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4878 .B64 no. 119- 120

Bollettino della Society di studi valdesi.

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in 2014

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BOLLETTINO

DELLA

SOCIETÀ DI STVDI VALDESI

DICEMBRE I960

Si pubblicano le. relazioni presentate all' VII I Con- vegno su Eresia e Riforma in Italia dell'agosto 1966, pervenute alla direzione del Bollettino.

Sulle fonti del " Beneficio di Cristo JJ

Il discorso sulle fonti del « Beneficio di Cristo » è recente ed è stato ravvivato dall'importante scoperta di T. Bozza, il quale ha in- dicato dei brani della Institutio christianae religionis, tradotti alla lettera dalla edizione latina del 1539 o parafrasati, inseriti nell'ope- retta, in particolar modo nell'ultimo capitolo. Il Bozza ha sopravva- lutato la sua scoperta fino a negare al capolavoro della letteratura della Riforma italiana ogni influenza del Valdés e a vederlo addirit- tura come un sunto o un sommario dell'opera calviniana. Vedremo più avanti che un confronto testuale conduce a conclusioni diverse.

Occorre premettere che l'operetta contiene un solo argomento : la giustificazione per fede dei predestinati alla salvezza, la quale viene chiamata con termine pregnante « beneficio di Cristo ». Espressione non biblica, usata in questo senso, forse per la prima volta da s. Ber- nardo, valorizzata da Melantone, da Lutero, da Calvino, da G. B. Fo- lengo e ripetuta da Valdés, come il ritornello di una canzone, nelle Cento e dieci divine considerazioni. La si potrebbe rassomigliare, an- che per l'empito sentimentale donde scaturisce, a un poemetto reli- gioso monocorde dall'ordito semplice, lineare, armonioso, avvincen- te. Gli argomenti del cap. VI (Rimedi contro la diffidenza) sono inti- mamente legati al concetto della giustificazione: la predestinazione degli eletti è la premessa della giustificazione, la santa cena ne è il sigillo e l'arra. Sicché le fonti sono circoscritte ai sostenitori di que- sta verità « nella quale consiste tutto lo misterio della fede ». Per primi gli autori della « Scrittura santa », con la quale si apre il di- scorso. Di essa sono sfruttati i Salmi, gli Evangeli, le lettere pao- line, la lettera agli Ebrei, la la lettera di Paolo, le lettere di Giovanni.

L'esame di queste fonti scritturali e il loro peso nell'orientamento teologico di Benedetto da Mantova conducono a escludere una pre- valenza paolina (non lo definirei « paolinismo ») per la notevole in- cidenza della mistica giovannea e del concetto della imitazione di Cristo, come il servo paziente della Ia lettera di Pietro.

Dopo la Scrittura, i « dottori santi », « che hanno confirmata e

(1) Per la bibliografia rimando alla voce Benedetto da Mantova del Dizionario Biografico degli Italiani, da me curata.

approvata questa santissima verità della giustificazione per fede tra (i) quali principale Santo Agostino... » (Ediz. Paladino, p. 21). Sono citati opere e passi di Agostino, Origene, Basilio, Ilario, Ambrogio, Bernardo di Chiaravalle, definito da E. Leonard « il solo vero pre- decessore di Lutero ». Eccettuato san Bernardo sono i padri, le cui opere erano state poste a disposizione della cultura europea e dei se- guaci dell'evangelismo dall'immenso lavoro editoriale di Erasmo.

A differenza di Valdés, il quale non cita mai « autorità » all'in- fuori della Sacra Scrittura, Benedetto sembra citarle con estrema cura, ma ne tralascia almeno tre per evitare la immediata messa al bando dell'opera: Lutero, Calvino, Valdés. Già G. Miegge, seguito da altri, aveva avvicinato l'opera italiana alla Libertà del cristiano di Lutero.

Un raffronto da me fatto con la redazione latina, anziché su quel- la tedesca, più schematica, ci la prova indubbia della conoscenza diretta dell'opera del Riformatore. Da essa deriva la dottrina della giustificazione per la sola fede con la sua caratteristica accentuazione imputativa e forense. Benedetto respinge la dottrina della doppia giustificazione, se non con la veemenza mordace di Lutero, certo con pari fermezza. La teoria del Gropper, appoggiata nel '41 a Ratisbona dal Contarini e accolta da Melantone, più tardi difesa invano al Con- cilio tridentino dal Seripando, non trova posto nel « Beneficio »: quando si legga la lucida sintesi fattane dal Contarini nella sua Epi- stala de justificatione (accolta con entusiasmo nel circolo viterbese del Pole), si misura la diversità delle due posizioni. Non è più il caso di ripetere citazioni ormai note dopo il puntuale commento di Ruth Prelowski.

La falsa riga del De libertate Christiana è più scoperta nella par- te iniziale del cap. V, intitolato: Come il cristiano si veste di Cristo. Lutero affermata la piena libertà del credente per la redenzione di Cristo si sofferma sulla necessità delle opere come servizio di amo- re verso il prossimo e apre il ragionamento con un paragone bellis- simo. Come Cristo, essendo in forma di Dio, si abbassò e prese forma di servo per offrire se stesso all'umanità, così il cristiano sebbene libero da tutte le opere perché reso giusto dalla giustizia della fede nei meriti del Salvatore deve prendere forma di servo e aiutare il prossimo, come Cristo ha fatto con lui: « Dabo itaque me quendam Christum proximo meo, quemadmodum Christus sese praebuit mihi, nihil facturus in hac vita, nisi quod videro proximo meo necessarium, comodum et salutare fore, quandoquidem per fidem omnium hono- rum in Christo abundans sum ». Siamo chiamati cristiani « a Christo sic vocamur non absente sed inhabitante in nobis, idest, dum credi- mus in eum, et invicem mutuoque sumus alter alterius Christus fa- cientes proximis sicut Christus nobis fecit » (Weimar, 7, p. 66). Quest'ultimo passo, mancante nel testo tedesco, è quasi tradotto alla lettera in questo brano, dove l'A. riassume il paragone di Lutero e le applicazioni: « Se noi non amiamo il prossimo nostro, per lo cui

amore C. lia sparso il suo proprio sangue, non possiamo con verità dire che amiamo C, il quale, essendo eguale a Dio, fu ubbidiente al Padre infino alla morte della croce, e ci ha amati e redenti, donando se medesimo a noi con tutte le sue opere, e con tutto quello che pos- siede. In questo medesimo modo noi, ricchi e abondanti dei beni di C, dobbiamo essere ubbidienti a Dio, ed offerire e donare le no- stre opere, ed ogni cosa nostra, a noi medesimi ai prossimi e fratelli nostri in C, servendoli in tutti i loro bisogni, ed essendoli quasi un altro Cristo » (Ediz. Paladino, p. 36).

Senza negare l'influenza notevole di Calvino segnalata dal Bozza, le divergenze concettuali sono tali da pensare che B. colse dalla Insti- tutio soltanto ciò che gli era utile per la difesa della dottrina della giustificazione. Principi fondamentali e originali dell'opera sono lon- tani dal suo orizzonte spirituale: la conoscenza di Dio; il valore etico della Legge; la chiesa visibile; la dottrina dei sacramenti; la doppia predestinazione. Calvino non è il modello di B., ma un prezioso stru- mento di lavoro. Basta il raffronto fra il cap. I del Beneficio e il cap. II della Institutio (De cognitione hominis), ove Calvino mostra le conseguenze del peccato originale, per misurare la distanza dal pensiero del riformatore, il cui pessimismo antropologico non cade negli ingenui eccessi valdesiani: la corruzione « naturale » della na- tura umana è una qualità « avventizia » e non « sostanziale » per Cal- vino, il quale contempla con la trepida ammirazione dell'umanista le conquiste dell'ingegno umano nei secoli e l'apporto del pensiero pagano, per concludere che Dio lasciò non pochi beni all'uomo, an- che dopo la caduta. La conferma a questa interpretazione dell'uso strumentale del capolavoro calviniano ci proviene dal cap. XII della Institutio (De coena Domini), donde sono stati tradotti e riassunti in- teri brani inseriti nel cap. VI del Beneficio.

Si tratta però dei brani meno originali del capitolo, ove il sacra- mento della comunione è visto come simbolo della unità dei credenti dietro la scorta di due testi agostiniani: In Iohannem tract. XXVI, 13 ss. e il Sermone 272 (Migne, Patr. Int., XXXV, 11613-14; XXXVIII, 1247-8). B. ha davanti a testi agostiniani e laddove Calvino rifonde nel contesto le parole del Sermone 272, egli invece le traduce e le sposta all'inizio della contaminazione, perché le considera come il fulcro della propria riflessione: « Chi riceve il misterio della unità e non conserva il vincolo della pace, non riceve il misterio per sé, ma la testimonianza contro a » (Beneficio, p. 44). Prosegue poi traducendo altri brani, ma con spostamenti verbali e aggiunte, che accentuano il motivo dell'unità di « tutti » i cristiani. Il significato della Santa Cena come « misterio di unità » acquista nel benedettino una carica polemica contro quei cattolici che, non credendo nella giustificazione per la sola fede, cadono in una « scelerata ipocrisia », perché ricevendo il sacramento si contraddicono in quanto confessa- no di non mettere la loro fiducia in nessun'altra cosa; contro quei protestanti che, con le loro lacerazioni e aspri dissensi, dimenticano

che quel sacramento ci ammonisce ad « esser congiunti e uniti con tanta concordia d'animo, che non ci possa intervenire alcuna minima disunione ». La parenesi di Calvino gli è così congeniale che egli se ne serve largamente per il suo obiettivo polemico. Siamo dinanzi a un discorso coperto, forse per iniziati, ma non così ermetico da non sve- larsi a un'attenta lettura. Esso, del resto, si ricollega alla dottrina e alla spiritualità valdesiana, che costituiscono il nocciolo e il substrato dell'operetta. Intendo riferirmi trascurando tutti gli altri legami con il Valdés ampiamente illustrati da frate Domingo de Santa Te- resa e da altri alla distinzione dei « veri cristiani » dai « falsi cri- stiani », che percorre tutta l'opera e sbocca nella contemplazione age- rarchica e spiritualistica della Chiesa, secondo Giovanni XVII (Cons. LXXIII e CIX; Beneficio, p. 31 (Ediz. Paladino). I veri cristiani, in- corporati in Cristo, sono governati e guidati dallo Spirito Santo e vi- vono uniti con Dio, consapevoli della loro elezione e salvezza eterna. Chi ha la consapevolezza della giustificazione, scrive Valdés nella Cons. XXVIII, deve avere la certezza della sua vocazione e predesti- nazione alla vita eterna. Pertanto il suo discepolo vedeva già uniti in Cristo i « giustificati » al di delle divisioni ecclesiastiche e delle passioni umane nell'attesa paziente dell'opera di Dio per convertire coloro che avevano « gli animi ebrei ». Da qui l'indifferenza e la sfi- ducia nel travaglio umano per ricomporre l'unità della Chiesa cri- stiana. Dopo il fallimento di Ratisbona, le speranze del Contarini e di altri suoi amici sono trasfigurate su un piano mistico e valdesiano. Neppure di sfuggita si accenna al concilio universale, del quale allo- ra si diceva imminente la riunione.

Questo approdo mistico allontana FA. dalla lotta che divampa ormai in tutta Europa per costruire la nuova chiesa da opporre alla chiesa di Roma e lo distoglie da un impegno sul piano umano e sto- rico. E questo perché egli è convinto che la lotta, sia pure per il trion- fo di certe verità, porta lontano dalla imitazione di Cristo, com'è pre- sentata nella Ia lettera di Pietro, cap. 2°, vv. 19-24, che egli così com- menta : « come Cristo fu umile, mansueto e remotissimo dalle con- tenzioni, così noi dobbiamo metter tutto il nostro studio nell'umiltà e nella mansuetudine, fuggendo tutte le risse e le contenzioni, e non meno quelle che consistono nelle parole e nelle dispute, che quelle che consistono nei fatti. come C. tolerò tutte le persecuzioni e le confusioni del mondo per la gloria di Dio, così noi allegramente deb- biamo sostenere le ignominie e le persecuzioni, che fanno i falsi cri- stiani a tutti coloro che vogliono vivere piamente in C. C. pose l'ani- ma sua per li nemici suoi e orò per loro in croce e noi debbiamo sem- pre orare per li nemici nostri e ponere volentieri la vita nostra per la loro salute; e questo è seguitar le vestigia di C, come dice san Pietro... »,

Salvatore Caponetto

Appunti sull' escatologia in Filippo Melantone

Considerata l'importanza che l'escatologia ha nel fatto religioso, non deve certo meravigliare l'ampiezza della letteratura che ad essa è stata dedicata dagli studiosi della Riforma, tanto più che nella teologia « evangelica » la fede è intrinsecamente connessa con la promissio, non è quindi il caso di riprendere temi e prohlematiche ormai ben note al mondo degli studiosi. A me sembra però che anche in questo caso l'attenzione si sia accentrata quasi esclusivamente su Lutero, come risulta evidente anche da una semplice scorsa della letteratura pertinente dal Kòstlin all'Althaus, dal Miegge al Vinay. tanto per ricordare i nostri italiani. È perciò che ritengo utile aprire, con la presente comunicazione, un discorso che scaturisce dall'esame sistematico del momento escatologico nell'opera di Filippo Melan- tone e nel suo àmbito da quello più particolare della tensione apo- calittica, la quale appunto, alla luce di certo medievalismo del pensiero melantoniano e di taluni suoi aspetti deteriori, ci può forse meglio aiutare (almeno così credo) a caratterizzare storicamente il complesso del pensiero del « Praeceptor Germaniae ».

Va da che i concetti di Anticristo, fine del mondo, punizione e premio e così via tornano continuamente in un tentativo di costru- zione come la nostra e spero di non anticipare troppo i tempi affer- mando che in questo àmbito dell'azione melantoniana la dicotomia escatologica come fatto teologico e spirituale-religioso ed escatologia come fatto apocalittico è molto più evidente che non in Lutero, al quale si deve peraltro riconoscere il merito di aver dato all'aspetta- zione della fine un'alta significazione religiosa. È implicita infatti nella teologia di Lutero la considerazione che la salvezza è per i credenti già presente. Dove c'è remissione dei peccati egli dice ivi c'è anche vita e santità, già ora, anche al presente; e se la fede luterana è fortemente tesa sulle idtime cose, la tensione è general- mente frutto appunto di una profonda e meditata spiritualità. La promissio avrà il suo compimento, e tutto posa sulla rivelazione di Dio in Cristo. È particolarmente eloquente un suo commento a Ebrei 9: 11-16 (WA. 17, II, 229): «Ma venuto Cristo, Sommo Sacer-

dote dei futuri beni... » Christus aber ist darkommen, eyn hoher priester der zukiinfftigen giiter ») (1). Cristo determina il significato, la costruzione della storia, il cui ultimo tempo è sovrastorico, in quanto significa lo scioglimento di tutti i tempi: il tempo in cui il Padre è tutto in tutto: « Ideo oremus Deum, ut quara primum illu- cescat ille dies Ecclesiae laetissimus » (WA. 53, 401).

Ma anche in Marlin Lutero, soprattutto nelle testimonianze minori che di lui e su di lui ci sono giunte (prediche, epistolari, discorsi conviviali ecc.), si prospettano alcune tensioni di una più esasperata ed apocalittica escatologia che pur non raggiungendo le punte scon- certanti di Melantone, ci offrono scorci e spunti nuovi.

Il Menke-Gliickert, nel ribadire in un suo saggio sulla storiografia della Riforma (2) che la fede in una prossima minacciosa fine del mondo regna nella Riforma e in tutta la storiografia riformistica, ricorda che fu Lutero stesso a curare l'edizione de La profezia di Johann Lichtenberger che accennava a lui e alla sua dottrina. E va a questo punto sottolineata l'affannosa insistenza te oro et obte- slor ») con la quale il 17 ottobre 1529 Lutero scriveva a Friedrich Myconius (WA. BR. V, 162) chiedendo materiale sulla predizione fatta dal monaco Hilten riguardo alla caduta di Roma Meretrice attor- no al 1514 e sulle altre riguardanti l'occupazione turca e la prossima fine del mondo; la lettera è di non molto posteriore a quella scritta da Melantone allo stesso destinatario, che è del 26 luglio (CR. I, 1108): una concomitanza che fa pensare e su cui torneremo.

Sta di fatto comunque che fin dal 1518 Lutero sosteneva aperta- mente la identificazione Anticristo - Curia Romana, come dimostra la lettera con la quale accompagna a Link gli Acta Augustana (3). E il aprile 1521 nella Ad librum... Ambrosii Catharini responsio. ' Cum exposita Visione Danielis Vili. De Antichristo (WA. VII, 705) riferisce la profezia di Daniele alla Papae Tyrannis, escludendo (e questo è interessante) l'identificazione con la tirannia turca (4).

(1) Cfr. P. Althaus, Die Théologie Martin Luthers, Giiterslob, 1962 (cap. Die letzten Dinge e relativi passi); G. Miegce, Lutero (vol. I, L'uomo e il pensiero fino alla dieta di Worms. 1483-1521), Torre Pellice, 1946.

(2) E. Menke-Glûckkrt, Die Geschichtsschreibung der Reformation und Gegen- reformation ( Bodin und die Begrùndung der Geschichtsmethodologie durch Bartho- lomaus Heckermann), Leipzig, 1912 (pp. 15 ss.). Cfr. anche A. Warburg, Divinazione antica pagana in testi ed immagini delVetò di Lutero (1920), p. 340 della trad, italiana (V. sotto nota 9). Le prefazione luterana è riportata, invece, alle pp. 377 ss. ed è stata da me letta purtroppo solo dopo la presente comunicazione.

(3) « Mittam ad te nugas meas, ut videas, cum recte divinem Antichristum illuni verum et intentatum a Paulo in Romana Curia regnare; peiorem Turcis esse Romam hodie puto me demonstrare posse » (WA. BR. I, 269).

(4) « Haec enim ad Turcum non pertinent, qui abiecto baptismate et Euangelio iam populus dei non est nec babetur, sicuti babentur, qui Episcopos habent in hac parte » (WA. VII, 725). È utile, tra i tanti, il confronto con Melantone (In Danielem Prophetam Commentarius: 1543; CR. XIII, 823 ss.): « Haec pictura significat postremam imperii [Romani] partem babiluram plus crudelitatis et calamitatum (...) sed non solum accomodanda est significatio ad civilia, verum etiam et Ecclesiam. Reges postremi maxime conculcabunt Ecclesiam, sicut iam annis sexcentis apparet

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L'anno successivo in una Adventspostille (WA. 10. I. 2 : 93) anch'egli, come Melantone, accetta, stavolta (5) supinamente, la « prognosticatio der grossen wesserung » che secondo Carione dovrebbe avvenire nel 1522, augurandosi che essa preluda al « der iungst tag » (6).

Ora, per tornare allo specifico teina melantoniano, è risaputo che la concezione della storia universale è in Melantone condizionala da un ben preciso ordine divino che è scandito dalle profezie delle quattro monarchie di Daniele e delle tre età di Elia. Queste stanno alla base della tipica tensione escatologica e apocalittica che domina le due redazioni delle cronache di Carione (1532 e 1558-60): una tensione che si accentua a mano a mano che la minaccia turca si aggrava, quell'estrema tirannide cioè che dovrebbe concludere il ciclo dei seimila anni. Fra le molte occasioni in cui il « Praeceptor » ebbe modo di attualizzare la profezia di Daniele, una delle più puntuali e pregnanti è quella che si trova nel Commentarius hi Danielem Prophetam del 1543 (ma la prima edizione è del 1529), in cui, dopo aver identificato la quarta bestia con l'impero romano e aver affer- mato che la corruzione della Chiesa ha originato la « peste maomet- tana » (si veda anche la nota 6), commenta: « Non igitur procul a fine absumus [siamo nel 1542]. Et dicta Eliae ac Christi dicta signifi- cant lamen decurtandum esse hoc tempus, sicut et curriculum ad diluvium decurtabatur, ut citius abrumpantur flagitia » (CR. XIII, 978).

Il detto del profeta Elia qui menzionato era stato accolto da Melantone molti anni prima, precisamente nella cronaca di Carione del 1532, che senza dubbio è del Riformatore come ha dimostrato recentemente il Klempt (7). Ci si potrebbe chiedere a questo punto da chi abbia accolto Melantone questo detto. Va ricordato che il prozio Reuchlin aveva fatto conoscere il Talmud al nipote, il quale, dopo aver imparato l'ebraico dallo Ziegler e dal Boechenstein, aveva ottenuto nel 1518 la cattedra di ebraico e di greco all'università di Wittenberg; ma prove che Melantone abbia derivata dal prozio quest,; credenza io non ne ho trovate nel De arte cabalistica nel De verbo mirifico (8). Quindi, se sappiamo che esiste al riguardo un

Reges esse satellites Pontifìcum et rrudelitatem horribilem in Ecclesiam exercere ad defensionem idolatriae » (CR. XIII, 859). Immediatamente dopo (p. 8601 rife- rendosi al regno blasfemo della quarta monarchia, Melantone commenta : « Res loquitur ipsa id esse regnum Mabometicum, hoc est, Saraeenicum et Turcicum, nam Turcicum ortum est ex Saracenico, seu pars est ».

(5) È risaputo che Lutero mostrava diffidenza nei riguardi dell'astrologia. Mi permetto di rimandare al mio articolo : Storia e non storia in Filippo Melantone ecc. in « Nuova Rivista Storica », Milano 1964, pp. 491 ss.

(6) Adventspostille. Evangelium am andern sontag ym Avvent: « (...) daruber die sternmeyster sagen, es solle eyne syndflut bedeutten, got geben das der iungst tag sey, welchen sie gewisslich bedeuttet » iWA. 10.1.2: 108).

(7) A. Klempt, Die Sakularisierung der universal-historischen Auffassung. Zum Wandel des Geschichtsdenkens im 16. und 17. ìahrhunderl, Gòttingen, 1960, p. 23.

(8) Hagenau, MDXVII (Segnatura della Universitatsbibliothek di Tiibingen: Ge 397 fol.). Nel libro III del De verbo mirifico (i fol. VI b) Reuchlin parla semmai di sette età.

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ben preciso testo rabbinico (9), non ci è possibile stabilire attraverso quale via esso sia giunto al nostro Riformatore.

Stando così le cose ho condotto una ricerca sistematica su tutta quanta l'escatologia melantoniana, rileggendo tutti i testi dalle pri- missime lettere fino alle ultime Vorlesungen sulla Weltgeschi-chte che egli tenne pochi giorni prima di morire (10), spinto anche dalla considerazione che solo così sarebbero risultate le diverse facce del- iesealologia e dell'apocalittica melantoniana, nella loro genesi, nella loro alternanza di bersagli, nelle suggestioni che vengono loro non solo dalle credenze astrologicbe, magiche e superstiziose del « Prae- ceptor » ma anche da ben precisi eventi storici e, forse in taluni casi, familiari.

* * *

Il punto di partenza del mio esame è stato il gruppo di commen- tari biblici stampati dal 1519 in poi (II): si tratta di commenti che ebbero una risonanza enorme, tanto vero che molte edizioni furono pubblicate clandestinamente o contro la volontà di Melantone e non furono quindi accolte nel Corpus Reformcttornm. In realtà questa esclusione a noi sembra un errore, tanto vero che alcuni commentari vengono ora ristampati per la prima volta nei Melanchthons Werke in Auswahl, a cura di Stupperich, Barton e altri (12): alcuni rimasti si potrebbe dire inediti li ho potuti esaminare nella biblioteca univer- sitaria di Tubingen.

Siamo pressappoco nel quinquennio successivo al 1518, proprio in quell'anno (il 25 agosto) Melantone era arrivalo a Wittenberg ed ivi, tre anni dopo, nel marzo 1521 arrivava dalla nativa Pomerania anche Iohann Bugenhagen. Così si formava ed operava a Wittenberg, in anni cruciali e fondamentali per la formazione della Riforma, un trio eccezionale: Lutero, Melantone, Bugenhagen: un ex-frate agosti- niano, un laico e un ex-rettore cattolico. Non vorrei uscire dal semi- nato, ma l'accostamento è importante perchè il Bugenhagen ci ha lasciato, tra gli altri suoi scritti, un intero commentario paolino che a noi risulta non essere stato più ristampato e neppure studiato da quei tempi (13).

(9) Cfr. Klempt, cit., p. 6. Melantone ha apportato però al testo una corre- zione in quanto fa iniziare il periodo di salvezza del Messia 4.000 anni dopo la creazione. Riguardo a questo problema si veda l'ormai classico studio di A. War- burg, ora ristampato nella trad, italiana i in La rinascita del paganesimo antico a. c. di Emma Cantimori, Firenze, 1966) col titolo Divinazione antica pagana in testi ed immagini dell'età di Lutero: 1920.

(10) Alcuni motivi li ho già esaminati nel mio art. citalo, a cui dovrò rifarmi.

(11) Di tali contributi melantoniani ha dato un primo elenco G. Th. Strobel (in Miscellaneen Literarischen Inhalts, Niirnberg, 17821. Si vedano anche: C. Green Lowell, Die exegetischen Vorlesungen des jungen Melanchthon und ihre Chrono- logie in « Kerygma und Dogma», Gottingen, III, 1957, pp. 140-149; O. Beutten- muller, Vorlaufiges Verzeichnis der Melanchthon-Drucke des 16. Jahrhunderts, Halle, 1960.

(12) Ad esempio le Annotationes... in Evangelium Matthaei, Basler, 1523, a c. di P. F. Barton, IV Band, Giitersloh, 1963.

