fedeli, ma anche ricordato loro che, secondo le sue promesse anzi convinzioni (non abbiamo motivo per ritenerlo in malafede), era imminente la resa dei conti finale: l'ascesa di Federico di Sicilia alla dignità imperiale, e poi la sanguinosa liquidazione della Chiesa, dopo di che gli Apostoli avrebbero potuto uscire dalla clandestinità, trionfalmente. In quelle montagne avrebbero potuto attendere, al sicuro dalle persecuzioni ec- clesiastiche, il giorno promesso della catarsi finale.

Quali che fossero in effetto le sue richieste o promesse, i dolci- niani vennero a migliaia. Quel che poi accade, lo potremmo supporre anche se non ne avessimo alcuna testimonianza. Il concentramento di diverse migliaia di persone in una povera zona di montagna avrà por- tato a insolubili problemi di convivenza, di alloggiamento, di servizi e specie di vettovagliamento. Donde le sistematiche incursioni dei dolciniani nella valle, da Varallo in su, quando calavano tremendi e irresistibili e rapinavano e facevano prigionieri per esigerne riscatto, e uccidevano, anche: ma, si noti, sfregiavano altresì le immagini sa- cre e profanavano altari e asportavano calici e libri sacri e spezzavano campane e incendiavano chiese.

Si entrava così nella seconda, più terribile fase. Poiché a un certo momento sulla Parete Calva si moriva di fame, i dolciniani, lasciate sul posto le bocche inutili, nel marzo 1306, fecero una specie di sortita v;-*rso il sud, e, attraversate le montagne, si portarono nel Biellese,

(55) L'ipotesi è stata avanzata in uno sconcertante libretto di un russo, S. D. Skaskin, Le condizioni storiche della rivolta di Dolcino, pubbl. nei « Rapporti della delegazione sovietica al X congresso internazionale di scienze storiche di Roma », 1955, dove, fra l'altro, si suppone che Dolcino volesse « impadronirsi della valle e organizzarvi un libero comune rurale con una ripartizione eguali- taria della terra »! Basta rinviare alla severa e precisa critica che ne ha fatto C. G. Mou, nel « Bollett. storico-bibl. subalpino », LIV, 1956.

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mestandosi. vien voglia proprio di usare termini militari odier- ni, — sulla forte posizione del monte Zebello o Rubello, sopra Tri- vero, dove avrebbero concluso tragicamente la loro vicenda. Non ce ne occuperemo più, che il nostro scopo non è quello di narrare « come andarono le cose ». Ci limitiamo a constatare che sparsero il terrore e la desolazione fra i modesti paesi della zona, nel trian- golo Mosso-Còggiola-Crevacuore, e che per un certo tempo occupa- rono tutte quelle montagne, fortificandole, a quanto pare, secondo buona regola di guerra. E per sopraffarli, dall'altra parte si dovet- tero impegnare a fondo C'interessa ora di chiarire quale sia stato il comportamento di fra Dolcino in questa fase finale.

Non so, e qui si- entra nel campo delle pure ipotesi, fino a quale punto egli abbia potuto reggere in mano quella turba, resa furente dalle privazioni e dalla eertezza della rovina. Se fra essa si affermarono propositi dissennati, quale l'uso comune delle donne, o si manifestarono particolari sviluppi in senso comunistico, come ricorda il Villani, e non abbiamo difficoltà ad ammetterlo, è da chiedersi se egli li abbia promossi e sanzionati, o non piuttosto vi si sia rassegnato, come a inevitabili eccessi. Se si fosse opposto, probabilmente lo avrebbero ucciso.

Una sola cosa ci dice I'« anonimo sincrono »: in quel tempo fra Dolcino ritenne utile ribadire, quasi come suo estremo atto di fede, tutti i princìpi dell'apostolicismo; e l'elenco che la nostra fonte ne dà, con tutti i suoi item potrebbe addirittura derivare da un manife- sto, come era nella sua maniera di farne. In esso troviamo, oltre ai punti dottrinali veri e propri, anche quella che vorrei chiamare una « legge d'emergenza »», dalla quale risulta tutto l'orrore di quella situazione: vi si afferma che ai dolciniani era lecito compiere le peg- giori efferatezze, e ciò « senza peccato », piuttosto che morire di fame e rinunciare alla propria fede. Vorrei ritenerla non dettata da Dolcino stesso, ma da lui forzatamente accettala e sanzionata, come gli altri eccessi, nel crollo di tutto il suo sistema, di ogni sua spe- ranza.

Ritornando al titolo del mio saggio, mi pare insomma che si debba distinguere fra la vera e autentica figura di fra Dolcino, quale si può, anche se frammentariamente, ricostruire, e la sua imma- gine mitica, leggendaria. E' nostro obbligo tener separato ciò che di lui effettivamente sappiamo e in modo accertato e sicuro, da quel che possiamo, con molta cautela, supporne, e infine da ciò che è senz'altro fantasiosa invenzione o intenzionale travisamento oppure arbitraria attribuzione di propositi che non furono i suoi, di con- cetti che non erano del suo tempo.

Ancora una volta, stando ai documenti che sono oggi a nostra conoscenza, escludo che per lui si possa parlare di predominanti intenti di rivendicazione sociale o addirittura di lotta di classe: la sua predicazione, il suo apostolato, il suo credo son tutti di natura unicamente e chiaramente religiosa. E quanto al troppo noto epi- sodio finale, non mi pare che possa interpretarsi come sviluppo nor-

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male e logico di premesse da lui poste, ma come un fatto fuori dei suoi intenti e delle sue previsioni. Non ha molto senso metterlo sullo stesso piano, come ogni tanto vien fatto, della Jacquerie francese o delle rivolte di Fiandra o del moto inglese di Wat Tyler o del tumulto dei Ciompi in Firenze: tutti movimenti di forte carica ed evidente natura sociale, ma con nessun apprezzabile contenuto religioso o non sicuramente condizionati da esso.

Si penserebbe, caso mai, piuttosto ai taboriti boemi, agli anabat- tisti di Munster, ai rustici del tempo della Riforma: moti nei quali effettivamente il momento religioso e quello sociale si tengono abba- stanza in equilibrio: ma in tempi di quanto più tardi e quanto diversi!

Concludiamo. Per chi vuole rettamente intendere l'importanza storica di fra Dolcino l'episodio della resistenza deve passare in se- condo piano, rispetto a ciò che è più veramente interessante, anche se mal noto: la sua dottrina, espressione, modesta forse ma sincera, dell'anelito che attraversa tutto il suo tempo, verso una più integrale conformità col Cristo e i suoi discepoli, e verso una più radicale e conseguente attuazione del messaggio evangelico, in un ravvivato cli- ma di attesa di nuovi tempi.

Eugenio Dupré Théseider

Portata e limiti dell'episcopato Valdese nel medio evo

Sul finire dell'anno scorso (novembre 1957) un reverendo tede- sco residente negli Stati Uniti d'America mi scriveva per dirmi che stava scrivendo un'opera sulla successione episcopale presso i Fra- telli Moravi stimata ininterrotta dal 1467 ad oggi , e per chie- dermi se volevo collaborare con lui a risolvere un intricatissimo « hi- storical puzzle ». Chiunque abbia una informazione anche superfi- ciale delle vicende principali che portarono alla fondazione in terra cèca dell'Unità dei Fratelli sa che il 1467 è una data importante. In quell'anno i Fratelli cèchi, unitisi dieci anni prima in un gruppo autonomo per separarsi definitivamente dagli Utraquisti che inten- devano rimanere attaccati alla teoria romana della successione apo- stolica, decisero di eleggere per proprio conto i loro ministri, rico- noscendo esplicitamente con eia che una Chiesa è apostolica nella misura in cui fa sua l'espericnzd depli Apostoli e della Chiesa primi- tiva (1). Giunti a questo punto i Fratelli cèchi avrebbero potuto fer- marsi; ma come già rilevava il Comba nel 1901 sulla scorta delle fonti pubblicate dal Goll (2) essi, per ragioni ovvie di governo, si trovarono nella necessità di eleggersi un capo. Come avvenne tale elezione? Fu essa seguita da una regolare ordinazione? E perchè i Fratelli sentirono il bisogno di ricorrere all'una e all'altra? Ecco delinearsi i primi pezzi di quellV historical puzzle » propostoci dal nostro corrispondente tedesco-americano.

(1) Cf. Amedeo MolnÂr, Les Vaudois et la Réforme tchèque, in « Boll. d. Soc. di St. Vald. » n. 103 (maggio 1958), pp. 47-49, che riassume i contributi più no- tevoli sull'origine dell'Unità basando la sua ricostruzione non solo sugli Acta Unitatis Fratrum, ma anche e specialmente sulle ricerche di J. T. Muixeh (Ce- schichte der Bôhmischen Briider, vol. I, Herrnhut 1922, in particolare il cap. IV, Trennung der Briider von der rômischen Kirche durch Wdhl und Weihe eigener Priester, pp. 113-148) e di F. M. Bartos (note alla traduzione cèca della storia del Muller, Praga 1923, nonché l'opera Husitstvi a cizina Ussitismo e estero Praga 1931).

(2) Emile Comba, Histoire des Vaudois (Paris 1901), pp. 626-633. Dell'opera del Goll, Quellen und Untersuchungen zur Geschichte der bòhmischen Brùder, v. il vol. I, Der Verkehr der Brûder mit den Waldensern Wahl und Weihe der ersten Priester, Praga 1878.

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Secondo la tradizione comune riferitaci dagli autori più sopra citati, i Fratelli, riuniti in regolare sinodo, nominarono nove presbi- teri (anziani), di cui tre da riservare specialmente per l'amministra- zione del nuovo sodalizio. Uno di questi, designato dalla sorte, dove- va ricevere l'ordinazione e disporne poi a favore dei suoi colleghi. Perciò due presbiteri (un ex-prete cattolico e forse un valdese) con- sacrarono capo il loro collega Mattia di Kunwald. Ma, fatta tale con- sacrazione, ci si domandò se fosse sufficiente o se occorresse secondo l'uso valersi dell'opera di un vescovo. Essendo prevalsa la seconda opinione, si pensò di interpellare Stefano di Basilea detto il valdese. Chi era costui? Tutti ammettono, compreso il Molnàr, che Stefano fosse episcopo (vescovo). Ora, da chi ebbe egli l'ordinazione? E' essa di origine cattolica o di origine valdese? That i.s the question! diceva Amleto e ripetono tutti i nostri storici. Di sicuro sappiamo che Stefano apparteneva a quel gruppo di valdesi di lingua tedesca che sotto l'impulso dei docenti della cosidetta « scuola di Dresda {Pietro di Dresda, Federico Eppinge, Nicola di Dresda, Giovanni Dràndorf) nonché del bavarese Federico Reiser, avevano fatto causa comune prima con gli Ussiti, e poi con la loro corrente di sinistra più radicale che sfociò successivamente nelle dissidenze dei Tabo- riti e dei Fratelli. Secondo alcuni, che si basano su un noto scritto dell'arcivescovo utraquista Vaclav Koranda (3), l'episcopato di Ste- fano sarebbe legittimo in quanto basato sulla successione romana: infatti il Koranda scrive che, quando il presbiterato valdese si trovò disorganizzato causa le persecuzioni, i dissidenti cèchi si sarebbero rivolti all'episcopo Nicola (di Pelhrimov), che prima di diventare taborita aveva ricevuto dalla Chiesa romana l'ordinazione a prete: costui il 14 settembre 1434, nell'Abbazia Emmaus di Praga (detta degli Slavi), avrebbe conferito l'ordinazione a due presbiteri, tra cui il già citato Reiser, i quali lo stesso anno sarebbero stati consa- crati episcopi a Basilea per mezzo di un vescovo membro di quel Concilio (4). Effettivamente nota il Comba i Valdesi avevano avuto i loro episcopi, ma in quella prima metà del secolo XV la loro istituzione era decaduta. Più tardi, nel 1496, in ambienti colti del- l'Unità dei Fratelli vicini a Luca di Praga, si diceva che ormai era impossibile trovare un solo presbitero valdese la cui ordinazione potesse risalire a Valdo o ai suoi immediati successori. All'epoca dell'origine dell'Unità (1457-1467) si aggiungeva ce n'erano tre in tutta la Boemia: due si lasciarono sviare e rientrarono nel girone della Chiesa Romana, ma il terzo accettò l'invito dei Fra- telli di confermare il loro capo (5). La tesi del Koranda, accettata dagli storici cèchi di tendenza cattolica, è fortemente contrastata da chi vede in essa non un dato storico inoppugnabile, bensì il tenta- tivo, per l'ennesima volta ripetuto da parte degli Utraquisti, di discre-

(3) cf. Manuale Korandae, ed. J. TbuhlÂr, Praga 1888; Goix, 1, 27.

(4) Comba, op. cit., p. 623 n. 3.

(5) Comba, ©p. cit., p. 629 n. 4.

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ditare in ciò d'accordo con i Cattolici l'Unità dei Fratelli. Infatti la secessione dei Taboriti e poi dei Fratelli non era piaciuta agli Utraquisti, costituenti, come si sa, l'ala destra nazionale e con- servatrice degli Ussiti; perciò, se in un primo tempo gli Utraquisti spalleggiati dai Cattolici cercarono di rendere la vita dura ai Fratelli facendoli apparire come una « setta » infetta di « eresia » valdese, alla quale ipso facto non poteva doveva estendersi il privilegio della libertà religiosa, più tardi tentarono di colpirli in quella che era stimata la prova delia loro autonomia spirituale, dimostrando! che il loro episcopato, dichiarato di origine valdese-taborita, risaliva invece alla successione romana.

Per il Comba come per il Molnar, Stefano doveva la sua ordina- zione al Reiser; ma, come già avevano arguito i biografi del Reiser, Stefano doveva essere un collesa dello stesso Reiser col titolo di presbitero, e Reiser, episcopo, era in mezzo a loro niente altro che un primus inter pares (6). Di fatto i Taboriti. come più tardi i Fra- telli, non erano affatto attaccati all'ordinazione come la intendevano i Cattolici. In un trattato sul « come comportarsi verso la Chiesa romana » (Wie sich die Menschen gegen die rómische Kirche vernai- ten sollen) dovuto alla penna di Gregorio, primo fondatore dell'Uni- tà dei Fratelli, troviamo scritto che essi non si preoccupavano affatto della critica loro rivolta che gli episcopi valdesi non erano propria- mente dei vescovi, e ciò perchè non sapevano che farsi del tipo sacer- dotale caro alla Chiesa romana; a loro premeva di più attenersi all'esempio della Chiesa primitiva e basarsi sull'insegnamento della Sacra Scrittura, secondo cui nei primi tempi non si faceva alcuna differenza tra episcopi e presbiteri (7). Inoltre, in questo stesso Trat- tato, Gregorio dies che Stefano era più ragionevole degli altri pre- sbiteri valdesi e aveva edotto i Fratelli di tante cose relative alle ori- gini della Chiesa primitiva. Infatti i Valdesi pretendevano Gre- gorio scrive nell'anno 1471, cioè più di trent'anni dopo la famosa Declamano de falso eredita et ementita Constantini donatione del Valla - di serbare l'un dopo l'altro tutti gli anelli della successione dalla Chiesa primitiva. I loro antenati affermavano essi - non cedettero alle istanze del presbitero Silvestro quando l'imperatore Costantino lo fece papa e lo arricchì; cosicché essi, a partire da Valdo che era per loro nientemeno che l'amico e il collega di Sil- vestro, rimasero fedeli a quella successione nei vari paesi in cui furo- no disseminati e perseguitati (8). Qualche anno fa aggiunge Gre- gorio — un loro vescovo fu bruciato a Strasburgo sulle rive del Reno (allusione evidente al martirio del Reiser, avvenuto nel 1458).

(6) Comba, op. cit., p. 630 n. 2.

(7) Comba, op. cit., p. 631 n. 2; Molnar, art. cit., pp. 47-48 e n. 32.

(8) La versione valdese della leggenda della donazione di Costantino era ben conosciuta negli ambienti cèchi, e la si ritrova documenta il Molnar, art. cit., pp. 49-50 n. 34 in un trattato sul potere temporale dei papi attribuito a Pietro Chelcicky, uno dei fondatori, con Gregorio, dell'Unità dei Fratelli.

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Stefano non si piegò mai, fino alla morie (anch'essa sul rogo, a Vienna, l'anno stesso della elezione dei presbiteri dell'Unità), al ma- gistero della Chiesa romana, ed esercitò clandestinamente il suo ministerio itinerante tra i Valdesi di lingua tedesca. Era condiscen- dente — è sempre Gregorio che scrive verso i Fratelli cèchi poi- ché voleva riformare, in collaborazione con loro, tutto ciò che pres- so i Valdesi era ancora contrario all'insegnamento di Cristo e alla prassi della Chiesa primitiva. Purtroppo egli conclude i lega- mi con presbiteri di consacrazione romana (cioè con gli Utraquisti, che riconoscevano l'episcopato cattolico) erano ancora troppo stretti e forti, e nulla di tutto ciò fu fatto (9).

Stefano dunque era all'avanguardia sulla via di una riforma ulteriore del movimento valdese, che lo spingesse sempre più a staccarsi da Roma e a conformarsi, anche da un punto di vista stret- tamente teologico ed ecclesiologico, all'esempio della Chiesa primi- tiva quale poteva addursi da una lettura più attenta del Nuovo Testa- mento. Una conferma ce n'è data da un documento molto impor- tante scoperto dal Bartos e da lui pubblicato per la prima volta nel 1931 (10). Si tratta di uno degli atti d^l Tribunale dell'Inquisizione di Vienna che contiene l'interrogatorio fatto subire a Stefano il 19 agosto 1467, pochi giorni prima del suo martirio. Stefano vi si mostra molto più ussita che valdese. Confessò infatti di approvare coloro che prendevano la comunione sub utraquo specie, opinando con- trariamente alla maggioranza dei Valdesi ancora attaccati al dogma della transustanziazione che non solo fu questa la prassi eucari- stica inaugurata dal Cristo, ma che la presenza sua nel pane e nel vino andava interpretata figurative et representative. Inoltre la sua polemica investe direttamente la persona del Papa: se egli è umi- lissimo, castissimo e poverissimo come lo fu Cristo, è senz'altro vero papa; ma, siccome di fatto contradice apertamente ai tre requi- siti della massima umiltà, castità e povertà, non può essere consi- derato come il successore di Cristo (11).

Secondo il Molnâr, il documento inquisitoriale di cui sopra costituirebbe la prova secondo la quale Stefano è morto prima della consacrazione dei presbiteri. dell'Unità o comunque non ha potuto presiedere a tale cerimonia perchè già nelle grinfie degli inquisitori, e perciò, suo malgrado, in tutt'altre faccende affaccendato. Del resto già il Comba opinava che Stefano non fosse stato l'autore materiale dell'ordinazione di Mattia di Kunwald, ma che egli, non potendosi

(9) Molnâr, art. cit., pp. 47-49.

(10) cf. Molnâr, art. cit., pp. 48-49 n. 33, in cui è riprodotto il testo edito dal Bartos nella sua opera Husitstvi a cizina già cit. secondo il ms. 5069 di Vienna.

(11) A proposito del sacramento eucaristico Stefano disse testualmente almeno secondo quanto riporta il testo inquisitoriale che sub specie partis e sub specie vini il corpo e il sangue di Cristo sono solum figurative et representa- tive: il vero corpo di Cristo, cum carne cute et crinibus et natum ex Maria Vir~ gine, sta invece alla destra di Dio Padre onnipotente e non scenderà dal cielo che in extremo iudicio, cum venturus sit iudicare vivos et mortuos (Molnâr, art. cit., p. 49 in nota).

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recare di persona al Sinodo dell'Unità che aspettava il compimento di quell'atto prima di sciogliersi, si fosse limitato a consacrare l'in- viato dei Fratelli, il presbitero Michele Bradazius di Senftenberg, già responsabile della prima incompleta ordinazione di Mattia di Kunwald. Michele a sua volta avrebbe riconsacrato Mattia, il quale infine avrebbe fatto lo stesso a tutti i suoi colleghi, compreso lo stesso Michele che preventivamente si sarebbe spogliato della sua dignità vescovile per essere di nuovo ordinato presbitero dell'Uni- tà! (12). Più « historical puzzle » di così si muore! Comunque stiano le cose, cadrebbe con ciò tutta l'impalcatura costruita sulla base delle testimonianze del Koranda, che cioè l'episcopato boemo-moravo sia di chiara origine cattolica ( 13). Rimane però sempre il fatto che l'Unità dei Fratelli, a dispetto delle opposizioni sempre vive nel suo seno (14), conservò una forma sia pur larvata di gerarchia sacerdotale, che ormai da parecchio tempo non era più in uso pres- so i Valdesi, od almeno presso la maggior parte dei nuclei in cui ancora si esprimevano e lottavano con caratteristiche affatto proprie in varie regioni dell'Europa occidentale. Ciò ci porta ad esaminare di nuovo la questione della portata e dei limiti dell'episcopato val- dese nel medioevo, dove esso fu effettivamente costituito ed ope- rante, tanto più che il nostro corrispondente tedesco-americano ci poneva al riguardo una precisa domanda, che possiamo senz'altro far nostra: da chi i Valdesi ebbero i loro vescovi, da Valdo oppure dalla Chiesa romana? La risposta che daremo è già in parte contenu- ta nelle righe precedenti e si ricava facilmente dalle fonti che sono a nostra disposizione (15).

* * *

All'epoca di Valdo e dei suoi primi successori, tra la fine del secolo XII e l'inizio del XIII, si parlava solo di ministri e di rettori (rectores o prepositi). Come risulta dal resoconto del colloquium di Bergamo del 1218 tra sei valdesi francesi e sei lombardi (16), Valdo stesso era contrario alla elezione di un rector che gli succedesse lui ancora vivo o dopo la sua morte, e fu solo per appianare i dissensi,

(12) Molnar, art. cit., pp. 48-49; Comba, op. cit., pp. 630-631.

(13) cf. John Jaffet, Der Ursprung der Briiderunitat, vol. II, p. 53.

(14) cf. Amedeo Molnâr, Luc de Prague et les Vaudois d'Italie, in « Boll. d. Soc. di St. Vald. » n. 90 (dicembre 1949), p. 49, dove è documentato che l'Unità dei Fratelli dovette subire, sul finire del secolo XV, una crisi interna piuttosto rilevante per i contrasti sempre rinnovatisi tra una ala progressista e l'altra con- servatrice.

(15) Emilio Comba, posto già di fronte a simili domande da parte di amici anglicani o episcopali, se la sbrigava infastidito col rimandarli a Herrnhut, sede dell'Unità dei Fratelli in Germania, dove il problema della successione apostolica era ed è inesistente: « Nous renvoyons à Herrnhut scrive egli nella sua Histoire del 1901, p. 632 n. 1 les amis anglicans ou épiscopaux qui nous harcellent de questions pour savoir si l'Eglise Vaudoise est ou non episcopale. A leur insistance on sent parfois que leur fraternité tient à ce fil. Le moins qu'on en puisse dire, en pareil cas, c'est qu'elle est trop légère ».

(16) In Enchiridion Fontium Valdensium a cura di Giovanni Gonnet, vol. I, (Torre Pellice 1958), pp. 169-183.

