BX
4878 .B64 no. 184-
LIBRARY OF PRINCETON — J
NOV 2 2 2000
THEOLOGICAL SEMINARY
PER BX4878 .B64 no. 184-185
J
Bollettino della Society di studi valdesi.
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N. 185
LIBRARY Of PRINCETON
SEP - p 2000
Dicembre 1999
BOLLETTINO
DELLA
SOCIETÀ DI STVDI VALDESI
ANNO CXVI CLAUDIANA
BOLLETTINO DELLA
SOCIETÀ DI STUDI VALDESI
Rivista di studi e ricerche concernenti il Valdismo e i movimenti di riforma religiosa in Italia.
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N. 185 Dicembre 1999
BOLLETTINO
DELLA
SOCIETÀ DI STVDI VALDESI
CLAUDIANA
Riforma e ragion di Stato. Gruppi e forme di vita religiosa nel Cuneese fra Cinque e Seicento *
1 1 . Premessa.
Diversi nodi della storia piemontese in età moderna restano da sciogliere. Ancora troppo poco si sa, per esempio, del periodo dell'occupazione francese (1536-1562)1, al punto che, tradizionalmente, l'età moderna in Piemonte si fa slit- tare di oltre un cinquantennio, a partire dalla pace di Cateau Cambrésis. Grosse la- cune si hanno anche in relazione agli anni della guerra civile (1638-1642), di cui è stata data un'interpretazione dinastico-familiare senza che, a tutt'oggi, si conosca approfonditamente, nel medio e nel lungo periodo, lo sviluppo dei rapporti di forza che entrarono in gioco tra i ceti dirigenti al centro e nella periferia dello Stato2. Grosso limite della storiografia dedicata ai territori sabaudi in età moderna è. d'al- tro canto, quello di non disporre di aggiornati studi sulle realtà locali. In un certo senso, il Piemonte, rispetto ad altri Stati regionali, sta pagando le conseguenze e il peso di miti fondanti che ne hanno uniformato l'immagine a scapito delle diversità interne. Le interpretazioni ottocentesche, nella loro doppia versione sabaudista e nazional-popolare, coniugarono, infatti, l'idea della peculiarità sabauda con quella del primato, restituendo del Piemonte non tanto la storia di un'entità geografica che si era costruita nei secoli, anche attraverso difficili momenti di integrazione, quanto
* Questo saggio costituisce l'anticipazione di uno studio più ampio, dedicato alla storia della città e del distretto di Cuneo, la cui pubblicazione, ormai prossima, ha subito un ritardo legato a ragioni burocratico-editoriali del tutto estrinseche al progetto iniziale: P. Bianchi e A. MERLOTTI. Cuneo in età moderna. Una città piemontese d'antico regime.
1 I saggi più aggiornati sono quelli di Pierpaolo MERLIN, Torino durante l'occupazione francese, e di Gianni MOMBELLO. Lingua e cultura francese durante l'occupazione, in Storia di Torino, v. Ili, Dalla dominazione francese alla ricomposizione dello Stato (1536-1630). a cura di G. Ricuperati. Torino. 1998. pp. 7-55, 59-106. oltre a P. MERLIN, // Cinquecento, in P. MERLIN. C. ROSSO. G. SYMCOX. G. RICUPERATI. // Piemonte sabaudo. Stalo e territori in età moderna. Torino. 1994. pp. 3-51. e ID.. Emanuele Filiberto. Un principe tra il Piemonte e l'Europa. To- rino, 1995, pp. 3-77.
: All'ancora indispensabile, anche se datato, G. QUAZZA, Guerra civile in Piemonte. 1637- 1642 (nuove ricerche). «Bollettino storico bibliografico subalpino» (d'ora in poi BSBS). 1959, pp. 281-321. 1960. pp. 5-63, vanno confrontate le pagine, assai più problematiche, di Claudio Rosso, // Seicento, in // Piemonte sabaudo cit., pp. 236-242. Sulle vicende cuneesi. rinvierei a quanto ho scritto in P. BIANCHI e A. MERLOTTI, Cuneo in età moderna cit.
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PAOLA BIANCHI
l'immagine di uno Stato fondato su una precoce cultura nazionale, su una profonda vocazione etnica e patriottica3.
Lo studio della dimensione religiosa è sicuramente stato condizionato da questo scarso interesse per una lettura contestuale e comparativa che sappia andare al di là del Torino-centrismo o, viceversa, dei particolarismi e dell'erudizione lo- cale, per cogliere invece, nel medio e nel lungo periodo, dinamiche, tempi e modi della vita confessionale. La recente indagine di Angelo Torre sul "consumo di de- vozioni" in antico regime nelle diocesi di Asti, Alba e Mondovì ha offerto un esempio di incrocio della prospettiva microstorica con le suggestioni sociologiche e antropologiche della network analysis* che può aprire interessanti e nuovi percorsi di ricerca. Ma la strada da compiere, in tal senso, per coprire gli altri spazi piemontesi, a non volersi misurare con l'insieme dei territori sabaudi, assai più ar- ticolato, è ancora lunga. Lo scopo di questo mio saggio, nato in margine a uno stu- dio dedicato al ruolo della città di Cuneo nello Stato sabaudo tra Cinque e Seicento, è quello di fornire non più che alcune coordinate di tipo socio-istituzionale sul rap- porto tra ortodossia religiosa e movimenti protestanti in un'area di confine. Non lontano dalle valli Valdesi, toccato da scambi di natura economica, demografica e culturale con gruppi di ugonotti francesi, tra la fine del XVI e l'inizio del XVII se- colo il Cuneese fu teatro di una commistione di pratiche religiose che segnarono sensibilmente gli equilibri tra centro e periferia del ducato. Tentare di analizzarne le forme può aiutare a far luce sulle vie di comunicazione tra gruppi eterodossi di paesi diversi e, in particolare, su un sottobosco di vita religiosa più ricco di quanto non emerga da una convenzionale contrapposizione tra Piemonte cattolico e Pie- monte valdese.
2. Gli spazi del clero.
Nel Cinquecento la presenza del clero a Cuneo poteva contare su un tessuto istituzionale alquanto esiguo: tre sole parrocchie urbane (Santa Maria del Bosco5,
3 Cfr. U. LEVRA, Fare gli italiani. Memoria e celebrazione del Risorgimento. Torino, 1992. e G.P. ROMAGNANI, Storiografìa e politica culturale nel Piemonte di Carlo Alberto. Torino, 1985.
4 A. TORRE, // consumo di devozioni. Religione e comunità nelle campagne dell' Ancien Ré- gime. Venezia, 1995. Sulla network analysis cfr. S. CEROTTI, Mestieri e privilegi. Nascita delle corporazioni a Torino. Secoli XVII-XVIII, Torino, 1992.
5 La chiesa, che divenne sede della collegiata a partire dal 1643, sarebbe stata riedificata nel 1658 con il concorso delle casse comunali e di fondi ducali (1.000 lire d'argento, attinte al "donativo" pagato dalle comunità dello Stato). Cfr. Archivio di Stato di Torino (d'ora in poi A.S.T.). Camerale, Patenti Controllo Finanze, reg. 1658, f. 29 (19.11.1658). Sulla sua trasforma- zione, nell'Ottocento, in chiesa cattedrale cfr. // duomo di Cuneo. Santa Maria del Bosco da priorato benedettino a cattedrale, a cura di G.M. Gazzola, Cuneo, s. a. [1992].
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Santa Maria della Pieve6 e Sant'Ambrogio7) e una parrocchia nel "finaggio" (al di fuori della cinta muraria: la parrocchia della Spinetta) dipendenti dalla diocesi di Mondovì8. Istituita nel 1388, la diocesi monregalese aveva inglobato quella por- zione della diocesi di Asti che si trovava lontano dal corpo centrale (le comunità comprese fra Tanaro e Stura, oltre a Bastia, Ciglié e Roccaciglié), includendo anche Cuneo, la valle Gesso (con l'abbazia di Borgo San Dalmazzo) e la valle Ver- menagna (fino a Robilante). Le diocesi erette successivamente - Saluzzo (1511) e Fossano (1592) - ritagliarono i contorni delle preesistenti circoscrizioni, senza però modificare la posizione della città di Cuneo, che avrebbe continuato, per oltre quattro secoli, fino al 1817, a dipendere di fatto dal vescovo di Mondovì, a dispetto dei tentativi compiuti per potenziare altre zone come sedi di vescovati.
Già Emanuele Filiberto, intorno al 1560, aveva pensato di far erigere due nuove diocesi, Cuneo e Chambéry, per creare un baluardo al diffondersi dell'eresia protestante. Ma l'idea era stata bloccata al suo nascere: contro la candidatura di Cuneo era bastata l'energica opposizione del vescovo di Mondovì, che non inten- deva in alcun modo rinunciare a parte della propria antica giurisdizione9. Ancora più in là avrebbe voluto spingersi Carlo Emanuele I, seguendo due precise linee politiche: far coincidere le diocesi con la risistemazione delle province (una ten- denza che solo nel Settecento avrebbe avuto piena realizzazione) e sottrane terre e sudditi sabaudi a diocesi dipendenti da sovrani stranieri. Di qui da un lato la propo- sta di istituire sei nuovi vescovati, cinque dei quali coincidenti con le province di recente istituzione (Ceva, accanto a Cuneo, Pinerolo, Susa, Biella e Savigliano), dall'altro lato il disegno di riconoscere come sede metropolitana, oltre che come diocesi, Chambéry (da cui far dipendere Ginevra, Nizza e Thonon) e soltanto come
6 In seguito alla soppressione della Compagnia di Gesù (1773) e all'avvio di lavori di am- pliamento delle fortificazioni cuneesi, la chiesa di Santa Maria della Pieve sarebbe stata abbattuta e infine trasferita nei locali già occupati dai gesuiti (1775). C. FRESIA, Memorie sparse di vita cuneese. Torino. 1930, pp. 64-66.
7 Rasa al suolo in occasione della costruzione della cittadella voluta da Emanuele Filiberto, la chiesa di Sant'Ambrogio fu trasferita fra il 1567 e il 1599 nel sito attuale, e qui infine rico- struita, a partire dal 1710, ad opera dell'architetto monregalese Francesco Gallo. Cfr. F. GABOTTO, Storia di Cuneo. Dalle origini ai giorni nostri. Cuneo, 1898, ed. anast. Cuneo, 1973, pp. 185-186; M. SASSONE, La decorazione delle chiese di Cuneo nel Settecento, «Bollettino della Società per gli studi storici, archeologici ed artistici della provincia di Cuneo» (d'ora in poi BSC), 1993, II semestre, p. 79.
8 Dopo la peste del 1630, per decreto del vescovo di Mondovì Antonio Ripa, si sarebbe ag- giunta, extra mocnia, in dipendenza sempre della diocesi monregalese, la parrocchia di Castagna- retta (1633), dedicata, a titolo di voto, a San Rocco. C. FRESIA, Memorie sparse di vita cuneese. Torino, 1930, pp. 60-61. Sui ritardi nella creazione di un'efficace struttura parrocchiale nel pe- riodo post-tridentino, ritardi da ricondursi, forse più che non a carenze delle istituzioni ecclesia- stiche, al processo di «frammentazione del corpo sociale e di irrigidimento nei rapporti reciproci tra i vari segmenti di esso» si veda R. RUSCONI, Confraternite, compagnie e devozioni, in Storia d'Italia, Annali, IX, La Chiesa e il potere politico, a cura di G. Chittolini e G. Miccoli, Torino, 1986, pp. 488-501.
9 M F. MELLANO, Im Controriforma nella diocesi di Mondovì (1560-1602), Torino, 1955, pp. 20-21.
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diocesi Barcelonette (sotto la quale riunire le parrocchie del Nizzardo che facevano capo a Embrun e a Vences) e Sospello (aggregandole le parrocchie nizzarde che erano invece legate a Ventimiglia e a Glandèves)10. L'ambizioso progetto di Carlo Emanuele era stato ispirato dal vescovo di Fossano Agapino Solaro, che nel 1622, lo stesso anno in cui lo Stato veniva diviso in 12 "tappe", scriveva al duca: «è [...] utile perché di tanti vescovi qualcuno ne riuscirà, con i favori et aiuti suoi, cardi- nale et forse papa, la qual cosa apporterebbe utile grande e riputazione al Stato et a Vostra Altezza ancora». «I luoghi - proseguiva Solaro - sono Cuneo, Pinerolo. Susa per la vicinanza con le valli infette [...]. Ceva per esser capo d'un marchesato, et perché quasi tutti gl'altri marchesati dei sette antichi hanno la villa capitale eretta in vescovato, et torna anche bene per liberarla con l'altre del suo mandamento dal dominio spirituale del vescovo d'Alba" [...]. Biella per esser piena di nobiltà et di fattioni, et per esser anche confinante, con personaggi poco ben affetti. Savigliano per esser nel centro del Piemonte, ricco di finaggio, pieno di nobiltà, abbondante di ogni cosa necessaria al vitto et copioso di soggetti attissimi alla guerra et alla pace»12. Ma, anche in questo caso, il piano non ebbe alcun seguito.
Il tentativo stesso di ridisegnare la rete parrocchiale urbana aveva ottenuto un nulla di fatto, nonostante il vescovo di Mondovì Giovanni Antonio Castruccio avesse fatto pubblicare sin dal 1596 un ordine di riunione delle tre parrocchie cu- neesi in una sola con la soppressione di Santa Maria delle Pieve e di Sant'Ambro- gio. «È credibile che ne sia stata impedita l'esecuzione per i richiami fatti alla real corte da' parrocchiani della Pieve e di Sant'Ambrogio, che si saranno stimati ag- gravati da una tale unione, per cui venivano molti a rimanere troppo lontani dalla parrocchiale» commentava, ormai in pieno Settecento, il vescovo Michele Casati, ritornando, a oltre un secolo e mezzo di distanza, sulla questione della scarsa utilità della parrocchia della Pieve: «Queste querele - scriveva Casati - non sembra che possano aver luogo nel presente caso, poiché resterebbero due parrocchie poste a due capi della città e però comode a tutti e assai capaci per tutte le funzioni»13. A frenare i piani di riorganizzazione degli spazi religiosi, in realtà, erano stati a Cu- neo non solo il disaccordo fra i parrocchiani, ma le contese fra i corpi ecclesiastici, fenomeno assai diffuso nelle città d'antico regime, particolarmente in quelle ita-
10 A. ERBA, La chiesa sabauda fra Cinque e Seicento. Ortodossia tridentina, gallicanesimo savoiardo e assolutismo ducale (1580-1630). Roma, 1979, pp. 30-32.
11 Alba era allora, e lo sarebbe stata sino al 1631. sotto il ducato di Monferrato.
12 Proposizioni fatte a Sua Altezza Reale dal cavalier di Moretta per l'erezione de vescovadi in Cuneo, Pinerolo, Susa, Ceva, Biella, Savigliano (1622), A.S.T., Corte. Materie ecclesiastiche, cat. 2, Materia benefiziarla, fase. 7.
13 Rappresentanza del vescovo di Mondovì ad effetto di ottener il regio beneplacito per la suppressione della parrocchiale della Pieve ed unione di questa alle altre due, per l'erezione di un seminario in detta città e per l'ingrandimento dell'oratorio del Borgo delle basse di Stura (1757-1758), ivi, Corte, Materie ecclesiastiche. Vescovadi, Mondovì, mz. 1, fase. 12.
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liane14. Ne erano una tipica espressione i contrasti che nascevano a proposito dei cerimoniali, che a Cuneo riesplosero non a caso quando, nel 1643. il vescovo di Mondovì Maurizio Solaio (1643-1655) approvò la creazione di una collegiata.
Originariamente composta di tre canonici, con a capo il parroco della chiesa di Santa Maria del Bosco, la collegiata di Cuneo sopravvisse col sostegno di lasciti privati, senza essere di fatto approvata dal pontefice che nel 1703, «ad instanza di monsignor vescovo Isnardi e de' canonici che, conoscendo l'inconsistenza della prima erezione, ne riportarono bolle d'erezione apostolica da Sua Santità Clemente XI»15. «Non può sapersi il tempo della sua fondazione» avrebbe scritto nel 1782 da Cuneo l'intendente Leprotti, classificando la collegiata di Santa Maria del Bosco tra i benefici «di collazione di Roma» (e quindi considerando valida, in ultima istanza, l'autorizzazione che ne aveva dato il papa all'aprirsi del XVIII secolo), ma lasciando nel vago la questione dell'istituzione secentesca e dei patronati laici che ne avevano incrementato il patrimonio16. La città di Cuneo non godeva del diritto di assegnare benefici, ma aveva in compenso assistito, proprio negli anni della prima creazione della collegiata, sullo sfondo di frizioni irrisolte tra diversi ordini di autorità ecclesiastiche (quando il potere ducale non aveva ancora sviluppato strategie precise per regolamentare in termini giurisdizionali le materie beneficia- rie, come sarebbe stato invece a partire dal Settecento17), a una discreta fioritura di iniziative individuali18. Creando nel 1646 tre prebende a favore della collegiata della Madonna del Bosco, il medico cuneese Carlo Bonada intendeva contribuire a tacitare la discordia alimentata dai canonici delle tre parrocchie «circa la prece- denza nelle processioni»; per questo egli donava agli stessi canonici, in parti uguali, un paio di cascine e un "Chiabotto" nei pressi di Centallo, chiedendo in
14 Cfr. P. BOURDIEU, Les rites comme actes d'institution, «Actes de la recherche en science sociales», XLII1, 1982, pp. 58-63; A. TORRE. // consumo di devozioni cit., pp. 13, 51. Che ancora nel pieno Settecento le discordie tra il capitolo della collegiata di Santa Maria del Bosco e le altre due parrocchie fossero vive è documentato da una lettera inviata a Torino dal vescovo di Mon- dovì il 29. IV. 1761, A. ST., Corte, Materie ecclesiastiche. Benefici di qua dai monti, mz. 14, fase. 13.
15 Relazione del principio e progresso eh 'ebbe la Colleggiata di Cuneo (1708), ivi, fase. 12. Prima dell'erezione in collegiata. Santa Maria del Bosco era un priorato parrocchiale. Si sa che nel 1589 il priorato era stato assegnato con bolle papali al prete Michele Oriente; nel 1612 lo stesso priorato passò al sacerdote Garone, e nel 1641 all'abate Diego Della Chiesa. Ivi, fase. 1. 2, 4.
16 Stato de' benefizi di regia nomina ed appartenenti alla collazione libera o tempo/aria di Roma (1782), ivi.
17 M.T. SlLVESTRINI, La politica della religione. Il governo ecclesiastico nello Stato sa- baudo del XVIII secolo. Firenze. 1997. pp. 190-192.
18 È quanto si evince dagli atti dell'indagine che accompagnò nel 1728 il censimento dei luoghi pii nello Stato sabaudo. Cfr. Notte de' benefici mandate all'ufficio dell Intendenza della città e provincia di Cuneo dai secretori delle comunità, A.S.T., Corte, Materie ecclesiastiche. Benefici di qua dai monti, mz. 14, da cui si ricava che, tra gli anni trenta e gli anni quaranta del Seicento, diversi privati avevano fondato in città «canonicati con prebende»; Franceschino Ta- vella (1635), Diego Della Chiesa (1643), Francesco Antonio Ghisulfi (1643), Andrea Defcrraris (1645). i fratelli Delfino (1646), Giorgio Ferro (1646), Carlo Bonada ( 1646).
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cambio che i beneficiari garantissero ai suoi eredi una pensione annua e "perpetua" di 50 scudi d'oro19. Ma già sotto il successore del vescovo Maurizio Solaro la col- legiata cuneese entrava in una complicata vertenza con la curia vescovile di Mon- dovì, che non le riconosceva più il diritto di organizzarsi in forma di capitolo senza l'assenso di una bolla papale: fu questa la posizione assunta durante la visita pasto- rale del 1658 dal vescovo Michele Beggiamo (1656-1662), che avviò una lunga controversia destinata a sciogliersi solo dopo alcuni decenni20.
Tali tensioni, interne all'istituzione, si erano lasciate alle spalle lotte ben più aspre legate alla diffusione della Riforma, un fenomeno che investì Cuneo con par- ticolare virulenza e che resta, a tutt'oggi, messo in ombra dall'assenza di ricerche puntuali sull'organizzazione della vita religiosa in questa provincia del Piemonte di antico regime.
3. Le ondate della Riforma.
L'interesse destato da Cuneo come nidus haereticorum ha alimentato una produzione storiografica abbastanza ricca. Che il Cuneese fosse un luogo di pas- saggio per gli eretici della Francia meridionale è cosa ampiamente nota, attraverso testimonianze che farebbero risalire i fatti salienti all'incirca agli anni quaranta del Duecento21. E tuttavia gli esiti in età moderna di un tale precoce attecchimento di forme religiose clandestine sono stati troppo sbrigativamente ricondotti dalla vul- gata a puri aspetti di "cronaca locale"22.
Il modello potrebbe essere costituito dal tipo di analisi compiuta da Torre su un'area contigua: 1' Albese, l'Astigiano e il Monregalese. In attesa che nuove inda- gini approfondiscano il discorso sul "consumo" e sulla trasformazione della devo-
19 Fondazione fatta da Carlo Bonada dottor fisico della città di Cuneo di tre canonicati e prebende nella collegiata della Madonna del Bosco d'essa città, cioè uno per il priore della Ma- donna del Bosco, altro per il priore di Sant'Ambrogio, ed altro per il pievano della Plebe (14.XI.1646), ivi. mz. 14. fase. 14.
20 Copia degli atti nella causa tra la curia vescovile del Mondovì e la collegiata di Santa Maria del Bosco di Cuneo sull'erezione di quella senza la confermazione apostolica (1668), ivi. mz. 14, fase. 6.
21 Accanto a studi ormai datati come G. BOFFITO, Gli eretici di Cuneo, «BSBS», 1896. pp. 324-333, vanno segnalati i saggi di Giovanni Grado MERLO. Cfr. in particolare i suoi Circolazione di eretici tra Francia e Piemonte nel XIV secolo, «Provence historique», fase. 109 (1977). pp. 325-334; Eretici e inquisitori nella società piemontese del Trecento, Torino. 1977; Note sugli eretici del Cuneese nel basso medioevo, «BSC», 1981, li semestre, pp. 325-337. Puntuali accenni alla realtà cuneese sono presenti, inoltre, in studi di carattere più generale, dedicati ad analoghi fenomeni italiani ed europei: cfr. J. GUIRAUD, Histoire de l'inquisition au moxen-âge, II, L'inquisition au Xllle siècle en France, en Espagne et en Italie, Paris, 1938, pp. 248-255; R. MANSELLI, L'eresia del male, Napoli, 1963 (II ed. Napoli, 1980), p. 323 e sgg.; E. DlJPRé THESEIDER, // catarismo della Linguadoca e l'Italia, in ID., Mondo cittadino e movimenti ereticali nel medioevo, Bologna, 1978, pp. 345-360.
22 Così in F. GABOTTO, Storia di Cuneo cit.. p. 176.
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zione a Cuneo e nelle comunità del suo distretto, non si può tentare qui che una ri- costruzione, se pur sommaria, fondata sui carteggi tra autorità laiche ed ecclesiasti- che e. soprattutto, sulle testimonianze offerte dalle visite pastorali. Lo studio di queste ultime, che rappresentano indubbiamente la fonte più ricca (anche se. per molti versi, di non semplice lettura)23, andrebbe approfondito cercando di eviden- ziare le peculiarità delle situazioni locali e il loro mutare col tempo: un'«analisi contestuale e microcomparativa delle pratiche religiose» che Torre ha avviato, e che sarebbe utile appunto estendere ad altre aree dei domini sabaudi. Troppo poco si sa. per esempio, della struttura dell'episcopato locale in età post-tridentina e delle forme di controllo e disciplinamento attuate in accordo con Roma. Varrebbe la pena, in tal senso, verificare l'effetto che ebbe, dal secondo Cinquecento, nella provincia cuneese, il rafforzamento di figure quali i nunzi apostolici (i rappresen- tanti del papa, come autorità spirituale e temporale, responsabili, in Piemonte e in altri Stati caratterizzati da situazioni giuridico-confessionali complesse, della ge- stione delle materie inquisitoriali) o i "vicari foranei" (incaricati, nelle aree del con- tado, non solo di far eseguire le disposizioni date dal vescovo, ma di svolgere fun- zioni di formazione teologica e culturale raccogliendo periodicamente il clero in congregazioni durante le quali i preti dovevano confessarsi, ascoltare prediche e studiare i "casi di coscienza"), cui ha recentemente dedicato attenzione Adriano Prosperi24.
Nel corso del Cinquecento nel Cuneese sul ceppo cataro-valdese si erano in- nestate le dottrine di Lutero e Calvino: la vicinanza con la Francia e il Marchesato di Saluzzo (dove l'eresia protestante aveva tempestivamente avuto seguito), le re- lazioni commerciali con la Provenza e con la Svizzera, il passaggio di eserciti composti da una forte presenza di soldati di fede luterana e ugonotta ne avevano agevolato l'incontro e lo sviluppo. Fondamentale era stata l'opera di proselitismo svolta dalla comunità valdese, soprattutto dopo che. con i sinodi di Angrogna (1532) e di Prali (1533), gli eretici delle valli Pellice e Chisone avevano formal- mente aderito alla Riforma protestante25. Braccati dall'Inquisizione, fatti oggetto di condanne al rogo e di sequestri a vantaggio delle casse ducali e dei vari signori lo- cali, rispetto ai catari i valdesi (ormai capillarmente diffusi nelle vallate cuneesi) si erano rivelati assai più reattivi ai tentativi di sterminio. Erano del resto gli anni in
23 Cfr. A. TORRE, // consumo di devozioni cit.. pp. XI-XVII.
24 A. PROSPERI. Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari. Torino, 1996. pp. 103-105, 142-143:323-324
25 A. PASCAL, Storia della riforma protestante a Cuneo nel secolo XVI, Pincrolo. 1913, p. 4. Cfr. inoltre G. JALLA, Storia della Riforma in Piemonte fino alla morte di Emanuele Filiberto (1517-1580). Firenze. 1914: A. PASCAL. 1m lotta contro la Riforma in Piemonte al tempo di Emanuele Filiberto, studiata nelle relazioni diplomatiche tra la corte sabauda e la Santa Sede (1559-1580). parte I e parte II. Documenti. «Bulletin de la Société d'Histoire Vaudoise», 1929, pp. 9-88. e ivi. 1930. pp. 5-118; P. MERLIN, Dal Piemonte all'Europa. 1 risvolti internazionali della politica antiereticale di Emanuele Filiberto di Savoia. «Bollettino della Società di studi valdesi». 1995, pp. 74-86.
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cui le valli Pellice e Chisone, diventate centro del movimento riformato del Pie- monte, stavano creando un'organizzazione ecclesiastica modellata su quella delle chiese calviniste francesi e ginevrine. La trasformazione richiedeva non solo il reci- proco contatto delle valli con il marchesato di Saluzzo e con il Cuneese, ma di queste zone con il Delfinato e la Svizzera, per averne consigli, per chiarire le mo- dalità e il valore degli atti liturgici, per ottenere infine catechisti e ministri da pre- porre alle nuove chiese.
«Tous les sujets du duc vinrent lui rendre hommage, excepté ceux des vallées d'Angrogne et de Lucerne incités à cette désobéissance par les huguenots de France» scriveva, a oltre due secoli di distanza, nella sua Histoire de Coni, il mar- chese di Saint Simon, riferendosi all'ingresso di Emanuele Filiberto a Cuneo nel 1561. Tra il 1575 e il 1576 il duca, insieme con il principe Carlo Emanuele, fu nuovamente accolto in città, e nuovamente - stando sempre al Saint Simon - «les huguenots des vallées, auxquels il s'en étoit joint plusieurs autres qui avoient été chassés du Piémont, donnèrent [...] occasion aux milices de Coni de marcher contre eux»26. Negli stessi anni un attento informatore di Emanuele Filiberto a Cuneo, il senatore Carlo Malopera, non esitava a denunciare la penetrazione del «male» della Riforma «fino all'osso» della città piemontese, tra i ceti popolari come tra le fila del patriziato urbano27.
Lo sfilacciamento della presenza religiosa veniva avvertita ormai, sempre più chiaramente, come una rinuncia al controllo dottrinale. Il fatto che i parroci com- mendatari non fossero tenuti a risiedere nelle rispettive parrocchie e che essi si li- mitassero a fare non più che qualche sporadica visita alle chiese, lasciandole a vi- cecurati spesso non all'altezza della loro missione, aveva, per esempio, una pun- tuale ricaduta sull'inadempienza agli obblighi di catechizzazione, mentre conti- nuava indisturbata la circolazione clandestina di autori che affrontavano spinose questioni attaccando i dogmi della fede cattolica. Lo rilevarono puntualmente il visitatore apostolico Gerolamo Scarampi, nel corso della visita a Robilante del marzo 1583, e il vescovo di Asti Francesco Panigarola, durante la sua visita a Ver-
lb H. DE SAINT SIMON, Histoire de la gitene des Alpes ou campagne de MDCCXLIV par les armées combinées d'Espagne et de France commandées par S. A. R l'infant don Philippe et S. A. S. le prince de Conti, ou l'on a joint l'Histoire de Coni depuis sa fondation en 1 120 jusqu'à présent, Amsterdam, 1770, pp. 214-215 (A. S. T.. Corte. Biblioteca antica, I. II. 49). L'autore di questa duplice relazione fu aiutante di campo di Luigi Francesco Bourbon principe di Conti (1717-1776). il comandante francese che, insieme con lo spagnolo Jayme Miguel de Gusman marchese de La Mina ( 1689-1767), guidò contro i piemontesi le truppe gallo-ispane nella cam- pagna del 1744.
27 P. MHRLIN. // Cinquecento cit., pp. 88-89. Su Carlo Malopera cfr. G. MANUKL DI S. GIOVANNI, Una pagina inedita della storia di Cuneo al secolo XVI col giornale del viaggio da Cuneo a Bruxelles di Giovanni Luigi Lovera gentiluomo cuneese, Torino, 1879, pp. 69-71. Amico dell'abate Vincenzo Parpaglia, segretario di Reginald Pole, secondo Pierpaolo Merlin Claudio Malopera sarebbe stato fra quanti, magari non personalmente, ma indirettamente, risulta- rono «spiritualmente vicini» alla Riforma. P. MERLIN. Emanuele Filiberto cit.. pp. 246. 249.
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riante nel maggio 1588, testimoniando, tra l'altro, la diffusione dello smercio di opere erasmiane28, ma soprattutto dei Les psalmes en rime di Théodore de Bèze.
Gruppi di protestanti si erano stabiliti, sicuramente a partire dagli anni qua- ranta del Cinquecento, oltre che a Cuneo in molte comunità delle vallate circo- stanti: a Caraglio. a Borgo San Dalmazzo e a Cervasca. a Festiona (ribattezzata en- faticamente "la petite Genève", come avrebbero ricordato, ormai in pieno Seicento, le Memorie del priore di Luserna Marc'Aurelio Rorengo29) e a Demonte in valle Stura, a Monterosso. Montemale e Valgrana nella valle omonima, a Robilante e a Vernante in valle Vermenagna30. In una lettera che nel 1554 il governatore Paolo Vagnone aveva indirizzato a Emanuele Filiberto, allora nelle Fiandre, perché si prendessero incisive misure contro i riformati che da un decennio andavano fa- cendo proseliti tra le stesse famiglie dell'aristocrazia locale, l'origine dell'etero- dossia era stata ricondotta senza esitazione ai contatti con la vicina Francia31. Nel febbraio del 1545, d'altro canto, era morto a Thonon Giovanni Liffordi (altrimenti noto come Le Fort), uno dei primi cuneesi che si erano rifugiati in Svizzera per ra- gioni religiose32.
Il documento ufficiale che aveva segnato la condanna esplicita dei seguaci della Riforma a Cuneo era stato l'editto firmato da Carlo II il 29 novembre 1551, in cui si ordinava al governatore Vagnone di procedere manu annata contro tutti i so- spetti, facendoli arrestare ovunque si trovassero (in città, nelle valli e in qualunque luogo sacro) e conducendoli nel castello di Fossano in attesa del processo33. La reazione inaspettata del comune, che prontamente prese le parti dei luterani prote- stando contro la durezza del governatore, indusse Emanuele Filiberto di lì a non molto - come si è visto - a sostituire Vagnone con il più mite Carlo Manfredi di Luserna.
28 Sulla persistente freschezza del messaggio di libertà evangelica che. in polemica contro il cristianesimo vacuo del clero inoperoso e dei teologi scolastici, continuava a derivare dalle opere erasmiane cfr. S. SEIDEL MENCHI. Erasmo in Italia. 1 520-1580, Torino, 1987: M. FIRPO, Ri- forma protestante ed eresie nell'Italia del Cinquecento. Roma-Bari, 1993, pp. 92-94.
29 M. A. RORENGO, Memorie historiche dell' introduttione dell'eresie nelle valli di Lucerna, marchesato di Saluzzo et altre di Piemonte. Editti, provisioni, diligenze delle Altezze per estir- parle, col breve compendio d'esse e modo facile di confutarle, Torino, 1649. p. 222 (Biblioteca Civica di Torino, d'ora in poi B.C. T.. 255. D. 5). Sull'autore di questo testo, tipico esponente della cultura controriformistica, cfr. A. ARMAND-HUGON. Storia dei valdesi, v. II. Dal sinodo di Chanforan all'Emancipazione, Torino. 1974. pp. 69-70. 84-85.
30 Cfr. M. FERRERIUS [MATTIA FERRERÒ], Rationarium chronoçraphicum missionis evan- gelicae. Torino. 1659. v. II. pp. 168-169 (B.C.T., 89.A.23).
31 G. MANUEL DI San GIOVANNI. Una pagina inedita della storia di Cuneo cit.. pp. 6-7.
32 G. JALLA. Storia della Riforma cit.. p. 55.
33 A. PASCAL, Storia della riforma cit.. p. 12. Il testo dell'editto, da cui emergerebbero i nomi dei due principali responsabili della diffusione del luteranesimo a Cuneo. Baldassarre Pie- cardo e "Jacobus Gulpium"'. è conservato in A. ST.. Corte. Protocolli dei notai ducali, serie rossa (d'ora in poi Protocolli ducali), v. 183. f. 220.
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4. // fenomeno delle migrazioni.
L'acuirsi delle tensioni con le autorità ducali ebbe del resto presto l'effetto di incentivare flussi migratori alla volta della Svizzera, dove alcuni aderenti alla Ri- forma fuggiti dal Cuneese furono accolti col pieno riconoscimento dello stato di "borghesi". Fu questo il caso di Giovanni Luigi Pascale, nato da una famiglia pa- trizia di Cuneo tra il 1520 e il 153034. Dopo un inizio di carriera militare presso la guarnigione di Nizza marittima. Pascale si era trasferito a Ginevra per studiare teo- logia, arrivando a pubblicare, nel 1555, una traduzione in lingua italiana e francese del Nuovo Testamento e, nel 1556, la traduzione in italiano dei Fani de' veri suc- cessori di Gesù Christo et de suoi apostoli et de gli apostati della Chiesa papale di Pierre Viret. Registrato inizialmente come semplice "abitante" (1554), ricevette presto la cittadinanza ginevrina, venendo riconosciuto a tutti gli effetti "borghese" (15 5 5)35. Diviso tra Ginevra e Losanna (città in cui ebbe, tra l'altro, modo di se- guire le lezioni tenute da Théodore de Bèze e da Pierre Viret), in Svizzera conobbe e chiese in sposa una giovane originaria di Dronero, Camilla Guarino36, vedendo tuttavia frustrato il suo desiderio di metter su famiglia. Nel 1559 fu infatti inviato come pastore in Calabria, dove la sua opera di predicatore non durò che pochi mesi. Nel maggio 1559 Pascale, trattenuto e poi incarcerato per intervento del mar- chese di Fuscaldo Salvatore Spinelli, che si era fatto interprete dei sospetti del clero e dei signori locali, venne dichiarato fuori legge. Interrogato dal vicario giunto in Calabria per ordine del viceré di Napoli dopo la denuncia sporta da Spinelli, il pa- store fu rinchiuso dapprima nel castello di Cosenza e successivamente nelle carceri di Napoli e di Roma, dove, giudicato dai membri del tribunale dell'Inquisizione (condizionati dall'intransigenza di un Michele Ghislieri), finì sul rogo nel settembre 1560.
In Svizzera Giovanni Luigi Pascale lasciò un nipote, Carlo, che frequentò le scuole ginevrine insieme con un altro cuneese, Giovanni Antonio Piccardo. discen- dente da una famiglia che a Cuneo si era arricchita gestendo attività creditizie fino a risultare tra i consegnatari d'armi del 1614. Trapiantatisi a Ginevra nel Cinque- cento, i Piccardo, divenuti conti di Le Fort, percorsero brillanti carriere, distin- guendosi come sindaci, pastori, giudici, membri del Gran Consiglio, e, a partire dal
34 Su di lui cfr. S. CAPONETTO, La riforma protestante nell'Italia del Cinquecento, Torino. 1997, pp. 393-395; A. PROSPERI, Tribunali della coscienza cit., p. 6.
35 A. MUSTON, Giovanni Luigi Pascale: saggio storico, Roma, 1892; G.L. PASCALE, Let- tere d'un carcerato (1559-1560), a. cura di A. Muston, Torre Pellice, 1926.
30 11 fratello di Camilla, Francesco Guarino, a lungo pastore nelle Valli valdesi, frequentò l'Università di Torino, promuovendovi la lettura di testi protestanti e inducendo alcuni suoi se- guaci, minacciati di arresto, a seguire pure la via dell'esilio in Svizzera.
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Seicento, insigniti ormai del titolo di cavalieri del Sacro Romano Impero, come diplomatici e ufficiali37.
A dispetto delle disposizioni ducali e nonostante la frequenza delle migra- zioni verso i Paesi di religione protestante, la Riforma continuava a far proseliti in Piemonte e in particolare nel Cuneese.
Dopo ricevuto l'ambasciator spagnuolo, il cardinale di Lorena partì per abboccarsi con quello di Ferrara, il qual. gionto in Piemonte, non trovò le cose di quella regione in meglior stato che in Francia, poiché trovò che in diversi luoghi del marchesato di Saluzzo erano stati scacciati tutti i preti, e che in Cheri et in Cuni, luoghi del duca di Savoia, et in molte altre terre vicine a quelle vi erano molti delle medesime opinioni degl'ugonotti, e nella stessa corte del duca molti le professavano et ogni giorno se ne scoprivano più38.
I fatti, descritti da Paolo Sarpi nella sua Istoria del Concilio tridentino, risali- vano al maggio 1563. Verso la fine di aprile dello stesso anno era stato promulgato un editto che aveva disposto il sequestro dei beni e la pena capitale contro i rifor- mati che non avessero abiurato o preso la via dell'esilio entro il termine di otto giorni. In realtà, il rigore ducale era rientrato presto e l'editto era stato revocato, vi- sto il rischio di spopolamento che importanti territori dello Stato avrebbero potuto correre per la fuoriuscita di un così consistente numero di sudditi39.
Un paio di anni dopo si ripartiva da capo. Nel 1565 si dichiarò un'altra volta guerra ai riformati di Cuneo e del Piemonte in genere con due nuovi editti, che usavano la condanna a morte e la confisca dei beni come strumento per incorag- giare la delazione (ai collaboratori, cui si garantiva l'anonimato, veniva promessa la quarta parte del frutto degli espropri)40. Prima della pubblicazione di questi de- creti il governatore di Cuneo, il conte Teodoro Filiberto Roero della Vezza, genti- luomo di Camera di Emanuele Filiberto, aveva ricevuto l'ordine di compilare la li- sta degli ugonotti che vivevano in città, da cui emerse un elenco che includeva fi- gure ben note alla comunità come Francesco Solfo e Vincenzo Garrone, membri di famiglie délVélite urbana come Francesco Rubatto, Giovanni Vigna, Francesco
37 A.M. FlBERl. Gli scrittori latini anonimi di storia cuneese e il padre Bava di Fossano. Torino, 1755; J.B.G. GALIFFE. Le refuge italien de Genève. Genève. 1881 pp. 13-1 14; P.F. GEI- SENDORF. Livre des habitants de Genève, tomo [, Genève. 1957. p. 36. Su Carlo Pascale, che abiurò a Mondovì in presenza del nunzio apostolico dopo aver a lungo viaggiato per l'Italia, cfr. G. JALLA. Storia della Riforma cit.. p. 338; A. PASCAL. La lotta contro la Riforma cit.. parte [, pp. 75, 82, 86.
38 P. SARPI. Istoria del Concilio tridentino, a cura di C. Vivami, Torino, 1974, v. II. pp. 1101-1102.
39 P. MERLIN. // Cinquecento cit.. p. 89.
40 Copia di atti commissionali di reddutione de' beni in favor del fisco alle mani di Sua Al- tezza come confiscati in odio et contra Vincenzo Rubatto. Maddalena et soe figlie Farina, Tho- maso et Anna giugali de Thomatis, eretici di Cuneo. Biblioteca Civica di Cuneo (d'ora in poi B.C.C.), ms. D 18.
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Miglia, Biasio Signorile, Michele Giordano, Maddalena Farina41, uomini d'armi come il capitano Ponzio Magliacca, e infine ecclesiastici come Giovanni dell'Isola e Antonio Chais del Borgo. Compresi alcuni abitanti di Borgo San Dalmazzo, Ro- bilante e Cervasca, più di 140 persone risultavano aver abbandonato la Chiesa cat- tolica^. Fra questi, una cinquantina scelse inizialmente di sfidare le minacce ducali ritirandosi a Vernante, centro controllato dai conti di Tenda, noti per le loro fre- quentazioni con gli ambienti eterodossi43. Ma in un secondo tempo anche costoro decisero di scendere a un compromesso giurando fedeltà alla corona, pur di essere riammessi al possesso dei propri beni e al diritto di tornare alle proprie case. Lo scrivano stesso che registrò nei verbali comunali l'approvazione del duca al rientro dei fuoriusciti, Filippo Giordano, era stato personalmente coinvolto nella vicenda e obbligato ad allontanarsi da Cuneo «causante l'editto fatto per Sua Altezza per conto della religione».
Fra l'amministrazione municipale ed Emanuele Filiberto si era aperto un braccio di ferro in cui Giordano rivestì un ruolo non più che marginale. Con un atto di forza, il 29 dicembre 1565, il Consiglio comunale aveva nominato nuovi consi- glieri (Spirito Martini, Giovanni Francesco Miglia, Vincenzo Garrone, Francesco Brizio, Giovanni Vigna, Francesco Morrò, Francesco Rubatto, Battista Farina, Bia- gio Signorile Francesco Margaria, Pietro Abello) che, ad eccezione di un paio
41 Sui Farina, famiglia di tipografi cuneesi, e in particolare su Cesare Farina, arrestato e pro- cessato per aver stampato e diffuso libri ereticali, cfr. A. MERLOTTI, Librai, stampa e potere a Torino nel secondo Cinquecento, in Storia di Torino, v. Ili cit., p. 576; A. PASCAL, La lotta contro la Riforma cit., parte II, pp. 70-71, 74, 81. I Farina avevano già fama di luterani sotto il ducato di Carlo II (cfr. Cronache anteriori al secolo XVII concernenti la storia di Cuneo e di al- cune vicine terre, a cura di D. Promis, in Miscellanea di storia italiana, v. XII, Torino, 1871, p. 369), pur risultando, insieme ad altri esponenti di famiglie che sarebbero state inquisite per aver aderito alla Riforma, tra le «persone nobili quali si sono portati bene nel tempo di l'acidio di Cu- neo '1 1557», e cioè nella difesa della città dall'assedio francese guidato dal maresciallo Brissac. Cfr. A. DUTTO, Le relazioni sull'assedio di Cuneo del 1557 cit., pp. 1 14-1 15.
42 La lista degli eretici fu pubblicata da Gaudenzio CLARETTA ne La successione di Emanuele Filiberto al trono sabaudo e la prima ristorazione della Casa di Savoia, Torino, 1884, pp. 262-263, in forma incompleta rispetto ai dati che emergono invece dalla Copia di atti commissionali cit. Sull'arresto, nel 1570. di alcuni degli ugonotti compresi nell'elenco degli inquisiti fatto stilare dal governatore Roero cfr. A. PASCAL, La lotta contro la Riforma cit.. parte II, pp. 15-17.
43 Protagonista delle vicende legate ai gruppi riformati fu la contessa di Tenda Francesca de Foix-Candale. Figlia di Giovanni, visconte di Meille, rimasta vedova di Claudio di Savoia, figlio di Renato il Gran Bastardo, la contessa si era ritirata per qualche tempo presso la corte di Torino prima di essere allontanata per ragioni religiose, costretta a riparare a Parigi, dove morì allo scorcio del Cinquecento. Sua figlia Anna sposò in prime nozze Giacomo di Saluzzo-Cardè. un capitano che cadde in Francia tra le file ugonotte (1569), in seconde nozze Antonio di Clermont marchese di Rével, che la lasciò ancora una volta vedova morendo nel massacro della notte di San Bartolomeo (1572), e infine Giorgio di Clermont, cugino del secondo marito. Sul loro ruolo di fiancheggiatrici della Riforma cfr. A. PASCAL, La lotta contro la Riforma cit., parte I, pp. 69- 70, 77. 81. 87-88; parte II, pp. 5, 7, 9-10, 13, 16. Sui Tenda [LE COMTE] DE PANISSE PASSIS. Les comtes de Tende de la Maison de Savoie, Paris, 1889; A. LEONE, / Savoia-Tenda conti di Som- maria del Bosco (1501-1691), «BSC». 1937, I semestre, pp. 65-81.
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(Margaria e Farina), rientravano nella lista dei sospetti censiti dal governatore44. Per tutta risposta, il 17 gennaio 1566, Emanuele Filiberto fece annunciare l'arrivo a Cuneo del sovrintendente della milizia Giovanni Matteo Cocona, esigendo che si predisponessero tre o quattro «case erme» per i soldati che sarebbero stati aggiunti al presidio della città. Di fronte alla reazione negativa della cittadinanza, il duca tornò all'attacco con un ordine perentorio e mirato (21 gennaio 1566): i soldati sa- rebbero stati accolti nelle case di quanti avevano aderito alla "religione riformata", mentre tutti i consiglieri tacciati d'eterodossia, recentemente nominati, avrebbero dovuto lasciar posto a cuneesi di provata fede cattolica. Il 24 gennaio il Consiglio si riuniva sotto la presidenza del podestà Giovenale Pasero il quale, se pur obtorto collo (visto l'affronto alle franchigie previste dagli statuti urbani), era stato incari- cato di far eseguire il decreto ducale.
Da allora i riformati furono esclusi dalle sedute, fino alla loro formale sosti- tuzione, il 27 dicembre, con altri consiglieri ritenuti più affidabili: Giovanni Fran- cesco Giusiana al posto di Francesco Miglia, Giuseppe Morrò al posto di Francesco Morrò, Vanino Vitale e Giuseppe Allasio al posto, rispettivamente, di Giovanni Vigna e di Francesco Brizio45. In novembre il duca aveva minacciato di far appic- care il fuoco alla casa di chiunque non denunciasse alle autorità la presenza di per- sone sospette, che potessero girare armate «di notte nelle terre et grangie circonvi- cine»46. Al di là delle epurazioni in Consiglio, le tensioni avevano portato a una spaccatura abbastanza netta fra chi aveva accettato di sottostare a un giuramento in presenza del governatore e di alcuni testimoni (il caso, per esempio, di Giovanni Antonio Consolino di Robilante, che, avendo aderito alla Riforma, e tuttavia vo- lendo continuare a risiedere in Cuneo, aveva presentato come proprio mallevadore il padre, Lazzaro Consolino, o ancora il caso di Pietro Abello, che era stato con- vinto a tenere gli arresti domiciliari e a non parlare ad altri che ai due soldati lascia- tigli di guardia) e chi, invece, aveva preferito lasciare la città (Tanino Mazzorre, il calzolaio Battista Rondonino, il maestro Sisto Fea)47. «In Cuneo si dichiararono al- cune famiglie, parte de' quali si ravidero incontinenti dell'errore. Altre con oppor- tunità ottennero prolonghi d'habitazione, senza permissione di alcuno esercitio, quali si ritirarono a cassali o sia cassine, e alcuni lasciarono la città per ritirarsi nella valle di Lucerna» avrebbe ricordato il priore di Luserna Marc'Aurelio Ro- rengo48
44 Ordinati, Archivio Storico Comunale di Cuneo (d'ora in poi A.C.C.), presso la B.C.C., v. 19 A, 29. XII. 1565. ff. non num.
45 Ivi. v. 19 B. ff. 8. 1 Or. 15-16. 19, 35 v.
46 Protocolli ducali, v. 226. f. 317, 26. XI. 1566; Raccolta per ordine di materie delle leggi cioè editti, patenti, manifesti ecc. {...} emanate negli Stati di terraferma sino l'8 dicembre 1798 dai sovrani della Real Casa di Savoia, compilata dall'avvocato Felice Amato Duboin, Torino, 1826-1869, tomo XIII, p. 579.
47 Documenti dell'anno 1565. A.C.C., v. 156. ff. 208-210, ove si evincono i nomi delle persone che risultarono assenti all'atto del pagamento della taglia per l'anno 1565.
48 M.A. RORENGO. Memorie historicité cit.. p. 75.
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5. // clima post-tridentino.
Chiusi i lavori del Concilio di Trento, da parte ecclesiastica il rilancio del- l'attività pastorale aveva intanto portato a fissare con maggior rigore l'obbligo dei vescovi di visitare periodicamente le proprie diocesi, e anche nel Cuneese le visite pastorali risultarono di fatto, nel secondo Cinquecento, il principale mezzo per te- nere sotto controllo le pratiche devozionali. Lo spirito post-tridentino calò sulla diocesi monregalese non tanto sotto il vescovato di Michele Ghislieri, che nel 1566 saliva già al soglio pontificio, quanto sotto il suo successore, Vincenzo Lauro49.
Fra i casi affrontati da Lauro quello della conversione di Leonardo Mogliacca fu uno dei più spinosi50. Originario di Borgo San Dalmazzo, Mogliacca si era tra- sferito prima a Scarnafigi e poi a Cuneo, dove aveva incrementato il proprio patri- monio ottenendo tra l'altro come compenso dal comune, nel 1538, 110 giornate di terra (circa 4.191 are). Divenuto capitano, era passato al comando di un corpo di soldati nelle valli Stura e Gesso, e per questo servizio era stato ripagato dal duca con il possesso del castello di Roccavione. A dispetto delle accuse di eresia che gli erano state mosse dal governatore Paolo Vagnone sin dal 1554, Mogliacca era riu- scito a conservare il proprio castello, nel quale, durante l'attacco francese del 1557, si arrese alle truppe del maresciallo Brissac, aprendo ai nemici la via all'assedio di Cuneo. Ma, pur essendosi destreggiato abilmente nel corso dell'occupazione fran- cese, coperto dal fratello Bernardo (che egli aveva fatto nominare parroco a Roc- cavione), non sfuggì dopo alcuni anni alla condanna delle autorità ecclesiastiche. Il 3 aprile 1568, a Mondovì, il procuratore fiscale della mensa vescovile, Paolo Co- rnino, denunciava la famiglia Mogliacca davanti a monsignor Lauro. Istruito un processo, altri testimoni deposero contro il capitano, che veniva accusato di aver iscritto a scuola uno de suoi figli facendolo esentare dalla frequenza delle funzioni sacre. «Grammatica e non altro»: questo sarebbe stato, secondo gli accusatori, quanto premeva al padre che il maestro impartisse al piccolo Michele51. Prima che
49 M. F. NIELLANO, La Controriforma nella diocesi di Mondovì cit.. pp. 123-125; P. MERLIN, Emanuele Filiberto cit., p. 258. Originano di Napoli, Lauro (1523-1592) fu eletto ve- scovo di Mondovì nel 1565 e vi si insediò a partire dal gennaio 1566. Nunzio apostolico presso Maria Stuarda, a Varsavia e a Torino (ove restò in carica dal 1568 al 1573 e ancora dal 1580 al 1585, succedendo a Francesco Bachodi, abate di Ambroney e Saint Rambert, che era stato il primo nunzio creato in Piemonte), nel 1583 ottenne la porpora cardinalizia. Interessato in partico- lare agli studi di medicina, entrò in contatto con diversi studiosi e uomini di Chiesa quali Carlo Borromeo, Filippo Neri, Ignazio di Loyola. Francesco Borgia, Torquato Tasso. G. MORONI, Di- zionario di erudizione storico-ecclesiastica, v. XXXVII, Venezia, 1846. p. 178 e ss.
50 Cfr. A. PASCAL. Una famiglia di riformati cuneesi: i Mogliacca, in Studi di letteratura, storia e filosofia in onore di Bruno Revel, Firenze, 1965, pp. 423-445; M. RlSTORTO, Un signo- rotto del Cinquecento: Leonardo Mogliacca, «BSC», 1965, II semestre, pp. 1 1-35.
51 Notizia fiscale e successivo provvedimento e sentenza contro il capitano Leonardo Mo- gliacca inquisito di eresia dalla quale ha poi abiurato (3. IV. 1568), Archivio Vescovile di Mondovì (d'ora in poi A.V.M.)
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monsignor Gerolamo Scarampi, inviato nel 1583 da Gregorio XIII come visitatore dei domini sabaudi presso la diocesi monregalese. desse ragione a tali testimo- nianze, già nel 1565 il capitano era stato preso di mira dal governatore Roero, il quale, nel compilare la lista degli ugonotti cuneesi. scriveva: «In casa del capitano Leonardo non vanno a messa eccetto lui. che è il più marcio di tutti gli altri». Si- mile suonava il giudizio espresso dal Roero sul genero di Mogliacca: «In casa di Giovanni Grimaldo nessuno va a messa, eccetto lui, che è il più ugonotto delli suoi»52. Nell'aprile 1568 il procuratore fiscale Cornino eseguiva infine a Cuneo l'arresto del capitano, trasferendolo nel palazzo vescovile di Mondovì, dove il pro- cesso sarebbe stato riaperto con nuove deposizioni davanti al vescovo Lauro, al vice-inquisitore della diocesi monregalese, padre Francesco di Bruno, e al dottore in leggi Gerolamo Longo. Fra i testimoni era il cronista Dalmazzo Grasso, anch'e- gli di Borgo San Dalmazzo. che riferì di conoscere personalmente la casa dell'im- putato, nella quale venivano spesso accolti non solo cittadini di Cuneo, ma abitanti di Tenda, di Vernante, di Boves. della valle Stura, accomunati dallo scambio di "libri eretici". Grasso si era sottratto alle lusinghe di quel covo di riformati, che era evidentemente divenuto più agguerrito sull'onda delle persecuzioni compiute negli stessi anni contro gli ugonotti d'oltralpe, dal massacro di Vassy (1562) alla seconda pace di San Germano (1570):
E fama publica nel loco del Borgo che il sudetto Leonardo, qual conosce esso deponente. [...] è eretico o sia ugonotto, et questo sano sino i putti et che ha in casa soa moglie, chia- mata Anna, qual da quatro anni in qua in circa non va mai alla messa et si dice esser ugo- notta, come si è dechiarata et fatta scrivere per tale a Conio quando Sua Altezza ordinò che chi era eretico si dovesse andar a fare scrivere [...]. [Dei] figlioli il primogenito si chiama Pontio [...] et al presente si trova a Nimes capitano d'ugonotti, come si dice, et cossi il su- detto Cezarc et Michele, d*cttà d"anni quindeci o sedici in circa53.
Nell'agosto 1568 nel processo a carico di Mogliacca intervennero alcuni te- stimoni a discarico, che, per quanto concordi nell 'affermare la piena innocenza dell'accusato, non riuscirono tuttavia a bloccare la macchina accusatoria. In di- cembre, piegatosi a pronunciare l'abiura. Mogliacca potè così ascoltare, finalmente, la sentenza del vescovo, che gli risparmiò pene corporali e sequestro dei beni imponendogli, piuttosto, il divieto di ogni relazione con eretici e l'obbligo, oltre che di osservare strettamente la liturgia cattolica, di compiere opere di carità. Trasferito dal palazzo episcopale. Mogliacca, prima di essere rilasciato con l'auto- rizzazione di Emanuele Filiberto (febbraio 1569). trascorse ancora un periodo agli arresti domiciliari, ospite nella casa di Vincenzo Corderò.
La vicenda del capitano, stigmatizzata dalle autorità ecclesiastiche attraverso un annuncio affisso alle porte della parrocchiale di Borgo San Dalmazzo, non restò
5- G. CLARETTA, La successione di Emanuele Filiberto cit., p. 263. » Ivi. pp. 262-263.
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evidentemente senza effetto, se è vero che negli anni dal 1569 al 1581 diversi altri casi di abiura interessarono il Cuneese (anche se - è probabile - non nella misura indicata nel 1583 dal visitatore apostolico Scarampi, il quale non esitò a parlare di un centinaio di eretici riconquistati al credo cattolico)54. E tuttavia il gruppo dei protestanti più pervicaci non si poteva dire annientato. Nel 1570, per esempio, nel complotto che fu ordito in Provenza da alcuni ugonotti per impadronirsi di Nizza e di altri territori sabaudi fu implicato anche quel Pietro Paolo Non (o di None) che era già stato segnalato al duca dal governatore Roero cinque anni prima55. Nel marzo del 1583 il canonico Ferrerò, in visita a Robilante come delegato di monsi- gnor Scarampi, additò la moglie di Battista Ascheri, che aveva ammesso non solo di possedere Les psalmes en rime di Théodore de Bèze. ma di non recarsi mai a messa e di essere solita confessarsi solo a Dio, senza mediazione di sacerdote al- cuno. Convocata a Cuneo da monsignor Scarampi, la donna non si presentò, ve- nendo così condannata in contumacia al pagamento di una multa56. Nel maggio dello stesso anno, sempre a Cuneo, per ordine di Carlo Emanuele I, e dietro «commissione del magnifico signor Giovanni Francesco Drago, luogotenente del capitano generale di giustizia», si ponevano sotto sequestro i beni di Tomaso e Anna Tomatis, di Vincenzo Rubatto (altro eretico che era comparso nella lista compilata dal Roero) e di Maddalena Farina, la quale, bandita da Cuneo, si sarebbe ritirata prima a Levaldigi e a Villanova e infine nelle Valli valdesi57.
Mentre, oltreconfine, Ginevra restava la meta più naturale e ambita per gli esuli che si sentivano più o meno in sintonia con l'ortodossia riformata58, le vallate circostanti Cuneo continuavano a costituire il ricettacolo più facile da raggiungere e più adatto per mantenere i contatti con i fuoriusciti francesi. I nuclei di eterodossi si erano cementati, in forma latomica, grazie al sostegno e alla partecipazione attiva di alcune famiglie di origine "civile" o nobile toccate dalle idee ugonotte, secondo tempi e modi scanditi dalle vicende delle guerre di religione che si combattevano appena al di là delle Alpi.
54 M. F. MELLANO, La Controriforma nella diocesi di Mondovì cit.. p. 127.
55 A. PASCAL. Storia della riforma cit., p. 13. Sul complotto organizzato a Nizza cfr. ID., La lotta contro la Riforma cit., parte II, p. 13.
56 Visita di monsignor Scarampi (1583), A.V.M., f. non num.
57 G. Jalla, Storia della Riforma cit. pp. 90, 240-241, 244, 246, 275. 302, 315; A. PASCAL. Storia della riforma cit., pp. 55. 76-80.
58 Sulla folta schiera degli esuli piemontesi in Svizzera (nobili, patrizi, ecclesiastici, ma an- che semplici artigiani) cfr. M. FIRPO. Riforma protestante cit., p. 30. Un'esperienza di radicali- smo teologico e di polemica anti-trinitaria contro la chiesa ginevrina fu vissuta dal nobile savi- glianese Giovanni Paolo Alciati della Motta insieme con il medico saluzzese Giorgio Biandrata. Cfr. la voce di D. SELLA in Dizionario biografico degli italiani (d'ora in poi D.B.I.), v. II, Roma, 1960. pp. 68-69. Per un caso di eretico visionario a quanto risulta di origini piemontesi, quello di Iacopo Brocardo, che non si allontanò mai formalmente dall'ortodossia calvinista, pur dovendo continuamente migrare dalla Svizzera all'Inghilterra. dall'Olanda alla Germania, si veda la voce di A. ROTONDÒ, ivi. v. XIV. Roma. 1972, pp. 385-389.
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6. La diffusione della Riforma nelle valli.
Si prenda il caso di Caraglio. Qui, a metà Cinquecento, la Riforma aveva or- mai posto salde radici, favorita dalla caduta del paese in mano ai francesi (1557) e dall'onda d'urto dei missionari ugonotti provenienti d'oltralpe, che avevano cac- ciato i sacerdoti cattolici dalle chiese trasformandole in agguerriti fortilizi. Nel 1559 la comunità protestante, dalla quale erano partiti in direzione di Ginevra al- cuni transfughi, risultava tanto compatta da chiedere che fosse inviato un pastore. Non a caso, nel 1561, scrivendo a Emanuele Filiberto, il gesuita Antonio Posse- vino, attivissimo in quelle stesse località con una strategia fondata soprattutto sul- l'indottrinamento positivo attraverso la diffusione dei catechismi, esprimeva il suo stupore per il fatto che Caraglio avesse finalmente accettato di accogliere il predi- catore che le era stato destinato per ordine del duca59; la situazione restava, tuttavia, quanto mai critica, visto il coinvolgimento dei signori locali (i Solaro) in una fitta rete di complicità che aveva contribuito a proteggere e soccorrere diversi eretici. Decisivo, in tal senso, era stato l'appoggio garantito da Giovanni Battista Solaro. Figlio del governatore di Mondovì Filiberto Solaro (un capitano di cavalleria che aveva prestato servizio tanto ai Savoia che alla Francia) e marito di Beatrice Farina (una delle tre figlie di Maddalena Farina, la quale, come si è detto, aveva abbando- nato Cuneo per Levaldigi e Villanova. trovando ospitalità proprio a casa dei So- laro), Giovanni Battista apparteneva a un ramo dei consignori di Moretta, Villa- nova, Caraglio. Casalgrasso e Levaldigi che partecipò attivamente nel Cuneese agli scontri fra cattolici e protestanti, schierandosi con i secondi. Con i fratelli Carlo e Nicolò e con le rispettive mogli, egli scelse opportunamente di rifugiarsi a Bobbio Pellice. tra le Valli valdesi, dove rimase sino agli ultimi anni di vita60.
Quando nel 1565 l'offensiva ducale si era tradotta in un secco ultimatum (convertirsi oppure, per gli eretici convinti, mettersi in salvo in esilio), il castellano Gioannetto Arnaudo aveva iniziato a compilare anche a Caraglio la lista dei rifor-
59 Antonio Possevino (Mantova 1534 ca.-Ferrara 161 1) era entrato nel 1559 nella Compa- gnia di Gesù, dopo essere stato precettore di Francesco e di Scipione Gonzaga. Incaricato da Gregorio XIII di svolgere opera di proselitismo in Germania. Ungheria. Svezia. Polonia e Russia, predicò anche in Francia e nello Stato sabaudo, in particolare nelle Valli valdesi. Su di lui cfr. G. JALLA, Storia della Riforma cit.. p. 159; R. DK SIMONE, Tre anni decisivi di storia valdese. Mis- sioni, repressioni e tolleranza nelle valli piemontesi dal 1559 al 1561. Roma. 1958: M. SCADUTO. Le missioni di A. Possevino in Piemonte. Propaganda calvinista e restaurazione cat- tolica. 1560-1563. «Archivum historicum Socielatis Jesu». 1959. pp. 51-191; Storia della Com- pagnia di Gesù in Italia, v. IV. Roma. 1974. pp. 669-686: A. PROSPERI. Tribunali della co- scienza cit., pp. 61 1-613.
