Digitized by the Internet Archive

in 2009 with funding from

University of Toronto

http://www.arcliive.org/details/delsantuffiziopaOOpitr

z

40^^

EDIZIONE NAZIONALE DELLE OPERE

GIUSEPPE PITRE

OPERE COMPLETE

VI

GIUSEPPE PITRÈ

XXVI

SCRITTI VARI EDITI ED INEDITI

GIUSEPPE PURÈ

/^j

DEL SANT UFFIZIO

A PALERMO

E DI UN CARCERE

DI ES50

SOC. EDITRICE DEL LIBRO ITALIANO ROMA

Proprietà letteraria riservata

laÀ/}'(K(/',

TIP. SOC. ED. LIBRO ITALIANO - 1940-XVni

VITTORIO EMANUELE III

VER GRAZIA DI DIO E PER VOLONTÀ DELLA NAZIONE

RE D'ITALIA E DI ALBANIA IMPERATORE D'ETIOPIA

Ritenuto che si è costituito un Comitato sotto la pre- sidenza di Giovanni Gentile per curare la pubblicazione delle opere complete di Giuseppe Pitrè;

Che tale Comitato, composto di autorevoli personalità, ogni affidamento che, l'edizione delle opere del Pitrè sarà curata con ogni competenza e serietà scientifica;

Considerata l'alta importanza scientifica ed artistica dell'opera del Pitrè;

Udito il Consiglio dei Ministri;

Sulla proposta del Nostro Ministro Segretario di Stato per l'educazione nazionale;

Abbiamo decretato e decretiamo:

La pubblicazione delle opere di Giuseppe Pitrè curata dal Comitato presieduto da Giovanni Gentile è dichiarata (( edizione nazionale ».

Ordiniamo che il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sia inserto nella Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d'Italia, mandando a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.

Dato a San Rossore, addì 22 giugno 1939-XVII.

VITTORIO EMANUELE

Mussolini Bottai

Visto, il Guardasigilli: Solmi REGIO DECRETO 22 giugno 1939-XVII, n. 1015.

COMITATO

Giovanni Gentile, presidente. Maria D'Alia Pitrè. Giuseppe Cocchiara. Raffaele Corso. Nino Sammartano. Paolo Toschi.

OPERE COMPLETE

BIBLIOTECA DELLE TRADIZIONI POPOLARI SICILIANE

I.-II. Canti popolari Siciliani. HI Studi di poesia popolare. IV- VII. Fiabe, Novelle e Racconti Popolari. VIII-XI. Proverbi siciliani. - XII. Spettacoli e Feste popolari siciliane. XIII. Giuochi fanciulleschi siciliani. XIV. -XVII. Usi e Costumi, Credenze e Pregiudizi del Popolo siciliano. XVIII. Fiabe e Leggende popolari sicihane. XIX. Medicina popolare siciliana. XX. Indovinelli, Dubbi, Domande, Scioglilin- gua del popolo siciliano. -- XXI. Feste patronali in Sicilia.

XXII. Studi di Leggende popolari in SiciUa.

XXIII. Proverbi, Motti e Scongiuri del popolo si-

ciliano.

XXIV. Cartelli, Pasquinate, Canti, Leggende»

Usi del popolo siciliano.

XXV. La Famiglia, la Casa, la Vita del popolo sicihano.

SCRITTI VARI EDITI ED INEDITI

XXVI. Del Sant'Uffizio a Palermo e di un carcere di esso (inedito). XXVII-XXIX. La Vita in Palermo cento e più anni fa (il voi. Ili inedito).

XI

OPERE COMPLETE

XXX. Novelle popolari toscane (edito). XXXI.. XXXII. Bibliografìa delle Tradizioni popolari d'I- talia (il voi. II inedito). Corsi di Demopsicologia, cinque volumi (inediti) :

XXXIII. I. La Demopsicologia e la sua storia.

XXXIV. 2. I Proverbi.

XXXV. 3. Poesia popolare italiana. XXXVI. 4. Poesia popolare straniera. XXXVII. 5. Novellistica e varie. XXXVIII. La Rondinella nelle Tradizioni popolari (inedito). XXXIX-XL. Viaggiatori stranieri in Sicilia (inediti). XLI.-XLVIII. Articoli di Riviste e di Giornali; Recen- zioni, Conferenze, Discorsi, Prefazio- ni, ecc. (editi e inediti). XLIX,-L. Carteggio con illustri contemporanei (ine- diti).

XII

Capitolo I VARIE SEDI DELLA INQUISIZIONE IN PALERMO

Introduzione

I crede comunemente che la sede del S. Uffizio in Palermo sia stata sola- mente e sempre il Palazzo Chiaramonte, oggi Palazzo dei Tribunali. Fin dai primordi della istituzione già rin- novata (1487) il S. Uffizio occupò il Palazzo Reale, l'antica sede dei re normanni, svevi ed aragonesi. Quivi stette a tutto suo agio dal 1513 al 1551, in cui passò al Castello a mare (di- mora dei Viceré) donde si allontanò per poco e dove tornò (1568) (i) tutt'altro che presago dello scoppio della polve- riera (1593), nel quale perì fra gli altri il noto poeta sici-

(i) Il Viceré D. Giovanni de Vega i;oleva stare a Castellama- re; poi volle recarsi al regio palazzo: e allora gl'Inquisitori, che abitavano in questo, passarono a Castellamare. Auria. Istori» cronologica de' Signori Viceré di Sicilia ecc. pp. 44. Palermo. Coppola, 1697.

1 - G. PITRÈ . SanfUHlilo

SANT'UFFIZIO

Mano Antonio Veneziano e rimase mal vivo e pieno di ter- rore e di acciacchi l'inquisitore Mons. Ludovico de Paramo.

Due brevi dimore fuori di questi luoghi ebbe tra gli anni 1566-68 e 1593-1600: una al Casalotto, un'altra nelle vicinanze di Piedigrotta: ed è bene notarlo per ricer- the che quandochessia volessero farsi.

La sede del Casalotto fu acquistata dal R. Patrimonio per volontà di Filippo II e donata al Sacro Tribunale, che, a dir vero, non ne rimase soddisfatto non ostante vi avesse trovato comoda abitazione per sé, e buone caverne pei carcerati. Era una casa di Bartolomeo Marchese sotto il campanile di Casa Professa dei Gesuiti, nella piazzetta dei Santi Quaranta Martiri (i).

L'altra di Piedigrotta presso il mare fu una casa in vicinanza del Castello, dove un angusto vicoletto serba anche oggi il titolo di <( Madonna della penitenza ». Un contemporaneo la disse a carcere de' familiari del foro del S. Officio » (2); ma un secolo e mezzo dopo un Inquisitore la ricordò come abitazione degli Inquisitori (3). Io non so a chi debba aggiustarsi fede. Certo l'angustia della casa e del luogo non doveva prestarsi a così impor- tante bisogna; e le poche cause che gli Inquisitori pote- vano sbrigare, le facevano tenendo i rei nelle segrete e recandosi essi ad interrogarli nel luogo o richiamandone qualcuno alla vicina residenza.

(i) La Mantia, Orig. e vicende dell'Inquisizione in Sicilia (estr. dalla Riv. Stor. ital., i885) p. 56.

(2) Vincenzo Di Giovanni, Palermo restaurato, in Bibl. del Di Marzo, voi. X, p. 169, Pai. MDCCCLXXII.

(3) Franchina, Breve Rapporto del Tribunale della SS. Inqui- sizione di Sicilia, p. 33, Palermo, Stamp. di Antonino Epiro, MDCCXLIV.

VARIE SEDI DELLA INQUISIZIONE IN PALERMO

In quei sette anni nessun atto generale di fede, anzi neppure un piccolo spettacolo.

La vita errabonda dei capi del tribunale fece pensare una volta (1580) ad una sede addirittura principesca, quel- la del Palazzo Aiutamicristo, Oltre il bisogno di comodi, c'era la soddisfazione della vanità e del fastigio ed una utilità indiscutibile. Le donne che facevano da spie al S Uffìzio non erano più disposte a varcare il ponte le- vatoio del Castello per andare a deporre il grave peso delle loro coscienze. Quel luogo era fuori mano, guardato con ineffabile terrore dal popolo, con severa vigilanza dai soldati, con eccessivo zelo dai familiari, con sospetto da tutti. Necessario quindi che lo si sostituisse con un al- tro posto.

Si fecero adunque delle pratiche e se ne fissò il prez- zo; ma all'ultima ora le pratiche andarono a monte.

E fu rara ventura che una delle più insigni opere del- l'architetto Camalivari e del più grande banchiere del quattrocento, Guglielmo Aiutamicristo, non mutasse pa- droni ed uso. Non già degli echi festanti per la venuta di Carlo V Imperatore e Re (1535), non delle nozze di D. Giovanna d'Austria e dei ricevimenti di Pier Luigi Paterno Moncada risonerebbe ora la superba magione; ma dei gemiti dei poveri inquisiti e dei pianti dei torturati. Finalmente nei primi del sec. XVH, dopo tanto vagare per la città, auspice il Viceré G. de Cardenas, il Tribunale della Fede ebbe sua stabile e definitiva sede nel Palazzo Chiaramonte (1605) (i).

(i) Su questa data vedi App. I, 4.

SANT'UFFIZIO

Questo Palazzo, detto per eccellenza loSten (i), nella piazza Marina, ha una storia drammatica e sanguinosa. Le sue vicende sono vicende di Palermo, la sua archi- tettura è architettura della Sicilia; ed ogni sua pietra ri- corda una istituzione, narra un fatto, uno dei cento fatti che compongono il serto di rose dei governanti, la corona di spine dei governati. Da Manfredi Chiaramonte I a Domenico Caracciolo, ad Asmundo Paterno, a noi tutti, per sei ininterrotti secoli i fasti baronali, viceregi ed in- quisitoriali vi si avvicendarono con le miserie del popolo, le solennità più splendide con le scene più terrifiche, le risa dei gaudenti con gli urli dei disperati.

i primi Conti di Modica, affermando il loro gusto per le arti e la loro protezione per gli artisti, sfoggiarono la loro intelligente opulenza; e sul soffitto del gran salone scrissero le prime pagine della storia del Rinascimento in Sicilia (2), e perpetuarono le loro larghe e potenti paren- tele con le armi dei Ventimiglia e degli Alagona, dei Pe- ralta e dei Rossi, dei Santostefano e dei Moncada, degli Incisa e degli Sclafano, degli Spinola e dei Palizzi (3). Da una di quelle finestre Martino II s'affacciò a veder troncare

(i) Col nome di Steri esistono anche palazzi in Cefalù, Sciacca e in Siracusa e in Girgenti.

(2) Gailhabaud, L'Architecture du V au XVII siede et les arìs qui en dépendent, t. Ili, pp. 30-37. Paris, 1870. Di Mar- zo, Delle Belle Arti in Sicilie^ v. I, lib. IV, pp. 319-34. Palermo. 1862. Lo STESSO, La pittura in Palermo nel Risorgimento, cap I. Palermo, 1899.

(3) Inveges {La Cartagine siciliana, lib. II, cap. VI, pp. 410- 16, Palermo, 1651), parla delle « armi dell'antica sala del Palaz- zo Chiaramontano, detto lo Steri »

VAEIE SEDI DELLA INQUISIZIONE IN PALERMO

la testa ad Andrea Chiaramonte, uno dei Quattro Vicari del Regno dopo la morte di Federico III il Semplice, e con sommaria confisca fece suoi i beni del giustiziato: e tenne nel palazzo la R. Curia, un tempo residente nel Ca- stello a mare. cercò invano rifugio la bella, sapiente e sventurata Bianca di Navarra, che con nuova disordinata fuga, dopo quella dal Castello Maniace in Siracusa, in una fredda notte d'inverno, seminuda, potè salvare la sua regal vedovanza dai libidinosi ardori del conte Ber- nardo Cabrerà, riuscito a scalarne le finestre (1412).

si adunarono i generali parlamenti del 1446 (i); Carlo V apriva quello del 16 settembre 1535, che poi chiudeva nel palazzo Aiutamicristo, e ascoltava i bisogni del paese ed assentiva alle riforme necessarie alla invio- labilità dei diritti del triplice consesso nella tutela dei patrii privilegi: ragion di freno ai futuri viceré che si ar- gomentassero menomarne le franchigie.

Innanzi ad esso, nei tumulti del 1516, il tuono delle bombarde e dei falconetti si confusero col ruggito dei popolo contro il viceré Ugo Moncada, che, stato a spiar tremebondo da una vedetta, travestito da servo, s'invo- lava da un segreto uscio, ed il cieco furore delle turbe come onda procellosa irrompeva nelle sale, ne saccheg- giava le suppellettili manomettendone ogni vecchia e nuo- va mobilia.

Nella chimerica congiura di Giovan Luca Squarcia-

(i) MONGiTORE, Parlamenti generali del Regno di Sicilia, t. I, PP- 93 e sgg. (Palermo, 1749) nota che furono convocati « in quista felichi chitati di Palermo, in la sala grandi di lu Regiu Hospiciu seu Steri di la dieta chitati ».

SANT'UFFIZIO

lupo, parte di quel medesimo popolo, incendiate le porte, invasi i cortili, le scale, gli anditi, le aule, precipitava giù dai merli i giudici della Magna Curia, e parte accoglieva sulle picche sottostanti. Di mezzo ai pilastri dell'alta cam- pana si buttavan giù i trasgressori delle leggi sanitarie in tempo di pestilenza: ed uno di essi, durante la moria del 1576, mozze le mani, si vide ad uno ad uno strangolati in- nanzi i compagni di furto di robe infette, riversare da quel- li i corpi, squartarne le membra, ed alla sua volta, stran- golato anche lui, veniva buttato giù come gli altri, bru- ciato e sparsene al vento le ceneri scellerate.

Lì, passando la Inquisizione, nuovi ospiti: tormenta- tori e tormentati.

Lì, testimoni più che bisecolari di raffinata ferocia, fino al 27 marzo del 1782, presso l'orologio pompeggia- vano sinistramente tre gabbie di ferro con le teste di Fe- derico Abbatelli conte di Cammarata, Francesco Impe- ratore e Niccolò Leofante, ribelli nel 1523.

E le R. Dogane ricevevano con le mercanzie fore- stiere i libri che giungevano dal Continente, ed una Cen- sura dagli occhi d'Argo ne percorreva i fogli tutti e ne proponeva o la libera entrata in città o il pubblico incendio.

L'uso principale ed ultimo del Palazzo Chiaramente prima del secolo ora scorso, fu pertanto quello del Tri- bunale della Fede; ma nessun uso è per noi tanto oscuro nei particolari quanto questo.

Il solenne incendio degli archivi (27-28 giugno 1783) privò il paese di documenti capitali per la storia del pen- siero, del costume, della superstizione, della vita tutta dell'Isola.

E tal sia di essi!

VARIE SEDI DELLA INQUISIZIONE IN PALERMO

Le conseguenze però son queste: che poco, ben poco ci rimane di quella istituzione, e meno ancora sappiamo dell'ufficio delle varie parti del Palazzo, oramai molto difficDi a qualificarsi.

Eppure dovremmo sapere dove gl'Inquisitori tenes- sero le loro adunanze, dove le loro udienze; quali fos- sero le carceri degli uomini, quali quelle delle donne; quali le segrete degli inquisiti, come si componesse l'arse- nale di mitre e di sambeniti, di strumenti di tortura e di ritratti di Inquisitori: arsenale distrutto con quel mede- simo fuoco che tante vite aveva annientato e che si spen- se-con esse.

La Inquisizione in Sicilia, specialmente nell'ultimo se- colo, scese ad una certa mitezza: e basta dire che due volte sole passò al rogo. Ma che perciò? Essa era sempre, nella sua natura, l'antica; ed il viaggiatore Filati de Tas- suUo potè nel 1775 scrivere che in Palermo la Inquisizione « existe avec tout son affreux appareil » (i). Nel Palazzo Chiaramonte, privi di luce, scarsi di cibo, laceri di vesti, ridotti a povertà di spirito, finivano i condannati a lunghe prigionie. FrateJRomualdo^s^Suot- Gertoi^ due alluci- nati, vi tribolarono per un quarto di secolo, e ne usci- rono solo per esser condotti nel piano di S. Erasmo e bru- ciati vivi. Il nobile cassinese D. IVIario Crescimanno, vi stette, come eresiarca, ad urlare 28 anni; finché, dive- nuto mentecatto, vi perdette la vita dolorosa e, perchè non comunicato, fu sepolto nel giardino (1771). Dove stettero questi ed altri infelici? Quali giacigli accolsero le loro

(i) Voyages en différens pays. tome II, lettre XXV, pp. 299- 300. En Suisse MDCCLXXVIII.

SANT'UFFIZIO

membra intormentite? Quali mura i loro ranmiarichi? Quale terra le loro lacrime? Per quali spiragli poterono consolarsi che le loro supplicazioni si sprigionassero per salire a Dio?

Da un lato dell'attuale Dogana si addita anche oggi una muda con una solida colonna centrale, sostegno di due archi, con un chiodo confitto in alto, al quale sarebbero stati sospesi gl'imputati; ma la tradizione è incerta e non guarda alla pratica ordinariamente usata della carrucola ad una volta per legarvi il torturando; e da quella muda dovrebbero cominciarsi le ricerche per istabilire dove essa mettesse il capo e donde vi si scen- desse, se pure i giudici vi scendevano.

Chi non sa dell'inquisitore Lopez de Cisneros, il qua- le fu ucciso da fra Diego La Mattina condannato al rogo? Tutti parlano di una visita che de Cisneros avrebbe fatta nei sotterranei del S. Uffizio; eppure un contemporaneo che poteva saperlo perchè membro del Tribunale della Fede, racconta che il La Mattina a quella vista, mferocito rompendo le manette di ferro, con esse lo percosse a mor- te e lo avrebbe senz'altro « precipitato dalle scale » se uno dei familiari non fosse accorso in aiuto di quello (i).

(i) Due particolari degni di nota: La scena tra il La Mat- tina ed il Cisneros fu per ordine degli Inquisitori ritratta in un quadro ad olio; 2** il cadavere del Cisneros venne seppellito nella Cappella di N. S. di Guadalupa (fino ad ora proprietà del Gover- no Spagnuolo) nel Convento della Gancia in Palermo; ed il Tri- bunale eleggeva un cappellano per la celebrazione di tre messe la settimana in suffragio dell'anima di lui, con la elemosina di onze i8 annuali, da pagarsi sopra la casa di D. Giovanni d^ "Retana, Ms Qq F 239 della Biblioteca Comunale di Palermo.

8

VARIE SEDI DELLA INQUISIZIONE IN PALERMO

Il carcere del relasso La Mattina dunque non era dove si dice.

Sotto l'attuale Corte d'Appello sono ancora altre mu- de: e le tracce di antichi reclusi, più che evidenti, sono palpabili. Dalla finestruola a spranghe di ferro che nella entrata maggiore al palazzo, sull'uscio del portinaio, penetrava un debole filo di luce appena bastevole a fare accorti i grami prigionieri che le notti si avvicendavano coi giorni. Non ozioso visitatore, io scesi a ragion di stu- dio in quel sepolcro di vivi, e ne uscii sgomento ed op- presso.

Fino al presente molte cose noi ignoriamo dell'insigne palazzo, perchè sommariamente fu provveduto alla chiu- sura di porte ed alla muratura di finestre, le quali, come quelle del gran salone rimesse alla luce nel 1894, certi Inquisitori spagnuoli, Torquemada delle arti in Sicilia, ordinarono a loro capriccio e comodo.

L'opera posteriore ed ultima del Presidente Asmundo Paterno, al domani dell'abolizione del S. Uffizio, compi quella nefasta del Governo, addossando al lato settentrio- nale del palazzo l'ampia scala di accesso alle aule dei tribunali e creando così nuove difficoltà aH' isolamento dell'edificio ad al riconoscimento delle fabbriche, le quali fin dal Cinque e Seicento vi erano state attaccate. Cosi lo spirito calmo e riflessivo e pur sempre patriottico di questo cooperò con lo impulsivo e spregiudicato di quello: ed a noi mancano le tracce sicure di ciò che fu il carcere della Inquisizione.

Nella primavera del 1906 il Municipio di Palermo, tenuto fino allora per legge ad apprestare e mantenere pei pubblici servizi i locali dei Tribunali, come quelli delle

SANT'UFFIZIO

scuole inferiori e medie e d'igiene, iniziava negli edifici annessi al Palazzo Chiaramonte, l'adattamento delle aule sottostanti alla Regia Procura per uso di tribunale penale.

Questi edifizi, è superfluo il dirlo, sono posteriori di tre secoli allo storico palazzo, e dovettero sorgere per bisogni tanto degli istituti quanto delle persone che vi ebbero sede. Anche con ricerche d'archivio, difficilmente potrebbe stabilirsi lo scopo primitivo di essi. Il mistero col quale si circondava la Inquisizione, che ultima li ten- ne nel Settecento, ci toglie la luce necessaria a vedere in tanta oscurità. Questo però è certo: che poco dopo la venuta dei Reali di NapoH (26 dicembre 1798), nel 1800 la maggior parte delle stanze di questi edifici vennero destinate, come già da tempo alcune, a deposito o archi- vio della R. Cancelleria, della Deputazione della vendita, dell'Udienza generale dell'Uditore di guerra, delle senten- ze del Tribunale civile di Palermo, della Direzione dei Dazi indiretti, del Tribunale di Commercio, della Con- servatoria generale; siccome le stanze sotto l'attuale Corte di Appello ai Riveli presentati al Patrimonio dal 1548 al 1651.

A quest'ultimo ufficio d'archivio, ora che le carte contenutevi sono state trasportate nell'ex Convento della Gancia, era prossimo a succedere, come ora è succeduto, quello del Tribunale penale. Ed è anche certo che tanto al di dentro, quanto al di fuori il fabbricato della R. Pro- cura subì, da più che un secolo, grandi alterazioni. Dal lato meridionale, di sotto ad alte piccolissime finestruole centrali (buchi da 30 centimetri quadrati), in mezzo a spiragli laterali (specie di feritorie) ora chiusi e visibili solo ali 'estemo, furono aperte due grandi 'finestre l'una

IO

VARIE SEDI DELLA INQUISIZIONE IN PALERMO

sull'altra per ciascuna stanza, e questo ci aiuta a determi- nare un uso precedente da noi fiinora ignorato.

Ma di ciò dirò più innanzi.

Mentre i lavori di adattamento si venivano eseguendo, io seppi (i) di una camera nel primo piano della R. Pro- cura, nella quale, scrostandosi spontaneamente della cal- ce, veniva fuori non so che figura; e non indugiai un istante a recarmici, impaziente di trovarvi qualche cosa utile alla conoscenza del luogo. Trovai, difatti, la figura; ed ai non dubbi segni delle pareti circostanti ed ai saggi che per praticai, potei indovinare che altre immagi- ni dovessero esistere sotto gli strati di antiche, ripetute imbiancature. Queste non erano meno di quattro, quali spesse e quali sottili, tutte, meno l'ultima esteriore, due volte secolari; e l'antipenultima di colore scuro come di mota.

Ed eccomi all'opera manuale di scrostamento; opera, estremamente delicata, che io non potevo affidare ad un operaio qualsiasi, e che sostenni personalmente per sei mesi interi.

Giacché è bene rilevarlo: non quella soltanto fu la stanza nella quale mi fermai, ma tre di sei, cioè questa prima, che probabilmente era l'ultima nell'ordine primi- tivo; e la quinta e le sesta, comunicanti tra loro con un arco che venne tagliato nelle pareti intermedie.

La seconda, la terza e la quarta stanza erano già sta- te manomesse dai murifabbri, e quindi perdute per gli studi.

(i) Dall'avv. Giuseppe Cappellani, allora Consigliere Comu- nale.

II

SANT'UFFIZIO

Le stanze non sono quali dovettero essere in passato. Oggi sono rettangolari, ma una volta furon quadrate. Cia- scuna di esse misura metri 5,10 in lunghezza, altrettanto in altezza, ora ridotta, giacché il pavimento primitivo al quale si giunse nei lavori era venti centimetri più basso dell'attuale, e quél pavimento era un gettato di mattone- pesto finissimo e calce che ora si chiama battuto.

Un andito largo un metro deve avervi dato accesso; andito ripetuto in tutte, e destinato a bassi usi; prova, gli avanzi d'un arco e lo stato della muratura proprio nel terz'ultimo spazio del lato settentrionale, dalla porta di entrata non solo di questa ma anche delle altre camere, parte già rese inutili per noi, che si vennero mettendo in comunicazione tra loro.

Difatti, in tutte si osservano resti, ora scomparsi, di doccionati in terracotta scendenti giù da un incavo, specie di nicchia in muratura nello spessore della parete di en- trata, della capacità di un uomo, che a suo tempo poteva sedervi ad agio.

Anticipo il giudizio su questi luoghi, affermando in modo reciso che essi furono prigioni di ecclesiastici e forse anche di secolari, nel tempo del S. Uffizio verso la metà del Seicento: e conforterò questa affermazione con molteplici ragioni fornite dai luoghi medesimi.

Mano mano che io mi avanzavo nel difficile lavoio di scrostamento, si venivano agli occhi miei delineando fi- gure, disegni, iscrizioni e versi. A lavoro finito mi trovai innanzi quattro pareti intere ed altre per metà fino all'al- tezza delle mani d'un uomo (metri 2,15), fitte di manife- stazioni grafiche. Era una vera generazione scomparsa,

12

VIARIE SEDI DELLA INQUISIZIONE IN PALERMO

ignorata, che dopo due secoli e mezzo riappariva e rivi- veva; erano uomini che tornavano a parlare in versi e m mozzi accenti, a rivelarsi con ghirigori, volute ed accar- tocciature. Per dieci metri quadrati d'ogni parete intera non un dito di spazio libero, non un angolo risparmiato. Linee sovrapposte a linee, disegni a disegni davano l'idea d'una gara di sfaccendati, ed erano invece sfoghi di sof- ferenti. Inesorabili intonachi aveano di tempo in tempo fatto scomparire quegli sfoghi, che però per nuovi arrivati ricomparivano sotto forme di nuovi sfoghi per tornare a scomparire e ricomparire, e poi a perdersi dei tutto.

Questi intonachi hanno una storia.

Bianchi il primo ed il secondo, giallognolo il terzo, inefficaci tutti ad impedire nuove espressioni spirituali di vecchi e di nuovi ospiti, furono una volta coperti tutti e tre con un quarto intonaco come di mota, sul quale vane dovettero riescire le velleità dei prigionieri come vittorio- se le presunzioni degli aguzzini. Sonvi pareti poi dove a questa impiastricciatura ne venne invece sostituita una nera, che rese adirittura impossibile qualunque altro ten- tativo grafico.

Il titolo di (( palimsesti del carcere » è proprio quello che ad essi compete. Ed in vero: sotto una scrittura in caratteri semigotici coperta di calce se ne delinea un'altra in caratteri ordinari; la quale, a misura che si viene libe- rando dalla triplice o quadruplice crosta, luogo ad una strana confusione di parole latine ed italiane in una biz- zarra lettura di non-sensi.

La multiforme e diversa materia venuta in luce si ve- drà dalle riproduzioni fotografiche che illustrano il pre-

13

SANT'UFFIZIO

sente libro; e fiattanto può dividersi in due grandi grup- pi: disegni e scritture: gruppi tanto copiosi che a volerli prendere in complesso se ne fraintenderebbe il significato. Figure arditamente concepite e non senza una certa abili- tà disegnate, stanno a lato, sopra, sotto figure meschine per concezione ed esecuzione. Mani diverse, di uomini di una certa pratica di disegno e di uomini i quali, come fanciulli da strada, tirano scomposte linee col carbone e col gesso, devono avervi lavorato: e, tra questi, dilettanti da strapazzo con evidenti disposizioni all'arte.

Nessun ordine nella impostativa di quelle figure. Do- ve lo spazio mancava, queste si addossavano tra loro sen- za limite, senza regola, senza misura, senza riguardo, inconsideratamente. direbbe che ciascuno pensava so- lamente a sé, secondo l'impulso dell'animo proprio, non preoccupandosi di quel che altri potesse aver fatto. La prevalenza dell'elemento religioso si afferma in immagini di santi; quella dell'elemento profano in teste di immagini di donne e in ornati svariatissimi. Una medesima mano esegue sopra una pare!fe santi e sante, e sopra un'altra Cristo, santi e devoti. I singoh santi, dell'altezza media di m. 0,75 l'uno, poggiano sopra basi (in media di m. 0,35 di lunghezza) somiglianti ai gradini di fercoli ordinari. Dentro gli ornati di queste basi è il nome latino del santo ed un motto qualificativo quasi antonomastico di esso.

Quali materie coloranti poterono esser messe in opera in questi grafiti?

Tre solamente: il nero, il giallo ed il rosso: ma questi due così deboli ed incerti che in più punti non compari- scono. A giudicarne ad occhio e croce sembrano di terra

14

VARIE SEDI DELLA INQUISIZIONE IN PALERMO

colorata, applicata senza preparazione di fondo, con me- todo sommario, ma di efficace effetto. L'esame chimico rivela: pel giallo, il protossido di ferro (terra gialla), pel rosso il sesquiossido di ferro (sinopia e terra rossa), pel nero, il nerofumo, probabilmente di lampada; ma in al- cuni posti la così detta inga, cioè il vecchio inchiostro da scrivere.

Nella terza cella però a questi colori se ne aggiunsero degli altri, il verde ed il rosso forte: e non è dubbio che i penitenziati di questa cella dovettero avere qualche buon momento di agevolezze o di tacita acquiescenza da parte dall'Alcalde di questo carcere.

Il livello alto può spiegarsi con qualcuna delle panchette che nelle celle non mancavano mai. Favoriti dalla scarsa luce del carcere, questi colori non si scomponevano e, fe- lix culpa!, vennero conservati dalle imbiancature.

Veniamo ora alla visita particolareggiata delle tre celle salvate dal piccone demolitore.

15

Capitolo II. PRIMA CELLA

OMiNCiANDO dalla cella che prima si pre- senta a destra di chi sale, ma che, come si è detto, dovett'essere l'ultima nel se- colo XVII, quando cioè la sàia di accesso a questo carcere partiva dal lato opposto, noi procederemo all'esame della parete destra.

All'altezza di quasi due metri sono due grandi rettili: a) a destra un serpente con piccole orecchie acute, avente, alla bocca, un cartello rettangolare riquadrato con la iscrizione a grosse lettere:

CAUTI ESTO

TE ET NO

LITE ME

TANGERE.

i6

PRIMA CELLA

Simbolo, questo, di prudenza, raccommandazione di ac- cortezza, che può interpretarsi come meglio piace.

b) a sinistra, un mostruoso dragone alato con testa irt alto, lingua dardeggiante, due piedi, dei quali il destro tie- ne altra iscrizione del seguente tenore :

CAVETE QV lA SOLO ASPECTV

INTERFICIO.

Gli è come si dicesse un basilisco, il favoloso mostro, che uccide solo a guardarsi. O che abbia voluto l'autore simboleggiare in esso la Inquisizione, mostro letale anche nell'aspetto?

In mezzo ai due cartelli sorge un'aquila bicipite con una corona principesca o ducale in mezzo alle due teste, entrambe debolmente ripiegate a destra ed a sinistra. Il suo corpo è tutto coperto da un motto pur esso inquadrato :

[V] IRTUS

ET MO

TUS

[A] BEST.

E di vero, la forza è venuta meno al re degli uccelli, perchè il moto è venuto a mancare. Quest'aquila simboleg- gia il penitenziato, cui i dolori e le tribolazioni han tolto con la libertà e la vigoria.

I. Sant'Agata, tenente con la mano destra un vasetto,

2 - G. PURÈ Sant'Uffizio

SANT'UFFIZIO

nel quale invano si cercano le parti del suo corpo che sim- boleggiano il suo martirio.

2. S. Antonio Abate con la indicazione:

S. Antonius DEMONIA ET... ENDE Di[CANT] MIRABILIA.

Giova notare che nella parete che guarda a mezzogior- no, di fronte a chi entra, sono avanzi di una figura che da un giglio che sporge in fuori e dal frammento d'iscrizione:

m TE

O CASTITÀ [TIS]

ET PADV[AE]

GLOR[IA],

si rivela per S. Antonio da Padova.

Qui s'incontrano i più bei caratteri delle tre celle, so- miglianti molto a tipi da messale. Sono strofette d'un Innoi a S. Antonio da Padova, ma assolutamente illeggibili, per-] che sbiadite e quasi scomparse.

Il solo primo verso, leggibile, è questo :

O proles Hispaniae

e poi qualche parola dei versi seguenti.

Quest'inno, irreperibile nei breviari e nei messali ordi- nari, è l'antifona dell' <( ufficio proprio » di S. Antonio da Padova, la quale vuoisi composta da S. Bonaventura, men- tre altre la vogliono del Card. Guy de Montfort, che la fece] incidere sul ricco reliquiario che contiene il mento dell Santo.

i8

PRIMA CELLA

Ecco l'antifona quale corre a stampa nell'ufficio proprio di esso Santo.

Le parole non chiuse in parentesi quadre sono le sole

decifrabili.

AD DIVINUM ANTONIUM DE PADUA

O proles Hispaniae [Favor infidelium, Nova lux Italiae Nobile depositun» Urbis Paduanae. Fer, Antoni, gratiae] Christi [patrocinium] Ne prò [lapsis veniae] Temp [us breve creditum Defluat] inane.

Seguono preghiere illeggibili anch'esse ma, con l'ufficio proprio alla mano, è facile comprendere che sono dei versus e dei responsoria, ecc. (i).

La presenza di questi versi in lode del taumaturgo di Padova a peiisare ad un penitenziato dell'ordine fran- cescano; né chi vi si fermi ad agio, avrebbe ragione con- traria.

L'ufficio proprio di un santo può bensì conoscersi da qualunque sacerdote, ma chi ne recita e trascrive a memo- ria un brano poetico, induce a credere ad un religioso del Serafico d'Assisi, del cui ordine appunto fece parte S. An- tonio.

Il santo poi che non poteva non suonare sulle labbra di

(i) C. Da Sabbioneta, S. Antonio da Padova-. Vita, Miracoli, Culto t devozione, p. 93. Milano, 1901.

19

SANT'UFFIZIO

qualsivoglia come una specie di S. Leonardo, liberatore dei] carcerati. Due versi di un responsorio, infatti, dicono:

Cedtint mare, vincula. Membra resque perditas Petunt et accipiunt luvenes et cani (i).

3. Santa Rosalia, a piedi nudi, coperto il capo con un manto che scende stretto alla vita. Regge un rosario con la mano sinistra, un bastone che però potrebb' essere una croce, alla destra, ed un'iscrizione a mezzo la veste. In bas- so, il motto:

LiETITIA CIVITA TIS PANORMI.

La iscrizione, eloquentissima pel significato del luogo, dice:

O Rosalea, sicut liberasti a peste Panhormum, Me quoque sic libera carcere, et a tenebris

Non occorreva il nome perchè si sapesse la santa raf- figurata. Dire della liberatrice di Palermo, è dire della pa- trona della capitale di Sicilia. E la Sicilia tutta, in mappa geografica, è sottostante a Rosalia, quasi messa sotto la sua protezione benevola e sicura.

Ma di questa mappa non tocca ora discorrere.

Solo, a proposito della Santa, vo' rilevare che se il no- me qui è Rosalea e non Rosalia, negh anni che seguirono, alla invenzione delle ossa, i cronisti e gli eruditi scrivevano]

(i) C. Da Sabbioneta, op. cit., p. 190.

20

PRIMA CELLA

promiscuamente; mentre ora nessuno scriverebbe più Ro- salea.

4. S. Vito, in costume spagnuolo del sec. XVII, che regge alcune catene alle quali è legato un cane e sotto:

CANVM, ET

LEONVM ORA

CONCLUDO

Nell'altra parete, ai lati della finestra:

5. S. Caterina Vergine e Martire, avente alla destra una palma, alla sinistra la ruota del martirio poggiata sul terreno :

SPLENDOR CASTITATIS ET DOCTRINA M TTO.

6. Cristo, col motto biblico:

TU SOLVS PEREGRINUS lERV

SALEM (i).

7. Testa di un santo monaco, superiore per correttezza "di disegno e sentimento alle altre.

8. Cristo risuscitato: la più grande figura di tutta la cella, alta m. 1.45 sopra uno di base, ove si legge:

O MORS. VBI EST VICTORIA TUA? (2) D. FRANCISCVS CARAFA SERVVS TVVS.

(i) Evangelium secundum Lucam, e. XXIV, v. 18: a Et re- spondens unus, cui nomen Cleophas. dixit et: Tu solus pere- grinus es in Jerusalem, et non cognovisti quae facta sunt in illa his diebus ».

(2) Epistola I Beati Pauli ad Corinthios, cap. XV, v. 55 : « Ubi est, mors Victoria tua? Ubi est stiniulus tuus? ».

21

SANT'UFFIZIO

Questa figura offre qualche reminiscenza del Cristo ri- sorto di Pietro Novelli nella Chiesa madre di Piana dei] Greci; il quale però è sospeso in aria appena uscito dal se-' polcro. La reminiscenza è nella testa, nelle membra, nel ves- ] siilo che Cristo regge colla mano destra.

Questa figura poi è l'unica nella quale senza stento si] raccoglie un nome che invano si cercherà nella serie di dì- segni, motti, orazioni, versi, di tutta la stanza.

Il medesimo nome:

CARAFA ricomparisce a poca distanza dalla figura, verso i piedi; e come nome ci fa ricordare di quel Placido Carata che nel 1655 fu protettore o vice-tesoriere della Inquisizione in Pa- lermo. Come nome, dico, e non già come persona che pos- sa con sicurezza identificarsi con quella della nostra cella. Un Francesco Carafa fu nella seconda metà del Seicento^ capitano d'esercito; e nel 167 1 da generale della flotta mal- tese riportò una strepitosa vittoria sopra i Turchi (i). Altro Francesco Carafa fu Preposito della Madre chiesa di Mo- dica nel 1659; stette quattr'anni a Roma, al corteggio del Cardinale Trivulzio; conobbe D. Antonio Requesens, pa-- rente del noto Vescovo di Patti e forse lo stesso Vescovo, e come lui non ebbe molta simpatia per gli Spagnuoli. Una sua lettera del 1660 ragguaglia il Viceré di avere egli^ conosciuto in Roma un noto agitatore messinese, rifugiato

(i) Vedi : Strenuissimo Melitensium triremiuni generali Dttciì Francisco Carafae ob {nsignem victoriam ab ipso comparatam anno 1671 expugnata captaque rostrata barbarorum navi, Haec mea dico carmina S. Theologiae Doctor D. Pedrus Forte Panor-i mitanus. Panormi, ex Typografia Petri de Isola, 1672.

22

PRIMA CELLA

anche lui in quella città, andato nascostamente a Messina e quindi attivamente ricercato « per aversi nelle mani » (i).

Escludo il primo di questi due Carafa, perchè nessuno dei penitenziati si sarebbe occupato di lui, potente ed estra- neo al Sant'Uffizio; inclino al secondo, per la sua vita un po' agitata e forse spregiudicata e per la sua antipatia verso la Spagna.

Se poi l'autore della figura del Cristo sia lui, non è ri- cerca interessante, come è peraltro difficile. Può esserne stato il consigliere, il quale, stando in carcere, può avere ot- tenuta da un compagno semi-artista quella raccomandazio- ne o profferta. Certo, si volle affidare il suo nome alla principale composizione; che, se non eccelle (e non eccelle difatti) per esattezza di disegno, è notevole per aitanza di inmiagine e per energia di mossa, pure ammettendosi che la testa sia stata rifatta o ritoccata da altri, tanto è spropor- zionata col corpo e male piantata sul collo.

deve parere fuori del possibile il ritocco quando si pensi che due altre figure ne presentano le traccie: la te- sta di S. Rosalia e quella di un signore che prega e del quale farò presto cenno. Un carcere è sempre esposto a chi vi sta dentro: e chi vi sta, nella durezza del trattamento, nella tristezza della solitudine e nell'avvilimento dell'ozio cerca di ingannare le ore attaccandosi come fanciullo alle più piccole cose, anche a quella di rivedere il già fatto da altri, sia per completare, sia per correggere, sia anche per gareggiare.

E' così strana la umana psiche!...

(i) Lettera, ahimè, divenuta postuma del compianto barone Giuseppe Arenaprimo da Messina, in data del 25 agosto 1906.^

23

SANT'UFFIZIO

9. Un signore che prega. E' certamente questa la figu- ra più completa e complessa del gran quadro, e forma come il passaggio dall'elemento sacro al profano.

Siamo innanzi ad un nobile del Seicento, in tutto il co- stume ed assetto del tempo, cominciando dal ciuffetto sulla fronte e dai baffi rialzati e finendo alle scarpine con fibbie. Di faccia a lui è trascritta la preghiera che egU, gi- nocchioni ed a mani giunte, viene recitando: preghiera la- tina, dove sono leggibili solo le parole: Oremus, Domine Jesu... Confessor... in auxilijs ac gaudiis...; al lato sinistro il suo stemma: grande, complicato, nel quale sono inquar- tate chi sa quante armi dei suoi antenati e collaterali! Cin- que corone, un bastone da pellegrino, una testa di leone, teste di uccelli, ornamenti di quadretti neri e bianchi; e di sopra una corona marchionale ed un uccello sulla corona; ir- refutable documento che dovrebbe condurre alla conoscen- za del personaggio.

Ma, a farlo apposta, quell'arme non esiste in Sicilia, in Napoli, in Ispagna; non esisteva nel sec. XVII.

La elegante figura lascia incerti sull' esser suo: è il Cara- fa del Cristo risuscitato? è un imputato che sconta una pe- na? che si raccomanda a Dio acciò voglia affrettare la sua liberazione?

Ricerche posteriori alle mie potranno svelare il mi- stero.

Questa figura intanto per la sua acconciatura serve co- me a determinare il tipo prevalente di altre nelle nostre celle. I baffettini col pizzo ricompariscono qua e nelle immagini sacre maiscoline, la maggior parte delle quali sono in questi inappuntabilmente spagnoleggianti. I carcerati, vo-

24

PRIMA CELLA

lendo rappresentare santi della chiesa, non sapevano conce- pire mode diverse: è così è della pettinatura delle sante.

Mi trovo in questa parete e mi ci fermo ancora: tanto le mie osservazioni si aggirano intomo alle rappresentazioni presso a questa figura.

In alto è una grande sfera raggiante, che occupa un metro quadrato circa. Da presso due date, l'una sotto l'altra, in mezzo a scritture scomparsa od illeggibili:

. . . Anno 1643 augu...

IX [indictionis]

. . . . GA ....

OPFEIA (?) . . .

. 1645.

E forse ricordano due atti di fede.

Nella parete che costi tusce il muro meridionale esterno, a lato del Cristo con la iscrizione tu solus.... è una notiziat inedita e nuova di un atto di fede non mai conosciuto fino- ra, che è formulala in queste parole:

Ai 21 di luglio 1646 si fici lo spittacolo in S. Domenico di trentatrè persone tra huomini e donne.

25

SANT'UFFIZIO

, Questa indicazione viene confermata da altra simile del- la terza cella, ove, sulla parete orientale, in alto, presso una delle piì belle figure di sante, si legge:

a... 2 di [lugliu] 164... vi fu lu spitta [colu] in S. Domenico

fntriTTiii 11 li

Il resto è coperto da una figura posteriormente disegnata, la quale giova lasciare intatta.

E' chiaro che si parla d'un medesimo spettacolo, dove la cifra 23 può essere sbagliata o non letta bene; mentre il numero 33 è tutto e quasi chiaramente scritto.

Chiaro egualmente che, se non tutti e due, il secondo, rinchiuso nella terza camera, fu dei penitenziati, un testimo- nio oculare, spettacolo egli stesso, e vittima di occulti ac- cusatori e di facili giudici. Vittima silenziosa, che, dopo di aver affidato al capo del suo giaciglio l'atto più odioso sta- to compiuto contro di lui, non ha una parola di risen- timento.

E chiediamo ancora per lui; chi è egli? e rispondiamo: chi lo sa!...

Certo però non è un palermitano. Il fommu per fontu lo rivela un regnicolo, come a dire un provinciale.

A questo proposito mi soccorrono i graffiti d'un altro carcere, il più duro che io abbia mai visto: quello dei pri- gionieri di Stato dentro il Castello a mare in Palermo.

Nelle sei celle, che meglio si dovrebbero chiamare bolge di esso, dal Cinquecento al Settecento, s'incontrano segni perfettamente identici a questo. Son linee verticali tagliate o sottosegnate da linee longitudinali, senza dubbio a ricordo

26

PRIMA CELLA

di periodi settimanali, o mensili durati e segnati dalle vitti- me dentro le infami fosse. Non parlo di periodi annuali perchè chi vi veniva seppellito dentro, non poteva vivervi a lungo, che, per lenta agonia, doveva fatalmente soccom- bere. Notte orrenda, continua, assoluta regna anche oggi in quei sotterranei dalle volte e dalle pareti grondanti umi- dore, come gli occhi dei condannati lacrime : e muffe e lez- zo come di rettili putrescenti. E in quella notte etema, non illuminata mai da un raggio di sole, da un filo di luce sotto torrenti di luce del bel cielo della vecchia capitale, sul ma- schio mastodontico e pesante, le vigili scolte passeggiavano ignare o involontarie sorde ai gementi sotto di loro. E chi sa che primi ad esalarvi lo spirito non fossero stati dei penitenziati del S. Of tìzio, quando questo, nel sec. XVI, vi ebbe sede!

Altra mano, o forse la medesima, su questa data storica notava altro ricordo, non istorie© ma morale. Dei cinque ri- ghi che lo formano, si leggono le frasi: hilari animo,... quoa non es primus, che insieme con la proposizione et imbecil- liores... esse nolite pare raccomandi animo e forza.

vicino, di colore giallognolo son dei segni come di taglia o di calendario :

20

I punti giungono alla 14* linea verticale, e le linee verticali indeboliscono di colore mano mano che procedono innanzi. Sono dei segni per contare i mesi, gli anni? Qua- le infelice veniva prendendo nota del tempo della sua pri- gionia?

27

SANT'UFFIZIO

Ed ancora, sopra la S. Caterina, a grandi lettere come quelle d'un antico abecedario, si legge il seguente

Sonetto.

L'ultima volontà scriver desio; volate, o Serafini, in un m[omento] Et irentre vo dettando il t [estame] nto Registrate nel ciel gl'atti d'un Dio.

Lascio all'Eterno Padre il spirto mio, «'>)ndono a' miei nemici il tradim[ento] E do a chi [m'oflesje il pentimento Lieto de er legato pio.

E non c'è altro, perchè le due terzine che dovevano seguire, sono cadute scalcinate.

L'autore di questo sfogo fece man bassa sopra lo spazio che potè invadere nello scorcio della parete a sinistra. Qui- vi delineò una figura di S. Pietro, che verso la spalla de- stra ha il motto:

PETRUS

APOSTOLVS

IESU[CHRISTjI.

Sulla vita due versi latini, dei quali riesco a legger solo:

tam p o eius.

28

PRIMA CELLA

E più sotto, un terzo rigo :

[Tu es'\ Petrus et [super] hanc pe tram aedificabo Ecclesiam meam.

In direzione della regione mammaria, di altra mano: Manca Anima.

Su tutta la figura poi, in alto, è una ottava siciliana, che fa sentire il Seicento con le sue stupefacenti iperboli: Eccola :

O Petru. ssoccni chi ficiru ecclissi pr' haviri à Christu tri voti nigari. Ma quali mani supra carta scrissi?

. quantu havisti à fari? si pir scrittura / fidi chi cridissi chi l'acqui l'autu Diu l'happi à criari dima chi forsi li lacrimi spissi di tia San Petru tu inchisti lu mari.

Dalla linea orizzontale del santo si passa ad un'altra fi- gura, coi capelli sciolti, una palma alla mano sinistra, una coppa con due occhi alla destra. Alla base:

S. LUCIA

attorno alla quale forse un solo e medesimo devoto profon- de le debolissime grazie della musa italiana e gli ingegnosi giuochi della latina.

Sul capo è questo povero sonetto : i

Già mai potrò. Lucia, chiara mia sposa lodar a pieno col mio basso stile la tua bontà nel pet[to] e '1 cuor [virile] e tu dell' honor tuo fosti zelosa.

29

SANT'UFFIZIO

Intrepida con voce imperiosa rifluì asti il tiranno infame e vile e se di Dio sposa, e serva humile, rimanesti di lui vittoriosa.

E s'egli poi il malvagio fier et empio volea forse il tuo virgineo fiore toglier da te, non potè mai cotanto.

E restò intatto il tuo sacrato tempio che benché fossi tratta con furore, immobile ti rese il Spirto Santo.

// tuo devoto.

Al lato sinistro, alla estremità della palma, queste pa- role:

Columna es immobilis Lucia sponsa Christi

[Quia] omnis plebs expectat

[Ut accipias a] Deo coronam vitae. Alleluia.

Queste parole, scritte in forma metrica, non sono origi- nali, ma fan parte dell'Ufficio proprio della Santa (XIII Dicembre), e ne costituiscono l'antifona ad benedictio- netn.

Sta però una variante all'ultimo verso o rigo; perchè Va Deo nell'Ufficio non esiste (i).

E sotto, il distico:

Lucia quae luces ceu lux a luce relucens Praebe mihi lucem, Lucia, luce tua.

(i) Breviarium Romanum ad usum fatrum minorum Samcti Francisci Conventualium etc in quo officia Sanctorum juzta no- vissima indulta et devota Leonis Papae XIII etc. accurate dispo- nuntur, p. 748. Romae, Salv. MDCCCXXXVIII.

30

PRIMA CELLA

Lo sforzo dell'arte vi si indovina, ma la fluidezza dei versi e l'abilità della composizione sul nome di Lucia che è ben trovata nel lucere, sono da scrittore abilissimo. Egli del resto invoca in questa buia notte la luce.

Sulla porta l'ingresso alla chiesuola di S. Lucia presso la Marina in Savona si legge anche ora il seguente distico at- tribuito a Gabriello Chiabrera:

Lucida lucenti lucescis. Lucia, luce. Lux mea luceat, Lucia, luce tua (i).

La identità del concetto generale nei due distici si traduce in somiglianza di forma nel primo verso, in iden- tità nella seconda metà del secondo.

Se il distico savonese è del Chiabrera (1553-1637), pre- cede quello di Palermo; se non lo è, chi può affermare la imitazione e non ammettere piuttosto una duplice origine, non improbabile con la voce Lucia ed il significato di essa? IO. Ma più che questa immagine, bella è una testa di uomo che si intravede in mezzo alla confusione di tutta la parete occidentale: testa che copre altri disegni e pen- sieri di chi trovò primo un po' di largo.

Questa testa per gli occhi e la bocca pieni di espressione sembra a me più pregevole che qualunque altra; e certa- mente si stacca come il buono dal mediocre da due altre (11, 12), teste di donne, che vi stanno vicine, e sono di mano di- versa. Ma anch'esse, pure rappresentando passatempi ca- pricciosi, vogliono tenersi di conto pel costume. L'acconcia- tura, non di popolane, ma di donne civili ed anche nobili, offre un vezzo di capelli sul davanti della testa, il quale non

(i) Devo questa indicazione all'on. Paolo Boselli. 31

SANT'UFFIZIO

dev'essere stato raro in Palermo, e l'autore non deve averlo tratto dalla sua fantasia. Senza dubbio, fu moda femmini- le; e ricorre in una gran bella testa disegnata nella parete di contro, presso un lembo della tunica di S. Pietro; ed in altre quattro o cinque figure donnesche, di piccolissime dimensioni, ma grossolane nella parete di destra; e tutte hanno riscontro, non solo per il ciuffo sulla fronte ma anche per una specie di zazzera cadente dal lato posteriore del col- lo: foggia tanto comune verso la metà del sec. XVII che un poeta la colse. Pietro FuUone, il popolarissimo cavapie- tre, cantando la disastrosa pioggia del i6 aprile 1651 sul Monte Pellegrino, si volge alla giovane, che pompeggiante si era recata per la festa delle Quarantore, e le dice:

Tu chi spampata ssa zazzara porti (i).

13. Ed eccomi alla figura, vorrei dire tecnica: quella di un Inquisitore. Chi la buttò giù sulla cornucopia destra del mascherone tanto appariscente della parete, se non ri- trasse un uomo, fissò un costume, anzi una istituzione. Non recriminiamo su questa su quello. Siamo a mezzo il Seicento e possiamo ben ritenere che i sacrificii umani non saranno ininterrotti come nel secolo precedente. Il Cin- quecento è passato da un pezzo; e i roghi non sono accesi con la frequenza di una volta.