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che su questo punto e su altri erano sorti tra i francesi e i lombardi, che si addivenne allora ad un compromesso, secondo il quale si sarebbero eletti rettori a vita o a tempo secundum quod utilius com- muni videbitur vel amplius ad pacem pertinere (17). In questo docu- mento si parla bensì di un ordo ministrorum, ma la preoccupazione dei Valdesi riuniti a Bergamo non riguardava l'origine il modo la portata dell'ordine in fatta eccezione di un accen- no del tutto indiretto ad uno degli « effetti » dell'ordinazione . ma verteva solo su problemi secondari relativi al cosidetto « sog- getto » dell'ordine, se cioè i futuri ministri dovessero scegliersi tra i nuper conversi o tra gli amici (vale a dire tra i membri del soda- lizio già iniziati od anche tra i semplici aderenti), e se potessero ordinarsi eternaliter vel ad tempus (18). Se quest'ultimo punto inve- stiva già la grossa questione del carattere di indelebilità impresso all'a- nima dell'ordinato dal conferimento .lell'ordine, essa però a Ber- gamo non fu affatto approfondita. Valdo ed i suoi primi seguaci e continuatori, pur nella diversa temperie spirituale e sociale che ben presto distinse il gruppo lombard,) più innovatore da quello francese tendenzialmente conservatore, non ebbero in fondo che un solo in- tento, subito individuato nella causa e nel fine come precisa voca- zione divina a loro particolarmente rivolta come una speciale gra- zia: cioè quello di poter libare predicare, secundum gratiam a deo vollatam, come molto pertinentemente si esprime l'autore del « Li- ber antiheresis » (19). Ed è proprio questa esigenza della libera pre- dicazione, sciolta da qualsiasi legame d'ordine economico-familiare o ecclesiastico-gerarchico, che più fastidio a Roma e ai suoi difen- sori sul terreno del diritto canonico e della controversia anti-ereti- cale. Già Goffredo d'Auxerre, quel cisterciense che fu presente al Sinodo di Lione che dovè giudicare il caso di Valdo (tra il marzo 1179 e il luglio 1180), se la prendeva acerbamente contro quelle vul- peculae, intente ad demoliendam vineam Domini, che, personae con- temptiles et prorsus indignae, usurpavano, aut penitus aui pene sine litteris, la funzione del predicare riservata agli ecclesiastici (20). Il Concilio di Verona, riunito quattro anni dopo, non poteva non col- pire di anatema tutti coloro che, vel prohibiti vel non missi, praeter auctoritatem ab apostolica sede vel ab episcopo loci susceptam, pu- bliée vel privatim praedicare praesumpserint (21); e questa condan- ua è veramente al centro di tutte le controversie di quel tempo se polemisti, scrittori e cronisti di varia indole e provenienza credet- tero opportuno insistervi con particolare violenza di linguaggio. 11 premonstratense Bernardo di Fontcaude, che scrive verso il 1190- 1192, pone in evidenza il fatto che presso i Valdesi praedicant omnes

(17) ibid., pp. 172-173.

(18) ibid., p. 173.

(19) Per il « Liber antiheresis » dovuto ad un seguace immediato di Valdo, (o, secondo ultime ricerche, a Durando d'Huesca), v. Enchiridion cit., p. 44.

(20) Enchiridion cit., p. 46.

(21) Enchiridion cit., p. 51.

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passim et sine (lelectu conditionis, aetatis vel sexu (22). Se questa così aperta testimonianza della consapevolezza che avevano i Val- desi primitivi di attuare in pieno la dottrina del sacerdozio univer- sale era fatta dieci anni dopo anche da Gioacchino di Fiore, il quale nel suo trattato « De articulis fi dei » scriveva che merito anathema tizat Ecclesia lugdunenses hereticos qui indifferenter et indiscrete, tam viri quam mulieres, sine doctrina, sine gratia, sine ordine, non tam annuntiant quam adulterant verbum Dei (23), il cistercense Alano da Lilla, contemporaneo di Gioacchino, docente di scolastica a Parigi e a Montpellier, vedeva già nella questione dell'ordine il punto più delicato, e più interessante ad un tempo., della polemica contro i Valdesi. Nel suo « Opus de fide catholica contra haereticos sui temporis » scritto verso il 1202, egli si scaglia astiosamente con- tro Valdo che, suo spiritu d<<ctns non a Deo missus, ebbe la presun- zione di predicare sine praelati auctoritate, sine divina inspiratione, sine scientia et sine litteratura : filosofo senza ragione, profeta senza visione, apostolo senza missione e didascalo senza istruzione! I suoi seguaci presumono poi di benedicere modo sacerdotali, benché non siano stati ordinati; anzi dicono di poter celebrare l'eucaristia e di avere il potere delle chiavi, quia meritum dat potestatem non offi- cium; e poiché sono giusti ed hanno i meriti degli apostoli, debbono anche averne l'ufficio, di guisa che è sacerdote non solum is qui sacerdotium sortitus est, sed quicunque Christum in seipso habet et ejus figuram gerit per conversutionem bonam (24). In altre paro- le — dicono i Valdesi l'ordine non conta, conta solo il merito, ma un merito più oggettivo che soggettivo, il merito cioè di chi ha in Cristo e ne assume quasi l'aspetto e perciò non può non farsi osservare e rispettare per i suoi buoni costumi. Siamo agli inÌ7Ì del secolo Xm, ad appena un quarto di secolo dalla fondazione del moto valdese. Se sulle prime l'intento di Valdo e dei suoi sodali non fu affatto quello di creare un organismo nuovo in antagonismo con l'edificio della Chiesa romana, più tardi, causa i ripetuti ana- temi, furono quasi costretti, sull'esempio delle dissidenze a loro anteriori o contemporanee, a darsi prima una giustificazione teolo- gica della velleità loro rinfacciata di predicare ancorché non auto- rizzati né inviati tantomeno investiti degli ordini sacri, poi a farsi delle idee più chiare sul terreno di una ecclesiologia progres- sivamente indipendente da quella romana, infine a compiere il pas- so definitivo del distacco totale col nominarsi dei propri rettori, come avvenne a Bergamo nel 1218. Già qualche anno prima, verso il 1215, era apparso il termine di episcopus (25), ma è solo verso la metà del secolo che vediamo funzionare appieno presso i Valdesi il

(22) Enchiridion cit., p. 70.

(23) Enchiridion cit., p. 100.

(24) Enchiridion cit., pp. 103 e 108.

(25) Nel brano De Valdensibus, aggiunto come capitolo XXI àlVOpusculum contra haereticos di Ermengaud, in Enchiridion cit. p. 155: « Eligunt etiam epis- copos quibus obediam pretermissis vel spretis sancte ecclesie episcopi» ».

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triplice ordo ecclesiasticus del diaconato, presbiterato e episcopato. Infatti uno dei motivi principali addotti dall'inquisitore domenicano Moneta nella sua ben nota requisitoria « Adversus Catharos et Val- denses », scritta nel 1244, riguarda appunto la pretesa dei Valdesi di essere la vera Ecclesia Dei in quanto possiedono quel triplice ordine ecclesiastico. Moneta affronta senza ambagi i suoi oppositori sul terreno concreto dei fatti. I Valdesi non possono essere YEccle- sia Pei egli argomenta sia perchè sono sorti da soli ottanta anni e non possono documentare di essere esistiti prima di Valdo (primo accenno a quella tendenza apologetica che vedeva nel moto valdese il vero continuatore della Chiesa primitiva in opposizione a Roma e ai suoi papi che avevano con Silvestro accettato la dona- zione di Costantino), sia perchè Valdo stesso trae l'origine del suo apostolato dalla stessa Chiesa romana. « Voi discendete dice egli ai Valdesi fingendo d'interloquire con loro da Valdo; ma costui, da chi discese se non dal Papa? Se dite il contrario, perchè allora Valdo si recò da lui e promise in presenza sua di seguire quattro Dottori della Chiesa, S. Ambrogio, S. Agostino, S. Gregorio e S. Gi- rolamo, ricevendo quindi l'autorizzazione a predicare? » Se invece i Valdesi affermano di discendere direttamente da Dio e dagli apo- stoli, rimane sempre il fatto aggiunge il Moneta - che Valdo dovè comunque aver ricevuto da Dio il perdono dei suoi peccati per interposta persona, cioè per mezzo di un ministro, giusta Giov. 20, 23: « A chi rimetterete i peccati saranno rimessi; e a chi li riter- rete saranno ritenuti ». Chi fu quel ministro se non il Papa? Dunque il Papa, e non il sodalizio valdese, è l'erede della Chiesa primitiva. La stessa dimostrazione il Moneta vuol ricavare dall'esame delle caratteristiche deìVordo ecclesiasticus che i Valdesi affermano di possedere al pari della Chiesa romana. « Io dico - scrive il nostro domenicano - che voi non lo possedete. Voi rispondete di sì. Allora dimostratemi da chi lo avete avuto e chi è che ve lo ha dato. Un vostro episcopo? Bene, ma chi lo ordinò? Se fate il nome di un tale, ditemi allora chi ordinò quest'ultimo ». E così salendo la scala delle successive ordinazioni, si deve pur arrivare a Valdo, a proposito del quale Moneta reitera la stessa domanda: da chi e come ebbe anche lui l'ordinazione? Se i Valdesi rispondono che Valdo se la diede da sè. è palese che essi sono in contradizione con quanto è scritto in Ebrei 5, 4 Così anche Cristo non si prese da la gloria d'esser fatto Sommo Sacerdote, ma l'ebbe da Colui che gli disse: Tu sei il mio Figliuolo; oggi t'ho generato »), e Valdo, essendosi fatto pontefice da sè, è pari all'Anticristo! Se invece i Valdesi dicono che Valdo l'ebbe direttamente da Dio, non lo possono dimostrare con nessun passo delle Sacre Scritture. Ma taluni fra di loro affermano che Valdo ricevette l'ordinazione dalla a universitas » dei suoi confratelli. E' una diceria chiarisce il Moneta e responsabile di essa fu un certo Tommaso, capo dei Poveri Lombardi e « doctor perversus ». Costui vociferava che chiunque tra i Valdesi avrebbe potuto confe- rire a Valdo il suo proprio « jus », cioè il diritto affatto personale

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di governare stesso; così l'intera « societas » valdese potè confe- rire e conferì di fatto a Valdo il governo (regimen) di tutti, crean- dolo pontefice e prelato. Ma se quel Tommaso incalza il Moneta avesse solo intuito quante sciocchezze c'erano in quelle sue argo- mentazioni, si sarebbe ben guardato dal farle: infatti egli con- clude — - ogni pontificato è governo, ma non ogni governo è ponti- ficato; poiché altro è conferire l'ordine, altro è conferire il governo; solo il primo è prerogativa dei vescovi. Dunque i Valdesi, quando parlano di ordine, confondono Vordo col regimen (26).

Tutta questa stringente requisitoria del Moneta contro i Val- desi è estremamente interessante. Essa dimostra che il nostro inqui- sitore e controversista, a metà quasi del secolo XITI, aveva visto forse più chiaramente degli stessi Valdesi la vera origine spirituale della loro protesta, riconoscendo implicitamente che la « societas » valdese era sorta liberamente per un solo impulso di fedeltà a Cristo e che ben presto, di fronte ai legami che ancora la tenevano attaccata a Ro- ma e alla sua organizzazione gerarchico-disciplinare, sentì il bisogno di darsi un ordinamento autonomo con un capo (il rector), e più tardi con la triplice embrionale gerarchia degli episcopi, presbiteri e dia- coni. Naturalmente questo passaggio dal rector al triplice ordo eccle- siasticus non avvenne dappertutto con la stessa linearità, e per alcuni gruppi non si effettuò affatto o si realizzò solo in parte. Per esempio, verso il 1231, in gruppi che presentano caratteristiche tipicamente francesi (si è totalmente poveri, non si lavora con le proprie mani, si vive di elemosina), probabilmente nel Delfinato o in Provenza o in Lingua dora, è saldamente attuata quella divisione della « societas » valdese in due parti ben distinte, che già vedemmo implicitamente de- scritta nel « Rescriptum » di Bergamo del 1218: da un lato i « per- fetti », detti anche consolati, sandaliati o novellani; dall'altro gli amici o credenti. Solo i primi sono sacerdotes, chiamati anche magi- stri o rectores: e tra essi appare già il major, cioè il sapientior de so- cietate seu hospitii. Gli ospizi erano case, esistenti un po' dovunque tanto in « Alamannia » quanto in altre parti della già vasta diaspora valdese, dove i Valdesi vivevano una vita in comune, retta dalla pre- ghiera e ba«ata sullo studio della Bibbia. Una volta l'anno, verso la quaresima, in un concilio o capitolo generale che si teneva in Proven- za o in altre regioni, ma preferibilmente in Lombardia, si riunivano solo i perfetti e tra essi soltanto i più anziani e i più autorevoli: infatti ne erano esclusi non solo i credenti, ma anche i perfetti giovani, i per- fetti vecchi che non fossero totalmente soggetti alla volontà dei capi e le donne, ancorché perfectae et antiquae. I sacerdotes - magistri - rectores non costituiscono ancora un triplice ordine, sono ancora degli

(26) Cito l'opera del Moneta nell'edizione del 1743 corata dal Ricchini: Venerabilis Patris Monetae Cremonensis ordinis Praedicatorum... Advenus Catha- ros et Valdenses libri quinque... edidit... P. Fr. Thomas Augustinus Ricchinius..., Romae, MDCCXLIII, ex Typographia Palladia. I brani sai Valdesi si trovano nel libro V, cap. I (De Ecclesia Catholica), specialmente nel paragrafo IV {Probatio specialiter quod pauperes Lugdunenses non sunt Ecclesia Dei) pp. 402A-406B.

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uguali, i tre nomi con cui sono denominati essendo indubbiamente sinonimi; ma solo essi possono conficele corpus Christi sicut catholici sacerdotes (27). Questo ultimo dato è piuttosto singolare e rivela pres- so qualche gruppo valdese un irrigidimento in senso clericale che non osserviamo presso altri. Infatti sia Bernardo di Fontcaude sia Alano da Lilla avevano insistito sul fatto che presso i Valdesi vale più il meritiim che Yofficium Inoltre dilla professione di fede di Bernardo Prim, che è del 1210 (28), come più tardi da Stefano di Borbone e dal Sacconi, che scrivono verso il 1250 (29), si ricava esplicitamente che per i Valdesi « ogni uomo buono è sacerdote », perchè « Dio abita in lui » e quindi può consacrare il corpo del Signore; e questa facoltà precisa il Sacconi è estesa a tutti i laici, comprese le donne. Lo stesso dirà, anche più chiaramente, lo Pseudo-Rainerio, conosciuto anche sotto il nome di Inquisitore anonimo di Passau, che nel suo « Liber contra Waldenses haereticos », scritto verso il 1260, rispecchia piuttosto la situazione dei Valdesi tedeschi (30). Egli proclama senza reticenze che i Valdesi considerano nullo il sacramento dell'ordine, perchè per loro ogni laico, purché bonus, è sacerdote come gli apo- stoli, che erano laici. La preghiera del sacerdote malus non vale nulla. Deridono la pratica della tonsura come l'uso del latino nelle preghiere, che così recitate non vengono capite dal profano. Tutti possono, anzi devono, predicare, comprese le donne; e, ricordando I Cor. 14: 2-28, prescrivono che si predichi in volgare, cioè in una lingua comprensi- bile a tutti, tanto più che sacra Scriptura eundem effectum habeat in vulgari quam in latino.

Dunque il triplice ordo ecrlesiasticus non dovette esistere dap- pertutto e fu di durata più o meno lunga. Se presso i Valdesi di Pae- sana all'inizio del secolo S\\ non appare affatto (31), cionondimeno uno dei quesiti rivolti dai « barbi » Morel e Masson ad Ecolampadio nel 1530 riguarda appunto la questione an inter verbi Dei ministeros debeant ordinari dignitatum gradus, ut... episcopatus, presbyterii et diaconatus, che pare essi dicono siano stati prescritti da Paolo a

(27) Come risulta dal ms. Vat. lat. 2648 ed. dal Precer, Ueber die Verfassung der franzòsischen Waldesier in der àlteren Zeit (Miinchen 1890), pp. 70-73, e intitolato: De vita et actibus, de fide et erroribus haereticorum qui se dicunt Pauperes Christi seu Pauper es de Lugduno (cf. anche Dôllincer Icn. v., Beitrage zur Sektengeschichte des Mittelalters, Miinchen 1890, vol. II, pp. 92-97).

(28) Enchiridion cit., p. 139, dove, tra gli errori professati dai Valdesi e da cui dovranno ormai guardarsi i Poveri Cattolici di Lombardia capeggiati da Bernardo Prim, c'è appunto il riconoscimento della liceità del predicare e del celebrare l'eucaristia estesa al laico giusto e buono, qui Deum habet in se.

(29) cf. Stefano di Borbone, Tractatus de diversis materiis praedicabilibus (in Duplessis d'Argentré, Collectio judiciorum de novis erroribus, Lutetiae Parisio- rum 1724, vol. I, pp. 85-91); Rainerio Sacconi, Summa de Catharis et Leonistis (nuova ed. a cura di A. Dondaine nell'opera Un traité néo-manichéen du XIIIe siècle, Roma 1939, pp. 64-78).

(30) In Gretser J., Lucae Tudensis episcopi scriptores aliquot succedanei contra sectam Waldensium, Ingolstadii 1613, pp. 45-87.

(31) cf. Errores Valdensium in Paesana commorantium ed. da A. Pascal, Margherita di Foix ed i Valdesi di Paesana, in « Athenaeum » IV (1916), estr. pp. 40-43.

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Timoteo e a Tito, ma che non sono più in uso presso di loro (32). Possiamo perciò concludere che vi furono presso i Valdesi medievali due tendenze: una, più radicale, che volle attenersi strettamente alla pratica effettiva del sacerdozio universale; l'altra, indubbiamente per l'influenza di altre dissidenze e in particolare dei Catari, che si estrin- secò non solo nella divisione della « societas » nei due gruppi dei per- fetti e dei credenti, ma anche nella creazione di quel triplice ordine di episcopi, presbiteri e diaconi. Ma anche dove fu pienamente attua- to, non corse molto tempo perchè ci si convincesse, da una lettura più attenta del Nuovo Testamento, dell'esattezza semantica dei termini adoperati e della loro reale portata fuori degli schemi teologici e canonici del magistero romano. Infatti, mentre il Moneta, in altra parte della sua opera contro i Catari e i Valdesi, ha cura di ripetere molto chiaramente sulla scorta del diritto canonico vigente che Yordo è un sacramento, cioè un signaculum per mezzo del quale un potere e un ufficio spirituali sono conferiti agli ordinati, e che nel riceverlo questi seno investiti di una res sacra, cioè di una grazia, quam figurant ea quae ibi geruntnr (33), i Valdesi non ebbero ritegno ad affermare che conveniva Joro avere un capo, detto major o majo- ralis, il quale avesse autorità, sapesse governare il gregge di Dio e fosse da e tra loro eletto alla stessa guisa che nella Chiesa primitiva erano stati eletti Mattia e gli altri successori degli Apostoli (344). Inol- tre Bernard Gui, nella sua ben nota Practica officii Inquisitionis scri- ta negli anni 1323-1324. diceva anche lui, sulla base delle sentenze dell'Inquisizione di Tolosa del 1307-1323, che la potestas dei tre ordini valdesi del diaconato, presbiterato e episcopato dipende direttamente dai Valdesi stessi e non dalla Chiesa romana; anzi essi stimano che gli ordini sacri della Chiesa romana non sono di origine divina, ma di tradizione umana (35). Ed è ancora lo stesso Gui che ci le notizie più vagliate, anche se necessariamente unilaterali e valide solo per i

(32) In Scultetus A., Annalium Evangelia passim per Europam decimoquinto salutis decas secunda, Heidelgerg 1620, pp. 295-306.

(33) Moneta, op. cit., Libro IV (De ordine), paragrafo 1, p. 308A: Sextum Sacramentum Ordo dicitur. Quid autem sit Ordo habetur in Sententiis l. 4 d. 24 de Ordinibus, c. Si autem quaeritur, ubi haec leguntur: « Si autem quaeritur quid sit, quod hic vocatur Ordo, sane dici potest signaculum esse, idest Sacramentum quoddam, quo spiritualis potestas traditur ordinatis et officium. Character ergo spiritualis ubi sit promotio potestatis, Ordo vel gradus vocatur. Et dicuntur hi Órdines Sacramenta, quia in eorum perceptione res sacra idest gratia confertur, quam figurant ea quae ibi geruntur ».

(34) cf. DÔLLiNCEB, op. cit., II, pp. 105-143 (relative alle dichiarazioni rese nel 1319-1321 davanti all'Inquisizione di Pâmiers dal diacono valdese Raimondo della Còte Saint-André). La nostra citazione è tolta dalla p. 110: {Major) ordi- natur ilio modo quo Matthias fuit ordinatus per apostolos,... qui habeat aucto- ritatem et scientiam regendi gregem Dei.

(35) Bernabd Gui, Manuel de l'Inquisiteur, édité et traduit par G. Mollai... T. I (Paris 1926), p. 46: Item très esse ordines in sua ecclesia (Valdenses) asse- runt et fatentur, videlicet dyachonum et presbiterum et episcopum, quorum et singulorum potestas ab eis solum dependet et non ab ecclesia Romana; quinymmo ordines sacros Romane ecclesie non reputant esse a Deo, set a traditione homi- num.

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gruppi dove quel triplice ardo esisteva, sui poteri spettanti rispetti- vamente agli episcopi, ai presbiteri e ai diaconi, e sul come veniva fatta la loro ordinazione. Il Gui, si sa, non è originale, si vale di varie fonti a lui anteriori o coeve, non fa mistero dei suoi evidenti plagi. Nella sua « Practica » confluiscono notizie sia del XIII che del XIV secolo, tratte via via da testi anonimi aggiunti alla Disputano inter catholicum et paterinum hereticum del 1240 (36), dalla Consultano Tarraconensis ad inquisitore» del 12 12 (37), da Stefano di Borbone che scrive verso il 1250 (38), dallo pseudo Davide d'Augsburg il cui Tractatus de inquisitane horeticorum è del 1270-1272 (39), dal Libro delle sentenze dell'Inquisizione di Tolosa del 1307-1323 (40) e dalla confessione fatta dal diacono Raimondo della Côte Saint-André in- serita negli atti dell'Inquisizione di Pâmiers, del 1318-1321 (41). Te- nuto conto della grande disparità delle sue informazioni, vediamo che cosa il Gui ci dice, nel primo quarto del secolo XIV, dell'ordinazione dei ministri valdesi. Premesso che tanto gli episcopi che i presbiteri e i diaconi erano scelti indifferentemente tra i laici e gli indotti come tra gli istruiti (tam layei et idiote quam ctiam litterati), purché pre- ventivamente probati in (eorum) secta, essi vengono poi ordinati cum sola oratione et sine collatione seu traditione alicujus rei corpo- ralis, per solam manuum impositionem (42). Per « collatio seu tradi- lio alicujus rei corporalis >. il Gui intende - e lo dice poco prima a proposito dell'ordinazione degli episcopi tutto ciò che presso la Chiesa romana accompagna materialmente il rito dell'ordinazione, come la pompa esterna, i paludamenti sacri, le insegne pontificali, la consegna degli oggetti necessari all'espletamento delle funzioni rispet- tive dei vari gradi (le chiavi per gli ostiari, il libro delle Lezioni per i lettori, il libro degli Esorcismi per gli esorcisti, il candelabro con candela e le ampolle vuote per gli accoliti, il calice con patena e il libro delle Epistole per i subdiaconi, il libro dei Vangeli per i dia- coni ecc.), nonché le pratiche della tonsura e dell'unzione. Già ab- biamo visto dallo Pseudo-Rainerio come i Valdesi tedeschi deridessero l'uso della tonsura, che invece per i Cattolici é il segno di una dignità regale in Cristo. Anzi il Moneta ha cura di precisare che essa consta di due tempi: la denudano verticis, che significa la libertà dello spi- rito suscettibile di contemplare Dio senza veli d'ignoranza o di errore, e la discoopertio oculorum et aurium, per cui gli occhi e le orecchie

(36) In Martène-Durand, Thesaurus novus anecdotorum (Lutetiae Parisionim 1717), t. V, coli. 1754-1755.

(37) ibid., coll. 1799-1801.

(38) cf. nota 29. A . ...

(39) cf. l'ed. del Preceb (Dcr Tractât des David von Augsburg uber die Waldensier, Miinchen 1878, pp. 24-55).

(40) In appendice alla Historia Inquisitionis del Limbobch (Amsterdam 1692), pp. 289-291.

(41) cf. nota 34.

(42) Gui, op. cit., II (Paris 1927), p. 152.

sono resi così più idonei a sentire e a comprendere la Parola di Dio (43Ì. Per quanto riguarda l'unzione, il ms. 771 1 di Monaco (44) ci fa sapere che i Valdesi deridevano tutti i sacramenti dove apparisse l'olio (or- dine, estrema unzione ecc.) perchè quanto quis magis ungitur tanto magis impinguatur et ad cnmbustionem pracparatur! In fondo ? di- cono — l'unzione è un « adiaphoron », rientra più nel novero della solennità che della necessità del sacramento.