60 Una testimonianza in prima persona di Giovanni Battista Solaro si trova in Memorie varie relative al Piemonte dal 1560 al 1571. Biblioteca Reale di Torino (d'ora in poi B.R.T.), Mise. 122.2, c.4 non numerata. Si tratta di una raccolta coeva di editti, lettere e osservazioni, in cui Solaro dichiara la propria partecipazione agli scontri e alle tensioni di quegli anni. Su di lui si ve- dano le Notizie sulla famiglia Solaro. B.R.T.. Miscellanea 89. n. 25. f. 360; A. PASCAL. Storia della riforma: cit. p. 28; ID., La lotta contro la Riforma cit., parte II. p. 53.
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mati (che sarebbe ammontata a circa 900 sospetti), mentre, da parte sua, il podestà, Donato Calastro, aveva messo sotto sequestro il beneficio e i redditi della pieve, caduta in mano ai protestanti. Non avendo ottenuto alcun risultato con la prudenza (concedendo ai riformati il diritto di risiedere in paese, a patto che essi giurassero di non voler fare proseliti), nel 1566 Emanuele Filiberto decise di recarsi personal- mente a Caraglio, facendo alloggiare nelle case dei protestanti, per ritorsione, parte della sua scorta armata. Iniziava così un attacco frontale, che avrebbe colpito nel complesso la comunità: messi al bando gli stranieri, numerosi caragliesi furono in- carcerati, costretti ad abiurare o espulsi. Il 29 agosto 1566, non diversamente da quanto era stato predisposto a Cuneo in gennaio, partiva l'ordine di sostituire il se- gretario del Consiglio comunale, Sebastiano Vivenza, e di affidare solo a cattolici fidati le scuole e l'amministrazione delle cappelle, delle confraternite e degli istituti di beneficenza61. Nel 1569 giungevano a Caraglio il capitano di giustizia Giuseppe Barberi e un commissario, Antonio Bellotto, incaricati di assistere all'abiura collet- tiva dei "capi casa", dei sindaci e di alcuni consiglieri, che erano stati, nell'occa- sione, convocati presso la parrocchia di Santa Maria62. Intanto, con un'abile regia della Camera ducale, i Solaro erano stati costretti a vendere ad Emanuele Filiberto i loro beni feudali ad un prezzo politico63. A Caraglio la Riforma subiva così una battuta d'arresto, ma non un completo sradicamento: nuovi tentativi di rivolta si sa- rebbero puntualmente ripresentati tra il 1572 e il 1573 e dal 1592 al 1593, soffocati con la solita politica di confisca dei beni e di riconversione forzata.
Anche in valle Grana le idee ugonotte avevano trovato fertile humus, insi- nuandosi tra gli stessi membri del clero64. La valle era compresa nel marchesato di Saluzzo, e quando nel 1548, dopo estenuanti lotte dinastiche seguite alla morte di Ludovico II e alla reggenza di Margherita di Foix, il marchesato era stato annesso alla Francia (prima di passare a Carlo Emanuele I nel 1601) le sue vallate erano state attraversate non soltanto da soldati, ma da ministri e predicatori francesi di fede calvinista che avevano creato una rete di chiese più o meno occulte (ospitate spesso in case private) nelle quali gli adepti erano soliti ascoltare la lettura delle
61 Protocolli ducali, v. 226, f. 214.
62 Archivio Comunale di Caraglio. categ. I, classe IX.
63 P. MERLIN, Emanuele Filiberto cit., p. 248.
64 II fiorentino Domenico Baronie che, nominato parroco di Valgrana verso la metà del Cinquecento, aveva svolto attività di predicatore sotto la protezione di Massimiliano Saluzzo. sembrerebbe essere stato fra quanti adottarono una condotta di tipo nicodemitico. Su di lui cfr. D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento. Ricerche storiche, Firenze, 1939, p. 203, e la voce di C. GlNZBURG in D.B.I., v. VI, Roma, 1964. Sul nicodemismo A. ROTONDÒ, Atteggiamenti della vita morale italiana del Cinquecento. La pratica nicodemitica, «Rivista storica italiana». 1967, pp. 991-1030; C. GlNZBURG, // nicodemismo. Simulazione e dissimulazione religiosa nel- l'Europa del '500, Torino, 1970; A. BIONDI, La giustificazione della simulazione nel Cinque- cento, in Eresia e Riforma nell'Italia del Cinquecento. Miscellanea I, Firenze-Chicago, 1974. pp. 5-68.
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Sacre Scritture e assistere al rito della "cena"65. Ne scriveva da Venezia nel 1561. prima di rendere esplicita la sua adesione alla fede riformata, il residente fiorentino Pietro Gelido, che, a pochi anni di distanza, fuggito dalla Serenissima e rifugiatosi a Ginevra e poi in Francia, sarebbe infine rientrato in Italia stabilendosi come pa- store non lontano da Saluzzo, ad Acceglio66.
I confini tra il marchesato e i domini sabaudi, e in particolare la valle Maira e la comunità di Dronero. erano diventati, in quegli anni, autentici ricettacoli per gli * eterodossi, nei confronti dei quali le autorità (francesi e successivamente sabaude) scelsero di adottare una politique de bascule. Basti pensare al decreto che. sul finire del 1560, ripristinava nelle terre del marchesato l'antica procedura per la nomina del podestà riconoscendo alle comunità il diritto di presentare una terna di nomi tra i quali sarebbe dovuto uscire eletto il magistrato. Già nel 1561 i comuni della valle Maira beneficiarono di tale privilegio ottenendo che fosse creato podestà di Dronero Vincenzo Pollotti (o Pollotto). uno dei sostenitori più in vista dei ri- formati, e ciò si verificò a dispetto di un editto del 1560 che aveva escluso dall'uf- ficio qualsiasi aderente alla Riforma67. Né la fortuna dei Pollotti e la loro fama di riformati si sarebbero esaurite nel volgere di qualche anno: nel primo Seicento li si sarebbe trovati a capo della fazione protestante - contrapposta a un'altrettanto ag- guerrita fazione cattolica - nel Consiglio di Dronero68, e in pieno Seicento in giro per l'Europa (intorno al 1663 moriva a Ginevra Alfonso Pollotti, che da Dronero era migrato in Olanda seguendo un tipico percorso da eterodosso)69.
65 G. JALLA. Storia della Riforma cit., p. 270; A. PASCAL, // Marchesato di Saluzzo e la Ri- forma protestante. 1548-1588. Firenze. 1960. p. 117. Si calcola che nel 1567 nel Saluzzese vi fossero circa venti comunità regolarmente costituite, con nove pastori autonomi rispetto alle chiese valdesi, per quanto in contatto con esse. Cfr. S. CAPONETTO. La Riforma protestante cit., p. 165. Su Margherita di Foix cfr. la voce di A. MERLOTTI in D.B.I.. v. XLIX. Roma. 1998. pp. 513-516.
66 G. JALLA. Storia della Riforma cit.. p. 202. Sul sacerdote Pietro Gelido, nato a San Mi- niato intorno al 1495. divenuto segretario del cardinal Farnese e di Cosimo de' Medici, entrato al servizio del cardinal Ippolito d'Este. passato quindi da Ferrara a Venezia come residente per conto della corte fiorentina, e successivamente fuggito in esilio per evitare l'arresto, cfr. G. JALLA, Pietro Gelido riformato italiano del secolo XVI. Segretario papale residente fiorentino a Venezia, ministro evangelico in Piemonte. «Rivista cristiana», nuova serie. 1899. pp. 179-189, 215-221, 270-276. 289-296; // processo inquisitorial del cardinal Giovanni Morone. Edizione critica, v. [, a cura di M. Firpo. Roma. 1981. pp. 334-336: M. FIRPO, Inquisizione Romana e Controriforma. Studi sul cardinal Giovanni Morone e il suo processo d'eresia. Bologna. 1992. pp. 170-171. 204-205. 287.
67 Cfr. G. MOLA DI NOMAGLIO. / Birago nella storia della valle Maira. «BSC». 1985, II semestre, pp. 126-129.
68 Nel 1614 la fazione protestante presente nel Consiglio comunale di Dronero era rappre- sentata, oltre che dai Pollotti. dai Benesia. dai Garneri e dai Gosio; quella dei cattolici dagli Ali- nei. Cfr. G. MANUEL di SAN GIOVANNI, Memorie storiche di Dronero e della Valle di Maira. Torino. 1868. v. II. pp. 203-204.
69 A. MANNO. // patriziato italiano. Notizie di fatto storiche, genealogiche, feudali ed aral- diche. 2 voli, a stampa. Torino. 1906. e 25 voli, dattiloscritti in consultazione presso le principali biblioteche e gli archivi torinesi, v. XXI, p. 587.
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Negli ultimi anni del ducato di Emanuele Filiberto, quando il marchesato di Saluzzo era retto dal governatore Carlo Birago70, la situazione in valle Maira parve precipitare. Nell'autunno del 1575 il governatore aveva dovuto infatti fronteggiare un vasto movimento di protestanti, i quali, confidando nella promessa di intervento da parte dei correligionari di altre vallate del Cuneese e del Pinerolese. e facendo affidamento sul rinforzo degli ugonotti francesi, contavano di impadronirsi di Dro- nero e di alcuni punti nevralgici del Saluzzese, compresa la capitale. Ma l'appoggio militare del duca di Savoia e la cerchia di informatori di cui Birago si era circon- dato consentirono l'allestimento di un esercito che ebbe presto buon gioco sui ri- voltosi71.
Alla morte di Emanuele Filiberto (1580) il fenomeno registrò una nuova re- crudescenza, sull'onda del riacutizzarsi della lotta politico-religiosa in Francia: dopo il massacro di circa 20.000 ugonotti (più di 2.000 solo a Parigi) nella notte di San Bartolomeo (1572), con l'editto di Beaulieu Enrico III aveva fatto nuove con- cessioni ai protestanti (1576), scatenando una reazione da parte cattolica che portò la Lega capitanata da Enrico di Guisa a stringere alleanza con la Spagna (1584). Di riflesso, in Piemonte, mentre a Centallo e nei suoi dintorni si rafforzò Y enclave di riformati che già vi era nata, le valli Stura e Vermenagna subirono diverse scorrerie ad opera delle agguerrite bande di avventurieri giudate dal generale ugonotto Lesdiguières72.
Per reagire a questi nuclei armati Carlo Emanuele I, che sin dal 1588, qualche anno prima di vedersene riconosciuto il possesso, aveva occupato il marchesato di Saluzzo facendo presidiare i castelli di Carmagnola e di Centallo e facendo co- struire i forti di Bersezio e di Demonte, optò per una politica di compromesso73.
70 Carlo Birago succedeva al fratello Ludovico. Già governatore di Chivasso, nel 1566 egli aveva ottenuto la cittadinanza saluzzese e nel 1568, con patenti del re Carlo IX, la concessione dei redditi del castello di Dronero e della chiavaria di tutta la vai Maira. Cfr. A. PASCAL, // mar- chesato di Saluzzo cit.. p. 337; G. MANUEL di SAN GIOVANNI, Memorie storiche di Dronero cit., p. 77.
71 A. PASCAL, // marchesato di Saluzzo cit.. pp. 370-376.
7- Proveniente da una modesta famiglia di gentiluomini che esercitavano la professione no- tarile, François de Bonne, duca di Lesdiguières (1543 ca. -1626), aveva aderito alla Riforma en- trando nel 1562, in qualità di insegna, nelle schiere ugonotte, fino a diventare in breve tempo capo del partito protestante in Delfinato. Alleato di Enrico di Navarra, uscito salvo dal massacro della notte di San Bartolomeo (23-24 agosto 1572), aveva continuato a combattere contro i cat- tolici guadagnando sempre più potenza e ricchezza. Enrico IV lo nominò luogotenente generale in Provenza e nel Delfinato, e, nel 1609, maresciallo di Francia. Creato duca nel 161 1 da Maria de Medici, abiurò il protestantesimo nel 1622, assumendo la carica di connestabile di Francia. Cfr. CH. DUFAYARD, Le connétable de Lesdiguières, Paris, 1892.
73 B.C.C., ms. 10, codice Corvo, 2 voli., v. II, pp. 219-222, 283, 290, 292; R. QUAZZA, Preponderanza spaglinola (1559-1700), Milano, 1950, pp. 389-394. Edificato nel 1588 ad opera di Gabrio Busca, ingegnere militare al servizio sabaudo, il forte di Demonte era in realtà frutto dei rilievi (e probabilmente del disegno stesso) che erano stati eseguiti dal celebre ingegnere Er- cole Negro di Sanfront. Nominato comandante del forte (1590), Sanfront alloggiò a Cuneo per un certo periodo e qui disegnò alcune parti delle fortificazioni (1595-1596), risanò il sistema dei pozzi che rifornivano d'acqua la città, costruì la chiesa della Madonna dell'Olmo e lavorò alla ri-
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Pur valendosi della collaborazione del vescovo Pichot74 e dei predicatori gesuiti e cappuccini che, tra gli anni ottanta e gli anni novanta del Cinquecento, attraversa- rono le comunità della valle Grana, il duca non rinunciò a servirsi di uomini che avevano prestato servizio sotto la corona francese. Al governo del marchesato restò Michele Antonio Saluzzo (già governatore di Lione e luogotenente a Saluzzo per conto del re di Francia, che lo aveva creato cavaliere dell'ordine di San Michele): nel 1590 Carlo Emanuele lo nominò colonnello delle milizie, donandogli il castello e i redditi di Verzuolo, prima di ascriverlo al più alto ordine cavalleresco sabaudo, con il collare dell'Annunziata (1602). Il figlio di Michele Antonio, Renato Saluzzo, fu invece insediato come governatore di Dronero (1593), divenendo successiva- mente consigliere di Stato e membro del Consiglio segreto del duca, nonché an- ch'egli cavaliere dell'Annunziata75. La potente famiglia dei Saluzzo, in sostanza, riuscì a mantenere le proprie cariche e il possesso dei propri beni e titoli feudali, mentre il vescovo Pichot raccoglieva le abiure di quanti, in quelle terre, avevano aderito alla Riforma ed erano ora minacciati da Carlo Emanuele di essere cacciati dai territori del ducato. All'aprirsi del Seicento nel Saluzzese le abiure sarebbero continuate davanti al frate cappuccino Filippo Ribotto di Pancalieri, strenuo soste- nitore della necessità di perseverare con un duro attacco dottrinale agli eretici senza cedere il passo all'atteggiamento pedagogico e alle forme caritatevoli degli inter- venti missionari che venivano patrocinati, piuttosto, dall'ordine gesuitico76.
L'attività pastorale dei gesuiti e dei cappuccini raggiunse anche la valle Stura, dove l'arcivescovo di Torino Carlo Broglia, recatosi in visita a Demonte nel- l'agosto 1595, aveva trovato che, su 2.000 anime che si sarebbero dovute accostare
strutturazione degli argini lungo il torrente Gesso. Cfr. C. PROMIS, Gli ingegneri militari che operarono o scrissero in Piemonte dal 1300 al 1650. in Miscellanea di storia italiana, v. XII cit., pp. 591-602; C. TURLETTI, Storia di Savigliano, v. Ili, Torino. 1879, pp. 710-721; A. BONINO, // barocco nel Cuneese, in Miscellanea cuneese, Torino, 1930, pp. 155-157; Secoli della città di Cuneo composti da Teofilo Partenio, dedicati agli illustrissimi signori sindici, consiglieri e ragionieri della medesima città, Mondovì, 1710. p. 203; M. VIGLINO DAV1CO. Fortezze sulle Alpi. Difese dei Savoia nella ralle Stura di Demonte, Cuneo, 1989.
74 Nato in Delfinato, già consigliere e predicatore di Enrico III. Pichot si insediò nella dio- cesi saluzzese nel 1583, dove si sarebbe trattenuto fino alla sua morte, nel 1597. Cfr. M.A. RORENGO, Memorie historicité cit., p. 219; F. SAVIO. Saluzzo e i suoi vescovi. Saluzzo, 1911, pp. 318-322. Le sue visite pastorali sono conservate in Archivio Vescovile di Saluzzo.
75 La vertu récompensée. Histoire généalogique et cronologique de la Royale Maison de Savoye [...] par le P. Michelange Boccard, religieux minime ( 1740). ms. in B.R.T.. Stona patria 757. v. I, p. 378 e ss.
76 Nominato da Clemente VIII commissario apostolico delle missioni inviate in Piemonte. Ribotto lasciò traccia del proprio operato in alcuni testi a stampa, come il Discorso in modo di dialogo avuto dal Padre Filippo Ribotto di Pancalieri, cappuccino, con Davide Rostagno nel vil- laggio di San Germano sull'eucaristia e sul sacrificio della messa, nel quale il ministro prote- stante Rostagno, convinto, si arrese e molti altri calvinisti con lui, Torino, 1598, e 1* Esposizione dell'orazione domenicale distribuita in quattro parli secondo i quattro sensi della Scrittura del Padre Filippo Ribotto da Pancalieri, missionario cappuccino. Torino. 1614. Su di lui, F.Z. MOLFINO. / cappuccini genovesi, v. [, Genova. 1912. pp. 34. 478; A. PROSPERI. Tribunali della coscienza cit.. p. 61 1.
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all'eucaristia, solo 600 avevano l'abitudine di comunicarsi77. I focolai di eterodos- sia erano stati ormai progressivamente isolati e ridotti all'attività di ristretti cena- coli, resistenti più di altri alla politica ad un tempo di costrizione e di persuasione perseguita dal potere ducale. Sarebbe interessante, da questo punto di vista, poter disporre di qualche elemento in più sul ruolo giocato, nel corso delle operazioni di annessione del Saluzzese ai domini sabaudi, dai "vicari foranei" e dalle sedi dei tribunali ecclesiastici: si sa, per esempio, che, a partire dagli anni di Emanuele Fili- berto, appena al di là dei confini del marchesato, a sud di Saluzzo, aveva operato stabilmente a Verzuolo un inquisitore78, ma si ignorano gli effetti e le strategie della sua condotta rispetto ai disegni congiunti della Chiesa di Roma e di casa Sa- voia.
Più a sud, allo scorcio del ducato filibertiano (tra il 1575 e il 1579), l'estin- zione del ramo dei Savoia-Tenda aveva portato sotto il controllo del sovrano sa- baudo le comunità della contea di Tenda, tra cui Limone e Vernante. Questi centri, sottratti al dominio di signori che si erano ampiamente compromessi con la Ri- forma (diversi esponenti dei Savoia-Tenda, come s'è detto, erano stati ugonotti), conobbero negli anni di Carlo Emanuele l'energico intervento di un predicatore il quale seppe coniugare forse meglio di altri la voce ufficiale della Chiesa cattolica con i disegni del governo assoluto del principe: Francesco Panigarola79. Nominato vescovo di Asti, Panigarola non aveva perso tempo, recandosi in visita in molte comunità piemontesi e rendendone puntualmente conto alla corte torinese:
A Limone, presso la colla di Tenda, andai di primo volo [...]. Tuttavia, per grazia di Dio benedetto, non ho trovato né anche una minima macchia di fede. Tutti erano communicati alla Pasqua [...]. Sola una cosa ha grandissima necessità di provisione: cioè che il curato faccia residenza, perciocché, essendo quella chiesa in ius patronato di Vostra Altezza, e avendovi essa fatto instituire curato un messer Guglielmo Navarrotto, che dice la messa nel Senato di Turino, il buon prete vi andò una volta e affittò i suoi beni, poi, tornato a Turino, non vi ha mai messo piede, lasciando la cura in mano a due giovani della stessa terra, la quale può giudicare Vostra Altezza se sia terra da lasciare senza curato.
77 Consacrato nella diocesi di Torino nel 1592, Broglia era già intervenuto con fermezza nel 1593 facendo affiggere alle porte della chiesa metropolitana e delle parrocchie da essa dipendenti un esplicito invito alla delazione, rivolto non solo a chi professasse idee eretiche, ma a chi avesse contatti con seguaci della Riforma, stampasse o leggesse libri eterodossi. Cfr. Copia dell'editto del 1° febbraio 1593 di monsignor Carlo Broglia, A.S.T., Corte, Materie ecclesiastiche, cat. 9. mz. 1, fase. 18.
78 G. JALLA, Storia della Riforma cit., p. 270.
79 Entrato nell'ordine francescano dei minori osservanti a Firenze nel 1567, dedicatosi agli studi teologici e filosofici a Parigi, Panigarola aveva iniziato un'intensa attività di predicatore, da Milano a Ferrara, prima di essere trasferito, nel 1587, presso la sede astigiana. Sul ruolo di Pani- garola alla corte sabauda cfr. W. BARBERIS. Le armi del principe. La tradizione militare sa- bauda, Torino, 1988, p. 72.
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Assai più allarmante che a Limone era la situazione a Vernante, come il ve- scovo di Asti aveva potuto personalmente constatare:
Vernante, terra di Vostra Altezza, nell'istessa montagna, sta molto peggio; e io credo che nella mia diocesi niuna terra abbia infezione di eresia se non quella, non però tutta, anzi la maggior parte non solo è cattolica, ma è anche devotissima, e ne ha dati molti segni piissimi nella mia andata. Tuttavia non resta che non vi siano alcune persone, anzi case tanto eretiche che tutti gli altri lo fanno, che non si communicano mai. che non entrano in chiesa. E quello che mi fa inhorridire che infino nel sepelire i morti hanno un cimiterio particolare, ove tutta la terra sa che sepeliscono appartatamente i loro morti e molti credono che, in casa d'un capitano. Bernardino Dalmatio, eretico publico, si faccia anche segretamente qualche essercizio eretico80.
Fin qui il contenuto di una lettera che Panigarola inviò a Carlo Emanuele nel giugno 1588. mentre a un mese di distanza egli avrebbe potuto già registrare i primi effetti dei provvedimenti delle autorità laiche ed ecclesiastiche:
Al Vernante, mercé alla santa mente e agli ordini prudentissimi di Vostra Altezza Sere- nissima, aiutati assai dalla diligenza e valore del signore governatore di Cunio, si è, nella materia dell'Inquisizione, fatto ch'io non speravo, perché il capitano Bernardino Dalmazio, uomo di grande autorità, con i sospetti di quel luogo già è qua in mano mia con buona si- curtà, e mostra tanto buona mente di voler mutar vita [...] che spero che questa serà la ven- tura dell'anima sua e di molti di quel luogo81.
Ma il paese non si era lasciato intimorire dalle minacce di condanna. «Spirarono finalmente i termini che si erano dati da questo inquisitore per ordine mio - scriveva Panigarola alla fine di agosto dello stesso anno - a gli eretici del Vernante, senza che Antonio Poggetti, uno di loro, abbia mai dato segno alcuno di voler obedire, ove gli altri quattro pure promettono, fra pochissimi giorni, conver- sione con sicurtà; però questi, per pietà Christiana, gli aspetteremo ancora un poco. Ma di Antonio Poggetti si è data la sentenza, e sono confiscati i beni al fisco di Vostra Altezza Serenissima»82.
Investite dalla missione pastorale condotta da Panigarola, nel 1592 Vernante e Limone venivano staccate dalla loro antica sede vescovile (una sede troppo lon- tana) e assegnate alla nuova diocesi di Fossano. Pochi anni dopo si procedeva a rinsaldare i vincoli fiscali delle comunità nei confronti del clero. Col visto papale, nel 1597 si fissavano le decime dovute da Cuneo all'arcivescovo di Torino. L'anno precedente erano state definite le quote che la città avrebbe versato al rettore della
80 Lettere di monsignor Panigarola, vescovo di Asti, raccolte dal signor Alessandro Pani- garola e dedicate al serenissimo duca di Savoia. Milano. 1629. pp. 135-136, lettera al duca, da Asti, del 16.VI.1588.
81 Ivi. p. 138. lettera, da Asti, del 22.VII.1588.
82 Ivi. p. 139, lettera, da Asti, del 25. Vili. 1588.
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chiesa parrocchiale della Madonna della Pieve, mentre nel 1605 si stabilì la tassa, confermata dal pontefice nel 1609, a favore del vescovo di Mondovì in quanto «abate di San Dalmazzo»83.
Iniziava un secolo, il Seicento, alla ricerca di nuove forme di disciplinamento, in cui. ormai sradicata l'eresia, l'Inquisizione avrebbe continuato con zelo il suo lavoro abbandonando 1' «aspro confronto dottrinale» per intraprendere, piuttosto, una lenta «conquista religiosa» del «popolo superstizioso da cristianizzare»84. A Cuneo le tensioni erano destinate a riesplodere, con nuova virulenza e sotto nuove insegne, nel corso della guerra civile, mentre, sul piano istituzionale, un segnale chiaro di come si fosse fatto strada, anche in questa zona del Piemonte, un modo di procedere diverso dall'intransigenza anti-ereticale del secolo precedente fu costituito, sicuramente, dalla creazione del collegio gesuitico (1628). Tanto nel riemergere dei conflitti armati quanto nella realizzazione di un nuovo polo scola- stico, in sintonia con i disegni ducali ed ecclesiastici, un ruolo importante fu gio- cato dai ceti dirigenti urbani.
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83 Sopravvissute fino al Settecento, queste decime furono valutate complessivamente nel 1730, nel corso delle indagini di perequazione compiute dagli intendenti, per un ammontare di 7.105 lire annue. Cfr. Volume contenente le risposte per le decime e canoni nella provincia di Cuneo (1730), A. S T., Finanze. II archiviazione, capo 21, n. 141.
84 A. PROSPERI, Tribunali della coscienza cit.. p. 399.
L'importanza della politica religiosa nell'asilo dei valdesi in Germania (1699) nei territori luterani
Introduzione
Nel 1948 l'assemblea generale delle Nazioni Unite a New York licenziava la Carta dei diritti della persona. All'articolo 18 si stabiliva: «Ognuno ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; questo diritto implica la libertà di cambiare la propria religione e le proprie convinzioni, come pure la libertà di confessare la propria religione e le proprie ideologie sia individualmente sia in comunione con altre persone, sia in privato sia pubblicamente, con l'insegnamento, con l'esercizio del culto e altre manifestazioni culturali». Questo articolo è di fon- damentale importanza da un punto di vista politico-religioso, in quanto non solo garantisce la libertà di scelta individuale, ma garantisce il diritto di manifestare pubblicamente la religione scelta e di confessarla in collegamento con altre per- sone. La libertà religiosa include quindi la protezione di tutte le istituzioni reli- giose. Lo stato deve garantire a tutte le comunità e a tutti i movimenti confessionali e ideologici il libero esercizio della loro fede.
In Europa le prescrizioni dell'articolo 18 vengono oggi considerate come ovvie, dimenticando facilmente che anche sul nostro continente il diritto alla libertà religiosa è stato nel corso dei secoli fortemente rifiutato. Ciò vale in modo partico- lare per il medioevo, quando il concetto di unità era particolarmente accentuato. Tutti dovevano appartenere alla Chiesa romana, e movimenti religiosi come quello dei catari o dei valdesi, che si allontanavano dalla dottrina cattolica o negavano obbedienza alla gerarchia, erano considerati "eretici" ed erano fortemente persegui- tati da chiesa e stato. Questo dato di fatto si modificò nel XVI secolo, allorché la Riforma spezzò il monopolio della Chiesa cattolica. Lo spezzettarsi della cristianità in diverse chiese costituì il fondamento per lo sviluppo della libertà religiosa. Occorsero tuttavia ancora parecchi secoli prima che gli stati europei riconoscessero ad ogni cittadino, anche allo straniero, il diritto a scegliere la propria religione e ad esercitarla pubblicamente. In modo particolare paesi influenzati dal cattolicesimo come l'Italia si impegnarono a fondo nel l'avversare questo principio, come i val- desi ben sanno dalla loro storia.
Ringrazio Bruno Bellion per aver tradotto il mio articolo e Daniele Tron per i suoi consigli.
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Ma anche in paesi corne «il Sacro Romano Impero di nazione germanica», dove il protestantesimo si conquistò nel corso di alcuni decenni la maggioranza della popolazione, dovettero passare secoli prima che il diritto di libertà religiosa per ogni cittadino e per ogni minoranza religiosa potesse affermarsi1. Invero il di- ritto di libertà religiosa venne riconosciuto per la prima volta nella pace di Augusta del 1555, ma questo diritto rimase limitato alla persona del sovrano temporale. Inoltre questi poteva soltanto scegliere tra la "fede antica", vale a dire il cattolice- simo romano, e la confessione di Augusta. Come «appartenenti alla famiglia della Confessione di Augusta», secondo il diritto imperiale, erano considerati solamente coloro che riconoscevano la Confessici Augustana come loro confessione. Di tale confessione, scritta da Melantone, esistevano due forme: quella del 1530, cosid- detta invariata, nella quale si enunciava la dottrina luterana della Cena del Signore, e quella del 1540, la variata, nella quale Melantone aveva aderito alla dottrina ri- formata della Cena. La pace religiosa di Augusta riconosceva solo i seguaci della invariata e perciò la scelta all'interno del protestantesimo era limitata al luterane- simo.
In effetti alcuni principi dell'impero, come i principi elettori del Palatinato e del Brandeburgo, i quali avevano introdotto nei loro territori la confessione rifor- mata, cercarono di essere riconosciuti come «appartenenti alla famiglia della Con- fessione di Augusta» in quanto si richiamavano alla Confessici Augustana variata del 15402; questo riconoscimento lo ottennero però solamente nel 1648 con la pace di Vestfalia. Prima di allora i Riformati erano solo tollerati nell'impero e la loro esistenza fu sempre minacciata. È quindi soltanto a partire dal 1648 che esistono in Germania tre confessioni riconosciute: la cattolica, la luterana e la riformata. Men- noniti, antitrinitari, ecc. continuarono invece ad essere considerate minoranze ille- gali, eretiche.
Inoltre la pace religiosa di Augusta del 1555 negava ai sudditi il diritto di cambiar religione per scelta propria. Era infatti riservato al principe, in quanto summits episcopus, decidere la confessione dei suoi sudditi (jus reformandï). Suc- cessivamente venne coniata, per esprimere questo concetto, la formula "cuius re- gio, eius religio". Prima del 1648 poteva dunque accadere che i sudditi di un terri- torio fossero costretti, nel giro di pochi decenni, a passare più volte da una confes- sione all'altra. L'unica libertà del suddito consisteva nel fatto che gli veniva rico- nosciuto lo jus emigrandi qualora egli non fosse d'accordo sul cambio di confes- sione del suo principe. Aveva in questo caso il diritto di stabilirsi in un territorio della propria confessione.
1 Cfr. per la politica religiosa nel Reich: Harm Klueting, Das Konfessionelle Zeitalter 1 525- ì '648, Stuttgart 1989, pp. 138-145, 348-351.
2 Una delle differenze principali tra le Confessioni di fede redatte da Melantone. risiede nella dottrina della Cena del Signore (art. 10). Nella stesura del 1540, Melantone aderisce alla dottrina riformata.
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Solo con la pace di Vestfalia del 1648 lo jus reformandi del principe venne limitato. Con la cosiddetta regola dell'anno normativo i rapporti di appartenenza tra cattolici e «appartenenti alla famiglia della Confessione di Augusta» vennero stabiliti alla situazione presente alla data del 1° gennaio 1624. Se il principe aveva cambiato di confessione in un periodo successivo o se lo avesse fatto in futuro, i sudditi avevano il diritto di mantenere quella vecchia e di continuare ad esercitarla pubblicamente. Ma nemmeno la pace di Vestfalia concedeva ai sudditi la possibi- lità di cambiare confessione di loro iniziativa. Lo status quo ecclesiastico dei terri- tori, con la loro compattezza confessionale (status ecclesiasticus) doveva essere preservato.
Malgrado le prescrizioni della pace di Vestfalia alcuni principi riformati e luterani invitarono ben presto minoranze religiose di altra confessione a stabilirsi nei loro territori, indebolendone così la compattezza confessionale. I principi lute- rani del Brandeburgo-Bayreuth, dell'Assia-Darmstadt, del Wurttemberg e del Ba- den-Durlach accolsero, ad esempio, nel 1686-1688 e nel 1699 centinaia di "réfugiés", riformati calvinisti di lingua francese ed assicurarono loro la possibilità di esercitare pubblicamente in piena libertà il proprio culto, anche se questo con- traddiceva la regola dell'anno normativo del 1648. Si trattava di ugonotti, valloni e valdesi. I principi si spinsero addirittura fino al punto di rinunciare ai diritti colle- gati al loro ruolo di summus episcopus, concedendo a questi rifugiati il manteni- mento del loro ordinamento presbiteriano-sinodale3, cosa che non fecero il principe elettore del Brandeburgo o il langravio dell'Assia-Kassel, entrambi riformati, che accolsero la maggior parte di questi esuli per motivi di religione4. Quali motiva- zioni spinsero i quattro principi luterani citati ad accogliere una minoranza rifor- mata e a concederle il diritto all'esercizio pubblico della propria fede?
Non c'è alcun dubbio che motivi economici abbiano avuto un ruolo di primo piano. Questi quattro principi luterani volevano riportare ad una condizione di pro- sperità i loro territori, che avevano fortemente sofferto per la guerra dei Trent'anni (1618-1648) e per la guerra della Lega d'Augusta (1688-1697). Nello spirito del mercantilismo essi pensavano di poter ottenere questo risultato con la costruzione di nuove industrie e con l'aumento della produzione agricola. Per tale obiettivo i principi avevano però urgentemente bisogno di operai, imprenditori e contadini provenienti dall'esterno. Accogliendo esuli per motivi di fede, calvinisti di lingua francese, tra i quali erano numerosi gli imprenditori e gli artigiani, ci si ripromet- teva l'avvio di una industria tessile interna. Ma anche contadini come i valdesi
3 Accenno tratto da Johannes E. BlSCHOFF. Die Aufnahme der Hugenotten in Franken und die Ennvicklung ihrer franzòsisch-reformierten Kirchengemeinden, in: Moderameli der Evange- lisch-Reformierten Kirche in Bayern (a cura di), Gedanken zur Aufnahme der Hugenotten in Franken vor 300 Jahren, Nurnberg 1986, pp. 8 e ss.
4 Cfr. Jurgen Weitzel, Lande she rrliche Administrationsmafinahmcn zur Eingliederung hu- genottischcr Fluchtlinge, in: Heinz DUCHHARDT (a cura di), Der Exodus der Hugonotten. Die Aufliebung des edikts von Nantes 1685 als europàisches Ereignis, Kòln/Wien 1985, pp. 135-139.
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erano benvenuti, in quanto molte regioni erano state completamente abbandonate a causa della guerra rimanendo incolte. Si sperava inoltre di poter introdurre con il loro aiuto nuove colture, come l'allevamento del baco da seta. I "réfugiés" erano però disposti ad insediarsi in territori luterani solo a condizione che venisse loro assicurata la libertà religiosa. Non per nulla erano fuggiti dalla Francia dove era stato vietato l'esercizio della religione riformata!
Queste considerazioni economiche non possono tuttavia essere state il solo movente che ha spinto i principi territoriali a una simile decisione. Malgrado le ne- cessità di forza-lavoro, i territori luterani avevano sempre rifiutato, fino a quel momento, di concedere il diritto all'esercizio pubblico del culto ai riformati immi- grati. Si riteneva indispensabile mantenere lo status ecclesiasticus. I principi terri- toriali avevano sempre sostenuto questa politica non solamente perché ciascuno costituiva il summus episcopus della chiesa luterana, ma anche perché essi, come la maggioranza degli altri principi assoluti, consideravano le differenze confessionali dei propri sudditi come una minaccia per l'unità dello stato. Quali motivazioni5 spingevano ora i quattro principi luterani summenzionati ad essere disposti, alla fine del XVII secolo, a rinunciare al monopolio della chiesa territoriale e a garan- tire agli immigrati riformati libertà religiosa?
Spesso questa nuova politica ecclesiastica viene spiegata con il nascere del pensiero moderno di tolleranza. E infatti anche nella cerchia dei sovrani assoluti sorgevano, alla fine del XVII secolo, alcuni dubbi sulla necessità della omogeneità confessionale dei sudditi. La repressione violenta di una minoranza religiosa po- teva, come dimostrava la fuga in massa dalla Francia, essere altrettanto dannosa al benessere dello stato. L'esempio dell'Olanda e del Brandeburgo dimostrava al con- trario che una politica religiosa tollerante giovava all'economia. I principi luterani del Brandeburgo-Bayreuth, dell'Assia-Darmstadt, del Wurttemberg e del Baden- Durlach volevano ora realizzare una nuova politica religiosa tollerante di fronte alle diete luterane e favorire dunque veramente una pluralizzazione del panorama ecclesiastico nei loro territori? Volevano uno stato genericamente cristiano invece di uno stato confessionale?
Vorrei qui sostenere la tesi che originariamente nessuno dei quattro principi luterani mirava ad una politica religiosa nuova e tollerante. Certo tutti intendevano, nello spirito del mercantilismo, modernizzare l'economia dei loro stati e di conse- guenza puntavano ad accogliere profughi, tuttavia essi volevano nel medesimo tempo conservare uno status ecclesiasticus. Erano ancora convinti che la omoge- neità confessionale fosse necessaria. Soltanto così si può spiegare il fatto che nei territori luterani si volesse inizialmente consentire solo in via provvisoria ai "réfugiés" il diritto all'esercizio pubblico del culto riformato. Si considerava questo
5 Un ruolo importante fu giocato sicuramente dalla situazione politica internazionale. I Paesi Bassi, l'Inghilterra e il Brandeburgo, che combatterono a fianco dell'Impero contro la Francia nella Guerra della Lega di Augusta, esercitarono una forte pressione sui Principi luterani, accogliendo i "réfugiés".
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privilegio una misura transitoria e ci si aspettava che i riformati sarebbero presto stati integrati nella chiesa territoriale luterana.
Questa aspettativa fu alimentata nell'Assia-Darmstadt e nel Wurttemberg dal fatto che la maggior parte dei profughi era costituita da valdesi. Ora essi erano sì riformati calvinisti come gli ugonotti, ma venivano frequentemente considerati come un gruppo particolare in quanto si riteneva che fossero stati evangelici ben prima della Riforma e perciò rappresentassero la mater Reformationis, non solo di quella calvinista, ma anche di quella luterana. Perciò sembrava che i valdesi potes- sero essere conquistati ad una rapida integrazione nella chiesa luterana.
Innanzitutto vorrei spiegare perché i valdesi furono percepiti come un gruppo particolare all'interno dei "réfugiés" (1 paragrafo). Quindi nei successivi quattro paragrafi, esaminare la politica religiosa dei quattro territori luterani Brandeburgo- Bayreuth (2), Assia-Darmstadt (3), Wurttemberg (4) e Baden-Durlach (5), i quali tra il 1686 e 1688 e/o il 1699 accolsero valdesi, ugonotti e valloni, e vedere se e in che modo la speranza di una rapida integrazione nella chiesa di stato, in particolare dei valdesi, abbia influenzato questa politica. Infine, dimostrare la mia tesi, ovvero che questa attesa era infondata (6). I valdesi volevano raggiungere in Germania la stessa posizione privilegiata in ambito religioso e sociale che avevano avuto in Francia sotto le condizioni dell'Editto di Nantes. Essi speravano di poter tutelare così la loro identità etnico-religiosa.
Né i principi tedeschi né i valdesi erano peraltro favorevoli riguardo ai diritti di libertà religiosa per ogni minoranza. Entrambi affermavano l'idea degli stati confessionali e lo status ecclesiasticus della Chiesa luterana, con la sua posizione di supremazia, non fu mai messo in questione in alcun momento. I riformati dove- vano (o volevano) essere ammessi solo come minoranze riconosciute legittima- mente dallo stato. Solo de facto l'accoglienza dei valdesi portò ad una limitazione dei principi del Relativismo nell'integrazione confessionale, come era stato stabi- lito nella Pace di Vestfalia. Soprattutto l'Illuminismo avrebbe collocato i rapporti con le minoranze religiose in Germania su di un piano nuovo e diverso, anche se bisognerà aspettare fino alla costituzione della Repubblica di Weimar del 1919 per vedere assicurato il principio del diritto religioso al culto pubblico per ogni mino- ranza.
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1. L'origine e la particolarità dei valdesi 1.1. Origine6
La ricerca storica recente è unanime nell 'affermare che i valdesi hanno la loro origine nel commerciante Valdès. Questi fondò intorno al 1177, a Lione, il movimento dei "poveri di Cristo". Valdès insegnava che è possibile predicare l'E- vangelo in maniera credibile solamente se, come i discepoli di Cristo, si dà la pro- pria ricchezza ai poveri, ci si sposta come predicatori itineranti e si vive di elemo- sine. Il movimento valdese si diffuse nel XIII secolo in tutta l'Europa occidentale e centrale, ma venne via via estirpato dall'inquisizione nei secoli XIV e XV. Solo nelle Alpi Cozie, nel Luberon e in Calabria i "poveri di Cristo" poterono sopravvi- vere fino all'epoca della Riforma.
E noto che nel 1532 a Chanforan (Val d'Angrogna) i vari tronconi dell'antico movimento valdese medioevale giunto alle soglie dell'epoca moderna decisero, non senza contrasti, di inserirsi nel nascente protestantesimo. Iniziò così il lento processo di trasformazione verso la costituzione di una chiesa riformata che acqui- stò la sua configurazione definitiva negli anni che vanno dal 1555 al 1561. Sotto l'influsso del riformatore ginevrino Giovanni Calvino i valdesi costituirono nelle Alpi Cozie una piccola chiesa autonoma che si sarebbe poi autodefinita "valdese". Questa chiesa accolse nel 1560 la confessione di fede calvinista delle chiese rifor- mate francesi, la "Confessio gallicana", come pure la loro disciplina ecclesiastica presbiteriano-sinodale (discipline). Nel 1655 i valdesi piemontesi accolsero una confessione di fede7 che è ancora oggi in vigore nella chiesa valdese in Italia e che ha ripreso molte espressioni della "Confessio Gallicana" del 1559. I valdesi in questa professione di fede prendono anche implicitamente le distanze dall'arminia- nesimo che era stato condannato al sinodo di Dordrecht nel 1618-1619. Così i val- desi si assimilarono nella loro teologia, nella disciplina ecclesiastica e nella pietà agli "ugonotti", come furono chiamati i riformati francesi dai loro avversari. La lingua occitana, utilizzata sino ad allora dai predicatori itineranti, venne sostituita nel culto dal francese e dall'italiano. Solo nella vita di tutti i giorni si continuò a parlare occitano.
La piccola chiesa valdese nelle Alpi Cozie era alle sue origini un organismo bi-nazionale: riuniva infatti gli eredi dei valdesi medioevali del Delfinato, che ap- parteneva al re di Francia, e del Piemonte, dove detenevano il potere i duchi di Sa- voia. I valdesi francesi occupavano essenzialmente l'alta Val Chisone, chiamata
6 Per questo primo paragrafo si veda l'articolo di Daniele TRON. La Val Chisone e la dissi- denza religiosa, in: «La beidana», nn. 32, 33, 34.
7 Per approfondimenti su questo punto si veda Daniele TRON, Indagini sulla confessione di fede valdese del 7655, in: «Bollettino della Società di Studi Valdesi», n. 183 (1998), pp. 3-44, con edizione critica dei primi quattro lavori.
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anche Val Pragelato. I valdesi piemontesi erano concentrati in tre valli montane: la Val Luserna (oggi Val Pellice), la Val San Martino (oggi Val Germanasca) e la bassa Val Chisone, che all'epoca veniva chiamata Val Perosa. Nel 1598 tuttavia i valdesi del Delfinato abbandonarono la struttura ecclesiastica valdese per unirsi a quella riformata francese. Da quel momento la chiesa valdese nelle Alpi Cozie fu limitata ai soli territori sabaudi.
Negli anni 1685-86 i valdesi furono vittime di gravi persecuzioni prima da parte del re di Francia Luigi XIV, poi anche del Duca di Savoia Vittorio Amedeo II. I primi ad essere colpiti furono i valdesi francesi. Il 7 maggio 1685 venne vietato l'esercizio pubblico della religione riformata nell'alta Val Chisone o Pragelato e ciò sulla base dell'articolo 14 dell'editto di Nantes del 1598. In questo articolo veniva vietato qualsiasi esercizio della religione riformata «de là des monts» (al di là dei monti). Non c'è dubbio che in origine questo articolo era stato coniato per i protestanti del marchesato di Saluzzo, ma il priore di Mentoulles, Simon Roude il giovane, ottenne a seguito di un lungo procedimento giudiziario che questo articolo venisse applicato anche alla Val Pragelato.
Alcuni mesi più tardi, nell'ottobre 1685, Luigi XIV, revocò l'Editto di Nantes in tutto il suo regno e da allora l'esercizio pubblico della religione riformata fu vietato in ogni parte della Francia. Anche i valdesi della bassa Val Chisone furono colpiti da questa misura restrittiva, in quanto il Duca di Savoia nel 1632 aveva ce- duto la Val Perosa alla Francia. Nel corso del 1685 circa 1000 valdesi fuggirono dalla Val Pragelato8, sebbene ciò fosse severamente vietato dopo la revoca dell'e- ditto di Nantes. Solo ai pastori era concesso di emigrare.
Un gruppo di valdesi raccoltosi intorno a Jacques Papon padre e Jacques Pa- pon figlio, che erano stati entrambi pastori in Val Pragelato, si rifugiò in Svizzera nel 1685, e nel 1686 chiese innanzitutto al margravio Cristiano Ernesto di Brande- burgo-Bayreuth (cfr. paragrafo 3) di essere accolto nelle sue terre. Così un territo- rio luterano in Germania si dovette confrontare per la prima volta col problema dell'accoglienza di valdesi. E degno di nota il fatto che essi poterono qui far valere il diritto di esercizio pubblico della religione riformata. Due anni più tardi i due Papon con i loro valdesi si spostarono e chiesero al langravio luterano Ernesto Luigi di Assia-Darmstadt di essere accolti (cfr. paragrafo 4). Anche qui ottennero il diritto all'esercizio pubblico della religione. I valdesi si poterono tuttavia fermare solo per breve tempo neh 'Assia-Darmstadt, in quanto incapparono nel vortice della guerra della Lega di Augusta, scoppiata nel settembre del 1688; cercarono rifugio dapprima ad Hanau e Nidda.
All'inizio del 1686 il duca di Savoia, sotto pressione di Luigi XIV, vietò a sua volta l'esercizio della religione riformata in Piemonte. Dopo aver tentato una inutile resistenza i valdesi piemontesi furono esiliati alla fine del 1686 - inizio del
8 Theo KlEFNER, Die Waldenser auf ihrem Weg ans dem Val Cluson durch die Schweiz nach Deuischalnd 1532-1820/30. v. 4, Gòttingen 1980, pp. 326 e ss.
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1687. Essi dovevano trovare sistemazione in Germania. Nella seconda metà del 1687 una parte dei valdesi provenienti dal Piemonte giunsero nel ducato luterano del Wiirttemberg. L'amministratore ducale Federico Carlo, che all'epoca aveva la reggenza, si dimostrò disposto ad accogliere i valdesi assicurando il diritto all'eser- cizio pubblico della loro religione (paragrafo 5). Ma anche questo primo soggiorno di valdesi in Wiirttemberg sarebbe stato di breve durata. Dopo lo scoppio della guerra della Lega di Augusta nel settembre 1688 il governo del Wiirttemberg li respinse di nuovo verso la Svizzera, nel timore di rappresaglie francesi.
Nell'agosto del 1689 circa 1000 valdesi piemontesi e francesi, oltre ad un certo numero di ugonotti, tornarono con una azione sorprendente nelle Valli valdesi del Piemonte ed iniziarono colà una guerriglia. Il pastore Arnaud era tra gli ispiratori e le guide di questo cosiddetto Glorioso Rimpatrio. Questa azione mili- tare fu uno dei motivi per i quali nel giugno del 1690 Vittorio Amedeo II si allon- tanò da Luigi XIV e si alleò con la coalizione antifrancese.
Avendo dunque rotto la sua alleanza con la Francia nel giugno del 1690, il duca di Savoia consentì il ritorno degli altri valdesi piemontesi. Acconsentì pure, sotto la pressione diplomatica dell'Olanda e dell'Inghilterra, al fatto che essi potes- sero esercitare pubblicamente il loro culto. Il duca accolse anche valdesi pragelatesi ed ugonotti rifugiatisi in Svizzera e in Germania per motivi di fede, in quanto gli era indispensabile avere soldati nella guerra contro la Francia. Anche Papon figlio tornò, lavorando inizialmente come cappellano delle milizie protestanti e successivamente come pastore in Piemonte; il padre, malato, rimase invece in Germania e vi morì probabilmente poco dopo. Nel 1693 inoltre 1600 valdesi, che erano rimasti in Val Pragelato e si erano cattolicizzati solo formalmente, vennero a stabilirsi nelle Valli valdesi del Piemonte su invito del duca e ritornarono aperta- mente alla religione riformata. I pragelatesi e gli ugonotti speravano che la guerra avrebbe indotto Luigi XIV a rimettere in vigore l'editto di Nantes. L'obiettivo era quello di tornare in Francia non appena fosse stato assicurato ai protestanti il diritto all'esercizio del culto riformato.
Questa speranza si rivelò infondata: nella pace di Rijswijk, che pose fine alla guerra della Lega di Augusta, Luigi XIV non fece alcuna concessione agli ugonotti9. L'esercizio pubblico della religione riformata rimase vietato e gli esuli ebbero la possibilità di tornare in Francia solo a condizione di convertirsi al cattoli- cesimo. Già un anno prima, nel 1696, Vittorio Amedeo II aveva concluso una pace separata con Luigi XIV. In essa il re, in un articolo segreto, aveva concordato che il duca espellesse dal Piemonte tutti i protestanti nativi della Francia10. Di conse-
9 Cfr. Jean BéRENGER. Die Politik Frankreichs bei den Rijswijker Verhandlungen, in: Heinz DUCHHARDT (a cura di), Der Friede von Rijswijker, Mainz 1998, p. 101 .
10 Cfr. Matthias SCHNETTGER. Zwischen Spanien, Frankreich und dem Kaiser. Italien zur Zeit des Friedens von Rijswijk, in: DUCHHARDT (a cura di), Der Friede von Rijswijk, p. 208. Il testo degli articoli in: Mario VlORA, Storia delle leççi sui valdesi di Vittorio Amedeo II, Bologna 1930, p. 251.
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guenza due anni più tardi, il 1° luglio 1698, Vittorio Amedeo II bandì nuovamente tutti i valdesi e gli ugonotti di origine francese che non fossero disposti a conver- tirsi11. Il duca approfittò inoltre di questa occasione per allontanare anche i valdesi della sponda sinistra del Chisone. già appartenuta alla Francia, sebbene la valle fosse tornata fin dal 1686 sotto la sua sovranità e i valdesi di quella regione, mal- grado l'occupazione francese, fossero sempre stati parte della chiesa valdese del Piemonte. Solo i valdesi nati nella Val Pellice, nella Val Germanasca o sulla sponda destra della Val Chisone poterono rimanere; essi si sono mantenuti in que- sta regione fino ai giorni nostri, nonostante le varie repressioni.
In quel fatidico periodo vennero scacciati dal Piemonte circa 3.000 ugonotti e valdesi. Grazie all'appoggio dei Paesi Bassi, rappresentati dal loro inviato speciale Pieter Valkenier, poterono essere accolti nell'Assia meridionale, nel ducato di Wurttemberg e nelle terre del margravio di Baden-Durlach.
I pragelatesi furono destinati all'Assia meridionale, dove una parte doveva essere insediata nei territori riformati dell'Assia-Homburg, Ysenburg-Wàchter- sbach e Nassau-Schaumburg; la maggior parte tuttavia era prevista nell'Assia- Darmstadt. luterana. Vi si recò anche Papon figlio che già nel 1688 aveva ricevuto vantaggiosi privilegi di accoglienza nell' Assia-Darmstadt e ottenne il diritto al li- bero esercizio del culto pubblico riformato (cfr. paragrafo 4).
I valdesi provenienti dalle località di Perosa. Pinasca. Serre e Villar, nella Val Perosa, vennero invece destinati al Wurttemberg. La sorte di questi valdesi era particolarmente dura, in quanto erano stati cacciati nonostante che la Val Perosa appartenesse al Piemonte e fosse stata semplicemente occupata dalla Francia dal 1630 al 1696. Inoltre essi avevano sempre fatto parte della organizzazione eccle- siastica valdese, anche durante il dominio francese. Il duca di Savoia utilizzò tut- tavia la situazione politica favorevole per liberarsi di questa parte di sudditi "eretici". I valdesi della Val Perosa fondarono nel 1699 nel Wurttemberg nuovi villaggi con gli stessi nomi dei loro luoghi d'origine. Con questi valdesi di Val Pe- rosa giunsero allora in Wurttemberg anche molti riformati nati in Francia che ave- vano abitato nelle valle valdesi del Piemonte a partire dal 1690. o anche da molto prima, come il pastore Enrico Arnaud. Essi vennero alloggiati in Durrmenz e da lì fondarono tra gli altri Schònenberg e Wurmberg-Lucerne. Più tardi, intorno al 1700-1701, si trasferirono in Wurttemberg, dove potevano trovare condizioni mi- gliori, anche molti pragelatesi che si erano dapprima stabiliti nell'Assia meridio- nale. Essi fondarono, tra gli altri, Neuhengstett, Nordhausen e Palmbach. Tutti questi profughi ottennero nel ducato del Wurttemberg il diritto all'esercizio pub- blico della religione riformata (cfr. paragrafo 5). Alcuni ugonotti e valdesi giunsero nel 1699 nel territorio luterano di Baden-Durlach dove ottennero parimenti il di- ritto all'esercizio pubblico della religione riformata (cfr. paragrafo 6).
11 II testo di questo editto è consultabile in: Theo K.IEFNER. Die Privilegiai dcr nacli Dcut- schìand gekommen Waldenser, v. II. Stuttgart 1990. pp. 570-573.
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Tredici delle colonie valdesi di Germania, fondate tra il 1699 e il 1701, pote- rono conservarsi per lungo tempo. Nell'Assia esse erano: Charlottenberg (oggi Re- nania-Palatinato); Dornholzhausen; Walldorf; Rohrbach-Wembach-Hahn; Walden- sberg. Nel Wurttemberg: Pinache con Serres; Perouse; GroBvillars con Kleinvillars; Nordhausen; Neuhengstett; Palmbach con Untermutschelbach; Diirmenz con Corres, Sengach e Schònenberg; Wurmberg12.
1.2. Come i valdesi presentavano se stessi
Si ripropone sovente la domanda se sia possibile fare una distinzione tra val- desi ed ugonotti. I valdesi della Val Pragelato facevano parte fin dal 1598 della chiesa riformata francese e i valdesi delle Valli valdesi sarebbero di fatto, da un punto di vista teologico e spirituale, esattamente come gli ugonotti: riformati-cal- vinisti di lingua francese rifugiati per motivi di fede, anche se essi utilizzavano la lingua italiana accanto a quella francese e non erano sudditi del re di Francia ma del duca di Savoia.
Dalle fonti tuttavia si ricava un'altra immagine. Non solo gli esuli per motivi di fede che erano originari del Piemonte o che erano vissuti in quella regione, ma anche quelli provenienti dal Delfinato francese insistevano in Germania per essere considerati valdesi, non ugonotti. Come si può spiegare questa esigenza di presen- tarsi come un gruppo dal profilo particolare, come la "nation vaudoise"13 (come scrisse Henri Arnaud), come un "popolo"?
Naturalmente il "ricordo collettivo" del passato medioevale aveva un peso determinante per i valdesi. Le famiglie protestanti stabilite nelle Alpi Cozie da ge- nerazioni sapevano per tradizione orale che i loro progenitori erano stati parte dei "poveri di Lione" e di questo andavano fieri. Anche molti luoghi e realtà geografi- che nelle Valli erano collegati con la storia dei valdesi, particolarmente con il tempo delle persecuzioni. I valdesi percepivano la loro storia prima e dopo la Ri- forma come un tutto unico.
Questo "ricordo collettivo" non era tuttavia sufficiente a fare dei valdesi un "popolo". Ciò fu possibile solo allorquando nel corso del XVII secolo queste tradi- zioni vennero trasformate in una specie di identità etnico-religiosa. Questa trasfor-
12 Sulla storia dei valdesi della Val Chisone prima e dopo il loro insediamento in Germania, vedi Albert DE LANGE (a cura di). Dreihundert Jahre Waldenser in Deutschland. Herkunft und Geschichte. Mit einem Fuhrer durch die deutschen Waldenserorte. Karlsruhe 1999. In questo li- bro sono presentate anche altre colonie che furono fondate dai valdesi.
13 Henri Arnaud cita nel 1710 l'espressione «nation vaudoise» dalla sua Histoire de la Glo- rieuse Rentrée (dedica a Eberhard Ludwig: Préface c 4 recto, d 4 verso, d 5 verso), per gli abi- tanti delle Valli Pellice, Germanasca, Perosa e Pragelato (dedica alla regina Anna: Préface, C 3 verso). Egli racchiuse nella definizione anche i protestanti delle Valli di Briançon (Queyras. Vallouise. Freissinicres) e di Embrun.
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inazione è dovuta in primo luogo al libro apparso nel 1669 Histoire générale des églises évangéliques de Piémont; ou Vaudoises del pastore valdese Jean Léger.
L'opera di Léger è un miscuglio di tradizioni scritte e orali14. In modo parti- colare egli riprende la leggenda dell'origine apostolica che fin dagli inizi è presente nel movimento valdese. Infatti già nel 1260 il cosiddetto Anonimo di Passau scri- veva che, secondo alcuni, la setta dei valdesi sarebbe esistita già al tempo degli apostoli15.
Da una testimonianza del 1335 si può ricavare che i valdesi delle Alpi Cozie datarono l'origine del loro movimento al tempo degli apostoli16. Questa leggenda si mantenne nella cerchia dei valdesi anche dopo il 153217. La cosa per loro più im- portante era allora assicurare la continuità con i loro predecessori. Così Jean Perrin nella sua opera storica del 1619 riteneva che valdesi e albigesi fossero in fondo identici e che entrambi fossero stati "evangelici" già nei decenni precedenti Valdès. A dimostrazione di ciò Perrin presentava una confessione di fede che Jean Léger nel 1669 datava al 112018, sebbene questa fosse una compilazione messa insieme solo nel 1618-19 da Perrin a partire da brani risalenti non oltre al 153119. Pierre Gilles, che era pastore nella chiesa di Torre Pellice, nel suo libro del 1644 ricondu- ceva invero i valdesi a Valdès, ma riteneva che i suoi seguaci si fossero stabiliti, dopo la cacciata da Lione, nelle Valli valdesi, perché gli abitanti di quella regione avevano conservato il vero insegnamento apostolico fin dai tempi della chiesa primitiva. Egli non dedicò però più di una pagina a questa ipotesi20. Per lui era più importante sottolineare il fatto che i valdesi erano già riformati prima della Riforma e perciò sussisteva una continuità religiosa.
Nell'opera di Jean Léger le cose stanno in ben altri termini. Egli vedeva, se- guendo in questo apologeti calvinisti come Teodoro di Beza, Y origine apostolica dei valdesi come la loro unica caratteristica e si ricollegava quindi alla leggenda
14 Per l'opera storica di Jean Léger si veda Daniele TRON, Jean Léger e la storiografìa val- dese del Seicento, in: «Bollettino della Società di Studi Valdesi», n. 172 (1993), pp. 82-90. Sem- pre sull'importante ruolo che ha giocato Léger nella costruzione della leggenda, cfr. Emilio COMBA, Histoire des Vaudois, Paris/Florence 1898. pp. 75-1 18.
15 Alexander PATSCHOVSKY - Kurt- Victor SELGE. Quellen zur Geschichte der Waldenser, Gutersloh 1973. p. 73.
16 Cfr. Martin SCHNEIDER, Europàisches Waldensertum im 13. Und 14. Jahrundert. Ge- meinschaftsform - Frômmigkeit - sozialer Hintergrund, Berlin/New York 1981, pp. 87-89. I valdesi ritenevano, come tutti i loro contemporanei, che la cosiddetta "donazione costantiniana" fosse autentica.
17 Jean-François GlLMONT, Der Anschluss der romanischer waldenser an die Reformation. in: Gunter FRANK - Albert DE LANGE - Gerhard SCHWINGE (a cura di), Die Waldenser. Spuren einer europàischen Glaubensbewegung. Begleitbuch zur Ausstellung, Bretten, 1999, p. 92.
18 Jean LéGER, Histoire generale des églises évangéliques de Piémont; ou Vaudoises, Lei- den 1669, libro l.pp. 92-95.
19 Si veda Valdo VlNAY, Le confessioni di fede dei valdesi riformati con documenti del dialogo fra "prima" e "seconda" Riforma, Torino 1975, pp. 22-27.
20 Pierre GILLES, Histoire ecclésiastique des Eglises reformées ... autrefois appelées Eglises Vaudoises, Genève 1644. nuova ed. Pinerolo 1881, v. 1. p. 1 1 e cfr. cap. VI.
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medioevale delle origini valdesi che egli costruì sistematicamente. I valdesi sareb- bero il residuo della vera chiesa cristiana primitiva che è sopravvissuto a tutte le persecuzioni nelle isolate vallate delle Alpi Cozie. Léger fa derivare il concetto di valdese non più da Valdès, ma dalla parola latina vallis (valle)21. Valdese signifi- cherebbe perciò "gente delle valli". Léger non identificava ancora i valdesi con il popolo di Israele22, ma pose le premesse per l'idea che si sarebbe imposta tra i val- desi alla fine del XVII secolo secondo cui essi sarebbero un "secondo Israele", un popolo eletto con un suo paese assegnatogli da Dio23.
Nel 1689 lo studente in teologia Paolo Reinaudin interpretava il "Glorioso Rimpatrio" dei valdesi come una ripetizione della marcia di Israele attraverso il de- serto: «Dieu avoit aveuglé nos ennemis afin de faire passer son peuple dans le de- sert pour entrer dans nôtre petite Canaan»24. Il pastore valdese Enrico Arnaud nella sua Histoire de la Glorieuse Rentrée, pubblicata nel 1710, identificava senz'altro i valdesi con il popolo di Israele e le Valli valdesi con la terra di Canaan. Dio ha eletto i valdesi «comme l'élite de ses fidèles brebis»15 per riportarli nella «terre de leur Canaan»26, per ricostruirvi la santa «Sion»27. Alla metà del XIX secolo questa identificazione raggiunse il suo culmine nell'opera di Alexis Muston sulla storia dei valdesi che recava il titolo L'Israël des Alpes (L'Israele delle Alpi).