I deliziosi giardini chiaramontani, che il dispetto di un re e le brutture dei tempi ridussero a sterili campagne, fiammeggeranno sì, ma non più, come per lo addietro, con assidua vicenda di anni. Poco più che un secolo ancora: e

(l) BOGLINO, Intorno ad un poemetto inedito in ottava rima di P. Fullone. ott. 12. Palermo, Monteira, 1878.

32

PRIMA CELLA

SU di essi sorgeranno la Villa Giulia e l'Orto Botanico a far dimenticare gli orrori di un tempo. Ed i profumi delle za- gare si spanderanno ad attutire il lezzo delle carni umane: ed attorno al verde degli aranci si dileguerà il denso fumo che da esse si levò sinistramente.

Ornamenti svariati accompagnano, pigiano, opprimono le figure.

Un gran braciere con un cuore che vi arde dentro, dal cui centro obliquamente in alto un motto forse incompleto:

FERITO SON

NATVRA MI POS

SO

Senza le fiamme il braciere si prenderebbe per un vaso di fiori, a base molto lunga, fin troppo lunga. E' un bracie- re antico.

Lì, sotto S. Vito, uno scudo sorretto ai lati da un leone e da un'aquila, col motto allusivo:

CVM

INFIRMOR

TVNC

POTENS

SVM

E qua e là, avanzi di edificioli con torri, ringhiere, pi- lastri e finestre; e in tre punti diversi di tre pareti, cipressi, pecore che pascolano ed una gigantesca civetta, espressione dello stato d'animo di qualcuno che in quel carcere intristì, turbata la mente dal pregiudizio che la civetta sia nunzia di sventura e simbolo della prossima fine.

Un piccolissimo disegno nero sta come all'ombra del

33

3 - G. PITRÈ . SantUHlrìo

SANT'UFFIZIO

Cristo risuscitato. Un ultimo ginocchioni innanzi allo Spirito Santo in forma di colomba circonfusa di raggi. Egli prega a mani giunte e dalla sua bocca escono le parole :

Infunde amorem cordibus.

Ah si! egli recita il Veni Creator Spiritus, ha bisogno] della carità degli uomini che lo tengono in quelle strette! Dietro di lui son le lettere V. F. S.

Questa rassegna è solo una parte di ciò che offre la cella muta fino a ieri. Ben altro ci rivelano gli scritti. Co- me dappertutto, figurine piccole e testine, quali a colore quali in nero, frasi e sentenze si riesce a rintracciare intru- se, pigiate, costrette, nascoste, dove nessuno può immagi- nare.

L'attività dei prigionieri si accentrava ove piii scarsa era la luce, di fronte alla entrata, presso il Cristo risuscitato e presso il gentiluomo vestito alla spagnuola.

La oscurità favoriva le loro lamentazioni. Nota domi- nante la prigione, e nella scelta delle figure, quelle che ne rispecchiano le pene. Sopra un estremo lembo di tunica, che può essere di S. Leonardo, una mano regge una cate- na con un paio di ceppi. Ebbene, cinque parole compendia* no il poema dell'anima ambasciata:

CATTENiE ET VINCULA NARRENT MIRACULA

daccanto è un distico al medesimo S. Leonardo, per- chè si degni liberare il supplicante, che, come è dato sup- 'porre, ne porta il nome.

34

PRIMA CELLA

Il distico, non tutto decifrabile, è eloquente:

Carceris istius solvas Leonarde cate (nas) Tu qui captivis rumpere vincla soles.

Gran divoto costui, se può anche scrivere in angolo così oscuro due preghiere latine al suo protettore! Le quali si prestano solo alla trascrizione di poche scomposte voci, e tra esse captivus. Sancii Leonardi; ora prò nobis. Sancte Leonarde; Intercedas prò me; Sanctus Leonardus Confes- sor: Patrocinio captivos et... deputasti. Per Christum

Dominum... Amen.

E finiscono con questa avvertenza:

Utri... scilicet orationem prò carceri [bus] mancipatis per- sonam hic edidit...

Più oltre noi rivedremo questo santo: e la sua presen- za concorrerà a spiegare la vita degli uomini qui ristretti.

Davanti ad un piccolo Crocifisso, confinato in uno degli angoli della base del Cristo risuscitato, con supremi sforzi si riesce a scoprire:

Facitinni... diri lu versu 4, 5 di lu salmu 131 memento di Re David fino a

La indicazione è precisa, e viene, com'io penso, da un sacerdote. Apriamo la Bibbia e cerchiamo senz'altro il salmo CXXXI, e partiamo non già dal 4-5, ma dal i versetto:

35

SANT'UFFIZIO

i) Memento, Domine, David, et omnis mansuetudinis eius:

2) Sicut juravit Domino, votum vovit Deo Jacob;

3) Si iniroiero in tabernaculum domus meae, si ascen- derò in lectum, strati mei:

4) Si dedero somnum ocuMs meis, et palpebris meis dormitationem;

5) Et requiem temporibus meis; donec inveniam locum Domino, tabernaculum Deo Jacob.

Il supplice ecclesiastico si richiamava al cantico del sal- mista ed implorava che qualche anima pietosa pregasse il Signore per lui. Poteva il pover uomo spingere la preghiera fino al verso 9 : « Sacerdotes tui induantur justitiam; et sancii tui exsultent n; ma si guardò bene dal farlo.

Molto, ma molto interessante dev'essere la storia scrit- ta in sottilissima calligrafia in altro degli spazi laterali a questo: storia d'un disgraziato che o stesso descrisse in terza persona o da altri è descritto in dieci righi dello spazio di venti centimetri ciascuno. Il primo rigo dice così :

In die II Aug.i in mea causa fuit conclusio eosque qui ad vim tu. ..tare... non est... confessus. Ad quod S.« Inquisitionis fìsci non fuit... carceri esilioque... hat allato fui positus... torturae subjectus intrapì et audientiam non habui. Audientia prò [sustinere] fìdem...

Altro disgraziato aggiungeva in caratteri meno incerti cinque righi, che a me non par vero di essere riuscito a tra- scrivere :

De Die... Martij anni 1676 sep.ter (?) permanens adhuc captus ab aula 4* ad hanc iterum fui perductus insimul cum alio novo socio. Die... aetatis meae ^^ transeunte (?).

36

PRIMA CELLA

E' un uomo nel fiore degli anni 33 appena che nel marzo del 1676, catturato, ripassava dalla cella quar- ta a questa, dove prima era stato; e trovava un nuovo compagno. Donde si rileva come più d'una (quattro al- meno) fossero le celle, e come più persone insieme stessero chiuse. L'alio novo socio può indicare il compagno di sventura passato con lui dalla quarta cella; ma non esclude che nella nostra cella, questa cioè della quale ci occupiamo, fossero altri ospiti; anzi io credo che sarebbe stato troppo lusso lo spazio di cinque metri quadrati per due sole persone.

E poi col numero dei carcerati che teneva sempre il S. Uffizio e con lo spazio relativamente angusto di tutto l'edifizio!... Solo questa penuria di spazio di fronte ai mol- ti reclusi può giustificare la trasgressione degli antichi or- dini emanati dal Tribunale supremo di Spagna. Le In- structiones Novissimae del 1561 prescrivevano che in una cella non fosse più d'un carcerato.

Riservandomi di tornare sulla qualificazione della na- tura dei presenti luoghi, procedo innanzi nella descrizione.

Due schizzi femminili di più che volgare fattura, sem- brano tirati su col carbone. Sono una donna in un'ampia crinolina (veste che pure ricorre in altra donna non del tut- to messa in luce), sotto la quale è di mano aliena segnato:

Piange Ja misera perchè il luoco è di pianto.

L'altra è ignuda, ma per nessun verso accennante a la- scivia; la quale, in mezzo a vasi di fiori, sciolti i capélli e spioventi sulle spalle, spicca con una mano garofani e con

37

SANT'UFFIZIO

l'altra li tiene. Sotto a lei, ma non per lei, com'io credo, facilmente si legge:

Pacienza

Pane, e tempo (i),

tre cose pur troppo indispensabili, per non disperarsi, per per poter vivere e sapere attendere; nelle quali non occorre cercare un significato meno che sincero di i assegnazione, poiché il pensiero d'una rivincita o d'una vendetta col Tri- bunale sarebbe stato sogno di mente inferma. Pensieri di questa natura saranno stati del tempo, ma non del luogo.

L'aspirazione alla libertà, alla uscita dal tenebroso luo- go, è continua, persistente in quegli afflitti; assillo che li punge di continuo. Ricordiamoci del devoto di. Santa Ro- salia, che supplica la liberazione dal carcere e dalle te- nebre.

Ma un altro, con ineffabile amarezza, esclama:

SEMPER DICO [VENI] ET NUM QUAM VENIT [A]S1]TE CRAS.

e ne ha ragione, che aspettando il domani passano i mesi e gli anni!

Potrebbero, è vero, mettersi a riscontro di questi altri detti, che accennano a relativa tranquillità di sofferenti e i tanti, d'impossibile, o d'incompleta lettura, questo si- ciliano :

Pensa beni a la morti.

(i) Un proverbio siciliano: Cu pani e pacenza si va 'tipa- radisu, ma nel motto il sisjnificato è ben diverso.

38

PRIMA CELLA

ed anche

Pensa beni

a fanti (che cosa?)

Quest'altro italiano:

Al mondo non c'è niente rimedio.

e quest'altro latino:

Fallit omnis homo,

che può accusare resipiscenza in chi lo scrisse, o ac- cusa contro chi lo fece prendere e condannare; ma ve ne hanno di più espressivi che sono il rovescio della medaglia. Nascosti qua e là, con vera fatica si scoprono due gruppi di avvertenze a chi entra in quei luoghi lagrimosi:

Averti chi ccà dunanu tratti di corda e...

dice una di quelle note; e lo dice timidamente, in carat- teri piccoli e in luogo ascoso.

La nota manca della fine, raschiata prima che vi ca- desse sopra la calce.

Perchè raschiata?

Secondo me, perchè conteneva qualche parola di ri- sentimento verso gli aguzzini.

Della medesima mano ed egualmente ascosa è la se- guente :

Sta in cervella chi ccà dunanu la corda...

39

SANT'UFFIZIO

la quale in forma più lunga e labilissima si trova ripetuta così:

sta in cer vellu (i) chi ccà dunanu la corda a nu' du... vili e cui se [rivi] ha pruvatu dui volti.

Lasciamo stare i righi scomparsi, il fantasma della cor- da riappare rigido, pertinace al prigioniero, onde egli torna a mettere in guardia i suoi compagni vecchi e nuovi :

Vi averta chi ccà

prima dunanu la corda...

E poi? Il pòi non si può decifrare.

Terribile quest' incubo della corda pel disgraziato! Qua- lunque altro dolore noi preoccupa; solo in essa egli vede e compendia le infinite sofferenze del carcere, che pur tanto crucciano i suoi consorti. Quale rivelazione in quella ripetuta avvertenza! Chi sa quali tormenti ha egli patiti! Pure egli non è il solo a tremare dell'incubo po- tente.

Altro sventurato è sopraffatto e conquiso.

(i) Per rara che possa parere questa locuzione, eccone qua un esempio in Malagido Talamiro (probabilmente anagramma) L'amico fedele, p. 12, in Pai. 1724: «appri l'occhi e l'oricchia, sta 'n cerveddu ».

40

PRIMA CELLA

In una nota quasi scomparsa delle due cornucopie s'in- travedono le parole:

e statti, in cervello che qui danno la tortura... con atti infami (?)...

E sono di un uomo che s'era messo a parlare, e fu messo a tacere dal tempo. Noi non potremo sentire la sua voce, che dovrebbe pur suonare accusa ai suoi carnefici. Come gli altri, egli non dice chi sia (e qui il silenzio ha la sua ragione), ma, a differenza di tutti, segna la data di sua attuale prigionia. Di fatti, in basso, a linee imper- cettibili, un i66, accenna al decennio tra il 1660 e il 1669.

E vengo all'ultima parte di questa prima cella: le poesie.

Una buona dozzina sono i componimenti in versi si- ciliani, dovuti tutti ad un autore, che io chamerei il poeta di questa cella.

Una ne è la grafia, come di penna d'oca, uno lo stile, una la intonazione, malinconica, piangente i tristi giorni di chi li compose e trascrisse: sunt lacrymae rerum, che non vogliono confondersi con i piagnistei degli ammanie- rati geremia del Seicento, i quali sbadigliavano in can- zoni amori ed affanni non provati.

Sono lacrime di un cuore inconsolabile al pensiero di esser chiuso in una tetra prigione.

Ad ogni ottava appone sotto, a mo' di firma, una sug- gestiva qualificazione dell'abbandono in cui si trova per colpa dei parenti e degli amici o del tribunale. Qui si fir- ma, L'abbandunatu, L'infelici, altrove Lu diminticatu, o Lu scurdatu. Oh sì, egli dev'essere un grande infelice

41

SANT'UFFIZIO

S8 con tanta persistenza lo ripete, e quasi lo rinfaccia, pure persuaso che nessuno potrà sentirlo ed aiutarlo. Solo, dopo più di due secoli, la sua voce giunge a noi, voce d'oltre tomba, che riempie l'anima di profonda mestizia.

Sentiamolo questo poeta. La sua Musa non ha slanci, ma è ispirata. Che importa che alcune delle sue canzoni non sono piìi leggibili? Che altre lo siano in parte, e parecchie per parole! Una parola fa indovinare un verso, un verso un distico, un distico tutta un'ottava: che è la siciliana classica, a due rime alterne.

Sentiamolo :

Et haju sensu assai e ancora sentu! Nu sugnu foddi a la dogghia ecxessiva! Et a li guai chi patu ogni mumentu La mia dogghia murtali ancora è viva! Ahi chi furtuna ferma a lu miu stentu Pirchi la dogghia sia chiù sinsitiva: E benché sia eternu lu turmentu di sensn ne di anima mi priva.

L'abbandunatu.

Cui lu nimicu so' tenta, e procura Barici morti pir so' malu inditiu La sgarra, 'ntempu nenti, binchi (?) un'hura Si sapi et è poi misu in precipitiu; Ma fazzu fidi chi fu una congiura Di prima forma lu...n so lu tuo uffitiu; Chi comu trasi in chista sepurtura Nun ndi nesci pri fina a lu giuditiu (i).

(i) Questa ottava riscontreremo nella terza cella in forma incompleta.

42

PRIMA CELLA

Amici nun spijati chistu cn'aju [PirchìJ la morti 'nfrunti [mi] la viju. Nun viditi chi ad ogni passu caju E nenti in pedi mi sustegnu...? Nun vidi [ti] chi mancu d'unni vaju Et a lu fatu a pocu a pocu ceju? [Si vi] spija qualcuna comu staju. Chi staju comu cui va sempri peju.

Lu mischinu.

Nun ci nd'è nu scuntenti comu mia : Mortu, e nun pozzu la vita liniii. Fortuna ondi ch'immortali io sia; Chi si murissi nun duvria patiri, Pirchi cu la mia morti cissiria La dogghia e l'infiniti mei matriri. Per fari eterna la mimoria mia Nta tanti stenti nun mi fa muriri (i).

L'infelici.

Cori ch'i man... ne tempu haviri usanza D'esseri entratu in middi affanni e guai, Hora binchì sta spina ogn'aulra avanza

Nim t'avvililri, haj pacenzia hormai. Resisti, cori, fc-rmu cu custanza: Qualchi humana pietà forsi havirai, E quandu manca ogn'autra rigurdanza

C'è l'aiuto di Diu eh' un manca mai.

n poeta, anche in mezzo alle afflizioni, brucia il gra- nellino d'incenso al gusto letterario del secolo.

(i) Il Veneziano (1543-1593) aveva scritto prima:

cridia muriri,

ma pri patiri cchiù non moru mai. Opere, p. 115. Palermo, Giliberti, 1861.

43.

SANTUFFIZIO

E chi potè sottrarsi alla influenza di esso? In una can- zone a base di sospiri, respiri e spirazioni, sono questi quattio versi:

[Horaj da nu suspiru haiu a spiiari, Sulu sarria pri mia veru suspiru Chi chiù nun havissi a suspirari: Suspirari lu ciatu in' un suspiru.

Lu dimenticatu.

E rafforza il giochetto con un'altra ottava, il cui ul- timo verso è:

Sugnu murtu et ancora haiu a muriri;

ed è firmato : VaffUttu.

Queste canzoni dolorose sono addensate in un angolo della cella, in uno spazio irregolare di un metro quadrato circa, ove difficilmente si sarebbe spinta la vigilanza dei carcerieri. Forse non mi apporrò male ritenendo essere stato quello il posto assegnato all'autore; il quale a quello spazio affidava i suoi sfoghi raccogliendosi e cercando riposo.

Fuori di quello, altro spazio non è per lui, o che egli noi possa avere, o che egli noi trovi buono per sé.

Due altre ottave sono nella medesima parete ma non sue; di alieno carattere, e con qualche pentìm.ento. Giac- ché anche questo é notevole nel nostro poeta: la nitidezza della grafia senza la menoma correzione; il che farebbe supporre che prima di trascrivere egli componesse in un foglio qualsiasi le sue poesie e le correggesse e riducesse a quella forma definitiva.

44

PRIMA CELLA

Un frammento d'altra mano, e con altra intonazione:

e da li orruri

Digni di tanta pena haiu commisu Conoscu eh 'haiu statu un piccaturi Cchiù di quantu potu l'haju offisu. Ma la cuscenza chiama tutti l'huri.

Ora, è questa una confessione di colpa, o una delle tante forme con le quali si chiede perdono a Dio dei pro- I^ri trascorsi?

Sia l'una o l'altra delle intenzioni, non potrà negarsi che l'autore pensava, sentiva e si esprimeva diversamente dagli altri reclusi.

Il perchè è sempre un mistero.

45

Capitolo III SECONDA CELLA

ASSANDO alla seconda cella, all'occhio, come nella prima, una serie di figure di santi e di sante, le quali più ordinaria- mente che in quella, fanno mostra di sé. Toltene parecchie maggiori, troneggianti in alto nella parete destra, tutte sono delle medesime di- mensioni e in due linee diverse: a un metro da terra nella parete destra, ad uno e mezzo nella parete di fronte. Una lieve differenza è in quella di sinistra; ma essa non c'im- porta, perchè a suo tempo, dopo l'uso del carcere, la pa- rete venne tagliata per un arco che ora mette in comunica- zione questa seconda con la terza cella, settima ed ultima della serie. I grafici di questa parete perciò contano poco o nulla. Anche la parete di fronte, al pari di quelle della prima e dell'ultima camera, guasta anch'essa dal taglio del- le finestre, ha subito dei danni : con raffigurazioni distrutte o ammezzate.

Prima intanto di procedere alla rassegna di queste fi-

46

SECONDA CELLA

gure, devo guardare alle principali in alto della parete de- stra, principali dico, per le loro dimensioni, per ordine e compostezza.

Già tutta la metà inferiore della parete offre esercizi di- versi di persone mezzanamente istruite in disegno, per tut- ta una metà di secolo. Un fondo leggermente giallognolo la- scia scorgere dall'alto al basso, fino a due metri dal pavi- mento, macchie e linee di figure scomparse, e vasi di fiori sulla ringhiera d'una terrazza. Di questi vasi dovette cs- servene una dozzina; adesso però se ne indovinano appena metà, tutti dell'antica forma di facce umcine. Su di essi e altri disegni spiccano due grandi figure coperte con pallii, aventi ciascuna ai lati e nel mezzo altre figure minori; sei in tutto. Una regge tra le mani lo scafo di una barchetta a confronto delle attuali con prua molto acuta; ed è carat- terizzato dalla seguente preghiera:

lanitor sanctus pandens coelestia regna; Quaeso, mihi portanti pande iubente Deo.

B.

L'altra figura posa una mano sul manico d'uno spadone appuntato in terra; con quest'altro distico:

Qui quoque J^

Me, Paule, ex istis ac liberare velis.

B.

Siamo di fronte ai Santi Apostoli Pietro e Paolo. Il ja- nitor pandens coelestia regna richiama al janitor il quale con la facoltà concessa a lui cunctis coelum verbo... aperis della prima e della terza strofa dell'inno In festo SS. Apo- stolorum Petri et Pauli della Chiesa.

Se non fosse per certe considerazioni in contrario, po-

47

SANI UFFIZIO

Irebbe pensarsi all'uso esclusivamente religioso di questo come della cella laterale, cioè ad una cappella con relativo altare, ecc., ma vi si oppone il disordine delle figure, le parole disseminatevi, certi ornamenti, la ringhiera e parec- chie altre circostanze. Ne contrastano poi il sospetto i se- gni, tuttora freschi dopo due secoli e mezzo, d'insetti agli angoli delle pareti: segni non dubbi di giacigli. Vi si oppo- ne senz'altro, e recisamente, la istruzione, la quale nega in forma assoluta la celebrazione della méssa alle persone condannate o sospette di proposizioni ereticali; salvo che non voglia parlarsi di celebrazione da parte di sacerdoti non interdetti.

Le figure di tutta la cella poi sono sedici: tredici, cioè, di santi, tre di sante: alcune del tutto scoperte, altre scoperte in parte. Sono della medesima mano e quindi del medesimo stile, e segnate con la iniziale B., che cercherò più in di indovinare. Il B. disegna mediocremente, e si ripete per abitudine di lìnee e di panneggiamenti; ed usa il nero ed un colore leggermente giallognolo. Delle figure qual- cuna è accompagnata da motti e da preghiere, qualche al- tra — .e sono due terzi no.

Familiare è all'autore il leggendario dei santi; più fa- miliari le laudi della chiesa e, come vedremo, anche le meno comuni tra esse. Del breviario e del messale è tanto padrone da far ritenere che egli giornalmente lo recitasse. E' credibile che egli fosse stato un ecclesiastico, o sotto i suggerimenti d'un uomo di chiesa. Vengo alla rassegna, e parto dalla parete di fronte, che è la meridionale:

1. S. MATTHEUS

2. S. JOSEPH

3. S. LAURENTIUS

48

SECONDA CELLA

che sostiene con la mano sinistra una graticola;

4. S. BENEDICTUS

5. S. lACOBUS

Questa figura è intieramente scoperta, meglio che quel- la del numero

6. S. VITUS

che regge due cani legati con catene, uno a destra, uno a «nistra;

7. S. ALEXIUS

Porta alle spalle il sarrocchino ed alla destra il bastone dei pellegrini. Dai piedi ai ginocchi ha stretti gambali co- me uose.

La presenza di questo santo farebbe credere alla popo- larità della leggenda di esso in Sicilia; ma popolare, nel senso folkloristico della parola, il santo non fu mai nell'iso- la, tanto che nessuna leggenda si è riusciti a scoprirne nel- la tradizione. Quella presenza è del tutto erudita, e non deve dar luogo a considerazioni d'indole demoetnica. Que- sta ultima figura ha stivali:

8. S. GREGORIUS NAZIANZENUS

Nella parete destra, come si vedrà più oltre, la più col- ma di disegni,

9. S. EUPHEMtA

10. S. ELISABETTA (?)

11. SANCTI C03MAS ET DAMIANUS

49

4 - G. PITRÉ SanfUfllzlo

SANT'UFFIZIO

Questi santi nelle immagini moderne sono perfettamente uguali l'una all'altra: qui però presentano una lieve diffe- renza di costume; ed hanno alle mani, oltre la palma del martirio, un bicchiere con manico:

12. S. ISIDORUS,

con una specie di corta clamide e una canna alle mani, u- nico segno del suo mestiere rustico.

Scarso valore demopsicologico deve attribuirsi a tutte queste figure in confronto delle altre della medesima fattu- ra, che passo a descrivere.

Son quattro, tutte senza nome, le quali offrono materia d'indagini e di osservazioni.

13. Una santa,

non facile a rinoscersi se non si tien conto del particolare delle leggende rilevato dalla iscrizione:

TV QU^ DIES VNDECIM SINE CIBO ET POTV IN CARCERE IN- CLUSA FUISTI LIBERA NOS

Chi sarà mai questa santa che in prigione stette undici fiiomi. senza mangiare bere? Accanto a lei è la effìgie di

14. Un santo, frate,

che sembra dell'Ordine dei Predicatori. Dico sembra, stan- do alla preghiera che ha sotto, e la quale dice cosi :

50

SECONDA CELLA

TV QVI PRI-

mus Sanctae INQUISITIONIS munus gessisti ET PER TRES ANNOS IN CAR- cerem condemn^- tus à Crucifisso Libera tus fu isti LIBERA NOS.

A nessuno sfuggirà la speciale importanza di questa supplicazione: tanto da equivalere alla figura dell'Inquisi- tore della prima cella. Solo qui per la prima volta balza fuori il titolo della S. Inquisizione, auspice il santo a cui la supplicazione è rivolta. Intorno al quale, molto o poco sa- rebbe da dire se si guardasse alla prima alla seconda delle due proposizioni relative. E' al di sopra di ogni discussione che la prima allude a S. Domenico, che primus avrebbe esercitato munus S.ae Inquisitionis; ma quella benedetta parte della condanna a tre anni di prigionia esige un po' di attenzione, perchè dalla vita del Santo di Gusman questa circostanza non risulta; e vuoisi riguardare come una pie- tosa leggenda, o come presa ad imprestito da altra vita di santi. Di uomini venerati sugli altari, i quali tennero l'uf- ficio supremo di inquisitore, parecchi ve n'è: S. Pietro Martire, S. Pietro de Arbues; e la immagine appunto di questo santo ricompariva qua e nelle sale del S. Uffizio. Nell'inventario dei mobili di esso, quando venne abolito, quadri di S. Pietro de Arbues furono trovati nella sala del segreto, nella camera laterale alla Cappella, e nel primo salone, dove (questo è notevole, perchè gì' Inquisiti do-

51

SANT'UFFIZIO

vevano vederio) la vita del santo medesimo era dipinta m undici quadri (i) ed una grande iscrizione ne celebrava morte e miracoli; ma in nessuno si riscontra la circostanza, altro che in S. Giovanni da Capistrano, il quale fu real- mente carcerato per tre anni, ma non raccoglie in quel- la liberazione per opera prodigiosa di G. Crocifisso.

Sarebbe lui il santo delle parole? o non piuttosto S. Do- menico? di cui però, a farlo apposta, neppure una imma- gine fu trovata il giorno della abolizione! (2)

Certo il richiamo ai tre anni non è ozioso. Di condanne ad un triennio di penitenza ogni tanto ne capitava qualcu- na: e fra le altre può essere stata quella dell'ignoto artista del Libera nos, che pure può essere stato condannato a pe- riodo infinitamente più lungo. Anche l'allusione preceden- te alla fame ed alla sete per undici giorni può avere il suo significato.

Bisogna anzitutto riflettere che i carcerati ordinari per cause civili e criminali quando non lo ricevevano dai pa- renti, dovevano accontentarsi dello scarso cibo che loro ve- niva ufficialmente dato. Pii testatori avevano in parte e mol- to limitatamente cercato di provvedere alla loro sussi- stenza.

Fino agli ultimi del secolo XVIII una Deputazione go-

(i) La Mantia, op. cit., part. II, pp. 76.

(2) « Quoiqu'une bulle de Sixije Quint ait consacrò celle

legende, S.t Dominique n'est pour rien dans la création du Saint-Office; il etair mort lorsque Grégor IX et ses légats com- mencèrent à charger, à titre d'essai, quuelques clércs, surtout des dominicaines, de missions inquisitoriales personnelles et tem- porairei ». Ch. V. Langlois, L' Inquisition d'après travaux rJ- cents. p. 39. Paris, 1902.

52

SANT'UFFIZIO

vernativa attendeva a quest'opera di carità, intesa a sfa- mare i carcerati della vecchia Vicaria, oggi palazzo delle Finanze.

E fu bella cosa l'aver essa ottenuto dal Governo di Na- poli piccoli aumenti di assegni annuali per un tozzo di pa- ne o di una minestra a quanti non avessero come vi- vere (i).

Quanto ad abiti, la faccenda andava anche peggio: e non accade qui spendere altre parole quando si sappia che si riducevano laceri.

Immaginiamo come andassero le cose nelle carceri in- quisitoriali!

Come suprema concessione permettevasi al figlio cat- tolico di sovvenire, acciò non morisse di fame, il padre ere- tico costituito in estrema necessità (2).

Nella loro grettezza, i signori Inquisitori tiravano quan- to potevano a loro favore. Da una parte catturavano, dal- l'altra, vedendo di non aver nulla da cavare, ad alleggerirsi del peso dell'alimentazione, discutevano sul dovere altrui di sostenere i catturati. Erano le streghe maggiormente prese di mira, e per questo litigavano con la Deputa- zione del Regno. Una disposizione di Filippo III potè ob- bligarli a tacere, fornire essi gli alimenti e non già la De- putazione, che non ci avea da fare (3).

Non mancano anche in questo anime pietose. La Prin- cipessa di Partanna Donna Maria Grifeo, legava una rendi-

(i) PiTRE', Palermo, voi. II, cap. XVII. (2) Sacro Arsenale, n. CCLXV, p. 416.

{3) Capitula Regni Siciliae, cap. di Filippo IV di Spagna III di Sicilia, a 1648, cap. XXXII, e. II, p. 363.

53

SECONDA CELLA

ta annuale di onze 15 (L. 191,25) per alimentare tre reclu- se perpetue (i). Donna Maria Grimaldi y Bascon (1677) la somma netta di onze 121 a favore dei condannati, in ragione di IO onze l'uno all'anno; uno dei quali legati doveva essere d'una penitenziata nell'ergastolo come fattucchiera o stre- ga (2).

Ed il Parlamento del 1668 votava una forte somma, parte della quale doveva andare pel sostentamento delle streghe recluse (hai cherias) (3).

La Congregazione della Pescagione, composta di sacer. doti e di persone timorate, s'assoggettò al S. Uffìzio, e, li- mosinando per la città, dava da mangiare ai condannati. Se poi si chiamasse « pescagione » perchè andava pescando le persone aberrate (4), qui non monta.

Forse si trovavano meglio coloro ch'erano condannati nei conventi, dove almeno non mancava loro un po' di quello che ai frati abbondava.

Eppure un Giuseppe Lo Cascio, sacerdote di Salaparn- ta, dopo cinque anni di reclusione come penitenziato nel convento dei Cappuccini in Partanna, divenuto infermic- cio e sprovveduto di vesti, supplicava (1745) il Papa che gli concedesse di celebrare messa e ritrame la elemosi- na (5); grazia che per la interdizione del S. Ufficio non poteva concedere altri se non il Pontefice.

(i) Testamento del 23 giugno 1665, presso Notar Crisostomo Barrer da Palermo.

(2) Appartenente alV Inquisizione del S. Uffizio. 12 gen- naio 1677. Ms. Qq. F 239 della Comunale.

(3) Ms. Qq H 62 della Biblioteca Comunale di Palermo.

(4) Matranga, Relazione p. 11.

(5) Ms. Qq. 62 della Biblioteca Comunale di Palermo.

54

SECONDA CELLA

15. S. Antonio,

evente sulla mano destra il disegno d'una chiesetta, alla sinistra un giglio o non so che altro fiore. Lo fiancheggia un inno a frammenti:

In nostras 15

Humanis

Int

Voluntas.. nenibus .

Atque

Reddantur

Virtute Divi 14

Loquantur miseri

Servi et captivi.

Inter mortalia etc.

Gloria Patri etc.

Inter mortalia etc.

Sotto questa e la figura seguente cinque testine di an- geli.

Finalmente,

16. S. Leonardo,

Immagine volgare come arte, ma simbolicamente interes- sante.

Poco evidente nella prima cella, ove pur la vedemmo contornata di motti e di preci, e come pur rivedremo col solo nome, nella terza ed ultima cella, essa non poteva mancare in un luogo di pena.

San Leonardo abate fu fondatore dell'Ordine degli Eremiti: avendo impetrato da Dio la salute di Teodoreta, figlia di re Teodorico d'Austrasia, già disperata dai medici, ebbe dal riconoscente genitore di lei lo speciale privilegio di mettere alcune volte in libertà qualche prigioniero. La pia

55

SANT'UFFIZIO

leggenda, specialmente francese, narra di prodigiose libe- razioni di persone in catene mercè le fervide preghiere del sant'uomo: strepitosa quella di Martello, signore di Bac- queville nel paese di Baux (sec. XIV), il quale, preso dai Turchi e tenuto in rigorosissima captività, alla vigilia del suo supplizio, dopo una lunga notte di orazioni di lui (che n'era stato avvertito da un custode), si trovò miracolosa- mente libero nella entrata della foresta di quella con- trada (i).

Leonardo è il patrono dei carcerati, dei captivi e degli schiavi. In nessuna delle tre camere manca, raffigurato in runica dove bianca, dove nera, con lunga pazienza cadente fino ai piedi e con l'emblema tolto ai carcerati: le catene ed i ceppi. Qui, in abito nero e pazienza bianca, col crocifìsso nella destra, le catene alla sinistra, ha la inferriata d'una finestrella di carcere in questa forma : PER VIRTVTEM

iy-

■ih

<> <►

<>— H>

LIBERA NOS Mi affretto ad avvertire che santo e ferrata, benché divise tra loro, sono una medesima cosa. Anche oggi Je stampe popolari del Santo in Sicilia rappresentano Leonar-

(i) // perfetto Leggendario ^ ovvero Vita de' Santi per cia- scun giorno dell'anno. Voi. XI, p. 51. Roma, Minerva, 1848.

56

SECONDA CELLA

do nella stessa forma; abito d'eremita, catena coi ceppi al- la destra, una finestruola con grata alla sinistra : carcere in tutto e per tutto.

Se non uscissi dal mio compito, accennerei alla cintura di catene di ferro di alcune chiese di Baviera e del Tirolo, la quale è uno dei segni distintivi dei santuari dedicati al nostro Leonardo. Direi dell'analogia tra il nome del santo e la sua speciale funzione di legare e slegare; onde il vec- chio nome fr. Liénard ed il soprannome tedesco Enthin- der, slegatore; e dell'antico costume dei prigionieri di of- frire ad esso le loro catene appena liberati (i).

E però completo senz'altro la parte grafica del nostro santo.

Ricingono e coronano dal basso all'alto la immagine tanti versi ed orazioni latine quanti non se ne trovano in tutti gli altri santi delle tre celle insieme. Non tutti insieme però sono interi questi versi e queste orazioni. I maltratta- menti della calce e dei buchi degli scaffali ne hanno guasta buona parte: e la completa lettura ne riesce impossibile benché chiara e bella ne sia la grafìa.

Trciscrivo quel che mi riesce: a destra, sopra, la seguente e preghiera:

...[prò] carcere mancipatis et per martyrium S.cti Leonardi. Antiphona. Dirupistii vincula mea tipi sacrifica[bo]. Hostiam laudis, et nomen Dei invocamus (2).

(i) Richard Andree, Votive «. Weihegaben des kantholi- '•chen Volks in Sud - Deutschland, pp. 70-74. Braunsswik, 1904. A. vON Genay, Religions, moeurs et legendes, pp. 7 sg. Paris, MCVIII.

(2) Proviene dal Salmo CXV, 16-17.

57

SANT'UFFIZIO

W. Laqueus conteritus est. R. Et nos liberati sumus (i). Clementia tua D.ne lesu Christe ne moliatur [c]usos sicut libe.

15

sortales

tis ita nos

is merita

solvere

solutos tibi

vivis et regnas etc. W. Ora prò nobis S.te Leonarde. R. Ut digni efficiamur promissionibus Christi. Oremus.

Intercedat prò nobis D.ne

Sanctus Leonardus Confessor tuus Cuius patrocinio captivos et in Vinculis detentos suscipiat Per Christum D.num nostrum Amen.

B.

Una intera rappresentazione-paesaggio è questa. Varie colline si succedono e si legano l'una con l'altra. In alto alla maggiore di esse è un cittadina, con viale alberato a pini e cipressi. Sul ciglione d'una collina una giovinetta, con corona sul capo, ginocchioni, prega a mani giunte; e non lungi da lei un cavaliere che scendendo da un'altura, guadagna quella della principessa reale come per andare a liberarla. E la libera uccidendo arditamente un dragone che si contorce minaccioso. Il cavèdio è bianco e d'una corret-

(i) Salm. CXXIII, 7: Laqueus conteritus est et nos libe rati sumus.

58

i

SECONDA CELLA

tezza di disegno impeccabile; ed il cavaliere in arcione tien fermo allo slancio del cavallo e, come questo e la ragazza, delicatamente tratteggiato.

Illustrano la scena due versi:

Tu celeste Guerrier che la Don^cella Salvasti, togli me a questa tortura.

La leggenda di San Giorgio di Cappadocia vi è espres- sa in tutti i suoi particolari, dal valente e bel cavaliere al sozzo serpente che si appresta a divorare la figlia del re di Libia. Quello che a molti non si parrà subito manifesto, è la tonte di questa raffigurazione. Un quadro di Raffaello dipinto pel Duca d Urbino (1506) e da questo offerto ad Enrico Vili, re d'Inghilterra, da cui di mano in mano giunse fino a Caterina II di Russia, è appunto questa fonte.

II santo, sopra un cavallo bianco, sprofonda la lancia sul mostro, per salvarsi dal quale la principessa in ginoc- chio implora soccorso dal Cielo.

Nelle colline boschive del fondo si distinguono da lon- tano i dintorni d'una città.

Intermedia all'originale ed a questo disegno può essere stata una delle tante stampe che del quadro raffaellesco vennero eseguite: ed una, quella del des Granges, è del 1628 (i).

(i) Su questa leggenda esiste una letteratura, nella quale entra pure per la Sicilia un libro di G. BennicI: Giorgio di Cap- padocia. Una delle ultime parole su di essa è stata detta da Fr. Delitzsch, Babel und Bibel, traduzione italiana di Fr. Mari- nelli, pp. 52 e sgg. Torino, Bocca, 1905.

59

SANT'UFFIZIO

Una vera profusione di croci e di calvari è nelle due pareti, non tutti appariscenti, ma tutti così facili a distin- guersi e così differenti tra loro da ammettere tanti autori quanti essi sono.

La si direbbe, questa, tra le esplicazioni dello spirito àei prigionieri, la più ovvia come quella che richiama al simbolo del cristiano riscatto ed alla incarnazione del dolo- re. Cristo, ingiustamente condannato, crudelmente marti- rizzato, sublima gli uomini che immeritamente soffrono; e tali erano o dovevano essere o reputarsi i reclusi delle no- stre celle. L'ambiente, peraltro, era quello: ed il giorno dell'inventario dell'abolito tribunale di croci e crocifìssi ne furono notati dodici.

Rilevanti tra le croci di queste celle una su base pirami- dale. Sull'asta trasversale si legge, avanzo di una isciÌ2,io- ne perduta: Me libera, e da uno dei lati pendono tre dadi, ricordo di quelli coi quali fu giocata la tunica del Redento- re; e in giro la spugna, i chiodi, la scala, gli strumenti tutti della Passione.

Un'altra è un calvario con tre croci, ciascuna sopra una base come quelle che venivano dipinte o trapunte nei gon- faloni della nobiltà detto Guione o stendardo reale. Quella di mezzo ha una figurina di Cristo (i), parte distrutta, mediocremente disegnata e, nell'asta trasversale, il motto apparso con la croce a Costantino:

IN HOC SIGNO vinces

Quella di destra:

DISMAS.

(i) Vedi neWAtto pubblico di jede del Mongitore la se- conda tavola, il gonfalone che precede il n. 2.

60

SECONDA CELLA

Quella di sinistra:

EGE....

Alle basi delle tre croci sono raffigurati il mondo in un globo, la carne in un teschio incrociato dalle solite ossa lunghe; e il demonio, in un brutto ceffo cornuto, unico e- sempio di raffigurazioni diaboliche in questi luoghi.

Alle tre basi, in forma di voluta:

O MAGNVM PIETATIS OPUS

e sotto, come titolo o motto generale, la profezia Osea:

IN DIE TERTIA SUSCITABIT [NOS] (i)

Una terza croce meno particolareggiata ma più ornata è di faccia a chi entra, sopra la pianta della Sicilia, ad un metro e 22 dal pavimento. Piantato in croce è Cristo, ed in giro: i. Cuius; 2. un motto illeggibile; 3. Prati... Chiare indicazioni della base : Anno Domini 1674 ^*^ 21 le, e sotto, in carattere corrente e negletto:

M.A.TTEO CU

nome sul quale tornerò. Quella data si agggira intorno al tempo da me sopra indicato.

Sparse qua e sono facce quali barbute e quali mu- liebri, quali piccolissime e quali metà del naturale ed anche piìi. Vi sono due punti, presso l'angolo sinistro della stanza^ nei quali le teste sono sovrapposte in linea verticale l'una all'altra. Tre fra le altre sono di figurine complete, ed alle

(i) Prophetia Oseae, e. VI, v. 3.

61

SANT UFFIZIO

apparenze si direbbero eseguite a matita. Una al lato man- co della finestra è di uomo in veste talare con una croce ad una mano e spada all'altra, probabile stemma della In- quisizione, che avea spada ed ulivo.

Un'altra, al lato destro, un prelato, che sa del vescovo e del santo. Una terza, specie di canonico, forse a ragion veduta, è tozza; e certo dev'essere stato un bozzetto d'un ecclesiastico molto noto del tempo.

Dopo queste ed altre figure sulle quali non occorre al- trimenti fermarsi, pochi righi, tolti di peso al libro di Giob- be, danno la descrizione del luogo:

Haec est terra tenebrosa et operta mortis caligine, Terra miseriae et tenebrarum ubi umbra mortis et nullus ordo sed sempiternus horror inhabitat (i).

Chi descrive così il doloroso ospizio, è il medesimo che si rivolge a S. Pietro, a San Giorgio e ad altri santi. La sua persistenza non è fittizia convenzionale. La cella è o- scura, piena di miserie e di orrore. Lo spettro della morte vi si aggira pertinace.

In forma ironica, estremamente rara, anzi, unica in tut- te le celle, questo giudizio è ripetuto. E' il solo scherzo che i carcerati si son permesso: scherzo che mal nasconde

(i) « Antequam vadagli et non revertar ad terrani tenebrosa»', et opertani mortis caligine :

(( Terrani tniseriae et tenebrarum, ubi umbra mortis et nuU'Us ordo, sed sempiternus horror inhabitat » : Job X, 21-22.

62

SECX)NDA CELLA

la amaritudine intema. La non breve nota offre leggibili le seguenti parole:

Questa è la migliore casa per esser la più humana... la più lucida

insomma piangendoci qua le cose.

B.

E vengono i motti e le sentenze, in latino e in volgare, in prosa e in poesia.

In alto della parete di destra, dentro uno scudo rag- giato :

PANIS

ANGELI-

CVS.

Vicino un cipresso:

Ecclesia in

redeuntibus.

Presso una croce:

QUIES

lUDICA ME DOMINE

ET CAUSAM MEAM

e segue un passo latino, che dovrebbe riportarsi al salmo VII, verso 9: judica me Domine, secundum justitiam et secundum innocentiam meam super me; e al XXV, i. lu- dica me. Domine, quoniam ego in innocentia mea ingressus sum; et in Domino sperans non infirmabór.

Il judica causam meam era stato preso ad imprestito come motto dello stemma della Inquisizione.

63

SANT'UFFIZIO

In forma sentenziosa è la desolante domanda:

CUR DEVS NEGAT VITAM SV[P]ER- BIS?...

Riappare qui, ma di altra mano, il

Foelix quem faciunt olia.... Casus de[xten?]us fit sapientis.

della camera precedente; e sotto:

lesus dominus....

B.

Questa iniziale è la solita delle principali figure artisti- che o intenzionalmente tali di una metà della stanza. E sotto ancora:

BEN felice colui che può chiamare

... ser accorto a le altrui spese imparare. h

Sotto la immagine di Santa Eufemia:

QUOD NON CAPUIT ....POTIUS.

Sotto quella dei Santi Cosmo e Damiano:

CUIUS STATU[TA] ET SI HUMERI SUDABUNT FONDERE

[MAGNO HEU... UNI... GLORIA MAGNA MIHI.

All'angolo delle pareti occidentale e meridionale: CUI PER SUA RARA SORTI...

Forse l'autore aveva aggiunto : <( uscirà da questo carce- re, potrà dirsi felice ».

64

SECONDA CELLA

Di somma importanza pel suo significato è la seguente raccomandazione in alto nella parete destra:

Innocens noli te culpare; Si culpasti, noli te excusare; Velum detege, et in D.no Confide.

E la sua importanza comincia dalla prima proposizione e finisce alla terza. Quella che pare superflua, la prima, è una rivelazione; giacché suppone che il povero inquisito a ragion dei tormenti si accusi di colpe non commesse : di che sarà detto nel cap. VII del presente studio, mentre ci può essere chi avendo errato venga mendicando delle scuse e delle giustificazioni; la verit anzitutto {velum detege), e fiducia e confidenza nella divina giustizia e misericordia (in Domino confide).

Quanta moralità in così poche parole!

Qualsivoglia lode a questa sentenza ne guasterebbe gli intendimenti elevati.

Altro spazio verso l'ultimo dei cipressi ha sei elequenti parole :

Fa cuntu comu havissi vinutu hora.

ridotte a cinque a poca distanza:

Fa cuntu chi vinisti hora :

scettico ammonimento a chi può aver ricordato che molta tempo di prigione è già passato senza che la liberazione sia giunta. Anche le parole siciliane si addensano, ma non si riesce a comprenderle. Ed altre ed altre ancora

65

5 G. PITRÈ- Sant'UffJxlo.

SANT'UFFIZIO

se ne vede dentro una delle sopra descritte teste, inconi:- prensibili tutte se non voglia interpretarsi quello che dice:

sugnu ntra . . . srai ( ? ) li iucaturi chiddi di ...nenti su...

nel senso forse che non siamo noi quelli che... ma i gioca- tori.

In quattro linee piramidalmente segnate sono le lettere minuscole dell'alfabeto fino alla lettera t. Due volte appari- sce il nome di

MARIA

non sappiamo se in omaggio alla madre di Dio o in ricor- do di persona cara: bel nome sempre.

Alla base della parete destra, uno scrisse:

Fari Asino,

e fu il più pratico, come volendo imporsi o consigliare la linea di condotta da tenere di fronte ai carcerieri o agli in- quisitori. Questa mano segna una iniziale, S., che può na- scondere il nome d'un penitenziato : nome non unico quan- do si guardi con la massima attenzione tutta la cella.

Nella cela precedente, sotto la figura d Santa Rosalia, abbiamo trovata una mappa topografica della Sicilia.

Un riscontro è in questa. Le due mappe, apparentemen- te identiche, non hanno nulla di comune nella loro origine, per quanto l'idea della cosa ed alcune parole di avvertenza in entrambe possano iux credere il contrario. Certo, le mani che le eseguirono erano di uomini che avevano fresca alla memoria la topografia dell'isola; e gli errori di distanze ed

66

SECONDA CELLA

anche qualche inesattezza di ubicazione di città sono facili a spiegare e non indegni di compatimento. Un cartografo avrebbe da dire sulle carte in parola; ma come si poteva far di meglio nel secolo XVII a disegnare al buio senza mo- dello e senza libri? Forse per questo tanto il primo quanto il secondo chiedeva venia; quello con un'avvertenza in italiano, della quale sono leggibili solo le prime parole; riuscito a leggere e qui trascrivo:

Cui fici sta Sicilia nun la

cumpliu ne ci misi li òt- ta e Terri di li Muntagni

pir nun sapiri li Ioni veri nomi, e siti.

Cui li sa ci iungiri [iddu] lu resta [a mimorjia.

Non v'è data; ma ragioni cronologiche permettono di fissaria posteriore alla invenzione del corpo di Santa Rosa- lia (1624). V'è poi un argomento capitale: la microscopica pianta di Palermo con le due grandi vie Macqueda e Tole- do incronciantisi a Piazza Vigliena.

Ma com'è potrebbe chiedersi - che una quasi me- desima avvertenza sta a piedi tanto dell'una quanto dell'al- tra pianta della Sicilia? Anzi, com'è che a due uomini, in celle diverse, sorse il pensiero di disegnare la Sicilia?

Il come è facile a capirsi se si terrà presente che i car- cerati erano talvolta obbligati a mutar cella. Un esempio ce l'offre la iscrizione latina ex alia aula.

E così si spiegano le molte figure di santi sulle due cel- le, le quali però riconoscono mani diverse; eoa certe ripeti- zioni che è dato rilevare in due o tre di questi luoghi.

67

Capitolo IV. TERZA CELLA

OME ho già detto, la parete occidentale di questa cella venne tagliata e ridotta ad arco; poco, perciò, o quasi nulla è stato dato scoprirvi: e questo poco si ri- duce ad una grande croce, frastagliata da lavori posteriori e fiancheggiata da versi, che formano uno dei maggiori rilievi della cella. La parete meridionale è, come le altre, interrotta dalla finestra.

In alto, a tre metri dal pavimento, è una grande figura, che sembra una di quelle di scorretto disegno che sogliono vedersi sui muri estemi, opera di monelli privi affatto di arte.

Più sotto a un quasi medesimo livello sono disegni e fi- gure in vari tempi sovrapposti ad altri disegni e ad altre figure. E' sempre la solita pratica dei carcerati di trar pro- fitto da qualunque spazio, anche a scapito dei disegni che trovano. Una rassegna sommaria presenta un tempietto o

68

TERZA CELLA

cappella, guardata da due figurine di santi, e Maria nel mez- zo, come formanti trittico.

Sopra, da un lato, il motto di Giobbe (i):

[Militiaj Est Vita [hominis] super Terra m,

e un doppio cerchio con entro una immaginetta, forse della Madonna, e una testa non qualificabile, e da presso:

te Deo carcere.

La Madonna, in piedi, ha le mani giunte in atto di pre- gare. La cappelletta ha al di sopra, in fuori, un angelo del lato, forse di posteriore fattura, così :

Da esso parte un motto biblico, in caratteri grandi, che occupano la lunghezza d'un metro circa:

[ECCE] VENIT [I]AM DIES

DESIDER [TAJ SPERATA (?)

V[ALDE] (2).

(i) Job. Vili. I.

(2) «Ecce dies venient, dicit Dominus » : Hebr. 2, 13.

69

SANT'UFFIZIO

In mezzo alla confusione sottostante si possono a fatica discernere tuniche e vesti di santi e di sante sormontate da teste più antiche e piccolissime, piantate sul petto e sulle spalle di quelU.

Un S. Albertus scorrettamente disegnato, con una mitra papale, un ramo d'albero a destra. Allato, attorno, pissidi, testoline d'angeli, ornati d'ogni maniera, greche, iscrizioni si urtano e scalzano l'una con l'altra, senza peraltro farsi distinguere. Una testina è come per affacciarsi di mezzo al disordine. Miglior fortuna non hanno nomi, parole, cita- zioni sottostanti. I ritocchi e le rifazioni si sono estese an- che ad esse. Un nome è diventato un altro, una figura un'altra. Un S. Bernardus, è impostato sotto questa figura :

Sotto di tutto e di tutti spicca la strana e rozza imma- gine d'un uomo con cappello spagnolesco, lunga zazzera, calzoni a mezza gamba e mano tesa verso una nave, con la quale però non ha relazione.

Il medesimo disordine regna all'altro lato della finestra, ove però si levano due figure irriconoscibili: una di un santo

70

TERZA CELLA

con la sfera in mano, il quale arieggia un S, Francesco Saverio; l'altra a colore e la indicazione:

j«»

[PJatriarca,

e fiancheggiano le basi d'una figura di S. Dominicus

con abito, cioè lungo manto, nero, e stretta e lunga pazien- za all'esterno. In corrispondenza alla vita si legge:

SPECVLV[M] DOCTRINE li

ET SVRIANENSIS GLORIA

In alto ancora:

ECCLESIAM TUAM

MIRARE DIGNITUS ES AIU

MERITIS ET DOCTRIN...

Di tanta oscurità ci compensa una bèlla rappresenta- zione. Un eremita coperto di pelle sta sotto una palma. E' S. Giovanni nel deserto, ben disegnato al pari dell'albero che leva superbamente in alto le sue fronde, d'un colore verde cupo.

E qui è bene notare che non questo soltanto è il colore delle figure della presente cella. Nella parete rispondente al muro orientale i colori son tre o quattro, tutti diversi, e due molto vivaci. Per la loro superficialità son da riportare agli ultimi del Seicento, ad un periodo cioè, nel quale ai

71

SANT'UFFIZIO

carcerati potè esser, non lecito ma Isisciato passare qualcu- no di quei colori; giacché dove alcune delle molte figure della medesima parete sono parte o tutte scrostate, il colo- re più antico, primitivo è il comune scuro e giallo scuro.

E vengo a questa parete, che, a parte il disordine di fi- gure e di motti, è un piccolo poema della psiche dei reclusi. In questo piccolo poema bisogna saper leggere e meditare.

