U&MfCf Of PRINCETON

MAY I 5 1995

THEOLOGICAL SEMINARY

PER BX4878 .B64 no. 170-171

Bollettino della Societ/v di studi valdesi.

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https://archive.org/details/bollettinodellas1701soci

N. 170

Giugno 1992

BaiETTlNO

DELLA

SOCIETÀ DI STVDI VALDESI

LIBRARY OF PRINCETON

APR 2 0 1995

THEOLOGICAL SEMINARY

BOLLETTINO DELLA

SOCIETÀ DI STUDI VALDESI

Rivista di Studi e ricerche concernenti il Valdismo e i movimenti di riforma religiosa in Italia.

Comitato scientifico della Società: Giorgio Spini, Firenze, presidente - Atti- lio Agnoletto, Milano - Enea Balmas, Milano - Peter Biller, York - Pierre Bolle, Grenoble - Emidio Campi, Zurich - Salvatore Caponetto, Firenze - Alain Dufour, Genève - Olivier Fatio, Genève - Massimo Firpo, Torino - Arturo Genre, Torino - Giovanni Gonnet, Roma - Theo Kiefner, Calw - Domenico Maselli, Lucca - Grado Merlo, Milano - Giovanni Miccoli, Trieste - Pierrette Paravy, Grenoble - Alexander Patschowsky, Konstanz - Susanna Peyronel, Milano - Paolo Ricca, Roma - Ugo Rozzo, Udine - Luigi Santini, Firenze - Kurt Victor Selge, Berlin - Aldo Stella, Padova - Geoffrey Symcox, Los Angeles - Gio- vanni Tabacco, Torino.

Seggio della Società: Giorgio Rochat, presidente - Giorgio Tourn, vicepresi- dente - Bruna Peyrot, segretaria - Claudio Pasquet, cassiere - Gabriella Ballesio, archivista - Marco Baltieri, Daniele Tron, membri.

Direttore Responsabile: Augusto Comba - Viale Dante 54 - 10066 Torre Pellice.

Amministrazione: Vidi Beckw'iih 3 - 10066 Torre Pellice.

Abbonamento annuo: persone fisiche, Italia Lit. 40.000, estero Lit. 50.000; enti e biblioteche: Italia Lit. 45.000, estero Lit. 55.000;

Prezzo del presente Bollettino: Lit. 25.000

Servirsi del c/c postale N. 14389100: Soc. di Studi Valdesi, 10066 Torre Pellice.

I manoscritti vanno inviati alla Redazione. Le opere da recensire deb- bono essere inviate in duplice copia.

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Giorgio Spini: lo storico moderno

Avevo accettato con entusiasmo di partecipare ad una discussione di bilancio sull'opera storiografica di Giorgio Spini per quanto era di mia competenza e cioè in particolare sui suoi lavori di modernista. Era anche un modo per ricostruire un itinerario che per qualche verso era analogo e profondamente innervato a quello dei maestri della mia generazione. Va detto che ciascuno si ritaglia, di un autore, un percorso discontinuo, che è ancora del tutto prestoriografico. Di questo percorso facevano parte solo alcuni libri, prima di tutto la Ricerca dei libertini del 1950^ poi il volume Risorgimento e protestanti ^ del 1956; poi ancora non solo il manuale scolastico ^, una grande avventura "civile", che ha legato a Spini decine di migliaia di giovani insegnanti della scuola secondaria che si trovavano a fare i conti con i testi "defascistizzati", ma non ripensati, ma soprattutto la Storia dell'età moderna^. Apparsa prima da Cremonese nel 1960, in un'edizione lussuosa, ma scarsamente agevole (era uno dei pochi regali che i docenti democratici talvolta ricevevano come premio delle proprie scelte) poi, a partire dal 1965, nella Piccola Biblioteca Einaudi ^, che ne ha fatto la prima fortunata ed affa-

^ G. Spini, Ricerca dei libertini. La teoria delli' impostura delle religioni nel Seicento ita- liano, Roma, Editrice Universale, 1950.

^ Idem, Risorgimento e protestanti, Napoli, ESI, 1956

^ Idem, Disegno storico della civiltà italiana, I, Bari, Macrì, 1947; II, Firenze, Macrì, 1948; III, Roma, Perrclla, 1949. Il manuale sarebbe poi passato a Cremonese, Milano, per raggiungere nel 1970 la decima edizione con il titolo Disegno storico della civiltà. Lo Spini era anche coau- tore (con U. Olobardi) di un manuale per la media, Fatti figure della storia, Roma, Perrella, 1952, voli. 3. Cfr. G. Ricuperati, L'insegnamento della storia dall'età della Sinistra ad oggi, in Clio e il centauro Chirone, Milano, B. Mondadori, 1989, pp. 11-35. Per un confronto con i pro- grammi cfr. G. Di Pietro, Da strumento ideologico a disciplina formativa. I programmi di storia nell'Italia contemporanea, Milano, B. Mondadori, 1991.

Idem, Storia dell'età moderna. Dall'impero di Carlo V all'Illuminismo, Roma, Cremonese, I960; Cfr. G. Falco, A proposito di una nuova storia d'Italia, in « Rivista storica italiana », n. 1, 1961, pp. 83-91.

5 Idem, Storia dell'età moderna, Torino, Einaudi, 1965, voli. 3 (I, 1515-1598; II 1598-1661;

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GIUSEPPE RICUPERATI

scinante opera di sintesi generale per l'Università. Di questo percorso facevano parte gli interessi per i trattatisti di storia del Seicento ^ e, piìj tardi, il bellissimo e coraggioso woìumQ Autobiografia della giovane America, uscito sempre da Einaudi nel 1968 ^.

Come si può vedere, un percorso parziale, che ignorava tutta una parte del lavoro storiografico di Spini, quello che riguardava più analiticamente la formazione dello Stato toscano cinquecentesco (dall'edizione delle lettere di Cosimo I ^, che risale al 1940, al volume sempre su Cosimo I e l'indipendenza dello Stato mediceo, del 1945 ^, ai lavori Tra Rinascimento e Riforma (dalla rassegna su Antonio Brucioli del 1940, al volume dello stesso anno ^°). Ignorare qui ha un significato abbastanza letterale, nel senso che sapevo che esistevano, ma non li avevo mai letti. E indubbio che in questo percorso discontinuo, o per lo meno ricco di vuoti, ha giocato profondamente la mia soggettività di studioso. Ma non è mancato anche il ruolo di una lettura "torinese", che tendeva ad enfatizzare, di Spini come storico moderno, più il laico gobettiano, o il "libertino" (non a caso Arrigo Calumi aveva fatto, partendo da una tradizione molto torinese, l'elogio del libertino in senso antifascista) mettendo a parte lo studioso dello Stato mediceo e della Riforma.

Ho avuto la fortuna di ascoltare direttamente Walter Maturi quando recitava, con la sua irripetibile bonomia partenopea, quelle che una pietà postuma e necessaria ha ri- composto come Interpretazioni del Risorgimento (1962) Ma era stato proprio Ma- turi, che aveva contribuito alla "chiamata" di Venturi a Torino, per rafforzare la compo- nente laica e "neoilluminista", di cui oggi si è cominciato a fare la storia per quanto ri- guarda gli anni Cinquanta a costruire il "gobettismo" come categoria storiografica complessa, inserendovi, oltre Franco Venturi, Nino Valeri, Aldo Garosci e Alessandro Galante Garrone, anche Giorgio Spini. Le pagine su quest' ultimo fanno parte del sesto

III, 1661-1763).

^ Idem, / trattatisti dell'arte storica e la Controriforma italiana, in « Quaderni di Belfagor », Pisa, 1948. Vedilo ora in Barocco e puritani. Studi sulla storia del Seicento in Italia, Spagna e New England, Firenze, Vallecchi, 1991, pp. 33-141.

^ Idem, Autobiografia della giovane America, Torino, Einaudi, 1968.

^ Cosimo I de' Medici, Lettere, a cura di G. Spini, con introduzione di A. Panella, Firenze, Vallecchi, 1940.

^ Spini, Cosimo I e l'indipendenza dello stato mediceo, Firenze, La Nuova Italia, 1945. Vedilo ora nella nuova edizione, Firenze, Vallecchi, 1980.

Idem, Ira Rinascimento e Riforma, Antonio Brucioli, Firenze, La Nuova Italia, 1940.

Cajumi, Pensieri di un libertino, Torino, Einaudi, 1950. Ma cfr. la prima ed., meno com- pleta, Milano, Longanesi, 1947.

W. Maturi, Interpretazioni del Risorgimento, Torino, Einaudi, 1962.

Il Neo-Illuminismo italiano. Cronache di filosofia (1953-1962), a cura di M. Pasini-D. Rolando, Milano, II Saggiatore, 1991.

Giorgio Spini: lo storico moderno

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corso, quello 1956-60 che avrebbe dovuto concludere esaminando la storiografia più recente. Non a caso entrano in un capitolo legato allo sviluppo della storiografia gobet- tiana, dove Spini è collocato al centro, fra Venturi e Valeri. Erano pagine che Maturi non avrebbe più potuto rivedere e che risentivano della sua straordinaria oralità didat- tica. Ma alcune sottolineature appaiono ancor oggi significative, come la implicita, mo- derna storia di uno dei temi gobettiani, « la mancata riforma religiosa come origine delle deficienze del carattere italiano » Maturi la fa risalire alla tradizione hegeliana meridionale del Risorgimento, ripresa da Giovanni Gentile, resa « un'elegante disserta- zione » da Mario Missiroli destinata a diventare in Gobetti « una cosa seria, base del suo apostolato. Il protestantesimo aggiunge Maturi sta al Gobetti, come il giacobinismo al Gramsci. Non è solo un fenomeno storico, è un paradigma etico » E Maturi non poteva non ricordare non solo l'articolo del Gobetti, // nostro protestantesimo ma anche la collaborazione a « Conscientia ». la rivista del protestantesimo italiano, che si iniziò a stampare a Roma nel 1922, in cui compar\'ero alcuni nodi del futuro Risorgimento senza eroi ma anche il lavoro di editore militante, a proposito della significativa opera di Giuseppe Gangale, Rivoluzione protestante non a caso stampata dalla coraggiosa casa editrice torinese, legata alle riviste e al gruppo intellettuale formatosi con « Rivoluzione liberale » e alla ricerca di

^"^ M.ATURI, Interpretazioni del Risorgimento cìi., pp. 613 sgg. ^5 Ivi, p. 658.

M. Missiroli, La monarchia socialista, Bari, Laterza, 1914. Ma cfr. P. Gobettl La mo- narchia socialista, noia che precedeva in « Rivoluzione liberale » « un mirabile studio premesso da Missiroli ad una nuova edizione del suo volume ». Fra l'altro Gobetti si chiedeva « se abbia senso da noi generalizzare l'esperienza anglosassone e in\ ocare anche per noi una riforma reli- giosa.» Si domandava se non era più realistico attendersi «la conquista di una religiosità laica da una praxis politica », ponendosi semmai l'ulteriore domanda se il marxismo escludeva o meno il riformismo (P. Gobetti, Scritti politici, a cura di P. Spriano, Torino, Einaudi, 1960, p. 350).

M.ATL'RI, Interpretazioni del Risorgimento cit., p. 658.

P. Gobetti, // nostro protestantesimo, in Opera critica, Torino, Barelli, 1926. Ma cfr. la nota di P. Gobetti, La Riforma in Italia, in cui, in polemica con Armando Cavalli, ribadiva che « l'assenza di una Riforma religiosa in Italia non si può riparare con un tardivo fenomeno di imi- tazione, oggi che nel ritmo della vita sociale il fatto politico prevale sui fatti religiosi, ma continua a rimanere viva un'esperienza di protestantesimo come noviziato di libertà, di serietà morale, di educazione moderna. E anche " Conscientia " in quanto riprende le tradizioni laiche nazionali, in quanto utilizza lutti gli sforzi storici usali per fare entrare anche in Italia le idee di tolleranza, di libero esame, di moralità produttrice, di materia politica, la sua funzione evidente è politica » (P. Gobetti, Scrini politici cit., p. 547). Ma per quanto riguarda // nostro protestantesimo (vedilo ivi, pp. 823-826) dopo essere stalo pubblicalo su «Conscientia» nel 1923, era stalo riedito su « Rivoluzione liberale » nel 1925..

Idem, Risorgimento senza eroi, Torino, Bareni, 1926.

G. Gangale, Rivoluzione protestante, Torino, Gobelli, 1925.

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significative relazioni italiane

Non voglio qui entrare nel merito dell'analisi di Maturi che investe soprattutto Ri- sorgimento e protestanti come « trasposizione del mito del Piemonte risorgimentale non nel grande mondo della civiltà moderna, come avevano detto Gobetti e Gramsci, ma nel piccolo mondo protestante italiano »

Walter Maturi, che una finissima, errabonda e quasi disordinata curiosità intellettuale salvava sempre dalle ortodossie, fossero quelle del crocianesimo, di un certo liberalismo conservatore, o quelle ancora del risorgimentista ortodosso, non solo giudicava molto bella la Storia dell'età moderna, che doveva aver appena letto, ma se ne spiegava le caratteristiche « nanative » non solo cogliendo un debole antico per la letteratura dello storico fiorentino, ma soprattutto per l'incontro con la storiografia americana e la sua riscoperta di William Prescott. Alla sua Conquista del Perù lo stesso Spini avrebbe dedicato una prefazione nella quale, secondo Maturi, era « sottolineato con entusiasmo il momento romantico della storiografia incarnato in Prescott » fino a scrivere: « Gibbon e Voltaire non sono maestri sufficienti per lo storico: gli è indispensabile la fantasia di Walter Scott »

In qualche misura questa lettura « gobettiana » e, soggiungo, « neoilluminista », l'aveva autorizzata lo stesso Spini, come mostra la finissima discussione del saggio di Franco Venturi su Alberto Radicati di Passerano uscita sulla « Rassegna storica del Risorgimento » nel 1954 e ora riproposta nel volume Barocco e puritani. Studi sulla storia del Seicento in Italia, Spagna, New England ancora come conclusione non solo temporale, ma anche ideale del discorso. Si costituiva (nel dialogo fra i due storici) una complessa sequenza fra libertinismo e primo illuminismo, in cui, vale la pena di notarlo, era piuttosto lo Spini a mostrare cautela e a ridiscutere il ruolo del Protestantesimo nella formazione di Radicati. Non a caso Venturi, ringraziando delle osservazioni e dei suggerimenti, in particolare in quelli riguardanti i rapporti di Radicati con l'Olanda e della fortuna nel Piemonte alfieriano, poteva concludere: « E questo un campo in cui ancora molto resta da fare e nessuno meglio di Spini potrà contribuire a darci un quadro di quel passaggio e di quella contrapposizione fra Libertinismo e Illuminismo che resta uno dei problemi più appassionanti della vita intellettuale italiana

2' Le Riviste di Piero Gobetti, a cura di L. Anderlini-L. Basso, Milano, Feltrinelli, 1962.

Maturi, Interpretazioni del Risorgimento cit., p. 659. 2^ W. Prescott, Conquista del Perù. Introduzione di G. SPINI, Firenze, Le Maschere, 1959.

W. Maturi, Interpretazioni del Risorgimento c\{., pp. 662-663. 2^ W. Prescott, op. cit., introduzione di G. Spini, p. xxxv.

F. Venturi, Alberto Radicati di Passerano, Torino, Einaudi, 1954.

G. Sl'iNl , Barocco e puritani cit.. Dai libertini agli illuministi. Discussione su Alberto Radicati di Passerano, pp. 407-427. Questo lesto (e la risposta di Venturi) erano apparsi sulla « Rassegna slorica del Risorgimento » del 1954.

Giorgio Spini: lo storico moderno

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ed europea »

Non ho certamente la pretesa di riproporre in questa sede le complesse e spesso intricate matrici storiografiche che animano e rendono così sorprendente, viva e in qualche misura irripetibile l'esperienza intellettuale di Giorgio Spini. Ma anche a voler limitare l'esame a due testi soltanto, come la Ricerca dei libertini e la Storia dell'età moderna, magari utilizzando come chiave di lettura a latere la recentissima raccolta Ba- rocco e puritani, mi è sembrato necessario delimitare la lettura « torinese », di cui sono stato a lungo prigioniero, per tentare di cogliere nel loro spazio reale, per quanto mi è possibile, le linee del discorso. Da questo punto di vista può essere interessante interro- gare un frammento anche autobiografico di grande efficacia ricostruttiva e insieme di pittoresca polemica che Spini ha premesso alla nuova edizione e scrittura del Cosimo (1980): « Questo libro si occupa di fatti accaduti davvero e di personaggi con nome e cognome anziché di ipotesi ingegnose, di fenomeni di lunga durata, oppure di storia con la " s " minuscola e di "fondi di cucina". Non tenta di applicare metodi di storia quanti- tativa all'evoluzione in senso burocratico-assolutistico dello Stato fiorentino, elabo- rando statistiche del consumo di carta, penne e inchiostro dei funzionari di Cosimo de' Medici. Non studia la vicenda di Filippo Strozzi alla luce di indagini sulla "cultura ma- teriale" partendo dall'analisi del ferro con cui era fatta la spada che egli usò per suici- darsi. Non fa riferimento ad "oscure mitologie contadine", alla "cultura orale". Per- ciò può darsi che a taluno sembri un po' fuori moda. L'opera tratta però di una lotta per il potere, che ebbe come teatro Firenze fra il 1537 e il 1543 e come esito l'affermazione del principato di Cosimo de' Medici e della sua piena sovranità. Questa sovranità durò dall'uno all'altro dei Medici e poi dei Lorena, fino al Risorgimento italiano, cioè per ol- tre tre secoli ... » In questo tempo, aggiunge Spini, « i sudditi di Firenze riuscirono in genere a non crepare di fame od a crepare un po' meno dei sudditi degli spagnoli o del papa. La storia con la " s " minuscola può essere molto piìì leggiadra della vecchia e brutta Storia con la " s " maiuscola; però diffìcilmente l'una riesce a sfuggire ai condi- zionamenti dell'altra. Dunque anche la " storia evenemenziale " non è poi tutta da buttar via ...»

In realtà Spini stesso sente il bisogno di affrontare più « direttamente perché nel libro si avverta un certo sentore di " fuori moda ". Con tutto il rispetto dovuto a due sommi come il Machiavelli e il Guicciardini, è inevitabile che il mondo e gli uomini non sono rimasti fermi al Principe e alla Storia d'Italia. Hanno contribuito a camminare spesso per vie cui i due grandi fìorentini non avevano posto mente. Questo libro è con-

F. Venturi, Franco Venturi risponde, ivi, pp. 428-433. La cit. a p. 433. Spini, Cosimo I e l'indipendenza del principato mediceo, Firenze, Vallecchi, 1980, Pro- logo, p. vii.

■^^ Ivi, p. xiii.

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dotto sulla base dei documenti e della memorialistica del tempo e quindi, attraverso le sue pagine, parlano una mentalità e un linguaggio che sono remoti da noi. E sono tanto più lontani quanto più sono vicini a situazioni e locuzioni di stampo machiavelliano o guicciardiniano » In verità, commenta Spini, riprendendo e sintetizzando uno dei temi forti della sua Storia dell'età moderno, le premesse per grandi scelte sulla storia c'erano già: fra queste, accanto alla scoperta dell'America, alla fortuna di Erasmo, alla circolazione dell' Utopia di Tommaso Moro (stampata a Firenze fin dal 1519), c'è la Ri- forma, che appare sempre più come il vero punto di partenza della modernità: « Lutero aveva dato inizio alla Riforma protestante da venti anni; le prime ondate di rivoluzione sociale erano già passate sull'Europa con la guerra dei contadini e con gli anabattisti; nel 1536 Calvino era giunto a Ginevra. Sta di fatto che dell'arrivo di queste realtà i due grandi maestri del realismo politico non si accorsero affatto o si accorsero molto poco. Del resto, ai realisti politici capitano spesso inconvenienti di questo genere »

In realtà Spini dichiara poi esplicitamente che « la vera ragione dell'odor di vec- chiume che si può avvertire in queste pagine consiste però nel fatto che si tratta di un li- bro il cui primo nucleo risale ad oltre quaranta anni or sono »

Nato come tesi di laurea a Firenze sotto la guida di Nicolò Rodolico, legato ad un solido modello di storiografia positivistica, capace di aprirsi anche a certi tratti di storia religiosa e culturale, il lavoro, dopo lo scavo all'archivio di Firenze, necessitava di una ricerca in quegli archivi europei, in particolare in quello di Simancas, che Pietro Egidi aveva aperto con un vasto programma di ricerca ai giovani ambiziosi storici italiani, primo fra tutti - anche se non cronologicamente - Federico Chabod destinato a rin- novare, attraverso quell'esperienza, non solo la storia dello Stato di Milano, ma il mo- dello stesso della storia politica istituzionale e cultural-religiosa. Spini per percorrere la stessa strada in anni più difficili, come quelli in cui, dopo la guerra civile, si era all'inizio del conflitto mondiale dovette accettare alla fine del 1940 un posto di let- tore di italiano a Santiago, « una specie di grosso villaggio tutto costruito in pietra grigia, con un'infinità di chiese e di conventi di granito grigio, un cielo grigio da cui veniva la pioggia almeno due volte al giorno », e più di un terzo degli abitanti che « non era grigio perché era formato da preti, frati, gesuiti e monache, tutti intabarrati in nero » Era un'università in cui Franco mandava i professori « malfidi » e questi, che

^' Ivi, p. xiv.

Ivi, loc. cil. ^■^ Ivi, loc. cil.

■^'^ Su F. Chabod cfr. AA.VV, Federico Chabod nella cultura e nella vita contemporanea, numero speciale della « Rivista slorica italiana », 4, 1960; dr. G. Sasso, Profilo di Federico Chabod, Bari, Laler/a, 1961. Cfr. ancora AA.VV., Federico Chabod e la « nuova storiografia » dal primo al secondo dopoguerra, a cura di H. Vl(ìHZ/l, Milano, Jaca Book, 1984. Spini, Cosimo Ic'W., Prologo, pp. XIV.

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avevano rischiato la pelle, non avevano nessuna voglia di aprirsi: « quindi la loro conversazione era di un colore piuttosto grigio cupo » L'unico vantaggio di Santiago era la sua vicinanza al Portogallo: la possibilità di seguire sui giornali portoghesi le notizie di parte inglese sulla guerra. Ma Santiago gli consentiva di andare a Simancas. Il modo con cui Spini rievoca l'emozione dell'impatto con questo essenziale centro di ricerca ha la stessa composta e solenne letterarietà della straordinaria rievocazione che Femand Braudel ne aveva fatto sulle pagine della « Rivista storica italiana » in morte di Federico Chabod Ma la magia un po' desolata del viaggio per la meseta fino « al piede delle torve torri », dove tra i merli non mancano i corvi che gracchiano lamentevolmente, è interrotta e quasi riscattata qui dal disegno di una rapida, ironica ed umanissima vignetta, in cui è implicito il ricordo, ma anche la sua estraneità rispetto ai programmi di ricerca che lo avevano preceduto: « Sulla porta, stava un signore austero, vestito di nero, che mi si presentò come lo archiverò major e sentendo che ero un italiano mi domandò se sapevo chi era stato il sefior Vittorio di Tocco. Risposi che sapevo che Vittorio di Tocco era stato uno storico valente, morto in giovane età per una malattia contratta appunto a Simancas: " Sono io che ho rispedito in Italia il suo cadavere disse egli solennemente e toccandosi la falda del cappello nero si inchinò sempre a sua disposizione, a sua completa disposizione

Richiamato in Italia sotto le armi e ritornato perché convinto di poter assistere alla imminente fine del Regime, avrebbe dovuto sostenere non solo i rimbrotti del padre, che lo aveva trattato da grullo per non essere espatriato, ma anche due anni di servizio militare. Il libro, completato e accettato attraverso Ernesto Codignola nella collana storica Vallecchi, avrebbe dovuto attendere fino al 1945 dopo l'S settembre e la Resistenza.