L'opera di Léger determinò soprattutto la comprensione di sé dei valdesi in Piemonte. E la cosa non sorprende, in quanto solo in questa regione i valdesi erano organizzati come chiesa particolare (Léger stesso era stato per un certo periodo moderatore di questa piccola chiesa) che concepiva se stessa come la continuazione diretta della chiesa delle origini. Si può perciò capire come proprio i valdesi pie- montesi che nel 1686-1687 erano emigrati in Svizzera e in Germania fossero ben consapevoli della loro particolare posizione e si considerassero distinti non solo dagli ugonotti, ma anche dai valdesi della Val Pragelato. francese28. La stessa cosa vale per i valdesi della Val Perosa che vennero in Germania nel 1699, in quanto, come abbiamo visto, le loro chiese ed i lóro pastori erano sempre stati parte della chiesa valdese piemontese, sebbene il loro territorio fosse occupato dalla Francia.
È tuttavia degno di nota il fatto che i riformati della Val Pragelato si conside- rassero anch'essi valdesi. Per quale ragione, dato che essi avevano lasciato la
21 LéGER, Histoire, libro I. p. 16.
22 Solo una volta paragona le Valli con la Terra Promessa: idem, libro I. p. 137.
23 Cfr. Giorgio TOURN. Rentrée, in: «Protestantesimo», n. 54 (1999). pp. 317 e 321.
24 Bulletin de la Société d'Histoire Vaiidoise, n. 5 (1889), pp. 15, 17.
25 Henri ARNAUD, Histoire de la Glorieuse Rentrée, 1710, p. 407.
26 Idem, p. 403.
27 Idem, p. 396.
28 Mcindert EVHRS, Gabriel de Convenat avoué de la "Glorieuse rentrée" des Vaudois. Correspondance avec les Etats-Généraux des Provinces-Unies 1688-1690, Genève 1995. pp. 14- 16. Joseph MONE, Zur Geschichte der waldenser, in: Badisches Archiv zur Vaterlandskunde un allseitiger hinsicht, Karlsruhe 1826, p. 176. Diversamente dai pragelatesi. i valdesi piemontesi ebbero negli anni 1685-86 molti morti e dispersi da lamentare.
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chiesa valdese nel 1598 e si erano integrati nella chiesa riformata francese e quindi avrebbero potuto a buon diritto essere definiti "ugonotti"? Questa definizione che i pragelatesi danno di se stessi ha molte ragioni. In primo luogo proprio nella Val Pragelato si mantenevano le antiche tradizioni valdesi. Le dure persecuzioni del medioevo, da ultimo nel 1488. non erano ancora dimenticate e i manoscritti medio- evali che oggi si trovano a Ginevra. Dublino e Cambridge erano, nella maggior parte, originari di questa valle. In secondo luogo si erano mantenuti strettissimi rapporti con la chiesa valdese in Piemonte anche dopo che i pragelatesi avevano aderito alla chiesa riformata francese. Nel 1655 i pragelatesi avevano offerto rifugio e aiuto militare ai valdesi piemontesi perseguitati. Pastori della Val Pragelato, come ad esempio Thomas Gautier, avevano dato il loro appoggio e sostegno teologico ai fratelli in fede del Piemonte nei loro accesi confronti con i missionari cattolico- romani29. Così non sorprende che i pragelatesi. come per esempio i due Papon, si presentassero nel 1688 come "valdesi"; la stessa cosa fecero, ad ancora maggior ragione nel 1699, in quanto erano vissuti negli anni precedenti in Piemonte e lì avevano fatto parte della chiesa valdese.
Questa presentazione di se stessi come cristiani "apostolici", "veri", "puri" dei valdesi piemontesi e francesi, non significava che essi intendessero negare il loro carattere riformato-calvinista. Avanzavano piuttosto la rivendicazione di aver sviluppato la loro fede e la loro organizzazione ecclesiastica presbiteriano-sinodale già prima della Riforma, persino ben prima di Valdès stesso. Asserivano di essere stati riformati molto prima della Riforma. Vedevano quindi se stessi come la conti- nuazione della chiesa apostolica e come la più antica chiesa riformata d'Europa.
Pur appartenendo all'ala riformata-calvinista della Riforma, questa autopre- sentazione offriva ai valdesi del Seicento la possibilità di un atteggiamento irenico nei confronti dei luterani. I due pastori valdesi Arnaud e Papon pregarono il lan- gravio, allorché nel 1698 gli presentarono le loro istanze, «de recueillir une partie de cette Eglise que tous les protestans d'une et d'autre communion regardent comme leur mère et matrice», dunque anche della chiesa luterana30. Questo atteg- giamento di conciliazione è da ricondursi ai tentativi di unione tra riformati e lute- rani dopo la fine della guerra dei Trent'anni. Tramite Antoine Léger31, professore a Ginevra ma originario delle Valli valdesi del Piemonte, gli sforzi di conciliazione di teologi riformati come John Durie e Johann Heinrich Hottinger penetrarono nelle Valli valdesi.
29 Thomas GAUTIER, pubblicava nel 1679 a Ginevra: Réponse pour Ics églises des Vallées de Piémont. Au Sieur Illuminé Faverot recolle/ et missionaire. Où soni refutées les erreurs de l'Eglise romaine et les chicanes des missionaire s.
30 Cfr. Daniel BONIN, Die Waldenser - Gemeinde Pragela auf Hirer Wanderung ins hessen- land. Worms 1901, p. 50.
31 Idem, pp. 142 e ss. Su Antoine Léger si veda il mio scritto: Antoine Léger (1596-1661), un internazionalista calvinista del Seicento, in: «Bollettino della Società di Studi Valdesi», n. 181 (1997). pp. 203-232. che nell'anno 2000 comparirà in un'edizione tedesca più ampia.
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Così i valdesi sottolineavano in appendice alla loro confessione di fede del 1655 che erano in comunione non solo con le confessioni di fede delle chiese so- relle riformate, ma «mesme à la Confession d'Ausbourg, selon la déclaration qu'en a donné l'Autheur» (vale a dire, dunque, la "Confessio Augustana" variata)*2, il che può essere interpretato come un'apertura nella direzione del luteranesimo. I valdesi perseguitati inviarono questa professione di fede a parecchi principi lute- rani, nella speranza di riceverne soccorso diplomatico.
L'autopresentazione dei valdesi come chiesa apostolica e mater reformationis venne accolta naturalmente in primo luogo dalle chiese riformate sorelle d'Eu- ropa33. In tal modo i valdesi potevano dimostrare che le chiese riformate non erano affatto una "novità" di recente apparizione, ma di aver ricostituito la pura, vera chiesa delle origini. Questo è anche il motivo per cui nel 1655 e a più riprese negli anni successivi al 1686 furono indette collette speciali per i valdesi nei cantoni ri- formati della Svizzera, nei Paesi Bassi e in Gran Bretagna. La "madre-chiesa" val- dese non doveva perire. Per la stessa ragione i diplomatici dei Paesi Bassi, come Mozes de Mortaigne e Pieter Valkenier34 si impegnarono in misura straordinaria a favore dei valdesi.
Anche nelle chiese luterane in Germania però tale autopresentazione dei val- desi trovò eco. Ciò era in parte dovuto allo stesso Lutero, il quale nel 1535 aveva pubblicato la "Confessio bohemica" come una confessione "valdese"35. Pratica- mente nessuno sapeva, nei secoli XVI e XVII, che questa confessione di fede non aveva origine dai valdesi ma dai Fratelli moravi, e che di conseguenza era debitrice della tradizione hussita. La valutazione positiva dei valdesi venne ancora forte- mente accresciuta nel luteranesimo dal Catalogus testium veritatis ("Catalogo dei testimoni della verità") di Mattia Flacio Illirico del 1556. Egli considerava i valdesi come precursori della Riforma in quanto si erano opposti al papato.
Nel XVII secolo i valdesi vennero anche considerati «luterani prima di Lu- tero». Questo deriva principalmente da una tesi discussa nel 1659 a Strasburgo da- vanti al professore luterano Johann Conrad Dannhauer. Il titolo era: Ecclesia Wal- densium ortliodoxiae lutlieraiiae testis et socia ("La chiesa dei valdesi come testi- mone e compagna dell'ortodossia luterana"). Il giovane Spener, successivamente padre del pietismo nel luteranesimo, difendeva l'opinione che i valdesi medioevali avessero insegnato l'ortodossia luterana. Spener operava in questo una distinzione molto netta tra i valdesi anteriori alla Riforma e i valdesi calvinisti successivi ad
32 TRON, Indagini, p. 38.
33 GlLMONT, Der Anscchluss, pp. 92 e ss.
34 Cfr. per Mortaigne, il paragrafo 3. Valkenier scrisse il 6 luglio 1699. che i valdesi ave- vano ricevuto l'eredità dell'evangelo da 700 anni (Daniel BONIN, Urkunden tur Geschichte der Waldenser-Gemeinde Pragela, v. 3, Magdeburg 1914, p. 64.
35 Carl Friedrich VON MOSER, Aclenmafiige Geschichte der Waldenser, Zurich 1798, pp. 24 e ss. Anche i valdesi del XVII secolo la considerarono una Confessione di fede valdese. Léger l'ha pubblicata come tale (Histoire, cfr. sopra alla nota 18, libro 1, pp. 96-104).
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essa36. Imparò tuttavia anche ad apprezzare i valdesi calvinisti, poiché abitò nel 1660 a Ginevra alcuni mesi in casa del professor Antoine Léger".
Questo modo dei valdesi di presentare se stessi, recepito da tutta la teologia evangelica sollevò fin dall'inizio la critica della Chiesa cattolica. Già nel medioevo gli inquisitori avevano contestato il fatto che i valdesi traessero origine dai tempi apostolici. Nei secoli XVI e XVII autori cattolici, come il gesuita tedesco Jakob Gretzer, il priore piemontese Marco Aurelio Rorengo di Luserna e il vescovo fran- cese Jacques Bénigne Bossuet, per non menzionarne che alcuni, polemizzarono contro queste pretese valdesi. Essi miravano a dimostrare in primo luogo che i val- desi non avevano origine dalla chiesa primitiva, ma da Valdès; in secondo luogo che i valdesi, con l'adesione alla Riforma, avevano abbandonato le loro tradizioni medioevali.
Per lungo tempo questa critica venne respinta da parte protestante, in quanto era di innegabile provenienza confessionale cattolica. Le ricerche storico-critiche moderne della seconda metà del XIX secolo hanno poi dimostrato in maniera inop- pugnabile che la supposta origine "apostolica" dei valdesi è una leggenda. Qui oc- corre riconoscere la fondatezza della critica cattolica, in quanto prima di Valdès non vi erano valdesi. Anche per quanto riguarda la domanda se e in qual misura l'adesione alla Riforma abbia significato la fine del movimento valdese medioe- vale, molti storici moderni, come per esempio Gabriel Audisio, sono orientati ad accogliere il punto di vista già sostenuto da lungo tempo dalla polemica confessio- nale cattolica, secondo cui dopo la Riforma non c'è più stato alcun "povero di Cri- sto". L'adesione dei valdesi alla Riforma rappresenta la fine del movimento val- dese medioevale38.
Tuttavia si dovrebbe considerare il fatto che i valdesi calvinisti del XVII se- colo credevano veramente alla loro origine apostolica e alla continuità con i "poveri di Cristo" medievali. Solamente considerando questa convinzione dei val- desi di essere la mater reformationis, la madre della Riforma, è possibile spiegare la ragione per la quale essi anche in Germania hanno sempre insistito per avere ri- conosciuta una posizione particolare nei confronti degli ugonotti francesi.
Naturalmente non mancavano anche ragioni prettamente materiali. I valdesi, bisognosi di tutto, avevano sentito dire che erano state fatte consistenti collette a loro favore in Olanda e in Gran Bretagna in quanto essi erano considerati dai fedeli di quei paesi come "mater Reformationis"39. Tendevano quindi ad evidenziare la loro posizione particolare in modo da non dover dividere questi denari con gli esuli
36 Johannes WALLMANN, Philipp Jakob Spener itnd die Anfdnge des Pietismus, Tubingen 1986, p. 126-128, cfr. p. 132.
37 Idem, p. 142 e s.
38 Per esempio Gabriel AUDISIO, Les "Vaudois". Naissance, vie et mort d'une dissidancc (XlIme-XVIme siècles), Turin 1989. Nella seconda edizione, Parigi 1998, sono scomparse le vir- golette del titolo.
39 MONE. Zur Geschichte. p. 174 e s.
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ugonotti. All'opposto, per lo stesso motivo, vi erano naturalmente anche ugonotti che si qualificavano come valdesi, mirando ad aver parte alle somme collcttate.
In secondo luogo l'atteggiamento delle autorità ecclesiastiche e politiche ne- gli stati luterani della Germania può essere compreso solo se si tiene presente que- sta rivendicazione dei valdesi. Sotto l'influenza di Spener anche molti luterani li consideravano, per via della loro presunta preistoria luterana, come un gruppo par- ticolare.
Queste circostanze dimostrano quanto "idee" e "interesse" siano intrecciati nella storia. Proprio perciò è necessario che nella storiografia si tengano ben pre- senti i fattori ideologici, anche quando si dimostrano essere soltanto leggende.
2. // territorio del margravio di Brandeburgo-Bayreuth
La persecuzione dei valdesi iniziò con il divieto da parte di Luigi XIV. il 7 maggio 1685, dell'esercizio pubblico della religione riformata nella Val Pragelato, cosa che era stata fino ad allora consentita sulla base dell'editto di Nantes. Soltanto ai pastori e alle loro famiglie fu data la possibilità di emigrare40. Così i due pastori Jacques Papon, il padre41 pastore a La Ruà di Pragelato e il figlio42 a Fenestrelle, ricevettero nel settembre 1685 un passaporto e si rifugiarono in Svizzera. Molti membri delle loro comunità li seguirono illegalmente.
I due pastori Papon scrissero in gennaio 1686, durante il loro soggiorno in Svizzera, un «Estât des Propositions»43, in cui facevano dieci proposte indirizzate in prima istanza al principe lettore - riformato - del Brandeburgo. Nella prima proposizione si auspicava che i valdesi «ayent l'exercice public et libre de leur re- ligion et de leur discipline, tout de la même manière qu'ils l'avoyent en France»44. In questo "Estât" si trova bensì il concetto di valdesi, ma senza alcuna indicazione aggiuntiva su che cosa significasse la particolarità valdese dei pragelatesi.
Quando fu chiaro che non era possibile un insediamento in Brandeburgo elettorale, i Papon si rivolsero nell'aprile del 1686 al margravio luterano Cristiano Ernesto di Brandeburgo-Bayreuth e gli presentarono lo stesso "Estât". Era la prima volta che i valdesi chiedevano ad un principe territoriale in Germania di essere ac-
40 A.J. ENSCHEDé, Les Vaudois dix ans après la Glorieuse Rentrée, in: «Bulletin de la So- ciété d'Histoire du Protestantisme Français», n. 39 (1890). pp. 472 e ss. Cfr. Henri TOLLIN, Urkunden zur Geschichte hugenottischer Gemeinden in Deutschland (Geschchtsblatter des Deut- schen Hugenotten-Vereins, Zehnt IV, fascicolo 10). Magdeburg 1895, p. 50.
41 Su Papon padre vedasi KlEFNER, Die Waldenser, v. 1, pp. 412-414.
42 Su Papon figlio (1654-1718) si veda idem, v. 4. Gôttingen 1997, pp. 627-633.
43 Dalla letteratura non è chiaro se il testo fu scritto da Papon padre, da Papon figlio o da en- trambi. Presumibilmente è quest'ultima l'ipotesi più verosimile.
44 Brigitte KòHLER, Die Waldenser-Privilegien des landgrafen Ernst-Ludwig von Hessen- Darmstadt, in: «Archiv fur riessisene Geschichte und Alterumskunde» 38 (1990), pp. 191 e ss. KlEFNER. Die Privilégiai, v. [, p. 92.
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colti con il mantenimento della libertà religiosa pubblica. I valdesi sapevano senza dubbio che il margravio aveva preparato fin dal dicembre 1685 un Privilegio, in cui aveva promesso ai "réfugiés", come questi avevano richiesto, il diritto all'esercizio pubblico della religione riformata45. Sulla base di questo Privilegio Cristiano Erne- sto si dimostrò disposto ad accogliere i due Papon e i loro compagni46.
Senza dubbio l'atteggiamento del margravio fu determinato in primo luogo da motivazioni economiche. Il suo territorio era sull'orlo della rovina finanziaria47. Perciò egli non tenne in alcun conto la resistenza del Concistoro luterano, un'auto- rità paritetica composta da giuristi e dignitari per le questioni ecclesiastiche, che aveva richiesto che gli ugonotti dovessero prima riconoscere la Confessio Augu- stana invariata46. Il margravio non ritenne opportuna questa pregiudiziale, perché in questo caso i réfugiés se ne sarebbero andati immediatamente. Non si deve tut- tavia ritenere che il margravio intendesse concedere la libertà religiosa ai riformati per sempre; egli si adoperava piuttosto per integrare pian piano i riformati nella chiesa luterana territoriale e condurli così sotto la sua autorità di summus episco- pus. Come la maggioranza dei principi assoluti egli auspicava l'omogeneità con- fessionale tra i suoi sudditi. Ma per raggiungerla, procedeva con prudenza.
Già nei suoi Privilegi del dicembre 1865 il margravio aveva preteso che i ri- formati accettassero la «Déclaration de la Foy» del sinodo nazionale francese di Charenton del 163149. Questo Sinodo aveva proclamato che le chiese della Con- fessione di Augusta {invariata) «convenoient avec les autres églises réformées dans les points fondamentaux de la véritable religion» e di conseguenza i luterani potevano, senza dover abiurare, partecipare alla Cena del Signore nelle chiese ri- formate50.
Nell'agosto del 1686 il margravio fece un passo ulteriore e pretese che i pa- stori delle chiese riformate francesi sottoscrivessero il cosiddetto "Revers", nel quale essi promettevano di adeguarsi alla dottrina della Confessione augustana e di insegnare e di vivere secondo questa confessione, dove senza dubbio si doveva in- tendere la forma invariata51. Solo dopo che i tre pastori riformati, tra i quali Papon.
45 BISCHOFF. Die aufnahme der Hugunotten in Franken, pp. 9. 26-29. KlEFNER. Die Privi- legien. v. 1. pp. 33-35. 132-140. KlEFNER, Die Waldenser, v. I, p. 34.
46 KlEFNER, Die Privilegien. v. 1. p. 34.
47 Sulla stona del Margravio nel XVII secolo, vedere Michael PETERS. Wege zur Toleranz. Historisclie Grimdlagen der Ansiedlung ron Higenotten im Furstentum Brandenburg-Bayreuth. in: 300 Jahre Hugenottenstadi Erlagen. Von Nutzen der Toleranz. Ausstellung im Stadtmuseum Erlagcn. 1. Juni bis 23. November, Nurnberg 1986. pp. 93-99.
48 KlEFNER. Die Waldenser. v. 2. p. 41.
49 KlEFNER. Die Privilégiai, v. L, p. 134 e s.
50 E. e E. HAGG, La France protestante, Pièces justificatives. Paris 1858, p. 341. Vedere anche August EBRARD. Christian Ernst von Brandenburg-Baireuth. Dia Aufnahme reformirter Fluchtlingsgemeinden in ein lutherisches Land 1686-1712. Giitersloh 1885. pp. 18-20.
51 II testo del "Revers" in: EBRARD. Christian Ernst, p. 178 ss., cfr. pp. 38 e ss.: BISCHOFF. Die Aufnahme (cit. sopra, nota 3). p. 11. attribuisce apparentemente solo al Concistoro la respon- sabilità del "Revers". Mi sembra piuttosto improbabile che questo Consiglio potesse procedere
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ebbero sottoscritto il "Revers", essi ottennero il 10 settembre il decreto di incarico e poterono passare alla costituzione di una "consistoire" (consiglio di chiesa).
Senza dubbio il margravio sperava che gli ugonotti e i valdesi si sarebbero, per questa via, gradualmente inseriti nella chiesa territoriale luterana. In ciò il fatto che i valdesi avessero una posizione particolare tra i riformati, in quanto mater re- formationis, non aveva alcuna rilevanza nelle sue valutazioni, diversamente da quanto avveniva nell' Assia-Darmstadt o nel Wiirttemberg52. Egli si collocava assai di più nella tradizione del pensiero unionista53. Dopo il 1648 molti principi assoluti tedeschi, in modo particolare il principe elettore riformato, Carlo Ludovico (1648- 1680) del Palatinato si erano sforzati di ricercare una unione tra luterani e rifor- mati54. Come primo passo in questa direzione avevano incaricato i teologi delle due confessioni di redigere una dichiarazione nella quale si dimostrasse che essi, mal- grado tutte le diversità, avevano lo stesso fondamento. Una tale dichiarazione venne chiamata "Concordia"55. Il riconoscimento del sinodo di Charenton e il "revers" erano una Concordia di questo genere ed avrebbero potuto costituire la fase preliminare per una unione.
Occorre notare che Papon padre era tra i tre pastori riformati francesi che si erano dichiarati disposti a sottoscrivere il "Revers", sia pure con la riserva di asso- ciarsi solo alla Confessio Augustana variata e non a quella invariata56. I pastori francesi che giunsero in seguito rifiutarono invece di sottoscrivere il "Revers", in quanto temevano di offrire così il destro al controllo del Konsistorium e all'inte- grazione nella chiesa luterana; essi auspicavano il diritto all'esercizio pubblico e li- bero della religione riformata. Molti ugonotti lasciarono per protesta il paese e Pa- pon rischiò la destituzione da pastore.
Solo sotto la pressione di questi fatti il margravio ritirò il "Revers" il 1° feb- braio 1688, abbandonando in tal modo le sue aspirazioni all'unione57. Già prima, il 15 agosto 1687, il margravio aveva pubblicato un nuovo e migliorato Privilegio, nel quale erano abolite le precedenti limitazioni della libertà religiosa ed era rico- nosciuta agli ugonotti «liberté de l'exercice public de la Religion Reformée ...
senza il consenso del Mangravio, che era il summus episcopus. Cfr. KlEFNER, Die Waldenser, v. 2, p. 52.^
52 È interessante che, da KlEFNER op. cit., p. 46. sia citata la lamentela del pastore Johann Friedrich Artzberger in Baiersdorf al concistoro, che dai profughi «alcuni seguaci di Pietro Valdo del Piemonte», diventa: «i Valdesi non erano mai uniti a noi riguardo all'articolo della Cena del Signore, essi la praticavano invece con i Berengare i Calvinisti». Artzberger mantenne anche per i valdesi l'attribuzione di Calvinisti. Cfr. anche idem, p. 49.
53 Così anche KlHFNFR. Die Waldenser, v. 2, p. 52.
54 Albereta ERNST, Die reformierte Kirche der Kurpfalz nach dem Dreifiigjdhrigcn Krieg (1649-1685), Stuttgart 1996. pp. 27-55, 312-330.
55 Cfr. Gustav Adolf BENRATH, Von der konkordie zar Union. Ein Gang durch die altere Kirchengeschichte Mannheims (1680 a 1821), Mannheimer Hefte (1986), p. 112.
56 Cfr. KlEFNER, Die Waldenser, v. 2, pp. 52. nota 5.
57 Sui "Revers" e quindi la causa del conflitto, vedere EBRARD, Christian Ernst, pp. 38-74. Testo del ritiro: idem, p. 70, nota 54.
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conformément à la confession de foy des Eglises Reformées de France, & suivant leur discipline Ecclésiastique»58. È probabile che Papon abbia preso parte attiva alle trattative che avevano condotto a questo Privilegio migliorato59. Così in ultima istanza l'accoglimento dei riformati francesi condusse il margravio a rinunciare al- l'unità confessionale nel principato di Bayreuth. Da allora Ernesto Cristiano portò avanti una politica di tolleranza delle minoranze non luterane, senza attentare con questo alla egemonia della chiesa territoriale luterana60.
3. // ducato di Assia-Darmstadt
3 A. La prima accoglienza di valdesi nell' Assia-Darmstadt (1688)
Nel maggio 1688. pochi mesi dopo la fine dei tentativi di unione nel Brande- burgo-Bayreuth, i due Papon lasciarono Erlangen, in quanto non vi erano posto e reddito sufficienti per l'insediamento di tutti i valdesi della Val Pragelato, e cerca- rono asilo nei territori di Ysemburg-Budingen e dell 'Assia-Darmstadt. Nella pro- spettiva di un possibile insediamento nel territorio riformato di Ysemburg-Budin- gen i Papon padre e figlio scrissero nell'estate del 1688 «Demiithige anforderung- spunkte» (umili richieste)61, nei quali essi chiedevano che ai valdesi dovesse essere concesso di «esercitare e di mantenere la propria religione secondo le loro anti- chissime libertà e usanze valdesi, esattamente in quella forma e usanza quale hanno praticato i loro padri da tempo immemorabile e di poi le chiese riformate francesi nella loro disciplina ecclesiastica»62. Essi presentarono gli stessi 29 punti poco dopo anche nell'Assia-Darmstadt, luterana, e vi allegarono, sebbene fossero prage- latesi, il testo della confessione di fede del 165563. Manca soltanto l'appendice nella quale i valdesi dichiaravano di concordare "perfino" con la "Confessio Augu- stana variata". Probabilmente i due Papon hanno deliberatamente omesso l'appen- dice, in quanto temevano, dopo le loro esperienze nel Brandeburgo-Bayreuth, che le autorità dell' Assia-Darmstadt avrebbero potuto utilizzare queste dichiarazioni per tentare di unire i valdesi con la chiesa luterana.
Non è una novità che i Papon rivendicassero l'esercizio libero e pubblico della religione - lo avevano infatti già chiesto nel Brandeburgo-Bayreuth - ma lo è
58 II testo dei privilegi del 1687 è in: KlEFNER. Die Privilegien, v. 1. pp. 150-168. Citazione ap. 153.
59 KòHLER. Die Waldenser-Privilegien. p. 195.
60 Cfr. Christof SCHaFER. Staat, Kirche, Individuimi. Studie zur siiddcutschen Publizistik iiber religiose Toleranz von 1648 bis 1819, Frankfurt a/M 1992, pp. 56-58.
61 Testo in KlEFNER, Die Privilegien, v. 1, pp. 180-185. 6: Idem, p. 180.
63 Sembra che entrambi i Papons abbiano adottato questa linea, in cui spiegano ai valdesi, che «loro stessi» concordano con la «Confessio Augustana variata». Questo avvenne anche in Assi a- Darmstadt contro la loro volontà, al fine di poter portare ad un'unione.
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il fatto che sottolineassero la loro posizione particolare in quanto valdesi: il culto e l*ordinamento ecclesiastico valdese era riformato già da gran tempo prima che si dessero le differenze riformati/luterani. Trasmettendo la confessione di fede del 1655 volevano dimostrare che essi, in quanto della Val Pragelato, facevano effetti- vamente parte della chiesa valdese piemontese. Nello stesso periodo, il 30 giugno 1688. Papon parlava, in una predicazione tenuta ad Hanau, de «la vérité de la pro- fession évangélique que les Vaudois ont toujours faite des puis la primitive église sans aucune interruption jusques a présent»64.
Il langravio luterano Ernesto Ludovico dell'Assia-Darmstadt si dichiarò di- sposto, nel settembre 1688, ad accogliere i Papon con la loro gente nei suoi territori e concesse, con l'articolo 15 della sua «Déclaration ... en faveur de la Colonie vaudoise», in accordo quasi letterale con il secondo punto del catalogo di richieste avanzate dai due Papon, il diritto all'esercizio libero e pubblico della religione ri- formata. Manca solo l'accenno al passato particolare dei valdesi. Il langravio ri- prese inoltre in questa "Déclaration" diverse precisazioni dal Privilegio di Ernesto Cristiano del Brandeburgo-Bayreuth del 1687 riguardanti la libertà religiosa65.
Per quali ragioni il langravio, che aveva assunto il governo appena nel feb- braio 1688, era disposto a rinunciare, riguardo ai valdesi, alla sua responsabilità di summus episcopus e ciò in un paese luterano che fino ad allora si era sempre pro- tetto dai riformati così fortemente presenti nei territori confinanti? Certamente an- che qui l'interesse economico aveva ancora una volta un ruolo importante, se non dominante. Occorre inoltre tener presente che il langravio aveva un carattere molto impulsivo e spesso agiva senza considerare le conseguenze dei suoi gesti. Ma vi erano anche motivazioni ideali.
In primo luogo va menzionata la risposta positiva dei due professori di teolo- gia Philipp Ludwig Hennekem e Kilian Rudrauff di Giessen. Il langravio aveva loro sottoposto nell'agosto del 1688 la confessione di fede che Papon e la sua co- munità gli avevano consegnato, chiedendo loro un parere sull'accoglimento dei valdesi. Certo i due teologi della ortodossia luterana avevano immediatamente os- servato che questa confessione di fede conteneva errori tipicamente calvinisti, tut- tavia essi ritenevano che fosse possibile accogliere i valdesi «con il loro esercizio della religione». Probabilmente essi ritenevano che i valdesi fossero, malgrado i loro errori calvinisti, una comunità di fede preriformata, che avrebbero potuto di- ventare luterani «ricevendo un migliore insegnamento»66. In tal modo essi non ve- devano nei valdesi una minaccia allo status ecclesiasticus del paese.
In secondo luogo è molto probabile che il diplomatico dei Paesi Bassi Moses de Mortaigne e i due Papon abbiano potuto convincere il langravio del fatto che ve-
64 MONE, Zur Geschichte der Waldenser, p. 1 74.
65 KòHLER, Die Waldenser-Privilegien, pp. 197-219.
66 Testo dei consulti dei Teologi di GieBener. in BONIN. Die Waldenser-gemeinde Pragela, pp. 18-2.
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ramente nel caso dei valdesi si trattava di una tale chiesa preriformata. Mortaigne scriveva: «ce sont les Vaudois, qui ont jetté les premiers semences de la réforma- tion des erreurs papistiques par toute l'Europe»; «nostre mère église des anciens Vaudois» era perciò meritevole di essere protetta67. Presumibilmente Mortaigne influenzò in questo senso il langravio nel corso di un suo incontro avvenuto a Francoforte68.
In terzo luogo si dovrebbe tener conto del fatto che il langravio, con il suo matrimonio con Dorothea Charlotte di Brandeburgo-Anhalt nutriva simpatia per il pietismo e fin dal 1688 aveva iniziato a favorirne fortemente l'influsso nelle sue terre69. Non era più l'appoggio all'ortodossia luterana ad essere per lui prioritario, bensì, come per tutti i pietisti70, il rafforzamento della vita di fede e di ciò questi profughi per motivi di fede offrivano un esempio di primo piano. Si può dunque formulare l'ipotesi che il langravio sperasse che i valdesi, col tempo, si sarebbero inseriti in una chiesa territoriale luterana rinnovata dal suo interno dall'azione del pietismo.
3.2. // secondo accoglimento di valdesi nell' Assia-Darmstadt ( 1699)
Come abbiamo già detto, i valdesi abbandonarono l'Assia-Darmstadt già nel settembre 1688, allo scoppio della guerra della Lega di Augusta. Quando, dieci anni dopo, Papon incontrò nuovamente Ernesto Ludovico di Assia-Darmstadt (settembre 1698), il langravio si mostrò ancora disposto ad accogliere i valdesi e ri- lasciò nel 1699 la sua fondamentale Déclaration en faveur des Vaudois. Un con- fronto con la precedente "Déclaration" del 1688 dimostra che il Privilegio del 1699 è. «riguardo al contenuto, in molti punti letteralmente» identico a quello del 168871.
Le precisazioni sulla religione, riprese con poche varianti nei Privilegi relativi ai valdesi nella forma ampliata del 1699, sono collocate proprio all'inizio della "Déclaration". Di fondamentale importanza è qui l'articolo 1. In esso il langravio, sebbene fosse summus episcopus di una chiesa territoriale luterana, assicura ai val- desi riformati l'esercizio libero e pubblico della loro religione sui suoi territori:
Eux et leur descendants nés et à naître jouiront à perpétuité dans le lieux de leurs Esta- blissements du Libre Exercice de leur Religion: de Sorte que sans qu'aucun les inquiete & moleste, ils pourront en faire librement toutes les fonctions publiques et particulières dans leurs Temples et dans leurs maisons, en la langue Française. Italienne, et Allemande, S'ils le
67 MONE. Zur Geschichte, p. 1 74.
68 KôHLER. Waldenser-Privilegien. p. 198.
69 Sulle esigenze dei Pietisti nella contea, si veda Rudiger MACK, Pietismus und Friihaufklàrung an der Universitàt Gicfien und in Hessen-Darmsyadt, GieBen 1984.
70 Cfr. SCHaFER, Staat. p. 26.
71 KoHLER, Die Waldenser-Privilegicn. p. 226.
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jugent à propos, préchans la parole de Dieu, administratis les Sacrements, benissans les ma- riages, se servans de leur liturgie Chrétienne et accoutumée, et suivans les Règles de leur di- scipline7:.
Secondo questo articolo i valdesi avrebbero quindi potuto esercitare in piena libertà, pubblicamente e senza essere importunati, la religione riformata all'interno dei loro insediamenti. Essi avrebbero potuto tenere i propri culti pubblicamente in lingua francese, italiana o tedesca secondo la liturgia riformata. Inoltre si conce- deva di riorganizzare la loro chiesa secondo i principi della "discipline" presbite- riano-sinodale.
Questa libertà nel campo del diritto ecclesiastico veniva concretizzata negli articoli successivi. I valdesi potevano nominare da sé i propri pastori (anche se la nomina era sottoposta all'approvazione del langravio). Ogni chiesa locale poteva amministrarsi per mezzo del consistoire (composto di pastori, anziani e diaconi) ed esercitare la disciplina ecclesiastica. Le chiese valdesi dell'Assia-Darmstadt ave- vano inoltre la possibilità di tenere colloques con rappresentanti di tutti i consistoi- res. Venne loro addirittura concesso di tenere sinodi con fratelli in fede di altri ter- ritori, non appartenenti al langravio. I valdesi dell'Assia-Darmstadt poterono di conseguenza recarsi in Wiirttemberg nel 1703 per il sinodo che si riuniva colà73.
Come già nel 1688 Ernesto Ludovico si segnala per la sua generosità. Fino ad allora nessun principe luterano aveva di sua iniziativa74 concesso tanta libertà a profughi riformati. Questa generosità era determinata da diversi fattori. Innanzitutto si deve pensare che il re Guglielmo III d'Inghilterra e gli Stati Generali dei Paesi Bassi avevano esercitato forti pressioni sul duca per indurlo ad accogliere i valdesi e gli avevano assicurato che avrebbero finanziato i costi di tale operazione. La "Déclaration" di Ernesto Ludovico è - cosa niente affatto usuale per i Privilegi di accoglimento - sottoscritta anche dall'inviato olandese Pieter Valkenier, pleni- potenziario degli Stati Generali per l'insediamento dei valdesi ed acquista così il carattere di una garanzia contrattuale per quei Privilegi75. In secondo luogo natu- ralmente, presso il langravio cronicamente indebitato, ebbe un ruolo significativo anche la speranza di un miglioramento economico del suo paese. In terzo luogo Ernesto Ludovico stesso nel preambolo della sua "Déclaration" parla della sua «vive Compassion» verso i poveri valdesi. Non c'è ragione di dubitare che questa non sia stata sincera. Il langravio aveva sperimentato sulla propria pelle le conse-
72 KlEFNER, Privilegien (come nota 127), v. 1, pp. 670-703; cit. a p. 672.
73 Cfr. Valdo VlNAY, Bekenntis und Kirchenordnune, bei den Waldenser Fliichìingen in Hessen-Darmstadt 1688-1699, in: «Theologische Zeitschrift» 30 (1974) f. 3, pp. 152-162.
74 Christian Ernst von Brandenburg-Bayreuth vi venne anzi costretto, come ho già dimo- strato.
75 Cfr. Barbara DoLEMEYER, "Tractat" oder "Begnadigung" ? Vertragselemente in Exulan- tenprivilegien, in: Jean-François KERVéGAN e Heinz MOHNHAUPT (a cura di), Gesellschaftliche Freiheit und vertraçliche Bindune, in rechtsgeschichte und Philosophie. Frankfurt a. M. 1999, pp. 143-164.
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guenze della guerra della Lega di Augusta, in quanto aveva dovuto trasferire la sua residenza da Darmstadt a Giessen dal 1694 al 1697. Ci si può tuttavia domandare se il langravio pensasse veramente di tollerare per sempre i valdesi come minoranza riformata nel suo paese, con tutte le loro libertà e diritti. Nel suo testa- mento del 15 dicembre 1700 Ernesto Ludovico consigliava al suo successore di prorogare nel tempo i Privilegi concessi ai valdesi, tra l'altro anche perché «la loro confessione di fede si differenzia quasi di poco dalla confessione di Augusta inva- riata»76. Egli si aspettava, come nel 1688, l'inserimento volontario dei valdesi nella chiesa territoriale. Anche il Konsistorium luterano e i dignitari ecclesiastici sem- bravano condividere tale pensiero, in quanto non è nota alcuna resistenza da parte loro contro l'insediamento dei valdesi.
Le aspettative di Ernesto Ludovico non erano senza fondamento. Nel dicem- bre 1698, allorché Papon cercava di essere accolto per la seconda volta nell' Assia- Darmstadt, egli e il suo collega Enrico Arnaud avevano pregato il langravio «de re- cueillir une partie de cette Eglise que tous les protestants d'une et d'autre commu- nion regardent comme leur mère et matrice»77. Per dimostrare la posizione partico- lare dei valdesi, Valkenier, presumibilmente verso la fine del 1699 - inizio del 1700, aveva donato al langravio il libro di Jean Léger con la confessione di fede detta del 1 12078. Tuttavia non si giunse ad una integrazione dei valdesi nella chiesa territoriale luterana, anche se nel corso del XVIII secolo essi vennero sottoposti al- l'autorità del Konsistorium. Fino all'inizio del XIX secolo le due comunità di Ror- bach-Wembach-Hahn e Walldorf rappresentarono una piccola isola riformata di lingua francese nell'Assia-Darmstadt, consapevole della sua origine valdese.
76 Citato da KlEFNER, Die Waldenser, v. 3. Gòttingen 1995, p. 87. cfr. 97.
77 Daniel BONIN, Die Waldenser-gemeinde Pragela auf ihrer Wanderung ins hessenland, Worms 1901, p. 50: Cfr. KôHLER. Die waldenser-Privilegie, p. 223. Si aggiunga anche l'interes- sante lettera, proveniente presumibilmente da Papon: P.P.W., Kurze Erzehlung voti dem lefiteni Aufigang der armcn Waldenser, in: Historischer Kern oder sogenannte kurze Chronika 3. parte; E.G. HAPPELI Chronika zur Nachfolge 1690-1699, Hamburg 1700. Il testo francese è presumi- bilmente di BONIN, Urkunden, v. 3, pp. 10-15.
78 Lettera di Valkenier a Jacob Moutoux del 23 dicembre 1699, in: Henri TOLLIN, Urkun- den zur Geschichte hugenottischer Gemeinden in Dcutschland, in: Geschichtsblàtter des deut- schen Hugenotten-Vereins, Zehnt III, Heft 10. Magdeburg 1894. p. 31: egli vuole mostrare in Assia «l'histoire vaudoise du Monsieur Léger», «dans laquelle on voit amplement la confession de foi des Vaudois, qui satisfera à tous comme l'a aussi fait dans le Wurtemberg». Cfr. KlEFNER, Die Waldenser, v. 3. p. 97.
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4. / valdesi nel Wurttemberg
4.1. // primo accoglimento di valdesi nel Wiirtìemberg (1687/88)
Il ducato del Wurttemberg, che nel XVII secolo aveva una struttura forte- mente rurale ed agricola, ebbe a soffrire moltissimo per la guerra dei Trent'anni79. Il duca e le diete regionali non erano tuttavia disposti a concedere quella tolleranza religiosa che sarebbe stata necessaria per insediare esuli per motivi di fede nelle terre devastate. Ancora nell'ottobre 1685 un gruppo di profughi ugonotti prove- nienti dalla Francia venne respinto. Nel Wurttemberg il luteranesimo aveva assunto una posizione del tutto particolare. Già dal 1565 nei territori cosiddetti compattati il luteranesimo era stato prescritto come confessione obbligatoria del ducato e perciò essa era sottratta all'eventuale cambio di confessione del duca80. Il governo e la chiesa temevano che l'afflusso di riformati potesse indebolire la compattezza del luteranesimo. Gli ecclesiastici del luogo rifiutavano ogni forma di «mescolamento». I calvinisti sarebbero un «veleno nascosto come il cancro e peri- coloso come la peste»81.
Nel maggio del 1687 la Svizzera propose al duca-amministratore Friedrich Karl (1677-1693) di accogliere i valdesi che erano stati banditi dal Piemonte82. E degno di nota il fatto che in quel frangente solo il teologo di Tubinga Johann Adam Osiander sostenne l'opinione che i valdesi fossero «calvinisti mascherati»83. I due organi ecclesiastici di maggior peso, il Konsistorium e il Sinodo, all'opposto, atte- starono il 10 agosto 1687 in una dichiarazione come fosse «universalmente noto e fuori di ogni dubbio che questi piemontesi hanno la loro lontana origine dai cosid- detti valdesi, i quali appunto già secoli prima di Lutero avevano difeso la verità evangelica»84. Andreas Bardili, il direttore del Konsistorium, si pronunciò inequi- vocabilmente a favore dell'accoglimento dei valdesi nel consiglio che il duca-
79 Cfr. Wolfgang VON HlPPEL. lune sudwestdeutsche Region zwischen Krieg imd Frieden - die wirtschaftlichen Kriegsfolgen ini Herzogtum Wurttemberg, in: Klaus BUBMANN und Heinz Schilling (a cura di), 1648. Krieg.
80 Cfr. SCHaFER, Staat. p. 8 1 .
81 Theo KlEFNER, Auslànderfeindliches Wurttemberg? Bine Unterschuchung an Hand der Akten und Aufnahmeprivilegien fiir Waldenser und Hugenotten-Fluchtlinge in Wiirtìemberg zwi- schen 1685 und 1722. in: «Blatter fur wiirttembergische Kirchengeschichte» 88 (1988), pp. 275 ss., 284.
82 KlEFNER, Die Waldenser, v. 2. p. 216, ritiene che i valdesi abbiano presentato in Wurt- temberg la Confessione di fede del 1655 (di stampo calvinista) la quale era apparsa in traduzione tedesca nello stesso anno nella Waldenser Chronik ("Cronaca Valdese"). Non si può tuttavia escludere che i valdesi abbiano presentato la Confessione di fede presunta del 1 120, che si trova pine nella Waldenser Chronik. Cfr. VON M OSER, Actenmàfiigc Geschichte, pp. 109. 123, 127.
83 Idem, pp. 115 ss. Cfr. KlEFNER, Die Waldenser, v. 2. p. 214.
84 Von MOSER, Actenmàfiige Geschichte, pp. 143 ss.
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amministratore aveva convocato per trattare l'argomento: essi sarebbero «molto più vicini» alla Confessione augustana di quanto non lo siano i riformati francesi85.
Questa "apertura" della chiesa luterana del Wurttemberg non era solo da at- tribuire alla precedente confusione tra i valdesi e i fratelli moravi, ma anche e so- prattutto alla tesi di Hesterberg del 1659 della quale si sapeva fin dal 31 ottobre 1687 che era stata redatta da Spener. Questi, che a partire dal 1680 esercitava un'influenza sempre crescente nel Wurttemberg, aveva inoltre personalmente pero- rato la causa dell'accoglimento dei valdesi presso il vicedirettore del Konsistorium, Johann Georg Kulpis. Secondo la sua opinione questi esuli per motivi di fede erano «laici da cui non si dovrebbe pretendere esageratamente una confessione di fede corretta»86. Nel Sinodo Johann Andreas Hochstetter, il più significativo seguace di Spener in Wurttemberg, espresse l'augurio che i valdesi, malgrado tutte le diffe- renze, potessero essere guadagnati alla dottrina luterana87.
Il diario di Audibert Daude Sieur d'Olimpie, pastore della comunità riformata francese di Schaffhausen, ci dà una testimonianza straordinaria delle aspettative che si nutrivano in Wurttemberg nei confronti dei valdesi piemontesi. Egli visitò il paese dal 23 ottobre al 10 novembre 1687 per prendersi cura dei rifugiati francesi e piemontesi88. Incontrò anche Bardili a Stoccarda. Fin dal primo incontro Bardili propose una «unione con i luterani»; in tal modo «sarebbe eliminata l'unica diffi- coltà per un insediamento».
Egli mi disse di aver letto con piacere il trattato del Dr. Heidegger e ritiene di poterne trarre un fondamento inoppugnabile che ci dovrebbe costringere a stare dalla loro parte. Il Dr. Heidegger ammetterebbe infatti che i nostri punti di disaccordo con il luteranesimo non riguarderebbero nulla di essenziale (circa fidem). Perciò si potrebbe procedere senza danni. I luterani invece pensano che i nostri punti di disaccordo tocchino l'essenza della fede (de fide). Perciò non potrebbero andare oltre, senza correre incontro a gravi danni. Quindi, di fronte a queste difficoltà, sarebbe affar nostro avvicinarci a loro89.
Nel secondo incontro. Bardili spiegò a D'Olimpie la ragione per la quale gli ecclesiastici del Wurttemberg volevano consentire l'insediamento dei valdesi pie- montesi prima di azzardare l'accoglimento degli ugonotti. Essi infatti
85 Idem, p. 1 10.
86 Martin BRECHT, Philipp Jakob Spener unti die wiirttembergische Kirche, in: Geist und Geschichte der Reformation. Festgabe Hanns Riickcrt zum 65. Gcburstag. Berlin 1966. p. 458.
87 Friedrich FRITZ, Die Evangelische Kirche Wurttemberg ini Zeitalter des Pietismus, in: Blatter fur wiirttembergische Kirchengeschichte 56 (1956), p. 159.
88 II suo diario è pubblicato in traduzione tedesca in: Henri TOLLlN. Urkunden :nr Geschi- chte hugenottische Gemeinden in Deutschland, in: Geschichtsblàtter des deutsclicn Hugenotten- Vereins, Zehnt IV, Heft 10, pp. 19-37. Cfr. KlEFNER, Die Waldcnser auf ihrem Weg,v. 2. pp. 220 ss.
89 TOLLIN, Urkunden. p. 25. cfr. p. 23. Si tratta del trattato di Johann Heinrich HEIDEGGER. De Augustanae Confessionis cum fide Reformatorum consensu, 1664.
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considerano le chiese valdesi come certo macchiate di alcuni errori che si spera potranno lavare con il tempo. «E perché - replicai io - non si ha la stessa prospettiva anche riguardo alle nostre chiese?». «Perché - egli disse - si temono i predicatori francesi e nei loro con- fronti si è preoccupati di non venirne a capo così facilmente»90.
Di fatto vennero introdotti nel ducato del Wurttemberg negli anni 1687-88 valdesi piemontesi, ma nessun ugonotto. Si sperava che i valdesi si sarebbero la- sciati inserire rapidamente nella chiesa luterana. Essi saranno poi scacciati dal Wurttemberg nel 1688, ma per timore nei confronti della potente Francia e non per motivi teologici.
4. 2. // secondo accoglimento di valdesi nel Wurttemberg ( 1699-1701 )
Nell'autunno del 1698 i valdesi ricomparvero nel Wurttemberg. Questa volta si trattava di esuli della Val Perosa e di riformati che erano nati in Francia ed ora venivano banditi dal Piemonte.
Anche questa volta i valdesi si presentarono come un gruppo particolare. Uno dei loro esponenti più noti, il pastore Enrico Arnaud, scriveva nel suo memoriale del 17 ottobre 1698 a Eberhard Ludwig, che nel frattempo era diventato duca del Wurttemberg, «que les vaudois sont un peuple dont la Religion est aussi ancienne que celle des apotres»91. Allorché, a Stoccarda, gli si domandarono ulteriori preci- sazioni, affermò che «Nella religione valdese non si sarebbe introdotta nessuna va- riazione, ma essi conserverebbero i principi della loro antichissima religione e sa- rebbero anche in parecchi particolari diversi dalle altre, e in particolare dalla rifor- mata francese». Quando gli venne presentata la "Confessio bohemica" egli disse «di essere d'accordo con essa e con la confessione di San Cirillo. Se però la con- fessione riformata venisse tollerata in Francia, essi vorrebbero recarsi colà e man- tenere la comunione con loro»92. Non mi è chiara la ragione per cui Arnaud si ri- chiamava alla confessione di Cirillo di Alessandria. Forse con ciò voleva dire che i valdesi si fondavano sulla base del concilio di Calcedonia e perciò condividevano il punto di partenza comune all'ortodossia luterana e riformata.
Comunque non si può accusare Arnaud di opportunismo o disonestà. Egli sostiene le stesse posizioni che erano state assunte da Jacques Papon già nel 1688. Arnaud voleva innanzitutto dimostrare che i valdesi erano stati riformati già prima della Riforma e perciò confessavano le dottrine comuni ai luterani e ai riformati. Egli pensava veramente che la chiesa valdese fosse la mater Reformationis, anche delle riforma luterana, e appoggiava di conseguenza gli sforzi per giungere ad una
90 TOLLIN. Urkunden, pp. 28 ss. Cfr. anche p. 30.
91 Kikfnhr. Die Privilegien, v. I, p. 574 ss.
92 VON MOSER, Actenmcifiige Geschichte, p. 240. KlEFNER, Die Waldenser, v. 3. Gòttingen 1995. p. 64.
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unione tra Anglicani. Luterani e Riformati. Il 20 novembre 1699 egli pregava John Ellis, "Undersecretary of State" a Londra:
je vous supplie tous de travailler, que nôtre Grand Roi. et S. M. Suédoise et Monseigneur L'Electeur de Brandebourg, achèvent cette grande oeuvre de la Reunion des Luthériens avec nous, mais il ne faut jamais qu'aucun Docteur s'en mêle - parce qu'avec leurs disputes ils ne font jamais un chrétien, et le peuple nourit une haine secrète dans sons coeur, sans en sçavoir donner la raison. Il serait juste que le David de nos jours, qui a délivré l'Europe, mit en liberté toute l'Eglise en faisant que nos fussions tous frères; Satan en tremble et le papi- sme le craind; Dieu les confonde tous deux93.
Con ciò egli non negava affatto che i valdesi si sentissero strettamente uniti ai riformati francesi. Come nel 1687 c'erano anche ora in Wurttemberg diversi eccle- siastici e politici i quali ritenevano che i valdesi fossero più aperti al luteranesimo di quanto non lo fossero gli ugonotti e perciò si sarebbero lasciati integrare più fa- cilmente nella chiesa nazionale. Essi erano dunque favorevoli all'accoglimento dei valdesi. La maggioranza tuttavia esprimeva molte perplessità in quanto «essi si sono parecchio allontanati dalla confessione degli antichi valdesi e degli hussiti in Boemia e, sebbene non lo vogliano dichiarare espressamente, hanno aderito a quella dei riformati, se non in tutto, almeno nella maggior parte dei temi, e la que- stione non è da formularsi diversamente dal sapere se Sua Altezza Ducale ritenga di ricevere veri riformati oppure no»94.
Non è escluso che questa considerazione critica sia la conseguenza delle pa- role di Arnaud. E tuttavia più probabile che tale presa di posizione sia stata deter- minata dal fatto che in quello stesso periodo un gruppo di riformati francesi, che si voleva stabilire nella cittadina di Gochsheim, appartenente al Wurttemberg, si era dichiarato valdese, sebbene non avesse mai abitato in Piemonte. Come confessione di fede essi però non avevano presentato una confessione valdese, ma la "Confessici gallicana1 del 1559. Il Konsistorium aveva quindi avuto buon gioco a smascherarli nella sua delibera del 18 ottobre 1698, in quanto questa professione di fede eviden- temente non conteneva «la dottrina degli antichi valdesi come la si ritrova nella Confessio Bohemica»95. A causa del comportamento dei coloni di Gochsheim an- che i valdesi della Val Perosa vennero dunque sospettati di essere calvinisti ma- scherati96.
93 British Library London. Add. Mss. 28. 903.
94 KIEFNER. Die Privilegien. v. I, p. 576: consulto dei consiglieri del 15.1 1.1698. KlEFNER. Die Wal denser (come nota 8). p. 275.
95 Testo delle Confessioni di Fede tratto da VON MOSER. Aetenmafiige Geschichte. p. 32; delibere dei membri del concistoro, idem. pp. 439-449. Cfr. KlEFNER. Die Waldenser. v. 3. p. 345 ss.
96 Cfr. anche VON MOSER. Aetenmafiige Geschichic. pp. 247 ss., 258. e KlEFNER. Die Wal- denser auf ihrem Weg. v. 3. p. 65. 280.
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Questi ultimi non avevano alcuna fretta di presentare una loro confessione di fede, probabilmente per suggerimento dei consiglieri segreti, i quali volevano evi- tare un conflitto con gli ecclesiastici97. Così l'insediamento potè procedere e il 4 settembre 1699 il duca del Wùrttemberg Eberhard Ludwig emanò l'editto col quale i valdesi furono accolti nel suo ducato. Nell'articolo 1 viene detto: «Noi riteniamo che sulla base della loro confessione essi possano essere riconosciuti come membri di una delle religioni protestanti che sono ammesse nel Sacro Romano Impero»98. Ciò significava che i profughi, anche se non potevano dimostrare di essere «veri e autentici discendenti dell'antica chiesa valdese», potevano tuttavia essere accolti in quanto «membri di una delle religioni protestanti ammesse nel Sacro Romano Im- pero», vale a dire come riformati99. Probabilmente Valkenier presentò alle autorità di Stoccarda una copia del libro di Léger solo dopo la pubblicazione del docu- mento, indubbiamente con l'intenzione richiamare l'attenzione sulla confessione di fede del 1 120 come confessione di fede propria dei valdesi100.
Nel contenuto dei singoli articoli Eberhard Ludwig seguiva sostanzialmente le disposizioni della "Déclaration" di Ernesto Ludovico della primavera dello stesso anno. Ciò significava concretamente che i valdesi erano autorizzati a orga- nizzare le loro comunità secondo la propria confessione di fede e l'organizzazione presbiteriano-sinodale da essi desiderata. Con ciò venne per la prima volta nel Wiirttemberg concesso a una minoranza l'esercizio pubblico della religione rifor- mata.
Erano dunque, nel Wùrttemberg come neh 'Assia-Darmstadt, soprattutto fat- tori di politica economica e interna101 che indussero il governo di Stoccarda a mostrarsi ora disposto ad accogliere valdesi ed anche ugonotti senza pretendere da loro l'abbandono della propria fede. Questo cambiamento di politica religiosa venne facilitato dal fatto che nel XVII secolo i valdesi si presentavano come conti- nuazione di una chiesa preriformata, addirittura della chiesa apostolica, la quale aveva anche rappresentato il fondamento della chiesa luterana. Soprattutto per que- sto motivo gli ecclesiastici e i politici del Wùrttemberg, che a lungo si erano oppo- sti all'accoglimento di una minoranza di immigrati riformati, si dimostrarono di- sposti, nel 1687-88, a concedere la libertà religiosa richiesta dai valdesi.
Anche dopo il 1699 la particolare consapevolezza del valore valdese perdurò. Allorché Enrico Arnaud, quale pastore di Diirrmenz, pubblicò nel 1710 la Histoire de la Glorieuse Rentrée, precisò nella prefazione che a suo dire i valdesi risalivano
97 Cfr. VON MOSER, Actenmafiige Geschichte, pp. 286 ss.
98 KlEFNER, Die Privilegien, v. 2. p. 751. L'Editto si intitola Ar//ci// worauf die Waldenser in das Hertzogthum Wiirttemberg recipirt worden.
99 Questa è l'interpretazione di VON MOSER, Actenmafiige Geschichte, pp. 288-290.
100 ToLLiN, Urkunden, v. 3, Heft 10. p. 31.
101 Cfr. Hermann EHMER, Die Waldenser in Wiirttemberg und Baden. in: DE LANGE (a cura di). Dreihundert Jahre Waldenser, p. 95.
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al tempo dell'apostolo Paolo102. Nel 1739 il sinodo dei valdesi del Wurttemberg utilizzava l'antico stemma che era entrato nell'uso della chiesa valdese in Piemonte almeno fin dal 1655103. La speranza che le comunità valdesi, proprio per questo passato preriformato, si sarebbero ben presto inserite nella chiesa nazionale lute- rana, non doveva realizzarsi. L'editto del 1699 offriva loro l'opportunità di mante- nere la propria identità religiosa ed ecclesiastica. Così quelle colonie divennero piccole isole autonome, di lingua francese - ed occitana -, all'interno del Wiirt- temberg luterano.
Il 1823 segna la fine dei valdesi del Wurttemberg. In quella data essi verranno inseriti nella chiesa nazionale luterana Wurttemberghese perdendo il diritto al libero esercizio del culto riformato.
5. // territorio del margravio di Baden-Durlach
Anche le terre del margravio luterano di Baden-Durlach erano state colpite duramente dalla guerra di successione del Palatinato. Molti villaggi e città erano distrutti e spopolati. Questo fu indubbiamente pure qui il motivo principale per cui il margravio Friedrich VII Magnus accolse dei profughi riformati. Lo aveva inoltre promesso agli Svizzeri come ricompensa per il rifugio che aveva trovato nella Basilea riformata quando aveva dovuto fuggire davanti ai francesi. Inoltre nel no- vembre 1698 il re d'Inghilterra Guglielmo III aveva invitato il margravio ad acco- gliere gli ugonotti104.
Così Friedrich Magnus il 10 dicembre 1699 accordò a un gruppo di valloni e ugonotti del Palatinato elettorale che volevano fondare Friedrichstal privilegi gene- rosi, tra i quali assicurava anche il diritto all'esercizio pubblico della religione ri- formata. Gli stessi privilegi concesse anche agli ugonotti che fondarono Welsch- Neureut o che si dirigevano a Auerbach. Quelli che si stabilirono a Pforzheim rice- vettero, nel luglio 1700, privilegi propri, ma anche a loro venne assicurata libertà religiosa.
Come l 'Assia-Darmstadt e il Wurttemberg, anche il territorio di Baden-Dur- lach aveva fin qui sempre protetto strettamente lo status ecclesiasticus luterano (con l'eccezione del tentativo non riuscito del margravio Ernst Friedrich di calvi- nizzare i suoi territori negli anni 1599-1604). Il 1699 segna dunque la prima volta che venne concesso a immigrati riformati l'esercizio pubblico del loro culto105.
ì02 ARNAUD, Histoire (come nota 25), Préface, C 4v.
103 Cfr. in: De LANGE. Dreihundert Jahre Waldenser, p. 111.
104 KlEFNER. Waldenser. v. 3. p. 758.
105 Fricdemann MERKEL, Geschichte des cvangelischen Bekenntnisscs in Baden von der Reformation bis zur Union, Karlsruhe 1960. p. 121. mostra come i riformati svizzeri, i quali arri- varono prima nel Baden-Durlach, si siano inseriti nella Chiesa luterana.
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È degno di nota il fatto che non si sia registrata nemmeno una protesta contro questa svolta né da parte del Konsistorium né da parte degli ecclesiastici luterani106. Come lo si può spiegare? Neil' Assia-Darmstadt e nel Wurttemberg erano stati i valdesi stessi che avevano spinto le autorità luterane ad ammorbidire l'omogeneità confessionale, in quanto avevano suscitato l'aspettativa che ciò dovesse essere questione di breve periodo. Non si può dire la stessa cosa per il Baden-Durlach. È pur vero che in un inciso gli ugonotti della Francia meridionale destinati a fondare Welsch-Neureut vengono definiti «Vaudois», ma questo era indubbiamente un equivoco107. Sarà solo nel 1701 che famiglie valdesi, precedentemente vissute neir Assia-Darmstadt, verranno a stabilirsi a Kleinsteinbach, territorio del Baden, perché nella vicina Palmbach, territorio del Wurttemberg, non c'era sufficiente spazio per loro; ma si trattava di un numero esiguo, circa 75 persone in tutto. Il territorio del margravio aveva dunque solo a che fare con valloni, ugonotti e con svizzeri di lingua francese.
L'atteggiamento permissivo del Konsistorium in Baden-Durlach è dovuto molto probabilmente al fatto che il potente vicino, stretto osservante dell'ortodossia luterana, aveva nel frattempo accolto valdesi e ugonotti nel Wurttemberg, conce- dendo loro il diritto all'esercizio pubblico della religione riformata. Questo bastava a tranquillizzare il Konsistorium.
6. Le concezioni politico-religiose dei valdesi
Dal paragrafo precedente è emerso che la "Déclaration en faveur des Vau- dois", che Ernesto Ludovico di Assia-Darmstadt diede nel 1699 ai valdesi, aveva assunto una posizione particolare. Innanzitutto perché costituì il modello per gli "Artikul" del duca del Wurttemberg e tutti i successivi "Privilegi" a favore dei val- desi del 1699. Il diritto all'esercizio pubblico della religione riformata, che questo langravio luterano concesse ai valdesi venne ripreso dagli altri principi territoriali. La posizione particolare del "Privilegio" dell'Assia consiste in secondo luogo in questo, che esso fu sottoscritto anche dall'inviato dei Paesi Bassi Valkenier, acqui- sendo in tal modo il carattere di un trattato.
La "Déclaration" di Darmstadt è però di particolare rilevanza anche per un terzo motivo. Dalla ricostruzione della genesi di questo "Privilegio", compiuta da Brigitte Kohler, si deduce che i due pastori valdesi Papon, padre e figlio, hanno in- fluenzato in maniera consistente il contenuto di questo documento108. Ciò vale in particolare per quegli articoli nei quali si assicura il «libero esercizio della loro re-
106 MERKEL, Geschichte, non ha mai annotato questo dato nel suo libro.
107 Wolfgang H. COLLUM, Hugenotten in Baden-Durlach. Die franzosischen Protestameli in (1er Markgrafschaft Baden-Durlach, inshesondere in Friedrichslal und Welschneureut, Ub- stadt-Weiher 1999, pp. 23, 26 ss.
108 KòHLER, Die Waldenser-Privilegien.
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licione». Questo "Privilegio" offre quindi la straordinaria possibilità di conoscere la concezione politico-religiosa dei valdesi stessi.
Nel primo articolo del suo "Privilegio" del 1699 Ernesto Ludovico venne in- dubbiamente incontro ai desideri dei due Papon, che i valdesi «ayent l'exercice public et libre de leur religion et de leur discipline, tout de la même manière qu'ils l'avoyent en France»109. Questo auspicio si riferiva ovviamente alla posizione della Val Chisone precedentemente al 1685. In quel periodo vi vigevano le disposizioni dell'editto di Nantes. In tale editto, il 13 aprile 1598 il re Enrico IV aveva concesso agli ugonotti francesi il diritto all'esercizio pubblico del culto riformato, in quanto questa era la sola possibilità per porre termine alle guerre di religione che si succe- devano da ben 36 anni. Il vero vincitore era tuttavia la chiesa romana. La Messa cattolica doveva essere reintrodotta su tutto il territorio del regno e i beni della Chiesa dovevano essere restituiti. Con questo si colpivano in modo particolare quelle regioni dove ormai non vivevano che pochi cattolici, come nella parte supe- riore della Val Chisone. Perdenti erano i protestanti: è ben vero che essi, in quanto sudditi, venivano a godere degli stessi diritti, ma dal punto di vista religioso erano in condizione di inferiorità. Essi avevano il diritto al libero e pubblico esercizio del culto solo là dove erano esistite comunità prima del 1596-97, per cui in molti luo- ghi veniva del tutto interdetto. Molte chiese dovettero essere restituite ai cattolici. Perciò negli studi più recenti tale editto viene valutato piuttosto negativamente ri- guardo allo sviluppo della libertà religiosa in Europa. L'editto «regola la tolleranza provvisoria di una minoranza religiosa con il mantenimento della sua subordina- zione culturale e con la parallela accentuazione della necessità di una sua conver- sione all'altra fede»110. Non si può dunque parlare di una tolleranza sostanziale, ma solo di sopportazione di una minoranza, fino al momento in cui ciò fosse ritenuto opportuno. La revoca dell'editto di Nantes, come venne portata a termine da Luigi XIV nel 1685, era già potenzialmente prevista nel 1598.