Continuando nella descrizione del modo di ordinare gli apparte- nenti ai tre gradi dell'orcio valdese, il Gui scrive che ogni ordinazione era preceduta da una preghiera fatta in comune da tutti i presenti e dalla confessione dei peccati prima privata poi pubblica, non circo- stanziata ma solo generica. La cerimonia ha dunque luogo in occasio- ne di uno di quei capitoli o sinodi annuali descrittici nel ms. Vat. lat. 2648 citato più sopra (45). Se si trattava di un diacono, egli ri- ceveva l'imposizione delle mani dal solo major, cioè da quell'episcopo scelto a suo tempo quale rector dell'intera « società* » valdese. Se invece l'ordinazione riguardava un presbitero, l'imposizione delle ma- ni veniva fatta prima dal « major » e poi da tutti i presenti. Infine per l'ordinazione di un episcopo, si ricorreva anche al « major » o in mancanza anche ad uno dei presbiteri presenti, seguito poi da tutti gli altri, a turno e secondo il proprio rango. Ogni volta viene recitato dall'officiante il Pater N outer; e l'imposizione delle mani, fat- ta realmente sul capo dell'ordinando, ha lo scopo < dice esplicita- mente la nostra fonte di trasmettere i doni dello Spirito Santo. I poteri conferiti consistono, per l'episcopo, nell'amministrare i sacra- menti della penitenza, dell'ordine e dell'eucaristia, nel conferire ai presbiteri la facoltà di predicare la Parola di Dio e di udire le con- fessioni dei fedeli, nell'assolvere i peccati e nel rimettere tutto o parte delle pene dovute per i peccati stessi, oltre che nell'avere lui stesso la più ampia libertà di predicare dove e quando più gli sem- brasse opportuno; per il presbiteri-, nel predicare e nell'udire le con- fessioni; per il diacono, nell'aiutare gli episcopi e i presbiteri in tutto ciò che concerne le loro necessità maleriali (46).

Il diacono è dunque il primo grado di questa gerarchia. Una volta ordinato, appartiene ipso facto allo status valdese coi tre voti che de- ve professare di povertà, di castità e di ubbidienza: di povertà, cioè non avere nulla in proprio, vendere eventualmente le cose possedute e versarne il ricavato nella cassa comune, vivere delle elemosine offerte dai fedeli; di castità, cioè rinunziare al matrimonio o, se già sposato, separarsi dalla moglie previo il suo consenso o quello della comunità; di ubbidienza, cioè ottemperare alle disposizioni dei superiori e spe- cie del major, al quale omnes dice il testo inquisitoriale di Pâmiers copiato dal Gui tenentur obedire sicut omnes catholici sunt sub

(43) Moneta, op. cit., pp. 308-313, dove sono enumerati e descritti i vari ordini della gerarchia sacerdotale romana.

(44) Dollincer, op. cit., II, pp. 297-301 (errori dei Runcarii sui sacramenti).

(45) cf. nota 27.

(46) Gui, op. cit., II, pp. 148-152.

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obedentia Papae (47). Prima di ricevere l'ordinazione e di aver fatto questi voti, nessuno è « perfetto » tra i Valdesi; gli altri, che non ven- gono ordinati, sono i « credenti » o « amici »; e da essi ripete il Gui i perfetti ricavano di che vivere (48). Da altre fonti si ricava che si diventava diacono a richiesta. Bisognava essere figli di genitori fedeli, godere fama di buoni costumi, essere casto (cioè immune ab omni consortio mulierum), essere atto ad istruire e far parte attiva della « societas » valdese da almeno sei anni. Se dopo tale tempo era considerato aptus, lo si eleggeva diacono e veniva considerato come iniziato o giovane convertito, novel lamis dice il ms. Vat. lat. 2648 (49). Inoltre il diacono eligendo doveva prima professare i sette articoli di fede (sulla Trinità, su Dio creatore delle cose visibili e invisibili, sulla validità della Legge mosaica, sull'incarnazione, elezione della Santa Chiesa, risurrezione della carne e giudizio finale), dei quali i primi quattro avevano un evidente sapore anti-cataro, ed accettare i regolamenti della disciplina comune, tra i quali i tre divieti del mentire, del giurare e dell'uccidere occupano dappertutto il posto d'onore. Compiuta l'ordinazione, i presenti si congratulavano con il consacrato dandogli Vosculum pacts (se uomo, dagli uomini; se don na, dalle donne precisa il testo), e questi in contraccambio pagava loro il pranzo, sempre che avesse denaro: solvet expensas prandii, si habet - sottinteso pecuniam! (50). Tra i compiti del diacono non c'era soltanto quello di assistere gli episcopi e i presbiteri nelle loro necessità materiali come abbiamo già visto ma anche quello di accompagnarli nei loro giri missionari come socius itinerarium : così poteva impratichirsi nella conoscenza delle Sacre Scritture, che d'al- tra parte perfezionava nelle periodiche soste presso i vari ospizi. Ben- ché non avesse la facoltà di udire le confessioni e nemmeno di portare in vasculo corpus Domini, tuttavia gli veniva riconosciuta la potestas legendi evangelium in ecclesiis (51).

Tra le prerogative dei presbiteri c'è anche quella di poter co- me già precisato dal Gui ordinare il major nel caso in cui tutti i majores fossero morti, e ciò perchè è sempre il Gui che scrive i diaconi e i presbiteri presso i Valdesi appartengono all'ordine e grado degli apostoli avendo abbandonato ogni cosa per Cristo, e per- ciò • chiarisce meglio il testo di cui il Gui si è servito . al pari degli apostoli possono ordinare i loro capi, senza sentire il bisogno di ri- correre a vescovi cattolici ed anche, a richiesta degli episcopi, ammi- nistrare il sacramento eucaristico.

L'assoluzione dei peccati riservata agli episcopi era fatta con una formula che chiarisce bene il distacco che anche su questo punto era avvenuto dalla tradizione romana: non è il sacerdote che assolve, ma

(47) Gui, op. cit., I, p. 50.

(48) Gui, op. cit., II, p. 150.

(49) cf. nota 27.

(50) ibid.

(51) DôixiNcra, op. cit., II, p. 103.

(52) Doluncer, op. cit., II, pp. 97-105.

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Dio, di cui l'episcopo non è che lo strumento per indicare in Lui la fonte del perdono (53).

Il major o majoralis non era che uno degli episcopi, a cui veniva riconosciuta un'autorità simile a quella del Papa presso i Cattolici, con la differenza però che la sua mitra, il suo bastone e il suo anello sono puramente spirituali, e la sua « potestas » deriva in ultima ana- lisi soltanto da Dio (54). A lui toccava in particolare presiedere l'an- nuale capitolo generale, il cui ordine del giorno comprendeva, tra l'altro, il sentire le relazioni dei capi degli ospizi, il risolvere i casi disciplinari, l'elezione dei candidati ai vari gradi deìVordo ecclesia- sticus e la loro consacrazione, la costatazione dello stato delle finan- ze ed infine la designazione di coloro che a due a due erano incaricati di visitare gli ospizi, di esercitare dovunque il ministerio itinerante della predicazione e della cura d'anime e di raccogliere il frutto delle collette (55). Se quei capitoli si tenevano come abbiamo detto più sopra - preferibilmente in Lombardia, lo si faceva per i minori peri- coli che quella regione offriva ai partecipanti, in particolare ai dele- gati tedeschi che potevano viaggiare fingendo di essere pellegrini di- retti a Roma ad limino apostolorum Petri et Pauli (56).

Riassumendo e concludendo, possiamo affermare che l'episco- pato valdese nel medioevo, dove e quando fu in vigore, si distingueva nettamente dall'uguale grado esistente nella gerarchia cattolica. In- nanzi tutto la sua « potestas » derivava direttamente da Dio, come giustamente intesero non solo il Moneta, ma prima e dopo di lui anche Bernardo di Fonlcaude e Stefano di Borbone ^57). Anche se qualche corrente apologetica sempre viva fra i Valdesi medioevali tentò di metter su una successione episcopale che da Valdo risalisse fino alla Chiesa primitiva attraverso le ben note vicende collegate con la pseu- do-donazione costantiniana, l'opinione dei più era che i Valdesi fos- sero a ragione i successori degli apostoli, ma solo nel senso che vitam eorum imitantur et tenent, e che costituissero la vera Ecclesia Christi perchè osservavano verbis et exemplis la dottrina di Cristo e dei suoi apostoli (58). Inoltre l'episcopato valdese, con la sua caratteristica di essere più un regimen che un ordo, più un governo ehe un sacerdozio vero e proprio, era chiaramente modellato su quello della Chiesa pri- mitiva, come del resto n'ebbero consapevolezza gli stessi Valdesi di quei tempi. Naturalmente, quando si parla dell'organizzazione eccle-

(53) Gui op. cit. II, pp. 148-150.

(54) Dôllinceb, op. cit., H, pp. 97-105.

(55) nel ms. Vat. lat. 2648 cit. a nota 27.

(56) ibid.

(57) cf. note 22 e 29. Mentre Bernardo di Fontcaude riproverava ai Valdesi di non essere mandati da Dio dagli nomini (v. Enchiridion cit., p. 77), Ste- fano di Borbone scriveva che i Valdesi si stimavano inviati da Dio e non dagli uomini: per essi coloro che non sono mandati da Dio dagli uomini sono i cattivi laici, e coloro che sono ordinati dagli uomini ma non da Dio sono i cat- tivi sacerdoti.

(58) Dagli Atti dell'Inquisizione in Lingua doca, cf. DôlXiNCEH, op. cit, II, pp. 6-17.

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siastica della Chiesa antica, non si può non tener conto del processo di sviluppo che dal collegio dei presbiteri - episcopi - didascali degli Atti degli Apostoli portò a poco a poco, tra la fine del I secolo e l'inizio del II, all'episcopato monarchico di Ignazio d'Antiochia, co- me si può ricavare dalle lettere di costui inviate agli Efesini ed ai Magnesii (59). Ora, se si tengono presenti le caratteristiche del ve- scovo valdese come abbiamo cercavo di individuarle nelle pagine pre- cedenti, si vedrà subito che esso è più somigliante all'episcopato-sor- vegliante delle lettere di Paolo a Timoteo e a Tito, che al vescovo simile a Dio di Ignazio. Se poi il confronto si dovesse estendere anche al tipo di vescovo successore degli apostoli e vicario di Cristo caro a Cipriano (prima metà del secolo III), il risultato di esso non potrebbe che confermarci nella precedente conclusione.

Giovanni Gonnet*

(59) Ignazio d'Antiochia, Agli Efesini VI, 1; Ai Magnesii VI, 1.

Significato del 'Benefìcio di Cristo, alla luce di recenti interpretazioni

La vigilia e gli anni della seconda guerra mondiale ci hanno ri- proposto la meditazione del « Trattato utilissimo del beneficio di Giesù Cristo verso i cristiani » (1). Tuttavia, se togliamo la premessa di Mariano Moreschini alla sua edizione del 1942 e l'articolo di Antero Meozzi, l'interesse degli studiosi fu ancora rivolto alla individuazione dell'autore dell'opera, pubblicata anonima nel 1543 a Venezia, la cui fortuna fu davvero singolare: cara dapprima a pii e dotti ecclesiastici, divenne, qualche anno dopo, la pista percorsa con più tenacia dagli Inquisitori per rintracciare l'eresia luterana.

L'unica discussione intorno al significato e ai caratteri dell'ope- retta si ebbe fra il sig Costantino De Simone Minaci e Giovanni Miegge e apparve nel 1942 su una rivista semi-clandestina « L'Ap- pello » di Milano, dove si erano rifugiati i collaboratori di « Gioventù Cristiana », elegantemente soppressa dai fascismo.

Il sig. De Simone Minaci, sulla scorta dell'introduzione del Mo- reschini, il quale applicava al « Beneficio » la formula del Church esplicativa della Riforma italiana (da distinguersi dalla Riforma in Italia) come l'incontro del razionalismo umanistico e del misticismo spagnolo, negava ogni suggestione e ispirazione protestante all'opera di don Benedetto, la quale anzi gli appariva il miglior frutto del- l'erasmismo italiano, la risposta del riformismo cattolico pretridentino alla lacerazione della rivoluzione protestante. La risposta di G. Mieg- ge è un'acuta e dotta rivendicazione della spiritualità valdesiana e del « Beneficio » come « spiritualità sostanzialmente riformata », pur affermandone la originalità, « ma nel quadro delle correnti della Ri- forma, non contro di essa; nel tumultuoso multiforme pullulare di idee, aspirazioni, di tendenze novatrici, che tutte, dal più al meno, traevano dalla dottrina luterana della giustificazione per fede la loro ispirazione profonda ». Egli scopre i legami di alcuni punti centrali

(1) Rimando per la bibliografia sul «Beneficio di Cristo» al mio lavoro: B. Spadafora e la Riforma protestante in Sicilia nel sec. XVI, pub. in « Rinasci- mento » (Firenze), a. VII, 1956, n. 2, pp. 233-6. Cfr. Fr. Domingo de Santa Te- resa, 0. C. D., Juan de Valdés. Su pensamiento religioso y las corrientes espiri- tuales de su tiempo, Roma, 1957, cap. K.

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del « Beneficio » col pensiero luterano: la memoria del battesimo co- me rimedio contro la diffidenza; la predestinazione dei giustificati e, sopra tutto, la teoria imputativa della giustificazione. A questo riguar- do richiama la nostra attenzione sulla peculiarità della interpretazione luterana della giustificazione, forense e imputativa, e la differenza dalle correnti fautrici della giustificazione per fede nel cattolicesimo, le quali costantemente s'ispirano alla teoria agostiniana « infusiva », secondo la quale Ja giustizia è infusa dalla grazia per mezzo dello Spirito Santo.

Di questa differenza erano ben consapevoli i Riformatori e un locus di Melantone distingue le due teorie e le armonizza come gradi dello stesso processo della giustificazione, e cioè: la gratuita imputa- zione dei meriti di Cristo e il conseguente dono dello Spirito Santo, fonte delle buone opere. Il « Beneficio di Cristo » presenta la giusti- ficazione nei due gradi enunciati da Melantone.

Questa messa a punto non fu molto conosciuta per l'ora tragica in cui si pubblicava e per la scarsa diffusione della Rivista, ed è per- tanto spiegabile che sia ignorata da frate Domingo di Santa Teresa, al quale dobbiamo adesso un'opera decisiva alla conoscenza del pen- siero e della spiritualità di Juan de Valdés, nonché delle correnti del suo tempo. Dirò subito che ciò non ha nuociuto alla intelligenza del « Beneficio », ma non ha obbligato uno storico attento e sensibile, conoscitore profondo di tutte le fonti spagnole e italiane riguardanti il Valdés, com'è frate Domingo, ad affrontare di proposito la questio- ne. Il trattatello è per lui la sintesi delle conversazioni dei circoli napoletani e rispecchia motivi, come quello della predestinazione, che tanto aveva preoccupato Marcantonio Flaminio (si ricordi il suo scam- bio di lettere col Seripando sull'argomento), il quale Flaminio è del resto un collaboratore dell'opera. Collaborazione riguardante lo stile, ci dice una fonte, « servando integro il subietto », ma ben si com- prende quale portata abbia in un campo così delicato, così ricco di sottili sfumature, la forma e il tono del linguaggio. Il « Beneficio » è il veicolo della spiritualità valdesiana, della quale ricorda alcuni aspetti essenziali, sebbene si distacchi alquanto dalla linea del pensiero valdesiano per la mancanza della « experienza » e della illuminazione interiore, dato fondamentale delio alumbra.di.smo dello Spagnolo; per la cura di comprovare la verità scritturale della salvezza per la sola fede con il ricorso ai padri della Chiesa e, in particolar modo, di Sant'Agostino; per l'intento polemico della esposizione e il sapore, luterano di alcune immagini ed espressioni.

La puntualizzazione del Miegge, la larga analisi di frate Domingo delle correnti italiane legale alla spiritualità del beneficio di Cristo, la possibilità che abbiamo finalmente di seguire l'itinerario spirituale del Valdés e il suo progressivo allontanarsi dal giovanile erasmismo, ci fanno sentire la indeterminatezza e la insufficienza delle interpre- tazioni del Moreschini e del De Simone Minaci e ci hanno spinto a rileggere il « Beneficio ».

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Desidero qui esporre alcune osservazioni e sottolineare qualche aspetto dell'opera non messo da altri in Iure, il quale sposta alquanto la prospettiva e forse ci consente una valutazione storica un po' diversa.

Quell'abile giornalista e propagandista che fu Pietro Paolo Ver- gerio, forse allo scopo di invogliare i cattolici alla lettura del libric- cino, « che, non appena comparso, scorse con la velocità di un'agile fiaccola accendendo innumeri altre fiaccole in tutta Italia », definen- dolo « soave libriccino », ci ha predisposti più alla suggestione del- l'afflato mistico che allo scopo apertamente polemico. A dire il vero, l'animus dello scrittore è oscillante fra la gioia della personale risco- perta del beneficio di Crislo e della purezza del messaggio evangelico, e il desiderio di confutare gli oppositori, i quali ce dicono falsamente, contro la Scrittura santa e ai santi dottori della Chiesa santa, che la fede sola non giustifica, ma che ci bisognano le opere. Alli quali ri- spondo che questa istorica e vanissima fede con le opere, che gli sono aggiunte, non pur non giustifica, ma precipita nel profundo dell'in- ferno le persone, come quelle che non hanno olio nelli vasi loro, cioè viva fede nei cuori. La fede, che giustifica, è un'opera di Dio in noi, per la qual il nostro uomo vecchio è crocifisso, e noi tutti, transfor- mati in Cristo, diventiamo nuova creatura e figliuoli carissimi di Dio » (2).

Si alternano perciò alle pagine edificative, dove l'amore verso Gesù Cristo è un canto della fede e della riconoscenza, le pagine dove la polemica contro i falsi cristiani si fa talora incisiva incalzante e precisa. Gli è che don Benedetto sente la giustificazione, prima che fatto soggettivo, come avvenimento di proporzioni cosmiche, giacché Gesù Cristo sulla croce ha distrutto l'accusa contro l'umanità ribelle, la tirannia dei diavoli, la morte, l'inferno, e ha ridato all'uomo di- ventato « connaturale » del diavolo a causa del peccato di Adamo, la abilitazione a riprendere la perduta immagine divina. Chi per la fede applica a il perdono generale bandito da Dio e accetta la giu- stizia di Dio eseguita nel suo figliuolo, s'incorpora in lui, la sua anima diviene sposa di Cristo e porta in dote i suoi peccati per riceverne in cambio i meriti dello sposo, ottiene il dono dello Spirito Santo e opera per violenza di amore: « Così la vera fede viva è una divinità nell'animo del cristiano, il qual opera mirabilmente mai si truova stanco dalle buone opere. Ma queste opere non sono cagione che il cristiano sia cristiano, cioè giusto, buono, santo, gratissimo a Dio. E a lui non era necessario, per diventar tale, far cotali opere; ma egli, perché è cristiano per la fede, come Cristo uomo, per la divinità, era Dio, fa tutte quelle buone operazioni: onde queste buone opera- zioni non fanno che il cristiano sia giusto e buono, ma dimostrano che egli è buono e giusto » (3).

(2) Opuscoli e lettere di Riformatori italiani del Cinquecento, a cura di G. Pauuhno, I, Bari, 1913, p. 27.

(3) Ed. cit., p. 30.

In tal maniera la Chiesa è per don Benedetto da Mantova la comunità dgli eletti, dei giustificati per fede. Tutte le volte che egli nomina la Chiesa, chiarisce che essa è « ciascuna anima fedele », « sposa di Cristo ». Un accenno, sia pure fuggevole, alla Chiesa come istituzione giuridica e gerarchica non esiste, a differenza di quanto si nota nel Valdés feW Alfabeto Cristiano. Quando c'è un accenno alle gerarchie ecclesiastiche è in chiave polemica. Discorrendo, ad es., contro il valore giuridico delle opere e ricordando il rimprovero di S. Paolo ai Calati, l'A. esclama: « E, se il cercare la giustizia e la remissione dei peccati per la osservazione della Legge, la quale Iddio con tanta gloria e apparato diede nel monte Sinai, è un perder Cristo e la grazia sua, che diremo noi di quelli che pretendono di voler- si giustificare appresso a Dio con le loro leggi e osservanze? Facciano costoro il paragone, e diano poi lo giudizio: se Dio non vuol dare questo onore e questa gloria alla Legge sua, vogliono questi che la dia alle loro leggi e constituzioni? Questo onore si solamente al suo unigenito Figliuolo; esso solo col sacrificio della sua passione ha soddisfatto per tutti i nostri peccati passati presenti e futuri... » E ancora a proposito del dono dello Spirito Santo e la certezza della vita eterna, egli polemizza contro chi accusa il credente di presun- zione e scopertamente si rivolge alle gerarchie ecclesiastiche, quan- do così afferma: « E nondimeno costoro, che ci tengono arroganti, perchè diciamo che Dio ci dona con la fede lo Spirito Santo, non solamente non ci proibiscono che diciamo ogni giorno Pater Noster ma ce lo comandano ». E cosi conclude: « Diventino adunque costo- ro veri cristiani, depongano gli animi ebrei, abbraccino dadovero la grazia dell'Evangelio, e conosceranno che i cristiani hanno lo Spirito Santo e che conoscono di averlo » (5).

Un'allusione indiretta e inattesa alle gerarchie mi sembra di scorgere in un passo che leggesi nelle poche pagine dedicate alla Co- munione. Dopo aver esposto i sentimenti del cristiano dinanzi a que- sto sacramento, che è il sigillo lasciatoci da Cristo a comprova della nostra redenzione in Lui, così l'A. conclude: « Questa è la pietra, sopra la quale la coscienza edificata non teme alcuna tempesta, pur le porte dell'inferno, l'ira di Dio, la Legge, il peccato, la morte, i demoni, alcuna altra cosa » (6). Gli era venuta sotto la penna la citazione di Matteo 16, v. 18, vale a dire del testo capitale che nell'accesa polemica di quegli anni era diventato vieppù il baluardo dell'apologetica cattolica contro il sovvertimento luterano dell'edificio della Chiesa romana. Ma non è davvero sorprendente che l'A. si serva di quel versetto solo per riecheggiare l'interpreta- zione di Lutero? Questi, nel libro fortemente polemico Del papato di Roma, uscito nel 1520, nella esegesi del passo: Tu es Petrus..., fra l'altro, scrive: « Ma permanere contro le porte infernali non signi- fica il perdurare di una comunità, autorità, gerarchia e assemblea

(5) Ivi, p. 50.

(6) Ivi, p. 43.

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esterna... ma il sussistere edificati sulla retta fede in Cristo, la roccia, in guisa tale, che neppure la potenza del diavolo possa prevalere con tro di essa, per quanti sforzi faccia... » (7).

Se talora sembra che il benedettino, presenti questa dottrina della giustificazione per « la sola fede » come un'opinione diversa dalla do- minante in larghi strati della Chiesa e della gerarchia, come « un'opi- nione più vera, più santa e più degna di essere predicata », più spesso la ripulsa di essa è avversione alla verità dell'Evangelo, nata da un peccato di presunzione e d'incredulità nei riguardi della misericordia di Dio. Egli addirittura accenna al conflitto fra veri e falsi cristiani e alla persecuzione di costoro: « come Cristo tollerò tutte le per- secuzioni e le confusioni del mondo per la gloria di Dio, così noi alle- gramente debbiamo sostenere le ignominie e le persecuzioni, che fanno i falsi cristiani a tutti coloro che vogliono vivere piamente in Cri- sto » (8).

Qui siamo lontani dall'indifferenza del Valdés, dal suo insegna- mento che nelle cose di religione non deve porsi « passione » nel di- fendere una opinione o impugnarne un'altra. L'intento del Valdés è la perfezione interiore: il suo insegnamento è eminentemente etico e pratico; l'intento dell'autore del « Beneficio » è quello di ristabilire la verità dell'Evangelo. In lui traspare una concezione della Chiesa degli eletti, dei membri del corpo di Cristo, guidati dallo Spirito Santo, invisibile, vivente accanto alla chiesa empirica. E c'è perfino la coscienza di una scissura fra chiesa reale e chiesa legale, per usare un linguaggio politico del nostro tempo. La concezione della chiesa invisibile non ha nulla di originale, che essa percorre da Agostino in poi la storia della Chiesa; però Lutero le dava in quegli anni una carica polemica nella lotta contro il papato e questo problema della convivenza delle due chiese è ancora urgente e angoscioso per il Ri- formatore nel De liberiate Christiana.

Che cosa pensare di questo aspetto del « Beneficio di Cristo »? Fino a che punto si può conciliare con la ortodossia cattolica pre- tridentina? Ci rendiamo conto di quanto sia arduo e pericoloso dare un giudizio preciso sul significato di questa operetta, cara al Cortese, al Morone, al Madruzzo, nonché al cardinal Pole e al suo circolo viterbese; considerata fin dal 1544 « compendio di errori e inganni luterani » dal domenicano Caterino Ambrogio Polito (9), uno dei mi-

(7) Citato da G. Miecce, Lutero, Torre Pellice, 1946, p. 331.

