FIRENZE, G. BARBERA, EDITORE. 1881. DELLE VICENDE DELL'AGRICOLTURA IN ITALIA. DELLE VICENDE DELL''AGRICOLTURA IN ITALIA STUDIO E NOTE O BERTAGNO E LI FIRENZE. G. BARBERA, EDITORE. 1881. Compiute le formalità prescritte dalla Legge, i diritti di riproduzione I e traduzione sono riservati. Le L'AGRICOLTURA ETRUSCA. Le poche notizie che ci sono rimaste intorno alle cose della vecchia Etruria, ne autorizzano a ritenere che gli Etruschi abbiano avuto un’agricoltura flo- rida e ricca ancor prima dell’ epoca romana. * E ve- ramente ricca la trovò Roma venuta al loro contatto, e ricca la troviamo anche dopo la perdita della loro indipendenza politica ed economica. — Ma non pare che quella opulenza celebrata, la quale permetteva agli Etruschi di vivere la vita dei Sibariti (Diodoro) fosse principalmente un prodotto della loro agricoltura. L’ Etruria, in quell’ epoca remota, non era un paese essenzialmente agricolo; imperocchè nè la sua popo- lazione era per la massima parte occupata nei lavori della terra, nè faceva una ragguardevole esportazione di prodotti campestri. Si ha memoria di qualche commercio di grana- glie con Roma sin dal periodo eroico; ma non trat- tavasi di esportazioni rilevanti e continue, sibbene di * Vedi le Note a pag. 17. BERTAGNOLLI. 1 2 L’ AGRICOLTURA ETRUSCA. casi isolati, in occasione delle carestie che di quando in quando affliggevano la città nei primi secoli della sua esistenza.’ D’ altra parte il paese non era per sè stesso nè abbastanza esteso, nè abbastanza fertile per mantenere nella ricchezza, nel lusso e nell’ ozio una numerosa popolazione. I cespiti principali dell’ economia etrusca erano il commercio e le industrie. L’ agricoltura rappresentava una parte secondaria nella fortuna e nel lavoro na- zionale. Questo fenomeno di una buona agricoltura in un paese principalmente manifatturiero e commerciale si fece notare chiaramente anche presso i Fenici, i Cartaginesi ©’ e le colonie greche della bassa Italia nell’ antichità, nelle repubbliche e nei principati ita- liani del medio evo, e si discerne ai nostri tempi nei paesi più inciviliti dell Europa. E si spiega coll’ ab- bondanza dei capitali che una popolazione commer- ciante può mettere a disposizione dell’agricoltura ; colla facilità dello smercio dei prodotti per i bisogni delle industrie e per il mantenimento della popolazione operaja e della classe degl’industrianti, e finalmente colla possibilità di dare all’ economia agricola un in- dirizzo razionale, limitando la produzione a quei ce- spiti, i quali per le condizioni del clima, del terreno e del mercato promettono il maggior tornaconto, e traendo il resto dal di fuori. L’ Etruria aveva un commercio fiorentissimo. Col suo numeroso naviglio mercantile dominava i mari italiani, ad uno dei quali aveva dato il proprio nome I’ AGRICOLTURA ETRUSCA. 5) (Tosco o Tirreno), ad un altro il nome di una sua colonia (Adriatico-Adria); e mandava in tutte le parti i prodotti delle industrie nazionali insieme all’ am- bra ed allo stagno che ritirava dai paesi nordici e che greggi o lavorati rimetteva sui mercati del Me- diterraneo.‘ Non meno fiorenti del commercio erano le indu- strie della vecchia Etruria. La più antica e la più comune era la lavorazione della terra cotta nélla fab- bricazione di vasi e di oggetti di plastica. Segui- vano i lavori in metallo di utensili domestici e di oggetti di lusso, statue, idoli, specchi, vasi, calici, candelabri, adornamenti e di quei mille ninnoli che ora si vanno scavando con grande amore e dei quali sono già pieni i nostri musei. Di una grande importanza erano la produzione e la lavorazione del ferro. L’ Elba forniva il minerale,” a Populonia erano le usine per fonderlo,° ad Arezzo gli opifici per lavorarlo.!® Volterra lavorava gli alabastri;©' tutto il paese la lana; Tarquinio e Falerio il lino.” Anche la pesca era una ricca industria. Si cele- bravano le tonnare di Populonia e di Cossa,’ ed era conosciuto sin nella Grecia il pesce di Pirgi.l* ‘ Questi prodotti delle industrie nazionali si man- davano fuori per i porti di Pisa e di Populonia, o si trasportavano, per una strada posta sotto la prote- — zione internazionale, oltre le Alpi, o si smerciavano ai popoli italici sui grandi mercati del tempio di Vol- tunna‘° e della selva Feronia sul Capenate.®" Altro ramo importantissimo di commercio era il 4 L' AGRICOLTURA ETRUSCA. legname di costruzione, che si tagliava nelle magni- fiche selve dell’ Apennino etrusco e che in parte la- voravasi nei grandiosi cantieri di Populonia e di Pisa ed in parte esportavasi greggio.” Coi commerci e colle industrie gli Etruschi mi- sero assieme i mezzi necessari per la esecuzione di quei grandiosi lavori idraulici che formano la pagina più gloriosa della loro storia, e che in pari tempo sono una prova evidente delle buone condizioni della loro economia agricola e del valore che essi annet- tevano al terreno. Imperocchè in paesi, nei quali l’agri- coltura è poco sviluppata o in decadenza, non v° è mai penuria di terreno, e si osserva generalmente la tendenza a trascurare i terreni coltivabili anzichè a ridurne altri a coltura. La grande valle del Po era una immensa palude, che da una parte faceva delle punte sin quasi ai piedi delle Alpi e dall’ altra era racchiusa dall’ Apennino. Gli Etruschi la prosciugarono, o ne prepararono il prosciugamento, svolgendo ad Adria la foce del Po, immettendolo in mare per varii canali condotti tra- verso alle paludi ed affondando i letti dei numerosi suoi confluenti.®’? Con questi lavori e con altri spe- ciali ®® diedero opera al prosciugamento dei territori di Mantova, di Verona e di Padova. Non era in condizioni idrauliche migliori la odierna Toscana. Pressochè tutte le città fondate dagli Etru- schi sorgevano sulle alture. Erano in alto Volterra, Fiesole, Perugia, Cortona, Volsinio, Falerio, Vejo, Fi- dene ed altre. Ciò prova che le valli e le pianure erano ingombrate dalle acque, o rese malsane dalle L° AGRICOLTURA ETRUSCA. 5 paludi. E veramente il corso dell’ Arno aveva dei na- turali ritegni che lo facevano ristagnare in varii luo- ghi. Il Valdarno superiore e le pianure di Arezzo, Cortona e Firenze erano impaludate. Gli Etruschi provvidero al loro prosciugamento col taglio all’ In- cisa e coll’ altro della Golfolina.‘*’ Rinserrarono con colmate le acque del Clani, fecero altri lavori a Chiusi, a Galano e sul Perugino, e più giù nel Lazio resero abitabili e colte le paludi Pontine, che più tardi ri- caddero in balia delle acque. Vuole taluno che gli Etruschi abbiano eseguito anche dei grandiosi lavori d’ irrigazione.®® Non ci soccorre la memoria di aver trovato negli antichi scrittori aleun cenno di opere di tal fatta, nè sappia- mo che se ne sia mai scoperta alcuna traccia. Del re- sto il terreno frastagliato di monti e colline, e piano unicamente nella parte paludosa della marina, non si sarebbe prestato all’ esecuzione di grandi canali irri- gatorii. Nè, a dir vero, ve n’ era bisogno, poichè il paese era così ricco d’ acque, che la irrigazione po- teva farsi ovunque senza speciali lavori di derivazione, o grandiose opere idrauliche. E gli Etruschi ne usa- rono infatti largamente,” ed anzi, come vedremo più tardi, se ne fecero maestri ai Romani.®% Gli Annalisti etruschi lasciarono scritto che il ter- reno era ripartito per tribù, centurie e curie; che ogni centuria constava di 200 jugeri, e che due jugeri formavano il lotto delle singole famiglie. Questa notizia non può esser presa alla lettera se non sotto la premessa che la ripartizione sia stata fatta in un’epoca, nella quale il paese era ancora disa- 6 L’ AGRICOLTURA ETRUSCA. bitato e non ridotto a coltura, e che abbia rappre- sentato il primo passo dalla vita pastorale e nomade alla vita stabile ed agricola. Nel qual caso la di- stribuzione dei terreni sarebbe stata un’ assegnazione delle abitazioni, ed i due jugeri avrebbero servito per la costruzione di una casa e per la coltivazione di un orto. Il terreno fuori dell’ abitato sarebbe stato in parte coltivato in comune, in parte lasciato a pascolo per uso di tutti. Gray,” ad onta che Livio abbia seritto non po- tersi il pomerio nè arare, nè abitare senza sacrile- gio,’ assicura che i due jugeri assegnati alle singole famiglie etrusche erano entro il pomerio, e che i ricchi, oltre a questo pezzo di terra nelle città, avevano grandi possedimenti nelle campagne. Spiegata in questa guisa la distribuzione delle terre, essa non sarebbe in contraddizione con ciò che sappiamo degli ordinamenti etruschi. La base della loro costituzione era il dominio di una casta (i Lueu- moni) che costituiva la nobiltà ed il sacerdozio del paese.‘ Basta nominare la nobiltà ed il sacerdozio, perchè ricorra il pensiero di grandi proprietari di terre. Le notizie che si hanno della ricchezza e del lusso smodato degli Etruschi, non si conciliano colla preva- lenza della piccola proprietà e colla eguaglianza delle fortune. Che se in origine avesse coesistito accanto alla grande la piccola proprietà, questa non avrebbe potuto durare a lungo. Nessun maggior pericolo per il campicello del contadino che la vicinanza di un grande podere. I proprietari di grandi poderi ten- dono ad assorbire i piccoli, e vi riescono, perchè ne L’ AGRICOLTURA ETRUSCA. 7 hanno i mezzi e perchè la piccola proprietà non può sostenere a lungo la concorrenza della grande, e il piccolo proprietario, messo alle strette, finisce per offrire la sua opera a giornata, ove il lavoro sia con- tinuo e ben retribuito, o per applicarsi ad altre pro- fessioni, invece di coltivare un pezzo di terreno per proprio conto, ma senza profitto. Livio lascia chiaramente indovinare che il ter- reno dell’ Etruria era diviso tra pochi.®* Non si sarà trattato certamente di poderi scon- finati, tranne che nella regione che si stendeva tra Volterra e Volsinio, ed in generale nei paesi pasco- livi della marina, nei quali non incontravansi grandi centri di popolazione.’ Il territorio era popolato e non soverchio il terreno coltivabile ; frequenti e vaste le selve, persino in pianura. I luoghi più coltivati e nei quali la proprietà era meno concentrata, erano la re- gione tra Fiesole ed Arezzo,®® i territori di Santa Fiora e di Radicofani, nei quali fiorivano le potenti repubbliche di Tarquinio e di Volsinio,®” il territorio di Vejo,© la regione appoggiata all’ Apennino e la valle del Tevere, ove giacevano i centri popolosi di Cortona, di Perugia e di Clusio.!® Comunque sia, abbiamo memorie di un’ aristocra- zia ricchissima, di una densa popolazione servile, ma nessuna dell’ esistenza di un ceto di contadini e di piccoli proprietari. La prevalenza della grande proprietà e la molti- tudine di schiavi, che possedeva 1° Etruria, fanno rite- nere che il sistema prevalente di coltura fosse la la- vorazione ad economia, o per mano propria. 8 L’ AGRICOLTURA ETRUSCA. Ciò non per tanto le campagne non erano disabi- tate. Anzi da una notizia riportata da Livio apparisce che erano seminate di borgate e di casali." Da questa notizia alcuno ©“? ha voluto desumere che fin da quei tempi l’ Etruria fosse coltivata dai mezzajuoli. L’ affitto, col quale coltivavansi a quei tempi i terreni pubblici e del sacerdozio, e che tro- veremo più tardi seguito nel Lazio, era infatti un sistema basato sulla colonia parziaria. Ma ]’ esistenza dei casali non era una conseguenza di tale sistema. Imperocchè anche i coltivatori servi risiedevano nelle campagne sotto la direzione di villici od agenti. Si riteneva dagli storici antichi, e da taluni si ritiene anche adesso, che 1’ unico grano coltivato dai prischi Italici, e quindi anche dagli Etruschi, fosse il farro, una specie di spelta, e che il frumento fosse loro sconosciuto. Nelle terramare della valle del Po, che ci conser- vano i resti delle prime stazioni dei popoli italici, si scavano continuamente grani di frumento, residui di lino, di viti, di olivi, ossa di buoi, di pecore, di capre e particolarmente di majali.‘ Queste scoperte, men- tre fanno testimonianza dell’ antichità dell’ agricoltura italica, smentiscono chiaramente la notizia che a quei tempi fosse sconosciuto il frumento. Sofocle, nel suo 7rittolemo, loda il frumento d’Italia a preferenza di quello degli altri paesi. Ed anche Ermippo, contemporaneo di Pericle, ne parla con favore.” Plinio lamenta che ai tempi di Alessandro il fru- mento italico avesse perduto fra i Greci l’ antico fa- L'AGRICOLTURA ETRUSCA. 9 vore.“® Forse questo lamento era infondato, poichè sappiamo che Atene nell’ anno 325 mandava Milziade con una piccola flotta nell’ Adriatico per fondarvi una colonia che assicurasse 1’ incetta del frumento.!®* Che se realmente il nostro frumento era a quei giorni meno ricercato in Grecia che per il passato, ciò non può attribuirsi ad un regresso dell’ agricoltura, od all’ abbandono della coltivazione di questo cereale ; ma da una parte all’ accrescimento della popolazione italica, per il quale si era diminuita la possibilità della esportazione, e dall’altra al fatto che nel frat- tempo si erano dischiusi alla Grecia la Dacia, 1° Il- lirio, ’ Asia e 1 Egitto, d’ onde poteva ritirarsi con una spesa minore. Per 1’ Italia il frumento è una coltivazione pri- mordiale. Può essere stato abbandonato momentanea- mente, od anche per un lungo periodo in epoche di grande civiltà, per surrogarlo con coltivazioni più ri- muneratrici, o in epoche di barbarie per surrogarlo con cereali che rendessero un maggiore volume con minore fatica e con piccola spesa; ma non è ammis- sibile che sia stato sconosciuto. Anche la vite e l’ olivo sono per l’ Italia due piante primordiali, la cui introduzione risale all’ età pre- istoriche. Plinio, appoggiato a talune notizie riferite circa i primi tempi di Roma, fece credere che la coltura della vite fosse posteriore alla fondazione della città. A noi pare che questa opinione non sia fondata.Il mito narra varii episodi, dai quali si desume che nel Lazio cono- scevasi la vite e fabbricavasi il vino prima di Roma." 10 L’ AGRICOLTURA ETRUSCA. Ateneo (I e XV) loda il vino etrusco, che dopo la salute costituiva insieme alle muse la felicità della ‘ sua vita, ed il vino Adriano che digerivasi facilmente senza cagionare molestie. Ignorasi in quali proporzioni si esercitasse la viti- coltura. Ma se si considerano la configurazione del paese e la natura del terreno dell’ Etruria, non si può a meno di ritenere che essa fosse di principale im- portanza. Egli è certo che sotto i Romani era la prin- cipale coltivazione, e che prima della conquista la dol- cezza del vino etrusco fu il movente delle invasioni galliche nella valle del Po al tempo dei Re, e nell’ Etru- ria e nel Lazio sotto la Repubblica.®” Non molte memorie si hanno dell’ olivo; ma non pare esatta la notizia dell’ annalista Fenestella, che questa coltivazione fosse stata introdotta in Italia ai tempi dei Tarquinii.©° La introduzione dell’ olivo è attribuita al mitologico Aristeo (Diodoro, Pausania), e così si farebbe risalire ai tempi, nei quali Minosse sbarcò nella Sicilia per la ricerca di Dedalo. E che fosse conosciuto anche dagli Etruschi sin dalla più remota antichità, è posto fuor di dubbio dai residui d’ olivo che si scavano nelle terramare della valle del Po. Pare che uno dei centri della produzione dell’ olio fosse Volsinio.® Il lino era coltivato principalmente a Falerio ed a Tarquinio, e nelle campagne situate sulla riva destra del Tevere dalla confluenza dell’ Aniene sino alla foce.®? L’ Italia è celebrata dagli storici antichi per la rie- chezza delle sue acque e dei suoi pascoli, e per la mol- titudine del bestiame.!” L'AGRICOLTURA ETRUSCA. 11 Taluno ha voluto derivare il nome d’ Italia da vitulus, con eviaente allusione all’ abbondanza dei bo- vini.©” In tutti i paesi, che hanno una buona agri- coltura, l'allevamento bovino tiene un buon posto nell’ economia del bestiame. E così sarà stato anche nell’ Italia antica. Ciò non per tanto noi non pos- siamo ritenere che il paese fosse straordinariamente rieco di questa specie. Il bue sul continente italiano non destinavasi agli scopi del macello, ma allevavasi unicamente per il lavoro, al quale, piuttostochè alla produzione della carne, parevano predisposti special- mente i buoi delia razza etrusca.®* Mancava quindi lo scopo principale per un esteso allevamento della spe- cie bovina. Pare che 1’ Etruria possedesse dei cavalli di buona razza, che non di rado si presentavano alle corse della Grecia, e qualche volta ne uscivano vincitori.®® Al- l’ epoca romana era tenuta in pregio anche per la ricchezza cavallina.” Molto esteso era 1’ allevamento del bestiame mi- nuto; ed anzi tutto, quello delle pecore, principalmente per la produzione della lana, che era pressochè l’unica materia prima per la confezione di vestiario, co- perte, ec., e quindi per la produzione del latte e della carne; poi quello delle capre egualmente per la pro- duzione di animali da macello e di latticini," e final- mente quello dei majali che ingrassavansi all’ ombra delle innumerevoli quercie segnalate da Teofrasto (V, 9). Archestrato chiama 1’ Italia la terra delle selve. Oltre alle Alpi che la circondavano con una fitta e ri- gogliosa vegetazione boschiva, era rivestito di magnifi- 12 L’ AGRICOLTURA ETRUSCA. che selve di pini }’Apennino,®? e boschi vastissimi si stendevano nelle pianure. Nel luogo ove ora è Torino, era una foltissima selva. Da Parma al mare si sten- deva una selva che s’ incrociava con altra, la quale partiva da Lugo e s’ addentrava nella Venezia. Presso Perugia, Clusio e Rusella erano belle selve di abeti.‘ La selva Ciminia, che divideva il Lazio dall’ Etruria, non era meno folta nè meno grandiosa delle foreste germaniche.” Vejo era circondata di boschi. Tra Vejo e il mare si spiegava la selva Mesia, che Roma strappò agli Etruschi sotto Anco ‘Marcio. Era ed è opinione molto diffusa ed accreditata che colla cessazione della indipendenza dell’ Etruria ne sia decaduta anche l’ agricoltura, resa sterile e dis- sanguata dal mal governo di Roma. Questa ‘opinione, più che ad uno studio dello stato reale delle cose, si appoggia ad alcune frasi di Varrone e di Colu- mella, colle quali deplorasi 1’ indirizzo dell’ agricoltura italiana dell’ epoca romana di fronte alle condizioni dell’ agricoltura antica, e forse anche alla tetra de- serizione delle condizioni sociali ed economiche del- Etruria fatta da Tiberio Gracco. Ridurremo più tardi al loro giusto valore i lamenti dei due insigni scrittori di cose agrarie, e vedremo dove mirasse il tribuno colle sue desolanti considerazioni sull’ Etruria. Qui os- serveremo in generale non sussistere affatto che i Ro- mani abbiano ridotto a mal partito | agricoltura dei paesi conquistati; constare anzi che 1’ hanno promossa grandemente e sviluppata. I Romani furono da per tutto banditori di civiltà. I ricchi e gli speculatori L'AGRICOLTURA ETRUSCA. 13 acquistavano terre nelle provincie e le coltivavano con poderosi capitali. I prodotti anche dei luoghi più lon- tani trovavano in Roma un mercato sempre pronto ad assorbirli ed a pagarli lautamente. Di più Roma non era una città industriale e preferiva i prodotti lavorati ai prodotti greggi. Le carni vi si spedivano o salate od insaccate, il grano già ridotto in farina, le lane già tessute, così che essa lasciò sussistere nelle provincie e promosse, oltre all’ agricoltura, an- che le industrie che ne derivano e che contribuiscono a darle solidità e perfezione. Del resto, prescindendo anche dalla considerazione che lo stesso Varrone parlando della produzione dei cereali ha preso 1’ Etruria come il paese che dava il prodotto relativamente più abbondante,‘ ciò che hanno lasciato seritto gli storici dei Romani circa le condizioni dell’ agricoltura etrusca nel periodo imperiale, non ac- cenna ad uno stato di decadenza, ma fa palese una terra coltivata egregiamente e largamente dotata di tutto ciò che la natura e l’arte dell’ uomo potevano prodigarle.l! Di sopra abbiamo espresso il parere che la col- tivazione della terra non fosse il cespite principale dell’ economia etrusca, e che la ricchezza dell’ agricol- tura fosse un corollario della importanza e della flo- ridezza dei commerci e delle industrie. Nell’ epoca ro- mana le cose mutarono. Le industrie erano decadute ; decaduti i commerci che aveano ricevuto già un colpo funesto colla battaglia navale di Cuma, ove per opera di Gerone di Siracusa era stata disfatta per sempre la potenza marittima etrusca ; diminuita notevolmente era 14 L'AGRICOLTURA ETRUSCA. la popolazione, l'indipendenza economica dell’ Etruria era cessata. Se prima i suoi varii centri industriali costituivano altrettanti Stati isolati di Thiinen, i cui circoli esterni si estendevano sino agli estremi con- fini del paese e forse più oltre, ora 1’ Etruria, dive- nuta provincia suburbana, fu chiamata a produrre per l’approvvigionamento della residenza colossale dei padroni del mondo. Sulla terra etrusca si avvicenda- vano le fattorie dei ricchi indigeni con quelle dei ca- valieri romani ; dalle une e dalle altre si mandavano a Roma grani, vini, animali da macello, formaggi, prodotti del poliajo, legnami e particolarmente frutta ed ortaggi.“ L’ agricoltura etrusca aveva perduto il suo tipo, la sua importanza locale ; aveva cambiato indirizzo. In questo periodo 1’ Etruria, divenuta uno dei circoli di un altro Stato isolato, fu una regione veramente agricola. Egli è ben vero che fra questi due periodi corre un’ altra differenza che conviene notare, e che non ri- donda a favore del periodo romano. Ne] primo periodo la ricchezza dell’ agricoltura era una conseguenza della importanza commerciale ed industriale del paese. Finchè i commerci e le in- dustrie si mantenevano in fiore, l’ agricoltura non po- teva decadere, anzi doveva progredire continuamente e perfezionarsi così per la quantità come per la qua- lità dei prodotti. Nel secondo periodo 1° agricoltura etrusca, dive- nuta ancella dell’ economia di Roma, non poteva so- stenersi se non in ragione dei capitali e degli ajuti che le venivano da quel poderoso centro esteriore. L’ AGRICOLTURA ETRUSCA. 15 Di più ancora. Siccome le ricchezze e i prodotti del suolo etrusco si consumavano lungi da esso e difficil- mente in ciò che Roma restituiva era un equo com- penso di ciò che ne ritirava, 1’ agricoltura doveva lentamente sì, ma continuamente deperire per deca- dere del tutto colla caduta di Roma. Parrebbe quasi che un’ agricoltura basata esciusi- vamente sulle proprie risorse non potesse conservarsi alla lunga prospera e felice, e che, come è per inten- sità inferiore all’ agricoltura degli Stati commerciali, le fosse inferiore anche per consistenza e durata. D’onde risulterebbe che non è reale il contrasto fra gli interessi dell’ agricoltura e quelli delle industrie, e che anzi il mezzo, se non più semplice e più fa- cile, certamente il più sicuro di promuovere stabil- mente l’ agricoltura è quello di favorire in ogni ma- niera l'incremento dei commerci e l’attività industriale della popolazione. Se non che, ragionando della ricchezza degli Etruschi, dice Polibio (II), non conviene limitare il di- scorso al paese che possedevano ai suoi tempi, ma bisogna abbracciare eziandio la parte superiore della penisola che per l’ addietro apparteneva in tutto od in parte al loro dominio e dalla quale avevano tratto immense risorse. Era 1’ ampia valle del Po che essi avevano in gran parte prosciugata, ridotta a coltura e resa fertile e popolosa.!"’ I Galli avevano conservato la buona agricoltur: etrusca e vi aveano aggiunto una ricca pastorizia, i cui prodotti costituivano la base della loro nutrizione. 16 L'AGRICOLTURA ETRUSCA. I prodotti del paese, i frumenti, le carni, i for- maggi, la lana facevano capo, per mezzo del Po, ai porti del mare Adriatico, d’ onde si mandavano per mare o verso la Grecia, o ai porti più vicini a Roma, o nelle città greche dell’ Italia meridionale. Il paese si prestava mirabilmente all’ allevamento animale così per la vicinanza delle montagne che of- frivano ottimi pascoli estivi, come per 1° abbondanza delle acque e per la facilità colla quale si derivavano per gli usi dell'agricoltura. Le lotte frequenti ed accanite fra i Salassi della valle d’ Aosta e gli abitatori della pianura per diffe- renze relative alle acque della Dora, mostrano di quale importanza fosse a quei tempi nell’ Italia superiore la irrigazione.” La regione che forma 1’ attuale Lombardia, era considerata come la parte più ferace della penisola, colla quale si osava appena confrontare la felice Cam- pania.” La città più fiorente era Cremona. Non le era molto inferiore per ricchezze e ferti- lità l Emilia, nelia quale Modena predominava sulle altre città, particolarmente per la importanza delle sue lavorazioni di terra cotta ‘’ e delle industrie tessili. Della feracità della Venezia si hanno notizie esa- gerate, incredibili." Che se le spogliamo della veste favolosa, di cui le ha adornate l immaginativa fan- tasia dei vecchi scrittori, resta pur sempre un fondo di vero, la ricchezza non comune del suo territorio. La Venezia era celebrata particolarmente per l’ ab- bondanza delle pecore e per i suoi cavalli. Delle sue lane parlano tutti gli antichi scrittori, L' AGRICOLTURA ETRUSCA. 17 che si sono occupati di quella regione. Mercè il la- nificio si erano inalzate a grande splendore le città di Padova “*® e di Verona.8® I suoi cavalli erano molto stimati in Grecia per le corse. ©" Dionigio di Siracusa ne importò le razze in Sicilia. Era conosciuta favorevolmente la Venezia anche per la buona qualità dei suoi vini. Il vino refzco, che producevasi sul Veronese, gareggiava coi migliori d’Italia e formava la delizia di Augusto.®® Era pre- giato un altro vino di Verona che si faceva coll’ uva fregellana.8® Oltre ai vini veronesi, avevano buon nome il pacino del Friuli, che dicevasi aver prolun- gato la vita a Livia, il vino di Adria ed i vini vi- centini conosciuti sin nella Grecia.® Il vino di Pa- dova per contrario era poco accreditato, perchè sapeva di salice.” Le viti nella Venezia erano maritate all’ olmo, al pioppo, al frassino ed al salice ed erano tirate in alto a mo’ di festoni, così da far dire al poeta: Pictaque pampineis videris arva jugis. 89 NOTE. (i) ScnLosser, Weltgeschichte, 139; Miner, Die Etrusker, I, 255; Gray, The History of Etruria, I, 286 e seg. VERG., Georg., II, 533, forse esagerando le risorse materiali e morali che gli antichi Etruschi traevano dall’ agricoltura, canta: Ste fortis Etruria cerevit. BERTAGNOLLI. 2 18 L' AGRICOLTURA ETRUSCA. @Pocrs., III; Lrv., II, 14; IX, 36 e XXII, 3. (3 DronIe. D’ ALICARN., I; Diopor., V. ® Sin dai tempi di Romolo la città in momenti di care- stie faceva venire del frumento per il Tevere dalla parte di Crustumenio (Dronta., II, 53). In momenti di bisogno l’ Etru- ria mandava grani a Roma anche nei tempi successivi. Quando Publio Scipione prese ad armare la flotta per pas- sare nell’ Africa, contribuirono con donativi di frumento Cere, Volterra, Arezzo, Perugia, Clusio e Rosello (Liv., XXVIII, 45). Più di frequente veniva grano a Roma da Ulusio, Arezzo e Pisa (MiiLLer, I, 233 e seg.). 6) LENORMANT, Manuel de Vhistoire ancienne de VOrient, III, 122, cita un passo di RENAN che dice: « La Phénicie est le seul pays du monde, où l’industrie agricole ait laissé des restes grandioses. » (5 Dropor., XIII, 15. 7) ABEKEN, Mattelitalien vor den Zeiten ròmischer Herr- schaft, 283. Gli Etruschi avevano stipulato dei trattati di commercio coi Cartaginesi (AristoT., Repudi., III, 6). ® Chiamano gli Etruschi industriosissimi AtHEN., XV ed EracL. Pont., 16. 0% BuimneR, Die gewerbliche Thitigkeit der Volker des klassischen Alterthums, 104-106; Bicasenscnirz, Die Haupt- stitten des Gewerbefleisses im klassischen Alterthume, 30. ‘0 AtrHEN., I, 28; BicnsensoHnitz, 34, 45 e 46. Melvodoro di Skepsis rimprovera ai Romani di aver fatto la guerra a Volsinio per impossessarsi di 2000 statue di bronzo che ‘erano in quella città (Prx., N. H., XXXIV). (1) MuLLER, I, 244. (12° Varr. in Servio; Vero., Aneid., X, 174; STRAB., V, 223. (4 All’armamento della flotta di Scipione, Populonia contribuì con ferro greggio, ed Arezzo che, oltre ad essere la Samos italica, possedeva molti opifici militari, con una L' AGRICOLTURA ETRUSCA. 19 grande quantità d'armi e d’ armature (Liv., XXVIII, 45; BLiMmNER, 108). (45) BicnseNseniTz, 30. (15) BicHseNscHirTz, 76; BriMNER, 107. (!) < Inductosque simul gentilia linea Faliscos » (Sin. Irat., Pun., IV, 223.) (1 STraB, V, 223 e 225. (18) ATHEN., VI, 224. (19) Lrv., IV, 23. (0) Lrv., I, 30; SrRrAB., V, 22. (@1)-STRaB., V, 223; MiLLER, 237. @) MiiLuer, I, 227; NieBunr, I, 188; IncHIRAMI, Storia della Toscana, I, 218; Gray, I, 290, 291. All’ epoca romana era ancora impaludata tutta la spiaggia del mare da Ra- venna ad Aquileja, e v era qualche palude nei contadi di Mantova, Brescia, Reggio e Como (StRAB., V). Era ancora in parte paludoso il paese fra Modena e Bologna (ApPIAN., III). @3 Le fosse Filistine, l’attuale Tartaro (Vist, Notizie storiche di Mantova, I. 114); la fossa Clodia nel Padovano (RE, Saggio storico sullo stato e sulle vicende dell’ agricoltura antica dei paesi mosti fra VAdriatico, V Alpe, V Appennino e il Tronto, 36). @4 IncatramI, II, 10. — Vedi rapporto agl’impaluda- menti dell’ Arno ed alle opere di prosciugamento degli Etru- schi, Giov. VILLANI, Hist. fior., I, 43 e NIEBURR, I, 188. (23) Gray, I, 290, 291, 388. (2 Gray, I, 280 e seg., attribuisce la ricchezza dell’ agri- coltura dell’ Etruria all’ arte ingegnosissima che gli Etru- schi impiegavano nella derivazione delle acque per la irri- gazione, e che avrebbero imparato nella Caldea, d’ onde li fa provenire. ©) Trorr., Storia delle piante, V,9; ELIAN., Storie varie, IX, 16. 20 L’ AGRICOLTURA ETRUSCA, (9 Vedi il Tit. III, cap. 1. (9 La nostra agricoltura è anteriore a tutti i ricordi storici. Non si conosce il periodo della vita pastorale. Varii scrittori parlano degli abitatori d’ Italia prima del periodo agricolo, ma non sono d’ accordo sui nomi. Per alcuni sono gli Aborigeni, per altri i Siculi, per altri gli Enotri, per altri i Tirreni, per altri ancora i Pelasgi, e così via dicendo. — Serv. in Verc., Anceid., XI, 817, parlando dei primi abi- tatori del Lazio, narra che i Siculi ne furono scacciati dai Sicani ed i Sicani dagli Aborigeni. Da questo incalzarsi e succedersi di tante popolazioni sullo stesso terreno si de- sume che esse non avevano nè sedi fisse, nè agricoltura. I popoli che hanno case e piantagioni non si ritirano vinti per far posto al vincitore, ma restano a sua discrezione come tributari, servi o schiavi. — ArIstoT., Polt., VII, 10, ricorda i tempi, senza determinarli più da vicino, nei quali le popolazioni italiche passarono dalla vita pastorale al- l'agricoltura. — Anche Pomp. Troc. in Jusrin., XLIII, accenna ad un periodo, nel quale non v'era proprietà pri- vata, e tutto era comune. — SaLLusr. in CatiL., VI, chiama i primi abitatori d’Italia, « genus hominum agreste, sine legibus, sine imperio, liberum atque solutum. » — E Gray, I, 80 e seg., aggiunge che erano pastori nomadi, i quali ve- nivano dall’ Oriente spingendosi innanzi i propri greggi; che non avevano leggi, esercito, naviglio, istituzioni; che erano pastori, cacciatori e pescatori. — BARDETTI, Dei primi abitatori d’ Italia, dice che erano rozzi, selvatici ed indisci- plinati; DronIe., I, 10, che non avevano case; RuBINO, Beitrige zur Vorgeschichte Italiens, 266, 267, che portavano nuda la parte superiore del corpo e rivestite di pelli le al- tre parti. — Mirsir. Less. in DronIe., I, dice che si chia- mavano Pelasgi, perchè vagavano a stormi come le cicogne (7522070) da un paese all’altro. — Vere., Aneid., VIII, adombra nei suoi Aborigeni un periodo anteriore all’epoca pastorale: «Queis neque mos neque cultus erat, nec jun- gere tauros, — Sed ramis atque asper victu venatus alebat. » Descrive un periodo molto più progredito, ove, parlando L'AGRICOLTURA ETRUSCA. 21 degli Aurunci, dice (VII) che non avevano una proprietà fondiaria privata, ma che utilizzavano in comune, come pa- stori ed agricoltori, i terreni loro concessi dai Laurentini. — Per la comunanza dei terreni, vedi anche ELIian., Natur. animal., V,9, ove, parlando dei Reggiani e dei Locresi, narra che era loro libero di passare dal territorio degli uni a quello degli altri per esercitarvi l'agricoltura e la pastorizia. (3) Nella infanzia dei popoli sogliono essere di proprietà privata soltanto la casa e l'orto circostante ; il resto è dello Stato od è comune. Dronte., I, parlando dell’ assegnazione di terreno fatta da Latino ai compagni di Enea, dice chia- ramente : per abitarvi. Vedi anche Zoxar., Anmnal., INIL An- che Vero., neid., V, parlando della fondazione della co- lonia trojana di Erice in Sicilia, dice di Enea: « sortitur domus. » E così Giuserpe EBrro, I, 5, chiama le prime di- stribuzioni di terre assegnazione delle abitazioni. Anche adesso presso gli Aztechi del Messico la proprietà privata si limita alla casa ed al giardino (CisrarIo, Della schiavitù e del servaggio, II, 30). (81) I, 216, 234 e II, 11. (2) Liv., Dec. I, lib. 1: «hoc spatium quod neque arari neque habitari fas erat.» AceLn., XII, 14, descrive il po- merio, ma non dice che ron potesse nè ararsi, nè abitarsi. (33) Scanosser, Universalgeschichte, 137. (3) II, 44 e IX, 36. (3) MuLLER, I, 217. (39 Lrv., XXII, 3: «Regio erat in primis Italia ferti- lis, Etrusci campi, qui Faesulas inter Arretiumque jacent, frumenti aè pecoris et omrium copia rerum opulenti. » (7 MiiLLer, I, 218. Dalla selva Ciminia che guardava sui territori di Volsinio e Tarquinio, si spiegava dinanzi una lunga distesa di campagne ubertosissime, che un Fa- bio mostrò ai suoi soldati per invogliarli alla preda: « Inde contemplatus opulenta Etrurie arva milites emittit» (Lav., IX, 36). 22 L’ AGRICOLTURA ETRUSCA. (38) Dron1g., Framm. al libro XII, dice che il territorio di Vejo aveva vaste campagne e molto feraci, così al monte come al piano, ed abbondanti d’ acque. (39) MiLLer, I, 219; PrIn., V, Epist. 6. (4 Drop., V, 40. Nell'anno 274, durante la guerra di Vejo, i grandi proprietari armarono un esercito di schiavi (Dion., IX, 5). Ed a Volsinio i servi sciolsero il governo aristocratico e trassero a sè la somma delle cose {VALER. Max., IX, 1; FroR,,.1,21): (41 Liv., X, 11, narrando l’invasione del console Vale- ric (453 di Roma) in Etruria, dice: « Quum passim non ville solum sed frequentes quoque vici incendiis fumarent. » 4) SALVAGNOLI, Lettera a Gino Capponi. (4 DronIe., V, 40; MirLer, II, 376; Caton, De re 2u- stica, DT e seg. 4 Frerr. FLacc. in Prin., N. H., XVIII, 11; MuLteR, I, 234; HEeyNE, Origini del panificio ; Link, Ueber die diltere Geschichte der Getreidearten, 132. (4) CANESTRINI, Oggetti trovati nelle terramare del Modenese, 2° relaz., 61-62; StRroBEL e PrcorIni, nel Bull. dell’ Inst., 1878, pag. 70; PicorINI, nel Bull. dell’ Inst., 1876, pag. 11. 0#9-Pry; /N--H., XVIIE (47) ATHEN., I, 27. (9 Ping ve. (49) BocxH, Urkunden iber das Seewesen des atherischen Staats, XIV. (6 Il re e poscia dio Fauno percosse a morte Fauna, sorella -e moglie, perchè aveva violata la legge laziale, con cui vietavasi alle donne l’ uso del vino (BaLpuin., Ad leges Romul.). PLinio, XIV, 13, ricorda altri esempi somiglianti dell’ epoca mitica. Mezenzio, re di Cere, cinto d’assedio La- vinio, volle imporre ai nemici per tributo la consegna di tutto il vino; ma questi, esasperati, votato il vino a Giove, si gettarono su Mezenzio e lo volsero in fuga (Varr. in L'AGRICOLTURA ETRUSCA, 23 Puin., N. H., XIV, 12). PHiraro. in VERa, Georg., II, riferisce sulla testimonianza di Arist., Polit.: « Amineos Thessalios fuisse qui sue regionis vites in Italiam transtu- lerint, atque illis inde nomen impositum, » Questa notizia si riferisce ad epoche anteriori alla colonizzazione greca e verosimilmente riguarda la immigrazione dei Pelasgi nar- rata da Mirs. Less. in Dion., I, 28. (51) Prur. in Cam., e Liv., V. 6 « Fenestella vero ajebat (oleam) non fuisse in Italia, Hispania aut Africa Tarquinio Prisco regnante ab annis Populi romani 173» (Pun., N. H., XV, 1). 63) CANESTRINI, 6p. cit., 61; PIGORINI, op. cit., 11. 64 Mirnver, I, 236; Apami, Storia di Volseno, I, 8; In- camtrami, I, 460. Prixio dice che a Volsinio l’olivo dava frutto già nel primo anno dalla piantagione. ) Stu. Irar., IV, 223. La città di Tarquinio contribuì to armamento de flotta di Publio Scipione colla sommi- nistrazione di lino per le vele (Liv., XXVIII, 45). Grar. Fanisc., 36; MuùLLER, I, 2 69 Eian., Stor. var., IX, 16. 62 « Denique Italia a vitulis, ut scribit Piso » (VARR., De re rustica, II, 1). (Truro in Varr., II, 1; vedi pure Timro in Acett.; XI, 1). (© « Etruria et Latium compactos sed ad opera fortes » (Corum., VI, 1). (59 KyneG. OpPIAN, I, 170; GroteR, Iscriz., 341; Mit- LER; I, 239. (© Dron. D’ ALICARN., V. (61) FrLostR., I, 170. (69) HoXvd:vdpos (in AtHEN., VII). (6) Str. Irar., IV; PLin., V, Epist. 6; MiLLER, I, 2: do (vb ZI 24 L’ AGRICOLTURA ETRUSCA. PR vo Vv, 34. (55) « Silva erat vasta. Litanam Galli vocant. » Liv., XXI e XXIII ; Poni. III. (66) MiLLER, l. c. (57) Liv., IX, 36: «Silva erat Ciminia magis tum invia atque horrenda, quam nuper fuere Germanici saltus. » (68) Lrv., V, 15; Micaui, II, 6. (69) Liv., I. 70) « Ex eodem semine aliubi cum decimo redeat, aliubi cam quintodecimo ut in Hetruria» (I, 44). 7!) Droporo narra che gli Etruschi dei suoi tempi pos- sedevano una terra feracissima, che la coltivavano bene e ne traevano abbondantissimi prodotti. Ed aggiunge che quella terra non cedeva in fertilità ad alcuna altra; che constava di pianure e di valli, nonchè di clivi e di colli atti alle arature, e che era provveduta largamente d’ acque non solo d'inverno, ma anche d’ estate (V).. E DronIGIO D’ ALICARN. scrive essere l’ Etruria una ierra principalmente vinifera, propizia oltremodo alla vite, che con poco lavoro dà prodotti ottimi ed abbondanti. E continua così: « Oltre ai terreni coltivati, ne ha molti a pascolo per le pecore e per le capre, e più ancora e più utilmente per gli armenti dei cavalli e dei buoi. Ha molti prati ed erbai palustri. Ma più di tutto sono degni di ammirazione i boschi, dai quali si traggono in grande copia legnami da costruzione » (I). Di questa ricchezza del legname di costruzione parla con ammirazione anche Srrapone, V. PLinio, parlando della valle del Tevere in Etruria, ove possedeva una villa, dice che le montagne erano rivestite di selve annose e gigante- sche, che più basso erano i boschi cedui, poi colline grasse e terrose con buoni campi a grano ; ai piedi delle colline i vigneti confinati da piante di frutta; in pianura campi fe- racissimi e prati di trifoglio irrigati da acque perenni (V, Epist. 6). E Vorisco in Auret. scrive che nell’ Etruria, lungo la via Aurelia sino alle Alpi marittime, sono campi L'AGRICOLTURA ETRUSCA. 25 spaziosissimi, fertili e boscosi: « Etruri® per Aureliam usque ad Alpeis maritimas ingenteis agri sunt, iique fertiles ac silvosi. » 2 TreBeLL. PoLr. in Hist. Aug. Script., II, 315; AMMIAN,, XXVII, 3; WiskeMann, Die antike Landwirthschaft, 46, 47 e 67; Marr., XIII, Epigr. 30; StRAaB., V, 227 e 235. Si cono- scevano favorevolmente a Roma dei vini etruschi: il Yaliscum, Lunense, Spoletinum, Tudertinum, Florentinum, Pisanum, Gra- viscanum, Statoniense, Mecenatianum, Ceretanum, Hadrianum. Dronie., I, 37, metteva i vini etruschi a lato a quelli d’ Alba e di Falerno. PcInTo dice che era ottimo quello di Luna, buono quello di Gravisca e di Statonia ed altri (XIV, 4 ad 8). Marr., XIII, 108, decanta pure la bontà dei Tusca vina, ma non trova buono il Ceretanum. Il Vejentanum non godeva alcun credito (HeNpERSON, History of wine, 94). (©) PoLIBIo non sa trovar parole sufficienti per descri- vere l’Italia superiore, che gli parve il paese di gran lunga più ferace di tutta Europa, e per decantare la quantità e la bontà del frumento, dell’ orzo, del vino, del miglio, del pauico, e l'abbondanza di tutti i prodotti. Ma più di tutto ammira la copia straordinaria delle ghiande e il numero infinito di majali, dei quali si mandavano fuori le carni o salate o insaccate (XI). — Questa descrizione fu ripetuta più tardi da SrraBoNE, che attribuiva la fertilità del paese alla ricchezza delle acque d’irrigazione. — E PLurAaRco in Ca- mill., descrivendo la valle padana dei tempi nei quali fu occupata dai Galli, dice che era piena d’ogni maniera di piante, ricca di grani, di pascoli e di acque irrigue, e che contava diciotto città industriose ed opulente. (74) I Salassi dividevano la Duria (Dora) in molti piccoli rigagnoli e ne mettevano in secco il letto per cercar 1’ oro nella sabbia. D’ onde una guerra continua cogli abitanti del piano, ai quali era tolto d’irrigare i propri terreni. À met- ter fine alla guerra Augusto mandò un esercito nella valle d’Aosta, e ne levò gli abitanti, dei quali furono venduti 40,000 (STRAB., IV, 6). 26 L'AGRICOLTURA ETRUSCA. (©) Taorr., XI; PLurarc.'in Mar. ed in Cam.; Poris., l. e. — DionI., I, riteneva più fertile la Campania. Anche da Liv., XXII, 14, l’agro campano è detto: « amenissimus Italie ager;» ed al lib. VII: « Campanie agrum Italie uberrimum. » 1 Tacito, parlando della colonia di Cremona, fondata ai tempi di Annibale, dice : « Igitur numero colonum, oppor- tunitate fluminum, ubere agri annessu connubiisque gentium adolescit, floruit. » 1) StRraB., V.—I Liguri (170 prima dell’èra volg.) spo- gliarono Modena di una quantità straordinaria di vasi di terra cotta (Liv., XLI, 14). î) Tropompo dice che i Veneti aravano tre volte i loro campi prima di seminarli, e che dopo la seminagione por- gevano focaccie alle cornacchie, sia per impedire che dan- neggiassero la sementa, sia per trattenerle in paese onde distruggessero le locuste e le uova di esse (in Euran., De nat. anim., XVII, 16). Sconimno pa Chio scrive che la Ve- nezia ha una terra ottima e fertilissima, che è ricca di pe- core, che i cereali danno un doppio raccolto e le pecore tre ed anche quattro agnelli all’ anno. Così anche Marciano p’ EracLea. Ed ARISTOTELE, rincarando la dose, assicura che la terra dà un triplice raccolto, che le pecore e le capre di Adria rendono una quantità straordinaria di latte, e che le galline di Adria producono varie uova al giorno. Così apche PLINIo e StEF:NO BizanTINO, il quale, a corona- mento di queste notizie, racconta che le donne venete danno sino a tre figli alla volta e non mai meno di due. (79 Padova ai tempi dei Romani mandava i suoi tessuti su tutti i mercati italiani (Srrap., V). Ma l'epoca della sua maggiore potenza fu anteriore ai Romani, quando sarebbe giunta a metter in campo 120,000 soldati a cavallo (STRAB., ]. c.). (80 Mart., XIV, 152. Ma la base dell’ economia veronese era, anche nell’ antichità, 1’ agricoltura. Oltrechè per i suoi L' AGRICOLTURA ETRUSCA, 27 vini, il Veronese era conosciuto per la feracità della sua terra: « Ager rheticus opimus et ferax» (Sotin., XXIV); per il suo spelta che passava per il migliore d’ Italia (PLi- NIO), e soprattutto per la sua frutticoltura (Coruwm., III, 2). E attribuita ai Veronesi la invenzione dell’ aratro a ruote: « Non pridem inventum in Rhetia Gallie ut duas adderent alii rotulas, quod genus vocant planarati » (PLIN., NH XVIII). 81) Ciò si ricava da EuripIDpE, da Esricnio e da StrA- Bons. Vigeva la consuetudine di non vendere le cavalle. Ma nell'epoca romana l'allevamento equino non era più così in fiore come per l’addietro (StraB., V). Nondimeno si mantenne sempre in onore la praticoltura. Le pianure ve- nete facevano pompa di lussureggianti praterie. VIRGILIO, parlando delle praterie mantovane, dice che nella notte cre- sceva tanta erba quanta il bestiame ne avea consumato nella giornata: « Et quantum longis carpent armenta die- bus — Exigua tantum gelidus ros nocte reponet.» ServIO in un commento al passo di VeRrG., Georg., I, 215, relativo all’ erba medica, dice che di questa erba era piena la Venezia. (8) Sveron. in Aua., IV, 6. È collocato tra i migliori di Italia da SrraB., IV; è lodato da Prix., XIV, 2, e da Corum., III, 2. Secondo Servio in Vere., Georg., II, 95, lo lodava Catone, che ne era però ripreso dal veronese Ca- TULLO. Lo apprezzava anche VircILIo, ma non voleva che se ne esagerasse la bontà, sino a paragonario al Falerno: (XII, 4). (83) Cocum., III, 2. (8) ATHEN., I e IV; RE, Saggio storico, ec. (85) « Et salicum redolent Patavinorum in palustribus vindemmiz >» (Prin., XIV, 16). (85) Mart., X, Epigr. 93. FI L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLA SICILIA E NELLE CALABRIE. 1. — NELLA SICILIA. Il mito ci rappresenta nella Sicilia la patria di Cerere, maestra e dea dell’agricoltura d’ Occidente ; la terra che non arata, non seminata e non piantata, produceva spontaneamente ai Ciclopi, cari ai numi, il frumento, 1’ orzo e le uve; la terra sacra al pascolo dei buoi dalle larghe fronti e delle pecore del Sole. La feracità del suolo, 1’ abbondanza del terreno immune di paludi e facilmente coltivabile, la felicità del clima e la riechezza delle acque non lasciarono i primi abitatori dell’ isola lungamente in forse sulla via, per la quale dovessero incamminarsi. Quantunque per la sua natura insulare e per la sua situazione in mezzo alle tre parti del mondo allora conosciuto sembrasse chiamata di preferenza ai commerci, la Si- cilia stabilì la sua vita economica sull’ agricoltura, limitando i negozi alla esportazione dei prodotti della terra ed alla importazione dei manufatti. Sdegnò le industrie, se ne togli 1° enologia, 1’ oleificio, il casei- L' AGRICOLIURA DEI GRECI NELLA SICILIA. 29 ficio e la lavorazione delle pelli e d’ altri prodotti campestri. E conservò alla sua economia questo ca- rattere, più che prevalente, quasi esclusivo per tutti i secoli sino a noi. La storia della Sicilia e della sua agricoltura in- comincia colla colonizzazione greca. I Greci, commercianti, soldati ed artisti in patria, commercianti ed industrianti nelle colonie calabresi, furono nella Sicilia agricoltori. Il genio dei popoli sa accomodarsi senza difficoltà alle circostanze, nelle quali si svolge la loro esistenza. E nella Sicilia, come si è detto, un fortunato con- corso di circostanze chiamava la popolazione all’ agri- coltura. I suoi monti erano vestiti di bellissime selve. La catena, che corre lungo la marina del nord, aveva densi boschi di quercie e di lauro. * Dai monti della parte meridionale dell’ isola tagliavansi grossissime travi, che fluitavansi facilmente sino al mare. Tutte le fiottiglie, che lanciarono in mare i tiranni di Si- racusa, erano formate di legname indigeno e parti- colarmente di piante tagliate sull’ Etna. Enna, 1’ om- belico della Sicilia, era circondata di boschi. Da queste montagne coperte di una ricca vege- tazione discorrevano al piano abbondantissime acque. Nei vecchi scrittori di cose sicule non s’ incontra la descrizione di un luogo o di una regione senza un cenno dei rivi, delle acque perenni, delle fiumane.! Gli Assorini avevano eretto in mezzo alle campagne * Vedi le Note a pag. 41. 30 L’ AGRICOLTURA DEI GRECI NELLA SICILIA. un tempio al fiume Chrysas, il quale colle sue acque le rendeva feracissime, e lo adoravano come un dio.! L’ Eloro, per testimonianza di Virgilio, esciva, nella stagione invernale, dal suo letto per ingrassare, a somiglianza del Nilo, la valle, per la quale volge le sue acque alla marina.‘ Varii fiumi che allora erano navigabili per lungo tratto, ora nella stagione estiva sono pressochè asciutti. Di molti torrenti che allora erano abbondanti d’ acque, si è perduta al presente ogni traccia. È generale 1’ opinione che la Sicilia antica fosse quasi in ogni sua parte irrigata. La natura del suo clima, l’ abbondanza delle sue acque e la maestria dei suoi abitatori nelle opere idrauliche fanno vera- mente ritenere che i suoi pascoli vastissimi e grassi fossero il prodotto di un sistema generale d’ irriga- zione. Senza parlare dei numerosi acquedotti, per i quali erano celebri Siracusa ed Agrigento e di cui esistono ancora le traccie, si ricordano varii lavori idraulici, i quali, considerata 1’ indole agricola della popolazione, non possono essere stati eseguiti per altro scopo che per quello della irrigazione. Sono di questo numero la Colymbethra di Dedalo,‘ 1° emissario del lago di Pergusa,"" la piscina costrutta dagli Agri- gentini a Gelone dopo la vittoria dell’ Imera, © ed i canali dell’ Ippari celebrati da Pindaro.!? La Sicilia è sempre stata la terra della grande proprietà. La costituzione di Siracusa era basata sull’ oli- garchia. I geomori, grandi proprietari delle terre, erano i reggitori della cosa pubblica; la coltivazione L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLA SICILIA, SI era lasciata ai calliciri che vivevano in un rapporto servile. Così il suo contado,’ come quello di Gir- genti, erano in mano di pochi.’ Dal governo aristocratico si passò ripetutamente, così a Siracusa, come nelle altre città greche, al go- verno popolare e da questo alla tirannide; ed una delle principali conseguenze di tale passaggio fu sem- pre una divisione delle terre fra i proletari; ma se- dati i torbidi e tornata la calma, i terreni si riuni- rono di nuovo in grandi complessi. L'importanza della pastorizia siciliana coi suoi numerosi greggi di pecore, colle sue grandi mandre di buoi e di cavalli, e più di tutto le sue colossali esportazioni di grano, non si saprebbero spiegare ove non si ammettessero, come due fatti costanti, il do- minio della grande proprietà e la scarsezza della popolazione. Sul primo fatto si è pressochè tutti d’ accordo. Il secondo, che logicamente dovrebbe essere un co- rollario del primo, è non solo posto in dubbio, ma vigorosamente contraddetto. Molti infatti narrano cose favolose delia popola- zione antica dell’ isola," e particolarmente delle città di Girgenti e di Siracusa.!”? Costoro non hanno calcolato che un paese di densa popolazione non può nutrire un costante commercio di esportazione di granaglie, ed hanno dimenticato come l’ isola fosse pronta in ogni tempo ad accogliere ed assorbire le migliaja e migliaja di coloni, che di quando in quando le venivano dal continente e dalla Grecia, e come avesse trovato senza difficoltà posto 32 I’ AGRICOLTURA DEI GRECI NELLA SICILIA. e lavoro per quella moltitudine infinita di prigionieri, che i Cartaginesi alla battaglia dell’ Imera lascia- rono in mano dei vittoriosi principi di Siracusa e d’ Agrigento. Nè, ove non si ammettesse il predominio della grande proprietà, si saprebbe trovare la causa delle colossali ricchezze che erano state ammassate da una parte dei cittadini di Siracusa e di Girgenti e che formavano 1’ ammirazione della Grecia. D’ altra parte se ci fosse stata la piccola proprietà, le campagne sarebbero state necessariamente semi- nate di villaggi e di case rurali. Invece tutta la po- polazione, compresi i coltivatori servi, soggiornava nelle città (Suidas).‘* La dimora in campagna non si conciliava nè coi sentimenti di socialità dei coloni greci, nè colla loro sicurezza. Del predominio assoluto della grande proprietà nell’ epoca romana abbiamo testimonianze irrefraga- bili.®” L’ agro Leontino, che aveva una estensione di 36,000 jugeri, era ripartito prima dell’ amministra- zione di Verre tra 83 proprietari, e sotto Verre tra 32; di guisachè la media d’ ogni proprietario era da prima di oltre 430 jugeri, di poi di oltre 1100 jugeri.®" Si narrarono cose meravigliose della feracità del- l’ isola nella produzione dei cereali. Si videro le co- lossali quantità di frumento che la Sicilia mandav: fuori, e senza ricercare la causa di questo fenomeno economico, si pensò che la terra desse prodotti favo- losi, impossibili. ©! Nè questa fallace credenza ha mancato di eser- citare la sua azione sull’ indirizzo economico del- L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLA SICILIA. 353 l'isola. Se la Sicilia era un paese privilegiato per la produzione dei cereali, se i suoi terreni rendevano notevolmente di più di quelli degli altri paesi, era la natura che l’ aveva destinata di preferenza a quella coltivazione; il limitarla o 1’ abbandonarla per altre, il trascurarla per le industrie sarebbe stato un fatto insensato, una causa di disinganni e rovine. Questo pregiudizio tiene vincolata la Sicilia alla granicoltura anche adesso, ossia in un’ epoca, nella quale è lecito dubitare se questa coltivazione possa continuarsi con sufficiente profitto.©* Abbiamo detto che la ragione principale, per cui la Sicilia poteva esportare quantità così ragguardevoli . di frumento, doveva cercarsi nella scarsezza della popolazione. È però indubitato che allora il terreno siculo, senza essere realmente il più produttivo d’ Ita- lia,” rendeva più di adesso. Come si vedrà nelle Note, Cicerone calcolava per i campi Leontini una media di 8 p. 1, mentre ai nostri giorni non dovrebbe superare guari il 6 p. 1. Questa differenza a favore dei tempi antichi è dovuta in parte alla maggiore umidità ed all’ abbondanza del concime, ed in parte al sistema di coltivazione per economia, allora predominante, me- diante il quale i proprietari, sicuri di trovare un lauto compenso nel commercio di esportazione delle grana- glie, non lasciavano mancare alla terra nè capitali, nè bestiame, nè lavoro. La parte dell’ isola in cui predominava la colti- vazione dei cereali, erano i contadi di Siracusa e di Catania. Era questa la regione che costituiva il prin- cipato di Siracusa, e dalla quale mandavansi fuori BERTAGNOLLI. 3 34 L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLA SICILIA. per la Grecia e per Roma grandi masse di grano. Altri centri della granicoltura erano i territori di Assoro, di Milazzo,©® di Selinunte ed i campi Geloi.®” Anche nel contado di Agrigento prevaleva la col- tivazione dei grani con una ricca pastorizia. Ma quando, in seguito alla vittoria dell’ Imera, la città potè disporre di molte migliaja di prigionieri cartagi- nesi per il lavoro delle terre, l’ indirizzo della sua agricoltura mutossi, ed in breve tratto di tempo il suo contado si ricoprì di viti e di olivi. ©° Non coltivavasi unicamente il frumento, ma con non minore intensità ed estensione anche l’ orzo, che rappresentava una quota considerevolissima nelle espor- tazioni dell’ isola, ed i legumi che si mandavano pur fuori per la Grecia e per Roma. © La produzione del vino e dell’ olio, che era la ra- gione principale della grande ricchezza di Agrigento, costituiva un cespite ragguardevole di guadagno an- che per le colline della spiaggia orientale dell’ isola e particolarmente per il contado di Messina. Agrigento mandava questi due prodotti sui mercati cartaginesi,®! ed in cambio ne ritirava merci africane e particolar- mente oro ed avorio. Messina, Catania e Siracusa li esportavano per la Grecia. © Pare che sin dalle più remote epoche il contado di Palermo sia stato destinato principalmente alla pro- duzione delle frutta e degli ortaggi. © L’ allevamento animale predominava nel centro e nella parte occidentale dell’ isola; ma era ovunque di straordinaria importanza. Senza risalire al mito che faceva della Sicilia un L’ AGRICOLTURA DEI GRECI NELLA SICILIA. 35 paese essenzialmente pastorale, abbiamo numerosi ri- cordi dei primi tempi storici, i quali mettono fuor d’ ogni dubbio la importanza della pastorizia e la ric- chezza animale dell’ isola. © E non trattavasi di una pastorizia all’ aperto, no- made, selvaggia. Il gusto fine e delicato dei Greci non avrebbe aperto i mercati di Atene, di Tebe e di €0- rinto ai prodotti di una industria rozza e primordiale, nè sarebbe rimasto terreno sufficiente per la produ- zione di quella sterminata quantità di granaglie, dolio e di vino che si mandava fuori. La pastorizia era basata sulla coltivazione dei prati e sull’ allevamento in istalla; ©® due circostanze di fatto che ad un tempo | erano causa ed effetto ed una prova evidente delle condizioni progredite dell’ agricoltura dell’ isola. Nella Sicilia, a differenza di ciò che avveniva nella penisola, in cui predominava l’ allevamento degli ovini e dei suini, avevano un posto onorevole così la specie bovina, come i cavalli. L’ allevamento dei bovini non aveva per iscopo unicamente il lavoro, ma eziandio e principalmente la produzione della carne, dei latticini e dei cuoi. © In Sicilia non era riprovato dalla filosofia e dalle leggi, come nella penisola, il cibarsi della carne di bue. Si conosceva il burro, e si esportava per la Grecia una ragguardevole quantità di formaggi. ©° Di una importanza di gran lunga maggiore erano la produzione ed il commercio delle pelli e dei cuoi, che in buona parte si esportavano per il continente e di cui si calzavano gli eserciti romani. ©° La Sicilia era celebre per l’ allevamento dei ca- 36 L’ AGRICOLTURA DEI GRECI NELLA SICILIA. valli. Erano ottime le razze del Lilibeo,“" di Gir- genti e di Siracusa, alle quali ultime Dionigio aggiunse le razze venete.” I principi siciliani, e parti- colarmente Gelone, Terone, Gerone e Dionigio, erano appassionatissimi per l’ allevamento equino, e con essi gareggiavano nel mantenimento di buone razze i ric- chi privati. Lo scopo dell’ allevamento, più che la guerra, erano le corse della Grecia che avevano una grande importanza politica, ed erano uno dei vincoli coi quali si tenevano unite le colonie alla madre pa- tria. La Sicilia vi mandava i suoi migliori corridori, ed era una festa nazionale, quando ne tornavano vin- citori. 49 Non per ciò era trascurato 1’ allevamento degli ovini. La lana e le pelli furono in ogni tempo uno dei principali oggetti del commercio di esportazione della Sicilia.“ Erano particolarmente celebrati i greggi che pascolavano sull’ Etna e nelle pianure cir- costanti. ©” Premesse queste notizie, e sulla scorta delle me- desime, la storia della vecchia agricoltura sicula sì può riassumere in poche parole. Nel periodo mitico, ossia sino alla colonizzazione greca, che incominciò nelì’ ottavo secolo prima del- I èra volgare, durò 1’ epoca pastorale. Nei tre secoli successivi, alla pastorizia si congiunse la granicoltura ; posteriormente crebbe per intensità ed estensione la coltivazione della vite e dell’ olivo ; finchè, caduta l'isola sotto il dominio dei Romani, si ritornò alla granicoltura ed alla pastorizia. Il punto culminante della prosperità agricola del- L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLA SICILIA. DÙ l'isola fu l’epoca, nella quale Gelone e Gerone ten- nero le redini del governo in Siracusa, e Terone in Girgenti; ossia dall'anno 500 all’ anno 450 prima dell’ èra volgare. © In Siracusa i calliciri sollevatisi avevano scacciato dalla città i geomori, 0 proprietari della terra. Gelone, postosi alla testa dei fuorusciti, li ripose in Siracusa e fu principe della città. Egli allargò di molto i con- fini dello Stato a danno dei Cartaginesi, che coll’ajuto di Terone sconfisse ed obbligò alla pace; e divenne così potente anche in mare da distruggere nella bat- taglia di Cuma la potenza marittima etrusca, che non aveva rivali nelle acque italiane. Consolidate 1° ege- monia siracusana e la pace, egli si dedicò alle cose dell’ agricoltura. Guidava egli stesso i coltivatori al lavoro, così per distrarli dall’ ozio come per ammae- strarli nelle migliori pratiche agrarie. “ Presso il castello d’Ipponio e fuori appena di Siracusa aveva preparato due orti modello per la coltivazione delle piante. © Quanto a Terone di Girgenti abbiamo veduto che sotto il suo governo ebbe luogo un radicale e felicis- simo mutamento nell’ agricoltura agrigentina col pas- saggio dalla granicoltura alla coltivazione della vite e dell’ olivo. ©” Sotto Gerone, fratello e successore di (Gelone, l'agricoltura che era un’ industria molto florida e razionale, ma che non era ancora uscita dai limiti di un’ arte, si fece una scienza. Gerone dettò venti libri sull’ agricoltura, nei quali le migliori pratiche agrarie erano ridotte a sistema. © Organizzò il censo 38 L’ AGRICOLTURA DEI GRECI NELLA SICILIA. dei coltivatori e 1’ imposta della decima; due istitu- zioni che furono conservate dai Romani e che sono molto lodate da Cicerone. E incaricò 1’ autorità fiman- ziaria di Siracusa, oltre che dell’ esazione della de- cima, d’invigilare i lavori dell’ agricoltura. ©” Tutto ciò non deve recar meraviglia. Si era in un’ epoca di grande civiltà, ed in un paese che cono- sceva l’istruzione obbligatoria e gratuita (Diodoro, XII), che apriva scuole persino per gli schiavi,©* e che per destare nella gioventù lo spirito d’ emulazione faceva scolpire i nomi degli alunni più distinti in tavole di pietra o di metallo, che a guisa di monumenti si espo- nevano in pubblico e si conservavano. Verso il 450 prima dell’ èra volgare, le città gre- che della Sicilia si sbarazzarono dei principi e si ri- dussero al governo popolare. Il fatto economico più importante di questa rivoluzione fu una divisione delle terre dei ricchi fra i proletari. Diodoro narra che coll’ avvenimento della demo- crazia al potere e colla divisione delle terre si diede un nuovo impulso all’ agricoltura, il contado si popolò di coltivatori, la campagna di mèssi abbondanti. % Saremmo d’accordo, se le terre per l’innanzi fossero state incolte e deserte; ma siccome erano coltissime e non si fece che toglierle ai ricchi per assegnarle ad una plebe cittadina non avvezza al lavoro, priva di mezzi, di strumenti e di capitali, la narrazione di Diodoro non può considerarsi come 1° esposizione di un fatto storico, ma come l’espressione di un’ idea fissa, comune a buona parte degli scrittori del secolo d’ Augusto, per la quale la terra doveva democratiz- L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLA SICILIA. 539 zarsi e democratizzata non poteva a meno di moltipli- care il suo frutto.” Lo stato dell’ agricoltura, come dell’ economia pub- blica in generale, non dipende dalle forme politi- che. L’ agricoltura è conservatrice, ha bisogno della pace, della sicurezza della proprietà e della stabilità degli ordini. Non cura d’ onde vengano questi bene- fizi, se dal governo popolare o dall’ aristocratico; ma il governo popolare, che suol prendere di mira la proprietà a benefizio dei proletari, sia per dividerla, sia per tassarla, è più atto a metterla in apprensione che ad. assicurarla, ad impoverirla che a renderla ricca. Così anche a Siracusa per l'avvenimento al potere della democrazia, o per sè stessa o per mezzo dei suoi tiranni — imperocchè i Dionigi ed Agatoele, perve- nuti al principato per il favore popolare e mercè la promessa dell’ abolizione dei debiti e della riparti- zione delle terre, sono a considerarsi come un’ ema- nazione diretta e naturale della democrazia — per le spogliazioni continue, per le guerre intestine, per la debolezza della città in terra e sul mare e per il dilapidamento delle finanze, le cose pubbliche e pri- vate, i commerci, 1’ agricoltura ne patirono gravissimo detrimento e vennero meno. ©’ È un indizio molto significativo che di quei tempi non si abbia alcuna memoria d’ esportazione di gra- naglie.. Un nuovo periodo di prosperità ebbe 1° agricol- tura sotto Timoleone, il. quale aveva procacciato a- Siracusa molti anni di pace, di governo regolare e di potenza terrestre e marittima. 40 L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLA SICILIA. Essa decadde sotto 1’ anarchia che tenne dietro a Timoleone, e per effetto delle guerre coi Cartagi- nesi che devastarono e spopolarono la Sicilia, per ri- sorgere nuovamente sotto (Gerone II. Secondo alcuni, 1’ annessione dell’ isola alla Repub- blica romana avrebbe segnato la fine-della prosperità dell’ agricoltura sicula; secondo altri, in quell’ epoca fu più fiorente che per 1’ addietro. Noi riteniamo del tutto erronea e contraria al vero l'opinione dei primi, non del tutto esatta e un po’ esa- gerata quella dei secondi. s Nessun provvedimento dei Romani attentò alla prosperità dell’ agricoltura dell’ isola. Essi anzi lascia- rono intatta ed estesero a tutta la Sicilia, meno che a poche città, la legislazione agraria di Gerone, per la quale Cicerone non aveva che parole di approva- zione e di lode. Del resto Roma fece della Sicilia la sua grande masseria. Molti cavalieri passarono nell’ isola, acqui- starono grandi possedimenti e li coltivarono con grandi capitali.‘ Tutti i suoi prodotti, meno una piccola parte che restava in paese per 1’ alimentazione della popolazione, erano mandati a Roma.” E poichè la capitale aveva bisogno principalmente di cereali e di bestiame, 1’ agricoltura sicula dovette necessariamente cambiare indirizzo, restringendo la produzione del vino e dell’ olio, di cui Roma sentiva meno bisogno, ed allargando la coltivazione dei grani e la pastorizia. Tecnicamente il mutamento non fu felice, ma econo- micamente fu corretto, perchè era richiesto dalle con- dizioni del mercato. L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLA SICILIA. 41 La Sicilia non fu travolta nel naufragio econo- mico che tenne dietro alla caduta di Roma. Le sue granaglie, le sue lane, i suoi cuoi trovarono anche posteriormente in Roma un grande centro di consumo, ed in parte si avviarono verso la nuova sede dell’ im- pero e le altre città della Grecia e dell’ Oriente. NOTE. 4: Drop. IV. ©) Questi boschi di alto fusto si conservarono sino a po- chi secoli addietro. Anche nel secolo XVI davano <« immense magnitudinis trabes » (FazeLLo, I, 5). ® HoLm, Geschichte Siciliens im Alterthume, I, 20; BrunET DE PrESLE, Delle colonie greche in Sicilia, III, 6. © Crcer. in VeRR., IV. 5 Per le acque ed i prati irrigui di Enna, vedi Diop., V; Cicer. in Verr., IV; Ovm., Fast., IV e Metam., V e spe- cialmente CLaup., Del ratto di Proserpina. L'isola d’ Ortigia ricca di prati irrigui, vdg4)0i (OMERO, Odiss.). Il fiume Aci, che dall’ Etna mette in mare presso Taormina, scorreva at- traverso a bellissimi prati, « herbifer Aci » (Ovip., Fast., IV). © Cicer. in VERR., VI. © « Exsupero prepingue solum stagnantis Helori » (4Emeid., III). E Servio aggiunge : « qui ad imitationem Nili effunditur campis.» FAZELLO dice che anche ai suoi tempi (secolo XVI) osservavasi questo fenomeno (I, 4). Così anche nel secolo passato (BartELS, Briefe iber Kalabrien und Si- cilien, III, lett. 24, pag. 19). 42 L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLA SICILIA. (8) La ricchezza d’ acque del contado di Palermo era pro- verbiale, e si è mantenuta sino al secolo passato. Anche Si- racusa traeva dai monti, che la cingono da occidente e da settentrione, abbondantissime acque, che colla rovina della città e degli acquedotti andarono disperse (ScHuBRING, Die Bewiisserung von Syracus, nel Philologus, X.XII). ® Nel contado di Siracusa si veggono ancora i resti di una vasta rete di acquedotti e canali che immettevano l’acqua in città o la spargevano per le campagne (ScHu- BRING, Op. cit.). La prodigiosa Aretusa non era probabilmente che un acquedotto. (19 Diop., IV. Dedalo chiuse con un argine in mura- tura di 2-3 metri di spessore il fiume Alabon, e così fece un lago della valle omonima, ora di San Gusmano, sotto Taormina. La chiusa fu restaurata nel secolo XII. Se ne vedono ancora i ruderi (Horm, I, 107). () CLaup., XI. (2 Era del giro di 7 stadii e della profondità di 20 cu- biti. Raccoglieva le acque di varie fonti e si utilizzava per la irrigazione (AtHEN., XII, 10). (13. Ode V. Negli Scolii è detto chiaramente che i canali dell’Ippari (fiume di Camerina) irrigavano tutta la pianura. (14 GrotHE, The history of the Greece, VII, 4. (15) BrunET DE PRESLE, II, 16. (19 WarrersnauseN, Veber den sicilischen Ackerbau (1861), fa ascendere la popolazione della Sicilia antica a sei milioni di abitanti. HoLm, II, 402, calcola che all’epoca greca la popolazione fosse di tre milioni e mezzo di abitanti. Ma Du- REAU DE LA MALLE, Economie politique des Romains, I, 380, la riduce, all’epoca romana, ad 1,900,000. Noi crediamo al- quanto esagerata anche quest’ ultima cifra. La Sicilia non ebbe mai una numerosa popolazione. Nell interno dell’isola non vi fu in alcun tempo un centro di qualche importanza. La popolazione si è sempre agglomerata lungo la marina. L' AGRICOLTURA DEI GRECI NELLA SICILIA. 43 La numerazione d’ anime, introdotta in Sicilia a partire dal- l’anno 1501, diede i seguenti risultati : Anno 1501 abitanti 488,500 > 1548 » 731,560 » 1583 » 801,401 » 1595 » 831,944 >» 1615 » 757.699 > 1636 » = 1,084,743 » 1642 » 888,062 > 1670 3 873,742 » 1681 » = 1,011,076 1716 » 983,163 In queste numerazioni non sono comprese le due città di Palermo e di Messina. La città di Messina è compresa nelle numerazioni degli anni 1681 e 1716 (BrancHINI, Sto- ria economico-civile di Sicilia, I, 248 e seg.). Nell'anno 1648 Palermo contava circa 150 mila abitanti e Messina 30 mila (PacicnELLI, Memorie dei viaggi, IV). (‘7 SarnT-CROIx, Memorie dell’ Accademia d’ iscrizioni e belle lettere, XLVII, fa ascendere la popolazione di Sira- cusa a 1,200,000 abitanti, e cita un viaggiatore che calcola in una cifra ancora più alta la popolazione di Girgenti. Honw, II, 402, attribuisce alle due grandi città 800,000 abi- tanti per cadauna. GrotHE, XV, 4, accennando a Droga. Larrz., VII, 63, che attribuiva a Girgenti 800,000 abitanti, dice che questa cifra, non provata, non può aver altro valore che quello di indicare essere stata (Girgenti una città popolosa. Dioporo, XIII, 84, assicura che quando Girgenti fu presa dai Cartaginesi contava 20,000 cittadini e 200,000 tra schiavi e stranieri. E forse a non più di 20,000 cittadini, non compresi gli stranieri e gli schiavi, si po- trebbe fare ascendere anche la popolazione di Siracusa. Così sarebbe esatto il ragguaglio fatto da Tuca, VII, 28, fra la popolazione di Siracusa e quella di Atene, che constava ap- punto di 20,000 cittadini. E così si spiegherebbe eziandio come Siracusa potesse essere assediata duramente e ridotta 44. L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLA SICILIA. agli estremi da un pugno di Ateniesi guidati da Alcibiade e Nicia. L’indole delle costituzioni greche era avversa ai grandi centri di popolazione. Se gli abitanti crescevano più del bi- sogno, s'imbarcavano e si mandavano a tentare la fortuna in altri paesi. Da qui le numerose colonie greche nell’ Ita- lia e nell’ Asia. AristotELE, Polit., VII, 41, e PLATONE, Delle leggi, V, ove raccomandano che le città e le repubbliche con- stino di pochi cittadini, non hanno fatto che erigere a prin- cipio una legge attiva nelle repubbliche greche. — Si è al- quanto esagerato anche nell’indicare l'ampiezza di Siracusa. STRABONE ragguaglia la cinta a 180 stadii, ossia quasi a 30 chilometri. FrR&RET, Memorie dell’Accademia d’ iscrizioni e belle lettere, XXIV, dice che Siracusa era una volta e mezza più grande di Parigi. Denon, Viaggio în Sicilia, ne ragguaglia la cinta a quella di Parigi. LEAKE, Notes on the Topography of Syracuse, 41, la riduce a 22 chilometri e ‘/,. (18) ATHEN., I. (19 Droporo, XIV, 2, narra che Dionigio il Vecchio, colta l’occasione che il popolo era uscito dalla città per fare la mèsse, ne invase le abitazioni e ne portò via tutte le armi. Vedi anche Grorne, XVI, 1. Agatocle, sconfitto dai Carta- ginesi in un lontano punto della Sicilia, non si rifugiò a Si- racusa, ma si gettò in Gela per trattenere il nemico e dar tempo ai Siracusani di fare la mèsse e di ricoverarla nella città. PLurARco, Apoph., scrive che al sorgere dell’ alba usciva da Siracusa tanta gente per la coltivazione della terra, che sembrava un esercito. Tutte le città dei Siculi erano sulle montagne. La mattina ne uscivano i coltivatori per recarsi ai campi, talora lontani parecchie miglia, e rientravano la sera (Ho1w, I, 75). Che i calliciri abitassero in Siracusa, apparisce anche dal fatto della loro rivolta con- tro i geomori e dall’ espulsione di questi ultimi dalla città. Vedi anche GrotrGE, V, 4. ©9 Cicerone in VerR., II, dice che uomini ricchissimi avevano nella Sicilia grandi possedimenti e li coltivavano con grandi capitali (magna impensa, magno instrumento). E L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLA SICILIA. 