La repressione contro gli ugonotti che si andò sviluppando dopo il 1598 e la revoca dell'editto di Nantes che effettivamente seguì nel 1685 sembrano dare ra- gione a questa interpretazione critica. Si dovrebbe tuttavia ricordare che gli ugo- notti di allora valutarono perlopiù in maniera positiva le disposizioni di quell'e- ditto. Esso poteva rappresentare per loro un solido fondamento giuridico per difen- dere i propri diritti.
La stessa cosa valeva anche per i valdesi della Val Pragelato111. Fino al XVII secolo inoltrato essi poterono strutturare la loro vita ecclesiastica secondo la con- fessione e la disciplina riformata sotto la protezione dell'editto di Nantes. In questo era caratteristico il profondo intreccio dell'ordinamento comunitario civile e del-
109 Idem, p. 191 ss. KlEFNER. Die Privilegien, v. 1, p. 92.
110 Eckart BlRNSTIEL. Das Edikt von Nantes (1598). Triumph oder Scheitern der reforma- tion in Frankreich?, in: «Hugenotten» 63 (1999). p. 25.
111 Cfr. Theo KlEFNER. L'editto di Nantes e i Valdesi, in: «Bollettino Storico-Bibliografico Subalpino» n. 97 (1999), pp. 203-244.
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l'ordinamento comunitario ecclesiastico, come era stato introdotto a Ginevra da Calvino. Nella Val Pragelato i consiglieri delle comunità {consul e conseillers) te- nevano le loro sedute insieme al pastore e agli anziani di chiesa; spesso una sola persona rivestiva le due funzioni. Insieme vigilavano a che i dieci comandamenti venissero osservati. Questo ordinamento "teocratico" era considerato dai valdesi come il solo biblicamente fondato.
Anche se la chiesa cattolica riuscì gradatamente a riprendere piede in Val Pragelato. la popolazione rimase nella sua grande maggioranza riformata. La si- tuazione divenne pericolosa per i valdesi solo quando il prevosto di Mentoulles, Simon Roude il giovane, intraprese nel 1680 un procedimento giudiziario con l'intenzione di vietare la religione riformata nella valle sulla base dell'articolo 14 dell'editto di Nantes. Con questo articolo il re non consentiva «aucun exercice de ladite Religion en nos terres et pays qui sont delà des montagnes» (vale a dire al di là delle montagne che delimitano la Francia). Papon si erse come fierissimo oppo- sitore di Roude e dimostrò che l'articolo 14 dell'editto di Nantes non aveva mai avuto applicazione relativamente alla Val Pragelato. In contrasto totale con la legge, Luigi XIV accolse il ricorso di Roude e nel maggio 1685 - sei mesi prima della revoca dell'editto di Nantes - vietò la religione riformata in Val Pragelato sulla base dell'articolo 14 del medesimo editto.
Malgrado questa esperienza negativa, l'editto di Nantes rimase per i pastori Papon un modello. Essi non dubitarono nemmeno per un istante che uno stato do- vesse avere un carattere confessionale. Era però per loro più importante il fatto che l'editto avesse concesso ai valdesi, come minoranza in uno stato cattolico, di poter esercitare la propria religione liberamente e pubblicamente, offrendo una discreta tutela giuridica. I due Papon auspicavano che i "Privilegi" del principe tedesco concedessero lo stesso spazio di libertà in un paese luterano, così come l'editto di Nantes lo aveva fatto precedentemente in un paese cattolico. I valdesi dovevano poter continuare a vivere sul modello sperimentato in Val Chisone, tanto più che i Papon speravano, dopo il primo esilio del 1685, in un prossimo ritorno nella loro patria. I "Privilegi" avrebbero inoltre dovuto proteggere i valdesi da attacchi pro- venienti da parte luterana. Essi sperimentarono però ben presto l'avversione degli ecclesiastici luterani che rinfacciavano ai riformati «sofisticheria» o «cavillosità», anche perché temevano che i calvinisti potessero contagiare la popolazione autoc- tona con i loro errori.
Ciò che è stato detto dei due Papon in Assia, vale anche per Enrico Arnaud nel Wurttemberg. Anch'egli rivendicava qui il diritto all'esercizio pubblico della religione riformata, perché solo così avrebbe potuto essere assicurato il manteni- mento della "nation vaudoise" in esilio. Questo era per lui tanto più importante, in quanto egli non abbandonò, neppure dopo il 1699, la speranza del rientro nel paese d'origine. E infatti Arnaud tornò in Piemonte nel 1704 con 150 uomini, ma il suo sogno era destinato a non realizzarsi. Possiamo affermare che certo non sarebbe
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stato d'accordo con l'inserimento dei valdesi nella chiesa territoriale luterana, come poi avvenne nel 1823 in Wurttemberg. ed avrebbe certamente preferito una unione tra riformati e luterani come venne realizzata in Assia-Nassau e nel Baden.
Conclusioni
Alla fine di questo excursus risulta chiaro che i principi luterani tedeschi con l'accoglimento dei valdesi e degli ugonotti non avevano in vista alcun cambia- mento di principio nella loro politica religiosa. Non erano affatto propugnatori di una libertà di coscienza teorica, ma rimanevano legati all'idea della necessità di una omogeneità confessionale nel loro territorio. Essi consideravano piuttosto la li- bertà religiosa concessa ai valdesi e agli ugonotti come una soluzione provvisoria.
Questo spiega la ragione per cui il margravio Christian Ernst di Brandeburgo- Bayreuth cercò dapprima una "concordia" dei riformati con la chiesa luterana. E spiega anche perché nell' Assia-Darmstadt e nel Wurttemberg siano stati accolti di preferenza valdesi. Si sperava cioè che questi riformati "semi-luterani" si sarebbero presto inseriti nella chiesa territoriale.
Questa speranza tuttavia era destinata a non realizzarsi. I valdesi come mino- ranza rimasero fermi nel rivendicare il diritto all'esercizio pubblico della loro reli- gione come, sotto certi aspetti, l'avevano avuta in Francia alle condizioni espresse dall'editto di Nantes, certamente anche perché essi contavano di poter presto tor- nare nella loro patria.
Così la fondazione delle colonie riformate ebbe come conseguenza che nel- l' Assia-Darmstadt e nel Wurttemberg il principio del cuius regio, eius religio venne di fatto disatteso. Con l'esistenza di queste piccole isole riformate l'unità confessionale luterana dei due territori venne relativizzata e si compì un passo avanti nella direzione dello stato paritario del XIX secolo, nel quale le chiese lute- rana, riformata e cattolica vengono trattate, dal punto di vista dei diritti, sullo stesso piano.
Per i valdesi stessi il nuovo stato paritario significò la fine della loro esistenza particolare. Essi furono inseriti nel 1806 nei nuovi stati che si erano organizzati nell'Assia, nel Wurttemberg e nel Baden, e inglobati nelle chiese territoriali di nuova organizzazione a partire dal 1818. Ciò colpì in maniera speciale i valdesi del Wurttemberg che furono incorporati nella chiesa territoriale luterana e persero il di- ritto al libero esercizio della religione riformata.
ALBERT DE LANGE
Discussioni intorno alla Bibbia del Diodati
// convegno della Società, nel 1999, ha avuto un carattere un po' anomalo, ma forse si è trattato, piuttosto, di una specie di ritorno al passato. Si era pensato, infatti, di proseguire con la linea degli ultimi anni, cioè con la scelta di un tema preciso, organizzato da uno specialista, che convoca a relazionare e a discutere gli studiosi che più si sono occupati dell'argomento. Difficoltà organizzative dell'ul- timo momento hanno reso impossibile sia la realizzazione del progetto in cantiere, sia la preparazione, in un tempo ristretto, di un altro simile. Ecco allora tornare utile l'esperienza del passato, di quando i convegni della Società non avevano un unico argomento, ma gli studiosi interessati ai temi della Riforma e dei movimenti religiosi in Italia si incontravano annualmente per discutere intorno alle loro ri- cerche e alle prospettive fiiture. Non si è tentato di riproporre quella formula, che è ormai impossibile, in questi termini, per il proliferare di iniziative e per l'au- mento di studiosi interessati a temi che un tempo erano lasciati ai singoli ed alle iniziative della nostra Società. (Sarebbe però interessante discutere se è ancora possibile inventare qualcosa che mantenga quello spirito, pur nel mutare delle condizioni generali). Si è arrivati invece ad una forma intermedia: un solo conve- gno, ma con due temi e con una maggiore vocazione alla discussione.
Una giornata è stata dedicata, così, alla cartografia (ce ne occuperemo in un prossimo numero), mentre l'altra si è incentrata su un dibattito intorno alla tra- duzione della Bibbia di Giovanni Diodati, in occasione della sua pubblicazione nella collana regina della Mondadori, i Meridiani. Il titolo scelto. Un'occasione mancata, intendeva mostrare immediatamente il carattere marginale che ebbe questa traduzione nella storia della cultura italiana. Presentati da Claudio Pa- squet, intervennero Milka Ventura Avanzinelli, Sergio Bozzolo, Bruno Corsani e Marziano Guglielminetti.
Pubblichiamo qui gli interventi, rivisti e modificati, dei primi tre, mentre mi permetto di liberamente riassumere le tesi dell'ultimo relatore. Professore di lette- ratura italiana all'Università di Torino, era stato invitato esplicitamente per riflet- tere sul carattere letterario di questa traduzione. Il suo intervento, infatti, si è im- mediatamente concentrato sul fatto che l'inserimento di Diodati in questa collana, costituisce il tentativo di farne un classico della letteratura italiana. Un canone di autori considerati classici, ossia modelli e fondamenti di una civiltà, non è, infatti, un 'entità costituita una volta per sempre, ma il risultato, sempre instabile, di una
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DAVIDE DALMAS
continua discussione e valutazione critica. In questo momento la discussione sul canone e sui classici è molto vivace e si registra una certa insofferenza verso i testi proposti dalla tradizione, come il desiderio di porre loro accanto altri nomi ed altri testi. In particolare, per quel che riguarda il Seicento, si può dire che il canone sia ancora più instabile ed indefinito, rispetto ad altri periodi della nostra letteratura. Non è da molto tempo che il Marino, l'autore dell'Adone e di quelle Dicerie sacre che possono ben rappresentare l'opposto della prosa di Diodati, è oggetto di ricerche serie da parte di un numero sempre crescente di studiosi. Ed è sufficiente ricordare che, ancora alla fine del secolo scorso, il Barocco era consegnato inte- ramente ai margini della tradizione letteraria italiana.
La Bibbia in italiano di Diodati, secondo Guglielmi/tetti, è un testo straordi- nariamente bello, che se viene inserito stabilmente nel corpus della letteratura ita- liana, pone immediatamente problemi di carattere generale. Infatti i migliori critici che hanno tentato di rompere l'ostracismo verso il Seicento (Carlo Calcaterra, Giovanni Getto, Ezio Raimondi) stentano a vedere la possibilità di una prosa di- versa da quella di Galilei. Il punto di appoggio, come mostra anche la cronologia del Meridiano (piuttosto una biografia) curata da Emidio Campi, è costituito da Paolo Sarpi. Anche senza stabilire nessuna equivalenza tra la prosa di Sarpi e quella di Diodati, lì si apre una finestra per il ginevrino verso la letteratura ita- liana. E, da questa finestra, sarebbe il caso di risalire al secolo precedente, e di chiedersi perché testi come il Pasquillus estaticus di Celio Secondo Curione non hanno avuto lo spazio che meritavano nella storia della letteratura italiana. Tra i riformati italiani che scrivono, c'è anche del genio letterario, non solo vocazione all'apologia o alla polemica. Tuttavia, da De Sanctis ai manuali contemporanei, è già un eccezione se tutta questa produzione viene anche semplicemente citata. Se- condo Guglielminetti, invece, meriterebbe di essere oggetto di una precisa atten- zione letteraria, anche perché i parametri della letteratura sono mutati, dopo i fondamentali studi di Carlo Dionisotti. Ma, mentre sono stati ripresi in mano tutti gli autori della Controriforma, e da studiosi del calibro di Giovanni Pozzi, è an- cora tutto da cominciare per i letterati riformati.
Concludendo, questa pubblicazione di Diodati nei Meridiani arriva proprio al momento giusto: ora è necessario ricostruire il suo retroterra, che è costituito proprio da questa letteratura riformata italiana, costretta, allora, all'esilio o al si- lenzio, ma ancora oggi sostanzialmente ignorata.
DAVIDE DALMAS
DISCUSSIONI INTORNO ALLA BIBBIA DILI. DIODATI
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La nuova edizione della Bibbia tradotta e commentata da Giovanni Diodati
Cronaca di una edizione
Vorrei approfittare dell'occasione che mi viene offerta, non per riproporre le tematiche che ho già affrontato nel mio saggio introduttivo, ma per ripercorrere, in questa sede, le tappe che hanno portato a questa nuova edizione della traduzione della Bibbia del Diodati e per spiegare i motivi di alcune scelte che possono essere - e che talvolta sono state - considerate discutibili. Mi sembra importante innanzi- tutto sottolineare che l'edizione della Diodatina che abbiamo curato per i Meridiani Mondadori è nata da una iniziativa di carattere non confessionale ma editoriale. Il Meridiano si deve infatti a un'idea di Renata Colorni - direttrice della collana e da tempo estimatrice della traduzione del Diodati - la quale ne ha affidato la cura a Michele Ranchetti, non solo perché studioso di storia della chiesa e delle Scritture, ma anche per la sua sensibilità letteraria ed "estetica" (Ranchetti è uno straordina- rio poeta); ha poi cercato in ambiente universitario chi si fosse occupato a livello filologico della traduzione del Diodati e ha trovato la mia tesi di dottorato in ebrai- stica.
L'idea iniziale era quella di proporre un testo che fosse agevole per il lettore contemporaneo: un nuovo aggiornamento, quindi, attento alla forma letteraria e ri- spettoso delle scelte filologiche del Diodati, ma il più possibile "agile" e quindi privo dei commenti e con una grafia modernizzata. Per spiegare come si sia invece arrivati a questa edizione in tre tomi, con un considerevole apparato di saggi e ca- ratterizzata da criteri fortemente conservativi, bisogna rendere conto di una serie di scelte che si sono imposte via via che l'edizione prendeva forma.
Il lavoro di edizione è iniziato, nel 1995, con il raffronto sistematico delle due versioni principali: quella del 1607 e quella del 1641. Il confronto fra quelle due versioni faceva emergere sempre più chiaramente l'importanza del testo come documento prezioso di un preciso "stadio" della lingua e come testimonianza di una "sorvegliata coscienza letteraria". Ci rendevamo conto che uniformare la grafia alla norma attuale avrebbe cancellato tutte le tracce del lavoro di personale matu- razione del traduttore e i segni di una "mobilità" della lingua evidente anche sul piano lessicale. Dopo esserci consultati con alcuni studiosi della lingua abbiamo quindi deciso di mantenere quanto più possibile la grafia e la punteggiatura origi- nale della Diodatina del 1641 e di limitare al minimo gli interventi "normalizzatori", rendendoli comunque riconoscibili attraverso una dettagliata nota introduttiva. (In quella nota, e in parte anche nel mio saggio, ho cercato di elencare
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MILKA VENTURA AVANZINELLI
- sebbene in modo molto sommario - gli interventi più significativi con cui Diodati "raffina", nella versione definitiva, l'italiano della sua versione giovanile). Si è quindi optato per un criterio di massima fedeltà, cercando però di rispettare, della impostazione iniziale, l'impegno a garantire la massima "leggibilità" del testo. A questo scopo si è anche aggiunto un glossario che facilitasse il lettore e gli consen- tisse la corretta interpretazione di vocaboli ormai desueti o che hanno assunto nel tempo significati diversi.
Si può dire che ci siamo trovati a dover seguire dei percorsi obbligati: una volta scelto di mantenere la grafia originale, si imponeva anche - oltre alla docu- mentata nota sui criteri seguiti - un saggio sulla lingua e lo stile del Diodati, che è stato affidato a Sergio Bozzola, ricercatore all'Università di Padova, e che ha messo bene in evidenza come la lingua del Diodati, soprattutto nell'ultima edi- zione, sia lingua «squisitamente e rigorosamente scritta»; una prosa letteraria - to- scana - arcaizzante.
D'altro canto, il confronto fra le due versioni rendeva anche evidente l'e- norme lavoro di approfondimento del testo biblico che Diodati aveva fatto negli anni e che era testimoniato sia dalla decisione di dedicare uno spazio apposito ai ri- ferimenti biblici - significativamente aumentati nella seconda edizione - sia dal- l'ampiezza e dall'importanza del commento. Di qui la scelta di riprodurre inte- gralmente tutti i riferimenti biblici (verificati uno per uno e corretti dai numerosi refusi) e di pubblicare almeno una parte delle note di commento che spiegasse il percorso esegetico da cui quella catena di rimandi scaturiva e che desse conto dello spessore del lavoro del Diodati. Possiamo fare alcuni esempi su come il commento sia strettamente connesso ai riferimenti biblici in margine e come spesso la ratio dei riferimenti sia comprensibile soltanto attraverso il commento in calce:
- il nesso fra il termine «possenti» nel Salmo 103,20 e il Salmo 78,25 si co- glie soltanto leggendo il commento a quest'ultimo, dove si specifica la connes- sione, attraverso un rimando al testo ebraico:
Sai. 103,20 «Benedite il Signore, voi suoi1 Angeli2, possenti di forza; che fate ciò ch'egli dice, ubbidendo alla voce della sua parola».
Sai. 78,25: «L'uomo mangiò del pan degli Angeli: egli mandò loro della vivanda a sa- tietà».
degli Angeli Ebr. de' possenti: epiteto degli Angeli. Sai. 89.7 e 103.20 [...]
- la stessa connessione con il testo ebraico, segnalata nel commento, serve a capire un riferimento in un passo di Giobbe:
Iob 18,1 1 «3Spaventi gli conturberanno d'ogn'intorno, e gli faranno fuggire in rotta».
1 Sai. 148.2.
2 Sai. 78,25; 89,7.
3 Iob 15,21; 1er. 6,25; 20,3[-4]; 46,5; 49,29.
LA NUOVA EDIZIONE DELLA BIBBIA DEL DIODATI
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Soltanto la nota del commento a 1er. 20,3, che spiega il significato del nome Magor-missabib, rende comprensibile il nesso, che abbiamo comunque cercato di rendere più facilmente individuabile aggiungendo fra parentesi quadre anche il ri- ferimento al versetto successivo4:
1er. 20.3 «E'1 giorno seguente. Pashur trasse Ieremia fuor della carcere. E Ieremia gli disse. Il Signore ti nomina, non Pashur. ma Magor-missabib».
Magor-missabib c. spavento d'ogn'intorno. Termine usato in istormo generale: 1er. 6.25. e 46.5. Il senso è. In luogo che. per le tue false profetie, v. 6. tu vuoi rassicurare il popolo contr'alle minacce di Dio: il Signore farà che tu sarai colto di terrore da ogni lato, e che tu sarai argomento di spavento universale a tutti i tuoi seguaci, per gli orribili accidenti che ti sopraggiugneranno.
Se posso spendere qualche parola sui commenti del Diodati, vorrei sottoline- are che, benché siano spesso superati sul piano scientifico, offrono un ampio spac- cato dello stato delle conoscenze a quel tempo e testimoniano dello sforzo di do- cumentazione e di approfondimento fatto dal traduttore. Come Ranchetti fa notare nella sua introduzione, sembra che Diodati non voglia lasciare niente di inspiegato, quasi che nel testo sacro ogni parola, perfino ogni nome, meritasse una particolare attenzione. Una attenzione rivolta alle circostanze e ai luoghi, alle piante, alle spe- cie animali e alla loro natura, ai diversi popoli e ai loro costumi5; ma unita ad un ri- spetto per la Parola che lo porta a non citare alcuna fonte: nessun nome estraneo al testo biblico stesso figura nei commenti del Diodati (con la sola eccezione - in Lev. 11,13 - di «San Girolamo», invocato come autorità per la difficile traduzione dei nomi dei rapaci).
Purtroppo non è stato possibile riprodurre per intero l'apparato di note esege- tiche del Diodati, sia per considerazioni editoriali di carattere economico (sarebbero stati necessari altri due o tre volumi e il prezzo dell'opera sarebbe di- ventato inaccessibile ai più), sia per una valutazione di ordine più generale. Ab- biamo infatti ritenuto che non fosse necessario riproporre oggi, per intero, un commento del '600, sicuramente datato sotto il profilo filologico, linguistico e ar- cheologico e senza particolari elementi di originalità rispetto alla teologia riformata del tempo. Una riproduzione integrale del commento - spesso molto più ampio del testo - avrebbe appesantito la lettura e compromesso del tutto l'intento di offrire un testo quanto più possibile "leggibile" per il lettore di oggi. Si è comunque cercato di fare una scelta che - per quanto inevitabilmente "arbitraria" - desse l'idea della tipologia del commento, del suo carattere enciclopedico e vario. Ci resta, però, qualche rimpianto e la sensazione che la necessità di "stare nei limiti" ci abbia portato a volte a essere un po' troppo "avari". Potremmo citare l'esempio delle numerose note dedicate agli strumenti musicali nei Salmi, di cui è stata fatta solo una scelta che ha lasciato fuori, fra l'altro, un intreccio di rimandi e commenti re- lativi agli strumenti a corde:
4 1er. 20.4 «Percioche [...] Ecco io ti metterò in ispavento a te stesso [...]».
5 Vedi p. es. il commento sulla "pernice" in 1er. 17.1 1 e sul "tamerice" in 1er. 17,6. quello sulle due specie di leone in Gen. 49,9, o quello sulla malva in Iob 30.4.
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Sai. 54.1 «Maschil di David, dato al Capo de' Musici, sopra Neghinot». Neghinot vedi Sai. 4.1.
Sai. 4,1 «Salmo di David, dato al Capo de' Musici, in su Neghinot».
in su Neghinot c. su gli strumenti a corde. Il senso può essere, ch'ai canto di questo Salmo fosse giunta la Musica di questa spetie di strumenti: o, ch'egli fosse rimesso al Capo de' Musici di tali strumenti: secondo che ciascuna spetie generale di strumenti havea la sua schiera distinta: lCron. 15.19.20.21.
Un'altra scelta forse "discutibile" è stata quella di non tenere conto di tutta la storia della "fortuna" della Diodatina, che avrebbe meritato un capitolo a parte, sia nell'introduzione che nella bibliografia. La straordinaria vicenda di come la Bibbia del Diodati abbia accompagnato la vita e la storia delle comunità evangeliche in Italia e all'estero ed abbia segnato momenti fondamentali della storia e della cul- tura italiana è sicuramente affascinante, ma abbiamo ritenuto che non rientrasse negli scopi - e nei limiti - di questa edizione. L'edizione dei Meridiani ha infatti soprattutto l'intento di restituire alla Bibbia di Diodati la sua dignità di classico della letteratura e della lingua italiana, facendola uscire dal confinamento in ambiti ristretti (bibbia di una chiesa, bibbia di una élite) e da una circolazione semi-clan- destina in una veste "dimessa" - potrei dire "povera" se la "economicità" non fosse per me un pregio anziché un difetto. Il nostro è stato, per così dire, un percorso a ritroso, un restauro dell'originale che ha voluto eliminare, fra l'altro, gli interventi filologicamente errati - perché non rispettosi del testo originale o delle scelte filo- logiche del traduttore - di tanti revisori. Un esempio per tutti è il pesante intervento della Riveduta su Iob. 13,15 dove Diodati, attento all'opera di "custodia" del testo svolta nei secoli dalla cultura biblica ebraica, traduce accettando la "lettura"6, men- tre la Riveduta ripristina la lezione pessimistica del testo scritto capovolgendo il senso del versetto; e dove una bella resa italiana di un idiomatismo ebraico - man- tenuta nelle edizioni ottocentesche della Diodatina - viene riportata dalla Riveduta a una aderenza letterale stilisticamente sgradevole ed ermeneuticamente fuorviante, perché enfatizza, al di là dell'originale, la fierezza di Giobbe:
D2 «Ecco, uccidami egli pure: sì spererò in lui: ma tuttavia difenderò le mie vie nel suo cospetto».
Riveduta «Ecco, egli m'ucciderà; non spero più nulla; ma io difenderò in faccia a lui la
mia condotta»7.
Ma, nonostante alcuni appunti che si possono fare a queste revisioni, il nostro desiderio di portare la Diodatina "fuori" dall'ambiente evangelico non vuol essere
6 Ho trattato più ampiamente di queste "correzioni" dei masoreti nel mio saggio introdut- tivo. Vedi soprattutto pp. XLVIII, LV-LVI, LXIII.
7 Un altro esempio di revisione "discutibile" - oltre a quelli che già segnalava J. A. Soggin (Problemi di una traduzione biblica in italiano. "Protestantesimo" XXII, n, 1 (1967), p. 1-23) - è la quasi costante uniformazione dei nomi propri, per i quali Diodati manteneva invece tutte le va- rianti. Ma si può citare anche Num. 12,6. dove la Riveduta cambia "parlo in lui" con "parlo con lui", ignorando uno specifico commento in cui Diodati spiegava il senso di "comunicazione inte- riore" implicito nell'espressione ebraica.
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in alcun modo un "disconoscimento" di paternità, né tantomeno una svalutazione dell'opera di custodia e di amorosa revisione di questo testo che le comunità evan- geliche hanno svolto in secoli in cui hanno garantito a tanti italiani la possibilità di leggere la Bibbia. La nostra decisione di affidare a uno studioso evangelico il contributo sugli aspetti biografici e storico-culturali (la Cronologia) ha voluto es- sere infatti - oltre che un gesto di stima personale per Emidio Campi - anche un ri- conoscimento dei meriti della cultura riformata nell'aver conservato, curato e tra- mandato questa Bibbia.
A questo proposito, trovandomi oggi in un consesso di evangelici, vorrei co- gliere l'occasione per scusarmi di un errore presente nel mio saggio - evidente- mente dovuto alla consultazione di fonti poco affidabili - e per correggerlo (ringrazio Paolo Boringhieri per avermelo segnalato): Michelangelo Florio, padre di quel John Florio autore di un dizionario italiano-inglese che segnalavo fra le possibili fonti del Diodati, non era senese né lucchese, ma fiorentino, e soprattutto non era un valdese, ma un riformato che si era prima rifugiato a Londra e che era poi stato chiamato come pastore a Soglio, in Val Bregaglia8 (e non era «fuggito dalla Valtellina al tempo delle persecuzioni» come erroneamente affermavo).
Valore e limiti della Diodatina
Al di là di quanto si può dire di questa nuova edizione, credo che il principale valore della traduzione del Diodati sia da ricercare, ancora oggi, soprattutto nella sua bellezza, nella straordinaria capacità di coniugare l'amore per la lingua di par- tenza e quello per la lingua di arrivo in una resa letteraria che non è mai semplice "calco" - come era la traduzione del Brucioli - ma che tuttavia conserva, come in trasparenza, una sorta di "ombra" dell'originale, i cui contorni si individuano nei corsivi con cui Diodati cerca di differenziare i due livelli: quello della traduzione letterale e quello della resa in una espressione significante e non astrusa. Fra le tre modalità del tradurre utilizzate dagli umanisti Diodati sceglie infatti una posizione intermedia: né la conversìo ad verbum (la traduzione a calco che riproduce pedis- sequamente ogni singola parola del testo originale e che spesso rende il testo in- comprensibile o tradisce il senso reale, in quanto non tiene conto degli idiomatismi e delle "proprietà" della lingua originale), né V immutare (la traduzione a senso che è praticamente una parafrasi); ma il trans/erre ad sententiam, cioè una traduzione oratoria fedele, rispettosa dell'originale, ma anche delle strutture della lingua d'ar- rivo e della sensibilità del lettore.
Diodati riesce a cogliere tutta la bellezza del testo originale ed a trasporla in una lingua italiana di straordinario impatto estetico ed emotivo: una lingua solenne e al tempo stesso piana, che raggiunge quasi sempre lo scopo primario che il tra- duttore si era prefisso, quello della chiarezza. Ciò che lo guida è infatti soprattutto il desiderio di rendere le Scritture "chiare", sgombrando il campo dalla falsa conce-
Cfr. G. Perini. "Florio. Michelangelo", in DEI, voi. 48 (1997), pp. 379-381
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zione che la parola divina sia stata data in modo oscuro e non comprensibile senza l'aiuto e la mediazione di un magistero ecclesiastico:
Dico dunque che tutte le preoccupazioni devono cedere a questa ragione di coscienza, che è di rendere questa fontana di vita tanto chiara ed aperta che tutti vi possano trovare non solo la necessità della fede, ma anche l'appagamento e l'abbondante edificazione dell'a- nima; e tanto gradevole che i più restii siano attirati ad amarne la lettura ed a scoprirvi ovunque luce, armonia, dolcezza e bellezza divina ed ammirabile9.
Il suo principale intento è quello di rendere «chiara e limpida la fonte d'acqua viva», aiutando «le anime povere e bisognose ad attingerne ampiamente e agevol- mente»; «rendere piana e facile a tutti la via della Salvezza, e liberare dalle pietre il campo del Signore e l'eredità delle Chiese, e lustrare le Lampade del Candelabro Aureo, e rendere questa carne dura gradevole, gustabile, godibile e facile da dige- rire; e consacrare questa manna celeste nella sua coppa d'oro»10.
Per Diodati il senso della Parola non è mai oscuro, le ambiguità servono solo ad indurre in errore, la sua traduzione, sempre alla ricerca della "sobrietà", "fedeltà" e "semplicità" vuole liberare le Scritture dalla falsa opinione che i loro misteri siano così sublimi da trascendere la capacità dei semplici e da poter essere capite solo dai dotti, mentre gli altri dovrebbero accontentarsi di portar loro una cieca devozione:
La Scrittura non è soltanto per i dotti, ma per i semplici e la gente comune, perché essa è chiara ed intelligibile".
Nonostante il grande sforzo di fedeltà, evidenziato anche dal tentativo di se- gnare in corsivo tutto ciò che viene aggiunto, nessun passo resta oscuro, e dove re- sta qualche incertezza interviene il commento a spiegare, chiarire, ampliare, sof- fermandosi sulle proprietà della lingua originale, sulle possibilità di ulteriori e di- verse interpretazioni, sui passi paralleli che aiutano a comprendere appieno un con- cetto o un'espressione.
Si può dire di essere di fronte ad una esegesi del testo che si realizza attra- verso un percorso triplice i cui sentieri a volte si intrecciano, a volte procedono paralleli: l'esegesi della traduzione, quella dei commenti e quella "intrabiblica" dei riferimenti in margine. (Vedi, per esempio, il rapporto, evidenziato dai riferimenti, fra la promessa fatta da Dio ad Abramo in Gen. 15,18 e quella fatta a Israele in Eso. 3,8. Vedi anche come i riferimenti a Gen. 39,21 fungano da vera e propria concordanza tematica). L'unico appunto che si può fare al Diodati, da questo punto di vista, è che la chiarezza a tutti i costi ha un suo prezzo, che è non solo quello della perdita di tutti gli altri sensi possibili (a volte recuperati nei commenti), ma
9 Lettera agli Accademici di Saumur. 25 giugno 1635 (in francese), p. 2 (UB Basel, ms. Fr.-Gr. II 7, 123, copia).
10 Lettera ài Sinodo di Alençon, 1 maggio 1637 (in francese), p. 4 (Bibliothèque de la So- ciété de l'histoire du protestantisme français, ms. CMS 760/5).
" Lettera agli Accademici di Saumur, cit., p. 6.
LA NUOVA EDIZIONE DELLA BIBBIA DEL DlODATl
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soprattutto quello del filtro culturale e teologico che inevitabilmente indirizza l'in- terpretazione.
Vorrei però soffermarmi anche sul valore che ha per Diodati l'esperienza vi- tale del lavoro di traduzione della Bibbia - vitale anche nel senso che dura tutta una vita - e quindi sul carattere di testimonianza di un incontro fra l'uomo Diodati e il testo sacro che le sue traduzioni ci offrono. Si può dire che il Diodati migliore sia proprio quello che dedica la propria esistenza a questo compito immane e inesau- ribile della traduzione delle Scritture, quello che con grande umiltà e pazienza confronta le varie versioni, antiche e moderne, e consulta una quantità di strumenti e di sussidi, quello che si batte appassionatamente per difendere il suo lavoro da quella stessa intransigenza che in altre occasioni lui stesso ha condiviso. Sulla tra- duzione della Bibbia Diodati sconta tutti i suoi peccati: dalle sue lettere di accorata perorazione in difesa della sua versione francese traspare tutto il lungo travaglio che ha fatto di un uomo di formazione rigida e dogmatica, incline all'intransigenza e anche all'intolleranza, quel devoto e appassionato "servo" della parola divina che ha potuto produrre le sue traduzioni.
L'esperienza della pesante opposizione incontrata dalla sua traduzione fran- cese - grazie alla quale noi abbiamo preziosi documenti su quale fosse la sua teoria della traduzione della Bibbia - porta Diodati ad assumere, nella controversia sulle traduzioni delle Scritture che infuriava al suo tempo, una posizione che sconcerta per il suo "pluralismo". Emulo di San Gerolamo e suo grande ammiratore, Diodati difende la necessità di una pluralità di versioni in molte delle sue lettere. Nell'ap- pello che indirizza nel 1637 al Sinodo di Alençon per cercare di convincere i colle- ghi che la sua traduzione francese non offrirà argomenti ai nemici della Causa, esordisce rivendicando per sé il diritto di ogni esegeta ad elaborare una versione dei testi che corrisponda alle proprie annotazioni, e cita come precedente Calvino, che nei suoi commentari ripropose una sua traduzione dei testi correggendo l'Olivétan. Dichiara poi quali sono le motivazioni e gli intenti della sua opera di traduttore e di esegeta: a) spiegare i passi oscuri; b) riconciliare le apparenti contraddizioni del testo; c) creare una barriera contro gli errori e una «prevenzione dalla seduzione», cioè dalla tentazione di interpretazioni fuorviami. Elenca poi una serie di argomentazioni:
7) Fin dalla nascita del Cristianesimo, ogni epoca ha non solo tollerato, ma favorito le traduzioni della Sacra Scrittura e le ha raccolte con cura (cita gli He.xa- pla e gli Octapla di Origene), senza discriminare quelle che venivano dagli ebrei o dagli eretici.
2) È il tempo ad operare la naturale selezione, sopprimendo le traduzioni scorrette e tendenziose e facendo sì che i difetti vengano corretti e suppliti dalle traduzioni nuove. Grande ricchezza hanno apportato al mondo cristiano le nuove traduzioni nelle lingue volgari (cita le più recenti: la traduzione inglese [King Ja- mes], le tedesche di Piscator e Cramer, la polacca stampata dal Principe di Radze- ville, l'olandese - promossa dal Sinodo di Dordrecht -, la nuova traduzione del
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MILKA VENTURA AVANZINELL1
Nuovo Testamento in lingua svizzera tedesca, la spagnola di Cypriano de Valera, la sua stessa traduzione italiana).
3) Tutti i suoi grandi predecessori, e soprattutto Calvino e i Pastori di Gine- vra, hanno espressamente dichiarato nelle loro traduzioni la necessità che altri, dopo di loro, si misurassero con l'impresa della traduzione delle Scritture per ren- dere l'opera sempre più perfetta.
4) L'evoluzione degli idiomi volgari rende necessario un costante adegua- mento. (Cita in particolare la «mobilité» del francese.)
5) Chi commenta un'opera straniera deve sempre adeguarne la traduzione al suo commento, perché altrimenti rischierebbe di cadere in contraddizione.
6) Ci devono essere versioni "canoniche" e autorizzate, per uso dottrinale e liturgico, e ce ne devono essere altre per uso privato. (La sua rientra nella seconda categoria, senza che egli se ne senta offeso). Così era per l'antica chiesa greca. An- che la chiesa cattolica tollera che, accanto alla versione ufficiale - la Vulgata - vengano usate, per spiegarla, le versioni del Vatablo, del Pagnino, del Montano, del Clario. E le chiese tedesche, luterane o calviniste, usano la Bibbia del grande Lu- tero dal pulpito, ma consultano e citano senza scandalo anche le altre (Piscator, Cramer, Osiander).
7) Gli obblighi di coscienza devono prevalere su qualunque precauzione, pur di rendere la Scrittura chiara nella sua interezza, e non soltanto nei passi dogmatici. «Perché tutta la Sacra Scrittura è divinamente ispirata [...] ed è volere di Dio che queste Stelle baluginanti dei passi dogmatici non siano come se fossero custodite in una grande oscurità nebulosa, ma in mezzo a quel vasto Azzurro luminoso della Sacra Scrittura».
8) L'uso di un'unica traduzione per uso pubblico e privato può portare ad una sclerotizzazione, com'è accaduto per la Vulgata, che è stata canonizzata dalla con- suetudine, prima che da qualunque altra autorità.
9) Nessuna traduzione è perfetta al punto di non poter essere migliorata.
10) L'eccessiva proliferazione non deve preoccupare, perché le traduzioni migliori si affermano per la loro stessa autorità intrinseca (cita l'esempio della Vulgata, affermatasi sopra tutte le precedenti o contemporanee versioni latine).
//) La libertà di traduzione è altrettanto preziosa della libertà di interpreta- zione - sempre limitatamente a passi «non essenziali alla nostra Causa» - proprio per evitare di essere «catturati» da una sola traduzione, con tutti i suoi difetti.
LA NUOVA EDIZIONE DELLA BIBBIA DEL DIODATI
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oscurità, fraintendimenti, e da plasmare su di essa misteri a nostro piacimento, «cosa che abbiamo giustamente condannato nella Chiesa di Roma».
Nell'ultimo argomento che Diodati aggiunge a conclusione della sua lettera, ribadendo di aver lavorato con fedeltà, secondo l'ispirazione e il talento che Dio gli ha concesso, traspare chiaramente la sua personale vicenda umana, quando sostiene che l'opposizione alla pubblicazione di una nuova traduzione offende l'onore del suo autore e offre motivi di polemica ai nemici della Causa12.
Diodati sostiene dunque la necessità per le traduzioni bibliche di un costante aggiornamento sul piano della lingua d'arrivo - sorge spontaneo il pensiero che, oggi, preferirebbe probabilmente la Riveduta o la Nuova Riveduta alla nostra edi- zione che ripropone una lingua arcaica; ma in realtà egli stesso aveva scelto per la sua ultima versione italiana una lingua che già allora aveva una patina arcaizzante.
Per Diodati i traduttori devono essere capaci di utilizzare molteplici contributi ed essere aperti al confronto, purché a guidare le loro scelte sia l'ispirazione divina - che comunque non esime dallo studio e dalla ricerca - e quel criterio della «analogia della fede» che già nella sua tesi di diploma era data come regola erme- neutica fondamentale. Non è quindi il rigore filologico e critico ad essere al primo posto e questo, da un'ottica moderna, "scientifica" e "laica" è il principale appunto che può essere fatto al Diodati. Siamo quindi arrivati a considerare quelli che sono i limiti della Diodatina.
Per chi come me viene da una diversa tradizione, il principale limite di questa bibbia è quello di essere, inequivocabilmente, una bibbia cristiana. Per Diodati il Tanakh (la bibbia ebraica) è ancora il "Vecchio Testamento", da leggere come prefigurazione e preparazione del Nuovo. Le chiavi di lettura sono quelle della teo- logia riformata. La cristologia pervade ampiamente i suoi commenti.
Nel mio saggio ho cercato di documentare come, nei passi di cruciale rile- vanza teologica. Diodati si adegui alla tradizione cristiana - e in particolare a quella riformata - spesso senza nemmeno segnalare la possibilità di una diversa interpretazione13, e come la sua traduzione sia a volte forzata da una motivazione teologica, come, p. es., in Isa. 49,20, dove la necessità di fondare nella Scrittura la teoria della sostituzione gli fa cambiare i «figli della tua sterilità» nei «figliuoli che tu havrai dopo che sarai stata orbata degli altri», adeguandosi alle precedenti bibbie
12 Ibidem, p. 10: «A toutes ces raisons Ten adjousteray encore une. qu'ayant travaillé en toute fidélité, selon ma vocation et la mesure du talent que Dieu m" a daparty, il n'est pas iuste de me laisser par les interditions ou empeschements de la publication de mon labeur soubs l'op- pression totale de mon honneur par les iugements sinistres qu'en peuvent faire les nostres que n'y ay rien faict qui vaille, ou des adversaires que i'y condamne et reverse nostre Doctrine comme ils ont commencé à clabauder en leur sermons».
13 Vedi, p. es., Isa. 49.6 e soprattutto Gen. 4.26 per la teoria della sostituzione; Gen. 15.6 per la teoria della giustificazione per fede (dove però non viene alterata la lettera dell'originale); Sai. 2:11-12 per una traduzione tradizionalmente in chiave trinitaria ("Baciate il figliuolo"); Sai. 22.17 per un esempio di tacita accettazione di una traduzione in senso cristologico senza segna- lare che esiste una diversa lezione e una secolare controversia, come facevano invece, nel secolo precedente, un filologo come Robert Estienne o uno studioso come Conrad Pellìcan.
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dei pastori ginevrini; o come in Gen. 4,26, dove la dottrina della doppia predesti- nazione influenza pesantemente la sua traduzione. Non si può nemmeno nascon- dere un certo antigiudaismo - o quantomeno una colpevole superficialità - di al- cuni suoi commenti14. Ma bisogna anche dire che i passi in cui il "primato della teologia" lo porta a vere e proprie forzature sono relativamente pochi e che in genere prevale un profondo rispetto del testo. Così come bisogna dire che la Bibbia di Diodati, che già nella sua prima versione aveva incontrato il favore e il plauso degli ebrei15, è sempre stata molto amata in ambiente ebraico, soprattutto in quei circoli laici e progressisti dove non si coltivava più lo studio dell'ebraico antico e dove trovava ampia accoglienza la cosiddetta "Bibbia Letteris", una edizione della Società Biblica Britannica e Forestiera con il testo ebraico curato nel 1852 da Max Letteris16 e la traduzione italiana del Diodati.
Come faceva notare Elena Loewenthal in una sua recensione al nostro Meri- diano, per la tradizione ebraica è apprezzabile la sobrietà, la misura, il garbo di- screto di questa traduzione, quel suo «rispetto del significato» che esige una pe- renne ricerca. E aggiungerei che, se gli ebrei possono sentire riduttivo il tentativo di dare sempre e comunque un senso univoco al testo, perché ne annulla la polisemia e la vitalità, sono però sicuramente disposti ad apprezzare del Diodati quella sua sensibilità per le "risonanze", i riscontri, le "prossimità" che è così tipica della esegesi rabbinica. Vorrei citare, per chiudere, come esempio di questa sensibilità, un commento ad un passo del profeta Amos, dove Diodati cerca di riprodurre una di queste risonanze anche in italiano:
Amos 8,1-2 «Il Signore Iddio mi fece vedere una cotal visione. Ecco un canestro di frutti di state. Ed Egli mi disse. Che vedi, Amos? Ed io dissi. Un canestro di frutti di state. E'1 Si- gnore mi disse, lo statuito fine è giunto al mio popolo Israel: io non gliele passerò più».
v.l i frutti nell'Ebreo v'è uno scontro e prossimità fra la parola state, e quella di fine: e quello è il sol fondamento di questo segno: e per guardarne qualche vestigio la parola sta- tuito è stata aggiunta nel verso seguente. Vedi 1er. 1.11.
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14 Vedi p. es. come commenta l'uso dei tefillim in Esodo 23,5 e Mat. 13.16.
15 "Mon Italienne faicte icy, veuée et examinée à toute rigueur par Juifs, par Papistes, a remporte grande approbation, et n'a causé aucune offense, mais bien en plusieurs la désir de ce que i'ay entrepris à la fin, soubs l'asseurance de ce coup d'essay. qui a esté porté à l'estonnement de moy mesme et à la seule gloire de Dieu, à si haut point d'estime par les entendus, qu'elle a esté tenue pour la meilleure de toutes les versions [...]" (Lettera agli Accademici di Saumur. cit., p. 7).
16 Meir (Max) ha-Lewi Letteris (18007-1871), poeta e scrittore ebreo nato a Zolkiew, tradut- tore del Mahazor (formulario di preghiere) in tedesco e autore di un trattato sullo studio della Bibbia (1837) e di una biografia di Spinoza, aveva curato il testo ebraico dell' AnticoTestamento sulla base del Van der Hooght. (Le Sacre Scritture dell'Antico Testamento ebraico e italiano. Trieste, Editori A. Reichard e Comp. (Stamperia di Adolfo Holzhausen in Vienna), 1875, 2 vv.)
DISCUSSIONI INTORNO ALLA BIBBIA DLL DIODATI
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Postille alla lingua del Diodati
A giustificare la struttura bipartita (lingua e stile) del mio contributo in mar- gine all'impresa della pubblicazione della Bibbia di Diodati, devo dire che essa viene da una duplice occasione: la prima volta che ho parlato al telefono con la Di- rettrice della collana, Renata Colorni, mi è stato chiesto di scrivere qualcosa sul rapporto della diodatina con 'la letteratura italiana'. Invito di portata assai vasta (rispetto alle trenta pagine che avevo a disposizione), che ho voluto interpretare in modo più proporzionale alle mie capacità limitandomi a misurare l'incidenza che la tradizione della prosa italiana aveva avuto sul traduttore, cercandola nei tratti sa- lienti del suo modo di scrivere, dunque appunto del suo stile. Poi, al mio primo in- contro con i due curatori dell'opera, Michele Ranchetti e Milka Ventura, sono stato invitato, più semplicemente, a spiegare 'quale lingua' avesse utilizzato Diodati, considerando la sua provenienza, e il fatto che per ora non si dispone di altri scritti di sua mano in italiano (con qualche minima eccezione1)- Da cui dunque l'impulso ad una nota più descrittiva e di servizio, come hanno voluto essere i primi due pa- ragrafi dedicati alla fonetica e alla morfologia.
Ora, riconsiderando un po' il tutto, credo si possa tentare una ricognizione di quegli stessi fenomeni in senso più strettamente testuale, recuperando insieme al- cuni degli spunti che sono venuti dal dibattito innescato dalla nostra edizione, e dal tema stesso dell'incontro cui si deve questa postilla. E comincerò precisando che l'incarico di collaborazione che ho avuto viene probabilmente dal fatto che in Italia gli storici della lingua e gli studiosi dello stile raramente si sono occupati delle ver- sioni in italiano della Bibbia: con qualche eccezione, di taglio prevalentemente de- scrittivo, senza effettivi affondi sulle implicazioni stilistiche e storico-linguistiche del testo in esame. Non c'era dunque molto da scegliere, e l'Editore è arrivato a me per la segnalazione di Pier Vincenzo Mengaldo, che ha fatto il mio nome per il semplice fatto che mi sono occupato, in passato, della lingua del Seicento. Argo- mento debolissimo, in verità, perché il nostro testo non è affatto seicentesco, non è 'barocco', come è stato scritto da Silvia Giacomini2, e Diodati, linguisticamente, era tutt'altro che «uomo del suo tempo... incline a immagini sorprendenti e a ardi- tezze di stile» - e per fortuna. Gli ingredienti più rilevanti di questa scrittura por-
1 Stralci di una lettera scritta in italiano di Giovanni Diodati al principe Christian von Anhalt sono pubblicati in Briefe und Aden zur Geschichte des DreissigjàhrigenKrieges in dem Zeiten des vorwaltenden Einflusses der Wittelsbacher, M. Rieger. Munchen 1870-1909, v. 2: Die Union und Heinrich IV, 1607-1609, pp. 130-31 (l'informazione mi viene da M. Ventura).
2 "La Repubblica", 1 1 febbraio 1999. p. 38.
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tano alla fine un sapore del tutto estraneo alla prosa concettista, ma vorrei dire alla prosa seicentesca tout court. Mentre gli scrittori di valore contemporanei al Diodati calcavano stilisticamente ben altre scene. Ora, questa estraneità è appunto il primo problema che vorrei toccare.
Nella mia nota ho già segnalato i tratti fonetici e morfologici arcaizzanti che si stagliano contro uno sfondo linguistico sostanzialmente ligio alla tradizione let- teraria toscana, e che spiazzavano in parte le attese linguistiche del lettore toscano contemporaneo al traduttore. Tra i segnali di questo spostamento bisogna com- prendere l'ortografia, la cui patina è fortemente conservativa, tanto più sorpren- dente in un toscano che consultava la Crusca, se i tratti conservativi e latineggianti che si vedono benissimo dalla nostra edizione erano solitamente più tipici degli scrittori non toscani, e se era stata proprio la Crusca a fissare in buona sostanza l'ortografia fonetica che utilizziamo ancora oggi3. Ma si dovrebbero poi enumerare i frequenti arcaismi lessicali (spesso rubricati nel glossario compilato da Milka Ventura4), come appo, stare in guato, soddurre, arrancare, corrotto (sost. per 'lamento funebre'), ecc., di intenso colore due-trecentesco. E ancora «la mancanza di complessi, così poco italiana, per le ripetizioni», come ha scritto Mengaldo5 che se consegue alla volontà di non forzare troppo il testo ebraico (rispetto al quale comunque, in confronto ad altre traduzioni. Diodati riduce sensibilmente le ripeti- zioni6), rimane tuttavia uno dei veicoli oggettivi del carattere per così dire sfocato, decentrato di questa lingua rispetto alla cultura che lo accoglie. Basterà leggere l'i- nizio del Genesi, e comunque registrare la presenza diffusa di casi come Iona 1:16 «e sacrificarono sacrifici al Signore, e votarono voti», 3:2 «e predicale la predica- none ch'io ti dichiaro», per percepire una lingua che, come si mantiene dentro una tradizione di gusto nei suoi tratti fondamentali, così ne resta insieme, se è possibile, in disparte, lateralmente.
Dal trattamento dei nomi propri viene forse l'impulso decisivo in questa di- rezione, che mi consente di spingere anche oltre l'interpretazione. Milka Ventura ha mostrato come la variantistica non proceda uniforme verso l'italianizzazione dei nomi propri, e come spesso la forma ebraica venga restaurata su quella italiana (v. I, p. XCIII). Vorrei sostenere che qui sta una delle costanti che più conferiscono un carattere arcaico, e non solo arcaizzante, a questo testo: non solo straniato, cioè spostato rispetto ad un orizzonte di attese educato alle forme tradizionali della no- stra prosa, ma altro rispetto ad esse. Se il traduttore avesse tenuto fermo il timone della perspicuitas avrebbe italianizzato tutti i nomi propri. Mentre la sua scelta fi- nisce per incrementare la natura mentale della sua lingua-che-non-c'è: perché con- siste in una commistione senza riscontri con la realtà culturale cui essa fa riferi- mento. E l'attrito tra il medium linguistico e ciò che evocano quei nomi provoca
3 Si veda in proposito Anna MURA PORCU. Note sulla grafia del Vocabolario degli Acca- demici della Crusca in "Studi di lessicografia italiana", 4 (1982), pp. 335-61, e EAD., Problemi di grafia in romanzi e raccolte di novelle del Seicento, in «Studi secenteschi», 21 (1980), pp. 1 17- 76.
4 1m lìibbia di Diodati. Mondadori, Milano 1999, vol. Ill, pp. 1467 ss.
5 "Corriere della sera", 26 febbraio 1999, a p. 35.
6 Come documenta Milka VENTURA. La Bibbia di Diodati, cit., v. I. p. XLIX e passim.
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l'effetto stilisticamente più sconcertante: perché il toscano di Diodati non ha le ri- sonanze culturali di una lingua antica come il latino della Vulgata; e nemmeno - come ha scritto Piero Boitani - la «magnificenza para-shakespeariana, pre-milto- nica» della King James7, ma rimanendo, nei suoi fondamenti fono-morfologici e sintattici, una lingua storicizzata - a differenza di quella del Brucioli, la cui sintassi stranita, ricalcata sull'ebraico e sul latino del Pagnini, finisce per non essere affatto italiana - i suoi tratti linguistici allotri risultano per il contrasto tanto più esposti, e sono il segno più visibile dell'assoluta eccezionalità di questo testo.
Secondo punto. Dobbiamo riconoscere in quest'opera un'intenzione a tutti gli effetti letteraria: la sua dominante catechistica e pastorale non è in grado di saturare la polivalenza dei fenomeni stilistici, e lo stesso complesso delle ragioni appena di- scusse va inquadrato, su un piano più generale, esattamente in questa prospettiva, per cui la funzione degli stilemi là esaminati è già al di fuori del progetto di servi- zio - quello di provocare (come ha scritto Ranchetti) «con l'evidenza della Parola di Dio resa in una lingua precisa e non letteraria, se non la conversione immediata, almeno la ripresa della lettura del testo sacro da parte di chi, respinto da Roma, di esso aveva bisogno per la propria salvezza»8. Si può in proposito tornare alla va- riantistica. Milka Ventura fa notare ad esempio la presenza di un manipolo di cor- rezioni che va nella direzione dell'incremento della letterarietà: l'eliminazione della V intervocalica nelle forme dell'imperfetto (aveva e sim. diventa avea), l'introduzione della forma arcaica (e dantesca) su quella poi invalsa nell'uso (maledetto diviene maladetto9), ecc. Indicatori minimi di una ricerca in controten- denza rispetto alla lingua perspicua e semplice del toscano parlato dallo stesso tra- duttore, e da lui utilizzato nella predicazione; in questa ricerca potrebbe avere gio- cato lo stingersi, dall'edizione del sette a quella del quarantuno, del proposito apo- logetico su quello educativo10: diciamo che un Diodati che faceva catechismo per i persuasi, e non più proselitismo, poteva consentire ad un criterio traduttivo a ma- glie meno strette.
Ma si consideri ora il commento. Oltre alle note di carattere lessicale, docu- mentario, teologico ed interpretativo, ce ne è un fascio, certamente minoritario, la cui funzione è nell'ordine dell'amplificazione del testo, e non della sua chiarifica- zione: queste note intensificano la pericope, invitano a rilevarne lo spessore narra- tivo e la carica emotiva. A Genesi 6:4 il testo recita: «In quel tempo i giganti erano in su la terra...»; la nota, non riprodotta da Ranchetti e Ventura dice: «i giganti huomini di statura, e di forza di corpo straordinaria, e grande sopra la comune: e d'animo feroce: i quali usurpavano per violenza, e per tirannia esercitavano l'impe- rio sopra gli altri huomini»: spiegazione tutt'altro che referenziale, e stilisticamente un po' sopra le righe, se generalmente nel commento prevale una scrittura asciutta e funzionale. A Cantico 4:2: «I tuoi denti son come una mandra di pecore tutte
7 "L'Indice dei libri del mese", n. 5. maggio 1999, p. 22.
8 Michele RANCHETTI, Introduzione, in La Bibbia..., cit., p. XXVI.
9 Pp. XCIII e ss. del v. I.
10 Come nota VENTURA. I.e., p. XCI.
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uguali, che salgono fuor del lavatoio, ed hanno tutte due gemelli, senza che ve ne sia alcuna senza figlio»; la nota: «questo appartiene al compimento della bellezza, laquale richiede una giusta proportione in tutte le parti: e distingue la Chiesa da' mondani rapaci, e violenti, a guisa di bestie salvatiche, c'hanno i denti aguti, unci- nati, e fatti a modo di sega, e sempre lordi di sangue, e di preda»: l'amplificazione cede evidentemente ad una espressività da devolvere interamente all'iniziativa del commentatore, non essendovi nel testo alcun riscontro all'immagine truculenta dei 'mondani rapaci'. Analogamente al salmo 51:9: «Purgami con isopo, e sarò netto: lavami, e sarò più bianco che neve»; la nota: «... Iddio, non solo netta la lordura del peccato, ma ne guarisce anchora la malatia: non solo ne toglie la puzza, ma conferisce etiandio all'huomo per imputatione il buono odore della giustitia del suo Figliuolo»: la risoluzione letterale di un enunciato metaforico (la purificazione con l'issòpo), procura un evidente incremento del tasso espressivo, e ora anche sul piano delle fìgurae verborum (con l'ampio parallelismo in cui si struttura la nota), e si risolve a sua volta in nuovi enunciati metaforici (la puzza, il buono odore). La glossa insomma evade ampiamente dai limiti angusti della parafrasi, e semmai consente al traduttore di lasciare affiorare il proprio temperamento stilistico. An- cora al salmo 51, versetto 8: «Ecco, t'è piaciuto insegnarmi verità nell'interiore, e sapienza nel didentro»; in nota, dopo una prima proposta interpretativa, Diodati aggiunge: «... Altri traducono, tu prendi piacere nella verità nell'interiore, e m'hai insegnata sapienza nel didentro»; quindi glossa: «c. tu m'havevi fatto per lo tuo Spirito tale quale tu richiedi l'huomo, in sincerità, e dirittura: ma, lasso me, io non ho impiegato questo dono a resistere alla tentatione, ed ho guasto anchora questa tua opera di gratia, come quella di natura era già corrotta in me: ma pure, quelle poche reliquie che me ne restano mi sono una favilla di speranza di perdono, e di ristoro». L'integrazione esegetica porge così l'occasione per fare risuonare la sog- gettività del commentatore, che - con le parole di Ranchetti, relative al commento a Giobbe - sembra attingere «ad una esperienza personale, privata»11.
Terzo. La vicenda della Bibbia del Diodati sarebbe la storia di un canone mancato. Riprendiamo l'osservazione da Alessandro Zaccuri12, che ne sottolinea la pertinenza «linguistica prima ancora che religiosa», rincalzando con l'affermazione che «per avere un modello di prosa al quale riferirsi il nostro Paese dovrà aspettare / promessi sposi». In realtà la sostanza di questo concetto è stata un leitmotiv di buona parte delle recensioni, ed è stata messa a tema dell'incontro che ha ospitato il presente contributo. Ora, i modelli di prosa già esistevano, ed esisteva a monte un modello di lingua letteraria che risaliva al Trecento, ed era stato codificato all'ini- zio del Cinquecento da Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua (del 1525). La fonetica e la morfologia della Diodatina, come mostra la mia nota sulla lingua e lo stile, sono rigorosamente all'interno di questa tradizione. La fondazione della nostra lingua, e della nostra prosa, dunque, precedono la fatica del Diodati. Che, si
11 Introduzione, p. XXXVII.
12 "Avvenire". 12 febbraio 1999, p. 23.
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noti, non è mai stata assunta nel catalogo dei testi dalla Crusca13: ma semplice- mente annoverata da Bartolomeo Gamba da Bassano tra i 'testi di lingua' ingiu- stamente esclusi dalle compilazioni dell'Accademia14. E dobbiamo aggiungere che ciò non significa necessariamente che quella prosa era considerata un modello mancato per il Vocabolario, ma che probabilmente era essa a conformarsi al mo- dello che la Crusca aveva ormai da secoli messo a punto (ma diciamo piuttosto isti- tuzionalizzato) e rilanciato.
Vittorio Coletti ha d'altra parte, nella sua nota sull' "Indice"15, voluto scrivere di un'occasione perduta - che è ben altra cosa - precisando inoltre che la storia non si fa con i se, e fondando in realtà l'ipotesi prima su ragioni dottrinali che inerentemente linguistiche. Ma i riassestamenti che si dovrebbero calcolare sareb- bero un po' troppi, e agli ostacoli interposti dal Concilio alle traduzioni bisogne- rebbe aggiungere il problema del libero esame: l'occasione insomma sarebbe stata colta non solo se la Chiesa avesse autorizzato le traduzioni, e neanche solo (che è già un'ipotesi audace) se in Italia avesse prevalso la corrente riformatrice del pen- siero cattolico; perché tutto ciò non avrebbe comunque implicato che dagli amboni e nei confessionali si sarebbe incoraggiata la lettura diretta del testo - e infatti due secoli dopo la diffusione secondosettecentesca delle traduzioni in ambito cattolico, Claudel potrà ancora scrivere che «il rispetto dei cattolici per le Scritture è senza limiti: esso si manifesta soprattutto con lo starne lontano»16. Se poi si vogliono in- vocare ragioni interne, adducendo le qualità intrinseche della lingua e dello stile di questa traduzione, occorre prendere atto che vi sarebbe stato come ulteriore osta- colo la sua qualità di toscano ricostruito, che è quanto di più distante si può pensare dalla lingua imparata dalla «madre di famiglia» e dai «ragazzi sulla strada» guar- dati «direttamente sulla bocca», come scriveva Lutero nella lettera sul tradurre, circa il modello da assumere nella traduzione del testo sacro17. E si consideri poi la sua polimorfia (la presenza di soluzioni diverse per lo stesso caso grammaticale), che lo stesso Bembo considerava un ostacolo forte alla fondazione di un modello linguistico (e così poteva permettersi di ridurla rispetto allo stesso Petrarca). E in aggiunta i dialetti: in Italia erano talmente radicati che per un siciliano incolto, o per un marchigiano, questa lingua era a tutti gli effetti una lingua straniera. Ed era comunque distante dalle abitudini linguistiche degli stessi toscani, poiché si con- formava ad un modello appunto letterario. Questa pronunciata, intensa letterarietà sarebbe stata un ostacolo alla fondazione di un modello di lingua parlata (come in- tenderanno essere, e qui sì che il riferimento è congruo, i Promessi sposi - modello dunque di lingua, e non di prosa, come è stato scritto). La diodatina avrebbe sem- mai agevolato quel processo, lentissimo, di diffusione della norma fono-morfolo-
13 Devo ancora a Milka Ventura una verifica su tutte le edizioni del Vocabolario, dalla prima del 1612. a quelle ottocentesche (compresa la cosiddetta 'Crusca veronese' dell'abate Ce- sari). Alla stessa devo le informazioni che seguono nel testo.
14 Bartolomeo GAMBA, Serie di lesti di lingua italiana e di altre opere importanti nella ita- liana letteratura.... Co' tipi del Gondoliere, Venezia 1839, p. 513, n. 17999.
15 Stesso numero cit. sopra.
16 Paolo GRANZOTTO, "Il Giornale", 4 aprile 1999, p. 22.
17 La citazione è di Ranchetti, introduzione, cit., pp. XIX-XX.
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gica tra gli italiani non colti, per il quale tuttavia saranno necessarie, come è noto, ben altre spinte, che saranno indicate nella seconda metà dell'Ottocento da Grazia- dio Isaia Ascoli:, come la scolarizzazione, la circolazione delle persone e delle merci, lo sviluppo di un'economia mercantile e industriale, l'accentramento poli- tico, l'incremento del «moto complessivo delle menti»18. Avrebbe probabilmente accelerato in certa misura l'omologazione del lessico - quello che attiene alla vita pratica, alle cose, agli strumenti, ecc.: ma non sarebbe stato più che un puntello.