(8) Ed. cit., p. 36.

(9) Compendio d'errori et inganni luterani, contenuti in un libretto, senza nome dell'Autore, intitolato: Trattato utilissimo del Benefizio di Cristo crucifisso. In Roma, ne la contrada del Pellegrino, 1544.

Fra l'altro, non gli sfuggì la punta contro il precettiamo ecclesiastico da me notata sopra. Il passo da me riferito è così commentato a pag. 16 r. « Questa è catolica verità, che Iddio per la magnificenza sua pregia l'opere buone, a le quali propone vita eterna, per premio, e dono ; e gli religiosi che servano le lor regole, le quali conducono a più piena e più spedita osservanza dell'Evangelica legge, per i santi voti che promettono, instituti da Cristo, senza dubbio ottengano mi- gliore resurrezione, come testifica il Signore, quando respose a Pietro che gli domandava il premio de l'avere lassato ogni cosa, e seguitatolo, e gli disse: Voi

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gliori apologeti italiani del cattolicesimo della prima metà del Cin- quecento; di un'opera che trova ancora oggi risonanza nella pietà protestante.

Se stiamo a quel poco che sappiamo troppo poco invero! dell'autore, decatius di San Giorgio Maggiore a Venezia quando era abate Gregorio Cortese e durante il soggiorno del Pole, amico del Flaminio e forse del Valdés: se consideriamo il caratteristico itine- rario dell'evangelismo italiano del ritorno alla pura verità dell'Evan- gelo attraverso Agostino (a cui si un posto preminente nelle cita- zioni del trattato) e Paolo, al di della scolastica, ci sembra logico inquadrarlo in questo movimento. E' assai sintomatico, ad es., che nella conclusione don Benedetto ripeta il consiglio dato dal Pole a Vittoria Colonna sul come debba contenersi nella vita pratica il « pre- destinato alla vita eterna », il quale « così attende alle buone opere e alla imitazion di Cristo, come se la salute sua dipendesse dalla in- dustria e diligenza propria » (10). Eppure la teoria della giustifica- zione del « Beneficio » è diverso dalla concezione contariniana della doppia giustizia, fervorosamente approvata dal Pole nel '41, ripresa dal Seripando al concilio di Trento, e a me sembra, d'accordo col Miegge, di origine luterana. La verità è probabilmente nell'avverti- mento dello Jedin sulla natura dell'evangelismo, un movimento mul- tiforme e ricco, dai confini indefinibili, aperto in alcuni settori alla spinta del protestantesimo verso il riacquisto della verità scritturale; simile al movimento pauperistico del sec. XIII, il cui sbocco poteva essere tanto il valdismo quanto la restaurazione francescana, esso na- scondeva nel suo seno sìa il veicolo della Riforma protestante che la restaurazione cattolica.

Chissà che don Benedetto, ripensando nella pace del chiostro etneo, alla lacerazione della repubblica cristiana, al tumulto di pas- sioni e controversie travagliami l'Europa, non abbia voluto stendere il succo delle sue meditazioni ed esperienze sui punti essenziali del cristianesimo e abbia finito per sentire la giustificazione per « la sola fede » propugnata da Paolo e Agostino, riportata alla coscienza cri- stiana da Lutero, come la linea discriminante chi ricerca la gloria di Dio da chi vuole seguire le tradizioni e la prudenza umana. E forse al di della divisione della chiesa empirica, oltre le passioni scate- nate dalla Riforma, contemplò la invisibile comunità degli eletti, dei veri credenti in Cristo, dovunque si trovassero, purché veramente guidati dallo spirito di Cristo.

Camminando lungo la linea di confine della ortodossia cattolica, non si accorse d'avere oltrepassato la frontiera e di trovarsi sul ter- reno della spiritualità riformata, la cui sorgente segreta è la ricerca di un diretto rapporto con Dio attraverso la Sacra Scrittura. Perciò le guardie confinarie, sempre vigili in tutti i tempi, gli corsero dietro

che avete fatto questo ne la resurrezione sederete giudici delle dodici tribù d'Israel ».

(10) Ed. cit., p. 56.

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e diedero alla sua operetta una caccia spietata fino a disperderne quasi le tracce.

Ciò non di meno, a distanza di secoli, noi la leggiamo ancora e l'apprezziamo ancora per il suo profondo spirito cristiano.

Salvatore Caponetto

Il vero autore di un

celebre scritto anti-trinitario :

Cristhian Francken non Lelio Socino

Non sembri ingiustificato, nel corso di un Convegno su eresia e ri forni a in Italia, soffermarsi a parlare di un autentico Prussiano, visto che il nostro personaggio studiò molti anni nel Collegio Roma- no, ebbe rapporti con molti esuli italiani per causa di fede e in Ita- lia finì oscuramente i suoi giorni. Uomo per molti aspetti strano e misterioso, autore di numerosi scritti a stampa pressoché introvabili (la rarità leggendaria delle opere di Giordano Bruno sembra, al con- fronto, dovizia), venato da un ramo di inquieta stravaganza, per non dir di follia. Christian Francken corse infaticabile l'Europa in cerca di pace religiosa, così rapido nel mutar con la residenza la confessione di fede e i bersagli delle sue accanite polemiche, da susci- tare la sensazione - sconcertante per un volonteroso biografo che egli fosse dotato del dono dell'ubiquità. Quello della coerenza certo gli faceva difetto.

Nato intorno al 1554, da famiglia luterana, a Gardelegen nel- l'Air mark prussiana, Francken aveva già celebrato, appena quattor- dicenne, la sua prima conversione, facendo ingresso nel Collegio Romano della Compagnia di Gesù (1). Nel sodalizio ignaziano rima- se dieci anni, incline a grande unzione e a severe mortificazioni cor- porali, insidiato da dubbi inquieti, brillante negli studi, orgoglioso della propria perizia dialettica Rinviato nella nativa Germania, pare vi si distinguesse nelle dispute contro i Riformati. Nel 1576, giova- nissimo, fu destinato all'insegnamento della filosofia nel Collegio di Vienna, dove ebbe a collega Paolo Florenius, traendone avvio in segreti colloqui per trasmutare gli annosi dubbi in aperta incredu- lità: due anni dopo, meditando sugli esempi della santità naturale dei pagani, il bellicoso professore è ormai convinto che la Compa- gnia si regga soltanto sull'ipocrisia e la superstizione, deplora il fasto pontificio, le credule devozioni, gli aspetti più appariscenti ed este- riori della religiosità controriformistica. Preso da acuta insofferenza

(1) Riassumo qui in breve, senza addurre il vasto corredo delle testimonian- ze, la biografia del Francken fino alla sua adesione all'antitrinitarismo. Spero di poterne dar presto, in altra sede, più ampio e documentato ragguaglio.

per il proprio stato, egli non sogna ormai altro che la fuga; colta l'occasione propizia, nel febbraio 1579 Francken abbandona il Col- legio viennese e il 24 aprile, da Lipsia, dedica al Florenius il fami- gerato e temerario Colloquium Jesuiticum, nel quale in forma dia- logica sono espressi gli intimi travagli della coscienza inquieta, seve- re censure contro i confratelli di ieri e l'intero mondo cattolico, vaghe aspirazioni a una fede limpida e rasserenante. Sembra che i Gesuiti si dessero d'attorno per fare incetta degli esemplari del Col- loquium e distruggerne la maggior parte, ma Francken non esitò a ristamparlo a Basilea (1580), dedicandolo a Cristo in persona, invo- cato a difendere l'esile libretto contro le insidie della Compagnia che da Lui prendeva nome. Nel mondo riformato quelle pagine ebbe- ro larga eco, furono volte in inglese e in tedesco e vennero ristam- pate una dozzina di volte nel successivo trentennio.

Intanto Francken vagava senza pace per l'Europa : nel settem- bre 1579 aveva cercato invano di ottenere un abboccamento con Beza a Ginevra; nell'ottobre diede in luce a Basilea certi suoi stravaganti paradossi sull'eucaristia e la predestinazione; pochi giorni dopo, a Strasburgo, disputò coi dottori dell'Università e si vide intimare la sospensiva dal Rettore, mentre gli studenti tumultuavano. L'inverno potè trascorrerlo in quella città, insegnando privatamente logica ari- stotelica a un conte polacco, ma nell'estate del 1580 ottenne un posto di lettore nel recente Gymnasium di Altdorf. Vi tenne tre lezioni in tutto: in così poco tempo era già riuscito a diffamare il Rettore, a mettere a rumore l'uditorio, a bandire una disputa teologica e a ricevere un cartello di sfida per un duello all'arma bianca. Salvatosi a stento, trascorse il primo semestre del 1581 come insegnante a Norimberga, ma nell'ottobre eccolo sbalzato a Breslau, donde sotto- scrive inopinatamente una contrita lettera di palinodia rivolta ai Padri del Collegio gesuitico viennese. Il documento è insieme acco- rata auto-deplorazione, intreccio di scuse capziose per le invettive del Colloquium, confessione di angosciosa inquietudine spirituale, di scontento profondo, di amaro disorientamento: ma i Gesuiti di Vienna si affrettarono a far stampare quella ritrattazione e il risul- tato iu che Francken, già inviso ai cattolici, si acquistò odio e disprezzo fra i riformati per essere tornato « come porco al brago e come cane al vomito ».

* * *

A Breslau, in un momento di grave smarrimento e umiliazione, Francken entrò in rapporti con un uomo celebre per la sua dottrina umanistica non meno vhe per la sua candida fede riformata e lo spirito di tolleranza: il vescovo ungherese Andrea Dudith. Ospite nella sua casa (2), è verosimile che da lui il nostro esule inquieto sia stato indirizzato verso la libera Polonia e i gruppi unitari che vi

(2) S. B. Klose, Neue litter. Unterhaltungen, Breslau, 1774, p. 524, n. 59; P. Costil, André Dudith humaniste hongrois, Paris, 1935, p. 200.

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trovavano asilo, animati dalla guida spirituale di Fausto Socino. Certo si è che da questo momento le peregrinazioni e i conati del Francken interessano gli storici dell'unitarismo polacco, i quali si tramandano l'un l'altro la notizia di una sua conversione all'anti trinitarismo, non posteriore al 1583, cui fecero seguito il carico di rettore nel collegio di Climielnik, una polemica sotto mentito nome contro il gesuita Warszewicki, il passaggio alle tesi estreme dell'anti- adorantismo e la conseguente disputa con Socino, infine la pubbli- cazione di un empio librelto contro la Trinità, che avrebbe sollevato rumore, costringendo Francken a lasciare il paese e a rifugiarsi in Transilvania (3). Riferendo queste vaghe notizie, il primo biografo del Nostro, l'Henning (4), le fece precedere da un accenno ad un preteso secondo allontanamento dalla Compagnia di Gesù, cui il Fran- cken si sarebbe indotto dopo il 1581 (in realtà la lettera di palino- dia esprimeva un mero stato d'animo e non implicava formale sotto- missione), e le concluse rammentando la nuova conversione al catto licesimo, celebrata dall'esule in Transilvania, per interessamento di Sigismondo Bathory in persona e ad opera del suo ministro Stefano Josika, il quale avrebbe staccato Francken dagli ariani per nomi- narlo rettore della scuola di Kolos Monostor. Di fronte a una siffatta vicenda, tanto movimentata quanto malcerta, l'Adelung , che fece al Nostro largo posto nella sua storia dell'umana follia (5) tentò di metter ordine, con encomiabile spirito critico, nel groviglio delle testimonianze, ma finì in realtà, almeno su questo punto, per accrescere la confusione e perdervisi del tutto. Accolto infatti per certo il supposto reingresso del fuggiasco nella Compagnia di Gesù al cadere del 1581, si domandò quale punizione i superiori avessero riservato al transfuga pentito e concluse che egli dovette restare per poco tempo nel ritrovato ovile; dopo due anni oscuri di peregrina- zioni attraverso Germania, Boemia, Polonia e Ungheria, Francken avrebbe abbracciato il socinianismo in Transilvania, avrebbe inse- gnato filosofia a Cluj, indi si sarebbe convertito mercè l'intervento del Bathory e del Josika, ma avrebbe lasciato con tanta fretta Mono-

(3) Cfr. C. C. Sandius, Bibliotheca antitrinitariorum, Freistadii, 1684, pp. 86- 87; M. Vevssière de la Croze, Dissertations historiques sur divers sujets, Rotter- dam, 1707, p. 56 (il quale sottolinea le facili conversioni del Francken); J. C. Zeltner, Theatrum virorum eruditorum, qui speciatim typographiis laudabilem operarti praestisterunt, Norimbergae, 1720, p. 211; A. Guichard, Histoire du Soci- nianisme, Paris, 1723, p. 459; S. J. Apinus, Vitae projessorum philosophiae, qui u condita Academia Altorfina ad hue usque diem claruerunt, Norimbergae et Al- torfii, 1728, p. 52 (trascrive lo Zeltner cit.); J. G. Walch, Historische und theo- logische Einleitung in die Religions-Streitigkeiten, Jena, vol. IV, 1736, pp. 271- 272; F. S. Bock, Historia Antitrinitariorum ecc., Regiomonti et Lipsiae, vol. I, 1774, p. 360; J. Sejvert, Nachrichten von Siebenbùrgischen Gelehrten und ihren Schriften, Pressburg, 1785, p. 94.

(4) C. A. Henninc, De vita C. Francken Gardelebiensis, « Miscellanea Lipsien- sia », X, 1721, pp. 155-156, 160-161, 164.

(5) J. C. Adelunc, Geschichte der menschlichen Narrheit ecc., Leipzig, vol. II, 1786, pp. 209-213.

stor e il cattolicesimo, da riapparire in Polonia nella prima metà del 1583 quale rettore del collegio di Chmielnik, fra i sociniani più in vista. Anche per un inquieto della stoffa del Nostro due conver- sioni al cattolicesimo e altrettante all'arianesimo nello spazio di un anno e mezzo sembrano davvero eccessive e l'Adelung, nel darne conto, non mancò di manifestare il suo stupore: meglio avrebbe fatto, in mancanza di fonti dirette, a rileggersi con cura quella indi- retta che aveva sotto mano, dalla quale emerge con chiarezza che le vicende transilvane del Francken si svolsero sicuramente in epoca successiva alle sue burrascose esperienze polacche. Posso anche aggiungere che le prime notizie di una presenza del Nostro a Cluj non sono anterori al maggio 1585 e che la sua conversione solenne al cattolicesimo venne celebrata in circostanze affatto diverse da quelle sopra richiamate - il 4- dicembre di quello stesso anno. Vediamo dunque quanto si sa per certo dei tre anni della sua vita ch'egli trascorse in Polonia.

La notizia ch'egli esercitasse per un certo tempo le funzioni di rettore del Collegio unitario di Chmielnik, nella Polonia meridio- nale, cento chilometri circa a nord-ovest di Cracovia, è tramandata dal Sand, fonte autorevole; ch'egli vi si trovasse ai primi del 1583 è congettura dell'Adeìung, verisimile, ma tutt'altro che certa; che nel- P84 venisse deposto dall'incarico è attestato dal Bock, il quale con- siderò ovviamente l'incompatiblità di quell'ufficio con gli atteggia- menti assunti dal docente nella sua disputa del marzo di quell'anno con Fausto Socino (6). Al 1583 è da assegnare una scrittura del Francken, divulgata sotto lo pseudonimo di « Nicolaus Regius » e intitolata: Refutatio trium orationnm quibus Warkawicius Jesuita Stephaniim Bathorium regem Polnniae atque senatores incitare vo- luti ad Protestantes perseqiicndos. Si tratta di un libello polemico df tanta rarità da risultare sconosciuto ai cataloghi delle maggiori biblioteche d'Europa, non meno che al diligente repertorio delle cinquecentine polacche redatto dal Wierzbowski (7); dalla Responsio di un confutatore si deduce che esso era redatto in forma di « epi- stola », ma non sono neppure in grado di accertare se l'autore lo diede alle stampe o si accontentò di farlo circolare manoscritto (8). Non v'ha dubbio però -- se la trascrizione del titolo è esatta che

(6) Cfr. Sandius cit. (1684), p. 86; J. F. Reimmann, Catalogua bibliothecae theologicae systematico-criticus, Hildesiae, 1731, vol. II, pp. 653-654; Walch cit., vol. IV (1736), p. 271; Bock cit., vol. I (1774), p. 360; Seivert cit. (1785), p. 94; Adelunc cit., vol. II (1786), pp. 211 e 213.

(7) T. Wierzbowski, Bibliographia Polonica XV ac XVI saeculorum, Varso- viae, 1889-1894, 3 voli.

(8) Fonte primaria è ancora Sandius cit. (1684), p. 87, trascritto da Hetvning .cit. (1721), pp. 170-171. Per errore il Guichard cit. (1723), p. 459, scrive che Nico- laus Regius è pseudonimo del « Warkavicius ». Cenno anche in A. De Backer, Bibliothèque des écrivains de la Compagnie de Jésus, Liège-Paris, vol. I, 1869, col. 1937 (nella successiva ediz., curata da C. Sommervogel, l'elenco degli scritti del Francken risulta assai sfrondato).

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la vecchia ruggine antigesuitica fece velo agli occhi del Francken, perchè l'autore delle tre orazioni contro le quali egli scese in campo non era il gesuita Stanislao Warszewicki (1529-1591), informatore di Gregorio XIII sulle cose svedesi e campione del cattolicesimo polac- co (9). bensì quel Cristoforo Warszewicki, canonico di Cracovia, fecondo autore di allocuzioni politiche e di trattazioni apologetiche, che avrebbe acquistato fama europea pubblicando nel 1595 un manuale di diplomazia intitolato De legato et legatione. Era stato lui che il 18 novembre 1582, da Varsavia, aveva dedicato a Giovanni Zamoiski tre orazioni « per la fede di Cristo e la sede di Pietro », rivolte rispet- tivamente al sovrano, al senato e alla nobiltà (10): ravvisandovi un appello all'intolleranza e alla persecuzione contro i riformati, Fran- cken compose la sua battagliera Rejutatio, provocando una pronta replica da parte di Pietro Lilia, teologo e cappellano regio (11), non- ché, pù tardi, una contro-risposta o Apologia del Warszewicki in per- sona (12).

Celato sotto l'usbergo del nome fittizio, l'ex-gesuita non ebbe probabilmente a risentire i contraccolpi della polemica che aveva sol- levato, ma in quegli stessi mesi si trovò coinvolto in un ben più pun- gente contrasto, che lo condusse a dissentire dai suoi stessi compagni di fede, gli unitari. Era nella logica stessa delle cose che un uomo come Francken, uscito dai rapimenti mistici e dalle mortificazioni ascetiche attraverso una razionalistica critica della santificazione so- prannaturale e del dogmatismo fideistico, finisse per non sapersi arre- stare neppure nella già estrema posizione sociniana, che aveva dis- solto il dogma trinitario, risolvendo la vita religiosa in una sublima- zione dell'umana moralità. Con compiacimento intellettualistico per la propria illusoria ed estrinseca coerenza dialettica, Francken va oltre e, non contento di negare la divinità di Cristo, ne respinge anche il primato mondano, la suprema investitura di maestro e modello dell'umanità, la funzione mediatrice fra terra e Cielo. Ancora una volta l'unitarismo subiva così la tentazione radicale del non-adoran- tismo, il rifiuto totale del Cristianesimo, che tendeva quasi inconscia- mente a risolversi nel giudaismo. La questione che aveva messo in allarme in anni recenti Giorgio Blandrata, diplomatico manipolatore

(9) Cfr. l'elenco dei suoi scritti in C. Sommervocel, Bibliothèque de la Com- pagnie de Jésus, Bruxelles, vol. Vili, 1898, coli. 994-996.

(10) C. Vaservicii, Pro Christi fide et Petri sede orationes IH: I ad Regem, II ad Senatum, III ad Equités, Cracoviae, typis A. Petricovii, 1583. Cfr. T. Wier- zbowski cit., n. 448. A una ristampa del 1600 accennerò tra breve.

(11) P. Lilia, Responsio ad cuiusdam Nicolai Regii Germani epistolam, qua ciarissimi Christophori Vasevicii pro Christi fide et Petri sede orationes reprehen- dit, Vilnae, impress, per I. Kartzanum, 1584 (la dedica è del 14 marzo). Cfr. T. Wierzbowski cit., n. 1605.

(12) C. Vaservicii, De cognitione sui ipsius libri très. Hic accesseruni... très totidem pro Christi fide et Petri sede ad Ordines regni Poloniae orationes... Adiecta postremo est contra Nicolaum Regium Germanum, qui in eas orationes scripserat, eiusdem Apologia..., Cracoviae, in officina I. Sibeneycker, 1600. Cfr. T. Wierzbow- ski cit., n. 694.

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dell'equilibrio fra le confessioni religiose di Transilvania, e che lo aveva indotto a chiamare a dargli man forte contro l'estremismo di Ferencz Dâvidis la lucida sottogliezza di Fausto Socino (13), sembrava riprendere vigore nella persona del transfuga tedesco. In lui parve riaccendersi quell'esigenza di vigorosa coerenza, quel gusto cerebrale e solistico di spingere le cose fino alle conseguenze ultime, che avevano persuaso il teologo ungherese a rifiutare ogni specie di culto a Cristo, in conformità con l'avvenuta sua riduzione a una sfera puramente umana. Del Dâvidis il Nostro si presentò come discepolo ideale e fedele continuatore (14), e fu ancora una volta Fausto Socino a contrappor- glisi. Il 14 marzo 1584, a Pawlicowice poche miglia lontano da Cra- covia, nella nobile residenza di Cristoforo Morstyn ospite affettuoso e futuro suocero di Socino, ebbe luogo una vivace disputa sul tema « de honore Christi » tra l'esule senese e l'ex-gesuita tedesco (15). Entrambi i contendenti si trovavano concordi nell 'asserire che Cristo « perfec- tissima ratione » non è Dio, e argomento del dibattito era stabilire se egli dovesse o meno venire onorato con religiosa adorazione. Dap- prima Francken pose l'accento sull'immensa distanza che intercorre fra il creatore e la creatura, tale da implicare forme di culto rigoro- samente distinte: nessuna contaminazione è ammissibile tra la vene- razione religiosa e la somma degli onori mondani che si tributano, ad esempio, al Papa o alla Regir-a d'Inghilterra, e l'ammettere il culto di Cristo, che è mera creatura, significa aprire la strada al culto delle immagini e all'idolatria. D'altronde nessun luogo della Scrittura mo- stra Cristo partecipe della potenza di Dio e cooperatore nella crea- zione, dal che si deduce che non debba neppure venirgli equiparato nell'adorazione. Socino >■ forte degli argomenti schierati in campo cinque anni prima conti»» il Dâvidis replicò che anche Cristo pos- siede, nell'ambito della Chiesa, una particolare onnipotenza: quella di condurre a salvezza tutti coloro che confidano in lui; egli è tramite e mediatore fra l'uomo e Dio, e pertanto anche l'adorazione a lui tri-

(13) La disputa fra Socino e Dâvidis si svolse a Cluj, tra la metà di novembre 1578 e il marzo successivo; nel maggio il Senese finì di porre in carta le sue argo- mentazioni. Il Dâvidis, sconfitto e condannato al carcere perpetuo, morì poco do- po, il 15 novembre 1579. Riassume le tesi essenziali dei due contendenti D. Can- riMORi, Eretici italiani del '500, Firenze, 1939, pp. 414-416.

(14) Cfr. Sandius cit. (1684), pp. 86-87; Vetïssièbe cit. (1707), p. 56; Gui- chabd cit. (1723), p. 459; Walch cit., vol. IV (1736), p. 271; Bock cit., vol. I (1774), p. 360; Adelunc cit., vol. II (1786), p. 212.

(15) Numerosi quanto superficiali sono i cenni degli eruditi alla disputa tra Francken e Socino. Cfr. J. Hoornbeek, Socinianismi confutati tomus I [-///], Ultraiecti, vol. I, 1650, p. 33; vol. II, 1662, pp. 191-192 (con severa condanna di entrambi i contendenti); Sandius cit. (1684), pp. 57, 71, 81; J. C. Zeltner cit. (1720), p. 211; Henninc cit. (1721), pp. 161-163; Guichard cit. (1723), p. 459; Apinus cit. (1728), p. 52; S. F. Lautehbach, ArianoSocinismus ohm in Polonia, Frankfurt-Leipzig, 1725, p. 304; Reimmann cit. (1731), pp. 653-654; Walch cit., vol. IV (1736), pp. 271-272; A. Horanyi, Memoria Hungarorum et provincialium script is editis notorum, Viennae, vol. I, 1775, p. 477; Bock cit., vol. II (1784), p. 845; Adelunc cit., vol. II (1786), pp. 212, 217; K. Górski, Studia nad dziejami polskiej literatury anty-trinitarskiej XVI wieku, Kraków, 1949, p. 156.