Vale la pena di interpretare anche ciò che vi è di implicito. Spini dice che, dopo aver tribolato otto anni « dietro a Cosimo, non ne potevo proprio piiì e che, per un quar- to di secolo dopo la pubblicazione, non avevo più voluto sentir parlare dei Medici » In realtà stava crescendo, in qualche misura parallelo, ma sempre più pervasivo rispetto alla tematica prevalentemente politica, quell'interesse per la storia culturale e religiosa, che aveva radici diverse dai modelli di storia filosofica di impronta gentiliana che do- minavano nelle facoltà toscane, avendo come tema centrale il Rinascimento alla le-

36 Ivi, pp. XIV-XV.

3^ F. Braudel, Auprès de Federico Chabod, in « Rivista slorica iuiliana », numero speciale su F. Chabod, cit., pp. 621-624

3^ G. Spini, Cosimo / cit.. Prologo, p. XV. 39 Ivi, p. XVI. Ivi, loc. cit.

'^^ Cfr. G. Saitta, Filosofia italiana e Umanesimo, Venezia 1928; Idem., L'educazione dell'Umanesimo in Italia, Firenze, 1928; Idem, Marsilio Ficino e la filosofia dell'Umanesimo, Fi-

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zione di Croce all'esperienza di un giovane maestro come Delio Cantimori che nel 1939 aveva pubblicato Gli eretici d'Italia Era lo stesso mondo in cui si stava deline- ando la grande e originale avventura di Eugenio Garin Un mondo difficile e alto che da quanto ho capito Giorgio Spini seppe affrontare mantenendo fede alle proprie caratteristiche psicologiche, intellettuali e religiose: una radice protestante profonda, che gli riproponeva in storia sia il ruolo della responsabilità individuale, sia il senso fe- condo delle minoranze, la simpatia non tanto per i vincitori, quanto per coloro che, sconfitti, sapevano mantenere in vita le loro idee, creando fermenti per il futuro. C'era anche un rifiuto istintivo per tutte le forme di dogmatismo, politiche e religiose. Ma c'era ancora, solo apparentemente contraddittorio, un gusto dell'avventura, della vita intesa anche come vitalità e senso del viaggio, forse la segreta matrice di un tono narrativo che avverte immediatamente i sovratoni e li smorza con l'autorironia, in que- sto diverso sia dal tormento pieno di antitesi cantimoriano, sia dalla istituzionalità mo- numentale e principesca di Chabod.

Il senso fecondo dell'eresia si coglie nel modo di leggere Croce, scegliendo con ciò non solo il confronto con l'inevitabile Storia dell'età barocca del 1929 e i saggi successivi, misurandosi attentamente con le grandi pagine di storia della storiografia, ma soprattutto tenendo conto della congenialità profonda di quelle Vite di avventura di fede e di passione in cui un Croce apparentemente minore ed erudito inseguiva per l'Europa eretici fuggiaschi e coerenti come il marchese di Vico.

E in un contesto del genere che matura accanto al lavoro su Cosimo l'interesse per Antonio Brucioli, in un libro non a caso intitolato Fra Rinascimento e Ri- forma, pubblicato dalla Nuova Italia nel 1940, frutto di ricerche che risalgono alla fine degli anni trenta, su una personalità secondaria e insieme significativa di quel mondo che vede la fine della repubblica (aveva partecipato alle conversazioni degli Orti Oricellari, aveva congiurato contro i Medici dopo il loro ritorno, era stato esule a Verona e in Francia, si era avvicinato a Lione al protestantesimo, ma quando era tornato

rcnzc, Le Monnicr, 1943; Idem, // pensiero italiano dell'Umanesimo e del Rinascimento, Bolo- gna, Zuffi, 1949-1951, voli. 3.

Cfr. B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari, Laterza, 1917; Idem, Storia della storiografia del secolo XIX, Bari, Laterza, 1921, voli. 2; Idem, La Spagna nella vita italiana du- rante la Rinascenza, Bari, Laterza, 1925; Idem, Storia d'Europa nel secolo XIX, Bari, Laterza, 1929; Idem, Storia come pensiero e come azione, Bari, Laterza, 1938.

^'^ Cfr. D. Cantimori, Gli eretici italiani del 500, Firenze, Sansoni, 1939.

Cfr. E. Garin, Pico della Mirandola. Vita e dottrina, Firenze, Le Monnier, 1937; Idem, // Rinascimento italiano, Milano, ISPI, 1941. Cfr. Bibliografia degli scritti di Eugenio Garin, Bari, Laterza, 1969.

Croce, Storia dell'età barocca, Bari, Laterza, 1929

Idem, Vite di avventura, di fede e di passione, Bari, Laterza, 1947.

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a Firenze nel 1527, per l'ultima fiammata repubblicana, si era scontrato con i piagnoni eredi del Savonarola; aveva ripreso l'esilio, trovando per un lungo tratto a Venezia una certa fortuna a contatto di quell'industria tipografica i Giunti e i Giolito "^"^ che stava compiendo la sua « rivoluzione inavvertita » Non aveva mancato di fare l'informatore per Cosimo; era diventato amico di Pietro Aretino; aveva cercato, con i fratelli, di trasformarsi a sua volta in editore; si era fatto autore e curatore di testi e tra- duzioni che l'autunno del Rinascimento e soprattutto la montante Controriforma avreb- bero denunciato come eretici. Di qui la serie di processi e condanne che mostrano mise- ramente la sua parabola discendente fino all'ultimo documento che segna la biografia, la supplica della moglie nel 1561 e poi il silenzio, anche se una mano ignota aveva se- gnato sulla copertina delle carte del processo la data della sua morte cinque anni dopo. Il Brucioli, « evangelico e non specificamente luterano, magari vicino a Martin Bucero, il più serenamente conciliante e comprensivo, forse, dei riformatori germanici, il più alieno da mortificanti sottigliezze diplomatiche, il più vicino spiritualmente, insieme con lo Zwingli, allo spirito della Rinascenza italiana » è per lo Spini specchio della media cultura italiana, un segno di quel Rinascimento colto che avrebbe dovuto cedere alla Riforma come punto di partenza della modernità e che avrebbe conosciuto le insidie e i conformismi della Controriforma. Ma è anche qualcosa di più. La tortuosità stessa con cui si difende tende a mostrare, per lo Spini, « che quelle sue convinzioni religiose non erano state un capriccio passeggero »: « Eroe e martire certamente egli non fu. Uomo e piccolo uomo in mezzo ad avvenimenti ed a cose più grandi di lui, sincera- mente credette e cercò di mettere d'accordo la propria cultura umanistica e filosofica e quella fede che a lui non servì a ben vivere, a coraggiosamente morire, ma che co- stituì ugualmente l'avventura spirituale più profonda, duratura e sincera della sua vita travagliata. Ed è con questo giudizio scevro di partigiana esaltazione inopportuna e di disprezzo farisaico ed ingiusto, che possiamo chiudere il nostro bilancio della vita av- venturosa di Antonio Brucioli uomo e credente »

Questo volumetto precedeva di un decennio quella che resta la ricerca più com- pleta, originale e ancor oggi sorprendente di Giorgio Spini: la Ricerca dei Libertini. La teoria dell'impostura delle religioni nel Seicento italiano (1950). Confesso di non aver potuto fare anche per il cattivo stato delle biblioteche italiane, che d'estate diventa pessimo quello che sarebbe stato un ovvio e prezioso processo di analisi: rileggere, cioè, alla luce della nuova ampliata edizione del 1983, quello che era l'Urtext, scritto fra

^' Spini, Tra Rinascimento e Riforma. Antonio Brucioli cìt.

'^^ Cfr. E. ElSENSTElN, La rivoluzione inavvertita. La stampa come fattore di mutamento, Bo- logna, Il Mulino, 1985.

Spini, Tra Rinascimento e Riforma. Antonio Brucioli cìl. p. 2 50 Ivi, p. 240,

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il 1948 e lo stesso 1950. Mi sono dovuto accontentare di una lettura « regressiva », per molti aspetti basata anche su una memoria attenta, ma ormai lontana, che mi sapesse ri- proporre il significato dell'opera nel suo insieme.

Nella premessa alla seconda edizione Spini stesso ci offre una chiave di lettura che vale la pena di riprendere: « Malgrado gli aggiornamenti, la Ricerca dei libertini è rimasta sostanzialmente immutata rispetto alla prima edizione. Quindi, oltre ad essere un'indagine su un aspetto della storia del Seicento, è essa stessa un documento storico del tempo in cui fu scritta. Era il tempo immediatamente successivo al trionfo cattolico del 18 aprile 1948, allorché incombeva sull'Italia il pontificato di Pio XII, che sembrava rinnovare lo spirito della Controriforma, e ad esso si opponeva l'ideologia machiavel- liana e marxista-leninista-stalinista del realismo togliattiano. Per quanto avversarie acerrime l'una dell'altra, ambedue queste forze tendono a portare l'Italia fuori della civiltà liberale, figlia della Riforma, valendosi a tale scopo dei residui lasciati nel nostro paese dalla Confroriforma. Mi sembravano pertanto tornare di attualità rispetto all'una, ma anche rispetto all'altra, le tesi di Gangale e di Gobetti, cui avevo aderito appassionatamente durante la dittatura fascista »

Ciò che colpisce in questa rilettura della propria opera del 1983 è l'accentuazione del significato politico e quindi del carattere « metaforico » o, ancora più esplicita- mente, « di racconto a chiave », di tensioni del presente di allora, ad esplicito discapito dell'indagine storica « su un momento dell'Italia barocca, condotta con ogni scrupolo di serietà scientifica e di correttezza filosofica » Nel riassumere la tesi di fondo del suo appassionante libro, lo Spini del 1983 tendeva a rendere ancora più duro il giudizio, già implicitamente critico, ma segretamente contraddetto dalla simpatia ricostruttiva, nei confronti di un universo di avventurieri eterodossi e marginali della penna e della mo- rale, verso quei libertini, che, lungi dal rappresentare una alternativa alla Controriforma, ne erano un prodotto speculare: « Lo studio delle correnti libertine dell'Italia secentesca mi aveva mostrato come esse fossero state state bensì perseguitate dalla Controriforma, ma non avessero mai ripudiato la concezione presocratica, iniziatica, autoritaria che stava alla base della Controriforma. Anziché offrire alternative liberanti alle strutture oppressive del tempo loro, si erano limitati a volerle convertire in strumenti del necessario dominio dei sapienti iniziati sul volgo stolido. L'aristotelismo dei filosofi miscredenti non era stato da meno dell'aristotelismo dei filosofi ufficiali nel chiudere all'Italia le vie del rinnovamento. Al limite, più che l'antagonista della controriforma, il libertino ne appare il parallelo eterodosso, o addirittura il figlio: magari scapestrato e riottoso, ma pur sempre il figlio. Stupefacenti coincidenze sembrano perciò delinearsi

■^^ Idem, Ricerca dei libertini. Ixi teoria dell'impostura cit., ed. 1983, pp. IX-X. 52 Ivi, p. X.

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tra quel passato di tre secoli prima ed il presente »

Le analogie fra l'Italia del Seicento, chiusa nel dilemma fra l'Aristotele ortodosso e quello eterodosso, e la riscossa tridentina, viaggi della Madonna pellegrina da una parte e la riscoperta del Principe dall'altra, « una filosofia del materialismo altrettanto sicura della propria verità scientifica quanto lo erano state nel Seicento la dottrina astrologica e quella dei legislatori-impostori », finiscono per dominare, a mio parere eccessivamente e con una forzatura polemica che non restituisce appieno la tormentata complessità del proprio itinerario, di quello della realtà, dei miti cui si riferisce. Obiezione di coscienza, allegoria polemica di tempi assai più recenti: « Come tale fu scritto, con animo diviso fra la speranza che qualcuno almeno ne avvertisse il significato di protesta sotto la scorza dell'erudizione e la sfiducia che ciò scuotesse minimamente il clima greve incombente: insomma uno stato d'animo non troppo dissimile da quello dei naufraghi di un tempo che affidavano alle onde un loro messaggio chiuso in una bottiglia »

Con tutto il rispetto pèr questa lettura di Spini, che ci parla dell'intellettuale degli anni ottanta, con le sue analisi, delusioni ed ostinate e combattive speranze, credo che sia piuttosto mio compito ritornare al significato prevalentemente storiografico del testo del 1950 e della sua effettiva capacità di innovare, nei due sensi più ampi: cioè sia per quanto effettivamente scopriva direttamente in un mondo che per esempio Croce nel suo quadro dell'età barocca aveva trascurato, sia ancora di quanto ed è stato molto suggeriva ai ricercatori che ne avrebbero seguito le piste.

Nel primo senso mi pare che, nonostante la indubbia intelligenza e selettività con cui erano stati interrogati personaggi come Bruno, Campanella e Vanini, le innovazioni più significative venissero piuttosto dalle pagine successive, quelle dedicate all'Accademia degli Incogniti, alla ricostruzione di figure come quelle di Loredano, di Ferrante Pallavicino, di Antonio Rocco, di Gerolamo Brusoni, alla monaca Arcangela Tarabotti e, in particolare, dall'analisi non solo delle opere, ma anche delle loro avven- ture, che tendevano a diventare qualche volta più ricche e romanzesche dei poveri ro- manzi erotici di cui questi personaggi erano autori.

La trama si dipana così intorno ad un personaggio centrale, questo Ferrante Palla- vicino per cui Spini riprende quanto Sarpi da vecchio aveva detto di sé, ma con un ben più alto senso etico e religioso, oltre che politico, che cioè sarebbe stato più dannoso alla chiesa da morto che da vivo. Non è possibile seguire nei dettagli questo viaggio eu- ropeo, che non si riduce ad una positivistica storia della fortuna, ma si arricchisce, ad ogni tratto, di nuovi percorsi a sorpresa, come la vicenda della monarchia dei Solipsi

Ivi, loc. cit. 5^ Ivi, p. XI. Ivi, pp. 233 sgg.

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con le sue istanze più riformatrici, o l'itinerario di Gregorio Leti, da Roma a Torino, a Ginevra, poi in Francia, quella di Colbert, che però non lo volle fra gli artisans of glory del re Sole poi ancora nell'incerta Inghilterra che preparava la Glorious Revolution, e infine ad Amsterdam, dove, dismessa quasi completamente l'eredità pallaviciniana, po- teva aprire relazioni con réfugiés illustri, come Bayle litigare con altri che facevano lo stesso mestiere e diventare genero di Jean Ledere Avventure di uomini, anche se in questo caso non di « fede e di passione ». Se qualche capitolo prima le congetture in- tomo alla Monarchia solipsorum si erano dipanate come in un poliziesco, qui la vita di Leti sembra la ripetizione di uno schema già applicato al Ferrante, ma con una soluzione pacificata, una sorta di happy end che comprende non solo il matrimonio con una figlia di Jean Ledere, ma anche l'errabonda ed emancipata vicenda delle altre due 59.

L'ultima parte, // tramonto degli impostori, riprende il filo della teoria dell'impostura negli spazi italiani, da Roma a Napoli a Firenze, dove l'opera si con- clude focalizzando l'attenzione sulla definitiva crisi di questo mito interpretativo, espressa per Spini nelle Lettere sull'ateismo di Lorenzo Algarotti. Come si esprime Spini, di cui vale la pena ancora una volta di restituire la densità emotiva: « quelle let- tere rappresentavano veramente, pure così incompiute, la conclusione di un ciclo sto- rico, il superamento per forza, non più di roghi di catene, di una secolare vicenda. Spogliato ormai il fantasma libertino del suo fascino tenebroso dalla sorridente spieta- tezza del segretario del Cimento, anche l'Italia d'ora innanzi poteva intraprendere il suo cammino verso avventure nuove nel regno dello spirito, figure nuove di fede e di mi- scredenza, incarnazioni nuove di pugna incessante delle eteme insopprimibili Città » ^.

Liberandomi, sia pure a fatica, della possibilità di usare questa frase come splen- dido escamotage, uscita di sicurezza per una relazione ormai già troppo lunga, mi limito ad osservare alcune chiavi di lettura essenziali del testo, che rimangono effettivamente immutate nella riedizione del 1983. La prima riguarda gli spazi: l'Italia del Seicento è giocata tutta intorno a due città: Roma, città dell'ortodossia, ma anche dello speculare

Cfr. O. RaNUM, Artisans of Glory. Writers and Historical Thought in Seventeenth Century France, Chapel Hill, 1980.

Cfr. E. Labrousse, Pierre Bayle, La Haye, Nijhoff, 1963-1964, voli. 2, che tende a collo- care Bayle nella tradizione dell'eterodossia protestante. Cfr. per contro G. Cantelli, Teologia e ateismo. Saggio sul pensiero filosofico e religioso di Pierre Bayle, Firenze, La Nuova Itzalia, 1969. Cfr. ancora G. Paganini, Analisi della fede e critica della ragione nella filosofia di Pierre Bayle, Firenze, La Nuova Italia, 1980. Cfr. infine C. Borghero, La certezza e la storia. Cartesia- nesinio, pirronismo e conoscenza storica, Milano, Angeli, 1938, in particolare 217 sgg.

5^ G. Spini, Ricerca dei libertini, ed. 1983, p. 267.

59 Ivi, pp. 313-316.

^ Ivi, p. 386.

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libertinismo, ma soprattutto Venezia, che non è più quella rinascimentale che sarà stu- diata da Bouwsma^^ e non è quella eretica e vitale dell'Interdetto ma è lo spazio ideale per l'editoria libertina e la sua socialità intellettuale con una significativa pre- senza di Firenze e, più tardi, di Napoli, mentre la piccola corte dei Savoia, dove pure questi avventurieri vissero, come nel caso di Brusoni, e per un momento dello stesso Leti ^ , è soltanto un punto di transito, magari per Ginevra. Ci sono poi le grandi città « esterne »: Ginevra ed Amsterdam, giustamente ricostruite non per la loro complessità, ma come luoghi di rifrazione. Ai margini i grandi stati, dalla Francia di Luigi XIV all'Inghilterra che non ha ancora compiuto la Glorious Revolution, mentre quasi assenti sono da una parte la Spagna e dell'altra il mondo tedesco. Questa geografia non è casua- le, ma ricalca le mete più usuali degli avventurieri del Seicento, che come Leti, dopo aver cercato la fortuna come artisans of glory di un principe, individuavano più o meno acutamente il « nuovo principe », nell'opinione pubblica europea magari commet- tendo lo sbaglio di continuare a pensare che la koinè europea fosse l'italiano, mentre stava crescendo irresistibilmente il francese e quindi si condannavano come capitò allo stesso Leti per gli anni nei quali sopravvisse al Seicento ad essere interlocutore di un mercato delimitato, e forse sempre più pateticamente ristretto.

In questo senso mi sembra vada letta la conclusione di Spini su Gregorio Leti, che « malgrado la sua monumentale sfrontatezza e la sua spettacolare grossolanità ebbe dav- vero un ruolo non trascurabile nell'emancipazione dell'opinione pubblica italiana ed europea dal giogo della controriforma all'età dei Lumi » Una conclusione foriera non solo delle pagine oneste, documentate e soprattutto bibliograficamente accuratissime di un allievo di Luigi Firpo come Franco Barcia ma che permette allo Spini nella se- conda edizione di assorbire l'intelligente e generale lavoro di Gerhard Schneider sul li- bertino

BouwsMA, Venezia e la difesa della libertà repubblicana. I valori del Rinascimento nell'età della Controriforma, Bologna, Il Mulino, 1977.

^2 Cfr. P. Sarpi, Opere, a cura di G. e L. Cozzi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1969.

Cfr. AA.VV., Libri editori pubblico nell'Europa moderna, a cura di A. Petrucci, Bari, Laterza, 1977.

^ Cfr. G. Ricuperati, Dopo Guichenon. La storia di casa Savoia dal Tesauro al Lama, in AA.VV., Da Carlo Emanuele I a Vittorio Amedeo //, a cura di G. lOLl, Torino, Tipografia Metro- politana, 1987, pp. 3-24.

Cfr. J. Habermas, Storia e critica dell'opinione pubblica. Bari, Laterza, 1964. ^ G. Spini, Ricerca dei libertini, ed. 1983, cit., p. 312.

Cfr. F. Barcia, Bibliografia delle opere di Gregorio Leti. Milano, Angeli, 1981; Idem, Un politico dell'età barocca: Gregorio Leti. Milano, Angeli, 1983; Idem, Gregorio Leti informatore politico di principi italiani, Milano, Angeli, 1987.

Schneider, // Ubertino. Per una storia sociale della cultura borghese del XVI e del XVII secolo, Bologna, Il Mulino, 1974.

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Passando dalle categorie di spazio a quelle di tempo o meglio di periodizzazione, si individua in questo libro un taglio che solo in parte si ritrova nella Storia dell'età moderna: un Medioevo eterodosso e padovano che è il vero artefice della teoria dell'impostura un Rinascimento lontano non solo dalla solarità di Jacob Burck- hardt^^, caricaturata da Johann Huizinga^^ ma anche da quella forte e serena di Croce e di Federico Chabod che reagivano in modi diversi ed europei al nobile moralismo di Francesco De Sanctis Non è neppure la preferenza cantimoriana per il concetto di Umanesimo che Hans Baron ed Eugenio Garin avrebbero reso « civile », costruendo le premesse di un'avventura atlantica percorsa poi in tutti i suoi tratti da John Pocock ma a cui in modi diversi non sarebbero stati estranei Venturi Spini

In quest'opera un Rinascimento stretto, corto e poco creativo, è spezzato imme- diatamente dalla Riforma protestante, che è la vera radice della modernità sia in senso religioso, sia in senso politico e morale ma che resta in gran parte estema allo spazio

G.Spini, Ricerca dei libertini, ed. 1983, cit., pp. 15 sgg. '^^ Su J. Burckhardt cfr. ora, oltre al profilo di K. Lowith, J. Burckhardt, Bari, Laterza, 1991, che però risale al 1936, M. Gherardi, La scoperta del Rinascimento. L'« Età di Raffaello » di J. Burckhardt, Torino, Einaudi, 1991.