Dunque, non un modello letterario, che già c'era, e nemmeno un modello di lingua parlata - che non poteva ancora esserci; semmai veicolo, uno tra i tanti, di un processo storico la cui complessità si presta poco e male alle ipotesi un po' astratte che andiamo facendo. La grandezza della diodatina è insomma un fatto tutto risolto nelle sue scelte testuali ed interpretative prima che linguistiche: la sua strategia traduttiva, lo spessore esegetico e teologico del suo commento, la qualità arcaica e insieme perspicua dello stile, il rilievo icastico ed espressivo di molte note. Mentre è probabilmente un errore avvalorarne l'importanza mediante le ipo- tesi che si possono comporre al tavolino di una storiografia un po' virtuale, e per questo inefficace alla sua comprensione.
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18 Cito dall'antologia di Maurizio VITALE, La questione della lingua, Palumbo, Palermo 1984, pp. 762-65 passim.
DISCUSSIONI INTORNO ALLA BIBBIA DEL DIODATI
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La tradizione testuale e la traduzione diodatina della Bibbia
La pubblicazione di quest'opera in splendida veste editoriale, e la sottolinea- tura che ha ricevuto su diversi giornali, hanno toccato la sensibilità di moltissimi evangelici italiani. Per tre secoli gli ambienti evangelici di lingua italiana si sono identificati con la Bibbia del Diodati. Io appartengo già alla generazione che si è formata con "la Riveduta", ma ricordo ancora nella mia giovinezza l'attaccamento delle persone anziane alla traduzione di Giovanni Diodati e la loro diffidenza per la Riveduta.
La traduzione italiana del Diodati aveva avuto dei precedenti: ricordiamo Niccolò Malermi, che nel 1471 pubblicò a Venezia una Bibbia italiana tradotta dal latino; poi Antonio Brucioli, che nel 1531-32 avrebbe tradotto dall'ebraico e dal greco, ma appoggiandosi molto alle traduzioni latine di Sante Pagnino per l'ebraico e di Erasmo da Rotterdam per il greco. Nel 1551 Massimo Teofilo produsse un Nuovo Testamento italiano (stampato a Lione). Questo fu unito all'Antico Testa- mento del Brucioli formando la cosiddetta Bibbia di Ginevra (1562). Il lavoro del Diodati si distingue per una maggiore competenza linguistica e per il fatto di averci lavorato per molti anni, sempre in cerca di maggiore accuratezza.
Vorrei citare parte di una lettera che egli scrisse a Giacomo Agostino de Thou, consigliere di Enrico IV. La lettera è del 4.1.1605. Ne riproduco il testo come si legge nella biografia di Diodati del De Budé (ed. Claudiana, tradotta da Emilio Comba):
Il favorevole giudizio che ti piacque dare al mio saggio di versione italiana della Bibbia mi è stato di grande stimolo e conforto nel proseguire quell'arduo lavoro cominciato nella mia prima giovinezza: pieno di incertezze, diffidando di me stesso, ti prego a scusarmi se ardisco inviarti un esemplare completo, per poter essere consolato, dopo questo lungo e fati- coso lavoro, della tua approvazione e giudizio, se l'opera ha un qualche merito, o se ha bi- sogno di essere corretta ed emendata, là dove la debolezza del mio sapere e della mia età. e la mia insufficienza, mi avessero fatto commettere qualche errore contro la mia volontà. Io ho fatto di tutto, e con la più scrupolosa coscienza che ha potuto, per aprire la porta agli Ita- liani per conoscere la verità celeste: il nostro Signore che mi ha miracolosamente assistito e fortificato in questo lavoro, voglia farlo fruttificare con la sua benedizione, alla quale sola io reputo la perfezione di quello, di modo che da essa sola spero il frutto della sua gloria e della salvazione dei suoi, che è e sarà sempre l'unico scopo verso del quale per mezzo della sua grazia dirigerò tutte le mie azioni. [Seguono convenevoli e saluti].
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Da questa lettera si vede che Giovanni Diodati si impegnò nella traduzione del testa biblico fin dall'adolescenza. Lo scopo di questa fiammata di zelo biblico in anni giovanili va cercato nella dimensione della sua esistenza ginevrina. La fa- miglia Diodati aveva una posizione influente nel gruppo abbastanza numeroso di lucchesi che si erano trasferiti a Ginevra, un po' per motivi commerciali e soprat- tutto per motivi di libertà di coscienza, dopo aver ascoltato le predicazioni bibliche di Pietro Martire Vermigli, priore di San Frediano a Lucca, ben presto esule anche lui per motivi di libertà. Giovanni possedeva le conoscenze necessarie, essendo stato avviato dalla sua famiglia agli studi ginnasiali e poi a quelli teologici. Le lin- gue bibliche (ebraico e greco) erano parte integrante del programma accademico. Nella lettera che ho citata si è vista con quanta umiltà il Diodati si esprima sul suo lavoro, senza alcun orgoglio per un'impresa che non era da tutti. Averla compiuta senza un incarico specifico da parte di alcuno conferma lo scopo abbastanza limi- tato che Diodati assegnava in un primo tempo al suo lavoro: dare alla comunità ri- formata italiana residente a Ginevra un testo biblico nella sua lingua.
Ma presto alla dimensione ginevrina si aggiunse pure una dimensione inter- nazionale, quando Diodati cominciò a tessere rapporti con elementi progressisti della città di Venezia e con gli ambasciatori protestanti presso la Serenissima. Nel 1606 papa Paolo V aveva lanciato l'interdetto contro la Repubblica di Venezia, che aveva affermato la sua libertà e autorità giurisdizionale su tutti i cittadini, clero compreso, e aveva cercato di sostenere l'indipendenza della Repubblica rispetto alla chiesa. Diodati ebbe contatti specialmente con fra' Fulgenzio Micanzio e fra' Paolo Sarpi, del quale tradusse in francese la Storia del Concilio di Trento. Questi rapporti di Diodati con Venezia ci interessano qui solo perché fornirono lo spunto alla pubblicazione separata del Nuovo Testamento (1608).
Lo zelo per la diffusione della Bibbia in italiano era motivato. Il Concilio di Trento, nella sua IV sessione, aveva decretato che la Bibbia latina (la Vulgata) do- vesse essere la sola autorizzata per la pubblica lettura, le prediche e le controversie. La prefazione della bolla papale contenente l'Indice dei libri proibiti, del 1564, nella quarta regola vietava la lettura e anche il possesso della Bibbia nella lingua del popolo, salvo licenza scritta del vescovo, sempre che la traduzione fosse opera di autori cattolici e la sua lettura non recasse danno, ma accrescesse la fede e la pietà. Il permesso agli studiosi cattolici di tradurre la Bibbia in italiano verrà solo nel 1757 con Papa- Pio IV. Abitando a Ginevra, Diodati era in grado di aggirare il divieto di tradurre e stampare la Bibbia in Italiano, divieto che in Italia sarebbe stato applicato con rigore.
Nei saggi introdottivi dell'edizione Mondadori si mette in evidenza il rispetto che Diodati nutriva per la Vulgata e per il suo autore (Girolamo), al punto da adot- tare diverse soluzioni linguistiche da essa proposte. È ovvio che un traduttore non possa prescindere dalle traduzioni anteriori, specialmente quando e dove sono par- ticolarmente efficaci. Ma non mancano neppure le tracce dell'autonomia del Dio- dati che spesso, e su testi non secondari, propone soluzioni diverse. Ne ho esami-
LA TRADIZIONE TESTUALE E LA TRADUZIONI: DIODATINA
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nate diverse, ma ne riferirò, in questa sede, solo alcune, forse le più interessanti, mettendole anche a confronto con la traduzione latina del Nuovo Testamento di Erasmo, con la Bibbia in francese di Olivetano (1535) e con la Bibbia in francese dei pastori e professori di Ginevra (1588). Queste opere sono state messe a mia di- sposizione dalla Biblioteca del Centro Culturale Valdese di Torre Pellice. Sono tutte edizioni anteriori a quella del Diodati, che può averne tenuto conto.
Nel celebre passo di Gen. 3,15 la Vulgata traduce: Inimicitiam ponam inter te et in- ter mulierem, et semen tuum et semen illius. Illa conterei caput tuum. Diodati, seguendo il testo ebraico, attribuisce lo schiacciamento del capo del serpente non alla donna (come lascia capire la Vulgata), ma al suo seme, cioè alla sua discendenza. E perché sia chiaro. Diodati la menziona esplicitamente, scrivendo "'progenie" in corsivo: «Essa progenie ti triterà il capo». E chiara l'allusione all'opera di Cristo.
Nell'Esodo si racconta di Mosè che scese dal monte Sinai col volto raggiante. La Vulgata lo dice con queste parole: Con descenderet Moyses de monte Sinai, ignorabat quod cornuta esset facies sua. Sicuramente Michelangelo aveva in mente questo versetto della Vulgata quando scolpi il "Mosè" di S. Pietro in Vincoli (Roma). Diodati invece tra- duce: «Egli non sapeva che la pelle del suo viso era diventata risplendente mentr'egli par- lava col Signore».
Nel Nuovo Testamento Diodati si discosta dalla Vulgata nel passo che contiene il saluto angelico a Maria (Luca 1,28). che Girolamo traduce Ave gratia plena. La seguono Olivetano (je te salue, pleine de grâce), la traduzione della CEI («Ti saluto, o piena di grazia») e quella delle Paoline («Rallegrati, piena di grazia»). Diodati invece ha «Bene stii, o favorita». La sua versione ricorda quella latina di Erasmo: Ave, gratiosa, Dominus tecum. Mgr. Ravasi nella sua recensione sul "Sole 24 Ore" (del 14.2.1999) riconosce che la traduzione del Diodati corrisponde al participio perfetto passiva del testo greco kecha- ritoméne = "che è stata graziata" o "colmata di grazia" (come si legge nella TILC).
Ancora nei capitoli sulla nascita di Gesù, il canto degli angeli apparsi ai pastori (Luca 2,14) è reso tradizionalmente con: «Gloria a Dio nei luoghi altissimi, pace in terra agli uomini di buona volontà». Questa conclusione deriva direttamente dal latino di San Girolamo: Pax hominibus bonae voluntatis. Anche Olivetano interpreta così il greco. Tut- tavia, una più esatta comprensione del testo greco ha portato a concludere che la buona volontà (greco eudokìa) non è quella degli uomini, ma quella di Dio. Perciò anche la tra- duzione cattolica della CEI ora traduce: «Pace in terra agli uomini che egli ama». Su questa interpretazione della benevolenza è d'accordo anche il Diodati, ma il testo greco su cui lavora porta eudokìa al nominativo, non al genitivo. Perciò egli traduce: «Pace in terra, benivoglienza inverso gli huomini».
Un altro passo curioso, nella Vulgata, è quella di Ebrei 11,21. Qui si legge che Gia- cobbe adoravit fastigium virgae ejus. La Bibbia di Mgr. Martini riprende questa tradu- zione («adorò la sommità del suo bastone»). Ma la punta del bastone non può essere complemento oggetto, perché è preceduta dalla preposizione greca epi = su, sopra. Dio- dati traduce: «Adorò, appoggiato sopra la sommità del suo bastone». Per chiarezza, inse- risce la parola "appoggiato", e perché sia evidente che è un chiarimento, la scrive in cor- sivo. La traduzione della CEI fa la stessa cosa, inserendo il gerundio) "appoggiandosi". Nel XVI secolo Olivetano traduce: Adora vers le sommet de sa verge, e la Bible des pa- steurs et professeurs de Genève (1588) ha: Adora sur le bout de son boston.
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Naturalmente il Diodati era figlio del suo tempo, e non poteva ancora rendersi conto che certe espressioni, specialmente figurate, sarebbero presto diventate incompren- sibili o ridicole. Perciò spesso le traduce letteralmente, senza tentare di trovare un equiva- lente italiano. Questo succede spesso con le parole che alludono ai sentimenti o alla na- tura dell'uomo. In I Giov. 3,17 scrive: «Se alcuno vede il suo fratello haver bisogno e chiude le sue viscere...». Cosi anche Erasmo: Clauserit viscera sua ab eo\ Olivetano e la Bible des pasteurs dicono: ses entrailles. Sia la traduzione CEI che quella delle Paoline sostituiscono "viscere" con "cuore", perché nell'italiano del nostro tempo è il cuore che è considerato la sede dei sentimenti.
In Apoc. 2,23 il Cristo dichiara, nella traduzione del Diodati: «Io son quello che in- vestigo le reni ed i cuori». Anche Erasmo riproduce: renes et corda. Olivetano e la Bibbia dei pastori di Ginevra adoperano le stesse immagini. Questa formula (reni e cuori) è stata conservata dalla Bibbia paolina, ma quella della CEI l'ha sostituita con «i pensieri e gli affetti degli uomini».
In Gal. 2,16 Diodati scrive: «nessuna carne sarà giustificata per le opere della legge». Le Bibbie del Cinquecento analogamente hanno: omnis caro, o: nulle chair. Qui la Bibbia paolina modifica: invece di «nessuna carne» traduce «nessun mortale». La CEI ha semplicemente «nessuno». La scienza biblica si è resa conto che nell'ebraismo la pa- rola "carne" non indicava la materia di cui è fatto il corpo umano, bensì la creatura nella sua fragilità.
"Le reni", "le viscere", "la carne" si trovano tali e quali anche nella Vulgata, e il loro uso nel XVII secolo dimostra come il latino di Girolamo aveva plasmato la cultura religiosa per molti secoli.
Lo stesso si può dire della terminologia relativa a Giuda, costantemente chiamato «il traditore» o colui che «tradisce» (Mt. 10,4; 26,16.21.24.46; 27,6 e passi paralleli; I Cor. 11,23). Sarebbe più esatto parlare di colui che «consegna» o «consegnò» il Cristo alle guardie o alle autorità. Erasmo alterna prodidit e tradit. Olivetano dice talvolta qui le livra, talaltra qui le trahit. Ma né Diodati né le due recenti Bibbie cattoliche lo fanno, salvo una volta, in Matt. 26,16 (Giuda cercava l'occasione «per consegnarlo»).
In alcuni passi degli Atti e delle epistole il Diodati e le Bibbie protestanti parlano di "anziani" eletti o da eleggere nelle chiese, mentre la Vulgata ed Erasmo usano il termine "presbyteri" (Cfr. At. 14,23; Tito 1,5). Per il secondo passo, le Bibbie CEI e paolina se- guono la Vulgata, mentre per il primo adottano la traduzione "anziani"; dunque, con Dio- dati e contro Girolamo.
Vorrei concludere questa esemplificazione citando ancora due passi nei quali Dio- dati concorda con la Vulgata. In I Cor. 9,5 Paolo, pur essendo celibe, rivendica il diritto per gli apostoli di avere una adelphèn gynaika, espressione che si può tradurre come fa Erasmo sororem mulierem, che può significare "donna sorella [in fede]" (cioè credente), oppure "moglie sorella [in fede]" (cioè credente). Seguendo la Vulgata, la CEI traduce «una donna credente», e le Paoline hanno semplicemente «una sorella». Diodati, come la Vulgata ed Erasmo, traduce «una donna sorella», ma nella nota spiega l'espressione in questi termini: diritto «di vivere in matrimonio e d'aver meco una donna dovunque io vada; sorella: cioè fedele, e Christiana, ed honestamente congiunta meco per santo ma- trimonio».
Un altro passo dove il Diodati coincide con la Vulgata è Matt. 1,25.- «ed egli [cioè Giuseppe] non la conobbe, finch'hebbe partorito il suo figliuol primogenito. Ed ella gli pose nome Jesu». Girolamo traduce: donec peperit filium suum primogenitum, traduzione
LA TRADIZIONE TESTUALE E LA TRADUZIONE DIODATINA
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che ritroviamo quasi identica in Erasmo: donec peperisset filium suum primogenitum. Questa traduzione è ripresa nella Bibbia di Mgr. Martini: «sino a quando partorì il suo fi- gliuolo primogenito, e chiamollo per nome Gesù». Molto simile è la traduzione delle Pao- line («Ma non si accostò a lei, fino alla nascita del figlio che egli chiamò Gesù»). Invece la Bibbia CEI modifica il "finché" sostituendolo con "senza": «senza che egli la cono- scesse». Traduzione forse giustificabile, ma non letterale. Anche Olivetano e la Bibbia dei pastori di Ginevra sono molto diplomatici. Olivetano dice: Et ne l'avait point cogline, quand elle enfanta son fils premier né. La Bibles des pasteurs ha: . . .et ne la cognut point, pendant le temps qu'elle devait enfanter son premier-nè.
Questa carrellata di traduzioni differenti in edizioni antiche e recenti della Bibbia può aver stupito qualcuno. Ma bisogna ricordare due cose: 1°, che la lingua si evolve, quindi nel XVI-XVII secolo si parlava in modo più vicino al latino: per costrutti, per immagini, per modi di dire. I modi di dire e le immagini che nel XVI secolo ricalcavano l'originale, oggi non sarebbero più capiti. 11°, che nel lavoro di traduzione il primato spetta sempre al testo. L'interpretazione e il commento ven- gono subito dopo, e hanno il loro posto non nella traduzione ma nelle note, nell'in- segnamento, nelle omelie. E per questo motivo che al giorno d'oggi sono sempre più frequenti le versioni bibliche alle quali collaborano esperti di molte confessioni. E ciò che è accaduto per la Traduzione Interconfessionale in lingua corrente, ma anche - in misura più ridotta, sotto forma di osservazioni e di discussione fra biblisti cattolici ed evangelici - per la traduzione della CEI del 1971 e per la sua revisione ancora in corso.
Il valore della Bibbia del Diodati è confermato dalle molte revisioni che fu- rono fatte del suo testo. Ricordiamo quelle pubblicate a Lipsia nel 1702, a Zurigo nel 1710 a Altenburg nel 1711, a Norimberga e Colonia nel 1711-12 (a cura di Mattia d'Erberg) a Lipsia nel 1744 (a cura di G.D. Muller). C'è poi una serie di re- visioni curate dalla Società Biblica Britannica e Forestiera con sede a Londra: le principali sono quella del 1819 (a cura di G.B. Rolandi), quelle del 1855 (a cura di P. Guicciardini e G. Walker), e del 1856, con modifiche suggerite da Luigi Desanc- tis, e quella del 1860 (a cura di Stan. Bianciardi). Ogni revisione finiva fatalmente per essere sempre più lontana dall'italiano della traduzione originale. Perciò la "Riveduta" smise di usare il nome di Diodati nel suo frontespizio. La "Riveduta" è la revisione fatta tra il 1906 e il 1924 a cura di un comitato di varie chiese evange- liche. Il comitato discuteva in plenaria il testo preparato man mano da Giovanni Luzzi ed Enrico Bosio, professori alla Facoltà Valdese di teologia. Questo testo ha servito le chiese evangeliche di lingua italiana durante 70 anni ed è ancora in commercio: è chiamato popolarmente "La Riveduta". Il lavoro fu pubblicato a tappe fra il 1913 e il 1924, a cura della Società Biblica Britannica e Forestiera, e non va confuso con la traduzione fatta a titolo personale (e da solo) da Giovanni Luzzi, pubblicata in dodici volumi, con introduzioni e note, ad opera delle edizioni Sansoni e della società Fides et Amor. Tra il 1982 e il 1994 è apparsa una Ri-rive- duta, o "Nuova Riveduta", a cura della Società Biblica di Ginevra e con la collabo- razione della SBBF.
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Quello che distingue le varie revisioni della Deodatina originale, non è sol- tanto la lingua: è soprattutto il progresso delle conoscenze in materia di manoscritti biblici antichi. Tutte le versioni bibliche dei secoli XVI e XVII erano state fatte su un testo originale molto imperfetto rispetto a quello che è oggi nelle nostre mani. Essenzialmente si trattava del testo pubblicato da Erasmo da Rotterdam nelle cin- que edizioni del 1516, 1519, 1522, 1527 e 1533, ripreso dall'edizione di Teodoro di Beza del 1545, e dalle edizioni Stefaniane del 1549, 1550 e 1551 che l'editore olandese Elzevier chiamerà textus receptus. Oggi noi disponiamo di edizioni del testo greco che incorporano i manoscritti scoperti dal Rinascimento ai nostri giorni. La scoperta del Codice Alessandrino (A) e poi del Sinaitico (Alef), del Coridetha- nus (Theta), ma soprattutto la scoperta dei papiri Chester Beatty alla fine degli anni Venti, e dei papiri Bodmer in questo dopoguerra hanno arricchito e affinato la no- stra conoscenza del testo originale. Alcuni papiri citati sono di vari secoli più anti- chi dei manoscritti conosciuti nel XVI secolo. È per questo che le traduzioni classi- che del passato debbono essere riviste perché corrispondano sempre meglio al testo della più antica testimonianza manoscritta.
Dobbiamo essere grati alle edizioni Mondadori che ci hanno dato la possibi- lità di rileggere o di consultare questo interessante documento di lingua italiana, e ci hanno anche fatto riscoprire l'impegno di un "italiano all'estero" per dare agli italiani la possibilità di leggere la Bibbia nella loro lingua.
BRUNO CORSANI
NOTE E DOCUMENTI
Con le acuminate armi della retorica: una controversia contro i riformati delle Valli nel Seicento
Apologia delle Chiese Riformate del Piemonte contro le gavillationi e calùnnie del Priore Marc' Aurelio di Lucerna...; Apologia delle Chiese Riformate delle valli del Pie- monte fatta in difesa di Giovanni Legero contro le imposture di un Michele Villanova...; Lettere apologetiche sopra una risposta relata da un ministro della Pretesa Religione Ri- formata al Rev. Marc' Aurelio Rorengo... Ecco alcuni titoli di vari testi di controversia conservati alla Biblioteca della Società di Studi Valdesi di Torre Pellice e alla Biblioteca Reale di Torino.
Va da sé che la controversia non è un terreno di studio neutro: consente di analiz- zare il rapporto tra Cattolici e Riformati da un angolo di visuale assai particolare, quello del controvertere, appunto, ossia del disputare in campo religioso sostenendo, con oppor- tune ragioni, tesi spesso opposte. Nel caso specifico, come sottolineato da Giorgio Tourn e da Daniele Tron: «la storia delle polemiche teologiche del secolo XVI e XVII nelle Valli è tutta da scrivere. La storiografia tradizionale si è preoccupata di delineare i rap- porti giuridico-politici tra il mondo valdese e il potere...»1, ma ha quasi del tutto trascu- rato le implicazioni ideologiche e sociali del confronto religioso.
Protagonisti assoluti di tali dispute in campo teologico erano i ministri protestanti ed i religiosi cattolici: nelle valli del Pinerolese, i pastori dei "barbetti" ed i padri gesuiti o i frati cappuccini; i due ordini religiosi erano infatti impegnati in primis nella conversione degli "eretici" valdesi che, dal 1532, avevano abbracciato il credo calvinista2.
Come è noto l'età d'oro delle controversie fu il secolo XVII, periodo di forti con- trasti religiosi e soprattutto di rivincita della Chiesa cattolica sulle Chiese riformate, ri- presa sancita in Italia dal trionfo della Controriforma che sfoderò tutte le sue armi per poter conseguire una piena vittoria sull' "eresia"3. Gli studi recenti hanno confermato la cronologia proposta da Delio Cantimori, il quale sosteneva che nella nostra penisola, in- torno agli anni ottanta del Cinquecento, il movimento ereticale era quasi del tutto scon-
1 G. TOURN e D. TRON. Missiva del frale Illumine Faverot al Sinodo valdese, in «Bollettino della Società di Studi Valdesi» [d'ora in poi BSSV) n. 175 ( 1994). p. 38.
2 Cfr. a questo proposito V. VlNAY, La dichiarazione del sinodo di Chanforan, 1532, in «BSSV» n. 133 (1973), pp. 37-42.
3 Cfr. a tal proposito: A. PROSPERI, // Concilio di Trento e la Controriforma, in La Storia a cura di L. Firpo e N. Tranfaglia, parte II, v. IV, Torino. 1986, pp. 175-ss. Cfr. anche G. DE ROSA - T. GREGORY - A. VAUCHEZ (a cura di). Storia dell'Italia religiosa. 2 L'età moderna, Bari, 1994.
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fitto: «s'era raffreddato e lentamente irrigidito, già durante il Concilio di Trento, oppure s'era rifugiato nel sottobosco consapevolmente ereticale, clandestino in patria, tormentato e inquieto nell'esilio»4.
Non è dunque un caso che nelle Valli sud-occidentali del Piemonte la maggior parte dei controversisti, di cui si è conservata memoria delle loro opere scritte, abbia operato a cavallo dei secoli XVI e XVII, ma soprattutto nella prima parte del Seicento, segno di una più intensa attività degli ordini religiosi regolari che, proprio in quel periodo, fissarono le loro residenze, grazie al favore della corte sabauda e poi, dopo il 1630, di quella francese per l'area pinerolese e pragelatese.
I testi di controversia superstiti dei quali si ha notizia5 coprono un arco temporale che va dal 1560 (dibattito pubblico tra il ministro Scipione Lentolo ed il Padre gesuita Antonio Possevino) al 1667 (risposta di Bartolomeo Gilles, figlio dello storico Pierre, al frate recolletto Illuminé Faverot). L'insieme delle opere individuate6 consente però di af- fermare che la maggior parte delle dispute ebbero corso intorno alla metà del Seicento, mentre due sole avvennero nel secolo precedente: quella, già segnalata, tra il Possevino ed il Lentolo nel 1560 e quella tra il pastore di San Germano, Davide Rostagno, ed il cap- puccino missionario Filippo Riboti, avvenuta a San Germano nel 15987.
Si tratta per lo più di opere che potrebbero essere classificate secondo la tipologia individuata da Bernard Dompnier8, vale a dire: veri e propri trattati di teologia polemica, testi più voluminosi ed impegnativi, e opere che riportano i dibattiti e le conferenze tenute verbalmente tra le due confessioni, spesso su un tema prestabilito. Quest'ultimo fu il caso del Padre Filippo Riboti, predicatore cappuccino nelle missioni e del ministro Davide Rostagno, riunitisi nel giorno di domenica 2 agosto 1598 a San Germano, in Val Perosa, per disputare su alcune verità di fede: in particolare, questione centrale della discussione
4 D. CANTIMORI, Eretici italiani del Cinquecento, Firenze, 1939.
5 Si ringrazia per il prezioso aiuto Daniele Tron al quale si devono tutte le segnalazioni dei testi di controversia qui riportati.
6 Si dà in ordine cronologico il resoconto delle maggiori controversie del secolo XVII delle quali si è ritrovata testimonianza scritta: il pastore Felice Ughetto disputò con il gesuita Padre Cotton nel 1600 (cfr. P. CAFFARO, Notizie e documenti della Chiesa pinerolese, Pinerolo, 1893- 1903, v. VI, p. 1 1 e P. GILLES, Histoire ecclésiatique des églises réformées..., Genève, 1644, ned. del 1881: v. II, p. 77); nel 1615 il ministro Valerio Grosso ebbe una controversia con il cap- puccino Bartolomeo da Nizza (cfr. P. GILLES, Histoire..., cap. LU. v. II, pp. 210-213 e 350): nel 1636 uscì l'opera a stampa del frate minore osservante Teodoro Belvedere in risposta ad una let- tera scritta dal ministro Pierre Gilles (cfr. P. GILLES, op. cit., v. II, pp. 447-469); quest'ultimo entrò anche in polemica con il priore di Luserna Marc' Aurelio Rorengo negli stessi anni; Daniel Pastor o Pastre disputa invece con l'ex pastore convertito Jean Balcet negli anni 1651-1657 (cfr. B. PAZé BEDA e P. PAZé, Riforma e Cattolicesimo in Val Pragelato, Pinerolo. 1975, pp. 154- 158); inoltre del 1659 è la controversia insorta tra il pastore Benjamin de Joux ed il Gesuita An- toine Callemard, di cui si trova memoria all'Archivio Dipartimentale di Grenoble; contro il priore Rorengo si cimentò pure il ministro Antoine Léger nel 1662; del 1666 è la controversia che ha come protagonisti il frate recolletto Illuminé Faverot ed il ministro Carlo Matteo Danna, passato poi al Cattolicesimo (la sua abiura venne ricevuta dal gesuita Pierre Chappuis nel 1678); infine, un anno dopo, Bartolomeo Gilles, figlio dello storico Pierre, disputò contro il predetto frate Fave- rot.
7 Per questa disputa si veda B. PAZé BEDA e P. PAZé, op. cit., p. 359 e P. Gilles, Histoire..., cap. XLV. ed. 1881, v. II, pp. 82-86. Il testo della controversia si trova alla Biblioteca Reale di Torino.
s B. DOMPNIER, Le venin de l'hérésie. Image du Protestantisme et combat catholique au XVW siècle, Paris, 1985, p. 171 .
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era il problema della presenza reale del Cristo nell'eucarestia, tema che stava a cuore sia ai cattolici che ai riformati, negando questi ultimi la presenza reale del Cristo sotto le specie sacramentali del pane e del vino9.
Il libretto, che trascrive in forma di dibattito la disputa, è assai raro nel suo genere e riporta il resoconto puntuale della controversia, sebbene sotto un'indubbia ottica di parte cattolica. Comunque esso consente di individuare con una certa precisione il contesto e le modalità secondo le quali si svolgeva una disputa pubblica: si trattava di un dibattito ver- bale, sovente a più riprese, davanti a un uditorio scelto e di fronte a dei testimoni delle due confessioni, spesso personaggi di un certo rilievo sociale e politico all'interno della comunità. Siti prescelti: i luoghi della socialità all'aperto, dalle piazze ai sagrati delle chiese, dei conventi e dei templi. Argomento: i temi di fede, i sacramenti, la vera Chiesa, l'autorità del pontefice, la predestinazione.... questioni che risentono in modo evidente del dibattito internazionale allora acceso tra le due religioni. A proposito di quest'ultima asserzione, ci si dovrà pur domandare come ed in quale misura, pastori valdesi e religiosi cattolici fossero informati dell'ampia polemica allora in corso in un campo così delicato come era quello delle verità di fede.
Ma la controversia era innanzitutto una «guerre de livres»10: oltre al dibattito pub- blico che non di rado veniva trascritto sulla carta, il controvertere era sovente affidato al- l'opera di scaltriti oratori e scrittori, teologi e controversisti di mestiere che, a colpi di penna, confutavano la fede dei protestanti, con l'obiettivo di far trionfare la verità sull'er- rore, ad maiorem Dei gloriam.
Se si pensa che la Ratio Studiorum11 prescriveva ai giovani educandi dei collegi ge- suitici un nutrito corpus di esercitazioni retoriche scritte, tra cui appunto le controversie di argomento letterario e filosofico, non si può non vedere in questo un esercizio preparato- rio all'apprendimento delle armi retoriche utili al futuro gesuita tanto per il suo compito di predicatore, quanto per quello più agguerrito di controversista. Come dire: il bagaglio del sapere umanistico era messo al servizio della teologia della Controriforma12.
Talvolta queste dispute, a colpi di libri e di lettere, si protraevano per un periodo di tempo assai lungo: è il caso della controversia che vide impegnato il priore Marc'Aurelio Rorengo13. Ad un'opera di parte cattolica seguiva un testo scritto da un ministro prote- stante e lo scambio di confutazioni andava avanti per diversi anni, poiché in ogni caso si trattava di «assurer le triomphe de la vérité»14.
9 II volumetto di ridottissime dimensioni (12 cm. di altezza per 6 di larghezza) è conservato presso la Biblioteca Reale di Torino e riporta il titolo: Raggionamento a modo di disputa tra il Rev. Padre Frate Filippo Riboti Predicatore Cappuccino della missione apostolica nelle Valli contro gli Heretici, e David Rostagno ministro in dette Valli. Stampato di ordine del Molto Rev. Padre Bartolomeo Rocca di Pralonno Inquisitore Generale di Torino, Fossano e Nizza. In To- rino, appresso Giovanni Domenico Tarino, 1598.
10 B. DOMPNIER, Le venin de l'hérésie, cit. p. 170.
11 P. RaFFO. La "Ratio Studiorum". Il metodo degli studi umanistici nei collegi gesuitici alla fine del secolo XVL a cura dei Gesuiti di Civiltà Cattolica. Roma e di San Fedele. Milano. 1989. cap. XIII "Regole sui libri", pp. 335-351.
12 G. P. BRIZZI (a cura di ). La "Ratio Studiorum": modelli culturali e pratiche educative dei Gesuiti in Italia tra Cinque e Seicento. Roma. 1981.
13 Tra le opere del Priore Rorengo si segnalano la Breve narratione dell' introduttione degli Heretici nelle Valli del Piemonte. . .. del 1632. le Memorie historiche dell' introduttione dell' he re- ste nelle valli di Lucerna... stampata a Torino nel 1649 ed il meno noto Essame intorno alla nuova breve confessione di fede delle Chiese Riformate di Piemonte, del 1658.
14 B. DOMPNIFR. op. cit.. p. 169.
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Sovente le dispute, specie quelle tenute oralmente de visti all'avversario, non erano poi così pacifiche: numerosi i casi di frati presi a bastonate, o di pastori valdesi brutal- mente interrotti nel corso delle loro prediche15. Violenze ed angherie si verificarono da ambo le parti, senza esclusione di colpi, poiché - si perdoni la citazione non letterale dal Manzoni - la ragione ed il torto non si possono mai dividere con un taglio netto di col- tello, pur se nella stessa epoca si dava anche il caso di pacifiche convivenze tra le due confessioni, come dimostrano le numerose richieste di dispense per i matrimoni misti16.
Occorre poi osservare il notevole ruolo avuto nel campo della controversistica dal libro ed in particolare dalla stampa17. I libri, dunque, quali strumenti diffusori e portatori di cultura, ma in questo caso di una verità di fede e di un sapere religioso comprensibile a pochi e destinato ad un pubblico inevitabilmente ristretto.
La stampa come mezzo di comunicazione tra la piccola realtà geografica delle Valli valdesi e il vivace universo intellettuale protestante di Ginevra o dei Paesi Bassi e dell'In- ghilterra, paesi con i quali i pastori valdesi erano costantemente in contatto. E, da parte cattolica, la parola scritta come veicolo di conoscenze religiose tra la periferia ed il cen- tro: Roma, la Congregazione di Propaganda Fide, la Curia Generalizia di un ordine reli- gioso impegnato nelle missioni, i Padri Provinciali dei religiosi attivi, in questo caso, nelle vallate attorno a Pinerolo.
Spesso i libri di controversia riportavano un numero elevato di citazioni di testi sacri che andavano dalla Bibbia alla patristica, ma anche opere di teologi contemporanei agli scrittori e soprattutto citazioni tratte dai testi di Calvino e degli altri padri della Ri- forma, segno evidente della circolazione e della lettura di quelle opere da parte del clero cattolico, in particolare regolare, direttamente implicato sul fronte dell'apostolato missio- nario. Non a caso, il Padre Generale dei Gesuiti inviò in data 24 ottobre 1636 una lettera al Padre Superiore dei Gesuiti di Pinerolo, per concedergli \afacuttas coemendi libros; più tardi avrebbe dato anche il permesso di tenere nella biblioteca del collegio pinerolese dei libri "eretici" e di lasciarli in lettura ai propri fratelli18.
15 Alcuni episodi di violenza sono citati da J. JALLA, 1m Riforma in Piemonte, in «BSSV» n. 42 (1920), pp. 5-49; n. 43 (1921), pp. 5-56; n. 44 (1922), pp. 5-41; n. 46 (1924), pp. 20-52.
16 Cfr. Archivio Diocesano di Pinerolo, le dispense per i matrimoni misti. Tit. 7 "Disciplina matrimoniale" e Tit. 12 "Valdesi - Ecumenismo".
17 Si vedano in proposito G. FRAGNITO, La Bibbia al rogo: la censura ecclesiastica e i vol- garizzamenti delle Sacre Scritture, 1471-1605, Bologna, 1997: E. ElSENSTElN. 1m rivoluzione inavvertita, la stampa come fattore di mutamento, Bologna, 1985. Infine va segnalato U. ROZZO. Editorìa e storia religiosa, in Storia dell'Italia religiosa 2 L'Età Moderna, cit.. pp. 137-ss.
18 Archivium Historicum Societatis lesu, Lugd. 6, ff. 129 v.. 160v. e 143r. Riportati in C. POVERO, Storia di un collegio di frontiera: la residenza dei Padri gesuiti nella città di Pinerolo, 1622-1729, Tesi di laurea di Storia Moderna, rei. prof. G. Ricuperati, a. a. 1996/97, Università degli Studi di Torino, p. 273. Si osserva inoltre che era compito dei Padri la librorum scriptionem e il Superiore romano della Compagnia si rammaricava in una lettera del 3 luglio 1637 che a Pi- nerolo non si trovasse il tempo per questa fondamentale occupazione a causa dei troppi impegni. Infine egli scriveva al Padre Provinciale di provvedere che i Gesuiti di Pinerolo avessero qualche confratello in grado di insegnare loro l'italiano - si parla del periodo di dominazione francese nel quale i religiosi italiani della cittadina furono sostituiti da clero francese - e prescriveva che si adottasse un liber italicus. La conoscenza di questa lingua doveva essere fondamentale per assol- vere al compito della predicazione tra gente che parlava ed intendeva l'italiano e poco parlava il francese.
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Prendiamo ora in esame più da vicino alcuni testi di polemica teologica di un autore cattolico. L'obiettivo sarà di analizzarne il tono e le tematiche per cercare di illustrare, at- traverso un angolo visuale del tutto particolare qual'è quello di un controversista cattolico, le considerazioni che il clero regolare di Santa Romana Chiesa adottava nei confronti delle Chiese della "Religione Pretesa Riformata".
Un buon esempio di testi controversistici, scritti in un'epoca "calda" ma anteriore alla sanguinosa campagna militare del 1655, tristemente nota con il nome di "Pasque Piemontesi", è rappresentato dalle opere a stampa del frate minore osservante Teodoro Belvedere - al secolo Teodoro Lazzari, originario di Belvedere Ostrense, nelle Marche -, prefetto apostolico delle missioni delle valli di Luserna e Pragelato.
Il primo testo da considerare è attualmente conservato alla Biblioteca Reale in un esemplare stampato nel 1636 a Torino, presso gli editori Giovanni Guglielmo Tisman e soci, che appartenne alla «Congregationis Domus Taurinensis». Il titolo reca già indizi sui propositi dell'autore: Tunis contra Damasciun, hoc est, tutela Civitatis Sanctœ Syon, seu Ecclesiœ Romance contra Calvinistarum incursìonem obiecta. /Edificata cum propugnaculis, nempe doctrinis Scripturarum, Canonicarum Conciliorum, ac Sanctorum Patrum. A Fr. Theodoro Belvederensi Picenœ Reformationis observantiœ Sancti Francisci, lectore, ac concionatore generali, nec non missionum Lucerna?, ac Pragelati Prœfecto Apostolico. Regali Altitudini Ducis Sabaudicv oblato19.
Si tratta di un tomo di dimensioni ordinarie (17 cm di altezza per 11 di larghezza) di qualche centinaio di pagine, dedicato al duca Vittorio Amedeo I e al di lui figlio Carlo Emanuele II. L'autore, che si firma «Prefetto Apostolico delle missioni nelle valli e Pre- dicatore Generale dell'ordine degli Osservanti di San Francesco», si propone un'agguer- rita difesa della Civitas Sancta Syon, ossia della Chiesa Cattolica, contro quella che egli stesso definisce con linguaggio "bellico" Y incursionem dei Calvinisti. Tale difesa verrà portata avanti - e questo è un tema su cui il frate insisterà più volte nel corso dell'opera, perché costituisce il suo punto di distinzione rispetto ai Riformati - con i propugnaculis20 delle Sacre Scritture, i canoni dei Concili e Yauctoritas dei Padri della Chiesa, unica at- tendibile fonte di verità nel campo della fede.
L'opera si può suddividere in cinque parti: una dedica ed un appello al lettore che sono parti canoniche non solo per le opere religiose. Segue V imprimatur che riporta le firme dei revisori del testo: i teologi Francesco Brancardus (o Blancardus) à Cespitello e Francesco Pacificus à Ripa Transonum, quest'ultimo pure missionario in Val Luserna. Infine è riportata l'approvazione di Francesco Giovanni à Pinerolio, custode dei Padri Osservanti di San Francesco nella Provincia pedemontana, detta di San Tommaso apo-
19 Damasco in questo contesto funge da evidente metafora: l'antichissima città capitale della Siria, già famosa ai tempi di Abramo (Gn 14,15), a circa 8 giorni (200 Km.) da Gerusalemme, fu assoggetta dagli Arabi e dai Romani ai tempi di S. Paolo, che si convertì mentre si stava recando proprio in questa città (At 9,2 ss; 22,5 ss; 26,12.20). Damasco era anche sotto l'autorità del Sine- drio, perché essendovi una numerosa colonia ebrea, gli ebrei avevano leggi e magistrati propri. Ecco il motivo per cui l'apostolo Paolo si recò a Damasco con autorità contro i giudei convertiti. Il luogo della sua conversione è a circa 500 passi dalla città. Nell' AT assai ricorrenti sono le pro- fezie contro Damasco, menzionata in 2Re 16,9 e Is 8,4 che ricorda la sua distruzione ad opera degli Assiri; Is 17,1 «Ecco Damasco cesserà di essere città e non sarà più che un mucchio di ro- vine»; Ger 49.24 nel preannuncio contro Damasco; infine in Am 1,2 un nuovo oracolo contro la città.
20 Propiignaculum: baluardo, bastione, difesa, riparo; in senso fig. difesa, da CASTIGLIONI - MARIOTTI. // vocabolario della lingua latina.
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stolo. I due consensi sono datati da Torino rispettivamente il 18 ed il 20 dicembre del 1635.
La dedica dell'opera è un vero e proprio capolavoro di captatio benevolentiœ nei confronti del duca Vittorio Amedeo I, che firmò a Rivoli nel 1635 con la Francia del mi- nistro Richelieu un trattato che lo poneva a capo di una lega antispagnola in Italia, ac- cordo in base al quale, in caso di vittoria, era prevista la cessione ai francesi delle zone del Piemonte occidentale comprese tra Cavour e Pinerolo21.
Belvedere elogia il duca, dopo aver rievocato le gesta di re e di imperatori che hanno combattuto in difesa della Chiesa; ricorda la religionis sollecitudinem di Vittorio Amedeo I e di suo figlio e lo invoca a porre fine ai nocentissimi dissidij che hanno corso nelle valli soggette ai Savoia. Con una forte frase interrogativa che conclude in un climax ascendente la formula retorica della captatio benevolentiœ, l'autore si domanda a chi mai siano sconosciute le imprese sabaude nel campo della difesa della fede - quos tua latent Religionis gesta? - e rammenta che nel 1628 il duca concesse il braccio secolare al conte Arrighino Rovero de fidei exaltatione benemerenti contro l'assalto degli hœreticos. Quindi, il nostro enuncia l'occasione della sua opera, scritta come risposta alle considera- zioni avanzate da un certo ministro senio confecto, dimorante a Torre. Si tratta con tutta evidenza del pastore Pierre Gilles, in seguito citato nel corso della trattazione; di lui si sa che fu lo storico del popolo valdese, autore dell' Histoire ecclésiastique des églises réfor- mées, recueilles en quelques Vallées de Piedmont et circonvoisines, autrefois appelées Vaudoises..., pubblicata per la prima volta a Ginevra l'anno 1644 nella stamperia di Jean de Tournes22.
Il Gillio - così latinizza il nome il Belvedere - è accusato di aver scritto cose senza il fondamento deWauctoritas di Sacre Scritture, Concili e Dottori della Chiesa, autorità che sono invece alla base delle verità dategli in risposta dal nostro, proprio con quest'o- pera: «tamen eis sanis Scripturis atque Oecumenicorum Conciliorum, atque Scripturœ Patrum doctrinis opportune congestis occurri, ad nostrorum catliolicorum solatium, et ad hœreticorum fìdem contundendam...»
La dedica si conclude con la preghiera rivolta al duca di accettare l'opera in que- stione e di mostrare sempre animo favorevole alle missioni dei Padri Osservanti.
Segue l'appello al lettore che, sin dall'incipit, si conforma ai toni della lamentano: ahimè, pare dire l'autore, quante sette di eretici gli tocca di veder sorgere ai danni di ma- dre Chiesa! Si stupisce del modo in cui continuamente exsurgant sectœ, pullulent dissidio, germinent schismata e con un procedimento retorico di cumulatio elenca tutte le eresie sorte, a partire da quella di Ario, per giungere ai Luterani, Zwingliani, Calvinisti, Puri- tani...
Qual è il motivo di questo pullulare? Belvedere cita San Cipriano: non tutti i cri- stiani accolgono allo stesso modo la Parola divina, ma «quilibet ad nutum suœ pen'ersita-
21 Cfr. G. OLIVA, / Savoia, Milano, 1998, p. 249; salito al potere nel 1630. alla morte del padre Carlo Emanuele I - deceduto a Savigliano per peste il 26/7/1630 -, morì giovane di febbri il 5/10/1635 nel sospetto che la morte gli fosse stata causata da una dose di veleno propinatagli dal maresciallo Crequì durante un banchetto. Cfr. inoltre C. ROSSO, // Seicento, in // Piemonte sabaudo, Torino 1994, pp. 221 -ss.
22 Cfr. J. JALLA, Glanures d'histoire vaudoise, v. I, Torre Pellice, 1936, pp. 112-118. Sulla controversia tra il Gilles ed il Belvedere si veda lo stesso P. GILLES, Histoire..., ed. del 1881, v. II, pp. 449-69. Lo storico valdese così definisce l'opera del Belvedere: «livre aussi plein de ca- lomnies, sans solidité, ni équité, avec des grandes absurditez, et manifestes contradictions qui pa- raissent dés le commencement» ivi, p. 450.
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tis sibi arrogant facilitatela proprium se ligendi et ita quidem Bibita effonnant». Certi si arrogano dunque il diritto di interpretare le Sacre Scritture senza il magistero insostitui- bile della Romana Chiesa e, soprattutto, prendono versioni della Bibbia diverse da quella ufficiale in lingua latina di San Girolamo-3. C'è chi adotta la versione in lingua greca, chi quella in lingua ebraica... I moderni novatores, come pure fa il Gillio ad avviso dell'au- tore, hanno adottato la Bibbia in lingua ebraica e pretendono di seguire essi stessi la dot- trina dei Santi Padri, opponendosi alla vulgata di S. Girolamo che se fosse da loro accet- tata, impedirebbe la loro caduta in erroris voraginem.
I termini con i quali Belvedere definisce i Valdesi appartengono all'area semantica dell'eresia solitamente adottati dai religiosi della Chiesa romana per definire i non catto- lici: costoro sono i novatores, gli hœreticos, i sectarios che hanno adottato la versione de- gli Ebrei senza sapere quanto ciò equivalga a emendicare obscœnum veruni scripturœ sensuni dagli Ebrei i quali fidem carent ... odio sunt Deo, et omnia Prophetarum de Christo oracula violant.
Con un'insistente ripetizione - adeo ut admirabile sit ...et admiratio augetur...-, atta a sottolineare il forte climax ascendente, il nostro esprime il suo stupore per la traco- tanza mostrata dai sectarii nell' accusare di errori i cattolici e lacerare la loro versione della Bibbia, se vi colgono qualche dissonanza; ancor più grande è la sua meraviglia poi- ché gli stessi eretici si rendono conto delle ambiguità insite nella lingua ebraica e sulle quali si dilunga l'autore.
Ma gli errori dei settari non si concludono qui: la loro maggior colpa è di avere tra- dotto la Bibbia in lingua volgare; neppur San Paolo e San Luca lo fecero, perché, anziché scrivere in latino, che era il volgare dell'epoca loro, adottarono il greco; inoltre diversi autori, tra i quali Sant'Agostino, dicono che per 400 anni dalla nascita di Cristo le sole versioni della Bibbia furono in lingua ebraica, greca e poi latina, mai in volgare.
Infine, gli attacchi di Belvedere si sostanziano nel fatto che gli hœretici non ricono- scono l'autorità del caput sensibile della Chiesa e considerano solo Cristo qui invisibilità- re gnat; la difesa dell'autorità del pontefice è un punto forte della controversistica cattolica che accusa i nemici di non obbedire a nessun capo spirituale, né temporale. Questa critica porta con sé un'altra imputazione, più pregna di conseguenze politiche, in base alla quale i non cattolici non sarebbero fedeli ai propri sovrani, né buoni sudditi affidabili e osser- vanti delle leggi. La disubbidienza religiosa venne sempre vista, sia dai capi religiosi che da quelli temporali, come l'anticamera della disubbidienza politica, secondo la visione che ispirò il principio del cuius regio eius religio e la formula une foi, une loi, un roi, cara non solo al Re Sole, ma ai sovrani di mezza Europa.
L'incipit di Tunis contra Damascum riporta notizia della data del rientro di frate Teodoro Belvedere a Luserna l'undici ottobre del 1635, probabilmente dopo una mis- sione. Trovò ad attenderlo un libello di pochi fogli scritto da Petrus Gillio, recante il ti- tolo: Considerationi e risposte sopra due lettere qualificate apologetiche, l'ima del signor M. A. Rorenco Priore di Lucerna, l 'altra del frate Teodoro Belvedere detto Prefetto de ' Frati.
Lo scritto del Gillio era già la risposta a due missive inviate ai ministri delle valli di Luserna, Perosa e San Martino da due tra i maggiori controversisti del tempo: oltre al no- stro, è menzionato il Priore di Luserna Marco Aurelio Rorengo, autore delle Memorie
23 Sul problema delle diverse stampe delle Sacre Scritture in età moderna si veda: G. FRAGNITO. La Bibbia al rogo, cit.
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historicité dell' introduttione dell' heresie nelle valli di Lucerna...2* e del meno noto Es- same intorno alla nuova breve confessione di fede delle Chiese Riforniate di Piemonte.
Il Belvedere definisce molto causticamente il libello del Gillio un «glomerainen re- rum apparentium. mendaciorum et ostentationum. auribus datum suœ inaridita: Plebis e lo paragona ad un virgultum in hœretico agro pullulons et ab Hœreticis satatoribus pian- tatimi^. Poi. sempre con linguaggio metaforico e con un procedimento cumulativo, l'au- tore si rivolge agli eretici «conviventes sine timore, semetipsos pascentes: essi sono come nube s sine aqua ... arbores autumnales, infructuosœ, bis mortuœ, eradicata;, fi actus feri maris ... sydera errantia».
Quindi, passa a confutare le obstrusas et futiles quœstiones che Gillio ha addotto nel suo libello. Si tratta di 42 questioni, schematicamente affrontate dall'autore e smon- tate punto per punto: 7 concernenti il problema delle Sacre Scritture e della versione della Bibbia approvata dalla Chiesa romana, altrettante riguardanti l'autorità del pontefice. 6 sulla veridicità della Chiesa romana contro la falsità della Chiesa calvinista; infine 3 que- stioni riguardano l'intercessione dei santi. 7 il problema della eucarestia e della messa, due concernono il tema delle opere meritorie e della predestinazione, mentre 4 si riferi- scono alla funzione delle immagini e del simbolo della croce nelle chiese cattoliche. Una sola ha per argomento i Yaldenses (raramente appellati con questo -nominativo) ed ha per enunciato an Yaldenses. a quibus dicunt Reformati Sectarij originari, sint Hœretici.
L'altra opera scritta da frate Teodoro Belvedere a cui prima si è fatto cenno porta il titolo di Relatione all' Eminenîissima Congregatione di Propaganda Fide dei luoghi di alcune valli di Piemonte all'Altezze Reali di Savoia soggette dove sono gl'Eretici, del numero di essi, delle conditioni dell'eresie, dell' introduttione, de spirituali aiuti che hanno e pericoli che possono all'Italia apportare ... opera utile per la Santa Fede e di curiosità.
Questo piccolissimo libretto a stampa, conservato sia presso la Biblioteca Reale che presso la Biblioteca della Società di Studi Valdesi, è datato 1636. E perciò contemporaneo alla precedente opera del Belvedere, scritta in latino e dedicata ai duchi sabaudi, mentre la Relatione è in lingua italiana e destinata alla Congregazione di Propaganda Fide, fondata a Roma nel 1622 con lo specifico ministero di occuparsi delle missioni e della promo- zione della fede cattolica, sia in terre lontane, che in luoghi "infetti dall'eresia".
Il volumetto si apre, come la precedente Tun is contra Damascum, con la dedica, l'approvazione e la prefazione che suonano però di un tono differente. Il contenuto del- l'opera è poi ripartito in 18 sintetici capitoli, ognuno dei quali con un titolo esplicativo dell'argomento trattato.
La dedica all' Eminentissima Congregatione abbonda di significazioni metaforiche e di simbolismi del lessico religioso: le vesti indossate un tempo dai sacerdoti ebrei, che ora ricoprono le «Eminenze Principi e Sacerdoti maggiori», divengono l'emblema non più delle 12 tribù israelitiche, ma delle 12 tribù della Cristianità che hanno avuto origine dagli Apostoli. Rispetto a questo popolo cristiano gli eretici si sono volontariamente esi- liati e si trovano nella condizione di leprosi (sic per lebbrosi), «pieni di scabie di dogmi ereticali fuori della Chiesa e di sacri padiglioni»: ma agli accenti di durezza sottentrano quelli di compassione: «nondimeno, poiché col sangue di Nostro Signore Gesù Cristo re- denti, ... ancor loro so non esser esclusi, ma viverGli in protettione e particolarmente
:~ Testo che è usato come fonte dal Belvedere nell'altra sua opera di cui si parlerà qui di se- guito.
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quelli di alcune valli di Piemonte all'Altezza Reale di Savoia soggette». Segue l'enun- ciato dell'intento dell'opera che l'autore ha già esposto sinteticamente nel titolo e che an- drà poi approfondendo nei 18 capitoli successivi. Dopo la dedica, che riporta la datazione del 30 agosto 1636, si legge l'approvazione dei teologi Francesco Brancardo (o Blan- cardo), Francesco Pacifico da Ripa Transonum e Francesco Giovanni da Pinerolo del- l'ordine dei Frati Osservanti; inoltre, datata dalla Città Santa il 10 agosto 1636. c'è l'atte- stazione di Francesco Tommaso da Sant'Agata, Procuratore e Vicario Generale dei Padri Riformati di Roma, e la firma di Francesco Benedetto Marabotus. Maestro di Sacra Teo- logia e Vicario Generale del Sant'Ufficio a Torino.
Come si può osservare, rispetto alla precedente opera. Turris contra Damascum, la Relatione è stata sottoposta all'approvazione dei superiori romani dell'ordine: mentre in- fatti si ripetono le firme dei Padri Brancardus (o Blancardus), Pacificus e Giovanni da Pi- nerolo, nella Relatione si aggiungono a queste le sottoscrizioni del Vicario Generale dei Riformati di Roma e quella del Vicario Generale del Sant'Ufficio a Torino. La loro pre- senza ben si comprende in un'opera destinata ad essere letta dalla Congregazione di Pro- paganda Fide, e che doveva figurare come relazione ufficiale per la conoscenza della si- tuazione religiosa dell'area pedemontana in questione e per la pianificazione di ogni suc- cessivo intervento dell'ordine dei Frati Osservanti nella zona.
È curioso, nella prefazione, l'appello che Belvedere fa ai potenziali lettori della sua opera, individuandoli nei Padri missionari, ai quali la Relatione tornerà di immensa utilità, e nei «curiosi catolici di bell'ingegno adornati» che desiderano esser ben informati sulla situazione delle genti non cattoliche. Si osservi l'uso dell'aggettivo curiosi e del vocabolo ingegno che ebbero una particolare connotazione letteraria ed un abbondante uso proprio in epoca barocca25. È il periodo della nascita e dello sviluppo della scienza moderna, l'età di Galileo (1564-1642) e di Marino (1569-1625) che dimorò a Torino dal 1608: in Pie- monte inoltre, operò il gesuita torinese Emanuele Tesauro. autore di un trattato teorico fondamentale per comprendere le caratteristiche e la tecnica della poetica barocca: // can- nocchiale aristotelico, giocato sui temi centrali dell'argutezza e della metafora26.
Le scoperte della scienza, quelle geografiche, l'ampliarsi delle conoscenze... ri- svegliarono nell'uomo la curiositas per il reale che, anziché essere una semplice pruderie da cortigiani, divenne desiderio di conoscere con precisione la molteplicità del reale, un reale che per la sua infinita varietà e incessante mutevolezza si presentava «ambiguo e sfuggente, ma non per questo meno affascinante e suggestivo»27.
Se nell'ambito della poesia tutto ciò fu all'origine della poetica della meraviglia, ben esemplificata dal concettismo e dall'inventiva di G.B. Marino e dei mariniani. nel- l'ambito della trattatistica, la curiositas divenne un incentivo ali" ingegnosità e all'esi- genza di novità, perché si aveva la consapevolezza «di muoversi in una nuova dimensione della realtà e dello spirito»28 che indusse l'uomo e l'artista ad affinare l'ingegno per con- seguire i fini che si erano proposti.
25 Per un'analisi della cultura barocca intesa come struttura storica cfr. J.A. MaravaLL, La cultura del barocco. Bologna. 1985. Per ulteriori riferimenti bibliografici sul Barocco si veda: A. GIUDICE - G. BRUNI. Problemi e scrittori della letteratura italiana. Torino. 1987. v. II. t. II. pp. 23-26.
26 Cfr. per E. Tesauro: M. ZANARDI. S.J.. Sulla genesi del Cannocchiale aristotelico, in Studi Secenteschi, pp. 16-ss.
27 Da A. GIUDICE - G. BRUNI. Problemi, cit.. v. II. t. II. p. 12.
28 A. Giudice - G. Bruni, op. cit.. v. IL t. II. p. 11.
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Belvedere - come del resto lo sono i Frati del suo ordine ed i Padri della Compa- gnia di Gesù29 - è figlio del proprio tempo, risente del clima e dei temperamenti di un'età che ricorre agli artifici della retorica per creare effetti di sorpresa, meraviglia, timore, pentimento, compassione... e guidare le menti, gli animi ed i sentimenti di spettatori, let- tori o uditori verso uno scopo predefinito30.
Il primo capitolo della Relatione, titolato //; quali e quanti luoghi del Piemonte al presente si trovino l 'eresie, si apre con un lungo excursus geografico, nel quale viene de- scritto il Piemonte, «estrema provincia d'Italia ... ha le vaghezze di amplissimi piani ai piaceri di Cesare accomodanti, l'amenità di alcuni colli per i gusti di Bacco, i monti per i sollazzi di Pan, e terre di salubre aere per l'albergo di Pallade e per diporto di Marte. E nobilissima sì per la moltitudine e grandezze de' Titolati...». Dopo aver descritto i confini del Piemonte, l'autore considera al loro interno la presenza di alcune sette ereticali che chiama con l'appellativo di «Eretici, o Valdensi, o Albigesi, o Luterani, o Calvinisti se- condo che le diversità dell'occasioni e i peccati del mondo gli svegliavano dai baratri e abissi infernali».
II linguaggio usato è terribile e pare trarre i suoi termini dal lessico medico: l'eresia è «il pestifero morbo, la contaggione», essa va «infettando» le terre del regno sabaudo, mentre quelle liberate da tale presenza, come la Val Susa, sono luoghi «purgati». Il voca- bolario medico-scientifico ricorre in tutte le pagine dell'opera a definire la religione del- l'avversario, questa peculiarità, oltreché avere archetipi biblici31, si rafforza nel '600 per i progressi in campo medico e forse anche in seguito alla recente esperienza di diffusione della peste che nel 1630 imperversò nelle zone pinerolesi.
Con rammarico Belvedere osserva che «al presente ... restano nella contaggione le Valli di Lucerna, di San Martino e della Perosa», oggetto di descrizione nel secondo capi- tolo: Delle Valli di Lucerna e altre dall'Eresia infette.
Nel seguente, Del numero degli eretici eh 'abitano nelle prefate Valli, si coglie un saggio dell'applicazione della matematica statistica, che proprio allora dava i suoi primi frutti in campo burocratico: il desiderio di conoscere con precisione le caratteristiche e le dimensioni delle terre e dei popoli a loro soggetti aveva spinto molti sovrani, non da ul- timo il duca sabaudo, a incaricare i propri funzionari, ed in particolare gli intendenti, di prendere nelle province o città affidate alla loro amministrazione accurate informazioni di
29 Cf'r. a proposito del rapporto tra Gesuiti e Barocco in campo artistico: F.G. GUTIERREZ. S.J., // patrimonio artistico della Compagnia, in / Gesuiti, 1° gennaio 1997, pp. 1 18-ss.: MOISY, Les églises des Jésuites de l'ancienne assistance de France, Rome, 1958, 2 v.; P. PlRRl, S.J.. Giovanni Tristano e i primordi della architettura gesuitica, « I H S I » , Roma, 1955; GALASSI PALUZZI, Storia segreta dello stile dei Gesuiti, Roma, 1951. In particolare sull'arte della Contro- riforma il saggio di M. CALì, Arte e Controriforma, in La Storia a cura di L. FIRPO e N. TRANFAGLIA, parte II, v. IV, Torino, 1986, pp. 283-314 e M. COLLARETA, La Chiesa cattolica e l'arte in età moderna. Un itinerario, in Storia dell'Italia religiosa 2, cit., pp. 167-ss.
30 Su questo si vedano alcune illuminanti pagine di J. A. MARAVALL, La cultura del ba- rocco, cit.
31 Esemplificazioni del linguaggio della malattia tratte dalle Sacre Scritture: 15,26 «Io sono il Signore, colui che ti guarisce»; Dt 7,15 «Il Signore allontanerà da te ogni malattia»; altri esempi in Tb 2.10; Gb 2,10; Sai 6,3;39,12; Ec 7,3; Sap 16.12; Edi 39.1; Mt 9,12.35; Mr 1,34; Le 4,39; 6,19; Gv 5.14; 1 1,3; At 10.38; 2Cor 1,4; 5,1.
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tipo economico, politico, sociale, finanche religioso, per poi stendere le opportune rela- zioni da inviare a corte32.
Anche il clero aveva bisogno di opportune conoscenze, soprattutto per pianificare il proprio intervento evangelizzatore33. Belvedere, dunque, passa in rassegna con grande meticolosità tutti i centri abitati delle tre valli, e annota tanto il numero dei cattolici quanto quello dei non cattolici presenti in essi. C'è da domandarsi se, al di là dell'utilità che queste cifre potevano avere per la Congregazione di Propaganda Fide a cui era affi- data la cura delle missioni e l'eventuale invio di missionari, questi dati non tornassero utili all'ufficio del controllore fiscale per l'imposizione e la raccolta delle tasse. Spesso, in effetti, in Antico Regime, la presenza dei missionari precedette quella dei collettori delle imposte: altro esempio di quello stretto legame tra trono ed altare venutosi proprio allora a consolidare34.