Due grandi figure si estollono dal livello ordinario, di cui la seconda è una testa spagnolesca coperta da un cappello cardinalizio, col famoso toson d'oro pendente da esso, e su di esso un angelo di linee scorrette, in atteggiamento di vo- lare in alto.

Siamo in pieno Seicento; e nel Seicento la Sicilia ebbe dieci cardinali: primo Giannettino Doria, ultimo Francesco Giudice, arcivescovi l'uno di Palermo, l'altro di Monreale. Ma di essi dieci nessuno, meno del Moncada, fu palermita- no, nessuno ebbe il Toson d'oro.

Luigi Guglielmo Moncada Principe di Paterno (1614- 1672) fu Presidente del Regno, e venne assunto al cardina- lato nel 1667; anno compreso nel periodo in cui questo car- cere fu popolato di sofferenti. Dei quali qualcuno può bene aver pensato al grande patrizio siciliano, che, dopo rappre- sentata molta parte nel governo di Sicilia, di Sardegna, di Valenza e nella corte di Madrid, carico di onori, all'apice della sua potenza, mortagli la moglie, abbracciò la vita ec- clesiastica nella quale colse nuovi, luminosi allori. Può avervi pensato per la sa altezza politica ed ecclesiastica, forse come ricordo di conoscenza, forse come desiderio di protezione, forse come ragione di studio; giacché il Monca-

72

TERZA CELLA

da tu poeta vernacolo, ed i suoi versi sono nelle Muse si- ciliane del Galeari-Sanclemente (i).

Una successione di santi e di sante compone questo spa- zio, una volta bianco. V'è

S. GREGORIUS,

in parte scomparso sotto la figura di altro santo, col basto- ne alla mano sinistra e con la destra al petto : pare un San Francesco di Paola. V'è

S. SEBASTI ANUS.

ignudo, trafitto da frecce. Una figura rossa fu dipinta su di esso, ma S. Sebastiano rimase, com'è ora, visibile. Quella figuura ha lasciato le tracce del cordone d'un santo eremita. V'è

S. ANGELUS CUSTOS,

sovrapposto ad altra figura più antica, la quale è a mala

pena visibile:

CA ARA,

una santa, avente innanzi una torre. V'è S. MARIA MAGD ALENA.

dalla testa non messa alla scoperto e dal solito colore rosso

degli abiti.

S. CRISTINA,

figura la meglio conservata Un'asta di bandiera sottostaitte ha fatto scomparire le lettere Cr del nome, forse precedente- mente scritto. Codesta figura ha ai piedi la ruota, emblema della santa fanciulletta.

(i) T. II, ]>artc 2'\ Palermo, 1647 e 1662. Di lui può vedersi quello che scrive il Mongitore, Bibl. sic,. t. I, p. 18. Panormi, MDCCVIII.

73

SANT'UFFIZIO

Qui è la più schietta rivelazione degli inquisiti : il gra- fito, cioè, dianzi riferito col titolo :

[GALERA]...

Sotto un oscuro frammento:

...ERVM L CA. MISERERE

che io leggerei così

[V]ERVM -L- -CA,

ovvero

[HEU ME MIS ERUM MISERERE [MEI]

sono ornamenti senza significato apparente, e poi una Ma- donna seduta sopra una cassa portata sulle spalle da due vecchietti. E senza dubbio la Madonna d'Odigitria secon- do la forma classica.

La tradizione classica popolare la richiama fedelmente con la immagine che ne corre finora in Sicilia. Una delle stampe tradizionali più comuni rappresenta due uomini con una corta tunica legata alla cintura ed un bastone l'uno in mano per sorreggere il peso di una Maria col Bambino Gesù. Di mezzo ad essi si scorge lontano sul mare una nave, che poco prima aveva trasportato il prezioso peso.

Una mano, che potè appartenere ad una S. DOROTHEA,

ora scomparsa, guida una bambina, che regge dalla coda un pesce; buon argomento di ricerche per gli agiografi.

Un Crocefisso ben disegnato in rosso ha sotto, ma non come iscrizione che lo riguardi, un motto delle Confessioni di Sant'Agostino:

74

TERZA CELLA

Hic ure, hic seca, ut in aetemum parcas. Augu.;

motto di un povero rassegnato, nella cui bocca Vure ha realmente un significato non rettorico.

Tanta santimonia viene interrotta da un elc>quente mot- to siciliano:

O tu chi trasi[ccà] chi s[peri?].

E' il noto concetto dantesco, che incontreremo più sotto.

Sul nudo strato di calce primitiva, nel bel mezzo, vien fuori chiara e bella la data:

1646

che vuoisi riportare alle due altre del 1643 e 1645 della pri- ma cella.

Qui si erge maestosa ma scorretta la figura, grande qua- si quanto il vero, di S. . Michele Arcangelo in forma di guerriero, i capelli spioventi sulla spalle, il torace coperto da corazza, tonachella a mezza coscia; la destra ferma su d'una lunga lancia piantata sopra un minaccioso dragone che si avvolge in ispire molteplici per addentarlo.

Verso il capo di Santa Dorotea un angelo male abboz- zato con le braccia slargate regge un nastro a questo modo :

75

SANT'UFFIZIO

V'è il nome di

S. LEONARDUS

ma il santo non si vede, e dev'essere dipinto sopra un bian- co sottostante, prima delle figure che ora scompariscono. Si vede bensì in carattere corsivo ordinario:

Sancte career em

Leonarde islam

ed in caratteri sei, sette volte tanto :

PAX PATI.

Tre eleganti figure di giovani, tutti e tre egualmente ve- stiti, tutti e tre con palma alle mani, fanno pensare a tre fratelli che abbiano ricevuto il martirio per la religione di Cristo. Io non uscirei dalla Sicilia per trovarli; giacché la parola

VASCOGNIA,

segnata ai loro piedi, per indicare un mare sottostante e che forma come il grande zoccolo di questa e di un'altra pa- rete, rivela senza dubbio la patria dei tre cavalieri: Alfio, Filadelfio e Cirino santi patroni di Lentini, ove an- che oggi hanno ufficio divino proprio (i).

E siamo all'angolo della parete.

Un disegno che passerebbe inosservato se un minutis-

(i) È notevole questo: che non solo in Lentini essi ebbero ed hanno uffizio proprio, ma anche in altre città di Sicilia ^ particolarmente nella diocesi di Siracusa.

Vedi Officia propria Sanctorum prò archidiocaesi syracu- sane a S. Rituum Congregatione approdata usqtie ad annuii MDCCCLXXXVI , sotto il giorno X maggio, pp. 236-39. Syra- cusis, Typis Andrea Norica, 1886.

76

TERZA CELLA

simo esame non mi avesse indotto a percorrere con grande attenzione ogni insignificante spazio di questi luoghi, mi è parso una delle più pietose rivelazioni. Non ligure di tor- mentati e di tormenti, non parole amare, ma un banco con sopravi una croce, un campanello e un libro aperto nel mezzo. Due angioletti attorno alla croce, e come la figura d'un prelato seduto iimanzi. La scena, nella imperizia dell'autore, è d'una evidenza ed efficacia impareggiabile. Siamo in un Tribunale, probabilmente nelle profonde stanze della tortura. V'è il banco, v'è il campanello, v'è il messa- le, sul quale l'imputato giura di dir la verità; non vi manca, se non l'imputato, ma una voce ignota, debole, fioca come d'oltretomba si leva da quella muda e pregare il Signore per lui. Alla base della croce con inadito stento ho potuto leggere:

Beatissime

lesu libera

eum ne pe- reat.

Oh si! ci vuole tutto l'aiuto divino perchè egli non si confonda al capzioso interrogatorio e resista ai tormenti!

Fino ad un metro e più dal pavimento per la estensione di tutta la parete, e di metà della meridionale sono sparse galere, galeoni e legni differenti, a livelli svariati non sa- puti o potuti significare dall'autore per mancanza d'arte e di colori. Se ne contano fino a quattordici di diverse dimen- sioni, quali semplicemente mercantili, quali regie e da gyerra. In quasi tutte si vedono sporgere, dall'opera morta^ de' remi; le vele, dove sono tutte, dove in parte ammaina- te; tutte però hanno bandiera ed orifiamma immancabile in tutto questo.

n

SANT'UFFIZIO

Una di queste navi sembra più importante delle altre, ed è in pieno assetto d'equipaggio. In cima di ciascun albe- ro è una bandiera, e presso la bandiera, come per sorreg- gere l'asta, un marinaio, quando, come nel pennone obli- quo, a cavallo, quando, come nel trinchetto e nel maestro, in piedi. Tutto il legno per altro è popolato di marinai ed uno, nel centro della parete orientale, sotto la Santa Cristi- na, ha un equipaggio in moto a far terzaruole, a mettersi in panna, a fermarsi sulle coffe.

Questa scena si presenta un oscura, perchè non vi prevalgono caratteri che ne aiutino la qualificazione.

La indicazione Vascognia dianzi cennata è abbastanza vaga. Che voglia l'autore aver rappresentato il Golfo di qualla regione della Francia? E quale pensiero recondito pub aver suggerito a lui tanto mare e tanti legni?

Nessun altro, io credo, che questo: la condanna alla galera nel senso primitivo della frase. Non si dimentichi che essa era comune; e poiché vi erano dei recidivi, questi potevano aver provata la vita amarissima del galeotto dan- nato a vogare, rasa la testa e i piedi nudi.

si dimentichi un fatto di una certa importanza; ed è che i condannati, penitenziati alle galere, scontata la pe- na, dovevan tornare al S. Uffizio, arbitro della loro sorte avvenire. Il Re Filippo II vi faceva (1568) attenzione spe- ciale non già per la consegna al Tribunale, la quale andava da sé, ma perché i forzati al remo venivano trattenuti ndle galere oltre il tempo della loro condanna (i).

Questo, a mio avviso, il probabile recondito pensiero ispiratore del panorama marittimo.

(1) Bestini, op. cit., p. 24. 78

TERZA CELLA

In due punti del quale, nella parete principale ed in quella del mezzogiorno, danno nell'occhio due iscrizioni in carattere intenzionalmente ebraici, misti a caratteri greci; cosa strana, che si presta a commenti svariati sopratutto per la ricerca degli autori di esse, e che si potrebbe spiegare così; o che l'autore fosse uno dei più dotti ecclesiastici del tempo, anche venuto da Roma o da altro dei più colti cen- tri d'Italia, come molti di questi ecclesiastici si aveva spe- cialmente nel clero regolare, o che egli fosse un giudaizzan- te in ritardo.

Questa seconda ipotesi non deve sembrare arrischiata, perchè una delle preocupazioni maggiori del Tribunale del- la Fede era quella dei professanti principii e riti giudaici. In 458 rilajiciati al braccio secolare dal 1487 al 1732 non meno di 182 furono, veri o supposti, neofiti giudaizzanti, bruciati in |>ersona o in istatua. Il noto inquisitore D. Antonino Franchina, apologista della Inquisizione, fece rilevare l'uti- lità del Tribunale dalla grande vigilanza di esso nello estir- pare l'Ebraismo. « Se non in pubblico, almeno in priva- to », egli sgrammaticava, « si avrebbero eretto le sinagoghe e gran numero d'anime si avrebbe privato del frutto del sangue di G. C. Onde co' fulmini di più sentenze n'ha molti consegnati alla morte, e così questa Inquisizione ha tenuto esiliata da questa Isola la mosaica superstizio- ne » (i).

Non c'è da opporre che il secolo di codesti neofiti, quel- lo cioè che seguì alla brutale espulsione degli Ebrei dell'I- sola, fosse tramontato del tutto, perchè nel secolo XVII, al

(i) Franchina, Breve rapporto, cap. II, p. 43.

79

SANT'UFFIZIO

quale appartengono queste celle, si ebbero due rilasciati al braccio secolare; e di condannati a varie pene, non sappia- mo a quanto giungesse il numero, essendo i penitenziati giunti a nostra conoscenza un piccolo numero della cifra complessiva. Gli Inquisitori compievano atti di fede priva- tamente dentro le loro sedi, e non ne facevano trapelar nul- la, sempre, sintende, con l'ipocrita carità di non gettar macchie d'infamia sulle famiglie colpite nei loro cari.

Come che sia, le iscrizioni son lì, ed attestano che dei condannati in quelle stanze avevano velleità (dico velleità) ebraiche e greche.

Noi ci avviciniamo alla fine della multiforme rassegna.

Sulla veste d'una delle sante, in sottilissimi, microsco- pici caratteri, è una lunga scrittura, impossibile a leggersi, anzi a indovinarsi. Solo qualche parola isolata e perciò inconcludente è dato scoprirne. L'autore dovette consacrar- vi una storia di lacrime; ma nessuno potè mai vederla, a- vendo egli usato una punta acutissima di ago o di spillo.

A pochi centimetri da questa nota, altra molto più anti- ca, perchè vien fuori dallo scrostamento di alcune imma- gini del medesimo tempo di essa, la seguente iscrizione:

A DI... DI MAIV

NON SI PO PIR...

F CHE E CALA.

Grandi grafiti presso l'attuale porta d'entrata, che po- trà essere stata anche la prima nel Seicento, in un posto che pare fuori di quello del carcere, si leggono così: G. BATTISTA GRADU DI MISSINA 1632 THOMASI RIZZO DI MISSINA,

ed un terzo nome che non si riesce a capire.

80

TERZA CELLA

Sul mare, presso una delle iscrizioni in caratteri inten- zionalmente orientali, sono tre ottave siciliane, non divise luna dall'altra, in gran parte scomparse anch'esse dalla su- perficie liscia sulla quale vennero come buttate.

Difficilmente si spenderà tanta fatica quanto ne ho spe- sa io per istrappare alla ingiuria del tempo, al riserbo dello scrittore, ed anche agli inevitabili ostacoli il segreto di questi versi. Tutti i mezzi per completare una parola, un verso, furono da me adoperati. Di quasi due delle tre ottave fui fortunato di farmi padrone; e della mia tena- cità sono oramai contento, se essa mi ha messo al corrente d'una parte dei pensieri di chi li affidò alla lacrimosa parete.

I versi dicono questo:

vui e disiati

di farici la forti violenza

e circati ammazza rili, e mustrati

haviri risolutu cu prudenza

chi prestu (?) sarriti vindicati

ndi divunu autri di chista sintenza

e quanti sindirannu rubricati?

dannuci la dovuta penitenza.

Ma si pigghia un consigliu provatu Ma si pigghia un consigliu provatu lu mitt[iriti] in gran confusioni di farilu murili disj:>eratu tra un pelagu di chianti e afflitioni; viditi s'iddu ha fattu alcun peccatu di farlu dannati di la Inquisitioni [e] sbriugnari lu so parintatu fina a la quarta generationi.

8i

6 - G. PURÈ - Sant'Uffizio.

SANT'UFFIZIO

Volendo stare alle parole, alcune cose ci sfuggono; ma il pensiero è più che trasparente. Voi, dice l'ignoto ver- seggiatore, che affliggete tanti sventurati, e mentre fate loro delle dure violenze, cercate ucciderli pur dando a vedere di aver prudentemente deliberato, pensate che sa- rete presto largamente vendicati? perchè molti altri séiran- no vittime della vostra sentenza; e chi sa quanti ancora ne andrarmo rubricati con la penitenza loro dovuta! Però se uno sciagurato prende un consiglio provato (?), voi lo metterete in gran confusione, e lo farete morire disperato in un mare di pianti e di afflizioni. Ora invece pensate bene a quel che fate: vedete se egli abbia peccato per me- ritare la vostra condanna, che, getta la infamia sul suo parentato fino alla quarta generazione.

Qui è un monito severo ai giudici, che però non lo avranno saputo mai; e, se saputo, punito. La violenza mes- sa in opera da loro al fin di ottenere una confessione di colpa, non cerchiamo se commessa o no, accusano tutto un sistema procedurale imposto da leggi emanate dalla sede centrale di Spagna, dalla quale la Inquisizione di Sicilia, meno i pochi anni di regno di Carlo II, in tutto e per tutto dipese.

Altro penitenziato sentenzia su chi cerca il male altrui:

Cui la malannu so tenta e procura lu dannu d'autru pri so malu inditiu La sgarra, nun fa nenti [ad ogni ura], Si sapi, e poi si metti in precipitiu.

Come si vede, manca la seconda parte della stanza, ma chi ricorda i versi della prima può bene completarla,

82

TERZA CELLA

benché tra questi quattro versi e i primi quattro di quella ottava esistano delle varianti.

Questo riscontro di un medesimo componimento fa pensare ad una cosa, che peraltro risulta dalla nota latina della prima cella che principia così: de die... Martis.

Certo, in queste celle avvenivano dei mutamenti di carcerati. Da una un medesimo condannato o come vo- gliono dirlo carcerato, passava in un'altra, e portava con pensieri, dolori e lamenti. Può ben darsi che la ottava faccia parte dello sterminato corredo poetico del Seicenio, e che pili persone la sapessero a memoria, ma io credo che una medesima mano l'abbia scritta dopo averla composta. La variante può esser sua.

Non si deve escludere, peraltro, che i carcerati delle varie prigioni avessero comunicazioni tra loro; espediente cercato e messo in opera non da essi soltanto, ma da tutti i carcerati che han bisogno di intendersi non potendo ve- dersi; e già nel 1525 l'Inquisitore supremo D. Alonso Manrique ne faceva avvertiti gl'Inquisitori di Sicilia (i).

Questa ottava è affidata alla parete destra, di faccia alla grande requisitoria in versi presso quello che ora è arco. Ma ben più grave, e addirittura terribile, è la de- scrizione che altro poeta fa del presente carcere e delle pene alle quali son condannati i reclusi. Io benedico ai

(i) H. Ch. Lea, The Inquisition in the spanish Dependen- cies: Sicily, Naples, Sardinia, Milano, ecc., p. 523. New York, the Macmillan Company, 1908.

La parte siciliana è compresa nelle pp. 1-44, senza una no- tizia nuova, tutto essendo preso dal lavoro di V. La Mantia.

83

'sant'uffizio

sette lunghi giorni di ricerche e di indagini che mi misero in grado di fare la completa lettura di questa descrizione;

Chistu è lu locu chi cui trasi cridi L'afflitioni e pena che si pati. In chistu locu si discerni e vidi la pera nimicitia e crudeltati; chà sunnu li lamenti chianti e gridi chini di l'armi a l'infernu condannati cnà l'homu si dispera pirchì vidi chi fui in gioventù la liberta ti.

Cui trasi in chista orrenda sepultura vidi rignari la [gran] crudeltati unni sta scrittu alli segreti mura : nisciti di spiranza vui chi ntrati; chà non si sapi s'agghiorna o si scura, sulu si senti ca si chianci e pati pirchì non si sa mai si veni l'hura di la desiderata libertati.

Qualsivoglia commento guasta. Non è un uomo che parla, è un cuore che geme, un'anima che grida dalla tomba nella quale il suo corpo è stato sepolto vivo: un'ani- ma straziata.

Giammai fu ricordato più a proposito il verso dante- sco: «Uscite di speranza o voi ch'entrate»; giammai fu fatta più fine distinzione tra il senso della vista e il senso dell'udito. Nell'orrore delle tenebre di quella bolgia, il poeta non vede il giorno o la notte; sente solo il pianto di chi soffre. In tutta la letteratura dialettale dei Seicento non si trovano versi più caldi di passione di questi.

A chi possa attribuirsi poesia così profondamente sen- tita vedremo nel capitolo seguente.

84

TERZA CELLA

E frattanto, considerate lo stato psichico di questi po- veri penitenziati!

Sconfortati dalla prigionia alla quale soggiacciono, in- tormentiti ancora dalla corda che hanno subita, forse non hanno speranza di nulla; eppure sperano e nella amarezza presente sognano conforti avvenire. Credono d'aver fi- nito di vivere e sono assetati di vita. La stanchezza del- l'abbandono e la trepidanza delle incertezze hanno per loro giorni d'una inquietudine che è tormento, d'un ansia che è aculeo. Ma nel fosco orizzonte spunta a quando a quando una nuvoletta bianca, ed a traverso di essa un filo di luce onde penetrerà un fascio di raggi d'oro. Oh sì: quel sole che pareva tramontato per sempre, tornerà ad illuminare le facce scialbe di tanti cuori desolati! L'eco già spento delle cose del mondo, soppiantata dai lamenti di sventu- rati consorti, si rianima e si rinforza; e voci distinte di dolci congiunti e di amici diletti tornano a carezzare il loro orecchio. La terra ha profumi soavi, intensamente soavi anche per loro: il sogno diventerà realtà!

L'ignominia che derivava all'imputato ed ai suoi suc- cessori dal semplice arresto per opera del S. Uffizio, più d'una volta misero in attenzione i partigiani stessi ed i trattatisti di quel Tribunale sulle disastrose conseguenze. Uno di esso ammoniva : « Nel carcerare i rei bisogna usare grandissima prudenza, perchè la sola carceratione per lo delitto d'heresia apporta notabile infamia al cercerato » (i).

Ed un altro : « Il voluto reo suole arrestarsi e chiu-

(i) E. Marini, Sacro Arsenale, Roma, 1639, part. io, art. 42, p. 316.

85

SANT'UFFIZIO

dersi nelle carceri laicali ed anche ecclesiastiche dell'ordi- nario, ma non in quelle dell'inquisizione affine di evitare la infamia in caso di non provata reità » (i).

Ma erano scrupoli eccessivi, che non avevano presa negli animi dei preposti a quel dato ufficio di inquisire; e se non fino alla quarta generazione, come deplora il pian- gente poeta, fino alla terza un marchio d'infamia li colpiva.

E non solo l'infamia, ma anche la interdizione ai pub- blici uffici, la povertà e la miseria.

I discendenti dei bruciati o dei condannati a vita ri- manevano inabilitati, interdetti, privi di personalità giu- ridica; la loro incapacità poggiava appunto sulla infamia patema od avita.

Non senza dolore si legge nei mss. della Biblioteca co- munale di Palermo il seguente documento relativo ai figli dei neofiti o rilasciati o condannati al carcere perpetuo. E' un editto dell'Inquisitore spagnuolo Calvete in Palermo:

« Nui lu docturi Tristan Cai veti Inquisituri. Perchè mi è stata facta relacioni che multi neofiti non compliscino la forma di li sententii lati per lo Sancto Officio di la Inqui- sicioni, li quali non ponno teniri officio, beneficio ecclesiastico seculari, essiri medichi, advocati, pro- curaturi, notari, spiziali, banchieri, mezani, arrendatarii, teniri altro officio di honuri et jurisdictioni, portari su- pra di loro persuni oro, argento, coralli, perni, petri pri- ziusi, vestiri sita, grana iambillocto, cavalcari cau

(i) Card. Albizio^ De incostantia in fide. Amstelodaoni, 1683, capitolo 14, n. 26. Vedi pure Amasele, Il S. Officio della Inquisizione in Napoli, v. II, cap. IV. Città di Castello, 1892.

86

I

TERZA CELLA

valli, portali armi. Pertanto si notifica et comanda a tucti li fidili christiani li quali alcuna persona reconciliata ai figli di heretici relaxati per linea masculina per fina a Io secundo grado, et per linea feminina per fina lo primo grado, havissero contra venuto a li cosi predicti oi alcuna di quilli, ni li digiano veniri ad revelari infra termino di jomi dechi sub pena di excomunicacioni mayuri et altri peni. Pronunciatum in plano maritime fel. urbis Pa- normi die 29 sept. 1525 (Ms.).

u Nui lu docturi Tristan Cai veto Inquisituri. Per lu pre- senti publico monitorio et edicto si notifica et comanda a tucti vui altri fidili christiani che siati sempri in favuri et ajuto di lo Sancto Officio la Inquisicion, in defensioni di nostra sancta fidi catholica et che digiiati perseguitari li he- reciti et apostati e non li favoriri, ajutari, defendiri pu- blicamenti, occultamenti; et cussi jurati per Deum et Sancta Dei Evangelia et tucti dichiti a : Amen. Pronuncia- tum in plano maritime die 29 sept. 1525. Presentibus prò testibus rev. domino vicario generale panormitano, specta- bili pretore et magnificis Juratis ipsius Urbis et aliis quam- plurimis magnificis et nobilibus viris in numero co- pioso » (Ms.).

Il 31 gennaio del 1525, l'Inquisitore supremo di Spa- gna scriveva al provinciale di Sicilia avvertendolo di aver saputo che (( gì' inabilitati per condanna dei padri e di avi portino armi, seta, oro, argento e usino cose loro vie- tate e proibite; e ciò non essere punito, non è a dire con quanto disservizio di Dio e disprezzo della giustizia » (i).

(i) Lea, op. cit.. p. 523.

87

Capitolo V.

DATA DELLE CELLE E NOMI DI PENITENZIATI

F. Baronio

ENiAMO ora ad argomenti più utili alla storia del presente carcere: quelli delle date e dei nomi.

Noi ci aggiriamo per luoghi material- mente e moralmente oscuri. I poveri pe- nitenziati lo ripetono in tutti i toni: terra tenebrosa, terra miseriae et tenehrarum; libera nosa carcere et a tenebris; a tenebre e miseria erano il difetto di luce, la rude nudità del terreno e delle pareti, l'angustia dello spazio, il lezzo, gl'insetti, le privazioni, i disagi, la fame; e dal lato mora- le, come conseguenza, la oppressione di cuore, la confu- sione di mente, lo smarrimento di spirito.

La ricerca quindi non è soltanto diffìcile, ma anche im-

88

DATA DELLE CELLE E NOMI DI PENITENZIATI

possibile, specialmente per mancanza di documenti d'archi- vio. Finora nessuno ebbe mai a sospettare che l'attuale edificio annesso al palazzo dei Chiaramonte fosse nato co- me carcere inquisitoriale. La fortunata scoperta del 1906 ha potuto metterlo in luce aprendo il campo a fruttuose in- vestigazioni.

Si è mai guardato ad una pagina del teatino Girolamo Matranga, Consultore e Qualificatore del S. Uffìzio, nella descrizione che egli fece alla metà del secolo XVII?

Quella pagina, quasi di passaggio, inserita in un Rag- guaglio dell'Atto di fede del 1658, racconta: « Per estirpare in parte la moltitudine delle streghe e fattucchiere fu giudi- cata necessaria di private carceri la fabrica, alle stanze del- l'Alcayde congiunte, affine di rinchiuderle, e così colla pri- gionia o per sempre o di molti anni la loro sfacciata mal- vagità si affrenasse. E toccò in parte a me da principio, accalorato dall'Autorità di Mons. de Trasmiera e di Mons. Cisneros e di Mons. La Guardia di felice memoria, a que- sta tanto lodevole quanto importante impresa cooperare. Con gli aiuti o spontanei o mendicati a queste prigioni die- desi solenne principio; e sono a segno tale che più di loro, spriggionate dalle segrete, alla giornata vi si rinserra- no » (i).

Qui sta la chiave storica del carcere in esame, car- cere nuovo aggiunto al carcere vecchio.

Lasciando da parte il Cisneros ed il La Guardia, noi c'incontriamo con Mons. de Trasmiera, antica conoscenza

(i) G. Matranga, Relazione dell'Atto pubblico di fede ce- lebrato in Palermo a' 17 marzo dell'a. 1658; p. II. In Palermo, MDCLVIII.

89

SANT'UFFIZIO

per gli studiosi delle vicende tanto dell'Inquisizione, quanto del D'Alesi.

Egli era Inquisitore fin dal 1634 (i), e potè bene co- minciare a pensare in quel tomo alle future carceri, vorrei dire suppletive. La data del 1632 della terza cella induce a supporre una fabbrica presistente al Trasmiera mede- simo. Nel 1647 saliva all'apogeo della sua sinistra nomi- nanza... e vi saliva con le astuzie onde giocò il battiloro capitano del popolo; e proprio in quell'anno il nostro car- cere era da un lustro bello e finito, come risulta dalle date di tutte e tre le celle. L'abitazione dell'Alcalde o Castel- lano (vogliamo intendere delle segrete) alla quale esso ven- ne attaccato, era proprio addossata al Palazzo; e l'Al- calde se ebbe la molestia dei vicini penitenziati e l'inco- modo delle nuove prigioni da vigilare, potè a tutto suo agio

(i) Ms. Qq H 62 della Biblioteca Comunale, voi. anno 1634,

L'anno 1745 l'Inquisitore provinciale, stanco delle impostture

delle maliarde, chiedeva all'Inquisitore supremo istruzioni sul da

fare. Costui richiamavasi a quelle del 1561, tra le quali sono

queste :

In seguito a denunzia, si arresti in carcere del S. U. o in casa, secondo la persona, il reo o la rea;

Nei casi semplici si condannino j rei « a penitenze sa- lutari esponendoli una o due volte in giorno di festa la mattina d'innanzi alla parte della chiesa madre o parrocchiale, in abito umile o penitente »;

3'° Se l'imbusterò è recidivo, (( si aggiunga la frusta, la zotta, l'esilio, la prigionia ed altro ad arbitrio degli Inquisitori e dell'ordinario. . .

Se la recidiva è nota pubblica, si mandi il reo all'erga- stolo dell'Inquisizione e si gastichi col visto dell'ordinario.... Ms Qq H, 62 della Bibl. Com. di Palermo.

90

DATA DELLE CELLE E NOMI DI PENITENZIATI

e senza molta fatica farlo con queste legate al suo quartiere.

Dico « penitenziati », ma col Matranga dovrei dire in- vece <« penitenziate », giacché il carcere nacque per donne: maliarde, fattucchiere, streghe e simile genia, delle quali la città, a testimonianza credibile del Matranga, era così piena che lo spazio non bastava più, non ostante che i cittadini fossero tiepidi nel denunziarle e i magistrati troppo benevoli nel condannarle; passivi tutti per acquiescenza colpevole alle loro malvagie operazioni.

Ma sopra le donne furono rinchiusi gli uomini: ed è inconcepibile come di quelle non rimanesse traccia di sorta (la cosa potrebbe spiegarsi con l'adattamento che fu fatto di esse, nel 1783, a Magazzini di Dogana); mentre degli uomini balzano ora fuori prove luminose ed a profusione.

Le streghe peraltro eran tali e tante che nello Steri lo spazio mancava, ed esse dovevano distribuirsi in vari luoghi di pena, che pur molti ve ne avea; e, se di ceto nobile e civile, nei monasteri; ed al numero sovrabbondante degli uomini si provvedeva oltre che con le carceri ordi- narie dei diversi fori, coi conventi, dove i frati venivano chiusi, e con l'esilio o con la galera o con altri espedienti.

Questa, della carcerazione o della chiusura di sacerdoti, preti o frati o monaci, nei conventi, era una pena alla quale ricorrevano un po' tutte le autorità : la civile, la vescovile, la provincializia e particolarmente l'Apostolica Legazia. Monsignor di Monarchia, come volgarmente si chiamava il rappresentante del Re nello esercizio delle prerogative ponti- ficie, decretava sovente il confino in un convento di stretta osservanza ai frati ribelli all'autorità dei loro superiori, o di vita troppo libera, o di condotta irregolare. Il Convento

91

SANT'UFFIZIO

di Gibìlmanna era per lo più destinato a non degni ospiti: ed il nome del solitario, deserto e disagevole ospizio, come luogo di pena era pronunziato con orrore. Venivano poi di preferenza i conventi dei Cappuccini, perchè lontani dall'a- bitato, in posizione molto elevata e con disciplina molto ri- gida. Un prete che vi fu chiuso negli ultimi dei Settecento fu l'Ab. Cannella (si chiamava da e lo chiamavano tutti così), ardito polemista, il quale, avendo scritto contro il celibato dei preti, cadendo così in disgrazia dell'Arcivescovo Sanseverino, fuggì da Palermo; arrestato a Roma, s'involò ai gendarmi; e dentro una cassa si fece, come merce, tra- sportare a Parigi; poi. morto il Sanseverino, tornò in Pa- tria, dove, vestendo con ricercatezza secolare, fu mandato all'ingrato luogo.

Altro fatto nuovo, acquisito alla stòria del S. Uiìfìcio in Palermo, scaturisce da un documento, il quale conferma che le carceri espiatorie esistevano fuori lo Steri.

Con lettera del 25 gennaio del 1696, gl'Inquisitori dalla isola scrivevano allo Inquisitore generale a Madrid: che essi tenevano in Palermo le pubbliche carceri della Penitenza, distanti dallo Steri. Per gl'inconvenienti del ritardo nel di- sbrigo dei servigi era stato necessajio di acquistare alcune casette attigue alle carceri segrete ed alzare le mura per le carceri pubbliche. Durante questa costruzione ebbero luogo contrattempi che ritardarono il lavoro. I maestri dicevano che con 2000 scudi la fabbrica si sarebbe potuta condurre a compimento, ed il S. Ufficio avrebbe avuto le case della penitenza per venderle o appigionarle.

Trattavasi di spese, che però si sarebbero potute com-

92

\

DATA DELLE CELLE E NOMI DI PENITENZIATI

pensare. Portando a termine le nuove carceri, si sarebbe ri- sparmiato cento scudi all'anno, salario dello alcalde delle carceri pubbliche, perchè l'ufficio soppresso si sarebbe po- tuto affidare all'alcalde delle segrete (allora non si pensava al maggiore compenso da dare ad un Direttore di carcere per maggior servizio ed orario). Il S. Uffizio, aggiungevano gli Inquisitori, versa in condizioni difficili: ritardo di esa- zione, mancanza di mezzi.

E finivano invocando il parere e l'approvazione della nuova spesa. Se non che, l'Inquisitore supremo fece orec- chie da mercante, quelli, dopo tre anni (giugno del 1699), insistevano sulla proposta; la quale dovette essere definita in senso poco favorevole, giacché di carceri della peni- tenza fuori lo Steri non si parlò più (i).

Maggiore è la difficoltà di trovare in queste celle nomi e, trovatili, riconoscerli.

Dalle fronde del classico cipresso dianzi ricordato si protende il nome di un certo lemma.

Sul fondo di alcuni ornati neri, a poco più d'un metro dal pavimento della parete, sono disegni sovrapposti a dise- gni, in mezzo ai quali sottilissimi grafiti dicono: Batà..., M. Cefalù..., Fancesco Magio con la data 1680, punto di partenza ben sicuro per istabilire in qual tempo furono essi fatti.

E chi sa quali altre sorprese di nomi, di date e di fatti non debbano offrire altri grafiti del lato sinistro della fi-

(i) Questo documento mi venne favorito dai fratelli Fran- cesco e Giuseppe La Mantia.

93

SANT UFFIZIO

nestra, parte sciupati, parte coperti di calce, i quali per poco che vi si mettano le mani cadono sgretolati! Qui dev'essere una intera storia di persone e di cose.

Date anteriori conosciamo già nella medesima parete, dal lato opposto della finestra; quella specialmente del 1664 a pie d'una croce. Mattheo Gu..., firmato sotto la medesima croce, pare si riveli tutto nella parete di contro, presso lo spigolo di quella che è ora porta di entrata e che una volta dovett' essere parete dell'andito del cesso: parete tuttora vergine sotto il lieve ma invincibile intonaco celestrino che la copre; e forse, perchè esposta agli occhi de' guardiani, non si prestò a disegni sacri, disdicevoli al basso uso del luogo, a motti svariati; quindi non subì le quadru- plici imbiancature delle celle propriamente dette.

Ecco la rivelazione dell'antico andito:

Mattheo G[ugliel] di la città di

car a di Ag 1649.

ha [ppi?] H ma di Agustu 1649.

Guglielmo é nome molto comune anche oggi a Palermo: ma nel Seicento non sappiamo chi fosse questo Matteo.

Scrostando nella prima cella un piccolo tratto che mi era a bella prima sfuggito, sotto la finestra inferiore mi venne fuori il disegno di una testa con baffi alla spagnuola del tempo, ma esageratamente lunghi ed attorcigliati in punta (più che non usino al presente coloro che applichino i piega-baffi), ciuffo sulla fronte e due corna staccantisi da esso.

Sulla figura umoristica unica nel genere e nel luogo, due] righi di grossolana scrittura a grandi caratteri, dava nome,

94

DATA DELLE CELLE E NOMI DI PENITENZIATI

cognome e qualità. Tutt'altro che benevola per essa, questa dice:

Matteu Guglierminu G

Pre la.... dei cumuti F. B. M.

D. T. I C C il prese [per?] babafu?]

con la

S mogie (?)

al castigo (?)

Strana figura! piiì strano battesimo! Al quale tre, quat- tro... padrini, quante sono le iniziali, possono aver preso parte.

Ed ecco il medesimo nome comparire in due celle du- rante quindici anni, il 1649 ^^ il 1664, come rivelano Io stipite della porta e la croce di fronte a questa, alla cui ba- se è affidato. Le due note sono d'una mano; ma quella del- la figura umoristica, d'un'altra.

Una supposizione c'è da fare sull'uomo e sulla cosa: cioè che egli fosse non un carcerato, ma un carcerici^, nient'altro che un aguzzino. La sua semplice caratteristica è nella porta di entrata, nella quale, custodita com'era da due cancelli, i prigionieri non potevano accedere, né, ac- cedendovi, scrivere, e dove solo ai guardiani era lecito fermarsi. Andando su e giù pel corridoio delle carceri, egli può qualche volta aver segnato il suo nome sotto la croce; ma appunto come aguzzino, odiato dalle sue e dalle altrui vittime, ritratto quale becco dai penitenziati della prima cella. Buoni quanto si vogliono, incapaci di offendere ani- ma viva, di faccia a un Don Chisciotte che voleva spoc- chiarla col miglior damerino della città nella cultura ridi-

95

SANT'UFFIZIO

cola dei peli, essi dovevano esplodere: ed esplosero in quella forma insolitamente buffa. Dando a lui del menelao, i reclusi dovettero colpire un lato debole della sua vita; e dopo più di due secoli la loro vendetta parla ancora!

A più probabili benché non sicuri risultati conduce la ricerca del nome che nella seconda cella si nasconde sotto la iniziale B.

Quel che si può dire di un dotto nella piena eccezione della parola, deve dirsi di lui, maestro in iscienza biblica e patristica, in agiografìa e in teologia. Dilettante di dise- gno, esperto nella poesia italiana e latina, egli delinea fi- gurine di santi, le qualifica ed illustra, e si raccomanda a loro in distici che le fredde pareti religiosamente traman- dano. Quest'uomo non dice mai di essere ingiustamente perseguitato , pur piangendo del pianto del dolore. La sua m carcerazione non è anteriore al 1646, non posteriore al 1649.

Chi può essere stato colui se non il celebre Francesco Baronio da Monreale?

Nato l'anno medesimo che moriva il suo illustre ed ardito concittadino Antonio Veneziano (1593), egli fu dei più eruditi sacerdoti della Capitale, ed inneggiò a questa con ^^1 entusiasmo di poeta, con diligenza di erudito, con amore figlio. Un'ultima volta fu visto in città, quando nel prin- ^ cipjo del 1646 tessè l'elogio di Donna Eleonora Ventimi- ^M glia; poi scomparve; ed i suoi nemici ne gongolarono di gioia. Allorché sul finire di quell'anno un certo Placido Serletti calabrese sognò una repubblica siciliana, avente a capo il Baronio, costui era già cniuso in queste carceri, vittima del suo ingegno superiore o della sua lingua trop- po libera nel dir la verità o quella che a lui pareva verità;

96

I

DATA DELLE CELLE E NOMI DI PENITENZIATI

circostanza che anche in questo lo accostava al disgraziato suo concittadino A. Veneziano.

E peggio gl'incolse quando nel maggio dell'anno seguen- te, che fu il tempestoso 1647, il battiloro Giuseppe D'Alesi, fattosi Capitano del popolo, lo richiese come segretario all'Inquisitore Don Diego Garcia de Trasmiera; richiesta che ne aggravò le condizioni penali rafforzando nella opi- nione del S. Uffìzio i sospetti pei quali da quasi un anno esso avealo catturato e chiuso in quella cella. Tornata la calma, i sospetti inquisitoriali inacerbirono ai danni di lui. Il S. Uffìzio fece tradurlo in Pantelleria, poi nel Castello di Gaeta (i), ove lascioUo morire non sappiamo se di ma- lattia o di altro degli infiniti mali dei carcerati d'allora

(1654)-

gli valse la classica opera De Majestate panormita- na. quella delle lodi della Nobiltà siciliana, le vite di Sant'Antonio da Padova, del domenicano Beato Pietro Geremia e dei santi di Palermo (2).

Il sacerdote che avea illustrato l'atto pubblico di fede del 1640 (3), che avea levato al cielo il Trasmiera (4), fu vittima del medesimo Tribunale della fede e del medesimo giudice!

Altro nome insigne, che dev'esser legato alla tetra

(i) Vedi in proposito le Memorie storiche di Francesco Baro- nio Manfredi di U. A. Amico. Palermo, 1907.

(2) MoNGiTORE, Biblioth. sic. voi. I, p. 206.

(3) Ristretto de' processi nel pubblico spettacolo della Fede divulgati ed espediti a 9 sett. 1640 dalla S. Inquisizione di Si- cilia nella piazza della Madrechiesa di Palermo. Palermo, Marta- rello, 1640.

(4) Baronio, Siculae Nobilitatis Amphitheatrum, etc. Pa- normi, 1630.

97

7 - G. PITRÈ - Sant'Uffizio.

SANT UFFIZIO

storia di queste pareti, è quello di Simone Rao da Palermo, dei nobili Marchesi della Feria, prelato illustre, poeta tra i primi dell'Isola.

Nato nel 1609, salì presto in fama di cittadino esempla- re. Le muse gli sorrisero lietamente ed il patrio dialetto celebrò per lui sentimenti delicati di carità, di amore, di religione. Vacando nella chiesa di San Nicolò la Kalsa l'uf- ficio di Parroco (1647), vi fu presentato dal Pretore, poi venne eletto deputato delle nuove gabelle. Ma tanti onori non lo salvarono dagli insani sospetti del Trasmiera di es- sere stato tacito conoscitore della congiura del Conte di Mazzarino organizzata da Giuseppe Pesce e da Antonino Lo Giudice. scongiurarono la sua carcerazione in Ca- stellamare, e poi qui, nello Steri: Trasmiera, suo amico, attore principale.

Di questa cattura è un ricordo di una sua ottava pie- tosa:

Mura 'nfelici, unni abbissatu m'hannu

E purtatumi vivu a sepelliri

Li tradimenti d'autru, e lu me' 'ngannu,

Materia chiù di chianciri, chi diri;

Oimè chi vita! oimè chi duru affannu!

Oimè chi lungu affannu di muriri!

La mia miseria cumincia cu l'annu,

E nun sacciu in qual annu avia finiri!

Ora io prego il lettore di riavvicinare questi versi con le due mirabili ottave onde si chiude il precendente capitolo. Certo, i primi due non bastano a provare che siano tulli d'un medesimo autore, ma quando si consideri che proprio, in queste carceri fu il Rao ritenuto ed oppresso, e che le; due ottave rappresentano quanto di piìi alto offra la poe- sia del Seicento, non sarà arditezza attribuirle a lui.

98

Capitolo VI. POLITICA - CONFISCA

UALE accusa più sicuramente documenta- ta di quella che sorge contro i giudici dalle rivelazioni di queste celle?

Quali giustificazioni più lampanti di quelle che danno di i poveri reclusi, espianti le pene loro inflitte? Le parti s'invertono: i con- dannati sono gli innocenti, i giudici sono i rei.

Giacché non soltanto il quietismo di Molinos (i), incubo

(i) Il sacerdote Michele Molinos (1640-1697) da Saragozza, sostenne l'annientamento di tutte le forze spirituali ed il totale abbandono in Dio in modo che l'anima stessa si spogli di ogni spontaneo impulso, desideri il paradiso tema l'inferno e il peccato, eserciti atti di fede; ma nel suo nulla si tenga in uno stato di esclusiva passività, lasciando fare a Dio. Questa dottrina fu sostenuta, tra gli altri, dal Card. Petrucci, che, chia- mato dal S. Ufficio di Roma, venne tenuto in carcere. In due anni furono arrestate 200 persone sospette di quietismo, e molte

99

SANT UFFIZIO

degl'Inquisitori dapo il 1687; non le proposizioni eriticali vere e non vere; non il possesso illecito di libri proibiti; non i sortilegi e le superstizioni, tampoco l'accìdia o la rilassatezza in religione eran motivo del pronto intervento del Tribunale, ma ben anche, e non di rado, la ragione po- litica. « In materia di Stato », osservava il Villabianca, (( e in critiche emergenze della Corona [quel Tribunale] avea servito gloriosamente il governo in rimuover le fello- nie ed in punire i ribelli col braccio forte delle sue armi, al- le quali non era alcuno che osato avesse far fronte » (i).

La suprema autorità del Regno impersona il Governo. Il motto: L'Etat e' est mot era, in pratica, più vecchio di Luigi XIV. Qualunque atto di ribellione al re era un atten- tato alla religione e a Dio.

Sotto il nefasto regno di Filippo IV (1621-1665), qua- rantacinque etemi anni di oppressione, le denunzie politi- che rendevano frequente la partecipazione del sacro Tribu- nale. Invano in un momento di resipiscenza il grande In- quisitore di Madrid vietava a quello di Sicilia la carcera-

di esse di alto grado. L'a. 1687 la dottrina molinista venne con- dannata, e nonostante l'abiura, condannato a prigionia perpetua l'autore di essa. Al Card. Petrucci, condannato anche lui nei suoi scritti, fu imposto silenzio, fatto obbligo di rinunziare al vescovato di Jesi, e applicata una sorveglianza speciale dalla In- quisizione, fatta cessare poi da papa Innocenzo XII.

Il molinismo della Spagna passò in Francia, scese in Italia

ed in Sicilia {Lessico Ecclesiastico, voi. Ili, pp. 575-6. Milano,

Vallardi). In Palermo cinque seguaci di esso furono condannata

nel 1703; e nel 1724 bruciati frate Romualdo e Suor Gertrude.

(i) Villabianca, Diario palermitano, 1782...

100

POLITICA - CONFISCA

zione di persone non sospette di fede nelle segrete (i). Le cose andavano sempre a un modo.

Inquisitori Torresilla, Bravo e Camera spagnuoli, che si valevano l'uno quanto l'altro, fu rivelata una congiura a favore delle armi francesi in Augusta e contro la Spagna (1643). Del delitto s'impadronì subito il S. Uffizio, che seppe far bene le regie vendette. Questa data comparisce nella parete di fronte della prima cella. Nella sollevazione di Giuseppe D'Alesi, Francesco Baronio ne provò, come vedremo, i rigori, ,non già per delitto di fede, ma « per massima politica».

II nobile palermitano Albamente andò al supplizio per una congiura la cui confessione venne strappata a lui dal terribile Trasmiera, che nella congiura volle vedere un tentativo per la liberazione del Baronio (2).

In seguito ai disordini del D'Alesi, il secondo Don Giovanni d'Austria, ahi quanto diverso dal vincitore di Lepanto!, venuto viceré in Sicilia, incaricava quel Tribu- nale d'informarsi (( col suo abituale segreto degli uomini di mala vita... e di avvisarlo di ciò che avrebbe inteso e saputo, distinguendo le qualità e parti di ciascuno e i de- litti, e costumi di coloro che meritassero esser puniti » (3).

Memorabile fu lo strozzamento d'un cappellano della galera siciliana di Santa Chiara per ragioni estranee alla fede; gli si eran trovate addosso lettere del Duca di Bivoné

(i) Documenti appartenenti al Tribunale del S. Officio in Sicilia, voi. I, a. 1622.

(2) MoNGiTORE, Biblioteca sic, t. I, p. 206. Pirri, Annales Panortni, in Bibl. Stor. del Di Marzo, v. IV, pp. 182 e 192.

(3) La Mantia, op. cit., pp. 75-77.

IDI

sant'uffizio

da Messina e monete d'oro e d'argento della Francia (i). Il boia del S. Uffizio compì dentro il Palazzo Chiaramonte (1676) l'opera dei boia del Tribunale secolare. E così potè l'Inquisitore dell'isola vantarsi con l'Inquisitore Supremo di Spagna di avere concorso alla tranquillità dello Sta- to (2).

Anche qui trionfava l'Inquisizione, la quale, al primo giungere di S. A. (27 luglio 1649), auspice il fosco Trasmie- ra, dava ospitalità nelle splendide sale dello Steri al Gene- rale Pimenta, Comandante dell'Armata vicereale (3).

E trionfava pure delle congiure del Conte Mazzarino (1649) mandando in carcere dapprima di Castellammare, poi del S. Uffìzio altro dei più saputi ecclesiastici, Simone Rao, parroco di San Nicolò la Kalsa, la parrocchia bena- mata e prediletta degli Inquisitori. La quale carcerazione (23 dicembre) sarebbe stata seguita dalla condanna a mor- te, se notizie favorevoli non fossero oppostamente venute a chiarire che il Rao aveva in tempo manifestato gli occul- ti maneggi che dovevano condurre a nuovi disordini (4).

Il lettore, frattanto, consideri a proposito di questo fat- to quanto l'odio del Trasmiera contro quanti sono in fami di agitatori politici accecasse lui. Uscito dal carcere, il Rac si dimise da parroco (1651 e non già 1656, come nota

(i) AuRiA, in Bibl., del Di Marzo.

(2) Quanto ha contribuito alla tranquillità dello Stato Tribunale del S. Offizio, documento del voi ms. Qq H 62 della| Biblioteca Comunale di Palermo.

(3) V. AuRiA, Notizie di alcune cose notabili occorse in Pa4 lermo (1636-1665); in Di Marzo, Bibl.. v. II, p. 313.

(4) Di Marzo, Biblioteca, v. Ili, pp. 357 e 369.

102

POLITICA - CONFISCA

Mongitore) e si recò in Ispagna a chiedere giustizia dell'af- fronto e del danno.

Filippo IV gliela fece intera nominandolo R. Cappella- no con la pensione di 500 scudi all'anno, abate di Santa Croce e piiì tardi nominandolo (1658) vescovo di Patti (i).

Il Trasmiera era stato più realista del rei

Il soverchio zelo però sovente lo accecava, spingendolo a risoluzioni ostiche all'autorità viceregia. Già è risaputo, . ed in un capitolo di questo studio risulta evidente, che i Viceré, gelosi di loro facoltà, mal comportavano quelle del S. U.; le quali gli interessati spingevano fino alla usurpazione del reale potere. Per poco che un Viceré chiudesse gli occhi sopra un abuso, eccoli farsi innanzi co- me per dire: siamo qua noi.

E ben lo fecero il 23 aprile del 1592, quando, infestata la Sicilia da ladroni di campagna e da banditi della peg- giore specie, l'Inquisitore di Paramo, seguendo l'esempio del Viceré Conte d'Olivares, e atteggiandosi a capo supre- mo dello Stato, promulgò un bando contro i delinquenti e i facinorosi. Era troppo, invero; il Viceré, con un coraggio non comune in altre simili circostanze, ordinò (30 maggio) ai Baroni ed ai Consiglieri del Regno che impedissero la promulgazione dell'inconsulto bando inquisitoriale, nessuno potersi arrogare il diritto di intervenire in affari di sicurez- za pubblica del Regno, devoluta esclusivamente all'autori- tà vicereale; grave offesa aver recato alla real giurisdizione il mal consigliato bando, che non trovava suffragio nep- pure nelle Concordie del 1580 (2).

(i) D. Faija, Bibliografia dei Parrochi di S. Nicolò la Kalsa, pp. 81-82, Palermo, Barravecchia., 1877.

(2) A. Gervasi, Siculae Sanctiones, t. II, p. 329-

103

SANT'UFFIZIO

Ma anche senza entrare nelle parte politica, v'era tan- to nella vita inquisitoriale da estendere attivamente la sorveglianza molto al di di qualunque supposizione.

Forte d'una Costituzione di Paolo III (1542), inoppor- tunamente invocata, il Barbieri riconosceva nel S. Uffizio il diritto, anzi il dovere, di punire gli oratori che dicessero proposito satiriche, mordaci e sediziose (i).

Ora chi non vede la elasticità di queste tre qualifica- zioni? Tutto esse possono includere e niente escludere. Don- de comincia e dove finisce la frase, il motteggio satirico? Chi può fissare i limiti dell'arguzia? E come devono inten- dersi le proposizioni sediziose?

Eppure nelle leggi civili ve n'erano parecchie sull'ar- gomento, le quali minacciavano pene severissime agli au- tori di satire specialmente anonime. In tal guisa il Governo aiutava il sacro Tribunale ed il sacro Tribunale il Governo, del quale, forse pel numero straordinario di spie, ne sapeva di piìi.

