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E DOMANI, LUNEDÌ.

Opbbb di Luigi Pibanbello (Edizioni Treves).

Erma bifronte, novelle L. 6

La vita nuda, novelle . . 5

Terzetti, novelle. Con coperta a colori . . . .6

La trappola, novelle 5

E domani, lunedì...., novelle 6

U turno; Lontano, novelle 4

L'Esclusa, romanzo 6

JZ fu Mattia Pascal, romanzo. Nuova ediz. riveduta . 5 / vecchi e i giovani, romanzo. 2 volami . . . . 6 60

Si gira ...,, romanzo 6

Un cavallo nella luna, novelle 3

Quand'ero matto, novelle 3

Bianche e Nere, novelle 3

8t non così, commedia 4

Maschere nude, commedie - 1 b

Pensaci, Giacomino! - Così è (se vi pare). - D piacere dell'onestà.

Maschere nude, commedie - Il 5

Il giuoco delle parti. - Ma non è una cosa seria.

LUIGI PIRANDELLO

E domani, lunedì...

NOVELLE

\F-X-E/

MILANO Fratelli Treves, Editori

Settimo mtgrli&iOc

PBOPBIBTÀ LETTBBABIA.

I diritti di riproduzione e di traduzione sono rinervati per tutti t paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda.

Si riterrà contraffatto qualunque esemplare di quest'opera,

dal 5." migliaio in avanti, che non porti il timbro a secco

della Società Italiana degli Autori.

-\

MilaDO, Tip. Treves - 1919.

Nell'albergo è morto un tale.

PIRAKDBI.I.C. Tv domani, hmiidi,...

Cento cinquanta camere, in ti'e piani, nel punto più popoloso della città. Tre ordini di finestre tutte uguali, le rin- gliierine ai davanzali, le veti'ate e le per- siane grige, chiuse, aperte, semiaperte, accostate. Brutta facciata. Ma se non ci fosse, chi sa che effetto curioso fareb- bero queste cento cinquanta scatole, cin- quanta per cinquanta le une sulle altre, e la gente che vi si muove dentro ; a guai'darla da fuori. Basta. L'albergo non è di lusso ; ma tuttavia decente e mol- to comodo: ascensore, numerosi came- rieri, svelti e ben disciplinati, buoni letti, buon trattamento nella sala da pran- zo, servizio d'automobile. Qualche av- ventore (più d'uno) si lamenta di pa- gar troppo ; tutti però alla fine ricono- scono che in altri alberghi, se si spende meno, si sta peggio e non si ha il van- taggio, che si vuole, d'alloggiare nel cen- tro della città. Delle lagnanze sui prezzi il proprietario può dunque non curai'si

nell'albergo è JIORTO UN TALE

rispondere ai malcontenti che vadano altrove. L'albergo è sempre pieno d'av- ventori e parecchi, all'arrivo del piro- scafo ogni mattina e dei treni durante il giorno, veramente se ne vanno altrove, non perchè vogliano, ma perchè non vi trovano posto.

Sono per la maggior parte connnessi viaggiatori, uomini d'affari, gente della provincia che viene a sbrigare in città qualche faccenda, o per liti giudiziarie o per consulto in caso di malattia: av- ventori di passaggio, insomma, che non durano più di tre o quattro giorni ; mol- tissimi arrivano la sera per ripartire il giorno dopo.

Molte valige; pochi bauli.

Un gran traffico, un continuo andiri- vieni, dunque, dalla matthia alle quat- tro fin dopo la mezzanotte. Il maggior- domo ci perde la testa. In un momento, tutto pieno ; un momento dopo, tre, quat- tro, cinque camere vuote: parte il nu- mero 15 del primo piano, il numero 32 del secondo, il 2, il 20, il 45 del terzo ; e intanto due nuovi avventori si sono or ora rimandati. Glii arriva tardi è fa- cile che ti'ovi sgombra la camera migliore al primo piano ; mentre chi è arrivato un momento prima ha dovuto contentarsi

NBLL ALBERGO E MORTO UN TALE

idei numero 51 del terzo. (Cinquanta, le camere, per ogni piano; ma ogni piano ha il numero 51, perchè in tut- ti e tre manca^jJLHi- dal 16 si salta al 18; e chi alloggia al numeix) 18 è si- curo di non aver la disgrazia con sé).

Ci sono i vecchi clienti che chiamano per nome i camerieri, con la soddisfa- zione di non esser per essi, come tutti gli altri, il numero della stanza che oc- cupano: gente senza casa propria, gente che viaggia tutto l'anno, con la valigia sempre in mano, gente che ista bene ovun- que, pronta a tutte le evenienze e si- cura di sé.

In quasi tutti gii alti'i è un'impazien- za smaniosa o un'aria smarrita o una costernazione accigliata. Non sono assen- ti soltanto dal loro paese, dalla loro Casa ; sono anche assenti da sé. Così fuori dal- le proprie abitudini, lontani dagli aspetti e dagli oggetti consueti, in cui giornal- mente vedono e toccano la realtà solita e meschina della propria esistenza, ora non si ritrovano piìi, non si conoscono più: tutto è come arrestato in loro, e sospeso in un vuoto che non saimo come riem- pire, nel quale ciascimo teme possano da un istante all'altro avvistarglisi aspetti di cose sconosciute o sorgergli pensie-

NE LL ALBERGO E MOKTO DN TALE

ri, desiderii nuovi, da un nonnulla, stra- ne curiosità che gli facciano vedere e toccare una realtà diversa, misteriosa, non soltanto attorno a lui, ma anche in lui stesso.

Svegliati troppo presto dai rumori del- l'albergo e della via sottostante, si but- tano a sbrigare in gran fretta i loro ne- gozia Trovano tutte le porte ancora chiu- se: l'avvocato scende in istudio fra un'o- ra; il medico comincia a ricevere alle nove e mezzo. Poi, sbrigate le faccende, storditi, amiojati, stanchi, tornano a chiu- dersi nella loro stanza con l'incubo delle due o tre ore che avanzano alla par- tenza del treno ; passeggiano, sbuffano, guardano il letto che non li invita a sdrajarsi; le poltrone, il canapè che non li invitano a sedere; la finestra che non li invita ad affacciarsi. Com'è strano quel letto ! Che forma curiosa ha quel canapè ! E quello specchio lì, che orrore! Tutt'a un tratto, si sovvengono d'una commis- sione dimenticata: la macchinetta per la barba, le giai'rettiere per la moglie, il collarino per il cane; suonano il cam- panello per domandare al cameriere in- dirizzi e informazioni.

Un collarino, con la targhetta così e così, da farci incidere il nome.

NELL AMEROO E MORTO UN TALE

Del cane?

No, mio, e l'indirizzo della casa Ne sentono di tutti i colori i camerieri.

Tutta la vita passa di là, la vita senza re- quie, mossa da tante vicende, sospinta da tanti bisogni. C'è giù, per esempio, al numero 12 del secondo piano, una povera vecchia signora in granaglie che vuol sapere da tutti se per mare non si soffre. Deve andare in America, e non ha viaggiato mai. È ai^rivata jersera, cadente, sorretta di qua da un figliuolo, di da una figliuola, anch'essi in gra- maglie.

Specialmente il lunedì sera, alle ore sei, il proprietario vorrebbe che al bu- reau si sapesse con precisione di quan- te camere si può disporre. Arriva il pi- roscafo da Genova, con la gente che rim- patria dalle Americhe, e contemporanea- mente, dall'interno, il treno diretto piìi affollato di viaggiatori.

Jersera, alle sei, si sono presentati al bureau piìi di quindici forestieri. Se ne son potuti accogliere quatti'o soltanto , in due sole camere: questa povera si- gnora in gramaglie col figliuolo e la fi- gliuola, al numero 12 del secondo piano; e, al numero 13 accanto, un signore sbar- cato dal piroscafo di Genova.

NELL ALBEEOO E MOKTO UN TALE

Al bureflu il maggiordomo ha segnato nel registro :

Signor Persico Giov\afin.i, con madre e morella, provenienti da Vittoria.

Signor Fiiimrdi Rosario, intraprendiio- re, prooeniente da New York.

Quella vecchia signora ha dovuto stac- carsi con dolore da un'altra faniigliuola, composta anch'essa di tre persone, con la quale aveva viaggiato in treno e da cui aveva avuto l'indirizzo dell'albergo. Tanto più se n'è doluta, quando ha sa- puto ch'essa avrebbe potuto allog'giare nella camera accanto, se il numero 13, un minuto prima, proprio un minuto pri- ma, non fosse stato assegnato a quei signor Funardi, intraprenditore, prove- niente da Nevv^ York.

Vedendo la vecchia madre piangere ag- grappata al collo della signora sua com- pagna di viaggio, jersera il figliuolo si volle provare a rivolgere al signor Fu- nardi la preghiera di cedere a quell'al- tra famigliuola la stanza. Lo pregò in inglese, perchè anche lui, il giovanotto, è un mnericanp, ritornato insieme con la sorella dagli Stati Uniti da appena "una quarantina di giorni, per una disgrazia, per la morte d'un fratello che manteneva hi Sicilia la vecchia madre: ora vi ri-

NELL ALBERGO K MORTO tJN TALE

torna con questa e di nuovo con la so- rella, per sempre. La vecchia madre pian- ge; ha pianto e ha sofferto tanto, lungo tutto il viaggio in treno, che è stato in sessantasei anni il suo primo viaggio: s'è staccata con strazio dalla casa dov'è nata e invecchiata, dalla tomba recente del figliuolo con cui era rimasta sola tant'anni, dagli oggetti più cari, dai ri- cordi del paese natale, e ora, vedendosi sul punto di staccai^si per sempre an- che dalla Sicilia, s'aggrappa a tutto, a tutti: jersera s'era aggrappata a quella signora e non voleva piiì lasciarla.

Il signor Funardi non ha voluto ce- dere. Ha risposto di no, col capo, sen- z'altro, tlopo avere ascoltato la preghie- ra del giovane in inglese: un no da bra- vo americdPiO, con le dense ciglia ag- grottate nella faccia tumida, giallastra, irta di bai'ba incipiente; e se n'è salito in ascensore al numero 13 del secondo piano.

Per quanto il figliuolo e la figliuola abbiano insistito, non c'è stato verso d'in- durre la vecchia madre a servirsi anche lei dell'ascensore. Ogni congegno mecca- nico le incute spavento, terrore. E pen- sare che ora deve andare in America,, a New York! Passai'e tanto mare, l'Ocea-

10 nell'albergo è morto un tale

rio.... I figliuoli la esortano a star tran- quilla, che per mare non si soffre; ma lei non si fida; ha sofferto tanto in tre- no ! E domanda a tutti, ogni cinque mi- nuti, se è vero che per mare aion si soffre.

I camerieri, le cameriere, i facchini, questa mattina, per levarsela d'addosso, si sono intesi di darle il consiglio di rivolgersi al signore della stanza accan- to, sbarcato or ora dal piroscafo di Ge- nova, di ritorno dall'America. Ecco, lui eh' è stato tanti e tanti giorni per mare, che ha passato l'Oceano, lui sì, e nes- suno meglio di lui, le potrà dire se per mare si soffre o non si soffre.

Ebbene, dall'alba poiché i figliuoli sono usciti a ritirare i bagagli dalla sta- zione e si sono messi in giro per alcune compere dall'alba la vecchia signora schiude l'uscio pian piano, di cinque minuti in cinque minuti, e sporge il capo timidamente a guardar l'uscio della stan- za accanto, per domandare all'uomo che ha passato l'Oceano se per mare si sof- fre o non si soffre.

Nella prima luce livida, soffusa dal fi- nestrone in fondo allo squallido corri- ^ dojo, ha veduto due lunghe file di scarpe, | di qua e di là. Imianzi a ogni uscio, un "

kell'albekgo è morto un tale 11

pajo. Ha veduto di tratto in tratto cre- scere sempre più i vuoti iieìle due file ; ha sorpreso più d'un braccio stendersi fuori di questo o di quell'uscio a riti- rare il pajo di scarpe che vi stava davan- ti. Ora tutte le paja sono state ritirate. Solo quelle dell'uscio accanto, giusto quel- le dell'uomo che ha passato l'Oceano e da cui ella ha tanta smania di sapere se per mare non si soffre, eccole ancora lì.

Le nove. Sono passate le nove; sono passate le nove e mezzo ; sono passate le dieci : quelle scarpe, ancora lì, sempre lì. Sole, l'unico pajo rimasto in tutto il cor- ridojo, dietro quell'uscio solo, accan- to, ancora chiuso.

Tanto rumore s'è fatto per quel corri- dojo, tanta gente è passata, camerieri, cameriere, facchini; tutti o quasi tutti i forestieri sono usciti dalle loro stanze; tanti vi sono rientrati ; tutti i campanelli hanno squillato, seguitano di tratto in tratto a squillare, e non cessa un mo- mento il sordo ronzio dell'ascensore, su e giù, da questo a quel piano, al pian- terreno ; chi va, chi viene ; e quel signo- re non si sveglia ancora. Sono già vi- cine le undici: quel pajo di scai'pe è an- cora lì, davanti all'uscio: lì.

La vecchia signora non può più reg-

12 nell'albergo è morto uk tale

gere; vede passare un cameriere; lo fer- ma; grindica quelle scarpe:

Ma come? dorme ancora?

Eh, fa il cameriere, alzando le spalle, si vede che sarà stanco.... Ha viaggiato tanto!

E se ne va.

La vecchia signora fa un gesto, come per dire: Uhm! e ritira il capo dal- l'uscio. Poco dopo lo riapre e sporge il capo di nuovo a riguardare con strano sgomento quelle scai'pe lì.

Deve aver viaggiato molto, davvero , quell'uomo ; devono aver fatto davvero tanto e tanto cammino quelle scarpe: son due povere scarpacce enormi, sfor- mate, scalcagnate, con gli elaslici, ai due Iati, slabbrati, crepati: chi sa quanta fa- tica, quali stenti, quanta stanchezza, per quante vie....

Quasi quasi la vecchia signora ha la tentazione di picchiai' con le nocche del- le dita a quell'uscio. Torna a ritirarsi in camera. I figli tardano a rientrare in albergo. La smania le cresce di punto in punto. Chi sa se sono andati, come le hanno promesso, a guardare il mare, se è tranquillo?

Ma già, come si può vedere da terra, se il mai'e è tranquillo? Il mare lontano^

.sixi,'ai-vm:tìgo è morto tjn tale 13

il mare che non finisce mai, l'Oceano.... Le diranno che è tranquillo. Come crede- re a loro? Lui solo, il signore della stan- za accanto, potrebbe dirle la verità. Ten- de l'orecchio ; appoggia l'orecchio alla pai-ete, se le riesca d'avvertire di qual- che rumore. Niente, Silenzio. Ma è già quasi mezzogiorno: possìbile che dorma ancora?

Ecco : suona la campana dei pranzo. Da tutti gli usci sul corridojo escono 1 signori che si recano giìi alla sala da mangiai'e. Ella si riafTaccia all'uscio a osservare se facciano impressione a qual- cuno quelle scarpe ancora lì. No : ecco ; a nessuno; tutti vanno via, senza farci caso. Viene un cameriere a chiamarla: i figliuoli sono giù, arrivati or ora ; la aspettano in sala da pranzo. E la veccliia signora scende col cameriere.

Ora nel corridojo non c'è piìi nessuno ; tutte le stanze sono vuote: il pajo di scarpe rejsta in attesa, nella solitudine, nei silenzio, dietro quell'uscio sempre chiuso.

Pajono in castigo.

Fatte per camminaixi, hisciate di- sutili, così logore dopo aver tanto ser- vito, pare che si vergognino e chiedano pietosamente d'esser tolte di o riti- rate alla fine.

14 ffELL'ALRERGO È MOETO UN TAI.I5

Al ritorno dal pranzo, dopo circa un'o- ra, tutti i forestieri si fermano finalmen- te, per l'indicazione piena di stupore e di paura della vecchia signora, a osser- varle con curiosità inquieta. Si fa il no- me delVamericano, arrivato jersera. Chi l'ha veduto? È sbarcato dal piroscafo di Genova. Forse la notte scorsa non ha dormito.... Forse ha sofferto per mare.... Viene dall'America.... Se ha sofferto per mare, traversando l'Oceano, chi sa quan- te notti avrà passato insonni.... Vorrà rifarsi, dormendo un giorno intero. Pos- sibile? In mezzo a tanto frastuono.... È già il tocco....

E la ressa cresce attorno a quel pajo di scarpe innanzi all'uscio chiusio. Ma tutti, istintivamente, se ne tengono di- scosti, in semicerchio. Un cameriere cor- re a chiamare il maggiordomo ; questi manda a chiamare il proprietario, e tut- ti e due, prima l'uno, poi l'altro pic- chiano all'uscio. Nessuno risponde. Si provano ad aprir l'uscio. È chiuso di dentro. Picchiano più forte, più forte. Silenzio ancora. Non c'è più dubbio. Bi- sogna correr subito ad avvertire la que- stura: per fortuna, c'è un ufficio qua a due passi. Viene un delegato, con due guardie, e un fabbro: l'uscio è forzato;

NKrx' ALBERGO È MORTO tTN TALE 15

le guardie impediscono l'entrata ai curio- si, che fanno impeto ; entrano il delegato e il proprietario dell'albergo.

L'uomo che ha passato l'Oceano è mor- to, m un letto d'albergo, la prima notte che ha toccato terra. È morto dormendo, con una mano sotto la guancia, come un bambino. Forse di sincope.

Tanti vivi, tutti questi che la vita sen- za requie aduna qui per un giorno, mossi dalle più opposte vicende, sospinti dai pili diversi bisogni, fanno ressa innanzi a una celletta d'alveare, ove una vita d'improvviso s'è arrestata. La nuova s'è sparsa in tutto l'albergo. Accorrono di su, di giìi; vogliono vedere, vogliono sa- pere, chi è morto, com'è morto....

Non si entra!

C'è dentro il pretore e un medico ne- croscopo. Dalla fessura dell'uscio, allo spigolo ecco, ecco s'intravede il cadavere sul letto ecco la faccia.... uh, come bianca; con una mano sotto la guancia, pare che dorma.... come un bambino.... Chi è? come si chiama? Non si sa nulla. Si sa soltanto che torna dal- l'America, da New .York. Dov'era diret- to? Da chi era aspettato? Non si sa nulla. Nessuna indicazione è venuta fuori dalle carte, che gli si sono trovate nelle ta-

16 nell'albeego è morto tjn tale

scile e nella valigia. Intraprenditore ma di che? Nel portafogli, solo sessanta- ciiique lii'e, e poche monete spicciole in una borsetta nel taschino del panciotto. Una delle guardie viene a posare sulla lastra di bardiglio del cassettone quelle povere scarpe scalcagnate che non cam- mineranno pili.

A poco a poco, per liberarsi dalla cal- ca, tutti cominciano a sfollare, rientrano nelle loro stanze, su al terzo piano, giù al primo ; altri se ne vanno per i loro affali, ripresi dalle loro brighe.

Solo la vecchia signora, che voleva sa- pere se per mare non si soffre, rimane lì, imiaiizi all'uscio, non ostante la vio- lenza che le fanno i due figliuoli ; rima- ne lì a piangere atterrita per quell'uo- mo che è morto dopo aver passato rOceanb, che anch'eìla or ora dovrà pas- sai'e.

Giù, tra le bestemmie e le imprecazioni dei vetturini e dei facchini che cntrauo ed escono di continuo, hanno chiuso in segno di lutto il portone dell'albergo, la- sciando aperto soltanto lo sportello.

Chiuso? Perchè chiuso?

Mah! Niente. Nell'albergo è morto un tale....

Romolo.

Pirandello, e cloniciin, Umcdì....

Nelle società così dette civili, o dette anche storiche, la leggenda si sa non può piìi nascere; potrebbe e spesso ancor nasce umile e striscia timida tra il popolino: lumachella che ha gli occhi nelle corna-e subito li ritira tra il bolli- chlo della vana bava appena col dito rigido e sporco d'inchiostro un professo- re di storia glieli tocchi. E crede il pro- fessore di storia che in quel suo dito ri- gido e sporco d'inchiostro sia la santa verità, e che sia un bene far ritirare le corna alla lumachella : disgraziato ! E più disgraziati i posteri che avranno minuto per minuto documentati i fatti degli avi e dei padri, che forse, abbandonati alla memoria e all'immaginazione, a poco a poco come ogni cosa lontana s'inazzur- rerebbero di qualche poesia.

Niente pivi poesia.

20 ROMOLO

Senza il fratello Remo, senza lupa, sen- za volo d'avvolto j, ecco qua Romolo come ce lo fanno conoscere gli storici, come l'ho conosciuto io, jeri, vivo.

Romolo: un fondatore di città.

E dire che, a guardarlo bene negli occhi di lupo, peccato! poteva cre- dere benissimo che davvero una lupa lo avesse allattato, bambino, circa novan- t'anni fa; e che il suo Remo di fronte, rivale, quantunque non fratello, lo ave- va avuto davvero e non l'aveva ucciso, solo perchè Remo aveva lui pensato bene di morire prima, a tempo, da se.

Basta. Non andate ora a cercare nelle carte geografiche la città fondata da que- sto Romolo. Non ce la trovereste. Ce la troveranno i posteri di sicuro però, di qui a tre o quattrocent'anni, .e anche segnata vi so dire con un cerchietto bel- lo grosso, di città forse capoluogo di provincia,, col suo bravo nome accanto: Riparo^ che ciascuno dentro ci potrà im- maginare le belle cose che ci saranno, vie, piazze, palazzi, chiese, monumenti,

TOMOLO 21

col signor prefetto e la signora prefet- tessa, se dureranno ancora questi sag- gi ordinamenti sociali e se un terremoto prima (con l'ajuto di Dio che castiga le ambizioni degli uomini) non l'avrà fatta crollare dalle fondamenta; ma spe- riamo di no.

Per ora non è niente. Cioè, non tanto niente: più che un casale; di già una bella borgata con presto due chiesine.

Una, questa qua. Piccolo fondaco pri- ma, per consiglio di Romolo adattato a chiesina; un solo altarino dentro, roz- zerello, di legno vecchio ingrassato al tanfo caldo del letame, una stampa del sacro cuore di Gesù attaccata al muro coi chiodini; alla meglio, si sa, ma che importa? Gesù ce la respira davvero, qui dentro, la sua natività.

Da miglia e miglia lontano, ogni do- menica, ci viene con la mula un prete a dir messa, tutto sudato e impolverato, d'estate; intabarrato fino agli occhi e con l'ombrellone di seta verde, d'inverno, come nelle oleografie; e la mula legata per la cavezza airanello accanto alla por- ta, sbruffando e scalciando per le mo- sche culaje (che qui per terra ecco il segno delle scalciature) aspetta, e, povera bestia alla fine, non lo sa che è ufiìcio

ROMOLO

divino e una gran seccatura le pare e mill'anni che finisca.

L'altra, la nuova, sarà presto termi- nata e sarà una vera galanteria, col cam- panile e tutto, tre altarini e il pulpito e la sagrestia; tutto insomma; chiesa per davvero, levata di pianta per chiesa, ooii un tanto a testa di tutti i borghigiani.

Ora, quando qui sarà città, nessuno dei tanti figli di essa saprà di questo Romolo primo loro padre; come, perchè sia nata la città; perchè qui e non al- trove. Ebbene lo dirò io che questo Ro- molo ho conosciuto, jeri, vecchio di no- vant'anni, enorme, con una faccia che dev'essere quella stessa della terra m'im- magino , vista dall' alto d'un pallone , quando le montagne cominciano a pa- rere ciò che sono veramente, grinze del- la crosta.

Su la terra, in un luogo, non si riesce più a vedere questa terra e questo luogo com'erano prima che la città vi fosse. Cancellare la vita è diffìcile, quando la vita in un luogo s'è espressa e imposta con tanto ingombro di pesanti aspetti, case, vie, piazze, chiese.

ROMOLO 23

C'era il deserto, un beato deserto, qua. Uomini che come Un nastro svolgevano la vita da lontano lontano, passai'ono allungando il nastro per questo deser- to : uno stradone. E cai'ri cominciarono a poco a poco a passare, nella solitudine, per questo stradone, e qualche uomo a cavallo, armato, che volgeva attorno gli occhi guai'dinghi, dallo sgomento che si scoprisse ora, per la prima volta a lui solo, la vista di tanta solitudine così lon- tana e ignota a tutti. Silenzio intorno e aperto, sotto la vastità cupa del cielo.

Quando, di qui a qu altro cent' anni , campanelli di tram elettrici, trombe d'au- tomobili squilleranno, streperanno tra la confusione delle vie affollate, illuminate da lampade ad aixo, con luccichii e sbar- bagli di vetri, di specchi negli sporti, nelle vetrine delle ricche botteghe, chi penserà a una lampada sola, in cielOy la Luna, che nel silenzio e nella solitu- dine, guardava dall'alto il nastro bian- co dello stradone in mezzo al deserto sterminato, e ai grilli e alle raganelle che qui scampanellavano soli? chi penserà tra le chiacchiere vane nel caffè alle ci- cale che qui arrabbiate tra le stoppie segate segavano la vasta e ferma afa abbagliata delle eterne gi^ornate estive?

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Carri, uomini a cavallo, qualcuno raro a piedi, passavan.o e tutti sentivano di quella s,olitudine uno sgomento attonito, angoscioso, che a mano a mano diveniva oppressione intollerabile. Che era per essi quello stradone? Lunghezza di cam- mino ; via da fare. Chi poteva pensare di fermaixisi?

Un uomo questo vecchio qua. Allora sui trent'annì, andando un giorno d'e- state appresso ai pensieri che lo trae- vano fuori del consorzio degli altri uo- mini a cercare nella solitudine la sua ventura, ebbe il coraggio di fermarsi, di fermare qua, a mezz^o dello stradone, l'ombra del suo corpo. E forse qua fu per lui termine di stanchezza. Sentì forse che qua tanti come lui, passando, ave- vano, avrebbero sentito il bisogno d'un poco di riposo, d'un poco di conforto e di ajuto. E disse qua.

Si guardò attorno a spiare, a osser- vare ciò che prima aveva soltanto guar- dato con l'occhio distratto di chi passa e non pensa di fermarsi ; guardò col sen-

so della sua presenza, non per un solo momento qua, ma stabile; e si provò a respirare l'aria allora deserta, a vedere intorno le cose, come quelle che dove- vano essere la sua aria e la sua vista di lutti i giorni, qua con lui, per lui. E col coraggio che gli sorgeva dentro per stendersi e imporsi attorno in dominio, comparò la tristezza infinita di fuori, la tristezza di quella solitudine muta e nuda, se il suo coraggio avrebbe saputo resisterle e durarvi, quando non ora d'inverno, col cielo aggrondato, col freddo, nell'eterne giornate di pioggia, essa si sarebbe fatta più squallida e pau- rosa.

Parla per apologhi il vecchio ; e narra che, da piccolo, una sorellina aveva, ma- latuccia e disappetente, che faceva tanto penar la madre per contentarla.

Ora un giorno, mentr'egli giocava per istrada coi compagni a un giuoco furio- so, la madre lo chiamò, che se ne stava seduta allo scalino innanzi alla porta; lo chiamò e gli disse che piano, con un sorsetto càuto, si sorbisse da un uovo, ch'ella teneva in mano, la chiara soltanto.

26

non ben cotta, la chiara soltanto, di cui la sorellina nialatuccia e disappetente aveva schifo.

Ebbene, con quel sorsetto che avrebbe dovuto scoronar l'uovo appena appena, egli, nella furia del giuoco interrotto, senza volerlo, senza farlo apposta, s'era tirato dentro tutto l'uovo, chiara e tor- lo, tutto quanto, lasciando con tanto d'occhi sbarrati per la sorpresa e il gu- scio in mano, vuoto, la madre e la so- rellina.

Lo stesso ora qua, per lo stradone.

Quando disse «qua», non aveva certo in mente questa borgata d'oggi, la città di domani. Pensava d'esser solo qua, per tutti quelli che passavano ; lui solo a of- frire ajuto e ad averne. Ma dentro quel suo primo respiro, tratto qua in mezzo allo stradone, credeva ci fosse soltanto per sé, per il suo asino, per la sua fucina di carradore e di maniscalco aria per un solo tetto di paglia che, se l'impresa gli andava bene, avrebbe poi cangiato in una casetta di pietra ; e invece no, ecco, c'era dentro l'aria per tutta questa borgata d'oggi, per la città di domani, in quel

EOMOLO 27

SUO primo respiro. E tanto era stato il suo coraggio nel levare qua quel primo tetto di paglia, che altri per forza dove- vano sentirsene attirati.

Quando però una necessità non pen- sata si para davanti a una illusione, que- sta necessità ci sembra un tradimento.

Ecco qua: dopo che lui, sfidando gli orrori della solitudine, per mesi e mesi solo, era riuscito a far fermare innanzi a quel suo tetto di paglia i carri che pas- savano, e poi, levata a poco a poco la casetta di pietra e fatta venir la moglie coi figliuoli, era riuscito a far sedere sotto la pergola i carrettieri a bere il vino, di cui una bottiglina di saggio pen- deva appesa con una frasca d'insegna alla porta, e a mangiare in rozze sco- delle campestri i cibi cucinati dalla mo- glie, mentr'egli attendeva a riparare una ruota o una molla a qualche carro o a ferrar la mula o il cavallo ; un altro era venuto su lo stradone, un po' più in giìi, a levare contro alla sua casa un'al- tra casa.

Perchè un paese (ora il vecchio lo sa bene e lo può dire per esperienza) un paese nasce così.

Non è mica vero che gli uomini si mettono insieme per darsi conforto e aju-

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to a vicenda. Insieme si mettono per farsi la guerra. Quando una casa sorge in un punto, l'altra casa non le si melic mica accanto come una compagna o una buona sorella; di fronte le si mette, come una nemica, a toglierle la vista e il re- spiro.

Egli non aveva il diritto d'impedu'e che un'altra casa sorgesse qua. La terra su cui sorgeva, non era sua. Ma questa ter- ra prima era un deserto. Che Aita ave- va? La vita gliel'aveva data lui. E l'u- surpazione e la frode che quell'altro era venuto a commettere, non era della ter- ra, ma della vita che egli a questa terra aveva dato.

Qua non è tuo ! poteva soltanto dirgli quell'altro.

Sì. Ma che era qua prima per te? poteva gridargli lui. E ci saresti tu venuto, se prima non ci fossi venuto io? Qua non c'era nulla; e tu vieni ades- so a rubarmi quello che ci ho messo io!

Troppo, però, veramente doveva ri- conoscerlo — troppo ci aveva messo per uno solo.

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Tutti i carri che passavano, spesso in. lunga fila, si fermavano, ora, per lui, qua; e cento braccia avrebbe dovuto avere per attendere a tutti. La moglie non si reggeva più in piedi dalla fatica ; e anch'egli, quelle due braccia sole che Dio gli aveva date, non se le sentiva più, la sera, dalla stanchezza. C'era dunque posto e lavoro non solo per un altro, ma anche forse per tre o quattro altri.

Il vecchio ora dice che l'avrebbe pre- ferito. Sì, avrebbe preferito che insieme tre o quattix> altri fossero venuti, e non quell'uno solo. Tre o quattro sarebbero stati compagni, e si sarebbero diviso il lavoro ; e sua moglie forse, allora, non sarebbe morta di fatica. Ma quell'uno fu per forza suo nemico, un nemico da escludere, da respingere, quanto più gli fosse possibile, anche col coltello in pu- gno, dalla vita che egli aveva fatto na- scere qua su lo stradone, e ch'era sua. Di fronte a tre o quattro insieme, egli avreb- be calato le braccia e cercato e stabilito con essi un accordo ; e certo sai'ebbe stato da essi riconosciuto e rispettato co- me il primo e come il capo. Da quell'uno dovette invece accanitamente difendersi la vita, da non lasciargliene prendere nul- la o quel poco soltanto che alle sue brac-

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eia non riusciva più di contenere. Ma l'ef- fetto fu questo : che gli morì la moglie dalla troppa fatica.

Dio ! dice il vecchio, adesso, al- zando una mano con l'indice teso.

E lascia nell'ombra i casi e gli eventi passati, di cui riconosce in Dio la cau- sa, e dunque l'obbligo per gli uomini d'accettarli con obbedienza e rassegna- zione, per quanto dolorosi e crudeli pos- sano parere. I casi passano e vanità è ricordarli di fronte a questa certezza: che la giustizia di Dio trionfa sempre.

Romolo non può parlare altrimenti. Deve riconoscere, Romolo, che fu giusti- zia di Dio la morte delia moglie: che Dio, cioè, con questa morte lo volle pu- nire del suo voler troppo. Perchè alla fine il trionfo della giustizia divina Ro- molo deve additarlo in lui, che morto Remo ne sposò in seconde nozze la moglie. E perchè morì Remo? Ma anche lui per punizione di Dio, per una gran paura, che Dio gli mise addosso; morì perchè comprese che l'uomo, a cui egli era venuto a mettersi contro, ora, stron- cato dalla morte della moglie, avrebbe certo rovesciato su lui il furore della sua disperazione.

Poteva Dio permettere che una sua

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punizione diventasse soverchia e dun- que ingiusta, lasciando che quell'altro profittasse di quanto ora a lui, con la morte della moglie, era venuto a man- care? La punizione, ch'era dolore per lui, doveva essere paura per quell'altro; e tanto fu, che ne morì. Romolo non dice altro.

Soggiunge però, che allora, nelle due case di contro, popolate tutt'e due di figliuoli, a cui finora non era stato mai concesso d'accostarsi gli uni agli altri per mettere insieme i loro giuochi ; nelle due case di contro restarono, qua un uo- mo senza donna, una donna senza uomo. E l'uno vestito di nero vide l'altra vestita di nero ; e nel cuore dell'uno e dell'altra ecco che Dio allora fece sboc- ciare la carità, un recìproco bisogno d'a- juto e di conforto.

E la prima guerra finì.

Romolo tentenna il capo e sorride.

Vede in mente come dopo le prime due nacquero le altre case di questa borgata, quando i figliuoli da una parte e dall'altra crebbero, e alcuni fecero noz-

HOMOLO

zo tra loro e altri portarono da lontano chi la moglie, chi il marito.

Ah, una di qua, una di là, quelle case! Non propriamente nemiche. No. Scontro- se, ecco. Le spalle propriamente no, non se le voltavano ; ma l'una si voltava un po' di fianco e l'altra un po' di traverso, come se tra loro non volessero vedersi in faccia e se ne stessero di qua e di imbronciate e ciascuna per suo conto. Finché, con l'andare degli anni, tra que- sta e quella una terza non sorse in mez- zo, come paciera, a riunirle.

Per questo, dice Romolo, lo strade antiche dei piccoli paesi sono tutte storte, che ogni casa vi scantona.

Per questo, sì. Ma poi viene, o Ro- molo, la civiltà coi piani regolatori, che obbligano le case a stare in riga.

La guerra allineata, tu dici. Sì; ma civiltà vuol dire appunto il

riconoscimento di questo fatto: che l'uo- mo, tra tanti altri istinti, che lo portano a farsi guerra, ha anche quello che si chiama istinto gregario, per cui non vive se non coi suoi simili.

E or dunque vedi da questo, tu concludi, se l'uomo può mai esser fe- lice !

La mano del malato povero.

PiKANDELio. E domani, hinfdl...i

Una volta sola? Ma ci sai*ò stato al- meno tre volte! Tre? Cinque.... non so. Perchè vi fa tanta impressione l'ospe- dale?

Non ho casa.... Non ho nessuno....

E poi, scusate, spender danaro (ad averne) per un piacere lasciamo che io non lo farei mai, perchè i piaceri miei non li compro a denai'i ma via, posso capirlo. Non capisco dopo il malanno, dopo le sofferenze d'una malallia, per giunta pagar le medicine, il medico.... Io, del resto, non ne ho mai avuti per pren- dermi i così detti piaceri della vita, come li intendono gli altri : dunque, diritto d'a- ver gratis la cura dei malanni che mi dà.

Parecchi, credo ; anzi, senza dubbio. Sono la tessera d'entrata : senza, non m'a- vrebbero ricevuto. E devo anche averli buoni, a quanto sembra: intendo, non passeggeri: qua.... non so, al cuore; al fe- gato, ai reni, non so. Dicono che ho gua-

36 LA MANO DEL MALATO rOVKRO

sto tutto r organismo. Sarà vero; ma non me n'importa, perchè dopo tutto, se mai dico, se questo fosse vero non sarebbe un gran guajb. Il vero guajo è un altro.

Quale?

Ah, voi, cari amici, volete saper troppo ! Al contrario di me che non voglio mai saper niente. Se debbo dirvelo io, qua,l è il vero guajo, è segno che non lo sen- tite: sarà per me; non è per voi. E dunque?

Io, guardate, ai medici che m'hanno avuto in cura non ho mai chiesto di che male fosse afflitto questo mio corpo, questo povero asino stanco che mi por- ta. So che l'ho fatto trottar troppo, e per certe vie che non sarebbe mai venuto in mente a nessuno di prendere. Basta. Solo m'ha seccato d'esser tenuto dai me- dici, per questo, in conto di malato in- telligente. La noncuranza da parte mia di sapere di che male fossi afflitto, è stata presa dai medici per fiducia nella loro scienza, capite? M'han veduto sem- pre obbediente cacciar fuori la lingua a ogni loro richiesta ; gridai'e : trentatrè- trentatrè quattro, cinque, dieci volte, sopportando pazientemente il ribrezzo d'una loro orecchia fredda applicata alle

I^ MANO DEIi MAT-ATO POVERO 37

mie terga ; abbandonare le membra, come se non fossero mie, ai palpeggiamenti troppo confidenziali delle loro mani ben lavate, sì, ma Dio mio adibite allo schi- foso servizio pubblico di tutte le piaghe umane ; e sopportare i picchi sodi delle loro dita a martello, le punture delle loro siringhette, e ingollarmi tutte le loro porcherie liquide o in pillole, senza mai gemere per nausea o per fastidio : Oh Dio, dottare, cos'è? È amaro, dot- tare? — e dunque, chi piìi intelligente di me? Un malato che nutra una così cieca abbandonata fiducia nella scienza me- dica, dev'essere per forza, a loro giudi- zio, intelligentissimo.

Lasciamo questo discorso. Mi fa tan- to piacere vedervi ridere. Che dite? No, dico, buon prò' vi faccia.

Ecco, sarà.... sarà perchè io propria- mente non ho mai capito che gusto ci sia a rivolgere domande agli altri per sa- pere le cose come sono. Ve le dicono come le sanno loro, come pajono a loro. Voi ve ne contentate? Ma grazie tante! Io voglio saperle per me, e voglio che

LA MANO DEL MALATO POVERO

entrino in me come a me pajono. Che forse per sé, fuori di noi, le cose han- no un lor modo d'essere, un senso, un valore? Il modo è mio, il senso è in me, il valore è quello ch'io loro. E perchè debbo accettare il vostro? Scu- sate. Non saprò mai nulla per me, do- mandando a voi; perchè voi non potete mai sapere se non ciò che pare a voi. E che gusto avrò io a saper le cose a modo vostro? Scusate.

Ecco, dunque, il vero, male, dunque, amici miei, è questo, che ormai tutte le cose ci stanno sopra, sotto, intorno, col modo d'essere, il senso, il valore che da secoli e secoli gli uomini hanno dato ad esse. Così e così il cielo, così e così le stelle ; e il mare e i monti così e così, e la campagna, la città, le strade, >.le case.... Dio mio, che ne volete più? Ci opprmiono ormai per forza col fastidio infinito di questa immutabile realtà con- venuta e convenzionale, da tutti subita passivamente. Le fracasserei. Vi dico che sedere su una seggiola è divenuto per me un supplizio intollerabile. Per alleviarlo vm poco, bisognerebbe per lo meno permettete? che la mettessi così, ecco, pei: lungo, e mi ci mettessi a cavallo. Tanto per dire! jMa quanti si sforzano

liA MANO DEIi MALATO FOVEliO 39

di rompere la crosta di questa comune rappresentazione delle cose? di sottrar- si all'orribile noja dei consueti aspetti? di spogliare le cose delle vecchie appa- renze che ormai per abitudine, per pi- grizia di spirito, ponderosamente si sono imposte a tutti? Eppure è raro che al- meno una volta, in un momento felice, non sia avvenuto a ciascuno di vedere all'improvviso il mondo, la vita, con oc- chi nuovi ; d'intravedere in una sùbita luce un senso nuovo delie cose; d'in- tuire in un lampo che relazioni insolite, nuove, impensate, si possono forse sta- bilire con esse, sicché la vita acquisti agli occhi, nostri vividi, rinfrescati, un valore meraviglioso, diverso, mutevole. Ahimè, si ricasca subito nell'uniformità degli aspetti consueti, nell'abitudine del- ie consuete relazioni; si riaccetta il con- sunto valore dell'esistenza quotidiana: il cielo col solito azzurro vi guarda poi la sera con le solite stelle; il mare v'ad- dormenta col solito brontolìo ; le case vi sbadigliano di qua e di con le fine- stre delle solite facciate, e col solito la- stricato vi s'allungano sotto i piedi le vie. E io passo per pazzo perchè voglio vi- vere là, in quello che per voi è stato un momento, uno sbarbàglio, un fresco bre-

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LA MANO DEL MALATO POVERO

^ve stupore di sogno vivo, luminoso ; là, fuori d'ogni traccia solita, d'ogni con- »suetudine, libero di tutte le vecchie ap- parenze, col respiro sempre nuovo e lar- go tra cose sempre nuove e vive.

iMi s'è guastato il cuore; mi si sono logorati i polmoni: che me n'importa? Sarò pazzo, ma io vivo. Non ho casa, non ho stato. Vado all'ospedale? Vi pre- go di credere che non ci sono mai an- dato da me, coi miei piedi: mi ci hanno sempre trasportato gli altri, in barella, privo di sensi. Mi ci sono ritrovato e mi son subito detto:

Ah, eccoci qua ! Ora bisogna cac- ciar fuori la lingua....

E subito, volenteroso e obbediente, in- vece di lamentarmi, l'ho cacciata fuori a ogni richiesta per uscirmene presto.

Che effetto curioso fa la faccia del- l'uomo — medico o infeniiiere guar- data da sotto in su, stando a giacere su un letto, che ve la vedete sopra coi due buchi del naso che vengono fuori e l'ar- co della bocca, che va in su, di qua e di là, dalla pallottola del mento. E quan- do questa bocca vi parla, e vedete sotto- sopra la chiostra dei denti, la puntina in mezzo del labbro superiore e il prin- cipio del palato!

LA MANO DEL MALATO POVERO

4L

Anche senza sentire quello che la boc- ca vi dice, v'assicuro che si perde il rispetto dell'umanità.

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Ma io vi ho promesso di parlarvi della mano d'un malato povero.

La premessa è stata lunga, ma forse non del tutto oziosa; perchè voi almeno così, adesso, non mi domanderete nulla di quello che vi premerebbe piìi di sa- pere per commuovervi al modo solilo, cioè le notizie di fatto:

a) chi fosse quel malato ,

b) perchè fosse lì;

e) che male avesse....

Niente, cari miei, di tutto questo. Io non so nulla di nulla; non mi sono cu- rato di saper nulla, come forse avrei potuto domandandone notizie agl'infer- mieri. Io ho visto solamente la sua ma- no e non posso parlarvi d'altro.

Ve ne contentate? E allora, eccomi qua.

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Fu nell'ospedale in cui sono stato l'ul- tima volta. Ma non fate codesta faccia afflitta, da imbecilli, perchè non vi nar-

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40 LA ÌIASO DEL MALATO POVERO

ve stupore di sogno vivo, luminoso ; là, fuori d'ogni traccia solita, d'ogni con- suetudine, libero di tutte le vecchie ap- parenze, col respiix) sempre nuovo e lar- go tra cose sempre nuove e vive.

!Mi s'è guastato il cuore; mi si sono logorati i polmoni: che me n'importa? Sarò pazzo, ma io vivo. Non ho casa, non ho stato. Vado all'ospedale? Vi pre- go di credere che non ci sono mai an- dato da me, coi miei piedi: mi ci hanno sempre trasportato gli altri, in barella, privo di sensi. Mi ci sono ritrovato e mi son subito detto:

Ah, eccoci qua! Ora bisogna cac- ciar fuori la lingua....

E subito, volenteroso e obbediente, in- vece di lamentarmi, l'ho cacciata fuori a ogni richiesta per uscirmene presto.

Che effetto curioso fa la faccia del- l'uomo — medico o infermiere guar- data da sotto in su^ stando a giacere su un letto, che ve la vedete sopra coi due buchi del naso che vengono fuori e l'ar- co della bocca, che va in su, di qua e di là, dalla pallottola del mento. E quan- do questa bocca vi parla, e vedete sotto- sopra la chiostra dei denti, la puntina in mezzo del labbro superiore e il prin- cipio del palato!

LA MANO DEL MALATO POVERO 4L

Anche senza sentire quello che la boc- ca vi dice, v'assicuro che si perde il rispetto dell'umanità.

Ma io vi ho promesso di parlarvi della mano d'un malato povero.

La premessa è stata lunga, ma forse non del tutto oziosa; perchè voi almeno così, adesso, non mi domanderete nulla di quello che vi premerebbe più di sa- pere per commuovervi al modo solito, cioè le notizie di fatto:

a) chi fosse quel malato ;

b) perchè fosse lì;

e) che male avesse....

Niente, cari miei, di tutto questo. Io non so nulla di nulla; non mi sono cu- rato di saper nulla, come forse avrei potuto domandandone notizie agl'infer- mieri. Io ho visto solamente la sua ma- no e non posso parlarvi d'altro.

Ve ne contentate? E allora, eccomi qua.

Fu nell'ospedale in cui sono stato l'ul- tima volta. 'Ma non fate codesta faccia afflitta, da imbecilli, perchè non vi nar-

42 LA MAKO DEL MAIATO l'OVESO

ro una storia triste. Tra me e l'ospedale benché iion possa soffrire i medici e la loro scienza ho saputo sempre sta- bilire dolci le delicatissime relazioni.

Figuratevi che quest'ospedale di cui vi parlo, aveva la squisita attenzione verso i suoi ricoverati d'impedire che l'uno ve- desse la faccia dell'altro, mediante un paraventino a una sola banda, o piut- tosto, un telaio a cui con puntine si fissava ai quattro angoli una tendina di mussolo, cambiata ogni settimana, lava- ta, stirata e sempre candida. Certi gior- ni, tra tutto quel bianco, pareva di stare in una nuvola, e, con la benefica illusio- ne della febbre, di veleggiare nell'azzur- ro ch'entrava dalle veti'ate dei finesti'oni.

Ogni lettino, nella lunga corsia lumi- nosa, aerata, aveva accanto, a destra, il riparo d'un di quei telaj, che non arriva- va oltre l'altezza del guanciale. Sicché io del malato che mi stava a sinistra ve- ramente non potevo veder alti'o che la mano, quand'egli tirava il braccio fuori dalle coperte e l'abbandonava sul letti- no. Mi misi a contemplare con curiosità amorosa questa mano, e da essa a poco a poco mi feci narrai'e la favola che vi dirò.

Me la uaiTÒ coi cenni s'intende -

LA MANO DEL MALATO POVERO 43

forse iiiooscienti, che di tanto in tanto faceva; con gii atteggiamenti in cui s'ab- bandonava, macra, ingiallita, su la bian- ca coperta, ora sul dorso, con la palma in su e le dita un po' aperte e appena contratte, in atto di totale remissione alla sorte che riuchiodava come a una croce su quel letto ; ora serrando il pugno, o per un fitto spasimo improvviso o per un moto d'ira e d'impazienza, a cui succe- deva sempre un rilassamento mortale stanchezza.