45 più sotto ripete che uomini nobilissimi ed illustri coltiva- vano le tenute sicule in economia. Anche Drioporo assicura che cittadini romani avevano in Sicilia vastissime tenute (Framm. al lib. XII). Vedi rapporto alla grande proprietà anche Brunet DE PrESLE, III, 7. (@! Crcer., lc. Per testimonianza dello stesso autore il territorio Muticense era diviso prima di Verre fra 188, dopo fra 101 proprietari; il territorio Erbitense prima fra 257, dopo fra 120; ed il territorio Agirense prima fra 250, dopo fra 80 proprietari (l. c.). @2 Sin dai tempi più antichi la Sicilia forniva regolar- mente di grano i mercati della Grecia (WIskEMANN, Die an- tike Landwirthschaft, 21 e seg.). Nel 491 della città i Ro- mani afflitti dalla carestia mandarono in Sicilia a fare incetta di frumento P. Valerio e L. Geganio. Gelone ne sommini- strò 50,000 medinne, metà gratuitamente, metà sotto prezzo (Droxia., VII). Ed ai legati di Atene e di Sparta che lo in- vitavano ad accorrere in ajuto della madre patria contro Serse, offrì un esercito poderoso e tutto il grano necessario per il manténimento delle truppe confederate, purchè ne fosse affidato a lui il supremo comando (Erop., VII, 158). Gerone II mandava considerevoli quantità di grani ai Ro- mani durante le loro guerre coi Galli (Drop., XXV). Dopo la battaglia del Trasimeno mandò a Roma 200,000 moggia d’orzo e 300,000 di frumento (VaLer. Max., IV, 8). Ne presentò 60,000 medinne anche a Tolomeo d’ Egitto afflitto da una carestia (FazeLLO, I, 4). Ne distribuì 200,000 mog- gia alla plebe, quando venne a Roma a visitare il Senato (EutroP., Brev. Hist. rom., II). Mandava granaglie conti- nuamente nella Grecia e particolarmente nell’ Attica (Bru- NET DE PrESLE, III, 5). (@3 Prinso affermò che l’agro Leontino rendeva il 100 per 1: < Cum centesimo Leontini Sicilie campi fundunt >» (N. H., XVIII, 21). La notizia fu accolta da varii scrittori amanti del favoloso o non abbastanza diligenti per ricer- 46 L’ AGRICOLTURA DEI GRECI NELLA SICILIA. care prima se il fatto enunciato fosse possibile. Se Plinio avesse inteso di dire che un granello di frumento, coltivato, ad esempio, in un vaso, poteva renderne 100, non avrebbe detto nulla di nuovo. Ma poichè manifestamente ha voluto asserire che due ettolitri di frumento, seminati in un ettaro di terreno, ne rendevano 200, ha detto nè più nè meno che uno sproposito. Ed è incomprensibile come abbia ignorato o voluto ignorare le notizie raccolte da Cicerone per espe- rienza propria, poichè fu per varii anni in Sicilia come ma- gistrato della repubblica, e sulla base dei registri degli agricoltori che ebbe occasione di esaminare per la tratta- zione della causa contro Verre. Cicerone in Verr., II, as- sicura che i campi Leontini (piana di Catania), che furono sempre considerati per i più ricchi della Sicilia e che allora erano coltivati, «magna impensa, magnoque instrumento, » da uomini ricchissimi, rendevano in anni buoni l’8 per 1, ed in casi straordinarissimi, «si omnes dii adiuvent, quod si quando accidet.... id quod perarro evenit,» il 10 per 1. È noto che uno dei capi d’accusa, per i quali fu processato Verre, erano i soprusi gravissimi, di cui si era reso conta- bile nell’ esazione della decima del grano. Nell’ agro Leon- tino si seminava una medinna di frumento per jugero, e Verre ne esigeva tre medinne di decima. Se il prodotto fosse stato del 100 per 1, Verre esigendo tre medinne non avrebbe avuto il suo conto; avrebbe dovuto esigerne 10; ma era solo dell’8 per 1 o meno; d’ onde la disperazio- ne degli agricoltori ed il loro processo contro il procon- sole (CiceR., 1. c.). Cajo Norbano ed altri magistrati della repubblica, che solevano dare in appalto la esazione della decima, prendevano per base, in anni di particolare abbon- danza, un prodotto del 10 per 1. Trorrasto, VIII, 3, dice di aver udito narrare che l’ agro di Mylas (Milazzo), fertile fuor di misura, rendesse il 30 per 1. FAZELLO, De rebus si- culis, I, 4, riporta la notizia di Plinio, la estende anzi an- che ai campi di Enna e di Assoro, ed afferma che dessa è confermata da Cicerone (!) e da Diodoro (!). Aggiunge che i campi Leontini ed Ennensi si chiamavano « arva centum L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLA SICILIA. 47 salmarum, » appunto perchè rendevano 100 per 1. OmoDEI, Descrizione della Sicilia, III (1556), attribuisce ai campi Leontini un prodotto ordinario del 50 per 1. BaRrtELS, Briefe iiber Kalabrien und Sicilien (1781), III, lett. 24, pag. 9, dice che i campi Leontini non hanno perduto dell’ antica loro fertilità ; che Plinio usò una cifra indefinita e rotonda per indicare la grandezza del prodotto ; che è più nel vero Cicerone, il quale attribuisce a quei campi l’8 per 1; ma che anche questo prodotto si ottiene unicamente in casi ec- cezionali « auch selbst diess ist eine sehr seltene Erschei- nung ;> che in media la Sicilia dà dal 4 al 5 per 1, e che l’ agricoltore è soddisfatto di questo raccolto. BALSAMO, Gior- nale di viaggio in Sicilia (1808), pag. 267, afferma pure che i campi Leontini hanno conservato la feracità dei tempi rc- mani, e dice che, come ai tempi di Cicerone, producono dall’ 8 al 10 per 1, ed anche di più. Anche Rosario DI GREG0:0, Discorsi intorno alla Sicilia, XVIII, scrive che nel piano di Catania il raccolto. è buono se dà l’ 8 per 1, ubertoso se il 10 per 1. GaLto, Saggio storico-critico sulla pastorizia e agri- coltura in Sicilia, 5, dice che negli anni migliori si ottiene talvolta dal 20 al 30 per 1. SwrH, 12, attribuisce a quei terreni un prodotto del 10 al 16 per 1 in via ordinaria, in anni favorevolissimi sino al 28 per 1. « The usual product is from 10 to 16 salms and in the most favourable years 28 for one; but no part of Sicily can pretend to the once boasted 100 fold. » NeucEBAUER, 61, dice che il prodotto massimo è il 12 per 1. BoxFIGLIo, Historia siciliana, I, 24, cal- colava nel secolo XVII che il prodotto medio fosse di 8 per 1. Nel Diario Palermitano di VILLABIANCA, sono notate le medie del raccolto del frumento in Sicilia per varii anni. E prezzo dell’ opera di riprodurle. 1759. — « La raccolta dei grani cadde, come la maggior parte giudica, sopra il mediocre, prendendo il 5 grasso, benchè altri il 6 ed ancora il 7 per salma. » 1760. — Raccolto scarso; appena il 5 per 1. 1761. — «In quest’ anno 1761 fu un raccolto d’ invidia. Ve ne furono dei pessimi; ve ne furono degli ottimi; ma 48 L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLA SICILIA. più furono i buoni che gli scarsi. Si fa conto che il regno prese il 6 in generale. » 1762. — Raccolto cattivo; in media il 4 °/, per 1. 1763. — Raccolto pessimo ; il 4 scarso per 1. 1764. — Il 10 per 1. « Non c’è memoria di uomo antico dei nostri tempi che si ricordi di una consimile abbondante raccolta, che si è creduta invero prodigiosa. » «1765. — Il 6 scarso per 1. 1766. — Annata cattiva; il 4 scarso per 1. 1767. — Prodotto scarso ; il 4 ‘/, per 1. 1768. — Il 5 grasso e forse anche il 5 ‘/, per 1. 1769.—Il 5 4*/. per 1. 1770.—Il 5 ‘/, e forse il 6 per 1. 1771. Il 4 per 1. 1772.— Il 4 ‘/, grasso per 1. 1773.—11 5 ‘/, per 1 1774.— Raccolto mediocre ; il 5 */, per 1. 1775.— Raccolto generalmente abbondante; il 6 grasso per 1. A titolo di curiosità riportiamo i dati raccolti da BaLsamo, Giornale di viaggio, 269, circa la produzione dei cereali nel quinquennio 1803-07 in un podere della baronia di Campe- pietro nel piano di Catania. Fu un quinquennio di grande siccità. Balsamo dice che i dati medesimi possono applicarsi per quel quinquennio a tutto il piano di Catania: Sementa. Prodotto. 1803 frum. 36 salme 85 salme orzo 4.8 >» 15 > 1804 frum. 27.8. > TOO brzo SOR 6 1805 frum. 30 » 22 orzo 4 » — » 1806 frum, 29.6» 28.14 > OLZOMMD.O fee 6 » 1807 frum. 30 » 90 > orzo 9 » 35 » L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLA SICILIA. 49 Non è inverosimile che le notizie esagerate dei prodotti siculi sì riferiscano unicamente ad annate di straordinaria. importanza e, invece che al frumento solo, a tutti i cereali e legumi insieme. (4) Barsamo ritiene che la granicoltura sia per la Sicilia la meno produttiva di tutte le coltivazioni, indipendente- mente dalle frequenti fallanze di raccolto per siccità e venti siroccAli. La viticoltura, secondo i suoi calcoli, darebbe un prodotto lordo nove volte superiore a quello dei grani, ed anche il prodotto netto sarebbe considerevole ove il vino avesse prezzi discreti. Egli suggerisce di abbandonare i grani per la vite e per l’ olivo, e di allargare su vasta scala la col- tivazione del mandorlo e del sommacco che danno compensi lautissimi. (5) VARRONE, I, 44, parla di regioni della penisola, nelle quali il frumento rendeva il 10 e sino il 15 per 1, come l’ Etruria. Ove STRABONE, VI, afferma che la Sicilia era più ferace di grani che il resto d’ Italia, lo deduce unicamente dal fatto delle esportazioni, e dimentica di osservare che l’Italia ne produceva poco, perchè ne coltivava meno. (0 Trorr., VIII, 3. (2) Honm, I. (28) Drop., X, 17. © Ilegumi di Gela erano ricercatissimi in Grecia per la loro bontà (ATHEN., I, 27). 69 Drop., XIII, 15. Le cantine del ricco Geliaso Tel- lias, che Policleto venuto in Sicilia colla milizia potè visi- tare, contavano 300 botti scavate nella roccia, ognuna della capacità di 100 anfore; ed una botte colossale della capa- cità di 1000 anfore, dalla quale distribuivasi il vino nelle botti minori (How, II, 88). (1 Droporo, XIII, 15, dice che a quell’ epoca i Cartagi- nesi non coltivavano ancora la vite e l’olivo. Non potremmo aggiustar fede a questa notizia. I Cartaginesi erano una BERTAGNOLLI. 4 50 L’ AGRICOLTURA DEI GRECI NELLA SICILIA. colonia dei Fenici, espertissimi nelle cose dell’ agricoltura sin dai tempi più remoti. Del resto egli stesso, XX, 2, fa questa descrizione dell’ agricoltura cartaginese, ove narra la marcia eseguita da Agatocle sul suolo africano: < Il paese, che doveva attraversarsi, era occupato da orti e da ter- reni ottimamente coltivati. Era tutto irrigato da ruscelli e da canali; numerose erano le piccole ville coperte di te- gole, indizio manifesto dell’agiatezza dei proprietari. Una larga pace aveva permesso agli abitanti di farsi ricchi. Le campagne in parte erano piantate di vigne e di olivi, ed in parte tenute a prato per gli armenti e per i greggi. Nelle vicine paludi allevavansi numerose razze di cavalli. > Vedi anche Grorne, VI, 750, e Bart, Wanderungen durch die Kiistenliinder des Mittelmeeres, I, 131-133. Riteniamo quindi che Cartagine non avesse bisogno dei prodotti agrigentini per il suo consumo, ma che ne facesse incetta per espor- tarli in altri paesi. 82 Honm, II, 87. (33 Erano celebri nella Grecia il vino jotalino (AtHEN., I, 27), conosciuto poi dai Romani sotto il nome di mamertino, il polliano o bibliano (AtHen., I; PoLLux, VII, 16), l’inicense, l’ etneo (AtnEN., I; StrAB., VI; Paus. in Acaiec.), il potu- lano (AtnEN., I). Presso i Romani godevano credito il ma- mertino (StrAB., VI), il potulano e il tauromenitano (Purn., XIV, 66), l’ etneo (StrAB., VI e XIII), il murgentino (Prin, XIV, 35), quello d’ Entella (Str. Irar., XIV, 204), ed altri. Un certo Scrambo di Siracusa aveva acquistato rinomanza nella vinificazione sin dai tempi dei Dionisii (PLAT. in Gorg.). (84 CauLia in ATHEN., II, 20; V, 7. (35) Pinparo, che ebbe a visitare la Sicilia 474 anni prima dell’ èra volgare, la designò col nome di r0)va2z)05, che significa ricca di bestiame (Olimp., Od. I). Dionigio di Sira- cusa aveva preso di mira, cosa rara a quei tempi, il be- stiame come un cespite di finanza. Al corto di quattrini impose una tassa sul bestiame. Com’ era naturale, 1’ alleva- mento diminuì. Dionigio soppresse la tassa e l’ allevamento L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLA SICILIA. DI prese a rifiorire. Egli la ristabilìi, ma poichè vide che i Si- racusani facevano a gara per isbarazzarsi del bestiame, proibì di maceliare più del bisogno, e particolarmente di macellare le femmine (ArIstoT., Econ., 11). (69) Quanto ai prati, vedi di sopra a pag. 30. Le stalle erano già nel mito. TrocrIto, Idil., VII, rappresenta Po- lifemo che preso dal vino di Ulisse balla nella sua spelonca, che chiama stalla («0)2). Anche la narrazione di OmeRo, Odiss.,IX, e di VireILIo, Eneide, III, secondo la quale Polifemo rinchiude di notte i suoi greggi nella spelonca, in cui fab- bricava e conservava i formaggi, accenna ad un uso che esclude la pastorizia all'aperto e nomade. Omero, Odiss., XII, descrive le stalle, nelle quali erano i buoi del Sole. Vedi pure, rapporto alle stalle, TrocrIto, Idi22., IV, VII, XVI, XXV e XXXVI. Se la pastorizia fosse stata meno progre- dita o poco importante, non avrebbe avuto senso pratico e ragione di essere il Trattato di medicina veterinaria e di igiene animale, dettato da EricaRMo contemporaneo di Ge- rone. « Epicharmus autem syracusanus qui pecudum medi- cinas diligentissime conscripsit, etc. >» (CoLum., VIII, 3). 62 Il tempio di Engione possedeva una mandra di 3000 wacche e 512 tori (Drop., IV, 80; Trocr., Idill., XXV, 32). Dionigio, quando pose mano alla costruzione delle mura di Siracusa, ebbe a sua disposizione 6000 paja di buoi (Drop., XIV, 4). 88 Dopo la cacciata di Trasibulo da Siracusa, s’ istituì una festa civica annuale, nella quale si distribuiva: tra le turbe la carne di 450 buoi (Honm, I, 251). (89 ArHEN., IX, serive che al ritorno di Venere Ericinia dall’ Africa i dintorni del suo tempio in Erice olezzavano di burro.({Bovr:p0v). Secondo ApuLEJO, I, il formaggio del- l’ Etna esportavasi fin nella Tessalia. EuLuLo in AtHEN., IX e XIV, loda le carni e il formaggio di Sicilia. Parlano con favore dei formaggi siculi anche Ermip. in ATHEN., I, 17, e PoLLux, XI, 10. 49 Cicer. in VerR., II; StRrAB., VI. 52 L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLA SICILIA. (41) OpPPIAN., Kineg., dice velocissimi i cavalli che si al- levavano al Lilibeo. i 4 Di Girgenti dice Verc., Zneid., III: « Magnanimum quondam gererator equorum.» E Sin. Irar., XIV: « Altor equorum.> E Pinpar., Pyth., XII: pa)aforov 'Axpayatos. Vedi anche Soroct., 0ed., colonn. 312. (4 Pinparo, Od. II a Gerone, decanta Siracusa per |’ al- levamento dei puledri. ( Form, IL 155. 4) Si narra di certo Exenetos di Girgenti, che tor- nando vincitore dai giuochi olimpici fece il suo ingresso trionfale in città accompagnato da 300 carri, tirati ognuno da due cavalli bianchi, tutti di razza siciliana (Drioporo e GROTHE). 649 ATHEN., II e V; Crcer. in VERR., II. 47 I foraggi dell’ Etna rendevano le pecore così grasse da farle scoppiare (ArIstoT., De natura animal., III, 17); per frenare la eccessiva pinguedine, si estraeva loro di quando in quando il sangue dagli orecchi (Srras., VI). Così an- che ai tempi di FazeLLo (I, 2) e di OmoDEI (I. c.), e alla fine del secolo passato (BARTELS, op. cit., II, lett. 21, pag. 34). PAcICHELLI, Memorie dei viaggi (1683), parte IV, tom. II, 79, dice che sul Catanese le pecore hanno i denti dorati per la grassezza dei pascoli. “9 L'agricoltura fiorì in Palermo forse prima che nelle altre parti dell’isola, perchè vi dominavano prima i Fenici e poi i Cartaginesi, gli uni e gli altri molto progrediti nelle cose dell’ economia agraria. (49) Prur., Apoph., I, 175. (59) ATHEN., XII, 10. ©1) Droporo, X, scrive che a Girgenti la piantagione delle viti e degli olivi sì fece coll’ ajuto dei Cartaginesi fatti prigionieri all’ Imera. Qualche proprietario ne aveva otte- nuti sin 500 (Hoxrm, I, 208). L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLA SICILIA. 53 w.Vagz, 1,1: Pun. N. H., XVII,3. 63 Honw, I, 148; Gatto, Saggio storico e critico sulla pa- storizia e agricoltura in Sicilia, ec. (6% ArRISTOT., Polîit., I, 2. 55) CASTELLI, Inscript. sie., 84. SHSDrop:, XVi:72, 67 Se fosse vera la notizia di Droporo, non saprebbe conciliarsi colle lodi, delle quali è largo all’ agricoltura dei tempi di Gelone, Terone e Gerone, e non si capirebbe come egli avesse potuto attribuire il salvamento dell’ agricoltura sicula a Timoleone che interruppe il governo popolare (Vedi la nota 59). 68 Vedi ArIstoT., Polit., VII, ove descrive il disordine e la confusione, a cui fu in preda la Sicilia dopo l’ abroga- zione del principato. Vedi pure Nicra in Tucm., VII, 48. ©9 Dioporo, XVI, 15, dopo aver detto che sotto Timo- leone l’ agricoltura risorse, così continua: « Imperciocechè è d’uopo considerare che per le discordie e guerre intestine e per la moltitudine poscia dei tiranni insorti, quell’ isola era ridotta a tale che le città mancavano di abitanti, e le campagne per mancanza di coltura erano divenute squal- . lide e sterili, e non davano più frutto. > Vedi NirzscH, Die Gracchen und ihre niichsten Vorginger, 14. (60 Crcer. in VerR., II; Dion., Framm. al lib. XII ‘1 Levino, occupata Girgenti, ordinò alla popolazione di deporre le armi e di non occuparsi d’ altro che della coltivazione delle terre, per poter assicurare a Roma ed al- l Italia l’ alimentazione (Liv., XXVI, 40). Catone chiama la Sicilia « cellam penariam Reipublice nostra, nutricem plebis romane » (Cicer. in VeRR., II). Anche CICERONE, l. c., la dice la provvidenza di Roma: « Nam, sine ullo sumptu nostro, coriis, tunicis frumentoque suppeditato maximos exercitus nostros vestivit, aluit, armavit.» Vedi anche StRA- BONE, VI. 54 L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLE CALABRIE. 2. — NELLE CALABRIE. Quasi contemporaneamente alla Sicilia, i Greci co- lonizzarono anche la bassa Italia e particolarmente la regione che costeggia il mar Jonio. Sulle spiaggie ca- labresi e più su attorno al golfo Tarentino sorsero le città di Taranto, Metaponto, Eraclea, Sibari, Crotona, Turii, Locri, Reggio con altre minori, ed alcune di esse in breve volger di tempo raggiunsero un grado meraviglioso di prosperità. L’ agricoltura della Magna Grecia era fiorentissi- ma; * ma, per la limitata estensione della terra coltivabile, non avrebbe bastato a mantenere nella ricchezza e nel lusso diverse città così potenti e po- polose. La ragione di questa prosperità non poteva essere principalmente l’ agricoltura; erano i commerci e le industrie. Ciò è tanto vero, che, essendo venuti meno, coll’annessione alla Repubblica romana, i grandi centri industriali della marina jonica, la potenza eco- nomica del paese si trovò fiaccata, quantunque l’ agri- coltura non avesse patito dalla conquista un notevole detrimento. Situate felicemente attorno ad un immenso golfo, che da una parte metteva nella Grecia, nella Sicilia e verso Cartagine, e dall’ altra conduceva per il mare Adriatico agli scali del commercio del centro d’ Europa, con alle spalle una delle più vaste e delle più belle selve, che somministrava senza difficoltà e con poca * Vedi le Note a pag. 61. L’AGRICOL!URA DEI GRECI NELLE CALABRIF. du spesa un ottimo legname per le costruzioni navali, in possesso di varie miniere di ferro, le colonie greclre della bassa Italia si dedicarono al commercio marit- timo, e si fecero le mediatrici degli scambi fra il Mezzodì e 1’ Oriente da una parte ed il Settentrione dall’ altra. Di questo commercio dei trasporti e di transito erano Taranto e Sibari i due scali più im- portanti. Rapporto a quest’ ultima città si narra che nutrisse con Mileto un commercio così vivace e ricco, che, quando fu distrutta dai Crotoniati, i Milesii si fe- cero radere e vestirono il corruccio come per un lutto nazionale. ©’ Ma il commercio della Magna Grecia non era ba- sato unicamente sui prodotti esteri. Essa portava sul mercato anche una massa ragguardevole di merci del paese. Taranto era la sede di numerosi lanifici.’ I suoi panni finissimi per la insuperabile qualità delle lane e per l’ingegnoso artificio si mandavano in ogni parte del mondo.® Era famosa per le sue industrie tintorie. La sua pesca ricchissima era indirizgata par- ticolarmente alla raccolta delle conchiglie e della por- pora per la tintoria delle lane (Grothe, V, 4). Tutto ciò dicasi anche per Sibari, ove le tintorie di porpora, in vista dell'interesse pubblico, erano state dichiarate esenti da imposte. Nelle due città esercitavansi varie altre industrie e particolarmente la lavorazione dei metalli. ©’ Per quest’ ultima industria si era fondata a Reggio una scuola speciale. Egli è vero però che non era di piccola impor- 56 L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLE CALABRIE. tanza neppure la esportazione dei prodotti della terra e delle industrie rurali. Ma di ciò parleremo ragio- nando dei singoli prodotti. Non sapremmo come meglio esaminare le condi- zioni agricole della Magna Grecia che prendendo per base le Tavole d’ Eraclea, le quali contengono la misu- razione, la terminazione e la concessione in affitto di due poderi della Magna Grecia. E giudichiamo op- portuno di riprodurre i due documenti nelle Note, sia perchè sono i due contratti d’ affitto più vetusti che conosciamo; sia perchè, quantunque siano stati pub- blicati tradotti dal greco in latino e commentati dal Mazzocchi, sono poco conosciuti e non facilmente rin- venibili. Le due Tavole datano dall’ anno 300 prima del- l’èra volgare. Durante la guerra di Alessandro re di Epiro ta- luni privati avevano usurpato una parte dei terreni dei tempii di Dionisio (Bacco) e di Minerva di Era- clea. Ritornata la pace e ristabilito in Eraclea il go- verno popolare, uno dei primi pensieri della città fu di reintegrare la proprietà dei numi e di provvedere alla sua coltivazione ed amministrazione. E ciò si fece coi due strumenti che furono scolpiti in tavole di bronzo, e che riproduciamo nelle Note volgarizzati libe- ramente.l!° Non abbiamo ricordi sufficienti per determinare con sicurezza come fosse ripartita la proprietà fon- diaria nella Magna Grecia. La ricchezza del paese, la sua fiorente pastorizia, ! agglomeramento dei suoi abitatori nelle città della marina accennerebbero alla L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLE CALABRIE. D7 prevalenza della grande proprietà. Le uniche testi- monianze che abbiamo sono le Tavole d’ Eraclea, e queste si riferiscono a due latifondi, ’ uno dell’ esten- sione di oltre 400 ettari, I’ altro pure di una esten- sione ragguardevole ; il primo condotto colla grande coltura in appezzamenti ragguagliati a circa et- tari 100 cadauno, il secondo colla media coltura in appezzamenti fra 10 e 25 ettari. Non azzarderemmo però di escludere che i terreni vicini alle città fos- sero divisi in appezzamenti minori, così per rapporto alla proprietà che riguardo alla coltura; come non temiamo di errare affermando che 1° interno del paese tenuto a prati, a pascoli ed a grani fosse riunito in grandi corpi. Le Tavole ci presentano due sistemi diversi di coltivazione: 1’ enfiteusi e 1’ affitto. Che nella prima Tavola si tratti di un vero e proprio contratto enfiteutico, apparisce non tanto dal- l'obbligo imposto ai concessionari di migliorare il terreno con piantagioni, costruzioni, ec., quanto dalla tenuità del prezzo d’affitto e dalla durata vitalizia della concessione; come chiaramente apparisce che nella seconda si tratti di un contratto di affitto, dal- l’elevatezza del correspettivo e dal termine fissato in cinque anni. Dalla prima Tavola apparirebbe inoltre che la Magna Grecia conoscesse sin da quell’ epoca remota, oltre all’ enfiteusi, la servitù della gleba; poi- chè vi si parla di servi ascritti al podere, e si vieta di ammetterne di più di quelli che esistevano all’ epoca del contratto. Le coltivazioni erano specializzate. La vigna era 58 L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLE CALABRIE. tenuta a parte; i campi di grano erano spogli di alberi. Della feracità della Magna Grecia in frumento si sono narrate cose meravigliose come per la Sicilia.’ Lasciando a parte le esagerazioni, non si può non ammettere che le pianure e le valli di quella regione dessero in cereali un abbondante prodotto. E male si capisce come i due latifondi descritti nelle Tavole d’ Eraclea fossero coltivati ad orzo, anzichè a fru- mento. I cereali inferiori sono coltivati con preferenza dei cereali fini o in uno stato poco progredito. del- l'agricoltura, o dove la sovrabbondanza della popo- lazione esige coltivazioni di prodotto copioso. Posta fuor di discussione la prima ipotesi, parrebbe doversi accettare la seconda. A meno che non si ritenga che le condizioni agricole dei due latifondi non debbano sotto questo rapporto essere prese come tipo per tutta la Magna Grecia e che, come avviene di frequente sui terreni di corpi morali, siasi continuato per noncu- ranza 0 per avversione alle novità o per altre cause speciali, tra le quali le esigenze dell’ allevamento ca- vallino, a coltivare un cereale che sui terreni dei privati era stato già quasi intieramente surrogato dal frumento. Il vino fu indubbiamente uno dei prodotti più cospicui della Magna Grecia. Dalle Tavole d’ Era- clea si desume agevolmente quale e quanto valore si attribuisse a questa produzione. Nella quarta porzione del podere sacro a Bacco era una vigna di pochi ettari, per la coltivazione della quale si inserirono nel contratto speciali raccomandazioni. Pare che nelle L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLE CALABRIE. 59 altre porzioni non vi fossero vigneti e che le pianta- gioni di viti fossero da farsi. Il prezzo di affitto della prima porzione era circa il sestuplo delle altre, unica- mente in causa, a quanto pare, di questa piccola vigna. Anche i prezzi d’ affitto delle singole porzioni del po- dere sacro a Minerva, ad ognuna delle quali era unito un appezzamento di vigna, sono così esagerate, che non si spiegherebbero se non nella supposizione che fosse attribuito al vino un valore straordinario. Egli è vero che, come apparisce dalla prima Tavola, trat- tavasi di una vigna, il cui prodotto era famoso tra i migliori vini d’ Italia.l” L’ olio era un importante articolo di esportazione. Al pari del vino, mandavasi a Cartagine; e nel- l'Oriente apprezzavasi assai sin dai tempi di Filippo il Macedone 1 olio di Turio.“ L’ obbligo della pian- tagione di olivi era una delle clausole dell’ affitto del podere di Bacco. Non consta che fosse molto importante 1° alleva- mento dei bovini, imperocchè era nella legislazione e nella filosofia di quei paesi che non si potesse cibarsi della carne di bue.“ Non di meno i bovini si alle- vavano così per il lavoro come per la produzione dei latticini e del concime. Nella prima Tavola sono nominati i caseifici, che, a quanto pare, eran comuni per tutti i fittajuoli del podere. E poichè nella Tavola non si fa cenno d’ altra specie di bestiame che del bovino, niun dubbio che i latticini siano stati di vacca. Che si raccogliesse e si utilizzasse il concime con grande diligenza, apparisce manifestamente dall’ ob- 60 L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLE CALABRIE. bligo imposto ai fittajuoli di costruire una concimaja, e dalle accurate istruzioni impartite ai medesimi circa la sua grandezza e il modo della costruzione. Nella Magna Grecia, come nella Sicilia, 1’ allevamento del bestiame facevasi in istalla. Ai fittajuoli era imposto l'obbligo di costruire stalle e pagliai in muratura, spa- ziosi, coperti e muniti di porte.” Era di grande rilevanza 1’ allevamento cavallino, poichè Polibio enumera fra le cause della ricchezza di Taranto la esportazione dei cavalli. Ma il cespite più progredito e più rieco della pa- storizia della Magna Grecia era indubbiamente 1° al- levamento delle pecore. Pare che in quei paesi esi- stesse una razza finissima di ovini, dai quali ottenevasi un vello prezioso e bellissimo che era la materia prima dell’ industria, per cui andò famosa la Magna Grecia. Questa razza di pecore si mantenne anche sotto i Romani. A questa feracità della terra ed alla ricchezza della pastorizia contribuiva potentemente l’ abbondanza delle acque irrigue. Secondo Strabone (VI), non era ricco di acque il contado di Taranto, ma anche qui era il prodigioso Galeso fiancheggiato da bellissimi prati e pascoli, nel quale si abbeveravano e lavavano le oves pellite. Diodoro (X e XXII) ripete la fertilità della terra di Sibari dai due fiumi Sibari e Crati. Strabo- ne (VI), parlando di Eraclea, dice che i due fiumi Siri ed Aciri erano navigabili. Il fiume Siri, o Sini o Semno, irrigava tutta la grande ed erbosa pianura della Conia, ©” nella quale era sita appunto Eraclea. Che si desse una speciale importanza alla irrigazione, ap- L' AGRICOLTURA DEI GRECI NELLE CALABRIE. 61 parisce eziandio dal contratto d’ affitto del podere di Bacco.!®" Bastano queste poche notizie per dare un’ idea dell’ agricoltura di un paese allora coltissimo e sano, ora coltivato, in gran parte, miseramente e desolato dalle paludi e dalla malaria. Cessata 1’ autonomia economica della Magna Gre- cia colla conquista romana, la sua agricoltura cambiò necessariamente indirizzo, al pari di quella dell’ Etru- ria e della Sicilia. Anche le Calabrie dovettero ac- conciarsi ai gusti ed alle richieste del mercato di Roma. E poichè quel grande centro di consumo do- mandava alle Calabrie principalmente carni, come ap- parisce anche dalla maniera di tributi imposti alle medesime, ©’ l economia agricola dovette cercare il suo punto d’ appoggio nella pastorizia. Ma 1’ agricol- tura non decadde, anzi la troviamo in fiore persin dopo la caduta dell’ Impero romano, sostenuta e pro- mossa dai commerci delle Calabrie coll’ Oriente e par- ticolarmente con Costantinopoli. NOTE. ‘%) Drop., XII. Taranto era ricchissima di lane, vino, olio, cavalli, grani (PoLts., Exe., XI). Sibari di grano, vino, olio, bestiame, lino, legname da costruzione (GRroTHE, V, 4). @® Riguardo all’ abbondanza del legname per le costru- zioni navali, vedi Tucip., VI, 90 e VII, 25. DronIe., XX, 5, parlando della Sila, dice che vi crescevano in grande copia altissimi abeti, pioppi, pini, faggi e frassini, fecondati dalle acque che percorrono la vasta selva. 62 L’ AGRICOLTURA DEI GRECI NELLE CALABRIE, ® Ponis., Exe, XI. Rapporto al commercio di Taranto con Cnido, vedi Eropor., II, 138. ‘© ABEKEN, 293; Eropor., VI, 21. 6 Brimner, Die gewerbliche Thatiglkeit der Volker des klassischen Alterthums, 120; Biicasensoniirz, l. c.j} GROTHE, Die Geschichte der Wolle und der Wollemanufaktur im Alter- thume. (©) BriimneR, 123. Una veste finissima portava il nome di Tarantidia dal luogo di fabbricazione (AtHEN., XIV, 622; PoLLux, VII, 76). © ArHEN., XII, 521. (8) BLuMNER, 124. 0 Brunn, Kwunstlergeschichte, 1, 132. (10) ;È Essendo eforo Aristarco, figlio di Eraclide, e correndo il mese apelleo (dicembre). Il popolo e gli agrimensori Fi- lonimo, figlio di Zopirisco; Apollonio, figlio di Eracleto ; Dazimo, figlio di Pirro ; Filota, figlio d’ Istieo; Eraclide, figlio di Zepiro. A_ Bacco. Gli agrimensori Filonimo, figlio di Zopirisco; Apollonio, figlio ad’ Eracleto ; Dazimo, figlio di Pirro; Filota, figlio di Istieo, ed Eraclide, figlio di Zopiro, incaricati di misurare i terreni sacri a Bacco, hanno riportato in atti, come se- gue, la misurazione, la confinazione e la ripartizione che essi han fatto, e che il popolo d’ Eraclea riunito in comizio ha sanzionato. Abbiamo misurato incominciando dal limite, che è trae- ciato al di là di Pandosia, e che divide i terreni del nume da quelli dei privati, e terminando al limite che separa i terreni del nume dal campo che possedeva Conea, figlio a Dione. Ed abbiamo diviso tutto il terreno, compreso entro questi limiti, in quattro porzioni. La prima, la quale si estende in larghezza dai sepolereti degli eroi alla via Tren- tapiedi che mena attraverso i campi del nume, ed in lun- L’ AGRICOLTURA DEI GRECI NELLE CALABRIE. 053 ghezza dai torrenti al fiume Aciri, contiene scheni 201 (lo scheno = '/, jugero) di terreno coltivato e scheni 646 ‘/, di terre salde, boscose e di selve. La seconda, che in larghezza sì estende dalla via Trentapiedi al limite primo, ed in lun- ghezza dai torrenti al fiume, comprende scheni 273 di ter- reno coltivato e 500 di terre salde, boscose e di selve. La terza, che si estende in larghezza dal limite primo lungo la via Trentapiedi al limite che vien secondo a partire dalla via stessa, ed in lunghezza dai torrenti al fiume, comprende scheni 312 ‘/, di terreno coltivato e 537 '/, di terre salde, boscose e di selve. La quarta, che in larghezza si estende dal limite che vien secondo a partire dalla via Trentapiedi, al limite che separa i terreni del nume da quelli dei pri- vati, ed in lunghezza egualmente dai torrenti al fiume, comprende, secondo le nostre misurazioni, scheni 308 ‘/, di terreno coltivato e 541 ‘/, di terre salde, boscose e di selve. Abbiamo misurato così in totale scheni 1095 */, di terreno coltivato e 2225 di terre salde, boscose e di selve. Abbiamo compreso nelle terre salde l'isola che si formò accanto ad esse. Di questo possedimento erano stati usur- pati scheni 303 ‘/, di terreno coltivato e 435 ‘/, di terre salde, boscose e di selve; cioè nella prima porzione, lungo i sepolcreti, scheni 76 di terreno coltivato e 185 di terre salde, boscose e di selve, e nella quarta porzione, lungo i terreni posseduti da Finzia, scheni 227 ‘/, di terreno colti- vato e 250 di terre salde, boscose e di selve. Così abbiamo ricuperato al nume scheni 738 ‘/, di terreno ed abbiamo applicato le multe trigesime a coloro che l'avevano usur- pato. Il quale terreno, così ricuperato, abbiamo accordato in affitto vitalizio (227% £é0v), come ora si trova, per me- dinne (sei modi di Roma) 300 all’ anno, a coloro che l’ave- vano usurpato. L’intiero possedimento, di proprietà del nume, è stato affittato per medinne 410 e caddici (*/, mo- dius) 1 all'anno. E abbiamo piantato i termini: dalla parte superiore, uno sul limite che corre al di là di Pandosia e dei sepolcreti, e che separa i terreni del nume da quelli dei privati; il quale termine abbiamo tolto dal letto del tor- 64 L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLE CALABRIE. rente, in cui l'avevano trasportato i privati, e l’ abbiamo piantato sul terreno di essi, onde, per avventura coperto dal limo, non si perdesse come è avvenuto per l’ addietro; e ne abbiamo piantato un altro, trasportandolo egualmente sul terreno dei privati, presso la vigna Biblia e la fossa sul limite che costeggia i terreni di Finzia; ed abbiamo pian- tato i termini corrispondenti sulla strada carreggiabile, che corre lungo il letto del torrente e al di là della selva; cu- rando che i termini primari fossero rivolti verso i terreni del nume, i termini corrispondenti verso i terreni dei pri- vati, e lasciando fra gli uni e gli altri un limite della lar- ghezza di 20 piedi. Poi abbiamo piantato i termini inter- medi, due sulla strada, la quale, partendo e dalla città e da Pandosia, mena attraverso i terreni del nume; e due al culmine delle alture; tutti in linea retta, scrivendo su quelli che sono rivolti verso i terreni del nume le parole : — Termini sacri dei terreni di Baeco, — e su quelli che sono rivolti verso i terreni dei privati, le parole : — Termini cor- rispondenti. — Ed abbiam piantato egualmente i termini in- termedi nel limite che costeggia i terreni di Finzia, due sulla strada che dalla città d’ Eraclea e da Pandosia mena attraverso i terreni del nume, e due sul culmine delle al- ture lungo i caseifici (rep 725 rvpetze), paralleli a quelli che abbiam piantato sulla strada, la quale costeggia il tor- rente al di là della selva. E su quelli che guardano verso i terreni del nume, abbiamo scritto le parole: — Termini sacri dei terreni di Bacco, — e su quelli che prospettano le terre dei privati, le parole: — Termini; — e abbiamo lasciato fra gli uni e gli altri un limite della larghezza di 20 piedi. E nella via Trentapiedi, che mena attraverso i terreni del nume, abbiamo stabilito dal lato superiore due termini di- stanti l’uno dall’ altro 30 piedi, e due termini corrispondenti e prospettanti sui terreni dei privati nella strada che corre al di là della selva; questi pure distanti l’ uno dall’ altro 30 piedi. In mezzo poi ai terreni del nume nella via Tren- tapiedi abbiamo piantato quattro termini, lasciando fra due la distanza di piedi 30 e fra gli altri due la distanza di L’ AGRICOLTURA DEI GRECI NELLE CALABRIE. 65 piedi 20; ed altri due nel limite secondo, distanti 1’ uno dall’ altro 20 piedi; tutti questi senza iscrizione, poichè non sono destinati che a segnare le singole porzioni dei terreni del nume. L’intiera estensione poi dei terreni di Bacco è confinata per un verso dal limite che costeggia i sepolereti e dal limite che corre lungo i terreni di Finzia, e per l’altro dai torrenti e dal fiume Aciri. Ecco il numero dei termini che abbiamo stabilito : sette, compreso il ter- mine laterale, nel limite lungo i sepolcreti; nella via Tren- tapiedi, otto ; due nel limite che corre al di là della strada stessa; due nel limite che vien dietro immediatamente a quello, e sette nel limite che costeggia i terreni di Finzia, compreso quello stabilito presso la vigna Biblia e la fossa. Patti stipulati nella locazione dei terreni di Bacco: Essendo eforo Aristione e correndo il mese apelleo. Il popolo e i prefetti urbani Timarco, figlio di Nicone; A pol- lonio, figlio di Apollonio; e gli agrimensori Filonimo, figlio di Zopirisco; Apollonio, figlio di Eracleto; Dazimo, figlio di Pirro ; Filota, figlio d’Istieo; Eraclide, figlio di Zopiro, danno in affitto, come gli Eracleesi hanno decretato, i terreni sacri di Bacco, così come ora si trovano, per tutta la durata della vita dei fittajuoli (2272 £/0v). I fittajuoli usino e go- dano di questi terreni, finchè continueranno a presentare fidejussori ed a pagare ogni anno, sempre al principio del mese panemo (luglio), malgrado che la trebbiatura avesse a farsi più tardi, il fitto convenuto. Per il quale corrispon- dano all’ annona pubblica, misurandolo col pubblico cheo (misura corrispondente ad */, di medinna) innanzi ai pre- posti di essa che si troveranno in carica, le quantità di sotto stabilite, di orzo puro e buono quale saran per darlo i terreni ad essi concessi, e in buona misura. Presentino ogni quinquennio ai prefetti urbani in carica i fidejussori, che i prefetti accetteranno, se stimeranno sufficienti. Se i fittajuoli avranno subaffittato o dato a coltivare ad altri i terreni, o cedutone ad altri l’ usufrutto, presentino fidejus- sori così i cedenti come i cessionari, come incomberebbe ai BERTAGNOLLI. 5 66 L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLE CALABRIE. fittajuoli di darli. Chi poi non presenterà i fidejussori o non pagherà il fitto secondo le presenti Tavole, sia tenuto a corrispondere per quell’anno il doppio del fitto conve- nuto, tenendo conto, di più, del maggior prezzo che il pro- dotto avesse avuto al momento, nel quale avrebbe dovuto essere consegnato. Così pure il fittajuolo, per colpa del quale si avrà dovuto affittare il terreno ad altri, risponda, innanzi ai prefetti urbani ed ai preposti dell’annona in ca- rica, della differenza del prezzo in meno, per il quale il nuovo affitto sarà stato fatto per il primo quinquennio, do- vendo, malgrado il nuovo contratto, rimanere integra la rendita del nume; e restino in proprietà del nume tutte le piantagioni e le costruzioni che saranno state fatte sul terreno. Quanto alla coltivazione si osservino i seguenti patti. Il fittajuolo della prima porzione, la quale è situata lungo il limite che corre al di là di Pandosia, e si estende dai sepolcreti degli eroi alla via Trentapiedi, pianti non meno di 10 scheni di viti e, se il terreno sarà adatto agli olivi, non meno di quattro piante d’ olivo per ogni scheno. Nel caso poi che i fittajuoli contestino l'idoneità del ter- reno a questa coltivazione, i prefetti urbani in carica, col- l’ajato di periti giurati che essi sceglieranno tra il popolo, esaminino la cosa, e dopo aver fatto un confronto fra il terreno in questione ed i terreni finitimi, pronuncino. Ab- biano cura i fittajuoli delle piante esistenti, e se alcuna perirà o per l’ età o per la forza degli elementi, appartenga ad essi, ma ne sostituiscano un’altra e piantino quelle sta- bilite nel presente contratto entro 15 anni da questo, nel quale è eforo Aristione. Se ne pianteranno meno, siano chiamati a rispondere, e paghino per ogni olivo non pian- tato 10 nummi d’argento, e 2 mine d’argento per ogni scheno di viti non piantate contrariamente ai patti. I pre- fetti urbani del 15° anno, coll’ ajuto di non meno di 10 pe- riti, ch’ essi sceglieranno tra il popolo, verifichino se le piantagioni abbiano avuto luogo secondo questi patti e ri- portino in atti le piantagioni fatte, come pure le pianta- gioni che in onta ai patti non saranno state fatte, ed L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLE CALABRIE. 67 applichino per queste le multe senza pregiudizio della pre- stazione annuale, per il prezzo d'affitto. Se alcuno farà pascolare il proprio bestiame sui terreni sacri, o ne espor- terà qualche cosa, o reciderà o spezzerà piante, o inferirà qualche altro danno, esigano i fittajuoli l'indennizzo. Ogni cittadino risponda di ciò che ha sottratto. Non si aprano bocche nelle fosse e nei canali scorrenti per i terreni; non si derivi l’acqua ad usi estranei; non si disperda nè se ne impedisca il corso. Il fittajuolo purghi le fosse e i canali dei suoi terreni, ogni volta che se ne appalesi il bisogno. Non si guastino nè chiudano le strade stabilite, nè in al- cun modo si rendano meno atte all’ uso. Chiunque contrav- verrà a questi patti, sarà condannato, dai prefetti urbani in carica, alla multa ed alla restituzione nello stato pristino. Nessuno per sè o per altri tagli, spezzi o strappi un ramo dalle piante. Non si mantengano sul terreno più servi di quelli che vi sono ascritti. Non si cavi arena se non in quanto è necessaria per le costruzioni da farsi sul terreno stesso preso in affitto ; non si faccian cave di tufo nè d’ al- tro; chi contravverrà, ne risponda come chi ha violato il terreno sacro. Edifichino i fittajuoli, ciascuno nella sua por- zione, la villa rustica, cioè la stalla dei buoi (£06v%), la concimaja (vvyv) e il pagliajo; la stalla dei buoi abbia 22 piedi in lunghezza, 18 in larghezza: il pagliajo non meno di 18 piedi in lunghezza e di 15 in larghezza; la concimaja 15 piedi per ogni lato. Queste costruzioni sieno ben fatte, coperte di tetto e munite di porte, e siano com- piute entro il tempo stabilito per i’ esecuzione delle nuove piantagioni. Chi contravviene, sia multato per la stalla in 10 mine d’argento, per il pagliajo in 4 e per la concimaja in 3. Non si venda, non si tagli, non si abbruci del legname dei boschi e delle selve, nè si permetta di ciò fare a chic- chessia. Chi contravviene, sia tenuto all’indennizzo secondo le leggi e i patti di questo contratto. I fittajuoli però ta- glino il legname necessario per la costruzione degli edifici e per la piantagione delle viti, e della legna secca quanta è necessaria per il consumo della famiglia. Del resto ogni 68 L’ AGRICOLTURA DEI GRECI NELLE CALABRIE. fittajuolo usi dei boschi e delle selve siti nella sua por- zione. E rimetta ogni vite che sarà perita per vecchiaja, affinchè rimanga integro il numero di esse. Nè dia in pe- gno la sua porzione, nè riceva alcun che sotto il titolo di vendita, nè per il terreno nè per gli edifici; chi contrav- viene, incorra nelle multe secondo le leggi. Se il fittajuolo morrà senza figli o intestato, i frutti spettino alla città. È se è chiamato alla guerra e non possa trarre partito dai terreni, il popolo esaminata la causa pronunzi la rescis- sione dell’ affitto, e nè il fittajuolo nè i suoi fidejussori siano soggetti agli obblighi stabiliti nel presente contratto. I fidejussori, che si succedono di quinquennio in quinquennio, prestino garanzia per il prezzo d’ affitto, per le multe, per le indennità e per la esecuzione delle sentenze, ed obbli- ghino così le proprie persone come i beni che hanno di- chiarato di possedere; non neghino di aver prestato la fidejussione, nè domandino in corso di lite la reintegrazione della causa, nè in alcun altro modo preparino molestie alla città ed ai suoi procuratori. In altro caso sia nullo l'affitto. Il fittajuolo della seconda porzione usi e goda i terreni che si estendono dalla via Trentapiedi al limite primo, ed os- servi in tutto i patti riferiti di sopra, e sia soggetto in uno ai suoi fidejussori alle multe per ciò che ometterà di fare in onta al presente contratto. Il fittajuolo della terza por- zione usi e goda i terreni che si estendono tra il primo e il secondo limite a partire dalla via Trentapiedi; osservi in tutto i patti riferiti di sopra, e sia soggetto in uno ai suoi fidejussori alle multe per ciò che ometterà di fare in onta al presente contratto. Il fittajuolo della quarta por- zione, il quale la ebbe in affitto così dai prefetti urbani e dagli agrimensori, che sono in carica essendo eforo Ari- stione, come dai prefetti urbani che furono in carica sotto l’eforo Aristarco, figlio di Eraclide, cioè Filonimo, figlio di Filonimo e Eraclide, figlio di Timocrate, usi e goda dei terreni, i quali sono tra il limite che vien terzo dalla via Trentapiedi e il limite che separa i terreni di Bacco da quelli di Finzia, figlio di Cratino, ed osservi in tutto i patti L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLE CALABRIF. 69 riferiti per le altre porzioni; coltivi nel modo più accurato le viti esistenti nella sua porzione e ne sostituisca altre a quelle che periscono, affinchè resti integro il numero di scheni coltivato a vite, il quale al presente è di 24. Se con- travviene, si condanni in 2 mine d’argento per ogni scheno. Zappi gli olivi, i fichi e gli altri alberi da frutta che sono nella sua porzione, e li rincalzi con terra concimata e, se fa bisogno, li poti e sostituisca quelli che periscono per l'età o per la forza degli elementi, affinchè resti integro il numero attuale di essi. Nei terreni nudi di alberi semini gli olivi in numero corrispondente, come è stabilito in al- tra parte di questo contratto. Il fittajuolo che non opererà secondo i patti qui stabiliti e nei termini qui fissati, ne ri- sponderà innanzi ai prefetti urbani ed ai preposti dell’ an- nona in carica, secondo che è stabilito in altra parte del contratto. Che se i prefetti ed i preposti in carica non faranno il loro dovere, siano chiamati a risponderne. In base a questi patti, ha preso in affitto la prima porzione, che incomincia ai sepolereti, Bormio, figlio di Filota, per medinne 57 e caddichi 1 colla fidejussione personale e reale di Arcas, figlio di Filota ; la seconda porzione per 40 medinne Damarco, figlio di Filonimo, colla fidejussione personale e reale di Teodoro, figlio di Teodoro ; la terza per 45 medinne Pisia, figlio di Leontisco, colla fidejussione personale e reale di Aristodamo ; la quarta per 278 medinne Filippo, figlio di Filippo, colla fidejussione di Apollonio, figlio di Eracleto. AristopAMO, figlio di Simmaco, scrivano. CHERFA, figlio di Damone, di Neapoli, geometra. HE. Essendo eforo Dazimo. Il popolo e gli agrimensori Filo- nimo, figlio di Zopirisco ; Apollonio, figlio di Eracleto e Da- zimo, figlio di Pirro. A Minerva Urbana. Gli agrimensori Filonimo di Zopirisco, Apollonio di Era- cleto e Dazimo di Pirro, incaricati di misurare i terreni 70 L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLE CALABRIE. sacri a Minerva, situati in Cele, hanno riportato in atti, come segue, la terminazione, la misurazione e la riparti- zione che essi han fatto e che il popolo di Eraclea riunito in comizio ha sanzionato. Abbiamo incominciato la misurazione dal limite, il quale conduce dai Ceni alla via Trentapiedi che mena al mare, ed abbiam misurato tra il limite stesso e la via Bubeti, la quale mena dalla città attraverso .........4gjugeri 7; tra la via Bubeti e la via Trentapiedi jugeri 15; e tra questa parte della” via Trentapiedi e quella di essa che mena attraverso .........4gjugeri e mezzo. Al di là della via Trentapiedi, verso il limite Vicatideo, abbiamo misurato un jugero e mezzo. Del terreno . . ...... che anticamente costituiva 6 jugeri, restavano ancora 2 jugeri e mezzo; il resto era stato usurpato dai privati. Questo abbiamo ricuperato a Minerva nell’ antica misura. Ed ab- biamo pure ricuperato quel terreno presso l’ Aciri fra la via Centopiedi e la via Eracleense, il quale era stato for- mato dal fiume e che i privati avevano usurpato. I privati, perduta la lite, restituirono questi terreni; noi abbiamo applicato agli usurpatori le multe trigesime e reintegrato la dea nei suoi diritti. Abbiamo diviso tatti questi terreni in porzioni piantando i termini. A lato al terreno di un jugero e mezzo abbiamo fatto il primo appezzamento di 3 jugeri, aggiungendo ai 2 jugeri e mezzo quanto bastava del terreno ricuperato per raggiungere la larghezza di 3 jugeri. La lunghezza di questa porzione si estende, secondo i termini, in linea retta dalla via Centopiedi alla via Era- cleense. Ed abbiam misurato in questa porzione scheni 138 e passi 8, dei quali scheni 133, passi 26 e piedi 1 di ter- reno seminativo, e scheni 4, passi 11 e piedi 3 di vignato. Abbiamo dato questa porzione in affitto per il primo quin- quennio per 69 medinne, cei 1 e cenici 2. Tra questa por- zione ed il limite Vicatideo abbiamo misurato un’ altra por- zione di 3 jugeri in larghezza e nella lunghezza dalla via Centopiedi alla via Eracleense, Questa porzione è di scheni 139, dei quali 123 di seminativo e 16 di vignato. E abbiam L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLE CALABRIE. 71 locato questo appezzamento per 695 medinne. Al di lè del limite Vicatideo abbiamo costituito la prima porzione lungo la via Centopiedi, ove è il terreno vitato, per il quale ab- biamo stabilito una strada comune della larghezza di 8 piedi, dal limite Vicatideo alla casa Ventipiedi e dalla casa lungo le viti sino al fiume; e qui abbiam misurato dal Vicatideo presso l’ Aciri sino alla sezione obbliqua, che dall’ accesso comune mena alla via Centopiedi, scheni 59 ‘/,, dei quali 51 e passi 7 di seminativo e scheni 8, passi 8, di vitato. Ab- biamo affittato questa porzione per medinne 446 e caddi- chi 4. Nella seconda porzione, nella quale è la casa e che in lunghezza si estende dal Vicatideo alla fossa costeg- giante il fiume e in larghezza dai termini e dalla strada comune di 8 piedi agli altri termini, scheni 63 e passi 12. A questa porzione abbiamo assegnato scheni 8, passi 26, piedi 12 di vigneto, cioè la prima sezione del terreno vi- tato, sito lungo la via Centopiedi. E così la intiera por- zione è di scheni 72, passi 8, piedi 2. E l'abbiamo affittata per medinne 632 e cei 1. Nella terza porzione, che in lun- ghezza si estende dal Vicatideo alla fossa costeggiante il fiume e in larghezza dai termini della seconda ai termini di questa porzione, abbiamo misurato scheni 66 ‘/, di ter- reno seminativo. Abbiamo ad essa assegnato la seconda se- zione del terreno vitato lungo la via Centopiedi, dell’ esten- sione di scheni 7, passi 17. E così questa terza porzione consta di scheni 74, passi 2. E l'abbiamo affittata per me- dinne 630, caddichi 2, cenici 2. Nella quarta porzione, che si estende in lunghezza dal Vicatideo alla fossa costeg- giante il fiume, ed in larghezza dai termini della terza ai termini di questa porzione e al limite che divide i terreni e che abbiamo stabilito fra il Vicatideo e il fiume come accesso. comune ai fittajuoli dei terreni della dea, abbiamo misurato scheni 68 e passi 13 di terreno seminativo, as- segnandole del terreno vitato la terza sezione racchiusa tra la via Centopiedi e la strada comune di 8 piedi, del- l’ estensione di scheni 15 e passi 7. Così questa porzione consta in tutto di scheni 83 e passi 20. E l’ abbiamo affit- 72 I° AGRICOLTURA DEI GRECI NELLE CALABRIE. tata per medinne 630. Siamo quindi passati a misurare ia zona sita fra il limite di 20 piedi che divide i terreni e che conduce al fiume, e la via Eracleense nel senso della lunghezza e nella larghezza dal Vicatideo ai termini primi. Abbiamo tracciato una strada di 20 piedi fra il Vicatideo e la casa. In questa prima porzione abbiamo misurato scheni 62 di terreno seminativo. E le abbiamo assegnato la sezione di terreno vitato che prospetta il Vicatideo. Così questa porzione consta di scheni 68 ‘/,. E l'abbiamo affit- tata per medinne 856, caddichi 4. Nella seconda porzione, nella quale è una casa e che incomincia dal Vicatideo, abbiamo misurato in lunghezza dal limite, che mena al fiume, alla via Eracleense, ed in larghezza dai termini (della prima porzio- ne?) ai termini (della terza ?) scheni 59 ‘/, di terreno semi- nativo, ed abbiamo assegnato a questa porzione la seconda sezione di viti incominciante dal Vicatideo, dell’ estensione di scheni 6 ‘/,. Così questa porzione consta in totale di scheni 66. E l'abbiamo affittata per medinne 458, caddichi 14, cenici 2. Nella terza porzione che è fra il Vicatideo ed il terreno vitato, e che in lunghezza si estende dal limite, che mena al fiume, alla via Eracleense, e in larghezza dai termini ai ter- mini, abbiamo misurato scheni 63 ‘/, di terreno seminativo. Le abbiamo assegnato la terza sezione di viti che incomincia dal Vicatideo, dell’ estensione di scheni 6 ‘/,. Così questa porzione consta in complesso di scheni 70 e l'abbiamo af- fittata per medinne 306 e caddichi 4. Nella quarta porzione, che incomincia dal Vicatideo e che si estende in lunghezza dal limite, che mena al fiume, alla strada che mena per il terreno vitato, ed in larghezza dai termini ai termini, ab- biamo misurato scheni 48 di terreno seminativo. Le ab- biamo assegnato la quarta sezione di viti-che incomincia al Vicatideo, dell’ estensione di scheni 6 ‘/,. Così questa por- zione consta in complesso di scheni 54 ‘/,. E l'abbiamo af- fittata per 235 medinne, caddichi 15. Nella quinta porzione, che incomincia al Vicatideo e che in lunghezza si estende dal limite, che mena al fiume, alla strada che conduce per il terreno vitato, e in larghezza dai termini all’ isola, ab- L' AGRICOLTURA DEI GRECI NELLE CALABRIE. 73 biamo misurato scheni 64 di terreno seminativo, ed abbiamo assegnato a questa porzione la quinta sezione di viti, che incomincia al Vicatideo, dell’ estensione di scheni 7, passi 17 e piedi 2. Così questa porzione consta in complesso di scheni 71, passi 7, piedi 2. E l’ abbiamo affittata per me- dinne 580, caddichi 15. Nella sesta porzione, che fa angolo col terreno vitato tra la via Eracleense ed il fiume, ab- biamo misurato scheni 30, e le abbiamo aggiunto scheni 8 ‘/, di terreno vitato ad essa contiguo. Così questa porzione consta di scheni 38 ‘/,. E l'abbiamo affittata per medinne 3 ESA LI IRE (Il resto manca.) 4‘ Varr., De re rustica, I, 44: « In Sybaritano dicunt etiam cum centesimo redire solitum. » (!2) Se ne esportava molto da Taranto (PoLi., Eze., XI). Era un cespite importante dell’ esportazione di Sibari. Si teneva in cantine scavate nella roccia in riva al mare, d’onde si caricava facilmente sulle navi (HiLLMANnN, Han- delsgeschichte der Griechen, 123). (3) Erala vigna biblia che dava il vino omonimo celebrato da Trocr., Idill., XIV, 15, e da ATHEN., I, 24. Ippia di Reg- gio narra in ATHEN., l. c., che questa vite fu portata dal- l’ Italia sul Siracusano da Pollio, d’ onde il vino ebbe anche il nome di pollium. OraT., Carm. XI, ode 6, dice che il vino di Aulon, montagna di Taranto, non era inferiore al Fa- lerno. Vedi anche Marr., XIII, epigr. terz’ ultimo. — Le viti nelle Calabrie erano tenute a pallo secco. Si fa derivare il nome di Enotri da 0îv»7p9v, che, secondo Hesychios, signi- fica «palo di vigna. > (4 BorticHER, Geschichte der Karthager, 72. (5) Henn, Kulturpflanzen und Hausthiere in ihrem Ueber- gang aus Asien nach Griechenland und Italien, 173. (15 Così Pitagora come Caronda avevano vietato l’ uso della carne di bue. 74 L'AGRICOLTURA DEI GRECI NELLE CALABRIE. (1? Anche in una iscrizione japigia o messapica, scoperta vicino a Taranto, si fa menzione di una stalla (z)ot7: Contopia): Dissert. Corton., I, pref. — Livio pure accenna al- l'allevamento in istalla nella Magna Grecia, ove parlando delle mandre del tempio di Giunone Licinia presso Cro- tona, dice: « Cujusve generis greges nocte remeabant ad stabula. » (9 Le « oves pellitae.» Pensa taluno, non so con quanto fondamento, che le « oves pellitae » si chiamassero così, per- chè si mandavano ai pascoli coperte di una pelle per con- servare bella e delicata la lana (Varr., II, 2; Orar,, II, ode VI; Marr., Epigr., XIV, e Coruwm., VII, 4). GrotnE, Die Geschichte der Wolle, ete., dice che si chiamava così una razza speciale di pecore a lana fina. DurrAU DE LA MALLE, II, 145, crede che fossero gli attuali merinos. La lana di queste pecore è celebrata come la prima d’Italia, da Corum., VII, 2; Marr., XIV, Epigr. 145; XIII, Epigr. terz’ ultimo; V, Epigr. 38, e da Orat., Carm. XI, ode 6. VarR., II, 11, dice che le «oves pellitae >» prima della tosa- tura si strofinavano con vino ed olio, e da alcuni con cera bianca e con grasso di maiale. (19) Orar., Carm., ode 6; Marr., V, Epigr. 38, ed VIII, Epigr. 28. VirgiLio considera Mantova e Taranto come due luoghi di eccezionale fertilità nella produzione delle erbe: « Et quantum longis carpent armenta diebus — Exi- gua tantum gelidus ros nocte reponet. » (0 LicopH. in Cassand., 88. ®! Per la irrigazione delle campagne di Sibari, vedi GrotnE, V, 4, e DENINA, Rivoluzioni d’ Italia, I. Vedi in ge- nerale per l’ irrigazione della Magna Grecia, MicaLi, L’ Ita- lia avanti il dominio dei Romani; Mazoccni, Comm. alle Ta- vole d’ Eraclea, I, 80. ‘2 Cassion., XI, Epist. 39. Il. L’ AGRICOLTURA ROMANA. È opinione pressochè generale che dagli antichi Romani l’ agricoltura fosse esercitata con passione e tenuta in sommo pregio, così che bastasse esser buon coltivatore per essere riguardato come buon citta- dino.!! * In ciò sono concordi quasi tutti'gli scrittori delle cose di Roma. Ma non convengono egualmente intorno all’ epoca, nella quale questa passione dei Romani per l’ agricoltura sì è manifestata praticamente nella loro economia, nè sono identici i criterii, colla scorta dei quali ne designano i periodi più felici. Ed infatti mentre quest’ epoca per aleuni coincide coi tempi dei Re e coi primi secoli della Repubblica, e ia desumono, più che da dati di fatto tecnici ed economici, dall’ esistenza delle piccole proprietà col- tivate personalmente persino dai più illustri cittadini,’ altri con miglior consiglio la trasportano ai tempi di mezzo, nei quali le campagne del Lazio non avevano più a paventare le devastazioni di osti nemici ed * Vedi le Note a pag. 9I. 76 L’ AGRICOLTURA ROMANA. in cui per effetto delle leggi agrarie avrebbe domi- nato la media proprietà; per altri infine sarebbe quella degli ultimi tempi della Repubblica e dei primi secoli dell’ Impero, quando la terra era riunita in grandi corpi, ed era fecondata più dai capitali e dalla industre irrequietezza dello speculatore, che dal su- dore dei coloni e dall’ economa vigilanza dei pro- prietari. ©’ Noi erediamo in massima che coloro i quali hanno attribuito ai Romani una. passione particolare per l’ agricoltura, abbiano alterato, od almeno ritratto con poca verità, il carattere di questo popolo grandioso. Non pare molto esatto il Mommsen (II, 153), che del resto ha delineato 1° agricoltura romana con mag- giore verità e con criterii più corretti che ogni altro storico, ove afferma che 1’ agricoltura era il fonda- mento sociale e politico dei Romani. La economia di Roma, particolarmente nei primi secoli, non era nè pastorale, nè agricola, nè industriale, nè commerciale; era, se non v’ è contraddizione di termini, principal- mente militare, come erano militari le costituzioni di Romolo e di Mastarna. La vita romana era una vita di guerra e di conquista; pareva che la conquista || fosse il fine indicato dagli Dei alla città. Anche le! colonie, oltre ad un intento di polizia interna, ave- vano un carattere eminentemente militare. Erano dei forti che si rizzavano nel cuore dei paesi soggiogati, o sui confini dei nemici. Columella (Pref.) dice che gli antichi Romani ave- vano due occupazioni, cioè la coltivazione della terra e la difesa di essa contro i nemici, Egli avrebbe do- L'AGRICOLTURA ROMANA. Lù è vuto almeno aggiungerne una terza, che, a nostro giudizio, soverchiava grandemente tutte e due; vo- gliam dir quella di conquistare la terra degli altri. Basta ricordare le origini di Roma, le sue vicende, la sua storia, per convincersi che fra la popolazione di questa città e 1’ agricoltura non potevano esservi molti punti di contatto. Il territorio di Roma non era sufficiente, nè per la quantità, nè per la qualità dei terreni, all’ alimen- tazione della popolazione, e questa per necessità di vita doveva uscire dai suoi confini alla conquista ed alla preda. La gloriosa povertà di Fabrizio, di Manio, di Regolo e d’ altri insigni ricorda i mal sazi bisogni, che mossero i popoli barbari ad invadere 1’ Impero e che trassero gli Arabi dal fondo dei deserti alla con- quista dei ricchi paesi del Mediterraneo. Roma dovette sostenere una lotta accanita di più secoli per farsi posto nel Lazio. Fin dalla sua origine alle prese coi Sabini, colle città latine, cogli Etru- schi, coi Volsci e con altre popolazioni, pare fatta per le armi, anzichè per i fecondi lavori della pace e per le pazienti occupazioni dell’ agricoltura. Per varii secoli le lotte si combatterono nella campagna stessa di Roma. Erano cose di tutti gli anni ed esigevano il concorso di tutti gli uomini atti alle armi. Le deva- stazioni delle campagne ed i saccheggi erano un mezzo di guerra, e bene spesso l'obbiettivo. Come si poteva in tale stato di cose pensare seriamente, efficacemente e con particolare studio all’ agricoltura ? La popolazione di Roma constava di due classi: della elasse dei patrizi, che raccolti in Senato par- 78 L'AGRICOLTURA ROMANA. vero ai colti ambasciatori di Pirro una riunione di Dei, e che inermi e preparati alla morte incussero riverenza e timore persino ai feroci compagni di Brenno; e questa produceva uomini di Stato, legisla- tori, giuristi e soldati che il mondo non ebbe gli eguali, ma che le esigenze della vita pubblica e la salute della patria tenevano lontani dai campi; e di una plebe valorosa in guerra, ma poco amica del la- voro, ed abituata a vivere del mercato dei voti e di elargizioni pubbliche e private in tempi di pace. Tra queste due classi non eravi un ceto operoso di agri- coltori e di proprietari; esso si formò più tardi nella classe dei cavalieri, che comperavano o prendevano in affitto vaste tenute nelle provineie, che occupavano colle loro mandre e greggie i pascoli dell’ Apulia, delle Gallie e dell’ Epiro. Ma neppur questi erano dei veri agricoltori, sibbene degli speculatori di professione, che tendevano ad arricchirsi con vertiginosa solleci- tudine per assicurarsi una vita di lusso e di scia- lacquo nelle grandi città. Il cittadino di Roma non poteva adattarsi alla di- mora in campagna. Se fra i patrizi ed i poveri la lotta fu più precoce, più lunga ed acerba in Roma che altrove, si fu appunto perchè gli uni e gli altri si stavano direttamente di fronte nella città, nè gli uni nè gli altri erano stabiliti in campagna. Del resto noi crediamo di non andare errati affer- mando che, indipendentemente dall’ indole della popo- lazione, l’ agricoltura neì suo svolgimento e nella sua decadenza corse parallela collo svolgimento e colla decadenza della città. Povera da prima, crebbe lenta- L'AGRICOLTURA ROMANA. 79 mente, ma senza interruzione, col crescere della popo- lazione fino a farsi gigante, quando la città per popo- lazione, per ricchezza e per lusso giunse all’ apice diello splendore. E cadde colla caduta di Roma. La storia dell’ agricoltura romana può dividersi in tre periodi, secondo le colture che nei diversi tempi ebbero la prevalenza: cioè nel periodo dei cereali, che dalla fondazione della città giunge sino alla sottomis- sione intiera del Lazio; nel periodo della vite e del- l’olivo, che arriva sino alla fine delle guerre puniche, e nel periodo dell’ economia della villa e dell’ alleva- mento del bestiame, che dagli ultimi secoli della Re- pubblica dura sino al trasporto della capitale a Bi- zanzio. I singoli periodi non sono separati nè per ragione di materia, nè per ragione di tempo da termini recisi ed assoluti; poichè in ognuno di essi v’ ebbero anche le coltivazioni che caratterizzarono gli altri, e i progressi ed i mutamenti, specialmente nelle cose agrarie, sogliono succedere con grande lentezza. Ma per poco che si ponga mente a quanto verremo espo- nendo, si vedrà che la divisione da noi proposta è nelle sue grandi linee giusta e corretta.’ 1.— PERIODO DEI CEREALI. Roma sorse per opera di una turba di pastori in un terreno angusto, cinto e frastagliato di selve e paludi.‘ Il Viminale, il Celio, 1’ Esquilino, 1’ Aven- tino, il Quirinale ed il Gianicolo erano coperti di boschi. © 80 L' AGRICOLTURA ROMANA. Tra il Palatino e il Capitolino era una palude; altre paludi entro la città e fuori a breve distanza, particolarmente verso il mare. I sette colli erano stretti da vicino dai territori di altre repubbliche ; solo lungo il Tevere, verso la ma- rina, non incontravansi altre città; onde è a presu- mersi che i Romani ne occupassero senza contrasto il terreno. Il contado di Roma era molto ristretto e non molto adatto all’ agricoltura. Varrone riferisce la voce che Romolo avesse diviso i terreni del contado di Roma in ragione di due jugeri per famiglia. ® E varii altri scrittori, non sappiamo se basati alla voce da lui riferita, ed è moito proba- bile, o ad altra notizia, dei vecchi Annalisti, hanno riprodotto quest’ assegnazione dei due jugeri come un fatto costante e storico.! Giova ricordare che la notizia di una ripartizione di terreni in lotti di due jugeri è una specie di tradi- zione comune a varie popolazioni italiche, ‘'’ e nomi- natamente agli Etruschi, come abbiamo veduto, ed ai Latini.’ Ciò menerebbe a far dubitare della verità della voce conservataci da Varrone. Ma quel che ne fa dubitare più di tutto è la nar- razione di Dionigio (II, 8), confermata da Plutarco (in Rom.), circa la fondazione e il primo ordinamento di Roma. Egli narra che Romolo divise la popolazione nei due ordini dei patrizi e dei plebei, che incaricò i primi della religione, della politica e dell’ amministra zione della giustizia, e gli ultimi della coltivazione L’ AGRICOLTURA ROMANA. 81 delle terre e dell’ allevamento del bestiame, e che permise ad ogni plebeo di scegliersi tra i primi un patrono. Come questo storico lascia chiaramente indovi- nare, Romolo seguì il criterio del censo, ossia divise la popolazione in ricchi e poveri. E poichè la ric- chezza in quell’ epoca, o meglio in quella società pri- mitiva, non poteva consistere che in terreni,‘ o, il che suona presso a poco lo stesso, in bestiame, cade per sè stessa la congettura dell’ eguaglianza delle fortune e della ripartizione generale dei terreni, attribuita al fondatore della città. ‘!° A noi pare che, se la voce riferita da Varrone non si può accettare come l’ espressione di un fatto generale, di un sistema applicato a tutti i cittadini nel primo ordinamento della città, la medesima non si possa negare come un fatto parziale applicato al proletari ed ai nuovi cittadini che di mano in mano venivano ad ingrossarla. Roma si è formata un po’alla volta di gente raccogliticcia, ed è probabile che Ro- molo assegnasse agli arrivanti un lotto di terra per fabbricare una casa e coltivare un orto. Di più è probabile che in queste assegnazioni abbia seguito un criterio uniforme e di eguaglianza, e che i singoli lotti non abbiano superato i due jugeri. Questa misura fu tenuta nel periodo dei Re an- che nella ripartizione dei territori conquistati.‘ Solo più tardi fu portata a sette jugeril° e ad estensioni maggiori nelle colonie fondate fuori del Lazio. A questa porzione non sufficiente a soddisfare i bisogni di una famiglia, per quanto frugale e poco BERTAGNOLLI. 6 82 L’ AGRICOLTURA ROMANA. numerosa, si aggiungeva | agro pubblico seminato in comune, 0 tenuto a pascolo. Si hanno notizie poco confortanti sulle condizioni dell’ agricoltura dei prischi Romani. Forse non saranno intieramente esatte, anzi in taluna di esse la esage- razione è pressochè manifesta; ma se si tien conto delle cose che abbiamo esposte di sopra, non si può dubitare che esse non abbiano un fondo di verità.” Secondo 1’ annalista Verrio Flacco, i Romani non avrebbero coltivato per varii secoli altro cereale che il farro, una specie di spelta. Il frumento sarebbe stato introdotto ai tempi dei Decemviri, e forse più tardi.!® Non abbiamo difficoltà a ritenere che il farro sia stato per molto tempo la base dell’ agricoltura e del nutrimento dei Romani. Fra naturale che una popo- lazione rozza, giovane, guerriera si appigliasse ad un cereale di specie inferiore che rende molto con poche cure e con poca spesa, e che prendesse di mira più la quantità che la qualità del prodotto. Ma il fru- mento non può essere stato sconosciuto in un paese che confinava da una parte coll’ Etruria, e che dal- l’altra era poco lontano dalla Campania e dalle co- lonie greche della costa napoletana, le quali erano già pervenute ad un alto grado di civiltà industriale ed agricola, e d’ onde Roma ritirava vettovaglie sin dai suoi principil. La coltivazione della vite non sarebbe stata co- nosciuta nei primi tempi di Roma; il vino sì, ma si sarebbe fatto col prodotto spontaneo della vite selvatica. L’ olivo non sarebbe stato introdotto che ai giorni di Tarquinio Prisco.® L’ AGRICOLTURA ROMANA. 83 Neppure a queste notizie si può aggiustare una fede illimitata. Bisogna però ammettere che nello stato di guerra permanente che ha caratterizzato i primi secoli di Roma, e per il quale la campagna era soggetta a continue devastazioni, la coltivazione delle piante su larga scala era impossibile; e che anche in quei siti del Lazio, ove fioriva per l’ addietro, do- vette restringersi, in causa delle violenti convulsioni che accompagnarono la nascita e lo svolgimento di Roma, ai brevi tratti di terreno protetti dalla vici- nanza delle mura e dei bastioni delle città e delle castella. L’ agricoltura di questo periodo fu la produzione dei cereali; ma non contestiamo che nei terreni vi- cinì alle città si coltivassero, insieme ai grani, la vite, l’ olivo, i legumi e le radici. Era 1’ epoca dell’ econo- mia naturale, ed ognuno doveva pensare personalmente a ciò che gli occorreva. Questa prevalenza assoluta della coltivazione dei grani su quella della vite, dell’ olivo e delle frutta si mantenne, sinchè tutta la campagna di Roma fu assoggettata, ed il teatro della guerra si portò stabil- mente fuori del Lazio. La piccolezza del territorio, la sua insufficienza per la produzione dei grani necessari al mantenimento della popolazione, d’ onde la proibizione di convertire i campi.in prati, e lo stato di guerra permanente, nel quale versò il contado di Roma in questo primo periodo, lasciano facilmente indovinare quali fossero le condizioni della sua pastorizia. Il bestiame non po- teva essere numeroso. Dei bovini, allevavansi unica- 84 L’ AGRICOLTURA ROMANA. mente quanti erano necessari per la lavorazione delle terre. Il divieto di macellarli e di cibarsene è una prova evidente della scarsezza della specie. Più nume- rose erano naturalmente le pecore, principalmeng@ per la produzione della lana unica materia prima del v®stia- rio, e per la produzione del latte e dei latticini, con cui supplivasi alla deficienza dei grani. Una prova della scarsezza dei bovini e della relativa abbondanza delle pecore ci è offerta dalla legge Aferna Tarpeja dell’ anno 300 di Roma, nella quale un bue è rag- guagliato per valore a trenta pecore. Molto diffuso era pure l’ allevamento dei suini. Si faceva grande con- sumo della carne così di pecora come di majale, ma la base della nutrizione della plebe erano il pane e i vegetali.” In questo stato di cose era naturale che 1’ uso delle stalle fosse generalizzato. La pochezza del bestiame ren- deva facile la stabulazione; le guerre incessanti la rende- vano necessaria. Coll’ allevamento all’ aperto, il bestia- me sarebbe stato una facile preda dei nemici. Da prima ricoveravasi nella notte in città; poi, quando Servio Tullio organizzò le tribù rustiche, nei pagi o castelli costrutti sulie alture. Il concime era raccolto ed uti- lizzato con grande cura, ed era raccomandato a varie divinità tutelari.®® Non pare che nei primi secoli di Roma fosse usata la irrigazione. Forse i Romani non ne riconoscevano l’ utilità o per altre ragioni le erano avversi, poichè per vincere la loro ritrosia si ebbe ricorso alla re- ligione ed all’ intervento delle divinità. E difatti gli storici di Roma narrano che du- L’ AGRICOLTURA ROMANA. 85 rante l’ assedio di Vejo essendosi fatto prigioniero un augure, fu tradotto innanzi al Senato e gli fu ingiunto di dire quando quella città, intorno alla quale i Ro- mani avevano perduto inutilmente varii anni, sarebbe caduta. E 1’ augure dichiarò che Vejo avrebbe potuto resistere, finchè i Romani fossero riusciti a derivare e ad immettere nei campi l’ acqua del lago Albano. ©? In quel tempo ritornavano da Delfi i legati che erano stati spediti a consultare il nume intorno all’ esito dell’ assedio di Vejo, e la risposta che essi portarono in nome dell’ oracolo fu identica a quel'a dell’ au- gure. © I Romani posero subito mano al lavoro e costrussero la loro prima opera irrigatoria, il magni- fico acquedotto dell’ acqua Albana. I boschi che, come si è visto, erano molti, si ri- spettavano con religiosa superstizione. A garanzia della loro conservazione furono da Arco Marcio aggregati al demanio dello Stato. Le condizioni generali del contado e dell’ econo- mia privata fanno ritenere che predominasse la piccola proprietà, e che, per lo più, la terra fosse lavorata di- rettamente dal proprietario. Anche le terre dei patrizi erano coltivate per economia; e quelle che essi non potevano coltivare direttamente, erano accordate ai clienti o senza correspettivo,®’ o verso una tenue quota del prodotto, o verso un determinato numero di giornate di lavoro sulla terra dominicale. I beni dello Stato, che non erano destinati ai pascoli comuni, quelli dei templi e delle vestali si affittavano verso la decima del grano, il quinto del prodotto delle piante ed un tenue tributo per i pascoli. Segui- 86 L’ AGRICOLTURA ROMANA. vansi insomma quei sistemi che erano compatibili con un’ economia naturale, nella quale era non conosciuta o scarsa la moneta. Si ricordano varie istituzioni e leggi dei paischi Romani a vantaggio o nei rapporti dell’ get nn Romolo dispose che la coltivazione della terra fosse riservata ai plebei.” Vietò di venerare gli Dei forestieri, tranne Fauno, Dio tutelare del concime. Confermò la vetusta legge latina, per la quale era proibito alle donne di bere vino.©” Istituì i dodici fratelli arvali, che dovevano impetrare dal cielo ab- bondanti raccolti. Numa introdusse dall’ Etruria la terminazione della proprietà privata. Ordinò che i campi fossero divisi da termini, e minacciò la vendetta degli Dei e della giustizia umana a chi si attentasse a rimuoverli. Inalzò un tempio al dio Termine ed istituì in suo onore le feste terminali.’ Gli si attribuisce la legge Postumia, che vietava di offrire vino agli Dei.“ Ma pare che questa legge fosse anteriore ai Romani, e che Numa la modificasse vietando di bere agli Dei vino di vite non potata. ©’ Egli prepose degl’ ispettori alla colti- vazione delle terre, i quali visitavano le campagne, premiavano i coloni laboriosi e riprendevano i negli- genti. © Da qui la censura che incorrevano coloro che coltivavano male i propri terreni. L’ istituto degl’ ispettori fu poi richiamato in vi- gore da Anco Marcio, © Non si sa da chi nè in quale epoca, ma indub- biamente nei primi tempi di Roma, si fece una legge, con cui si vietava di ridurre i campi a prati.” L' AGRICOLTURA ROMANA. 