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butata ridonda per suo mezzo in culto prestato al Padre e Creatore, inoltre l'adorazione reca grande giovamento all'uomo, perchè lo con- forta nella sua debolezza, e deve quindi esser considerata utile e lecita Questi argomenti parvero di poco conto al Francken, il quale concluse con uno stringente sillogismo: chi non adora Iddio, ma altre creature, è idolatra; Cristo è creatura; dunque chi adora Cristo cade nell'ido latria.

La documentazione della disputa di Pawlicowice rimase affidata ai soli appunti del Francken, il quale pose in carta non soltanto le ragioni sue, ma anche con non dissimulati adattamenti quelle dell'avver- sario. Tornato a Chmielnik, non esitò a dichiarare in presenza di uni- tari autorevoli come Giorgio Schoman, Simone Ronenberg e altri, che aveva steso il resoconto della discussione a proprio talento « e non già come si era svolta in realtà, ...non tanto avendo mente a quel che Socino aveva detto, quanto a ciò che avrebbe dovuto dire in confor- mità con i suoi principi » (16). Rimasto inedito per molti anni (17), lo scritto vide la luce nel 1618, dai torchi della tipografia sociniana di Raków, in un volume miscellaneo che accoglie anche la Responsio di Socino al Davidi» e altre .scritture di argomento affine (18). La pietà dei discepoli raccoglieva così quelle testimonianze manipolate e indi- rette del pensiero di Fausto, avallandone in tal guisa la sostanziale attendibilità. Al di del puntuale riferimento al suo tema circoscritto, la disputa s'era allargata fino ad investire il capitale problema dell'au- torità delle sacre Scritture, e serbava perciò un interesse duraturo: col suo consueto avvio razionalistico, Francken aveva subito fatto appello all'unico criterio che gli apparisse di costante e universale validità, quello della ragion teologica, reputando la Scrittura sottoposta a ogni arbitrio degli interpreti, a ogni più soggettiva e capricciosa deforma- zione. Socino gli replicò che molti passi dei sacri Libri sono al diso- pra di qualunque controversia testuale o esegetica e si pongono per- ciò, a somiglianza degli assiomi nelle trattazioni scientifiche, quali punti fermi che sorreggono l'interpretazione dei luoghi oscuri e incer- ti; d'altra parte la ragione fornisce soltanto pochi princìpi sicuri, e questi sono tanto generali e remoti che poco lume possono gettare nel- l'analisi di questioni circoscritte e minute. Ma Francken, con inflessi- bile coerenza, tornò ad insistere sull'impossibilità di dirimere il con- flitto fra « due diverse certezze assolute fondate sopra due divergenti

(16) Così una postilla dei lardi editori sociniani al frontespizio della Dispu- tatio.

(17) Solo I'Adellnc cit., vol. II (1786), p. 217, menziona una ipotetica edi- zione polacca del 1584 della Historia colloqui i inter Chr. Francken et Faust. Soci- num Senensem, 1584 die 14 martii in aula Chr. Paulicovii de honore Christi habita. Si tratta probabilmente di una infondata congettura.

(18) Disputatio de adoratione Christi habita inter F. Socinum et C. Francken ecc., Racoviae, typis S. Sternacii, 1618; il resoconto della discussione del 1584 occupa solo le prime 55 pagine, su un totale di 245. Se ne ha una ristampa nella Bibliotheca Fratrum Polonorum, Irenopoli, 1656, vol. II, pp. 767-777. Cfr. De Ba atra cit., vol. I (1869), col. 1937; vol. Ill (1876), col. 2188.

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interpretazioni scritturali »: in mancanza d'un principio d'autorità universalmente vincolante, nessuna esegesi serba carattere di autenti- cità, e la persuasione intima, anche la più luminosa, diviene un fatto isolato, soggettivo e incomunicabile (19). Il teologo mostra la più com pietà sfiducia circa la possibilità di giungere attraverso la Scrittura all'unanimità dottrinale: sulle sue labbra risuona allora, con accenti di calore, l'appello alla ragione. Ma è già in atto la crisi che, attra- verso un lungo e tortuoso itinerario, lo condurrà infine all'indifferen- tismo dogmatico e alla religione naturale.

Le tesi espresse nella Disputatio erano tali da porre chiaramente Francken fuori delle comunità unitarie di Polonia. Operando una con- fusa contaminano fra le notizie sopra riferite, narrò l'Ashwel che Socino, in un sinodo tenuto a Chmielnik, diede prova del proprio vivacissimo ingegno ribattendo senza sussidio di libri di appunti cinquanta argomenti lungamente elaborati da Francken, il quale do vette partirsene sconfitto e vergognoso (20). E' certo invece che, subito dopo il dibattito di Pawlicowice, Francken tentò una difesa delle pro- prie dottrine indirizzando un" Epistola al sinodo dei Fratelli Polacchi adunato a Wegrów: nel maggio 1584 , a nome dei convenuti, gli rispose il ministro Alessandro Vitrelinus (attivo a Pinczów dal 1555, più tardi a Wegrów) con una lettera di confutazione e di condanna (21). Persa ogni speranza di veder trionfare le proprie tesi tra i Fratelli, Francken dovette allora abbandonare il Collegio di Chmielnik e muovere alla volta di Lublino e di Cracovia.

Le ultime vicende polacche dell'inquieto teologo sono connesse alla pubblicazione di un minuscolo libretto a stampa di sole 40 pagine, privo dell'indicazione della data, del luogo d'impressione e del nome del tipografo, raro al punto che due soli esemplari ne sono stati finora rintracciati (22). Il titolo, volutamente ambiguo, suona: Praecipuarum enumerano causarum, cur Christiani, cum in multis religionis doclri-

(19) Cfr. D. Cantimom cit. (1939), pp. 415-416; G. Pioli, Fausto Socino. Vita, opere, fortuna, Modena, 1952, pp. 46-47, 115-116, 211-212.

(20) G. AsHWEL, De Socino et Socinianismo dissertatio, Oxoniae, 1680, p. 13.

(21) Tanto la Epistola del Francken « ad synodum Fratrum Polonorum We- groviae celebratam », quanto YEpistola del Vitrelinus « ad C. Francken contra opinionem eius de Jesu Chrìsto Filio Dei cultu religioso non colendo », rimasero inedite. Le ricordano: Sandius cit. (1684), pp. 47, 87; Henninc cit. (1721), p. 164; Guichard cit. (1723), p. 459; Bock cit., vol. I, parte II (1776), p. 984 (nel corpo di un ampio articolo dedicato al Vitrelinus, pp. 983-986); De Backer cit., vol. I (1869), col. 1937 (dove si attesta erroneamente che YEpistola trattava il medesimo argomento della Refutatio contro il Warszewicki) ; K. Górski, Grzegorz Pawel z Brzezin, Monografìa z dziejow polskiej literatury arianskiej XVI ivieku, Kraków, 1929, p. 276 (che assegna per errore al 1585 la condanna del sinodo di Wegrów); K. Górski, Studia cit. (1949), p. 156.

(22) Uno solo ne rimane disponibile: quello del British Museum, segnato 4224.a.2. L'altro, segnalato da E. M. Wilbur (A Bibliography of the Pioneers of the Socinian-Unitarian Movement ecc., Roma, 1950, p. 39) presso la ex Stàats- bibliothek di Berlino, sembra aver seguito l'oscura sorte di quelle insigni raccolte. Il volumetto ha pagine non numerate e comprende la Praefatio Authoris alle pp. 3-8 e YEnumeratio alle pp. 9-39; l'ultima facciala è vuota.

nis mobiles sint et varii, in T rinitatis tamen retinendo dogmate sin' constantissimi, si tratta come si potrebbe credere di una storia apologetica del dogma trinitario, bensì di un attacco di inaudita vio- lenza rivolto a scalzare le fondamenta stesse del Cristianesimo. Il nome del Francken campeggia a tutte lettere sul frontespizio, ma la rarità del libriccino ha dato luogo a congetture ed equivoci senza fine, gene- rando un arruffato groviglio, che è necessario districare prima di ad-, dentrarsi nella lettura di pagine che certo uscirono dall'infelice penna del Francken, come attestano lo stile squallido e l'abituale ricorso alla dialettica scolastica.

guanto all'autore, cominciò il Sand ad asserire e scopriremo più in la fonte dell'equivoco * che il vero estensore dell'opera era stato Fausto Socino, sebbene da taluno essa venisse attribuita a Lelio e benché le sue movenze espositive discordassero dallo stile di Fausto. Con le stesse riserve questa arbitraria riduzione del nome di « Chris- tianus Francken » a pseudonimo venne tramandata dal Bock, al quale parve addirittura incredibile che si potesse pensare a una paternità di Lelio Socino; ma in anni recenti proprio a lui la assegnava il Wilbur, e senz'ombra di esitazione, sebbene alle testimonianze antiche in fa- vore del Francken si fosse aggiunta ormai quella autorevole del Cuno (23). Effetto curioso di questa falsa attribuzione fu l'immagi- nario sdoppiamento dell'opera in due: da una parte sarebbe esistita VEnumeratio, opera sociniana, stampata a Raków da Alessio Rodeczki, con penose conseguenze a carico del povero tipografo, il quale patì i! sequestro degli esemplari in sua mano e venne gettato in carcere; più tardi, il nobile Stanislao Taszurki di Luclawice avrebbe indirizzato a Stefano Bathory una supplica in suo favore, e il Re gli avrebbe rispo- sto il 12 settembre 1585, dichiarandosi pronto a versare il proprio san- gue per la fede cattolica, ma anche fermamente deciso a rifuggire da ogni forma di coercizione religiosa: ordinava pertanto che il Rodeczki venisse liberato (24). D'altro canto Francken avrebbe pubblicato nel 1585 certi scritti terribili contro la Trinità, stampati anch'essi dal Ro- deczki con esito nefasto, perchè il tipografo sarebbe finito in prigione e l'autore, fatto oggetto di persecuzioni, avrebbe dovuto fuggire dalla Polonia (25). Inutile aggiungere che l'empio scritto anti-trinitario

(23) Sandius rit. (1684), p. 78; Bock cit., vol. II (1784), p. 651; E. M. Wilbur cit. (1950), p. 39; F. W. Cuno, Fran. Junius der Aeltere ecc., Amsterdam, 1891, pp. 101-102. Quest'ultimo è citato in proposito anche da D. Cantimori cit. (1939), p. 238.

(24) Sandius cit. (1684), pp. 82-83; Lauterbach cit. (1725), p. 304; J. D. Hoffmann, De typographis earumque initiis et incremento in regno Poloniae ecc., Dantisci, 1740, p. 40; D. Clement, Bibliothèque curieuse ecc., Leipzig, vol. VIII, 1759, p. 457 (dove l'attribuzione a Francken è data per certa); Adelunc cit., vol. II (1789), p. 213.

(25) Sandius cit. (1684), p. 87; Henninc cit. (1721), pp. 163-164; Guichard cit. (1723), p. 459; Bock, cit., vol. I, parte I (1774), p. 363; Adelunc cit., vol. II (1786), p. 218; De Backer cit., vol. I (1869), col. 1937.

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attribuito a Francken altro non è che V 'Enumerano (26), stesa verosi- milmente a Chmielnik (27) e stampata a Cracovia (28), da Alessio Rodeczki (29), tra l'avanzato 1533 e i primi mesi del 1584 (30). Sta- bilite queste circostanze esteriori è ora possibile affrontare la lettura del famigerato libretto (31).

Nell'esordio della Praejatio l'autore afferma la propria indipen- denza d.i qualsiasi comunità di fedeli e ammette di non aver ancora po- tuto fermarsi con fiducioso abbandono in nessuna confessione religiosa. Rievocando le proprie traversie, ricorda l'ingenuità credula che lo condusse giovinetto nel « labirinto » gesuitico, i dieci anni trascorsi in quella « volontaria cecità », le peregrinazioni fra i luterani e i calvi- nisti di Germania e di Francia alla ricerca di « una religione che fosse monda da ogni errore o superstizione », le amare delusioni provate, la speranza di più umane accoglienze fra i cattolici, infine l'incauta lettera di palinodia che si lasciò sfuggire di mano, riuscita tanto acerba per i riformati da apparirgli ormai come il suo più grave peccato a fomite d'ogni sua sventura e perdizione (pp. 3-4). Ma non sarebbe caduto in quell'errore, se l'uomo, che per natura è libero, si trovasse al sicuro dalla violenza e potesse apertamente professare, o almeno ritenere in cuor suo, ciò che la lettura del sacro Libro gli suggerisce, senza mettere a repentaglio l'onore, i beni e la vita. « Tanta è oggi la servitù che opprime il Cristianesimo », scrive Francken, « quanta nessun tiranno pagano osò mai desiderare per i suoi soggetti... Ci glo-

(26) Una citazione antica, con attribuzione espressa, si legge in C. Pelarcus, Admonitio de Arianis recentibus eorumque blasphemis dogmatibus, Lipsiae, 1605, pp. 105-106, dove il titolo viene riferito in modo approssimativo Recitatio cau- sarura cur Christiani constantes sint in tuenda Trinitatis confessione »). Da que- sta fonte sembra derivare il Bock cit. (vol. I, parte I, p. 364) quando menziona appunto una Recitatio; altrove (vol. II, p. 651) egli trascrive però il titolo secondo l'originaria dizione.

(27) Come suppone il cit. Clement, vol. Ill (1759), p. 457.

(28) Secondo la precisa attestazione sincrona del Górski, che riferirò tra breve.

(29) Attivo a Cracovia fin dal 1565, il Rodeczki, nel 1577, impiantò un'officina anche a Raków, ma seguitò a stampare anche nella sede primitiva (cfr. Hofmann cit., 1740, pp. 38-40). Da questa fonte il Bock. cit. (vol. I, parte I, 1774, p. 363) de- riva la notizia di un'altra carcerazione dello sventurato tipografo, seguita anch'es- sa nel 1585, in seguito alla stampa dell'opera del Paleologo in difesa del Davidis, ma è palese che l'increscioso evento si produsse una volta sola, forse dietro l'im- putazione di aver stampato più libri arni-trinitari.

(30) Termine posi quem non è I'll agosto 1584, data in cui il Górski già po- teva licenziare la sua massiccia confutazione, estesa per poco meno di 500 pagine. Immaginando che il libretto esprimesse tesi conformi all'ortodossia trinitaria il De Backer cit. (vol. I, 1869, col. 1937) lo ritenne a torto anteriore al 1583, data dell'adesione del Francken all'anti-trinitarismo. Invece I'Henninc cit. (p. 1561 suppose che VEnumeratio fosse venuta in luce poco dopo il 1583, in Transilvania, e I'Adelung cit. la dichiarò stampata in Transilvania nel 1582 (p. 217), oppure a Chmielnik nel 1583 (p. 211). Infine il Catalogue of printed Books del British Mu- seum avanza un'ipotesi anche più peregrina, proponendo la data di Basilea, 1610.

(31) Cito le pagine numerandole idealmente da 1 a 40, frontespizio compreso. Un ristretto delle tesi fondamentali fornisce il Górski (che citerò tra breve) nella «Tabula doctrinae Francken» (pp. 55-64 n.n.); un più breve riassunto è nel- I'Henninc cit. (1721), pp. 156-160.

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riamo, noi Cristiani, della libertà assicurataci dal beneficio di Cristo, ma vediamo che l'antica servitù degli idolatri, lieve perchè imposta al corpo soltanto, si è mutata ormai in crudelissima servitù del- l'anima » (pp. ó-6). Quasi tutti i cattolici e i più dei riformati sono ridotti a condizione di servi, costretti a credere nelle cose divine tutto ciò che viene loro imposto con minacce di esilio e di morte; anche i ricchi e i potenti altro non sono spiritualmente che « servi per natu- ra », e veramente liberi restano soltanto quei pochi che per intelli- genza, cultura e spregiudicatezza non soggiaciono a quel pesante giogo. Non consta che sia mai esistito un tiranno tanto feroce, che uccidesse o esiliasse un pover uomo solo perchè non era riuscito ad ottenere un regalo da un certo ricco: ma gli odierni tiranni, che pure cono- scono la sacra Scrittura e sanno che la fede è dono di Dio e non nasce dalla volontà individuale, ciò malgrado trucidano innumerevoli Cri- stiani solo perchè si trovano nell'impossibilità di ottenere questo dono (pp. 6-7). Causa di tanto asservimento è il dogmatismo intollerante, l'intrico delle aberranti sovrastrutture confessionali, che trova la sua, radice nel dogma trinitario: questo, universalmente accolto e perpe- tuato, è il primo fomite della mostruosa servitù e quasi la nutrice che educa a guisa di figli deformi le innumerevoli aberrazioni teologiche dei settari (p. 8).

Nel testo àeìV Enumeratio Francken riprende l'avvio dalla molte- plicità delle confessioni cristiane e osserva che la credenza nella Tri- nità altro non è se non un residuo superstite dell'antico politeismo, non meno di quanto lo sia il culto dei santi; gli interpreti del Cristia- nesimo, illudendosi di derivare le loro credenze dalle sacre Lettere, sono rimasti in realtà prigionieri della loro educazione pagana e hanno finito per leggere nella Bibbia quanto già era impresso nel- l'animo loro: i Romani, il loro culto della maestà e delle pompe e il dominio di un solo: i Greci, le loro sottigliezze dialettiche; i Tedeschi, il loro sfrenato amore di libertà. Tutti, in realtà, stiracchiarono la Scrittura a modo loro, facendo vedere il bianco per il nero, e quanti in passato si avvidero di tante falsità vennero ridotti al silenzio con pene severe o allettamenti di ricompense (pp. 9-12). Una prima con- futazione del dogma trinitario si fonda a detta del Francken --su un triplice ordine di argomenti: anzitutto l'esclusivo e irrazionale dileguarsi della processif personarum trinitaria nelle tenebre dell'eter- nità; in realtà l'eternità divina non ha principio fine, prima e dopo, e Iddio, ente primo e perfetto, indipendente e immutabile, come non fu generato, così non generò un altro simile a sè, sia perchè il genito, non esistendo prima di venir generato, non sarebbe Dio, dato che ebbe principio, sia perchè Iddio, generando, si muterebbe, il che sarebbe in contrasto con la sua immutabile perfezione: dire che un ente eterno è prodotto da un altro è puro controsenso (pp. 13-20). Anche coloro che rispondono a questa obbiezione sostenendo che nell'eternità non esistono il prima e il dopo, cadono in contraddi- zione, perchè ammettono che Cristo, dopo la sua generazione ab

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aeterno, in un momento dato si fece uomo, e pertanto si trasmu- tò (p. 21).

Secondo argomento contro l'i mm a pi nari a Trinità è l'aggiunta di una terza persona o Spirito Santo, poiché anch'esso dovette essere generato e sarebbe perciò un altro figlio di Dio e « fratello » di Cri- sto: di esso la Scrittura non fa parola e lo si deve perciò considerare mera invenzione idolatrica (pp. 22-24). Terzo argomento è l'unione ipostatica delle due nature nella seconda persona, perchè in tal guisa i teologi, non paghi di tre, vengono quasi a costituire una quarta divinità, quindi rendono materiale questo loro iddio attraverso l'in- carnazione e finiscono poi per volerlo carnalmente mangiare nella transustanziazione eucaristica (32); inoltre questa unione totale esige che la natura umana si accompagni perpetuamente alla divina, che spazia dovunque: ergo i trinitari si identificano con gli ubiquitari (pp. 24-26). E' palese nell 'argomentare dell'ex-gesuita l'abitudine, anzi il puerile compiacimento di una trita dialettica di scuola, che accentua il carattere frivolo, naradossale e intellettualistico delle sue tesi estreme: in certe pagine la cavillosità sofìstica e gli scolasticismi di bassa lega si fanno soffocanti: Aristotele è l'autorità più spesso invocata, anche se Francken non esita ad affiancargli i nomi di Fran- cisco de Toledo e di Rendito Pereira, maestri insigni del Collegio Romano (33): pure, sotto questa frigida esercitazione esibizionistica, sembra di poter cogliere a tratti una patetica nota, una vibrazione sofferta, quasi che l'ingenua bravura altro non sia che lo schermo dietro il quale un pover uomo infelice si sforza di celare i ripiega- menti e le oscillazioni continue di una mente debole, assetata di pace, impotente a conseguire un vero certo in cui placarsi.

Se qualcuno trovasse i primi tre argomenti non persuasivi continua Francken eccone di rincalzo altri tre fortissimi: anzi- tutto l'unione ipostatica delle due nature in Cristo implica unità e molteplicità ad un tempo, locazione singola e ubiquità: insomma, contraddizione (pp. 29-30) In secondo luogo, donde prese Iddio» l'ipostasi o sussistenza distinta data al Figlio? ne possedexa prima due? o la creò dal nulla? (p. 31). Ultimo e potente argomento è quello di Paolo, che parla di Cristo quale mediatore fra Dio e l'uomo, tra l'offeso e l'offensore (34): ma chi media non deve avere interessi comuni alle parti, altrimenti agirebbe anche a proprio vantaggio. I trinitari recidono questo nodo gordiano con due risposte: anzitutto affermano che Cristo è offeso come Dio e mediatore come uomo. Ma le due nature attribuitegli sarebbero in lui indivisibili e inoltre, se egli agisce con la sola natura umana, non c'è bisogno alcuno di intro- durre un Iddio mediatore: se alla mediazione partecipa anche la natura divina, non si sfugge alla constatazione che essa intercede

(32) Questo rozzo argomento della teofagia era già stato utilizzato dal Fran- cken nei Paradoxa del 1580.

(33) Cfr. le pp. 9, 19, 27-29.

(34) Si riferisce a / Tim., II, 5.

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anche per medesima. Replicano a questo punto i teologi che una sola persona non può mediare a pro di stessa, ma ben può farlo una tra più persone offese, nell'interesse comune, come avverrebbe se i figli di un sovrano offeso dai sudditi (e quindi partecipi col padre del subito affronto) trattassero la pace tra il re e i ribelli; ma Francken risponde che il paragone non regge, perchè le persone divine sarebbero state offese in eguale misura (pp. 32-34). La secon- da risposta dei teologi sottolinea l'esigenza di un mediatore divino a cagione dell'enormità del fallo umano, ma l'autore ribatte che l'uomo, per sua natura finito, non potè commettere peccato incom- mensurabile (pp. 35-37). Se ne deduce una negazione recisa sia della divinità di Cristo, sia della sua funzione di mediatore fra il Padre c l'umanità: Iddio potè perdonare l'uomo e redimerlo mercè la sola sua bontà e potenza, senza bisogno di un riscatto offerto mediante il sacrificio del Figlio. Se questi fosse stato Dio, come avrebbe potu- to asserire che ignorava quel giorno del Giudizio, che nella sua natu- ra divina non poteva essergli ignoto: avrebbe dunque mentito? e si potrebbero ammettere in una sola natura due comportamenti disso- ciali? (pp. 38-39) Ebbe torto Lutero ad avviare la demolizione del la Chiesa dal tetto, cioè dalle indulgenze, dalle cerimonie, dal cul- to dei santi, anziché scalzarne le vere fondamenta (35): contro le deplorevoli discordie delle comunità cristiane colme di errori e di mutevoli vanità, contro la patente idolatria dei trinitari, Francken conclude con un appello alla concordia nel culto dell'unico Iddio, Ente primo e Padre comune.

Il libretto fece tosto rumore. Gli stessi unitari, che avrebbero potuto sottoscriverne le tesi antitrinitarie, dovettero leggervi nella reiezione del Cristo-mediatore un avvio tacito, ma non per questo meno insidioso, al non-adorantismo, cui già sappiamo che l'esule tedesco aveva pubblicamente aderito in quei mesi. Ma la prima leva- ta di scudi si ebbe com'era naturale in campo cattolico: già I'll agosto 1584, in Craco\ia, un distinto prelato sottoscriveva la dedica a re Stefano Bnthory di una massiccia confutazione dello scrit- to del Francken; l'autore, Jacob Górski, già arcidiacono a Gniezno. poi arciprete a Cracovia, era professore e vice-cancelliere di quella Università, della quale era stato otto volte rettore; l'opera sua, for- te di ben 478 pagine, s'intitolava: Pro tremenda et veneranda Tri- tritate, adversus quendam apostatam Francken falso appellatimi Christianum, apologeticns sire anti -Christianas, ed era destinata a veder la luce poco dopo, a Colonia, nel 1585, l'anno stesso della morte del suo autore (36).