Compresi ch'era la mano d'un malato povero, perchè , quantunque accurata- mente lavata come Tigiene negli ospedali prescrive, serbava tuttavia nella gialla magrezza un che di sudicio, indetersi- bile; che non è sudicio propriamente nella mano dei ijover'i, ma quasi la pà- tina della miseria che nessun'acqua mai porterà via. Si scorgeva questa patina nelle nocche aguzze e un po' scabre del- le dita; nelle pieghe interne cartilagino- se delle falangi, che facevano pensare al collo della tartaruga ; nelle grinze della palma che sono, come si dice, il suggello della morte nella mano dell'uomo.

E allora mi diedi a immaginare a che mestiere fosse addetta quella mano.

Non certo a un rude mestiere, perchè

44 LA ilAKO DEL MALATO POVEKO

era gracile e fina, quasi femminea, per nulla deformata o attrappita, se non for- se un po' nell'indice che appariva so- verchiamente tenace nell'ultima falange, e nel pollice un po' troppo ripiegato in dentro e dal nodo alla giuntura ecces- sivamente sviluppato.

Notai che spesso questo pollice s'as- soggettava da sé, come per abitudine, alla pressura della punta dell'indice, qua- si che il malato inconsciamente con quel- la pressura si richiamasse a una realtà lontana e la toccasse lì, su quel pollice così premuto ; la realtà della sua esisten- za, da sano. Forse una bottega impre- gnata dal tanfo particolare delle stoffe nuove, disposte in pezze, con ordine, le une su le altre negli scaffali e su panche e nelle vetrine; un banco di vendita; una tavola da tagliatore con su distesa una stoffa segnata e un pajo di grosse cesoje sopra; un gattone bigio, sotto quella tavola; i lavoratori seduti in fila di qua e di là, intenti a imbastire, a pas- sare a macchina, e lui tra questi. Non gli piaceva, forse, questa realtà; forse egli non era tutto in quel suo mestiere; ma il suo mestiere era pur in quelle due dita, in quel pollice che da ormai dopo tant'anni, per abitudine, s'assogget-

LA MANO DEL JIALATO POVERO 45

tava alla pressura dell'indice. E qua, adesso, per lui era una più triste real- tà; il vuoto e l'ozio doloroso di quella corsia d'ospedale, la malattia, l'attesa stanca e piena d'angoscia, chi sa, forse della morte.

Sì: senza dubbio, quella era la mano d'un sarto.

Da un altro cenno di essa compresi poi che quel sarto povero doveva esser padre da poco, doveva avere un bam- bino.

Levava di tanto in tanto sotto le co- perte un ginocchio. La mano, dapprima inerte, si alzava con le dita tremolanti e quasi vagava su quel ginocchio leva- to, in una carezza intorno, che non er^ certo rivolta al ginocchio.

A chi poteva esser rivolta quella ca- rezza?

Forse gli arrivava lì, al ginocchio, la testa del suo bambino, e quella sua mano soleva carezzare i capeliucci fre- schi e morbidi come la seta, di quella, testolina.

Certo, gli occhi del malato, mentre la mano illusa, vagellante, accennava sul gi- nocchio la carezza, stavano chiusi, ve- devano sotto le pàlpebre la testolina, e le pàlpebre si gonfiavano di lagrime cai-

46 LA MANO DEL IIALATO POVERO

de, che traboccavano alla fine sul volto ch'io non vedevo. Ecco, di fatti, la mano interrompeva la vaga carezza, spariva dietro il telajo, dopo aver sollevato la rimboccatura del lenzuolo. E, poco dopo, quella rimboccatura era rimessa in se- sto e bagnata, ecco, in un punto, dalle lagrime.

Dunque, aspettate: sarto e padre d'un bambino. Ora vedrete che la storia si complica un poco. Ma niente: son sem- pre i cenni e gli atteggiamenti di quella mano.

Una mattina, io mi riscossi tardi da uno dei letarghi profondi, di piombo, che sogliono seguire ai più forti accessi di quel male, che è forse il piìi grave tra i tanti di cui soffro.

Aprendo gli occhi, vidi attorno al letto del mio vicino molta gente, uomini, don- ne, forse parenti. In prima pensai che fosse morto. No. Nessuno piangeva, nes- suno si lamentava. Parlavano anzi col malato e tra loro festosamente, quantun- que a bassa voce per non disturbare gli altri malati.

t.K MANO BEL MALAT q POVT.RO 47

Non era giorno di visita. Come e per- chè, dunque, era stala ammessa tutta quella gente fino al letto del malato?

Non udivo, volevo udire le loro pa- role. Anche la loro vista m'era grave agli occhi, nello stordimento lasciatomi dal lungo letargo. Socchiusi le pàlpebre.

Il corpo d'una vecchia grassa, che mi voltava le spalle, presso il paraventino, specialmente il suo.... sì, enorme, e la sua gonna rigonfia, tutta a fitte piego- linc e a quadretti rossi e neri, m'ingom- brava, mi pesava come un incubo intolle- rabile. Non mi pareva l'ora che tutti se n'andassero. Tra le pàlpebre socchiuse mi parve d'intravedere la figura alta d'un prete; non ci feci caso. Forse ri- caddi, anzi certamente ricaddi per lungo tempo nel letargo. I quadretti rossi e neri di quella gonna mi tesero come una rete, una grata di prigione con sbarre di fuoco e sbarre d'ombra, e quelle di fuo- co mi bruciavano gli occhi. Quando li riaprii, attorno al letto di quel malato non c'era più nessuno.

Cercai la sua mano.... Che? Attorno all'anulare, un anellino? Sì, un cerchiet- to d'oro: una fede. Ah, ecco, sposino.... Le nozze! Quella gente era venuta per farlo sposare.

48 LA MAXO DEL MALATO POVERO

Povera mano, tu, così gialla, così macra, con quel segno di catena.... D'a- more? No. Di morte.... Certo, su un letto d'ospedale, non si sposa che in previsio- ne della morte.

Dunque, il male era ingualcibile. Sì: me l'aveva detto chiaramente la mano, trop- po gialla, troppo macra, troppo incerta nel tatto, nei movimenti. Con che lenta^ tristezza, ora,, faceva girar col pollice quell'anellino troppo largo attorno al- l'anulare!

E certo gli occhi guardavano lontano, pur fissi in quel cerchietto d'oro così vicino; e la mente forse pensa,va:

Quest'anellino.... Che vuol dire? Sto per sciogliermi da tutto, e m'hai voluto, legare.... A chi mi lega^? per quanto? Oggi me l'han messo a,l dito ; domani forse verranno a^ levarmelo....

La mano s'alzò e si tese ferma davanti al volto. Più davvicino volle esser guar- data con quell'anellino d'un giorno, che avrebbe potuto dir tante cose e una sola ne diceva, triste, tanto triste....

Ma forse poi pensò che, sì, qualche cosa pure, sì, quell'anellino legava: .le- gava il suo nome alla vita del suo fi- gliuolo. Gli era nato prima delle nozze, quel figliuolo, e non aveva nome; ora

LA MANO DEL MALATO POVERO 49

l'avrebbe avuto. Gli levava dunque un rimorso quell'anellino.

Tornò col pollice ad accarezzarselo; poi la mano, stanca, ricadde sul letto.

La mattina dopo, non la vidi più: la indovinai appena da una piega del len- zuolo steso su tutto il letto a riparo da certe mosche che sentono la, morte da un miglio lontano.

PiBANDELLo. E domani^ lun(dì...i

La Signora Frola

e il vSignor Ponza, suo genero.

i

Ma insomima, Ve lo figurate? c'è da ammattire sul serio tutti quanti a non poter sapere chi tra i due sia il pazzo, se questa signora Frola o questo signor Ponza, suo genero. Cose che capitano soltanto a Valdana, città disgraziata, ca- lamita di tutti i forestieri eccentrici!

Pazza lei o pazzo lui ; non c^ è via di mezzo : uno dei due dev'esser pazzo per forza. Percliè si tratta niente meno che di questo.... Ma no, è meglio esporre prima con ordine.

Sono, vi giuro, seriamente costernato dell'angoscia in cui vivono da tre mesi gli abitanti di Valdana, e poco m'impor- ta della signora Frola e del signor Ponza, sub genero. Perchè, se è vero che una grave sciagiu'a è loro toccata, non è men vero che uno dei due, almeno, ha avuto la fortuna d'ùnpazzirne e l'altro l'ha aju- tato, seguita ad ajutarlo così, che non si riesce, ripeto, a sapere quale dei due

54 LA SIGNORA FROLA E IL 8TON0K PONZA, SUO ar.N"nìO

veramente sia pazzo ; e certo una conso- lazione meglio di questa non se la po- tevano dare. Ma dico di tenere così, sot- to quest'incubo un'intera cittadinanza, vi par poco? togliendole ogni sostegno ai giudizio, per modo che non possa più distinguere tra fantasnia e realtà. Un'an- goscia, un perpetuo sgomento. Ciascuno si vede davanti ogni giorno, quei due; li guarda in faccia; sa che uno dei due è pazzo ; studia, li squadra, li spia^ e, niente! non poter scoprire quale dei due; dove sia il fantasma, dove la real- tà. Naturalmente, nasce in ciascuno il sospetto pernicioso che tanto vale allora la realtà quanto il fantasma, e che ogni realtà può benissimo essere un fanta- sma e viceversa. Vi par poco? Nei panni del signor prefetto, io darei senz'alti'o, per la salute dell'anima degli abitanti di Valdana, lo sfratto alla signora Frola e al signor Ponza, suo genero.

Ma procediamo con ordine.

Questo signor Ponza arrivò a Valdana, or sono ti'e mesi, segi-etario di prefet- tura. Prese alloggio nel casone nuovo all'uscita del paese, quello che chiamano

LA SIGNOHA TEOLA E IL Sia NO E PONZA, SDO GENERO 65

«il Favo». Lì. All'ultimo piano, un quar- tierino. Tre finestre che danno su la campagna, alte, tristi (che la facciata di là, all'aria di tramontana, su tutti quegli orti pallidi, chi sa perchè, benché nuova, s'è tanto intristita) e tre finestre interne, di qua, sul cortile, ove gira la ringhiera del ballatojo diviso da tramezzi a grate. Pendono da quella ringhiera, lassù lassìi, tanti panierini pronti a esser calati col cordino, a un bisogno.

Nello stesso tempo, però, con maravi- glia di tutti, il signor Ponza fissò nel centro della città, e propriamente in Via dei Santi N. 15, un altro quartierino mo- bigliato di tre camere e cucina. Disse che doveva servire per la suocera, si- gnora Frola. E difatti questa arrivò cin- que o sei giorni dopo ; e il signor Ponza si recò ad accoglierla, lui solo, alla sta- zione e la condusse e la lasciò lì, sola.

Ora, via, si capisce che una figliuola, maritandosi, lasci la casa della madre per andare a convivere col marito, an- che in un'altra città; ma che questa ma- dre poij non reggendo a star lontanai dalla figliuola, lasci il suo paese, la sua casa, e la segua, e che nella città dove tanto la figliuola quanto lei sono fore- stiere vada ad abitare in una casa .a

56 LA SIGNORA FROLA E IL SIGNOR PONZA, SUO GENERO

parte, questo non si capisce più facil- mente; o si deve ammettere tra suocera te genero una così forte incompatibilità da rendere proprio impossibile la con- vivenza, anche in queste condizioni.

Naturalmente a Valdana dapprima si pensò così. E certo chi scapitò per que- sto nell'opinione di tutti fu il signor Pon- za. Della signora Frola, se qualcuno am- mise che forse doveva averci anche lei un po' di colpa, o per scarso compati- mento o per qualche caparbietà o intol- leranza, tutti considerarono l'amore ma- terno che la ti'aeva appresso alla figliuo- la, pur condannata a non poterle vì- vere accanto.

Gran parte ebbe in questa considera- zione per la signora Frola e nel icon- cetto che subito del signor Ponza s'im- presse nell'anim'o di tulli, che fosse cioè duro, anzi crudele, anche l'aspetto dei due, bisogna dirlo. Tozzo, senza collo, nero come un africano, con folti capelli ispidi su la fronte bassa, dense e aspre sopracciglia giunte, grossi mustacchi lu- cidi da questurino, e negli occhi cupi, fissi, quasi senza bianco, un'intensità vio- lenta, esasperata, a stentò contenuta, non si sa se di doglia tetra o di dispetto della vista altrui, il signor Ponza non è

LA SIGNORA FROLA E IL SIGNOR PONZA, SUO GENERO 67

fatto certamente per conciliarsi la sim- patia o la confidenza. Vecchina gracile, pallida, è invece la signbra Frola, dai lineamenti fini, nobilissimi, e un'aria malinconica, ma d'una malinconia senza peso, vaga e gentile, che non esclude l'affabilità don tutti.

Ora di questa affabilità, naturalissima in lei, la signora Frola ha dato subito prova in città^ e subito per essa nell'ani- mo di tutti è cresciuta l'avversione per il sign'or Ponza; giacché chiaramente è apparsa a ognuno l'indole di lei, non solo mite, remissiva, tollerante, ma an- che piena d'indulgente compatimento per il male che il genero le fa; e anche per- chè s'è venuto a sapere che non bastai al signor Ponza relegare in una casa a parte quella povera madre, ma spinge la crudeltà fino a vietarle anche la vi- sta della figliuola.

Se non che, non crudeltà, non crudel- tà, protesta subito nelle sue visite alle signore di Valdana la signora Frola, po- nendo le manine avanti, veramente af- flitta che si possa pensar questo di suo genero. E s'affretta a decantarne tutte le virtù, a dirne tutto il bene possibile e immaginabile: quale amore, quante cu- re^ quali attenzioni egli abbia per la fi-

68 LA SIGNORA FKOLA E IL SIONOK PONZA, SUO GENERO

gliuola, non solo, ma anche per lei, sì, sì, anche per lei; premuroso, disinteres- sato.... Ah, non crudele, no, per carità! C'è solo questo: che vuole tutta, tutta per la mogliettina, il signor Ponza, fino al punto che anche l'amore, che questa deve avere (e l'ammette, come no?) per la sua nianuna, vuole che le arrivi non direttamente, ma attraverso lui, per mezzo di lui, ecco. Sì, può parere crudeltà, questa, ma non è; è un'altra cosa, un'altra cosa ch'ella, la signora Fro- la, intende benissimo e si strugge di non sapere esprmiere. Natura, ecco.... ma no, forse una specie di malattia.... come dire? Dio mio, basta guardarlo negli occhi. Fanno in prima una brutta impressione, forse, quegli occhi; ma dicono tutto a chi, come lei, sappia leggere in essi: la pienezza chiusa, dicono, di tutto un mon- do d'amore in lui, nel quale la moglie deve vivere senza maì uscirne minima- mente, e nel quale nessun altro, nep- pure la madre, deve entrai'e. Gelosia? Sì, forse; ma a voler definire volgar- mente questa totalità esclusiva d'amore. Egoismo? Ma un egoismo che si tutto, come un mondo, alla propria donna! Egoismo, in fondo, sarebbe forse quello di lei a voler forzare questo mondo chiù-

LA SIGNOEA FROLA E IL SIGNOR PONZA, 800 GENEliO 59

SO d'amore, a volervisi introdurre per forza, qiiand'ella sa che la figliuola è felice, così adorata.... Questo a una ma- dre può bastare! Del resto, non è mica verp ch'ella lion la veda, la sua figliuola. Due ,0 tre volte al giorno la vede: enti'a nel c,ortile della casa; suona il campa- neìl,o e subito la sua figliuola s'affaccia^ di lassìi.

Come stai, Tildina?

Benissimp, mamma. Tu?

Come Dio vuole, figliuola mia. "Giìi, giìi il panierino!

E nel panierino, sempre due parole di lettera, con le notizie della giornata. Ecco, le basta questo. Dura ormai da quattr'anni questa vita, e ci s'è già abi- tuata la signora Frola. Rassegnata, sì. E quasi non ne soffre piìi.

Com'è facile intendere, questa rasse- gnazione della signora Frola, quest'abi- tudine ch'ella dice d'aver fatto al suo) martirio, ridondano a carico del signor Ponza, suo genero, tanto piìi, quanto più ella col suo lungo discorso s'aflamia a scusarlo.

60 LA SIGNORA FROLA E IL SIGNOR PONZA, SUO GEKEBO

Con viera indignazione perciò, e anche dirò con paura, le signore di Yaldana die hanno ricevuto la prima visita della signora Frola, accolgono il giorno dopo l'annunzio di un'altra visita inattesa, del signor Ponza^ che le prega di concedergli due soli minuti d'udienza, per una «do- verosa dichiarazione», se non reca loro incomodo.

Affocato in volto, quasi congestionato, con gli occhi più duri e più tetri che mai, un fazzoletto in mano che stride per la sua bianchezza, insieme coi pol- sini e il colletto della camicia, sul nero della carnagione, del pelame e del ve- stito, il signor Ponza, asciugandosi di continuo il sudore che gli sgocciola dalla fronte bassa e dalle gote raschiose e vio- lacee, non già per il caldo, ma per la vio- lenza evidentissima dello sforzo che fa su stesso e per cui anche le gi'osse mani dalle unghie lunghe gli tremano ; in questo e in quel salotto, davanti a quelle signore che lo mirano quasi atter- rite, domanda prima se la signora Frola,, sua suocera, è stata a visita da loro il giorno avanti; poi, con pena, con sforzo, con agitazione di punto in punto cre- scenti, se ella ha parlato loro della fi- gliuola e se ha detto ch'egli le vieta as,-

LA SIGNOKA FROLA E IL SIGNOR l'ONZA, ?nO GENERO

soiutamente di vederla e di salire in casa sua.

Le signore, nel vederlo così agitato, com'è facile imniaginai'e, s'affrettano a rispondergli che la signora Frola, sì, è vero, ha detto loro di quella proibizione di veder la figlia, ma anche tutto il bene possibile e immaginabile di lui, fino a scusarlo, non solo, ma anche a non dar- gli nessun' ombra di colpa per quella proibizione stessa.

Se non che, invece di quietarsi, a que- sta risposta delle signore, il signor Ponza si agita di più; gli occhi gli diventano più duri, più fissi, più tetri; le grosso gocciole di sudore più spesse ; 'e alla fine, facendo uno sforzo ancor più violento su stesso, viene alla sua «dichiara- zione doverosa».

La quiale è questa, semplicemente: che la signora Frola, poveretta, non pare, ma è pazza.

Pazza da quattro anni, si. E la sua paz- zia consiste appunto nel credere che egli non voglia fiarle vedere la figliuola. Qua- le figliuola? È morta, è morta da quat- tro anni la figliuola; e la signora Frola, appunto per il dolore di questa morte, è impazzita; per fortuna, impazzita, sì, giacché la pazzia è stata per lei lo scam-

62 LA SIGNORA FROLA E IL SIGNOR PONZA, SUO GENERO

po del suo disperato dolore. Natural- mente non poteva scamparne, se non così, cioè credendo die non sia vero che la sua figliuola è morta e ch'e sia lui, invece, suo genero, che non vuole più fargliela vedere.

Per puro dovere di carità verso un'in- felice, egli, il signor Ponza, seconda da (jruattro anni, a costo di molti e gTavi sacrifici, questa pietosa follia: tiene, con dispendio superiore alle sue forze, due case: una per sé, una per lei; e obbliga la sua seconda moglie, che per fortuna caritatevolmente si presta volentieri, a secondare anche lei questa follia. Ma ca- rità, dovere, ecco, fino a un certo punto: anche per la sua qualità di pubblico fun- zionario, il signor Ponza non può per- mettere che si creda di lui, in citta, que- sta cosa crudele e inverosimile: ch'egli cioè, per gelosia o per altro, vieti a unai povera madre di vedere la propria fi- gliuola.

Dichiarato questo, il signor Ponza s'in- china innanzi allo sbalordimento delle signore, e va via. Ma questo sbalordi- mento delle signore non ha neppure il tempo di scemare un po', che rieccoti la signora Prola con la sua aria dolce di vaga malinconia a domandare scusa se^

tX SIGNOKA FllOLA E li. SIGNOR PONZA, StJO GENERO 63

per causa sua, le buone signore, si sono preso qualche spavento per la visita del signor Ponza, suo genero.

E la signora Frola, con la maggior semplicità e naturalezza del mondo, di- chiara a sua volta, ma in gi-an confi- denza, per carità! poiché 11 signor Ponza è un pubblico funzionario, e appunto per questo ella la prima volta s'è aste- nuta dal dirlo, ma sì, perchè questo potrebbe seriamente pregiudicaiio nella carriera; il signor Ponza, poveretto ottimo, ottimo, inappuntabile segretario alla prefettura, compito, preciso in tutti i suoi atti, in tutti i suoi pensieri, pie- no di tante buone qualità il signor Ponza, poveretto, su quest'unico punto non.... non ragiona più, ecco ; il pazzo è lui, poveretto ; e la sua pazzia consiste appunto in questo: nel credere che sua moglie sia morta da quattro anni e nel- l'andar dicendo che la pazza è lei, la signora Frola che crede ancora viva la figliuola. No, non lo fa per coonestai^e in certo qual modo innanzi agli altri quella sua gelosia quasi maniaca e quel- la crudele proibizione a lei di veder la figliuola, no ; crede, crede sui serio il poveretto che sua moglie sia morta e clic questa che ha con sia una secon-

64 LA SIGNORA PEOLA E IL SIGNOR PONZA, SUO GENERO

da moglie. Caso pietosissimo! Perchè ve- ramente col suo troppo amore quest'uo- mo rischiò in prima di distruggere, d'uc- cidere la giovane moglietta delicatina , tanto che si dovette sottrargliela di na- scosto e chiuderla a insaputa di lui in una casa di salute. Ebbene, il pover'uo- mo, a cui già per quella frenesia d'a- more s'era anche 'gravemente alterato il cervello, ne impazzì ; credette che la mo- glie fosse morta davvero: e questa idea gli si fissò talmente nel cervello, che non ci fu più verso di levargliela, nep- pure quando, ritornata dopo circa un anno florida come prima, la moglietta gli fu ripresentata. La credette un'altra; tanto che si dovette con l'ajuto di tutti, parenti e amici, simulare un secondo ma- trimonio, che gli ha ridato pienamente l'equilibrio delle facoltà mentali.

Ora la signora Frola crede d'aver qual- che ragione di sospettare che da un pez- zo suo genero sia del tutto rientrato in se e ch'egli finga, finga soltanto di cre- dere che sua moglie sia una seconda mo- glie, per tenersela così tutta per sé, senza contatto con nessuno, perchè forse tut- tavia di tanto in tanto gli balena la paura che di nuovo gli possa esser sottratta nascostamente.

r>A SIGNORA l'ROLA R IL SIGNOR PONZA, SUO GENERO t)t)

Ma sì. Come spiegare, se no, tutte le cure, le premure che ha per lei, sua suocera, se veramente egli crede che è una seconda moglie quella che ha con sé? Non dovrebbe sentir l'obbligo di tanti riguardi per una che, di fatto, non sareb- be più sua suocera,, è vero? Questo, si badi, la signora Frola lo dice, non per, dimostrare ancor meglio che il pazzo è lui; ma per provare anche a se stessa che il suo sospetto è fondato.

E intanto, conclude con un so- spiro che su le labbra le s'atteggia in un dolce mestissimo sorriso, intanto la povera figliuola mia deve fìngere di non esser lei, ma un'altra; e anch'io sono obbligata a fingermi pazza credendo che la mia figliuola sia ancora viva. Mi costa poco, grazie a Dio, perchè è là, la mia figliuola, sana e piena di vita; la vedo, le parlo; ma sono condannata a non poter convivere con lei, e anche a vederla e ,a parlarle da lontano^ perchè egli pos- sa credere, o fingere di credere che la mia figliuola, Dio liberi, è morta e che questa che ha cori è una seconda moglie. Ma torno a dire, che importa se a questo patto siamo riusciti a ridar la pace a tutti due? So che la mia figliuola è adorata, contenta ; la vedo ; le pai'lo ;

FiBANCitLLtr. E domani, luntdi.... 5

66 LA SIGNOEA FROLA E IL SIGKOÌl l'ONZA, SUO GEJ.IÌEÓ

e mi rassegno per amore tìi lei e di lui a vivere così e a passare anche per pazza, signora mia, pazienza....

Dico, non vi sembra clie a Valdana ci sia proprio da restare a bocca aperta, a guardarci tutti negli occhi, come insen- sati? A chi credere dei due? Chi è il paz- zo? Dov'è la realtà? dove il fantasma?

Lo potrebbe dire la moglie del signor Ponza. Ma non c'è da fidarsi se, davanti a lui, costei dice d'esser seconda mo- glie; come non c'è da fidarsi se, davanti alla signora Frola, conferma d'esserne la figliuola. Si dovrebbe prenderla a par- te e farle dire a quattr'occhi la verità. Non è possibile. Il signor Ponza sia o no lui il pazzo è realmente gelo- sissimo e non lascia veder la moglie a nessuno. La tiene lassìi, come in pri- gione, sotto chiave; e questo 'fatto è sen- za dubbio in favore della signora Frola ; ma il signor Ponza dice che è costretto a far così, e che sua moglie stessa anzi glielo impone, per paura che la signo- ra Frola non le entri in casa all'im- provviso. Può essere una scusa. Sta an- che di fatto che il signor Ponza non tiene

LA SIGKOn.V FROLA T. IL SIGNOR PONZA, f-CO GKNKKO 67

neanche una serva in casa. Dice che lo fa per risparmio, obbligato com'è a pa- gar l'affìtto di due case; e si sobbarca intanto a farsi da la spesa giorna- liera; e la moglie, che a suo dire non è la figlia della signora Frola, si sobbarica anche lei per pietà di questa, cioè d'una povera vecchia che fu suocera di suo marito, a badare a tutte le faccende di casa, anche alle più limili, privandosi dell' ajuto d'una serva. Sembra a tutti un po' tiX)ppo. Ma è anche vero che questo stato di cose, se non con la pietà, può spiegarsi con la gelosia di lui.

Intanto, il signor Prefetto di Valdana, s'è contentato della dichiarazione del si- gnor Ponza. Ma certo l'aspetto e in gran parte la condotta di costui non depon- gono in suo favore, almeno per le signore di Valdana più propense tutte quante a prestar fede alla signora Frola. Questa, difatti, viene premurosa a mostrar loro le letterine affettuose che le cala giù col panierino la figliuola, e anche tant' altri privati documenti, a cui però il signor Ponza toglie ogni credito, dicendo che le sono stati rilasciati per confortare il pietoso inganno.

Certo è questo, a ogni modo: che di-^ mostrano tutt'e due^ l'uno per raltra,

68 LA SIGNORA FROLA E IL SIGNOR PONZA, SUO GENERO

un meraviglioso spirito di sacrifizio^ comnioventissimo ; e che ciascuno ha per la presunta pazzia dell'altro la oonside- I razione più squisitamente pietosa. Ra- ' gionano tutt'e due a meraviglia ; tanto che a Valdana non sarebbe mai venuto in mente a nessuno di dfi'e che l'uno dei due era pazzo, se non l'aveslsero detto loro: il signor Ponza della signora Fro- la, e la signora Frola del signor Ponza. La signora Frola va spesso a trovare il genero alla Prefettura per aver da lui qualche consiglio, o lo aspetta all'uscita per farsi accompagnare in qualche com- pera: e spessissimo, dal canto suo, nelle ore libere e ogni sera il signor Ponza va a trovare la signora Frola nel quar- tierino mobigliato ; e ogni qual volta per caso l'uno s'imbatte nell'altra per via^ subito con la massima cordialità si met- tono insieme; egli le la destra e^ sle stanca, le porge il braccio, e vanno cosi, insieme, tra il dispetto aggrondato e lo stupore e la costernazione della gente che li studia, li squadra, li spia e, niente! non riesce ancora in nessun modo a comprendere quale sia il pazzo dei due, dove sia il fantasma, dove la reajtà.

La camera in attesa.

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^ -f re V' y

Si pur luce ogni mattina a questa camera, quando una delie tre sorelle a turno viene a ripulirla senza guardarsi attorno, muta, intenta a ogni singolo og- getto, con una cura troppo minuziosa perchè non abbia l'aria che vorrebbe ave- re, che cioè niente ci sia di strano. L'om- bra tuttavia, appena le persiane e le im- poste della finestra sono richiuse e rac- costati gli scuri, si fa subito cruda, come in un sotterraneo ; e subito, come se quel- la finestra non sia stata aperta da anni^ il crudo di quest'ombra s'avverte, diven- ta quasi l'alito sensibile del silenzio so- speso vano sui mobili e gli oggetti, i quali, a lor volta, par che rimangano! Sgomenti, ogni giorno, proprio di quella cura troppo minuziosa con cui sono sta- ti spolverati, ripuliti e rimessi in ordine.

Il calendario a muro presso la finestra è certo che rimane col senso dello strap- po d'un altro fogliolinOj come se gli paja

72 LA CAMEUA IN AITEHA

una inutile crudeltà che gli si faccia se- gnar la data in quell'ombra vana e in quel silenzio. E con sgomento pare che stacchi il suo cupo tic-tac un vecchio orologio di bronzo, in forma d'anfora, sul piano di marmo del cassettone.

Sul tavolino da notte, però, la 'boc- cetta dell'acqua, di cristallo verde dorato, incappellata del suo lungo bicchiere ca- po^'Kilto, pigliando di tra gli scuri acco- stati della finestra dirimpetto un filo di luce, lecco par che rida di tutto quello sgomento diffuso nella camera.

C'è, in realtà, alcunché d'ai^gutamente vivo su quel tavolino da notte.

Il riso della boccetta dell'acqua viene senza dubbio dal filo di luce, ma for- se perchè con questo filo di luce essa può scorgere su la lucida lastra di bar- diglio le smorfie delle due figurine d'una scatola di fiammiferi posata lì, da quat- tordici mesi ormai, perchè sia pronta a un bisogno ad accendere la candela, an- ch'essa da quattordici mesi confitta nella bugia di ferro smaltato, in forma di tri- foglio, col manichetto e il boccinolo d'ot- tone.

Nell'attesa della fiamma che deve con- sumarla, s'è ingiallita quella candela sul tl'ifoglio della bugia, come una vergine

LA CAMERA JN ATTK3A 73

matura. E c'è da scommettere che le due figurine monellescamente smorfiose della scatola di fiammiferi la paragonino alle tre sorelle stagionate che vengono un giorno per una a ripulire e a rimet- tere in ordine la camera, come se vera- mente qualcuno la abiti da quattprdici mesi a questa parte.

Via, benché intatta ancora, povera ver- gine candela, dovrebbero cambiarla le tre sorelle, se non proprio ogni giorno come fanno per l'acqua della boccetta (che anche perciò è cosi viva e pronta a ridere a ogni filo di luce), almeno a ogni quindici giorni, a ogni mese, via! peir non vederla così gialla, per non ve- dére in quel giallore i quattordici mesi che sono passati senza che nessuno sia venuto ad accenderla, la sera, su quel tavoline da notte.

È veramente una dimenticanza deplo- revole, perchè non solo l'acqua della boc- cetta, ma cambiano tutto quelle tre so- relle: ogni quindici giorni le lenzuola e le foderette del letto, rifatto con amo- rosa diligenza ogni mattina come se dav- vero qualcuno vi abbia dormito ; due vol- te la settimana, la camicia da notte, che ogni sera, dppo rimboccate le coperte, vien tratta dal sacchetto di raso appeso

74 LA CAMEIIA IN ATTESA

col nastrino azzurro alla testata dellal lettiera bianca, e distesa sul letto con la falda di dietro debitamente rialzata. E han cambiato, oh Dio, finanche te pantofole innanzi alla poltroncina a pie del letto. Sicuro: le vecchie, buttate via, dentro il comodino, e al loro posto, su lo scendiletto, un pajo nuove, di vel- luto, ricamate dall'ultima delle tre. E il calendario? Quello lì, presso la finestra, è già il secondo. L'altro, dell'anno scor- so, s'è sentito strappare a uno a uno' tutti i giorni dei dodici mesi, uno ogni mattina, con inesorabile puntualità. E non c'è pericolo che la maggiore delle tre sorelle, ogni sabato alle quattro del pomeriggio, si dimentichi d'entrare nella camera per ridar la corda a quel vecchio orologio di bronzo sul cassettone, che con tanto sgomento rompe il silenzio tic- chettando e muove le due lancette sul quadrante piano piano, che non si veda, come se voglia dire che non lo fa appo- sta, lui, per suo piacere, ma perchè for- zato dalla corda che gli danno.

Le due figurine smorfiose della sca- tola evidentemente non vedono, come possono vederlo il vecchio orologio di bronzo col bianco occhio tondo del qua- drante e il calendario dall'alto della pa-

LA CAMEKA IN ATTESA 75

rete col inumerò rosso che segna la data, il lugubre leffetto di quella camicia da notte stesa sul letto e di quelle due pantofole nuove in attesa su lo scendilet- to innanzi' alla poltroncina.

Quanto alla candela confitta sul ti'i- foglio della bugia, oh essa è così diritta e assorta nella sua gialla rigidità, che non si cura del dileggio di quelle due figurine smorfiose e del riso della pan- ciuta boccetta, sapendo bene che cosa sta ad attendere lì, ancora intatta, così ingiallita.

Che cosa?

Il fatto è che da quattordici mesi quel- le tre sorelle e la loro madre inferni a^ credono di potere e di dovere aspettare così il pro]bubil\e ritorno del fratello e figliuolo Cesarino, sottotenente di com- plemento nel 25. o fanteria, partito (or- mai son più di due anni) per la Tripoli- t'ania e colà distaccato nel Fezzan.

Da quattordici mesi, è vero, non han- no più notizia di lui. C'è di più. Dopo tante ricerche a,ngosciose, suppliche e istanze, è arrivata alla fine dal Coman- do della colonia la comunicazione uffi-

76 LA CAMERA IN ATTESA

ciale che il sottotenente Mochi Cesare, dopo un comb'attiniento coi ribelli, non trovandosi tra i morti tra i feriti tra i prigionieri, di cui si è riuscito ad aver notizia certa, deve ritenersi disperso, anzi scomparso senz' alcuna traccia.

Il caso ha destato in principio mollai pietà in tutti i vicini e conoscenti di quel- la mamma e di quelle tre sorelle. A poco a poco però la pietà s'è raffreddata ed è cominciata invece una certa irrita- zione, in qualcuno anche una vera in- dignazione per ^questa che pare «una commedia» , della camera cioè tenuta così puntualmente in ordine, finanche con la camicia da notte stesa sul letto rimboc- cato ; quasi che con questa «commedia» quelle quattro donne vogliano negare il tributo di lagrime a quel povero gio- vine e risparmiare a stesse il dolore di piangerlo morto.

Troppo presto han dimenticato vicini e conoscenti che essi, proprio essi, al- l'arrivo della comunicazione del Coman- do della colonia, quando quella madre e quelle tre sorelle s'eran pur messe a piangere morto il loro caro levando grida strazianti, le han persuase a lungo e con tanti argomenti uno più efììcace del-

LA CAMERA IN ATTESA 77

l'altro a non disperai'si così. Perchè pian- gerlo morto hanno detto se chia- ramente in quella comunicazione s'an- nunziava che l'ufficiale Mochi tra i morti non s'era trovato? Era disperso; pote- va ritornai^e da un momento all'altro ; ma anche dopo un aimo, chi sa! Nfel- l'Africa, ramingo, nascosto.... E pur loro sono stati a sconsigliare le quasi impe- dire ch,e quella madre e quelle tre sorelle si vestissero di nero, com'esse volevano anche neH'mcertezza. No, di nero hanno detto; perchè quel malaugurio? E alla prima speranza di quelle pove- rine chle s'esprimeva ancora in formai di dubbio: «Chi sa.... sì, forse è vivo», si sono affrettati a rispondfere:

Ma sarà vivo sì! È vivo certamente!

Ebben,e, non è naturale adesso che, mancando davvero ogni fondamento di certezza alla supposizione che il loro caro sia morto, e accolta invece, come tutti han voluto, l'illusione che sia vivo, quella povera mamma inferma, quelle tre sorellie diano quanto più possono consi- stenza di realtà a questa illusione? Ma sì, appunto, lasciando la camera In at- tesa, rifacendola con cura minuziosa, traendo ogni s>'era dal sacchetto la cami- cia da notte e stendendola su le coperte

78 LA CAJIEKA IN ATTESA

rimboccate. Pierchè, se si son lasciate persuadere a non piangerlo morto, a non disperarsi della sua morte, devono per forza far vedere a lui, vivo per loro, a lui che veramente può sopravvenire da un momento all'altro, che ecco, tanto es- se ne sono state certe, che gli hanno fi- nanche preparato ogni sera la camicia da notte sul letto, sul suo lettino ri- fatto ogni mattina, come se egli davvero la notte vi abbia dormito. Ed ecco le nuove pantofole che Margheritina, aspettando, non si è contentata soltanto di ricamare, ma ha voluto anche far met- tere su da un calzolajo, perchè egli ap- pena tornato le trovi pronte al posto delle vecchie.

Scusate tanto:

O che non son forse morti il vostro figliuolo, la vostra figliuola, quando sono partiti per gli studii nella grande città lontana?

Ah, voi fate gli scongiuri? mi date sulla voce, gridando che non sono morti nien- t' affatto? che saran di ritorno a fin d'an- no e che intanto ricevete puntualmente loro notizie due volte la settimana?

Calmatevi, si, via, lo credo bene. Ma come va che, passato l'anno, quando il vostro figliuolo o la vostra figliuola ri-

LA CAMERA IN ATTESA 79

tornano con un anno di più dalla grande città, voi restate stupiti, storditi innanzi a loro ; e voi, proprio voi, con le mani aperte come a pai'are un dubbio che vi sgomenta, esclaniate:

Oh Dio, ma sei proprio tu? Oh Dio, come s'è fatta un'altra!

Non solo nell'anima, un'altra, cioè nel modo di pensare e di sentire; ma anche nel suono della voce, anche nel corpo un'altra, nel modo di gestire, di muo- versi, di gTiardare, di sorridere....

E, con smarrimento, vi domandate:

Ma come? erano proprio così i suoi occhi? Avrei potuto giurare che il suo nasino, quand'è partita, era un pochino all'insù....

La verità è che voi non riconoscete nel vostro figliuolo o nella vostra figliuola, ritornati dopo un anno, quella stessa realtà che davate loro prima che partis- sero. Non c'è più, è morta quella realtà. Eppure voi non vi vestite di nero per questa morte e non piangete.... o^^'ero sì, ne piangete, se vi fa dolore quest'altro che vi è ritornato invece del vostro fi- gliuolo, quest'altro che voi non potete, non sapete più riconoscere.

II vostro figliuolo, quello che voi co- noscevate prima che partisse, è morto,

60 LA CAMEEA IN ATTESA

credetelo, è morto. Solo l'esserci d'un corpo (e pur esso tanto cambiato!) vi fa dire di no. Ma lo avvertite bene, voi, ch'era un altro, quello pai'tito un anno fa, che non è più ritornato....

Ebbene, precisamente come non ritor- na più alla sua mamma e alle sue tre so- relle questo Cesarino Mochi partito da due anni per la Tripolitania e colà di- staccato nel Fezzan.

Voi lo sapete bene, ora, che la rea,ltà non dipende dall'esserci o dal non es- serci d'un corpo. Può esserci il corpo, ed esser morto per la realtà che voi gli davate. Quel che fa la vita, dunque, è la realtà che voi le date. E dunque realmen- te può bastare alla mamma e alle tre sorelle di Cesarino Mochi la vita ch'egli seguita ad aver per esse, qua nella real- tà degli atti che compiono per lui, in questa camera che lo attende in ordine, pronta ad accoglierlo tal quale egli era prima che partisse.

Ah, non c'è pericolo per quella mam- ma e per quelle tre sorelle ch'egli ritorni un altro, com'è av\'emito per il vostro figliuolo a fin d'anno.

La realtà di Cesarino è inalterabile {{ua nella sua camera e nel cuore e nella mente di quella mamma e di quelle tre

lA CAMEÈA IN ATTESA Si

sorelle, che per sé, fuori di questa, non ne hanno altra.

Titti, quanti ne abbiamo del mese? domanda dal seggiolone la mamma inferma all'ultima delle tre figliuole.

Quindici, risponde Margherita, al- zando il capo dal libro; ma non ne è ben certa e doma,nda a sua volta alle due sorelle: Quindici, è vero?

Quindici, sì, conferma Najida, la maggiore, dal telajo.

Quindici, ripete Flavia che cuce. Su la fronte di tutt'e tre s'incide, per

quella domanda della madre a cui han- no risposto, la stessa ruga.

Nella quiete della vasta sala da pran- zo luminosa, velata da candide tendine di mussoio, è entrato un pensiero, che di solito, non per istudio, ma istintiva- mente è tenuto lontano dalle quattro don- ne: il pensiero del tempo che passa.

Le tre sorelle hamio indovinato il per- chè di questo pensiero pauroso nella mente della madre inferma, abbandonata sul seggiolone; e perciò han corrugato la fronte.

Pirandello. E domani, bincdi.... 6

62 LA CAMERA IN ATTESA

Non è già per Cesariiio. C'è un'altra, c'è un'altra non qua, nella casa, ma che della casa, forse domani, chi sa! potrebbe esser la regina Claretta, la fidanzata del fratello c'è lei, sì, pur- troppo, che fa pensare al tempo che passa.

La mamma, domandando a quanti è del (mese, ha voluto contare i giorni che son passati dall'ultima visita di Cla- retta.

Veniva prima ogni giorno la cara bam- bina (bambina veramente, Claretta, per quelle tre sorelle anziane) quasi ogni giornOj con la speranza che fosse arrivata la notizia; perchè era certa, più certa di tutte, lei, che la notizia sarebbe presto arrivata. E allora entrava festosa nel- la camera del fidanzato e vi lasciava sem- pre qualche fiore e una lettera. Sì, per- chè seguitava a scrivere lei, come al so- lito, ogni sera, a C esarino. Le lettere, invece di spedirle, ecco, veniva a lasciar- le qua perchè le trovasse, Cesaiino, su« bito appena arrivato.

Il fiore avvizziva, la lettera restava.

Pensava forse Clai^etta, nel ti'ovare sot- to il fiore vizzo la lettera del giorno pre- cedente, che anche il profumo di questa era svanito senz'avere inebriato nessu-

LA CAMEKA IN ATTESA 83

no? La riponeva nel cassetto della pic- cola scrivania presso la finestra, e al suo posto lasciava la nuova e sopra vi posava un fiore nuovo.

Durò a lungo, per mesi e mesi, que- sta cura gentile. Ma un giorno la piccina venne, con più fiorì, sì, ma senza let- tera. Disse che aveva scritto la sera pre- cedente, oh anche più a lungo del solito, e che ogni sera avrebbe seguitato a scri- vere, ma in un taccuino, ecco, perchè la mannna le aveva fatto notare ch'era un inutile sciupìo di carta da lettere e di buste.

Veramente era così: ciò che importava era il pensiero di scrivere ogni giorno ; che poi scrivesse in carta da lettere o nel taccuino, era lo ste^sso, o se non pro- prio lo stesso, via, poco male....

Se non che, con quella lettera comin- ciò anche a mancare la visita giornaliera di CI aretta. Dapprima tre volte, poi due, poi prese a venire una sola volta per settimana. Poi, con la scusa del lutto per la morte della nonna materna, stette più quindici giorni senza venire. E alla fine, quando non spontaneamente, ma condotta da le sorelle rientrò per la prima volta vestita di nero nella ca- mera di C esalino, avvenne una scena

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inattesa, che per poco non fece scop- piare d'angoscia il cuore di quelle tre poverine. Tutt'a un ti'atto, appena en- trata, si rovesciò sul letto di Cesarino, rompendo in un pianto disperato.

Perchè? che c'entrava? Rimase stordi- ta, come smai'rita, dopo, di fronte allo stupore angoscioso, ai tremore di quelle tre sorelle pallide, livide; disse che non sapeva lei stessa com'era stato, come le era avvenuto.... Si scusò ; ne incolpò il suo abito nero, 11 dolore per la morte della nonna.... Oh Dio, sì, che c'entrava? Era stata una sciocchezza.... una follia improvvisa.... Riprese, a ogni modo, a venire una volta la settimana.

]\Ia le tre sorelle provavano un certo ritegno, ora, a condurla, così vestita di nero, nella camera in attesa; ed ella c'entrava da sé, chiedeva alle tre so- relle che ve la conducessero. E di Ce- sarino quasi non palliavano più.

Tre mesi fa, venne di nuovo vestita di abiti gaj, primaverili, risbocciata come un fiore, 'tutta accesa e vivace come da gran tempo le tre sorelle e la loro povera maimna non l'avevano più veduta. Recò tanti, tanti fiori e volle lei stcsisa con le sue mani portarli nella camera di Ce- sarino e distribuirli in vasetti su la pie-

LA CAMERA IN ATTESA 86

cola scrivania, sul tavolino da notte, sul cassettone. Disse che aveva fatto un bel sogno.

Rimasero con l'affanno, oppresse e quasi sgomente di quella vivacità esu- berante, di quella rinata gajezza della bambina, esse sempre più pallide e più. livide, esse che nel crudo di quell'ombra nella camera in attesa respiravano uni- camente la loro vita. Sentirono, appena cessato il primo stordimento, come l'ur- to d'una violenza crudele, l'urto della vita che rifioriva prepotente in quella bambina e che non poteva più esser con- tenuta nel silenzio di quell'attesa, a cui esse con tanto ordine minuzioso, con le religiose cure delle loro mani gracili e fredde davano ancora e tenacemente vo- levano dar sempre una larva di vita, tan- ta che bastasse a loro. E non fecero nes- suna opposizione, quando Claretta, fa- cendosi rossa rossa, disse che le era nata una grande curiosità di sapere che cosa aveva scritto a C esarino nelle sue prime lettere di più d'un anno fa, chiuse nel cassetto della scrivania.

Più di cento dovevano essere quelle lettere, centoventidue o centoventib^è. Le voleva rileggere; le avrebbe poi conser- vate lei. per Cesai'iuo, insieme coi tac-

86 LA CAMEEA IN ATTESA

cuini. E a dieci per volta se l'era tutte riportate a casa.

Da allora le visite si sono diradate. La vecchia maiiima inferma, guardando fiso il bracciolo del seggiolone, conta i giorni che son passati dall'ultima visi- ta; ed è curioso, che tanto per lei, quan- to per le tre figliuole con la fronte cor- rugata, questi giorni s'assommino e si faccian troppi, mentre per Cesarino che non torna, il tempo non passa mai; è come se fosse partito jeri, Cesarino, anzi come se non fosse partito affatto, ma fos- se solo uscito di casa e dovesse rien- trare da un momento all'altro, per se- dersi a tavola con loro e poi andare a dormire nel suo lettino pronto.

Il crollo è dato alla povera mamma dalla notizia che Claretta s'è rifatta sposa.

Era da attendersela, questa notizia, poi- ché già da due mesi ella non si faceva più vedere. Ma le tre sorelle, meno vec- chie e perciò meno deboli della mamma, s'ostinano a dire di no, che questo tra- dimento non se l'aspettavano. Vogliono a ogni costo resistere al crollo, esse, e

LA CAMERA IN ATTESA 87

dicono che Claretta s'è fatta sposa con un altro, noji perchè Cesai'ino sia morto ed ella non abbia perciò veramente nes- suna ragione più d'aspettarne ancora il ritorno, ma perchè dopo sedici mesi s'è stancata d'aspettarlo. Dicono che la loro mamma muore, non perchè il nuovo fi- danzamento di Clai'etta le abbia fatto crollare l'illusione sempre più fievole del ritorno del suo figliuolo, ma per la pena che il suo Cesarino sentirà, al suo ri- torno, di questo crudele tradimento di Claretta.