87 È attribuita a Servio Tullio la istituzione del ca- dastro, conservato in un frammento di Ulpiano. Il di- chiarante doveva denunciare il nome del proprietario, la denominazione del fondo, la località, i confini; quale ne fosse l’ estensione ; quali grani vi si fossero seminati nell’ ultimo decennio; il numero delle viti; l’ estensione e il prodotto del prato nell’ ultimo de- cennio ; 1’ estensione dei pascoli e del bosco ceduo. Tutto ciò secondo la stima del dichiarante.®® Le leggi delle XII Tavole limitavano il numero degli schiavi da impiegarsi nell’ agricoltura, e prescrivevano che per tali lavori si preferissero gli uomini liberi. Punivano il furto campestre, se commesso di notte, col capestro ; se commesso da un impubere, colla fu- stigazione ad arbitrio del pretore e coll’ ammenda ragguagliata al doppio del danno.” Prescrivevano che fosse punito come ladro e te- nuto all’indennizzo chi tagliava una pianta di vite d’ altri. Se si scopriva in una vigna un palo rubato, non se ne poteva chiedere la restituzione; il ladro era tenuto a pagare il doppio del prezzo. © Stabilivano dei magistrati per la tutela e per il governo dei boschi. Niebuhr afferma che la proprietà privata era ina- lienabile e che fu resa libera colle leggi delle XII Ta- vole.’ Nessun passo degli storici o della legislazione conferma questa opinione, che sarebbe anzi in con- traddizione coi principii rigidi ed assoluti dei Romani sul diritto di proprietà. Che se la notizia fosse vera, parrebbe che non potesse riferirsi se non alle terre assegnate dallo Stato. 88 L’ AGRICOLTURA ROMANA. Le XII Tavole contenevano una legge, la quale, comunque non si riferisse direttamente all’ agricol- tura, non ha potuto non esercitare un’influenza note- volissima sulla medesima. Vogliamo dire la legge, con cui l’ interesse dei capitali era ridotto ad uno per cento. ©“ I patrizi, ai quali era tolto con cià im- piegare utilmente i propri capitali nei mutui, dovet- tero di necessità investirli o nella compera di ter- reni, o nella coltivazione, o nella pastorizia. Forse in questa legge è a cercarsi la causa prima della dif- fusione della grande proprietà e della introduzione di colture più dispendiose, ma più rimuneratrici. Anche da queste leggi ed istituzioni vetuste dei Romani si volle desumere 1° importanza economica e sociale della loro agricoltura. In una società primi- tiva la materia che può richiamare 1’ attenzione e le cure del legislatore, è per sè stessa limitatissima, e la proprietà fondiaria è il primo oggetto, dopo 1° or- ganizzazione dello Stato, che suole essere disciplinato. Del resto l'agricoltura, benchè poverissima, costituisce la base principale dell’ alimentazione, ed in ragione appunto della sua povertà ha bisogno di essere fa- vorita, organizzata, protetta. Le leggi delle XII Tavole e le altre istituzioni dei Romani relative all’ agricoltura ed alla sicurezza della proprietà campestre dimostrano tutto al più che i Decemviri e gli altri legislatori non erano avvocati: erano proprietari. In complesso 1’ agricoltura dei Romani in questo primo periodo era povera e poco progredita. Se dob- biamo credere a Varrone, non si risparmiavano fa- L' AGRICOLTURA ROMANA. 89 tiche per ricavare dalla terra il maggior prodotto possibile,” ma si lavorava senza intelligenza e senza capitali, e mancava il mercato. L’ agricoltura era quale poteva essere in un paese non ancora uscito dall’ eco- nomia naturale. Valerio Massimo (IV, 4), Plinio (XVIII, 4), Colu- mella (I, 3) ed altri fanno un parallelo fra 1’ agricoltura di allora e quella dei propri tempi, e rimpiangono la prima. Le ragioni che essi fanno valere sono che nei primi secoli di Roma predominava la piceola proprietà, che la terra era coltivata da uomini liberi, che era coltivata personalmente dai proprietari, dai Consoli e dai Dittatori. Ma, come è chiaro, queste ragioni po- trebbero avere un valore effettivo soltanto nel caso che fossero accompagnate da dati, od almeno da in- dizi di fatto, dai quali apparisse realmente che in questo primo periodo si faceva una buona agricol- tura. Era ciò che essi dovevano dimostrare e che non hanno dimostrato. Anche Varrone (I, 2) loda la vec- chia agricoltura, ma alla stretta dei conti conferma che a parità di condizioni la terra rendeva molto meno che ai suoi giorni. ©“ Che se gli scrittori prelodati intendono unicamente di segnalare una diminuzione della produzione dei ce- reali, essi hanno colto indubbiamente nel segno.“ Im- perocchè già ai tempi di Catone questa produzione non aveva nel Lazio che una importanza secondaria, e più tardi scomparve quasi per intiero da quella re- gione e si ridusse notevolmente anche nelle provincie. Ma questo fatto, in luogo di essere una sventura, fu un progresso importantissimo, una vera necessità eco- 90 L’ AGRICOLTURA ROMANA. nomica; inquantochè si abbandonò una coltura che aveva cessato di essere rimuneratrice, per surrogarla con altre, che rispondevano meglio alle attitudini del terreno, alle esigenze dell’ economia ed alla domanda del mercato. Noi crediamo però che le descrizioni dell’esfi&na povertà del periodo eroico di Roma non siano im- muni da esagerazione. La società romana era po- vera; non aveva commercio, non aveva industrie; la sua agricoltura era incipiente e rozza ; la sua pasto- rizia non intensa nè estesa. Ma i grandiosi lavori che si eseguirono nell'epoca dei Re e che resistettero alla forza demolitrice di venti secoli, indicano che l’erario pubblico trovava nella guerra quelle risorse che non poteva attingere nel lavoro nazionale. Di più, se non si vuol negare ogni ragione pratica a quelle disposizioni delle XII Tavole che tendevano a met- tere un freno al lusso, non si può non riconoscere che anche qualche famiglia patrizia aveva potuto am- massare delle ricchezze. La storia della congiura della giovane aristocrazia romana per il ristabilimento dei Tarquinii ricorda una corte opulenta, effemminata ed allegra. Una sola famiglia, quella dei Fabii, messi assieme i suoi clienti, imprese una guerra sanguinosa colla città più potente del paese, con Vejo, che la Re- pubblica intiera non riuscì a soggiogare se non dopo un blocco di varii anni. E quando si afferma che più tardi il capo di questa famiglia non possedeva che i sette jugeri della tribù Pupinia,? non si può non rilevare l’ esagerazione ; quel podere fu venduto per 600,000 assi, che a quell'epoca costituivano un discreto patri- L’ AGRICOLTURA ROMANA. 91 monio."* Si dice anche di Cincinnato che lavorava per- sonalmente il podere avito di pochi jugeri di terreno. Ma Dionigio (X, 5) assicura che Cincinnato era stato strarieco e che s’ era ridotto in sì umile stato unica- mente per aver dovuto pagare la mallevaria di suo figlio, il quale per evitare un processo penale si era ritirato in esilio. Pare quindi che la popolazione in generale fosse povera, ma che lo Stato ed i patrizi, od una parte di essi, non mancassero di quelle ric- chezze che sono compatibili con una economia pri- mitiva. © NOTE. Mie Anbiqui .c «.- virum bonum cum laudabant, ita laudabant: Bonum agricolam bonumque colonum» (Car., De re rustica, pref.). ® PoegI, Cenni storici delle leggi sull’ agricoltura, I, 28 e 51; VarR., De re rustica, II; CoLum., De re rustica, I, 3; Prin., XVIII, 4. 3 DureaU DE LA MALLE, Economie politique des Romains, II, 2 e 215; Boccarpo, Manuale di storia del commercio, 42, 48; Mommsen, Storia romana, II, 154. ®% Vedi di questo titolo il cap. 3. © L’ illustre Boccarpo nel suo Manuale del commercio, 37, divide pure la storia dell’ economia pubblica di Roma in tre periodi: 1° dalla fondazione della città alla prima guerra punica; 2° dalle guerre puniche alla battaglia d’Azio; 3° da Augusto a Costantino. ©) Cass. Emin., II, framm. 11 in RorH.: « Pastorum vul- gus sine contentione, etc.» Varr., II: « Romanorum vero populum a pastoribus esse ortum quis non dicit? » Lav., I, 1. 92 L’ AGRICOLTURA ROMANA. MeDiow,, 11,6; HI: 149410. $ «Bina jugera a Romulo primum divisa (dicebantur) viritim» (I, 10). ‘9 Festo: « Romulus centenis civibus ducena jugera tri- buit.» Così anche PLin., XVIII, 2; Goxs., Antig. agr., 47, e QuintIL., I, 9. CopLanD, Agriculture ancient and maodern, I, 2, dice che due jugeri erano sufficienti per il rioni. mento di una famiglia. Ammettono quest’ assegnazione di due jugeri per famiglia, Moxresquiro, Esprit des lois, XXVII; Moreau DE Jonnès, Statistique des peuples de Vantiquité, II, 425; MarIvauLt, Précis de lhistoire de Vagriculture, e Nie- BunR, III, 66, il quale però aggiunge che senza le risorse dell’agro pubblico sarebbero stati insufficienti per la nu- trizione di una famiglia. MicHon, Des céréales en Italie sous les Romains, dice che i due jugeri coltivati a braccia e te- nuti ad orto potevano bastare. Dickson, Husbandry of the ancients, vuole che fossero coltivati a legumi e rape; LuL- LIN DE CHATEAUVIEUX, a terrazza. NirzscH, Die Gracchen und ihre néichsten Vorginger, 12, dice che, se la porzione dei primi Romani era veramente di due jugeri, doveva es- sere coltivata a viti ed olivi (!), e contemporaneamente e con grande intensità a grano; che però a queste piccole porzioni dell’ ager privatus si aggiungevano una partecipa- zione ai pascoli comuni ed un appezzamento di ager pu- blicus a semina. DureAU DE LA Mante, II, 268, riporta come un si dice la notizia dell’ assegnazione dei due jugeri; crede però che l'assegnazione sia stata fatta in parti eguali. Du- Mont BureL, Mémoire sur Vagriculture des Romains, ritiene impossibile che una famiglia potesse vivere col prodotto di due jugeri. Macé, Histoire de la propriété, ete., chez les Ro- mains, 125, dice che un lotto di due jugeri poteva bastare al più per il mantenimento di due persone, e che il resto i Romani se lo procuravano colla rapina. Momwmsrn, 223, 224, dimostra l'impossibilità che una famiglia potesse mantenersi col prodotto di due jugeri* L'ipotesi gli pare uscire così dal- ordinario come la moltiplicazione dei pesci e dei pani nel Vangelo. L'AGRICOLTURA ROMANA. 93 (0) Ed infatti Sto. FLacc., De condit. agrorum, 153, af- ferma: «Antiqui agrum ex hoste captum victori populo per bina jugera partiti sunt.» 4 Da una notizia tratta dagli Annali di Cassio EMINA (in SoLin, Pol., 2) e di Virrore, Origo Gentis romane, 12, combinata con altra di Cat., De origin., etc., si desume che il re Latino assegnò ai 600 compagni di Enea 1200 jugeri di terreno. (2 Catone designa i ricchi come « locupletes loci, hoc est, agri pleni> (PrIn., XVIII, 3). (4 Nuove assegnazioni di terreno fecero Numa (Dion., II, 62) e Tullo Ostilio (Dron., II, 1). DronIero dice che le assegnazioni di Numa furono fatte ai cittadini più poveri. Cicer., Repubdl., 1I, 14, dice semplicemente ai cittadini. Così anche PLur. in Numa, 21, il quale anzi rimprovera al suo eroe di non aver colto quell'occasione per istabilire tra i Romani l’ eguaglianza delle fortune. (t5© È caratteristico che le leggi delle XII Tavole desi- gnano la proprietà privata col nome di orti: «In XII Ta- bulis legum nostrarum nusquam nominatur villa, semper in significatione ea hortus > (Prin., XIX, 4). (15 Liv., VIII, 21; NIEBUHR, III, 67. 00 Gorum: 1,37 Pri, XVII £ 47 Dron., II, 53, dice che Roma per l'insufficienza dei terreni era afflitta già sotto Romolo dalle carestie, e do- veva farsi venire il grano con barche da Crustumenio. Ne ritirava sotto i Re anche dalla Campania per i porti di Laurento, Ardea, Circei, Anzio e Terracina, che, secondo il trattato commerciale di Roma con Cartagine, riportato da PoLisio, erano i porti del commercio romano (Liv., II, 9; Dron., II, 34; VII, 20). (18) « Populum Romanum farre tantum e frumento UCC annis usum Verrius tradit » (PLin., XVIII, 62). «Far .... primus antiquis Latio cibus. Pulte autem, non pane, vixisse 94 L'AGRICOLTURA ROMANA. longo tempore Romanos manifestum » (Puin., XVIII, 19). VARRONE dice che la sostituzione del frumento allo spelta avvenne ai tempi dei Decemviri; MomwmsENn crede che sia avvenuta più tardi, ai tempi della prima guerra punica (II, 154). (# «Apud Romanos multo serior vitium cultura esse cepit. Primoque, ut necesse erat, arva tantum ere » (Prin., XVIII, 5). (0) FeNESTELLA in Puin., XIV, 12. @5 Varg., II, 5; Prin., VIII, 70, e Var. Max., VIII, 1, raccontano il fatto di colui che per aver ucciso un bue ed essersi cibato della sua carne, fu punito e mandato in esi- lio come se avesse ucciso il suo colono (tamquam colono suo ‘interrempto). VALERIO aggiunge: «Innocens nisi tam prisco seculo natus fuisset.» Da ciò apparisce che ai suoi tempi, nei quali l'allevamento bovino era molto diffuso, era lecito di cibarsi delle carni di questo bestiame. Vedi quanto al divieto anche CoLum., VI; Crcer., De Nat. deor., II, e GorHor., Cod. Theod., De Pign., XXX, tom. I; BuLENG., De conviv., 162, 210. Nelle leggi delle XII Tavole è dispo- sto: «Ut glandem in alienum fundum procidentem liceret colligere » (PLin., XVI, 15). Questa disposizione non sì ca- pirebbe, se non si supponessero una grande diffusione delle quercie e quindi un allevamento suino d’ importanza. © Saturno chiamavasi Stercutus, perchè avrebbe inse- gnato l’uso del concime (MacroB. in Saturn., I, 7). Il dio Pico chiamavasi Sterquilinius e Stercuti filius (Servio in Vera., neid., X, 70). Il concime era raccomandato anche a Fauno, che Prin., XVII, 9, chiama Stercuti pater e Ser- vio, l. c., IX, 4, Pilumnus Stercutius. Romolo, quando proibì di venerare le divinità forestiere, fece un’ eccezione per Fauno, al quale si eressero in Roma due templi, uno sul Celio, l’ altro nell’ isola Tiberina. (3) « Priusquam ex lacu Albano aqua emissa foret, num- quam potiturum Veiis Romanum » (Liv., V, 15). E Crorr., L’ AGRICOLTURA ROMANA. 95 De Divin., I, 45, riferisce che l’ augure secondo i vecchi An- nali avrebbe detto: « Vejos capi non posse, dum lacus is redundaret ; et si lacus emissus lapsu et cursu suo ad mare profluxisset, perniciosum Populo romano; sin autem ita esset eductus ut ad mare pervenire non posset, tum salu- tare fore. >» L’augure avrebbe quindi imposto che l’ acqua non si immettesse in mare, ma che si disperdesse nei campi. Vedi anche PLurarc. in Cam., 130, e Var. Max., I, 6. (* Questa, secondo Liv., V, 16, fu la risposta dell’ ora- colo, la quale accenna ancor più chiaramente all’ irriga- zione: « Romane, aquam Albanam cave lacu contineri, cave in mare manare suo flumine sinasj; emissam per agros ri- gabis, dissipatamque rivis extingues. » Vedi anche Diron., I, 57, e framm. del lib. XII, 6, (5) Festo, parlando dei senatori, dice: « Patres Senatores ideo appellati sunt, quia agrorum partes tenujoribus tribue- bant perinde ac liberis propriis. > (6 AppIan., I, 7; Scmiirz, Ueber den Einfluss der Ver- theilung des Grundeigenthums auf das Volkis-und Staatsleben, 17. (@7 « Plebei agros colunto > (Diox., II; BaLDUIN., Ad Le- ges rom.). (28) « Deos peregrinos, preter Faunum, ne colunto » (BaL- DUIN., l. c.). @9 «(Fomina) Si vinum biberit, domi ut adultera pu- niunto » (BaLpuIs., l. c.). Questa legge esisteva nel Lazio prima di Roma, e Romolo non ha fatto che confermarla. Vedi in Prin., XIV, 13, alcuni vetustissimi esempi dell’ap- plicazione della medesima. AtHEN., X, dice che presso i vecchi Romani non potevano bere vino le donne, i servi ed i giovani al di sotto dei trent’ anni. (60) -Pran., XVII; 2. (6) Dion, 1; 74; *Prin., XVII 2. (3) « Vino rogum ne spargito >» (PLIin., XIV, 12). 96 L’ AGRICOLTURA ROMANA. (83 «Ex imputata vite libari vina Diis»> (PuINn., l. c.; PLurarc. in Numa). Eccitamento manifesto alla potagione delle viti. (3) Prurarc. in Numa; Dion., II, 76. (35) « Agrum male colere censorium probrum judicaba- tur » (Prin., VIII, 3). Vedi più dist mente GeLL., Noct. Att., IV, 12. (3 Dron., II, 36. (87) VARRONE, parlando del Romano dei suoi tempi, dice : « Propter avaritiam, contra leges, ex segetibus fecit prata » (II, proemio). (38 ULp., III, De Censib. Vedi anche Dion., IV, e Cicerì, De Leg., III, 3. (69 «Qui frugem aratro quesitam furtim nox pavit se- cuitque, suspensus Cereri necator; Impubes Prietoris arbi- tratu verberator noxiamque duplione decernito » (Tab. VII, cap. 2). (© «Tignum junetum adibus vineeque ne solvito » (BaLpuIn., Ad Leges XII Tab., Digest. XLVII). “1 Così anche CoPLAND, op. cit., I, 2. Vedi per contra- rio Macé, op. cit., e Mommsrn, I, 227. “) «Si quis unciario feenore (quod unciam menstruam dependit in centenos asses) amplius feneravit, quadruplione luito » (GorHor., framm. XII Tab.). (3) «Ut fecerunt ii (antiquissimi agricole) in sarriendo iterum et tertio » (I, 18). * “4 «Itaque majores nostri ex arvo eque magno sed male consito et minus multum et minus bonum faciebant vinum et frumentum » (I, 7). “% Dureat pe LA MaLLe lascia trapelare chiaramente questo pensiero, ove dice (II, 56) che l’Italia nei secoli VI e VII di Roma rendeva in grano la metà meno di prima, L' AGRICOLTURA ROMANA. 97 onde i proprietari ridussero i campi in prati. Pare che sa- rebbe stato più esatto il dire che la produzione dei cereali era minore, perchè i campi erano stati convertiti in prati e si era relegato il grano nei terreni peggiori. 4 Pare specialmente esagerata la pittura che ne fa Var. Max., IV, 4, ove inneggia all’agricoltura di quei tempi. Denaro poco o punto, egli dice ; schiavi pochi; sette jugeri di terreno mediocre ; la indigenza nelle famiglie ; i funerali dei più illustri pagati dallo Stato; le loro figlie senza dote, ec. UeN an Max -EV 4. (48) Var. Max., l. e. Si era convenuto tra Fabio ed An- nibale il cambio dei prigionieri; chi ne riceveva di più di quelli che dava, doveva corrispondere due libbre e mezza di argento per soldato (argenti pondo bina et selibras). Fa- bio ricevette in più 247 soldati, per i quali Roma doveva sborsare 617 libbre d’argento. Ma siccome il Senato non ra- tificò la convenzione, Fabio pagò del proprio vendendo il suo podere (Liv., XX, 23). (549 Taluno vuol desumere la miseria degli antichi Romani dalla povertà dei loro sacrifici. Nelle Ferie latine istituite da Tarquinio, i popoli confederati di quarantasette città sa- erificavano a Giove Laziale un toro a spese comuni (Dron., IV). ALB. Tisurt., IV, dice che si limitavano ad offrire agli Dei «lac far aut summum libum;>» un bicchiere di vino, di latte o una frittella. Ma questa frugalità nei sacrifici si conservò anche quando i Romani erano all’ apice della po- tenza e della ricchezza. Era nella loro indole. « Et hodie sacra prisca atque natalium pulte fritilla conficiuntur » (Prin., XVIII, 8). Più generosi si mostravano colle robe altrui. Solevano votare agli Dei le spoglie dei nemici, ma prima di averle prese, anzi quando erano in imminente pe- ricolo di perdere le proprie. BERTAGNOLLI. î 98 L'AGRICOLTURA ROMANA. 2. — PERIODO DELLA VITE E DELL’ OLIVO. Quando il teatro della guerra fu trasportato sta- bilmente fuori del Lazio, si rese@@®ssibile ai Romani di modificare la propria agricoltura con un indirizzo più proficuo e più conforme alle attitudini naturali del suolo. La innovazione fu di ridurre la coltivazione dei cereali, di estendere su vaste proporzioni quella delle piante e nominatamente della vite e dell’ olivo, e di allargare la pastorizia. Ad agevolare questo cambiamento contribuirono i progressi fatti da Roma sul mare, per i quali fu assicurato l’ approvvigionamento della città coi grani della Campania e delle grandi isole, la conquista dei pascoli della Sabina, 1’ aumento dei capitali e degli schiavi, e la diffusione della grande proprietà. L'agricoltura di questo periodo è 1° agricoltura descritta da Catone. Egli non parla quasi mai dei cereali, che considera come una coltivazione d’ ordine secondario ; parla sempre della vite, dell’ olivo e della pastorizia. Si è detto l’agricoltura descritta da Catone, in- vece che l’ agricoltura dei tempi di Catone. Imperoc- chè il Censore viveva in un’ epoca, nella quale si chiu- deva questo periodo e si passava a nuovi sistemi. Un attento esame del suo libro, posto di fronte ad altri suoi insegnamenti ed alle pratiche economiche degli ultimi anni della sua vita, fa ritenere che egli abbia descritto l’ agricoltura di tempi anteriori. IL’ AGRICOLTURA ROMANA. 99 E valga il vero. Mentre nel suo libro suggerisce la viticoltura come la più produttiva delle coltiva- zioni,‘ * in altre occasioni assegna il primo posto alla buona pastorizia e persino ad una pastorizia medio- cre.’ Nè dà nel suo libro alla pastorizia quella im- portanza che ai suoi tempi aveva di fatto. Egli la descrive povera, mancante di foraggi, e la rappresenta sempre come un’ industria accessoria e dipendente dall’ agricoltura ; mentre già nella legge agraria di Licinio Stolone, proposta nel 378 di Roma, la pasto- rizia si fa innanzi con mandre di oltre cento capi di bestiame grosso e con greggi di più che cinquecento pecore. Catone non accenna neppure all’ affitto in de- naro, mentre Saserna, il quale scrisse poco dopo di lui, lo segnala come un sistema già entrato nelle abi- tudini della popolazione. Descrive e raccomanda la coltivazione della vite e dell’ olivo, ma compera laghi, sorgenti, boschi e pascoli ed altri simili fondi, che, come egli diceva, non potevano essere danneggiati neppure da Giove.’ Da ciò apparisce manifestamente che ai tempi di Catone si seguiva un indirizzo econo- mico diverso da quello che è tracciato nel suo libro. Nel periodo precedente la grande proprietà o non esisteva od esisteva solo in poche famiglie, non constava di fondi sterminati, ed era divisa fra i clienti e coltivata coi sistema della piccola coltura. In questo invece si presenta con caratteri chiarissimi e colla grande coltura degli schiavi. E fu la ragione o il pre- testo delle leggi agrarie. # Vedi le Note a pag. 110. 100 L' AGRICOLTURA ROMANA. Gli scrittori non sono d’ accordo intorno all’ in- dole ed all’ essenza di queste leggi. Per taluni non riguardavano la proprietà privata, ma tendevano unicamente alla divisione dell’agro pub- blico tra i plebei. Per altri invece si proponevano la limitazione della proprietà privi ad una determinata misura e l’ incameramento dell’ eccedenza a vantaggio dei proletari. Pare infatti che da principio i tribuni non aves- sero preso di mira che 1’ agro pubblico, dato in affitto al patrizi nell’ interesse dell’ erario, del quale formava pressochè l’ unica entrata. E se realmente era così, alle loro domande si potevano opporre ragioni di op- portunità, non di stretto diritto. Se non che, a nostro giudizio, le vere leggi agrarie sono quella di Licinio Stolone, della quale ci occu- piamo adesso, e quelle dei Gracchi, di cui avremo ad occuparci più tardi. E queste non riguardavano unica- mente l’ agro pubblico, ma anche la proprietà privata. La genesi della legge Licinia, secondo Livio (IV), fu la seguente. Fabia minore, moglie al tribuno Stolone, non po- teva darsi pace, perchè la sorella, moglie ad un patri- zio, era trattata con maggiore rispetto e con più ri- guardi di lei. Da qui continui rimproveri, eccitamenti e punture al marito; da qui in lui il desiderio di giungere a grandi cose. Stolone scelse il più facile dei mezzi, quello del favore popolare. Nell’ anno 378 di Roma, d’ accordo col suo collega in tribunato, propose una legge di questo tenore : « Dopo | approvazione di questa legge nessuno L° AGRICOLTURA ROMANA. 101 abbia, tenga o possegga per diritto o titolo alcuno più di cinquecento jugeri di terreno. » Nessuno mandi a pascolo nè sui terreni propri, nè sui terreni non suoi più di cento capi di bestiame grosso e più di cinquecento di bestianìe minuto. » Chiunque abbia, tenga, possegga più di cinque- cento jugeri di terreno, sia espropriato dell’ eccedenza e questa si divida verso un equo prezzo tra i pro- letari.! » In questi articoli non si fa alcuna distinzione fra agro pubblico e proprietà privata, anzi pare che la proprietà privata vi sia espressamente compresa. La legge passò dopo un decennio di torbidi e di lotte, durante il quale, come argutamente faceva no- tare un Appio Claudio, Licinio Stolone ed il collega Sestio regnavano in Campidoglio, come un dì Romolo e Tazio.® S' ignora in quale estensione la legge sia stata eseguita, e se per effetto di essa siano state fatte ri- partizioni di terreni fra i proletari. Che abbia avuto almeno un principio di esecuzione, lo sappiamo con sicurezza, perchè consta che lo stesso Licinio Stolone nell’anno 397, ossia pochi anni dopo 1’ approvazione della legge, fu tratto da Lenate innanzi ai magistrati come possessore di mille jugeri di terreno. Licinio oppose che cinquecento erano suoi e cinquecento del figlio. Questa eccezione proverebbe che si trattava di proprietà privata; in quantochè se i terreni di Licinio fossero stati della Repubblica, il Magistrato avrebbe avuto il mezzo di verificare sui pubblici registri se fossero iscritti al nome del figlio o del padre. Ma 102 L’ AGRICOLTURA ROMANA. l'eccezione non fu accolta, e Licinio fu multato in diecimila assi.’ Onde rammaricato ebbe ad esclamare con tarda sapienza, essere il popolo una brutta be- stia, perchè lasciava calpestare chi aveva procurato il suo bene.!" Il lungo periodo della 108 per le leggi agrarie, complicata con altre quistioni d’ indole economica e politica, fu l’ epoca più disastrosa della Repubblica. Una plebe che rifiutava di accorrere sotto le ban- diere; eserciti che abbandonavano i generali innanzi al nemico; una popolazione di guerrieri che assisteva indifferente alla partenza di Volunnia e Veturia, e delle altre matrone per il campo dei Volsci, ove an- davano a impetrare per Roma la pietà di un nemico sgominato tante. volte sul campo di battaglia, ed al- l’eroico sacrificio della famiglia Fabia, che, messi assieme i propri clienti, usciva dalla città per fare dei propri petti un baluardo permanente contro la nemica Vejo; ecco lo spettacolo offerto dall’ epoca tribunizia. Nè pare che la piebe avesse veramente motivo di lagnarsi del modo nel quale era trattata dal Governo della Repubblica. Tutta la storia romana è una distri- buzione di terre continua, incessante fra i plebei.!” Ogni conquista era seguita dalla spedizione di una colonia e da un’ assegnazione di terreni. Era lecito a chiunque d’ iscriversi tra i coloni. Ma non erano molti i plebei disposti ad abbandonare gli oziì della città per dedicarsi ai faticosi lavori della terra. Qual- che volta si dovettero estrarre a sorte colla minaccia di pene severe a chi si fosse poi rifiutato di partire; L’ AGRICOLTURA ROMANA. 103 qualche altra si misero assieme e si trasportarono colla forza.‘ Dopo Stolone la lotta per le leggi agrarie fu in- terrotta e sospesa per lunghi anni. Ciò è da ascri- versi in parte alla sodaisfazione morale data alla plebe coll’ approvazione della legge Licinia; in parte all’ ardore ed alla costanza con cui fu proseguito il sistema della colonizzazione,‘ ed in parte alle neces- sità della guerra, che tenevano gli eserciti lontani dalla città per lunghi mesi ed anche per varii anni di seguito. Le ragioni del diffondersi della grande proprietà altre erano a cercarsi nella legislazione, altre nel progresso naturale della pubblica economia. La legislazione della Repubblica era avversa alla formazione dci capitali ed ai prestiti ad interesse sotto tutte le forme. Già nelle leggi delle XII Tavole sì vietava l’ interesse superiore all’ uno per cento. Nel- l'anno 408 l’ interesse fu ridotto al mezzo per cento, e nell’anno 413, sulla proposta del tribuno Genucio, fu proibito intieramente.!* Più tardi colla legge Clau- dia dell’anno di Roma 563 s’interdisse ai patrizi il commercio. Era naturale che i ricchi, non potendo impiegare in altra guisa i propri risparmi, cercassero d’ investirli nella compera di terreni. Ed una volta stabilitasi la grande proprietà colla grande coltura, la piccola doveva necessariamente scomparire. Colla grande proprietà i varii cespiti dell’ agricol- tura si preferiscono e si adottano a vicenda, secondo le circostanze del suolo e del mercato, e ciò basta per mettere fuori di concorrenza i piccoli agricoltori e 104 L’ AGRICOLTURA ROMANA. fittajuoli. Così cessato il tornaconto della coltivazione dei cereali, i grandi proprietari ebbero il modo di de- stinare con frutto una parte dei loro terreni alla pa- storizia; cosa che non poteva fare il piccolo proprie- tario e per la insufficienza dei terreni e per la mancanza dei capitali. Contribuirono grandemente alla formazione della grande proprietà anche il fatto stesso della conquista, e il rigore spietato con cui Roma trattava le città rivali. Basta ricordare la sorte di Alba, di Volsinio, di Vejo, delle quali non fu lasciata pietra sopra pietra, per farsi un’ idea dello spopolamento che teneva dietro alle vittorie romane. Dopo la conquista non si sentono quasi più nominare quelle numerose città latine, che prima erano popolosi e potenti comuni. Come s° è detto di sopra, la granicoltura che nel primo periodo era il cespite principale dell’ economia agricola di Roma, nel secondo perdette ogni impor- tanza‘! per la soverchiante concorrenza che le era fatta dai grani della Campania, della Sardegna e della . Sicilia. A compiere la rovina della granicoltura nel Lazio vennero la conquista delle due grandi isole, che pagavano i tributi a Roma in frumento, e 1’ uso invalso nei Magistrati della Repubblica di venderlo di quando in quando sotto prezzo alla plebe. Catone protestava contro queste vendite, ma la democrazia aveva preso a farsi valere, e la voce del Censore predicava al de- serto. Il prezzo del grano ribassò talmente a Roma da non compensare neppure il prezzo di trasporto dalla Sardegna e dalla Sicilia." Im questo stato di cose la coltivazione del grano per il mercato non era L’' AGRICOLTURA ROMANA. 105 possibile. La produzione del frumento, dell’ orzo e del farro fu ridotta ai bisogni della famiglia del proprie- tario e dei suoi operai, non perchè se ne trovasse il tornaconto, ma perchè, secondo i principii di quel- l’ epoca, il proprietario non doveva comperare quegli articoli che potevano prodursi sul fondo. La vigna teneva il primo posto fra tutte le col- ture di questo periodo.” La sua importanza era tale, che la coltivazione del salice, destinato a somministrare i vimini per la legatura delle viti, era più rimune- ratrice della coltivazione dei prati e dei campi.‘ D’ ordinario la vite maritavasi agli alberi, e si la- sciava crescere grandemente. La coltura non era spe- cializzata che nei terreni magri." Che non mancas- sero vigneti specializzati e che si prendesse di mira più la quantità che la qualità del prodotto, apparisce dai redditi favolosi che se ne traevano. Nell’ agro gallico, ad esempio, di qua da Rimini, la vigna ren- deva sino a dieci cullei per jugero.®" La fabbricazione del vino era fatta con passione, ma senza gusto. Non v'era un tipo locale di vini; si imitavano il vino greco, il vino di Coo, e con qua- lunque specie di uve si facevano il vin cotto, 1° elviolo ed altri; l’arte consisteva nell’ unire al mosto sostanze eterogenee. Infatti nel mosto mescevansi uva cotta, cenere di lisciva, acqua marina, resina, marmo pol- verizzato,” sapa, sugo di canna e di giunco. Non di meno il vino era serbevole. Catone raccomanda di avere nella villa i vasi sufficienti per contenere il pro- dotto di cinque anni, affine di poter attendere per la vendita le occasioni più favorevoli.” 106 L’ AGRICOLTURA ROMANA. Un'altra coltivazione di principale importanza era quella degli olivi. Se ne conoscevano varie specie, e si preferivano secondo la situazione e la natura del ter- reno. Non ignoravasi la coltivazione specializzata, ma d’ ordinario nell’ oliveto si seminavano i grani. La produzione dell’ olivo pid grandi proporzioni, parti- colarmente sul finire di questo periodo. Mentre nell’an- no 505 di Roma una libbra d’olio valeva dodici assi, un secolo più tardi 1° Edile Sejo poteva somministrarlo al popolo in ragione di dieci libbre per asse. Ai tempi di Pompeo I’ Italia esportava olio per le provincie. Giova notare ancora che così le olive, come le uve, sì vendevano all’ asta come frutto pendente.®” Il che indurrebbe a credere che una classe speciale d’ indu- strianti si occupasse della fabbricazione del vino e dell’ olio. Anzi quanto all’oleificio non v'è aleun dubbio che sia stato a questo modo, perchè si davano in ap- palto così la raccolta delle olive, come la fabbricazione dell’ olio. Nei dintorni della città aveva preso posto la colti- vazione delle. ortaglie."* Presso i grandi centri di po- polazione, sia questa povera o ricca, 1’ orticoltura è una industria necessaria. Essa è destinata a sommini- strare quei prodotti che per la loro corruttibilità e per il basso prezzo non possono ritirarsi da terreni di- scosti. Così anche attorno a Roma. Gli orti erano îrri- gati, e per l’ uso dell’ acqua pagavasi una tassa.‘ Nell’ allevamento del bestiame si erano fatti grandi progressi. Mentre prima era vietato di ridurre i campi in prati, ora Catone, il severo Censore, non si ristava dal raccomandare di fare prati irrigui, ove era acqua, L'AGRICOLTURA ROMANA. 107 ed altrove prati secchi. In Catone si vedono i primi sforzi di fare della pastorizia una industria speciale. ‘’’ L'uso della carne di bue era ancora limitatissi- mo, così che Catone soleva dire non poter finir bene una città, nella quale consumavasi più pesce che carne bovina. Nondimeno 1’ allevamento dei buoi rendeva molto, ed era fatto con grande diligenza; ©’? ma in- contrava un forte ostacolo a diffondersi nella scar- sezza di foraggio. Fa veramente pena a vedere come Catone si affanni a raccomandare che si riservino per i buoi:le frondi e le foglie di olmo, di pioppo, di quercia, di fico, le vinaccie, le ghiande, e che si pensi alla lunghezza dell’ inverno.’ Questi vegetali non erano naturalmente l’ unico foraggio; ad essi si aggiunge- vano le veccie, il fieno greco, le fave e la rubiglia.®! IL’ erba medica era ancora sconosciuta. Neppure per questo periodo vi è memoria di al- levamento cavallino fatto nel Lazio. I Romani, ed in generale i Latini, erano poveri di cavalli.’ Il cespite principale della pastorizia era il be- stiame minuto: le pecore per la lana, per la carne, per il latte e per il concime; le capre per il concime, per la carne e per il latte, ed i suini per la carne. Verso l’ anno 454 di Roma, secondo una iscrizione che vedevasi in Ardea ai tempi di Varrone (II, 11), s’ introdusse dalla Sicilia, per opera di P. Ticinio Mena, 1’ uso di tosare le pecore. Prima la lana si strappava (wvellere, vello). L’ uso delle stalle era generale. I buoi si tene- vano nelle stalle ordinariamente; le pecore di notte, e quando non potevansi tenere all’ aperto.®° 108 L’ AGRICOLTURA ROMANA. Il concime preparavasi e raccoglievasi con grande cura. Si usava lo sterco di colombo, di capra, di pe- cora, di bue, ma non quello dell’ uomo e dei suini. Catone raccomanda che al bestiame si faccia un buon letto e che si procuri di avere un letamajo spazioso. I boschi erano trafidi con religioso rispetto. Si riteneva che ogni selva fosse sotto la particolare pro- tezione di una divinità, e non si osava fare un taglio di bosco, se prima non si avesse disarmato la divi- nità medesima con un sacrificio.’ Forse questo su- perstizioso rispetto dei Romani per i boschi non avrebbe bastato a salvarli dalla scure, se vi fosse stato maggior bisogno di legname o di nuovi terreni per la dissodazione. Del resto non consta che conosces- sero l’ utilità delle selve se non nei rapporti della pastorizia. Le idee di grande coltura e di coltivazione degli schiavi in un’ epoca, nella quale si era usciti da poco dal periodo dell’ economia naturale, includono quella della coltivazione per economia, o per conto del pro- prietario. Ed infatti predominava questo sistema. L'economia pubblica non era ancora abbastanza pro- gredita per il predominio del contratto d’ affitto. Non pare che il proprietario dimorasse stabilmente nelle sue campagne, poichè Catone si limita a rac- comandargli di visitarle di frequente e di fermarvisi a lungo.“ Nella villa risiedevano stabilmente il vil- lico, o agente di campagna, che dirigeva ed ammi- nistrava tutta 1’ azienda; la villica, che attendeva agli affari dell’ economia domestica, e gli operai neces- sari per la coltivazione del terreno, per la cura e la L'AGRICOLTURA ROMANA. 109 custodia del bestiame. Erano schiavi e costituivano la familia. Avevano un assegnamento mensile in fru- mento, sale, olive, pesce salato, vino ed olio, più 1’ abi- tazione ed il vestito. |” Non mancavano gli operai liberi, che nelle epoche di maggiore lavoro prestavano la loro opera ai pro- prietari. Ma erano pochi, perchè l’ abbondanza degli schiavi rendeva inutile per la maggior parte dell’anno la loro opera, e perchè trovavano un facile ricovero i buoni nelle colonie, gli infingardi nella capitale. In ogni modo Catone raccomandava, a chi volesse com- perare una villa, di assicurarsi che nelle vicinanze vi fosse abbondanza d’ operai. V° erano dei fornitori d’ operai agricoli. Taluni speculatori mantenevano un certo numero di schiavi, e si assumevano determinati lavori di coltivazione per conto dei proprietari, o fornivano a questi ultimi gli operai e gli strumenti verso mercede.®* I terreni che non erano coltivati per economia, si accordavano a colonia parziaria. La parte del pro- prietario era la nona, l’ ottava, la settima, la sesta parte del frumento, la quinta dell’ orzo e delle fave. Se al parziario si dava la vigna, le uve dividevansi a metà. Il bestiame era del parziario. Era il sistema medesimo di ripartizione che incontreremo più tardi, ove si ragionerà dei primi secoli del medio evo. “ Giova notare che il contratto della colonia par- ziaria non aveva presso i Romani una forma legale, e che nelle loro leggi se ne rinviene solo la defini- zione. “9 I terreni dello Stato, dei templi, delle vestali, ec., 110 L'AGRICOLTURA ROMANA. erano sempre dati in affitto verso il consueto corri- spettivo del decimo dei grani, del quinto del prodotto delle piante e di un tributo in natura per il bestiame. In questo periodo la ricchezza non era ancora molto ragguardevole, ma di gran lunga maggiore che nel precedente, e mega distribuita che nel successivo. Si narra che la flotta di Lutazio Catulo sia stata armata a spese private dei patrizi, e che anche quella di Publio Scipione Africano sia stata messa assieme, senza aggravio dell’ erario, coi sussidi volontari del Senato e di taluni comuni amici. L'agricoltura aveva fatto grandi progressi; si la- vorava più e meglio di prima, con più intelligenza e con più capitali; ma era ancora un’ agricoltura eco- noma, massaja“* e basata sull’ empirismo. Il prodotto era ragguardevole così relativamente alla densità della popolazione come in via assoluta, perchè v’ era grande abbondanza di terreno coltivabile, e si poteva lasciare a pascolo il meno buono e condensare il lavoro ed i capitali in quello che prometteva i più larghi profitti.” NOTE. (©) « Vinea est prima, si vino multo siet; secundo loco hortus irriguus, tertio salictum, quarto oletum, quinto pra- tum, sexto campus frumentarius, septimo silva cedua, oetavo arbustum, nono glandaria silva » (Caton., De re rustica, I). CoLum., De re rustica, VI, preef., dice che Catone, in- terrogato come dovesse fare l’ agricoltore ad arricchire ra- pidamente, rispose: « Si bene pasceret.» E poi?: «Si me- L’ AGRICOLTURA ROMANA. LEI diocriter pasceret.» Columella aggiunge rincrescergli che Cicerone (De offic.) gli abbia messo in bocca la terza ri- sposta: « Si quis vel male pasceret. >» ( PLurarc. in Car. % Affermano che le leggi agrarie si riferivano unica- mente all’agro pubblico: Liv., Epit., 58, 2; Appran., I, 18; Sant AcostIno, De civit. Dei, III, 24; HeInE, Opuse., IV, 350; Poca, I, 72; Mommsen, I, 351; NreBugR, II; NirzscH, Die Gracchen, ete., 260, il quale rappresenta la questione delle leggi agrarie come una lotta fra i grandi e i piccoli pro- prietari, fra i capitalisti ed i contadini; CiraRrIO, Della schiavità e del servaggio, il quale dice che le leggi agrarie si riferivano unicamente all’ agro pubblico vicino a Roma. Fanno ritenere per contrario che le leggi agrarie si pro- ponessero una limitazione della proprietà privata: Caron. in GeLi., VII, 3, ed in Liv., XXXIV; Liv., VI, 35 e VII, 16; Var. Max., VII, 6; Varr., I, 2; Prurarc. in Cam.; VeLLer., II, 6; Prin., XVIII, 4; CoLum., I, 3; MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, I, 37; DUREAU DE LA MALLE, II, 266. © Che il godimento dell’agro pubblico fosse riservato ai patrizi, i quali corrispondevano l’ affitto, e che ne fossero esclusi i plebei, risulterebbe da un frammento di Cassio Ewmina pubblicato dal Noxro, secondo il quale alcuni citta- dini furono espulsi dall’agro pubblico, «propter plebitatem. > © E per verità alla proposta presentata da Spurio Cas- sio, nel 267 di Roma, per la ripartizione dell’ agro pubblico tra i plebei, il Senato, per bocca d’ Appio Claudio, rispon- deva «che si separassero i terreni pubblici dai privati; che se ne vendesse una parte e si affittasse l’ altra per cinque anni, e si spendesse il ricavato nel mantenimento delle mi- lizie e nella preparazione delle cose di guerra; che più utile era la possidenza pubblica di tutto, che la privata di piccole parcelle; che un povero con un campo non grande non avrebbe potuto coltivarlo per la inopia, mentre le grandi possessioni suscettive di lavoro molteplice e degno 132 L’ AGRICOLTURA ROMANA. di un agricoltore, se affittate dal Comune avrebbero dato una grande rendita; e finalmente che era meglio per i po- veri sotto le bandiere di avere stipendi e viveri dal pub- blico erario, che doverne portare al pubblico erario dalle loro case, poichè stenterebbero dalla penuria, specialmente se fossero gravati da tributi» (Dion., VII, 75). La legge non passò, e Cassio, "gp di corruzione e d’ avere aspi- rato alla tirannide, fu*tondannato all'estremo supplizio. © «Agri modum majorem quinquagenum jugerum quo- cunque tandem jure vel titulo habere, tenere, possidere post hanc legem latam nemini liceto. > Sed nec plus centum capitibus majoris plusve quingen- tis capitibus minoris pecoris sive in suo sive în alieno ne quis pascito. » Quicquid agri quod supra modum prescriptum quis habuerit, tenuerit, possiderit, ei preterea adimitor, et equo pretio in pauperes qui agrum non habent, distribuitor » (Gors., Antig. agr.). © Lrv., IV, 41. ® Liv., VII, 16; Prin., XVIII, 4. (! Dion., framm. XIV, 22. Nell'anno 455 di Roma gli Edili chiamarono in giudizio varii altri proprietari, perchè possedevano più di quanto consentisse la legge Licinia; e tutti furono condannati (Liv., Epiît., X, 13). (i Anche nell’anno 363 di Roma, ossia pochi anni prima della presentazione della legge Licinia, si era diviso l’agro dei Vejenti in ragione di 7 jugeri per capo, compresi nel- l’assegnazione i figli e gli attinenti delle singole famiglie plebee (Liv., IV, 30). ("2 Dron., VII, 13. Nell'anno 288 di Roma, ossia un de- cennio appena dopo il tentativo di Spurio Cassio, essendo consoli Spurio Postumio Albino e Quinto Servilio Prisco, sì ripartì l' agro degli Anziati. Ma i proletari invece di sta- bilirsi nel contado d’ Anzio per la coltivazione delle terre, I AGRICOLTURA ROMANA. 113 le cedettero ai vecchi proprietari verso una parte del pro- dotto (Dren., IX, 60). Nel 559 di Roma, quando s’ aprirono i ruoli per la ripartizione di 48,000 jugeri di terreno nel- l’agro di Turio, s’inscrissero pochi plebei, ai quali si die- dero 20 jugeri per famiglia, e si riservò il resto per il caso che altri si fossero inscritti posteriormente (Liv., XXXV, 9). (t) Nell'anno 415 di Roma furono ripartiti i terreni di Falerno e di Priverno (Lv., IV, 30). Nel 559 si mandarono due colonie a Pesaro e Potenza, e si assegnarono 6 jugeri per capo (Lrv., XXXIX, 44). Nel 569 una colonia ad Aqui- leja con 50 jugeri per capo, una a Parma con 8 jugeri, una a Modena con 5 jugeri ed una nell’agro Calebrano con 10 jugeri (Liv., XXXIX, 55; XL, 34). Nel 571 altra a Gra- visca con 5 jugeri (Liv., XL, 29). Nel 572 altra a Lucca con 51 jugeri e mezzo (Liv., XLI, 13). (!4 «Semunciarium tantum ex unciario foenus factum » (Lav., VII, 27). « Lucium Genucium tulisse ad populum ne foenerare liceret » (Liv., VII, 42). (5) CaroNE assegna alla granicoltura il sesto posto. Vedi nota 1. (! Dopo la seconda guerra punica, dice Livio, XXX, 28, il grano della Sicilia e della Sardegna ribassò in Roma talmente di prezzo «ut pro vectura frumentum mercator nautis relinqueret. » (# «Patrem familias vendacem non emacem esse opor- tet > (Caron., 2). (15) « Vinea est prima, si vino multo siet» (Caton., 1). (19 Vedi nota 1. 0 «Si macra erit quod granum capiat non serito » (Caron., 33). Per la coltivazione della vite, UATONE, 11, prende come misura normale un podere di 100 jugeri, e vi assegna, oltre al villico ed alla villica, 10 operai, un bi- folco, un asinajo, un vinchiajuolo ed un sottobifolco, due buoi e tre asini. E chiaro che insieme alla vite coltivavasi BERTAGNOLLI. 8 114 L'AGRICOLTURA ROMANA. anche il grano, se no la famiglia rustica sarebbe rimasta gran parte dell’anno inoperosa. (2!) Caton., De Origin., in VARR., I, 2. Il culleoragguagliava 548 litri, onde si aveva un prodotto di 220 ettolitri per ettaro ! (2) CATON., 9: 24. (2: © « Dolia ubi quinque vindemiee esse possint » (CATON., 11). « Dolia multa uti lubeat caritatem expectare » (In., 3). @4 Caton., 6. Ad un oliveto di 240 jugeri, CATONE, 10, assegna, oltre al villico ed alla villica, cinque operai, tre bifolchi, un sottobifolco, un asinajo, un pecorajo, tre paja di buoi, tre asini e 100 pecore. CAPS AVII: = (9 « Lex olea pendentis, lex vini pendentis. » Il compra- tore delle uve pendenti faceva il vino nelle cantine del pro- prietario, ma doveva lasciar libera la cantina alle prime calende di ottobre. Era più facile trasportare il vino che le uve. Al proprietario restavano le vinaccie e la feccia, con cui preparava il vinello per la famiglia rustica (Ca- ton., 146 e 147). (27) «Lex ole® legenda, lex olee faciunde» (Caron, 144 e 145). 8 «Sub Urbe hortum omne genus » (Caron., 8). Egli però non nomina specialmente che i bulbi, i cavoli e gli asparagi. (29) « Vectigalex aqueaeductibus, » che PoLIBIo, VI, 17, chiama Ti)Ns T6v atto», ossia imposta dei giardini. Catone, fatto Censore, dimentico di ciò che aveva insegnato nel suo li- bro, privò gli orti suburbani delle acque pubbliche che li irrigavano (Lrv., XXXIX, 44). (30) « Pratum si irriguum habebis, fenum non deficiet ; si non erit, siccum, ne foenum desiet, summitito » (CATON., 8). L° AGRICOLTURA ROMANA. 119 «Prata irrigua, si aquam habebis, potissimum facito ; si aquam non habebis, sicca quam plurima facito » (CATON., 9). Vedi nota 2. (3! «Non posse salvam esse urbem in qua piscis pluris quam bos veniret. » (9° « Nihil est quod magis expediat quam boves bene curare» (Catovx., 55). « Boves maxima diligentia curatos habeto » (In., 5). * 3 Caron., 6, 30, 55. « Vinaceos.... des bubus per hiemem » (Ip., 25). « Cogitato hiems quam longa siet » (In., 30). (3) CATON., 27. () Dal prospetto delle forze militari di Roma ai tempi della seconda guerra punica, somministrato da Potisio, II, 24, apparisce che il Lazio era la regione più povera di ca- valli di tutta Italia. Mentre il rapporto tra la cavalleria e la fanteria era per le legioni della Japigia e Messapia (Pu- glia) di 1:53 ‘/, per i Romani e Campani era di 1 : 11, per i Latini soli di 1: 16 e per le legioni esclusivamente ro- mane di 1:17 ‘/, e persino di 1:21. (35 «Bona bubilia, bona presepis >» (Caton., 4). « Bubile, ovile >» (In., 39). © «Stercus colombinum spargere oportet in pratum, vel in hortum, vel in segetem. Caprinum, ovillum, bubu- lum, item ceterum stercus omne sedulo conservato > (Ca- ToN., 36). Consiglia anche la stabulazione delle pecore nei campi per concimarli: « Ubi sementim facturus eris, ibi oves delectato > (In., 30). (38 «Pecori et bubus diligenter substernatur» (CATON., 5). « Stercus unde facias, stramenta, lupinum, paleas, fabalia, acus, frondem iligneam, querneam. Ex segete vellito ebu- lum, cicutam et circum salicta herbam altam ulvamque. Fam substernito ovibus, bubusque frondem putidam » (Ip., 37). « Sterquilinium quam magnum stude ut habeas » Up; 5 116 L’' AGRICOLTURA ROMANA. (39) « Si deus, sì dea es, quojum illud sacrum est, uti tibi jus siet, porco piaculo facere, etc. » (Caron., 159). (40) Vedi CatonE in tutto il suo libro. Non nomina nep- pur l’ affitto. ©’ «Ruri si recte habitaveris, libentius et se@epius ve- nies » o, (52) Caton., W, 58, 59. (43 « Operariorum copia siet » (CaTox., 1). (“) CaLpurNnIo Pisone narra di un liberto dei Furii che intorno all'anno 570 di Roma in causa dei suoi buoni af- fari fu accusato di magia, e che presentati nel foro i suoi operai, i suoi utensili agrari, i suoi aratri e buoi, disse es- sere questi una parte delle sue arti magiche, l’ altra le sue fatiche ed i suoi sudori. #) CatoNn., 136 e 137. Vedi le molteplici interpretazioni di questi due articoli nel nostro studio Sulla colonia par- ziaria, 1877, pag. 19 e seg., note 14 e 15. ( Cayus, nel Digest. XIX, 2, vis major; ULP., nel Di- gest. XVII, 2, 52, pro socio; Index XXIV, sì in lege. + Poni., I; Liv., XXVIII. (8) Di ciò è una prova il consiglio di CATONE, 2: « Ope- rarium . ... diutius eundem non habeat diem. » (4) Dal censimento fatto dopo la seconda guerra punica, quando Roma possedeva tutta la penisola da Reggio al Rubicone ed al porto di Luna, apparisce, secondo un cal- colo ingegnoso fatto da Durrau DE LA MALLE, I, 210 e seg., sulle notizie conformi tramandateci da PoLtio, da FABIO Pirrore, da Dioporo e da Prinio, che la Repubblica non contava allora più che tre milioni di uomini liberi. Detratti da questa cifra i proletari e i figli di famiglia, si può fa- cilmente immaginare quali grandi estensioni di terreno fos- sero a disposizione dei proprietari. L’ AGRICOLTURA ROMANA. L197 3. — PERIODO DELLA PRODUZIONE ANIMALE E DELL’ ECONOMIA DELLA VILLA. Il prodigioso incremento che ebbe Roma dopo l’ultima guerra punica; le colossali riechezze che ven- nero dall’ Africa e dall’ Oriente ad impinguare la città, e le moltitudini innumerevoli di schiavi che fu- rono riversate sull’ Italia, provocarono una rivoluzione economica, che fece mutare le basi dell’ agricoltura del Lazio. In questo periodo non limiteremo il nostro ragio- namento alla campagna di Roma, ma, tenendo sempre per base il Lazio, lo estenderemo a tutta 1’ Italia, così alle provincie pastorali della costa adriatica, come alle provincie agricole e commerciali della parte d’ Oc- cidente, che erano state attratte nell’ orbita di con- sumo della poderosa capitale, e che dovevano rego- lare le loro produzioni secondo i gusti e secondo i bisogni della medesima. Alcuni, commentando non rettamente talune frasi isolate di Varrone, di Columella e di Plinio, sono stati indotti a vituperare questo periodo dell’ agri- coltura romana. Si è detto alcune frasi isolate, impe- rocchè se avessero preso a considerare ]’ insieme della descrizione che ne fanno gli serittori medesimi ed altri loro contemporanei, avrebbero trovato un’ agri- coltura così ricca, così razionale e così progredita, che il mondo non ebbe mai e non ha neppure ai giorni nostri l’ eguale. 118 L’ AGRICOLTURA ROMANA. Varrone (II), dopo aver accennato alla vita agreste degli antichi ed alle risorse che ne traevano, ha de- plorato che 1° Italia si cibasse del frumento di Sicilia e dell’ Africa, bevesse il vino delle isole greche, e, per avarizia, avesse convertito i campi in prati. Coluti@Ma (Pref.) ha suppergiù ripetuto questi lamenti, ed ha rimpianto i tempi, nei quali i proprie- tari invece di abbandonarsi all’ ozio ed al lusso di Roma, si occupavano seriamente nella coltivazione e nell’ amministrazione delle loro terre. E Plinio (XVII, 4 e 7), innamorato, al pari di altri scrittori dell’ epoca imperiale, della gloriosa po- vertà dei primi tempi di Roma, ha considerato 1° agri- coltura romana come rovinata dalla formazione dei latifondi e dalla coltivazione servile. I rimpianti di Varrone, di Columella e di Plinio derivano da ciò, che essi facevano un confronto fra le condizioni economiche, sociali e morali dei secoli precedenti e quelle dei loro tempi ; fra un’ epoca po- vera, rustica e forte, nella quale la proprietà era di- visa tra molti che la coltivavano o sorvegliavano per- sonalmente, ed un’ epoca di vita urbana, lussuriosa ed effeminata, neila quale la proprietà era riunita nelle imani di pochi ed i più erano nullatenenti ; 0, se così possiamo esprimerci, fra 1’ epoca eroica e l'epoca economica dei Romani. Il raffronto non prendeva per base lo stato tecnico od economico dell’ agricoltura, ma lo stato sociale di Roma.! * Ed infatti passando alle cose dell’ agricoltura, Var- # Vedi le Note a pag. 140. L’ AGRICOLTURA ROMANA. 119 rone (I, 2) dice che ’° Italia dei suoi tempi era il paese più coltivato del mondo e poteva paragonarsi ad un immenso pomario, e che 1’ agricoltura non era più un’ arte, ma una vera scienza. E Plinio (III, 5) ne decanta le magnifiche selve, la ricchezza dei prodotti, 1’ abbondanza dell’ olio e del vino, la grassezza dei pascoli, la nobiltà delle lane, la bellezza delle razze bovine, e via dicendo. Anche Dionisio (I) proclama 1 Italia il più ricco dei paesi per ogni sorta di produzioni; ne ammira I’ albericoltura; celebra la Campania per la produzione dei grani, la Messapia e la Daunia per 1’ olio, 1” Etru- ria, 1 colli Albani e di Falerno per il vino, ed in ge- nerale tutto il paese per i suoi pascoli, per le sue mandre di buoi e di cavalli e per i suoi greggi di pecore. Meno entusiasti degli scrittori anzidetti sono Stra- bone e Diodoro; ma anche questi ritraggono | agri- coltura di singole regioni d’ Italia in modo da farne palesi lo stato progredito e la ricchezza. La verità par questa, che la terra si era du in mano di pochi, e si coltivava, non secondo i me- todi semplici e faticosi dell’ agricoltore, ma secondo le contingenze del mercato e il tornaconto del pro- prietario e capitalista. Non si curava il prodotto lordo, che forse non era ragguardevole, ma si prendeva di mira principalmente il prodotto netto. Ed era naturale che fosse così. Si può deplorare l’azione egoista e spietata del capitale, ma non si può arrestarne o deviarne il corso. Del resto, quando si parla dell’ agricoltura, non si 120 1° AGRICOLTURA ROMANA. prende ad esaminare un metodo di vita, o uno stato sociale, ma una funzione economica, un’ industria e quindi anche scientificamente deve essere considerata sotto il punto di vista del tornaconto. Per 1’ econo- mista è indifferente che sia esercitata in grandi 0 piccoliMorpi, colla coltivazione diretta o coll’ affitto, col lavoro degli schiavi o con quello degli uomini li- beri, colla vanga o coll’ ajuto di macchine; quello che interessa sì è, che sia largamente rimuneratrice. Ove è progresso, la grande proprietà assorbe la piccola, perchè questa non può sostenere la concorrenza di quella. È legge di natura che 1° uomo non può alla lunga modificare. In un paese nel quale sono poche in- dustrie, Ja cessazione della piccola proprietà porterà seco un limite alla popolazione. Ma dubitiamo assai che ciò sia un danno. Imperocchè, a parità di condi- zioni, come sta meglio un padre con tre figli di quello che ne ha una dozzina, così sta meglio una comunità di pochi membri, ma agiati, che un’ altra con molti nella miseria. Nel primo periodo abbiamo trovato nel Lazio la granicoltura; nel secondo la granicoltura ha fatto po- sto alla vite ed all’ olivo; nel terzo la vite e 1’ olivo fanno luogo all’ economia della villa ed alla produ- zione animale, e vanno a minacciare la granicoltura nelle provincie. In questo periodo il Lazio e le pro- vincie suburbane costituiscono il circolo più interno dello Stato isolato di Thiinen attorno al gran centro di Roma; anzi un circolo che Thiinen non ha compreso nelle sue ipotesi, perchè non poteva pensare per i no- stri tempi un centro come Roma, capitale di un mondo, L'AGRICOLTURA ROMANA. 121 nella quale affluivano le riechezze che in tanti secoli si erano ammassate nell’ Asia, nell’ Africa e nell’ Eu- ropa. Thiinen infatti fa coltivare nel suo circolo più interno le ortaglie e le frutta, e fa allevare gli ani- mali da latte. Così anche presso Roma. Ma qui era di una importanza di gran lunga maggiore 1’ economia della villa. Roma domandava e pagava a prezzi lau- tissimi i prodotti della villa; era naturale che il pro- prietario e lo speculatore si conformassero alle esi- genze del mercato. In questo periodo la grande proprietà per 1° ab- bondanza dei capitali e degli schiavi, per 1 abolizione dell imposta fondiaria decretata dopo la conquista della Macedonia, e per l’ alto profitto che promet- teva la pastorizia, si allargò fuor di misura. Della piccola non si salvarono nel Lazio che pochi orticelli intorno ai centri di popolazione. Cicerone calcolava che in Roma non vi fossero più di duemila proprietari.! Questo stato di cose non poteva non essere pro- pizio ad una reazione contro i pochi ricchi e nell’ inte- resse dell’ innumerevole moltitudine dei proletari. La plebe vi era preparata, e trovò nei due Gracchi dei capi, se non convinti ed abili, coraggiosi e risoluti ad andare sino al fondo. Narrasi che Tiberio Gracco nell’attraversare 1’ Etru- ria restò colpito dallo stato delle campagne spoglie di uomini liberi, e formicolanti di una popolazione di schiavi. Da ciò avrebbe preso le mosse in lui il pro- posito di risollevare la quistione delle leggi agrarie.” Ed infatti nell’ anno 619 di Roma, essendo al tri- bunato, propose: 1° che nessuno potesse possedere più 122 L' AGRICOLTURA ROMANA. di cinquecento jugeri di terreno; 2° che i figli di fa- miglia potessero possedere sino a duecento cinquanta jugeri; 3° che il di più fosse ripartito fra i proletari; 4° che la Repubblica accordasse ai proprietari un in- dennizzo per la espropriazione. p proposta suscitò un grandissimo tumulto e non passò, se non coll’ ajuto di un colpo di Stato. Tiberio aveva fatto deporre, cosa inaudita nella sto- ria romana, il tribuno Ottavio, il quale si opponeva gagliardamente che la proposta fosse messa a partito. In quel tempo avendo Attalo, re di Pergamo, la- sciato erede delle cose sue il popolo romano, Tiberio propose che il tesoro reale fosse ripartito tra i pro- letari onde dar loro i mezzi ed i capitali necessari per la coltivazione delle terre che sarebbero loro assegnate. Propose inoltre che fosse proibito ai proletari di vendere le terre, ai ricchi di comperarle. Anche queste proposte di legge passarono; ma non bastava essere riuscito a farle passare, biso- gnava mantenersi in grado di farle eseguire. Egli tentò un secondo colpo di Stato, domandando di es- sere mantenuto, contro ogni legge e consuetudine, per due anni consecutivi nel tribunato. A questo punto i tribuni suoi colleghi lo abbandonarono. Egli stava arringando il popolo per guadagnarlo alla sua causa, quando fu assalito ed ucciso al grido: Morte al ti- ranno! Il primo colpo gli fu dato dal suo collega Saturejo. Al posto di Tiberio subentrò il fratello Cajo. Lot- tando con gravissime difficoltà, ottenne che s° inco- minciasse l’ esecuzione delle leggi del fratello. e pro- L’ AGRICOLTURA ROMANA. 123 pose e fece passare altre leggi per nuove ripartizioni di terre. Ma poichè vide che 1’ esecuzione andava per le lunghe, e che la sua popolarità accennava a diminuire, ricorse, per obbligarsi il popolo, allo spe- diente più funesto e disgraziato che la potestà tri- bunizia avesse potuto concepire. Egli propose la legge frumentaria, colla quale si erigeva a sistema legale e permanente la distribuzione mensile di grano a tutti i poveri di Roma per un prezzo ragguagliato alla metà del prezzo corrente. Ii Senato opponeva che con questa legge si sarebbe rovinato 1° erario, favorito l’ ozio e chiamato a Roma tutto il proletariato della penisola. A nulla valse l opposizione e la legge passò. Ma neppur Cajo godette a lungo il favore della plebe. L'assassinio del plebeo Antillio, commesso sotto gli occhi del tribuno da alcuno del suo partito, pre- cipitò il suo destino. Inseguito dal Senato in armi, e sentendosi abbandonato dalla plebe, Cajo chiamò gl schiavi alla riscossa per la riconquista della libertà. Chi sa che cosa sarebbe divenuta Roma, se questo tentativo fosse stato convenientemente preparato e disposto. Narrasi che il tribuno *incalzato dai nemici, prima di uccidersi o di farsi uccidere, abbia pregato Diana di preparare al popolo romano una perpetua servitù. Colla morte di Cajo le leggi dei Gracchi, meno la frumentaria, rimasero lettera morta. I successori nel tribunato proposero ripetutamente altre leggi per l’assegnazione delle terre ai proletari, ma inutilmente. Il tribuno Clodio riuscì invece a far passare una nuova legge frumentaria, per la quale il grano era 124 L’ AGRICOLTURA ROMANA. somministrato alla plebe non più sotto prezzo, ma gratuitamente. E questa legge si mantenne in vigore, quantunque riprovata dai migliori, fino alla caduta dell’ Impero. Plutarco (in Grace., 8) fa del suo eroe Tiberio un convinto democratico, guidato unicamente dal propo- sito di ristabilire, colla creazione di un ceto nume- roso di contadini, la società romana sopra basi più solide e razionali. Cicerone per contrario accusa Tiberio di avere aspirato colle sue leggi agrarie alla tirannia della patria. Questi ha indubbiamente esagerato ΰ ambizione del tribuno. La corona, alla quale non osarono sten- dere la mano gli Scipioni, Pompeo e Cesare, dopo aver percorso il mondo di vittoria in vittoria, non poteva essere fatta per la testa dei figli di Cornelia. Ma anche Plutarco ha esagerato il disinteresse e la filantropia del suo eroe. Roma da presso che un secolo era nella sogge- zione degli Scipioni. Colla disfatta di Annibale, colla presa di Numanzia«e di Cartagine, colle vittorie sui successori di Alessandro il Macedone, la potenza di quella famiglia era cresciuta in modo da rendersi gra- vosa e da impedire a chiunque di acquistare una in- fluenza ragguardevole nella cosa pubblica. Ai due (wracchi, giovani insofferenti di giogo, ambiziosi e non isprovveiluti di mezzi materiali e morali, erano aperte due vie, o di salire all’ ombra degli Scipioni, appagan- dosi di una posizione secondaria, o di sforzare la posi- zione e «di tendire ai sommi onori all’ infuori di quella 1’ AGRICOLTURA ROMANA. 125 famiglia ‘e contro essa. S’' incamminarono su quest’ ul- tima strada, e siccome mancava l’ occasione di farsi innanzi con gesta gloriose, e forse l’ ingegno non era pari alla bisogna, fecero la base delle proprie opera- zioni la plebe cittadina, naturale avversaria del pa- triziato che era capitanato dagli Scipioni. Che non si trattasse di redimere le plebi, ma di servirsene come di un’ arma per salire, apparisce ma- nifestamente dall’ ultimo ripiego, al quale si appigliò Cajo, quando, misurate le difficoltà che si opponevano all’ esecuzione delle leggi agrarie, propose la legge frumentaria, colla quale la redenzione della plebe ro-. mana fu resa impossibile per molti secoli. Le condizioni economiche di quei tempi non ac- cordavano quartiere alla piccola proprietà. Attorno a Roma si era dovuto abbandonare la coltura dei grani e in gran parte anche quella della vite e dell’ olivo per surrogarla colla pastorizia che esigeva poderi sterminati, e coll’ economia della villa che esigeva grandi capitali. Se i piccoli proprietari del Lazio che avevano il terreno già ridotto a coltura, che avevano la casa, il bestiame e tutti gli strumenti necessari per la coltivazione, si sbarazzavano delle loro proprietà per istabilirsi nella capitale, sarebbe stato assurdo lo spe- rare che una plebe ignorante dell’ agricoltura, non abi- tuata al lavoro. senza strumenti, senza bestiame, senza capitali, potesse fare un’ agricoltura rimuneratrice. Abbiamo veduto nel capitolo precedente che la conquista della Sardegna e della Sicilia aveva dato un colpo gravissimo alla granieoltura del Lazio. A com- pierne la rovina vennero in questo la conquista del- 126 L'AGRICOLTURA ROMANA. I’ Africa e l’ infelice trovato delle leggi frumentarie, che privarono le granaglie d’ ogni valore venale. La granicoltura prese a ritirarsi anche dalle provincie per far luogo alla coltivazione delle piante. E questo processo si proseguì sotto 1’ Impero, così che Domi- ziano, preoccupato dal pericolo che la coltura dei grani avesse a scomparire intieramente, decretò che si ces- sasse in Italia dalle piantagioni e che si tagliassero nelle provincie i vigneti, salva una parte non maggiore della metà. Ma poi non curò che questo decreto Fosse eseguito." Del resto la coltivazione dei grani, ove fu conser- vata, facevasi con grande cura. La semente era scelta grano per grano, e le singole pianticelle di frumento rincalzavansi continuamente e rafforzavansi, se deboli, con concimi speciali." I grani riponevansi in fosse 0 pozzi, ove conservavasi il frumento sino a cinquanta anni, ed il miglio sino a cento.!'? Quanto al prodotto, Varrone parla di 10 e di 15 p. 1. Non dice però se queste cifre riguardassero unicamente il frumento, oppure i cereali inferiori, 0 l'uno e gli altri insieme." Se avesse inteso di parlare unicamente del primo, è facile capire che si trattava di due cifre massime. Ai tempi di Columella il pro- dotto era in media di 4 p. 1. Lo che vuol dire che la granicoltura si era in gran parte ritirata sul monte e sui colli, 0 nei terreni peggiori. La coltivazione della vite e dell’ olivo si ridusse sensibilmente nel Lazio e nelle provincie finitime, ma si diffuse grandemente nelle provincie più discoste da Roma. Saserna faceva notare che il clima si era cam- L’ AGRICOLTURA ROMANA. 127 biato, perchè ai suoi tempi la vite e 1° olivo prospera- vano in siti settentrionali, nei quali prima non avevano potuto attecchire.‘ Il clima non si era cambiato; ma sì erano cambiate le condizioni del mercato. Ai suoi giorni sì coltivavano quelle piante in siti settentrio- nali, perchè, malgrado la incertezza e la scarsezza del raccolto, e’ era il tornaconto, che mancava nei tempi precedenti. Già ai tempi di Varrone alcuni ritenevano che la vite, la quale qualche secolo prima era considerata nel Lazio come la coltivazione più rimuneratrice, non pagasse la spesa di produzione.’ Egli insegnava (I, 8) che la vite potesse ancora coltivarsi con profitto, ove sì potevano avere nel luogo e con poca spesa i so- stegni ed i vimini. E Columella, quantunque ritenesse la vite come una delle principali coltivazioni, era d’ av- viso che dovesse abbandonarsi ove non rendesse più di tre cullei per jugero, ossia più di sessantaquattro ettolitri per ettaro.!” Si coltivavano le più svariate qualità di vitigni; ma nella vendemmia procedevasi a scelta, secondo la qualità ed il grado di maturanza delle uve. I pro- dotti erano fenomenali,® ma non da per tutto squisiti. Giova notare, ad esempio, che alcuni dei maggiori centri di produzione, come l’ agro Graviscano e il Ce- cubano, erano siti paludosi.!" Era un canone generalmente ammesso, così per questa come per le altre coltivazioni, la specializza- zione, senza la quale non si saprebbe spiegare la prodigiosa quantità del prodotto." L’ enologia aveva fatto grandi progressi. Si erano La 128 L' AGRICOLTURA ROMANA. formati molti tipi di vini, che sì mantennero in cere- dito per varii secoli. E non si trattava di tipi gene- rali ad imitazione di tipi esteri e fatti con qualunque specie d’ uve e di qualunque provenienza, e manipolati con ogni specie d’ ingredienti eterogenei, come erano i forti beveraggi dell’ epoca eroica; ma erano vini italiani col nome del luogo di produzione, e fatti senza miscele. La esistenza di questi tipi conferma 1’ opi- nione espressa nel capitolo precedente, che il vino non fosse sempre fatto dal proprietario del terreno, ma che si avessero speciali stabilimenti enologici che comperavano le uve e fabbricavano il vino per proprio conto. A questi stabilimenti allude Plinio, ove nella sua lettera a Calvisione narra che vendeva all’ asta le uve pendenti delle sue vastissime tenute. Nei paesi vicini alle Alpi e nell’ Etruria il vino si chiudeva in grandi botti di legno cerchiate.” I Romani lo riponevano in anfore di vetro che tappavano e sigillavano colla pece, proveniente dalle grandi fabbriche etrusche. Il vino era pregiato in ra- gione della sua vecchiaja. Sul collo dell’ anfora nota- vasi il nome del Console, sotto la cui amministrazione era stato posto in bottiglie, e poi per accelerarne la_ maturazione si riponeva in locali, per i quali passava il fumo della cucina.” Negli ultimi tempi della Repubblica apprezzavasi sopra ogni altro vino il Falerno. Seguivano 1° Albano, il Cecubo, il Satino, il Massico, il Sorrentino, il Ma- mertino. Ma sotto l’ Impero, i vini meridionali ineo- minciarono a perdere terreno ed a farsi innanzi i vini etruschi, veronesi e gallici.®’ L'AGRICOLTURA ROMANA. 129 Si beveva molto e bene. I patrizi non rifuggivano da alcuna spesa per avere una cantina ben provve- duta. Chi preferiva un tipo di vino, chi ne preferiva un altro, e tutti si adoperavano per migliorarne la fabbricazione. Sotto 1’ Impero si sentono nominare di rado i vini delle Cicladi ; in generale si bevevano vini italiani, e ne davano 1’ esempio la Corte imperiale ed i patrizi. Uno sviluppo non minore della viticoltura aveva preso la coltivazione dell’ olivo, che Columella desi- gnava come la regina delle piante. Plinio dice che l’ Italia aveva il primato su tutte le nazioni anche nella produzione dell’ olio.‘ Le olive si raccoglievano a mano nuda; era ri- provato il coglierle a mano inguantata, come taluni facevano, o lo scuotere i rami per farle cadere a terra. La produzione ed il commercio del vino e del- l'olio avevano raggiunto una sì grande importanza, che la Repubblica volle conservarne all’ Italia il mo- nopolio, e vietò che di là dalle Alpi si piantassero viti ed olivi.” E sottopose a processo Fontejo, go- vernatore della Gallia Narbonese, per avere imposto un dazio sull’ entrata dei vini italiani nella sua pro- vincia.® La coltivazione del lino e della canape non era molto diffusa. Varrone e Columella ne parlano ap- pena. Plinio accenna come centri di produzione del lino Faenza, Retorbido (Retovium) e la regione Aliana fra il Ticino e il Po,©" e segnala Rieti per la produzione della canape, ove raggiungeva 1° altezza degli alberi. BERTAGNOLLI. 9 150 L’ AGRICOLTURA ROMANA. La riunione di tutta la penisola, del monte e del piano, in un solo Stato rese possibile alla pastorizia di svolgersi grandemente e di affermarsi come una industria per sè stante e indipendente dall’agricoltura. La pastorizia in grande non può esercitarsi se non ove si può fare 1° allevamento all’ aperto. La ne- cessità di ricoverare il bestiame nelle stalle è un osta- colo pressochè insormontabile alla diffusione della grande pastorizia, poichè non si deve soltanto prov- vedere alla costruzione di stalle spaziose, ma ezian- dio alla produzione in grande di foraggio. E 1’ alle- vamento all’ aperto non è possibile, se non quando all’ avvicinarsi dell’ estate il bestiame della pianura può mandarsi sulle montagne, ed all’ avvicinarsi del- l'inverno il bestiame delle montagne può mandarsi al pascoli della pianura. Sappiamo da Varrone che le mandre ed i greggi passavano l’ estate sui monti del Sannio e dei Lucani, e l’inverno scendevano nella Puglia, nelle Calabrie, nell’ Etruria e nel Lazio. Forse i mandriani percor- revano allora quei medesimi ampii stradali, per i quali fanno le loro peregrinazioni ai giorni nostri. Varrone fa un canone della separazione della pa- storizia dall’ agricoltura. A suo avviso, 1’ agricoltore non deve tenere che il bestiame necessario per la coltiva- zione delle terre. Egli deve vendere il foraggio, se ne ha di soverchio, e comperare il concime ove manchi.!®* Columella (VI, Pref.) non accetta intieramente questa separazione, e ritiene utile che il foraggio sia consumato sul fondo e che ivi pure si produca il con- cime necessario, L' AGRICOLTURA ROMANA. D3l Se si fosse trattato di piccoli gruppi di bestiame, sarebbe stata indubbiamente a preferirsi 1’ opinione di Columella; ma allora i capi di grosso e di minuto be- stiame si numeravano a migliaja;‘ e prescindendo anche dalla impossibilità materiale di mantenerli nel podere, sarebbero stati per l agricoltura piuttosto una rovina che un beneficio. Nell’ allevamento dei bovini sì osservava una de- terminata proporzione fra il numero delle vacche e quello dei tori. Lo scopo principale dell’ allevamento era la produzione di animali giovani da macello. Si consumava ancora poca carne di bue, ma il vitello era un piatto giornaliero dei ricchi. Si curava anche la produzione del formaggio, ma non si usava il burro, e forse neppure il latte vaccino.®? Nelle provincie adriatiche, e particolarmente nella Puglia e nella Venezia, esercitavasi su larga scala P allevamento equino. Così anche nella Lucania e nella Sicilia. Grandi razze si mantenevano a Satureja.®° Im questo periodo troviamo l allevamento equino anche nel Lazio. Ma d'importanza di gran lunga maggiore erano l’ allevamento degli asini e la pro- duzione dei muli, i quali si usavano a Roma a_ trascinare le lettighe dei ricchi. Le razze erano a Rieti, ma nell’ inverno si mandavano a pascolo nella pianura laziale. L’ allevamento dei muli e degli asini era una industria lucrosissima; si hanno esempi di prezzi favolosi pagati per singoli capi.” Nè questo incremento nella produzione del be- stiame grosso aveva tolto importanza all’ allevamento del bestiame minuto. Anche questo però aveva subito 192 L’ AGRICOLTURA ROMANA. nel suo indirizzo qualche modificazione. Così le pecore nel Lazio non erano destinate come prima alla pro- duzione della lana. Questa funzione economica era la- sciata alla Sicilia, alla Calabria, alla Puglia, all’ Etruria ed alla grande valle del Po.