'^^ Cfr. J. HuiziNGA, La mia via alla storia, a cura di O. CAPITANI, Bari, Laterza, 1967 Croce, Storia dell'età barocca cit. pp. 3 sgg. Chabod, Scritti sul Rinascimento. Torino, Einaudi, 1967. '^^ Cfr. F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, Torino, Einaudi, 1962. Cfr. AA.VV., // Rinascimento nell'Ottocento in Italia e Germania, a cura di A. BUCK-C. Vasoli, Bolognajl Mulino - Beriino, Dunkcr-Humblot, 1989.

Cantimori, Studi di storia, Torino, Einaudi, 1959, in particolare 111, Umanesimo, Rina- scimento, Riforma dal Burckhardt al Garin, pp. 139-556; Idem, Storici e storia. Metodo, caratte- ristiche e significato del lavoro storiografico, Torino, Einaudi, 1971.

II. Baron, La crisi del primo Rinascimento italiano. Umanesimo civile e libertà repubbli- cana in un'età di classicismo e di tirannide, Firenze, Sansoni, 1970 (prima ed. in inglese, Prin- ceton, Princeton University Press, 1955, voli. 2; cfr. anche dello stesso In Search of Florentine Civic Humanism. Essays on the Transition from Medieval to the Modern Thought, Princeton, Princeton University Press, 1988, voli. 2.

Garin, Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, Bari, Laterza, 1965. Pocock, // momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione re- pubblicana anglosassone, Bologna, Il Mulino, 1980, voli. 2 (il lesto in inglese ò del 1976). Cfr. anche Idem, Politica, linguaggio, storia. Scritti scelti, a cura di E. A. Albertoni, Milano, Comu- nità, 1990.

Cfr. F. Venturi, Utopia e riforma nell'Illuminismo, Torino, Einaudi, 1970, ma cfr. soprat- tutto, dello stesso, Settecento riformatore, Torino, Einaudi, 1969; 1976; 1984; 1987; 1990, in par- ticolare i voli. Ili e IV, quest'ultimo in 2 tomi. Per quanto riguarda Spini, oltre al citato Autobio- grafia della giovane America, cfr. soprattutto i saggi raccolti in Barocco e puritani cit.

G. Spini, Ricerca dei libertini, ed. 1983, cit. , p. 27.

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italiano, pur creando destini individuali e fermenti significativi, e da una Controriforma, di cui il libertinismo finisce per essere una dimensione più speculare che alternativa. In questo senso stupisce l'assenza nel saggio del 1950 di un qualsiasi accenno al pur grande e sbagliato libro di Lucien Febvre, Le problème de l'incroyance au XVIIme siè- cle libro del 1942, contro le cui tesi di fondo l'opera di Spini rappresenta un dossier documentario precoce e più articolato di quanto non avrebbe fatto di a poco uno stu- dioso come Henri Busson autore ben presente a Spini per il suo lavoro del 1933 sul pensiero religioso da Charron a Pascal. Spini cita Febvre nella seconda edizione, ma solo a proposito dei saggi raccolti in -Am coeur religieux du XVIme siècle del 1957.

Un'altra assenza singolare è quella di René Pintard, il cui rarissimo Le libertinage érudit del 1943 è citato una sola volta nella seconda edizione. Non mancano invece i classici (da Charbonnel che fin dal 1917 aveva individuato la matrice padovana, all'inevitabile Lachèvre contro la cui erudizione ostile al libertinismo e protratta per undici volumi si è accanito più recentemente lo Schneider cui lo Spini ha la- sciato l'onore di essere il primo ad urtare frontalmene le tesi ùe\Y Incroyance di Febvre. Un'ultima assenza, che si estende dalla prima alla seconda stesura, e quindi difficil- mente è casuale, riguarda Paul Hazard e il suo La Crise de la conscience européenne del 1935, tradotto da Einaudi undici anni dopo per la penna di uno dei più raffinati intellettuali laici della tradizione « libertina » e illuministica torinese. Paolo Serini. Assenza non casuale, dicevo, in quanto nasce dal fatto che Spini insegue il tramonto di una teoria dell'impostura delle religioni nello stesso spazio e tempo, cronologico ma anche ideologico, che Paul Hazard vede come crisi sì, ma anche crogiuolo dei valori dell'Illuminismo. Il fatto è che, all'interno di questa crisi, quali che siano i termini cronologici che si adottano, la teoria dell'impostura delle religioni, della corporeità dell'anima, della negazione di spazi come Purgatorio e Inferno, ripartono per un altro viaggio, quello dell'Illuminismo. Da questo punto di vista colto giustamente da Vittor Ivo Comparato nella raccolta di saggi, che conservano una freschezza e vitalità

L. Febvre, // problema dell'incredulità nel XVI secolo. La religione di Rabelais, con in- troduzione di A. J. GUREVic, Torino, Einaudi, 1978 (ma la prima ed. francese era del 1942).

Cfr. H. BussON, La pensée religieuse de Charron à Pascal, Paris, Vrin, 1933. Ma cfr. dello stesso, La religton des classiques (1660-1685), Paris, PUF, 1948. 83 L. Febvre, Au coeur religieux du XVI siècle, Paris, SEVPEN, 1 958.

Pintard, Le libertinage érudit dans la première moitié du XVII siècle, Paris, 1943. Ma cfr. ora la nuova edizione con aggiunte, Genève-Paris, Slatkine, 1983.

8^ Charbonnel, La pensée italienne du XVI siècle e le courant libertin, Paris, Champion, 1917.

8^ Lachèvre, Le libertinage en France, Paris, Champion, 191 1-1924. 8^ Cfr. G. Schneider, // libertino cit.

88 Hazard, La crise de la conscience européenne (1685-1715), Paris, Boivin, 1935, voli. 3. La trad, italiana, di P. Serini, Torino, Einaudi, 1946.

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sorprendenti Spini in quel notevole contributo sui trattatisti deir« ars historica » fa notare come, fra uomini quali Brusoni e Leti da una parte e Giannone, Vico e Muratori dall'altra, ci siano in fondo pochi decenni di scarto e per alcune opere pochi anni, ma come invece la distanza sia incommensurabile ^.

E questo mi fa tornare al tema da cui sono partito, che è riproposto oggi nella rac- colta di saggi usciti nel 1991, cioè al dibattito con Venturi sull'illuminismo di Alberto Radicati di Passerano. Nel 1954 Spini finiva per proporre una lettura « libertina » contro quella « illuministica » di Franco Venturi, la stessa lettura « libertina » che Sergio Ber- telli ha fatto riemergere in qualche misura in antitesi con la mia parte di una comune antologia, ma soprattutto con il mio libro che individuava, come aveva fatto Venturi per il Radicati, un altro inquietante e più complesso viaggio nella cultura radicale dell'Illuminismo europeo. Radicati e Giannone non la trovavano la teoria dell'impostura nella tradizione libertina: la riscoprivano dal free thinking, che a sua volta rileggeva Giordano Bruno attraverso Toland Ma era ormai una cosa diversa, anche se il mutamento ideologico e religioso finiva per investire non solo i modelli comportamentali (il concubinato di Giannone) ma anche la ricerca di protezione in ambienti aristocratici libertini (principe Eugenio a Vienna, famiglia Pisani e Alessandro Trivulzio a Venezia) Ma a segno che le origini dell'illuminismo italiano sono una cosa complessa c'è il fatto che Giannone fu protetto e forse salvato da Muratori

Ho già discusso implicitamente della periodizzazione della Storia dell'età mo- derna, che è stato per oltre un decennio il libro istituzionale dei corsi di Storia moderna

Cfr. V. I. Comparato, Presentazione a G. Spini, Barocco e puritani cit., p. 6 sgg. ^Ivi, pp. 407-433.

Cfr. P. Giannone, Opere, a cura di S. Bertelli - G. Ricuperati, Milano-Napoli, Ric- ciardi, 1971. Fra i lettori che hanno rilevato la diversità d'interpretazione, cfr. F. Ajello, Pietro Giannone tra libertini e illuministi, in Arcana iuris. Diritto e politica nel Settecento italiano, Na- poli, Jovcne, 1976, pp. 229-274. Cfr. ancora AA.VV., Pietro Giannone e il suo tempo, a cura di F. Ajello, Napoli, Jovene, 1980, voli. 2. Cfr. anche G. Galasso, La filosofia in soccorso de' go- verni. La cultura napoletana del Settecento, Napoli, Guida, 1989, pp. 297-336.

Cfr. ora S. Ricci, La fortuna del pensiero di G. Bruno. 1600-1750, Prefazione di E. Garin, Firenze, Le lettere, 1990.

Cfr. P. Giannone, Vita scritta da lui medesimo, in Opere cit., p. 84 sgg., dove il Giannone racconta la genesi della scrittura Dell'antico concubinato de' romani ritenuto nell'Imperio anche dopp la conversione di Costantino Magno, destinato a far parte AoXV Apologia dell'Istoria civile.

Cfr. oltre al mio L'esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone cit., S. BERTELLI, Giannoniana. Autografi, manoscritti e documenti della fortuna di Pietro Giannone, Milano-Na- poli, Ricciardi, 1968, pp. 526-530. Per i rapporti di Giannone con il principe Eugenio cfr. ora G. Ricuperati, In margine alla biografia di Eugenio: un principe fra libertinismo e illuminismo ra- dicale, in AA.VV., L'Europa nel XVII secolo. Studi in onore di Paolo Alatri, Napoli, ESI, s. a.,pp. 445-460.

Cfr. P. Giannone, Vita scritta da lui medesimo cit., in Opere, p. 301.

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a Torino e di cui ciascuno di noi ha in mente i vividi e folgoranti ritratti di personaggi come Richelieu e Olivares o le grandi tipologie generali, come l'età dell'Olandese o le pagine dolenti, ma anche ricche di senso largo della costruzione, sulla guerra dei Trent' anni

In chiusura posso dire che la periodizzazione che si apre con la Riforma (la data del 1515 indica solo che siamo alla vigilia di quella che Spini definisce una Rivolu- zione) si chiude spezzando l'età dei Lumi al 1763, con la fine della guerra dei Sette anni. È implicito il discorso, che ci porterebbe lontano, di una età delle rivoluzioni atlantiche ormai diversificata dai Lumi ma così significativa da comprendere in essi tutto Montesquieu, buona parte di Voltaire, una parte di Rousseau, ma spezzando a metà l'Encyclopédie ed escludendo quel dibattito sul diritto di punire che finirà per far parte di quello più generale sull'ineguaglianza Significa escludere Holbach, la maturità di Diderot e la sua grande avventura con il testo di Raynal Per quanto ri- guarda gli spazi italiani significa non solo spaccare a metà uomini vivi e grandi come Verri, Beccaria, o Genovesi, ma non comprendere per nulla il gigantesco tentativo di sintesi di un Filangieri E un discorso simile si potrebbe fare per l'Inghilterra di Gib- bon o la Scozia di Adam Smith. Naturalmente quando dico comprendere, con un uomo come Spini, non voglio intendere capire o conoscere. Intendo la scelta di considerare o meno un segmento di spazio: una scelta non solo consapevole, ma di cui ho cercato con rispetto, ammirazione e libertà di delineare le radici profonde. E le radici sono, a mio parere, che il vero punto di rottura che segna l'inizio del mondo moderno è rappresen- tato dalla Riforma, da cui derivano tutti i fermenti progressisti. L'Illuminismo non è al- tro che una delle secolarizzazioni che nascono su questa radice profonda della moder- nità. E così anche il Risorgimento lungo di Spini che comincia dalla Glorieuse Ren- trée dei Valdesi è una lettura di Gobetti, ma di un Gobetti scoperto attraverso

G. Spini, Sloria dell'età moderna, ed. 1967, cit., II, p. 552 sgg. 97 Ivi, p. 589 sgg. 9^ Ivi, p.589 sgg. 99 Ivi, I, P. 29 sgg.

Cfr. F. Venturi, Settecento riformatore cit., IV, che cita R. R. Palmer, L'era delle Ri- voluzioni democratiche, Milano, Rizzoli, 1971. Idem, Utopia e riforma cit.

M. DUCHET, Diderot et l'Histoire des deux Indes ou l'Ecriture fragmentaire, Paris, Nb.ct, 1978. Cfr. anche D. Diderot, Pensées détachées. Contribution à l'Histoire des deux Indes, a cura di G. L. GOGGI, Siena, 1976; Idem, Mélanges et morceaux divers. Contributions à l'Histoire des deux Indes, Siena, 1977.

G. Filangieri, La scienza della legislazione, con introduzione di V. Frosini, Roma, Po- ligrafico dello Stalo, 1984, voli. 2.

G. Spini, Risorgimento e protestanti, nuova ed., Milano, Mondadori, 1989.

Idem, // Glorioso Rimpatrio dei Valdesi. Contesto e significato, in AA.VV., Dall'Europa

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Gangale, come egli stesso ha correttamente avvertito nella prefazione alla Ricerca dei libertini del 1983.' E in questa sottile, ma non trascurabile differenza, fra laici che nella secolarizzazione delle riforme sono disposti ad accettare il senso religioso ed etico di un tempo della speranza e a cercare di vincere il cieco naturalismo del presente, e uomini religiosi e laici, che dalla Riforma con la « R » maiuscola ricavarono la secola- rizzazione e la capacità di trasformare il mondo con l'ottimismo della ragione, si rende possibile il dialogo che si rinnova ogni anno con intensità diversa qui a Torre Pel- lice.

E che, per quanto mi riguarda, è cominciato qui: quando anch'io sotto la naja, forse il più maldestro soldato dell'esercito italiano, come ricorda spesso Antonio Ro- tondò — presentai nel 1963 il mio progetto di lavoro su Giannone ed ebbi fra l'altro il piacere di conoscere di persona, dopo averli almeno in parte letti, Giorgio Spini e Delio Cantimori.

GIUSEPPE RICUPERATI

alle valli valdesi. Ani del convegno « Il glorioso rimpairio 1689-1989 », Torino, Claudiana, 1990, pp. 13-19.

Cfr. il mio ormai lontano Istoria civile e storia ecclesiastica in Pietro Giannone, presen- talo a Torre Pcllicc al V Congresso di sludi sulla Riforma e i movimcnli religiosi, agosto 1962, e pubblicato sul « BoUellino della Società di Sludi valdesi », 1963, pp. 25-40, che ò ormai solo la leslimonian/.a di un programma di ricerche in parte realizzalo.

Giorgio Spini storico deirAmerica Puritana

Voglio parlarvi deW Autobiografia della giovane America K Certamente, Giorgio Spini ha scritto saggi suggestivi su aspetti del puritanesimo americano, come dice giu- stamente Vittor Ivo Comparato nell'introduzione alla bella raccolta Barocco e puri- tani ^. Ma wtW Autobiografia c'è qualcosa di piìj: un quadro ampio e insieme ravvici- nato delle opere e delle persone intente ad elaborare una storia insieme fattuale e ideale della vicenda del puritanesimo nel Massachusetts, via via che questa vicenda si svol- geva nelle loro proprie vite. Giustamente è intitolata « autobiografia », perché si tratta proprio del farsi storia di individui i quali, nelle vicissitudini e nelle illuminazioni per- sonali, vedono anche il dipanarsi e il palesarsi di una vicenda di gruppo che stimano importante per tutto il protestantesimo e in cui la loro presenza pensante si trasfigura e trascende il dato materiale; tuttavia, come mostra Spini, è sempre questo il punto di partenza di ogni rifiessione. Cosicché la preoccupazione « barocca » della mortalità, e la dolorosa attenzione per il reale materiale e la sua inaffidabilità, vengono ad essere tra- sposte e « riscattate ».

Così il farsi storia si propone com.e tema civile dal cuore religioso; tema tanto di fendo che ne potremo riscontrare i distanti echi nel ferx'ore con cui schiere di giovani del New England rivoluzionario, benché fortemente laicizzati, sentiranno la necessità di farsi storia e di fare storia tenendo diari; e quest'opera, rimasta unica nel campo degli studi sul puritanesimo del New England, ci illumina in modo prezioso e, vorrei dire, insostituibile. Ci consente di seguire, già dagli albori dell'esperienza del New England, la sottile interazione tra ciò che è laico e ciò che è religioso e quindi di davvero discernere il disintrecciarsi di questi filoni col passaggio al Settecento, ma insieme di coglierne le trasposizioni che rendono la lunga durata terrena di cose che il Seicento avrebbe riconosciuto come « sembianti » « analoghi » niente affatto « riti » comme- morativi e « congelati », come Hall, Bailyn e altri studiosi americani ora sostengono, bensì, come ci mostra Spini, luoghi deputati in cui il tempo, con luci e forme di vita nuova, ha operato mutamenti.

Giorgio Spini, Autobiografia della giovane America, Torino, Einaudi, 1968. 2 Giorgio Spini, Barocco e puritani, Firenze, Vallecchi, 1991.

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A questo punto, si deve fare una precisazione: la Autobiografia, che è del 1968 e che è l'esito di un decennio di riflessioni e ricerche, esamina la storiografia americana dai « padri pellegrini » all'indipendenza, ponendosi sempre « dalla parte dei soggetti » che si esaminano e si definiscono. E proprio questa impostazione consente di rendere conto dell'importante elaborazione dell'immagine di e del suo divenire nel New En- gland; da inglese-congregazionalista-separata, ma partecipe della vicenda inglese, a pa- triottica e plurima, americana-congregazionalista, pronta a stabilire rapporti con altri protestanti inglesi, ma non più parte della vicenda inglese. Ma essa inoltre evita di porre i puritani del New England come America tout court, perché l'estensione del discorso al Settecento e la sua scala pluriregionale ci mostrano anche la nascita di una storiografia auto-cosciente nel sud, di taglio assai diversa, in quanto prodotto di um forma mentis diversa. Cosicché i puritani del New England hanno la loro dimensione quantitativa - rurali alla periferia del mondo inglese e gruppo tra gruppi inglesi che colonizzano la costa atlantica del continente nordamericano - senza che questo debba limitare la loro dimensione di elaborazione teorica e ideale.

Come ebbe a dire Perry Miller nella prefazione all'edizione paperback del (1961) di quel suo New England Mind. The Seventeenth Century, che alla sua comparsa nel 1939 trasformò gli studi sul puritanesimo americano: « nel campo degli studi, ventidue anni sono tanti perché un libro viva ancora ». U Autobiografia è ancora viva e, vorrei dire, attende ancora chi abbia il vigore intellettuale e la cultura per raccoglierne i tanti suggerimenti per ulteriori studi. E penso in primo luogo agli studiosi americani, i quali, a differenza dei puritani del Seicento di cui si occupano, non sanno leggere l'italiano e non pensano che dalla cultura europea possa venire luce su « cose nostre ». Cotton Mather, nota Spini, non solo pubblicò i suoi Magnalia Christi americana a Londra, non solo associò molti degli eroi del suo racconto dell'esperienza del Massachusetts a figure classiche ed europee oltreché a figure bibliche, ma inviò l'opera a vari uomini di cultura europei, ritenendosi parte di un mondo ideale intemazionale, al cui sviluppo complessivo contribuiva la vicenda di ogni sua parte e le cui periferie po- tevano anche essere, come pensava Giordano Bruno, centri.

Il libro si apre con la storiografia dei « padri pellegrini » che precedettero, dal 1620 in poi, i puritani, fondando a Plymouth sull'istmo di Cape Cod, che chiude la va- sta e frastagliata baia del Massachusetts, un insediamento coscientemente separato dall'Inghilterra e caratterizzato dalle utopiche speranze comunitarie. Si passa poi alla

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storiografia dei puritani, gruppo più numeroso, « pratico », finanziariamente pili solido, che, dopo aver creato nel 1628 un punto d'approdo, nel 1630 arriva in forze e crea mol- teplici insediamenti; mantiene regolari contatti con l'Inghilterra, considerandosi parte- cipe diretto delle vicende allora in corso, che porteranno di ad un decennio all'inizio della guerra tra Parlamento e re. Tirate le somme di questo primo momento, la secondr parte del volume si intitola l'età dei Mather e, senza trascurare le figure minori che ser- vono anzi a mostrare la complessità, la varietà di angolazioni e, insieme, i tratti continuativi, si dedica ad Increase e a Cotton Mather. Le due lunghe vite di padre e figlio contengono in molte sfaccettature, aree di apertura e aree di ristagno, esibiscono negli atti e negli scritti la complessità del secolo e, insieme, il lavorio di chiarimento che l'attenzione al dato reale impone. Increase è esaminato in una polemica con William Hubbard sul senso della guerra indiana detta del « re Filippo », che scoppia in concomitanza con pressioni politiche inglesi e problemi sociali e generazionali, e turbano il senso di che la precedente storiografia aveva proposto come autentico e che era il supporto principale della legittimità dello « Stato » puritano.

Successivamente si vede come la vasta raccolta di « casi » e di « provvidenze » a cui Increase mette mano nel momento in cui pare che ovunque il protestantesimo sia battuto, si ricolleghi al discorso sulla guerra indiana di pochi anni prima. Infine, salvata una sorta di autonomia del Massachusetts rispetto allo stato inglese - causa per la quale Increase era andato a perorare in Inghilterra - grazie al « miracolo » della « gloriosa rivoluzione » che, senza sangue, assicura l'InghilteiTa al protestantesimo - si vede come si ripropone in tutt'altro tono la necessità di una storia che giustifichi e legittimi la pretesa di essere « altro ». Laddove l'autogoverno è inquadrato in uno schema reale e alle chiese congregazionaliste si affiancano non soltanto altre chiese evangeliche, ma anche la chiesa di stato inglese (l'anglicana); e il voto, primo diritto di tutti i m.embri delle congregazioni che ne facessero richiesta a prescindere dal censo (e soltanto loro) è ora diritto anche di quegli anglicani che soddisfano ai criteri metropolitani di censo.

I MagnaJìa Christi americana tentano dunque questo. E Spini qui ci offre un'ana- lisi del piano dell'opera e dei suoi tempi di scrittura che illumina in modo nuovo il suo senso e, insieme, ci mostra in atto la trasformazione di Cotton. Non possiamo qui se- guire r argomentazione, ma non posso non dire che offre tanti spunti per la compren- sione della successiva vicenda americana e per lo studio di alcuni aspetti della lettera- tura seicentesca da rendere il libro importante già di per se stesso.

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Ma ora vorrei accennare, senza purtroppo potere fare di più, ad alcuni temi che Spini rivela essere centrali in questa storiografia. Primo fra tutti quello degli indiani. Essi sono al centro di questa elaborazione. Simbolo stesso del continente già dall'iconografia cartografica del Cinquecento, sono anche occasione di esame « antropologico » e di contro-immagine per la loro definizione. Un indiano aiuta i padri pellegrini a superare il primo terribile inverno; ma gli indiani uccidono i coloni; e tuttavia gli indiani si convertono. Tra le prime preoccupazioni dei puritani c'è quella di creare un centro di istruzione superiore - il college di Harvard si apre nel 1636 - in cui si cerca di istruire gli indiani nella fede cristiana. Si studiano le lingue indiane e si cerca di tradurre la Bibbia. Sono tutte cose che, per esempio, sono state raccomandate alla Virginia dai membri puritani della compagna fondatrice, e poi dal re. Ma gli indiani si massacrano subito e basta. I puritani del New England, invece, vedono proprio nella presenza/differenza degli indiani la conferma della loro completezza umana. La conversione degli indiani diventa pertanto la prova del carattere ispirato del loro agire. Non sono soltanto inglesi a disagio che costruiscono istituzioni che trovano più confacenti ai loro bisogni di evangelici, ma protestanti più « veri »: quelli che possono trarre l'uomo naturale dall'oscurità delle foreste e portarlo nella luce della chiesa; da « fuori », « dentro ».