E la mamma, dal letto, dice di sì, che muore di questa pena; ma negli occhi ha come un riso di luce.

Le tre figliuole glieli guardano, que- gli occhi, con invidia accorata. Ella, ti'a poco, andrà a vedere di se lui c'è; si leverà da quest'ansia della lunghissima attesa; avrà la certezza, lei; ma non po- trà tornare per darne l'amiunzio a loro.

Vorrebbe dire, la mamma, che non c'è bisogno di quest'annunzio, perchè è già certa lei che lo troverà di là, il suo Ce- sarino ; ma no, non lo dice; sente una grande pietà per le sue tre povere figliuo- le che restano sole e hanno tanto bisogno di pensare e di credere che Cesarino sia ancora qua, vivo, per loro, e che un

88 liA CAMERA IN ATTESA

giorno o l'altro debba ritornare; ed ec- co, vela dolcemente la luce degli occhi e fino all'ultimo, fino all'ultimo vuole ri- manere attaccata all'illusione delle tre fi- gliuole, perchè anche dal suo ultimo re- spiro quest'illusione tragga alito e se- guiti a vivere per loro. Con l'estremo filo di voce sospira:

Glielo direte che l'ho tanto aspet- tato....

Nella notte i quattro ceri funebri ar- dono ai quattro angoli del letto, e di trat- to in tratto hanno un lieve scoppiettìo, che fa vacillare appena la lunga fiamma gialla.

Tanto è il silenzio della casa, che gU scoppiettìi di quei ceri, per quanto lievi, arrivano di alla camera in attesa, e quella candela ingiallita, da sedici mesi confitta sul trifoglio della bugia, quella candela derisa dalle due figurine smor- fiose della scatola di fiammiferi, ad ogni scoppiettìo pare che abbia un sussulto da cui possa tràr fiamma anche lei, per vegliare un altro morto qui, sul letto in- tatto. j È per (iu(;4a ca^idela u^a riviuciU.. iìU

LA CAMERA IN ATTESA 89

fatti, quella sera, non è stata cambiala l'acqua della boccetta, tratta dal sac- chetto e stesa sulle coperte rimboccate la camicia da notte. E segna la data di jeri il calendario a muro. S'è arrestata d'un giorno, e pare per sempre, nella carniera, quell'illusione di vita. E solo il vecchio orologio di bronzo sul casset- tone seguita cupo e più sgomento che mai a parlare del tempo in quella buja attesa senza fine.

Mentre il cuore soffriva.

1

Cominciarono le dita della mano si- nistra. Prima, il mignolo che, come il più piccolo, era anche il più irrequieto, e sempre era stato un tormento per il poviero languido anulare che aveva la sventura di stargli accanto ; ma un po' anche per le altre tre dita.

Buffo di forma, con l'ultima falanget- ta attaccata male, storta in dentro, dura, quasi inflessibile, pareva un dito col tor- cicollo fisso.

Ma di questo difetto non s'era mai afflitto. Anzi se n'era sempre servito per non lasciai-e in pace un momento i suoi compagni di mano e, quasi se ne glo- riasse, spesso anche si levava ritto, come per dire a tutti:

Ecco, vedete? sono così!

Invece di nascondere per pudore quella falangetta storpia sotto il polpastrello dell' aimlare, gliela imponeva prepotente sul dorso o, costringendolo a star su, in una posizione incomodissimaj si al-

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lungava a imporla sul medio o sull'indice, o andava con l'unghietta sbilenca a stuz- zicar l'unghiona dura del pollice tozzo.

Ma questo, alle volte, seccato e stanco, gli s'opponeva con violenza, saltandogli addosso su la prima falange, e lo tene- va sotto premendolo con l'ajuto delle tre altre dita fin quasi a stracollarlo.

Non si dava per vinto.

Così premuto, grattava al pollice il pol- paccio, come per dirgli:

Vedi? Posso muovermi! Stai peggio tu, che io.

E difatti il pollice, preso come in una morsa, presto Io laisciava andare.

Quel giorno però erano tutti d'a,ccordo.

Che quel mignolo buffo fosse così di- spettoso e prepotente e non si stesse quie- to un momento, piaceva anzi alle altre quattro dita, che avevano una gran pau- ra d'intorpidirsi nello smemorato abban- dono in cui da circa una settimana tutto il corpo era lasciato.

Non solamente le dita, delle mani, ma anche quelle dei piedi, imprigionate, e i piedi tutt'interi e le gambe e, su su, il busto, le spalle, le braccia, il collo e^ nella testa, le guance, le labbra, le pin- ne del naso, gli occhi, le sopraciciglia la fronte, avvertivano confusamente ir:

MENTUE IL CUOHK SOFFRIVA 95

queirab])ajidoiio così a lungo protratto una minaccia oscura e paurosa, a cui per proprio conto cercavano di sottrarsi.

Da più giorni la vita s'era come ali e-* nata da loro per concentrarsi cupamente in una profonda, misteriosa intimità, dal- la quale erano esclusi, tenuti estranei e come lontani, quasi non dovesse affatto riguardarli la decisione che in quell'inti- mità profonda e misteriosa nascostamen- te si maturava.

Eran lasciati da più giorni, su un seggiolone di Vienna presso la finestra, in attesa che la decisione fosse matura. E in quell'attesa essi, non sapendo che fare, per non intorpidirsi nell'abbando- no, giocavano per conto loro. Giocavano veramente come pazzi.

Bisognava veder le gambe come bal- lavano, ora l'una ora l'altra, ora tutt'ei due insieme, con la punta dei piedi a terra e il tallone sospeso pier modo che il tendine brandisse! come poi, stanche di quel giuoco, s'allungavano per farne un altro, che consisteva in un aprirsi e chiu- dersi ritmato, prima col piede sinistro sul destro, poi col destro sul sinistro, per star sotto una volta per uno, senzaj soperchieric ! E anche le scarpe col loro cigolìo prendevano parte a quel giuoco.

96 MEKTRE IL CUOCE SOFFRIVA

Ma più di tutti giocavano le mani, ora intrecciando le dita, ora infrontandole per le punte e movendole così a leva, per modo che prima si stirassero fino a combaciare l'un dito con l'altro e poi si staccassero molleggiando. Oppure gio- cavan separatì^miente l'una e l'altra ma- no ; ma, quasi sempre, ciò che faceva l'una, l'altra rifaceva, se la destila un tamburellìo su la gamba destra, lo stes- so tamburellìo la sinistra su la gamba sinistra, come se non potesse farne a meno ; un frullo o uno schiocco la destra, lo stesso frullo o lo stesso schiocco, poco dopo, la smistra; oppure, sempre per giuoco, l'una stringeva le dita dell'altra e viceversa, o gliele pizzicava per poi ca- rezzargliele con uno strofinìo delicato, lento lento ; o si metteva a grattare dove non c'era prurito, così che il dito grat- tato si ribellava con uno scatto violen- to e avveniva allora come una zuffa ti-a le due mani, uno stropicciamento con- vulso, troncato alla fine con l'afferrarsi l'una e l'altra e tenersi per un pezzo strette strette imprigionate. Poi l'una, ecco, si levava o per andare a stirare il lobo d'uno degli orecchi, o nella bocca! il labbro inferiore, o la borsa gonfia sotto l'occhio, o per grattai'e senza bisogno il

MENTRE IL CUORE SOFFRIVA 97

mento irto di barba non rifatta da pa- recchi giorni.

Più pietosi di tutti erano gli occhi, le sopracciglia, la fronte. A\Tebbero vo- luto giocare aucK'essi; ma dalla cupa tensione dello spirito erano tenuti at- toniti — gli occhi o in una dura e truce fissità; le sopracciglia, aggrot- tate; la fronte, contratta.

Gli occhi potevano guardai'e e non ve- dere. Se appena appena vedevano, eran subito distratti dalla cosa veduta e con- dannati a volgersi altrove senza atten- zione. Ma essi, con la coda, senza parere, seguivano il giuoco delle gambe o delle mani; suggerivano a queste, di sfuggita, di prendere, per esempio, dal tavolinet- to presso il seggiolone il tagliacarte, per cominciare con esso un altro giuoco. E le mani non se lo lasciavano dire due volte: cominciavano quel giuoco, sotto sotto, quasi di nascosto, per divertimen- to degli occhi, facendo girai'e e rigirare in tutti i versi quel tagliacai'te.

Talvolta sospendevano il giuoco per richiamai'e a loro l'attenzione dello spi- rito con un mezzo violento: facendosi male. Il terribile mignolo della mano si- nistra ficcava la falangetta sbilenca in

Pirandello. E domani, lunedi... 7

98 JIENTEE IL CUOUE SOFFBIVA

uno dei forellini del piano del seggiolone di Vienna e, non potendo più tirarsi fuo- ri, obbligava l'uomo a piegarsi tutto da un lato per trovare il verso d'estrario senza scorticature e senza sciupare il pia- no del seggiolone. Subito il pollice e poi tutte e cinque le dita dell'altra mano si davano a compensarlo con carezzine e strofinamenti amorosi del male che s'era fatto per il bene di tutti. Tal'altra il pollice e l'indice della mano destra piz- zicavano la gamba per fare avvertire, a quell'uomo, che se aveva il cuore che gli soffriva dentro aveva pure quella gamba e sensibilissima anch'essa, cioè capacissima di soffrire, come gamba, d'mi pizzicotto ; di soffrire, ecco, quel bruciorino fitto.... più fitto.... più fitto.... No? non voleva avvertirlo? E allora,, niente! L'indice stropicciava la gamba come per cancellarle la sofferenza inutil- mente inflitta; poi tutt'e due le mani la prendevano e la accavalciavan su l'altra perchè si spassasse un poco a dondolare il piede.

Oh guarda! Nello specchio dell'ai'ma- dio, disposto ad angolo dall'altra parte della finestra, appariva e spariva la pun- ta di quel piede dondolante, con una vir- gola di luce su la mascheretta di coppale.

MENTRE IL CUORE SOFFRIVA 99

Alteo giuoco. Gli occhi aggrottati Io seguivano, aspettavano, fissi ali' angolo dello specchio, che apparisse la punta del piede; ma pur fingevano di non ac- corgersene, sapendo che se avessero mi- nimamente m<ostrato di farvi attenzione, l'uomo tutto assorto nel suo intimo do- lore, con uno sbuffo avrebbe fatto finir quel dondolìo e prendere al corpo un'al- tra positura.

Chi sa! Forse non sarebbe stato male....

Appoggiando il gomito sul bracciuolo destro del seggiolone e allungando un po' il collo, tutta la testa si sarebbe mo- strata nello specchio ; e sai'ebbe bastato questo, cioè la vista della pl'opria fac- cia, per far balzare in piedi, sdegnato e feroce, quell'uomo.

Quasi quasi.... No, via, non conveniva. Meglio seguitare a giocare, non stuzzicare la fiera volontà neanica, penetrata nella profonda, misteriosa intimità, ove la de- cisione oscura © paurosa si maturava. C'era il rischio che questa volontà, ve- dendo lo squallore) della faccia stralu- nata, il capo calvo, quelle borse gonfie sotto gli occhi, quella barba non rifatta da tanti giorni, improvvisamente oppo- nesse alla violenza un'altra violenza. Non conveniva.

100 MENTRE IL CDORE SOFFRIVA

Ma ormai la tentazione di quello spec- chio era troppo forte; non più per il corpo, adesso, ma per quella volontà ne- mica, la quale, ecco, costringeva gli occhi a fissarlo biecamente.

Maledetto il piede, che dapprima, don- dolandosi, vi s'era riflesso! Ma gli oc- chi, piuttosto.... maledetti gli occhi che lo avevano scorto!

Ora, ecco.... (no no! il corpo relut- tava) ma la volontà nemica lo co- stringeva a levarsi dal seggiolone e ;a presentarsi là, davanti a stesso, nello specchio.

Eccolo I

Quanto disprezzo, quant'odio addensa- va quella volontà nemica negli occhi! Con quale maligna voluttà scopriva in quella povera faccia i guasti irrimedia- bili del tempo, le lente, sgraziate altera- zioni dei tratti, la pelle su le tempie, at- torno agli zigomi, lisa e ingiallita ^ gli affossaiuenti, le rigonfiature, la calvizie umiliante, la meschinità ridicola e afflig- gente di quei pochi capelli superstiti, raf- filati quasi a uno a uno sul cranio lu- cido, più roseo della fronte tutta secata di aspre rughe.

E la faccia, che non poteva non rico- noscer veri quei guasti, ma che tuttavia

MENTRE IL CUORE SOFFRIVA 101

per r addietro era usa a presentarsi in- nanzi allo specchio pietosamente nel mo- do più favorevole, ora, quasi non com- prendendo il perchè di quell'esame così minuzioso, così acuto e spietato, restava come mortificata e attonita innanzi a stessa, come rassegata in una smorfia frigida, ti'a di schifo e di compassione. Ma gli occhi, ecco, si provavano a far notare (non per iscusa però, non per opporsi all'accertamento, del resto ben noto, di quei guasti) ma così, quasi per proprio conto, si provavano a far notare che quelle borse gonfie, intanto, no, ecco, non ci sarebbero state, avrebbero potuto non esserci, o non essere almeno così pronunziate, se quattro notti quattro notti non fossero passate insonni, tra violente smanie e vaneggiamenti. E poi, quella barba cresciuta.... Ma perchè?

Ecco, una mano si levava adunca ad afferrar le guance flaccide e irsute.

Perchè? perchè tant'odio contro quel- l'aspetto di povero malato?... Soffriva? di che soffriva?

All' improvviso , un tremor convulso partiva dalle viscere contratte, e gli oc- chi — quegli occhi si riempivano di lagrime.

Su, via, le majii, sìibito, sùbito in cerca

102 MENTRE IL CUORE SOFFRIVA

d'un fazzoletto.... in questa.... no, nell'al- tra tasca.... nemmeno? Le chiavi, allo- ra.... il mazzetto di chiavi per aprire il primo cassetto del canterano, ov'erano i fazzoletti.... sìibito!

Oh! Là.... il fazzoletto, la mano ne pigliava uno, tra i tanti riposti ma lo pigliava quasi meccanicamente, an- dando a tasto tra gli altri capi di bianche- ria, mentre gli occhi, in fondo al cas- setto, in un angolo... si, la piccola ri- voltella.... (Con questa, sì....).... Come se ne stava quieta, nascosta, col suo ma- nico d'osso, liscio, bianco, emergente dal- la custodia di feltro grigio....

Ma, ecco, l'altra mano, quasi di na- scosto, si levava a richiudere il cassetto per impedire agli occhi di seguitare a fissar quella cosa lì, piccola come un giocattolo, ma da lasciar per ora nel cassetto, così come stava, quieta e na- scosta.

Il mazzetto di chiavi rimaneva appeso alla toppa e ciondolante.

Dalla finestra sul giardino entrava la dolce frescura della sera imminente. La pietà improvvisa, onde quelle lagrime erano sgorgate, ne provava un refrigerio ineffabile. I polmoni, oppressi dall'an- goscia, s'allargavano in lunghi sospiri.

MJvNTBE IL CUOllE SOVi'KIVA 103

Il naso sorsava le ultime lagrime. E l'uo- mo ritornava a sedea-e sul seggiolone^ col fazzoletto su gli occhi. Stava un pez- zo così ; poi abbandonava le mani su le gambe, e la sinistra, ecco^ s'avvicinava alla destra che teneva il fazzoletto, ne prendeva un lembo e tmiidamente, come per riprendere 11 giuoco, col pollice e l'indice si metteva a scorrerlo fino alla punta.

Passiamo il tempo così, pareva dicesse quella mano. Ma sarebbe l'ora veramente d'andai'e a cena; almeno a cena, poiché oggi, a mezzogiorno, non s'è desinato.... Prima d'andare a cena, però....

E la mano, levandosi di nuovo, ma non più adunca, riafferrava le guance per grattar l'ispidume dei peli rinascenti.

Che barbacela! Bisognerebbe rifarla per non far voltai'e la gente, entrando nella trattoria....

Cosa strana! Anche la mente pareva scherzasse per proprio conto ; vagolava, parlava tra di cose aliene, senza nes- so tra loro ; seguiva immagini note, che si presentavano, non richiamate affatto; aeree ma precise, fuori della coscienza; e dava suggerimenti, pur sicura di non essere ascoltata....

104 MENTEE IL CUORE SOFFRIVA

A un tratto, però, avveniva come dian- zi, per la tentazione dello specchio: la volontà nemica, come in agguato d'ogni moto istintivo, d'ogni suggerimento che tendesse ad avversarla, lo ghermiva di sorpresa, lo faceva suo per ritorcerlo subito contro il corpo.

La barba, sì. Presto presto. E poi un bagno....

Un bagno? come? di sera? perchè?...

Perchè sì. Pulito, da capo a piedi, E cambiato tutto : maglia, mutande, calzini, camicia.... tutto. Bisognava che, dopo, il corpo fosse trovato pulito. Intanto , la barba, sìibito !

Contrariamente al loro primo deside- rio, le mani si sentivano ora messe a servizio della volontà nemica per un atto che, da normale e consueto che era, di- ventava un' impresa oscura, decisiva e quasi solenne.

Sul cassettone era il pennello, la sca- toletta della pasta di sapone, il rasojo.... Ma bisognava prima versar l'acqua nella catinella, prendere l'accappatojo.... Non sapevano più con precisione le mani quel che bisognasse far prima. Prima Tac- cappatojo, sì....

Nel tondo specchietto a bilico, tirato innanzi sul piano di marmo del casset-

MENTRE IL CUORE SOFFRIVA 105

tone, appariva di tra gli sgonfi del can- dido accappatojo l'ispida faccia.... Dio, come stravolta! quasi aguzzata tutta negli occhi attoniti, truci^: irriconoscibile.... Ed ecco, le mani, impaurite da quegli occhi, allungavano le dita tremolanti al pen- nello, sooperchiavano la scatoletta del- la pasta di sapone; ne, prendevano una ditata, la inserivano tra i peli del pen- nello bagnato ; cominciavano a insaponar le guance, il mento, la gola....

Godevano altre volte gli occhi e gli orec- chi nel vedere e nell'udire il bollichìo e il friggìo della spuma fresca, bianchissi- ma, crescente morbida in volute bamba- giose su le guance, sul mento ; e le dita si compiacevano di quel godimento degli occhi e degli orecchi, e s'indugiavano con voluttà nel far gonfiare la saponata con altre volute più boffici e dense.

Ma ora, no. Ora tremavano ; e i pol- pastrelli avevano quasi perduto il tatto. Tremavano d'armarsi del rasojo, così non più sicure com'erano di sé; guidate, come sarebbero tra poco, da quegli occhi spaventosi.

Il petto ansava; il cuore stesso, che pur soffriva in ed era la causa di tutto, batteva ora in tumulto ; solo un sottil filo di respiro entrava, quasi fi-

106 MENTRE IL CUORE SOFFRIVA

schiando, acuto, per una delle nari, di- latata. Le mani aprivano il rasojo.

Per fortuna, il corpo, aderendo al cas- settone, avvertiva a un tratto su la bocca dello stomaco una pressione dolorosa. Era il mazzetto di chiavi rimasto appeso alla toppa del primo cassetto.

La mano destra, allora, quasi di sua iniziativa, o piuttosto, obbedendo a un istintivo moto di ribrezzo per l'arma vol- garissima già impugnata, posava il ra- sojo sul marmo del cassettone e, invece di estrarre la chiave incomoda dalla top- pa, tirava un po' fuori il cassetto, ne cavava la rivoltella e la poneva sul piano di marmo, discosta.

Era questo un venire a patti con la volontà nemica. Posando la rivoltella sul cassettone, la mano diceva a quella vo- lontà :

Ecco, c'è questa per te. Non hai detto con questa? E lasciami dunque ri- far la barba in pace!

L'ansito del petto cessava. La mano, non più tremante, riprendeva svelta e quasi con gioja il pennello, giacché la spuma s'era ormai tutta rappresa, fri- gida, tra i peli.

Allontanato il pericolo, alleggerito il respiro, le dita lavoravano con voluttà

MENTRE II. GL'ORE SOrFKI\ A 107

insieme col pennello a far ricrescere la saponata; poi, con la massima sicurezza, riprendevano il rasojo, lo passavano su la guancia destri?, a ti'atti netti; su la sinistra; e infine, senz'ombra d'esitazione, su la gola, tornando come prima a com- piacersi del godimento che gli orecchi prendevano del fitto raschìo.

Gli occhi, a poco a poco, avevano per- duto l'espressione truce, ma s'erano ora, quasi subito, velati d'una enorme stan- chezza, dietro alla quale lo sguardo smar- rito esprhneva una bontà pietosa, quasi infantile, lontana. Si chiudevano da sé, quegli occhi di bimbo. E la stanchezza repentinamente invadeva , appesantiva tutte le membra. La volontà però aveva un ultimo guizzo sinistro, e prima che il corpo, così all'ùnprowiso vuoto di for- ze, cascante, si trascinasse fino alla pol- trona a pie del letto, imponeva alla mano di prendere con la rivoltella per po- sarla lì a pie del letto stesso, accanto alla poltrona; come a dire che concede- va, sì, al corpo un po' di riposo, ma che intanto non dimenticava il patto.

L'ultimo barlume del giorno smoriva squallido, umido, alla finestra; l'ombra, poi man mano il bujo, la tenebra entra- vano nella camera, e il rettangolo delia

108 MENTRE IL CDORE SOFFRIVA

finestra ora vaneggiava men nero, pros- simo e lontanissimo, punto da un in- finito formicolìo di stelle.

Il corpo, tutto il corpo dormiva ora col capo appoggiato ai piedi del letto, un braccio proteso verso la piccola rivol- tella.

Senza avvertire il freddo della notte, ch'entrava dalla finestra aperta, dormì quel corpo nell'incomoda positura fino a che il barlume primo del nuovo giorno, pili squallido, più umido dell'ultimo del giorno precedente, non diradò appena appena con un brulichìo indistinto l'om- bra nel vano di quella finestra.

Ma non si svegliarono le membra: il primo a svegliai'si fu il cuore, róso da un tormento che il corpo non sapeva. Si svegliò per avvertire una vacuità spa- ventevole, sospesa nella sua tetraggine, e un senso d'afrezza cruda, atroce, ch'e- manava quasi da una realtà non vissuta e ov'era impossibile vivere. Ecco, biso- gnava approfittare di quest'attimo, che il corpo indolenzito era ancora invaso dal torpore del sonno. Sì, sì, ecco, la vo- lontà poteva piombare su quella mano ancora inerte sul letto, farle impugnare la rivoltella.... Sùbito! Estratta dal fo- dero, così, qua, un attimo, in bocca, sì,

SrEKTRE IL CU0R13 ÈOFFIilVA 109

qua, qua.... con gli occhi chiusi.... così.... ah, quel grilletto, come duro!.., su, for- za.... ec.co... si .

Nel corpo traboccato pesantemente a terra, dopo il rimbombo, le dita delle mani, cedendo lo sforzo violento nel qua- le s'erano serrate, e riaprendosi, già mor- te, lentissimamente da sé, con quel mi- gnolo sbilenco della smistra innajizi a tutte, pareva chiedessero:

E perchè?

Un ritratta*

Stefano Conti?

Sì, signore.... Venga, s'accomodi.

E la servetta m'introdusse in un ricco sai Ottino.

Ah che efletto curioso, quella parola «signore» rivolta a me su la soglia di casa di quel mio amico della prima gio- vinezza, cioè di quando eravamo sempli- cemente lui Nuccio, io Naccio, perchè Stefani tutt'e due lui fino, io gras- so. Ero un signore, adesso ; calvo anche. E Stefano Conti non sapevo ancora se calvo come me ma un signore ri- spettabile doveva essere certamente an- che lui, di trentacinque o trentasei anni.

Nel salottino, tenuto in una penombra umida, nella quale già s'era incrudito quell'odore che cova nei luoghi a lungo privi d'aria e di luce, restai in piedi a guardare con un senso indefinibile di pena e di fastidio i mobiletti nuovi, lindi, disposti in giro, ma copie per non servire,

Pirandello. E domani, lunedì..,, 8

114 UN RITE ATTO

e tristi d'esser lasciati senz'uso e sen- za vita, esclusi dall'intimità della casa.

Non stavano certo ad aspettar nessuno mai, quei mobiletti, in quel salottino ap- partato e sempre chiuso. E il senso di pena, con cui li guardavo, me li faceva ora sembrare intorno come stupiti di ve- dermi tra loro ; non ostili, ma neppure invitanti.

Abituato da un pezzo ormai agli an- tichi mobili delle case di campagna, co- modi, massicci e confidenziali, che han- no acquistato dalla lunga consuetudine e da tutti i ricordi d'una vita placida e sana quasi un'anima patriarcale che ce li fa cari, quei mobiletti nuo\i non mi parevano, a dir vero, fatti per conciliai*e la confidenza e l'intimità. Gracili, rigidi, stavano come compresi di tutte le re- gole della buona società, e si capiva che non lievemente forse avrebbero sofferto e sarebbero stati molto offesi d'una tra- sgressione anche minima a quelle regole.

Ah, viva il mio divanaccio, pen- savo, — il mio divanaccio di juta, ampio e soffice, che sa i miei sonni saporosi dei lunghi pomeriggi d'estate, e non s'of- fende del contatto delle mie scarpacce cretose e della cenere che cade dalla mia vecchia pipai

UN RITRATTO 115

Ma nell'alzar gli occhi a una parete, all'improvviso e con stupore misto a uno strano turbamento, mi pai've eli scorge- re in un ritratto a olio, che raffigurava un giovanetto dai sedici ai diciassette an- ni, il mio stesso disagio e la mia stessaj pena, ma molto più intensa, quasi an- gosciosa.

Restai a mirai'lo, come colto in fallo a tradimento, quasi che in silenzio, a mia insaputa, mentr'io facevo quelle con- siderazioni sui mobiletti del salottino, egli avesse aperto nella parete una finestret- ta inquadrata nella cornice del ritratto e si fosse affacciato a spiarmi di là.

Eh, ; Lei ha ragione : è proprio così, signorel s'affrettarono a dirmi però, per togliermi subito d'impaccio, gli occhi di quel giovinetto. Noi siamo qui tanto tanto tristi d'esser lasciati così soli, senza vita, in questo stanzino pri- vo d'aria e di luce, esclusi per sempre dall'intimità della casa!

Chi era quel giovinetto? Come, don- d'era venuto in quel salottino questo ri- tratto? Era forse prima nell'antico sa- lotto dei genitori di Stefano Conti, la nella casa dov'io andavo, tanti e tanti anni fa, a trovarlo? Forse. In quel salotto non ero mai entrato, perchè Stefano,

116 TJK RITRATTO

m'accoglieva nella sua stanzetta da stu- ello o nella sala da pranzo. Ma chi raffi- gurava?

Il ritratto appariva d'una trentina d'an- ni fa.

Misteriosamente però, e pur nel modo piìi certo e reciso, la vista di quell'im- magine 'escludev,a che questi trent'anni, dal giorno ch'era stata fissata dal pit- tore, fossero stati comunque vivi per essa.

Doveva essersi fermato lì, quel giovi- netto, alle soglie della vita. E aveva negli occhi stranajnente aperti, intenti e come smarriti in una disperata tristezza, la rinunzia di chi resta indietro in una mar- cia di guerra, estenuato, abbandonato senza soccorso in terra nemica, e guar- da gli altri che vamio avanti e sempre piìji s'allontanano portandosi con loro ogni romor di vita, così che presto nel silenzio, che gli si farà vicino, intorno, egli sentirà certa, imminente, la morte.

Nessun uomo di quarantasei o quaran- tasette anni, di sicuro, avrebbe mai aper- to l'uscio di quel salottino per dire, in- dicando nella parete il ritratto:

Eccomi, quand'io avevo sedici anni.

Era senza dubbio il ritratto d'un giovi- netto morto, e lo dimostrava chiai'amente

UN Erra ATTO 117

anche il posto che occupava nel salolti- no, come in segno di ricordo^ ma non molto caro, se era lasciato lì, tra quei mobiletti nuovi, fuori d'ogni intimità del- la casa: posto più di considerazione, cer- to, che d'affetto.

Sapevo che Stefano Conti non aveva aveva avulo mai fratelli; del resto quell'immagine aveva alcun tratto carat- teristico della famiglia del mio amico ; neppure un'ombra di somiglianza con Stefano o con le due sorelle di lui, già da un pezzo maritate. La data del ritrat- to, poi, e quel che si scorgeva del vestia- rio non potevano far pensare che fosse qualche antico parente della madre o del padre, morto nell'adolescenza lontana.

Provai, quando di a poco Stefano sopravvenne e, dopo le prime esclama- zioni nel ritix)varci tanto mutati l'uno e l'altro, ci mettOTimo a rievocare i nostri ricordi ; provai, dico, nell'alzar gli occhi di nuovo a quel ritratto e nel domandare al mio amico qualche notizia di esso, lo strano sentimento di commettere quasi una violenza, di cui dovessi vergognar- mi, una profanazione, o piuttosto, un tra- dimento, che tanto piìi doveva rimorder- mi, in quanto appix)fittavo che nessuno potesse rinfacciarmelo, se non lo stesso

118 UN RITRATTO

mio sentimento, a cui facevo appunto violenza. Mi parve che il giovinetto effigiato, con la disperata tristezza de- gli occhi mi dicesse, ferito: «Perchè chiedi di me? Io t'ho confidato che sento la stessa pena che tu, entrando qui, hai sentito. Perchè esci ora da questa pena e vuoi da altri intorno a me notizie, che io qui muta immagine non posso correggere o smentire?»

Ah, fece Stefano Conti, alla mia prima domanda,, storcendo la testa e le- vando un braccio, come per ripararsi dalla vista di quel ritratto. Per carità, non me ne parlare! Io non posso nean- che guardarlo....

Scusami, non credevo.... balbettai.

N^o ! Non immaginare niente di male, s'affrettò a soggiungere Stefano. Il male che mi fa la vista di questo ritratto è così difficile a dire.... se sa- pessi....

È un tuo parente? m'arrischiai a domandare.

Parente? ripetè Stefano Conti, stringendosi ne le spalle, più forse per ritrai'si da un contatto ideale che gli faceva ribrezzo, che per non saper come dire. Era.... era un figliuolo della mamma...

UN RITRATTO 119

Tal meraviglia afflitta e tanto imba- razzo mi si dipinsero in volto, che Ste- fano Conti, arrossendo improvvisamen- te, esclamò:

Non illcgillinio, ti prego di crede- re! Mia madre fu una santa!

Ma dici tuo fratellastro, allora! gli gridai quasi con ira.

Me lo avvicini troppo, con questa parola, e mi fai male, rispose Stefano, contraendo il volto dolorosamente. Ec- co, ti dirò, mi forzerò a spiegai'ti una difficilissima complicazione di sentimen- ti, che ha poi, come vedi, questo effetto, di farmi tener li, come per un'ammen- da, questo ritratto, la cui vista pur mi sconvolge ancora.... e son passati tanti anni! Sappi che io ebbi attossicata nel modo pili crudele l'infanzia da questo ragazzo, morto di sedici anni. Attossicata l'infanzia nell'amore piìi santo : quello della madre.

Sta' a sentire.

•.Vivevamo allora nella campagna ove son nato e dove dimorai fino ai diec:^ anni, cioè fino a quando mio padre, dis- graziatissimo, non abbandonò l'impresa della Mandrana, che poi ad altri fruttò onori e ricchezza

Vivevamo lì, soli^ come esiliati dal

mondo.

120 UN RITRATTO

Ma quest'esilio lo penso adesso: allora non lo sentivo, perchè non immaginavo neppure che lontano da quella terra, da quella casa solitaria ov'ero nato e cre- scevo, di dai colli che scorgevo grigi e tristi all'orizzonte, ci fosse altro mondo. Tutto il mio mondo era lì, c'era al- tra vita per me fuori di quella de la mia casa, cioè di mio padre e di mia ma- dre, delle mie due sorelle e delle per- sone di servizio.

Io sono per esperienza con coloro che stimano cattivo consiglio lasciare i fan- ciulli nell'ignoranza di tante cose che, scoperte alla fine impro\^dsamente per caso, sconvolgono l'animo e lo guastano talvolta irreparabilmente. ^£nio_ convinto che non c'è altra realtà fuori delle illu- sioni che il sentimento ci crea. Se un sentimento cangia all'improvviso, crolla l'illusione e con essa quella realtà in cui vivevamo, e allora ci vediamo subito sperduti nel vuoto.

Questo avvenne a me a sette anni, per il cangiare improvviso d'un sentimento che, a quell'età, è tutto : quello, ripeto, dell'amor materno.

Nessuna madre, io credo, fu così tutta de' suoi figli come la mia. io, certo le mie sorelle^ nel vederla da,ila

UN RITRATTO ^21

mattina alla sera attorno a noi, proprio dentro la vita nostra, nelle Innghe assenze di mio padre dalla villa, c'immaginavamo ch'ella potesse avere una vita per fuori della nostra. Andava, è vero, di tanto In tanto, una volta ogni due o tre mesi, in città col babbo per tutto: un giorno ; ma credevamo che non s'al- lontanasse aiTatto da noi con quelle gite, fatte come ci sembravano per rinnovar le provviste della casa di campagna. Anzi, tante volte avevamo l'iliusione d'averla spinta noi ad andare in città, per i re- galucci, i giocattoli ch'ella ci recava al ritorno. Ritornava qualche volta pallida come una morta e con gli occhi gonfi e rossi; ma quel pallore, seppure ce n'ac- corgevamo, era spiegato con la stanchez- za del lungo tragitto in biroccino; e quanto agli -occhi, possibile che avesse pianto? Erano così rossi e gonfi per la polvere dello stradone....

Se non che, una sera, vedemmo ritor- nare in villa, solo e fosco, nostro padre.

La mamma?

Ci guardò con occhi quasi feroci. La mamma? Era rimasta in città, perchè,... perchè s'era sentita male.

Ci disse così, dapprima.

S'era sentita male; doveva trattenersi

122 UN RITRATTO

per qualche giorno ; niente di gra- ve; ma aveva bisogno di cure, che in campagna non poteva avere.

Restammo in tale sbigottimento, che mio padre, pur di scuotercene, ci mal- trattò aspramente, con un'ira, che non solo accrebbe il nostro sbigottimento, ma ci offese e ci ferì come una crudelissima ingiustizia.

Non avrebbe dovuto sembrargli natu- rale che restassimo così, a quella noti- zia inattesa?

Ma l'ira ingiusta e l'asprezza non era- no per noi. Lo comprendemmo una de- cina di giorni appresso, allorché mia ma- dre ritornò in villa: non sola.

Vivessi cent'anni, non potrei dimenti- care l'arrivo di lei, in carrozza, innanzi al portone de la villa.

Udendo dal fondo del viale l'allegro scampanellìo dei sonaglioli, ci precipitam- mo giù, io e le mie sorelle, per accoglier- la in festa: ma su la soglia del portone fummo bruscamente arrestati da nostro padre, smontato allora allora da cavallo, tutto ansante e polveroso, per prevenir di qualche passo l'arrivo della vettura che conduceva la mamma.

Non sola! Capisci? Accanto a lei, sor- retto da guanciali, tutto av\^olto in scialli

UN RITHATTO 123

di lana, pallido come di cera, con que- sti occhi intenti e smarriti che tu gli vedi nel ritratto, c'era questo ragazzo: suo figlio! Ed ella era così intenta a lui, così tutta di luiy in quel momento, co- sternata tanto della difficoltà di calarlo giù in braccio dalla vettura senza fargli male, che neppur ci salutava noi, suoi figli soli, fino a jeri neppure ci ve- deva!

Un altro figlio, quello? La mamma no- stra, la mamima tutta di noi fino a jeri, aveva avuto fuori della nostra un'alti'a vita? fuori di noi un altro figlio? quel- lo? e lo amava come noi, più di noi?

Non so se le mie sorelle provarono quel che provai io, nella stessa misura. Io ero 11 più piccolo, avevo appena sette anni. Mi sentii strappare le viscere, il cuore, soffocare d'angoscia, occupar l'a- nimo da un sentimento oscuro, confuso, violentissimo, d'odio, di gelosia, di ri- brezzo, di non so che altro, perchè tutto l'essere mi s'era rivoltato, sti'avolto allo spettacolo d'i quella cosa inconcepibile: che fuori di me mia madre potesse ave- re un altro figlio, che non era mio fra- tello, e che potesse amarlo come me, più di me!

Mi sentii rubare la madre.... No, che

124 UN RITRATTO

dico? Nessuno me la rubava.... Lei, lei commetteva innanzi a me e in me una ^4olenza disumana, come se mi rubasse lei la vita che mi aveva data, staccandosi da me, escludendosi dalla vita mia, per dare l'amore, che doveva esser tutto mio, quello stesso amore che dava a me a un altro, che come me ci aveva diritto, lo stesso diritto che ci avevo io.

Grido ancora, vedi? Risento, a pensar- ci, la stessa esasperazione atroce, lo stes- so orgasmo furibondo d'allora, l'odio che non potè mai più placarsi, per quanto poi mi narrassero la storia pietosa di quel ragazzo, da cui mia madre aveva dovuto staccarsi quando passò a seconde nozze con mio padre, non per volontà di mio padre, ma perchè costretta dai parenti del pruno marito, il quale, sem- bra per gravi dissapori con mia madre, allora giovinetta, dopo quattro o cinque anni di tempestosa vita oonjugale, s'era ucciso.

Tu intendi ora: le rare volte che mia madre si recava dalla campagna in cit- tà, andava a vedere quel suo figliuolo, di cui noi non sapevamo nulla; chei gli cresceva lontano, affidato a un fratello e a una sorella del primo marito. Ora que- sto fratello era morto ; poco dopo il ra-

DN RITRATTO 126

gazzo s'era mortalmente ammalato e mia madre era accorsa al suo capezzale, lo aveva conteso alla morte, e appena con- valescente se l'era portato con in cam- pagna', sperando di fargli riacquistar la salute col suo amore, con le sue cure- Fu tutto invano ; morì tre o quattro mesi dopo. Ma le vsue sofferenze valsero mai a suscitare in me un moto di pie- tà, né la sua morte a placare il mio odio. Io avrei voluto ch'egli guarisse, an- zi ; ch'egli rimanesse lì, tra noi, per riem- pire con l'odio che la sua presenza m'i- spirava il \^ioto orrendo rimasto dopo la sua morte tra me e mia madre. Il vederla riattaccarsi a noi, dopo la morte di lui, come se ormai ella potesse ri- divenir tutta nostra come prima, fu per m'e uno strazio anche maggiore, perchè mi fece intendere ch'ella non aveva af- fatto sentito quel che avevo sentito io ; e non poteva difatti sentirlo, perché quel- lo per lei era un figliuolo, com'ero io. Ella forse pensava: «Ma io non ti amo solo! Non amo anche le tue sorel- le?». Senza intendere che inell'amore ch'ella aveva per le mie sorelle c'ero an- ch'io, mi sentivo anch'io, sentivo ch'e- ra lo stesso amore ch'ella aveva per me: mentre lì, no, nell'amore che aveva per

126 tN EITEATTO

quel suo ragazzo, no! non c'ero, io, non potevo entrarci, perchè quel ragazzo era suo, e quand'ella era di lui e con lui, non poteva esser mia, con me.

Tu capisci: non mi offendeva per me questa sottrazione d'amore ; m'offendeva il fatto ch'era suo quel ragazzo. Questo, questo nt)n sapevo tollerare! Perchè la mamma ora non mi pareva piìi mia. Non mi pareva più la mamma ch^era stata per me prima. Un'altra mamma.... la mam- ma di quel ragazzo.... Poteva esser più la mia di prima?

Da allora credi ti dico un,a cosa orrenda.... da allora io non mi sentii più la m'anmia nel cuore.

L'ho perduta due volte, io, la madre. Ma ne ho anche avute quasi due. Que- sta che m'è morta di recente non era più la mamma, la mamma vera, la mam- ma, di cui si dice che ce n'è una sola. La mia vera mamma, la mia sola mamma, mi morì allora, quand'avevo sett'anni. E allora la piansi davvero : lagrime di san- gue, come non ne verserò mai più in vita mia, lagrime che scavano e lasciano un solco eterno, incolmabile.

Me le sento ancora dentro, queste la- grime che m'awelenai'ono l'infanzia; e le devo a lui. Peixiò t'ho detto che non

tra RITRATTO 127

posso neanche gua'rdaiio. Guardalo tu, amico mio, e compiangilo anche, perchè, vedi? riconosco che fu un disgraziato anche lui, forse incompajrabilmente più disgraziato di me.,.. Ma ebbe almeno la fortuna di non vivere la sua disgrazia, mentr'io, non per colpa, ma certo per causa sua, vissi tant'ianni accanto a mia madre senza più sentirmela nel cuore, come prima.

La rosa.

i

PiKANDKLi 0. E domani, Jimedl...,

I

I.

Nel bujo fitto della sera invernale il trenino andava col passo di chi sa elle tanto ormai non arriva più a tempo.

In veVità la signora Lucietta Nespi, vedova Loffredi, per quanto annojata e stanca del lungo viaggio in quella sudicia, sgangherata vettura di seconda classe, non aveva alcuna fretta d'arrivare a Péola.

Pensava.... pensava....

Si sentiva trasportata da quel trenino, ma con l'anima efa ancora là, nella lon- tana casa di Genova, abbandonata, le cui stanze, sgombre de la bella mobilia ancor quasi nuova, miseramente sven- duta, invece di sembrai'le più grandi, le eran sembrate più piccole. Che tradi- mento !

Aveva bisogno di vederle grandi^ lei^

132

molto grandi e belle, quelle stanze, nel- l'ultima visita d'addio, dopo lo sgombero, per poter dire un giorno, con orgoglio, nella miseria a cui discendeva:

Eh, la casa che avevo a Genova....

Lo aVrebbe detto lo stesso, di certo ; ma in fondo all'anima, ecco, le era ri- masta la strana impressione penosa di quelle stanze sgombre, come le aveva ve- dute l'ultima volta prima di partire: an- guste e punto belle!

E pensava anche alle buone amiche, dalle quali, all'ultimo, non era andata a licenziarsi, perchè anch'esse, tutte, l'a- vevano tradita, pur dandosi l'aria di vo- leva ajutare a gai'a. Oh sì, conducen- dole in casa tanti compilatori onesti, a cui certo, prima, avevano magnificato l'oc- casione di potere aver per cinque ciò ch'era costato venti e trenta....

Così pensando, la signora Lucietta or restringeva or dilatava i begli occhietti vispi e, di tratto in tratto, con una rapi- da, speciosa mossetta, che ie era abi- tuale, levava una mano e si passava l'in- dice sul nasetto ardito e sospirava.

Era stanca veramente. Avrebbe voluto addormentarsi.

I suoi due bimbi orfani, loro sì, poveri amorini, s'erano addormentati: uno, il

133

maggiore, disteso sul sedile, sotto un mantelletto ; l'altro qua, rinchioccito, col capino biondo su le gambe di lei.

Chi sa, si sarebbe forse anch'ella ad- dormentata, se avesse potuto in qualche modo appoggiare un gomito o il capo, senza svegliare il piccino, a cui le sue gambe facevan da guanciale.

Il sedile di fronte serbava l'impronta dei suoi piedini, che vi avevan trovato un comodo sostegno, prima che fosse ve- nuto a prender posto ce n'erano tante ! nossignori! proprio li, in quella vet- tura, un omaccione su i trentacinque an- ni, barbuto, bruno in viso, ma con oc- chi. chiari chiari, verdastri: due occhi grandi così, intenti e tristi.

La signora Lucietta ne aveva provato subito un gran fastidio. Il color chiaro, verdastro di quei grandi occhi intenti le aveva chi sa perchè destato con- fusamente l'idea che il mondo, ovunque ella andasse, le sarebbe rimasto sempre estraneo, ormai, e come lontano, lonta- nissimo e ignoto, e ch'ella vi si sarebbe sperduta, invano chiedendo ajuto, tra tanti occhi che sarebbero rimasti a guar- darla, come quelli, con qualche velo di tristezza, sì, ma in fondo indifferenti.

Per non vederli, teneva da un pezzo

13 l LA EOPA

la faccia voltata verso il finestrino, quan- tunque di fuori non si scorgesse nulla.

Si vedeva solo, in alto, sospeso nella tenebra, il riflesso preciso della lampada a olio della vettura, con la rossa fiam- mella fumosa e vacillante, il vetro con- cavo dello schermo e l'olio caduto, che vi sguazzava.

Pareva proprio che ci fosse un'altra lampada di là, la quale seguisse con pena, nella notte, il treno, quasi per dargli insieme conforto e sgomento.

La fede.... mormorò, a un certo punto, quel signore.

La signora Lucietta si voltò con aria stordita, un'ombra di sorriso vano su le labbra e gli occhi vaghi.

Che cosa?

Quel lume che non c'è. Ravvivando il sorriso e lo sguardo,

signora Lucietta levò un dito a indicar la lampada nel cielo della vettura.

Eccolo qua!

Quel signore approvò più volte col capo, lentamente; poi aggiunse, con un sorriso triste:

Eh sì, come la fede.... Accendiamo noi il lume di qua, nella vita; e lo ve-^ diamo anche di là; senza pensare che se si spegne qua, di non c'è più lume.

\'V

È filosofo lei! sorrise allora la si- gnora Liicietia.

Quegli alzò una mano dal pomo del bastone a un gesto vago e sospirò:

Osservo....

Il treno si fermò per un gran pezzo innanzi a una stazionuccia di passag- gio. Non si udiva alcuna voce e, cessato il rumor cadenzato delle ruote, l'attesa in quel silenzio pareva eterna e sbigottiva.

M azzano, mormorò il signore. Si aspetta al solito la coincidenza.

Alla fine, giunse da lontano, lamentoso, il fischio dei treno in ritardo.

Eccolo....

Nel lamento di quel treno, che cor- reva nella no Ite per la stessa via su cui tra poco anche lei sarebbe passata, la signora Lucietta udì per un momento la voce del suo destino, che, sì, proprio, la voleva sperduta nella vita insieme con quelle due creaturine.

Si riscosse dall'angoscia momentanea e domandò al compagno di viaggio:

Ci vorrà ancor molto a Péola?

Eh, ~ rispose quegli, più di un'ora.... Scende a Péola anche lei?

Io sì. Sono la nuova telegrafista io. Ho vinto il concorso. Son riuscita la quinta, sa? M'han destinata a Péola!

136

Ah, guarda.... Sì, sì, la aspettavamo difatti per jeri sera.

La signora Lucietta s'animò tutta:

E difatti, già, cominciò a dire; ma subito arrestò lo slancio per non rompere il soimo al suo piccino. Aprì le braccia e, indicandolo con lo sguardo e poi indicando l'altro di là: Ma vede come sono legata? soggiunse. E da me sola.... a dovermi staccai'e da tan- te cose....

Lei è la vedova Loffredi, è vero?

Sì....

E la signora Lucietta chinò gli occhi.

Ma non si è saputo più nulla? domandò, dopo un breve e grave silen- zio, quel signore.

Nulla. Ma c'è chi sa! disse con un lampo negli occhi la signora Lucietta. Il vero assassino del Loffredi, cre- da, non fu il sicario che lo colpì pro- ditoriamente a le spalle e scomparve. Hanno \ioluto insinuare, per motivo di dornie.... No, sa! Vendetta. È stata una vendetta politica. Per il tempo che il Loffredi aveva da pensare alle donne, una gli era anche di troppo. Gli bastavo io. Si figuri, mi prese a quindici anni!