Con questo è facile spiegare come uomini egregi ed an- che insigni con manifestazioni innocue ed anche sante fos- sero vittime di quel Tribunale. Non empietà di carcerati rivelano queste celle, ma perversità di carcerieri. Non era infatti manifestazione spirituale, anzi atto pubblico o pri- vato che non provocasse la loro ingerenza fino alla contra- stata validità d'un matrimonio (2), ad una dotta qualifi- cazione di un'agiografia, alle questioni sui luoghi di nascita d'una persona di santa vita. Un processo fu da essi inten- tato contro il gesuita A. Ign. Mancuso, perchè nella sua

(i) Bf.rtini, Rosa Virginea, p. 11.

(2) Ms. Qq F 239 della Bibl. Com. di Palermo.

104

POLITICA - CONFISCA

Storia di Santa Rosalia (i) qualificava « cervel matto » il bruciato Fra Romualdo (2). Un editto inquisitoriale del 24 agosto 1665 lanciava la scomunica maggiore al messine- se Francesco Alibrando, che avea sostenuto (( proposizioni ingiuriose, scandalose, empie, contrarie, false ed offensive delle pie orecchie ».

La i-eggiore era l'affermazione che il Beato Agostino Novello fosse nato a Termini (3) mentre l'Auria, ben visto al S. Ufficio, lo avea dichiarato palermitano.

dotti uomini assai ve n'ebbe ristretti nel S. Uffìzio. Dopo i bigami, i superstiziosi e le streghe, erano appunto gli ecclesiastici i maggiormente presi di mira. La loro lista, particolarmente nel Cinquecento, è interminabile; ma ben lontana dall' esser completa. Lasciamo quel frate Giannello di Maurojanni vicino la Rocca, che fu bruciato vivo (1564) e preste Jannello scolaro, pur esso di Maurojanni e fra

(i) Tomo I, pp. 166. Palermo, 1722.

(2) Mescolanze ecclesiastiche varie n. 6, Ms. 3 Qq C 75 della Bibl. Comunale di Palermo.

(3) Termine rimessa in stato, o pur Risposta ad uno scritto del Dr. D. Vincenzo Auria. Nel quale volendo egli levare alla città di Termine il suo B. Ag. Novello degli Eremiti di S. Ago- stino, per donarlo a Palermo, ecc. Opera di Bernardino Af- SCALCO (Francesco Alibrando) Messinese, ecc. In Venetia, per il Bertoni, 1664.

A favore dell' Auria si pronunziò nel sec. XVIII, et pour cause, il MoNGiTORE scrivendo la Vita del B. Agostino Novello pa- lermitano della nobile famiglia Termine. Palermo, Cortese, 1710.

Contro l'Auria ed a favore dello Alibrando sorse Cesare GuMBRUNO, Lettera al Dr. Cataldo Rizzo in cui si difende la na- scita e la patria del B. Agostino Novello terminese e si risponde all'opera apologetica del D.r Auria. Messina, D'Amico, 1713.

105

SANT UFFIZIO

Cornelio da Nicosia, conventuale e maestro in sacra Teo- logia (1561), e D. Jacobo Cortes da Tropea, cappellano della Chiesa dei SS. Giovanni e Giacomo a Porta Carini in Palermo, e frate Alessandro Castellana di Tricarico dei Minori Osservanti, D. Giacomo Bruto o Bruno, prete pie- montese dell'Isola Bella. Lasciamo nel Seicento il notaio Diego Siracusa da Trecastagne, i sacerdoti Casalino e D'Angelo da Monreale, e Martino Fide da Vizzini (1640); fra Carlo Tavalora agostiniano e fra Giuseppe dell'Alleata francescano; ed il Baronio pred:)tto ed il sac. palermitano Antonino Rizzo, maestro di canto, ed il famoso fra Diego La Mattina agostiniano; certo è che di conosciuti parecchi ve ne furono fra i 34 inquisiti del 1648, piti che parecchi tra i 40 del 1649, molti fra i 50 del 1651 e tra i 44 del 1652 : quattro atti pubblici di fede, questi, solennemente celebrati; ed il penultimo, con l'intervento di D. Giovanni d'Austria juniore nella chiesa di Santa Cita a Porta San Giorgio (i). Verso il 1676 una vera follia contagiosa imperversò in mezzo al ceto ecclesiastico, al civile ed al popolesco. Suor Cristina Rovere, donna ascetizzante, fu da tutti creduta santa. Si narrava di estasi, di visioni e di miracoli; la sua immagine corse venerata; tenute come sacre reliquie le cose sue. Alla fama di lei vennero attratti sacerdoti e seco- lari; e non che Palermo, ma anche la Sicilia e, come fu detto con poca conoscenza geografica e politica, « tutto il Regno d'Italia » parlò di lei.

Il tribunale della fede mise le mani su di essa e sopra i

(i) Vedi: La Mantia, op. cit., nota 4. Gius. Matranga Relazione dell'atto pubblico di fede celebrato in Palermo a' 17 marzo dell' a. 1658. Seconda edizione con nuova aggiunta. In Pa- lermo, Bua, 1658.

106

POLITICA - CONFISCA

suoi ammiratori, i maggiori teologi che ci fossero allora, tanto pili pericolosi quanto più stimati per dottrina di divi- nità. Suor Cristina dapprima venne rinchiusa nel monaste- ro di Santa Chiara; poi (( condannata a stare tutto il tem- po della sua vita nelle carceri del S. Officio », ove la pietà degli Inquisitori si contentò che « li suoi beni restassero confiscati al tribunale » (i).

I teologi ebbero pene temporanee, probabilmente in car- cere espiatorio e chi sa... forse in esilio.

Che l'Autore della nostra nota insieme col suo compa- gno fosse di quelli, non oso affermare; ma nessuno potreb- be, senza documenti, negarlo.

Chi sa quali tracce della loro presenza in questi luoghi devono essi aver lasciate!...

Nello spettacolo del 4 giugno 1703, in San Domenico, tra 14 rei, 5 furono religiosi dell'ordine degli Eremitani scalzi di S. Niccolò Tolentino e (addirittura incredibile!) certa Suor Teresa di San Girolamo, perchè donna, e di soli 26 anni già. autrice di vari trattati teologici e particolar- mente di due sulle virtù teologali e sulle cardinali, ritenute eccedenti la capacità del suo intelletto, fu giudicata dia- bolica (2).

Concorrevano poi ad accrescere la legione dei sospetti, e quindi degli accusati e dei condannati, le ragioni econo- miche senza le quali la istituzione non avrebbe potuto pro- sperare.

(i) Ms. citato dal La Mantia, pp. 86-87.

(2) Ms. 3 Qq B 151 della Biblioteca Comunale. I due trat- tati sono indicati nel cit. Lessico ecclesiastico 5 M^linos fCitato qui nell'originale, ma senza espresso richiamo nel testo, il Ms. Qq F. 239 della Bibl. Com. di Palermo].

107

SANT'UFFIZIO

Fino al 1699 regnava l'antica procedura dello arresto d'un accusato o d'un indiziato nei termini più sbrigativi e sommari. Gl'Inquisitori ordinavano l'arresto, e l'arresto veniva issofatto eseguito. Il foro secolare, come qualsivo- glia altro foro, doveva prestare braccio forte.

Di 6 persone prese dai foristi dal marzo al settembre del 1757, 4 furono frati, condannati poi a varie pene, ed uno di Montemaggiore, condotto allo spettacolo dal nobile D. Benedetto Versango, a remigare per sette anni nelle ga- lere di S. M. (i).

Più volte, nel corso di questo lavoro si è parlato di ecclesiastici rinchiusi in queste celle. Il triste uffìzio di esse è più che chiaro, evidente; quel che non è chiaro è se essi fossero secolari o regolari e, se mai, di quale ordine reli- gioso.

Ecco a quali induzioni mi conduce il maturo esame del contenuto dei testi latini e delle immagini dei santi della prima delle tre celle.

La iconografìa locale non dice nulla su questo punto. La folla delle sacre figure fa sospettare che i carcerati o rappresentassero santi ai quali avessero devozione, o fa- cessero esercizio di arte, pur non essendo artisti.

Qualche cosa, al contrario, dicono i passi latini rivolti a Santa Lucia ed a Sant'Antonio. Quei passi, due special- mente, provengono, come si è veduto, dagli uffici propri. Ora questi uffici non erano son recitati dai sacerdoti secolari, da tutti i sacerdoti regolari. I soli che li reci- tassero e li recitino ancora, sono i frati minori, i conven-

(i) Doc. favoritomi dall'avv. cap. Pietro Bottalla. 108

I

POLITICA - CONFISCA

tuali, i cappuccini, le monache di Santa Chiara e gli ascrit- ti, uomini e donne, al terz'ordine.

Lasciamo stare le monache di Santa Chiara e le ter- ziarie di San Francesco, perchè di donne non vi è traccia. Le streghe stavano in un piano inferiore o fuori lo Steri, e le terziarie e le Clarisse, se qualcuna veniva arrestata, an- dava chiusa altrove. La terziaria Spedalieri era in fondo una secolare.

Rimane dunque il sospetto dei frati minori, di conven- tuali e di cappuccini.

E allora c'è da presumere che qualcuno fosse stato qui- vi ritenuto, non per incertezza di fede, giacché i frati di quell'ordine non ne mostrarono mai, ma per fatti politici e magari per detenzione di libri proibiti, od anche per tra- scorsi che non il S. Uffìzio, ma il Foro Ecclesiastico aveva il diritto di punire.

Catturato il reo, gli si sequestravano immediatamente todos los bienes; e lo si consegnava allo alcade delle carceri segrete. Beni mobili ed immobili venivano inventariati. Cari:e, libri, manoscritti, chi ne avesse, erano studiati mi- nutissimamente, uno per uno, per vedere se vi fossero in- dizi dell'errore, dei complici, ecc.. Allo esame prendevano attiva parte i qualificatori dentro il S. Uffizio (i).

Il sequestro era il primo passo per la conservazione dei beni sui quali potesse il Tribunale rivalersi delle spese av- venire e, caso mai, per la confisca. Pel Tribunale era que- stione apparentemente religiosa, ma sostanzialmente eco- nomica; e quando questa non era ben sicura, esso esigeva

(i) Documenti appartenenti al Tribunale del S. Officio di Sicilia, voi. II; Ms. Qq H 63 della Biblioteca Comunale di Pa- lermo.

109

SANT'UFFIZIO

la guarentigia di persona di sua conoscenza e fiducia nello interesse dell'erario del S. Uffizio e dello Stato ed in favore del giudicando (i).

La confisca non tardava, specialmente quando l'accusa od il sospetto era di eresia; e seguiva non soltanto allo ab- bruciamento ma anche alla muratura o chiusura perpetua, fino a quando questa fu in uso (3), al carcere perpetuo sen- za muratura, al carcere per un dato numero di anni, alla fino a quando questa fu in uso (2), al carcere perpetuo sen- lio dalla città o dalla diocesi. C'erano anche le sferzate

Ben è vero che a richiesta dell'Inquisitore Fra Enrico Lugardi, re Alfonso avea confermato per la Sicilia (17 agosto 1451), un privilegio dell'imp. Federico II, del 1224, concedente agli Inquisitori una terza parte dei beni degli eretici, la processura dei Giudei ed il godimento di certi diritti degli uni e degli altri; ma la concessione fridericiana è ancora di da trovarsi (3).

Ferdinando il Cattolico avocava a la Inquisizione e ne faceva una prerogativa sovrana. Istituendola in Casti- glia (1478), in Aragona (1481), in Catalogna, in Maiorca,

(i) Vedi tra le carte scampate allo eccidio del Viceré Carac- ciolo in Palermo le Plegerie criminali dal 1607 al 1763, volumi 16544-59 nell'Archivio dei Notari defunti, nell'antico Convento del- la Gancia.

(2) Un documento dell' 11 maggio 1782 della Giunta dei Presidenti e del Consultore fa cenno di un chierico D. Giovanni Bua Pennisi nativo della città di Aci inquisito, « a' 7 settembre 1764 fu condannato a essere murato, o sia perpetuamente carce- rato in ristretto carcere a pena delli suoi gravi misfatti ». La Mantia, parte IT, doc. XII, p. 67.

(3) Lagumina, Codice dei Giudei, n. CCXCII, p. 512.

HO

I

POLITICA - CONFISCA

in Sicilia e in Sardegna (1487), guardava a risultati pratici, rispondenti alla indole sua obliqua ed avida e, perchè, avi- da, crudele. Erano questi le ricche prede « che le confische sui miscredenti e sugli eretici sarebbero per portare allo erario » (i).

Non entriamo nella spinosa ricerca della parte spettan- te al Tribunale del S. Uffizio dalle confische per ragion di fede. Certo dovea esser pingue se Carlo V si decise ad isti- tuire (15 19) giudici dei beni confiscati ai miscredenti rite- nuti e giudicati tali gl'Inquisitori (2), i quali alla lor volta dovettero comporre per questo un'amministrazione con Giudice, Avvocato, Recettore (tesoriere). Segretario, Pro- curatore e Sollecitatore fiscale: tutti, s'intende, privilegiati dal Foro concesso agli ufficali del Segreto.

In quella che il Parlamento a tre bracci chiedeva al me- desimo Carlo (1520) che il S. Uffizio venisse esercitato da prelati e da priori dei frati predicatori di Domenico in Paler- mo (giacché gli Spagnuoli erano avidissimi) o almeno dai ve- scovi ed arcivescovi di Sicilia, esso affermava pure che per l'avidità degli Inquisitori del tempo dediti a confische, <( dunasi occasioni extorquiri li beni di li cristiani natu- rali » (3).

Speciosa invero una teoria intorno alle confische. « Non potendo chi vive haver herede, non può deve tampoco il fisco chiamarsi propriamente herede dell'heretico condan-

(i) La Lumia, Studi di storia siciliana, v. I, p. 25. Paler- mo, Lao, 1870.

(2) Franchina, Breve Rapporto, cap. XIV, n. 7.

(3) Capitula Regni Sidliae quae ad hodiernum diem lata sunt etc, t. II, cap. LXXIII, p. 53. Panormi, 1743, Excudeba* Angelus Felicella.

Ili

SANT'UFFIZIO

nato a cui vengono in vita confiscati i beni; ma egli con tutto ciò propriamente si dice, et è successore universale ne beni dd sopradetto heretico » (i).

Non si chiamava erede il fisco; ma sequestrando i beni del condannato se ne riserbava il possesso. Era un gioco di parole tradotto in una sanguinosa irrisione alla sventura. Oh quale triste verità racchiude l'antico proverbio: Lu roggiu di lu S. Uffizio nun cunsigna mai! giacché la In- quisizione non lestituiva mai le facoltà confiscate.

Tra le prove più scandalose riferirò il caso di Suor A- mata di Gesù (al secolo Margherita Cordovana) da Caltanis- setta, sorella di queulla Suor Gertrude ce nel 1724 fu, come abbiamo visto, bruciata viva. Nel 1699 carcerata, tenuta quasi quattr'anni in prigione, fu finalmente dichiarata in- nocente, e restituita a libertà. Le si erano sequestrati i beni stabili; e, per quanto la sventurata donna supplicasse, non riuscì mai a riaverli. Un'ultima sua istanza del 1742, che il lettore troverà in appendice, racconta le fasi della vertenza, ed insiste per lo svincolo e la restituzione. Il Tribunale, che pure avrebbe dovuto indennizzarla del danno ingiustamente recatole, obbligò con una transazione onerosa l'erede di lei al pagamento di un canone annuale di onze io; transazio- ne immorale, che egli, sotto l'incubo di nuove vessazioni di un istituto potente, dovette socrivere.

Il fatto è classico nel genere, anche perchè viene a con- fermare che non soltanto dei beni dei rilasciati alla Giu- stizia ordinaria, ma anche di quelli degli eretici pentiti e dei figli cattolici di padri eretici (2) e dei condannati,

(i) Sacro Arsenale, n. CXCI, p. 399. (2) Sacro Arsenale, nn. CCXXI, CCXXII.

112

POLITICA - CONFISCA

in qualsivoglia maniera in vita, e persino dei semplici cat- turati si faceva padrone il Tribunale della fede, checché toccasse ad esso del più o men pingue patrimonio.

Ed ecco, anche per questo, uno dei Capitoli del Regno sottoposti al Re Carlo V, Nel 1520 i tre bracci del Par- lamento del Regno pregavano S. M. che facesse cessare la confìsca dei beni dei neofiti condannati, compresa la parte che in essi beni era di pertinenza di cristiani che avessero prima, in buona fede, contrattato con quelli; confisca che il S. Uffìzio faceva intera, misconoscendo i diritti dei terzi e dando luogo ad interminabili liti.

Ed un altro, col quale si implorava la restituzione della dote e del dotario alla moglie cristiana d'un neofita con- dannato (i).

Se interroghiamo la Chiesa in proposito, noi ne sen- tiremo i rimbrocci. Nel 1249 il Pontefice aveva severa- mente biasimati delle loro (( scandalose estorsioni » gl'In- quisitori

In un Bilancio del Tribunale dell'anno 1713, gl'introiti venivano calcolati 4067 onze (pari a L. 51.854,25), tutte provenienti dagl'interessi che sul capitale pagava la Ta- vola (Banco) di Palermo. E ((notisi», osserva quel do- cumento, « che tutte le sudette rendite sono pervenute così per causa di confìscazione di beni de' rei condannati come per legati lasciati da diverse persone » (2).

Queste cifre fanno malinconicamente pensare all'età dell'oro del Tribunale, che fu il secolo XVI ed anche in

(i) Capitula Regni SicUiae. cit., t. II, capp. LXXIV e LXXV.

(2) Documenti appartenenti al Tribunale del S. Officio di Sicilia, cit., voi. IV. Ms. Qq H 64 della Biblioteca Comunale di Palermo.

113

8 - G. PITRÈ - SanfUttlilo.

SANT'UFFIZIO

parte il XVII. Relassi, cioè bruciati, reconciliati e peni- tenziati apprestavano frequenti entrate allo erario, che, pe- raltro, dovea sopportare ingenti spese per gli impiegati e per la polizia segreta che era costretto a mantenere, giac- ché non tutti si movevano pel trionfo della fede, tutti pel timore della scomunica coloro che si facevano denun- ziatori del loro prossimo; tutte disinteressate erano le confidenti di esso,

I rivelatori dei beni occulti degli inquisiti, sfuggiti .alle confische del S. U. ricevevano il quarto od il quinto dei beni medesimi come prezzo della denunzia (i).

Scriveva nell'aprile del 1560 l'Inquisitore Quintavilla al re Filippo a Madrid, averlo informato, ai 15 febbraio p. p., dell'Atto di fede pubblicato in Palermo per la Do- menica di sessagesima, 18 del mese, e celebrato con gran- dissimo accompagnamento e generale plauso. In quella occasione avergli mandato la lista delle persone uscite ali spettacolo, e tra le riconciliate Donna Mattea Moncai e Spataiora, baronessa della Feria, che, secondo noti; correnti, avea una dote, un po' contrastata invero, 10.000 scudi, e Anton Francesco Napoli con 3000, oltre 2500 sui quali vantavano crediti i suoi fratelli. « I bisoj di questa Inquisizione », aggiungeva, « son così gran che essa ha contratto molti debiti; ed ora, con queste du(

(i) Di questa pratica, nuova per gli studiosi dell' argoment in Sicilia, faceva cenno l'Inquis. Generale D. Alonso Manrìqui di alcune sue istruzioni agli Inquisitori di Sicilia il 31 ger naio 1525; ed aggiungeva che i recettori (tesorieri) commettevantì abusi in proposito; e si doleva che degli introiti e degli esiti 14 mesi che l'Inquis. Cervera fu in visita pex la Sicilia, fuori Pa^ lermo. non era stato possibile avere i conti! Lea, op. cit., p. 521]

114

I

POLITICA - CONFISCA

confische, potrebbe pagarli. Se V. M. lo concede, io propongo lo acquisto della rendita possibile, buona ad assicurare la vita avvenire di questa Inquisizione, ed il pagamento dei salari degli ufficiali. V. M. che conosce quanto necessaria sia essa oggi e come per essa il Regno è uno dei più puri della cristianità, voglia favorevolmente accogliere la proposta » (i).

Si comprende bene che le ricche prede non capitano di frequente; ed il lasciarsele sfuggire sarebbe un delitto. La Inquisizione aveva larga esperienza nel genere.

A Quel Tribunale non era mai danaro che bastasse. Il documento ufficiale del 1699 conferma strettezze econo- miche, sempre crescenti, lamentate dagli Inquisitori stessi, cioè ritardi di pagamenti e mancanza di mezzi; e ci vuol poco a capire che questa mancanza si riduceva a' pochi affari che, vorremmo dire, commercialmente presentava ia piazza.

Queste condizioni non migliorarono più, e nel secolo XVIII rimasero inalterate, quali risultano nel 1713. Il giorno dell'abolizione del S. Uffizio il R. Erario non in- camerò più di 4000 onze annuali (2), perchè già da un pezzo nuovi proventi per confische non c'erano stati; la istituzione viveva del proprio, cioè delle vecchie rendite, e la merce dei rilasciati era caduta in ribasso: tre soH in un secolo!

Ma quali spese e quali crediti!...

(i) Testo spagnuolo, citato dal La Mantia, p. 55- (2) ViLLABiANCA, Diario, in Bibl. del Di Marzo, v.

sant'uffizio

Quelle sole dei provvisionati salivano alla somma di onze 2519 annuali; ed i crediti a 3535 (2),

Tuttavia, fino al settimo decennio del secolo esso si permetteva dei prestiti al Senato della Città.

L'argomento, del resto, delle condizioni finanziarie ed economiche e dell'amministrazone del S. Ufficio in Sicilia non fu mai studiato.

Forse un errore ha fatto dimenticare che i documenti son lì, nell'Archivio della Gancia in Palermo; perchè nel- l'ultimo rogo, alzato non ai vivi ma alle carte del Tri- bunale, si ebbe cura speciale, nell'interesse dello erario, dell'Archivio civile.

Sono 1858 grossi volumi dal 1500 al 1782, contenenti plegerie civili e militari, memoriali, deposti, cedule, sen- tenze, esecuzioni (tutte, s'intende, per cause civili), atti e mandati di assento, lettere delegatorie, consulte, atti di tassazione, introiti di atti spediti, relazioni, biglietti vice- regi. E questa è materia preziosa per lumeggiare la parte amministrativa di quel Tribunale, alla quale non sarebbe inutile guardare per darsi ragione della vita politica e re- ligiosa della istituzione. Uno di quei volumi, il 1594, ^ ^^ Libro di cassa del Tribunale del S. Uffizio dall'agosto 1761 al marzo 1782: bastevole esso solo a fornire la mi- sura della importanza di questo elemento di storia sici- liana.

(i) La Mantia, L'Inquisiz. in Sicilia, parte II, Documenti, n. IX, pp. 64-65; Palermo, 1904.

116

Capitolo VII TORTURA - SEGRETO

>'CHE i ministri del Re erano obbligati al segreto intorno alle comunicazioni che ricevevano dal S. Uffizio.

Tra le carte che ci avanzano del S. Uf- fizio in Sicilia, ecco una Dichiarazione del Segretario di Stato ed Ecclesiastico, di osservare rigo- roso segreto delle materie del S. Uffizio:

« Io sottoscritto. Segretario di Stato per gli affari eccle- siastici di S. M, il Re delle due Sicilie, precedente suo real ordine, giuro gli Evangelj di osservare il Segreto secondo le leggi della S. Inquisizione in tutte le materie attinenti alla medesima, che saranno a me descritte per passarle alla notizia di S. M., e dalla Maestà del Re mi ha ordinato di comunicarle alla S. Inquisizione. Napoli, a' 9 ottobre 1751.

Il Marchese Brancone » (i)

(i) Ms. Qq H 62 della Bibl. Com. di Palenno.

XI7

SANT'UFFIZIO

Due celle ripetutamente accennano alla tortura. Cer- chiamola, non nelle fiere requisitorie degli scrittori moder- ni, ma nelle fredde relazioni del tempo, in quelle cioè che provengono dalle mani stesse degli Inquisitori.

La tortura non era pena, ma espediente per iscoprire la verità, e come tale non infamava. Se la imputazione era p. es., di sacrilegio con complici, la tortura si dava per isco- prire con rigoroso esame i fatti; se si confessava parte o tutto il delitto o i complici, si dava prò ulteriori veritate « sull'uso cioè ed i complici senza pregiudizio delle cose con- fermate e provate». Se invece si negava tutto e gli indizi erano sufficienti, la tortura era data prò habenda veritate, e allora poteva dividersene la durata in guisa da applicarsi in due giorni consecutivi.

La tortura ordinaria era la corda; e di corda parla som- messamente la prima stanza, e del modo terribile ond'era data.

Se il reo era indiziato d'eresia e, più, della qualità d'averla profferita, confessata la intenzione, avea ragione d'esser creduto; e allora veniva tormentato non già per la intenzione, ma per altri intendimenti, come sarebbe quello dei complici e prò ulteriori veritate, perchè la confessione di simile delitto sembrava per naturale indizio che il delinquente l'avesse potuto commettere altre volte, più di quelle che avesse confessate.

Quando il reo confessava con lo esame della corda un delitto che nei suoi costituti avea negato, lo si chiamava a ratificare la confessione infra 24 ore, fuori del luogo dei tormenti (i).

(l) Documenti appartenenti al Tribunale del S. Officio di Sicilia, voi. II, Ms. Qq H, n. 63 della Bibl. Comunale di Pa- lermo.

118

TORTURA - SEGRETO

Limborch descrive la camera dei tormenti con tetri colori da far paura. Egli parla della spagnuola; ma si sa che una era la spagnuola, la sarda e la siciliana.

« Il luogo di tortura », egli dice, « nella Inquisizione spa- gnola suole il più delle volte essere un antro sotterraneo ed oscurissimo... Quivi è alzato il tribunale, in cui siedono l'Inquisitore, il Provisore e lo scriba. Accesi i lumi e fatto entrare il torturando, il carnefice, stato ad attendere tutti gli altri, diventa esso medesimo ragione di spettacolo e di contemplazione. Coperto d'una veste nera di lino, lunga fino ai piedi, stretta tutta al corpo, ha il capo coperto d'un cappuccio nero ed oblungo, che gli nasconde il viso, lasciando solo due piccoli buchi. Tutto questo mira ad incutere maggior terrore all'animo ed al corpo del mise- rello, e ad imprimergli la immagine di qualche diavolo, per le mani del quale dev'essere torturato » (i).

L'Inquisitore gli ordinava che spogliasse il reo, se ma- schio; che si spogliasse da fino alla vita, se femmina. Così, legato con le mani dietro, i piedi anche essi legati con una tavoletta interposta alle due noci (malleoli interni) tormento es- . sola e dei più crudeli l'imputato veniva con una fune alzato da terra.

Il tormento più leggiero era detto a tocca o non tocca, in cui lo si sospendeva a fior di terra: benefìcio concesso a coloro che, a giudizio del medico, non potevano assogget- tarsi a tormenti più gravi.

La corda come mezzo di confessione si dava per qua- lunque imputazione, accusa, sospetto dalla più lieve in- frazione di precetti della chiesa ai più infami delitti.

(i) Phelippi e Limborch, Historia Inquisitionis , lib. IV. cap. 29, p. 321. Amstelodami, apud Henricum Wetstenium, MDCXCII.

119

SANT'UFFIZIO

Nelle Istruzioni di Toledo del 1561, le quali facevano testo in Sicilia, sotto il n. 24 si prescriveva la corda anche per coloro che con intenzione mangiassero carne nei giorni proibiti dalla Chiesa. Alla corda seguiva la condanna (i).

Se dovesse scendersi a particolari intorno alla maniera con la quale in cosiffatta applicazione di tormenti si pro- cedeva, quelle medesime relazioni ed altre del genere ce ne offrirebbero molti, l'uno più triste dell'altro.

La fune onde sollevavasi pendeva dalla volta del car- cere entro una carrucola che comunicava con un argano, la cui méinovella il boia teneva sempre tra . le mani ai cenni dei giudici inquirenti.

Lo scriba o notaro, tutto occhi e tutto orecchi, guardava ogni atteggiamento del viso e del corpo del torturato; racco- glieva ogni menomo sospiro e ne prendeva rota. Non una lacrima, non una sillaba doveva sfuggirgli; tutto doveva egli consacrare sulla carta, principiando dalla possibilità che quegli impallidisse o tremasse, indizi gravi a carico dell' ìibH putato. ^^

La durata della corda segnata dall'orologio a polvere era di mezz'ora : una vera eternità pel sofferente.

Se il torturato veniva colto da un male, la corda si interrompeva, e l'ampolla della polvere si coricava per sospendere il corso, che poi si riprendeva fino al compi- mento della mezz'ora. ^m

Era vietata durante la digestione; vietato per le posagli bili fratture di braccia, per impossibilità fisiche lo squasso, vietato qualunque peso ai piedi nel momento dell'alzata da terra; vietata la ricerca della confessione per fame o per

(i) Documenti appartenenti al Tribunale del S. Officio Sicilia, voi. 2", Ms. Qq H 63 della Bibl. Com. di Palermo.

120

TORTURA - SEGRETO

sete. Eppure i disegni e le iscrizioni accusano tutto il con- trario e tormenti ben più gravi che questi! Ma il giudice dovea « mostrarsi nel volto anzi rigido e terribile che no », ed è facile immaginare quale effetto dovessero produrre nei poveri inquisiti quei visi e la figura demoniaca del boia. Il fatto stesso di trovarsi solo in quel luogo recondito, buio, segreto, senza un testimonio a sua discolpa, in quelle condizioni, privo di un difensore (giacché dell'in- tervento di questo non era ancora il momento; e nei casi lievi, questo doveva essere scelto dagli inquisitori e solo innanzi ad essi poteva parlare con l'imputato, e nei gravi non doveva esservene); il fatto stesso, io dico, era ragione di terrore e di sbalordimento. Aggiungi la ignoranza del- l'accusa, degli accusatori; l'invito a dire quel che sapesse intomo a ciò che non gli si faceva noto o gli si taceva, e di quanti avessero potuto in un modo o in un altro con- correre a trascinarlo con vere o false denunzie a così mal partito.

Chi poteva avere avuto l'interesse di denunziarlo? e di che denunziarlo?

« Nelle sentenze tanto pubbliche quanto private (di- ceva uno dei 300 articoli che costituivano il codice del vero buon inquisitore) si devono tacere i nomi e circostanze non solamente de' testimoni, ma anche d'altre persone no- minate nel processo per qualsivoglia maniera ».

Ed un altro: (( Se un reo, negandoglisi la pubblicazione de' nomi de' testimoni contro di lui esaminati, si appellerà da cotal negatione, non deve in modo alcuni accettarsi la sua appellatione, ma come frivola e vana ributtarsi ».

Ed un altro ancora : « Gli occulti eretici devono de-

121

SANT'UFFIZIO

nunziarsi, perchè il nome del denunziatore non si puD- blica, ed egli non è obbligato a provare la denunzia » (i).

Questo segreto s'informava al tenebroso silenzio sulle denunzie e sui denunziatoti, sulla istituzione dei processi e sui nomi dei processati prima che questi si esponessero al pubblico, quando si esponevano. Un mistero circondava ogni atto, ogni mossa, ogni parola dei giudici, mistero che sosteneva ed assicurava l'autorità del Tribunale e sottraeva il pubblico lalla conoscenza di qualunque notizia pro- cessuale.

Tutti aveano interesse di serbare quel segreto: dagli in- quisitori agli imputati, dai più alti ministri ai più bassi.

Nei colpiti stessi dal Tribunale, non era solo il timore di gravi pene, o di nuovi tormenti, non solo la paura dello inasprimento del regime, ma la convinzione, radicata in tutti, che anche i semplici penitenti fossero di disonore a ed ai loro congiunti. E ciò non solo perchè peniten- ziati, ma anche per la pena avuta, per la offesa a Dio, alla fede, sia per superstizioni, sia per pratiche antiche di- sdicevoli alla religione, sia, e peggio, per proposizioni ereticali.

Nel Tribunale il silenzio prendeva forma di mutismo, dove l'apparente circospezione nascondeva la finzione, e la finzione la ipocrisia.

In quella sua selva teologico-tomistica che è la Rosa virginea, il Bertini consacrava una intiera (( contempla- zione » « all'immancabile segreto custodito con legge invio- lata nella sacrosanta Inquisizione », e levava un inno di gloria ad esso (2),

(i) Sacro Arsenale, nn. CVI, CXXXVII. pp. 377, 384. (2) Bertini, op. cit., contemplatio I, punctus VII.

122

TORTURA - SEGRETO

Più oltre, esponendo con la più fine sottigliezza un pro- cesso non ben definibile se di eresia o di apostasia (6 di- cembre 1660), e sviscerandone i più minuti ed anche insi- gnificanti particolari, taceva il reo, <( cuius nomen cogno- menque est indignum luce; et utinam ipsum nescire et videre licuisset! » (i).

Qui il silenzio toglie ragione dalla indegnità; ma in mol- ti casi proclamavasi prudenza; grande virtù, invero, della quale i ministri menavano vanto a proposito di atti pubblici e di atti generali di fede, nei quali non facevano compa- rire certe persone, al cui casato la presentazione sa- rebbe riuscita di disdoro. Per questo il S. Uffizio, in se- greto, alla presenza di poche, dotte e religiose persone, replicatamente nell'anno « esponeva dei rei; e nella solen- nità del 13 marzo 1569, nella Cattedrale di Catania, tra 67 di questi, 15 per giusti riflessi (testimone lo inquisitore Franchina) sul catafalco non furon fatti comparire » (2).

Guai se non fosse stato così! Il silenzio ed il segreto, l'anima di quella istituzione! Dai nomi degli imputati si sarebbe passato alla propalazione delle denunzie, alle ope- razioni dei giudici e forse alla luce dei delatori: cose tutte di estrema compromissione per molti!

Solo una volta si ebbe a deplorare poca osservanza in ordine così delicato; ma l'Inquisitore Supremo di Madrid fu sollecito a richiamarne all'Inquisitore Generale di Si- cilia (26 febbraio 1607), deplorando la leggerezza onde le cose che si facevano intimamente nello Steri si risapessero fuori, e minacciando la scomunica dei colpevoli.

(i) Bektini, op. cit.. De Apostasia, quaestio XII, art. i, con- templatio II.

(2) Franchina, op. cit., cap. X, p. 50.

123

SANT'UFFIZIO

Anche prima (6 maggio 1600), quest'ultimo Inquisitore (D. Luigi Paramo) avea lamentato l'accidia dei familia titolati e dei baroni, e steso un velo pietoso sulla compre messa riputazione del Tribunale a cagione di certi delit innominabili di essi (i).

L'ordinamento interno era fatto a posta per favorire" la segreta disciplina. Il portiere avea stretto obbligo di chiudere l'entrata principale a due ore di notte (cioè dopo l'avemmaria) essendosi assicurato della chiusura delle car- ceri segrete e pubbliche, del salone, e di tutti i locali del palazzo; di non aprire a nessuno, altro che ad ufficiali od a persone ben viste e ben conosciute del Tribunale, dopo essersene accertato dal finestrino presso la entrata e chie- sto il permesso ad alcuno dei signori Inquisitori (2).

Gl'impiegati non potevano ricevere mai da nessuno re- gali, pur dividendo in varie mansioni della città il tempo concesso dal breve orario (6 ore, in due volte, in un giorno) (3).

Inquisitori e ministri dovevano astenersi dai negozi, da- gli affari commerciali e dal depositare danaro in pubbli- co (4); sempre serbano il più stretto segreto. Ma se non potevano ricever nulla... se dovevano conservar la appa- renza di tenersi estranei e negozi commerciali e bancari, si creavano delle entrate e pingui sotto l'egida del santo Tribunale. Noi li rivedremo nel cap. Vili.

(i) Documenti appartenenti al Tribunale, ecc., voi. I, sub anno 1607 e 1600.

(2) Documento La Mantia figli.

(3) Documenti appartenenti, ecc., n. I, pp. lo-ii e p. i.

(4) Ms. Qq H 63.

124

TORTURA - SEGRETO

Rivenendo agli interrogatori ed ai tormenti, dirò che la natura delle domande era tale l'una più insidiosa dell'al- tra e, in caso di stregherie, così sottili nelle distinzioni, così difficili a comprendersi e così capziose nello irretire la per- sona inquisita, che solo un ingegno superiore, nella massi- ma lucidità di mente, poteva vederci chiaro.

Capziose, ripeto, ed anche astruse. Abbiamo in pro- posito nella Bibhoteca Comunale di Palermo (i) un do cumento di capitale importanza; ed è un formulario di domande da farsi per ciascuna imputazione, composto con elementi presi da stampe e da manoscritti. Eccone il ti- tolo: « Modo di procedere nel Tribunale del S. Uffizio, coir addizione di Paolo Garsia Segretario del Consiglio e di Monsignor Vidania, Inquisitore dello stesso Tribunale ». (D. Diego Vincenzo Vidania fu capo della Inquisizione in Sicilia nel 1686, regnando il debole, malsano e superstizioso Carlo II). Gli errori vi sono passati a rassegna con rigore anatomico.

Cito un esempio.

Il cap. VII riguarda le accuse di divinazione, ed i delitti, disposti per ordine alfabetico, sommano a novanta daìV Aeromanzia alla Tigeunia, nome di crimini derivati da Gitanos, zingari, che non isf uggivano mai ai sinodi dio- cesani.

Ebbene: una donnicciuloa qualunque, imputata, p. es., di malìe, un uomo accusato di negromanzia, era interrogato alla stregua di quell'arsenale.

Ciò doveva produrre effetti lacrimevoli oltre che sba- lordimento, perdita di ragione. Molti dei sottoposti a siffatte

(i) Ms. Qq H 63.

125

SANT'UFFIZIO

prove cadevano in frenesia, e abbandonavano ad eccessi non di rado terribili. E qui un circolo vizioso: perdendo il bene dell'intelletto, imprecando e bestemmiando, alcuni, già catturati come blasfemi, o come eretici, venivano con- fermati tali dal fatto stesso delle imprecazioni e bestem- mie e, perchè bestemmiatori, in commercio col diavolo.

I medici, chiamati a giudicare del loro stato fisico e psichico, <( non osavano manifestare che la confusione d'in- cessanti questioni per dogmi, lo spavento, i tormenti, il fanatismo, l'ignoranza producesse un vizio di mente, che doveva spesso impedire la condanna d'illusi, fantsistici, igno- ranti e quasi mentecatti » (i).

Ultimo memorando esempio, il processo della Margherita Cordovana di Caltanissetta, vulgo Suor Gertrude; la quale ostinata a dirsi più pura della Vergine ed innocente per- seguitata dagli inquisitori, ammessa a penitenza nella Camera del S. Uffìzio (i6 febbraio 1703), usciva in escan- descenze inaudite; ed, esaminata psichiatricamente, veniva dai periti riconosciuta con giuramento in piena salute » (2).

Al far dei conti poi era teoria clinica, che i pazzi si dovessero tenere incatenati e curare col Mastro Giorgio, cioè col nerbo (3).

Del restò, i dolori la vincevano sopra la più olimpia serenità di spirito, e la più vigorosa tempra d'uomo; e <^ tormenti » dice un adagio sncfliano, « fanno confe

(1) La Mantia, op. cit., p. 35.

(2) MoNGiTORE, L'atto pubblico di fede solennemente cele orato nella città di Palermo, a' 6 aprile 1724 dal Tribunale del S. Officio di Sicilia. In Palermo MDCCXXIV.

(3) Mastro Giorgio...

126

TORTURA - SEGRETO

quello che non si sa». La sentenza di Epicuro: « Il do- lore attuale determina la volontà » non fu mai tanto vera quanto in questi casi. Onde ha pieno chiarimento l'avver- tenza della seconda cella: Innocens noli culpari, a chi, sottoposto a suggestivi interrogatori, ne usciva reo confesso, mentre era innocente, o talvolta reo di una menzogna forzata.

.Terrorizzati dei trentacinque arsi vivi nel feroce auto- a reclamare contro il Tribunale; ed il Parlamento espri- dare di Palermo (1513), i Siciliani cominciarono poco dopo meva (15 14) in questi termini la indegnazione pubblica contro i tormenti stati applicati a molti di essi per farli confessare, e contro le confessioni, per sottrarsi a tanti strazi, di delitti di fede da loro non commessi :

« Perchè l'officio di la Sancta Inquisitioni in quisto Re- gno, tanto in lo modo di li carceri come in lo resto di lo procediri, si procedi cum plui riguri di quillo che è statuto di la ligi canonica, et di lo stilo di l'altri magistrati di lo dicto Regno; di modo che ha secuto, che essendo per lo In- quisituri passato condennati alcuni a morti, in lo thalamo, in la presentia di lo Inquisituri et soi officiali, undi era quasi lo populo tucto congregato, alcuni si hanno disdicto et revocato, dicendo ha viri confessato o per timuri di tor- menti, o per altri causi, et su stati morti cum grandissimi signi di devotioni et di boni christiani, per fina a l'ultimo di loro vita, sempre revocando loro confessioni, et dicendo che pigliavano la morti in supplicio di altri loro peccati; di manera che in lo Regno è restato alcuno rizelo et im- pressione, che alcuni di quisti siano stati morti injusta- menti; per quisto lo dicto Regno suppUca vostra Majestà vogha ordinari, che l'Inquisituri in quisto Regno digiano

127

SANT'UFFIZIO

servali lo ordini in la carceri, et in lo resto di lo procediri, secundu ordina et statuixi la ligi canonica, et non altri- menti » (i).

Ecatombe più spaventevole non fu mai più veduta in Sicilia. Di sanguinari come Melchiorre Cervera pochi ne nacquero sulla terra; gli inquisitori venuti dopo di lui si contentarono di poche unità; e quando rifuggirono dal rogo, nel gidizio delle proposizioni incriminate e discusse concludevano condannando l'interrogato all'abiurazione de formali, o de levi, o anche de vehementi, coli 'aiuto del sambenito. al carcere perpetuo o temporaneo, o.alle ga- lere di S. M. senza soldo, o allo esilio.

Nella terza dele nostre celle, sulla tunica rossa di una santa, con sottilissimo corpo acuto in caratteri parte visi- bili, parte no, con supina rassegnazione incideva:

[Galera] ?

Desterru 16

Libertà Carcere Morti

Vna di chisti non ni man- cari.

Conferma delle sorti riserbate ai prigionieri, cioè il re- mo, l'esilio (desiierro, spagn.), la liberazione, il carcere, la morte: rassegnazione che stringe l'anima più che la di- sperazione imprecante di chi tradotto senza aspettarselo in quei tetri luoghi, s'era visto rapito alla famiglia, sotto-

(i) Capitula Regni Siciliae, capp. impetrati dal Viceré Ugo Moncada a Ferdinando II, cap. CI, t. I, p. 582.

128

TORTURA - SEGRETO

posto a segreto processo senza poter ribattere le tene- brose ed interessate deposizioni.

Non v'era condizione peggiore di quella d'un cattu- rato. Tutto doveva esso sopportare; da nessuno sperare salute. Privato di ogni mezzo di difesa che potesse met- tere in luce la sua innocenza, e per la condanna divenuto scandalo del suo casato, aggravio del suo nome e della sua coscienza, non aveva modo di ottenere giustizia, sempre a lui denegata. Invano il Parlamento del 1520 chiese pei condannati facoltà di ricorrere ad un ecclesiastico costi- tuito in dignità; e con voto della Gr. Corte! Le sentenze del sacro Tribunale erano intangibili, e solo il Papa po- teva annullarle (i).

Tanta efferatezza di pene è addirittura orrorosa, ma non nuova nella storia del tempo. Riportiamoci "al passato e ce ne daremo ragione. La giustizia criminale ordinaria nor adoperava mezzi inquisitori e punitivi diversi da quelli del S. Uffìzio. Non occorrono larghe conoscenze del- l'antica legislazione siciliana (poiché qui si parla della Si- cilia) per vedere i metodi allora usati a fine di strappare una confessione, che poi dovea condurre alla pena ade- guata al delitto presunto o comm.esso, ma estorta coi tor- menti.

La tortura trascinava a confessioni di delitti non sem- pre commessi.

I « Discarichi di coscienza » dello Archivio della Com- pagnia dei Bianchi, il cui istituto era di esortare a ben morire i condannati al supplizio estremo, sono sanguinosi docuihenti di questo fatto. Su settantatrè di essi, dal 1567

(i) Capitula Regni Siciliae. etc, t. II, cap. CXX, p. 90.

129

9 - G. PURÈ - Sant'Ufflilo.

SANT'UFFIZIO

al 1785, non uno ve ne fu che non confermi questa verità; e quello del 14 febbraio 1650, di un certo Matranga, ha circostanze terribili.

(( Andrea Matranga essendo nelle tormenti della tor- tura, havendo sopportato da mezz'bora del succaro et un tratto di corda, doppo qual tratto sceso vivo a terra e toccatala con piedi, e cadutoli li braccia, havendoseli da questa positura di corpo raffreddato tutte le membra, in- terrogato che dicesse la verità, rispose non haver che dire; per la qual risposta, ordinando la Giustizia che lo tiras- sero di novo, cominciarono a tirarlo, et essendo alto terra circa doi canni, per haverseli rinovato li tormenti con maggiori dolori, quali non potendo più soffrire, si fece scendere per voler confessare tutto; e di propria bocca con- fessò haver ammazzato di propria mano, non con una sco- pettata, D. Vincenzo Brancato; ed interrogandolo di novo la Giustizia che dicesse chi fosse stato che havesse fatto far tal'homicidio, rispose: per timore di non esser di novo tirato ^lla tortura, e per non soffrir tormenti mag- giori )) ecc. (i).

Per non ismarrirci nel labirinto delle opere in propo- sito, basterà ricordare la Pratica di Zenobio Russo, pub- blicata due volte negli ultimi dei secolo XVIII, che fu una, specie di prontuario per i giudici fiscali (2).

Vigevano, dapprima rincruditi dalle Costituzioni sv€ ve, poi mitigati dalle aragonesi, i metodi del diritto re

(i) Discarico n. 20, Registro 25 dello Archivio della Com-| pagnia Bianchi in Palermo.

(2) Pratica per la formazione de' processi criminali. Nuc va edizione corretta in più luoghi e migliorata coli' aggiunta deU le istruzioni criminali. In Palermo, stampe Pelicella.

130

TORTURA - SEGRETO

mano; ma allo arresto non si procedeva senza il man- dato del giudice o del procuratore fiscale, tranne nel caso di flagranza...

« Iniziato il processo, si chiamavano i testimoni e si citava il reo per vederli giurare pria delle deposizioni. I testimoni prestavano giuramento e talvolta doppio, per inimicizia e per verità: le deposizioni si scrivevano in pre- senza del magistrato senza suggestioni e in lingua vol- gare, à per la difesa, e per laccusa, e doveansi firmare o segnare di una croce. I rei potevano proporre le loro eccezioni, ma non udirne le deposizioni »,

Le deposizioni dei rei ratitìcavansi col tormento della fune. Questi dovevano giurare di aver detto la verità e sottoponevansi alla corda se non volessero rispondere. La tortura, come pratica giudiziale, faceasi innanzi il giudice, il fiscale, l'attuario che scriveva, ed il medico; e veniva ordinata dal magistrato; e, se le prove eran gravi, acre. Dopo confessato nei tormenti, dovea il reo ratificare fuori di essi le confessioni; se non voleva essere ritormentato.

Pei reati gravissimi procedevasi palatinamenti ed ex ahrupto (i).

Un esempio di questa procedura mi viene sott'occhio mentre scrivo, ed è nella facoltà che il Presidente del Regno dava il io giugno 1657, regnante Filippo II, al Conte d'Isnello di procedere, proprio ex ahrupto, contro i

(i) La Mantia, Storia della legislazione civile e criminale di Sicilia, V. II, parte I, pp. 216-22. Palermo, Virzi, 1874.

Con rapida sintesi ne die contezza un giureconsulto del se- colo XVIII, lo sventurato F. P. Di Blasi. nella Raccolta di Opu- scoli di autori siciliani, v. Ili, Palermo, 1790.

131

SANT'UFFIZIO

suoi vassalli delinquenti, in forma larga e senza restrizione, cominciando dalla fustigazione, proseguendo con la (( con- cia vatione di mano, perforatione di lingua, obtruncatione di orecchie », e finendo ai tratti di corda in pubblico ed alla condanna in galera (i).

(( Quando aprivasi il processo, davasi notizia dei testi- moni al reo, perchè facesse le ultime eccezioni o difese». Giova peraltro notare che in Sicilia furono sempre fatte in pubblica udienza le difese degli avvocati, e alle prove del processo scritto ed in presenza dell'accusato (2).

Siffatta condizione favorevole ai rei circa i testimoni veniva, come esempio da imitarsi, invocata dagli impu- tati di eresia sotto il ferreo giogo del S. Uffizio. Che cosa domandano in fondo essi se non di conoscere i testi- moni di accusa, acciò potessero essi difendersi? E delle loro domande si fece interprete il Parlamento del 1520 (3), non ostante che giurisperiti, come Cujaceo, vedessero nella rivelazione dei testimoni pericoli di vendette e di vita (4).

Grandi giuristi combattevano la tortura; ma giuristi egualmente grandi la proclamavano necessaria; e l'avvo- cato catanese Vincenzo Malerba, sosteneva: «la cattura, la prigionia, le strettezze del carcere, i ceppi e le catene essere rimedi legittimamente stabiliti, che per necessità pre- cedono la prova compiuta del delitto. Sarà talvolta, di- ceva, un innocente colui il quale fu sottoposto alla tortura.

(i) Grisanti, Folklore di Isnello, v. II, cap. Ili, Pai., 1909.

(2) La Mantia, Storia cit., p. 223.

(3) Capitula Regni Siciliae, cap. a Carlo II, t. II, CCCXII, p. 174.

(4) GujACEo, lib. 22, cap. 25.

133

TORTURA - SEGRETO

Che perciò? I dolori che ha sofferto dovranno allora ri- guardarsi come ingiurie, non già del magistrato, ma della fortuna avversa... La tortura non è una pena che s'infligge, ma un certo criterio per iscoprire il delitto che merita la pena » (i).

E dopo queste ed altre simili disinvolte affermazioni veniva alla seguente conclusione, che è una derisione cru- dele: (( L'inconveniente di soggettare alla pena un inno- cente che nel tormento si confessa reo, non dee attribuirsi alla ingiustizia e barbarie della tortura, ma ad una colpe- vole debolezza ed alla mancanza di uno sforzo virtuoso. La pazienza è un dovere, e dovere indispensabile. L'in- nocente condannato al tormento dee accettare con rasse- gnazione e sofferire con tolleranza tutti i patimenti come un servo, il qual piega le spalle sotto la sferza che lo percuote, facendosi de' suoi propri mali un mezzo per acquistarsi un bene » (2).

Solo un grande scettico, dal cuore chiuso ad ogni senso di pietà, potrebbe ragionare in, siffatta guisa!

Quando Ferdinando III di Borbone piegò ad una certa mitezza verso gl'imputati, non seppe sbarazzarsi del triste fardello di tormenti che anche adesso, ricordandoli, fanno rizzare i capelli (3).

(i) Malerra, Ragionamento sopra la tortura, pp. 31, 38, 57. In Palermo, Rapetti, MDCCLXXVII.

(2) Malerba, op. cit., p. 109.

(3) Istruzioni per l'Amministrazione della Giustizia nelle oc- correnze delle cause e materie criminali; in Russo, Pratica, cit.. pp. 259-306.

133

SANT'UFFIZIO

La tradizione, che disgraziatamente in questo argo- mento è storia, paria del cavalletto, delle zeppe (scardi) sotto le unghie, del conio, della morsa, del lardo bollente ai piedi, del braciere sotto di essi unti di grasso, dell'im- buto e di altri strumenti e mezzi ordinari di tortura penale. Erano essi in uso nel S. U. di Sicilia? Nessuno può affer- marlo, nessuno negarlo. Certo, per quante ricerche io ab- bia fatto, non son riuscito a sorprendere una sola volta, come purtroppo ricorrono nella storia della criminalogia siciliana.

Questo nefando corredo di mezzi, caso mai, costitui- rebbe una notevole differenza di istruzione, come oggi si lirebbe, dei processi nel Tribunale ordinario e nel Tribu- nale della fede.

Ma ve n'era un'altra differenza a favore degli impu- tati del Tribunale comune. Per le conseguenze letali della tortura poteva bene ricorrersi all'autorità competente; e nel secolo XVI esiste un parere medico per un imputato affetto da cicatrice deformante perito in seguito a cinque tratti di corda (i); ma nel foro inquisitoriale non v'era ricofso, perchè esso non doveva dar conto a nessuno del suo operato. I medici ai suoi servigi giudicavano sempre o quasi conformemente alle intenzioni ed alle vedute de- gl'Inquisitori; e si sa che nessuno dei poveri dementi, delle povere isteriche fu mai dichiarato tale, anche quando le prove fossero palmari.