“ Il Lazio produceva gli agnelli,‘ il latte e i caci per il consumo della città. Alla produzione degli animali giovani da macello era indirizzato nel Lazio anche 1’ allevamento suino ;(* le carni insaccate e le carni salate si ritiravano dalla valle del Po e dai Lucani.‘ Si allevavano numerosi greggi di capre, vicino a Roma, per fornire il latte alla città; nelle provincie, per la produzione dei capretti, che in gran parte macellavansi pure sui mercati di Roma. La campagna della capitale formicolava di man- dre e di greggi, che se non potevano gareggiare con quelli delle provincie per numero di capi, li supera- vano in qualità, nonchè per intensità e perfezione degli allevamenti. Al di là di Ponte Milvio si stendevano spaziosissimi prati; fuori della porta Ostiense e lungo la via Laurentana sino al mare non s’ incon- travano che prati e pascoli,“® e nei campi di Rosea vicino a Rieti la vegetazione erbacea era ajutata e sforzata con tale intensità, che un palo gettato la sera in un prato, allor allora segato, la mattina era sot- tratto alla vista dall’ erba cresciuta nella notte.” La pastorizia era uscita da quelle strettezze di fo- raggio, nelle quali intristivano le piccole stalle del pe- riodo precedente. Ora i prati irrigui erano la princi- cipale od una delle principali coltivazioni del Lazio, e l’ erba medica e il citiso fiancheggiavano potente- mente i prati naturali ed i pascoli.” 46) (#6) I AGRICOLTURA ROMANA. 133 Come si disse, l’ allevamento nei dintorni di Roma non si proponeva che la produzione degli animali gio- vani da macello e del latte. Non v’ era tavola discre- tamente imbandita, sulla quale non figurassero la vi- tella, gli agnelli, i capretti ed i porcellini (porci lactantes). Si affrettava, forse più di quanto lo con- sentisse l'igiene, la macellazione degli animali gio- vani per isforzarne la produzione (Columella). Il latte, particolarmente di capra, faceva parte della prima colazione (jerntaculum) e serviva alla preparazione di cibi svariati ((actantia) e della colostra, piatto favo- rito dei Romani. Ma il cespite più ricco dell’ agricoltura del Lazio era l’ economia della villa. Questo cespite compren- deva talune funzioni che veramente facevano parte della coltivazione della terra, e talune altre che a ri- gore di termini erano industrie indipendenti dall’ agri- coltura. Tra le prime erano la coltivazione degli orti e delle frutta e 1° allevamento delle api. Nelle parti estreme di Roma, sul Pincio, di là dal fiume e fuori delle mura tutto attorno alla città per un largo tratto si esercitava una ricchissima orti- coltura. Non producevansi unicamente gli ortaggi, che pure erano coltivati su grande scala e con perfezione, ma principalmente i fiori, che sui mercati della città vendevansi a prezzi lautissimi.©® Somministravano fiori a Roma anche Tivoli, Tusculo, Preneste, la Campania e Pesto, famosa per i suoi rosai.®’ E le più svariate qualità di ortaglie venivano da tutte le campagne lungo il Tevere verso la Sabina, da Aric- 134 L’ AGRICOLTURA ROMANA. cia, da Signia, da Capua, da Pompei, da Napoli, da Tivoli, dai Marrucini, dai Sabelli, dal Sannio e sino dai Bruzi.©° Erano apprezzatissimi gli asparagi di Ravenna. 9 I migliori pomari erano sui colli Laziali, a Tivoli, a Nomento, a Crustumenio, a Signia ed a Falerno. Venivano frutta inoltre da Napoli, da Ameria e dal Piceno. ©? Plinio (XV) enumera tre specie di pesche, undici di prugne, ventinove di mele, ventinove di fichi, otto di castagne, otto di ciliegie, moltissime di pere, ec. Per farsi un’ idea della ricchezza della colti- vazione delle frutta, basti ricordare che singole piante vicino a Roma davano un reddito di trecentocin- quanta lire. Il canto di Virgilio sulle api ci lascia indovinare in qual pregio fosse tenuta l’ apicoltura. Varrone (III, 16) narra che due contadini dell’ agro Falisco, i quali ave- vano militato sotto i suoi comandi nella Spagna, si erano fatti ricchi con una piccola casa circondata da non più di un jugero di terreno tenuto a prato. Essi producevano diecimila sesterzi all’ anno di miele. Erano tra le seconde 1’ allevamento dei polli, del selvaggiume e dei pesci (ornithones, leporaria, piscine). Il pollajo comprendeva le galline, i polli, i pa- voni, le tortore, le anitre, le oche, i cotorni, le per- nici, i tordi, le quaglie, gli ortolani, i merli, i pic- cioni, ec. Ogni banchetto incominciava colle uova. Si man- giavano a colazione e a tutti i pasti, sotto tutte le forme e coi piatti più disparati. Una zia di Var- rone (INI, 2) ricavava da un suo pollajo nella Sabina L'AGRICOLTURA ROMANA. 135 un reddito superiore a quello che poteva essere dato da una tenuta di duecento jugeri. In una sola volta ne estrasse cinquemila tordi a tre denari |’ uno. Le uova dei pavoni vendevansi fino a cinque denari l’ uno. Un centinajo di pavoni poteva rendere in un anno tra uova e pulcini centomila sesterzi (Varr., II, 6). Anfidio Lurcone da questo allevamento traeva ses- santamila sesterzi all’ anno. Nell’ allevamento dei pic- cioni impiegavansi grossi capitali.” Una coppia di buona razza pagavasi sin a duecento nummi; i mi- gliori sin a mille nummi l’ uno. Assio rifiutò di ven- derli a meno di quattrocento denari (Varr., III, 7). Si accordava una diminuzione di affitto a chi tenesse un buon pollajo e si obbligasse di riservarne lo sterco alla concimazione dei terreni della tenuta. Sejo in una sua villa vicina ad Ostia ricavava dal pollajo e dalla produzione della selvaggina cin- quantamila sesterzi all’ anno (II, 2). Albuzio assicurava che con una villa sul mare avrebbe guadagnato facilmente centomila sesterzi al- l’anno (IH, 2). Le piscine di Lucullo rendevano an- nualmente quarantamila sesterzi (III, 2). Irro consu- mava dodicimila sesterzi all’ anno nella nutrizione dei pesci. In una sola volta fornì a Cesare duemila mu- rene. La ricchezza delle sue piscine era tale, che potè venderle per quattro milioni di sesterzi (HI, 17). Nelle ville si tenevano due letamai, uno per de- porvi il concime nuovo, l’ altro per la conservazione del concime vecchio (I, 13). Si preferiva il concime del pollajo e nominatamente delle piccionaje, perchè ritenevasi che riscaldasse più d’ ogni altro il terreno 136 L'AGRICOLTURA ROMANA. e lo facesse fermentare. Varrone però preferiva lo sterco dei tordi e dei merli. Seguiva lo sterco del- l’uomo, che nel periodo precedente era trascurato. Il terzo posto era assegnato allo sterco delle capre e delle pecore, colle quali facevasi la stabulazione nei campi per concimarli, e quello degli asini. Lo sterco dei cavalli e dei buoi non si reputava atto che per i prati; si riteneva che producesse molta erba. Lo sterco suino era noncurato.” I boschi continuavano ad esistere in tutta Ja loro lussureggiante vegetazione. Plinio non finisce di de- cantare la ricchezza boscosa dell’Italia de’ suoi tempi." Anche Dionigio e Strabone parlano con meraviglia della bellezza delle selve italiane e della grande copia del legname di costruzione che se ne ricavava. Ed infatti erano rivestiti intieramente di boschi non solo le Alpi, e le creste e i dorsi dell’ Apennino, ma molte selve aveanvi sin giù nella pianura e nella campagna stessa di Roma. Esistevano ancora la selva Cimi- nia e la Mesia, e più giù la Gallinaria nella Campania. Il sistema predominante era anche in questo pe- riodo la coltivazione per economia. Nè Varrone nè Columella parlano dell’ affitto. Ma per ciò non è a credersi che in uno stato agricolo così progredito questo contratto fosse poco conosciuto. Anzi sappiamo con sicurezza che con questo sistema erano coltivate le tenute di Plinio nell’ Italia superiore. La coltivazione facevasi generalmente per mezzo degli schiavi. Ma non mancavano gli operai liberi, dei quali si approfittava per i lavori urgenti della falcia- tura, della mietitura e della vendemmia, L'AGRICOLTURA ROMANA. 137 Varrone accenna a poverelli che lavoravano coi figli per proprio conto. Ne parla più lungamente Co- lumella (I, 7), che suggerisce al proprietario di trat- tarli umanamente, di essere più severo nella richiesta di lavoro che di contribuzioni, largo nell’ accordare re- missioni in caso di fallimento dei raccolti, non troppo esigente in fatto d’ appendizi in legname ed altre cose. Forse erano fittajuoli, ma più probabilmente an- cora coloni parziari. E che fossero coloni parziari fa pensare il consiglio dato da Columella di accordare loro i terreni malsani e sterili, per i quali natural- mente era difficile di trovare un fittajuolo.®* E ci conferma in questa opinione 1° altro consiglio di dar loro, ove il proprietario non potesse sorvegliarli per- sonalmente, i campi di grano, ma non la vite e l’ olivo, per timore che non lasciassero andare a male le pian- tagioni.° Del resto se la colonia parziaria esisteva, non po- teva avere grande importanza; non è accennata nè in Varrone nè in Columella. Ne parla Plinio, ma non come di un sistema che fosse già in vigore e che avesse fatto buona prova, sibbene come di un esperi- mento. Nè sappiamo d’ onde abbian cavato Cibrario (II, 45) e Poggi (I, 122) che Plinio sia passato alla colonia parziaria, perchè la reputasse il sistema più acconcio e più profittevole. Le sue tenute dell’ Italia superiore, troppo lontane per essere condotte in eco- nomia, erano date in affitto. Ma varie cattive annate di seguito avevano ridotto a mal partito i fittajuoli. Plinio accordava remissioni sul prezzo d’ affitto, e non- dimeno il debito dei fittajuoli continuava a crescere, 138 L° AGRICOLTURA ROMANA. Onde non sapendo a qual santo votarsi, si appigliò alla colonia parziaria come ad estremo rimedio ed in via d’esperimento. Ed era anzi così poco persuaso che l’ esperimento riuscisse, che nell’ atto stesso di metterlo in pratica ne misurava le difficoltà e preve- deva le noje, alle quali andrebbe incontro. Come si avrà veduto di leggeri, quantunque qui e lì si siano estese le nostre considerazioni a tutta l’ Italia, abbiamo sempre conservato per base del no- stro ragionamento il Lazio e le provincie suburbane. Or giova ancora notare che si uscirebbe dal vero, se si considerassero le condizioni del Lazio come tipo delle condizioni delle provincie. Abbiamo già osservato come le coltivazioni ne fossero diverse. Ora per finire aggiungeremo che in talune provincie, segnatamente al settentrione di Roma, la grande proprietà non aveva assorbito tutti i terreni. E di ciò fanno fede le varie colonie militari che si fondarono sotto Silla, Pompeo, Cesare ed Augusto, alle quali si assegnarono non grandi poderi.” Così nell’ Italia superiore gli schiavi non avevano soppiantato .intieramente gli operai li- beri,©% imperocchè lì non c’ era Roma che offrisse alla popolazione operaja un rifugio ed un sostenta- mento sicuro colle distribuzioni gratuite di grano e col mercato dei voti. Noi siamo ben lontani dal rimpiangere uno stato economico, quale era quello di Roma in questo periodo, nel quale di fronte ad un pugno di famiglie esorbi- tantemente ricche intristivano nella miseria e nel- ozio Ie moltitudini. Soltanto esprimiamo l'avviso, che date le condizioni economiche e sociali e la legislazione L' AGRICOLTURA ROMANA, 139 di Roma, la sua agricoltura colla specializzazione delle coltivazioni elevata a canone, colla scelta accurata di quelle che erano richieste dal mercato e coll’ abban- dono delle altre, coll’ importanza principale che era data ai prati, coll’ uso di concimi così fini e ricercati, poteva essere difficilmente migliore, cosicchè meritò di essere proposta dall’ illustre agronomo Dickson a modello per l’ agricoltura inglese, che è considerata generalmente per la più ricca e la più progredita d’ Europa. Arrivati alla fine della storia dell’ agricoltura ro- mana, avvertiamo di non aver fatto alcun cenno, come abbiamo usato parlando dell’ Etruria e della Magna Grecia, e come useremo nell’ esporre i periodi succes- sivi dell’ agricoltura italiana, delle condizioni indu- striali del paese. Questa omissione non derivò da di- menticanza nè dalla volontà nostra. Egli è veramente, come abbiamo avuto occasione di accennare, che Roma non era una città industriale. Secondo Catone, persino gli utensili più semplici, gli stessi strumenti della coltivazione delle terre si ritiravano dalla pro- vincia. Qualche industria si era introdotta sotto 1’ Im- pero. Così il setificio che esercitavasi nel vico Tosco!” e la fabbricazione dei vetri." Le industrie esercita- vansi o per conto dello Stato o dai privati nelle provincie, che ne mandavano i prodotti a Roma. Nelle Calabrie si fabbricavano ancora dei panni l? ed a Taranto era una tintoria dello Stato." Altra tintoria dello Stato era a Siracusa."% A Cuma era fiorentissima la fabbricazione dei vetri.‘ Lo Stato teneva linifici a Ravenna,® lanifici ad Aquileja e Mi- - 140 L’ AGRICOLTURA ROMANA. lano,” e fabbriche d’armi a Mantova, Cremona, Con- cordia, Verona e Ticino (Pavia). “% Erano collegi di falegnami ad Aquileja, Bergamo, Brescia, Como, Mi- lano, e collegi di fabbri ad Aquileja, Brescia, Cre- mona, Ravenna, Verona. A Como lavoravasi il ferro, a Verona®” e Padova la lana, a Modena la lana ©’ e i vasi di terra cotta, che sì mandavano per mare e per terra in tutto 1° Impero.® A Poz- zuoli, la vecchia Dic@archia, che per la ricchezza dei suoi commerci era chiamata la piccola Delo, erano in eran fiore le industrie del ferro. Il materiale veniva da Populonia ed i manufatti si esportavano per ogni luogo.®? NOTE. ) Egli è vero che CoLumerra dice che i sette jugeri dell'antica plebe rendevano di più che i latifondi dei suoi tempi (I, 3); ma VARRONE sostiene il contrario, e ne dice la ragione: «Itaque majores nostri ex arvo eque magno sed male consito, et minus multum et minus bonum facie- bant vinum et frumentum, quod que suo quidque loco sunt posita, ea minus loci occupant ;» ch'è quanto dire perchè gli antichi usavano la coltura promiscua (I, 3). ®) « Non modo est ars sed etiam necessaria ac magna. Faque est scientia, qua docet qua sint in quoque agro se- runda ac faciunda, queeque maximos perpetuo reddat fru- ctus > (I, 3). ® «Non esse in Civitate duo millia qui rem haberent » (De offic., II, 21). % PLur. in Grace, L’ AGRICOLTURA ROMANA. 141 5 Goes., Ant. agr. © La quantità di grano, che distribuivasi, era di 5 mog- gia al mese per persona, escluse le donne ed i giovani che non avevano raggiunto l’ età militare (M. Licinius in SaL- LusT., Histor., frag. III, 10). Augusto voleva abolire la di- stribuzione gratuita di grani ai poveri: « Quod eorum fidu- cia cultura agrorum cessaret;» ma non vi si decise per timore che alcuno ne proponesse il ristabilimento per ser- virsene come di un mezzo di seduzione (Sver. in Aua., 42). Però coi provvedimenti suoi e di Cesare fu ridotto della metà il numero di coloro che partecipavano alla distribu- zione (SveT., op. cit.). Aureliano aggiunse alla distribuzione del grano anche la carne di majale, e pensava di comple- tare l’opera colla elargizione del vino. Ma ne fu dissuaso dal prefetto del Pretorio, il quale gli fece abilmente inten- dere che il popolo avrebbe poscia preteso anche il pollame (EurroP. in AUREL.). W) «Tiberius Gracchus regnum occupare conatus est, vel regnavit is quidem paucos menses » (De amicit., XII). 5 Ma non è giusto di far ricadere sui due tribuni gli assassinii del secondo Africano e del popolare Antillio. La loro sciagura fu di essersi trovati, per la stessa loro posi- zione di capi della plebe, in compagnia degli elementi più tristi e più torbidi della società romana, ai quali forse si devono eziandio far risalire e i tentati colpi di Stato di Tiberio e l’appello di Cajo alla rivolta degli schiavi. ® Livio, XLI, 8, narra che, pochi anni prima dei Grac- chi, una deputazione delle città latine era venuta in Se- nato per rappresentare che la gente del contado abbando- nava in massa le campagne per venire a stabilirsi a Roma, e che se le cose avessero continuato così, in pochi anni la provincia sarebbe rimasta deserta di coltivatori. E indubi- tato che, se le ripartizioni fossero state eseguite, i plebei, come già avevano fatto altre volte, avrebbero venduto per pochi sesterzi i propri lotti sulla piazza di Roma. Non si 142 L’ AGRICOLTURA ROMANA. è mai pensato di ripartire i terreni pubblici delle provin- cie lontane dalla capitale, che sarebbero stati sufficienti per fare grandi proprietari tutti i proletari d’ Italia. Una simile proposta avrebbe lasciato la plebe indifferente, perchè non sarebbe stato facile di convertirli in moneta. (0 «Ad summam quondam ubertatem vini, frumenti vero inopiam existimans nimio vinearum studio negligi arva, edixit: ne quis in Italia novellaret, atque in provin- ciis vineta succiderentur, relicta, ubi plurimum, dimidia parte .......mnec exsequi rem perseveravit » (Sver. in Dowm., 7). (WVARR, DI: (2 «Sub terris speluncas, puteos » (VARR., I, 57). (13 «Seruntur fabe modii 4 in jugero, tritici 5, ordei 6, farris 10.... Ex eodem semine aliubi cum decimo re- deat, aliubi cum quintodecimo, ut in Hetruria et locis ali- quot in Italia > (I, 44). (14) « Frumenta majore quidem parte Italie quando cum quarto responderint, vix meminisse possumus » (III, 2). (15) Corum., I, 1. (19 « Contra vineam sunt qui putent sumptu fructum devorare » (VARR., I, 8). (1? CoLumeLLA dice che la vite non rende a chi la col- tiva male. Mentre Giulio Attico piantava in un jugero 4000 vitigni, egli soleva impiantarne più di 20,000 (II, 3). (18) Varn., I, 54. (9 Una vigna di L. Marzio, in contado di Faenza, ren- deva 300 anfore, ossia 15 cullei per jugero, ragguagliati a 328 ettolitri per ettaro (Varr., I, 2). Nella villa di Seneca, a Nomento, la vigna rendeva 8 cullei per jugero, ossia quasi 176 ettolitri per ettaro. (20 RurIL. in Itiner.; StRraB., V, 5. Anche PLInIo dice che il Vecubo producevasi «in palustribus populetis» (XIV,6). L’ AGRICOLTURA ROMANA. 143 ®) «Non enim eadem omnia in eodem agro recte pos- sunt. Nam ut alius est ad vitem appositus, alius ad fru- mentum; sic de ceteris alius ad aliam rem » (Varr., I, 7). « Alia enim loca apposita sunt ad fenum, alia ad fru- mentum, alia ad vinum, alia ad oleum» (In., I, 23 ; vedi pure I, 7). E Vera., Georg., II, 109: « Nec vero terre ferre omnes omnia possunt.» Ed altrove: « Hic segetes, hic ve- niunt felicius uve. » @2) « Vendiderim vindemias certatim negotiatoribus emen- tibus » (VIII, Epist. 2). 3 StRas., V; Prin., XIV, 21. (®) « Vinum celerius fumo maturescit » (Conum., I, 6). PLINIO però riteneva insalubre il vino maturato coll’ ajuto del fumo (XXIII, 1). L’inventore del sistema di chiudere il vino in anfore, d’impeciarle e di metterle al fumo fu il console Opimio, l’ avversario di Cajo Gracco (Prin., XIV, 4). ) Dioscor., VII, dice che fra i vini italici si distingue- vano il Falerno, il Sorrento, il Cecubo, il Signino e varii altri della Campania ; quindi il Pretuziano dell’ Adriatico e il Mamertino di Sicilia. PLiNIio, XIV, 6, dice che Augusto preferiva a tutti il Satino e così i Cesari suoi successori ; che il Falerno teneva il secondo posto, e che il terzo era riservato ai dolcissimi vini di Albano. E CoLumELLA pro- clama principi dei vini i Massici, i Sorrento, gli Albani ed il Cecubo (III, 9). Quanto ai vini etruschi, vedi il titolo I, ed ai vini siculi il titolo II (29 «Olea prima omnium arborum » (V, 8). (© « Principatum in hoc quoque bono obtinuit Italia toto orbe» (XV, 3). Mievargz Lor. @9 « Transalpinas gentes oleam et vitem serere non si- nimus, quo pluris sint nostra oliveta nostraeque vinea » (Cicer., De Rep., III, 9). Sotto l'Impero il divieto fu revo- cato, « Gallis omnibus et Hispaniis ac Britanniis hine per- 144 L’ AGRICOLTURA ROMANA. misit ut vites haberent vinumque conficerent » (Voprse. in ProB., XVIII; vedi pure EurRrop., Hist. rom., XVII; AUuREL. Viot., De Casar., XXXVII, 2). (30) Cicer., pro Font., III (3) Prin., XIX. (2) « Rosea agri Sabini arborum altitudinem quat» (Prin., XIX, 174). (33) «Itaque greges ovium longe abiguntur ex Appulia in Samnium cestivatim . ... Et muli e Rosea campestri estate in Gurgures altos montes » (II, 1). « Nam mihi gre- ges in Apulia hibernabant, qui in Reatinis montibus esti- vabant » (1. c.). © « Nec ulle pecudes agriculture sunt propri® nisi que agrum colere, quo cultior sit, adjuvare, ut ee que Junctae arare possunt.... diisjungamus igitur pastionem a cultura» (I, 2; vedi pure.I, 19). (8 Claudio Isidoro morendo si lamentava che le guerre civili non gli avessero lasciato di bestiame che 5600 paja di buoi e 25,000 capi tra pecore, capre e suini (Svet. in Ave., XVI; Prin, XXXIII, 10). Una tenuta aveva 2000 vac- che, 1000 cavalle, 10,000 pecore e 15,000 capre (Vopisc. in AureL., X). Un patrizio lasciò in eredità ad Augusto 200,057 pecore e 3600 buoi (Moreau DE JonNÈS). (8) Secondo VARRONE, tenevasi un toro per ogni 60 vac- che; taluno ne teneva 2 per 70; altri credevano che ba- stasse un toro per 100 e persino per 200 vacche (II, 5). 87 La maggior parte del formaggio era fatto col latte di vacca; poi veniva quello di pecora e finalmente quello di capra che era poco apprezzato, perchè troppo pesante (VarR., II, 11). CorumeLLa non parla nè del formaggio nè del latte di vacca, ma unicamente di quello di pecora. «Tum etiam casei lactisque abundantia non solum agre- stes saturat, sed etiam elegantium mensas jucundis et nu- merosis dapibus exhornat » (VII, 2). E PLinto, XXVIII, 123, 1’ AGRICOLTURA ROMANA. 145 parlando del burro, dice che era un cibo pregiatissimo presso i barbari, ma usato unicamente dai ricchi. Il burro s'incontra per la prima volta nell’ editto di Diocleziano del- l’anno 301, col quale si fissarono i prezzi dei commestibili. 9 Livio, Decad., I, 4, racconta che un corpo di Carta- ginesi portatosi nell’ Apulia a foraggiare, ne menò via un sì gran numero di puledri, che Annibale potè sceglierne 4000. (39) AcRONT., Comm. ad Orat., I, Sat. 6. (40 Pcin., Epist., II, 17. (%!) VARRONE sa per conoscenza propria che un asino di Rieti fu pagato 16,800 lire di moneta nostra, una quadriga d’ asini 112,000 lire, un asino stallone 95,200, un altro asino 11,200 e qualche altro asino stallone 120,000 lire (II, 1-8). E l'allevamento facevasi con poca spesa: « Ergo enim uno servulo, hordeo non multo, aqua domestica meos multi- nummos alo asinos» (III, 17). 4 CoLUMELLA dice che in addietro erano ritenute le migliori lane, dopo quelle di Mileto, le tarentine, le pu- gliesi e le calabresi: che però ai suoi tempi si stimavano di più quelle dell’ Italia superiore, e particolarmente quelle di Altino, dell’ Emilia e di Pollenzia (VII, 2). Marm., XIV, Epigr. 155, dà il primo posto alle pugliesi, il secondo alle parmensi ed il terzo alle altinati. StRaB., V, preferisce la lana delle pecore che pascolavano nell’ Emilia ; ritiene aspra quella della Liguria e della Lombardia, mediocre quella di Padova. (4 CoLum., VII, 94. (%) Cotum., l. c. #4) VarR., II, 4. 49 Varr., II, 3, narra di Gaberio, proprietario di 1000 jugeri nel suburbio, il quale avendo udito che un caprajo conduceva la mattina le sue dieci capre in città e ne rica- vava un denaro al giorno per ognuna, portò le sue capre BERTAGNOLLI. 10 146 L'AGRICOLTURA ROMANA. a 1000, sperando di cavarne 1000 denari al giorno. Ag- giunge però che fu tosto disingannato, perchè un’ epizoozia gliele levò tutte. 67 Cicer. ad AttIc., II, 15. (48) « Nam modo occurrentibus silvis via coarctatur, modo latissimis pratis diffunditur et patescit. Multi greges ovium, multaque ibi equorum boumque armenta, que montibus hyeme depulsa, herbis et tepore verno nitescunt » (II, Epist. 17). (9) « Relieta pertica postridie non appareret propter herbam » (VARR., I, 7). «Interamne in Umbria quater anno secantur prata» (PLin., XVII, 28). E PLINIO IL GIOVANE, parlando della valle del Tevere in Etruria, dice: « Prata florida et gemmea, trifolium aliasque herbas teneras sem- per molles et quasi novas alunt. Cuneta enim perennibus rivis nutriuntur > (V, Epist. 6 ad APOLL.). (50 « Alii (e tra questi Scrofa) dant primatum bonis pratis, ut ego quoque » (Varr., I, 7). Augusto istituì il Ou- rator aquarum, che provvedeva alle concessioni di deriva- zioni d’acque, per le quali pagavasi il vectigal ex aquedu- ctibus. Vedi Orat., Epist., I, 10. 6) CoLuMELLA parla con entusiasmo dell’ erba medica, perchè produce per dieci anni di seguito, dà quattro e sin sei prodotti all’anno, concima il terreno, ingrassa il be- stiame, lo guarisce, e perchè con un solo jugerò di terreno somministra abbondantemente il foraggio necessario per la nutrizione di tre cavalli (II, 11). (5 Il dotto Albuzio diceva a VAarRroNE, III, 2, che nella sua tenuta di Albano ricavava più dall'economia della villa che dalla coltivazione del terreno ; da questa 10,000 sesterzi, da quella più di 20,000. 59 «Itaque sub Urbe colere hortos late expedit, sic vio- laria ac rosaria » (VARR., I, 13). 54) Mart., IX, 61. I’ AGRICOLTURA ROMANA. 147 65 CoLum., X; PrIn., XIX; Maer., XIII, 19; SrRAB., V. 69 Mart., XIII, 21. 6) Corum., V e XII; Prin., XV; Marr. V, 79; XIII; Orat., Sat., II, 4. (58) Prin., XVII, 8. ©9 Sino a 100,000 e più sesterzi! (VARR., III, 7). so] (© «Cassio, dice VARR., I, 38, assegna il primo posto allo sterco dei volatili, tcltone quello delle anitre e delle oche, e preferisce quello dei piccioni, perchè ha molto calore e fa fermentare la terra. Ma io penso che sia migliore lo sterco dei tordi e dei merli, che si presta non solo a con- cimare i campi, ma eziandio ad ingrassare i buoi ed i majali. E perciò ai fittajuoli, che allevano uccelli, si fa pagar meno di affitto, se si obbligano d’impiegarne lo sterco sul podere. Cassio assegna il secondo posto allo sterco dell’ uomo ; il terzo allo sterco delle capre, delle pecore e degli asini. È poco buono per i campi di grano, ma ottimo per i prati, come quello di tutti gli animali che si cibano di orzo, lo sterco di cavallo, perchè produce molta erba.» Così su per giù anche CoLuw., I, 15, il quale però aggiunge: « deterri- mum suillum;> pessimo queilo dei majali. Era molto pre- giata per la concimazione anche l’orina. Sotto l’ Impero i pubblici orinatoi erano dati in appalto (Sver. in Vespas.). 6) «Tam innoxii saltus, tam opaca nemora, tam muni- fica silvarum genera» (III, 5). (62) Prin., II, Epist. 17. (63) VaRR., I, 17, dice: «La terra si coltiva o cogli schiavi, o cogli operai liberi, o cogli uni e cogli altri insieme. Gli operai liberi la coltivano per proprio conto insieme ai figli, come taluni poverelli, o lavorano a mercede ai tempi della mietitura e della vendemmia. Conviene lavorare le terre malsane cogli operai liberi anzichè cogli schiavi, ed affidare ai medesimi i lavori più pesanti anche nelle terre salubri. » 148 L' AGRICOLTURA ROMANA. (54) «Que (loca) gravitate coli solique sterilitate va- stantur » (I, 7). CE GonuM., l.sc. (66) « At hoc magnam fidem, acres oculos, numerosas manus poscit; erperiendum tamen, et, quasi in veteri morbo, quelibet mutationis auxilia tentanda sunt» (IX, Epist. 37 ad PAULIN.). (7 Silla distribuì fra i suoi veterani 500,000 jugeri. Nel secondo triumvirato si ripartirono fra i soldati i territori di diciotto fiorenti città, fra i quali quello di Cremona (Ap- PIAN., IV, 3). © PrInIo, ad esempio, non aveva schiavi nelle sue te- nute sul lago di Como; non ne usavano neppure gli altri proprietari di quelle località. « Nam ne ipse usquam vine- tos habeo nec ibi quisquam » (Epist., III, 19). (9 Si ventilò in questo periodo anche la introduzione del credito fondiario. Mecenate suggeriva ad Augusto di vendere i terreni pubblici e d’ istituire col ricavato una banca che somministrasse ai proprietari, verso un modico interesse e sotto certe garanzie, i fondi necessari per il mi- glioramento dei terreni (Dron. Cass., LII, 29). (7) « Nec nisi prima velit de Tusco serica vico » (MaRt., KISTIS2A: (7) SrraB., XVI; PLin., LXVI. (©) « Bruttia, quae vestem et vinum mittit » (Tot. Orb. descript. in MiL1eR, II, 254). (73) Notit. dign. oce., X. (74) Op. cit. (75) Prin., XXXII e XXXVI. (79 «Procurator linificii Ravennatium» (Not. dign. 0cc., X). (7 « Procurator gynecei Aquilejensis, Mediolanensis » (Op. cit.). VONOp; cit, «VI, I° AGRICOLTURA ROMANA. 149 79) BriimneR, Die gewerbliche Thdtigkeit der Volker des klassischen Alterthums, 103. (80) Prin., XXXIV. CenrMianm.,, XIV, 152; (83) SrRAB., V. 5 I panni di Modena sono nominati ripetutamente nel- l’ Editto di Diocleziano, cap. XVI, 46, 47, 56, 71, 72 e 73. $* «Per maria, terras ultro, citro portantur » (PLIN., XXXV). (85) Dion., V. IV. L'AGRICOLTURA ITALIANA SOTTO I BARBARI. Col dissennato trasporto della capitale a Bizanzio emigrarono da Roma, insieme alla Corte, il Senato, le alte cariche dello Stato e i più ricchi ed indu- striosi cittadini; presero un’altra direzione i pro- dotti delle imposte e dei tributi delle provincie, e si trasferì sul Bosforo il centro degli affari e della vita pubblica dell’ Impero. Da quel momento Roma cessò di essere il centro di consumo dei prodotti industriali dell’ agricoltura suburbana. Essa conservò ancora una ragguardevole potenza di assorbimento di cereali, carni, vini, olii, per la cui produzione non v’ era mestieri di un’ agricoltura così fina, così ricercata e così specu- latrice, come era quella del Lazio e delle provincie su- burbane; ma bastava, anzi era richiesta, un'agricoltura semplice, economa, laboriosa. L’ agricoltura romana non rispondeva più alle esigenze ed alle forze del mercato. Sarebbe forse stato un cambiamento felice, se si fosse ritornati suppergiù all’ agricoltura di Catone, ch'è quanto dire alla coltivazione della vite e del- l’olivo con una buona pastorizia. I grani della Sardegna, L’ AGRICOLTURA ITALIANA SOTTO I BARBARI. 151 della Sicilia e dell’ Africa, e le distribuzioni gra- tuite alla plebe impedivano ancora di fare una grani- coltura rimuneratrice. Ma l'insieme delle circostanze non era favorevole ad un cambiamento di questa natura. Come abbiamo veduto, il Lazio e le regioni vicine dividevansi in vastissime tenute pastorali ed in ville con orti, parchi, piscine. Non era men difficile di con- vertire in vigne ed oliveti i terreni delle ville, che di ridurre alle colture medesime le immense tenute pa- storali. A quest’ uopo sarebbe occorsa un’ economia gio- vane, intraprendente e robusta; e 1 economia pubblica dei Romani era fiacca, invecchiata e già molto innanzi sulla strada della decadenza. Sarebbe occorsa altresì una numerosa popolazione campestre, o libera o schiava; ma della prima si eran perdute nel Lazio persino le traccie, e la seconda era andata rapidamente diminuendo. L’ Impero, arri- vato al Reno, al Danubio, all’ Eufrate, avea fatto alto dinanzi a quelie poderose fiumane, ed avendo cessato di espandersi, oppresso dalla propria mole, si era ri- volto su sè stesso, ritirandosi lentamente innanzi alle popolazioni barbariche che si sospingevano da una parte verso 1’ Asia Minore e dall’ altra verso Roma. E con ciò si erano chiuse quelle fonti, che in passato avevano somministrato all’agricoltura romana una mol- titudine infinita di schiavi. A poco a poco si era fatta così grande la penuria dei lavoratori, che si dovettero assegnare dei terreni a guisa di proprietà a popola- zioni barbare. Ma non bastando neppur questo ri- 152 L'AGRICOLTURA ITALIANA SOTTO I BARBARI. piego ad assicurare la coltivazione delle terre, Co- stantino ricorse ad un’ arma o nuova o già irrugginita e caduta in disuso, vogliamo dire alla servitù della gleba, vietando che gli operai agricoli potessero ab- bandonare le tenute sulle quali lavoravano, e che i proprietari potessero vendere gli operai e i terreni se non insieme. * Lo spopolamento delle campagne era così grande, che Onorio dovette condonare una buona parte delle imposte ai proprietari della felice Campania, della Toscana, del Piceno, del Sannio; del- Apulia, della Calabria, degli Abruzzi e della Lucania.!® A ciò si aggiunga che era stata estesa ai terreni italici l'imposta fondiaria, che prima corrispondevasi venicamente dalle provincie non italiane e che era tanto grave da dare motivo a Teodosio di comminare la pena capitale a chi, per sottrarsi al pagamento della medesima, tagliasse, sacrilega falce, le viti e le piante.® I proprietari, posti nell’ impossibilità di conservare l'agricoltura industriale del periodo passato, impotenti a surrogarla con un’ altra più semplice, ma per il mo- mento più rimuneratrice, lasciarono correre le cose per la loro china. Sopraggiunsero in questo le prime irruzioni barbariche, le quali mandarono sossopra quanto era ancora rimasto dell’ agricoltura laziale. E la campagna di Roma, toltine gli orti che circonda- vano la città,’ fu ridotta presso a poco nelle condi- zioni, nelle quali si trova al presente. Risentirono minori danni dal trasporto della ca- * Vedi le Note a pag. 165. L'AGRICOLTURA ITALIANA SOTTO I BARBARI. 153 pitale le provincie settentrionali, che e per non es- sere sprovvedute di lavoratori, e per avere nel proprio seno taluni centri industriali e popolosi, come a ca- gion d’ esempio Milano, Verona, Padova, Aquileja ed altri, poterono conservare più a lungo la propria agri- coltura; e le provincie meridionali colla Sicilia, che continuarono a mandare granaglie e bestiami a Roma, e d’ allora in poi avevano preso a mandarne anche alla nuova capitale Bizanzio. Ma non tardò lungamente a spopolarsi anche l’Ita- lia superiore, così per le guerre continue che si eb- bero a sostenere colle popolazioni barbariche, stabi- litesi minacciose sui confini della penisola, come per la gravezza dei tributi e per la fiscalità della loro esazione, che spingevano gli abitanti ad emigrare. Noi non crediamo che la rovina dell’ agricoltura italiana sia attribuibile al ferro ed al fuoco dei bar- bari. Non mancarono le devastazioni, principalmente attorno a Roma, presso altri grandi centri e lungo le maggiori arterie di comunicazione, per le quali transitavano gli eserciti barbarici;© ma erano fatti localizzati che, oltre a non essere estesi a tutta la penisola, per sè stessi non potevano soffocare perma- nentemente le forze produttive delle campagne. I barbari hanno distrutto e seppellito una civiltà, sostituendovi una vita, sotto ogni rapporto e quindi anche nei rapporti economici ed agricoli, rozza, povera e primitiva, ed hanno ridotto 1’ agricoltura italiana suppergiù alle condizioni, nelle quali versava nel Lazio nei primi secoli della Repubblica. E questa trasforma- zione potè compiersi facilmente, sia perchè il paese 154 L'AGRICOLTURA ITALIANA SOTTO I BARBARI. era spopolato e deserto, sia perchè essì costituivano in ogni modo la classe dominante, alla quale sogliono uniformarsi le altre classi della popolazione. L’ Italia nell'epoca barbarica presentava uno spet- tacolo non molto consolante. In quelle regioni della grande valle padana, che erano state prosciugate e rese fertilissime dall'arte e dalle ricchezze degli Etru- schi, le acque avevano ripreso le antiche posizioni. Tra le molte centmaja di documenti del primo periodo del medio evo, che ci sono capitati per mano, presso che nessuno, riferendosi a poderi, omette di accennare alle paludi che in essi trovavansi. E ciò non solo nella valle padana, ma in pressochè tutta l’ Italia su- periore e centrale.! E persino nei contratti agrari ‘ e negli statuti municipali del medio evo inoltrato s°in- contrano frequenti disposizioni relativamente all’ ob- bligo di prosciugare le paludi. Ciò che si è detto per le paludi, vale anche per i boschi. Questi pure crebbero fuor di misura al piano ed al colle, testimoni dell’ assenza della popolazione coltivatrice. Si ha memoria di boschi vastissimi, dei quali ora si è perduta ogni traccia, delle rive dei fiumi ovunque coperte di boschi‘ e dell’ esistenza di terreni boscosi in pressochè tutte le tenute. Un altro tratto caratteristico dell’ epoca barbara è l’ estensione dei pascoli, prodotta anche questa così dallo spopolamento del paese, come dalla rozzezza dei nuovi padroni, per i quali era naturalmente più fa- cile spingere al pascolo una mandra od un gregge che potare la vite e coltivare 1’ olivo. E da qui più che dai terreni pubblici dei Romani, i quali negli ul- L'AGRICOLTURA ITALIANA SOTTO I BARBARI. 155 timi secoli della Repubblica e sotto 1’ Impero erano stati sottoposti ad un’ accurata coltivazione, ebbero origine quelle vaste estensioni pascolive, che, sotto il nome di comunaglie, di demani od altro, ebbero una parte così importante nel medio evo ed anche nei secoli successivi sino a noi; da qui eziandio quelle numerose servitù di pascolo sui fondi dei privati, che prepararono ai proprietari tanti fastidi e che non sono state ancora per intiero soppresse. Le paludi, i boschi ed i pascoli predominavano grandemente in tutte le tenute, delle quali soltanto una piccola porzione era coltivata. I proprietari ed i contadini coltivavano i terreni necessari per il loro mantenimento ; gli altri lasciavano incolti, perchè nel- l’ assenza d’ ogni commercio i prodotti avrebbero tro- vato difficilmente uno sbocco. Erano però meno de- serti i terreni vicini al mare.l? Prima gli Eruli e poi i Goti imposero ai vinti Ita- liani la cessione di un terzo dei terreni. S'ignora se la ripartizione sia stata fatta sotto gli Eruli, che del resto mantennero solo per pochi anni la signoria del paese. Pare che almeno un progetto di divisione sia stato fatto, imperocchè Procopio ©” dice che i Goti si presero le terre assegnate ai soldati di Odoacre. Ma è certo che essa fu fatta, o eseguita, o completata dai Goti. © Naturalmente la ripartizione non fu estesa a tutto il paese, ma si limitò a quei centri, nei quali si era stabilita la popolazione conquistatrice. In talune regioni la terra fu lasciata agli antichi proprietari, ma fu imposto loro il tributo di un terzo del prodotto a favore dell’ erario (fributum tertiarum; tertiatores). 156 L'AGRICOLTURA ITALIANA SOTTO I BARBARI. E in qualche località questo tributo fu convertito in una contribuzione fissa. Così, ad esempio, nel territorio di Trento; poichè altrimenti non si saprebbe spie- gare la lettera di Teodorico ai Trentini, colla quale fa conoscere che, avendo esentato dalla contribuzione il prete Butiliano, egli non intende che questa esen- zione ricada a danno degli altri proprietari; onde concede loro di detrarre dalla complessiva contribu- zione la quota che avrebbe dovuto corrispondere il prete. I Longobardi, più rozzi e battaglieri dei prede- cessori, e più ignoranti nelle cose dell’agricoltura, non pretesero da prima alcuna parte delle terre, ed este- sero a tutti i luoghi conquistati il tributo del terzo dei prodotti; ma stabilitisi fermamente nel paese, agognarono anch’ essi la proprietà fondiaria, uccisero o bandirono molti tra i più ricchi proprietari per dividersene i beni,” e finalmente sotto re Autari convertirono il tributo del terzo dei prodotti, non però generalmente, nella cessione di una parte dei terreni.! Parrebbe, e molti lo notarono, che questa ripar- tizione delle terre avesse dovuto metter sossopra il paese. Noi riteniamo questa opinione grandemente esa- gerata. Una gran parte delle terre era priva di col- tivatori ed abbandonata al pascolo, e con questa vera da accontentare ben più che le scarse popolazioni barbariche penetrate in Italia. Eunodio, diacono e poi vescovo di Pavia, che fu testimonio delle operazioni di ripartizione, dice espressamente che i proprietari non ebbero a risentirne alcun pregiudizio. La più L'AGRICOLTURA ITALIANA SOTTO I BARBARI. 157 volgare prudenza militare e le abitudini dei barbari mettono fuor di dubbio che essi da principio si sono raggruppati in pochi centri, onde, come si disse, la ripartizione fu limitata a poche regioni. Questa ripartizione, del resto, non può aver esercitato sul- l agricoltura un’ influenza malefica; forse anzi le fu vantaggiosa, poichè alla terra si diede, se non sempre un coltivatore, almeno un proprietario. In ogni modo era infinitamente più gravoso il tributo del terzo, poichè alla fine dei conti il proprietario non solo ve- niva a ‘cedere un terzo del terreno, ma eziandio do- veva lavorarlo a beneficio esclusivo dei vincitori.” Da quanto si è detto di sopra, può desumersi age- volmente che dominava la grande proprietà. Negli ultimi tempi della Repubblica e sotto l'Impero essa era la conseguenza della sovrabbondanza dei capitali : nell’ epoca barbarica, il prodotto della povertà gene- rale e dello spopolamento. I proprietari erano pochi, ma siccome erano pochi anche i coltivatori e parti- colarmente pochi i bisogni e nullo il commercio, non si coltivava che il terreno strettamente necessario al mantenimento della famiglia del proprietario e di quella del coltivatore; onde predominava la piccola coltura. Dai documenti di quei tempi si desume che, mentre le donazioni, investiture, ec., di terreni abbrac- ciavano. vastissime tenute, con monti, valli e pianure, le concessioni di terreno a coltura erano d’ ordinario piccolissimi appezzamenti." Il sistema di coltivazione per economia mediante la famiglia rustica di schiavi, che predominava ai tempi della Repubblica e sotto l Impero, era scom- 158 L’AGRICOLTURA ITALIANA SOTTO I BARBARI. parso pressochè intieramente. Il proprietario non trovava tornaconto nella coltivazione diretta, che esi- geva la cura e l'intervento continuo di esso e dei suoi capitali. Ora questi erano consumati e i prodotti non trovavano compratori. Per ciò i proprietari, ri- servatasi una porzione di terreno che facevano lavo- rare o per mezzo degli schiavi o colle opere servili (angherie, comandate), ripartirono il resto tra i coloni o schiavi o servi della gleba, e ne esigevano in cor- respettivo un tributo fisso in natura, un determinato numero di opere, ò più raramente una quota del prodotto. S° incomincia già in quest’ epoca ad incon- trare l’ enfiteusi; ma questo contratto non si genera- lizzò che nei secoli successivi. L’abbondanza dei terreni abbandonati e dei ter- reni comuni lasciati a pascolo ha dato motivo alla formazione di un rapporto contrattuale per 1’ alleva- mento del bestiame, che si è conservato anche nelle epoche successive. È questo il contratto di soccio 0 di soccida. Era lecito e possibile a tutti, anche a coloro che non possedevano terreni, di allevare bestia- me. Ora coloro che avevano altre occupazioni, lo affi- davano ad un pastore e ne dividevano con lui i pro- dotti. Più tardi questo diritto dei proletari di tener bestiame fu assoggettato a restrizioni, e in qualche luogo il contratto di soccida fu surrogato colla istitu- zione del pastore o porcajo comune, il quale, nominato dai padri di famiglia, conduceva al pascolo il hestia- me di tutti e ne otteneva un compenso in ragione del numero dei capi.” Fra conforme alla rozzezza dei tempi, alle con- L'AGRICOLTURA ITALIANA SOTTO I BARBARI. 159 dizioni fisiche del suolo ed ai bisogni dei nuovi ve- nuti, abituati a cibarsi principalmente di carne di majale, che si allargasse su larga scala l'allevamento dei suini. Ed infatti così durante l’ epoca barbarica, come nei secoli immediatamente successivi, l’alleva- mento suino raggiunse una notevole importanza. Decadde invece grandemente l’allevamento delle pe- core, non perchè fossero diminuite numericamente, chè anzi, tenuto conto della estensione sterminata dei ter- reni lasciati a pascolo, si è condotti piuttosto a ritenere che fossero aumentate; ma per i rozzi sistemi di al- levamento, e per il peggioramento delle razze. Le fa- mose lane italiane scomparvero. Per tutto il medio evo la tessitura italiana, che era fiorentissima in quasi tutte le città, particolarmente nella parte centrale e superiore del paese, dovette importare le lane fini dalla Francia, dall’ Inghilterra e dalla Germania. E quando questi paesi presero a tesserla direttamente, i lanifici italiani o si chiusero, 0 si accontentarono di una posizione secondaria sul mercato dei panni. L’allevamento dei bovini sì ridusse a piccole pro- porzioni, sia perchè ne era naturalmente minore il bisogno per la lavorazione delle terre, sia perchè ne era troppo difficile e dispendioso l'allevamento, sia in fine perchè la popolazione era troppo povera per utilizzarne la carne come nutrimento. Nondimeno pare che sotto i barbari sia avvenuto un fatto importante rispetto all’ allevamento bovino, in quanto che è at- tribuita ad essi 1° introduzione in Italia della razza podolica, che è anche ai giorni nostri la predominante. È pure attribuita ai barbari 1’ introduzione di 160 L'AGRICOLTURA ITALIANA SOTTO I BARBARI. nuove razze di cavalli. Narrasi che Aiboino, conqui- stato il Friuli e datone il governo al nipote Gilulfo, abbia lasciato a quest’ ultimo una buona razza di cavalli, dalla quale verosimilmente deriva l’attuale razza friulana. Il fatto agricolo più importante dell’ epoca bar- barica fu la quasi completa cessazione della coltura del frumento nell’ Italia superiore e centrale, e la sua surrogazione coi cereali inferiori, segale, spelta, panico, miglio ed orzo. La terra, non più ammini- strata dal proprietario, era abbandonata alla balfa di rozzi coltivatori, non abbastanza ricchi per la colti- vazione del frumento. Ciò che si voleva, era una si- curezza contro le carestie ; non si curavano la bontà e la finezza del prodotto, ma unicamente la quantità, la sicurezza e la facilità della produzione. Mentre sotto i Romani gli eserciti si nutrivano di frumento, sotto i Goti i magazzini militari di Pavia e di Tor- tona erano pieni di panico.’ Nei documenti di quel- l'epoca non si parla quasi mai che dei cereali in- feriori, i quali mantennero il predominio sin ben addentro nel medio evo. In taluni documenti. d’ af- fitto del secolo XIII si impone ai coltivatori di ab- bandonarli per il frumento. Un non minore regresso che nella granicoltura s'era fatto nella coltivazione della vite e dell’ olivo. Si erano perduti intieramente quei numerosi e famosi tipi di vini, che abbiamo enumerato nel capi- tolo precedente. La nuova popolazione voleva bibite forti e robuste ; non ne curava il sapore. Nell’ uni- versale rovina si erano salvati i vini veronesi, bian- L'AGRICOLTURA ITALIANA SOTTO I BARBARI. 161 chi e rossi, e taluni vini calabresi che sono nominati con onore da Cassiodoro.“ All’ uso dell’ olio si era sostituito in piccola parte quello del burro, che fu importato dalle popolazioni settentrionali, e più comunemente quello del lardo e del grasso di majale. L’ Italia meridionale e la Sicilia risentirono dalla caduta dell’ Impero conseguenze incomparabilmente meno gravi, meno radicali e meno durature che l’ Italia settentrionale e centrale. I barbari ebbero transitoriamente il dominio anche di quelle parti d’ Italia, ma non si confusero, tranne che nel Bene- ventano e in una parte degli Abruzzi, con quelle po- polazioni; onde non vi fu interruzione di civiltà, e l'agricoltura, comunque danneggiata dallo spopola- mento del paese, conservò, poco su poco giù, quell’ in- dirizzo che aveva adottato sotto i Romani. Una prova pressochè irrefutabile delle buone condizioni del- l’ agricoltura nella bassa Italia di quei tempi ci è somministrata dalla consuetudine generale dei pro- prietari di abitare stabilmente nelle proprie terre. Atalarico, preoccupato dell’avvenire riservato alle città, ove i ricchi proprietari avessero persistito a tener- sene lontani, ordinò che almeno per una parte del- l’anno abitassero entro le mura cittadine. Nel- l’ editto medesimo egli descrive presso a poco così l’ agricoltura delle Calabrie del sesto secolo di Roma: « Sono abbondantissime di grano e ricche di olive. I piani abbondano di fertili pascoli e di viti. È nu- merosissimo il bestiame d’ ogni specie e particolar- mente 1’ equino. Le selve sono densissime e i monti BERTAGNOLLI. 44 162 IL’AGRICOLTURA ITALIANA SOTTO I BARBARI. forniscono in larga copia purissimi rivi. » Aggiunge che i luoghi delle spiagge avevano una marina mer- cantile numerosa ed un vivace commercio, e finisce affermando che tutta la popolazione viveva nell’ ab- bondanza.®" Altra prova l’ abbiamo nel provvedimento, col quale il governo dei Goti potè convertire in de- naro i tributi dei Lucani e dei Bruzi, che prima corri- spondevansi in buoi e majali, dei quali abbondavano quelli opulenti paesi. Cassiodoro descrive con vivaci colori la felicità del contado di Reggio, poco atto alla granicoltura ed alla pastorizia, ma ricchissimo di viti, di olivi, di orti e di acque irrigue (XII, 14). Al contado di Squillace attribuisce grande abbondanza di granaglie, d’ olio e di vino (XII, 15), e loda il vino dei Bruzi ed il cacio della Sila (XII, 12). Quanto alia Sicilia basterà ricordare la risposta data nel 546 da Totila ad un’ ambasceria dei Ro- mani: ch’ egli non poteva perdonare ai Siciliani, per- chè avendo Teodorico, a preghiera dei cittadini di Roma, lasciata senza presidio l'Isola, loro granajo, la medesima si era data ai Greci, e aveva sommini- strato alla città tanti grani da metterla in grado di resistere per oltre un anno a Vitige, che la stringeva d’ ogni intorno.!’ L° agricoltura sicula non s’ era mu- tata ; la Sicilia continuava ad essere, come lo era nei secoli passati, la nutrice di Roma. Sotto i Goti una lunga pace e 1’ amministrazione illuminata di Teodorico fecero alquanto risorgere la coltivazione delle terre.®' I Goti non erano un eser- cito come gli Eruli e i Rugi; erano una nazione che colla sua unione agli antichi abitanti rinsanguò ed L'AGRICOLTURA ITALIANA SOTTO I BARBARI. 163 accrebbe notevolmente la popolazione della penisola, così nelle città come nelle campagne. Da qui la pos- sibilità e la necessità di riprendere e di allargare il lavoro della terra. Eunodio scriveva a Liberio, pre- fetto del Pretorio, che 1’ Italia, mentre prima si pa- sceva con enormi spese a carico dell’ erario, ora si era posta in grado di pagare tributi.’ Nè ciò solo; ma, come consta da taluni provvedimenti di Teodorico, ì Italia poteva esportar granaglie dalla Toscana, dalla Campania, dalla Lucania e dalla Sicilia per la Gallia, ®9 Sotto Teodorico due ricchi patrizi, Spe e Domizio, ottennero la proprietà, libera da ogni imposta, di vaste paludi in territorio di Spoleto, a patto che le prosciugassero. Un altro patrizio, Decio, ebbe in concessione il prosciugamento di una parte delle pa- ludi Pontine.” Da questi fatti si può inferire che 1’ Italia, se- guendo 1 energico impulso dei Principi goti, si era messa sulla via della sua economica ricostituzione. Ma sopraggiunsero le guerre devastatrici coll’ Impero d’ Oriente, che finirono colla distruzione di buona parte della popolazione gota; e successivamente la im- migrazione dei Longobardi, popolazione selvaggia e sanguinaria, che soffocò quel poco che era rimasto dell’ antica civiltà, e distrusse quel po’ di bene che si era fatto sotto la dominazione precedente. Le cam- pagne si spopolarono nuovamente, e la terra rimase incolta, o si destinò ai pascoli dei greggi e delle mandre, che i Longobardi avevano recato seco dalle steppe e dalla Pannonia. Nell’ Italia meridionale si consolidò il dominio bi- 164 L'AGRICOLTURA ITALIANA SOTTO I BARBARI. zantino, che colla gravità dei tributi e colle sistema- tiche spogliazioni meritò di essere chiamato il flagello di Dio; ©” e comunque non facesse indietreggiare l’ agricoltura, come fecero i barbari nell’ Italia supe- riore e centrale, la danneggiò gravemente, e la ri- dusse a mal partito, trannechè su alcuni punti della costa, nei quali era sostenuta da un vivo commercio colla Grecia e con Costantinopoli. La Sicilia, rimasta politicamente sotto il dominio bizantino, economicamente venne in balia del clero. La massima parte della terra si era fatta patrimonio delle Chiese. Basti dire che un solo privato in una sola volta donò all’ Ordine di San Benedetto più di 50,000 moggia di terra, oltre a settemila servi atti al lavoro, non compresi le donne e i fanciulli, ed oltre alle chiese, alle ville, alle selve ed alle acque, spet- tanti alle terre medesime." Il patrimonio della Chiesa di Roma rendeva tre talenti e mezzo d’ oro all’ anno.!° Nè erano poco ragguardevoli i beni che possedevano nell’ Isola le Chiese di Ravenna e di Milano.“ Il reddito del patrimonio della Chiesa romana si convertiva in frumento, che imbarcavasi nel settem- bre d’ ogni anno alla volta di Roma.“ I Papi avevano ereditato dai Cesari l’ obbligo di mantenere la plebe della loro residenza. I beni della Chiesa erano dati in enfiteusi od af- fitto. Essa teneva però in economia delle vaste tenute pastorali, sulle quali allevava per proprio conto grosse mandre di bestiame bovino e cavallino. San Gregorio papa nell’anno 591 ordinava a Pietro. suddiacono di Sicilia, di vendere tutte le cavalle, meno quattrocento L'AGRICOLTURA ITALIANA SOTTO I BARBARI. 165 delle più giovani, e di dare una di queste ultime per ciascuno ai fittajuoli della Chiesa. L'allevamento cavallino, come assicurava Grego- rio, non era rimuneratore. NOTE. #"F._112, D., De Leg., I; e L. 3, C. Th., De Censu. @ C. Th., IX, 28, L. 2: «Ex omni prestationis modo, quem antiqua solemnitas detinebat, quatuor partes jube- mus auferri.> Vedi anche I. c., L. 12. (9 C. Th., XIII, 11, De Censit. 4% Cassrop., III, Epist. 31 e 53. 5) L’ Etruria era già spopolata e deserta sotto Aure- liano. Squallide ed incolte l’' Etruria e l’ Emilia nell’anno 496 (GeLASIO in Baron., Annal. eecles., anno 496). Verso la fine del regno di Teodosio, quella parte di paese che è tra Mi- lano e Bologna, un dì così grassa e così fertile, era abban- donata e spopolata (Amkrog., De 0ff., II, 16). Il vescovo SaLvIano, descrivendo le tristi condizioni dell’ impero verso la metà del secolo V, dice che i proprietari emigravano trai barbari per sottrarsi alle violenze degli esattori: « Ad hostes fugiunt ut vim exactionis evadant» (De vero judi- cio et prov. Dei, V). Anche nella Novell. Majoriani, I, De Curial., si legge che la gravità dei tributi e il modo brù- tale della loro esazione erano tali, « ut multi patrias dese- rentes, natalium splendore neglecto, occultas latebras et habitationem eligerent juris alieni.» Maggioriano dovette condonare alle provincie i tributi arretrati: « Fessas pro- vincialium varia atque moltiplici tributorum esactione for- tunas et extraordinariis fiscalium solutionum oneribus ad- tritas » (Novell. Major., IV, De ind. reliq.). 166 L'AGRICOLTURA ITALIANA SOTTO 1 BARBARI. (© GIORNANDO, arcivescovo di Ravenna, che scrisse nel secolo VI De Gothorum orig., narrando al cap. 30 il ritorno dell’ esercito visigoto dalle Calabrie, dice: « Si quid primum remanserat, more locustarum erasit » (MuratORI, Rer. ital. seript.,1; vedi anche Grov. Dracono, Hist. Miscell., XII, 91, in MuRAT., l. c.). © Murar., Ant. It. M. 4,1II, Dissert. XXI, 154, 164, 172, 176; VeRcI, Storia della Marca trivigiana, I, 4 (Docu- menti). (6) Negli Statuti di Modena, ad esempio, Rubr. 369, era disposto che ogni Comune desse mallevaria di aprire ogni anno un canale di prosciugamento per tutta la larghezza del suo territorio, colla direzione dai piedi dell’ Apennino verso il fiume Po. Il lavoro si eseguiva col sistema delle comandate o angherie. Era lecito sottrarsi al lavoro col pagamento di una tassa corrispondente. I Modenesi che possedevano delle terre nei Comuni del contado, ma che te- nevano il domicilio nella città, contribuivano soltanto per la metà della quota di lavoro o della tassa che sarebbe loro toccata in ragione dell’ estensione delle loro tenute. ® Vedi esempi di grandi boschi in pianura nel contado di Benevento, di Reggio Emilia, di Modena (Murat., op. cit., 150), di Pavia, Bologna, Parma (164, 172), di Ferrara (176). in provincia di Verona era la immanis silva Noga- riensis (180). Nel 752 re Astolfo donò al vescovo Lopecino di Modena la tenuta di Zena (presso Castelfranco Bolo- gnese) con una selva di 500 jugeri, della quale nei secoli successivi non si era conservata alcuna traccia (Murat., op. CIù.; (152). (©) Sip. ApoL1., L. I, 5, scrive di aver veduto « ulvo- sum Lambrum, cerulum Adduam, velocem Athesim, pigrum Mincium, etc., quorum ripe torique passim quernis acernis- que nemoribus vestiebantur. » (i) In ogni strumento di donazione, o d’investitura di terre, leggesi: «cum aquis, silvis, paludibus, pratis, pa- L'AGRICOLTURA ITALIANA SOTTO I@BARBARI. 167 scuis, etc. » La intiera formula, che con qualche piccola va- riazione sì usava in tutti i documenti di tale specie, era la seguente: «Hrc omnia cum terris et vineis, campis, pratis, pascuis, silvis, salictis, sationalibus, arbustis, arbo- ribus fructiferis et infructiferis diversisque generibus seo paludibus et fossis, piscationibus, aucupationibus venatio- nibusque cum aquis, rivis, alpibus fontibusque, etc. » Vedi questa formula nei documenti pubblicati da MuRrat., op. cit.; FantUZzZI, Mon. Ravenn.; MARINI, Papiri diplomatici ; UcHELLI, Italia sacra, ec. Nel privilegio di re Astolfo del 753, col quale si accordavano al cenobio di Nonantola immense estensioni di terreno sul Modenese, Mantovano, Ferrarese e Bolognese, si discorre continuamente di selve, paludi ed acque (UcmeLtI, Italia sacra, II, 106 e seg.). (1° Murat., op. cit., 180. 03 Guerra gotica, I, 1. (!# Ciò apparisce colla maggiore evidenza da una let- tera di Teodorico al Senato romano. «Juvat nos referre (egli dice), quemadmodum in Tertiarum deputatione Go- thorum Romanorumque possessiones junxerit et animos. Nam cum se homines soleant de vicinitate collidere, istis prediorum comunio causam noscitur prostitisse concordia . . . + Ex parte agri defensor acquisitus est, ut substantia securitas integra servaretur. Necesse est enim ut inter eos (Romani e Goti) suavis crescat affectus, qui servant jugiter terminos constitutos » (Cassron., II, Epist. 16). (15) « Honoratis possessoribus, defensoribus et curialibus Tridentinae Civitatis Theod. Rex. » Munificentiam nostram nulli nolumus extare damno- sam; ne quod alteri tribuitur, alterius dispendiis applice- tur. Et ideo presenti auctoritate cognoscite, pro sorte, quam Butiliano presbytero nostra largitate contulimus, nul- lam debere fiscalis calculi funcetionem; sed in ea prestatione quanti se solidi comprehendunt, de Tertiarum illationibus vobis noveritis esse relevandos. Nec inferri a quoquam vo- 168 L'AGRICOLTURA ITALIANA SOTTO I BARBARI. ‘ lumus quod alteri nostra humanitate remisimus; ne, quod dictu nefas est, benemeriti manus innocentis contingat esse dispendium » (Cassron., Epist. 17). (19 « Per hospites divisi ut tertiam partem suarum fru- gum Langobardis persolverent » (PaoL. Drac., De gestis Langob., II, 32). (1 « Multos Romanorum viros potentes alios gladio extinxit, alios ab Italia exturbavit . ... His diebus multi nobilium Romanorum ob cupiditatem interfecti sunt» (PAOL. Draco. II, 3106332). (9) « Populi autem aggravati per Langobardos hospitia partiuntur> (Paon. Drac., III, 16). Questa notizia di PaoLO, riprodotta con delle varianti, è stata commentata in vario modo, ed ha dato luogo a dotti studi ed a molte pubbli- cazioni. Noi non entriamo nella disputa,.ma accettiamo quella versione che ci pare la più logica e naturale. Nel libro precedente PaoLo parla di una ripartizione degl’ Ita- liani tra i Longobardi per il pagamento di un terzo dei prodotti. In questo parla di una nuova ripartizione, di un cambiamento di sistema, che logicamente non può interpre- tarsi che come un ritorno alle consuetudini dei popoli ger- manici d’ incamerare, a beneficio dei vincitori, una parte dei terreni dei vinti. Si può disputare sull’entità della quota che i Longobardi si sono attribuita; ma quanto al merito del fatto non pare che la nostra interpretazione sia controvertibile. Probabilmente i Longobardi avranno se- guito l’ esempio degli Eruli e dei Goti, e si saranno preso un terzo delle terre, come prima avevano preso un terzo dei prodotti. Ma ciò non risulta dalia narrazione del Dra- cono. Nelle consuetudini dei barbari, la quota del vincitore variava. I Germani di Ariovisto si presero un terzo delle terre dei Sequani (Cxs., De bello gall., I, 31). I Borgo- gnoni invece nella Gallia ed i Visigoti nella Spagna, due terzi (Lex Burgund., 54, 1; Legis Wisig., X, 8). Che la di- visione non sia stata generale, o che in alcuni luoghi i nuovi proprietari non siano entrati nel possesso effettivo L'AGRICOLTURA ITALIANA SOTTO I BARBARI. 169 delle terre, ma le abbiano lasciate agli antichi proprietari verso la terza parte del prodotto, apparisce manifestamente dal Capitolare di Siccardo di Benevento dell’ anno 836, dove dice che i l'erziatori devono corrispondere ai proprietari le angherie e l’ affitto secondo l’uso antico. Pare inoltre che nel Beneventano i Terziatori fossero soggetti anche personalmente ai proprietari longobardi, perchè nel Capi- tolare di Siccardo, n. 4, si legge il divieto di venderli e di mandarli oltremare (Vedi per tutto ciò PeREGR., Hist. Prine. Lang., III, 214 e seg.). (! «Quid quod illas innumeras Gothorum catervas, vix scientibus Romanis, larga prediorum»collatione dicasti: nihil enim amplius victores cupiunt et nulla senserunt damna su- perati >» (Eunop., IX, Epist. 23 a Liberio, prefetto del Pretorio). (0) Il tributo del terzo era così gravoso ed inviso ai Ca- taliensi, che Teodorico si trovò mosso a convertirlo in una somma fissa (Cassrop., I, 14). Pare che Totila lo abbia sop- presso intieramente (BALBO, Storia d’Italia sotto è barba- ri, 174). @®!) Petiole, vineole, curticelle, agellus, queste sono le espressioni che s’ incontrano nelle concessioni di terreno a coltura. 22) Si ritiene da molti che il sistema delle opere servili, comandate, angherie, fosse una consuetudine dei barbari non conosciuta in Italia prima dell’immigrazione. Noi non crediamo che sia così. Questo sistema sorge spontaneo in ogni paese, nel quale concorra l’ abbondanza del terreno col- tivabile colla scarsezza della mano d’ opera e del capitale. 23) Secondo le leggi di Rotari, « Servus massarius licen- tiam habebat de peculio suo, idest bovem, vacam, cabal- lum, etc., in socio dare » (Murat., Ant. It. M. 4E., I, 770). 24) Vedi lo Statuto di Cremella (Milano) in GruLINI, Sto- ria della città e campagna di Milano, VII, 580: lo Statuto della terra di Vigidolfo, gli Statuti di Padova, il LE di Montagnana, ec. 170 L'AGRICOLTURA ITALIANA SOTTO I BARBARI. ) Il majale, porci lardarii, porcastri amneculi, era una delle principali prestazioni degli enfiteuti e dei coloni. Nei documenti dei primi tempi si parla quasi sempre del lardo, nei successivi di preferenza del majale. La Chiesa di Ra- venna riceveva dai suoi coltivatori 3760 libbre di lardo al- l’anno (MarixI, Papiri diplomatici, doc. 137). (0 Paoc. DIse, JHL9D. @2 Cassion., XII, Epist. 27. (8) Hist. Patr. Mon., Liber jurium Reipubl. Genuensis, I, 700. (29) XII, Epist. 4 e 12. (80 « Redeant possessores et curiales Brettii ad civitates suas . ... Pcna interposita promittant anni parte ma- jore se in civitatibus manere, quos habitare delegerint. Sic fiat ut eis nec ornatus desit civium nec voluptas denegetur agrorum » (Cassion., VIII, Epist. 31). (31) CASSIOD., Op. cit. (32) Cassion., XI, Epist. 39. (33) BarBo, Storia d’ Italia sotto î barbari, 177. (64 «Longa quies et culturam agris prestitit et populos ampliavit » (Cassion., IX, Epist. 10). (35) IX, Epist. 23. (3) Cassion., III, Epist. 41; IV, Epist. 5, 35. (2 Cassron., II, Epist. 21, 32 e 33. (3 San Gregorio Magno scriveva: «Nunc . ... deso- lata praedia atque ab omni cultore destituta, in solitudine vacat terra; nullus hane possessor inhbabitat » (Dialog., III, 38). Ed altrove: « Depopulati agri, in solitudinem terra redacta est; nullus in agris incola» (Homil. in Ezech., VI). (39) AI seguito dei Longobardi penetrarono nell’ Italia anche i bufali. PaoL. Drac., IV, 11, scrive: « Tune primum caballi silvatici et bubali in Italiam delati Italie populis miracula fuerunt. » L'AGRICOLTURA ITALIANA SOTTO I BARBARI. 171 4 «In iisdem temporibus divina flagellatio totam Apu- liam atque Calabriam Costantinopolitano Imperatori non regnandas sed lacerandas relinquerat . . .. Erat enim tanta et tam miserabilis utriusque gentis oppressio, quod preter insopportabile onus servitii et infinitos reditus et tributa, quae cogerentur redere, etc.» (Hist. Sicul. in CAKUS., II, 830). 0%) Fu questi il patrizio Tertullo, il quale con atto dei 17 giugno 522, confermato da Giustiniano con rescritto dei 13 settembre 538, donò all’ Ordine di San Benedetto « omnes patrimonii mei curtes que esse videntur in Sicilia, cum servis septem millia, exceptis uxoribus eorum et filiis. In Messana modia terre 30 cum portu suo ; in Acio modia terre 20,000; juxta civitatem Uataniensem modia terra 5550; in Agrigento 300; juxta Syracusam 40; in Drepanis modia terra 4000; in aquis Sergestianis 900 ; in Sounto 30; in Thermis, 40; in Parthenico 800; in Jochara 600; juxta Panormum 300 cum portu suo; in Cephalodio 15,000 ; in Alexo 57; in Galeate 150; in Athaliate 300; in Agamino 2000; in Tyndare 150. Has omnes cum ecelesiis, villis, sil- vis, aquis, piscariis, aquarumque decursibus ad easdem cur- tes pertinentibus » (JoHAnN. DE Jonann., Cod. dip. Sicilie, App. dipl. XI e XII). 4 « Tria auri talenta et dimidium Roman® ecclesia ex patrimonio Sicilie pendebantur > (GENEBR., Chron. ad ann. 607). Vedi anche JonaNnN. DE JOHANN., Cod. dipl. Sici- lie, nelle annotazioni. Taluni però, e tra gli altri BaroNIO, credono che questa cifra sia esagerata. (3 CassroD., II, Epist. 29; CasetaN., Isag. ad Hist. sicul., 40. Per la Chiesa di Milano Casertano parla di « amplissi- mum patrimonium, oppida et predia. » 44 CAJETAN., Op. cit. 64) «Quas {dice San GREGORIO parlando delle razze equine) valde inutiliter habemus. » Vedi JoHANN. DE JOHANN., op. cit. e CAJETAN., Op. cit. VO RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. Compiutasi lentamente la fusione della razza lon- gobarda colla razza italiana e così un po’ alla volta ripopolatesi le città e le campagne, la coltivazione delle terre prese ovunque a risorgere e ad allargarsi. Ma se la decadenza fu facile e rapida, lento e sten- tato fu il risorgimento. Non trattavasi di riparare devastazioni e rovine, o principalmente di eseguire grandiosi lavori di bonificamento e di riduzione a coltura, che dati i mezzi necessari avrebbero potuto compiersi indubitatamente nel corso di pochi decenni ; ma di preparare una nuova civiltà con elementi pri- mitivi e rozzi, e di ricostituire una vita economica in una popolazione che era ritornata all’economia natu- rale, o che non ne era mai uscita. Trattavasi insomma d’ ingentilire un paese barbaro, circondato d’ogni in- torno da popolazioni non guari più civili e progredite di esso. Lo strumento immediato della ricostituzione del- l'agricoltura italiana fu il contratto dell’ enfiteusi. L’ enfiteusi, che significa piantagione, suppone una tenuta incolta o bisognosa di inolti lavori radicali e RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURÀ ITALIANA. 173 di lunga lena, come dissodamenti, prosciugamenti, piantagioni, ec., e la mancanza, nel proprietario, dei capitali necessari o del tornaconto per eseguirli in economia e con sollecitudine. E i suoi caratteri sono: contratto possibilmente lungo, vitalizio od anche per- petuo, per dar tempo al coltivatore di trarre un profitto dai miglioramenti; prezzo d'affitto non cal- colato in ragione del prodotto e molto tenue per lasciargli i mezzi di eseguirli; obbligo di eseguire in ogni anno una determinata misura di lavori per- manenti, di piantagioni, ec." * Questo carattere enfi- teutico dell'obbligo di migliorare il terreno s’incon- tra in tutti i contratti di quell’ epoca, anche in quelli che non sono vere enfiteusi, ma piuttosto affitti e colonie parziarie, e fu trasfuso in quasi tutti gli statuti dei Comuni; di guisa che era non solo una condizione dei contratti, ma una prescrizione dell’ au- torità pubblica. Dissimo pensatamente che nell’enfiteusi il prezzo d’affitto non era una parte proporzionale dei prodotti; imperocchè con un correspettivo di questa natura lo scopo dell’ enfiteusi sarebbe stato reso vano. Fra 1° en- fiteusi e la colonia parziaria c’è di fatto un’ antitesi naturale e costante che nè la volontà dell’uomo, nè la consuetudine, nè la forza delle leggi possono to- gliere. Col pagamento di una parte proporzionale dei prodotti, il contributo, che deve corrispondere il col- tivatore, si aumenta in ragione dell’ aumento della sua fatica, delle sue cure, delle sue migliorie. Si au- * Vedi le Note a pag. 194. 174 RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA, menta per verità anche la sua quota, ma non in ra- gione del merito; anzi con un sistema di agricoltura intensivo l’ aumento non è per lui che nominale e può facilmente tradursi in una perdita effettiva. L’uso dell’ enfiteusi prese proporzioni così grandi sui beni delle Chiese, che parve un abuso. Onde 1° epi- scopato, allarmatosene, in varii Concilii procurò di por- gli un freno.!® Concorse, insieme all’ enfiteusi, a preparare la via ad una buona agricoltura la facilità, colla quale si potevano effettuare le permute dei terreni. Non vi erano catasti, non verano tasse per la trasmissione della proprietà immobiliare. Onde non incontrava osta- coli di sorta chi voleva riunire in un solo complesso i propri poderi, o completarli con appezzamenti vicini. I documenti di permuta di quei tempi sono numero- sissimi.! Il processo di ricostituzione della nostra agricol- tura continuò con lentezza, ma non interrottamente, per tutta l’ epoca franca e germanica. Nei secoli XI e XII, colla costituzione dei Comuni, si è compiuto un fatto che politicamente potrà essere considerato come una grande vittoria della libertà e come una fortuna per i centri urbani; ma che, almeno a nostro giudizio, ha esercitato sufl’ agricoltura, per sè stesso e per le sue conseguenze, una influenza per- niciosa, che risentiamo anche adesso, e che non ac- cenna a cessare. Le ville del medio evo erano delle vere castella, nelle quali risiedeva la nobiltà, proprietaria delle terre, e vi esercitava diritti sovrani sulla gente del contado. RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. 175 I Comuni appena costituiti giurarono una guerra di distruzione a queste residenze della nobiltà, e dopo arie vicende, ora prospere ed ora avverse, ed una lotta lunghissima, vinsero, e le castella furono demo- lite. Contemporaneamente vietarono ai vinti di abi- tare nelle campagne, e loro ingiunsero di fabbricarsi case in città e di stabilirvi il proprio domicilio. . Noi crediamo che questo fatto abbia avuto la sua parte nella determinazione dell’abitudine dei grandi proprietari, non connaturale alle stirpi germaniche, di vivere nelle città, lontani dalle proprie terre; o in altre parole, che sia stato una delle cause determi- nanti l’ assentismo. Non intendiamo di esagerare le conseguenze del- l’inurbamento della nobiltà; ma per la parte eco- nomica riteniamo che esso abbia impedito allora e sempre di dare all’ agricoltura quell’assetto che essa dovrebbe avere, e che ne abbia rallentato i progressi. Non è difficile, del resto, fare un parallelo fra le condizioni di una tenuta, nella quale risiede il pro- prietario colla sua famiglia, stabilmente o per una gran parte dell’anno, e quelle di un’altra tenuta, dalla quale il proprietario suole stare lontano. Il proprie- tario lascia quest’ultima alla balfa dei coltivatori, che non sanno distinguere fra una coltivazione rimunera- trice ed una coltivazione passiva, che ignorano o non capiscono le esigenze del mercato, che per sè stessi non sono atti nè proclivi a mutazioni, e che, oltre a ciò, sono sforniti di mezzi per compierle. Devono cer- tamente attribuirsi all’ assentismo la diffusione e, direi quasi, la generalizzazione che ebbe in quei tempi nel- 176 RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. l’Italia centrale la colonia parziaria; la distruzione dei boschi, dei quali il contadino non intende l’uti- lità e peri quali non ha alcuna simpatia; l’ abbandono in cui furono lasciate le acque discorrenti per le cam- pagne, ed altri malanni. Nell’ Inghilterra e nella Germania la guerra dei Comuni coi Baroni non ebbe luogo, o fu transitoria, o finì colla peggio della democrazia. Ed i grandi pro- prietari risiedono ancora nelle loro castella, che, t0l- tane per alcuni la forma esteriore, sono ridotte a masserie, e che albergano numerose mandre in que- gli stessi locali, nei quali un dì si accalcavano le genti d’ arme. Anche nella Lombardia, in buona parte della Ve- nezia ed in taluni punti del Piemonte la lotta fu meno acre e la democrazia non potè imporsi. Onde i proprietari poterono conservare una grande influenza nell’amministrazione e nel governo dei Comuni, e con- servare ad un tempo le proprie residenze nelle cam- pagne.!® Le democrazie delle città turbarono e rallentarono anche in altra guisa i progressi dell’ agricoltura. L'indirizzo economico dei Comuni aveva uno scopo principalissimo, al quale si sacrificava tutto senza esi- tazione; e che consisteva nell’ assicurare ad ogni co- sto, e possibilmente a buon prezzo, 1’ approvvigiona- mento della plebe cittadina. Da qui i divieti di esportazione dei cereali; da qui l’ obbligo di fare la dichiarazione della quantità pro- dotta ed in qualche luogo persino di trasportarla in città; da qui la determinazione dei prezzi, fatta dal- RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. 177 l’autorità comunale, senza riguardo alle spese di pro- duzione ed alla quantità disponibile, ma nell’ unico interesse della popolazione urbana. Questo indirizzo fu proseguito con tanta costanza e fu spinto così in- nanzi, che le granaglie erano notevolmente più care nelle campagne, nelle quali erano state prodotte, che nelle città. Le imposte in danaro, in generi ed in opere si accumulavano principalmente sugli agricol- tori. Le campagne erano in molteplice guisa sacrificate agl’ interessi dei centri urbani.! Concorsero colla democrazia a rallentare i progressi dell’ agricoltura anche le istituzioni canoniche. La Chiesa, prima di propria autorità e poi col con- senso e coll’ aiuto dell’autorità civile, impose la decima su tuttii prodotti della terra. Era questa la più grave delle imposte e naturalmente colpiva soltanto le campa- gne. In un sistema di agricoltura estensiva, come era quello di quest’ epoca, il danno positivo della decima non poteva essere molto ragguardevole; ma essa oppo- neva indubitatamente un forte ostacolo ad ogni mi- glioria. Imperoechè ogni miglioria recava seco imman- cabilmente un aumento del contributo da pagarsi alla Chiesa. Per tutto questo periodo la grande proprietà con- tinuò ad essere la regola, ma non così la grande col- tivazione. È un carattere essenziale della vita econo- mica dei primi secoli del medio evo la prevalenza del lavoro sul capitale; d’ onde 1° enfiteusi e la piccola coltura. Ad allargare e consolidare la grande proprietà con- corse la istituzione delle mani-morte ecclesiastiche e BERTAGNOLLI. 