(13) Annotationes 10. Bugenhagii Pomerani in epistolas Pauli ecc., Argentorati,

Il

Così è possibile studiare le connessioni, i filoni comuni e gli atteg- giamenti di questi tre grandi attivi riformatori a proposito di certi specifici temi, come nel nostro caso quello escatologico. È evidente, in linea generale, soprattutto a proposito della proclamazione della fede-fiducia, della condanna delle opere e delle cerimonie, della pole- mica anti-curiale la netta suggestione di Martin Lutero. Non è un caso che essi sostenessero e propagandassero vicendevolmente i com- mentari, ed è indice della comune consapevolezza dei seguaci della nuova fede il fatto che un volume da me visto raccolga uno di seguito all'altro la prefazione metodica di Lutero all'epistola ai Romani, le annotazioni di Melantone all'epistole ai Romani e ai Corinti e infine le annotazioni del Bugenhagen e tutte le altre epistole di Paolo (14). Ma, se nei grandi temi polemici sopra accennati è lampante nei commentari dell'umanista e del pastore la suggestione dei grandi scritti luterani del 1520, occorre sottolineare che per quanto riguarda lo specifico tema escatologico-apocalittico (con le relative identifi- cazioni Anticristo = curia papale, Anticristo = tirannia turca) e l'at- tesa prossima della fine i commentari biblici melantoniani dei primi degli anni venti dimostrano un certo distacco, per quanto mi risulta i cenni escatologici sono in essi inconsistenti (15). Ad esempio nelle Annotationes in Evangelium Matthaei del 1523 nel parlare dell'Anti- cristo (a proposito di Matteo XXIV: 7) Filippo non parla affatto di Papa di Turchi. Parimenti commenta la parabola escatologica delle dieci vergini (Matteo XXV: 31) con queste semplici parole: « Decern virgines significant universitatem ecclesiae, ut agit in toto mundo. Lampades omnes externum cultum, orationem etiam et doctri- nam » (16). Ben diversi sono in un passo parallelo ma posteriore (nel 1524) il tono e il contenuto del suo commento a Matteo XXIV (CR. XIV, 410 e 414) in cui sono chiaramente denunciate le ultime pXo£o<pe[X!ai ì quelle che precedono la catastrofe: quelle di Maometto e della Chiesa di Roma, e dove è ancora una volta riportata la pro- fezia di Elia (17).

MDXXV (Segnatura della Biblioteca Universitaria di Tubingen: Ge 1217 grpp). Vi sono altre edizioni.

(14) Si tratta dell'edizione Argentorati, Anno XXV, con la quale appunto sono rilegate assieme le Annotationes del Bugenhagen citate alla nota 13 i Segnatura Bibl. univ. di Tu.: Ge 1217).

(15) Anche nei Lucubratiuncula oder Rerum Theologicarum capita del 1519 (CR. XXI, 11) e nella Theologica institutio... in epistolam Pauli ad Romanos del 1520 (CR. XXI, 49) (che sono gli scritti preparatori all'edizione dei Loci del 1521) non ho rinvenuto accenno alcuno a una imminente fine.

(16) Edizione citata a cura di Barton, pp. 204-205.

(17) Il commento fa parte delle Annotationes... in Evangelia, riportate in CR. XIV, 163 ss. ma secondo una edizione del 1555. Melantone vi tratta cinque loci. Nel III scrive: « Ut autem tunc in tempio Iudaico fuit idolum, ita praedicitur futurum, ut post Apostolos ultimo mundi tempore in Ecclesiis colatur idolum. Quod est illud? Non potest haec res sine ingenti dolore cogitari. Delevit Ecclesias Mahometus, et proposuit colendum idolum, videlicet manifestas blasphemias adversus Christum (...). Sed pii sciant, hoc ipsum opus Mahometicae sectae praecipue damnatum esse voce Dei, sicut dare inquit Daniel de Mahometo alibi. Dicit

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La tensione apocalittica si presenta invece potente negli scritti melantoniani del periodo 1529-1533; sia pure con fasi alterne, essa accompagnerà Melantone fino alla morte, anzi negli ultimissimi anni si accresce e questo forse in concomitanza con quel processo in senso spirituale e teologicizzante che s'avverte ad esempio nel passaggio dalla prima (1532) alla seconda redazione (1558-60) delle Cronache di Carione. Melantone ha sempre sentito profondamente e si può hen capirlo, essendo egli tedesco il pericolo turco, che si accentuò via via dal 1525 in poi.

Già nel 1528 Filippo esprimeva in una lettera a Camerario la sua viva preoccupazione Horri biles minores hue afferuntur de expedi- tione Turcica »: CR. I, 982); Fanno successivo, il 1529, è greve di avvenimenti talvolta catastrofici che raggiungono il culmine in set- tembre-ottobre quando i Turchi assediano Vienna e sembra che tutta al cristianità debba crollare. Le date stesse sono eloquenti: 8 aprile 1529: prefazione al commentario a Daniele (CR. I, 1051); 19 aprile: dieta di Spira a relativa a protesta »; settembre: inizio dell'assedio di Vienna;

1-4 ottobre : « colloquio di Marburg » con la partecipazione di Lutero e Zwingli;

17 ottobre: Melantone scrive a Mvconius (CR. I, 1108): «In itinere bono animo fuit Lutherus, donec ventum est Torgam.

Ibi cognovimus, Viennam e Turcis summa vi oppugnari... Ea re valde omnes consternati sunt... Adhortaberis etiam Ecclesias ut orent Dominum, ut depellant Turcicum latrocinium.. . Valde te rogo, ut historiam Monachi illius, de quo loquebamur Marpurgi, qui Danielem enarravit, credo nomen esse Hiltin, totani et diligenter nobis per- seribas... ».

Sempre in ottobre appare la Danielis Enarratio (Hagenoae, 1529). È chiara, e si potrebbe dire matematica, la corrispondenza tra il terrore della minaccia turca e il desiderio di una soluzione sovranna- turale, si ha l'impressione che non basti più la religiosità fiduciosa nel provvidenziale intervento divino; e il tono è turbato (17 bis). C'è in Filippo Melantone, quel modello di compassato umanesimo caro a certa letteratura tedesca, come un crollo di nervi, che ci si domanda

blasphemias contra Dominum». Dopo essersi soffermato sugli altri « idola externa », cioè le deformazioni introdotte dalla Chiesa Romana nel culto e nelle cerimonie, nel locus quintus il riformatore si sofferma sulla consolatio che verrà dopo tante empietà: « Quod Christus rursus se ostensurus sit mundo, et glorificaturus Eccle- siam, ac impios abiecturus in aeternos cruciatus. Ideo hic dicitur: Sic erit adventus Filii hominis. Nec diu duraturum esse hunc mundum post Apostolos ipsi testati sunt, cum vocant novissimam horam. Et notuni est dictum Eliae Sex millia mundus, et postea erit destructio, Duo millia inane, Duo millia lex, Duo millia Messias, et si quid deerit, deerit propter peccata nostra ».

(17 bis) Simile stato vi è in Lutero. Cfr.: Eine Heerpredigt widder den Tùrcken: 1529 (WA. 30. II, 160 ss.) e la citata letera a Myconius (WA. BR. V, 162).

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m- la morte della madre da lui appresa il 26 luglio del 1529 e la morte di Georg avvenuta pochi giorni dopo (il 15 agosto) non abbiano demoralizzato uno spirito già debilitato. Del resto un'accentuazione di mistica spiritualità accompagnata da un senso di rivincita contro gli avversari anabattisti, monaci, papisti e maomettani, si presenta pure nell'anno in cui gli muore a Wittenberg la moglie (11 otto- bre 1557).

L'interesse per le presunte profezie del francescano Hilten (18) non è si badi isolato: c'è nel 1530 nell'Apologia della Confes- sione Augustana (De votis monasticis; CR. XXVII, 627) (19); c'è alla fine della Cronaca di Carione del 1532, c'è in un'annotazione auto- grafa fatta su una edizione dei Loci Theologici del 1558, ritrovata dall'Albrecht (20).

Il Myconius nella risposta a Lutero dimostra qualche perplessità e un certo senso critico che non ritroviamo in Lutero in Melan- tone. Tutte queste mie precisazioni sono dovute anche al fatto che tendo a riallacciare questa « forma mentis » dell'cc umanista » a taluni aspetti sconcertanti della sua personalità quali si dimostrano nella sua onirocritica, nella sua demonologia, nella credulità che egli tradisce in talune sue histoj-iae (io direi storielle) quali quelle ripor- tate in CR. XX, 519 ss. e in altri collectanea melantoniani, secondo me. autentici, anche se non accettati dal Bretschneider e dal Bindseil (21).

La duplice faccia dell'escatologia melantoniana è particolarmente visibile nelle sue opere storiche, vale a dire nell'intelaiatura delle Cronache di Carione. V'è da una parte una vera e propria teologia della storia, informata da una profonda religiosità. La storia del

(18) O. Clemen si è occupato dello Hilten nell'art. « Schriften und Lebenaus- gang des Eisenacher Franziskaners Johann Hilten » in « Zeitschrift fur Kirchen- geschichte » Gotha, 1928 (47), pp. 402-412. Ci sembra utile trascrivere la risposta del Myconius alla lettera di Lutero (in WA. BR. V, 190): « ...Romam aliquocies [Hilten] interpretatur apocalypticam illam esse Meretricem, et desiturum illud regnum circa annum Cliristi 1514... De Machometarum sive Turcarum regno, triumphis et gladiis in Europam usque propagandis, ut sic Europensium consumata malicia et impietas dignas penas det, que senserit, et in rotulis et alibi in hoc libro frequenter dissent: Deinde de Christianorum reformatorum regno deque Antichristi Tyrannide et regno Christi hic in terra atque de mundi fine circa annum domini 1651 [!] ... Ego enim puto, illum non admodum verisimilia scribere. Veruni hoc unum non possum non mirari, quod Rome statuerit finem circa annum Domini 1514, Et Turce regnum ab anno Christi 600 usque ad illius annum 1570 in Europam eciam extendit: In qua re non video quid menciatur ».

(19) « Sed alius quidam, inquit [Hilten]. veniet anno Domini M. D. XVI qui destruet vos, nec poteritis ei resistere ». L'inesattezza delle date tra loro discordanti non può non insospettire, ma a quanto pare in Lutero in Melantone si nota perplessità alcuna.

(20) O. Albrecht, Eine handschrijtliche Motiz Melanchthons aus dem Jahre 1559 in « Theologische Studien und Kritiken » Gotha, 1897, pp. 797-800. I. Hilten... hat klar geschriben mit Eigner band im 1516 Iar viri anfahen die Reformatio der kirchen Dises ist also geschehen... »).

(21) Anche in questo caso mi permetto di rimandare al mio articolo citato alla nota 5.

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mondo è per il nostro Autore la storia della Chiesa militante e la più alta significazione della presenza di Dio nel mondo (22). Una conce- zione questa che gli è derivata innanzitutto da una attenta considera- zione della Bibbia più che da Agostino, altrimenti rimarrebbe inspiegabile il fatto che nella sua Oratio de vita divi Aiiguslini, detta nel settembre 1539 (CR. XI, 446), egli non faccia menzione alcuna del De Civitate Dei. Dall'altra però, forse per quel suo volere collegare in modo assoluto Dio, Storia e Profezie [e si vedano le sue introdu- zioni alle storie (23)], egli indulge talora a dicerie tanto superstiziose da riuscire sconcertante. Ne abbiamo un chiaro esempio proprio in questa così impegnata cronaca di Carione, dove la parte che segue al capitolo intitolato De Constantino poli a Turcis vieta (vers. cit. f. 288 a ss.) e la Finis (f. 304 b ss.) è un vero e proprio coacervo di vaticini, pronostici astrologici, profezie più o meno serie. Si insiste anzi sul significato di una cometa (quella del 1531) come se non fosse bastata al nostro « umanista » la credula accettazione del presagio (falso) della catastrofe annunciata per il 1524 dal matematico e Maestro suo Stòffler (24).

A me sembra tuttavia che questo rifarsi di Melantone alla tradi- zione profetico-apocalittica del passato sia degno di attenta conside- razione. Mi ha colpito nella cronaca quel passo (f. 303 a) che suona: « Abbas Ioachim in fine Ieremiae loquitur: Veniet Aquila grandis, quae vincet omnes praeter unum, qui tandem contemptus, a populo relinquetur ». Ecco entrare in scena Gioachino da Fiore e il commen- tario a lui attribuito ma quasi sicuramente apocrifo (come è opinione comune degli studiosi più recenti) al libro di Geremia. Per un destino che in fondo non stupisce, se già lo osservava Guglielmo di Tocco al principio del XIV secolo (25), il nome di Gioachino viene sfruttato per la polemica anti-curiale e anti-papale. È stato proprio il Dempf (26) ad osservare che la posizione dell'Autore di questo

(22) Cfr. il caratteristico e noto passo dei Chronica Carionis, in CR. XII, 778. Più interessante per il rapporto con l'escatologia è quello che Melantone scrive nella redazione del 1532 (cito dalla versione di H. Bonus (Halae Suevorum, M. D. XXXVII): « Neque illud negligendum est, quod ad confirmandos animos nostros donaverit Deus omnis generis prophecias de externis regnis, ut ex impleto earum eventu testimonium haberemus, quod verbum nostrum ex Deo sit profectum, neque aliam fidem, quam nostrani veram esse. Item ut moneremur quando Chri- stum venire oporteret, et quando finis mundi sit expectandus » (f. 8 a). Eguale tesi vi è nella prefazione alla versione in tedesco del Chronicon Abbatis Ursber- gensis (CR. Ili, 877 ss.: anno 1539).

(23) « Zu dem dritten, oline Hiilfe der Chroniken kam man die Prophetien niebt verstehen. Diese Ursach soli uns audi anzeigen, Historien mit Fleiss zu lesen. Dass nun den Christen niitzlich und noth sey, Historien zu wissen, ist aus gemeldeten Ursachen klar, dass sie Anfang der Religion und den ganzen Lauf merken mògen; item, viel streitige Sachen zu richten; item, zu bessern Verstand der heil. Schrift. » (CR. Ili, 881: Prefazione alla cronaca ursbergense) (anno: 1539).

(24) Cfr. nel mio già cit. art. le pp. 508 ss.

(25) Cito da G. Tikaboschi, Storia della letteratura italiana (2a ed.), Mo- dena 1788, tomo IV, p. 123.

(26) A. Dempf, Sacrum Imperium, ed. di Darmstadt, 1954, pp. 331 ss.

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commentario a Geremia è « rein eschatologisch » e che è una sua caratteristica l'identificazione Anticristo = Curia Romana. Si sa del resto che le edizioni a stampa nella Germania del XVI secolo dei testi pseudo-gioachimiti furono molte; proprio nel 1537 è stato edita a Colonia « apud Lodovicum Alectorium » una copia del commentario a Geremia. Questo dell'influsso che gli scritti gioachimiti e pseudo- gioachimiti hanno esercitato sui riformatori tedeschi a me sembro argomento degno di nuova considerazione, anche se il Miegge (cit. p. 495) sostiene che « Lutero non sembra avere avuto contatti apprezzabili eoi simbolismo medioevale tedesco con Gioachino da Fiore ».

Comunque dalla Bibbia al Talmud, dall'antica astrologia alla demonologia, dall'abate Gioachino ai Francescani, dagli Spirituali al monaco Hilten, un lungo cammino sta dietro al pensiero escatologico e alle credenze apocalittiche melantoniane, è interessante osservare che Nicola Rebhan, sovraintendente generale ad Eisenach dal 1611 al 1626, nel denunciare la deformazione che la tradizione posteriore ha fatto di Hilten, nel farne un pre-riformatore e un martire, suppone che sulla formazione religiosa e culturale del monaco di Eisenach possano avere influito anche i Valdesi (27). Questo e altri filoni non corrono tanto nei più noti scritti melantoniani (ad esempio nei Loci Theologici) ma in altri collaterali ma non perciò meno interessanti. È tutto un sottofondo che rivela ancora una volta come il distacco tra umanesimo tedesco e medio evo sia molto meno sensibile di (pianto tanta storiografia afferma.

* * *

Abbiamo visto dunque come l'apocalittica melantoniana raggiunga piena espressione agli inizi degli anni trenta. Ora non mi sembra che essa subisca nel trentennio successivo variazioni di sorta o una evolu- zione. Simili posizioni estreme si possono trovare anche in Lutero (28) e Julius Kòstlin ebbe modo di segnalarle in un lontano, ma sempre valido, articolo del 1878 (29); è noto infatti l'influsso che su Lutero ha esercitato nel 1532 VApocalypsis in Apucalypsin dello Stiefel. ma riguardo ai temi controversi dell'astrologia, della magia, ciell'inter-

(27) Cito da WA. BR. V, 195 iBeilage III « Quisque tandem fuerit et unde- cumque oriundus, certuni est ilium in adolescenlia sua bonis Uteris operam sedulam novasse (...) illustratus autem fuit a patre luminum coelestis veritatis agnitione, prorul dubio per assiduam piamque scripturae sacrae meditationem..., 1 actionem ilem patrum sive scriptorum ecclesiasticorum, forte etiam Waldensium... ».

(28) Si potrebbe anche qui fare un parallelo con la posizione di Marlin Lutero (il cui bersaglio preferito è però rappresentato più che dai Turchi dalla curia papale!. Si vedano al riguardo di Lutero, oltre alla citala predica contro i Turchi del 1529 (WA. 30.11.160), l'altra del 1335 (WA. XLI, 301 1 e molte Tischreden (ad es. TR. 2: Nr. 2691), che, in contraddizione con altre, testimoniano che anch'egli più di una volta era persuaso che il « jiingste tag » fosse imminente.

(29) J. Kòstlin, Ein Beitrag zur Eschatologie der Reformatoren, in « Tlieolo- gische Studien und Kritiken », Gotha, 1878, pp. 125-135: ed anche dello stesso l'opera cit. Luthers Théologie. Recente è il saggio di T. F. Torrance, Les réfor- mateurs et la fin des temps, Nenchâtel, 1955 (tr. da un articolo tedesco del 1954).

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prelazione dei sogni ecc. Lutero, ex-monaco, rivela una maggior prudenza e dignità dell'« umanista » Melantone, al quale peraltro si deve riconoscere una maggiore tolleranza, che non va dimenticato, tra l'altro, che Melantone rispettò sempre i sentimenti cattolici della madre. Egli era e vuol rimanere un laico: appunto il suo cristiane- simo laico, il suo attaccamento alla pietà laica borghese del Medioevo sono fra i suoi più originali contributi allo sviluppo della Riforma. Su ciò del resto ci ha lascialo delle belle pagine il Maurer in alcuni suoi recenti studi melantoniani (30).

Vorrei dare qualche ultimo dato sulle altre fonti escatologiche melantoniane. La Supputatio annorum mundi del 1541 di Martin Lutero (WA. LUI, 10), tutta dominata com'è dalla profezia di Elia, e di chiara ispirazione melantoniana (31).

Tutti i passi escatologici melantoniani degli anni cinquanta (sia nei commentari biblici, sia nelle orazioni accademiche, sia nelle lezioni e negli scritti sulla storia universale) riportano incondiziona- tamente i temi delle profezie di Daniele, di Elia in senso anti-romano, anti-turco e pare accantonata la polemica anti-giudaica e anti- anabattistica ancora così viva nel 1535 (32).

Ma anche in quest'ultimo periodo delà vita di Melantone vi è un'alternanza di bersagli che sembra obbedire più all'umore del momento o del tempo che a una ben chiara visione. L'orazione De capta Costantinopoli, detta nel 1556, a centotrè anni dalla conquista della città da parte dei Turchi (CR. XII, 153), è dominata dal terrore della rinnovata minaccia incombente sulla Germania Ac de Turcis augeant nobis metum vaticinia in Ezechiele de Gog et Magog »: p. 154). Anche in questo scritto vi è l'affannoso richiamo alle predizioni di Hilten, stavolta però non è sottolineata quella che riguarderebbe Lutero, ma l'altra che parla di un preteso dominio che i Turchi dovrebbero avere nel 1560 in Germania e in Italia.

Invece neWOratio de Pontificiim Romanorum ambitione, monar- chia, tyrannide, detta nello stesso anno (CR. XII, 200) è preso di mira esplicitamente Paolo IV « qui intulit bellum potenti Regi et acerrimae nationi Hispaniae ».

Concludo questa mia comunicazione con un ultimo appunto testuale preso da questa orazione, perchè esso esprime in modo elo- quente la pluridecennale convinzione in una imminente catastrofe

(30) W. Maurer, MelanchthonStudien, Giitersloh, 1964 (particolarmente lo studio M. ah Laienchrist).

(31) Vi si dice tra l'altro: « Sane Clironicon Charionis Philippicum primum est et optimum exemplum supputationis, in quo pulcherrime totus annorum cursus in sex millenarios distributus est, id quod et ego secutus sum » (p. 23). E più avanti: « Finito isto Millenario solvitur nunc Satan. Et fit Episcopus Romanus Antichristus, etiam vi gladij » ( p. 152). Si noti anche qui l'esclusivismo dell'iden- tificazione: Anticristo = Papa.

(32) Cfr. i Loci Communes Theologici: paragrafo De Regno Christi (CR. XXI, 519).

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purificatrice; convinzione che inai viene meno nonostante le severe smentite della realtà della storia:

«... Nihil dubium est propter idola el lihidines puniri genus humanum horribilibus mutationibus imperiorum, et olim de Roma in Sibyllinis carminibus dictum est: pwFO i^èv pójjly) eoexai xal SrjXoç ôc8t)Xoç.

Sed nunc quoque ruere earn videmus, et scriptum est de ultimo iudicio, Pseudoprophetam et Gog et Magog simul abiici in aeternos cruci a tus. Ubi pontificium regnimi Pseudoprophetam, Gog et Magog Turcicum regnum nominari adparet. Sed ante ultimas poenas utrius- que regni potentia saeviciarum in Ecclesiam exercebit» (CR. XII, 206).

Attilio Agnoletto

Note sul teatro riformato italiano dei Cinquecento: Josias di " M. Philone M

1. Un teatro « riformato » italiano?

L'occasione delle presenti note va ricercata nell'interesse cre- scente che suscita il problema del teatro riformato italiano del Cin- quecento. In un ordine di considerazioni più vasto, le brevi riflessio- ni che seguono su di un'opera teatrale italiana cinquecentesca, di ca- rattere riformato, sin qui ignorata, ci rimandano a quel tentativo che si va delineando, ad opera di studiosi di tendenze anche assai diverse, per definire una nuova prospettiva storiografica che accordi al feno- meno della Riforma, in seno alla storia della letteratura italiana del Cinquecento, un posto più considerevole di quello che gli è tradizio- nalmente riconosciuto (1). E' evidente che la « compromissione », a volte drammatica, di molta parte del pensiero cinquecentesco italia- no con il grande fenomeno della Riforma meglio si direbbe: con le istanze di una riforma generale del corpo cristiano che travaglia- rono per decenni, a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento, il mondo europeo ed italiano non può essere liquidata, come tradi- zionalmente avviene, con poche affrettate paginette nelle storie lette- rarie, anche di un certo impegno (nei manuali, ci si accontenta di

(1) Sui rapporti tra letteratura e Riforma, dal punto di vista che qui ci interessa, è solo possibile citare alcune pagine del Macchie, nella sua vecchia Istoria del pro- gresso e della estinzione della Riforma in Italia nel secolo sedicesimo (Genova, Lava- gnino, 1958: cfr. in partie, la preziosa Appendice, pp. 455-504, che raccoglie nume- rosi testi rarissimi), e le più abbondanti e meglio informate pagine del Rodocanachi, nella sua Histoire de la Réforme en Italie (Parigi, Picard, 1920-21, 2 vol., anch'esso con una preziosa appendice di testi rari, tradotti in francese). Segnaliamo altresì l'in- teressante pubblicazione di P. Sainfilippo, La Riforma nella poesia italiana (Rivoli, Fac. Teol. Battista, 1962; in litografia), che vuol essere, per ora, solo l'abbozzo di un lavoro futuro di più ampio respiro, la cui realizzazione appare quanto mai auspica- bile. A titolo indicativo, e per chiarire meglio da quale tipo di studi ci si riprometta un allargamento delle nostre conoscenze in questo campo, ci sia consentito di citare un nostro lavoro, Note sulla fortuna del Flaminio in Francia. Anne De Marquets e Claude D'Espence (in « Boll. Soc. Studi Valdesi » n. 119 (1966), pp. 25-49).

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molto meno): implicitamente, l'opera che oggi ci occupa ne fornisce una eloquente riprova (2).

Questo teatro riformato del Cinquecento, bisognerà aggiungere subito, possiede per ora configurazione e caratteristiche abbastanza imprecise, che giustificano, almeno in parte, il fatto, che esso sia stato trascurato dagli interpreti « chevronnés » della nostra storia lettera- ria. Sostanzialmente, esso si presenta, a prima vista, come una pro- duzione « perduta », intorno alla quale ci si affatica, più che altro, a base di ipotesi. La modestia dei « reperti » (per usare un termine preso a prestito dall'archeologia, forse non del tutto fuori luogo nella presente circostanza) non esclude tuttavia la possibilità di una rifles- sione, e, in particolare, non elimina il problema: se mai, accentuan- do e sottolineandone le incognite, ne definisce meglio il carattere sti- molante.

Questo teatro riformato ci riporta evidentemente al « momento » eroico della Riforma, agli anni di incertezza e di confuse, indiscri- minate speranze che precedono il duro risveglio rappresentato dal- l'inizio della reazione romana, e il dissolversi dei sogni di fronte alla penosa realtà dell'esilio. Siamo negli anni in cui il dibattito è ancora aperto, e tutto può ancora dipendere dall'orientamento che prenderà il famoso Concilio, invocato da ogni parte, ormai da varie generazio- ni, come il grande toccasana. In questa fase, il compito essenziale dei sostenitori delle nuove idee consiste nel far conoscere le proprie tesi, nell'assicurarsi una larga udienza e il maggior numero possibile di consensi. E' quindi indispensabile un appello al popolo cristiano al popolo, « tout court » attraverso lo strumento classico di diffu- sione delle idee, mediante il quale si agisce sull'opinione pubblica, la letteratura: strumento che ha visto proprio in questi anni molti- plicate enormemente le proprie possibilità di azione, e di penetra- zione in tutti i ceti della società, da una provvidenziale invenzione messa a punto dal progresso tecnico, già in quegli anni notevolissimo, l'invenzione della stampa.