Le possibili ripercussioni appaiono immense a chi trae da ogni « cosa » un con- cetto. Potrebbero essere così fonte della trasformazione del protestantesimo inglese; e - se gli indiani fossero stati (come gli storici sostenevano con crescente convinzione, mentre la situazione reale del New England diventava sempre più problematica) i discendenti delle tribù' disperse d'Israele - perfino del mondo. Gli indiani quindi si mostrano fondamentali non tanto nell'elaborazione della società civile, nel modo di coltivare la terra o nella realizzazione di progetti di espansione sul territorio, quanto come controparte di un'autodefinizione necessaria, condizione di legittimità. La storia degli scontri con gli indiani, come quella della loro vita e della loro conversione, che ne è il completamento speculare, è, mostra Spini, presente in tutta la storiografia del secolo. E la durezza con la quale i puritani rispondono infine agli attacchi indiani e l'esultanza con cui vedono la mano della provvidenza nella loro distruzione, diventano quindi comprensibili. La tentazione di demonizzare l'indiano che si ribella, che « fa l'indiano », non ha quindi bisogno della psicoanalisi per trovare spiegazione, se inquadrata nell'ambito puritano del secolo. L'indiano è realtà materiale di cui si studia la lingua, si osservano gli usi; che si cerca di convertire, si combatte se necessario. Ma come ogni altra realtà materiale è, per questo mondo, anche un « segno ».

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Ecco un secondo tema: il quotidiano come messaggio, ossia la visione doppia della realtà come vicenda spicciola che si svolge e come « segno » della presenza divina ravvicinata: la storia, nel senso del susseguirsi di eventi, come Storia con la « S » maiu- scola. La convinzione che la realtà sia sempre anche « segno » attraversa gli autori che Spini ci presenta, e li accomuna nell'attenzione minuziosa al dettaglio, nel gusto - vor- rei dire nell'entusiasmo - per la quantità e per l'elencazione di ogni aneddoto, di ogni fenomeno. Spini definisce Cotton Mather « cantastorie », ed è una definizione sorprendente per chi conosce il resto della letteratura su Mather, ma convince, e cambia molte prospettive. Increase, padre di Cotton, che Spini vede anche sotto il profilo di « naturalista » e « giornalista », fa appello ai colleghi reverendi del Massachusetts per raccogliere il racconto di ogni « prodigio » e « provvidenza » di cui si ha memoria tra il popolo. Si scriverà anche un libro sui tuoni « significanti ». Certo nel volgere del secolo questo collezionare cambia certo segno, e Spini mostra brillantemente come nei Magnalia - scritti negli ultimi anni '90, dopo i processi di stregoneria di Salem, anche se inglobano scritti precedenti, e verranno pubblicati nel 1702 - Cotton Mather ormai includa le « provvidenze » in un libro a sé, inframmezzate quasi come interpolazione in un discorso sulla vicenda puritana nel New England, che fa già sentire l'avvicinarsi dell'Illuminismo settecentesco. Ma colpisce anche la ricchezza letteraria, l'immaginazione, la vitalità di fondo di questo mondo di prodigi riferiti e la sua vivacità: si sente un gusto del racconto accanto ai focolari di una popolazione addestrata a guardare dentro e oltre le cose, gusto che può certamente diventare in momenti di crisi particolare foriero di episodi come quello di Salem, ma che ci mostra anche un mondo in cui il reale è meno gravido di fame e di dolore di quello coevo europeo.

E qui si affiancano altri due temi di grande interesse. Da un lato questi repertori di provvidenze e prodigi, a cui si dedicano le migliori menti della comunità, ma anche i puritani piìi semplici, sono affini metodologicamente alla nascente mentalità scientifica, che proprio in questo secolo separa la ragione in razionalità ordinatrice e momento in- tuitivo di contatto diretto con la realtà (il vero). Come Milton, che pubblica Paradise Lost e Paradise Regained proprio nel momento in cui Increase Mather raccoglie le sue provvidenze, i Mather, il padre non meno del figlio, si riconoscono nella Royal Society, nella nuova sperimentalità medica, nella nascente antropologia. Giustamente Spini rileva come l'ultima battaglia ideale di Increase fu, nel primo decennio del Settecento, quella per la vaccinazione antivaiolosa. Sorge spontanea la curiosità per un esame di questi compendi, che troppo spesso hanno solo imbarazzato e infastidito lo studioso « scientifico », mentre Spini ci convince che rappresentano una entrée , preziosa perché « senza arte », nella visione di e del mondo dei puritani di ogni ceto. Se i Magnalia

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sono Stati tanto letti nel New England durante il Settecento, non é stato certamente a causa dell'erudizione e dell'impianto di riferimento classico, ma proprio per ciò che vi era di comprensibile, di ciò che rendeva la vita quotidiana dei molti materia degna di cronaca. Erano, i Magnalìa, alta e bassa letteratura nello stesso tempo, e così si potrebbe dire di tutte le opere che compongono la storiografia puritana del Seicento: quella che rimane in manoscritto non meno di quella che è stampata. E questo perché il pubblico a cui deve indirizzarsi è un pubblico esteso, in cui i semplici predominano anche se i dotti sono molti: un pubblico « congregazione », e un pubblico « cittadino/elettore ». Questo tratto stilistico è squisitamente politico ancorché religioso (si vedano gli scritti puritani inglesi dell'epoca, che mostrano questo doppio registro soltanto tra gli estremisti studiati da Hill).

Da questo viene il secondo tema che le provvidenze suggeriscono. Il materiale veniva raccolto per giustificare e legittimare la specificità eccezionale della vicenda puritana nel New England - scopo ideologioco e ideale vitale per difendere la stessa esistenza del New England come situazione istituzionale e comunitaria all'interno non meno che nel mondo estemo. Per funzionare, questo stato doveva essere sostenuto dalla convinzione del maggior numero possibile di abitanti perché senza questo era uno stato come altri. Ma gli episodi, la materia prima che consentiva una difesa trascendente della legittimità dello stato, non potevano che venire dal popolo nella sua molteplicità, di di- versi membri delle congregazioni, sia pure attraverso la trascrizione dei loro pastori. E così essi si vedevano riflessi di fronte a se stessi come prova, e quindi centro, della bontà dello stato. Cosicché sono i laici, membri delle congregazioni, che giustificano e « salvano » lo stato (e questi membri possono anche essere donne e bambini, coltivatori o servi). In pieno Seicento ciò che i colti elaborano e rendono parte di un discorso alto, con antenati illustri e secolari, è un popolo repubblicano, al quale mancherà forse un senso di individualità come verrà proposta nel secolo successivo, ma non manca un senso di come entità discreta - e qui si trova conferma in Milton e Bunyan - con una propria dignità riconosciuta dalla comunità/stato.

Ci sarebbero molte altre cose da dire. Ne dico solo un paio. Prima di tutto, questo libro consente di rintracciare le origini del mito dei padri pellegrini come capostipiti americani. Solo dieci anni dopo la fondazione di Plymouth, William Bradford mette mano ad una storia di questa impresa, affinché i figli dei figli possano sapere perché i loro avi hanno lasciato l'Europa e che cosa hanno tentato di fare in terra americana. Bradford intraprende quest'opera, a cui un tono letterario insieme alto e intimo, pro-

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prio perché gli sembra che il senso ideale della vicenda si stia già perdendo. Questa opera storica così cosciente e mirata non verrà pubblicata fino all'Ottocento. Ma il ma- noscritto passa di mano in mano, e la storiografia che conta nel formarsi di una visione del New England la usa per tutto il Seicento e oltre. Così Bradford viene trasposto e « dilatato »; diventa il nume tutelare di un'esperienza che non è la sua e il suo slancio ideale viene trasferito a sostegno di un mondo istituzionale molto più moderato e di un sentire meno utopico.

È grazie a Bradford che si può leggere il Winthrop, che propone Boston come « la città sulla collina » in chiave di proposta di un rinnovamento assoluto di tutti i rapporti umani, mentre chi legge il diario per intero (e anche Winthrop non viene pubblicato nel periodo prerivoluzionario) si avvede che egli pensa soltanto al presente e all'organizza- zione pratica di un punto di riferimento utile ad affermazioni nel mondo protestante in- glese. Così, attraverso l'utilizzazione di Bradford, e lo spostamento del momento di ini- zio della storia del New England degli storici successivi, possiamo anche rintracciare la filologia dell'immagine americana che verrà proposta da alcuni esponenti del New En- gland in periodo rivoluzionario come immagine nazionale.

Un'ultima annotazione mi pare importante: Spini rintraccia con molta chiarezza la nascila e il rafforzarsi di un discorso sulla libertà spirituale che parte già nel momento cromwelliano e che ricollega i puritani del New England al mondo più « di sinistra » della rivoluzione inglese, dove, dal momento che non potevano essere previsti, i « prodigi » e le « provvidenze » del Signore potevano esprimersi anche attraverso i di- scorsi di personaggi improbabili - come i quinto-monarchisti o le profetesse - e questi dovevano essere « tollerati » fintantoché non costituissero minaccia per le istituzioni (e qui il comportam.cnto di Winthrop rispetto a Roger William e alla Hutchinson si ridi- mensiona nel contesto storico). Spini nota come questo sia già moltissimo rispetto alla situazione dei protestanti in Europa; il che sfocerà, negli anni intorno al 1720, in discorsi « illum.inati » di tenore non diverso da quelli dei laici europei successivi.

Concludo con una parola su Giorgio Spini stesso. Questa opera mostra in ogni sua pagina la personalità e l'esperienza umana di Spini: protestante in un paese cattolico, antifascista in un regime fascista, toscano di spirito e di grande vitalità. Come aveva raccomandato in un saggio degli anni cinquanta, si cala nel mondo del Seicento; guarda, con sforzo di immaginazione, attraverso gli occhi di uomini che si sentivano anche loro

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dentro e fuori del mondo e tendevano a crearne un nuovo migliore. Li ha in simpatia - e le pregevoli biografie (non utili soltanto agli italiani, come con sottile « umiltà puri- tana » dice nell'introduzione) lo mostrano. Ma li valuta anche. Li vede nella loro di- mensione e ambiente; ma li pone anche - come essi stessi desideravano - nell'ampio quadro della cultura e della storia europee. Li storicizza, ma, anche, non esita a accen- nare in margine a consonanze attuali. Non avrebbero potuto chiedere di meglio quando, allora, speravano, come altrove Spini ci dice, di ottenere l'attenzione di certi riformatori italiani e di essere accostati a loro.

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Risorgimento e Protestanti nella storiografia d: Giorgio Spini

Risorgimento e protestanti di Giorgio Spini è e resterà una delle non molte opere che, reagendo a una tradizione inveterata, piuttosto provinciale, dei nostri studi, collocano il Risorgimento sullo sfondo europeo e, per certi suoi aspetti, anche extraeu- ropeo. Potremmo ricordare, come data iniziale di questo mutamento di rotta, la grande relazione di Franco Venturi al congresso di Storia del Risorgimento del 1953 a Firenze. Per questa nuova sensibilità, l'opera di Spini, attento com'egli è alla circolazione delle idee, dei sentimenti, delle fedi religiose, da un paese all'altro nel vasto mondo, diventa quasi un capitolo essenziale della storia del protestantesimo nel secolo decimonono, e insieme del percorso del Risorgimento italiano, strettamente congiunti l'uno all'altro da un legame spesso sfuggito agli storici. Lo stesso angolo visuale - la collocazione del Risorgimento sullo sfondo della storia europea - ritroviamo nell'altro suo classico libro sui moti del 1821 in Piemonte.

Per venire subito ai motivi protestanti presenti nel Risorgimento italiano, rile- viamo, dalle pagine di Spini, la tenuità degli elementi di continuità storica tra i riforma- tori italiani del Cinquecento e le correnti protestanti dell'età risorgimentale. L'unico se- rio e persistente legame di continuità col passato della penisola è costituito dalla pre- senza dei Valdesi nelle montagne del Piemonte. Del tutto isolato resta il corso della cabale italique, cioè delle famiglie di Ginevra oriunde di Lucca. L'unico, consistente legame fra il protestantesimo del passato e l'età del Risorgimento è dato dalle vicende dei Valdesi. Ma gli italiani del Seicento hanno per lo più ignorato o dimenticato quei « quattro villani fanatici, ostinati - chissà mai perché - nel preferire il massacro alla messa ». (Bella è la pagina di Spini sulla Glorieuse Rentrée del 1689, come pure quelle che, sulle orme di Franco Venturi, ha dedicato ad Alberto Radicati di Passerano).

I sovrani sabaudi apprezzano i Valdesi per la loro fierezza e laboriosità, e il loro valore come soldati, ma li guardano con preoccupazione e sospetto, rinchiudendoli e isolandoli nelle loro vallate come in un ghetto. In via generale, l'Italia del Settecento ignora o si mostra sorda alle voci di un mondo così remoto. Baretti è il primo degli

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scrittori italiani a occuparsi dei Valdesi, dopo un silenzio di secoli sulle correnti del mondo protestante. Ma la presenza protestante in Italia si fa attiva con la rivoluzione francese e poi nel periodo napoleonico, specialmente nelle Valli valdesi, per opera di una classe dirigente ormai in una fase di trapasso dal calvinismo dei padri a posizioni che potremmo dire illuministe, di un illuminismo interpretato come evoluzione del moralismo puritano. Il fatto politicamente e socialmente caratteristico è che in tale classe dirigente - costituita per lo più da borghesi, da intellettuali, da pastori spesso di idee liberali avanzate, perfino giacobineggianti - la base popolare, cioè i valligiani, i contadini , i montanari, non vedono degli avversari (come per lo più avviene in altre parti d'Italia), bensì degli alleati nella lotta contro i residui feudali e soprattutto nella comune difesa della libertà religiosa. Nel 1797, questi montanari si schiereranno, a Bricherasio, al fianco dei giacobini; e nel 1799 saranno ancora a fianco dei giacobini e dei francesi contro gli invasori austro-russi e i contadini sanfedisti della pianura, la canaille catholique (all'opposto di quanto avviene nella Repubblica Partenopea).

E ben si comprende perché i Valdesi preferiscano essere annessi alla Francia piuttosto che restare in un piccolo Piemonte dominato dalla tradizione cattolica. Dopo Marengo, in effetti, è stato instaurato un regime di eguaglianza civile, con l'abolizione di restrizioni gravanti da secoli. Si può dire che gli anni del regime francese sono per quelle valli un'età felice. Solo negli ultimi anni dell'Impero il conformismo si farà più pesante per tutti. Naturalmente, sotto l'Impero napoleonico, non è tutto roseo, per i Valdesi come per le altre minoranze religiose. Già le costituzioni repubblicane del 1796-97 erano state assai prudenti sul problema della libertà religiosa. E, qualche anno dopo, il regime del Codice civile e del concordato napoleonico si sarebbe informato al crudo principio utilitario della necessità che la Chiesa concorresse a tenere a freno i sudditi, secondo il motto spregiudicato « pane, forca, preti ». Il problema etico-religioso era assai poco sentito.

Il Risorgimento, considerato dall'angolo visuale di Giorgio Spini - ossia come « atto tra i più memorabili » - ha inizio quando si avverte il valore del momento etico- religioso accanto a quello del momento politico. Più precipuamente, l'alba di questo Risorgimento si riassume in un nome: Coppet; ossia nel liberalismo ginevrino, nel mondo della Riforma che lancia il suo messaggio all'Italia. È il momento nel quale gli italiani colti, gli spiriti liberi, volgono entusiasti lo sguardo a Ginevra, a Sismondi, a Madame de Staël, a Benjamin Constant. Lo storico Sismondi, con la sua celebre storia delle repubbliche del medio evo, indirizza le menti a impostare il problema italiano in termini di riforma etico-religiosa anziché di Realpolitik. (E si noti, qualcosa di simile, sempre in nome di Sismondi e sotto lo stimolo del suo pensiero, accadrà nel nostro se- colo, verso la fine del regime fascista, in Toscana, con i primi numeri della rivista « Argomenti », presto soffocata dal regime, ma seminatrice di nuove idee, confluite nel

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liberalsocialismo e nel partito d'azione, l'uno e l'altro ancora clandestini. Un lievito protestante par di cogliere qua e nei due movimenti sotterranei. Nell'Ottocento come Novecento, l'orma di Sismoni è evidente.

Questo influsso ginevrino è una soltanto delle varie correnti che Spini colloca agli inizi del nostro Risorgimento. Ma è indubbio che, fra tutte, la temperie di Coppet, in- trisa di spirito protestante, ha un forte peso; non solo morale, ma politico. Scelgo, ad esempio, questa frase di Benjamin Constant: « Les écrivains ne contemplent que la ca- ste usurpatrice. Nous fixons nos regards sur les castes opprimées... Quand les victimes ne sont plus agenouillées, les sacrificateurs disparaissent ». Una regola che vale per le caste, come per le fedi religiose, o le nazioni. E anche questo un messaggio protestante all'Italia del Risorgimento.

Giustamente Spini osserva che questo liberalismo ginevrino (questo « ginevrismo », come qualcuno lo chiama) appare comprensibile e accettabile anche da vecchi giacobini dell'età napoleonica (come il siciliano Giovanni Gambini, rifugiatosi in Svizzera dopo la caduta di Napoleone), in quanto riconosce apertamente la positività storica del processo che va dall'Illuminismo alla rivoluzione francese, pur rifiutando i metodi del Terrore e del dispotismo cesareo, ma non lascia indifferente neppure la destra conservatrice, per il suo appellarsi alle tradizioni prerivoluzionarie e (con Sismondi) addirittura medievali.

E un grande momento della coscienza morale europea, che già l'Omodeo aveva splendidamente rievocato: un momento nel quale Spini individua benissimo, nonostante la difficoltà della ricerca, il lievito protestante. E questa, direi, l'importanza storiogra- fica di questo lavoro di Spini: per la sua capacità di mettere così bene in luce la sorgente ispiratrice di Coppet su intere generazioni risorgimentali, dagli uomini del « Conciliatore » (specialmente un Ludovico di Breme) al Vieusseux deir« Antologia », dal primo romanticismo mazziniano a Cavour. E così pure dobbiamo ricordare, sempre sotto la guida di Spini, e sempre a Ginevra, dopo il fulgido momento di Coppet, le correnti protestanti neosociniane, e il Réveil, il Risveglio francosvizzero; e in Inghilterra gli evangelicals. E infine il sovrapporsi e il contrastare fra loro di queste correnti, da una generazione all'altra, come nel caso del conflitto tra Risvegliati e Sociniani a Ginevra.

Una delle tesi storiche di Sismondi e degli scrittori ginevrini, a cominciare dalla Signora di Staël, è che gli eccessi e gli errori stessi della Rivoluzione francese si possono considerare come la nemesi storica per le persecuzioni di cui erano stati vittime i protestanti in Francia. Osservo che questa è una tesi che sarà ripresa molti anni dopo da Edgar Quinet; e ricordo di avere trovato a Parigi, alla Bibliothèque Nationale, diverse lettere di italiani - per lo più democratici, e dissidenti o apertamente rivoltosi nei confronti della Chiesa romana, e taluni fattisi protestanti - a Quinet. Ho passato

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queste lettere a Isa Guerrini Angrisani, che le ha utilizzate in un bel libro su Quinet e l'Italia. Altrettanto interessanti sono le lettere di Quinet a Garibaldi e a Mazzini).

È noto che i Valdesi, sempre protetti dai diplomatici inglesi, godranno della soli- darietà e dell'appoggio dei protestanti stranieri: svizzeri, britannici, tedeschi. Non man- cano neppure, a proposito di queste correnti di simpatia, angherie poliziesche e vessa- zioni urtanti e sospetti perfino ridicoli sui turisti stranieri che a ondate crescenti afflui- scono in queste valli. Tipico è il caso di due innocenti misses inglesi, spiate e pedinate a ogni passo in Torre Pellice, quasi che fossero temibili emissari della Carboneria o dei Sublimi Maestri Perfetti. Non meno curioso è il fatto che tanto tardassero i turisti italiani a « scoprire » queste valli, e i costumi e l'alto livello di civiltà dei loro abitanti: come accadde a Edmondo De Amicis, quando, villeggiante nel Pinerolese, mise per la prima volta il piede x\t\V Israele delle Alpi, rimanendone profondamente colpito, come ci attesta uno dei suoi libri migliori, dei più informati e pensati e sentiti da lui.

Ma il tema dei rapporti fra il Risorgimento e i protestanti è suscettibile ancora di essere considerato sotto vari punti di vista.

Dopo le crisi rivoluzionarie del 1820-21 e fino al 1848, aumentano i sospetti dei governi italiani nei confronti delle scuole laucasteriane, o delle società bibliche: le une e le altre di ispirazione protestante, e osteggiate o addirittura travolte da stolidi provvedimenti polizieschi. Le iniziative di Federico Gonfalonieri sono spezzate. Tuttavia in altre parti della penisola si respira un'aura più tollerante. Nella Toscana di Vieusseux, Lambruschini apre nuove scuole e pratica metodi pedagogici di ispirazione protestante. Il « ginevrismo » ha ormai attecchito nella cultura e nella società italiana. Nel 1821 ha inizio Antologia» di Vieusseux, che morrà nel 1834: sono anni di splendido rigoglio culturale ed etico-politico. Fra i collaboratori, qui ricordo uno solo, Francesco Forti, imparentato con Sismondi, e a lui per molti versi vicino. Sarebbe finito su posizioni conservatrici. Ma il giudizio di Spini su di lui è, mi pare, troppo severo. In realtà, aveva respirato l'aria staëliana, di Coppet, di Ginevra. Particolarmente bella, sulla « Antologia », la recensione delle storie della rivoluzione francese di Thiers e di Mignet.

Giustamente severo è lo Spini nel rilevare certe angustie della classe dirigente valdese, fino a un ricambio generazionale che ravviverà la cultura e la coscienza politica dei valligiani. Anche questo è un pregio dell'opera: la spassionata nettezza dei giudizi, lo scorgere bene le ombre accanto alle vivide luci di questo microcosmo valdese; che pure, nel giro di non molti anni, torna ad essere una minuscola avanguardia di spirito europeo; è così intento alla diffusione della sua fede, da diffondere nelle valli la Bibbia in non poche migliaia di copie: una quantità stupefacente, se commisurata al numero dei valligiani.

Particolarmente ricche sono le pagine sugli esuli politici della penisola che, da un

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decennio all'altro, vengono a contatto con civiltà piiì avanzate, di fede protestante: un incontro assai fruttuoso, specialmente dopo il 1830, nell'accesa temperie creata dalle Paroles d'un croyant di Lamennais e dai testi della « Giovine Italia », dall'apice della propaganda sansimoniana per un nuovo cristianesimo, dalla Polonia martire di Mickiewicz.