(35) Riprende questo accenno, con inorridito sdegno, il Górski, che citerò tra breve (p. 8). Evidente l'analogia col celebre epitaffio di Fausto Socino:

Alta ruit Babylon. Destruxit tecta Lutherus, Calvinus mnros, sed fundamenta Socinus.

(36) Mi valgo dell'esemplare della Bibl. Nazionale di Parigi, segnato D. 21922. Il De Backeb cit., vol. Ill (1876), col. 2188, assegna all'edizione la data del 1584.

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L'apporto concettuale «li un libro di tanta mole è, in genere, modesto; non sfugge al Górski il carattere radicale, demolitore, del- l'opuscolo del Francken: non si tratta più ormai di discutere e modi- ficare determinate credenze o riti cristiani, ma di negare la Trinità stessa e instaurare il Maomettismo; chi la pensa in siffatta maniera è ormai fuori del Cristianesimo, ricalca le orme degli Ebioniti e di Paolo di Samosata, si fa seguace di Turchi e di Saraceni (37). Cosi pure non sfugge al prelato polacco la scarsa vocazione teologica del suo antagonista, il suo argomentare da filosofo aristotelico più che da studioso delle cose sacre, hen più ligio alla logica scolastica che alla Scrittura (38): tuttavia, prendendo le cose fin troppo sul serio, egli ricalca e confuta il discorso del l'Em*m«ratio passo passo, con scarso nerbo, prolissità interminabili e largo ricorso a invettive, apo- strofi retoriche, esclamazioni di scandalo e di minaccia. La virulenza dell'odio teologico non esita qui a far ricorso come la stessa dedi- ca a re Stefano dimostra alla coercizione del potere politico: Francken, palesemente invasato dal demonio, sbaglia se crede i Po- lacchi d'ingegno tanto rozzo da prestargli fede (39); ma sta di fat- to che gli eretici accorrono da ogni parte in Polonia, abusano della sua libertà, minacciano la rovina del regno. Perchè accogliere un transfuga già scacciato dalle Chiese riformate di Francia e di Ger- mania? perchè tollerare uno straniero inerme che introduce di con- trabbando merce proibita? Górski rammenta di aver già scritto pri- vatamente al Re, gettando l'allarme e invitandolo a soffocare quel- l'incendio nascente: solo dal sovrano la religione vera attende sal- vezza: si valga egli della sua forza per attuare l'invocata repressio- ne (40).

Fiacco teologo e uomo intollerante, il Górski ha tuttavia un me- rito: quello di mostrarsi più che mediocremente informato delle bur- rascose vicende del suo rivale, tanto da fornircene per certi riguardi una documentazione di prima mano. Quanto al passato, egli non ignora che Francken era stato per dieci anni gesuita (41); che da ingrato e quasi « nuovo Anticristo » era fuggito dalla Compagnia co-

che è in realtà quella della dedica; cfr. anche Wiekzbowski cit., vol. I (1889), n. 474. Sul Górski cfr. S. Starovolski, Scriptorum Polonicorum « ekatontas », seu Centum illustrium scriptorum Poloniae ecc., Francofurti, 1644, pp. 36-37; una Naen'ta funebris per la sua morte venne pubblicata a Cracovia nel 1586 dal medico lucchese esule Simone Simoni.

(37) J. Górski cit., dedica, p. 6 n.n.; testo, pp. 303, 313.

(38) Testo, pp. 146 e 182 in particolare. Degno di nota, a p. 3%, sul tema del Cristo mediatore, un ricordo del mantovano Francesco Stancaro, che aveva attri- buito a Gesù la sola natura umana; a detta del Górski, egli, esule in Polonia, dopo aver condotto molti a perdizione col suo veleno, aveva finito col perdere an- che se stesso. Contro lo Stancaro il Górski si era battuto accanitamente venti e più anni prima a fianco del suo amicissimo Orzekowski (cfr. F. Ruffini, Studi sui Riformatori italiani, Torino, 1955, p. 290).

(39) J. Górski cit., testo, pp. 351, 358.

(40) J. Górski cit., dedica, pp. 20, 23, 30, 35 n.n.; testo, pp. 22-23

(41) J. Górski cit., dedica, p. 21 n.n.; testo, pp. 39, 48.

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me da una prigione e s'era dato a vagabondare per la Germania e la trancia, dovunque perseguitato, scampando al rogo, professandosi dapprima calvinista, poi ripetitore delle bestemmie antitrinitarie (42); che in una breve sosta a Ginevra, ancora aspersa delle ceneri di Va- lentino Gentile, non aveva osalo levarsi a parlare contro la Trinità (43); che aveva ristampato a Basilea il suo temerario Colloquium con una dedica a Gesù Cristo e un'appendice di stravaganti paradossi sull'eu- caristia (44); che infine aveva dato in luce una lettera di palinodia, della quale, a sua vergogna, si era troppo presto scordato (45). Da tutti respinto, e attratto dalla libertà polacca, Francken aveva finito col cercare dapprima rifugio a Cracovia, dove aveva udito che erano in favore dottrine non dissimili dalla sua (46), quindi era passato a Lublino presso i triteisti per confrontare con essi le sue tesi blasfeme, ma anche non aveva trovato uditori, sempre mutevole nelle sue opinioni, sempre pronto a condannare oggi quello che ieri esaltava : a Lublino esecrava i filosofi, derideva Aristotele, e ora, con sùbita mutazione, li prendeva a sostegno della propria dottrina, tanto che un dottore di quella città, trinitario e anabattista da gran tempo, dopo aver conosciuto Francken, se ne sgomentò e si fece cattolico (47). Re- spinto anche da Lublino, l'ex-gesuita ritornò a Cracovia per valersi dell'ospitalità e della protezione di Giovan Paolo Alciati e dei suoi, e subito, spalleggiato da quelli, si diede a combattere i cattolici (48). Suoi « centuriones » erano due italiani, l'Alciati e il Simoni, e fu ap- punto per consiglio del primo, già sbandito da tutta la terra insieme a Valentino Gentile, che egli diede in luce il suo perfido libello, « la- trando come un cane pazzo » (49). Se si avverte che poco o nulla si sa degli ultimi anni dell'Alciati, morto a Danzica in anno incerto e vagamente segnalato in Polonia fino al 1569 e nei Grigioni dieci anni dopo (50), questi riferimenti del Górski assumono l'importanza di fon- ti di prima mano: a suo dire l'Alciati era allora il più eminente dei triteisti di Cracovia, banditore di una dottrina nata in Italia e da lui, profugo, trapiantata a Ginevra in compagnia del Gentile, del Blan- drata e di altri; costretti a fuggire, Alciati e Blandrata trovarono scampo in Polonia, adunandovi pochi seguaci, mentre il Gentile, per volere di Calvino, venne condannato al rogo; più tardi Blandrata passò in Ungheria, lasciando in Polonia l'Alciati quasi vescovo della sua confessione, e questi istigò Francken a dare in luce V Enumerano,

(42) J. Górski cit., dedica, pp. 21-22 n.n.; testo, pp. 4, 60, 80, 373.

(43) J. Górski cit., testo, p. 279. In verità non risulta che Francken aderisse esplicitamente al calvinismo; sembra poi da escludere che all'epoca della sua so- sta a Ginevra, nel settembre 1579, egli già nutrisse opinioni antitrinitarie.

(44) J. Górski cit., testo, pp. 56, 359.

(45) J. Górski cit., testo, p. 64.

(46) J. Górski cit., dedica, p. 22 n.n.; testo, pp. 5, 60.

(47) J. Górski cit., dedica, p. 22 n.n.; testo, p. 60, 219-220.

(48) J. Górski cit., testo, pp. 60 e 5 arcem Alciatham petiit »).

(49) J. Górski cit., dedica, pp. 30 e 22 n.n.

(50) Cfr. A. Pascal, Gli antitrinitari piemontesi: G. P. Alciati, Pinerolo, 1920, pp. 42-43; F. Ruffini cit., p. 252.

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libello il cui solo titolo, a mo' di insegna d'osteria, lascia capire qual genere di derrate esso tenti di spacciare; la pubblicazione per le stam- pe si era avuta di recente (nuper), a Cracovia, « ad opera di un tipo- grafo scellerato e di un uomo empio », ed era stato l'Alciati in per- sona a consegnarne taluni esemplari a un libraio, presso il quale Górski potè procurarsene uno (51).

Con la pubblicazione del suo estremistico appello Francken com- promise definitivamente ogni possibilità di continuare a godere del- l'asilo polacco: già allontanato dalle file degli unitari, denunciato al sovrano e all'opinione pubblica cattolica dal memoriale e dalla con- futazione del Górski, ebbe probabilmente il colpo di grazia quando l'abile Provinciale dei gesuiti di Polonia, il padre Giovan Paolo Cam- pano — un suo vecchio e tenace nemico dei tempi di Vienna agi diplomaticamente presso il Bâthory per ottenere l'espulsione dal re- gno dell'inquieto transfuga tedesco (52). Più svelto del Rodeczki, che finì in carcere, Francken abbandonò quello scottante terreno e cercò rifugio in Transilvania.

Intanto il suo libello anti-trinitario sollevava proteste risentite anche fuori della Polonia: da Ingolstadt, roccaforte gesuitica, un au- torevole teologo della Compagnia, il P. Gregorio de Valencia, dedicò all'imperatore Rodolfo II, il 4 agosto 1586, cinque libri De sanctissima Trinitate, l'ultimo dei quali aggrediva il « libretto pestilenziale... usci- to di recente in Polonia » e le sue « orribili bestemmie », lo sminuz- zava in una miriade di brani puntualmente trascritti e lo confutava verbo a verbo con larghissimo dispiegamento di autorità patristiche. Pochi anni dopo, V Enumerati» giungeva nelle mani di Francesco Du Jon, il celebre professore calvinista dell'Università di Heidelberg, e questi, il 10 giugno 1590, era in grado di spedire a Teodoro Beza in Ginevra « la refutation des argumens philosophiques de Christian Francus », lavoro di cui già gli aveva parlato in lettere precedenti, non senza lamentare il serpeggiare sempre più fitto delle blasfeme dottrine antitrinitarie: «Cette peste s'avance merveilleusement», esclamava egli accoratamente, «Dieu y mettra ordre par sa saincte grace » (54). La Defensio catholicae doctrinae de S. Trinitate persona-

li) J. Górski cit., testo, pp. 3-4, 6 (dove il libretto del Francken è detto « triuin sylvarum volumen », forse con riferimento all'andamento ternario dell'ar- gomentazione), 28; Epistola ad lectorem, p. 47 n.n.; testo, p. 2.

(52) Cfr. E. Veress, Epistolae et acta Jesuitarum Transylvaniae temporum principimi Bâthory, Budapest-Koloszvâr, vol. II, 1913, p. 103; scrivendo al P. Ge- nerale Claudio Acquaviva in data 25 maggio 1585, il Campano ricorda Francken e lamenta: «O inanes labores meos in eo proscribendo anno superiore positos! ».

(53) Grecorius de Valentia S. J., Libri quinque de Trinitate, in quorum postremo nominatim refutantur horribiles blasphemiae cuiusdam pestilentis libri non ita pridem de eodem argumento in Polonia editi, Ingolstadii, D. Sartorius, 1586 (cfr. Wierzbowski cit., vol. Ill, 1894, n. 2790). Se ne ha una ristampa in G. de Valentia, De rebus fidei hoc tempore controversi^ libri, Lugduni, apud haeredes G. Rovilli, 1591, pp. 95-227. Sull'autore cfr. W. Hentrich, Gregor von Valencia und der Molinismus, Innsbruck, 1928.

(54) F. W. Cuno cit., p. 319; cfr. anche le pp. 101-102.

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rum in imitate essentiae Dei compilata dal Du Jon contro « gli errori Samosatenici » dell1 Enumerano, aveva visto la luce a Heidelberg pochi giorni avanti, nell'aprile 1590 (55); la dottrina teologica vi sovrab- bonda, ma scarsi sono per converso gli accenni personali: l'autore esprime il suo orrore per quelle aberrazioni « servetiane », lamenta che nel bel regno di Polonia allignino simili empietà, sembra non aver dubbi circa il carattere fittizio del nome dell'autore, tanto che in un appello rivolto appunto « Ad auctorem libelli » (p. 11 n. n.) lo invita a deporre la maschera e gli domanda se non è lui che l'anno avanti aveva già incrociato seco il ferro come autore di certi XXII argumenta anonimi che criticavano razionalisticamente il racconto mo- saico della creazione e della vita dei progenitori nel Paradiso terre- stre (56). Nel seguente anno 1591 nuove notizie sul dilagare dell'an- titrinitarismo in Polonia e Lituania sopravvennero ad amareggiare il Du Jon e con esse anche una recente Epistola a stampa, che si fingeva scritta da un anti-trinitario a un ortodosso per illustrargli la schietta dottrina delle scuole ariane: subito il Du Jon riprese la penna e pose in carta una seconda Defensio, condotta sul modulo della precedente, con argomentazione « teologica e scritturale », non senza ricordare l'orrore provato l'anno avanti nello scorrere V Enumerano, il primi- tivo proposito di seppellirla nel silenzio, il mutato consiglio nell'ap- prendere che quelle idee andavano raccogliendo adepti e fautori (p. 3 n. n.). Senz'ombra ormai di dubbio, asseriva di poter identificare il sedicente Francken nell'anonimo che aveva confutato a proposito del libro su Mosè (pp. 4-5 n. n.). Lo stesso anno una terza Defensio (57), condotta stavolta « con ragioni naturali e umane », venne dedi- cata a due altri scritti anti-trinitari : il primo, « paulo vetustius » ri- spetto all' 'E pistola, recava il titolo di Brcvis explicatio in primum ca- put Evan gel ii Johannis ed era - a detta del Du Jon uscito dalla penna di autore non oscuro e ormai defunto, del quale taceva il nome

(55) Il tipografo non è indicato, ma fu certo il Commelin; la Praefatio (pp. 3-10 n.n.) è indirizzata a Nicola Narussevic con la data del di aprile. Il testo occupa 122 pagine, nelle quali lo scritto del « Samosatenus », cioè il Francken, viene riprodotto per intero, smembrato in trenta passi, cui si alternano le puntuali confutazioni dell'« Orthodoxus », che è il Du Jon medesimo.

(56) Non mi è venuto fatto di rintracciare un'edizione autonoma di cpiesti Argumenta, forse pubblicati sotto lo pseudonimo di « Antinomous ». Per la repli- ca del Du Jon cfr. la sua IlpcoTÓXTiata, seu creationis a Deo factae et in ea prio- ris Adami, ex creations integri et lapsu corrupti, historia... Item confutano argu- mentorum XXII, quae olim a Simplicio in sacra Mosis historiam de creatione fue- runt proposito, Hedelbergae, 1539. Se ne ha una seconda edizione del 1603.

(57) La // Defensio apparve nel 1591, sempre in Heidelberg, con dedica non datata a Cristoforo Dorohostaiski; la trascrizione e la confutazione dell'Epistola vi occupa 158 pagine. La /// Defensio è anch'essa del 1591 e anch'essa reca una dedica senza data a Johann Hlebowitz; il testo si estende per 235 pagine. Dato clie la Defensio dettata contro Francken nel 1590 non recava numero ordinale, molti esemplari ebbero il frontespizio mutato, con l'aggiunta del n. I e la data aggiornata in 1592. Le tre Defensiones riunite furono poi ristampate negli Opera theologica del Du Jon (Genevae, 1607, vol. II, pp. 1-228) e nelle successive im- pressioni del 1612 e 1613.

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per non macchiarne la memoria (58); il secondo, più tardo ed ela- borato, era tuttavia manoscritto, ma circolava per le mani di molti ad opera di un certo Senese, ed era scrittura esiziale, scandalosa e lubrica al di di ogni immaginazione. La copia in possesso del Du Jon gli era stata inviata da Zurigo (59).

Siamo così giunti alla fonte prima della falsa attribuzione del Sand: anche troppo trasparente è l'allusione del Du Jon a Lelio e Fausto Socino come autori del commento breve a stampa e di quello più ampio e inedito sull'esordio del quarto Vangelo (60); inoltre egli fîita a rifascio come « Samosateni », cioè seguaci dell'eretico vescovo antiocheno del III secolo, tutti gli autori da lui confutati, Francken compreso, e insiste nel ritenere uno pseudonimo quello che era in- vece nome genuino, espresso in tutte lettere; non fa dunque mera- viglia che lo storico dell'anti-trinitarismo polacco abbia creduto che la triplice confutazione iuniana fosse rivolta contro un gruppo omo- geneo di scritture sociuiane e abbia perciò incluso nel suo catalogo di quelle anche Y 'Enumerano dell'ex-gesuita tedesco.

* * *

Resterebbe ora da narrare il seguito delle avventure e delle con- versioni del Francken attraverso Transilvania, Polonia e Boemia, fino al suo rientro in Italia e alla sua fine oscura, dopo molti anni di prigionia, nelle carceri dell'Inquisizione romana: ma i limiti di spa- zio imposti a queste note sono già stati di gran lunga varcati. Non mancherà occasione di riprendere il discorso un'altra volta.

Luigi Firpo

(58) F. Junius, // Defensio cit., Heidelberg, 1591, p. 5 n.n. Mette conto di ricordare che circolava allora, a proposito del primo capo del Vangelo giovan- neo, una Meditatio pubblicata nel 1586 dall'unitario Alessandro Vitrelinus, il mi- nistro di Wegrów già sopra menzionato (cfr. Wierzbowski cit., vol. Ill, 1894, n. 2799).

(59) F. Junius, /// Defensio cit., Heidelberg, 1591, pp. 5-6 n.n.

(60) La Brevis explicatio, composta intorno al 1561, era stala stampata, se non prima, certo nel 1567, ad Alba Julia, quale cap. XI del De falsa et vera unius Dei... cognitione di Giorgio Blandrata. Da questo testo la riprodusse il Cantimori in Per la storia degli eretici italiani del sec. XVI in Europa (Roma, 1938, pp. 61- 78). Sulle questioni connesse al duplice commento cfr. D. Cantimori, Gli ultimi anni e gli ultimi scritti di Lelio Sozzini, « Religio », XII, 1936, pp. 31-37 del- l'estratto; Id., Eretici cit., pp. 238-246.

Appunti sul) a ecclesiologia

di P. M. Vermigli e la edificazione della Chiesa

L'età della Riforma conobbe, in modo drammatico, il riesame dei temi fondamentali della religiosità: salvezza, fede, giustificazione, pec- cato e grazia... Gli italiani, a qualunque dottrina aderissero, finirono sempre coll'incappare nel problema ecclesiologico; quando lo elusero, come i valdesiani, scomparvero rapidamente, figure fuori quadro, fuo- ri tempo. Ed è caratteristico il fatto che per quanto concerne i transfughi per cagione di religione quasi sempre le loro opinioni sulla Chiesa (e quindi il ministerio, la disciplina, ecc.) abbiano avuto un peso decisivo e sulla loro azione e sul giudizio delle autorità delle città di rifugio.

Pier Martire Vermigli, che aveva lasciato l'Italia nell'estate del 1542, quando la sconfìtta delie forze riformatrici filoprotestanti si de- lineava in tutta la sua tragici ampiezza, era da poco giunto a Stra- sburgo, e quivi aveva iniziato l'insegnamento teologico, quando indi- rizzava la sua ben nota lettera « a tutti i fedeli della Chiesa lucchese ». Raramente è dato di leggere in uno stile contenuto, chiaro di lo- gica — un documento così ricco di passione, nutrito d'una sofferta meditazione e d'una singoiare esperienza umana.

E' una lettera-colloquio: da un lato sta il priore e vescovo trans- fuga, dall'altro la comunità di Lucca Non dobbiamo dimenticare que- sto, anche se due temi affiorano e si impongono: la descrizione del vescovo ideale (o veri Episcopi graphica effigies »), l'autodifesa nella questione della fuga (ce fugae defensio »); fra i due temi si pone, e non per caso, la notizia dell'assunzione nell'insegnamento (ce Martyr ad docendum vocatus »).

Nella descrizione del vescovo ideale . che il Vermigli ravvisa in Bucero non troviamo per nulla un bello spunto oratorio, bensì traspare una esperienza intellettuale e morale.

Almeno dalla prima decade del secolo in Italia tra le anime più avvertite si poneva con angosciosa serietà il problema del ministerio episcopale: non aveva il Vermigli studiato filosofia in Padova, dove pochi anni avanti Gaspare Contarmi col suo ce De Officio Episcopi » aveva puntualizzato il disagio, l'ansia di rinnovamento del laicato italiano?

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Da allora, se erano cresciute tino a divenire valanga le proteste e le resistenze contro un ministerio ben lontano dall'insegnamento ueotestamentario. erano pure affiorate le prime personalità energiche, decise a riformare se stesse per riformare quindi l'organismo ecclesia- stico... Non esitiamo a porre tra queste personalità, che ad un impe- gno intellettuale ne univano uno morale, anche il Vermigli; i compiti sempre più gravi che esplicò nel suo ordine, culminati col ministerio di priore-vescovo in San Frediano di Lucca, lo obbligarono ad un diu- turno ripensamento dei pi opri compiti, del proprio adeguamento al- l'ideale intravisto.

Lasciò l'Italia convinto di non averlo potuto realizzare, anzi, di essere stato nella impossibilità di farlo: v< Ero il vostro pastore scrive ai lucchesi e fintanto che mi fu possibile seguirvi con le predicazioni e le lezioni, lo feci; quando non potei più reggere la Chiesa in quella maniera che richiede la verità cristiana, conclusi che era giunto il momento, abbandonando una provincia così ardua, di recarmi in altro luogo, da dove potessi di tanto in tanto esortarvi con delle lettere, piuttosto che rimanere dove mi sarebbe stato interdetto ogni contatto, ne mi sarebbe stato possibile avere a che fare con voi o direttamente o con delle lettere ».

Il contatto diretto col popolo dei credenti, la predicazione delle verità cristiane, l'insegnamento teologico metodico, continuo, ecco gli elementi basilari del ministerio episcopale, così come il Vermigli lo concepisce, e lo vede realizzato da M. Bucero, il riformatore alsaziano. Nel disegnarne il ritratto, egli aveva sottolineato la pietà personale, la cura per l'insegnamento, e una virtù che direi « conviviale », fatta di schietta ospitalità e di conversazione fraterna attorno a una tavola quanto mai sobria... Viene alla mente >J fatto che la casa del Vermi- gli fu sempre aperta ai rifugiati, tanto che a più riprese si ha l'impres sione di una piccola comunità ospitale presieduta autorevolmente, edi- ficata dal nostro. Profughi italiani e inglesi, a Strasburgo come a Lon- dra come a Zurigo, riconosceranno ben volentieri quella sua virtù epi- scopale, per la quale l'ospitalità non era che un modo di giunger al contatto personale, alla cura d'anime.

Il secondo tema della lettera ai lucchesi è la « fugae defensio », e qui viene alla mente una messe di scritti coi quali rifugiati italiani giustificarono la loro condotta. Come per l'ideale del vescovo, anche per questo argomento non mancava una serie di riferimenti fra i clas-^ sici della letteratura cristiana antica. In sostanza, il Vermigli batte e ribatte sul fatto che a Lucca non avrebbe potuto esplicare il suo dovere di vescovo, in particolare dedito all'insegnamento della verità, e che quindi più utile era fuggire dove la sua vocazione era riconosciuta e messa al servizio della Chiesa. In tale contesto acquista rilievo la notizia della sua assunzione all'insegnamento esegetico nella scuola di Strasburgo: il vero, autentico ministerio episcopale continua, anzi si afferma ora pienamente: un ministerio apprezzato, per il quale in Alsazia come a Oxford o a Zurigo egli sarà sempre strumento per la edificazione della Chiesa.