Sono considerazioni ovvie, ma che non possono essere passate sotto silenzio, poiché esse chiariscono anzitutto un fatto che costi- tuisce la premessa essenziale del nostro ragionamento: e cioè che un teatro riformato italiano non può non essere esistito, in quanto i ri- formati italiani del Cinquecento ne hanno certo avvertita l'esigenza; e, posti di fronte alla necessità perentoria di assicurare notorietà alle loro tesi, non hanno potuto trascurare uno strumento privilegiato

(2) Pare superfluo ricordare al provveduto lettore che la monumentale Stona della letteratura italiana di F. Flora (Milano, Mondadori, 1947-49, 5 voi.) non con- tiene neppure un capitolo, su di un intero volume consacrato al Cinquecento, ai lette- rati riformati. Analogo silenzio, sul piano dei manuali scolastici, nel ben noto Dise- gno storico della letteratura italiana di M. Sansone (Milano, Principato, 1940). Fra tanto silenzio, acquistano spicco e vigore le pur reticenti pagine del Toffanin, nel suo Cinquecento (nella Storia letteraria d'Italia dell'editore Vallardi, Milano, 1960); cfr. il cap. Gli umanisti e la riforma, pp. 61-81.

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come il teatro, che possiede requisiti di facilità, di immediatezza, di icasticità e di popolarità, che non si ritrovano in nessun altro mezzo di espressione letteraria. Pare inutile ricordare, infatti, che i rifor- mati italiani utilizzarono coscienziosamente, secondo le loro possi- bilità (che non erano molte, ad onor del vero) tutti gli strumenti espressivi (e cioè i generi letterari) che la tecnica e le abitudini men- tali della loro epoca mettevano a loro disposizione: dalla poesia la- tina e volgare ai trattati teologici, dalla predicazione alla polemica erudita, dalle operette di edificazione popolare alla traduzione in volgare delle Sacre Scritture, senza trascurare le armi più appuntite dell'ironia, dello scherno, della polemica spicciola, che si insinuano spesso anche nel corpo dei più composti « catechismi » redatti alla intenzione dei nuovi adepti.

A sciogliere ogni eventuale incertezza, aggiungeremo subito che la prova materiale dell'esistenza di questo teatro riformato ci è for- nita dalla fortunata e fortunosa sopravvivenza di almeno un'ope- ra di questo prezioso « filone » attraverso il quale si esprime la spi- ritualità della prima Riforma italiana: si tratta della famosa Tragedia del Libero Arbitrio del bassanese Francesco Negri, che non ha avuto diritto, da oltre quattro secoli, ad una ristampa in Italia, ma che ebbe ben due edizioni nel Cinquecento, ed attinse inoltre, grazie ad una tempestiva traduzione in francese (ad opera di Jean Crespili) ad una notorietà europea (si ritrovano abbondanti tracce di una sua circolazione in Inghilterra) (3).

Ad una esigenza analoga che definirei di « teatralità » ob- bediscono anche altre produzioni di riformatori italiani del Cinque- cento, di cui abbiamo vestigia o notizia. Penso in particolare ai nu- merosi Catechismi, tutti dialogati, e spesso movimentati e dramma- tici, che vennero redatti in quegli anni (ne scrissero il bassanese, testé ricordato (4) e l'Ochino (5); ma ve ne sono anche di anonimi, come quello, assai singolare, che figura in appendice ai Sessanta Sal- mi stampati dal Pinerolio a Ginevra nel 1566) (6). Non dissimili, nel-

(3) Dell'opera del Negri, Della tragedia intitolata Libero arbitrio (s. L, 1550) si è sin qui ritrovato qualche esemplare della seconda edizione (del 1550, per l'appunto; ma una prefazione avverte che questa edizione è stata preceduta da un'altra, anoni- ma, e che l'opera si presenta in questa veste « con accrescimento »). Sul bassanese si possono solo citare i contributi di G. B. Roberti (Notizie storico-critiche della vita e delle opere di F. Negri apostata bassanese, con una dissertazione intorno alla di lui tragedia del libero arbitrio, Bassano, Baseggio, 1839), di E. De Tibaldo (Della vita e delle opere di F. Negri. Venezia, Alvisopoli. 1835) e di G. Zonta (F. Negri Veretico e la sua tragedia il Libero arbitrio, in « Gior. St. Lett. Ital. », 1916).

(4) Cfr. Brevissima somma della dottrina Christiana recitata da un fanciullo in domanda e risposta, s.l.n.d. (ma: Basilea, verso il 1550). Un esemplare ne è conser- vato nel Fondo Guicciardiniano della B. N. di Firenze.

(5) Cfr. Il Catechismo, o vero Institutione Christiana [...] in forma di dialogo. Interlocutori il Ministro, et Illuminalo [...] (Basilea, 1561). Esemplari a Milano (B.N. Braidense) e a Firenze (Guicciardiniana).

(6) Sessanta salmi di Davide tradotti in rime volgari italiane [...] (Ginevra, Pi- nerolio, 1566). Il Catechismo per istruire i fanciulli e inserito in una interessante ap-

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la loro portata ultima, sono i Pasquilli del Curione e, soprattutto, i Dialoghi dell'Ochino. I contorni esatti <li questo tipo di produzione sono del resto difficili da definire: ad essa possono ricondursi ad esempio i Dialoghi latini del Castellione (7), oppure quei catechismi burleschi, di cui si è in gran parte perduta la traccia, e di cui A. Du- four ha recentemente ritrovato e fatto conoscere alcuni esemplari (8).

Il punto importante, infatti, è questo (e qui ci ricolleghiamo a quella definizione di « produzione perduta » proposta all'inizio della presente nota): tutte queste opere sono inesistenti, in edizione mo- derna, e spesso introvabili anche in edizione originale. I Pasquilli del Curione circolarono praticamente solo in traduzione latina (9), dei Dialoghi dell'Ochino, se i primi sette conobbero un'edizione italiana, gli altri ci sono noti solamente nella loro versione latina (10); quanto ai Catechismi, cui si è poc'anzi accennato, essi sono reperibili in po- che, preziose edizioni cinquecentesche in qualche biblioteca della pe- nisola e d'oltr'alpe.

Uno degli esempi più tipici del destino toccato a questo teatro riformato italiano del Cinquecento ci è offerto dalla tragedia di Ber- nardino Ochino: l'episodio ha quasi un valore emblematico e con- ferma l'intima drammaticità della vicenda di questa produzione let- teraria, concepita per un certo fine e in vista di un determinato pub- blico, e che si trovò ben presto ad essere frustrata di entrambe le mo- tivazioni che le avevano offerto lo spunto iniziale. Concepita per la propaganda in Italia e in vista del trionfo delle idee riformate nel nostro paese, questa produzione non potè praticamente mai circolare

pendice, che comprende altresì le Orationi ecclesiastiche, Il modo di celebrare la Santa Cena, ecc. Esemplari a Parma (Bibl. Palatina) e a Firenze (Guicciardiniana).

(7) Dialogi IV. De Praedestinatione. De Electione. De Libero arbitrio. De Fide [...] (Aresdorf, Teoph. Philadelph., [in realtà: Basilea, Perna] 1578). La Guicciardi- niana possiede un esemplare della seconda edizione, che risale al 1613.

(8) Cfr. Le Catéchisme du docteur Pantalon et de Zani son disciple, in Aspects de la propagande religieuse (Ginevra, Droz, 1957). pp. 361-372.

(9) Il British Museum conserva un esemplare di un Pasquino in estasi (s.l.n.d.; ma probabilmente 1545); lo stesso British Mus. e la Guicciardiniana di Firenze con- servano esemplari di un Pasquino in estasi nuovo e molto più pieno ch'el primo [...] Aggiunte le proposizioni del medesimo da disputare nel concilio di Trento (sl.n.d., con indicazione burlesca « Stampato a Roma nella bottega di Pasquino ad istantia di Papa Paolo Farnese »; probabilmente 1546). La prima edizione dell'opera sarebbe stata tuttavia in latino, Pasquillus ecstaticus una cum aliis [...] Dialogis (s.l.n.d., ma: Ba- silea, verso il 1544. Un esemplare nella Guicciardiniana), e Pasquillus ecstaticus non Me prior sed totius piane alter [...] (Ginevra, J. Girard, 1544; esemplari a Parigi, B. N., e a Firenze, Guicciardiniana). Un'edizione ginevrina secentesca contiene anche il « Pasquillus Theologaster » (Pasquillus ecstaticus cui accedit Pasquillus Theolo- gaster, Ginevra, Calumensium, 1667; esemplari a Milano, B. N. Braidense; Parigi, B. N.; Firenze, Guicciardiniana). Ricavo dal Toffanin (Il Cinquecento, op. cit. p. 81) l'indicazione dell'esistenza di uno studio tedesco sull'argomento, O. Schade, Satiren und Pasquille aus der Rejormationzeit (Hannover, 1863).

(10) Dialoghi sette (Venezia, Zoppino, 1542; esemplari a Firenze, Guicciardi- niana, e a Londra, Brit. Mus.); Dialogi XXX (Basilea, Perna 1563, 2 vol.; la tradu- zione latina sarebbe opera del Castellione).

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îiella penisola, e si vide ben presto costretta a camuffarsi, per poter es- sere conosciuta, sotto sembianze straniere : a ricercare l'ausilio ma ancbe l'intralcio della traduzione, in latino, lingua universale per eccellenza, ma non intesa dal popolo, o in una delle lingue nazionali dei grandi popoli dell'occidente, per poter almeno raggiungere un pubblico, una universalità di consensi. Un pubblico straniero, tutta- via, e non più quel popolo italiano, al quale originariamente queste opere erano dirette.

Così Bernardino Ochino: che concepì bensì una Tragedia ovvero Dialogo della usurpata supremazia del vescovo di Roma, ma potè scriverla solo in latino e darla alle stampe solo in versione ingle- se (1549). Da quel momento la sua tragedia ha cessato di essere un'opera italiana, ed è circolata solo nel mondo anglosassone (e te- desco: una traduzione tedesca è stata procurata dal Benrath nel 1893), il testo ochiniano non essendo mai stato ritradotto in italiano (11).

E' questa la prospettiva nella quale si colloca il nostro studio: ohe ha per oggetto un'altra opera teatrale italiana « perduta » nella sua versione originale, e conservata solo in una traduzione in lingua straniera (il francese, questa volta): Josias, di un certo « M. Phi- lone ».

2. // « Josias » e il problema della sua attribuzione.

Per mettere il lettore in possesso dei dati essenziali del problema, ricordiamo brevemente i termini nei quali esso si presenta, sotto il profilo dell'erudizione e della critica letterarie. Nella seconda metà del 1566 appare a Ginevra, per i tipi dell'editore Francois Perrin, una tragedia, Josias, attribuita a un « M. Philone » (12), e che reca

(11) Il British Museum conserva un esemplare dell'edizione originale, A tra- goedie or Dialogue of the uniuste usurped primacie oj the Bishop of Rome and of all the just abolishyng of the same [...] translated out of Latin into Englishe by Master John Ponet [...] never printed before in any language (Londra, W. Lynne, 1549). Un'edizione moderna, a cura di C. E. Plumptre, è apparsa a Londra nel 1899. La traduzione tedesca del Benrath è del 1893 (Halle). Il Rodocanachi (op. cit., I, 455) segnala l'esistenza di una edizione italiana della tragedia di Ochino di cui anche una sommaria descrizione bibliografica (Londra, 1549).

(12) L'opera non ha ne colophon ne registro. L'indicazione precisa circa la data di pubblicazione si ricava tuttavia dal fatto che. nei Registri del Consiglio ginevrino, risulta che François Perrin « a presente requeste afin d'avoir permission d'imprimer [...] la tragedie Josias » nel mese di giugno 1566. Benché non vi siano in seguito al- tre menzioni concernenti l'avvenuta concessione dell'autorizzazione, è da supporre che essa sia stala rilasciata, poiché il libro è in effetti apparso. La stampa ha dunque po- tuto aver luogo nella seconda meta dell'anno. Debbo questa importante precisazione in ordine ai Registri del Consiglio ginevrino al Prof. Jean Rousset, dell'Università di Ginevra. François Perrin è un editore molto conosciuto: cfr. su di lui P. Chaix, Recherches sur l'imprimerie à Genève de 1550 à 1564 (Ginevra, Droz, 1954), pass.

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due sottotitoli: il primo, allusivo al suo contenuto, « Vray miroir des choses advenues de nostre temps », e che, alla lettura dell'opera, si rivela del tutto calzante; ed il secondo, per noi particolarmente inte- ressante, relativo alla sua provenienza, « traduite d'Italien en Fran- cois ». Philone sarebbe dunque il nome o lo pseudonimo di uno scrittore italiano (che si tratti di un riformato, la cosa non solleva il minimo dubbio, quando si sia ultimata la lettura della sua tragedia), probabilmente rifugiato a Ginevra, che pubblica in questa città un'o- pera teatrale di ispirazione biblica, ma chiaramente orientata verso l'attualità (Giosia, è inutile ricordarlo, è il re di Giuda che attuò, nel tempo suo, una « riforma » dello stato e della religione d'Israele). Aggiungiamo che Josias, la tragedia dello pseudo-Philone, doveva avere una seconda edizione, sempre a Ginevra, nel 1583 (per i tipi di Claude d'Augny: in questa seconda edizione, particolare importante, la tragedia perde uno dei suoi sottotitoli, e precisamente quello re- lativo alla sua origine italiana), e doveva altresì essere seguita, nel 1586, da una seconda tragedia, Adonias, sempre a firma di « M. Phi- lone », questa volta pubblicata a Losanna, per i tipi di Jean Chi- quelle. Di Adonias, che non reca menzione di traduzione dall'italia- no, ed ha un sottotitolo vagamente minaccioso Vray miroir, ou Tableau, et Patron de l'Estat des choses présentes, et que nous pour- rons voir bien tost cy-apres: Qui servira comme de mémoire pour nostre temps, ou plustost de leçon et exhortation à bien espérer. Car le bras du Seigneur n'est point accourci ») non ci occuperemo per questa volta (13).

Chi fosse questo Philone, per il momento non è dato di sapere. L'ipotesi di uno pseudonimo pare la più verosimile; ma proporre un'identificazione ci sembrerebbe a questo punto assai azzardato. Vi è del resto qualcosa di più urgente da fare, ed è rivendicare all'Italia

(13) Le tre edizioni delle due opere dello pseudo-Philone sono tutte conservate alla B. N. di Parigi. Il catalogo a stampa le attribuisce a Des Masures.

(14) L'attribuzione del Josias a Des Masures (o meglio, l'identificazione formale tra Philone e Des Masures) risale al Settecento, ed è opera del Beauchamps, nelle sue ben note Recherches sur les théâtres de France (Parigi, 1735). Essa si fonda su di una menzione ambigua di un bibliografo cinquecentesco, il Du Verdier, che, nella sua Bibliothèque Françoise (Lione, 1585; citiamo secondo la riedizione settecentesca del Rigoley De Juvicny, t. IV, p. 607) elenca tra le opere di Des Masures il Josias. Lo stesso Du Verdier, per altro, consacra, in altro luogo della sua opera (IV, 565) un'apposita nota alla nostra tragedia, non attribuendola più a Des Masures, ma a Philone, e senza stabilire tra i due nessun rapporto di identità. Pare evidente che la prima indicazione costituisca una svista del Du Verdier; che ne commette anche un'al- tra, assegnando alla tragedia la data del 1556. Poiché Josias, come ben rivela il suo contenuto, ha potuto essere scritta solo dopo la morte di Enrico II (1559) e l'avvento al trono di Carlo IX (1560), l'esistenza di un'edizione che risalga al 1556 è material- mente impossibile. L'attribuzione è passata in predicato, anche perchè la personalità e l'opera di Des Masures non sono stati fatti oggetto sin qui di analisi approfondita. Lo stesso Lebecue, nella sua tesi (La tragèdie religieuse en France, Parigi, Cham- pion, 1927), l'accetta, sia pure con qualche incertezza. La sola voce dubitativa è quella del Picot (Cat. Rothschild, II, 28 s.).

JOS J AS.

TRAGEDIE de M. Philone.

Traduite d'Italien en Francois.

Vray miroir des choies aducniics de noftrc temps.

De l'Imprimerie de François Perrin.

2>. LXVL

Frontispizio dell'edizione originale dijosias (Parigi, Biblioteca Nazionale)

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e alla letteratura riformata italiana quest'opera, Josias, da vari secoli indebitamente inquadrata nei fitti e ben ordinati ranghi della lette- ratura francese. Tradizionalmente, infatti, la nostra tragedia viene attribuita ad uno scrittore protestante francese, Louis Des Masures, che ne sarebbe stato, secondo alcuni, il traduttore (il che potrebbe forse essere accettabile) ma, secondo altri, l'estensore, circostanza quest'ultima che solleva notevoli perplessità. Sta di fatto che, proprio sotto il nome di Des Masures essa è solitamente classificata nelle sto- rie della letteratura francese, e che solo a questo titolo ha qualche volta diritto ad una fugace menzione nei manuali (14).

Louis Des Masures (15), nato a Tournai, nel Belgio, verso il 1515, e morto a Sainte-Marie-aux-Mines, in Lorena, nel 1574. interessa la storia della letteratura francese, (trascurando alcune opere minori, la- tine e francesi, di più modesto respiro), per la sua traduzione in versi dell'Eneide virgiliana, e la storia del teatro del Cinquecento, per la sua trilogia drammatica consacrata alle vicende di Davide. Le tre « tragédies saintes » del Des Masures, David combattant, David triomphant e David fugitif, rappresentano infatti uno dei più cospi- cui monumenti del teatro protestante di lingua francese: esse appaio- no per la prima volta a Parigi, nel 1565, e l'anno seguente a Ginevra: nello stesso anno, dunque, e per i tipi dello stesso editore, Francois Perrin, che pubblica il Josias. Nel 1566, Des Masures, che aveva ini- ziato la sua carriera come protetto del Cardinale di Lorena, è ormai apertamente passato dall'altro lato della barricata: compromesso in un tentativo di tumulto protestante a St.-Nicolas-du-Port nel 1560, esercita dal 1563 le funzioni di pastore presso la comunità riformata di Metz. Non ha dunque nessun motivo, nel 1566, per nascondersi sotto il velo dell'anonimato dovendo dare alle stampe una sua opera di chiara intonazione riformata: tanto più che essa appare in paese « libero », e cioè a Ginevra, contemporaneamente e presso lo stesso editore che pubblica, come si è detto, le sue tre tragedie, la cui into- nazione riformata non è meno esplicita, e che recano chiara l'indica- zione del suo nome. Se Philone e Des Masures fossero la stessa perso- na, non si capisce veramente per quale motivo il poeta avrebbe dato

(15) La bibliografia sul Des Masures, già lo si è detto, è poco consistente. I dati -ommari forniti dai bibliografi cinquecenteschi (La Croix Du Maine. Du Verdier) sono stati ripresi e allargati dal GoujET, nella sua Bibliothèque franço'.se (XIII, pass.). La notizia a lui consacrata dai fratelli Haag nella France Protestante (la ed.) è, al so- lito, ben documentata. Lo studio più completo sulla vita e sulle opere si ricava dalle pagine del Lebecue (La tragèdie, op. cit.) il quale ha tenuto conto di tutti i lavori precedenti (P. Mavel, Une trilogie dramatique au XVIe siècle, Parigi, 1878; P. Le- couvet, Tournay littéraire, Gand, 1861-65, 2 voi. pass.; 0. Cuvier, Sur L. Des Ma- sures, in « Bull. Soc. Moselle », 1870; A. H. Becker, L. Des Masures, in « Revue Re- naissance », 1901). Posteriormente al lavoro del Lebegue si possono citare: il contri- buto di P. Langeard (/. Du Bellay à L. Des Masures. Un sonnet oublié, in « Bull. Bibliophile », 1931 : sui rapporti di Des Masures con la Pléiade) e le pagine consa- crate al nostro dallo Jonker nella sua tesi sul teatro protestante francese (Le protestan- tisme et le théâtre de langue française au XVIe siècle, Groninga, 1939).

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il suo nome a tre delle sue opere, rifiutandolo contemporàneamente ad una quarta, anch'essa dovuta alla sua penna. Non sarebbe del pari agevole spiegare la ristampa di Josias, nel 1583, e la pubblicazione di Adonias, nel 1586, che intervengono entrambi dopo la morte di Des Masures, e che recano entrambi sul frontispizio l'indicazione di Philone, se questo Philone non fosse realmente esistito, e se non fosse una persona diversa da Des Masures.

L'ipotesi pili probabile, che renda conto dell'apparizione simul- tanea del Josias e delle tragedie di Des Masures, è che l'editore Per- rin, volendo ripubblicare la trilogia davidica dello scrittore francese, abbia giudicato opportuno di integrare la pubblicazione di queste opere con quella di altri scritti, più o meno « consonanti » rispetto alle tre tragedie bibliche ed abbia per questo cavato dal cassetto un'opera come il Josias, che probabilmente aspettava di vedere la luce da alcuni anni. Le allusioni storiche trasparenti che l'opera rac- chiude, superate dagli avvenimenti, possono aver sconsigliato, per qualche tempo, di darla alle stampe; il significato politico innegabile (Iella tragedia del Philone (vi si può leggere, senza alcuna difficoltà, un invito, rivolto ai protestanti francesi, a passare all'azione e a « planter l'Evangile par force d'armes ») (16). può aver consigliato, alle stesse autorità ginevrine, una certa prudenza in ordine alla pub- blicazione di quest'opera. Nel 1566 sembra invece presentarsi una occasione favorevole, proprio per la contemporanea apparizione di altre opere teatrali protestanti, che sviluppano temi analoghi (le sto- rie di David e delle sue lotte con Saul), e Perrin pubblica anche Jo- sias, nella speranza che esso aiuti, accompagni o prolunghi il successo delle altre sue iniziative editoriali nel campo del teatro protestante.

Vi è poi una ragione intrinseca, non meno valida, a parer nostro, che induce a ritirare a Des Masures la paternità del Josias, per resti- tuirla all'anonimo che si nasconde sotto il nome di Philone: ed è la assoluta dissonanza tra le risultanze abituali della poesia di Des Ma- sures, sotto il profilo linguistico e sintattico, e gli esiti estetici e sti- listici che ci fanno constatare i versi del Josias: sembra evidente che

(16) Ricavo questa espressione da un Avis et Conseil dei ministri parigini indi- rizzato agli adepti della nuova fede nella capitale, e ispirato dall'editto di gennaio 1562. I ministri danno vari consigli di moderazione e di sottomissione, per quanto concerne la restituzione delle ricchezze tolte alle chiese, circa il divieto di recarsi armati al culto (ad eccezione dei gentiluomini, autorizzati a portare la spada), per quanto concerne le forme della propaganda e della polemica l'office du ministre est d'abattre les idoles du coeur des hommes par la predication de la parole de Dieu, et non autrement »); e concludono con questa frase significativa : « Au surplus, ne faudra planter l'Evangile par force d'armes ni violence, mais seulement par la pure et saincte predication de la parole de Dieu ». Segno che la tentazione contraria era ben viva negli ambienti rifor- mati, in quegli anni o in quei mesi. Il testo dell' Advis è riprodotto nell'/Yisforre Ecclésiastique di Théodore de Beze (I, 429-431; cfr. ed. Th. Marzial. Lilla. Leleux, 1841-42, 3 vol.); cfr. altresì E. G. Leonard. Hist. gén. du protestantisme, t. IL Pa- rigi, P.U.F., 1961, pp. 110-111.

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siamo di fronte a due autori diversi, che maneggiano un diverso stru- mento linguistico.

Quanto all'origine italiana del Josias, oltre alla menzione espli- cita del frontispizio dell'edizione del 1566, essa trova conferma in al- meno altri due motivi. Il primo è di natura, per così dire, tecnica: la tragedia è scritta per la massima parte in versi sciolti, e non si co- nosce nessun altro esempio di una tragedia francese del Cinquecento che utilizzi questo sistema di versificazione. Il verso sciolto, come è noto, avrà sempre molte difficoltà ad acclimatarsi in Francia, la poesia francese restando sempre fermissimamente legata ad un sistema stro- fico, o quanto meno al gioco rigido delle rime fisse. Esempi di utiliz- zazione sistematica del verso sciolto si avranno, praticamente, solo con la poesia simbolista, e cioè assai tardi nel XIX secolo. Al contra- rio, l'utilizzazione del verso sciolto nella versificazione drammatica, e segnatamente nella tragedia, non ha nulla di eccezionale per quan- to concerne il teatro italiano del Cinquecento (17). Di qui l'ipotesi, abbastanza verosimile, ci sembra, che l'utilizzazione del verso sciolto sia stata suggerita all'anonimo traduttore dal fatto che l'originale ita- liano utilizzava un simile metro. La stessa cosa può dirsi, probabil- mente, a proposito dell'uso del verso di dodici sillabe (il famoso « alessandrino »), che diverrà, nel Seicento, il grande metro della poesia tragica francese (il metro di Corneille e di Racine), ma che, nel Cinquecento, non ha ancora vinto del tutto la sua battaglia con- tro il « vers héroïque », il tradizionale decasillabo, tipico di tutta la precedente produzione francese (dalla Chanson de Roland in poi). Non è chi non veda, per contro, come il verso di dodici sillabe offra un metro adatto per trasferirvi con relativa facilità l'endecasillabo, e cioè il verso più caratteristico della tradizione, anche drammatica, italiana, il verso nel quale, con ogni verosimiglianza, era redatto l'originale del Josias (18).

Un secondo motivo ci induce a rivendicare con fermezza l'origine italiana della nostra tragedia; esso è anche più tipico e contribuisce ad accentuare il carattere veramente singolare di quest'opera. Josias formicola in effetti di italianismi; ma meglio ancora si direbbe di so- lecismi. Non si tratta, si badi, di « mutuazioni » dall'italiano (di « emprunts », per usare l'espressione francese) così frequenti nel francese cinquecentesco (tanto da ingenerare la reazione indignata «lei grande Henri Estienne, nei suoi Dialogues du nouveau langage français italianisé): ma si tratta di veri e propri errori di traduzione, nei quali appunto può incorrere chi, non conoscendo a sufficienza la lingua nella quale traduce, è indotto, dalla apparente « fratellanza » fra l'italiano e il francese, a stabilire false corrispondenze, a creare

(17) Cfr. F. Neri, La tragedia italiana del Cinquecento (Firenze, Galletti e Comi, 1904), pass.

(18) L'endecasillabo sciolto, afferma il Neri (op. cit., p. 32 s., e bibliografia, ivi) può passare per una « invenzione » del Trissino (che lo usa nella Sofonisba, come in altre sue tragedie), largamente ripresa dai suoi continuatori.

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arbitrari rapporti di identità. Gli esempi che si potrebbero fornire sono troppo numerosi, e riuscirebbero in questa sede inutili e fasti- diosi. Bastino perciò alcune « perle », scelte per altro senza nessuna intenzione di far pesare la mano sul maldestro autore di questa tra- duzione, che proprio per questo fatto l'ha, in qualche modo, « fir- mata ».