Un punto resta, mi pare, aperto alla discussione. Spini sostiene che l'impetuosa comparsa di Mazzini sulla scena politica italiana ed europea segna un momento di crisi per l'Italia del Risorgimento e dell'Europa protestante. E ciò in quanto Mazzini (egli dice) condanna risolutamente la gioventij, specialmente francese e italiana, che ha risposto all'appello dei liberali dottrinari come Cousin e Guizot, ma poi, delusa dalla timidezza conservatrice del regime di juste milieu, nel quale si sono arenati quei vecchi liberali del 1830, ha affievolito o perduto quello spirito arditamente rivoluzionario che il fondatore della Giovine Italia vorrebbe imprimerle, rimanendo « romantica, eclettica, protestante »: una definizione che, all'indomani della rivoluzione di luglio, sulle labbra di Mazzini suona come un biasimo, coinvolgente anche il protestantesimo. A me non pare che questo atteggiamento del giovane rivoluzionario ligure verso il protestantesimo sia, all'inizio degli anni Trenta, intonato a ripudio e condanna. Si tratta piuttosto di un atteggiamento analogo a quello che, in quegli stessi anni, Mazzini ha assunto verso la Rivoluzione francese (su di che, mi permetto di rimandare, per brevità, a un mio recente saggio: Mazzini e la rivoluzione francese, nel volume di studi in onore di Emilia Morelli, pubblicato a cura dell'Istituto mazziniano di Genova). Un atteggiamento di preoccupata rivalità, da pane del fondatore della Giovine Italia', di timore che altre correnti ideali - fra cui il romanticismo, l'eclettismo di Cousin, e il protestantesimo (o filoprotestantesimo) alla Guizot - possano sottrargli i nuovi adepti che va disperatamente cercando. Vorrei sapere che cosa pensa l'amico Spini di questo punto. È sempre compito dello storico mettere in luce l'incrociarsi di tutte le correnti e gli stimoli ideali, anche fra loro contrastanti e gareggianti, dai quali esce, come in un crogiuolo, il nostro Risorgimento. Su questo piano di ricerche, proprio Spini ci dimostra in modo eccellente (e non era facile impresa) quanto sia profonda ed efficace l'impronta protestante.

Sono questi gli anni nei quali dalla Svizzera Vinet porta in primo piano il pro- blema della libertà religiosa, nel pesante clima dell'enciclica Mirari vos. E' ben nota l'influenza di Vinet sul giovane Cavour, come ci dimostrano le ricerche di Francesco Ruffini, integrate e arricchite da un amico che qui sento il dovere di ricordare: Ettore Passerin d' Entrèves. Quel che non dobbiamo dimenticare mai (e Spini ce lo dimostra con chiarezza) è che questa influenza di Vinet e dell'evangelismo franco-svizzero, que- sta lotta per la libertà religiosa condotta con toni sempre più accentuati contro il Papato, il suo dominio temporale e le sue pretese confessionali, portano irrimediabilmente allo

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scontro politico con le forze intese a conservare lo status quo europeo. Di qui l'ostile diffidenza di Méttemich, i furori di Gregorio XVI e del conte Solaro della Margarita, o della «Voce della verità » del principe di Canosa. Così il « filovaldismo » (ricordate i celebri versi di Milton), il retaggio puritano, il Réveil si trasformano in fiducia negli italiani, ai quali spetta di condurre una rivoluzione antipapale. Riaffiora il tema della distruzione di Babilonia, la grande meretrice, identificata con Roma papale. E con perfetto parallelismo rispetto alla radicale avversione di Méttemich tanto per i moderati quanto per i rivoluzionari italiani, il mondo protestante, specialmente britannico, comincia a puntare non solo sui moderati della penisola, ma sui rivoluzionari, più decisi nel loro proposito di distruggere Babilonia - Roma. Così il pugnace anelito degli evangelicals britannici diventa uno degli impulsi che concorrono al moto risorgimentale.

Di particolare importanza sono i contatti del protestantesimo, nelle sue varie ten- denze, con la cerchia toscana del Vieusseux e del Lambruschini. Di questi rapporti, da tanto tempo noti in linea generale. Spini ci un racconto minuto e preciso, con episodi raccontati in uno stile efficacissimo e con un brio quasi sbarazzino, toscanamente arguto. Sono pagine ancora godibilissime. Assai belle quelle su Lambruschini e il conte Guicciardini, o Mademoiselle Calandrini. Il gruppo toscano rifiuta il protestantesimo in quanto religione del libero esame, ma afferma una sua posizione ideale di cattolicesimo evangelico che - dice Spini - dovrebbe costituire il juste milieu fra anarchia » dei protestanti e il « dogmatismo » di quelli che lo stesso Lambruschini definisce i « turchi del cattolicesimo » (una definizione, questa, che sembra quasi discendere dagli spiriti polemici del giansenismo toscano del Settecento, negli anni del granduca Pietro Leopoldo e del vescovo Scipione de' Ricci).

Lambruschini e Vieusseux saranno magari avversi ai tentativi di troppo aperta e polemica propaganda protestante. Ma il loro ideale ecumenico e il loro disegno di pro- gressiva riforma non provengono dalla tradizione teologica del cattolicesimo, ma piut- tosto - e siamo sempre risospinti sul coir.mino che qui ho rapidamente ricordato - dagli analoghi principi di Coppet e da tutte le correnti che si sono succedute nell'alveo del protestantesimo. Per questo Lambruschini e i suoi compagni mantengono relazioni cor- diali con Sismondi e il pastoraìo sociniano di Ginevra, e poi con chi si staccherà dal ra- zionalismo sociniano per accostarsi a posizioni pietistiche o neo-ortodosse. Anche le iniziative pedagogiche risentono di questo ambiente ideale. Nella Guida dell'Educatore Lambruschini rivendicherà come propria « un'opera tutta morale e (ardisco dirlo) evan- gelica ». Dice benissimo Spini su questo punto essenziale: « L'abile diplomazia del Viesseux e il latitudinarismo dottrinale del Lambruschini, insieme all'anelito comune al rinnnovamento delle coscienze e della società, o alla comune lotta contro la vecchia Ita- lia retorica, sanfedista, codina, consentono non solo la convivenza tra protestanti e cat-

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tolico-riformatori, ma addirittura quella - oltralpe tanto difficile - fra l'antico retaggio sociniano ed i virgulti nuovi rampollanti dal terreno del Réveil». In questo gruppo to- scano, nel quale già spicca la bella figura del conte Guicciardini, comparirà alla fine, accanto ai più anziani, o, come dice affettuosamente Spini, ai « vecchioni » di Palazzo Buondelmonti, il più giovane Bettino Ricasoli.

In questi anni, che precedono la grande crisi del Quarantotto, ci saranno ancora, in Piemonte, momenti difficili per i Valdesi: restrizioni irritanti e mortificanti, espulsioni di Valdesi residenti fuori delle valli, il perpetuarsi degli antichi editti anche dopo il Codice Albertino del 1837, e l'irrigidirsi del cocciuto Solaro della Margarita, che ha già un piede nella tomba. Ma i contatti degli italiani col mondo protestante si intensificano sempre di più, anche al di dell'Atlantico. I protestanti americani puntano sulla sinistra democratica e repubblicana, e ammireranno ben presto Mazzini, specialmente dopo la Repubblica Romana del 1849; mentre Mazzini manterrà ancora per anni, nei confronti del protestantesimo, qualche diffidente sospetto; ma non direi una « sprezzante avversione », per quel che ho accennato poco fa.

Tutto, negli anni quaranta, va rapidamente mutando. Nelle Valli valdesi, la vec- chia e ormai sonnolenta classe dirigente è scesa nella tomba; e subentrano gli uomini formati alla scuola di Vinet, del Réveil ginevrino, del pietismo tedesco, come i Malan, i Geymonat, i Melile. Mentre in Toscana si prolungheranno e accentueranno, anche negli anni cinquanta, le tribolazioni giudiziarie e poliziesche, come nel celebre e patetico caso Madiai, che tanta eco avrà al di della Manica e dell'Atlantico. Ma questi toscani non mollano. Dice Spini: « C'è una vena di rigorismo piagnone e di estremismo libertario che sonnecchia in fondo all'animo di tanti toscani ». Questa felice notazione di sapore locale mi fa tornare alla mente quelle, più volte insistite, sul ben diverso carattere dei montanari valdesi, sui loro scarponi che lasciano durevoli orme, e anche sulla loro cauta lentezza di bougia-nèn. Osservazioni argute e scherzose, le une e le altre, che ci strappano un sorriso, ma toccano, riconosciamolo, qualcosa di autenticamente reale.

Comunque, con l'ondata di riforme nella penisola, dal 1847 in poi, e con la crisi del Quarantotto in Europa, tutto precipita. Cadono, una dopo l'altra, le discriminazioni contro gli acattolici, protestanti ed ebrei: almeno le più odiose. La Repubblica Romana acquista un rilievo decisivo nel rapporto fra il Risorgimento e i protestanti. Mazzini e Garibaldi appaiono fuori d'Italia come gli imminenti distruttori di Babilonia - Roma, « gli angeli del Signore contro le schiere di Satana ». Di qui, da questa atmosfera anche religiosa, trae alimento il travolgente entusiasmo degli inglesi per la causa italiana. È un vero delirio, che afferra anche uomini posati, insigni politici, come John Russel, Palmerston, e il genero di Russel, Shaftesbury: tutti sostenitori della crociata del Bene contro il Male. Ma si tratta di cose ben note.

A qualcosa d'altro resta da accennare, all'affluire nei paesi anglosassoni, e

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Specialmente in Inghilterra, di esuli italiani dopo gli eventi del 1848-49, e al volgersi di molti di loro al protestantesimo; e, inversamente, all'entusiastica simpatia con cui molti di questi esuli sono accolti, tanto più negli anni in cui gli inglesi sono riscaldati contro la Papal Aggression. Con molti di questi emigrati italiani al di della Manica, Spini è piuttosto severo: perfin troppo col celebre Gabriele Rossetti (il padre di Dante Gabriele), fuggito da Napoli dopo la rivoluzione del 1820, e fattosi protestante dopo molti anni di soggiorno londinese. Era sempre rimasto un facile versaiolo metastasiano, fin da quando, nei giorni stessi di quella rivolzione, aveva inneggiato al suo vittorioso esordio con un carme diventato subito famoso, di movenza incorreggibilmente metastasiana, che - ricordo ancora - cominciava così: « Sei pur bella con gli astri sul crine/che scintillan quai vivi zaffiri;/ è pur dolce quel fiato che spiri,/ porporina foriera del ». La mia indulgenza per lui nasce dal fatto che, quando ero ragazzo, frugando in casa fra le carte di un mio antenato d'acquisto, che era stato carbonaro, condannato a morte, e scampato grazie alla precipitosa fuga in esilio, avevo scoperto un suo libretto di appunti, in cui erano ricopiate, oltre alla famosa ora ricordata, altre poesie di quei lontani giorni rivoluzionari, inedite (fra cui una di Rossetti), e da me pubblicate nella prima giovinezza. Fu allora, da quelle carte, che nacque la mia passione per la storia. Invoco per questo da Giorgio Spini un po' di pietà per il verseggiatore Gabriele Rossetti, che ha pagato con un lungo e stentato esilio la sua candida passione per la li- bertà e poi per il protestantesimo: una passione trasfusa in volumoni illeggibili, e scritti, figuratevi un po', con ûno stile ... da Metastasio in prosa!

Un altro facile bersaglio dell'ironia di Spini è il barnabita Alessandro Gavazzi, convertitosi anch'esso al protestantesimo: un protestantesimo da quattro soldi, privo di cultura, di pensiero autentico, di fede profonda. Era un predicatore piuttosto « trombone », che infiammava le folle, prima in Italia, e poi a Londra, e in Canada, me- scolando il Vangelo alle invettive contro l'Austria; a suo modo sincero, ma insopporta- bilmente demagogo e piazzaiolo; il « Savonarola delle piazze », come qualcuno allora lo designò.

Mi sia qui consentito un piccolo ricordo personale. Alla precisa ed equilibrata biografia di Gavazzi, pubblicata nel 1955 da Luigi Santini, io dedicai uno dei miei primi elzeviri sul giornale « La Stampa », il 26 ottobre 1955, nel quale avvertivo i lettori che del problema dei rapporti fra Risorgimento e Protestantesimo Giorgio Spini aveva già parlato in alcuni convegni, e su quel tema stava preparando un ampio studio (che difatti sarebbe uscito l'anno dopo, nel 1956, in prima edizione). Questo mio articoletto di trentasei anni fa si chiudeva con queste parole: « Non attraverso le invettive dal pulpito o dalla piazza, ma solo nella pensosa e sofferta intimità delle coscienze, una riforma religiosa può farsi realtà ». Oggi non posso che pensare allo stesso modo. E mi fa piacere di essere, anche in questo, all'unisono con l'amico Giorgio.

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A proposito di queste correnti di propaganda protestante a livello popolare, cultu- ralmente modesto, vorrei, prima di chiudere, dire ancora qualcosa di un altro bel libro di Spini. L'Evangelo e il berretto frigio. Storia della Chiesa Cristiana libera in Italia, 1870-1904, edita dalla Claudiana. « Una società di cui fanno parte tutti i ladri, i be- stemmiatori, i falsari, i donnaiuoli, i lenoni, le ruffiane e perfino gli onorevoli condut- tore delle case di tolleranza »: con questa ineguagliabile finezza di linguaggio un foglio cattolico del 1878 definiva la Chiesa cristiana libera in Italia. E un segno, fra tanti, del clima difficile e ostile nel quale sorse e si diffuse e alla fine si estinse un non insignifi- cante movimento evangelico del secolo scorso, fatto di esigui nuclei che, rampollati dal ceppo dell'evangelismo risorgimentale - del quale ho parlato poco fa -, non erano con- fluiti nell'alveo tradizionale della Chiesa valdese, la cui rigorosa disciplina di stampo presbiteriano appariva ad essi troppo rigida, ma avevano piuttosto tratto qualche ispira- zione dalle « chiese libere » suscitate dal Risveglio.

Spini ci racconta con la sua verve le minute vicende di questo movimento, affer- matosi prima in Piemonte, poi in altre regioni dell'Italia settentrionale e centrale, con qualche propaggine al Sud. Era costituito, in prevalenza, da gente umile, che si sforzava di diffondere l'Evangelo fra i ceti economicamente e culturalmente più depressi. Quest'opera di proselitismo era affidata, prima di tutti, ai « colportori », che portavano nelle campagne Bibbie e opuscoli, in quantità sorprendenti, se si pensa alla miseria e alla diffusione dell'analfabetismo: oscuri « operai del Signore », di scarsa cultura, ma puri, entusiasti, coraggiosi. Di questi pionieri di una fede intrepida e battagliera Spini ci ha fornito alcuni ritratti efficacissimi.

A loro si univano, con mansioni più elevate, altri volonterosi: o protestanti stra- nieri, o preti e frati italiani in rotta con la chiesa cattolica (uno dei più focosi e indomiti era il Gavazzi sopra citato). E proprio da questo convergere di forze eterogenee dove- vano nascere le prime difficoltà del movimento. Perché da un lato gli stranieri, meno poveri degli altri, cercavano di affermare le loro discipline e dottrine, e dall'altro gli ex- cattolici sognavano prima di tutto una rigenerazione politica, che sottraesse il popolo all'influenza del Papato, ed erano pertanto spinti ad accentuare le note anticlericali a scapito di quelle puramente evangeliche.

Questo movimento ebbe così, fin dall'inizio, una coloritura politica, si legò alla Sinistra democratico-radicale (e perfino alla massoneria), si mescolò alle rivolte a sfondo sociale qua e serpeggianti, e condivise le sofferenze del popolo, in un confuso moto di protesta che era insieme religioso e politico e sociale. Fu questo il carattere fondamentale del movimento, ottimamente illustratoci da Spini. Uno dei meriti mag- giori del movimento fu quello di avere promosso la creazione di nuove scuole, e for- mato maestri elementari nelle zone più arretrate.

Innumerevoli furono gli episodi d' intolleranza e di persecuzione. Le leggi, i giù-

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dici, le autorità di polizia, il clero, le classi padronali spesso si unirono in una spietata linea repressiva. Solo dopo la breccia di Porta Pia e, sei anni più tardi, con l'avvento della Sinistra, gli ingenui seguaci di queste chiese « libere » si aprirono alla speranza di una grande rivoluzione anche religiosa in Italia. Ma anche quando la borghesia demo- cratica parve dar loro ascolto, si trattò in realtà di un superficiale curiosità e tutt'al piìi di un interesse assai tiepido per gli aspetti essenzialmente anticlericali del movimento.

Anche i difficili rapporti con la Chiesa Valdese (politicamente ancorata a posi- zioni moderate, diffidente e chiusa nelle sue valli, forte di un'innegabile superiorità culturale e organizzativa, e preoccupata di non perdere le posizioni tradizionali) si con- clusero con un'amara capitolazione. Gli spiriti giacobini dei primi decenni si stempera- rono via via, sino a raggiungere il piìi « melenso conformismo »; e il movimento finì per essere risucchiato o dalla Chiesa Valdese o dalle chiese metodiste di modello inglese o americano, e parve dileguare nel nulla.

Ma, come dimostra lo stesso ripullulare di queste « eresie » in alcune regioni ita- liane, e poi al di dell'Oceano tra gli emigrati, esso fu la risposta, modesta fin che si vuole, a un'esigenza profondamente sentita. « Chi predicava il Vangelo domenica dopo domenica, magari con poca cultura e molta semplicità d'animo, non faceva baccano, e quindi non ha lasciato gran che traccia di ». Comunque, questa genuina e ricorrente spinta in senso evangelico fu, al di di ogni contraria apparenza, un fatto reale, e in qualche modo qua e sopravvisse.

Ma torniamo, per chiudere, alla principale opera su Risorgimento e protestanti di Giorgio Spini. Il quale, dopo aver posto in netta evidenza la vacuità retorica di certi ita- liani convertiti al protestantesimo, mette in splendido risalto altre cose - come egli le definisce - « serie e rispettabili »: come la subitanea e grande fortuna di Mazzini fra gli inglesi, il loro entusiasmo millenaristico di fronte al linguaggio profetico e biblico del Ligure (e come non concluderne che Mazzini e la Bibbia andavano perfettamente d'accordo?), o come l'austero conte Guicciardini, o la stupenda figura dell'abruzzese Teodorico Pietrocola - Rossetti. Commenta Spini: « Vi era la speranza, illuminata da bagliori di Apocalisse, in una vittoria finale, di cui il rovesciamento di Babilonia - Roma sarebbe stato l'atto culminante. Purtroppo, i fatti avrebbero rivelato quanto illusoria fosse tale speranza e quanto difficile ancora sarebbe stato il cammino della libertà religiosa in Italia, perfino nell'ora di maggior successo del moto liberal- nazionale ». Alla fine, all'indomani della breccia di Porta Pia, si sarebbe installata a Roma l'ala di Alessandro Gavazzi. E Spini conclude: « Un'età era finita, e se ne apriva un'altra. Era destinata a durare oltre un mezzo secolo, fino a quando Giuseppe Gangale e "Conscientia", nel solco di Piero Gobetti e di "Rivoluzione liberale", avrebbero opposto il fantasma di Calvino all'Italia cattolica e littoria di Mussolini ». E ancora: « Contro ogni ragionevolezza, l'Italia evangelica non sparì; anzi, guadagnò via via altro

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terreno, e infine, attraverso il sangue e le lacrime della Resistenza, acquistò il diritto non solo di esistere, ma di essere una delle componenti della realtà italiana ».

Grazie, caro Giorgio, di averci aiutato, con i tuoi alti studi, a tener vive le grandi speranze accese dal Risorgimento e dalla Resistenza.

ALESSANDRO GALANTE GARRONE

Giorgio Spini, storico militante dell'evangelismo italiano

La rinascita del Protestantesimo in Italia

In Risorgimento e Protestanti \ oltre ad esservi tutto ciò di cui ha parlato Ga- lante Garrone, c'è anche una vera e propria storia dell'espansione evangelica in Italia: la tesi che soggiace a questa narrazione è il rifiuto della « leggenda dell'origine gianseni- stica » del protestantesimo italiano ottocentesco 2. Assistiamo così alla nascita di tutta una rete di capisaldi stranieri nell'Italia del Settecento (Trieste, Bergamo, Livorno, Ve- nezia, Napoli, Torino); capisaldi che « stranieri » lo sono solo fino a un certo punto; da una parte vi sono infatti delle comunità di lingua italiana (Bergamo) attentissime alla cultura del nostro Paese; dall'altra vi sono delle « cappelle d'ambasciata » pronte a far da base sia a un dialogo interculturale sia a una vera e propria testimonianza evangelica; ci sono infine quelle « fughe » verso il mondo protestante estero, che non sono delle semplici evasioni, se danno origine all'anti-Enciclopedia del De Felice, o alla famiglia di Jean-Paul Marat.

In piena epoca napoleonica (1808) assistiamo poi alla prima offensiva delle So- cietà Bibliche in Italia: un tema questo sul quale Spini tornerà, con amore, varie volte nel corso della sua carriera di studioso ^.

Così, quando il Risorgimento si dispiega in tutta la sua forza, le adesioni al prote- stantesimo avvengono secondo tre direttrici assai diverse tra di loro:

a) per attrazione: è il caso di Gabriele Rossetti, e di tanti altri che entrano nell'or- bita della tradizione anglicana.

b) per espansione: è il caso dei valdesi, a cui Spini dedica delle splendide pagine

' 2^ Cd. Milano, Mondadori, 1989.

^ Op. cit., pp. 8-9, con molle illustrazioni in seguito.

^ Vedi Un episodio ignorato del Risorgimento; le società bibliche in Italia, « BSSV », LXXVI (1955), pp. 24-57; Ancora sul Nuovo Testamento nella Repubblica Romana, « Protc- stanlcsimo », XI (1956); Le Società bibliche e l'Italia del Risorgimento, « Protestantesimo », XXVI (1971), pp. 666-673.

GIORGIO SPINI, STORICO MILITANTE DELL'EVANGELISMO ITALIANO

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in questo, come in tanti altri suoi scritti.

c) per germinazione spontanea: è il caso delle chiese degli esuli (Corfù, Malta, Londra), della loro appassionata fusione (talvolta confusione) di spiritualità evangelica e pathos risorgimentale. Spini non nasconde nessuno dei limiti di questi uom.ini, talora dei loro peccati: dice a chiare lettere che Achilli era un cialtrone, che altri erano dei su- perficiali deplorevoli; eppure, senza il minimo dubbio, è qui che batte il suo cuore: lo si vede nella descrizione filologicamente ineccepibile ma « partigiana » (nel senso alto della parola) delle vicende del primo evangelismo toscano. L'anno della conversione di Piero Guicciardini (1836) è per lui in qualche modo il Wendepimkt, il punto di svolta in cui il protestantesimo cessa di essere solo ghetto valdese o colonia straniera, e ridiventa movimento: certo, la conversione del Guicciardini consente a Spini di convalidare la sua tesi, che è quella della sostanziale convergenza fra Kulturprotestantismiis (Sismondi, Vieusseux), e fede evangelica nel quadro del moto risorgimentale. Ma gli consente an- che di mettere in luce un dato inoppugnabile, e da troppi taciuto: il protestantesimo ri- nasce in Italia come moto popolare e democratico. Lo dimostrano le centinaia di docu- menti scavati con mirabile tenacia dall'Autore negli archivi più diversi (spesso, negli archivi di polizia ...): questi « convertiti » che sfidano la galera e l'esilio sono stagnini, muratori, braccianti, manovali; sono il nascente proletariato italiano, con buona pace (e, speriamo, cattiva coscienza) di chi proclama superficiali equazioni tra « protestantesimo e borghesia ».