Il segreto intomo ai testimoni d'accusa metteva in

(i) Ingrassia, Methodus danài rationes prò mutilatis tot- quendis ecc. Ms. inedito della Bibl. Cora, di Palermo, segn. 1578.

TORTURA - SEGRETO

grado d'inferiorità immensurabile e privo d'argomenti di difese l'imputato nel S. U. il rogo coronava questa; e quando il condannato non dava segni di resipiscenza, ve- niva senz'altro bruciato vivo.

E che diremo delle pene del sambenito, che rendevano odioso e vitando il penitenziato? ed il povero notaio Da- miano (cap. Vili) ne seppe qualche cosa. Che della con- fìsca di tutti i beni della famiglia? Che della interdizione dei figli dei condannati alla muratura, alla morte?

135

Capitolo Vili LO SPETTACOLO

QUILLA la tromba, e tutto il popolo, preav- visato dai tamburi, vien chiamato allo Spettacolo. Preceduto dal vessillo della Santa Inquisizione splendente della bel- lezza delle stelle e del sole, esce dal Pa- lazzo del Santo Uffizio il festivo corteo. Il popolo esulta, suonano le trombe. La fama di tanto trionfo nel trofeo del- la fede insigne, con liete acclamazioni condotto e celebra- to, vola per le bocche e le orecchie di tutti, così che nes- suno, di qualunque condizione, sa trattenersi dal parteci- pare a tanto gaudio. Con cetere, cimbali e sistri celebrano i cantori la Santa Croce. Somma è la devozione con la quale si guarda la sacra milizia dei familiari del S. U.; chiamati da tutto il Regno o da alcune città, quale se- gue la Croce con le nostre insegne dei Predicatori; la cro- ce nera e bianca in petto. Mentre si alternano tra loro i cori degli angeli. Qualificatori e Consultori, divisi per di- gnità e meriti, in gran cavalcata compongono una schiera

I3b

LO SPETTACOLO

ordinalissima e splendidissima, coronata dall'Ordinario coi Segretari.

(( Con fasto degno di loro vengono questi Signori ma- gnificamente, su cavalli bardati, con borchie preziosissime e selle di seta.

(( Ecco il sommo, l'ottimo, il massimo Inquisitore e Giudice, in cui si accentra ogni potestà del Cielo e della terra e che, secondo la divina Scrittura, sorge e primo giudica la causa di Dio. Oh come così decorati procedono festanti i giudici della Fede, belli nelle stole, grandeggianti nella loro forza! Nella lor toga vermiglia e nelle eccellenti spoglie dei nemici della Fede, danno alla Chiesa un ful- gore splendidissimo.

« In tanta gloria giungono al luogo ove, illuminato di celestiale bellezza, sorge il trono. Quivi, accompagnati dai loro ministri, con maestà, grazia, severità si assidono (i)- Alla loro vista paventano sopraffatti da pensieri i rei.

(( Però se i nemici della fede coi loro perversi dommi si edificano il tetro carcere, si edificano pure la regione della caligine e, come vilissimi servi, si preparano la con- danna alle infernali triremi.

(( Ora se tutto questo si compiesse in segreto, non si vedrebbe T iniquo ed orribile volto di siffatti rei, perchè esso era celato dalla maschera (galea) e perciò gl'Inquisi- tori prendon le armi, sguainano la spada contro questi

(i) Sulla tribuna dello spettacolo, il posto più alto, eccelso, era quello degli Inquisitori; il capitano ed i giudici, a destra; il Senato a sinistra, un palmo più basso di loro: e nelle carte del- l'archivio della città sono notate le spese che questa faceva per lo steccato in onze 4, pari a L. 51. Vedi Nuove Effemeridi Sici- liane, III serie, voi. XI, 1881 : Spettacolo dell'inquisiti del 1640.

SANT'UFFIZIO

nemici di Cristo, troncano loro teste e smascherate le pre- sentano al pubblico, affinchè siano a tutti visibili questi spettri orribilissimi, specie di furie infernali.

« E' d'uso che qualcuno, sempre dell'Ordine dei Pre- dicatori, bandisca i misteri della fede e flagelli con la parola i crimini dei rei, A destare terrore in essi e in al- trettali empii, dopo il sermone dei nostri padri, a ragion di biasimo si leggono i processi istruiti dal S. Ufficio contro i delinquenti, e le cose già prima scritte in segreto si ma- nifestano in pubblico.

« Letti gli atti di ciascun reo, i reconciliandi si am- mettono al perdono ed alla penitenza. Ginocchioni innanzi gli Inquistori, ricevono accesa la candela che han portata spenta. Quindi, secondo la natura dei delitti, si fa l'abiu- ra e si percuotono lievemente con la verga: potestà giudi- ziaria, questa, che gl'Inquisitori esercitano sui loro soldati; e siano, per siffatta percussione, ammoniti i rei di non più ricadere nei delitti trascorsi. Finalmente per l'asper- sione dell'acqua santa vengono cacciati i demoni, alla sug- gestione dei quali essi soggiacquero.

(( Vuoi tu vedere i maledetti darmati al fuoco etemo? Eccoli, gl'impenitenti che rifiutano la misericordia di Dio. Ostinati fino alla morte, vogliono soggiacere all'impero del diavolo. Costoro, coperti d'una tetra, fetida ed orribile veste (i), serpeggiata tutta di fiamme infernali, vengono tradotti allo spettacolo. Qualificatori ed altri religiosi di gran nome e scienza si affaticano a vincerne l'empietà, fin- ché, terminata la lettura del processo, questi empi ven- gono consegnati al braccio secolare per essere ridotti in cenere.

(i) Era una veste impeciata.

13»

LO SPETTACOLO

« Tra i carboni che bruciano le cataste di legna, le cruenti fiamme dell'accesa fornace ed i crepitanti fuochi perseverano impavidi per la salute delle loro anime i sacri padri, e con parole, esempi ed orazioni anelano alla loro conversione; li lasciano finché non abbiano essi esalato l'ultimo respiro. Che se si convertono, fatta la confessione sacramentale e ricevuta l'assoluzione, vengono strangolati e poi bruciati; e se impenitenti, senz'altro inceneriti tra le stridenti fiamme» (i).

Parecchie settimane prima della celebrazione dello spet- tacolo, esso veniva con una stampa annunziato nei soliti luoghi della Capitale e delle città e terre di Sicilia, gridato dal Banditore del Senato di Palermo (2) in toga di vel-

(i) Bertxni, op. cit.. t. I, pp. 54-57.

(2) Ecco la formola del bando:

« Di ordine e comandamento del Tribunale del S. Officio sri fa intendere a tutti i fedeli Cristiani di questa Città di Palermo, come il giorno tre del corrente mese di Aprile, si celebrerà Atto pubblico di Fede nella Real Chiesa di San Domenico, dove tutti quelli che si ritroveranno presenti guadagneranno l'Indulgenze concesse dalli sommi Pontefici. E si comanda, sotto pena di sco- munica maggiore, che dalli 14 ore in poi di detto giorno, non si possa predicare, celebrare messa in nessuna chiesa. Monastero convento di questa predetta città.

« Palermo nel Tribunale del S. Officio a' primo d'apriic 1737. D. Ignazio Garaio Secr. ».

E siccome questo bando non si credeva sufficiente, si dira- mava il seguente avviso:

« S'intima d'ordine del Tribunale della SS. Inquisizione a tutti li Rev. Parrochi, Superiori de' Monasteri, Regolari di questa Città, che dovendosi celebrare Atto pubblico di Fede partico- lare nella Chiesa di S. Domenico dovessero terminare le messe ed altre funzioni delle loro chiese per l'ore 14 secondo si ha costu-

139

SANT'UfTIZlO

luto cremisino su cavallo con gualdrappa trapuntata ad oro e con l'accompagnamento dei contestabili a cavallo con sopravvesti di damasco, e predicato in alcune chiese. Il bando inquisitoriale minacciava la scomunica maggiore a tutti i parroci, Rettori e superiori che nelle loro chiese si fossero permesso di predicare o di celebrar messa cantata prima della messa del S. Ufficio.

solo il Banditore, ma c'entrava anche il Senato, d'ordine del quale il banditore faceva le grida. Da quale legge risultasse questo intervento non sappiamo (i). Forse la innata cortesia del Magistrato del Comune avea male abituati i Signori Inquisitori; che essi avevano preso come dovere quello che era gentilezza ed ospitalità.

Infatti non v'era solennità o spettacolo inquisitoriale al quale questo non pigliasse parte; e l'uso entrò nel calen- dario pretoriano e da questo nel Cerimoniale del Senato. Non sarà inopportuno a questo proposito avvertire che quando giungeva un nuovo inquisitore nella capitale, il Senato recavasi in corpo a visitarlo, e poi nella restitu-

mato in simili funzioni. D. Pietro Orbistando Secr. ». Ms. Qq H 64 della Bibl. Comunale di Palermo. Vedi pure negli Atti, Bandi e Provviste del Senato di Palermo, nell'Arch. Com., il voi. del- l'a. 1526-27, indiz. XV, f. 7, un avviso deli'Ing. Agostino Ca- margo in data del sett. 1526.

(i) Il Ceremoniale dell'Ill.mo Senato Palermitano formato da D. Bald. di D. Bernardino Bologna, Maestro di Ceremonie del medesimo Senato, proscriveva che « ne gli publici spettacoli, che soglion fare gl'Inquisitori della S. F. in alcune delle piazze di questa città de i prosequti per la S. Fede Catholica, volendo quegli che il Senato (come ha costumato) vada à fare compa- gnia in quella giornata, deveranno mandare alcuni giorni prima ad invitarlo.. ». Cap LXVII.

140

LO SPETTACOLO

zione della visita andavagli incontro fino a mezza sala del palazzo.

Nella pubblicazione dell'editto di quaresima, ricevu- tone ufficialmente lo avviso, Pretore e Giurati andavano a rilevare nel Palazzo del S. U. l'Inquisitore o gl'Inquisitori e cavalcando con essi, seguiti dai loro ministri, si avvia- vano alla Cattedrale, donde, senza scender da cavallo, lasciatili, si partivano ad accompagnare nel suo palazzo come, a lettura finita, gl'Inquisitori nel loro. A buoni conti il Senato rappresentava il padron di casa, e nelle solennità di fede, quelli erano l'autorità propria e la mag- giore. Per questa medesima ragione nel caso di pubblico spettacolo. Senato e Giurati, udita nella propria cappella la messa, si recavano al Palazzo del S. U. e, ricevuti a pie dello scalone, dagli Inquisitori, con essi cavalcavano verso il luogo dello spettacolo medesimo (i).

Lo spettacolo si celebrava ora in uno, ora in un altro posto; e, quando doveva finire col fuoco, in una grande piazza. Le chiese della Magione, di Santa Cita, di San Francesco d'Assisi, di San Domenico, e sopra tutte le Cattedrale echeggiano ancora delle invettive dei predicatori agli accusati e delle monotone voci, mortalmente noiose, dei leggitori dei processi (2); e le piazze della Marina, della

(i) Ceremoniale dell'Ill.mo Senato palerminato . formato da D. Baldassare di Bernardino Bologna, maestro di Ceremonie del Medesimo Senato et uno de' Senatori in quest'anno. eindiii- cazione, 1610 e 1611, capp. XV e LXVII. Palermo, 1895 e 1899.

(2) Altra chiesa, ora non più esistente, nella quale il Tri- bunale compieva atti di fede incruenti, era quella di S. Niccolò la Kalsa. Documenti inediti ne notano del dicembre 1661, del 23 luglio e del 12 ottobre del 1662. Ms. Qq H 62 della Bibl. Co- munale di Palermo.

141

SANT'UFFIZIO

Loggia, della Bocceria, dei Bologni, della Ferrovia (i), del- lo Spasimo (2) e di Sant'Erasmo degli urli sprigionantisi di mezzo alle fiamme.

Uscivano dal palazzo del Santo Uffizio ad uno ad uno; ma prima di varcare la soglia fatale e di comparire in faccia al pubblico ricevevano, ciascuno per sé, uno o due fratelli della Congregazione della Pescagione, persone di sp>ecchiata condotta che, a titolo di distinzione e di carità, dovevano, durante la funzione tutta, accompagnarli e confortarli. Andavano nel lungo stuolo, dopo le fraterie, le parrocchie, la comitiva dell' Alcade delle segrete, tutta di cavalieri del Tribunale e prima dei dignitari di esso; ed erano maschi frammisti a femine, primi i rei di lievi de- litti, ultimi i rei di delitti gravi, gravissimi.

Strabocchevole la folla degli spettatori, attratti più che dalla intenzione di fare opera meritoria, dalla etema cu- riosità morbosa che spinge ad accorrere ad una berlina co- me ad una féerie teatrale, ad uno spettacolo raccapric- ciante come ad un'allegra cuccagna. E ci si divertiva tanto

(i) Una lettera del Pretore e dei giurati di Palermo a Fer- dinando il Cattolico, in data del 27 giugno 151 1, parla del plano nantj di li ferrarj, che oggi corrisponderebbe presso la im- boccatura della via Calderari, in via Macqueda.

(2) Questi due luoghi come teatri di Atti di fede vengono fuori soltanto ora per via di documenti inediti. A proposito del- lo Spasimo, una lettera di Ferdinando, del 4 giugno 1513, di- ceva al Pretore ed ai Giurati di Palermo che « non si faccino più roghi di eretici e di sodomiti innanzi il monastero di S. Ma- ria di Montoliveto » (Lo Spasimo). [Atti, Bandi e Provviste dal- l'Archivio Com. di Palermo; a. 1513-14, indizione II, p. 303 retro). Donde viene in luce una autodafé nuovo per la storia, ed interessante per la sua data.

142

LO SPETTACOLO

tanto, sopratutto quando la processione finiva col brucia- mento di vivi.

Cronisti e storici del tempo rilevarono con vivo com- piacimento la pubblica soddisfazione per siffatti spettacoli: e per quello del 1573, celebrato nella piazza dei Bologni (allora detta . . . .) presenti il Viceré, i Ministri, il Senato e la grande nobiltà, nel quale « la prima volta uscì la croce verde portata da un primario nobile collocata sopra un altare adorno di verde, con baldacchino verde sopra»; e si bruciarono in istatua otto condannati, e due in per- sona; la cosa, racconta il Franchina, ebbe '( lo applauso pel Tribunale » (i).

Il Mongitore, che è pure uno dei più chiari e benemeriti della storia letteraria ed ecclesiastica di Sicilia, chiudeva la sua descrizione del solennissimo autodafé di fra Romualdo e suor Gertrude annunziando: « Così terminò l'ultima scena di questa rappresentazione lieta insieme e lacrime- vole » (2).

Siccome poi un autodafé generale non poteva sbrigarsi in poche ore, si provvedeva con antecedenza a conforti dello stomaco degli intervenuti.

Il pubblico grosso portava da casa sua o comperava sul luogo quanto credesse necessario.

Per pagar... il solito tributo

Al famelico ventre ed importuno;

ma la haute, sia ecclesiastica, sia secolare, doveva pensarci prima: e ci pensava. Eppure mentre nell'ultima incisione

(i) Franchina, of>. cit., cap. X, p 3». (2) Mongitore, op. cit., p. loi.

SANT'UFFIZIO

dello Atto pubblico di fede del Mongitore, celebrato nella pianura di Sant'Erasmo in Palermo, in giro allo steccato dei due che si contorcono tra le fiamme si vedono popolani e popolane banchettare all'aperto, e venditori di pane, di vino, di dolci e di varie ragioni di comestibili spacciare merci e leccornie, nel testo dell'opera si parla di pranzi che durante la lettura dei processi, nel largo della Cattedrale, davano nelle stanze dietro i palchi delle loro corti, gl'In- quisitori, il Capitano Giustiziere, il Senato, ecc. E non soltanto alle loro corti, ma anche alle dame inviate dalla Capitanessa e dalla Pretoressa; pranzi splendidi e succulenti. La minuta di queste scorpacciate non la sappiamo, ma dobbiamo immaginarla degna degl'illustri spettatori; e dob- biamo credere che la table à thè venisse presa d'assalto. In occasioni come quelle non si lesinava sulle spese, che salivano a cifre veramente enormi, tutto dovendo andare con grandiosità. Fuori Sicilia in Cordova, p. e., il 29 giugno 1665, nella celebrazione di un atto pubblico di fede simile a quello del 1724 in Palermo col bruciamento di due uomini e di una donna, furono non già mangiati ma di- vorati da ventiquattro persone del Capitolo, da altre del clero, dagl'Inquisitori e da certi loro affezionati (incredi- bile, ma vero!), quattro vitelH, otto prosciutti, trenta libbre di Cctstrato, ventiquattro midolli, un canestro di agriotte, un cestone di mele, cento ottantasei polli e duecento quattro pani con l'aggiunta di quindici chili di biscotti, quindici di cannelloni e di cannelle e settantacinque di amigotas, senza contare dugento venticinque litri di vino e di non so quanti altri liquori, nella composizione dei quali entrava

144

LO SPETTACOLO

cannella, zafferano e pepe: un pranzo di Assuero con fame canina (i).

Ripigliando la esposizione, dirò che la processione si fer- mava nel luogo designato per la lettura dei processi. I pa- drini non lasciavano un istante i tristi loro affidati, come i confortatori i rei più gravi. Quivi prendevan tutti posto sopra un palco, i cui gradini dall'alto al basso rappresenta- vano la degradazione dei delitti, dalle maggiori eresie dei recidivi e degli ostinati alle lievi trasgressioni dei pre- cetti della chiesa di ignoranti o di illusi. Tetraggine e terrore spirava il pallio dello altare ed ogni altro apparato della ce- rimonia. Ad uno ad uno, chiamati per nome, cognome e delitti, scendevano dal palco ed eran condotti in mezzo dello ' spazio libero : ragione non sai più se di orrore o di compas- sone. E protestavano di esser pentiti e giuravano sul Van- gelo di non più ricadere nei passati errori e recitavano la forma dell'abiura dettata loro dallo stanco leggitore dei sin- goli processi, e seguita dalla indicazione della pena alla quale erano condannati.

Questa, pei rilasciati, era la morte: ultima ratio pro- nunziata, non già dagli Inquisitori, ma « dai giudici seco- lari, i quali presenti nel palco, senza conoscere altro me- rito di causa che la pura e semplice relassazione al loro braccio da parte del S. Uffìzio, pronunciavano la sentenza di consegna alle fiamme o ad altro genere di pena ordinaria, di morte secondo le qualità de' delitti e disposizione del reo » (2).

(i) R. Ramirez de Arellano, La Inquisicion en Cordoba; Noticias curiosas para illustrar su historia, in Boletin de la R. Academia de la Historia, t. XXXVIII, p. 170, Madrid, 1901

(2) Franchina, op. cit., cap. X, p. 51.

10 - G. PITRÈ SanfUHlrlo.

SANT'UFFIZIO

Per grazia particolare, i pentiti, confessati ed assoluti, venivano, come abbiam sentito dal Bertini, strozzati prima che bruciati; gl'impenitenti, bruciati vivi. Ed allora era di rito la « dispersione delle ceneri del bruciato vivo al vento o a mare, perchè di tanto vitupero non restasse traccia, men- tre poi agli occhi dei figli, dei congiunti, dei discendenti e del popolo tutto, nella chiesa di San Domenico, ad una delle navate, s'attaccavano gli abiti bruciati, con la tabella o manteta (i) contenente il nome, il cognome, la paternità, la patria e la specifica del delitto: pubblicità che solo una violenta rivolta dei Palermitani potè far cessare {2).

Come non tutti i rei tutti gl'imputati cadono nel laccio della Giustizia ordinaria, così non tutti gli eretici o sospetti di eresia venivano arrestati. Allora si fabbricava loro il pro-

(i) Era, la manteta spagnuola adottata anche in Sicilia, un pezzo di tela oblunga, sulla parte inferiore della quale si scri- veva il nome, la qualità, lo stato ed il delitto del condannato e l'anno della sentenza.

(2) « Era costume d'appendere nella chiesa di S. Domenico alle muraglie gli abiti degli eretici già dichiarati per pubblica sen- tenza della S. Inquisizione, acciò si tenesse avanti gli occhi sem- pre viva la dannata memoria dei nemici di Santa Fede con la tabella de' loro nomi.

« La plebe, insolentita ed instigata da alcuni nobili malcon- tenti, tumulto in siffata maniera che, concorrendo a furia nella chiesa sudetta di S. Domenico, stracciò le vesti appese da moltissimi anni lacerandole in minutissimi stracci. Fu d'uopo sedar quell'alterazione del popolo, il quale richiese per soddisfa- zione che non mai più s'appendessero quegli abiti co' nomi e cognomi degli eretici sulle muraglie di S. Domenico o altrove nel Regno. Ed essendo accordata la sua richiesta, si sedò con pieno decoro dell'Inquisizione ». Franchina, op. cit., cap. XI, p. 66.

146

LO SPETTACOLO

cesso in contumacia, chiuso con la condanna al rogo in effi- ge, o in istatua.

Di codesti spettacoli, carnevaleschi quando nel medesi- mo giorno non se ne avea per vivi ed in persona, se ne con- tano cento ottanove nei tre secoli. Si dipingevano su carta le figure dei rei assenti o morti o fuggiti o irreperibili, e con tutto l'apparato del supplizio vero, si conducevano al luogo del rogo e si consegnavano alle fiamme, senza che un solo particolare della cerimonia venisse omesso.

Che se il reo era morto e se ne riusciva a scoprire la sepoltura, se ne esumavano le ossa, le quali chiuse in una cassa, preceduta dalla sua presunta effige, previe le funzioni della lettura del processo, e della consegna ai giudici secola- ri e della sentenza, si davano in mano al boia, che sapeva bene il da fare.

Guai al pietoso che avesse osato seppellire il cadavere d'un eretico! Egli rimaneva issofatto scomunicato; poteva essere assoluto finché non lo avesse disseppellito (i).

Giacché per l'eretico o pel sospetto d'eresia non v'era pietà. Nella istruzione del processo e nel dibattimento, se tale possiamo chiamarlo, s'intende sempre segreto, tutto era ammesso fuori che la difesa. A chi avesse conosciuto un occulto eretico, si faceva stretto obbligo di denunziarlo, re- stando occulto il nome del denunziatore e non obbligatoria la prova della denunzia. Nulli i testimoni a favore; ammesso a provare il delitto il figlio contro il padre, il padre contro il figho, la moglie contro il marito, il marito contro la moglie, il servo contro il padrone, il padrone contro il servo (2).

(i) Sacro Arsenale, n. CCLXVI, p. 416. (2) Lo stesso, nn. CXXXVII, CCLXIX, pp. 384, 400-401, 417-

SANT'UFFIZIO

Con tenebrosa procedura è facile immaginare quali vendette si potessero esercitare e con quale impunità lasciar correre. Mogli stanche dei loro mariti, mariti desiderosi di libertà, insofferenti tutti del vincolo matrimoniale, avevano per tal modo agio di bearsi in illeciti amplessi. Solo gli eredi rimanevano in mezzo ai guai, sorgenti dalla confìsca dei be- ni loro spettanti.

L'avvocato che difendeva un reo che egli in coscienza sapesse eretico, era infame e punibile.

Dal semplice penitenziato al rilasciato, una la messa in iscena, triplice la rappresentazione: un sacco chiamato sam- benito, sacco benedetto nei primi due, e viceversa poteva dirsi maledetto nel condannato a morte e si chiamava origi- nariamente zimarra. Il sambenito per la sua forma ha ri- scontro nel così detto abito degli ascritti alle attuali confra- ternite; ed era volgarmente chiamato abituilo. Se non che, quello dei penitenti diremo così di primo grado, portava so- pra un fondo giallo disegnate in nero due sbarre traversal- mente oblique in forma di croce di Sant'Andrea; quello di secondo grado, ossia del riconciliato che aveva riconosciuto i suoi errori di eresia ed aveva abiurato, delle fiamme capovolte ed una mitra in capo con le medesime fiamme, quasi per significare che per la penitenza si era liberato dal rogo che avea meritato; e quello di terzo grado, fiamme e diavoli in atto di arroncigliare il reo ed una testa sopra una catasta di legne accese. I primi due nel momnto di uscire allo spettacolo portavano per ignominia una corda di gine- stra al collo, un rosario ed una mano, una torcia di cera ver- de spenta alllatra, torcia che veniva restituita accesa dal- l'Inquisitore dopo il perdono. Prima e dopo della condanna il riconciliato passava per ogni maniera di torme-nti. Non si

148

LO SPETTACOLO

era sicuri della sua conversione, e lo si sottoponeva a prove terribili. Il qualificatore e consultatore Bertini fa la lunga storia d'un accusato che il 6 dicembre 1660 subì l'epilogo dei suoi errori rimanendo « represso, confutato, esinanito ». Chiamato alla secreta udienza, confermò le cose dette, pro- nunziate scritte per molti giorni, negando l'errore della mente e dichiarando aver tutto detto per odio a Dio. Vive discussioni si accesero tra i giudici, se egli fosse un apostata o un eretico, e che cosa dovesse farsi d'un uomo che negava l'errore di mente e bestemmiava. In tanta perplessità, cer- cano convertirlo. Lunghe le insistenze; finalmente egli vede il suo fallo e con immensi dolori e pianti dice essere stato mosso da scelleratissimo odio verso Dio, proprio per errore di mente e chiede perdono e pietà. Gli Inquisitori si com- muovono e gl'infliggono la più mite delle pene: uscire al pubblico spettacolo con le insegne di eretico formale; duran- te la lettura del processo terrebbe la mano destra confitta con un ferro ad un legno.

<( Premessa l'abiura de formali, riconciliato veniva pu- nito con duecento bastonate, perpetua irremissibile reclusione e altre penitenze salutari finché tra quattro mura, stanco solo seduto, apprendesse in silenzio la via della verità, e nella meditazione dei suoi delitti bruciasse del fuoco della compunzione piangendo le sue scelleratezze » (i).

Il caso è unico nella storia del S. Uffizio in Sicilia, V'era una specie di codice ed una procedura di Spagna e la applicazione dell'uno e dell'altra rimaneva inalterata.

In casi meno gravi, per semplici sospetti di vacillamen- to di fede, il riconciliato, dopo la pubblica abiurazione dei

(i) Bertini, op. cit., pp. 516-49. 149

SANT'UFFIZIO

suoi errori, veniva ricondotto nelle prigioni per espiare la pena della condanna (i).

Pena pel sospetto d'eresia e già pentito era il carcere chiuso, dove egli, secondo la formula della sentenza, vitam in fletu et lacrymis peracturus, ad arbitrio del giudice, do- nec per nos (dicevano gl'Inquisitori) aliter sit diffinitum.

Pene minori dovevano sostenere i processati e pentiti per poligamia, sortilegio, superstizioni e, peggio ancora, per esercizio sacerdotale senza esser sacerdote. Nel 1724 essi venivano condotti per le principali strade della città alla frusta sopra vili giumenti e alcuni « con vergognosa mitra sul capo »; altri alle sferzate, altri al remo, tutti al carcere e tutti all'esilio (2).

Qualunque fosse la condanna non poteva mai Ìl condan- nato durante il tempo designato, smettere Vabitello; amara testimonianza dei suoi trascorsi; come non poteva smetterlo il penitenziato semplice (3).

E doveva essere un ben triste distintivo, capace di ren- dere repellente chi lo poriiava se un notaio riconciliato e pe- nitente, non trovando modo di guadagnarsi da vivere, sup- plicava gl'Inquisitori che glielo volessero commutare. Dice- va lo sventurato :

« Rev. Signori Inquisitori. Il poviro notar lacobo Da- miano, reconciliato per lo S. Officio della Inquisizione, fa intendere a li S. V. R. qudmenti per multi modi et expe- dienti che ipso ha cercato, non trova forma nixuna di poti- risi alimentari se non di retornarsi in sua terra di Racalmu- to undi cum lo aiutu et subsidio de li soi parenti si porria

(i) Franchina, op. cit.. cap. X, pp. 49-53-

(2) MONGITORE, Atti, p. 103.

(3) La Mantia, op. cit., p. 35.

150

LO SPETTACOLO

substintari et finiri li pochi jorni di sua vita stanti la sua vichiza e infirmitati. Et perchè tanto esso comò dicti soi parenti sono stati et sono persone di honore, talché vedendo ad esso esponenti cum lo dicto abito {sambenito), a nullo modo lo recogliriano anzi lo cacciriano et lo lassiriano andari morendo de fame et de necessità. Pertanto si butta a li piedi delli S. V. R., siano serviti farli gratia di commu- tare il ditto habito in altra penitentia et pena pecuniaria per la redemptione delli christiani captivi che stanno in terra di Mori, che esso supplicanti recoglirà de li soi parenti quelli dinari possibili per ditto effetto, altramenti è facili moririsi di fami et essiri abbandonatu da tutti » (i).

Dopo la cacciata del Viceré Conte Ugo Moncada molti penitenziati tolsero via l'abitello: ed il sig. Inquisitore su- premo D. Alonso in certe sue istruzioni agl'Inquisitori di Sicilia se ne doleva, e sollecitava a provvedere.

Non occorreva, peraltro, una rivolta pubblica perché i reconciliati nascondessero per le città e terre di loro dimora il pauroso emblema (2). Esso era un marchio d'infamia.

Inoltre i condannati, sia alla galera, sia ad altre pene corporali, coglievano qualunque occasione per sottrarvisi; e rinpuisitore Manrique che lo seppe, raccomandava in pro- posito le maggiori diligenze e gli opportuni provvedimenti

(1525) (3)-

Che meraviglia se questo essi facevano, quando, scontate le pene, gl'Inquisitori le prolungavano a loro arbntio e ma- gari per semplice dimenticanza? Di che non pochi ricorsi di

(i) La Mantia, op. cit., pp. 56-57, n. 4.

(2) Lea, op. cit., p. 423.

(3) Lea, op. cit., p. ^n>

151

SANT'UFFIZIO

condannati alle galere, i quali, avendo già compito il tempo di loro pena, chiedevano la libertà (i).

Ogni anno e più volte in un anno, in pubblico e in privato, a San Domenico e allo Steri, il S. Uffizio celebrava Atti di fede esponendo sul palco eretici o sospetti,

A siffatto spettacolo passava quando avea un numero sufficiente di rei da esporre. L'atto pubblico serviva per esempio e correzione di tutti; il privato per esempio ed edi- ficazione dei pochi timorati e religiosi che avevano l'onore di esservi ammessi; in ciò prevalevano ragioni di riguardi verso le famiglie e verso i rei medesimi.

Il Franchina, che scriveva nel 1744, quando il Tribunale della Fede precipitava in fiacca decrepitezza, ragione dei frequenti spettacoli col gran numero di cause da doversi spe- dire e quindi con la numerosità dei rei.

Questa notizia ci fa deplorare ancora più la perdita delle carte di quell'archivio. I mille e più rei che noi conosciamo di nome nei pubblici spettacoli, sono soltanto quelli che ci avanzano in manoscritti e stampe, riferiti a lunghi intervalli d'anni nelle svariate relazioni. Eppure più volte l'anno, come si è detto, centinaia di rei, specialmente nel gran salo- ne dello Steri, ora sede della Corte d'Appello venivano con affettato pudore esposti, e non si facevano « per giusti rifles- si comparire » .

Fin dai suoi primordi la Inquisizione doveva celebrare quattro Atti di fede l'anno; epperò la cifra, non già dei ri- lasciati al braccio secolare, rei di gravi eresie pertinaci, ma dei condannati a pene diverse, doveva giungere a dozzi- ne di migliaia.

(i) Ms. Qq F 39.

152

LO SPETTACOLO

Lo spettacolo era la espressione appariscente della po- testà del S. Uffizio, l'atto più ardito in cui esso affermavasi. Perciò dovrebbe occupare aire pagine che lo ritraggano nei suoi particolari. Ma ciò uscirebbe dai limiti di questo stu- dio, che vuol essere una illustrazione delle tre celle sco- perte.

Tuttavia non posso defraudare il lettore d'una notizia abbastanza curiosa per la storia del S. Uffizio in Sicilia. E' una lettera di Piero Venier veneziano, fratello di Pellegrino, alle sue sorelle a Venezia in data dell'S giugno 1511, con la quale, forse a corto di novità, descrive a vivi ma efficaci colori un autodafé stato perpetrato due giorni innanzi in Palermo nel Piano della Marina, innanzi al Palazzo Chiaro- monte. Oltre sedici donne e sette uomini tutti condannati de levi e quindi a varie penitenze in vita, apparvero e fu- rono bruciati dopo che strangolati, perchè giudaizzanti, sei uomini e tre donne, due delle quali madre e figlia, ed un decimo, già morto, in immagine « con el suo nome, de modo e un carlevar, vestido di tutti habiti e maschara ».

Questo documento ha il pregio della sincera testimo-^ nianza della minutezza dei particolari del tutto nuovi e della antichità; giacché coloro che non tengon conto dello spet- tacolo del 1487, non possono non ammetter questo del 1511, quasi come primo della serie lacrimosa.

Ed ora vengo a qualche notizia intomo ad una delle ragioni più frequenti di spettacoli: la bestemmia.

Se questa era atroce, il bestemmiatore di ceto pebleo si conduceva allo spettacolo con una mitra sul capo, la lingua legata e senza mantello, mentre si veniva fustigando e poi si mandava a vogare sulle galere. Il bestemmiatore di ceto no- bile, senza mitra, si chiudeva in un convento; donde dopo un certo tempo si lasciava uscire pagando una multa.

153

SANT'UFFIZIO

Questa diversità di trattamento per un medesimo reato bisogna metterla in relazione ai tempi. Una era la puni- zione del plebeo, un'altra la punizione del nobile, pure es- sendo davanti alle leggi d'allora egualmenti colpevoli. La stessa morte era differente nell'uno e nell'altro; perchè dove il plebeo veniva strangolato, il civile ed il nobile andava decapitato. La forca era infamante; ed un signore non poteva scendere tanto in basso. I nobili, peraltro, raie volte andavano penitenziati, rarissime volte rilasciati al braccio secolare.

Per lievissime bestemmie ereticali gl'Inquisitori ricor- revano ad espedienti diversi. Non potendo tenere occupate le carceri, mandavano in esilio i blasfemi, o ne facevano re- galo ai conventi; o, quando questo non avevano modo di fare, condannavano il reo a stare in un giorno di dome- nica durante la celebrazione della messa cantata innanzi una chiesa senza entrare, col capo scoperto, i piedi nudi, una fune pendente dal collo ed una candela accesa in mano: forma, questa, la più mite pei penitenziati semplici. Finita la messa, leggevano la sentenza con la indicazione dei digiuni inflitti, i rosari da recitare e la pena pecunaria da soddisfare, dato che il reo lo potesse (i).

Questa pena cdl'acqua di rose ma non priva d'ignominia avea delle varietà, come quella, p. es., che limitava ad una sola domenica lo accesso del blasfemo alla porta della chiesa principale del paese, col divieto di entrarvi, e sempre a capo e piedi nudi, e con la torcia in mano; ma non lo ripetevano e prolungavano per un dato tempo con l'aggiunta dell' abi- tello a croci trasversali.

E' vero poi che tutti gli imputati venivano condotti,

(i) Bertini, op. cit. Myst; IV, p. 492.

LO SPETTACOLO

giudicati e condannati a Palermo; ma qualche volta, e non di rado, arrestati in una delle principali città dell'Isola era- no quivi stesso giudicati e condannati. Nelle carte d'archivio di esse non sarà difficile trovarne ricordo, se non altro per le spese che la città medesima era obbligata a fare per il pub- blico spettacolo. Un cronista catanese del Cinquecento, p. s., racconta d'una visita fatta nell'inverno del 1568 dall'In- quisitore di Palermo e d'un pubblico Atto di fede che vol- le tenervi, nel quale molti processati ebbero la pena della frusta e della galera, e se la sarebbero presa se i Giurati della città non si fossero interposti a loro favore fino ad ottenere, fatto più unico che raro!, la grazia (i).

La pena della lingua ha anche riscontro nella storia reli- giosa di Sicilia. Re Alfonso, in una prammatica del 1433, condannava i bestemmiatori alla perforazione della lingua con un aguglione (saccurafa) ed alla condotta alla berlina pei luoghi nei quali avevano bestemmiato (2).

Le Costituzioni sinodali di Monreale del 1544, aggiunge- vano la fustigazione (3), e quelle di Mazzara del 1575, oltre

(i) Cronaca siciliana del secolo XVI. pp. 225-26. Il testo di questo spettacolo si leggerà in appendice al pre- sente volume.

(2) Quanti bestemmiano, rinnegano, disprezzano la potenza di Dio ecc. « se per aventura tali sarannu homini di baxa con- dicioni, statu populari et villani, chi li sia misa una saccurafa immenzu la lingua chi li passa di parti in parti, et girirà per tutti li principali lochi et plazi di la terra undi havirannu com- misu lu delictu ». Diego Orlando, Un Codice di Leggi e Diplomi siciliani del Medio Evo, p. 160. Palermo, 1857.

(3) Constitutiones synodales Metropolitanae ecclesiae civi tatis regalis, tit. XXV, e. 7. In Civitate Montis regahs. an. D.ni 1554-

155

SANT'UFFIZIO

le solite pene minacciate dai sacri canoni (i), la lingua tenuta fuori delle labbra (2).

E però, quando le mamme e le nonne del nostro popolo sentono dire una mala parola al loro béimbino o sentono che egli giuri una bugia, mettono subito fuori uno spillo o un ago minacciando di volergli pungere la lingua; quando dicono che verrà il prete e gli taglierà la lingua {veni lu parrinu e ti tagghia la lingua), esse non fanno se non un richiamo ad un'antica prammatica od ai vecchi sino- di (3).

Ad un certo periodo del S. Uffìzio l'autorità civile s'in- tendeva con esso per la punizione dei bestemmiatori laici, mentre la ecclesiastica, la più mite tra tutte agiva per conto suo, e bandiva nei sinodi diocesani pene di carcere per conto proprio (4). Se non si pensasse ai molti e differenti fori d'allora, ci sarebbe da confondersi in tante giurisdizioni den- tro e spesso sopra della giurisdizionvì generale dello Stato. Verso la metà del Settecento il Vecerè ammetteva che, salvo i casi di bestemmie senza colore di eretica pravità, potesse contro i rei procedere nel Regno tanto il Capitano di Giusti- zia, quanto il commissario del Tribunale della fede. Si trat- tava allora di foro misto: forse piìi pericoloso per le pene che ne derivavano al maledico.

Una delle pene, la più comune, era quella del collare:

(i) Nell'antica legge poi c'era la morte pel bestemmiatore. Nel Levitico... si legge: Qui blasphemaverit nomen Domini, mor- te morietur, lapidibus opprimet eum otnnis tnuUitudo populi.

(2) Constitutiones et Decreta condita in piena Synodo DiO' cesano etc. Cap. II, XXXVIII. Panhormi, 1575.

(3) PiTRÈ, Usi e Costumi, v. II, pp. 411-12. Palermo, 1889.

(4) Constitutiones sinodales...

156

LO SPETTACOLO

arnese di Terrò che si apriva e chiudeva con apposito conge- gno in tutto e per tutto simile a quello dei cani. In luoghi determinati della città e dei piccoli comuni ne pendeva sempre uno, che formava la ignominia di chi vi fosse coii- darmato. La privativa di siffatto arnese era del S. U.; ed una volta che nel 1696 il Vicario foraneo di Mineo a nome del Vescovi di Siracusa ne fece piantare uno innan- zi la sua casa, il Commissario del S. U., leso nella sua giurisdizione, ne fec^ formale ricorso all'Inquisitore a Pa- lermo; il quale, visto e considerato, anche per testimonian- za di vecchi mineoti, esser quella un abuso, intimò al Vi- cario di ritirarlo (i).

Nel 1749 il Viceré de Laviefuille scriveva al S. Uffìzio in Palermo avere ordinato al Capitano di Giustizia di Sira- cusa di riporne subito nei consueti luoghi (2).

In qualche terra della Contea di Modica questa berlina fissa era un tormento vero e proprio. Chi se l'era meri- tata, nudo il corpo fino alla cintola, veniva unto di miele, legato al collo ed esposto alle mosche od ai monelli che si divertivano ad ingiuriarlo. Due versi d'un canto popo- lare di quella contrada ricordano ancora la vituperevole usanza, durata, come punizione parroccale, sino ai primi dell'Ottocento. I versi dicono così:

'Nfami, 'ca fusti misu a lu cuddaru, 16

Manciata di li muschi ppi tri uri (3 ) .

(i) Ms. Qq F 239 della Biblioteca Com. di Palermo.

(2) 24 giugno 1749. Documenti appartenenti al Tribunale del S. Officio di Sicilia, voi. I Ms. Qq H 62 della Bibl. Cora, di Palermo.

(3) S. A. GuASTELLA. Canti pop. del Circondario di Mo- dica, p. LXI, Modica, 1876. I versi si traducono: Infame { =

SANT'UFFIZIO

Ora, poiché la bestemmia, stolta e bestiale offesa alla Divinità, era frequente anche in tempi di estremo rigore religioso, così al S. Offizio non restava se non tenere, ap- punto per questo, frequenti spettacoli. Per le ereticali nel- l'abiurazione de levi, esso conduceva i rei con la mordac- chia (strumento col quale serravan la bocca ai condannati perchè non parlassero), poi alla pubblica vergogna e da ultimo mandava all'esilio; per le non ereticali, infliggeva pene più leggiere.

Come sempre, esigeva la denunzia e scatenava daper- tutto i suoi segugi; ed i bestemmiatori, più sciocchi che malvagi, facea prendere e trascinare alla Steri. Figurarsi il terrore loro! Tremavano verga verga, piangevano implo- rando pietà e misericordia. Molto duramente li trattavano gli Inquisitori, ma poi, non potendo fare altro, li rimettevano ai confessori in S. Domenico (i) : provvedimento, questo, per altro genere di delitti non gravi, applicato a rei pei quali le carceri ordinarie della penitenza non bastavano.

E che il Tribunale, oltre i conventi per gli uomini (2) e qualche monastero per le donne di non modesta leva- tura (3), oltre le carceri della penitenza, teneva a pigione case private, nelle quali chiudeva, e per un dato periodo di anni o di mesi istruiva nella religione, i colpevoli; men- tre per le donne del basso volgo metteva a profìtto gli spedali. Suor Francesca Spitaleri da Bronte, allucinata a

svergognato!) il quale vanisti al collare, punzecchiato per tre ore dalle mosche.

(i) Bertini, op. cit., pp. 494-95-

(2) Ms. Qq F. 239 della Bibl. Com. di Palermo.

(3) Vedi nel Ms. Qq F 239 cit., gli Atti pubblici di Fede degli anni 1625, n. 9; del 1628, nn. 13-16.

158

LO SPETTACOLO

tal punto da credersi, secondo il processo letto nel pub- blico spettacolo del 12 dicembre 1621, (( gran serva di Dio, col quale parlava » ; da stare 25 giorni senza mangiare e da mangiare solo quando G. C. le disse: surge et comede; da affermare esser dovere del Papa l'abitare in Palermo, venne <( risterrata », condannata a sette anni di reclusione servendo in uno spedale. Filippa la Calabria da Mon- reale come superstiziosa, nel maggio del 1624, dopo cento colpi di frusta andò reclusa per quattro anni in un noso- comio. Nel 1626 Filippa Rizzo da Piazza, nel 1628 An- tonella la Ferlizza da Giuliana, Francesca la Grigenta da Noto, Aldonza de la Candia da Buscemi e Suora Caterina Calandrino da Alcamo, all'Ospedale grande e nuovo di Palermo

15'^

Capitolo IX PREPOTENZE E SCOMUNICHE

RIMA di procedere innanzi mi si consen- ta qualche osservazione corroborata da fatti circa i privilegi e le preminenze del sacro Tribunale in Sicilia. Instancabile nel pretendere, esigeva franchigie che erano offese ai diritti comuni. Il petulante Bernal volle ma non ebbe, altronde poteva averle, lar- ghe esenzioni di gabelle della R. Corte e della Città, non mai state concesse a nessuno (i) (1619). L'Inquisitore Calvate, Tristano di nome e di opere, ne chiedeva per o per cinquanta persone del suo foro. Ottenevale e, non pago, tornava a chiedere; e per dieci altri le scroccava (2). Era lo scasciatu applicato su larga scala a suo uso e con- sumo.

(1) Vedi Appendice.

(2) Archivio Comunale di Palermo. Atti, Bandi e Provviste^ a. 1519-20. Ind. Vili, f. 89.

160

PREPOTENZE E SCOMUNICHE

Anche per generi voluttuari reclamavano quelle fran- chigie; e quando il Senato per amor di tranquillità cercava di sapere il numero dei foristi, questo si ingrossava a sca- pito del pubblico erario (i).

I giurati portavano a denti stretti tante pretese, fino a quella di un quarto di giovenco e di due castrati setti- manali con la priorità del servizio su tutta la cittadinanza al privilegiato Tribunale (1530) (2); quando però le pretese assumevano carattere di imposizione, negavano e se ne ri- chiamavano con ambasciate al Viceré PignatelU. Ma il S. Uffizio non ammetteva discussione su quello che cre- deva nel suo sacro diritto; e lanciava la censura sugli stan- chi giurati. Quale fosse stata la sentenza del Viceré non ap- pare, ma può indovinarsi da un atto notarile della pri- mavera del 1530 tra i Giurati e gl'Inquisitori; col quale non a tutti ma ad alcuni Ministri venivano concesse le chieste franchigie; ed allora l'Inquisitore capo delegava il Superiore dei frati di S. Francesco d'Assisi dei Chiovari a togliere la zelante censura (3).

Da cosa nasceva cosa, ed il S. O. la governava. Una beccheria veniva conceduta ad esso dapprima nel Ca- stello, poi nell'atrio dello Steri. In forza d'un contratto, un tale si obbligava a macellare un giovenco il giorno per servizio dei Signori Officiali (4).

La concessione era del Comune, che però premunendosi da possibili frodi, metteva come condizione che il giovenco

(i) Ms. Qq H 62.

(2) Arch. Com. di Pai. Atti ecc., a. 1531-31. f- 73-

(3) Archivio Comunale di Palermo. Atti, Bandi e Provviste, a. 1829-30. Ind. Ili, ff. 219-20.

(4) Atto presso Not. Lorenzo-Trabona, 18 agosto 1616. Ms. Qq F 89.

161 U G. PITRÈ Sont'UHlilo

SANT'UFFIZIO

doveva entrare da Porta Macqueda (( dalla quale entrano tutti gli altri giovenchi, con la presenza del giurato priato, a fine di riconoscersi » (i).

Non v'è dubbio che i Signori S. U. si trattavano da gran signori: perchè le carni non facevano per loro. Una multa di due onze (L. 25,50) da essi imposta ad un ma- cellaio fu causa di una nuova rottura col Senato; il quale, mal comportando questa loro indebita ingerenza, invitato alla lettura dell'annuale editto di fede di quaresima, si ri- fiutò di prender parte, come soleva, alla cavalcata. L'In- quisitore Ludovico de los Cameros, poi vescovo di Patti e Arcivescovo di Palermo, cercò tutti i modi di farlo inter- venire, ma invano. Allora fece capo al Viceré S. E. Don Giovanni Alfonso Enriquez de Caprera, Conte di Mo- dica, ma non potè rimuovere dal suo proposito l'offeso ma- gistrato. La cosa fu portata al Re a Madrid. In quel- l'anno la Sicilia (fatto quasi unico) ebbe la sventura di due Viceré e di un presidente del Regno; e quest'ultimo, Mons. Giovanni de Torrecilla, arcivescovo di Monreale, era stato sei anni Inquisitore. L'Arcivescovo non poteva dimenticare l'Inquisitore e le sue pratiche alla Corte provo- carono un rescritto che dava ad un tempo ragione e torto al Senato: ragione perchè l'Inquisitore ne aveva usurpato i poferi, e perciò la multa andava restituita, torto perchè la offesa ricevuta non poteva dispensare il Senato dai do- veri di urbanità verso il S. U. (2); teoria degna di un Filippo II, che non riconosceva dignità nel primo magi- strato della Capitale di Sicilia.

Chi si fermi per poco a riflettere sopra le antiche Co-

(i) Ms. Qq F 39. (2) Ms. 99 F. 239.

162

PREPOTENZE E SCOMUNICHE

stituzioni del Regno, si chiederà sorpreso come mai tutto questo potesse accadere in Sicilia; ma la risposta non gli verrà difficile quando si pensi alla strapotenza di quel Tri- bunale, derivante parte da regi editti, parte da biechi cri- teri di applicazione di essi.

Carlo V avea per due volte decretato che la giustizia civile prestasse giuramento di aiuto, consiglio e favore ai ministri del S. Uffizio (i). Aveva fatto insediare nel pa- lazzo regio di Palermo i capi di questo, con piena li- bertà di azione e di opera (2), ed aveva ordinato che i suoi ministri dell'isola non osassero impedire a quelli l'eser- cizio del loro ministero di visite e di perquisizioni (3).

E' bensì vero che in tempi anteriori, presuntivamente meno civili. Federico III aveva disposto che i Giudei di Siracusa venissero difesi e sostenuti in certi loro diritti dalle pretenzioni degli Inquisitori (1376) e che Re Martino e il Duca di Montblanc avevano scritto (1393) al Capitano ed ai Giudei di Palermo che quegli non pormettesse agl'In- quisitori della eretica pravità di molestare questi sotto spe- ciosi pretesti. Così, fingendo di sospettare di cristiani re- lassi, facevano jjerquisizioni e commettevano abusi in- credibili (4). Ma nel Cinquecento quelle lettere erano ca- dute in dimenticanza, ed un ciclone era passato sulla co- munità israelitica dell'Isola.

(i) Granata, 15 giugno 1517; Madrid, 16 giugno 1546.

(2) Barcellona, 20 maggio 15 19.

(3) Madrid, 15 agosto 1543. Una conferma fu fatta da Fi- lippo II in Madrid, 16 giugno 1546. Franchina, op. cit., e. XIV, nn. 6, 8, 11, 16, 18, 19.

(4) Lagumina. Il Codice dei Giudici, n. IXX, pp. 99-100, n. XCVII, pp. 142-43.

163

SANT'UFFIZIO

Figuriamoci quindi le esorbitanze degli Inquisitori ve- dendosi autorizzati da tre regi decreti!...

I re di Spagna facevano quel che volevano; i Viceré quel che potevano; gl'Inquisitori quel che volevano e quel che non potevano dovevano, se pur c'era cosa che essi credessero di non potere dovere.

Investiti fin dai tempi normanni (1098) della aposto- lica Legazia, i Re o i loro Viceré fungevano da legati t latere del Papa. H^

Orbene: la Inquisizione siciliana dipendeva dalla spa- gnuola: il che la metteva alla pari dei Viceré come legati spirituali del popolo. La osservazione sembra un para- dosso, ma chi ne studii certi particolari, la vedrà contor- me al vero.

Quando l'Inquisitore capo viaggiava per l'Isola, oltre che dai familiari andava scortato da gente d'arme a piedi ed a cavallo come un gran j>ersonaggio del Governo: sLH parla di Viceré che avrebbero consegnato a qualche In-^P quisitore (1546) una specie di credenziale, in virtù della quale, percorrendo la Sicilia, lo si dovesse gratuitamente « ricevere, onorare, provvedere » anche di posate {locan- de) e altre cose necessarie, come se fosse il Re o il Viceré in persona (i).

Oltre gl'Inquisitori ordinari, invalse l'uso di Inquisito- ri delegati dal S. Offizio centrale, per missioni straordi- narie.

Gli scopi di queste missioni rimanevano ignoti, anche alle alte autorità civili ed ecclesiastiche della Capitale; bastava solo che li sapesse l'Inquisitore capo. C'era della

(i) Documenti cit., a. 1543. 164

(

PREPOTENZE E SCOMUNICHE

Inquisizione anche in questo, ed era espediente fondamen- tale pel buon funzionamento della istituzione.

Il delegato viaggiava da gran signore, interrogava, u- diva, decretava senza dar conto a nessuno, non sapendo e, peggio, fìngendo di non sapere che per antico ordina- mento nessun rescritto, nessuna provvisione o commis- sione, nessuna bolla potesse riceversi nel Regno ed appli- carsi senza approvazione del Viceré. Se l'uso, o m^lio l'abuso, spiacesse al paese, non è a dire; tanto che i rap- presentanti di questo, ecclesiastici, baroni e demanio, nel generale Parlamento del 1520 chiesero al Re (Carlo V) che qualsivoglia delegato del S. Offizio venendo in Sicilia pre- sentasse i documenti di delega, affinchè si sapesse di quale autorità fosse rivestito e si risparmiassero vessazioni e so- prusi contro i Siciliani (i).