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Qui viene da chiederci: e la comunità di Lucca? ed i credenti in Italia, lasciati allo sbaraglio? Vermigli è credente, teologo per voca- zione, egli sa e proclama in tutta la lettera la guida-primato dello Spirito Santo. Allo stesso modo che, per le sue cose personali, è fer- mamente convinto di accettare la guida dello Spirito, tanto da dichia- rarsi bene disposto a tornare un giorno a Lucca, se questo vorrà Id dio, cosi crede fermamente che la sorte dell'Evangelo a Lucca sia neL le mani di Dio: anche se egli è partito. « non vi abbandonerà pertan- to il nostro Dio Padre ci ementissimo: sed semper aliquem excitabit qui veritatem vos doceat ». E aggiunge: « Clementissimus Deus pro infinita sua sapientia, loco ac tempore maxime opportuno stabiliet Ec clesiam vestram, quae perculsa nunc et consternata videtur, quam Spi- ritus virtute non esse prorsus destitutam certo liquet ». Non solo, ma fra loro vi sono bene dei predicatori illuminati dalla luce della verità, a et praeter illos, quos iam donavit hac gratia, alios semper excitabit Dominus »; poiché dunque lo Spirito opera, la sua assenza non è di cosi grande iattura

Ci siamo attardati nell'esame di questo primo documento vermi- gliano perchè esso proprio per essere uno scritto d'occasione, da persona a persone sembra bene indicativo di una chiarezza teolo- gica infrequente tra gli esuli italiani. Il problema ecclesiologico si fonde con quello della edificazione, la situazione reale pone problemi e stimola la meditazione. Il Vermigli, nonostante i contatti occasio- nali, ci sembra staccarsi dalla schiera dei valdesiani proprio sul piano della teologia della chiesa; egli ha idee precise, un programma che tenacemente persegue jrià a Lucca (ed i frutti non mancarono!) e che, tra il rispetto crescente della cristianità evangelica, manterrà nei venti anni dell'esilio. Possiamo così riassumere il suo pensiero centrale: la Chiesa nasce e vive per opera dello Spirito Santo, di quello Spirito che illumina i ministri della Parola, ai quali è affidato il compito di edificarla con la cura d'anime e l'insègnamento diuturno; vero epi- scopo è colui che fedelmente si applica al compito della edificazione, ovunque la volontà del Signore lo induca a vivere.

Pertanto, convinto del primato dello Spirito, non esiterà egli a scrivere altrove : « Di certo occorre Iddio, perchè V opera rigogli. Ciò non toglie che i ministri abbiano dei compiti, che non devono essere contestati da nessuno, operando Iddio in noi per mezzo di tali realtà, che concernono la salvezza. Potrebbe certo facilmente senza i ministri da se stesso operare quelle stesse cose: non volle (Iddio) ciò affinchè tra i fedeli vi fosse maggiore unione (coniunctio) » (1 Cor. 3: 6).

Queste parole sono tolte dal commento alla 1 Corinzi, tenuto a Oxford nel 1548, in una atmosfera di battaglia, quando egli rinnovava impavido l'esperienza lucchese: munito solo della sua « vocatio pri- vata », curava la formazione di un nucleo di discepoli dalla solida dottrina, e con la predicazione e l'insegnamento si affermava auten- tico episcopo nella chiesa inglese.

Non per caso aveva scelto a primo testo delle sue lezioni quella epistola satura di insegnamenti sulla Chiesa; e la sua esegesi lascia

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trasparire piuttosto la preoccupazione di edificare la Chiesa che quella solida preparazione filologica per la quale i riformatori non esitavano a chiedere il suo parere. Il commento alla 1 ai Corinzi è un testo di teologia pratica e dogmatica, tutto centrato sul problema ecclesio- logico, piuttosto che uno studio esegetico nel senso classico.

« Noi diciamo, egli scrive, (che la Chiesa) è il ceto dei credenti, dei nati di nuovo, che Iddio raccoglie in Cristo per mezzo della Pa- rola e dello Spirito Santo, e che per mezzo dei ministri dirige nella purezza della dottrina, nell'uso legittimo dei sacramenti, e nella di- sciplina » (1 Cor. 1 : 2).

Alla edificazione di tale « coetum credentium » sono chiamati sia le autorità civili che i ministri della Parola. In questa convinzione il Vermigli ha dedicato il lavoro al re Edoardo VI, al quale consiglia una preparazione teologica: « Penso che non bisogna dare ascolto a quelli che gridano ch'è cosa indegna della maestà regia occuparsi de- gli studi, che sono a loro giudizio da lasciarsi agli ecclesiastici... Non è per nulla indegno di un re cristiano, volgere l'animo a quelle cose che giudichi utili a riedificare il popolo di Dio, anche se l'umana pru- denza, che di continuo avversa Dio, le ritenga poco splendide e meno onorifiche ». Oggi preme battersi ad evitare la completa rovina del regno di Cristo, del quale il re è stato costituito da Dio « defensor et propugnator » : per tale lotta, 1 "apostolo Paolo suggerì una armatura non terrena, ma celeste (Dedica della 1 Cor. a Edoardo VI).

Altrove egli rileva che sia le autorità civili come quelle ecclesia- stiche sono dette « ministri di Dio » « così che non è improprio (ri- tenere) che i magistrati e coloro che presiedono alla chiesa abbiano funzioni in qualche modo combacianti » (1 Cor. 3: 5).

Ma l'interesse maggiore del Vermigli va naturalmente ai ministri della Parola; egli ha presente la polemica degli anabattisti « che scacciano i ministri e li disprezzano », e se, per accentuare l'atto li- bero di Dio che crea la Chiesa, ha di passaggio detto che anche senza i pastori potrebbe esistere la Chiesa, in realtà ha della necessità del ministerio tale convincimento da fare quasi pensare ad un sacramento dell'ordine.

«... Bisogna sapere, egli dice, che la Sacra Scrittura talvolta at- tribuisce ai ministri cose che sono di Dio... I Ministri della chiesa, se li accoglierai per se stessi, certo nulla possono porre avanti. . . ; ma per- tanto sono organi e strumenti nei quali Dio si serve ed è presente* quando piantano ed irrigano. E' così che va accettato quanto dice l'apostolo: " chi pianta è qualcosa, ne chi irriga, ma colui che incremento, Iddio ". Considera come (Dio) stesso è efficace in quelli che sono a Lui congiunti e l'azione dello Spirito Santo si sposa con quella dei ministri, in tal modo che da quei due ne risorte uno, in figura di sineddoche, per cui ciò che è di una delle parti è attribuito all'altra. E ciò che è costituito dei ministri, va ritenuto anche a pro- posito dei sacramenti » (1 Cor. 3: 7).

Essi sono uniti in un medesimo compito organi e strumenti di Dio per la salvezza degli uomini »), e fra loro non vi sono gradi, solo

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distinzione di compiti, di doni. Fra questi, due sono necessari agli uomini di chiesa: « sermo et cognitio ». Poiché l'Evangelo si propaga e la Chiesa si edifica con la dottrina e le predicazioni, bisogna che coloro che sono preposti « ad Ecclesias docendas » rivendichino a ae stessi i doni di conoscenza e di parola, sapendo che nella chiesa di Dio i doni non possono essere talmente contaminati dall'abuso dei mal- vagi da divenire inefficaci o irriconoscibili ad un sano giudizio (1 Cor. 1: 5-6).

Ma, viene da chiederci, quale è la vera Chiesa? La risposta del Vermigli, dei suoi scritti come della sua operosità, è priva di quella faziosità che alcuno potrebbe attendersi. E' vero, egli dice che « er- rano grossolanamente quelli che ritengono solo la romana come chie- sa », ma in questa affermazione (1 Cor. 1 : 2) è implicito un prezioso riconoscimento. Poco oltre aggiunge: « tra le chiese è da abbracciarsi piuttosto quella che maggiormente fiorisca per lo spirito, la dottrina e la santità ». E qui sgorga una affermazione irenica, guida del suo stesso apostolato tra i credenti di tante nazioni e confessioni: alla Chiesa appartengono « i santi », e solo Cristo conosce i veri credenti; per parte nostra « dovunque vige la purezza della dottrina, i sacra- menti sono giustamente amministrati, ed è esercitata la disciplina, abbiamo una famiglia (" eoe tus ) alla quale possiamo del tutto unirci, quantunque non ci sia sufficientemente chiara la probità dei singoli ».

Accanto alla Parola ed al Sacramento, Vermigli ricorda sempre la disciplina, e viene da pensare piuttosto alla posizione di lotta del riformatore in Inghilterra che ad una precisa influenza di Calvino; la sua disciplina si valeva largamente di quel contatto umano, della cura d'anime, che aveva annoverato tra le qualità precipue dell'epi- scopo ideale.

La questione dei Sacramenti, legata com'è alla ecclesiologia, fini coli 'invischiare nella più crudele delle contese che dilaniarono la cristianità occidentale anche quell'uomo chiaro d'intelligenza e ricco di carità; egli fu pronto ad accettare ogni proposta che aprisse la via alla tolleranza, alla comprensione, ma in una cosa restò irre- movibile, nella difesa della propria libertà di insegnamento. A Stra- sburgo come a Oxford, come prima a Lucca, quando avvertì che tale libertà era soffocata, non esitò ad andarsene: la libertà era per lui un impegno di fedeltà allo Spirito di Dio, dal quale aveva avuto i doni personali di predicare e d'istruire. Coerentemente, difendendo il proprio ministerio, affermava che la Chiesa non si riforma e non si edifica che nel rispetto della persona libera, della libertà dei figlio- li di Dio.

Questi accenni alla ecclesiologia vermigliana di necessità som- mari — sono tolti da due fra gli scritti più ricchi di pathos, di impe- gno personale del fiorentino, che si espresse sempre in uno stile luci- do, misurato, ricco di appelli alla ragione piuttosto che ai sentimenti. D predicatore che a Napoli preparava Galeazzo Caracciolo alla sua virile decisione, il vescovo-priore che a Lucca concludeva la breve

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giornata del primo studio teologico riformato italiano amministrando la Comunione a quattro laici, ci appare nei due scritti citati non co- me un innovatore, ma un paziente restauratore, intento a proseguire sotto altri cieli l'opera di necessità abbandonata in patria. Vi è un Vermigli quasi sconosciuto, ed è quello dei primi quarantadue anni di sua vita: l'ambiente familiare, la sua formazione culturale a Fi- renze ed a Padova, la sua conoscenza di opere di Zuinglio e Bucero, la reale consistenza dei contatti con elementi guadagnati alla Rifor- ma, ...sono temi che i biografi dal Simler allo Schlosser al C. Schmidt e, recentemente, al Mac Lelland sfiorano appena, gene- ricamente. Eppure questo italiano pervenne e visse a Zurigo, Stra- sburgo, Oxford, non come un discepolo in pellegrinaggio alle fonti del sapere, ma dal primo giorno - come maestro tra maestri, come dottore per la edificazione della Chiesa.

Il segno della sua origine, sarà nella importanza centrale data alla ecclesiologia; i temi più dibattuti nei paesi transalpini quali elezione, predestinazione, libero arbitrio solo più tardi saranno nel suo repertorio, e scarsi di originalità. Il continuo appello alle fonti patristiche, l'uso della logica aristotelica, i richiami ad Erasmo, l'appoggio frequente a tesi agostiniane, ...sono tanti accenni ad una preparazine teologica moderna, tipicamente italiana eppure aperta alle influenze del pensiero europeo.

A volte vorremmo vedere segni più vistosi della sua originalità, della sua italianità viene da dire , e non consideriamo che, esulato egli oltre la quarantina, l'insegnamento alsaziano seguì imme- diatamente la fuga, la missione inglese s'iniziò nemmeno sei anni do- po. Se a lui manca quella coloritura valdesiana che caratterizza la mag- gior parte dei filoprotestanti che passarono per Napoli, la sua eccle- siologia, di tipo riformato, segnata dall'anelito ad una cattolicità evangelica, fa spesso pensare ad una immissione della ricca esperien- za della antica chiesa latina nelle vigorose ma inesperte compagini affermatesi con la Riforma.

L. Santini

NOTE BIBLIOGRAFICHE

Leggo la lettera « Universis Ecclesiae Lucensis Fidelibus, Sanctis, vocatis...» a pp. 847-849 dei « Loci Communes D. Petri Martyris Vermilii fiorentini... » Haidelbergae, Supt. D. & D. Aubriornm, MDCXII.

Leggo la « In select issimam D. Pauli Apostoli Priorem ad Corinthos Epis- tolam, D. Petri Martyris Vermilii Fiorentini... » nella ediz. Tignri, Apud Chrùt. Froschovernm, MDLXXIX.

Sul tipo ideale di vescovo nella lett. catt. del '500 cfr. : P. Tacchi -Venturi, Storia della Compagnia di Gesù in Italia, Roma, 1950 (2» Ed.), I, I pp. 40 eg. - H. Jedin, Il tipo ideale di vescovo secondo la riforma cattolica, trad, it., Bre-

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scia 1950. Ed anche « L'idea del vescovo in Francesco Panigarola », di M. Petrocchi. Pagine sulla letteratura religiosa lombarda del '500, Napoli 1956, pp. 47-55. Il « De Officio episcopi » si legge in Gasparis Contareni Card. Opera Omnia, Venezia 1589, pp. 401-431. Sul Contarmi a Padova cfr. F. Dittrich, G. Contarini. Braunsberg 1885, pp. 219-316.

Sul problema della fuga lo stesso V. scrisse un traita tello : « D. Petri Mar- lyris Vermilii epistola ad amicum quendam. De Fuga in Persecutione, ab ipso Authore Italice scripta, et a Thadaeo Duno Locarnense Medico, in Latinum ser- monem translata », in « Loci Communes... », pp. 849-858.

Per i dati biogr. del V. ricordo: « Oratio de vita et obitu viri optimi, praestantissimi theologi D. Petri Martyris Vermilii, sacrarum Literarum in schola figurina Professoris Q, Iosia Simleho, genn. 1562 (nella prefaz. alla cit. ediz. dei « Loci Communes... »). F. C. Schlosser, Leben des Theodor de Beza und des Peter Martyr Vermigli, Heidelberg 1809. C. Schmidt, Peter Martyr Vermigli, Leben und ausgewahlte Schriften, Erberfeld 1858. Me Lelland J. C, The visi- ble Word of God: an exposition of the sacramental theology of Peter Martyr Vermigli, Edimburg-London 1957.

Sul soggiorno del V. a Lucca e sul movimento protestante in quella città esiste ampia letteratura; ricordo qui il recente M. Kutteh, Celio Secondo Curione. Sein Leben und sein W erk, Basel-Stuttgart 1955, pp. 42-48. Non è con- vincente la generale affermazione che in Lucca, e altrove in Italia, vi fossero delle « comunità riformate ».

La questione del valdesianesimo di P. M. Vermigli è tutt'altro che risolta; E. Pontieri / movimenti religiosi del sec. XVI e l'Italia », Napoli 1949) ha prima una valutazione cauta (p. 64) quindi pone senz'altro il nostro fra gli antichi valdesiani (p. 105), ma senza una giustificazione. Concordiamo con l'opinione di B. Nicolini Giulia Gonzaga e la crisi del valdesianesimo », estr. « Atti Acc. Pontaniana », N. S. vol. V), che in contrapposto al valdesianismo parla del « tanto più chiaro e conseguente vermiglianismo » p. 192. Anche Fr. Domingo de S.ta Teresa, (Juan de Valdes. Su pensamiento religioso y las corrientes espirituales de su tiempo », Romae 1957) vede chiaramente le distanze fra il Valdès ed il Ver- migli. Anzi, viene da pensare che, sia per la facilità di avere testi dei riformatori sia per contrasto con l'ambiente valdesiano, il soggiorno del V. a Napoli segni la sua svolta decisiva verso la teologia riformata, con una predilezione per il pro- blema ecclesiologico.

La ecclesiologia del V. è sitata studiata sommariamente dal Me Lelland, Op. Cit.. « The Mysticai Body », pp. 123-138. Il V. fu indubbiamente influen- zato da Bucero più che da ogni altro, sia per la ricchezza dell'insegnamento buce- rano sia per l'affinità, la congenialità dei due riformatori; cfr. J. Courvoisieb, La notion d'Eglise chez Bucer dans son développement historique, Paris 1933. H. Bor.nk.amm, Martin Bucers Bedeutung fur die europaische Reformationsgeschi- chte, Gutersloh 1952 ed i problemi risollevati dalla recente edizione del i De Regno Christi, Libri duo 1550 », in Martini Buceri Opera Latina, Vol. XV, ed. Fr. Wendel, Paris-Giitersloh 1955.

I due voli, delle « The Zurich Letters, comprising the correspondence of several english Bishop and others », ed. Parker Society, Cambridge 1842 e 1845 forniscono un prezioso materiale sussidiario per chi voglia conoscere il contributo vermigliano alla edificazione della Chiesa inglese.

Alcuni rapporti fra Cavour e i Valdesi

Non intendiamo ritornare sul problema generale dei rapporti tra i Valdesi (e gli acattolici in senso lato) ed il Cavour, in quanto prin- cipale esponente della politica piemontese nel decennio famoso. In questi ultimi anni Giorgio Spini (1), per non ricordare altri valenti studiosi, ha fissato i termini del problema, e lo ha illuminato come meglio non si potrebbe. Noi intendiamo piuttosto, sulla scorta di un mazzetto di documenti dell'Archivio di Stato di Torino (2), precisare alcune situazioni e modi della concreta azione cavouriana nei con fronti dei Valdesi, e di altri gruppi di eterodossi attivi in quegli anni nel Piemonte. I documenti, ai quali abbiamo accennato, ci offrono qualche spunto di riflessione e qualche particolare nuovo o che tale a noi sembra.

Fino ad oggi abbiamo conosciuto un Cavour, che protegge e con- tiene lo zelo proselitistico degli eterodossi, mosso da preoccupazioni di grande politica estera ed interna, mi Cavour alle prese colle forti società protestanti anglo-sassoni e con uomini dell'importanza di Shaftesbury (3). Oggi possiamo vedere un Cavour che, prima di pren- dere provvedimenti pro o contro determinate persone, entro i limiti di una discrezionalità che egli stesso si è saputo assicurare pur nella stretta della grande politica, domanda informazioni e consigli a per- sonaggi privati, ai suoi parenti di Ginevra, perchè umanamente pen- soso della sorte di qualche malcapitato, e del valore di grandi principi etico-religiosi.

Questo accadde a proposito del caso di Francesco Gentil, un mu- gnaio di Crevy, nel comune di Veygy-Fonteney, che intorno all'anno 1844 era passato alla Chiesa riformata con quasi tutta la sua famiglia.

(1) Risorgimento e Protestanti (Napoli, 1956).

(2) Carte Amministrative Cavour. Mazzo n. 10, fase. 3. Ringraziamo la nota studiosa sig.na Maria Avetta, alla cui cortesia dobbiamo questi documenti.

(3) Ci si permetta di citare i nostri studi: Cavour e i Metodisti inglesi (estr. dalla Rass. Stor. del Risorgimento, a. XLI-1954); La politica estera cavouriana (Bologna, 1957); Dibattito al Parlamento subalpino sulla questione degli acat- tolici (estr. da Studi Valdesi, 1957).

(4) Copie de réquisitoire, datata da St. Julien le 29 avril 1852 (A.S.T., Carte Amministr. Cavour, cit.).

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Era persona rispettabile, a quanto risulta, sotto tutti i punti di vista, ma dopo la conversione, per il suo zelo proselitislico di neofita, s'era esposto alle persecuzioni delle autorità religiose locali. In verità, queste persecuzioni tardarono a verificarsi, se i documenti le fanno risalire al 1852 ed anni seguenti (4). Fu nella triste occasione della morte di un figlio del Gentil, che nacque lo scandalo (5). Si proce- dette al funerale secondo il rito protestante, con una certa pubblicità : vennero due pastori e delle persone pie da Ginevra, a seguire la sal- ma e a confortare la famiglia. Uno dei due pastori, il noto Emilio Demole-Hensch (6), tenne il servizio funebre al cimitero, e pronunziò un sermone, commentando il Vangelo. Il tutto fra le ore 11 e le 12, in pieno giorno, al cospetto di tutti gli abitanti di Crevy. Natural- mente, il Gentil e i suoi amici credevano di essere in piena regola con la legge, sul fondamento dello Statuto albertino.

Qualche giorno dopo la cerimonia, il parroco di Veygv inviò al Gentil una leltera piena di ingiurie e di minaccie per lui e per le sue due figlie « momières ». Il sindaco di Veygy procedette, da parte sua, ad alcune visite domiciliari presso le famiglie del luogo, che si conoscevano quali piotestanti, e sequestrò copie del Nuovo Testamen- to. Sei mesi dopo, Gentil stesso ricevette la brusca visita, nel cuore del- la notte, di quattro carabinieri, che lo arrestarono sotto l'accusa di aver tentato di fare propaganda religiosa anticattolica sia mediante discorsi, sia mediante la diffusione di libri ed opuscoli contrari al cattolicesimo. Lo si accusava, in sostanza, di offese alla religione uf- ficiale dello Stato. Gli si imputava inoltre di aver esercitato su di una delle sue figlie pressioni morali di ogni sorta, accompagnate da mal- trattamenti, per convincerla ad abiurare la religione cattolica.

A favore del disgraziato Gentil si mise subito in moto il mecca- nismo di difesa dei protestanti, che funzionava con successo sotto il governo Cavour, e che è sempre interessante esaminare nei suoi par- ticolari. Da Ginevra agirono il Demole ed il Lhuilier, che non sol- tanto scrissero di proprio pugno al Cavour (7), ma informarono i De la Rive della persecuzione in atto contro il Gentil, ed ottennero che Augusto ed Eugenio si interessassero attivamente presso i magistrati, che istruivano il processo, e presso Cavour, sia per chiarire le circo- stanze di fatto, sia per far ottener al Gentil il gratuito patrocinio in conseguenza della sua povertà. A Torino si mosse Joseph Malan, che presentò un memoriale al Cavour, scritto da altre persone (8). Cosi noi vediamo agire, concentrando gli sforzi sul Cavour, tanto l'am- biente filantropico-riformato di Ginevra, quanto l'ambiente valdese di Piemonte. Ci sembra particolarmente interessante che sia docu-

(5) Abbiamo ricavato i particolari da un memoriale presentato al Cavour da Giuseppe Malan, con lettera in data 27 maggio 1854 (A.S.T., Carte Cavour cit.).

(6) Sul Demole-Hensch, v. Spini, op. cit., pag. 172.

(7) Lettera al Cavour del Demole-Hensch, datata da Ginevra 24 maggio 1854, e firmata anche dal Lhuilier (A.S.T., Carte Cavour cit.). Sul Lhuilier, v. Spini, op. cit., pag. 138.

(8) Lettera al Cavour in data 27 maggio 1954, cit., e annesso memoriale.

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men tato l'intervento in queste faccende dei De la Rive, i quali espon- gono a proposito del proselitismo, proprio in quest'occasione, idee del tutto simili a quelle che nutriva il Cavour: « Si je suis partisan d'une grande liberté en matière religieuse scriveva Eugenio De la Rive, a nome anche del fratello Augusto j'ai toujours fort peu de penchant pour le prosélytisme souvent inconsidéré, parfois dange- reux... » (9).

I due De la Rive interpongono i loro buoni uffici in quel caso, mossi soltanto da umana pietà verso una persona onesta soggetta a persecuzione da parte di fanatici intolleranti. Ed il Cavour, prima di risolvere il caso col suo intervento, domanda chiarimenti proprio ai suoi cugini, e così riesce a liberare il Centil anche dalla condanna alle spese del processo subito, condanna che per le sue modeste con- dizioni economiche significava la rovina completa (10).

Potrà incuriosire il particolare che la lettera di Eugenio a Camil- lo Cavour in difesa del Gentil reca in calce i saluti di Gustavo e Aynardo Cavour.

* * *

E' nota la questione, che scoppiò a Genova nel 1853, quando un gruppo di evangelici italiani acquistò una chiesa cattolica sconsa- crata allo scopo di riattarla e dedicarla al proprio culto. Veramente, lo Spini attribuisce quell'acquisto ai Valdesi, e considera posteriore la costituzione della « Società Evangelica » ad opera del De Sanctis, del Mazzarella, dell'Albarella e di riformati toscani (11). Proprio il fatto che il Malan, cedendo alle pressioni del Cavour, rivendette la ex-chiesa ai cattolici, avrebbe provocato, secondo lo Spini, l'uscita dalla Chiesa Valdese del gruppo, che abbiamo ricordato, che appunto allora costituì la « Società Evangelica » (12). Però la lettura del ri- corso (13) che l'arcivescovo Andrea Charvaz presentò a Re Vittorio Emanuele ed al suo governo contro l'acquisto di quell'edificio e la sua riapertura quale tempio protestante, ci fa sapere che già nel dicembre 1853 esistevano gli evangelici italiani. Infatti, lo Charvaz, dopo aver dimostrato nel suo ricorso che la consacrazione al culto protestante di quella chiesa era un atto illegale (ed a questo scopo egli si rifece alla nota interpretazione restrittiva del 1 art. dello Sta- tuto e degli artt. in materia del Codice Penale Sardo), dopo aver so- stenuto che si trattava di un atto impolitico, perchè a suo modo di vedere la popolazione di Genova era profondamente ostile ai prote- stanti e avrebbe provocato tumulti, ecc., vuole dimostrare che era

(9) Lettera al Cavour in data 3 giugno 1854 (A.S.T., Carte Cavour, cit.).

(10) In proposito si veda la supplica a Vittorio Emanuele II stesa dall'avvo- cato dei poveri a nome dell'analfabeta Gentil, e il parere sulla medesima del Mi- nistero di Grazia e Giustizia ed Affari Ecclesiastici, in data 29 maggio 1854 (A.S.T., Carte Cavour cit.).

(11) Spini, op. cit., pag. 345.

(12) Spini, op. cit., pag. 345.

(13) Recours au Roi et à son Gouvernement au sujet d'un temple protestant dans la ville de Gènes, Genova 19 dicembre 1853 (A.S.T., Carte Cavour, cit.).

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anche un atto immorale. A questo scopo mise in evidenza che poco o nulla si sapeva della dottrina e della disciplina dei nuovi eretici di Genova: l'immoralità consisteva proprio nell'affermare implici- tamente il principio della pin completa libertà di culto, libertà che allo Charvaz appare anarchia morale. Chi sono, infatti, « les nou- veaux sectaires de Gènes »? Essi stessi dichiarano, sostiene lo Char- vaz, di non essere protestanti : « vous croyez de combattre des angli- cains, des calvinistes, des méthodistes, - dicono questi nuovi eretici nous sommes des Evangéli ques italiens... Nous ne sommes pas protestants dans le sens historique du mot... La foi en Christ... la Bible seule, voilà les principes des Evangéliques ». La citazione dello Charvaz è tolta da un opuscolo evangelico uscito prima del dicembre 1853. Essi sostenevano ancora, sempre secondo lo Charvaz, che Lu- tero e Calvino erano nomi senza autorità presso di loro e che essi si limitavano « à prendre inspiration et conseil des Vaudois, sans l'être eux mêmes ». Lo Charvaz concludeva che si trattava di una setta nuova c sconosciuta nello Stato, di un culto nuovo fino allora mai ammesso, che implicava il pericolo (e qui la sua fantasia galop- pava) di una nuova rivolta dei rustici simile a quella che si era avuta nella Germania del sec. XVI, o di nt>a nuova rivoluzione quale aveva conosciuto l'Inghilterra ai tempi del Cromwell...

Sta, però, il fatto che il compratore dell'ex-chiesa cattolica fu Giuseppe Malan, in persona, come risulta da due sue lettere dirette al Cavour, del febbraio 1854 (14). E fu il Malan a lasciarsi convincere dal Cavour, die gliene faceva l'invito anche a nome del Re, a riven- dere il conteso immobile. Il Malan non faceva parte degli Evangelici, ma era valdese di stretta osservanza. Dunque, diremo che lo Charvaz nel «suo ricorso mise avanti gli Evangelici per dare maggior forza po- lemica al suo discorso, tant'è vero che poi, ottenuto quanto voleva, parlò di valdesi compratori, e non più di evangelici. E', però, sicura la presenza di questi nel gruppo dei Valdesi di Genova, come ci atte- sta anche lo Spini.

L'affare della ex-chiesa provocò due minori incidenti meno noti. Uno fra il Cavour e il Malan: siccome la Gazzetta del Popolo scrisse un articolo, nel quale rivelava il retroscena dell'acquisto e della ri- vendita della chiesa, il Cavour, indignato, apostrofò con la veemenza che gli era propria in certi casi il Malan, accusandolo di avere scritto od ispirato quell'articolo. E il Malan non potè spiegarsi a voce, tra- volto da quella veemenza, ma dovette ricorrere alla penna, per sca- gionarsi col bollente ministro (15). L'altro incidente fu come la coda della nuova vendita; i Valdesi tentarono d'imporre la clausola che l'ex-chiesa non sarebbe stata mai più riadibita al culto cattolico. Ed allora si ebbe da parte dello Charvaz un nuovo ricorso al Cavour (16),

(14) Entrambe portano la data dell'8 febbraio (A.S.T., Carte Cavour, cit.).

(15) Prima lettera del Malan, al Cavour, in data 8 febbraio, cit.

(16) Lettera di A. Charvaz al Cavour, in data 9 febbraio 1854 (A.S.T., Carte Cavour, cit.).

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contro questa clausola, che gli parve « une honte d'un nouveau genre pour la religion de l'Etat... ».

Ognuno comprende l'interesse di quest'episodio, nel quale si vede l'uomo della « libera Chiesa in libero Stato » assidersi quale arbitro e mediatore, nei limiti del Piemonte, tra le chiese in lotta, segnando ad esse sul piano della pratica opportunità le reciproche sfere di influenza (17).

* * *

Le pressioni di Augusto e di Eugenio De la Rive a favore dei riformati di Piemonte dovettero essere frequenti, e dovettero essere accolte con favore dal. Cavour* come dimostra qualche altro documen- to, che noi conosciamo. Così ci risulta che Ernesto Vaucher, pastore della cappella riformata di Genova, fu dai De la Rive presentato e raccomandato al Cavour, ed a questi, manco a dirlo, il Vaucher ri- corse a favore dei suoi fedeli, quando se ne presentò la necessità (18). Diremo, però, che non soltanto i De la Rive, ma tutto l'ambiente di Ginevra fa capo al Cavour, quando si tratta di perorare la causa di qualche persona, vittima di persecuzioni religiose. Il Munier, per esempio, unisce i suoi sforzi à quelli del Comitato della Protestant Alliance britannica in difesa di un certo Jacquet, imprigionato e con- dannato a Chambéry per motivi religiosi (19). manca, sui docu- menti a nostra conoscenza, la firma di Adriano Naville (20), cugino del più noto professore Ernesto Naville, e figlio primogenito di Edoar- do Naville de Châteauvieux, vecchio amico del Cavour. Alla difesa dei perseguitati per motivi religiosi si unisce in questi documenti il fiancheggiamento dell'opera del Cavour, quando si trattava di frenare o moderare l'attività prose! itistica troppo spinta di qualche pastore Sempre come esempio, ricorderemo che appunto Adriano Naville ot- tenne dai suoi colleghi del Comitato della Società Evangelica di Ge- nova, nel 1857, l'allontanamento da una località della Savoia del pastore Curie, la cui propaganda aveva procurato noie politiche al Presidente del Consiglio piemontese. Sono decisioni prese malvolen- tieri, si capisce, ma Adriano Naville conclude: «... nous savons, Monsieur le Comte, la reconnaissance qui vous est due par tous les Protestants pour les efforts que vous faites pour maintenir les droits de la liberté religieuse ».

(17) Debbo alla cortesia dell'amico Pani Guichonnet la conoscenza delle let- tere di risposta del Cavour allo Charvaz, che confermano e completano quanto siamo venuti dicendo nel testo. L'interessante stadio del Guichonnet e di Marius Hudry, che riporta la corrispondenza Cavour-Charvaz, comparirà, speriamo pre- sto, nel Bollettino bibliografico storico subalpino.

(18) E. Vaucher al Cavour, Genova 3 luglio 1855 (A.S.T., Carte Cavour, cit.).

(19) Munier al Cavour, Ginevra 31 maggio 1856; Estratto dal verbale delle sedute del Comitato della Protestant Alliance, 23 luglio 1856 (A.S.T., Carte Ca- vour, cit.).

(20) A. Naville al Cavour, 17 settembre 1857 (A.S.T., Carte Cavour, cit.).

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Un altro intervento di una certa importanza da parte del Cavour ci dovette essere nel marzo del I860 a favore di certi Giovanni Pietro Luquet, Giovanni Maria Grosso, di Francesco e Domenico Agosti- nelli, i quali erano riusciti ad Areola di La Spezia a costituire una comunità evangelica di circa 20-30 membri. Come al solito, quella comunità leggeva la Bibbia e ne ascoltava la spiegazione, e si preoc- cupava di diffondere la nota traduzione del Diodati. Seguirono arre- sti e processi, e, com'era ormai la prassi, la riebiesta di chiarimenti da parte delle alte sfere amministrative, che dobbiamo presumere eccitate anche questa volta dal Cavour (21), a sua volta sollecitato dai suoi amici e conoscenti. Ci sembra importante rilevare la pre- senza ad Areola di un gruppo così numeroso di evangelici, nel 1860. Ci sembra un segno manifesto di quel certo successo che la predica- zione non conformista otteneva in quegli anni, come effetto della libertà religiosa che il governo Cavour aveva assicurato. Le annes- sioni delle nuove provincie al Piemonte allargarono la sfera di azio- ne dei riformati.

* * *

Si è spesso parlato di un rapporto politico strettissimo tra i Val- desi e il Cavour, per cui quelli votavano a favore dell'uomo, che a quei tempi costituiva la garanzìa delle loro libertà civili e religiose Crediamo, però, piuttosto rare lettere come quella che il prof. Ste- fano Malan scrisse il 23 gennaio 1861 da Torre Pellice, nella quale dava spiegazioni ad un personaggio, che non siamo riusciti ad iden- tificare, ma che senza dubbio faceva parte della più ristretta cerchia cavouriana di Torino, perchè a sua volta le trasmettesse al Cavour, su di un'incertezza del corpo elettorale valdese in occasione delle elezioni di quell'anno. Cediamo la parola a Stefano Malan: «Il col- legio elettorale di Bricherasio di cui fanno parte i valdesi, si trovava, giorni sono, incerto intorno al candidato che doveva mandare alla camera. Tutti però i valdesi (io credo, senza eccezione) avevano intendimento di scegliere un deputato che sostenesse la politica del Conte di Cavour. La valle di Luserna propendeva per il marchese di Rorà; quella di San Martino avrebbe ancora dato i suoi voti al banchiere Malan, quando ci fu proposto per intenderci di riunirci tutti per la candidatura del Signor Melegari. Una riunione prepa- ratoria di elettori valdesi, dietro raccomandazione di un ex deputato ministerialissimo, decise in fatti di accettare questo ultimo candi- dato; perchè si credeva da tutti ministeriale e sostenitore della poli- tica dell'uomo grande che comprende e propugna la vera libertà e che fece l'Italia, ci rassegnammo a dargli i nostri voti. Grande fu la nostra sorpresa quando sentimmo che ci avevano ingannati e che il Melegari è un'acerrimo (sic.) nemico di quel uomo cui tanto dobbia- mo ed in cui tutta riponiamo la nostra fiducia sia per la salute della

(21) Si trova fra le Carte Cavour una copia della sentenza pronunciata contro le persone nominate nel testo.

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patria sia per il mantenimento e lo sviluppo delle nostre libertà. Tosto che fummo accertati del nostro sbaglio e che sentimmo che il Conte di Cavour desiderava che fosse mandato alla Camera il suo cugino ed amico il Marchese di Rorà, non ci fu più che un'opinione tra noi; la candidatura del Signor Marchese è assicurata; egli sarà eletto ad una maggioranza che equivale all'unanimità, almeno per parte dei valdesi. Il Signor di Cavour vedrà da questo in qual conto teniamo i suoi desideri e le sue raccomandazioni. Ma questo non ci basta, e molti miei amici vorrehbero che egli fosse assicurato che se i valdesi un istante pensarono mandare alla Camera il Signor Mele- gari, credettero mandarvi non un'oppositore (sic) ma un caldo e fedele suo sostenitore: che non vi fu ingratitudine per parte nostra ma sbaglio involontario e che siamo infinitamente grati a chi ci trasse à (sic) tempo dal nostro errore ».

* *

Poiché sappiamo che il Melegari, dopo la morte del Cavour, fu eletto deputato dai Valdesi, non possiamo dire fino a qual punto sia sincera questa lettera, e cioè fino a qual punto possiamo credere che i valdesi si siano ingannati in quel tempo, sulla posizione poli- tica del Melegari. Può darsi che si tratti di una giustificazione al- quanto improvvisata, di fronte al brusco intervento del Cavour.

Ma, naturalmente, la cosa più importante ci sembra consista nella dimostrazione documentata degli speciali rapporti intercorrenti tra i Valdesi e il Cavour stesso.

Umberto Marcelli

L'elezione " popolare dei parroci in Italia

(1864-1892)

E' un argomento che, in parte, già trattai nel 1950 in una rivista giuridica e che verrà più ampiamente svolto in una monografia do- cumentata.

L'elezione popolare dei parroci costituisce un problema, del qua- le ancora ai nostri giorni si ragiona: ad esempio, proprio in questo agosto del 1958, ne ha scritto IV Osservatore della Domenica ».

Dal lato storico è un problema, il quale deve essere congiunto con quello, generale e giuridico, dei rapporti tra Stato e Chiesa, ed appartiene anche all'altro, non meno suggestivo, che può essere rias- sunto nel binomio di Chiesa e democrazia.

Dalla legislazione canonica di ogni secolo si possono trarre esempi della lotta immanente fra un laicato che rivendica l'elezione diretta del proprio ministro di culto ed un clero che tale elezione esige a riserbata in modo esclusivo.

Soltanto per una frazione minuscola del laicato, i « patroni », fu possibile di resistere all'opposizione ostinata della Chiesa, ma nem- meno essi riuscirono a perpetuare il loro residuo privilegio: il Codex ha isterilito il giuspatronato, statuendo (can. 1452) che le elezioni po- polari « sicubi vigent tolerari tantum possunt » se l'eletto appartiene alla terna designata dall'Ordinario. JNel secolo scorso, soprattutto du- rante il pontificato di Pio IX, le elezioni popolari acquistarono un carattere politico-nazionale, e, massime fuori d'Italia, ricevettero no- tevole impulso dalle polemiche e dalle secessioni susseguite al Con- cilio Vaticano.

Il caso dialetticamente più comune concerneva l'elezione dei ve- scovi, ma nel 1871 e nel 1877, ad esempio, se ne ragionò altresì per il successore di Pio IX.

Assai autorevole risultò, per i promotori delle elezioni italiane, l'opinione del Rosmini, e probabilmente essa apparve ribadita dalle elezioni dei Vecchio-Cattolici della Svizzera e della Germania.

L'abate Rosmini aveva sin dal 1848 raggiunto il vertice del con- cetto odierno di democrazia, sopprimendo, in un suo progetto di co-

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stituzìone, ogni discriminazione religiosa. Ed aveva sin dal 1832 reso noto il suo convincimento: « Ogni società libera ha essenzialmente il diritto di eleggersi i propri ufficiali. Questo diritto è tanto più essen- ziale e inalienabile, come quello di esistere ». Il Rosmini non ebbe occasione di pronunciarsi specificamente per le comunità parrocchia- li; comunque ne fu, sia pure indirettamente, il più alto ispiratore. Ed anche a lui, verosimilmente, si erano riferiti (oltre che agli ordina- menti ecclesiastici degli Stati Uniti di America) nel 1871, durante la discussione della legge cosiddetta delle guarentigie quei deputati (Va- re, Piolti de Bianchi, Biancardi e Cadolini) i quali avevano proposto il non approvato emendamento: « E' parroco chi viene accettato co- me tale dalla maggioranza dei parrocchiani accolti in assemblea ». (Nella Toscana, dove il Ricasoli voleva restituito alla « comunità dei Cattolici » la « elezione dei sacri pastori », erasi formata una « So- cietà promotrice delle elezioni popolari dei parroci in Italia »). Nella ricostruzione delle elezioni italiane non riesce facile discernere le ele- zioni vere e proprie di giuspatronato o in ogni modo conformi alle norme canoniche. Qui, tuttavia, esse non interessano, nemmeno nelle forme eventualmente irregolari.

Interessano, invece, (tanto più che non difettano casi analoghi, ai nostri giorni, quantunque sporadici ed eterogenei) quelle che chia- merò elezioni popolari libere, ossia l'esercizio di un « diritto di so- vranità religiosa » (come si disse per quelle di Milano, al tempo della Repubblica Cisalpina) in contrasto con le autorità ecclesiastiche. Non ha importanza il fatto che il procedimento elettorale venisse desunto dalle norme patronali, anche se tale circostanza si trova alla radice della frequentissima confusione tra elezioni libere ed elezioni ca- noniche.

Lo studio di tali episodi, a prescindere dalle limitazioni vigenti nei diversi archivi, appare in modo peculiare impedita dalla ognora vigile avversione della Chiesa, non paga dei precetti inderogabili del suo Codex. Tale avversione sopravvive nei successori dei parroci eletti: essi, ili onta a documenti pontifici e vescovili, non esitano, spesso, a negare addirittura l'esistenza di quelle « intrusioni ».

Ciò premesso, l'elezione popolare libera del parroco consistette normalmente nell'applicare le norme in situ presunte vigenti ad une o più candidati non riconosciuti o senz'altro misconosciuti dall'Ordi- nario diocesano. Le norme erano quelle dell'ex Stato originario, giacr che la materia patronale non venne regolata dal succeduto regno d'Italia.

Le fonti oggi disponibili sono per lo più costituite da atti uffi- ciali e pubblici della Chiesa, del Parlamento e del Governo italiani, e da non pochi scritti, quasi tutti del tempo e di prevalente carattere polemico.

Gli archivi parrocchiali, per quanto mi risulta, hanno eliminato ogni riferimento alle « intrusioni », quasi dovunque.

La bibliografia è tutt'altro che spregevole, sia nell'aspetto teorico sia per la casistica; nondimeno, nel complesso, ci appare frammenta-

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ria e disorganica. Le elezioni popolari, accertate libere, possono es- sere così elencate, in ordine cronologico.

1864 Coivano (Campania). Numerosi cittadini chiesero al Governo la nomina di un determinato parroco, ed alcuni inviarono una pe- tizione alla Camera dei Deputati. l'istanza la petizione vennero accolte, non trattandosi di patronato regio. Tuttavia il guardasigilli Pisanelli non esitò ad auspicare l'elezione dei par- roci « fatta dai cittadini medesimi ».

1873 Umbria. Si parlò di « parecchie associazioni patriottiche » che intendevano promuovere elezioni popolari. La qualificazione di quelle associazioni richiama la tradizione antipapale della regione. San Giovanni del Dosso (Lombardia): fu il prototipo, tosto imitato.

Frassino (Lombardia), nella stessa diocesi di Mantova.

1874 Palidano, sempre nella menzionata diocesi.

Questi tre casi, i più clamorosi, richiamarono l'attenzione parti- colare, oltre che dei deputato conterraneo Carlo Guerrieri-Gonzaga (non di rado confuso con il fratello Anselmo), del Gladstone, del Bon- ghi e di un ecclesiastico nord americano. Erano i mesi delle elezioni vecchio-cattoliche nella vicina Svizzera.

Furono, inoltre, citati varii casi nella Lombardia, nel Veneto, nella Toscana ed altrove, evidentemente equivocando con le elezioni patro- nali, piuttosto diffuse. Nella diocesi mantovana non mancarono ten- tativi differenti.

Altavilla Silentina (Campania).

1875 Stellata (Emilia). Il patrono si fece designare dai capifamiglia, previa elezione, il nominando.

1876 Villa Rotta di Suzzara (Lombardia). Falciano Capo di Carinola (Campania).

1879 Udine.

Ricaldone (Piemonte).

1892 Traversella (Piemonte).

Parecchie delle elencate elezioni furono obietto di sentenze delle Corti di appello e dei Tribunali.

La Chiesa si oppose con ogni mezzo, dai provvedimenti della Santa Sede a quelli delle singole Curie diocesane. Si debbono, poi, aggiungere le polemiche delia stampa, dall'« Osservatore Romano » c dall'implacabile « Civiltà Cattolica » ai quotidiani e periodici, che allora prosperavano nelle province.

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Documento fondamentale fu il decreto della S. Congregazione del Concilio, del 23 maggio 1874, che si richiamò all'enciclica « Etsi mul- ta » del 21 novembre 1873, avverso i Vecchio-Cattolici della Germania e della Svizzera.

D'altro canto la costituz-one « Apostolicae Sedis » del 12 ottobre 1869 provvedeva per le sanzioni penali. (La questione è ritornata in vigore nelle cosidette Democrazie popolari dell'Europa orientale e dell'Asia, ed è ancora una volta intervenuta la S. Congregazione del Concilio, con un decreto del 29 giugno 1950). L'azione del Governo italiano non fu limpida energica.

Interrogato da un deputato della Destra e da un altro della Sini- stra per i fatti del Mantovano, il guardasigilli Vigliani sembrò aderire all'innovato sistema, nondimeno opponendo la legge delle guarenti- gie, la quale presupponeva, per il regio placet, un formale titolo ca- nonico. Poi ripiegò sulle rituali esigenze dell'cc ordine pubblico ».

Il successivo guardasigilli, e primo della Sinistra, P. S. Mancini, non volle mutare la procedura del Governo precedente, sebbene sin dal 1860 avesse favorito, nella Napoli garibaldina e dopo, un movi- mento antipapale, in senso vecchio-cattolico. Egli si limitò a qualche provvedimento di natura finanziaria e transitoria.

A distanza di molti anni si possono risolvere taluni, quesiti.

Si trattò di eresia?

La risposta dovrebbe essere negativa, non risultando nei fedeli la coscienza di violare un punto di dottrina cattolica. L'apparato sto- rico-dogmatico, prodigato nelle polemiche ex utroque, lasciò, è il caso di dire, « indifferenti » quei parrocchiani, nella quasi totalità appar- tenenti al ceto rurale.

Giova però osservare che le elezioni libere avvennero in diocesi governate da vescovi temporalisti, privi di regio exequatur o comun- que avversi al nuovo regno. Invece esse vennero evitate, ancorché mi- nacciate, laddove gli Ordinari erano, se non « conciliatoristi », alme- no concilianti.

Si può ragionare di scisma?

La risposta è positiva, pur trattandosi di secessioni circoscritte nel tempo ed alle sole parrocchie, che rimasero sempre isolate.

Il termine usato nei documenti pastorali, dal 1874 (vescovo Rota) al 1945 (card. Schuster), fu quello di « scandalo ».

Si può pensare ad una « riforma », sia pure soltanto tentata?

Furono realmente tentativi sporadici e discontinui di « riforma gerarchica dall'esterno », promossi qua e da persone isolate nel pe- riodo di prima formazione del nuovo Stato. Mancò in ogni modo una coordinazione, che forse non sarebbe stata possibile, tenuto conto che era necessario attuare norme degli Stati preesistenti, e quindi terri- torialmente variabili, sempre di sicura applicazione.

Mancò, principalmente, un vasto consenso delle communiones fi delium, presupposto invero indispensabile.

E venne meno l'altrettanto indispensabile appoggio del Gover- no: la prova di tale necessità si è avuta in questi ultimi anni nelle

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Democrazie popolari, pur ammettendo che neppure in quei Paesi è stato possibile capovolgere tradizioni plurisecolari.

All'opposto, durissima, uniforme e costante, in ogni tempo ed in ogni luogo, fu la reazione della Chiesa da parte di tutti i propri organi.

L'elezione popolare nell'ambito della Chiesa Cattolica rimase pri va di successo (ad esempio) anche nel Canton Ticino, dove, qualche anno prima del Concilio Vaticano si ricordano due casi, dei quali è traccia in scritti e nella stampa del tempo, nonché, per uno, nell'Index.

Le elezioni sono sopravvissute nei Paesi « scismatici ».

Se, dunque, i principii rosminiani non ebbero effetto nei primi anni dello Stato creato dal Risorgimento, sarebbe assurdo di poterli attuare in una Repubblica « democratica » fondata sul lavoro, ma an- che sopra un concordato, ricco di esperienze generali e specifiche, qua- le quello del 1929.

Arnaldo Cicchitti-Suriani

INDICE

L. Dupré-Théseider

Fra Dolcino: storia e mito Pag. 5

G. Gonnet

Portata e limiti dell'episcopato Valdese nel Medio Evo » 27 S. Caponetto

Significato del « Beneficio di Cristo » alla luce di re- centi interpretazioni » 43

L. Firpo

Il vero autore di un celebre scritto anti-trinitario :

Christian Francken, non Lelio Socino . . . » 51

L. Santini

Appunti sulla ecclesiologia di P. M. Vermigli e la edificazione della Chiesa ....... 69

U. Marcelli

Alcuni rapporti fra Cavour e i Valdesi . . . » 77

A. ClCCHITTI-SURIANl

L'elezione « popolare » dei parroci in Italia (1864-1892) » 85

Princeton Theological Seminary Librar

1 1012 01474 7432

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