In così dire, il viso della signora Lu- cietta si fece rosso rosso, gli occhi le

137

brillarono inquieti, sfuggirono di qua, di là, e alla fine si chinarono come dianzi.

Quel signore stette un pezzo a osser- varla, impressionato del rapido passaggio dall'eccitazione improvvisa all'improvvi- sa mortificazione.

Ma via! come prendere a lungo sul serio quell'eccitazione e questa mortifi- cazione? Benché mamma di quei due pic- cini, 'ella pareva ancora una bambina, anzi una bamboletta; e s'era forse mor- tificata lei stessa d'aver con tanta fer- mezza e così in prima, senz'alcuna ra- gione apparente, asseverato che il Loffre- di, avendo per moglie una cosina così fresca e vispa come lei, non aveva potuto pensar mai ad altre donne.

Doveva esser sicura che nessuno, ve- dendola e sapendo che uomo era stato il Loffredi, le avrebbe creduto. E questo certamente la irritava, non solo perchè offendeva il suo amor proprio, ma anche perchè, evidentemente, ella era orgoglio- sa, dopo la tragedia, d'essere stata mo- glie di quell'uomo e d'esserne ora la ve- dovella. Dopo la tragedia, però. Vivo il Loffredi, ella aveva dovuto averne una gran suggezione, e forse, ricordandolo, ne aveva ancora, sì, e fors'anche di que- sto s'indispettiva, e ora faceva sforzi per

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liberarsene. Non poteva soffrire si so- spettasse che il Loffredi aveva potuto non curarsi di lei, e che ella era stata per lui una bamboletta e nient' altro. Vo- leva esser l'erede unica almeno di tutto il chiasso, che la tragica fine del fiero e impetuoso giornalista genovese aveva sol- levato, circa un anno addietro, in tutta la stampa quotidiana d'Italia.

Fu molto soddisfatto quel signore d'a- ver così bene indovinato l'animo e l'in- dole di lei, allorché, spintala con brevi e accorte domande a parlar de' suoi casi, n'ebbe la conferma dalla sua stessa bocca.

E una gran tenerezza s'impadronì allo- ra di lui per le arie di libertà che si dava quella calandrella or ora uscita dal nido, inesperta ancora del volo ; per le fiere proteste che faceva del suo avve- dimento e del suo gran coraggio. Ah, che! che! non sarebbe mai perita lei. F'igurar- si, dall'oggi al domani, sbalzata da uno stato all'altro, tra l'orrore e il trambusto della tragedia, non s'era perduta un mo- mento ; era corsa qua, era corsa ; ave- va fatto questo e quest'altro, non tanto per sé, no, quanto per quei due poveri piccini.... ma via, sì, un po' anche per sé, che in fin dei conti aveva appena ven-

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t'anni. Venti, già, e non li mostrava nep- pure.... Un altro ostacolo, questo, e il pili dispettoso di tutti. Perchè ognuno, vedendola accanita e disperata, si mette- va a ridere, quasi ella non avesse il di- ritto d'accanirsi tanto, di disperarsi tan- to. Ah che rabbia! Ma più s'arrabbiava, e pili gli altri ridevano. E, ridendo, chi le prometteva una cosa e chi un'altra; ma tutti avrebbero voluto accompagnar la promessa con una carezzina, che non osavano farle, ma che ella leggeva loro chiaramente negli occhi. S'era stancata, alla fine; e, pur d'uscirsene, eccola là: telegrafista a Péola!

Povera signora! sospirò, sorri- dendo anche lui, il compagno di viaggio.

Povera perchè?

Eh.... perchè.... vedrà, non si diver- tirà molto, a Péola.

E le diede qualche ragguaglio del pae- sello e della vita di esso, se pur vita si poteva chiamare.

Per tutte le viuzze e le piazzette la noja, a Péola, era visibile e tangibile, sempre.

Visibile? Come?

Sì, in una infinita moltitudine di cani, che dormivano da mane a sera, sdrajati su l'acciottolato.

140 LA EOSA

Non si svegliavano neanche per grat- tarsi, quei cani; o meglio, si grattavano, seguitando a dormire.

E guaj a chi, a Péola, ..priva la bocca per sbadigliare! Doveva rassegnai'si a te- nerla aperta un bel pezzo, per un'infi- lata di almeno quattro o cinque sbadigli alla volta. La noja, entrata in bocca a uno, non si risolveva a uscirne facil- mente. E tutti, a Péola, per ogni cosa da fare chiudevano gli occhi e sospira- vano :

Domani....

Perchè oggi o domani era lo stesso, cioè domani non era mai.

Vedrà quanto poco avrà da fare al- l'ufficio del telegrafo, concluse. Non se ne serve mai nessuno. Vede questo; trenino? Va col passo d'una diligenza. E anche la diligenza rappresenterebbe un progresso per Péola. La vita, a Péola, va ancora in lettiga.

Dio Dio, lei mi spaventa! disse la signora Lucietta.

Non si spaventi, via! sorrise quel signore. Ora le do una buona notizia: fra pochi giorni avremo al Circolo una festa da ballo.

Ah...

E la signora Lucietta lo guardò cornei

141

colta in un lampo dal sospetto, che anche questo signore si volesse burlar di lei.

Ballano i cani? domandò.

No: i «civili» di Péola.... Ci vada: si divertirà. Giusto il Gii'colo è su la piazza, vicino all'ufficio del telegrafo. Ha trovato alloggio?

La signora Lucietta rispose di sì, che lo aveva trovato nella stessa casa, che prima ospitava l'ufficiale telegi'afioo suo predecessore. Poi domandò:

E lei, scusi.... il suo nome?

Silvagni, signora. Fausto Silvagni. Sono il segretario comunale.

Oh guarda! Piacere.

Mah!

E il Silvagni levò una mano dal pomo del bastone a un gesto sconsolato, at- teggiando il volto d'un sorriso amaiis- simo, che gli velò d'intensa malinconia i grandi occhi tristi.

Il treno salutò con un fischio lamen- toso la stazionuccia di Péola.

Qua?

142 LA ROSA

II

Aver lì, nel loro modestissimo paesel- lo — puntino neppure segnato nelle carte geografiche d'Italia, ma che tuttavia tra quell'ampia chiostra di monti azzurrini spaccata qua e da vaporose vallate fosche di querci e d'abeti, gaje di casta- gni, piccolo piccolo c'era, sì, col suo muc- chietto di tetti roggi e i suoi quattro cam- paniletti scuri; c'era, per quanto fatto maluccio, con anguste piazzette sbieche, e storte o scoscese viuzze dal ciottolato rot- to tra case piccole vecchie e case un po' più grandi nuove, ove, alla buona di Dio, ma si viveva aver lì, dunque, la ve- dova di quel giornalista Loflredi, della cui tragica morte ancora avvolta nel mi- stero si seguitava di tanto in tanto a parlare con rinnovato ardore nei gior- nali delle più grandi città, segnate esse nelle carte geografiche d'Italia^ par- ve ai «civili» di Péola quasi un titolo di gloria.

Certo, via, privilegio era, e non co- mune, poter sapere dalla viva voce di lei tante cose che gli altri, nelle grandi

LA ÈOSA 14S

città, non sapevanio ; ma anche solamen- te vederla, tra loro, e poter dire:

Ecco, il Loflredi, vivo, tenne stretta fra le braccia quella cosetta lì....

Per i «civili» di Péola, dicia^io. Per- chè, quanto ai caiii, in verità avrebbero seguitato pacificamente a dormire sdra- jati per le viuzze e le piazzette del paese, senza il minimo sentore di quel privile- gio non comune, se tutt'a un tratto es- sendosi sparsa la voce della cattiva im- pressione che essi avevano fatto e face- vano col loro sonno perpetuo alla signora Lucietta la gente, specie i giovanotti, ma anche gli uomini maturi, non si fos- sero messi a disturbarli, a cacciai'li via a calci o pestando i piedi e battendo le mani, per chiasso.

Le povere bestie si levavano da terra seccatissime, ma più che seccate, for- se, stupite: guardavano un po' di tra- verso, alzando appena un'orecchia: poi se n'andavano alcune ballonzolando su tre zampe con la quarta rattratta, aggranchita a sdrajarsi più la, donde poco dopo erano anche cacciate via. Ma che cos'era?

Eh, che cos'era.... Forse l'avrebbero ca- pito, se fossero stati cani un poco più intelligenti e meno imbalorditi dal son-

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no. Bastava, santo Dio, fermarsi un po' a guardare in distanza, dalle imbocca- ture della piazzetta ove a nessuno di loro era più permesso, non che di sdra- jarsi per un minuto, ma neppur di pas- sare di corsa. C'era in quella piazzetta l'ufRcio del telegrafo. E si sarebbero ac- corti, se fossero stati cani un poco piìi intelligenti, che tutti, passando di là, spe- cialmente i giovanotti, ma anche gli uo- mini maturi, pareva entrassero in un'al- tra aria, più lieve, più vivida, più lumi- nosa, in un'aria diciamo inebriante, per cui il passo, tutti i moti della persona, in ispecie del collo e delle braccia, di- ventavano sùbito più svelti, più agili ; e tutte le teste, ecco, si rigiravano come se, per un tuffo di sangue improvviso^ non trovassero più da rassettarsi entro il giro del colletto inamidato, e tutte le mani si davano un gran da fare per tirar giù il panciotto, giù, o aocomodair la cravatta su lo sparato, ben bene.

Ma ii peggio era che, attraversata la piazzetta, quell'aria inebriante pareva se la portassero via, attorno, con sé. Ilare, gaja, e:

Passa via!

Fuori dai piedi!

Via di qua, brutta bestiaccla!

Ì,A ROSA . Ì4b

E anche sassate, ohe non bastava- no i calci tiravano anche sassate ora, ohe!

Per fortuna, in loro ajuto, qualche fi- nestra si spalancava di furia, segnata- mente lì nella piazzetta del telegrafo, e una testa di donna, con occhi feroci^ schizzanti, ve.rde di bile, tra due pugna rabbiosamente pix)tese s'av\'entava a gri- dare:

Ma perchè? Ma che v'ha preso, ma- nigoldi, contro codeste povere bestie?

Oppure:

Oh via! Anche lei? Mi faccio mera- viglia, signor notajo! Come non si ver- gogna, scusi? Ma guarda che calcio a tradmiento, povera bestiolina! Qua, ca- ra, vieni qua, vieni qua.... La zampina, guardate.... le ha storpiata la zampina e se ne va col siga,ro in bocca, come se non sapesse niente, ve,rgogna, un uomo se- rio!... Qua, cara, qua, cara....

In breve, una vivissima simpatia ven- ne a stabilirsi ti-a le brutte donne di Péola e quei poveri cani presi così tuf- fa un tratto a perseguitare da' loro uo- mini, mariti, padri, fratelli, cugini, fidan- zati e in fine, per contagio, anche da tutti i ragazzacci.

Quell'aria nuova, queU'ai'ia che i loro

PiflANDELLO. E domani, lunedi..,. '" 10

l46 LA ROSA

uomini respiravano da alcuni giorni e per cui avevano gli occhi vivi vivi e l'aspetto stralunato, esse sì, le donne, un poco più intelligenti dei cani al- meno alcune l'avevano avvertita su- bito. S'e.ra come diffusa sui roggi tetti ammuffiti e in ogni angolo crepaccliiato del vecchio sonnolento paesello e lo ila- rava tutto (agli occhi degli uomini, s'in- tende).

Ma sì. La vita.... angustie, noje, ama- rezze.... — ma poi, tutt'a un tratto, ecco,

si ,ride oh Dio', così.... per niente

si ;ride. Se dopo giorni e 'giorni di bruma e di pioggia spunta un occhio di sole, non s'allegrano tutti i cuori? non trag- gono tutti i petti un .respiro di sollievo? Ebbene, che cos'è? Niente.... un occhio di sole; ma la vita appa,re subito un'al" tra.... il peso della noja s'alleggerisce, i pensieri più cupi s'inazzurrano ; chi non è voluto uscir di casa, viene aira-t perto.... Ma sentite che buon odore di te^rra bagnata? Oh Dio dome si respira bene.... F|rescura di funghi, eh? E tutti i disegni pe^r la conquista dell'avvenire diventano facili, agevoli; e ciascuno si scrolla d'addosso il ricordo delle bussate più solenni, ridonioscendo che, via, ave- va dato ad esse troppa importanza. Che

tA ROSA 147

diamine, su, su, su! Che, su? Ma sì, bi- sogna tenersi su.... I baffi? Ma sì, anche i baffi su!

Cara^ perchè non ti petthii un po,-i cliino meglio?

Effetti dell'occhio di sole spuntato im- provvisamente a Pé'ola nella piazzetta dell'ufficio telegrafico. Oltre la persecu- zione ai canij questa domanda di tantij mariti alla loro moglie:

Perchè non ti pettini, cara, un po- chino meglio?

E mai, certo, da anni e anni, al Circo- lo, per via, nelle case, a passeggio, ave- vano canticchiato tanto', senza volerlo, senza saperlo^ i «civili» di Péola.

La signora Lucietta vedeva e sentiva tutto questo. Il guizzare di tanti desiderii da occhi accesi che la schivano in tutte le mos^e e la carezzavano con lo sguardo voluttuosamente, il calore di simpatia che la avvolge va^ inebriarono in breve an- che lei.

Non ci sarebbe voluto tanto^ perche g'ìà fremeva, friggeva di per quel cor- picino svelto e saldo. Che impiccio le davano certe crocchette di capelli, che le cadevano su la frionte appena chinava il capo per seguir con gli occhi il nastro di carta punteggiato che si svolgeva dal-

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la macchinetta ticchettante sul tavoìino dell'ufficio! ScrioUava il capo e quasi sob- balzava^ come per un vellicamento di sorpresa. E che impnovrise caldane e che subitanei arresti di respiro, che fi- nivano a un tratto in una stanca, mesta, graziosissima risatina! Oh, ma piangeva anche, sì, sì, piangeva in certi momen- ti, di nascosto, così.... tiitt'a un tratto, senza saper perchè.... Certe lagrime cal- de, brucianti, per un oscuro, improv- viso scompiglio nella mente, per uno strano orgasmo^ che le dava un serpeg- giar di smanie per tutto il corpo^ un'in- sofferenza esasperata.... Non poteva ar- restarle', quelle lagrime, e sbuffava, sbuf- fava; ma poij subito dopo, per un non- nulla, ecco, si rimetteva a ridere.

No, via: per non pensai'e a niente, per non andare svolazzando con la fantasia dietro ogni immagine comica o pericolo- sa, per non sorprendersi assorta in cer- te previsioni inverosimili, strane, l'unica era d'attendere giudiziosamente al suo ufficio: sì, ecco, raccogliersi, prendere a due mani e tener ben ferma l'attenzione perchè tutto procedesse dentro in per- fetta regola, con perfetto ordine. E ri- cordarsi ricordarsi sempre^ sempre, che a casa, intanto, affidati a una vecchia

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serva mollo stupida e rozza^ c'erano i suoi due poveri piccini orfani.

Dio Dio, elle pensiero era questo.... Tirarli su, da sola, col suo lavoro^ col suo sacrificio, quei figliuoli.... e come? così, miseramente pur troppo, oggi qua, domani là, randagia con essi, tra tante difficoltà. E poi? Poi, quando sarebbero cresciutij quando si sarebbero fatta una vita per loro, ecco, essi forse del s!uo sacrificio, di tutte le sue pene.... No, via! via! erano ancor tanto piccini.... Perchè immaginare queste cose brutte? Sai'ebbe stata vecchia_, lei, allora, sarebbe pas- sato comunque il suo tempo ; e quando il tempo è passato e si è vecchi;, anche alle cose brutte e tristi ci s'abitua a far buon viso....

Chi diceva cosi? Lei, lo diceva. Sì, lei, ma non perchè veramente le sorgessero' spontanee nelF animo queste considera- zioni affliggenti....

Passava ogni mattina dall'ufficio, e tal- volta anche sul tramontoi^ quando usci- va dal municipio, il segretario comuna- le, quel signor Silvagni; quel signor Sil- vagni. Dio mio, sì, tanto buono con lei, gentile.... Ebbene? No, niente: passava e si tratteneva un momento^ sull'uscio o innanzi aJ.lo sportello,... Di cose aliene

150 LA EOSA

parlava, anche liete, e rideva con lei della caccia che si dav,a ai cani, per esempio, e delle difese che ne prende- van le donne del paese. Ma negli occhi di quell'uomo, in quei grandi occhi chiari, verdastri, intenti e tristi, che le resta- vano a lungo hnpressi nella memoria dopo ch'egli se n'era andato via^ ella leggeva quelle considerazioni affliggenti. Il pensiero dei figliuoli^ ogni volta, chi sa perchè?, glielo richiamava lui, angoscio- sissùno, pur senza ch'egli ne avesse chie- sto affatto o glien' avesse fatto parola per incidenza....

Tornava a sbuffare la signora Lucietta, a ripetersi che i suoi figliuoli erano an- cor tanto piccini.... e dunque^ via! per- chè avvilirsi? non doveva e non voleva. Là, su, su, coraggio! Era giovine, lei, per ora.... tanto giovine.... e dunque....

Come dice, signore? Ma sì: conti le parole del telegrammaj e poi calcoli due soldi di più. Vuole un modulo a stam- pa? No? Ah, tanto per saperlo.... Ho capito. A rivederla, signore.... Ma di nien- te, si figniri....

Quanti ne entravano all'ufficio a rivol- gerle di quelle stupide domande! Via^ come non ridere? Eran pur buffi davve- ro tutti quei signori di Péola.... E quella

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coininissione di giovanotti, soci del Cir- colo di compagnia, col loro bravo presi- dente anziano nel mezzo, entrata all'uf- ficio una mattina^ per invitarla alla fa- mosa festa da ballo annunziatale in tre- no dal signor Silvagni! Che scena! Tutti con gli occhi spiritati, che da un canto pareva se la volessero mangi,are e dal- l'altro provassero una strana meraviglia nell'accorgersi che da vicino ella aveva il nasetto così e così, cosi e così la bocca e gli occhi e la fronte, per non par- lare che della testa soltanto ! Ma i più impertinenti erano anche i più impac- ciati. Nessuno sapeva come cominciare:

Vorrà farci Fonore.... È consuetu- dine annuale^ signora.... Una piccola soirée dansante.... Oh, ma senza pre- tese, si figjuri! Festa in famiglia.... Ma sì', lasciate dire! È consuetudine annuale, signora.... Ma via, che dire! basta che voglia veramente onorarci....

Si torcevano, strizzavano le mani, si guardavano in bocca l'un l'altro nel- fatto che si buttavano a parlare, mentre il presiderite, che era anche il sindaco del paese, s^intozzava sempre più, pao- nazzo dalla stizza. S'era preparato il discorso, lui, e non glielo lasciavano dire. S'era passato anche il cerotto con gran

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cura su la lunga ciocca di capelli ri- girata sul cranio, e aveva infilato i guan- ti canarini e inserito due dita, dignitosa- mente, tra i bottoni del panciotto.

È consuetudine annuale, signora....

La signora Lucietta, confusa, imbaraz- zata, per quanto con una gran voglia di ridere in corpo, tutta vermiglia in volto per quei pressanti inviti^ che più che dalle bocche impacciate le venivano dagli occhi cupidi, ardenti, cercò di schermirsi in prima.... non per cosa.... l'onore, il piacere, ma figurarsi! sarebbe- ro stati suoi.... era però ancora a lutto, ecco, lo sapevano.... e poi, i due figliuo- li?... stava con loro la sera soltanto.... non li vedeva per tutto il giorno.... era usa metterli a letto lei.... e poi aveva tante cose a cui attendere....

Ma via! per una sola sera!... Po- teva anche venire dopo averli messo a letto.... E non c'era la serva?... per una sera !

A uno dei giovanotti, nella furia, scap- pò detto finanche:

Il lutto? Ma che sciocchezze! Ebbe una gomitata in un fianco, povero

giovino tto, e non fiatò più.

La signora Lucietta promise in fine che sarebbe andata, o più tosto, che

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avrebbe fatto di tutto per andare; ma poi, rimasta sola....

Cile? L'anellino, quel cerchietto d'oro che il Lofì'redi, sposando, le aveva mes- so al dito.... Possibile? L,a sua manina era allora così gracile e fina.... manina di ragazzetta.... E ora che le dita erano un po' ingrossate....

Niente, non diceva per questo ; non diceva nulla, la signora Lucietta : rimasta sola, assorta in pensieri, si stropicciava con le dita dell'altra mano l'anulare stret- to da queir,anellino, clie le faceva male.... proprio male, ecco. Così stretto era, che non poteva cavarselo più....

III.

Come, d'onde, tutt'a un tratto quella sera, così fuor di stagione, era sbocciata in un vaso sul vecchio polveroso porta- fiori di legno dorato, presso la finestra, quella magnifica rosa rossa, che avven- tava la sua giojosa freschezza violenta tra lo smortume di quella saletta di quartino mobigliato, dalla tappezzeria grigiastra, ragnata e scolorita, dagli anti- chi mobili incrostati dall'uso e cadenti?

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Di là, nella camera attìgua, la signo- ra Lucietta stava a dire a stessa di no, che non sarebbe andata alla festa da ballo ; e dondolava aòh su le ginocchia il suo angioletto biondo, ve- stito di nero aòh, aòh questo suo più piccolo, caro caro, che voleva ogni sera addormentarsi in braccio a lei. L'al- tro, il maggiore, spogliato dalla vecchia serva taciturna, s'era messo da per benino nel suo tettuccio e.... sì? sì, che bellezza! già dormiva. Ma tornava a dire a stessa di no, la signora Lu- cietta, di no, di no ; e pure, ecco, con la maggior leggerezza di mano possibile prendeva ora a svestire il suo piccino, già addormentato anch'esso, in grembo a lei; pian pianino le scarpette, una e due; pian pianino i calzini, uno.... e due; e via ora i calzoncini insieme con le mu- tandine.... e ora, ah ora, ecco, veniva il diffìcile: sfilare i braccìni dalle maniche del giubbetto alla cacciatora: su, piano piano, con l'ajuto della serva.... non così, di qua.... sì, giìi.... piano.... piano, ecco fatto! E ora da quest'altra parte....

No, amore.... Sì, qua.... qua.... con mamma tua.... è mamma tua qua.... La- sciate, faccio da me.... Rimboccate la co- perta, piuttosto.... sì, costà, pian pia- nino....

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Ma perchè poi così tanto pian pianino? Perchè, proprio proprio no, non voleva andare ?

Ma come, vestita così di nero per il lutto di quel marito, come andare, ora, a un amio appena da quella morte tra- gica, a una festa da ballo? Sì, è vero, sì, se l'era presa di prepotenza, a quindici anni, quell'uomo, a quindici anni, sen- za darle neppure il tempo di sfogarsi a giocare con le sue bambole! Le avevaj tolto di mano le bambole e le aveva dato invece, là, quei due piccini, per segui- tare con essi il giuoco, m'a, a costo di tanti dolori, e adesso..., adesso.... Ma sì, ah Dio, sì, perdono.... ballare, ballare: ne aveva una gran voglia! Quella sera vo- leva ballare!

Uscita dalla camera nella saletta oh' meraviglia! Come sbocciata all'improv- viso dal suo desiderio ardente di gioja, ecco quella rosa, quella magnifica rosa rossa, là, sul vecchio portafiori polve- roso di legno dorato! Come, donde era venuta? In tanti giorni, ch'ella stava li, non s^era neanche accorta che pressoi quella finestra ci fosse un portafiori e quel vaso di rose.

Come bèlla! Che riso! E così fuor di stagione! Possibile che non fosse sboc-

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ciata per lei, quella sera? per quella, festa?

Alla vista di essa, così viva, così ac- cesa, così fresca, scomparve tutto, per incanto. Liberata dalla perplessità che fi- nora la aveva tenuta^ dall'orrore dello spettro del marito, dal pensiero dei figli, corse, la staccò dal gambo e istintiva- mente, presentandosi innanzi allo spec- chio su la mensola, se la accostò al capo.

Sì, là! Non aveva altro abito da in- dossare. Ebbene: nient'altro! Avrebbe portato alla festa i suoi venf anni, quella rosa tra i capelli e la sua gioja vestita di nero....

Via!

IV.

Fu l'ebbrezza, fu il delirio, fu la pazzia.

Al suo primo appai'ire, quando già qua- si tutti avevan perduto la speranza ch^ el- la venisse, le tre cupe sa,le del Circolo; a pianterreno, divise da due larghe ar- cate, malamente illuminate da lampade a petrolio e da candele, parve che all'im- provviso sfolgorassero di luce, tanfera

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acceso il suo visiiio quasi febbrile e sbi- gottito dal fremito interno del sangue, e così fulgidamente le sfavillavano gli oc- chi e così pazza di gioja le strideva quel- la rosa di fuoco tra i capelli neri.

Tutti gli uomini perdettero la testa. Irresistibilmente, sciolti d'ogni legame di convenienza, d'ogni riguardo alla gelosia delle mogli o delle fidanzate, all'invidia delle zitellone, figliuole, sorelle, cugine, sotto colore che bisognava accogliere con festa l'ospite forestiera, accorsero a lei in folla, con vivaci esclamazioni, a com- plimentarla, e per lì, subito, poiché già le danze erano cominciate, senza neanche darle tempo di volgere un'oc- chiata attorno, presero a contendersela tra loro. Quindici, venti braccia le s'of- frirono col gomito teso. Tutti da pren- dere; ma quale per primo? A uno per volta, sì.... Avrebbe un po' per volta bal- lato con tutti.... Ecco, largo! largo! Su, e la musica? Ma che facevano i musi- canti? S'erano anch'essi incantati a mi- rare? Musica! musica!

E via, tra i battimani, ecco spiccata la prima danza col vecchio sindaco e presidente del circolo in abito lungo.

Ma bravo ! ma bravo !

Che scosci, guardate!

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E le falde.... guardate quelle falde, come s'aprono e chiudono su i calzoni chiari !

Ma bravo ! ma bravo !

Oh Dio, la ciocca! la ciocca incerot- lata.... gli si stacca la ciocca!...

Ora basta! ora basta!

Che? La conduce a sedere? Ma via! Altre quindici, venti braccia col gomito

teso :

Con me! con me! con me!

Ecco, pazienza....

Un momento ! un momento !

L'ha promesso a me!

No, prhna a me!

A me! a me!

Dio, che indecenza! Dio, che scandalo! Per miracolo non facevano a strattarsi l'un l'altro. I respinti, in attesa che ve- nisse il loro turno, si recavano mogi mogi a invitare altre dame^ delle loro; qualcuna, più brutta, accettava ingrugna- ta; le altre, indignate, stomacate, rifiuta- vano con un:

Grazie tante! a schizzo.

E si scambiavan tra loro con occhi feroci sguardi di schifo ; qualcuna scat- tava da sedere, faceva cenni violenti di volersene andare ; invitava, questa e quel- l'amica a seguirla: via tutte! via tutte!

LA ROSA 159

Che vergogna! Non s'era mai vista una cosa simile!

È vero? è veix)?

Lo domandavano, ailcune quasi pian- genti, altre tremanti di rabbia, furibonde, a certi omicelli meschini, stremenziti in vecchi abitucci lustri, di taglio antico, ben conservati, odoranti di pepe e di can- fora, i quali, come foglie secche, per non esser rapiti dal turbine, s'eran riti^atti al muro, riparati trai le oneste gonne di seta, stridenti dei più vivaci colori, verdi gialle, rosse, celesti, che ermeticamente, con gran conforto delle loro nai'i e della loro coscienza, custotlivano, così prese dal tanfo delle onorate cassapanche, gli arcigni pudori di quelle bionde grasse, di quelle brune legnose.

Il caldo a poco a poco nelle tre sale s'era fatto soffocante. Quasi una nebbia si diffondeva dal vaporare della bestia- lità di tutti quegli uomini, nei quali già la frenesia bolliva: bestialità ansante, paonazza, sudata, che del sudore, nelle brevi ti'egue allucinate, profittava con oc- chi folli per rassettarsi, inooUai'si, rin lisciarsi con mani tremanti sul capo, su ie tempie, su la nuca, i capelli bagnati, irsuti. E si ribellava, onnai, quella bestia- lità, con tracotanza inaudita a ogni ri-

160 la. UOSA

chiamo della, ragione: veniva una volta l'anno la, festa! Del resto, nulla di male! Zitte e a posto, le donne!

Fresca, leggera, tutta compresa e chiu- sa nella sua gioja, che respingeva ri- dente vibrante ogni contatto brutale, guizzando con scatti improvvisi, per ap- pagarsi solo di stessa, intatta e pura in quel suo momento di follia, agile fiam- ma volubile in mezzo al tetro fuoco di tutti quei ciocchi congestionati, la signo- ra Lucietta, vinta la vertigine, divenuta lei stessa vertigine, ballava, ballava, sen- za più nulla vedere, senza più distinguere nessuno ; e gli archi delle tre sale, i lumi, i mobili, le stoffe gialle, verdi, ros- se, celesti delle signore, gli abiti neri e i canditi sparati delle camicie degli uomini, tutto le s'avvolgeva ormai attor- no in strisci voraginosi. Si staccava d'un balzo dalle braccia d'un ballerino, ap- pena lo sentiva stanco, pesante, ansi- mante, e sùbito si buttava tra altre brac- cia, le prime che si vedeva tese davanti,i e via, via per riavvolgersi in quegli stri- sci voraginosi, per farsi girare ancora attorno in frenetico scompiglio tutti quei lumi e tutti quei colori.

Seduto nell'ultima sala, in fondo, acco- sto al muro, in un canto quasi in ombra,

La kosa l6l

con le inani sul pomo del bastone e sfu le mani il mento e la grossa barba fulva, Fausto Silvagni da circa due ore la se- guiva coi grandi occhi chiari, animati da un benigno sorriso. Egli solo inten- deva tutta la purezza di q-^ella folle gioja, e ne godeva come d'un raro, divino spet- tacolo ; ne godeva come se quel tripudio innocente fosse un dono della sua te- nerezza a lei.

Tenerezza solo? ancora solo tenerez- za? non gli palpitava già troppo dentro, per essere ancora solo tenerezza? Chi sa!

Da anni e anni Fausto Silvagni con quei suoi occhi intenti e tristi guardava come da lontano ogni cosa ; come già pas- sato, il presente; come remote ombre evanescenti, gli aspetti vicini ; e così pure, entro di sé, i suoi pensieri, i suoi sen- timenti.

Fallita per avversità di casi, per gi'a- vosi obblighi meschini la sua vita, spenta sul pili bello la luce di tanti sogni te- nuta fin da ragazzo accesa con l'ardore di tutta l'anima (sogni che ora non po- teva richiamare al suo ricordo senza stra- zio e senza rossore), egli rifuggiva dalla realtà, nella quale era costretto a vivere. Ci camminava, se la vedeva attorno e la toccava^ ma nessun suo pensiero, nes-

PiRANDELLO. E domani, lunedì.... 11

162 tA KOS A

sun suo sentimento riuscivano ad acco- starsi a essa; e anche stesso vedeva come lontano da sé, peixluto in un esi- lio angoscioso.

Ma ecco che, in questo esilio, un sen- timento all'improvviso era venuto a rag- giungerlo ; un sentunento ch'egli avreb- be voluto tener discosto per non rico- noscerlo ancora. Non avrebbe voluto ri- conoscerlo, ma non osava più neanche di scacciarlo ; ed ecco che a poco a poco esso si ùnpadroniva di lui, prepotente.

Non era forse volata da' suoi sogni lontani, da quei sogni il cui ricordo era per lui strazio e rossore, questa cara folle fatina vestita di nero, con una rosa di fiannna tra i capelli? Chi sa! Potevano anche essere i suoi sogni stessi, divenuti vivi, ora, in questa fatina, perchè egli, non avendo potuto raggiungerli allora sott' altra forma, in questa se li stringes- se ora, v'ivi e spiranti, tra le braccia.... Chi sa! Non poteva arrestarla, questa fatina, trattenerla e ritornare per essa e con essa finalmente dal suo lungo lon- tano esilio angoscioso alla realtà? Per- chè no? Se egli non la arrestava, se egli non la tratteneva, chi sa dove e come sarebbe andata a finire, quella po- vera fatina folle.... Aveva bisogno d^aju-

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to, aveva bisogno di guida e di consiglio, così sperduta com'era anch'essa in un mondo non suo, e con quella gran voglia di non perdersi, ma anche, ahimè, di godere.... Quella rosa lo diceva, quella rosa l'ossa tra i capelli....

Fausto Silvagiii la guardava da un pez- zo, costernato, quella rosa. Non sapeva perchè. Gli sembrava bella, mai temeva di essa. La vedeva su quel capo come una fiamma.... Si scoteva tanto quella testolina folle; come non cascava quella rosa? Ebbene, temeva di questo? Non sapeva dirselo, e seguitava a guardarla, costernato.

Dentro, intanto, sotto sotto, il cuore gli diceva, tremando:

«Domani; domani o uno di questi giorni, parlerai.... Ora lascia ch'ella dan- zi così, come una fatina folle,. .i».

Ma ormai la maggior parte dei cavalie- ri cascavano a pezzi dalla stanchezza; esausti, senza fiato, si dichiaravano vinti e si voltavano attorno, come ubriachi, in cerca delle loro donne andate via. Solo sei o sette ancora resistevano, accaniti, tra cui due anziani chi l'avrebbe cre- duto? il vecchio sindaco in abito lungo e il notajo vedovo^ tutt'e due in uno slato miserando,, con gli occhi schizzali fi

164 LA ROSA

dalle orbite, le facce sudate, infocate, im- piastricciate di tintura^ la cravatta di tra- verso, la camicia spiegazzata, tragici in quel loro furore senile: erano stati fi- nora respinti dai giovanotti; ora, frene- tici, si rifacevano avanti, per farsi but- tare uno dopo l'altro come balle su le seggiole, appena compiuti due giri.

Era la stretta finale, l'ultima danza: il galoppo di chiusura.

Se li vide tutti e sette attorno, sopra, aggressivi, furibondi, la signora Lucietta.

Con me! con me! con me! con me!

N'ebbe sgomento. D'un tratto le s'av- ventò agli occhi la bestiale sovreccitazio- ne di quegli uomini, e al pensiero ch'essi avessero potuto così bestialmente accen- dersi per la sua innocente festività, pro- vò ribrezzo, onta. Volle fuggire, sottrar- si a quell'aggressione; ma, allo scatto di cerbiatta, ecco, i capelli già un po' allen- tati le cascarono ; e la rosa giù a terra.

Fausto Silvagni si tirò su a guardare, come sospinto dal presentimento oscuro d'un imminente pericolo. Ma già quei set- te s'eran precipitati a raccoglier la rosa. Riuscì a ghermirla il vecchio sindaco, a costo d'un tremendo sgraffio alla mano.

Eccola! gridò, e corse con gli altri a porgerla alla signora Lucietta ri-

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parata in fondo alla seconda sala per ricomporsi alla meglio i capelli. Ecco- la qua.... Ma no, che grazie! Ora lei.... (non aveva più fiato da parlare, il vec- chio sindaco ; la testa gli ciondolava) .... ora lei deve far la scelta... ecco.... deve offrirla, qua, a uno....

Bravo! bene! bravissimo!

A uno.... a sua scelta.... bravissimo!

Vediamo ! Vediamo !

A chi l'offre? A sua scelta!

Il giudizio di Paride!

Silenzio! Vediamo a chi Poffre' Sospesa, anelante, col braccio teso e

la bellissima rosa alta nella mano, la signora Lucietta guardò quei sette infu- riati, come, voltandosi nel sentirsi so- praffatta, una preda inseguita i suoi assa- litori. Intuì subito che volevano a ogni costo ch'ella si compromettesse.

A uno? a mia scelta? gridò al- Timprowiso, con un lampo negli occhi. Ebbene, si.... a uno l'offrirò.... Ma sco- statevi prima.... scostatevi tutti! No, più.... più.... ecco, così.... L'offrirò.... l'offrirò.:::

Saettava con lo sguardo ora l'uno ora l'altro, come fosse incerta nella scelta; e incerti e goffi, con le mani protese e nelle facce brutali e stravolte una smorfia d'implorazione sguajata^j quei sette pen-

166 LA ROSA

devano dal visino di lei sfolgorante ora di malizia, allorché d'un balzo ella, sguiz- zando tra gli ultimi due alla sua manca, prese la corsa verso la prima sala. Aveva trovato lo scampo: offrire la rosa a uno di quelli che se n'erano stati tutta la serata quieti a guardare, seduti accosto al muro: a uno qual si fosse, il primo che capitava in direzione della corsa.

Ecco qua! L'offro qua a....

Si trovò davanti i grandi occhi chiari di Fausto Silvagni. Smorì d'un tratto; restò un momento come interdetta, con- fusa, tremante, alla vista del volto di lui, pallidissimo, sconvolto ; le sfuggì un'e- sclamazione sommessa: «Oh Dìo...»j

ma si riprese immediatamente:

Sì, per carità.... ecco, a lei, prenda subito, signor Silvagni!

Fausto Silvagni prese la rosa e si vol- to, con un sorriso vano, squallido, a guar- dare quei sette che s'eran precipitati ap- presso a lei gridando come ossiessi:

No, che c'entra lui? Come a lui?

A uno di noi ! Doveva offrirla a uno di noi! Che c'entra lui?

Non è vero ! protestò la signora Lucietta, battendo un piede fieramente.

S'è detto a uno, e basta! E io l'ho of- ferta qua al signor Silvagni!

hK ROSA 117

Ma questa è una dichiarazione d'a- more bell'e buona! gridarono allora quelli.

Che? ripigliò la signora Lucietta, facendosi in volto di bragia. Ah, nos- signori, prego! Sarebbe stata una dichia- razione, se la avessi offerta a uno di loro! Ma l'ho offerta qua al signor Sil- vagni, che non s'è mosso tutta la serata, e che dunque non può crederlo, è vero? non può crederlo ! E non possono creder- lo neanche loro !

Ma sì, ma che lo crediamo! Lo crediamo invece benissimo ! Anzi ! tan- to pivi lo creùlamo! protestarono quelli a coro. Come no? Perchè no? E proprio a lui! oh, oh, proprio a lui!

La signora Lucietta si sentì tutta scon- volgere da un dispetto feroce. Non era pili uno scherzo ormai; la malignità schizzava da quegli occhi, da quelle boc- che; era chiai'a nei loro ammiccamenti, nei loro grugniti l'allusione alle visite del Silvagni all'ufficio, alla bontà ch'egli le aveva dimostrato fin dal suo arrivo. E quel pallore, intanto, quel turbamento di lui davano esca ai sospetti maligni. Ma come? Possibile? Quel pallore, quel tur- bamento.... Poteva forse credere anche lui, che ella...? No, non era possibile! Ma

168

perchè allora? f'orse perchè lo credevano gli altri? Ma invece d'impallidire e di turbarsi a quel modo, avrebbe dovuto protestare! Non protestava; impallidiva sempre più, e una crudele sofferenza gli s'acuiva di punto in punto negli occhi. Perchè? Che forse...? Possibile?

Ebbe come un lampo e uno schianto improvviso la signora Lucietta, a cui se- guì un interno subbuglio turbinoso. Ma in quell'attimo d'angosciosa perplessità, di fronte alla sfida di quei sette impu- denti sconfitti, che seguitavano a stril- larle intorno con furia dilaniatrice :

Ecco! ecco, vede? Lo dice lei, ma non lo dice lui! Non lo dice!

Come non lo dice? gridò ella, la- sciando prevalere, tra il guizzare e il cozzare di tanti opposti sentimenti in lei, il dispetto.

E, facendosi innanzi al Silvagni, agi- tata da un fremito convulso, guardan- dolo negli locchi, gli domandò :

Può lei credere sul serio che, of- frendole codesta rosa, io abbia voluto farle una dichiarazione ?

Fausto Silvagni restò un momento a guardarla con quel sorriso squallido di nuovo sulle labbra.

Povera fatina^ forzata dall'impeto be-

LA ROSA 169

stiale di quegli uomini a uscire dal cer- chio magico di quella pura gioja, di quel- l'imiocente ebbrezza, nella quale come una pazzerella s'era aggirata! Ecco che ora, pur di difendere di tra l'accanimento dei brutali appetiti di quegli uomini l'in- nocenza del dono di quella rosa, Tinno- cenza di quella sua folle gioja d'una sera, esigeva da lui la rinunzia a un amore che sarebbe durato per tutta la vita, una ri- sposta che valesse per ora e per sempre, la risposta clie doveva far subito ap- passire tra le sue dita quella rosa.

Sorgendo in piedi e guardando con fredda fermezza quegli uomini negli oc- chi, disse:

Non solo non posso crederlo io; ma stia sicura che non lo crederà mai nes- suno, signora. Ecco a lei la rosa; io non posso, la butti via lei.

La signora Lucietta riprese con mano non ben ferma quella rosa e la buttò via in un canto.

Ecco, sì.... grazie.... disse con un sospiro, riconoscendo bene, ormai, che cosa con essa aveva buttato via per sempre.

Candelora.

Nane Papa, con le mani grassocce ap- pese alle falde del vecchio panama sfor- mato, dice a Candelora:

Non ti conviene. retta, cara. Non ti conviene.

E Candelora su le furie gli grida:

E che mi conviene allora? rimane- re qua con te? crepare di rabbia, di schifo? questo?

Nane Papa, placido, calcandosi sempre più il panama:

Sì, cara. M*a senza crepare. Non ne vale la pena. Con un po' di pazienza, e basta. Te lo dimostro, cara. Guarda. Chico....

Ti proibisco di chiamarlo così!

E non lo chiami così' tu?

Appunto perchè lo chiamo io così!

Ah, bene. Credevo di farti piacere Vuoi allora che lo chiami il barone? Il barone. Dico che il barone ti ama, Can- delora mia, e spende per te....

174 CANDELORA

Mascalzone! Buffone! Per me spen- de? E non spende assai più per te?

Se non mi lasci finire,... Spende per te e spende per me, il barone. Ma vedi? Se spende assai più per me, Candelora mia, che significa? Sii ragionevole. Si- gnifica che tegli prezzo a te unicamente perchè tu ricevi decoro e lustro da me. Questo non lo puoi negare. È evidente.

Lustro? torna a gridare Candelo- ra, al colmo della rabbia. Sì, lustro di queste....

E si solleva le gonne, alza un piede e gli mostra le scai'pe.

Vergogna ricevo! vergogna! vergo- gna!

Nane Papa sorride, e più placido che mai risponde:

No, scusa. Perchè? Vergogna io, se mai. Sono tuo marito. Ma è tutto qui, credi, Loretta. Perchè se io non fossi tuo marito e, sopratutto, se tu non stessi più con me, qua, sotto lo stesso tetto ospitale^, dove tutti possono venire impunemente a onorarti con tanto maggior piacere, quanto più tu, diciamo così, mi fai dis- onore e vergogna, tutto il gusto, capisci? svanirebbe. Tu, Loretta Papa, divente- resti subito una piccola cosa di poco valore e di molto rischio^ per cui Chico....

CANDELORA IVf,

il barone, non spen.... Che fai? Piangi? Ma no, via! Io sto scherzando....

Nane s'accosta a Candelora: stende una mano ; fa per passargliela sotto il men- to ; ma Loretta si toglie le sue dagli oc- chi ; ghermisce il braccio ; apre la bocca come una piccola belva e gli addenta quél braccio a lungo, a lungo, a lungo, senza lasciare, stringendo sempre più for- te, rabbiosamente, a lungo.

Curvo, per tenerle il braccio comodo all'altezza della bocca. Nane digrigna i denti anche lui, ma per sorridere muto allo spasimo che lo fa impallidire.

Gli occhi gli diventano di punto in pun- to più lustri e più acuti.

Poi, quando i denti di Candelora si staccano, delizia! si sente nel braccio co- me una piccola fornace. Una bollatura di fuoco.

Ma non dice nulla.

Tira su pian piano la manica della giacca ; quella delia camicia non vien su. La tela s'è affondata nella carne viva. La manica bianca è pezzata nel mezzo di rosso. Una chiostra insanguinata: la chiostra dei denti forti di Candelora, tut- ti, a uno a uno, precisamente im- pressi.

Sollevarla è un po' difficile.

176 CANDELORA

Alla fine, sempre sorridente e ancorai pallidissimo, Nane ci riesce. Il braccio è una pietà. In giro, ogni dentata, una ferita ; e dentro, la carne è nera.

Vedi? dice Nane, mostrandola.

Il cuore, così, ti mangerei! rugge Candelora tutta aggruppata sul sedile.

Lo so, dice Nane. E appunto per questo desiderio vedrai che ti per- suaderai a non andartene. Togliti il cap- pellino, via. Un po' di tintura di jodio, ti prego, per levare il veleno; la bam- bagia fenicata e una fascetta di garza Su, nel cassetto della mia scrivania, Loret- ta: il secondo a destra. Lo so che sei una bestiolina di quelle che mordono, e appunto per questo tengo su una provvi- sta di rimedi urgenti.

Candelora alza il braccio e lo guarda: guarda di sfuggita il braccio. Nane Papa, in quell'atto, la ammira.

È una strana maraviglia di forme e di colori, Candelora, una sfida quasi di- spettosa ai suoi occhi di pittore che la scoprono sempre nuova e diversa. In questa ora meridiana, per esempio, qua nel giardino della villetta, sotto questo sole nero d'agosto che si frastaglia tutto d'ombre violente.

Eccola. Ritornata questa mattina stes-«

Candelora 177

sa dai bagni di mare, scabra e arrostita dal soie e dalla salsedine, è spaventosa, con quell'aria negli occhi chiari bruciati, nel mento un po' rientrato, nei capelli gialli irruviditi, aria di capra addormen- tata nella voluttà; spaventosa in quelle robuste braccia nude spellate, in quelle anche poderose che par debbano strac- ciare a una mossa la fragile vesticciuola aderente, di velo azzurix), che le stride su le carni arse.

Ah, com'è ridicola quella veste ! Lo spa- vento è questo. Candelora è nuda; è tor- nata nuda dal mare. Nuda ha nuotato per mattinate intere; nuda su la spiaggia deserta s'è cosparse e maculate di rena infocata le sode carni d'oro, sentendo alle piante dei piedi il fremito fresco delle spume marine. Come può più na- sconderle ora la nudità prorompente quella vesticciuola? Messa per decenza, in realtà la fa apparire assai più indecente che se fosse nuda.

Nella rabbia, ella nota l'ammirazione negli occhi di lui, e istintivamente ha un sorriso di compiacimento, che subito pe- rò la esaspera. Diventa ghigno, quel sor- riso ; un ghigno che a un tratto le si rompe in singhiozzi. E Candelora scappa via verso la villetta.

PiRANPEM.o. E domani, lunedi..^ '' ^

178 CAUDELOBA

Nane Papa, quasi senza volerlo, arric- cia il volto in una smorfia monellesca, seguendola con gli occhi; poi si guarda il braccio ferito, che al sole gli brucia forte; poi, chi sa perchè, si sente pun- gere anche lui gli occhi dal pianto. Ap- puntisce le labbra e si prova a fischiare ; ma smette subito. È atroce, veramente, in mezzo a un afoso meriggio d'agosto, avvertire così, in una pausa, la vita che pesa, carica di vergogna e di schifo, e sentire pietà, mentre si suda, del peso sull'anima di quella vergogna e di quello schifo.

Nella tetraggine di tutto quel sole tor- rido, stagnante, nel giardino frasta- gliato d'ombre, ha il senso, ora, Nane Papa (un senso che l'opprime, lo urta e quasi lo sgomenta), della presenza di tante cose immobili e come attonitamente sospese innanzi a lui: gli alberi, quegli alti fusti d'acacia, la vasca con quel giro di roccia artificiale e con quello spec- chio verde d'acqua stagnata, i sedili.