Resta da sottolineare l'uso di metafore tratte dal linguaggio evangelico, alle quali ricorre l'autore per definire la "zizania ereticale": «l'altre Ville - dice riferendosi ai paesi abitati in maggioranza da non cattolici - ò sono campi dove l'inimico ha sopraseminato la zizania, ò spinosi boschi senza pure una pianta fruttifera...».
Altro e più potente saggio di questo veemente linguaggio si trova nel capitolo quarto che tratta Dell' inventioni e conditioni delle novelle Eresie: Belvedere, con perfetto teleologismo, vede persino nella diffusione dell'eresia, paragonata al mostro mitologico dell'Idra, l'azione della mano divina. Essa ha fatto «ingresso per divina permissione ... o per provare i buoni, o per gastigare i cattivi christiani». Passa poi a trattare dell'origine e dei diversi nomi che l'eresia ha dato «agli infetti del suo terribile morso» (torna la meta- fora dell'Idra). Infine, dopo aver delineato i dogmi di fede dei «Calvinisti ò Ugonotti ò della Pretesa religione Riformata», li definisce «oppinioni venenose, uscite dalla bocca di tal vipere».
Il successivo capitolo si dilunga sui nomi degli eretici chiamati Calvinisti, traendo dallo storico Florimondo Remondo questa curiosa spiegazione circa l'etimologia del nome: «poiché i Calvinisti nella congiura di Ambiano [sic, per Amboise] dicevano Allez vous à Nantes e rispondevano hue nos che detta velocemente iniziò a diventare un nome per designare i cospiratori Hugonotti».
Nel sesto capitolo, Dei riti e costumi generali delle persone della Pretesa Reli- gione, Belvedere mette in rilievo sia le diversità che le somiglianze che questi hanno con i
32 Si legga a questo proposito G. PRATO. La vita economica in Piemonte a mezzo il secolo XV///, Torino, 1966 e L. EINAUDI, La finanza sabauda all'aprirsi del secolo XV/// e durante la guerra di successione spagnola, Torino, 1908.
33 Non si dimentichi che, ad esempio, l'ordine gesuita, prima di stabilire una propria resi- denza in qualunque cittadina, conduceva in anticipo una vera e propria indagine di mercato, in- formandosi sulla popolazione, la disponibilità di avere fondi, case e redditi necessari alla nuova fondazione, cfr. M. ROGGERO. Scuola e riforme nello stato sabaudo, Torino, 1981.
34 Ne è prova quanto l'autore scrive al principio di questo capitolo terzo: si osserva - e l'os- servazione, come il seguente paragone naturalistico, risente dell'eco galileiana - che in natura le cose perfette sono in numero inferiore rispetto a quelle imperfette che si riproducono maggior- mente, e viene riportato l'esempio di esseri imperfetti come formiche, vermi, ratti e rane, più nu- merosi di cavalli, elefanti e leoni. Così accade per «Turchi, Giudei, Eretici, che de' fedeli ò Cato- lici: onde per questo e perché gli Eretici abbominano il celibato e la castità claustrale nelle pre- fate tre Valli, nelle quali ancora serpe l'Eresia, sono senza dubbio più augmentati gli Eretici che i Catolici; e se in qualche terra meno abbondano, procede, o da severe prohibitioni, o da essatte di- ligenze de' Signori e buoni Ministri di Sua Altezza Reale inclinatissima all'estirpatione, ò dalla vigilanza degli Ecclesiastici e Religiosi».
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cattolici: le differenze in campo religioso, com'è ovvio, sono «infinite»; l'autore sottoli- nea la perversione delle usanze degli eretici, ma riconosce loro una profonda cultura, serio pericolo per il clero cattolico secolare, poco preparato in fatto di cultura teologica, che vive in parrocchie isolate di montagna, a diretto contato con i ministri che sono «secolari ammogliati, con i figlioli alquanto dotti».
Si ripete, come già visto nella Tunis contra Damascum, l'accusa ai pastori eretici di aver adottato Bibbie in lingua volgare e di istruire la gente «dopo desinare alle Dome- niche», con grave danno per le scuole di dottrina cristiana messe in opera dai religiosi cattolici.
Una frase icastica conclude il capitolo seguente che si domanda Se gli eretici hanno i Santi: «tali loro novelli e finti santi, nei cieli non stanno; ma nelle profonde cave delle bracci infernali». Con un'apostrofe tremenda termina il capitolo Vili dedicato ai martiri: «O martiri, à quali martirij già mai finiscono, e con vermi e cenneri dei corpi, si esten- dono all'Eternità oppressi, per sostenere falsità, si ritrovano da falsi Ministri, da crudi sa- telliti delle sotterranee, e fimmeggianti carceri, più che mai oppressi: ossa piene di infor- tunij, e che invece di scaturire ardori, ò operosi miracoli, come quelli di tanti Martiri ca- nonizzati della Chiesa Romana, fettono, e ammorbano».
Al capitolo IX, Che honore portano gli Eretici alla Santissima Vergine, seguono il X: Che opinioni hanno gli Eretici degli Santi del Nuovo Testamento, l'XI che fa riferi- mento ai Santi dell'Antico Testamento ed il XII a proposito della credenza negli angeli: in tutti e tre Belvedere cita gli scritti di Calvino, di Teodoro di Beza e di altri autori non cattolici, dimostrando così una approfondita conoscenza anche di testi non cattolici. Non va dimenticato che tanto le biblioteche dei Frati Cappuccini che quelle dei Padri Gesuiti - ordini missionari molto attivi nell'area pedemontana in questione - erano rifornite non solo di testi cattolici, ma anche di opere di storia e teologia riformata; vale a dire: per bat- tere l'avversario bisogna conoscere ed usare le sue stesse armi! Era questa la tecnica dei controversisti, come ha lucidamente sottolineato Bernard Dompnier35.
Tocca uno dei nodi centrali della fede riformata il capitolo XIII: Che opinione hanno gli Eretici della lor salute, titolo che si riferisce al problema della predestinazione trattato sia da Beza che da Calvino, dei quali Belvedere cita ampi passaggi. L'autore tut- tavia prende da essi le mosse per compiangere la triste sorte dei non cattolici e alterna toni di compassione a quelli di invettiva feroce: «infelici giganti, che pretendono mettere monti sopra monti, e così agevolarsi la strada al Cielo e assicurarsi l'ingresso in quelli, si ritrovano dai dardi e saette fulminati...» e si domanda: «non sperimentiamo giornalmente, che molti di loro moiono dannati, disperati, bestemmiando, e rinnegando Iddio?».
Nel capitolo XIV, Dell' introduttione dell'Eresie nelle Valli del Piemonte, la fonte del nostro sono le Memorie istoriche del Priore di Luserna Marco Aurelio Rorengo: «le sfortunate valli - scrive, riferendosi alle bibliche piaghe d'Egitto - per la vicinanza della Francia ... sempre sono state soggette à varij flagelli, ò di Ereticali locuste, ò di infidi Bruchi, Rubigini e Cavalette».
I primi eretici a raggiungere le valli di Luserna, san Martino e Perosa furono gli Albigesi, i quali uscirono dalle fauci di Cerbero; gli attuali gruppi ereticali discesero dai Valdesi e di essi l'autore illustra la diffusione geografica e le persecuzioni di cui furono oggetto da parte ducale. Descrive infine l'arrivo dei Luterani nella zona con focose meta- fore: «scopertosi doppo molto tempo alcuni spinosi virgulti di Albigensi, e molti roveti di Valdensi insieme si congiùnsero ... che fatto un condenso bosco pieno di fieri animali, e
35 B. DOMPNIER, Le venin de l'hérésie, cit.
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di venenosi serpenti ... bisognò di tagli per la pace e beneficio della Santa Chiesa di Dio ... intesero nel 1518 che il Luteranesimo per il mondo si promulgava ... à quello si ap- pigliarono ... e così il fiume Letha entrò nel Mar Morto e si accrebbe». L'unione dei Val- desi con i Luterani è dunque descritta dal nostro con i toni della catastrofe a sottolineare la quale ricorrono le metafore del bosco abitato da serpenti e del fiume Letha36 sfociato nel Mar Morto.
Le guerre condotte dai sovrani di Francia e poi dal duca Emanuele Filiberto «che ad altro non attese, che à provedere all'infettione negli suoi Stati introdotta», vengono giu- stificate quali guerre giuste contro l'eretico nemico. Anzi, la campagna militare condotta da Giorgio Costa conte della Trinità nel 1560, viene dal Belvedere vista come l'ultima ra- tio a cui fu forzato il duca, dopo aver esortato i Valdesi a vivere cattolicamente: «ma zap- porno nell'acqua ... Per il che fu Sua Altezza forzata di venire all'armi per la Santa Fede, sopramodo zelando».
Dopo il XV capitolo. Primi ordini per l'aggiustamento degli Eretici con Sua Al- tezza, il seguente evidenzia Come i Valdensi dal Luteranesimo passassero al C alvine simo ò Pretesa Religione Riformata, tema per il quale Belvedere rinvia il lettore all'opera di Rorengo.
Significativo risulta il capitolo XVII: l'autore si preoccupa di puntualizzare Che aiuti spirituali siano nelle Valli per la Santa Fede, dilungandosi nella descrizione della storia delle missioni dei Padri Riformati del suo ordine, delle loro attività e del frutto di questo loro zelo apostolico. L'incipit riporta un esteso paragone di matrice evangelica-17: la Chiesa Romana è una «navicella», dove salì Cristo con tutti i discepoli, essa è sbattuta da venti furiosi, ma ha il sostegno dell'aiuto divino «e l'assistenza e protettione dei Reali Duci di Savoia di tali Valli padroni, e specialmente del Real Vittorio Amedeo, che nel zelo di Religione à niuno degli suoi Sereni antenati cede». A tal proposito, viene inserito un ampio elogio per il duca Vittorio Amedeo I il quale, non si deve dimenticare, è anche il dedicatario della Turris contra Damascum, appositamente scritta con toni elogiativi per il sostegno dato dai Savoia alle missioni e all'operato dei Padri Riformati nell'area pede- montana.
Segue la descrizione dell'invio, per volontà ducale, di dodici religiosi per la fonda- zione delle missioni, la menzione dei protettori laici38 che sostennero queste ultime e ne consentirono l'aumento sino a quattro, situate a Torre, Luserna, Bibiana e Campiglione: inoltre vengono messe in luce le dispute avute dai frati con ministri riformati e il profitto conseguito dal loro operato39.
36 Leta o Lethaeus: fiume sotterraneo dell'oblio, citato da Virgilio. Eneide. V. 854; VI, 705. 706. 714 e 749.
37 La fonte è San Matteo cap. 8. versetti 23-ss.
38 Tra questi benefattori Belvedere cita: Madama Reale, ossia Cristina di Francia, moglie di Vittorio Amedeo I (cfr. G. Oliva. / Savoia, cit. pp. 250-ss.), il cardinale principe Maurizio, poi impegnato in una lunga contesa con Madama Reale durante il periodo della reggenza, il gran cancelliere Piscina, il Senato, nella persona del suo primo presidente Bellone, il conte Arrighino Rovere già menzionato, cavaliere della Santa Croce e gran ospedaliere dell'ordine dei santi Maurizio e Lazzaro, ed infine il collaterale Sillano e Giovanni Angelo Ressano. Prefetto della provincia di Pinerolo. Per questi personaggi si veda: A. MANNO, // patriziato subalpino, v. 2. Fi- renze. 1895-1906 e D. CARUTTI. Storia di Pinerolo, Pinerolo, 1893.
39 «Le missioni - scrive Belvedere - sono di singular profitto per impedire i Catolici, tanto secolari, quanto regolari, i quali da travagli disperati ò da vitij acciecati intentano in tali parti dalla nostra Santa Fede Apostatare; e restano utilissime per trattenere che l'eresia. Spinoso Rueto. all'accrescimento inchinato più oltre non serpa».
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Infine si menziona la fondazione, a Torino, di un ospizio «dove si ricevessero, edu- cassero e instruessero nella Fede» le fanciulle e le donne convertite alla Religione catto- lica, le quali avevano forte necessità - osserva Belvedere - di un rifugio «per evitare le persequitioni»40.
Il capitolo finale, Dei pericoli che l'Heresie delle Valli del Piemonte possono all'I- talia apportare, rappresenta l'acme della controversistica adottata dal Berlvedere: l'autore mette in risalto la pericolosità rappresentata per l'Italia intera dalla presenza di eresie nelle valli piemontesi. Il regno sabaudo è un territorio troppo importante per essere ab- bandonato al proliferare delle eresie: «vedendosi nel Piemonte, principio d'Italia, ardere l'Eresia, fa minaccia ad una total ruina». Queste ultime vengono paragonate alla «scintilla, qual in picciolo angolo della casa, ò in un cespuglio d'una ben lata e spatiosa selva accesa, ogni cosa rovina ... e il lievito che se dalla farina non si separa, cioè dal- l'habitatione de' Catolici porta pericolo di non corromperli tutti. Finalmente è la pecorella leprosa, à cui se non si dà repentinamente la morte, ricuopre di ferina rogna tutti gli ar- menti...». Conclude quindi il nostro con una veemente interrogativa retorica in cui torna a fare la sua comparsa il vocabolario medico indicante la malattia fisica, metafora per quella spirituale indotta dall'eresia: «Hora vedendosi in un angolo del Piemonte le pecore infette frà puri agnelli, il fermento frà le candide farine, il fuoco acceso, chi non temerà i pericoli dell'Italia tutta?».
Gli sovviene l'esempio dei maggior eresiarchi della storia, invocando contro di loro il giusto intervento, manu militari, del potere temporale: contro Ario che fu la scintilla che partita da Alessandria d'Egitto accese tutto il mondo; contro Lutero, «pecora satanica di ferina scabie ... contaminata», e contro Calvino «negro carbone ... infiammato per ar- dere la Germania, la Gran Bretagna, la Dania e la misera Francia, con tanti paesi conta- giati».
Belvedere termina la sua rassegna citando veri esempi di punizioni occorse contro i non cattolici, onde dimostrare la necessità dell'intervento del «braccio imperiale con la spada» contro quei «vescovi che trascureranno, ò negligentaranno di nettare le loro Dio- cesi» e quei magistrati «che possono castigare l'eresie e non lo fanno».
Citando San Gregorio Nazianzeno, Belvedere scrive: «gli umani malvaggi, né con dolci modi si rendono mansueti, né con umanità vincere si lasciano», onde è gioco forza ricorrere alle maniere forti!
Tuttavia, il pericolo per la fede cattolica non si riduce alla presenza degli eretici: Belvedere è spettatore impotente della diffusione di quello che lui definisce il male dei mali, il dilagare delle dottrine atee e materialiste, «perché si è già sentito predicare da al- cuni Ministri a Ginevra che l'anima nostra ragionevole insieme col corpo si estingua». Inoltre vede il responsabile del pullulare dell'ateismo in Machiavelli e riporta le lamentele di Innocenzo Gentiletto41, preoccupato che, dopo l'eresia di Calvino, la Francia fosse stata ridotta a covo di sì numerosi atei.
40 Di questo ospedale l'autore tratta diffusamente mettendone in luce, tra i benefattori, la nobildonna Claudia della Rovere, donatrice del palazzo ove si stabilì l'albergo per le neoconver- tite; tra le attività, l'educazione delle fanciulle e la dote maritale di lire 150, offerta dal duca nel giorno dell'Annunciata a quindici giovani prescelte.
41 Innocent GENTILLET, autore dei Commentari De regno et quovis Principatu recte admi- nistrando adversus Nicolaum Machiavellian e del Discours sur les moyens de bien gouverner, del 1576; si scagliò animosamente contro i «nefandi» principi del Machiavelli, la sua reazione era maturata «contro l'assenza nelle di lui dottrine [del Machiavelli] di quel principio della giustizia che l'etica cavalleresco-nobiliare aveva positivamente, anche se in maniera storicamente condi-
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Nel finale. Machiavelli viene accomunato ad atei, materialisti ed eretici che hanno infettato tutt'Europa. e con un quadro geografico catastrofico Belvedere così conclude la sua Relatione: la Germania «ancora ricettatrice delle calvinistiche riforme, si è purtroppo renduta fertile di taj mostri ... E nell'Anglia sono così feroci ... che danno segno volere tutto il Regno divorare». Ma anche la Scozia e la Polonia ne sono invase e nella Francia calcola l'autore che vi siano 70.000 persone «di tal contagiose dottrine infettati». Ma la meraviglia maggiore è che mentre «l'improbità dei machiavellisti» è stata allontanata dalla Chiesa cattolica con censure e scomuniche, «nelle nuove Chiese di Calvinisti, con applauso si ricapite, e quasi come granelli smaltati di gemme orientali si prende per or- namento».
Come si è potuto osservare da questo saggio di analisi su un testo di controversia di parte cattolica, a metà del Seicento si era ben lontani dal concetto di tolleranza: entrambe le confessioni erano preoccupate di convertire gli avversari, credendo di essere le sole de- positarie della Verità. Il successo delle controversie nel secolo XVII «montre donc que le rêve d'un retour à l'unité chrétienne n'est pas alors totalement abandonné et que les esprits résistent à l'idée d'une fracture irrémédiable»4-.
Più difficile valutare gli effetti dell'operato dei controversisti: indubbiamente le po- lemiche religiose ebbero come conseguenza il perfezionamento delle scienze religiose, indispensabili alle due confessioni, preoccupate di approfondire le proprie definizioni di fede, in vista del prossimo "'duello verbale". Inoltre, come osserva Bernard Dompnier. le critiche richiamarono entrambe le parti ad un esame di coscienza sulle proprie opinioni religiose e contribuirono alla messa al bando di alcuni atteggiamenti superstiziosi, per evi- tare qualunque accusa di idolatria e di paganesimo.
CHIARA POVERO
zionata. risolto» (L. PERINI, // pensiero politico europeo da Machiavelli alla Ragion di Stato, in La storia, a cura di L. FIRPO e N. TRANFAGLIA. cit. parte II. v. IV. p. 403. 4: B. DOMPNIER. Le venin de l'hérésie, cit.. p. 170.
NOTE E DOCUMENTI
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Elenco dei partecipanti al Rimpatrio condannati alla galera in Francia e ancora in vita il 15 marzo 1707
Scopo di questa nota è non solo quello di presentare un documento, probabilmente inedito, ma anche di ricordare quei partecipanti al Glorioso Rimpatrio (G.R.)1, che cattu- rati dalle truppe francesi e condannati alla galera, subirono questa pena durissima anche per 25 anni, senza mai abiurare per ottenere la libertà.
1 . // documento
Nella biblioteca della Deutsche Waldenservereinigung2 è conservato un documento a stampa che riporta l'elenco dei protestanti condannati alle galere francesi dal 1686 in poi, e ancora in vita il 15 marzo 1707. Esso non presenta alcuna indicazione relativa alle fonti3, al redattore, all'editore, al luogo di stampa e neppure ai destinatari4. Non era noto a Gaston Tournier, autore della classica opera sui "galériens"5 e neppure ad altri ricercatori. Probabilmente ne esistono poche copie in biblioteche o in archivi che non sono ancora state segnalate.
Da un esame critico del documento e dal confronto dei dati in esso contenuti con i corrispondenti di altre pubblicazioni già note, lo si può considerare autentico6.
È stato pubblicato da un'ente protestante in Francia, evidentemente senza autoriz- zazione governativa, o in paesi protestanti, sulla base di informazioni avute direttamente dai forzati stessi, allo scopo di fare conoscere a tutta l'Europa la situazione disumana dei loro correligionari condannati alla galera per avere voluto professare una fede cristiana diversa da quella cattolica.
1 Nel testo verranno anche indicati con il termine "lusernesi".
2 Henri-Arnaud-Haus a Òtisheim-Schònenberg (Wurtemberg).
3 I forzati protestanti avevano creato una organizzazione interna segreta - nel comitato diret- tivo vi era Jean Muston - che, tramite l'aiuto di alcuni commercianti protestanti di Marsiglia, era in collegamento con Svizzera. Olanda. Gran Bretagna, ecc.; in questo modo arrivavano aiuti ai forzati protestanti e loro notizie al mondo esterno.
4 E formato da 3 fogli (37, 2 x 30, 8 cm, altezza) i quali piegati a metà del lato più lungo e assemblati formano un fascicolo di 12 pagine (18,6 x 30, 8 cm), di cui 1 1 scritte. La carta è ru- vida e ingiallita.
5 Non viene citato nelle «Listes des galériens»: 23 dal 1694 al 1761 e 7 dal 1858 al 1935 (Tournier I, pp. 224-225).
6 In questo elenco non viene riportato Pierre Bonnet (1669-1707) di Pierre e Suzanne Sivin- gol, di Angrogna. N° 1 1688. Imbarcato sulla Galante nel 1698. Morto all'ospedale delle galere il 15 aprile 1707. La non citazione potrebbe essere dovuta a diverse cause, la più probabile sarebbe che l'elenco venne stampato qualche tempo dopo il 15 marzo 1707, quando Bonnet era già morto.
NOTE E DOCUMENTI
1(11
Il titolo esatto dell'elenco è il seguente: «Liste des Protestans qui souffrent actuel- lemnt les peines des Galères de France depuis 21. 20. 18. 15. &c. années pour la vérité de la Religion Reformée, le 15 Mars 1707» [363 forzati].
Il documento7 è suddiviso in elenchi parziali:
a) Forzati imprigionati nella cittadella di Saint Nicolas di Marsiglia (1 individuo) e nel castello di If, a 3 Km da Marsiglia (10 individui).
b) Forzati a bordo di galere (168 individui).
c) "Guide", protestanti che avevano aiutato dei correligionari a espatriare (12 individui).
d) Condannati per la rivolta delle Cevenne (dal 1702 in poi), scoppiata per l'impossibilità di frequentare le "assemblee" (105 individui).
e) Protestanti catturati su un'imbarcazione di S.A.R., il duca di Savoia (1 1 individui).
0 Altri forzati condannati alle galere per motivi diversi (32 individui), g) Forzati dislocati nella base navale di Dunkerque (24 individui).
2. / Lusemesi sulle Galere di Francia il 15 marzo 1707s.
In quanto segue vengono elencate per ogni forzato le notizie riportate nel docu- mento originale: numero di matricola, nome e cognome, località di origine, motivo della condanna, nome della prigione o della galera su cui si trovavano il 15 marzo 1707, ecc.; di ciascuno vengono poi indicate nelle note a piè di pagina ulteriori informazioni, come data di nascita e di morte (spesso approssimative!), nome del padre, della madre e, se spo- sato, della moglie, data della morte o della liberazione.
N° 1 16909. Jean Museton de St. Jean vallée de Luzerne, souffre en Galere pour s'estre joint en Suisse avec les Vaudois en 1689. d'où ils partirent pour rentrer dans les Vallées, & recouvrer leur ancienne liberté & Privileges de Religion, & autres droits, lesquels furent pris & arrestés pour la plùpart en Haut Dauphiné par les François, & condamnés aux Galères à Grenoble; à vie sur Eclatante.
N° 1164910. Abraham Touvenin de Lauzane en Suisse, pour le même sujet en 1689 [sur] Duchesse.
7 I motivi della condanna alla galera vengono indicati o nei titoli degli elenchi parziali o per ogni condannato, per es. «pour les Vaudois en 1689». Questi motivi sono analoghi a quelli ripor- tati in un documento conservato presso l'Università di Cambridge (B.S.H.P.F. XXXVIII, 144 e TOURNIER I, pp. 59-60).
8 Sono elencati 23 nell'elenco parziale b e 1 in quello f.
9 Jean Muston ( 1663-ca. 1734) di Georges e di Anne Ripert. di San Giovanni, chirurgo. G.R. Liberato 7 marzo 1714. Vedi : JALLA J. p. 191; Jalla F. p. 157; Bosio-Jalla, pp. 23-25.
10 Abraham Jou venin (o Touvenin) (1664- ?), di Losanna, di Jean-Pierre e di Andrée Le- grain. G.R. Liberato 17 aprile 1710, per ordine del re, a condizione di servire nella compagnia «tenente colonnella» del reggimento svizzero Castellan. (TOURNIER II p. 257).
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NOTE E DOCUMENTI
N° 11657". Antoine Mercier de Chambon en Pragelas pour les Vaudois en 1689 [sur] Patronne.
N° 1165812. Jean Marselin d'Arviez Valqueìras en Dauphiné, de même en 1689 [sur] Madame.
N° 1 16621?. Alexandre Brunei de la Motte en Dauphiné, de même en 1689, [sur] Perle. N° 1 1663 14. Jean Semeines de Bourdeaux en Dauphiné, de même en 1689 [sur] Ama- zone.
N° 1 166815. Marc Anthoine Reboult de Nismes, de même en 1689 [sur] Gloire. N° 1 167016. François Sabatier de Nismes, pour le même en 1689 [sur] Vielle Reale. N° 1 1675 17. Louis du Clos de Maineuff en Vivarez, de même en 1689 [sur] Souveraine. N° 1 168018. Jean Gendre de St. Germain Vallée de Luserne en Piémont, en 1689 [sur] Gloire.
N° 1 168619. Jean Berru de St. Jean Vallée de Luserne, en 1689 [sur] Eclatante. N°l 168420. David Douvier du Vilar de Bobi, en Piémont, en 1689 [sur] Favorite. N°1169321. Estienne Sermez de Lauzane, pour avoir assisté les Vaudois en 1689 [sur] Ambitieuse.
11 Antoine Mercier (1667-1728) di Antoine e di Marie Lacourt, di Pragelato. G.R. Liberato il 20 giugno 1713, si ritirò a San Gallo dove ottenne una pensione lo stesso anno. Morì a 61 anni (TOURNIER II pp. 244-245).
12 Jean Marcelin (1670- ?) fu Claude e di Marguerite Maurelle, di Arvieux (Queyras). G.R. Liberato il 20 giugno 1713, si ritirò a Zurigo (TOURNIER II p. 245).
13 Alessandro Brunei (1669- ?) fu Benjamin e di Jeanne Isoard, detto Vacher, di La Motte - Chalançon (Drôme). Forse condannato sotto il nome di Antoine Périer (?). G.R. Liberato il 4 lu- glio 1712 (TOURNIER II pp. 245-246). Secondo Jalla J. p. 182. fu liberato nel 1713 e si ritirò a Basilea.
14 Jean Sumeine (Semeines. Samene) (1666- ?) di Paul e di Jeanne Flandin, di Bourdeaux in Delfinato. G.R. Liberato il 20 giugno^l713, si ritirò a San Gallo; fece testamento nel 1733 (TOURNIER II pp. 246-247).
15 Marc-Antoine Reboul (1665- ?) di Pierre e di Magdelaine Sarrazine. di Nîmes. G.R. Libe- rato il 20 giugno 1713 (TOURNIER II p. 248).
16 François Sabatier (1667- ?) fu Jacques e di Claude Monnet, di Nîmes. GR. Sulle galere, fu uno dei protestanti più maltrattati. Liberato il 20 giugno 1713. Si ritirò in Olanda e ottenne una pensione dagli Stati Generali (TOURNIER II pp. 248-249).
17 Louis Duclos (1673- ?) di Isacco e di Laurence Reboulle. di Masncuf nel Vivarais. G.R. Liberato il 20 giugno 1713, si ritirò a Morges e poi a Berna (TOURNIER II. pp. 250-251).
18 Jean Genre (1668- ?) di Paul e di Cathérine Godin. di San Germano. G.R. Liberato il 20 giugno 1713. Non risulta si sia ritirato alle Valli. (JALLA J. pp. 185; Jalla F. p. 157; BOSIO- JALLA pp. 18-19).
19 Jean Berru (1670- ?) fu Jacques e fu Anne Richardon. di San Giovanni. G.R. Liberato il 20 giugno 1713, ritirato in Olanda (JALLA J. p. 180; Jalla F. p. 157; BOSIO-JALLA p. 9-10).
20 David Douvier (1666- ?) fu Pierre e di Marie Bertimos (?) di Villar Pellice. G.R. Liberato 20 giugno 1713, tornò alle Valli. (JALLA J. pp. 183-184; Jalla F. p. 157; BOSIO-JALLA pp. 17- 18).
21 Etienne Sermoz (Schmoz) (1656- ?) di Daniel e di Françoise Brasson. marito di Étien- nette Chon, di Losanna. G.R. Liberato il 17 aprile 1710 per ordine del re a condizione di prendere servizio nella compagnia «tenente colonnella» del reggimento svizzero Castellan (TOURNIER lì
p. 257).
NOTE E DOCUMENTI
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N°l 1806—. Jean Comers de Livron en Dauphiné, pour les Vaudois en 1689 [sur] Vielle Real.
N° 1 180 8 23. Estienne Tardieu de Vanterai en Dauphiné: pour avoir assisté les Vaudois,
en 1689 [sur] Guerriere. N° 1 181224. Jaques Blanc de Moulinne Valqueyras, de même en 1689, [sur] Princesse. N° 1 181 725. Jean Bautias dit Estran, de Lan en Provence, en 1689 [sur] Ambitieuse. N° 1 181926. Jean Gachin de St. Laurent de Nimes. de même en 1689 [sur] Ambitieuse. N° 1 1 820-7. Estienne Fer de Vaisse en Dauphiné. de même en 1689 [sur] Fleur de Lys. N° 1 1 823-8. Pierre Didier de Saillan en Dauphiné. de même en 1689 [sur] Valeur. N° 1182529. André Thiers de Chasteau Queyras en Dauphiné. de même en 1689 [sur]
Vielle Reale.
N° 1 18 2 630. François Augier de Montlimar en Dauphiné, de même en 1689 [sur] Perle. N° 1182931. Estienne Pecheu, dit Friquet de Pragelas en Dauphiné, de même en 1689 [sur] Ambitieuse.
N° 1181 132. Jean Bancillon de Pierre Frede, diocesi d'Usez, pour l'affaire des Vaudois 1689 [sur] Salme.
22 Jean Commere (1659- ?) di Jean, e di Madeleine Craux. di Livron in Delfinato. G.R. Morto all'ospedale delle galere il 21 ottobre 1708 (TOURNIER II p. 265).
23 Etienne Tardieu (1647- ?) di Hélie e di Magdeleine Bourgeau. di Venterai (Drôme). G.R. Liberato il 7 marzo 1714 (TOURNIER II p. 266).
24 Jacques Blanc (1657- ?) di Pierre, e di Catherine Roux, di Molines-en-Queyras. G.R. Li- berato il 7 marzo 1714 (TOURNIER II pp. 267-268).
25 Estran (Ystrain) Jean (1664- ?). detto Bautias. di Jean e di Louise Bottier, di Alios (Basse Alpi). G.R. Liberato il 7 marzo 1714 (TOURNIER II p. 270).
26 Jean Gachon (1666- ?) di Jean e di Isabelle Pagan, di St-Laurent (Nîmes). G.R. Liberato il 7 marzol714, si ritirò a Morges nel 1719. avendo ottenuto una pensione dalla città di Berna (TOURNIER II p. 269).
27 Etienne Fer (1659- ?) di Jean e di Claude Maury. di Vaisse, nei pressi di Nyons (Delfinato). G.R. Liberato il 7 marzo 1714 (TOURNIER II p. 270).
28 Pierre Didier (1659- ?) di Jean e di Judith Saur di Saillans (Drôme). G.R. Liberato il 7 marzo 1714 (TOURNIER II p. 27 1 ).
29 André Thiers (1661- ?) di Guglielmo e di Marguerite Puy, marito di Lidia Puech. di Châ- teau-Queyras. Prese parte al G.R. nella compagnia di Bobbio, comandata dal capitano Davide Mondon. Catturato dalle truppe francesi al colle Boucie nel 1689. Liberato il 7 marzo 1714 (TOURNIER II p. 272).
30 François Augier (1668- ?) di François Ogier e di Sara Julien, di Savassse nei pressi di Montelimar. G.R. Liberato 7 marzo 1714, si ritirò a Morges. dove dal 1719 diventò pensionato di Berna (TOURNIER II. p. 272).
31 Etienne Pastre (1666- ?) alias Paret. alias Pecheu. detto Friquet. di Jean e di Marguerite Biste di Traverses (Pragelato). Dopo il primo tentativo di rimpatrio, fu inviato un gruppo di 3 esploratori - fra cui Friquet - per studiare il percorso definitivo della futura spedizione (ARNAUD pp. 7-10). G.R. Liberato il 7 marzo 1714. nel 1719 si ritirò a Morges. pensionato di Berna (TOURNIER II p. 273).
32 Jean Bancilhon (1664- ?) di Jean e di Anne Lafont. marito di Jeanne Hugonne. di Pierre- Froide nelle Cevenne. G.R. Fu quasi sempre imbarcato sulla Palme, diventò l'uomo di fiducia del comandante la galera. Liberato il 7 marzo 1714 (TOURNIER II p. 267).
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NOTE E DOCUMENTI
3. Valdese catturato dai francesi dopo il Rimpatrio.
N° 136 6 8 33. David Volle de Pinache en Val Perouze. condamné à Pignerol en 1691, pour religion [sur] Invincible.
4. OsseirazioniM
Nel 1689 le truppe di Luigi XIV catturarono 107 lusernesi, di cui conosciamo i nomi. Condotti a Grenoble furono imprigionati in attesa di giudizio. Il processo fu tenuto nello stesso anno in due sessioni diverse per i due gruppi di prigionieri (gruppo Salber- trand35 e gruppo Turel). In base al verdetto una parte dei lusernesi fu condannata all'im- piccagione e un'altra - 68 persone - alla galera; altri erano già morti prima o dopo il pro- cesso per ferite, malattie, inedia, maltrattamenti, ecc.
Come risulta dall'elenco, il 15 marzo 1707 erano ancora in vita 24 forzati prote- stanti, di cui 22 furono liberati entro il 1714 e 2 morirono nel frattempo36.
Riferimenti bibliografici
ARNAUD H., Histoire de la Glorieuse Rentrée des Vaudois dans leurs Valées. 1710. BOSIO E. - JALLA F.. / valdesi catturati dalle truppe francesi nel corso del 1689, «BSSV» n. 172 (1993), pp. 3-32.
JALLA F., / lusernesi catturati nel corso del 1689 dalle truppe del re di Francia, pp. 145-171, in AA.VV. Dall'Europa alle Valli Valdesi, a cura di A. DE LANGE, Atti del convegno «Il Glo- rioso Rimpatrio 1689-1690», XXIX Convegno Storico Internazionale, Torre Pellice, 3-7 settembre 1989, Claudiana, Torino, 1990.
lALLA J., Les héros de la Rentrée, «BSHV» n. 31 (1913), pp. 178-197.
PONS T.. / Valdesi condannati alle galere nei secoli XVI e XVII. S.S.V., Opusc. 17 febbr. 1951. TOURNIER G., Les Galères de France et les Galériens protestants des XVII et XVIII siècles, 3
vv.. Les Presses du Languedoc. Montpellier, 1984. ZYSBERG A., Les galériens. Seuil, Parigi, 1987.
FERRUCCIO JALLA
33 David Volle (Vola) (1673-1755) di Pinasca, il 28 luglio 1691 fu condannato a vita alle galere dalle autorità francesi di Pinerolo «pour s'estre mis dans les troupes des barbets après avoir abjuré et avoir porté les armes contre le Roy». Liberato il 20 giugno 1713 per ordine del re. si ritirò ad Angrogna dove morì. Era soprannominato "le galérien". (TOURNIER II p. 332; PONS T. p. 10).
34 Per ulteriori informazioni vedi JALLA F. 1990.
35 Nel tragitto da Briançon-Grenoble i lusernesi del gruppo Salbertrand furono scortati da reparti del reggimento d'Aligny, quello che era stato battuto dai lusernesi a Salbertrand il 3 set- tembre!
36 In questi dati non si è tenuto conto di Pierre Bonnet (vedi nota 5).
RASSEGNE E DISCUSSIONI
Chierici e valdesi nella poesia trobadorica
SERGIO VATTERONI. "Falsa clercia ". La poesia anticlericale dei trovatori, "Scrittura e scrittori" - collana di Studi filologici diretta da Luciana Borghi Cedrini, n. 15. Alessandria. Ed. dell'Orso, 1999, pp. 186.
Già Antonio Gramsci (pubblicando un'antologia di poeti provenzali a cura di V. De Bartholomaeis) aveva attirato l'attenzione sul rilievo politico e quindi storico della poesia provenzale, sostenendo che il '"sirventese" poteva essere considerato un antenato del gior- nalismo moderno1. Ma ben pochi avevano raccolto questo suggerimento. Questo lavoro - che si limita ad indagare un argomento particolare, cioè l'anticlericalismo - rende tuttavia un servizio di grande importanza storica perché ci consente finalmente di comprendere con fonti dirette quanto fosse diffuso nel popolo della Linguadoca il sentimento di ostilità e di critica nei confronti del clero. È una critica ad un tempo morale e politica che fa spesso riferimento a episodi storici precisi e a fatti di costume che ci restituiscono preziosi "squarci di vita" del XIII secolo.
La tragica Crociata contro gli Albigesi - che distrusse una delle civiltà più progre- dite dell'epoca - iniziata nel 1209 e guidata dall'alto clero, con la benedizione di papa In- nocenzo III, fu vista dal popolo della Linguadoca come una brutale conquista da parte della nobiltà francese settentrionale. La Crociata comportò la sostituzione della classe di- rigente non solo feudale ma anche ecclesiastica, in particolare con la nascita dell'Ordine dei Predicatori (domenicani) cui venne affidata l'Inquisizione a partire dal 1233-34. Av- versione per i nobili francesi e sentimenti anticlericali furono quindi legati da un nesso in- scindibile.
L'A. esamina innanzitutto l'opera di Peire Cardenal. Ai chierici egli rimprovera la simonia, l'avarizia, la passione per le armi e i combattimenti2, la violazione del voto di castità. Tra i più colpiti vi sono i domenicani (detti "giacobini" perché a Parigi, nel 1218. ottennero come sede una cappella dedicata a S. Giacomo): «la loro povertà non è in spi- rito3, perché conservando il loro prendono ciò che è mio» (p. 18). Per procurarsi ricche vesti e buoni cibi essi non esitano ad impadronirsi delle elemosine destinate a sostenere i poveri.
1 Vedi A. GRAMSCI. Quaderni dal carcere, ed. a cura di V. Gerratana. Torino 1975. p. 1 188 (Quaderno 9. par. 122).
2 Si veda in particolare la poesia: "I chierici si fanno pastori e sono assassini sotto l'appa- renza di santità" (pp. 149-151).
3 Si ricordi che i domenicani avevano cercato di imitare in tutto i primi valdesi, che appunto si chiamavano "poveri nello spirito". Ma in questo i domenicani non avevano potuto imitarli.
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RASSEGNE E DISCUSSIONI
Nel sirventese Ab votz d'angel, lengu 'esperta, non blesza ("con voce d'angelo, lin- gua esperta, non blesa") Peire ironizza sulF atteggiamento mellifluo e insinuante dei do- menicani, veri maestri d'ipocrisia (e fa un accenno ai valdesi):
L'antica vita monastica fu iniziata
da gente che non voleva rumore né schiamazzi,
ma i giacobini, dopo mangiato, non hanno quiete,
anzi disputano su quale sia il vino migliore
e hanno istituito una Corte di giustizia,
ed è un valdese [vaudes] chi da ciò li distoglie,
e vogliono sapere i segreti degli altri
onde meglio possono farsi temere.
La satira è abilmente allusiva e feroce: dopo aver mangiato e bevuto lautamente, i domenicani schiamazzano per stabilire quale sia il vino migliore. Essendo abituati da tempo a fare il processo ai vini, il papa ha affidato a loro l'incarico di istituire il tribunale dell'inquisizione. Ed è impossibile criticarli senza incorrere in gravi pericoli per l'inco- lumità personale perché, al primo accenno, dicono che sei un valdese e ti trascinano in giudizio! «Chi si difende viene considerato eretico [populicano]» (p. 31). Il timore di rap- presaglie violente da parte del clero è costante: «nessuno si creda al sicuro quando vedrà uccidere il suo vicino o suo fratello» (p. 32).
Il concilio di Tolosa del 1229 aveva stabilito che un testamento era valido solo se redatto alla presenza del prete parrocchiale, al fine di incoraggiare le donazioni a favore della chiesa. Quindi, a chi moriva senza aver disposto un lascito alla chiesa, il clero rifiu- tava le esequie finché i parenti non avessero versato un'offerta adeguata. I francescani si erano specializzati nel ruolo di direttori spirituali ed esecutori testamentari di vedove o donne nubili dotate di ricchi patrimoni. Dice Cardenal: «chierici e predicatori fiutano dove sta il ricco meglio di quanto l'avvoltoio sappia fare con la carne putrida» (p. 22).
Chierici e monaci danno prova di un appetito sessuale senza limiti, di fronte al quale il singolo laico è impotente: egli li vedrà insinuarsi nella sua vita privata e violargli la moglie o l'amante senza poterlo impedire:
Se io fossi un marito sarei molto preoccupato
quando un uomo senza braghe si siede accanto a mia moglie.
perche le donne, come loro [i frati], hanno gonne della stessa ampiezza,
e fuoco con grasso è sempre divampato facilmente (p. 29).
E sono proprio questi eccessi sessuali che fanno nascere gli eretici (catari) e gli in- sabatati (essabataz, cioè i valdesi). Nella sua poesia: Un estribot farai que er mot mai- stratz ("Farò un estribot perfettamente composto di parole nuove"), dopo una perfetta confessione di fede cattolica4, l'A. così prosegue:
Ma così non credono i chierici che commettono falsità.
4 Vatteroni afferma che questa confessione di fede "è singolarmente vicina alla professione di fede recitata da Durando d'Osca... all'atto del riconoscimento dei Poveri cattolici" (p. 122). Mi sembra più probabile che si ispiri all'analoga Costituzione n. 1 del IV Concilio Lateranense (1215).
RASSEGNE E DISCUSSIONI
107
che sono larghi a carpire gli averi e scarsi di bontà,
e sono belli nell'aspetto ma lordi di peccato.
e vietano agli altri ciò da cui traggono profitto;
al posto del mattutino hanno inventato
l'ufficio di giacere con puttane finché il sole non si sia levato;
e prima cantano ballate e prose parodiate:
Caifa o Pilato conquisterebbero il regno dei cieli più di loro!
1 monaci solevano stare rinchiusi nei conventi
dove adoravano Dio di fronte alle immagini sacre;
invece, da quando sono nelle città dove hanno i loro centri di potere,
se tu hai una bella donna o sei un uomo sposato, essi saranno la [sua] coperta, che ti piaccia o no, e quando le stanno sopra e la vagina è sigillata dalle palle rotonde che pendono dal giavellotto, non appena le lettere sono chiuse e il buco è tappato - da qui hanno origine gli eretici e gli insabatati! - essi giurano, bestemmiano e giocano a tre dadi5: questo fanno i monaci neri, invece delle opere di carità.
È anche frequente l' immagine tipica dei preti che sono visti «uscire dal bordello e a testa alta vanno verso l'altare a servire» (p. 29).
Anche Guglielmo Figueira - l'altro grande poeta anticlericale - dice dei falsi predi- catori, nel sirventese No 'm laissarai per paor ("Non tralascerò per paura"):
Uno di loro giace con una donna
e l'indomani tutto insozzato
terrà il corpo di Nostro Signore.
Ed è una mortale eresia,
perché nessun prete dovrebbe
insozzarsi con la sua puttana
quando l'indomani deve tenere il corpo di Dio.
È un pensiero ripreso quasi letteralmente dal famoso De contemptu mundi di Lota- rio dei conti di Segni (poi papa Innocenzo III), ed è interessante notare che i valdesi alpini del XIV-XV secolo si ispireranno anch'essi a questa stessa opera del loro grande avversa- rio per il loro poemetto La Barca0.
Lo stesso Figueira è autore di una terribile invettiva contro «Roma ingannatrice» (D'un sirventes far en est son que m 'agenssa, "A fare un sirventese su questa melodia che mi piace") che preoccupava l'inquisizione del tempo perché molto diffusa fra il popolo come veicolo di propaganda filo-imperiale. Il testo merita di essere letto integralmente ma non possiamo farlo in questa sede.
5 Cioè hanno rapporti sessuali.
6 Poemetto contenuto nei Mss. di Cambridge, Dublino e Ginevra. Vedi Bibliografia valdese a cura di A. ARMAND Hugon E G. GONNE!, Torre Pellice 1953, n. 1245, p. 105.
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RASSEGNE E DISCUSSIONI
Infatti, nel processo celebrato a Tolosa nel 1274 contro il ricco mercante Bernardo Raimondo Baragnon, accusato di valdesìa, l'inquisitore vuole sapere se ha mai posseduto
0 visto «un libro chiamato biblia in Romano [in volgare] che inizia: Roma Trichai ritz; [egli] disse di no, ma che udì una volta una canzone ... che compose un giullare di nome Figuera. una delle quali comincia: "Du sir\>entes far..." , la quale lo stesso teste più volte recitò in pubblico e davanti a tutti» (p. 44). Si trattava dunque proprio della dura invettiva contro «Roma ingannatrice».
Il registro di Jacques Fournier ci conserva un'altra testimonianza dell'interesse de- gli inquisitori per la poesia anticlericale. Nel processo contro Bertrand de Taì'x, un cava- liere di Pamiers, iniziato nel 1320, il testimone Jean Davy, di antica famiglia cattolica, ri- corda che Bertrando, pur già inquisito, aveva continuato ad attaccare pubblicamente la gerarchia dicendo: «Voi avete assassinato tutta questa città facendovi venire i Frati Predi- catori, e tutta la vostra stirpe ha assassinato questa città, voi e i vostri chierici!». Poi il te- stimone ricorda che, intorno al 1300, mentre il vescovo di Pamiers Bernard Saisset stava celebrando solennemente la messa, il cavaliere Guglielmo Saisset, fratello del vescovo, il suddetto Bertrando de Taì'x e lo stesso testimone, dalla parte destra del coro, iniziarono a recitare ad alta voce una strofa contro i chierici:
I chierici si fanno pastori
e sono assassini
sotto l'apparenza di santità...
Era la famosa poesia di Peire Cardenal recitata pubblicamente in chiesa! Il suddetto Bertrando, quando la udì, ne volle subito avere il testo integrale, perché, «disse, i chierici non avevano soltanto i difetti contenuti in questa strofa, ma anche molti altri, in gran nu- mero». La reazione del vescovo interrotto fu particolarmente pacata - a quanto pare - perché si limitò a chiedere a Bertrando «chi odiasse di più, i chierici o i francesi, e lui gli aveva risposto che erano i chierici che odiava di più, perché i chierici avevano fatto venire
1 francesi nel paese» (p. 47-48).
Con un'attenta analisi l'A. dimostra che nessuna fonte permette di sospettare che questi trovatori abbiano mai manifestato delle simpatie per l'eresia, anche se si rendono conto che molti motivi di protesta erano giustificati. Il trovatore tolosano Guilhelm de Montanhagol dice: «...mi fa piacere che [gli inquisitori] perseguano l'errore e che con belle parole garbate e senza collera riconducano alla fede gli sviati eretici, e che chi si pente trovi buona mercé» (p. 68).
Molto importanti anche le osservazioni dell'A. sulla famosa testimonianza di Wal- ter Map sui valdesi al Concilio del 1 179. Secondo l'A. W. Map «è cosciente da una parte dell'arbitrarietà della procedura e delle motivazioni con cui ai valdesi è negata la possibi- lità di predicare e, dall'altra, della decadenza morale che affligge i colti e raffinati rappre- sentanti della Chiesa ufficiale di fronte ai rozzi e illetterati predicatori itineranti» (p. 99). Il rifiuto loro opposto si basava «sulla convinzione della profonda validità dell'ordina- mento ecclesiastico: negando loro il permesso di predicare è la Chiesa stessa che li so- spinge verso l'eresia».
Un libro condotto con metodo esemplare, di grande acutezza, che offre un contri- buto molto rilevante alla storia dell'eresia nel XIII secolo.
Carlo Papini
RASSEGNE E DISCUSSIONI
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Quinto centenario della nascita di Jan Laski (1499-1560). Scheda bio-bibliografica
Jan Laski1, per quanto riguarda la densità del suo pensiero teologico e l'impegno per la riforma della chiesa, è il più importante Riformatore polacco e uno dei più grandi Riformatori europei. La sua vita corrisponde per molti versi al classico percorso dei grandi protagonisti della Riforma del Cinquecento: umanista, ecclesiastico di alto rango, convertito all'Evangelo, fuggiasco per motivi di coscienza, stimato ed apprezzato nell'ecumene protestante europea, incompreso dai propri connazionali. Almeno per un verso, però, la sua biografia è diversa: Laski ha terminato la sua vita sul suolo polacco, consumatosi nel tentativo di mettere d'accordo tutte le denominazioni protestanti esistenti nella sua patria. È notevole il fatto che questa ultima tappa della sua vita si sia conclusa senza alcuna necessità di agire in clandestinità; la Polonia del Cinquecento, nonostante la proverbiale conflittualità dei nobili polacchi, non ha mai eretto alcun rogo e nessun cittadino si è trovato in prigione per motivi di coscienza. Tuttavia la figura di Laski è rimasta per molti anni nell'oblìo della memoria e la sua opera solo di recente è cominciata ad essere rivalutata e studiata. In Polonia, le celebrazioni del quinto centenario della nascita hanno ricordato l'importanza di Laski e del pensiero della Riforma per la cultura polacca. In Italia Jan Laski è pressoché sconosciuto. L'obiettivo di questa breve scheda bibliografica è dunque quello di indicare al lettore italiano alcune piste di riflessione e di ricerca poco esplorate. Il contenuto della scheda si divide in due parti. La prima parte presenta brevemente alcuni fatti più importanti della vita di Laski nonché le principali opere dedicate alla sua biografia; la seconda parte è un tentativo di sistematizzare le opere di Laski e i contributi monografici che prendono spunto dal suo pensiero.
1. Note sulla biografìa di Jan Laski
Jan Laski nacque nel 1499 a Lask, capoluogo di una piccola contea nei pressi della città di Lodz2. Il castello di Lask era la sede originaria della famiglia Laski, una delle famiglie più ricche ed influenti nella Polonia del Cinque- e del Seicento. Laski inizia la sua educazione superiore con un viaggio in Italia (1514-1519) a Roma, Bologna e Pa- dova. Il rientro in patria coincide con l'avvio alla carriera ecclesiastica, i cui eccellenti esiti sembravano assicurati sia dalle capacità del giovane chierico, che dalla protezione dello zio Jan Laski (1456-1531), arcivescovo di Gniezno, primate di tutta la Polonia e cardinale della chiesa di Roma. Negli anni 1524-1526 il giovane Laski compie un altro viaggio all'estero, durante il quale entra in stretti rapporti con Erasmo, diventando così uno dei più convinti sostenitori delle dottrine erasmiane, anche di quelle che auspicavano un rinnovamento della chiesa cattolica.
1 La grafia "Jan Laski" è la più vicina alla versione originale polacca. Il cognome "Laski" viene anche reso con la versione "a Lasko"; il nome Jan corrisponde all'italiano "Giovanni".
2 Le informazioni biografiche sono state tratte da: M. SMID. "Jan Laski", Theologische Rea- lenzyklopàdie (TRE), v. 20, Berlin-New York, 1990, pp. 448-449.
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RASSEGNE E DISCUSSIONI
La svolta decisiva nella vita del promettente prete e diplomatico avviene tra il 1538 e 1539. Tra le poche cose che si sanno di questo periodo, l'unica certezza è la sua nomina alla sede arcivescovile di Varsavia. Nel 1539 Laski abbandona, però, definitivamente la Polonia per superare il profondo travaglio spirituale che lo tormenta e che in pochi mesi lo porterà all'adesione alla Riforma. Dopo un lungo itinerario, la prima tappa della nuova vita di Laski è la città di Emden nella Frisia Orientale, dove trascorre quasi otto anni (1540-1548). La sua fama si diffonde molto velocemente e così nel 1548 Laski riceve dall'arcivescovo di Londra Thomas Cranmer la proposta di fornirgli aiuto. Laski accetta l'invito di Cranmer e diventa così uno dei principali architetti della Riforma anglicana; questa attività sarà interrotta nel 1553 con la morte di Edoardo VI e con l'arrivo della sua sorellastra Maria che tenterà di restaurare il potere della chiesa cattolica.
Le vie dell'esilio portano Laski a Francoforte e, successivamente, di nuovo ad Em- den. L'itinerario termina nel 1556 con il rientro in patria. La situazione in Polonia sembra molto favorevole alla Riforma. La dieta di Piotrkòw del 1555 aveva reso legale la fede evangelica e richiesto la convocazione di un consiglio nazionale per decidere in materia religiosa. L'arrivo di Laski venne salutato con un forte carico di speranza nell'unifica- zione del protestantesimo polacco composto da luterani, riformati, dalle comunità dei Fra- telli Moravi e da una forte corrente antitrinitaria legata agli italiani Francesco Lismanini e Lelio Socino. Dal punto di vista dei sostenitori di Laski, le speranze si realizzarono solo a metà; si avviò una serie di colloqui e incontri, ma Laski, nel frattempo, consumato dall'e- norme mole di lavoro e provato dal lungo esilio, muore a Pinczòw il 7 gennaio 1560. Il suo corpo viene seppellito all'interno del locale tempio evangelico. L'ultimo atto, piutto- sto drammatico, della storia di Laski fu la distruzione della sua tomba, avvenuta nel 18843.
Il pensiero e la persona di Laski sono rimasti completamente trascurati per più di trecento anni. Il merito di riscoprire il Riformatore polacco deve essere attribuito ad Abraham Kuyper. Nel 1862, a Leida, Kuyper discute una tesi di dottorato in teologia inti- tolata Disquisitici historica-theologica exibens Johannis Calvini et Johannis a Lasko de Ecclesia sentiarum inter se compositionem. Nel 1862 Kuyper pubblica ad Amsterdam la più completa, fino ad ora, edizione delle opere di Laski4.
La prima biografia scientifica di Laski fu pubblicata nel 1881, grazie all'opera di Hermann Dalton5. Lo stesso Dalton nel 1898 diede alle stampe a Berlino, una raccolta di atti sinodali e di alcuni scritti di Laski legati al tentativo di creare in Polonia un consenso tra le chiese protestanti6. Le ricerche di Kuyper e di Dalton hanno gettato le vere e proprie basi per lo studio della vita e del pensiero di Laski. Kuyper detiene il primato quasi asso- luto in quanto il primo editore delle opere del riformatore polacco. Dalton, tuttavia, ha sa- puto collocare l'azione riformatrice di Laski nel panorama confessionale della Polonia cinquecentesca nonché ha studiato con notevole rigore metodologico gli archivi eccle-
3 Cfr. M. SMID, TRE, p. 449.
4 A. KUYPER (ed.), Johannis a Lasko opera tam edita quant inedita duobus voluminibus contprehensa, Amsterdam, 1866.
5 H. DALTON, Johannes a Lasko. Beitrag zur Reforntationsgeschichte Polens, Gotha, 1881.
6 H. DALTON (ed.), Lasciano nebst den Ualtesten Synodalprotokollen Polens 1555-1561, Berlin, 1898. DALTON ha inoltre pubblicato una preziosa raccolta di documenti riguardanti il consenso di Sandomierz (1570) nonché gii ulteriori sviluppi della Riforma in Polonia Miscella- neen zur Geschichte der evangelischen Kirche in Rufiland nebst Lasciano. Neue Folge, Berlin, 1905.
RASSEGNE E DISCI SSIONI
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siastici in Germania7. Le opere di Dalton hanno quindi decisamente più valore per uno studio di tipo storico, mentre Kuyper diventa sempre un punto di riferimento obbligatorio per qualsiasi tipo di ricerca teologica8.
Per quanto riguarda una biografia vera e propria di Laski, lo studio di Oskar Bartel. pubblicato a Varsavia nel 1955 non è stato finora superato9. L'indiscusso pregio di questo lavoro è la quantità del materiale elaborato. Bartel ha notevolmente ampliato e perfezio- nato l'approccio di Dalton nonché ha superato la tendenza di Dalton a idealizzare un po' troppo la figura di Laski. Il ritratto del riformatore polacco dipinto da Bartel deve essere quindi considerato piuttosto fedele alla realtà dei fatti storici in quanto l'analisi delle fonti è molto rigorosa e l'opera è praticamente priva di ipotesi arrischiate o infondate nei do- cumenti10. Nonostante molti pregi, il libro di Bartel presenta alcuni inconvenienti. Non si tratta soltanto del fatto che esso si arresti al rientro del Riformatore in patria. Nonostante questo particolare lo studio di Bartel rimane un'opera compiuta e affidabile. Uno dei suoi principali limiti è stato invece per molto tempo il problema linguistico. Non c'è bisogno di spiegare che la lingua polacca è una lingua pressoché secondaria nell'ambito accade- mico. L'altro limite è una chiara impostazione marxista-leninista dell'opera. La Riforma protestante è quindi interpretata in chiave di lotta di classe e le questioni economiche sembrano decisamente prevalere su quelle teologiche. La prima difficoltà è stata superata nel 1981 da Arnold Starke, il quale ha tradotto il libro di Bartel in tedesco, corredandolo di un'ampia ed aggiornata bibliografia11; il secondo aspetto comporta invece un minimo di attenzione critica durante la lettura.
Vorremmo dedicare le ultime righe di questa parte della nostra scheda bibliografica alle opere in lingua italiana. La storiografia italiana non ha riservato molta attenzione a Laski. Tuttavia Valdo Vinay nella sua storia della Riforma protestante lo ha menzionato
7 Bisogna sottolineare che l'opera di Dalton non è soltanto dovuta alla sua passione per la storia e il diritto ecclesiastico. Dalton svolge le sue ricerche incaricato e sostenuto dalla Chiesa Evangelica Unita tedesca mentre lo stato polacco non esiste e l'impero prussiano appena nato (1870) cerca di recuperare e di rivalutare ogni traccia del pensiero protestante preesistente sui territori annessi In una prospettiva più ampia si poterebbe affermare che sui territori polacchi si sono incontrati due imperi e due modi di vivere il cristianesimo: quello occidentale, germanico, protestante e quello orientale, russo, ortodosso.
8 Per la correttezza metodologica bisogna menzionare il libro di G. PASCAL, Jean de Lasko, baron de Pologne, éveque catholique, reformateur protestant. Paris. 1894. Lo scritto di Pascal, di carattere divulgativo, dà abbastanza spazio alle fonti e ai documenti, tuttavia lo spazio riempito dalla fantasia creativa dell'Autore è troppo ampio. Chiamare Laski «éveque» può risultare fuor- viarne.
9 O. BARTEL, Jan Laski 1, 1499-1556, Varsavia. 1955.
10 Uno dei problemi irrisolti è l'esatta data di nascita di Laski. BARTEL (pp. 50-75) ha ana- lizzato tutti i documenti disponibili dell'archivio della famiglia Laski nonché i registri della chiesa parrocchiale di Laski, non trovandovi alcuna traccia della nascita di Jan junior. All'anno 1499 si può risalire grazie alla documentazione (orazioni funebri e discorsi di commiato) rimasta dopo il funerale di Laski celebrato a Pinczòw l'8 gennaio 1560.
11 O. Barthl. Jan iMski, aus dcm Polinischen ubersetzt von Arnold Starke. Berlin, 1981. Per quanto riguarda il soggiorno e l'azione riformatrice di Laski in Inghilterra, abbiamo a dispo- sizione un ottimo studio di Dirk W. RODGERS. pubblicato nel 1994. Esso è, al tempo stesso, la più aggiornata opera biografica su Jan Laski. D.W. RODGERS. John a Lasko in England (American University Studies Series Vif), New York, 1994.
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RASSEGNE E DISCUSSIONI
più volte1 :.-La considerazione di Vinay non ha, però, carattere organico; si tratta piuttosto di una serie di accenni inseriti nella presentazione della storia della Riforma in Europa. Le notizie da lui utilizzate si basano principalmente sulle opere di Dalton. Nel libro di Vinay viene messa in evidenza una notizia particolarmente interessante che riguarda il legame (indiretto, in questo caso) di Laski con la Riforma italiana: una liturgia {Forma precum pubblicarum) scritta da Laski per la comunità evangelica tedesca di Londra, sarebbe stata tradotta in italiano da P.P. Vergerio e destinata alle comunità riformate della Svizzera ita- liana13. In altre parole, una delle prime liturgie riformate in italiano sarebbe opera di un polacco!
Alcune informazioni su Laski e sulla Riforma in Polonia si possono trovare nel saggio di Stanislaw Litak "L'epoca della svolta 1525-1648", contenuto nel volume Storia del cristianesimo in Polonia, pubblicato dal Centro Studi Europa Orientale di Bologna14. A prescindere dalle notizie specifiche su Laski, effettivamente poche, questo saggio è l'u- nico testo introduttivo sulla storia della Riforma in Polonia pubblicato in italiano.
Infine bisogna menzionare l'articolo di Jerzy Siciarz "Jan Laski. Riformatore po- lacco ed europeo", tradotto dall'inglese da Silvia Grosso e pubblicato su «Studi di teolo- gia» nel 199915. Lo scritto di Siciarz è attualmente il più ampio saggio biografico su Jan Laski in lingua italiana. L'Autore si basa principalmente sulla letteratura anglosassone e utilizza anche diverse tesi di dottorato inedite16. E molto interessante e originale la sud- divisione della biografia di Laski in sette periodi proposta da Siciarz:
1. Gioventù ed educazione
2. Missione diplomatica in Ungheria, 1526-1534
3. Polonia (fino all'esilio), 1535-1539
4. Emden, 1542-1548
5. Londra, 1548-1549; 1550-1553
6. Francoforte ed Emden, 1553-1556
12 V. VINAY, La Riforma protestante, Paideia, Brescia, 1982, pp. 291-292, 297-298, 303- 304, 330, 405, 412, 421. Nonostante l'attenzione data a Laski, Vinay ha dedicato alla Riforma in Polonia solo due pagine del suo libro (pp. 329-330).
13 Cfr. V. VINAY, La Riforma protestante, pp. 291-292.
14 J. KLOCZOWSKI (a cura), Storia del cristianesimo in Polonia, Bologna, 1980, pp. 175- 218, in particolare pp. 179-191. Questa raccolta di saggi è nata negli anni Settanta all'interno della cattedra di storia dell'Università Cattolica di Lublino, coinvolgendo, però, anche gli stu- diosi cattolici polacchi di altre facoltà universitarie, in patria e all'estero. Per motivi di censura politica il manoscritto ha dovuto aspettare parecchi anni prima di essere pubblicato in Polonia nella sua versione (quasi) integrale (Cracovia, 1984). Un libro piuttosto datato ma sempre valido per lo studio della storia della Riforma in Polonia è: O. KONIECKI. Reformation in Polen, Posen, 1901. J. SICIARZ (cfr. infra alla nota sucessiva), p. 131, cita inoltre una tesi di dottorato inedita: N. M. CONRADT, John Calvin, Theodore Beza and the Reformation in Poland, The Univresity of Wisconsin, 1974.
15 J. SICIARZ, "Jan Laski. Riformatore polacco ed europeo", «Sdt» XII (2/1999), pp. 129- 183. L'intero fascicolo è dedicato alla vita e all'opera del riformatore polacco. Nelle pagine 195- 199 vengono inoltre pubblicati alcuni brevi frammenti del Catechismo della Chiesa tedesca di Londra (1551). Il lavoro svolto dalla Redazione di «Sdt» è, a tutti gli effetti, pionieristico. Tutta- via rispetto ad altri numeri monografici di «Sdt» (ad esempio: 12- H. Dooyeweerd, 13 - C. Van Til) manca una scheda bibliografica e il testo del Catechismo di Laski sembra piuttosto breve ri- spetto alle dimensioni del fascicolo.