Ma la stessa aria si respira, sostanzialmente, nelle belle pagine che Spini dedica air« espansione dei Valdesi » ^: anche questa chiesa, rinnovata dal Risveglio e riquali- ficata da Beckwith, punta decisamente sul popolo, anche se avrà sempre un occhio di riguardo per l'aristocrazia liberale che si prepara a « fare l'Italia », e poi a governarla con subalpina fermezza. Anche nel valdismo c'è un po' di questa fermezza accentuata dal tenace retaggio calvinista: e l'Autore non manca di metterla in rilievo, sia pure con vivo affetto e talvolta con malcelata ammirazione. Forse per questo sono così belle le sue pagine su « Torino capitale morale d'Italia » ^ , dove la Torino del « decennio » viene vista in uno dei suoi aspetti pili inediti ^ ma non meno importanti: rincontro-scon- tro tra la vecchia chiesa valdese e i nuovi movimenti: da una parte i giobertiani divenuti evangelici, troppo inclini a confondere la creatività storica del Risorgimento con le possibilità d'una profonda riforma religiosa; in mezzo i Valdesi, calvinisti risvegliati ma fedeli al binomio popolo-chiesa, dall'altra i futuri « fratelli »: una chiesa biblicista, escatologizzante, impareggiabile formatrice di anime e di coscienze: da quest'ultimo

Risorgimento e Protestanti cit., pp. 277 sgg. ^ Op. cit. pp. 307 sgg.

^ Ma già Luigi Santini ne aveva parlalo lucidamente: Protestantesimo e laicismo in Italia negli ultimi cento anni, in « Protestantesimo », VI (1951).

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GIORGIO BOUCHARD

movimento nascerà, dice Spini una sorta di « Bible belt » monferrino che va da Asti a Stradella, e che durerà fino ad oggi. Manco a dirlo, questo « Bible belt » sarà fatto di piccoli contadini, non di piccoli borghesi di letterati, anche se il suo infaticabile ani- matore sarà un ex garibaldino: Teodorico Pietrocola Rossetti. È interessante notare, come fa ripetutamente l'Autore, che il primo evangelismo italiano è guidato da un gruppo dirigente largamente piemontese: ciò è vero naturalmente per i Valdesi, ma an- che per i « Fratelli », poi per i « Liberi » e per tanti altri.

Intanto però l'unità d'Italia si è fatta, e il protestantesimo si è diffuso dovunque. Non tuttavia in modo omogeneo: in Sicilia, per esempio, piìi che un movimento evange- lico, c'è stata una diffusione del protestantesimo: non c'è dunque da stupirsi che qui siano in testa i Valdesi, guidati da quel grosso personaggio mitteleuropeo ^ che fu Gior- gio Appia: qui forse, l'inclinazione popolare dei Valdesi si attenua un po'. Lo stesso Giorgio Appia è alle origini del valdismo napoletano, dove peraltro prevalgono i fattori di movimento: Pietro Taglialatela, Vincenzo Sciarelli e un gruppo di intelligenti « missionari » inglesi saranno all'origine della grande vicenda del metodismo parteno- peo.

Ma in quest'epoca (anni '60) la capitale dell'evangelismo italiano è ormai Fi- renze, e lo resterà a lungo: sia perché nel '64 diventa la capitale del Regno, sia soprat- tutto perché ora si raccolgono i frutti della seminagione compiuta durante i lunghi de- cenni di preparazione (1836-1859).

Su questo si conclude il libro: i sogni del Risorgimento non si sono avverati, ma è nata l'Italia evangelica^, minuscola ma robusta e vivace. Spini la chiama « un'Italia evangelica omogenea e discorde »: omogenea per impostazioni teologiche (il Risveglio) e per composizione sociologica (le classi lavoratrici) ma discorde a motivo delle diverse opzioni politiche e delle svariate appartenenze denominazionali: cavouriani i Valdesi, mazziniani e garibaldini i Liberi, apolitici i Fratelli. Un microcosmo articolato, qualche volta un po' rissoso, verso il quale Spini non nasconde una simpatia che va ben al di della pura appartenenza anagrafica: è della sua chiesa che Spini ci parla in queste pa- gine indimenticabili, la cui validità scientifica non nasconde l'afflato della passione.

La classica ricerca di Risorgimento e protestanti ha trovato un felice comple- mento nella relazione tenuta da Spini ad Agape nell'estate del 1969 durante un conve-

' Op. cit., pp. 31 1 sgg.

^ G. Appia era nato a Francoforte (cfr. Spini, op. cit., pp. 351 sgg.). Suo fratello Paolo aveva accompagnalo Henri Dunant, fondatore della Croce Rossa, alla battaglia di Solferino: anche la valoriz/azione del carattere esplicitamente evangelico di questa iniziativa è opera di Giorgio Spini.

^ Op. cit., pp. 335 sgg.

GIORGIO SPINI, STORICO MILITANTE DELL'EVANGELISMO ITALIANO

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gno di studio promosso dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia

Se Risorgimento e Protestanti si apriva con la distruzione della « leggenda dell'origine giansenistica » dell'evangelismo italiano, questa relazione ridimensiona un classico « mito valdese »: quello secondo cui la libertà religiosa si sarebbe gradualmente diffusa in Italia sulla scia della conquista piemontese, e che le Patenti Albertine del XVII febbraio 1848 avrebbero segnato una svolta irreversibile e indiscussa. Spini chiama lepidamente questa visione « mitologia del XVII Febbraio e si diverte a demolirla: i contenuti delle patenti erano già tutti nello statuto concesso due giorni prima dal Granduca di Toscana, il quale a sua volta si era limitato a copiare la Patente di Tolleranza concessa da Giuseppe II d'Austria nel 1781.

D'altra parte, è pur vero che dopo il '48-'49 tutti gli stati italiani (e anche l'Austria) sperimentano una marcata svolta a destra, col suo corteo di soprusi e di intol- leranze religiose, mentre il Piemonte conserva lo Statuto: ma i magnanimi governanti del Piemonte liberale cercano di attenersi, in tema di religione, a una interpretazione « giuseppistica » delle libertà statutarie: libertà di coscienza e di culto, ma nessuna ma- nifestazione pubblica della fede, e soprattutto, per favore, niente propaganda! II decen- nio cavouriano è perciò per i Valdesi (e ancor di più per i Liberi e i Fratelli) un decennio di aspre lotte per l'effettiva libertà religiosa: arresto dopo arresto, processo dopo processo, gli evangelici conquisteranno, per così dire, sul campo, il diritto a una pubblica testimonianza della loro fede.

Ma proprio in quanto lottano per se stessi, cioè per la libertà della predicazione, questi protestanti danno un notevole contributo alla evoluzione democratica dell'Italia liberale, finché col codice Zanardelli (1889) scomparirà praticamente ogni residuo re- pressivo. L'evangelismo italiano e la stessa chiesa valdese escono dunque bene da que- sta simpatica demolizione del « mito del XVII febbraio »: le patenti albertine, lungi dall'essere quella charte octroyée di cui parla talvolta l'agiografia valdese, si rivelano per quello che sono state davvero nella storia: un'arma coraggiosamente impugnata da una minoranza intelligente e combattiva: e l'esito della lotta non era scontato, se è vero, come è vero, che i risultati del Risorgimento furono messi in dubbio per decenni dalle forze reazionarie, e che la stessa classe dirigente liberale aspirava, quasi ad ogni costo, ad una conciliazione con la chiesa cattolica La passione del militante evangelico non

G. Spini, Rapporti delle chiese evangeliche con lo Sialo durante il Risorgimento, in AA.VV., La posizione delle chiese evangeliche di fronte allo sialo, Claudiana, Torino 1970.

Poiché non tutti sono tenuti a conoscere « intus et in cute » la cultura valdese, ricordo che la festa del XVII costituisce il momento più allo di lutto l'anno ecclesiastico valdese, e registra li- velli di partecipazione popolare superiori a qualsiasi altra manifestazione: ò la festa della libertà.

La generazione di Giorgio Spini ha vissuto un'esperienza singolarmente simile a quella del « decennio »: dopo il 1948 i protestanti italiani si trovarono infatti a dover combattere una grossa battaglia per la libertà religiosa sulla base di un testo costituzionale (art. 8) diverso da ciò

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GIORGIO BOUCHARD

fa tuttavia velo al rigore dello storico, e Spini non manca di mettere in rilievo le inclinazioni sabaude dei valdesi, e le tendenze crispine e massoniche di molti altri: primi fra tutti gli evangelici « Liberi ». Ma con questo siamo giunti a un altro capitolo della fatica storiografica del nostro Autore.

La parabola del metodismo italiano

Com'è noto, Spini appartiene alla componente metodista della « Chiesa Evange- lica Valdese » la rilevanza socio-culturale di questa « minoranza nella minoranza » ), in parte dovuta al fatto che essa risale a tre diverse radici storiche: le due « missioni » (e poi chiese) metodiste e la Chiesa Libera. Ci sia dunque concesso raccogliere sotto un'unica voce le ricerche dedicate dal nostro Autore a queste tre diverse realtà e al loro complesso intrecciarsi in una vicenda degna di nota.

Lo studio più originale e rilevante in questo campo è sicuramente L'Evangelo e il berretto frigio Sviluppando temi già felicemente impostati da Luigi Santini Spini delinea con affetto ma senza indulgenza la vicenda di un movimento evangelico nato da un'appassionata partecipazione alle sorti del Risorgimento italiano: gli uomini che nel 1870 fondano la « Chiesa Cristiana Libera in Italia » sono tutti membri attivi della sini- stra democratica: sono mazziniani, garibaldini, o perlomeno onesti combattenti della battaglia di San Martino. Molti sono operai, artigiani, contadini: l'Italia delle Cinque Giornate, di Calatafimi e del Volturno che si raduna in queste assemblee, e vi porta tutta la sua passione e, perché no, tutta la sua ingenuità. Spini è severo con questa chiesa che « parte col piede sbagliato » e si trova presto bloccata tra i « Fratelli » guicciardiniani a sinistra e la « muraglia valdese » a destra ma non nasconde la sua simpatia per il suo primo gruppo dirigente (quasi tutto piemontese: Beruatto, Borgia, De Michelis), per la sua capacità di creare saldi nuclei contadini (primo fra tutti: Lusema S. Giovanni, la ben nota « cappella dei Jalla ») e viceversa di stabilire solidi legami con gli Stati Uniti d'America, uno dei grandi miti della sinistra risorgimentale.

Con la Sinistra al potere (1876) la Chiesa Libera raggiunge il suo apogeo: 70 co-

che essi desideravano, ma pur adatto ad essere brandito come un'arma democratica.

Il Patto d'Integrazione tra le chiese valdesi e metodiste è stato approvato nel 1975 e pie- namente attuato nel 1979.

Sottotitolo: Storia della Chiesa Cristiana Libera in Italia, 1870-1904, Claudiana, Torino

1971.

Alessandro Gavazzi, Aspetti del problema religioso del Risorgimento, STEM, Modena

1955.

L'Evangelo e il berretto frigio cit., p. 47. ^'7 Op. cit.. p. 58.

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munita fra grandi e piccole, molte scuole, una bella Facoltà teologica a Roma Ponte Sant'Angelo (ancora oggi uno degli « altri luoghi » del metodismo), un leader di grande prestigio (Gavazzi). La struttura è presbiteriana, come il grande finanziatore di questa chiesa (lo scozzese McDougall); ma Spini mette in rilievo come manchi a questo gruppo variegato una adeguata riflessione teologica: e così, quando le speranze destate dalla Sinistra cominceranno a svanire, la Chiesa Libera si avvierà verso il declino. Di questo declino Spini non nasconde proprio nulla. L'estremo tentativo gavazziano (il progetto di unione coi Valdesi) viene descritto e documentato, ma si fanno anche rile- vare le « ragioni dei Valdesi »: come potevano rinunciare al loro nome proprio nel mo- mento in cui si profilava la Conciliazione tra stato e chiesa cattolica (con conseguente emarginazione dei protestanti), e il richiamo alle Patenti Albertine poteva diventare l'unico baluardo di libertà?

Particolarmente critica si fa la disamina storica quando Spini affronta l'ultimo pe- riodo di vita della chiesa libera ribattezzata « Chiesa Evangelica Italiana » dal suo nuovo leader, Saverio Fera: questo ex garibaldino divenuto massone gestì la chiesa con pugno di ferro, pagando ampio tributo alla crispina politica di grandezza: sia pratican- dola come chiesa sia appoggiando il regime di Francesco Crispi perfino nella sua lotta contro il nascente movimento socialista. Davanti a questo dirizzone, alcuni degli uomini migliori (come Beruatto) passarono alle missioni metodiste o alla chiesa valdese (come il presidente Borgia, o il filosofo Santi Felici); alla fine, fallito un ultimo tentativo di ri- lancio. Fera pattuì direttamente con le due missioni metodiste « una specie di liquida- zione in blocco della Chiesa Evangelica Italiana » ^O; il trattamento fu signorile e fra- temo, ma le comunità divennero wesleyane o episcopali senza che si serbasse memo- ria d'una esperienza che non avrebbe dovuto essere rimossa.

E il libro di Spini, benché severo, ci permette di superare definitivamente questa rimozione: tra i nostri ascendenti ci sono anche questi singolari evangelici in camicia rossa, e la loro forza spirituale non si è tutta stemperata nel suo esito Crispino e masso- nico: prova ne sia non solo la vitalità (ormai piìi che secolare) delle comunità fondate durante il Risorgimento ma anche la straordinaria capacità evangelistica manifestata dai « liberi » anche nei momenti della loro peggiore crisi: a fine secolo nascono chiese come Forano Sabina (oggi valdese), e Scicli, che diventerà uno dei « punti forti » del metodismo meridionale. Sempre dall'iniziativa dei Liberi nascono a quell'epoca diverse chiese italiane in America del Nord: a ragione conclude Spini: // germe del tribolato

Op.cit.,p. 156. ^9 Dal 1890 al 1904. 20 Op. cit.,p. 217.

Tre invece passarono ai Valdesi, qualcuna ai BaUisii. 22 Op. cit.,p. 179.

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evangelismo libero del Risorgimento continua a dar frutti E continua a darli, a nostro avviso, in un certo « ethos » politico-culturale che caratterizza la componente metodista della nostra chiesa.

Al metodismo vero e proprio Spini ha poi dedicato vari studi. Cominciano col più recente si tratta di una magistrale rievocazione dello spirito con cui il vescovo Burt gestì la chiesa metodista episcopale in Italia tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del No- vecento: culto del modello anglosassone, aperta scelta massonica ed anticlericale, viva attenzione per la formazione culturale delle élites danno forma a una chiesa presti- giosa ma fragile, che reggerà con fatica la crisi degli anni '30: e tanto meno reggerà l'ottimismo di questo ex operaio inglese che vedeva nella borghesia italiana una forza potenzialmente protestante quando già si profilava l'ombra del Patto Gentiloni. Più che di metodismo, conclude Spini, si trattava di masson-evangelismo. Eppure, anche questa realtà fa parte della nostra storia, sia pure criticamente rivisitata come ha fatto lo Spini sulla base di ricerche di prima mano condotte negli archivi della Drew University (Madison, New Jersey, USA).

Al metodismo italiano nel suo insieme. Spini ha invece dedicato due saggi di li- vello diverso: il primo ^6 è una commossa rievocazione dell' « avventura metodista » in Italia, pronunciata nel momento in cui questa chiesa raggiungeva la sua piena autono- mia e si impegnava a favore dell'unità dell'evangelismo italiano, sia promuovendone il processo federativo, sia orientandosi verso l'integrazione coi valdesi. Il secondo, pub- blicato per ora in inglese è invece uno studio più elaborato, che delinea un quadro completo della presenza metodista in Italia dall'arrivo di Piggot fino ad oggi. A diffe- renza de // Vangelo e il berretto Frigio, e del recente studio sul vescovo Burt, il testo è forse un po' ottimistico, ma ha l'incomparabile pregio di far sfilare davanti ai nostri oc- chi, vividamente, le « grandi dinastie » che hanno fatto il metodismo italiano: i Tagliala- tela, i Santi, i Nitti, gli Sbaffi; ma anche gli isolati come Jacopo Lombardini, che ritro- veremo più avanti. Ne viene fuori una storia appassionante, degna di entrare in quella koiné storico-narrativa che è tanta parte dell'autocoscienza protestante italiana. In que- sto senso, è chiaro che la prossima pubblicazione in italiano di questo testo verrà a col- mare un vuoto molto sentito.

^-^ Op. cit., pag. 197.

// « grande disegno » di William Burt e l'Italia laica: relazione tenuta al Convegno inter- nazionale di studio su // metodismo italiano, Roma 17-19 Ottobre 1991: di prossima pubblica- zione negli Alti del convegno stesso.

Uno degli istituii fondati dal Burt, il Crandon, ebbe tra i suoi allievi Ugo La Malfa.

Testimoni dell'Evangelo in Italia. Conferenza tenuta in occasione del Centenario della Chiesa Melodista in Italia (1961) e pubblicalo a cura della Chiesa slessa.

In 0. Tourn e Altri, You are my Witnesses, edizioni Claudiana ma pubblicato a cura della American Waldensian Society di New York nel 1989.

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Evangelici e democrazia

Un terzo settore in cui Spini è stato molto attivo come storico (e non solo come storico) è stata la ricerca del rapporto che corre ed è corso tra la testimonianza evange- lica e i movimenti di trasformazione socio-politica del Paese: sia positivamente, quando si tratta di partecipare a spinte di emancipazione; sia negativamente, quando bisogna re- sistere a ondate regressive come il fascismo; sia dialetticamente, quando si tratta di contribuire in modo attivo e se necessario conflittuale, alla evoluzione di una democra- zia incompiuta (come quella italiana nel « lungo dopoguerra » che va dal 1945 fin quasi ad oggi).

A partire da un suo fondamentale articolo del 1968 attraverso un saggio del 1979 e fino a una recente, densissima introduzione a un volume a più voci. Spini conduce un discorso molto chiaro: i movimenti evangelici si sono sempre accompagnati alle trasformazioni sociali e di queste trasformazioni sono spesso stati un fattore non in- differente. La fioritura di gruppi valdesi, metodisti, battisti, nelle aree di più intense lotte bracciantili - da Felonica Po (MN) a Mottola (TA), tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento - il sorgere, proprio nella stessa epoca, di comunità evangeliche tra gli operai di Temi o di Sestri Ponente documenta questa non casuale coincidenza. E Spini ha cura di notare che in questi movimenti gli evangelici seppero investire alcuni dei loro uomini migliori: da Giuseppe Banchetti a Liutprando Saccomani, fino a quel Lucio Schirò che nella sua Scicli seppe coniugare l'iniziativa culturale e sociale con una lunga militanza antifascista.

Per cui, dopo aver simpaticamente ricordato che Tatiana Schucht, la cognata di Gramsci, era metodista ^\ egli può serenamente concludere che la vicenda dell'evange- lismo italiano « è stata spesso una storia di umili », « la storia di un non conformismo ormai più che secolare »: « spesso è la stcria di una componente della società italiana, che non ha mai cessato di proporre ai propri connazionali alternative o problemi, che in un modo o nell'altro hanno finito per lasciare comunque un segno »

Movimenli evangelici neW Italia contemporanea, in «Rivista S lorica Italiana», LXXX (1968).

/ movimenti evangelici popolari nelle Puglie, in AA.VV., Meridionalismo democratico e socialismo. La vicenda politica e intellettuale di Tommaso Fiore, De Donato, Bari 1979.

Un mesticraccio: ma re vale la pena, in AA.VV., Movimenti evangelici in Italia dall'Unità ad oggi, Claudiana, Tonno 1990.

Op.cit., p. II. 3- Op. cit., p. Vili

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Questo « segno », Spini lo aveva puntualmente individuato anche nell'atteggia- mento di tanti evangelici italiani di fronte al fascismo: su questo tema Spini non ha con- dotto delle ricerche sistematiche, ma ci ha dato alcuni vividi contributi, che in parte val- gono come spunti di ricerca storica, in parte serviranno come fonti per gli storici futuri: alludo alla commossa commemorazione di Jacopo Lombardini tenuta a Gragnana nel 1953 e all' ancor più toccante rievocazione di Giovanni Miegge, che per la genera- zione di Spini è stato maestro di teologia e di libertà Ma Lombardini e Miegge sono personalità relativamente assai note: quasi dimenticata era invece la figura di Ferdi- nando Geremia fino al convegno del 1979, poi sfociato in un bel volume a piìj voci dove Spini mette giustamente in luce l'impegno evangelico di questo antifascista La tesi che soggiace a tutte queste rievocazioni è abbastanza esplicita: malgrado viltà e ce- dimenti, la « linea maestra della storia evangelica italiana passa per l'antifascismo »; questa tesi diventa esplicita nell'introduzione di Spini a una tavola rotonda della Società di Studi valdesi ^"^ come nell'articolo dedicato al « tasto dolente » delle leggi razziali È sicuramente merito di Spini l'aver ricordato l'atteggiamento di limpida fermezza as- sunto da Mario Falchi, quando tanti cedevano o tacevano.

Ma qui lo storico si fonde ormai col militante: militante evangelico e militante democratico: molti scritti del dopoguerra sono dedicati all'ardua battaglia per la libertà religiosa. Ne citiamo solo due: il contributo a un numero speciale del « Ponte » tutto dedicato al tema « Chiesa e democrazia » e l'articolo, sempre sul « Ponte », in difesa dei Pentecostali e degli altri gruppi evangelici spietatamente emarginati dall'Italia de- mocristiana e centrista di Mario Sceiba e di Alcide De Gasperi

Esula dal mio compito - e dal lavoro di Spini come storico - l'analisi delle centi- naia di interventi pubblicati in quegli anni a favore della libertà religiosa: allora fu una pattuglia di evangelici, insieme a una pattuglia di laici, a tenere alta la bandiera del plu- ralismo; e i frutti si raccolsero solo dopo molti anni.

Ora pubblicata in appendice a S. MASTROGIOVANNI, Un protestante nella Resistenza, 2^ ed. , Claudiana, Torino 1985, pp. 193 sgg.

L'avventura intellettuale e civile di Giovanni Miegge, in « Il Ponte », agosto-settembre

1961.

AA.VV., Macerie della storia e speranza cristiana, Liviana Editrice, Padova 1981. •^^ Op. cit., pp. 109 sgg.: Nella chiesa evangelica.

■^^ Motivazioni cristiane dell'opposizione al fascismo, in «BSSV», dicembre 1976.