Che aspettano?

Egli può muoversi; se ne può anche andare. Ma perchè? Che stranezza! Si sente come guardato da tutte quelle cose immobili, impassibili attorno; e non solo guardato, ma anche come legato dal fa-

CANDELORA 1 79

scino ostile che spira dalla loro attonita immobilità e che gli fa apparire inutile, stupido, anche buffo il suo potersene an- dare.

Rappresenta la ricchezza del barone Chico quel giardino. Egli, Nane Papa, vi sta da circa sei mesi, e solo questa mattina ha prova,tto il bisogno irresisti- bile di porre ridendo sotto gli occhi a stesso e a Candelora ritornata dal ma- re, la sua vergogna e quella di lei, in tutta la sua nudità, senza alcun velo.

Ridendo. Si, perchè lei, Candelora, pre- tendeva d'uscire da questa vergogna, ora che a suo dire poteimno.

Già! Perchè, si vendono, si vendono bene, ora, i quadri di Nane Papa, e il valore della sua arte nuova, personalis- sima, s'è imposto, non perchè sia real- mente compreso, ma perchè l'imbecillita dei ricchi visitatori delle esposizioni d'ar- te è stata costretta dalla critica a feimarsi innanzi alle sue tele. La critica, però....

Via, una parola, la critica! Una pa- rola che non vive, naturalmente, se non nei calzoni d'uji critico. E il critico a cui Candelora un giorno, per disperata, di sua iniziativa, volle andare a grida- re in faccia se era giusto che un arti- sta come Nane Papa morisse di fame^,

180 CANDELORA

quel critico ha voluto con un magi- strale articolo richiamare l'attenzione de- gli imbecilli sull'arte nuova e persona- lissima di Nane Papa, ma ha voluto pure che questo riconoscimento dell'artista fosse, non diciamo pagato, per carità! ma graziosamente compensato con la piiì viva gratitudine di Candelora. E Cande- lora, subito, non solo a quel critico, ma a tutti gli ammiratori più fanatici del- l'arte nuova del marito, inebriata della vittoria che forse le pai^eva dovesse co- starle chi sa quanto, e invece.... ma via, per così poco? ha voluto mostrarsi im- mensamente grata; a quel barone Chi- co in ispecie, che ecco è arrivato fi- nanche ad alloggiarli qua nella sua vil- letta, per avere l'onore di dai' ricetto presso di a un portento dell'arte, a un figlio della gloria.... E che trattamenti! che regali! che feste!

Se non le è costato nulla far così, nien- te di male, povera Candelora! Le ha fatto paura la povertà, ecco. Dice di no, lei ; dice che le faceva rabbia, non paura ; perchè quella povertà non era lo stento, non era l'avvilimento ; era l'ingiustizia, dato il merito di lui. Quest'ingiustizia ha voluto vendicare. E come? Eccolo, come: la villetta, l'automobile^ il canotto^ ori^

CANDELORA 181

gemme, gite, abiti, feste.... E ha provato un gran dispetto per lui rimasto, invece, tal quale, triste lieto, sciamamiato come prima, senza altra gioja fuori di quella de' suoi colori, senz'altra voglia che di scavare, di scavare nella sua arte per il bisogno sempre insodisfatto di an- dare in fondo ad essa, quanto più in fondo fosse possibile, tanto da non veder pili nulla della buffa fantasmagoria della vita che gli s'agita attorno.

Forse, anzi certo, rappresenta la sua gloria, questa buffa fantasmagoria: le gemme, il lusso di Loretta, gl'inviti, le feste. La sua gloria e anche, perchè no? la sua vergogna. Ma che glien'importa?

Tutta la sua vita, tutto ciò che di vivo è in lui egli lo mette, lo dà, lo spende per il gusto di far carnosa una foglia, fa- cendosi egli stesso pasta carnosa, fibre e vene di quella foglia, o di rendere quel- la grana d'ombra ancora umida notturna che infralisce la prima luce verdina in un cielo d'alba; di far rigido e nudo un sasso, che si senta e viva sasso sulla tela; e questo solo gl'ùnporta.

La sua vergogna? la sua vita? la vita degli altri? Cose estranee, transitorie, di cui è vano tener conto. L'arte sua, lei sola vive, l'opera, che prepotentemente pi-

182 CANDELORA

glia corpo dalla luce e dal tormento del- la sua anima.

Se è stata così la sua sorte, è segno che non poteva essere altrimenti. Gli pare già tanto lontana, a pensarci!

E così, come da lontano, ha detto a Loretta, questa mattina, che gli sareb- be piaciuto, certo oh, ma senza darci alcun peso gli sarebbe piaciuto, ecco, trovarsi accanto nella vita una com- pagna buona, a cui la povertà non aves- se fatto tutta quella rabbia; una compa- gna umile e mite, sul cui seno avesse potuto riposarsi; che gli avesse ispirato con le sue sofferenze la stessa pena in- tensa e cara che gl'ispirava allora la sua arte misconosciuta.

Loretta, naturalmente, gli è saltata ad- dosso come una gatta inferocita.

Ma che fa, intanto? Non ritorna giù con la tintura di jodio, la bambagia e la fascetta? Se n'è andata su piangendo, poverina....

Vuol essere amata, adesso, Loretta. Amata da lui. Già! Per dispetto della sua indifferenza. Non è una pazzia, que- sta? Se egli la amasse davvero, dovrebbe ucciderla. Ci \'Tiole la sua indifferenza, come condizione imprescindibile per sop- portar la vergogna ch'ella gli rappresenta

CANDELORA 183

accanto. Uscire da questa vergogna? E come è più possibile ormai, se tutti e due riianno con sé, dentro e fuori, at- torno? L'unica è questa, non darci im- portanza, e seguitare, lui a dipingere, lei a divertirsi, con Chico per ora, poi con un altro, ma anche con Chico e un altro insieme, allegramente. Cose della vita, sciocchezze.... In un modo o nell'altro, passano e non lasciano traccia. Ridere, intanto, di tutte le cose nate male, che restano a penare nelle lor forme sgi'aziate o sconce, finché col tempo non crollano in cenere. Ogni cosa, ogni oggetto, ogni vita porta con la pena della sua for- ma, la pena d'esser così e di non poter più essere altrimenti, finché non crol- lano in cenere. È appunto in questo il nuovo della sua arte, nel far sentire que- sta pena delle cose; perchè sa bene lui che ogni gobbo bisogna che si rassegni a portar la sua gobba. E come le forme sono i fatti. Quando un fatto é fatto, è quello, non si cangia più. Candelora, per quanto faccia, non potrà più, per esem- pio, ritornar pura come quando era po- vera. Sebbene pura, forse, non è stata mai. Candelora, neppure da bambina. Non avrebbe potuto fai^e ciò che ha fat- to; e goderne, dopo.

184 CANDELORA

Ma come mai, così all'improvviso, que- sta nostalgia di purezza; di mettersi con lui, adesso, appartata, tranquilla, mode- sta, amorosa? Con lui, dopo quanto è avvenuto? Quasiché lui, adesso, sia più in grado di prendere sul serio qualche cosa, nella vita: e l'amore, poi! e un amore poi, così tutto gualcito, come quel- lo di lei, con l'immagine buffa di Chioo e di quel critico e di tanti altri che, at- torno a lei e a lui idillicamente abbrac- ciati, si metterebbero a fare giro giro tondo.... Povera Loretta.... Via!

Ma, ohe, al sole il sangue s'è tutto aggrimiato e incrostato su le dentate; e il polso, e anche un po' la mano gli si sono gonfiati; e incordate le vene....

Nane Papa si scuote dalle sue con- siderazioni e s'avvia per salire alla vil- letta. Chiama due Volte, prima dalla sca- la, poi dalla saletta d'ingresso:

Candelora!... Candelora!...

Nessuno risponde. Entra nella stanza accanto allo studio, ov'è la sua scrivania, e un balzo indietro. Candelora è là, buttata per terra, lunga, stirata, stravol- ta, con le vesti scomposte, come se si fosse rotolata, una coscia scoperta. Ac- corre, le solleva la testa. Oh Dio, che ha fatto? La bocca, il mento, il collo, il seno.

CANDELORA 1 85

sono macchiati d'un giallo nerastro. Ha bevuto la boccetta del jodio.

È niente! è niente! le grida. ■■ Candelora mia, ma che sciocchezza hai fatto? Bambina mia.... Ma non è niente! Ti brucerà un po' lo stomaco.... Su! su!... È niente.... è niente.,..

Cerca di sollevarla, e non ci riesce, perchè la poverina s'è indurita nello spa- simo. Ma non le dice poverina, lui: Bambina.... bambina.... perchè gli pare un po' buffo il fatto che abbia bevTito la tintura di jodio. Bambina.... le ripete, e la chiama anche scioccherella sua.... E cerca di tirar la veste azzurra, labile, di velo, su quella coscia scoperta che ^offende, e torce gli occhi per non vederle la bocca così tutta nera.... La ve- sticciuola si lacera allo strappo della sua mano convulsa e scopre di più la coscia.

È solo ne la villa, poiché Loretta è ritornata quella mattina dai bagni di ma- re e, prima di partire, volle licenziare le donne di servizio. Nessuno dunque può ajutarlo a sollevarla da terra; nessuno può correre a chiamare una vettura per farla trasportare a un ospedale per un pronto soccorso. Ma per fortuna, ecco dalla via la tromba dell'automobile di Chìco, ìX barone. E, poco dopo, Chico

186 CANDELORA

appare, sbalordito, con quella faccia sbar- bata, gialla, di vecchio ebete, sul corpo giovanile, sperticato, elegantissimamente vestito.

Oh! e che è?

Senza volerlo, sporge l'occhio con la caramella, a fissar quella coscia scoperta.

Ajutami a sollevarla, perdio! gli grida Nane, esasperato dagli inutili sforzi.

Ma appena la sollevano, dalla nnnio rimasta schiacciata sotto il fianco casca a terra una rivoltella, e lì, dov'era il fianco, si scopre una chiazza di sangue.

Ah! ah! geme allora Nane, tra- sportandola con Chico verso la camera da Ietto.

Non è indurita dallo spasimo, Loret- ta, ma dalla morte. Nane Papa, corno impazzito, appena disteso il cadavere sul ietto, grida a Chioo:

Chi era ai bagni con voi? dimmi chi era ai bagni con voi quest'estate!

Chico, smarrito, fa alcuni nomi.

Ah, perdio! esclama allora Nane Papa, feroce, venendogli addosso, affer- randolo per il petto e scrollandolo tutto, Ma è possibile che dobbiate essere tut- ti quanti così stupidi, voj altri che avete un po' di quattrini?

- Così stupidi? noi? fa Chico, più

CANDELORA I 87

che mai smarrito, rinculando a ogni scrollone.

Ma sì! ma si! ma sì! seguita a inveire Nane Papa. Cosi stupidi da far nascere la voglia a questa poverina d'essere amata da me! Capisci? Da me! da me! Amata da me!

E rompe in un pianto disperato, ab- battendosi sul cadavere di Loretta.

Servitù.

Due volte la mammina aveva sporto dall'uscio il capo biondo sapientemente architettato con pettini e pettinini, for- celle e forcelline, a raccomandare alla Dolly di non parlar troppo, di non agi- tarsi tanto, che altrimenti la febbre le sarebbe cresciuta.

Parli sempre tu.... giuochi tu sola.... Stava la Dolly sostenuta da una pila di

guanciali a sedere sul lettino in compa- gnia di tutte le sue bambole belle. E due volte, sootendo la testolina per cac- ciar via dagli occhi i riccioli d'oro scap- pati nel calore del giuoco di sotto la cufTietta di raso celeste, aveva risposto alla manmia:

No io sola, pure Nenè....

Nenè era la figliuola della nurse (po- vera Dolly nurse la babà dei suoi primi balbettamenti!) Non giocava anche Nenè?

Finora, per dir la verità, Nenè non

192 SERVITÙ

aveva mai aperto bocca. Tutt'e due le volte, invece, aveva guardato quasi at- territa la signora che sporgeva il capo dall'uscio ; e il cricchio della maniglia, il cigolìo dell'uscio schiuso, lo sporgersi di quel capo, la voce della mamma di Dolly, erano stati per lei un fracasso, un crollo, uno scompiglio. Perchè era come in un sogno Nenè da due ore, so- spesa, quasi angosciata nel dubbio che non fosse vero ciò che pur si vedeva at- torno e toccava.

L'abituccio color cece, di due anni fa, le segava il collo, le segava le ancelle, le opprimeva le spallucce; il nastrino di seta color di rosa, un po' stinto, at- torno al capo le s'allentava a mano a mano e cedeva al goffo rizzarsi ispido e compatto dei capelli neri ancor zuppi d'acqua (poiché era stata lavata tutta con insolita cura) : non sentiva nulla, non avvertiva nulla, incantata, abbagliata dal lusso di quella cameretta di bimba, nido di piccola fata imbottito di raso azzurro, spumante di trine, pieno di mobiletti bian- chi, laccati, lucidi. E lievemente, senza saperlo, con la manina tozza, gonfia e insanguata per la manica troppo corta e stretta che le iserrava il braccio come un salsicciotto, palpava la coperta così liscia,

SEEVITU Ì93

così morbida del lettino, mentile tutta occhi e con la boccuccia aperta seguiva il chiacchierìo fitto, volubile della pa- droncina malata.

Giocare? Ma altix) che giocare, Nenè! Non aveva mai aperto bocca, è vero ; ma la Dolly sentiva bene che il giuoco real- mente lo faceva lei, Nenè, con la sua ma- raviglia intenta e muta che dava un'a- nima nuova a quelle sette bambole se- dute sul lettino come damine in visita^ e a lei un nuovo piacere nel faille muove- re e parlare. Da tanto tempo, infatti, quelle sette bambole per Dolly quasi non vivevano piìi: erano pezzi di legno, te- stine di cera o di porcellana, occhi di ve- tro, capelli "di stoppa. Ma ora, ecco, ria- vevano anima, un'anima nuova^ e rivi- vevano una nuova vita maravigliosa an- che per lei, quale ella non avrebbe mai immaginato di dar loro, un'anima, una vita che prendevano qualità appunto dal- la maraviglia di Nenè, ch'era maravi- glia di servetta. Le faceva perciò parlare come signorone del gran mondo, piene di capricci e di moine, press'a poco come parlavano le amiche di mammà.

Ecco: questa era la contessina Lulìi che guidava da la sua autOf fumava si-

PiRANDELLO. E domani, lunedì.... IS

194 SERVITÙ

garette dorate e gridava sempre, agitando in aria un dito minacciosamente:

Moringhi, Moringhi, se scappi ti rag- giungo !

Chi era Moringhi? Un mago? Chi sa! Forse un amico di mammà anche lui, un amico di tutte le amiche di mammà; ma il nome, a quel grido, si rappresen- tava a Nenè come quello d'un mago, poiché la Dolly diceva che era aimico specialmente di quelfaltra bambola lì, ecco, di Mrs. Betsy.

Ali righf, thaiik ijou!

No, no, senza vMeml Parlava sempre inglese, Mistress Betsy. Cbn mammà, con tutti. E andava sempre a cavallo op! op! mica a sedere, però: con le gambe aperte, cosi.... come i maschiacci, brutta scostumata! E spesso cadeva; e una volta, alla caccia della volpe, s'era ferita alla faccia: ecco, allo zigomo, qua. Oh, le stava bene, brutta americanaccia! Mostrava a tutti le sue ferite di cavalle- rizza, al petto, alle spalle, anche alle gambe; e quando stringeva la mano fa- ceva male.

Ali righi! Thank you!

E quest'altra? Ah quest'altra qui, che ridere! Roba, roba proprio da morir dal ridere! Donna Mariù, questa. Sempre ma-

SEEVITÙ 195

lata. «Oh Dio qua, oh Dio là....» «La mia povera testa! il mio povero cuore!» «Vi prego, Moringhi, siate buono! Moringhi, non mi fate male: non posso pili ridere, Moringhi! La mia po- vera testa! il mio povero cuore!». Ma mica un cuore così.... Un cuore col q e staccato: qu-ope. Moringhi diceva così. Roba da morir dal ridere, un cuore col q!

Nenè non capiva nulla.

Poteva esser vero per lei che quella bambola fumasse e quell'altra andas- se a cavallo. Sì, ecco, davvero allo zi- gomo, quello sgraflìetto.... Ma se aveva- no fmanche le mutandine coi merletti e i fiocchettini di seta e anche le calze di seta con le giarrettiere di velluto e le fibbie dorate e le scarpine di coppale, potevano anche veramente andare a ca- vallo, fumare, parlare quel linguaggio in- comprensibile. Qualunque prodigio po- teva esser vero in quella cameretta lì, anche i cavalli, sì; cavallini veri, caval- lini vivi, piccoli piccoli, potevano sbucar fuori da un momento all'altro e mettersi a caracollare su per le campagne lon- tane lontane di quel tappeto azzurro vel- lutato, con quelle damine in groppa dai veli svolazzantL

196 SERVITÙ

Afiascinata da quella visione, Nenè stentava a credere, o veramente non riu- sciva ancora a capire che, stanca alla fine del giuoco, la Dolly stèsse ora per regalarle una di quelle bambole e non sapesse ancor quale.

No, questa no, diceva la Dolly. Questa ha il bi-accino malato e deve stare a letto con me. Ecco.... ti do.... ti do quest'altra, invece, Misti'ess Betsy.... Ma no, neanche.... Ti scappa via, Mistress Betsy: tanto cattiva è! Scostumata.... E poi, parla sempre in inglese: non la ca- piresti. Ti do quest'altra allora. Si chiama Mimi. Ma tu devi chiamaria sempre si- gnora Marchesina. Marchesina è, sai? La marchesina Munì. Esigente.... ah, esigen- te! esigente! Bisogna che tix)vi il bagno pronto ogni niattina, e poi la colazione di cioccolato e biscottini, e poi.... e poi.... non mangia niente, sai? non mangia al- tro che palline d'argento.... quelle che si comprano dove le compra mammà, dal farmacista Baker di fronte al Grand Ho- tel. Ti do Mimi, sì. Ecco, prendila. Per davvero te la do, sì.... per sempre.... Prendi, ecco ; prendila, ti dico.... Aspetta, che le do un bacio.... Ecco, te la puoi por- tar via....

Nenè guardava sbalordita e più che

8EBVIT0 197

mai sospesa e angosciata. S'era levata in piedi alle insistenze di Dolly; ma re- stava lì, senza poter alzare la mano, qua- si sul punto di piangerà

Entrò nella cameretta la signora, se- guita da babà, ch'era rimasta dopo il ba- liatico a servire in quella casa di signori. Anche la mamma, vestita così bene, da nurse, con la cuffietta in capo e il grem- biule bianco ricamato, accanto alla si- gnora, apparve in quel punto a Nenè come trasfigurata nel lume di quella casa, come infusa nell'azzurro d'una meravi- gliosa lontananza.

Che diceva? Diceva di no a Dolly, che non doveva darle la bajnbola. Non dove- va dargliela prùua di tutto perchè trop- po bella, troppo ben vestita, anche cal- zata e coi guanti e col cappello, ma fi- gurarsi! una bambola così fina a Nenè! E poi, che se ne farebbe Nenè? È mam- mina di casa, Nenè: deve attendere a servh'e il babbo, e non ha tempo di gio- care, che guaj se il baJ^bo non trova tutto pronto, la sera.

Il babbo? dove? Le sembrava tanto lontano ormai, a Nenè, quel suo babbo cattivo, che rmcasava sempre ubriaco e scontento, e per nulla la batteva e l'affer- rava pei capelli o le scaraventava addos-

198 SEBVITÙ

SO ciò che gli capitava prima sotto mano, gridandole :

E non potevi morir tu, invece? Lei, già, invece del fratellino che la

madre aveva lasciato poppante per an- dare a bàlia. Una vicina s'era incari- cata d'allevarlo per poche lire al mese; e lei, Nenè, avrebbe dovuto fargli da mammina. Ma il fatto è che il fratellino, un giorno, era morto, in braccio a lei, morto ; e lei che non lo sapeva, ave- va per un pezzo seguitato a portt^rselo in braccio: freddo freddo, bianco bian- co, e zitto e duro.... Da allora il babbo era diventato cattivo, così cattivo che la mamma non aveva voluto piìi star con lui ed era rimasta a servire in quella casa, o piuttosto, a farvi la signora, come diceva il babbo e come ora veramente pareva anche a Nenè. Certo ora la mam- ma parlava e guardava e sorrideva e ge- stiva come una signora, come la mamma di Dolly appunto, e a lei non pareva più la sua mamma.

Ma, no, via, signorina! Ma le pare? Ma neanche per sogno! Una bambola così bella a questa mia povera Nenè!

Ma ecco, la signora le prendeva un braccìno, poi le posava sul petto la bam- bola, quella Mafchesina, Mimi, e ppi sul-

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la bambola le ripiegava il braccìno per- chè la reggesse forte.

Grulla, e non si ringrazia nemmeno ? Su, come si dice? che si dice?

Nulla. Non poteva dir nulla, Nenè. E non osava nemmeno guardare quella bambola marchesina contro il suo petto, sotto il suo braccìno.

Se n'andò via come intronata, gli occhi sbarrati, senza sguardo , la boccuccia aperta, e coi capelli che le si drizzavano sotto il nastro color di rosa, quanto più la madre cercava d'assettarglieli sul capo. Scese le scale, attraversò tante vie e si ridusse alla catapecchia, ove abitava col padre, senza veder nulla, senza sentir nulla, quasi alienata d'ogni senso di vita.

Le viveva invece sul petto, stretta sotto il braccio, quella bambola meravi- gliosa; d'una vita incomprensibile però, quale le sbarbagliava ancora nella men- te attraverso il chiacchierìo fitto e vo- lubile della padroncina malata. Oh Dio, se quella bambola parlava col linguag- gio che le aveva messo in bocca la Dol- ly, come avrebbe fatto lei a compren- derla?

Moringhi, Moringhi, se scappi ti rag- giungo !,

Ah, Moringhi, certo, non sarebbe ve-

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nuto nella catapecchia a trovare la marchesina Mimi, e nessuna delle ami- che sarebbe venuta. E le sigarette dorate? e le palline d'argento profumate? e i ca- vallini veri, i cavallini vivi, piccoli pic- coli?

Non le s'affacciava neppur per ombra alla mente che avrebbe potuto giocarci, con quella bambola. Servirla, sì, ella avrebbe potuto servirla ; ma come, se non sapeva nemmeno parlarle? se non capiva nulla della vita a cui essa era avvezza?

Entrata nel bugigattolino ov'era la sua cuccia con una seggiola spagliata e una panchetta che le serviva da tavolino per far le aste e le vocali quand'ancora an- dava a scuola, si guardò attorno smar^ rita, avvilita, non per ma per la da- mina che portava in braccio. Non osava ancora guardarla.

Certo, per sé, la marchesina Mimi, ave- va gli occhi di vetro e non vedeva. Ma vedeva lei, Nenè, ora, la miseria brutta di quel suo bugigattolino con gli occhi della marchesina Mimi abituati al lusso della cameretta da cui veniva. Finché lei non la guardava, la marchesina Mimi, an- cora stretta sotto il suo braccio, non vedeva nulla. Avrebbe veduto però, ap- pena lei si fosse risolta a guardarla. Eb-

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bene, bisognava che vedesse fin da prin- cipio il meno peggio possibile.

Pensò che nella cassetta dei panni sotto la cuccia c'era un grembiulino azzurro, smesso dalla Dolly e regalato dalla si- gnora alla bàlia per lei: era stato lavato, rilavato tante volte ; s'era stinto ; ave- va piix d'uno strappo ; ma veniva di ; era stato della Dolly, e forse la marche- sina Mimi lo avi^ebbe riconosciuto.

Senza posarla, senza guardarla, Nenè si chinò ; trasse da quella cassetta il grem- biulino e lo stese su la panca come un tappeto, badando che gli strappi, almeno i più grossi, non venissero in mostra sul piano. Ecco, per il momento poteva metterla a sedere li, sul pulito di quel grembiule vecchio, ma fino.

La pose a sedere pian piano, con mani tremanti per paura di farle male e di sciuparle l'abito ; e finalmente osÓ guar- darla. Un sentimento misto di pietà e d'adorazione espressero le manine rima- ste innanzi al petto aperte, in un gesto d'incertezza angustiosa. E a poco a poco si piegò su le ginocchia, guardando ne- gli occhi la bambola. Ahimè, la vita ma- ravigliosa, di cui la Dolly nella sua ca- meretta la aveva fatto vivere, qua s'era come spenta. La bambola le stava da-

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vanti, come se non vedesse nulla, in at- tesa disella facesse qualche cosa per lei, per ridarle Vita, la sua vita perduta, di gran signora. Ma come? che cosa? Le mancava tutto. La Dolly le aveva detto ch'erano avvezze a cambiarsi d'abito piìi volte al giorno le sue bambole, e che quella Marchesina Mimi poi aveva anche tante vestaglie una piii bella dell'altra, rosse, gialle, viola, a fiorellini, a om- brellini giapponesi.... Possibile che ora stesse vestita sempre così, sempre con quel cappellino in capo, con quelle scar- pine ai piedi, con quei br acciai ettini al polso, e quella catenella al collo da cui pendeva il ventaglino? Ah, com'era bel- lo quel ventagìino di piume, ventaglino vero, che faceva un po' di vento davve- ro, poco poco, quanto poteva bastare a quella piccola marchesina Mimi.... Ah, là, sì, in casa di Dolly, con tutte le cose adatte, il lettuccio di legno bianco, e gli altri mobiletti e il ricco corredo, sarebbe stata felice lei di servire quella bambola marchesina.... Ma qua? Come non aveva pensato la Dolly che avrebbe dovuto anche darle almeno almeno il let- tuccio e un po' di corredo, non per far più ricco e compiuto il dono, ma perchè essa, la bambola, non avesse a soffrire

SERVITÙ 203

qua, e perchè lei, Nenè, avesse modo di servirla? Come poteva così, senza nul- la? Al più al più, col fiato e col dito,^ o con la punta d'una pezzuola, avrebbe potuto ripulirle le scarpettine di cop- pale. Nient'altro.

Quasi quasi era meglio ritornare da Dolly, con la bambola, e dirle:

O mi dai da farla vivere com'è av- vezza, o te la tieni.

Chi sa! Forse Dolly le avrebbe dato tutto....

Un lungo, grosso grosso sospiro solle- vò il petto di Nenè accosciata davanti alla panchetta. Volse il capo, e in un momento, di nuovo abbagliata, vide in un angolo lercio del bugigattolino la ca- meretta della marchesina Mimi: came- retta? un gran camerone, col tappeto az- zurro vellutato, per terra, e il lettino di legno bianco, col parato a padiglione di seta celeste, e di l'armadietto a spec- chio, le sedioline dorate, la specchiera; e vide sé, vestita bene come la mamma, tutta intenta a servire quella sua pa- droncina esigente, oh esigente e capric- ciosa ; a prevenirne tutti i desiderii, per non farsi sgridare, che certo, per quanto ella facesse, la marchesina Mimi, sola con lei, benché circondata da tutti i suoi

204 SERVITÙ

agi, da tutto il suo lusso, sarebbe stata a malincuore, senza piti visite d'amiche, di Moringhi, passeggiate a cavallo. E, per sfogarsi, certo la avrebbe coman- data a bacchetta.

Pronto il bagno?

Ecco, un momentino, signora Mar- chesina....

Ma il mio bagno dev'esser pronto subito, appena mi alzo! Che fate? Date- mi adesso il mio cioccolato e i biscottini! La mia vestaglia, subito !

Quale, signora Marchesina? Quella rossa? quella gialla? quella con gli om- brellini giapponesi?

No, quella viola! Non lo sapete?

Subito , signora Marchesina, ecco- la qua.

Vedeva, con gli occhi sbarrati, quel suo sogno in quell'angolo incantato, Nené, e parlava sola così da un pezzo, forte e imperiosa per conto della Marchesina Mimi, umile e inchinevole per sé, da ser- vetta amorosa che compatisce i capricci della padroncina tiranna; allorché, tut- t'a un tratto, con un brivido di terrore per la schiena, vide una ma;naccia sca- bra, enorme, allungarsi sul suo capo e ghermire la bambola su la panchetta.

Insaccò la testa; poi, allibita, arrischiò

Servitù 205

di su la spalluccia, con la coda dell'oc- chio, uno sguardo.

Suo padre, dieti'O a lei, con un ghigno su le labbra ispide, nere, guatava la fi- na bambola fragile in quella sua manac- cia scabra e scrollava il capo, ripetendo :

Ah, sì? ah, sì?

Con l'anima oppressa d'angoscia, gli vide levare l'alti-a mano, afferrare con due dita la falda del cappellino alla bam- bola, dare uno strappo violento.

Soffocò un gemito lungo, involontario.

Insieme col cappellino se n'era venu- ta la testa. E quella testa col cappellino e il busto decapitato, due strazii orribili, infoiTtni, volarono via per la finestretta presso il tetto, accompagnati da un cal- cio e da una esclamazione rabbiosa:

Su, in piedi! Non voglio signore per casa!

Da sé.

Un carro di prima classe, con cavalli bardati e impennacchiati, cocchiere e staffieri in parrucca, i suoi parenti non lo avrebbero preso di certo, per lui. Figu- rarsi! Ma uno di seconda, sì, ahneno per gli occhi" del mondo.

Duecento cinquanta lire: prezzo di ta- riffa.

La cassa, poi, se pure d'abete e non di castagno o di faggio, nuda nuda non l'avrebbero certo lasciata (sempre per gli occhi del mondo). Coperta di velluto ros- so, anche d'infima qualità, con borchie e maniglie dorate: a dir poco, cento lire.

Poi : una buona mancia a chi lo avreb- be lavato e vestito da morto (bel servi- zio!); spesa per la papalina di seta e per le pantofole di panno; spesa per le quattro torce da accendere ai quattro angoli del letto ; mancia ai becchini che avrebbero portato a spalla il feretro fino al carro, e poi dal carro alla fossa; spe- sa per una corona di fiori, almeno una,

PlBAJTDELLO. E domani, lunedì.... 14

210 DA

salito Dio ; poi, lasciamo la banda mu- nicipale, che se ne poteva far di meno ; ma un pajo di dozzine di ceri per l'ac- compagnamento delle orfanelle del Boc- cone del povero che vivevano di questo, cioè delle cinquanta lire che si davano loro per accompagnare tutti i morti della città; e chi sa quanf altre piccole spese imprevedibili.

Tutto questo Matteo Siiiagra a\Tebbe fatto risparmiare ai parenti, andando co' suoi piedi a uccidersi, economicamente, al cimitero, innanzi al cancelletto della sua gentilizia. Dimodoché, con pochissi- ma spesa, stesso, dopo l'accesso del pretore, avrebbero potuto cacciarlo den- tro a quattro assi nudi senza neanche dargli una spazzolata, e calarlo giù, dove riposavano da un pezzo il padre, la ma- dre, la prima moglie e i due figliuoli che n'aveva avuti.

I morti hanno l'ai'ia di credere che il forte sia perdere la vita e che tutto sia finito con essa. Per loro, senza dubbio. Ma non pensano all'orribile ingombro del corpo che resta duro sul letto uno o due giorni e ai fastidii e alle spese dei vivi che, pur piangendogli attorno, deb- bono liberarsene. Sapendo quanto costa questa liberazione^ in un caso come il

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SUO, cioè di morte in buona sajute, i si- gnori morti volontarii potrebbero far due passi fino a\ cimitero e andare a riporsi tranquillamente da sé.

Ecco : non aveva ormai da pensare ad altro, Matteo Sinagra. La vita gli s'era tutt'a un tratto come votata d'ogni sen- so. Quasi non rioorda,va più con preci- sione ciò che vi avesse fatto. Ma sì, di certo, anche lui, tutte le sciocchezze che si fanno di solito. Senz'accorgersene. Con molta leggerezza e grande facilità. Sì, perchè era stato anche abbastanza for- tunato, lui, fino a tre armi fa. Non gli era mai riuscito nulla diUìcile; mai s'era fermato un momento perplesso, se fare o non fare una tal cosa, se prendere questa o quella via. S'era gettato con gaja fiducia a tutte le imprese; s^era in- camminato per tutte le vie, ed era an- dato sempre avanti, superando ostacoli che forse per gli altri sarebbero stati in- sormontabili.

Fino a tre anni fa.

Tutt'a un trailo, chi sa come, chi sa perchè, quella specie d'estro che per tanti anni lo aveva assistito e spinto innanzi, àlacre e sicuro, gli s'era spento ; quella gaja fiducia gli era crollata; e insieme eran crollate le imprese finora sostenute

212 DA

con mezzi e arti di cui ora, improvvisa- mente e quasi con sgomento, non si sa- peva piìi render conto egli stesso.

Tutto, così, da un giorno all'altro, gli s*era cangiato, oscurato; anche l'aspet- to delle cose e degli uomini. S'era tro- vato all'improvviso a tu per tu con un altro stesso, elisegli non conosceva af- fatto, in un altro mondo che gli si sco- priva adesso per la prima volta attorno: duro, ottuso, opaco, inerte.

In prima era rimasto quasi con quello stordimento che il silenzio provoca a co- loro che vivono in mezzo a un fracasso di macchine, allorché d'un subito vengano arrestate. Poi aveva considerato la ro- vina, non sua solamente, ma anche del padre e del fratello della seconda moglie, che gli avevano affidato grossi capitali. Ma forse il suocero e il cognato, pur soffrendo gravi damii, si sai'ebbero rial- zati. La sua rovina, invece, era totale.

S'era chiuso in casa, schiacciato non tanto dal peso della sciagura, quanto dal- la coscienza dell'irrimediabilità del mi- sterioso guasto avvenuto così fulminea- mente nel congegno della sua vita.

Muoversi? E perchè? Perchè uscire di casa? Inutile ogni atto, ogni passo; inu- tile anch« parlare.

DA 213

Zitto, rincantucciato in un angolo, era rimasto a guardar le smanie e le la- grime della moglie disperata, come un insensato. Tutto barba e tutto capelli.

Finché non era venuto su le furie il cognato a cacciarlo fuori a spintoni, dopo averlo fatto tosare, a viva forza.

C'era da fare qualche cosa, da guada- gnare due o tre lirette a,l giorno, metten- dosi per galoppino a servizio d^una pic- cola banca agraria, che s'era aperta or ora. Che stava a covar su quella se- dia? Fuori! Fuori! Non bastava il danno arrecato finora? Voleva anche vivere, con la moglie e le due piccine, a le spalla delle sue vittime? Fuori!

Fuori, ecco qua. Era uscito di casa^ da alcuni giorni. S'era messo a fare il galoppino per conto di quella piccola banca agraria. Il cappello spelato, l'a- bito stinto, le scarpe sdrucite, e un'aria d'allocco che consolava.

Nessuno lo riconosceva più.

Matteo Sinagra, quello lì?

Non si riconosceva più neanche lui, per dire la verità. E quella mattina, fi- nalmente....

Era stato un amico, un caro amico del buon tempo, a chiarirgli la situa- zione.

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Chi era più, lui? Nessuno. Non solo perchè aveva perduto tutto il suo ; non solo perchè s'era ridotto in quella mi- sera, avvilente condizione di galoppino, con l'abito stinto, il cappello spelato, le scarpe sdrucite. No, no. Non era più, veramente, nessuno, perchè non c'era più niente in lui, fuorché l'aspetto (e pur esso tanto cangiato, irriconoscibile!) di quel Matteo Sinagra ch'egli era stato fino a tre anni fa. In questo galoppino uscito or ora di casa lui si sentiva gli altri lo riconoscevajio. E dunque? Chi era lui? Un altro, che ancora non viveva; che bisognava imparasse a vivere, se mai, una nuova vita, meschina, affliggente, da tre lire al giorno. E ne valeva la pena? Matteo Sinagra, il vero Matteo Sinagra era morto , morto assolutamente , tre anni fa.

Questo gli avevano detto con la più ingenua crudeltà gli occhi di quell'amico incontrato per caso quella mattina.

Ritornato in paese dopo circa sei anni d'' assenza, questo amico non sapeva nul- la della sciagura di lui. Passando per via, non lo aveva riconosciuto.

Matteo?... Ma come?.... Tu sei Mat- teo Sinagra?

Dicono....

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Ma come?

E gli occhi, quegli ocelli, eran rimasti a mirarlo con tale espressione di smarri- mento e insieme di pietà e di ribrezzo, ch'egli tutt'a un tratto s'era veduto in essi morto, sì, sì, assolutamente morto, senza più neanche un briciolo in di quella vita che Matteo S inagra aveva avuto.

E allora, appena quell'amioo, non sa- pendo più trovare una parola, uno sguar- do, un sorriso da rivolgere a quest'om- bra, gli aveva voltato le spalle, egli ave- va avuto l'impressione strana che tutte le cose, a un tratto, proprio gli si fo!s- sero votate d'ogni senso, tutta la vita gli si fosse fatta vana.

Ma da ora soltanto? No.... Perdio! Da tre anni, così.... Da tre anni egli era morto, da ben tre anni.... E ancora stava lì, in piedi?... camminava.... respirava.... guardava?... Ma come?... Se non era più niente ! se non era più nessuno ! Con quel- l'abito addosso, di tre anni fa.... con quelle scarpe di tre anni fa, ancora ai piedi....

Via, via, via: non si vergognava? Un morto, ancora in piedi? A cuccia, là, al cimitero ! rrolto di mezzo l'ingombro di questo

216 DA

morto, alla vedova, alle due orfanelle avrebbero pensato i parenti.

Matteo Sinagra s'era tastata nel taschi- no del panciotto la rivoltella, sua fida compagna di tant'anni. E senz'altro, ec- colo per la via che conduce al cimitero.

È una cosa davvero divertente, un go- dimento inaudito.

Un morto, che se ne va da sé, co' suoi piedi, piano piano, con tutto il comodo, al suo destino.

Matteo Sinagra lo sa perfettamente, che è un morto : un morto vecchio, anche ; sì, un morto di tre anni, che ha avuto tutto il tempo di votarsi d'ogni rimpian- to della vita perduta.

Ora è leggero leggero: una piuma! Ha ritrovato stesso; è entrato nella sua qualità, d'ombra di stesso. Libero d'o- gni ostacolo, scevro d'ogni afflizione, esente d'ogni peso, comodamente va a riporsi.

Ed ecco : queila via che conduce al ci- mitero, a farla così da morto, per l'ul- tima volta, senza ritorno, gli si rappre- senta ni un modo nuovo, che lo riempie

DA 217

d'una gioja di liberazione, che è vera- mente già fuori della vita, oltre la vita.

I morti la fanno in carrozza, chiusi e saldati in una doppia cassa, di zinco e di noce. Egli cammina, respira, può vol- gere il collo di qua e di là, a guardare ancora.

E guarda con occhi nuovi le cose che non sono più per lui, che per lui non hanno più senso.

Gli alberi.... oh guai'da!... erano così gli alberi? erano questi?... E quei monti laggiù.... perchè? quei monti azzurri, con quella nuvola bianca sopra.... Le nuvo- le.... che cose strane!... E' là, in fondo, il mare.... Era così? Quello, il mare?

E un sapor nuovo ha l'ai'ia, che gli entra nei polmoni, una soavità di refri- gerio su le labbra, nelle nai'ici.... L^a- ria.... ah, l'aria.... Che delizia!... Egli la respira.... ah, la beve ora, come non l'ha mai bevuta di là, nella vita; come nes- suno che stia nella vita, può berla. È aria come aria; non respiro per vivere. Respiro come respiro. Pura aria, puro respiro.

Tutto guadagnato, per un morto. Mica la possono avere gli altri morti, che se ne vanno per quella via in carrozza, tesi, stirati, attufati nel bujo d'una cassa, tut-

218 DA

ta questa infinita, fluida, a\Tolgente de- lizia! Neanche i vivi, che non sanno che cosa voglia dire goderla dopo, così, una volta e per sempre: eternità viva, pre- sente, fremente!

Ancora è lunga, la via. Ma egli già po- trebbe arrestar qui il passo: è nell*eter- nità ; vi cammina, vi respira, in una'ebrez- za divina, ignota ai vivi.

Mi vuoi? Portami con te....

Un sasso. Un sasso della via. E per- chè no?

Matteo Sinagra si china, lo raccatta, lo pesa nella mano. Un sasso.... Erano così, i sassi?... erano questi? Sì, eccolo: un piccolo frantume di roccia, un pezzo di terra viva, di tutta questa terra viva, un frantume dell'universo.... Eccolo qua: in tasca; verrà con sé....

E quel fiorellino?

Ma sì, anch'esso, qua, qua, all'occhiel- lo di questo morto, che se ne va da sé, così alieno e sereno e felice, coi suoi piedi, alla sua fossa, come a una festa, col fiorellino all'occhiello.

Ecco l'entrata del cimiteix). Un'altra ventina di passi, e il morto sarà a casa sua. Niente lagrime. Ci viene da sé, con passo svelto, e con quel fiorellino al- l'occhiello.

Di. 219

Fanno un bel vedere questi cipressi di guardia al cancello. Oh, è una casa mo- desta, in vetta a un poggio, tra gli olivi. Ci saranno, e no, un centinajo di gen- tilizie, senz'alcuna pretesa d'arte: cap- pellette con un altarino, il cancelletto e un po' di fiori attorno.

È proprio, pei morti, una dimora in- vidiabile, questo cimitero. Lontano dal paese, i vivi ci vengono di raro.

Matteo Sinagra entra e saluta il vec- chio custode, che sta seduto innanzi al- l'uscio della sua casetta, a destra del- l'entrata, con uno scialle bigio, di lana, su le spalle, e il berretto gallonato sul naso.

Ohi, Pignocco.... Pignocoo dorme.

E Matteo Sinagra resta a contemplar quel sonno dell'unico vivo tra tanti mor- ti, e in qualità di morto ne prova dispiacere, una certa irritazione.

S'ha un bel dire.... Fa bene ai morti pensare che un vivo vegli sul loro sonno e stia in faccende sopra la terra che li ricopre. Sonno sopra, sonno sotto: trop- po sonno. Bisognerebbe svegliai-e Pignoc- co ; dirgli :

Eccomi qua; sono dei tuoi. Sono venuto da me, co' miei piedi, per far

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risparmiare un po' di soldi ai miei pa- renti. Ma è questa la cura che tu ti pren- di di noi?

Oh via, che cura, povero Pignocco ? Che bisogno di custodia hanno i morti? Quan- do ha innaffiato qua e qualche ajuola; quando ha acceso in questa e in quella gentilizia qualche lampadino che non fa lume a nessuno ; quando ha spazzato le foglie morte dai vialetti; che altro gli resta da fare? Non fiata nessuno den- tro. Il ronzìo delle mosche allora e il lento stormire degli smemorati olivi sul poggio lo persuadono a dormire. Sta in attesa anche lui della morte, povero Pi- gnocco ; e in quest'attesa, provvisoria- mente — ecco qua dorme sopra, in mezzo ai tanti che dormono sotto.

Forse si sveglierà tra pooo^ allo scop- pio secco della rivoltella. Ma forse, nep- pure. È così piccola la rivoltella, e lui dorme così profondamente.... Più tardi, verso sera, allorché prima di chiudere il cancello, si recherà in giro a fai'e un'ul- tima ispezione, troverà un ingombro nero iu quel vialetto, in fondo....

Oh! E che roba è questa?

Niente, Pignocoo. Uno che deve andar sotto. Chiama, chiama, che gli apparec- chino il letto, giù, alla meglio, in fretta.

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senza tanti riguardi. Per risparmio di spese ai parenti è venuto da se, e an- che , per il piacere di vedersi così, pri- ma, morto tra morti, a casa sua, arrivato a destino in buona salute, con gli occhi aperti, in perfetta coscienza. Lasciagli in tasca il sasso che si è seccato an- ch'esso di stare al sole su la strada. E lasciagli anche il fiorellino all'occhiello, che è la sua civetteria di morto in que- sto momento. Se l'è colto e se l'è offer- to da sé, per tutte le corone che i pallenti e gli amici non gli offriramio. Egli, sì, è ancora sopra terra; ma è proprio come se fosse venuto da sotto, dopo ti-e amai, per curiosità di vedere che effetto fanno sul poggio queste tombe gentilizie, que- ste ajuole, questi vialetti inghiajati, que- ste croci nere e queste corone di latta nel campo dei poveri.

Un bell'effetto, veramente.

E zitto zitto, in punta di piedi, Matteo Sinagra, senza svegliare Pignocco, s'in- troduce.

È ancora presto per andare a dormire. Vagherà per i vialetti fino a sera, curio- sando, osservando (da morto, s'intende) aspetterà che sorga la luna, « buona notte.

Ho tante cose da dirvi....

La lettera,, in un bel foglietto volgaris- simo, di suprema eleganza provinciale, color di rosa e filettato d'oro, finiva così:

<i....se parlo d'ansia, tu puoi ben dire: ma sei vecchio, seì^ povero il mio Gior- gio! Ed è verO', sono vecchio, sì; ma dèi pensare, Momolina, che fin da ra- gazzo io t'ho amata, e quanto! Dicevi d'amarmi anche tu, allora! Venne la bu- fera — propri^» la bufera e nti ti por- tò via. Quanti mai anni sono passati? Vent'oftp.... Ma come si fft, che io son rimasto sempre lo stes^sio? Dico meglio: il mio cuore! Non dovresti perciò farmi aspettare più a lungo la risposta. Sai?, Io verrò a te domani. Hai avuto circa un miese per riflettere. Mi devi dire do- mani o IO «jo. Mai dev'esser sì^ Mo^ molinai Non f^r erollare il bel castello che ho edificato in questo mese, il bel castello dove tu sarai regina e tutte le mie speranze ancora giovwii ti serviranno co- me ancelle amorose...».

PiRAJTOKLLO. E domani, hmedì.... 15

226 HO TANTE COSE DA DIEVI....

La signora Moma s'accorse che que- st'ultima frase, così poetica, era stata ag- giunta, appiccicata dopo scritta la let- tera. Il signor Giorgio, o non aveva voluto sprecare il bel foglietto color di rosa, filettato d'oro; o non aveva voluto sob- barcarsi alla fatica di rifar di nuovo, chi sa con quanto stento, in bella copia la lettera, con tutti quegli svolazzi in fine d'ogni parola; e, con molta industria allora, aveva costi-etto la poetica frase, sovvenutagli tardi, forse nel rileggere la lettera prima di chiuderla nella busta, a capir tutta, di minutissimo carattere, nel poco spazio che avanzava nel rigo dopo il fu sami regina. L'appiccicatura, sal- tando agli occhi evidente, rendeva più che mai goffe quelle speranze ancora gio- vani che dovevano servirla come ancelle amorose. E ottenne questo bell'effetto : , che la signora Moma, sbuffando, buttò '._ via la lettera, senza leggerne le ultime

righe. ' Oh Dio, viene domani? Ma come j non capisce, cretino, che non voglio sa- perne?

E ancora col cappello in cajio, pestò un piede e alzò la mano guantata a un \ivacissimo gesto di fastidio e di stizza.

HO TAXTE COSE DA DIRVI.... 227

i Con quel cappello in capo la signora ' Moma stava, si può dire, da un anno ^ e quattro mesi. Non se lo toglieva che per qualche mezz'oretta, per qualche oretta al giorno ; se lo ripiantava di fu- ria in capo, e via di nuovo, fuori di casa. La cacciava via così, sempre in giro di qua e di là, una smania, una smania, non sapeva di che, che le si esasperava in corpo sopratutto alla vista dei mobili di casa e specialmente alla vista del ma- gnifico salone di ricevimento, con quel- le ricche tende e quelle portiere di dama- sco, quei quadri antichi e moderni alle pareti e quel gran pianoforte a coda del marito e quei leggìi che parevano di chie- sa, innanzi ai quali sedevano con gli stru- menti ad arco i oolleghi del mai'ito e an- jche Alda, la sua bella figliuola, adesso lontana lontana, anche lei col suo vio- lino.