12 178 RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. laiche, ossia la formazione dei patrimoni delle Chiese e dei conventi, e la istituzione dei feudi, portata in Italia dai Franchi. Di boschi, come s’ è veduto, era pieno il paese. Accanto alle castella della nobiltà si mantenevano spa- ziosissime foreste per gli scopi della caccia, che_co- stituiva l’occupazione principale dei Baroni. Di que- st’ epoca si hanno testimonianze di boschi accordati in affitto per la coltivazione forestale.® Le acque erano abbondantissime; non si era an- cora dato mano a grandi lavori di derivazione per l’inaffiamento delle terre, ma la irrigazione facevasi ovunque, ove non richiedevansi opere speciali. Era particolarmente diffusa nella Lombardia e nella bassa Italia. Dell’ abbondanza delle acque, della esistenza di estesissimi prati e pascoli fanno fede tutti i do- cumenti di quell’ epoca. Come nell’economia primitiva d’ogni popolo, così anche nei primi secoli del medio evo italiano, il be- stiame costituiva la ricchezza principale del paese. Anche in questo periodo predominava l’ allevamento delle pecore e dei suini, che presentava minori diffi- coltà, esigeva minori capitali e rispondeva a bisogni più urgenti e più generali della popolazione che 1° al- levamento dei bovini. Della lana si faceva un consumo enorme. Man- cavano i lanifici, ma ogni casa era provveduta di telai. Il lardo, oltre ad essere il mezzo più comune di condimento, era il companatico più usuale della bassa popolazione. La carne di majale invece era la base dell’ alimentazione dei ricchi. Non si faceva contratto RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. 179 di enfiteusi, di affitto o di colonia parziaria, nel quale non si pattuisse la somministrazione di uno o più majali grassi. Anzi nei primi tempi di questo periodo la somministrazione del majale era una delle princi- pali prestazioni dell’ enfiteuta. Aveva preso a diffondersi ed a farsi con grandi cure l’allevamento equino. Il possesso di molti e buoni cavalli era uno dei più urgenti bisogni di quella no- biltà battagliera e cacciatrice. E poichè le relazioni commerciali erano limitatissime, faceva mestieri che ogni ricco proprietario tenesse delle razze e provve- desse personalmente alla produzione dei cavalli occor- renti per le sue stalle, per le sue caccie, per la sua milizia. In questo periodo, insieme alle mandre popolose e ai grandi greggi, dei quali abbiamo fatto cenno nei periodi precedenti, s'’incontravano i piccoli alleva- menti dei semplici coltivatori e i singoli capi di be- stiame dei proletari. Nessuno era privo di animali, imperocchè 1° abbondanza dei pascoli comuni, per i quali erano destinati persino dei terreni alle porte delle maggiori città, il contratto di soccida e la isti- tuzione del pastore o porcajo comunale permettevano a tutti di tenere qualche capo di bestiame. La segale, il miglio, il panîco, l'orzo, lo spelta, erano ancora i cereali più comuni ; il frumento non aveva riacquistato la sua importanza. Questa prevalenza dei cereali inferiori e l’abbon- danza del bestiame, specialmente suino, facevano sì che, quantunque la popolazione fosse povera, essa vivesse comodamente. I bisogni erano pochi e semplici, e con 180 RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. poco erano soddisfatti. Mediante queste osservazioni sì possono apprezzare al loro giusto valore le notizie che qualche scrittore contemporaneo ci ha tramandate circa la ricchezza di taluni paesi in questo periodo. La coltivazione delle viti, degli olivi ed in gene- rale delle piante prese gradatamente ad estendersi. Nei contratti d’ enfiteusi, d’ affitto e di colonia par- ziaria s’ inseriva sempre l’ obbligo di piantarvi an- nualmente un determinato numero di viti, di olivi 0 d’ alberi da frutto. In questo periodo si prepararono le piantagioni, che nel successivo divennero la ric- chezza principale delle nostre terre. Non erano rari i terreni dati a colonia parziaria. Ma in questo periodo la colonia non aveva alcuna ras- somiglianza colla nostra mezzeria. Era il sistema che abbiamo segnalato ai tempi di Catone, e per il quale il proprietario non otteneva che una piccola porzione dei frutti della terra e la metà unicamente del prodotto delle piante, delle viti e degli olivi. I documenti di co- lonfa parziaria di quest’ epoca sono la migliore giustifi- cazione dell’interpretazione che noi abbiamo data ai cap. 36 e 37 di Catone.!” Intanto ‘che 1’ Italia superiore e la centrale s° in- camminavano lentamente ad uscire dalla barbarie, e si preparavano un avvenire economico solido e ricco, l’ Italia bassa intristiva sotto il dominio di Bizanzio, e la Sicilia era visitata da un terribile rivolgimento, dalla conquista e dall’ occupazione araba. È opinione comune che al contatto degli Arabi la Sicilia sia risorta a nuova vita. Noi non disconosciamo quel che di buono la conquista araba ha recato al- RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. 181 l'Isola; ma non vorremmo che fosse esagerato. Gli Arabi non erano ancora, come taluni credono, una nazione civile. Usciti da poco dai loro deserti, nei quali menavano una vita nomade, quando sbarcarono sulle coste della Sicilia, erano ancora nel periodo delle loro peregrinazioni, non si erano fermamente stabiliti nei nuovi paesi che avevano conquistato, non avevano ancora deposte le armi per dedicarsi all’ agricoltura, al commercio ed alle industrie. Erano dei fanatici, che colla spada nel pugno portavano agl’ infedeli la parola -di Allah. Ma egli è vero che, se gli Arabi non erano ancora una nazione ingentilita, avevano già in sè i germi della civiltà, insieme ad una straordinaria attitudine a fecondarli. Onde compiute l’ occupazione e la con- quista, ed inaugurate le tranquille occupazioni della pace, il processo della civilizzazione potè svolgersi con prodigiosa celerità. Non era loro ignota la nautica, od almeno non erano alieni dalle cose del mare, del quale avevano occupato tanta parte di coste. Abituati sin dagli antichi tempi ad esportare per i paesi vicini i prodotti del loro suolo, e a trasportare colle loro carovane i prodotti dell’ Oriente sulle piazze commer- ciali dell’ Egitto e della Siria, avevano una naturale inclinazione per il commercio. Ed ora che erano pa- droni di tutta la costa africana e della. Siria, dell’ Eu- frate, del Tigri e del Nilo, non potevano non dare un grande svolgimento ai loro negozi, nell’ orbita dei quali erano naturalmente comprese anche la Sicilia e la Spagna. Cresciuti in seno alle ricche produzioni dei tropici, se ne importavano taluna nelle contrade con- 182 RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. quistate, non era per queste un regresso, ma un pro- gresso ragguardevole. È facile vedere quali differenze esistessero fra i barbari invasori dell’ Italia superiore e gli Arabi con- quistatori della Sicilia, e come queste differenze do- vessero manifestarsi anche nel processo della civiliz- zazione dei due paesi. Il vantaggio diretto che sentì la Sicilia dall’ oc- cupazione araba, fu di vedersi ad un tratto ripopo- lata con una razza ringiovanita, forte, intelligente ed operosa. La quale in breve volger di tempo s’ ingen- tilì, e rese ricca 1 Isola di una buona agricoltura, di qualehe industria e di un animato commercio. Del resto noi non crediamo che gli Arabi abbiano cambiato la base dell’ agricoltura sicula. L’ hanno mi- gliorata, 1° hanno arricchita di nuove produzioni, ma non mutata sostanzialmente. Il perno dell’ agricoltura rimase, come era per l’ addietro, la coltivazione dei cereali, congiunta ad un’ estesa pastorizia. Nel rego- lamento dell’ anno 223 dell’ Egira, col quale si disci- plina la istituzione dei magazzini pubblici per le der- rate destinate all’ esportazione, si parla sempre ed unicamente del frumento e dell’ orzo. Le imposte col- pivano il frumento, 1’ orzo, 1’ olio, i bovini da lavoro e le pecore; ne erano esenti i bovini da macello e da reddito.!? Una memoria diretta nell’anno 253 dell’ Egira dal Governatore della Sicilia al Mulei circa la impor- tazione e la esportazione delle merci, riproduce un quadro abbastanza chiaro e completo delle condizioni economiche dell’ Isola nel primo secolo del dominio RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA, 183 arabo. Per la sua importanza stimiamo utile di ri- produrla integralmente nelle Note.!? Da questa memoria apparisce .che si esporta- vano principalmente pesce salato, carne salata, frutta secche, latticini e miele; quindi zucchero, lane, cera, riso, legname, oggetti di terra cotta, marmo, argento vivo, lino, canape, corde e pelli. Non si fa menzione dei cereali, perchè la loro esportazione non era libera, e quindi il dazio non poteva darsi in appalto. Di nuove produzioni troviamo lo zucchero e il riso ; delle vecchie è escluso il vino. Nè di una mutazione radicale dell’ agricoltura si- cula è cenno nei geografi e viaggiatori arabi che ne scrissero nei tempi posteriori. Al ’Istarî, che scrisse nell’ anno 951, ci mostra la Sicilia ricchissima di cereali, di bestiame e di schiavi. Altri geografi aggiungono ai cereali ed al bestiame una ragguardevole abbondanza di frutta. © Edrisi, che scrisse per incarico del re Roggiero pochi anni dopo la caduta del dominio arabo, passa in rassegna tutte le regioni della Sicilia, così della costa come dell’ interno; ne enumera le produzioni e le ricchezze, e segnala come i due prodotti principali i grani e le frutta. Egli trova la coltivazione della vite in quattro Comuni, quella del lino in due, quella dei gelsi in uno, quella del cotone in uno." Non fa cenno nè del riso, nè dello zucchero, nè dell’ olio. Que- sta omissione fa ritenere che Edrisi non abbia visi- tato la Sicilia che percorrendo le grandi strade, o che non abbia parlato se non che di quelle coltiva- zioni, le quali, o per la loro importanza, o per l’ in- 184 RICOSTITUZIONE DELL’ AGRICOLTURA ITALIANA. tensità con cui erano esercitate nei singoli luoghi, hanno fatto grande impressione sulla sua fantasia. Comunque sia, apparisce anche da questi scrittori che 1’ agricoltura sicula si era tenuta fedele al suo vecchio indirizzo. Ma se ci studiamo di tenerci lontani dalle esage- razioni, non possiamo disconoscere i vantaggi che gli Arabi hanno recato alla medesima. Sotto il loro dominio, per verità, si soppresse quasi intieramente la produzione del vino, perchè ne era loro vietato l’ uso, e quella dell’ olio, che ritiravano dall'Africa; ma in compenso si diffusero nella Sici- lia altre coltivazioni, che o furono introdotte da essi o furono da essi rese possibili e proficue, sia col- l'avere ripopolato 1° Isola, sia coll’ averne allargato il commercio, e che in processo dei tempi ne costitui- rono la ricchezza. Della coltivazione dei cereali è superfluo parlare. Come si è accennato di sopra, essa rimase, quale era prima, la base dell’ agricoltura sicula. Nell allevamento del bestiame, coerentemente al- ’ indole della popolazione araba, ma naturalmente con non grande vantaggio dell’ agricoltura, presero il primo posto gli equini. Si narra che l amira Jusuph, par- tendo dalla Sicilia per ritirarsi a vita privata in Egitto, prese seco fra le cose sue 14000 cavalie.!? È attribuita agli Arabi 1 introduzione della ba- chicoltura. In altra parte di questo nostro studio esporremo i nostri dubbi sull’ esattezza di questa notizia. Noi non sapremmo per verità spiegare come la bachicoltura, che si era diffusa nella vicina Grecia RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. 185 già da due secoli, potesse rimanere ignota ai Sici- liani fino all’ arrivo degli Arabi, che del resto non erano ancora agricoltori. E attribuita agli Arabi anche 1° introduzione della coltura del cotone.’ Ma neppure di questo fatto si hanno memorie sicure o documenti di qualche valore. Pare che il cotone sia stato importato dai Fenici nell’ isola di Malta,“ e che in Grecia si coltivasse già nel secolo II dell’ èra volgare. Non è quindi improbabile che nella Sicilia e nella Calabria sia stato conosciuto prima dell’ occupazione araba, ma non sia stato coltivato in notevoli propor- zioni. Comunque sia, i primi ricordi di questa coltiva- zione, così nella Sicilia come nella Calabria, non vanno più in su dei secoli XI e XIL®" Ma a quell’ epoca la produzione del cotone era soggetta all’ imposta ed alla decima, onde è a presumersi che fosse di una ragguardevole importanza.®° La coltivazione si diffuse largamente nei secoli successivi, nei quali si estese alle Puglie e si fece uno dei cespiti principali della ricchezza dei paesi meri- dionali della penisola. Nel secolo XVI, ad esempio, il cotone coltivavasi con grande intensità in quarantotto Comuni della Ca- labria © ed in varii della Puglia.’ In Sicilia la re- gione cotonifera per eccellenza fu sempre la fertilis- sima piana di Terranova.® Ma si produceva molto cotone anche in taluni punti delle provincie di Sira- cusa, di Catania e di Palermo. La produzione del cotone si mantenne in fiore sin 186 RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. al finire del secolo XVII, quando cadde sotto la schiace- ciante concorrenza del cotone americano. Nella seconda metà del secolo passato la Calabria coltivava il cotone ancora in poche località,‘ fra le quali erano Badolato, Nicotera, Tropea e Rosarno.®? V’ erano dei cotonifici a Portanova, Catanzaro, Cava ed in pochi altri luoghi. Cava aveva 1800 telai, e mandava sul mercato circa 15,000 pezze all’ anno.®® Le principali manifatture di cotone in Sicilia erano a Marsala, a Trapani e nell’ isola di Pantellaria.®® La produzione del cotone risorse durante il blocco continentale. La esportazione, che prima era di 1000 balle appena, salì rapidamente a 30,000. Fatti liberi i mari, la coltivazione prese di nuovo a decadere. Ma pochi anni dopo accennò a riaversi, e si eressero più di trenta cotonifici.!’ Un nuovo periodo di splendore ebbe la coltiva- zione del cotone durante la guerra di secessione degli Stati Uniti di America. Parve che si affermasse sta- bilmente così nel contado di Terranova, come nelle Calabrie e nelle provincie di Bari, di Lecce e di Sa- lerno. Finchè durò la guerra, e gli Stati Uniti non poterono attendere di proposito a questa coltivazione, I’ Italia produceva intorno a 100,000 balle all’ anno.®® La produzione del cotone fu in quei pochi anni così florida e rimuneratrice in contrada di Terranova, che semplici braccianti, presi in affitto e coltivati a cotone piccoli appezzamenti di terreno, hanno potuto mettere da parte diecine di migliaja di lire.®* Nel- l’anno 1864 si coltivarono a cotone 10,000 ettari di terreno, e se n’ebbe un reddito di sei milioni di lire.” RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. 187 Ma, finita la guerra, l'America riprese 1’ antico posto sul mercato del cotone, e la nostra produzione perdette ogni importanza. Meno soggetta ad obbiezioni pare 1’ opinione ac- cettata universalmente che agli Arabi sia dovuta la introduzione della canna da zucchero. Non abbiamo però nessuna memoria intorno alla genesi di questa coltivazione. È possibile che la canna da zucchero esistesse prima degli Arabi così nella Sicilia come nella Calabria, e che il miele, del quale questi due paesi facevano una ragguardevole produ- zione, fosse in parte artificiale, e si fabbricasse col succo della canna, che non sapevasi ancora conver- tire in zucchero. Questa supposizione parrebbe cor- roborata dalla confusione che gli antichi scrittori fa- cevano del miele e dello zucchero, e dal nome di canne mellite o cannameli che davasi alla canna da zucchero nell’ Italia meridionale. Ibla, così rinomata nella produzione del miele, era uno dei centri sac- cariferi. Ad Avola si mantenevano delle piccole pian- tagioni di canna anche dopo la cessazione com- pleta dell’ industria dello zucchero; se ne estraeva un liquore denso, simile al miele. Così gli Orientali utilizzavano la canna, cruda o cotta, per estrarne il succo coi denti. Ma la nostra non è che una semplice supposizione, non confermata da alcuna testimonianza; onde nel dubbio amiamo attenerci all’ opinione comune, che at- tribuisce agli Arabi 1’ introduzione della canna da zucchero. Dalla memoria araba sull’ appalto delle dogane di 188 RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. Sicilia, che pubblichiamo nelle Note, apparisce che sin dai primi tempi del dominio musulmano lo zuc- chero era un cespite del commercio di esportazione. Il trapeto per macinare la canna conservò anche sotto i Normanni la denominazione araba di mahassar 0 massara,®? Roggiero assoggettò ad una imposta la esporta- zione dello zucchero. Federico II, al quale lo stato continuo di guerra, che caratterizzò il non breve suo regno, non aveva tolto di occuparsi del progresso economico dei suoi popoli, si adoperò per migliorare la fabbricazione dello zucchero, che era in decadenza.” Ma Il epoca del maggior fiore di questa industria fu nei secoli XIV e XV, nei quali si svolse larga- mente anche nella vicina Calabria. i Il centro principale della produzione era la pia- nura di Palermo e segnatamente la campagna di Fi- carazzi, ricche d’ acque correnti e dotate di un per- fetto sistema d’ irrigazione. Non si hanno notizie sicure circa la entità della produzione, ma da un capitolo della città di Palermo a re Alfonso parrebbe che fosse ragguardevolissima e che costituisse 1’ industria principale della citta. Producevasi zucchero inoltre a Malvicini nella ma- rina di Noto, ad Oliveri di là da Patti, a Casalnuovo nel territorio di Milazzo, a Schisò e Casalbiano nella marina di Taormina, a Verdura presso Sciacca, a Sa- buci presso Alicata, nei campi Iblei ed in alcuni luo- ghi del contado di Modica.!" Contemporaneamente producevasi zucchero nella RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. 189 Calabria, a Tortora, fra Policastro e Papasidero; a Scalea, a Bato, a Cerilli, a San Gineto, a Bombicino, a Blanda (Belvedere), a Fiscaldo, a Laconia, a Monte- leone“ ed a Reggio.” La coltivazione della canna facevasi con intelli- genza e grandi cure, ma la fabbricazione dello zuc- chero era difettosa“ e non se ne conosceva la raffi- nazione.“ Lo zucchero siciliano era meno bello, meno buono e valeva meno dello zucchero levantino, col quale trovavasi in concorrenza.’ Nel secolo XV ebbe a soffrire anche dalla concor- renza dello zucchero di Madera.®? Già nell’anno 1515 il Parlamento dolevasi che la esportazione dello zuc- chero fosse notevolmente diminuita.“ Pochi anni dopo prendeva ad accumularsi sui mer- cati europei anche lo zucchero americano. La produ- zione nazionale, soverchiata dalla concorrenza degli zuccheri levantini e degli zuccheri di Ponente, si re- strinse continuamente, ed i processi di fabbricazione, invece di progredire e perfezionarsi, peggiorarono. Già in sul finire del secolo XVI le fabbriche di zuc- chero, erette due secoli prima da Speciale e Lo Campo nelle campagne di Ficarazzi, lavoravano con perdita.“ Al principio del secolo XVIII v’ era ancora qualche fabbrica ad Avola (Siracusa), ad Agosta, in Melilli, in San Gusmano ed in un luogo detto Acque-dolci, sotto San Fradello.5® Nel 1761 si fabbricava zuc- chero ancora ad Avola, Agosta e Melilli.°’ Avola con- tinuò a produrre un po’ di zucchero, ma di qualità scadentissima, sin verso la fine del secolo passato.*? Nei primi anni del presente vi si vedeva qualche 190 RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. piccola piantagione di canne, ma i trappeti dello zucchero erano chiusi e la canna serviva alla produ- zione del rum.!° Nelle Calabrie la coltivazione della canna cessò poco dopo la metà del secolo XVIIT.®® Il re Gioachino stabilì ai 13 dicembre 1810 un premio di ducati duemila a favore di chi coltivasse un moggio di terra a canne da zucchero, ed ai 14 mag- gio dell’ anno successivo un altro di ducati quattro- mila per l'introduzione della barbabietola zucche- rina. Ma non consta che alcuno abbia tentato di ristabilire la coltivazione della canna. Le barbabie- tole furono introdotte più tardi, ma furono abban- donate per mancanza di tornaconto. Si è disputato intorno alle cause della cessazione di questa industria e della possibilità di ristabilirla, e generalmente si è ritenuto che 1° America avesse soverchiato l’ Italia mercè la coltivazione poco dispen- diosa degli schiavi. C'è molto di vero in questa opi- nione, inquantochè la mano d’ opera in-Sicilia e nel- l’Italia meridionale è sempre stata piuttosto cara. Ora però questa differenza sarebbe quasi intieramente tolta di mezzo, perchè in buona parte delle regioni saccarifere d’ America la schiavitù più non esiste. Ma bisogna riconoscere che altre circostanze hanno contri- buito a far cessare l’industria, ed alcune di esse por- rebbero anche adesso 1’ Italia in condizioni d’ inferio- rità di fronte all’ America. L’ industria non ha potuto sostenersi perchè gli apparecchi e i sistemi di produ- zione erano difettosi, e non era esercitata come in America con grandi capitali e su vaste proporzioni; ©’ RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. 191 perchè nei luoghi di produzione facevasi uno scarsis- simo consumo: di zucchero e 1’ industria era fondata unicamente sulla esportazione ; perchè la ricchezza delle acque, per le quali erano celebrate nei secoli passati la Calabria e la Sicilia, è andata gradatamente scompa- rendo per l’ incuria, sicchè la irrigazione si è resa dif- ficile e dispendiosa. Ora si aggiungerebbe che i terreni della marina hanno raggiunto prezzi eccezionali e l’ im- posta fondiaria si è fatta gravissima. Se facciamo un pa- rallelo fra queste condizioni italiane e quelle d’ America, ove l'industria è perfezionatissima ed è esercitata con buone macchine e con grandi capitali; ove il consumo dello zucchero è ragguardevolissimo ; ove sono abbon- danti e di poco prezzo i terreni e le acque, e lievi le im- poste, si comprenderà facilmente come 1’ industria dello zucchero da noi dovesse cessare e non vi sia probabi- lità che possa risorgere. Ora essa avrebbe da lottare anche contro la concorrenza dello zucchero di barba- bietola, contro il quale ha bisogno di protezione per- sino la produzione dello zucchero coloniale. Par sicuro che l’ industria non potrebbe esercitarsi con tornaconto. Un'altra coltivazione, della quale la Sicilia e 1° Italia tutta vanno debitrici agli Arabi e che ha costituito e costituisce il cespite più progredito all’ agricoltura del Mezzogiorno, è quella degli agrumi. Il cedro fu introdotto in Italia sotto 1° Impero. Usavasi come adornamento delle case e dei giardini, ma non dava frutto. Palladio però nel IV secolo del- l èra volgare segnalava 1’ esistenza del cedro all'aria libera in terreni ricchi, irrigui e vicini al mare, presso Napoli e in Sardegna. 192 RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. Gli Arabi importarono il limone e 1° arancio, che presero piede senza difficoltà, e si diffusero con una straordinaria rapidità su buona parte della marina dell’ Isola. I giardini di agrumi formavano una delle mera- viglie della Sicilia già sotto i primi Normanni.'* Ben presto passarono lo Stretto e si distesero lungo le coste delle Calabrie. Nei secoli XV e XVI occupavano pressochè tutta la marina da Reggio alle Alpi marittime da una parte, e ad Ancona dall’ altra, e s’ erano piantati stabil- mente sulle rive del Benaco e del Lario.®® Alberti ® nel suo viaggio per 1’ Italia, fatto verso la metà del secolo XVI, trovò ricca di agrumi tutta la riviera di Genova e particolarmente il contado di San Remo, la valle di Pozzenera dopo Sestri Ponente e la valle di Rapallo. Nella Toscana erano fitte selve di agrumi sulle colline, ove sedeva anticamente Po- pulonia, a Massa ed a Fiesole. Da Gaeta a Mola si stendeva una serie pressochè non interrotta di giar- dini di agrumi. Abbondavano queste piante nel con- tado di Napoli e di Sorrento, sulla costiera di Amalfi e di Salerno, sui lidi dei due mari che bagnano la Calabria," nel contado di Otranto, di Bari e sulle col- line di San Benedetto nelle Marche. Reggio era al- lora, come era stata prima e come fu sempre an- che posteriormente, il centro principale della Calabria per questa produzione. Della Sicilia era coronata di agrumi tutta la riviera. Negli ultimi secoli questa coltivazione si è este- sa, perfezionata ed aumentata colla introduzione di RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. 193 muove specie. In questo secolo s’ importò da Malta il mandarino. Non è privo d’ interesse il seguente quadro sulla esportazione di agrumi dalla Sicilia: ANNI. Agrumi. Essenza d'agrumi. | Scorza d’ agrumi. 1834 ducati 562,821 119,624 21,315 1835 630,722 137,097 11,849 1836 696,085 86,008 13,703 1837 756,745 91,444 935,418 649,140 1,454 12,051 968,664 198,172 21,590 (62) La Sicilia sotto gli Arabi offriva uno spettacolo pieno di vita, di moto e di attività. Una popolazione numerosa, affaccendata e ricca; campagne ben lavo- rate, pascoli ricchissimi, percorsi da numerose mandre; monti rivestiti di una rigogliosa vegetazione; acque abbondantissime e largamente utilizzate, e finalmente una marina animata, nella quale s’ incrociavano ogni momento le navi mercantili saracene colle flottiglie di Pisa, di Amalfi, di Genova e di Venezia; ecco in brevi parole le condizioni economiche della Sicilia araba da non invidiare neppure i più bei tempi del- l’ epoca greca. BERTAGNOLLI. 18 194 RICOSTITUZIONE DELL’ AGRICOLTURA ITALIANA. NOTE. ) L’ autore della Cronaca Farfense, Murat., R. I. Script., II, 413, non definisce l’enfiteusi, ma descrive piuttosto i caratteri generali di tutti i contratti agrari dei primi se- coli del medio evo, ove parlando dell’ enfiteusi ecclesiastica dice :. « Antiqui auctores idcirco contractus largitionis sive concessionis rerum ecclesiasticarum emphyteusim appellare voluerunt, quoniam meliorationem per id et auctionem il- larum significare docuerunt. Denique hoc tenore conceden- dum predixerunt et legali auctoritate sanxerunt, scilicet ad laborandum, cuitandum, meliorandum, usufruendum, fructus illarum per mediam, vel per tertiam, sive quartam aut quintam cum terre dominis dividendum, et operas ma- nuum sive boum a terre cultoribus actionaribus ecelesia- sticis exhibendum et pensionem vel censum annualiter per- solvendum. » ® Su questo punto ci siamo fermati più lungamente in altro nostro lavoro pubblicato nell’anno 1877, sotto il ti- tolo: La Colonia parziaria. Dopo avere dimostrato che la colonia parziaria non è un trovato nè latino, nè italiano, nè toscano, ma un fenomeno spontaneo in tutte le società pri- mitive ancora immerse nell’ economia naturale, cercavamo di provare che questo contratto non poteva tutelare suffi- cientemente nè gli interessi del proprietario, nè quelli del coltivatore, e che oramai era tempo di abbandonarlo per passare ad altri sistemi più operosi, più produttivi e più morali. Una delle basi della nostra dimostrazione era ap- punto il ragionamento che abbiamo adombrato ora nel te- sto, cioè che al coltivatore non torna il conto d’investire nel terreno più lavoro o capitale di quanto è necessario per farlo campare, imperocchè il prodotto di questo mag- giore investimento non ridonda che per metà a suo van- taggio, e l’altra metà è devoluta immeritamente al pro- RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. 195 prietario; e che per la ragione medesima il proprietario non può investire nel fondo colonico un capitale maggiore di quello che è necessario per non lasciarlo intieramente deperire; imperocchè, supposta pure nel coltivatore la più severa onestà, il proprietario non godrebbe in modo alcuno più della metà dell’interesse di tale investimento. Questo è il peccato originale ed indelebile della colonia parziaria, sinchè il fine della vita economica sarà il tornaconto. Sulla base di questo e d'altri ragionamenti dimostra- vamo che la colonia parziaria dava cattivi risultati, e che per sè stessa non poteva darli buoni. Noi prendevamo di mira manifestamente il sistema colonico della Toscana, im- perocchè si era pressochè tutti d’ accordo che fuori della Toscana la mezzeria non reggesse alla critica. Ma poichè colla nostra dimostrazione si andava contro all’opinione di uomini autorevolissimi e si attaccava una istituzione che era considerata come un palladio della società, non ci parve saggio partito di assaltare la posizione di fronte; preferimmo di girarla, di circuirla e di ridurla un po’ alla volta, se era possibile, alla necessità della resa. Il nostro lavoro fu esaminato con simpatia e benevo- lenza così all’ interno come all’ estero, e molte Rassegne au- torevoli se ne occuparono con caldo interesse. Citeremo tra le molte quella di Wiss di Berlino, intitolata: Vierteljahr- schrift fir Volkswirthschaft, Politik und Kulturgeschichte, la quale nel suo primo voiume dell’ anno 1878 ne ha dato un riassunto così esteso, che pare una traduzione letterale. E per l’Italia ci limiteremo a citare il giudizio benevolo che ne ha dato il chiarissimo EmiLio MoreuRGO in una sua stu- penda rassegna, pubblicata nella Perseveranza dei 3 novem- bre 1877. Noi non ci siamo fatte illusioni sulla efficacia pra- tica del nostro lavoro. Pure ci lusinghiamo che non abbia lasciato intieramente il tempo che aveva trovato. Sarebbe presunzione biasimevole, se mostrassimo di credere che ab- biamo mutato l’ opinione dei più autorevoli difensori della colonia parziaria. Ma possiamo almeno ascriverci il merito 196 RICOSTITUZIONE DELL’ AGRICOLTURA ITALIANA. di avere offerto a taluno di essi l’ occasione di fare dichia- razioni che devono dar molto a pensare a chi ritenesse ancora la mezzeria come la panacea dei mali che affliggono l'agricoltura e la società, e ne volesse raccomandare l’ in- troduzione in quelle regioni che fortunatamente se ne sono liberate. Il compianto barone Ricasoli, uno dei più illustri rap- presentanti del sistema della mezzeria toscana, ci faceva l’onore di scriverci la seguente lettera : « Roma, li 21 dicembre 1877. » Signor cav. pregiatissimo, » Ebbi il suo libretto sulla colonia, piccolo di mole, ma succoso di erudizione e di fatti. È libro che si legge vo- lentieri e porge materia a pensare; vorrei che fosse letto da molti. La colonia parziaria è in decadenza, ha fatto il suo tempo ; altro o altri ordinamenti debbono sostituirvisi, onde l’industria agraria pigli più prospero svolgimento. Sì, convengo; la colonia parziaria è in decadenza; cade per vizi e per ignoranza; e di ciò la maggior colpa è da darsi ai proprietari. Si lavori pure, io dico, a sostituire alla colonia ordinamenti migliori; ma non si perda di vi- sta il miglioramento della colonia, che già tanto giovò alla prosperità economica e morale del paese nostro, e può an- cora, se meglio diretta, giovare all’ intento stesso. » La ringrazio e la riverisco distintamente. » Suo devotissimo > B. RICASOLI. » Un altro autorevolissimo difensore della colonia par- ziaria, il cav. Marco Minghetti, non si è dissimulato in una sua lettera cortesissima, indirizzataci in data degli 8 dicembre 1877, che la mezzeria funziona male, ma non crede che ciò avvenga per vizio innato del sistema, e ri- tiene, come il barone Ricasoli, che, ove i proprietari mu- tassero costume, essa potrebbe dare buoni risultati. «Io non partecipo intieramente alle sue idee (scrivevaci l’illu- RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. 197 stre uomo), e l’ esperienza mi ha persuaso che molti dei mali che s' imputano alla mezzeria, sono evitabili, quando da parte del proprietario ci sia sentimento di rispetto al diritto ed alla morale. Ma qual è il problema economico che senza questa condizione possa risolversi? Però ricono- sco che il suo lavoro è il più importante sulla materia che io abbia letto; è ben pensato, bene ordinato, bene scritto, e non può non avere gran peso nell'animo di chiunque cerchi solo la verità. » E il compianto De Hamx, Direttore Generale dell’ agricol- tura austriaca, se non l’unico, uno dei pochi tra gli economi- sti tedeschi che siasi schierato tra i campioni della colonia parziaria, il De Hamm, che nelle sue pubblicazioni aveva rappresentato i paesi della mezzeria come il paradiso ter- restre dei coltivatori, dei proprietari e della società, rende conto del nostro lavoro nella Neue Freie Presse dei 27 mar- zo 1878, con queste parole : « La letteratura si è arricchita di un interessantissimo lavoro, che tratta una materia, la cui importanza finora non era stata debitamente apprez- zata. La mezzeria, ossia quel sistema colonico col quale è coltivata una buona parte della terra, è in questo lavoro fatta oggetto di un esame storico-critico completo. L’ au- tore vi ha impiegato uno studio incredibile; nulla gli è sfuggito. Egli riprova il sistema così come è, ed ha ragione. Ma noi pensiamo sempre che la mezzeria avrà per sè l’av- venire. Soltanto la mezzeria bene regolata può offrire il modo di sciogliere pacificamente la questione sociale. » Noi crediamo che i nostri illustri contradittori consi- derino la mezzeria non tanto come un problema agrario, quanto come un problema sociale. E così ci sembra che la questione si sposti e non si risolva. Come nella questione accademica della grande e della piccola proprietà, i difen- sori della piccola non affermano che questa produca più e meglio della grande, ma fanno un parallelo fra le condi- zioni del contadino proprietario e quelle del contadino pro- letario, e ne conchiudono che sono da preferirsi le prime, così per l'interesse del contadino medesimo, come per la 198 RICOSTITUZIONE DELL’ AGRICOLTURA ITALIANA. quiete della società; nella stessa guisa si sorvola facilmente, ragionandosi della mezzeria, sulla questione economica del tornaconto, e si dà una importanza forse non intieramente giustificata alle esigenze della politica sociale. E veramente il cav. De Hamm dice in modo chiaro e preciso che la colonia parziaria deve essere lo strumento della soluzione della questione sociale. E il barone Rica- soli, al quale, mentre ci narrava che egli era contento dei suoi mezzajuoli e che i suoi mezzajuoli erano contenti di lui, ci permettemmo di chiedere se questa sua soddisfazione trovasse un riscontro anche nei risultati finanziari della sua azienda, ci rispose con un sorriso, sul cui significato non potevamo ingannarci:« Codesto poi è un altro di- scorso. > E del cav. Minghetti ricordiamo un Discorso gio- vanile, ma splendido, pronunciato in data dei 23 aprile 1343 innanzi alla Società agraria di Bologna, e pubblicato, in- sieme ad altri suoi lavori letterari ed economici, dal Le Mon- nier. In quel Discorso, che tratta della proprietà rurale e dei patti fra il padrone e il lavoratore, si presente ormai l’autore dell’ Economia pubblica e delle sue attinenze colla morale e col diritto. Egli propugna la tèsi della piccola pro- prietà e della colonia parziaria, non senza l’ajuto di ben trovati argomenti economici; ma il principio che informa tutto il suo Discorso, è che l’ economista non possa limi- tarsi «ad investigare quali condizioni più giovino ad ot- tenere dai terreni il massimo dei prodotti colla minore spesa, > ma che debba riguardare la questione < nei suoi effetti sul proprietario e sul coltivatore, ad infondere negli animi l’ umanità e la gentilezza, a stabilire fra quelle due classi vicendevole benevolenza e rispetto, ad ingenerare la rettitudine dei costumi, ad assicurare l’ordine e la libertà degli Stati.» Noi comprenderemmo la diversione, trattandosi partico- larmente di uomini di Stato, se la popolazione si compo- nesse unicamente di grandi o di ricchi proprietari, per i quali la rendita dei rispettivi terreni fosse una cosa di nessuna o di secondaria importanza, e di mezzajuoli. Ma RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. 199 la maggioranza dei proprietari non è ricca ed è obbligata a vivere sulla rendita della terra; e la maggioranza dei contadini non può avere delle mezzerie e resta facilmente senza lavoro. Di più, le altre classi della popolazione hanno indubbiamente nei paesi della mezzeria meno risorse, meno lavoro, meno industrie, meno commercio che negli altri. Da qui una moltitudine di malcontenti, di spostati, di oziosi; da qui un malessere economico pressochè gene- rale, cattivo consigliero di idee sovversive, che, comunque sembrino divagare nei campi della politica, in sostanza di- rigono la punta contro la proprietà e contro i proprietari. Fra le condizioni sociali della Toscana, delle Marche, delle Romagne e dell’ Umbria e la mezzeria, che predomina in quelle regioni, esiste un nesso più stretto di quello che ap- parisca a prima giunta. E sarebbe davvero urgente che i proprietari si occupassero di proposito della questione e provvedessero tempestivamente. Noi riteniamo coi nostri contradittori, che la proprietà della terra non conferisca soltanto dei diritti, ma imponga anche dei doveri; ma poi allontanandoci da loro, crediamo che il dovere principale dei proprietari sia di sudare sulla terra che ebbero in re- taggio, ed ove non lo possano, di disfarsene, possibilmente, così nell’interesse proprio, come in quello della società. ® Così nel Concilio tenuto a Roma da Niccolò I (Bac- cnini ad Agnell., II, 81) e nel Concilio tenuto a Ravenna da Giovanni VII (Cone. XI, 304). Si era dovuto ricono- scere che l’enfiteusi non era vantaggiosa per la Chiesa. Vedi per la frequenza di questo contratto MasiLLon, Mv- RATORI e FANTUZZI. 5% Vedi Hist. Patr. Monum. Chart.,tom.I; RoBoLotTI, Delle pergamene e dei casi di Cremona prima del mille, nella Mi- scell. di Storia italiana, I; vedi pure i documenti raccolti e pubblicati dai tre autori citati nella nota precedente. 5) Ordine dei consoli di Genova del 1188 ai conti di La- vagna di stabilirsi nella città (Mist. Patr. Monum., Liber 200 RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. Jur. Reip. Genuensis, I, 59). Giuramento di altri nobili di abitare in Genova negli anni 1145-1148 (Op. cit., pag. 109, 110, 111, 112, 186, 137). Vedi per Genova altri documenti, op. cit., II, 2, 4. Nella formola del giuramento che i vinti dovevano prestare, erano le seguenti frasi: « Ego ero ha- bitator hujus Civitatis Janu® . ... et habitaculum juro. » Molti nobili del contado di Vercelli sottomessi ed obbligati ad assumere la cittadinanza vercellese, a comperare una casa in città ed a «jurare habitaculum Vercellarum > negli anni 1188-1200 (Hist. Patr. Monum. Chart., I e II). Vedi do- cumenti consimili per i nobili del contado di Modena, in Murat., Ant. It. M. Z., IV, 165 e seg., 201 e seg.; e per i nobili del contado di Treviso, op. cit., 169 e seg. Negli Statut. Civit. Pistoriensis (1107-1200), al $ 124, si obbliga il podestà di promettere solennemente di costringere i nobili del contado ad abitare in città. Rispetto a Firenze è noto che la democrazia, oltre ad avere assegnato ai nobili il do- micilio obbligatorio nella città, li costrinse ad esercitare una professione. 6 OTTONE DI FRISINGEN, De Gestis Friderici proem., narra che anche nella Lombardia i nobili erano stati assogget- tati generalmente ed obbligati a risiedere nelle città: «sin- gule Civitates ad commanendum secum Diocesanos compu- lerint. » Questa narrazione non è esatta, poichè, come assicura GiuLINI (Memorie della città e della campagna di Milano, VI, 27), molte « principali famiglie milanesi, che occupavano le primarie dignità della repubblica, tenevano l’ordinaria loro abitazione nelle proprie terre e castella. » Nello stesso GruLINI, XI, 128, si legge: « Nel 1363, quando la Compagnia delle lancie inglesi al soldo del marchese di Monferrato invase il Milanese, e divisa in drappelli perlu- strò le ville della campagna, fece prigionieri più di 600 no- bili milanesi, che ritiratisi a passare il Natale in campagna, se ne stavano tranquillamente giuocando a tavole o a scac- chi nelle loro case. È ne avrebbe presi molti di più, se non avessero fatto difetto le funi per legarli.» Negli Statut. amtiq., vubric. Statut. ertraord. di Milano, è la seguente RICOSTITUZIONE DELL'AGRICOLTURA ITALIANA. 201 disposizione : « Quilibet Civis, vel Capitaneus vel Vavassor habitator Mediolani possit ire ad habitandum in burgis, locis, vilis, cassinis et molandinis, in quibus habet posses- siones suas et ibi possit stare a Kalendis Maji usque ad Sanetum Martinum, absque eo quod teneatur solvere et su- stinere aliquod cum Nobilibus vel cum Communitate tam Nobilium quam Vicinorum.» Negli Stat. Med. civil. crim. et mercat., raccolti e pubblicati nell’ anno 1482, è stabilita l’esen- zione d’ogni aggravio comunale per venticinque anni a favore delle case di campagna di nuova costruzione. Ai tempi di Fra Bonvicino di Riva (1288) il contado del Comune di Milano aveva 60 borghi, 150 ville con castello, 600 ville senza castello ed innumerevoli cascine (FLAMMa, Chron. extravag.). Il RoBOLOTTI, op. cit., scrive: «I luoghi più abitati e frequentati erano le corti, i vichi o ville o quartieri, i ca- stelli, i casali, le pievi, le cappelle, gli oratorii (oracula). > Ii cancelliere degli Sforza, GrrRoLaMo MoRoNE, descrivendo i tempi pacifici degli ultimi Sforzeschi, dice: « Nobiles ru- sticantur;» i nobili sono ritornati a soggiornare nelle cam- pagne. Nel Codice Carrarese era disposto che i villici non potessero stabilirsi in Padova senza l'autorizzazione del Comune. La Repubblica veneta, con legge del 1455, proibì l’ esercizio dell’arte agraria ai contadini che si fossero sta- biliti nelle città. © Un curioso documento di questo genere abbiamo tro- vato in MuLETTI, Memorie storiche e diplomatiche di Saluzzo, vol. III. È un decreto dell’anno 1312 del marchese Man- fredo di Saluzzo, relativo alla borgata di Revello, col quale fra le altre cose si dispone che i proprietari debbano te- nere nella borgata i grani, i vini, le carni, le castagne, ec.; che tutti i forni siano nella borgata e che non si possa fare il pane nella campagna; che non possano stabilirsi nella campagna i rivenditori, gli artigiani, i fabbri, i sarti, i calzolai, i falegnami, i macellai e i rivenditori al minuto, e che non possa, chi è stabilito nella campagna, tenere in casa una provvigione maggiore che per otto giorni. Oltre a ciò si conferiscono con quel decreto molti privilegi e va- 202 RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. rie esenzioni per gli abitanti interni. — Vedi la differenza dei prezzi dei cereali fra la città e il contado negli Annali Alessandrini dello Scniavina, Hist. Patr. Monum. Seript., IV. Nel trattato di pace conchiuso fra i nobili ed il popolo di Milano ai 10 giugno 1225, mentre Federico II si accingeva ad invadere la Lombardia, fu pattuito che la gente del contado fosse considerata, quanto ai carichi, come gli abi- tanti della città (Grurini, VII, 385). Uno dei carichi più gravi che incombeva ai nobili ed alla gente del contado, era l’<«onus guastatorum vel plaustrorum mittendorum ad exercitum de mandato Domini aut Communis. » © Con contratto dell’anno 1198, Giovanni card. vescovo di Viterbo accordava a certo Ricardo un terreno boschivo su quel di Rieti, perchè lo rimboschisse, ne allevasse e cu- stodisse le piante per venti anni. Nel frattempo il concessio- nario poteva tagliare nel bosco ceduo la legna necessaria per la sua famiglia. Le piante, passato il ventennio, spettavano per metà al concedente e per metà al concessionario. Il concedente aveva la facoltà di riscattarle a 10 soldi meno del loro valore (Murat., Ant. It. M. 4E., I, 441). 9 Da una sentenza dei consoli di Milano, dei 18 set- tembre 1150, circa la proprietà di certi terreni fuori di porta Vercellina, apparisce che fuori delle porte della città erano i pascoli comuni, ai quali erano preposti due citta- dini col titolo di consoli (Grucisi, V, 3). Erano in generale lasciati a pascolo i terreni che separavano i territori dei singoli Comuni. (10) In un ritmo in lode di Milano, scritto nell’anno 789 (Murat., op. cit., II, parte II), è detto che a quell’ epoca Milano era abbondante d’ogni cosa, di grani, di vini, di carni: Rerum cernitur cunetarum ‘inclyta Speciebus, generumque diversorum referta seminibus, Vini copia et carnes adfluentes nimie. Vedi per l'abbondanza dei viveri in Milano ai tempi di Ottone I, Lanpuvpn., Sen. Il, 17, e FLAMMA, Manîp. Flor., RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOL'TURA ITALIANA. 203 134, ove quest’ ultimo dice: « Porci autem, arietes et ma- gni boves dominum non reperiebant, imo gratis dabantur. » L’esagerazione è evidente, e conviene di più notare che il Framma parla di anni successivi ad una pestilenza. In ogni modo queste testimonianze hanno qualche cosa di vero, e mostrano che regnava l'abbondanza in una relativa povertà generale. La città di Milano era costrutta, per la massima parte, di case di paglia e graticci, « ex paleis et cratibus quam plurimum composita » (FLAMMA, 158). D’onde i fre- quenti incendi. Il Fiamma, registrando un incendio dell’an- no 1106, dice che la città a quell’ epoca era stata distrutta già sedici volte dal fuoco: « Unde fuit statutum quod flante vento nullus in domo ignem succenderet; et sic interdum tota ci- vitas sine igne et cibariis coctis remanebat» (I. c.). (4! Vedi il nostro studio, La colonia parziaria, pag. 19 e seg., note 14 e 15. Vedi pure GLoRrIA, Del? agricoltura nel Padovano, 61, 123. Teodolfo, vescovo di Genova, accordò nell’anno 962 alcuni terreni a colonia verso la settima parte del grano e la metà del vino, dell’ olio e delle frutta (Hist. Patr. Mon., Liber jur. Reip. Genuensis, I, 3). Il duca Orso concesse nell’anno 919 una terra di Sant’ Arcangelo a colonia verso la decima dei grani e la metà del vino e dell’ olio (FANTUZZI, Mon. Ravenn.). Nei Neapol. Archiv. Mo- num., IT, 83, dell’anno 960, è un contratto di colonia che somiglia, anche nella formola, a quello di Catone. Valberto, vescovo di Modena, accordò nell’anno 869 a Giovanni, uomo libero, un podere a colonia parziaria, verso «grano grosso modio quarto, minuto autem modio quinto, lino manna quinta, vino medietatem > (Murar., op. cit., I, 724). In un altro contratto colonico dell’anno 813, fra Deodato, vescovo di Modena, e Domenico Montanario, uomo libero, la parte del proprietario è stabilita così: « Grano modia quarto, milica, panico, milio modia quincto, lino manna quart, vino anfora tertia » (Murar., op. cit., I, 520). (2) CANCIANI, Barbarorum leges antique, V, 320 e 328. 204 RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. ‘(13) « Da fuori Sicilia vengono queste merci: » Primo. — Roba di seta e seta non tessuta. La dogana di questa si è data in gabella per duemila e trecento Krus in ogni anno; e ho assegnato un magazzino a colui, che ha preso la gabella, per conservare quella roba. » Secondo. — La roba di panno si è data in gabella per cinquemila Krus ogni anno, e ho destinato un magazzino per conservarla. » Terzo. — Ho dato la gabella delle telerie per settemila Krus ogni anno, e ho designato un magazzino per conser- varle. » Quarto. — Ho dato la gabella delle cose di odore, pro- fumi e medicamenti per duemila e cinquecento Krus l’anno, e per le quali cose ho destinato un magazzino. » Quinto. — Ho dato la gabella del ferro per quattromila Krus l’anno, con un magazzino per conservarlo. » Sesto. — Ho dato la gabella di rame per duemila e quattrocento Krus l’anno, e ho assegnato un magazzino | pér conservarlo. » Settimo. — Ho dato la gabella per le cose che servono alla tintoria delle robe, e per ogni sorta di legname, per mille settecento e sessanta Krus l’anno, ed ho assegnato per conservarle un magazzino. » Ottavo. — Ho dato la gabella di tutte quelle robe che saranno ricamate con oro ed argento, tanto di seta quanta di lana, per duemila e quattrocento Krus l’ anno, con un magazzino per uso di esse. » Nono. — Ho dato la gabella di quelle cose di ferro, di rame, di oro e di argento, che siano lavorate per farne uso, per ottocento e trent’ otto Krus Ì’ anno, ed ho desi- gnato per esse un magazzino. » Decimo. — Ho dato la gabella delli datteri per mille e seicento Krus l’anno, e ho dato due magazzini per con- servarli. » Undecimo. — Ho dato la gabella . ...... mille e cinquecento e trenta l’anno, e ho assegnato un magazzino PBPESA pera RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. 205 » Duodecimo.— Ho dato in gabella la pece e le corde che servono per le barche e bastimenti, per trecento e sessanta Krus l’anno, ed ho destinato un magazzino per conservarle. » Queste sono le dogane, che si pagano di quella roba, che viene da fuori Sicilia. » < Merci che si estraggono da Sicilia : » Della roba, che si estrae da Sicilia, ho dato le gabelle delle dogane nel modo che siegue : > Primo. — Ho dato la gabella dello zucchero per nove- cento Krus l’anno, e ho dato un magazzino per conservare quella roba. » Secondo. — Ho dato la gabella della cera per seicento e quaranta Krus l’anno, con un magazzino per riporvela dentro. » Terzo. — Ho dato in gabella il mele bianco ed il mele nero per mille Krus l’anno, e un magazzino per conservarlo. » Quarto. -- Ho dato in gabella le lane, che si estraggono da Sicilia, tanto tessute quanto greggie, per settecento Krus l’anno, e ho assegnato due magazzini per conservarle. > Quinto. — Ho dato in gabella l’olio per novecento e sessanta Krus l’anno, con due magazzini per conservarlo. » Sesto. — Ho dato in gabella il riso per duecento Krus l’anno, con un magazzino per conservarlo. » Settimo. — Ho dato in gabella il legname, che si manda fuori, per cento e trenta Krus l’anno, e non vi ho asse- gnato magazzino, perchè il legname si conserva fuori dei magazzini. » Ottavo. — Ho dato in gabella tutte quelle cose di creta, che si fanno in Sicilia e si mandano fuori, per cento e venti Krus l’ anno, con un magazzino per conservarle. » Nono. — Ho dato in gabella il marmo per settecento Krus l’anno, e gli ho assegnato un magazzino. > Decimo. — Ho dato in gabella l'argento vivo, che si estrae da Sicilia, per cento Krus l’anno, e ho assegnato un magazzino. 206 RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. » Undecimo.— Ho dato in gabella il pesce salato, che si estrae da Sicilia, per tremila e venti Krus l’ anno, ed ho assegnato a tal uopo tre magazzini. > Duodecimo. — Ho Gato in gabella la carne, che li Ge- novesi vengono a salare in ogni anno, e la gabella l’ hanno presa essi stessi per duemila quattrocento e cinquanta Krus l’anno, e ho assegnato tre magazzini per conservare que- sta roba. » Decimoterzo.— Ho dato in gabella le olive, che si estraggono da Sicilia, per cento e sessanta Krus l’ anno, ed ho assegnato per ciò due magazzini. » Decimoquarto. — Ho dato in gabella il lino e il ca- nape, che si estrae da Sicilia, per quattrocento Krus l’anno, e ho assegnato due magazzini. » Decimoquinto. — Ho dato in gabella le corde, che si estraggono da Sicilia, per cento Krus l’anno, con un ma- gazzino per conservare quelle robe; e questo magazzino è uno di quelli destinati a conservare la roba, che viene da fuori Sicilia, dei quali ne sono avanzati sei senza destino e per ciò ne provvedo quella gente di Sicilia, che dovrà estrarre la roba per fuori Sicilia. » Decimosesto. — Ho dato in gabella le uve passe, i fichi, le ciliege e prugne, che si seccano ogni anno dalla gente di Sicilia e si vendono ai Bisani e Genovesi. Questa gabella i ho data in appalto ai Genovesi per cinquemila Krus l’anno, e ho destinato due magazzini per conservare quella roba. » Decimosettimo.— Ho dato in gabella il butiro e for- maggi, che si estraggono da Sicilia, per tremila cento e venti Krus l’anno; gli appaltatori di questa gabella sono Bisani, ed ho assegnato ad essi due magazzini per conser- vare quella roba. » Decimottavo. — Ho dato in gabella tutte le pelli, che escono dalla Sicilia, per settecento e venti Krus l’ anno, e questa gabella l’ hanno presa li Genovesi, alli quali ho dato un magazzino » (CANCIANI, op. cit., V, 339). (14) AMARI, Biblioteca arabo-sicula, 1, (15) AMARI, Op. cit. RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. 207 (19 Dal documento del febbraio 1141, col quale Roggiero dava l'investitura di un feudo ai Basiliani di Messina, ap- parisce che ancora a quei tempi l’olio importavasi dal- l'Africa: «Et habeant licentiam mittere in Africam fru- menti salmas ducentas ad emendum oleum.» Con altro documento dell’ anno stesso accordò ai Basiliani «de pro- ventibus portus, olei metras annuatim octuaginta donec fiant in Monasterio oliveta» (Prrro, Archim. Messane Not., 1,4). ( Hist. Sarac. in Sicilia, in Murar., Rer. Ital. Script., II, 253. Sotto i primi Normanni pagavasi alla Chiesa la de- cima per l'allevamento dei cavalli, « pro pullis equinis » (Pirro, Agrig. Eceles. Not., III, 3). Col documento succitato d’investitura, Roggiero donò ai Basiliani « equas 50, equos parvos et magnos 10, oves 3000, capras 200, vaccas 50, bo- ves 300, porcos 800, asinos 12. » (13 NricoLosI, Memoria sulla coltivazione del cotone in Maz- zara, I; OxoRATI, Delle cose rustiche (1804). (9° Movers, Das phonizische Alterthum, II, 354. (@9 Lurci GrIiMALDI, Sulla coltivazione ed industria del cotone, I, 9. ®1 ONORATI, l. c., ricorda certi documenti, secondo i quali i preti di Sant’ Arduino affittavano terre «ad colendum gossypium > già nel 1050. De GrassIs, Catana sacra, ri- porta, all’anno 1140, un diploma di donazione di Roggiero al monastero di Sant’ Agata, nel quale parlasi di terreni piantati a cotone. EpRISI in AMARI, op. cit., lo trovava lar- gamente coltivato nella piana di Partinico. @®) Federigo II, nelle Assise del mese di ottobre 1232, stabilì che si osservasse la forma antica per la tassa «de bombace et de arcu cuctonis.> La tassa era stata imposta dai Normanni. Da un documento dell’ anno 1274 apparisce che la Chiesa di Palermo prelevava ab antiquo la decima sulla filatura e sulla tessitura del cotone (cabella filecti e arca cuctonis). Anche taluni documenti della Chiesa di Mes- sina dell’anno 1270, e delle Chiese di Girgenti e di Saca 208 RICOSTITUZIONE DELL'AGRICOLPIURA ITALIANA. (Sciacca) del 1280, parlano della decima del cotone come di una istituzione vecchia (BIANCHINI, Storia economico-civile di Sicilia, 1; Di GREGORIO, Considerazioni sopra la Storia di Stcilia, I, note al cap. 4). (23) Barrio, De antig. et situ Calabria. Questi Comuni erano Ajeta, Sammarano o Murano, Saracena, II, 3; Me- livito, Blanda (Belvedere), II, 4; Rende, II, 5; Cosenza, II, 6; Rocca Angitola, Pizzo, II, 11; Tropea, II, 13; Bran- caleone, Bovolina, Condojano, III, 6; Gerace, III, 12; Crit- teria, III, 13; Castelvetere, III, 14; Paganica, III, 15; Cata- rena, Badolato, Satriano, III, 16; Squillace, III, 20; Asilia, Simari, Cropano, IV, 1; Belcastro, Missurgia, IV, 2; Poli- castro, Li Cotronei, IV, 3; Santa Severina, IV, 4; Crotone, IV, 21; Strongili, IV, 22; Briatico, Cirra, IV, 23; Pelva- pante, Colopiciato, IV, 24; Corigliano, V, 5; Castrovillari, V, 17; Cosa, V, 18; Tubisaggi, V, 19; Tabalio, Aroca, V, 20; Scalea, II, 2; Fiscaldo, Torano, II, 5; Arocella, III, 13; Ca- riati, IV, 24; Bisignano, V, 6. Vi erano cotonifici ai tempi di Barrio a Murano, II, 2; Roggiano, II, 4; Catarena, III, 16: Bisignano, V, 6; Terranova, V, 7. (2 Porta, Ville libri XII (1592). Erano due centri di produzione Noja e Rontigliano (ALBERTI, Deserittione di tutta V Italia, 295). (5) BartELS, Briefe ber Calabrien und Sizilien, III, 309; DI BartoLo, Della coltivazione del cotone în Terranova. (26) LuIGI GRIMALDI, op. cit., IV, 2. (27 GALANTI, Descrizione del continente napolitano, III @9 BIANCHINI, Storia delle finanze del Regno di Napoli, III, 355. (9) BARTELS, op. cit., III, 251. (30) BIANCHINI, op. cit., III, 891. 13) BIANCHINI, op. cit., III, 942. (32) Hrnn, Kulturpflanzen und Hausthiere in ihrem Ueber- gang aus Asien nach Griechenland und Italien, 444. RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. 209 te] 0 DI BarroLOo, op. cit., 71. ©“ Dr BartoLO, op. cit., 24, 70. 35) SrRABONE, per non parlare di altri, dice, alludendo allo zucchero, che nell’ India le canne producono miele senza l'intervento delle api (XV). Anche Faucanpo, Hist. Sicul., pref., serive che il succo della canna un po’ cotto si converte in miele, e molto cotto s’indurisce e diventa zuc- ehero. E così pure M. Niarus, Sicilie descriptio, parlando delle canne dice: «Quibus educitur mel, quod hc etas excoquendo in saccarum vertit. » 89 Erop., II, 92; Trorr., Hist. Plant., IV, 9; Prin., H. NESTA 29. 7 In un documento dei 15 agosto 1176, col quale il re Guglielmo faceva delle donazioni al monastero di Santa Maria juxta Panormum, leggesi: « Juxta portam Rote con-. cedimus ei libera et absque datione aliqua molendinum ad molendas cannas mellis, quod saracenice dicitur massara » (Pirro, Eccles. Monteregal. Not., III, 1). 9 « Cabella saccarum> (BrancHINI, Storia economico- civile di Sicilia, I, 361). Nelle Assise di Federico II del- l’anno 1232, il dazio dello zucchero apparisce sotto il nome di jus cannarum. Nel 1515 il Parlamento chiese che il da- zio per dieci anni fosse diminuito della metà (Cap. 77 di Ferd. II). Questo favore fu accordato (Cap. 80 di Ferd. II). Nell'anno 1523 il Parlamento domandò la continuazione di questo favore per un altro decennio; il Re si riservò di provvedere (Cap. 59 di Carlo V). Nel 1612 s’impose una tassa di 12 tari per cantajo sulla produzione (BIANCHINI, I, 276). Il dazio sulla esportazione fu confermato nel 1651, quantunque la esportazione fosse cessata quasi per intiero (Pramm. 3 marzo 1651), e si manteneva ancora nel secolo passato, quantunque fosse ridotta al nulla anche la produ- zione (BrancHINI, I, 290). La decima dello zucchero figura in un documento dell’anno 1280 per le Chiese di Girgenti e di Sciacca (Di GREGORIO, op. cit., I, 4). BERTAGNOLLI. 14 210 RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. (39) Nell’anno 1239 l’ Imperatore ordinava ad Oberto Fal- lamonico, Segreto di Palermo, di cercare due uomini pratici nella fabbricazione dello zucchero, onde quest’ industria non venisse meno (Di GreGoRTO, Discorsi intorno alla Sicilia, XX). (40) Questo capitolo è dell’anno 1453, ed era diretto ad ottenere che la tassa di produzione dello zucchero si po- tesse pagare invece che in marzo, epoca della piantagione della canna, in agosto, epoca del raccolto. E suona così: «Item supplica la dieta universitati ad sua sacra mae- stati, ki in la dieta chitati la majuri trafica, ki ogi occurra, esti lu exercitiu di li cannameli et quillu da lu quali per li extractioni la Regia Maestà et sua Curti consequita ma- Juri utilitati > (Dr Marzo, Diari della città di Palermo, X, 81). 4) DI GREGORIO, op. cit. FAzELLO, De rebus siculis, trovò la canna da zucchero soltanto nei campi Iblei, I, 3; nei territori di Partinico e d’Iccara, I, 7; e in generale nella pfanura di Palermo, I, 8. ‘Barrio, (op: (cit., JI; 21/4 5, L16012; (3 Spanò BoLanI, Storia di Reggio di Calabria, II, 5. © Si destinavano alla canna i campi non lontani dalla marina per non esporla al gelo ed alle brine. Nell’ inverno e nella primavera si rompeva il terreno tre, quattro o più volte coli’ aratro e si disponeva in solchi. In marzo si pian- tavano i pezzi della canna, badando che in ognuno vi fos- sero dei nodi. La piantagione si liberava dalle male erbe e si adacquava spessissimo, Nell'ottobre o nel novembre le canne giungevano all’altezza di 5 o 6 palmi, si tagliavano raso terra, lasciando le radici per la produzione dell’ anno successivo. La canna era una pianta biennale, e, secondo alcuni, triennale. Le radici si concimavano col letame in aprile o maggio, e prima della piantagione si preparava il terreno col sove- scio di lupini. Fatta la mèsse, le canne si sfrondavano, si ta- gliavano in pezzi minuti e si deponevano nel trappeto o torchio. Il succo si versava in una caldaja e si cuoceva, sì purgava e sì colava con panni, e se ne otteneva una so- RICOSTITUZIONE DELL'AGRICOLTURA ITALIANA. 211 stanza simile al miele. Quindi si versava in una caldaja d’ acqua tiepida e finalmente in una caldaja d’acqua fredda. D’onde si estraeva, si riponeva in vasi di creta a pira- mide, si lasciava indurire e si otteneva uno zucchero gros- solano ed alquanto nero. Ripetendo la cottura due o tre volte, lo zucchero si faceva bianchissimo (OmoprI, Descri- zione della Sicilia, 1556). Vedi anche ARrETIUS, Sicilie cho- rografia, 50; FazeLLo, De rebus siculis, I, 4. (4) Bansamo, Giornale di viaggio in Sicilia, 207. 4 BaLpuccI, scrittore e commerciante del secolo XIV, enumera i migliori zuccheri dei suoi tempi; ma della Sici- lia non.nomina che lo zucchero del Cancro di Monreale, che colloca fra i meno buoni (PagnINT, Della decima, ec., III, 362). Meno avverso allo zucchero di Sicilia è 1’ UzzAno, scrittore e commerciante del secolo XV, il quale ne parla ripetuta- mente (PaGNINI, IV, 59, 91, 165 e 101). (#7) ManipieRro, Annali Veneti, nota, all’ anno 1496, che lo zucchero siciliano era ridotto a prezzo vilissimo per la con- correnza fattagli dallo zucchero di Madera. Egli narra che, quando i Portoghesi scopersero quell’isola, alla metà del secolo XV, vi trovarono la canna da zucchero che cresceva spontanea. “8 Cap. 77 di Ferdinando II. (549) ALBERTI, Descrittione di tutta V Italia, 45 bis. (50 Dr GREGORIO, Discorsi intorno alla Sicilia, XX. 61 LEANTI, Stato presente della Sicilia, I, 4. (2) BALSAMO, op. cit., 207. (3) BALSAMO, op. cit. (64) BARTELS, op. cit., I, 336. (5 BrancHINI, Storia delle finanze del Regno di Napoli, III, 895. 65 Verso l’anno 1835 la Società Partenopea e il cav. Luigi Giura eressero a Sarno delle fabbriche di zucchero di barbabietole, che diedero ottimi risultati. La barbabie- tola cresceva benissimo e si conservava senza danno sin 212 RICOSTITUZIONE DELL’AGRICOLTURA IL'ALIANA. quattro o cinque mesi. Il rendimento in zucchero stava nella proporzione del 7 p. °/. Lo zucchero era bello e buono al pari di quello degli altri paesi. Ciò non pertanto l’ industria non potè sostenersi per mancanza di tornaconto. La colti- vazione delle barbabietole dello zucchero è economicamente possibile a condizione che si tragga largo profitto dai re- sidui della fabbricazione dello zucchero, principalmente come foraggio. Ove questa condizione non si verifica, e non si sarà per fermo verificata nel contado di Sarno, l’ industria non è rimuneratrice. 67 ALBERTI, op. cit., 45, narra quasi meravigliato che il proprietario di una fabbrica di zucchero nelle campagne di Ficarazzi spendesse sino a 5000 ducati all’ anno! 6 Eprisi non parla specialmente degli agrumi, perchè in lui, orientale, non potevano destare un particolare inte- resse; ma decanta continuamente l’ abbondanza delle frut- ta, delle quali faceva bella mostra la Sicilia, e tra cui indubbiamente eran compresi gli agrumi. Ne parla invece con entusiasmo il normanno FALCANDO, suo contemporaneo, nella Hist. Sicula, pref.: « Poma punica vel dulcia, vel ace- tosa et citri. » (69 «Circa Laurium sunt montes olivetis ac citrorum copia suavissimi. — Benacus citrorum copia odoratissimus » (MeruLA, De Gall. Cisalp. antig. ac orig., II, 15, 17). Vedi anche Giovio, Lari lacus descriptio, e BemBo, Storia veneta, I. (60) Op. cit., 11, 13 bis, 20 bis, 82, 37 bis, 137 bis, 188, 194, 195, 196, 202, 236, 243 bis, 277. 6” Per la Calabria Barrio segnala gli agrumeti di San Gineto, II, 3; Bombicino, II, 4; Nicastro, II, 11; Briatico e Jopoli, II, 13; Calimera, II, 14; Borello e Cinquefondi, II, 15; Fiumara di Muro, II, 20; Bovolina, II, 6; Satria- no, III, 16; Santa Severina, IV, 4; Cirra, IV, 23; Reg- 210, LI (6) BranconinI, Storia economico-civile di Sicilia, II, 2 50. JE L'AGRICOLTURA ITALIANA NEGLI ULTIMI SECOLI DEL MEDIO EVO. Le popolazioni dell’ Europa boreale ed occiden- tale davano appena i primi segni di dirozzamento, quando 1’ Italia entrava già a gonfie vele nel periodo più operoso, più ricco e più brillante della sua vita economica. L’Italia si era fatta il centro del commercio mon- diale. Pisa, Venezia, Genova ed altre città minori colle numerose loro flottiglie mercantili trasportavano ad Alessandria, a Costantinopoli e sino in fondo al mar Nero ed al mare d’ Azow i prodotti delle industrie italiane e particolarmente panni, armi, vetri, saponi, oggetti d’ or- namento, ec., che per mezzo di carovane erano man- dati nell’ interno dell’ Egitto, dell’ Arabia e nel centro dell’ Asia. E ne ritiravano e trasportavano in Italia i prodotti del Levante e nominatamente la seta, il riso, lo zucchero, il pepe, la cannella e le altre dro- ghe. I negozianti italiani mandavano poi queste merci nella Svizzera, nella Francia, nella Germania, nel- Olanda e nell’ Inghilterra, ove tenevano case e fondaci. L'industria principale dell’ Italia, l'industria na- 214 L’ AGRICOLTURA ITALIANA zionale, era la tessitura della lana. Tutte le città eser- citavano il lanificio, e molte trovavano in esso colossali risorse. Le sedi principali di quest’industria erano Firenze, Milano e le altre città della Lombardia; Ve- rona, Padova, Ancona, © * e, nella bassa Italia, Napoli, Arpino, Isola, Piedimonte d’ Alife, Morano di Calabria, Aquila e Teramo. Si era tentato di diffondere il lanificio anche nella Sicilia, ma con poco successo.! L’ Italia mandava panni per tutta la terra. Ma non tutta la materia prima della produzione mette- vasi assieme in paese. Una buona parte delle lane, e particolarmente le lane più fine e pregiate, ritira- vansi dalla Francia, dalla Germania, dall’ Olanda, dal- l'Inghilterra e dalla Spagna. La lana greggia era il correspettivo che offrivano questi paesi per le merci levantine e per i prodotti delle industrie italiane. Un’ altra industria importantissima, così per ]’ Ita- lia superiore e segnatamente per Milano, come per il Napoletano, era quella degli armajoli. Le armi, le ma- glie, le armature, i finimenti dei cavalli, ec., che si producevano negli opifici italiani,’ erano ricercatis- simi da per tutto, e costituivano uno dei più riechi cespiti della nostra esportazione. Si mandavano non solo negli altri paesi d’ Europa, ma eziandio nell’ Africa e sin nella Tartaria.!” Dell’industria della seta ragioneremo a parte. Del cotonificio, per ciò che ha rapporto all’ Italia meridio- nale ed alla Sicilia, abbiamo parlato nel capitolo pre- * Vedi le Note a pag. 232. NEGLI ULTIMI SECOLI DEL MEDIO EVO. 915 cedente; qui aggiungeremo solo che era esercitato su vasta scala anche in Lombardia. Accanto a queste industrie comuni e principali fiorivano la tessitura del lino e della canape,” la ce- ramica, particolarmente nell’ Italia meridionale ; la fab- bricazione dei saponi, degli specchi, dei vetri e cento altre lavorazioni, che somministravano un ragguarde- vole contingente alla esportazione.‘ L'Italia non importava che materie greggie, e som- ministrava a tutti 1 paesi i prodotti delle sue mani- fatture. In tale stato di cose era naturale che fosse in mano degl’ Italiani il mercato monetario d’ Europa. Nelle città principali dei varii regni le grandi Compagnie industriali e commerciali di Firenze, di Lucca, di Milano, ec., tenevano banchi, ai quali ricor- revano frequentemente i Principi del paese per grossi affari di prestiti. Se sì esamina attentamente la storia politica delle città italiane, sì può senza difficoltà determinare 1’ epo- ca, nella quale ebbe principio questo grandioso movi- mento industriale. Finchè il governo delle città fu in mano delle de- mocrazie, le industrie non potevano svolgersi che in mezzo a grandi difticoltà. I cittadini erano troppo distratti dalle cure della politica, dell’amministrazione e della guerra, e vi si appassionavano più del biso- gno. Ogni momento suonava la campana del Comune, ed ecco tutta la popolazione lasciare gli utensili del lavoro e le botteghe per accalcarsi nella piazza ad udire una comunicazione, a deliberare, a procedere Bor 216 L’ AGRICOLTURA ITALIANA ad una elezione; e poi sciogliersi in capannelli e, prima di ritornare al lavoro, commentare le notizie, i fatti o le deliberazioni nelle osterie, nei luoghi pubblici, sugli sporti delle botteghe. Ogni momento si dava il segno d’allarme, ed ecco la popolazione correre alle armi per una quistione di chiesa, di famiglia o di partito, o per respingere gli attacchi dei fuorusciti 0 delle nemiche città del vicinato. Le guerre, o intestine o esterne, erano fenomeni di tutti i giorni; con eser- citi siffatti non erano decisive ; bastava un falso al- larme, un equivoco per far fuggire ambo gli eserciti ; onde le lotte si rimandavano da una stagione all’ altra, dall’ uno all’ altro anno; le campagne si risolvevano il più delle volte in iscorrerie, devastazioni e sac- cheggi. : È facile comprendere come in tale stato di cose non potesse darsi un lavoro efficace, un grande movi- mento industriale. Ma quando nelle città si costituì un governo regolare e stabile, e la somma delle cose si ridusse in mano di un solo o di pochi, la vita del paese mutò : le lotte intestine furono soffocate, gli interessi dello Stato si separarono da quelli della Chiesa, ces- sarono gli esilii in massa delle fazioni vinte, le guerre si fecero principalmente con compagnie di mercenari, si resero sicure le strade, ela popolazione, fatta estranea alla politica ed alle guerre, potè occuparsi tranquilla- mente delle sue industrie e dei suoi commerci. Con- temporaneamente le borgate e le città minori furono assorbite dai principati dei grandi centri, e così cad- dero le barriere doganali che dividevano i Comuni in un numero infinito di autonomie economiche, NEGLI ULTIMI SECOLI DEL MEDIO EVO. 217 Le popolazioni perdettero la sovranità, ma acqui- starono la ricchezza. E così si spiega come le epoche economiche più fiorenti fossero per Milano il periodo dei Visconti, per Firenze quello dei primi Medici, per Verona quello degli Scaligeri, e così via. Non è difficile calcolare quale azione benefica do- vesse esercitare uno stato economico così progredito sulle condizioni dell’agricoltura. Abbiamo dimostrato già in altri luoghi come 1’ agricoltura non possa non esser ricca in un paese, nel quale siano vivace e ben nutrito il commercio, numerose e fiorenti le industrie. Questo era appunto il caso di buona parte d’ Italia. Abbiamo detto pensatamente di buona parte d’ Italia, anzichè di tutta la penisola, imperocchè in qualche regione le industrie mancavano od erano povere, e nondimeno le condizioni dell’ agricoltura erano invi- diabili. Ricorderemo, a mo’ d’esempio, le provincie di Siena, di Cuneo, di Torino e la Sicilia. Ma anche in queste regioni non poteva non far sentire un’azione benefica la prosperità commerciale ed industriale della maggior parte del paese. Siena nei secoli XII e XIII non mancava di un ragguardevole movimento industriale; ma dopochè gli operai negli anni 1371 e 1384, appoggiati dalla nobiltà, ebbero scacciato dalla città i padroni delle botteghe, le industrie più non risorsero, e la popolazione si de- dicò esclusivamente alla coltivazione delle terre.” Il contado produceva molto più di quanto era neces- sario per il mantenimento della sua non numerosa popolazione, e mandava con suo grande profitto l’ec- 218 L' AGRICOLTURA ITALIANA cedente di tutti i suoi prodotti all’ industriosa Fi- renze.!" Anche le due provincie di Torino e di Cuneo, che allora costituivano il principato di Piemonte, furono poverissime d’industrie fin verso la fine del seco- lo XVI; ma esportavano una ragguardevole quantità di prodotti della terra sia per il Genovesato, sia per la Francia e per la Svizzera. E questo commercio d’ esportazione di derrate bastava a mantenere nel- l'abbondanza la popolazione piuttosto scarsa delle due provincie. Quanto alla Sicilia, abbiamo avuto occasione di notare già in altra parte che essa non fu mai un paese industriale, e che tutte o quasi tutte le sue risorse si fondavano sulla coltivazione delle terre e sulla esportazione dei prodotti agricoli. Così anche in questo periodo. L'industria della seta era limitata alle città di Palermo e di Messina, quella dello zue- chero a Palermo e ad alcuni centri minori, e così pure quella del cotone a poche località. La Sicilia era rimasta agricola, come per il passato.!? Rimontano a quest’ epoca di febbrile operosità e di straordinaria potenza economica le grandiose opere d’irrigazione che si compirono nell’ Italia superiore, e che sono ancora una scuola per 1’ ingegneria idraulica. L’ irrigazione era molto diffusa anche prima, ma sol- tanto per quei terreni (nè pochi per verità, nè poco importanti), per i quali si aveva 1’ acqua alla mano e si poteva derivare e condurre nei fondi con poca fa- tica. Mediante i grandi e numerosi canali di derivazione che si eseguirono in quest’ epoca, l’irrigazione si estese NEGLI ULTIMI SECOLI DEL MEDIO EVO. 219 in grandi proporzioni, si fece regolare e sicura, si porse modo al paese di allargare le coltivazioni più rimuneratrici, e si garantirono gli agricoltori contro il pericolo, sempre minaccioso e sempre grave nei paesi meridionali, della siccità. Al primo lavoro di lunga lena si pose mano dai Milanesi alla domane della gloriosa vittoria della Lega lombarda sul Barbarossa. Era il Tesinello che deri- vava una parte delle acque del Ticino e le conduceva prima sino ad Abbiategrasso e poi sino a Milano ed a Pavia. Seguì l’ apertura della Muzza, del Naviglio della Martesana e di quella rete di canali grandi e piccoli che intersecano ed irrigano tutta la pianura lombarda. Sotto gli Sforza si scavò la Maura per la irrigazione del territorio di Novara. Intanto Madama Violante di Savoja incominciava e Madama Bianca continuava il lavoro dello scavo del Naviglio di Ver- celli; che ebbe poi termine sotto Emanuele Filiberto.!"” I grandi lavori erano eseguiti dallo Stato, che se ne rivaleva applicando un’ imposta speciale ai pro- prietari interessati. I minori erano eseguiti dagl’ in- teressati medesimi, o spontaneamente o dopo che lo Stato gli aveva resi obbligatorii in seguito a domanda di uno o più interessati ed al riconoscimento del- l’ utilità pubblica dell’ opera. Gli interessati concorre- vano all’ esecuzione del lavoro o coll’ opera propria, con carri e bestiami, o con una contribuzione in de- naro.!") Non abbiamo mancato di dire il pensiero nostro, ove l’ azione dei Comuni e delle democrazie ci è sem- brata dannosa, o per sè stessa o per i suoi effetti, al- 220 L'AGRICOLTURA ITALIANA l’ agricoltura. Ora colla stessa franchezza osserviamo che nell’ affare delle irrigazioni si sono acquistate le maggiori benemerenze, sia rendendo le opere obbli- gatorie, ove sembravano utili, sia sostituendosi al- l’azione dei privati, ove questa era manchevole o non pari al bisogno, sia disciplinando con provvide leggi la ragione delle acque. I principati che si sono formati sulle rovine delle autonomie comunali, hanno eseguito lavori di maggior lena, perchè nel frattempo la ric- chezza pubblica si era straordinariamente aumentata e perchè in ogni modo disponevano di mezzi mag- giori; ma in sostanza essi non hanno fatto altro che seguire la corrente formata dall’ opera pertinace e costante dei Comuni. Furono in ogni tempo ricchissime d’ acque anche le Calabrie e la Sicilia. Avevano non pochi fiumi che sino ad una certa distanza dal mare erano na- vigabili, o che abbondavano d’ acque in tutte le sta- gioni dell’ anno. Ma la ricchezza di quelle regioni consisteva particolarmente in un numero infinito di rivi e ruscelli, che scendevano dalle montagne rive- stite di una superba vegetazione boscosa e che met- tevano foce direttamente nel mare. Di tutte queste acque si faceva un largo uso per 1 irrigazione. Ma se prescindiamo dall’ epoca, che andò famosa per le grandi opere idrauliche compiute in Sicilia, non ci sovviene la memoria di un lavoro di qualche impor- tanza che sia stato fatto in quei paesi per gli scopi dell’ agricoltura. Mancava la vita comunale e il Go- verno, lontano o noncurante o imprevidente, non sì 0ce- cupò di questa importante materia, Onde le acque, NEGLI ULTIMI SECOLI DEL MEDIO EVO. 221 impoverite dalla diminuzione dei boschi e non raccolte e incanalate, decrebbero, e molte un po’ alla volta si dispersero intieramente. Se per quei paesi, nei quali l’acqua è un elemento così essenziale dell’ economia campestre, dovessimo fare un parallelo fra le condi- zioni agricole di alcuni secoli addietro e le attuali, di- remmo che l'agricoltura di quei tempi era ricchissima d’ acque, mentre quella di adesso ne è poverissima. Si promossero con interesse nella parte bassa della Venezia e sulle due sponde del Po anche le opere di prosciugamento. Ma in queste lo Stato non prese in generale una ingerenza diretta e si limitò ad ordi- narle ed a disciplinarle, lasciandone la cura dell’ ese- cuzione ai consorzi di proprietari interessati. Di pari passo coi lavori di irrigazione e di pro- sciugamento andò la riduzione a coltura dei terreni boscosi o sodi. Si abbandonarono all’ ascia quasi tutti i boschi di pianura che si erano formati dopo la ca- duta dell’ Impero romano, e si assoggettarono all’aratro quei terreni vicini ai centri abitati, o suscettibili di una proficua coltivazione, che si erano lasciati a pa- scolo per 1’ alimentazione del bestiame delle classi povere." Il mutamento più notevole, che si fece nella col- tivazione della terra, fu il ritorno alla coltivazione del frumento. Abbiamo veduto che dopo la caduta del- l'Impero romano si era abbandonata questa colti- vazione per quella dei cereali inferiori; in questo periodo, seguendosi i progressi della civiltà e della ric- chezza pubblica e le cresciute esigenze della popola- zione, si ritornò alla coltivazione del frumento. Nelle 222 L’ AGRICOLTURA ITALIANA cronache e nei documenti di quel tempo questo ce- reale figura sempre come l’ articolo più importante per l’ alimentazione della popolazione cittadina. Se ne produceva in generale molto più di quanto - era necessario per tale scopo, e se ne esportava, tranne che in annate cattive, dalla Sicilia, dalla Pu- glia, dall’ Emilia, dalla Lombardia e dal Piemonte.” È però appena necessario di notare che la possibilità della esportazione di granaglie non dipendeva solo dall’ abbondanza del prodotto, ma anche dalla scar- sezza della popolazione in paragone dell’ estensione della terra sottoposta a coltivazione. Ma non per ciò si era abbandonata la coltivazione degli altri cereali. La popolazione delle campagne si cibava in parte anche allora di cereali inferiori, o soli o misti al frumento, dei quali si consumava inoltre una grande quantità per 1’ alimentazione del bestiame e nominatamente dei cavalli. L’ orzo, la segale, il pa- nico, il miglio entravano negli avvicendamenti del- l’Italia superiore, come 1’ orzo costituiva un ricco cespite di produzione nell’ Italia bassa e nella Sicilia. La coltivazione della vite si allargò su vaste pro- porzioni, e si migliorò notevolmente. Si presero anche a fabbricare buoni vini; ma almeno per l’ alta Italia non vi è memoria di tipi speciali e stabili di quei tempi.