■^^ Gli evangelici italiani di fronte alle leggi razziali, in « Il Ponte » XXIV (1978), pp. 1353- 58 (Rist. in Discriminazione e persecuzione degli ebrei nell'Italia fascista, a cura di U. Caffaz, Consiglio Regionale della Toscana, Firenze 1988, pp. 97-99).

minoranze protestanti in Italia, in « Il Ponte », 1950.

'^^^ Im persecuzione contro gli evangelici in Italia, in « II Ponte », 1953.

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L'organizzatore della cultura

Si è detto di Benedetto Croce che è stato importante non solo per i libri che ha scritto, ma anche per quelli che ha fatto scrivere (e pubblicare). Lo stesso può dirsi, nel nostro campo, per Giorgio Spini: scrittore prolifico e intenso, egli ha anche saputo tro- vare il tempo di svolgere il ruolo di vero e proprio « organizzatore della cultura prote- stante » in Italia. Cito solo i due esempi più macroscopici:

1) le « giornate storiche », che tanto respiro hanno dato alla nostra Società, sono nate da una straordinaria sinergia tra Spini e Augusto Armand Hugon, dove ciascuno ha portato in dote la sua visione e le sue peculiari capacità personali e professionali.

2) la collana della editrice Claudiana, dedicata alla « Storia del movimento evan- gelico in Italia »: aperta da uno studio dello stesso Spini ^\ la collana è ormai giunta al settimo volume e si è distinta per equilibrio e varietà di temi; Metodisti e Fratelli, Av- ventisti ed Esercito della Salvezza vi hanno trovato collocazione onorevole, spesso ad opera di ricercatori che appartengono al loro stesso ambito (unica eccezione: Viallet, forse un po' duro verso il valdismo del ventennio).

Questi i risultati visibili e diretti del lavoro di Spini come « organizzatore di cul- tura ». Ma ci sarebbe da indagare neir« indotto »: quante ricerche sono state fatte e pubblicate altrove per influenza diretta o indiretta di Giorgio Spini? Penso al lavoro di giovani storici come Giorgio Vola e Massimo Rubboli, penso alla stessa pubblicazione del libro di Mastrogiovanni su Lombardini Ma su questo, solo una futura indagine scientifica (ovvero una completa confessione dell'indiziato) potrà fare luce adeguata.

I risultati di questo lavoro di organizzatore di cultura sono invece già visibili, e consistono, a mio avviso, nella tenace diffusione di un sano storicismo nei gruppi diri- genti del mondo evangelico italiano, e anche fuori di esso. Mentre tanta cultura storica italiana sembrava avvitarsi su di un marxismo tautologico o subire la deriva verso la prestigiosa histoire de longue durée, Spini è stato un limpido fautore óqW histoire évé- nementielle, e ha sempre vigorosamente resistito contro tutti i tentativi di ridurre i fatti della storia a semplice epifenomeno dei mutamenti della famosa « struttura ».

È perciò comprensibile che il metodista Spini sia diventato maestro di tanti Val- desi, a cominciare dal sottoscritto: è infatti parte essenziale della nostra identità il poter narrare e rinarrare la nostra storia, nel contesto più ampio della storia del protestante- simo e del mondo moderno. A questa narrazione, o per meglio dire alla rielaborazione

Il già citato L' ex-angelo e il berretto frigio. Cfr. nota 33.

'^^ Penso ad esempio SLÌVincurx'atio ideologica delle opere di un Ambrogio Donini, che pure era uomo di grandi capacità scientifiche.

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di questo « racconto » che si è compiuta negli ultimi trent'anni, Spini ha dato un contri- buto fondamentale: è anche e soprattutto grazie a lui se il protestantesimo italiano, in esso la chiesa valdese, dispone di una « identità narrativa », ricca e articolata: e ciò proprio nel momento della crisi dei « grands récits » laici e rivoluzionari. Lo si è visto in occasione delle celebrazioni del « Rimpatrio », visibilmente impostate sulla base di una ipotesi « spiniana » ^. Ma con questo ci avviciniamo alla conclusione di questo in- tervento, il cui carattere molto « impegnato » e poco scientifico risulta ormai del tutto evidente.

Giorgio Spini creatore di miti

Tutta l'opera storiografica di Spini è sottesa da una serie (anzi, da un sistema) di idee, che mi permetterei di definire « miti » nel senso alto della parola, cioè di intuizioni interpretative che vengono poi via via verificate ed esplicitate nel corso della ricerca: la cosa è valida anzitutto per la Storia dell'età moderncâ^, ma affiora anche in molti altri scritti, come V Autobiografìa della giovane America: il mito (di derivazione, direi, he- geliana) che solo con la Riforma comincia davvero la storia della modernità e della li- bertà, e che il contributo dato dai protestanti (nei vari secoli) allo sviluppo della demo- crazia, della laicità, degli stessi movimenti socialisti è molto più grande di quanto co- munemente si pensi"^^. Per quanto riguarda il mondo angloamericano questa tesi ha delle sicure convergenze con le idee di Perry Miller: ma una trattazione di questo settore esula dal compito che mi è stato affidato.

Per restare nel tema dirò dunque, che a parer mio, le ricerche di Spini sulla storia dell'evangelismo italiano suggeriscono due « miti » principali: il primo, e più impor-

La relazione della Tavola al Sinodo 1986 (pag.23) nel segnalare l'iniziativa della SSV parla di grande Europa democratica che proprio allora fscil. nel 1689) stava nascendo, e con- clude: Ricordare e rivendicare questo intreccio d'Italia e d'Europa, di protestantesimo e di de- mocrazia, di fede evangelica e di costruzione di una società aperta, significa certo accettare il Giudizio sulla nostra storia, ma significa anche formulare delle ipotesi nuove sul nostro futuro e sulle nostre responsabilità. Questa impostazione fu oggetto di controversia, soprattutto nel sinodo 1987 e sulla stampa nell'inverno 1987-88, ma poi venne sostanzialmente recepita e, ci sia con- cesso dirlo, confermala dai fatti del 1989. Cfr. AA.VV., // glorioso Rimpatrio dei Valdesi, Claudiana-SSV, Torino 1988 e AA.VV., Dall'Europa alle Valli valdesi (Atti del XXIX Convegno storico, raccolti da Albert de Lange), Claudiana-SSV, Torino, 1990.

A quel tempo, a mia memoria, solo Furio Diaz colse il significato della tesi centrale di Spini: « L'Espresso » sintomaticamente titolava la sua recensione: // fattore religioso.

Spini ha riaffermalo con piena consapevolezza l'importanza di questa sua tesi nel Discorso inaugurale alle giornale sloriche del 1989, dedicale al Glorioso Rimpatrio. Vedi il già citalo Dall'Europa alle Valli Valdesi, pp. 13 sgg.

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tante, sottolinea il ruolo centrale svolto dalla cultura protestante nella rielaborazione delle idee della rivoluzione francese dopo la catastrofe napoleonica: il moderno liberali- smo nasce in terra protestante sia da persone appartenenti al Kultiirprotestanìismus (Madame de Staël, Benjamin Constant, Sismondi) sia da uomini che possono essere de- finiti come veri e propri évangéliques: evangelici confessanti. È il mito di Coppet, della capacità protestante di creare civiltà dove un grandioso esperimento (come la Rivoluzione francese) è moralmente fallito. Quando ho letto per la prima volta Risorgimento e Protestanti , ne sono rimasto enormemente colpito: tutta la mia genera- zione di intellettuali protestanti italiani si stava rendendo conto che la rivoluzione bolscevica era, appunto, moralmente fallita, ma nessuno di noi aveva voglia di tornare indietro verso il liberalismo borghese o peggio verso una restaurazione cristiana. La vi- vacità del marxismo indipendente, i sogni effimeri del '68 e l'ambiguo mito cinese hanno per un tempo offuscato questa prospettiva, ma dal 1975 in poi (Poi Pot!) esso è tornato ad imporsi a molti di noi: con la parabola di Coppet, Spini ci proponeva di rie- laborare evangelicamente la tradizione socialista dopo la catastrofe morale dell'espe- rienza sovietica. Non so fino a che punto Spini abbia coscientemente fatto uso della « metafora di Coppet »: certo, essa è stata efficacissima, ed è alla base della mia fiducia d'un possibile contributo protestante alla rinascita di un « socialismo dal volto umano ».

E con questo arriviamo al secondo dei « miti » di Spini: il carattere popolare e democratico dell'evangelismo italiano ottocentesco, e il suo tendenziale muoversi verso opzioni di tipo socialista.

Certo, Spini è sapiente e accurato nel delineare i contorni di questo « mito »: da una parte egli rileva come, prima ancora che si verificassero a Firenze le prime conver- sioni (1836), l'Europa protestante della liberaldemocrazia (Sismondi, Vieusseux) cata- lizzasse l'incipiente Risorgimento italiano. Il rapporto Risorgimento-Protestanti avviene dunque al livello della piìj alta cultura del secolo; ma subito dopo Spini fa notare che quando le conversioni diventano numerose, esse toccano essenzialmente il popolo, e aumentano proprio con l'aumentare delle lotte sociali a fine secolo: il movimento evangelico nasce dunque pieno di spiriti risorgimentali, ma prelude al socialismo. In un paese dove la vulgata progressista tortura e assassina Max Weber pur di fargli dire che protestantesimo e borghesia sono (quasi ) la stessa cosa, non è facile sostenere tesi come queste. Abbiamo visto sopra come esse siano filologicamente fondate, ma ciò non toglie che esse svolgano una ragguardevole funzione mitopoietica.

Spini, in questo, non è solo; l'altro grande creatore di « miti protestanti » è stato Giuseppe Gangale. Ma ciò che in Gangale era mito d'una minoranza eroica (il senso dell'elezione), in Spini è più pacatamente la « dottrina della componente »: il protestan- tesimo, emarginato ed espulso dall'Italia, torna ad esserne parte viva come nel Cinquecento; e, quanto piìj si impegna sui fronti strettamente « religiosi » (la pietà

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cristiana, la lettura biblica) tanto più si qualifica, irresistibilmente, come « spirito » d'una Società aperta fondata nel binomio « giustizia e libertà ».

Nell'opera e nella vita di Spini questa « dottrina della componente » ha svolto un ruolo centrale. Da ciò l'incredibile quantità di tempo e di energia che quest'uomo dalla fibra del ricercatore ha saputo dedicare a una vera e propria « carriera » di militante evangelico "^^i « predicatore laico », vice-presidente del Congresso Evangelico del 1965 membro autorevole delle delegazioni che hanno trattato le Intese con lo Stato italiano (prima per conto delle chiese valdesi e metodiste, poi per le Assemblee di Dio); data r Integrazione, Spini è stato per sette anni (1979-86) membro della Tavola valdese; ero allora suo collega, e devo dire che si è trattato di un'esperienza indimenticabile; ta- lune divergenze politiche non impedivano una sostanziale concordia e un notevole ar- ricchimento intellettuale. Mi sia dunque concesso concludere questa relazione, con un ricordo personale: era l'estate 1956 e noi « giovani pastori » di scuola barthiana ci tro- vavamo tutti ad Agape per le « giornate teologiche ». Spini ci chiamò in un angolo del grande salone e ci interpellò bruscamente: « Che cosa volete essere: la chiesa nazionale delle Valli valdesi che manda dei missionari verso l'Italia irredenta? O siete disposti ad essere la chiesa per tutti gli italiani ? Se scegliete la prima strada, sappiate che fra trent'anni sarete la metà di adesso ».

Dopo quella sera del 1956, mi sono trovato a svolgere il servizio pastorale nelle circostanze più diverse: ma quelle parole sono sempre rimaste nel mio cuore, come uno stimolo e un incoraggiamento. A pensarci bene, sono state la mia vera consacrazione a quello che i nostri padri chiamavano il Santo Ministerio.

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Lo Spini « civis cvangclicus » emerge con grande chiarezza in una recente intervista con- cessa alla rivista « Confronti » (giugno 1991) e inlilolata: // mestiere dello storico, la vocazione del credente.

AO

Da cui ò naia, abbastanza direttamente, l'aUuale Federazione delie chiese evangeliche in

Italia.

Intervento conclusivo di Giorgio Spini

Sono molto grato a tutti voi dell'affetto e della bontà - fin troppa bontà, direi - con cui avete voluto ricordare il mio cammino negli studi storici durante lo scorso mezzo secolo. Anzi, per essere esatti, si tratta di più di mezzo secolo, in quanto fu nel 1935 che entrai per la prima volta all'Archivio di Stato di Firenze per una ricerca sto- rica. Non avevo ancora vent'anni e non volevano ammettermi in sala di studio perché non ero maggiorenne. La ricerca in questione era intorno a quell'Antonio Brucioli, su cui pili tardi pubblicai un volumetto, e me l'aveva suggerita Ferdinando Geremia, un metodista di Padova, militante di « Giustizia e Libertà », che non poteva farla egli stesso perché aveva avuto la salute minata da carcere e confino, tanto che finì col morire prematuramente. A decifrare le scritture del Cinquecento mi insegnò con grande bontà e pazienza Anna Maria Enriquez, allora giovane funzionarla dell'Archivio, poi morta anch'essa prematuramente da eroina nella Resistenza. In quella sala di studio vidi lavorare anche un signore biondo, ancora giovane, molto distinto: Nello Rosselli.

Mi sento commosso, è inevitabile. Forse per dominare la commozione la cosa mi- gliore sarà che cerchi di storicizzare anche me stesso e il mio lavoro. Direi obiettivo col- locarlo nell'area storiografica che ha avuto come maestri Federico Chabod, Alessandro Galante Garrone, Leo Valiani, Franco Venturi; dunque in quella che si potrebbe chia- mare la storiografia degli uomini del partito d'Azione. Questa storiografìa aveva alle spalle, come precedente diretto, lo storicismo di Benedetto Croce, e in particolare opere come la Storia d'Italia del 1928 e la Storia d'Europa del 1935. Muoveva anch'essa da una concezione della storia come storia della libertà. Si distaccava tuttavia dall'ortodossia crociana in quanto intendeva passare da una libertà formale e di fatto eli- taria a una libertà che fosse anche emancipazione economico-sociale e avesse un pre- ciso carattere democratico.

Nel mio caso personale, v'era un motivo ulteriore di distacco dalla linea crociana. Appartenevo a una generazione di giovani, che sentivano scandire il tempo da una sorta di orologio funebre, cioè dall'avvicinarsi, un passo dopo l'altro-, dello scoppio di una nuovaf guerra mondiale in cui saremmo stati mandati tutti al macello. Non per nulla quel

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mio primo ingresso in archivio aveva coinciso con la vittoria della barbarie hitleriana nel cuore dell'Europa. Era comprensibile che trovassi insopportabile la marmorea im- passibilità con cui da parte crociana si continuava a nutrire fiducia nella razionalità della storia. Altrettanto comprensibile era che sentissi il richiamo di tutt' altri maestri: Kierke- gaard, Dostoevskij, Karl Barth, per esempio.

Tuttavia, quali che fossero le tendenze personali dei singoli, la storiografia « azionista » aveva la caratteristica comune fondamentale di essere una storiografia di antifascisti. Dunque era anzitutto una storiografia da cui veniva respinto totalmente il nazionalismo arrogante e provinciale del regime, insieme al culto della forza bruta ad esso associato. Era una storiografia che si qualificava per la sua apertura vigorosa a pro- spettive intemazionali, persino quando si occupava di vicende italiane, e per la sua at- tenzione particolare alla circolazione delle idee attraverso le frontiere e gli spazi geogra- fici. Di questa impostazione fui seguace convinto fino da quando, all'indomani della laurea, cercai di trasformare la mia tesi in uno studio su Cosimo I dei Medici, che rifiu- tasse la tradizionale impostazione toscana e ponesse l'accento avanti tutto sul rapporto della Toscana con l'Impero di Carlo V e la potenza spagnola. A una tale impostazione direi di essere stato coerente in ogni momento del mio lavoro negli studi storici. Ad essa continuo ad essere fedele anche adesso, sebbene in Italia l'ultimo grido della moda sembri essere una rinnovata chiusura di orizzonti e una rinascita dello strapaese, magari in veste civettuola di micro-storia, derivanti da un aborrimento compunto dei misfatti del mondo occidentale.

Nel mio caso, l'apertura a prospettive internazionali in genere e in particolare ai problemi della circolazione delle idee, era facilitata, ovviamente, da un retroterra prote- stante. In Italia, nella ccterie degli storici si è disposti ad accordare interesse anche al fattore protestante nella storia, ma a patto che si tratti di storia del see. XVI. Si ammette senza difficoltà che nei manuali di storia vi sia un capitolo sulla Riforma contrappcsato da un altro sulla Controriforma. Ma lo si considera un capitolo chiuso, che se ne sta tranquillo nel suo angolo: non come un discorso aperto, che dura ancora ai nostri giorni, arricchendosi via via di sviluppi nuovi. Anche per la cultura laica italiana il protestante- simo, a un certo punto della storia, sparisce, inabissandosi chissà come nel « pensiero moderno ». Che Bacone o Locke, Pestalozzi e Hegel, abbiano qualcosetla a che fare col protestantesimo, pure appartenendo indubbiamente all'area del « pensiero m.oderno », è pudicamcntë tnciuto. Appunto contro questa mitologia, così diffusa in Italia, ho combat- tuto durante tutta la mia vita di studioso. E forse è proprio per questo che di Riforma del sec. XVI me ne sono occupato abbastanza poco. Viceversa, mi sono appassionato a esplorare il ruolo rivestito dal fattore protestante nella storia, soprattutto dal Seicento in poi.

Ilo avuto tanto interesse per il Seicento perché è stato il secolo di un dramma

INTERVENTO DI G. SPINI

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grandioso: lo scontro tra una massiccia controrivoluzione cattolica, giunta assai vicino a conseguire il suo obiettivo dello sradicamento dell'eresia col ferro e col fuoco, e una resistenza protestante così vivida da fronteggiare la potenza gigantesca delle monarchie della Spagna e del Re Sole e oltre a ciò da avviare una sorta di Riforma della Riforma, destinata a poderosi sviluppi nell'avvenire, legando la causa protestante a quella della libertà. Mi sia anzi consentito di ricordare che proprio per questo interesse verso il Sei- cento sono arrivato a superare il recinto della storia europea e ad occuparmi anche di storia americana. Mi sembra però che considerazioni analoghe si possano fare anche per gli studi sul Risorgimento, sia quelli raccolti adesso nel volume Incontri europei e ame- ricani del Risorgimento, sia quelli comparsi a suo tempo col titolo Risorgimento e pro- testanti. Pure nel loro caso, infatti, è ben visibile uno sforzo di riconsiderare anche una vicenda così cara al nazionalismo patriottardo, come quella del Risorgimento, in un'ottica intemazionale, e di investigare l'incidenza del fattore protestante sulla nascita stessa dell'Italia odierna.

A questo punto, però, credo doverosa un'autocritica. Debbo ammettere di avere sbagliato, facendo una sorta di salto dal Seicento all'Ottocento, senza fermarmi a consi- derare il Settecento con attenzione adeguata. Ho sbagliato perché non ho tenuto abba- stanza in conto il carattere poderosamente innovatore del secolo XVIII, mentre avrei dovuto ricordarmi che dopo Newton e Wesley, Rousseau e Jefferson, neanche il mondo protestante è stato piià lo stesso di prima. Mi sono pentito di questo sbaglio soprattutto negli anni scorsi, mentre lavoravo a una storia delle origini del socialismo, che ho ap- pena terminato e spero di pubblicare l'anno prossimo. Purtroppo è tardi per rimediare.

D'altra parte, arrivato ormai vicino alla conclusione del mio cammino, mi sembra di potere constatare, in tutta obiettività, di essere stato abbastanza coerente con le con- vinzioni sposate fino dalla prima gioventù. Certo, non posso dire di essere stato uno sto- rico « al di sopra della mischia ». Nella mischia mi sono gettato sempre, e con molto gusto. Quale piìi quale meno, tutte le opere che ho scritto sono state scritte per combat- tere una battaglia o sostenere una tesi. Credo che a leggerle lo si avverta chiaramente. Ma forse non è tutta colpa mia se mi sono trovato a dovere fare i conti col fascismo dap- prima, col dopo-fascismo di De Gasperi e di Sceiba poi, con i deliri per le dittature rosse più tardi , e più tardi ancora con altre compagnie non precisamente gradevoli.

Non sta a me giudicare se i miei lavori valgono qualcosa, oppure valgono poco e magari punto. Ma belli o brutti che siano, mi sembra che siano quanto meno la prova di un impegno, che non si è mai lasciato sviare da mode capricciose e sempre è rimasto ancorato a convinzioni profonde. E questo - lasciatemelo dire - mi fa arrivare alla con- clusione del mio lungo lavoro con una grande serenità.

GIORGIO SPINI

SUMMARY OF THE ARTICLES

Giorgio Spini: lo storico moderno, by Giuseppe Ricuperati.

As Professor of History of the Modem Age at the University of Torino, Giuseppe Ricuperati expresses his appraisement of the conspicuos work in this field by Giorgio Spini. Especially notable are Storia dell'Età moderna (1960, and many subseguent issues) and Ricerca dei Libertini (1950), a very original exploration of the radical intellectuals in XVIl^^ century Europe.

Giorgio Spini storico dell'America Puritana, by Loretta Valz Mannucci.

Spini himself explains that his research into the peculiarities of the XVII^century's religious events in Europe caused his deep interest in the rise of a new civilization in the Americas, where the Pilgrim Fathers landed.

Risorgimento e Protestanti nella storiografia di Giorgio Spini , by Alessandro Galante Garrone.

Another side of the Spini's wide historiography: Italian Risorgimento and its relations with Protestantism, a question never investigated, of which Galante Garrone, a most distinguished "risorgimentista", speaks with great admiration.

Giorgio Spini, storico militante dell'evangelismo italiano, by Giorgio Bouchard.

Spini is not only, with his many works, the most important historian of Italian Protestants, but as witnessed by Giorgio Bouchard one of the leading personalities of the Waldesian- Methodist Church of Italy.

Intervento conclusivo di Giorgio Spini.

Spini's response, with his personal views about the sources and the aims of his historical work.

SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE

Richard Fritz, Eimveiìnmg des Waldenserdenkmals im ehemaligen Ortsteil Wiirmbcrg-Luceme anlàssUch des Gemeindefesîes der evangelischen Kirchengeméinde Wurmberg/Neubrental am 23. Jiini 1991, Pforzheim 1991, 30 pp. con ill.

Nel 1698 ca., 3000 Ira ugonotti e Valdesi di nascita francese (come per esempio Enrico Ar- naud) furono espulsi dalle Valli valdesi piemontesi. Nel 1699 una piccola parte di questi rifugiati (una lista del 15 maggio 1702, inserita nel nostro opuscolo, conta 264 persone) fu insediata nel Wiirttemberg a Wurmberg, un piccolo paese vicino a Pforzheim. Il quartiere di Wurmberg, a loro destinato, fu chiamato « Lucerne ». Questo nome deriva dal fatto che, anche se quasi tutti questi coloni erano originari del Queyras, essi per alcuni anni, probabilmente dal 1690 in poi, avevano vissuto nella « vai Lucerne » (vai Pellice). Il primo pastore della colonia fu Cyrus Scion, parteci- pante al Glorioso Rimpatrio. L'opuscolo in questione è stato pubblicato in occasione dell'inaugurazione di un monumento commemorativo a Wurmberg il 23 giugno 1991. Il monu- mento consiste di due lastre di pietra di Lusema (scavate nella cava di Morel a Rorà) e di alcune lapidi provenienti dal Queyras. Sulla lastra principale del monumento e stata posta la seguente iscrizione: « Colonie Lucerne de la Communauté du Queyras et Lucerne établie Wourmberg 1699-1824 ». L'opuscolo è di carattere commemorativo e non riporta nuovi dati storiografici se si prescinde dall'elenco summenzionato.

Albert de LaxNGE

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SEGNALAZIONI DIBLIOGRAnCHE

« Berichte aus der Waldcnserforschung », 8 (1991) 16, e 9 (1992) n. 17.

In questa rivista, pubblicata in privato da Theo Kicfner, si trovano articoli, recensioni e comunicazioni riguardanti la storia valdese, soprattutto dell'età moderna. Nei numeri 16 e 17 Hans Joachim Schmitt continua la pubblicazione di un piccolo dizionario di parole ed espressioni francesi particolari, come si trovano nei documenti valdesi tardo-seicenteschi. Nel numero 17 Theo Kiefner inizia la publicazione (in lingua tedesca) di una parte di alcuni ma- noscritti dall'archivio Jean Jalla. Si tratta di una copia degli atti del concistoro di Fenestrelle dal 1628 fino al 1663 e di una storia famigliare di Jean Blanc, segretario di questo concistoro. Per evitare malintesi: Kiefner non pubblica in traduzione i documenti originali appena leggibili »), ma le trascrizioni di Jean Jalla. Nel numero 17 infine Kiefner una recensione molto critica dell'articolo di Herbert Ma as, Warum die Kartoffel im Raum von Niirnberg und Erlangen Potacke heisst, in: « Erlanger Bausteine zur frànkischcn Hcimatforschung », 29 (1991), pp. 227- 247. Giustamente Kiefner rimprovera all'autore di ripetere alcune leggende attorno all'introduzione delle patate in Germania da parte dei Valdesi. Kiefner rinuncia a queste leggende, ma sembra convinto che gli « ugonotti » (Kiefner non li considera valdesi) Antoine Seignoret di Wurmberg e Enrico Arnaud veramente abbiano introdotto le patate nel Wiirttemberg.

Albert de Lance

Fredric Hartweg e Steffi Jersch-Wenzel (eds.). Die Hugenotten und das Refuge: Deutschland und Europa. Beitrage zu einer Tagung (Einzelvcroffentlichungen der Historischen Kommission zu Berlin, Band 74), Colloquium Verlag, Berlin 1990.

In questo libro collcttanco, che contiene gli atti di un convegno tenuto nel settembre 1985 a Berlino, si trovano due relazioni che riguardano la storia valdese. In primo luogo si tratta del con- tributo di Theo Kiefner, Die Waldenser (pp. 165-177). Il titolo non è molto adeguato. In realtà l'articolo descrive specialmente l'insediamento, nel 1699, dei Valdesi della vai Perosa e della vai Pragelato nel Wiirttemberg (pp. 167-168; 169-173) e poi il loro inserimento nella chiesa luterana del Wiirttemberg durante l'Ottocento (pp. 173-175). Per Kiefner non c'è nessun dubbio che si possa distinguere, oltre ai Valdesi piemontesi (o « sabaudi », come egli preferisce definirli), anche i Valdesi delfinatesi (cioè quelli della vai Pragelato) e gli Ugonotti delfinatesi (per es. quelli del Queyras, insediati a Wurmberg, o la persona stessa di Henri Arnaud). Kiefner sostiene però che dal punto di vista religioso non vi era alcuna differenza tra questi tre gruppi: tutti e tre erano « calvinisti ». Una volta arrivati in Germania, i rifugiati della vai Pragelato e della vai Perosa preferivano definirsi valdesi, con lo scopo di distinguersi dagli altri riformati francesi o ugonotti (cfr. Kiefner, p. 165).

Il secondo contributo ò quello di Gabriel AuDisio, Migrations vaudoises (p. 179-185). Anche qui il titolo risulta poco adeguato, perche l'autore si limita principalmente al periodo successivo alla Revoca dell'Editto di Nantes. Audisio si interessa specialmente al problema dell'identità val- dese in questi anni di dispersione. Sulla base di lettere scritte nel 1685/86 dall'Intendente del Dclfinalo, Lcbrct, il Nostro mostra che le autorità francesi non consideravano i Valdesi della vai Pragelato come un gruppo con un carattere religioso specifico, ma come parte della massa dei « calvinisti », degli aderenti alla « Religione Pretesa Riformata » in Francia. Audisio riconosce però, referendosi a Kiefner, che una volta arrivati in Germania i pragelalesi sostennero di voler

SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE

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essere « buoni Valdesi » come i loro padri. Che cosa però significava concretamente questa iden- tità cosiddetta « valdese »? Non si può trovarla in una loro vita religiosa particolare, perchè i pragelatesi erano riformati come tutti gli altri Ugonotti rifugiati del Sud della Francia. Dunque: « La recherche de critères d'identité vaudoise s'avère indispensable » (p. 185). Invano, però, si cercherebbe un'abbozzo di risposta nel saggio di Audisio. Esso suggerisce soltanto una pista di ricerca, cioè uno studio socio-culturale sulle lingue utilizzate nelle colonie valdesi e sulla loro politica matrimoniale. « Il est vraisemblable toutefois qu'ici [en Allemagne], comme en France, ce qui fut sauvegardé de l'héritage vaudois ce ne fut pas tant des traits religieux - ils étaient des Huguenots - que des caractères socio-culturels comme la langue » (p. 185).

Albert de Lange

Barbara Dlemeyer, Die « reformierte iMndeskirche » in der Landgrafschaft Hessen-Homburg. Zur Rechtsgeschichîe der franzôsisch-reformierîen Gemeinden (Milteilungen des Vereins fur Geschichte und Landeskunde zu Bad Homburg vor der Hhe, Heft 40), Bad Homburg vor der Hhe 1991.

In quest'opuscolo l'Autrice studia la fondazione delle colonie ugonotte e valdesi e della chiesa riformata nel langraviato dell'Assia-Homburg nel quadro delle « eterne » liti giuridiche tra la casata dell'Assia-Homburg e quella dell'Assia-Darmstadt. Interessanti per la storia valdese sono piuttosto le pagine dedicate alla colonia valdese di Dornholzhausen e al suo primo pastore David Jordan. L'autrice pubblica un manoscritto del pastore Jean-Christophe Roques degli anni 1759-1768, in cui viene descritta la storia dell'introduzione del culto riformato nel langraviato. Per Roques i Valdesi di Dornholzhausen (che egli erroneamente considera di origine piemontese) sono chiaramente un gruppo distinto dagli Ugonotti: la loro fede è una « dem Papsttum entgegen- gesetzte und seit viclcn Jahrhundcrten unvcrfiilscht bcwahrte mit den Reformicrten hereinkom- mende Glaube » (p. 16). I Valdesi si distinguono dunque non tanto per il contenuto della loro fede (che è anti-cattolica e riformata), ma per il fatto che avevano avuto già convinzioni riformate secoli prima della Riforma e che le conservarono sempre in modo puro. Nella coscienza dei Valdesi dopo la Riforma, di essere stati « riformati prima della Riforma », si trova, a mio avviso, anche un motivo religioso per la continuità dell'identità valdese in Germania.

Albert de Lange

Costituzione di un gruppo di lavoro della Deutsche Waldenservereinigung.

Nel 1991 la Deutsche Waldenservereinigung ha preso l'iniziativa della costituzione di un gruppo di lavoro per lo studio della storia dei Valdesi in Germania. Coordinatore è Albert de Lange. Il gruppo vorrebbe rilanciare l'interesse per la storia nella Deutsche Waldenservereinigung. Per questo si prevedono la pubblicazione di opuscoli storici divulgativi e l'organizzazione di giornale storiche. La prima giornata storica è prevista per il 1995 e dovrebbe

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SEGNALAZIONI BIBLIOGRAHCHE

occuparsi degli storici valdesi in Germania, come per esempio F. von Moser, J. J. Herzog, F. Bender, K. H. Klaiber e D. Bonin. Speriamo di poter comunicare un programma completo nel corso del 1993.

AdL

Giovanni Antonio Colangelo, // movimento evangelico in Lucania tra il 1920 e il 1958, Romeo Porfirio editore, Molitemo - Napoli 1989, pp. 95, £. 15.000.

Accurata ricostruzione della nascita e dello sviluppo delle comunità salutiste di Atena Lu- cana, Braide e Brienza, adiacenti anche se amministrativamente separate (Atena Lucana rientra nella provincia di Salerno, Braide è una frazione di Brienza, che fa capo alla provincia di Po- tenza). Comunità nate dalla predicazione di Francesco Gaimari (convertitosi nel 1917 negli Stati Uniti) e cresciute con alterne vicende grazie all' attività di diversi ufficiali dell'Esercito della sal- vezza, in particolare Elena Sibille, Leone Calzi e Antonio Longo. 11 volumetto si segnala anche per l'attenta descrizione della vita dei contadini della zona, per la discussione e presentazione delle fonti per lo studio deirev,angclizzazione meridionale e per il piccolo, ma utile corredo di fotografie. 11 tono non è mai agiografico, le crisi delle comunità sono ricordate coi» c^erietà. Inte- ressanti anche le note sulla collaborazione tra l'Esercito della salvezza e le sezioni comuniste lo- cali negli anni '50, sulla modernizzazione sociale e culturale portata dalla penetrazione evangelica e sulla capacità di reazione del clero cattolico su diversi piani: minacce e repressione tradizionali, sviluppo della presenza (nuovi templi, parrocchie e iniziative sociali), rinnovamento della predicazione e della catechesi. In complesso la storia di una piccola comunità evangelica, da indicare come modello a quanti hanno a cuore lo studio e la testimonianza della diffusione articolata della evangelizzazione.

Giorgio Rochat

Giovanni Antonio Colangelo, La costruzione di un tempio metodista wesleyano a Salerno ne- gli anni venti, « Rassegna storica salernitana », n. 13 (senza indicazione di data), pp. 241- 255.

Con un'attenta utilizzazione dell'archivio della chiesa metodista e dell'archivio diocesano di Salerno, l'autore ricostruisce i tentativi del pastore Roberto Rosa per la costruzione di un tempio melodista a Salerno nel 1928 e la mobilitazione del clero cattolico per impedire quella che era av- vertita come « un' onta » immeritata. La documentazione si integra bene con quella della dire- zione centrale della polizia, presentata nel mio volume Regime fascista e chiese evangeliche, pp. 73-74. Grazie all'intervento presso Mussolini di padre Tacchi Venturi (negoziatore per il Vati- cano dei Patti lalcrancnsi), la costruzione del tempio fu bloccata e le autorità locali, senza avere il coraggio di annunciare a Rosa la decisione del duce, presero tempo con una serie di risibili prete- sti, poi espropriarono il terreno melodista. Una vicenda di « ordinaria normalità » nell'Italia fa- scista.

Giorgio Rochat

SEGNALAZIONI BIBLIOGRARCHE

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AA.VV., La France protestante, histoire et lieux de mémoire, sous la direction de Henri Dubief et Jacques Poujol, Max Chaleil, Montpellier 1992, pp. 444.

Il volume è frutto di una iniziativa nata nel quadro del primo convegno dei musei protestanti nel 1986 e destinata a rispondere a esigenze e programmi di lavoro sorti in quella sede. Due es- senzialmente sono gli scopi: formare e creare informazione destinata al pubblico sempre più nu- meroso che si avvicenda nei luoghi della memoria storica del Protestantesimo, come in tutti i luoghi di memoria, musei, santuari, mostre; contribuire alla formazione della coscienza di una identità delle nuove generazioni protestanti, sempre meno consapevoli del patrimonio della propria comunità. Patrocinato dal settimanale «Réforme», il progetto prevede in un primo tempo la pubblicazione di un opuscolo informativo sulla storia del Protestantesimo, ma si amplia nel corso del tempo e giunge a termine con la pubblicazione del presente volume, che corrisponde pienamente alle attese e al progetto. Riccamente illustrato, redatto da competenti con uno stile di ottimo livello, divulgativo ma di notevole informazione, il volume è diviso in due parti. La prima, in 5 capitoli corrispondenti ai secoli XVI-XX, ripercorre le vicende del Protestantesimo francese fino all'età contemporanea; la seconda parte, più ampia, riprende il materiale e lo completa sotto l'ottica geografica. Partendo dalla capitale e percorrendo via via le province si ritrovano eventi, incontri, personaggi, si scoprono luoghi, si tesse insomma la fitta rete della vicenda ugonotta su percorsi che possono diventare persino itinerari turistici. Perchè non tentare alcunché di simile da noi? La bella e documentata brochure edita dagli evangelici fiorentini alcuni anni or sono, la monumentale opera di Caponetto sulla Riforma del XVI secolo italiano, sono due riferimenti esemplari. Varrebbe la pena di pensarci un istante per rispondere anche noi alle due esigenze dei fratelli francesi: informare e formare.

Giorgio Tourn

Pier Francesco Bellinello, Mmora/ìze etniche nel Sud, Editoriale Bios, Cosenza 1991, pp. 1 12, diagrammi e cartine n.t. e due grandi carte f.t.

In questo suo lavoro, Bellinello si propone l'analisi, limitatamente alla presenza di alloglotti nell'Italia meridionale, degli « aspetti più caratteristici di ogni etnia: l'origine storica, lo sviluppo demografico e la consistenza linguistica, la conservazione della propria identità etnica, l'unità culturale e l'ergologia ». Le minoranze prese in esame sono « gli Albanesi, i Greci di Calabria e della penisola Salentina, i Serbo-Croati del Molise, gli Occitano- Valdesi di Calabria e la nomade comunità degli Zingari », nonché le colonie gallo-italiche della Sicilia. Sull'argomento, B. era già intervenuto in un articolo dal titolo: Le minoranze etniche e linguistiche in Calabria, (in: « Studi e Ricerche di Geografia », XII, fase. I, 1989, 69-77). Si tratta di un lavoro che per certi aspetti, come l'impegno profuso nella ricerca dei dati sulla consistenza demografica e linguistica delle comunità investigate, sarebbe meritevole, ma che lascia piuttosto perplessi per la sua approssima- zione, persino grammaticale. Delego ad altri, più competenti in materia, il compito di valutare le analisi relative alle altre minoranze. Ci vogliamo fermare qui un istante a esaminare - per giustificare il giudizio appena espresso - quanto B. scrive (pp. 102 e sgg.) sulle colonie Calabro-

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SEGNALAZIONI BIBLIOGRAHCHE

valdesi. E comincio con il rilevare, scorrendo queste pagine, che gli occitani in Calabria non mi risultano essere « attualmente presenti » (p. 102) a San Sisto (non Sisto, come riportano le due carte f.t.) e a San Vincenzo la Costa; ma solo a Guardia, dove sembra che venisse concentrato un buon numero degli scampati alle stragi del 1561 per essere sottoposti a stretta sorveglianza da parte del clero cattolico. Su San Vincenzo, in realtà, B. si ricrede (p. 105 e cartina f.t.) e non fornisce poi, nella tabella apposita (datata 1988), alcun dato numerico; ma per San Sisto sono indicati 238 « abitanti che parlano la madre lingua », cioè quasi il 15%, mentre un controllo effettuato sul posto nel settembre di quest'anno, sia a San Vincenzo sia a San Sisto, ha confermato quanto mi constava e cioè che la pariata vi è completamente estinta e sconosciuta. Su quali informazioni si basano i dati che B. ci propone?

Va poi detto che dalla data della repressione - son più di quattrocento anni - gli occitani di Calabria non « professano » (p. 102) piti, perche ne sono stati impediti, il Valdismo. Correttamente, nell'altro suo lavoro appena citato, B. osservava che la loro religione « fu definitivamente repressa con il genocidio »; e nel libro stesso (p.l05) si accenna al « divieto assoluto » fatto ai coloni « di professare il Valdismo ». E va ancora rilevato che questa « religione » non è un movimento « sorto verso la fine del secolo XII in Provenza », ma a Lione,' dove operavano quei « Poveri » che vengono richiamali del tutto fuori luogo e in modo confuso - come confuse del resto sono tutte le notizie storiche qui fornite - nella nota 2 di p. 102. Gli « impervi monti del Piemonte » sui quali trovarono rifugio i Valdesi dalle « pianure della Francia meridionale » non comprendono « Valloise [Vallouise!] e Argentiere », che si trovano sul versante opposto delle Alpi. Presentare poi, nel conlesto generale della storia valdese, l'eccidio di Montalto Uffugo (l'ottantina di sgozzali sulla scalinata della chiesa) come « storico » (p. 102), che significa? Che gli altri, sempre « in difesa della giusta religione » (ibid.), non lo sono? II « rapporto da Montalto Uffugo del 27 giugno 1567 », che descrive un altro massacro di Calabro- Valdesi, quello degli 86 guardioli che, « scorticali vivi, e poi fenduti in due parti furono a questo modo attaccali a pali piantati per tal uopo lungo la strada per la lunghezza di trentasei miglia » (riporto qui il brano riferito da B., in quanto nella sua citazione, a p. 104, nota 4, è mutilo e scorretto) - è in realtà del 1561, ò cioè contemporaneo e, come gli altri spediti allora da Montalto, di mano di un testimone oculare ^

Come spiega B. o, per meglio dire, perche non ci spiega se sono « Occitano- Valdesi » i coloni che si insediarono in Calabria e anche in Puglia, perché qui abbiamo una parlata « non occitanica, ma francoprovcnzale » (p. 103)?^ Donde viene la notizia che i Calabro-Valdesi scesero nel Meridione « a partire dal 1269 fino al 1447 » (p.l02; ma a p. 103 si parla di 1370)? Che cosa lo avrebbe impedito, dopo, per almeno un secolo? O non confonde forse B. questo termine ad quem con il 1477, data in cui ebbero luogo i due soli viaggi per mare verso le colonie di cui ci resta precisa documentazione scritta? ^

^ Cfr. Luigi Amabile, // Santo Officio della Inquisizione in Napoli. Narrazione con molti do- cumenti inediti. Città di Castello 1892, 249-250.

^ Cfr., tra i vari interventi di Jean Gonnet sull'argomento. Provenzali e franco-provenzali in Daunia: riflessioni su alcune ipotesi di lavoro, in: « Novel Temp », 24-25, Sampeyre (CN) 1985, 29-35 (e bibliografia ivi citala).

^ Cfr., A. Genre, A proposito degli studi sulla parlata e l'origine dei Calabro-Valdesi, in: « BALI », 8-10, 1984, Postilla alla p. 23; e ora la documentazione completa, in originale e in tra- duzione italiana, in A. Genre (a cura di), Naulisamentum Navigli pro Valdensibus, in: « Novel Temp », 39, Sampeyre (CN), 8-26.

SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE

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Sarebbe anche interessante conoscere i criteri di calcolo che stanno a monte dei dati numerici relativi agli abitanti di Guardia, 1459, e agli occitanofoni, 1263 (cioè 1*86,5%), riferiti al 1988. La prima cifra sembrerebbe in effetti riferirsi alla popolazione dell'intero Comune, che comprende anche la Marina, dove vivono alcune famiglie originarie, o nelle quali uno dei coniugi è originario, di Guardia Paese, ma dove i figli parlano calabrese; ma non è chiaro come si sia giunti al computo della seconda. In ogni caso, la popolazione dell'intero Comune (Paese, Marina e case sparse) ammonta, secondo i dati dell'ultimo censimento fornitimi dal Municipio, a 1605 abitanti; e un controllo da me effettuato a Guardia Paese, strada per strada e famiglia per famiglia, nell'aprile del 1990, con l'aiuto di ricercatori locali, ha dato questi risultati: 449 abitanti, di cui 341 (76%) occitanofoni e 108 no (o con competenza solo passiva, in quanto provenienti, attraverso matrimoni, ecc., dalle località vicine di Cetraro, Acquappesa, ecc.). A questi vanno aggiunti una cinquantina di occitanofoni della Marina, che però, isolati dalla loro comunità d'origine, hanno scarse occasioni di servirsi delia loro parlata e nessuna probabilità di trasmetterla ai discendenti. Non è inoltre corretto affermare che « l'idioma è parlato in prevalenza da persone anziane », in quanto quel 76% comprende, come chiunque può verificare, tutte le fasce d'età. Si potrà semmai dire che nell'occitano dei più giovani la parlata delle comunità linguistiche circostanti ha provocato danni più vistosi, così come avviene del resto per l'occitano delle aree d'origine. Nel suo articolo del 1989, B. parlava poi di comunanza di lingua tra gli abitanti di Guardia e i Valdesi del Piemonte, mentre nel libro afferma che il dialetto di entrambi « dovrebbe essere simile, ma non lo è ».

Circa il costume tradizionale femminile, B. scrive che le sue « caratteristiche, coniugate con l'acconciatura dei capelli, si riscontrerebbero non solo nelle classiche [?] valli del Pellice, della Germanasca e del Chisone, ma anche in quelle saluzzesi e persino in Val d'Aosta a Cogne » (p. 105) e rimanda, con una nota, a uno dei miei scritti sulla questione guardiola nel quale dimostro esattamente il contrario. E così via, fino a dire che il guardiolo « è una lingua orale, dal momento che non esistono norme grammaticali » (ibid.).

Insomma, chi aprirà il libro di B. con l'intento di informarsi sulle colonie calabrovaldesi di ieri e di oggi e, indirettamente, sui Valdesi, sulle ragioni storiche della loro presenza e nei luoghi d'origine, ne uscirà frastornato e con le idee a dir poco confuse. Un vero peccato, perché è andata persa l'occasione per fare il punto su questa interessante realtà storico-linguistica, sintetizzando le importanti conclusioni che sono emerse dai più recenti studi.

Arturo Genre

Osvaldo Coisson et Alberto Santacroce, Index Analitique des dix-neuf premiers Bulletins d'études préhistoriques alpines (1968 - 1987), Société Valdôtaine de Préhistoire et d'Archéologie, Aoste 1990 [ma 1991].

Il nostro presidente onorario, Osvaldo Coïsson, non ci onora soltanto con la sua presenza e con la sua attenzione, e con i suoi lavori eruditi o creativi sul mondo valdese e sull'area occitana. L'opera sua varca monti e valli e si manifesta propizia per quella Valle d'Aosta che Rollier, con lui ai tempi di GL, abbinava a "queste valli" nelle sue proposte d'autonomia non solo culturale. Un prestigioso lavoro erudito, questo Index, tanto erudito da risultare creativo.

Augusto Comba

A. Genre, A proposito degli studi sulla parlata e l'origine dei Calabro-Valdesi, in: « Bollettino dell'Atlante Linguistico Italiano », 8-10, Torino 1984-86, 5-25.

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