Da un anno e quattro mesi era ve- dova la signora Moma: deirillustre mae- stro Aldo Sorave. La lettera ricevuta quella mattina, nella quale quel signor Giorgio la chiamava Momolina, le ave-

328 HO TANTE COSE DA DIRVI....

va per poco ridestato il ricordo del suo paesello nativo, di quel ferrigno borgo montano, tutto cinto di faggi, di querci e di castagni, ove un giorno il giovane maestro Sorave, sbattuto da chi sa quale tempesta, era venuto a rifugiarsi, genio incompreso, con im. libretto da musicare, La bufera.

Ella era veramente Momolina, allora: sedici anni, rosea e fresca, bellina, gras- sottella e placida placida. Ma s'era inna- morata anche lei del giovane maestro Sorave. Se n'era innamorata forse per- chè tutte le ragazze del paese se n'erano innamorate. Non aveva mai però com- preso bene perchè egli fra tante avesse scelto lei, pix)prio lei, che certo gli s'era mostrata meno accesa di tutte le altre; tanto che innanzi a lui non aveva saputo se non arrossire e balbettare; e, for- zata a dirgli qualche cosa, gli aveva di- chiarato candidamente di non capir nul- la, lei, di musica, di poesia, d'alcun' altra arte.

Ebbene, appunto perciò, forse, il mae- stro Aldo Sorave se l'era sposata. Pur non di meno ella credeva, era sicurissima d'aver condiviso per vent'otto anni la vita del marito, dapprima tempestosa, zinga- resca, in viaggi affannosi da un paese al-

HO TANTE COSE DA DIRVI.... 239

l'altro, con la lingua fuori come una po- vera cagnetta dietro l'ansia smaniosa di lui che voleva a ogni costo raggiungere la mèta ; poi nata la figliuola un'altra vita, non mai placida veramente, ma cer- to meno irrequieta, quella che seguiva ai ritorni di lui dopo i trionfi o d'un giro di concerti o d^una stagione musicale di- retta in questa o in quella città; finché, conquistata solidamente con la fama l'a- giatezza, egli non s^era stabilito a Roma. Qua la figliuola era cresciuta, bionda e bellissima, in mezzo airinebriante fulgor d^arte di cui era circondato il marito. Ma un bel giorno, chi isa come, chi sa pelu- che, rovesciando tutti i disegni ambizio- si dei padre, s'era invaghita d'un gior- nalista, brutto e quasi vecchio .; aveva voluto sposarlo, e sie m'era andata m Ame- rica, a Buenos Aires, dove al marito era stata offerta la direzione d^un grande giornale italiano. Tre mesi appena dopo quelle nozze, il padre, che aveva negato fino all'ultimo il consenso e non aveva voluto rivedere la figliuola neanche pri- ma della partenza per l'America, era morto di crepacuore.

Un gran dolore, sì, oh un gran dolore per la signora Moma l'allontanamento di quell'unica figliuola; e la più grande

330 HO TANTE COSE DA DIRVI..,.

delle sciagure era stata poi per lei la morte del marito. Ma ecco che pro- prio proprio, con quel!' allontanamento e con questa morte, fosse tutto finito, come se ella non fosse rimasta lì, come se non fosse rimasta !a casa, tal quale, per l'a- giatezza in cui la aveva lasciata il maiito, la signora Moma non riusciva ancora a capacitarsi.

Certo, la vita d'un tempo, quella fer- vida vita, così bruscamente interrotta, le feste d'arte, le conversazioni, la corte del- ie splendide signore attorno al vecchio maestro illusti-e, piccoletto e capelluto, dagli occhi selvaggi sotto le folte ciglia spioventi, come appariva dal ritratto a olio appeso alla parete del salone; la corte degli elegantissimi giovanotti attor- no alla figliuola; non era più possibile ormai: questo, sì, la signora Moma lo comprendeva bene. Ma una vita quale ormai poteva essere nelle mutate condi- zioni, le tante e tante amiche, i tanti e tanti amici d'allora potevano bene ri- condurla lì, nella casa rimasta tal quale, in quel magnifico salone, attorno a lei che v^era restata sola e vi s'aggirava co- me sperduta.

E col cappello in capo, dalla mattina alla sera, angosciata, esasperata, la si-

HO TANTE COSE DA DIRVI.... 231

gnora Moina correva in cerca degli an- tichi frequentatori della casa, dall'uno al- l'altro, senza requie.

Dapprima era stata accolta con una certa cordialità; molti la avevano com- miserata per la doppia sventura; qual- cuno le aveva anche promesso che sa- rebbe venuto a trovarla. Ma che ! Non era mai venuto nessuno. E a poco a poco la signora Moma era divenuta quasi aggres- siva.

Birbante! birbante! Avevate promes- so che sareste venuto....

Signora mia, creda, non ho potuto....

Verrete oggi? Fatemi il piacere, ve- nite! Ho tante cose da dirvi.... Dalle quat- tro alle sei. Ci conto....

Oggi no, mi dispiace, signora, non potrei. Spero domani.,..

No ! Domani certo. V'aspetto, bada- te! Dalle quattro alle sei. Ho tante cose da (firvi....

E dalle quattro alle sei la signora Moma stava ad aspettare in casa la visita. Cre- deva veramente d'aver tante cose da dire, e ripeteva a tutti, dopo gl'inviti sempre pili pressanti, quella frase.

Passavano le quattro, passavano le cin- que, passavano le sei; l'impazienza, la smania^ l'angoscia, l'esasperazione della

282 HO TANTE COSE DA DIRTI....

signora Mbma crescevano ; sbuffava, bal- zando in piedi ; andava su e giù per il sa- lone ; s'affacciava ora a questa ora a quel- la finestra a guardare se ra,spettato ve- nisse; e, pur certa ormai che non sareb- be più venuto, scoccate le sei, si costrin- geva, divorata dalla rabbia, ad aspettare ancora dieci minuti, un quarto d'ora, e ancora un altro quarto, e finanche un'o- ra! Alla fine, si ripiantava il cappello in capo, e via di nuovo per le strade, furio- sa, imprecando al mal'educato.

Non s'accorgeva nenipmeno che ora ;ami- ci e conoscenti, per non farsi aggredire, avvistandola da lontano, scantonavano, si nascondevano e, quand'erano acchiap- pati, le porgevano la mano voltando la faccia, e scappavano via, senza darle il tempo di finir la solita frase:

Domani, eh? V'aspetto domani. Dal- le quattro alle sei. Ho tante cose da dirvi....

Ricordava la poveretta, d'essersi mo- strata sempre affabile e cordiale, lei, con le amiche, con gli amici, ammiratrici del marito, corteggiatori della figliuola. Ami- che, amici, le sedevano accanto, allora, durante le riunioni, le rivolgevano an- che la parola, la salutavano con aria complimentosa e deferente, entrando nel

HO TANTE COSE DA DIRVI.... 2^3

salone e uscendone. Inchini, complimen- Uj sorrisi.... Ella udiva paziente tutta quella musica, tutte quelle dispute d'arte ; qualche volta le era avvenuto di rispon- dere con un cenno del capo o con un sorriso a qualcuno che nel calore della discussione le aveva rivolto lo sguardo.... No, no, proprio no, non riusciva pro- prio a capacitarsi ancora perchè, allon- tanatasi la figliuola, morto il marito, tutti la avessero abbandonata così, come se ella avesse commesso qualche indegnità; tutti avessero così disertato la bella casa dove quei preziosi oggetti d'arte erano ri- masti attorno a lei come sospesi in una immobilità silenziosa e quasi solenne.

Erano suoi, sì, tutti e assolutamente suoi, ora, quei mobili e la casa; ella era la signora e la padrona di tutto; eppu- re.... eppure da una smania orribile si sentiva presa guardando, o piuttosto, sen- tendosi guardata come un'estranea, lì, da tutti quegli oggetti che non le dicevano nulla, che non le sapevano dir nulla, per- chè avevano tutti un ricordo vivo ancora, o del marito o della figliuola; ma per lei, nessuno.

Se alzava gli occhi a guardare, per esempio, un quadro del sa,lone, sapeva ch'era antico, come no? sapeva ch'era di

284 HO TANTK COSE DA DSRVI...,

pregio ; ma che cosa rappresentasse quel quadro, perchè fosse bello, veramente non avrebbe saputo dire neanche a stes- sa; e se guardava il pianoforte.... eh, in verità non poteva altro che guardarlo.... non s'arrischiava nemmeno a scoprirne la tastiera, perchè il marito, prima di morire, le aveva espressaniente racco- mandato che non lo lasciasse più toccare a nessuno. Quanto a toccarlo lei, nep- pur ci pensava, perchè lei, la musica.... sì, c'era vissuta sempre in mezzo » ma neanche le note, il do dal re aveva imparato mai a distinguere.

Non le viveva, ecco, non poteva più viverle attorno, quella casa. Per ripren- dere a vivere bisognava assolutamente che un po' dell'antica vita, quella degli altri, quella de la figliuola e del marito, tornasse a muoversi in essa.

Altra vita, lì, una sim vita, non era, possibile; perchè in realtà lei, la signora Moma (ditelo piano, per carità, se non volete esser ti'oppo crudeli, voi che ades- so la chiamate «una terribile seccatri- ce»), la signora Moma, lì, nella sua casa, non aveva mai avuto una vita sua ^ quasi non c'era stata mai.

Questo ella, naturalmente, non poteva intenderlo: lo avvertiva solo come una

no TANTE COSE Ì)A DIRVI.... 235

smania che le si esacerbava sempre più e la cacciava fuori senza requie, inte- stata a richiamare, a ricondurre attorno a quella vita, nell'angoscia smaniosa di sentirsela mancare e sfuggire, senza saper perchè.

Il giorno appresso s'intende ac- colse a modo d'un cane quel povero si- gnor Giorgio Fantini, suo compaesanel- lo innamorato di vent'otto anni fa, che pure con la sua profferta di nozze inten- deva di richiaanare e di ricondurre lei piuttosto a quell'unica vita ch'ella vera- mente avrebbe potuto vivere, nel ferri- gno borgo montano tra i boschi di faggi, di querci e di cast;agni ; modesta vita tran- quilla, dai giorni semplici, uguali, dove non avveniva mai nulla ch'ella non po- tesse capire, dove in ogni cosa nota avrebbe potuto sentire e toccare la realtà sicura della propria esistenza.

E non era poi tanto vecchio quel si- gnor Giorgio Fantini ; ed era anche un bell'uomo, molto piìi bello certamente di quel piccoletto e capelluto maestro-bufe- ra Aldo Sorave; ed era anche ricco, pa-

236 HO TAMTE COSE DA DIRTI....

drone di molte terre e di molte case, e non privo d'una certa coltura antica e sana,, se poteva leggere nel loro testo la- tino e senz'ajuto di traduzione le Geor- giche di Virgilio.

Già non si fece neppur trovare in casa ia signora Moma. Quando, dopo circa due ore, rincasò tutta accaldata e sbuf- fante, pili che mai invelenita dalla stizza contro tutti quegli ingrati e maleducati che la sfuggivano e le mancavano di pa- rola, lo investì malamente, nel salone, senza neppur levarsi il cappello, solle- vando soltanto la veletta per fargli scor- gere bene, negli occhi, la sua collera e il fermo proposito di respingere quella proposta che le pai'eva quasi un insulto, anzi una tracotanza.

Ma chi v'ha detto di venire, caro Fantini? Io non ve l'ho detto! Non v'ho neppure risposto! Ma sì, scusate: vi pare sul serio che sia una cosa possibile? Ma basta che vi guardiate un po' attorno, caro Fantini! Vedete? Questa è la mia casa.... Credete proprio possibile ch'io, alla mia età, rinunzi omiai a ciò che per tanti aniii ha forniato la mia vita? Via, via.... Un po' di riflessione.... Avre- ste dovuto riflettere un po' prima, ve- ramente.... Basta; non ne parliamo più.

HO TANTE COSE DA DIRVI.... 23V

Qua la mano, caro Fantini, senza ran- core, e restiamo buoni amici.

Non ebbe il coraggio d'insistere il si- gnor Giorgio Fantini ; guaj"dò in giro quel solenne salone dov'ella diceva d'aver la sua vita, e poco dopo uscì con lei che per un momento, a causa di lui, aveva do- vuto interrompere la sua quotidiana ine- sorabile ricerca.

E la vide per via, nella tristezza bru- mosa della sera deoembrina, fermarsi tre o quattro volte in mezzo a una fiumana di gente ad aggredir questo e quello ; e s'accorse che quei signori aggrediti le porgevano la mano voltando la faccia; e ogni volta con una strana voce rabbio- sa e di pianto le udì ripetere quella sua solita frase:

Ma avevate promesso di farvi ve- dere! Venite! venite! Dalle quattro alle sei. Ho tante cose da dirvi....

Piuma.

S'era già accorta che la pietà dei pa- renti non era tanto a costo delle sue sofferenze, quanto di quelle che ella dava loro, senza volerlo, col suo male inguai'i- bile ; e che insomma nasceva da un certo goffo rimorso quella loro affamaata pietà.

Il grosso marito calvo e accigliato, quella grossa cugina povera, corazzata da due poppe prepotenti sotto il mento, i capelli che parevano un casco di ferro su la fronte bassa e con quel pajo di spaventosi occhiali sul fiero naso, anche un po' baffuta, poverina; volevano sof- frire per lei perchè intendevano di pa- gare così il sollievo, il bene che sarebbe loro venuto dalla sua morte. E difatti, quand'ella soffriva, le erano attorno an- santi e premurosi; ma poi, appena il male le dava requie ed ella sul letto, calma, gustava per ogni nonnulla una lieve gioja innocente, una dolcezza di respiro nuovo tra il ca,ndor fresco del

Pirandello. E domani, lunedì....

^42 PIOMA

letto rifatto, l'uno l'altra parteci- pavano più alla sua gioja; si staccavano dal letto ; la lasciavano sola, forse per- chè l'illusione di quel suo bene non le durasse.

Dunque, patti chiari: non le concede- vano il diritto di star bene; le concede- vano in cambio il diritto di tormentai'li col suo male, quanto più potesse, quan- to più sapesse. E pai'eva che di questo cambio volessero proprio esser ringra- ziati.

Non era troppo?

Di tormentarli, poverini, non poteva farne a meno. Non dipendeva da lei. Che poi la lasciasseix) sola nei momenti di requie, non solo non le importava nulla, ma le faceva anzi un gran piacere, per- chè sapeva bene che quei due non avreb- bero potuto neppur lontanamente imma- ginare di che cosa ella godesse, di che vivesse.

Pareva di nulla. E veramente non vi- veva più di ciò che agli altri bisogna per vivere. Così anche poteva credere di non toglier nulla agli altri rimanendo 'lì in attesa della morte che non veniva. Ma spesso gli occhi, che avevano an- cora il limpido brillìo dello zaffiro, vivi essi soli nella spai'uta magrezza del vi-

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sino diafano, le ridevano maliziosi. Per- chè? Forse si vedeva come quella for- michetta dell'apologo nel suo libro di lettura di quand'era bambina, la formi- chetta che attraversando una via chie- ì deva ai passanti :

Che vi fa, buona gente, questa mia pagliuzza?

Una pagliuzza? Niente! Ma pretendeva la formichetta che tutto il traffico della via, gente, veicoli s'arrestassero per la- sciarla passare con quella sua pagliuzza.

E fosse almeno passata! Ma non pas- sava mai: non poteva passare, perchè veramente il tenipo per lei non passa- va pili.

In quella vana attesa di morte, la vita esterna s'era come assordita in lei.

Da aniii e anni durava in quel suo male che nessuji medico finora aveva saputo dichiarare; e non si capiva come. Nella luce di quella vasta camera bianca, su quell'ampio letto bianco, s'era ridotta più fragile di quegli insetti d'estate che, a toccarli appena, son lieve polvere d'oro tra le dita. Come faceva, così fragile,

244 PIUMA

a resistere agli spasimi di quei fieri ac- cessi del male, non rari? Non pareva un dolore umano, poiché le strappava dal- la gola cupi gridi d'animale. Ma pure resisteva. Poco dopo, calma, era come se non fosse stato nulla. Diventava sem- pre pili magra, questo sì; e piìi che a vederla, era uno spavento a immaginare a che punto di magrezza si sarebbe ri- dotta di qui a dieci, di qui a vent'anni, chi sa! perchè forse per venti anni an- cora, e più, avrebbe seguitato su quel letto a immagrire, a incadaverirsi viva; ma pur senza sformarsi, pur senza per- dere, anzi acquistando sempre più una sua certa grazia infantile, per cui pa- reva non tanto dimagrisse, quanto si rim- piccolisse tutta a mano a mano che il tempo passava, quasi che, per prodigio, dovesse uscir di vita non già dalla vec- chia] a, ma dall'infanzia, a ritroso.

Gli occhi, però, gli occhi nel brillìo del- l'azzurra luce, in quello spai'uto visino di bimba, non erano infantili; si facevano anzi sempre più diabolicamente malizio- si; massixne quando, dopo gli accessi del male, ancora aggruppata nel letto, con ia testina arruffata giù dal guanciale, su ìa rimboccatura del lenzuolo scomposta, guardava i dorsi del grosso marito e del-

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la grossa cugina, che s'allontanavano cur- vi e mogi mogi dal letto.

Disperati, quei poverini! Chi sa che discorsi facevano tra loro di là, e che pensavano di qua, stando a vegliarla! Forse la vedevano come presa in uno strano impenetrabile incanto, che la rap- presentava loro come lontana lontana, pur vicina, sotto i loro occhi. Ciò che ella chiamava «sole», ciò che ella chia- mava «aria», quando con una voce che non pareva piìi umana diceva «sole», diceva «aria», forse a nessuno dei due pareva che fosse piìi lo stesso loro sole, la stessa loro aria. Era difatti come il sole d*uil altro tempo, un'aria ch'ella chiedesse da respirare altrove, lontano. Dove? quando? Non qui, certo; non ora, in questa camera, su questo letto. Qui, ora, doveva loro sembrare ch'ella non avesse piìi bisogno di sole d'aria di nulla. Ma allora dove? quando? Lì, lontano, nel tempo in cui ella che pa- reva qui seguitava a vivere com'era, col sole d'allora, con l'aria d'allora, quan- d'era bella e sana e gaja e i limpidi occhi di zaffiro avevaii fremiti di desiderio o collere ridenti; lì, dove lucidi, precisi, con tutti i loro colori, con tutti i loro lineamenti in moto^^ quasi riflessi imian-

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zi a i€i in uno specchio, ma da lontano lontano, le vivevano tutti gli aspetti del- la sua vita, non già passata, ma presente ancora e impassabile, poiché lei segui- tava sempre a vivere in essi.

Si dondolava andando,, ma così legge- ra! per quel traforo verde del lungo per- golato opaco, con in fondo il sole abbar- bagliante; le manine rosee appese alle falde del gran cappello di paglia stretto ai lati da un nastro di velluto nero an- nodato sotto il mento. Oh quella paglia! Sul cristallo azzurro della fontana in fon- do al pergolato, ove lei ora corre a spec- chiarsi, pare un cestello rovesciato, pie- no di capelli d'oro.

Le pareti di quella fontana sono di creta, come ora queste sue mani, e for- s' anche le guance, di creta.

Ma no, no.... Lì! Ed ecco, si vede lì, ora, in barca, sola, col mare agitato. Le ondate la assalgono, la investono, la sfer- zano, come di piombo. Ed ella si sente acqua, si sente vento, viva in mezzo alla tempesta. E ogni volta, a ogni sferzata, ah! è un divino imbevimento, che la fa quasi nitrire, ebra. Una forza agile, pro- digiosa, tremenda, la lancia, poi la culla spaventosamente. E in questo spavento vertiginoso^ che voluttà!

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Ma non bisogna abusarne; se no, è l'affanno di nuovo e il feroce morso di quei dolori al petto che la fanno urlare come una belva. No no bisogna tenerla lontana così la sua vita, per viverla soltanto lì.

Oh come le piacciono certe giornate di nuvole chiare, dopo le piogge, con l'o- dore di terra bagnata e nella luce umida l'illusione delle piante e degl'insetti che sia di nuovo primavera. La notte, le nu- vole dilagano su le stelle e le annegano, per poi lasciarle riapparire su brevi pro- fonde radure d'azzurro. Ed ella, con l'a- nima piena della più angosciosa dolcezza d'amore, ecco, affonda gli occhi in quel notturno azzurro, e si beve tutte quelle stelle.

Poche gocce d'acqua, è vero ; qualche goccia di latte, ora, e nient'altro. Ma nel sogno così, anche a occhi aperti, do- v'ella perennemente viveva, venivano a nutrirla in abbondanza i ricordi che per lei erano vita. Le recavano non più la materialità, ma la fragranza e il sapore dei cibi d'allora, di quelli che più le pia-

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cevano, frutta ed erbe, e l'aria d'allora e la gajezza e la salute.

Come poteva più morire? Dopo un lie- ve sonno, la sua anima era pienamente ristorata, e bastala al suo corpo, così com'era ridotto, che quasi non era piìi, Una goccia d'acqua, una goccia di latte.

La grossolanità goffa dei corpi, non solo del marito e della cugina, ma di quanti le s'accostavano al letto era ormai ai suoi occhi, a ùitti i suoi sen'si acu- tissimi, d'una gravezza insopportabile, e cagione di ribrezzo e qualche volta an- che di terrore. La diafana gracilità delle pinne del suo nasino fremeva, spasimava, a\Tertendo i nauseanti odori di quei cor- pi, la densità acre dei loix) fiati; e quasi avevan peso per lei anche i loro sguardi quando le si posavano addosso per com- miserarla. Sì, sì, questa commiserazione, come tutti gli altri sentimenti e desiderii, in quei corpi, avevan peso per lei e an- che cattivi odori. Nascondeva perciò spesso la faccia sui guanciali, finché non si fossero allontanati dal letto. Da lonta- no, con più spazio attorno alla chiara, aerea levità del suo sogno, li guardava, e dentro di ne rideva, come di grosse bestie strane che non potevano vedersi, da sé, come le vedeva lei, condannate al-

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raffaiino di stupidi bisogni, di gravi o non pulite passioni.

Più che per tutti gli altri rideva tra per 11 marito, quando lo vedeva pian- tato fermo in mezzo alla camera con la pensosità pesante e lugubre dei buoi. An- che così da lontano, gli scorgeva la pel- le spungosa, sejninata di puntini neri. Certo egli credeva di lavai'si bene ogni mattina; bene, come si lavavano tutti gli altri; ma anche a tutti gli altri, per quanto si lavasseix), restavano sempre nella pelle tutti quei puntini neri. Po- teva scorgerli lei sola, come lei sola scor- geva la granulosità dei nasi e tant'al- tre cose che, a guai'dar bosì da lontano, erano per lei divertentissime.

La grossa cugina con gli occhiali, per esempio, non poteva fare a meno d'ab- bassar le pàlpebre, appena ella la fis- sava col capo di solito reclinato giìi dal guanciale, sul bianco della rimboccatu- ra del lenzuolo.

In quel bianco, il suo visino quasi spa- riva, e solo si vedevano, acuti e bril- lanti, i due grandi occhi di zaffiro, come due vive gemme posate lì.

Ridevano però, ardevano diabolici di riso, non perchè sotto gli occhiali della cugina scorgessero grossi e lunghi, quasi

250 PltTMA

metallici, i peli della ciglia di lei, come antenne d'insetto, ma perchè ella sapeva bene che la cugina, venendo qua così pa- cifica, con l'aria di niente, ad assisterla, lasciava nelle altre stanze di un dram- ma che più goffo nella sua grossolanità non si sarebbe potuto immaginare: il dramma della sua passione, povera gros- sa cugina con gli occhiali ; il dramma, certo, della sua vergogna e del suo ri- morso ; ma anche oh "Dio, perdono !

anche de' suoi segreti piaceri carnali col grosso cugino, attossicati da chi sa quante lagrime, poverina!

Avrebbe voluto dirle che, via, non stes- se a pigliarsene tanto, perchè ella sapeva, aveva indovinato da un pezzo, e le pa- reva naturalissimo che tutti e due, cu- gino e cugina, visto che la morte non veniva di qua a liberarli, di si fos- sero messi insieme maritalmente, con quei loro grossi corpi oh Dio, si sa

tentati l'uno verso l'altro dalla vici- nanza e dal bisogno d'un conforto reci- proco. Naturalissimo. E già due volte, in sei anni, la poverina era stata co- stretta a sparire, la prima volta per tre mesi, la seconda per due. Perchè si sa^ oh Dio non è senza conseguenze, il più delle voite^ questo cocente bisogno

PIUMA 251

di conforto reciproco. Il marito le aveva detto che era andata in campagna a ri- posarsi un poco. Glie Io aveva detto però con tale aria smarrita e vergognosa, che certo ella sarebbe scoppiata a ridergli in faccia, se veramente avesse ancora potuto ridere. Ma non poteva, altro che con gli occhi, ormai. Ridere, ridere forte, con la sua bocca roissa, coi suoi denti splendidi, ridere come una pazza, poteva soltanto, nel sogno vivo in cui si ve- deva, con la sua immagine rosea e fre- sca di salute; e là, sì, aveva riso riso riso, ma tanto, come una pazza!

Avrebbe forse dovuto pentirsene, come d'un peccato, perchè costava necessaria- mente lagrime agli altri questo suo inu- tile riso. Ma che poteva faixi se non moriva? E del resto, che pentimento, se l'uno e l'altra, stanchi d'aspettare inva- no la sua morte, s'erano di accomodati tra loro? Perchè non potevano, con lei ancora li, regolare la loro unione, la nascita dei due figliuoli? Avrebbero do- vuto pensarci prima, ai figliuoli! Li ave- vano fatti e ora piangevano? Per for- tuna, certo, i due piccini non potevano ancora prender parte a quel loro affanno, fuori come lei dalla goffaggine delle gros- solane e complicate passioni.

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N'ebbe la prova, un giorno.

Nell'ampia camera luminosa non c'era nessuno. Di tanto in tanto alla cugina faceva comodo credere ch'ella dormisse e che poteva perciò lasciarla sola, non ostante l'espressa raccomandazione del marito. (S'erano messi insieme 1 due, ma certo in un modo molto curioso, salvan- do cioè nei loro cuori grossi ma teneri l'affetto per lei, un affetto che appariva tanto più comico quanto piìi si dimo- strava sincero e commovente, ma che pur forse doveva dare alla cugina, qualche volta, una cert'ombra di gelosia, se egli, per esempio, nel sostenerla negli accessi del male, le ravviava con dita tremanti i lunghi capelli d'oro, ricordo d'Intime carezze lontane.) Basta. Quel giorno, la cugina la aveva lasciata con tanto d'oc- chi aperti; ma non importa: doveva cre- dere ch'ella dormisse, ed era uscita da un pezzo dalla camera, quando a un trat- to l'uscio si schiuse ed entrò una gi'ossa bamboccetta con gli occhiali, che reggeva con un braccino sul petto una bambolo- na tignosa, in carnicino rosso, e senza un

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piede, e nell'altra mano una mela sboc- concellata. Enti'ò smarrita e titubante co- me una pollastrotta scappata dalla stia e penetrata per caso in mi salotto. Ella, sorridente, le fé' cenno con la mano d'ac- costarsi al letto ; ma la bimba non osò e rimase come incantata a mirarla da lontano. Con gli occhiali, povera mim- ma, chi sa qualcuno non volesse credere di chi era figlia; ma ben pasciuta poi, sana, placida e si poteva giurare perfettamente ignai'a dell' affanno che aveva dovuto costare alla madre il met- terla al mondo illecitamente; ignara e beata de le belle rosse mele che si pote- vano intanto mangiare, così con tutta la buccia e col solo ajuto dei dentini, in questo illecito mondo, dove per lei for- se s'olamente alle bambole poteva capi- tare la disgrazia, e senza molta pena, di perdere un piede e il parrucchino di stoppa.

Volle avere pietà ; e quando, poco dopo, la madre accorse tutta sossopra e quasi atterrita a ritirar di furia quella bhnba dalla camera, ove certo s'era introdotta eludendo la rigorosa vigilanza, chiuse gli occhi e finse di dormire davvero. Finse di dormire anche quando la cugina, an- cora tutta rimescolata, venne a riprende-

264 PIUMA

re il suo poS'to d'assistenza presso il let- to; ma, Dio Dio, che tentazione d'aprire a un tratto gli occhi ridenti e di doman- darle all'improvviso:

Come si chiama?

Sì, via, bisognava un giorno o l'altro venire a questa risoluzione. Chi sa quali disordini cagionava di il mantenere ancora, qua, tutto questo inutile miste- ro! E poi anche si moriva dalla curiosi- tà di sapere se l'altro figliuolo fosse un bamboccetto o un'altra bamboccetta, e se anche questa seconda, per non sba- gliare, fosse con gli occhiali.

Ma s'infranse da il mistero, in un modo inopinato, pochi giorni dopo l'en- trata furtiva di quella bimba nella ca- mera.

Urli, pianti, fracasso di seggiole rove- sciate, un gran subbuglio, quel giorno, venne dalle stanze di là, nell'ora del de- sinare. Ella indovinò che qualcuno era trascinato con molto stento, sorretto per la testa e pei piedi, da una stanza all'al- tra, dalla sala da pranzo a un letto. Il marito? Un colpo d'apoplessia? I pianti,

PIUMA 255

gii urli erano disperati. Doveva esser morto.

Non per lei, che da tanto tempo stava qui ad aspettarla, sua preda accaparra- ta, ma per un altro che non se l'aspettava, la morte era entrata nella casa. Era en- trata, forse passando innanzi all' uscio schiuso di quella camera bianca; forse s'era fermata un momento a guardarla sul bianco letto ; poi s'era introdotta di nella sala da pranzo per picchiar di dietro col dito adunco sul cranio lucido del grosso marito mtento, senza sospetto, a divorare il suo pranzo abbondante.

Doveva ora piangere di questa disgra- zia? Era per quelli che restavano in vita. Le feste, i lutti, le giojq, i dolori degli/ altri non erano più da gran tempo per lei, che dal suo letto li considerava solo, come buffi aspetti di qualche cosa che più non la riguardasse. Era anche lei della morte. Queiresile filo di vita che conser- vava ancora, serviva per condurla fuori, lontano, nel passato, tra le cose morte, in cui solo il suo spirito viveva ancora, non chiedendo altro di qua, alla vita degli altri, che una goccia d'acqua, una goccia di latte ; non poteva dunque legarla più a questa vita degli altri, ormai esti^anea a lei, come un sogno senza senso.

256 ricM.v

Chiuse gli occhi e aspettò che di quel subbuglio a poco a poco si quie- tasse.

Dopo alcuni giorni vide entrare nella camera, vestita di nero, tra le due bam- bine vestite anch'esse di nero, la grossa cugina con gli occhiali, disfatta dal pian- to. Le si piantò come un incubo da- vanti al Ietto ; poi prese a sussultare, arrangolando ; e infine stimò giustizia gridarle in faccia tra infinite lagrime la sua disperazione, mosti'ando le due pic- cine orfane, e il danno ormai irrepara- bile ch'ella aveva fatto loro non morendo prima. Come, come sarebbero rimaste adesso quelle due piccine? E lei? lei?

Ella ascoltò dapprima sbigottita; ma poi, proti'aendosi a lungo lo spettacolo un po' teatrale di quella disperazione pur sincera, non ascoltò più; fissò l'altra bimba che ancora non conosceva e notò con piacere che questa era senza occhiali. Le parve un refrigerio sentirsi così esile, quasi ùnpalpabile, tra il fresco delle len- zuola bianche, bianca, di fronte a tutto quel nero angoscioso tempestoso bagnato di lagrime, che involgeva e sconvolgeva la grossa cugina; e ben buffo le parv^e, che se lo fosse assunto lei, così, il lutto del marito, e lo avesse anche imposto a quel-

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le due povere piccine che fortunatamen- te avevano l'aria di non ricordarsi piìi di nulla e una gran meraviglia avevano negli occhi spalancati d'esser penetrate finalmente in quella camera proibita e di veder sul letto lei che le guardava con curiosità affettuosa.

Non comprendevano, certo, quelle due bambine ch'ella avesse loro fatto un gran danno, quel gran danno che la loro majn- ma gridava così disperatamente. Ma non c'era proprio rimedio? nessun rimedio? Lo chiese a nome delle due piccine, per risparmiar loro lo sbigottimento di tutto quel pianto e di tutte quelle grida. C'era? E dunque, perchè quel pianto e quelle gri- da? di che si trattava? di lasciar tutto ciò che ella possedeva a quelle due piccine? Ma subito! ma pronta! Veramente, per sé, ella credeva di non possedere più al- tro che quell'esile filo di vita, il quale aveva soltanto bisogno di qualche stilla d'acqua, di qualche goccia di latte. Che le importava di tutto il resto? Che le importava di lasciare agli altri ciò che non era piìi suo da tanto tempo? Era una faccenda 'difficile e molto compli- cata? Ah sì? e come? perchè? Ma dunque davvero era una goffaggine insopporta-

PiEANDELLO. E domani, lunedi...- 17

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bile la vita, se una cosa così semplice poteva diventar difficile e complicata.

E le parve di vedersela entrare in ca- mera, alcuni giorni dopo, la goffaggine della \^ta nella persona d'un notajo, il quale alla presenza di due testimonii, prese a leggerle un atto interminabile, di cui non comprese nulla. Alla fine, con molta delicatezza, si \àde presentare un oggetto che non vedeva più da tanto tem- po. Oh, una penna, perchè apponesse la firma a quell'atto, non solo in fondo, ma parecchie volte, in margine a ogni foglio di esso.

La sua firma?

Prese la penna; la osservò. Quasi non sapeva più reggerla tra le dita. E alzò poi in faccia al notajo i limpidi occhi di zaffiro con un'espressione smaiTita e ridente. La sua firma? Aveva ancora dun- que il peso d'un nome ella? d'un nome da lasciare su quella carta?

Amina.... e poi come? Il nome di zi- tella, e poi quello di maritata. Oh, e an- che vedova bisognava mettere? Vedova.... lei? E guardò la cugina. Poi scrisse: Ami- na Berardi del fu Francesco, vedova Vi- smara.

Rimase a contemplarla un pezzo quel- la sua incerta scrittura sulla cai'ta. E

PIUMA 259

le parve così buffo che si potesse credere che in quel rigo di scrittura ci fosse veramente lei, e che gli altri se ne potes- sero contentare, non solo, ma vse ne beas- sero tanto, come d'un atto di grande ge- nerosità, che costituiva una vera fortuna per le due povere piccine vestite di nero, quella firma. Sì? E ancora, dunque! an- cora.... Amìna Berardi del fu Francesco, vedova Yismara.... Per lei era come uno scherzo, strascicare quel lungo nome gof- fo su per tutti quei fogli di carta bollata, come una bambina parata da grande, la lunga coda della veste di mamma.

La realtà del sogno.

Da sei anni, liti senza fine. Se non liti propriamente, urti, battibecchi, dis- i sapori, bronci per ti'e, quattro giorni; sbuffi da una parte, lagrime dall'altra. Perchè? Ma proprio per niente. Per una fissazione, che più sciocca non si sareb- be potuta immaginare.

Così almeno sosteneva lui. E il guajo era che lo sosteneva con una persistenza fredda metodica, che avevaj il potere d'e- sasperar la rabbia di lei fino a farla prorompere talvolta in accessi frenetici.

Dio, la voce, la voce, quel tono di si- curezza profonda e incrollabile, che pa- reva pili che altro radicata nel naso gros- so, ma bello ah! bello, bellissimo come tutto il resto: chi poteva negarlo? Bel- lissimi occhi, bellissima fronte, bellissi- mi capelli, bellissima bocca, bellissimo collo, bellissime mani: tutto, tutto quan- to bellissimo.

Era questa appunto l'esasperazione di lei. Sì, perchè tutto ciò ch'egli diceva

264 LA KEAiyi'À DEL SOGNO

e sosteneva, aveva per lui lo stesso va- lore incontestabile della sua bellezza; quasi che, non potendosi in alcun modo negare che fosse così bello in tutto, non si potesse parimenti contraddire in nul- la, ecco.

E non capiva niente, proprio non ca- piva niente di quanto avveniva in lei!

Nel sentire le interpretazioni che con tanta sicurezza dava di lei, di certi suoi moti istintivi, di certe sue fors' anche in- giuste antipatie, di certi suoi sentimenti, in cui.... sì, forse neanche lei sapeva ve- der chiaro, le veniva la tentazione di graffiarlo, di schiaffeggiarlo, di morderlo.

Anche perchè poi, con quella freddez- za, con quella sicurezza, con tutto quel- l'orgoglio sostenuto di bel giovine, in- contestabilmente bello, veniva come a mancare in certi altri momenti, allorché le s'accostava, perchè aveva bisogno di lei. Ah, timido, umile, supplichevole, al- lora.... troppo, ecco, come insomma in quei momenti ella non lo avrebbe de- siderato ; sicché, anche allora, per un al- tro verso si sentiva irritata; tanto che, pur essendo proclive a cedere, s'induriva restìa; e il ricordo d'ogni abbandono, avvelenato sul più bello da quell'irrita- zione, le si cangiava in rancore.

LA REALTÀ DEL SOGNO 266

Figurarsi ch'egli sosteneva fosse fis- sazione in lei l'inipcccio, l'imbarazzo, la confusione che provava davanti a tutti gli uomini, fossero anche gli amici piìi intimi di casa. Confusione, sì, imbaraz- zo, impaccio.... senza un perchè. Così....

Ma come fissazione, se li provava dav- vero? Meglio di lei voleva saperlo? Sis- signori, meglio di lei.

Li provi, perchè ci pensi, s'osti- nava a sostenere.

Ci penso perchè li provo! ri- batteva lei, rabbiosamente. Che auto- suggestione! Li provo. È così. E debbo ringraziarne mio padre, la bella edu- cazione che m'ha data! Vuoi mettere in dubbio anche questo ?

Eh, almeno questo no, era sperabile. Ne aveva fatto esperienza lui stesso du- rante il fidanzamento. Nei quattro mesi prima del matrimonio, là, nella cittaduz- za natale, non gli era stato concesso, non che di toccarle una mano, ma neppure di scambiare con lei due paroline a bassa voce. Più geloso d'un tigre, il padre le aveva inculcato fin da bambina un vero

266 LA heaijTÀ del sogno

terrore degli uomini; non ne aveva mai ammesso uno, che si dice uno, in casa; tutte le finestre chiuse; e le rarissime volte che la aveva condotta fuori, per via, le laveva imposto d'anda,re a capo chi- no come le monache, e guardando a ter- ra quasi a fare il conto dei ciottoli del selciato.

Ebbene, che meraviglia se ora alla pre- senza d'un uomo provava quell'imbarazzo e non riusciva a guai'dar negli occhi nes- suno e non sapeva più parlare muoversi?

Già da sei anni, é vero, s'era liberata dall'incubo di quella feroce gelosia pa- terna; da sei anni vedeva gente, uomi- ni, donne, per casa, per via; eppure.... Non era più certamente quel puerile ter- rore di prima; ma quest'imbarazzo. Ecco inutile! per quanto si sforzassero, gli occhi non sapevano, non potevano proprio sostenere lo sguardo di nessuno ; la lingua, parlando, le s'imbrogliava in bocca ; e d'improvviso, senza saper per- ché, si faceva in volto di bragia, per cui tutti potevano credere che le passasse ; per la mente chi sa che cosa, mentre proprio non pensava a nulla, lei; e in- somma si vedeva condannata a far cat- tive figure, a passare per sciocca, per

LA REALTÀ DEL SOGNO 267

stupida, e non voleva, non voleva, non voleva. Inutile insistere! Grazie al pa- dre, doveva fai' l'orsa, lei, per forza, la, chiusa, senza veder nessuno, per non pro- vare almeno il dispetto di quello stu- pidissimo, ridioolissimo imbarazzo piìi forte di lei.

Ma Sìlia mia....

Ma Aldo mio....

Si vedeva, sempre più, di giorno in giorno, fare il vuoto attorno, egli, per questa fissazione della moglie. Gli ami- ci, i migliori, quelli a cui teneva di più e che avrebbe voluto considerare come ornamento della sua casa, del piccolo mondo che, sei anni addietro, sposando, aveva sperato di formarsi attorno, già s'erano allontanati a uno a uno. E ave- vano ragione, poveretti! Sfido! Venivano in casa; domandavano:

Tua moglie?

Sua moglie se n'era scappata a preci- pizio al primo squillo del campanello. Fingeva d'andare a chiamarla; andava davvero; si presentava con la faccia af- flitta, le mani aperte, pur sapendo che

268 LA REALTÀ DEL SOGNO

sarebbe stato inutile; che la moglie lo avrebbe fulminato con gli occhi accesi d'ira e gli avrebbe gridato tra i denti: «Stupido!» ; voltava le spalle e ritornava, Dio sa come dentro, ma di fuori sorridente, ad annunziare:

Abbi pazienza, caro, non si sente bene.... s'è buttata sul letto....

E una e due e tre volte; alla fine, si sa, s'erano stancati; avevano capito.... Po- teva loro dar torto?

Ne restavano ancora due o tre, più fedeli o più coraggiosi. E questi, almeno questi Aldo voleva difenderseli, uno spe- cialmente, il più intelligente di tutti, dot- to sul serio e odiatore della pedanteria, fors'anche un po' per ostentazione; gior- nalista argutissimo ; insomma, amico pre- zioso: Carlo Viola.

Qualche volta da questi pochi amici superstiti sua moglie s'era fatta vedere, o perchè colta di sorpresa, o perchè, in un momento buono, s'era arresa alla preghiera di lui. E nossignori, nossigno- ri, non era vero niente che avesse fatto cattiva figura: tutt' altro! tutt' altro!

Perchè quando non ci pensi, vedi.... quando t'abbandoni al tuo naturale.,., tu sei vivace....

Grazie!

La realtà del sogno 269

Tu sei intelligente....

Grazie!

I E sei tutt'altro che impacciata, te lo assicuro io! scusa, che gusto ci avrei a farti fare una cattiva figura? Parli con franchezza, ma sì.... anche troppa, tal- volta.... sì sì, graziosissima, te lo giuro! T'accendi tutta, e gli occhi.... altro che non saper guardare!... ma ti sfavillano, cara mia.... E dici, e dici cose anche ar- dite, sì.... Ti meravigli? Non dico scor- rette.... ma ardite per una domia; con scioltezza, con disinvoltura, con spirito insomma, te lo giuro!

S'^infervorava nelle lodi, notando ch'el- la — pur protestando di non credere af- fatto — ne provava in fondo piacere^ arrossiva, non sapeva se sonùdere o ag- grottar le ciglia.

È così, è proprio così ; credi. Siila, è una vera fissazione la tua....

Il fatto che Siila non protestava con- tro questa sua cento volte asserita «fis- sazione», e accoglieva quelle lodi sul suo parlar franco e disinvolto e finanche ar- dito, con evidente compiacimento, avreb- be dovuto dar da pensare al marito.

Quando e con chi aveva ella parlato così?

Pochi giorni addietro, con Carlo Viola.

270 LA eealtì del sogno

Ora Carlo Viola era a Silia il più an- tipatico di tutti gli amici passati e pre- senti del marito.

È vero che ella ammetteva l'ingiustizia di certe sue antipatie, e che sopra tutti antipatici diceva quegli uomini, imianzi ai quali si sentiva più imbarazzata.

Ma ora il compiacimento d'aver saputo parlare imianzi a Carlo Viola anche con improntitudine, proveniva dal fatto che questo signore, certo per pungerla sot- to sotto, in una lunga discussione su Te- terno argomento dell'onestà delle donne, aveva osato sostenere che il soverchio pudore accusa infallibilmente un tempe- ramento sensuale; sicché c'è da diffidare d'una donna che arrossisce di nulla , che non osa alzar gli occhi perchè cre- de di scoprir da per tutto un attentato al proprio pudore, e in ogni sguardo, in ogni parola un'insidia alla propria one- stà. Vuol dire che questa donna ha l'os- sessione di immagini tentatrici; teme di vederle dovunque; se ne turba al solo pensiero. Come no? Mentre un'altra don- na, tranquilla di sensi, non ha affatto di

LA REALTÀ DEL SOGNO 271

questi pudori; parla facilmeute, oh Dio sì, anche di certe intimità amorose, sen- za turbarsi punto, e non pensa che ci possa esser nulla di male in una.... che so, in una camicetta un po' scollata, in una calza traforata, in una gomia che lasci scorgere appena appena qual cosa più su della noce del piede.

Oh, no, non diceva mica che una don- na, per non esser creduta sensuale, do- vesse mostrarsi sfacciata, sguajata e far vedere quello che non si deve far vedere. Questo detto così poteva sembrare un paradosso. Egli parlava del pudore. E il pudore per lui era la vendetta dell'in- sincerità. Non che non fosse sincero per stesso. Era anzi sincerissimo, ma come espressione della sensualità. Insincera è la donna che voglia negare la sua sensua- lità mostrando in prova il rosso del suo pudore su le guance, ecco. E questa don- na può essere insincera anche senza vo- lerlo, anche senza saperlo. Perchè nulla è più complicato della sincerità. Fingia- mo tutti spontaneamente, non tanto in- nanzi agli altri, quanto innanzi a noi stessi ; crediamo sempre di noi quello che ci piace credere, e ci vediamo non quali siamo in realtà, ma quali presumia- mo d'essere secondo la costruzione idea-

272 LA REAUJÀ DEL SOGNO

le che ci siamo fatta di noi stessi. Così può avvenire clie una donna, anclie a sua insaputa sensualissima, sinceramente creda d'esser casta e di provare sdegno e ribrezzo della sensualità, per il solo fatto che arix)ssisce di nulla. Questo ar- rossir di nulla, che è per stesso espres- sione sincerissima della reale sensualità di lei, è assunto invece come prova della creduta castità; e, così assunto, diventa naturalmente insincero.

Via, signora, aveva concluso al- cune sere fa Carlo Viola, la donna, per sua natura (salve, s'intende, le eccezio- ni) è tutta nei sensi. Basta saperla pren- dere, accendere e dominare. Le troppo pudiche non hanno neanche bisogno d'es^ sere accese: s'accendono, avvampano su- bito da sé, appena toccate.

Sìlia non aveva dubitato un momento che tutto questo discorso si riferisse a lei; e, appena andato via il Viola, s'era rivoltata ferocemente contro il marito, che durante la lunga discussione non ave- va fatto altro che sorridere come uno scimunito e approvare.

M'ha insultata in tutti i modi per due ore, e tu, tu, invece di difendenni, hai sorriso, hai approvato, lasciandogli intendere così, ch'era vero quel che di-

LA REALTÀ DEL SOGNO ^Ti

ceva, perchè tu, mio marito, eli tu, tu Io potevi sapere....

Ma che cosa! aveva esclamato

Aldo, trasecolato. Tu farnetichi

Io? che tu sii sensuale? Ma che dici? Se quello parlava della dornia in genere, che c'entri tu? Ma se avesse per poco so- spettato che tu potessi riferire a te il suo discorso, ma non avrebbe aperto boc- ca! E poi, scusa, come poteva ci'ederlo, se non ti sei mostrata affatto con lui quella donna pudibonda di cui egli par- lava?... Non hai mica arrossito; hai di- feso con impeto, con fervore la tua opi- nione.... E io ho sorriso perchè me ne compiacevo, perchè vedevo la prova di quanto ho sempre detto e sostenuto, che cioè, quando tu non ci pensi, non sei punto impacciata, punto imbarazzata; e che tutto codesto tuo presunto imbarazzo non è altro che fissazione. Che c'entra Il pudore, di cui parlava il Viola?

