PER BX4878 .B64 no. 131-134 Bollettino della Società di studi valdesi. Digitized by the Internet Archive in 2014 https://archive.org/details/bollettinodellas1331soci AN MO XCIV N. 133 BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ DI STVDI VALDESI GIUGNO 1973 Direttore responsabile: Prof. Augusto Armand Hugon Il Valdismo medievale tra conservazione e rivoluzione* Anzitutto mi sia permesso di chiedere scusa dell'alternativa un po' maldestra suggerita dal titolo di questa conferenza, così com'è stato indicato sugli inviti. Per chi sappia solo un poco sul Valdismo medioevale, e abbia un po' di sensibilità per la complessità dei feno- meni storici, non si può trattare di mettersi sopra una etichetta esclu- siva come quella di conservatorismo o di movimento rivoluzionario. Anzi, è meglio lasciar cadere fin dall'inizio della riflessione questi luoghi comuni della discussione politica odierna, più atti a far scom- parire la contradditoria realtà in una nuvola formata da emozioni e pigrizia intellettuale che a mettere in risalto quello che bisogna sa- pere per poter comprendere. E che cos'è quello che vorremmo com- prendere? È il significato storico del movimento valdese, cioè il mo- do con cui s'è inserito nella realtà ecclesiastica, politica, sociale, cul- turale nella quale s'è trovato ad esistere, il rapporto che ha potuto stabilire con quella realtà, la differenza specifica, di fronte a tale realtà, in cui s'è espressa, in modo inconfondibile, la sua identità. E per chi vuole andare oltre, ci sarà poi anche motivo di riflettere, par- tendo da tale esempio storico, sul problema generale ed attuale dei rapporti possibili e desiderabili fra espressioni comunitarie della fe- de cristiana, cioè Chiese. Sette, gruppetti di credenti all'interno del- 1;' Chiese, e vita sociale in genere. Seconda premessa: bisogna lasciar cadere anche l'idea che Ma esistito un solo Valdismo medioevale, con chiari e permanenti linea- menti ideologici e sociali, dalla lontana origine nella città di Lione della seconda metà del 1100, fino alla trasformazione avvenuta per l'accostamento alle Chiese della Riforma protestante nel '500. Quel- lo che c'è stato, è un movimento con una spinta iniziale e vari vi- luppi storici, secondo le regioni e i tempi, sviluppi che hanno por- tato anche a cambiamenti di carattere talvolta assai profondi. Varietà assai grande — eppure rimane possibile, ed è necessario, di parlare del Valdismo medioevale, che però non va confuso con una sola del- (*) Conferenza tenuta alla Facoltà Valdese di Teologia a Roma nel 1972. lo sue manifestazioni. Che cosa tiene dunque insieme quella massa di materiale storico della quale è formata la nostra conoscenza del Valdismo, o dei Valdismi medioevali? Che cosa ci permette ancora di parlare del Valdismo medioevale come unità storica, ed è anche condizione minima per poter ascrivere i fenomeni che ci sono tra- smessi come fenomeni di Valdismo, al movimento valdese? Possia- mo essere sicuri che il fondatore del movimento, il ricco patrizio di Lione che si chiamava « Valdesio », non avrebbe accettato come «. Valdismo » molti dei fenomeni che poi, dopo la sua morte, si sono manifestati nella storia del movimento da lui iniziato. Lo sappiamo che già durante la sua vita egli escluse dal suo gruppo di predicatori poveri molti che volevano essere « Valdesi » e non seguirono l'indi- rizzo da lui ritenuto indispensabile per chi ne volesse far parte. Ma non possiamo far nostro, come storici, per tutto il medioevo quel cri- terio da lui adoperato; lo possiamo fare nostro soltanto per la prima generazione dei suoi discepoli immediati in cui infatti quelli che da lui vennero esclusi non potevano continuare ad agire richiamandosi al suo nome. I movimenti storici continuano a vivere anche dopo la morte di quelli che hanno dato le ispirazioni iniziaii. E sarebbe cer- tamente ingiusto, inumano ed antistorico il voler escludere a prima vista da un movimento i fenomeni nati da nuove esigenze di vita, che non corrispondono più esattamente ai criteri che furono essenziali all'inizio. Non è soltanto luteranesimo, e calvinismo, e marxismo, e via dicendo, quello che non fa altro che ripetere i concetti esatti dei protagonisti. Così anche per il Valdismo medioevale, preso nel suo insieme. Che cosa è dunque indispensabile per poter parlare di Valdismo? Direi che non si può parlare ili Valdismo dove non si trovi più un nesso storico, cioè un nesso di trasmissione comunitaria della realtà valdese, non solo un nesso di influenze spirituali, non legate ad una tradizione di convivenza come gruppo. Tutti gli «viluppi e cambia- menti avvenuti nell'interno dei gruppi valdesi, per profondi che sia- no stati, non escono tuttavia dall'ambito del fenomeno valdese. E tut- to quello che noi, come storici, possiamo fare, è di constatare che forse c'è differenza anche profonda d'ispirazione Ira i Valdismi di varie regioni e vari tempi. Ma questa risposta che abbiamo or ora data non è sufficiente. E ciò dipende dalle fonti trasmesseci. Sono per lo più testi antival- desi, o testimonianze valdesi influenzate dalle circostanze in cui fu- rono rese, cioè testi dell'Inquisizione. E l'Inquisizione non è stata una organizzazione perfetta che sia riuscita a scoprire i gruppi ere- tici in tutta l'Europa, e in tutti i momenti del loro sviluppo. Ci indi- ca fenomeni che chiama valdesi, con lunga distanza di luoghi e tem- pi. E noi constatiamo che c'è qualche identità, e anche qualche dif- ferenza, tra quelle testimonianze chiamate valdesi. Ma non riuscire- mo mai a raccontare la storia interna del gruppo vahlese, che vive di nascosto, attraverso la distanza per es. di 40 anni e di mille o due- mila chilometri che c'è fra un processo d'Inquisizione e un altro. Forse c'è stata una rottura all'interno del gruppo valdese, nel frat- tempo? Non lo sappiamo. Forse non si tratta affatto di valdismo? Poiché c'è anche questo, che agli Inquisitori non stava a cuore di fornire materiale agli storici dei secoli futuri. Non hanno hanno chie- sto agli imputati quello che noi chiederemmo loro. Era compito loro di scoprire eretici e mantenere saldo il sistema ecclesiastico nella realtà sociale. Facevano dunque poche domande basate su ciò che nei loro manuali trovavano esposto come caratteristiche di gruppi condannati per eresia, per es. se gli imputati ritenessero lecito il giuramento, o la pena capitale, o se credessero nell'esistenza del pur- gatorio, o nell'efficacia dei suffragi per i defunti, o nell'intercessione dei santi. Se gli imputati negavano questi punti, o solamente uno o due di questi punti, per gli Inquisitori erano « Valdesi », o credenti dei Valdesi. Ora può benissimo darsi che la negazione di tali arti- coli, caratteristica infatti per il movimento valdese, ma non caratte- ristica unica ed esauriente, e comune anche con altri gruppi di dissi- denti, si sia estesa, per la propaganda dei valdesi e di altri, anche nella realtà sociale del popolo, fuori dalla propaganda continua ed immediata dei gruppi settari. Non c'è dunque sempre da fidarsi di quello che gli Inquisitori ci dicono sul Valdismo. Soprattutto se pen- siamo che alle altre domande che gli Inquisitori erano soliti fare, cioè sui contatti degli arrestati con altri del loro gruppo, sui luoghi di in- contro, sui centri di vita e di studio, i veri valdesi naturalmente sem- pre cercavano di dare risposte evasive, per salvare la vita dei loro soci. Se la Chiesa fosse stata più tollerante verso 1 Valdesi, allora potremmo anche scrivere una bella storia del Valdismo. Ma allora tale storia si sarebbe svolta anche in modo molto diverso, e il Valdis- mo si sarebbe inserito nell'organismo ecclesiastico, appagando certe esigenze spirituali di certi strati sociali, e, sarebbe diventato un ele- mento d'integrazione sociale della compagine ecclesiastica. Forse, al- l'inizio, il movimento non mirava ad altro? Cerchiamo ora di indicare rapidamente alcuni aspetti del feno- meno Valdese nei primi decenni della sua esistenza che a noi sem- brano essenziali. Non mi soffermerò sul caso personale della con- versione del ricco commerciante Valdesio, che apparteneva al pa- triziato, cioè alla classe dirigente del comune di Lione: è un caso come molti altri, di crisi di coscienza nel conflitto con le norme so- ciali, tradizionali del cristianesimo di quel tempo, per il quale, gros- so modo, esisteva un ordine sociale di tre classi riconosciute come oneste e necessarie per la vita del mondo, cioè l'ordine dei lavoratori — contadini e artigiani che assicuravano l'esistenza materiale del- l'umanità — , l'ordine dei combattenti — cioè i cavalieri e tutta la nobiltà — che avevano il compito di difendere la tranquillità della società contro gli assalti dei nemici — , e l'ordine di quelli che pre- gavano, cioè i sacerdoti e i monaci, i quali assicuravano il benessere spirituale di tutta la società. Teoria astratta, quella dei tre ordini. che non era in armonia con la realtà di una società per molti versi già avanzata, ricca di contrasti e di sfumature. In essa, accanto ai contadini e artigiani, già cominciavano a imporsi gli industriali e i commercianti: pensiamo alle grandi città dell'Italia, delle Fiandre, ma anche a città di medio progresso economico come p. es. Lione. Quello che conta è che la coscienza cristiana non s'era ancora resa conto dappertutto di quel cambiamento sociale, ch-e non era anco- ra riusita ad inserire anche il ricco commerciante che trafficava non solo con le merci ma anche col denaro, nella sua concezione sociale di un mondo Cristiano. « Quale speranza di salvezza c'è per i com- mercianti » diceva un teologo del seolo XII. « Poca speranza, poi- ché tutto quello che hanno lo acquistano con frodi, spergiuri e lucri ». cioè le necessità del mestiere del commerciante erano considerate co- me disoneste. Non c'è da meravigliarsi allora se qualche volta uno di questi commercianti credette di non poter salvare l'anima sua se non facendo rinuncia totale delle sue ricchezze e diventando povero. Caso eccezionale, sebbene non raro, che non ha importanza per la comprensione di quello che noi chiamiamo il fenomeno Valdese, poiché non abbiamo quasi nessuna altra testimonianza di conversioni spettacolari di ricchi alla povertà evangelica, avvenute sotto l'impul- so della predicazione Valdese. È chiaro che nell'eiica predicata dai Valdesi, come in tutta la predicazione del tempo, non c'era molto posto per i ricchi, che venivano messi in guardia contro i pericoli spirituali derivanti dalla ricchezza ed ammoniti a usare i loro beni a vantaggio dei poveri per salvare le loro anime. Ma la predicazione valdese non mirava in primo luogo alla conversione dei ricchi che dovessero farsi poveri loro stessi, non mirava ad un cambiamento del nuovo sistema economico del grande commercio; anzi, si è svolta per lo più in altri strati della società, e tendeva ad una rinnovata vita cristiana per tutto il popolo, ad una attuazione dell'etica evangelica di quanto era di regola. Abbiamo qui appunto il tratto essenziale della conversione di « Valdesio »: che egli si fece tradurre il Nuovo Testamento e gran parte dell'Antico in lingua volgare, che. egli si dedicò ad una vita itinerante nei dintorni di Lione, ripetendo al popolo i testi biblici ed esortandoli ad impararli e a seguirli nella loro vita, e che egli riu- scì a raccogliere intorno a sé molti uomini e poi anche molte donne del popolo che lasciarono la vita che avevano condotta fino allora — e certo non erano dei commercianti — , impararono la bibbia nella loro lingua, ne fecero un patrimonio spirituale di loro proprietà, e si misero a predicare come aveva fatto Valdesio. Formarono cioè un gruppo, una fraternità di « poveri » — così si chiamavano, oppure « poveri in ispirito » — che riteneva fosse compito loro di far cono- scere al popolo l'Evangelo, perché il popolo facesse sua l'etica ivi espressa, ed avesse dunque una speranza certa di salvezza eterna. Questa la comunità Valdese delle origini: un gruppo di uomini fat- tisi poveri, liberi da tutti i legami di famiglia e di lavoro quotidiano. — 7 — per vivere unicamente quella vita instabile che secondo loro i disce- poli di Gesù e gli apostoli avevano vissuto, a servizio esclusivo dei loro prossimi cui sentivano il dovere di annunciare i comandamenti di Dio, perché si convertissero anche loro dai loro peccati. E di che cosa vivevano questi predicatori poveri, liberi come gli uccelli del cielo e i gigli della campagna da tutte le sollecitudini del mon- do? Divevano vivere nella speranza che tutte le necessità del corpo fossero loro sopraggiunte da Dio, nella misura in cui veramente sa- rebbero stati liberi unicamente per quel servizio del prossimo con la parola cui si sentivano chiamati da Dio. In concreto ciò significava che dovevano aspettare la loro sussistenza come frutto della loro predicazione popolare dagli ascoltatori della loro parola; poiché « l'operaio » inviato dal Signore nella sua messe era « degno del suo nutrimento ». Una predicazione sincera dunque, convincente per il popolo per la dedizione e la completa povertà dei predicatori, convincente anche nel senso che per gli ascoltatori doveva essere evi- dente che questi uomini non potevano vivere se non erano proprio loro, gli ascoltatori, a dare loro vestimento, cibo, ospitalità. E non era soltanto compassione umana che non lasciava perire questi uo- mini, ma faceva parte dell'etica predicata, stava scritto nei testi che insieme leggevano che l'apostolo avesse diritto a vivere della sua pre- dicazione. Non è un'immagine ideale, idilliaca quella che abbiamo dise- gnata. È stata una realtà vissuta e proprio convincente anche per la logica intrinseca di questa concezione del ministero. Era un mini- stero svolto nel contatto immediato con tutto il popolo, senza distan- za sociale. Se vi erano dei poveri — i predicatori valdesi lo erano anche loro, e spesso di più. Anzi, quel ministero doveva significare anche un sollevamento materiale per la povertà, perché — come tut- ta la predicazione della Chiesa, così anche i Valdesi, e in modo più convincente di molti altri, ricordavano alla massa dei loro ascolta- tori il loro dovere cristiano di non lasciar morire di fame e di freddo ogni povero. Tutto ciò sembra ben cristiano e poco rivoluzionario nell'ambito di una Chiesa che si chiama cristiana ed ha una lunghissima tradi- zione di vita monastica, spesso anche assai povera, una Chiesa che ha un sistema di parrocchie in cui si celebra la messa, si battezza, si insegna il catechismo, si ascolta la confessione, si predica. Perché non accettare il ministerio valdese che in sostanza non faceva nient'altro, solamente in forma di vita diversa? Limitiamoci a poche indicazioni sullo sviluppo del movimento fra l'origine a Lione nel 1176 e il primo quarto del '200. È conferma delle inten- zioni leali, non sovvertitrici, dei primi valdesi, nei confronti del- l'ordine costituito della Chiesa, rappresentato dalla Gerarchia, il fatto che chiesero fin dall'inizio il permesso ecclesiastico per poter svolgere la loro attività a Lione — a Roma, nel 1179, di nuovo a Lione, nel 1180 — , e la risposta non fu un netto rifiuto, ma un per- messo condizionato, accompagnato da una messa in guardia contro i pericoli della vita itinerante, derivanti dai fatto che da alcuni de- cenni un forte movimento di predicatori itineranti eretici e franca- mente anticlericali, i Catari, s'era diffuso laicamente in Linguadoca, nella Renania e nell'Italia settentrionale. La condizione principale per una coesistenza pacifica tra i Valdesi e le istituzioni tradizionali della Chiesa fu quella che i Valdesi svolgessero il loro ministero sol- tanto in stretta collaborazione e subordinazicne ai vescovi e ai parro- ci: potevano predicare, sì, ma soltanto col permesso del sacerdote del luogo dove si sarebbero recati. In teoria, dunque, il contrasto lo si poteva evitare. Ma significhe- rebbe aver poco senso per la realtà storica di quel tempo, il credere che le cose potessero svolgersi così facilmente come era stato escogi- tato sulla carta. In realtà, la predicazione valdese doveva destare gravi preoccupazioni per i chierici consapevoli della situazione che, secondo la tradizione, per volontà divina spettava loro nell'ordine sociale lei mondo. E certo, un movimento consapevole di una pro- pria missione divina come quello valdese non si poteva contentare, in pratica, a bussare in ogni diocesi alla porla del vescovo, in ogni parrocchia alla porta del parroco per poi andarsene se il permesso ili predicare fosse stato rifiutato. E soprattutto bisogna prendere in considerazione la situazione spirituale nelle regioni del sud della Francia, dove in seguito a lunghi decenni di attività sovvertitrice, clandestina ed aperta, di predicatori anticlericali e antiromani, buo- na parte del popolo s'era disabituata ad andare alla messa, a confes- sarsi, a chiedere l'assistenza spirituale dei sacerdoti, e s'era abituata a disprezzare in forma più o meno aperta la Gerarchia ecclesiastica, tanto lontana socialmente e culturalmente drlla vita reale del popolo. Non bisogna certo esagerare, ma un ministero che fin dall'inizio si fosse anche esteriormente legato e subordinato alla Gerarchia tanto spesso contestata, non avrebbe avuto le grandi possibilità di successo garantite invece dalla profonda impressione che l'indipendenza so- ciale, la dedizione completa alla propria vocazione, la rinuncia ad ogni forma di privilegi, ed il veder condivisa la sorte dei più poveri dovevano fare sul popolo. Qui c'era un fat*o sociale nuovo, senza al- cuna pretesa sovversiva, ma che per il contrasto in cui si trovava con le tradizioni sociali, conteneva tutte e due le possibilità: d'una parte quella di colmare l'abisso fra clero e popolo e di rendere inefficace la propaganda anticlericale, contribuendo così alla formazione di un nuovo concetto degli ordini sociali più sfumato della vecchia divisio- ne in contadini, cavalieri e sacerdoti, praticamente uomini di condi- zione bassa, gli operai, e nobili governanti il mondo, sia nella gerar- chia secolare, sia in quella ecclesiastica i cui posti importanti veniva- no anch'essi quasi tutti occupati dalla nobiltà, mentre i piccoli par- roci in gran parte ancora dipendevano dalla nobiltà secolare. Il po- polo si sarebbe avvicinato di nuovo con maggior fiducia al clero, per mediazione del ministero laico ed ortodosso dei Valdesi, e certamen- le anclie socialmente, al popolo, liberandosi dal legame che nono- stante gli sforzi del movimento riformatore del secolo undicesimo socialmente lo vincolava ancora alla nobiltà. Questa la prima pos- sibilità di sviluppo. Ma chi conosce la storia, può essere piuttosto scettico verso tale prospettiva, più atta a figurare in programmi di sviluppo che ad avverarsi nella realtà delle cose. L'altra possibilità è quella di un irrigidimento della classe dominante cui viene chiesto di aprirsi a cambiamenti sociali, è quella di una radicalizzazione del movimento nuovo che viene ad incontrare difficoltà da parte della classe dominante e che nello stesso tempo, nel contatto col popolo, ascolta quotidianamente le voci di critica, d'insofferenza per il clero, queste che certo spesso non erano oggettivamente giustificate, ma spesso non si poteva neanche negare che avessero una loro ragione. E -e poi da parte del clero si trovavano mancanze serie al proprio dovere, come è pensabile che fra quei predicatori laici che erano i valdesi non ci fosse nessuno che gliele avesse fatto notare, anche pub- blicamente? Tale era la realtà, cui s'aggiungeva un nuovo motivo d'allarme per il clero quando per la logica intrinseci di quel movimento di risveglio evangelico che per la comunità valdese ben presto comin- ciarono a farne parte e a predicare anche le donne, secondo l'esem- pio (Ielle pie donne che avevano seguito Gesù e delle altre di cui si leggeva nell'Antico e nel Nuovo Testamento. Ma se il laico, secondo la concezione tradizionale dell'ordine sociale, aveva il compito o di lavorare o di governare e di fare la guerra, ma non di predicare, la donna ne era esclusa nel modo più assoluto, per un difetto quasi connaturato col suo sesso; perché era vivo nella pia tradizione il ri- cordo dell'idea espressa per primo da Ireneo, vescovo di Lione nel secondo secolo: attraverso Eva il peccato è entrato nel mondo. Se tut- ta l'umanità soggiaceva al peccato e lutti avevano bisogno d'essere credenti, certamente, se si può dire, non in teoria, ma nel sentimento immediato, la donna lo aveva ancora un po' di più: per lei la via della salvezza era quella del lavoro per la famiglia, delle buone ope- re, della penitenza, forse anche, sopratutto se di condizione nobile, nel convento, ma certamente non quella del ministero itinerante di predicazione pubblica! Il successo della missione valdese fu grande nel popolo di Bor- gogna. Provenza, Linguadoca, poi anche di Lombardia e Germania meridionale, e moltissime sono le testimonianze che ci fanno vedere che per un successo straordinario anche e soprattutto fra le donne che ospitavano i valdesi, li ascoltavano, davano loro da mangiare, li fa- cevano venire in casa quando un membro cella famiglia era malato, perché prendessero cura spirituale dell'infeimo. ma molte erano an- che, tra la fine del 1100 e la metà del '200. le donne — le « sorelle ,> che entravano nella società valdese e svolgevano un ministero di cura d'anime simile a quello degli uomini. E noi abbiamo ancora l'eco della preoccupazione di gran parte del clero, sopratutto di quello — 10 — alto, destata da quella irregolarità del ministero e laico e per di più anche femminile, in due testimonianze molto vicine all'origine del movimento valdese. Walter Map, un chierico inglese che aveva do- vuto sottoporre i valdesi ad un esame di fede durante il Concilio La- teranense del 1179, alcuni anni più tardi scrisse: « Questi Valdesi, uomini enza cultura, chiedevano il permesso di predicare, ritenendo di essere a ciò capaci, perché avevano una Bibbia tradotta in lingua francese. Non conoscevano le infinite difficoltà della Scrittura per spiegare la quale tanti esegeti han dovuto sudare. Perciò gli incolti che non sono nemmeno in grado di imparare la parola di Dio, tanto meno la possono predicare. « L'unzione » — della dottrina cristia- na — « deve dunque scendere dal capo alla barba, e dalla barba su- gli indumenti; le acque devono fluire dalla fonte; dalle piazze pub- bliche non possono fluire altro che paludi ». Immagini poco riuscite che fanno però vedere molto bene come Walter Map concepisce l'or- dine eternamente costituito del mondo: il cristianesimo come una cosa estremamente difficile, per salvare la purezza della quale ci vuo- le la supremazia assoluta in materia di dottrina di un clero teologi- camente colto, con monopolio di cultura; altrimenti non si crea al- tro che confusione. La gente semplice è eternamente condannata alla sua condizione culturalmente inferiore: non sono nemmeno in grado di comprendere la parola di Dio, quando venisse loro spiegata. Espe- rienze di un chierico inglese, che ha però anche altri motivi di op- porsi al nuovo movimento, perché continua : Questi predicatori che fan vita apostolica « ora cominciano ancora nel modo più umile, per- ché non sono ancora "arrivati"; ma se li ammettessimo, ci caccereb- bero via ». Nella posizione di classe privilegiata che davanti ai nuo- vi fenomeni sente la necessità di difendere i suoi privilegi certamen- te ritenuti conformi con l'eterna volontà di Dio che non ha soltanto creato il mondo materiale, ma anche l'ordine sociale. Vi è certamen- te stato nel clero del tempo chi giudicava in modo più spregiudicato i nuovi fenomeni; ma abbiamo la conferma che la posizione di Map ers abbastanza caratteristica in una testimonianza dell'Inquisitore Stefano di Borbone il quale disponeva di buone informazioni da te- stimoni immediati delle prime vicende del movimento valdese. Rac- conta in un modo molto più pacato, molto più simpatico gli inizi del movimento: Valdesio si fece tradurre in volgare la Bibbia, l'imparò a memoria, ne trasse il proposito di vivere come gli apostoli erano vissuti, si disfece dei suoi beni a vantaggio dei poveri, e usurpò l'uf- ficio degli apostoli, pubblicamente predicando gli evangeli. Convocò molti uomini e donne intorno a sé a fare lo stesso, insegnando loro i testi evangelici. E li inviò nei paesi circosianti a predicarvi, « uomi- ni dei mestieri anche più bassi », cioè senza fare alcuna distinzione fra le classi sociali. Non è detto affatto in questo testo che si trattas- se di gente eccezionalmente povera, no: quello che era un fatto nuo- vo e degno di attenzione per i testimoni è appunto questo che la pre- dicazione valdese non riconosceva il tradizionale ordine sociale in — li- mi i laici avevano diritto di ascoltare in chiesa, ma non quello di parlare, e che l'apertura sociale di Valdesi 3 si estendeva senza ecce- zioni a tutto quanto il popolo: tutti, se sapevano imparare gli evan- geli e se si sentivano spinti dal contenuto di tale messaggio ad annun- ciarlo anche agli altri, essendo loro stessi disposti a rinunciare a fa- miglia e proprietà, tutti allora potevano e dovevano anche predica- te. E a differenza dell'orgoglio clericale dì Walter Map, l'Inquisi- tore non è in nessun modo in grado di negare alla semplice gente laica di campagna la capacità di ascoltare con attenzione il Vangelo. Poiché egli stesso aveva conosciuto un giov ane bifolco il quale, stu- diando gli Evangeli con i Valdesi, era riuscito ad imparare a memoria gli Evangeli di tutte le domeniche dell'anno, e molti altri testi bibli- ci. E non era il solo. Stefano di Borbone vi aggiunge l'osservazione che questo egli l'avrebbe detto per far notare la differenza fra que- sta assiduità dei credenti valdesi nel male e la negligenza dei catto- lici nel bene, poiché molti cattolici secondo lui sarebbero talmente negligenti riguardo alla loro propria salvezza e a quella dei loro fa- miliari che sanno appena il Padre nostro o il Credo o lo insegna- no ai loro servi. Vi era dunque quella massa di incolti, di cui Walter Map parlava, i quali non comprendevano la parola di Dio. Ma non che i laici non la sapessero imparare, ma se non la imparavano, o non la volevano imparare o non c'era chi gliela insegnasse. E c'è da concludere appunto dal successo della missione valdese, che non po- chi di bassissima levatura sociale erano addirittura avidi di imparare, poco distratti com'erano nella loro vita campestre. Mi pare, da questo punto di vista, sempre valida la osservazione di Gioacchino Volpe fatta più di 60 anni fa: Il movimento valdese, e « del resto, il moto ereticale tutto quanto, ne] suo complesso, è moto di cultura..., è cioè indice ed insieme spinta di più vivo lavori » intellettuale. Son coscienze che si plasmano e reagiscono; son cer- velli prima incerti che si mettono in moto. Ignorando o disconoscen- do quel che è al di fuori e contro di essi, cioè la tradizione e il dirit- to scritto, tanto nella Chiesa come nella società civile, essi si attacca- no all'autorità di testi, dove questa loro concezione primitiva della vita trova i suoi riscontri o gli argomenti giustificativi, e dove la vita religiosa si presenta con più semplici linee, libera da quella gigante- sca superstruttura di interessi mondani di Hie l'aveva gravata la Chie- sa romana ». Queste osservazioni valgono per spiegare la facilità con cui il movimento valdese — come altri fenomeni di predicazione popolare itinerante — s'è potuto inserire nella vita quotidiana della base della società. Sono osservazioni valide, ma alquanto generiche che per ogni tipo di predicazione popolare vanno precisate col rispettivo con- tenuto caratteristico. Il denominatore comune « moto di cultura )> non basta come spiegazione — non era semplicemente cultura, ili qualunque tipo fosse, quella cui il popolo mirava, ma era cultura cri- stiana, e fra i vari tipi di cristianesimo offerii, dal Catarismo al Val- — 12 — libino. la cultura cristiana più convincente, e convincente non solo in maniera teorica, ma nel senso che vi fossero evidenti d'una parte la piena adesione ai semplici testi evangelici, d'altra parte la possi- bilità per il popolo di vivere anch'esso senza diminuzioni l'etica ivi espressa. 