‘ Se ne esportava molto per i paesi setten- trionali; era vino ricercato, ma senza nome e senza fama. Nell’ Italia meridionale però si erano formati alcuni tipi che si esportavano per il Levante. Vale per l’ olivo ciò che si è detto per la vite. Le piantagioni di olivi crescevano continuamente ; NEGLI ULTIMI SECOLI DEL MEDIO EVO. 223 olio sì esportava per il Settentrione e per il Levante, e se n’ era grandemente migliorata la qualità, spe- cialmente nella Toscana.” Fiorì in questo periodo la coltivazione della canape e del lino. Ed era naturale che fosse così in causa della importanza e dell’ estensione che aveva la tes- situra. Queste coltivazioni si erano diffuse per tutta l’Italia, ma talune regioni vi si erano dedicate di pre- ferenza, così da farne una delle principali loro ri- sorse." L’ allevamento animale s’ ingentilì e si fece più ricco in proporzione dell’ aumento dei capitali e della diffusione dei prati. L” abbondanza del bestiame fu uno dei tratti caratteristici dell’ agricoltura di que- st’ epoca.®? I bovini presero ad essere considerati tanto come animali da lavoro, quanto come animali da prodotto. Il bué ed il vitello soppiantarono sulle mense dei ricchi la carne di majale. Il centro principale dell’ alleva- mento bovino, così per la produzione degli animali giovani, come per la produzione dei latticini, erano la Lombardia, 1’ Emilia ed i paesi alpini. Ma era ricca di bovini tutta 1° Italia. Nella parte superiore e cen- trale del paese questo allevamento era tenuto in con- siderazione anche per la produzione del concime.!®’ L'allevamento cavallino raggiunse una importanza, che non ebbe mai prima di questo periodo, e che con esso si dileguò. Il carattere cavalleresco dell’ epoca, per il quale il lusso della nobiltà e 1 ambizione della gioventù consistevano nel possesso di buoni cavalli; 1 impor- 224 L' AGRICOLTURA ITALIANA tanza particolare che nelle guerre attribuivasi all'arma della cavalleria, avevano dato un impulso straordi- nario alla produzione equina. Re, principi, nobili, con- venti tenevano razze di cavalli e se ne occupavano con passione e con vero interesse. E la produzione era così ragguardevole, che, soddisfatti largamente i propri bisogni, l’Italia mandava cavalli anche al- l'estero. Le regioni, dalle quali esportavansi, erano il Napoletano e la Lombardia; e si dirigevano per la Francia e per altri paesi d’ oltre monte.’ Nell’ Italia superiore subirono una notevole ridu- zione le specie. ovina e suina in parte per l’ allar- gamento delle coltivazioni e per la distruzione dei boschi e dei pascoli di pianura, ed in parte per il raffinamento del gusto della popolazione, per il quale. a questi animali economicamente inferiori si sostitui- rono nell’ alimentazione il bue ed il vitello. L’ alleva- mento ovino sì mantenne su vaste proporzioni nel- l’ Italia centrale, nella Sicilia e nelle Puglie, che hanno sempre conservato il loro carattere pastorale, forse anche in conseguenza dei favori accordati alla pasto- rizia a scapito dell’ agricoltura.®* Continuò a prevalere la grande proprietà. Ma mentre nell’ Italia meridionale e nella Sicilia il ter- reno era diviso in vastissimi latifondi ed era in mano della Chiesa e dell’ aristocrazia, nell’ Italia superiore era diviso in proporzioni più ragionevoli, così da non togliere la possibilità della sua coltivazione; ed era in mano di proprietari, che avevano 1’ interesse, la volontà ed i mezzi di cavarne il maggior prodotto possibile. NEGLI ULTIMI SECOLI DEL MEDIO EVO. PR) Durante questo periodo fu soppressa. o andò ta- citamente fuori d’ uso, la servitù della gleba. In generale i contadini riebbero la libertà perso- nale in seguito alla lotta fra i Comuni e i Baroni. Bisogna però convenire che i proprietari non si sono adoperati per mantenerli nell’ antica soggezione. La servitù della gleba non aveva più ragione di esi- stere, perchè si era aumentata considerevolmente la popolazione, si erano formati i capitali e quindi non mancavano le braccia ed i mezzi di coltivare la terra. E d’altra parte i proprietari dei terreni avevano sem- pre in propria balfa i contadini, sia che fossero liberi, sia che fossero servi. E si rivalsero anzi della perdita dei diritti sulle persone aggravando il prezzo d’ af- fitto delle terre. Infatti fu in questo periodo che Ja colonia parziaria, la quale per 1° addietro, come ab- biamo veduto, attribuiva al proprietario una piccola parte del prodotto, assunse nell’ Italia centrale la forma della mezzeria. Nel secolo XII la servitù della gleba era già ri- dotta a poca cosa, e 1’ abolizione legale della mede- sima, di cui diedero l’ esempio Bologna e Firenze, è a riguardarsi più come il suggellamento che come l esecuzione dell’ opera.” Nell’ Italia meridionale e nella Sicilia i vincoli del contadino si mantennero più a lungo, perchè più lun- gamente potè sostenersi il feudalismo. Lì oltre alla servitù della gleba, alla quale erano vineolati i colti- vatori, esistevano, per la popolazione delle campagne, certi rapporti speciali di soggezione e sudditanza, dei quali non v'era traccia nell’ Italia superiore. Nelle in- BERTAGNOLLI. 45 226, L'AGRICOLTURA ITALIANA vestiture, ad esempio, con cui Roggiero, abbattuto il dominio musulmano, ristabilì nella Sicilia i latifondi ecclesiastici e monastici, s’ incontrano esempi della donazione d’intiere borgate coll’ obbligo degli abitanti di provvedere ai bisogni della Chiesa o del convento colle persone e cogli averi. Del resto, anche nel Mezzodì la servitù della gleba scomparve tacitamente col cessare del bisogno e delle cause, per le quali era stata istituita. Il lungo periodo, che abbiamo descritto per sommi capi, fu veramente il periodo dell’ abbondanza, 1’ epoca più felice della nostra agricoltura. ®° La ricchezza delle industrie nazionali del medio evo aveva agito beneficamente sull’ agricoltura in varie maniere. Anzitutto 1 abbondanza dei capitali aveva posto il paese in grado di dare ampio svolgimento alle opere d’ irrigazione, di prosciugamento, di dissodamento e ad altre migliorie. La ricchezza diffusasi in tutti i ceti della popo- lazione aveva reso possibile a quest’ ultima di alimen- tarsi più abbondantemente e meglio, e quindi aveva promosso l’ aumento e il raffimamento della produ- zione agraria. La prosperità delle industrie tessili aveva offerto il modo di allargare considerevolmente la coltivazione di varie piante industriali, e nominatamente quella del gelso, del cotone, del lino e della canape. La formazione di una numerosa popolazione in- dustriale aveva obbligato gli agricoltori a produrre per il mercato e così a preferire le coltivazioni eco- ta | NEGLI ULTIMI SECOLI DEL MEDIO EVO. 22 nomicamente più rimuneratrici e particolarmente specializzarle. Ed in una parola | incremento industriale aveva permesso agli agricoltori italiani di aumentare e di migliorare la produzione; ne aveva loro somministrato i mezzi e assicurato lauti compensi per i prodotti d’ogni maniera. Negli Statuti municipali di quell’ epoca è una lunga serie di disposizioni relative all’ agricoltura. Esse mi- rano, in generale, a tutelare il proprietario contro le frodi o l'inerzia del fittajuolo o del colono, a disci- plinare 1’ istituto delle guardie campestri (saltare), a reprimere con pene severe i furti di campagna, a promuovere la diffusione della coltivazione arbo- rea, a regolarizzare l’ uso delle acque, a disciplinare i pascoli ed i tagli dei boschi ed a provvedere ad altre cose. Le disposizioni più numerose, più diffuse e più minute erano quelle che regolano i rapporti fra il proprietario ed il contadino. E ciò prova che i pro- prietari non erano soliti di abitare in campagna, per- chè sostituivano il rigore della legge alla propria vi- gilanza; e che le condizioni fatte al contadino non gli erano molto vantaggiose, altrimenti sarebbero state superflue le apprensioni dei proprietari. La destinazione delle guardie campestri era un affare di principale importanza. Si faceva per elezione; l’ eletto non poteva declinare il mandato; durava in carica un anno; in certi casi era tenuto a rimborsare i danni cagionati dai ladri; riceveva, o direttamente dai proprietari, o dai proprietari per mezzo del Co- 228 L' AGRICOLTURA ITALIANA mune, un salario in denaro 0 in generi, e più gene- ralmente misto. I danni, inferiti alle terre di proprietari abitanti nelle città, se non ne erano scoperti gli autori, erano risarciti dalla Comunità, nel cui territorio era situata la terra. I furti di campagna punivansi con una severità veramente esagerata. Alla terza recidiva si applicava la pena capitale. Per i minorenni era tenuto a ri- sponderne chi ne aveva la sorveglianza. I proprietari ed i contadini, secondo che preva- leva 1’ amministrazione diretta, oppure l’ affitto e la mezzeria, erano obbligati a far piantagioni sia di viti, sia d’olivi, sia di piante da frutta nei propri terreni. pena la multa. I magistrati del Comune dovevano verificare con ispezioni annuali l'osservanza di questa prescrizione. Le disposizioni sulla ragione delle acque e per la manutenzione delle strade costituivano dei veri codici. All’ esecuzione delle medesime erano preposti dei ma- gistrati speciali. In qualche luogo si era costituita per gli agri- coltori una giurisdizione particolare. Le controversie sulla interpretazione e sulla esecuzione dei contratti agrari, sulla compravendita delle derrate, sulle ser- vitù prediali, sulla battitura e sulla mietitura dei grani, sulla prestazione d’ opere, ec., erano definite dai magistrati delle biade.®” Fra tante disposizioni che erano dirette a pro- muovere 1° agricoltura e che raggiungevano più o meno l'intento, se ne insinuarono negli Statuti altre, le NEGLI ULTIMI SECOLI DEL MEDIO EVO. 229 quali non potevano non ferirne gli interessi. Inten- diamo parlare dei divieti di esportazione dei pro- dotti agricoli. Il divieto di esportazione dei cereali era la regola in tutti i principati italiani. Non si potevano espor- tare se non in forza di una speciale autorizzazione, 0 quando per l’ abbondanza della produzione il prezzo loro si manteneva al di sotto di una determinata mi- sura. Ma non da per tutto queste restrizioni cagiona- vano danni rilevanti. Ne avevano naturalmente a sof- frire le regioni povere d’ industrie e dedite unicamente all’ agricoltura, come la Sicilia, le Puglie e una parte della Toscana. Ne pativano meno i principati indu- striali, dai quali non facevasi una costante esporta- zione di cereali e che avevano per sè stessi una sufficiente potenza di consumo da rendere paghi i produttori locali. Contro le restrizioni alla esportazione dei cereali gli economisti dei secoli posteriori pronunziarono un severo anatema. A noi pare che in questo giudizio vi sia un po’ d’ ingratitudine. Bisogna considerare che sì era in tempi, nei quali le comunicazioni non erano così facili come adesso, e in cui uno speculatore avrebbe potuto senza difficoltà atffamare un’ intiera regione. In quelle circostanze non erano mai soverchie le cure dei Municipi per assicurare l’ approvvigionamento della popolazione, e non è giusto di rimproverarli per aver fatto, indubbiamente con danno degli agricoltori, ciò che un padre previdente avrebbe fatto per la pro- pria famiglia. Non si può invece scusare il civieto di esporta- 230 L’ AGRICOLTURA ITALIANA zione del lino, dei bozzoli e della canape; poichè non era consigliato dalla necessità, ma unicamente dal- l’ interesse della classe industriale, e ricadeva a danno della classe agricola. Il divieto di esportazione del concime, della pa- glia, ec., non era tanto un provvedimento d’ ordine pubblico, quanto un completamento delle guarantigie che la legge si proponeva di dare ai proprietari con- tro la infedeltà dei contadini. E difatti in origine era proibito ai contadini di vendere 0 di esportare concime, paglia, ec., dal fondo; posteriormente parve che la proibizione sarebbe stata violata meno facil- mente col vietare in generale la esportazione di tali materie dal Comune o dallo Stato. I tagli dei boschi dei privati erano sottoposti al- autorizzazione del Comune. Così i dissodamenti. Queste disposizioni sono in pressochè tutti gli Statuti municipali dell’ Italia superiore e centrale. Una buona disposizione par quella degli Statuti padovani dell’ anno 1420, la quale imponeva che nella vendita di un podere si preferisse a parità di prezzo il proprietario vicino. Altre buone disposizioni sono quelle degli Statuti dell’ Italia superiore, colle quali si disciplinavano il mantenimento dei tori comunali, 1 istituto del pa- store o porcajo comunale, 1° allevamento ippico ed al- tre cose. Nell’ Italia meridionale e nella Sicilia diede un potente impulso all’ agricoltura il genio operoso di Federigo. Egli aveva immense tenute, che coltivava per economia, ad evitare che i contadini ne lascias- AT "= Te, = I rr e rr, Im Vr TO TOLTI TOTTI NEGLI ULTIMI SECOLI DEL MEDIO EVO. DE sero deperire le piantagioni.®' Teneva grosse man- drie di buoi, numerosi greggi di pecore e molte razze di cavalli (marescalle), così sul continente come nella Sicilia. Esercitava il commercio per proprio conto, mandando colle sue navi mercantili i prodotti del paese nella Spagna, nell’ Africa e nell’ Asia, e riti- randone in cambio i prodotti di quei luoghi. L’ agri- coltura dei suoi tempi era solida e ricca, ma non an- cora molto raffinata, ed egli la incamminò sopra una strada migliore, e le preparò tempi brillantissimi.® Per gli Abruzzi e le Puglie la base dell’economia cam- pestre restò anche nei secoli successivi la pastorizia ; ma la costiera di Napoli, quelle della Calabria e della Sicilia trovarono grandi risorse in un’agricoltura molto industriale e particolarmente nella produzione del co- tone, della seta, degli agrumi, della canna da zucchero, e così via. La coltivazione delle piante prese su quel di Reggio tale estensione, che la città, nell’anno 1327, dovette rappresentare al re Roberto che la produ- zione del grano non era sufficiente per i bisogni lo- cali, e che quindi faceva mestieri accordare il per- messo di ritirarne dalle altre provincie della Calabria. La descrizione che fanno di questi paesi gli scrittori contemporanei e che noi riassumiamo nelle Note, è una testimonianza manifesta della felicità e della ric- chezza della loro agricoltura. 2 232 L'AGRICOLTURA ITALIANA NOTE. ‘/ Firenze contava verso l’anno 1300 circa 300 lanifici, che somministravano 100,000 pezze di panno all’ anno. Verso l’anno 1338 le botteghe erano poco più di 200; la fabbri- cazione oscillava fra 70 a 80,000 pezze di panno, per un valore di 1,200,000 fiorini d’ oro, e su 90,000 abitanti, 30,000 ivevano dei lanificio. In quel trentennio si era fatto un grande progresso. Prima non si sapeva lavorare la lana fina d’ Inghilterra; dopo sì, e il prezzo dei panni raddop- piò (ViLLans, XI, 93). Nell’ anno 1472 i lanifici di Firenze erano 270 (BewepeTTo DEI, Cronache, 22). Al principio del secolo XV Firenze mandava a Venezia 16,000 pezze di panno finissimo, fino e mezzano, che i Veneziani mettevano nella Puglia, nella Sicilia, nella Barberia, nella Siria, a Cipro, a Rodi, a Candia, nella Morea e nell’ Istria (M. Sanuto, Vite dei Duchi di Venezia). Un secolo più tardi Firenze fabbricava circa 14,000 pezze di panno, a ducati 22 la pezza; delle quali 10,00) si esportavano per Costantinopoli, il resto sì vendeva in Italia; fabbricava ‘inoltre da 4 a 5000 pezze di panni fini a ducati 60 la pezza; in tutto produ- ceva per 600,000 ducati (ALBèRI, Relazione di Marco Fo- scari, 1527). Nell'anno 1529, secondo il VarcHI, i lanifici erano 150 e somministravano 23,000 pezze di panno. — Fra Bonvicino DA Riva, nella sua Descrizione della città di Milano (1288), che è riassunta nel Fiamma e negli Annali Mi- lanesi, dice che i negozianti di Milano percorrevano la Fran- cia, l'Inghilterra e la Fiandra per l’incetta di buone lane, colle quali facevano panni finissimi, « panni subtiles nobiles in maxima quantitate, » che mettevano sul mercato tinti in ogni genere di colori (FLamma, Chron. ectrav., cap. XVIII). Il lanificio in quell’ epoca era in mano dei Frati Umiliati. Nell’ anno 1423, essendo imminente la guerra tra Filippo Maria Visconti e i Fiorentini, questi mandarono ambascia- tori a Venezia per trattare un’ alleanza con quella Signo- DI NEGLI ULTIMI SECOLI DEL MEDIO EVO. 23 ria. Fra le ragioni che il doge Mocenigo fece valere per respingere il partito, la precipua fu l’importanza del com- mercio che facevasi tra Milano e Venezia. Dai discorsi del Mocenigo, che ci furono conservati dal SaNUTO (op. cit.), ap- parisce che il ducato di Milano spediva annualmente a Venezia per quasi 3 milioni di ducati di merci, dei quali 1,210,000 in tessuti. Alessandria, Tortona e Novara 6000 panni di lana, a ducati 15 la pezza; Milano 4000, a du- cati 30 la pezza; Como 12,000, a ducati 15 la pezza; Monza 6000, a ducati 15; Bergamo 10,000, a ducati 7; Parma 4000, a ducati 15. I Lombardi ritiravano da Venezia per 250,000 ducati all’ anno di lane catalane e francesi. Se- condo questa narrazione, la sola città di Milano produ- ceva panni fini; Bergamo provvedeva alla fabbricazione dei panni grossolani. Il Ducato mandava a Venezia altri tessuti di lino, di canape e di cotone. Prima del se- colo XVI erano in Milano 70 lanifici con 60,000 lanajuoli (Verri, Sulla economia pubblica dello Stato di Milano, I; TrIDI, Informazione del danno proceduto dall’ imposizione del decimo sulla mercanzia ; SomaGLIA, Aleggiamento dello Stato. Vedi pure la Consulta del Senato di Milano dei 15 marzo 1663, la Consulta del Senato medesimo degli 11 aprile 1715, e la Consulta della Congregazione di Stato degli 11 febbraio 1724). — Il lanificio era l'industria principale di Padova (Scarpeo- xI0, Storia padovana, I), di Verona, ove sotto gli Scaligeri producevansi 20,000 pezze di panno fino all’ anno (Branco- LINI, Cronica di Verona di Pier Zagata, I, 56) e di Ancona (Peruzzi, Storia di Ancona, II, 84). 2 BIANCRINI, Storia delle finanze del Regno di Napoli, II, 170. Varie specie di panni si conoscevano sotto il nome della città, nella quale venivano fabbricati; così il panno tera- mano, l’ aquilano, 1’ ascolano, l’alife, il napoletano {Brax- cHISI, II, 171). I panni napoletani non erano così fini e ri- cercati come quelli di Firenze, di Milano, ec., che s’ impor- tavano anche nella bassa Italia. A protezione del lanificio napoletano, Ferdinando I con editto dei 5 dicembre 1465 234 L’ AGRICOLTURA ITALIANA vietò l’uso dei panni forestieri. Nel 1480 accordò privilegi a Spagnoli, Genovesi, Ragusei, Milanesi, Bolognesi, Fioren- tini ed altri che si erano stabiliti nel Regno per esercitarvi il lanificio (BIANCHINI, l. c.) © Nell'anno 1309 Fra Daniele Umiliato, della Casa di Brera, si portò in Sicilia per introdurvi l’arte e il negozio della seta. Ai 26 novembre si stipulò tra il Frate, che agiva in nome dell’ Ordine, e Corrado Lancia di Castelmainardo, che trattava in nome di re Federigo, una convenzione, colla quale si concedevano agli Umiliati un palazzo a Palermo ed un acquedotto con 200 oncie d’acqua (SORMANI, Storia degli Umiliati, 122). % FLAMMA, Chron. extrav., XVIII, che scriveva ai tempi dell'arcivescovo Giovanni Visconti, dice che la fabbricazione delle armi e delle armature era l'industria principale della città. Due armajuoli di Milano, alla domane della battaglia di Maclodio, furono in grado di armare in pochi giorni 4000 soldati a cavallo e 2000 fanti (GruuinI, XII, 424). Erano centri importanti della fabbricazione delle armi Brescia (D’Uzzano in PagnINI, Della decima, IV, 195) e Verona (Minucci, Viaggio da Venezia a Parigi, nella Miscel- lanea di Storia italiana, I). Nella costituzione di Federigo II, De fide mercatorum, colla quale si disciplinano le industrie del regno di Puglia, gli armajuoli e le professioni accesso- rie occupano un posto eminente che lascia facilmente intra- vedere la loro importanza e diffusione. 6) FLAMMA, l. c. (© Cremona mandava a Venezia nel secolo XV circa 40,000 pezze di fustagno all’ anno (M. SanuTO, ]. c.). Anche da Milano si esportavano a quell'epoca molti fustagni (D’ Uzzano in Panini, IV, 195). La Lombardia ritirava annualmente da Venezia 250,000 ducati di cotone (M. Sa- nuto, ]. c.). A Chieri nel secolo XVI fabbricavansi in me- dia annua 100,000 pezze di fustagni (BanLso in RrcortI, Append. al vol. 1). TOA " o nre attenti NEGLI ULTIMI SECOLI DEL MEDIO EVO. 235 (© JI linificio esercitavasi nel Milanese, ad Alessandria, nel Monferrato, a Brescia, a Padova (D’ Uzzano in PAGNINI, l. c.), nella Calabria (BARRIO, op. cit.). Il canapificio a Ferrara, Bologna (QuarxnerUs, Descriptio Bononie), Novara (Sacco, Historia Ticinensis, IV, 3), ec. La Lombardia mandava a Venezia per 100,000 ducati di canevacci all'anno (M. Sa- nuTO, l. c.). Esercitavasi il canapificio anche nella Calabria (Barrio, op. cit.) e nella Sicilia. 8 Erano ricche d’industrie d’ ogni maniera Milano (FLamma, 1. c.; Frate Jacopo D’Acqui, Chron. imag. mundi in Patr. Hist. Monum. Script., tom. III), Firenze (Relazione di Lorenzo PrivLI in ALBÈRI), Verona (MinuccI, Viaggio da Venezia a Parigi), Brescia (Minvcct, 1. c., e D'Uzzano in PaenInI, IV, 195). Frate Istporo IsoLAanI in una sua ora- zione, De patrie urbis laudibus (1518), narra che i legati del re di Napoli avendo fatto nell’anno 1492 il censimento delle botteghe di Milano, le fecero ascendere a 14,600. ® Cronaca di NerI Donati in Murat., R. I. Script, XV, 224, 294. (10) Relazioni di Lorenzo PRIULI e di Vincenzo FEDELI sullo stato di Firenze, in ALBÈRI, op. cit. !!) «(Con un buon raccolto, scriveva l ambasciatore FE- DELI alla Signoria veneta, si può dire che sì raccoglie il vivere per quattro o cinque anni > (ALBÈRI, l. c.). E il PRIULI riferiva che il territorio di Siena era abbondantissimo d’ogni pro- dotto e che somministrava granaglie a Firenze, Lucca e Genova (ALUBÈRI, l. c.). (!?) Fiorivano però già nel secolo XVI il cotonificio a Chieri ‘e il lanificio a Pinerolo. Ed a Biella fabbricavansi «tele assai, quali si conducono a Vinegia et in riviera di Genoa per uso di vele di nave et coperte di galere; sì an- cor panni grossi et alcuni mediocri, quali grossi sì usano in le montagne et portansi anche sopra il Stato di Milano et in riviera di Genoa per coperte di galere et schiavi » (BaLgo in RicortI, l. c.). Anche il ViLLars scriveva nel- È 236 L’ AGRICOLTURA ITALIANA l'anno 1544 che Biella era « pleine d’artisans et de gens adonnés à toute sorte de trafic. » Quanto alla povertà delle industrie del Piemonte, vedi ALBÈRI, op. cit. Ciò non pertanto il BaLBo poteva scrivere ad Emanuele Filiberto: « Dirò a V. A. che tiene un paese grasso et opulento, che la più parte degli huomini sono con gli occhi cuciti alla foggia che si ingrassano li capponi di Vercelli » (in Rr- corti, l. c.). Verso l’anno 1564 esportavansi dal Piemonte, senza contare le provincie di Novara e di Alessandria, 375,000 scudi di prodotti del suolo, cioè 200,000 scudi in granaglie, 60,000 in bestiame, 100,000 in canape e lino e. 15,000 in seta (Ricorti, II, 387). L’ambasciatore Ax- prEa Borpù scriveva alla Signoria veneta che il Piemonte avrebbe potuto somministrare comodamente 150,000 sacchi di grano all'anno per l’approvvigionamento di Venezia. Del resto, vedi per la ricchezza agricola del Piemonte nel se- colo XVI, ALBÈRI, op. cit. 1% La esportazione della Sicilia consisteva in granaglie, seta, cotone, lino, canape, frutta, lane, pelli, zucchero, ec. Per la esportazione del grano si stabilirono sotto gli Arabi varii caricatoi nei porti principali. I caricatoi erano una specie di magazzini o docks fatti per comodo dei produt- tori, dei commercianti e degli ufficiali pubblici. I produt- tori vi depositavano il grano destinato alla esportazione, e ritiravano la cedola di deposito che aveva corso come mo- neta. I caricatoi principali erano dodici; ve n’ avevano altri di minore importanza (BIANCHINI, Storia economico-civile di Sicilia, I, 346). (4 I Milanesi cominciarono la grande opera del Tesi- nello nel mese d’agosto dell’anno 1179 (Calendar. di San Giorgio in Murat., R. I. S., I, 236; Cronaca di DANIELE; FLaMMA, Chron. major., 913). Con diploma dell’anno 1191 l’imperatore Enrico VI accordò ai Pavesi il privilegio di valersi liberamente delle acque del Ticino, della Cadrona, dell’ Olona, della Barona, della Mischia, della Gogna, del Ter- dobio, del Coirone, della Stafola e di tutte le altre acque che NEGLI ULTIMI SECOLI DEL MEDIO EVO. 237 avessero potuto derivare a loro vantaggio (GiuLINI, VII, 182). Nell'anno 1220, essendo podestà di Milano Amizino, od Ami- zone, di Lodi, si scavò l Adda nuova (la Muzza), che deriva l’acqua dall’ Adda presso Cassano e ve la riconduce presso Castiglione Lodigiano (BeNnAGLIA, Del Magistrato straordi- nario, XII). Nell'anno 1257, sotto il podestà Beno de’ Go- zadini, bolognese, s’ incominciò il lavoro di prolungamento del Tesinello da Abbiategrasso sino a Milano (GrurIxi, VIII, 144). Sotto Napo Della Torre (1269-1271) il Tesinello fu reso navigabile e chiamato Naviglio (GruLINnI, VIII, 24). Sotto Azone Visconti si fecero in contado di Treviglio va- rie opere d'irrigazione con acque derivate dal Brembo (GruLInI. X, 292). Galeazzo Visconti fece un canale per condurre l’acqua del Naviglio o ‘Tesinello sino a Pavia (Chron. Plac. ad annum 1365). Nell'anno 1457 Francesco Sforza ordinò che si scavasse un altro canale per condurre le acque del Naviglio da Milano a Pavia, passando per Bereguardo e Binasco; ma il lavoro fu eseguito soltanto sino a Binasco (Grurini, XI). Lo stesso duca Francesco fece scavare in tre anni, dal 1457 al 1460, il Naviglio della Martesana, che conduce le acque dell’ Adda da Trezzo a Milano (VERRI, Storia di Milano, II, 17). Quanto all’apertura della Maura che irriga la pianura di Novara, vedi MERULA, De Gallorum Cisalp. antiq. ac origin., I, 2. Lodovico il Moro rese irriguo il contado di Vigevano. « Et perchè quello pajese era molto arido e secco, li fece fare alcuni aqueducti, con grande artificio et ingiegno; per modo che tanta abon- dancia de aqua conduceno, che molte belle e bone posses- sioni fece fare in quelli terreni che prima erano sterili et de poco fructo, che al presente sono abondantissimi » (CaenoLa, Storia di Milano, all'anno 1493). Nell’ anno 1251 il Comune di Alessandria provvide con apposita legge alla irrigazione della pianura di Marengo (ScHiavina, Annali Alessandrini, anno 1251). Nell'anno 1420 s’irrigarono le campagne di Cuneo al di là della Stura. Certo Lodovico Notario, uomo ricco ed ingegnoso, si assunse l’ esecuzione delle opere d'irrigazione verso il correspettivo di una 238 L’ AGRICOLTURA ITALIANA certa estensione di terreno. Pochi anni dopo i Cuneesi fe- cero una nuova derivazione dalla Stura per irrigare il piano di Grumeria. Nell’ anno i468 accordarono alla comu- nità di Bennaro, verso il canone annuo di 300 sestari di frumento, una bocca d’acqua della Stura. Quasi allo stesso tempo Raffaele Luperia, Bartolomeo Corvo e Costanzo Mi- glia aprirono nella Stura un nuovo canale per irrigare le terre di Grumeglia e di Brogliasco ed ottennero in com- penso dal Comune di Cuneo 1200 giornate di terreno (Chron. Cunei, nella Miscellanea di Storia italiana, XII) Si trattava di terreni incolti o male coltivati, che, come assi- cura il Cronista, furono ridotti feracissimi. Il marehese di Saluzzo, Lodovico I, concedendo con lettere dei 23 aprile 1460 agli uomini di Revello una derivazione d’acqua, così defi- nisce l’ azione delle acque irrigatorie sull’ agricoltura: « Si- cut caro humana ex sanguine crescit in operibus et bonis fructibus, sic et terra in abundantia aquarum erescit in frugibus >» (MuLETTI, Memorie storico-diplomatiche di Saluzzo, V). Riguardo allo scavo del Naviglio di Vercelli, vedi BALBO in RicortI, l. c. (15) Nell'anno 1271 i Milanesi imposero una tassa sugli itenti delle acque del Naviglio, in rimborso delle spese e per compiere i lavori (GruvinIi, VIII, 242). Le spese del ca- nale fatto eseguire da Galeazzo Visconti, per condurre le acque del Naviglio sino a Pavia, furono ripartite fra tutte le città del Ducato (Chron. Placent. ad annum 1865). Secondo gli Statuta civitatis Mutine ad judices aquarum pertinentia, rubr. 54, bastava che ne facessero domanda due interessati, perchè il podestà ed il procuratore potessero dichiarare una derivazione d’acqua opera di utilità majorî parti del luogo e farla eseguire a spese « omnium hominum habitan- tium in eo.» (9) Il Cronista di Cuneo, parlando degli ultimi secoli del medio evo, dice : « Exciduntur interea nemora et extirpan- tur vepres et in brevi ad culturam pulcherrimam agri re- diguntur ; sedificiaque quamplurima ad letitiam et commo- NEGLI ULTIMI SECOLI DEL MEDIO EVO. 239 ditatem partecipantium fiunt. Itaque pulchrius jam appa- rebat in finibus quam in oppido habitare» (Chron. Cunei, nella Miscellanea di Storia italiana, XII). E l'ambasciatore Foscari narra di Cosimo I che aveva 12,000 guastatori, dei quali sì serviva in tempo di pace ad assettare strade, a cavare fossi, a seccare paludi, a bonificare terreni, « e così fa opere grandi e meravigliose che è uno stupore; nè dico come volti le acque e i fiumi dove che vuole per ri- durre il paese all'agricoltura » (ALBÈRI, op. cit.) (© Pare che sotto gli Svevi fosse permesso di esportare un quinto del raccolto dei cereali dalla Sicilia e dalla Puglia, ed un settimo dalla Calabria, Terra di Lavoro e dal Principato (BrancHiINI, Storia delle finanze del Regno di Napoli, I, 293). Sotto gli Angioini si vendeva spesso il diritto di esportare dalla Puglia e dalle provincie napoletane una determinata quantità di grani. Con pergamena dei 7 gennajo 1299 si accordò l’ esportazione di 30,000 salme, pari a 540,000 can- taja (BIANCHINI, op. cit., 379). Il cantajo ragguagliava 250 libbre. Sotto gli ultimi Angioini il diritto di esportazione era divenuto una specie di monopolio della Società Bardi, Acciajuoli e C. di Firenze. In un solo anno se ne esporta- rono 250,000 salme, pari a 4,500,000 cantaja (BIaNCcHINI, op. cit., 489). Sotto Carlo V si volle ricercare per scopi finan- ziari la quantità media del grano che estraevasi dai porti siciliani, e si calcolò, per il decennio 1521-1530, in salme 259,880 all’ anno (Pramm. dei 27 luglio 1532, tom. II, tit. 18: Delle Prammatiche). Nell’ anno 1529 computavasi che il Pie- monte, senza le provincie di Novara e d’ Alessandria, espor- tasse per 100,000 scudi di frumento. Verso il 1564 questa esportazione ascendeva a 200,000 scudi (RicortI, I, 189; II, 387). Milano mandava fuori granaglie già sotto i primi Visconti. FrAMMA, nella sua Chron. ertrav., VIII, scriveva: « Non solum agri nostri nos reficiunt sed et circumstanti- bus Civitatibus usque ad montes allamanicos cibaria sub- ministrant.»> L’ ambasciatore ManoLEsso, nella sua Relazione sullo stato di Ferrara (1575), dice che « il contado è di 240 L'AGRICOLTURA ITALIANA grano tanto fertile, che se il raccolto è buono, ne manda fuori due terzi, se mediocre la metà, se pessimo e sterilis- simo ne avanza piuttosto alcuna quantità di quello che le ne manchi» (ALBÈRI, op. cit.). (18 Vedi per la bontà dei vini piemontesi le Kelazioni degli ambasciatori Morosini (1570), Morino (1574), Morin (1583) alla Signoria veneta in ALBÈRI, op. cit. Per l’ eccel- lenza dei vini toscani la Relazione dell’ ambasciatore FEDELI in ALBÈRI, 1. c.; ALBERTI, Descrittione di tutta V Italia, 51, 60 e 71. Per la produzione del vino sul Milanese, vedi FLaMma, Chron. extrav., IX. Per il miglioramento della fab- bricazione del vino e per l'introduzione dell’ uva vernacecia sotto Luchino, vedi FLAMMA, De gestis Azonis, all’anno 1341, e VERRI, Storia di Milano, I, 12. Per la produzione, la bontà dei vini della costiera ligure di Levante e per la loro espor- tazione verso la Francia e l Inghilterra nel secolo XVI, vedi ALBERTI, op. cit., 21. (9 Nel secolo XIV si esportavano per Costantinopoli il vino greco di Napoli, il vino di Turpia di Calavria, di Patti di Cicilia, di Patti di Puglia, di Cutrone di Calavria e della Marca (BaLpucci in PagnINI, II, 21). Nel secolo XVI erano favorevolmente conosciuti i vini dell’ uva corniola del terri- torio di Palermo, il ciminense e il narense (FAZELLO, op. CIAO): (20) Relazione dell’ ambasciatore FepeL: (1561) in ALBÈRI, op. cit. @) I centri principali della produzione del lino erano Padova (SavonaroLa, De laud. Patav. in Murar., XXIV; ScarpEONIO, Storia padovana, I; D’ Uzzano in PaenINI, IV, 195; GLORIA, op. cit.; GreNNARI, Annali di Padova, III, 140), Bologna (ALBeRTI, 326), la Lomellina e tutta la pianura del Po (Sacco, Hist. Ticin., IV, 10), Brescia (D’ Uzzano in Pa- GNINI, l. c.), e il Piemonte (Relazione dell’ ambasciatore Mo- rosini in ALBÈèR1I). Si esportava lino dal regno delle Due Sicilie (Pelazione dell’ambasciatore Lippomano in ALBÈRI), NEGLI ULTIMI SECOLI DEL MEDIO EVO. 241 e se ne produceva in grande copia nella Calabria, e nomi- natamente nei territori di Etricolo, Cosenza, Laconia, Mon- teleone, Nicotera, Borello, Polistina, Terranova, Sido, Lau- rento, Pagliapoli, Paganica, Satriano, Squillace, Santa Severina, Colopiciato, Bisignano e Cosa (BARRIO, op. cit., II, III, IV e V). I centri principali della produzione della canape erano l'errara e Bologna (ALBERTI, op. cit., 324 e 326), Padova (SAVONAROLA, op. cit.), Novara (Sacco, IV, 3), il Monferrato (D’ Uzzavno, 1. c.), Urbino (Relazione dell’am- basciatore Zane, 1573, in ALBÈRI) e Cologna Veneta. Quarn. nella sua Descriptio Bononie (secolo XVI) dice di Bolo- gna: « Canabim torquentibus rudentibus aptissimam ex- teris magna copia communicat. » La Repubblica veneta pubblicò varie disposizioni per la coltivazione e per il com- mercio della canape (GLoRrIA). Verso l’anno 1529 esporta- vansi dal Piemonte 100,000 scudi di canape (RicorTI, op. cit., 189). Dal regno delle Due Sicilie esportavasi una grande quantità di canape per la Turchia. Nell’ anno 1546 si proibì l’ esportazione in odio ai Turchi, e la produzione si ridusse notevolmente. Visto l’ errore, si rese libera l’ esportazione; ma la produzione e il commercio della canape più non tor- narono alle condizioni floride di prima (BIANCHINI, Storia delle finanze del Regno di Napoli, Il, 347). (2 L’ allevamento animale era una delle ricchezze prin- cipali del Piemonte (Relazioni degli ambasciatori Morosini (1570), Borpù (1561), Morino (1574), in ALBÈRI): « abbonda assai questo Stato di carnaggi, in maniera che se ne dà a tutti i paesi vicini, sebbene nel proprio se ne consuma una gran quantità» (Relaz. Monin, 1583, in ALsègI); della To- scana: «ma una ricchezza grande, reputata sopra tutte le altre la maggiore, consiste nell’ infinito numero degli animali d’ogni sorta che si veggono d’ogni intorno » (Relazione del- l'ambasciatore FEDELI, 1561, sullo stato di Firenze, in AL- BÈRI); del Napoletano: «ha più quantità di ogni sorte di bestiame grosso e minuto che si trovi in tutto il resto d’Italia> (Relazione dell’ambasciatore Lippomano, 1575, BERTAGNOLLI. #6 242 L’ AGRICOLTURA ITALIANA sullo stato di Napoli, in ALBÈRI); del ducato di Ferrara (Relaz. ManoLESso, 1575, in ALBÈRI); di Parma, Piacenza e Lodi (ALBERTI, op. cit., 368, 373 e 415); di Milano (Sacco, op. cit., V, 3). FRA Bonvicino DI Riva (1288) assi- cura che a Milano si macellavano da 70 ad 80 buoi al giorno, oltre ad un numero infinito di castrati e di agnelli (FLAMMA, Manip. Flor. ad annum 1288). CrEscENZIO riserva la parte maggiore della sua opera alla trattazione delle cose del bestiame. Al cavallo ed alle sue malattie destina 57 capitoli (Lib. rur. commod.). (23) Nella Lombardia e nell’ Emilia predominavano le vacche (ALBERTI, op. cit., 1. c.; Sacco, l. c.). Nella Lomel- lina, ricchissima di bestiame, non erano nè pecore nè ca- pre, ma unicamente bovini e cavalli (Sacco, IV, 8). Sacco ed ALBERTI, op. cit., parlano lungamente dei formaggi che si fabbricavano sul Parmigiano, sul Lodigiano e sul No- varese. © Il concime raccoglievasi ed utilizzavasi con grande cura. Era non curato lo sterco umano; riprovato come dan- noso alla vegetazione quello dei suini (Crescent., II, 13). (25) FLAMMA, Chron. extrav., XVIII, assegna all’ alleva- mento equino il secondo posto fra le ricchissime industrie del ducato di Milano: « Equorum magnorum multitudo ad- mirabilis (egli dice); sunt enim apud nos equi magni sive destrarii puleriores et majores aliis destrariis mundi. » Bo- nINconTRO MoriIGIa, Chron. Modoet., III, 46, dice che Azone Visconti « equos, familiam magnam et pulchram admodum Regis tenebat.» Di Luchino narra il FLAMmMA, De gestis Azonis, all’ anno 1341, che introdusse nello Stato bellissime razze di cavalli. E Dr GrIrFoNI, Chron., all'anno 1373, dice che il conte di Savoja ed il marchese di Monferrato essendo scesi in campo contro Galeazzo sul Pavese, « abstulerunt multas equas, quas, Galeazzo, tenebat in burgis.» Filippo Maria, dopo la battaglia di Maclodio, mise assieme in po- chi giorni i cavalli necessari per fornirne un nuovo eser- i o I ù ici NEGLI ULTIMI SECOLI DEL MEDIO EVO. 243 cito (Giuni, XII, 424). Era molto curato l’ allevamento equino nella Venezia. Il comune di Padova con legge del 1236 vietò l’uso di stalloni che non fossero stati visitati ed ap- provati da due cavalieri e da due maniscalchi. E la Repub- blica veneta in sul finire del medio evo costituì una Com- missione di due cittadini per la importazione di buone razze di cavalli; vietò di mandare al pascolo un cavallo che non avesse più di due anni; di ammetterlo al salto se non ne avesse più di tre e non fosse stato giudicato ido- neo; di venderlo innanzi che avesse servito alla monta; e sottopose gli stalloni alla visita annua ed approvazione della Commissione surriferita (GLoria, 253). Dal Trattato di commercio, conchiuso nell’ anno 1201 tra Mantova e Mo- dena, apparisce che dal Mantovano esportavansi cavaili (Murar., Ant. It. M. Z., IV, 377). Riguardo alla passione della gioventù ricca per il possesso di molti e buoni ca- valli, vedi l’autore del Tractatum de generatione aliquorum civium Urbis Padue in MuraT., op. cit., II, 316; e Mussr, Chron. Placent. in Murat., R. I S., XVI Il Dr Zagara, Chron. Regiens. in Murat.. XXI, nota, all’ anno 1305, che il monastero di San Prospero di Reggio teneva una man- dra di cavalle: « Bestias innumerabiles habebat et preci- pue equas in Vigozoario.» Erano ricchissime di cavalli le provincie napoletane. Le razze dello Stato sotto gli Svevi erano in Calabria. Federigo II ne tolse 600 stalloni e ne fece un deposito nella Capitanata (BrancHINI, Storia delle finanze del Regno di Napoli). Erano razze di cavalli nei va- sti feudi dell’ aristocrazia. Si mettevano assieme eserciti di sin 15,000 cavalli reclutati per intiero nel Regno. Alle gio- stre di re Ladislao, qualche barone conduceva seco sin 1800 cavalli (BrancHinI, 483). Se ne fece in ogni tempo una rag- guardevole esportazione. Gli allevamenti più estesi erano nella Calabria, nell’ Abruzzo e nelle Puglie. I cavalli cala- bresi erano più piccoli dei pugliesi, ma più atti al corso. D'estate mandavansi sui monti della Basilicata e degli Abruzzi (Sacco, I, 5). Barrio segnala nella Calabria le man- dre di Oppido, II, 18 e le R. Razze di Bovolina, II, 6. Pa- 244 L' AGRICOLTURA ITALIANA cICHELLI le famose razze del principe di Stigliano a Matera e quelle del feudo di Horta presso Canosa (Memorie di viaggi, 502, 539). Federigo II teneva razze di cavalli anche in Sicilia (BIANCHINI, Storia economico-civile di Sicilia, I, 175). Ma dopo il distacco dell'Isola dal Napoletano e la sua co- stituzione in un regno separato, l'allevamento equino de- cadde rapidamente, perchè non v'era bisogno di cavalli per scopi militari e non ne facevano un largo uso neppure i privati. Nel secolo XV le razze di cavalli erano quasi in- tieramente scomparse. Si credette che ciò derivasse dal- l'abbondanza dei muli e se ne vietò l’ allevamento. Ma il Parlamento, avvistosi che questo divieto inferiva un danno troppo grave ai traffici ed alle comunicazioni interne, nel- l’anno 1481 ne chiese a Ferdinando la revoca. Filippo II introdusse a spese pubbliche una mandra di cavalle. Il Par- lamento ai 27 agosto 1564 domandò che fosse tolta per au- mentare i terreni da semina, e che le giumente fossero vendute ai privati. Il Re rifiutò, ma la mandra finì per iscomparire (BIANCHINI, op. cit., I, 360). (29 La base dell’ allevamento ovino nelle Puglie è l’im- mensa pianura del Tavoliere, ove i greggi trovano un fa- cile ricovero ed un abbondante pascolo durante l'inverno. Quei pascoli invernali erano un cespite di finanza sin dai tempi dei Romani. Federigo II per favorire la pastorizia permise che il bestiame avviato per il Tavoliere, o di ri- torno ai pascoli estivi, potesse trarre profitto dei seminati e dei colti, purchè colle zampe posteriori restasse sulla strada od in luogo non lavorato. Gli Angioini fecero varii regolamenti per disciplinare quei pascoli e 1’ esazione della tassa. Così anche gli Aragonesi. Sotto Ferdinando I si com- perarono molti terreni dai baroni per allargare il Tavoliere e si stabilirono alcuni riposi sui tratturi (strade). Nell’ an- no 1549 si stabilì per i tratturi, che erano tre e partivano da Aquila, da Celano e da Pesco, una larghezza di 60 palmi. Gli affari del Tavoliere costituirono in ogni tempo la più importante questione delle Puglie. Era continua la lotta fra NEGLI ULTIMI SECOLI DEL MEDIO EVO. 245 la pastorizia e l’ agricoltura, fra lo Stato e gli usurpatori dei terreni. Dalla misurazione fatta nell’anno 1548, il Ta- voliere risultò di 100 miglia quadrate; si misurò nuova- mente nell’anno 1826, e si trovò ridotto a 74 miglia. Il numero del bestiame fu sempre soggetto a grandi varia- zioni. Come suole avvenire nella pastorizia nomade, ba- stava una sola epizoozia per distruggerlo quasi intiera- mente. In complesso il numero degli ovini ha continuato per varii secoli a crescere, mentre diminuiva costante- mente il numero degli animali grossi. Gli ovini, che nel- l’anno 1463 erano 600,000, in trent'anni si aumentarono sino a 2 milioni, e in un secolo sino a 3, 4 e 5 milioni. Però lo stato ordinario degli ovini si aggirò negli ultimi secoli del medio evo intorno a 2,000,000 (BrancHINT, Storia delle finanze, ec.). © Si emanarono leggi speciali per l’ abolizione della servitù della gleba a Bologna (1282), Firenze (1289) e nelle altre repubbliche toscane. In Piemonte fu abolita colla legge 25 ottobre 1561. A Bologna, secondo il De GrIFroNI, Me- mor. ‘histor. rerum bonon., 1109-1428, in Murat., XXI, la emancipazione avrebbe avuto luogo nell’anno 1282, < pro pretio unius starii frumenti, qui habebat boves, et unius quartarole pro quolibet de zappa.» Di questo prezzo il Comune si sarebbe poi fatto rimborsare dai servi emanci- pati. La Cronaca Bolognese (Murat., XVIII) dice che I’ eman- cipazione avvenne nell’ anno 1256, e racconta il fatto così: < Furono liberati i rustici del contado di Bologna ch’erano fedeli di cento uomini della città di Bologna e furono com- perati per danari dal popolo di Bologna. E fu statuito e bandito alla pena del capo che niuno ardisca riputarsi per fedele. Così il comune di Bologna comperò ogni serva ed ogni servo del contado, e diedero della persona da quat- tordici anni in su lire dieci e da quattordici anni in giù lire otto. E i loro signori ebbero i loro beni.» Nella Ve- nezia e nella Lombardia si fecero molte leggi a tutela dei contadini; ma in generale la emancipazione si compì un 246 L' AGRICOLTURA ITALIANA po’ alla volta, tacitamente, e all'infuori di provvedimenti legislativi diretti. (25 Prrro, Sicilia sacra. (9 Alle note 17 e 22 abbiamo citato parecchie testimo- nianze relative alle condizioni generali dell’ agricoltura ed all’abbondanza di prodotti in questo periodo. Non sarà su- perfluo l’aggiungere in questo punto altre testimonianze. L’ambasciatore Morosixi riferiva alla Signoria veneta (1570): «Il Piemonte è un bellissimo e fertilissimo paese, abbon- dante di tutte cose necessarie al vivere umano, come grani, vini, carni e boschi; delle quali cose non ve ne ha sola- mente per il bisogno, ma d’avvantaggio ancora e special- mente dei grani; perchè dicono che quando si fa ragione- vol raccolto in Piemonte, se ne raccoglie tanto che basta a nutrire per quattro o cinque anni la popolazione ; e di carne ancora ne hanno tanta copia, che ne possono accomodare largamente i vicini.» Suppergiù l’identica descrizione fanno del Piemonte le altre Relazioni che leggonsi in ALBÈRI. Lo ScHIavINA, Annal. Alerand., osserva all’ anno 1563, essere l’agro d’ Alessandria tanto fertile, « ut quovis adverso con- tingente casu duorum saltem annorum proventus incolis abundanter suppeditare consuescat. » FRA JACOPO D'ACQUI, op. cit., dice dei contadini milanesi che coltivano egregiamente i propri terreni e li sementano abbondantemente, e che in generale sono ricchi; «et sunt communiter homines locu- pletes. » Per la ricchezza agricola della Lombardia sotto i Visconti, vedi GiuLInIi, X, 54, e per il secolo XVI, vedi Sacco, Hist. Ticin. AzarIo, X.XIV, dice che il motivo che indusse Galeazzo a far sede dell’ Università la città di Pa- via, fu «l’infinita copia dei vini, dei frumenti e delle le- gna, che non avevano prezzo o un prezzo tenuissimo. >» Nell’ Anonymi Ticinensis Commentarius, De laudibus Papie, 1330, I, si legge: «Hc quidem civitas aquis salubribus irrigua, pascuis uberrima, agris, vineis et nemoribus fruc- tifera ac cunctis humane vite necessariis copiosa. » E più sotto leggesi che la discordia dei cittadini pavesi « ex NEGLI ULTIMI SECOLI DEL MEDIO EVO. 247 adipe prodiit, hoc est ex abundantia panis et vini et corte- rarum divitiarum. » Il Consiglio generale di Cremona seri- veva a Filippo II, parlando del contado cremonese: « Cum ipsa regio de sua natura sit uberrima et foecundissima et si ab aquis inundantibus tueatur, prestet tot et tantus fruetus quod inter cetera non est timendum de aliqua an- none penuria dicto populo cremonensi.» E finalmente il Corro, ragionando del ducato di Milano all’ anno 1492, dice: < Adunque questo illustrissimo Stato era costituito in tanta gloria, pompa e ricchezza che impossibile pareva più alto poter attingere. » SavonaRroLA, De laudibus Patav., 1440, in Murar., XXIV, dice che Padova ha un’ agricoltura ricchis- sima, che il suo contado abbonda fuor misura di lino e di canape e che manda a Venezia 40,000 ducati di frumento all’anno. E ScarpEONIO, Storia padovana, 1560, I, scrive : < Tutto il piano di Padova è irriguo ; si esportano grana- glie per le città vicine; v'è abbondanza di frutta, di orta- glie, di foraggi, d’ animali, di lane e di delicati olii e vini. » Vedi per la ricchezza agricola della valle del Po nel se- colo XVI, Sacco, Hist. Ticinens., e particolarmente ALBERTI, op. cit. Bologna era chiamata la grassa. Vedi pure ALBERTI per i prodotti delle Marche, delle Romagne e della costa meridionale adriatica. L’ ambasciatore veneto FEDELI rife- riva al suo (roverno nell’ anno 1561, che i Toscani lavorano la terra con grandissima arte, e ne hanno copia infinita di grani e d’ogni sorta di biade, di legumi, di preziosi vini, d’ olii perfettissimi ed ogni specie d’ ottime frutta; più una quantità meravigliosa di bestiame; e che si è soliti dire che la maremma di Siena, il pian di Pisa, il contado di Arezzo ed il Valdarno possono dare il vivere a mezza Italia. Della riechezza agricola dell’ Italia meridionale e della Si- cilia daremo un quadro più sotto. 8® Ecco, ad esempio, che cosa disponevano gli Statut. Ferrarie vetera, lib. VI, rubr. 2: « Statuimus et ordinamus quod ad ufficiam Judicum bladorum Civitatis Ferraria et ejus Districtus spectet et pertineat cognitio cujuscumque 248 I’ AGRICOLTURA ITALIANA litis et cause vertentis inter quascumque personas tam ter- rigenas quam forenses in Civitate Ferrarie et ejus Distric- tu, occasione cujuscumque contractus vel quasi contractus, vel ultime voluntatis, sive occasione zoatice, caballatici, metiture, batiture, spigadicii, vel operarum datarum ad metendum, sive occasione alicujus possessionis locat®, sive granarii locati, etc.» (31) Digesto di Federigo II, 386. (62) Dalle Assise pubblicate da Federigo II nel mese di ottobre dell’anno 1232, apparisce quali fossero i prodotti del regno di Puglia; onde le pubblichiamo anche per age- volare il confronto fra l’ agricoltura dei suoi tempi e l’ agri- coltura del secolo XVI, della quale, almeno per le Calabrie e per la Sicilia, diamo un quadro sintetico nelle Note suc- cessive. Queste Assise sono del seguente tenore: « Cives in terris eorum pro mercibus suis, quas intro- mittent, vel extrahent, nihil solvent, nisi quod olim solve- bant, de pomis, castaneis, nucibus, avellanis, et aliis fructi- bus in jure Curie servabitur forma antiqua, jus coriorum pro canzatura dimittitur in forma antiqua. Factum canapis omnino remittitur: vendentibus vinum, sive ad minutum, sive ad grossum, nihil requiritur, sed in eis servabitur forma antiqua. Statera erat in Fundicis, et nihil recipietur pro ea, nec amplius pro cantaro quam gr. 5. Pro herbatico animalium, venditione equorum, et aliorum animalium, si- militer servabitur forma antiqua. A piscatoribus nihil re- quiritur, nisi secundum formam antiquam. Pro jure men- surarum victualii tam in Sauma, quam in Turninis, servabitur forma antiqua; de jure casatici remissa sunt gr. 3 pro une., ita quod mercatoribus, qui erunt pro eis, providebitur a Custodibus Fundaci in lectis, luminaribus, palea, et lignis: de jure Buceriorum pro bove, vel vacca remittuntur gr. 3, pro porco gr. 3, pro ariete gr. 2, pro agno gr. 2; de tun- ninis, et sardellis servabitur forma, de jure linî idem, de jure cannarum idem, de lana Syria idem, de bombace et de arcu cuctonis idem. » RE e NEGLI ULTIMI SECOLI DEL MEDIO EVO. 249 (39) Spanò-BoLanI, Storia di Reggio di Calabria, IV, 4. (85) Stimiamo non del tutto inutile di riassumere succin- tamente le minute notizie somministrate dal BARRIO intorno alle condizioni agricole ed industriali delle singole località della Calabria, che egli ebbe a visitare verso la metà del secolo XVI. In territorio di Tortora, buoni pascoli, buoni boschi, canna da zucchero, riso ed ottimi vini; Ajeta, bei boschi, campi feraci, selve di ghiande per l’ ingrassamento dei majali, ottimi vini, cotone ; Scalea, campi feraci, ottimi pascoli, varie selve di ghiande, legname da costruzione, zucchero e cotone ; Bato, zucchero, ottimo miele, ottimi vini, campi feraci, selve ghiandifere; Merimagno, grassi pascoli, ottimo formaggio, miele non comune; Albistro, miele, vino ed olio pregevoli, legname da costruzione ; Cerilli, vino squi- sito, molto stimato a Roma, olio, zucchero ; Machera, buon vino, vaste selve di castagni e di ghiande, ottimi pascoli per i greggi e per gli armenti; Vernicario, legnami da costruzione; Summarano o Murano, ottima seta, tessitura di finissime stoffe, panni e tele di seta, lana, lino e cotone; grani, pa- scoli (II, 2); Saracena, vino ed olio squisiti, cotone, ghiande; Altomorte, terreni irrigati, feraci di grano e di foraggio, ghiande, castagne ; San Donato, vino, olio, miele non vol- gari, ghiande, pascoli per greggi ed armenti, castagne, le- gname da costruzione ; Follona, ricca di grani, di bestiame grosso e minuto, di ghiande, di castagne, di buoni vini; Agata, selve, ghiande, grassi pascoli; San Gineto, zucchero, agrumi e grande abbondanza di ottime fragole (II, 3); Bombicino, seta, zucchero, agrumi; Blanda, zucchero, cotone, vino ed olio preclari, rape, seta bellissima ; Bonifato, formag- gio lodatissimo, bellissimi greggi di pecore, vino buono, bella seta; Melivito, vino squisito, olio, miele, seta, frutta, fru- mento, cotone, castagne, ghiande, legname da costruzione, grassi pascoli per greggi ed armenti; Roggiano, vino, olio, miele preclari, bella seta, ottimi lanifici come a Murano; San Marco Argentano, terreni fertili, vino ed olio non co- muni, seta, castagne, ghiande, legname da costruzione, grassi pascoli, grande quantità di fragole, fabbricazione di 250 L’ AGRICOLTURA ITALIANA botti (II, 4); Cetrano, cantiere marittimo, olio molto e squi- sito, selve di ghiande; Fiscaldo, zucchero, miele, vino non comune ; Etricolo, campi frumentari molto fertili, vino, lino, canape, seta, frutta e cotone; Torano, come ad Etricolo, più le industrie ceramiche; Regina, abbondanza d’ olio squi- sito e di frumento, ottimi i ceci; Montalto, ingente copia di ottima seta, setifici e lanifici; Paola, ottimi vini dolci (vernantium) ed aspri, frumento ed olio, industrie cerami- che; San Lucido, vini chiarissimi dolci; Rende, industrie ceramiche, abbondanza straordinaria di cicerchi, cotone; Castrofranco, ingente quantità di seta (II, 5); Cosenza, ter- ritorio ricchissimo, irrigato dal Crati e da molti altri rivi, e seminato di 100 villaggi, alcuni grandi come città, ab- bondanza di frumento, frutta, castagne, ortaggi, vino, olio, miele, lino, canape, cotone, buoi e pascoli, industrie cera- miche, industrie in ferro, preparazione di salumi (II, 6, 7,8); Mendicino, ricco di cereali e di ottime lenticchie, ot- time castagne, bellissima seta; Caroleo, come Mendicino; Fiumefreddo, «hic optimi serici numerus immodicus fit, » buon vino, molte ghiande, orti di agrumi e d’ ogni maniera di frutta; Amantea, olio e capperi (II, 9); Martirano, vino generoso, miele, bellissima seta; Nuceria, vino e miele pre- libati, selve di ghiande e di legname da costruzione (II, 10); Castiglione, vino e miele preclari; Nicastro, industrie cera- miche, fertilissimi campi di grano, buoni pascoli, bellissimi agrumeti, vino, olio, miele d’ ottima qualità ed abbondanti, molte ghiande; Maida, vino, miele, grani, pascoli; Laconia, ottimi lini, radici, molto zuechero; Monardo, grani, miele, pascoli, radici; Rocca Angitola, cotone, miele e sesamo ; Pizzo, cotone, boschi d’agrumi; Filocasa, grani, pascoli, olio, vino, miele; VaMlonga, ottimi formaggi, molte casta- gne, molte ghiande, pascoli, fragole; Mornsauro, asparagi in tuttii mesi dell’ anno ; Gaspario e Spatula, ottimi formaggi; Bonnurgio, asparagi tutto 1’ anno, molte ghiande e legname da costruzione ; Soria, industrie ceramiche, molte ghiande, molti pascoli ed olio preclaro (II, 11); Monteleone, campi di frumento, zucchero, sesamo, olio, lino, una bella selva NEGLI ULTIMI SECOLI DEL MEDIO EVO. 25 dl (II, 12); Briatico, buon vino ed ottimo olio, cotone, sesamo, frutta, giardini di agrumi, zafferano, e nei siti aridi lo sparto; Yropea, una quantità colossale di sparto, olio e vino ottimi, moltissimo cotone; Jopoli, olio, agrumi, seta e sparto (II, 13); Nicotera, lino e seta; Filocastro, seta, vino ed olio ottimi, frutta, tutto il territorio irrigato ; Calimera, tutto il territorio irrigato, agrumi, olio, frutta lodatissime; Mileto, concia delle pelli, frumento, olio (II, 14); Francica- rio, seta, olio, vino; Arena, spaziosi boschi d’ olivi, selve di castagne ed altre, bellissima seta, ottimo vino, fabbri- cazione di vasi ed utensili di legno; Soreto, vino, olio, campi fertili, molte ghiande, concia delle pelli; Carida, vino ed olio lodatissimi, castagne, ghiande; Borello, frumento, lino non comune, buon vino, agrumi ; Preziano, vino ed olio ottimi, ghiande, castagne; Calatro, vino ed olio ottimi, molta seta di bella qualità, concie delle pelli; Cinquefrondi, vini non volgari, agrumi (II, 15); Polistina, ottima seta, lino lo- dato, vini squisiti, pascoli; Rosarzo, poponi, legumi e pa- scoli, zafferano (II, 16); Terranova, ingente quantità di ot- tima seta, molto frumento, molti pascoli, vino buono, lino preclaro, molta canape (II, 17); Oppido, molto frumento, pascoli, territorio irrigato, d’estate vi pascolano molte mandre di cavalli, vino ed olio ottimi, molta seta; Cristina, olio ottimo, ghiande, legname da costruzione; Sido, ottimo lino; Sinopoli, castagne, ottimo olio; Seminara, molta seta, ottimo olio, buon vino, zafferano, tessitura del lino ; Scilla, ottima malvasia; Palmi, ottimo olio (II, 18); Fiumara di Muro, seta lodatissima e copiosissima, agrumi; Calanna, seta ed olio, vasta selva con molto legname da costruzione, bei pascoli, fragole e zafferano, molte acque correnti (II, 20); Reggio, tutto il territorio irrigato, giardini d’ agrumi, bel- lissima seta, buon vino, ottimo olio, industrie ceramiche (III, 1); Agata, ottima seta, olio, capperi; Leucopetra, cap- peri; Pentedattilo, sesamo e capperi, ottimo miele; Lau- rento, formaggio lodatissimo, ottimo lino, capperi, sparto ; Pagliapoli, lino, formaggio e miele ottimi, asparagi in tutti i mesi dell’ anno (III, 6) ; Bova, formaggio lodatissimo, vino, 252 L’' AGRICOLTURA ITALIANA olio e miele preclari, molte ghiande; Palizio, come a Bova, più sesamo, capperi e molto frumento; Brancaleone, ottimo miele, cotorie, sesamo; Bianco, vino bianco squisito, molte ghiande, capperi; Bovolina, ottimo vino, capperi, cotone e sesamo, bellissimi pascoli per le regie mandre di cavalli, agrumi; Condojano, capperi, cotone, sesamo, vino e miele, tutto di ottima qualità, sparto, pascoli, l'erba medica spon- tanea (III, 9); Gerace, molta seta, molto olio, capperi, co- tone, sesamo, industrie ceramiche molto fine (III, 12); Crit- teria, vini, olii, miele e seta lodati, ottime frutta, agrumi, molte ghiande, industrie ceramiche.; Giojosa, seta, vino, olio, cotone, sesamo, capperi, agrumi; Arocella, cotone, sesamo, capperi (III, 13); Castelvetere, vino, olio, miele e formaggio ottimi, cotone, sesamo, capperi, molte ghiande, castagne, legname da costruzione, industrie ceramiche (III, 14); Pa- ganica, vino, olio, miele e formaggio lodatissimi, bellissima seta, sesamo, capperi, lino, cotone; Stilo, cotone, sesamo, lino, capperi, zafferano (III, 15); Catarena, capperi, cotone, sesamo, olio, miele, industrie tessili di panni, seta, cotone, lino; Badolato, seta bellissima, cotone, sesamo, olio, vino, tessitura di cotone: Satriano, miele e formaggio lodatissimi, cotone, sesamo, lino, giardini di agrumi, olio (III 16); Squil- lace, territorio ricchissimo d’acque irrigue, riso, cotone, lino, vino, olio, miele, sesamo, frumento, asparagi in tutti i mesi dell’anno, castagne, industrie ceramiche; Gemiliano, fabbricazione di vasi ed utensili di legno, ottimo formag- gio; Girifarco, terreni ricchi di grani, di pascoli e d’ogni prodotto (III, 20): Catanzaro, riso, vino, cotone, sesamo, tessitura di panni d’ogni specie e di stoffe di seta; Ta- verna, molte acque irrigue, buoni vini, ghiande, castagne; Asilia, riechi campi di grano, vino, cotone e sesamo ; Si- mari, frumento, pascoli, vino, miele, cotone, sesamo, riso, capperi, ottimo formaggio; Cropano, terreni fertili, molte amandorle, cotone, sesamo, vino, olio, miele, molta seta, pa- scoli (IV, 1); Belcastro, vini nobilissimi, molto frumento, olio, miele, cotone, sesamo; Missurgia, frumento, cotone, capperi (IV, 2); Policastro, ottimi vini, cotone, sesamo, SL VAIO TT n PETE O ù PET, E" tti > PIV e DI I 1 NEGLI ULTIMI SECOLI DEL MEDIO EVO. 253 zafferano, ghiande; Li Cotronei, frumento, pascoli, vini, olii, miele, cotone, sesamo (IV, 3); Santa Severina, vino lodatis- simo, olio, giardini di agrumi, cotone, sesamo, lino, pa- scoli; Castella, frumento, pascoli, vino (IV, 4); Crotone, ter- reno ricchissimo di cereali e di pascoli, molti greggi ed armenti, orti irrigui, vini, capperi, sesamo, cotone (IV,21); Strongili, frumento, pascoli, cotone, sesamo, capperi (IV, 22); Cerenzia, vino, olio. miele, frumento, capperi; Vergine, ot- timo formaggio, miele, ghiande; Briatico, cotone, sesamo, capperi, ghiande ; Cirra, territorio ricchissimo d’ acque, fru- mento, vino, olio, miele, capperi, agrumi, frutta, sesamo, cotone. (IV, 23); Cariati, sesamo, cotone, buoni pascoli; Campana, vino, olio, miele, ghiande, castagne, pascoli; Boc- chileri, pascoli, castagne, ghiande; Pelvapante, grani, miele, cotone, sesamo; Colopiciato, ottimo lino, cotone, sesamo, capperi, olio (IV, 24); Calovita, vino, olio ottimi, agrumi; Longobucco, ghiande; Cropalatro, zafferano e agrumi; Ros- sano, vini lodatissimi, ottimo olio, capperi, zafferano, indu- strie ceramiche (V, 1); Corigliano, terreni fertilissimi ed abbondanti di tutto, buoni vini ed olii, cotone, sesamo, capperi, agrumi, frutta; Acri, olio, vino, carni insaccate (V, 5): Bisignano, olio, cotone, sesamo, lino, grano, poponi, industrie tessili, arti ceramiche, fabbricazione d’ aratri ed altri oggetti di ferro (V, 6); Tarsia, grano, vino; Terra- nova, vini lodatissimi, ottimo olio, lino, miele, industrie tes- sili (V, 7); Castrovillari, vino ea olio ottimi, sesamo, cotone, buoni lanifici (V, 17); Cosa, vino, lino, cotone, sesamo, cap- peri, poponi, ottimi pascoli, molti armenti di buoi e di bu- fali (V, 18); Cercario, cotone, sesamo, zafferano, capperi, ottimi vini; Tubisazzi, zafferano, cotone, capperi, industrie ceramiche; Alsidona, frumento, capperi, mandorle, vino, olio, zafferano (V, 19); Roseto, grani, zafferano, capperi, olio, vino; Boleto, cotone, zafferano, olio; Canna, vino, olio, zaf- ferano, grani; Nucara, vini, bellissimi pascoli; Riolo, grani, vino, cotone; Noa, grani, vini, zafferano, capperi, castagne, ghiande, pascoli bellissimi, legname da costruzione; Taba- lio, cotone; Aroca, cotone (V, 20). , 254 L' AGRICOLTURA ITALIANA, EC. (8) Secondo FazeLLO, che percorse la Sicilia verso la metà del secolo XVI, l’ agricoltura dell'Isola era molto fio- rente (De rebus siculis, Decad. I). Il paese era ricco di fiumi e di fonti, che impiegavansi con grande profitto nell’ irrigazio- ne (1, 4). La val Demona (provincia di Messina) era povera di grani. ma ricchissima di seta, di buoi, di pecore (I, 4; II, 2). La pianura di San Marco era tutta irrigata; abbondava d'ogni maniera di piante; i monti vicini erano coperti di viti, di olivi e di piante da frutta (IX, 5). Il territorio di Aci era ricchissimo di vigneti, di pomari e d’ acque irrigue (II, 3). Il contado di Messina dava ottimi vini, tra i quali il vino di Savoca e quello di Alii (Rist) (II, 3). Il territo- rio di Milazzo era ricco di frumento, di vino e di olio, ed aveva pascoli feracissimi (IX, 8). La val di Noto abbon- dante di grani, di pascoli, di bestiame e di vino (II, 2). La pianura che si stende ai piedi dell’ Etna, ricchissima di viti, di olivi, di piante da frutta, di cereali e di grassi pascoli (II, 4; III, 1). L’ Etna rivestito di abeti, di faggi e di pini (II, 4). I campi Leontini ricchissimi di granaglie e di erbe (III, 3);i campi Iblei di canna da zucchero (III, 4). Il territorio di Siracusa tutto intersecato da fiumi e da fonti (IV, 1). Nel territorio di Motie (Ficallo) moltissime acque irrigue, molti pomari ed orti (V, 1). Il territorio di Camerina ricchissimo d’ogni specie di prodotti, partico- larmente di agrumi e di frutta ; abbondante d’ acqua (V, 2). I campi di Gela feracissimi di granaglie (V, 3). Il contado di Bivona tutto irrigato (X, 3). I campi di Eraclea tutti irrigati e ricchi di frumento (VI, 3). La val di Mazara molto frumento, vino, olio, bestiame ; molte piante da frutta d’ogni specie (VI, 5). In contado di Marsala grande alle- vamento di polli (VII, 2). La pianura di Palermo tutta ir- rigata; abbondanza di grani, di frutta, di zucchero, di vino e d’olio (VII, 5; VUI, 1). Il territorio di Partinico ricco d’acque irrigue e di zucchero (VII, 4); così anche il contado d’ Iccara (VII, 6). Tutta la Sicilia ricca d’olio (I, 4). VII. L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL’ ETÀ MODERNA. L'agricoltura italiana si mantenne in fiore sin ben addentro nel secolo XVI; ma già dagli ultimi tempi del medio evo aveva cessato di progredire. Im- perocchè erano occorsi alcuni fatti che avevano mo- dificato radicalmente la situazione dell’ Italia sul mer- cato mondiale, ed avevano soppresso le cause, per le quali nel periodo precedente 1’ agricoltura aveva po- tuto avere un sì mirabile svolgimento. Poco dopo la metà del secolo XV Costantinopoli era caduta in mano dei Turchi. Da quel momento ai nostri commerci furono chiusi il Bosforo e le strade che mettono nell’ Asia centrale. Quasi contemporaneamente la scoperta del passo di Buona Speranza apriva una nuova via per l'Oriente, e gettava in braccio ai Portoghesi ed alle Potenze marittime occidentali il commercio delle Indie, del quale, sino a quei tempi, l’ Italia aveva avuto il mo- nopolio. Seguì a breve intervallo la scoperta d’ America. Questo grandioso avvenimento non agì subito diretta- mente sulla produzione e sul commercio d’ Italia; ma “ 256 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. contribuì indirettamente a sollecitarne la rovina, dando occasione alle Potenze occidentali di mettere assieme potenti marine mercantili, di trarre a sè tutto il com- mercio marittimo e di farci una vittoriosa concor- renza persino nel Mediterraneo, il quale sino a quel- l’ epoca era rimasto veramente un lago italiano. Ma se questi due ultimi avvenimenti, dei quali l’ Italia non ha saputo o, più esattamente, travagliata com’ era da Tedeschi, da Francesi, da Spagnoli, da Turchi e da Papi, non ha potuto trarre alcun profitto, la colpirono nel suo commercio marittimo, essi non toccavano che in parte il suo commercio terrestre e le sue industrie; e la sua potenza economica si sa- rebbe mantenuta, con qualche modificazione, se altre circostanze non fossero venute a soffocarla. Abbiamo accennato in altro luogo come l’ industria nazionale italiana fosse il lanificio; come dei panni si facesse una colossale esportazione in tutte le di- rezioni, e come la materia prima per le lavorazioni più fini non si producesse in paese, ma si ritirasse dalla Francia, dalla Germania, dall’ Inghilterra e dal- l'Olanda. Ora avvenne che questi paesi, dirozzatisi alquanto in sul finire del medio evo, sì dedicassero appunto, prima che ad ogni altra industria, al lani- ficio e che felicemente riuscissero. Onde all’ Italia ven- nero a mancare le lane fini forestiere, e in pari tempo non solo le fu chiusa la esportazione dei suoi panni per tutti i paesi settentrionali d’ Europa, ma ezian- dio si trovò in breve soverchiata in paese dai panni forestieri. Le città italiane, ferite gravemente nel ce- spite principale della loro operosità, non abbandona- L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 257 rono subito la lotta, ma dovettero limitare la produ- zione e restringerla ai panni grossolani, pei quali trovavano ancora uno sbocco sui mercati della penisola, negli Stati barbareschi dell’ Africa e nella Turchia. * Quasi contemporaneamente, o poco dopo, le na- zioni settentrionali presero ad educarsi anche nelle altre industrie, e un po’ alla volta allontanarono i no- stri prodotti dai loro mercati per venire più tardi a farci una vittoriosa concorrenza anche in casa nostra. Un altro avvenimento funesto per l’ economia ita- liana fu il dominio spagnolo. Noi abbiamo ricercato se gli Spagnoli, fra i tanti danni che inferirono al- Italia durante la secolare loro dominazione, le aves- sero recato, fosse pure involontariamente, qualche piccolo beneficio. L’ esito delle nostre ricerche fu ne- gativo. L’ amministrazione spagnola fu un’ ammini- strazione da ebeti. Al suo contatto le fonti della ricchezza si disseccavano, come se fossero cadute in ira alla fortuna. C° è quasi da domandarsi se 1’ eroi- smo dei Vespri Siciliani, al quale risale la genesi di questa dominazione, non sia stato un errore colossale, di cui l’ Italia intiera ha dovuto portare la pena. Si era fatta non molto migliore di quella degli Spagnoli l’amministrazione dei varii principati, nei quali dividevasi l’ Italia. Ridotti politicamente al nulla dall’ egemonia straniera, i Principi italiani gareggia- vano per soverchiarsi a vicenda nello sfarzo delle corti, nella pompa delle feste, nel lusso delle caccie, © nella erezione di monumenti. In quell’ epoca le grandi città * Vedi le Note a pag. 267. BERTAGNOLLI. 17 258 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL’ ETÀ MODERNA. sì riempirono di chiese, di palazzi, di statue, di qua- dri. Il prodotto delle imposte, che costavano lagrime e sudori, non era destinato a favorire e promuovere lo svolgimento economico del paese, ma a soddisfare la vanagloria dei Mecenati delle belle arti. Alla universale corruzione facevano un’ eccezione i Principi di Casa Savoja. Sino alla fine del secolo XV il Piemonte aveva avuto uno svolgimento economico più lento che le altre regioni d’ Italia. Ma da quell’ epoca, e special- mente a partire da Emanuele Filiberto, 1’ economia pubblica di quella regione prese a svolgersi con una incredibile rapidità. Emanuele Filiberto ed i successori si adoperarono con attività instancabile per introdurre nuove industrie, pet favorire i commerci,, per pro- muovere l’ agricoltura, per aprire nuove strade, per escavare nuovi canali d’ irrigazione.’ Onde si vide il piccolo Piemonte continuamente progredire in ricchezza e potenza, mentre gli altri Stati della penisola intri- stivano in una ingloriosa decadenza. Pareva che i suoi Principi, quasi presaghi dei loro gloriosi destini, pre- parassero quelle robuste popolazioni per gli avveni- menti che doveano farne la base della redenzione e dell’ unificazione della penisola. La decadenza economica fu più precoce e più rapida nel Mezzodì dell’ Italia che nel Settentrione. Nel Mezzodì si sostenne, finchè il Regno ebbe una nu- merosa flotta di guerra per proteggere i suoi com- merci col Levante; ma posciachè la sua marina venne meno 0 fu assorbita da quella di Spagna, cessò la sua autonomia commerciale, ed i suoi prodotti restarono L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL’ ETÀ MODERNA. 259 alla balia dei commercianti esteri, che venivano 0 non venivano, secondo i bisogni. Si aggiunga che la esportazione dei cereali, cespite ragguardevolissimo specialmente per il commercio siciliano, era soggetta a gravi dazi ed all’autorizzazione governativa, e che non mancò il caso di flottiglie estere, che presenta- tesi ai porti dell’ Isola per caricare il frumento do- vettero ritornarsene, senza carico, in seguito ad un divieto istantaneo di esportazione. Onde era natu- rale che i negozianti forestieri, non avendo alcuna suarentigia per il loro traftico, rinunziassero un po’ alla volta a fare assegnamento sulla Sicilia e stringessero relazioni con altri paesi graniferi. Da qui la riduzione della coltivazione dei cereali nell’ Isola, spinta così oltre che in anni non buoni la produzione non era sufficiente per il consumo locale. Per tutte queste cose 1’ economia pubblica italiana fu gravemente turbata e impoverita, ed immune da danni non fu, come è facile imaginare, neppure 1’ agri- coltura. La quale, comunque, a nostro giudizio, non sia tornata addietro nè per la scelta delle coltiva- zioni, nè per i metodi e strumenti del lavoro, e non abbia perduto, in complesso, di estensione, pure non potè conservare da per tutto l’antica intensità; e posteriormente, quando cambiarono un po’ in meglio le cose, non trovò le condizioni favorevoli e non ebbe a sua disposizione i mezzi necessari per progredire, come sarebbe stato necessario e come intanto pro- gredì negli altri paesi ingentiliti. Egli è forse il con- fronto fra l’ agricoltura italiana e 1’ agricoltura stra- niera, che ne induce facilmente a credere essere la 260 L’° AGRICOLTURA ITALIANA NELL’ ETÀ MODERNA. nostra meno buona adesso che negli ultimi secoli del medio evo, mentre la decadenza dovrebbe ammettersi soltanto in senso più relativo che assoluto; in quanto che, mentre allora si aveva la migliore agricoltura del mondo, ora essa è stata posta in seconda linea da quella di altri paesi. Non v° ha dubbio che, specialmente a partire dal secolo XVII e discendendo giù sino a noi, si è insi- nuato nella popolazione un malessere economico, del quale prima non si aveva un’ idea. Ma questo males- sere non dipende unicamente dalle condizioni del- l’ agricoltura, sibbene e principalmente da quelle del commercio e delle industrie. Nel periodo, che abbiamo esaminato or ora, l italia era ancora l’ unico paese industriale. Lavorava ed esportava di tutto e non importava che materie prime. Ora le nostre industrie non possono sostenere in gran parte la concorrenza delle industrie estere; dobbiamo importare pressochè di tutto. e possiamo esportare poco. Onde la popolazione cittadina, alla quale è ve- nuta meno l’ occasione di abbondanti guadagni, non può vivere così largamente come in altri tempi. Questa decadenza industriale e la nostra impo- tenza a far fronte alla concorrenza estera dipendono da varie cause; ed innanzi tutto dalla inferiorità na- turale del paese nostro nella produzione della materia prima e delle materie ausiliarie, e poi dal cattivo indirizzo dato da noi alle ricchezze che s° immobiliz- zarono in misura colossale a favore di chiese, di con- venti e di opere pie. Ed in parte dipendono eziandio dalla nostra indole 0, più esattamente, dalla nostra tenta at è è det nie o. L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 261 facile accontentatura, per la quale d’ ordinario quando abbiamo messo assieme quanto è necessario per Vi- vere, invece di allargare la nostra industria, o da soli o mercè l'associazione, ci ritiriamo facilmente dagli affari; dalla incontestabile nostra minore ener- gia nel lavoro e dalla poca inclinazione al risparmio. Noi fummo i primi nelle industrie, finchè non eb- bimo concorrenti; ma al primo urto le cause della nostra inferiorità si appalesarono anche ai meno veggenti. Del resto, non è a mettere in dubbio che questo malessere economico non siasi infiltrato anche nei proprietari delle terre e nei contadini. Il numero dei proprietari si è aumentato consi- derevolmente, e si è corrispondentemente diminuita la quota di terreni d’ ognuno di essi. Di più dalle di- visioni, ripartizioni, compre-vendite e permute è nata una dispersione tale dei poderi, che è un vero mira- colo trovare un proprietario grande o piccolo, il quale abbia tutte le sue terre riunite in un solo complesso. D’onde accrescimento di spese per la coltivazione, diminuzione di prodotto, difficoltà della sorveglianza e difficoltà d’ introdurvi il sistema di coltura più ra- zionale e rimuneratore. ‘ Colla decadenza delle industrie vennero meno ai proprietari i lucri della partecipazione che essi avevano nelle medesime, e il mercato dei prodotti della terra ebbe a soffrire per la diminuita potenza di consumo della popolazione cittadina. E malgrado questa mu- tazione delle loro condizioni economiche, i proprietari continuarono a vivere nelie città ed a far fronte 262 L'AGRICOLTURA fTALIANA NELL'ETÀ MODERNA. colla sola rendita della terra alle cresciute esigenze della vita. A queste cause principali devono aggiungersi il peso delle imposte erariali e locali cresciuto oltre mi- sura, la concorrenza vittoriosa fatta a taluni cespiti della nostra agricoltura, così sui mercati nazionali, come sui mercati esteri, dall’ agricoltura d’ altri paesi che nel frattempo fece grandi progressi, ed altre di minore importanza. Ma il dissesto economico più sentito fu quello della classe operaja. Da prima schiava dei signori, non aveva un’ eco- nomia propria; il padrone pensava ad alimentarla ed a vestirla. Schiava dipoi della gleba, aveva, in causa della sua scarsezza, tanta terra da coltivare da non bastarle le braccia. Resa a libertà, ebbe casa propria e la responsabilità del proprio avvenire; ma econo- micamente si mutarono in peggio i suoi rapporti eco- nomici col proprietario. In quel tempo si formarono le industrie, e il soverchio della popolazione campe- stre, che si era andata aumentando considerevolmente, trovò un facile collocamento ed una mercede sicura negli opifici delle città. E per gli spostati, per i ne- mici del lavoro e’ era un rifugio nei conventi o sotto le bandiere dei mercenari. Ma decadute le industrie, le città non ebbero più il modo di offrire lavoro alla gente che veniva dal contado, e questa in luogo di diminuire continuò a crescere, ajutata potentemente dalla diffusione della coltivazione del grano turco. Questo accrescimento della popolazione operaja, che in pratica si traduce in un ostacolo al rialzo dei Stavrtrint nni dettati L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 2653 salari e in una minore domanda di lavoro, si è fatto così ragguardevole, che esso può considerarsi come la causa principale del suo malessere economico. Si obbietterà che non può parlarsi di eccesso di popolazione, finchè vi sono in paese immense regioni incolte o male coltivate. E saremmo d’ accordo se per coltivare la terra bastassero le braccia; ma occorrono anche i capitali, e questi non si fanno avanti, se non v'è un impiego proficuo. E che l’ impiego nella dis- sodazione delle terre non presenti ancora buone pro- spettive, è provato dal fatto che i capitali rimangono nascosti o prendono altre strade, e che nessuno pensa seriamente alla colonizzazione interna.! Potrebbe intervenire il Governo o il Credito fon- diario. Ma non vediamo come possa avere buone pro- spettive il capitale somministrato dal Governo 0 mu- tuato dal Credito fondiario, se per il privato la operazione è meno che buona. E se questa fallisse, in quali imbarazzi non si troverebbero così lo Stato come la Società di credito? Dovrebbero ritirarsi ed abbandonare l’ impresa? Ragioni di umanità e di equità non permetterebbero di abbandonare le colonie a sè stesse. Dovrebbero fornire nuovi capitali? A qual titolo e sino a qual punto ? Del salario e della nutrizione dei lavoratori agri- coli parleremo di sotto. ragionando del grano turco. Si sente ripetere ben di frequente che la terra ha perduto della sua feracità e produce meno che nei periodi precedenti. In ciò è di vero che la po- polazione si è aumentata considerevolmente, e che si è diminuita corrispondentemente la quantità del be- 264 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. stiame; che per far fronte ai cresciuti bisogni si do- vette procedere al dissodamento di terre, prima te- nute a pascolo, che sono in generale, per qualità, inferiori a quelle che si destinarono originariamente alla coltura; che la copia delle acque, in seguito alla distruzione dei boschi, si è diminuita in talune regioni, come nella Sicilia e nella Calabria, ragguardevolmente, e così si è resa meno generale, meno facile e meno abbondante la irrigazione ; che per il rimpicciolimento delle proprietà e della coltura si dovette abbandonare la specializzazione delle coltivazioni ed introdurre la coltura promiscua; e finalmente che si è data una grande diffusione alla coltivazione del grano turco a scapito di coltivazioni più rimuneratrici, come quelle del frumento, della canape, del lino, ec. Del resto, noi non crediamo che la terra abbia perduto della sua feracità, o che l'agricoltura abbia fatto tecnicamente dei passi indietro. Nella Sicilia, ad esempio, ove specialmente si ha voluto scorgere un regresso, si è limitata la produzione dei cereali. Ma poichè la coltivazione del frumento non presenta nell’ Isola un sufficiente guadagno," la sua diminu- zione è da considerarsi come un progresso, se viene surrogata, come in parte si è fatto, colla vite, col- I’ olivo o con altre colture più produttive. La Calabria invece produce indubitatamente meno di prima, ed è meno coltivata; ma questo è da attribuirsi non tanto ad un regresso dell’ agricoltura, quanto all’ abbandono sforzato di parte delle coste, che un dì erano ameni giardini di agrumi ed ora sono ridotte a malsane pa- ludi, La causa di questo abbandono è attribuita alle E - I E EI RT L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 265 frequenti incursioni dei Turchi e dei Barbareschi nei secoli XVI e XVII, ed alle devastazioni dei terremoti nel secolo XVIII. Ma se in questi ultimi tempi l’ agricoltura nostra non ha progredito, come avrebbe dovuto e potuto, non è a disconoscere che non abbia avuto qualche mi- glioramento. Così la coltivazione della vite si è allar- gata notevolmente e migliorata; si è migliorata la fabbricazione dei vini, particolarmente in Piemonte, sul Veronese, nella Toscana e nella Sicilia; si è miglio- rato l’oleificio in Toscana e sul Genovesato; si sono diffuse e in generale perfezionate le coltivazioni arboree; si sono allargati i prati e si è appreso ad allevare con maggiori cure il bestiame, e così via dicendo. Non omisero di esercitare sull’ agricoltura un'azione benefica, insieme ai savii provvedimenti dei Principi di Savoja, la riforma economica di Pietro Leopoldo di Toscana coll’ abolizione delle servitù di pascolo e di seconda semina sui fondi altrui, dei vincoli al commercio delle derrate, dei privilegi in materie d’ imposte; il censimento di Carlo VI e di Maria Teresa in Lombardia, coì quale si resero certe, stabili e relativamente eque le imposte; ed una serie di buone disposizioni della Repubblica di Venezia, tra le quali sono a ricordarsi la sottrazione del bestiame, dei prati e dei novali ai diritti di decima, gli inco- raggiamenti materiali e morali dati agli agricoltori, la fondazione di varie Accademie agrarie e della Scuola di veterinaria di Padova, i abolizione di molte feste e la soppressione della manomorta di molti chiostri. 266 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. Di nuove coltivazioni s’ introdussero la patata, il tabacco, il ricino ed altre di minore importanza. La patata viene dall’ America. Pare che sia stata importata nell’ Irlanda verso 1’ anno 1610 da Sir Wal- ter Raleigh. Intorno a quel tempo, o poco dopo, i Padri Carmelitani la importarono in Toscana dalla penisola pirenaica." Fu accolta con diffidenza, e fu mestieri d’ incoraggiamenti d’ ogni maniera per farne accettare la coltivazione. Rimase per quasi due secoli negli orti, e non compariva che come piatto di lusso alle mense dei ricchi. La sua coltivazione prese a dif- fondersi grandemente alla fine del secolo passato, e nel presente raggiunse vaste proporzioni. Nell’ Italia si tenne in proporzioni incomparabilmente più ristrette che nei paesi settentrionali. E forse fu un bene. Im- perocchè la patata è, al pari del grano turco, una pianta, se così possiam dire, proletaria, e non avrebbe mancato di far sentire la sua potenza fecondatrice con un aumento indefinito della popolazione povera. Anche il tabacco viene dall’ America. Pare che sia stato importato in Furopa e nell’ Italia nella seconda metà del secolo XVI. La convenienza economica della sua coltivazione si fe’ subito manifesta ed i proprie- tari vi si dedicarono con sollecitudine. Ma nel tempo stesso non potè sfuggire alla vigile attenzione dei finanzieri, che prima frenarono con tasse e poi arre- starono e restrinsero con proibizioni e monopolii que- sta coltivazione.!” La coltivazione del ricino non ebbe mai una grande diffusione. Ma in qualche luogo raggiunse una note- vole importanza. Così nella provincia di Verona, ove L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 267 fu introdotta alla fine del secolo passato. Protetta da un forte dazio d'importazione sull’ olio di ricino, crebbe siffattamente verso là metà del presente secolo da rendere nel solo distretto di Legnago, nel quale si era estesa a seimila campi, intorno a tre milioni di libbre di seme. La coltivazione si è mantenuta anche posteriormente, malgrado i notevoli ribassi introdotti nelle tariffe d’ importazione.!? Ma i fatti agricoli più importanti, che si sono verificati negli ultimi tre secoli, sono la diffusione della bachicoltura, della coltivazione del grano turco e della produzione del riso. Di questi tre fatti, che riepilogano nelle sue grandi linee il movimento della nostra agricoltura negli ul- timi secoli, giova rendere conto a parte. NOTE. ( Milano, che in sul finire del medio evo, come si è ve- dato, contava 60 mila lanajuoli, nell’anno 1580 non produ- ceva più di 4500 pezze di panno (PicLIasco, op. cit.); e alla fine del secolo passato doveva importare quasi tutto il panno necessario per il consumo locale (VERRI, Sulla economia pub- blica dello Stato di Milano, III, e Storia di Milano, I, 15). Firen- ze, che al principio del secolo XIV fabbricava 100,000 pezze di panno (ViLLani, XI, 43), nell’anno 1760 non ne fabbri- cava che 4000 (Pacis, II, 105). Verona, che nel secolo XV produceva 20,000 pezze, nel secolo passato non contava che 178 telai (CAvATTONI, Intorno alla popolazione veronese degli anni 1766 e 1770). Nel Napoletano, verso la fine del secolo passato, il lanificio minacciava di cessare intieramente (Bran- cHIn!, Storia delle finanze del Regno di Napoli, III, 943). 268 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. © L'industria degli armajuoli, che per tutto il medio evo fu una delle principali di Milano (FLamma, Chrom. extrav., XVIII), alla fine del secolo XVI non-rendeva che poche migliaja di lire (PieLI:sco, op. cit.). Le botteghe di Milano, che nell’anno 1492 erano 14,600 (Frate Isiporo IsoLANI, De patrie urbis laudibus), nell’anno 1768 non erano che 4345 (VERRI, op. cit., I). La città di Milano scriveva nell’anno 1702 a Filippo V: « Le sete, le lane, l'oro lavo- ravansi altre volte con tanta industria, che non solo il paese, ma l’estero ne ricercava a gara. Ora la povera gente languisce nella miseria e nell’ ozio. » 8 Vedi in GurccIARDINI, Storia d’ Italia, XVII, la tetra descrizione dello stato di Milano sotto gli Spagnoli. Vedi pure le relazioni della città di Milano dell’anno 1668 a Carlo II, e 1702 a Filippo V, e più specialmente il Ricorso del Consiglio segreto al Re, in data 14 maggio 1690, ove è detto : « Lo stato di Milano è giunto al fine totale della sua distruzione. » Con grida 2 ottobre 1698 si minacciarono tre anni di galera a chi tenesse pecore nel Ducato, perchè potevano «causar deficienza di fieni et altri inconvenienti molti pregiuditievoli al servizio di S. M.» Nel Napoletano, il vice-re duca d’ Arcos, per agevolare alla finanza il con- trollo sulla produzione della seta, vietò nell’anno 1647 che si esercitasse il setificio in tutto il Regno, fuorchè in Na- poli e suoi casali (BrancHINI, Storia delle finanze del Regno di Napoli, II, 606). Nella Sicilia si fu ad un punto di proi- bire in via assoluta la coltivazione del tabacco, per impe- dirne il contrabbando. 4% Si assicura che il duca di Ferrara consumasse per il mantenimento dei cani da caccia 7400 staja di frumento all’anno (Diario Ferrarese, 1409-1502, in Murar., XXIV). 5 Carlo Emanuele I, quantunque il suo lungo regno sia stato incessantemente travagliato dalla guerra, accordò soc- corsi di denaro, privilegi, esenzioni da dazi e pedaggi, faci- litazioni per compere e locazioni di terreni, a chi sì era pro- L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 269 posto d’ introdurre in Piemonte la coltivazione del cotone, della canna da zucchero, del guado, ec. (Duo, VI, 7). Fece preparare varii disegni per l'apertura di un canale dalla Stura di Cuneo al Po, le cui acque con due canali minori sarebbero state condotte da Bra a Chieri e da Mon- calieri a Verrua. Fece ricostruire il naviglio d’ Ivrea, ed aprì un canale d’ irrigazione da Cuneo a Cherasco (RicoTtTI, IV, 407). Vittorio Amedeo II si è acquistato molti meriti, specialmente per i savi incoraggiamenti dati all’ industria della lana, della seta, ed alla tintoria (Memorie di un ter- razzano di Rivoli). . © Ai primi di settembre dell’anno 1772 comparve nel porto di Palermo una flottiglia di mercanti spagnoli, in- glesi, francesi ed olandesi, per caricare granaglie. Ma sic- come il prodotto del frumento in quell’anno non aveva raggiunto il 5 per 1, ossia era rimasto alcun poco sotto la quantità stimata necessaria per il mantenimento della popolazione locale, si vietò la esportazione, e le navi do- vettero ritornarsene senza carico ( VILLABIANCA, Diario Pa- lermitano, all’anno 1772). © Nei preliminari dello Statuto 10 ottobre 1646, del vice- re Los Velez, si legge che «lo stato del Regno era nota- bilmente deteriorato per essere di anno in anno mancata la seminagione che prima era di maggior quantità, di modo che essendo stata la Sicilia il granajo d’ Italia, appena prov- vedeva a quanto era sufficiente per il vitto dei suoi po- poli.» La esportazione del frumento dalla Sicilia, che ai tempi di Carlo V calcolavasi a circa 250,000 salme all’ anno, nel secolo passato, in quegli anni nei quali era permessa, non superava 100,000 salme, e nella prima metà del pre- sente si è ridotta quasi a nulla (BIANCHINI, Storia econo- mico-civile di Sicilia, II, 229). © Milano, ad esempio, che consumava alla fine del se- colo XVI più di 7000 buoi e di 20,000 vitelli (PreLIasco, op. cit.), aveva ridotto il suo consumo, alla fine del secolo passato, a 5000 buoi e 12,000 vitelli (VERRI, op. cit., III). 270 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL’ETÀ MODERNA. ©) Il BaLsamo narra che in varie epoche furono accordate in enfiteusi oltre a 13,000 salme di terreno in contado di Caltagirone. Tutti gli abitanti possedevano un pezzo di terreno. Erano terreni ricchi ed esenti da imposte. E non- dimeno il BaLsamo trovò che Caltagirone era il paese più povero della Sicilia. L’ aristocrazia ed i principali proprie- tari indebitati, mendicanti da per tutto, mancanza di ope- rai, nessun commercio, nessuna industria. Ed aggiunge: «L’ agricoltura è in uno stato così poco felice, che appena viè pastorizia » (Giornale di viaggio in Sicilia, 1808, pag. 67 e seg.). Una gran parte dei terreni demaniali, che nella prima metà del corrente secolo furono divisi fra i proletari nelle provincie meridionali, o non fu mai ridotta a coltura, o dopo poco tempo fu nuovamente abbandonata al pascolo. (9° Alcuni giudiziosi agricoltori di Scicli (Modica) di- cevano al Barsawo (op. cit., 165) che seminavano poco fru- mento, perchè il profitto era piccolo anche in anni di uber- tosi raccolti. (ti) Magazzini, Coltivazione toscana, 1625, IV, 21. Par- lando dei lavori che si fanno nel mese di marzo, egli scrive : « Si piantano in buon terreno fresco e umido le patate, portate nuovamente qua di Spagna e Portogallo dalli Re- verendi Padri Carmelitani, come si piantano gli vuovoli di canne; che si cavano poi all’ ottobre e ne fanno gran- dissima quantità, quali si mangiano in fette o a guisa di tartuffi o di funghi fritte e infarinate o nel tegame con agresto, e sono aggradevoli al gusto con sapore di cardoni. E moltiplicano innumerabilmente e facilmente si quocono e son tenere. > (2) Nell’ anno 1648 s’ impose un dazio sulla introduzione del tabacco in Palermo (Deputaz. delle nuove gabetle, 1648). Nel 1680 s’ introdusse nella Sicilia il rogato del tabacco, os- sia si riservò la privativa della vendita alle persone desi- gnate dal Governo (Moxerrore, II 81). Nel 1780 si abrogò il rogato e si applicò la tassa della produzione. La tassa produceva più di 250,000 scudi (Simonetti, Consulta rimessa L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 271 al Re, ec.). Pochi anni dopo il Parlamento chiese la ripri- stinazione della privativa, che sembrava meno oppressiva della tassa. Nell'anno 1806 il Governo decretò il ristabili- mento della privativa, ma non lo eseguì (BrancHINI, Storia economico-civile di Sicilia, II, 132, 138, 148). Nelle provincie di qua dal Faro la produzione del tabacco fu sottoposta a tributo negli anni 1627 e 1646. Nell’ anno 1650 fu data in appalto la privativa della vendita per ducati 80,000. Nel- l’anno 1703 la privativa rendeva 230,000 ducati; però il suo prodotto medio era di ducati 165,413. Il tabacco non lavoravasi nel Regno, meno che in Terra d’ Otranto e di Lecce (BrancHINI, Storia delle finanze del Regno di Napoli, II, 364, 365). Ai 14 dicembre 1779 si abolì la privativa, si lasciarono libere la produzione, la vendita e la esporta- zione; ma siccome contemporaneamente si lasciò libera an- che la importazione, i tabacchi esteri soverchiarono il ta- bacco locale, del quale si restrinse la produzione (BIANCHINI, III, 127). Nell'anno 1810 si vincolò al privilegio la vendita del tabacco, ma se ne lasciò libera la produzione (III, 604). In Piemonte l'industria dei tabacchi fu accordata da Carlo Emanuele II in privilegio prima al fiorentino Andrea Con- tucci, che non fece buoni affari, e poi a Giacobbe Moreno nel 1653 (CLarETTA, Storia di Carlo Eman. II). La coltiva- zione del tabacco nelle provincie della Repubblica veneta fu vietata con legge dell’anno 1732 (GLORIA, op. cit). Nella Toscana fu resa libera da Pietro Leopoldo con editto dei 18 giugno 1789, ma fu assoggettata di nuovo alla regalia con legge dei 15 novembre 1814. (3. Vedi De STEFANI, Memorie dell’ Accademia di Verona, XXXVI. Il ricino era coltivato sul Ferrarese verso la metà del secolo XVI, per trarne olio da ardere e da ungere le lane (BrasavoLa, Ecamen omnium simplicium medicamento- rum, 1545). 272 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 1.— LA SETA.* Si ritiene dai più, seguendo Teofrasto, che le prime notizie del baco da seta siano state portate in Europa dai compagni di Alessandro il Macedone reduci dall’ Asia centrale. Ritiensi inoltre che il baco vi sia stato allevato per la prima volta sotto Giustiniano, quando due monaci, provenienti dalla Persia, gli presentarono il seme nascosto in bastoni di canna. ** Da quell’ epoca la bachicoltura sarebbe stata un monopolio della Grecia, finchè il normanno Roggiero, re di Sicilia, invaso quel paese, ed espu- gnate Tebe, Corinto e l’ Eubea, trasportò coi prigio- nieri tessitori 1’ arte della seta a Palermo.® Il baco, passato lo Stretto, si sarebbe quindi diffuso lenta- mente per l’ Italia, e si sarebbe stabilito nella parte centrale e superiore del paese non prima dei secoli XII e XIV. Agli antichi non era ben chiaro il processo della produzione della seta. Il prisco Pausania dice che il baco vive cinque anni, che nei primi quattro si nutre di panico e nell’ ultimo di canne verdi. Anche Teofra- sto ne parla in modo da far dubitare che conoscesse esattamente la materia. E così pure Plinio. Meglio informati ne sono Aristotele e Polluce (VII, 15). # Vedi una copiosa letteratura della coltivazione dei gelsi e dell’arte della seta in Rosa, Storia della bachicoltura, nell'En- ciclopedia agraria Ai CANTONI. ** Vedi le Note a pag. 294. L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 273 Aristotele registra una notizia preziosa, che toglie fede all’opinione accettata universalmente circa l’epoca della introduzione della bachicoltura in Europa. Egli narra infatti che ai suoi tempi talune donne greche svolgevano dai bozzoli la seta e la tessevano: ed ag- giunge che questa industria era stata scoperta da Panfila, figliuola a Plateo, dell’ isoletta di Coo 0 Ceos, vicina all’ Eubea. La bachicoltura sarebbe stata quindi conosciuta ed esercitata nella Grecia prima di Alessandro. Egli è vero che da taluno si disputa se il baco di Coo sia stato precisamente il nostrano o non piut- tosto il baco della quercia; ‘’ ma si tratta unicamente di un’ opinione soggettiva, non rafforzata dall’autorità dei fatti e scossa fortemente dall’ insuccesso che il baco della quercia ha incontrato ai giorni nostri. Egli è vero eziandio che gli scrittori venuti dopo Aristotele non parlano dell’ industria serica della Gre- cia se non colle sue stesse parole, e che non abbiamo alcuna notizia della sua diffusione, della sua impor- tanza e dei suoi progressi. Ma i vecchi scrittori non trattavano così facilmente di cose che non avessero rapporto alla storia, alla filosofia ed aila politica ; e i fatti ed i fenomeni economici, persino di capi- tale importanza, passavano innanzi a loro facilmente inosservati. La produzione della seta era già un ele- mento importante della ricchezza pubblica italiana, quando l’insigne Crescenzio rampognava le donne del contado di Bologna, perchè coll’ allevamento dei bachi turbavano la produzione delle frutta del gelso. Del resto, noi non contestiamo 1’ esattezza della BERTAGNOLLI. 48 274 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. narrazione di Procopio in quella parte che si riferisce alla importazione del seme dei bachi attribuita ai due monaci bizantini; ma riteniamo che essa debba riguardare una nuova specie di bachi, e che la ba- chicoltura non fosse sconosciuta nella Grecia. Quanto al fatto di re Roggiero, giova ricordare che lo storico Ottone di Frisingen, che fu il primo a riferirlo, non dice che egli abbia introdotto nella Si- cilia gli allevatori del baco, ma parla unicamente degli artefici della seta, ossia dei tessitori; ciò che : farebbe credere che il baco esistesse già nell’ Isola, come vi esisteva di fatto. È incerta 1’ epoca, nella quale la bachicoltura e il setificio sono stati introdotti nella Sicilia; ma non si andrà lungi dal vero affermando che provenissero dalla vicina Grecia all’ epoca della dominazione bi- zantina. Molti ne danno il merito agli Arabi.’ Noi non sapremmo adattarci a questa opinione. Gli Arabi si fecero buoni agricoltori così nell’ Africa, come nella Sicilia e nella Spagna; ma non all’ epoca dell’ occu- pazione di questi paesi, sibbene più tardi. Quando sbarcarono nella Sicilia, erano ancora una popolazione nomade, che avrà potuto portar seco dei prodotti na- turali dei suoi paesi, come la canna da zucchero, il cotone, il riso, gli aranci, i cavalli; ma era male adatta ad insegnare colture ed industrie, che sono testimoni di grande civiltà. Comunque sia, è indubitato che sotto gli Arabi esercitavansi in Sicilia così la bachicoltura come il setificio.!® L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 275 E ancora più difficile di determinare l’epoca, nella quale la sericoltura passò sul continente. Secondo al- cuni, vi sarebbe stata importata dalla Sicilia sotto i Normanni; secondo altri, dall’ Oriente per opera dei Crociati nel secolo XI o XII. Quanto a noi riteniamo che sia stata introdotta direttamente dalla Grecia in Calabria durante il dominio bizantino. L’ Annalista salernitano narra all’ anno 889 che Stefano di Cosenza, recatosi per devozione al mona- stero di San Benedetto di Salerno, offrì della seta obbrizzata (greggia)." Da questo fatto si dovrebbe desumere che a quell’ epoca si allevassero a Cosenza i filugelli. Parrebbe che nei secoli IX e X si allevassero an- che a Lucca, poichè da taluni documenti di quel- l'epoca abbiamo che i drappi di seta erano soggetti alla decima. Oppone taluno che allora si esercitasse in Lucca il setificio, ma non la bachicoltura. Se non che la decima colpiva i prodotti della terra e non le industrie; o tutto al più i prodotti delle industrie ca- salinghe. Del resto, due di tali documenti non si riferi- scono a Lucca città, ma a comunità del contado. Nè può ammettersi che i contadini del Lucchese comperas- sero e tessessero la seta proveniente dal Levante.‘ Tegrimo assicura che sino all’ anno 1314 il seti- ficio era esercitato soltanto a Lucca, e che da quella città fu portato a Firenze, Venezia, Milano, Bologna ed all’estero dai setajuoli lucchesi fuggiti dalla città, quando cadde nelle mani di Uguccione della Fag- giuola.l!2 Ora a prescindere dalla Sicilia e dalla Calabria, 276 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. ove il setificio esisteva già da secoli, consta che i se- tajuoli erano compresi tra le sette Arti Maggiori nella Matricola delle Arti di Firenze, compilata nell’ an- no 1225; che nel 1280 il setificio era stabilito a Milano, e che ancora prima esercitavasi a Como.!° Pare anzi che a Milano si esercitasse già nel seco- lo XII. Poichè nei suoi Statuti, raccolti nell’anno 1216, e precisamente nella rubrica: De ppis, che con- tiene i dazi della mercanzia, trovasi la voce: De seta imperiales quatuor de libra; dazio identico a quello che era stabilito per i filati di lino e di canapa (de acta). Lo che indicherebbe che si trattasse di seta greggia, la quale lavoravasi a Milano e producevasi nel contado.!"® La bachicoltura non avrà avuto nell’ Italia setten- trionale e centrale nei secoli XII e XIII una grandis- sima diffusione, ma vi esisteva indubbiamente. Oltre alla testimonianza che può trarsi dal passo anzidetto degli Statuti di Milano, occorre ricordare che in quei tempi s° importavano a Lucca bozzoli dalle Romagne (filugello romanesco albo), dalla Lombardia (seta de fregio 0 fresio lumbarda), dal Modenese e dalla Chiarantana;‘” che ser Borghesano di Bologna inven- tava nel 1272 i molini da torcere la seta; che Sibilla contessa di Savoja sul finire del secolo XIII allevava alla Corte bachi da seta; ©* che già nell’ anno 1249 gli Statuti di Bologna ebbero a proibire la esporta- zione dei bozzoli e della seta dalla città e dai borghi; e, per farla breve, che nel Trattato di commercio fra Modena e Lucca, conchiuso nell’anno 1281, è frequente menzione della seta lavorata e greggia.!" Ma non v’ ha alcun dubbio, che durante tutto il L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 277 medio evo, ed anche un po’ più innanzi, i maggiori centri di produzione della seta erano la Sicilia, le Calabrie, e le spiaggie di Napoli e di Salerno. Nella Sicilia la sericoltura era un cespite finan- ziario già sotto i Normanni. Ai loro tempi erano dif- fusissime a Palermo la filatura, la tintura e la tessi- tura della seta,’ e molti setifici erano eziandio a Messina, Siracusa e Trapani. Il luogo principale della produzione dei bozzoli era la val Demona, che comprendeva 1’ attuale pro- vincia di Messina e si spingeva sulla costa orientale fin sotto Catania e sulla settentrionale sino al fiume Termini. E in questo tratto di paese, per verità, nè molto vasto, nè molto fertile, producevasi tanta seta da alimentare i setifici dell’ Isola, e da poter sommi- nistrarne una quantità considerevole a Genova ed a Venezia, d’ onde si dirigeva a Milano e su tutte le città industriose della Lombardia e del Veneto. I bozzoli furono il prodotto più importante della val Demona sin quasi ai nostri tempi. Fazello, ©’ nel secolo XVI, descriveva meravigliato il processo della produzione della lana serica, da lui osservato in contado di Messina. All’ avvicinarsi della primavera le contadine si accomodavano il seme sul seno, e ne facevano dischiudere col proprio calore i vermicelli. I bozzoli si essiccavano al sole. Nella Sicilia la produzione fu perseguitata dal- l esattore meno che nella vicina terraferma; © ma era meno diffusa e, relativamente all’ estensione del paese, meno importante. Nell’ anno 1664 il duca di Sermoneta, vice-re di 278 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. Sicilia, pubblicò la prammatica, colla quale si limitava al porto di Messina il permesso di esportazione della seta. I Palermitani se ne turbarono grandemente, e rap- presentarono che più di trentamila persone, le quali campavano la vita in Palermo coll’ industria della seta, sarebbero rimaste senza lavoro. I Messinesi, per vin- cere gli serupoli del Vice-re, organizzarono una som- mossa e vinsero la partita. Fu lasciato a Messina il monopolio della estrazione, ma non fu rispettato rigo- rosamente.l°) A quell’ epoca quasi tutta la plebe di Messina era occupata nel setificio.®” Sul finire del secolo passato si esportavano da Mes- sina, non compreso il contrabbando, dugentomila lib- bre di seta all’ anno per l’ Italia superiore e per la Francia. Se ne esportava molta anche da Palermo e da altri porti, di guisa che calcolavasi che la com- plessiva esportazione sommasse ad un milione di libbre all’ anno.®° Il centro della produzione erano i circon- dari di Messina, Castroreale, Aci e Milazzo. Lavoravasi la seta a Messina, Catania, Aci e Pa- lermo; ma gli operai erano poco. abili, i telai poco buoni, i drappi troppo grossolani, i colori troppo appa- riscenti. Le stoffe siciliane non erano ricercate che in Oriente. Non si lavorava male il damasco, ma riu- sciva esso pure troppo pesante e colorito grossola- namente.! Nel primo trentennio di questo secolo il setificio siciliano era quasi intieramente scomparso, non la- sciando di sè memoria che in pochi luoghi, e tra que- sti Catania, ove lavoravansi ancora circa cinquanta- RT SETTE, TO L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 279 mila libbre di seta all’ anno, che per buona parte importavasi dal contado di Messina. Era ancora dif- fusa la bachicoltura, comunque non avesse più l’ antica importanza; ma venne la malattia, e i proprietari sur- rogarono i gelsi cogli agrumi, colle viti e cogli olivi. Nella Calabria l’ industria della seta ebbe a soffrire una caccia formale dal fisco ed una lunga sequela di regolamenti, di restrizioni e di proibizioni. Essa resi- stette onoratamente, finchè, bersagliata dalla malattia dei bachi, fece posto, come nella Sicilia, ad altre col- tivazioni non meno produttive e più sicure. La seta greggia era soggetta ad un dazio di cinque grana d’oro per libbra, e costituiva un importante ar- ticolo di esportazione già al tempo dei Normanni.” Sotto 1’ energico governo degli Svevi e sotto gli Angioini la coltura dei gelsi si estese su vaste pro- porzioni. Re Roberto fece venire dei setajuoli a Napoli, e vi stabilì il setificio. Ferdinando I, per promuovere que- sta industria nella capitale, accordò soccorsi materiali ed esenzioni di dazi a Marino di Ca di Ponte, vene- ziano, a Francesco Nerone, fiorentino, e ad altri maestri della seta. Nel secolo XVI la bachicoltura era estesa a tutte le provincie; ma la produzione maggiore facevasi nelle Calabrie, nelle campagne di Napoli e in Terra di Bari e d’Otranto. Barrio nella sua descrizione delle Calabrie segnala l'esistenza di selve di gelsi a Bombicino, che traeva appunto il nome dal filugello; a Montalto, a Castro- franco, a Fiumefreddo, a Terranova, a Seminara, a 280 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. Fiumara di Muro (/lumen morum, 0 mororum), a Reg- gio; ed annovera inoltre, come centri importanti di produzione della seta, Summarano o Murano, Bonifato, Melivito, Roggiano, San Marco Argentano, Etricolo, Cosenza, Mendicino, Caroleo, Martirano, Jopoli, Nico- tera, Filocastro, Arena, Francicano, Calatro, Polistina, Oppido, Calanna, Agata, Critteria, Giojosa, Paganica, Catarena, Catanzaro e Cropano.®5 ‘La Calabria aveva setifici a Murano, Catanzaro, Roggiano, Montalto e Catarena.®® Nel 1647 il duca d’ Arcos, non tanto per favorire la capitale, quanto per esercitare un più severo con- trollo sul pagamento dell’ imposta, aveva vietato che il setificio si esercitasse fuorchè a Napoli e nei sob- borghi, fatta una sola eccezione per le fabbriche di velluto di Catanzaro. Se dobbiamo credere al Summonte, Napoli deve la sua grandezza e la sua prosperità all’ arte della seta. Non meno della metà degli abitanti della ca- pitale e dei suoi casali era occupata nei setifici. S° in- troduceva a Napoli circa un milione di libbre di seta, della quale quattrocentomila libbre lavoravansi in città, il resto esportavasi.® Il decreto del duca d’ Arcos però non fu fatto ese- guire con rigore. Il setificio esercitavasi altresì a Cava, Sanseverino, Amalfi, Monteleone, Catanzaro e Reggio. Si fabbricavano cinquantadue specie diverse di drappi.” La produzione della seta, oltrechè dalla gravità delle imposte, era turbata dalle vessazioni della loro esazione e dai regolamenti, ai quali era sottoposta, e I L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 281 I filatoi privati non erano ammessi. I fittajuoli dei dazi mandavano uffiziali nelle provincie a filare la seta in appalto sui mangani pubblici. La filatura era pagata a cottimo, onde così nell’ interesse dei filatori, come in quello dei fittajuoli dei dazi, la seta si svol- geva in fretta e male, e non si puliva conveniente- mente. Di più era proibito di venderla ad altri che ai regi compratori della dogana di Napoli.®° Non erano sottoposti a queste discipline ed erano esenti da imposta i bozzoli che producevansi nel con- tado della capitale ©’ e, fino ad un certo tempo, quelli del contado di Catanzaro. Catanzaro contava, sul finire del secolo XVII, mille telai di seta, e diecimila tra tessitori e filatori su sedicimila novecento abitanti. Nel 1783 i telai non erano più di dugentosettanta.®* A Reggio erano fiorentissime la bachicoltura e la tiratura della seta, che davano occupazione e gua- dagno alla maggior parte della popolazione; ma la tessitura non fu introdotta che al principio del se- colo XVII.®® Un secolo più tardi Reggio aveva molti setifici, ma lavoravano poco e male. Il suo contado esportava da ottanta a centomila libbre di seta greg- gia all’ anno.° A Monteleone era più importante la bachicoltura che il setificio. Ma il terremoto del 1783 abbattè quasi tutte le bachiere e gli opifici, che non furono ricostruiti se non in piccola parte.” Le provincie di Bari, di Lecce, di Capitanata e di Molise, che al principio del secolo passato erano ancora ricche di gelsi, alla fine di esso avevano ri- 282 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. nunziato quasi intieramente alla bachicoltura,® la quale, promossa con ogni maniera di favori e di esen- zioni, si allargava invece continuamente nel contado di Napoli. Il versante orientale della Calabria, nella seconda metà del secolo passato, era ancora tutto vestito di gelsi.‘ I proprietari, stanchi delle vessazioni, avevano preso a tagliarli; ma con un ordine reale del 1750 si era posto un argine alla estirpazione.“ Il gelso era ancora la coltura più rimuneratrice, quantunque il ministro marchese di Squillace 1’ avesse colpito con una imposta di due carlini per pianta.“ In sul finire del secolo passato i setifici erano de- caduti e diminuiti da per tutto. I drappi napoletani non potevano gareggiare coi drappi forestieri ed erano accettati appena sui mercati dell’ Oriente.“ Ferdi- nando si adoperò per porre un freno a questa deca- denza. Riunì a Belvedere presso Caserta una colonia di quattrocento setajuoli; eresse a proprie spese un nuovo setificio in Reggio e fondò un altro grande se- tificio a San Leucio, che dava ottimi prodotti, ma che costava troppo all’ erario e pregiudicava le altre fabbriche. Durante 1’ occupazione francese, essendo chiusa la esportazione, il prezzo della seta ribassò sin a dodici carlini la libbra; onde si distrussero i gelseti come inutili. Negli anni successivi, sino alla metà del presente secolo, la bachicoltura si rialzò ; sì producevano ancora nelle provincie napoletane un milione dugentomila libbre di seta; ma, meno poca che lavoravasi a L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 283 San Leucio, a Matera, nel Convitto del Carminello, a Reggio, Catanzaro e Monteleone, si esportava per I’ America e particolarmente per il Brasile. Nell’ Italia centrale e superiore la bachicoltura | prese a diffondersi più tardi che nell’ Italia meridio- nale e nella Sicilia. Nè è difficile di ricercarne le cause. L'Italia superiore era anzitutto meno vicina e meno legata alla Grecia, dalla quale provennero i filugelli, che 1’ Italia meridionale; era, nei primi se- coli del medio evo, più rozza di quest’ultima ed aveva un’ agricoltura meno progredita; il suo terreno ed il clima erano meno idonei alla coltivazione del gelso e meno omogenei alla natura delicata del filugello.!*% Si obbietterà di non capire come se le condizioni telluriche e climateriche dei paesi meridionali sono più adatte alla bachicoltura, possa essere avvenuto che questa industria siasi pressochè spenta nell’ Italia meridionale, mentre mercè sforzi erculei ha potuto sostenersi. malgrado la malattia, nell’ Italia superiore. A ciò può rispondersi anzitutto che il rapporto tra le condizioni di civiltà, specialmente nei riguardi indu- striali ed agricoli, si è mutato a favore delle regioni settentrionali; che la bachicoltura ha trovato in que- ste ultime minori persecuzioni che nelle altre; e che È l’Italia meridionale poteva sostituire ai gelsi coltiva- zioni più facili, più sicure e non meno produttive, come gli agrumi e 1’ olivo, mentre 1’ Italia superiore non aveva generalmente questa libertà di scelta. Si ag- giunge che, particolarmente nella Calabria, così la ba- chicoltura come il setificio erano industrie sminuzzate, casalinghe e riservate alle donne. Erano così poche le 284 L’AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. cure e le attenzioni che si dedicavano all’ allevamento, che facevasi assegnamento su non più di due bozzoli sopra centosessanta uova poste allo schiudimento.®? Un freno alla diffusione della bachicoltura nell’Italia superiore fu anche la credenza, almeno apparente- mente, non infondata che il setificio fosse una minaccia ai lanifici, che a partire dal secolo XIII costituivano la ricchezza principale di quasi tutti i grossi Comuni.® Ed infatti se bene consideriamo il processo di svi- luppo della bachicoltura, si rende manifesto che esso ha seguito passo passo il decadimento del lanificio, e che la tessitura della seta veniva occupando appunto quelle posizioni che il lanificio abbandonava. Non in- tendiamo con ciò di affermare che un’ arte abbia scac- ciato 1° altra. Il lanificio decadde per cause estrinseche, quando | Inghilterra, i Paesi Bassi e la ‘Francia, d’ onde ritraevano i nostri industrianti le migliori loro lane, presero ad aprir fabbriche ed a lavorare la ma- teria prima in casa propria. Da quello che abbiamo detto sin qui, si può desu- mere che la bachicoltura prese a diffondersi grande- mente nell’ Italia superiore nel secolo XIV e più ancora nel secolo XV, e può spiegarsi come sia avvenuto che, mentre nella Sicilia e nella Calabria sorse, crebbe, si svolse e mantenne in fiore per forza propria, anzi malgrado le persecuzioni fiscali, nell’ Italia superiore abbia avuto bisogno d’ incoraggiamenti, di eecitamenti e persino di provvedimenti legislativi, coi quali si fa- ceva un obbligo della coltivazione del gelso. Infatti egli è in quest’ epoca che i Municipi della Toscana, dell’ Emilia e della Lombardia presero a ditastcsctrittiraetieiii an ittnsrnnt L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 285 considerare la produzione dei bozzoli come un cespite imponibile, a disciplinarne il commercio, ad ordinare, promuovere e tutelare la piantagione dei gelsi ed a favorire il setificio. A quest'epoca Alessandria d’ Egitto e Genova erano due piazze ragguardevoli per il nego- zio del seme dei bachi.“ La qual cosa lascia supporre che la bachicoltura poggiasse sul seme importato dal- l’ Oriente. Lucca, Bologna, Modena, Como e Vicenza erano i centri principali della produzione dei bozzoli. Più tardi, e particolarmente a partire dal secolo XVI, rag- giunsero una straordinaria importanza in questa pro- duzione Milano, Verona, Brescia e Bergamo. Di sopra abbiamo espresso 1’ avviso che la bachi- coltura sia stata conosciuta in Toscana sin dai primi secoli del medio evo. Ora dobbiamo aggiungere, che non v ebbe mai, tranne su quel di Lucca, una grandis- sima importanza, malgrado gli incoraggiamenti d’ogni maniera, le leggi e gli ordini, ripetuti anche in secoli da noi non molto remoti, di dare opera alla pianta- gione dei gelsi. © Così a Lucca come a Firenze i setajuoli erano co- stituiti in collegio con consoli propri, capitoli e sta- tuti già in sul principio del secolo XII. Per Lucca il setificio era sin d’ allora l’ industria più importante della città. In Firenze predominava grandemente il lanificio. A Lucca, in sull’aprirsi del secolo XIV, l’industria della seta fu turbata da avvenimenti che ne posero in forse la esistenza. Venuta al potere la parte po- polare, nel 1308, furono escluse dal governo del Co- 286 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA, mune le famiglie più ricche e più potenti; onde esse se ne allontanarono, traendo seco la propria industria e i propri operai." Non fu una bizza o un’ ambizione personale dei setajuoli lucchesi; l’ avvenimento della parte popolare e la loro esclusione dal governo erano una grave minaccia alla loro industria, come più tardi il governo popolare mise a grave repentaglio ed in parte rovinò le industrie fiorentine.’ Un'altra parte dei setajuoli esulò nel 1314, dopo la presa di Lucca fatta da Uguccione della Faggiuola.®* Gli esuli ripa- rarono nelle grandi città d’Italia, in Germania, Fran- cia ed Inghilterra, ove una maggiore stabilità degli ordini prometteva loro di attendere con maggior tran- quillità e sicurezza all’ industria. Ciò non pertanto il setificio si riebbe, e questo fatto ci fa pensare che buona parte della materia prima fosse somministrata dal contado. Se ne importava una parte ragguar- devole per un valore di 150,000 ducati; ma poscia- chè il Comune rese obbligatoria la coltivazione dei gelsi, il contado di Lucca prese a produrre tanta seta, non solo da bastare al consumo delle industrie locali, ma da poterne eziandio esportare allo stato greggio. Nel secolo XVI il setificio era così fiorente in Lueca, che Cosimo dei Medici, a quanto dicesi, mon osò attentare all'indipendenza del Comune per timore che i setajuoli emigrassero, come già ai tempi di Uguc- cione. Nell’ arte della seta erano occupate trenta- mila persone. A Firenze il setificio si svolse con più lentezza, sia perchè i capitali erano già investiti lucrosamente nella L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 287 industria della lana, sia perchè il contado sommini- strava poca materia prima. Nel 1427 il catasto di Firenze annoverava quarantacinque setifici; 9 nel 1472, quarantanove, ’ e nel 1561, ottantotto.®* A quest’ ul- tima epoca si lavoravano quattrocento balle di seta, e la città ne cavava un profitto di 400,000 scudi d’ oro. I drappi mandavansi a Lione, a Ginevra, nella Spagna, nella Turchia, a Napoli, in Sicilia, nella Marca, nella Provenza, nella Barberia e persino in Germania ed Inghilterra. Nel secolo passato il Pagnini scriveva che a Fi- renze « il setificio si è conservato in uno stato assai prospero, ed è tuttavia, se non l’ unico, almeno il più forte sostegno del nostro commercio. ©! » Ma finì per iscomparire intieramente, come il lanificio, soffocato dalla soverchiante concorrenza della seta estera. Alla diffusione della bachicoltura nel Fiorentino si opposero il contratto colonico ivi seguito, ©° e la sup- posizione che fosse pericolosa all’ igiene. Nell’ Emilia così la produzione come la lavora- zione della seta avevano preso un grande sviluppo già nel secolo XIII. Uno statuto di Bologna dell’anno 1249, come si è veduto, proibiva l’ esportazione della seta dalla città e borghi. Ed a Modena, già in sul principio del se- colo XIV, la produzione dei bozzoli costituiva un ce- spite imponibile, era disciplinato il mercato e la lavo- razione della seta, ed era obbligatoria la piantagione dei gelsi, (* Como, ove il setificio fu introdotto ai tempi di 288 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. Federigo II,’ era circondata nell’anno 1507 da fitte selve di gelsi.® Il setificio, dopo la decadenza del- l’arte della lana, fu sempre la principale industria della città e del contado. Un punto importante per la produzione dei boz- zoli era il Vicentino, che già nel medio evo li espor- tava per la Liguria, per Milano, Mantova e Ferrara. Il Comune, con provvisione dei 30 novembre 1478, ne proibì l’ estrazione.” Nella provvisione stessa si dice che la bachicoltura esisteva già da molto tempo nel Vicentino, e che era il tesoro elargitogli dalla fortuna. Pochi anni dopo si minacciò ia perdita di un occhio a chi rubasse una pianta di gelso. Vicenza ebbe sempre una ricchissima bachicoltura, nella quale fu maestra al Piemonte; ma non ebbe mai un ragguardevole setificio.’ A quella città è do- vuta la invenzione delle stufe per il disseccamento delle crisalidi.l Il Governo veneto, nel secolo XVI, vendeva per 30,000 scudi annui la gabella della seta del contado di Vicenza. Si calcolava che il prodotto della bachicol- tura fosse in media di 250,000 scudi. ‘? A Milano, come abbiamo veduto di sopra, la ba- chicoltura era conosciuta già in sull’ aprirsi del se- colo XIII, e ia seta greggia era soggetta sin da quel- l'epoca ad un dazio d’ importazione nella città.“ È quindi da ritenersi che allora nella capitale della Lombardia fosse esercitato il setificio. Dell’ esercizio di quest’ arte nella seconda metà del secolo mede- simo abbiamo una testimonianza irrefragabile nelle Memorie che ci sono rimaste di Fra Bonvicino di L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 289 Riva." Però se teniam9 conto degli sforzi fatti da- gli ultimi Visconti e dagli Sforzeschi per promuovere il setificio nella loro residenza. dobbiamo ritenere che esso si è sviluppato molto lentamente. Alla fine del secolo XV l’ industria principale di Milano era an- cora il lanificio, per il quale erano occupate in set- tanta fabbriche circa sessantamila persone.’ Ma anche qui, come in pressochè tutta l’ Italia superiore e cen- trale, l'arte della seta si è sviluppata sulle rovine dell’arte della lana. Secondo dati ufficiali, verso il 1580, il prodotto dei lanifici non eccedeva guari due milioni di lire, men- tre i tessuti in seta e seta ed oro rappresentavano un valore di 4,234,602.° Poco dopo la metà del se- colo passato Milano ricavava dall’industria della seta circa un milione di ducati all’ anno.” Quanto a Verona, si conosce un contratto dei 5 ot- tobre 1350 fra Bartolomeo Gardelini e Donato Aloni, col quale si vendettero sei oncie di seta d’ Alessan- dria per sei ducati d’oro. Dall’ elevatezza del prezzo si vuol inferire che a quell’ epoca non si conoscesse a Verona la produzione della seta; ma si può obbiet- tare che il prezzo sarebbe stato esagerato anche se la seta proveniva dalla Sicilia, dalla Calabria, o da altre parti d’Italia. Ci pare che tutto al più si possa desu- merne che l'industria era ai suoi principii. Del resto, verso l’anno 1400 incominciava già a far capolino la decima della seta. Il setificio fu importato a Verona sotto gli Scali- geri. I drappi veronesi si esportavano per Bolgiano e per la Germania. BERTAGNOLLI. 19 290 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. In uno statuto dei 16 settembre 1505 la seta è dichiarata tesoro dei Veronesi, si minaccia una multa di lire venticinque a chi rubasse un gelso per por- tarlo altrove, e s° impone una tassa sulla produzione dei bozzoli. Secondo i registri del dazio per l anno 1556, la seta prodotta nel contado veronese sommava a cento- settantamila libbre all’anno. Successivamente si pian- tarono di gelsi i terreni sassosi che circondano la città, così che nei due secoli successivi la produzione fu portata a trecentomila e persino a cinquecen- tomila libbre.®" Narrasi che con queste piantagioni il valore di quei terreni sia stato portato da ducati cinque a ducati cento per campo. Il Maffei scriveva verso la metà del secolo passato che « alla seta nel decader della lana si rivolse 1’ applicazione dei Ve- ronesi e vi riuscì con tanto frutto, che la quantità di sì prezioso prodotto si è resa da gran tempo il primo sangue di questo corpo civile. » Ai suoi tempi si cavavano dalla seta cinque, sei e fin 700,000 du- cati; pochi anni dopo circa un milione.® Nel 1766 Verona contava dugentocinquantatrè telai di seta. Sul principio di questo secolo la sericol- tura rendeva dieci milioni di lire. Verona fu maestra nella bachicoltura al Friuli, come Vicenza lo fu al Piemonte. Dai contadi delle due città si chiamavano persone pratiche degli alle- vamenti e sì ritiravano pianticelle di gelsi per farne vivai. Su quel di Bergamo e di Brescia la bachicoltura prese a diffondersi nella seconda metà del secolo XVI. L’AGRICOL'IURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 291 Verso l’anno 1569, secondo il Gallo, scrittore di cose agrarie di quei tempi, si piantarono in contado di Brescia milioni (!) di gelsi. Nella seconda metà del secolo passato erano in opera sul Padovano tredicimila telai per nastri e cor- delle di seta, e per drappi e stoffe consumavansi circa ottantamila libbre di seta all’ anno. © La regione, che venne ultima nell’esercizio della bachicoltura, fu il Piemonte; ma vi si dedicò poi con tanta cura e con tale successo da mettersi al paro . colle altre regioni. Abbiamo veduto che nel 1299 Sibilla di Baugé, moglie ad Amedeo V di Savoja, si occupava perso- nalmente dell’ allevamento dei bachi. Anche Bona di Borbone nella seconda metà del secolo XIV compe- rava seme di filugelli e ne faceva allevamento alla Corte. Non pare tuttavia che l’esempio delle due so- vrane sia stato seguito da molti, e che la bachicol- tura siasi diffusa in Piemonte prima del secolo XV. Nel secolo XVI essa era già di una certa importanza. Chi se ne occupò con amore e perseveranza fu Ema- nuele Filiberto, seguendo i consigli di Nicolò Balbo.® Egli fece acquisto di seme e di gelsi, ed impose con un editto ai proprietari ed ai coltivatori di far nu- merose . piantagioni. Nel 1574 la bachicoltura era estesa a tutto il Piemonte. Il punto più importante della produzione era Racconigi, ove si erano fatti ve- nir nella prima metà del secolo XVI bachicultori e gelsi da Vicenza. Si adoperarono per introdurre il setificio in Pie- monte i duchi Lodovico I e Carlo II ma più di 292 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. tutti Emanuele Filiberto, che chiamò maestri da tutta Italia." Nel 1561 egli vietò la esportazione delle sete; ma siccome ciò non pertanto il setificio non ac- cennava ad aumentare, rivocò la proibizione, « perchè recava poca soddisfazione ai sudditi per non poter li- beramente trafficare. » ©" Sotto Carlo Emanuele II si fecero i primi statuti per la lavorazione della seta,‘ e nel 1724 si pub- blicò un nuovo regolamento per la tiratura, il quale si citava a modello per i governanti di Napoli. La bachicoltura ebbe però ad incontrare ed a vin- . cere delle difficoltà anche in Piemonte.” Nella prima metà del secolo passato calcolavasi che la sola Inghilterra ritirasse dal Piemonte duecen- tomila sterline all’anno di seta. La bachicoltura era già divenuta una delle principali ricchezze della regione.’ È L’epoca della maggiore diffusione della bachicol- tura nell’ Italia superiore è stata la prima metà del corrente secolo. Il conte Dandolo calcolava, in base ai registri do- ganali, che il Regno italico, composto del Piemonte, della Lombardia, della Venezia, del Trentino, dei Du- cati e delle provincie di Ferrara e Bologna, esportasse in media, nel periodo 1807-1813, circa ventitrè milioni di fiorini, ossia cinquantasette milioni e mezzo di lire in seta all’ anno. Verso il 1830 questa cifra non rappresentava nep- pure la esportazione della sola Lombardia. E per ve- rità il Biirger calcolava nel 1838, sulla base dei registri doganali, che il solo governo di Milano esportasse tra L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 293 seta greggia e seta lavorata un valore di venticinque milioni di fiorini, pari a lire sessantadue milioni e mezzo. Però di pari passo colla diffusione della bachicol- tura è andata la diminuzione del setificio. Le industrie sparse degl’ Italiani non poterono sostenere a lungo il campo contro le industrie accentrate delle poderose compagnie di Lione. A poco a poco il setificio italiano si ritirò dal mercato per cessare quasi da per tutto durante la dominazione francese. I telai di Como, ad esempio, pressochè l’unica città nella quale 1 industria ha tenuto fermo, si ridussero nel periodo 1795-1814 da 1333 a 375. Cessata l’ occupazione francese però si aumentarono di nuovo sino a tremila. Ai nostri tempi la bachicoltura fu desolata dalle malattie. Si venne al punto che i proprietari si chie- sero seriamente se non convenisse abbandonarla intie- ramente e tagliare i gelsi. Prevalse il consiglio contra- rio, e governo, associazioni e privati fecero a gara per vincere la malattia. E coll’ ajuto del seme giapponese, col sistema della selezione e coll’ applicazione della scienza all’ allevamento, vinsero. Ciò non per tanto la bachicoltura non raggiungerà più quell’importanza che aveva prima della malattia, se non si riuscirà ad otte- nere la -vecchia galletta gialla, che dava un reddito considerevole per la quantità e per la bontà della seta, ed a far risorgere, con potenti associazioni di capitali, il setificio. 294 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL’ ETÀ MODERNA. NOTE. ‘1 Procop., Guerra gotica, IV, 17. @® Orto FrIsine., De Gest. Frider., 1, 33. (3 Storia degli animali, V, 19. (4 PARISET, Histoire de la soie. 6 CRESCENT., Liber rur. com., V, 4. 6 Se non fosse stato così, non si saprebbe spiegare come sulle rive dell’ Ellesponto si trovasse pronta la foglia per la nutrizione dei bachi dei due monaci basiliani. Del- l’esistenza del gelso in Europa si hanno invero notizie così dai tempi della Repubblica, come da quelli dell’ Impero romano. Ma siccome coltivavasi unicamente per il frutto, che consumavasi o come prodotto mangereccio o nella pre- parazione di medicinali, può con ragione dubitarsi che sì trattasse veramente del gelso dei bachi, morus alba (Var. II; Corum., IV; PLin., I, 18; PaLnap., I). Anche l’orto di Plinio, nella villa di Laurento, conteneva molti gelsi: « Hor- tum morus et ficus frequens vestit > (II, Epist. 17). © «Quos Rogerius in Palermo Sicilie metropoli collo- cans artem illam texendi suos edocere precepit» (I, 33). Il setificio era esercitato sin dai tempi più remoti nella Fenicia (OmrRO), che faceva commercio di drappi con Uar- tagine. A Roma fu introdotto sotto l'Impero, ed esercita- vasi nel vico Tosco. Sotto Giustiniano si propagò da Tiro e Berito a Costantinopoli, d’ onde si diffuse largamente nella vicina Grecia. (8) ParISsET, Histoire de la soie, II, 212; Francisque Mr- CHEL, Recherches sur le commerce et la fabrication des étoffes de soie, I, 70; AMARI, Storia dei Musulmani di Sicilia, IV, 13. (9 AMARI, op. cit., IV, 13. EpRIsI dice che producevasi molta seta nel villaggio di San Marco. Egli dà il nome di Nahr-Ttt (fiume gelso) al fiume Arena (Amari, Biblioteca CT O CETO a ven er — L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 295 arabo-sicula, I), Gli Arabi avevano a Palermo un Tirîz dello Stato per la fabbricazione dei drappi di seta rica- mata. Calatrasi (Kalat-el-Tirazi), presso Corleone, trae il nome dalla lavorazione della seta (AMARI, Storia dei Musul- mani, IV, 13). ALessanpRO DI TeLEsE, Dei fatti di Roggiero, Cronaca degli anni 1127-1135, narrando delle feste della sua proclamazione a Re di Sicilia, avvenuta ai 15 mag- gio 1129, ossia diciassette anni prima della spedizione della Grecia, dice: « Servitor ibi nullus nisi quem serica tegeret vestis, adeo ut ipsis etiam parobsidum reportitores sericis operirentur indumentis. »> Un mantello di seta degl’ Impe- ratori Svevi, che si conserva a Vienna, porta una scritta, dalla quale apparisce che fu tessuto per commissione di Roggiero a Palermo nell’anno dell’ Egira 528, corrispon- dente all'anno 1133 dell’ èra volgare. Di più la scritta, in- dicando l’ èra maomettana, mostra chiaramente che era stato tessuto da operai arabi (ReInauUD, nel Journal Asiati- que, avril 1846, pag. 383). (0) GrIMmaLDI, Studi statistici sulla Calabria Ultra secon- da, 42. (i Sono due documenti degli anni 983 e 988, nei quali, allivellandosi le decime di San Gemignano e di Santa Ma- ria di Sesto, si enunciano fra le rendite consuete anche i drappi (Memorie e documenti per servire alla Storia di Lucca, tom. V., part. III). Il BeRTINI, nell’ appendice del tomo IV di quell’ opera, ha pubblicato un documento dell’ anno 846, col quale Ghisolfo promette di dare ogni anno ad Ildegonda, badessa di San Pietro di Lucca, «uno vestito caprino te- sto in sirico et uno tappite et unum durgartin, » che il Bini, I Lucchesi a Venezia, 17, traduce d’ organzino ; e in caso di mancanza si obbliga in duplum. (2) «Sericorum pannorum ars, qua soli Lucenses in Ita- lia et divitiis affluebant et gloria florebant, ubique exerceri coepit >» ( Vita Castr. in Murat., Rer. Ital. Script., XI, 1320). (13 PaGNINI, Della decima e della mercatura dei Fioren- tini, ec., II, 108 e 109. MALASPINA, Storie fiorentine. 183, ri- 296 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. corda all’ anno 1265 l'insegna dei setajuoli; e Ammraro, Stor., II, 131, pone il setificio fra le arti, nelle quali era diviso il popolo di Firenze nell’ anno 1266. (44) FLamma, Chron. extrav., XVIII, dice: « In contra- rium est Chronica Bonvesini (andata smarrita), ubi dicitur, quod in ista civitate fiunt panni de lana nobili et de si- rico, bombace et lino. » (45) Vedi la nota 65. (9 Anche nella Dalmazia la bachicoltura era penetrata molto presto. Sappiamo che il tributo imposto dai Vene- ziani nel 1018 all'isola d’ Arbe, fu di « X. libre di seta se- rica per Natale » (Fiuiasi, Dei Veneti primi e secondi, VI, 261). (17 Bini, I Lucchesi a Venezia, 50 e 51. (18) CrBraRrIO, Della Monarchia di Savoja, 328; RicoTTI, Storia della Monarchia piemontese, II, 393. (9 Mourat., Ant. It. M. ., II, 901. (20) FALCANDO, che scrisse la sua Hist. sic. nell’anno 1159, così si esprime : « Nec vero illas Palatio adherentes silen- tio preteriri convenit officinas, ubi in fila variis distineta coloribus Serum vellera tenuantur et sibi invicem multi- plici texendi genere coaptantur. » (2) FazeLL., De rebus siculis, I, 1. (2) Nell’ anno 1562 s’ impose una tassa così sulla produ- zione dei bozzoli, come sulla lavorazione dei drappi. Nel 1612 il Parlamento impose un nuovo tari per libbra di seta greggia. Allora la tassa rendeva 18,800 scudi, i quali rap- presentavano una produzione di 441,200 libbre di seta. Si ingannerebbe a partito però chi ritenesse che questa cifra comprendesse l’intiera produzione del paese. Imperocchè dalla tassa erano esenti i nobili ed il clero, ossia i pro- prietari della maggior parte del terreno. La tassa sulla produzione della seta greggia era stata ceduta a privati. Certi Santo Brignone e Rolla esigevano 2 tari per libbra ttt ittica | i Ò 1 i tela L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL’ ETÀ MODERNA. 297 in 170 Comuni; gli Spinola da Genova un tari per libbra pure in 170 Comuni, che probabilmente erano i medesimi e rappresentavano appunto il numero di comunità, delle quali si componeva la val Demona. Negli ultimi anni del secolo passato si abolì in parte la tassa sulla produzione e s’impose una tassa sulla esportazione. Nell’ anno 1806 si fissò la tassa, così per la produzione come per la esporta- zione, a 15 bajocchi per libbra. Vedi per queste notizie BIANCHINI, Storia economico-civile di Sicilia, I, 194 e seg.; II, 148, 234. ®3 Auria, Diario delle cose occorse nella città di Pa- lermo dal 1653 al 1674. © In una supplica mandata dai Messinesi a Luigi XIV (1675), colla quale si domandava per Re di Sicilia un prin- cipe francese, è detto che la plebe della città era « per lo più occupata nella raccolta e lavoro della seta,» e che la Sicilia produceva « sì gran copia di seta, manna e zuccaro, che pare la natura abbia versato li tesori di sua benefi- cenza in tale isola >» (AURIA, l. c.). (5) BARTELS, op. cit. (8) BaRTELS, Op. cit. 27 AnprEA D’IserNIA attribuisce a Federigo Il l’in- troduzione del jus sete 0, come lo chiamava l’ Imperatore, de lana Syrie (Constit. Regni utriusque Sicilie, comm. alla Constit. De decimis prestandis). Ma egli scriveva sotto gli Angioini, e per ingraziarsi i nuovi padroni cercava di met- tere in cattiva luce gli Svevi. Del resto Federigo, nell’ As- sisa dell’ ottobre 1232, dice chiaramente che il dazio della seta era un'istituzione vecchia. Nel 1383 Carlo di Du- razzo diede il dazio in feudo per 200 oncie all’ anno. Rag- guagliata l’oncia a 600 grani, si avrebbe un prodotto di 24,000 libbre di seta. Convien però notare che la feudata- ria era Beatrice di Porciano, l’ amica del Re, onde è a ri- tenersi che il reale amante non abbia speculato sulla in- vestitura. È inoltre a notarsi che era esente dal dazio la 2998 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. seta prodotta nelle terre dei nobili e del clero, ossia la massima parte di essa. Ferdinando I rivendicò alia finanza il dazio venduto a Beatrice di Porciano, ma nel 1463 lo ri- vendette al principe di Bisignano per 18,000 ducati. Rag- guagliato il ducato a 100 grana, si avrebbe un prodotto di libbre 360,000. Sotto Carlo V le tasse della seta di Cala- bria furono portate a 32 groni per libbra, ossia al 15 °%. La seta greggia soggetta ad i nposta raggiungeva le 400,000 libbre all’ anno. Sotto il governo vicereale si continuò ad aggravare la seta, assoggettandone all'imposta così il com- mercio e l’ esportazione, come la produzione ed il consumo. Nella prima metà del secolo XVII i dazi delle sete cala- bresi furono portati a 60 grani per libbra, quelli della seta delle altre provincie a grana 55. Dopo la rivoluzione di Masaniello nel 1648 furono ridotti a grana 38 e 37 (Brax- cHinI, Storia delle finanze del Regno di Napoli, Il). Il pro- dotto del dazio era di circa 120.000 ducati. Nel 1788 la imposta della seta importava 325,653 ducati, dei quali erano pagati 48,844 da Terra di Lavoro, Molise e Capitanata, 14,148 dal Principato Citeriore, 5462 dal Principato Ulte- riore, 5560 dalla Basilicata, 72,305 dalla Terra di Bari e d’ Otranto, 5000 dagli Abruzzi e 243,864 dalle Calabrie (GrIMaLDI, Studi statistici, ec., 50). (2) De ant. et sit. Calabrie, 1I, 4, 5, 8, 9, 10, 13, 14, 15, 1617, 18, 20; JM, 5, 5, 12,115, 1016, IN (9) BARRIO, op. cit., II, 2, 4, 5; III, 16; IV, 1 (30) GRIMALDI, Osservazioni economiche sopra la manifat- tura e il commercio della seta nel Regno di Napoli, 34. (81) BIANCHINI, op. cit., II, 608. (8 Chi non portava i bozzoli ai mangani pubblici, in- correva nella pena del contrabbando. Alla sera il pesatore registrava la quantità della seta filata ed il nome del pro- prietario. Colla registrazione la seta diventava schiava, ossia il proprietario non poteva più disporne, e nemmeno te- nerla in casa, ma doveva venderla al regio compratore L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 299 che la mandava a Napoli. Della vendita doveva esibire il discarico, se no incorreva nella pena del contrabbando (Gri- MALDI, Op. cit., 4 e seg.). (33 GRIMALDI, Op. cit. (34) Amato, Memorie storiche di Catanzaro, 1670 ; GRIMALDI, Studi statistici, ec., 51. (35) Spanò-BoLanI, Storia di Reggio di Calabria. Il dottor LaBoccetTa, sindaco di Reggio, esponeva nel 1612 a Fi- lippo IV, come nella sua città natale « non vi è altro exer- citio se non della massaria della seta, il quale dura sola- mente tre mesi in tutto l’anno et in esso s’ impiegano tutti cittadini et poveri; passato poi detto tempo, la maggior parte d’essi non hanno come potersi sustentare la vita. Però si supplica la M. V. tanto per provvedere alle neces- sità dei predetti, dandoci occasione di travagliare, come havendo anche risguardo che in essa si fa detto arbitrio di seta, che li conceda da potere tenere alcuni telara per tesserci drappi, che oltre saria con avanzo della Regia Dohana, il lavoro et colore riusciria perfettissimo per l’ ab- bondanza et comodità deli’ acqua et risulteria in evidente subsidio di suoi poveri vassalli et tutto reputerà a gra- tia, ec.» A cui il Re, con diploma del 12 febbrajo, rispon- deva, accordando ai Reggini la facoltà « construendi, tenendi et exercendi textrinas seu telares pro telis sericis et aliis texendis et favendis. Volumus tamen et expresse jubemus ut pro talis sericis et aliis ut supra texendis in dicta ci- vitate Rhegii volvantur omnia jura et dirictus prout et quemadmodum solvuntur in aliis locis et partibus dicti Regni » (Spanò-BoLani, VII, 1). (35 BarTELS, I, lett. 12, pag. 411. (37 BARTELS, op. cit., lett. 11, pag. 341. (38) GrIMALDI, Osservazioni economiche, ec., 15. (39° GRIMALDI, Op. cit. 300 L’ AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 4 DoLumiru, Mémoire sur les tremblements de terre de la Calabre (178), pag. 30, dice, parlando del versante cala- brese del mare Jonio : « Les còteaux sont couverts de meu- riers. > (4) GRIMALDI, op. cit. ; BARTELS, op. cit., lett. 6, pag. 223. (©) GRIMALDI, op. cit.; BARTELS, op. cit. © Im un bando reale degli 11 aprile 1751 è detto: «(Gli nostri drappi difettosi non hanno esito per fuori ed appresso di noi medesimi sono posposti di buona voglia ai drappi forestieri, benchè si paghino il terzo di più, e per- chè esitandosi poca quantità dei nostri drappi va a dimi- nuire l'industria delle sete nel Regno. » (4) GRIMALDI, Studi statistici, ec., D1. (45) BrancHINI, III, 440. Verso la metà del secolo cor- rente, la provincia di Catanzaro esercitava la bachicoltura in 100 Comuni, ed il prodotto superava 142,000 libbre di seta greggia all’ anno. Se ne lavoravano in Catanzaro circa 8000 libbre. Erano nella città 52 telai per damaschi, rasi ed altri tessuti, e più di 200 telai per nastri. La tessitura, la filatura e la tintoria della seta davano occupazione a 430 persone (GrIMALDI, Studi statistici, ec., DI e seg.). ; (54) Lo ScaLiereRro citato dall’ Aceti nei prolegomeni al BarrIo, assicura « vidisse se in Calabria neglectos in ar- boribus vermiculos sine cura cultuque sericum facere, e quibus detrahunt incole, etc.» Si sarà trattato verosimil- mente di qualche esperimento. (‘7 BARTELS, op. cit., I, lett. &, pag. 261. Avveniva qual- che volta che le famiglie dei contadini dessero in dote alle figlie una pianta di gelso (BartELS, l. c.). (49 Anche Sully, il grande ministro di Enrico IV, era avversario della bachicoltura, principalmente perchè temeva che la medesima pregiudicasse l’ allevamento delle pecore e la produzione della lana, terni a. lane L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 301 49 BaLpucci, Pratica della mercatura, in PAGNINI, Della decima, ec., III, 56 e 219, dice che i mercanti fiorentini ri- tiravano da Alessandria il seme da vermini a cantaja, e che anche a Genova il seme di bachi vendevasi a centinaja di libbre ! 69 Nell'anno 1423 il Comune di Firenze accordò la esenzione delle gabelle alla foglia ed ai filugelli che s° in- troducevano in città (Amm., Stor., XVIII, 999). Nel 1443 si proibì la esportazione dei bozzoli dalla città, dal contado e dal distretto (TarcIonI, Viaggi, IV, 229). Pescia nel 1435 pose una lapide a Francesco Bonvicino, « qui primum exo- ticam mori plantam in suam patriam advexit.