Sìlia non aveva trovato da rispondere a questa giustificazione del mai'ito. S'era chiusa in sé, cupa, a rimuginare perchè si fo^e sentita così a dentro ferire dal di- scorso del Viola. Non era pudore, no, no e no, non era pudore, il suo, quel tal pudore schifoso di cui parlava il Viola: era inibai^azzo, imbarazzo, imbarazzo;

FiB'^NDELLO. E domani, lunedi.... X9

274 LA REALTÀ DEL SOGNO

ma certo una persona maligna come il Viola poteva scambiare per pudore quel- l'imbarazzo, e perciò crederla una.... una a quel modo, ecco!

Se veramente, però, non s'era mostrata imbarazzata, come Aldo asseriva.... No, non s'era mostrata. Ma senza dubbio l'imbarazzo ella lo provava ; poteva qual- che volta vincerlo, forzarsi a non mo- strarlo ; ma lo provava, lo provava entro di sé, non c'era dubbio ; e proveniva dal- l'educazione che le aveva data il padre. Che il marito lo mettesse in dubbio, la irritava, perchè il negare in lei quest'im- barazzo significava ch'egli non s'accor- geva di nulla, e non si sarebbe perciò neanche accorto se quest'imbarazzo fos- se in lei invece^ senza ch'ella lo sapesse, quel tal pudore di cui parlava il Viola.

Possibile ch'ella, senza saperlo, fosse.... Ah Dio, no! Il solo pensiero le faceva schifo, orrore.

Eppure....

Fu nel sogno la rivelazione.

Cominciò come una sfida, quel sogno, come una prova, a cui Cai'lo Viola la sfi- dasse, in sèguito alla discussione avuta con lei tre sere avanti.

LA REALTÀ DEL SOGKO 275

Ella doveva dimostrai'gli che non avrebbe arrossilo di nulla; che egli po-

\ leva far su lei qualunque cosa gli pia-

' cesse, ch'ella non si sarebbe turbata

I punto scomposta.

I Ed ecco, egli cominciava con fredda audacia la prova. Le passava prima lieve- mente una mano sul volto.... Al tocco di quella mano ella faceva uno sforzo vio- lento su stessa per nascondere il bri- vido che le correva per tutta la persona, e non velare lo sguardo e tener fermi e impassibili gli occhi e appena sorriden- te la bocca. Ed ecco, ora egli le accostava le dita alla bocca; le rovesciava delica- tamente il labbro inferiore e annegava lì, nell'interno umidore, un bacio caldo, lun- go, d'infinita dolcezza. Ella serrava i den- ti; s'interiva tutta per dominare il tre- mito, il fremito del corpo ; e allora egli prendeva tranquillamente a denudarle il seno, e.... Che c'era di male?... No, no.... nulla, ecco, nulla di male... Ma.... o Dio, no..,, egli s'indugiava perfidamente nella carezza.... no, no.... troppo.... e...; Vinta, perduta, dapprima senza concedere, co- minciava a cedere, non per forza di lui, no, ma per il languore spasimoso del suo stesso corpo ; e alla fine.... Ah! Balzò dal sogno convulsa, disfat-

276 LA REALTÀ DEL SOGNO

ta, tremante, piena di ribrezzo e d'or- rore.

Guatò il marito, che le dormiva ignaro accanto ; e l'onta che sentiva per si cangiò subito in abominazione per lui, come se lui fosse cagione dell'ignominia di cui provava ancora il piacere e il raccapriccio, lui, lui per la stupida osti- nazione d'accogliere in casa quegli amici.

Ed ecco : ella lo aveva tradito in sogno ; tradito, e non ne aveva rimorso, no, ma rabbia per sé, d'essere stata vinta, e ran- core, rancore contro di lui, anche per- ché in sei amii di matrimonio egli non aveva saputo mai, mai farle provare quel che aveva or ora provato in sogno, con un altro.

Ah, tutta nei sensi.... Dunque, era vero ?

No, no. La colpa era di lui, del mari- to che, non volendo credere al suo im- barazzo, la forzava a vincersi, a far vio- lenza alla sua natura, la esponeva a quel- le prove, a quelle sfide, dond'era nato il sogno. Come resistere a una tal pro- va? La aveva voluta lui, il marito. E questo era il castigo. Ne avrebbe goduto, se dalla gioja maligna, che provava al pensiero del castigo per lui, avesse po- tuto staccare l'onta che provava per sé.

E ora?

LA REALTÀ DSL SOGNO 277

L'urto aweiine terribile, nel pomerig- gio del giorno appresso, dopo il duro^ tetro silenzio mantenuto per tutta la gior- nata contro ogni insistente domanda del marito, che voleva sapere perchè fosse così, che cosa le fosse a;ccaduto.

Avvenne all' annunzio della visita di Carlo Viola.

Udendo nella saletta d'ingresso la voce di lui, Sìlia sussultò, d'improvviso scon- traffatta. Un'ira furibonda le guizzò ne- gli occhi ; saltò addosso al marito e, fre- mente da capo a piedi, gl'intimo di non ricevere quell'uomo.

Non voglio ! Non voglio ! Fallo an- dar via!

Egli restò in prima, più che stupito, quasi sgomento di quello scatto furioso. Non potendo comprendere la ragione di tanta ripugnanza, quando già credeva che il Viola anzi, per quanto egli aveva detto dopo quella discussione, fosse entrato un po' nelle grazie di lei, s'irritò fieramente all'assurda, perentoria intimazione.

Ma tu sei pazza, o vuoi farmi im- pazzire! Perchè? Debbo perdere per la tua stupida follia tutti gli amici?

278 LA REALTÀ DEL SOGNO

E, divincolandosi da lei, che gli s'era aggrappata addosso, ordinò alla serva di far passare il signore.

Sìlia balzò a rintanarsi nella camera accanto, lanciandogli, prima di scompa- rire dietro la portiera, uno sguardo d'o- dio e di sprezzo.

Cascò su la poltrona, come se le gambe d'un tratto le si fossero stroncate; ma tutto il sangue le frizzava per le vene e tutto l'essere le si rivoltava dentro, in quell'abbandono disperato, udendo attra- verso l'uscio chiuso le espressioni di fe- stosa accoglienza del marito a colui, con cui ella la notte avanti, nel sogno, lo aveva tradito. E la voce di quell'uo- mo.... oh Dio.... le mani, le mani di ({uel- l'uomo....

D'improvviso, mentre si convelleva tut- ta su la poltrona, strizzandosi con le dita artigliate le braccia, il seno, cacciò un urlo e cadde a terra, in preda a una spaventosa crisi di nervi, a un vero as- salto di pazzia.

I due uomini si precipitarono nella ca- mera; restarono un istante atterriti alla vista di lei, che si contorceva per tei^a come una serpe, mugolando, ululando ; Aldo si provò a sollevarla; Carlo Viola accorse ad ajutarlo. Non l'avesse mai

LA REALTÀ DEL SOGKO 279

fatto! Sentendosi toccata da quelle mani, il corpo di lei, nell'incoscienza, nell'as- soluto dominio dei sensi ancor memori, prese a fremere tutto, d'un fremito vo- luttuoso, e sotto gli occhi del marito s'aggrappò a quell'uomo, chiedendogli smaniosamente, con orribile urgenza, le carezze frenetiche del sogno.

Inorridito, Aldo la strappò dal petto dell'amico: ella gridò, si dibattè, poi gli si arrovesciò tra le braccia quasi esani- me, e fu messa a letto.

I due uomini si guardarono esterre- fatti, non sapendo che pensare, che dire.

L'innocenza era così evidente nello sba- lordimento doloroso di Carlo Viola, che nessun sospetto fu possibile ad Aldo. Lo invitò ad uscire dalla camera; gli disse che dalla mattina la moglie era turbata, in uno stato di strana alterazione nervo- sa; lo accompagnò fino alla porta, do- mandandogli scusa se lo licenziava per quel doloroso, improvviso incidente; e ritornò di corsa alla camera di lei.

La ritrovò sul letto, già rinvenuta, ag- gruppata come una belva, con gli occhi invetrati ; tremava in tutte le membra, co- me per freddo, con scatti violenti e sus- sultava di tratto in tratto.

Com'egli le si fece sopra, fosco, per do-

280 LA REALTÀ DEL SOGNO

mandarle conto di quanto era accaduto, ella lo respinse con ambo le braccia e a denti stretti, con voluttà dilaniatrice, gli avventò in faccia la confessione del tra- dimento. Diceva, con un sorriso convul- so, malvagio, stringendosi in se e apren- do le mani:

Nel sogno!... nel sogno!...

E non gli faceva grazia d'alcun parti- colare. Il bacio nell'interno del la}3bro.... la carezza sul seno.... Con la perfida cer- tezza ch'egli, pur sentendo come lei che quel tradimento era una realtà e, come tale, irrevocabile e irreparabile, perchè consumato e assaporato fino all'ultimo, non poteva imputarglielo a colpa. Il suo corpo egli poteva batterlo, straziarlo, dilaniarlo ma eccolo qua, era stato d'un altro, nell'incoscienza del sogno. Non esisteva nel fatto, per quell'altro, il tradimento ; ma era stato e rimaneva qua, qua, per lei, nel suo corpo che aveva go- duto, una realtà.

Di chi la colpa? E che poteva egli farle?

Zuccarello, distinto melodista.

Sapevamo che Perazzettì, dopo avere sposato quella certa donna del cane, non tanto per ridere, quanto per guardarsi dal pericolo di prender moglie sul serio, s'era dato da un pezzo con accanimento allo studio della filosofia.

Quali effetti un tale studio dovesse pro- durre in un cervello come il suo, era facile a noi tutti immaginare. Ma ce ne volle lui stesso, l'aitila sera, rappresentare uno, raccontandoci a suo modo la se- guente avventura.

Ero, cominciò a dire, guardan- dosi al solito le unghie, ero, amici miei, in uno di quei momenti, purtroppo non rari, in cui la ragione (ne ho, per disgrazia, ancora un poco), sicura d'aver raggiunto alla fine queir « assoluto » , che

284 ZUCCAEELLO, DISTINTO MELODISTA

tutti affannosamente, senza saperlo, an- diamo cercando nella vita....

Io, no, )

Io, no, > lo interrompemmo a coro.

Io, no, )

Bestie, se vi dico senza saperlo! La ragione, del resto, s'acoorg^e a un tratto di tenere stretto in pugno vittoriosamente, invece dell'assoluto, un codino, capite? un codino di parrucca, quel tal codino di parrucca, a cui s'aggrappava l'inefla- bile barone di Mùnchhausen per tirarsi fuori dello stagno, nel quale era caduto.

Protestammo che, se seguitava a par- lare così difficile, non gli avremmo più dato ascolto, e allora Perazzetti ci spiegò, paziente, con gli occhi chiusi e le mani avanti :

Ecco qua. Prima o poi, il fine che ci siamo proposto, a cui tendono tutti i no- stri affetti, tutti i nostri pensieri, e che ha perciò acquistato per noi il valore in- trinseco della nostra stessa vita, un va- lore assoluto, capite?; appena raggiunto, o anche prima d'essere raggiunto, ci si scopre vano.

Come? perchè?

Ma perchè ci accorgiamo, santo Dio, che, come questo fine, qualunque altro avremmo potuto proporcene, che sarebbe

ZDCCABJELLO, DISTINTO MELODISTA 285

stato vano lo stesso. Perchè l'assoluto, cari miei, quell'assoluto in cui soltanto potrebbe quietarsi il nostro spirito, non si raggiunge mai.

Ragion per cui è da imbecilli stu- diar filosofia, osservò uno di noi.

Bravo! Quel che dico io, appro- vò Perazzetti. E difatti io la studio perchè mi sono imbecillito.

Ma lasciatemi dire, per favore. Ogni principio è difficile; poi viene il bello. Ecco: la vita nostra corre protesa tutta verso quel fine, nel quale s'illude di po- ter toccare e sentire la propria realtà. Crolla o svanisce quel fine, crolla o sva- nisce all'improvviso con esso la nosti^a realtà, o piuttosto, l'illusione della nostra realtà. E allora che è, che non è privi d'un tratto della realtà che c'imma- ginavamo di poter finalmente toccare, ci vediamo vaneggiare nel vuoto e a ogni canto di strada possiamo veder passare la follia e, come niente, metterci a con- versare con essa (che potrebbe anche esser l'ombra del nosti'o stesso corpo) e domandarle, per esempio, con molta buona grazia e delicatezza:

Chi più ombra, o cara^ di noi due?

286 ZUCCARELLO. DISCINTO MELODISTA

State a sentire. Ero dunque in uno di questi deliziosi momenti, con in mano codino buffo della mia ragione.

Quasi senz'accorgermene, passavo, di sera, per una delle vie piìi popolose della nostra città. Mi pareva che la gente, tut- ta quanta impazzita come me, andasse in tumulto, e che i campanelli dei tram, le trombe delle automobili chiamassero ajuto, allorché, per caso, m'avvenne di posare lo sguardo su una tabella tra le due finestre ferrate d'un sotterraneo. Dal- le grate di queste finestre s'intravvede- vano giù un banco di méscita di lacca verde e luccicante di specchi, una die- cina di tavolini di marmo, attorno a cui stavano seduti molti avventori, uomini, donne; poi, un armonium, ecc. Su quel- la tabella due arrabbiatissime lampade elettriche scaraventavano friggendo un violento sbarbaglio livido su un manife- sto rosso, che recava a grossi caratteri la scritta:

IL SIGNOR ZUCCARELLO

DISTINTO MELODISTA

ZTJCCAEEIXO. DISTIKTO MELODISTA 287

Ebbene, innanzi a questo nome, con tanta rabbia illuminato da quelle due ; lampade, io mi fermai affascinato. Non so perchè, acquistai per la certezza che questo signor Zuccarello, che si qua- lificava da con dolce probità distinto melodista, lui sì, doveva aver raggiunto l'assoluto, e dunque, senza meno, essere un dio. Un dio?

Se ci riflettete bene, non può di conse- guenza non essere un dio chi abbia rag- giunto l'assoluto.

Un nostro pernicioso errore è questo : immaginarci che, per diventai'e un dio, bisogni attingere con straordinarii mezzi altezze inaccessibili.

Nl., amici miei. Niente fuori di noi, nessun' altezza. Coi mezzi piìi comuni e pili semplici, un punto dentro di noi, il punto giusto, preciso, dove s'inserisca quel germe piccolissimo, che a mano a mano da diverrà un mondo.

Tutto é qui. Saper ti'ovai-e in noi questo punto giusto per inserirvi il piccolo seme divino, che é in tutti e che ci farà, pa- droni d'un mondo.

288 ZCCCAKELLO, DISTINTO MELODISTA

Nessuno lo trova, perchè lo andiamo cercando fuori, in quell'errore, che deb- ba essere altissimo e che ci vogliano mezzi straordinarii. Abbagliati da vane ? illusioni, aberrati da ambiziose e stra- vaganti speranze, distratti o anche per- vertiti da desiderìi artificiosi, quel niente, quel puntino infinitesimale, che è la cosa piìi comune e più semplice del mondo, ci sfugge e non riusciamo mai a sco- prirlo.

Ma ecco qua questo signor Zuccarello.

« La dolcezza stessa del suo nome, io mi diedi a pensare, l'avrà porta- to un bel giorno a cantare, così, natu- ralmente, come cantano gli uccelli. S'è trovata in gola una discreta vocetta, e gli è bastata per distinguersi senza sfor- zo dagli altri. Un falso dio si sarebbe proclamato senz'altro: celebre melodista. Lui, no. Al signor Zuccarello, dio vero del suo mondo qual è, quale ptuò essere, quale dev'essere, basta proclamarsi di- slinto melodista. Tanto e non più. Cioè, quanto basta per esser lui, e non un altro. »

Assolutamente, assolutamente bisogna- va ch'io lo vedessi, gli parlassi quella sera stessa. La sua vista, una conver- sazione con lui, mi avrebbero senza dub-

ZUCCA I!ELLO, DISTINTO MELODISTA 289

bio rimesso a posto Io spirito, ridato la calma e la fiducia nella vita.

Entrai dunque in quel caffè-concerto sotterraneo.

Si doveva andare più giù della sala col banco di méscita, l'armonium, i tavolini * con gli avventori, ecc., che s'intravede- vano dalla via.

Più giù, di molto.

Ma in fondo non mi dispiacque l'idea, che dovessi andare a conoscer sotterra l'uomo che aveva raggiunto l'assoluto. Mi parve anzi naturalissimo, e che non po- tesse essere altrimenti.

Quanto, il biglietto? domandai allo sportellino.

Sedie o polti'one?

Ci sono anche poltrone?

Poltix>ne, sissignore. Una lira, com- preso l'ingresso e, a scelta, anche una consumazione.

Guardai, titubante, il bigliettajo, come per domandargli:

Tutto questo, col signor Ziicca- rello ?

Dio sa che cosa il bigliettajo arguì dal- la mia aria smarrita, perchè evidente-

PiHANDELLO. E d07nani, lunedi.... 19

290 ZUCCAEELLO, DISTINTO MELODISTA

mente il signor Zuccarello era per lui un numero come un altro del progi'am- ma, e:

Prezzi normali, soggiunse, come per tenersi fermo a un dato di fatto nel- l'incertezza penosa, in cui quel mio stra- no modo di guardarlo lo teneva sospeso.

Bene bene, dissi per tranquillarlo. Diedi la lira, presi il biglietto e scesi

due lunghe rampe di scala.

Scendendo, avvertii subito che la terra si ribellava indignata alla violazione del suo grembo. Che questo grembo fosse squarciato per il riposo cieco e muto dei morti, ella poteva tollerare; ma che fosse aperto, e così oscenamente, ad ar- chi scosciati, e la cecità fosse rischiarata con tanta sfacciataggine da due grosse lampade, e il silenzio così profanamen- te offeso da canti sguajati, strimpellii di strumenti, acciottolìo di stoviglie, risa sconce e applausi, questo no, questo le era intollerabile.

Ed ecco la sua vendetta: non ostanti gli sforzi del proprietario, la luce elet- trica e la musica e gli specchi, quel caffè-

2tCCARELL0, DIFTINTO MELODISTA 2f)l

concerto aveva ruinido e tetro squallore d'una tomba.

Confesso che mi sarebbe piaciuto molto trovar laggiù, nelle poltrone e nelle se- die, scrii e composti, con la loro brava consumazione davanti, intatta, velata di polvere e con qualche ragnetto natante, una moltitudine di morti, venuti per vie sotterranee a quel loro caffè-concerto, con gii abiti neri, lustri d'umido, spie- gazzati e chiazzati qua e da bianche gromme di muffa.

Trovai peggio. Morti in anticamera, trovai, aspiranti morti, pochissimi e op- pressi d'una disperata tristezza. Ogni sta- to incerto è peggiore d'ogni cattivo stato certo. Si recavano alle labbra la tazza di caffè, lo sciop di birra, il bicchiere di menta, col gesto di chi pensa:

Poiché è ancora necessario ch'io Io beva....

E nessuno guardava verso il piccolo palcoscenico, dove una scheletrica stella italiana miagolava, prima levando le braccia come per tentare d'aggrapparsi a un acuto clic non riusciva a prendere, poi abbassando le mani con grazia squac- querata.

La voce di questa canzonettista, il rom- bo dell'orchestrina facevano una violenza

292 ZUCCARELLO, DISTINTO MELODISTA

orribile, d'indegno stordimento, alla tra- gica, sconsolata solitudine di quelle po- che mummie di avventori.

Zitto zitto, in punta di piedi, m'appres- sai a un cameriere e gli presentai il bi- glietto per avere indicato il mio posto.

Ma segga dove vuole, mi rispose il cameriere. Vede che non c'è nes- suno?...

Già, possibile? È così ogni sera?

Su per giù....

Dunque il signor Zuccarello non ri- chiama gente?

Chi?

Il signor Zuccarello.

Il cameriere guardò nel programma.

Ah, già, disse. Nossignore, chi vuole che richiami?

Avvilito, presi posto in una polti'ona.

La stella italiana, inchinandosi a \aioto tre o quattro volte, si ritirò tra le quinte ; l'orchestrina tacque; un silenzio sepol- crale si fece nel cafìe sotterraneo.

ZUCCAflEIiLO, DISTINTO MELODISTA 293

Mi sorse allora come in un lampo di follia la tentazione di mettermi a battere fragorosamente le mani, per rompere, per fracassare quel silenzio, per far balzare in piedi atterriti quei pochi, taciturni, oppressi avventori, aspiranti morti. Mi avrebbero preso per pazzo? Ma che ero io? A restar ancora per poco, in quel vuoto sotterraneo, in quel silenzio di morte, non sarei impazzito davvero?

Soffocato, m'alzai rumorosamente, con una smania esasperata di parlar forte, di gridare, di pigliai*mela con qualcuno. E, come il cameriere mi s'appressò per domandarmi :

Che cosa ordina il signore?

Niente, gli risposi ad alta voce. Non ordino niente! Lei ha detto che il signor Zuccarello non richiama nes- suno? Sappia intanto, che ha richia- mato me!

Avvenne quel che avevo immaginato. Tutti, anche i sonatori dell'orchestrina, si voltaix)no sbalorditi a guardarmi; pa-; recchi si levarono da sedere; il came- riere, quasi basito, mormorò :

Ma io.... non ho inteso mica d'of- fenderla, signore..,.

No, no, seguitai con sdegno e con ira. Ta,nto perchè lei lo sappia! E

294 S5UCCAKELL0, DISTINTO MBSDODISTÀ

lo dica al suo direttore o al signor pro- prietario del cafTè, che fa di queste belle speculazioni, impiantare qua, in un sot- terraneo, un caffè per fare impazzire i suoi avventori !

Un signore, a questo punto, mi si fece incontro, turbato, pallidissimo. Lo fissai, per arrestai'lo a una certa distanza, e lo interpellai altezzosamente:

Lei è il proprietario?

Il proprietario, a servirla.

Ah, bravo ! La prego di dirmi, se lei, ingaggiando il signor Zuccai^ello, gli aveva detto che il suo nome sai'ebbe ap- parso su, nella via, in quella tabella fol- gorata da due lampade elettriche!

Il proprietario mii guardò inebetito, bal- bettò :

Io.... nella tabeUa.... il signor Zuc- carello?... sissignore.... è l'uso....

Ah, è l'uso dissi, con un sorriso di trionfo. E il signor Zuccai'ello dun- cjue lo sapeva, e s'è qualificato da distìnto melodista?

Sissignore, da sé. Ma io non ca- pisco....

Lo vedo bene, gridai, lo vedo bene che lei non capisce nulla! Scusi, che cosa c'è lassù?

Indicai, così dicendo, in alto, nella pa-

ZaCCARELLO, DISTINTO MELODISTA 295

rete di fronte al palooscenico, uii riflet- tore per illuminare gli artisti alla ribalta. All' improvAdsa diversione, tutti nella sala scoppiarono a ridere e alzarono il capo a guardare dove io indicavo con fiero cipiglio. Più che mai sconcertato, il proprietario, guardò anche lui, rispose:

Un riflettore....

Ah, è un riflettore! E lei non pensa d'accenderlo per illuminare alla ribalta un artista come il signor Zuccarello? un artista che si qualifica da distìnto me- lodista, pur sapendo che il suo nome sarà esposto su, nella via, in quella ta- bella sfolgorante di luce?

Un nuovo scoppio di risa accolse que- ste mie parole. Il proprietario ne fu scos- so ; il primo sbalordimento si cangiò in irritazione; forse gli balenò il sospetto ch'io fossi pagato dal signor Zuccarello per fare quella parte; si scrollò irosa- mente e disse:

Ma io non debbo dar conto a lei, se accendo o non accendo....

No no, scusi, scusi, io interruppi subito, facendomi manieroso lei deve rispettare in me un avventore attirato come una farfalletta dal knne di quella sua tabella nella via, un avventore che ha avuto fiducia nel signor Zuccarello

296 ZOCCAEELLO, DISTINTO MELODISTA

e se ne promette una gioja, che lei non può neanche innnaginarsi !

Ma questo.... si pix)vò a inter- rompenni a sua volta il proprietario.

Non gli diedi tempo:

Questo anche nel suo stesso inte- resse, scusi! Caro signore, qua siamo in un sotterraneo, lei lo sa bene. Questa è una tomba! Dia ordine, via, che s'ac- cenda il riflettore, e faccia un' aitila cosa, sempre nel suo stesso interesse: inviti tutti gli avventori, che stanno a sbadi- gliare nella sala di sopra, a scendere qua, a sentire il (signor Zuccai-ello ! Gratis, non importa, per una sera! È una vera indegnità ch'egli debba cantare qua alle sedie vuote !

Tutte quelle mummie d'avventori, già richiamate alla vita, a questa mia inat- tesa proposta batterono festosamente le mani, approvando a coro ; il proprietario mi guardò ancora per un momento ac- cigliato e perplesso, poi sorrise anche lui, aprì le braccia, s'inchinò e corse su a dare gli ordini.

Poco dopo, la sala era quasi piena, rumorosa, ansiosa per la promessa d'un godimento insperato. Il riflettore di con- tro al palcoscenico cominciò a sfriggere, sbarbagliando, s'accese; rorchestrina at-

ZUCCAEELLO, DISTINTO MELODISTA 397

tacco il preludio della prima romanza, e il signor Zucoarello in marsina, cravatta bianca, guanti bianchi, si fece avanti, rag- giante, accolto da uno strepitoso ap- plauso.

Ah, miei cari amici, se l'aveste vedu- to! Piuttosto Piccolino, con una faccia che pareva intagliata in un saponetto rosa, con un che di caprigno nei fitti, ricci capelli neri, negli occhi, nel mento e anche nella voce, quando cominciò a belare, appassionatamente.

Per me, la maggior prova, la prova pili lampante, che non m'ero affatto in- gannato sul suo conto, fu questa: che non si sforzò per nulla. Tanto e non più, così nella voce come nei gesti e nei sorrisi. Dava quel che poteva, e perfet- tamente sapeva quanto poteva dare. Nelle pause, cacciava fuori la lingua, sorriden- do, per umettai'si le labbra, e graziosa- mente, con due dita, si tirava i polsini di sotto le maniche.

Perfetto !

Ma naturalmente nessuno degli spetta- tori riusciva a rendersi conto di quella perfezione. Senti\'o che tutti erano de-

998 zucciaiELLO, distinto melodista

iusi, ma che tuttavia una certa aspetta- tiva, volgendosi dubbiosa da me a lui, da lui a me, teneva ancor sospesa la loro delusione. Per fortuna, un buon acu- to finale, smorzato con arte, rialzò e so- stenne le sorti; io mi affrettai ad applau- dire con entusiasmo, tutti applaudirono con me, e il signor Zuccarelio venne fuo- ri due o tre volte a ringiaziai'e ; inchi- nandosi con una mano sul petto.

Un trionfo.

Ma voi capite, amici miei, che a me non importava tanto, quella sera, di sal- vare il signor Zuccai'ello, quanto di sal- vare «l'assoluto». Ne avevo proprio bi- sogno! E lo salvai, vi assicuro che lo salvai, non ostante tutto ; voglio dire, non ostante che il signor Zuccai'ello, dopo lo spettacolo, come potete immaginarvi, mi venne incontro adiratissimo, quasi con le mani in faccia, a domandarmi conto e ragione di quanto avevo fatto, del peri- colo a cui lo avevo esposto d'un fiasco clamoroso e anche di fargli perdere la scrittura per l'inqualificabile soperchie- ria usata al proprietario del caffè.

Stentai non poco a cahnarlo, ma alla fine ci riuscii; non solo, ma riuscii an- che a farmelo amico, a condurlo con me per più d'un'ora per le vie già deser-

ZUCCAJBR].l,f>, DISTINTO MELODISTA 299

te, a farlo enti'ai'e in un caffè notturno, perchè seguitasse, bevendo una tazza di birra, a palliarmi di sé, della sua vita, delle sue speranze, dei suoi desiderii.... Vi figurate che m'abbia detto cose straor- dinarie? Siete veramente imbecilli! Mi disse le cose più ovvie, più comuni, più semplici del mondo, quali poteva dirle uno che aveva saputo trovare in il punto giusto, il puntino infinitesimale, dove aveva inserito il seme che l'aveva fatto un dio modesto, padrone del suo piccolo mondo. Era contento e soddisfatto di tutto, anche di cantare alle sedie ìji quel lugubre e meschino caffè sotterra- neo. Sì, perchè in quell'equilibrio perfetto che solamente può dai'e la piena soddi- sfazione di sé, aveva capito che a lui con- veniva d'essere un piccolo dio provincia- le, di condurre cioè nei paeselli di pro- vincia la sua modesta divinità ; e gli ba- stava perciò il poter dire, per accrescere colà il suo prestigio, d'aver cantato a Roma, in un caffè-ooncerto di Roma: quale non importava.

Ma la prova maggiore della sua divi- nità mi fu data da un'ombra, che, ap- pena usciti dal caffè sotterraneo, prese a seguirci a distanza per più d'un'ora mngo le vie deserte; l'ombra d'una don-

300 ZTJCCAKEU-O, DISTINTO MELODISTA

na miserabile, che potei distinguer bene quando, schiudendo timidamente la por- ta a vetri del calle notlurno, strisciò den- tro, dieci minuti dopo ch'eravamo en- trati noi, e andò a rincantucciarsi in un angolo in fondo, vestita d'un abito nero, inverdito e sfrittellato, con un cappellino frusto, guarnito d'una piuma piangente da un lato ; su le spalle curve, ossute, una vecchia mantiglia sfrangiata; ai pie- di, un pajo di scarpe maschili, sdrucite e scalcagnate.

Avevo notato che, andando via, egli di tanto in tanto, pian piano e come di nascosto si voltava a lanciare indietro un'occhiata inquieta.

Ma sì, lo so ! avrei voluto dù'gli, per levarlo da quella inquietudine. Lo so. ed è giusto che sia così ; non cre- dere che m'offenda il fatto che tu tenga così a distanza tua moglie e che ella sia così miserabile.

Ero sicuro ch'egli la teneva ancora con sé, non solo per farsi servire da lei, come da una schiava, ma anche per mi- surare da lei il cammino che aveva sa- puto percorrere ; e parimenti ero sicuro che ella, senza muovere un lamento, fa- ceva di tutto per tener lui così polito, così lustro, così radioso.

MtCiP.iLLo. distìnto >:tloptptA Sol

No? Dite di no? Lasciatemi ripetere, amici miei, che siete veramente imbe- cilli. Sappiate che, dopo aver accompa- gnato fino al portone dell' ai berguccio il signor Zuccarello, nel ritornare indietro, io m'ebbi, nel bujo fitco della strada, un profondissmio inchino da quell'ombra. Capite? E non potei fare a meno di pen- sare che era giusto ch'ella s'inchinasse a me così, perchè lo voleva in lei quello stesso Iddio, a cui io or ora avevo reso omaggio.

il Signore della nave.

Giuro che non ho vohito offendere il signor Lavaccara una volta due, come in paese si va dicendo.

Il signor Lavaccara, non glien'ho mica uscito io il discorso: figuratevi se mi sarei messo a discorrere di questo! mi volle lui parlare d'un suo porco per con- vincermi ch'era una bestia intelligente.

Io allora gli domandai:

Scusi, è magi'o?

Ed ecco che il signor Lavaccai'a mi guardò una prima volta come se con questa domanda non propriamente lui ma avessi voluto offendere quella sua bestia.

Mi rispose:

Magro? Peserà piìi d'un quintale! E io allora gli dissi:

Scusi, e le pare che possa essere intelligente ?

Del porco si parlava. Il signor Lavac- cara, con tutta quella rosea prosperità di carne che gli tremola addosso, cre- dette che io dopo il porco ora volessi

Pirandello. P domani, lunedi.... 20

306 IL SIGNORE DELLA NAVE

olTender lui, come se in genere avessi detto che la grassezza esclude l'intelli- genza. Ma del porco, ripeto, si parlava. Non doveva dunque farsi così brutto il signor Lavaccara domandarmi:

Ma allora io, secondo lei? M'affrettai a rispondergli:

E che c'entra lei, caro signor La- vaccara mio? Che è forse un porco lei? Mi scusi. Quando lei mangia col bello appetito che Dio le conservi sempre, per chi mangia lei? lei mangia per sé, non ingrassa mica per gli altri. Il porco, in- vece, crede di mangiare per e ingrassa per gli altri.

Mica rise. Niente. Mi restò piantato e duro davanti, piìi brutto di prima. E io allora, per smuoverlo, soggiunsi con premura :

Poniamo, ponituno, caro signor La- vaccara, che lei con la sua bella intelli- genza fosse un porco, mi scusi. Mange- rebbe lei? Io no. Vedendomi portare da mangiare, io grugnirei, inorridito: «Nix! Ringrazio, signori. Mangiatemi ma- gro!» — Un porco che sia grasso vuol dire che questo ancora non l'ha capito ; e se non ha capito questo, può mai es- sere intelligente? Perciò le ho domandato se il suo era magro. Lei m'ha risposto

IL SISKORE DELLA NAVE 807

che pesa più d'un quintale; e allora mi scusi, caro signor Lavaccara, sarà un bel porco il suo, non dico, ma non è certo un porco intelligente.

Spiegazione più chiara di questa mi sembra che non avrei potuto dai'e al si- gnor Lavaccara. Ma non ha valso a nulla. Anzi e certo che ho fatto peggio ; me ne sono accorto parlando. Più mi sforza- vo di render chiara la spiegazione e più il signor Lavaccara si scuriva in viso, ma- sticando disgustato :

Già.... già....

Perchè certo gli è parso che io, facen- do ragionare quella sua bestia come un uomo, o meglio, pretendendo che quella sua bestia ragionasse come un uomo, non intendessi mica parlare della bestia, ma di lui.

È certo così. So difatti che il signor Lavaccara va portando in giro il mio di- scorso per fai'ne risaltare la fatuità agli occhi di tutti, perchè tutti gli dicano che non avrebbe senso quel mio discorso ri- ferito a una bestia la quale anch'essa crede di mangiare per e non può sape- re che gli altri la facciano ingrassare per conto loro ; e se un porco è nato porco che può farci? per forza come un porco deve mangiare, e dire che non dovrebbe

808 rCi SIGNOEE DELLA NATE

e dovrebbe rifiutare il pasto per farsi mangiar magro è una sciocchezza, per- chè un tal proposito a un porco non può mai venire in mente.

Siamo perfettamente d'accordo. 2sia se me fha cantato lui, santo Dio, il signor Lavaccara, lui in tutti i toni, che la sua bestia, la parola sola le mancava! Io gli ho voluto dimostrare appunto che non poteva averla e non l'aveva per sua for- tuna questa famosa intelligenza umana; perchè un uomo sì, può permetterselo il lusso di mangiare come un porco, sa- pendo che alla fine, ingrassando, non sarà scannato ; ma un porco no, no e no, se ha intelligenza umana: un porco intelligente, per non farsi scannare o per vendicarsi degli uomini che lo scanne- ranno, deve conservarsi magro e dunque mangiare al più al più come una damina dis appetente.

Perdio, mi sembra così chiaro!

Altro che offendere, ma che offendere! io ho voluto anzi difendere contro stes- so il signor Lavaccai'a e conservargli in- tero il mio rispetto e levargli fin l'ombra del rimorso d'aver venduto quella sua bestia perchè fosse scannata alla festa del Signore della Nave. Se no, alle corte: m' arraìjbio sul serio e dico al signor

ih sniKUKE ìjKjLla ^AVi; 309

Lavaccara che, o il suo porco era un porco qualunque e non aveva questa fa- mosa intelligenza umana che lui va di- cendo, o il vero porco è lui, il signor La- vaccara; e ora lo offendo per davvero. Questione di logica, signori. E poi qui è in ballo la dignità umana che mi preme salvare a ogni costo, e non potrei salvarla se non a patto di convincere il signor La- vaccara e tutti quelli che gli danno ra- gione, che i porci grassi non possono essere intelligenti, perchè se questi porci pensano umanamente, se questi porci parlano tra come il signor Lavacca- ra pretende e va dicendo, non essi, ma la dignità umana appunto sarebbe scan- nata in questa festa del Signore della Nave.

Veramente non so che relazione ci sia tra il Signore della Naye e la scanna dei porci che si suole iniziare il giorno delia suìa festa. Ma questo riguarda la mia ignoranza, e non conta. Penso che, sic- come d'estate la carne di queste bestie è nociva, tanto che se ne proibisce la ma- cellazione, e con l'autunno il tempo co- mhicia a rinfrescare, si colga l'occasione della festa del Signore della Nave, che

310 IL SIGNORE DELLA NATE

cade appunto in settembre, per festeggia- re anche, come suol dirsi, le nozze di queiranimale. In campagna, perchè il Si- gnore della Nave si festeggia nell'antica chiesetta normanna di San Nicola, che sorge un buon tratto fuori del paese, a una svolta dello stradone, ti^a i campi. Ci dev'essere, se si chiama così que- sto Signore, qualche storia o leggenda ch'io non so. Ma certo è un Cristo che, chi lo fece, più Cristo di così non lo poteva fare; ci si mise addosso con una tale ferjOcia di farlo Cristo, che nei duri stinchi inchiodati su la rozza croce ne- ra, nelle costole che gli si possono con- tare tutte a una a una, tra i guidale- schi e le lividure, non un'oncia di car- ne gli lasciò che non appai'isse atroce- mente mai'toriata. Saramia stati i giu- dei su la carne viva di Cristo ; ma qui fu lui, lo scultore. Ci si scialò. Ma quan- do poi si dice, esser Cristo e amare l'u- manità! Pur trattato così, fa miracoli senza fme questo Signore della Nave, co- me si può vedere dalle cento e cento offerte di cera e d'argento e dalle tabelle votive che riempiono tutta una pai'ete della chiesetta, nelle quali è dipinto un mare blu m tempesta, che non potrebbe essere piìi blu di così, il naufragio della

Hi SIGNORE DELLA NATB 811

barchetta col nome scritto grosso grosso a poppa che ciascuno possa leggerlo bene, e insomma ogni cosa, tra nuvole squar- ciate, e questo Cristo che appare alle sup- plicazioni dei naufraghi e fa il miracolo.

Basta. Io intanto con la discussione su l'intelligenza e la grassezza del poixx) e il deplorabilissimo malinteso a cui que- sta discussione ha dato luogo, ho perduto l'invito del signor Lavaccai^a aha festa.

Non me ne dolgo tanto per il piacere che mi è mancato, quanto per lo sforzo che ho dovuto fare, assistendo solo da curioso alla festa, per conservare il ri- spetto a tante brave persone e salvare^ come ho detto, la dignità umana.

Dico la verità. Dati i sani criteri di cui mi sento ormai profondamente coni- penetrato, non credevo mi dovesse costar tanto. Ma alla fine, con l'ajuto di Dio, ci sono riuscito.

Quando, la mattina, tra la polvere dello stradone ho veduto i branchi e branclietti di tutti quei porcelloni cretacei avviarsi ballonzolanti e grufolanti al luogo della festa, ho voluto guardarli apposta a uno a uno attentamente.

312 IL SIGNORE DELLA NAVE

Bestie intelligenti, quelle? Ma via! Con quel grugno lì? con quelle orecchie lì? con quegli occhi? con quel buffo cosino arricciolato dietro? E grugnirebbero così, se fossero intelligenti? Ma se è la voce della stessa ingordigia, quel loro grugni- to ! Ma se frugolavano finanche nella pol- vere dello sti'adone! fino all'ultimo, sen- za il minimo sospetto che tra poco sa- rebbero stati scannati. Si fidavano del- l'uomo? Ma grazie tante di questa bella fiducia! Come se l'uomo, da che mondo è mondo e ha pratica coi porci, non aves- se sempre dimostrato al porco di appe- tirne la carne; e ch'esso perciò non deve affatto fidarsi di lui! Perdio, se l'uomo arriva finanche ad assaggiargli addos- so, da vivo, le orecchie e il codino! Me- glio di così? Che se poi vogliamo chia- mar fiducia la stupidità, siamo logici in nome di Dio, e non diciamo che i porci sono bestie intelligenti. Ma scusate, e se non se lo dovesse mangiare, che obbligo avrebbe l'uomo d'allevai'e il porco con tanta cura, fargli da servo, lui canie bat- tezzata, condurselo al pascolo, perchè? che servizio gli rende in compenso del cibo che n'ha? È certo (e nessuno vorrà negarlo) che il porco, finché campa, cam- pa bene. Considerando ìa vita che ha

IL SIGNOIÌE BELLA NAVE 31

fatto, se poi è scannato se ne deve con- tentare, perchè certo per sé, come porco, non se la meritava.

E passiamo agli uomini, signori miei! Ho voluto guardarli apposta anch'essi a uno a uno, attentamente, mentre s'av- viavano al luogo della festa.

Che altro aspetto, signori miei! Il dono divino dell'intelligenza traspariva anche dai loro minimi atti, dal fastidio con cui voltavano la faccia, offesi dal polverone sollevato dai branchi di quelle bestie, e dal rispetto con cui poi si salutavano l'un l'altro.

Ma il solo aver pensato di ricoprir di panni l'oscena nudità del corpo, già questo solo, considerate a quale altezza colloca l'uomo sopra uno schifosissimo porco. Potrà mangiare fino a schiattarne e anche ùnbrodolarsi, un uomo ; ma poi ha questo, che si lava e si veste. E quan- d'anche li immaginassimo nudi per quel- lo stradone, tutti quanti, uomini e don- ne; cosa impossibile, ma vogliamo am- mettere; non dico che sai'ebbe un bel vedere, le vecchie, i panciuti, i non pu- liti; ma pure, via, che differenza se pen- siamo alla luce dell'occhio umano, spec- chio dell'anima, e al dono del sorriso e della favella.

314 IL SIGNORE SELLA NAVE

E i pensieri che ciascuno, pur andan- do alla festa, aveva in mente: forse non del padre o della madre, ma di qualche amico o della nipote o dello zio, che lo scorso anno, poverini, partecipavano anche loro allegri alla festa campestre, bevevano anche loro quell'aperta aria az- zurra settembrina, e adesso, rinserrati nel bujo sottoterra.... Sospiri, rimpianti, e an- che qualche rimorso.... Ma sì! Non erano tutti lieti quei visi; la promessa del go- dimento d'una giornata grassa non spia- nava su la fronte di tanti magri le rughe delle cure assidue opprimenti, i segni del- le fatiche e delle sofferenze. E parecchi, compassionevolmente, portavano a quella festa d'un giorno la loro miseria di tut- to l'anno, per provare se essa trovasse più il verso di ridere tra tanti beati sanguigni e sani, essa coi denti gialli e le labbra bianche, uno squallido sorriso.

E poi pensavo a tutte le arti, a tutti i mestieri a cui quegli uomini attendeva- no con tanto studio, con tanti travagli e tanti rischi, che i porci certamente non conoscono. Perchè un porco è porco e ba- sta; ma un uomo, signori, potrà anche es- ser porco, non dico, ma porco e medico, per esempio, porco e av\'ocato, porco e professore di belle lettere o di filosofia, e

IL SIGNORE DELLA NAVE 316

notajo e cancelliere e orologiaio e fab- bro.... Tutti i lavori, le afllizioni, le cure deirumanità vedevo con soddisfazione rappresentati in quella folla che proce- deva per lo stradone.

A un certo punto, il signor Lavaccara, reggendo per mano, uno di qua, uno di là, i; due figliuoli più piccoli, m'è pas- sato davanti, con la moglie dietro, rosea e prosperosa come lui, tra le due figliuole maggiori; e tutt'e sei han fatto finta di non vedermi ; ma le due figliuole, tiran- do via di lungo, si sono tutte invermi- gliate e uno dei piccini, dopo pochi passi, s'è voltato tre volte a sbirciarmi. La ter- za volta, così per ridere, io ho cacciato fuori la lingua e l'ho salutato di nascosto con la mano ; s'è fatto serio serio, con un viso lungo lungo distratto e s'è subito messo a guardai^e altrove.

Mangerà il porco anche lui, povero pic- cino ; forse ne mangerà troppo ; ma spe- riamo che non gli faccia male.

La previdenza umana, del resto, è am- mirevole: andate a cercarla nei porci, la previdenza; trovatemi un porco far- macista che prepari con l'alchermes l'olio di ricino per i porcellini che si siano guastati lo stomaco per intemperanza!

Ho seguito da lontano, per un buon

316 IL SIGNORE I>ELLA NAVE

tratto, la cara famiglinola del signor La- vaccara, che si avviava sicuramente in- contro a un solennissinio guasto di sto- maco ; ma ecco che mi son potuto con- solare pensando che domani troverà da un farmacista la purghetta che li guarirà.

Quante baracche improvvisate con grandi lenzuola palpitanti là, nello spiaz- zo dietro la chiesa di San Nicola, attra- versato dallo stradone!

Taverne all'aperto ; tavole, tavole e panche ; caratelli e barili di vino ; for- nelli portatili ; banchi e ceppi di macellai.

Un velo di fumo grasso misto alla pol- vere annebbiava Io spettacolo tumultuoso della festa; ma pareva che non tanto quella grassa fumicaja, quanto lo stor- dimento cagionato dalla confusione e dal baccano impedisse di vedere chiai'amcnte.

Non erano però giida di festa, grida giulive; ma grida quasi strappate dalla violenza d'un ferocissimo dolore. Oh sen- sibilità umana! I venditori ambulanti, gridando la loro merce; i tavernai, invi- tando alle loro mense apparecchiate; i macellai ai loro banchi di vendita, into- navano il bando, senza forse saperlo, su

n aiOXOTìE DKTXA NAVE 317

ie strida terribili dei porci che stesso, in mezzo alla folla, erano macellati, spa- rati, scorticati, squartati. E le campane della gentile cliiesina a j alavano le voci umane, rintronando all'impazzata, senza posa, a coprire pietosamente quelle strida.

Voi dite: ma perchè almeno non si macellavano lontano dalla folla tutti quei porci? E io vi rispondo: ma perchè la festa allora avrebbe perduto uno dei suoi caratteri tradizionali, forse il suo primi- tivo carattere sacro, di immolazione.

Voi non pensate al sentimento reli- gioso, signori.

Ho visto tanti impallidire, turarsi con le mani gli orecchi, torcere il viso per non vedere l'accoratojo brandito cacciar- si nella gola del porco convulso tenuto violentemente da otto braccia sanguinose smanicate; e per dir la verità, ho torto il viso anch'io, ma lamentando, lamen- tando dentro di me amaramente che l'uo- mo, a mano a mano che progredisce nel- la civiltà, si fa sempre più debole, per- de sempre più, pur cercando d'acquistar- lo meglio, il sentimento religioso. Seguita, sì, a mangiarsi il porco; volentieri as- siste alla manifattura delle salsicce, alla lavatura della corata, al taglio netto del fegato lucido compatto tremolante; ma

818 IL SIGNORE DELLA NAVE

torce poi il viso all'atto dell'immolazione. E certo è ormai cancellato il ricordo dell'antica Maja, madre del dio Mercurio, da cui il porco ripete il suo secondo nome.

Ho rivisto sul tai^di il signor Lavac- cara recarsi sudato e afTlittissimo, sen- za giacca, stravolto, con un gran tondo tra le mani, seguito dai due piccini, al banco del macellajo al quale aveva ven- duto quella sua bestia intelligente. An- dava a riceverne patto della vendita la testa e tutto il fegato.