11 popolo si trovava dunque di fronte ad una possibilità di scelte, e vi era una vera competizione ideale tra i vari movimenti di predicazione itinerante per meglio corrispondere a quelle esigenze. Abbiamo qui un punto di partenza dal quale siamo forse in grado di meglio comprendere il fenomeno degli sviluppi e delle differenzia- zioni all'interno del movimento valdese, avvenute nel periodo tra la scomunica ufficiale a Verona nel 1184 — scomunica che però rimase teorica per almeno un ventennio, senza trovare quasi nessun riscon- tro negli strati sociali, anche ecclesiastici, nei quali si muovevano i \ aldesi e il '200. Come attuare meglio il Vangelo — e come inse- rirlo meglio nella realtà sociale del popolo, tale era il problema. Esi- genze che potevano anche venire in contrasto l'una con l'altra, e sul- le quali anche i predicatori potevano dividersi fra di loro, data la di- versità degli ambienti locali in cui si muovevano. E certo, i Valdesi formavano un gruppo, s'incontravano ogni tanto, ma raramente: co- me è possibile mantenere una unità d'ispirazione quando non vi è ancora un capitolo generale autorizzato a risolvere tutti i problemi? Unità d'ispirazione fra predicatori che operavano in Linguadoca, in Provenza, in Borgogna, nella Renania, nella Lombardia, presto an- che in Baviera, in Austria. Boemia, perfino in Calabria? Avevano da operare in competizione ideale in regioni contrassegnate da un anti- clericalismo spiccato, rafforzato dalla propaganda catara e da altre tradizioni anticlericali come nella Linguadoca e in Lombardia, ma ancbe in altre regioni dove non c'erano ancora manifestazioni di Ca- tarismo e dove il successo era semplicemente condizionato dalla esi- genza popolare di una cura d'anime più immediata, meno compro- messa dall'istituzionalismo sociale ed ecclesiastico? È chiaro che il movimento valdese si differenziava a seconda dell'ambiente sociale e culturale. Vi erano, in Linguadoca, i chierici disperati per il suc- cesso dei Catari, i quali, quando vi giunsero i primi predicatori val- desi, tanto più vicini alla predicazione della Chiesa romana, ancora volonterosi a lavorare non contro la Gerarchia, ma per il bene della Cliiesa, vi videro una grande speranza per una ripresa spirituale del- la loro Chiesa, si misero a far parte del grappo valdese, impararono ila Valdesio e si misero a svolgere anche loro quel ministero itine- rante. Disputavano per oltre un ventennio, da predicatori valdesi, contro i Catari. E noi abbiamo le testimonianze che la gente, popolo basso ma anche borghesi e persino nobili, fecero venire in casa loro e i Catari e i Valdesi, e li fecero disputare fra di loro, « per vedere quali di loro fossero i migliori cristiani ». Evidentemente questi chie- rici fattisi valdesi avevano un grande interesse ad impedire che il movimento valdese scivolasse nell'anticlericalismo d'obbligo e persi- no in quella che a loro doveva apparire come eresia dottrinale. Così — 13 — nasce quella parte del movimento, in stretto contatto con Valdesio -ii'>-o. che potremmo chiamare la « destra » valdese, più preoccupa- ta d'ortodossia. Ed è da questa parte del movimento che nasce, poi, all'inizio del '200, dopo la morte di Valdesio, e dopo il manifestarsi di sentimenti più radicali, slegati dalla tradizione e dall'istituzione ecclesiastiche, nel seno del movimento — nasce la tendenza di ritor- nare all'ubbidienza della Gerarchia. Lo sviluppo invece di un senti- mento più anticlericale, estraneo al movimento alle sue origini, fino al punto di formare una gerarchia sacerdotale vera e propria che do- veva sostituire nella amministrazione dei sacramenti la Gerarchia ro- mana, è un fenomeno i cui inizi si notano un po' dappertutto, in Lin- guadoca, in Provenza, ma che trova piena espressione nell'ambiente lombardo, da molti decenni più autonomo di fronte alle istituzioni tradizionali e della Chiesa e del dominio setolare. Sono gli studi del p. Ilarino da Milano che ci hanno fatto meglio comprendere questi sviluppi in Lombardia, poi anche il libro di Arsenio Frugoni su Ar- naldo da Brescia e il problema del sopravvivere delle sue idee di Ri- forma del sacerdozio, e poi addirittura di formazione di un nuovo tipo di sacerdozio, la cui capacità di amministrare i sacramenti di- pendesse dalla dignità personale, morale, fino all'esigenza della vita apostolica come presupposto di ogni ministero apostolico. È quella che noi potremmo chiamare la « sinistra » del movimento valdese, incline a sostituire la Chiesa romana esistente con una Chiesa certo di piccole proporzioni, ma idealmente programmata come nuova al- ternativa al sistema vigente, la Chiesa tutta intera fedele alle sue ori- gini, alla Chiesa pre-costantiniana e pre-silvestrina, indipendente dal potere secolare, senza pretesa di dominio sul potere secolare, senza ricchezze. Ma non è stata questa l'idea di Valdesio, il quale non aveva concepito l'idea di una nuova Chiesa, ma di una Chiesa più inserita nella vita «lei popolo: aveva concepito l'idea di un ministero laico ed apostolico che per propria iniziativa come per divina volon- tà contribuisce a rinnovare la Chiesa esistente, cominciando con una trasformazione in parte cosciente ed attiva della società cristiana il popolo tutto quanto, anche nei suoi strati più bassi, che finora sape- va appena il suo Padre nostro e il Credo, e che da taluni veniva giu- dicato addirittura incapace di comprendere la parola divina, rite- nuta patrimonio esclusivo di una classe colta clericale, socialmente composta per lo più da membri provenienti dalla nobiltà. L'unità del movimento valdese fu così spezzata: era ancora Val- desio stesso a decidere, anche per altre ragioni di cui ora non abbia- mo potuto parlare, che non era più possibile per i predicatori val- desi fedeli alla loro ispirazione primitiva di restare in comunione con quella « sinistra » lombarda, formatasi in ala autonoma del movi- mento. Ma Valdesio non si sottomise neanche all'autorità della Chie- sa romana che dopo le prime esperienze col movimento valdese, per la sua preoccupazione della parte inalienabile del clero nell'ordine sociale della Cristianità, aveva deciso di stroncare quel movimento — 14 — laico di risveglio con coscienza di vocazione divina, per il quale era condizione di vita quella di non lasciarsi staccare dal contatto imme- diato col popolo, sottomettendosi, come veniva chiesto, alla buona volontà e alle velleità del clero locale. Valdesio decise, e con lui de- cise una buona parte dei predicatori a lui spiritualmente uniti, di continuare il ministero, fedeli all'ispirazione primitiva. È questo quello che noi possiamo chiamare il « centro » del movimento valde- se. Rimase fedele, fatto strano, per tutto il secolo decimo terzo, an- che sotto la persecuzione poi sanguinosa, non solo alla vocazione auto- noma in cui credeva, ma anche al concetto primitivo che questa vo- cazione, come la intendevano loro, non era in contrasto con la Chiesa romana, che la Chiesa romana fosse davvero la Chiesa criztiav-a, ili- ventata infedele al suo Signore soltanto nei suoi dirigenti. E che non avesse altro da fare che di riconoscere la vocazione valdese, perché si potesse ristabilire l'armonia di servizio comune al Signore. Posizio- ne certamente poco rivoluzionaria — rivoluzionaria soltanto per chi voleva elevare la disubbidienza al clero, in sé, ad eresia centrale e madre di tutte le eresie, senza prendere in considerazione il carat- tere concreto e i motivi particolari di tale insubordinazione. E cer- tamente in quel concetto d'eresia, almeno in quei tempi là, si con- fondevano stranamente preoccupazioni di purezza dottrinale con preoccupazioni di prestigio sociale, di classe. Ma abbiamo già visto, e sappiamo del resto dalla storia generale della teologia e della filo- sofìa, che l'ordine sociale del mondo nell'alto medioevo non veniva considerato come un fatto storico, contingente, suscettibile di svilup- pi, ma come creazione eterna di Dio. Anche se tale concetto si no- tava fortemente con la realtà — e vi era pure chi lo vedeva, e nella politica pratica tutti i dirigenti ne dovevano tener conto — in sede teorica il tempo non era ancora maturo per poter lasciar cadere tale concetto. E l'entità numerica del fenomeno valdese ed ereticale in genere, pur assai alta e causa di gravissime preoccupazioni, non era tale da costringere i dirigenti della società ad un ripensamento dei concetti sociali e dottrinali. I meccanismi di difesa del sistema vi- gente, pur insufficienti a lunga scadenza, riuscivano ancora a tenere il sistema in vita, almeno per alcuni secoli. Non riuscivano però ad estinguere del tutto un fenomeno radicato così profondamente nelle esigenze di spiritualità cristiana del popolo basso, come quello val- dese, il quale, pur cambiando qua e là carattere fino al punto da non lasciar più intravedere i lineamenti ben chiari delle origini, riuscì a sopravvivere, in più parte dell'Europa, fino al secolo della rivolu- zione boema e al secolo della Riforma protestante. E qua e là trovia- mo pure ancora le tracce della sua ispirazione primitiva. Così p. es. nel rito della cena col pane, vino e pesce, sviluppato agli inizi del '200 e trasmessoci in una testimonianza dell'inizio del '300, valida per la Borgogna, la Provenza, la Linguadoca, e anche parte della Lombardia. Con la citazione di questo testo vorrei chiudere questa conferenza, lasciandovi libera la vostra riflessione sulla natura o con- — 15 — servatrice o rivoluzionaria o semplicemente cristiana del fenomeno valdese originario. Non si tratta di un rito sviluppato per far con- correnza al sacrificio della messa. Non sacrificio dunque, ma un rito sviluppato per far fronte ad una doppia esigenza — l'esigenza di esprimere anche nella forma di un culto semplice, formato sul mo- dello di racconti evangelici, quella comunità col Signore che aveva chiamato intorno a sé i suoi discepoli antichi e nuovi e li aveva in- viati nella sua messe, accompagnandoli nel loro ministero con la sua presenza spirituale eppure concreta, con la sua parola e con la sua benedizione. E l'esigenza missionaria di poter offrire al popolo, allon- tanato dal culto della Chiesa romana per la propaganda catara, pri- vato della partecipazione alla messa, perché non riusciva ad aver fi- ducia nel ministero dei sacerdoti — di procurare a questo popolo una benedizione spirituale offerta, si direbbe spontaneamente, dalla let- tura dei testi evangelici sulla vita di Gesù e dei suoi discepoli duran- te la loro missione fra il popolo giudeo. Infatti noi leggiamo che nei primi tempi del movimento valdese anche il popolo credente poteva prendere parte a questo rito del giovedì santo che veniva celebrato nelle sue case, e ad altri desiderosi di parteciparvi ed infermi veniva portata una parte del pane benedetto. Più tardi, sotto la persecuzio- ne, il rito si celebrava soltanto nel cerchio ristretto dei predicatori. Ma rimaneva chiaro, almeno per molti, che non si trattava del sacri- ficio della messa. Era un rito in cui i Valdesi, lontani da ogni rifles- sione astratta su Dio, s'inserivano spiritualmente, come con la loro vita tutta intera lo facevano concretamente, nella grande linea della storia del popolo di un Dio concreto, che chiama, comanda, giudica e benedice, scendendo dal cielo nella realtà di una vita d'ubbidienza semplice. « Il giorno della cena, verso sera, quando la cena è già prepara- ta, quello che è il maggiore fra di loro, lava i piedi dei suoi soci, e con l'asciugatoio, di cui s'è cinto, li asciuga. Dopo di ciò, si mette a tavola con loro, prende il pane, il pesce e il vino e li benedice, non quale sacrificio od olocausto, ma in memoria della cena del Signore, e dice questa preghiera: « Signore Iddio d'Abramo, Iddio d'Isacco e Iddio di Giacobbe. Dio dei nostri padri e padre del Signore nostro Gesù Cristo, che hai ordinato — già nell'Antico Testamento — che per le mani dei ve- scovi e sacerdoti, i servi tuoi, fossero offerti sacrifici ed olocausti ed oblazioni di vario genere. Signor Gesù Cristo, che hai benedetto nel deserto cinque pani d'orzo e due pesci » — è una allusione alla mol- tiplicazione dei pani e pesci, così come viene raccontata nell'Evan- gelo di Giovanni, dove appunto ciò avviene poco prima del giorno di Pasqua — , « e che hai benedetto l'acqua, ed è stata cambiata in vino » — abbondanza della benedizione divina — , « benedici — Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirilo Santo — questo pane, pesce e vino, non come sacrificio od olocausto, ma come semplice commemorazione della santissima cena di Gesù Cristo, Signore no- — 16 — stro, e dei suoi discepoli. Poiché, Signore, non ho osato offrirti un dono tanto grande con le mie mani impure, e prendere nella mia bocca impura il santissimo corpo del Signor nostro Gesù Cristo, Fi- glio tuo. Ma ti chiediamo che tu benedica questo pane e la sostanza di questo pesce e questo vino. Nel nome del Padre e del Figlio e del- le Spirito Santo ». Dicendo ciò, fa il segno della croce sopra questi cibi. « E la co- munione di questo pane ti sia gradevole come semplice ostia, Padre eterno. E dirigi ranima mia e il corpo mio e tutti i miei sensi, e di- sponi nella tua clemenza i miei gesti in modo tale che io sia degno d'offrirti quel corpo tre volte santo che viene venerato dagli angeli in cielo. Che vivi e regni, Dio, nei secoli dei secoli. Amen ». Fatta questa benedizione, mangia e beve del detto pane, pesce e vino, e poi ne dà anche a tutti gli altri soci e ne mangiano e bevono ». Ecco questo testo liturgico col quale voglio chiudere, perché con le sue citazioni evangeliche e come rito che esprime una pietà im- mediata ci fa penetrare forse meglio che tante altre fonti che raccon- tano l'esteriorità del movimento valdese, e senz'altro meglio che le riflessioni che noi vi aggiungiamo dal nostro, nell'intimo della spiri- tualità valdese, basata come era su di una lettura nuova ed attenta dei racconti evangelici nella vita di Gesù e dei suoi discepoli, fatti propri ed attuati di nuovo in una vita di strettissimo contatto col po- polo senza considerazioni di classe, come possibilità e realtà di un rinnovamento all'interno della Cristianità romana, che avrebbe do- vuto, secondo loro, superare anche l'abisso apertosi fra clero e po- polo, reso più disperato dalle tradizioni e teorie circolanti sull'ordi- ne sociale eternamente costituito, che sembrava escludessero per sempre il popolo da una vita cristiana cosciente ed attiva. Ma era appunto il popolo stesso che accogliendo !a nuova missione valdese fece vedere che mirava ad una posizione cristiana diversa. Kurt Victor Sfxge Riforma e rivoluzione nelle convinzioni teologiche dei taboriti* Le chiese ed i teologi, nel corso della storia hanno anche troppo spesso pronunziato una negazione dogmatica o passionale delle forze rivoluzionarie. È chiaro che questa constatazione si applica meno al cristianesimo dei primissimi secoli che alla cristianità già stabilita « che si sente minacicata dai possibili sconvolgimenti dell'ordine so- ciale e politico con cui ha stabilito dei buoni rapporti. Le condanne esplicite delle rivoluzioni cominciano dall'epoca moderna e sono sta- te spesso reazioni contro la rivoluzione francese, ma l'atteggiamento conservatore della Chiesa nei confronti dei cambiamenti sociali si richiama ad una tradizione plurisecolare. Per giustificare ordine e stabilità la teologia ufficiale ha insistito volentieri sulla virtù sociale dell'ubbidienza alle autorità stabilite. Essa ha riconosciuto teoricamente il diritto alla resistenza contro alle leggi ingiuste, salvaguardando così qualche cosa dell'atteggiamento di rottura, caratteristico dell'Evangelo, che impegna il credente a considerare come relative le istituzioni religiose o politiche. Tuttavia questa teologia ha lasciato un ben piccolo spazio alla disubbidienza temendo, con S. Tommaso, lo scandalo e la perturbazione. È stato giustamente detto che « la storia ci mostra che la Chiesa, cedendo al- la tentazione del potere o sforzandosi di sopravvivere, ha continua- mente dato il suo appoggio a forze che l'hanno utilizzata come ga- ranzia contro alle temute trasformazioni. Sacralizzando in uno stes- so tempo la potenza dei potenti e la rassegnazione dei deboli, essa ha prolungato lo stato di fatto ». Però la riforma hussita ci sembra essere una manifestazione sor- prendente, e per certi aspetti unica alla sua epoca, di questo slancio di permanente insoddisfazione che si rinnova continuamente a con- tatto con la Buona Novella e rifiuta di accettare la fatalità della si- tuazione esistente. Attraverso al movimento taborita, la Riforma hus- sita si è lasciata mobilitare per la rivoluzione e precisamente a par- tire dal momento in cui essa prese teologicamente coscienza dell'in- giustizia di cui la Chiesa stessa si era resa colpevole. (*) La documentazione relativa a questo articolo si trova a pie del testo originale pubblicato in « Communio Viatorum », 1970. pp. 137-153. — 18 — Nel movimento hussita, a prima vista, riforma religiosa e rivo- luzione sociale procedono parallelamente. Ma sarebbe uno sbaglio se non li distinguessimo Tuna dall'altra. Non è possibile ridurre le cau- se dell'insurrezione al solo pensiero teologico, né far derivare le tesi dei riformatori dalla sola aspirazione delle forze sociali. Nell'arse- nale concettuale degli bussiti non si trova la nozione moderna di ri- voluzione in quanto cambiamento brusco delle strutture politiche economiche e sociali. Tuttavia la rivoluzione, che essi aiutarono a realizzarsi, impose i suoi temi. Essi si annunziavano già nella ricer- ca di una più autentica presenza cristiana nel mondo. Tuttavia, per esporre le loro tesi in termini intelleggibili ai loro contemporanei, i teologi hussiti dovevano necessariamente adoperare categorie di pensiero elaborate da una tradizione scolastica e canonica già piut- tosto vecchia. In questo modo le nozioni della resistenza al tiranno o della guerra giusta s'integravano nella problematica della riflessione rivoluzionaria, senza tuttavia riuscire a rendere completamente con- to della intenzione dei riformatori. Bisogna così saper rendere giu- stizia alla portata sociale dei temi specificamente teologici centrali, anche se le loro conseguenze politiche non appaiono evidenti a pri- ma vista. Ci si presenta così il problema di come la rivoluzione fu vissuta dal senior taborita Nicola Biskupec di Pelhrimov, e di come essa en- trava nel cerchio della sua riflessione. A dire il vero questa ricerca non è facilitata dagli scritti di Nicola il quale si annulla a tal punto di fronte alla causa che vuole servire da rendere veramente eccezio- nali i suoi momenti di abbandono personale. Nei dieci anni seguenti alla schiacciante disfatta delle armi taborite nella battaglia di Li- pany (1434), Nicola redasse la sua Cronaca taborita. Piuttosto che rac- contare la storia degli avvenimenti, Nicola vi redige una specie di bilancio della rivoluzione. E lo fa come apologeta delle intenzioni che mossero la grande insurrezione; al tempo stesso come testimo- nio oculare e come elemento attivo di un combattimento il cui ob- biettivo sarebbe stato visto e difeso dai taboriti con estrema fedeltà. Il termine « rivoluzione » non compare, ma questo tema è pre- sente tutte le volte che Biskupec deve affrontare il problema di sa- pere se il popolo cristiano è autorizzato o no a difendere con le ar- mi il suo diritto e la sua responsabilità di riformare la Chiesa. Le riunioni pacifiche sulle alture avevano manifestato, dal 1419, la de- cisione del popolo di ascoltare la Parola liberamente predicata, !a sua disponibilità a lasciarsi riformare dal Cristo, solo vero maestro della giustizia. In questo modo le assemblee del deserto avrebbero rinunziato deliberatamente a fare ricorso alle istanze abituali della mediazione ecclesiale rappresentata dal sistema parrocchiale. Soltan- te in un secondo tempo, e precisamente a partire dal momento in cui un intervento militare dall'esterno minacciava di distruggere que- sta volontà riformatrice, si pensò di adottare delle misure che garan- — 19 — Ussero la vita e l'espansione della Riforma e «Ielle sue conquiste, su scala nazionale. Nicola insiste sul fatto che, all'inizio, la Riforma abbracciava l'intero Re jtno. I quattro articoli di Praga furono pubblicati « per to- lain terram Bohemie et Moravie ac multas alias provincias ». All'ini- zio essi furono unanimemente ricevuti senza alcuna distinzione di or- dine sociale dai « baronibus, clientibus et multis regno Bohemie fi- delibus communitatibus ». \icola mette anche in risalto il consenso iniziale che si era stabilito fra l'Università di Praga e quel clero del Regno che. fin dall'inizio, « lavorava con il popolo ». Secondo Biskupec, questo consenso iniziale mette in luce quan- to il taboritismo rappresenti, senza soluzione di continuità, il carat- tere comunitario e popolare della Riforma nata dalla predicazione di Hus. Essa desiderava solo ricondurre la chiesa, questa povera ve- dova da troppo tempo privata della Parola vivificatrice, fuori delle deformazioni di cui era stata vittima e di ristabilirla nell'autentica disciplina apostolica. I taboriti avrebbero adottato come preciso pun- to di partenza il programma riformatore di Jacobello di Stribro nel- la sua fase iniziale. Si tratterebbe del periodo all'incirca compreso fra il 1412 e il 1417, quando il felice scopritore della assoluta neces- sità del Calice predicava dal pulpito della chiesa di S. Michele, nel- la vecchia Praga, e dei primissimi tempi della sua attività a Bethle- hem quale successore di Giovanni Hus. Si tratta di un Jacobello an- cora radicale; l'uomo che, entrato in contatto con Nicola di Dresda, si rendeva conto con meraviglia di quanto le tesi contestatrici dei Valdesi convergevano verso lo scopo che lui stesso perseguiva; l'uo- mo che aveva trovato il coraggio di gridare sui tetti quello che i suoi precursori avevano sussurrato all'orecchio nei due secoli della loro forzata clandestinità. Si tratta di quel Jacobello per cui le nozioni di eresia e di ortodossia non erano più da ricercare in rapporto con il magistero della Chiesa dominante o della autorità sociale di un cri- stianesimo ben stabilito. Si tratta ancora di quel Jacobello le cui idee sui valdesi corrispondevano molto meno ai documenti degli in- quisitori che alla teologia valdese della storia come appare, per esem- pio, dalla corrispondenza fra valdesi d'Austria e d'Italia; e questo è un fatto importante. In questo periodo riscontriamo, infatti, in Ja- cobello alcune distinzioni fondamentali comuni con i valdesi. Esse concernono la vera e la falsa Chiesa; la constatazione della salutare separazione effettuata nei confronti di papa Silvestro dai credenti ai tempi dell'Imperatore Costantino; un periodo quasi identico per le persecuzioni contro ai valdesi — 250 anni secondo la Responsio Jo- hannis, 200 anni secondo Jacobello — ; lo stesso rincrescimento per l'inevitabile nicodemismo dei Valdesi; la stessa sottolineatura del- l'aspetto necessariamente minoritario di una Chiesa che segue il Cri- sto crocifisso; una diffidenza simile per quel che riguarda l'effetto salutare delle chiese consacrate, degli altari e delle immagini dei — 20 — santi; lo stesso rispetto per il Padre Nostro, la stessa insistenza sul- la funzione profetica del martirio subito dai propri familiari. Nicola di Pelhrimov adottò a sua volta la rudimentale teologia della storia del cristianesimo dei valdesi e continuata da Jacobello. Ma rimpiange di dover constatare che Jacobello si era fermato a mez- za strada terminando i suoi giorni (1429) « completamente cambia- to », in aliam qualitatem versus suam vitam finivit. Soltanto i tabo- riti sarebbero rimasti fedeli allo sforzo originario per assicurare alle verità evangeliche l'ascendente che esse devono esercitare sulla chie- sa intera; tentativo intuito dai valdesi ed articolato sul piano della dottrina da Wiclif e Hus. Secondo gli scritti di Biskupec, il carattere specifico del movi- mento taborita deve essere cercato nello stretto rapporto fra i predi- catori della Parola ed il popolo dei fedeli. Dai loro sforzi congiunti nasce il proposito riformatore o, per adoperare un termine del XVI secolo, il his reformandi ecclesiam. Questo populus una cum sacer- dotibus cum eodeir. laborantibus costituisce l'istanza concreta della prassi riformatrice dei taboriti. Ci troviamo di fronte ad una situa- zione inedita le cui radici dottrinali devono essere cercate meno in Wiclif che in seno alla tradizione miliciana, particolarmente in Mat- teo di Janov. Già per Janov la riforma può realizzarsi solo a condizione che il popolo dei laici si lasci riformare a livello dell'uomo rinnovato dal- lo Spirito di Dio e trascini in seguito chierici e clero nel processo di una trasformazione generale della cristianità. In Janov un legame molto stretto unisce l'idea della Riforma da realizzare sociologica- mente dal basso e la sua pietà eucaristica che è comunitaria per defi- nizione. Egli prevede perfino l'avvicinarsi del momento drammatico in cui il popolo dei laici stesso prenderà posizione davanti ai suoi curati per rivendicare il nutrimento eucaristico a cui ha diritto per essere l'avanguardia del rinnovamento della Chiesa. Nel momento in cui, come abbiamo visto, il populus simplex del- le assemblee eucaristiche riunite sulle alture diventava, secondo Ni- cola di Pelhrimov, il vero responsabile della Riforma, il sogno di Janov si realizzava. E il vescovo taborita ne era perfettamente co- sciente. Inutile dire che Biskupec esagera quando vuol farci credere la unanimità quasi totale degli bussiti alla vigilia della rivoluzione. Tuttavia egli è stato sempre sinceramente convinto non solo della esi- tenza, ma anche della giustificazione della difesa armata del pro- cesso di riforma. La formulazione dei professori di Praga nel corso delle trattative del 1419 e 1420 implicava, infatti, il riconoscimento della rivoluzione. Sappiamo che i teologi universitari finirono per am- mettere, sia pure con molte precauzioni, il diritto del popolo dei credenti a disubbidire ai loro signori quando questi si fossero messi dalla parte del torto e ad assumere per conto suo « la difesa della ve- rità evangelica ». Biskupec prende come punto di partenza quella — 21 — che era stata una concessione estrema fatta dagli universitari alla teo- logia della rivoluzione. E quando, in seguito, i teologi pragesi con Jacobello alla testa, si sforzeranno di far ritornare la rivoluzione nel- l'orbita del potere politico legittimo, inteso secondo la tradizione, il vescovo taborita li accuserà di opportunismo, e perfino di tradimento. Egli non vuole trascurare le condizioni tradizionali imposte alla guerra giusta, ma afferma che esse sono sottomesse alla causa che deve essere difesa. Il fine ultimo della Riforma, cioè ut omnis error Anticristi quomodocunque paliatus destruatur et promoveatur fides Cristi, ordo, iusticia et veritas, può essere raggiunto solo all'interno di uno spazio di libertà. Analizzando la situazione di base, Biskupec scopre il diavolo all'opera per ridurre questo spazio di libertà. Il diavolo stesso avrebbe suscitato il nemico esterno ed interno della rivoluzione non violenta in atto. A differenza dei teologi pragesi, per Biskupec la giustificazione della guerra difensiva sarebbe stata ela- borata in funzione della Riforma, che è rivoluzione non violenta. Ma storicamente essa trova il suo posto fra il regime non violento della Riforma e quello violento instaurato dall'irruzione di Satana sotto alle vesti della crociata organizzata da parte della cristianità stabi- lita. Spinta dall'intervento militare della cristianità, la Riforma si vede obbligata ad accelerare i cambiamenti pazientemente sperati, a spingere verso trasformazioni profonde e brutali, realizzate anche con la costrizione. Infatti il bene che si era potuto ricercare sine omnibus bellicis difficultatibus. in un primo tempo ahimé troppo bre- ve, è stato radicalmente minacciato da parte del papa, dei prelati, del re Sigismondo, dei Tedeschi ed altre nazioni e perfino dai loro complici in seno al paese stesso. In queste condizioni solo la forza permetterà alla rivoluzione di distruggere le vecchie istituzioni, di crearne delle nuove e portare al potere uomini nuovi. La situazione stessa della cristianità esige la rivoluzione. Nel no- me dell'Evangelo Biskupec percepisce l'imperativo di mantenere 'a solidarietà con gli oppressi che soffrono particolarmente a cau^a di una chiesa appesantita e ricca. Una Chiesa che difende le posizioni acquisite da una parte con la menzogna e dall'altra con la violenza brutale. La gente semplice si trova così ingannata sia a livello della salvezza dell'anima che a quello della vita sociale ed economica. Cri- sto può preservarci dalla disperazione, ma questa certezza ci obbliga a dire al popolo che esso ha il dovere di resistere. I teologi di Praga e quelli di Tabor parlano in favore della guerra detta giusta in ter- mini formalmente quasi identici. Tuttavia i primi vogliono evitare la guerra a tutti i costi, anche quando sia condotta per difendere la Riforma, perché non diventi lo strumento che sconvolge le relazioni della società che si erano affermate durante il medio evo. Invece i taboriti che, non dimentichiamolo, derivano almeno in parte dal pa- cifismo valdese, desiderano fondamentalmente giustificare la sostitu- zione di vecchie basi, creatrici di ineguaglianze, con nuove strutture che corrispondano alla legge evangelica della perfetta libertà. — 22 — Detto questo, bisogna aggiungere che Biskupec non si preoccu- pa di dare una definizione della rivoluzione o della guerra rivoluzio- naria. La considera un fatto suscettibile di essere compreso nei limi- ti, allora abituali, della teoria del ius ad bellum e del ius in bello, ma vi aggiunge delle riflessioni teologiche. A queste riflessioni è co- stretto da una parte dalla critica che va ingrandendosi contro i com- battenti taboriti e, dall'altra, dalle stesse guerre hussite: la Riforma, diventata rivoluzione, non ha esteso la guerra oltre ai limiti conven- zionali? La guerra stessa non ritrova una dinamica veterotestamen- taria che sembrava aver perso nel corso dei secoli precedenti? Bisku- pec sarà costretto ad ammettere che il processo rivoluzionario come la guerra intrapresa per difenderlo seguono delle leggi che sfuggono al controllo della teologia e superano di molto le intenzioni primi- tive. L'uso della violenza forza il corso di quella giustizia che si sfor- za di servire. I riformatori diventati rivoluzionari sono stati costretti ad utilizzare elementi umani che non rientravano nelle motivazioni originarie. Di conseguenza, perfino fra i taboriti, alcuni tarn spiri- tuals quam seculares si son lasciati condurre ad eccessi di tirannia, crudeltà, avarizia; gli stessi eccessi contro i quali la Riforma era in- sorta fin dall'inizio. Ora la causa sacerdotum Taboriensium consisteva appunto nel vegliare affinché le prime intenzioni della Riforma fossero mantenu- te nella loro purezza. I teologi taboriti avrebbero coscienziosamente esercitato questa funzione a partire dall'anno 1422 (fine febbraio, convocazione dei ministri taboriti a Pisek). Da questo momento, secondo Biskupec, la loro sollecituiline si manifesta in una serie di misure prese per epurare la comunità da ogni specie di deordinaciones. Questo significa che fra le coinmunitates eorum subiectis regi- mini e la causa sacerdotum Taboriensium, fra i politici e i capi mi- litari taboriti da una parte cil i teologi di Tabor dall'altra non c'è soltanto stata correlazione e solidarietà, ma anche tensioni. Nel quadro che ci abbozza Biskupec, la causa del combattimen- to spirituale dei taboriti rimane più o meno la stessa e non evolve sensibilmente. La sua Cronaca si sforza di documentare il modo in cui questa causa fu costantemente difesa dai teologi di Tabor nel corso di interminabili polemiche con i professori di Praga dall'epo- ca delle discussioni del 1419-20 fino al tempo del Concilio di Basilea (1* payte), poi fino alla morte di Sigismondo di Lussemburgo (2" par- te) e finalmente fino all'anno 1444 (3a parte), ma la posizione tabo- rita, a conti fatti, appare assai stabile. Se dovessimo attenerci alla sola Cronaca di Biskupec saremmo pochissimo informati sulle crisi <• sulle trasformazioni subite dal pensiero taborita e, per esempio, non sapremmo quasi nulla delle conseguenze della potente spinta di speranza mi I lenarist ica prima del 1421; nulla sulla attrazione che aveva esercitato l'alternativa del taboritismo pacifico fedelmente rap- presentato da Pietro Chelcicky con il quale Nicola di Pelhrimov dia- — 23 - logò, come sappiamo da altre fonti contemporanee. Ma non dobbia- mo dimenticare che la Confessione taborita del 1431, come anche la Cronaca, hanno tendenze apologetiche e si rivolgono al pubblico, al- la res publica, per metterla in guardia contro al disfattismo creatore di compromessi dei professori di Praga capeggiati da Giovanni Ro- kycana. Ora, non ostante il carattere apologetico dell'opera di Biskupec, anzi proprio a causa di esso, la confessione indiretta della non iden- tità fra la causa sacerdotum Taboriensium e l'evoluzione della poli- tica taborita di potenza è estremamente rivelatrice. Questa ammis- sione ci obbliga a distinguere, senza tuttavia separarli, il popolo e l'esercito taborita da una parte e i teologi taboriti dall'altra. Tut- tavia questa distinzione necessaria non significa, nel contesto apolo- getico dell'opera, che Biskupec voglia desolidarizzare con gli sforzi taboriti che mirano alla vittoria ed al riconoscimento dei Quattro Ar- ticoli per mezzo della rivoluzione. La confessione del 1431 afferma molto chiaramente l'atteggiamento rivoluzionario dei taboriti. Per esempio quando dichiara voler « attaccare con forza l'impostura del- l'Anticristo e le sue falsità seducenti », o quando, pur senza nomi- narlo, si schiera dalla parte di Procopo il Grande tessendo l'apologia della partecipazione effettiva dei ministri taboriti agli affari politici: u Poiché, permettendo Iddio, siamo giunti al punto in cui gli affari del mondo sono senza uscita e senza rimedio, non abbiamo il diritto di condannare o di giudicare un prete che, spinto dallo Spirito di Dio, si occupa della pace fra gli uomini nel migliore dei modi e li invita alla concordia affinché, per mezzo della discordia, i poveri non siano derubati ». La critica formulata dal partito di Praga secondo cui i taboriti non osservavano gli Articoli di Praga che impegnavano i preti e rinunziare al potere secolare viene ritorta da Biskupec con- tro all'Università stessa per il ruolo da essa assunto nell'ala hussita conservatrice: « Sarebbe desiderabile che, fra i professori dell'Uni- versità e fra i loro partigiani, non ci fosse un sol prete che, in segre- to e nascostamente, si occupi degli affari di questo secolo in misura molto più grande di quanto non faccia apertamente qualcuno di noi. spinto dalla necessità ». Biskupec pensava e scriveva da rivoluzionario impenitente. Non si è messo sulla strada di quelli che, con il passare degli anni, hanno cambiato il loro primitivo entusiasmo rivoluzionario in amarezza rea- zionaria. Se ammette che la guerra condotta dai taboriti è stata ef- fettivamente alterata da disordini non lo scrive per screditare la ri- voluzione in quanto tale. Cerca piuttosto di rendere più respirabile il clima postrivoluzionario diventato soffocante, ricordando le cause della rivoluzione e i motivi capaci di nutrire l'ardore e il rischio ri- voluzionario. Per questo evoca con tanto calore il momento in cui i cristiani di Boemia si trovarono in circostanze tali da far apparire necessario il ricorso eccezionale ed una violenza passeggera per evi- tare il permanere di una violenza permanente e totalmente inaccet- — 24 — tabile. Se, all'inizio del grande sollevamento, gli hussiti impegnarono la lotta rivoluzionaria fideliter ac catholice, lo fecero a pro della Chiesa universale. In questo modo la giustificazione del Regno di Boemia di fronte alla sinistra accusa di eresia voleva soltanto inizia- re un rinnovamento che abbracciasse la cristianità intera, come ave- va già sperato Giovanni Zelivsky. Pur sottolineando la volontà dei teologi taboriti di non ritornare indietro al tempo che aveva preceduto la loro assunzione del rischio rivoluzionario, la Confessione e la Cronaca, rivolti ad un pubblico esterno, non hanno taciuto le proprie sconfitte e le riforme non con- dotte a termine. Tanto più questa caratteristica si nota in un'opera che Biskupec destinava ai suoi correligionari. Ci riferiamo alla sua raccolta di pre- dicazioni che risale verosimilmente agli anni 1425-26 e che è stata analizzata da F. M. Bartos. Da una parte Nicola di Pelhrimov rifiuta ostinatamente di accet- tare la domanda disfattista formulata dai professori di Praga: Chi può sostenere una guerra contro il mondo intero? Ma, d'altra parte, Biskupec non cessa di applicare il criterio della legge di Cristo alla prassi taborita. All'epoca dei grandi successi militari taboriti troppi furono gli ipocriti che si allinearono con loro. Con il pretesto della guerra santa, si danno alle rapine senza rispettare i giusti e gli inno- centi. E, quel che è peggio, le comunità ed i capi militari taboriti di- mostrano una colpevole indulgenza nel confronto di questi disordini, come se avessero dimenticato l'esempio normativo della chiesa pri- mitiva. Per Nicola non si tratta qui, più che in un altro qualsiasi mo- mento, di condannare ideologicamente ogni violenza, ma di aver ben chiaro lo scopo originale della rivoluzione che dovrebbe, anche in seguito, determinare la scelta dei mezzi per compierla. La rivoluzio- ne è il modo in cui il taborita vive l'amore per il prossimo. Al capi- tolo 48 della sua Confessione, Biskupec caratterizzava i combatti- menti militari dei taboriti come motivati dall'amore anche quando infliggevano duri colpi « ai distruttori della fede, agli oppressori de- gli innocenti ed agli altri trasgressori ostinati e criminali della legge divina che non si lasciano trarre dalla loro ostinazione da altri mez- zi ancora pacifici, né arrestare nel loro attacco diretto contro ai fe- deli ». Naturalmente il combattimento spirituale sarebbe una via teo- logicamente molto più raccomandabile; ma, di fronte alla violenza attiva della controrivoluzione, non rimane che la scelta di una vio- lenza rivoluzionaria disciplinata. Dobbiamo dunque parlare di un impegno critico di Biskupec nella rivoluzione taborita. L'intera sua opera letteraria si sforza di mettere in guardia i suoi compagni di lotta contro un attivismo vio- lento che considera la guerra come una condizione normale. VuoIp invece che l'azione rivoluzionaria mantenga il legame che la unisce al progetto della Riforma. Se Chelcicky abbandonasse la ricerca di — 25 — qualsiasi politica di successo e si indirizzasse verso la politica para- dossale della protesta passiva, Nicola preferirebbe la politica della testimonianza visibile. Secondo lui la chiesa taborita, strutturata se- condo il paradigma della Chiesa cristiana primitiva avrebbe dovuto dare questo tipo di testimonianza con la sua contestazione radicale contro a tutto ciò che, nella tradizione della Chiesa occidentale, li- mita, restringe, appesantisce la legge divina e la trasforma in poten- za oppressiva. Da quanto siamo venuti dicendo, lo storico potrebbe essere ten- tato di considerare puramente e semplicemente Biskupec come so- stenitore del partito taborita dell'ordine. Cioè del partito che, secon- do una analisi recente, dal 1421 aveva capito che bisognava decidersi per l'alleanza con la città borghese di Praga, in caso contrario il programma della rivoluzione contadina e plebea non avrebbe alla lunga, potuto prevalere. Senza dubbio Biskupec ha avuto la sua par- te nel progressivo isolamento dei partigiani di Martinek Huska. Ri- volgendosi alla fine del febbraio 1421 ai professori di Praga, egli esprimeva la sua volontà di ortodossia e condannava Terrore picar- tista. In questo modo avrebbe obbiettivamente facilitato l'affermazio- ne di Zizka e del partito taborita dell'ordine. Due cause lo spinsero ad assumere questo atteggiamento. Prima di tutto il fatto di non aver mai rinunziato a sottolineare il carattere nazionale, generale, perfino cattolico della decisione riformatrice presa all'inizio della rivoluzione in accordo coi pragesi. Questa vi- sione antisettaria del rinnovamento della chiesa e della società richie- deva ortodossia e disciplina in seno alla rivoluzione. In seguito Biskupec, in accordo con Chelciky e forse sotto l'influenza dei collo- quii che ebbe con lui (al più tardi a partire dalla primavera 1422) respingeva il millenarismo e la spicologizzazione del sacramento eu- caristico. In modo diverso da Huska e da Pietro Kanis, dalla rivolu- zione dell'eterno regno di Dio. ma piuttosto l'affermazione della li- bertà di Cristo sul piano della storia, quindi ancora una realtà pe- nultima. Anche se ammettiamo che. sul piano delle idee, Biskupec con- tribuì ad accelerare il processo per cui i picartisti taboriti furono re- legati su posizioni di setta isolata, avremmo torto ad attribuirgli la responsabilità del loro sterminio, ordinato da Zizka nel 1421. Aveva egli il sospetto, all'inizio degli anni venti, che la dialettica che de- termina lo spostamento dei gruppi all'interno della rivoluzione vit- toriosa, l'avrebbe costretto, negli anni seguenti, ad un simile isola- mento? Sta di fatto che egli considerava la liquidazione violenta dei picartisti come una deordonacio illicita. E la criticava come un sin- tomo del fatto che la rivoluzione portava in sé il gusto del potere e della morte. Infatti Biskupec, anche il Biskupec rivoluzionario, non ha mai dimenticato l'interpretazione valdese del comandamento: « Non uc- cidere ». La situazione insurrezionale non era certo adatta a facilitare — 26 — l'applicazione di un principio non violento, ma il senior taborita si sforzava di inculcare il rispetto per la dolcezza evangelica invitando non solo i taboriti, ma la Chiesa intera, ad abolire la pena di morte per furto ed anche per eresia. Verso il 1425 fu Nicola a dichiarare quasi solennemente: « Ego, ut sepe, publiée profiteor et confessus sum, ad nullius hominis mortem consencio, quia quocumque modo potest reformari ». Lo stesso discorso nella Confessione: « I santi apostoli del nostro Signore Gesù Cristo non hanno mai fatto uccide- re degli eretici. Quelli che osano procedere al loro sterminio, non seguono Cristo, ma piuttosto Caino, il persecutore di Abele ». Nel marzo del 1433 egli sosteneva le sue tesi davanti al Concilio di Basilea e contro agli attacchi del delegato dell'Università di Parigi. Per il nostro Autore, riconoscere la pena di morte ha sempre significato preferire le leggi pagane ed il diritto borghese delle città tedesche alla legge evangelica. Ma, per Nicola di Pelhrimov, l'interdizione dell'uccisione nella Bibbia non vuol dire interdizione della guerra e della rivoluzione. La Bibbia proibisce di assassinare il prossimo, ma non di fare la guerra (cfr. Ex. 20: 13). Del resto, senza il ricorso alla violenza or- dinata, il popolo cristiano non cesserebbe di essere vittima di monaci, abati, canonici, curati, decani, cioè di pressioni che lo incatenano e lo disumanizzano. Nessuno sfugge alla violenza, ognuno piuttosto o ne soffre o ne beneficia. Tuttavia si ecclesia debet reformari — cosa che per Biskupec è fuori di discussione — bisogna ricorrere ad una violenza che rimanga una colpabilità limitata, come era nell'inten- zione dei taboriti della prima ora. Per questa ragione i capi del- l'esercito, tanto spirituali che secolari, dovevano, prima di tutto, di- ventare essi stessi discepoli di Cristo e, di conseguenza, ispirarsi alla grande novità dell'Evangelo. In altre parole: la rivoluzione non può fare a meno della costrizione, perché i privilegiati non rinunzieran- no mai liberamente ai loro privilegi. Ma, per evitare le deordinacio- nes, le violenze ingiuste che compromettono la causa rivoluzionaria, bisogna trovare mezzi rivoluzionari che possano rimanere giusti ed umani. La rivendicazione dell'abolizione della pena di morte, che non cessa di stupirci, indica chiaramente che la causa sacerdotum Tabo- riensum condannava il terrore senza condannare la rivoluzione. Si tratta di una conseguenza dell'originario orientamento valdese del taboritismo, una prova di quella discussione della giustificazione ago- stiniana della guerra che ritroviamo in Chelcicky, sviluppata con spi- rito singolarmente conseguente. Anche se non giunge così lontano quanto quel pensatore suo contemporaneo, Biskupec non si è mai rassegnato ad ammettere che. dal momento che i cristiani devono as- sumere responsabilità politiche, debbano rinunziare a vivere secon- do le esigenze del Sermone sul Monte. In questo modo la causa sacerdotum Taboriensum non accetta d; fare il gioco ilei partito taborita dell'ordine. In ogni caso Bisku- — 21 — pec. fedele al principio della sovrana autorità «Iella legge di Cristo — quale l'aveva formulata a Cheb nel 1432 — voleva aiutare i cristia- ni a trovare la via di un comportamento evangelico in mezzo alle grandi ingiustizie che caratterizzavano il mondo di allora. Vittoriosa, la rivoluzione hussita aveva lasciato gli uomini in una situazione nuo- va nella quale si imponevano nuove responsabilità e nuove sfide. Nes- suna dica in quella congiuntura: « mi conformerò secondo Roma, o Praga o Tabor ». Per Biskupec è valido solo l'esempio normativo del collegium ecclesie primitive, que est mater nostra. La rivoluzione ar- mata, per quanto inevitabile fosse, non si è mai identificata con la causa dei teologi taboriti e que^a causa rimane in piedi anche po- tentia sublata, cioè anche dopo la disfatta delle armi taborite. Nel- l'ottobre del 1436. Nicola dichiarerà, non senza fierezza, davanti al- l'imperatore ed ai legati del Concilio di Basileo di aver difeso le ve- rità evangeliche in ogni tempo dimissa oinni violentia et potencia, sia ante moderna bella, che tempora illorum bellorum e post illa bella. Impenitente teologo della rivoluzione, Biskupec visse il dramma dell'invecchiamento della medesima. Nel corso del IV Symposium Pratense, organizzato alla fine di settembre del 1970 a Tabor, emi- nenti specialisti hanno attirato l'attenzione sull'evoluzione molto ra- pida della comunità taborita rivoluzionaria verso una società borghe- se. Di questa involuzione furono vittime i teologi taboriti più in vi- sta: Ni:ola Biskupec e \ enceslao Koranda. Traditi dalle loro comu- nità imborghesite es-i finirono i loro giorni nelle prigioni di Gior- gio di Podebrady. Fra il 1436 ed il 1452 il taboritismo fu progressivamente ridotto allo stato di erclesiola in ecclesia. Lungi dal poter sognare di realiz- zare il programma massimalista di una riforma della Chie-a univer- sale co,i l'aiuto di un popolo insorto, i teologi taboriti furono co- stretti a difendere ormai il semplice diritto dei loro fedeli a vivere una vita comunitaria secondo la loro comprensione del messaggio evan- gelico. La soppressione di Tabor come potenza politica metteva mag- giormente in evidenza, nel pensiero di Riskupec, la parentela origi- naria della sua interpretazione con la sua intuizione di carattere val- dese. Una lettera del 1444 e indirizzata in Moravia ci rivela le con- dizioni di spirito nelle quali Nicola continuava la sua missione. Nicola Biskupec. frater omnium Cristi fidelium, come si firma, passa in rivista le sofferenze sopportate negli ultimi vent'anni per aver rifiutato di lasciarsi allontanare dalla verità riconosciuta, sia dal- la violenza che dall'inganno. Se i Padri del Concilio di Basilea han- no usato artifici alla romana per mantenere la loro supremazia sul mondo intero, si tratta ora di vivere la libertà cristiana, nonostante la loro vittoria fisica. Rokycana, per suo conto, -i è lasciato sedurre dai miraggi dell'arcivescovo di Praga. Povera Boemia, che nonostan- te il sangue versato da tanti suoi figli, non ha saputo resistere alle se- duzioni dei beni terreni! Tuttavia la volontà del Signore è che l'ope- — 28 — ra della Riforma sia condotta a termine, non più per mezzo della guerra e della violenza, ma con l'aiuto di coloro che il Signore sta per suscitare lì dove nessuno lo sospetterebbe. Non mi aspetto più nulla dalla guerra, esclama Biskupec, io che vivo i miei ultimi gior- ni privato di ogni sicurezza anche presso coloro che si dicono miei amici. Tuttavia non tacerò ed in questo voglio seguire l'esempio dei profeti e degli apostoli e dei nostri martiri Hus e Girolamo. Questo richiamo al martirio di Hus e di Girolamo da Praga è si- gnificativo. I successi spettacolari della rivoluzione sono da dieci an- ni oscurati dall'ombra del massacro di Lipany e Biskupec si arrende all'evidenza di Hus: la verità diventa veramente reale nella storia solo quando gli uomini danno per essa la loro vita. Possiamo considerare l'hussitismo fortunato di aver avuto uomi- ni come Nicola di Pelhrimov i quali gli hanno ricordato che, se la rivoluzione si perde quando si accontenta di successi parziali o quan- do nega le sue sconfitte, essa si salva invece, quando può dimenticar*1 i suoi valori per pensare soprattutto a ciò che non è stato compiuto. Amedeo Molnar Barba Morel e Bucero sulla giustificazione per fede1 MS 259 (c-5-18) Trinity College-Dublino* 81 Carissime lo es assay manifest en après de my e o teno ferm per raczon e per scripturas que un sol christ es tota e perfecta salu e justificacion de tota la generacion humana; car salu non es pausa qualcuna autra cosa ni alcun nom es sot lo eel entre li home al quai covente nos esser fayt salf [Atti 4: 12]. E dereco el fey nos salf non d'obras de justicia, las quais nos hayan fayt, mas segond la soa grant misericordia per Jesu christ etc. Mas emperezo per lo contrari se legissan tant de scripturas las quais son vistas mot contribuyt alas obras. Las menez frevols non entendent sanament, non poun far que non sian torba. E la 82 se legis: de las toas parollas tu seres justifica // e de las toas parollas tu sares condapna [Mt. 12: 27]. E tot aquilh que di a my: o segnor o segnor, non jntrare al règne de li eel, mas aquilh que fay la volunta del meo payre [Mt. 7: 21]. E dereco rende a hunchascun segond las soas obras. E quante luocc possessire lo règne, car vos messe dona a maniar etc. [Mt. 25: 34 ss.]