Così questi versi:

...à l'onction du Roy, Enfant encor bien jeune,

Auquel s'est fait honneur, et telle reverence Que plus grande on ne peut (420-423) dove quel « s'est fait honneur » sostituisce maldestramente un più corretto « on fit honneur », manifestamente perche si tenta di tra- durre un italianissimo « si è fatto onore ». Non meno trasparente il caso di questi altri versi:

Qu'avons nous maintenant à dire? c'est à toy Qu'il touche, à toy Juda, sur la mort de ton Roy De regarder plus loin [...] (2705-2708) che fanno registrare un uso del tutto inconsueto del francese « tou- cher » il touche » sta qui per « il revient »), senza dubbio perchè l'originale italiano recava un inconfondibile « tocca a te, o Giuda ».

3. Analisi dell'opera e occasione della composizione.

Josias è una tragedia in cinque atti, di complessivi 2833 versi. La versificazione è molto singolare: alle lunghe « tirate » di alessan- drini sciolti si alternano metri più brevi, quinari, senari, settenari, senza escludere l'uso, per altro eccezionale, di versi più brevi (v. 1019: 3 piedi; v. 1694: 2 piedi), il ricorso estemporaneo alla rima. I cinque atti di cui è composta hanno lunghezze ineguali: sen- sibilmente analoghi il 1°, e (405, 368, 465 versi rispettivamente), lunghi quasi il doppio il e il (712 e 883 versi). L'alessandrino sciolto, che domina quasi incontrastato nei primi due atti, cede il passo a metri più agili negli atti seguenti, e non è più utilizzato se non in alternanza con uno o più senari (o quinari), con i quali rima. Non insistiamo su questi aspetti tecnici: basti a noi puntualizzare, attraverso queste poche osservazioni, il modo estremamente libero con il quale l'opera è stata messa assieme, con molta buona volontà, ma non sempre con altrettanto senso dell'arte. Aggiungiamo tuttavia che questa estrema « instabilità » sotto il profilo metrico è una ripro- va della probabile origine italiana della tragedia (19).

(19) Cfr. le osservazioni del Neri a proposito di tragedie italiane cinquecentesche (Canace, Ulyxe, ecc.) che presentano caratteristiche similari (op. cit., pp. 16-23, 2!) e pass.).

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L'argomento è ripreso dalla Bibbia, e precisamente dal libro dei Re (e dal racconto parallelo delle Cronache) (20): si tratta di un riassunto della vita di Giosia, il re di Giuda che, durante il periodo della più grave decadenza del popolo d'Israele, attuò una coraggiosa anche se effimera riforma, combattendo l'idolatria nella quale era ca- duto il popolo eletto, e restaurando la pratica ortodossa dei coman- damenti della legge. Il tema del re riformatore aveva evidentemente di che sedurre uno scrittore riformato; ma non vi è dubbio che l'ano- nimo trae applicazioni puntuali alla storia contemporanea da un te- ma di per universale ed eterno.

Com'è noto, secondo il racconto biblico, Giosia, figlio di Amon, è uno degli ultimi re di Giuda. La sua vicenda si colloca storicamen- te nella prima metà del V secolo avanti Cristo. Giosia salì al trono, dopo la morte tragica di suo padre (ucciso a seguito di una congiura di palazzo) all'età di soli otto anni; potè per altro beneficiare, nei primi tempi del suo regno, dell'appoggio e della guida della madre Jedida e di alcuni grandi personaggi della gerarchia statale, il gran sacerdote Hilkia, Safan, che la fonte biblica definisce come lo scriba o il segretario, Asaia, definito dalla stessa fonte come « servitore del re ». E' appena il caso di ricordare che, proprio durante il regno di Giosia comincia il ministero profetico di Geremia: il profeta svol- se certamente un'azione fiancheggiatrice, di stimolo prima, e quindi di conforto, all'operato del re. Giosia non doveva tardare a dare pro- va delle sue tendenze riformatrici, promuovendo un ritorno alla pra- tica rigorosa della religione giudaica, cui si erano ormai affiancati culti idolatrici, ed ordinando in particolare che si procedesse a lavori di restauro del tempio di Gerusalemme, esso stesso caduto in abban- dono. Nel corso di questi lavori avvenne, sempre secondo il racconto biblico, l'episodio più significativo del suo regno, il rinvenimento di uno o più « meghillott », di uno o più rotoli contenenti antichi libri sacri della religione giudaica. Toccato dal carattere miracoloso dell'evento, e confortato altresì dal vaticinio della profetessa Hulda, Giosia decide allora di passare all'azione repressiva: dopo una solen- ne riconsacrazione del tempio e il rinnovo della mistica alleanza tra Israele e il suo Dio, si procede alla distruzione dei luoghi di culto di Baal e delle altre divinità pagane, nonché alla dispersione e all'an- nientamento fisico dei sacerdoti, profeti e indovini di queste divinità concorrenziali con l'unico, vero Iddio d'Israele. La riforma di Giosia non tarda a dare i suoi frutti, per altro circoscritti alla sola durata del suo regno, i suoi successori avendo trascurato di proseguire lun- go il cammino da lui indicato. La fine del re sarà comunque gloriosa : egli morirà in battaglia, combattendo contro il faraone Neco, sarà pianto dal suo popolo e la sua memoria benedetta nei secoli.

Questo, a grandi linee, lo « spunto » storico offerto all'autore di

(20) II Re, XXII e XXIII (1-30); II Cronache, XXXIV e XXXV.

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Josias dalla narrazione biblica. Non occorre una conoscenza appro- fondita della storia francese per rilevare un certo numero di singo- lari coincidenze tra l'antica vicenda di Giosia, ed avvenimenti con- temporanei, che concernono in particolare le vicende della famiglia reale francese. Anche in Francia, nel 1559-60, abbiamo la tragica morte di un re, Enrico II, vittima non di una congiura, ma di un in- cidente (il famoso torneo della Rue Saint- Antoine, nel corso del quale il sovrano fu ferito ad un occhio da un colpo di lancia di un suo com- pagno d'armi, il capitano delle guardie scozzesi Montgomery), che può tuttavia, con un po' di buona volontà, essere interpretato come un complotto; anche in Francia, dopo l'effimero regno di France- sco II, durato pochi mesi, abbiamo un re fanciullo, Carlo IX (nove anni, al momento della sua elevazione al trono: Giosia, lo si è visto, ne aveva otto); anche in Francia abbiamo una provvida madre, para- gonabile a Jedida (Caterina de' Medici), ed un saggio consigliere, come Safan. Per eliminare ogni dubbio, a proposito di quest'ultimo, l'autore della nostra tragedia non esita a prendersi una libertà rispet- to al testo sacro, e farà diventare il suo personaggio, da segretario, come è definito nel libro dei Re, cancelliere: appunto perchè vuole che nessuno, tra gli ascoltatori, possa sbagliarsi, circa l'identificazione di questo personaggio, che rappresenta qui il cancelliere Michel de L'Hôpital (21).

Queste coordinate storiche permettono assai agevolmente di fis- sare il « momento » spirituale, se non la data esatta, della composi- zione della nostra tragedia (anteriore di alcuni anni alla data di pub- blicazione). Siamo nei primissimi mesi del regno di Carlo IX, quando Caterina ha preso le redini del potere, e cerca di attuare, con l'ausi- lio di L'Hôpital, una nuova politica nei confronti degli ugonotti. Que- sta politica concluderà a due iniziative clamorose: la convocazione del Colloquio di Poissy (1561), nell'intento dichiarato di provocare un confronto dottrinale, che si spera chiarificatore, e nell'intento in- confessato di concludere ad un « interim » di stampo augustano, accet- tabile per le due parti in conflitto; e la promulgazione dell'editto di gennaio 1562, che accorda, con qualche limitazione, la libertà di culto agli ugonotti. Politica audace, che suscita prima apprensione e poi sgomento a Roma (22), e che, per essere stata spinta troppo innanzi,

(21) La bibliografia sull'argomento è vastissima. Basti qui rimandare alla sapo- rosa ricostruzione di questi mesi movimentati compiuta dal Romier, nel suo studio, ancor oggi fondamentale, Catholiques et huguenots à la cour de Charles IX. Les états généraux d'Orléans. Le colloque de Poissy. Le « concordat » avec les protestants. Le Massacre de Wassy (1560-1562), (Parigi, 1924).

(22) Enrico Caterino Davila, nella sua Historia delle guerre civili di Francia, così scrive a proposito della politica di Caterina in questi frangenti (politica che egli spiega per altro come un'abile finta della regina): « cominciò a fingere d'essere com- mossa dalla dottrina e dalle ragioni degli Ugonotti, et inclinata con l'animo ad abbrac- ciare la loro predicatione, nella quale opinione per assicurarli quanto poteva con le dimostrationi esteriori, sentiva volontieri nella propria camera i discorsi et i ragiona-

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scatenerà la violenta reazione cattolica (massacro eli Wassy, marzo 1562; prima guerra di religione, a partire dall'aprile dello stesso anno); ma che, per lo stesso motivo, solleva incomposte, tumultuose speranze nel campo opposto. Speranze da cui si lasceranno contagiare gli stessi ambienti ufficiali ginevrini: l'identificazione di Carlo IX con Giosia non è dovuta all'anonimo autore della nostra tragedia, ma si incontra a diverse riprese negli scritti di Théodore de Bèze, che ancora nell'aprile del 1562, dopo il fallimento di Poissy, il massacro di Wassy e l'inizio della guerra civile, la ricorda e la riprende in una sua lettera ai pastori di Zurigo:

« Quae abhinc annuum fuerint Galliarum Ecclesiarum incremen- ta, et quam féliciter sub regulo nostro (quem speramus alterum Jo- siam fore) coeperimus respirare, jam pridem cognoscere potuistis, fratres in Domino colendissimi » (23).

Per la sua genesi, Josias ci riconduce dunque a quei brevi mesi, a cavallo tra il 1560 e il 1561, in cui negli ambienti protestanti gine- vrini che seguivano con particolare ansietà l'evolversi della situazione in Francia, si è seriamente sperato in un trionfo, a non troppo lontana scadenza, della causa riformata. Sono mesi vibranti: vi si assiste al- l'inizio della predicazione in pubblico a Parigi, il cappellano rifor- mato dell'Ammiraglio Coligny celebra per il suo signore il culto nel palazzo del Louvre, e Caterina vi assiste talvolta con i suoi figlioli, i più grandi del regno, con alla testa Antonio di Borbone, re di Na- varro, si atteggiano apertamente a protettori dei riformati. Per dirla in breve, siamo in quei mesi straordinari in cui Caterina de' Medici, alla vigilia della riunione del colloquio di Poissy, può scrivere al papa quella sintomatica lettera (4 agosto 1561), di cui ci ha serbato notizia anche il Sarpi, nella sua storia del Concilio Tridentino, nella quale lettera la regina propone semplicemente, in attesa delle risultanze del concilio ecumenico che sono lunghe a venire, di attuare una prima riforma che venga incontro alle piìi urgenti richieste dei novatori (24).

menti de" predicatori [...] s'era messa a scrivere lettere ambigue e d'oscura intelli- genza al Pontefice, hora dimandando un Concilio, quale appunto lo desideravano i Calvinisti, hora chiedendo licenza di convocare il nationale [...] mettendo in dubbio l'animo del Papa e della parte cattolica [...] » (Venezia, Baglioni, 1638, p. 82).

(23) Correspondance de Théodore de Bèze (ed. Meylan, Aubert, Dufour e altri), t. IV (Ginevra, Droz, 1965), p. 82. Gli stessi editori citano un altro esempio di assi- milazione, in isperanza, di Carlo IX a Giosia, sotto la penna di un cronista ginevrino contemporaneo, il Rozet : « on esperoit que le jeune Roy en ce temps imiteroit le bon Roy Josias » (Chroniques de Genève^ ed. Fazy, Ginevra, 1924, p. 445).

(24) Scrive il Sarpi : « E per colmo del precipizio sotto il 4 agosto scrisse la re- gina una longa lettera al papa, narrando li pericoli imminenti per li dissidi della re- ligione, esortandolo al rimedio. Diceva esser tanta la moltitudine delli separati dalla Chiesa Romana, che la legge e la forza non li poteva più ridurre; che molti di essi, principali del regno, col suo esempio tiravano degli altri; che non essendovi nessuno che neghi gli articoli della fede e li sei concili, molti consigliavano che si potessero ricever in comunione. Ma se questo non piaceva, e paresse meglio aspettar l'aiuto del concilio generale, tra tanto per la necessità urgente e per il pericolo della tardanza esser necessario usare qualche particolar remedio con introdur colloqui dall'una e l'ai-

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L'anonimo autore di Josias ha dunque potuto credere, in per- fetta buona fede, che la sua opera veniva al momento opportuno; e persino sperare di potere, con questo suo scritto, operare in favore del trionfo della buona causa. Non vi è dubbio, infatti, sulla portata ultima della sua tragedia: siamo di fronte ad un eloquente, appas- sionato e, ahimè, lunghissimo sermone. Un'analisi del Josias, da un punto di vista « tecnico » (condotto cioè con il metodo tradizionale con il quale si analizzano le opere teatrali) porta alla constatazione che di tragedia, in senso proprio, non è il caso di parlare: non vi è azione drammatica, non vi è progresso verso uno scioglimento, unità di alcun genere, nell'opera dello pseudo-Philone ; la durata dell'azione, ed anche questo è un caso unico, nella storia del teatro cinquecentesco, si estende per trent'anni, quanto durò, secondo il racconto biblico, il regno di Giosia. La tragedia inizia infatti con la morte di Amon e l'elevazione al trono del fanciullo Giosia, e termina con la morte in battaglia del re di Giuda, sconfitto nella valle di Me- ghiddo dal faraone Neco, che attraversa il territorio di Israele per muovere guerra al regno assiro. Nel primo atto, Jedida, la madre di Giosia, lamenta la morte del marito Amon, e si rattrista e piange sul- la sorte del regno, affidato alle inesperte mani di un fanciullo: il can- celliere Safan, suo figlio Ahikam, Asaia, fedele servitore, fanno del loro meglio per consolarla, promettendole il loro appoggio, e l'aiuto di tutti i buoni, mentre il coro commenta la situazione con parole acconcie. Nel secondo atto, sono di scena i tre principi, fratelli del re, Samuele, Beniamino e Giuda, anch'essi fanciulli, ed anzi minori di lui in età. Di questi tre principi la Bibbia non parla, ma l'anonimo autore del Josias avverte il bisogno di introdurli nella sua tragedia, senza dubbio perchè Carlo IX aveva appunto tre fratelli (il futuro Enrico III, e quel duca di Alençon che doveva divenire per qualche tempo una delle ultime speranze del partito ugonotto, prima della apparizione perentoria sulla scena di Enrico di Navarra; il terzo fra- tello è in realtà una sorella, Margherita, futura moglie di Enrico IV e destinata ad una celebrità di tipo particolare, ben sottolineata dal suo nomignolo di « reine Margot »). A dispetto della loro giovanissi- ma età, i tre principi dissertano dottamente, dialogando tra di loro

tra parte; ammonir di guardarsi dalle ingiurie e contenzioni e dalle offese di parole d'una parte contra l'altra; levar li scrupoli a quelli che non sono ancora alienati, le- vando dal luoco dell'adorazione le immagini proibite da Dio e dannate da S. Gregorio; dal battesimo lo sputo, li esorcismi e le altre cose non istituite per la parola divina; restituir l"uso della comunione del calice, le preghiere della lingua populare; che ogni prima dominica del mese, o più spesso, li curati convochino quelli che vogliono comunicare, e cantati li salmi in lingua volgare, nella medesima siano fatte pubbliche preghiere per il principe, per i magistrati, per la salubrità dell'aria e frutti della terra; poi, esplicati li luoghi degli evangelisti c di san Paolo dell'eucaristia, si venga alla comunione; che sia levata la festa del corpo del Signore, che non è istituita se non per pompa; che se nelle preghiere si vuol usare la lingua latina, vi si aggionga la vol- gare per utilità di tutti » (Istoria del concilio tridentino, ed. R. Pecchioli, Firenze, San- soni, 1966, p. 567-568).

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in « terza rima » (abbiamo qui un esempio abbastanza raro e pre- zioso per lo storico della letteratura di uso della terzina dantesca, che già Margherita di Navarra aveva cercato di acclimatare oltr'alpe), sui doveri del principe cristiano, tenuto a rispettare i termini del « con- tratto » di origine divina, in base al quale egli è insignito della di- gnità regale, e tra questi, principalissimo, la conservazione, e l'even- tuale restaurazione, della pura religione. Nel terzo atto, con un'abile interpolazione del racconto biblico, appare in scena Geremia, il qua- le, in un lunghissimo monologo (v. 774-1250) rievoca le circostanze della sua vocazione (parafrasando i primi due capitoli del libro di Geremia dell'Antico Testamento) (25), e puntualizza il messaggio profetico che il tempo presente rivolge al popolo cristiano, una presa di coscienza dell'attuale corruzione della religione, la necessità del ravvedimento e di una radicale riforma. Giosia ascolta le parole del profeta, puntualizzate dal coro, e decide di passare all'azione.

Il quarto atto, di gran lunga il migliore di tutta la tragedia, si apre con il monologo di un personaggio ridicolo, Jerobaal, il capo dei sacerdoti di Baal, e cioè dei « baalistes », e supremo rappresentante della « baalauté »: gravi timori gli si addensano nell'animo al pen- siero dell'azione che sta svolgendo Geremia, autentico guastafeste, che si permette di mettere in contestazione gli antichi privilegi della religione tradizionale. Seguono poi le scene capitali del ritrovamento dei rotoli (il ritrovamento è attribuito a Safan, nella tragedia, con una variante rispetto al testo biblico, che ne il merito al gran sa- cerdote Hilkia), della lettura dei libri stessi alla presenza del re, del pentimento di Giosia, e della formulazione ufficiale dei suoi propositi riformatori. La profetessa Hulda, consultata da Safan, vaticina la fine gloriosa del re; mentre la scena finale mostra la « débandade » dei sacerdoti di Baal, che piangono, con atteggiamenti tragicomici, sulla fine del loro buon tempo, sulla disparizione di prebende e be- nefici, sulla distruzione di tutto un mondo di privilegi da cui ave- vano saputo trarre tanto profitto: tutto ciò, unicamente a causa del rinvenimento di un libro di cui non avevano, nella loro ignoranza, mai sentito parlare. Non sono molti gli elogi che è possibile fare del- la tragedia di Philone, da un punto di vista letterario: ma senza dub- bio questa quarta scena dell'atto IV merita una segnalazione, poiché rivela, nel suo autore, un buon talento drammatico. L'ironia, benché piuttosto pesante, si riscatta per l'intonazione burlesca e segreta- mente compiaciuta; il ritmo saltellante dei senari a tutta la scena una andatura da balletto; per restare sulla similitudine musicale, è come se, nel « lento maestoso » di tutta la tragedia, venisse brusca- mente aperta una breve, maliziosa parentesi, in tono di baritono.

L'atto quinto si apre con un monologo premonitore di Safan: il

(25) Si tratta sovente di traduzioni letterali. L'autore adatta abilmente il testo del profeta, inserendovi anche citazioni di Isaia, dell'Ecclesiaste, e di altri capitoli del libro di Geremia.

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re è partito in guerra contro il faraone, il ministro, che ha assistito al- le grandi realizzazioni del regno del suo signore, non è senza inquie- tudini circa l'esito della battaglia. Il messaggero giunge infatti, con la notizia della morte del re. La tragedia si conclude con il lamento funebre di Giosia, pronunciato da Geremia. Di una lamentazione sul- la morte di Giosia, composto da questo profeta, ci hanno in effetti serbato memoria le Cronache (25); esso non è tuttavia giunto fino a noi. L'anonimo autore della tragedia ha voluto colmare questa la- cuna, con un « morceau » di oltre duecento versi, nel quale Geremia ripete l'elogio di Giosia, e si rallegra che una morte pietosa (com- piendo la profezia della profetessa Hulda) lo abbia sottratto alla vi- sione delle rovine che tosto si abbatteranno sul regno.

4. Motivi riformati nelV opera dello pseudo-Philone.

Abbiamo già avuto occasione di avanzare riserve sul valore lette- rario del Josias. Sarà appena il caso di precisare che queste concer- nono solo marginalmente il fatto della lingua: come ci si poteva at- tendere, essa è spuria e solleva notevoli perplessità. Costruzioni difficili o goffe, che possono tuttavia anche passare per manifestazioni di arcaismo; ripetizioni che non sai se dettate dalla necessità di rad- drizzare versi zoppicanti, o suggerite da un bisogno di enfasizzazione; per non parlare degli italianismi che, anche dove non sono così palesi da riuscire stucchevoli, fanno pesare su tutto il discorso una sensazione di disagio. La genesi del tutto particolare dell'opera rap- presenta per altro una scusante a mancanze di questo ordine. ><è si deve credere che all'opera dello pseudo-Philone si possano muovere solo appunti. Vi sono momenti di commozione, nella sua tragedia, nei quali il tono si innalza; gli sprazzi lirici, i bei versi (nell'invet- tiva di Geremia, nei discorsi di Safan) non sono rari. Inoltre va dato atto all'autore di una grande probità nell'accettazione scrupolosa di tutti i dati del racconto biblico, e di una notevole sensibilità nell'in- terpretazione. Se la conoscenza della Bibbia può sembrare un dato scontato, poste le premesse, non così l'utilizzazione della Bibbia stes- sa non come un comodo pretesto, ma come una stimolante occasione per tentare di levarsi all'altezza di ispirazione, alla nobiltà di intenti, all'« intensità » spirituale e sentimentale offerta e suggerita dal mo- dello.

Vi sono per altro difetti di struttura ineliminabili da un'opera come il Josias, che è possibile sintetizzare in una sola osservazione: la tragedia non tiene in alcun conto le esigenze della rappresenta- zione scenica. Questa finalità, essenziale in un'opera teatrale, è co-

(26) II Cronache, XXXV, 25.

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stantemente posposta ad esigenze di altra natura: V intelligibilità del discorso, che richiede continue, fastidiose ripetizioni, la trasparenza delle allusioni, che degrada le immagini da un certo livello di rappre- sentatività e di espressività (di natura estetica) ad una funzione pura- mente epcsegetica, a livello prosastico se non persino prosaico. In questo contesto, giuste risultano le osservazioni del Lebègue circa il carattere aberrante della tragedia da un punto di vista formale, cioè estetico :

« Aucune autre pièce protestante en langue française n'est aussi hybride : c'est un véritable monstre, qui tient de la tragédie par la catastrophe, par le récit du messager, par la division en cinq actes, par les lieux communs du premier acte, et qui par la durée de l'action rappelle le mystère et annonce le mélodrame » (27).

Lo stesso Lebègue aggiunge opportunamente che, in opere di questo genere, l'oggetto vero che l'artista si proponeva era l'edifica- zione degli spettatori: di qui il relativo disinteresse per le questioni di forma, posto che il fondo del problema fosse adeguatamente pun- tualizzato. Anche il nostro discorso, in tal modo, accantonate le pre- giudiziali estetiche, viene ricondotto all'essenziale: cosa possiamo pensare di quest'opera dello pseudo-Philone?

Vi è in primo luogo da chiarire la ragione per cui questo italiano si interessa con tanta passione alle cose di Francia; ma, almeno per questo punto, la risposta è facile. Una istanza universalistica è sem- pre presente tra le preoccupazioni dell'autore del Josias: il re rifor- matore è bensì chiamato a ricondurre il suo popolo e il suo paese alla osservanza del patto stabilito con il Signore, ma la sua impresa non ha una portata nazionale o nazionalistica, bensì universale. Si tratta di ricondurre il popolo cristiano (e non i soli francesi) all'osservanza del patto stabilito da Dio con il mondo mediante la persona del Cristo :

Plus ne peuvent porter mes yeux, plus voir ne peuvent

Tant d'erreurs, tant d'abus, pouretez et ordures,

Tant de menus fatras d'impiété confuse.

Bien tost par terre iront les images muettes,

Troncs aveugles et sourds, les autels et les pierres,

Les lieux haut eslevez, et les arbres feuillus,

Et Baal, et Moloc, et toutes choses mortes,

Ont encore à mourir, converties en cendre.

Exécuter se doit ceci en ma presence:

Mes yeux verront au moins briser ces vaines pierres,

Et les résoudre au vent en poudre bien menue.

Bien tost par terre iront tous faux pasteurs et prestres,

S'ils ne veulent les yeux à leurs erreurs ouvrir

(27) La tragédie, op. cit., p. 325.

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Et retourner tout court au chemin qu'on laissé

Du service de Dieu pur, droit et veritable. (v. 1438-1452)

E quando la sua riforma avrà trionfato nel suo paese (il regno di Giuda), essa si propagherà anche altrove, per tutto Israele, così da trascinare, all'occorrenza con la forza, tutti i credenti sulla via della salvezza ritrovata:

Ce bien ne se fera en Juda seulement,

Mais s'estendra aussi parmi tout Israel,

Duquel j'ay bon vouloir nettoyer le pays

De superstition et toute idolatrie. (v. 1458-1461)

L'esempio della Francia sarà dunque contagioso: se la Riforma trionfa nel regno di Caterina e di Carlo IX, non diversamente acca- drà nelle provincie circonvicine, ed in particolare in Italia. La stessa cosa pensa, ali 'incirca negli stessi mesi in cui è stata concepita (non tradotta e pubblicata, come si è detto) la tragedia che qui ci occupa, l'estensore della prefazione della Bibbia italiana che appare a Gine- vra nel 1562: questa prefazione contiene infatti un vibrante appello ai principi e alle repubbliche cristiane d'Italia perchè cessino di sot- tostare alla sopraffazione del vescovo di Roma, e trovino la forza, mediante un concilio nazionale, sull'esempio francese, di attuare in Italia la Riforma. La <c scelta della Francia », da parte di questo ri- formato italiano, ha dunque un valore puramente tattico, almeno per il momento: il problema francese è visto in controluce, in modo che sia possibile leggervi, come una filigrana, il suo eventuale « prolun- gamento » italiano.