16 La più importante tra queste ricerche sembra la tesi di H.O.J. Brown, John Laski: a theo- logical biography. A Polish contribution to the Protestant reformation. Harvard University, Cambridge, Massachusetts, 1967; cfr. J. SICIARZ, "Jan Laski...'', pp. 130, 131-132.
RASSEGNE E DISCUSSIONI
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7. Polonia, 1556-156017.
Un altro indiscutibile pregio del testo di Siciarz è la continua ricerca dei nessi tra formazione intellettuale, vita personale e opera di Laski. In questo senso l'articolo di Si- ciarz può essere considerato una vera e propria "biografia intellettuale" e/o "teologica" del Riformatore. Tuttavia, un maggiore numero di citazioni delle opere di Laski e, soprat- tutto, dei suoi carteggi epistolari, avrebbe reso questo prezioso testo ancora più solido.
2. Alcune ossen>azioni sulle opere di Laski
Le tracce del pensiero di Laski prima della sua adesione alla Riforma sono presso- ché inesistenti; si può abbastanza facilmente ricostruire la sua carriera diplomatica e la vita personale; il compito di ricostruire il suo pensiero in quel periodo risulta invece estremamente difficile. In ogni caso il testo fondamentale per studiare questa parte della biografia di Laski resta sempre lo studio di O. Bartel menzionato in precedenza18.
La situazione cambia radicalmente per quanto riguarda la vita di Laski dopo il 1542. L'inizio dell'azione riformatrice nella Frisia Orientale costringe l'ex ecclesiastico cattolico a riordinare e rendere pubblico il suo pensiero teologico. Bisogna subito aggiun- gere che durante il suo soggiorno in Svizzera nel 1525, consolidando la sua nota amicizia con Erasmo19, Laski ebbe anche la possibilità di conoscere i più importanti riformatori europei: Farei, Ecolampadio e Zwingli20.
Nel pensiero teologico di Laski uno dei posti più importanti spetta alla riflessione sulla chiesa, sui ministeri, sui sacramenti, in particolare sulla Cena del Signore21. La sua teologia è più pragmatica che teorica e subisce una notevole evoluzione. All'inizio dell'a- zione riformatrice in Frisia il pensiero di Laski sembra del tutto originale e piuttosto po- lemico. Il Riformatore si schiera non soltanto contro la dottrina cattolica, ritenendola an- tibiblica, ma prende anche posizioni molto critiche nei confronti degli anabattisti Menno Simons e David Joris. Per quanto riguarda la teologia della Cena del Signore, Laski rifiuta le posizioni di Lutero e di Zwingli, cercando di creare una "terza via", soltanto nella fase finale della sua vita Laski raggiunge una quasi totale sintonia con il pensiero di Calvino22.
L'ecclesiologia e la sacramentologia di Laski trovano la loro espressione sistematica nell'opera Compendium doctrinae de vera unicaque Dei et Christi ecclesia, pubblicata a Londra nel 155123. Lo scritto può essere considerato una versione più ampia
17 Cfr. J. SICIARZ, "Jan Laski...", p. 132. '«Cfr. le note da 8 a 10.
19 Cfr. A. STARKE, "Johannes a Lasko und Erasmus von Rotterdam", «Lutherisches Jahr- buch» 32 (1965), pp. 48-66; M. SMID, TRE, p. 450.
20 Cfr. J. SICIARZ. "Jan Laski...", pp. 146-147.
21 Cfr. M. SMID, TRE, p. 450.
22 Cfr. M. SMID, TRE, p. 450. Per studiare il rapporto tra Laski e Calvino il riferimento fon- damentale è sempre la dissertazione di A. KlJYPER, Disquisitio historica-theologica exibens Johannis Calvini et Johannis a Lasko de Ecclesia sentiarum inter se compositionem, Leida, 1862.
23 A. KlJYPER (ed.), Johannis a Lasko opera..., v. II, pp. 225-332. Il Compendium è spesso chiamato Confessio Londinensis. L'opera fu tradotta in olandese e diventò la più antica confes- sione di fede riformata in Olanda. Per una descrizione più dettagliata dell'opera cfr. J. SICIARZ, "La chiesa e la Cena del Signore nella teologia di Jan Laski", «Sdt» XII (2/1999), pp. 184-194, in particolare pp. 185-188.
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RASSEGNE E DISCUSSIONI
e più organica dell' Epitome doctrinae ecclesiarum Phrisiae orientali del 15 4 424. Gli stessi contenuti espressi sotto forma di un sussidio didattico composto da 250 domande e risposte si trovano nel cosiddetto Catechismo della chiesa tedesca di Londra25. Esso fu redatto da Laski nel 1546 nel corso della sua sovrintendenza nella chiesa della Frisia Orientale. Johannes Utenhove tradusse il Catechismo in olandese e questa traduzione ebbe tre edizioni (1551 e 1553 a Londra; 1553 a Emden). La più completa delle opere di Laski è il trattato Forma ac ratio tota ecclesiastici ministerii, in peregrinorum, potissimum nero Germanorum Ecclesia: instituita a Londini in Anglia. pubblicato a Francoforte nel 1555; esso è preceduto da un'amplissima dedica a Sigismondo Augusto I. re della Federazione polacco-lituana26.
Bisogna constatare con rammarico che l'ecclesiologia di Laski non ha trovato tra gli studiosi del protestantesimo l'attenzione che essa indubbiamente meriterebbe. La maggior parte delle ricerche dedicate all'argomento è rimasta inedita e quindi conosciuta solo ad una cerchia di specialisti piuttosto ristretta. Vale sempre l'osservazione che lo svi- luppo degli studi sulla teologia laskiana è dovuto quasi esclusivamente all'opera di Kuy- per e alla sua edizione degli scritti di Laski. Nell'ambito della lingua tedesca una delle prime dissertazioni dedicate al Riformatore polacco è la tesi di K. Hein, Die Sakrament- slehre des Johannes a Lasco, discussa a Bonn nel 1904. La storia e l'ordinamento della chiesa riformata è stata studiata negli anni Quaranta da Jan Weerda; la sua tesi di dotto- rato e la dissertazione per l'abilitazione all'insegnamento sono considerate la più com- pleta e organica analisi dell'azione riformatrice di Laski ad Emden27. Nel 1957, invece Ulrich Falkenroth ha discusso a Gòttingen la tesi di dottorato intitolata Gestalt und Leben der Kirche bei Johannes a Lasko.
Nell'ambito della letteratura anglosassone meritano una particolare attenzione due studi. Il primo, inedito, è la tesi di dottorato di James Frantz Smith discussa alla Vander- bilt University di Nashville, nel 1964 e dedicata all'azione di Laski nelle chiese riformate all'estero28. Il secondo, pubblicato nel 1992 è un'eccellente storia della chiesa di Emden analizzata da Andrew Pettegree nel quadro degli sviluppi del protestantesimo in Olanda29. Quest'ultimo volume è anche, allo stato attuale delle ricerche, il più aggiornato compen- dio bibliografico per lo studio dell'opera riformatrice di Laski a Emden.
Concludendo questa breve rassegna bibliografica vorremmo esprimere alcune os- servazioni di natura generale. Prima di tutto si deve constatare che nella biografia di Laski
24 A. KUYPER (ed.), Johannis a Lasko opera.... v. I, pp. 481-557.
25 A. KUYPER (ed.). Johannis a Lasko opera.... v. II, pp. 340-475. Un estratto dal Catechi- smo in versione italiana su: «Sdt» XII (2/1999). pp. 195-199.
26Cfr. J. SlCIARZ, "Jan Laski...", pp. 169-170.
27 J. R. WEERDA, Der Emder Kirchenrat und seine Gemeinde. Ein Beitrag zur Geschichte der reformicrtcn Kirchenordnung in Deutschland, ihre Grundsàtze und ihre Gestaltung, Gòttin- gen-Munster, 1944-48. La prima parte dell'opera è la tesi di dottorato discussa all'Università di Gottinga e intitolata Die Grundlegung der Kirchenordnung dur eh a Lasko: la seconda parte (la dissertazione per l'abilitazione) è stata presentata all'Università di Munster sotto il titolo Die Dietiste und die Gemeinde nach Johannes a Lasko. Una sintesi della ricerca è contenuta nel vo- lume J.R. WEERDA, Nach Gottes Wort reformierte Kirche. Beitràge zu ihrer Geschichte und ihrem Recht, Munchcn, 1964. Per una bibliografia più completa della letteratura in lingua tedesca cfr. M. SMID, TRE, pp. 450-451.
28 J. F. SMITH, John a Lasko and the strangers churches, Nashville, Tenessee, 1964.
29 A. PETTEGREE, Emden and the Dutch revolt: exile and the developement of reformed Protestantism, Oxford, 1992.
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il capitolo meno studiato è, paradossalmente, il periodo dal 1556 al 1560, ovvero la sua azione riformatrice in Polonia30. Si avverte, quasi dolorosamente, il fatto del mancato completamento dell'opera di O. Bartel. La stessa osservazione vale per la teologia di La- ski. E stato studiato l'influsso della teologia di Laski su John Knox e sulla Confessione scozzese31, sono note le tracce del suo pensiero nel Catechismo di Heidelberg^2, manca invece uno studio approfondito sul suo contributo alle discussioni ecclesiologiche e giuri- diche nella Polonia del Cinquecento. La principale difficoltà è probabilmente legata al re- perimento delle fonti. La maggior parte di esse è sparsa, senza alcuna catalogazione, in vari archivi ecclesiali e civili in Polonia. Anche il fatto che molti documenti siano scritti in polacco non aiuta, né incoraggia, di certo, gli studiosi stranieri.
Un'altra questione è la diffusione del pensiero di Laski. Nel corso degli ultimi de- cenni gli studi laskiani si sono decisamente spostati dall'Europa verso le facoltà teologi- che statunitensi, ad eccezione di poche facoltà teologiche inglesi. Questo dato di fatto po- trebbe indicare che in Europa gli studiosi della Riforma protestante dimostrano attual- mente poco interesse verso l'ecclesiologia riformata.
L'ultima questione riguarda l'Italia. Con una nota di orgoglio bisogna ammettere che il lettore italiano ha a sua disposizione testi introduttivi e monografie riguardanti la storia della Riforma protestante in quasi tutti i paesi europei nonché eccellenti traduzioni dei più importanti testi della Riforma; fa eccezione la Polonia e la figura di Laski33. La ricerca di J. Siciarz riproposta in Italia dalla Redazione di «Studi di teologia» deve essere considerata solo come un primo piccolo passo sulla via del recupero del pensiero laskiano in Italia. Il 500° anniversario della nascita del grande Riformatore polacco ed europeo po- trebbe segnare in questo campo un'importante svolta nei suoi confronti, prospettata verso un futuro non molto remoto.
Pawel Gajewski
Nuove prospettive sui Valdesi di Calabria
I valdesi calabresi di Montalto, La Guardia. San Sisto e Vaccarizzo. giunti lì da Piemonte e Provenza tra Trecento e Quattrocento, grazie a personaggi come Giovan Luigi Pascale, che scese da Ginevra per portare loro il nuovo spirito della Riforma di Calvino e grazie soprattutto agli eventi sanguinari del giugno 1561, entrarono immediatamente nei libri degli storici, diventando i protagonisti di una delle pagine più note della storia del dissenso religioso nell'Italia meridionale.
30Cfr. J. SICIARZ, "Jan Laski...". pp. 175-183. 31 Cfr. J. SICIARZ, "Jan Laski...", pp. 170-171. 3- Cfr. M. SMID. TRE. pp. 450
33 Cfr. E. CAMPI (a cura di). Protestantesimo nei secoli. Fonti e documenti l. Cinquecento e Seicento. Torino, 1991. Nell'antologia curata da E. CAMPI, Laski viene menzionato a p. 196. Il testo del Consenso sandomiriese (1570) è. senza dubbio, un vero spartiacque nella storia della Riforma in Polonia. Tuttavia, esso non può né sostituire, né compensare la mancanza del pensiero di Laski nella storiografia italiana.
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Non a caso, perciò, Enzo Stancati, concludeva il suo Gli Ultramontani. Storia dei valdesi di Calabria, del 1984, con una bibliografia ragionata, che intendeva essere un contributo ad una storia bibliografica dei valdesi di Calabria. Il recente volume di Pierro- berto Scaramella (L'Inquisizione romana e i Valdesi di Calabria (1554-1703), Editoriale scientifica, Napoli 1999, pp. 268), sottolinea a sua volta l'importanza di un'attenzione critica alla bibliografia sull'argomento, iniziando addirittura con un capitolo intitolato Gli Ultramontani di Calabria: apologetica e critica storica, che rende conto della lunga se- quenza di pubblicazioni sull'argomento, che inizia già pochi mesi dopo il massacro, quando uscì un libello in tedesco, tradotto presto anche in italiano. Da Scipione Lentolo (che dedicò a questi fatti una sezione del suo libro), alla seconda parte dell'opera di John Foxe, del 1563, alla Histoire des Martyrs (1570) di Jean Crespin (che pubblica anche al- cune lettere di Pascale), il primo modello letterario forte che permette la circolazione delle notizie sui massacri è quello del martirologio protestante. Non manca, però, un'eloquente risonanza anche in ambito cattolico, testimoniata dalla descrizione della strage da parte dello storico napoletano Colanello Pacca, nelle sue aggiunte, del 1563, alla Istoria del regno di Napoli di Pandolfo Collenuccio. Secondo Scaramella, la prima interpretazione complessiva, veramente storica, la danno però Paolo Sarpi e Jacques- Auguste de Thou. Tramite tutte queste testimonianze il fatto riesce ad arrivare fino agli storici laici del Settecento, come Pietro Giannone, che sarà a sua volta fonte privilegiata per gli storici dell'Ottocento. Un rinnovato interesse è acceso nel 1846, quando Franco Palermo pubblica un documento inedito, le Lettere su' Riformati di Calabria. In seguito, nonostante gli studi del 1864 di Filippo De Boni L'Inquisizione ed i Calabro-valdesi, e del 1881 di Alexandre Lombard su Pascale, una nuova svolta sostanziale avverrà però soltanto con l'opera di Luigi Amabile, // Santo Officio della Inquisizione a Napoli. Narrazione con molti documenti inediti, pubblicata nel 1892, che offre ormai la ricostruzione precisa, basata su tutte le fonti note, più alcune inedite.
Con la citazione di questo volume della fine dell'Ottocento, ci si avvicina all'inte- resse specifico del lavoro di Scaramella, che rientra pienamente nella rinnovata attenzione per il preciso modo di operare dell'Inquisizione, alimentata in questi ultimi anni dall'aper- tura agli storici degli archivi dell'ex Sant'Uffizio, per quanto gravemente mutilati dalla storia, ed accesa dalla discussione sul ruolo effettivo dell'Inquisizione nella storia della Chiesa e nella storia dell'Italia. Questo nuovo interesse ha portato alla pubblicazione dello studio fondamentale di Adriano Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari (Torino 1996), che è citato nel volume di Scaramella, ed è in esso operante come un modello di riferimento più generale.
Alla fine dell'Ottocento mancava infatti ancora uno studio che riflettesse in modo preciso sulle istituzioni religiose, in primis sulla Congregazione dell'Inquisizione. Solo nel Novecento si avrà un primo tentativo di attenzione alla fase successiva al massacro, relativa alle missioni del gesuita Rodriguez, del 1562-66, grazie ai saggi di Mario Scaduto (1946 e 1966), di Francesco Monteleone (1930) e di Alfredo Marranzini (1983). Tutti questi percorsi lasciavano ancora in ombra, però, alcuni aspetti fondamentali, come le specifiche credenze della comunità, mentre diversi studi si dedicavano agli aspetti lingui- stico-etnografici. Scaramella lamenta insomma la mancanza, per quanto riguarda i cala- bresi, di qualcosa di simile alle ricerche di Audisio e Cameron sui valdesi del Luberon e delle Valli. Ugualmente in ombra è rimasta la vita e la fede dei "riconciliati", dopo la for- zata cattolicizzazione.
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Proprio ad alcune di queste lacune cerca di rispondere la presente opera. In primo luogo seguendo in modo specifico, e dall'interno, grazie alla grande mole di documenti inediti analizzati, le strategie religiose e politiche dell'Inquisizione, nel suo procedere di istituzione, in secondo luogo tentando di rispondere alla domanda se possa ancora esistere una specificità degli ultramontani dopo la strage e la forzata cattolicizzazione. Gli Ultra- montani, infatti, non sono mai stati studiati come una minoranza, in cui la religione era uno degli aspetti, certo fondamentale, ma strettamente legato ad altri quali la lingua occi- tana, le strutture familiari e sociali, i costumi e così via. L'azione repressiva di Roma, in- vece, per alcuni aspetti è simile a quella condotta contro altre minoranze etnico-religiose, come i greci e gli albanesi presenti nelle stesse aree meridionali. Fu però molto più dra- stica contro i valdesi e più moderata con gli altri. Altrettanto trascurato è lo specifico ope- rato dell'Inquisizione romana nella regione, che ora può essere agevolmente indagato, grazie all'apertura dell'archivio dell'ex Sant'Ufficio, dove è conservata una fitta rete di corrispondenze. (Non a caso il presente volume si conclude con un'ampia appendice do- cumentaria, che riproduce lettere ed altri documenti inquisitoriali). Evidente appare subito lo stretto legame con lo stato spagnolo; basti pensare che l'inquisitore generale, Valerio Malvicino, era incaricato sia dal papa che dal viceré. Non mancheranno, ovviamente, conflitti di competenze e lotte di supremazie, in questo contesto "misto". E proprio l'at- tenzione a questa serie di conflitti, piuttosto complessi, all'interno del "blocco repres- sivo", tutt' altro che unitario, è la terza caratteristica fondamentale di questo libro.
La periodizzazione dell'intervento repressivo, proposta da Scaramella, mette subito in evidenza una di queste novità di approccio, che conduce ad osservare i calabro-valdesi come una "emergenza di lungo periodo". Mentre, ad esempio, il libro di Stancati termi- nava sostanzialmente con gli anni immediatamente seguenti alla strage del 1561, con una breve appendice di mezza pagina su altri casi di "eresia" in Calabria, senza legami certi con i valdesi, il presente libro conclude dichiaratamente con il 1703. documentando dun- que i provvedimenti che coprono almeno un secolo e mezzo dopo il momento più vistoso della persecuzione armata.
Il primo periodo è quello della scoperta e della prima repressione, dal 1554 al 1561. Scaramella tenta di delineare, per quanto è possibile, un quadro più generale delle pre- senze "eretiche" in Calabria e Puglia. Per queste regioni, infatti, esistono studi appro- fonditi quasi soltanto sulla presenza valdese. In realtà erano presenti anche infiltrazioni protestanti di origine diversa. Ad esempio, proprio uno dei grandi accusatori dei valdesi di Calabria negli anni Cinquanta, Giovanni da Fiumefreddo, dieci anni prima chiedeva l'invio di libri all'ambiente riformato di Bologna. Non si tratta di un caso isolato. I più noti eterodossi calabresi sono Apollonio Merenda, che si ritirò a Ginevra e Valentino Gentile, antitrinitario, che sarà decapitato a Berna per motivi di fede. Negli anni 1551-54 avviene la prima campagna antiereticale nel Meridione, ma non sono sicuri i contatti con gli Ultramontani. Immediatamente seguenti (1554-56) sono i primi atti della Chiesa di Roma per uniformare le minoranze greche, fino a quando, nel 1573, viene costituita la Congregazione per la riforma dei Greci esistenti in Italia. Sempre nel 1554 c'è il primo provvedimento italiano contro i valdesi da parte della Inquisizione romana. È ancora dif- ficile, anche per Scaramella, tentare di ricostruire nei dettagli come avvenne il contatto tra valdesi di Calabria e predicatori riformati. Di sicuro tra il 1554 e il 1558 ci furono rinno- vati contatti tra Calabria, Valli e Ginevra. Nel 1557-58 alcuni calabresi vanno a Ginevra, nel 1556 predica Gilles des Gilles, vecchio barba, consigliando ancora prudenza, poi ar- riva il cuneese Pascale ed avviene la rottura con la tradizione, non senza contrasti. L'ere-
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sia diventa evidente, non si limita più a mantenersi nascosta e limitata, ma assume un ca- rattere espansivo e pubblico. L'azione dell'Inquisizione è affidata ai domenicani, l'ordine del cardinale Michele Ghislieri, che sarà poi papa Pio V, e di Giulio Pavesi, nunzio, vica- rio generale e commissario delegato per il regno di Napoli. Domenicano è anche Valerio Mal vicino, commissario dell'Inquisizione romana che giungerà in Calabria nel 1560. Si unisce così la nuova inquisizione romana al solco di quella medievale. C'era però ancora una terza autorità inquisitoriale, quella vescovile, pertanto inevitabili sono i contrasti, ma nel complesso si assiste ad un rafforzamento repressivo negli stati di Filippo IL Negli stessi anni la medesima politica antivaldese viene condotta nelle Alpi, ma con risultati che sappiamo diversi.
In Calabria tutto inizia nel 1558, con la denuncia del già citato Giovanni Alitto di Fiumefreddo. frate minimo (di S. Francesco da Paola), che dopo aver abiurato, divenne uomo di fiducia di Ghislieri e per suo conto autore di un'azione segreta. E quindi un "riconciliato" ad iniziare la denuncia e a mettere in moto la macchina repressiva. Di con- seguenza la politica del signore locale, Salvatore Spinelli, finora difensore degli abitanti delle sue terre, muta e si trasforma in azione diretta contro gli Ultramontani. Si tratta di una chiara risposta alla politica di disciplinamento impostata da Pio IV: la lotta all'eresia fa anche parte della politica antibaronale della corona spagnola. Eresia e ribellione ven- gono a coincidere. Così, per tema di perdere le terre. Spinelli denuncia le popolazioni a lui sottoposte. Nel maggio 1559 iniziano i primi arresti, di Pascale e dei suoi collaboratori (Pascale sarà bruciato a Roma il 16 settembre 1560). Non è rimasto nessun documento relativo a questi processi, istituiti dal vicario di Cosenza. Sappiamo però che si trattava di tribunali misti, laici ed ecclesiastici, con notevoli contrasti tra le due parti. Così nel no- vembre 1559 il Sant'Uffizio affida la questione al domenicano Valerio Malvicino, che era anche fedele servitore della corona, nominato commissario dell'Inquisizione romana, in- somma una scelta di compromesso tra papa e Spagna. Si susseguono le abiure di massa. Nel 1561 vengono pubblicate le prime ordinanze, con duri obblighi per i "riconciliati" (divieto di assemblee, divieto di usare la loro lingua, messa ogni giorno, abitello crocese- gnato, divieto di matrimoni tra loro e via così), che ricordano quelle del 1526 contro i moriscos di Grenada; si tratta, quindi, di provvedimenti contro un corpo sociale estraneo e ritenuto ostile, non solo per motivi religiosi, ma anche per lingua e costumi. Una situa- zione perciò molto diversa da quella delle repressioni contro i valdesi di Provenza del 1545, che erano un gruppo sociale integrato per lingua e costumi, ma diverso solo nella religione. Questo duro regime imposto agli Ultramontani continuò, con alterne vicende, fino al 1703. Nel marzo 1561 il Malvicino istituisce una Confraternita del Santissimo Sa- cramento e predica ogni giorno. Iniziano le fughe di intere famiglie nei boschi e iniziano le accuse di simulazione religiosa e di menzogna.
Il secondo periodo è quello dell'instaurazione del regime di emergenza (1561- 1592). Nel giugno 1561 avviene il massacro, ad opera delle milizie vicereali. Sulla sua necessità concordano sia i laici che gli ecclesiastici. Questa strage è la vicenda più nota della storia dei calabro-valdesi, pertanto Scaramella non aggiunge novità su questo punto e rinvia decisamente alle opere precedenti, in particolare alle pp. 71-90 del libro di Stan- cati. Alcuni dei fuggiaschi diventano briganti, ad esempio Re Marcone (Marco Berardi), organizza un vero esercito di fuoriusciti, sconfitto nel 1563 dal marchese di Cerchiara. Ma altri arrivano fino alle Valli, a Ginevra e in Sicilia. Il Réfuge di Ginevra è ben docu- mentato, ed ha la sua personalità più importante in Giovan Battista Aureli, nativo di San
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Sisto, iscritto all' Académie di Calvino, poi pastore della comunità di lingua italiana a Londra. In Sicilia, invece, va Giacomo Borrelli, bruciato a Palermo nel 1560. Secondo fonti ecclesiastiche c'era una vera e propria rete clandestina per i transfughi valdesi in Si- cilia. Dopo la repressione brutale il compito missionario è affidato ai gesuiti. Verifica quotidiana del nuovo regime di vita, che è simboleggiata dalla costruzione di spioncini che si aprono solo dall'esterno. I gesuiti puntano soprattutto sull'edificazione e sull'edu- cazione, insomma sulla penitenza privata, piuttosto che sull'uso dell'abitello ed i modi della penitenza pubblica. Si scontrano, pertanto, con l'Inquisizione (Ghislieri) che voleva invece metodi più punitivi. Le missioni gesuitiche non avevano però continuità, e la loro autorità era messa in continua discussione dai vescovi.
Esaurita l'eccezionalità, gli Ultramontani vennero affidati agli ordinari. La ricerca degli eretici, però, continua per tutto il decennio. La visita pastorale del vescovo di Muro nel 1569, alterna ancora toni più moderati a minacce. Negli anni Settanta, soprattutto, di- ventano frequenti le accuse di simulazione religiosa. Negli anni Ottanta si aggiungono le lamentele per le ordinanze, che non vengono più osservate. È indubbio, nel complesso, che forme di sopravvivenza continuano ad esistere in tutto questo periodo. Avviene per- fino un contrasto tra i sacerdoti ed il vescovo, di origine piemontese, il quale era contrario a riaprire i processi.
Il terzo momento si apre con la revoca delle vecchie ordinanze e la promulgazione delle nuove, il 29 agosto 1592. Cessano le restrizioni matrimoniali, non c'è più l'obbligo degli abitelli, ma è confermato quello delle funzioni giornaliere e delle lezioni obbligato- rie per i bambini. Confermato è anche l'obbligo di abbandonare l'occitano, che viene però largamente disatteso. In questo periodo i poteri locali (vescovi) accentuano i caratteri re- pressivi e le denunce, sempre con l'accusa di simulazione, mentre più conciliante è ora l'Inquisizione romana. L'arcivescovo di Cosenza, Giovan Battista Constanzo è in prima linea nell'azione repressiva. Relazioni del 1600 e del 1603 alla Congregazione del Sant'Uffizio mostrano la mantenuta compattezza della comunità. La chiave di lettura del vescovo è quella della simulazione. Ricominciano, pertanto, le carcerazioni. I crimini principali che vengono contestati sono mangiare carne il venerdì, non credere alle messe per i defunti, non rispettare la quaresima. L'arresto più clamoroso fu quello di Antonio Giaimo, a Napoli, che intendeva andare a Ginevra. Nel 1608 l'abate di San Sisto chiede due nuove ordinanze: la visita una volta al mese per vedere se nelle case ci sono le imma- gini sacre e il divieto di riunirsi senza la presenza del clero. Nello stesso anno le ordi- nanze vengono allargate anche a Vaccarizzo; non toccato dalle precedenti repressioni. Il Sant'Uffizio pensa, nel frattempo, ad una riorganizzazione complessiva delle strutture e degli uomini preposti al problema: viene edificato un monastero di domenicani riformati a La Guardia, mentre San Sisto e Vaccarizzo erano governate da un unico cappellano (abate di San Sisto), nominato a lungo dalla famiglia D'Aragona, finché l'arcivescovo di Co- senza riesce, dopo lunga disputa, ad imporre la diretta nomina papale. Nel complesso, quindi, avviene una diminuzione dell'influenza dell'arcivescovo nei casali ultramontani, perché i domenicani dipendevano direttamente dalla casa generalizia di Roma e il cappel- lano di San Sisto e Vaccarizzo direttamente dal papa. Inizia intanto la costruzione del convento domenicano di La Guardia, nel 1614, che, tra molte lamentele per la lentezza della costruzione, viene inaugurato nel 1616, ma ancora incompleto.
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Il quarto periodo è caratterizzato dal regime autonomo degli abati di San Sisto (1628-1656). Nel 1627 Matteo Rocco si insedia come cappellano nella chiesa parroc- chiale di San Sisto e Vaccarizzo, ricevendo anche tutte le prerogative del Sant'Uffizio. Aumentano le denunce per crimini di fede. Il Sant'Uffizio procede anche ad un'inchiesta, affidata al vescovo di Molfetta, su un'eventuale vessazione impropria da parte del cappel- lano, che però viene scagionato. Anche a La Guardia aumentano le denunce. Nel 1635 nuove accuse da parte del cappellano Andrea Maso. I domenicani, invece, cercano di di- fendere la popolazione da queste continue vessazioni. Nel maggio 1635 la popolazione di La Guardia prende le armi contro il marchese di Fuscaldo. Un'indagine segreta dell'In- quisizione mostra che le accuse contro la popolazione erano strumentali, puri tentativi, da parte del marchese, di estorcere favori non dovuti e beni. Non furono tuttavia attenuati i provvedimenti, perché il pericolo maggiore era sempre ritenuto quello della sopravvi- venza ereticale rispetto all'eventuale politica personalistica del clero locale. Tra il 1636 e il 1638 Matteo Rocco inasprisce sempre di più la propria azione: ricominciano gli arresti, la messa alla berlina e ai ceppi. Viene denunciato per troppo rigore dall'arcivescovo e dal duca di Montalto, ma addirittura, nell'ottobre del 1638, viene assassinato da un gruppo di ultramontani. Viene ritrovato l'autore materiale, ma alcuni accusano come mandante lo stesso governatore di Montalto. Da documenti di questo stesso periodo si può notare il fallimento della strategia matrimoniale dell'Inquisizione. La minoranza, infatti, riuscì a mantenere la sua compattezza, tramite continui matrimoni endogamici, continuati tramite dispense matrimoniali per consanguineità, che rafforzavano la comunità e lo status sociale medio alto delle famiglie ultramontane.
La tranquillità degli anni tra 1638 e 1643, è rotta dal nuovo abate di San Sisto, Paolo Canigliano, che ritorna alle accuse, stavolta in accordo con l'arcivescovo. Tra le nuove accuse quella di licenza sessuale, in linea con i nuovi manuali di un'Inquisizione che aveva allargato i propri interessi. L'apice dello scontro è nel 1654. La distanza tra Canigliano e l'arcivescovo di Cosenza, Gennaro Sanfelice conduce ad un'inchiesta contro l'abate, finché, nel 1656, i poteri inquisitoriali sono tolti all'abate di San Sisto e passano all'autorità vescovile, che pone fine ai modi coercitivi.
L'ultimo periodo studiato è quello del ripristino dell'autorità vescovile e del rientro nel regime ordinario (1656-1703). Paolo Canigliano muore nel 1672. L'arcivescovo pro- pone un parroco anche per Vaccarizzo. Dal 1646 a La Guardia viene assicurata la pre- senza stabile dei gesuiti, mentre a San Sisto e Vaccarizzo avverrà solo nel 1685. Ormai il disinteresse del Sant'Uffizio per la questione è evidente. L'arcivescovo di Cosenza man- tenne ancora, però, il corpo di sedici cursori armati in sua difesa, segno dei tempi dell'e- mergenza. Con il 1703, infine, termina la ricerca di Scaramella, perché di quell'anno è l'ultimo atto formale dell'Inquisizione romana sull'argomento. Nel contesto della contesa di competenza tra arcivescovo di Cosenza e Viceré di Napoli, nel 1695 l'arcivescovo scrive una Relatione dell'origine de Valdesi..., vera e propria operazione storiografica, nella quale cita anche Sarpi e de Thou, oltre agli atti originali dei processi, volta a mante- nere i privilegi rispetto al tribunale secolare tramite il rispolvero delle accuse di eresia. Ottiene però solo silenzio da Roma, che considerava ormai chiusa la questione. Pochi anni dopo Pietro Giannone dedicherà ampie note ai calabro-valdesi nella sua Istoria civile del Regno di Napoli. La storiografia laica utilizza gli stessi avvenimenti, ormai dimenti- cati dall'Inquisizione stessa, per la sua polemica anticuriale contro il tribunale delegato dell'Inquisizione romana.
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In conclusione, il libro di Scaramella mette a fuoco in un modo rinnovato la vi- cenda degli Ultramontani che, dal punto di vista dei documenti dell'Inquisizione romana, presenta due aspetti principali di interesse: il rapporto con le gerarchie laiche e il rapporto tra vescovi e delegati, che possono tentare di instaurare un potere personale. Più in gene- rale è interessante il tentativo compiuto in questo libro di valutare l'importanza del rap- porto tra eresia ed etnia, mentre ancora impossibile appare un'interpretazione precisa degli elementi teologici, perché troppo scarsa è la documentazione specifica. Più facile è infatti l'analisi della vita comunitaria e delle pratiche religiose, come l'adozione, o piutto- sto il rifiuto, delle norme alimentari. La similitudine con le etnie albanesi e greche può dare elementi di discussione. Resta indubbio che non subirono, tuttavia, una repressione paragonabile, probabilmente perché, pur percepite come corpo estraneo, non rientravano in modo diretto nella guerra principale della Chiesa romana dell'epoca, quella che aveva creato una recente, e perciò più pericolosa, frattura europea.
Lo studio di Scaramella appare quindi condizionato dalle fonti, come deve essere ogni lavoro storico che accetti di ascoltare le voci lontane che riesce a percepire. Ma, nel modo più corretto, questo aspetto è sottolineato dall'autore: «Il nostro intervento ha limiti molto precisi dovuti alla fonte da noi utilizzata, carteggi e altri documenti dell'Inquisi- zione romana. Lo sguardo sulla vita di queste comunità risulta, di conseguenza, forte- mente condizionato da un utilizzo di documentazione propriamente repressiva».
Da discutere, a mio avviso, resta soprattutto l'ipotesi di fondo del volume, che si può riassumere in questa frase: «Ma quello che, a nostro parere, emerge in maniera evi- dente, è il ruolo giocato anche in pieno XVII secolo dalle comunità valdesi di Calabria. Questi "ridotti", "riconciliati" o "cattolicizzati" che fossero, dovranno essere inseriti a pieno titolo nella storia globale del valdismo in Italia ed in Europa, verificando opportu- namente contatti, riflessi e riscontri della loro storia con quella dei correligionari piemon- tesi, alpini o provenzali».
Insomma il lavoro di Scaramella ci dice che la presenza valdese in Calabria deve essere considerata come molto più longeva di quello che ci si aspettava e, soprattutto, le sue conclusioni suonano esplicitamente come un invito a nuovi studi, che qui raccogliamo e rilanciamo. L'invito viene reso concreto dal caso di Domenico Spinelli, che nel 1784, arriva a Prali dalla Calabria, con un documento di una ignota autorità protestante di quella regione. Per ora questo personaggio misterioso, che chiude con la sua vicenda isolata il libro, rimane una specie di "ufo" storico, di oggetto non ben identificato, ma chissà che qualche nuovo documento, qualche nuovo archivio aperto, non riesca a proporre nuove connessioni e a regalarci qualche ulteriore sorpresa.
DAVIDE DALMAS
Valdesi in letteratura
Nel 1993 Elena Ravazzini diede su "La beidana" (n. 19, pp. 35-37) un breve reso- conto di opere a carattere letterario riferite alle vicende dell'esilio e rimpatrio o più gene- ricamente a momenti di storia valdese, apparse in concomitanza con le manifestazioni del
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terzo centenario della Glorieuse Rentrée. Il numero di sette costituiva un primato che con ogni evidenza è destinato a restare insuperato. A dimostrare però l'interesse che la vi- cenda valdese semhra suscitare sono apparse da quella data alcune altre opere di cui diamo qui resoconto.
Esilio e Rimpatrio
Il Ritorno nella valle del Signore, di Davide PINARDI, apparso nel 1989, è stato ri- stampato nel 1999 presso lo stesso editore Tranchida di Milano con un nuovo titolo: // Valdese e una nuova copertina. Vi si narra la vicenda di due amici, uno di famiglia nobile l'altro borghese, educati insieme in collegio. Il secondo scopre di essere figlio di un val- dese che ha abiurato e rientra in contatto con la sua origine; sposata la figlia del pastore fugge a Ginevra, tornato nella tragica primavera del 1686 cercherà di salvare i suoi men- tre la moglie partita alla sua ricerca morirà trucidata. Evasioni, scoperte, massacro, preti fanatici e vegliardi pieni di saggezza, di valdese pochino...
La vicenda dell'esilio ha fornito materia ad un altro romanziere. Jean CHATENET, Le passage de la Montagne, Paris, ed. du Seuil, 1998, pp. 526. Di che si tratta? Una ra- gazzina valdese di quindici anni, Miriam, uscita miracolosamente viva da un carcere pie- montese è incolonnata con i suoi verso Ginevra, attraversato il colle del Moncenisio nella tormenta e quando alla prima tappa va in cerca di un po' di cibo per sua madre che allatta, viene rapita dal sindaco di Savine un villaggio di alta Savoia. La sua vicenda che si snoda in queste pagine affollate di personaggi è quella di una eretica, ribattezzata Maria, la cui cattolicizzazione ambigua e la cui forte personalità scatena tensioni, lacerazioni e passioni nel piccolo villaggio savoiardo di Savine ai piedi dell'Iseran. Personaggi: il sindaco che l'ha rapita, il curato, le famiglie del paese; il ritmo è quello di un villaggio di montagna, i lavori estivi, l'alpeggio.
Maria non diventerà mai cattolica malgrado i suoi sforzi e la patina di pietà che l'e- ducazione della sua nuova famiglia stende sulla sua natura appassionata. E i Valdesi? Compaiono una prima volta nelle vesti di tre mercanti che si fermano in paese, sono tre rifugiati a Ginevra che non tollerano l'esilio e viaggiano fra Piemonte e Ginevra. Uno di loro la riconosce e le dà notizie dei suoi ma lei resta sulle sue.
La seconda volta è la marcia dei 900 di Arnaud che portano con sé sindaco e prete in ostaggio, ne chiedono la restituzione ma non la ottengono perché non riesce a scendere dall'alpeggio e sparisce misteriosamente. La si ritrova poi rifugiata presso un italiano dal passato misterioso che vive in paese con un grosso cane. Si stabilisce fra loro un inevita- bile legame che condurrà alla nascita di un figlio, e quando i Valdesi sono reintegrati da Vittorio Amedeo II nel ducato, i due decidono di trasferirsi alle Valli, ma sul colle che apre loro la via del futuro, l'uomo che ha odiato da sempre Maria la uccide con una fuci- lata e Morone, così si chiama l'italiano, resterà solo a portare il bambino alla famiglia di Miriam.
Si comprende che su questo canovaccio si moltiplichino vicende, colpi di scena, fa la sua comparsa anche il cardinale Ranuzzi, del cui bagaglio i Valdesi si sono imposses- sati sul Moncenisio, che qui cade in mano a Morone che si scopre essere un ex frate.
Abile costruzione di dati storici e di fantasia, di ritratti, di osservazioni acute, il tutto in uno stile rapido e scorrevole di gradevole lettura. La fede dei padri non si perde, i Valdesi sono quelli di Reynaudin, il cattolicesimo è quello dei vescovi devoti, dei cardi-
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nali politicanti e dei preti bonari e un po' ottusi, l'unico uomo libero, oltre naturalmente all'eretica, è lo spretato: molto francese.
La scoperta del Luberon
La pagina della storia valdese che ha suscitato negli ultimi anni maggiore interesse è la vicenda tragica ed emblematica dei Valdesi del Luberon in Provenza massacrati nel corso di una vera e propria crociata voluta dal Parlamento di Aix mosso a questo dal suo presidente Meynier d'Oppède.
La vicenda era stata rievocata dal punto di vista storiografico da Gabriel Audisio nel ripubblicare uno dei documenti fondamentali della vicenda il volume di J. AUBéRY, Histoire de l'exécution de Cabrières et Mérindol (ed. or. Paris 1645, ried. Mérindol, As- sociation d'Études Vaudoises et Historiques du Lubéron, 1982) col dossier del processo intentato al barone Meynier d'Oppède conclusosi con la sua riabilitazione.
Hubert Leconte giunto, come molti francesi del nord, in Provenza, aveva scoperto questa straordinaria pagina di storia e ne aveva fatto oggetto di una rievocazione letteraria in un romanzo: Les larmes du Luberon del 1992, già segnalato dalla Ravazzini nel suo ar- ticolo.
I Valdesi provenzali lo hanno però accompagnato in modo così costante da indurlo ad occuparsi ancora di loro, e da questa presenza valdese sono nati altri due romanzi:
Hubert LECONTE, Le glaive et l'évangile, l'épopée vaudoise, Saint-Saturnin-Lès- Apt, Millepertuis Création, 1995, pp. 270:
Hubert LECONTE, L'épopée vaudoise des Alpes au Luberon. La Croix des humi- liés, Saint-Saturnin-Lès-Apt, Millepertuis Création, 1998, pp. 329.
Sfondo e contesto storico del primo romanzo è ancora la crociata: ma più che alle vicende di alcuni personaggi valdesi l'attenzione è data ai grandi. Meynier, il Parlamento, Francesco I, la Corte parigina, e la narrazione si spinge innanzi negli anni fino ai primi scontri fra i protestanti - a cui si sono naturalmente ricollegati i Valdesi superstiti - e i cattolici.
Si ha però l'impressione di un testo meno compatto del precedente, più dispersivo, di minor coerenza: volendo allargare l'orizzonte l'autore ha ridotto la concentrazione del lettore e le figure appaiono molto meno caratterizzate.
La vicenda del terzo romanzo è invece assai più organica e unitaria. Non siamo più nel Luberon ma in Delfinato. in una delle Valli della Durance, valdesi fin dal Medioevo: Freyssinière, donde erano partiti una parte dei coloni che avevano colonizzato il Luberon. Gli anni sono quelli della crociata di Cattaneo a fine Quattrocento. La protagonista, gio- vane contadina irretita in una relazione con un uomo passionale e violento, viene ricon- dotta alla ragione dalla vecchia erborista del villaggio che naturalmente sarà accusata di stregoneria e condannata al rogo. Si salverà ritirandosi fra i Valdesi nell'ultimo villaggio della valle, specie di isola di purezza evangelica su cui piomberà poi la repressione; per i legami con il Pragelato la vicenda si intreccia anche con le famiglie parenti di quella valle.
Questa letteratura ricorda da vicino i drammi storici che nel primo Novecento, ed anche oltre la seconda guerra mondiale, le nostre filodrammatiche mettevano in scena in occasione del 17 febbraio. I personaggi sono quelli classici: la giovane valdese, l'inquisi- tore, il vecchio testimone della fedeltà passata, il potere minaccioso legato alla Chiesa.
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L'immagine, che resta molto forte al termine della lettura, è quella di una realtà ideale di purezza, di coerenza, di autenticità aggredita ma non piegata dalla violenza di un potere iniquo. Siamo nel mondo degli stereotipi religiosi e confessionali, ed è facile, per- sino banale, denunciare l'incoerenza di un approccio del genere e la sua inadeguatezza alla letteratura e a films costruiti sulla complessità della natura umana, poco disposti a credere a questa visione della vita così schematica e semplificatrice, tutta in bianco e nero.
Si potrà rispondere che trattandosi di narrazioni romanzesche sarebbe ridicolo ap- pellarsi ad una oggettività storica nella narrazione di fatti che sono frutto di fantasia. In realtà frutto di fantasia sono forse i personaggi, i fatti sono nella loro crudezza assai più sconvolgenti dell'immaginario.
Ma il cuore del problema non sta nella aderenza o meno alla storia, nella semplifi- cazione, nell'alone di idealità che circonda i protagonisti. Sta nel lettore che si accosta al mondo ideale della narrazione. A muoverlo è forse la curiosità di conoscere le vicende di questi luoghi rimastigli a lungo nascosti? È probabile.
Per decenni la vicenda dei Valdesi del Luberon è stata ignorata in modo totale, non solo nella pubblicistica francese, ma nel luogo stesso e dagli stessi protestanti; la lapide sulle rovine del castello Mérindol, che ricorda il massacro, vi è stata portata dalla Società di Studi Valdesi di Torre Pellice nel corso di un pellegrinaggio organizzato dal presidente Armand Hugon in tempi ormai lontani, quando l'attuale turismo ecclesiastico era di là da venire. E la riscoperta del Luberon valdese è stata opera della benemerita Société d'études vaudoises du Lubéron.
Il successo di questo genere letterario è probabilmente da ricercarsi in un'altra esi- genza che si assomma alla prima: il bisogno di idealità, di realtà simboliche che in qual- che modo si possano porre in dialettica con la realtà contingente della storia, realtà inevi- tabilmente mitiche. Ciò che differenzia un lettore moderno da quello di decenni or sono, lo smaliziato di oggi dall'ingenuo di ieri, è forse il fatto che per quest'ultimo la realtà aderiva al mito, mentre per il primo è molto più chiaro che si tratta di evocazioni simbo- lico-mitiche; ma il messaggio non muta sostanzialmente di valenza, per entrambi si tratta di miti fondati sulla realtà.
La storia valdese va scritta con rigore scientifico dagli storici, valdesi e non, ma il mito della valdesia non è né spiegato né arricchito né ridimensionato dalla storiografia, resta quello che è sempre stato, il fascino dell'idealità di cui l'uomo non può fare a meno.
Questo ci conduce a menzionare il Sieur Dieu di Franz Olivier GIESBERT, apparso nel 1998 (Paris, Grasset), volume di oltre 400 pagine. L'autore - giornalista di grido al "Figaro", di cui è stato direttore, e autore di saggi su François Mitterand e la sua presi- denza - vi narra con eccezionale bravura stilistica la vicenda di un medico di metà Cin- quecento, appunto «le sieur Jehan Dieu de la Vignerie», che si trova coinvolto nella vi- cenda valdese all'epoca del massacro delle comunità del Luberon nel 1545.
Al centro del racconto sta naturalmente il personaggio in questione, i Valdesi costi- tuiscono solo il quadro, il contorno della sua vicenda. Interessante tale volume, dicevamo, perché fornisce una chiave di lettura della cultura contemporanea di ispirazione francese, cioè laica, agnostica, ironica, che da Montaigne scende fino a Voltaire, un umanesimo laico-razionalista scettico nei riguardi del religioso, del trascendente e con forti riserve nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche.
Il ritratto di vescovi e di frati naturalmente corrisponde agli stereotipi di questo mondo: basta sederli a tavola perché si metta in moto l'immaginario tradizionale. Imman-
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cabile è naturalmente l'inquisizione in cui il nostro incappa a motivo delle sue simpatie per i Valdesi, e con l'inquisizione la prigionia nelle cantine di tetri palazzi e le torture e gli interrogatori. Tutto il déjà-vu di una letteratura fin de siècle.
Si potrebbero in altra sede fare non poche osservazioni riguardo a questo aspetto del nostro lavoro, a questo suo background ideologico-culturale e alle innovazioni che l'autore vi reca.
Ripercorrere le ascendenze letterarie del sieur Dieu attraverso i medici della lettera- tura fino al grande prototipo Serveto, che di tutti pare essere considerato l'antenato. An- che L'oeuvre au noir della Yourcenar ruota attorno ad uno spirito libero del mondo me- dico cinquecentesco.
Ora il clima è però sul religioso, ed il nostro Sieur Dieu traduce il suo distacco cri- tico dal dogmatismo chiesastico in una spiritualità universale, una pan-religione in cui si immerge, consegnando alle carte del suo diario segreto le divagazioni che lo condurranno alla condanna.
E i Valdesi in tutto questo? Il quadro événementiel, che permette a Sieur Dieu di es- sere se stesso, di realizzare la sua umanità, una varia, complessa, ricca umanità. Di spa- daccino, anzitutto, difensore dei diritti delle vittime, che lo conduce a infilzare senza tante difficoltà e problemi soldati e mercenari. Di medico, ovviamente, nel curare e sanare fe- rite, e di romantico cavaliere, perché naturalmente salva una famiglia di questi eretici e si innamora della Catherine Pellenc, con cui convive fino alla morte di entrambi: lei sul rogo e lui per le torture.
Apparizioni generiche, questi Valdesi: non hanno consistenza, fuggiaschi, rasse- gnati e stanchi, in attesa della fine. In un solo caso esiste un minimo di percezione della loro realtà, quando il Sieur Dieu tenta di salvare la figlia di Pellenc con un cesareo, qual- che frammento di riflessione, una preghiera, alcuni passi biblici citati a memoria, natu- ralmente però da una vecchia dalla faccia tonta e larga come una zucca. Per Sieur Dieu e il suo autore un riferimento scritturale non può che essere espressione di sciocchezza, di bigotteria, la verità sta altrove.
L'immagine di questi valdesi brava gente, contadini vittime della cupidigia e del fanatismo, può aiutare a riflettere nei tempi di intolleranza e razzismo in cui viviamo, ma è poco, e non ne dà un'immagine pertinente.
Alle Valli e fuori
Ancor più generico è il riferimento alla realtà valdese che si ha nel fortunato ro- manzo di Maurizio MAGG1AN1 // coraggio del pettirosso, Milano, Feltrinelli, 1995, pp. 316.
La vicenda, quanto mai complessa, si svolge ad Alessandria d'Egitto, dove un gio- vane di origine italiana, ricoverato in clinica per un'embolia, scrive la sua storia e intrec- ciata alla sua quella del paese di origine della propria famiglia, un borgo detto Carloma- gno. Il protagonista non ha nome finché si presenta come Pascal in un incontro casuale che ha a Roma con il poeta Ungaretti. Riceve da questi un messaggio che contiene il conto della esecuzione capitale di un Paschale, è Gian Luigi Paschale, il pastore valdese di Guardia Piemontese arso a Castel Sant'Angelo nel 1561.
Il nostro giovane italiano si porrà sulla traccia di quel lontano personaggio inven- tandone la storia. Di storia valdese in tutto questo non c'è che un generico spunto che lo
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scrittore riconosce nella chiusa ringraziando i fratelli delle comunità valdesi delle Valli del Pellice che pazientemente e dolcemente gli hanno parlato e lo hanno ascoltato; perse- guitati per quasi mille anni e a migliaia bruciati e torturati hanno voluto bene a un miscre- dente tanto da offrirgli il meglio: "la loro fraternità".
A chi conosce la storia valdese è evidente che al Pascal del paese Carlomagno resta molto del Paschale di Guardia Piemontese e la sua Bibbia, ma si tratta di un ricordo, di una filigrana nascosta in una vicenda ormai altra.
La collana di opere narrative iniziata dal Centro Culturale Valdese nel 1990 con il romanzo storico / giorni della Bestia, ripresa nel 1996, ha visto la pubblicazione di tre opere di narrativa con tematiche molto affini e tutte concentrate sull'area delle Valli val- desi.
Il primo lavoro apparso nel 1996 (e ristampato lo scorso anno), Le galline non hanno confini, di Paola GEYMONAT, narra le vicende di una famiglia valdese che a fine Ottocento si trasferisce nella pianura pinerolese, nel comune di Bricherasio. Caso esem- plare per il tempo, i luoghi, le modalità, ma non unico: la nostra ascendenza per parte ma- terna aveva vissuto le stesse esperienze nello stesso comune. Si tratta di un testo di carat- tere discorsivo, evocativo, che si può leggere anche in chiave documentaria, quasi etno- grafica, molto apprezzato dal pubblico proprio per la sua aderenza alla realtà contadina locale, un libro insomma in cui tutti potevano ritrovarsi in modo diretto.
Il secondo volume La balmo d'Armand (1998), di Maria Luisa GARIGLIO-GENRE, si muove nello stesso ambiente pur avendo un taglio diverso. Non siamo più nella pianura pinerolese ma in una borgata della Val San Martino. Una ragazza del villaggio emigra per lavoro a Marsiglia, dopo una esperienza traumatica di violenza rientra al paese e vi si sposa; dopo alcuni anni il marito è trovato morto da arma da fuoco in una grotta, appunto la Balma di Armand che dà il titolo al volume: suicidio, secondo la versione ufficiale o, come si potrebbe sospettare, omicidio da parte dell'amante della donna? Le vicende esi- stenziali, passionali, interiori dei personaggi che in una letteratura ottocentesca avrebbero dato luogo ad una narrazione drammatica, tesa, carica di partecipazione, sono invece qui dissolti nel grigiore di una vita contadina fatta di quotidianità, di fatica, di monotonia, che l'autrice ha saputo rendere molto bene e che vanno annoverati fra i pregi non secondari del libro.
È ancora lo stesso ambiente, quello delle Valli valdesi del primo Novecento, a co- stituire il punto di partenza, o meglio il luogo di radicamento, del terzo romanzo della se- rie, apparso nel 1999, Come foto sbiadite di Giorgio BERT.
L'elaborazione letteraria è qui maggiore che nei casi precedenti; dai documenti per- sonali, diari e lettere di due lontane prozie, l'autore ricostruisce e rielabora percorsi esi- stenziali e vicende che gli restituiscono la profonda identità e la singolarità di esistenze rimaste fin qui lontane e confuse nel suo immaginario infantile, appunto "come foto sbia- dite", a cui viene ridata nitidezza. Sophie e Clotilde peregrinanti attraverso l'Europa nel loro lavoro di dama di compagnia e di libera "diaconessa" sono restituite in qualche modo alla loro comunità di appartenenza, quella delle Valli valdesi ancora fortemente segnate dalla spiritualità del Risveglio Ottocentesco.
Non si può non rilevare il fatto che nei tre testi - in maniera evidente nei due ultimi ma, sia pure in modo più sfumato, anche nel primo - protagoniste delle vicende siano donne. I personaggi maschili fanno la loro comparsa in momenti fondamentali, presenti ed anche vivi, perfino ossessivi nelle Galline, ma tutto sommato funzionali ad una identità
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altra, con cui non fanno mai corpo, tangenziale all'esistenza. Sotto il profilo religioso sono inesistenti, ininfluenti, nel caso della Balmo, ancora più complesso, il marito della protagonista è di confessione cattolica. Siamo in questa circostanza nella situazione limite non solo di una assenza ma di una negatività.
L'istituzione scolastica non esiste, fortemente presente è solo la coscienza dei sin- goli che costruiscono la propria identità con i materiali a loro disposizione: esempi di vita, letture, riferimenti ideali anche teologici giunti da lontano, quasi casualmente.
Biografie e ricordi
Di natura diversa, nel genere letterario della biografia e dei ricordi, sono apparsi al- cuni volumi di interesse e valenza diversa ma tutti interessanti. Il più significativo ci pare essere il volume di Oreste CANAL apparso negli Stati Uniti nel 1999 In search of a Fu- ture. My Life Story; tradotto in italiano col titolo Alla ricerca di un futuro, la vita di un emigrante dalla Val Gennanasca all'America, Pinerolo, Alzani, 1999, pp. 212.
Oreste e Felix Canal sono due giovani di San Martino in Val Germanasca in cui si delinea in modo esemplare l'immagine della gioventù valdese dell'immediato dopo- guerra, quella nata e formatasi nel clima della F.U.V., la Federazione Unioni Valdesi di cui è allora segretario Tullio Vinay.
E non è un caso che proprio a Maniglia la gioventù della Federazione Unioni Val- desi inizi l'impresa di Agape con il riattare un forno a calce e cuocervi la pietra necessaria per l'avvio dei lavori.
L'immagine del gruppo di giovani sul forno sarà il primo documento visivo della grande impresa apparso sul primo fascicolo di propaganda stampato nel '49 per il lancio del progetto con un uso dei media di grande impatto per i tempi. Su quella foto è natural- mente presente Felix, il fratello di Oreste. Si trasferiranno entrambi negli Stati Uniti gra- zie all'interessamento dei Mennoniti presenti alle Valli nell'immediato dopoguerra (anche questa è una pagina di storia che meriterebbe uno studio approfondito).
Oreste Canal ci dà in questo volume invece una narrazione della sua esistenza or- mai americana anche se i legami con le Valli sono rimasti sempre estremamente forti. Oreste continua a scrivere poesie e testi in patois che si leggono su '"La Valaddo" e Felix non manca 1' appuntamento estivo con la sua valle.
Colpisce in questi ricordi la forza di assimilazione della società americana: un mon- tanaro che non è mai uscito dalla sua valle, assuefatto alla vita rude del boscaiolo, nella cui casa si cucina ancora nel camino, sbarca a New York e dopo pochi mesi è già nel vor- tice americano a cambiare lavori, casa, stati; si sposa è vero con una della sua valle, ma è integrato in modo radicale. Caso da manuale.
Diverso è il caso narrato nel volume di Lina DOLCE, / racconti di Crosetto... per riscoprire un mondo quasi di favole, Pinerolo, Alzani, 1999, pp. 102.
Giovane insegnante di una scuola sussidiata degli anni '50, l'autrice rivive in queste pagine la sua esperienza. Si tratta di bozzetti semplici, spontanei che pur con la distanza degli anni conservano l'immediatezza della scoperta che la giovane cittadina fa di questo universo a lei del tutto ignoto, arcaico, fuori del mondo, anche se si trova a pochi chilo- metri dalla sua abitazione, a Perosa Argentina.
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Spogliato del suo alone di nostalgico ricordo, di lieve romanticismo per un tempo ormai finito, resta l'immagine della nostra società alpina colta nel momento in cui sta scomparendo per sempre.
Una società che ha impiegato due secoli a organizzarsi, dalle levate del sale a fine settecento (che Fautrice menziona) allo sfruttamento delle miniere degli anni '50.
Di questo processo di crescita non solo sociologica ma umana la scuola è stata car- dine essenziale. L'autrice lo ha percepito ma non valutato appieno per mancanza di in- formazioni.
Ho conosciuto una maestra che pressappoco alla stessa età della nostra insegnante era stata a Crosetto, ma 70 anni prima di lei, quando la scuola dipendeva ancora dalla Chiesa valdese. Chiudeva la sua giornata scolastica mandando un ragazzo nel paese con un campanaccio convocando la gente alla "priéro", il culto della sera; un'assemblea ana- loga a quella che la maestra Dolce vide al funerale dell'anziano, si ritrovava così riunita, e lei, giovane diciottenne, leggeva la liturgia della sera e impartiva la benedizione. A Cro- setto non c'è chiesa né pastore né prete, così rileva la nostra autrice: vero ma se la scuola era la chiesa, pastore era chi presiedeva alla liturgia e alla cultura. È evidente che in quel contesto di realtà ormai secolare si sia trovata del tutto spiazzata una maestrina post-bel- lica. Peccato che i Crosettini non l'abbiano introdotta nella loro cultura, forse non ne ave- vano gli strumenti e poi la maestra era lei... che toccasse a lei penetrare oltre il mondo quasi da favola... per scoprirne l'identità profonda? Ma era forse troppo giovane e poi doveva scendere la Domenica a casa anche a costo di farsi aprire la pista nella neve dai Crosettini.
Elena, Piera, Rosita, Ines e Luigina BREUZA, La bella Lavande r ina, Ricordi e poe- sia del piccolo mondo di Rodoretto, Pinerolo, Alzani, 1997, pp. 187.
Il contenuto di questo volume è chiaramente definito dal sottotitolo. Si tratta di ri- cordi e pensieri di cinque sorelle raccolti con semplicità e ingenua naturalezza.
Cinque ragazzine di una famiglia numerosa, con un padre minatore e una madre onnipresente a gestire la difficile impresa famigliare e i fratelli, i giochi, i lavori, le pic- cole gioie e le speranze.
Un mondo ancora prossimo a noi nel tempo ma che ci appare ormai così lontano da esser ormai comprensibile solo a chi lo ha vissuto.
Giorgio Tourn
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Franco Fortini tra i valdesi in Svizzera
RENATA BROGG1NI, "Svizzera, rifugio della libertà". L'" esilio inquieto" di Franco Fortini (1943-1945), "L'ospite ingrato. Annuario del Centro Studi Franco Fortini", II (1999), pp. 121-167.
Renata Broggini, storica attenta del "rifugio" svizzero durante la seconda guerra mondiale, come dimostra il volume Terra d'asilo. 1 rifugiati italiani in Svizzera 1943- 1945, pubblicato da II Mulino nel 1993, tratta ora più diffusamente dell' "esilio" di uno di questi rifugiati, il poeta e critico Franco Fortini1.
Il fiorentino Franco Lattes (Fortini è il cognome della madre e della letteratura), fu battezzato da Tullio Vinay, quand'era pastore nella chiesa valdese del capoluogo toscano. Non stupisce, pertanto, che, riparato in Svizzera dopo l'otto settembre, in seguito alla quarantena nel campo di Adliswil (dove dichiara in un interrogatorio: «Mein Vater ist Jude und meine Mutter Arierin. Ich bin evangelisch»), venga ospitato nella casa dal pa- store valdese di Zurigo, Alberto Fuhrmann.
Broggini tratteggia efficacemente, in un capitolo dal significativo titolo "Qualche mese più tardi ero a Zurigo": liberato dai valdesi, l'ambiente della famiglia Fuhrmann, "quasi un simbolo di quanto due guerre mondiali, il nazionalismo e la dittatura, hanno pe- sato su generazioni di persone di cultura europea e di apertura cosmopolita; ma anche del- l'impegno religioso e civile che le ha rese salde e sensibili verso il prossimo negli anni diffìcili delle persecuzioni politiche e razziali." Infatti il padre del pastore Alberto, Joseph Fuhrmann era un alsaziano di Colmar, figlio di un ufficiale francese, che andò a Torino dopo la cessione dell'Alsazia all'Impero tedesco nel 1871. Alberto prese invece la cittadi- nanza italiana, fu cappellano militare, pastore a Prati, a Pisa e a Torre Pellice, prima di andare a Zurigo. Nella sua casa svizzera Fortini scrisse molte poesie poi raccolte nel suo primo libro. Foglio di via. Tra il 1943 e il 1944, partecipò attivamente alla vita delle co- munità di Zurigo e di Basilea, sostituendo anche il pastore per alcuni culti durante una sua temporanea assenza.
Ma soprattutto, pubblicò interessanti scritti sul periodico delle chiese evangeliche svizzere di lingua italiana, "Voce Evangelica". Il primo dei quali fu il discorso, tenuto in occasione del 17 febbraio 1944, che dà il titolo all'articolo di Broggini: Svizzera, rifugio della libertà, dove collega l'accoglienza attuale dei profughi antifascisti alla tradizione svizzera di costituire il rifugio dei perseguitati "religionis causa". Naturale è il confronto con i riformati italiani del Cinquecento, i valtellinesi del 1620 e i valdesi del 1687, spesso dimenticati soprattutto in patria, ma ricordati qui nella Svizzera che già li accolse. Così che il discorso può essere chiuso con un finale altamente retorico, dove i fuochi d'esul- tanza che tradizionalmente si accendono la sera del 16 febbraio diventano fuochi custoditi in sé ed elevati come vessilli verso le terre della patria, secondo la citazione di Isaia 5:26: "Egli alza un vessillo per le nazioni lontane; fischia ad un popolo, ch'è all'estremità della terra; ed eccolo che arriva, pronto, leggero."