. La quai cosa es vista esser asegna en luocc de raczon per que lo règne sia liora a lor a posseson. E enaymi layga steng lo fuoe enaymi l'almona steng lo pecca. E di li ne già non partire car via descende ali enfern. E las almonas e oracions de cornelli son vistas aver merita que l'angeli descende del cel per la qual cosa el fossa justifica [Atti 10]. E lo es vist que lo publican descende justifica per las soas oracions [Le. 18: 14]. E dereco es script layssa que yo piagna un petit la vita doler da- vant que yo anne e non retoener etc. [Giob. 10: 21]. E fay la toa almona en rescos e lo teo payre o rendere a tu [Mt. 6: 4]. (* (Pubblicato per gentile concessione del Trinity College di Dublino. (1) Su questo argomento cfr. il mio articolo Mémoires de George Morel in Boll. 1972, n. 132. specialmente pp. 42-46. — 30 — E dereco si tu voles studer a vieta garda li meo comandament [Mt. 19: 17]. Item deo ama plus aquel lo qual serve a si plus ferventament coma es manifest antre de li sanct, car tuit li apostol eran ca- rissimos a christ, mas lo es dit prineipalment de Johan, a quel disciple Io qual jesu amava. E Magdalena es mais presa que si- mont, car havia plus ama etc. [Le. 7: 36 ss.]. 8'A Delà qual cosa es vist esser segu que la deo esser atribuy alcu- na cosa alas obras. E semilhanent en quanta vecz se legis Dio si esser trastorna delà punicion de li peccator, liqual havia de- libera tie punir, emperczo car facian penitencia coma es mani- fest sujet. Jusqu'à plus ample informé, il vaut mieux ne pas le con- sidérer comme un martyr. Jean-François Gilmont (22) Dijon, Archives municipales, B 174, f. 142. Cfr P. Imb\rt de La Tour. loc. cit. Très aimablement, le Conservateur des archives de la ville de Dijon, M. B. Savouret, m'a envoyé une photocopie du passage en question: j'ai ainsi pu vérifier l'exactitude de la lecture de P. Imbart. (23) Consulté également à ce sujet, M. Savouret n'a retrouvé aucun Damvelle, ni Dainvelle, en particulier dans Roserot, Dictionnaire topographique du département de la Cète d'Or. Il suggère la lecture d'Ainvelle et signale deux « Ainvelle » (Hte Saône, arrond. de Lure, cant, de St-Loup sur Semouze: Vosges, arrond. de Neufchateau, cant, de Lamarche). En citant ces indications, je tiens à dire ma gratitude à M. le Conservateur Savouret. Registres de leglise évangélique Vaudoise de Mentoulles en Val Cluson pour l'année 1674 Dans le Bulletin de la Société d'Histoire Vaudoise n. 22, juin 1905, pp. 21 à 252 se trouvent les « Registres de l'ancienne église évangélique Vaudoise de Mentoules, en Val Cluson, de Juin 1629 à Octobre 1685 ». La page 154 porte une remarque: « Il y a après ceci (c'est à dire après nr. 1585, Baptême du 26.12.1673) une lacune: l'anne 1674 manque complète- ment, par ce que, quelques recherches que nous ayons faites, nous n'avons pu découvrir ni le cahier original au Prieuré de Mentoules, ni l'extrait à Briançon ». Cette année 1674 se trouve maintenant dans les archives du prieuré de Mentoulles. Monsieur le Prieur Trombotto, son cousin Monsieur l'abbé Trombotto, Monsieur le juge Pazé et Madame Nevache ont classé les ar- chives découvertes avec beaucoup de peine. Monsieur le Prieur Trombotto à permis de publier cette année 1674 dans notre Bulletin. J'ai divisé cette année en différentes parties. Premièrement viennent les baptêmes dans l'ordre suivant: 1. Le jour de la naissance. 2. Le jour du baptême. 3. Le nom de l'enfant. 4. Ses parents. 5. Les parrains et marraines. 6. Le quartier ou annexe de Mentoulles. 7. Le ministre du baptême. Puis viennent les mariages dans l'ordre suivant: 1. Le jour du mariage. 2. Le nom de l'époux, son âge, ses parents, son village. 3. Le nom de l'épouse, son âge, ses parents, son village. 4. Les témoins. 5. Le pasteur. En dernier les décès: 1. Le jour de l'enterrement. 2. Le nom et l'âge du défunt. 3. Les parents ou l'époux survivant. 4. Les noms de ceux qui ont assistés. — 50 — 5. Le quartier ou annexe de Mentoulles. 6. Le nom du pasteur. La lacune est entre les nrs. 1585 et 1586 dans le Bulletin n. 22. J'ai numéroté les baptêmes de 1 à 57, les mariages de 58 à 73, les décès de 74 à 102. Légende des abréviations: sf = femme de; p = père; m = mère; Le prénom après un nom est le nom du père; + = feu; ass = les assistants. Il est écrit sur cette dite année: « Continuation de Resgistre des Baptisme, mariages et supultures de ceux de la religion prétendu reformée de la communauté de Mentoules pour l'année prochaine 1674 par Nous Vibalif du Brianconnois paraphe et cotte et nous sommes soubsignes X G au bas nostre greff quy a fait coses paraphes a Briançon ce XXX-Xbre 1673 avec le procur. du roy (le reste est illisible). Fantin ». Theo Kiefner Baptêmes: 1581 1 — 3/4.1.1674: Thomas Conte, p.: + Thomas C, Marie Borei m., Jean Borei, Marie Borei Jaques, tous de Chambons (Daniel Martin). 2 — 10 11.1.1674: Marie Blanc, p. Estienne B. tailleur d'habits, Anne Neuasche m., Pierre Fillol (Filhol) sf. Maire tous de Villecloze (Da- niel Martin). 3 — 13.1/4.2: Estienne Martin, p. Jean M., Marg.te Orcelet m., laboureurs, du Fau, Abraham Martin oncle, Marie Orcelet, tante (D. Martin). 4 — 19.1/4.2.1674: Marie Martin, p. Abraham M., Anne Orcelet, du Fau m., Jean Blanc Laurens, l'Ama Izabeau Martin du Fau (D. Martin). 5 — 2/1 1.2.1674: Marie Chiout, p. Abraham Ch. laboureur, Granges, An- ne Talmon m., François Piton, Ville close, Suzanne Conte, Ville close (D. Martin). 6 — 5/22.2: Estienne Orcelet, Estienne O., Jeanne Bourlot, la fond du Fau m., Pierre Orcelet oncle, Marie Bourlot tante de Fenestrelle (D. Martin). 7 — 9/22.21674: Abraham Conte, p. Abraham C. Jean dit matinier, Cathe- rine Conte m., Estienne Bonet, sf. Marie Conte tous de Chambons (sans signature). 8 — 5/22.2.1674: François Conte, p. Jean C. dit grand, Anne Conte m., Pier- re Conte oncle, sf. Catherine Conte tante, tous de Chambons (D. Martin). 9 _ 16/24.2.1674: Marie Guiot, p. Jean G. laboureur, Fenestrelle-s, Marie Bourlot m., Moyse Guiot oncle, Jeanne Guiot tante (D. Martin). 10 — 22.2/4.3.1674: Marie Pellenc, Jean P. aveugle, Granges, Anne Piton m., Pierre Piton oncle, Marie Pelenc tante (D. Martin). 1! — 3/6.3.1674: David Bonet, p. Jean B., Madedene Rej, laboureurs, Cham- — 51 — bons, m., Antoine Blanc Lastier lafondufau, sf. Judith Girard (D. Martin). 12 — 1/11.3.1674: Marie Martin, p. Jean M., Marie Fillot m., Estienne Blanc, lafondufau, tante Suzanne Martin (D. Martin). 13 — 8/15.3.1674: Antoine Blanc, p. Michel B., Fenestrelles, Anne Juvenal m., Daniel Juvenal + Estienne, Suzanne Blanc, tous de Fenestrelles D. Martin). 14 — 28.2 22.3.1674: Pierre Passet, p. Jean P. Mareschal de Mentoules, Marie Veslier m., Paul Bonin des Vignales, Marie Bonet sf. de Jean Bonet de Chambons (D. Martin). 15 — 27.3 7.4.1674: Antoine Juvenal, p. Jean J., Marie Borei, Fenestrelles m., Antoine Borei oncle, Catherine Borei tante (D. Martin). 16 — 29.3/19.4.1674: Anne Clapier, Guillelmon C, Jeanne Blanc, laboureurs de Ville cloze m., Samuel Clapier oncle, Marie Martin tante (D. Martin). 17 — 20.4/6.5.1674: Jean Borei, Jean B., Catherine Conte de Ville cloze m., Jean Nevache Estienne, Suzanne Conte sf. de Jean Pastre, Ville clo- ze (D. Martin), ze (D. Martin). 18 — 25.4/6.5.1674: Catherine Orcelet, p. Pierre 0. laboureur de Ville cloze, Marie Blanc m., Pierre Blanc oncle, Catherine Pastre, Claude an- cien, tous de Ville Cloze (D. Martin). 19 — 7 13.5.1674: Marie Revior, p. Etienne R. du puj de Fenestrelles, Fran- çoise Bonin m., Pierre Bourlot Pierre, Madeleine Bonin tante de la Tronchée (D. Martin). 20 — 22.4/13.5.1674: Pierre Neuâche, p. Jean N., Suzanne Parandier la- boureurs m., Jean Borei ancien de la fondufau sf. Suzanne Orcelet. 21 — 5 20.5.1674: Catherine Piton, p. Etienne P. Mang.te Bonet labou- reurs Ville cloze m., Claude Pastre ancien, sf. Madelene Carra (D. Martin). 22 — 23/24.5.1674: Estienne Guillelmon, p. Estienne G., Chambons Su- zanne Juvenal m., Antoine Guillelmon oncle, Marie Conte (D. Martin). 23 — 24/27.5.1674: Pierre Jordan, p. Pierre J., Jeanne Bourlot laboureurs Champs de Fenestrelles m., Pierre Molaret + Jean, Anne Bourlot (D. Martin). 24 — 2/3.6.1674: Marie Chabrier, p. Antoine Ch., Marie La Cour laboureurs Chambons m., Jaques La Cour oncle, sf. Madeleine Michalonet (D. Martin). 25 — 20.5/3.6.1674: Jean Blanc, p. Laurens B. Jean ancien la Fondufau, Su- zanne Parandier m., Estienne Parandier oncle, Suzanne Orcelet + Jean tous de La Fondufau (D. Martin). 26 — 10/10.6. 1674: Marie Guillelmon, p. Jean G. Pierre, Marie Junvenal, Fenestrelles m., Antoine Guillelmon oncle, Marie Bourlot sf. de Jean Moularet, Fenestrelles (D. Martin). 27 — 18/21.6.1674: Estienne Pastre, p. Jean P. not.re. Jeanne Conte m., Estienne Cleo, marchand, Granges, Suzanne Pastre tante (D. Martin). — 52 — 28 — 19/24.6.1674: Pierre Bonet, p. Pierre B. t Pierre, Marie Conte labou- reur et masson, Chambons m., Jean Bonet ancle, Judith Conte tan- te (D. Martin). 29 — 28/28.6.1674: Pierre Veilier, p. Pierre V., Anne Chiout laboureurs m., Jean Passet Maréchal, sf. Marie Veilier (D. Martin). 30 — ?/15.7.1674: Anne Julian, p. Jean J., Jeanne Chiot, laboureurs, Ville Cloze m., Antoine Clapier, Caterine sf. d'Antoine Jaquet (D. Martin). 31 — 22/22.7.1674, Catherine Orcelet, p. Jean O., Suzanne Brun m., Jean Pelenc oncle, Madelene Brun tante (D. Martin). 32 — 24.7/5.8.1674: Pierre Parandier, p. Jean P. Pierre, Anne Conte, Serré Cours m., Pierre Parandier oncle, Anne Orcelet, Serré Cours (D. Martin). 33 — 26.7/5.8.1674: Suzanne Terrier, p. Jean F., Suzanne Bonet, tailleur m., Etienne Pelenc Antoine, Suzanne Chiout, Granges (D. Martin). 34 — 7/12.8.1674: Estienne FUlol, p. Pierre F., Marie Neuâche, Ville Cloze m., Jean Blanc Laurens, sf. Marg.te Neuâche cousine (D. Martin). 35 — 16/26.8.1674: Anne Chiout, p. Jean Ch., Anne Martin, laboureurs, la Fondufau m., Peiret Conte, sf. Marie Conte, la Fondufau (D. Martin). 36 — 30.8/2.9.1674: Jean Guillelmon, p. Jean G. Claude, Anne Guillelmon, Chambons m., Laurens Guillemon, Chambons, Marie Bourlot sf. de Jean Molaret, Fenestrelle (D. Martin). 37 — 16.8/2.9.1674: Anne Clement, p. Jean C, Marie Pelenc, Ville Cloze m., Antoine Clement oncle, Maire Martin, sf. de Jean Blanc, Ville Cloze. 38 _ 6/9.9.1674: Catherine Clapier, p. Antoine C, Suzanne Piston, Ville Cloze m., Jean Piston, oncle, Catherine Piston, tante (D. Martin). 39 _ 14/24.9.1674: Marie Guillelmon, p. Etienne G., Catherine Conte m., Jean Guillelmon dit Marquis, sf. Marie Blanc (Remond - durant la tenue du Synode). 40 _ 17.9/4.10.1674: Susanne Marti, p. Daniel M. Ministre, Susanne Pastre m., Thomas Gautier ministre Fenestrelles, Judit Pastre Jean, Men- toulles (Ministre d'Usseaux Bourcet). 41 _ 29.9/4.10.1674: Marguerite Pelenc, p. Jean P., Madelene Brun m., Jean Orcellet oncle, Anne Brun tante (D. Martin). 42 _ 19.9/7.10.1674: Catherine Neuâche, p. Jean N., Suzanne Martin, Vil- le Cloze m., Pierre Conte Maréchal Chambons, sf. Marie Neuâche (D. Martin). 43 _ 23.9/14.10.1674: Suzanne Clapier, p. t Estienne C. ancien Ville Cloze, Marie Chiout m., Francois Piton oncle, Catherine Piton tante (D. Martin). 44 _ 18/19.10.1674: Jean Re], p. Jean R., Jeanne Bonet m., Jean Passet Mareschal, Maire Guillelmon femme de David Bonet (D. Martin). 45 _ 16.10/4.11.1674: Pierre Guillelmon, p. Jean G. Chambons, Marie Blanc m., Jean Guillelmon Claude, Madelene femme d'Abraham Guillelmon tante (D. Martin). 46 — 31.10/8.11.1674: Marie FUlol, p. Benjamin F., Marie Parandier Zarra — 53 — m., Pierre Conte M.e Chartre, Chambons, Marie femme de Jean Martin (D. Martin). 47 — 8.11/11.11.1674: Marie Conte, p. Pierre C. Guillelme Chambons, Su- zanne Bourcet m., Jean Conte oncle, Judith femme de Jean Conte tante (D. Martin). 48 — 11/16.11.1674: Mane Guillelmon, p. Pierre G., Marie Blanc Cham- bons m., Jean Guillelmon oncle, Marie Blanc tante Chambons (D. Martin). 40 — 9/18.11.1 674 : Jean Clapier, p. David C. cordonnier, Caherine Chiout m., Jean Gos marchand, Judith Pastre Jean nto.e (D. Martin). 50 — 11 18.1 1.1674: Marguerite Conte, p. Pierre C, Catherine Conte m., Pierre et Suzanne Conte oncle, tante, tous de Chambons (D. Martin). 51 — 22 25.1 1.1674: Ester Orcellet, p. Pierre O., Anne Brun m., Pierre Vei- lier, sf. Anne Chiout (D. Martin). 52 — 16.11 2.12.1674: Estienne Bonet, p. Jean B., Madelene Blanc Granges m., Abraham Pelenc, Catherine femme d'Estienne Guillelmon, Cham- bons (D. Martin). 53 — 20.11 2.12.1674: Daniel Pastre, p. Claude P., Madelene Carra, Ville Close m., D. Martin, ministre, Suzanne Pastre (D. Martin). 54 — 19.11 9.12.1674: Marie Chiout, p. Jacob Ch. Not.e, Maire Piston, Gran- ges m., Jean Perron, dr. med., Marie Grosel, Souchiere (D. Martin). 55 — 11 25.12.1674: Jeanne Piston, p. Pierre P., Jeanne Neuache.Ville Clo- ze, m., Jacob Chiout nt.e Granges, Catherine Pelenc femme d'Antoine Piston (D. Martin). 56 — 13/25.12.1674: Antoine Blanc, p. Antoine B. M.e Bastier, La fondufau, m., Jean Blanc oncle, Anne Borei tante (D. Martin). 57 — 26 30.12.1674: Estienne Bonet, p. Estienne B., Estienne Chambons m., Abraham Bonet oncle, Catherine Bonet, tante (D. Martin). Mariages: 58 — 14.1.1674: Sr. André Gautier t Pierre, marchand de la Tour-Val Lu- zerne, ca 24 - Zeugen: Jaques Gautier frère, Josué des Molins cousin Paule Gos + Sr. Jean Batiste de la Tour-Val Luzerne, ca 26 - Jerome Gos dr. med. frère, Jaques Papon proposant neveu (D. Martin). 59 — 15.3.1674: Jean Pons Pierre de villaret, 27 - Michel et Guillelmon Da- vin beaux frères Suzanne Martin + Cap.ne Pierre de Balbouté, 22 - Sr. Jean Martin frère, Cap.ne Jean Pastre ami (D. Martin). 60 — 1.4.1674: Daniel Juvenal + Estienne laboureur Fenestrelles, 34 - An- toine Borei Jean, Estienne Perron Chirurgien Pragela Suzanne Blanc Michel, 23 - Pierre Blanc frère, Michel Blanc cousin tous de Fenestrelles (D. Martin). 61 — 7.4.1674: Michel Chapelle Michel, Fenestrelles, 34 - Daniel et Jean Chapelle frères Jeanne Revior Michel ca 18 Champs - Pierre Revior Jaquet et David revior David (D. Martin). — 54 — 62 — 12.4.1674: Estiene Girard Jean la Fondufau ca 22 - Jean Blanc ancien oncle parrain, Antoine Brunei parent des Granges Catherine Parandier + Abraham la Fondufau ca 18 - Pierre Paran- dier oncle, Michel Blanc Laurens parent, tous de la Fondufau (D. Martin). 63 — 15.4.1674: Jean Blanc Laurens laboureur la Fondufau, 24 - Jean Blanc ancien oncle, frère Michel Blanc Marguerite Neuache probe Estienne Ville Cloze ca 18 - Pierre Fillol oncle, Jean Neuache cousin, tous de Ville Cloze (D. Martin). 64 — 29.4.1674: Samuel Clapier + Pierre Ville Cloze ca 29 - ils Estienne Clapier Ville Cloze anciens, Jean Borei L'arra Marie Martin Samuel du Fau, 28 - elles Daniel Bergoin Puj Pragela, Estienne Martin (D. Martin). 65 — 29.4.1674: Jean Blanc Laurens L'arra, 29 (?) Jsabeau Martin Samuel du Fau, 22. 66 — 10.5.1674: Jaques Martin Guillelmon, ca 32 - frères Jean et Dauid Martin Jeanne Blanc Laurens taneur la Fondufau, 28 - Antoine et Jean Blanc frère et cousin (D. Martin). 67 — 10.5.1674: Jean Ravior + Abraham de Bourcet/Com.te Roure ca 25, - Thomas Talmon + Jean, Dauid Barrai i Pierre Suzanne Martin Pierre du fau ca 25 - Jean Chiot + Pierre, Daniel Griot + Dauid de Joussaut (D. Martin). 68 — 10.5.1674: Jean Ayasse + Jean de Bourcet ca 19 - Pierre Ayasse an- cien de Bourcet, Pierre Tron de Granier Catherine Martin Pierre du fau ca 23 - Jean Chiout + Pierre, Daniel Griot + Dauid de Jossaut (D. Martin). 69 — 15.5.1674: Pierre Conte + Jean Chambons 25 - Pierre et Benjamin Fillol, Jean Orcelet Suzane Veilier ca 15 - Thomas Disdier de la Gleizale (D. Martin). 70 — 24.5.1674: Pierre Conte t Peyret laboureur la Fondufau ca 23 - Jean Conte frère, Jaques Vinson Marie Conte + Michel Chambons 18 - Samuel Martin, Antoine Cha- brier (D. Martin). 71 — 7.6.1674: Etienne Guillelmon + Abraham 25 - Jean Guillelmon dit Marquis, Pierre Guillelmon + Abraham Caterine Bonet Jean Chambons, 20 - Etienne Bonet, Michel Blanc Laurens (D. Martin). 72 — 8.11.1674: Pierre Guillelmon Pierre, Chambons 48 - Antoine Guillel- mon frère, Jean Paslre Claude ancien Catherine Guillelmon t Pierre, Chambons ca 32 - Francois Conte an- cien, Antoine Piston, Granges (D. Martin). 73 — 11.11.1674: Jean Chiout Jean, Granges 25 - Jean Clapier beaufrère, Dauid Clapier beaufrère Anne Guigas t Jean, Fenestrelles 27 (17?) - Michel Blanc, Daniel Re- vior de Fenestrelle (D. Martin). - 55 - Mortuaires: 74 — 11.1.1674: Pierre Pelenc t Jean Aveugle, Granges ca 85; ass. Jean Pelenc son fils aussi aveugle, Estienne Piton (D. Martin). 75 — 18.1.1674: Catherine Guillelmon Pierre laboureur Chambons ca 6 mois; ass. Jean Bonet + Dauid parrain, Antoine Blanc Bastier on- cle (D. Martin). 76 — 23.1.1674: Pierre Bonet Pierre Chambons ca 2 mois; ass. Guillelmon Conte ancien grandpère (D. Martin). 77 — 26.1.1674: Jean Orcelet + Pierre laboureur de L'Arra ca 60; ass. An- toine Borei beaufrère, Jean Bonet neveu (D. Martin). 78 — 10.2.1674: Marie Neuache + Pierre Chambons ca 78; ass. Antoine Chabier neveu (Chabrier), probe Jean Conte Matinier cousin (D. Martin). 79 — 14.2.1674: Jean Vinson Pierre ca 2' 2 mois; ass. Jaques Vinson oncle; pere (D. Martin). 80 — 15.2.1674: Marie Roux + Ville Cloze ca 84; ass. S.r Claude Pastre ancien, Estienne Clapier ancien (D. Martin). 81 — 19.2.1674: Catherine Guillelmon Jean Chambons ca 2'/2; ass. Estienne Bonet parrain; père (D. Martin). 82 — 113A674: Jean Pelenc + Jean laboureur ca 75; ass. Jean Pelenc fils, Pierre Brun ancien (D. Martin). 83 — 12.3.1674: Estiène Veilier Jean laboureur L'arra 19; ass. frère Jean Veilier, voisin Jean Borei (D. Martin). 84 — 31.3.1674: Jean Guillelmon + Jean laboureur Chambons ca 77; ass. Jaques Guillelmon frère, Abraham Guillelmon fils (D. Martin). 85 — 23.4.1674: Judith Veilier Pierre laboureur Chambons ca 11 mois; ass. Abraham Conte; père (D. Martin). 86 — 2.5.1674: Jeanne Conte + Antoine Chambons 35; ass. frère Conte dit grand beaufrère (D. Martin). 87 — 30.5.1674: Claude Orcelet Pierre ca 3; ass. grandpère, parrain Moyse Pastre (D. Martin). 88 — 7.6.1674: Marie Chabrier voi Baptême nr. 24; ass. voi Baptême nr. 24 (D. Martin). 89 — 9.6.1674: Anne Clapier Guillelmon laboureur Ville Cloze ca 2 mois: ass. pere, Estienne Clapier ancien Ville Cloze (D. Martin). 90 — 28.6.1674: Pierre Veilier voi Baptême nr. 29; ass. voi Baptême nr. 29 (D. Martin). 91 — 24.7.1674: Estienne Pastre Jean not.e 5 semaines; ass. pere, Estienne Cleo, marchand, Granges (D. Martin). 92 — 3.8.1674: Pierre Jaquet Antoine 14/5 mois; ass. Jaques Pastre Ville Cloze, Jean Clapier oncle (D. Martin). 93 — 23.8.1674: Marie Conte + Jean, Chambons ca 30; ass. Pierre Conte Guillelme conseiller Chambons, Pierre Conte maneschal (D. Martin). 94 — 8.9.1674: Jean Guillelmon voir Baptême nr.36; ass. (D. Martin). 96 — 6.9.1674: Pierre Martin t Jean ca 63; ass. Jean son fils, Jean Chiout gendre (D. Martin). — 56 — 97 — 30.9.1674: Anne Guillelmon femme d'Etienne Blanc, Ville Cloze ca 32; ass. Etienne Blanc, mari, Jean Guillelmon frere (D. Martin). 98 — 13.11.1674: Jean Fillol t Jean L'arra ca 91; ass. ses enfans Pierre et Benjamin Fillol (D. Martin). 99 — 13.11.1674: Madelene Guiot femme de Pierre Guillelmon t Jean, Chambons 48; ass. Jean Guillelmon t Abraham, Pierre Conte t Antoine, M.s marechaus Guillelmon fils de la defunte (D. Martin). 100 — 26.11.1674: Estienne Juuenal Jean la Fondufau ca 21; ass. Jean et Pierre Juuenal, oncles du Villaret (D. Martin). 101 — 27.12.1674: Suzanne Brunei 3; ass. Antoine Brunei oncle, Estienne Bonet (D. Martin). 102 — 23.12.1674: Marie Guillelmon + Estienne femme de Jean Conte dit Matinier, Chambons ca 56; ass. son mari, Jean Girard beaufrère (D. Martin). L'affaire Bert Un épisode de l'histoire du protestantisme au XIXème siècle* Au XIXème siècle, dans les trois vallées du versant italien des Alpes Cottiennes qui les abritent, les protestants comptent 20.000 personnes environ. Ils forment le plus gros de la population: la mi- norité est catholique. La communauté réformée habitant les Vallées vaudoises propre- ment dites est formée de quinze paroisses: Bobi, Angrogne, Rora, Massel. Rodoret, Maneille, Saint-Jean, Pomaret, Saint-Germain, La Tour. Prarustin, Prali, Villar, Pramol et Villesèche. A côté de ces quinze paroisses, il existe à Turin, depuis 1849, une Eglise vaudoise — la Chiesa Evangelica, qui deviendra plus tard la Chiesa Valdese — fondée par Amédée Bert, père du personnage qui est l'objet de notre travail. Amédée Bert se trouve dans la capitale piémontaise depuis 1833 où il exerce la fonction de pasteur-chapelain des Légations protestan- tes près la Cour de Turin, poste créé en 1827 à la demande des mi- nistres plénipotentiaires des puissances protestantes (1). La date de la création de la Chiesa Evangelica — - 1849 — par le pasteur Bert à Turin est significative. En effet, elle suit, à une année de distance, l'octroi des droits civiques et religieux aux Vaudois par le Roi Charles-Albert, sous forme d'un statut appelé Acte d'Eman- cipation. Cet acte met fin à la situation des protestants piémontais qui n'étaient pas autorisés jusque là — entre autres — à célébrer * Les conclusions d'ordre dogmatique contenues dans ce travail ont été pour la plupart suggérées par Monsieur Olivier Fatio que je tiens à remercier. (1) Actes des Synodes des Eglises Vaudoises, 1692-1854, Synode de 1828. art. 18: « Proposition ayant été faite à l'Assemblée de jeter les yeux sur la demande que LL. EE. les Ministres plénipotentiaires des Puissances Protestantes près la Cour de Turin ont faite à la Table, en puin 1827, pour que lo ministère de M. Bonjour fût accordé à leur Chapelle, l'Assemblée a prononcé que l'arrêté déjà pris à cet égard par la Table le 6 juillet 1827, étant juste et équitable, elle lui donne sa sanction, c'est-à-dire qu'elle reconnaît le ministère de M. Bonjour exercé à Turin, comme étant exercé dans les Vallées mêmes, ce qui lui assure une pleine garantie de ses droits, et sur les Pasteurs ses cadets, et sur les Eglises: reconnaissant du reste avec la Table que comme M. Bonjour jouit de ces avantages, il doit aussi participer aux charges qui pèsent sur les autres pasteurs. — 58 — leur culte en dehors du territoire qui leur avait été assigné par les autorités et qui se limitait aux trois vallées sus-mentionnées. La plupart des habitants vaudois sont des paysans. Ceux qui vi- vent dans les villages proches de la grande plaine piémontaise com- me Saint- Jean ou La Tour cultivent des terres fertiles où poussent les céréales, la vigne et le mûrier qui permet la culture du ver à soie. La production de ce textile a toujours été prédominante dans la région et, jusqu'au XVIIIème siècle, le village de La Tour possédait une filature qui procurait du travail à de nombreux Vaudois. Cette filature a fermé ses portes au profit de celle de Pinerol, mais la pro- duction de la soie continue autour de Saint-Jean, de la Tour et de Saint-Germain, les cultivateurs transportant leur matière première à la fabrique. Plus l'on s'enfonce dans les vallées, plus les terres deviennent arides et, dans les villages les plus élevés, il ne reste aux montagnards que quelques lopins de sol arable pour la culture du seigle au mi- lieu de rochers et au bord de précipices vertigineux. A côté des paysans, nous avons remarqué parmi les membres laïques des institutions ecclésiastiques de l'Eglise vaudoise, la Table (2) et le Synode (3) des régents, des négociants, deux médecins, quel- ques notaires et des officiers. Population pauvre; population avec un long passé de persécu- tions puis soumise jusqu'en 1848 à des vexations. Les Synodes par exemple ne peuvent pas être convoqués sans la permission du Roi et avoir lieu sans la présence de l'Intendant de la Région. Population donc qui a toujours eu besoin de l'aide extérieure tant matérielle que politique qu'intellectuelle pour survivre. En 1857, au moment de l'affaire Bert, la situation s'est cependant améliorée; les droits reli- gieux sont respectés; les universités italiennes ont ouvert leurs portes aux jeunes Vaudois qui désirent se préparer aux carrières libérales; les habitants des Vallées vaudoises sont représentés au Parlement de Turin. Une Faculté de Théologie vaudoise a même été fondée à La Tour et les futurs pasteurs ne sont plus obligés de faire leurs études à l'étranger. Mais la situation matérielle reste précaire et les Vau- dois, comme nous le verrons, demeurent tributaires de l'aide étran- gère. II. - RESUME DES EVENEMENTS Le 27 août 1857, alors qu'il s'apprête à recevoir l'imposition des mains du clergé de son Eglise à La Tour, Pierre, Jean-Jacques, Amé- dée Bert se voit contraint, devant l'opposition suscitée par ses con- (2) Constitution de l'Eglise Evangélique Vaudoise adoptée par le Synode tenu à La Tour les 15. 16. 17. 