Il Re promise, ma, come di consueto, non mantenne: e i delegati continuarono a spadroneggiare ed a vessare.

solo il Viceré giurava fedeltà, aiuto, favore e pro- tezione, ma anche il Magistrato Civico della Capitale, nel Duomo e pubblicamente.

Questo giuramento, fatto la prima volta nel 1488, sot- to l'Inquisitore Pietro Ranzano, non bastava agli Inqui- sitori che vennero dopo; ed il 24 dicembre del 1500 altro essi ne vollero; e Viceré, Sacro Consiglio, Capitano Giusti- ziere, Pretore, Giurati e popolo tutti giurarono in mano del nuovo Inquisitore nella Cattedrale (2).

Ma anche questo doveva bastare. Undici anni dopo giungeva in Palermo un nuovo Inquisitore, che alla igno- ranza della storia del paese univa quella dei principii di

(i) capitula Regni SiciUae cit., t. II, cap. CXXIX, p. 98. (2) Ms. Qq F 239 della Bibl. Com. di Palermo.

165

SANT'UFFIZIO

buona educazione. D. Alfonso Bernal pretese un nuovo giuramento, e come se avesse da fare con l'ultimo dei suoi feristi inviava un birro al palazzo del Comune intimando al Pretore che in un dato giorno si recasse in casa di lui per giurare la difesa della Santa Inquisizione, pena la sco. munica. Pretore e giurati arsero di sdegno a tanta inso- lenza; ed in quella mandavano il Sindaco a far le loro rimostranze allo screanzato, si rivolgevano al Re con una energica lettera sostenendo a viso aperto i diritti della Città e le prerogative del magistrato di essa e descrivendo la inconsiderata condotta del nuovo arrivato (i). Contem- poraneiamente scrivevano al Viceré Don Ugo Moncada perchè volesse liberarli da tanta molestia, divenuta ormai vessazione. Supplicavano si compiacesse toglierli (( di tali affrunti, perchè essendo complachiuto in onmi modo di tutti quilli così (chi) voli e su' necessari] a qaista Santa Inquisitioni, chi bisognu è viniri ogni jomu cu novi do- mandi, che poco importano a lo nicissario di detto Santa Officio e donano umbra a cui concheda honuri e statu di- gnissimo tanto quanto la virtuosissima pirsuna di Sua M. Signoria merita » (2).

Non ne potevano più, ed ebbero resa giustizia. Il Vi- ceré con viva rimostranza fece intendere al troppo focoso inquisitore in quale errore egli si trovasse.

I Palermitani erano pei loro rappresentanti; e quando nel medesimo anno si celebrò un Atto di fede, e di tre condannati due dovevano essere consegnati per esser bru- ciati vivi dal Capitan Giustiziere, il Barone di Giarratana

(i) Questa lettera è conservata nell'Archivio Conwinale ili Palermo [Vedi Appendice I, 5].

(2) Franchina, op. cit., cap. XI.

166

PREPOTENZE E SCOMUNICHE

non si mosse, e quindi il supplizio non ebbe luogo. Gli in- quisitori insorsero, ma il popolo li tenne a dovere. Allora essi si fecero ragione presso il Re che, sdegnato al paro di loro, da Burgos non già il Capitano ma il rappresentante della città rimproverò pel poco rispetto all'autorità inqui- sitoriale,- e minacciò l'invio d'un reggimento per impedire simili ribellioni (31 agosto 1512) (i).

Quando la soldatesca minaccia giungeva, il Bernal, vittima della sua sconfinata arroganza, era stato richia- mato.

Nonostante che passata in giudicato, sempre viva e sempre vessatoria relativa la questione del giuramento. Nel solo mese di ottobre del 1513 quattro lettere furono scambiate tra i giurati ed il funzionante Viceré D. Bernardo Bologna, Arcivescovo di Messina. Essi non volevano rin- novare il giuramento e pregavano il presidente del Regno che interponesse i suoi buoni uffici acciocché gl'Inquisitori non li obbligassero a tanto. Il presidente mostrò la sua buona intenzione, ma, se non in iscritto, deve avere rac- comandato a voce che si rivolgessero agli Inquisitori.

Ebbene, i Giurati furono tanto buoni da rivolgersi agli Inquisitori; ma non passarono cinque giorni che costoro risposero al Viceré facendo le loro meraviglie e dichiaran- dosi scontenti delle rimostranze del Senato civico (2).

Correnti così forti di antipatia a quando a quando si manifestavano in forma pubblica ed anche solenne da par-

(i) Atti, Bandi e Provviste della città di Palermo, anno 1512-13, I* indizione, f. 234 dell' Arch. Comunale di Palermo.

(2) Atti, Bandi e Provviste, anno 1512-13, indizione 14», 19, 24, ottobre 1513, pp. 228-230, 230 verso, 234.

167

W" SANT'UFFIZIO

te dei più grandi ed autorevoli rappresentanti della Capi- tale e del Regno.

Documenti solo ora scoperti rivelano che il 15 febbraio del 1525 il Senato palermitano mandava ambasciatore a Carlo V Giangiacomo di Bologna con accuse formali di prepotenze e di abusi del S. O. impersonato nel famoso D. Tristano Calvete, a danno di pacifici cittadini, impu- tati di eresie da occulti nemici e da troppo scrupolosi cri- stiani (i). Altro ne mandava il Senato di Messina al Vice- Pignatelli, protestando per le inqualificabili ingerenze e gli aperti abusi nella vita tanto religiosa quanto laica e civile della città, e narrava il fatto di un sacerdote, vitti- ma delle insidie e delle prepotenze del sacro Tribunale, che accanivasi nell'accusarlo di crimine anti-religioso, mentre le prove dicevano ben altro e, caso mai, dipendeva dal foro ecclesiastico (2).

Al giungere di Carlo V in Palermo, vincitore a Tunisi (1535), i tre bracci del Parlamento (e quindi anche lo ec- clesiastico) fecero a lui voto che volesse decretare la so- spensione dei privilegi e delle franchigie di quel Tribunale, e vennero esauditi. Furono cinque anni di tranquillità pel pubblico, ma di depressione morale per la istituzione, la quale, a giudizio d'un Inquisitore, scese straordinaria- mente in discredito e raccolse noncuranza e beffe. Il po- polo, istigato dai nobili, ne rideva (3).

La sospensione fu prolungata; ma quando nel 1543 un

(i) Atti, Bandi e Provviste, a. 1525-26. Indiz. XIV, f. 126 nell'Archivio Com. di Palermo.

(2) Atti, Bandi e Provviste, a. 1529-30, III indiz. f. 251-52. Archivio cit.

(3) Franchina, op. cit., cap. XI, pp. 63-64.

168

PREPOTENZE E SCOMUNICHE

nuovo decreto fece tornare le cose allo stato primitivo, il disprezzo si convertì in ammirazione, le beffe in laudi. Quei nobili che si erano tanto accaniti contro la istituzio- ne, fecero a gara nel renderle omaggio. Così ò stato sem- pre: disprezzare chi cade, inchinarsi a chi si leva e vince.

Molti, moltissimi si ascrissero come familiari, « chi mi- nistro, chi ufficiale di quello, accettando a grazia il par- tecipare la croce dispensata dagli Inquisitori »,

Oh sì! i reazionari più accaniti sono sovente coloro che furono i ribelli più audaci.

La lunga sospensione rese impotenti Arnaldo Alberti- ni (1534-36) e Diego de Oron (1537-43), inquisitori solo di nome; e preparò aspra la ripresa dell'esercizio del Tribu- nale. D. Pietro Gongora (1643-46) fece pesare con nuovi abusi sulla società del tempo la sua ingrata autorità. Era pur sempre il Senato il suo naturale nemico, l'istituto pre- so maggiormente di mira; e di esso cercava in tutte le maniere di sminuire la forza ed il prestigio.

Il resto andava da sé: e quei signori esercitavano un governo di ferro e di fuoco dentro un governo di bamba- gia, asservito a quello. Che cosa non permettessero perciò e dove non ispingessero la loro autocrazia non sapremmo dire.

Il 4 ottobre 1569 si facevano le prove della tragedia di Santa Caterina nella Chiesa di Casa Professa. Era in- quisitore D. Giovanni Bezerra, il quale, come uno degli invitati, andò. Busso, ma non fu udito, e tornò indietro sbuffando e minacciando. Lo seppero i Gesuiti, e corsero al Palazzo per iscusarsi e dame le ragioni; ma il Rever«i- dissimo Inquisitore, dopo averli condannati a limga antica- mera, non volle riceverli.

169

SANT UFFIZIO

In capo a tre giorni doveva solennemente rappresen- tarsi la tragedia. La chiesa era gremita di spettatori: il fiore della nobiltà e del clero d'allora; e si attendeva il Viceré. Era per alzarsi la tela quando un messo del Bezerra viene premurosamente intimando ai Padri la proi- bizione dello spettacolo sotto pena di scomunica. E per- chè? perchè la tragedia non era stata ancora approvata dal S. Uffizio. Era la vendetta d'un malinteso, tirato alle più dure conseguenze (i).

Questo aneddoto concorre a chiarire un equivoco stori- co. Molti credono che i Gesuiti avessero parte allo eserci- zio della Inquisizione; ma s'ingannano. I Gesuiti, almeno in Sicilia, non furono mai nelle buone grazie dei rappresen- tanti di quella. Dai documenti che ci restano risulta che solo una volta, uno di essi, nel 1568, fu in Ca- tania inviato a presenziare un blando atto di fede (2).

Dopo questa essi non compariscono mai, o compariscono solo per qualche cosa in loro disfavore come nella tragedia di Santa Catarina o come nei rimbrocci al P. Mancuso, cri- tico spregiudicato delle anomalie mentali di Frate Ro- mualdo.

Con le sconfinate facoltà che loro venivano o che essi si arrogavano della giustizia primitiva, gl'Inquisitori ingal-

(i) Questo racconta il Franchina, IX, 73-75. Ma deve es- servi un errore, o, per lo meno, una grande incertezza di data. In vero non si sa vedere di quale tragedia di S. Caterina inten- desse parlare; se della priniitiva del Liceo o della abbellita dal Sirillo; la quale, dicesi, venne rappresentata a spese del Senato di Palermo nel 1580 nella Chiesa dello Spasimo. Nel 1569 Casa Professa non avea questo nome, e non era stata edificata così. (2) Cronaca siciliana del sec. XVI, p. 223.

PREPOTENZE E SCOMUNICHE

luzzivano con minaccie di interdizioni. Dal più umile uf- ficiale dei Tribunali secolari al Presidente della Gran Corte, ai membri del Parlamento, ai Deputati del Regno al Viceré stesso, gl'Inquisitori non guidavano in faccia nessuno. Quando c'entravano le loro prerogative, il foro ordinano doveva andarsi a riporre, e nelle questioni dei familiari del S. Uffizio, la loro azione era fulminea e tagliente.

Non aveva Carlo V sottratti i foristi e il S. Uffizio ai giudici laici ordinari ed avocato alla Inquisizione le loro cause civili e criminali (i).

Ebbene, in questa sottrazione era la prima radice di de- litti e di impunità.

Riferiamo qualche fatto rimasto ignoto attingendo a documenti inediti; e cominciamo con uno incredibile, ma purtroppo vero.

(( Processo ed informazioni contro D. Giov. Taglia via et Aragona Marchese di Terranova, Presidente del Re- gno; D. Fr. del Bosco Lungotenente di Maestro Giustizie- re (2) e D. Mariano Agliata Capitano nel presente a no- me della città di Palermo, per molti eccessi commessi con- tro li officiali e familiari del S. O. nel 1540, essendo Inqui- sitore Sebastian...

« Circa questa competenza non potendosi accordare, se

(i) Decreto del 25 agosto 1525 da Toledo e del 1546 Franchina, cap. XIV. n. 9, 18, 21.

(2) Vincende dei tempi! Un discendente di questo Del Bo- sco, Principe di Belvedere, fu... de S. U. nel sec. XVII: ed un giorno che sotto l'egida del sacro Tribunale commise un delitto, il Viceré D. Giovanni Paceno Duca di Uzeda lo mandò in bando. Immagini il lettore il casus belli dell'Inquisitore de Tri- xillo, uno dei cento spagnuoli che regnavano nello Steri (Vedi Ms. Qq F. 239 della Bibl. Comunale).

171

SANT'UFFIZIO

ne scrisse dall' Inq. al Supremo Inquisitore ed al Re, e si procrastinò sino all'a. 1543, dalli quali per lettere date in Valladolid si determinò 1543 a 15 dicembre che al M.se di Terranova, per degni rispetti, s'imp)onga per penitenza che assista ad una messa bassa in qualche convento della città, in piedi senza perucca, e con una candela in mano, e che pagasse 50 ducati alli detti familiari per soddisfazio- ne dell'ingiuria (i). Agli altri s'imponga pubblica p)eni- tenza, che un giorno di Domenica assistano ad un messa solenne, scalzi, senza perucca, con candela in mano e che tutti paghino ciento ducati per ripartirli a' familiari.

(( L'adempimento di questa penitenza si piocrastinò si- no a 21 gennaio 1547, fintanto che li venne ordine premu- roso di S. M. (1546) (2t).

« D. Mariano Agliata Barone della Roccella, oUm Ca- pitano di questa città, per molti eccessi fatti contro molti familiari del S. U., ebbe, come si è visto, il :^uo bravo pro- cesso.

(( Citato a comparire alJ" Inquisitori, i quali a 11 dicem- bre 1546, usandogli misericordia, gl'imposero di sentire la

(i) Il Duca di Terranova, Presidente del Regno, mentre D. Garzia era in Corte, col parere di tutto il Consiglio mandò in galera un orefice insolentissimo (1543). E perchè colui era del S. U., gl'Inquisitori dipinsero U caso talmente diverso nella Corte che di venne l'ordine che l'orefice fosse liberato subito; che il Duca pagasse 200 scudi di sua borsa per gli interessi, e di più che facesse qualche penitenza in pubblico che dagli In- quisitori gli fosse stata imposta. Scipione Di Castro, Discorso circa il Governo di Sicilia dato al Sig. Marc' Antonio Colonna, in Casazza, Miscellanea, t. XXXIII, Ms. Qq F. 123 della Bi- bliioteca Comunale di Palermo.

(2) Ms. Qq F della Biblioteca Comunale.

172

PREPOTENZE E SCOMUNICHE

messa grande di domenica ventura a S. Domenico, o in altra ben vista all'Inq., al diritto, innanzi la cancellata dell'altare maggiore, senza berretta, con una torcia allu- mata in mano; e finita detta messa, offerisca la detta tor- cia al sacerdote che celebrerà; e finita, a voce alta, dichia- rerà la causa per la quale è stato condannato alla presenza di tutti, e che sia per sei mesi desterrato da questa città. E fu assoluto dalla scomunica maggiore e che abbia a soddi- sfare li danni ed interessi patiti da' familiari » (i).

Per siffatti esempi resta accertata la procedura inqui- sitoriale contro alti personaggi che menavano la mani so- pra qualche forista del Tribunale: l'assistenza, cioè, ad una messa solenne o letta, in un giorno di festa, con una candela accesa in mano e, dove il S. O. lo volesse, a pie- di nudi e da ultimo con l'esilio o il domicilio coatto tem- poraneo.

Il Capitano di Giustizia di Polizzi, D. Pompilio Che- fallon ebbe in Palermo, ove fu chiamato ad audiendum verbum, la medesima condanna (2). Consimile sentenza venne pronunziata contro D. Carlo Tagliavia ed Aragona già conte ed ora Principe di Castel vetrano, il quale aveva il torto di discendere da Giovanni, notoriamente avverso al sacro Tribunale; suo grave delitto l'aver fatto dare al- cuni tratti di corda e mandare in galera un familiare, Ant, Bertini, accusato di resistenza ai birri delle G. C. (1568).

D. Giovanni Bezerra non pronunziò la scomunica, ma scrisse al Re Filippo I ed allo Inquisitore supremo, ed il IO aprile del 1568 il supremo Inquisitore decretava che

(i) Ms. Qq F 39.

(2) 6 agosto 1562. Ms. Qq F 39.

SANT'UFFIZIO

il Presidente ( = Viceré) Principe di Castelvetrano venisse chiamato e ripreso come si deve dell'eccesso che commise, e che fosse condannato a pubblica penitenza « tenendo con- to della sua persona»; che il Bertini venisse indennizzato dal Presidente con 200 scudi, e restituito a libertà (i).

Ripreso! valse a lui la stima ond'era universalmen- te circondato l'alta dignità di Presidente due volte te- nuta, a lui futuro grande Contestabile e grande Almirante del Regno, Governatore dello Stato di Milano, Viceré di Catalogna. Presidente del Consiglio d'Italia per Filippo III, Rappresentante del Re di Spagna per la Lega coi Cantoni Svizzeri prima; e poi e sempre, uomo singolare per avvedutezza politica e prudenza di governo.

Le persone maggiormente esposte ai fulmini inquisito- riali erano appunto i tutori ordinari della pubblica sicurez- za, irrisione a quella che si chiamava Giustizia! Non po- chi Capitani giustizieri infatti erano per ragione d'ufficio alle prese con la necessità di mettere le mani sopra foristi riottosi, malvagi; ed ecco il sacro Tribunale intervenire a favor loro con le armi potenti della scomunica. Oltie l'Agliata ed il Bosco, D. Pietro de Prado, nella qualità di Capitano della città e, già prima, ufficiale del S. U., carcerò un familiare di questo e vi guadagnò il carcere di Castel- lamare (Palermo) (1571); e, peggio, D. Ludovico Spata- fora ed il Salazar, capitani entrambi, fan catturare alcuni agenti di quello e vengon presi e condotti anche loro nelle carceri del sacro Tribunale! (8 maggio 1577) (2).

(i) Ms. Qq F. 39. Scipione de Castro nei suoi Avverti- menti al Viceré Marcantonio Colonna (1577) [loc. cit.].

(2) Varietà palermitane, in M. Eff. sic., serie III, v. Vili, p. 177, Pai. 1878.

174

PREPOTENZE E SCOMUNICHE

Al carcere teneva triste e paurosa compagnia la multa e la interdizione, pena spirituale temibile e più di qualun- que altra corporale.

La minima offesa alla istituzione finiva con una o con tutte queste pene. Francesco Paracontato, Dottore in Leg- ge, in un impeto d'ira ferì in Siracusa un ufficiale, e, sco- municato, veniva chiuso nel Castello di Maniace. Per co- se da nulla, per aver cioè espresso opinioni non benevole al S. U. Nicolò Romolo, era imprigionato e multato di 20 ducati d'oro (13 set.t 1538); meno esperto e fortunato di quel tale che, dopo di aver battuti due ufficiali si metteva in salvo in BarKeria (30 ott. 1539).

Due messinesi A. B. Basilico e N. A. Di Bartolo, sco- municati in contumacia per aver insultato un ufficiale, at- territi, si presentarono all'assoluzione, pagando per sopras- soldo la pena di onze 200 (12 giugno 1543) (i).

Nelle Istruzioni del Supremo Inquisitore del 1525, testé venute alla luce, e qui ripetutamente citate, si faceva la dolorosa constatazione che nell'ultima visita del Cervera in Sicilia erano state fatte resistenze ed ingiurie ai ministri ed agli ufficiali del S. O. senza punizione dei colpevoli; e si insisteva appunto per le necessarie pene (2). A questa osservazione devesi la condotta irritabile, ed i facili risen- timenti degli Inquisitori ad ogni cosa che a loro sembras- se lesiva delle loro maestà. Può ben darsi; ma anche senza di questo, essi si impermalivano d'ogni nonnulla e non ave- vano bisogno di eccitamento per reagire ad ogni passo fuori di regola o di diritto per loro.

(i) Ms. Qq F 239-

(2) Lea, op. cit., p. 522.

SANT'UFFIZIO

Ludovico Spatafora da Capitan giustiziere, per non so che delitto, fa arrestare alcuni agenti del S. Uffizio, ed il S. Uffizio fa arrestare lui (8 maggio 1577), capo della giu- stizia della Capitale (i).

L'Inquisitore decreta (26 nov. 1583) la cattura d'un certo Braccalone, cavaliere di Malta e fratello del cop- piere del Viceré. Il Braccalone, aiutato da alcuni della via Loggia, fugge; e quello, pieno di rabbia, monta in carrozza, corre alla Loggia, anima, esorta il popolo a dar aiuto al S. Uffizio per la cattura. Entrato in una bottega dov'è na- scosto il Braccalone, lo arresta personalmente. Grande ru- more di questo fatto, la notizia ne giunge tosto al Viceré, che sta a udir messa nella vicina chiesa di Piedigrotta. Egli ordina che l'Inquisitore attenda un poco, sino alla] fine della messa, ma il S. Uffizio non dipende dal Viceré;-] e l'Inquisitore si parte senz'altro, conducendo nella sua] carrozza prigioniero il Braccalone. E già si avvia al Castel- j lo a mare quando s'incontra col Viceré. S'impegna un al- terco, presente gran folla; e poiché l'Inquisitore ribelle aliai suprema autorità, ordina al cocchiere che sferzi verso il Castello, il popolo ferisce alle gambe le mule, e la carroz- za inquisitoriale non può più andare avanti. Il Viceré] prende riluttante nella sua l'Inquisitore e il Braccalone e li porta al Castello, ove incollerito consegna il Cavaliere esclamando: Ecco l'eretico! e si parte» (2).

Questa narrazione vien fatta da un Inquisitore, il qua-] le incosciente nel vantarsi della fierezza inquisitoriale non]

(i) Pollaci Nuccio. Varietà palermitane, in Nuove Effe-i tneridi sic., serie III, v. VII, p. 177. Pai. 1878. (2) Franchina. XI, 76-77.

176

PREPOTENZE E SCOMUNICHE

vede nella ferizione delle mule l'avversione del popolo pei l'odiato Tribunale e le simpatie per l'imputato e pel suo alto difensore.

Questa avversione aveva esplosioni violente ogni volta che una ventata di furore la spingesse alla riscossa ed alla rivendica; ed una pagina di questo studio ne è docu- mento (i).

Eran passati dieci anni dal fatto dello Spatafora, ed altro simile ne accadeva nelle vicinanze della chiesa della Gancia.

I signori Inquisitori interdissero il Salazaro ed altri due che avean messo le mani sul forista del S. Uffìzio. La chie- sa venne pure interdetta, e gli uffici divini si celebravano a porte chiuse; e quando la interdizione fu tolta, coloro che aveano osato arrogarsi la facoltà contro gli agenti del S. Uf- fìzio, vennero senz'altro condotti nel carcere inquitoriale al Castello a mare (2).

Due anni ancora ed un altro incidente prese tali propor- zioni che la città tutta ne risentì conseguenze lacrimevo- lissime.

Lo racconto sulla fede d'un Inquisitore del settecento, il canonico Franchina.

II 5 aprile del 1590, fu ucciso Giuseppe Bajola, solle- citatore fiscale della R. G. C. Ne fu imputato il Conte di Mussomeli, familiare del S. U., e carcerato dagU Inquisi- tori al Castello. Saputolo il Viceré Conte d'Alba, spedì il Capitano della Guardia con soldati alabardieri a prenderlo ed estrarlo dal Castello. Ricordiamoci che allora il S. U.

(i) Vedi Capitoli X e XI.

(2) Pollaci Nuccio, pò. cit., p. 199.

177 12 - 6. PIT&È Sant'UHizlo

SANT'UFFIZIO

avea sua sede proprio a Castello a mare, dove pure avea le carceri. Il Castellano lo fece scendere e lo consegnò al Capitano, che lo portò via in carrozza. Venuto ciò a cono- scenza degli Inquisitori, che erano a pranzo, scesero ad im. pedire la uscita del loro famigliare, che, condotto fuori, ven- ne carcerato a vita nel Palazzo reale. Scomunica del Capi- tano, del Castellano e di tutti gli aiutatori, con minaccia di interdetto di Palermo, se il Conte non fosse stato restituito.

Il Conte non fu restituito; ed allora, affissati i cedolon della scomunica coi termini dei sacri canoni, il 6 fu lanciato] l'interdetto alla città; chiuse le chiese tutte, senza celebra- zione di messe, senza prediche, senza suoni di campane, senza pompe funebri; solo un prete della parrocchia coli croce disalberata, senz'asta, accompagnava i morti alla se-j poltura Aggiungi: nessuna barca, per ordine dell' Inqui sitore, potea uscire dal porto.

Che fare?

Fu necessario che gli arcivescovi di Palermo e di Mon reale insieme col Pretore andassero a pregare gli Inquisì-; tori perchè desistessero dalla risoluzione presa. Gli Inquisi tori (era tra essi il famoso De Paramo) cedettero, ma il Presidente Rao, l'Avvocato fiscale della G. C, ed i Pr curatori fiscali ed il Segretario, per pubblico editto deglf Inquisitori, non poterono entrare in chiesa e comunicarsi.

II Viceré dovette restituire (ii aprile) il Conte di Mu someli, e la bufera cessò (i).

Fu detto che i delinquenti ed i nobili che avevano qual- che conto con la giustizia ordinaria, andavano ad iscriversi]

(i) Franchina, XI, pp. 79-80. 178

I

PREPOTENZE E SCOMUNICHE

a quel Tribunale, e ne godettero il foro e col foro la proie- zione piena ed illimitata ed estesa anche alle mogli (i).

Di questa bruttura dava ragione al futuro Viceré M. A. Colonna il citato De Castro:

« Nel Regno di Sicilia », egli scriveva, «è stato introdot- to da molti anni il procedere contro ogni corte di rei cri- minali con quel modo che prima s'usava co' soli grandi e famosi delinquenti, ed essi chiamano procedere ex-abrupto, cioè il tormentare il reo per il processo informativo prima che se gli dia la copia degl'indizi, cosa sommamente abor- I rita nel Tribunale del S. O. Si cerca in Sicilia d'entrare nel i numero di quelli (cioè dei familiari del S. O.) con desiderio I incredibile, credendo chi è giunto a quel segno d'essere ! affatto libero d'ogni timore di giustizia, tanto si assicurano i di poter provare quel che vogliono se son posti prima a di- ! fensione che a tormenti.

« Or li Viceré sentono sopra modo il vederne fare tanto gran numero, perchè ce ne sono cavalieri, mercanti, baroni, ed artigiani, villani e d'ogni spezie maggior quantità di quella che bisognerebbe per il servizio del S. O.; li quali familiari tanto insolentemente si servono di quella esenzio- ne dal Tribunale regio che sempre sono gli autori de' mag- giori e più temerari delitti che si commettono » (2). j E le istruzioni dell'Inquisitore supremo del 1525, vole- vano « che i familiari siciliani fossero persone virtuose, quiete, pacifiche e buone e che il loro numero non fosse

(i) Viceré M. A. Colonna, nel 1580. Fu da costui mossa la questione se anche le mogli dei familiari dovessero godere dei beneficii del Foro. Il Tribunale mise il mondo a rumore! Ms. Qq F 239 della Bibl. Comunale.

(2) Ms. citato Qq F. 123 della Biblioteca Comunale.

179

SANT'UFFIZIO

superfluo perchè non si avesse giusta ragione di qu(

le » (I).

Lasciamole stare negli archivi queste ed altre pr€

zioni.

L'anno 1512 scorazzava in un fondo del D.r de Julien, in non so qual campagne, una banda di ladri; ed il Capi- tano della terra riuscì a prenderne parecchi, mentre gli altri, avvertiti in tempo, fuggirono. Chi non ne sarebbe ri- masto contento? E tutti lo furono, meno il S. U., il quale inflisse la censura al Capitano, solo perchè il D.r de Julien era ufficiale del Tribnale. Si noti: che l'arresto, rispet- tando lui, lo liberava da malfattori volgari. Il piccolo inci- dente divenne affare di Stato con l'intervento personale del Re. Ferdinando II non poteva non difèndere e sostene- re i suoi ben amati inquisitori; eppure, sdegnato del cat- tivo comportamento loro in cosa di tanta evidenza, scrisse loro molto severamente. « Se il D.r de Julien », scriveva, (( è ufficiale del S. U., non esigerà certamente che dei la- droni godano la esenzione ed i privilegi del foro, special merite trattandosi di persone di mala vita. E però è nostra volontà che il S. U. non s'intrighi in siffatte persone. In questi giorni (il Re scriveva il 25 ottobre) un malfattore mise le mani nella cassa del S. U. Il capitano intervenne contro di esso, ed il S. U. alla sua volta intervenne a mano armata in difesa del malfattore. Le son cose codeste, scan- dalose da non potersi portare con pazienza; molto più che riescono di mal esempio alla Dogana, ove non si vogliono pagare i diritti.

« Ora è mestieri che il personale si emendi e cessi dai

(i) Archivio di Simancas: Lea, p. 521.

180

PREPOTENZE E SCOMUNICHE

disordini; altrimenti il Viceré sarà costretto a provare che gli ufficiali del S. O. debbono vivere religiosamente, e cessare da ogni maniera di scandali: unico espediente per- chè la S. I. sia pili onorata e ricercata » (i).

Ragione di sfacciata audacia era la sua immunità ar- mata. Immunità dal foro ordinario, che non poteva im- mischiarsi dei fatti di essa; armata, perchè nobili e non nobili, agenti del S. O. erano dagli Inquisitori autorizzati a portare armi. Potrebbe osservarsi che non ce n'era bi- sogno, specie quando il Tribunale avea sede nei medesimi luoghi del Viceré, come di frequente avveniva, nei primi tempi della istituzione; ma quei signori amavano circon- darsi di una legione di familiari; ed il conceder grazie era soddisfazione di chi se ne arrogava la facoltà; come l'a- verne concedute, piacere di chi ne veniva privilegiato: tanto, l'arme in Sicilia fu sempre attrattiva irresistibile, par- ticolarmente pel volgo. Ed i permessi d'arme ai forensi pio- vevano senza distinzione di persone, di luoghi e di ore; e fino i più bassi fondi della società, sotto le insegne dei Quintavilla e degli Aedo, dei Paramo e dei ToressUla e di cento altri, braveggiavano per città e terre, misfacevano nelle campagne contro le proprietà, le persone e la pub- blica sicurezza.

(( In la concessione di li armi che fa lo Inquisituri et lo algozirio di lo dicto S. O. )), scriveva il Parlamento del 1520, « si fanno molti abusi tanto per darisi larga licentia

(i) Archivio di Simancas, Inqtàisicion. lib. Ili, f. 202: Lea, The Inquisicion in the Spanish Dependencies, pp. 516-17. New York, Macmillan, 1908.

181

SANT'UFFIZIO

di portali armi quanto per darisi a persuni rivultusi, che andavano di noeti, senza fari exercitio, servito alcuno di noeti per lo dieto S. O.; di undi notino multi scandali et inconvenienti di sarvitio et disturbo di lo quieto viveri del Regno » (i).

Vennero le Concordie ed anche queso abuso ebbe il suo seguito fino all'ultima decrepitezza del Tribunale. Non si crederebbe! Nel 1732 il Viceré De Cordova consentiva che i foristi portassero armi per servizio del loro Tribunale (2). Ma dove cominciava e dove finiva il servizio? ^^

Altro grave abuso era il comperar credito di baronij^| quali non poteano o non volevano pagare, ed essi lo risco- tevano sottoponendo i debitori alla giurisdizione del loro foro (3). Ed altro ancora era il commerciare con persone di buona fede, estranee al foro privilegiato. Nella loro indipendenza dai TribunaU ordinari presumevano che con- trattando con queste persone, difficilmente sarebbero stati raggiunti e costretti a mantenere gl'impegni. La loro im- munità, che parte avevano, parte assumevano, mettevali al \ coperto dalla traseuranza di doveri sorgenti da atti privati e, più che da questi, dai pubblici. Così frodavano lo Stato e con lo Stato i contraenti. Alla fin fine, che danno sarebbe venuto ad essi? un ricorso al loro Tribunale; ma prima di riuscire a questo quante pratiche avrebbero dovuto farsi? e, fatte, chi avrebbe assicurata la parte avversa d'una vitto- ria in foro del S. U. o non piuttosto chi ne avrebbe avuto

(i) Capitula Regni Sicilia, t. I. cap. C II, pp. 582-83.

(2) Gervasi, Siculae Sanctiones, v. II, p. 344.

(3) A. Battaglia, L'evoluzione sociale in rapporto ali» prietà fondiaria in Sicilia, p. 49. Palermo, Reber, 1895.

182

PREPOTENZE E SCOMUNICHE

travagli, spese ed interessi, come ordinariamente li a- vea? (i).

V'era tanto di elastico nelle Concordie! e si prestavano esse a tanti cavilli!

Il caso del Conte d Mussomeli è un esempio tipico della immunità degli agenti della Inquisizione, che ha perfetto riscontro in un altro, divenuto unico del genere a cagione della indipendenza mostrata da un Viceré.

Non ispiaccia al lettore la testuale narrazione siciliano- italiana che ce ne lasciò un diarista contemporaneo (12 di giugnetto (luglio) 1602 (2), mercori, havendo la G. Curti sbandatu {bandito) a il Sig. D. Mariano Agliata familiari del Santo Offìtio et havendosi detto signore appresentato in poteri dell' 111. mi signuri Inquisituri, cioè Palm oda, A- gliach et Oglio {de Hoyo) e detti Inquisituri, havendo man- dato li monitori] alla G. C. che li cangellassiro {affinchè cancellassero) il bando e mandassero l'informazioni, della G. C. non li obidiu; et havendo detti signuri Inquisituri scomunicato detta G. C, e perchè detta G. C. volia esseri assoluta e non volia cancellare detto bando, mandarli

(i) Capitula Regni Siciliae, a. 1520, cap. LXXXI, t. I, pp. 99-100.

(2) Questa data conferma che il S. U. era già nel Palazzo Chiaramonte dove finì, passatovi senza una consegna in regola del fabbricato, che solo nel 1605 fu fatta.

Siamo in luglio del 1602, e già due mesi prima, il 5 maggio, un cronista scriveva: '( Atto di fede alla Cattedrale. Vi fu ca- valcata. Gl'Inquisitori furono accompagnati dal Senato. Paramo (Inquisitore) non v'intervenne perche si trovava infermo. In questo tempo non erano ancora trasferite le carceri nello Steri ma ancora erano nel Castello; infatti da esso uscirono ». (Ms

Qq F. 239).

183

SANT'UFFIZIO

l'informazioni, andaro dove (da) lu Ill.mo e Rev. signor D. Didaco di Aedo nostro Arcipiscopo di Palermo, e li absolvio. E detti signuri Inquisituri scomunicarono a detto Arcipi- scopo et suo Mastro notare. Sapendolo la eccellencia del Duca di Feria visare (viceré), chiamao du compagni] di Spagnoli e il Fiscali Buttuni e mandàuli alla casa di detti Inquisituri con comandamentu che quanto familiari tro- vassiru in detta casa del S. Offìzio, tutti li impendissiro (appiccassero); e detti Sig. Inquisituri fecero serrare li porti delli casi, quali eranu alla Dogana dove è lu Steri; e detti sig. Inquisituri si affacchiaru (affacciarono) alli fi- nestri, e scomunicaru a detti soldati, quali erano con li archibuxi parati e li mechij (le micce) allumati con la mira, e detti sig. Inquisituri quali dalla finestra scomunicarono tanto detti soldati quanto ancora a cui ci dava ajuto; e detti soldati pigliare un travo e (con esso) li gettare li porti in terra; e trasie (entrò) il fiscali Buttuni con Gievannello Ma- gliocco cenestabile majure della G. C; con il Beja con li chiachi (nodi scorsoi) in ordine, e non trovare a nixunò familiare; e perchè di pei detti soldati vdiaro essiri assoluti, e detti sig. Inquisituri voliano che lassassire li armi, detti soldati non li voliare lassari, anzi misire di nuovo di meschij alli serpentine, e detti Inquisituri li dissire si voliano essi- ri assoluti, calassiro li buchi (le bocche) delli arcabuxi in terra; e così fecero, e detti Inquisituri li assolvere della (dalla) finestra; e detti soldati sindi (se ne) andaro: e così detta G. C. li cassae il bando e li mandao l'informazio- ni » (i).

(i) Pollaci Nuccio, Varietà palermitane; in Nuove Effe- meridi sic., serie III, v. Vili, pp. 37-38.

184

PREPOTENZE E SCOMUNICHE

La citazione è stata lunga, ma buona ad ammaestrarci che gl'Inquisitori non transigevano sul loro diritto di sco- municare e di non vedere ricomunicata la persona scomuni- cata da loro. Era legge inviolabile, come abbiam detto, che non potesse l'ordinario assolvere lo scomunicato del S. Uf- fizio (i). L'Arcivescovo di Palermo, interdetto dall'Inqui- sitore, è una curiosità storica, ma tutt'altro che unica, se il Vescovo di Girgenti nel 1642 e prelati capi di diocesi incontravano la medesima sorte. Fuori Regno si annoverano l'Arcivescovo di Toledo, D. Bartolomeo Ca- ranza, che moriva a 73 anni, dopo averne passati 18 in piena reclusione (1576); un Vescovo di Cartagine, un altro di Valladolid, uno di Siviglia; ed altri della più alta pre- latura.

Gl'Inquisitori di Sicilia, come di Spagna, potevano as- solvere dall'eresia non solo in foro giudiziale ed' estemo, ma anche il foro interno di coscienze; e ciò, secondo alcuni, per isp>ecial privilegio, secondo altri per uso e consuetuai- ne secondo altri ancora per un tacito consenso del quale però non si ha documento della S. Sede.

era necessario che l'Inquisitore fosse un sacerdote; perchè la facoltà era data all'ufficio (2); e forse pochi sa- pranno che alcuni Inquisitori di Sicilia non eran sacerdoti; ed il famoso Bernal forse fu il primo secolare.

In mezzo a tanta depressione morale una figura di Viceré spicca per un atto di grande energia, D. Lorenz© Suarez de Figueroa, Duca di Feria. Ma la sua energia rom-

(i) Sacro Arsenale, n. XXXVII, p. 359. (2) Diana, ed altri scrittori F.cis Pobertolis, panor- mitani; Examen ecclesiaslicum. p. 357. Venetiis, MDCCXV.

185

SANT'UFFIZIO

pe contro lo scoglio delle prerogative inquisì toriali. Con tanti soldati pronti a sparar contro, chi oserà più oltre re- sistere all'autorità viceregia, con un boia pronto a stran- golare quanti vorranno ribellarsi a quella, dopo tanto clamo- roso spettacolo, si finisce donde si era cominciato e dove non si voleva fermarsi; si manda, cioè, la istruttoria e si consegna al S. Uffizio il nobile forista AUiata.

E allora valeva proprio la pena che si mettesse a ru- more la prima città del Regno, che si spingesse a spron battuto un piccolo esercito di alabardieri fino al Palazzo Chiaramonte per non concluder nulla?

i86

Capitolo X.

RIVOLTE DI POPOLO

PERVICACIA D'INQUISITORI

GIUDIZIO FINALE SUL S. UFFIZIO

ANTA pervicacia doveva condurre il popolo

a disperate conseguenze. Temuto e odiato

da esso, il Tribunale per ben quattro o

cinque volte nel sec. XVI ebbe ribellioni

^i ed incendi compromettenti la sua esistenza

ed i suoi archivi.

Nel 1516 un sacerdote veronese in Palermo predica con- tro gli ebrei neofiti; e la plebe assale il S. Uffizio, ne ma- nomette registri, processi, carte, libri; e solo per lo interdet- to lanciato dal Tribunale ai detentori di essi se ne ricupe- rano alcuni.

Nella ribellione contro il Viceré Ugo Moncada (1518), non potendosi avere in mano lui, si sfogò contro il suo amico l'inquisitore Melchiorre Cervera; ma Cervera fuggì, e si aprirono le porte del palazzo, e si forzarono le segrete e

187

SANT'UFFIZIO

si liberarono i detenuti (i). Indi a non molto l'Inquisitore D. Calvete ordinava ai fedeli pelermitani che restituissero, sotto pena di scomunica, li « multi scrittori, libri e beni di esso S. Officio e soy officiali » (2).

Maggiore il danno del 1546. Aperte, come di consueto nelle pubbliche sommo^e, le carceri e messi fuori i carce- rati, si appiccò il fuoco al palazzo ed a quasi tutte le scrit- ture ed ai processi di fede (3).

« Gl'Inquisitori, diventando ogni più insolenti, trat- tavano senza alcuni riguardo i Siciliani d'ogni condizione; onde gli abitanti di Palermo fieramente indispettiti si sol- levarono contro il S. Uffizio (1562) nell'atto che sfavasi per pubblicare il solito editto di fede che ingiungeva l'ob- bligo a tutti di denunciare sotto pena di morte i colpevoli o sospetti d'eresia; e sebbene il Viceré ottenesse di calmale l'insurrezione, gl'Inquisitori più non osano di celebrare in pubblico alcun autodafé fino al 1569 » (4).

Nel solo anno 1590 il 2 gennaio ed il 5 giugno altri in- cendi misero a pericolo le carte che si erano venute accumu- lando in poco di mezzo secolo. L'espediente della scomu- nica lancia'ta dal Tribunale produsse effetti mirabili; pane delle scritture venne ricuperata (5).

A questi tumulti bisogna aggiungere nel secolo seguente

(i) Franchina, op. cit., cap. XI, pp. 57-59.

(2) Documenti appartenenti al Tribunale del S. Officio in Sicilia, voi. I, sub anno 1518. Ms. Qq H 62 della Bibl. Cora.

di Palermo.

(3) Franchina, op. cit., cap. XI, pp. 66-67.

(4) Llorente. t. II, cap. XVII, art. II, pp. 131-32.

(5) Varietà palermitane; jn Nuove Effemeridi sic, serie III, V. VII, pp. 200-201. Palermo, 1878.

188

ì

RIVOLTE DI POPOLO - PERVICACIA D INQUISITORI

la sollevazione del battiloro palermitano Giuseppe D'Alesi

(1647) (i).

Fu detto e ripetuto, da chi crede al pregiudizio del malocchio, che la presenza del Viceré conte d'Albadelista fosse stata fatale alla città; e si narra dello immane disastro del crollo del ponte sbarcatoio a Piedigrotta al suo primo giungere da Messina, coli 'annegamento di più che cento persone della nobiltà. Ma chi crede a quel pregiudizio non pensò mai che nel campo delle ubbie altro personaggio, ben più fatale dell' Albadelista, avrebbe dovuto mettersi in conto: l'Inquisitore Paramo. Il S. Uffizio era sempre den- tro il Castello a mare, e avvenivano i due incendi del 1590, la caduta del ponte del 1592,10 scoppio della pol- veriera del 1593", ed altri infortuni e disastri (2).

Il Paramo ne uscì mal vivo, e fino al 1608, anno della sua non rimpianta scomparsa, ebbe travagli fisici che die- dero da fare e da dire ai medici del tempo (3).

Ma l'attenzione del popolo si fermò solo sul Viceré e prese come fortunata la presenza del Paramo (chi sa!...) forse perchè funesta al S. Uffizio, che era funesto all'Isola. A' quelque chose malheur est boti!

Ma ribellione di popolo, sdegno di ecclesiastici, represso odio d'ogni classe di cittadini valeva mai ad infrenare orgoglio di giudici e spavalderia di ufficiali.

(i) V'erano anche le manomissioni ed i furti dei familiari- Il ms. segnato Qq F 239 della Bibl. Com. di Palermo, prove- niente dagli Archivi del S. U., parla d'un processo contro Fi- lippo Malavilla, « portiere del Secreto, per aver venduto ad un merciere molti libri che erano nel Secreto del S. Q. ».

(2) Matranga, p. 12.

(3) Consulti medici per lui ed a lui esistono nel Ms. 3 Qq E 82 della Biblioteca Com. di Palermo.

189

SANT'UFFIZIO

Siamo al domani del Cinquecento, e la pervicacia si può solo spiegare coi tempi che favorivano la istituzione, gelo- sissima (e in ciò stava la sua impareggiabile forza) dei suoi privilegi.

Quest'orgoglio li rendeva ciechi e to^ieva loro fin l'ombra dei riguardi dovuti alla dignità episcopale ed al- l'autorità vicereale. Dai fatti irmanzi esposti questa triste verità si presenta nella più cruda evidenza. Tuttavia eccone un altro che fa al caso speciale.

Era l'anno 1621 e l'Inquisitore capo determinava di celebrare uno dei soliti Atti di fede, stavolta nella piazza della Cattedrale. Dello spettacolo fissato pel 18 novembre, veniva data partecipazione all'Arcivescovo il Card. Gian- nettino Doria. Da persona educata costui ringraziava, e divisando invitare per conto proprio il Viceré, esprimeva il desiderio che il palco d'onore fosse costruito vicino al Palazzo Arcivescovile che, come si sa, fiancheggia ad occi- dente la piazza. Il desiderio non costava nulla, ma l'Inqui- sitore vi si oppose come contrario ai suoi intendimenti!

Bene rilevò il Doria la innocuità del desiderio e la qua- lità sua di prima autorità ecclesiastica e di Principe della Chiesa. La prima autorità sono io rispose l'Inquisitore De Nino; la seconda, se mai, l'Arcivescovo Cardinale; <( e se V. E. non rimane sodisfatto, resti servito di richiamarsene a chi di ragione ». E villanamente chiuse la corrisponden- za, ordinando lo spettacolo nella Piazza dei Bologni. Non parliamo di quel che seguì col Viceré, offeso anche lui nel- l'Arcivescovo, e del ricorso a S. M. in Ispagna. Questi ri- corsi aveano soluzione tarda, e quando l'avevano, già inoj>- portuna e priva di effetto. Restava la protervia di quei si- gnori ed il nessuno rispetto al venerando arcivescovo, ed

igo

RIVOLTE DI POPOLO - PERVICACIA D'INQUISITORI

al gentiluomo perfetto, per cui Filippo II avea chiesto il cappello cardinalizio; e si dimenticava che alla fine della consueta celebrazione del bando di fede per la quaresima, all'uscire dalla Cattedrale, con signorilità propria dei principi di Melfi, invita vali a pranzo al quale, con fame tutt' altro che signorile, essi facevano onore (i).

Di competenza in competenza la loro vita era una lotta continua, ora con l'ordinario, ora con la G. C, ora con i vari Viceré, fra i quali particolarmente il Duca di Sermo- neta (1666) (2); e durante la ribellione di Messina anche con il Conte di S. Stefano che con alterezza avea proibito le armi a chicchessia, e quindi ai familiari del S. U.

Era costume antico che gl'Inquisitori, convitati dal p. Priore di S. Domenico, assistessero alla festa dell'Epifania in detta chiesa da una gelosia, come ancora assistea il Viceré da un'altra.

Inquisitori D. Bernardo Vigil de Quifiones e D. Tomaso Rubia del Cels, nel 1671. In quell'anno, essendo convitati al solito, il Viceré comandò che si levzisse il palco dell' In-

tquisitori. Il che seputosi da essi, ne scrissero al Segretario del Viceré; ma questi tenne duro. ; Da quel momento in poi il Tribunale non assistè più ^lla festa della Epifania in S. Domenico come avea fatto pel passato (3). Il torto qui parrebbe del Viceré; ma non

(l) Ms. Qq F 239. Di questi inviti il 9 marzo 1615, 24 febbr. 1616, 14 febbr. 1617, 6 marzo 1618, 16 febbr. 1619 parla il medesimo volume ms.

(2) Il ms. Qq F 239 della Bibl. Com. di Palermo fa cenno di informazioni inquisitoriali contro questo Viceré, perchè « por- tava poco o niun affetto al S. O. ».

(3) Ms. Qq F 239.

191

SANT'UFFIZIO

era egli la suprema autorità dell'Isola? potevano essi van- tarsi di partecipare ad una festa religiosa propria, quando la festa non era del S. U.?

Che cosa perciò importava a loro dei malumori che creavano nelle principali autorità del tempo? Coi vescovi la passavano in contese infinite per poco che essi facessero il loro dovere nel sostenere le proprie facoltà circa la di- sciplina ecclesiastica. Le poche carte che ci restano, accusano dissidi con quelli di Messina, di Lipari, di Sira- cusa, di Catania. Il vescovo di Girgenti (1642) dovette per gravi trasgressioni interdire il commissario nel Burgio, e fu da essi interdetto; e la interdizione non gli fu tolta se] non dopo di aver mandato al sacro Tribunale le sue di- scolpe e giustificazioni (i). Quello di Mazzara, l'Eminen- tissimo Cardinale di Santa Cecilia, D. G. Spinola peissò del brutti quarti d'ora per aver voluto riconciliare alla chiesa] tre rinnegati approdati a Tunisi col figlio del re di questa] città (1646) (2).

Refrattari a qualsivoglia gentilezza, rifiutavano la com-j pagnia anche dei più eminenti funzionari dello Stato. Uni eruudito, lo Scavo, pregiudicato a favore del S. U., impie^ gato alla Inquisizione, racconta che (( solea il Tribunale iiij occcisione di giostre, fare il suo palco nel muro dello Steri] per gli officiali e ministri del S. U.; che nel 1860 una pei volle costruirne « il Secreto della Duana dalla parte prin-^ cipale dello Steri, dove si entrava nella detta Duana »; ma che ne fu impedito dall'Inquisitore D. Cosimo de Ovando] y UUoa l'intervento; che per farsi ragione ricorre al Viceré]

(1) Ms. Qq F 239.

(2) Ms. Qq F 239.

192

RIVOLTE DI POPOLO - PERVICACIA DÌNQUISITORI

rappresentandogli come qualmente mai il Secreto avesse fatto detto palchetto nelle mura dello Steri, ed esser cosa nuova ». Nuova o non nuova, avrebbe dovuto rispondere sua Eccellenza D. Fr. Bonavides, lo spazio dal lato delUa Dogana è del Secreto: e voi, Sig. Inquisitore, non potete impedire l'occupazione d'un suolo che non è vostro. « Ma il perchè il tempo era brieve, S. E. determinò farsi li pal- chi metà per servizio del Tribunale, e l'altra metà per il Segreto, con farsi atto preservativo » (i), che è quanto dire di riserva.

Se non che, anche più tardi, quando, già svigorita, era scossa dai cardini, alle sue preminenze non sognò mai di rinunziare; e di queste poteva bene ripetere: Aut sint ut sunt, aut non sint. Comprendeva bene che anche la piìi piccola transazione, una tacita acquiescenza sopra punti capitali pel suo funzionamento sarebbe stata una compro- missione della sua esistenza. E non cedeva (2).

Racconta il Mongitore che il 2 marzo del 1733 « ap- parve sulle strade della città la scomunica fulminata dagli Inquisitori contro il D.r D. Antonino Crimibella, giudice della G. C, per aver carcerato un famigliare del S. U. e non averlo voluto rimettere al suo foro ». Il seguente il Viceré fece le sue rimostranze all'Inquisitore Franchina; « ed essendosi data soddisfazione, fu rimessa la causa alla Giunta dei Presidenti e Consultore, che decisero doversi re- stituire dalla G. C. il prigione e che il Crimibella dovesse farsi assolvere. E infatti a 11 marzo lo fu privatamente

(i) Ms. Qq F 39,t. II, p. 35-36.

(2) Infatti pubblicava o ripubblicava la Istruzione del S. O di questo Regno di Sicilia ed isole coadjacenti per le cause degl'Eretici che spontaneamente vengono al S. Tribunale della Fede ecc. In Palermo, Epiro (Vedi Bibl. Com. ai segni X, B. 4. n. io).

13 _ G. PITRÈ - SonfUffiiio

SANT'UFFIZIO

ad reincidentiam, finché venisse la risoluzione da Vien- na )) (i).

Il fatto si ripetè come nei secoli di maggiore potenza del Tribunale; e l'unica concessione fu quella della cen- sura tolta privatamente. C'erano di mezzo le famose Con- cordie del 1580, 1597, 1635 (c che definivano con sovrana regia autorità le controversie » e, forte di esse, la Inquisi- zione locale non discuteva. Solo un anno dopo, nel 1731, essa diventò indipendente dalla Spagna: provvidenza di. Carlo III; ma allora veniva decadendo a vista d'occhio fino- a non esser molto temuta.

Primo atto, e grave contro il Tribunale, fu la risoluzione! sulla censura del Crimibella.

Il 6 marzo del 173 1, il Viceré in nome del Re scriveva al S. Uffizio che (( quindi innanzi non potessero gl'Inqui- sitori far uso delle censure ecclesiastiche se non nei casi e] nelle materie appartenenti a fede o di notoria e indubi- tata usurpazione di giurisdizione » . Molto interessa al Re | la quiete de' suoi vassalli, (( ai quali dee evitarsi l'orrore delle censure e lo scandalo che può nascere dalle mede- sime quando promulgansi senza legittima causa e fuori de'; termini » (2).