1 Rimando chiunque volesse sapere di più sui suoi rapporti con il protestantesimo alla mia tesi, Franco Fortini protestante, che è conservata presso la Biblioteca della Società.
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Unica lacuna del documentarissimo articolo di Broggini (che, ad esempio, ha ritro- vato tutti i documenti burocratici del peregrinare tra i vari campi di internamento e lavoro del rifugiato-scrittore) riguarda un dramma teatrale, scritto insieme con Vittorio Pons, dal titolo Giorni di sempre, rappresentato il 19 marzo 1944, allo Zwinglihaus di Zurigo.
Non viene, infatti, riportato il resoconto della serata, significativo soprattutto nella recensione della rappresentazione teatrale, che apparve su "Voce Evangelica"2, nel nu- mero di aprile del 1944. Eccolo:
"Festa valdese della libertà. Domenica 19 marzo nella grande sala della Zwin- glihaus è stato commemorato il 96. esimo anniversario della libertà ottenuta dai Valdesi del Piemonte dopo lunghi secoli di lotte e di eroiche resistenze. Davanti ad alcune centi- naia di persone il Pastore Signor Fuhrmann pronunciava il suo discorso commemorativo esponendo in brevi tratti i fatti salienti della storia del popolo valdese. Leggeva un tele- gramma ricevuto dalla colonia valdese di Ginevra e dava lettura del messaggio inviato ai Valdesi del mondo da ex-studenti del Collegio di Torre Pellice in occasione appunto della festa valdese della libertà che quest'anno non si è potuta celebrare nelle Valli.
Il Dr. Vittorio Pons tratteggiava quindi i principi conduttori da lui e dal Dr. Fortini seguiti nello stendere i quattro atti che venivano poi rappresentati. Collegando fatti storici del periodo della Inquisizione contro i Valdesi, con avvenimenti che si svolgono oggi- giorno, gli autori hanno voluto mettere in evidenza come i popoli possano veramente vi- vere soltanto in un'atmosfera di libertà. Nel primo atto si vede una scena in una prigione a Torino nel 1686, ed è nello stesso locale, rimodernato, che si svolge il secondo atto nel giugno 1943 quando la polizia interroga i patrioti che vogliono farla finita con la tirannia e con la guerra. Il terzo atto ci porta in una casa qualunque a Torino il 26 luglio: il primo ed il solo giorno della libertà in Italia. Infine l'ultimo atto si svolge in una notte di settem- bre, senza luna, e si è un po' dappertutto perché non sono più le persone che si muovono ma sono i loro pensieri che valicano monti e fiumi portati dal sibilo del vento. Artistica- mente e tecnicamente la rappresentazione presentava diverse difficoltà che sono state su- perate con maestria dal paziente lavoro del Dr. Fortini che fu nello stesso tempo regista ed attore molto applaudito. Accanto a lui ricordiamo tutti gli altri autori che veramente si di- stinsero e superarono sé stessi nel franco successo che riportò il dramma dal titolo Giorni di sempre. Tutto il pubblico applaudì con entusiasmo soprattutto il quarto atto veramente originale.
Alla festa seguì un ricevimento offerto dalle sorelle della Chiesa nella sala del Cir- colo Giovanile, alle persone che si erano adoprate per la riuscita della festa ed a diversi amici internati. Erano presenti anche i membri della Corale, che fra il primo ed il secondo atto avevano cantato il "Giuro di Sibaud". Il Pastore signor Fuhrmann invitò i presenti ad alcuni istanti di silenzio in onore dei combattenti per la libertà. Il Dr. Pons accennò ad episodi della lotta di resistenza attuale del popolo valdese e comunicò a tutti la fiducia di vedere, dopo l'immane conflitto, i valdesi liberi nelle loro libere valli, il Dr. Fortini espresse la convinzione che le affermazioni del dramma non potevano e non dovevano rimanere solo affermazioni letterarie, ed il Pastore Argentieri sottolineò che nessuna vitto- ria, come nessuna libertà, è possibile se non in Dio. Infine la signorina Muller deliziò l'assemblea con pezzi di musica classica superbamente suonati al pianoforte. Avevamo fra di noi anche diversi fratelli di Basilea che ci portarono con la loro presenza la compar-
2 "Voce Evangelica", aprile 1944, anno V, n.33, p.3. Si tratta di una cronaca nella sezione dedicata a Zurigo e intitolata Festa valdese della libertà, firmata v.p. (Vittorio Pons?).
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tecipazione della Chiesa sorella. La colletta a favore di Comitato italiano per rifugiati fruttò oltre franchi 200."
Fortini, durante il periodo svizzero, fu però soprattutto impegnato nel proseguire la sua formazione intellettuale (anni dopo ricordava quelli come "anni surrealisti", pieni di incontri e scoperte e definiva la casa dei Fuhrmann "una vera seconda università") e nel- l'entrare in contatto con diversi protagonisti dell'emigrazione antifascista italiana e con intellettuali di valore internazionale. In questo senso, sono molto significative le lettere pubblicate da Broggini. Come quelle di Ignazio Silone, di Jean Starobinski (che gli consi- gliò, per riuscire a studiare e a scrivere senza obblighi di permanenza in campi di lavoro, di iscriversi alla Facoltà di Teologia) e di Gianfranco Contini, oltre che degli amici con i quali Fortini era espatriato dopo l'otto settembre, come Giancarlo Vigorelli.
Queste lettere, oltre a dare un contributo alla conoscenza di un vastissimo quanto interessante epistolario (nello stesso numero della rivista sono pubblicati ed analizzati i carteggi con Roland Barthes e Andrea Zanzotto), forniscono un'immagine precisa della Svizzera degli ultimi anni della seconda guerra mondiale, che tentava, con attenta buro- crazia, di tenere sotto controllo i rifugiati dei vari paesi, per difendere il concetto, in peri- colo, di neutralità, ma, al tempo stesso, costituì il terreno d'incontro e di sperimentazione politica per chi proveniva da paesi dominati dalle dittature.
Proprio dalla Svizzera, perciò, Fortini tornerà in Italia, prima brevemente nella Valdossola liberata dai partigiani (partendo "dalla stazione di Zurigo, accompagnato da un ragazzo conosciuto nell'ambiente della chiesa valdese italiana"), poi definitivamente, nel maggio 1945, con una nuova formazione e una personalità più definita, pronto per lanciarsi, a Milano, nel lavoro al quotidiano socialista, "Avanti!" e nell'avventura del "Politecnico" di Elio Vittorini.
L'articolo è corredato da riproduzioni di documenti e da fotografie fornite da Jo- landa Fuhrmann, che colgo l'occasione di ringraziare ancora per i suoi preziosi aiuti alla mia parallela ricerca fortiniana.
Davide Dalmas
SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE
MASSIMO FIRPO - DARIO MARCATTO. / processi Inquisitoriali di Pietro Camesecchi (1557-1567). Edizione critica. Volume 1: I processi sotto Paolo IV e Pio IV ( 1557- 1561), Città del Vaticano. Collectanea Archivi Vaticani, 1998.
La vita di Pietro Carnesecchi colpisce, chi si pone ad esaminarla con una certa at- tenzione, per la drammaticità con cui fu condizionata da giochi di potere, lotte politiche, contrasti ideologici che travagliarono l'Italia e l'Europa del XVI secolo.
Nato a Firenze nel 1508 e avviato giovanissimo alla vita ecclesiastica, il Carnesec- chi fece una rapida e brillante carriera alla curia papale, tanto da diventare uno degli uo- mini più influenti della corte di Clemente VII. Tale sfolgorante ascesa era però destinata ad interrompersi bruscamente in seguito alla morte di papa Medici nel 1534 e alla succes- siva elezione di un uomo poco incline a favorire gli interessi medicei quale Paolo III. Gli anni successivi al distacco dal mondo curiale furono caratterizzati da amicizie e legami che il fiorentino andò instaurando o approfondendo con personaggi appartenenti agli am- bienti spiritualmente più stimolanti e ricchi della penisola, caratterizzati da un comune at- teggiamento di confronto positivo con le nuove idee provenienti d'oltralpe. Sono gli anni dei soggiorni nella Napoli del Valdés e della Gonzaga, nella Viterbo del Pole e degli spi- rituali, degli incontri con Vittoria Colonna, con Bernardino Ochino, con Marcantonio Flaminio, senza tralasciare le frequentazioni del fervido mondo veneziano. Un periodo intenso, stimolante che gli valse nel 1546 la prima convocazione a Roma presso il Sant'Ufficio dell'Inquisizione. Il processo si concluse con una sospensione extragiudi- ziale decretata da Paolo III, il quale esautorò il supremo tribunale della fede con un inter- vento diretto nella vicenda che trova spiegazione nelle forti pressioni esterne che rice- vette, in primo luogo quella del cardinale Reginald Pole. Lungi dall'essere la fine di un incubo, la conclusione del procedimento fu una pausa in attesa di una tempesta ben più violenta destinata a colpire l'ex protonotario di Clemente VII. Nel 1557 infatti il Carne- secchi, durante il pontificato di Paolo IV, venne nuovamente convocato a Roma. Non si presentò e questo nuovo processo si concluse con la condanna in contumacia. Il caso fu poi riaperto nel 1560 con papa Pio IV e concluso l'anno successivo con una sentenza d'assoluzione. Ma un nuovo cambiamento ai vertici della Chiesa, in seguito all'elezione del cardinale inquisitore Michele Ghislieri come papa Pio V, riaprì la partita tra il Sant'Uffizio e il fiorentino, che si concluse drammaticamente il primo ottobre 1567 con la decapitazione e il rogo di colui che fu uno dei più ammirati uomini della corte di Cle- mente VII.
Della lunga vicenda inquisitoriale del protonotario rimangono tre voluminosi incar- tamenti conservati nell'Archivio del Sant'Ufficio romano. Nel testo in questione Massimo Firpo e Dario Marcatto pubblicano i pochi atti superstiti relativi al processo sotto Paolo
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IV e la più ricca documentazione inerente il procedimento del 1560-61. I fascicoli processuali del 1546 e del 1557-59 andarono quasi totalmente distrutti nel tumulto svi- luppatosi in seguito alla notizia della morte di Papa Carafa. Ciò che rimane del secondo dei due si riassume nella deposizione di Niccolò Bargellesi del 1557 e in una summa degli atti adottati dall'Inquisizione contro il Carnesecchi dal 18-06-1556 fino al 06-04- 1559. L'ampia nota critica, redatta sulla base di altre fonti, ricostruisce bene quelle due prime tragiche avventure del protonotario con il tribunale della fede: gli interventi in suo favore del Pole, di Cosimo de' Medici e forse di Giovanni Morone in occasione della prima convocazione e il conseguente dissenso inquisitoriale nei confronti di una solu- zione vista come un oltraggio da cancellare al più presto. Ci vollero più di dieci anni, ma la conquista del soglio papale da parte del più tenace e intransigente degli inquisitori tra- sformò in triste realtà quello che da tempo era un minaccioso presentimento. Anche in questo caso prezioso si rivela l'intervento degli autori nel far rilevare l'incondizionato appoggio offerto al fiorentino dal duca Cosimo e dai cardinali imperiali; primo fra tutti il Madruzzo, favore che muoveva sì da ragioni personali, ma anche da un indiscutibile con- trasto politico nei confronti del Carafa. Senza dimenticare la contestualizzazione della vi- cenda del Carnesecchi all'interno di una più ampia azione repressiva diretta a scapito di quel gruppo di alti prelati e uomini di chiesa che negli anni precedenti si erano avvicinati a posizioni eterodosse: un'operazione preparata dal Sant'Ufficio in anni di pazienti e se- grete indagini e finalmente messa in atto senza esclusione di colpi. Il fiorentino si è detto, venne condannato in contumacia, ma l'elezione di Gian Angelo de' Medici, uomo di fi- ducia di Cosimo, al seggio papale fu interpretata dal protonotario in senso favorevole alla sua causa. Non si sbagliava, ma la sua ingenua speranza di una rapida cancellazione della condanna sarebbe stata presto delusa. Giunto a Roma all'inizio del 1560, senza salvacon- dotto e con una condanna a morte ancora da eseguire, il protonotario dovette aspettare molto prima che il Sant'Ufficio a seguito di pressanti richieste di Pio IV istituisse un pro- cedimento di revisione della sentenza del 1559 e ancor di più per giungere all'agognata assoluzione. Lungi dall'essere uno strumento nelle mani del pontefice, l'Inquisizione ro- mana godeva ancora di grande autonomia. Non tardò ad accorgersene lo stesso fiorentino, quando fin dai primi interrogatori nella primavera del 1561, anziché giustificare la man- cata presentazione a Roma nel corso del precedente processo, si trovò costretto a fornire chiarimenti su amicizie, frequentazioni e convinzioni in materia di fede risalenti a molti anni prima. Il suo inguaribile ottimismo lo spingeva comunque a credere, come scriveva in quei giorni a Giulia Gonzaga, che il peggio era passato e la terribile parentesi rappre- sentata dal papato del Carafa definitivamente conclusa; nello stesso periodo invece il cardinale Giovanni Morone, consapevole di ciò che aveva rappresentato per la Chiesa di Roma il pontificato di Paolo IV e di quanto fosse ancora potente il supremo tribunale della fede, in previsione di futuri e probabili cambiamenti ai vertici ecclesiastici, si aste- neva addirittura dall' incontrare il Carnesecchi. In realtà il processo del 1560-61, fu per il Sant'Ufficio l'occasione per ricostituire quell'archivio di documenti e prove, così deter- minanti per il suo lavoro, andato quasi totalmente distrutto nel corso dei tumulti del 1559. Lo dimostrano i numerosi ed accurati costituti del protonotario, ma anche le numerose deposizioni raccolte a Napoli, Firenze, Bologna, Brescia e Venezia, in cui vennero ascoltati tra gli altri alcuni tra i più noti collaboratori della giustizia ecclesiastica, quali Giovan Battista Scotti e Bernardo de' Bartoli. E tutto ciò mentre da più parti giungevano influenti pressioni in favore di una rapida assoluzione del protonotario. In questo senso il processo del '60-'61 e forse tutta questa lunga e travagliata vicenda inquisitoriale nel suo
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complesso sono da leggere come una serie di avvenimenti, situazioni, cambiamenti, cal- coli politici che il Carnesecchi non comprese nella loro reale portata e che inevitabilmente subì. La drammaticità del personaggio è tutta qui: nel non riuscire a capire le tensioni e gli scontri che si svilupparono intorno alla sua vicenda, ancora fermo su posizioni e speranze ormai da tempo tramontate. Del resto la stessa assoluzione del 1561 altro non fu che la conclusione di un braccio di ferro estenuante tra il Papa, Cosimo e molti influenti cardinali da una parte e lo zoccolo duro dell'Inquisizione, gelosa e sicura del suo potere, dall'altra. In quest'ottica una sentenza di assoluzione raggiunta a fatica nonostante il pontificato favorevole, più che una soluzione definitiva, sembrava una fragile tregua e lasciava intravedere sviluppi terribili nell'infausta ma prevedibile ipotesi che un membro del partito intransigente fosse giunto alla guida della Chiesa romana.
Roberto Beccaria
Ennio SANDAL, Presenze erasmiane a Brescia, estratto da «Rinascimento», seconda se- rie, v. XXXV.
Partendo dichiaratamente dallo studio di Silvana Seidel Menchi, che ha «stabilito un punto fermo» sulla contrastata fortuna di Erasmo in Italia e, in particolare, dai cenni della stessa dedicati a Brescia (Emilio degli Emili traduttore dell' Enchiridion militis chri- stiani e Marsilio Andreasi, che traduce invece l'orazione De magnitudine misericordia- rum Domini (1542), con dedica alla duchessa di Mantova), Sandal aggiunge alcune altre note sulla presenza di Erasmo in una realtà piuttosto periferica come quella di Brescia.
L'umanista è citato in tre opere, rivolte alla scuola, uscite a Brescia, a cura di Lu- dovico Britannico: nel 1536 in un'edizione delle Commedie di Terenzio, nel 1538 nell'e- dizione dei Disticha Catoni e nel 1543 in un volume che unisce alle Regulae grammati- cales di Nicolò Perotti, il De ratione studiis di Erasmo. Inoltre nel 1538 vengono stampati a Brescia, presso i fratelli Turlini, due opuscoli di Aurelio Cicuta (studiato a fondo pro- prio da Seidel Menchi). Uno dei due, contro gli ipocriti, rivolto in particolare contro mo- naci e frati, contiene anche una falsa lettera elogiativa di Erasmo all'autore, che non ra- ramente ricorreva a questi sotterfugi per tentare di imporre le sue opere.
Davide Dalmas
Scritti del vescovo Grimaldi nella «Rivista Diocesana Pinerolese», n. 1, 1999.
Tra le molte personalità del periodo rivoluzionario e napoleonico, di sicuro inte- resse appare la figura del vescovo Grimaldi, dei cui scritti la Rivista Diocesana Pinerolese ha fornito recentemente vasti stralci.
Nato a Moncalieri il 3 gennaio 1754 e discendente dalla famiglia Grimaldi di Men- tone, principi di Monaco, Giuseppe Maria Grimaldi studiò nel collegio dei Nobili a To- rino; gesuita, divenne prete secolare nel 1773; laureato in teologia e filosofia, seguì dap- prima il vescovo di S. Jean de Morienne a Vercelli e successivamente fu nominato ve-
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scovo di Pinerolo nel 1797 da Pio VI su indicazione del re di Sardegna. Trasferito ad Ivrea, venne in seguito nominato primo arcivescovo di Vercelli dove morì nel 1830. Da queste brevi note biografiche già si nota come il vescovo Grimaldi fosse il personaggio di punta della chiesa cattolica proprio in quel periodo di profondi sconvolgimenti politici che videro il pinerolese e le sue valli dapprima annesse alla Francia, poi occupate dagli Austro-Russi e infine riconquistate da Napoleone. Fu l'uomo, quindi, che da parte catto- lica dovette fare i conti con la riorganizzazione del potere civile e religioso voluta da Na- poleone con l'aiuto del suo ministro Portalis (che, ricordiamo, portò tra l'altro all'abro- grazione di molte parrocchie e alla confisca dei loro patrimoni). Se da parte valdese Geymet e Peyran furono gli uomini di spicco del periodo, da parte cattolica non c'è dub- bio che fu Grimaldi a doversi misurare con le sfide della sua epoca. Dai pochi ma signifi- cativi scritti pubblicati, Grimaldi appare ben lontano dalle posizioni ultra conservatrici di alcuni intellettuali a lui contemporanei del Regno di Sardegna. Chi conosce gli scritti rea- zionari dell'epoca, caratterizzati da una condanna senza appello per tutte le "funeste" no- vità francesi, non può non giudicare come semplice prudenza il rapporto corretto, diplo- matico e moderato che Grimaldi instaura con il potere politico e con i suoi parroci. Il suo bisogno di reinterpretare vocaboli come libertà, virtù ed eguaglianza fanno senz'altro parte di una tradizione cattolica che giunge fino ai giorni nostri, ma che a conti fatti è al- tro rispetto al pensiero reazionario che nasce dalla profonda opposizione alla rivoluzione francese (come ad esempio quello di Joseph de Maistre, tanto per dire il nome più signifi- cativo). Ovviamente Grimaldi non poteva non definire, come è possibile leggere, gli anni del suo episcopato come infelicissimi, e chissà che faccia aveva quando ordinava i Te Deum in favore di Napoleone. Tuttavia credo che la sua figura meriti veramente un ap- profondito studio, magari partendo da quel gallicanesimo che, a seguito del Concordato imposto da Napoleone a Pio VII, fu reintrodotto anche nel pinerolese e che lo portò anche a confrontarsi, lui che era di nomina papale, con colleghi della Repubblica Cisalpina di nomina statale.
Roberto Morbo
COSIMA NASSISI (a cura di), Tommaso Fiore e i suoi corrispondenti (1910-1931), pre- fazione di Fabio Grassi Orsini, Lacaita, Manduria 1999. pp. 325.
«Egregio Signore, desidererei conoscere s'Ella è disposto a collaborare a Conscien- tia. Se sì, vorrei proporLe di scrivere per noi dei "Motivi religiosi" oppure degli articoli d'indole etico-sociale inquadrata naturalmente nel nostro punto di vista cristiano». Con queste parole, in una lettera del 2 febbraio 1924, inizia il rapporto tra Giuseppe Gangale e Tommaso Fiore, insegnante, politico e scrittore pugliese. La collaborazione che qui viene prospettata si realizzò effettivamente: Fiore scrisse articoli per «Conscientia», la rivista diretta da Gangale e Chiminelli, sia col suo nome, che sotto lo pseudonimo di Ulenspie- gel, quando divenne sempre più pericoloso esporsi alla censura e alla persecuzione fasci- sta, e fu inserito, con tanto di foto e autopresentazione, nel volumetto curato da Gangale. Tesi ed amici del nuovo protestantesimo.
Questo aspetto è però solo uno dei tanti di grande interesse di questo bellissimo epistolario, il cui nucleo centrale è costituito dalle lettere conservate dal figlio Vittore
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Fiore, ora presso la Biblioteca nazionale di Bari, integrate da altre che provengono da di- versi archivi (come quelli del centro Gobetti e della Tavola valdese), ora disponibili in un'edizione ben curata da Cosima Nassisi, soprattutto per quel che riguarda l'apparato di note, puntuali e mai ingombranti, che permettono il piacere di una lettura appassionante.
Il sottotitolo indica, come arco temporale, il ventennio 1910-1931, ma in realtà il periodo documentato a fondo è molto più ristretto e compatto, e comprende gli anni dal 1923 al 1926, quelli dell'affermazione e del consolidamento del fascismo. Infatti, per il periodo precedente, sono pubblicati solo alcuni biglietti e cartoline, che permettono di conoscere il rapporto con alcuni famosi scrittori, come Benedetto Croce, Giuseppe Anto- nio Borgese, Giovanni Papini, Alfredo Panzini e Giuseppe Prezzolini, contattati da Fiore soprattutto per consigli e giudizi sui propri scritti ispirati all'esperienza di volontario nella Grande Guerra. In questo primo periodo, quasi introduttivo, si può inoltre scorgere il le- game con gli esponenti della lega democratica fondata da Gaetano Salvemini, che appare come il vero maestro di Fiore, che gli manifestò sempre profonda stima e incondizionato appoggio.
Il nucleo vero, però, si può dire che inizi con il carteggio con Piero Gobetti (la prima lettera è del 7 ottobre 1922), non basato sulla conoscenza personale, ma su una stima e collaborazione che diventano rapidamente anche amicizia e confidenza. Fiore scrisse sulla «Rivoluzione liberale» e presso Gobetti pubblicò i suoi due volumi bellici: Eroe svegliato asceta perfetto (1923) e Uccidi! Taccuino di una recluta (1924). E proba- bilmente proprio tramite Gobetti, Fiore venne raggiunto dal mondo protestante e conobbe l'amicizia di Augusto Monti, cui lo legava il comune impegno al movimento combatten- tistico democratico salveminiano. La prima lettera al professore piemontese è del 19 aprile 1923 e dà inizio ad un carteggio ancora più amichevole, quasi fraterno, maggior- mente segnato anche dall'attenzione alle rispettive vite familiari. Per completare lo stretto rapporto con l'ambiente piemontese, bisogna ancora ricordare alcune lettere scambiate con Edoardo Giretti. L'uomo politico di Bricherasio aveva infatti fondato il Gruppo li- bero-scambista, con Luigi Einaudi, cui Fiore aderì nel 1923.
Questo forte rapporto con il nord del paese, non deve mettere in ombra il principale impegno di Fiore, che è quello per il suo Meridione. E infatti in continuo rapporto con i principali esponenti del pensiero meridionalista di quegli anni, da De Viti De Marco a Umberto Zanotti-Bianco, dal vecchio Giustino Fortunato a Guido Dorso (che scrive Rivo- luzione meridionale, stampato sempre da Gobetti).
I vari carteggi mettono in luce la durevole difficoltà economica di Fiore, insegnante inviso a Gentile e al fascismo, continuamente a rischio di licenziamento e ancora indebi- tato per il grande impegno profuso nella lotta politica quando era sindaco di Altamura. Si nota quindi spesso la ricerca di un lavoro retribuito (diventa ad esempio corrispondente da Altamura per «Il Mondo» dal dicembre 1924) e lo sviluppo di un progetto di costituire, sul modello gobettiano, una piccola casa editrice "meridionalista".
Queste difficoltà non mettono mai in discussione, tuttavia, la prosecuzione dell'at- tività politica e la fermezza dell'opposizione al fascismo. Nelle lettere con Salvemini si nota il comune interesse per la politica locale e per lo sviluppo dell'antifascismo, fino a culminare in una lunga, bellissima lettera di Salvemini che spiega le ragioni del suo esilio (22 novembre 1925): «Io non posso tacere, dovrei cambiare il mio temperamento. Sono fatto così. Che ci vuoi fare? Avessi dei figli, mi lascerei piegare, perché i doveri verso i figli debbono passare innanzi a tutti gli altri, visto e considerato che i figli non ci hanno domandato per piacere che li mettessimo al mondo, ma siamo noi che li abbiamo messi al
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mondo per il nostro piacere. Ma io non ho figli. Mia moglie è pronta ad affrontare ogni rischio. Dunque perché dovrei tacere? Te la figuri tu la mia vita a Firenze, silenzioso, sorvegliato, sospettato; non poter ricevere una visita per non compromettere gli amici, misurare le parole a lezione; essere puro del passato, e dover cercare sempre dei trucchi per andare all'estero; dare ai miei alunni che conoscono le mie idee, il mio temperamento, la mia vivacità, la mia spontaneità, quello che costituisce la mia forza, il mio fascino sui giovani, dare ai miei alunni lo spettacolo, l'esempio dell'uomo che si lascia normalizzare, che muta linea di condotta, che si riduce al livello morale del portiere, e questo per con- servarsi il pane?».
Ma sono anche molti altri gli ambienti politici che chiedono collaborazione a Fiore, dalla rivista romana «Critica politica», diretta dal repubblicano Oliviero Zuccarini, con il quale progetta una traduzione di Tocqueville al Partito socialista unitario, cui aderisce, come il suo maestro, subito dopo l'omicidio di Matteotti, e viene perciò contattato da Gaetano De Martino e Domenico Mirenghi. Gli viene anche chiesto, con una lettera di Enrico Sbisà, di iscriversi, in quanto ex combattente, al movimento combattente antifascista Italia libera, ma Fiore ne coglie contraddizioni, e preferisce defilarsi.
Verso la fine del volume, nel marzo 1926, proprio pochi mesi dopo che Gobetti gli aveva annunciato la forzata chiusura di «Rivoluzione liberale» («RL non uscirà più. L'ordine non è né prefettizio, né ministeriale. È ancora più alto! Non credo che noi dob- biamo rimanere troppo turbati. Tutto era previsto: i colpi riescono duri lo stesso; ma in realtà se qualcuno rimane oggi in faccia al fascismo non vinto, almeno sul terreno ideale, è il nostro gruppo. Non dico neppure che sia una consolazione: tuttavia l'onore è salvo») e sembrava tutto chiuso ed impossibile, inizia, invece, un'altra storia interessante, con una lettera di Carlo Rosselli che chiede la collaborazione per l'inizio di una nuova rivista, «Quarto stato», che dirige con Pietro Nenni.
In questo ambito avviene un nuovo momento di contatto con il protestantesimo, ma in modo più contrastato, segnato dalla polemica di Claudio Treves contro i socialisti filo- protestanti come Lelio Basso e Guido Mazzali. Fiore scrive infatti a Rosselli, riguardo alle sue "lettere pugliesi", che in precedenza erano state pubblicate da Gobetti: «Ti dirò sotto voce, ma non lo dire a Treves, che ci soffrirebbe, che ne ho mandato una niente- meno che a Gangale, che da un pezzo insisteva per averne, ma non la vedo ancora a stampa, e, se verrà fuori, Dio sa che tagli da parte di lui. Ahimè, nemmeno io sono per Calvino. Comunque se dovessi mandarne qualcuna al tuo giornale, e ormai sto per finire, la pubblicheresti?». Si capisce, pertanto, che il nodo è la severa presa di posizione a fa- vore di Calvino da parte di Gangale, che già compariva in un'altra parte del volume, nel carteggio con un altro collaboratore di «Conscientia», Cesare Teofilato, anarchico e so- cialista, ateo e rigoroso antifascista, fortemente anticlericale. In una lettera del 24 set- tembre 1925, Teofilato scrive a Fiore: «A proposito: Gangale si accorge che predicando l'intolleranza, la prepara? Che moltissima gente, e non fessa ammira più Serves di Cal- vino? Che Serves si trova nella privilegiata posizione della vittima di fronte al carne- fice?». Fiore non risponde, ma poco dopo, come si è visto, prenderà anch' egli posizione, in qualche modo, per Serveto.
Questo non impedirà, come si è visto, la collaborazione con «Conscientia» ed un'altra amicizia, quella con Tommaso Riccardo Castiglione (che curiosamente qui viene chiamato Tommaso Rocco e considerato pastore valdese di Bari, anche se, in senso stretto, non lo era, in quanto non sostenne mai l'esame finale, ma aveva comunque otte- nuto la licenza teologica e svolgeva regolare servizio nel capoluogo pugliese) e, tramite
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lui, con diversi membri della chiesa valdese di Bari. Il loro carteggio è caratterizzato dalla' comune adesione al programma di Gobetti, dall'amore per la Puglia e dalle vicende di una piccola rivista fondata da Castiglione, «La Buona Parola».
Nel complesso, quindi, questo è un libro, sì di grande interesse storico e culturale, ma non va inteso solo come prezioso strumento di studio, anche come una piacevolissima lettura.
Davide Dalmas
BARTOLO GARIGLIO e RICCARDO MARCHIS (a cura di), Cattolici, ebrei ed evangelici nella guerra. Vita religiosa e società (Scritti di V. Bo, G. Cambiano, A. Cavaglion, W. Crivellin, M. Fincardi, E. Fouilloux, M. Franzinelli, B. Ganglio, A. Giraudo, M. Guasco, G. Luzzato Voghera, R. Marchis, M. Margotti, T. Panerò, B. Peyrot, C. Pozza, W. Pyta, F. Traniello, G. Tourn, G. Tuninetti), Franco Angeli, Milano, 1999, pp. 355.
Il volume raccoglie gli atti del Convegno Comunità religiose, guerra e Resistenza 1939-1945. Cattolici, ebrei ed evangelici nella provincia di Torino (23-24 febbraio 1995), promosso dall'Istituto storico della resistenza in Piemonte in collaborazione con la Società di Studi Valdesi, la Comunità ebraica di Torino, l'Istituto Luigi Sturzo di Roma, e con il patrocinio del Consiglio regionale del Piemonte. Si tratta di un lavoro complesso ed articolato, inteso ad evidenziare il ruolo che le «organizzazioni territoriali della religio- sità», in un ambito geograficamente e cronologicamente definito come la provincia di To- rino negli anni della seconda guerra mondiale, svolsero «neh' orientare comportamenti diffusi, nel suggerire interpretazioni di avvenimenti, nella conservazione di identità reli- giose e civili, pur in una fase di radicale trasformazione» (Gariglio, p. 7).
Il Torinese, come ricorda F. Traniello nelle sue conclusioni, si presenta infatti come laboratorio privilegiato per una ricerca comparativa di questo tipo: non solo per la con- centrazione «quasi irripetibile di situazioni diverse», caratterizzate dalla presenza di una metropoli industriale, di un retroterra contadino molto strutturato, di vallate montane, e dei relativi sistemi sociali; ma anche, ed è questo l'elemento più interessante per la pre- sente ricerca, per la convivenza «di un cospicuo e tradizionale pluralismo religioso, con- nesso stabilmente a strutture organizzate, territoriali» (Traniello, p. 338).
La dimensione naturale di questa ricerca è la comunità, studiata nei tre ambiti confessionali, ma soprattutto nei suoi rapporti di relazione interna, nei sui ritmi di vita, o per meglio dire di "sopravvivenza" man mano che la guerra si avvicina, penetra nel terri- torio, si insinua nelle coscienze, sino agli ultimi anni, quelli della Resistenza, quando 1' "ethos collettivo" si misura con la coscienza religiosa.
Da qui il grande interesse per le figure dei "pastori" delle comunità (parroci, rab- bini, pastori), soprattutto nel loro percorso formativo, nella loro preparazione teologica e spirituale, nel loro retroterra culturale e religioso, per comprendere meglio quale poteva (o quale avrebbe potuto) essere il messaggio della loro pastorale nei confronti della guerra e della Resistenza.
In questo senso sembrano muoversi le due relazioni dedicate al mondo evangelico. Giorgio Tourn si è infatti interrogato su cosa significasse «essere pastori valdesi nella se- conda guerra mondiale». Accanto alla "normale" vita della comunità valdese (che negli
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anni del fascismo, pur non conoscendo la discriminazione e la repressione attuata contro gli ebrei, sente il disagio dell' «estraneità del fenomeno protestantesimo rispetto alla cul- tura italiana tradizionale», Tourn, p. 57), in cui la scuola e l'educazione religiosa conti- nuano ad avere un ruolo centrale, è proprio nel mondo dei pastori che vengono elaborate «in modi diversi, disomogenei, quasi contraddittori» le risposte «ad una situazione di tensione che concerne la sua stessa identità, la sua fisionomia messa in questione dalla re- altà esterna» (Tourn, p. 61).
Accanto alla figura tradizionale di pastore legato alla teologia liberale, che consi- dera l'esperienza religiosa come fatto intimamente personale che nasce da una relazione immediata con Dio, si affianca, o meglio si contrappone una figura nuova, imbevuta della nuova teologia barthiana «in cui si riflette la problematica teologica europea della teolo- gia scritturale, della presa di posizione nei confronti del nazismo, della ricerca ecume- nica» (Tourn, p. 61). Da qui il «ruolo profetico» nei confronti dello stato, che vede nella chiesa come comunità di credenti il suo centro propulsore. Nell'analisi di Tourn prendono forma gli sviluppi successivi di questa dialettica "tra pastori", che assunse le forme di «un ventaglio di posizioni diversificate», sempre più stridenti con l'avanzare della resistenza. La lotta armata, di cui alcuni protagonisti come Lombardini, Lo Bue, Genre tennero stretti contatti con diversi pastori, pose il problema di un deciso e radicale schieramento delle comunità valdesi a favore della Resistenza, pronunciamento che non avvenne, «né poteva esserci, date le condizioni culturali dell'ambiente» (Tourn, p. 63). Nasceva così quel dibattito sull'atteggiamento tenuto dalle comunità, ma soprattutto dall'organizzazione della Chiesa valdese, nei confronti della Resistenza, che non si chiuse con il ritorno alla vita democratica, ma fece sentire la sua vitalità anche negli anni successivi, specie nelle fasi di "rottura", come gli anni '60, quando fu «Gioventù Evangelica» a riprendere il filo della discussione.
A quel dibattito si collega indirettamente anche l'intervento di Bruna Peyrot, dedi- cato alla «Resistenza nella memoria laica ed ecclesiastica dei valdesi», che come avverte la stessa autrice, «riassume un problema storiografico: la definizione di un avvenimento sociale e politico che ha colpito anche l'espressione religiosa di comunità evangeliche e singolarmente le persone che vi appartengono» (Peyrot, pp. 67-68). Anche qui torna il riferimento ad una missione profetica della chiesa nei confronti dello stato, vissuta nelle diverse modalità che caratterizzano da un lato il corpo pastorale, in cui la riflessione teo- logica fornisce una sorta di motivazione intellettuale alla scelta della Resistenza, e dall'al- tro la comunità dei fedeli, dove era la memoria (famigliare, parrocchiale, del popolo- chiesa) a raccontare un passato in cui tante volte il ricorso alle armi per la difesa non già dei propri diritti, ma della stessa sopravvivenza, era stata una scelta necessaria.
Di questa duplice modalità di approccio alla "scelta" della resistenza, quella "intellettuale" e quella "popolare". Bruna Peyrot dà conto differenziando anche i metodi di ricerca, e privilegiando in particolare l'attenzione alle fonti orali, quasi a voler sottoli- neare il valore narrativo delle forme di trasmissione della memoria, ma anche, come ri- corda l'autrice, «la necessità di ricordare impostasi nell'arco di una vita» (Peyrot, p. 67).
Passato e presente, memoria storica e drammatica attualità finirono per esercitare sui valdesi in procinto di compiere la loro personale "scelta" verso la Resistenza un peso rilevante, facendo anzi apparire quella scelta come la valorizzazione «di un'antica idea protestante: la persona soggetto di diritti e di doveri, dotata di responsabilità, di coscienza, di autonomia, di libertà dell'agire, proprio come si preoccupava di predicare Lombardini» (Peyrot, p. 71). Sullo sfondo le montagne, non scenario neutrale ma «luogo di gesta
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eroiche della storia valdese», capace di schiudere «metaforicamente tutto il senso della propria appartenenza religiosa» (Peyrot, p. 83). E proprio da quelle montagne e nel mondo valdese che vi risiedeva, dagli anni della resistenza, si fece sempre più forte l'esi- genza di «una ricerca teologica diversa dalla semplice introspezione del cristiano, paralle- lamente al crollo della fiducia nella storia stessa come progresso civile e religioso» (Peyrot, p. 87). Anche qui, come in ogni angolo d'Europa, l'esperienza della guerra e della resistenza aveva posto gli uomini, nel rapporto con la loro chiesa, a misurarsi con «la loro reale capacità di testimonianza e la forza della loro fede» (Peyrot, p. 88).
Paolo Cozzo
FEBE CAVAZZUTTI ROSSI (a cura di), La santificazione nelle tradizioni Benedettina e Metodista, Il Segno dei Gabrielli editori, S. Pietro in Cariano, 1998, pp. 502.
Un interessante volume per gli studiosi di ecumenica e di fondamentale importanza per tutti coloro che intendono approfondire le loro conoscenze sul metodismo e sul mondo benedettino. Il motivo è presto detto, il lavoro, curato egregiamente dalla co-Vi- cepresidente della "World Methodist Historical Society" (revisori: B. Corsani e Réginald Grégoire), raccoglie le relazioni di una Conferenza ecumenica mondiale tenutasi a Rocca di Papa (Roma) dal 4 al 10 luglio 1998. 1 relatori oltre ad essere molto autorevoli garanti- scono all'opera un valore internazionale. Quello che colpisce principalmente del volume, che per le sue dimensioni è paragonabile quasi ad una piccola enciclopedia, è la vastità di angolature con cui è affrontato il tema. Camminando sul filo rosso della santificazione i vari autori toccano così diverse problematiche legate ai padri della chiesa, alla spiritualità agostiniana, alla conversione, alla perfezione, alla giustificazione per fede, alla sequela di Cristo come umiltà. Il mondo protestante di lingua italiana è presente nella raccolta con due brevi ma incisivi lavori di Emidio Campi e Sergio Carile. Le note a piè di pagine e l'indice dei passi biblici accentuano il carattere scientifico dell'opera. Suggestivo mi sembra il lavoro della monaca benedettina Pia Luislampe, la quale seguendo le tracce di quattro figure femminili (Macrina, Syncletica, Ildegarde di Bingen e Gertrude di Helfta) fa un quadro dei principi del monachesimo femminile, che non sarebbe stato, secondo l'autrice, solo castità e martirio ma anche interesse culturale e teologico. Segnalo infine il lavoro di J.M. Bonino, metodista, professore di Teologia sistematica a Buenos Aires, il quale partendo da «santificazione e liberazione» allarga il discorso alla santità' sociale dando interessanti spunti di carattere etico sulla edificazione della società. L'opera si chiude con un messaggio di sensibilizzazione che gli allora 130 partecipanti alla confe- renza rivolsero ai Leader del G7 riuniti per il summit del luglio 1994 a Napoli.
Stefano Mercurio
VITA DELLA SOCIETÀ
Convocazione assemblea
L'Assemblea ordinaria della Società di studi valdesi, a norma di Statuto,
è convocata per sabato 19 agosto 2000
alle ore 9:00 in prima convocazione e alle ore 17:00 in seconda convocazione presso la sala della Biblioteca valdese, in via Beckwith, 3, Torre Pellice, essendo indispo- nibile l'Aula sinodale.
Ordine del giorno
- elezione del presidente e del segretario dell'Assemblea
- relazione del Seggio sull'attività 1999-2000
- relazione finanziaria del Seggio sull'anno 1999
- accettazione dei nuovi soci
- illustrazione dell'attività del Centro culturale valdese 1999-2000
- discussione
- approvazione dell'operato del Seggio 1999-2000
- approvazione del bilancio preventivo 2001
- elezione del Seggio 2000-2001
- elezione dei revisori dei conti per l'anno 2000
- varie e eventuali
// Seggio, 13 maggio 2000
Serata pubblica della Società
La conferenza pubblica che tradizionalmente la SSV organizza a Torre Pellice nella serata del giorno di apertura del Sinodo valdo-metodista - e dunque in questo caso domenica 20 agosto 2000 - avrà luogo nell'aula sinodale, alle ore 21:00. e sarà tenuta dal
prof. Giorgio SPINI sul tema:
Riviste evangeliche e cultura italiana del primo Novecento.
144
VITA DELLA SOCIETÀ
Fondazione Centro Culturale Valdese - Società di Studi Valdesi Centro studi Piero Gobetti - Amici della biblioteca Piero Guicciardini
Giuseppe Gangale, profeta delle minoranze
Torre Pellice, 27-28 agosto 2000 Casa Valdese - Via Beckwith 2
domenica 27 agosto 2000 (presiede Giorgio Bouchard)
h. 15
GIORGIO BOUCHARD ALBERTO CABELLA
ANGELA GRAZIANO
Gangale chi era? Rivoluzione liberale e rivoluzione protestante. Un confronto Gobetti-Gangale Gobetti collaboratore di "Conscientia"
h. 16.45
Pausa caffè
h. 17
ALBERTO CAVAGLION
SAVERIO FESTA
Dibattito h. 21
La polemica di Claudio Treves contro "Conscientia" e i neoprotestanti Gangale e gli intellettuali meridionalisti
"Parole e immagini di una vita" Serata dedicata a Giuseppe Gangale
lunedì 28 agosto 2000
mattino h. 9 (presiede Franco Scaramuccia)
FRANCO SCARAMUCCIA Gangale battista
ANNA STRUMIA // mito della mancata Riforma in Italia
h. 10,30
Pausa caffè
h. 10,45
GIOVANNI ROTA VITO BARRESI CORRADO IANNINO
L'itinerario filosofico di Gangale Gangale linguista Gangale e la Calabria
pomeriggio h. 15 (presiede Sergio Rostagno)
SERGIO ROSTAGNO Introduzione alla teologia di Gangale
PAOLO BAGNOLI Doxa: una piccola Enciclopedia protestante
GIORGIO TOURN // Calvino di Gangale
h. 16,45
Pausa caffè
h. 17 Dibattito conclusivo, introdotto e moderato da Sergio Ribet
VITA DELLA SOCIETÙ
145
XXXX Convegno di studi sulla Riforma e sui movimenti religiosi in Italia
1950-2000. Cinquant' anni di storiografìa italiana sulla Riforma e i movimenti ereticali in Italia
Torre Pellice, 2-3 settembre 2000 Casa Valdese - Via Beckwith 2
Responsabile scientifico: Prof. Susanna Peyronel
Non si tratta di un tema cronologicamente convenzionale. Proprio nel 1950, in un momento in cui si riavviavano studi, ricerche, vita politica, veniva edito il volume collet- tivo Cinquant' anni di vita intellettuale italiana, in onore di Benedetto Croce. Era occa- sione per una riflessione, per fare il punto della situazione. Nei successivi cinquant'anni la storiografia italiana, tra impulsi e stimoli d'ogni tipo, ha dato frutti copiosi. Non ultimi certamente sono stati gli studi sulla Riforma in Italia, che si sono straordinariamente ar- ricchiti, sia dal punto di vista degli studiosi che vi si sono dedicati, sia per quel che ri- guarda l'esplorazione delle fonti, sia soprattutto per il dibattito interpretativo che si è aperto v
È sembrato dunque opportuno offrire alcune prime riflessioni su questo tema che è stato, per molti decenni, argomento anche di Convegni della Società di Studi Valdesi, senza presumere di dire alcuna parola definitiva su una questione di tale rilevanza. Pro- prio per questo, l'organizzazione dei lavori di quest'anno ha voluto assumere un aspetto più marcatamente seminariale, con discussioni aperte e tavole rotonde che avranno per tema gli argomenti sui quali maggiormente si sono avuti incrementi di studi o su cui, per contro, si sono registrati rallentamenti. Attenzione, parimenti, sarà dedicata agli strumenti di diffusione di questi studi: riviste e collane editoriali con origini e sviluppi anche assai diversi.
Si propone un incontro di lavoro che ha come unica presunzione quella di avviare discussioni e riflessioni non facili su mezzo secolo di studi sulla storia della Riforma in Italia.
PROGRAMMA
Sabato 2 settembre
Presidenza: Prof. Salvatore Caponetto (Università di Firenze).
Ore 15 - La storiografia italiana dal 1950 al 1975 (Prof. Paolo Simoncelli, Università "La Sapienza", Roma).
La storiografia italiana dal 1975 al 2000 (Dott. Guido Dall'Oglio, Università di Bologna).
Pausa.
Discussione.
146
VITA DELLA SOCIETÀ
Domenica 3 settembre
Ore 9.30 - // contributo del "Bollettino della Società di Studi Valdesi" (Dott. Daniele Tron).
La Casa Editrice Claudiana e la storia della Riforma in Italia (Dott. Carlo Papini).
Pausa
Dal "Corpus Reformatorum Italicorum" alla Collana "Studi e Testi per la Storia religiosa del Cinquecento" (Dott. Alberto Aubert, Università "La Sapienza", Roma).
Discussione
Domenica 3 settembre
Ore 15 - Tavola rotonda
Presidenza: Prof. Antonio Rotondò (Università di Firenze)
// valde siane simo (Prof. Massimo Firpo, Università di Torino)
La Riforma nelle città (Prof. Susanna Peyronel, Università di Milano)
La Riforma nei circoli aristocratici italiani (Prof. Francesco Gui,
Università "La Sapienza", Roma) La censura ecclesiastica: problemi di interpretazione dopo l'edizione degli
Index Librorum proibitorum (Prof. Ugo Rozzo, Università di Udine).
Pausa
Discussione
LIBRI RICEVUTI
Alla scoperta dell'alta Val Chisone. Storia, natura, cultura e tradizioni, Alzani, Pine- rolo 1998. pp. 63.
ASSESSORATO ALLA CULTURA COMUNITÀ
Montana Valli Chisone E Ger- MANASCA, Angoli di memoria. Presenze abitative nelle Valli Chisone e Germana - sca, Alzani, Pinerolo 1999. pp. 352.
Gian Vittorio Avondo. 4 stagioni a Pra- gelato, Alzani, Pinerolo 1999. pp. 88.
Gian Vittorio Avondo, 4 stagioni a Proli. Alzani, Pinerolo 1999, pp. 87.
Gian Vittorio Avondo, 4 stagioni a Se- striere, Alzani, Pinerolo 1999. pp. 86.
Gian Vittorio Avondo. 4 stagioni in Val Pellice, Alzani. Pinerolo 1999. pp. 102.
M. BOCCARDI, G. DagHERO, D. LONGO, Tre Denti di Cumiana, Alzani, Pinerolo 1999. pp. 186.
ORESTE CANAL. Alla ricerca di un futuro. La vita di un emigrante dalla Val Germanasca all'America. Alzani. Pinerolo 1999. pp. 212.
Lucia Cena PELLENC, La streghità delle streghe e una raccolta di ambarabà, Al- zani, Pinerolo 1999, pp. 113.
Centro Culturale Elvetico Valdese "Albert Schweitzer", Pluralismo reli- gioso. Valori di verità che si incontrano o si escludono? . Trieste 1999. pp. 55.
MARTA COLANGELO, Lo spazio contadino. Memorie di uomini e di donne della pia-
nura pinerolese prima della II guerra mondiale. Alzani, Pinerolo 1999. pp. 97.
WOLFGANG H. COLLUM, Hugenotten in Ba- den-Durlach. Die franzòsischen Protestan- ten in der Markgrafschaft Baden-Durlach, insbe sonde re in Friedrichstal und Wel- schneureut, Regionalkultur, Ubstadt- Weiher 1999, pp. 112.
GUIDO DALL'OLIO, Eretici e inquisitori nella Bologna del Cinquecento, Istituto per la storia di Bologna, Bologna 1999, pp. 480.
Giorgio Di Francesco, Tiziano VlNDEMMIO, Lungo la Via del sale: San- front, Alzani, Pinerolo 1998, pp. 326.
Giorgio Di Francesco, Tiziano VlNDEMMIO, Envie. Storia, cultura ed arte di una terra del Bracco. Alzani. Pinerolo 1999, pp. 266.
L INA DOLCE, L'acqua racconta. Meravigliosi racconti della Val Chisone e della Val Germanasca, Alzani. Pinerolo 1999. pp. 135.
TARCISIO Frairia, Voci del silenzio e della vita. Canti della Val Chisone, 2. Alzani. Pi- nerolo 1999. pp. 254.
Frate Angelo Cadetti osservante nel V cen- tenario della morte (1495-1995), a cura di Ovidio Capitani. Rinaldo Comba, Maria Consiglia De Matteis. Grado G. Merlo, n.118 del «Bollettino della Società per gli studi storici, archeologici ed artistici della provincia di Cuneo», pp. 266.
Maria Luisa Gangemi (a cura di), // tabu- lano del monastero San Benedetto di Ca- tania (1299-1633). presentazione di Salva-
us
LIBRI RICEVUTI
tore Tramontana. Società siciliana per la storia patria, Palermo 1999. pp. 642.
GIUSEPPE GliOZZI, Differenze e uguaglianza nella cultura europea moderna. Scritti 1966-1991, a cura di Anna Strumia, intro- duzione di Carlo Augusto Viano, Vivarium, Napoli 1993, pp. 604.
MARIO GONTIER. Pinerolo città della caval- leria. Il fascino dell'uniforme a cavallo di due secoli. Vol.l La cavalleria, la Belle Epoque, il sogno di un impero, Alzani. Pi- nerolo 1999, pp. 285.
Gruppo Ricerca Piscina, Tempo e luna. Previsioni meteorologiche e lunari, Alzani, Pinerolo 1999, pp. 197.
BERNARD GUI, Manuale dell'inquisitore, commento di Franco Cardini, nota al testo e traduzione di Narno Pinotti. Gallone, Mi- lano 1998, pp. 233.
MARiE-José La Cava - Robert Gui- CHARNAUD, L'Édit de Nantes. Sûreté et éducation, Montauban 1999, pp. 221.
GIUSEPPE La SCALA, Diario di un marinaio di leva (1897-1899), a cura di Giulio Vi- centini, prefazione di Emilio Franzina, Pa- ravia, Torino 1999, pp. 286.
ALESSANDRA MARZIALE. Poesie, Alzani, Pinerolo 1999, pp. 45.
ISABELLA MaSSABò RICCI (a cura di). L'e- pistolario di un re. Carlo Alberto a Maria di Robilant (1827-1844), introduzione di Carlo Ossola, traduzione di Alvise di Robi- lant, UTET, Torino 1999, pp. 143.
ALBERTO Maria Minerva, Vive le Roi de Sardaigne. Sabri e spade piemontesi del 1700. Volume primo, tavole e disegni del- l'autore, Alzani, Pinerolo 1996. pp. 147.
Grado Giovanni Merlo, Forme di religio- sità nell'Italia occidentale dei secoli XII e XIII, Società per gli studi storici, archeolo- gici ed artistici della provincia di Cuneo - Società storica vercellese, Cuneo - Vercelli 1997. pp. 229.
La montagna di Cumiana. Il parco dei Tre Denti e del Freidour, Alzani, Pinerolo 1999, pp. 103.
Fabrizio Pellegrino (a cura di), // Con- vento dei Cappuccini di Caraglio, Caraglio
1998. pp. 151.
POSTREMO VATE, Canti della mia anima e della mia terra, Alzani, Pinerolo 1999, pp. 127.
Liliana Rasetti, Emozioni, Alzani, Pine- rolo 1999. pp. 78.
MAURO RegINATO et al., Emigrazione pie- montese all'estero. Rassegna bibliografica. Regione Piemonte, Torino 1999, pp. 286.
Giuseppe Ricuperati (a cura di), Quando San Secondo diventò giacobino. Asti e la repubblica del luglio 1797. Atti del conve- gno "Asti repubblicana". Bicentenario della repubblica astense: 1797-1997, Edi- zioni dell'Orso, Alessandria 1999, pp. 459.
ROSANNA ROCCIA (a cura di). Memoriae civitatis. 22 maggio-! 5 luglio 1999, Città di Torino, 1999, pp. 32.
Michele Ruggiero, L'anno del fuoco (1799). I cosacchi e la massa cristiana in Piemonte, Alzani, Pinerolo 1999, pp. 181.
ENNIO SANDAL, Presenze erasmiane a Bre- scia, estratto da «Rinascimento», seconda serie, vol.. XXXV, pp. 343-348.
PierrobertO SCARAMELLA, L'Inquisizione romana e i Valdesi di Calabria, Editoriale scientifica, Napoli 1999, pp. 268.
ANNA STRUMIA. L'immaginazione repubbli- cana. Sparta e Israele nel dibattito filoso- fico-politico dell'età di Cromwell, presen- tazione di Giuseppe Gliozzi, Le Lettere, Fi- renze 1991, pp. 215.
UMBERTO TROGU, Poesie in musica. Canto libero di un poeta errante, Alzani, Pinerolo
1999, pp. 78 e CD allegato.
LIBRI RICEVUTI
149
Graziella Tron (a cura di). La bënno dû paterna (La gerla del palouà). Centro Cul- turale Valdese. Torre Pellice 1999, pp. 37.
ANDREA VIGNETTA. La montagna non è morta. Alzani, Pinerolo 1992. pp. 146.
Tesi di laurea:
RENZA TOBIA. Identità e partecipazione alla vita politica di una minoranza religiosa in età contemporanea. Linee per un percorso di storia della comunità valdese nella scuola elementare, relatore Claudi c C'dla- valle. Università di Torino, a.acc. )998-9>.
Video:
C'era una volta... Bouree!. Immagini attuali e filmati d'epoca, Alzani, Pinerolo 1999. durata 40*.
C'era una volta... il Gibuti. Raccolta di fil- mati d'epoca. Alzani. Pinerolo 1998. durata
50'.
INDICE
PAOLA BIANCHI - Riforma e ragion di Stato. Gruppi e fanne di vita religiosa nel Cuneese fra Cinque e Seicento
ALBERT De LANGE - L'importanza della politica religiosa nell'asilo dei valdesi in Germania ( 1699) nei territori luterani 27
Discussioni intorno alla Bibbia del Diodati 61
Milka Ventura Avanzinelli - La nuova edizione
della Bibbia tradotta e commentata da Giovanni
Diodati 63
SERGIO Bozzola - Postille alla lingua del Diodati 73
BRUNO CORSANI - La tradizione testuale e la
traduzione diodatina della Bibbia 79
Note e documenti
CHIARA POVERO - Con le accumulate armi della
retorica: una controversia contro i riformati delle Valli
nel Seicento 85
FERRUCCIO JALLA - Elenco dei partecipanti al
Rimpatrio condannati alla galera in Francia e ancora
in vita il 15 marzo 1707 100
Rassegne e discussioni
Chierici e valdesi nella poesia trobadorica (C. Papini) 105
152
Indice
Quinto centenario della nascita di Jan Laski
(1499-1560). Scheda bio-bibliografica (P. Gajewski) 109
Nuove prospettive sui Valdesi di Calabria (D. Dalmas) 115
Valdesi in letteratura (G. Tourn) 121
Franco Fortini tra i valdesi in Svizzera (D. Dalmas) 129
Segnalazioni bibliogra fiche 1 3 3
Vita della Società 143
Libri ricevuti 147
Note
Note
Note
Note
1
URLDESI
e mnssonERin due nwiORnnzE a [onFRonio
Augusto Comba
Valdesi e massoneria
Due minoranze a confronto
nato a Tonno nej 1923, è
Risorgi mento nell 'Università di Torino. È direttore respon sabiledel "Bollettino della So cietì di Studi valdesi"' È sta to componente della Giunta del Grande Oriente d'Italia (1961 -1970) e direttore delh sua rivsta ufficiale
HacuratoG M/CTM. Sera ti politici. Torino. Utet 1972. Fra lesue molte pubblicazio- ni ricordiamo: // Movimento repubb/ic ano dati azione mal zuiLin.i.ìll.t t<.>nd.ìZKin?d?lr'Rl (1831-1895), Torino, 1975, ApriJe 1 945 glieventi egli uo- mini, in A A VA'. L'insurre- zioneuiPiemonte, Tonno, 1985; / Valdesi e le loro Valli. Tori no. 1989; Cillv e Beckwicn tra i Valdesi deìlSOO, Torre Pelli ce. 1990; La Massoneria rra • pedagoga
. V\'. La i
La storia dei rapporti tra i valdesi e la massoneria è ricca di contraddi- zioni. Comincia con l'incontro a Tonno, nel 1787, del teologo danese (e massone «illuminato») Fnednch Miinter e il pastore, e futuro moderato- re, Retro Geymet che fonderà nel 1807 la loggia di Pinerolo. Continua, a quanto assicurano gli storici, con l'incontro tra il generale Beckvvith e il popolo valdese S'interrompe negli anni '60deil'Ortocentoperchéi vai desi sono cavounaiu ei massom sono mazziniani e ganbaldini Riprende negli anni '80 perché è tramite la massonena che pastori come Teofilo Gay. Matteo Prochet e Carlo Alberto Tron entrano in comunicazione con gli amici dei valdesi nell'Italia del Sud e negli Stati Uniti All'inizio del Novecento per lo stesso tramite entrano in contatto con ì valdesi Ugo Jan- ni e Giuseppe Gangale La stona si interrompe nel 1925 quando il fasci- smo mette al bando la massonena. Riprende nel secondo dopoguerra, ma s'interrompe nuovamente quando la massonena è inquinata dalla P2 di Gelli La possibilità o meno che i rapporti possano continuare - come in tutto il resto del mondo continuano, fra protestanti e massonena - è il te- ma conclusivo di questo libro
Claudiana
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Il protestantesimo di lingua italiana nella Svizzera
Figun- e movimenti tra Cinquecento e Ottocento
A cura di Emidio Campi e Giuseppe La Torre
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:rsiu di Zurigo. ,;>,„■ In Torn:
prcMdcnlc del
Saggi di E. Campi. E. hume. A. Laudi. A. de Lange. M.-C Pitassi. U. Rozzo. B. Schwartz. G. Spini. P. Tognina • L. Yischcr.
Un primo approccio alla storia del protestantesimo di lingua italiana nella Svizzera tra Cinquecento e Ottocento. Di essa si conoscono, in modo del tutto diseguale, solo alcuni momenti. Esistono pregevoli studi sul Cin- quecento e il Seicento, soprattutto per quanto riguarda i Grigioni. la Valtel- lina. Ginevra e Zurigo, \ ice\ersa. poco o nulla si sa circa il Settecento.
In che misura il pietismo e l'illuminismo penetrarono nelle chiese ita- liane dei Grigioni c in \ allei lina? Quando a\ venne il tramonto dell' italia- nità per gli oriundi lucchesi di Ginevra, quanto consistente fu il fenomeno del rifugio di nuovi esuli italiani per causa di religione nella Svizzera''
Ancora meno nota è la storia delle comunità protestanti di lingua italia- na sorte nel Ticino, nella Svizzera tedesca e francese xerso la fine dell'Ot- tocento in concomitanza con la costruzione e l'apertura delle linee ferra- tane intemazionali. In molti casi sorsero nuclei sparuti che si cstinscro
Il \ olitine raccoglie le relazioni presentale al comegnodi Bendo del 3- I u ^ I li. i r><)7 sul on 'le .Lime m nu > Lh Iiiilmu ii.ilun.i nella S\ izzera.
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La dissidenza religiosa in Russia
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Roma "La Sapienza '
ioni ricordiamo Hus et ? mouvement bussile de i. "n è ^.i^iFmdei'here-
ve au milieu du XIX siè- cle. "Cahiers du monde
llisscclsovicliilin:'
ediudallaClaudiana Ivan IV Jan Rom TA. D/spu-
(1570).l979;MartinLu- TERO. L'Anticristo Re- plica ad Ambrogio Cafa rino (1521). 1989. Anno
giubileo biblico?. 1999
La Riforma prolestante, che aveva scosso l' Europa lati no- germanica, coinvolse anche parte del mondo slavo ma non toccò quello slavo-orto- dosso di cui la Moscovia rappresentava il centro spirituale e politico do- po la caduta di Costantinopoli .
Ma nel XVI secolo anche la Russia venne scossa, con inevitabili im- plicazioni poliuche, da aspn contrasti religiosi, in parte eredità di una precedente tradizione eterodossa, in parte frutto di più recenti contro- versie interne alla chiesa ortodossa
Una consolidata tradizione stonografica indicava nel l' antitrinitari- smo il nocciolo dottrinale onginano del movimento, confluito poi in quello analogo delle vicine terre polacco-lituane; questa ricerca, basan- dosi su un riesame meticoloso delle fonti e su un' esegesi innovativa del- le testimonianze pervenute, propone una nlettura radicale della «eresia russa» del XVI secolo, ndisegnando in maniera significativa il quadro del dibattito religioso di quel secolo.
La ricca documentazione iconografica, in gran parte nuova per l'Ita- lia, consente un riscontro diretto con i temi toccati dalle fonti.
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Claudiana
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Franco Scaramuccia,
è paslore dell'Unione cnstianaevangelica batti- sta d'Italia dal 1985 ed è stato presidente dell'Unione dal 1992 al 1994.
Fra le sue pubblicazio- ni segnaliamo: JJ rappor- to fra la comunità civile e la comunità cristiana, Ro- ma, UCEBI. 1985; l'In- tesa battista: un'identità rispettata (con Renato Malocchi), Tonno, Clau- diana, 1994; Ibattfstt- li- berta, tolleranza, demo- crazla(conPaoloSpanu), Torino. Claudiana, 1998; L Intesa battista : un 'iden- tità rispettata, in AA.VV, Le Intese viste dalle con- fessioni. Napoli. Jovene. 1999, pp, 65-89.
Edward Clarice visse e lavorò a La Spezia per 46 anni, dal 1866 fino al 1912. come missionario battista indipenden- te. La sua opera si è contraddistinta soprattutto per l'impe- gno profuso nel settore educativo - in ogni città in cui ha operato ha aperto contemporaneamente alla chiesa anche una scuola - e nel campo dell'assistenza - in particolare durante l'epidemia di colera del 1884 e in seguito con l'apertura del- l' orfanotrofio (prima a Marola, poi a Migliarina).
La sua opera portò alla fondazione di chiese battiste nella provincia di La Spezia, ma anche in Toscana (Pistoia e Prato) e Veneto (Pordenone e Treviso).
Questa accurata ricostruzione della sua vita e dei primi anni della «Spezia Mission» getta luce su fatti storici finora poco conosciuti e analizzati. Questo libro è infatti il primo studio approfondito sugli inizi del movimento battista in Italia.
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