23, 24 et 25 mai 1855. (3) Id. — 59 — victions en matière de doctrine, de retirer sa demande fie consécra- tion au saint ministère. Le jeune homme est né 24 ans auparavant, le 7 septembre 1833, (!"une famille dans laquelle les pàsteurs se succèdent de père en fils depuis plusieurs générations. Son père. Josué Amédée Bert, est mi- nistre de la paroisse montagnarde de Rodoret au moment où son fils voit le jour, mai» il va être appelé, cette année-là encore, à Turin où iî exercera jusqu'en 1865 la fonction de pasteur-chapelain des Léga- tions protestantes. Il jouera un rôle important dans la capitale du Piémont au cours des années qui précèdent l'Acte d'Emancipation, li intervient en particulier auprès de la Table vaudoise pour qu'elle laisse les revendications protestantes entre les mains de personnalités catholiques proches du Roi, comme Roberto d'Azeglio, qui s"e>t of- fert à défendre leur cause et qui crée un mouvement «l'opinion publi- que par des articles de journaux et une pétition en leur faveur (4). Sa mère. Elisabeth Peyrot, pour la naissance, descend à Luzerne Saint-Jean chez ses parents, dans la belle propriété familiale connue dans le pays sous le nom de Hollande, vaste demeure, bâtie sur un coteau et entourée de vignobles, de champs et de vergers fertiles. C'est là que le jeune garçon passe ses premières années, auprès de sa grand'mère. à laquelle ses parents le confient pour qu'il reçoive nue éducation protestante. Il suit les classes du Collège de La Tour jusqu'au moment où, destiné à suivre la carrière pastorale, il part pour Genève afin de s'y préparer aux cours de l'Académie. Il a alors quinze ans. Il entre en 1ère année d'études préparatoires en 1848. en 2ème année en 1849. En 185(1 il s'inscrit à la Faculté «les Sciences et des Lettres qu'il fréquente pendant «leux ans également. En 1852 il esl admis à la Faculté de Théologie où il passe quatre années (5). Il suit les cours des Professeurs Jean-Jacques Caton Chenevière — con- nu pour ses idées libérales — , de Jacob-Elysée Cellérier. le fils du pasteur de Satigny décrit dans Le Presbytère de Toepffer. dont la foi était si rayonnante qu'elle attirait la foule tous les dimanches dans l'église de campagne, de David-François Munier, d'Etienne Chastel. d'Hugues Oltramare (6). En décembre 1856 il réussit ses grands exa- mens (7) après avoir soutenu une thèse sur Arnaldo da Brescia (8) et (4) La pétition « Supplica al Re » date du 23 décembre 1847. Ses auteurs intercé- daient en faveur « des frères malheureux pour lesquels durent encore des rigueurs el des interdictions dignes des temps barbares ». Les trois noms en tête des 600 signa- taires sont ceux de: Roberto d'Azeglio, Camillo Cavour et Cesare Balbo. Comba Ernesto. Breve Storia dei Valdesi. Torino. 1961, p. 169. (5) A.E.G.. Acad. Ba 8 p. 23. 30, 36. 45. 53, 58: Bb 1 p. 101; Gd 3 p. 10: Ge 2 P 25; De 4 f. 199; De 8 f. 282: Dh 7 f. 137. (6) Borgeaud Charles. Histoire de l'Université de Genève. L'Académie et l'Uni- versité au XIX' siècle (1814-1900). Genève 1934. pp. 321-400. (7) A.E.G. R.V.C. N. 41 (1849-1861) p. 469: « La Compagnie décide sur le rap- port du Jury d'accepter les grands examens de MM. Ferrier, Paul et Bert. Elle admet les deux premiers candidats à la consécration. Quant à M. Bert, qui doit demander la consécration à la Table vaudoise, elle n'est pas appelée à statuer sur son compte, mais les rapports faits sur M. Bert lui sont à tous égards favorables ». (8) Bouvier Auguste. Thèses. Genève 1878. p. 117. — 60 — il reçoit le grade de bachelier. Il n'est pas consacré avec ses camara- des par la Vénérable Compagnie des Pasteurs de Genève, car il a l'intention d'exercer le saint ministère dans les Vallées vaudoises. Selon la Constitution de l'Eglise vaudoise, le candidat est tenu, pour obtenir la consécration, de: 1) présenter un diplôme de licencié en théologie, constatant que, sous le rapport de la conduite et des connaissances, il aurait pu être consacré dans l'académie même où il a fait ses études; 2) subir un examen oral; 3) prononcer un sermon (9); 4) signer la Confession de foi de l'Eglise vaudoise qui est celle de 1655 intitulée: Brieve Confession de Foy des Eglises Réformées de Piémont, publiée avec leur Manifeste, à l'occasion des effroyables massacres de Van 1655 (Annexe I) (10). Le candidat Bert présente son diplôme de Genève qui est reconnu par la Table vaudoise (11). Il est soumis ensuite, au début du mois d'aoxit, avec quatre autres candidats, à l'examen oral qui porte sur des questions de doctrine et de vocation pastorale. Dix-sept pasteurs sur les vingt-cinq présents se déclarent satisfaits de ses réponses. II prêche, probablement le 7 août, devant dix-sept pasteurs sur un thè- me qui lui est imposé et qui est destiné à lui donner l'occasion de s'expliquer plus à fond sur une doctrine essentielle au sujet de laquel- le son examen oral aurait pu laisser à désirer. Le passage que le clergé lui demande de commenter est tiré de ï'Epître aux Philippiens (chapitre II, verset 12): « Employez-vous à votre propre salut avec crainte et tremblement, car c'est Dieu qui produit en vous avec effi- cace le vouloir et l'exécution selon son bon plaisir ». Quinze pasteurs admettent la prédication, deux l'estiment non conforme aux doctrine» vaudoises. Malgré cela le sermon est accepté et le candidat jugé digne d'être consacré (12). Cependant, dans le laps de temps qui s'écoule entre les examens et le jour fixé pour la cérémonie — 27 août — Amédée Bert rentre à Turin chez ses parents et il remplace son père souffrant dans la chai- re de l'Eglise Evangélique. Il y prononce le même sermon sur Ï'Epître aux Philippiens. La prédication provoque des remous et certaines personnes se disent scandalisées par la doctrine exposée dans le ser- mon. Des explications sont demandées au jeune Bert qui s'abstient d'entrer en discussion et se retranche derrière la légalité de son atti- tude fondée sur le fait que ses convictions ont été acceptées par le clergé vaudois lors des examens. (9) Pour les deux premières épreuves il doit obtenir la majorité des suffrages c'est-à-dire 17 voix sur 33 même si tout le Corps pastoral n'est pas présent. (10) Actes des Synodes des Eglises Vaudoises, 1692-1854, p. 241, art. 20. (11) On ne sait pas exactement à quelle date Amédée Bert présente son diplôme genevois mais c'est certainement après le renouvellement de la Table (mai 1857) Table dont il espère moins d'intransigence en matière de doctrine. (12) A.E.G., R.V.C. N. 41 (1849-1861) p. 497: «M. Cellérier informe la Compa- gnie que M. A. Bert a été admis au saint ministère par la Table vaudoise ». — 61 — C'est donc dans un climat orageux que se prépare ce dimanche de consécration. Avant de recevoir l'imposition des mains dans le sanctuaire de La Tour où tous les fidèles sont assemblés pour la cé- rémonie, les suffragants sont invités à signer la Confession de foi de l'Eglise vaudoise. Le Modérateur de la Table, le Professeur Barthé- lémy Malan, les rend attentifs à la solennité et à la gravité de l'enga- gement qu'ils sont sur le point de prendre. Amédée Bert, à qui s'adresse particulièrement cet avertissement, se sent obligé d'exposer ses réserves sur certains articles de la Confession de foi vaudoise tout en se déclarant prêt à la signer s'il peut l'interpréter selon sa con- science. C'est alors qu'une vive discussion, menée par les pasteurs Pierre Lantaret, Jean-Pierre Revel et Barthélémy Tron, s'engage parmi les membres du clergé dont une partie quitte les lieux et le Modérateur conseille au candidat de se retirer pour dénouer la situa- tion. Ce qu'il fait en présentant une lettre de renonciation préparée le matin en prévision d'une telle éventualité. Le lendemain, le père du jeune homme écrit au Modérateur de la Compagnie des Pasteurs de Genève, le Professeur David Munier et au Professeur Jacob-Elysée Cellérier pour leur raconter ce qui s'est passé à La Tour et leur demander de consacrer leur ancien étudiant. Il rédige également une lettre à tous les paroissiens des Vallées vau- doises qu'il fait imprimer et distribuer dans les villages et dans la- quelle il s'élève contre l'injustice dont son fils a été la victime. A la suite de cette lettre deux paroisses (13) ainsi que des particuliers, envoient des protestations à la Table. Après une brève enquête sur le cas du jeune homme, à laquelle nous devons la constitution du dossier qui sert de base à ce travail, la Compagnie des Pasteurs, persuadée que toute l'affaire se situe au niveau doctrinal seulement et que les convictions d'Amédée Bert sont parfaitement acceptables pour l'Eglise nationale genevoise puisque cette dernière était prête quelques mois auparavant à le recevoir par- mi ses ministres, accorde la consécration (14) et la cérémonie a lieu au temple de Saint-Pierre le 8 décembre 1857. C'est le Modérateur Munier qui, devant une nombreuse assemblée, impose les mains au nouveau pasteur (15). Quelques jours plus tard, Amédée Bert part pour Gênes où il va seconder le pasteur Vaucher de la Chapelle réformée. Au mois de juin 1858, le titulaire étant atteint dans sa santé, le Comité Directeur de la communauté élit à l'unanimité Monsieur Bert, pasteur suisse à Gênes. En novembre 1858, il épouse Henriette Vaucher (16), fille du professeur et helléniste Louis Vaucher de Genève (17). Il exerce !<• saint ministère dans la capitale ligure jusqu'à sa mort en 1916. (13) Il s'agit des paroisses de Turin et de Prarustin. (14) A.E.G., R.V.C. N. 41 (1849-1861) p. 507-508. (15) A.E.G., R.V.C. N. 41 (1849-1861) P. 611. (16) A.E.G., Acad. G 10 f. 250. (17) Ils curent trois enfants: Marguerite qui épousa le Professeur de philosophie — 62 — Le flossier de l'affaire Bert ne se referme pas sur la consécration du jeune ministre au temple de Saint-Pierre. Elle connaît un rebon- dissement à la fin du mois de janvier 1858 à la suite de la visite qu'un certain pasteur anglican, le Reverend Richard Burgess (18), fait aux Vallées vaudoises — entre septembre 1857 et janvier 1858 — à la tête d'une délégation de la Foreign Aid Society. Dans le rapport qu'il rédige sur sa visite, le pasteur Burgess félicite le clergé vaudois d'a- voir récemment repoussé un suffragant à la « doctrine malsonnante » et d'avoir ainsi « donné une nouvelle preuve de sa résolution de main- tenir les doctrines évangéliques dans leur force et leur pureté ». Quel- ques lignes plus loin, il poursuit: « L'Eglise nationale de Genève a reçu plus tard au nombre de ses ministres ce que l'Eglise vaudoise a rejeté et Monsieur Bert est libre maintenant d'enseigner ou non, comme il lui plaît, que Christ est Dieu et homme et que sa mort est une propitiation pour les péchés ». Les attaques contre Amédée Bert et l'Eglise nationale de Genève contenues dans ce rapport sont réfutées dans les colonnes d'un jour- nal religieux anglais, The Record, par le Dr Francis Close (19) qui prend la défense des Genevois, ce qui entraîne une violente polémi- que entre lui et l'éditeur du journal, polémique au cours de laquelle Amédée Bert et l'Eglise nationale de Genève sont accusés d'arianisme et le Modérateur Munier est porté responsable de l'expulsion du pas- teur Louis Gaussen de la Compagnie des Pasteurs (cf. p. 12). L'échan- ge de lettres se poursuit pendant un mois environ. Amédée Bert est invité par l'éditeur à exposer sa position doctrinale dans The Record, ce qu'il fait. Il est réhabilité et lavé de l'accusation d'arianisme. Mais le Modérateur dont les explications concernant son rôle dans l'affaire Gaussen n'arrivent jamais jusqu'aux colonnes du journal et l'Eglise nationale de Genève restent suspects d'hérésie et le dossier se refer- me sur ce rebondissement des vicissitudes du jeune Bert, élargisse- ment qui situe l'incident dans sa vraie dimension. J. Gourd de l'Université de Genève, Edith et Aimé, médecin à Lyon. Wieland Gabriel. Amédée Bert, Conférence donnée au Cercle suisse de Gênes le 15 février 1917, Gênes 1917, p. 6. (18) 1796-1881. Théologien (biblical scholar). A fait ses études à St. Jon's College. Cambridge. De 1828 à 1831 il est chapelain de Lord Aylmer et des Anglais résidents à Genève où l'Eglise nationale met à sa disposition une chapelle, puis il est nommé chapelain de l'Eglise anglaise de Rome. Il fait ensuite une rapide ascension dans la hiérarchie de l'Eglise anglicane et en 1869 M. Gladstone, au nom de la Couronne, lui confère le rectorat de Hornings. La stèle de chanoine de Tottenhal dans la Cathé- drale de saint-Paul lui avait déjà été réservéee en 1850. Il était secrétaire honoraire de la Foreign Aid Society. Parmi ses œuvres : An Enquiry into the state of the Church of England congregations in France, Belgium and Sivitzerland, London, 1850. Dictionary of National Biography, vol. VII p. 312, Londres, 1886. (19) 1797-1882. Doctor of Divinity. Fait ses études à St. John's College, Cam- bridge. Il suit tous les échelons de la hiérarchie anglicane et le 24 novembre 1856 est nommé Doyen de Carlisle, sur la recommandation de Lord Palmerston. Il tente, par tous les moyens pendant son ministère dans la ville industrielle du Nord d'améliorer la condition des pauvres. Fait preuve d'une grande tolerance en matière de doctrine. Dictionary of National Biography, vol. XI p. 123, Londres, 1887. — 63 — III. - LES DIVERGENCES DOCTRINALES Environ un moi» après l'incident, dix-huit des trente-trois pas- teurs vaudois publient une brochure d'une vingtaine de pages intitu- lée: Court exposé de ce qui s'est passé à l'occasion de la demande de consécration adressée au Corps des pasteurs par Monsieur Aniédée Bert fils, présenté aux fidèles de l'Eglise vaudoise pur la majorité de ce corps, dan» laquelle ils exposent les raisons qui les ont poussés à refuser le candidat. Les auteurs font ressortir que, devant la « pro- fonde divergence qui existe entre les doctrines du candidat et celles qu'il serait appelé à enseigner comme ministre de l'Eglise vaudoi- se ». ils ne pouvaient agir autrement. En quoi consiste cette profonde divergence? Elle se dégage de trois pièces du dossier: — la brochure mentionnée plus haut: — la longue lettre adressée au Modérateur de l'Eglise de Genève par Arnédée Bert père; — la lettre de renonciation que le candidat remet au Modérateur de son Eglise, le Professeur Barthélémy Malan. Les deux premières pièces étant un récit chronologique des évé- nements venant des deux parties « adverses ». une confrontation entre elles est possible pour dégager les points de divergence. Elles se prê- tent à une division en trois parties qui correspondent aux trois étapes de l'affaire: l'examen oral, le sermon et la signature de la Confession de foi. 1. L'examen oral Version des 18 pasteurs « ...il fut admis à subir son examen oral, lequel a été déclaré satisfaisant par 17 voix sur 24 bien que sur les questions aussi capita- les que celles de la régénération et de l'appropriation du salut l'examen avait laissé en plusieurs de- doutes assez graves sur son orthodoxie ». Version d'Amédèe Bert père « Mon fils a été interrogé sur les questions suivantes: 1. l'état de l'homme naturel avant la chute et la régénéra- tion; 2. l'appropriation du salut par la foi: 3. l'œuvre du Christ; 4. la vocation au saint ministère. 1. « il admet la chute mais éta- blit que l'homme est libre, moral, responsable et capable avec le secours de Dieu, de faire le bien. « il admet la divinité du C.liri-i selon les textes scriptu- — 64 — (seuls les points 1. et 2. susci- tent des réserves). raires, mais nie aux hommes le droit et le pouvoir de défi- nir sa nature sublime. 2. « la foi s'approprie le rachat opéré par la mort du Christ qui n'a été que le signe exté- rieur et temporel de l'amour que Dieu a pour les hommes dès avant la fondation du monde ». 2. Le sermon « Il fut admis par quinze voix sur dix-sept votants mais pour beaucoup "l'admis" fut bien moins le sermon que Monsieur Bert lui-même. Le sermon lais- sait beaucoup à désirer sous le rapport de la doctrine et ili avaient entendu d'autres prédi- cations qui faisaient mieux augu- rer que celle-ci du candidat ». « Il établit la liberté de l'hom- me et sa moralité et son œuvre individuelle et personnelle dans ce qui concerne le salut et il pro- teste contre la condamnation de certaines âmes avant et sans qu'elles n'eussent rien fait pour mériter un si terrible sort. Mais i) pose en même temps que nous ne pouvons et ne sommes rien sans la grâce qui vient à nous, qui frappe à nos portes, qui nous invite, qui nous touche et qui, ne pouvant nous sauver sans notre concours, veut pourtant que nous soyons ouvriers avec Dieu ». 3. Confession de foi « Le Modérateur crut de son devoir de rendre attentifs les candidats, et d'une façon parti- culière Monsieur Bert à la gravi- té et à la solennité de l'engage- ment qu'ils allaient prendre. « Tandis que, pressé par quel- qu'un qui se trouvait à ses cô- tés et par son propre père de si- gner purement et simplement et sans mot dire, avec la plume, il « Provoqué par le Modérateur qui en appelle à la conscience du jeune homme avant la signa- ture, le candidat, tout en faisant remarquer que le procédé est étrange, expose clairement ses convictions, comme au cours des examens qui ont été admis ce qui signifie que le Corps ecclé- siastique considère qu'il peut si- gner la Confession de foi bien - 65 - apposait sa signature, de vive voix il déclarait ne le faire qu'a- vec des restrictions et en se ré- servant le droit d'interpréter la Confession de foi selon sa cons- cience. Mais signer avec de telles réserves une Confession de foi (qui n'est autre chose pour cha- que Eglise que l'expression des croyances qu'elle déclare) et la rejeter revient parfaitement au même ». qu'elle soit opposée à ce qu'il a avance spécialement sur: 1. le libre-arbitre (art. XVI, XVII, XVIII); 2. l'imaue de Dieu en l'homme (art. Vin); 3. l'universalité de la grâce (art. XVIII). Il ajoute en outre que les ar- ticles sur: 4. la régénération opérée par le baptême (art. XXIX) et la manducation effective et réel- le du Corps de Christ dans l'Eucharistie ne pourraient être admis par aucun des pas- teurs au pied de la lettre. i. cl tre de renonciation à la candidature remise par Amédée Bert fils au Modérateur de l'Eglise vaudoise à la suite de l'incident sur- venu au moment de la signature de la Confession de foi. « Protestant évangélique du fond de mon âme, je ne puis renon- cer aux droits que ce titre m'accorde: ma liberté de pensée, ma liber- té d'examen. Je ne puis donc admettre au pied de la lettre, la Con- fession de foi de l'Eglise vaudoise dans toute son étendue. Ma conscience m'empêche de le faire, mes convictions s'y opposent. Si on me laissait le droit de librement interpréter ceux de ses articles qui ne sont pas en accord avec ce que je crois être la vérité, droit dont plusieurs ont largement usé, j'aurais accepté; mais restreindre ma liberté de pensée et d'examen dans les limites d'une lettre morte qui fut l'œuvre des hommes et non pas de Dieu, je ne le puis abso- lument pas. « ...ma conscience ne me permet pas de sacrifier des convictions qui sont au fond de mon cœur, des convictions que je crois ferme- ment appuyées sur le roc inébranlable de la parole de Dieu ». Une première remarque s'impose après la confrontation ci-des- sus: les pasteurs vaudois, s'ils disent bien sur quoi portent les diver- gences doctrinales qui apparaissent entre eux et le candidat, n'expli- quent pas en quoi elles consistent et il semble, soit qu'ils préfèrent ne pas provoquer une discussion théologique, soit qu'ils prennent pour acquis que chacun connaît sur quoi peuvent porter les diffé- rences d'opinion concernant des questions débattues non seulement au XIXème siècle, mais depuis le début du Christianisme. Aussi, pour eux, la Confession de foi de 1655, renferme toute la doctrine de leur Eglise. s — 66 — Les questions qui suscitent des divergences, ainsi que nous avons pu le relever dans le Court exposé sont celles de la régénération et de l'appropriation du salut. A défaut des explications des pasteurs vaudois, nous avons, grâce à la lettre que le père du suffragant adres- se aux Professeurs Munier et Cellérier de Genève, un exposé des convictions d'Amédée Bert. J . Régénération. Dans son examen oral, puis dans son sermon, le candidat, tout en admettant la chute, déclare que l'homme est libre, moral et ca- pable avec l'aide de Dieu de faire le bien et il rejette la crovance se- lon laquelle certaines âmes sont condamnées avant et sans qu'elles n'eussent rien fait pour mériter un si terrible sort. Il y a là deux points distincts: premièrement celui de la liberté ou du libre-arbitre par opposition à la doctrine de la prédestination. Pour Bert, l'homme est libre de choisir d'être sauvé ou non, pour les Réformés c'est Dieu qui choisit qui II veut sauver. Deuxièmement, question de la moralité: pour Bert, l'être humain est moral et ca- pable de faire le bien — quoique sans Dieu il ne soit rien — alors que pour les Réformés, il ne lui est plus possible — après la chute — de discerner le bien et le mal et de poser des lois morales. 2. Appropriation du salut. Pour Bert, le rachat opéré par la mort du Christ n'est que le signe extérieur de l'amour de Dieu pour l'humanité dès avant la fon- dation du monde alors que pour les Réformés il s'agit d'une œuvre beaucoup plus décisive qui change radicalement, dès ce moment là, les conditions de l'homme. * * * Jusqu'à maintenant il n'a été question que de problèmes doctri- naux. Avec l'incident de la signature de la Confession de foi, nous allons toucher à un problème de principe qui, nous le verrons, plonge ses racines loin dans le temps. En effet, Amédée Bert, après avoir réitéré ses réserves au sujet de la doctrine vaudoise comme il l'avait fait au cours de son examen oral et de son sermon, revendique, en tant que Protestant évangélique, le droit à la libre-pensée et au libre- examen et celui d'interpréter la Confession d'après sa conscience, ainsi que le fait d'ailleurs, dit-il, la majorité du clergé vaudois en ce qui concerne la régénération par le baptême et la manducation effective du Corps de Christ dans l'Eucharistie. Il ne s'agit pas d'une position nouvelle. Il n'est que de se sou- venir de Sébastien CastelJion qui, au moment où, lui aussi, va deve- — 67 — iiir pasteur, déclare qu'il n'est pas d'accord sur deux points de doc- trine et qu'il ne peut s'engager « contre sa conscience » (20). Il est le premier de ceux dont Calvin dira « qu'ils font des gambades à Tencontre de Dieu et qu'ils prétendent juger selon 'eur entendement des saints mystères de Dieu et qu'ils osent dire que les choses ue leur semblent pas bonnes et propres » (21). Us seront mis au pas pour plusieurs siècles et, jusqu'à l'aube du XVIIIème siècle, ies dogmes institués par le grand Réformateur ne seront pas contestés. Ce sont des théologiens comme Jean-Alphonse Turrettini (1671-1737) qui, à la suite de séjours aux Pays-Bas, en Angleterre et en France, commenceront à ébranler l'« infaillibilité » de Calvin en matière de doctrine et introduiront le principe de la liberté d'interprétation de l'Evangile. L'influence de l'esprit rationaliste du siècle des Lumiè- res aidant. Voltaire pourra dire, quelque temps après son arrivée aux Délices, que « le christianisme raisonnable est la religion de presque tous les ministres genevois », et Rousseau écrire dans ses Lettres de la Montagne : « Messieurs vos ministres ne savent plus ce qu'ils croient, ni ce qu'ils veulent, ni ce qu'ils disent. On leur demande si Jésus-Christ est Dieu, ils n'osent répondre. On leur demande quels mystères ils admettent, ils n'osent répondre. Sur quoi donc répon- dront-ils? ». Et, en effet, le mot d'ordre est de ne pas se prononcer et il le restera encore au XIXème siècle comme en témoigne le règlement rédigé le 3 mai 1817 par le Professeur Jean-Jacques Caton Chene- vière auquel les candidats au saint ministère sont tenus de se soumet- tre avant leur consécration. Voilà ce que contient le règlement : « Nous promettons de nous abstenir, tant que nous résiderons et que nous prêcherons dans les Eglises du canton de Genève, d'établir, soit par un discours entier, soit par une partie de discours dirigée vers ce but notre opinion: 1. sur la manière dont la nature divine est unie à la personne de Jésus-Christ; 2. sur le péché originel: 3. sur la ma- nière dont la grâce opère, ou sur la grâce efficiente; 4. sur la prédesti- nation ». Cependant, dès 1810, l'enseignement de l'Académie de Genève où, d'après l'historien du Protestantisme, Emile G. Léonard. « la Bible n'est plus qu'un texte grammatical ou un prétexte à systè- mes » (22) a provoqué un mouvement de réaction chez plusieurs étu- diants dont les plus connus sont Bost, Empeytaz et Guers. Ces jeunes gens ont été conquis à une foi plus mystique par des Frères moraves, puis par Mme de Krudener. Ce sont eux qui devaient fonder le mou- vement du Réveil dont l'un des apôtres, Félix Nef, répandit les (20) Buisson Ferdinand, Sébastien Castellion, sa vie, son œuvre (1515-1563). Paris 1892, p. 198. (21) Opera Calvini, Sermon sur le chapitre XIV du Deutéronome, 22 octobre 1555. vol. XXVI, p. 282, Brunswick 1863-1900. (22) Leonard Emile G., Histoire du Protestantisme, PUF, « Que sais-je? », Pa- ris 1950. p. 103. — 68 — idées dan* les vallées vaudoises. Mais il manquait à cette secte, ins- pirée par le piétisme, des structures dogmatiques solides. César Ma- iali, pasteur révoqué par le Consistoire et par la Vénérable Compagnie des pasteurs de Genève à la suite de ses prédications sur le salut -t la grâce, les apportera quand il créera, en 1820, la Chapelle du Té- moignage. Il reprendra dans toute leur rigueur les vieilles thèses cal- viniennes sur la prédestination. La troisième vague contestataire dé- ferlera sur l'Eglise nationale de Genève quand Louis Gaussen, minis- tre, refusera de se servir du catéchisme officiel qui date de la fin du XVIUème siècle et qui a fait disparaître la notion de la nature divine du Christ. Gaussen est chassé des séances de la Compagnie des pas- leurs pour un an; il fonde pendant ce temps (24 janvier 1831) la Société évangélique dans le sein même de l'Eglise de Genève, puis, en 1832, quand sa paroisse de Satigny lui est enlevée, il ouvre une école de théologie, V Ecole de Théologie de l'Oratoire avec l'appui de 123 pasteurs et de plus de huit cents ecclésiastiques anglicans. La Société évangélique devient en 1834 la Chapelle de l'Oratoire el r^-tte nouvelle Eglise indépendante se considère comme seule susceptible de maintenir des communications entre le protestantisme genevois et les autres Eglises réformées demeurées étrangères à l'évo- lution dogmatique libérale de l'Académie de Genève. Et, en effet. l'Eglise nationale de Genève, qui a acquis la réputation d'être 'e siège des pires hérésies, allant de l'arianisme au socinianisme, se voit complètement isolée quand les Eglises réformées du monde entier se constituent, sans elle, en une association fraternelle appelée U Allian- ce évangélique. Divergences doctrinales sur la prédestination, la divinité du Christ, le péché originel, divergence de principe sur la libre-pensée et le libre examen, voilà ce qui sépare les chrétiens libéraux et les chrétiens « orthodoxes ». L'Eglise vaudoise, avec ses pasteurs formes tant en Suisse qu'en Hollande et en Allemagne et qui est, en plus, un terrain de prosélytisme pour toutes les sectes (Réveil, darbysme, pentecôtisme, etc.) est un reflet de ce qui se passe sur une plus gran- de échelle dans le monde protestant du XIXème siècle. Nous allons maintenant analyser son orientation doctrinale. IV. - ANALYSE DE L'ORIENTATION DOCTRINALE DE L'EGLISE VAUDOISE Les circonstances dans lesquelles se déroule l'affaire Bert — acceptation de son examen oral, admission du sermon, vive discus- sion au moment de la signature de la Confession de foi, le nombre enfin et le ton de ceux qui signent le Court exposé — montrent que le clergé vaudois est pour le moins embarrassé devant le cas du jeune candidat, et ne permettent pas, à priori, de dire de « quel côté pen- — 69 — che la balance » selon une expression tin Modérateur Munier. Il s'a- vere donc indispensable de procéder à une analyse plus serrée du Corp- des pasteurs en 1857. Cela est possible, dans une bonne mesu- re, grâce aux Actes des Synodes, au travail de Jean Jalla qui a établi une liste île tous les pasteurs des Vallées vaudoises depuis l'institu- tion du culte public jusqu'en 1892. et au Livre du Recteur de V Aca- démie et Université de Genève qui indique les noms de tons ceux qui ont étudié dans ses murs, de reconstituer une liste des 33 ministres vaudois (Annexe II) formant le Corps ecclésiastique et de dégager un certain nombre de renseignements qui permettent de se faire une idée de l'orientation de cette Eglise. Il ressort des renseignements recueillis que tous les pasteurs — à part Michel Morel — ont fait leurs études dans d'autres universités que celle de Genève et que la plupart d'entre eux ont, soit subi l'in- fluence du Réveil, soit étudié à YEcole de Théologie de l'Oratoire ou encore qu'ils sont proches des bienfaiteurs anglais qui, comme nous le verrons plus loin, veillent sur l'orthodoxie des protestants vaudois. Leur attitude, qui va de la réserve à l'hostilité, est compréhen- sible puisque: 1. le Réveil est un mouvement qui est né à Genève en réaction con- tre l'enseignement de l'Académie; 2. VEcole de Théologie de l'Oratoire a été fondée par un pasteur ge- nevois dissident et constitue une rivale pour l'Académie; 3. les bienfaiteurs (cf. chapitre suivant), considèrent l'Eglise natio- nale de Genève à la limite de l'hérésie. Qu'en est-il des quinze autres qui n'ont pas signé? De cinq d'entre eux, nous ne savons rien: Jean-Pierre Tron, Da- vid Charbonnier, Etienne Malan, François Gay et Jacques Parender. Henri Peyrot et Jacques Vinçon sont très âgés et ne sont peut-être pas venus à la séance de rédaction du Court exposé. Paul Geymonat est à Gênes au moment de l'incident, mais en tant qu'ancien étu- diant de l'Oratoire il aurait probablement signé de même que Jean- Daniel Charbonnier. Louis Desanctis est un cas à part; c'est un an- cien prêtre converti au protestantisme qui veut peut-être rester en dehors de cette querelle. Reste le noyau de ceux qui nous semblent être favorables à Amé- •lée Bert: Jean-Jacques Bonjour, Pierre Monastier (une protestation de leur paroisse contre l'attitude du clergé est prête), Louis Jalla. Georges Appia et Amédée Bert père. Comment se fait-il qu'Amédée Bert ait réussi à rallier dix-huit suffrages sur vingt-cinq lors de son examen et quinze pour son ser- mon, alors que l'orientation de son Eglise, ainsi que nous venons de h voir, est celle de la majorité des protestants de cette époque? Cela pourrait s'expliquer par plusieurs raisons: l'hésitation des pasteur* à « recaler » le fils d'un de leurs collègues, apparenté à plusieurs — 70 — (l'entre eux et appartenant à l'une des familles les plus influentes des Vallées vaudoises; le désintéressement chez certains pasteurs âgés de ces chicanes dogmatiques; mais surtout, l'absence à l'examen et au sermon des deux ministres, Pierre Lantaret et Jean-Pierre Revel, qui se révèlent être les plus hostiles au candidat et qui, en somme, pro- voquent le retournement de la situation le jour de la cérémonie. Pierre Lantaret a été formé à l'Université de Berlin où il a suivi les cours du Professeur Neander dont la « Schwebetheologie » est aux antipodes de celle de l'Académie de Genève. Jean-Pierre Revel est un grand ami des bienfaiteurs anglais; il écrira même un ouvra- ge sur l'un d'entre eux, le général Beckwith dont il va être question au chapitre suivant. V. - LE ROLE DES « ANGLAIS » Les dix-huit pasteurs vaudois dans leur Court exposé n'invo- quent que des raisons d'ordre doctrinal pour justifier leur attitude vis-à-vis du candidat et se défendent d'avoir pu être influencé par qui que ce soit. Les Bert, père et fils, au contraire, n'hésitent pas à expliquer ce scandale par l'emprise que « les Anglais » exerceraient sur le clergé vaudois, emprise dont le poids vient de l'aide matérielle qu'il reçoit d'eux. Le pasteur de Turin va jusqu'à parler de « la prostitution de son Eglise vis-à-vis des Anglais », situation dont il souffre, dit-il, depuis 29 ans. L'intérêt que la Grande-Bretagne porte à l'Eglise vaudoise date d'ailleurs de plusieurs siècles et il s'est manifesté aussi bien sur le plan matériel que politique. Depuis la Réforme les souverains an- glais envoient des ambassadeurs auprès des ducs de Savoie tout d'a- bord et des rois de Sardaigne par la suite qui jouent le rôle de mé- diateurs entre les Vaudois et leurs seigneurs. Plus tard, les rois d'An- gleterre sont les garants des privilèges que les communautés monta- gnardes protestantes ont reçu par des traités de la famille régnante piémontaise. Sur le plan matériel, le gouvernement britannique se charge de payer les pasteurs vaudois. Cette prestation cesse tempo- rairement pendant les guerres napoléoniennes mais reprend en 1827. Le rôle des ambassadeurs protestants à la Cour de Sardaigne est cer- tainement pour beaucoup — avec d'autres raisons de politique inté- rieure comme nous l'avons vu — dans l'octroi par Charles- Albert de l'Acte d'Emancipation. Dans la première moitié du XIXème siècle, qui sont les Anglais qui s'intéressent aux Vaudois du Piémont? Deux noms reviennent sans cesse dans les Actes des Synodes comme ceux des grands bien- faiteurs de la communauté vaudoise à cette époque: celui du Dr Wil- liam S. Gilly et celui du général Beckwith. — 71 — Le Dr Will iam Stephen Gillv (1/89-1855) est mort depuis deux ans au moment où éclate l'affaire Bert, mais son influence et son œuvre sont encore tangibles comme le sont les institutions — Col- lège de La Tour et hôpital — qui, grâce à lui, se dressent dans la « ca- pitale » des Vallées vaudoises. Le Dr Gilly, qui a terminé ses études de théologie en 1817 (23), se rend pour la première fois dans les Vallées vaudoises en 1823 et, l'année suivante il publie un livre intitulé « A Narcotine of an Ex- cursion to the Mountains of Piémont and Researches among the Vau- dois, or Waldenses. Cet ouvrage éveille une grande sympathie pour les Vaudois en Angleterre et une collecte patronnée par le Roi lui- même permet de construire un hôpital. En 1826, Gilly est nommé chanoine de la cathédrale de Durham et en 1829 il effectue son se- cond voyage dans les Vallées vaudoises en qualité de secrétaire du Vaudois Committee, une association chargée de gérer les fonds ré- coltés pour le soulagement de ces populations indigentes et qui a, à sa présidence, l'Archevêque de Canterbury et plusieurs hommes po- litiques. Le second personnage, le général Beckwith (1782-1862) n'a au- cune formation théologique. C'est un officier qui s'est distingué pen- dant les guerres napoléoniennes et qui a combattu à Waterloo où il a perdu une jambe. Il a 26 ans en 1815 et doit quitter l'armée à cause de son infirmité (24). Alors qu'il se demande vers quel genre d'occu- pation il va se diriger, il tombe par hasard, dans une bibliothèque, sur le livre que le Dr Gilly a écrit à la suite de son second voyage dans les Vallées vaudoises, Waldesian Researches during a second visit to the Vaudois. Il en est bouleversé et la même année, il part pour les Alpes italiennes et s'installe à La Tour où '1 restera jusqu'à la fin de sa vie. Il s'attachera principalement à introduire l'instruc- tion pour tous et fondera 12 écoles dans le district. Ouvrons, nous aussi, ce livre et voyons pour quelles raisons le Dr Gilly entreprend son second voyage dans les Vallées vaudoises. « Le but de ma visite chez les Vaudois était triple », écrit-il. « Premièrement, et principalement, j'étais désireux de juger, sur la base d'observations et d'enquêtes personnelles, comment certaines sommes d'argent placées à ma disposition pourraient être le mieux employées, non seulement pour le bénéfice de l'Eglise Vaudoise, mais pour l'avantage de la cause protestante en général pai le truchement de cette place forte italienne. Les « hommes des Vallées » ont droit à notre intérêt non seulement en tant que descendants des anciens Vaudois mais en tant qu'habitants de certains des cols alpins impor- tants entre la Erance et l'Italie... d'où des lignes de communication pourraient être étendues et une action de prosélytisme entreprise à une époque plus favorable dans la péninsule. (23) Dictionary oj National Biography, vol. XXI, p. 377. Londres 1890. (24) Dictionary oj National Biography, vol IV. p. 90-93. Londres 1885. — 12 — « Mon second objectif était de constater jusqu'à quel point l'aide qui avait déjà été accordée aux Vaudois avait été efficace et d'examiner les conditions de l'hôpital et des écoles fondées et entre- tenues par les fonds réunis dans les pays protestants d'Europe, prin- cipalement d'Angleterre. « Mon troisième et dernier objectif était de faire plus ample con- naissance avec les conditions générales et le caractère des Vaudois et avec l'état de l'Eglise vaudoise et de corriger certaines des opinions erronées qui ont été répandues à leur sujet ». En ce qui concerne « l'état de l'Eglise vaudoise », Gilly constate que les livres de religion dont se servent les Vaudois sont sound and orthodox. Et il ajoute: « Ouand on connaît les libertés qui ont été prises à Genève avec le catéchisme d'Osterwald dins certaines des dernières éditions, et où tout ce qui a Irait à l'aspect divin de Jésus- Christ a été omis, on sera content de voir que les exemplaires em- ployés parmi les Protestants de nos vallées sont les copies originales ». Gilly passe ensuite à l'examen de la liturgie en vigueur dans les temples vaudois. « Celle qui est employée par le pasteur de La Tour, Pierre Bert par exemple, est l'édition de 1754. « U est nécessaire de le remarquer », ajoute-t-il, a car on pourrait supposer que le clergé vaudois tombe dans les mêmes erreurs que la Venerable Company' of Pastors of Geneva » (rappelons que Pierre Bert a fait ses études dans la ville de Calvin. Il est le grand-père de notre protagoniste), « qui a donné son consentement à ce que des copies récentes soient épurées de toutes les questions litigieuses: divinité du Christ, pré- destination, grâce efficiente et péché originel ». Il est donc manifeste que des membres de l'Eglise anglaise ap- portent à la communauté vaudoise une aide matérielle aussi impor- tante qu'indispensable et légitime mais que, pour justifier ce soutien vis-à-vis de leurs compatriotes, ils pensent devoir s'assurer que leurs protégés sont toujours dans la ligne de la « pure foi de l'Evangile » selon l'expression de Gilly et qu'ils ne sont surtout pas influencés par le « déviationisme » genevois. Par conséquent, pour bénéficier de l'appui matériel anglais, les Vaudois du Piémont doivent rendre des comptes à leurs bienfaiteurs en matière de doctrine. VI. - CONCLUSION Nous avons établi, par l'analyse des convictions dogmatiques d'Amédée Bert, que ce dernier fait bien partie, par ses croyances et son attitude, du courant libéral de l'Eglise protestante et qu'en cela, il ne peut pas ne pas entrer en conflit avec une Eglise dont la doctri- ne repose sur la Confession de foi de 1655 et sur le catéchisme d'Os- terwald. Cependant, le fait que dix-sept pasteurs sur vingt-cinq aient ac- — 73 — cepté SOD examen oral de doctrine et quinze sur dix-sept son sermon et que, avant l'imprudence commise par son père de le faire prêcher à Turin, il ait été jugé digne d'être consacré, montre bien que, même si le clergé vaudois faisait des réserves sur le candidat, il ne voulait pas l'exclure. Nous nous sommes alors demandé si des influences extérieures avaient pu jouer un rôle dans ce brusque dénouement, comme l'af- firment les Bert, et nous avons déterminé que des membres de l'Egli- se anglaise, violemment opposés au libéralisme genevois s'intéres- saient à la communauté vaudoise et lui apportaient une aide maté- rielle. Au moment de la consécration un groupe d'Anglais se trouvait dans les Vallées vaudoises et il est même possible Que le Reverend Burgess ait déjà été sur place à la tête de la Foreign Aid Society. Il n'est cependant pas justifié d'accuser le clergé d'avoir violé sa conscience pour ne pas perdre l'appui matériel qu'il reçoit d'Angle- terre car, comme nous l'avons vu, la majorité de ses membres n'a pas suivi l'évolution dogmatique de Genève et est restée fidèle à la foi de ses ancêtres. Il est pourtant plausible de pressentir que le Corps des pasteurs vaudois a été entraîné plus loin qu'il ne le dési- rait par une minorité qui ne voulait pas tolérer qu'un suffragant formé à l'Académie de Genève soit admis au saint ministère dans les Vallées vaudoises. Et là, bien qu'il ne soit pas possible de le démon- trer absolument, l'influence des Anglais a certainement joué un rôle. Il ressort de ce travail que nous sommes en face d'un conflit qui dépasse le cadre de l'Eglise vaudoise et qui se situe au niveau de l'antagonisme existant à cette époque entre les Eglises de tendance libérale comme celle de Genève (25) et une partie de l'Eglise Réfor- mée de France d'une part, et les Eglises appartenant à VAlliance évangélique et groupant toutes les autres d'autre part, antagonisme qui engendre un esprit d'intolérance dans un camp comme dans l'au- tre traduit par l'exclusion de ceux qui sont de l'autre bord; Bert ne serait-il pas le pendant de Gaussen? MlCHF.LINE TrIPET (25) Nous aurions voulu nuancer l'image du libéralisme genevois. Tous les pas- teurs n'étaient certainement pas aussi libéraux que Jean-Jacques Caton Chenevière et le Dr Close dans ses lettres à l'éditeur de The Record parle d'une évolution de l'Eglise nationale de Genève dont la majorité des pasteurs sont « sound in doctrine ». ANNEXE I I. - SOURCES (Manuscrites) a) conservées aux Archives d'Etat de Genève: — Compagnie des Past. P. 85 1 dossier 1) pièces générales: La discipline vaudoise de 1839 (manuscrite) . La Constitution de l'Eglise évangélique vaudoise adoptée par le Sy- node tenu à Tours en mai 1855 et proposée à l'acceptation des pa- roisses (imprimé). 2) correspondance: 27 août 1857 Amédée Bert fils au Modérateur de l'Eglise vaudoise; du 28 août au 16 octobre 1857 entre Amédée Beri père et Amédée Bert fils et les Professeurs Munier et Cellérier; 9 septembre 1857 du Modérateur Malan au Modérateur Munier; 29 septembre 1857 du Modérateur Munier au Modérateur Malan; 3) autres pièces: Lettre-circulaire d'Amédée Bert père à l'Eglise vaudoise protestant contre les faits du 27 août 1857 (imprimée); Court exposé de ce qui s'est passé à la demande de consécration adressée au Corps des pasteurs par Amédée Bert (imprimé). Protestations des Eglises de Turin et de Prarustin (copies manus- crites); 4) pièces concernant le rebondissement dans The Record: Traduction manuscrite (par le Modérateur Munier) d'une partie du rapport du Reverend Burgess; Extraits de The Record (18 et 25 janvier 1858, 22 et 25 février 1858); Correspondance entré le Modérateur Munier et le Dr Close et en- tre le Modérateur Munier et Amédée Bert du 2 au 21 février 1858. — Registre de la Compagnie des Pasteurs de Genève N. 41 (15 juin 1849 7 juin 1861). — Académie, Ba 8; Bb 1; Gd 3; Ge 2; De 4; De 8; Dh 7. G 10. — 75 — ANNEXE II Liste des pasteurs vaudois formant le clergé en 1857 L'astérisque correspond aux pasteurs qui ont signé le Court exposé. 1. Pasteurs des paroisses Angrogne: Matthieu Gay *, étudie à Lausanne avec Alexandre Vinet. In fluencé par le mouvement du Réveil. Bobi: Jean-Pierre Tron. Rora: Michel Morel *, étudie à l'Académie de Genève et à Lausanne. Massel: Jean-David Turin *. Rodoret: David Charbonnier. Maneille: Jean-Daniel Rivoire *, étudie à l'Ecole de l'Oratoire de Genève. Saint-Jean: Jean-Pierre Bonjous *, oncle d'Amédée Bert. Ami du Dr Gil- ly — c'est lui qui lui sert de guide au cours de la visite du past, anglais dans les Vallées vaudoises en 1829. Il précède Amédée Bert père dans la fonction de pasteur-chapelain des Légations pi otestantes. Pomaret: Pierre Lantaret *, étudie à Berlin avec le Professeur Neander que l'historien du Protestantisme Emile G. Léonard place dans la ca- tégorie des théologiens de la "Schwebetheologie" ou théologie pecto- rale qui est aussi une réaction contre la théologie libérale. Pierre Lan- taret est l'un des trois pasteurs qui s'opposent le plus à la consécra- tion d'Amédée Bert le jour de la cérémonie. Il n'avait assisté ni aux examens ni au sermon. Modérateur jusqu'en mai 1857. Saint-Germain: Jean-Jacques Bonjour, Pierre Monastier. La paroisse de Saint-Germain proteste contre l'attitude du clergé vis-à-vis du can- didat. La Tour: Barthélémy Malan *, étudie à Lausanne. Modérateur depuis mai 1857. Prarustin: Jean- Jacques Durand Canton *, fait partie de la Table vaudoise avec Jean-Pierre Revel et Pierre Lantaret jusqu'en mai 1857. Sa pa- roisse proteste contre l'attitude du clergé vis-à-vis du candidat, mais il signe le Court exposé. Turin: Amédée Bert. A fait ses études à l'Accadèmie de Genève. Comme dit plus haut est pasteur-chapelain des Légations protestantes à la Cour de Sardaigne et fondateur de la Chiesa Evangelica. Le soir de l'Emancipation c'est sous ses fenêtres que la foule turinaise se ras- — 76 — semble pour montrer aux Vaudois sa satisfaction devant l'acte du Roi. Pi ali: Daniel Barthélémy Muston *. Villar: Jean-François Gay-, étudie à Lausanne. En 1848, après l'Acte d'E- mancipation, est envoyé à Florence par le Général Beckwith pour étudier l'italien. Pramol: Jean-Barthélémy Davyt *, étudie à l'Oratoire de Genève. Villesèche: Louis Jalla, étudie à Lausanne et à Strasbourg. 2. Pasteurs chargés d'autres fonctions Il airi Peyrot - Pasteur émérite depuis 1855, juge de paix. Jacques Vinçon - a exercé tout son ministère à Pramol, la paroisse la plus élevée et la plus pauvre des Vallées. Grand ami du Dr Gilly. Hyppolite Rollier * - Suisse, oncle d'Amédée Bert, dernier pasteur venu de l'étranger dans les Vallées. Professeur au Collège de La Tour. Jean-Pierre Meille * - évangéliste à Turin d'une autre communauté que celle d'Amédée Bert père. A étudié à Lausanne. Influencé par le Ré- veil. Grand ami du Général Beckwith sur lequel il écrit un livre. Barthélémy Tron * - Professeur au Collège de La Tour; l'un des trois pas- teurs qui s'opposent à la consécration le jour de la cérémonie. Etienne Malan - Professeur à La Tour. Jacques Parender - Professeur à La Tour. Quitte les Vallées quelques an- nées plus tard et poursuit une carrière universitaire en Suisse. François Gay - Professeur au Pomaret (école professionnelle pour les filles). Paul Geymonat - évangéliste à Gênes. A étudié à l'Ecole de l'Oratoire à Genève. Louis Desanctis - évangéliste à Turin, ancien prêtre converti au protes- tantisme, collaborateur de Jean-Pierre Meille. Antoine Gay* - évangéliste à Turin. Fait partie de la famille Gay touchée par le Réveil au moment du séjour de Félix Nef dans les Vallées. Paul Combe * - Consacré en 1854. Jean-Daniel Charbonnier - Pasteur évangélique à Gênes, à étudié à Ge- nève mais pas à l'Académie, probablement à l'Ecole de Théologie de l'Oratoire. Georges Appia - a étudié à l'Académie de Genève. Jean Revel * - oncle d'Amédée Bert, professeur, grand ami du Modéra- teur Malan. Jean-Pierre Revel * - Modérateur jusqu'en mai 1857. Ami du Général Beck- with. Récolte des fonds pour l'Eglise vaudoise. L'un des pasteurs qui s'opposent le plus à la consécration d'Amédée Bert. Cartographie des Vallées Vaudoises Sur le N. 101 (mai 1957) du Bulletin de notre Société, j'avais écrit quelques notes comme complément d'un article sur la cartogra- phie des Vallées Vaudoises que le Doct. D. Rivoir avait publié sur le N. 47 (sept. 1925), notes que je concluais en souhaitant la publica- tion d'une carte à l'échelle de 1:50.000 qui aurait pu inclure tout le territoire de nos Vallées. Ce souhait s'est presque réalisé actuellement par la publication, de la part de l'Istituto Geografico Militare de la Carta d'Italia 1:50.000 dont la feuille N. 172, Pinerolo, est depuis peu en vente au public. Je dis « presque » car cette feuille ne comprend pas complète- ment tout le territoire des Vallées, °ar il manque la partie sud du Val Pélis, presque toute la vallée de Luserne et le vallon du Pra qui seront inclus dans la feuille N. 190: Barge (qui n'est pas encore publiée), et l'extrémité ouest des vallons de Rodoret, Salse et Massel qui apparaitront sur la feuille N. 171; Cesana Torinese (aussi celle-ci n'est pas encore publiée). Il s'agit en tout cas d'une carte superbe, techniquement parfaite, comme le sont, d'autre part à présent, toutes les éditions de 1T.G.M., où les relèvements, photogrammétrie et reproduction se font avec les appareils les plus perfectionnés et « up to date ». Imprimée à couleurs, l'hydrographie est en bleu ainsi que le nom des fleuves et des lacs; les noms de lieu, les habitations, cons- tructions, chemins de fer, muletières et sentiers, ainsi que les bornes (de communes, province ou état) et les chiffres des hauteurs sont en noir; les chemins principaux, goudronnés ou pavés sont en couleur orange; le térrain, selon l'inclinaison est décrit en blanc (plaines), en vert pâle puis plus sombre pour enfin tendre au gris foncé selon l'inclinaison du terrain. Les courbes de niveau, qui ont une équidis- tance de 25 mètres sont en couleur rose; Se quadrillé kilométrique U.T.M. ainsi que les coordonnées et certaines indications de marge sont en couleur violette. La carte indique aussi les diverses qualités «le végétation des localités boisées. Le système de projection Univer- sale Traversa Mercatore (U.T.M.) par le quadrillé dont chaque carré correspond à 1 Km., permet de répérer un point sur la carte avec une aproximation de 100 mètres. Pour la première fois toutes les indica- tions et explications aux marges de la carte sont en italien et en an- — 78 — glais (influence de la NATO?). Les nuances de vert et gris donnent une idée assez claire de la conformation du sol. La toponymie laisse aulieu beaucoups à désirer. À côté de quel- ques erreurs matérielles de transcription comme: Ronet pour Bon- net, Bonissa pour Bouissa, Armand pour Arnaud, Rodoreto pour Rodoretto, une grande partie des noms de lieu sont italianisés, tandis que d'autres maintiennent leur forme dialectale ou sont simplement légèrement estropiés. A côté des noms des communes qui sont tous italianisés depuis longtemps: Torre Pellice, Bobbio Pellice, Angro- gna, San Germano, Pramollo, Prarostino, Inverso Pinasca, Pomaret- to, Perrero, etc., nous avons, par exemple pour la Vallée du Pélis: Giambone, Coppieri, Tagliaretto, Fienminuto, Cognetti, Subiasco, Podio, Campi, Castello, à côté de toponymes corrects comme: Chio- rivet, Rua, Micialin, Chabriol (écrit en graphie française, en patois ce serait Ciabriol), Teynaud, Ciarmis, Garin, Gamier (graph, franc), Maussa, Laus, Payant, Malpertus, Maibec, Cairus, Meisuns, Eyssart, etc. Dans la Vallée de Angrogne, à part le fait que le chef-lieu est indiqué comme Angrogna aulieu que S. Lorenzo, nous avons l'italia- nisation inutile des hameaux: Malano, Martello, Raggio, Roccia, Od- dino, Marchetti, Coissone, Buonanotte, tandis que d'autres topony- mes sont corrects ou presque, tel que: Sonagliette, Pramola, Cacet, Eissart, Arcia, Ciavia, M. Servin, Chiot, Saben, Ciaudet, C.le Vac- cera, Sea, Bric delle Buie, P. ta Rognosa, Sap, Ceresarea, etc. Déci- dément trompés aulieu: Braere pour Brîra et True Internet pour Truc Internet. A Prarustin (Prarostino) dont le vrai noms serait Prustin (n'oublions pas que la françaisisation des toponymes locaux est aussi trompée que leur italianisation; les toponymes, comme les noms de famille, ont été créés par la population locale autoctone, sauf exceptions, et sont exprimés dans la langue ou dialecte que ce peuple parle ou à parlé. Ceci vaut tant pour nos Vallées que pour quelconque autre région: Piémont, Lombardie, Emilie, Calabre ou Sicile. Les toponymes devraient être conservés dans leur forme ori- ginale pour garder leur vraie signification et non pas traduits aproxi- mativement dans la langue parlée par la classe dominante ou coloni- satrice). A Prarustin donc nous trouvons: Rostagni, Grigli, Ruata, Collaretto, Chiarvetto di Roccapiatta, Cardoni, Godini, C. Cianfo- rano etc. à côté de quelques rares noms non extropiés: Bleynat, Gay, Des irrégularités semblables se retrouvent dans la toponymie de S. Germain, Pramol puis semble battre le record avec des chefs- d'œuvre comme: Feugiorno, Pomeano, Balmassi, Tornini, Ruata, Bosi, Ribetti; noms extropiés que la Commune ne s'est pas opposée à adopter aussi pour tous les indicateurs routiers (ils vous diront que c'est la Province qui les leur a fournis, mais ils n'avaient qu'à ne pas les accepter en faisant noter les erreurs). Ni meilleur traitement à reçu la Vallée de la Germanasque, où la presque totalité des toponymes est italianisée: Combagarino, Chiot- ti, Roberso, Campoforano, Serrevecchio, Orgiere, Pomieri, pour n'en — 79 — citer que quelques uns pris au hasard. N'en donnons pourtant pas toute la faute aux cartographes qui ont rédigé cette carte. Ne con- naissant pas le dialecte local, lorsqu'ils interrogent sur place, en par- lant italien, les habitants, ceux-ci connaissant eux-mêmes l'italien, leur répondent dans cette langue et tendent, très souvent même in- consciemment, à italianiser le toponyme peur le rendre plus com- préhensible à leur interlocuteur. Malheureusement une carte de ce genre, qui est officielle pour l'Italie, tend à rendre officiel le toponyme dans la forme dans laquelle il est ici indiqué, ce qui lui fait perdre souvent sa signification ori- ginale. Nous voyons, même dans nos journaux locaux, que les cor- respondents se servent toujours de plus de toponymes italianisés au- lieu de ceux originaux. Quoi que l'édition de cette carte soit du 1972, la construction de nouveaux chemins va plus vite que le relevé des cartographes, et, par exemple, le nouveau chemin qui depuis La Tour, par Viale Gilly, en passant en dehors de S. te Marguerite substitue la vieille carrossable pour Bobi jusqu'aux Chabriols Inférieurs n'y est pas encore marqué sauf un petit bout, indiqué comme en construction, à la hauteur de Rio Crô, ainsi que quelques autres chemins r présent goudronnés ne sont pas encore indiqués comme tels. Pour compléter l'inventaire des cartes topographiques de nos Vallées décrites dans les deux précédents articles cités, je signalerai encore : CARTA DELLA VAL GERMANASCA, éditée par la Claudiana, imprimée par Graf. Art Torino en 1972, et signée F. RS. Elle com- prend les trois vallées de la Germanasque. Les chaines de montagne y sont indiquées schématiquement par des traits continus qui décri- vent les lignes de faîte, en noir; les cours d'eau sont en bleu et la via- bilité en rouge. Les localité plus importantes y sont indiquées. La toponymie est en général italianisée, sur la base des cartes de 1T.G.M. ; l'échelle y est indiquée à: 1 Km. = 3 cm. C'est une carte d'un très joli effet et il est à souhaiter qu'il soit possible bientôt d'en publier aussi une du même genre pour la vallée du Pélis. Il reste à rappeler aussi l'initiative éditoriale de la Claudiana d'accompagner les volumes de la série « Storici Valdesi » soignée par le prof. Enea Balmas et sous les auspices de la Soc. di Studi Valdesi, de la reproduction d'anciennes cartes des Vallées. Avec le premier volume de la série, le Miolo (édité en 1971), nous avons la reproduction en fac-similé dans les dimensions origi- nales de la carte: « Le Quattro Valli, di Lucerna, Angrogna, S. Mar- tino e Val Perosa, già seggio delli Calvinisti detti Barbetti. cacciati dall'armi di S. M. Cristianissima, e di S.A.R. di Savoia, Descritte e Dedicate dal P. Maestro Coronelli Lettore, e Cosmografo Pubblico... » (Anno 1689-90). - 80 — Pour le volume « Histoire Mémorable ,> (publié en 1972), la: « Carte Générale des états de S.A.R. tant deçà que delà les monts. Et du Royaume de Chypre », publiée en 1660 en accompagnement du volume de S. Guichenon: Histoire Gnénalogique de la Royale Mai- son de Savoye, éditée à Lyon par Barbier. Celte reproduction en fac- simile est un peu réduite vis à vis de l'original qui est de cm. 61 x 61, et était imprimé en quatre parties collées. Parmi les éditions de cartes touristiques à l'échelle 1 : 200. 000 ou I :250.000 j'avais déjà cité celles du Touring Club Italiano, et je vou- drais y ajouter la nouvelle édition de l'« Atlante Automobilistico » en 3 volumes (Italia Settentrionale, distribué aux associés en 1969; Italia Centrale e Sardegna, 1970; Italia Meridionale e Sicilia, 1971). II s'airil de tout le territoire italien en de très belles cartes à l'échel- le «le 1:200.000, réunies en volumes. Le territoire de nos Vallées se trouve dans le premier volume aux pages 39-40 qui comprennent le territoire depuis la ville de Turin jusqu'à Briançon, en incluant les vallées du Pellice, Germanasca, Chisone, toute la vallée de Suse et la vallée de Viù. Destinés au tourisme automobile, les roules de grande communi- cation et celles secondaires y sont bien marquées, mais les sentiers et muletières y sont complètement ignorés, ainsi que tous les ha- meaux qui ne sont pas desservis par une route parcourable en automo- bile. Seule les cimes principales sont indiquées et les refuges (Barba- ra, Jervis, Granerò, etc.). Par contre les skilifts, télésièges etc. y sont scrupuleusement signalés, et cela est logique puisqu'il s'agit d'un carte destinée aux touristes. La technique continuant à s'évoluer pour tenir le pas aux exi- gences de la soi disant civilisation moderne, il est probable que dans quelques années d'autres nouvelles cartes plus perfectionnées (celles en relief et à vision tridimentionnelle fxistent déjà), devront être si- gnalées pour ajourner cette documentation de notre cartographie. Osvaldo Coïsson Rassegna bibliografica Franjo Sanjek, Le rassemblement hérétique de St. Félix-de-Caraman (1167) et les églises cathares au XII siècle, in" Revue d'Histoire ecclésiastique" LXVII, 3-4, (Louvain 1972), pp. 767-799. Più che di un lavoro originale e nuovo, si tratta di una messa a punto bibliografica e documentaria relativa al convegno cataro del 1167, già noto dalle cosi dette « carte di Niquinta », una specie di verbale molto sintetico ma molto interessante sull'organizzazione catara nella Francia meridionale: vi si distinguevano due grosse circoscrizioni, quelle di Carcassonne e quel- la di Toulouse, ognuna con i suoi vescovi ed i suoi responsabili, eletti dai fedeli delle varie comunità. Il che rivela una solidità ed un'attività eresiale assai notevole e ben radicata. Ilarino da Milano, Il dualismo cataro in Umbria al tempo di S. Francesco, « Filosofia e cultura in Umbria tra Medioevo e Rinascimento », Atti del IV Convegno di studi umbri (Gubbio 1966), Perugia, Facoltà di lettere e filosofia, 1967, pp. 175-216. Viene documentata la diffusione dell'eresia catara specialmente nella regione di Spoleto, dove esisteva una « ecclesia de valle spoletana ». Anche ad Assisi al principio del '200 era presente un vivace nucleo di catarismo, certamente noto anche a S. Francesco. I francescani si impegnarono an- che nella repressione dell'eresia nella regione. Davide Bigalli, Recenti pubblicazioni di storia delle eresie, in Studi sto- rici, XII, 2 (aprile-giugno 1972), pp. 395-407. La rassegna prende spunto dall'incontro di Royaumont dedicato a « Eresie e Società », i cui atti (pp. 484) sono stati pubblicati nel 1968 a Parigi, ed esamina in particolare le relazioni presentate in tale occasione. Esse in verità non si limitano cronologicamente al Medio Evo, ma arriva- no fino al tardo seicento, con implicazioni diverse del termine « eresia ». La rassegna si sofferma poi particolare sul volume di Manteuffel: Nais- sance d'une hérésie, già notato in questa rassegna, e del quale peraltro non è rilevato troppo il fatto che dal 1963 (anno dell'edizione polacca) molti nuovi contributi hanno permesso di rivedere e di ridimensionare varie conclusioni dello studioso polacco. — 82 — Gabrielle Berthoud, Antoine Marcourt, Réformateur et Pamphlétaire du "Livre des marchons" aux Placards de 1534, Genève, Droz, 1973, 8°, pp. IX-330 (Travaux d'Humanisme et renaissance, n. CXXIX). Antoine Marcourt ha occupato un posto non indifferente nello svilup- po della Riforma a Neuchâtel e Ginevra, e nella propaganda religiosa af- fidata agli scritti. Nato in Piccardia (come Calvino, Olivetano, Crespin ecc.) lo troviamo organizzatore del ministero pastorale a Ginevra e in stretti rapporti con Pierre de Vingle, il tipografo della Bibbia di Olivetano; poi, dal 1538 a Ginevra. La sua biografìa è attentamente ricostruita dalla Berthoud, ma soprattutto agli scritti di Marcourt è volta l'attenzione. Di questi il più famoso è il «Livre des marchans » (1533), satira feroce con- tro gli ecclesiastici cattolici accusati di mercimonio, opera che poi ebbe diverse riedizioni e traduzioni. Frequenti i riferimenti a Olivetano, legato da buoni rapporti col Mar- court. L'autrice presenta anche i vari nomi assunti da Olivetano: Pierre Trebor (anagramma di Robert) nel 1533, Instruction des enfans; Louys Olivier, 1531; P. Robert Olivetanus e Petrus Robertus Olivetanus nella Bibbia del 1535; Robertus nella prefazione di Calvino di tale Bibbia; Ke- phâ, Pierre o Louis, nella corrispondenza dei riformatori; Olivet, nelle Chroniques de Genève; Belisem nel N. T. del 1536; Belisem de Belimakon nei Salmi del 1537; Pierre Robert nella Bibbia del 1563. De Freda Carlo, Un calabrese del Cinquecento emigrato a Ginevra (Apol- lonio Merenda) in Arch. Stor. p. le Prov. Napolet., X 1972, pp. 193-203. Del Merenda si sa assai poco: vengono connesse le notizie sparse, specie quelle emerse dal processo Carnesecchi, da cui risulta essere stato uno dei personaggi in relazione col famoso imputato. Anche del suo pe- riodo a Ginevra le notizie sono scarse. Viene accantonata l'accusa del Bernino (Istoria di tutte l'eresie) secondo la quale il Merenda avrebbe «in- fettato molte terre, e particolarmnte La Guardia, S. Sisto e la baronia del Castelluccio ». Come è noto, esse furono risvegliate dall'opera del Pascale e del Negrino. Ugo Gastaldi, // comunismo dei Fratelli Hut t eriti, in "Protestantesimo", 1/1973, pp. 1-24. L'A., già noto per il suo imponente lavoro sull'Anabattismo, presenta in queste pagine (prolusione letta all'inaugurazione della Facoltà Valdese di Teologia in 28.X.1972) una visione sintetica delle vicende dell'Hutteri- smo: movimento radicale del '500, che prese il nome dal pastore Jakob Hutter, e che ebbe come caratteristica specifica il comunismo dei beni. Impiantatosi dapprima in Moravia, a seguito delle persecuzioni e delle guerre, passò in Transilvania e in Ucraina, e successivamente in America. Oggi il gruppo hutterita è presente in Canada e negli Stati Uniti, e man- tiene sempre la rigorosa comunanza dei beni. Sono presentati anche le motivazioni teologiche e la struttura eccle- siale delle comunità hutterite attraverso i secoli. — 83 — Valdo Vinay, // Beneficio di Cristo e la Riforma cattolica, in "Protestante- simo" 1/.1973, pp. 25-35. Viene presentata una rapida sintesi della problematica riguardante il famoso « Beneficio di Cristo » e degli studi di questi ultimi anni sull'ar- gomento. In particolare viene presentato il recente lavoro di Caponetto sul Corpus Reformatorum italicorum, che è l'ultimo lavoro massiccio sull'argomento, ma che « non porrà fine al dibattito sul pensiero (riforma- to o mistico-valdesiano) di don Benedetto ». Sacrae Congregationis De Propaganda Fide memoria rerum, 1622-1972, Voi. 1/2, 1622-1700 Rom-Freiburg-Wien, Herder 1972. Cap. Ili: Religiose inte- ressen in den Westalpen: Schweiz, Savoy en-Piemont, a cura di Josef Metzler. Traduzione del par. 2: Savoy en-Piemont , pp. 85-91, a cura di Gino Costabel. Abbreviazioni: 1) Acta(Acta Sacrae Congregationis de Propaganda Fi- de); 2) CP (Congregazioni Particolari); 3) SOCG (Scritture originali riferite nelle Congregazioni Generali); 4) Pr. F. (Congregazione di Propaganda Fide). PARAGRAFO II Analogamente a quanto accadeva in Isvizzera, anche in Savoia-Piemon- te il Nunzio che risiedeva a Torino prese una posizione-chiave conforme- mente ai fini della Congregazione [di Pr. F.] per quanto concerneva la di- rezione dei missionari e l'attuazione dei deliberati romani. Due erano i centri geografici che destavano in modo particolare la preoccupazione del- la Pr. F.: le Valli delle Alpi piemontesi e i dintorni di Ginevra. Già Urbano VIII (1592-1605) aveva mandato dei Gesuiti e dei Cappuccini — al cui man- tenimento provvedeva la Cassa Apostolica — affinché arginassero la pene- trazione dei protestanti nell'Italia settentrionale. La Pr. F. assunse anche subito la direzione di queste Missioni. Nella sua prima Istruzione — scritta dalla Congregazione Pr. F. — al nunzio Lorenzo Campeggi (1624-1627) a To- rino, probabilmente in occasione della sua nomina (23 marzo), la Pr. F. gli raccomandò con grandissimo calore quelle Missioni. Ingoli — che era sen- za alcun dubbio il redattore di questa come di altre Istruzioni nel periodo in cui esercitò il suo ufficio — non si peritò di impartire in quello scritto un biasimo preciso all'arcivescovo di Torino, ancorché questi non dipendesse dalla Pr. F. « Egli dorme — scrive Ingoli — invece di preoccuparsi dei suoi doveri pastorali »; compito del Nunzio era quello di risvegliarlo e di met- tere ai suoi fianchi degli individui che « lo mettessero in movimento » e gli ricordassero i suoi compiti. Soprattutto il Nunzio deve provvedere in tutto il territorio della sua nunziatura a stabilire delle Missioni dove non esisto- no, ma sia necessaria la loro presenza. Dalla Istruzione scritta in occasione dell'assunzione del suo ufficio al successore del Campeggi, il Nunzio Luigi Galli (1627-1629), apprendiamo quali erano in quel periodo le Missioni nella circoscrizione della sua nunzia- tura: 1) I missionari cappuccini nei dintorni di Ginevra, dove avevano al- lora quattro sedi; il Padre provinciale dell'Ordine in Savoia era il Prefetto della Missione. 2) La Missione dei Cappuccini nella Valle di Perosa e din- — 84 — torni; Prefetto della Missione era il Padre Provinciale dell'Ordine in Pie- monte. 3) La Missione dei Gesuiti in Bibiana. Si deve poi tener presente una quarta attività missionaria in Barcellonetta col domenicano Pietro Bouvet (Bovet). Anche i Barnabiti nella diocesi di Ginevra e il loro collegio in Annecy vengono affidati al Nunzio. I compiti che deve attuare per conto della Congregazione sono illustrati in questa istruzione, come segue: 1) provvedere alle necessità materiali del mantenimento dei missionari; a questo fine si prendevano anche in esame il Tesoro Apostolico, il Duca, la Propaganda; inoltre i Cappuccini avevano trattenuto delle collette in Italia per le Missioni nel territorio di Ginevra; 2) conferire ai missionari le facol- tà necessarie, e vegliare affinché non si raffreddi il loro zelo; 3) interessare il Duca alla Missione; 4) tenere la Congregazione al corrente della situazio- ne della Missione, dei suoi problemi, delle sue necessità etc.; 5) esortare i Vescovi di Torino, Saluzzo ed altre sedi le cui diocesi fossero contaminate dall'eresia, affinché stabilissero delle Missioni in tutti i centri cruciali. Anche in Piemonte accadeva che i responsabili della diplomazia france- se proteggessero i protestanti. La Pr. F. non poteva far altro che inoltrare proteste tramite il Nunzio a Parigi, ed evitava tutto ciò che avrebbe potuto dar occasione a rimostranze da parte del governo francese. Nella suaccen- nata Istruzione la Pr. F. raccomandava al nunzio Fausto Caffarello (1634- 1641) di non tentare in alcun modo da dare direttive ai cappuccini francesi che svolgevano la loro attività nel territorio di sua competenza, per evitare l'impressione che la Pr. F. li avesse posto alle dipendenze di un'autorità di- versa da quella del Nunzio francese. Pertanto il Caffarello doveva limitarsi a tener la Missione al corrente dell'attività di questa Missione, perché il Nunzio che risiedeva a Parigi non era in grado di farlo, data la grande di- stanza. In Piemonte, da molto tempo, vi era confusione giurisdizionale in me- rito alla posizione dei missionari. Pertanto erano frequenti i contrasti tra loro e dil clero locale; contrasti che giungevano a un tal punto che se ne doveva occupare l'Inquisizione in Torino, poiché la popolazione cattolica era turbata, e gli stessi protestanti ne traevano motivo di scandalo. E non era cosa facile appianare questi contrasti, perché la Pr. F. aveva trascurato di definire in modo chiaro la posizione giuridica dei missionari. Ancora nel 1659 nessuno sapeva — lo riconosceva lo stesso segretario della Pr. F. — se i missionari dipendessero dal Vescovo locale o dipendessero direttamen- te dalla Pr. F. Si dovette costituire una specifica Congregazione per esami- nare questo problema. Quando due anni più tardi si presentò un analogo problema con riferimento ai Cappuccini in Francia, il Segretario dichiarò che in linea di principio la Congregazione concedeva ai Prefetti dei Cappuc- cini autorità missionaria solo verso quei Padri che si recavano nelle Mis- sioni « fra i pagani »; tuttavia era accaduto che si fosse data una interpre- tazione erronea, attribuendo loro anche autorità verso quei Padri che svolgevano la loro attività in località dove risiedeva un vescovo, com'era il caso di Ginevra. Questa confusione contribuiva a render sospettosi i Vescovi che non vedevano molto di buon occhio i missionari mandati dal- la Pr. F., e spesso li consideravano addirittura spioni, come dichiarò il — 85 — cardinale Grimaldi nella Congregazione Generale del 5 aprile 1661. Questa « inavvertenza » della Pr. F. in Piemonte e in Savoia è tanto più inspiega- bile in quanto in tutte le altre regioni che ricadevano sotto la sua giurisdi- zione e nelle quali risiedeva un vescovo, la Pr. F. esigeva molto rigidamen- te che i suoi missionari al loro arrivo facessero conoscere al vescovo loca- le i poteri loro concessi da Roma, anche se normalmente non dovevano chiedere la loro autorizzazione per metterli in attuazione. Onde evitare malintesi fra gli appartenenti ai vari Ordini, la Pr. F. di- vise fra gli Ordini le valli alpine del Piemonte, perché questo problema era particolarmente attuale in quei luoghi, — mentre lo era meno a Gi- nevra dove erano all'opera solo i cappuccini — , e proibì che si facessero infiltrazioni nelle zone vicine. Analogamente a quanto accadeva in Isviz- zera, i missionari reclutati da altre province italiane, di volta in volta po- tevano rimanere solo per alcuni anni fuori dal reparto della provincia d'origine. Quando avevano terminato i loro compiti e un sacerdote dioce- sano li poteva proseguire, essi dovevano cedergli il posto. Nell'opera mis- sionaria in Piemonte la Pr. F. fece anche posto ad alcuni membri del cle- ro secolare; ma il loro numero fu scarso, un fenomeno evanescente; poco viene riferito della loro attività; poiché essi distribuivano generosamente elemosine ai convertiti ed avevano scarsi collegamenti fra di loro, accad- de che non pochi protestanti si « convertissero » ripetutamente, ora ad opera di questo, ora di quest'altro padre. I Francescani riformati sopportarono il peso maggiore dell'attività mis- sionaria in Piemonte; nel 1628, dietro suggerimento di P. Bonaventura da Palazzuolo essi presero su di sé il distretto dei Gesuiti nella Valle di Lu- serna. La Pr. F. autorizzò in tutte le province italiane dell'Ordine france- scano il reclutamento di francescani per questa Missione. Nel 1630 essi diedero inizio alla loro attività. Il papa Urbano Vili contribuì al loro man- tenimento con uno scudo d'oro al mese. Il duca di Savoia Vittorio Amedeo versava 1000 lire e 150 sacchi di frumento all'anno; donò inoltre 50 coperte di lana. Il cardinale Maurizio di Savoia, nipote del duca, versava 150 scudi d'oro all'anno. Dopo il 1653 il duca sospese il contributo finanziario, ma continuò la consegna dei 150 sacchi. Quando la consegna di questi sacchi non veniva fatta, oppure subiva un sia pur lieve ritardo, la Pr. F. interveniva sollecitamente tramite il Nunzio a Torino. L'apparato missio- nario di Roma intervenne anche quando cessarono i contributi del Tesoro apostolico e del principe Maurizio alla sua morte (1657). Ad un periodo iniziale ricco di zelo, ne successe presto un altro in cui si introdussero abusi. Si fecero sentire lagnanze esplicite; i Religiosi era- no ignoranti, non insegnavano, di modo che anche coloro che professava- no una fede diversa ne erano scandalizzati. La Pr. F. prese in esame le »• critiche e non esitò a riconoscere la loro fondatezza, poiché impose il ri- chiamo di tutti i francescano dalle Missioni in Piemonte, e la loro sostitu- zione con altri, dei quali nessuno doveva rimanere lontano dalla sua pro- vincia di origine più di 3 anni; essa concesse però a coloro i quali non avevano ancora concluso a quella data il periodo previsto per il consegui- mento del termine previsto. La Provincia piemontese dell'Ordine avrebbe — 86 — volentieri incorporato tutte le missioni, perché non vedeva di buon occhio nella sua zona collaboratori di altre province, che considerava « stranieri » e di cui non poteva disporre. Ma la Pr. F. non cedette su questo punto e mise a capo dei suoi missionari nella Val Luserna un vice prefetto. La si- tuazione per altro non doveva migliorare molto, perché nel 1669 la Con- gregazione si vedeva costretta a disporre una ispezione apostolica. All'in- circa in quel perìodo sorsero ancora ulteriori problemi, per risolvere i quali la Pr. F. costituì una congregazione particolare. Si trattava soprat- tutto di chiarire i poteri delle Missioni, di risolvere gli attriti tra france- scani e clero secolare, di studiare l'eventualità di una sostituzione degli Italiani con i Piemontesi, e la concentrazione dei missionari in 2 o 3 con- venti. In merito alla presenza di missioni straniere, il giudizio dell'arcive- scovo di Torino coincideva con quello delle autorità civili: i francescani che provenivano da province italiane dell'Ordine non rispondevano più all'aspettativa; questo fatto trovava la sua spiegazione in parte nella per- sonale insufficienza dei Padri, ma soprattutto nel fatto che essi non sape- vano parlare correntemente la lingua del paese {il francese) né avevano sufficiente pratica degli usi e costumi locali, per cui incontravano scarso consenso nella popolazione locale. La Congregazione in Roma dimostrò piena comprensione per questi problemi; stabilì che i francescani italiani fossero man mano sostituiti da piemontesi e che si avesse particolare riguardo alla scelta dei can- didati. Verso la fine dell'anno 80 si sparse la voce che i francescani sareb- bero stati ritirati dalle loro Missioni piemontesi, essendo il loro compito ivi praticamente terminato; tutte le parrocchie sarebbero state restituite al clero secolare. Ma né la popolazione locale, né le autorità romane erano d'accordo su una tale decisione. Era noto che vi erano ancora dei prote- stanti sui monti, ed anche nelle Valli non pochi cristiani non erano an- cora fortificati a sufficienza nella fede cattolica; inoltre soggiornavano in Piemonte molti protestanti espulsi dalla Francia; ovviamente nessuno di loro poteva dichiararsi apertamente tale, perché le leggi dello Stato non concedevano nessuna forma di libertà di religione. Oltre ai Francescani-riformati vi erano ancora nelle Valli alpine dei Cappuccini e un numero limitato di serviti, impegnati nell'attività mis- sionaria. Fin dal 1595 vi erano già dei cappuccini impegnati in questa attività quando il duca di Savoia affidò loro la conversione degli eretici. Relazioni degli anni 1669 e 1672 riferiscono che essi avevano nella zona 14 centri missionari, in cui erano all'opera 17 Padri e 2 frati. Samuel Henri Geiser, Die Taufgesinnten Gemeinden im Rahmen der ali- gemeinen Kirchengeschichte, 2a ediz. riveduta e ampliata, Courgenay 1971, 603 pp. e tav. La prima edizione di quest'opera è uscita nel 1931. L'Autore espone la storia delle comunità cristiane di sentimenti battisti dall'epoca apostolica ai nostri giorni, con particolare riguardo alla Svizzera. Il cap. VII, pp. 64-77, - 87 — è dedicato ai Valdesi, la cui storia viene sommariamente narrata dalle origini fino agli anni '20 del nostro secolo. La bibliografia valdese di cui il Geiser si vale è piuttosto vecchia: Herzog, Ludwig Keller. Non si com- prende bene perché egli dedichi questo capitolo ai Valdesi che, nel com- plesso, non sono stati e non sono di tendenza battista. V. Vi nay R. Smith, The archives of the Protestant Church of London, Huguenot So- ciety of London, Quarto Series, vol. 4, London, 1972, 8°, pp. 104. Il ricco archivio della chiesa francese di Londra viene qui presentato in un prezioso regesto, che comprende il periodo 1550-1953. Notiamo, per quanto interessa più da vicino, una lettera del sinodo valdese alla Chiesa Francese del 19 ott. 1674, e una richiesta di aiuto di tale Antoine Consul, « native of Piedmont », del 9 ott. 1740. Robert Person-, Esame del calendario protestante detto Foxiano, cioè Vol- piano, in cui si contengono i Santi Martiri e Confessori protestanti, formalo e posto dal predicante Gio: Volpe nella sua Istoria della Chiesa Protestante: venendo lo stesso paragonato col Calendario Cat- tolico Romano e coi Santi ivi contenuti. Primi sei mesi. Dopo i quali vieti la conferenza seguita fra Monsignor di Peron e Monsieur Plessis Mornay etc. scritto dal R. P. Roberto Personio, sacerdote inglese della Compagnia di Gesù. Tradotto dall'originale inglese nell'idioma ita- liano e dedicato all'augusta maestà di Maria Vergine da Francesco Giuseppe Morelli sacerdote fiorentino. Tomo II, in Roma nella Stam- peria di Giuseppe Lazzerini, MDCCX. Segnaliamo quest'opera polemica (data della dedica 1603) contro il fa- moso martirologio di John Foxe; The Acts and Monuments of the Church containing the History and Suffering of the Martyrs, 1563. Per quello che si riferisce ai Valdesi, il Person ha un capitolo (non registrato nella Bi- bliografia Valdese, B. 93), intitolato Prima setta dei nuovi Evangelici, chia- mati Valdesi o Poveri di Lione (pp. 132-142). In esso critica quanto il Foxe dice di loro, sotto l'anno 1172: The origin and history of the Waldenses. Il Person fa un parallelo fra i cori degli angeli e le sette: « ...come appunto sono a noi (cattolici) i 9 cori degli Angeli, così sembrano essere al Volpe e ai suoi compagni queste 9 sorti di Eretici... » (p. 132). I Valdesi sono « i patriarchi dei Protestanti ». I loro inizi risalgono al 1200. Erano « da principio un certo Ordine Religioso, non si sa certamente quando essi caddero nelle loro eresie... » (ivi). Valdo era « affatto ignorante... non sapeva né leggere né scrivere; nientedimeno istituì una Società, ovvero Ordine Religioso... » (p. 133). Cita la Cronica dell'Abate Uspergense (anno 1212) « che visse nel tempo di quei buoni Frati (valdesi), e parlò in Roma con alcuni di essi nel proprio loro Abito, quando cercavano d'ottenere dal Papa la confermazione dell'Ordine loro» {ivi). L'Autore presenta tre serie di articoli nei quali i Valdesi « differiscono dai Cattolici e convengono coi Protestanti », oppure « convengono coi Cat- — 88 — tolici contro i Protestanti » oppure « disconvengono e dai Cattolici e dai Protestanti ». Tra i primi notiamo che « i Valdesi... per vendicarsi del Papa, che non volle approvare il loro Ordine... rigettarono l'Autorità... del Vescovo di Roma » (p. 136). Tra i secondi è detto che essi « tenevano esser leciti e convenevoli nella Chiesa tutti gli altri Ordini religiosi, eccettuati quelli dei Mendicanti... ». (p. 137). V. Vinay Armando Pitassio, Diffusione e tramonto della Riforma in Istria: la diocesi di Pota nel '500, in « Anuali della Facoltà di Scienze politiche del- l'Università di Perugia », n. s., voi. 10, 1968-70, pp. 7-65. Lo studio è condotto essenzialmente sui documenti della visita apo- stolica a Pola nel 1579/80 e sui verbali di processi del S. Uffizio. Sven Stelling-Michaud, Le livre du recteur de l'Académie de Genève (7559- 1878), III, D-G, Genève, Droz, 1972, 8°, pp. XXIII-578. Continuando nella sua grossa fatica di raccolta dei dati biografici sugli studenti dell'Accademia ginevrina, lo Stelling-Michaud presenta in questo volume molti nomi di studenti valdesi: Danne, Durand-Canton, De Fernex, Forneron, Gaydou, Gardiol, Gay (Abel, Antoine, Banabas, Etienne, Jacques, Théophile), Geymet (Pierre, Jean), Genolat, Gilles (Barthélémy, Jacque, Pierre), Goante (Jacques, Paul), Gonin, Grill, Gross (Augustin, Pierre), Guérin, Guyot (Jean, Simon). La maggior parte di essi furono poi pastori nelle Valli Valdesi. Qualche dato è sfuggito ai compilatori ma, potrà essere forse occa sione di un'appendice. Non frequenti i nomi di italiani, per i quali comunque (esclusi forse gli israeliti) è legittimo chiedersi come mai nel '600 o nel '700 forse scelta Ginevra come sede di studi. Nell'88 vediamo comparire qualche anticle- ricale, come quel Ciro Goiorani, che venne espulso da Torino nel 1854 perché mazziniano, e che poi a Ginevra fondò una Società di mutuo soc- corso tra gli emigrati. Domenico Maselli, Breve storia dell'altra chiesa in Italia. Tendenze ereti- cali ed evangeliche nell'Italia Medioevale e Moderna. Ed. Centro Bi- blico, Napoli, 1962, 16°, pp. 47. Si tratta di una sintesi panoramica della dissidenza religiosa in Italia, a partire dalle eresie medievali fino all'evangelismo odierno. Come tale, ovviamente, l'A. non si è proposto altro che una presentazione sommaria, che pure nella sua schematicità riesce ad essere abbastanza completa ed a sottolineare gli elementi essenziali del dissenso e le linee attraverso le quali si è manifestata « l'altra chiesa ». Il pericolo, se vogliamo dire, di una trattazione come questa, è forse quella di richiamarsi ad un lettore già avvertito o specializzato, che sap- pia gustare, o distinguere, le varie fasi della presenza evangelica in Italia, laddove pensiamo che il lettore comune e sprovveduto si trovi un po' a disagio di fronte ad una compilazione che accampa qualche centinaio di — 89 — nomi nuovi grossi problemi di differenziazione confessionale non fa- cilmente avvertibili da chiunque. Questo è d'altra parte il destino delle opere di compendio, e so- prattutto nel campo della storia religiosa, per la quale il nostro mondo italiano è tutto ancora da educare. Castiglione Miriam, Aspetti della diffusione del movimento pentecostale in Puglia, in Uomo e Cultura, V, n. 9, 1972, pp. 102-114 + 4 tavole. L'autrice presenta alcune note più metodologiche che informative, in- dicando le linee di ricerca che sono state seguite e che possono essere sviluppate per l'esatta identificazione del fenomeno pentecostale. Un interessante prospetto riassuntivo indica inoltre le località toc- cate dalla propaganda, il numero degli aderenti, la data e il modo di for- mazione, i rapporti con il cattolicesimo e le autorità civili. Credenze e superstizioni della medicina popolare. (Convegno di studi sulle arti e tradizioni popolari. Pinerolo, 26 sett. 1971), 8°, pp. 35, ciclost. Gli atti di questo convegno, registrato nella loro integrità, presentano una relazione del prof. Silvio Berger, la cultura prelogica e le credenze superstiziose della medicina popolare (pp. 2-9) e la discussione che ne è seguita. Siccome il tema generale è stato poi circoscritto all'area pinero- lese, e in particolare alla Val Chisone, lo scambio di idee si è sviluppato soprattutto in rapporto alle pratiche superstiziose ed alla medicina popo- lare (a base di erbe) della zona. Naturalmente le credenze seguite in Val Chisone trovano riscontro in quelle delle valli vicine. Uns unserer Heimat - Oberderdingen - Zum 1200. Geburgstag der Gemeind. Herausgegeben: Die Gemeinde Oberderdingen, 1966. In occasione del millesimo ducentesimo anno di nascita della comu- nità di Oberderdingen, nel 1966, Gustav Brandauer ha raccolto in un vo- lume di 278 pagine i risultati di parecchi decenni di studi e di ricerche, dandoci una storia di questa comunità, dalle sue origini fino ad oggi, tutti gli aspetti della vita di questo piccolo centro del Wiirttemberg sono stati studiati e ne è nato un volume interessante, dove il racconto non è appesantito da una erudizione fine a se stessa. Così conosciamo la preisto- ria di Oberderdingen, le sue vicende attraverso i secoli, gli usi e costumi, l'economia, l'industria, l'agricoltura, l'artigianato, ecc. Naturalmente, non può mancare un acceno ai Valdesi. Sono 5 pagine che ci narrano le vi- cende sempre dolorose di quella immigrazione dei Valdesi nella Germa- nia meridionale. Li incontriamo nel 1699, quando il duca Eberhard Ludvig decide di accogliere nei suoi stati 3.000 profughi evangelici di Savoia e Piemonte nel suo Stato. Vi sono le difficoltà della diversità di lingua, di co- stumi, di razza, di confessione religiosa. Uno strano corteo turba la quiete di Derdingen: « Gente indiscuti- bilmente di tipo meridionale, occhi neri e capelli castani; miseramente — 90 — vestiti; la maggior parte non calzavano scarpe, ma sandali per cui veniva- no soprannominati i "sabatati"; portavano i loro miseri beni su carri, ma spesso anche soltanto in gerle sulle loro spalle, per cui vennero sopranno- minati Huckepacke (cavallucci - portatori a cavalluccio) ». Ancora una volta i profughi valdesi devono fare l'amara esperienza che le braccia della solidarietà evangelica non sono precisamente larghe. Viene scelta come zona di colonizzazione il « territorio più devastato [dal- le guerre di religione] e più spopolato tra Maulbronn e Derdingen ». Mi- seria, fame, scorbuto insidiano questa povera gente che si trova alle prese con una legislazione severa che punisce come furto la pesca e la caccia. Tra il 4 giugno e il 3 luglio 1699 muoiono in Derdingen 11 Valdesi, nasce un solo bambino. Poi c'è la diffidenza luterana. Abbiano pure una loro chiesa questi Ri- formati, ma la legge è legge; cuius regio...; perciò le pratiche si trascina- no; neanche una chiesa abbandonata può esser concessa, finché una scap- patoia giuridica non si presenta: una piccola località che è nello Stato geograficamente, ma non giuridicamente. Le ricerche che sono alla base di questo scritto sono state condotte negli archivi di stato e delle comunità. Tra le fonti stampate manca, stra- namente, un qualsiasi riferimento ad una qualsiasi pubblicazione valdese. Il fondatore del movimento valdese viene qui presentato come Petrus Waldus, Bussprediger. L. A. V. Giovanni Iurato, Pietro Taglialatela. Dalla filosofia del Gioberti all'evan- gelismo antipapale, Torino, Claudiana, 1972, pp. 188 (Storia del movi- mento evangelico in Italia, n. 2). Avvincente la figura di Pietro Taglialatela (1829-1913), la cui avven- tura spirituale viene attentamente seguita in questa ricerca: dagli studi di seminario alla cattedra di una scuola privata a pastore metodista a pubblicista e uomo di cultura, in un'Italia percorsa dai fremiti risorgi- mentali prima e poi finalmente unita, ma condizionata dal grosso pro- blema religioso. Fu l'interesse per Bruno e per Gioberti, probabilmente, ad aprire alla libertà e all'autonomia lo spirito del Taglialatela: dal cattolicesimo li- berale al protestantesimo il passo non fu molto lungo, anche se sulla crisi religiosa vera e propria i documenti sono piuttosto scarsi. E il Protestan- tesimo italiano degli anni '60 e 70 era anticlericale e mazziniano: così fu anche per Taglialatela, per il quale la mancata rivoluzione religiosa in Italia rimaneva come problema più grave, perché senza la « rivoluzione » religiosa anche le altre riforme non sarebbero state valide. Sicché anch'egli visse e lottò, come tanti altri, nella continua illusio- ne dell'evangelismo dell'ultimo 800, quello dell'Italia evangelizzata e, come tale, capace di una più valida e cosciente vita civile. Azione questa accompagnata, da parte del Taglialatela, da tutta una serie di lavori di cultura e di pensiero, che lo collocano tra i rappresen- tanti di quel dialogo a cui il popolo italiano nella sua maggioranza è rima- sto comunque piuttosto sordo. — 91 — Teokilo G. Pons, Dizionario del dialetto valdese della Val Germanasca (To- rino). Torre Pellice 1973. Esattamente un secolo fa, con la pubblicazione dei «Saggi ladini» nel 1° volume dell'Archivio Glottologico Italiano, il grande glottologo go- riziano Graziadìo I. Ascoli poneva le basi scientifiche della dialettologia romanza alla quale, in Italia, si era posta fino a quel momento un'attenzio- ne per lo più episodica o collezionistica manifestatasi mediante raccolte di traduzioni di un unico testo in vari dialetti, come era stato fatto dal Biondelli, dallo Zaccagni-Orlandini e dal Papanti. Con ciò l'Ascoli dava l'avvìo ad un interesse nuovo e più profondo per le parlate popolari, fra le quali quelle dell'area a maggioranza valdese assursero ad una meritata notorietà nel 1890. In quell'anno Giuseppe Morosi, attento ricercatore pre- maturamente scomparso, pubblicava un cospicuo studio intitolato « L'odier- no linguaggio dei Valdesi del Piemonte » nell'XI volume del suddetto Archi- vio Glottologico. Da allora sono andati moltiplicandosi, a proposito dei dialetti delle valli valdesi e in genere delle cosiddette propaggini proven- zaleggiami, articoli ricerche, studi e scritti vari — talvolta con ambizioni letterarie — i quali presentano un valore certo disuguale, ma sono tutti rivelatori di uno spirito nuovo nella considerazione dei nostri "patois". Fra tanto fervore di opere la lessicografia aveva avuto fino ad oggi, insieme con la grammatica descrittiva, la parte della cenerentola, rivelan- dosi appena sottoforma di nomenclature o di glossari occasionali. Unica eccezione di rilievo, l'ancora recente ed ottimo studio della Griset sulla par- lata di Inverso Pinesca, il quale però ha più un carattere illustrativo che metodico. Ma ecco che ora giunge ad appagare la nostra attesa un vero e proprio vocabolario generale: il « Dizionario del dialetto valdese della Val Germanasca » del Professor Teofilo G. Pons, edito dalla Società di Studi Valdesi che l'ha inserito nella sua sceltissima collana. È questo un evento, più che un semplice avvenimento, per la lessicografia dell'area provenzaleg- giante del Piemonte, ed è un giusto premio per l'attività paziente, metico- losa e premurosa con cui l'Autore, nell'arco di mezzo secolo, ha raccolto il tesoro lessicale della sua valle fondandosi in prevalenza sul "patois" del paese natio, cioè di Massello. Il volume si presenta in una veste tipografica molto chiara che ne ren- de agevole la consultazione, ed è ricco di informazioni introduttive com- prendenti cento pagine. Il Prof. Augusto Armand Hugon ne ha stilato la presentazione. Dell'A. stesso sono la prefazione, i cenni storici sui Valdesi, un esposto sulla questione della lingua valdese e l'esame dei contatti con le parlate delle aree circostanti: provenzale transalpina, italiano, francese, piemontese (manca soltanto un raffronto con i "patois" adiacenti). Del Dott. Arturo Genre sono le note fonetiche ed un nitido capitolo di ap- punti morfologici. Chiude quest'introduzione l'elenco delle abbreviazioni e un'informatissima « Bibliografia dialettale valdese », compilata dal- l'A. e dal Dott. Genre i quali praticamente non hanno lasciato sfuggire nulla alla loro elencazione, nemmeno la citazione di alcuni testi scritti in una specie di lingua franca figurante come "patois" di Gleisolle. Nel dizionario si trovano inserite sedici pagine fuori testo con cui l'In. Gio- — 92 — vanni Grill ha illustrato molto opportunamente oltre centoventi oggetti tipici della vita agricola. Con le due cartine geografiche del Geom. Paolo Oudry il volume assomma ad un totale di quattrocento pagine. Il dizionario comprende oltre settemila voci. Volendo, l'A. avrebbe po- tuto accrescere il molto questo numero, ma ciò sarebbe andato a scapito della peculiarità della sua opera. In un certo senso egli ha selezionato i termini senza punto impoverire l'insieme lessicale della parlata, di cui ha registrato prevalentemente gli aspetti tipici trascurando — per quan- to possibile — i calchi più dozzinali tratti dalle lingue circostanti nonché i doppioni più superflui con cui il piemontese preme sul "patois" per boc- ca dei patoissanti più sbadati e meno consapevoli; e se mai attinge in que- sto campo, l'A. fa spesso notare la differenza tra la forma più genuina e l'allotropo che preme per aver diritto di cittadinanza, come nel caso di ënlurdir e ënciucar. I forestierismi e i prestiti (o adozioni) da altre lin- gue riguardano principalmente il campo dei concetti astratti, dell'intel- letto, della religione, dei sentimenti, oppure quello di una civiltà estranea; ma la genuinità in antica si ritrova in quella che è, od era, l'interpretazio- ne della attività quotidiana sul posto: agricoltura, allevamento, artigia- nato locale, fauna, flora, economia domestica ecc. Un ottimo principio adottato dall'A. è quello di far seguire alla traduzione italiana del voca- bolario della fauna e, soprattutto, della flora, anche la denominazione la- tina, che elimina ogni rischio di ambiguità o di approssimazione. Per gli oggetti e attrezzi più caratteristici sono di grande utilità le tavole dise- gnate dall'Ing. Grill, tanto che non guasterebbe se fossero più numerose, poiché danno una immagine diretta più evidente e più precisa di qualsiasi definizione. Insomma, è un complesso abbondantissimo in cui soprattut- to il patoisante non più giovane ritrova tanti vocaboli sbiaditi dall'uso sempre meno frequente che gli danno un'impressione calda e semplice come l'eco lontana di una melodia pastorale. Con ciò non intendiamo affermare che questo dizionario sia com- pleto nell'elencazione dei termini più tipici. Un'opera di tal genere non potrà mai esser completa, essendo fondata soprattutto sulla tradizione orale; e nessuno sa ciò meglio del Prof. Pons, il quale certamente conti- nua a scoprire ogni tanto vocaboli rimasti celati nei recessi della memo- ria o nelle pieghe delle conversazioni, ma ancora vivi e noti, sia pure a seconda delle generazioni. Ai nostri occhi, la sua maggiore importanza non è tanto di avere o meno esaurito la materia, bensì di costituire un aspetto essenziale della nostra individualità etnica, di rappresentare una pietra miliare sul cammino della conoscenza delle nostre parlate. Que- sto dizionario è un prototipo, e come tale ancora perfettibile soprattutto attraverso una collaborazione collettiva; ma ad esso dovrà necessaria- mente rifarsi chiunque intraprenda una ricerca analoga per altre varianti dialettali del nostro settore, chiunque voglia occuparsi seriamente di dia- lettologia occitanica, come non potrà ignorare gli ottimi appunti morfo- logici del Dott. Genre chiunque intenda condurre ricerche di grammatica descrittiva nelle nostre valli. Qualche appunto potrebbe esser mosso ad alcune scelte grafiche. Il — 93 — sistema misto che è stato adottato raffigura in parte i tentennamenti che hanno caratterizzato fino a poco tempo fa la ricerca empirica di un siste- ma grafico apposito, ricerca eternamente vagante fra italiano e fran- cese, e quasi sempre ignara della lingua a cui si dovrebbe dare la pre- cedenza assoluta su tutte le altre: il provenzale. Occorre però tener pre- sente che l'A. (come afferma egli stesso nella prefazione) ha destinato la sua opera agli « utenti del patois », per dirla con Genre, più che ai lingui- stici ed ai dialettologi; è pertanto apprezzabile la sua intenzione di non imporre ai lettori impreparati la fatica d'interpretare un'ortografia che, per quanto logica, sarebbe stata estranea alla loro formazione scolastica. Tuttavia si sarebbe dovuta evitare la notazione della r etimologica all'in- finito dei verbi, ormai scomparsa dalla pronuncia e quindi superflua, e la cui riesumazione non è sufficientemente giustificata dal fatto che essa riappaia in rari casi di fonosintassi. L'attributo di « valdese » applicato al dialetto della Val Germanasca può avere un carattere affettivo, ma in pratica è troppo limitativo. Se in campo filologico è ammissibile sostenere, con o senza riserve, l'esistenza di un'antica lingua valdese fondandosi su testi scritti in un determinato idioma e riguardanti aspetti inconfondibili del valdismo, la medesima tesi è molto meno valida in campo dialettologico, né si possono accomu- nare i due fatti come se fossero due aspetti di un unico fenomeno. La presenza in Val Germanasca di una non trascurabile minoranza di pa- toisants, diciamo così, eterodossi, ma non eteroglotti e non sempre allo- geni, e la continuità di "patois" analoghi, talora quasi identici, nelle con- finanti alta Val Chisone e alta Val Dora, rendono per lo meno dubbia la fondatezza del suddetto attributo, il cui uso porta a scoperte curiose, come quando, nel capitolo riservato alla bibliografia dialettale valdese, compaiono parecchi nomi di autori valchisonesi, compreso quello del sot- toscritto. Questi sono comunque fatti marginali che non sminuiscono né la qualità né l'importanza dell'opera del Prof. Pons. Più notevole mi pare il fatto che il libro sia considerato come dizionario del dialetto valdese della Val Germanasca. Non credo che questo titolo darà sempre soddi- sfazione a tutti i « Martinenc », poiché in realtà esso tratta del patois di Massello, ed i riferimenti alle varianti notevoli nell'area della Val Ger- manasca non si possono dire esaurienti. Tale dissidio è stato pur sentito dall'A., il quale lo ha espresso nella prefazione; ma allora tanto valeva adottare il titolo più esatto, il che non avrebbe compromesso né i pregi, ne la diffusione del dizionario. Certo, il raggiungimento dell'« optimum » desiderabile avrebbe accresciuto la mole del volume, ma non eccessiva- mente, se si fossero ridotti all'essenziale i riferimenti etimologici e com- parativi. Il vero ostacolo sta nel fatto che tale perfezionamento può avve- nire soltanto con il concorso di un gruppo di collaboratori diligenti e competenti. Il primo scopo che si prefisse fin dall'inizio il Prof. Pons nel redigere ii dizionario fu certamente quello di rendere omaggio alla partala dei suoi padri e dei suoi valligiani. Ma non è difficile prevedere che i risultati an- — 94 — dranno oltre le primitive intenzioni. Il suo dizionario interessa una cer- chia ben più vasta di provenzaleggianti. Nella Val Chisone e nell'Alta Dora una moltitudine di valligiani vi riconosceranno la loro espressione, cioè l'espressione dei dialetti che costituiscono, nell'insieme delle parlate pro- venzali in Piemonte, il « gruppo settentrionale » — come bene ha specifi- cato il Dott. Hirsch —, gruppo che, da Prali a Chiomonte, possiede una una reale compattezza. Recentemente, in Val Chisone, uno spirito sem- plice esaminando le tavole disegnate dall'Ing. Grill, esclamò: « Ma il Prof Pons ha fatto il suo dizionario copiando dal nostro patois! ». Egli aveva notato la quasi identità tra le voci del suo dialetto e quelle del dizionario. Dovetti allora spiegargli che questa identità non era dovuta a copiatura, ma al fatto che il suo dialetto e quello del Prof. Pons erano il prodotto dello stesso seme germinato nello stesso "humus", e che le lievi differenze erano state determinate, più che da fattori geografici, da vicende storiche spesso inique, le quali tra l'altro avevano mantenuto per secoli un confine politico innaturale tra la Val Chisone e la Val Germa- nasca, provocando una preponderanza dell'influsso francese nella prima area e piemontese nella seconda, con funzione preminente del francese in campo confessionale per entrambe le aree dalla seconda metà del XVI secolo fino alla soglia del XX. I riferimenti comparativi contenuti nel dizionario ci documentano su una certa analogìa lessicale tra il dialetto della Val Germanasca e il dia- letto piemontese. Ciò potrebbe indurre qualcuno ad arguire che il "pa- tois" manchi di una spiccata individualità. L'anno scorso, durante l'incon- tro Piemonte-Provenza (un accoppiamento, questo, che non contribuisce certo a chiarire le idee circa la situazione linguistica delle partale alpine) svoltosi al Roure, uno sprovveduto spettatore, dopo avere ascoltato un'ome- lìa in dialetto locale della quale aveva capito poco o niente, affermò con sufficienza: « Al e 'na mes'cëtta d piemonteis e d franseis ». È vero che, da alcuni decenni, il "patois" subisce una poderosa azione disgregatrice da parte del più pericoloso fra i linguaggi vicini: il piemontese: ma per pas- sare da questa constatazione all'affermazione di cui sopra occorre attraver- sare tutto un mare d'ignoranza. Il già menzionato Morosi fu forse il pri- mo ad intuire un fatto ancor oggi troppo trascurato dai romanisti, cioè l'esistenza di una « affinità originaria » tra i dialetti provenzali e il pie- montese (come è riportato nel Dizionario a pag. XXIX). È molto verosimile che, all'epoca della transizione dalla fase latina a quella neolatina, que- st'affinità sia stata così grande da postulare l'estensione dell'area proven- zale e franco-provenzale alla pianura piemontese. Perciò a nostro avviso, le cosiddette propaggini provenzaleggianti non sono il risultato di un tra- boccamento di popolazione occitanica di qua dallo spartiacque alpino, bensì costituiscono la battaglia di una spiaggia contraentesi man mano sotto l'urto della marea italica, la quale da secoli va sommergendo il pie- montese che è ancora sì un dialetto gallo-italico, ma con una struttura ormai decisamente italiana. Ezio Martin BIBLIOGRAFIA Collezione completa Bollettino Società (n. 1 al n. 133) L. 300.000 Bollettini singoli cad. » 2.000 Bollettini singoli per i n. 6, 8, 10, 11, 12, 13, 15, 17, 18, 20, 21, 23, 26, 27, 28, 33, 35, 36, 44, 48, 50, 51, 53, 55, 57, 58, 59, 60, 63, 64, 66, 67, 68, 69, 70, 71, 90, 97, 99, 103, 105, 106, 110, 115, 116, 117, 118, 121, 128, 129, 132 cad. » 2.500 Bollettini singoli n. 31 e 93 » 3.500 Bollettini singoli n. 22, 72, 88 » 4.000 Altre pubblicazioni disponibli fino ad esaurimento. Opuscoli XVII/2 francesi: 1880, 1881, 1882, 1883, 1888, 1889, 1906, 1909, 1911, 1912, dal 1914 al 1917, 1919, 1922 al 1928, 1930 al 1935 (1918-19-21 non pubblicati). Opuscoli XVII/2 italiani: 1922, 1923, 1926, al 1928, 1930 al 1932, 1934 al 1948, 1949, 1950, 1951, 1952 al 1967, 1969 e segg (1936 non pubblicato). cad. » 300 in neretto (quasi esauriti) cad. » 600 — AUGUSTO ARMAND-HUGON : Agostino MAINARDO, contributo alla storia della Riforma in Italia » 2.000 — T. PONS: Dizionario Dialetto Valdese » 7.000 — F. GHISI e E. TRON : Anciennes Chansons Vaudoises » 800 — T. GAY: Temples et Pasteurs de l'Eglise V. de St. Jean » 2.500 — P. GRIGLIO: Souvenons-nous - Episodes vaudois » 500 — Index par matières et auteurs 56 premiers N. Bulletin » 500 — J. JALLA: Les Vaudois des Alpes » 2.500 — D. JAHIER : Le Pensionnat de La Tour » 500 — D. JAHIER : Histoire du Collège Vaudois » 1.000 — G. LUZZI : Santi Pagnìni e la sua traduz. latina della Bibbia » 1.500 — F. OLLIVERO: Dio lo vuole (il calvario dei Valdesi) » 1.500 — F. OLLIVERO: La guerra dei Banditi » 2.000 — In Memoria Generale Martinat » 800 — V. SOMMANI : Dialoghi e fantasie musicali » 1.000 — Brevi monografìe ed estr. Bollettino (prezzi vari): PEYROT E.: W. S. Gilly — PEYROT ELI: Bibliogr. G. Luzzi — PINNINGTON J.: La scoperta dei V. dagli Anglicani — PONS S.: Preistoria V. — PONS T.: Gen. Dumas — ARMAND HUGON: Pra del Torno — PONS T.: Massello — JALLA P. L. : Le Valli Valdesi (problemi economici e di emigrazione) — PASCAL A.: I Valdesi del Piemonte e i viaggi del Magg. Tollier. INDICE Kurt Victor Selge: II Valdismo medievale tra conser- vazione e rivoluzione pag. 3 Amedeo Molnàr: Riforma e rivoluzione nelle convinzio- ni teologiche dei taboriti » 17 Valdo Vinay: Barba Morel e Bucero sulla giustifica- zione per fede » 29 Valdo Vinay! La dichiarazione del Sinodo di Chanfo- ran 1532 » 37 Jean-François Gilmont: Le pseudo-martyre du vaudois Pierre Masson (1530) » 43 Theo Kiefner: Registres de l'église évangélique Vau- doise de Mentoulles en Val Cluson pour l'année 1674 » 49 Micheline Tripet: L'affaire Bert » 57 Osvaldo Coïsson: Cartographie des Vallées Vaudoises » 77 Rassegna bibliografica » 81 1 1012 01474 7788 Foi use in Library only •or use m Libran