Anche questa volta, ma con più ra- gione, il signor Lavaccara ha finito di non vedermi. Uno dei due piccini pian- geva; ma voglio credere che non pian- gesse per la prossima vista della pallida testa insanguinata della cara grossa be- stia cretosa carezzata per circa due anni nel cortile della casa. La contemplerà il padre quella testa dalle larghe orecchie abbattute, dagli occhi gravemente soc- chiusi tra i peli, per lodarne forse, con rimpianto ancora una volta, l'intelligen- za, e per questa maledetta ostinazione si guasterà il piacere di mangiarsela.

Ah mi avesse invitato a tavola con lui! Mi sarei risparmiato certamente il gran- de affanno di vedere, io solo a digiuno, io

IL SIGNORK DELLA NAVE 319

solo con gli occhi non offuscati dai va- pori del vino, tutta quella umanità, de- gna di tanta considerazione e di tanto rispetto, ridursi a poco a poco in uno sta- to miserando, senza più neppure un'om- bra di coscienza, senza la più lontana memoria delle innumerevoli benemerenze che in tanti secoli ha saputo acquistarsi sopra le altre bestie della terra con le sue fatiche e con le sue virtù.

Scamiciati gli uomini, discinte le don- ne; teste ciondolanti, facce paonazze, oc- chi imbambolati, danze folli tra tavole capovolte, panche rovesciate, canti sgua- jati, falò, spari di mortaretti, urli di bim- bi, risa sgangherate. Un pandemonio sot- to le rosse nubi dense e gravi del tramon- to, sopravvenute quasi con spavento.

Sotto queste nubi divenute a mano a mano più cupe e fumolente, ho veduto poco dopo, al richiamo delle campane, raccogliersi alla meglio tra spinte e ur- toni tutta quella folla ubriaca, e imbran- carsi in processione dietro a quel Cristo flagellato su la cix)ce nera, tratto fuori dalla chiesa, sorretto da un chierico pal- lido € seguito da alcuni preti digiuni, col càmice e la stola.

Due porcelloni, per loro somma ven- tura scampali al macello, sdrajati a pie'

320 IL SIGNORE DELLA NAVE

d'un fico, vedendo passare quella proces- sione, m'è parso si guardassero tra loro come per dirsi:

Ecco, fratello, vedi? e poi dicono che i porci siamo noi!

Mi sentii fino all'anima ferire da quel- lo sguardo , e fissai anch' io la folla ubriaca che mi passava davanti. Ma no, no, ecco oh consolazione! vidi che piangeva, piangeva tutta quella folla ubria- ca, singhiozzava, si dava pugni sul pet- to, si strappava i capelli scamiigliati, cempennando, barellando dietro a quel Cristo flagellato. S'era mangiato il por- co, sì, s'era ubriacata, è vero, ma ora piangeva disperatamente dietro a quel suo Cristo, l'umanità.

INforire scannate è niente, o stupi- dissime bestie! io allora esclamai, trionfante. Voi, o porci, la passate grassa e in pace la vostra vita, finché vi dura. Guardate a questa degli uomini adesso! Si sono imbestiati, si sono ubria- cati, ed eccoli qua che piangono ora in- consolabilmente, dietro a questo loro Cri- sto sanguinante su la croce nera! eccoli qua che piangono il porco che si sono mangiato! E volete una tragedia piìi tra- gedia di questa?

La carriola,

Pir.AN DELIO. K domani, i,inedi.„

Quand'ho qualcuno attorno, non la guardo mai; ma sento che mi guarda lei, mi guarda, mi guai'da senza staccarmi un momento gli occhi d'addosso.

Vorrei farle intendere, a quattr'occhi, che non è nulla; che stia tranquilla; che non potevo permettermi con altiù questo breve atto, che per lei non ha alcuna im- portanza e per me è tutto. Lo compio ogni giorno al momento opportuno, nel massimo segreto, con spaventosa gioja, perchè vi assaporo, tremando, la voluttà d'una divina, cosciente follia, che per un attimo mi libera e mi vendica di tutto.

Dovevo essere sicuro (e la sicurezza mi parve di poterla avere solamente con lei) che questo mio atto non fosse sco- perto. Giacché, se scoperto, il damio che ne verrebbe, e non soltanto a me, sareb- be incalcolabile. Sarei un uomo finito. Forse m'acchiapperebberp, mi leghereb-

32i tA PASPIOLÀ

bero mi trascinerebbero, atterriti, in un ospizio di matti.

Il terrore da cui tutti sarebbero presi, se questo mio atto fosse scoperto, ecco, lo leggo ora negli occhi della mia vittima.

Sono affìdati a me la vita, l'onore, la libertà, gli averi di gente innumerevole che m'assedia dalla mattina alla sera per avere la mia opera, il mio consiglio, la mia assistenza; d'altri doveri altissimi so- no gravato, pubblici e privati: ho moglie e figli, che spesso non sarnio essere come dovrebbero, e che perciò hanno bisogno d'esser tenuti a freno di continuo dalla mia autorità severa, dall'esempio costan- te della mia obbedienza inflessibile, inap- puntabile a tutti i miei obblighi, uno più serio dell'altro, di mai'ito, di padre, di cittadino, di professore di diritto, d'av- vocato. Guai, dunque, se il mio segreto si scoprisse !

La mia vittima non può parlare, è vero. Tuttavia, da qualche giorno, non mi sen- to più sicuix). Sono costernato e inquie- to. Perchè, se è vero che non può par- lare, mi guarda, mi guarda con tali oc- chi e in questi occhi è così chiaro il terrore, che temo qualcuno possa da un momento all'altro accorgersene, essere indotto a cercarne la ragione.

LI OARKIOLÀ 826

Sarei, ripeto, un uomo finito. Il va- lore dell'atto ch'io compio può essere stimato e apprezzato solamente da quei pochissimi, a cui la \ita si sia rivelata come d'un tratto s'è rivelata a me.

Dirlo e farlo intendere, non è facile. Mi proverò.

Ritornavo, quindici giorni or sono, da Perugia, ove mi ero recato per affari della mia professione.

Uno degli obblighi miei più gravi è quello di non avvertire la stanchezza che m'opprime, il peso enorme di tutti i do- veri che mi sono e mi hanno imposto, e di non indulgere minimamente al biso- gno di un po' di distrazione, che la mia mente affaticata di tanto in tanto recla- ma. L^unica che mi possa concedere, quando mi vince troppo la stanchezza per una briga a cui attendo da tempo, è quella di volgermi la un'altra nuova.

iM'ero perciò portate in treno, nella busta di cuojo, alcune carte nuove da studiare. A una prima difficoltà incon- trata nella lettura, avevo alzato gli oc- chi e li avevo volti verso il finestrino

326 LA CARBIOLA

della vettura. Guai'davo fuori, ma non vedevo nulla, assorto in quella difficoltà.

Veramente non potrei dire che non ve- dessi nulla. Gli occhi vedevano ; vede- vano e forse godevano per conto loro della grazia e della soavità della cam- pagna umbra. Ma io, certo, non prestavo attenzione a ciò che gli occhi vedevano.

Se non che, a poco a poco, cominciò ad allentarsi in me quella che prestavo alla difficoltà che m'occupava, senza che per questo, in tanto, mi s'avvistasse di più lo spettacolo della campagna, che pur mi passava sotto gli occhi limpido, lieve, riposante.

Non pensavo a ciò che vedevo e non pensai piìi a nulla: restai, per un tempo incalcolabile, come in una sospensione vaga e strana, ma pur chiara e placida. Ariosa. Lo spirito mi s'era quasi alienato dai sensi, in una lontananza infinita, ove avvertiva appena, chi sa come, con una delizia che non gli pareva sua, il bruli- chìo d'una vita diversa, non sua, ma che avrebbe potuto esser sua, non qua, non ora, ma là, in quell'infinita lonta- nanza; d'una vita remota, che forse era stata sua, non sapeva come quando; di cui gli alitava il ricordo indistinto, non d'atti, non d'aspetti, ma quasi di de-

liA CARRIOLA 827

siderii prima svaniti che sorti; con una pena di non essere, angosciosa, vana e pur dura, quella stessa dei fiori, forse, che non han potuto sbocciare; il bruli- chìo, insomma, di una vita, che era da vivere, lontano lontano, donde accen- nava con palpiti e guizzi di luce; e non era nata; nella quale esso, lo spirito, allora sì, ah, tutto intero e pieno si sa- rebbe ritrovato ; sì, anche per soffrire, non per godere soltanto, ma di sofferen- ze veramente sue.

Gli occhi a poco a poco mi si chiu- sero, senza che me n'accorgessi, e forse seguitai nel sonno il sogno di quella vita che non era nata. Dico forse, perchè, quando mi destai tutto indolenzito e con la bocca amara, acre e arida, già prossi- mo all'arrivo, mi ritrovai d'un tratto in tutt'altro animo, con un senso d'ati'oce afa della vita, in un tetro, plumbeo at- tonimento, nel quale gli aspetti delle cose più consuete m'apparvero come votati di ogni senso, eppure, per i miei occhi, d'una gravezza crudele, insopportabile.

Con quest'animo scesi alla stazione, montai sulla mia automobile che m'at- tendeva all'uscita, e m'avviai per ritor- nare a casa.

328 càrbiola.

Ebbene, fu nella scala della mia casa; fu sul pianerottolo innanzi alla mia porta.

Io vidi a un tratto, innanzi a quella porta scura, color di bronzo, con la targa ovale, d'ottone, su cui è inciso il mio nome, preceduto da' miei titoli e se- guito da' miei attributi scientifici e pro- fessionali, vidi a un tratto, come da fuo- ri, me stesso e la mia vita, ma per non riconoscermi e per non riconoscerla co- me mia.

Spaventosamente d'un tratto mi s'im- pose la certezza, che l'uomo che stava davanti a quella porta, con la busta di cuojo sotto il braccio, l'uomo che abitava in quella casa, non ero io, non ero stato mai io. Conobbi d'un tratto d'essere stato sempre come arsente da quella casa, dalla vita di quell'uomo, non solo^ ma veramente e propriamente da ogni vita. Io non avevo mai vissuto ; non ero mai stato nella vita ; in una vita, intendo, che potessi riconoscer mia, da me voluta e sentita come mia. Anche il mio stesso

LA càkbiola 829

corpo, la mia figura, quale adesso im- provvisamente m'appariva, così vestita, così messa su, mi parve estranea a me; come se altri me l'avesse imposta e com- binata, quella figura, per farmi muovere in una vita non mia, per farmi compie- re in quella vita, da cui ero stato sempre assente, atti di presenza, nei quali ora, improvvisamente, il mio spirito s'accor- geva di non essersi mai trovato, mai, mai! Chi lo aveva fatto così, quell'uomo che figurava me? chi lo aveva voluto così? chi così lo vestiva e lo calzava? chi lo faceva muovere e paiiare così? chi gli aveva miposto tutti quei doveri uno più gravoso e odioso dell'alti-o? Com- mendatore, professore, av\^ocato, quel- l'uomo che tutti cercavano, che tutti ri- spettavano e ammiravano, di cui tutti volevan l'opera, il consiglio, l'assistenza, che tutti si disputavano senza mai dargli un momento di requie, un momento di respiro ero io? io? propriamente? ma quando mai? E che m'importava di tutte le brighe in cui quell'uomo stava affo- gato dalla mattina alla sera; di tutto il rispetto, di tutta la considerazione di cui godeva, commendatore, professore, avvo- cato, e della ricchezza e degli onori che gli erano venuti dall'assiduo scrupoloso

330 LA CARRIOLA

adempimento di tutti quei doveri, dal- l'esercizio della sua professione?

Ed erano lì, dietro quella porta che recava su la targa ovale d'ottone il mio nome, erano una donna e quattro ra- gazzi, che vedevano tutti i giorni con un fastidio ch'era il mio stesso, ma che in loix) non potevo tollerare, quell'uomo in- soffribile che dovevo esser io, e nel quale io ora vedevo un estraneo a me, un nemi- co. Mia moglie? i miei figli? Ma se non ero stato mai io, veramente, se veramente non eix) io (e lo sentivo con spaventosa certezza) quell'uomo insoffribile che sta- va davanti la porta; di chi era moglie quella donna, di chi erano figli quei quat- tro ragazzi? Miei, no! Di quell'uomo, di quell'uomo che il mio spirito, in quel momento, se avesse avuto un corpo, il suo vero corpo, la sua vera figura, avreb- be preso a calci o afferrato, dilacerato, distrutto, insieme oon tutte quelle bri- ghe, con tutti quei doveri e gli onori e il rispetto e la ricchezza, e anche la mo- glie, sì, fors'anche la moglie....

Ma i ragazzi?

Mi portai le mani alle tempie e me le strinsi forte.

No. Non li sentii miei. Ma attraverso un sentimento strano, penoso, angoscioso.

LA CARRIOLA 331

di loix), quali essi erano fuori di me,- quali me li vedevo ogni giorno davanti, che avevano bisogno di me, delle mi& cure, del mio consiglio, del mio lavoro; attraverso questo sentimento e col senso d'atroce afa col quale m'ero destato in treno, mi sentii rientrare in quell'uomo insoffribile che stava davanti la porta. Trassi di tasca il chiavino ; aprii quel- la porta e rientrai anche in quella casa e nella vita di prima.

Ora la mia tragedia è questa. Dico mia, ma chi sa di quanti!

Chi vive, quando vive, non si vede: vive.... Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive più: la subisce, la trascina. Come una cosa morta, la trascina. Perchè ogni forma è una morte.

Pochissimi lo sanno ; i piìi, quasi tutti, lottano, s'affannano per farsi, come di- cono, uno stato, per raggiungere una for- ma; raggiuntala, credono d'aver conqui- stato la loro vita, e cominciano invece a morire. Non lo samio, perchè non si ve- dono ; perchè non riescono a staccarsi pili da quella forma moribonda che han-

832 LA CARRIOLA

HO raggiunta ; iioii si ooiioscono per morti e credono d'esser vivi. Solo si conosce chi riesca a veder la forma che si è data o che gli altri gli hanno data, la fortuna, i casi, le condizioni in cui ciascuno è nato. Ma se possiamo vederla, questa forma, è segno che la nosti'a vita non è più in essa: perchè se fosse, noi non la ve- dremmo : la vivremmo , questa forma, senza vederla, e morremmo ogni giorno di più in essa, che è già per una mor- te, senza conoscerla. Possiamo dunque vedere e conoscere soltanto ciò che di noi è morto. Conoscersi è morire.

Il mio caso è anche peggiore. Io vedo non ciò che di me è morto ; vedo che non sono stato mai vivo, vedo la forma che gli altri, non io, mi hanno data, ei sento che in questa forma la mia vita, una mia vera vita, non c'è stata mai. Mi hanno preso come una materia qualun- que, hanno preso un cervello, un'anima, muscoli, nervi, carne, e li hanno impa- stati e foggiati a piacer loro, perchè com- pissero un lavoro, facessero atti, obbe- dissero a obblighi, in cui io mi cerco e non mi trovo. E grido, l'anima mia grida dentro questa forma morta che mai non è stata mia: Ma come? io, questo? io, così? ma quando mai? E ho nau-

TiA CARRIOLA 383

sea, oriTore, odio di questo che non sono io, che non sono stato mai io ; di questa forma morta, in cui sono prigioniero, e da cui non mi posso liberare. Forma gravata di doveri, che non sento miei, oppressa da brighe di cui non m'importa nulla, fatta segno d'una considerazione di cui non so che farmi; forma che èi questi doveri, queste brighe, questa con- siderazione, fuori di me, sopra di mei cose \aiote, cose morte che mi pesano addosso, mi soffocano, mi schiacciano e non mi fanno più respirai'e.

Liberarmi'/ Ma nessuno può fare che il fatto sia come non fatto, e che la morte non sia, quando ci ha preso e ci tiene.

Ci sono i fatti. Quando tu, comunque, hai agito, anche senza che ti sentissi e ti ritrovassi, dopo, negli atti compiuti; quello che hai fatto resta, come una pri- gione per te. E come spire e tentacoli t'avviluppano le conseguenze delle tue azioni. E ti gl'ava attorno come un'aria densa, irrespirabile la responsabilità, che per quelle azioni e le conseguenze di esse, non volute o non prevedute, ti sei assunta. E come puoi piìi liberai^ti? Come potrei io nella prigione di questa forma non mia, ma che rappresenta me quale

334 LA CARIÌIOIiA

sono per tutti, quale tutti mi conoscano e mi vogliono e mi rispettano, accoglie- re e muovere una vita diversa, mia mia vera vita? una vita in una fomia che sento morta, ma che deve sussistere per gli altri, per tutti quelli che l'hanno mes- sa su e la vogliono così e non altrimenti? Dev'esser questa, per forza. Serve così, a mia moglie, ai miei figli, alla società, cioè ai signori studenti universitarii del- ia facoltà di legge, ai signori clienti che m'hanno affidato la vita, l'onore, la li- bertà, gli averi. Serve così, e non posso mutarla, non posso prenderla a calci e levarmela dai piedi; ribellarmi, vendi- carmi, se non per un attimo solo, ogni giorno, con l'atto che compio nel massi- mo segreto, cogliendo con trepidazione e circospezione infinita il momento op- portuno, che nessuno mi veda.

Ecco. Ho una vecchia cagna lupetta, da undici anni per casa, bianca e nera, grassa, bassa e pelosa, con gli occhi già appannati dalla vecchiaja.

Tra me e lei non c'erano mai stati buo- ni rapporti. Forse, prima, essa non ap- provava la mia professione, che non per- metteva si facessero rumori per casa; s'era messa però ad approvarla a poco a poco, con la vecchiaja; tanto che, per

LA CARKIOT^ 33ó

sfuggire alla tirannia capricciosa dei ra- gazzi, che vorrebbeix) ancora ruzzare con lei giù in giardino, aveva preso da un pezzo il partito di rifugiarsi qua nel mio studio da mane a sera, a dormire sul tappeto col musetto aguzzo tra le zampe. Tra tante carte e tanti libri, qua, si senti- va protetta e sicura. Di ti'atto in tratto schiudeva un occhio a guardarmi, come per dire:

Bravo, sì, caro : lavora ; non ti muo- vere di lì, perchè è sicuro che^ finché tu stai a lavorare, nessuno entrerà qui a disturbare il mio sonno.

Così pensava certamente la povera be- stia. La tentazione di compiere su lei la mia vendetta mi sorse, quindici gior- ni or sono, all'improvviso, nel vedermi guardato dosi.

Non le faccio male; non le faccio nul- la. Appena posso, appena qualche cliente mi lascia libero un momento, mi alzo cauto, pian piano, dal mio seggiolone, perchè nessuno s'accorga che la mia sa- pienza temuta e ambita, la mia sapienza formidabile di professore di diritto e d'avvocato, la mia austera dignità di ma- rito, di padre, si siano per poco staccate dal trono di questo seggiolone ; e in punta di piedi mi reco all'uscio a spiare nel

836 r<A CARBTOLA

corridojo, se qualcuno non sopravvenga; chiudo l'uscio a chiave, per un momen- tino solo ; gli occhi mi sfavillano di gioja, le mani mi ballano dalla voluttà che sto per concedermi, d'esser pazzo, d'esser pazzo per un attimo solo, d'uscire per un attimo solo dalla prigione di questa forma morta, di disti'uggere, d'aiuiien- tare per un attimo solo, beffai'd amente, questa sapienza, questa dignità che mi soffoca e mi schiaccia; corro a lei, alla cagnetta che dorme sul tappeto ; piano, con garbo, le prendo le due zampine di dietro e le faccio fare la carriola: le fac- cio muovere cioè otto o dieci passi, non più, con le sole zampette davanti, reggen- dola per quelle di dietro.

Questo è tutto. Non faccio altro. Corro vsubito a riaprire l'uscio adagio adagio, senza il minimo cricchio, e mi rimetto in trono, sul seggiolone, pronto a ricevere un nuovo cliente, con l'austera dignità di prima, cai'ico come un cannone di tutta la mia sapienza formidabile.

Ma, ecco, la bestia, da quindici giorni, rimane come basita a mirarmi, con que- gli occhi appaimati, sbarrati dal terrore. Vorrei farle intendere ripeto che non è nulla ; che stia tranauilla che non mi guardi così.

cahmola 837

Comprende, la bestia, la terribilità del- l'atto ch'io compio.

Non sarebbe nulla, se per ischerzo glie-^ lo facesse uno dei miei ragazzi. Ma sa ch'io non posso scherzare; non le è pos- sibile ammettere che io scherzi, così, con lei, per un momento solo ; che possa essere uno scherzo, questo mio ; e se- guita maledettamente a guardarmi^ at- territa.

All'uscita

(SEistero profano).

APPARENZE dell'Uomo grasso, del Filosofo, della Donna uccìsa, del Bimbo dalla melagrana.

ASPETTI DELLA VITA: un Contadino, «na Conta- dina, un vecchio asino con un gran fascio d'er- ba, una Bambina.

Un niur», una porta. Di là, il mondo. Ma di qua, purtroppo, è terra ancora: campcf/na o colle, all'uscita d'un cimitero.

Dal muro - grezzo, bianco - s' intravedono, in una trasparenza scolorata d'umido barlume crepuscolare, alti cipressi notturni. I morti, entrati nel cimitero da altra porta di là, lasciato il corpo inutile nelle fosse, di qua escono con quelle apparenze vane che si diedero in vita.

L' apparenza dell'Uomo grasso siede su una panca logora a pie d'un grande albero, con le mani appoggiate al bastone e sulle mani il mento. Uscito da parecchi giorni, non aa risolversi a muoversi di lì: assiste, ma senza mostrare di compiacersene, allo stupore, al ter- rore, al dolore, al disinganno, alla nausea, che le altre apparenze, uscendo di tanto in tanto dalla porta del ci- mitero, danno a vedere, e al modo con cui esse poi s'avvia- no, incerte, afflitte, disgustate, sgomente.

È uscita or ora, magra e capelluta, l'apparenza del Filosofo; ha mostrato anch'essa un grande stupore ; s' è guardata attorno smarrita; poi, da lontano, ha avvistata rUonio grasso seduto a pie dell'albero; s'è ricomposta e ora gli s'avvicina.

Il Filosofo. Che maraviglia, buon uomo? che ma- raviglia? È così! Naturalissimo.

L'Uomo grasso. A me lo dite? Oh bella! Sarete mara- vigliato voi. A me già m'è passata.

Il Filosofo. Ah si? E vi sembro maravigliato io?

L'Uomo grasso. Un poco, direi.

Il Filosofo. Ma no! Di che? Se vi dico che è na- turalissimo....

L'Uomo grasso. Ho capito. Vorreste darmi a intendere che avevate preveduto di dovervi ritro- vare così, ancora qua.

Il Filosofo. No. Questo no. Ma la mia maraviglia, se pure in prima ne avrò mostrata un

ÀuJ USCITA 343

poco, è stata appunto per questo, vi pre- go di credere: che io non l'abbia preve- duto.

L'Uomo grasso. Eh già, poiché vi sembra così natu- rale....

Il Filosofo. Ma come no? Scusate. Ve lo dimostro subito subito, in due parole.

L'Uomo grasso. Oh, fatene a meno, per carità. Che consolazione volete che mi dia codesto postumo esercizio della vostra ragione?

Il Filosofo. Postumo? Ma che postumo! Io sègui- to a ragionare, come voi ad esser grasso, caro mio. E per il solo fatto che io e voi siamo ancora qua, sèguito a vedere in voi e in me due forme della ragio- ne. Non vi consola questo?

L'Uomo grasso. Consolarmi? Se sapeste come ne sono mortificato !

Il Filosofo. Ma no, perchè? Perchè voi forse, po- ver'uomo, viveste nell'illusione che la realtà fosse in queste forme della ra-

344 all' crsoiTA

gione, le quali necessariamente non pos- sono esser altro che apparenze.

L'Uomo grasso. E non vi mortifica questo?

Il Filosofo. No: perchè? Sèguito a ragionare, vi dico.

L'Uomo grasso.

Beato voi! Senza realtà? Il Filosofo.

Ma se non ne ho mai a\nita io, buon uomo, che dite! Credete forse d'avere avuto una realtà voi? L'errore è appun- to qui! Ce la davamo noi, in vita, una realtà; ma, a dir vero, non ne abbiamo mai avuta nessuna, io voi ; pre- cisamente come non ne abbiamo nean- che adesso.

L'Uomo grasso. Come come? Oh bella! Non avevo una realtà, quando vivevo? Ma se me la davo, scusate, vuol dire che l'avevo!

Il Filosofo. No, caro ! no, caro ! Ne avevate soltanto l'illusione: ecco tutto. Ora dite che siete mortificato ; ma propriamente dovreste dire che siete del tutto disilluso.

ìIìl' oscita 345

L'Uomo grasso.

Disilluso ?

Il Filosofo.

Del tutto. Perchè.... state a sentire: ve lo dimostro, così alla buona, usando, per farmi intendere, piuttosto il vostro che il mio linguaggio. Può esistere una cosa in astratto? No, eh? In asti'atto, natural- mente, non si è. Il che vuol dire che l'es- sere, se vuol essere, bisogna che crei a stesso un'apparenza. Noi assumiamo come realtà quest'apparenza; ma è un'il- lusione, caro mio : tanto vero che la real- tà vostra non era la mia; ciò che era realtà per voi, non era realtà per me; e anche per voi stesso cangiava di conti- nuo, secondo il sentimento o l'idea che n^avevate. Tuttavia, non c'era per me e per voi altra realtà fuori di questa illu- sione; la quale, se considerate bene, era necessaria, perchè necessai'io è questo: che l'essere abbia apparenza, accada, cioè diventi quel che volgarmente chiamiamo vita: un'illusione. Che è dunque, ora, la morte? Nient'altro che la disillusione to- tale. Avete capito?

L'Uomo grasso. Eh, non bene. Parlate ancora troppo sottile per uno così grasso come me.

84b ALL' USCITA

Il Filosofo. Bene, ecco, ve lo spiego allora per via d'esempio, volete? Per via d'esempio.... Che prendiamo? Ecco: questo cimitero qua. Voi lo vedeste certo, in vita, chi , sa quante volte.... ^

L'Uomo grasso. Sì. Qualche volta, triste, ci venivo a passeggiare.

Il Filosofo. Bene. E non vi venne mai in mente che le tombe non erano fatte per i morti ma per i vivi?

L'Uomo grasso. Per i vivi? Non capisco. Volete dire della vanità delle epigrafi?

Il Filosofo. No no, tu tt' altro. Storia vecchia, code- sta. Dico del bisogno che ha la vita di fabbricare una casa ai suoi sentimenti. È press'a poco lo stesso caso dell'essere che ha bisogno di creare a stesso un'appa- renza. Ecco: non basta ai vivi averli den- tro, nel cuore, i sentimenti: se li voglio- no vedere anche fuori, toccarli, e costrui- scono loro una casa. Fuori, dove na- turalmente — chi ci sta? Non ci sta nes- suno.

ALI.' usoirA 347

L'Uomo grasso. Come, nessuno? I morti.

Il Filosofo. Ma no, brav'uomo. Scusate: di noi po- veri morti, dopo un po' di tempo, che resta in quelle fosse là? Se mai, un po' di polvere: niente. E che cosa sono al- lora le tombe? Il ricordo, l'affetto, il ri- spetto, la devozione tutti sentimenti, come vedete sentimenti dei vivi che, non contenti d'esser coltivati dentro, o forse diffidando che dentro non dure- ranno a lungio, si sono pagato il lusso d'una casetta fuori: quelle tombe là. Chi ci abita? Se i vivi li hanno ancora den- tro, ci abiteranno loro, questi sentimenti, il ricordo, l'affetto, il rispetto, la devo- zione. O se no, nessuno. La vanità, come voi avete detto, la quale è anch'essa però un sentimento, vi faccio notare. E andia- mo avanti. State a sentire. Io avevo, in vita, un caro cagnolino....

L'Uomo grasso. Gli avete edificato una tomba?

Il Filosofo.

No no, che! È vivo ancora, di là, lui. L'ho lasciato di la, poverino, tanto caro, bianco e nero, vispo. Un diavoletto. Me

848 all' uscita

lo portavo a spasso col suo sonagliolo d'argento nel collarino, sempre per aria, perchè pareva non toccasse mai terra con quelle quattix) esili zampette fremen- ti. Una disperazione, però. Mi voleva en- trare in tutte le chiese, capite? E io a corrergli dietro! Bihì.... Bibì.... Qua, Bibh... (si chiamava.... cioè, lo chia- mavo Bibì). Era molto intelligente; ma non riusciva a capacitarsi Bibì perchè a un cagnolino bellino come lui non fosse lecito entrare in chiesa. Alle mie sgridate, s'acculava, alzava e scoteva una delle zampine davanti, sternutiva, poi con un'o- recchia su e l'altra giù stava a guardarmi proprio con l'aria di credere che non ci stèsse nessuno e che lui perciò potes- se entrarci «Ma come non ci sta nes- suno, Bibì? gli dicevo io, carezzan- dolo, perchè v'assicuro che con quell'a- ria d'incredulità era proprio carino. Come non ci sta nessuno? Ci sta il più rispettabile dei sentimenti umani, Bibì. il quale, non contento neanche lui d'a- bitare nel petto degli uomini, ha voluto fabbricai'si fuori una casa, e che casa! Cupole, navate, colonne, ori, marmi, tele preziose....» Ora voi, buon uomo, for- se siete in grado di comprendere. Come casa di Dio è senza dubbio infinitamente

all' uscita 349

più grande e più ricco il mondo, che una chiesa; incomparabilmente più nobile d'ogni altare, sia pur di malachite, lo spirito dell'uomo in adorazione del mi- stero divino. Ma questa è la sorte di tut- ti i sentimenti che si vogliono costruire una casa: si rimpiccolisoono, per forza, e diventano anche un poco puerili, per la loro vanità. È la sorte stessa di quel- l'infinito che è in noi, che noi volgar- mente chiamiamo anima, quando que- st'infinito si finisce per alcun tempo in una misera forma vana, in quest'appa- renza che si chiama uomo, su un gra- nellino di terra perduto nei cieli.

L'Uomo grasso. Ma dunque io e voi e tutti quelli che escono da quella porta che cosa siamo ora, si può sapere? Apparenze d'appa- renze ?

Il Filosofo No. Perchè? La stessa apparenza, se ci riflettete un poco. Con questo solo diva- rio: che quella che ci davano gli altri, è là, nella fossa; quella che ci davamo noi, è qua, ancora per poco, in voi e in me. Noi ne siamo^ insomma, la va- nità ancora per poco superstite. O se vi piace, immaginate una tomba a cui

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ancora aliti attorno, appena appena, il fievole ricordo evanescente d'un ultimo congiunto lontanissimo; o una chiesa in cui stia per estinguersi l'ultima lampa- dina accesavi dall'ultimo credente d'una religione tramontata. Forse non siamo ancora proprio del tutto disillusi. Un'ul- tima ombra d'illusione persiste ancora in noi. Ci piace ancor tanto di ritenere la nostra vana parvenza, che, per liberar- cene, dobbiamo aspettare ch'essa a poco a poco si diradi e vanisca. Già voi, forse per effetto de' miei discorsi, mi sembrate un po' più rarefatto. Ah, ecco: è bastato che ve lo dicessi.... Vi riaddensate su- bito, povera ombra. Che vi ritiene? Sie- te grasso, ma sembrate così malinco- nico....

L'Uomo grasso.

Ho un rammarico non so ! Vedo

ancora, vedo il giardinetto della mia casa al sole, con un tappetino verde, steso a una finestra; la vasca col vetro dell'ac- qua in ombra, e i pesciolini rossi che vengono come a mordere a galla, e le piante attorno che guardano attonite quei circoletti che s'allargano nell'acqua si- lenziosi.... Debbono esser tutte fiorite le piante a quest'ora.... Mi sento^ tra il re-

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spiro fresco di quelle foglioline nuove, una vecchia foglia morta, là, che non sa ancora staccarsi. La vedo, c'è davvero questa foglia morta; aspetto che un sof- fio la faccia crollaix, e allora forse, come voi dite, svanirò.

Il Filosofo. Ed è solo del vostro giai'dinetto il ram- marico ?

L'Uomo grasso. No. Ma i fiori veramente furono sem- pre la mia maraviglia. Che la terra li potesse fare. Avete un bel dire voi, il- lusioni. Un usignuolo veniva a cantare ogni notte nel mio giardino, tutto riden- te € squillante a maggio di rose gialle, di rose rosse, di rose bianche e di ga- rofani e di geranii. Tutta la vostra filo- sofia, vedete? non impediva a quell'usi- gnuolo di cantare e a quelle rose di fio- rire. Potevate cacciarlo dal mio giardino, quell'usignuolo, e da quel giardino strap- pare tutte le rose. L'usignuolo se ne sa- rebbe volato nel giardino accanto, su un altro albero, e avrebbe seguitato a cantare di ogni notte alle stelle. E tutte le rose di maggio da tutti i giar- dini non avreste potuto strapparle di cer- to. Sono cose che passano, sì. Ma il mio

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rammarico è ora di non averne saputo godere. L'aria io la respiravo, e non me lo diceva ch'io vivevo, quando la respi- ravo ; quel cinguettio d'uccelli nati col maggio nel mio e negli altfi giardini fio- riti attorno alla mia casa, l'udivo, e non me lo dicevano quegli uccelli e quei giar- dini ch'io vivevo, quando li udivo cin- guettare e ne aspiravo i profumi. Una miseria di pensiero mi teneva assorto e chiuso. Di tanta vita che, intanto, en- trava in me per i sensi aperti, non fa- cevo conto. E poi mi lagnavo; di che? di quella miseria di pensiero, d'un de- siderio insodisfatto, d'un caso contrario già passato. E intanto tutto il bene del- la vita mi sfuggiva. Ma no: ora me n'accorgo : non è vero ; non mi sfug- giva. Sfuggiva alla mia coscienza; non a quel profondo, oscuro me stesso, dove senza saperlo io vivevo davvero e assaporavo il gusto della vita^ ineffabi- le, quello che ancora mi tiene qua come un mendico imi anzi a una porta dove non gli è più concesso d'entrare ; il gusto della vita che mi faceva accettare tutte le contrarietà, tutte le condizioni che il pensiero intanto scioccamente stimava misere e intollerabili. Certe domeniche, quando mia me glie fingeva d'andare a

all' uscita 353

messa e se n'andava invece dal suo amante....

Il Filosofo.

Ah poveretto, lo sapevate?

L'Uomo grasso.

Ecco, vedete? una realtà che non era illusione.

Il Filosofo.

E no, potrei dimostrarvi, caro, ch'era un'illusione anche questa, come tutto il resto.

L'Uomo grasso

a r un fatto!

Che mia moglie mi tradiva? Ma se era

Il Filosofo.

Già! A cui voi davate guesta realtà.

L'Uomo grasso.

Ma come potevo non darglielaj se di fatto mia moglie mi tradiva?

Il Filosofo.

Bravo! E non v'ho già dimostrato che era appunto questo il guajo? La neces- sità, voglio dire, in cui eravate d'assu- mere con realtà vane forme j idee, sim-

PiRAN DELLO. E domauì, lunedi.... 23

354 all' uscita

boli, nomi: mogiie, inaiato, fedeltà, tra- dimento.... Questo che chiamate un fat- to, del piacere che vostra moglie si pren- deva con un uomo che non eravate voi, vi pare che avesse per lei la stessa realtà, se a lei dava piacere e a voi dolore? E da che nasceva il vostro dolore se non dall'illusione che v'eravate fatta che vo- stra moglie v'appartenesse? Son tutte idee vane, come tutta una vana idea è la vita. Una vostra idea era vostra moglie, una vostra idea il suo tradimento, una vostra idea il vostro dolore. Il guajo è questo, che la vita non è possibile, se non a patto di dare realtà a tutte queste no- stre idee. Bisognerebbe non vivere, buon uomo !

L'Uomo grasso.

Forse avete ragione. E il gusto ch'io sentivo della vita, di cui stavo a parlar- vi, certamente dipendeva dal poco pen- siero che mi davo de' miei casi e delle scarse illusioni che mi facevo. Non cre- diate che fosse in fondo per me un do- lore il tradimento di mia moglie. Ne so- spiravo, sì ; e dicevo fuori, a me stesso, ch'era per pena; ma dentro sentivo ch'e- ra un sospiro di sollievo. Ma non pieno, mai, perchè dovete sapere ch'ella non

all' uscita 365

era contenta neanche del suo amante, come non era contenta di nulla, di nessu- no. Le finirà male certamente. E anche per questo, vedete? non so staccarmi di qua.

Il Filosofo.

La aspettate?

L'Uomo grasso.

Sì, presto. La uccideranno ; ne son si- curo. Il suo amante la ucciderà, oggi o dimani. Forse in questo stesso momento che sto a dirvelo. Me ne viene la cer- tezza dalla gioja che ne' miei ultimi mo- menti ella non si curò nemmeno di na- scondere, non tanto credete per la mia morte imminente, quanto per Io spet- tacolo pietoso del dolore cupo, disperato di lui che mi stava presso il letto e si struggeva di non saper più che cosa fare per tenermi in vita.

Il Filosofo.

Ah, come? egli non desiderava la vo- stra morte?

L'Uomo grasso.

Sarete un gran sapiente; ma vedo che comprendete poco le cose della vita. Egli

356 all' uscita

non poteva non avermi caro ; e v'assicuro ch'io ebbi fin da principio una grande compassione per quest'uomo, perchè, su- bito dopo il ti'adimento, mia mogUe rove- sciò su lui tutto l'odio di ferocissima ne- mica, che prima aveva per me^ e per me riprese ad avere quel certo volubile af- fetto, un po' scherzoso, un po' morden- te dei primi tempi del nostro fidanza- mento, quando mi metteva un fiore in bocca e poi diceva: «Che buffo assas- sino!»; — Potei avere in breve la so- disf azione di questa certezza: che soffri- va lo stesso martirio, che avevo sofferto io, l'uomo che aveva creduto di farmi male ingannandomi, e che perciò al mar- tirio aggiungeva anche un sincero e cru- delissimo rimorso. Per quest'uomo, ve- dete, la mia morte è stata la più grande delle sventure, giacché per essa mia mo- glie non tanto ha sperato di liberai'si di me, quanto di lui, ch'era come l'ombra del mio corpo, non perchè mi stesse sem- pre vicino, ma perchè dovete sapere che quel certo marito fa sempre, appena è possibile, quel certo amante. Sparito il corpo, non sussiste più l'ombra. Finché c'ero io, quello era l'amante. Ma ora? Nella libertà, perchè uno? e ancora quel- lo, ombra uggiosa d'un corpo che non

all'uscha 367

c'è più? Ella ne vorrà un alti'O j più al- tri, forse.

Il Filosofo. E credete che egli la ucciderà?

L'Uomo grasso.

Ne sono sicuro. Per non sentirla ri- dere. Alla prima risata, la ucciderà. Per ora ella si tiene, si tiene, forzata dall'ap- parenza del dolore che deve darsi per la rnia morte recente. Ma io già gliela sento gorgogliare nelle viscere convulse la tre- menda risata, che alla fine proromperà in faccia a lui da quella sua feroce boc- ca rossa tra il taglio dei lucidi denti. Ride come una pazza. Vedete, v'ho detto che la vostra filosofia non poteva strap- pare le rose del mio giardino ; ma la risata di quella donna altro che questo poteva! Ogni qual volta la sentivo ri- dere, mi pareva ne tremasse la terra, e il cielo si sconvolgesse, e il mio giardi-' netto si riducesse un arido lembo spac- cato, irto di cardi spinosi. Le scatta dalle vìscere come una frenetica rabbia di di- struzione, e fa pensare a una cupa bru- ciante arsura, alla luce che annera le cose: è terribile^ terribile quella risata su lo spasimo di chi la sente. Certo egli

B'^ft all'uscita

la ucciderà. Forse l'ha già uccisa. Tra poco la vedremo uscire di là. Ma eccola! eccola! Oh Dio.... vedete? ecco- la.... Balla, gira come una trottola.... Tut- ta scarmigliata! È lei! Ah, 1 capelli, guar- date! come le serpi d'una furia, guar- date.... Le s'avvolgono attorno al viso che ride.... ride.... ride.... E su la mam- mella manca, vedete? il sangue Lo

spruzza tutt'intorno.... Qua, qua! Vieni qua! Non girai'e più così! Siedi qua!

La Donna uccisa.

Ah, qua.... Tu? oh Dio.... com'è? No, no..,. Ma come? Sono di nuov^o con te? Ah ah ah ah ah'....

L'Uomo grasso. Non ridere! Non ridere più così!

La Donna uccisa.

Che Imbecille! M'ha rimandato a te.... E verrà pure lui, sai? S'è ferito a morte, dopo aver ferito me.... qua, guai'da.... oh, guardate pure voi, signore.... tanto, or- mai! se il mio seno si solleva, non vi farà più impressione.... Ah ah ah.... Guar- date, signore, mio marito com'è afflit- to.... No, caro! Che dici? Credi che mi corra ancora l'obbligo della pudicizia?

all' uscita 869

Ecco, ecco, me lo nascondo coi capelli, così. Se mi deste un pettine per rav- viarmeli.... sono tutti arruffati.... Ma, sai, caro? Mi lasciò là, per tutta una mat- tinata, arrovesciata sul letto.... così, guar- da.... con tutto il seno scoperto.... così.... e tanta gente entrò a vedermi, e temo, caro, temo che m'abbiano veduto anche le gambe, un poco.... Ah ah ah.... Ma che imbecille! Credette di farmi male*... E an- ch'io, sì, anch'io ebbi una gran paura che mi facesse male.... Voleva prendermi; gli sfuggivo, gli ballavo attorno giran- do, come una matta. M'avete veduto? Così. A un tratto, ah! un colpo, qua, freddo ; caddi ; mi sollevò da terra, m'ar- rovesciò sul letto, mi baciò, mi baciò; poi con la stessa arma si ferì su me; lo sentii scivolare pesante a terra; ge- mere, gemere ai miei piedi.... E mi durò fino all'ultimo su la bocca il caldo del suo bacio. Ma forse era sangue.

Il Filosofo.

Sì, ne avete ancora un filo, difatti, sul mento.

La Donna uccisa.

Ah, ecco, era sangue.... Lo volevo dire! Perchè nessun bacio mai m'ha bruciato.

360 all' uscita

Arrovesciata sul letto, menti'e il soffitto bianco della camera mi pareva s'abbas- sasse su me, e tutto mi s'oscurava, spe- rai, sperai che quell'ultimo bacio final- mente, oh Dio, m'avesse dato il calore che le mie viscere esasperate hanno sem- pre, e sempre invano, bramato ; e che con quel caldo ora potessi ri\'ivere, gua- rire.... Era il mio sangue; era questo bruciore inutile del mio sangue, invece..,.

Silenzio. L'apparenza delVUo- mo grasso tentenna amara- mente il capo e poi con aria più cupa e dolorosa lo riap- poggia sul bastone, mentre l'ap- parenza del Filosofo resta in- tenta e quasi sbigottita a mirar la Donna uccisa, la quale, a tratto, guardando verso l'u- scita del cimitero, ha come un tremito o un fremito, e s'ilara tutta e grida:

La Donna uccìsa.

Oh guardate.... guardate! Guarda an- che tu, smìioviti, solleva il mento dal bastone! Guai^da chi viene di là, cor- rendo leggero sui rosei piedini scalzi....

Il Filosofo. Un bimbo!

all' uscita 361

La Donna uccisa. Caro! E che regge, che regge tra le ma- nine? Una melagrana? Oh, guai'date.... una melagrana! Vieni, vieni qua, caro! qua da me, vieni!

Il Bimbo dalla melagrana.

Questa.... a me, tutta.... tutta a me, tutta....

La Donna uccisa.

Sì, caro, qua: ecco; è dura; te l'a- pro io, te la schìccolo io.... E te la man- gerai tutta, sì.... aspetta.... qua nella mia mano.... Oh, vedi? vedi com'è rossa?

Il Bimbo dalla melagrana.

Sì.... sì.... a me.... tutta a me....

La Donna uccisa.

Tutta sì, aspetta.... Ecco, mangia questi chicchi intanto.... Ah, 1 tuoi labbruzzi, caro, come mi vellicano la mano.... Ecco, sì.... il resto.... tutta a te.... Vuoi che ne diamo un chicco, uno solo, a questo po- ver'uomo che guarda col mento sul ba- stone? No? Niente, allora.... tutta a te.... Ecco, mangia.... Oh, come ti sei fatto nero il bel musino....

Il Bimbo dalla melagrana. Ancora.... ancora.... a me....

362 all' uscita

La Donna uccisa. Restano gli ultimi chicchi, vedi, caro'/ Queste sono le bucce.... Ah!

La donna un grido. Mangiati gli ultimi chicchi nel cavo della mano, il bimbo è svanito nel- l'aria. Restano per terra le bucce della melagrana; le ultime, an- cora nell'altra mano della don- na, scivolano anch'esse a terra.

Il Filosofo.

Era quella melagrana il suo ultimo de- siderio. Si teneva ad esso con tutt'e due le manine. Era tutto lì, in quei chicchi di rubino che non aveva potuto assapo- rare....

La Donna uccisa.

E io? Il mio desiderio?... Ah!

ChÌ7ia il capo, con le mani sul volto, e chiusa tra le fiamme dei cajyelli che le vengono avan- ti, piange perdutamente. Al- lora, a quel pianto, nel silen- zio, si sente cadere il pesante bastone su ciii l'apparenza del- l'Uomo grasso teneva ajypog- giate le mani e il mento. Il volto atterrito della donna, al rìimore, esce di tra i cappelli scostati con le mani e guarda, accanto a sé, il vuoto. L'altro, ritraendosi dietro al sedile e ac-

all' uscita 363

costandosi al tronco dell'albe- ro, le fa cenno di guardare, non già a colui che non e' è più,, ma ad alcuni massicci aspetti del- la vita che sopravvengono dalla campagna: un Contadino, una Contadina, un vecchio asino con un gran fascio d'erba su la schiena, su cui siede una Bambina, Questa, istintiva- mente, come se avvertisse nel- l'ombra gli occhi atroci del- l'apparenza della Donna uc- cisa che la fissano, si copre il viso con le manine, mentre il vecchio asino si ferma a fiu- tare le bucce sparse della me- lagrana e coi grossi labbri bigi ne toglie qualcuna e poi la la- scia e sbruffa con le froge a terra.

Il Contadino.

Oh, guarda.... un bastone. Qualcuno l'a- vrà perduto.... Arri! Jà!

La Contadina. E tu perchè ti metti così le manine su gli occhi?

La Bambina. Ho paura.

Il Contadino. Su, su, abbiamo fatto tardi.... Arri! Jiii

364 all' uscita

La Contadina. Di' appresso a me una preghiera per i poveri morti.

H contadino caccia l'asino col bastone raccattato da terra. Riprendono il cammino. -L'ap- parenza della Donna uccisa si leva in piedi dal sedile, squassa il capo scarmigliato, alza le braccia disperatamente e fugge come una pazza. L'ap- parenza del Filosofo resta al- ta, dritta nell'ombra, aderente tutta al tronco del vecchio aL bero.

Il Filosofo. Ho paura ch'io solo resterò sempre qua, seguitando a ragionare.

INDICE.

Neil' albergo è morto un tale .... Pag. 1

Romolo 17

La mano del malato povero 33 -*"

La Signora Frola e il Signor Ponza, suo ge- nero 51

La camera in attesa 69

Mentre il cuore soffriva 91

Un ritratto Ili

La rosa 129

Candelora 171

Servitù . . 189

Da 207

Ho tante cose da dirvi 223-*^-'^

Piuma 24'>

La realtà de! sop^i-o 261

Zuccarello. distinto melodista 281 '^

Il Signore della nave 303

La carriola 321

Airuseita (mistero profauo) 339 -

PQ Pirandello, Luigi

4B35 E domani, lunedi

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