Risposta tanto tagliente e quasi senza regio esempio nel] genere scosse profondamente il morale del Reverendissimo D. Giovanni de Abarca e di tutti i suoi satelliti. Da più di]

(i) MoNGiTORE, Diario, in Bibl. del Di Marzo, v. IX, pa- gne 201-202.

(2) N. Gervasi, Siculae Sanctiones nunc primum typis excusae aut extra corpus juris niunicipalis haetentis vagantes, t. II, lib. IV, pp. 350-51. Panormi, anno MDCCLI.

194

RIVOLTE DI POPOLO - PERVICACIA DÌNQUISITORl

due secoli era imperversata la gazzarra attorno ai roghi: ed ai bagliori orrendi dell'ultimo pel Canzoneri (1732} era seguita da luce serena un'era di pace e di progresso.

Già fin dal suo primo insediarsi nella Inquisizione Su- prema in Vienna il Card. KoUoritz avea cominciato a met- tere gli occhi dentro gli affari interni della Inquisizione pro- vinciale di Sicilia; ed ora formulava dei quesiti, chiedeva informazioni dello strano abuso di patenti concesse a pa- droni di feluche pei porti principali dell'Isola, dove essi godevano semifranchigie di ancoraggio e di palangaggio; ora biasimava la condotta degli assessori assenti dall'uffi- cio, ed esigenti che fossero portate loro le carte nelle pro- prie case per firmarle; ragioni queste di sospetti negli In- quisitori che si volessero attenuare i loro poteri (i).

Ma si era in famiglia; e di tanto armeggìo non trapelava nulla fuori del sacro Tribunale.

I guai veri incominciarono con l'avvento della dinastia dei Borboni.

Un giorno il nuovo monarca ordina che l'Inquisitore non s'ingerisca di cose fiscali; un altro, che non si permetta di entrare in cause attive : prerogativa che non ha il foro ecclesiastico, il foro militare; e che essi si sono abusi- vamente arrogata; che non si permettano più monitori e censure contro ministri regi (2). Un altro ancora, che negli arresti del S. U. intervenga la giustizia laicale. Disposi- ci) Ms. Qq H 62, 1730, 1733, 1731.

(2) Siculae sanctiones, 5 luglio e 23 ott. 1766. Viceré Bart Corsini ed Eustachio de la Vieufuille. Gervasi, Siculae sanctio- nes. t. II, pp. 356-57. 358, 360.

195

SANT'UFFIZIO

zione questa alla quale il Tribunale della fede si oppose con una forza degna di altri tempi (i).

L'opera del sacro Tribunale, ridotta così di molto, si limitò alla censura religiosa, che slungava i suoi tentacoli al costume, ai libri (2) ed alla disciplina ecclesiastica, non ostante che a questa intendessero con vigile premura gli ordinari delle diocesi. Nello infiacchimento delle sue forze, s'attaccava alle piccole cose, tanto per affermare la sua esistenza. Un aneddoto dimostra questa miseria, ed io lo vo' raccontare. Nel 1775 il quaresimalista di S. Niccolò la Kalsa, la parrocchia aristocratica di Palermo, che il Senato proteggeva ed il S. Uffìzio preferiva col suo intervento alle sacre funzioni, P. G. Crisostomo da Termini, volendo in una delle sue prediche dimostrare la efficacia del patro- cinio di S. Giuseppe, raccontava una leggenda popolare piena di naìveté. Era in chiesa il solito popolino, ma c'era- no anche i Signori Inquisitori, i quali ne furono non che scandalizzati, ma anche indignati. Finita la predica, P.

(i) Ecco le speciose ragioni di Mons. Agatino, Arcivescovo di Iconio, al R. Dispaccio del 5 giugno 1751:

« Dovendo assistere l'ufficiale laicale alla carcerazione per delitti di fede, e non essendo egli tenuto al segreto, si pubbli- cherebbe la cosa e ne verrebbe scandalo pubblico, vergogna ed infamia all'arresto ed alla famiglia. Le famiglie sogliono aiutare la Inquisizione in questi arresti, la Inquisizione esse guardano con venerazione perchè custode della purezza della fede. Bando dunque alla riforma: e si torni all'antico. La Inquisizione ar- resti di notte, da sé, senza aiuti laicali. Ms. Qq H 62 della Bibl. Com. di Palermo.

{2) Della proibizione di certi libri si occupava con una lettera l'Inquisitore di Sicilia nel 1659; e non cessò di fermar- visi anche quando il Re avocava a questa sorveglianza. Vedi l'ordine sovrano del 1752 nel ms. Qq H 62, sotto questi due anni.

196

RIVOLTE DI POPOLO - PERVICACIA D'INQUISITORI

G. Crisostomo venne arrestato dai ministri del S. Uffìzio e chiuso in carcere. In altri tempi, per cose meno signi- ficanti, ci sarebbe stato il carcere perpetuo; stavolta l'im- prudente frate antoniano se la cavò con una pubblica ri- trattazione nella medesima chiesa, innanzi ai medesimi giudici e sul medesimo pulpito e con la interdizione alla predicazione. Il Folklore italiano però ci guadagnò la pri- ma variante storicamente accertata della piacevole leggen- da (I).

V'è anche di peggio. Fin dal 1780 correva insistente- mente la voce della prossima abolizione del Tribunale della fede; e gli ufficiali nobili ed altri patentati di esso, si agi- tavano, interponendo l'opera autorevole della Deputazio- ne del Regno e del Senato di Palermo perchè tanta scia- gura per loro venisse scongiurata. E' naturale che faces- sero il loro vantaggio. Deputazione e Senato, interessati pili o meno direttamente, in quanto nella pericolante isti- tuzione erano persone dell'alto e del medio ceto, supplica- rono il Sovrano che volesse rimuovere la spada di Da- mocle pendente sul capo degli impiegati.

Tutto questo maneggio non poteva non esser noto al- l'Inquisitore locale; anzi non si saprebbe concepirlo senza il suggerimento e la istigazione di lui. Era quello il mo- mento in cui il piiì elementare buonsenso avrebbe dovuto persuaderlo che il suo regno era finito; ma Monsignore noa seppe, o non volle capirlo. Era costume che ogni anno, nel- la domenica di sessagesima, si pubblicasse l'editto di fede

(i) D. Faija, Biografia dei parrochi di S. Nicolò la Kalsa. pp. 152-54. Palermo, G. Barravecchia, 1877.

La leggenda venne da me raccolta dalla bocca del popolo in Palermo e da A. Dumas in Napoli.

197

SANT'UFFIZIO

della Inquisizione, presenti i familiari, i ministri, il Senato, l'Arcivescovo, il Viceré. Questo editto in precedenza stam- pato veniva letto nella Cattedrale ed illustrato con un sermone d'un sacerdote regolare (i).

Ebbene: nei primi del 1782 il Tribunale della fede fa- ceva allestire dalla sua Tipografìa (che ne avea una propria, con operai del suo foro) le stampe di un editto sopra la (( Scomunica da leggersi nella III Domenica di Quaresima » e di un <( Regolamento da osservarsi nella pubblicazione della scomunica »; e le avrebbe senz'altro pubblicate, se il Governo non si fosse affrettato a proibirle. Non se ne dette per inteso il Tribunale, ed insistette per il publicetur, che per lo addietro non avrebbe neppur sognato di chiedere, esso che avea bravata qualunque autorità costituita; ed il Governo, alla sua volta, insistette sulla proibizione.

Quindici giorni dopo, il S. Uffìzio veniva soppresso! (2).

Tutti tacquero, nessuno si levò a difendere il vecchio leone, sdentato e senza zanne, impotente a più oltre sbra- nare; nessuno celebrò i fasti di esso, come Antonio Vene-

(i) Vecchie carte d'archivio ci han conservato il (( Cere- moniale della lettura dell'editto e dell'anatema ».

« Congregatisi tutti in una chiesa vicina, si portavano alla Cattedrale in processione, e giunti allo scalino della porta mag- giore, se li dava l'acqua benedetta da un cappellano; ed entrati in chiesa sedeano nel corno dell'evangelio con predella alta un palmo, coperta di tapeto, e li familiari in sedie, e nel corno del- l'epistoli li preti onesti. Sul principio della messa solenne si portava un maestro di cerimonie ed un altro al Senato che v'in- terveniva, e là, recitato l'introito, dato a suo tempo l'incenso e la pace, e terminata la messa, van tutti riportati a quella chiesa, ove si congregorno ». Ms. Qq F 239 della Bibl. Com. di Palermo.

(2) La Mantia, op. cit., v. II. Documenti, n. I-VII.

198

RIVOLTE DI POPOLO - PERVICACIA DÌNQUISITORI

ziano avea celebrato la sicurezza dell'isola sotto l'egida del sacro Tribunale; nessuno fece l'apoteosi dell'Inquisitore Ventimiglia come Francesco Baronio avea fatto del Cisnero (i).

Il Governo serbò intatti i salari agli impiegati finché vissero, e destinò a più usi di pubblica utilità le rendite del soppresso Tribunale. « Dalle ceneri delle spoglie dell'In- quisizione », scriveva lo Scinà, « sursero tre cattedre vi- stose; la fisica sperimentale, che delle macchine opportune fu corredata; la matematica, che de' sublimi calcoli venisse ammaestrando, e l'astronomia che ebbe un osservatorio, il quale per la eccellenza degli strumenti e per la copia delle osservazioni venne in Europa ben presto a rino- manza » (2).

Ed eccomi, senza volerlo, alla fine ingloriosa d'una isti- tuzione che per secoli avea fatto tremare principi e popoli, governanti e governati, coloro stessi che l'aveano aiutata, favorita e in ogni maniera sostenuta.

Il Bertini avea potuto vantarsi che « i signori Inqui- sitori, giudici, delegati, agiscono contro tutti e contro qualsivoglia persona insignita di qualsivoglia dignità; giac- ché hanno sotto di coloro che [in] tutto il mondo sono,

(i) Tuta foris, tuta est intus Trinacria tellus,

Hinc quaesitor agit, pontus et inde fremii.

Audax si quis erit, Triquetram qui laedere tentet, Nil juvat esse intus, nil juvat esse foris. Antonio Veneziano, Opere, p. 143. Palermo, Giliberti, 1861. (2) Scinà, Prospetto della Storia letteraria di Sicilia nel sec. XVII, voi. III. Introduzione, ediz. Gallo.

199

SANT'UFFIZIO

per il battesimo, costituiti dentro la chiesa. In ordine a cause di fede estendono il loro dominio dal -mare al mare, dal fiume ai confini della terra, ed han facoltà d'inquirere per ragion d'eresia o per sospetto di essa sopra imperatori, re, principi, conti, marchesi, duchi ed altre potestà seco- lari » (i).

Ma il vanto diveime una irrisione!

Questi particolari ed altri assai, che amor di brevità consiglia di tralasciare, compendiano senz'altro il giudizio che sul Tribunale formulò la storia spassionata e serena. Di- versità di criteri, ritraenti dalle tendenze dei tempi e degli uomini, rese finora discutibile il giudizio; il quale, quando il tribunale grandeggiava, fu di plauso dei suoi fautori, di cieca obbedienza dei suoi familiari, di pavida devozione di quanti nel Tribunale vedevano il custode della fede avita; e quando cessò, venne tradotto in frasi di terrore del popolo, in invettive degli scrittori, tanto più forti quanto più lon- tane dai giorni prosperosi di quella potenza (2).

Tra le smaccate lodi d'una volta ed i gravi biasimi d'og- gi stanno i documenti d'archivio e di biblioteca, testimoni fedeli del passato.

Tolti pochi dotti siciliani del principio e della fine del-

(i) Bertini, op. cit. Divinus egressus, punct. V. ff. 8-9.

(2) Cinque anni dopo, nel 1789, Carmelo Guerra [Me- moria sulle strade pubbliche della Sicilia, p. io. In Napoli, MDCCLXXXIX) scriveva: <( Più non esiste l'orrendo Tribunale dpirinqujisizione, alimento della ferocia, della superstizione e della ignoranza che atterriva i forestieri ed era il più grande ostacolo allo sviluppo de' talenti ».

200

RIVOLTE DI POPOLO - PERVICACIA D'INQUISITORI

la istituzione (i), gl'Inquisitori erano vanità imbottite di formole teologiche e scolastiche.

Venivano di Spagna (2) con la jattanza d'una licen- za (si chiamavano e licenziati ») in Canoni e in Leggi e, con la protezione d'un Inquisitore Supremo, portavano la presunzione di dover salvare la religione e la fede dei Sici- liani; le quali, a vero dire, rimasero sempre integre. I 5000 Ebrei di Palermo, i 50.000 di tutta la Sicilia, raccolti in comunità isolate, non misero mai in pericolo la religione dello Stato, che Ferdinando il Cattolico, sotto l'impulso di Torquemada, vide o volle far vedere compromessa; come non la compromise un istante la Riforma, che non ebbe presa in Sicilia.

Codesti intendimenti rendevanli sospettosi e inumani, anche perchè la Sicilia non era patria loro, se mai una patria essi ebbero. Pur sapendo che il loro potere emanava dal Re e dal Papa, tenevano in non cale Viceré e Podestà; e l'Arcivescovo di Palermo De Aedo ne provò i morsi, i Vi- ceré le ribellioni e le insidie. Giacché non vi era occasione che gl'Inquisitori non cogliessero per dare sfogo al loro maltalento verso i Viceré, i soli che potessero tener fronte agU irrefrenati loro abusi. Era una gara incessante di oc- culti partigiani; se insoddisfatti del Viceré, devoti al S. U.;

(i) Lo Schifaldo, p. e., il Galletti (1738), Angelo Serio (1742), Giovanni Di Giovanni, Francesco Testa (1743 e 1754).

(2) Ordinariamente si ritiene che gl'Inquisitori ed i capi dell'Inquisizione in Sicilia sieno stati Domenicani. Questo è uq errore. Ai primi frati di questo Ordine, verso il 1504 seguirono gli ecclesiastici secolari, s'intende sempre spagnuoli. Negli ul- timi tempi, ecclesiastici siciliani.

201

SANT'UFFIZIO

se scontenti del S. U., devoti al Viceré; onde il danno della cosa pubblica.

Somma destrezza perciò occorreva a costoro per isven- tare gl'intrighi di quei Commissari a Corte, dove la ipocri- sia avea libera entrata e la calunnia facile ascolto. Vi furo- no Viceré che non poterono mai intendersi con quelli, do- vendo giocare sempre di nuovi espedienti per non lasciarsi irretire e soperchiare : ed a tal segno si giunse che D. Gar- sia de Toledo si partì da Palermo per recarsi in Ispagna; e sarebbe andato, diceva, fino alle Indie per ismascheraie le male arti dei suoi avversari.

Inasprivano il dissidio, oltre che il conflitto di giurisdi- zioni, i provvedimenti che, lungamente attesi, venivano da Madrid da parte del Re e da parte dell'Inquisitore Su- premo; dei quali quello a carico del Presidente del Regno Duca di Terranova, nell'assenza di D. Garsia, fu addirit- tura disastroso pel vicereale prestigio.

Le apparenze poi concorrevano a mantenere malumori e dispetti. Nei pubblici atti generali fede il Viceré oc- cupava, è vero, un seggio elevato, ma uno elevatissimo ne occupavano troneggiando glTnquisitori, protagonisti del gran teatro, ai piedi dei quali, umili e annichiliti gemevano penitenti e relassi.

Molto addentro in cosiffatti intrighi e nell'ambiente politico ed ecclesiastico del paese, il siciliano Scipione Castro (i) forniva a Marcantonio Colonna notizie e consi- gli sul da fare venendo Viceré in Sicilia; e rilevando queste

(i) Op. cit. Intorno a questo abile politico e scrittore si- ciliano della seconda metà del Cinquecento vedi Mongitore, Bibl. sic, t. II, pp. 209-10. Panormi, Felicella, MDCCXIV.

202

RIVOLTE DI POPOLO - PERVICACIA D INQUISITORI

condizioni anormali e le male arti degli Inquisitori e le ribalderie dei familari, concludeva: il miglior partito esser queUo di « non rompere con loro; dare avviso alla Corte, e di quel che non piacesse, aspettare di il rimedio, e nel resto aiutarli sempre; ricordarsi della lista dei familiari ed officiali; farne la scelta, servirsene a tempo, dar l'orecchio ai principali, e tutto con estrema destrezza, coperta la pra- tica con leggittima occasione » (i).

Che maraviglia quindi se le rappresentanze generali e locali del Regno levassero a quando a quando la voce con- tro la tirannia che così gravemente incombeva sui popoli oppressi?

Richiami di Parlamenti, voti di Senati, tradotti in for- ma di capitoli, di prammatiche e di sanzioni siciliane, atte- stano il coraggio degli stanchi spettatori di tanta protervia. Insorgenti a favore di catturati senza difesa, di vedove sen- za appoggio, di orfani alla mercè di fiscali, che al domani di una condanna, non sazii di confische, come avoltoi piombavano nelle case del dolore, manomettendone carte o conti di famigha per iscoprirvi prede sfuggite alle loro vo- glie rapaci (2). E coraggio personale dimostrò il catanese Mario Cutelli nel sostenere a Madrid le ragioni della Si-

(i) S. De Castro, op. cit. Una bella nota, del La Mantia, pp. 59-60, in proposito conferma questo stato anormale di cose.

(2) I Capitoli di Ferdinando il Cattolico (1515) ci fan co- noscere che il Magistrato dei beni di confisca, non contento di quel che prendeva ai poveri condannati, aveva ♦< di novo intro- ducto pigliarisi candili di visioni di scripturi, provisioni di in- terlocutorii et sententii et raxiuni di exentioni in gran vexationi di li vassalli ». {Capitula Regni Siciliae, cap. di Ferdinando II, ca.p. CIV, t. I, p. 583.

203

SANT'UFFIZIO

cilia contro le esorbitanze inquisitoriali, sottilmente da lui messe in luce in una delle sue maggiori opere (i).

Ma richiami e voti sortivano effetti negativi, risposte cioè evasive, subordinate al parere del Tribunale supremo, che naturalmente non poteva sconfessare il locale di Sici- lia; o qualche debole placet, che restava soltanto nell7o d\ Rey della firma reale.

Il poco che si guadagnò fu dopo le prime e maggiori ebbrezze di sangue di D. Melchiorre Cervera. A certi abusi] seguirono restrizioni e freni.

All'inglese Brydone, quando egli nel 1770 si recò inj Palermo, fu detto che « i Siciliani son molto cauti nel par-j lare di materie religiose, ed in generale consigliano ai fo- restieri di stare in guardia, essendo i poteri della Inquisi- zione, per quanto diminuiti, in nessun modo aboliti». Gli] fu detto pure che i baroni siciliani, i prelati, le città dema- niali manifestarono il loro mal animo verso il S. U., com- posto d'una geldra d'ingnoranti preti spagnuoli che spa- droneggiavano contro ogni legge divina ed umana ».

Ed era vero, quantunque i principali fossero già sicilia- ni; ma quando gli fu detto, com'egli afferma, che (( qua- lunque inquisitore eccessivamente zelante veniva tosto as- sassinato e così il soverchio zelo dei Commissari mitigato, ej ridotto a moderazione più comportabile il SS. U. » (i), glij fu detta cosa non vera.

Nessun inquisitore venne assassinato nel secolo XVIII in Sicilia; e se il S. U. fu più mite che pel passato, ciò si do-: vette al peso dei suoi errori ed alla evoluzione dei tempi.

i) M. CuTELLi, Cod. sic. p. 341-517- (2) Letter. XXXIII.

204

RIVOLTE DI POPOLO - PERVICACIA D INQUISITORI

I tumulti furono quasi sempre diretti contro la istituzione; raramente contro i rappresentanti di essa. Allorché qual- cuno fu cercato a morte, la pietà o la prudenza prevalse in sua difesa.

E' ben vero che i tempi e gli ordinamenti locali erano ragione di ritardo, se non d'ostacolo al libero svolgersi del pensiero siciliano; ma è anche vero che il Tribunale del S. U. vi ebbe una parte considerevole. Qualunque iniziativa che potesse aprire nuovi orizzonti alle inteUigenze più ele- vate, veniva per opera di questo repressa sul nascere, ar- restata nel suo procedere. Se percorriamo le fasi degli studi de Secoli andati, vi troveremo dotti ed eruditi, storici e let- terati di conto, ma non filosofi che si lancino per vie non prima tentate; e chi sa se non ve ne furono e rimasero, per opera del S. U., soffocati!...

Dove sono i processi dagli interrogatori dei quali è da- to conoscere qualche spirito forte o qualche genio non compreso? Tutto è buio per noi.

Non restano se non poche ma eloquenti cifre {memi- nisse juvahit!): 189 persone bruciate in effigie;,., bruciate vive; dozzine di migliaia, catturate, processate, condannate e, se assolute, esposte al ludibrio del pubblico come ne- miche di Dio e della religione; migliaia e migliaia d'onze confiscate ai legittimi possessori; migliaia e migliaia di ere- di interdetti al conseguimento dei loro beni, allo esercizio- dei pubblici uffici, e delle professioni.

20 «;

CAPITOLO XI .

BRUCIA MENTO PALI M SESTI

DEGLI ARCHIVI - CONCLUSIONE

T

n

npM

p

M

^^

^B'

|U fatta grave colpa della distruzione degl Archivi del S. Uffizio al Viceré Caraccio lo; ma non si considerò che appunto il Caracciolo, avrebbe avuto il maggiore interesse di non perpetrarla. Nei tre anni del suo viceregno, egli stette a gran disagio in Sicilia o perchè non si seppe dare ragione dello spirito e della tradizione del paese, o perchè non venne compreso e seguito nelle sue riforme ritraenti in buona parte dalle idee degli enciclopedisti francesi, coi quali era stato a con- tatto durante il suo ministero del Re di Napoli in Parigi. Attorno a lui turbinarono ire di popolo e maldicenze di si- gnori; e certo sarebbe stata per lui fortunata occasione quella di metter le mani su tante segrete carte, e delle colpe dei suoi alti denigratori e dei loro antenati trarre fiera ven- detta.

20Ó

BRUCIAMENTO DEGLI ARCHIVI - PALIMSESTI - CONCLUSIONE

Ben altre ragioni che i principii e la impulsività di lui verranno presto a spiegare lo incendio delle carte segrete e dei processi criminali del Tribunale.

Allorché l'abolizione venne decretata ed il decreto (i6 marzo 1782) fu, come si sa, di Ferdinando IIL la Giunta dei Presidenti e del Consultore proponeva (26 marzo 1872), che, lasciandosi intatto l'archivio civile (i), quelle carte (( unitamente con tutte le pitture, mitre ed altre cose deno- tanti il S. Officio, e le vesti che designavano i caratteri delli rei » si mandassero alle fiamme : proposta non' già consi- gliata, non già raccomandata, ma implorata da Mons. Ventimiglia, Inquisitore Supremo (2).

Proprio implorata! E perchè? Senza dubbio per gli effetti gravissimi che avrebbe portato la conoscenza di se- greti in esse contenuti, sia dal lato dei processati, sia da quello dei processanti, e sia anche e più specialmente da quello dei denunziatori. Chi sa quali sorprese si sarebbero avute intorno ad accusatori e ad accusati e quali tremende ire si sarebbero scatenate contro istruttori di processi e me- todi di procedure, ed a favore di sventurati periti sui roghi, nelle segrete!

Un dato di fatto poi concorre ad aggravare la condizio- ne morale del Tribunale, ed è la liberazione di alcuni rei ^sotto processo. L'Inquisitore rimasto negli ultimi anni solo lUa presidenza del Tribunale (giacché, morti gli altri due, 'il Governo non li aveva suppliti) nella ormai facile previ- sione della prossima tempesta, aveva (( accordato la libertà

(i) Questo Archivio è conservato nell'Archivio di Stato di Palermo, Gancia.

(2) La Mantia, parte II, doc. Vili, p. 63.

207

SANT'UFFIZIO

per suo arbitrio a taluni, ch'erano stati condannati dal Tribunale del S. Offizio per sentenza, la quale in forza dell'esecuzione data alla pena, era già omologata»: arbi- trio che la Giunta medesima non seppe astenersi dal biasi- mare in una sua consulta al Viceré (i); e male ne sarebbe venuto se il colpevole non si fosse chiamato D. Salvatore Ventimiglia, Arcivescovo di Nicomedia, dei Principi di Belmonte.

Portata al Re la proposta di distruzione dei documenti criminali, egli volle che fossero invece mandati subito a Napoli; ma la Giunta, pur sempre insistendo sulla gravità delle carte e sulla delicatezza dei fatti contenuti, (( non potè dispensarsi di far considerare l'ingente spesa che sarebbe abbisognata e il pericolo e la confusione che inevitabil-| mente doveva produrre il trasporto, trattandosi di un gran numero di processi; per lo che opinò di doversi piuttosto mandare alle fiamme che trasportarsi altrove » {2).

E allora il Re, senza più discorrervi sopra, (( prescrisse doversi sotto la direzione dei due avvocati fiscali incen- diare tutto l'archivio criminale senza la menoma eccezione di carta veruna; « lo che (scrivevano il 7 luglio del 1783) sii trova esattamente eseguito » (3) .

Così rimane sfatata la leggenda dell'opera nefasta del viceré Caracciolo, quale Erostrato degli archivi dell'Inqui- sizione; e spuntano nella storia i nomi della Giunta non sai più se timida o ignorante: D. Stefano Airoldi, presiden- te del Tribunale della Gran Corte, D. Giuseppe Leone, di quello del R. Patrimonio, D. G. B. Asmundo Paterno, del

(i) La Mantia, parte II, doc. XII, p. 67.

(2) La Mantia, doc, XI, p. 66.

(3) Ivi, doc. XVII, p. 74.

208

BRUCIAMENTO DEGLI ARCHIVI - PALIMSESTI - CONCLUSIONE

Tribunale del Concistoro e del Magistrato di Commercio, D. Saverio Simonetti, Consultore del Governo.

E si ha piena ragione di aggiustar fede al Villabianca, che nei giorni dell'abolizione notava avere quella distruzio- ne riscosso il comune applauso. Tratta vasi di « memorie che, Dio liberi, si fossero commerciate! Era lo stesso che infettare e imbrunire di nere note molte e molte famiglie di Palermo e del Regno tutto, ch'oggi sono del rango nobile e delle oneste e civili » (i).

Tuttavia non è priva di fondamento la speranza che molti documenti possano ancora trovarsi negli Archivi di Madrid, come pure in quelli di Vienna, donde per 14 anni (1720-34), sotto Carlo II, la Inquisizione di Sicilia trasse il verbo. Dipendente dalla Inquisizione generale di Spagna, la Inquisizione di Sicilia non poteva sottrarsi all'obbligo di comunicare a quella tutti i principali suoi processi; e già sappiamo che monitori e scritture sulle controversie della Inquisizione colla Gran Corte e coi Prelati di Palermo, sul- le persone ad esse rimesse dal 1559 al 1734; lettere inquisi- toriali dal 1567 al 1702 e processi e consulte esistono nel- l'Archivio d'Alcalà e nella Biblioteca Nazionale di Madrid; e processi, decreti, minute di consulte, grazie diverse del Consiglio, confìsche, processi da fé, ragguagli intorno ai buoni costumi della condotta o purezza di sangue {limpieza de san gre) degl'impiegati e dipendenti del Tribunale, corri- spondenza tra la Inquisizione dell'Isola ed il supremo Con- sigho dal 1533 al 1736, sono nell'Archivio di Simancas (2).

(i) Diario inedito, ms. Qq D 103, p. 547 della Bibl. Co- munale.

(2) Carini, Gli Archivi, ecc., doc. cit. e Cosentino, pa- gine 335-36.

209

U - G. PURÈ - SantUffizio

SANT'UFFIZIO

Ma le denunzie ed altre carte segrete andarono irremis- sibilmente incenerite nel giardino dell'Alcalde Barone Zap- pino, ove son adesso i fabbricati sorti dopo l'abolizione.

Già fin dal 1525 si parla della Camera del Segreto e delle scritture penali raccoltevi, nella quale, sotto pena di scomunica, a nessun altro che agl'inquisitori ed agli «uf- ficiali del Segreto » era lecito entrare (i). Un secolo dopo, enei 1625 la camera del Segreto era passata in plurale coi relativi processi (2). Ancora un altro secolo circa (17 14). e in una <( consegna di tutto ciò che si conteneva nelle carce- re del secreto », si parla di (( camere intere di registri con processi di fede, prove di purezza, denunzie, ecc. ecc. ».

Si era nel secondo decennio del sec. XVIII, settant'annì lontani dall'abolizione. Giudichi il lettore quante altre car- te congeneri saranno entrate e si saranno accumulate in quei posti!

Al domani della soppressione del S. Uffizio con nuovo decreto vennero distrutte nello Steri, tolte alle porte dei foristi, vietate agli abiti dei familiari, le tanto temute e tanto rispettate insegne. « Qualunque cosa indicasse il S. 0. » fu fatta scomparire, fino ai ritratti ed alle pitture dei rei condannati (era tra questi la terribile scena dell'Inqui- sito La Mattina che, svincolandosi furibondo delle catene innanzi all'Inquisitore, lo colpì con esse e lo freddò) (3).

Le rendite assegnate dalla Grimaldi Guassone alle con- dannate del S. U. vennero destinate alle ripentite della

(i) Istruzioni sicil. di D. Alonzo Maurique: Lea, op. cit.,

P- 519-

(2) « Nelle stanze del Segreto abitano gl'Inquisitori e com- pariscono i culpati e testimonj ». Ms. Qq H '62.

(3) Ms. Qq H 62.

210

BRUCIAMENTO DEGLI ARCHIVI - PALIMSESTI - CONCLUSIONE

<( Casa di Istruzione ed emenda » ; la coltre di velluto col dossello che aveva accolto tanti Inquisitori, fu venduta ad un Agostino Giambruno; i ricchi seggioloni a bracciuoli di velluto, i costosi calamai e spolverini d'argento a Salv. Pipi ed a Giov. S. Eremita; il calice e la patena d'argento ai frati di S. Fr. di Paola e ad altri; due grandi candelieri d'argento a Gius. Malvele; una verga d'argento a Vino. Napoli; tutte le vestimenta di chiesa ad altri, pel prezzo totale di onze i8o, 21, 17. La superba carrozza di gala fu data gratuitamente al Senato, che avevala richiesta (i); pochi registri, alla Pubblica Libreria. La terribile croce verde alla congrega di S. Giuseppe dei Teatini ed il Croci- fisso, innanzi al quale giuravano gli imputati, alla R. Cap- pella Palatina, che l'avrebbe collocato nella sottostante cappella di S. Pietro. Se non che, in quella s'è perduta ogni traccia e della autenticità del Crocifisso 0, meglio, della univoca affermazione della sua provenienza è gran- demente a dubitare. La immagine di questo pare anteriore alla abolizione del sacro Tribunale; ed il nome del dise- gnatore sac. B(5va, e le indulgenze dei Pontefici parlano chiaro. Mettiamo tra le leggende anche la provenienza in- quisitoriale di questo Crocifìsso, che nessun documento autorizza a ritenere donato dal Governo al domani della abolizione.

I familiari, alla medesima maniera che i laureati in utroque, o in arti e medicina, ed i licenziati in farmacia, venivano nominati con un diploma speciale. Di laureati e licenziati restano fino ad oggi lauree e licenze del settecen- to, del seicento ed anche del cinquecento; ma di diplomi di

(i) La Mantia, U Inquisizione in Sicilia (parte II), doc. XXIII e XXV, Palermo, 1904.

211

SANT'UFFIZIO

familiari, che io sappia, neppur uno. Gli è che, appena avvenuta l'abolizione, se ne disfecero, per vergogna di es- serne stati decorati e per paura di un documento che atte- stasse aver essi servito un Tribunale caduto in tanta disisti- ma. Fu un blasone del quale tutti ebbero il pudore di arrossire.

Gli uomini scomparvero, e con loro le vantate carte; la memoria del loro Tribunale è rimasta viva nella toponoma- stica e nella paremiologia di Sicilia.

Il grande orologio del palazzo Chiaramente, che pare batta ancora le fatali 24 ore della morte di Suor Gertrude Cordovana e di fra Romualdo Barberi nel di 6 aprile del 1724, è sempre detto lu roggiu di lu S. Uffiziu; dopo 127 anni che di S. Uffizio non si parla più.

L'angusta viuzza laterale al palazzo porta anche adesso il nome di Vanedda (vicolo) dt lu S. Uffiziu, che nessun sopprimerà mai dopo trecento anni che il popolo ve lo ap- pose.

Costa di lu S. Uffiziu è l'ultima costa sopra Valdese a contatto dell'Addàura, in forma perpendicolo; proba- bilmente per richiamo a qualche stabile già posseduto, non cerchiamo come, dal tribunale.

Di poco conto, ma pur sempre significante, è quel canto popolare della provincia di Messina che incomincia :

Pi li fimmini c'è lu S. Uffiziu, 16

C'è la catina pi l'omini mali,

dove non è dubbio che la minaccia era per gli uomini de- linquenti, e per le streghe, le maliarde, specialmente per arti malvage d'amore (i).

(i) G. Grimi Ix» Giudice, Canti pop. di Naso {Messina), p. 15. Acireale, 1908.

212.

BRUCIAMENTO DEGLI ARCHIVI - PALIMSESTI - CONCLUSIONE

Ho ricordato innanzi il desolante proverbio: Lu roggiu di lu S. Uffìziu nun cunzigna mai, e vo' aggiungere che a Modica esso significa: che la Inquisizione non restituiva pili a libertà colui il quale veniva rinchiuso nelle sue car- ceri (i).

Minaccia di cose gravi, e che incutono timore, è quella di far vedere lu S. Uffìziu a cavaddu, la cavalcata cioè, nella quale a gruppi procedevano l'alcale con la comitiva di cavalieri, e fi Capitano del S. Uffizio coi nobili, familia- ri, revisori di liDri, mastri notai, commissari, uffiziali del- l'udienza civile, uffiziali del R. Fisco, medici, avvocati, consultori e qualificatori, utfiziaH del Tribunale e cappel- lani e contadori e mazzieri del Senato fino agl'Inquisitori fiancheggiati dal Pretore e dai Senatori della città. In altri termini: far vedere cose terribili.

Così si chiudeva la lunga, lacrimevole odissea, che quando non finiva in raccapricciante tragedia, destava sem- pre terrore; che ne avanza la qualificazione di cose da Sant'Uffizio, applicata alle tribolazioni più insopportabili, alle più grandi traversie della vita.

Fu detto e ripetuto che il muro bianco è la carta dei matti; e matti sarebbero, sotto questo aspetto, gli scioc- chi, grandi e piccoli, che trovando un po' di spazio bianco o comechessia in una latrina, in un pubblico edificio, in una casa privata, in una officina, in un monumento, in una sca- la, sono istintivamente tentati ad apporvi il proprio nome, a consacrarvi una iscrizione, una massima, un vecchio mot- to, sovente sudicio, una freddura, una impertinenza, una ingiuria, una infamia. Codesta pratica è antica quanto l'uo- mo che sa scombiccherare, o comporre uuna parola, o tirare

(i) PlTRÈ, Prov. sic, V. Il, p. 328.

2x3

SANT'UFFIZIO

una linea, quanto gli sciocchi che vogliono serbare a dure- vole memoria il loro passaggio per un luogo, la loro ferma- ta innanzi un muro, una colonna, una statua, un'urna, un vaso, un albero ed anche una foglia di agave o una articolazione di opunzia.

Il detto proverbiale: Nomina stultorum scribuniur ubi- que locorum è una affermazione di siffatta miseria. Chi non s'è incontrato in iscrizioni e motteggi di questo genere, talora sentenziosi, tal'altra banali, e quando insigni- iìcanti e quando troppo espressivi? Laonde spontanei suo- nano le nostre labbra gli amari versi francesi:

C'est propre. de la canaille Ecrire toujours sur les murailles.

E' poi strano che i cessi pubblici siano stati, come pur troppo sono, di preferenza ispiratori di siffatte scritture, pascolo, sovente involontario, di chi è costretto a ricorrervi. Già Marziale in un suo epigramma diceva:

Nigri fomicis ebrium poetam

Qui carbone rudi putrique creta

Scribit carmina, quae legunt cacantes (i).

La musa latrinae, sia per la sua provenienza e per l'am- biente che la favorisce, sia per le aperte simpatie che ha con le manifestazioni analoghe a quelle dei luoghi ignobili, ha chiamato l'attenzione di eruditi, di antropologi e di cri- minalisti (2). A quest'attenzione si devono studi non privi

(i) XII, LXI, 7-11.

(2) Menangiana ou Bons mots de Menage, p. iSi. Paris, 1693; Bibliotheca Scatologica, Paris, 1850; F, Sabatini, Le iscri- zioni su i muri, nella Rivista di Letteratura popolare, voi. I, fase. I, pp. 69-72; Kryptadia. t. VI e VII; J. G. Bourke, Sca- tologic Rites of ali Nations. Washington. 1891; K. Reiskel,

214

BRUCIAMENTO DEGLI ARCHIVI - PALIMSESTI - CONCLUSIONE

di valore. La maggior fortuna è toccata alle pareti delle prigioni, non già perchè alle pareti delle prigioni sono af- lìdate le più fiere invettive contro la giustizia punitiva, con- tro le leggi e le istituzioni, contro i presunti o veri aguzzini del criminale, ed ire e maledizioni feroci, e sanguinose mi- nacce di vendette e bestemmie orrende perdute in mezzo a grossolani disegni (i).

Eppure se mai luoghi vi furono nei quali sgorbi, motti e versi murali meritarono l'attenzione degli studiosi, il Palaz- zo Chiaramonte di Palermo va ora tra i primi. La materia nelle tre celle addensata rivela cose che la storia non dice, ma che ad ogni studioso di erudizione siciliana non dovreb- bero riuscire inutili sgradevoli.

Mi spiego.

Ho accennato a <( palimsesti del carcere », e devo chia- rirne il significato in ragione dell'uso moderno della parola. Ordinariamente con questo titolo s'intendono le manifesta- zioni grafiche sia di delinquenti chiusi in un carcere o in un ergastolo, sia anche di semplici imputati.

Ora quelli delle nostre celle non hanno da far nulla, per la parte morale, con gli attuali disegni e detti dei luoghi di pena. La morbosa espressione di questi non esiste in quelli; nulla di strano, di tristo, di morboso, molto meno di brutto è nella grande congerie di elem.enti da me rilevati.

Eine Umfrage; in Antropophyteia. III. pp. 244-46. Leipzig, 1906; Lombroso, / Palimsesti del Carcere; L. Re, Letteratura murale del Risorgimento, ne La Sentinella bresciana, a. XXXXIII, nn. 37 e 38, 6, 7, febbr. 1901; Da Venezia a Mantova, nel Giorn. di Sic, a. XLVIII, n. 304. Palermo, 30 ott. 1908.

(i) D. Provenzal, / nuovi orizzonti del Folklore, p. 11, Bologna. 1906.

215

SANT'UFFIZIO

Lo studioso non vi troverà una mala parola, una delle mi- gliaia di male parole che non pure nel carcere, ma anche in luoghi pubblici ed esposti si trovano spesso. Tutto vi è corretto, tutto v'ispira devozione, religiosità, santimonia. Sarà sentimento, sarà timore di chi scriveva o disegnava, pure è così.

Gli autori dei versi e dei disegni delle nostre celle sono persone calme, di mente equilibrata, che ragionano delle condizioni loro con severa coscienza. Si interpreti pure co- me tornaconto, come avvedutezza, anche come paura la loro circospezione; questo è innegabile: che essi si dan piena ragione delle loro sofferenze e si volgono a Dio, e cercano alla fede conforto, al tempo speranza; sfogando in lamenti le loro pene, senza neppure sognare macchie che non hanno. Aggiungo di più: essi sono sinceri; perchè non pensano che un profano possa mettere gli occhi sulle loro scritture, che un giorno esse possano diventare pascolo di curiosi. Quanta differenza con la morbosa teatralità onde oggi si cir- conda qualunque atto della vita pubblica e privata, dall'e- sercizio della carità al godimento delle feste intime di fa- miglia, dalle violenze contro noi stessi alla ricerca della ve- rità nei processi criminali!

Io tiro una conseguenza a favore dei nostri carcerati. Chi sa quali segrete denunzie h avran messi in sospetto, quali inquisitoriali accorgimenti li avran colti, e perduti! Certo la loro istruzione era tutt'altro che superficiale, la loro cultura di religione ed anche di Scrittura profonda.

Qualcuno, e vorrei anche dire molti, oltre che di coltu- ra, erano di saggia dottrina : e credo di esser nel vero affer- mando con piena sicurezza che la classe ecclesiastica deve avervi rappresentato la parte principale. Se no, come spie-

216

BRUCIAMENTO DEGLI ARCHIVI - PALIMSESTI - CONCLUSIONE

gare i frequenti passi della Bibbia? Come gl'inni sacri, parte propri della chiesa, parte composti originalmente da loro? Come i motti, le epigrafi lapidarie sottostanti ai nomi dei santi?

Ahi di quante lacrime e di quanto sangue grondarono quelle pareti! Quali gemiti non si levarono dalle più basse alle più alte prigioni dell'edificio! dalle inquisitoriali pei veri o presunti eretici alle filippine pei rei di fellonia! Tarda e debole ne giunge ora l'eco; ma fino a ieri, che risonava for- te, chi la intese? Chi versò una stilla di balsamo sulle pia- ghe cocenti dei dolorosi che vi tribolarono ignorati e de- relitti?

O vecchio Steri, magione superba di baroni potenti, reg- gia di avidi conquistatori, residenza di viceré insaziabili, di- mora di impavidi inquisitori, prigione di pensatori e di inco- scienti, di maliarde e di isteriche, di stregoni e di supersti- ziosi, quanti fatti non ci racconti tu con la severità delle tue mura, con la nudità delle tue pareti, con la chiusura di an- tiche porte, col taglio di moderne finestre? La fatalità de- gli eventi ha sostituito ai singhiozzi dei sepolti vivi i palpiti e le ire cotidiane di quanti patiscono, e le stanche arringhe dei difensori d'oggi, e le settimanali imprecazioni dei gio- catori del Lotto. Solo l'orologio rimasto indice delle tetre carceri di Filippo II, è sempre a batter monotono, inces- sante, le ore del giorno: altro dei supplizi dei prigionieri d'un tempo, fossero essi condannati a vita, fossero nell'an- sia eterna d'un giudizio e d'una sentenza che li toglies- se per sempre a tanto soffrire.

Quanta verità, e che crudele verità nel motto: Semper dico venias, nunquam venit ante eros! Palermo, 24 giugno 1906.

217

i

APPENDICE I

I.

(cfr. p. 112)

Suor Amata di Gesù {Margherita Cordovana) chiede che il Tribunale delV Inquisizione ordini la restituzione delle sue terre che erano state incorporate coi beni del S. Of- ficio per debiti di alimenti durante la sua carcerazione.

Ill.mi Signori,

Soro Amata di Gesù della città di Caltanisetta con ogni dovuta divozione rappresenta alla Signorie Vostre IH. me che l'esponente tu l'anno 1699 d'ordine del SS.mo Tribu- nale trasportata nelle carceri di detto Tribunale ove dimorò anni tre e mesi otto; in quel tempo appurantosi dal SS.mo Tribunale di non aver commesso l'Esponente niuna reità, la dichiarò perciò innocente lasciandola in libertà, ma ])er causa dell'alimenti che per detto tempo li erano stati soc- corsi in dette carceri, la tirarono debitrice in somma di onze quaranta, quali l'Esponente con suo fratello Gioac- chino si obbligarono alla ragione di onze venti l'anno e non avendo corrisposto al pagamento suddetto, furono perciò incorporate da potere dell'Esponente salme tre e tumuli undici di terre proprie dell'esponente esistenti nel territo- rio della città di Caltanisetta, nel comune nominato delli Busiti, all'Esponente spettanti come ereditarli del fu Mi- chele Corduana, come per detta incorporazione nel 1703 ed altra eseguita delle terre proprie di detto Gioachino; e da quel tempo sinoggi sudetto SS.mo Tribunale si ha per- cetto sovra le sudette salme 3, 11 proprie terre dell'Espo- nente la somma di onze centoquarantotto di modo che non solo trovansi estinte le sudette onze quaranta credito di ali- menti, ma deve sudetto SS.mo Tribunale restituire all'E-

221

sant'uffizio

sponente la somma di onze centootto per frutti indebita- mente percetti, non avendo l'Esponente per il passato per la sua evidente miseria potuto ricorrere alle Vostre Signo- rie IH. me, e però l'Esponente si fa lecita ricorrere all'in- corrotta giustizia ed integrità delle Vostre SS. 111. me sup- plicandoli acciò si compiacessero ordinare di doversi scor- porare a nome dell'Esponente le sudette salme tre e tumoli undici di terre, con restarne libero il possesso e percezione di frutti delle medesime a nome dell'Esponente, come al- tresì ordinare di doversi dell'introiti pervenuti e da perve- nire della Senna del SS.mo Tribunale e d'altra maniera, che stimeranno più proprio le Vostre Signorie IH. me, re- stituire e pagare all'Esponente, li sudetti frutti indebita- mente percetti, che il tutto oltre di essere di somma giu- stizia, lo riceverà a grazia particolare, e così li supplica, ut altissimus etc.

Al verso si legge : Memoriale di Soro Amata di Gesù del- la città di Caltanissetta.

Recognoscatur per spectabilem Fisci Patronum - Dr. Franchina.

lesus Maria - Videtur quod receptor Tribunalis referri debeat in scriptis. - Amico Fisci Patronus.

Receptor referat in scriptis - Dr. Franchina,

{Minuta di Notar Giambattista Lo Bianco di Palermo, anno 1741-42; voi. 46, fol. 755. - Archivio Notarile distret- tuale di Palermo).

IL

(v. pag. 153)

Copia de una letera di sier Piero Venier, quondam sier Domenego, data im Palermo, a 8 zugno, et recevuta qui a luio 1511, drizata a soe sor eie.

Come scrive, per dar la lezor cosse nove ve dinoto, come venere pasato (i), per il reverendo inquisitor de

(i) 6 giugno 1511.

222

APPENDICE I

questo regno (i) fo fato condanaxon contra 30 et più ere- tici et calivi cristiani, cussi done, come homeni; et per esser sta novo modo, ve dechiarirò in parte. Quel zorno se tene serate le botege e oficij, e fo come festa sole- nissima. La matina, de caxa del dito inquisitor, dove è la soa prexon, ussiteno prima 16 femene de diverse nation e-t etade, vestide con li soi abiti, et sopra de quelli le ha- veano, a modo, una zormola di tela zala, che li deva finO' apresso i zenochij, sopra de le qual era una sola f bian- cha, quanto la longeza e largeza de la tela, la qual -|- era da le parte da drio a tute queste, et simelmente a zercha 7 homeni, tra i qual era un che fo frate di Carmeni; et a futi questi homeni e done, come mali cristiani, ma de plano, senza corda, confessi et reduti a penitentia, fa messo in testa una cossa de tela, over de carta, zala, tuta longa più de 3 quarte, e forsi un brazo, schieta, senza niente suso. Da poi driedo a questi, de fato vene fu ora tre done, tra le qual fo una madre e la fìola, et la madre di quel Anzolo Palomba (2), che, pelegrin, mandò do volte a Veniexia con letere; et driedo a queste 3 done vene la 5miagine de un morto, con el suo nome, de modo a un carlevar, vestido di tutti habiti e maschara (3); e poi drieto vene 6 homeni tutti de etade da 50 anni in suso, tra li qual era un valente medego, dotor, et molto apre- 'ciato, et alias exercitato (4). Queste 3 done et 7 homeni haveano sopra li soi abiti una zorniola negra, sopra la qual, cussi davanti come da driedo, era depento molte fìnte figure de demoni], che bufavano fuogo depento; et per el medemo tal bruti e spaventosi anemali erano de- penti sopra le soe corone, che erano negre et orende a

(i) D. Reginaldo Monterò.

(2) Laura Palumbo da Palermo.

(3) Questo condannato ad esser bruciato morto in effigie- era Giacomo di Bologna da Palermo.

(4) Gabriele Zavatari da Bivona, medico fisico.

223

SANT UFFIZIO

vederle. In testa questi tal haveano un Crucifixo per uno e per una in man, e persone apresso che l'andavano con- fortando, perchè tutti dicevano, voler morir da boni cri- stiani; e cussi perseverò con dir de bocha, fin a la soa fin. Tutte le qual persone fo condute, per bon spazio (i), fina sopra una gran piaza (2) dove, soto la caxa del signor vice- re, el qual con molti baroni et altri grandi stete a la fa- nestra, era fato do alti soleri. Sopra uno, el piuj alto, et molto adornato, se messe prò tribunali, sedendo el pre- fato reverendo inquisitor, el prior de San Dcmenego de observantia con altri maistri, frati del suo bordine, 4 doc- tori, et poi, acL pedes eorum, preti e frati, e muUitudo co- piosa. Sopra l'altro soler, assai alto, fo messi in alto, e luogo più vistoso, li diti, vestiti con le corone negre e de fuogo etc. Quelle altre done et homeni, da li habiti e co- rone zale schiete, fo fati sentar sopra banche più basse. Sentadi che fo li diti, senza confortadori, alcun apresso, salvo loro medemi, con Crucifixi sempre in man, per un frate de San Domenego, valente predichador, provando per molte raxon et notabel evidentie la fede nostra esser la santa et la incarnatiom di Cristo, e tochò molto utele et importante parte a questo bisogno necessarie, mostrando li erori di hebrei; e prediche per spazio de do bone bore, dove ne era grandissima moltitudine de ogni condition di persone; e da bon, savio e discreto el persuase, al con- cluder suo, quelli che da la morte era liberati, a far vita da boni cristiani, et quelli che fossero per aver qualche pe- na corporal, etiam che el fosse la morte, a soportarla con pacientia, comò fedel cristiani, per la fede et per amor de Dio, exortandoli et aducendoli molti exempij dei martori

(i) Piazza Marina, dove, dalle finestre del Palazzo Ghia- romonte, il Viceré e la nobiltà poterono assistere allo spet- tacolo.

(2) Cioè dalla Chiesa dei SS. Quaranta Martiri (al Casa- letto?).

224

APPENDICE 1

santi; i qual, a torto, vegnivano alcune volte per una Vania, alcuni per un'altra sorte de acusation fati morir; excusando el reverendo inquisitor, che sopra le cosse ate- stà per molti testimonj, e non per utel proprio, li conda- nava. E con gran .satisfation del popolo fo finita la dita predicha. La qual expedita, per el canzelier del dito reve- rendo inquisitor, a uno per uno fo publichà i processi, prima di le donne, dal portar de testa zalo, et poi li ho- meni, pur da li abiti futi zali, fazando a una a una per tanto, quanto se lezeva el suo processo, star im piedi, so- pra la bancha. Queste tal confessò che in gran parte le fevano secondo la leze de Moyses, e veneravano el sabato più che la domenega, non manzando carne de porcho, galine, che non fosse amazà de cortelo; le dicevano oration hebree, et molte altre cosse, che fanno li zudei. Queste tal done et homeni vestiti de zalo, con la -{- biancha da driedo, avea fato degni de la morte, over de grandissima punition; ma per aver confessa senza corda, li fo remessa et perdona la morte. Alguni fo poi condanati in vita im prexom, alguni et algune a tempo; et el frate fo condanà che '1 fosse desgradà, e poi, per certi anni, in galia con li feri. E fornidi questi dal zalo, si comenzò prima a spazar l'imagine del morto, el qual soleva esser quello che dizeva in la soa ascosa sinagoga, e tra le altre cosse, quando l'era amala e morì, alora li fo porta el nostro Signor clemen- tissimo, e quando questo crudel cam sentì che i voleva che el se comunegasse, el fense che li venisse da render, et li voltò le spale al Sagramento; et, vivando, el fece et disse molte cosse degne de ogni gran punitione. Poi fo leti i processi de le 3 done: queste haveano fato simel sorte de manchamenti, et alcune cosse pezo de le altre done, et se haveano imbarchato la madre et fiola per andar in terra dove le podesseno far la vita a so modo, senza sospeto; tamen le meschine denegò el mal che le havea fato, et da poi che le ha vene corda, le confesso la verità, et par che la leze non le salva de la vita. E la madre de quel certo

223

15 G. PITRÈ - Sant'Ulllzio

SANI UFFIZIO

Anzolo, che era gran maistra de l'arte, etiam denegò, et poi confesà. Queste fo cognossude per heretiche, zudiate e pertinaze, e non degne de alcuna remission, e comesse al brazo et foro secular, che le spazaseno. Et poi fo leti i processi, ^ uno per uno, de quelli 6 homeni; l'ultimo fo quel del dotor medego, i qual haveano fati assà erori et manchamenti; tra li altri, essendo una dona amalada in caxa del medego, li fo porta el nostro Signor, et avanti se

feze spazar la caxa; e quando lui vete el disse: Che se fa?