Ma non è certo questo il vero motivo di interesse che presenta per noi un'opera come il Josias. All'occhio nostro, essa vale essen- zialmente come documento delle condizioni in cui si svolgeva la lotta per il trionfo della Riforma per un esule italiano a Ginevra all'inizio della seconda metà del Cinquecento. L'anonimo autore della nostra tragedia, anche se scrive di cose francesi, non cessa per questo, già

10 si è detto, di pensare all'Italia; ma più ancora non cessa di essere italiano, e di riflettere perciò, anche involontariamente, nella strut- turazione ideale del suo discorso, tutta una serie di condizionamenti che gli vengono dalla sua origine e dalla sua formazione. Per questo,

11 suo scritto ha per noi un valore grande: adottando, per sviluppare la sua tesi, una certa metodologia, facendo appello, per la polemica, a determinati motivi (a certi motivi, piuttosto che ad altri), lo pseudo- Philone ci illumina sullo stato di evoluzione del pensiero riformato in questi anni, secondo l'interpretazione che di questa evoluzione può fornire un esule, che per di più, secondo ogni probabilità, vive a Gi- nevra.

Uno dei motivi più significativi, in questo ordine di considera- zioni, è senza dubbio l'anti-curialesimo, o, per dirla con parola più semplice, la polemica anti-papale. Il tono adottato a questo proposito

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è senz'altro rivelatore. Jerobaal che, nella tragedia, rappresenta il pontefice romano, è raffigurato senza indulgenza : personaggio grot- tesco e sostanzialmente ridicolo; egli appare in tutto degno dei suoi accoliti, i « baalistes », o sacerdoti di Baal, nei confronti dei quali l'anonimo riesuma, senza avvertire la necessità di un ripensamento

0 di un ridimensionamento, i più tipici « clichés » dell'anticlerica- lesimo medievale. Come già i monaci per gli scrittori anti-curiali del medio evo, così gli ecclesiastici del suo tempo appaiono all'anonimo autore di Josias sostanzialmente degli individui spregevoli: volgari profittatori di una situazione di privilegio, unicamente solleciti di cose materiali, profondamente ignoranti. Il fatto che egli sappia dare, della corporazione, colta nel momento della « débandade » che segue la decisione del re di attuare la riforma, una raffigurazione che non esclude il sorriso malizioso o ironico, non annulla certo il tono estremamente severo delle invettive poste sulla bocca di Geremia, e indirizzate alla chiesa del suo tempo (del tempo del profeta, si in- tende...) infedele alla sua vocazione, nelle quali ricorrono, con una monotonia che può solo essere spiegata dalla convinzione o dalla rab- bia, colorati epiteti molto comuni nel linguaggio dei polemisti cin- quecenteschi, ma oggi del tutto irripetibili. Se l'autore aggiunge qual- cosa di suo rispetto alle fonti cui si ispira che sono, ripetiamolo, gli scrittori anticuriali medevali si tratta per l'appunto del tono apocalittico, della violenza. Sovente il discorso profetico, che ricorre in tutta la tragedia l'invito al ravvedimento è, biblicamente, sem- pre affiancato alla minaccia della punizione si innalza fino alla ma- ledizione, con un crescendo che non esclude il sapore acre del sangue versato, il gusto amaro della distruzione e della vendetta. La cosa può non sorprendere, nel quadro della storia di Giosia, (il re vendi- catore che fece incenerire i santuari degli idoli, immolandovi prima

1 falsi sacerdoti ed insozzando i luoghi sacri, secondo l'antica con- suetudine, con ossa e ceneri umane); resta comunque significativa. Come significativa rimane l'insistenza con cui viene posto l'accento sulla responsabilità esclusiva e pesantissima dei « faux pasteurs », dei « pasteurs traistres », dei « mauvais conseillers », in ordine alla at- tuale decadenza e corruzione della religione (si tratta sempre della religione giudaica, ben inteso); e sulla necessità che su di loro si ab- batta un giusto castigo.

Posizione, questa del nostro anonimo, relativamente facile e so- stanzialmente ingenua; che riflette una altrettanto significativa « in- genuità » teologica. L'interesse per le questioni dottrinali è tanto scar- so da apparire inesistente. Rimossi gli abusi, tutto rientrerà nell'ordi- ne; e per far questo basterà « riscoprire » la Parola di Dio, riportarla nel « circolo » rituale e culturale del nostro mondo, la cui principale colpa è di essersi allontanato dala pratica di questa legge. Il problema interpretativo circa l'attuazione di questa legge non è minima- mente evocato: ma altri silenzi sono ancor più significativi e forse imbarazzanti. Così il problema della giustificazione, per altro capitale

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per la teologia calvinista, il problema della « sola fide »: sembra al contrario, qui, che ci muoviamo su di un tipico terreno di « buone opere » (conoscere la buona legge ed applicarla rettamente: prospet- tiva da giurista, che sostanzialmente ignora la dimensione della gra- zia). Così il problema dell'elezione e della salvezza, solo fugacemente accennato (la « vocazione » di Geremia, la vocazione del profeta, chia- mato a salvare il suo popolo) a dispetto della sua incidenza su tutto il moto di pensiero riformato; per non parlare di altre questioni, capitali in quel tempo di violenta confrontazione dottrinale e ben presenti anche nella problematica dei riformati italiani (si pensi alla Tragedia de/ Libero Arbitrio del Negri, cui si è già accennato; si pensi alle lettere di Olimpia Morato; si pensi alle appassionate controversie sul problema della cena).

A questa relativa sordità sul terreno teologico (ed ognuno può trarne le conseguenze che giudicherà più opportune) fa riscontro la grande attenzione accordata alla questione delle incidenze civili del- la rivoluzione protestante sulla vita della città, sulle istituzioni, sullo stato: in parole più semplici, una nettissima sensibilizzazione sul pia- no politico dell'autore della nostra tragedia. Ma prima di passare a questo, che sarà il momento conclusivo del nostro discorso sul Josias, accenniamo ancora ad un tema che ci sembra particolarmente signi- ficativo, e che definirei volentieri il momento gioioso della inventio verbi. La storia di Giosia, lo abbiamo testé ricordato, comportava questo episodio, come tappa obbligata: ma il racconto biblico, su questo capitolo, è molto scarno. Avuta notizia del ritrovamento dei preziosi rotoli, il re se ne fa leggere il contenuto; a lettura ultimata, si strappa le vesti in segno di umiliazione e di pentimento, e decide di passare all'azione: in tutto, pochi versetti (28). L'autore del Josias, invece, consacra all'episodio circa quattrocento versi, e ne fa il mo- mento culminante della sua tragedia: il momento di massima tensio- ne sentimentale ed estetica. Tutte le risorse della sua arte sono mo- bilitate per dare nobiltà e commozione al discorso di Safan (felice interpolazione rispetto al testo biblico) che esalta la grandezza e l'im- portanza del ritrovamento, e libero corso alla gioia del credente, finalmente liberato dall'errore perchè tornato in possesso della paro- la di Dio. E non è difficile accorgersi che la gioia del credente si con- fonde qui con il sentimento di trionfo dell'umanista che riscopre an- tichi codici, e che mediante questo ritrovamento trionfa anch'egli dell'oscurità e dell'errore:

O que durant nos jours bien heureuse rencontre A esté ceste-ci, oeuvre de ce grand Dieu Qui en nuict si obscure, entre tant de ténèbres De ce temps si couvert et rempli d'ignorance, Plein de corruption et toute impieté

(28) II Re, XXII, 10-11; II Cronache, XXXIV. 1819.

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A voulu faire grace à nous de le trouver, Pour se manifester avec plus grano" lumiere A quiconque le cherche avec humilité, Comme de jour en jour ses graces les plus hautes Découlent sur celui qui avec un coeur humble Va s'enquerant de lui et de sa droite voye.

(v. 1550-1560)

Il libro, il grande libro, è dunque la Parola di Dio, « ritrovata » dai riformatori, da loro restituita nella sua purezza. E poiché sin qui essa era stata tenuta nascosta (dalla malizia, ma più ancora dalla stupidità dei sacerdoti di Baal: informati del ritrovamento, essi espri- mono in primo luogo meraviglia, poiché del gran libro non avevano mai sentito parlare), incombe il dovere a chi l'ha ricuperata di farla conoscere a tutti: così farà Giosia, dando ordine che essa sia letta ovunque, ai grandi come al popolo, nelle chiese come sulle piazze. E proprio qui viene ad inserirsi uno dei temi più interessanti accolti dall'autore del Josias, e che ci riconducono sia ad uno dei grandi motivi della propaganda calviniana, sia ad una situazione che aveva specifiche rispondenze in Italia, la polemica antinicodemita. Safan, che ha ritrovato i rotoli della legge, dopo aver dato corso alla sua gioia, ha un momento di esitazione, e si domanda se debba parlare al re della sua scoperta. Egli si rappresenta vividamente i pericoli della sua impresa: la Parola di Dio disturba quanti hanno perduto la fami- liarità con il suo accento perentorio, egli rischia di farsi dei nemici, quasi certamente attirerà su di ostilità e forse presecuzioni. Ma alla fine trionfa delle sue incertezze, con una decisione piena di slan- cio: la Parola di Dio è un bene universale, non è possibile che essa sia incatenata, che la sua luce non si propaghi a tutto il mondo:

Je doy un tel thresor à mon Roy presenter?

Le doy-je retenir par faute de courage,

Et le cacher pour moy, pour n'offenser personne,

Pour ne fascher ceux-là ausquels la nuict agree,

Pour n'irriter le monde aimant de ne voir goutte?

Je say que je feray un fort grand desplaisir

A ces sots amoureux de leurs vieilles coustumes,

Qui pour estre leurs yeux tousjours accoustumez

De demeurer plongez au milieu des ténèbres,

Ne pourront soustenir ceste grande lumiere.

De donc s'ensuivra sur moy haine mortelle:

Puis il conjureront se bandans tous ensemble,

Et feront contre moy pratiques et menées,

Ainsi m'en vay-je mettre au danger de la mort.

Mais, las, que vueil-je dire?, ô lascheté trop grande!

Ay-je le coeur failli, et seray-je si lasche,

De courage si vil, que je viene à soustraire

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Ce bien à ma patrie, et bien si excellent

Qui n'est particulier proprement, ni à moy,

Mais est tout destiné à l'usage publique,

Et à l'utilité en general de tous,

Dont la tranquillité et félicité toute,

Avec un vray repos en cela seul consiste?

Ha, Saphan, mille maux, mille dangers plustost

Viennent tout à un coup dessus toy se ruer,

Dessus ce poil tout blanc, sur ta teste chenue,

Et mille morts, helas, si mille fois mourir

On peut. Car jamais mort meilleure ou plus heureuse

Ne peut venir que celle le sainct Nom de Dieu

Se voit sanctifié, honoré, exalté.

Par accomplir le cours de sa volonté, saincte,

consiste aussi le bien universel

Et le salut du Roy, du royaume et du peuple.

(v. 1565-1597)

In questa decisione di Safan, al di del suo valore tattico, rica- vabile dal contesto della polemica calviniana contro gli « italici infi- di » (29), è lecito leggere la traduzione di un sentimento analogo a quello che ispirava al Flaminio questi alteri e sprezzanti versi:

Hoc est amoris poculum Caelestis, omnes sordidos Pellens amores: ebria Hac potione mens, sui Et omnium fit immemor Quaecumque mundus continet (30).

la certezza dell'elezione, che trasforma il credente in riformato e ne fa da quel momento un elemento propulsore di quel grande moto di rinnovamento, ma anche di sconvolgimento, rappresentato dalla rivo- luzione protestante. Non ci siamo allontanati molto, a questo punto, da quel motivo politico che evocavamo poco fa: poiché anche la testimonianza attiva, che mette in crisi le strutture della « polis », è azione politica.

Il discorso che resta da fare, tuttavia, circa la sensibilità del nostro anonimo su questo terreno, è di natura anche più precisa, poi- ché si collega proprio sul terreno delle dottrine politiche. Il secondo atto, perfettamente estraneo all'azione ed inserito perciò delibera- tamente per dar modo all'autore di farci conoscere il suo pensiero su di una questione precisa, è un vero e propro « trattato » di natura politica, circa i diritti (pochi) ed i doveri (moltissimi) del principe

(29) Cfr. lo studio Libertà e dogma secondo Calvino e secondo i riformati italiani di V. Subilia, nel volume Ginevra e l'Italia, a cura di D. Cantimori e di altri (Fi- renze, Sansoni, 1959).

(30) Cfr. il nostro studio sul Flaminio preced. cit., p. 38.

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cristiano. Trascurando i truismi di natura moralistica (il trionfo della Riforma passa attraverso la persona del re, che deve perciò essere degno di questo altissimo suo compito, e non cercare in alcun modo di sottrarvisi) è qui puntualizzata, con una efficacia ed una forza di cui non si danno, a nostra conoscenza, altri esempi in testi letterari contemporanei, una dottrina contrattualistica circa la funzione del- la monarchia, che annuncia, con vari anni di anticipo, il Franco- Gallia dell'Hotman (che, com'è noto, è posteriore al massacro della notte di S.Bartolomeo) (31). Interessa in particolare, il fondamento biblicistico di questa dottrina contrattualistica, fondamento che, agli occhi del suo autore, ne garantisce solo la validità. Il re è rex unica- mente in virtù di una sua reale e temporanea identificazione con una funzione di pater, di pastore del suo popolo. Ove questa identifica- zione abbia luogo, egli gode con pieno diritto di tutti i privilegi e le funzioni della regalità; ma perderebbe automaticamente gli uni e le altre ove si sottraesse a questo suo compito, ove cessasse di essere pater, pur pretendendo di conservare il nome di rex. La dignità reale è in tal modo fondata in giustizia; ma questa dignità, che pure viene da Dio, è solo l'altra faccia di una onerosissima serie di doveri, rigi- damente articolati, che incombono al re che voglia essere degno e non usurpare questo nome: far predicare l'evangelo, circondarsi di buoni ministri, reprimere i cattivi pastori del popolo, proteggere i perse- guitati, far rettamente amministrare la giustizia, e così via. Il re che non si attenga a questo patto, tema la vendetta divina; ma tema altresì che l'affetto del suo popolo si ritiri da lui, ed egli finisca come oggetto di abominazione dei suoi sudditi, avendo perduto la grazia divina.

Sono idee interessanti, che l'autore ha avvertito la necessità di enunciare per giustificare la sua perentoria richiesta, indirizzata a Giosia (alias Carlo IX), di attuare subito la Riforma in Francia; ma la cui portata, ci sembra, va molto al di dell'assunto. Senza grande sforzo, ci sembra, è possibile leggervi la traduzione in termini evan- gelici di quel diritto del popolo alla resistenza contro il sovrano legit- timo che si è allontanato dalle vie del Signore, che l'umanesimo con- temporaneo aveva, all'incirca alla stessa epoca, faticosamente mu- tuato dal pensiero stoico, attraverso il Contr'un di Etienne de La Boètie. Il diritto alla resistenza è imparentato molto da vicino con il diritto all'insurrezione; e forse si comprende meglio, a questo punto, che lo speudo-Philone, dopo averla composta, abbia dovuto lasciare passare alcuni anni prima di poter pubblicare la sua opera. Abbia dovuto attendere, in particolare, la morte di Calvino. Abbia dovuto attendere che nuove, grosse nubi si delineassero all'orizzonte del pro- testantesimo francese a seguito del famoso viaggio di Caterina e di suo figlio verso i Pirenei, e della non meno famosa « entrevue de

(31) Cfr. V. De Caprariis, Propaganda e pensiero politico in Francia durante le guerre di religione. I. 1559-1572 (Napoli, E.S.I., 1959).

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Bayonne », dalla quale i riformali trassero la convinzione che si stesse tramando un complotto internazionale per il loro sterminio, e la determinazione di prevenire i loro nemici. Nel 1566 siamo infatti alla vigilia della « surprise de Meaux » e della terza, e più terribile, guerra di religione.

.ì. Chi era « M. Philone »?

Vi sono molti elementi che attendono di essere chiariti (da un approfondimento degli studi, da qualche fortunata scoperta d'archi- vio) in questa vicenda del Josias e del suo autore. Nell'attesa, è tut- tavia possibile fare alcune considerazioni.

Se la tragedia Josias ha conosciuto una prima stesura in italiano (e non si vede per quale motivo, in caso contrario, il frontispizio re- cherebbe quella menzione, « traduite d'italien en françois ») il suo traduttore non può essere stato uno scrittore francese, per i numerosi motivi che ci sembra di aver addotto. Il traduttore di Josias non conosce ancora il francese al punto da non commettere, nella sua traduzione, dei patenti italianismi. In tal modo, egli si « tradisce »: è un italiano che traduce in francese un'opera italiana, onde assi- curare a quest'opera una maggiore diffusione di quella che avrebbe potuto avere nella sua versione originale. E cioè, secondo ogni verisi- miglianza, il traduttore è l'autore stesso, un italiano che si nasconde sotto lo pseudonimo di Philone: rifugiato a Ginevra, egli vi scrive la sua opera e ne cura poi personalmente la traduzione, onde farla cono- scere nel mondo francese, e segnatamente in Francia, dato che appunto delle cose di Francia si parla in questo Josias.

Gli anni passano, e gli avvenimenti si snodano con il loro ritmo inesorabile. Diciassette anni dopo vi è chi pensa di ripubblicare Josias. Ma nel frattempo Philone ha progressivamente allentato i suoi rapporti con il paese d'origine: anche l'esilio ha le sue leggi. Il ricor- dare con orgoglio la propria nascita, come aveva fatto più di tre lustri addietro, non lo interessa più: insensibilmente egli si è calato nel nuovo mondo dove le vicende della vita lo hanno portato, ne ha assor- bito costumi e mentalità. Istintivamente, semmai, egli abbozza ora un movimento opposto, cerca di mimetizzarsi, di confondersi del tutto con il nuovo ambiente che lo ha accolto. E la menzione « tra- duite d'italien en françois » scompare.

Non è solo gesto opportunistico, del resto: le cose, ormai, stanno veramente così. Philone ha cessato di guardare all'Italia, o per lo meno egli è ormai prevalentemente assorbito dalle nuove preoccupa- zioni (e speranze) che gli suggerisce il nuovo mondo di cui fa parte. E le cose di Francia, le guerre, i problemi, gli avvenimenti di Fran- cia giganteggiano in quel momento all'orizzonte del protestantesimo riformato, anche per chi guarda le cose da un osservatorio svizzero.

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Intorno al 1580 si hanno le prime avvisaglie della nuova svolta, in senso dinastico, della lotta per il trionfo della Riforma in Francia: l'imminente estinzione della dinastia dei Valois (alla morte di En- rico III) porterà sul trono di S. Luigi Enrico di Borbone, il capo del partito ugonotto. Così il trionfo della « causa » sarà assicurato, e sarà vendicato il sangue di tanti martiri. Ma occorre vigilare, poiché an- che gli avversari hanno avuto sentore del pericolo, e cercano di cor- rere ai ripari. Cercano di contestare il diritto del Borbone a salire sul trono di Francia, cercano di suscitargli contro un rivale, un re « ille- gittimo ». E allora Philone (ha lasciato Ginevra per Losanna? la sua seconda opera apparirà in quest'ultima città) riprende la penna e scrive, in francese, questa volta (dopo venti anni di soggiorno!), una nuova tragedia, Adonias. Adonia, chi non lo ricorda, è la personifi- cazione del re illegittimo: è il figlio di Davide che si leva contro suo fratello Salomone, e gli contesta il diritto di sedere sul trono d'Israele. E Salomone, il figlio prediletto di Davide e di Betsabea, il prescelto di Davide, l'unto del Signore, perdonerà una prima volta a suo fra- tello; ma, dopo un secondo tentativo, lo metterà a morte con tutti i suoi complici. Ancora una volta Philone pensa di intervenire, con la sua opera, nelle vicende della lotta per il trionfo della Riforma in Francia; ancora una volta assegna ai suoi versi una funzione fiancheg- giatrice e profetica ad un tempo. Ma, a vent'anni di distanza, il qua- dro spirituale è profondamente mutato. Le istanze universalistiche, così evidenti nel Josias, si sono molto attutite; il problema che sta ora sul tappeto ha un carattere specifico, quasi tecnico. E' la riaffer- mazione del diritto del Bearnese a salire sul trono di Francia; è un monito rivolto alla casa di Guisa (veramente profetico, questa volta: nel 1586, con due anni di anticipo sulla fatale riunione degli Stati Generali di Blois!) affinchè non tenti di porre intralcio all'ascesa di Enrico. Il Borbone è, oltre tutto, colui che il Signore ha scelto, in quanto è il capo del partito dei santi: ma la questione confessionale, nell'intervallo, ha perso di mordente, per quanto concerne Philone. Mentre in Josias la realtà della lotta, l'ansia per il trionfo della « causa » è il punto di riferimento costante, il motivo in sottofondo che accompagna tutto lo svolgimento dell'azione, in Adonias il mo- tivo confessionale appare nettamente strumentalizzato. In primo pia- no vi è la riaffermazione (sia pure profetica) dei diritti dinastici di Enrico di Navarra : Philone è diventato uomo di partito, è diventato ugonotto nel senso peggiorativo della parola, e di conseguenza ha preso su di la problematica del suo partito. Una problematica fran- cese: ed anche perciò scrive in francese, per un pubblico francese, non traduce più dall'italiano. Argomento decisivo è il netto miglio- ramento, sotto il profilo sintattico e stilistico, della lingua di Adonias.

Niente più che un'ipotesi, ovviamente, per tentare di spiegare la genesi di queste due opere singolari, e quell'indicazione circa l'ori-

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gine italiana di una di esse, prima ostentata e subito ritirata: in atte- sa di una conferma (o di una smentita), potremo accontentarcene.

Quanto a sapere chi fosse l'uomo che si nasconde sotto lo pseu- donimo di Philone, il gioco delle ipotesi sarebbe troppo facile e gra- tuito. Possiamo tuttavia attenerci ai fatti. Nel 1562, e cioè all'incirca nel periodo in cui Josias è stato composto, appare a Ginevra, per i tipi di François Du Ron, la prima traduzione completa della Bibbia ad uso dei riformati italiani. Non si tratta, ovviamente, della prima traduzione italiana della Bibbia: la Malermiana, a partire dal 1471, e la Brucioliana, a partire dal 1532, e fino al 1559 (data del primo In- dice dei libri proibiti) avevano avuto complessivamente circa quaran- ta edizioni; ma si tratta della prima Bibbia italiana riformata, pre- disposta per i riformati di lingua italiana (32). Questa magnifica edi- zione, corredata di ampio materiale iconografico, di tavole, di rac- cordi, di commenti, di riassunti storici e via dicendo, è altresì prece- duta da una importante epistola, anonima, indirizzata « A i Principi e Republiche d'Italia ». Non si può fare a meno di constatare la stretta parentela che corre tra le tesi esposte in questa prefazione della Bibbia Duroniana, e le idee enunciate nel Josias. Anche l'ano- nimo che ha redatto la prefazione della Duroniana pensa che la Ri- forma in Italia debba farsi per un intervento del potere politico, ed invita i principi italiani a prendere l'iniziativa :

« E che farete adunque hora che pure havete veduto, e del con- tinuo vedete abbrugiare le Sante Promesse e Leggi del Signore Dio col Testamento del suo Figliuolo? Starete voi a vedere, e approva- rle un così dishonesto e abbominevol fatto? ».

L'iniziativa da prendere, secondo l'esempio che viene d'oltralpe, dalla Germania, e ora anche dalla Francia, è la convocazione di un concilio nazionale; e questa iniziativa spetta al potere poiltico. Al re: come Giosia, come Carlo IX; e, in Italia, ai principi e alle re- pubbliche :

« perchè, o Principi e Repub. Illustrissime, vedendo voi la pove- ra et infelice Italia così crudelmente tiranneggiata dal vescovo di Ro- ma, non provedete che si faccia un Concilio legittimo e generale, o na- zionale per mezzo de l'Imperatore, dove si trattino liberamente e risolvinsi le cose che sono oggi in controversia intorno a le religion Christiana, e vera riforma de la chiesa secondo la pura verità de la parola di Dio? ».

Anche l'anonimo estensore di questa prefazione pensa, come l'au- tore del Josias, che questo « diritto » dei principi abbia una sua se- conda faccia, sia anche un « dovere »: dall'osservanza del quale do- vere (e dall'esercizio del predetto diritto) dipende la legittimità della loro collocazione al sommo della scala sociale:

(32) Gli studi sulla Bibbia in Italia sono pochi e insoddisfacenti. Una sola ecce- zione, il pregevole lavoro di G. Luzzi, La Bibbia in Italia [...], Torre Pellice, Clau- diana, 1942. Sulla Duroniana, cfr. p. 57 e 77, e pass.

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« Ricordatevi, ricordatevi che sete in alto seggio da Dio posti, non solamente per governare et intertenire i popoli a voi soggetti con buona gmstizia et equità, ma maggiormente ancora per difendere l'honore e la gloria di Dio, e conservare le sue leggi e Scritture auten- tiche ».

Bastino questi cenni: ci sembrano sufficienti a provare che l'ano- nimo estensore della prefazione della Duroniana e l'autore del Josias appartengono alla stessa famiglia spirituale. Operavano entrambi a Ginevra nella stessa epoca, si interessavano agli stessi problemi, era- no entrambi italiani. Appartenevano e frequentavano lo stesso am- biente? L'ambiente da cui esce la Duroniana è, come si sa, quello del medico lucchese Filippo Rustici. Se non andiamo errati, è in questa direzione che bisognerà cercare, se si vorrà sapere qualcosa di più sul nostro Philone.

6. Congedo.

Una conclusione sul Josias dello pseudo-Philone non può essere che provvisoria. Ci sembra che la tragedia arrechi un contributo in- teressante alla conoscenza del mondo riformato italiano; che essa in- terpreti in modo felice determinate istanze che lo travagliarono e che implicitamente lo definiscono e lo caratterizzano. Perchè il discorso superi l'attuale impostazione problematica occorrerà che l'indagine si allarghi e prenda in considerazione altre opere teatrali di riformati italiani. Il linguaggio drammatico possiede infatti una perentorietà ed una naturale immediatezza dalla quale ci pare sia lecito atten- tersi molto. E, ancora una volta, è l'intero problema della letteratura espressa dalla Riforma italiana che ci sollecita in modo perentorio. La dimenticanza nella quale essa è stata lasciata, fin quando non sarà superata da un nuovo orientamento, non permetterà di rendere giu- stizia ad una delle epoche più singolari e ad una delle pagine più si- gnificative della nostra storia.

Enea Balmas

Démocratie et l'église : Aspects de la querelle disciplinaire chez les Calvinistes au XVI siècle *

La question de savoir quelle forme de constitution l'église chré- tienne doit posséder est actuellement une question qui se pose avec beaucoup d'acuité, chez moi, aux Etats-Unis. C'est une question actuelle pour deux raisons, l'une de caractère ecclésiastique, l'autre politique. Sur le plan ecclésiastique de nombreux responsables dans les églises américaines rêvent, en ce temps d'oecuménisme, d'amal- games toujours plus étroits entre les dixaines d'églises qui se par- tagent les fidèles américains. Or ces projets se heurtent non seule- ment aux différences dogmatiques. Ils se heurtent aussi aux diffé- rences constitutionnelles. Pour constituer ces églises nouvellement combinées, quel principe d'organisation doit-on adopter? Doit-on suivre l'exemple de l'Eglise romaine et recourir au principe pontifi- cal? Doit-on adopter le principe episcopal de l'église anglicane et de l'église méthodiste? Doit-on opter pour le système synodal des églises réformées d'origine calviniste, telle que l'église presbyté- rienne? Doit-on faire sien le principe congregational des églises congrégationalistes établies au commencement de l'histoire améri- caine par les pères-pélérins et adopté ensuite par les églises baptistes et beaucoup d'autres? Et même, existe-t-il un seul principe décrété par Dieu applicable à l'organisation ecclésiastique? L'on peut aussi se demander si ces questions d'organisation ne sont uniquement du ressort de l'humain et susceptibles d'être résolues selon des principes applicables à n'importe quelle institution humaine.

Sur le plan politique les questions relatives à une juste constitu- tion ecclésiastique rencontrent nécessairement le problème du rôle des catholiques romains dans la politique, question qui a été parti- culièrement aiguë chez nous en 1960, au moment de l'élection de John Kennedy à la présidence. Il y avait et il reste encore beaucoup d'Américains qui se demandent si on peut être à la fois un bon citoyen dans un état démocratique et un bon fidèle dans l'église

(*) Je tiens à remercier M. Arnaud Tripet d'avoir bien voulu relire et l'orriger le texte de cet article.

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autoritaire. Si un bon catholique doit suivre sans aucune réserve et sans appel les suggestions de ses guides spirituels, est-il en état de choisir librement et intelligemment ses représentants dans les conseils de l'Etat? Ou encore, question plus délicate, est-il en état d'être membre de tel conseil et de jouer un rôle prépondérant dans le gouvernement?

Voilà deux ordres de problèmes qui sont très agités actuellement, chez nous tout au moins. Mais ce sont aussi des problèmes qui furent très agités à l'époque si passionnante pour tous ceux qui sont venus au présent colloque, l'époque de la Réforme en Europe. L'histoire des débats qu'entraînèrent ces problèmes dès la période de la Réfor- me est beaucoup trop longue et compliquée pour qu'on la raconte ici, même brièvement. Mais je voudrais attirer votre attention aujour- d'hui sur un épisode de cette histoire. C'est un épisode que je trouve très révélateur et suggestif. Et c'est aussi un épisode très peu connu et très peu étudié, bien qu'il y ait tous les matériaux pour en faire une étude très détaillée. C'est aussi, je dois l'avouer, le sujet prin- cipal d'un livre que je prépare actuellement (1).

L'épisode en question s'est déroulé au sein des églises réformées de langue française. Il se situe entre les années 1562 et 1572, donc les années de la dernière maladie et de la mort de Calvin, et les années de l'arrivée au pouvoir de Théodore de Bèze comme nouveau directeur sur le plan ecclésiastique du mouvement lancé par Calvin. Pendant ces années-là les églises réformées de langue française ont été vraiment secouées par une querelle dite disciplinaire. Mais l'objet de cette querelle dépassait de beaucoup Le problème des moyens convenables à discipliner les fidèles défaillants de ces églises. L'objet en était les institutions fondamentales de l'église réformée et les principes même sur lesquels ces institutions doivent reposer. En somme, la question revenait à savoir quelle forme de constitution l'église chrétienne doit posséder. Et marginalement se posaient aussi certains problèmes touchant les conséquences dans la domaine poli- tique de chaque forme de constitution proposée.

Les principaux adversaires en cette querelle furent, d'un côté, Théodore de Bèze, et, de l'autre, un nommé Jean Morély, sire de Villiers. Bèze fut secondé surtout par les autres pasteurs réformés, marqués comme lui par la pensée et l'attrait véritablement charisma- tique de Jean Calvin. Morély a été secondé par quelques pasteurs réformés, mais surtout par des laïcs, au nombre desquels il faut compter de très grands seigneurs de la France d'alors.

La querelle éclata lors de la publication en 1562 à Lyon d'un livre intitulé, Traicté de la discipline et police chrestienne (2). L'auteur

(1) Son titre provisoire: Geneva and the Consolidation of the French Pro- testant Movement, 1564-1572: a contribution to the history oj Congregationalism, Presbylerianism, and Calvinisl resistance theory.

(2) J'ai consulté l'exemplaire de la Bibliothèque publique et universitaire de Genève (ci-après Genève, BPU), Rés. Dg 277 *. Voir la description bibliographique d' Alfred Cartier, Bibliographie des éditions des de Tournes, imprimeurs lyonnais (2 vols., Paris, 1937-1938), no. 488.

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en était Morély. Ce livre est devenue depuis très rare. Mais il a servi pendant la décennie qui m'occupe maintenant de plate-forme pour tous ceux qui ont attaqué de froni la constitution de l'église réformée. II faut donc que je vous donne un bref résumé du sujet de ce livre. Morély y attaquait deux institutions fondamentales de l'église ré- formée telle quelle avait été établie par Calvin à Genève et en France et même ailleurs. Ces deux institutions étaient le consistoire et le synode. En toutes deux Morély dénonçait La même faute fondamen- tale: la domination par le clergé. Et il ne trouve, ni pour l'une ni pour l'autre, de référence ni de base solide dans les saintes écritures, seule source de vérité religieuse valable pour les protestants d'autrefois. À La place de ces institutions, Morély voulut mettre la seule congré- gation locale. Chaque fois qu'une église locale se trouvait en pré- sence d'un problème important, Morély voulait qu'on assemble tous ses membres, laïcs et cléricaux, et que la décision requise fût prise dans une telle assemblée. Il recommanda un tel procédé surtout pour le choix ou le renvoi des pasteurs, et pour l'excommunication ou l'absolution d'un pécheur. Et pour chaque décision il ne devait pas être possible de faire appel aux synodes ou aux autres institutions supérieures.

Morély ne voulut pas abolir complètement le consistoire et le synode. Mais il en fit des institutions purement humaines, et d'une importance secondaires. Il ne voulut leur donner que quelques petits devoirs administratifs, tels que l'horaire des cultes et, sur le plan régional, le règlement des différends entre églises locales. Les seuls synodes qu'il trouvait vraiment utiles étaient les synodes régionaux et provinciaux. II se méfiait surtout des grands synodes internatio- naux ou oecuméniques, dans lesquels il voyait ime des grandes sources historiques, avec la papauté, des maux qui ont affligés la chrétienté dans le cours de son histoire.

Tel est en bref le programme de ce petit hobereau insignifiant qu'était Morély. Rien ne semblait prédestiner son livre à un grand retentissement. Mais pour plusieurs raisons, Morély et ses idées susci- tèrent un grand intérêt, en des milieux importants et déterminants. Il éveilla l'intérêt de certains grands seigneurs huguenots, les chefs du protestantisme en France. Par exemple, Jeanne d'Albret, la reine de Navarre, nomma Morély instituteur de son fils, le futur roi Hen- ri IV, pendant un séjour de sa cour à Paris. Et Odet de Coligny, car- dinal de Châtillon, se déclara partiellement d'accord avec Morély et essaya de le protéger contre quelques unes des attaques que ses idées provoquèrent. Morély trouva également un écho parmi certains pas- teurs réformés, chez certains aumôniers des grands seigneurs, par exemple. Parmi ces pasteurs le plus intéréssant est sans doute Hugues Sureau, dit du Rosier, pasteur de l'église réformée d'Orléans, et cham- pion protestant dans quelques polémiques provoquées par les catholi- ques pendant cette période. Morély trouva aussi de l'appui chez cer- tains laïcs bien connus, dont le plus important fut Pierre de la Ramée

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ou Ramus, le fameux logicien et professeur royal, qui se révéla à la fin de sa vie un protestant ardent et actif (3).

Face à un tel défi, Théodore de Bèze et les autres chefs ecclésia- stiques de l'église réformée se sentirent contraints de réagir. Et Bèze réagit, avec sa férocité habituelle. Morély fut d'abord excommunié par le Consistoire de Genève, et son livre condamné par La justice de la ville a être brûlé (4). Le livre fut également condamné par des synodes français. Presque tous les synodes nationaux tenus entre 1562 et 1572 ont débattu les idées de Morély et les ont condamnées (5). Le plus important de ces synodes fut le grande « synode des princes » tenu en 1571 à La Rochelle sous la présidence de Bèze lui-même, venu exprès de Genève. Un grand nombre de synodes provinciaux examinèrent les idées de Morély, surtout ceux des environs de Paris, Morély s'était établi peu après l'impression de son livre et il trouva la plupart de ses partisans. Quelques uns de ces synodes pro- vinciaux ont essayé même de trouver des compromis avec Morély, mais ces essais ont toujours été vigoureusement repoussés par Bèze et les chefs nationaux de l'église (6). Sous l'égide de ces synodes, Antoine de la Roche Chandieu écrivit et fit imprimer, en 1566, une réponse officielle au livre de Morély. Cette réponse est intitulée, La confirmation de la discipline ecclésiastique observée es églises reformées du royaume de France, avec la réponse aux objections pro- prosées alencontre. Elle a été imprimée en deux éditions, à Genève et en France, à La Rochelle (7). Mais Bèze et ses amis menèrent aussi une véritable bataille épistolaire contre Morély et ses amis. Ils écrivirent des lettres à Morély lui-même et ses partisans, aux grands seigneurs huguenots, aux pasteurs réformés de France, et même aux théologiens d'ailleurs tels que Heinrich Bullinger de Zurich. Quel- ques-unes de ces lettres ont été publiées par Bèze dans les collections de ses Epistolae qu'il fit imprimer quelques années plus tard (8).

Le résultat de cette contre-attaque et de la propagande qui l'ac- compagna fut très important. C'est lui surtout que l'histoire a retenu. De toutes façons l'affaire poussa les adversaires de Morély vers l'extrê-

(3) Sur ces partisans de Morély, voir Genève, BPU, Ms. fr. 446, dossier de l'affaire Morély, surtout aux fols. 99-108 sur Morély à la cour de Navarre; voir aussi André Bouvier, Henri Bullinger, le successeur de Zwingli, d'après sa corre- spondance avec les réformés et les humanistes de langue française (Neucliâtel et Paris, 1940), p. 384-414.

(4) Voir L'Extraict des procedures faites & tenues contre Jean Morelli (Ge- nève: Perrin, 1563).

(5) Voir leurs actes imprimés par John Quick, Synodicon in Gallia Reformata (2 vols., Londres, 1692); Jean Aymon, Tous les synodes nationaux des églises réformées de France (2 vols., La Haye, 1710).

(6) Voir à ce sujet, Genève, BPU, Ms. fr. 446, surtout fols. 12-13v.

(7) J'ai consulté les exemplaires de Genève, BPU, Bd 865 et Bd 1999. Voir aussi E. Droz, «Autor de l'affaire Morély: La Roche Chandieu et Bath. Berton. ((Bibliothèque d'Humanisme et Renaissance, XXII (1960), 570 577.

(8) Epistolarum Theologicarum Theodori Bezae Vezelii Liber Unus (Genève: Vignon, 1573). Voir surtout no. 83, p. 398-403. La plupart de ces lettres restent inédites; elles st trouvent surtout à Genève, BPU, Ms. fr. 446, et Genève, BPU, Musée historique de la Réformation, copies de la correspondance de Bèze.

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misme. Bèze et ses amis insinuèrent de plus en plus qu'il n'y a qu'une seule constitution d'église permise par Dieu: celles des synodes et des consistoires. Bèze n'exprime très ouvertement cette idée, par crainte de contrarier Bullinger et les tenants de la tradition zwin- glienne. Mais au sein des églises réformées françaises un certain raidissement frappa l'ecclésiologie. Et la constitution ecclésiastique que Calvin avait conçue hâtivement s'est figée pour toujours au sein des églises réformées françaises. En dehors de la France, parmi les partisans de Bèze en Angleterre, en Écosse, aux Pays-Bas, l'on assiste au même raidissement dans les idées ecclésiologiques et dans les institutions ecclésiastiques.

Mais la contre-attaque de Bèze présente encore un autre aspect, et c'est cet aspect que je veux surtout souligner. Car Bèze n'a pas attaqué Morèly et ses partisans uniquement sur le plan biblique et ecclésiologique. Il les a attaqué aussi sur le plan politique. À maintes reprises, il a qualifié les propositions de Morély de « démocratiques ». Au XVIe siècle ce mot était souvent une injure. C'était nettement le cas sous la plume de Bèze. Dans la lettre, par exemple, il résume pour Bullinger toute la querelle disciplinaire, Bèze accuse Morély d'avoir voulu introduire en l'église «la plus troublante et la plus séditieuse démocratie » (9). Ici comme ailleurs Bèze insiste sur le fait que l'église chrétienne doit être un gouvernement mixte: c'est d'abord une monarchie, avec Jésus Christ comme son seul roi; elle possède aussi un principe aristocratique dans ses consistoires; elle est fondée, enfin, sur le consentement des peuples (10). Nous voilà devant un gouvernement du genre recommandé pour l'Etat par les philosophes de l'antiquité, donc tr^s apprécié de ce fait par chaque savant formé par la Renaissance, tel que Bèze. Ainsi, pour Bèze et d'autres, la querelle disciplinaire est devenue une bataille entre les partisans de la démocratie et les partisans du gouvernement mixte.

En attaquant ses ennemis au sein de son église comme partisans de la démocratie, Bèze a essayé de transférer sur leurs têtes des soupçons et des injures que les réformés se voyaient adressés par leurs ennemis catholiques. Voilà encore un autre exemple de la ten- dance si répandue parmi des réformés orthodoxes de rejeter sur les sectes plus radicales les soupçons qu'ils suscitaient de vouloir chan- ger la société de leur temps. Cette tendance s'explique bien aisément. Car pour beaucoup de polémistes catholiques la Réforme en soi a été une bataille entre l'ordre et l'anarchie, entre les institutions éta- blies — en général selon les principes hiérarchiques et même mo- narchiques — et les institutions nouvelles souvent selon les prin- cipes qui leur semblaient populaires. En France donc les réformés ont été accusés d'avoir voulu changer d'une façon fondamentale la

(9) « Perturbatissimam et seditiosissimam Democratiam », in Bèze à Bullinger, 13 novembre 3571, Zurich, Staatsarchiv, E II 381, fol. 1306 v., original autographe.

(10) Voir aussi la lettre citée note 8, dont on trouve un commentaire très intelligent chez Charles Mercier, « Les théories politiques des calvinistes en France au cours des guerres de religion », Bulletin de la Société de l'histoire du prote- stantisme français, LXXXIII (1934), p. 235.

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constitution de l'état. Ils ont été accusés d'avoir voulu introduire en France des institutions nouvelles, étrangères, el subversives. On a vu en leurs consistoires des cours de justice nouvelles, remplaçant les cours du roi, celles surtout qui étaient chargées avec la police des moeurs. On a vu en leurs synodes des conseils gouvernementaux, susceptibles de remplaçer les autorités provinciales choisies par le roi, et même de supprimer la monarchie en France et de diviser le pays en cantons, à la Suisse.

On trouve des attaques de ce genre contre les calvinistes depuis le commencement de la Réforme calvinienne en France. Elles de- viennent toujours plus aiguës à la période dont nous parlons. Elles proviennent surtout des milieux gallicans. Ainsi, Charles du Moulin, le fameux jurisconsulte et ancien calviniste, se répandit en attaques particulièrement vives dans ses pamphlets anti-calvinistes, imprimés surtout en 1565. Et l'affaire Morély y figure. Car du Moulin a trouvé dans les procès faits contre Morély par les conseils de Genève et les synodes français des abus de pouvoirs patents dans des affaires res- sortissant en fait à la justice royale (11).

Voilà Bèze au bon milieu attaqué de l'intérieur comme trop autoritaire et ennemi du gouvernement populaire de l'église et attaqué de l'exteérieur comme ennemi de l'autorité et champion d'un gouvernement populaire. L'on s'explique ainsi pourquoi Bèze a attaqué Morély et ses partisans avec une telle férocité. Une révo- lution menacée est toujours plus dure envers ses enfants qu'envers ses ennemis.

Nous sommes ici en présence d'un phénomène qui peut être faci- lement mis en parallèle avec nos temps. En effet les réformés calvi- nistes, dans presque tous les pays d'Europe, se trouvaient alors dans une situation qui est celle-là même se trouvent beaucoup de catho- liques romains de nos jours. C'est seulement les rôles qui ont changé. Autrefois les catholiques insistaient pour que l'Église et l'État soient gouvernés selon les mêmes principes - monarchiques. En revanche, les protestants proposaient deux types de réponses. D'une part ils se refusaient à voir aucune analogie entre la constitution de l'Église et la constitution de l'État; d'autre part, ils affirmaient que l'appa- rence est souvent trompeuse: que l'État est moins monarchique et l'église réformée moins démocratique qu'on ne le pense. De nos jours c'est les protestants qui insistent pour que l'Église et l'Étal soient gouvernés selon les mêmes principes démocratiques cette fois et les catholiques qui rejettent ou essayent d'adoucir les analogies entre l'Église et l'État.

Voilà achevée cette esquisse, beaucoup trop sommaire, des prin- cipales idées en jeu dans la querelle disciplinaire des calvinistes

111) Voir Charles du Moulin, Omnid quae extant opera (5 vols., Paris, 1681); le t. V contient des ouvrages anti-calvinistes; p. 623 mentions de Morély. Voir aussi Michel Reulos, « Le jurisconsulte Charles du Moulin en conflit avec les Eglises Réformées de France », Bulletin de la Société de Vhisloire du protestan- tisme français. C (1954), 1-12.

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français au XVIe siècle. Toutes ces idées lurent à nouveau débattues, presque dans 1rs mêmes termes, en Angleterre et en Nouvelle Angle- terre entre 1640 et 1650. Elles l'ont été par Les presbytériens et les congrégationalistes (c'est à dire les indépendants) de langue anglaise, en cette période la monarchie a été renversée par le Parlement et les armées de Cromwell, et les nouveaux chefs de l'état anglais ont rêvé d'établir une église parfaite à côté de son nouveau gouver- nement. Ces combattants du XVIIe siècle ont connus les travaux de leurs prédécesseurs du XVIe, et les ont cités. C'est surtout Bèze et Chandieu qui ont été cités à cet égard, par les presbytériens d'alors, plus conscients de leurs liens avec le continent que les congrégatio- nalistes (12). Et on trouve des traces de l'affaire Morély et des prin- cipes qu'elle mit en cause dans les temps encore plus proches. Jean- Jacques Rousseau, ce héros de la démocratie du XVIIIe siècle, parle de la persécution que Morély a subir des mains des Genevois, mais sans grande connaissance, à vrai dire, des raisons de cette per- sécution (13).

Il est possible qu'on puisse trouver ailleurs des traces de la querelle disciplinaire dont je vous ai parlé et des problèmes poli- tiques qu'elle a soulevés. Je pense surtout à l'histoire des Pays-Bas, et aux grands débats menés per les différentes sortes de calvinistes, particulièrement au synode de Dort en 1618. On pourrait songer aussi à l'histoire des pays calvinistes de l'Allemagne, et surtout avi Palatinat. Mais je suppose qu'on peut trouver des traces ou des parallèles chez les Italiens. S'il en est parmi vous qui ont des lu- mières à ce sujet ils pourront, et je le en remercie d'avance, éclairer ma lanterne.

Robert M. Kingdon University of Wisconsin, U.S.A.

112) Voir les exemples cités par Robert M. Kingdon, « Calvinism and Demo- cracy: some political implications of debates on Franch Reformed Church govern- ment, 1562-1572, «American Historical Review, LXIX (1964), 400, n. 19.

(13) J.-J. Rousseau, Lettres écrites de la montagne (2 vols., Amsterdam, 1764), I, 190-197; II, 4.

Taddeo Duno

(1523 - 1613)

« Voilà ce que l'Eglise pense de mes peines et de mon travail: aucun espoir ne me reste... » (1). Ainsi s'exprime Duno, alors âgé de 81 ans, à la fin d'un traité de 1604. Toutefois, ce passage a être écrit dans un moment de découragement, car lorsqu'on voit avec quelle vigueur ce vieillard s'est défendu contre les attaques de ses adversaires, on se rend compte de la ténacité et de la vitalité qui animaient cet esprit lucide et entreprenant.

Duno appartenait à une famille noble qui jouait un grand rôle dans la politique à Locamo; cette localité profitait alors de sa situa- tion privilégiée sur le grand axe Milan-Zurich (la route ne passait pas encore par Lugano).

C'est dans sa ville natale que Duno reçut sa première instruction sous la direction de Giovanni Beccaria, son précepteur (2). La vie de celui-ci allait devenir mouvementée : il dut quitter Locamo pour s'éta- blir à Mesocco, puis passa quelques années à Zurich, revint à Mesocco et, chassé de par les autorités politiques, alla finir ses jours comme pasteur de Bondo, dans le Val Bregaglia (3).

A l'époque il était maître d'école à Locamo, il lisait encore la messe (car il avait été destiné à la prêtrise), tout en professant des idées teintées de protestantisme. Peut-être était-il déjà en correspon- dance avec les Zuricois, comme cela est attesté dès 1544. Il chercha naturellement à convaincre ses écoliers et parvint à convertir trois jeunes gens de familles nobles dont Taddeo Duno, qui gardera tou- jours un excellent souvenir de son précepteur; il le mentionne, en effet, en 1592 dans la préface de ses Epistola? médicinales. C'est donc Beccaria qui lui enseigna les premiers principes de la foi protestante.

(1) Zurich, Zentralbibliothek, Ms. D 236.

(2) Duno, De persequutione adversus Loairnenses mota... 1602. Archives de la famille von Murait, déposées aux Archives d'Etat de Zurich (cote: W 72).

(3) Ferdinand Meyer, Die evangelische Gemeinde in Locarno, ihre Auswan- derung und ihre spàteren Schicksaley Zurich, 1836, 2 vol., vol. II, p. 235.

(4) H. G. Wackernacel, Die Matrikel der Universitàt Basel, t. II, Bâle, 1956, p. 39, no 12: Dunus, Thateus, Lucarnensis. Voir aussi la lettre de Duno à Bullinger du 9 août 1549, Zurich, Archives d'Etat, E II, 365, 67-70.

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Duno quitta Locarno pour suivre les cours à la faculté des arts de l'Université de Bâle (4), puis fit ses études de médecine à Pavie, il fut promu docteur en médecine en 1550 (5).

Il s'installa comme médecin à Asso, il épousa Elisabetta di Curioni (6).

Il composa ses Epistolao médicinales qui sont adressées à des mé- decins connus de son temps, en particulier à J. Cardan, qui avait été son professeur à Pavie. Celui-ci l'invita à suivre une carrière univer- sitaire, mais Duno refusa, prétendant que les nombreuses disputes entre professeurs l'encourageaient à rester médecin (7).

Plus tard, il perdit de vue Cardan qui, dans son autobiographie, ne mentionne pas Duno dans le chapitre concernant ses disciples. Mais, dans celui qu'il consacre aux jugements portés sur son oeuvre, il écrit que Duno ne l'a contredit que pour se mettre lui-même en évidence (8).

On ne tarda pas à le dénoncer à l'inquisiteur de Milan qui envoya un de ses sbires à Asso, mais, Duno s'étanl caché, ce dernier dut retourner sans l'avoir découvert. Il avait laissé une sommation invi- tant Duno à comparaître à Milan devant l'inquisiteur. Chose curieuse, il s'y rendit sans crainte, et l'inquisiteur le reçut fort aimablement. Après une discussion amicale, Duno put rentrer à Asso. Cet épisode demeure assez peu clair; malheureusement Duno n'en parle qu'une fois, et en termes succincts (9). Peut-être disposait-il de puissants protecteurs auprès du redoutable personnage (10). Il ne risquait donc plus rien de ce côté; néanmoins, la situation devint intenable pour lui, qui était protestant; c'est pourquoi il quitta Asso après trois ans et vint s'établir à Locamo, ce qui causa une grande joie aux Réformés: car « il était docteur en médecine, noble, et il détestait la papauté » (11).

Il semble évident que Duno prit La direction de la communauté loearnaise après la fuite de Beccaria, en août 1549 (12). Plus tard, Duno manifesta un grand intérêt pour la théologie; il est certain qu'il se mit à étudier les livres théologiques envoyés par l'Eglise zuricoise aux protestants locarnais. C'est lui qui entra en relation avec Bullinger pour lui exposer la situation difficile de la communauté protestante à Locamo. Duno la voyait de façon très réaliste: en 1549 (13) déjà, il pense que l'exode de toute la communauté pourrait devenir inévi- table; c'est pourquoi il souhaite que Zurich intervienne plus directe-

(5) De persequulione cit., chapitre 6.

(6) Elle est mentionnée dans la liste des Locarnais protestants publiée par Meyer cit., vol. I, p. 494.

(7) Epistolae médicinales, Zurich, 1592, fol. 42.

(8) Cardan, Opera omnia, Lyon, 1663, vol. I, p. 46.

(9) De persequulione cit., chap. 9.

(10) C'est ce que suppose déjà Meyer cit. I, p. 255, note 252, qui n'arrive pas à expliquer cet épisode.

(11) De persequutione cit., chap. 9 in fine.

(12) Die Eidgenôssischen Abschiede, t. IV/1 e, p. 164.

(13) Lettre citée à la n. 4.

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ment, car il se pourrait bien que tout Locamo « devienne croyant » c'est-à-dire passe au protestantisme.

Au mois de mars 1555, il prépara cette extraordinaire expédition, prévue de longue date, suffisamment à l'avance. Il parvint à Zurich quelques jours avant ses compatriotes pour annoncer l'arrivée des réfugiés et préparer matériellement leur séjour dans la ville (14).

A Zurich, Duno fut ancien d'Eglise. Il n'avait rien pu sauver de sa fortune et exerça la profession de médecin. Fait curieux, il n'eut pas le même succès que son compatriote Giovanni Muralto. Il envi- sagea un changement de profession, bien qu'il eût reçu un appel comme médecin à Mesocco et à Roveredo. Mais, dit-il « pour l'avan- tage matériel (car la rémunération aurait été assez tentante), je n'aurais pas voulu compromettre le salut de mes enfants » (15). Resté à Zurich, est-il devenu médecin de la ville? On n'en a pas la preuve (16). Il semble pourtant que les autorités ont eu recours à lui dans certains cas.

L'on peut dire que sa mort fut aussi celle de la communauté locarnaise à Zurich. De ses sept enfants, seul un fils lui avait survécu (17).

Ses oeuvres.

Ami et collaborateur de Conrad Gessner, Duno a eu une activité scientifique très féconde. Jeune encore, il publia un livre sur la saignée (18). D'autres suivirent bientôt. Ces ouvrages s'inspiraient des auteurs anciens et modernes; Duno n'ayant pas le don d'observer lui-même les phénomènes, c'est Gessner qui l'initia à cette méthode. Avec grand succès, car les historiens de la médecine (19) affirment que les observations de Duno sur la saignée en cas de pleurésie sont ce qu'il y a de meilleur à l'époque. Mais Duno mériterait le plus d'attention toujours selon les historiens de la médecine c'est dans l'étude des influences que peut avoir le climat sur les maladies; selon Salzmann, Duno peut être considéré comme un des premiers météréopathologistes de Suisse (20).

Grâce aux descriptions précises de Duno, les médecins ont pu affirmer qu'au XVIe siècle des cas de malaria s'étaient produits de temps à autre à Zurich.

Lors de l'épidémie de peste en 1564, Duno fit de très nombreuses observations fort utiles.

(14) De persequutione cit., chap. 17.

(15) Dans sa supplique au gouvernement zuricois. Archives d'Etat, E II, 378, fol. 1925.

(16) Voir Rudolf Pfister, m des Glaubens willen, Zurich, 1955, p. 158, note 56.

(17) Meyer, cit. II, p. 349, note 343.

(18) Nova constitutio artis revellendi, derivandi et vacuundi per venae sectio- nem. Zurich, 1557.

(19) Carl Salzmann, Thaddeo Duno von Locarno als Stadtarzt in Zurich. Vier- teljahrsschrift der Naturforschenden Gesellschaft in Zurich, t. 85, 1940, p. 337 ss.

(20) hoc cit. p. 341, ibid, également des renseignements sur ce qui suit.

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L'on peut donc se demander si Dnno a élé victime de jalousies ou s'il était doué pour l'observation et la recherche plus que pout- la pratique thérapeutique.

Mais la médecine n'était nullement le seul domaine de Duno. Son manuel de chronologie (21) a été réimprimé en 1670, donc bien long- temps après sa mort. Vers la fin de sa vie il écrit que la médecine de l'âme c'est-à-dire la théologie lui donne bien plus de satisfaction (22).

Ses travaux dans ce domaine avaient à ses yeux une signification et une importance particulières. Déjà à l'époque de ses études, il prit part aux débats théologiques. A Bâle, l'année même il devint maître ès-arts, il traduisit en latin le commentaire de l'épître de Jacques de Francesco Stancaro (23). Vers la même époque, il traduisit pour P. M. Vermigli deux lettres en latin, la fameuse lettre De fuga in persequutione et la seconde, adressée aux Lucquois (24). Duno fit également la traduction de quelques ouvrages de Bernardino Occhino: De Coena Domini, Dialogus de Purgatorio, De Antichristo. Ainsi il aborda l'étude des grands problèmes théologiques de l'époque et des solutions que proposaient quelques grands maîtres.

Il est certain que Duno profita personnellement de ces travaux et avec lui la communauté tout entière. Non seulement les lettres échan- gées avec Zurich prouvent l'intérêt qu'on avait à Locamo pour la littérature théologique, mais la fameuse confession de foi de 1554 (25) montre bien le niveau élevé de ses discussions théologiques à Locarno. Cela nous semble d'ailleurs expliquer un phénomène, certes assez local, mais non dépourvu de signification. Les difficultés auxquelles se heurtèrent les efforts de la Contre-Réforme à Locarno sont bien connues. Longtemps encore des plaintes sont discutées à la Diète: l'on constate que des personnes meurent sans avoir appelé un prêtre; on en voit d'autres « oubliant » de faire leurs Pâques (26). Ces gens invoquaient comme prétexte la grande difficulté qu'ils avaient à par- donner à leur prochain qui les avait offensés.

Le nonce Volpi attribuait cette attitude (tandis que dans tout le reste du Tessin les succès de la Contre-Réforme étaient sensibles) au fait que des Locarnais réfugiés à Zurich pouvaient revenir de temps à autre à Locamo pour y traiter des affaires ou régler des questions restées en suspens touchant leurs biens (27). Mais cela n'est pas bien convaincant. L'on sait que les baillis faisaient surveiller attentivement

(21) De arte numerandi dies mensium per Nonas, Idus et Calendas, liber. Ed. posterior, Zurich, 1670.

(22) Lettre de Duno à Antoine Faye, mai 1594, Bâle, Bibl. Univ.

(23) Francesci Stancari In epistolam canonicam D. Iacobi expositio..., Bâle, 1547. Cf. aussi Peter Bietenmolz, Der italienische Humanismus und die Blutezeit des Buchdruckes in Basel, Bâle, 1959, p. 29, l'auteur suppose que Stancaro et Duno entendaient par « foi morte » le nicodéinisme.

(24) Vermigli, Loci communes, Zurich, 1580, fol. 555-561vo, 561vo-564.

(25) Publiée par M. J. Staedtke dans Zwingliana, t. X, p. 181 ss.

(26) Eidgenóssische Abschiede, t. IV/2, no 371, p. 1276,

(27) Ibid., no 387, p. 1278.

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cea protestants; l'argument que ceux-ci avaient pu, lors de courtes visites, tenir en échec l'effort constant de La Contre-Réforme semble plutôt être une excuse destinée à pallier son insuccès. La Contre- Réforme, avec son caractère liturgique, semble avoir voulu réformer la piété au Tessin. Il nous paraît plus vraisemblable qu'elle se heur- tait à Locarno à une théologie, bien pensée, centrée sur la foi bien plus que sur ses expressions.

D'où venait cette théologie? Sans doute de Zurich, or, il fallait non seulement les livres, mais surtout des chefs spirituels qui les assi- milent, communiquent leur substance à la communauté cl agissent, guidés par la réflexion sur cette foi. C'est bien Duno, croyons-nous, qui réunissait ces qualités intellectuelles et humaines, de sorte que Locarno fut marqué profondément par son activité.

Après avoir traduit des ouvrages, Duno en composa lui-même. Il mentionne dans une de ses lettres (28) une Disputatio de Antichristo qu'il a écrite, anonyme; il espère, à propos de ce livre, que les Jésuites ne trouveront pas facilement des arguments pour le com- battre. Malheureusement, nous n'avons pas encore pu mettre la main sur ce pamphlet. Un autre traité, qui probablement serait d'un intérêt beaucoup plus grand, est également perdu. Il s'agit du Tractatus de disciplina ecclesiastica, écrit en 1571 dans les années la question de la discipline passionnait toute l'Europe. Ce traité est mentionné dans l'inventaire de la collection Simmler de la Bibliothèque Cen- trale, à Zurich; mais, jusqu'à présent, il est resté introuvable. Peut- être un chercheur le découvrira-t-il un jour.

En 1595, Duno publia à Zurich un ouvrage intitulé De peregrina- tione filiorum Israel in Deserto. Duno partit du problème posé par la différence des textes Gen. 15/13, Actes 7/6 il est dit qu'Israël séjournerait en Egypte dvirant 400 ans, et Gai. 3/17 il est question de 430 ans. Que faire d'Ex. 12 l'exégèse traditionnelle, représentée par Nicolas de Lyre, défend le chiffre de 210 ans (fol. 20)? Par des chronologies hasardeuses, Duno parvint à accorder ces passages, ce que personne n'avait réussi à faire précédemment, comme il le note avec satisfaction. Dans la préface, il imprima des fragments de lettres de six théologiens qui, bien entendu, louaient son entreprise.

Au contraire, Daniel Engelhardt (ou en latin Angelocrator), pasteur à Jesta, en Hesse, attaqua Duno avec violence; celui-ci prit la plume et écrivit une réplique pleine de colère (29), « furiis agi- tatus » comme dira Daniel Engelhardt qui, se sentant offensé, rédigea une Appellatio aux Zuricois. Ceux-ci, embarrassés par cette querelle qui leur semblait d'une importance bien relative, obtinrent de Duno qu'il renonçât à publier une réponse; ils prièrent Engelhardt de son côté de ne plus donner suite à cette affaire (30). Cette dispute revêt certains aspects intéressants. Duno écrivit que la narration de la

(28) Mentionné dans la lettre citée à la note 22.

(29) Ad gravissimas calumnias... Danielis Angelocratoris... responsum. Zu- rich, 1603.

(30) Duno a rassemblé les documents de cette dispute en vue de l'impression. Ils sont conservés à la Bibliothèque de Zurich, Ms. D 236.

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Genèse et de l'Exode était confusissima; il releva donc ces contra- dictions. Il en déduisit la nécessité de remettre de l'ordre dans le déroulement des événements ce qui indigna son adversaire. Cela nous semble être déjà une attitude « moderne » qui fraiera la voie à la critique de la Bible. Aussi refusa- t-il d'admettre le nombre de 600.000 Israélites quittant l'Egypte, car, dit-il en 200 ans de séjour en Egypte, comme on l'admet généralement, l'on ne peut atteindre un chiffre aussi élevé. Il n'est pas question de miracle dans le texte; donc il n'est pas obligatoire d'y croire. Il convient également de relever, pour l'histoire de la théologie, que les pasteurs zuricois, écri- vant à Engelhardt (31), estimaient qu'aucun fundamentum fidei n'était en jeu. Cela provoqua la colère d'Engelhardt pour qui tout passage biblique est de Dieu; donc il faut y croire. Divergence qui montre bien que le luthérien était plus bibliciste que les pasteurs de Zurich. Cette attitude pacificatrice déplut à Duno, prêt à continuer la polé- mique malgré son âge, qui en fut vexé; pourtant les pasteurs avaient écrit à son adversaire que Duno avait bien mérité de la République Chrétienne. Mais cela nous mène déjà en 1604, année nous avons trouvé les derniers documents écrits par Duno lui-même.

Pour terminer, revenons quatre ans en arrière, afin de reprendre un sujet cher à Duno: il exprime très souvent l'idée que le pape est l'Antéchrist. Il avait traduit le De Antichristo d'Occhino (32), com- posé lui-même un opuscule sur ce sujet (33). Peut-être cette idée prenait-elle trop de place dans sa pensée, ce qui expliquerait en partie le fait que ses ouvrages se soient perdus. En effet, à l'époque, on avait besoin positivement de théologie et non pas seulement de preuves que l'Eglise romaine est celle des adversaires du Christ.

Duno a aussi contribué à répandre les ouvrages des autres sur ce sujet. Il trouva à Zurich un exemplaire de VActio in pontifices romanos de Paleario (34). Pour en avoir une belle édition, il l'envoya à Voegelin à Heidelberg et fut très satisfait de cette initiative. Liber est aureus, écrivit-il plein de joie à son ami Grynée (35). Il semble que cette édition, mentionnée dans le catalogue du British Museum, est bien de 1600.

Passionné, très doué, convaincu comme son maître Cardan que ses écrits enrichissent le patrimoine de l'humanité, courageux, susceptible, mais aussi prêt à souffrir pour ses convictions, Duno mériterait certes d'être moins oublié qu'il ne l'est. Des historiens de la médecine (36) ont souhaité qu'il reprenne la place qui lui est due

(31) Ibid.

(32) Karl BENRATH,Berra«rdino Ochino von Siena, Leipzig, 1875, p. 258.

(33) Cf. notes 28 et 22.

(34) Aonio Paleario, Actio in Pontifices Romanos, Heidelberg, chez Vogelin. s. d., avec une préface anonyme, mais qui est sans aucun doute de Duno. Le cata- logue du British Museum note: « 1600 (?) », tandisque M. H. D. Dyroff, Gotthard Wógelin, dans: Archiv fur Geschichte des Buchwesens, t. IV, 1963, col. 1130-1423, cite cette édition (no 69, col. 1377) sons avancer de date.

(35) Lettre du 1er août 1600. Bâle, Bibl. Univ.

(36) Salzmann, loc. cit., p. 340.

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dans l'histoire de la pensée médicale; espérons que de nouveaux documents permettront qu'il en soit de même pour l'histoire des réfu- giés italiens à Zurich. Ainsi subsisterait, malgré le découragement dont témoigne le passage cité tout au début, l'exemple durable d'en- gagement qu'il a donné au cours de sa vie.

Albert Chenou

Note: Il ne nous a pas encore été possible d'utiliser ce travail de M.me Verena Jrcobi, Bern und Zurich und die Vertreibung der Evangeliscken aus Locarno Zurich, 1967 (Mitteilungen der antiquarischen Geschlaehaft Zurich t. 43/2). Presbyterianism, and Calvinist resistance theory. (Geneva: Droz, 1967).

Un pastore valdese illuminista : Jacques Brez

Aveva appena quindici anni Jacques Brez nel 1786, nato come era nel 1771, e già la sua passione dominante era lo studio della natura e del mondo degli insetti. «J'avois à peine atteint mon troi- sième lustre que déjà je parcourois avec ardeur les prés, les champs, les forêts, les bords des ruisseaux, les terrains arides et sablonneux, les bosquets, les montagnes etc. pour me procurer des insectes » (1). Aveva cominciato ad amare gli straordinari colori degli insetti: « dont je n'avois auparavant aucune idée », poi il gusto per l'osservazione, l'amore per la precisone scientifica erano andate cristallizzando, fis- sando queste giovanili scoperte nell'animo suo. Questa passione, tanto strettamente legata alle Valli in cui era nato, Jacques Brez portò con a Losanna, dove quindicenne fu mandato a compiere i suoi studi di teologia, per prepararsi alla vita del pastore (2).

In Svizzera trovò la guida ed il modello di cui aveva bisogno, il naturalista ed il pensatore che gli parve unire l'originalità e la vigoria scientifica ad una visione filosofica e teologica consona alle aspirazioni del suo giovane animo. Charles Bonnet e la sua Contemplation de la nature lo entusiasmarono. Avrebbe continuato a percorrere la sua normale strada scolastica ed insieme, non più solo, avrebbe studiato la storia naturale. Nel febbraio del 1788 si era deciso a scrivere una lunga lettera a Charles Bonnet per chiedere aiuto, consiglio e pre- garlo insieme di prestargli una copia delle sue opere complete, indispensabili per il suo studio, e che certo egli non era in grado di comperarsi. Firmava « Jacques Brez, vaudois, étudiant en philosophie à Lausanne ». Si scusava del suo ardire, dicendosi spinto « par le vif désir de connoître la nature » (3). Il vecchio filosofo gli rispondeva da Genthod il 9 aprile 1788. Certo, diceva, « les insectes sont un petit peuple si intéressant que je ne suis point du tout surpris qu'ils atti- rent fortement votre attention. Cette branche de l'histoire naturelle est d'ailleurs la plus féconde en découvertes ». Ma nelle parole dello

(1) Jacques Brez, La flore des insectophiles précédée d'un Discours sur l'utilité des insectes et de l'étude de l'insectologie, Utrecht, chez Wild et J. Altheer, 1791. Préambule.

(2) Per i riferimenti biografici e bibliografici rimandiamo al saggio di Augusto Armand-Hucon, L'illuminismo fra i Valdesi, in Studi di letteratura, storia, filosofìa in onore di Bruno Revel, Firenze, Leo S. Olschki, 1965, pp. 21-24.

(3) Ginevra, Bibliothèque publique et universitaire, Mss. Bonnet 39, ff. 334-335.

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studente valdese Charles Bonnet aveva colto l'eco d'un appassionato accento che l'aveva stupito e l'aveva reso alquanto dubitoso. « Mais, monsieur, gli diceva l'histoire naturelle est une maitresse très impérieuse et qui ne souffre guère de rivale; n'est-il point à craindre qu'elle ne vous détourne d'une vocation plus importante et ne pour- roit-il point arriver que votre Patrie aurait à se plaindre d'une diversion qui nuiroit à ses intérêts les plus chers? » (4). Jacques Brez Io rassicurò, dicendogli che dedicava cinque ore al giorno ai suoi studi accademici, « et le reste du terns est consacré à l'histoire naturelle » (5).

Aveva trovato a Losanna, grazie soprattutto a P. Berthout van Berchem, un appoggio ed incoraggiamento nella « Société des Sciences physiques », dove era entrato in qualità di allievo. Poteva così inviare a Charles Bonnet una serie di sue osservazioni sulle « chenilles du chardon à bonnetier» di cui aveva una notevole quantità d'esemplari, « et je les observe continuellement » (6). Aveva grandi progetti come quello d'un Dictionnaire botanico-insectologique, impresa certo non facile, come Bonnet si affrettava a comunicargli (7).

Nell'estate del 1788, tornato a trascorrere le vacanze a Torre Pellice, o come egli scrive « à la Tour dans la Vallée de Luzerne » (8), i problemi fondamentali metodologici della storia naturale erano al centro delle sue preoccupazioni. « J'eus le bonheur de me lier inti- mement avec un amateur distingué, M. J. P. Goante, le premier qui se soit appliqué à connoître les productions naturelles de notre pays » (9). Durante « les fréquentes excursions » che fece con « cet excellent ami » un tema domino La loro conversazione: avevano ragione Réaumur e Charles Bonnet a voler scrivere una vera e propria storia degli insetti, osservandoli in ogni momento della loro esi- stenza (10) o bisognava invece procedere innanzi tutto ad una pura e semplice classificazione secondo il modello che aveva fornito Linneo? Aveva già avuto una disputa epistolare in proposito con un naturalista parigino, D'Antic. Questi aveva sostenuto l'assoluta neces- sità d'una nomenclatura, la mancanza della quale aveva reso inutiliz- zabili gran parte delle osservazioni compiute durante la prima parte del secolo: « on ne sait de quels insectes ils ont voulu nous entretenir et on ne peut employer les matériaux qu'ils nous ont laissé ». Jacques Brez gli aveva risposto ribadendo i principi e le idee di Charles Bonnet. Quel che lo interessava sulla natura, potremmo dire, forzando forse alquanto il suo pensiero, era la biologia e non la classificazione degli insetti. Nella Contemplation di Charles Bonnet egli aveva intra- visto una scienza della vita e non una nomenclatura. Il naturalista parigini Dantic, diceva, era « un naturaliste du même genre que ceux

(4) Mss. Bonnet 77, f. 90 v.

(5) Mss. Bonnet 40, f. 99-100, lettera del 7 maggio 1788. 16) Mss. Bonnet 39, fï. 336-337, lettera del 14 aprile 1788.

(7) Mss. Bonnet 77, f. 103, lettera del 30 settembre 1788.

(8) Mss. Bonnet 40, ff. 101-102, lettera del 20 ottobre 1788.

(9) Jaques Brez La flore des insectophiles, cit. Préambule.

(10) « Leurs moeurs, leurs habitudes, en un mot leur histoire », come scriveva

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que nous avons à Turin, qui ne s'occupent uniquement que de la nomenclature, sans s'embarasser de s'instruire de la nature des objects qu' ils veulent connoître. Cette espèce de naturalistes n'est que trop répandue par tout. Pour un Reaumur que de Geoffroy, que de Linné, que de Fabricius! » (11).

L'entomologo diciassettenne toccava così un punto sensibile della vita scientifica di quegli anni, anche se Bonnet non poteva fare a meno di fargli notare quell'elemento di ingenuità che era certo assente nelle sue discussioni: « Mr. Dantic a raison et je n'ai peut-être pas tort ». gli scriveva il 19 dicembre 1788 (12). Bonnet continuava tuttavia ad aiutarlo indicandogli libri e problemi e soddisfacendo, ad esempio, la gran curiosità del giovane Brez sulle più recenti opere di Spallanzani (13).

Brez era passato a Ginevra all'inizio di novembre 1788, di ritorno dalle Valli, sulla via di Losanna. Era ormai deluso e scontento dei suoi studi accademici. Cercava qualche cosa di diverso, magari a Ginevra dove, più vicino a Charles Bonnet, poteva sperare di appro- fondire le sue ricerche di scienza naturale. A Losanna « Mr. Bres avoit été peu assidu à ses leçons », come scriveva il 2 marzo del 1789 il professore e rettore della sua scuola, Baillif. «Il n'a subi de plus aucun examen de philosophie...: quant à la langue grecque, il y est médiocrement versé et autant que le Piémontois, qui, en général, ne se distinguent pas, peuvent l'être. On est obbligé avec ces jeunes gens qui sont appellés dans leur patrie a desservir des églises souvent comme ils se trouvent, on est, dis-je, obligé de couler légèrement sur beaucoup de points». Si affrettava ad aggiungere che «la con- duite » di Jacques Brez era parsa « irréprochable ». Ma oltre alle lacune della cultura, un altro aspetto negativo egli non poteva non sottolineare nella sua personalità : « il n'a pas été reçu à la Commu- nion ». Il giovane aveva pregato il suo rettore di attendere un anno.

Fu quest'ultimo fatto a rendere impossibile a Brez d'ottenere il soccorso della Borsa italiana per passare a studiare a Ginev ra. Invano si difese con una energica lettera indirizzata il 7 giugno 1789, da Yverdon, al pastore De Lascalles, il presidente della « Société de la Bourse italienne ». Non si era presentato alla comunione, diceva, perchè non si sentiva ancora pronto. « D'ailleurs je n'ai pas encore que dix-huit ans. Je ne sais si l'académie en faisant mention de cet objet n'auroit pas pensé que je voulois éviter par la réception à la communion: j'aurois droit de lui demander, en ce cas là, pourquoi elle auroit voulu m'y obliger malgré moi, puisque un des grands articles de notre religion n'est de ne forcer personne à la croyance; mais si tel avoit été mon dessein je n'aurois pas craint d'en faire un aveu public, car je n'ai jamais appris à professer quelque chose dont je ne suis pas intimement convaincu. Mon veritable dessein a été a Charles Bonnet il febbraio 1789. Mss. Bonnet 40, ff. 103-104.

(11) Mss. Bonnet 40, ff. 101-102, lettera del 20 ottobre 1788.

(12) Mss. Bonnet 77, f. 109 v. Nel « Journal de Physique », juillet 1788, vol. 33, pp. 56 sgg. si trova un articolo di questo autore, che firma: D'Amie.

(13) Ibid. f. 114, lettera del 7 febbraio 1788.

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d'employer ce teins de retard à m'éclairer et m'instruire à fin de ne pas prendre un engagement de la sainteté duquel je n'aurais pas été convaincu; je me propose de me faire recevoir aussitôt que je serai suffisament éclairé et il ne me restera aucun doute ». La lettura di queste parole dovette confermare la « Société de la Bourse ita- lienne » nel suo atteggiamento negativo. Nella seduta dell'll ago- sto 1789 essa dichiarò che « Mr. Bres, quoique doué d'esprit et de talens et d'une conduite irréprochable ne paroissoit pas avoir tout ce qui étoit necessaire pour faire un bon pasteur» (14).

A Ginevra Jacques Brez verrà lo stesso ad abitare nell'estate del 1789, cercando i mezzi per vivere e per studiare nelle lezioni private « dans quelque bonne famille ». Anche in questo venne aiutato da Charles Bonnet (15). Intendeva studiare gli insetti del territorio di Ginevra. Leggeva con avidità i libri che Bonnet gli prestava. All'inizio del 1790 studiava le opere di Pieter Lyonet, di Otto Frederik Miiller ecc. ed insieme sembrava deciso a studiare finalmente quella filosofia che egli aveva sentito tanto lontana nei suoi anni di Losanna. Anche per questa « philosophie rationnelle » chiedeva consiglio a Bonnet, nelle cui opere sperava di trovare una guida sicura. « Comme j'ai dessein d'étudier cette année la philosophie rationnelle, je prends la liberté de vous prier de vouloir m'indiquer quel est l'auteur que je peux lire le plus avantageusement pour la base de cette importante étude... J'ai lu le Philalèthe, mais il y a bien des morceaux que je n'ai pas pu suivre, je ne suis pas encore assez accoutumé aux idées métaphisiques et c'est pour m'y accoutoumer que je veux m'attacher à cette science » (16). Ma lo stesso Bonnet l'avvertiva che il Philalète non era adatto per i principianti (17). E la repulsione per le idee metafisiche era evidentemente insormontabile per il giovane Jacques Brez, che istintivamente tornava ai suoi insetti, ai suoi problemi di metodologia della scienza, alle sue pazienti ed appassionate osserva- zioni scientifiche. Certo i ce pucerons » lo interessavano di più delle teorie metafisiche (18).

Nell'estate del 1790 lasciava Ginevra e circa alla metà di luglio giungeva a Utrecht dove trovava un ottimo impiego di pedagogo, nella famiglia dei Nepven, presso un ragazzo di otto anni. Neppure un mese dopo, il 16 agosto 1790, scriveva felice a Charles Bonnet che aveva « déjà fait içi connoissance avec plusieurs savans ». Era stato ad Amsterdam con le raccomandazioni del dotto ginevrino Senebier, aveva trovato, ad Utrecht stesso, un ambiente che rispondesse alle sue

(14) Ginevra, Bibliothèque publique et universitaire, Mss. Supp. 778, Société de la Bourse Italienne. Registre n. 2 du 12 août 1753 au 1800, non paginato. Qui pure sono conservati i rapporti di Baillif e la lettera di Jacques Brez del 2 gen- naio 1789.

(15) Mss. Bonnet 40, ff. 107-108, lettera di Jacques Brez a Charles Bonnet del 13 ottobre 1789.

(16) Mss. Bonnet 40, ff. 111-112, lettera del 30 gennaio 1790.

(17) Mss. Bonnet 77, f. 136, lettera del 2 febbraio 1790.

(18) Mss. Bonnet 40, ff. 113-114, lettera del 24 maggio 1790.

(19) Mss. Bonnet 77, f. 155, lettera dell'8 settembre 1790.

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aspi razioni (19). Contemporaneamente aveva ripreso i suoi studi di filosofia e di teologia iniziati ed interrotti a Losanna e a Ginevra (20).

Anche questa volta le delusioni non gli furono risparmiate. Non facile era la vita del pedagogo l'état d'instituteur ne me convient pas du tout, c'est un esclavage perpétuel auquel je ne saurais m'ac- coutumer... (21) »]. Anche l'ambiente scientifico dell'Olanda gli sem- brava gretto e meschino Les sciences naturelles et l'insectologie en particulier ont içi fait peu de sectateurs. Le commerce est la grande, je dirai presque l'unique science du peuple hollandais. S'il cherche à acquérir d'autres connoissances ce n'est que pour les rap- porter à la première » (22)]. Quanto alla filosofia, la situazione era ancora peggiore la théologie est tout à fait scholastique. C'est ce (pii me fait de la peine. J'ai déjà consulté plusieurs personnes sur les ouvrages que je dois lire pour mes études théologiques, et personne n'a pu me satisfaire» (23)]. Invano Bonnet, da Ginevra, gli faceva presente la necessità di rifarsi alla tradizione dei grandi naturalisti così come dei teologi del passato, senza lasciarsi troppo influenzare dalla situazione che aveva trovato arrivando nei Paesi Bassi. « Swam- merdam, Malpighi, Vallisnieri, Réaumur, Trembley, De Gueer, Geoffroy, Spallanzani, voilà, mon cher monsieur, les principaux auteurs qui doivent faire le fond de votre bibliothèque insectolo- giqne ». Quanto alla filosofia poteva ben darsi che a Utrecht regnasse ancora il modo di ragionare degli scolastici. Quel che importava, anche in questo caso, era tornare alle fonti, alla grande tradizione. «J'ignore trop la manière de philosopher et de théologuer des docteurs d'Utrecht... Lisez et relisez sans cesse le Nouveau Testa- ment et joignez-y les excellentes préfaces de Beausobre et de l'Enfant. Ces préfaces sont des modèles de bonne critique. Les thèses latines de notre Turretini sur la religion naturelle et révélée vous attacheront par le style et par les choses... ». « Lisez peu, ne lisez que du bon, méditez beaucoup... (24)».

In realtà Jacques Brez aveva una gran voglia di tornare a Ginevra. Partendo per l'Olanda non aveva inteso rinunciare all'idea di diven- tare pastore nelle sue Valli. « Je sens trop bien la beauté de la carrière dans laquelle je suis entré pour ne pas chercher tous les moïens possibles pour la continuer » (25). Sperava di ottener final- mente quella Borsa italiana che gli avrebbe permesso di studiare a Ginevra con l'aiuto di Bonnet e di Senebier. Quest'ultimo scriveva nel gennaio del 1791 al suo amico Bonnet che « le sort du jeune Brez me fait véritablement de la peine ». Bisognava fare il possibile per cancellare « les préventions » che questi aveva moltiplicato sul proprio

(20) Mss. Bonnet 41, ff. 7-8, lettera del 31 dicembre 1790.

121) Mss. Bonnet 41, ff. 132-133.

(22) Mss. Bonnet 40, ff. 115-116, lettera del 16 agosto 1790.

(23) Mss. Bonnet 41, ff. 7-8, lettera del 31 dicembre 1790.

(24) Mss. Bonnet 41, ff. 5-6, lettera del 25 ottobre 1790.

(25) Mss. Bonnet 40, ff. 115-116, lettera del 16 agosto 1790.

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conto (26). Bonnet gli rispondeva che avrebbe fatto quel che poteva, ma che certo il momento era poco propizio in mezzo a difficoltà politiche d'ogni genere. I pastori di Ginevra, aggiungeva, erano spesso « un peu prévenus contre notre jeune homme ». « Il me paroît pour- tant, à ce qu'il m'écrit, qu'il a l'intention sincère d'achever son cours de théologie » (27).

Anche questa volta la ritrosia delle autorità ginevrine fu insor- montabile. Jacques Brez rimase in Olanda sempre più preso e con- quistato dall'atmosfera di speranze, di rivolte e di libertà che anche ad Utrecht si diffondeva dalla Parigi della rivoluzione. La sua corri- spondenza con Bonnet proseguiva ininterrotta parlando di insetti e di metodologia della scienza naturale. Ma accanto agli interessi biologici sempre più precisi si palesavano i suoi interessi politici. Vicino alle opere di Bonnet, « mon véritable maître », egli poneva ormai « le grand Buffon, Rousseau et Raynal ». « Ces quatre auteurs sont mes lectures d'affection » (28).

Nel 1791 era uscita la sua prima opera a stampa, Lo flore des insectophiles, pubblicata ad Utrecht da B. Wild e J. Altheer. Era dedicata « à l'illustre et respectable auteur de la Contemplation de la nature » ed, insieme a Senebier e Berthoud van Bercbem, a Goante, a coloro cioè che l'avevano incoraggiato a Torre Pellice, a Losanna, a Ginevra. Nel Préambule narrava la storia della sua vocazione naturalista e si diffondeva poi lungamente sull'utilità e necessità di studiare gli insetti e la loro storia. Metteva ininterrottamente a con- tatto queste sue ricerche con i problemi economici e politici del suo tempo, con le riforme di Pietro Leopoldo e dei suoi contemporanei. certo dimenticava quanto stava accadendo in Francia, i riflessi che l'opera della rivoluzione cominciava ad avere sulle Alpi. « Les vrais amis de l'humanité ne sauraient assez louer les sages règlemens que la nouvelle législation française vient d'établir, particulièrement pour la libre culture du tabac, et qui doivent encore s'étendre, avec les restrictions convenables, à toutes les branches du commerce et de l'industrie. Ces dispositions si raisonnables devraient faire ouvrir les yeux à tous les gouvernemens, qui ne semblent s'occuper des arts et des différentes cultures que pour les écraser par des taxes acca- blantes auxquelles ils les assujetissent. Les personnes qui connaissent l'état politique de la Savoie, par exemple, savent quelles réflexions attristantes il fait naître dans l'ésprit de ceux qui la parcourent avec une âme sensible et humaine (29) ».

Gli amici ginevrini gli rimproverarono queste imprudenti parole. Perchè inserire in un'opera entomologica « quelques phrases démo- crates sur le gouvernement de la Savoye »? A Senebier, che pure aveva sempre cercato di proteggerlo, le parole di Jacques Brez erano sem-

( 26) Mss. Bonnet 41, ff. 138-139, lettera di Senebier a Bonnet del 28 giugno 1792.

(27) Mss. Bonnet 77, f. 163, lettera a Senebier del 10 febbraio 1791.

(28) Mss. Bonnet 41, ff. 17-18, lettera del 2 aprile e del 7 maggio 1792.

(29) Jaques Brez, La flore des insectophiles, cit. Préambule.

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brate del tutto inopportune. « Je lui ai dit bien f ranehement mon opinion sur l'histoire naturelle (che gli era parsa scarsamente origi- nale) et je l'ai grondé sur ces propos politiques en lui faisant sentir son imprudence et les dangers qu'elle pouvait lui faire courir quand il reviendrait dans le pays » (30). La seconda opera da lui pubblicata in Olanda non potè che confermare i suoi maestri ginevrini nelle preoccupazioni suscitate da La fioro des insectophiles.

Nel 1792 usciva ad Utrecht, sempre presso B. Wild e J. Altheer, un volumetto intitolato Voyages intéressants pour l'instruction et l'amusement de la jeunesse dans le goût dit recueil de M. Campe. Relation des iles Pelew. Era nato questo libricino dal suo lavoro di pedagogo, ed era dedicato, da Utrecht, il 14 aprilo 1792, «À mon jeune ami Laurent Theodore Nepven ». il ragazzo che egli stava educando. Riprendeva a narrare le vicende di un viaggio che già era stato tradotto in francese, con belle illustrazioni, nel 1788, con il titolo Relation des iles Pelew, situées dans la partie occidentale de VOcéan Pacifique, composée sur les journaux et les communications du capitaine Henri Wilson et de quelques-uns de ses officiers qui, en 1783 y ont fait naufrage sur F Antilope paquebot de la Compagnie des Indes Orientales, traduit de l'Anglais de George Keats, Paris, Le Jay, 1788. Opera che già di per stessa testimoniava del sempre vivo interesse per i popoli lontani e primitivi. « Rien est plus inté- ressant pour l'homme si leggeva nella prefazione que l'histoire de l'homme ». La riduzione e presentazione di Jacques Brez accen- tuava questo carattere esemplare d'un mondo lontano ed elementare. A Bonnet scriveva: « Ces bons insulaires sont un excellent modèle de conduite morale à proposer aux nations civilisées » (31). La famiglia del capo indigeno che aveva raccolto i naufraghi era paragonata a quella presso la quale egli stesso si trovava in Olanda. I primitivi, i selvaggi venivano difesi dalle accuse che gli europei lanciavano contro di loro « pour pallier en quelque façon les atrocités que l'on se permet envers eux ». « Ils présentent les nègres comme les plus disgraciés des hommes dans leur pays natal. Féconds à inventer des crimes, ils les leur attribuent tous avec la plus grande libéralité. Ah, malheureux, barbares Européens!... ».

Al suo allievo così come a tutti i suoi giovani lettori raccomanda la lettura di Raynal e La cause des nègres « du si estimable M. Fros- sart » e cioè l'opera di Benjamin-Sigismond Frossard, La cause des esclaves nègres et des habitons de la Guinée portée au tribunal de la justice de la religion et de la politique ou histoire de la traite et de l'esclavage des nègres, preuves de leur illégitimité, moyens de le abolir, apparso a Lione nel 1789 e che l'anno dopo venne tradotto in olandese e pubblicato all'Aja. Le sue pagine sono infatti un tipico esempio della passione antischiavista e anticolonialista della fine del

(30) Mss. Bonnet 41, ff. 17-18, lettera del 2 aprile e del 7 maggio 1792.

(31) R. R. Palmer, The Age of Democratic Revolution, vol. II, The Struggle, Princeton, University Press, 1964, cap. VI, The Batavian Republic, pp. 177-207,

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Settecento. « Vous qui détruises si humainement des milliers d'hom- mes pour satisfaire votre insatiable cupidité... comment pouriez-vous être sensibles au sort affreux de ces cent-mille noirs qui passent annual- lement en Amérique pour y subir le joug le plus odieux? Ces grands mots, humanité, sensibilité, justice, retentissent chaque instant sur vos lèvres, mais pénètrent-ils jamais jusqu'à vos coeurs? ». Ai mali, ai delitti della civiltà Jacques Brez contrapponeva l'ideale del Socrate rustique, del celebre libro del « vertueux Hirzel », del contadino indipendente, vicino alla natura c vicino perciò anche ai popoli più primitivi. « C'est a l'école de votre Socrate rustique que j'ai appris à estimer la vraie dignité de l'homme. J'ai étudié Klyogg afin de me connaître mieux moi-même et cette étude m'a rendu meilleur ». Ispiratore supremo di questo incontro del mondo originario e puro della natura e dell'uomo è naturalmente Jean-Jacques Rousseau. «Il ne tiendrait qu'a moi d'avancer encore plusieurs passages du vertueux auteur du Contrat social, qui tous parleraient en faveur de mon opinion. Mais quelque plaisir que je puisse trouver à citer ce philo- sophe si cher à mon cœur, je préfère, en cette occasion, de renvoyer le lecteur aux écrits de l'illustre genevois ».

A ventun anni Jacques Brez era così venuto a trovarsi in un punto particolarmente sensibile dell'Europa in rivoluzione, con l'animo aperto alle passioni e alle idee del tempo. Proseguiva i suoi studi di storia naturale, diventando segretario della Società di storia natu- rale di Utrecht, si occupava dei manoscritti lasciati dal naturalista Lyonet, con l'intenzione di scriverne una vita. Ma il suo animo era sempre più teso verso le grandi novità che quegli anni stavano por- tando. Nell'inverno 1794-95 le armate francesi occupavano l'Olanda. Nel gennaio del 1795 nasceva la Repubblica batava (32). Per Jacques Brez era innanzi tutto una occasione per aprirsi alla cultura francese, al mondo dei dotti e degli studiosi della Parigi rivoluzionaria. L'ap- parizione dei primi numeri del « Magasin encyclopédique », diretto da A. L. Millin, nel 1795, venne a compiere una speranza che da tempo egli nutriva. Inviò una serie di corrispondenze scientifiche, su nuove opere riguardanti le fortificazioni e le bombe, sulla storia naturale e sopra i suoi insetti prediletti, lieto di poter collaborare a « un journal qui manquait depuis si longtemps aux sciences, aux lettres et aux arts » (33). Divenne così « un de plus actifs correspon- des du ' Magazin enciclopédique ' parmi les Bataves » (34). La sua collaborazione aveva indubbia coloritura politica, anche perchè uno dei fondatori e principali redattori di questa rivista, Francois Noël,

(32) «Magazin encyclopédique», anno III ( 1795), fase. II, pp. 190-199, Notices des manuscrits de Lyonet in forma di lettera di « Jacques Brez, de la Société d'histoire naturelle de Paris etc., au citoyen A. L. Millin », datata da Utrecht, 15 maggio 1795.

(33) « Magazin encyclopédique », anno VII (1788), fascicolo IV, p. 391.

(34) F. H. Gacnebin, Liste des Eglises Wallonnes des Pays-Bas et des pasteurs qui les ont desservies, Leyde, 1888, p. 50 e Leida, Bibliothèque Wallonne, fondo Mirandolle (debbo queste indicazioni alla cortesia di Antonello Scibilia che mi è grato qui di sinceramente ringraziare).

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era allora diventato ministro plenipotenziario della Repubblica fran- cese presso quella Baiava e con lui Jacques Brez aveva ben presto stretto rapporti non soltanto scientifici e letterari ma anche politici.

Si sentiva ormai legato alla vita dell'Olanda. Il 17 aprile 1796 veniva eletto pastore della chiesa francese di Middelburg e instal- lato il 19 del mese di giugno. Il 17 novembre si sposava con Wilhel- mine Cornélie Goltz, da cui ebbe una figlia Wilhelmine Jacqueline Elisabeth. Sembrava ormai essere radicalo nel mondo dei Paesi Bassi. Eppure il suo pensiero tornava insistente alle Valli, alla sorte dei protestanti in Piemonte. II libro che pubblicò nel 1796 non era più di scienza naturale, ma si intitolava Histoire des Vaudois ou des habitans des vallées occidentales du Piémont (/ni ont conservé le christianisme dans toute sa pureté et à travers plus de trente persé- cutions, depuis les premiers siècles de son exitence jusqu'à nos jours, sans acoir participé à aucune réforme. Brez ci lavorava da anni, almeno da quando era andato a studiare a Losanna e a Ginevra. i pastori della città di Calvino avevano avuto torto nel sospettare della sua ortodossia, come dimostrava questo volume, compiuta ed esplicita espressione d'una visione confessionale tollerantistica ed illuminista della storia valdese. Era la conclusione e la sintesi di tutto quanto aveva pensato, sentito e scritto negli anni precedenti: amore per la natura, per il primitivo orrore per l'oppressione e la violenza, passione per la scienza e rousseouiano desiderio di un mon- do più semplice e più puro. Non è qui il caso di analizzare questa Histoire des Vaudois, sia perchè ciò è già stato compiuto da Augusto Armand-Hugon su L'illuminismo fra i Valdesi (35), sia perchè ciò ri- chiederebbe un approfondito studio delle fonti di cui Jacques Brez si è servito, un'analisi della sua narrazione e della sua interpretazione che altri più competenti di me potranno compiere.

Quel che qui dobbiamo sottolineare è il valore politico di questa storia, il suo inserirsi nelle vicende dell'età rivoluzionaria degli ultimi anni del Settecento. Le recensioni che ne diede il « Magazin encyclo- pédique » già di per se stesse ci dicono l'eco che essa suscitò in Francia. Dopo averne parlato una prima volta, questo periodico vi tornava sopra per avvertire che l'« Histoire des Vaudois, cet inté- ressant ouvrage » composto in Olanda, si poteva trovare « à Paris, chez Fuchhs libraire, rue des Marthurins, hôtel de Cluny » (36). Ed ancora nel 1799 un collaboratore che firmava C, e che non abbiamo potuto identificare, riprendeva a parlare di questo libro, colpito dalla ferocia, dalla brutalità delle persecuzioni subite dai Valdesi, per concludere infine: « Mais laissons de côté ces sinistres tableaux. Un génie bienfaisant vient dessiller nos yeux. Réparons autant qu'il est en nous les erreurs de nos pères, abjurons leurs torts en détestant

(35) Pp. 22-24.

(36) «Magazin encyclopédique,», an V (17961, fascicolo V, pp. 193-195 c an V (1797), fascicolo I, pp. 427-428.

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les crimes de quelque scélérat fanatique, rétablissons dans leurs anciens foyers les rejetons et les victimes du despotisme... » (37).

Era questo il programma dello stesso Jacques Brez, ed egli l'aveva voluto esporre, subito dopo la pubblicazione della sua Histoire des Vaudois, nell'estate del 1796, al governo stesso della Francia, al Direttorio, onde questo ne traesse tutte le necessarie conseguenze politiche. La sua lettera esprime, meglio forse d'ogni altro docu- mento, il programma e forse dovremmo dire il programma mini- mo — dei Jacques Maranda, dei David Mondon, dei Rodolphe Peyran, di coloro che Augusto Armand-Hugon ci ha presentati nel suo studio su L'illuminismo fra i Valdesi. Libertà civile, politica, economica, religiosa, facilitazioni allo sviluppo economico, ugua- glianza di diritti e di possibilità nella vita di tutti i giorni, questo programma era da lui esposto con particolare convinzione e fermezza. II documento è tanto interessante per il suo tono pragmatico, per le idee in esso implicite, che pensiamo utile riprodurlo qui integral- mente :

Au Directeur Exécutif de la République Française

Middelbourg en Zélande, le 25e aôut 1796 v. st.

Citoyens Directeurs!

Vous offrir l'occasion de faire le bien c'est assurément entrer dans les vues sages et bienfaisantes qui vous dirigent, et, à ce titre, j'ai lieu d'espérer sans doute que vous daignerez accueillir favorable- ment l'ouvrage ci-joint, que j'ai l'honneur de vous présenter comme un faible hommage de ce respect et de cette estime qui vous sont dus par tous les amis de l'humanité.

En y jettant un coup d'oeil le plus rapide vous y verrez un petit peuple constamment persécuté depuis près de trois cent ans, pour avoir voulu persévérer dans la croyance de ses pères. Vous verrez le fanatisme déployer tous ses atroces moyens pour détruire ces infortunés Vaudois qui, forts de leurs vertus et de la purété de leur conscience, sortent victorieux de tous les assauts qu'on leur livre et semblent multiplier au milieu des plus violentes persécutions.

Si vous examinez ensuite de près le système de conduite de leurs cruels oppresseurs, vous vous convaincrés aisément de la parfaite innocence des Vaudois; vous vous assurerez que leur plus grand crime fut, peut-être, de s'être toujours montrés plus vertueux, plus justes, meilleurs à tous égards que leurs barbares ennemis. Cependant l'effet des injustices sans nombre que l'on a commises envers eux n'a point été momentané; leurs descendants s'en ressentent encore d'une manière bien sensible. Nos ancêtres possédaient presque tout le Marquisat de Saluées, une partie de celui de Suze, la vallée de Pragela et la plupart des villes du Piémont, telles que Briqueras, Fenil, Campillon, Bubiane, Luzerne, etc. comme je suis en état de

(37) « Magazin encyclopédique », anno VII (1799), fascicolo V, pp. 193-207,

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le prouver par les actes les plus authentiques. Non seulement on leur a enlevé ces possessions, sans leur donner aucune indemnisation quel- conque, on les a encore restreints dans les limites les plus étroits, au-delà desquelles il leur est sévèrement défendu de faire la moindre acquisition.

Outre cela, ils n'ont presque aucune part aux avantages civils de la société, ils ne peuvent parvenir qu'aux postes les moins considé- rables dans tous les genres; il existe encore contre eux des édits dont il ne tiendrait qu'à la méchanceté d'abuser. Ils sont, en un mot, et au pied de la lettre, traités comme des enfants bâtards par leur Mère Patrie; et pourquoi. Citoyens Directeurs? Uniquement pour n'avoir jamais voulu soumettre leur croyance à aucune autorité humaine, pour avoir voulu adorer Dieu à leur façon, et non à celle de leurs bourreaux.

Les Vaudois avaient toujours espéré que le jour de la justice arriverait enfin pour eux, et que le Gouvernement ouvrirait tôt ou tard les yeux. Mais jusqu'ici leurs espérances ont été illusoires. On leur à fait les plus belles promesses, et aucune d'elle n'a été réalisée.

Profondément affligé des divers genres d'oppressions civile et religieuse sous lesquels mes compratriotes continuent à gémir, mes régards se son tournés plus d'une fois vers vous, Citoyens Directeurs et, dans l'admiration j'étais en considérant la marche humaine, sage et bienfaisante de votre Gouvernement, je me suis souvent dit à moi-même: ' C'est de là, et de seulement que tu dois attendre la justice que tu espères. Si alors j'avais eu l'avantage d'être connu de quelqu'un de vous, Citoyens Directeurs, je n'aurais pas manqué de solliciter à cet égard votre protection et votre appui. Rassuré enfin dessus par votre envoyé auprès du Gouvernement de notre Répu- blique, qui veut bien m'honorer de son affection, je prends la liberté de m'adresser directement à vous, pour vous prier, au nom de la justice et de l'humanité, de vouloir employer la juste influence que vous devez avoir auprès de la Cour de Turin à l'effet d'obtenir d'elle:

1) Que les Vaudois jouissent dorénavant de tous les droits natu- rels, civils et politiques qui sont communs aux autres habitants du Piémont, et cela sans avoir aucun égard à la différence de leurs opinions religieuses.

2) Qu'ils ayent part à tous les avantages de la société et puis- sent parvenir à tous les emplois civils et militaires, dès qu'ils auront les talents requis.

3) Qu'ils ayient liberté plénière d'acquérir des biens-fonds dans toute l'étendue du Piémont et de s'y établir s'ils le jugent à propos, et cela comme un faible dédommagement des possessions nombreuses dont on les a dépouillés dans les derniers siècles.

4) Qu'ils puissent célébrer leur culte et toutes les autres parties de leur religion où, quand et comment bon leur semblera.

5) Enfin que les Edits contraires à ces dispositions soyent annu- lées pour jamais.

En intercédant auprès du Gouvernement Piémontais afin d'obtenir

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de lui la publication solennelle de ces cinq articles, qui feraient le bonheur de nostre Patrie, le succès de votre intercession ne saurait être douteux: vous acquerrez ainsi des droits éternels à la reconnais- sance de tous les Vaudois et vous rendrez de plus en plus respectables les augustes fonctions que le Peuple Français vous a confiées.

Permettez, Citoyens Directeurs, qui en recommandant particuliè- rement cet objet à votre bienveillance je finisse par vous esprimer l'admiration dont je suis pénétré en considérant la sagesse et la fer- meté inébranlables qui brillent dans toutes les parties de votre admi- nistration.

Puissiez-vous, enfin, conduire heureusement au port le précieux vaisseau de la République et il ne me restera rien à désirer pour le bonheur de la France!

Salut et respect J. Brcz,

Ministre Français à Middelbourg en Zélande (38)

Forse i documenti del Quai d'Orsay permetteranno un giorno di ritrovare l'eco di queste proposte di Brez. Certo con François Noël egli rimase in contatto anche quando questi cessò di essere il pleni- potenziario del Direttorio in Olanda e fece ritorno in Francia. Scri- vendogli da Middelbourg il 1 luglio 1797, Brez gli parlava dei suoi sludi, della sua intenzione, se possibile, di diventare un giorno pro- fessore a Rouen o ad Amiens, dove intanto sperava di trovare dei corrispondenti scientifici. La sua grande passione di ricerca Io portava a stupirsi ed addolorarsi dell'atonia della vita culturale della Francia, che gli pareva tanto più grave in quanto era persuaso a que c'est aux lumières seules à soutenir et à perfectionner le bel édifice que la révolution a élevé ». « J'aime à espérer avec vous que la paix ramè- nera, parmi tous les bienfaits qu'elle promet, plus d'ardeur pour la culture des sciences et des lettres et que le goût s'en répendra insen- siblement dans toutes les classes de la société » (39).

Un anno dopo, il 26 luglio 1798, la morte veniva a colpirlo, quando ancora non aveva ventisette anni. Il « Magazin encyclopé- dique » tributava alla sua memoria « un sincère tribut de regrets et d'estime » (40). Nella sua breve vita egli aveva saputo racchiudere tutto l'arco che dall'amore della scienza naturale portava, attraverso Bonnet e Rousseau, alla simpatia politica per la rivoluzione francese, per le aspirazioni degli ideologi e alla sempre viva ed attiva spe- ranza nella libertà civile, politica e religiosa dei Valdesi.

Franco Venturi

(38) Parigi, Archives Nationales, A F III. 79, dossier 327.

(39) Parigi, Bibliothèque Nationale, Manoscritti, Nouvelles acquisitions fran- çaises 9624, ff. 169-170, la lettera era indirizzata a Rouen e ringraziava per la sua ammissione alla « Société d'émulation » di quella città.

(40) Anno VII (1798), fascicolo IV, p. 391.

INDICE

STUDI:

Salvatore Caponetto: Sulle fonti del « Beneficio di Cristo » pag. 3

Attilio Agnoletto: Appunti sull'escatologia in Filippo

Melantone » 7

Enea Balmas : Note sul teatro riformato italiano dei Cin- quecento: Josias di « M. Philone » » 19

Robert M. Kingdon: Démocratie et l'église: Aspects de la

querelle disciplinaire chez les Calvinistes au XVI siècle . » 47

Albert Chenou: Taddeo Duno (1523-1613) » 55

Franco Venturi: Un pastore valdese illuminista: Jacques Brez » 63

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