> Si trattava indubitatamente della importazione di qualche nuova specie di gelso. Nel 1445 si pubblicò a Pescia una legge per ob- bligare i contadini a piantar gelsi. Verso quel tempo anche a Pietrasanta si obbligarono i proprietari a piantare nei terreni sino a 50 gelsi. Nel 1440 si ordinò ai contadini del Fiorentino di piantare cinque gelsi all’ anno nei terreni loro affidati (TARGIONI, ]. c., IV, 229). L’ ordine di piantare gelsi fu rinnovato sotto i Medici. Vedi i bandi dei 27 luglio 1576, 19 marzo 1580, 13 aprile 1593 e la legge degli 11 agosto 1594. «Il serenissimo granduca Ferdinando Medici, di gloriosa memoria, considerando il gran frutto che da ogni sorte d’ huomo o donna se ne cava, e che di questa arte della seta tanti se ne vivono e tanti se ne vestono .... per agumento di popolo e per utilità pubblica e per grosso accrescimento d’ entrate ordinò che tante e tante migliaja e quasi milioni di mori si piantassero nel suo felicissimo Stato, come di fatti sono piantati. È già incominciano a rendere utile e frutto, com’ è detto, e maggiore lo rende- ranno per l'avvenire» (Macazzini, Coltivazione toscana, VWESb: (61 BINI, op. cit., 172. (52) Ai22 maggio dell’anno 1427, per iniziativa di Ave- rardo dei Medici detto Bicci, che spianava la via del po- tere alia sua famiglia, il popolo di Firenze approvò la 502 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. Provvisione del catasto, colla quale si autorizzava il Co- mune ad imporre le tasse bisognevoli sino alla ragione del 10 °/ del reddito, esentando o limitando la tassa al- l1 ° per fiorini d’oro 200 per bocca. Così tutte le tasse erano pagate dai ricchi. E poichè il popolo aveva la somma delle cose ed era piuttosto manesco, si dichiarava la guerra con grande facilità e i ricchi la pagavano. Per siffatta decima 77 famiglie, dal 1430 al 1458, pagarono 4 milioni e 875 mila fiorini d’oro (PaGNINI, Della decima, I, 26 e seg.). Narra Gio. ViLLani, Storie, XI, 129, che i baroni ed i prelati fuori dello Stato ritirarono tutti i capitali che avevano in- vestito presso i mercanti di Firenze, e che lo Stato e i privati perdettero ogni credito, e che < molte buone com- pagnie di Firenze falliro, le quali furono quelle dei Peruzzi, Acciajuoli e Bardi e Bonaccorsi, i Corsini e molte altre delle principali.» 63 TeGRrIMO, Vita Castr., in Murat., XI. GALLICCIOLI, Me- morie venete antiche, II, 862, dice che tra tintori, filatori e tessitori della seta si stabilirono a Venezia 300 operai lue- chesi. 654 BauBo in Ricorti, Storia della Monarchia piemontese, I, Append. (55) ALBERI, Relazioni degli Ambasc. veneti, Relazione di Vincenzo FebeLI sullo Stato di Firenze, 1561. (50) PAGNINI, op. cit., IV, pref. 67 BenepeTTo Dei, Cronache, 43. A_pag. 22 il Der dice che i setifici erano 83; ma siccome a pag. 43, ove afferma che erano 49, ne enumera i padroni, deve inferirsi che a pag. 22 sia incorso in errore, o che a pag. 43 abbia enu- merato soltanto i setifici più importanti. (58) PAGNINI, ‘op. cit. (59° ALBÈRI, op. cit., Relazione di M. Foscari sullo Stato di Firenze, 1527. In questa Relazione leggesi che «li primi che governano lo Stato vanno alle loro botteghe di seta, e gittati li lembi del mantello sopra le spalle, pongonsi alla L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 303 caviglia e lavorano pubblicamente che ognuno li vede; ed i figliuoli loro stanno in bottega con li grembiali dinanzi, e portano il sacco e le sporte alle maestre con la seta e fanno gli altri esercizi di bottega. » (© B. DEI, op. cit., 44; Uzzano in PAGNINI, 1V. (61) IT, 106. (5°) Poggi, Cenni storici, II, 263. Il prezzo dei bozzoli era quasi generalmente incassato dal proprietario per intiero a sconto dei debiti del mezzajuolo. Il quale riteneva di star meglio con qualche debito di più e con molti gelsi di meno nel suo podere. (3 In seguito alla peste dell’ anno 1529, si giunse a mi- nacciare la pena del capo a chi allevava bachi entro le mura di Firenze (GrIMALDI, Studi statistici, ec., 47). Si riteneva che fosse malsana anche la filatura della seta. Il Magaz- ZINI, Coltivazione toscana, V, 31, scriveva nel 1625: « E se il trar la seta nella città desse qualche scrupolo o sospetto per il sito, si può trarre lontano per le castella del con- tado che sono al lato ai fiumi. » (5) Nelle Leges Municip. Mutinensis Reipubl., II, rubr. 23, anno 1327, è disposto che i bozzoli prodotti, o importati, nella città e distretto di Modena, sì mettano in vendita sulla piazza della città Nel Regest. Reipubl. Mu- tin. è citata una deliberazione del popolo dell’anno 1306, che tratta De redditu Foilisellorum locando, e nella enume- razione delle merci che pagavano il dazio sulla via Clau- dia è compresa la seta lavorata e greggia (Murat., Ant. It. M. 22., II, 896 e 897). Con un decreto dell’anno stesso è stabilito « quod redditus Follisellorum debeat duplicari. » Con altro decreto dell’anno 1426, Stat. III, rubr. 41, si or- dina di piantare gelsi a chiunque possegga terreni nel Co- mune. E negli Statuti dell’anno 1327, II, rubr. 16, si vieta 304 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. ai tessitori di lana, lino e seta d’introdurre nei tessuti so- stanze eterogenee. (6) Quando il Papa scomunicò la città di Zurigo per essere rimasta fedele a Federigo II, i nobili delle castella colsero l'occasione per infestare la città ; e i negozianti e tessitori di seta per isfuggire alla guerra abbandonarono la città e trasportarono l’ industria a Como (SimmLeERUs, De Republica Helveticorum, I, 95). (66) MuRALTO, Cronaca comasca. (67) «Cum usus serici civium et districtualium industria superioribus temporibus inventus et adauctus parvam hac- tenus civibus et districtualibus attulerint utilitatem, nunc compertus sit vilescere et brevi ad nihilum deduci.... sè proibisce la estrazione dei bozzoli» (Lib. provis. Vicent.). (68) « Bonum hoc tamquam thesaurum communem nobis divinitus collatum. » (9) Provisione dei 24 marzo 1495 del Consiglio dei Cento di Vicenza, confermata con ducale degli 11 aprile 1496. (70) ALBERTI, Descrittione di tutta Italia, 1577, pag. 473, dice: « Veggonsi, così nella città di Vicenza come fuori, tanti alberi moroni da nodrigare i vermicelli, dai quali si trae la seta, che è cosa meravigliosa. » BauBo in RicottI, Storia della Monarchia piemontese, I, Append. «Se gli fussi per- messo (dice il BaLgo parlando di Vicenza) far panni di seda, farebbesi quella città d’oro» (l. c.). (1) BerTI, Del baco da seta, canto IV, ann. 42. (7) BaLBo in RicoTtI, op. cit. (73 Vedi nota 16. (7) Vedi nota 14. (75) VERRI, Sulla economia pubblica dello Stato di Milano. Vedi anche TRIDI, Informazione del danno proceduto dall’ im- posizione del decimo sulla mercanzia; SomagLia, Alteggia- L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 305 mento dello Stato, e le due Consulte del Senato milanese dei 15 marzo 1668 ed 11 aprile 1715, nonchè la Consulta della Congregazione di Stato degli 11 febbraio 1724. © PrieLIasco, Formazione del valimento del traffico di Milano. (7) VERRI, Storia di Milano. 08 BIANCOLINI, Cronica di Verona di Pier Zagata, part. II, vol. II, pag. 305. 7) BIANCOLINI, op. cit., pag. 304 e 307. Verso l’anno 1570 l’arte della seta contava in Verona 99 famiglie in essa matricolate, con 230 ordini di naspi (BettI, Disseriazione storica intorno la seta). $0 BIANCOLINI, op. cit., pag. 307. (81) Verona illustrata, III, 27. (82) Zanon, Lettere sull’ agricoltura, ec. (83) GLORIA, op. cit., 293. Sf Nicolò Balbo consigliava il Duca di far piantare gelsi per amore o per forza, e di proibire l’ esportazione della seta greggia (RicortI, I, Append.). $5) Egli ritirò da Genova seme di una nuova razza, ed istituì nel suo podere della Margherita un vivajo di gelsi con 17,000 pianticelle fatte venire da Milano. L’ambascia- tore venete Morino scriveva nell’anno 1574 nella sua Re- lazione sulla Savoja (ALBÈRI): « E poche terre del Piemonte sono quelle, nelle quali non si travaglino dei cavalieri; avendo S. A. per editto fatto piantare delli moreri senza fine che 40 anni fa non si sapeva che cosa fossero. » Vedi anche CrsrarIo, Della Monarchia di Savoja, 320. $9;BaLBo in Ricorti, I, Append. (7) Nell'anno 1499 tal Giovanni Serravalle propose al duca Lodovico d’ introdurre in Piemonte l’ arte della seta. Il Duca ordinò alla città di Torino di concedergli a questo fine per dieci anni l’uso gratuito di una casa (CIBRARIO, 327). BERTAGNOLLI. 20 306 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL’ ETÀ MODERNA. Nell’ anno 1518 maestro Ambrogio di Milano ebbe favori e privilegi dal duca Carlo II per istabilire in Torino un setificio (CIBRARIO, op. cit.). (88) CIBRARIO, Op. cit. 89 Ricorti, II, 390. Nell'anno 1564 esportavansi dal Piemonte per 15,000 scudi di seta greggia (RIcortI, II, 387). (00° Con decreto dei 5 giugno 1666 intese a migliorare la filatura della seta, che era difettosa in causa dell’ im- perizia degli operai, e determinò che i filatori dovessero essere approvati da persone deputate a tale scopo, e che i bozzoli ed i doppi gentili fossero filati separatamente dai doppi grossi e non sì mescolassero con qualità inferiori (CLARETTA, Storia del regno di Carlo Emanuele IL, Il, 317). (1) GRIMALDI, Osservazioni economiche, ec., 23. (2 Il Senato di Savoja in data dei 29 aprile 1676 vietò per ragioni d’igiene che si allevassero filugelli nella città e nei sobborghi di Uhambery. Ed il Vicario di Torino con ordine dei 15 aprile 1720 vietò per la ragione medesima di allevare filugelli e di filare la seta nella città di Torino. (03) BettI, Dissertazione storica intorno la seta. © BilrcER, Die Landwirtschaft in Ober-Italien, II, 3 e seg. L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 307 2. — IL GRANO TURCO 0 LA MELIGA. Ci siamo posto più volte il quesito, se l’ introdu- zione del grano turco 0, più esattamente, la sua diffu- sione come pianta alimentare sia stato un bene od un male. E se alcuno ci avesse incalzati a manifestare l'avviso nostro, niun dubbio che avremmo risposto parerne di non poter raliegrarci nè coì proprietari, nè coi contadini, nè colla società per la diffusione di siffatta coltivazione. Non è facile di verificare se la coltivazione del grano turco, come affermano molti di coloro che col- tivano la terra per proprio conto, non sia realmente rimuneratrice. La diversità dei sistemi di coltivazione, della bontà dei terreni, della quantità del prodotto, delie spese di coltivazione e degli aggravi pubblici renderebbe necessari studi comparativi minutissimi per poter stabilire coscienziosamente se nei copiosi raccolti di questo cereale vi sia anche una parte più o meno rilevante di prodotto netto.! * Questa ricerca ci condurrebbe in ogni modo molto lontano, facendone uscire dai limiti che sono posti a questo nostro stu- dio. Comunque sia, se calcoliamo che il grano turco rende di prodotto lordo in media un terzo di più del frumento e si vende ordinariamente ad un prezzo minore di oltre il quarto; se consideriamo che le spese * Vedi le Note a pag. 316. 308 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. di produzione del medesimo sono molto superiori a quelle della produzione del frumento; e finalmente se teniamo a calcolo che neppure la coltivazione del fru- mento è rimuneratrice se non. in anni di buon rac- colto, non può non farsi largo in noi il dubbio che quel proprietario, il quale producesse il grano turco me- diante opere mercenarie e per il mercato, non avesse a chiudere il conto con una perdita. Si opporrà l’ esempio della Lombardia, ove il grano turco fa parte stabilmente della rotazione agraria dei grandi fittajuoli, che sono veri speculatori e che se ne chiamano paghi. Ma non si dimentichi che questo cereale, specialmente nella bassa Lombardia, è, se ne eccettui il lino, 1’ unico prodotto che si dia normal- mente a parte. Questa circostanza accresce i nostri dubbi sulla convenienza economica della coltivazione. E questi dubbi si convertono pressochè in certezza, quando pensiamo che il grande fittajuolo o il proprie- tario si riservano niente meno che due terzi, tre quarti e persino quattro quinti del prodotto. Più facile riesce a dimostrare che la diffusione della coltura del grano turco ha ferito gli interessi del contadino. Ove la coltivazione si fa a parte, sia pure assegnata al colono la metà del prodotto, la sua quota non paga le spese e le gravi fatiche della coltivazione. Egli è affezionatissimo a questo cereale, perchè dà un prodotto lordo ragguardevole, perchè lo sfama facilmente e prontamente, e perchè lo consuma quasi allo stato greggio senz’altra spesa che quella della molitura. E non tiene conto che passando dal consumo del frumento a quello del grano turco la sua L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 309 alimentazione si è peggiorata notevolmente; che que- sto cereale sotto un grande volume contiene una quan- tità minore di elementi nutritivi che il frumento : che la polenta, se lo sfama e riempie con poca spesa, non gli rende le forze che egli consuma, ma lo in- torpidisce; e che, se è vero ciò che autorevolissimi medici sostengono, in determinate condizioni lo rende accessibile alla malattia della pellagra.® Il grano turco ha incominciato a diffondersi lar- gamente all’ epoca della decadenza delle nostre in- dustrie. Alia popolazione già molto densa vennero meno i consueti guadagni, onde, essendo diminuita la sua potenza d’acquisto, si approfittò con premura del grano turco, che si coltivava già da molti secoli come foraggio e che soltanto in anni di carestia si usava nell’alimentazione dell’uomo, per ottenere una derrata alimentare che per il suo basso prezzo stesse in ar- monia colle mutate condizioni economiche della classe operaja. Se questo cereale non fosse stato, la popo- lazione operaja avrebbe subito per legge naturale una diminuzione e i salari si sarebbero rialzati; invece, mercè questa derrata, la popolazione si mantenne e si accrebbe, ed i salari non si aumentarono, come avrebbero dovuto, in ragione del rialzo dei prezzi degli altri generi alimentari. Ora siamo ridotti a questo punto, che, mancando anche solo localmente il raccolto del grano turco, abbiamo la fame alle porte, perchè il guadagno della popolazione delle campagne non è sufficiente per alimentare la famiglia col frumento e colla carne. Quanto all’ agricoltura. come arte, non può consi- 310 L’AGRICOLTURA ITALIANA NELL’ ETÀ MODERNA. derarsi per un lieto avvenimento il passaggio dalla coltivazione di un cereale fino alla coltivazione di un cereale inferiore. Imperocchè non è a ritenersi che al grano turco siano stati destinati terreni per 1’ addietro incolti; esso surrogò in parte altri cereali inferiori, come il panfco ed il miglio; ma in parte eziandio il frumento, nonchè la canapa ed il lino. Si diffuse una derrata che vale poco per chi la vende e la compera, ma che costa molto a chi la produce. E questo non è progresso. È opinione comune che il grano turco provenga dall’ America, e che sia stato importato dagli Spa- gnoli prima nella penisola pirenaica e poscia in Italia. Ma questa opinione non è suffragata da alcuna infor- mazione certa, da alcun documento. L’ unico documento, che si produce per dimostrare che il grano turco non era conosciuto in Italia prima del secolo XVI, è una lettera del febbrajo 1556, colla quale Giovanni Lamo, nobile cremonese, offriva da Venezia al duca di Toscana staja dieci di grano in- diano per seminare i luoghi vani.’ E questo grano sarebbe stato appunto il grano turco. Se non che dagli Atti dell’Accademia d’Agricoltura di Padova dell’ anno 1770 si apprende che a quel- l’ epoca, ossia due secoli dopo 1’ offerta del Lamo, e mentre la Venezia era coltivata in gran parte a grano turco, il bravo agronomo Arduino si adoperava per diffondere la coltivazione di un grano indiano che nell’ isola di Ceylan chiamavasi Aurakkan, e dai Malabaresi Nuazsioni, molto rassomigliante al panico, di una rendita ragguardevolissima, sino ad otto mog- dei a L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 311 gia per campo, e di una farina saporita e leggermente colorata.’ Senza volere escludere che il Lamo, forse ignorando come il grano turco fosse un cereale già conosciuto in Italia da varii secoli, abbia voluto sug- gerire al Duca d’ introdurre nei suoi dominii vera- mente questa coltivazione, non possiamo non dar luogo al sospetto che il suo grano indiano non fosse altro che il grano indiano di Arduino, e che quindi non fosse il grano turco. Ritiene taluno invece che questo cereale provenga dall’ Asia, e sia stato introdotto in Italia ai tempi delle Crociate. E appoggia questa sua opinione ad un documento scoperto dal giudice Francesco Turzano nell'Archivio d’Asti e da lui pubblicato nell’ anno 1515. Secondo questo documento, intitolato : Carta donatio- mis vere Crucis et primi seminis melige, il grano turco sarebbe stato portato nel Marchesato d’ Incisa, nel- l’anno 1204, da Jacopo marchese del luogo, e da Antoniello Molinari, capitani del serenissimo Boni- facio di Monferrato. reduci dall’ assedio di Costanti- nopoli.© Ma coloro, i quali ritengono che il grano turco provenga dall’ America, accusano d’impostura questo documento. Tra questi è ]’ illustre Cibrario. Nè po- teva essere altrimenti dal momento che la prove- nienza del grano turco dall'America era per essi una verità indiscutibile. A noi pare che, prescindendo pure dalla mancanza di scopo della fabbricazione di tale documento, si poteva facilmente osservare che in ogni medo il Turzano pubblicò il suo documento undici anni prima che Oviedo facesse conoscere, come essi 312 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. affermano, per il primo all’ Europa il grano turco che incominciavasi a coltivare nell’ Andalusia. Per portare un po’ più di luce nella quistione, noi ci siamo sobbarcati al facile, ma poco gradito lavoro di percorrere tutte le Cronache medioevali che ci sono venute tra le mani. E non invano, imperocechè ci è occorso di trovare menzionato almeno cento volte il grano turco in epoche, nelle quali nessuno sognava che di là dall’ Oceano fosse un nuovo mondo. Questo fatto distrugge dalla radice l’ affermazione che questo cereale provenga dall’ America, e soppri- me così l’ unico argomento, per il quale si accusava d’ impostura il documento del Marchesato d’ Incisa. Se non che trovammo in pari tempo delle notizie, che ci fecero sospettare non essere stato veramente il grano importato dai due Crociati il primo grano turco che si fosse veduto in Europa. Negli Statuti di Gherardo da Sesso, vescovo di Novara, sulle distribuzioni dei grani da farsi ai ca- nonici della cattedrale è compreso anche il grano turco. E questi Statuti sono dell’ ottobre dell’ an- no 1210.9 E tenuto conto della lentezza, colla quale sì diffondono le innovazioni nelle cose dell’ agricoltura, e della ritrosfa propria della Chiesa di modificare le sue costituzioni, non ci parve probabile che il grano turco del vescovo (herardo discendesse da quello importato dai due Crociati d’ Incisa. Cercammo di nuovo e ben ci apponemmo, impe- rocchè ci venne sott’ occhio ii nome del grano turco in epoche anteriori; lo trovammo anzi nominato in un contratto di colonia parziaria dell’anno 813 fra L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 313 Deodato, vescovo di Modena e Domenico Montanario, uomo libero. Fummo allora in forse se dovessimo concluderne che il grano turco fosse stato importato da qualche tribù barbara proveniente dalle steppe, o piuttosto che fosse pervenuto in Italia già sotto i Romani. E chi ci mise sulla strada per arrivare ad una soluzione del quesito, che noi riteniamo esatta, ma che non intendiamo imporre a chi la trovasse di so- verchio azzardata, fu il Muratori, il quale aveva no- minato tante volte il grano turco nelle Cronache dei secoli precedenti alla scoperta d’ America, ma non se n'era mai avveduto. Il Muratori dopo di aver dichiarato d’ ignorare se gli antichi avessero conosciuto la meliga, e di avere avvertito che la mzlica non era a confondersi col milium, osservava che. secondo Mattiolus, la milica era il milium indicum; ed aggiungeva che a dimo- strare l’ esattezza di questa opinione concorrevano il nome e le parole usate da Plinio. Percorremimo attentamente la Sforza Naturale di Plinio, e vi tro- vammo infatti narrato che negli anni stessi, nei quali egli scriveva la sua opera, era stata importata dal- l India in Italia una specie di grano che rassomi- gliava .al grano turco. L’ unica differenza era nel co- lore del granello.‘ Ma pensando che Plinio è ben altro che esattissimo nelle sue descrizioni, special- mente quando non le copia da altri; che forse egli non aveva veduto il nuovo grano coi propri occhi, e finalmente che del grano turco ve n° è di diverso co- lore ed anche di colore nero, non demmo una sover- 314 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. chia importanza all’ indicazione del colore fatta da lui, e mantenemmo | opinione che il miglio indiano importato ai suoi tempi fosse veramente il grano turco. Così il grano turco dei due Crociati d’Incisa non sarebbe che una varietà della specie, sino allora non conosciuta o poco diffusa in Italia. Non pare che il grano turco abbia raggiunto sotto i Romani una certa importanza, poichè non ne fanno cenno nè Columeila, nè Palladio. Nè è molto difficile di trovare la ragione, per la quale l’ esistenza di questo cereale durante il medio evo è stata ignorata o negata. L’agronomo bolognese Pier Crescenzio, che scrisse in sul finire del secolo XIII, parla minutamente del grano turco che chiama anche saggina; dice che il seme è buono per i suini e per i buoi, e che può darsi ai cavalli ed anche agli uomini, in tempi di grandi ne- cessità o mescolato con altri grani. Aggiunge che fa il sangue melanconico.!“” Secondo il Crescenzio, il grano turco era quindi principalmente una pianta di foraggio. Nelle Cronache del medio evo, le quali d’ ordina- rio non si occupano che alla sfuggita dei grandiosi avvenimenti generali, ma invece registrano una mol- titudine di fatti locali, anche di picciolissima impor- tanza, è indicato con grande frequenza per le singole annate ed epoche il prezzo dei cereali. Ma quello del grano turco non è espresso se non nelle annate di carestia. E la differenza fra il prezzo di questo cereale e quello del frumento è sempre così ragguar- devole da far ritenere che veramente, in anni di di- sereto raccolto del grano fino, il grano turco non avesse L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 315 un prezzo di mercato. Si capisce che coltivavasi per il bestiame, al quale porgevasi in parte ancora verde, e che lasciavasi maturare intieramente e destinavasi all’alimentazione dell’uomo soltanto nelle annate, nelle quali falliva il prodotto del frumento. E che fosse veramente così, ne abbiamo una prova negli Statuti delle vettovaglie di Milano, raccolti nel- l’anno 1396. Alla fine di questi Statuti è inserito un articolo, De significatione verborum, col quale si determina, come usasi in Inghilterra, il significato di talune pa- role principali contenute nel corso degli Statuti. In quell’ articolo sono tassativamente enumerate le der- rate che si comprendono sotto la denominazione co- mune di diade, e non è compreso il grano turco; è dichiarato anzi espressamente che il grano turco non è una vettovaglia ed è classificato tra i foraggi. © È a notarsi che per il ducato di Milano, forse in causa della sua grande feracità nella produzione del frumento, non occorre quasi mai nelle Cronache me- dioevali il nome del grano turco. È ricordato due volte negli Statuti delle vettovaglie ora citati e in un rescritto di Filippo Maria Visconti dei 13 ottobre 1413. Il grano turco, come si è accennato di sopra, passò dalla categoria dei foraggi stabilmente in quella delle derrate alimentari sullo scorcio del secolo XVI. La ricchezza delle industrie, dei commerci e dell’agri- coltura dei secoli precedenti aveva promosso un rag- guardevole aumento della popolazione, alla quale for- niva largamente i mezzi di procacciarsi una nutrizione sana ed abbondante. Ma, decadute le industrie e di- 316 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL’ ETÀ MODERNA. minuiti i commerci, le risorse della popolazione si ri- dussero notevolmente, onde si dovette pensare ad una nutrizione più economica. Sul mercato c’era già il grano turco ad un prezzo convenientissimo, con una grande attitudine ad essere trasformato facil- mente in cibo ed a sfamare prontamente la popola- zione operaja; ed un po’alla volta fu tolto dal novero dei foraggi e classificato stabilmente tra i generi ele- mentari dell’ uomo. Mercè l’ajuto di questo prodotto, che è il proletario dei cereali, come la patata è il proletario delle tuberose, la popolazione continuò a crescere rapidamente e in pari misura dovette ne- cessariamente allargarsi la coltivazione di questo ce- reale. Ora esso è divenuto la base dell’ alimentazione della popolazione operaja in quasi tutta 1° Italia supe- riore e centrale, e figura in una propozione non indiffe- rente anche nel consumo delle provincie meridionali. Nè è a presumersi che il suo consumo abbia a dimi- nuire. Potrà diminuire notevolmente e quasi cessare la sua coltivazione per far posto ad altri prodotti più rimuneratori; ma il consumo continuerà, appoggiato alle importazioni che si faranno dagli Stati Uniti d’America, dai paesi del basso Danubio e del mar Nero. NOTE. 4%) Il LAvERGNE, ad esempio, è d’ avviso che in Francia il grano turco debba abbandonarsi, ove non renda il 50 per 1. «Le mais donne en moyenne chez nous 30 pour 1; c'est beaucoup en apparence; ce n’est pas assez en réalité pour L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 317 payer les frais qu'il entraîne . . . . Partout, où il ne rap- porte pas au moins 50 pour 1, il devrait ètre abandonné comme récolte céréale > (Economie rurale de la France, 331). Il nostro Cosimo RipoLri invece pensa che per la Toscana la coltivazione del grano turco compensi sufficientemente le spese, ove renda il 30 per 1. EnrIeLD, Indian Corn, 201 e seg., calcola che le spese di produzione del grano turco variano tra i diversi Stati dell’ Unione americana tra 13 e 50 dollari per jugero. @ Vedi il Discorso tenuto dall’ illustre MoLEscHOTT nella tornata del Senato del Regno dei 17 gennajo 1880. ® Cantù, Scorsa agli Archivi di Firenze. % GLorra, III, doc. 1056, pag. 790. 6 Ecco la parte del documento che si riferisce alla im- portazione ed alla donazione del grano turco: « Translatis inde supradictis omnibus in hujusdem comunitatis consu- larem aulam ipsi egregii Domini Capitanei equitum Jacobus ex Marchionibus Incise et Antoniellus Molinari tradiderunt, et donaverunt eorum Patrie (quibus supra acceptantibus) bursam unam capacitatis octave partis stadii unius de hac mensura plenam de semine, seu granis de colore aureo, et partim albo, non amplius antea visis in regionibus nostris, que dixerunt detulisse ab una Provincia Asie, Natolia dicta, per quam cum equitibus suis incursiones executi erant tempore cireumvalationis magne illius Civitatis Costanti- nopoli, et vocari Meliga, que tractu temporis magnum re- ditum et subsidium patrie compararet. Quam bursam et seminis grana uti supra Meliga dicta prelibati Excellen- tissimus dominus Henricus Marchio, et Magnifici Consules in hoc publicum Archivium Consulare tradiderunt pro se- minatione, et collectione promissi fructus ad hujus populi utilitatem, si terre qualitas, aer, et cultura favebant, uti sperant » (Incise et Marchionatus Memorie a FrANcIScO Tur- zano Archivii Astensis custode ac judice excerptis: To- rino, 1515). 318 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 6 CrsrarIo, Economia del medio evo, INI, 1. Anche Ex- FIELD, Op. cit., 34, appoggiato all’ autorità di HumBoLpr, ScHooLcrart e Prescort, assicura in modo assoluto che il grano turco viene dall’ America. ©) Anno 1412 (Ferrara). « E valse lo staro del formento a Ferrara per tutto lo mese di maggio 1412 soldi 28 lo staro, la faba soldi 21, l’orgio soldi 15, la melega soldi 10.» Anno 1442. « E chi volea formento bisognava togliesse della mistura con siego e valse il staro del formento 22 soldi, la faba soldi 12, el miglio, et puzzava, soldi 15 et era stato portato da Venezia, la melega soldi 6, l’ orgio soldi 10.» Anno 1482. « Valse il staro del formento lire 2 soldi 10 e la melega soldi 27 e la faba soldi 35, li fasoli soldi 40.» Anno 1495. « Valse il staro del formento, soldi 16, me- lica soldi 6 lo staro, miglio soldi 10, orgio soldi 10, spelta soldi 9, fasoli soldi 20, faba soldi 10 » (Diario Ferrarese dall’anno 1409 al 1502, in Murat., A. I S., XXIV). Questo Diario nomina due volte il grano turco anche nell’anno 1496 a soldi 5 e denari 4 ed a soldi 6 lo stajo (1. c.). Anno 1347. « Tunc temporis inter crtera starius fru- menti valuit in Ferraria sol. 23 Bononiensium et in gra- nario Communis 18 ad starium rasum, faba sol. 24, melica sol. 18. » Anno 1374. « Sextarius frumenti valuit soldos 45, sta- rius faba soldos 28, melic@e 16» (Chron. Estense ab anno 1101 ad::19;.-, 30 MURARZORN): Anno 1259 (Modena). « De modio melic@e et aliarum se- getum quatuor soldos Mutinenses. » Anno 1811. « Fuit magna penuria ita quod frumentum vendebatur Mutine libris 3, et faba 2 et solid. 4 et milica 1 et solid. 14 et sextarium speltae 1 et solid. 5» (Annales Veteres Mutin., 1131-1336, in Murar., XI). Anno 1311. « Nam Mutine vendebatur starium frumenti tribus libris Mutinensium, fabe 44 solidos, melic@e 34, spelte 25 » (Chron. Mutinense ab anno 1306 ad 1842, in Muxar.. XI). gl SC VI, TOTO PO IT I TOTTI i £ sell ei DU i, L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 319 Anno 1277 (Parma). « Et melice non potuerunt colligi et siccari. » Anno 1282 (In primavera). « Item eo anno frumentum venditum fuit starium 8 solidos imperiales, et speltae 5 so- lidos, melice 6, fabx 8 et cicerum 9 solidos imperiales. » (Nell'inverno) « Valebat starium frumenti 6 solidos impe- riales, melice 3, spelte 2 solidos. » Auno 1283. «Item eodem anno valebat starium frumenti 7 solidos imperiales, spelte 28 denarios imperiales, melice totidem, fabe 5 solidos imperiales.» (Cronaca di Parma dall'anno 1038 all’anno 1309, in Murar., IX). Anno 1317 (Reggio). «De mense aprilis valuit frumen- tum libras 4, faba 3 solidos 10, spelta 1 solidos 12, melica pro semine 3, mixtura speltae et milii 2 solidos 8» (DE Gazata, Chron. Regiens. ab anno 1272 ad 1388, in Mu- RAT.; XXI). Anno 1227. «Et eo anno fuit maxima caristia blavis ita quod sextarius frumenti vendebatur 12 solidos imperiales et sextarius melic@e 8 solidos. » Anno 1271. «Fuit magna caristia blave ita quod ven- debatur de mense madii et junii sestarius fab®e 6 solidos imperiales et melica 3 solidos imperiales et sestarius fru- menti 8 et 9 solidos imperiales. » Anno 1277. « Et magna pluvia fuit, ita quod homines non potuerunt colligere melicas de campis nec eas siccare . et eo anno fuit magna caristia de rebus victualibus, quia aliquando venditus fuit sestarius frumenti 9 solidos imperiales et 10 et sestarius melice 5 solidos imperiales et sestarius spelte 4 solidos imperiales. » Anno 1278. « Et eo anno et eo tempore vendebatur se- starius frumenti 8 et 9 et 10 solidos imperiales et sestarius spelt:ie 5 et sestarius melice 5 solidus imperiales et omnia alia victualia in magna caristia fuerunt. » Anno 1282. « Et eodem anno in istis 6 mensibus (primo semestre) fuit magna caristia bladi, scilicet frumenti, speltee, melice et fabe et de omnibus leguminibus et rebus . Et non fuit isto anno plenitudo annue messis quantum ad 320 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. frumentum ; sed quantum ad segetes, quas agricole minuta appellant, scilicet de panico, de milio, de melica, de faxio- lis et de rapis, etc. >» (Memor. Potest. Regiensium in Murar., XI, 1105 e seg.). Anno 1227 (Bologna). «Et valuit corba frumenti 3 li- bras et fabarum 48 solidos et melig@ 28 solidos > (De GRIF- FONI, Memor. hist. rer. Bonon., 1106-1428, in Murat., XXI). Anno 1311 (Piacenza). «Valuit starius frumenti soldos 30, starius milii soldos 20, starius milice soldos 16, starius si- calis soldos 24, » Anno 1569. « Et starius speltae et milic@e vendebatur so- lidos 16 » (De Mussis, Chron. Placent. in Murar., XVI). Da un documento dell’anno 1237, col quale Gravendino, vescovo di Ferrara, donava al convento di San Giorgio di Ferrarola le decime della plebe di Gaibane, apparisce che già a quell’ epoca il grano turco era colpito dalla decima. Le decime di Gaibane consistevano « tam in frumento, ho- deo, faba, melica et alia blava, quam in vino, agnis, capre- tis, porcellis et aliis omnibus, etc. » (UGHELLI, Italia sacra, II, 576). Il De-GrEGORY, Solution du problème de la culture du riz, II, ha trovato il grano turco coltivato in Piemonte nell’ anno 1300 a Montiglio, 1301 a Carignano, 1369 a Monasterolo e 1443 a San Benigno. Nella Venezia il grano turco si denominava allora, come sì denomina anche adesso, sorgo. Il veronese ScALIGERO, Exercitationes ad Cardanum, n. 292, dice: « Est enim sur- gum milium indicum a Plinio descriptum; quod idcirco proxima sed corrupta voce melegam nostri nominant.» Il sorgo figura coltivato nel Padovano in varii documenti d’af- fitto degli anni 1474, 1448, 1420 (GLorIa, Dell’ agricoltura nel Padovano, 267 e seg.). Anno 1239. Il Comune di Padova fissa il prezzo del fru- mento in lire 0. 10. 6 lo stajo, dell’orzo in 0. 10. 6, del sorgo in 0. 5. 11 (GLORIA). Anno 1269. Il Comune di Padova proibisce l’ esporta- zione del frumento ove costi più di 8 soldi, del miglio ove L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 321 costi più di 5 soldi, e del sorgo ove costi più di 3 soldi (GLORIA). Anno 1270 (Friuli). « Valuit sextarium frumenti dena- rios 30, siliginis prope totidem, milii 22, surgi 14 (Bet- Lono, Vite Patriarch. Aquilejen., in Murart., XVI). Anno 1380. « Valeva il frumento lire 10 lo stajo grosso. Il millio lire 10 lo stajo. Il sorgo lire 5. La fava trita lire 8. I fagiuoli lire 12. I ceci lire 12. Altri legumi non ci erano » (M. Sanuro, Vite dei Duchi di Venezia, in Muram., XXII). Anno 1312. « Valebat autem starium frumenti solidos 40 imperiales, suricum solidos 29 » (Chron. Estens. ab anno 1101 ad 1354, in Murar., XV). Anno 1372 (Vicenza). « Valuit quoque frumentum 55 sol- dos starium et . . . . 36 soldos, et milii starium 30 soldos, surgi vero 24 soldos starium » (PuLIcE, Annalium patrie fragm., ab anno 1371 ad 1387, in Murar., XIII). Non abbiamo notizie sicure circa la coltivazione del grano turco in Toscana. Ma se non è troppo azzardata l’ opinione che i Toscani abbiano designato nei secoli me- dioevali il grano turco col nome di saggina, come ce lo fa- rebbero supporre il CREscENZIO, il GruLINI, il BIANCHINI ed altri, non esitiamo a sostenere che anche in quella regione il grano turco era coltivato varii secoli prima della sco- perta.d’ America. In una Cronaca delle carestie di Firenze, nella quale sono indicati i prezzi dei cereali, che vendevansi in quel mercato nel secolo XIII, è frequente menzione della saggina (Specchio umano del biadajuolo Lenzo in FINESCHI, Istoria compendiata di alcune antiche carestie e dovizie di grano occorse a Firenze). Anche il PAGNINI, op. cit., IV, 268, comprende la saggina nei suoi adequati del prezzo delle biade e delle grasce di Firenze, per il periodo 1400-1470, ricavati dai catasti del tempo e dai libri del Convento della Nunziata. Non c'è ragione di ritenere che in quell’epoca di straordinaria prosperità i Fiorentini siansi cibati di un grano così scadente come l’attuale saggina. Anche il VILLANI, Hist. fiorent., III, 56, registra all'anno 1353 questa notizia annonaria: « Lire 5 lo stajo i grani cattivi e di mal peso; BERTAGNOLLI. 24 322 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. le fave in lire 3 lo stajo e così i mochi e le veccie; il pa- nico in soldi 45 e 50 e la saggina in soldi 30 e 35. » ( « Minuta vero ut sunt milium, panicum, melica, fa- xeoli et avena redacta ad siliginis extimationem per kalen- das distribuantur » (Mist. Patr. Monum. Chart., I, 1172). Lo trovammo in due contratti d’ affitto del Padovano nell’anno 1204 (GLorta, 208). Il VentURATO, Cronaca padov., 1179-1399, registra all’anno 1181 una grande carestia : «Ita quod surgum valuit solidos 40 parvorum. » Il De-Gre- GoRY, op. cit., 10, assicura che dai conti del Capitolo di Vercelli, conservati in quell’Archivio, apparisce che il grano turco era coltivato nel Vercellese nell’ anno 1185. (49 La parte del proprietario era stabilita così : « Grano modia quarto, milica, panico, milio modia quinceto, lino manna quart, vino anfora tertia, exenia vero per omnem anno » (Murar., Ant. It. M. ZE., I, 520). (1) Murar., op. cit., II, 350. (2 « Milium intra hos decem annos ex India in Italiam invectum est, nigrum colore, arundineum culmo, adolescit ad pedes altitudine septem, pregrandibus culmis: lobas vocant; omnium frugum fertilissimum. Ex uno grano terni sextarii (!!) gignuntur. Seri debet in humidis» (N. H., XVIII, 10). (13) CRESCENT., Lib. rur. comm., IMI, 17. (14 «De verborum significatione. Appellatione bladi in- telligatur. Frumentum. Sicalis. Milium. Panicum. Spelta. Avena. Scandella. Legumina. Item farina, ubi congruit ap- pelletur bladum. Sed milicha. Vetia. Lupini. Bolgora. Mo- chum non appellentur victualia » (Stat. victualium, cap. 175). (15) « Pro quolibet modio frumenti, sicalis, milii, legumi- num et farine ad computum soldorum duorum imperialium et pro quolibet modio panici, milice, spelte et avene soldi unius, » LS Ae PoVr ” L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 323 3. — IL RISO. È l’antitesi del grano turco, così per la natura sua, per i suoi effetti sociali e per il rendimento, come per lo sfavore col quale è sempre stato trattato. Riservato per il suo prezzo piuttosto elevato in paragone della sua sostanza poco nutriente, ma fina e delicata, ad essere un elemento sussidiario dell’ ali- mentazione deile famiglie agiate, non esercita alcuna influenza sul movimento della popolazione; anzi, se fa sentire un’azione, almeno da noi, essa è piuttosto limitativa che fecondatrice. A differenza del grano turco che dà vita a nuove popolazioni, a nuovi centri d’ abitazione, il riso, per la necessità di produrlo coi sistemi della grande coltura e della coltura specia- lizzata e per il timore dell’insalubrità della sua col- tivazione, sottrae all’ accrescimento della popolazione una parte di territorio. Nessun cereale e, staremmo quasi per dire, nessuna altra coltivazione sono così larghi di profitti e di sa- lari come la risicoltura. La gara dei proprietari nel destinare al riso i terreni che sono suscettivi della sua coltivazione, ci dispensa dallo scendere a dettagli circa la sua potenza rimuneratrice. E dei contadini, che scendono a sciami dalle montagne con mogli e figli, si sa che durante la stagione del riso possono comodamente mettere a parte quanto è necessario per passare l’ invernata. 324 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. E non di meno la potenza espansiva della risicol- tura fu sempre osteggiata e duramente repressa, men- tre non si mostrò che simpatia per il grano turco. La salubrità dell’aria e l'igiene della popolazione sono, senza dubbio, tali questioni che s’ impongono imperiosamente ; ma non si dovrebbe mai omettere di valutare la gravità del male temuto e l'entità del bene sperato per trovare quei temperamenti e quei termini di mutua concessione, per i quali, senza sacri- ficare le esigenze dell’ igiene, non si pongano inciampi, non strettamente necessari, al naturale svolgimento di un cespite che ne rende su per giù un cento milioni di lire all’ anno. Si ritiene da alcuni che il riso sia stato impor- tato dai Crociati; ma i più sono d’avviso che sia stato introdotto al principio del secolo XVI dagli Spagnoli, che lo avevano ereditato dagli Arabi. Saremmo lieti se quest’ultima opinione fosse esatta e se potessimo attribuire alla dominazione spagnola, a sconto delle sue molte peccata contro noi, almeno questo beneficio. Ma non ha ombra di fondamento. Basta ricordare, per toglierle ogni forza, che il riso nel medio evo era per gli Italiani un ricco cespite di commercio. * Ammesso pure che provenisse per intiero dalla Spagna araba e dal Levante, non è ammissibile che se ne importassero, consumassero ed esportassero migliaja e migliaja di sacchi senza che qualche gra- nello cadesse in un terreno atto a farlo vegetare, o che se ne esperimentasse di proposito la coltivazione. * Vedi le Note a pag. 327. ersten SETE 9 rit nc L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL’ ETÀ MODERNA. 325 Non avremmo invece da fare eccezioni alla prima opinione, se non si sapesse che il riso era coltivato nella Sicilia già sotto gli Arabi. E per verità abbiamo veduto a pag. 205 che il go- vernatore della Sicilia aveva dato a gabella la espor- tazione del riso. Egli è vero che questa è l’ unica notizia che ab- biamo di quei tempi circa questa coltivazione; ma concorrono a confermarla la provenienza degli Arabi dall'Egitto, ove il riso coltivavasi su grande scala, e il fatto dell’ introduzione di esso per mezzo degli Arabi medesimi nella Spagna. Malgrado le più minute ricerche nei documenti e nelle cronache dei tempi posteriori alla dominazione araba, non abbiamo più trovato per varii secoli alcuna traccia della coltivazione del riso in Sicilia. Si sa che i mercanti fiorentini contrattavano a Messina © grosse partite di riso: ma si ignora se lo vendessero o se lo comperassero e, in questo caso, se si trattasse di riso prodotto nel paese o importato dal Levante o dalla Spagna. Farebbero però ritenere che questa coltiva- zione non fosse stata abbandonata, il prezzo relati- vamente non alto di questo cereale e il trovarlo nelle memorie di quei tempi sempre posto accanto alle amandorle, al comino, alle frutta secche ed altri pro- dotti italiani. Per 1’ Italia superiore e centrale le prime notizie circa la coltivazione del riso non risalgono più in là del secolo XIII. L’ agronomo bolognese Pier Crescenzio, che scri- veva appunto sullo scorcio di quel secolo, dice, par- 326 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL’ ETÀ MODERNA. lando del riso, che è un tesoro delle paludi. Niun dubbio quindi che a quell’ epoca nelle paludi del Bo- lognese non si coltivasse questo cereale. Taluno di quelli che pensano essere stato intro- dotto il riso dagli Spagnoli, oppone che quelle pa- role di Crescenzio non erano nell’ originale della sua opera, ma che sono state aggiunte posteriormente. Non potemmo verificare l’ esattezza di questo appunto; ebbimo però a trovarle in due edizioni del Crescen- zio, che portano le date degli anni 1490 e 1496 cor- rispondenti suppergiù ad una trentina d’ anni pri- ma dell’ epoca, nella quale gli Spagnoli avrebbero introdotto la coltivazione del riso nella grande valle del Po. Nessuna notizia sicura abbiamo circa 1’ epoca, in cui il riso è stato introdotto nel Milanese. Secondo gli scritti di Fra Pier Maria Erbisti dei Predicatori, il riso sarebbe stato coltivato in Lom- bardia già sotto i Visconti, d’ onde sarebbe stato im- portato sul Veronese nell’ anno 1390, quando Verona fu aggregata al ducato di Milano. Il veronese Dio- nigi per contrario non determina 1’ epoca, nella quale il riso fu introdotto in Lombardia, ma assicura che esso passò dalla Lombardia in territorio di Verona nell’ anno 1522. Noi siamo inclinati ad accettare la notizia di Fra Pier Maria, tanto più che per il secolo XV si ha notizia della coltivazione del riso in varie contrade dell’ Italia superiore.!” Ma questa coltivazione non prese ad allargarsi considerevolmante che alla fine del secolo XVI e nel L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 327 secolo XVII, quando si affinarono il gusto e i piaceri delle mense: ‘’ e fu allora principalmente che attrasse l’attenzione degl’ igienisti e che si cominciò a fre- narla con discipline, con restrizioni, con divieti. Alla fine del secolo XVI il riso coltivavasi larga- mente nella pianura del Po, nella marina di Lucca, ©" ed anche in qualche punto del regno delle Due Si- cilie.l! Da quell’ epoca fu una lotta incessante fra i pro- prietari che volevano estendere la risicoltura, e lo Stato che si adoperava a comprimerla. Da prima si tentò di vietarla senza eccezioni; poi si adottò il sistema di permetterla ad una distanza determinata dai centri abitati; e finalmente si pretese, oltre alla osservazione della distanza, la prova che i terreni non fossero suscettivi di altra coltivazione." Nell’ Italia superiore i proprietari riuscirono, in mezzo a grandi difficoltà, a ottenere o ad estorcere qualche conces- sione e ad allargare la coltivazione ; ma nella Toscana, nelle provincie meridionali e nella Sicilia la risicol- tura rimase quasi per intiero sacrificata, forse con vantaggio dell’ igiene, ma sicuramente con grave danno della pubblica economia. NOTE. (" Vedi BanLpucci e D’Uzzano in PacninI, III e IV. Vedi pure il Trattato di commercio stipulato, in data dei 28 ottobre 1315, fra i Genovesi e Giovanni duca di Lorena, Brabante e Limburgo (Mist. Patr. Monum. Liber jurium Reipubl. Genuensis, II, 462). 328 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. (® Baupucci in PAGNINI, III, 98. 8) L’ Officio di provvisione di Milano stabilì ai 18 aprile del 1386 una tariffa per gli speziali e per i droghieri, nella quale sono determinati i seguenti prezzi: Amandole cernide pro libra Imperiales 18 Uga passa » » 28 Rissium » » 14 Zucharum pro uncia » 12 Il VERRI, Storia di Milano, I, 12, trova il prezzo del riso troppo alto per poter ritenere che fosse un prodotto del paese. E lo conferma nell'opinione che si trattasse di un prodotto forestiero anche il vederlo far parte del commer- cio degli speziali e droghieri. Quanto a quest’ ultima osser- vazione basta notare che il riso è venduto dai droghieri anche ai nostri giorni. Riguardo al prezzo osserveremo che non si trattava di soldi, ma di denari, e che, comunque, confrontato colle altre merci di sopra notate non deve sem- brare esagerato. Del resto, la sua classificazione fra le der- rate napoletane e siciliane non fa apparire improbabile che si tratti di riso siciliano. Fa le medesime osservazioni del Verri il Dr-GreGoRrY (op. cit., 14), per aver trovato negli Statuti di Vercelli, riveduti e riformati ai tempi di Giovanni e di Luchino Visconti, il riso compreso nella rubrica De spe- ciaria: « Rubus rixtùi solid., 25.» Il riso all'entrata in Pisa pagava, nel secolo XIV, 2 soldi ogni 100 libbre, all’ entrata in Talamone 4 soldi la soma, all’ entrata in Siena lire 1. 10 la soma (D’ Uzzano in PaenINI, IV, 58, 83, 87). Nel Trattato di commercio surriferito tra Genova e la Lorena è il se- guente articolo: «Item pro qualibet balla amigdalarum, cymini seu rist quatuor denarios turonenses nigros (di da- zio) » (Hist. Patr. Monum,, Ì. c.). 4%) Op. cit., IV, 24. $ «In questo tempo (1390) o poco dopo da’ Milanesi oppressori di Verona fu portata la semente de’ risi in que- sto nostro territorio; e dicesi che le prime risare, che fos- et i L’ AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 329 sero di tal grano seminate, furono verso la villa di Alba- redo, come si ha da’ scritti del padre lettore Fra Pier Maria Erbisti de’ Predicatori » (BIANCOLINI, Cronica di Verona, bh; 14): © « Narra l’avv. Dionigi Medoro, serittor veronese, nel suo Discorso sopra le risare, stampato dal Discepolo nel 1522, che il signor Teodoro Triulzio, milanese, fu il primo che . nell’anno 1522 àvendo acquistato alcune campagne sterili ed incolte nelle pertinenze di Gevio, le ridusse ad uso di risare, le quali pervenner poscia in potere della famiglia Sagramoso. Fu imitato il Triulzio da’ Maffei e da altre nobili persone, ed anche da’ monaci Olivetani e da’ conti Giusti a Gazo e Roncanova; onde nell’anno 1560 avean ormai convertito 2500 campi di pessima condizione a per- petuo uso di risare» (BrancoLINI, Notizie storiche delle Chiese di Verona, III, 56). © Secondo il DeLLa Cmrsa, il riso sarebbe stato im- portato a Saluzzo dal marchese Lodovico II, reduce dal- l’impresa di Carlo VIII contro Napoli, dopo l’anno 1492. Ma in un accordo stipulato in data dei 5 aprile 1465 fra il comune di Saluzzo ed i signori di Cervignasco per la terminazione dei rispettivi territori, è nominato il vadus Raysagne, attualmente bialera risagna. Il MuLETTI dice che quel canale ebbe tal nome, « perchè conduceva le acque alle risiere che in quei tempi erano nel territorio di Saluzzo verso Cervignasco e Staffarda. Il riso nelle nostre terre produceva benissimo; ma quest’ insalubre coltivazione, dalla quale si credette fossero più volte venute malattie epide- miche in Saluzzo e ne’ suoi dintorni, fu con lodevolissimo provvedimento proibita circa alla metà del secolo XVI» (Memorie storico-diplomatiche di Saluzzo, V, 109). Bernardino Orsello, incaricato, durante l’assedio di Saluzzo dell’anno 1487, di provvedere e ripartire l’ annona, riuscì a far entrare nella città affamata 150 staja tra frumento, fagiuoli e riso (OrseLLo, Assedio di Saluzzo dell’anno 1487). Secondo il prof. CANTONI, il riso si trova citato fino dal 1481 fra i pro- 330. L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. dotti delle provincie di Mantova, di Novara e di Vercelli. Nell'anno 1495 il riso era uno dei cereali meno cari del ducato di Ferrara. « Le infrascripte cose si vendevano prout infra. L’orgio soldi 10 il staro. Spelta soldi 9 il staro. Faba soldi 10 il staro. Legumi soldi 16 il staro. Orto abundan- zia, perchè da 15 giorni in quà sempre è piovuto e nevato. Olio la libbra 7 quattrini. Mele la libbra 6 quattrini . . . Riso 4 quattrini la libbra > (Diario Ferrarese dall’ anno 1409 al 1502, anno 1495, in Murat., XXIV). Per la provincia di Padova è in GLORIA, 267, un contratto dell’anno 1414, col quale accordansi a colonia parziaria 100 campi, parte arati, parte vallivi e parte acquitrinosi, e si stabilisce a favore del proprietario, oltre alle consuete contribuzioni, anche una partecipazione del quarto dei prodotti dei terreni acquitrinosi. 8 Trovammo menzione, per la prima volta, della mine- stra di riso in Dr Mussrs, Chron. Placent., all’ anno 1388, in Murar., XVI. Ma l’uso ne era molto limitato : « In tempore quadragesime minestram risi.» Sul finire del secolo XVI invece era già un cibo comune. Nell’ Ordinamento della flotta della Religione dei Santi Maurizio e Lazzaro, pubbli- cato da Emanuele Filiberto nell’anno 1573, è stabilito rap- porto alle razioni della ciurma: «Se li darà minestra tre volte in settimana et se sarà riso, a ragione di oncie tre per huomo» (GrorrrEDo, Storia delle Alpi marittime, al- l’anno 1573). ® Già molto diffusa la coltivazione ai tempi di Carlo V (Sacco, Histor. Ticinens., I, 10). Il Piemonte esportava riso nell’ anno 1529 (RicortI, I, 189). Nella seconda metà del se- colo XV Milano ne mandava molto ad Anversa (GurccIAR- DINI, Deserizione dei Paesi Bassi, 120). Nel preambolo della legge veneta dei 17 settembre 1594 si legge che si erano fatte molte concessioni d’ acque « per far delle risare, delle quali sin quà non si è fatta alcuna deliberatione ; et tro- vandose per esperientia, che allettate le persone dall’ utile che ricevino maggiore dell’ entrate dei risi non mirano alla baie C'E I $ è deltei O TRE E RI 1 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 331 cultura necessaria, così per li fieni e pascoli delli animali di campagna come per le biave necessarie al mantenimento delli huomini; anco passano tant’ oltre, che tagliano le viti et arbori, riducendo a sterilità li campi per loro natura et per l’ industria humana già provati buoni e fertili, e diman- dano concessioni d’acque per seminarvi risi. » (10) Mazzarosa, Le risaje nel Lucchese. (1) Relazione dell’ ambasciatore Lippomano alla Signoria veneta (1575) in ALBÈRI. Nel secolo XVI il riso coltivavasi a Tortora (BARRIO, op. cit., II, 2), a Squillace (III, 20), a Catanzaro ed a Simari (IV, 1) e in contado di Teramo (DeL- FICO, Memorie sulla coltivazione del riso nella provincia di Teramo 1783). Nel secolo XVIII a Squillace (BaRTELS, Briefe, ec., I, 297). Nello stesso secolo la Sicilia ne produceva molto a Lentini, Rivela, Catania, Roccella e Termini (LEANTI, Stato presente della Sicilia, 1761, I, 4). Il principe Ignazio Biscari aveva fatto a quell’ epoca un grande acquedotto con una spesa di 100,000 scudi per convertire in risaje le sue terre di Ragusa (BartELs, II, 238). Nell’ anno 1805 il BaL- same non trovava che poche risaje a Ragusa ed a Termivi (Giornale di viaggio, 136). In sul finire della prima metà del corrente secolo, le due sponde del fiume Grande, per una estensione di 345 salme di terreno, erano tenute a risaja. Dopo il 1850 vi si sostituì il cotone (De MicaeLE, L'indu- stria del cotone e del riso, 18). (12) I Saluzzesi con uno Statuto speciale proibirono as- solutamente la risicoltura già nell’ anno 1523 durante una peste, « divieto che non si mantenne però molto tempo in vigore, perchè i contadini ed anche i proprietari, cessato il temuto malore, ripigliarono tosto quella coltivazione » (Mu- LETTI, op. cit., VI, 70). Nell'anno 1540 si rinnovò la proi- bizione : « Nulla persona audeat vel presumat seminare ali- quam quantitatem rivi » (MuLETTI, op. cit., VI, 242). Anche il Senato lucchese, con editto dell’anno 1612, proibì la ri- sicoltura (Mazzarosa, op. cit.). 332 L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. (!3 Colla legge veneta dei 17 settembre 1594 si proibì di concedere acque per risaje, tranne che per i terreni non suscettibili d’ altre coltivazioni. Ma il divieto non fu osser- vato e le risaje crebbero fuor di misura. Onde con altra legge dei 15 luglio 1595 si dispose la soppressione di tutte le risaje fatte dopo l’ anno 1556, senza che fosse intervenuta l’ Autorità colla concessione d'acque pubbliche, e si lascia- rono sussistere le risaje fatte più di trent'anni prima del 1556. In Piemonte si vietò nell’anno 1571 di seminare il riso nelle vicinanze di Vercelli. Il vescovo Bonomo nell’ anno 1579 estese la proibizione agli ecclesiastici, ma contemporanea- mente destinò a risaja i terreni della sua abazia di Selva raddoppiandone il reddito. Nell’ anno 1583 Carlo Emanuele proibì incondizionatamente le risaje nella provincia e dio- cesi di Vercelli; ma la Camera dei Conti nel mandare ad esecuzione la legge consentì che il riso si coltivasse al di là di dieci miglia dalla città. Nell’ anno 1593 si rinnovò la proi- bizione, la quale però non ebbe altra efficacia che di allon- tanare per cinque miglia daila città le risaje che si erano avanzate sin sotto i bastioni. Con editto di Carlo Ema- nuele I, dei 7 ottobre 1608, valevole per tutto il Piemonte, sì proibisce di seminar riso senza la licenza del Duca, per la quale richiedonsi la prova che i terreni non sono su- scettibili di altra coltura; il consenso di due terzi dei capi-famiglia del vicinato e la distanza di tre miglia dai vil- laggi o 200 trabucchi dalle strade. Carlo Emanuele II me- ditava di sopprimere intieramente le risaje. Nell'anno 1675 mandò due funzionari ed alcuni medici a visitare i terreni delle due sponde del Naviglio di Vercelli, e a dare le di- sposizioni per bandirne il riso, proponendo a favore degl’ in- teressati una riduzione d’ imposta (CLARETTA, Storia del re- gno e dei tempi di Carlo Emanuele IT, III 385). L'imposta era di un ducatone per giornata di terreno a carico dei proprietari di risaje, e di un quarto di ducatone a carico dei proprietari delle acque che le concedevano verso un quarto del prodotto del riso. Si disciplinarono ulteriormente le risaje con decreti 26 febbrajo 1628, 18 agosto 1728, L'AGRICOLTURA ITALIANA NELL'ETÀ MODERNA. 333 3 agosto 1792, 17 aprile 1815, 22 maggio 1827 e 11 aprile 1835. Colle R. Patenti 8 marzo 1888 si fissarono quattro chilometri dalle città, due dalle borgate di 1000 abitanti ed uno da qualunque abitato (Vedi Collezione celerifera delle leggi pie- montesi). Nel secolo XVI dopo la prima peste di Milano si fissò in Lombardia la distanza di quattro miglia. I Gonzaga cinque miglia da Mantova. Il vicerè Eugenio stabilì la distanza di 8000 metri da Milano, di 5000 dalle piazze forti e dai Co- muni di seconda classe e di 500 dai Comuni di terza classe. Nello Stato pontificio, con determinazione dell’anno 1809, si fissò una distanza di 4000 metri dalle città, dai borghi e villaggi, di 1000 dalle strade e di 500 dalle case cam- pestri. Col successivo regolamento del Frosini si stabili- rono 2000 metri dalle città o terre con più di 500 abitanti, di 1500 dai luoghi con più di 100 abitanti, di 500 dalle case rurali isolate, di 300 dalle strade postali, di 200 dalle strade provinciali e di 100 dalle strade comunali. Nel ducato di Parma, con decreto dell’ anno 1821, si determinò la distanza di tre miglia dalle città, e di due miglia dalle borgate. Con altro decreto dell’anno 1856 queste distanze furono dimi- nuite. Nel Regno di Napoli, con editto reale dell’anno 1763, si proibì di coltivare il riso ad una distanza minore di mille passi geometrici dai villaggi, trannechè tra questi e le risaje fosse una palude. Successivamente si proibì la risaja ad una distanza minore di tre miglia dai villaggi e dalle vie fre- quentate. Nell’ Isola di Sicilia la risicoltura fu vietata, in via assoluta, ripetutamente (Dre MicHneLr, op. cit., III, 72). EPILOGO. In nessun paese d’ Europa l'agricoltura ebbe tante vicissitudini, ora liete ora avverse, quante nel nostro. Negli altri ha incominciato a prendere una forma certa ed un ordinamento stabile dopochè sull’ Italia erano passate già varie civiltà ; e si è sviluppata len- tamente, senza scosse, senza radicali mutazioni. Chiusosi il periodo pastorale, abbiamo trovato nel- l’Italia la terra dei grani; poscia abbiamo assistito al passaggio dalla granicoltura alla coltivazione delle piante, e più tardi all’ abbandono della coltivazione delle piante per un’ agricoltura rozza e primitiva, che aveva per base i cereali inferiori e 1’ allevamento suino. Da questo abisso economico siamo poi usciti con una lentezza secolare per ritornare ad un’ agricoltura ricca e fiorente. Eravamo già arrivati ad un alto grado di prosperità, quando, per cause in gran parte estranee all’ industria agraria, ci siamo fermati e ci siamo la- sciati sorpassare dalle nazioni che erano comparse ul- time sul campo dell’ azione. Da quel momento non siamo tornati tecnicamente indietro; ma non abbiamo progredito come si doveva; ed un peggioramento eco- EPILOGO. 355 nomico si è steso su buona parte del paese. Abbiamo veduto inoltre introdurre e sostenersi per varii secoli coltivazioni quasi tropicali, come il cotone e la canna da zucchero, che poi sono state abbandonate ; abbiamo veduto la gelsicoltura formare per lunghi secoli la fortuna di regioni, che ora non ne conservano che un pallido riflesso. Queste vicissitudini analizzate accuratamente, e poste in riscontro col complesso dello stato econo- mico del paese, dimostrano che, ove non siano viziate le condizioni generali della proprietà e della popola- zione, l’ agricoltura, al pari d’ogni altra industria, tende in lunghi periodi ad uniformarsi alla legge del tornaconto. Ci dimostrano inoltre come sia inganne- vole e falsa quella frase che si ode ripetere di fre- quente, e secondo la quale 1’ agricoltura non sarebbe altro che il clima. Noi riproviamo grandemente tutto ciò che lusinga gli Italiani o che può traviarli a fare assegnamento sulla forza fecondatrice del sole, sulla calma serena del cielo o sulla benignità del clima, anzichè sulla propria intelligenza e sulla propria ope- rosità. Quella frase può applicarsi tutt'al più alla flora spontanea; ma per l’ agricoltura il clima non è che un limite, e per verità uno di quei limiti, alla cui guardia non è l'angelo biblico colla spada di fuoco. Il clima è l’ agricoltura degl’ infingardi. Da questi cambiamenti non possiamo veramente ritrarre una conclusione, almeno immediata, sul mi- gliore indirizzo tecnico od economico da darsi al- l’ agricoltura attuale nei varii suoi cespiti di produ- zione. Come è ben chiaro, lo stato presente delle 336 EPILOGO. cose non ha molti punti di contatto colle condizioni antiche e neppure con quelle di pochi decenni addie- tro. Ora bisogna tener a calcolo il vapore applicato alle vie di terra ed alle vie di mare; il commercio onnipossente ; gli immensi territori d’ altri paesi sot- toposti alla coltura; la soverchiante concorrenza che l’ America, ormai non più lontana, minaccia a varii cespiti della nostra produzione, e particolarmente alla granicoltura ed all’ allevamento del bestiame; i bi- sogni, veri o fallaci, cresciuti fuor di misura e molte altre circostanze che hanno modificato o che tendono a modificare la nostra vita economica. Non di meno una conclusione pratica possiamo trarre in questo senso, che se in altri tempi l'agricoltura, comunque non senza pericolo, si è avventurata a limitare grande- mente e pressochè ad abbandonare per intiero talune produzioni di principalissima importanza, non esclusa quella dei cereali, perchè avevano cessato di essere rimuneratrici, dovrebbe essere infinitamente minore la ripugnanza nostra a metterci sulla via medesima, in quanto che ai nostri tempi è suppergiù indiffe- rente l’ avere nei nostri granai le derrate necessarie per la nostra alimentazione, o l’ avere nel portafoglio i mezzi necessari per comperarle. A_ nostro giudizio, il principio di Catone che non si debba comperare ciò che può prodursi sul fondo, tanto se lo limitiamo a singoli proprietari, quanto se lo applichiamo all’ in- tiero paese, è un consiglio che ha fatto il suo tempo. Ogni proprietario, ogni paese dovrebbero produrre uni- camente ciò che o per la natura del suolo o per le condizioni del mercato offre il più largo profitto. EPILOGO, 337 Ma non v’ ha dubbio che parlerebbe un linguaggio pressochè incomprensibile chi dicesse al piccolo pro- prietario ed in generale al contadino : Il vostro ter- reno è in collina e quindi 1 interesse v’ impone di raddoppiare il numero delle vostre viti, dei vostri olivi, delle vostre piante da frutta e d’ abbandonare i grani, i legumi, le patate; oppure il vostro terreno è piano ed irriguo, quindi coltivatelo per intiero a fo- raggi, a lino, a canape, a riso e tagliate le vostre viti. E non durerebbe minore fatica a farsi intendere chi parlasse loro delle richieste del mercato e della neces- sità di prenderle per guida nella scelta delle produ- zioni. Abbiamo trovato una buona e solida agricoltura neli’ Etruria, prima per la ricchezza commerciale ed industriale del paese e più tardi per la sua vicinanza ad un centro colossale per popolazione, per dovizie e per potenza di consumo ; nella Sicilia, per la ric- chezza del suo commercio d’ esportazione che dirige- vasi prima verso Cartagine e la Grecia e poi su Roma ; nella Magna Grecia, mentre fiorivano i lani- fici e le tintorfe di Taranto e di Sibari e le flotte mercantili delle città calabresi solcavano in tutti i sensi il mare Jonio, 1° Adriatico, il Mediterraneo, ca- riche delle manifatture e dei prodotti esteri e na- zionali ; e finalmente nel Lazio e in tutta 1 Italia, quando Roma era all’ apice della ricchezza e della potenza. E più tardi abbiamo trovato una buona agricoltura precisamente in quei secoli, nei quali l’Italia aveva l’ egemonia commerciale ed industriale di tutto il vecchio mondo. BENTAGNOLLI. 22 338 EPILOGO. Non vorremmo che da questi fatti si traessero conclusioni recise ed assolute a favore della tèsi che l'agricoltura non possa svolgersi ed affermarsi se non all’ ombra di un largo commercio e di floride industrie. Essi dimostrano che non può attribuirsi un grande valore a quella frase, secondo ia quale l Italia è una nazione essenzialmente agricola. Poi- chè con essa o vuo] dirsi che l’ Italia per la povertà attuale delie sue industrie trova momentaneamente nell’ agricoltura la base della sua vita economica, e non si dice nulla di nuovo ; o che 1’ Italia deve non curare le industrie per 1’ agricoltura, e le si dà un pessimo consiglio, le si accenna di mettersi sopra una via che non è nè la più breve, nè la più diretta, nè la più sicura per migliorare le sue condizioni economiche; o che 1° Italia va innanzi nell’ agricol- tura alle altre nazioni civili, e si dice una cosa non seria. A nostro giudizio, non può farsi una buona agri- coltura, un’agricoltura veramente rimuneratrice, senza il concorso di abbondanti capitali. E poichè nei paesi industriali e commerciali il capitale non manca, è a buon mercato e non disdegna investimenti modesti, ma sicuri, come quelli della coltivazione delle terre, è naturale che la loro agricoltura lasci poco a desi- derare. Per noi è quindi un assioma che, ove sono industrie e commercio, ivi 1° agricoltura fiorisce. Ma con ciò non escludiamo che un paese poco industriale, ove non manchi di capitali, possa fare una buona agricoltura. Questo risultato però è meno sicuro, anzi non molto probabile. Imperciocchè sup- EPILOGO. 939 pone l’esistenza di varie condizioni, talune delle quali non si creano con un semplice atto della no- stra volontà ; talune altre sono contrarie alle nostre abitudini. Tra le prime è che la terra sia in mano di chi possiede i capitali, ossia che domini la grande pro- prietà e che non vi sia eccesso di popolazione. La piccola proprietà non ha i capitali, non li trova e per lo più non potrebbe utilizzarli abbastanza fruttuosamente. Si suole opporre che coll’ associazione dei piccoli proprietari si possono ottenere i risultati della grande proprietà e della grande coltura. Può esser vero; ma evidentemente questa obbiezione pog- gia sopra un’ utopia. La terra è tanto aliena dall’ as- sociazione, quanto le è proclive il capitale. D’ altra parte la sovrabbondanza della popolazione promuove una sfrenata concorrenza per l’ acquisto 0 per l’ affitto di piccoli appezzamenti, che finisce per smembrare i grandi complessi e rende oltremodo dif- ficile un’ agricoltura razionale. Ove non sono indu- strie è sinonimo di povertà, è impotenza d’ acquisto delle derrate offerte in mercato. Tra le seconde è che i proprietari si ritirino sulle proprie terre a menare una vita semplice e poco dispendiosa, e concentrino nelle proprie mani 1 am- ministrazione e la coltivazione delle medesime. Se facessero così, li vedremmo di necessità adoperarsi per riunire in un solo complesso i propri terreni, che ora sono dispersi ai quattro venti ; li vedremmo spe- cializzare le colture, attenersi unicamente a quelle che sono rimuneratrici e abbandonare le altre ; li ve- 340 EPILOGO. dremmo convertire i piccoli centri agresti in tante stazioni del lavoro, nelle quali la coltivazione delle terre si avvicenderebbe e completerebbe coi lavori delle molteplici industrie agrarie che immancabilmente sorgerebbero. È questa condizione potrebbe verificarsi e baste- rebbe forse da sola a rimediare a molti mali. Ma solo l’ avvenire potrà dirne se i nostri ricchi pro- prietari abbiano il senno e la virtù di rinunziare ai comodi ed agli ozi della vita urbana per seguire il consiglio che avea preso per divisa il vetusto Ma- gone: chi compera una casa in campagna venda il palazzo in città. FINE. INDICE. E_=L'agricoltura cirusca .. .......... Pag: Indole dell'economia etrusca, pag. 1; commercio, in- dustrie, 2; condizioni fisiche del territorio, 4; divisione della proprietà, 5; sua amministrazione, 7; il frumento, 3; la vite e Vl olivo, 9; la pastorizia, 10; i boschi, 11; cam- ‘ biamento d’ indirizzo dell’ economia etrusca sotto i Roma- ni, 12: l'agricoltura nella valle del Po, 15; nella Vene- zia, 16. IL— L'agricoltura dei Greci nella Sicilia e nelle Calabrie. ieeNelatSIGa::iS a NE dra MESI ade Indole dell’ economia sicula, pag. 28; condizioni fisiche del territorio, 29; irrigazioni, 30; divisione deila pro- prietà, ivi; produzione dei cereali, notizie esagerate, 32 e 45, nota 23; la vite, l’ olivo e la pastorizia, 34; cam- biamenti dell’ agricoltura sicula, 36: l’ agricoltura e la - democrazia, 38; l agricoltura sicula sotto i Romani, 40. TNA RC E e ee ra Indole dell’ economia calabrese. pag. 54; commercio, industrie, 55; agricoltura, le Tavole d’ Eraclea, 56 e 62, nota 10; divisione della proprietà, 56: sua amministra- zione, 57; la granicoltura, la vite e l’ olivo e la pastori- zia, 58: irrigazione, 60; cambiamento dell’agricoltura sotto i Romani, 61. HE E agricoltura romana’. ..........%.1 Indole dell’ economia romana, pag. 75; ripartizione della storia dell’ agricoltura romana, 79. IE Rer0do Geri CeLCAli gn IE La Condizioni fisiche del contado di Roma, pag. 79; divisione della proprietà, 80; i cereali, la vite e l’olivo, 81; la pa- D4 79 342 INDICE. storizia, 83; irrigazione, 84; amministrazione delle pro- prietà, 85; leggi ed istituzioni dei Romani relative al- l’agricoltura, 86; condizioni economiche di Roma in questo periodo, 88. » 2. Periodo della vite e dell’ olivo. . .... Pag. 98 L'agricoltura di M. P. Catone, pag. 98; divisione della proprietà, le leggi agrarie, legge Licinia, 99; la grani- coltura, 104; la vite ed i vini, 105; l’ olivo, 106; la pasto- rizia, ivi; amministrazione della proprietà, 108; la colo- nfa parziaria di Catone, 109; condizioni economiche di Roma, 110. 5. Periodo della produzione animale e dell’ eco- noma dea villa i ee 4 A AI L’agricoltura di Varrone, suo indirizzo e giustificazione, pag. 117: divisione della proprietà, di nuovo le leggi agra- rie, le leggi Sempronie, 121; la legge frumentaria, 123; nostra opinione circa i Gracchi, 124; i cereali, 125; la vite, i vini e V olivo, 126; 1 allevamento del bestiame, 130; l'economia della villa, 138; gli orti, i fiori, i pomari, le api, ivi; il pollajo, la selvaggina, le piscine, 134; il con- cime, 135; i boschi, 136; amministrazione della pro- prietà, #vî; la colonia parziaria di Plinio, 137; condizioni economiche dell’ Italia e di Roma, 138; industrie, 139. IV.— L'agricoltura italiana sotto i Barbari. . .... . 150 Trasporto della sede dell’ Impero e sue conseguenze per l'agricoltura italiana, pag. 150; spopolamento del paese, 151 ; immigrazioni dei Barbari e interruzione della civiltà, 153; condizioni fisiche del territorio, 154; divisione della pro- prietà, 155; sua amministrazione, 157; la pastorizia, il contratto di soccida e il porcajo comune, 158; prevalenza dei cereali inferiori sul frumento, 160; la vite e l’olivo, dvi; l'agricoltura delle Calabrie e della Sicilia, 161; condizioni economiche dell’ [talia sotto i Goti, 162; sotto i Bizantini e sotto i Longobardi, 163; patrimoni della Chiesa in Si- cilia, 164. V.— Ricostituzione dell'agricoltura italiana. . . .... 172 L’enfiteusi, pag. 172; di nuovo della colonia parziaria, Bettino Ricasoli, Marco Minghetti, Guglielmo de Hamm, INDICE. 343 194, nota 2; le permute dei terreni, 174; la democrazia e l'agricoltura, genesi dell’ assentismo, ivi; vincoli e ag- gravi dell’ agricoltura a beneficio delle plebi cittadine, 176; le decime della Chiesa, 177; proprietà, coltivazione delle terre e pastorizia, ivi; l'agricoltura araba nella Sici- lia, 180; il cotone, 185; la canna da zucchero, 188; gli agrumi, 191. VI.— L'agricoltura italiana negli ultimi secoli del medio evo . . .... Ma e I Commercio marittimo e terrestre, pag. 213; industrie, il lanificio, la fabbricazione d’ armi, ec., ivi; regioni non industriali, 217; i canali dell’ Italia superiore, 218 ; ritorno alla coltivazione del frumento, 221; la vite, l olivo, le piante industriali, 222; l’allevamento animale, i cavalli, 223; la proprietà e la servitù della gleba, 224; influenze delle industrie e del commercio sull’ agricoltura, 226; gli Sta- tuti municipali e l’ agricoltura, 227; l’ agricoltura nelle Calabrie e nella Sicilia, 230 e 249, note 34 e 35. VII — L'agricoltura italiana nell’ età moderna. . ... 255 Perdita dell’'egemonia commerciale, pag. 255; decadenza del lanificio, 256; i Governi, 257; influenza delle condizioni economiche del paese sull agricoltura, 259; malessere ge- nerale, 261 ; i proprietari, ivi; i lavoratori, 262; raffronto fra l'agricoltura di questo periodo e quella del precedente, 263; ° la patata, 265; il tabacco, 266; il ricino, ivi. | LLC A EE BDO ME, Epoca dell’ introduzione della bachicoltura in Europa e i nell’ Italia, pag. 272 ; la seta nella Sicilia, 277; nel Napo- r letano, 279; nell'Italia centrale, 283; nell’ Italia superio- re, 287. 2. Il grano turco o la meliga...<-....... 307 Dubbi sulla convenienza economica e sociale di questa coltivazione, pag. 307; non viene dall’ America, 310; col- tivavasi in Italia prima delle Crociate, 312; e verosimil- mente già sotto i Romani, 313; ma principalmente come foraggio, 314; suo passaggio dal novero dei foraggi a quello $ Pi E È Vara Ss LIE ST n Mr ola RA») Cao 3 344 i INDIC ES RARI "da Ò re È delle vettovaglie, 315: cause ed epoca della; sua. i ne, 316. 3 i r î i 3 Sal FYiso DEOMTOM OMORO OO RO SESSO A . n Pag. Convenienza economica di questa coltivazione, pag. 323; epoca della sua introduzione, 324; della suna Sosa 306; pa leggi proibitive e restrittive, 397 e 332, nota 13. e” È, Vea tito Opere pubblicate. Manuale dell’ Agricoltore, ovvero Guida per cono- scere, ordinare e dirigere le Aziende Rurali, dei Prof. PretRo Es Cuepari.—+ Un ‘volume: ile . Lo 3. 50. . N x Degli Interessi Economici dell’ Agricoltura. — "N in Italia, Saggio di CarLo LraRpI. — Un volume. 3. — "RI Conferenze enologiche, tenute nella primavera del 1869, a cura del Comizio Agrario.in Firenze, del Comm. Francesco Dr-BLasms.— Discorsi pronunziati, con aggiunta di una Lettera dello stesso autore al Giurì per la distribuzione dei premi nella Esposizione enologica di Alessandria, nel novembre 1867. 22 Un volume i IE IR SO 2. 2 i Dell’ Arte della Lana in Italia e all Estero, — giudicata all’ Esposizione di Parigi 1867, note di. ALESSANDRO. Rossi. — Un volume con cinque tavole. ..... . .. 3 «0 Be RA Re: di ST A L’ Arte della seta in Firenze, Trattato del Se- colo XV pubblicato per la prima volta, e. Dialoghi raccolti da GrroLamo GarcroLLI. — Un volume ............ 3. vi RIN L’ uomo e la natura, ossia La superficie terrestre mo- sli dificata per opera dell’ uomo, di Grorcio P. Marsa. — Un: î yrolame A RA At PACE PIL MO IVO 5. _ ue: Manuale dell’ Anatomia degli Animali Ver tebrati, di Tromas H. HuxLey, LL. D. F. R..S., tradotto . con note ed aggiunte da Enrico Hillyer Giglioli, prof. di Zoologia ; ed Anatomia dei Vertebrati nel R. Istituto iti di Firenze. 2 — Un volume con 110 incisioni . .... i Bee ida f Fisiologia della vita giornaliera, ai G. E. Lewss — Due volumi con incisioni . . 04. Ve Ti. 0-0 È