A' da venir qua qualche conte, over baron? E uxò diso. neste parole; e molti de questi non credeva in la resuretion. Tuti 6 questi fo condanadi per eretici, Eizudiati et pertinazi, et fonno remessi etiam al foro secular (i), e fo condanati a la morte, e tuti li soi beni et facultade fo confiscade a la camera real. I fìoli mascoli, fin al segondo grado, fo con- danati, che i non podesseno haver dignità ni offìtio, et privi de molte cosse, come son, nodari, avochati, maistri de botega; e le fìe, fin al primo grado, tantum. Fo etiam condanà che le non podesseno portar oro, zoie, lavor de seda, di grana, sotto quelle pene; e, per lo medemo, i fìoli di sopra nominati. Fato questa publichation de con- danaxon, prima fo sachramento sopra un mesal, im presentia de l'inquisitor e tuti astanti, a quelli che non se dovea far morir, dali abiti zali da far vita da boni chri- stiani, relassando ogni heresia e modi vecchi]*; e cussi tutte done e homeni zurò servar. Da poi questi relasadi, fo tor- nati a lor prexon, et quele 3 done, 6 homeni, et la pentura del tristo morto fo conduti fuora de la terra, per un trato ée balestro, dove erano apariadi X palli et Itgne asaissime, perché l'inquisitor dete gran indulgentia a quelH porta- vano legne per far tal acto, et era infinità de persona per

(i) Cioè a Matteo di Settimo, capitan giustiziere della città di Palermo.

226

I

APPENDICE 1

veder se i se remudavano de la fede, non aspetando re- mission de la vita, dei propri j fioli havendo sentì el vitu- perio et levato i beni soi a li soi posteri; tamen tutti, per quanto in aparentia se vete, sempre con dir Jesus et altre sancte et devote parole, a modo porceli, posti dextesi in terra, separati perhó uno da l'altro, fo con corde strango- lati (i), e poi atachati tuti £j suo trave, con una cadena al colo, fo fati arder e bruxar; cosa spaventosa! Et, hes- sendo morti come cristiani, el suo morir se poria dir mar- tirio. El nostro Signor Dio li pagerà, segondo a la sua justitia e misericordia parerà. E' messo da 60, e più, an- cora im prexon eie.

Diarii di Mariti Sanuto, Venezia, 1879-1903, tomo XII (MDXI, Luglio), pag. 310-313 (2).

III.

(v. p. 156)

De adventu reverendissimi Domini Inquisitoris in hac civi- tate Cathanie et de iusticia per eum jacta.

Item notandum est qualiter in questa cita di Chatania die XVJ"» januarii Xlje indictionis 1568, intrao lu reve- rendissimo signur inquisituri in quisto regno degenti con- tro la hiretica pravitati die dominico per la porta di Yachi accompagnato per lo spettabile signuri capitano, patricio

(i ) Più tardi usò strangolare i rilasciati ad un palo, sotto il quale poi si accumulava la catasta di legna e le botti con pece.

(2) Devo questa indicazione al sìgn. ing. agronomo Pa- squale Di Gregorio.

227

SANT UFFIZIO

et iurati, more solito, et andao a posari in lo convento di sancto Francisco di Sisa intro la dieta cita; undi stetti multi iomi, et in dicto convento prisi multi informa cioni contra di alcuni persuni, et finaliter foru multi carcerati, et da poi dicto signuri inquisituri si partio di lu dicto convento et andao a |x>sari ir> lo castello di la dieta cita ad effectu di interrogar! et compliri li processi contra dicti carcerati; quali compiiti, si volsi fari la justicia; quali justicia si fi- chi per lu modo infradicto, videlicet.

In primis fu facto uno catafalco in lo chano di la mater ecclesia in frontispicio di lu campanaro verso la tramon- tana appoyato in dicto campanaro, multo auto cum vinti quatro scaluni; et in summitate dicti pontis fu facto lu ponti undi stava lu signuri inquisituri cum sUa scia: et in in canto dicto signuri inquisituri stava lo reverendu si- gnuri vicario di la dieta cita, cioè a la banda destra, et a la sinistra era uno di li reverendi patri di Jesu; et in pedi dicto ponti ehi era uno ponti, undi stavano li carcerati et penitenti cum li mitruni li carta depinti, et alcuni cura bucugli et certi cofìni di pagla inanti li pecti; et di un au- tra banda stava uno peTgulo, undi si predicava. Quali pre- dicaturi fu lu revendissimo patri frati Agustino La Mora catanisi di l'ordine di predicaturi. Quali predica for- nita, in dicto pergulo achanò uno previti, quali publice manifestava, ligendo li processi, tucti li mancamenti et defecti di dicti penitenti di uno in uno; et lecti dicti pro- cessi, legìa et manifestava li sentencii contra li condenati, Et finaliter foro multi condenati tanto a la frusta comu in galera et altri peni. Et fomiti dicti sentencii, dicto signuri inquisituri si partio et andao a lo castello, et la matina, vo- lendo meetiri ad effecto li condemni et fari frustari li con- dennati, ad pregeri di li signuri iurati di la dieta cita et multi altri signuri, dicto signuri inquisituri ad tucti fi- chi la gracia et li remisi li condenni et foro tucti liberati,

228

APPENDICE I

et ad quilli chi haviano li hiresii chi foro livati, et a tucti pexdonao. Quali iusticia et spectaculu fu facto a li XIIJ di marcso anni predicti XIJ indictionis 1568. Et lu iornu sequenti si partio per Palermo.

Pag. 225-226 idem.

IV.

Alli 23 di Luglio 1605 si diede possesso della R. C. al Tribunale della SS. a Inquisizione di tutta quella abita- zione nel Palazzo del Re Martino, che espressa la pre- sente copia delTatto che si stipulò in virtù di dispaccio di S.a M.a Cattolica, spedito nella Corte di VagUadoUd a 13 Agosto 1600, esecutariato in questo Regno d'ordi- ne del S.r Viceré Duca di Macheda a 14 Novembre di detto anno 1600.

In primis totius Hospitii Magni, vocati Lo steri, cum introita a porta magna marmorea ex parte dicti plani, et omnibus stanti js ex parte scalae coopertae, existentis in dicto introitu, sequendo per omnes stantias subtter et desu- per per totum dictum Hospitium cum stantiis. Archivi] Dlim M.R.C., et in eis, in quibus habitabant Magister Nota- rius dictae M.R.C., seu substitutus, et cum alio introitu eiusdem Hospitij cum scala magna lapidae discooperta ex parte dicti olim Archivi] cum stantia subter arcum dictae scalae, cum stantijs in quibus olim stabat Regius sollici- tator Fiscalis cum eius officio Actorum criminalium Re- giae Thesoredae, et cum alijs stantijs, in quibus alii se- cretarii commorabant et eorum officia axescebant, habenti- bus scalam, ianuam et fenestras etiam in parte dicti plani, cum canattarja, stabulo, ac iuribus e pertinentiis suis; existentibus secus portam Mazariensen Regiae Dohanae,

229

sant'uffizio

cum viridario dicti Hospitij, acquis et olijs in eo existenti- bus. Excluso tantum et dumtaxat a corpore dicti Hospi- tijs magni, cortile, Archivio, stantijs ubi regitur Regia Do- hana et omnibus et singulis magazenis ipsius Regiae Do- hanae tam terranis, quam soleratis, et capella in dieta Dohana existente.

Item fuit tradita possessio domus olim Aichivij Con- cistorii Sacrae Regiae Consuentive et aedificij, seu om- nium stantiarum, in quibus regebatur Officium Tribunalis Regis Patrimoni]' cum stantijs, ubi commorabant Ratio- nales et Coadjutores ordinari]' et extraordinari j, et omnes ali] Officiales et Ministri dicti Tribunalis cum stantijs omni- bus in quibus habitabant dictus de Canizaris Magister No- tarius et ejus familia cum stantijs Archivij dicti Tribunalis, et in quibus ipsum Officium Magister Notarius exercebat.

Item fuit data possessio stantiarum officij et Archivij Regis Conservatoris et stantiarum Officij Cancellariae et etiam officij Archivij officii Protonotaris et omnium stan- tiarum et corporum existentium subter et desuper dicto- rum aedificiorum cum omnibus et singulis eorum iuri- bus et pertinentijs, earum universlis, eorumque integro statu et hoc per introitum et exitum dictorum stantiarum aperitionem, et clausionem januarum et fenestrarum in eis existentium et per earum deambulationem, per inci- sionem arborum dicti viridarij cursum aquae et alia signa denotantia dictam actualem, realem, corporalem et libe- ram possessionem, iuxta ordinem suae Catholicae Maj&- statis et ad effectum in dictis litteris conteni'um. Unde t-.tc,

Marius Cannizaro, Mag. Notarius ex actis. Codilla

{Documenti appartenenti al Tribunale del S. Officio in Sicilia dal 1224 al presente. Sub anno 1730-

M Ms. Qq. H. 62.

230

APPENDICE I

V.

(v. p. i66)'.

Atti, Bandi e Proviste 1510-11. Indiz. XIV //. 205-207 Ar- chivio del Comune di Palermo. N. progr. gen.le 118. speciale 34. Aula Diplom., scaffale n. 2, armadio 2.

Multo alto cathoUco et multo poderoso Princhipì Rey et Signuri Poy di baxari sci reali manu et pedi per in- f orinari vostra excelsa Maiesta fachimo lo presenti, lassan- do da parti la immensa affectionj et excessivo desjderio chi à tenuto et tenj quista vostra felice e fedelissima chitatj in lo Real servitio di vostra Altezza, perchè è stato tanto et cussj continuo chi Vostra Alezza meglu lu sentj chi nui per quista per pluj altri lo bastiriamo esprimirj. Et per esser nuj naturalmentj inclinatj a so Real ser- vitio non haviano bisogno siamo asservitj spirunatj ymo refrenatj et pirchì in quista chitati je stato lo Reverendo Mosseu Alfonso Bernal inquisiturj di la heretica pravita- ti cum grandi potestati del Summo Pontifichi et di Vostra Altecza et haviria voluto usarj so officio et preheminen- cij comu si costuma in li partj di Spagna non advertendo chi altramenti si Ha costumato et costumasi in quisto Regno et chitati, et ancora chi non chi su tanti neophitj et mar- rani comu in quilli parti, ha facto et temptato alcuni cosi chi non tocca ne specta asso offìtio secundo simo intor- niati di valentissimi docturi et di alcuni soy consulturj di chi ipsu ha priso ammiractioni. Sensa raxunj demunstra stari malcuntentu. Però si nui non sapissimu comu ben sa- pimo la Sancta Inquisitioni essiri multo accepta a lo on- nipotenti dio et a vostra Cattolica Maiesta ala intencioni de quilla esseri samctissima, multi cosi fichi havimo consen-

(i) Devo questo documento alla gentilezza degli illustri miei amici Proff. Guglielmo Savagnone e G. Pipitene Federico, capo il primo, sottocapo il secondo dell'Archivio Comunale.

231

SANI UFFIZIO

tito et suffiruto chi non Io haviriamo permisso, et maxime quando in principio dicto inquisituri fichi jectari ad uno homu dabenj nomine magistro Philippo Bertub'no (i) per cosi non spectanti asso offitio vertenti heretica pravita- tj sensa alcuno termino di ligi et di raxuni, chi fu pluj tosto per voluntati chi per raxuni. Et fu remediato chi non sindi parlau benchi tucti la chitati murmurava cussi comu Vostra Altecza divi essi per altra via plenamentj infor- mata (2). Appresso tramisi ad uno isbirro a la casa di la chitatj undi nui altri fachimo residentia et fìchini una injunctioni di sua parti sub pena di excomunicationi, chi per tali jorno ni presentassimo in sua casa, a tali ura a la sua audiencia publica ac perchè li presentassimo jura- mento di defendiri la sancta Inquisitionj. La quali cosa fu a quista chitatj cosa nova et dispictusa cum vilipendio et comu si nuj fussimo di progenia judayca oy vero recon- ciliati; et nuj per li respecti predictj cum grande sof feri- mento li tramisimo lu sindaco di la chitaij gintilhomu et di li princhipali di quilla, maraviglandonj di sua reve- rencia chi cum quista chitati la princhipalj di lo Regno talj terminj usassi a mandarilj uno ysbirro et requidirisj et, jnjungirilj in lu modu predicto, respondendolj chi la chitati in principio di so offitio in la matrj ecclesia havia puplice jurato e-t non era bisogno altro juramento; chi cussj jn jpso semprj si havia costumato : nentjdimeno si altra volta era. bisogno la chitati jurarj oy nuj altri chi repre- sentamu quilla, stavamo prontj tando et semprj chi jn lu loro modo et forma chi juraro li predecessurj nostrj juri- riamo nuj; et di quisto parirj et consiglo foro multj nota- bilj chitatinj et docturj princhipalj di la chitati, dichendo

(i) Arresto per cose estranee alla fede, di un Mr. Fil. Ber- tolino, brava persona.

(2) Ingiunzione fatta con un birro a voce al Senato che si presenti per un dato giorno all'Inquiusitore (per la scomu- nica) per giuramento.

232

APPENDICE I

talj juramento non essiri necessario et nuj per disfungirj li inconvenienti et pluj servirj lo immortalj Dio et a Vostra Alteza stavamo prontj. Et ipsu insistendo chi volia lo das- simo in sua casa, et ad questo bisognao lo remedio et pru- dentia del dicto Viceré per potirisi desister] di talj impresa. Appresso temptao volirj exemptioni certi Gabelle di la re- gia Curti et di quista chitati di li quali nexuno mai inqui- situri fu exempto ne eciam prelatj tanto magis quod ipsu •non fu è clerico; et benkj lu fussi, li clerici non su exempti. Et nentidimino quisto fu prò visto per lo dicto spectabil Vicire, chi Ij magnifici magistrj razionai] provvi- dissiro di justicia et illa pendi quista sua peticionj. Appresso havendo lu dicto Inquisituri sentenciato et declarato al- cuni neophitj marrarj prò heretici a perpetuo carce- ri et dapoy reconciliati et alcunj datj prò eretici foru abruxatj in lo pronuntiarj di sententij li fechino tucti compagnia et grand] honurj comu lu de- bito requidia di jlla; ad alcuni jorni volia promulgar] uno bando di lo qual] con lo prisent] ven] la copia ad vostra Alteza, lu quali era multo prejudicial] a la Real] prehemi- nencia di Vostra Alteza centra li Capitul] et Privilegi] di quisto Regno et di quista chitati et lo honur] et interesso grand] di tucti li chitatin]; et era fora di la jurisdicion] di lo dicto Inquisitur]. Nui visto dicto bamdo, per dar] cuncto di nu], fichimo convocar] dechi doctur] princhipal] di la chitat] infra li quali foro du] di li cunsigleri di lo dicto officio chi condempnaru a li dicti marrany et non volsino convocari altri et assay chitatin] per ma]ur] servicio di Vo- stra Altecza li quali visto lu bando predicto, nemine discol- pante dissiro et vosiro chi quanto tenia dicto bando non era spectava ad dicto offitio per multi et assay raxunj, et chi nui non permettirisimo ad nixuno modu prò dicto offitio si promulgassi tali bampno chi era multo pre]udicial], comu é dicto di supra, et chi fussimo a lu dicto spectabil]. Viceré et a quillo informassimo di tutto lo negocio per potirisi meglo providir] declarando ad vostra altezza

233

sant'uffizio

chi è preheminencia di quista chitatj, di quando è fac- ta chitatj chi non si promulgar] bamdo in quilla si- non per so banditurj e chi tali bamdo sia visto per H officiai] de dieta chitati et conoxuto non chi essirj co- sa contra soy privilegi oy capituli, eciam chi tal] bando sia di quaulsivoglia officiali preheminentj et di lu Vi- ceré del Regno; lu quali Viceré essendo per nui infor- mato ny dissi chi tucto fachissimo intendirj a lo dicto In- quisituri et non potendo infra nui accordarini chi ipsu remittiria lu punctu et talj casu a la gran Curtj; et paren- donj chi 'lo dicto Viceré dicha multo beni cussi fichimo: oomandamo a raxunarj a lo dicto Inquisituri .um dui di li iurati compagny nostri et fichimolj declarari chi tali bandu per ipso per so offitio potirisi promulgari, era di sua iurisdicioni. Secundo per consiglo dili supra- dict] docturi ftiaxime di dui soy principali consultori era- mo consiglati li quali havendo intiso a li dicti iura- tj volendo insistiri chi la pena si divia fari et chi nui ^on lu potiamo impediri reyteraro tucti li cosi predi- cti chi di quilli era stato mal tractato et chi non po- tia farj altro chi seri virilo ad Vostra Altecza. A lu qualj parlari tamen fu refenso chi la chitati tambeni sicura comu a lu presemti fachimo certificando et beni informando Vostra Altecza chi quista chitati camenti la sancta volun- tati et intencioni di Vostra Altecza essiri per lo sancto zelo di la sancta et solicita in sustiniri per li soy regni quista sancta inquisicioni benchi in quìsto regno chi su poco neophiti et marranj per conformarisi cum Vostra Altecza sempri a multo honorato et favorito a li inquisitu- ri su stati et assay plui lo dicto misser Alfonso havimo nui honorato et favorito et in dicto so officio in cosa al- cuna ni havimo intromiso dato impedimento alcuno, nentidimino comu ipsu lu hagia adiministrato et pertanto si non potimo nui informarindi Vostra Altecza persuadi -un- ni Vostra Altecza per altrj lu possa intindirì. Quisti cosi et scrivimo per dari cunto di nuj perchi, comu be-

234

APPENDICE I

nj po considerar] Vostra Altecza, per lo regno per esse- rj privilegiate at havirj soy costumi è bisogno chi lo re- gimento di li officj sia administrato secundo lo costumo di lo paysi et non divj ad ipsu inquisituri parirj extraneo farj comu ha costumato maxime in cosi non prejudi- cialj a lo dicto officio, et diviria esequirj comu li soy predecessurj hanno facto. Per tanto supplicamo vostra Al- tecza genibus tlexis si digna providirj chi de cetero dicto inquisituri vogla usar] so officio comu si divi et qui- st] cosi chi non su di sua iurisdictioni non li ten- tar] apportarisi in quisto regno et chitati con quillo ordin] et forma chi si div] secundo lo costumo di lo paysi et dict] soy predecessori si hanno provato comu la raxuni permect] chi certament] n] par] multo necessario a quisto regno et chitati si lo meriti perchè continuament] non pensa altro la noeti ^t lu iomu exepto comu a Vostra Altecza possa servir]. Lo quali nostro Signuri dio ni facza gracia di con- servar] prospero et felichi et una longa vita et cum con- tinua Valencia di soy glorius] impres]. Ex urbe nostra fe- p liei Panormi] die vigesìmo XVII ]unii XIIIJ indicio- nis 1511.

Di V. S, R. Mti humil] vassalli et servitor] chi soy Reali mano baxano lo pretur] et ]u- rat] la vostra felichi chitati di Palermo.

Georgi Bracco MUes et pretor. Alexandro Galletti juratus et priolus Flaminio di Leofante juratus

SlMUNI DI BÙLOGNA jUTUtuS

ToMAS IsGRO juratus Francisco de Montano jurato Petro de Squarcialupo jurato Franciscus Farfagia magister noiarius

juratorum feltcis urbis Panormi Sacrae Regie Maiestati

235

APPENDICE II

I.

Un'importante scoperta del Prof. Pitrè : Le carceri del San- t'Uffizio nel Palazzo dei Tribunali - Disegni, motti e poesie dei prigionieri (dal <( Giornale di Sicilia » del 25- 26 giugno 1906).

Nello storico palazzo dei Chiaromonte che si ergeva maestoso alla Marina, circondato di ubertosi giardini, nello Steri che fu palazzo reale, albergo di ogni delizia, nel t6oo fu stabilito il Tribunale dell'Inquisizione, che vi rimase fi- no al 1782, anno in cui fu abolito dal viceré Caracciolo, che fece dare alle fiamme gli archivi, sicché nulla ci è rimasto di quanto si riferisce al S. Uffizio in Palermo.

Non sappiamo nemmeno dove e come erano le carce- ri del S. Uffizio, che finora abbiamo dovuto vedere in un sotterraneo, dal lato della dogana, additato come l'antico carcere, ma forse per semplice tradizione.

In questi ultimi mesi, volendo il Municipio adattare al- cune stanze della R. Procura ad aule d'udienza, nei lavori di scrostamento delle vecchie muraghe, venne fuori un primo affresco.

Di tal cosa fu informato l'illustre prof. Giuseppe Pitrè, il quale, recatosi presso la R. Procura (primo piano), trovò nella prima stanza a destra di chi entra dalla porticina che sulla scala, un disegno colorato, che lo animò a conti- nuare per conto suo il lavoro di scrostamento del muro; ciò che egli fece, lavorando con tenace pazienza per ventun giorni consecutivi.

Prima di arrivare alla muraglia lavorata, il Pitrè in- contrò non meno di quattro intonachi, sovrapposti nei vari tempi. Durante il suo faticoso lavoro, di giorno in giorno, di ora in ora, egli vedeva spuntare alla luce, miracolosa-

239

SANT UFFIZIO

mente conservati dalla calce, disegni, graffiti, poesie, trac- ciati e scritti tre secoli e mezzo or sono, negli orrori d'un tetro carcere dell'Inquisizione.

Il Pitrè, che chiama con frase felice questi documenti grafici i « palimsesti del carcere » li ha studiati con atten- zione, ed è riuscito a decifrare la maggior parte dei motti e delle poesie che, coi disegni, occupano parte della parete sud e parte della parete ovest della stanza.

In questa è ancora visibile l'antica finestretta, ora mu- rata e sostituita da due grandi finestre; dall'antica finestret- ta doveva piovere una luce scialba che rompeva a fatica la oscurità dell'angusto carcere.

Or è da notare che i motti, le poesie, i disegni, son lutti nei punti dove la luce non poteva penetrare quasi affatto; precauzione questa dei prigionieri per non lasciar scoprire l'opera loro.

In seguito alle sue attente osservazioni, il Pitrè ritiene che tutte le stanze allineate al primo piano della R. Procura, siano state un carcere destinato alle persone civili e agli ecclesiastici nel secolo XVII, proprio nel secolo in cui il Tribunale dell'Inquisizione si stabilì nello Steri.

Queste convinzioni del Pitrè sono suffragate dalle iscri- zioni scoperte.

In quattro punti differenti egli ha letto questi motti:

« Averti ca cca si dura la corda

« Statti in cerv'ellu ca cca dunanu la tortura.

E più in là:

« V'avertu ca cca prima dunanu corda...

« Statti in cervellu ca cca dunanu la tortura.

arti infami.

Del resto, tutta la cella accenna a sofferenze di gente carcerata.

I motti latini, le frasi italiane, i motteggi e le canzoni siciliane e varie figure, accennano a tortura (S. Caterina), a catene (S. Vito), a tenebre (S. Rosalia).

240

I

APPENDICE II

Notevole la figura di S. Rosalia, che ha sotto di la carta geografica della Sicilia. Sulla figura è scritto:

O Rosalea^ sicut liberasti a peste Panhormum me quoque sic libera carcere et a tenebris

Il Pitrè ha potuto precisare che tanto i motti che le figure sono della metà del 600. Ciò è dimostrato dal fatto che ben due volte, in due diverse inscrizioni ricorrono le date 165... e 166... e dalla figura dello spagnuolo disegnata sulla parete ovest, rappresentante un signore in costume spagnuolo del '600, dall'aria inspirata, inginocchiato in

1

I

atto di preghiera; a destra è lo stemma della sua casa; a sinistra, in caratteri gotici, la preghiera che egli recita.

Dall'altra parte, è un disegno a tre colori (carbonella, giallochiaro e rosso) rappresentante un mascherone, dalla

241

16 - G. PlTRÉ Sant'Uffizio

SANI UFFIZIO

r^.^.

g-'^

Jl

-1^ ^^^

k

cui bocca escono due cornucopie, su una delle quali, un car- cerato dipinse la figura d'un inquisitore, che l'ossessionava. Ma se la figura dello spagnuolo è di scorretto disegno (specie nelle gambe) e il mascherone non esce dai limiti d'un disegnino privo d'importanza, la testa barbuta che

/vJ^^J

I

APPENDICE II

lo sovrasta a destra, è una delle più corrette ed espressive che siano nella sala.

In essa, lo sconsolato artista che la traccia, volle ritrar- re forse se stesso e il proprio padre, tanta è la malinconica serenità dello sguardo e la corretta espressione dei linea- menti.

Come di questa e delle precedenti, è ignoto anche l'au- tore della pensosa figura d'un santo monaco (potrebbe essere S. Benedetto o S. Francesco di Paola o S. Bernardo o un altro dei taumaturghi); figura assai delicata e soave.

Nomi d'autori non se ne leggono mai; solo una volta, in una figura quasi di grandezza naturale rappresentante il Cristo risorto, sotto l'inscrizione:

Mors, ubi est Victoria tua?

sta scritto : (( D. Franciscus Carata, servus tuus »

Notevole un braciere con un cuore che vi brucia dea-

243

SANT UFFIZIO

tro, simbolo di orribili sofferenze e, sotto la figura di Sw Vito, l'inscrizione:

Cum infirmor tum potens sum.

Sotto la figura di un'aquila, il Pitrè legge: Vi'rtus) et motus (a)best

Ma quelle che hanno importanza davvero singolare sono le poesie siciliane.

Sono d'un solo autore, un malinconico poeta del car- cere, che scrive a penna d'oca le sue pene in uno stile sinceramente triste. Sono davvero lacrimae rerum e nulla vi è della retorica seicentesca.

Egli non si firma se non con qualche amara qualifica, come Yahhannunatu, l'inalici, lu scurdatu; e usa l'ottava siciliana classica a due rime alterne. Parecchie ottave il Pitrè è riuscito a leggere interamente, altre solo in parte.

Eccone una fra le più espressive e profonde:

Nun ci 'nd'è no scuntenti comu mia, mortu, e nun pozzu la vita finiri. Fortuna cridi ch'immurtali io sia, Chi si murissi nun duvria patiri, pirchì cu la mia morti cissiria la dogghia e l'infiniti mei martiri; per fari eterna la memoria mia 'nta tanti stenti nun mi fa muriri.

L'infilici.

In un'altra ottava, dopo aver lamentato è questa la sua idea dominante d'esser da tutti dimenticato, con- clude :

E quannu manca ogn'autra ricurdanza, c'è l'aiutu di Dio, ch'un manca mai.

Chi sa qual' anima gentile non era la sua, condanna- ta a intristire nell'oscurità d'un carcere, nell'orrore dei ceppi!

244

APPENDICE II

Molte son poi le iscrizioni in forma di brevi aforismi o di consigli morali:

Pacienza, pani e tempu (per vivere fino al giorno della liberazione).

Pensa beni a la morti. Fallii omnis homo etc.

Un altro chiama invano la morte:

Semper dico - Venias - et nunquam venit ante cras.

E' tutto un complesso di dolorosi ricordi, di soffcTcnze lunghe e crudeli che commuovono profondamente.

Fu detto che il muro bianco è la carta dei matti. Se ciò può essere vero in certi casi, non è nelle carceri del S. Uffizio di Palermo.

Quanto sangue e quante lacrime non grondano da quelle pareti! Sembra di sentir rintronare di gemiti e di pianti quelle celle, arrise ora dal sole, che v'entra a fiotti dal- le ampie finestre.

Ora che tutto è s«omparso dell'antico orrore, chi più sentiva le voci di tanti infelici che penarono e morirono fra quelle mura? Chi pensava che in quél luogo avessero pianto e sofferto centinaia di persone, molte delle quali colte e ben nate?

Dobbiamo al Pitrè l'interessante scoperta, di cui ieri egli ha letto una elaborata relazione nella sala della So- cietà Siciliana di Storia Patria, innanzi a un pubblico elet- tissimo, che si appassionò vivamente alla efficace rievo- cazione di tante sofferenze, fatta con arte magistrale dal Pitrè.

L'illustre professore, al termine della lettura frutto di un mese di lavoro e di studio, fu applaudito con entusia- smo e moltissimi vollero compiacersi con lui del suo nuovo e importante lavoro.

CAM.

245

SANT UFFIZIO

IL

Dai Palazzo Chiaramonte in Palermo e di un carcere del S. Uffizio in esso recentemente scoperto (da (( La Si- cilia Illustrata », agosto 1911).

Il Palazzo Chiaramonte, detto per eccellenza lo Steri, nella Piazza Marina, ha una storia drammatica e sangui- nosa. Le sue vicende sono vicende di Palermo, la sua ar- chitettura è architettura della Sicilia; ed ogni sua pietra ricorda una istituzione, narra un fatto che, con altri cento, compone il serto di rose dei governanti, la corona di spine dei governati.

Da Manfredo Chiaramonte a Domenico Caracciolo, ad Asmundo Paterno, a noi tutti, per sei ininterrotti secoli i fasti baronali, viceregi ed inquisitoriali vi si sono avvicen- dati e succeduti con le miserie del popolo, le solennità più splendide con le scene più terribili, le gioie di gaudenti con gli urli dei disperati. i primi Conti di Modica, af- fermando il loro gusto per le arti e la loro protezione per gli artisti, sfoggiavano la loro intelligente opulenza: e sul soffitto del gran salone scrivevano le prime pagine della storia del rinascimento della pittura in Sicilia, e perpetua- vano le loro larghe e potenti parentele con le armi dei Ven- timiglia e degli Alagona, dei Peralta e dei Rossi, dei San- tostefano e dei Moncada, degl'Incisa e degli Sclafani, degli Spinola e dei Polizzi. Da una di quelle finestre Mar- tino II s'affacciava a veder troncare il capo ad Andrea Chiaramonte, uno dei quattro Vicari del Regno dopo la morte di Federico il semplice, e con sommaria confisca fa- ceva suoi i beni del giustiziato, e teneva nel palazzo la Regia Curia, un tempo residente al Castello del Mare. cercò invano rifugio la bella, sapiente e sventurata Bianca di Na varrà, che con nuova disordinata fuga, in una fredda notte d'inverno, potè salvare la sua regal vedovanza dal

246

APPENDICE II

libidinoso ardore del Conte Bernardo Cabrerà riuscito a scalarne le finestre.

nel 1446 si adunavano i generali parlamenti e Car- lo V re ed imperatore vi apriva quello del 16 settembre

1535-

Nella chimerica congiura di Giovan Luca Squarcialupo, il popolo, incendiate le porte, atterrate le guardie, invasi i cortili, le scale, gli anditi, le aule, precipitava giù da quei merli i giudici della Magna Curia Niccolò Cannarella e Tommaso Paterno accolti sulle picche dai sollevati che vi tumultavano sotto. E dai pilastri della sua alta campana si buttavano giù i trasgressori delle leggi sanitarie in tempi di pestilenza, ed uno di essi nella epidemia del 1576, mozze le mani, si vide ad uno ad uno strangolare dinanzi i compagni di furto di robe infette, riversare da quelli i corpi, squartar- ne le membra, ed ora alla sua volta strangolato anche lui come gli altri, bruciato, sparse al vento le ceneri scellerate. Nel 1600 tramutavasi dal Regio Palazzo e trovava sta- bile dimora, dopo lungo vagare per esso, pel forte di Castel- lamare, pel campanile della Piazza dei SS. Quaranta Mar- tiri al Casalotto, il S. Uffizio, e con esso carceri e strumenti di tortura, mezzi efficaci ad insinuanti interrogatorii. Nuova vita, nuovi ospiti, tormentatori e tormentati; ed al domani del passaggio, mille soldati spagnuoli ne scardinavano le porte e, preceduti dal boia ne invadevano l'atrio.

Giacché, essendo stato imputato di omicidio il nobile D. Mariano AUiata familiare del Tribunale della fede, questo avea reclamati gli atti processuali, e non ottenutili, avea «co- municato la Corte. L'Arcivescovo (D. Diego d'Haedo) to- glieva la scomunica, e gl'inquisitori scomunicavano lui; ed il Viceré duca di Feria, fuori di dalla rabbia, mandava a far valere con la forza la ragion di Stato e ad impiccare chiunque osasse opporre resistenza; e gl'Inquisitori ribe nedivano Corte, Arcivescovo e quanti altri, come i soldati al loro giungere, erano stati colpiti dal disastroso anatema : fatto, codesto non nuovo per quanto violento, che alla di-

247

SANT UFFIZIO

stanza di dodici anni si ripeteva con l'arresto del Conte di Mussomeli, anche lui omicida (1590) e perchè familiare dall'Uffizio, richiesto dall'Inquisitore e negato dal foro ordi- nario, il quale veniva scomunicato e con esso interdetta la città tutta.

Lì, in una delle sale interne, l'Inquisitore Trasmiera nella notte memorabile del 21 agosto 1647 tramava la ro- vina del battiloro Giuseppe d'Alessi, la quale al domani, egli capo della reazione, traduceva ad atto. testimoni perenni di raffinata ferocia, di costa all'orologio, fino al 27 marzo del 1782, pompeggiavano sinistramente tre gabbie di ferro con le teste di Federico Abbatelli conte di Canamarata, Francesco Imperatore e Nicolò Francesco Leofonte, per duelli nel 1523.

L'uso principale ed ultimo del palazzo Chiaramente pri- ma dal secolo ora scorso fu pertanto quello del Tribunale della Fede; ma nessun uso è per noi tanto oscuro quanto questo.

L'allegro bruciamento degli archivi compiuto con sin- goiar pompa nella Piazza. Marina dal Viceré Caracciolo (27- 28 giugno 1783) privò il paese di documenti capitali per la storia del pensiero, del costume, della superstizione, della vita tutta dell'Isola.

E tal sia di essi! Forse non fu priva di fondamento l'affermazione d'allora, ripetuta poi con insistenza, che in quelle carte fossero segrete denunzie da parte di persone che nessuno avrebbe sospettate.

Tant'è, poco, ben poco ci resta di quella istituzione, e meno ancora sappiamo dell'uso delle varie parti dell'edi- ficio. Eppure dovremmo sapere dove gl'Inquisitori tene- vano le loro adunanze, dove le loro udienze; quali le segrete degli inquisiti, quali i luoghi dei tormenti, come si compo- nesse l'arsenale di mitre e di sambeniti, di strumenti di tortura e di ritratti d'Inquisitori: arsenale smantellato, di- strutto con quel med^mo fuoco che tante vite aveva an- nientate e che annientò con esse.

248

APPENDICE II

La Inquisizione in Sicilia, specialmente nell'ultimo se- colo, declinò verso una certa mitezza; e basta dire che in tutto il settecento due sole esecuzioni ebbero luogo. Ma che perciò? Il Tribunale era sempre, nella sua natura, l'an- tico, e nel Palazzo Chiaramente, privi di luce, scarsi di cibo, laceri di vesti, ridotti a povertà di spirito, lasciavano la vita i condannati a lunghe prigionie. Frate Romualdo e Suor Geltrude, due sventurati illusi, vi tribolarono per un quarto di secolo, e ne uscirono solo per esser condotti sul Piano di S. Erasmo ad esser bruciati vivi. Il nobile cassi- nese D. Mario Crescimanno vi stette come eresiarca ad urla- re 28 eterni anni, finché divenuto mentecatto, vi finiva e, perchè non comunicato, sepolto nel giardino (1771). Dove stettero questi ed altri, infelici? quali giacigli accolsero le loro membra intormentite? Quali mura o quali pareti udi- rono i loro rammarichi? Per quali spiragli poterono quegli infelici confortarsi che le loro supplicazioni si sprigionassero per salire fino a Dio?

Da un lato dell'attuale Dogana si addita anche oggi una muda con una solida colonna centrale, sostegno di due archi, con un chiodo confitto in alto, al quale venivano so- spesi — dicono gl'imputati; ma la tradizione è vaga e da quella muda dovrebbero incominciarsi le ricerche per isco- prire dove essa conducesse e donde vi scendessero, se pure vi scendevano, gl'Inquisitori e i carcerieri.

Noi non sappiamo nulla di sicuro, perchè senza ri- spetto all'insigne monumento ed alla storia fu provveduto alla chiusura di porte, alla muratura di finestre che, come quelle del grande salone della Corte d'Appello rimesse alla luce nel 1894, certi Inquisitori spagnuoli, Torquemada delle arti, ordinarono a loro capriccio, comodo ed uso del mo- mento.

Nella primavera del 1906 io ebbi la fortuna di scoprire alcune carceri del S. Uffìzio, ignorate fino allora.

Quelle carceri erano nel secondo piano del fabbricato nel quale risiede oggi la R. Procura.

249

SANT UFFIZIO

La scoperta potè salvare sole tre celle del carcere, es- sendo state le altre manomesse dai muratori.

Scalcinando e scrostando per sei non interrotti mesi, io riuscii a mettere in luce nove pareti delle tre celle, molto curiose ed interessanti per le manifestazioni psichiche dei poveri prigionieri, non meno interessanti per la storia intima della Inquisizione in Sicilia. Disegni d'ogni genere, santi, madonne, crocifissi, inni, iscrizioni, versi latini, italiani, siciliani vi sono accalcati, l'uno sull'altro, quasi con pensiero pertinace di volersi l'uno sull'altro scalzare. Di tempo in tempo intervenivano i familiari dell'istituto cercando di fare scomparire con imbiancature i molesti grafiti; e così uno stra- to di calce si sovrapponeva ad altro strato aiutando, senza volerlo, i sofferenti a nuovi grafiti e creando dei palimsesti del carcere.

La copiosa materia mi animò a ricerche d'archivio, le quali mi chiarirono assai cose, per me e forse per altri nuove : ed io potei omporre un libro, ricco di fatti, di aned- doti, di scene, di particolari, dai quali i futuri storici del tremendo tribunale tra noi (Vito La Mantia è stato l'ultimo ed il più diligente) potranno forse trarre vantaggio. Il libro verrà presto pubblicato con numerose illustrazioni.

Qui mi limito a pòchi cenni di due pareti della prima cel- la, seguendo da destra a sinistra tutta la parete orientale. E' superfluo l'avvertire che questi disegni non son tutti d'una mano, tutti d'un medesimo strato. Chi potrà ve- derli quando saranno esposti ai visitatori, si persuaderà che essi svolgono sopra cinque o sei strati successivi, rappre- sentanti mani e anime diverse che in quel luogo si succe- dettero durante un secolo e mezzo dal seicento in poi.

Una grande aquila bicipite, dalle ali aperte accoglie nel corpo una iscrizione, che va letta così:

Virtus et Motus Abest

allusione alle forze infrenate degli inquisiti. Sotto, una te- sta di donna con acconciatura sui generis. Questa accon-

250

APPENDICE II

eia tura si ripete in tutte e tre le celle e rivela una moda del tempo, confermata da una poesia del celebre poeta sici- liano Pietro FuUone. In alto, una S. Rosalia, sulla cui ve ste i seguenti versi latini:

O Rosalea, sicut liberasti a peste Panhormum Me quoque sic libera carcere, et a tenebris,

e in basso :

Laetitia Civitatis Panhormi

A un mezzo metro di distanza, una stupenda testa, non tutta scoperta perchè correrebbe pericolo di perdersi nel lavoro di scrostamento. Più a sinistra, m basso, un mascherone, meglio visibile nella fotitipia della seconda metà della pa- rete. Dala bocca escono due cornucopie, ed in quella di si- nistra, disegno di altro prigioniero, la figura d'un inquisi- tore, probabilmente eseguita stando l'autore seduto sul pa- vimento col capo poggiato sul gomito eia mano sinistra. Ne- gli spazi liberi della cornucopia, sopra, sotto, in giro sono altre immagini con iscrizioni latine ed ottave siciliane. La cornucopia mette in guardia i nuovi ospiti del doloroso luogo contro la tortura che li aspetta. Un motto:

Semper Dico: Venias, Et Numquam Venit Ante Cras.

Un altro, posto in bocca ad un serpente, simbolo del Tribunale :

Cavete Quia Solo Aspectv Interficio.

Le ottave siciliane sono una ventina, e già lette con infinite difficoltà ed interpretate quasi tutte, verranno anche esse fatte di pubblica ragione. Nella parete che guarda a settentrione, verso la primitiva porta di entrata nella cella, sono figure più corrette e ricordi pietosi.

In vicinanza di una delicata effigie di santo, che potreb- b'essere Antonio Eremita o Francesco di Paola, sorge slan- ciato ed ardito un Cristo risuscitato con la leggenda:

O Mors Ubi Est Victoria Tua?

251

SANT UFFIZIO

e sullo spazio bianco della lapide sepolcrale una serie di ri- velazioni in sottilissimi caratteri, solo in parte decifrabili, di uno sventurato che passò di cella in cella e fu ridotto in questa, certamente non ultima definitiva.

La parete venne interrotta per un'apertura stata pra- ticata dopo l'abolizione del S. Uffìzio, senza dubbio dal 1800 al 1803 o in quel tomo; come le pareti tutte furono guaste da buchi praticati in esse pel bisogno di adattarle a scaffali d'archivio. Ora dall'altro lato della finestra sta gi- nocchioni un signore pregando, anzi forse recitando l'inno di S. Antonio da Padova, le cui prime strofette sono medio- cremente leggibili:

O proles Hispaniae...

Chi sia questo signore non mi è stato concesso indovi- nare, neanche analizzando lo stemma con l'aiuto dei blaso- ni di Sicilia e di Spagna del tempo.

Ma di questo e dei moltissimi disegni e motti del vec- chio carcere, del loro carattere, del loro significato, delle ra- gioni che li spiegano, delle rivelazioni che fanno, delle re- lazioni che offrono con la storia e le vicende della Inquisi- zione, degli spettacoli e degli autodafé, della nobile con- dotta del Senato di fronte agli Inquisitori audaci, protervi, senza patria e senza cuore e di tutto quel mondo di orrori e di prepotenze, malinteso, esagerato dai fautori o dai nemici di esso, io son costretto a tacere avendone già detto quanto basta nei dodici capitoli del libro e nei documenti inediti di esso.

G. PlTRÈ

252

TAVOLE

Il dragone e 1' aquila

(p. 17)

255

I

Jf*^

' %■ '--

^ ^

■'■'iar^jyi

::J5

rwC'J

'^^v

S. Rosalia

(p. 20)

257

S. Caterina e Cristo (p. 21)

259

Cristo risuscitato (p. 21)

261

Santi della seconda cella (p. 48-49)

%.?|J:Sv'ii' j , €<:

S. Vito (p. 49)

263

. .'3' ì

Frate orante (p. 50-51)

S. Michele Arcangelo (P. 75)

265

k y *!* ^taSS*-" r^»^ j<l«-* •>• . {

.^^:>*^"

■%^ì

h^^

•^

Immagine di santo (p. 243)

267

NOTA

Questo libro fu scritto da Giuseppe Pitrè appena compiute le ricerche, che nel 1906 condusse per ben sei me&i con grande pa- zienza e passione, intomo alle pyareti delle vecchie celle dello Steri di Palermo un tempo destinate a carceri degl' inquisiti del S. Uffizio. Alla fine del manoscritto si legge, di mano dell'Autore, la data del 24 giugno di quell'anno: lo stesso giorno che il Pitrè lesse alla Società di Storia Patria di Palermo una relazione sulle scoperte fatte in quelle squallide prigioni.

Il manoscritto fu subito ricopiato dalla figlia Maria (alcune pagine dal genero A. D'Alia) e poi riveduto dall'Autore. Il quale continuò ancora ad accarezzarlo lungamente, poiché la materia lo aveva vivamente interessato e commosso; e con la fantasia, dopo che il lavoro era stato condotto a termine, dovette, comei soleva, restare a meditare sui temi studiati e ad aggirarsi per le tragiche celle dalle parlanti pareti. Corresse quella copia che sola si conserva tutta di sua mano, aggiungendo qua e quan- to nuove letture o documenti non prima conosciuti gli venivano suggerendo a meglio delineare e colorire il suo quadro.

Le citazioni incomplete (ved. pp. 143, 160 e 197) che l'Autore, sempre in questa parte diligentissimo, e chi scrive ricorda quel che della importanza da lui attribuuita alla precisione e compiu. tezza delle citazioni gli soleva dire come di uno dei canoni che più scrupolosamente egli s'era sempre fatto dovere assoluto di osservare si riservava di completare, le note (come a pag. 126)

271

NOTA

segnate nel manoscritto per memoria e non più scritte, il rin- vio che una volta si incontra (i) a un capitolo che non si si trova nel manoscritto e che probabilmente non fu mai com- posto poiché si conserva pure un indice autografo esattamente corrispondente alla divisione presente del libro (2) e al titolo dei singoli capitoli; tutti questi sono indizi da far pensare che l'Au- tore negli ultimi due lustri della sua vita, sempre ri^rvandosi di riprendere in mano il suo lavoro, magari al momento di pub- blicarlo, non ebbe più l'occasione di rileggerlo per intero e prepa- rarlo definitivamente per la stampa.

Così non furono mai apprestate le illustrazioni a cui l'Autore molto teneva (vedi pp. 13-14) e per cui con l'aiuto del nipote, Dott. Francesco Turbacco, ora prefetto del regno, aveva eseguite via via molte fotografie durante i suoi lavori sui vari strati di intonaco delle celle esplorate.

Ne rimangono poche, e così mal ridotte dal tempo da riu- scire presso che indecifrabili; e la maggior parte andarono per- dute nell'alluvione che nel 1925 distrusse in Palermo la Tipografia Sandron, che di questo volume e di tutte le opere si era assunta l'edizione e aveva iniziato la stampa. Un saggio se ne è dato a parte in fondo al volume. Da quattro di esse furono ricavati a cu- ra dello stesso Autore disegni stilizzati e corretti che vennero inse- riti in un articolo pubblicato a firma Cam nel Giornale di Sicilia del 25-26 giugno 1906 col titolo: Un'importante scoperta del prof. Pitrè: Le carceri del Sant'Uffizio nel palazzo dei Tribunali: Disegni, motti e poesie dei prigionieri; articolo scritto eviden- temente su materiali forniti dallo stesso Autore in seguito alla let- tura che il 24 di quel mese, come s'è detto, egli aveva tenuto al- la Società siciliana di Storia patria intomo alla sua scoperta (3).

i

(i) La prima nota di p. 207 nel mansocritto continua: <( Il lettore avrà un cenno nel cap. di Considerazioni di questo lavoro (Cartolare 6°) ». Questi cartolari che doveva contenere la prima stesura non ci sono giunti.

(2) Anche nel 191 1 il Pitrè tuttavia parlava di « dodici capi- toli » (v. pag. 252).

(3) Sulla copertina del quarto capitolo nel ms. leggesi un ap-

272

NOTA

E altre quattro ne vennero riprodotte fotomeccanicamente dal Pi- trè in un suc^ articolo pubblicato nel settembre 191 1 nell'Italia il- lustrai: Del palazzo Chiaratnonte in Palermo e di un carcere del S Uffizio in esso recentemente scoperto la G. Pitrè, quindi ri- prodotto in up fascicolo della Sicilia illustrata che reca la data dell'agosto 191 1, ma che evidentemente dovette uscire più tardi.

In una nota di questo secondo articolo era detto: « La casa editrice Marraffa Abate imminentemente prepara la pubblicazione del libro di Giuseppe Pitrè: Sul S. Uffizio in Sicilia. Il libro in ottavo sarà arricchito da numerosissime illustrazioni inedite ». Spe- ranza che, pur troppo, anch'essa fallì.

Entrambi questi articoli s'è creduto opportuno riprodurre qui nella seconda delle Appendici con cui si chiude il volume.

La stampa popolare di S. Leonardo, che in una nota del ma- noscritto l'Autore stesso aveva stabilito si dovesse aggiungere a illustrazione di quel che è detto nel testo a pag. 56, è stata ri- prodotta dall'esemplare che si conserva nel Museo etnografico di Palermo, raccolto dallo stesso Pitrè.

In calce all'indice autografo aggiunto al manoscritto, è cenno di un altro proposito dell'Autore: (( Aggiungere altre 20 colon- nine di nuovi documenti, e i disegni ». Quanto ai disegni se n'è raccolti quanto è stato possibile raccapezzare dalle vecchie foto- grafie in fine al libro. Dei documenti l'Appendice quelli, vecchi e nuovi, che sono stati trovati fra le carte del Pitrè : non sempre potendone indicare le fonti, perchè nelle copie che ne aveva con- servato il Pitrè mancava la relativa indicazione. Il documento V è stato collazionato dal prof. Giuseppe Cocchiara; che pure ha avuto la cortesia di riscontrare sull'originale il doc. I già pubblicato da V. La Mantia, Storia delV Inquisizione in Sicilia, Palermo, 1904, p. 102-3 (i).

punto a lapis autografo: « Spigolata in una lettura fatta alla So- cietà di Storia patria il di 18 febbraio 1910 ».

(i) Del doc. Ili il Cocchiara altri dotti amici di Pa- lermo han potuto trovar traccia. Quanto al doc. IV, il Cocchiara scrive che : (( Esiste effettivamente alla Comunale di Palermo il

273

NOTA

I documenti spagnuoli a cui allude il Pitrè a p. 209, furono poi pubblicati dal prof. C. A. Garufi nel suo importante lavoro Contributo alla storia deWInquisizione in Sicilia nei secoli XVI e XVII: Note ed app. dagli Archivi di Spagna (Palermo, 1920; estr. éàWArch. storico siciliano). Così, la mappa della Sicilia, di cui il Pitrè tocca a pag. 20, venne pubblicata e illustrata da Giu- seppe Di Vita, // palazzo dei Chiaramonte e le carceri dell'Inqui- siz. in Palermo^ I graffiti geografici d^un prigioniero ai tempi di Giuseppe d'Alesi, Notizie storiche, Palermo, Bocc. del Povero, 1910.

Si ricorda qui infine che gli Avvertimenti di Scipione De Ca- stro (citati dall'Autore a p. 172, 174), furono poi studiati rui manoscritti dal prof. Camillo Giardina {La vita e l'opera poli- tica di Scip. De Castro, Palermo 1931 : estr. dagli Atti della R. Accad. di Scienze, leti, e arti di Palermo) e che intorno a Lo Steri di Palermo e le sue pitture un magistrale e sontuoso volume a cura di Ettore Cabrici ed Ezio Levi venne pubblicato dalla R. Accademia di scienze, lettere ed arti di Palermo: Suppl. agli Atti n. I, 1932, presso gli editori Treves Treccani Tumminelli a Milano.

GIOVANNI GENTILE

Ms. Qq. H. 62. Sono tre volumi scelti dallo Schiavo (dove si tro- vano relazioni a stampa, trascrizioni ecc.). I documenti sono ri- portati cronologicamente. Dopo i docc. del 1599 v'è nella miscel- lanea un foglio dove è scritto: « Atti del Tribunale della SS. In- quisizione. Ma dell'atto in parola non v'è traccia; che sia stato soppresso? ».

274

ERRATA-CORRIGE

pag. 69, Un. 13: del lato; leggasi: per lato, pag- 77' li"- 13- inadito; leggasi; inaudito.

275

INDICE

CAPITOLO I: Le varie sedi detlla Inquisizione in Palermo: Introduzione . .

dei penitenziati : F.

CAPITOLO II : Prima cella . CAPITOLO III: Seconda cella CAPITOLO IV: Terza cella CAPITOLO V: Data delle celle e nomi Baronie ....

CAPITOLO VI: Politica - Confisca

CAPITOLO VII: Tortura - Segreto

CAPITOLO VIII : Lo spettacolo .

CAPITOLO IX: Prepotenze e scomuniche . . . .

CAPITOLO X: Rivolte di popolo; Pervicacia d'inquisitori; Giudizio finale sul S. Uffizio ......

CAPITOLO XI : Bruciamento degli archivi; Palimsesti; Con- clusione ..........

APPENDICE I: Documenti

APPENDICE II: Due articoli di giornali . . . .

Tavole ...........

Nota di G. Gentile ........

Errata-corrige .........

I i6 46 68

89

99 117

136 160

187

206 219 237 253 271 275

277

FINITO DI STAMPARE

IL 10 NOVEMBRE 1940-XIX

PER I TIPI DELLA

SOC. EDITRICE DEL LIBRO ITALIANO

IN ROMA

bi«%iui^^ Li^l DECI 1%o

TI

<U

fu

o

•H

0) <V4 o

0) -P 0)

5 § ;H •H CO "^

^ (D

fH (U O

U

Cd e

/^

o o

CQ

o

w

s

M •H

0)

to

te CU

University of Toronto Library

DONOT

REMOVE

THE

CARD

FROM

THIS

POCKET

Acme Library Card Pocket LOWE-MARTIN CO. limited

>#^

i»r/r

■il^

k«M«: