éEì^ GIORNALE ARCADICO DI SCIENZE, LETTERE ED ARTI VOL. CXVII. OTTOBRE, NOVEIUBRE E DICEMBRE 1848 ROMA TIPOGRAFIA DELLE BELLE ARTI 1848 cAr nri'nJfiìo ù' (zrene i-n /P7ai '"r ^o. ) m mmmmmnmmmmmmMf^mdmm \ ;VJ € 1 ^ li ^ li Osservazioni idraulieo-nautiche sui porti'' neroniano ed innocenziano in Anzio. Di Alessandro Ciakli^ officiale di marina. AVVERTSMENTO JF^ii in dal marzo passato questo scritto era pressoché itti suo termine, quando fui dal governo incaricato del nomando del piroscafo la citta' di roma., onde far parte del nostro corpo di operazione nel veneto., e po- scia della squadra italiana neW Adriatico. Quindi., io credo., che ciò sia per valermi di ra- gionevole scusa presso il pubblico per aver io sì lun- gamente indugiato a rispondere allo scritto del signor Giuseppe Soffredini sul porto neroniano , il quale ri- guardando un oggetto di pubblica utilità., ed essendo tale a prima vista da condurre ad inganno i meno avveduti., esigeva certamente una pronta replica: e la esigeva da me segnatamente., i cui contrari principi ^ già noti., egli aveva preso ad oppugnare. Roma 16 novembre 1848. ■\ .\\)j»l'J 0*tÌ) \^uanto maggiori e più ripetuti sforzi si fanno per sostenere una cattiva tesi, tanto più gravi e nume- rose prove si accumulano a confermazione del tri- tissimo detto: Causa patrocinio non bona peior erit. Così è accaduto al porto neroniano. Un dopo l'altro son sorti a difenderlo il slg. avv. Sarzana , il si- gnor marchese Lodovico Potenziani , l'architetto si - gnor Carlo Fontani, ed altro effetto non hanno ot- tenuto, se non d'eccitare i conoscitori di quel porto ad atterrare il prestigio in suo favore suscitato da frasi pompose, e a disingannare il pubblico per mez- zo di argomenti sì concludenti e palpabili, che fino ad ora erano rimasti senza replica. Prende adesso il campo il sig. Giuseppe SofFredini e, dissimulando so- vente le più chiare dimostrazioni già dedotte contro il neroniano, produce come assiomi incontrastabili le contrarie asserzioni a provare, che chiunque abbia fior di senno debba in quell'opera riconoscere il mi- racolo della natura e dell'arte^ e dar molta lode all' ignoto architetto che innalzò la sua mente al sublime concepimento (1). Ma sventuratamente la troppo scia- gurata natura del soggetto menomamente non pre- standosi al buon volere del patrocinatore, ne accade, (1) Soffredini, Della eccellenza, utilità, e necessità del porlo ne- rnniano in Anzio. Roma tip. Jella società editrice romana 1847, p. 3 e 27. li S" £• 1 E' N' Z E che esso, spinto dalla forza delle cose, ora ammet- tendo tal fatto, ora negando tal altro, mentre pro- ponesi di lodare l' antico porto anziate , non fa che accumular contro esso le più valide prove. E cosi col suo scritto non solo provoca altri a sorgere con- tro il neroniano per porre in chiaro la verità , ma egli medesimo dà di mano a distruggere il suo edificio. Che sia così, si scorgerà facilmente nel seguito dì questo scritto, in cui mi varrò spesso degli argo- menti del sig. SofFredini e delle asserzioni e confes- sioni sue per dimostrare, che il neroniano è per na- tura sua un pessimo porto e non riducibile ad utilità con quahmque sforzo. E poiché in ciò fare sarò obblu gato ad istituire delle frequenti comparazioni fra que- sto porto e l'innocenziano, ne seguirà spontanea 1» superiorità di quest' ultimo. Dalla quale siccome sarà forza concluderne la necessità di prenderne tutta la cura, così tratterò un tale interessantissimo punto al- quanto diffussamente. A svolgere la prima parte proverà esser pes- simo di sua natura il neroniano, 1. pel banco di are- na che tende a sbarrarlo; 2. perchè, supposto quel banco rimosso, il bacino non ostante dovrà essere ne- cessariamente conquistato dalle arene; 3. perchè, tolti di mezzo per ipotesi questi due inconvenienti, rimane l'adiacente capo, la cui azione lo rende inabbordabile in tempi cattivi; 4.. finalmente perchè, supponendo svanito questo ostacolo ancora, la costituzione della bocca del porto si oppone all'approdo, allora appunto quando il bisogno più imperiosamente lo esige. Porti Neroniano e InnocenZiano 7 L'esistenza di un banco subacqueo di arena che partendo da Nettuno si prolunga fino ad Anzio e tende ad investire il porto neroniano, è un fatto sì innegabile e di tanto peso, che ha grandemente af^ faticato il Sofifredini per divertirne l'attenzione dell' osservatore, e gli ha fatto impiegare parecchie pagine a fine di persuadergli, che esso sparirà quando il porto innocenziano sia saltato in aria-, perchè tolta la causa debbono cessare gli effetti : ed egli ha per eerto, che allo innocenziano lo si debba ogni danno^ ed ogni congerie di arene nel neroniano^ e che libero questo da tanto gravame si burlerà delle correnti e delle arene (1). Ed appoggia questa sua credenza al sentimento del Marechal, il quale quarantotto anni dopo la costruzione del porto innocenziano, ossia nel 1748, ad esso attribuiva la causa dell'inconveniente» scrivendo: d'onde é nato quel banco^ il quale non esi- steva cinquanf anni sono (2) F Io per altro dimanderei al Marechal, d'onde ha tratto questa notizia. Non dalla propria esperieozaf perchè forse neppure era nato all'epoca della costruF zione dell'innocenziano per poter di fatto proprio at- testare la non esistenza in allora di quel baocov Non (1) Soffredini, Opera citata pag. 28, 43. La configurazione cfel banco e la sua tendenza che notasi nella qui unita piaata (lettera A) sono copiate dalla pianta inserita nelPopera Rasi, caldo protettore della riedificazione del neroniano, e che il si^. Sotìredini cfaiama di- ligente e zelantissimo. ( Vedi documenti in sommario al Discorso istorico sul porto e territorio di Anzio. Pesaro 1«32 pag. 202), (2) Soffred. pag. 28. 8 Scienze dalle piante di quel tempo, perchè l'unica che si ha manca di scandagli, dai quali giudicar della cosa. D'onde dunque ? Ogni asserzione gratuita può gra- — ^ — tuitamente negarsi, e molto più poi se vi siano ra- gioni persuadenti il contrario. Egli è certo, che dai tempi di Nerone in qua il mare si sia ritirato da quella spiaggia oltre cinque cento metri, e che dove era acqua oggi sian case; ed è certo pure, che grandi banchi di arena non si formano in pochi anni. E adunque più ragionevole il credere, che il ritiramen- to delle acque abbia fatto avvertire un banco esi- stente sì, ma inavvertito pel passato, di quello che crederlo creato e reso di notabile estensione nel lasso di quarantotto anni. È anche certo che quel banco, incominciando da Nettuno, si estende da levante a libeccio lungo la spiaggia fino a circondare il ne- roniano. Ora ognun vede non potere il molo dell' innocenziano esercitare la sua influenza fino a Net- tuno : dunque non è consentaneo alla ragione l' at- tribuire aU'innocenziano la formazione di quel ban- co. Inoltre , se si pongano gli occhi sulla carta e si esamini la configurazione del banco , si scorgei'à che esso tende del continuo ed allargarsi da levante a ponente, e che l' azione del molo innocenziano , opponendo a questa tendenza un ostacolo per mezzo deirinfrangimento e giuoco delle acque, l'obbliga a restringersi e prendere la direzione verso libeccio, lasciando spazio libero intorno allo stesso molo, ed intorno all'attiguo porto neroniano; azione che vien sempre favorita dallo spurgo che praticasi nello Porti Innocenziano e Néroni ano 9 stesser porto innocenziano. Se dunque l'innocenzìano, sia per la sua stessa esistenza, sia per lo spurgo, op- pone realmente un ostacolo all'ampliarsi di questo banco, come mai potrà accertarsi che esso ne sia stato il produttore? E da rigettarsi quindi l'opinione del Marechal non solo perchè gratuita , ma anche perchè contraria a quanto dettano la ragione ed i fatti: e con essa è da rigettarsi ugualmente il con- sentaneo sentimento del SofFredini. Che se poi è vero^ come può vedersi a colpo d'occhio verissimo nella pianta, che l'azione del molo innocenziano, lungi dal favorire Tampliazione del banco, lo raffrena anzi e con- tiene dentro i più stretti limiti, ne seguirà che, distrutto quello, sarà levata di mezzo la forza coercitiva; e siccome tolta la causa debbono cessare gli effetti^ il banco si estenderà a suo piacere verso ponente, e non solo sbarrerà la bocca del neroniano, ma, non incontrando più ostacolo e mancando ogni spurgo nell'innocenziano, andrà ad unirsi al lido, e formerà con esso una solida spiaggia. Ad onta però della ragione e dei fatti voglio^ convenire col SofFredini, e pensare con lui, che all' innocenziano abbia ad ascriversi la formazione di questo banco; che esso perciò debba farsi saltar in aria; e che, quando sarà dislrutto, il banco di per se stesso andrà poco a poco a decrescere e svanire. Ma tolto il banco rimarran sempre la spiaggia, le colline, i promontorii, il mare, insomma luttociò che costituisce la costa ed il paraggio del capo d'Anzio ; ed io sostengo che, rimanendo la spiaggia come è, sarà inevitabile l'interriraento del neroniano. 10 Scienze Che quel porto fosse ricolino per metà incircaV e per l'altra metà co7i poco fondo\, prima ancora che' si costruisse l'innocenziano, ce ne fanno indubitata fe- de la pianta e la descrizione levata e presentata dall' architetto Carlo Fontana nelVanno 1698 al papa In- nocenzo XII (1) ? e più chiaramente ancora alcune parole della memoria che accompaginava il docu- mento. Dichiarando in essa il Fontana , che aveva inteso limitarsi al progetto di un piccolo porto da costruirsi fra le rovine dell'antico, ed aveva perciò insinuato di votarne parte ; quere lavasi che i suoi oppositori facessero falsamente supporre al papa, che egli lo voleva impegnare a votare tutta quella im- mensità di tutto il porto antico. Dalla difesa pertanto del Fontana, non meno che dalla falsità spacciata dai suoi oppositori , ugualmente rilevasi che gran- parte dell'antico porto era atterrato e ripieno prima che si pensasse a costruire l'innocenziano. E se al- lora non era tutto interrito, e non lo è ancora, ciò si deve ai diroccamenti che si osservano nei moli del neroniano, ed in seguito anche all' azione dell' inoocenziano. Per dimostrarlo mi servirò degli argomenti del sig. SofFredini. Egli ammette l'esistenza del moto lit* Corale da scirocco a maestro che quasi corre la co- sta (2) colle aberrazioni proprie della configurazione (1) Rasi, Documenti in sommario al discorso istorico sul porto e territorio di Anzio. Pesaro 1833 pag. 31 e seg. (2) SoUreci:. p. 32. Porti Neroniano e Innogpnziano 11 dfel lido; ammette pure in quel moto la forza di me- nar seco le sabbie (1), ed aggiunge che questa cor- rentia riceve ancora quelle molle strappate yer i flutti dal lido in fra Astura e Nettuno: per la qual cosa carica di sabbioni e secondata dal suo corso, e dirò ancora accelerata da quello delle onde , insieme a queste progredisce e si scarica nel porto (2). Egli è ben vero che il sig. SofFredini adduce tuttociò a ca- rico del solo innocenziano, in cui ammette una stra- bocchevole concorrenza delle arene che l'opprimono (3j: mentre, secondo lui, il neroniano si burla delle cor- renti e delle arene (4). Ma di grazia, per qual legge fisica il porto neroniano avrà questo privilegio ? Non sono forse i due porti innestati l'uno sull'altro? Non han forse ambedue a levante la bocca ? Non è forse il neroniano come l'innocenziano dal lato di levante circondato da sabbie e terre solubili , cosicché ìion presenta una località opportuna per un porto (5)? Se è vero adunque che l'innocenziano riceva tanta co- pia di arene trasportale dalla ordinaria corrente e dalle onde, le quali lungo quel tratto del sinistro- molo neroniano, che ne fa parte, prendono corso con molta forza da tramontana a mezzo giorno (0) , è cosa chiara che tolto di mezzo il molo dell'innocen- ziano, che interrompe a quelle arene il corso , esse continuando ad appoggiare da tramontana a mezza (1) Soffredini pag. 18. — (2) Ivi, pag. 24 e 23. (3) Ivi, pag. 12 9. — (4) Ivi, pag. 28. (3) Ivi, pag. 10 -- (6) hi, pag. 23. 12 Scienza (fiorilo sui molo del neroniano , aneleranno neòeà- sariamente a riempirlo. Basta per persuadersene get- tar soltanto uno sguardo sulle due piante unite (1). Non sembra peraltro convenirne il sig. Sof- fredini. Egli stabilisce, che la corrente rada il sini- stro molo neroniano fino alla sua massima conves- sità sporgente un cento metri dalla linea della bocca; ma da quel punto poi vuole, che la corrente alloìi- tanandosene prosegua per oltre due cento metri il suo andare verso ponente facilitato vieppiù dalla di- sposizione del molo destro (2), affinchè così la bocca del porto resti sempre salva. Il desiderio è buono; ma è difficile il credere sì intelligente la correntìa da seguirlo per rispettare la stolta costruzione del ne- roniano. E che questa difficoltà di credere non sia mal appoggiata, lo dimostra lo stesso sig^ SofFredini scrivendo : Non vi ha dubbio che la correntia in que-- sti lidi tenda da levante a ponente^ ma il suo giro è circolare a seconda delle rive (3): vale a dire, a se- conda dell' appoggio che trovano per via , essenda legge universale delle acque correnti il radere l'ap- poggio che incontrano. Se dunque in Anzio la cor- fi) La pianta lettera B è copiata da quella cleiringegner Lirfot- te, l'unica che sia accompagnata da una artistica descrizione' sul lem-- pò e i modi che l'autore ha impiegato per rilevarla^ e che non la- scia nulla a desiderar!'. La cita ancora il sig. Soffredini per consul- tarsi. (Liuotte, Sul porto d^Anzio antico e moderno innocenziano ec- Estratto dal giornale arcadico. Roma 1824). (2) Soffred. pag. 36. (3) Ivi, pag. 1.7. Porti Innocenziano e Neroniano 13 rentìa , poiché avrà lambito il sinistro molo nero»- niano fino alla sua massima convessità, dovrà allon? tanarsi dal suo appoggio per salvarne la bocca, con- verrà che essa formi un'eccezione del tutto singolare in idraulica. Che per altro non sia disposta a que- sto prodigio, lo prova il fatto: poiché se, tolto di mez- zo il molo innocenziano, la sola sporgente convessità del sinistro neroniano su cui quello é innestato, ba' stasse a deviare la correntìa , molto più dovrebbe produrre questo effetto il molo innocenziano che s'inoltra in mare ben al di là della convessità del neroniano. Ma invece la correntìa, lungi dall'essere respinta dal molo, vi si appoggia attorno, e dopo averlo lambito continua a radere il neroniano; dun- que essa per ragione più forte dovrà lambire tutta l'estensione del molo neroniano, quando l' innocen- ziano sia saltato in aria, e con essa dovranno cor- rere la medesima strada le convogliate arene . E per- ciò quando il sig. SofFredini, dissimulati affatto i va- lidi argomenti dedotti dal eh. avv. Blasi (1), si fa a dimandare, come intenda che possa il neroniano col- marsi, 0 per V esposizione della sua bocca rettamente a levante^ ovvero per il giro radente della correntìa lungo il sinistro molo (2), ognuno che abbia presen- (1) Della strada ferrata Pia-cassia da città della Pieve a Ci- vitavecchia, e del restauro del porto neroniano in Anzio. Roma 1846, tipografia Contedini. Lavoro molto utile a consultarsi da chi si oc- cupi della questione anziate sotto l'aspetto economico non meno che ^tistico. (2) Soffred. pag. 30. 14 SciEISZE ti queste osservazioni facilmente risponderà per fima e Valtra cagioìie comulativamente. Ma vi è anche di peggio, mentre la stessa co» struzione del porto deve efficacemente cooperare al suo sollecito interrimento. Siccome era d'uopo proteg-' gere la bocca dai venti infesti ., così il neroniano architetto protrasse in modo la estremità del destro molo (1), il quale forma la bocca, che esso si avau' za a levante circa trenta metri più dell'altro. Quindi quella corrente carica di sabbioni (2), che vien radendo il molo sinistro, mentre per una parte trova aperta la bocca del porto per potervisi introdurre, incontra per l'altra una opposizione che, arrestandola, l'obbliga a farlo, E come è naturale a comprendersi^ la istantanea ed eccessiva perdita del moto la rende meno atta a sostenere il peso dei mb-' bioni^ di cui è aggravata: ed in relazione alla gradata diminuzione di quello , cadono questi nel fondo (3) ; e così si rende inevitabile l' interrimento del porto. Ecco dunque colle ragioni del sig. SofFredini pro-^ vato, che il porto neroniano deve essere assalito e conquistato dalle arene come Vinnocenziano^ e che per- ciò non è niente loeno di quello difeUoso sotto que- sto rapporto, Anzi che lo sia molto di più è facile il vederlo, se si consideri l' ampiezza delle bocche dell' uno e dell'altro. Parrebbe a primo aspetto che l'innocen- ziano, per aver la bocca tanto più ampia e capace (1) Soffred. pay. 36. — (2) Ivi, pag. 24. - (3) Ivi, p. 24 e 25. Porti Neroniano e Innocenzuno 15f perciò di ammettere assai maggior quantità di arene, dovesse essere a peggior condizione; ma questo \ì' zio riceve abbondante compenso dal moto, che per l'ampiezza della bocca e la giacitura de'raoli, la corr rente è obbligata a prendere da levante a ponente, da tramontana a mezzogiorno e da ponente a le^ vante: di modo che^ se un battelletto ormeggiato nel porto, rotti i ritegni^ resti in balìa delle onde , lo si vede trasportato allo esterno (1). Ciò che in forza delle correnti avviene al battelletto , deve necessa-^ riamente avvenire ad una gì an parte delle arene , che convogliate dalle onde radenti il lido, o traspor- tate dai venti infesti s'introducono nel porto: d'onde ne siegue che l'innocenziano nel suo stesso male tro- va l'opportuno rimedio. Non così per altro può av- venire del neroniano. Oltre V ordinario corso della corrente, di cui abbiamo parlato , il levante più a ragione per il suo rombo^ ed in parte lo sirocco, ver- rebbero a spingere alla bocca la corrente^ la quale carica di sabbioni (2), e stagnante per l'improvviso ostacolo del destro molo, da cui ne resta interrotto il corso, deve necessariamente dentro il porto de- porre il suo sedimento di arene (3). D'altronde poi la ristrettezza della bocca e la. forma del bacino non permettendo quella contro-corrente, che esiste nel- V innocenziano, ne dovrà seguire che tutta l'arena immessavi dalle onde vi sarà perfettan^ente conser- vata senza uscirne un granello. Gli argomenti dun-r (1) Soffred., p. 23 e 24. — (2) Ivi p. 24 e 30. —(3) Ivi, p. 31. ^6 Scienze que dal sig. SofFredini, prodotti a carico del porto innocenziano, non fanno che mostrare ad evidenza quanto peggiore sia a questo riguardo la condizio^ ne del porto neroniano. Egli peraltro, credendo appoggiarsi al fatto, di» manda : E nel lasso di un secolo e mezzo di abbaU' dono non solo^ ma di guerra, per qual privilegio non sì è colmato interamente il neroniano, come il porto antonino di Terracina^ ed il Claudio di Ostia (1)? E siccome il Blasi gli aveva detto a lettere di cupola, che ciò unicamente dovevasi alle aperture o brecce., come il SofFredini le chiama, verificatesi nei moli di quel porto, le quali danno libero esito alle correnti ed alle onde, soggiunge: Ma a simile disgrazia non soggiacquero i moli dei due porti ohe più non esistono (2) ? Sia pure che soggiacessero a simile disgrazia i moli di quei due porti ; ma essi ebbero ben più possenti cause d'interrimento che non il ne-^ roniano. L'uno fu assalito dalle melme dello scolo delle paludi pontine, che notabilmente estesero le adiacenti spiagge; inondarono l'altro siffattamente le torbe del Tevere, che per tre miglia dentro terra lasciarono di già il porto e la città. Mi si diano si- mili cause straordinarie che influiscano sul porto neroniano, mi si faccia vedere che esso non ne re- sti totalmente interrito, ed allora crederò che la comparazione non sia ridicola, e meriti risposta. -iiUi Volendo però il sig. SofFredini l' insussistenza i;^ H) 5offred., pag. 31. ^ (2) Ì\l Porti Neroniano e Innocenziano 17 tletla parità, si getta al disperato partito di occultar ciò che si vede cogli occhi, vale a dire la profon- dità delle accennate aperture. Esaminiamo però^ egli scrive, se la conservazione dei fondi di tanta entità nel neroniano possa per buona ragione ascriversi a quanto si [suppone. Sia pur caduta nella maggiore estensione la parte superiore del molo che sporge fuor di acqua: ma la inferiore esiste tuttora., e la si scor- ge sotto il velo del mare., e nella state., durando le calme , su molti tratti si scende dai battelli , e si percorrono a piedi asciutti. Non credo che ad alcuno possa venire in mente la stramba idea che la correntìa vada quasi a nuoto sulle onde (i). Condono volentieri un errore d'idrodinamica a persona estranea a questi studi, mentre è non stram- ba idea, ma verità fisica, che le correnti più possenti si verifichino sulla superfìcie dell'acqua: e mi piace intendere il suo discorso piuttosto del moto dei sab- bioni, la cui massa più grande si conserva sotto il pelo d' acqua. Ma non posso ugualmente passargli che nei moli del neroniano non esistano vera- mente delle aperture larghe e profonde , tanto più che egli stesso ora ce le dà come sbocco d'onde fu- renti , ora ascrive loro maggior profondità di due metri., ed ora le riconosce come atte a condur fuori le arene. (2). Non parlerò dell'esperienza che io stes- so ho del luogo \ ma certamente il sig. ingegnere Linotte, il quale più di ogni altro studiò il porto (1) Soffred. pag. 31. — (2) Ivi, pag. 33 e 113. G.A.T.CXVI. 2 f8 Scienze Deroniano, e che, oltre le soventi visite fattevi, vi di- morò tre noesi cputinui nella stagione estiva per pro- fittare 4elle giornate di calnia, e vi prese trenta se- ;zÌoni; questo ingegnere, io dico, osserva, che le on-r fle ribelle tempeste trapassano la linea del molo destro con sojYìma facilità al di sopra dell$ rovine subacquee', giacché in acque tranquille vi si seandagliam rag- guagliatamente tre metri circa di acqna (1). Fra quelite brecce che, esclusa la bocca del porto, co- ^titiiiscono i sette ottavi dei moli , ve ne son due, £| confessione dello stesso Soffredim, che presentano in.Qltp fondo (3): e dal Linotte apprendiamo, che una di esse, larga nientemeno di metri 126, ha una profondità di metri 3,05, e l'altra larga metri 115 è profonda metri 3,38; fondo presso a poco eguale in tutta l'estensione del molo rovinato (3). In queste notizie deve il sig. Soifredini trovare soddisfacente risposta al suo quesito : Per qual privilegio non si è colmato intieramente il neroniano (4) ? Il privilegio è nelle brecce, ove trovandosi una profondità di oltre tre metri, resta libero il passaggio alle arene pel giuoco 4elle onde e delle correnti. Si chiudt^no esse, ed il porto si colmerà; della qual verità ci attesta il Sof- redini essersene già avuto un saggio , allorché se ne vollero chiudere alcune nel molo sinistro. Cosa accadde in allora ? egli dice Di mano in mano (1) Linotte, Sul porto d'Ansio antico e moderno. Estratto dal giornale arcadico. Roma 1824, pag. 15 e 24. (2) Soffred. pag. 31. (3) Linotte pag: 18, 27. — (4) Soffred. pag. 31. Porti Neroniano e Innocenziano 19 alzandosi le arene^ cominciarono a cadere verso le brecce^ ove non erano più dal mare moleslate ( per- chè le aperture eraa chiuse ) ed alla fin fine emer- sero, e presentarono un passeggio di piacere allo ester- no dello innocenziano (1), ed attorno all'attiguo tratto del molo neroniano, ove le brecce vennero chiuse. Si consideri bene questo fatto, e se ne inferirà, 1. la prodigiosa quantità di arene convogliate in quei luoghi dalle onde ; poiché quantunque i moli siano circondati di scogliere , e sia dottrina generalmente ricevuta, che ove sieno fondi sassosi non hanno se- dimento le arene (2); ciò non ostante, un tale osta- colo non fu valevole ad impedirne l'accumulamento. 2.Se ne dedurrà, senza poterne dubitare, la trista sorte che dovrebbe aspettarsi il porto neroniano; poiché se al di fuori del molo innocenziano, il quale é inve- stito dalle sconvolte onde di traversìa, le arene non poterono da quella furia venir dissipate, ma anzi ad onta di essa emersero e presentarono un passeggio; co- sa dovrà opinarsi del sinistro molo neroniano, il quale trovasi per intiero a ridosso di quelle onde ? Adun- que si faccia la prova di chiudere, non una parte sol- tanto, ma tutte quelle brecce: anzi non pur si chiu- dano a fior d'acqua, ma si ricostruiscano i moli; s* impedisca per tal modo l'attuale giuoco delle acque; si tolga di mezzo col molo innocenziano la sua scogliera , ove per la natura del fondo le acque formano sempre vortici, controcorrenti e risacca; si (1) Soflred. pag. 33. — (2) Ivi, pag. 8. 20 Scienze lasci che la correntìa carica di sabbioni pacificamente rada il sinistro neroniano , e dallo sporgimento del destro arrestata vi entri a depositare la gran massa di arene che convoglia: e si venga poi a sostenere, che il neroniano nqn si colmerà : Credat iudaeus Apella: non ego. Sarebbe un vero perder tempo il trattenersi più lungamente sulla stravaganza di questa idea. Ma la condizione del porto neroniano è sì disperata , che come ho concesso già a favore del sig. SofFredini lo sparire del banco di arena tendente a sbarrarlo, così ora posso anche concedergli la non esistenza delle arene che costituiscono il littorale di Anzio, e che vanno ad interrirlo. Ma che perciò? se l'antico porto ha nell'attigua collina un altro invincibile ostacola che lo rende impraticabile, allora appunto quando il suo benefìcio sarebbe più necessario? Difatto la coljina, che costituisce il capo d'Anr zio, si erge sopra una giogaia di duri scogli che sotto acqua difendono quella punta (1). Dai pratici del pa- raggio si è conosciuto, che un tal fortiere si avanzai in mare sino alla distanza di circa un miglio: ed in questo duro scasso,, che s'inoltra subacqueo^ urtando le onde spaventosi rimbalzano i flutti, e quel moto^ quel corso concepiscono che relativo alla positura della roccia imprime loro la repulsione (2). ,,,..«< A questo grave inconveniente ( come notano w i pratici del luogo ) vi si aggiunge l'altro, che le (1) Soffred. pag. 8. — (2; Ivi, pag. 22. JPoRTi Neroniano e Innocenziano 21 » dette onde così sconvolte, proseguendo il loro viag- » gio verso il lido^ sono nuovamente frante, spartite, )' e riversate dalla risacca prodotta dalle onde ànte- » cedenti, le quali avendo urtato il capo che sporge >» in fuori e nei ruderi del porto neroniano, tornano » indietro ». É (qui entra il sig. SofFredini in aiuto al documento) e vigoria tanto maggiore acquistano, quanto più con la veemente percussione contro la roc- cia stessa^ da cui è grandemente angustiato, f austro nella retta azione sua perde di forza^ e ne comunica al vento ripercosso; imperocché ad accelerare la pro- gressione dei flutti^ nel senso impresso loro dalla repul- sione, concorre là simile direzione dello stesso vento che reagendo gVincalza (1). <( Che sia dosi (continua » il documento ) ce lo prova il vedere òhe a levan- » te ed a ponente il detto capo , ove il mare può » correre, cioè ove le spiagge sono sottili, la citata ). risacca non ha luogo: quindi il ripetuto sconvol- )' gimento è molto minore. n Di fatti tutte quelle paranze da pesca, o al- » tr^i bastimenti che vogliono rifugiarsi nel porto in- » nocenziano, debbono allargarsi più che possono da »> quello neroniano, onde non trovarsi fra quegli » dannosissimi urti di mare. » Da questi fatti principali, e da altri secon- » dari che pure esistono, fra i quali una sensibile » corrente , risulta che quante volte si ricostruisca »^ il porto neroniano, i bastimenti di qualunque por- ti) SofTred. pag. 22. 22 Scienze » tata preferiranno sempre nei tempi dì mare agi- » , tato di stare alla vela, o cercare altrove un rico- M vero, piuttostochè tra i frangenti di un mare estre- » mamente sconvolto venire a cercare il porto ne- » roniano. Essi preferirebbero sempre il porto inno- V cenziano^ se fosse profondo » (1). Questa sentenza, questa grave ragione (2) pro- dotta da quanti praticano il paraggio del capo d'An- zio, o che dimorano in quel porto, viene legaliz- zata da sessanta due firme fra pescatori, padroni di legni raefcantili e capitani di bastimenti. Ma che prò ? Una tale testimonianza viene ritenuta dal sig. I^offredini per sospetta, e perciò di poco valore, non già perchè egli sia in g^rado di pubblicarne un'altra garantita da un numero maggiore di firme , o da persone più idonee di quelle: ma perchè, a suo di- re, formasi di quanti sono di Civitavecchia o doìni- ciliati (3), i quali interessati suppongonsi alla non esistenza del neroniano per favoreggiare Civitavec- chia (4). Il sig. Soffredini però dovrebbe conoscere (1) Sì ved» il documento in (ine di questo scritto. (2) Soffred. pag. 89. (3) Iv-, pag. S9. (4) Mostra con ci(i il sig. Soffredini di non conoscere i marini,- e riftdole in questi uomini cosmopoliti , in questi abitanti delle acque insita dai bisogni delF arte. Come l'incostanza del mare e le spesse fortune fan loro troppo sovente sentire l'incomodo della lon- tananza de'porti, così ad ogni passo, se possibil fosse, ne desidere- rebbero uno, facile all'ingresso, comodo alla stazione; ciò che tanto più deve dirsi di coloro, che con piccioli legni esercitano il com- ncrciOi quali appunto nel caso sarebbero i deponenti. Ora se il ne- Porti Neroniano e Innocenziano 23 quanto me , che anche i testimoni d' altronde ina- biH si ricevono, se il caso si dia, in cUi lai terità per altro mezzo non possa conoscersi, che per la loro te- stimonianza. Ora è certo che Al porto d'Anzio noti approdano sicuramente navi inglesi o anaericatìe, hid le bandiere soltanto di coloro che hanno deposto". Ne segue dunque che per valida deve aversi la loro testimonianza, poiché per essa soltanto , e non pet altra via, può venirsi ini chiaro delle diffiéoltà òhe in pratica incontransi in quel pafaggio. Ma vi è di più: tra quelle fìrttie non solo civitavecchiesi s'incon- trano, ma benanche napoletani o toscalìi, ì quafr , roniand potesse realmente divenire un btion porio' , è preferibile all' innocenziano, l'indole e i bisogni della sicurezza propria e del commercio sospingerebliero i marini, siano ptìr essi civitavecchiesi o d'altro luogo, a reclamarne la restaurazione. Ma perchè essr veg- gono chiaramente, che quand'anche il neroniano fosse restaurato , non potrebbe essere di alcun uso nei maggiori bisogni, perciò ri- Volgono le mire all'iiinocenziano: a quell'unico portò cioè, il qua- le è realmente praticabile, ed il quale espurgato uria voUaf é man- tenuto può loro procacciare salvezza e sicurtà. Laonde peifsUast' , come sono i civitavecchiesi, della completa inutilità del porto nero- niaiìo restaurato, e non potendone perciò temere concorrenza ve- runa contro il commercio del proprio porlo, nuH'altro possono ve- dere in questa restaurazione, se non l'idea di un gran lucr* d* éótì-^ seguirsi per l'immenso trasporto dei materiali, e per 1' impiego di un gran numero di uomini di mare necessari alla riedificazione e conservazione di questa gran mole. Le quali viste, sé in essi fos- se malinteso studio di municipalità, dovrebbero anzi condurli ad unire le loro voci agli anziati per la riediticazione del neroniano. Eppure portati sono dall'amore del vero, danno bando ad ogni bassa idea di sordido interesse, per promuovere quell'opera che sola può realmente arrecare vero vantaggio al commercio e ai naviganti ! 24 Scienze come appartenenti ad altri stati italiani, non possona avere predilezione alcuna particolare per Civitavec- chia piuttosto che per Anzio, Dunque, se anche non volesse ritenersi per piena ed ineecezionabile prova la testimonianza dei civitavecchiesiy essa va a dive- nire completissima e maggiore di ogni eccezione per r uniforme testimonianza dei non statisti. Sia ciò detto per togliere il sale a quel ridicolo che il Sof- fredini ha voluto spargere su questo documento. Che del resto pel mio assunto non ho bisogno di altre prove, che di quella spaventosa descrizione del capo anziate e dei suoi flutti fattaci da lui medesimo, e da me colle sue parole riportata. Paragon i il lettore ciò che ne dice il citato documento colla pittura fattane dal Soffredini autore certamente non sospet- to (1), e giudichi chi dei due ne faccia concepire peggiore idea. Dovrà dunque ritenersi per dimostra- to, che prescindendo da ogni altro ostacolo, il porto neroniano fondato in parte sui massi di pietra (*2) , che costituiscono il prolungamento del prossimo ca- po, sarebbe a cagione di quella giogaia e di quel fondale inservibile nei casi di maggior bisogno; per- chè allora appunto i flutti, dall'impeto dei venti con ■veemenza sospinti contro la roccia, spaventosi rimbal- zano^ e formano a notabile distanza dal porto la più pericolosa procella. Prima però di lasciare quest'ostacolo è bene os- servare di passaggio 1' ingegnoso pensamento del (1) Soffred., pag. 8. — (2) Ivi, pag. 60. Porti Neroniano e Ìi^nocenzàno 25 àig'. SofFredini d'immaginare una contraddizione fra quanto si è detto di questa roccia, e l'esistenza delle arene, delle quali si è sopra parlato. Egli, scrive: Ma la esistenza di ima roccia subacquea in protrazione del capo amiate V ammettemmo ancor noi^ e fu tra le molte una delle ragioni per provare^ essere una falsità l'asserta costituzione arenosa del sito. Potrebbe star bene se tosto non si soggiungesse : Quella roccia però non pregredisce dal capo verso le- vante . . . sì bene volge nella maggior sua estensio- ne con direzione a ponente circa una quarta a li- beccio (1). Or noi, trattando delle arene, parlavamo della spiaggia di levante, ed il sig^ SofFredini con- veniva, che la corrente e le onde venivano di là rà- riche di sabbioni^ ricevendo ancora quelle molte strap^ paté dal lido infra Astura e Nettuno (2): e vi veni- vano sì cariche, che in poco tempo le arene costi- tuirono un passeggio nella scogliera dell' innocen- ziano e nell'attigua parte del molo sinistro neronia- no. Che dedurremo adunque da ciò ? Chi abbia fior di senno dovrà convenire^ che appunto per queste contraddizioni vieppiù chiare rifulgono le verità che (1) Soffred. pag. 60. Noi certamente non possiamo convenire nÈ in questa sola direzione che lo scrittore assegna alla platea suba- cquea, né nella conseguenza che ne vorrebbe trarre rapporto all'im- possibilità del riempirsi; poiché abbiamo veduto, che intorno ai moK innocenziano e neroniano, ove erano scogli, ciò non ostante formossi delle arene un passeggio quando furono chiuse le brecce. Nel pro- posito però, in cui ci troviamo, adoperiamo la sUa asserzione per mostrare esser lui in contraddizione, non noi. (2) Soffred., pag. 24. 26 Scienze sponemmo sulla stoltissima costruzione del neronia- no . . . Mi duole però di avvertire^ che il mettere in campo e secondare certe idee strambe^ e lo invilup- parsi nelle contraddizioni^ dimostra, che più del bene pìiJbbUco, altro interesse o certo impegno di parte spro- ni talora ad eccedere i confini dalla ragione stabiliti, « Quos ultra citraque nescit (io leggerei nequit) con- sistere reetum » (1). Passiamo innanzi e fingiamo non vero, che la finora descritta disposizione di fondale sia causa, che nelle mareggiate, quantunque non fortissime, le on- de s'innalzino instantaneamente e ricadano fràngen- dosi in guisa da obbligare i bastimenti di qualun- que portata ad allontanarsi dal porto neroniano. Mi sembra non essere poco liberale col sig. Soffredtni, mentre ad uno ad uno suppongo talli di mezzo que- gli ostacoli, che niuna forza umana potrà mai supe- rare, e pei quali ognuno altamente condanna la ri- costruzione del neroniano. Eppure un altro ancora se ne affaccia (parlo dei capitali soltanto), il quale, preso da se solo, basta a far credere somma l'igno- ranza, o dabbenaggine, o non buona fede di chi in- sista sulla stolta profusione d'immense spese nella rie- dificazione del neroniano. Esso consiste nella ristret- tezza e giacitura della sua bocca, la quale non per- mette affatto l'entrata nel più urgente bisogno. Il sig. Softredini ci accenna essere mal sicuro Vingresso del porto traiano in Civitavecchia (2), che (1) Soffred. pag. 60 e 62. — (2) Ivi, pag. 68. Porti Neroniano e Innocenziano 27 pure è fornito di due bocche, la minore delle quali è di metri cento. Nel tempo stesso poi, per uno stra- volgimento inconcepibile d'idee, ci vuol far credere, che il neroniano con una sola bocca di soli metri sessanta di larghezza sia di facile accesso in tatti i tempi (1). Dimando io, se a'fanciulli, qui nondiim aere lavantur, potrebbero impunemente contarsi co- tali novelle? Convengo volentieri con lui, che un se- condo ingresso nel neroniano avrebbe esposto il porto alla traversia del libeccio (2). Questo peraltro pro- (1) Soffred. pajj. SI. La larghezza della bocca, secondo il con- sole Rasi, è di piedi inglesi 190, uguale a metri 57 , 76 : secondo gl'ingegneri Linotte e Marechal è di metri 60. ^alunque delle due si voglia per la vera larghezza , al sig. Soffredini non può essere sfuggito il gravissimo difetto di una sì stretta bocca. Riflettendo peraltro, che l'allargarla, almeno a metri 200, avrebbe causata la gra- vissima spesa necessaria a traslocare più in fuori un terzo circa del molo destro, ovvero togliere 140 metri del sinistro, e che dopo ciò la bocca più aperta avrebbe dato piiì facile ingresso alle nocive onde da mezzogiorno a levante, ed alle arene che da questo lato l'assalgono; ha preso il partito di lodare quella attuale, forse nella certezza, non so quanto fondata, che tutti avrebbero rispettato il suo voto. (2) Soffredini pag. Si. Alcuni autori non meno prevenuti del nostro Soffredini, riconoscendo il gravissimo difetto di aver questo porto una sola bocca, ve ne hanno supposta un' altra nella gran breccia che scorgesi presso il capo nel molo destro. Ma siccome questa seconda bocca avrebbe perduto il porto senza un antemu- rale, così, non trovandone verun vestigio al dì fuori de'moli, hanno creduto vedere un riparo nell'interno de'medesimi , nei ruderi che ivi si scorgono. Ma l'esistenza di questo bizzarro postmurale (se mai vi fosse) renderebbe il porto sempre più inservibile : imperocché le onde entrate per la bocca, frante contro il postmurale, e rifrante per la risacca contro le pareti interne de'moli, che costituiscono il 28 Scienze vera bensì maggiormente rinfelicissima giacitura' di questo porto, la cui immensa vastità non ammette un'altra bocca; non proverà però che vi si possa en- trar facilmente in tutti i tempi, o, per servirmi delle sue parole, che da qual direzione scenda^ è dato ad una nave di profitlarne (1). Belidor e tutti gl'idraulici c'insegnano, che l'in- gresso di un porto deve essere disposto in modo, che le navi possano entrarvi ed uscirne agevolmente coi tre quarti dei 32 rombi di vento ; perocché i porti, che non hanno che un vento per l'ingresso ed un altro per l'uscita^ sono soggetti a tre grandi in- convenienti: il primo, che le navi maltrattate dal cat- tivo tempo passeranno spesso all'altezza di quel porto senza poterne profittare; il secondo, che una volta en- tratevi, vi rimarranno prigioni fino a che non soffi il vento atto a farnele uscire; e quindi ne seguirà il terzo inconveniente, che tutti i legni , lungi dal frequentare un tal porto, lo eviteranno per tema di non potervi entrare ed uscire quando loro convenisse, e per conseguenza di essere esposti a perdere, col- le spese del ritardo, il tempo ed il frutto della loro navigazione, per non poter giungere nelle stagioni convenienti alla loro destinazione (2). Or bene, se il lettore si farà ad osservare la pian- ta (Lett. B), facilmente scorgerà, che essendo la bocca porto, renderebbero assolutamente impraticabile la entrata ai legni, e la stallìa de'medesimi lungo i moli, tanto a destra che a sinistra. (1) Soffred. pag. 51. (2) Belidor, Jrchiteclurc hydraulique. Parlie II, liv. IlI,cbap.IV. Porto Innocenziàno e Neroniano 29 Tolta al vento di levante e non piti larga di metri sessanta (1), l'ingresso non sarà praticabile che colla metà di 32 venti, cioè da tramontana a mezzogiorno girando per il levante, sempre però che il vento sia maneggevole ed il mare in bonaccia. Che se il vento è debole ed il mare grosso, il numero dei rombi si diminuisce ancora, e nei casi di maggior bisogno si rende assolutamente impossibile l'approdarvi. Di fatto i venti più cattivi della nostra costa sono da ponente a mezzogiorno girando in fuori : e pro- ducendo questi il più grosso mare, il porto si rende più necessario appunto quando essi imperversano. Ma è precisamente in queste circostanze che non vi si entrerebbe; imperciocché (come sanno bene i marini) con vento forte e mare corrispondente un bastimento è obbligato ad avere le vele coi terzaroli bassi; colla qual velatura non si abbriva, se non si abbiano al- meno dodici quarte di vento nelle vele, ed il mare in poppa 0 quasi in poppa. Or bene, essendo questa una verità nautica incontrastabile , resta dimostrato che in questi casi, che sono i più comuni e più pe- ricolosi, i bastimenti non potranno approfittare del porto neroniano, perchè gli sarebbe impossibile pre- sentarsi alla bocca colla prora diretta a ponente o al più a ponente maestro, e molto meno col mare a traverso. A questa dimostrazione viene in soccorso il sig, Sofiredini, avvertendoci che non sarà mai prudente (1) Si vedano le note alla pag. 27. 30 b e I E N Z E atterrarsi e farsi sotto al promontorio per andare ra- sente il molo e la scogliera^ onde facilitarne l'ingres- so; mentre ognuno sa che per tale maniera mai si entrerebbe in porto, perocché sotto ai capi il mare più o meno respinge (1). Sarà dunque assolutamente ne- cessario l'allargarsi dal capo, e quindi cader sotto- vento ; e cosi si renderà sempre più impraticabile l'approdo coi venti più pericolosi. Tuttociò neir ipotesi che non sussistesse quel fortiere, di cui sopra si è parlato; che se esso tor- ni in campo, resterà sempre più manifesta l'ira- possibihtà di entrare nella bocca del neroniano nei casi di maggior bisogno: perchè il promontorio an- ziate sporgendo nella base molto fuori • • • quei Qntti che spaTcntosi rimbalzano in quel duro sasso che s'inoltra subacqueo (2), obbligheranno ad al- lontanarsene maggiormente e cadere sempre più sotto vento. Dalla qual cosa fassi evidente la giustezza del- l'asserzione dei pratici, che i bastimenti preferirebbero sempre il porto innocenziano, se fosse profondo (3). Ora vantisi pure la profondità della bocca del neroniano, che fassi ascendere a dieci e più metri (4). Fosse anche di venti, di cento: e che perciò, se essa è inservibile quando appunto sarebbe più necessaria? E poi è forse uniforme in tutto il porto una tal prò-, fondita? Il Linotte, che lo aveva accuratamente scan- dagliato, lo negava scrivendo: « Non si deve credere (1) Sofl'red. pag. 61. — (2) Ivi, pag. 22 e 37. (3) Si veda il documento in fine. — (4) Soffred. pag. 31. Porto Neroniano e Innocenziano 31 joerò, che il fondo di metri 9,50, ritrovato alla boecn^ continui nel porto e al di fuori verso levante^ né che sia un canale presso a poco cosi profondo: poiché non é altrimenti vero : Vacqua scema sensibilmente^ e si riduce ben presto nel porto a 4 metri, e al di fuori i scandagli diminuiscono talmente, che a distanza di circa settanta metri dalla bocca verso levante , s'in- contra il banco di arena, il quale é largo dai 60 ai 70 metri, e sul suo colmo vi si scandagliano 5,30 d'acqua : al di là verso levante i fondali aumenta- no (1). Alle quali notizie fa d'uopo aggiungere l'al- tra somministrataci dallo stesso L inotte, che cioè nel porto le profondità più grandi si scandagliano presso ai ruderi; onde rendesi manifesto, che esse si deb- bano alla continua agitazione da quelli prodotta nelle onde, essendo questo 1' ordinario effetto delle cor- renti spinte contro gli ostacoli isolati. Si tolga adun* que il giuoco delle acque col chiudere i moli, e spa-^ riranno contemporaneamente, sotto l' influenza delle arene dalla correntìa immesse , questi fondi vantati che al solo attuale giuoco dell'acqua si debbono. Esauriti tutti gli argomenti di arte, ne rimane ancora al Soffredini uno puramente logico, ed assai concludente a dimostrare l'eccellenza del suo porto. Se il risorgimento del neroniano, egli scrive, non prc' senta, come si pretende, un interesse reale sotto molti rapporti, non era di mestieri menar romore ed arro- vellarsi tanto per escluderlo-, perocché alla saggezza, (1) Un. pag. 23. 32 S e I E N ÌK E degli intelUgenti ed alla sapienza del regnante non potea sfuggire questa gravissima ragione . ... Se dunque nulla si lasciò intentato per deprimere il ne- roniano, scende piana la conseguenza^ che gli stessi difensori di Civitavecchia abbiano col fatto confessata la utilità del risorgimento , ed una utilità grande così da potere ottenere il primato su quello del tror iano (i). Ogni persona dotata di buon senso, consideran- do l'antecedente di questo argomento, risponderebbe: che non essendo data all'uomo l'onniscienza, la mas- sima parte del pubblico intelligente non è versata neir idraulica e nella nautica , e perciò fa d' uopo porgerle i necessari schiarimenti per metterla in grado di conoscere la verità; che il sovrano, quanto si voglia sapiente, è sì occupato dalle gravi e mol- teplici cure del governo, da non poter concedere lungo tempo a serie indagini di oggetti parziali, e perciò fa d'uopo presentargli le materie già studiate perchè possa agevolmente giudicarne; che non man- cano mai delle persone interessate, le quali per par- ticolari loro mire si sforzano di presentare sotto le più belle apparenze i più rovinosi e disgraziati pro- getti, come si vede accaduto nel caso; e perciò fa d'uopo dissipare i prestigi, perchè il vero compari- sca nel suo lucido aspetto; che siccome è di gran- dissimo interesse pubblico, che esorbitanti somme, le quali potrebbero impiegarsi in oggetti di vera uti^ (1) SoH'red. pag. 64 e 63. Porti Neroniano e Inngcenziano 33 lità pubblica , non si profondano e disperdano in cose non solamente inutili, ma da rimanere presso i posteri monumento indelebile di dabbenaggine e d' ignoranza; così stretto dovere di chiunque ami il pub- blico bene si è di opporsi con ogni sforzo a simili insensate profusioni, onde quelle dovizie si conver- tano a più utili mire. Che se tutte queste ragioni debbono muovere l'animo di chi senta amore per la cosa pubblica a proporre tutti quegli argomenti che valgano ad allontanarne ogni danno; è evidente che era di mestieri menar romore contro il risorgimento del neroniano, la cui dispendiosissima ripristinazione per tanti capi abbiamo veduta inutile : e quindi ne discende che, cadendo le premesse del sig. Soffre- dini, deve con esse necessariamente cadere la con- seguenza. E poi, siccome tutti i pensamenti possibili, tutte ìe più belle parole, e i più studiali discorsi non val- gono a cambiar natura alle cose, così tutta la sup- posta invidia e tutti i possibili sforzi dei civitavec- chiesi non potrebbero far divenire cattivo il nero- niano, quando esso fosse realmente buono. Ora, non le parole, ma la realtà, vale a dire, la natura delle spiagge , il fondale, la giacituia, la costruzione di questo porto, lo mostrano essenzialmente cattivo ed inservibile; dunque l'argomento desunto dalla sup- posta invidia dei civitavecchiesi è un argoménto ri- dicolo. Per la qual cosa quando esso avesse da sus- sistere io lo presenterei piuttosto così: Se il risor- gimento del neroniano presenta un interesse reale sotto G.A.T.CXVII. 3 su Scienze molti rapporti^ cmne si pretende, non era mestieri me- nar romore ed arrovellarsi tanto per ottenerne la rie^ dificazione', perocché alla saggezza degli intelligenti^ ed alla sapienza del regnante non potea sfuggire que- sta gravissima ragione . . . Se dunque nulla si lasciò intentato per occultarne, dissimularne, negarne i più patenti vizi , ed esagerarne futilità, Veccellenza, la necessità, scende piana la conseguenza che gli stessi difensori del risorgimento abbiano col fatto confessato la sua completa inutilità. Ma lasciamo ormai queste baie e riassumiamo. Io ho dimostrato, 1. che il banco di arena circon- dante il neroniano tende a chiuderne la bocca , e che irreparabilmente la sbarrerebbe, se venisse tolto di mezzo il porto innocenziano. 2. Che attesa la co- stituzione della spiaggia, il neroniano, quando fosse chiuso dai moli, dovrebbe necessariamente ed irre- parabilmente essere ricolmato dalle arene. 3. Che la prossimità del capo d'Anzio e la natura del fondale lo rendono inabbordabile nei tempi procellosi. 4. Che tale è la giacitura e ristrettezza della sua bocca, da non permetterne l'ingresso allorché è più necessario. Dopo queste dimostrazioni si giudichi cosa debba pensarsi del Sofifredini, quando francamente asseiisce, che quel porto per niun modo potrà mai interrirsi: quando ne vanta la positura al mareggiare da ogni banda opportunissima: quando ne loda lo ingre&so fa- cile, anche allora che maggiormente ferve agitato il ma- re: quando da si belle qualità colpito esclma, che dar si vuole molta lode allo ingnoto architetto che innalzò Porti NKRomANo e Innocenziano 35 ia sua mente al sublim e concepimento dello amiate porto (1). Io però mi son servito separatamente dei quat- tro menzionati argomenti a provare , esser pessimo ia se stesso ed affatto inservibile il neroniano: e cre- do di esservi con ciascuno di e ssi bastantemente riu- scito. Ora se di questi , separatamoatte considerati , ognuno è sufficiente a dichiarare stolta impresa la riedificazione di quel porto , si congiungano ormai tutti, e mi si dica qual peso meriteranno le accurate osservazioni di sei lustri fattevi dal Soffredini, dopo le quali, conosciute le eccellenti qualità siie di natura e di arte (2), è stato facilmente in grado di darci quei tre lunghi capitoli della eccellenza^ utilità^ e ne- cessità del porto neroniano, Trent'anni di osservazioni, fi poi? Partiirient montes^ nascetur ridiculus mus (3)! (1) Soffred. pag. 3, ;26, 138. (2) Soffred. pag. 24 e 27. (3) Non avendoci la storia tramandato il nome dell' architetto autore del neroniano, e mancando esso di tutti quei principii d'arte «he negli altri porti commendano la saggezza dei nostri padri, non sarebbe forse senza probabilità il credere, che quello strano cer- vello, che fu Nerone, abbia in Anzio, luogo di suo natale, voluto ad ogni modo un porto a dispetto della natura del sito , delle re- gole dell' arte, e di quanto gì' istruiti architetti del suo tempo abbiano saputo opporgli: cosicché ne è in fìne risultato un lavoro, che può a tutta ragione chiamarsi il vero prototipo dell' ignoranza dell'arte. Noi lo abbiamo osservato tale per gli argomenti finora arre' cali; ma quando ne volessimo ancora degli ulteriori, il sig. Soffre- dini, il quale è sempre lì per distruggere a due mani quanto va edi- ficando, ce ne somministra dei validissimi, tanto in genere che in specie. E difatti essendo principio generale in arte il non costruire 36 SCIENZE Avendo ormai mostrato le cause, per le quali debba escludersi la ripristinazione del neroniano, da dei porti precisamente siii capi, e non vedendosene perciò alcuno dall' arte ivi costruito; è evidente che la più crassa ignoranza sol- tanto poteva fondare il neroniano sul capo d'Anzio. Certo si è che la bocca di questo porto deve considerarsi come posta sul capo stesso, e dirò pure (scrive il Soffredini) sulV estremità del promonto- rio, conciossiachè il destro molo non è che il proseguimento di esso in mare. Ora il navigante ben conosce (aggiunge altrove il medesimo) che tante le volte sopra i promontorii s' incontrano variazioni di vento, che ritardano il cammino ... ne perde di mira, lo che pure av- viene dopo il maggiore e prospero corso fatto, di trovarsi in gravi pericoli, nella necessità di far gettito, e respinto lungi dal porto, cui è indiritto, anche poche miglia pria dell' arrivo. E per la nostra riviera, la quale cotanto infestano f austro ed il libeccio, sono di mag- gior peso queste riflessioni (pag. 38 e 83). Ma se per ìe variazioni di vento che s'incontrano generalmente sopra i promontorii, e per la disgraziata facilità che vi è di trovarsi in gravi pericoli, di farvi gettito delle merci, e di essere respinto lun- gi dal porto sul momento di toccarlo, se, dico, per queste generali ragioni dal nostro scrittore allegate è ben da guardarsi dal co- struire i porti sui capi, dovrà egli convenire, che a fondare il ne- roniano sul capo d'Anzio somma ignoranza si richiedesse. Anzi dirò pure eccessiva: mentre alle addotte generali osservazioni si aggiun- gevano le particolari del luogo , poiché per la nostra riviera, la quale cotanto infestano l'austro ed il libeccio, sono di maggior peso queste riflessioni. Eppure vi è ancora di più. Chi nella pianta volga 1' occhio al littorale, che congiunge Astura a Nettuno, e questo ad Anzio, tosto avvederassi, essere precisamente la stessa per l'uno e per 1' altro la esposizione e la natura della spiaggia. Ora, parlando di Nettuno, il sig. Softrediui ci dice che posto mente alla situazione di Nettuno, ed esaminandola con occhio artistico, è facile rilevare, che quel punto scoperto nella sua fronte ai venti tutti di mare, e precipuamente ai procellosi di ostro e libeccio, e dal lato di levante circondato da sab- bie e terre solubili, non presenta una località opportuna per un por- to (pag. 10). Ma se Nettuno ed Anzio trovansi alla stessa condì- Porti Neronuno e Innocenziano 37 queste stesse è facile scorgere quanto l'innocenziano sia a quello superiore. Poiché, 1. se il porto inno- cenziano non ha maggiori cause d' interrimento del neroniano, e se, per essere il suo molo assai più spor- gente del sinistro neroniano, ed esso solo valevole a contenere e respingere il banco subacqueo (come si vede a colpo d'occhio sulla pianta) che tende conti- nuamente ad inoltrarsi; 2- se la larghezza della bocca dell'innocenziano produce due grandi vantaggi, pri- mieramente col rendere questo porto meno soggetto del neroniano a ricolmarsi a cagione delle contro- correnti che ammette, in secondo luogo coll'appre- stare agevole l' accesso ai legni in guisa che nulla di meglio potrebbesi desiderare ; 3. se l'innocenzia- no, sedendo dal canto della spiaggia sottile e più a levante del neroniano, e perciò trovandosi lungi dal capo d'Anzio e da quel fortiere subacqueo, che scon- volgendo soverchiamente le onde, impraticabile ren- derebbe l'entrata del neroniano in tempi burrascosi, non presenta alcuno di quegli inconvenienti e pericoli che presenta l'altro; se, dico, tutto ciò è vero, come zione, sia quanto alla esposizione, sia quanto alla natura dell'atti- gua spiaggia, Anzio non presentava certamente una località oppor- tuna per un porto. Vi voleva dunque una somma ignoranza in arte per costruirvelo. Dopo ciò si prescinda pure da quanto abbiamo detto contro il neroniano; e prendendo in consideraziane soltanto le generali e particolari ragioni dal Soffredini recate in mezzo a dimostrare la pessima natura e la stoltissima costruzione di questo porto, ci si di- ca di grazia, se esso meriti di essere col sagrificio d'ingenti somme riedificato, e se possa mai sperarsi di utile uso. \ 3^' S^- e I E N z: E Terissimo apparisce dalle cose finora dimostrate, noti* potrà certamente negarsi la superiorità dell'innocen-' ziano al neroniano sotto ogni rapporto nautico. Che diremo poi dei rapporti economici ? Sup- posto per un momento che il neroniano riedificato potesse esser servibile, si tratterebbe niente meno che dell' enorme anzi incalcolabile spesa della riedifica- zione di quei lunghi moli, la quale, ritenendo per esatta l'unica perizia fatta per un tal restauro in scudi seicento settantatrè mila, ciò non ostante, presa ancora- in questi termini, è vistosissima (1). Per altra parte poi non si dovrebbe nulla edificare nell'innocenzia- no , e perciò non si dovrebbe spendere per que- sto titolo. È necessario inoltre pensare alla manuten- zione. E qual confronto potrà istituirsi fra l' annua spesa di manutenzione di sì lunghi moli colla ma- li) Linotte, pag. 28. È d'avvertire che lo stesso signor inge- gnere osserva : Il ristabilimento dell'antico porto ka Vapparenza iu- singhiera, ma bisogna invilupparsi nei scandagli, per conoscere quali siano le difficoltà, e quale la spesa (pag. 50). Ed in vero, se impos- sibile si rende il periziare con qualche esattezza la costruzione di un nuovo porto, tanto più cresce questa impossibilità se trattasi della riedificazione di un porto in gran parte distrutto, e ripieno di macerie e dì arene, come nel caso nostro. Molti lavori sono ivi impenetrabili al più esperto perito. Rammentiamoci, dirò" col Soffre- dini, rammentiamoci che, quando i fatti non sono stabiliti sulla ve- rità, le conseguenze che vogliono dedursene è mestieri che pecchino di poca esattezza o sieno del tutto erronee (pag. 113;. Quantunque sus- sistano queste difficoltà, sarebbe sfato però pregio dell" opera sua se Jl Soffredini, dopo trenta anni di studi locali, ci avesse dato una sua perizia, ovvero non si fosse presa la pena di volerci far crede- re, con gratuite asserzioni, che sarà la cifra tanto minore di quella trovata dal Linotte (pag. 114). foRTi Innocenziano E Neroniano 39 tìutenzione del breve ed unico dell'innocenziano ? Dì più, per rendere il neroniano un porto fa d'uopo spurgarlo dalle colline di arene e dai grandi am- massi di macerie in quel vasto bacino raccolte ; la qual cosa esige certamente una spesa assolutamente incalcolabile, mentre ninno sa cosa si trovi sotto l'at- tuale superficie ; dove nell' innocenziano , come ve- dremo fra poco , basterebbero dieci mila scudi ad ottenerne una conveniente espurgazione. Finalmente il conservare l'espurgazione medesima in tutto quel vasto spazio, in cui tanta quantità di arene continua- mente verrebbe depositata dalle acque, esigerebbe an- nualmente un notabilissimo dispendio : mentre che nell'innocenziano, come siamo per vedere, è sufficiente una spesa annua di scudi mille trecento ad ottenere il medesimo effetto. Dunque o si abbia riguardo alla ricostruzione, o alla manutenzione, o allo spur- go primario, o alla sua conservazione, è evidente che l'innocenziano nelle viste economiche è d'assai pre- feribile al neroniano- Ma se per una parte l'innocenziano, sia sotto il rapporto nautico , sia sotto quello economico , sta di lunga mano al disopra del neroniano : e se per altra parte le osservazioni da noi istituite sul nero- niano mostrano ad evidenza che debba onninamente escludersi la sua riedificazione ; spontaneamente ne segue, che adunque debbasi con ogni cura conservare r innocenziano , esigendo non meno ogni ragion pubblica di umanità e di commercio , che il van- 40 Scienze taggio particolare di Anzio , che ivi sia e conser- visi un porto (1). Questo porto peraltro da sì gravi ragioni, e dalla posizione stessa geografica del luogo imperiosamente richiesto, va soggetto per la costituzione delle adia- centi spiagge ad interrirsi e rendersi perciò inutile allo scopo. Fa dunque d'uopo apportarvi efficace ri- medio, anzi migliorarlo quanto si può, afiìnchè tanto maggiore ne divenga l'utilità ed il comodo. Ma poi- ché l'interrimento dell'innocenziano è l'achille, di cui si fan forti i sostenitori del neroniano, i quali frat- tanto con ogni sforzo dissimulano lo stesso vizio, che a carico di quest'ultimo assai più gravemente si ma- nifesta, sarà pregio dell'opera il vedere, se un tal di- fetto nell'innocenziano sia superabile; quale dispen- dio a ciò si esiga, e perchè non sia stato mai supe- rato finora. Ninna prova al certo potrà più comple- tamente ed efficacemente soddisfare alle tre proposte questioni, che quella dei fatti; quindi io credo che (1) " Crediamo, nh fuoi-i di ragione, che come punto di sicu- rezza e di ricovero ai naviganti, questo scalo, pur troppo mal sicu- ro nello stato attuale, sia non essenziale, ma essen^lalissimo; poi>- chè da Civitavecchia a Gaeta, lungo questa spiaggia, sino dagli antichi tempi rinomata per i pericoli, per la violenza^delle corren- ti, e testimone ogni giorno d'infortunii marittimi , manca un rifu- gio . . . Diremo di più, che in questo proposito non il solo stato nostro, non soltanto noi abbiamo grande interesse a vedere prov- veduto a ciò, ma tutte le nazioni, e i circonvicini slati d'Italia ». (Verità dette dall'egregio principe Conti, e riportate dal chiaris- simo P. Francesco Lombardi, min. conv., nei suoi ejpuditi archeo- logici Cenni storici di Anzio antico e moderno. Roma 1847, p. 86) Porti Neronuno e Innocenziano 41 per una semplice storia di essi l'assunto verrà pie- namente esaurito. Non ha certamente mancato mai il governo di prendere a cura V espurgazione di quel porto ; ma sia per difetto di macchine, sia per abuso di ammi- nistrazione, non ha mai completamente raggiunto il suo scopo. Tralascio i tempi antichi e i diversi si- stemi di spurgo naturale ivi praticati, la cui storia dovrà leggersi nelle opere di Linotte e di Piasi, e ven- go ai nostri (1). (1) Essendo utilissimo il favorire l'espurgazione naturale, onde diminuire l'artificiale; non pare, che sia da opporsi alcun perma- nente ostacolo a quel giuoco libero della corrente, che osservasi nell'innocenziano. E perciò quantunque taluno abbia proposto di ricostruire e chiudere il moletto Parafili, dovrà aversi per non espe- diente il farlo, e per disutile cosa l'ingombrare l'interno del porto con delle fondazioni sporgenti dal naturale giro dei due moli, cioè neroniano ed innocenziano. E quantunque sia vero, che quel libero agire della corrente riesce alquanto incomodo ai bastimenti or- meggiati nel porto, pur tuttavia questo inconveniente parrrà assori tenue, se si paragoni al benefico effetto che si ha dalla? espurgatrice corrente. Per altra parte poi egli è certo che non potrà pienamente provvedersi all' agiatezza delia stallìa, senza rinunziare al maggior benefìcio della espurgazione naturale. So bene, che il molo Pamfili potrebbe farsi risorgere so|)ra un'opera arcuata, la quale lasciasse un adito alle correnti. Ma l'esperienza ha mostrato, che ogni ostacolo ad esse opposto (quale s'incontrerebbe nei piloni degli archi ) ed atto a diminuirne in qualunque modo la libera circolazione, viene nel tempo stesso a scemarne di molto l'azione escavatrice, e quindi rende necessariamente peggiore la condizione di quel porto. A per- suadersene basterà leggere il Linotte, il Rasi ed altri, ed i fatti da lóro riferiti, dai quali si ricaverà, essere insuillciente il sistema dei moli arcuati a salvare i porti fondati in qu I paraggio dalla enor- 42 Scienze Nel 1823 in rinforzo alle macchine di spufgff addette a quel porto, denominate bette,, si spedì un puntone a ruota del porto di Civitavecchia. Dopo avere per otto anni sostenuta una straordinaria spe- sa di espurgo senza un corrispondente beneficio, ven- ne sospeso il lavoro del detto puntone e restarono in attività le sole bette; colle qu ali peraltro l'inter- rimento del porto andò ad aumentare di anno ìli anno, ed i ricorsi del commercio e delle autorità lo- cali ed estere si moltiprlicarono. Allora fu che scorgendosi chiaramente la poca utilità dei mezzi per l'addietro praticati, io, appog- giato all'altrui esperienza, osservando che l'Inghilter- ra, la Francia , il prossimo regno di Napoli erano giunti colla macchina effossoria a vapore ad espur- gare pienamente dei porti che per l'innanzi non si erano mai potuti difendere dalle arene colle bette e coi puntoni, proposi di espurgare con una di que- ste macchine, che si aveva nel nostro Tevere, il porto innocenziano. Ma questo nuovo sistema essendo più economico e più efficace dell'antico, dovè necessaria- mente contrariare gl'interessi di alcuni, e non potè perciò essere seriamente adoperato. Ed il sig. Soffre- dini, uno forse di quelli, che per volere il meglio, ha contrariato il buono , ha creduto senza cognizione de'fatti criticare quel progetto. Che un tal mezzo peraltro fosse proporzionata me massa di arene che li assalgono. Dei due mali pertanto sembra espediente tollerare il minore, per non incorrere nell'altro molto più grave. tóRTi Neroniano e Innocenziano 43 allo scopo, fosse sollecito, efficace, e sommamente eco- nomico, si rese evidentemente manifesto dal fatto. Poiché nella mattina del 7 aprile 1843, nel luog^o detto Giglia., se ne fece per la prima volta l'esperi- mento sul Tevere in presenza di una commissione appositamente nominata: e si ebbe in risultato che la detta macchina, della forza effettiva di dieci ca- valli, poteva estrarre nel nostro Tevere trenta metri cubi ogni ora di lavoro utile. Della stessa macchina si fece, sullo spirare di luglio ed in agosto 1843, un secondo esperimento di giorni 21 utili di lavoro nel porto di Anzio, e si confermò che in quel porto si estraeva in ogni giorno di dieci ore utili la media di 300 metri cubi di materia , nella profondità media di tre metri , e costava baiocchi 4,83 il metro cubo. Servendosi dei portafango a vela esistenti in quel porto ed in quello di Civitavecchia, il trasporto costava bai 3,42 che, unito alla spesa di escavazione, forma bai. 8,25 per ogni metro cubo scavato e trasportato. Con questo ^secondo esperimento mi fu facile istituire un confronto col sistema di spurgo, di cui si servivano e tutt'ora si servono nel detto porto di Anzio: e rilevai che con tale sistema la materia ivi estratta e trasportata non è costata mai meno di bai. 26 il metro cubo, ed è giunta persino a bai. 46; che in un sessennio il detto metro cubo è costato la media di bai. 36: che la profondità non ha oltre- passato due metri; che il fondo scavato risulta irre- golare, cioè a buchi, e perciò per la sua pochezza 44 Scienze ed irregolarità quasi di niiin beneficio pei bastimen- ti; e che il sistema è molto più lento ed ingombrante di quello della pirodraia , e per conseguenza sotto ogni rapporto condannabile. Profittando allora dei lumi somministratimi dall' esperienza, desideroso come io era della vera utilità del governo, del commercio, e degli anziati, presi a calcolo il quantitativo della materia necessaria ad estrarsi dall'innocenziano, onde renderlo accessibile a quelli che vi commerciano, e che praticano il nostro littorale; la spesa a ciò fare indispensabile ; quanta materia fosse d'uopo escavarne ogni anno a conser- varlo, e qual annua spesa a ciò si esigesse. E di- mostrai, che la materia da scavarsi per ottenere una profondità di metri 4 in una latitudine di metri 1 50 nell'interno del porto, ed un eguale raggio all'im- boccatura di esso intorno alla lanterna , è di metri cubici 1 1 6, 628, 88; che un tal lavoro si otterrebbe coU'impiego di 548 giorni, compresi quelli festivi e di cattivo tempo; che la spesa non oltrepasserebbe scudi 9874. 61, 88, ragguagliato il metro cubo a bai. 8, 5 ; e finalmente che la materia da estrarsi annualmente per la manutenzione è di metri cubi 15000, e la spesa relativa di scudi 1300; laddove quella col sistema attuale, dedotta da un sessennio, era stata di annui scudi 5535, 92, senza che il "porto medesimo fosse siato mai convenientemente spurgata. E concludeva col dire: « Oggi che si possiede la pi- » rodraia è un vero tradimcuto proporre qualun- M que altra macchina effossoria per il detto spur- JPoRTi Neroniano e Innocenziàno 45 » go » (1). Nonpertanto la mia voce non fu intesa, ed il peggior sistema di spurgo la vinse sul migliore della pirodraia, che quasi sempre oziosa e negletta, lasciossi nel porto di Ripagrande per circa quattro anni. Intanto i ripetuti reclami del comune, del com- mercio, e de'consoli esteri, spinsero nuovamente il governo nel 1845 ad un espurgo maggiore dell'or- dinario. Ognuno crederà che si usasse per detto espurgo la citata macchina pirodraia di già espe- rimentata più economica e più efficace di ogni altra sinora conosciuta., molto più che essa del tutto corre- data ed anche fornita di macchinista trovavasi oziosa nel porto di Ripagrande. Ma signor no, il tradimento che io accennava doveva essere consumato. Alla pi- rodraia si preferì nuovamente uno dei puntoni di Civitavecchia, e nel luglio del suddetto anno 1845 venne il puntone trasportato da quel porto ad Anzio. Ivi ha lavorato, come dovevasi attendere, con nessun successo: quindi il porto si trova in una condizione sempre più deplorabile. Ecco come è stato servito il nostro governo ! Ma l'utilità di questa macchina effossoria tanto contrariata e negletta, ad onta dei ripetuti esperi- (1) Tutti questi fatti non possono essere ignoti al sig. SofFredi- ni, essendo registrati nel mio scritto sul Tevere, jdi cui egli prende a farsi beffe; e li potrà trovare alla pag. 3, alla nota 8 della p. 201, alla nota segnata con asterisco alla pag. 164, e nell'appendice se., guata lett. A dalla pag. 404 a 406. Estratto dal giornale arcadico tom. 106, 107, 108 e 109 : 184S. 46 Scienze menti resi di pubblico diritto colle stampe, non isfug- gì all'avvedutezza dell'ottimo nostro sovrano, il quale, di mal animo scorgendola inoperosa e resa nella no- stra provincia inutile dagli altrui artifizi, volle rea^ derla almeno utile ad altri suoi sudditi, e con so- vrana munificenza donolla nel maggio dell'anno scor^' so alla provincia di Urbino e Pesaro , onde se ne servissero allo spurgo de'loro porti. Il fisultato della medesima in questo terzo espe- rimento, fatto nel porto dj Senigallia poco prima della fiera, non fu dissimile dai due precedenti. Di fatti l'ingegnere signor Mengazzini, incaricato dalla prefettura delle acque e strade alla direzione dello spurgo di quel porto, e del trasporto delle materie col portafango a vela, dichiara che preso a calcolo il ruolo e la spesa per tenere in attivila la macchina con il prodotto della medesima^ dedotto dal lavoro da essa eseguito nel predetto porto, si è giunto a stabi- lire: » 1. Che lavorando mesi sei dell'anno ad ore » 10 di lavoro per giorno, la spesa ascenderebbe a » -7-7 2589. 90, ed estrarrebbe metri cubi 33480,00, » che costerebbero bai. 7, 7 per cadauno. » 2. Lavorando mesi 5 ad ore 10 per giorno » importa t=7 2246. 25, e si estrarrebbero metri cubi » 27900, che costerebbero bai. 8 al metro cubo. )) 3. Lavorando mesi A ad ore 10 per giorno, » importa 7=7 1902. 60, e si estrarranno metri cubi » 22320, che costeranno bai. 8, 5 al metro cubo » (1). (1) Stato del lavoro giornaliero della pirodraia s. Antonio io Porti Neronuno e Innocbnzuno 47 Terminata la fiera, la detta macchina è stata nuo» vamente posta in attività in quei luoghi ove non aveva ancora lavorato, e da lettera del signor com • mendatore Mancini, rappresentante la provincia, si ri" leva, che proseguono gli spurghi con buon ejfetto, tro^- vandosi la pirodraia nel tronco superiore al ponte gir rante colla profondità dì acqua di metri 2| in rag- guaglio^ ed alla bocca del porto di metri 3. Questi fatti confermanti quelli eseguiti nel Te- vere, e nel ripetuto porto d'Anzio, dimostrano il grar vissimo danno fatto al commercio, al pubblico era- rio, alla convenienza del governo, e, diremo pure, all'umanità, dal disprezzare e tenere inoperosa una così utile macchina, la quale in ogni altro stato, ove i lavori si fanno per pubblica utilità, è preferita sotto tutti i rapporti alle altre di antico sistema, Questa è la storia dei fatti, fatti pubblici e no-^ tori, sui quali non si può cavillare. Ora se le bette e i puntoni, quantunque si disadatti al bisogno del- l'espurgazione dell'innocenziano, han pure potuto fi- nora in qualche modo conservarlo praticabile , chi non Tedrà a colpo d' occhio che applicandovi una pirodraia, la quale con tanto maggior celerità agisce quanto è capace di farlo il vapore a preferenza delle braccia degli uomini; la quale tanto più profonda- mente escava, quanto la misura di quattro e più me- tri eccede quella di due; la quale tanto più regolar» azione nell'interno ed esterno del porto-canale di Sinigallia. Rap- porto fatto alla suddetta prefettura. Sinigallia, il 2S luglio 1847, 48 Scienze mente opera, quanto l'escavazione formata per solchi supera quella operata per fosse innormali; chi non vedrà, io dico, a colpo d'occhio, che applicata una tal macchina costantemente alPinnocenziano dovrà ot- tenerne in due anni la completa espurgazione? Viene adunque dimostrato dai fatti, non solo essere supe- rabile il vizio d' interrimento di questo porto , ma inoltre vien pur dimostrato, che se non si superò fi- nora, fu soltanto perchè vi si adoperarono mezzi af- fatto sproporzionati allo scopo. Quanto al dispendio poi, se la prima espurgazione sarà per costare un dieci mila scudi, una tale spesa verrà ben presto ed abbondantemente compensata dal risparmio annuo che s'incontrerà nella manutenzione dell'espurgazione medesima; poiché quella operazione, che in un ses- senio ha costato una media annua di scudi 5535: 92, andando a costare soli scudi 1300 annui, risarcirà in due anni la spesa di prima espurgazione. Che se non si volesse stare a tali calcoli, quantunque basati sull' esperienza e sul sentimento del eh. professor Venturoli, e piacesse di aumentare la spesa di pri- ma espurgazione, e di duplicare ancora quella di an- nuo mantenimento, sarà se mpre evidente l'utilità eco- nomica, che in pochi anni andrà ad ottenersi. Si applichi adunque ormai al porto innocen- ziano una di queste macchine, si renda esso effica- cemente una volta praticabile ai commercianti ed a quei che frequentano il paraggio d'Anzio; poiché lo reclama l'umanità esposta ivi a tanti pericoli, lo re- clama l'interesse del commercio , che è pure inte- Porti Neroniano e Innocenziano 49 resse del governo, lo reclama finalmente la vera uti- lità degli anziati, i quali per tal mezzo potendo ve- dere assai più frequentate le loro coste, e trovando in ciò un solido ed evidente vantaggio , cesseranno ben presto dall'agitare nella mente le chimeriche idee e, si dica pure, la stoltissima pertinacia di far risor- gere il iieroniano (1). Soddisfatto così pienamente al mio assunto, mi trovo dispensato dal tener dietro alle tante altre baie scritte dal SofFredini. Fra le molte però avvene una, che siccome le- pidissima, merita di essere rammemorata. Trattando io della ferrata da Roma ad Anzio e da Roma a Ci- vitavecchia, per istabilire un punto fisso di partenza, elessi l'osservatorio del collegio romano : e scrissi , (1) Vi sono de''progetti per prolungare il molo innocenziano ; la qua! cosa non sembra necessaria, perchè se venisse espurgato il porto attuale sarejjbe atto per se stesso ad un granJe commercio. Pur non ostante, se piacesse ad ogni modo condurre ad effetto il proposto prolungamento, io avviserei essere da preferire il siste- ma ùe'frangi-onde galleggianti a quello de'moli stabili. U sistema de'galleggianti in prolungazione del molo innocen- ziano darebbe lo stesso risultato che l'altro per la sicurezza de'basti menti, ed avrebbe di più i grandi vantaggi dell'economia nella spesa e dell'allontanamento del banco prossimo alla punta del molo, senza bisogno di macchine elFossorie. La continua agitazione, in cui si trovano le sezioni de' galleg- gianti per l'urto de'cavalloni, e per la spinta ad essi data dalle cor- renti, produce un effetto non meno valido di quello che hassi dal movimento delle ruote de'piroscali a beneficio dell'alveo de' fìumi. In luoghi arenosi questo sistema deve essere sempre preferito all' altro. (Vedi per maggiori particolari il capitolo III del citato mio acritto sul Tevere.) G.A.T.CXVII. 4 50 Scienze che da quell'osservatorio al porto d'Anzio corre in linea retta una distanza di miglia romane 36,30, deducendola dalla accreditata e recente carta idro- grafica inglese a gran punto del cap. U. H. Smyth R. N. H. S. F. (1). La mia asserzione, daWossei'vatorio del collegio romano ! fece ridere il nostro astronomo di nuovo conio, il quale non avendo sentito mai a nominare ahro mezzo di misurar le distanze che le triangola- zioni geodetiche (2), credè impossibile il misurare la distanza di un luogo che da colà non si vede co- gli occhi; onde tenendo essere mia pretta invenzione la distanza da me accennata, disse: « Da quell'osser- vatorio non si poteva vedere porto d'Anzio: dunque come misurare da quel punto la distanza ? » Anzi tanta fu su ciò la sua convinzione, che volle docu- mentato e pubblicato il fatto del non vedersi dall' osservatorio del collegio romano il porto d' Anzio. Quindi il sig. avvocato Calcedonio SofFredini, degnis- simo fratello del sig. Giuseppe, si fece a domandare in data del 1 dicembre 1846 al chiarissimo diret- tore di quell'osservatorio P. Francesco de Vico, se dalla specola del collegio romano sia visibile porto d' Anzio; e ne ebbe la desiderata risposta negativa (3). (1) Quale debba essere il porto di Roma, e ciò che meglio con- venga a Civitavecchia e ad trizio. Estratto dal giornale arcadico tom. 109^ pag. 3, 1846; e Sul Tevere, sulla unione dei due mari e swlla marina mercantile- Estratto dallo stesso giornale tomo CXI , pag. 77, 1847. (2) Soffred,, pag. 86. — (3) Ivi, pag. 86. Porti Neroniano e Tnnocenziano 51 Non parlo della compiacenza da tale risposta prodotta nei due fratelli: poiché le stampe portanti mi tal documento, come prova vittoriosa, ne fanno ampia testimonianza. Ma a chi cadrebbe in capo a' giorni nostri, che una persona di toga ignori sì com- pletamente, che coi metodi astrpnomici possa esattis- simamente, ed assai più esattamente che coi geode- tici, assegnarsi la distanza di luoghi all' occhio non visibili ? Per mia fede a buon partito ci troverem- mo , se dai metodi geodetici in fuori altro mezzo non avessimo per ottenere esattamente le distanze jche ci separano dai luoghi posti al di là dei monti e al di là dei mari, ove al certo l'occhio non giunge né il telescopio ! Ma qui non termina la buassag- gine; che Tenendo poi al computo delle miglia as- segnate per la distanza, confondono le miglia di ses- santa al grado con quelle romane (1): mentre è ben noto che le prime misurano metri 1852,2, e le se- conde soltanto metri 1489. 5. Risimi teneatis^ ainicP. E poi, dotati come sono di un tal fondo di eru- dizione, non esitano a deridere scritti, nei quali con cognizioni, a dir vero, non si sublimi, ma pur trat- ti dallo studio e dall'esperienza , si sono recate in mezzo dimostrazioni, che agli intelligenti sono sem- brate non disprezzabili ! Onde è che parlando di quanto io scrissi sul Tevere, dice il Soffredlni, non andai-gli a talento di dare in celie (2). Per tutta ri- sposta gli dirò con Giovanale: Facilis cuivis rigidi [l) SoftVed. pii». 85 *• 88. — (-2) ivi, pnj. «H 52 Scienze*' it?t'ì*7 censura cachinni ; ma mi asterrò dal prendere ad esame lo scherno, non meritandolo né le parole, né l'autore. Non le parole, poiché argomenti, non ciance, si vogliono a confutare argomenti; non l'autore, per- chè se tante stoltezze ha affastellate e tante contrad- dizioni sopra un soggetto , su cui vanta avere im* piegato sei lustri di accurate osservazioni^ e che pri- ma di lui mai si è studiato quanto era di mestieri (i), come può meritare che gli si risponda sopra un al- tro soggetto, di cui è ignaro del tutto? Ma troppo ormai di cose estranee all'assunto. Io credo aver dimostrato non solo la completa inutilità del neroniano, ma la stoltezza del persistere nell'idea di farlo risorgere; credo aver fatto vedere l'aperta pre- minenza, che su quello ha l'innocenziano; credo fi- nalmente di aver fatto conoscere la facilità e l'eco- nomia con cui questo può rendersi veramente ser- vibile ed utile. Se alcuno mi opporrà dei conclu- denti argomenti, o mi studierò di sciogliere le ob- biezioni che mi si presenteranno, o se le ragioni sian rette dal vero, mi lascerò di buon grado rimuovere dal mio sentimento. Ma se contro questo scritto non con altro si combatterà che colle armi finora bran- dite dal sig. Soffredini e suoi precursori, e già ri- petutamente spezzate, stimerò tempo perduto l'oppor- re solide ragioni e fatti a paralogismi e sciocchezze. (1) Softred. pag. 2à e 114. Porti Neroniano e Innocbnziano 53 DOCUMENTO « Noi sottoscrìtti pescatori, padroni e capitani di bastimenti pratici del paraggio del capo d'Anzio dichiariamo, che in continuazione di quel capo si avanza in mare sott'acqua una platea di fortiere sino alla distanza di oltre un miglio. Da questo punto in poi il fondo aumenta tutto d'un tratto. » Una tale disposizione di fondale è causa, che nelle mareggiate, quantunque non fortissime, le on- de provenienti dall'alto mare con i venti di fuori in- contrando questa specie di scalinone s'innalzano in-^' stantaneamente in guisa da perdere il loro equilibrio e cadere frangendosi. » A questo grave inconveniente vi si aggiunge l'altro, che le dette onde così sconvolte proseguendo il loro viaggio verso il lido sono nuovamente fran- te, spartite, e riversate dalla risacca prodotta dalle onde antecedenti, le quali avendo urtato il capo che sporge in fuori e nei ruderi del porto neroniano , tornano indietro (*). •' Che sia così ce Io prova il vedere che a Ie~ vante ed a ponente il detto capo, ove il mare può n Questa risacca sarh tanto maggiore, quanto, in luogo dei ruderi ora esistenti , un compatto molo formerà un non inter- rotto proseguimento del vromontorio in mare. 54 Scienze correre , cioè ove le spiajjge sono sottili , la citata Yisacca non ha luojjo, quindi il ripetuto sconvolgi- mento è molto minore. » Di fatti tutte quelle paranze da pesca, o altri bastimenti che vogliono rifugiarsi nel porto inno- cenziano , debbono allargarsi più che possono da quello neroniaoo, onde non trovarsi fra quegli dan- nosissimi urti di maie. /"» Da questi fatti principali, e da altri secondari che pure esistono, fra i quali una sensìbile corrente, risulta che quante volte si ricostruisse il porto nero- niano, i bastimenti di qualunque portata preferiranno sempre nei tempi di mare agitato di stare alla vela^ 0 cercare altrove un ricovero, piuttosto che fra i fran- genti ed un mure . estremamente sconvolto venire a cercare il porto neroninno. Essi preferirebbero sem- pre il porto innocenziano se fosse profondo. » Tanto possiamo attestare per la verità e pra- tica della nostra arte, e del surriferito paraggio. » (Seguono le firme). , ,' PADRONI PADRONI DI PARANZELLE I>A PESCA DI LEGNI MERCANTILI Antonio GaroCàlr napolitano Micliele Morjera napolitano Gennaro Gentili n Nicola Vinc. Masiello » Salvatore Spina » Antonio Dorelli » Nicola Ascione t> Tommaso Calanzano » Domenico del Gatto « Giuseppe Iacono 11 Salvatore Frullio n Carlo Re(»ine » V. Fusco ili Crescenzo 11 Gaetano Ramberi » Michele Gentili » Antonio Razzetta » Antonio Gentili jj,, ,,,r,,j, ,,, , ,.,!fjranc(esco di, JaiiMM i'4»Viawo, , , now «"t oV*'. Citrini. ■•'m h«i oV.o'i«| oMot PoRTi Neroniano e Ionxcbnzuno 55 PADRONI DI PARANZELLE DA PESCA Raffaele Malinconico romano Vincenzo Fusco >> Aniello Vitiello >> Salvatore Pernice » Gaspare Rusco » Matteo Peris » Lorenzo Speranza « Bartolomeo Pernice » Giovanni Pernice » Crescenzo Fusco « Andrea Curci « Pasquale di Giovanni » Michele Scotto » PADRONI DI LEGNI MERCANTILI Andrea lannitti romano Michele Ang. di Falco » Nicola Sootto « Domenico Peris n Agostino Bonamano » Marselio Razzetta » Giuseppe Torri » Tommaso di Janna » Pietro Catarini » Giuseppe Feoli » CAPII ANI DE'BASTIMENTI MERCANTILI Giuseppe dì Ianni romano Antonio di Macco " Giuseppe Paolini n Matteo Padovani » Luigi di Lietri » Angelo Molinari n Giuseppe Sacco » Gaetano di Macco k Ubaldo Ferri » Giacomo Modena » Antonio Catalani n Eleuterio Ferrare napolitano Nicola Valenti w Vincenzo Lisabella « Vincenzo Iacono « Domenico Lapì toscano Tommaso di Macco romano Francesco Cardone » Giacomo Gazzi » Cristofaro di Macco » Ciro Paudolfo » ( Per chi amasse vedere l'originale di questo documento si è esso, stragiudizialmentè e senza for- malità, depositato presso il proto-notaro capitolino sig. Mario Damiani nel di lui officio posto in via della Pedacchia num. 84.) > 56 Delle casse di risparmio considerate conte invenzione italiana. Intorno invenzioni e scoperte italiane proluse il cav. Monti all'università di Pavia, con un discorso tutto eloquenza e patria carità. Seguitò il tema, e Io sviluppò, e confortò il prof Rambelli nelle sua Lettere (Modena^ tip. Vincenzi in 8, 1844 ed altro- ve ). Altri ancora misero in aperto il primato dell' Italia sopra estere nazioni; ma delle casse di rispar- mio non so che siasi parlato, o parlato almeno ab- bastanza, per far conoscere che non agli stranieri y ma a noi medesimi, è dovuta altresì questa inven- zione pregevolissima. A promuovere così utile istituzione, ed a gene- ralizzarla, io diedi opera con molti scritti pubbli- cati appena furono noti i regolamenti delle casse di Roma e di Bologna nello stato nostro. E fui pro- motore e sostenitore di un tale stabilimento sino dal 1640 in Bagnacavallo, mia patria (*). Ed in questo giornale toccai più volte un articolo , così impor- tante non solo ai poveri, ma ai ricchi altresì , che hanno sovvenzioni dalle casse ; senza dover cadere tra le branche degli usurai ! Fin da quando poi diedi fuori il Discorso sulla cassa di rispoì'mio (Bologna 1840, in 8, tip. Nobili)., (*) Cenni storici e statistici sulla città di Bagnacavallo. Nell'Al- bum num. 34 e segg. del 184T — 48. Casse di rispàrmio ec. 57 che fu quasi il seguito dei racconti popolani usciti col titolo di Nuovo Salvadanaio (ivi^ 1737, in 1G, tip. BartoloUi), notavo, a diligenza di un mio ono- revole amico, nel discorso stesso a pag. 4, ciò che segue.- Il Monte matrimonio di Bologna altro non è che una cassa di risparmio istituita da olire due secoli. Ciò replicai anche nel giornale arcadico, riser- vandomi di darne le prove, poiché non amo di es- sere creduto sulla parola. Lo stesso Vasco, che ha nome già chiaro tra gli economisti italiani , osser- vava, egli è buon tempo , i vantaggi e la forma delle casse di risparmio. Ma non faceva aperto», che fosse invenzione italiana. Vera è die l'autore fran- cese deWEssais sur Vhistoire de V economie politique^ citato dal Rambelli nelle sue Lettere (ediz. di Mo- dena a pag. 31\), confessa doversi all' Italia Videa di tutti gli stabilimenti . ... di cui la popolazione ed il commercio abbiano bisogno. Ma siffatta confessione, benché di uno straniero, non basta a render certa l'invenzione delle casse di risparmio quanto all'Italia. E noi non vogliamo, né dobbiamo vantarci di alcun trovato, che nostro non possa dirsi veramente; tanto più che questo super- bire di ogni piccola gloria nelle scienze e nelle arti di pace o di guerra insinua, ne' giovani principal- mente, un orgoglio dannoso al costume, ed al pro- gresso giustamente desiderato. Ma né rinunziar si deve alle glorie antiche, che sono la gloria della nazione, e dolce nostra eredità: l'una e l'altra delle quali ben ci conviene, se collo studio e colla fatica sapremo essere degni nipoti agi» 58 Scienze avoli illustri, che non si adagiavano mollemente sur primi allori; ma si studiavano, vegliando e sudando, di meritarne dei nuovi e maggiori continuamente ! Tornando alla idea ed invenzione delle casse di risparmio , io proverò esser vero , che il Monte matrimonio di Bologna^ istituito da due secoli in qua, fu il modello di tali istituzioni. E la prova sarà lu- cida e chiara a tutti, che volgiano pur gli occhi sul regolamento che pel Monte matrimonio apparisce dai capitoli, che seguono tratti da una stampa di Bo- logna del 1822 per Gamberini e Parmeggiani. E non aggiungerò alcuna chiosa, che non bisogna: se mostri il sole d'Italia ad uno straniero, non è d'uo- po dirgli come sia chiaro e lucente; basta, ch'egli abbia occhi e mente non prevenuta ! PROF. D. Vagcolini. « » 1. Qualunque persona dell'uno o dell'altro sesso dimorante nella città o provincia di Bologna, e che trovasi in istato di potere conseguire taluno degli infranominandi fini risguardanti 1' instituzione del detto monte, può divenire creditore sul medesimo quando, o direttamente per se, o altri per di lui co- modo, depositi presso l'institutore alla cassa, che ri- siede nel locale del monte medesimo , una somma non minore di scudi cinque, ne maggiore di scudi trecento romani. Possono anche depositarsi .somme maggiori della suddetta , quando , dietro domanda fatta allì signori ufficiali dei monte, questi, per due terzi del numero statutario per le adunanze, accon- sentino con alto di congregazione. » 2. Il deponente nell'atto del deposito deve in- Casse di rispàrmio ec. 59 dicare la precisa propria abitazione, e facendolo per altri, quella pure delle persone a cui comodo de- pone, e produrre la fede battesimale di quello a co- modo del quale si fa il deposito. Riporta poi cwi- temporaneamente, senza alcuna spesa, a riserva del costo della carta bollata, l'apoca di deposito, detto volgarmente libretto, firmato dal campioniere, la quale contiene il nome e cognome del deponente, e della persona a cui favore vien fatto il deposito, l'indicazione del nome del padre di questa^ quale sia la sua età e il domicilio. Contiene inoltre la somma depositata, e la dichiarazione dei fini per cui è stato fatto il deposito, cioè, o per tutti li fini in- fradicendi mediante le espressioni =» conseguendo uno dei fini voluti dal nostro monte =» o pei- quella d'essi, che piacerà al deponente d'indicare ad esclu- sione degli altri. Porterà pure la dichiai^zione del deponente (se gli piacerà di farlo) della persona, a cui passar debba il capitale deposto, nel caso in cui il creditore non conseguisse il fine per cui fu fatto a di lui comodo il deposito, sia per morte, che per il trapasso dell'età fissata nell'apoca del deposito stes- so. Detta apoca poi sarà, nel campione dei creditori del monte, letteralmente trascritta dal campioniere. Nel giorno seguente al deposito comincerà a de- correre in favore del creditore il frutto sulla somma depositata, ed, a capo d'anno, ogni altro utile straor- dinario in proporzione della somma stessa , capita- lizzandosi in ciascun anno il detto frutto ed ulile. Il frutto si verifica per il giro che fa il monte delle somme che incassa investendole in contratti legal- mente fruttiferi e cauli, come di cambi ed altre. I 60 Scienze secondi, cioè gli utili strfjordinaii, nascono special- mente dalla ricadenza a favore della massa dei cre- ditori dei frutti di quelli che muoiono, o che pas- sano l'età stabilita senza conseguire alcun fine , o che, giunti agli anni quaranta, od anche meno, se- condo che sarà prescritto dal deponente nell' atto del deposito, potendo, vogliano ritirare il capitale. « 3. Il capitale depositalo, e suoi corrispondenti frutti ed utili divenuti già capitale, continuano ad essere fruttiferi sino al giorno nel quale il creditore abbia conseguito uno dei fini stabiliti dal monte stes- so, o quello precisamente di essi fini, che ad esclu- sione degli altri siasi voluto nell' atto del deposito precisare, come risulterà letteralmente dal campione ed apoca di deposito, o sino a che il creditore sarà giunto all'età degli anni quarantacinque compiti in- clusivamente. » 4. I fini stabiliti dagli statuti del monte, ed in seguito dalla rappresentanza legittima del medesimo, per le femmine sono i seguenti : 1. Il matrimonio celebrato secondo il rito di s. chiesa cattolica roma- na. 2. La solenne professione religiosa in qualità di corista o conversa in qualche convento claustrale, o anche nel terzo ordine. 3. L'orsolinato, e cioè, quan- do, conforme, all'attuale instituto e regola delle or- soline di Bologna, la donna ammessa alla detta con- (jregazione sia stata coronata. Per gli uomini poi sono: 1. Il matrimonio celebrato secondo il rito di 8. chiesa cattolica romana. 2. Il sacro ordine del pre- sbiterato. 3. La professione religiosa propria dei re- golari in qualità o di sacerdote, o di converso. 4. La laurea dottorale in una pubblica università. 5. l\ Casse di risparmio ec. 61 conseguimento di una cattedra in qualche pubblico studio fuori di Bologna. 6. L'impiego, o collocamen- to per pubblico servigio, tanto nel civile , che nel militare, il quale portasse deposito, o pagamento di somma per conseguire l'uno o l'altro. » 5. Facendosi luogo al pagamento in favore di qualunque dei suddetti creditori non solo del capi- tale, ma anche dei frutti ed utili sino al giorno del conseguimento di uno dei fini per cui fu fatto il de- posito, è necessario che i creditori, per ritirare detti lucri ed utili sino ad un tal giorno, attendano che sia formato il bilancio dell'anno in cui otterrà uno dei detti fini. Il bilancio serve per il riparto , non eseguibile che a capo d'anno, dei frutti ed utili a lutti gl'interessati: altrimenti, non potendosi fare di- stribuzioni parziali , non potranno percepire che i lucri ed utili per tutto Tanno antecedente. Il bilan- cio poi e riparto suddetti sono ordinariamente fatti ed eseguiti nel mese di marzo di ciascun anno per tutto l'anno antecedente. )» 6. Per riscuotere il credito e suoi utili deb- bono li creditori, senza alcuna spesa, presentare, ol- tre il libretto, l'attestato del fine conseguito da ri- conoscersi dal notaro del monte, e da uno degli as- sunti alle fedi; che se l'attestato sia rilasciato fuori della provincia di Bologna, deve essere legalizzato da una pubblica autorità del luogo d'onde quello pro- viene; se il fine conseguito sia il matrimonio, e la donna sia la creditrice, ambidue i coniugi assieme debbono riscuotere; se entrambi sanno scrivere, ba- sterà soltanto che presentino un ricognitore idoneo, che attesti essere essi tali individui; che se niuao di 6^ Scienze .'.') loro sappia scrivere od anche un solo, dovranno, ol- tre il ricognitore, essere accompagnati da due sog- getti idonei, uno dei quali scriva per l'illetterato, che fqirà la croce alla presenza degli altri due. In ogni altro caso, in cui i creditori potranno esigere, do- vranno sempre firmare la quietanza presentando 1* idoneo eognitore di loro persone : e non sapendo scrivere, dovranno concorrere tre soggtti come sopra. » 7. ]ll monte non può essere obbligato a pagare se non tfi^ mesi dopo la presentazione dell'attestato del conseguimento del ii*ie, e ciò perchè il monte, che, per suo instituto cerca tener sempre investita qualunque somma, abbia campo di realizzare quanto deye a'suoi creditori. » 8. Per qualunque pagamento vi vuole il man- dato steso dal computista e dal campioniere, e poi sottoscritto almeno da sette dei signori ulfiziali, com- preso il signor priore, il quale vi appone il sigillo del monte, ed un assunto alle fedi. » 9. Deve ogni creditore piesentare, o far pre- sentare, entro il mese di maggio di ciaschedun anno la sua apoca di deposito, o libretto al campioniere, per far notare sullo stesso libretto gli utili guada- gnati l'anno spirato, al quale campioniere indicherà la propria sopravvivenza. Chi per sei anni continui trascurerà di presentare l' apoca o libretto, potrà (previe le solite diligenze mediante pubblica noti- ficazione) essere dichiarato privo degli utili , come se fosse morto ; e se avanti la giustificazione della sua sopravvivenza , gli utili suddetti fossero andati in divisione a prò degli altri, non potrà essere di quelli reintegralo, ma solo gli cominceranno a cor- Casse di risparmio ec. 63 rere di nuovo per 1' avvenire , conae se il doposito primo fosse fatto in quest'ultimo tempo n 10. I creditori debbono per ciò aver cura di non smarrire l'apoca anzidetta; ove però per mala sorte la medesima si perdesse, potrà chi l'ha per- duta ricorrere alla congregazione dei signori uffi- ciali del monte , la quale, verificata ccncludente- mente che l'istante sia quel creditore che si qualifi- ca, ordinerà di fare l'apoca coH'annotazione del du- plicato anche nel campione, e senza spesa , (ranne il costo della carta bollata. li:i'a;"?nnci- ;ìIg rjlle'joria della cora- nedir?Gome iT»a' c;jli,dopo tanti studi su Dante, potrà persuadersi per vere mi lettera, la quale mena a conseoiìenze fìa'ci.to copirr.iie a quelle che , dedotte una volta, .oli furono car:: per sì lur^^hi anni ? Io noi crederò m:n e poi njai,, af^oorchè fosse per ve- nir Danle e. ric'^.ic' rrj il fatto suo. Né stimo con ciò di fargli okrag-^io, porcV'è saiobbs lo stesso ch3 costringerlo n ricevere co' le V3rità quello che indu- bifcjitamente 3IJ si mostra f Isc; e io non potrei de- siderare ques-o ■ lirrealo, non e' j ardire di sperarlo. A^g'ugnerò encora, che per qua'anque cosa ei rin- novassecontro p quella lettera, io ni tacerò di qui inarn-:!^ non rcggendoui la coccienza di durare iu una lite per me decin e inappellabile. Noi saremo pur gerapre legati di sincero afifetto: perchè, se non nei ìi.odo d'intendere r\ì alti sensi, almeno ci ac- 70 Letteratura corderemo nell'amare e ammirare la diritta sapienza e il grande animo dell'Allighieri, E per ritornare là, onde lo zelo della verità e il desiderio di fuggire noie maggiori mi ha dipar- tito, accennerò per sommi capi le cose che , dopo aver dimostralo e difesa l'autenticità della lettera di Dante a Cangrande, io mi studiai di trattare possi- bilmente : Quali cose Steno a ricercare 'prima di farsi a interpretare ed esporre la Commedia di Dante ^ e se questa sia da riguardarsi per una opera dottrinale. Se e fino a qual punto la maniera d^ interpretare le scritture altrui., come vien proposta nel Convito ,. sia conforme a quella che si raccoglie dalla Lettera a Cangrande, e quale di esse meglio si presti all'in- tendimento della Commedia. Dei quattro sensi., in cui questa può e deve essere solo intesa e dichiarata^ e in particolare del senso let- terale., del senso allegorico e del senso morale ed ana- gogico. Quale sia il soggetto letterale ed allegorico della Commedia di Dante. DelVagente della Commedia. Del titolo proprio di essa., e perchè siasi chia- mata Commedia, e jìerchè vi si ponesse l'aggiunto Di- vina. Della eausa formale o della forma della Commedia. Sopra il fine prossimo e remoto della Commedia, e del proprio genere di filosofia al quale essa è sot- toposta. Dei principii religiosi., politici., filosofici e poetici di Dante. Divina Commedia TI Della origine e della principale allegoria della Commedia. In questi capitoli , come ognuno può agevol- mente discernere, io non intendo far altro che una maggior dichiarazione di tutto ciò che Dante scrisse per norma infallibile a chi vuole con affetto puro e con intelletto chiaro penetrare gl'intendimenti del suo maggior volume. Io mi ascrivo a debito strettissimo di farmi seguace della sola parola di Dante : e se altri con questa parola mi convincerà de'miei errori, che pur troppo anche in ciò non si potrebbero can- zare, io gliene professo fin d'ora obbligazioni grandi, e mi dispongo a disdirmi pubblicamente. Ninno è degno di attirarsi la nostra gratitudine , al pari di colui che apre il nostro intelletto alla sicura luce del vero, che in tutto e sopra tutto deve essere il nostro amore, la nostra causa, la nostra giustizia. COMENTl olV epistola di Dante a Cangrande Scalìgero (*). 1. Rispetto al volgarizzamento di questa lettera io prescelgo quello che si trova nell' edizione del Fraticelli, perchè mi pare che meglio ritragga del vigore dantesco e si conformi di più alla verità de* sentimenti espressi nell' originale latino. Bensì farò (') Lascio di riprodurre ia questo giornale il testo e la tradu- zione della lettera, per non impedire lo spazio a materie più impor- tanti e meno aride. D'altra parte gli amici di Dante potranno avere in pronto quella scrittura, alla quale mi piace di ricUiamare Tat- tenzioiie de'miei cortesi lettori. 72 Letteratura d'emendare aìeimi difetti, giovandami in parte delle nuove e dotte fr:iiche dell'egregio Alessando Torri, e usando mai sempre quella libertà di giudizio che ad ognuno si i:cconsento (Epistole di Dante AlUghieri edite ed iruidite: per cura di Alessandro Torri. Livor- no 1842). 2. Viclorioso. Dall' aggiunta di vittorioso bene argomentò il Dionisi, che quesla lettera dovette es^ sere scritta innanzi al dì 25 di agosto del 1320 , quando Cangrande ebbe la dolorosa rotta sotto le mura di Padova ( Dionisi, Propar. slor. crii. f. 2 , pag. 227. Troya, Del veltro allegorico p. 178>). D'al- tra parte essendo che in essa non s' attribuisce allo Scaligero la denominazione di capitano della lega lombarda.., Io Scolari giustamente inferi, e diversi co-- menti ci assicurano!, che sarebbe stata composta pri- ma del 16 del dicembre 131 8-, perchè allora soltantc» il si.o-nor di Verona venne eletto a capitana generate della lega ghibellina in Lombardia ». (Intorno atV epi- stole latine delVAllighieri. Lettera critica di Filippo Scolari. Venezia 1844. Muratoriy^lorxa d'Italia,, an. 1315-1318 » ). Il titolo di vittorioso dato a Cane riguarda principalmente la più gloriosa e notabile vittoria ch'egli ottenne sopra i padovani il dì 20 di settembre del 1314. 3. Vicario. Cangrande fu constituito vicario im- periale a Vicenza l'anno 1312, e vi fu confermato da Federico d'Austria addì 10 di marzo 1317. Manca ne'testi e ne'codici la parola vicario: ma la mancanza è chiara dalla desinenza grammaticale del titolo che segfue, e dall' epiteto di sacratissimo che non può convenire se non al romano imperio (G. Balbo., Vi- ta di Dante lib. 2, cap. 13, p.2 61. Torri, Op. cit.) Divina Commedia T3 4. In urbe Verona et eivìtatc Vicentia. Savia- mente il Balbo ci fa osservare, che in queste parole è distinta la capitale di Cane con un'elociuionc che non è possibile voi j^- arizzare. 5. Florentinus natio.ia^ non morihus. Queste pa- role, che si ripetono in appresso toccando del titolo del libro, sono, a mio credere, del più (jrave mo- mento : perchè indicano la persona che Dante rap- presenta nella Divina Gommedia. Al che si vuol bene attendere, e allora verremo a conoscere perchè e^^li, il poeta, si facejjse consigliare da Brunetto Latini di forbirsi dai costumi di queirinyrato popolo maligno^ Che discese di Fiesole ab antico E tiene ancor del monte e del macigno: Gente avara ^ invidiosa e su- perba. Inf. e. 15, V, 65. Quindi ancora perchè do- mandato della sua patria, ci rispondesse quasi sem- pre nascondendone il nome. Pur tom'uom fa dsW or- ribili cose. Purg. e. 19, v. 22. Di qui è chea AJiep- più dimostrarci lo stupore e il gaudio, onde l'animo suo doveva esser tutto compiuto nel rimirare il giu- sto e santo popolo di Dio, n'accenna che egli ei'a colà venuto di Fiorenza. Par. e. 31 , v. 39. Il che m'accerta che Dante, finita la sua visione, aveva tutta l'anima sana e giusta:, Par. e. 31, v. 8©-89-112; e s'era così dipartito dai costumi della sua iniqua e corrotta Firenze, e per tale volea essere riconosciuto. Così la Commedia di Dante da mesto principio ebbe lieto compimento, 6. Jnclitae vestrae magnificentiae laus. Sono que- ste presso che le stesse lodi che si rendono a Gan- grande nel canto 25, v. 85 del Par.: Le sue (di Cane) magnifieenze conosciute Saranno ancora, sì che i suoi 74 Letteratura nemici Non ne potran tener le lingue mute. A lui t'a- spetta., e a' suoi benefici: Per lui fia trasmutata molta gente., Cambiando condizion ricchi e mendici. La co- storo trasmutata condizione forse non abbatte gli uni con timore di rovina., e non solleva gli altri colla spe- ranza di prosperità ? E non si dirà poi di Dante questa lettera, che n' interpreta così diretl aulente e chiaro n'esprime i concetti ? Così gli è suo quello scritto, come il vero è vero e uno. 7. Hoc quidem etc. Questo periodo non fu di- sbrigato da alcuno, ch'io mi sappia, con buona fe- licità di successo. Farmi bensì che sia ad accettare insieme col Witte la congettura del Dionisi, il quale l'interpreta in tal guisa : « Che un tal preconio., come oltrepassante l'essenza del vero., troppo fosse dal suon della fama ampliato. » E però mi piacerebbe tra- durre : ma questo preconio., superando i fatti de*mo- derni., come forse più grande delV essenza del vero., io credeva che di soverchio fosse aumentato. Con ciò s'anderebbe più stretto al testo latino t, e verrebbe men dubbio il proprio concetto dell'autore. In vero questo arbitrabar ali superfluum riceve chiara spie- gazione da quanto vien poco dopo : prius dictorum suspicabar excessum. 8. Austri regina etc. Regina Saba, audita fama Salomonis^ in nomine Domini venit tentare eum in enig- matibus. Et ingressa lerusalem multo cum comitatu .... Videns omnem sapientiani Salomonis et domum quam aedifleaverat etc. , dixit ad regem : Verus est sermo, quem audivi in terra mea super sermonibus tuis et super sapienlia tua : et non credebam narran- tibus mihi., donec ipsa veni et vidi oeulis meis, et prO' Divina Commedia 75 havi quod media pars mthi nunciata non fuerit\ maior est sapieiitia et opera tua^quam rumor quem audivi. (Reg. 3, \{)). Regina Austri ... venit a finibus terrae audire sapientiam Salomonis. Matt. e. 12. Lo Scolari ne{ja l'auteiiticilà di questa lettera, perchè non sa ve^ dere come Dante, sì povero che egli era, potesse di primo colpo assomigliarsi alla superba dominatrice dell' austro. Ma se egli riguardava bene le ragioni che mossero costei a recarsi in Gerusalemme, avreb- be in ciò trovata l'ammirabile convenienza del pa^ ragone : tanto che a fatica si potrebbe trovarne un migliore, e che più fosse del caso. 9. Vidi beneficia simul et tetigi. A lui V aspetta ed amoi beneficii. Par. e. 17, v. 8S. Questo fa ve^ dere, che Dante scrisse la lettera quando già avea provato i benefizi di Cane : il che non poteva ac- cadere poco dopo al suo esigilo, quando lo Scaligero non contava che da undici a tredici anni , ma si quando, disfatto Ugucciojie, egli riparò di nuovo alla corte di Verona tra la fine del 1316 e sul principio del 1317. 10. Benevolus . , . . et amieus. Accennano a una distinzione troppo sottile per farne altro autore che Dante. 11. Ex visu primordii. E detto per ex visus pri- mordio. Witte. 12. Nec non delectabiles. Io tradurrei : Né quel- le amicizie si posson vedere meno dilettevoli ed utili\ che vai quanto dire : che le amicizie , eziandio fra persone disuguali, non lasciano per questo d' essere men dilettevoli e meno utili di quelle fra gli ugua- li. Ma questo membro, per congiungersi al periodo 76 Letterati} R A seguente, abbiso^jnerebbe ù'alfcro legarne. Di ciò bene s'accorse il sagace intendimento di! Witte. 13. Elsi ad veram ac per se amìcUiam etc. Chi se non Dante era tale da sollevarsi a questi pensieri? Però non ci maravigli, se egli, siccome dello Scali- gero, si professasse liberamente amico di Carlo Mar- tello, la cui grandiZ'-a non gli vietò che dicesse a Dante : Assai mi amasti e ri avesti bene onde: Che se io fussi giù staio io li mostrava Di mio amor più oltre che le fron'^d. Per. e. 8, v. 65. 14. Sei hQÒeè imperitia vulgi ec. // sensuale pa- rere, secomlo la più gcnte^ è molle volte falsissimo^ massimamente nelli sensibili comuni^ là dove il senso spesse volto è ingannato. Onde sappiamo., che alla più gente il sole paro di larghezza nel diametro di un piede, Conv. tr. 4, e. 8. Or dunque, dirò io col Torri, chi negherà a Dante un'epistola, ove ci traduce sa stesso ? {Torri., Op. cit.) 1 5. Nam inlellectu ac ratione dsgsntes , divina quadam liberiate dotati., nullis consnetudinibus crìsirin- guntur. Così legge il codice mediceo : mr, la r»osfra lezione, che è la cor^'unc, stimo che sin pur anche la migliore e più vera. Né io s?p' oi 'r.ender«, né ricevere la nuova sr '0']^a: Jone .3.' Tt'C^isi'-'ìi, il qirale irterpreta che i forniti d'inicllM.o " di ra^irnve., dei pravi l'A', per ima ccA\a divin*', l'bcri".., rifintano esssr serm. (Torr-, Op. clt. ). 111). ir>. Moralis neroiii ^Ic. Il morale negozio ^er Dant3 è ''eìf:* ;,, coue liauJr e' 'aro '■'pi §. 15. W;tt2. 17. Salva'ri analogo, lì si :-«i'ie legf.rr.i'^o re! Conv. t. 3, e. 1. « Siccotiie ^ ':o *! ^Joicfo ro! nono chW tiica, neWamisià i.zilo \^3rsone dissimili eli stcto con- DiVTNA Comm:idi\ 77 viene^ a conservazione di queUa^ una proporzione es- sere intra loro che la dissimili indine a simiiitadias quasi riduca^ siccome ini,ra il signore e il servo », 18. Et Ulani sub praosenti etc. Dante in queste espressioni dichiara sì di volere ascritta , oflferta e raccomandata a Cane la sublime Cantica del Para- diso^ ma non già che (jliela presentasse in quell'ora; Pars isla quam verbis destinare proposui; § 6. Gliela faceva propria a modo che uno mette in possesso altrui i frutti del proprio campo, prima che sieno n^aturi ed anche appena gettata la semenza. E dal contesto della lettera risulta, che l'Ali ighieri insieme con questa inviò a Cane il solo principio del Para- diso : a primordio etc. ^. 4. Però nulla rileva al no- stro proposito il sapere, se Dante o i suoi fjrjli man- dassero allo Scaligero tutto o in gran parte il Para- diso : giacché da questa lettera rea si ricava se non che Dante, inviandogliene il principio , protestò di dedicare a Cane quella suUinie cantica : la quale ap- punto perchè era degnata di tanto onore, faceva sì che il posta col lun,']o studio s'riFrlieasse e divenissa magro, cSacq di pcterne aarclicre il corpoiuieaìo. Ed ecco il perchè dissa : Vitar.i parvi pendens , a pri- mordio ì.ictam pracfizam urgebo ulterius. 19. Plus dor.ìino quam dono. Così io inter*5reto pel contrario ai testi vulgati, e al Witte ed al Torri: perchè qui il poeta si scusa di troppo ardire : ciò che non sarebbe stato, se da quella sua donazione fosce venuto più d'onore a lui, che non a Cane. Lad- dove, affermandosi roppost<>, disegnava in certo mo- do tempeiare e addolcire le espressioni. E quanto viene dipoi chiarisce il vero della mia interpreta- 78 Letteratura zione : essendoché Dante dice, che col solo titolo di quella cantica gli pareva di avere espresso, a chi bene vi avesse atteso, un presagio deW ingrandimento della gloria e del nome di Cane. E per verità; l'aver- pH conservato e dedicato il Paradiso, era come un augurargli ogni più desiderata felicità. Chi pone mente a questa nobilita di pensieri, scopre a prima veduta che solo Dante potè concepirli ed esprimerli. 20. Quinimmo cum eius litulo etc. Questo passo mi sembra mal tradotto nell'edizione del Fraticelli , e peggio in quella di Livorno L' una porta così : Che anzi per le cose avvertite sembravami aver ba- stantemente espresso col titolo il presagio intorno la maggior gloria del nome : lo che è del proposto. E r altra : Tanto più che parmi col solo titolo aver significato , come volea il mio voto , d' ampliare la gloria del mio nome. Questo è proprio un dir le cose al rovescio : e un correr dietro all' impeto del proprio animo, anziché secondare pazientemente quel- lo dell'autore, lo non studierò tanto all'eleganza del dire, quanto a ritrarre possibilmente la verità degli intendimenti danteschi, e però mi ristringo a inter- pretare e spiegare così : JVè ancora il mio ardente affetto mi concede di passare semplicemente in silenzio (senza alcuna parola) che da questa donazione può sembrare che derivi più fama ed onore a chi riceve^ che non a chi porge il dono : che anzi col titolo di quella già mi pareva., a chi v'attende abbastanza, d'avere espresso il presagio delV ingrandimento della gloria del nome: il che è di proposito. 21. Sed tenellus gratiae vestrae., quam sitio. 0 vo- gliasi tradurre , come allo Scolari par necessario , Divina Comedia 79 Entrato di recente nella vostra grazia^ di cui ho sete: o come pensa il Wilte : Ma sollecito della vostra grazia^ di cui ho sete: sì nell'uri modo e sì nell'al- tro ben si può accordare colla storia di Dante. Im- perocché nel primo caso nulla importa che il poeta fosse andato alla corte di Verona non molto dopo del suo esigilo ; essendoché allora Cangrande non contava che da 11 a 13 anni; e però convien dire che la sua grazia non fosse né pregiala, né ricerca. Quindi è, che Dante poteva essere novello nella gra- zia di Cane quando ritornò a lui tra il 1315 e il 1317. In questa interpretazione la frase tenellus gra- tìae vestrae non saprebbe di buona latinità , e per aggiustarla alla meglio bisognerebbe almeno dire ; tenellus gratia vestra. Ma io tengo certo che sia a ricevere il parere del Wilte, il quale avvisa che te- ìiellus significhi non altrimenti che noi usiamo tenero in luogo di sollecito^ geloso o premuroso. Di che ne viene chiaro il senso dell'intero costrutto. Né accade il dire che la voce tenellus prenderebbe un signifi- cato che non ha esempi in latino (Scolari, Op. cit. p. 42); poiché troppe altre ve ne ha che Dante mal seppe schivare : così ad esempio costitutivum speeiei per il costitutivo della specie , intelleetus possibilis per l'intelletto possibile degli scolastici, ed altri mol- tissimi dell'infima e guasta latinità (Monarc. l. 1, §. 2). E non è poi vero, che il tenellus esprima un' idea compresa poco dopo nel qiiam sitio\ giacché l'effetto non s'identifica colla causa , e noi diciamo tuttora all'amico : Io son molto tenero della vostra amicizia^ che tanto mi è cara, né potrei negarmi a cosa di vo- stro piacere. £ Daate , assetato come era della grazia 80 Letteratura dello Scaligero , non potè ohe divenire geloso di custodirla ; e perciò non curava la gravissima fa- tica dello studio per condurne a termine quella can- tica che si era proposto di destinargli : Quam vobis destinare proposui §. 6. Quanto poi al diminutivo tenellus non mi pare, che sia un nuovo esempio di letteraria dignità, come lo Scolari dice scherzando; giacché una lettera, sobbene fra disuguali di condi- zione, non rifiuta quelle dolcezze che si disdicono a ehi aringa dal pulpito. Ed ecco tolto e dileguato il più grave impedimento che si opponeva alla verità di questa epistola scritta a Cane. •u)q 22. Vitam parvi pendens etc. Lo Scolari non sa vedere tanto palese la ragione di ciò : ma risulta clìiarissima ad ogni intelletto, il quale pensi, che se il poema sacro ama fatto per tanti anni magro il povero Dante: or tanto più doveva consumarlo , per- che ponendo mnno alla più ardua parte del suo la- voro, ci si affrettava al possibile di compierlo per crescare maggiormente nella grazia del suo signore, a cui già l'avcvc? offerto. 23. Sub l'^ctoris cf/lcio non significa già in servi- già del lettore^ a iVìodo cho interpreta il Missirini : ne mp?:co, ncìVutililà del lettore^ come porta In stan- pa del Fraticelli : m.i .'ì veramente per uffizio di let- tore^ cioè a inp'iiera che sr^Q-liono fare coloro, i quali prendono a legger''^ o.wir. a spiegare dalla cattedra un'opera. La parola lettura per spiegazione o com- mento è di un uso frequente presso i nostri antichi. 24. SiciU dixit fhìlosophus etc. Questa forma di ragionare è tutta propria di Dante: il quale non nan- eando alle sue dottrine, e non contraddicendole mai nel Divina Commedia 81 fatto, insegnò: iVece5«e est in qualibet quaestione Imbeve notitiam de principio^ in quod analytiee reeurratw\ prò certiiudine omnium propositionum quae inferius assumuntur (Mon. L 1, §. 2. Quaestio de duobus eie- mentis^ §. 21 e seg.). Quegli che nega a Dante que- sta scrittura mostra di conoscere assai poco il pro- prio ragionare dantesco. 25. Per modum introduct ionis. Bene sono da at^ tendere le cose che or si ragionano : poiché bastano di per se sole a introdurci nella conoscenza generale di tutta la Commedia. 26. Doctrinab's operis. La Commedia or dun- que si comprende fra le opere dottrinali, e sono a fare sopra di essa quelle ricerche, che si facevano su di un'opera appartenente a dottrina. 27. Subiectum etc. Il Foscolo e il TaefFe (a coni' menine the D. C. 1, p. 67), e dopo essi il Witte ci ammoniscono che il Boccaccio per comentare il sa- cro poema s'appropriò interi luoghi di questa let- tera: e la cosa sta di fatto così. A persuadercene ba- sterà un semplice sguardo e confronto: Avanti che alla lettera del testo si venga, stimo sieno da vedere tre cose, le quali generalmente si sogliono cercare ne' principii di ciascuna cosa che appartenga a dottrina. La prima è di mostrare, quante e quali siano le cau- se di questo libro; la seconda., quul sia il titolo del libro', la terza, a qual parte di fdosofia sia il pre- sente libro supposto. Le cause di questo libro sono quattro: la materiale, la formale , la e/ficiente, e la finale. La materiale nella presente opera è doppia , così come è doppio il soggetto, il quale è con la ma- teria una medesima cosa ; perciocché altro è quello G.A.T.CXVII. 6 82 Letteratura del senso letterale^ ed altro è quello del senso alle- gorico (JBoceaccio^ Comento sopra la Coramedlia p. 14. Firenze 1844). Quasiché simile a questo è ciò che si legge in Iacopo della Lana : Ad intelligenza della presente commedia^ siccome usano gli espositori nelle scienze^ è da notare quattro cose. La prima cioè ma- teria., ovvero soggetto della presente opera'., la seconda cosa., qual è la forma, e donde toglie tal nome, ovvero titolo del libro. La terza cosa., quale è la cagione fi' naie., ovvero a che ulilitade ella è detta., e sotto quale filosofia ella è sottoposta. Il medesimo a un di presso si legge in Benvenuto da Imola, e in Francesco da Buti. Il primo scrive così : « Ad comediae clariorem intelligentiam quaedam evidentialia extrinseeus prae- libentur. Et primo quacratur quis libri auctor : se- eundo^quae materia: tertio., quae intendo: quarto, quae utilitas : quinto., cui parti philosophiae supponatur : sexto quis libri titulus ». Il secondo : È da sapere., che le cagioni che sono da investigare nei principii degli autori sono quattro., cioè materiale, formale, ef- ficiente, finale. Mirabile convenienza ! e diremo che tanto maraviglioso accordo sia divenuto per caso e senza che fosse conosciuto ad essi questa lettera, alla quale tutti qual più, qual meno, siansi poi confor- mati ? Certo che no, e ne abbiamo la solenne e ir- repugnabile testimonianza nelle parole di Filippo Villani, il quale fioriva nel 1343 (Manni, Sigilli v. 4, p. 74), ed era nipote e famigliare amico dello storico Giovanni coetaneo di Dante. Ei fu eletto nel 1401 a spiegar la Commedia nello studio fiorentino (Salvini, Fasti consolari dell'accademia fiorentina,nella Divina Commedia 83 prefazione)- Sentiamo ciò che ei scrive : De causis quaeri solitis in principio libri ab expositore (1). Nunc ad inquisitionem eausarmn veniamus, et utique prisco de more commenta dictantes , boni Dei auxilio invocato (quod et nos pia devotione humili- que deprecalione cxposcimus) antequam ad Uteralem explanationem pervenir enl (sic) de septem agebant circumstantiis , quas graeei periochyas appellant : quae locum , tempus , personam , rem , qualitatem , causam et facuUatem eontinent. Amplius de libri ti- tulo agebant^ et in poeticis quaerebant quos fuisset au- ctor imitatus. Harum plerique tres solummodo con- siderabant^ unde scilicet auctor ageret et cur et qua- liter^ ut inde sibi auditor es benevolos^ dociles et at- tentos compararent. Noster vero poeta in quodam in- troductorio suo supra cantu primo Paradisi^ ad do- minum Canem de la Scala destinato (nota destinato)^ de sex agere videtur, quae subiectum^ agentem^ for- mami fìnem^ libri iitulum et genus philosophiae com- prehendunt, Causas istas ferme omnes moderni ad quatuor redegerunt^ quaerentes de ef^ciente^ de ma" teria^ de forma et postremo de fine. Mihi placet an- tiquam diligentiam revocare. Questo documento, a cui niuno può negar fede, basta di per se solo a ren- dere autentica la lettera in questione, e mi dispen- serebbe dal recarne e riformare altre maggiori pro- (<) IntroJuzione di Filippo Villani al suo coniento latino al primo canto della Commedia di Dante, rinvenuto nel codice L. VII. 253 della chigiana. Di questo ritrovamento siamo tenuti al valoroso dantista Marco Giovanni Ponta ; il quale, non contento di aprirci tanti arcani del misterioso poema, sì ne porge in mano gli argo- menti per internarvici da noi medesimi. 84 Letteratura Te. E ciò sia piombo ai piedi a farci muovere lenti al no , che l'ardita e mobile fantasia ci mette da- vanti. 28. Allegoricus, sive moralis^ sive anagogicus. Ho supplito sive anagogicusj ciò che si richiede dall'e- sempio recato ad illustrare la fatta divisione; poi- ché se viene pur anco esemplificato il senso ana- gogico, bisogna pur dire che prima siasi fatto cenno di esso, e che l' amanuense abbia perduto di vista sive anagogieus. D'altra parte si dichiara più sotto , che sebbene questi sensi mistici si chiamino con diverso nome, generaliter omnes dici possunt allego- rici. Ciò che fu quanto dire; che il senso anagogico e il morale, benché distinti per la loro specie , si comprendevano sotto Y allegoria , come lor proprio genere, e che potevano anche chiamarsi con questo nome. Al che porge valido sostegno quanto ci vien somministrato da Filippo Villani: Litteralis nihil of- ferì significati cifra verborum sonum Si vera allegoriam velimus elicere , tropuni intelligemus quo aliud (cod. aliquod) nobis dicitur et aliiid significa- tur. Allegoria est compositum ab allon^ qiiod alienum seu diversum latine sonat, et gore, quod est intelle- ctus. Et sub isto generali nomine omnes sensus ab historico litteralique differeiites allegorici nuncupantur (Cod. cit. p. 84). Quindi si palesa ben ancora, che il senso letterale non è diverso punto dal senso sto- rico o istoriale, che si chiama pure la Storia della let- tera (Con. t. 1). 29. Versatur processus. Ottimo avviso che a questo luogo ci vien dato dal codice magliabechia- no, nel cui margine é scritto: Ita ex istis verbis col- Divina Commedia B5 tìgere potes quod secundum allegorieum sensum poeta agit de Inferno isto, in quo peregrinando ut viatores mereri et demereri possumus. V inferno dei malnati. Vita nuova, canz. I. 30. Suhiecium est homo prout merendo et de» merendo ec. Questo concorda con quello del Boc- caccio: Il soggetto secondo il senso allegorico è: come Vuomo per lo libero arbitrio, meritando e demeritan' do ^ è alla giustizia di guiderdone e di punire ob- bligato. Nel comento al primo ternario della Com- media, ritoccando della lettera allo Scaligero, il Villani così si esprime : « Concludo super isto ternario cum. poeta in introductorio suo sub cantu I Paradisi , ubi ait, prò materia operis se assumere hominem via* iorem prò liberiate arbitrii promerentem et demeren- tem ». Il simile si legge appresso Iacopo della La* na: » Lo uomo., lo quale per lo libero arbitrio può meritare ovvero peccare: per lo quale merito^ ovvero colpa., gli è attribuito gloria, ovvero punito aWaltro mondo ». E così anche presso il Buti, che scrive : « In questo nominato poema la cagione prima, cioè materiale, c/te tanfo è a dire quanto il soggetto di che Vautore parla., si è letteralmente lo stato delle anime dopo la separazione del corpo , e allegorica- mente il premio, ovvero la pena^ a che Vuomo si ob- bliga vivendo in questa vita per lo libero arbitrio ». 31. Transumptivus. Così porta la lezione comu- ne, diversamente dal Witte, cui piacerebbe di leg- gere transitivus., perchè nel comento del Boccaccio si ha transitivo. Io invece argomenterei che si do- vesse fare il contrario: che cioè sia a lasciare tran- sumptivus nel testo della lettera, e sia quindi a met- S6" Letteratura ter transuntivo in quel luogo del Boccaccio : tran-^ swmptivus è parola della bassa lalinità, e vale quanto transfigurativo^ da traiisumplio che è la metatesi dei greci ; la quale è una figura , che apre come una strada d'una in altra cosa, e da quello che precede guida all'intendimento di ciò che vien dopo. Del re- sto che si debba leggere transumptivus ne porge si- cura fede Filippo Villani, che scrivendo i comenti su Dante mostrò che avesse sott'occbi la predetta let- tera : ecco le sue parole : « Quantum ad formam tra- ctandi eiusque modum , processus est poclicus , fleti- VHS , atque integumentis redundans^ in quo describit, transumit et saepe digredilur atque dividit et definii, probat et improbat^ multas similitudines et exempla ponendo ut eius inlentio clarius elucesent — (Cod. cit. p. 8-8). Queste spiegazioni della causa formale mi sembrano assai opportune per giugnere al pro- prio intendimento di quelle parole della lettera di Dante, e specialmente del transtetnptivus. Lorfui (ran^ sumptive presso i commentatori antichi esprime quasi sempre lo stesso che parlare per trnsunzione. L' ot- timo comente dice : Dante nel trentesimo canto del Paradiso transumtivamente parla di tutto il Paradiso: figurandolo a modo di un fiume. Il Buti anch'esso ci conferma di dover leggere (ransumtivo: Lo modo del trattare è poetico., fittivo., descrittivo., digressivo, transumavo e ancora difinitivo e divisivo, probativo, improbativo e di esempi positivo. 32. Dictatores, secondo il Witte erano così detti i poeti e gli oratori; e di ciò allega 1' autorità del Du-Fresne e del Du-Cange; ma forse qui non di- sconverrebbe prendere dittatore in luogo di segretario Divina Commedia 87 0 scrittore di lettere, come ci viene notato dal Fra- ticelli. 33. Sententìa votiva sembranni che sia la lirica, presa aofipiamente per grido votivo, onde gli dei si onoravano, come già la dea di Cipro: Par. e. 8, v. 5. E forse che significa lo stesso che elegia, perchè nel volgare eloquio , 1. 2 , e. 4 , numerandosi le varie specie di narrazioni poetiche si flistinguono la trage- dia, la commedia e la elegia. Benché, a dir vero, ivi non si consideri tanto la propria natura de'componi- menti poetici , quanto la qualità dello stile in cui voglionsì scrivere. È però da vedere quel luogo del volgare eloquio^ che può dar molta luce alla presente materia. 34. Incipit Comoedia. V'ha alcuni, i quali hanno voluto, che Dante abbia aggiunto divina alla sua Commedia : ma il testimonio di Dante fa contro essi. Ne sono da attendersi quelli che pretendono si co- minciasse a vedere la Commedia col titolo divina nelle edizioni del 1513-1555: quando lo stesso epi- teto già si legge nella vita di Dante scritta dal Boc- caccio presso il 1350, e s'incontrano codici antichis- simi che portano quel medesimo titolo. Ma d' altra parte il nome divina dato alla Commedia di Dante Allighieri , benché le si convenga a buona ragione per le alte cose che vi si discorrono, e per la ma- niera nobile in cui sono scritte, tuttavia nell'intitola- zione dell'opera si disdice assolutamente, e fa con- trasto alle idee dell'autore. Ma di ciò diremo a suo luogo. 35. Locutiù vulgaris, in qua et muliereulae com- municant. « Quantunque in volgare scritta sia, nella 88 Letteratura quale pure comunicano le femminette: » Boccaccia: e Giovanni del Virgilio rimprovera a Dante , perchè si fosse indotto a scrivere Carmine laico , che è a dire volgare (Car. v. 15); e Dante, che era pur tut- tavia desideroso del poetico alloro, si lagna perchè forse non gli sarebbe conceduto dal suo Mops» ( Giovanni del Virgilio), a cui non gradiva quello scrivere volgare : Comica nonne vides ipse repre- hendere vcrba, quia foeminea resonant ut trita la- hello? Egl. I, V. 59. 36. Agens igitur. Questo modo di esprimere l' autore del libro non potè essere che di Dante , il quale scrisse non esser concesso parlare di se mede- simo senza necessaria cagione (Cont, tr. I, e. 29): e però nel e. 30, v. 03 del Purgat., dovendo ricordare il suo nome, dice, che per necessità vi si registrava. E qui non accadeva più luogo ad altra dichiarazione avendone già toccato nel titolo del libro. Ed è ben notabile l'avverbio totaliter , quasi con ciò volesse dire non altro che lui poter essere Vagente di quella Commedia. E qui sia detto di passaggio, clie Taversi nominato agente invece di autore dell'opera non è senza un'ascosa ragione; ed è che Dante ha voluto dnnostrarsi come Vattore principale^ o diremo il pro- tagonista della Commedia; talché i fatti ivi narrati si riferiscono in prima a lui, benché quindi si pos- sano adattare universalmente. 37. Ad statum felieitalis. La causa finale della presente opera è in muovere quelli.^ che della presente vita vivono., dallo stato della miseria allo stato della felicità. Boccaccio. La finale cagione della detta Com- media è per rimuovere le persone che sono Divina Commedia 89 al mondo dal misero vivere e dal peccato^ e per ri- durle al virtuoso e grazioso stato. Iacopo della Lana. La cagione finale, nel presente poetna, è arrecare gli nomini viventi nel mondo dalla miseria del vizio alla felicità della virtii. Buti. 38. Negotium morale. Il quale (sacro poema) è sottoposto alla parte morale, ovvero etica; perciocché quantunque in alcuno passo si tratti per modo specu- lativo, non è per ciò per cagione di speculazione ciò posto; ma per cagione dell'opera., la quale quivi ha quel modo richiesto di trattare. Boccaccio. Questa Com- media è sottoposta a filosofia morale, la quale ha per suo oggetto gli atti umani. Iacopo della Lana. Que- sto poema , si può rispondere , che è sottoposto alla parte morale ovvero elica. Imperocché benché in al- cuno passo si tratti per modo speculativo., non é per cagione deWopera che abbia richiesto questo modo di trattare : ma incidentemente per alcuna materia oc- corrente. Buti. Ed ecco ora il conae si spieghi ciò in Filippo Villani nell' artìcolo : Cui parti philoso- phiae opus principaliter supponalur. Dicimus (eodem auctore dicente in suo inlroductorio super cautu pri- mo Paradisi) in loto opere et partibus siiis esse mo- rale negotium; non enim ad speculandum., sed ad rao- rum institutionem opus inceptum est totum et eius partes. Ubi vero conligerit in aliquo loco vel passu ad modum speculativi negotii pertractari., nequaquam id fit speculandi gratia., sed operis. Ad aliquid enim quandoque et practici speculantur., ut vult philosophus Methaphisicae (sic). Et quod non agat de essentiali., sed de morali inferno., purgatorio, et etiam paradi- so., satis videntur ostendere gradus distinctionesque poenarum. 90 Letteratura Ed è ben da notare che da questa dichiarazione di messer Filippo si manifesta, che morale negotium vai quanto opera umana, azioni dell'uomo fatte ed operate : desenzione di falli civilmente ojieruli : in somma morale negotium e phitosophia moralis pare che sia uno stesso che pratica umana , e come di- rebbero i moderni la morale in azione. Noi con que- sto non vogliamo altro che interpretare la mente dell'autore, e ciò basti per ogni caso 39. Expositio litlerae. L'esposizione della lettera non è per Dante che la manifestazione della forma dell'opera: e questo ne porta a conghietturare che la materia di essa propriamente sia riposta neW allegoria. 40. Prologum et partem executivam. Il medesi- mo è a dire del Purgatorio, dell'Inferno, e così in generale di tutta la Commedia, della quale il primo cantò si può considerare il prologo^ e il resto la parte esecutiva. 41. Invocationèm gimmc^am. Dante, ritenendosi fer- mo al suo insegnamento, come nel Paradiso, così nel Purgatorio e nell'Inferno accenna prima le cose da trattare^ e poi fa la conveniente invocazione. 42. In quo dicto etc. Questa spiegazione è tanto bella, nuova e profonda, quanto propria di Dante. 43. Homo ipse. Così porta di più il codice me- diceo: ma quel ipse qui non fa punto bisogno, e gua- sterebbe anzi l'ordinato procedere del discorso. 44. De bonitate ac perfectione etc. Quelli che fanno Dante tuttavia sospinto dal proprio genio e non mai infrenato dall'arte, fa d'uopo che ben si rivol- gano^ a considerare questa dura legge, a cui mostra di essere andato ristretto. Divina Commedia 91 45. Ratio et aucloritas. Or qui daweio che si par manifesto il sigillo di Dante, e non bisognereb- be aver mai letto e meditato la Commedia, e le al- tre sue opere per non sapervelo riconoscere! E ben mi fa meraviglia che alcuno non abbia mai fatto av- vertenza, che in queste parole ratio et auctoritas si comprende e si addita la vera via ed unica per in- terpretare ed esporre la Commedia , e specialmente il Paradiso, Imperocché al poema sacro han posto mano e cielo e terra. Par. e. 25, v. 2. Con ciò si vuol significare, che le verità ivi discorse o toccate dimostransì non solo per lume della ragione umana, ma eziandio pel raggio della divina autorità. Le quali due cose quando insieme concorrono a dimostrare una questione, alla verità di essa è necessario che il cielo e la terra acconsentano insietne. Veritas qitae- stionis patere potest non solum lumine ralionis hu- manae^ sed et ratione divinae auctoritatis. Quae duo cwn simili ad unum concurrunt , coelum et ierram simul assentire necesse est. Igitur fiduciae praenotatae innixus^ et testimonio rationis et auctoritatis fretus, ad secundam quaestionem dirimendam ingredior. Mon. 1. 2, e. 1. E di vero noi osserviamo, che vi ha sem- pre il concorso delle scienze umane e divine a pro- vare ciò che si discorre nella Commedia, e alcuna volta questo ci vien dichiarato per espresse parole. Cosi Dante, pregato da s. Giovanni a dire chi gli aveva volto tutto l'amore a Dio , gli risponde : Per filosofici argomenti E per autorità che quinci scende. Co tal amor convien che in me s'imprenti; Par. e. 26, V. 25. E quindi ragionato questo , senti una voce che approvando disse : Per intelletto umano e per 192 Letteratura autorilade a lui concorde^ Del tuo amore a Dio guar- da il sovrano: Ivi, v. 46. E altrove, manifestando la ragione del suo credere, fa intendere a s. Pietro , che a ritener la fède egli era indotto non pure da prove fìsiche e metafisiche , ma anche dalla verità che (jli venia da Mosè^ dai profeti^ dai salmi^ dagli evangeli e dagli apostoli: Par. e. 24. Perciò è che nell'interpretare e spiegare la Commedia bisogna at- tenersi agli argomenti deWautorità o ragione umana^ la quale ci è manifesta per i fì,losofi: Mon. 1. 3; e del' Vautorità divina dello Spirito Santo^ il quale per li profeti e santi scrittori^ per l'eterno Figliuol di Dio Gesù Cristo^ e per suoi discepoli le verità sovrannatu- rali e le cose necessarie a noi rivelò: Mon. ivi. Di tal guisa fece Dante in questa epistola : e facendo al- trimenti ci dilungheremo sempre mai dalla verace via, la quale sola ci può dare speranza di buon cam- mino e di salutevole porto. Oh ! se i commentatori avessero bene osservata questa norma , che Dante prefisse al suo ragionare, forse che oggimai si avreb- be il proprio commento del poema sacro! Ho detto che si prefisse: perchè in tutte le sue opere, dove la materia il consente, si comporta con simile tenore: e perfino in quelle cose, che sono persuase dall'espe- rienza, vuole egli mettere la ragione e l' autorità a confermarle : il che si vede per fino nella stessa let- tera di Dante a Gino da Pistoia : la quale, benché disputata e contrastata a Dante , è tuttavia la più certa che si abbia; e di questo tengo e produrrò fra breve un autentico documento. 46. Primo^ seu principio : colui che è primo. Così chiamasi Dio al e. 15, v. 50 del Paradiso. Divina Commedia 93 47. Reieìentis radium. Ciò si chiarisce per quel- le del Conv. tr. 3, e. 1 4. Ancora è da sapere che il primo agente^ cioè Dio, pinge la sua virtù in cose per modo di diritto raggio ed in cose per modo di splen- dore riverberato : onde nelle intelligenze raggia la divina luce senza mezzo^ nelle altre si ripercuote da queste intelligenze prima illuminate'. Witte. Queste cose danno e ricevono nnaggior luce dal e. 13, v. 57 del Paradiso: Ciò che non muore., e ciò che può mo- rire Non e se non splendor di quella idea Che parto- risce.^ amando., il nostro Sire. Che quella viva luce che si mea Dal suo lucente., che non si disuna Da Ini^ né daWamor che in lor fintrea, - Per sua bontate il suo raggiare aduna., Quasi specchiato in nuove sussistenze Eternalmente rimanendosi una. Quindi discende aWul- time potenze, Giù d'atto in atto tanto divenendo.. Che non fa più che brevi contingenze. E queste contingenze essere intendo Le cose generate, che produce Con seme e senza seme il del movendo. Non è Dante che spiega se stesso ? 48. Natura est opus intelligentiae. Questo con- corda col V. 99 del e. 11 dell' Inferno: Natura lo suo corso prende Dal divino intelletto e da sua arte. 49. Quum ergo ctc. Io sono d' avviso che sia a spiegarsi così : Adunque., essendo che la virtù (l'in- flusso virtuale ) conseguiti , derivi dall'essenza della cosa., di cui è virtù., se Vessenza poi sia intellettiva.^ allora la virtù è tutta e sola di quella cosa., ond^essa virtù è cagionata. 0 per dire in breve : La virtù procedente da una essenza intellettiva deve originare tutta e sola da quella. Da siffatta interpretazione non si dilunga il Witte, che spiega : Come la virtù è ine- ^4 Letter.ìtura rente alV essenza^ di cui si predim; la virtù deW es- senza cagionala interamente , ed unicamente prove- nir deve da quella della cagionante, se questa è in- telletluale. 60. Ad modum speculorum- Quindi sinteode per- chè Dante chiamasse il sole uno specchio che su e giù del suo lume conduce : Purg. e. 4, v. 63 ; e specchi quelle intelligenze che noi diciamo troni'. Par. e. 9, V. 61- Ed accennando alla moltitudine de'beati e delle nature angeliche, ei si fa dire da Beatrice: La prima luce., che tutta ia raia^ Per tanti modi in essa si recepì, Quanti son gli splendori a che s' ap' paia. Vedi Veccelso ornai e la larghezza DeW eterno valor., poscia che tanti Speculi fatti si ha^ in che si spezza , Uno manendo in sé : come davanti. Par. e. 29, V. 142. 51. Divinum Inmen^idest divinam bonitatem^ sa- pientiam et virtutem patet resplendere ubique eie. Que- sta spiegazione non potea venirci che dallo stesso Dante : che certo niuno, che io mi conosca, ha mai cementato, che la gloria di Dio nelV opere delV uni- verso indica la divina bontà , sapienza e virtù , che dovunque penetra e risplende. Ed è infatti nell'ordine dell'universo, che Volte creature veggiono Vorma del- Veterno valore: Par. e. 1, v. 106; il quale Quanto per mente , o /<«r occhio si gira Con tanto ordine fé eh' esser non puote Senza gustar di lui chi ciò rimira: Par. e. 10, V. 4- E per rendere più chiaro il suo concetto , Dante così lo ridice altrove : La divina bontà che il mondo imprenta. Par. e. 7, v. 109. L* ardor santo cìte ogni cosa raggia Nella più somigliante e più vivace: ivi, v. 75. Il che dimostra essere le crea- Divina Commedia 95 ture più o meno perfette, e ritrarre perciò più della bontà e sapienza e virtù divina, a misura che più s'imbiancano della luce di Dio. Onde al §. 19 si ri- pete che il divino raggio, a la divina gloria^ per V universo penetra e risplende dove più, dove meno. Il simile viene espresso al e. 31, v. 23 del Paradiso, ove si dice. Che la luce divina è penetrante Per Vuni- verso^ secondo che è degno. Per tutto ciò si palesa che Dante nella lettera a Cangrande spiegò e ci fece in- tendere la sua mente nella medesima guisa che nella Commedia; e tanto compiuto accòrdo non vi potreb- be essere, se queste due opere non fossero di uno stesso autore. In breve : l'interpretazione che si può dare ai primi versi del Paradiso mediante il con- fronto di luoghi paralelli della Commedia, e di que- sto colle altre opere di Dante, non è punto diversa da quella che si ricava da questa lettera a Cangran- de ; ciò che ben le dimostra essere uscite da una mente sola. Questo farò io vedere in tutti i versi che seguitano. 52. Seientia Quello che di sopra al § 45 è detto ratio.) qui chiamasi seientia', perchè la scienza propriamente detta è una cognizione acquistata per dimoslr azioni. Arist. 2 , poster. , e quindi per uso di ragione. 53. Gloria Domini plenum est opus eius> Que- sto passo dell'Ecclesiaste (e. 42, v. 1 1 6 ) fa vedere assai bene il modo che Dante osservò nell'interpre- tare La gloria di colui che tutto muove. In tal senso diceva il profeta : Codi enarrant gloriam Dei. 54. Scriptura paganorum. Ecco qui il testimo- nio dell'autorità umana., ed ecco la ragione perchè 96 ! Letteratura nella Commedia agli esempi ricavati dalle istorie sa- cre si congiungano quelli dei tempi pagani. Se a ciò avesser fatta avvertenza quanti accusano Dante d'aver fatto un brutto miscuglio di sacro e profano, gli avrebbero dato lode e buona voce , e non biasimo ingiusto. 55. Penetrai quantum ad essentiam^ resplendet quantum ad esse. Questo ne guida a conoscere che Dante tenne ben fìsso il pensiero alla proprietà dei vocaboli, i quali però nelle opere di lui ricevono un così pieno e preciso* valore che altrove non hanno. Esse vale esistere, ed essen tia è quanto dire Vintima ìiatura della eosa^ o ciò che primamente si conce- pisce nella cosa, e senza cui la cosa non potrebbe essere (esistere), ed è fondamento e causa di tutto il resto che è nella stessa cosa. S. Thom. e. 1. Met. L'esistenza attuale è l'atto, per cui una essenza vien constituita nella ragione di ente attuale. Onde la luce di Dio penetra le cose, in quanto per essa vien co- stituita la loro essenza: e ivi risplende^'m quanto le cose passando ad un essere attuale , o venendo ad esistere, come portano in se, cosi rivelano la bontà, la sapienza e la virtù del creatore. 56, De magis et minus. Le creature non rice- vono tutte ad una stessa misura il raggio della di- vina bontà, e perciò sono più o meno perfette, e quindi più o meno s'assomigliano a Dio , secondo che più o meno di quello sono penetrate e risplen- dono: Par. e. 7, V. 65. SimpUeissima substantiarum.^ quae Deus est., in homine magis redolet quam in bruto., in animali quam in pianta., in hac quam in minerà., ete. Vulg. El. 1. 1, e. 17. Divina Commedia 9T 57. lUud incorruptibile , illa vero eorruptibiUa sunt. Perchè i cieli non vengono a corruzione, e gli elementi sì, Dante cel dichiara al e. 7, v. 130 del Paradiso, dove dice, che i cieli furono eventi in loro essere intero^ laddove gli elementi sono informati da creata virtn.\ e tutto ciò che vien immediatamente dà Dio non ha poi fìne^ siccome Vhanno quelle cose ch-e soggiacciono alla virtù delle forze create. 58. Circumloquens Paradisum. Certo che il cielo il quale prende più della luce di Dio, non è altro che il cielo supremo., il primo cielo.) il sommo cielo., o il regno celeste., che altri voglia chiamarlo. Infatti il cerchio, che dicesi cielo empireo., è tutto di luce e d'amore., e non è inteso se non da colui (Dio) che lo cinge: Par. e. 27, v. 112. E però non si tosto il gran poeta dal primo mobile fu ivi sublimato , Beatrice gli fa sentire: Noi siamo usciti fuori Del maggior corpo al del che è pura luce. Par. e. 30, v. 39. Ed ognun vede che essendo questo cielo tutto di pura luce, e maggiore degli altri che dentro a se inchiude, ed avendo tutte le sue parti egualmente compiute, ne viene che esso prenda anche più abbondevole la luce di Dio, e ne ritragga maggiore la gloria : sic- ché la gloria di Dio pare che sia propria di quello, come è veramente. Del resto il cielo empireo è ve- ramente il primo giro che si fa bello degli spiriti beati e si riempie della luce di Dio; e se le anime appa- riscono a Dante in diversi cieli, non è perchè sia loro sortita questa o quella spera, ma per far aegno della celestiale (spera celestiale, è la spera suprema, ossia il sommo cielo) che ha meno salita. Par. e. 4. v. 39- 44. E l'empireo non è di vero altro che il regno G.A.T.CXVIl. 7 ^8 Letteratura santo^ che Dante volle far materia al suo ultimo la- voro^ e. I, V. 10. E per fare intendere che egli dovette passare per tutti i cieli , gli bastò pure V accennare 4'essere stato in quel luogo altissimo e superiore a tutto l'universo. Onde è ben vero, che il cielo è qui preso in senso particolare, ma cos'i determinato per quelle parole : il quale più prende della luce divina: che nella sua particolarità abbraccia gli altri cieli; ed esso solo è il vero cielo, e gli altri nell' ordine Stabilito non servono che a dimostrare il più o meno di felicità che le anime quivi posseggono. In somma Dante volle in questa terza cantica celebrare la glo- ria o il gaudio del paradiso, e le condizioni del re- gno celeste (§. 29: Gaudia Paradisi^ conditiones re" gni coeleslis ) : e il paradiso vero e propriamente detto è in quel cielo che riceve più abbondante la luce di Dio, che è a dire il cielo supremo, il cielo empireo, cielo di luce e d' amore. E di qui è che Dante, accolto nella candida rosa di quel sicuro e gaudioso regno, disse, che avea già compreso eoi guar- do La formn generale di Paradiso^ e. 31, v. 52. Se a queste cose avesse più attentamente ripensato lo Scolari, avrebbe potuto scorgere che l'interpretazione di Dante intorno ni eiel che più della sua luce prende per Vempireo^ non che punto contraddire al poema, va ^nzi mirabilmente in armonia con esso. Perchè è bensì vero che per tutta quella cantica Dante viag- gia di cielo in cielo: ma e che per qnesto ? Non po- teva ei forse nel principio del suo canto abbracciare in uno tutti i cieli per cui era percorso, e con un tratto solo farne conoscere l' immensa tela eh' egli aveva ordito? E non dice il meno chi dice il più? Or Divina Commedia 99 vogìionsi considerare eoa animo riposato le paròle di Dante, e poi starsi contenti di riverirne l'autorità, al- meno là do\e ei spiega sì chiaramente se stesso. So b^ne, e chi noi sa? che Dante scrisse, e che noi re- citiamo tutto giorno, che Dio sta nè'cieU (Scolari, Op. cit. p. 46); ma è altresì vero , che Dio siede nell' allo seggio^ e regge nella sua città. Inf. e. 1, v. ^Qf»,' e che la sua vera città è il sommo cielo, ossia l'em- pireo. Né ci si vede contraddizione con quanto se- guita ; E vidi eosc che ridire Né sa, né può chi di lassù dise(^9ìde ; •perchè senza ripugnavo ai buon ^nso e al fatto (Scolari pag. 16) essendo salito colassu e* poi disceso, ha dovuto passare per gli altri cieli, è' poteva perciò parlar degnamente anche di essi. 'É-^ Dante nel dirsi incapace di ridire le cose vedute nel cielo empireo, non intese già di mostrarsi idoneo a dire le cose vedute ne'cieli inferiori ; talché si do- vesse riputare più dello stesso Paolo. Imperocché nell'aver detto di esser mal atto a ricordar tutte le' cose di lassù, o dell'empireo, venne anche a dire il medesimo delle cose che si trovano in esso e negli altri cieli, i quali tutti si comprendono in quel gran cerchio. Per verità che io mi sento fin noia e sde- gno d'entrare in simili questioni: perchè non si può tener dietro a chi corre all'impazzata dietro all'im- peto della propria immaginazione; e chi fissandosi una opinione in capo tenta di torcere alla peggio le rette interpretazioni, e va falsificando il vero con quel- le apparenze che più lusinghino la propria volontà. 59. A nullo contineri. Questo è il sovrano edi- lizio del mondo, nel quale tutto il mondo si include, e di fuori del quale nulla è. Conv. tr. 2, e. 4. Witte. 100 Letteratura f*r 60. Coelum igne etc. Lo cielo empireo, che è di^ re cielo di fiamma^ ovver luminoso. Con. t. 2, e. 4. 61. Et est eius appetitus. E questo cielo empireo è cagione al primo mobile di avere velocissimo mo- vimento^ che per lo ferventissimo appetito che ha cia- scuna parte di quello nono cielo^ che è immediato a quello, di essere congiunta con ciascuna parte di quello (decimo) cielo divinissimo, cielo quieto^ in quello si ri- volve con tanto desiderio, che la sua velocità è quasi incomprensìbile:, e quieto e pacifico è lo luogo di quella somma Deità che se sola compiutamente vede. Con. t. 2, e. 4. Lume è lassii, ec: Re flesso al sommo del mobile primo Che prende quindi vivere e potenza. Parad. e. 31, v. 100. 62. Omnis perfectio sit radius primi. La prima, volontà, che è per se buona. Da sé che è sommo ben mai non si mosse. Cotanto è giusto quanto a lei con" suona: Nullo creato bene a sé la tira; Ma essa, radian- do lui cagiona. Par. e. 19, v. 90. 63. Ad destructionem anteeedentis. Imperocché il primo argomento si fondava in ciò che il cielo em- pireo, comprendendo solto di sé tutto il mondo, l'in* formava della sua virtù; laddove ora si afferma, che esso vien circondato e illustrato dalla luce di Dio. Ciò che sarebbe contro la prima ragione, la quale secondo la propria forma d' argomentare non pro- verebbe, potendosi opporre che quel cielo non con- tiene tutto, essendo contenuto da Dio, Ma ove si con-. Sideri la materia del cielo empireo, l'argomento reg-' gè. Questa materia di sua natura é difettosa, e po- trebbe perciò tal difetto sempiternarsi nel cielo em- pireo : ma poiché Dio non gli diede moto, colla fi-'> Divina"Commedia 1 0 1 losofìa di Dante si argomenta che gli avesse dato una materia che non fosse difettosa. 64. Sibì; vuoisi riferire non a Deus^ ma bensì al pronome eius posto in luogo di empireo , e così anche il sibi che seguita poco dopo. Né faccia me- raviglia che qui si usi il possessivo in luogo del di- mostrativo, come pareva richiesto, giacche Dante pare non facesse molto caso di ciò; e nella prima egloga a Giovanni del Virgilio gli dice, che vinto dall'amor di Melibeo cessò dal riso, e prese infine a parlare: Vic- tus amore sui^ idest illius^ v. 8. 65. Materiam. Legge il codice mediceo in luogo di naturam; e questa lezione, benché generalmente sia rifiutata, è senza alcun dubbio la vera: perché l'argo- mento era di provare, che la materia dell' empireo non era stimolata da bisogno alcuno, per conchiu- dere poi che non avea in sé difetto, che potesse sem- piternarsi. E questa stessa perfezione del cielo em- pireo nasce appunto perchè ciascuna parte di esso ha ciò che la sua materia vuole. Il Convito mette il suggello alla nostra interpretazione: Li cattolici (quivi XeQQvàmo) pongono esso cielo essere immobile, per avere in sé, secondo ciascuna parte^ ciò che la stia materia vuole: T. 2, e. A. In breve, i due argomenti voglionsi ridurre a questo: il cielo empireo contiene di sotto a sé ogni cosa: ma il continente rispetto al conte- nuto ha la relazione di causa ad effetto, ed ha per- ciò verso di esso una maggior dignità. Pur nondi- meno non si può dire, che pertanto il cielo empi- reo sia perfetto: perchè la sua materia è tale, che in essa può sempiternarsi il difetto. Ma Iddio non avendo ad essa dato il moto, è da inferire che l'ab- bia formato di una materia di nulla bisognosa; e quin- ^0^ Letteratura di perfetta. Ed ceco in cotal guisa rannodati insieme i due argomenti, di guisa che l'uno non ccnstrasti^ ma anzi giovi all'altro. E questo argomento si può convertire per ragione della materia perfetta^ e affer- mare con eguali verilà: Si est coeluin empyreum^ est materia perfectuin ; et si est materia perfectmn , est coelum empyreum. iC(j orti GG. Leggo risibile, e non visibile come porta la lezione comune , cosi volendo la necessità del di- scorso;, perchè possono cosi bene convertirsi le pro- posizioni: si homo est, est risibile, e dire con verità si risibile est, est homo: perchè il riso è singolare proprietà dell'uomo. Ma non si potrebbe dire, si vi'- sibile est, est homo. D'altra parte gli scolastici segui- tando Aristotele, nel recare un esempio della dimostra^ zione a posteriori, o de^Vi effetti, additavano quello che loro porgeva il gran maestro: Omne risibile est ratiO' naie; sed omnis homo est risibiUs; eryo omnis homo est rationalis. Arist. 1, poni. e. 2. G7. Paradisum. Qui ben chiaro si vede che per Dante, come per ogni buon cattolico, il cielo empi- reo è il paradiso ; e che pertanto il poeta, volendo trattare di questo, opportunamente, cel rappresentò per il cielo t]<^ cieli, quello dove Dio siede come re de'ré, e vi diffonde la maggior sua luce. E quello il cielo delle delizie del Signore: Coelum deliciarum Domim^ §. 27. 68. Nihil postea recitantes. Vedi Purg. e. 32, V. 79. ' 69i.,Et legant iRioardum eie. Questi sono gli au« tovi^ in cui bisogna fare grande studio, chi voglia conoscere e pregiare la dottrina di Dante; e se i comen- tSiLOr,i avessicro masòimamente ricoiso ad essi e agli Divina Commedia 103 altri tali dottori, forse la Commedia non avrebbe a desiderare maggiori comenti. 70. Propter peccatum loquenlis. In queste jiarole abbiamo maggior prova per ritenere che Dante si riconobbe offeso di peccato, e che la sua mirabile visione gli fosse venuta per convertirlo alla vera via: e appunto la scrisse per consigliare col suo esem- pio ogni anima smarrita a fare il medesimo. TI. Nescit et rier/w«7. Bisogna avvertire a queste minute distinzioni che il poeta vien facendo, e allora meglio si conoscerà a quale severo esame egli met- tesse i suoi pensieri e le sue parole. 72. Sifjna vocalici desunt. Più ampi sono li ter' mini degli ingegni a pensare che a parlare. Conv. t. 3, e. 4. Molte volte al fatto il dir vien meno. Inf. e. 4, V. 47. Da quinci innanzi il mio veder fu mag- gio Che il parlar nostro., che a tal vista cede. Farad, e. 33^ V. 55. 73. In prima petit divinum auxilium. Questo sol cenno sparge tanta luce sulla Commedia, per quanto all'uso che ivi si fa della mitologia, che solo mi basterebbe a farne Dante il vero autore. Impe- rocché, come Apollo quivi significa 1' aiuto di Dio^ o, come Dante spiega nuovamente, nel poema, la di- vina virlvL\ Par. e. 1, V. 22; così è a dire che sotto le figure mitologiche siano ascose ben altre verità , che non sogliono mostrarsi ad occhio volgare. 74. Urget me rei familiaris angustia. Questa è quella povertà, a che nell'esiglio il nostro poeta do- vette soggiacere: Inopina pauportas quam fecit exi- lium (Lett. ad Oberto e Giudo da Romena) : e però il tremare che fece in ogni vena. 104 Letteratura 75. Alia utilia reipuhlicae. Oh ! fosse stato in piacere a Dio di concedere a Dante tanto di vita e di comodità , che avesse potuto condurre a fine questo comento del suo gran lavoro, e noi forse sen- tirera meno romoreggiare di Dante, ma la sua opera porterebbe a quest'ora i suoi desiderati frutti! 76. De magnificeniia vesira. Quindi è manifesto che Dante, stretto come era dalle angustie di fami- glia, e preso dal maggior desiderio di terminare con agio il suo poema , ricorreva alla maguifìcenza di Cane: e dedicandogliene la parte più nobile, si pro- metteva di vieppiù entrare nella grazia di lui e ri- ceverne i benifizi opportuni. 77. Vera beatitudo etc. Questa sentenza s'accor- da pienamente ai principi! dottrinali di s. Tommaso, i quali eran pur quelli di Dante : che, dipartendosi dalle dottrine di Scoto, fondava l'essenza della bea- titudine neWatlo della visione di Dio^ non iu quello delV amore. Vesser beato (si fonda) neWatto che vede Non in quel che ama^ che poscia seconda: Par. e. 28, V. 110. 78. Tamquam videntibus omnem veritatem etc. Perchè il viso hai quivi , Ove ogni cosa dipinta si vede. Par. e. 24, v. 14. 79. Habet utilitatem et delectationem. Niuno mai seppe così accoppiare il dolce all'utile, siccome Dan- te, a cui la parola risponde mai sempre soave e in- tera e però utilmente efficace. 80. In ipso Deo terminatur tractatus. Ciò ne per- suade, e ne riferma, che la Commedia non è che un trattato poetico di dottrina.^ ossia un libi^ di dot- trina trattata poeticamente. E il difetto della dottrina Divina Commedia 105 e della scienza conveniente , il quale s' osserva in quasi tutti i comentatori nioderni fuori del sommo Tommaseo, li rende più o men lontani dalla perfe- zione, a cui per avventura si potesse arrivare. Sif- fatti cenni, ancorché brevissimi, bastano a farci co- noscere quale in vero è la parte esecutiva della Commedia. E qui facciamo punto, e raccogliendo riducia- moci a dire ; che i pensieri, i sentimenti, la manier a del dire, i fatti storici della lettera a Cangrande con- cordano a pieno con quanto, salvo una' piccolissima eccezione, si trova nelle altre opere di Dante. 01- trecchè l' arte, onde ivi siamo ammaestrati a con- cepire il disegno di tutta la Commedia e a comeu- tarla nelle sue parti .speciali, è cosi propria e con- ducente al suo fine, che non lascia a desiderare di più. Soltanto dobbiamo augurare che i comentatori, trascurate le proprie invenzioni, si mettano coscien- ziosamente a seguitare quei precetti, ed io mi ac- certo che, affaticandosi tutti per questa via, si giu- gnerà poi finalmente alla meta gloriosa. 106 Francesco di Bartolo da Butt , 'pubblico lettore del Dante a Pisa dal 1385 al 1394, 'pubblicò il suo comento nel 1397. Pensieri di Marco Giov. Ponta. X^ rancesco di Battolo da Buti ( che in molti co-' dici del XIV e XV secolo è scritto da Buyti , da Bruto , e da Bulrio) della cappella di s. Paolo al- VOfto (1), cominciò la lettura pubblica sul libro di Dante in Pisa nel 1385: e, come spesso addiviene ad un professore valente, la continuò per diversi anni con tale soddisfazione e frequenza degli uditori, che il comune volle ricompensamelo ascrivendolo alla cit- tadinanza pisana. Queste notizie, tratte da genuini documenti contemporanei esistenti in Pisa , le ab- biamo attinte dal Fabrucci, di cui pur si giovò il Pelli che lo cita nell'opera sua Memorie per servire alla vita di Dante Allighieri: §. XVII. Sappiamo pertanto con sufficiente certezza Iranno che fu co- minciata la butiana lettura sulla divina Commedia; ma chi sa indicarci in quale fu compiuta, ed in quale altro si divulgò il frutto di quelle lezioni ? Su questi due articoli nulla scrive il Pelli: a lui basta l'averne fissato il principio col Frabrucci , il quale non ne dice altro. Il chiarissimo dottore Ales (1) Fabrucci Stefano Maria, De nonnuUis quac coristilulae rc- cens pisanae universitati sinistra cunligerunt, vel incommoda. Nella raccolta di opuscoli iu 31 volumi del Calo^jeià, voi. 23 a carte XXVI I e segg. Sul commento del Buti 107 saDclro Torri, coiDmendato amatore dello studio dan- tesco , ed amico mio prestantissimo , nulla tocca della sua pubblicazione, ma dà per compiuto que- sto lavoro sino dal 1385 , sebbene afFerntii che nel 1387 continuava tuttora la cattedra del Buti (1). Da questo si rileverebbe che il commento, che di questo A. abbiamo, non che sia il frutto della sua pubblica lettura, egli l'avrebbe preceduta: il che non saprebbesi dire assolutamente impossibile: ma pure, sinché non appaiano i documenti opjwrtuni a raffer- marla, SI fatta notizia ha mollo dell'inverosimile. Il valendssJmo signor visconte Colombo de Ba- tines, della cui amicizia molto mi onoro, nella clas- sica sua Biblioijrafia Dantesca^ opera preziosissima, anzi di assoluta necessità nello studio dantesco, ac- cenna col Pelli (2) il quando cominciò la lettura : e riferendo a facce 327 (.11 la sottoscrizione del codice magliabechiano num. 217, ove leggesi «...let- tura compiuta nel 1395: » egli subito soggiugne: « leggi 1385. » Di qui dobbiamo arguire che pur egli la senta col Torri, che il commento fosse com- piuto l'anno stesso che il Buti aperse la scuola. L'uno e l'altro di questi esimi dantofili avrà (io credo bene) sue belle ragioni a così definire la quistione, e forse che io sarei tal'uomo, che, se queste mi fossero note, mi unirei con loro di buon grado. Ma sin che tali ragioni mi sono ignote, io sono ben d'altro parere, per aver argomenti non al tutto vani (almeno sulla mia bilancia) da credere che questa lettura, cominciata (1) Studi inediti su Dante, a face 97 e 98. Firenze, Agenzia li- braria, 1846. (2) Tomo I, face. 577. Tomo II, face. 317. 1 08 LèTTERATUftA nel 1385, non siasi compiuta prima del 1394, e che il commento, esposto ripartitamente in quella lettura, venisse pubblicato negli ultimi giorni del 1397. Così credetti un tempo: ma ora vedendomi contraria la sentenza di letterati cosi egregi per sana critica, e per dantesca erudizione , dubito di me stesso. Ma non sì che non voglia farmi ardito a proporregli ar- gomenti che in tal credenza mi acquietarono in addietro; ed ora, comecché dubitoso alquanto, non me ne lasciano dipartire. Dirò dunque ciò che sul commento butiano io penso , pronto a riformarlo , o mutarlo di pianta secondo che il pubblico lette- rato r avrà come buono approvato, o coqie vano e falso ripudiato. Non par soggetto a dubbio che il commento butiano, che esiste in molti codici del secolo XV, &ia frutto prezioso della sua pubblica lettura nella città di Pisa; giacche il proprio autore di questo fa av-- vertiti i lettori nel proemio che a quello premette. Il quale proemio anche fa conoscere di essere stato composto dal Buti quando questi, già chiusa la scuo- la, per accondiscendere alle domande degli amici e di chi frequentò le sue lezioni , si deliberò a mandar fuori quelle lunghe e sapienti sue fatiche : «» Non so s'io farò pregio dell'opera fcosì dice egli) scrivendo la lettura sopra il poema del chiaro poeta Dante Allighieri fiorentino, secondo il modo e l'or- dine che per me si lesse pubblicamente nella città di Pisa . . . Ma cedendo ai conforti incitativi delli amici, e massimamente degli uditori, a'quali, per la continuanza, la lezione mostrava essere piaciuta; . . . quanto in me sarà ho preso ardire, ecc. '> Da queste Sdl commento del Boti 109 pai ole io devo argomentare che il commento sia pro- priamente quel tanto che il Buli ha letto dalla cat- tedra, e che venisse divulgato alquanto dopo che la lettura era stata compiuta e chiusa. Ora pel Fabrucci sappiamo che la cattedra, da messer Francesco da Buti ascesa la prima volta nel 1385, continuava nel 1387: e pel Buti medesimo siam fatti certi che il commento, vero frutto della sua lettera, fu mandato al pubblico quando l'autore avea già da pezza lasciata quella scuola. Questi soli dati, raccolti da documenti che in critica hanno tutti i più desiderabili gradi di certezza, rimuovono ogni dubbio che dall'autore fosse resa di pubblico di- ritto nel 1385 quell' una fatica, che egli nel 1387 ancor non aveva compiuta. Venuti in possesso di tali ragioni, vogliam dare un nuovo passo per raggiungere, se sia potuto, e di- scoprire il vero anno in che la lettura fu terminata, e quello in cui fu messo fuori il dettato. Per agevolarmi il cammino alla prefissa meta devo osservare , che la Divina Commedia consta , come ognun sa , di ben cento canti di una poesia .sì gravida, e coperta di preziosi documenti poetici, storici, favolosi e scientifici di ogni fatta, che l'au- tore dir poteva di essa, come fece del suo Convito e delle sue canzoni morali, che è materiata di scienza e virtù. Un volume di tal natura non ispiegasi, non si commenta al pubblico col metodo del Buti né in tre né in cinque anni: prova sia il Boccaccio che in tre anni spiegò solo un sesto di tutta la Com- media. Però avendo messer Francesco ascesa la cat- tedra nel 1385, non poteva scenderne ad opera com- 110 Letteratura piuta, che parecchi anni dopo il 1390: e solo in tale epoca potea mandar in luce le proprie lezioni. Que- ste nostre illazioni, che sembrano molto discrete, ri- cevono un potentissimo appog^gio di là onde meno altri sei pensa. Elleno son confortate dalla sottoscri- zione, che trovasi più o meno imperfetta, alla fine del comniento del Paradiso in tutti i codici noti. Cotesta sottoscrizione, comecché ovunque deturpata da errori decumani, in alcuni {juasta, ed in altri esem- plari monca , mendosa in tutti ; pure conservando ovunque la immagine di un solo concetto , è certa prova che dall'autore stesso, a cui nome parla, fosse di propria mano vergata in calce dell' esemplare autografo. Delle diverse chiuse del commento del Para- diso, la meno guasta e più ritraente dello scrivere dell'ingenuo e religioso di Francesco daButi mi pare la seguente, tratta dal codice magliabechiano Palei, n. 29 (1). « E qui finisce lo canto xxxìij della terza » cantica della Commedia di Dante Allighieri .... » e la sua lettura, edita, e compiuta per me Fran- » Cesco di Bartolo da Buyli , cittadino di Pisa , lo « dì della festa di santo Bartolomeo , addi XI di » giugno nel Mccclxxxv. E poi ricorsa per me qui » nel xxij di dicembre Mccclxxxvij Indictione V. » Della qual cosa rendo devotamente quanto più >> posso all'onnipotente Dio Padre Figliuolo et Spi- » rito Santo, ed a tutta la coite di Paradiso grazie (i) Mi giovo, colla debita gratitudine all'A., della Bibliografia danttsea nei luoghi testé citati, e principalmente fac. 317. e segg. T. II. Sul commento del Buti 111 »•. devotissime . Per infinita saeeula saeculorum. » Ameìi. » Molle ed a noi utilissime osservazioni sono da fare su questo documento. In primo luogo la sua esposizione fa prova sicura che ella sia lavoro dello «tesso commentatore, e da lui di propria mano scritta in calce al suo luogo e prezioso lavoro. Di questo sono testimonio parlante non pur le parole lettura edita e compiuta per me Francesco di Bartolo da Buyti. - E poi ricorsa per me\ - ma ed altresì quel divoto ringraziare a Dio per avere finalmente com- piuto una lettura di tanli anni , non potea cader in mente ad uomo nato se questi non era quel desso che per mesi ed anni sudò ed agghiacciò sul vo- hime di Dante. In secondo luogo si avverte che quando fautore raccolse in un volume la Lettura non era più a Pisa. Tanto si ha da quel: e E poi ricorsa per me qui. » Questo avverbio di luogo fa cono- scere nella sottoscrizione la mancanza della città, ove l'autor scriveva, la quale certo sarà stata scritta nell' autografo: finalmente ci si fa noto con distinzione il tempo che fu compiuta la scuola, e quello che dal- l'autore fu ricorso il manoscritto, probabilmente per divolgarlo. La qual probabilità divien certezza per quello che abbiau) veduto essere scritto nel proemio. Laonde sappiamo per l'allegata sottoscrizione che la lettura si compì nel McccLxxxv, e che lo scritto fu ricorso nel McccLxxxvII. Quello che per noi fu os- servato in primo luogo è certo per se: ma quello che osservammo secondamente, se fosse esatta la scrit- tura, farebbe contro di noi ed in prò del Torri e del Batines. Ma chi seriamente e coli' acuto viso 112 Letteratura dell'intelletto fissi e consideri queste date, e le meùn a confronto colla storia e colle altre note del do- cumento stesso, discoprirà ben presto le gravi mende che sì trovano in esse. In fatti , fermo stando per le carte vedute dal Fabrucci, che il da Buti nel 1387 continuava a Pisa la lettura del Dante, cominciata qualche anno innanzi; non può concedersi che que- sta si fosse compiuta due anni prima, come asse- risce la prima data McccLxxxv. Di più dicendo la sottoscrizione che l'autore ha ricorso il manuscritto, dopo lettura compiuta, nel McccLxxxvII fa manifesto un nuovo errore; stando fermo alt; esì che in detto anno il lettore non compì la scuola, ma per atte- stazione di documenti pisani , ottenne anzi dal co- mune pisano un buon aumento di assegno per do- verla continuare. Dunque le epoche presentate dalla esaminata scrittura, trovandosi in contraddizione coi documenti storici, devono ripudiarsi perchè mendaci. Ma non sì che l uomo non s'accorga, che tutto l'er- rore procedette dalla solita inavvertenza dei menanti, cioè dall' aver omesso in ambedue un X, carattere del dieci romano Che se noi suppliamo a questa mancanza, quelle date divengono certe e ragionevo- li ; otterremo in fatti, la lettura compiuta nel Mccclxxxxv, e ricorsa nel McccLxxxxvII. La nostra supposizione si muta in verità, ove si avverta che Yindizione F*^, che il codice assegna per la corrente dell'anno in che il Buti rivedeva il co- mento, non risponde al 1387, ma a dieci anni più tardi, cioè al 1397, come di leggieri pei calcoli si rileva. Ondechè la lettura, che dicesi slata compiuta due anni prima,non avrebbe ciò ottenuto che nel 1395. Sul coMxMento del Buti 113 E con questo eccoci tornati in buon accordo coi documenti veduti ed allegati dal Fabrucci. Il processo e la conclusione del nostro ragiona- re sono confermati dalla medesima sottoscrizione nel modo che si trova nel codice Martelli di Firenze (1), ove a chiari ca^at^eri si legge, compiuta nel 1395. Quindi non fu troppo avveduto il chiarissimo Bati- nes quando corresse la data con un « leggi 1385 ». Imperocché omesso qui di avvertire che nel 1385 la lettura era non compiuta^ ma cominciata, è da sape- re che questa medesima data confortasi dal codice laurenziano^ Plut. XLII, num. XVIII, ove si legge: Compiuta lo di della festa di santo Barnaba a di xl giugno MccccLxxxxv. Ind. seconda (2). Qui abbia- mo il compimento avvenuto 1' 1 1 giugno nella festa di s. Barnaba: il che emenda il magliabechiano che dà lo stesso mese e giorno, ma assegna questo per la festa di s. Bartolomeo, che viene ai 24 d'agosto. Ma un errore gravissimo scorgiamo in essa là dove leggesi lettura compiuta nel MccccLxxxxv: senza fallo il copista vi lasciò correre un centinaio (C) di più. Il Buti, che spiegava nel 1387, potea ben compire il suo magistero innanzi al 1395, ma non potea farlo cento anni più tardi (1/i95), essendo morto nel 1406. Il- lustrati addunque dalla santissima face della critica le- (1) Op. cit Tom. 1, fac. 98. (2) Op. eit. T. Il, f. 326. Anche il Fabrucci attribuisce al chio- satore questa sottoscrizione del laurenziano qui detto, e ne argo- menta che il Buti leggeva Dante nel 1393 ( Calogerà , Collezione di opxiscoli in tomi 3 1, tomo 23 face. XXVI e XXVII) : ma tace che il codice per errore del menante abbia invece 1493, come ricopiò il Batines. G.A.T.CXVII. 8 114 Letteratura. viamo un C, e correggiamo a questo modo : com- piuta nel McccLxxxxv ; e tutto si fa probabile. Senonchè l'anno che si compieva la lettura bu- tiana^ per avviso della medesima scrittura, correva ' Viudizione seconda : questa però anziché al 1395 ri- sponde al 1394 : dunque a ridurre vero l'anno del codice laurenziano è da premettere l'unità romana (I) al V ropoano facendolo IV, per cui si otterrà il compimento suddetto avvenuto nel McccLxxxxIv.Que- st'ultima correzione concorda pienamente col codice riccardiano num. 1008, ove leggesi : compiutolo dì della festa di santo Bernardo adi 11 di giugno 1394 Ind. sca. Muta in s. Barnaba il s. Bernardo ( che corre ai 20 di agosto ), per l'osservazione antece- dente, e tu avrai la certa notizia che messer Fran- cesco ddL Buti compieva le sue lezioni sul Dante neW iì giugno del. 139.4. Iropertanto noi ch^e, guidati dalla storia e da critiche deduzioni, abbiam prima ciedutO; poter de- terjjaìiiptare,, che la pubblica lettura del Buti non potè c(?nipiers(i, che molto dopo il 1390 , ora illuminati dalle proprie sue parole , dobbiam dare per certa (quajato è da noi) che la scuola di questo insigne commentatore fu chiusa col compimento delle chiose il dì 11 di giugno del 1394 : e che tre anni più, j tardi queste numerose lezioni raccolte dall'autore in un corpo, furono rese di pubblico diritto. Pvldotte le cose in questi termini, si deduce, che niun codice an- teriore al 1897 può contenere questo commento : che il solo autografo, ove si rinvenga , può avere la data del 22 dicembre di quest'anno medesimo : e che pertanto, le copie fatte su quello dovendo es- uso DELLA LINGUA ITALIANA 1 1 5 sere di necessità posteriori, si può quasi asserire che niuna di quelle possa dirsi del secolo XIV. Questa è la mia sentenza, e queste sono le ra- gioni che, fattamela prima abbracciare come vera, ora non mi concedono di lasciarla , se argomenti più forti non si producono che la mi facciano co- noscere chiaramente, o men che ragionevole , o al tutto errata- 'i" ffWMW¥!W4^WWM¥T4Wfi Del debito degrUaliani di porre studio^ e mettere in uso più uìiiversalmetite la propria lingua. Discor- so di Gianfrancesco Ramhclli tu occasione di pre- mi il di 8 di ottobre 1848. G randissimo e fortemente radicato è il pregiudizio, che si ha comunemente in Italia, ove si pensa che gli uomini nati in essa , e che ne parlano abitual- mente i particolari dialetti, non abbiano al tutto bi- sogno di studiarne la lingua : essendoché ella venga lor quasi bevuta col latte, e respirata, 'per così dire, coU'aria che li circonda. E in tale falsa persuasione fondati giudicano si abbia a scrivere tal quale si parla: che nessun ceppo , nessuna autorità , nessun libro debba frenare la loro intemperanza: e scriven- do, come gitta la penna, tengono ogni frase, ogni vo- cabolo, ogni forma di parlare buona ed accettabile, sia poi naturata o no nell'italiana favella. E perchè 116 Letteratura dallo ammettere tanto imraoderata libertà viene a cessare il bisogno di faticarsi nello studio del bene scrivere e parlare il nazionale linguagg^io , non è a dire come dalla più parte de' nostrali quel pregiu- dizio sia ricevuto per approvato, e siffattamente ac- carezzato che nulla più : E credono che basti, o gente sciocca ! Per parlar ben toscano aprir la bocca Ma quanto si sbagli grossamente in ciò, non è savio che noi conosca. E quindi in giorno di tanto allegramento, in che questi magistrati sovrammodo accesi del bene della patria donano a larga mano e Iodi e premi all'avventurosa gioventù che ne'pri- mi nobilissimi frutti alle speranze de'lieti fiori ala- cramente risponde , parendomi sia a dire d' alcuna cosa, che potendo forte vantaggiarla sia insieme delle più comuni e più care alla nazione; così, per quanto il concederà la pochezza dell' ingegno e della dot- trina, mi farò a mostrare essere debito d'ogni vero italiano il porre studio non solo, ma anche mettere più universalmente in uso la propria lingua. Con- ciossiachè sia ella quel santo laccio naturale che stringe e rannoda tuttora in uno questa bella fami- glia chiusa fra l'alpi e il mare ; la quale , se dalla forza di prepotente fortuna è separata e divisa , fu almeno, ed è dalle arti della sapienza e di ogni bello perpetuamente unita e congiunta. Laonde, se di no- stra concordia niun altro vincolo rimane che la lin- ' gua « tanto maggiore è il prezzo di conservarla , » quanto il perderla sarebbe l'estremo segno della de- Uso DELLA LINGUA ITALIANA 117 » bolezza e rovina nostra; come fu segno estrenno di >» debolezza e di rovina alle nazioni che ci precedet- 1) tero ». Grande e di altissimo rilievo essendo l'im- preso argomento, e a questi garzonetti pienamente ad- datto, mi è dolce il credere , che grande sarà ben anco l'attenzione che porrete nelTascoltare, come io mi faccia a svolgerlo brevemente. L'uomo a significare con suoni articolati i con- cetti della propria mente ebbe da Dio il linguaggio, grazia e maraviglia stupenda; fatta poi stupendissima dallo avergli donato ingegnoso acume all' inventiva di brevi segui e cifre rappresentanti all'occhio i suo- ni, onde venne a formarsi la scrittura; mezzi poten- tissimi spargitori del lume intellettuale, che è parte principalissima e conducentissima alla gloria e pro- sperità delle nazioni. Le quali avendo ciascuna un indole e natura propria improntata loro da'climi, da' luoghi, da'costumi, dallo educamento, dalle opinioni, e dalle lingue, ogni uomo che senta amore per la propria nazione il dovrà sentire eziandio per tutto^ che valga al progresso, alla gloria, alla civiltà e cul- tura maggiore di lei. E avrà perciò sommamente in amore que'mezzi e spedienti che distinguono e raf- fermano vieppiù i nodi di congiunzione, che insieme avvinta e riunita la mantengono. Ma principale delle cagioni che legano gli uomini infra loro, ch'affezio- nano alle patrie e alle contrade, in cui sortirono di nascere e condurre la vita, è l'avere una lingua pro- pria, coltivarla, amarla, pregiarla, farne uso in ogni congiuntura. E giovando principalmente tal comu- nione e ugualità di parlare ad imprimere negli ani- mi una nota originale assolutamente propria della i 48 Letteratura nazione , diventa questa produttrice feconda , non tanto di vivo amore al bene pubblico ed universale sparso ne' diversi membri di lei, quanto della più intima e salda congiunzione dell'intero corpo politi- co e de.frli ordini, e delle persone che lo compon- gono : oodecbè è ad avere per fermo , che se vo- gliamo tuttavia serbare il carattere di nazione è a mantenere costantemente quello deirilalica favella. E invero, onde crediam noi che originasse T altissimo amore delle patrie loro, che ardeva ne'petti de'gieci e romani, se non dalla suprema altitudine del con- cetto in che teneano le cose loro ? Immensa, infi- nita cura si davano di spargere e diffondere per tutto le lingue loro: grandissimo era il conto in che le avevano: vivo l'ardore, con cui le coltivavano; al che doveano in moltissima parte quello spirito pa- triottico che tanto in loro si ammira, quelTentusia- smo nazionale generatore di straordinarie, magne, e quasi incredibili azioni. E tanto li ebbe allucinati lo in^rrandito pregio de'loro idiomi, che gridarono stra- niero, barbaro, nimico, e quasi men che uomo, colui che parlava un linguaggio dal loro diverso. E non- dimanco codesta non era cosa illusoria, era natura- le. E non proviam noi un piacere, una gioia , una efifusione di animo singolarissima, allorché in estra- nio paese ci abbattiamo a discorrere con chi abbia in bocca la stessa nostra favella? Non è il materno sermone quel segno, che ci pone innanzi congiun- tamente tutti i più santi vincoli che concorrono fra i cittadini , che ci rimembra l' idee tutte più gio- conde dei parenti, della patria, de'figli, degli amici? Che se da immensa allegrezzza è compunto il cuore Uso DELLA LINGUA ITALIANA 119 al rivedere e visitar nuovamente il luofro natio, ed ove si trasse lunga dimora , talché se ne amano é pregiano perfino le rupi, i sassi, i tronchi, le ca- panne, i ruscelli, da quanto maggiore hon sarà com- preso per «^ue'segni, por quelle voci, die prime ci feriron l'orecchio, prime si fìssero nelle nostre menti, prime ci scesero al cuore, e vi destarono le più dolci e care affezioni di nostra vita mortale ? Se adunque il linguaggio è il vincolo più na- turale all'uomo, se colla comunanza di esso si ten- gono i popoli avvinti e compresi in nazione, perchè non dovremo noi italiani amare sovra ogni altra la lingua nostra; pregiarla e coltivarla a tutto potere; tanto più che abbiamo sortito tale favella, che for- turtata emulatrice della madre latina e dell'avola gre- ca è tutt'insieme gentile, dolce, grave, maestosa, ar- monica, sonora; e cosi abbondevole di vocaboli pro- pri, efficaci, significanti e vivi da pareggiare e sor- passare molt' altre, e forse ciascuna ? talché ebbe a dire enfaticamente Alberto Lollio che « se là natura » iste-ìsa i suoi concetti con umana voce esprimer » volesse, si dee creder fermamente, che altre parole » giammai non userebbe che le toscane ». Dal che resta chiarito il debito di porre studio nella lingua nostra, dal quale non siamo francati (come mal si crede) dall'esser nati in queste belle contrade, e dal parlarne i nativi dialetti. Che immetisa disugualità passa dalla parlatura del volgo a quella di chi pu- litamente scrive e favella : viziata, corrotta, barbara è la prima, gran numero di discordanze entrano in essa, d'idiotismi, di forme d'ogni conio , e d' ogni clima; di maniera che ne distruggono la purità, la 120 Letteratura proprietà, e ne guastano i costrutti '^ed i suoni. Che riuscirebbe quindi trasportata cosi nelle scritture ? Null'altro che un dialetto popolesco avente i voca- boli ridotti ad ilaliana cadenza : un gergo comuna- lìssimo e trivialissimo, gremito di voci basse, plebee^ talvolta rusticane, e villanesche ; aggiraotesi in un circolo angustissimo di frasi, parole, idee che sareb- bono perpetuamente le stesse. Mercechè quai pre- gi, quai splendori, quali adornezze potrebbonsi re- care nel comune eloquio, se solo avesse ad appren- dersi dalla consuetudine familiare, e da quella del popolo? Sterilità grande di locuzioni e di formolo; giacché non si avrebbe da attingerle, che l'uso vol- gare, arida ed impura fonte; uè artificii, scuole, li- bri da ciò ne somministrerebbero 1' abbondanza e proprietà de'vocaboli e de'modi, perpetuo nutrimento delle loquele, come sono le piogge e le rugiade alle piante, che per quelle ingrossano e crescono rigo- gliose di rami, e lussureggianti di foglie. Oltraciò le scritture derivate da'particolari dialetti, che tanto di- versificano dalla lingua comune, non solo manche- rebbero del vero colore e sapore italiano, ma fareb- bero sovente più sicura 1' intelligenza ; che da per tutto non si usano i medesimi vocaboli; non simili sono le pronunzie, né cogl'istessi accenti si parla per tutta quanta l'Italia. Indarno poi si cercherebbero in esse quelle doti che rendono una favella più gentile, più illustre, e più atta ad essere efficacemente adoperata : che il popolo ignorante, ragionando di sola memoria, me- scola le voci poetiche alle prosaiche , le belle ed elette alle sordide e vili, le nobili alle plebee, ado- Uso DELLA LINGUA ITALIANA 12 1 pora locuzioni stranie e sgrammaticate, confonde, a- busa la significazione delle nostrati, guasta il parlar proprio, guasta e travisa il figurato : e quindi negli scritti e ragionamenti tratti da esso non si trovereb- bero mai adatta elezione di voci , non chiarezza ,. non eleganza, non armonia, non grazia, non effica- cia, non ragionata distinzione di stile alcuna. Né monta il dire che abbiamo un vero fondo d'italia- nità ne' nostri dialetti : che abbiamo in essi rozza- mente architettate le norme della lingua; che citta- dine sono per la più parte le voci loro : |>erchè tut» to ciò è in essi cotanto informe, confuso, tralignato e imperfetto, che non se ne potrebbe cavare buon frutto giammai. Anche lo scultore, anche il fabbro hanno ne'nudi marmi e ne'grezzi metalli materie al- tissime a' loro lavori-, ma ove con ingegnose pratiche non valgano a ridurli, foggiarli e pulirli, quelle ma- terie non si cangeranno mai in istatue maravigliose, in istrumenti e arnesi di utilit«ì e d'ornamento sin- golare, lai Tutto questo è principalmente a dirsi degli scrit- ti : che quanto al parlare improvviso, ei dev'essere affatto spontaneo e conformato alla imitazione dei begli favellatori : rifiuterà quindi molte di quelle qualità che fanno care e pregiate le scritture : che in dicendo non si ha tempo a rammentarle o ripe- scarle, e potrebbono parere affettate e studiate quan- do vi si volessero introdurre ad ®gni modo. Né a causare fatica ci abbiamo ad illudere con questo, che in taluno de' nostri vernacoli sermoni splende qualche pregio peculiare. Abbiano pure gra- zia e dolce/za il veneziano e il bolognese ; forza e 122 Letteratura gravità il romagauolo; sia vibrato, e talor leggiadro il lombardo : non è perciò che molt' altri non siano irsuti, ispidi, inornati parlari. Mezzo latino è il sar- do, oscurissimi e di pessime proferenze il genovese, il comacchiese, il friulano, il calabrese : vario e ba- stardo il marchigiano. E ancorché offrissero in loro alcuna parte di bello, sono sempre a sbandire dalle scritture, perchè mancano generalmente d'ugualian- /a di voci, di consonanze di accenti, e danno tron- che e mozze mostruosamente le parole. E tanto più è a tener fermo questo bando, che sono costretti a dare studio alla comune favella anche quelli che parlano i dialetti romani e toscani, che pur molto si accostano alla lingua scritta : tanto que'dialetti sono trascuratamente usati da'popolani, e tanto hanno in loro di scoria e di mondiglia. Sente di napolitano e abbruzzese il romanesco che Dante chiamò tristo parlare. I fiorentini co'loro vocaboli squarciati e sma- niosi , colle gutturali gorgie e colle brutte .sincopi tolgono la grazia, !a bellezza e spesso l' intelligenza al discorso : attalchè (duolmi a dirloj uno straniero che venga in Italia, e ne oda ragionare ne' nostri dialetti nativi, ancorché ben si conosca dell'italiana favella, non vale ad intenderci ed è costretto a farci ripetere nella lingua comune quanto dir gli voglia- mo. Ma che dico io d'uno straniero ? noi, noi lom- bardi, roraagnuoli, bolognesi, se andiamo a Roma, a Firenze, a Torino a parlare i nostri dialetti non siamo intesi punto; e si beffano di noi. E in Torino medesimo forse più del brutto gergo piemontese è usato generalmente il favellar francese, non solo, ma quando que'piemontesi vengono inverso di noi di- Uso DELLA LINGUA ITALIANA 423 cono : Andiamo in Italia: quasiché per non parlarne continuamente il linguaggio se ne considerino alieni e forestieri. Ma pure , dirà qui taluno, come può vedersi ora questa necessità di studio della lingua volgare, se ne'tempi passati non s'è insegnata mai nelle scuo- le : eppure tulli parlarono e scrissero italianamente non solo, ma sorsero scrittori che in essa si levarono a gran nominanza. Quello adunque che accadava a que'tempi non dovrà parimente intervenire oggidì? No, per certo, signori; che nessun incremento^ nes- suna progressione, nessun miglioramento si avrebbe al mondo, se avesse a valere la ragione : che ^i è fatte sempre così. Invano avrebbe Iddio dato all' a- nima facoltà inventrice, osservatrice, perfezionatrice; se quella ragione avesse forza , non vi sarebbono . arti, non scienze, non traffichi, non umane comodità, non civile famiglia : ancora abiteremmo le cave ru- pi, i tronchi degli alberi, ancora ci avvolgeremmo ne'vestiti delle pelli; e nostro cibo sarebbono ancora le dure ghiande. Non così la pensarono greci e ro- mani gelosi e superbi di loro lingue, che prime e sole vollero s'insegnassero, si adoperassero, si disse- minassero pel mondo : e soltanto col corrompersi de' costumi e colle catene del servaggio poterono in- trodursi in Roma e in Atene le già abbominate e tenute barbare favelle altrui. E poiché a quelle scuo- le ciascuno nello scrivere faceva licito ogni libito, non è a dire quale bastardo gergo vi si raccozzasse: aflfermerò soltanto, che i pochi scrittori di lingua, che ne prevennero, per nulla dovettero la lor valentìa ad esse ove l'italiana favella non s'insegnava, e non si adoperava onninamente. L'eccellenza, a cui salirono 124 Letteratura in quella, a' buoni libri, a'dotti amici, al proprio sin- golare intendimento, alle loro indefesse diligenze e fatiche la dovettero. Nel che è tanto di vero, che talun d'essi è giunto a confessare, ch3 compiuti già adulto gli studi , e valente a comporre orazioni e poemi latini, non sapea dettare una lettera in italiano. Vincenzo Monti ancora (parrà cosa incredibile), esci- to di seminario che improvvisava versi latini, non sa- pea scriverne uno volgare, e fu principe de'poeti ita- liani del nostro secolo ! Tanto si trascurava allora lo studio della lingua nostra ; e tanto dovea total- mente cangiarsi per apprenderla chi avea usato a quelle scuole 1 Gonchiudasi adunque, che per sapere la lingua nazionale, e per valersene efficacemente, sono neces- sari l'arte e lo studio. Poste perciò le fondamenta grammaticali, lume e guida a ridurre lo scritto e il parlare ad un suono, ad una regola, ad un ordine, sono a svolgere con solerti cure le carte de'classici: che dal 1300 ( il nosiro secol d'oro produttore di Dante, Petrarca e Boccaccio) attingerassi la purità, la semplicità, il candor delle voci, e una brevilo- quenza leggiadrissima; dal 500 maggior nerbo, mag- gior sangue, dizione più abbondante, più magnifica, più eloquente : alcun vezzo e quella parte di bello che mantennero nel 600 que'fortunati che dall'uni- versale naufragio delle lettere si salvarono : e da' tempi a noi più prossimi un' accorta e sottile filoso- fia, un' acuta critica, e tutti que'presidii dell'arte che fan bello il comporre, ma che apparir non debbono svelatamente, anzi tenersi celati ed occulti, com'era in quel celebrato giardino d'Armida, di cui cantò il Tasso : Uso DELLA LINGUA ITALIANA 125 » E quel che il bello e il caro accresce all'opre, » L'arte che tutto fa, nulla si scopre. Ma a sciogliere più e più il nostro debito inverso la lingua, appresso all'esserci studiati di apprenderla , è a procacciare che l'uso di lei divenuto abituale, più esteso, più comune e più popolare si faccia. Dal che tali e tanti sarebbono i cooiodi e le utilità che na- scerebbono, che più agevolmente pensare che enu- merare si ponno. Frutto di tale uso sarebbe una maggior civiltà e cultura nel popolo, una maggior congiunzione nella carità di patria delle genti or si spartite d'Italia. Che se per volere del fato non fossero maturati i tempi di lor redenzione, e non potessero scuotersi dal collo il giogo straniero, rimarrebbero sempre avvinti da questo naturai legame della comune favella : sacro deposito loro affidato da' padri e dagli avi, accioc- ché fattone buono e leggiltimo uso, il lascino a'poste- ri non afForastierato e imbastardito, ma cosi nitido ed incorrotto, quale da'loro maggiori lo ebbero ricevuto. Frutto di quest'uso sarebbe lo scemare, e il di- smettersi in gran parte i municipali e provinciali dia- letti, nella cui varietà e differenza rimangon tuttavia marcate e scolpite le infauste reliquie delle stranie parlate di tante barbare genti dominatrici nostre in- faustissime. Frutto di quest'uso sarebbe una maggiore in- telligenza ed istruzione, che si caverebbe da'sermoni sacri, dalle leggi e dagli editti de' governanti, dall'ef- femeridi letterarie e politiche, dalle tribune, dai teatri, dall'accademie, dai fori; dal che i popoli verrebbero meglio e più estesamente a conoscere i lor doveri intorno alla religione, alla morale, alla civiltà. E frutto 126 Letteratura di quest'uso sarebbe una maggiore prontezza e fa- cilità di esporre le proprie opinioni ne' pubblici par- lamenti, che per le costituzioni dello stato or tornano tanto opportunamente in uso. Laonde a questa diffu- sione avrebbono a concorrere eflìcacemente e preci- puamente i dotti, deponendo innanzi a tutto le divi- sioni e i partiti in ciò che spetta alla lingua: e fis- sata la forma e natura dell'italiana favella sopra vere e inconcusse filosofiche fondamenta , determinarne con saggia discrezione i limiti : sicché francandosi dalla troppo pedantesca strettezza de'purìsti, e fre- nando la soverchia licenziosità de' novatori, concor- dandosi in una le due sentenze, si mantenga il no- stro linguaggio » Fra lostil de' moderni e il sermon prisco. Né ciò basta alla lingua: che vuol esser mondata e sceverata da tutto il bastardume straniero che la ingombra. Giacché sventuratamente è accaduto in Italia che le genti, che di tempo in tempo la con- quistarono, lasciarono le tracce de'loro usi, de' loro costumi, delle loro dominazioni in tante parole e ma- niere che forzatamente divennero cittadine : laonde molte dizioni germaniche, ispane, e negli ultimi tempi napoleonici moltissime francesi, s' intromisero nella nostra favella, ne guastarono la natura sua originale, ne contaminarono lo stile, il periodo, il gusto. Né giova punto che tali voci siansi abbigliate airitaliana. Se chi indossa abiti o adornamenti la- vorati alle mode di Parigi, Londra o Vienna si dice vestito alla francese, alla tedesca e all'inglese, non si avrà a dire il medesimo de' componimenti e discorsi pieni di vocaboli e modi che ne derivarono da siffatte nazioni ? Usi della lingua italiana 127 Inoltre a render durevole e più esleso, a rinfre- scare e mantenere ognidì un tale mescolamento, cre- diam noi che non valga poco lo studio abusato delle favelle altrui, che postergatala loro, si fa dalle nobili damigelle, e da' più colti donzelli d'Italia: ond'ebbe a notare il Passeroni : Moltissimi oggidì, per imparare La tedesca favella e la francese, Fanno uno studio lungo e regolare, Né a disagio perdonano, né a spese: E alcuna briga non si vogliondare Per imparar la lingua del paese; E render lor questa giustizia io deggio, Che la scrivono mal, la parlaa peggio. Ma cessi ornai tanta vergogna: impari prima l'Italia il proprio sermone, poi sì volga a diletto e istruzione alle lingue e letterature aliene: ma non ne abusi per ridurre la sua ad un gergo che (al dire del Gozzi) di qua a non molti anni avrà di bisogno de' dizionari di tutte le nazioni per essere inteso. Non si presti poi l'orecchio a que' ciechi apo- stoli dell'ignoranza, che dicono che il fare infra noj uso continuo e familiare d'ell'italiano linguaggio é un affettazione, una presunzione, una voglia di sovrasta- re altrui. Lasciando stare che ogni luogo di civile educazione ha sempre riconosciuto e praticato per utilissimo codesto costume: dico che il vero, il buono, il bello, l'utile sono da pregiarsi comunque, e sto per dire ancorché siano ricercali e leziosi. E quando si peccasse in questo, innocente peccato sarebbe sem- pre: comecché sentasi male da coloro, che sprezzando quanto ignorano vogliono oracoleggiare in tutto » Colla veduta corta d'una spanna. 'J28 Letteratura Buono è anzi avere una tale costunoanza. Mettete vin uomo che ne manchi nella congiuntura d'usar«e, vedetelo non sapersi esprimere, intrigarsi, ripescar le parole, frammischiare all'italiane quelle del suo dia- letto, confondersi, ammutire: oggetto talora di com- passione, più sovente di risa e di disprezzo: laddove chi abbia consuetudine di favellare in italiano, ad ogni opportunità pronto, facile, grato, elficace parlatore riesce. Voi pertanto, carissimi giovanetti, datevi di forza ad apprendere la lingua vostra, che è quasi parte di voi stessi, e vincolo saldissimo della patria comune. Accoppiate poi a questo studio il tesoro di molta e vera sapienza: che vano e frondoso è lo studio delle pa- role senza quello delle cose. E in ciò vogliate cora- porvi allo specchio di quegli eccellenti, che illustra- rono fra noi le passate età, e di coloro altresì che oggi pure sostengono vigorosamente l' onore della sapienza e della lingua d'Italia, fra'quali ben nume- rosi ra'è dolce ricordar principalmente il Betti , il Barbieri, il Niccolini, il Mamiani, il Rosmini, il Tom- maseo, il Gioberti, il Marchetti, il Farini, il Parenti, lo Strocchi. Stampatevi in mente quanto grida all'Italia l'im- mortale astigiano : Da'tuoi gerghi e dal gallico ti parti: Al tornar una il primo voi sia questo: Seguiran tosto vere altre bell'arti. E siano suggello a mio dire queste memorande parole del Gioberti: « L'italianità del pensare^ del seìt- » ^^>e, e del fare non può aver luogo , se non se ne » piantano le radici nella favella. » IL DIRETTORE INCIPE D. PIETRO ODESCALCHI ■; wmm INDICE DEL VOL. 549. SCIENZE Cialdij Osservazioni idraulico-nautiche su i porti neroniano ed tnnocenzia- no paj. 3 Vaccolinij Casse di risparmio consi" derate come invenzione italiana. » 56 LETTERATURA Giuliani j Della propria maniera di comentare la divina Commedia» Cap. 1. Dell'importanza e dell'autenticità della lettera di Dante a Cangrande della Scala » 65 Pontaj Sulla pubblicazione del comento di Francesco da Buti nel \Z91. » 106 Rambellij Del debito degV italiani di porre studio alla propria lingua. » 1 1 6 GIORNALE DI SCIENZE, LETTERE ED ARTI ROMA TIPOGRAFIA DELLE BELLE ABTI 1848 n^ S ^ 1 ^ If ^ J)el bello nella sentenza di Vincenzo Gioberti. Art. XVin. Continuazione. (Vedi tom. 94, a pag. 333 di questo giornale ed i precedenti.) n filosofo, che del suo nome empie l'Italia (della quale è benemerito per 1' opera del Primato , che sola basterebbe alla sua fama ); un filosofo che prova alle genti , la scuola italica iniziata dagli etruschi, perfezionata da Pittagora (dal quale meglio che da altri tolse Platone ciò, che lo fa singolare tra i sa- pienti dell'antica Grecia); un filosofo di tanto nome vorrebbe essere applaudito anzi che giudicato. Se non che incensi e culto convengonsi al vero sola- mente, non all'uomo comechè savio e studioso del vero sulla terra. Ed è antico, ma solenne il dettato: - Amicus Plato., amieus Aristoteles:, sed magis amica veritas. - D'altronde né io intendo giudicare il filo- sofo piemontese , ma studiarlo. E lascerò che altri lo giudichi, se alcuno oggidì si stima da tanto : e se non vi fosse, o non ardisse , vorrei che egli il Gioberti giudicasse se stesso da' suoi scritti impar- zialmente; quando non credasi di aspettare l'oracolo del tempo, che pronunzia quasi per suo diritto de- gli uomini e de' sistemi. G.A.T.CXVII. 9 130 Scienze Di una cosa lo loderei, in che quasi tutti con- vengono: ed è di quella immensa erudizione espo- , — sta con prepotente facondia, di cui avviva le carte; parlo de' libri meglio pensati da lui : non degli altri, che dettò pede stans in uno-, quando cedeva più alla smania de' suoi benevoli ed alla brama di scrivere, ^""di quello che alla evidenza dei fatti e della ragione. E se assonnò qualche volta (sé pure assonnò), noa è maraviglia ; piegar dovette al fato non pur di Omero, dì Dahtee di Torquato; ma de'filosofi quanti mai sono , sommi se vo^^liasi; e pure uomini an- ch'essi non impeccabili. E tali furono altresì Leibnitz, Malebranche, Vico, ultimi de'filosotì veramente de- gni (secondo il (xiòbertij di questo nome. Ma qual uomo d'intelletto può perdonare al primo, per ta- cere d'altro, quelle sue monadi rappresentanti in so l'tlniVerso j e qoel sógno famoso dall' armonia prO' stabilità^ che toglie all' uomo il pregio più nobile, là libertà dell' arbitrio ? Chi può perdonare al se- condo quella utopia del veder tutto in Dio , onde poi il putigente epigramma, che tutti sanno ; » Lui, qui voit tout en Dieu, » N'y voit pas qu'il est fou (1). (1) Osservo giustamente il eh. Rosmini, che un italiano, il par dre Giovenale , prevenne le idee del filosofo francese, benché più eloquente e più fortunato. Dal resto, secondo il eh. Poli nelle note al Tennemann : » Malebranche fu un genio profondo e il più gran metafisico » della Francia In fondo però la sua dottrina si ri- •I, duce ad un panteismo formale affine allo Spinosismo col veder » tutto in Dio. EgU non ha che il merito del sistema; ma non della » unità, né dell'applicazione (Manuale, voi Ilapag. 108). » Sul bello 131 Quanto a quell' immenso ingegno del Vico, che stampò orma di gigante nel campo della filosofìa , chi può scusarlo di avere avvolta tra nubi miste- riose la fiaccola della verità, che dovea quindi illu- minare il nostro secolo più presto che il suo(1)? Tornando al Gioberti, che tiene tanto del Vco, io lascio al Mamiani, al Tommaseo, e più che ad altri al Rosmini, il giudicarlo. Al che gioverà ge- neralmente , per chi non avesse ali da aggiungere così alto volo, il confortarsi della lettura di un di- Ed ivi a pag 171- « L'intelletto innato Ai Leibnitz ò qualche » cosa (l'indeterminato, che Aristotele e Cartesio » . . . . avevano presentito. Il monadismo s' assomiglia a{r|i 1) atomi di Democrito e d'Epicuro. L'armonia prestabilita è affine » al predeterminismo universale. Il principio della ragione suffi- » ciente è già compreso in quello di causalità. La legge di conti- w nuità .... manca nel moto de' corpi celesti , ne' quali » mediante la gravitazione si hanno sempre delle impressioni finite » in tempi tiniti. » (1) Il Poli altresì nel supplimento 4 al Mauuale del Tennemann {ivi voi. Ili a pag. 700) dice così : « Sebbene le opere di Vico » siano disparate e di vario genere , pure hanno un nesso logico » ed istorico tra loro, ed affatto intimo e segreto, pel quale posso- « no essere ridotte assai agevolmente all'unità, cioè ad un compiuto j) sistema di filosofia sì dell' individuo, che delle nazioni , ad una » vera filosofia dell' umanità. » Fin qui il Poli. Se vogliasi poi in quanto a politica riguardare più specialmente, il Romagnosi nelle Vedute fondamentali sull'arte logica {a pag. 441) osserva: « Non con- » veniamo certamente col Vico nel circolo similare da lui imma- » ginato nel eorso delle nazioni, distinguendo come si deve la so- » miglianza dei nomi da quelli delle cose. » E in nota aggiunge: •n Non credo nemmeno di ammettere il perpetuo supposto della pos- T) sibilità pratica universale di uno spontaneo nativo incivilimento.» Del resto la dottrina esposta qua e là dalla gran mente del Vico potrebbe assomigliarsi, o m' inganno, ad un sistema di montague sparse di miniere preziose ; viene il paziente osservatore, pone in aperto quelle occulte dovizie, le classifica , e più tardi ne forma 132 Scienze ligente annoiamento di T. Zarelli fra gli altri (1): il quale, raccolti da tante opere del lodato autore i tratti più rilevanti ed analoghi, non dubita di av-r ■vertire di panteismo idealistico insieme e realistico il sistema dell'insigne filosofo piemontese. E non è da farne le maraviglie, chi pensi, che il nostro secolo tende appunto , dopo il bando dato al sensismo , tende dico all'idealismo ; essendo quasi fatale , che l'ingegno umano corra sempre agli estremi , ne si ricordi del paterno precetto di Dedalo - inter utrum- que vola; medio tutissimus ibis - così bene inteso dal gran maestro di color che sanno , parlando al^ meno della virtù ! Comechè sia , io n^i contento di dare altrui occasione di dubbio prudente , e lascio a chi più sa (il ripeto) l'alto ufìicio di giudice quanto al si- stema filosofico del Gioberti, che poniamo cammini quasi gigante in mezzo agli astri minori siccome il sole ; ma e il sole anch' esso ha le sue macchie ! Nella parte, che risguarda il bello , io seguendo il proposito naio, non farò che notare la sentenza del chiaro autore in punto ad estetica. Ho innanzi la seconda edizione Del bello di Vincenzo Gioberti (Fi- renze 1845 in 8.) e potrei anche ingannarmi; son uomo ! Homo sum^ humani nihil a me alienum puto. come la scienza a tutti palese. Ma riguardando all' istruzione de- gli altri nomini; il filosofo filantropo - pensoso più d' altrui , che di se stesso - deve studiare a chiarezza nello specchio dell'ordine ; ciò che al Vico, nel por fuori le sue idee, troviamo mancare: ed ecco cagione, che un secolo ci volle ad intenderlo veramente I (1) Il sistemi filosn/lco di Fincenzo Gioberti. Parigi 1848 in 8. Vedi anche Giorn. Jrcdd. gennaio 184JJ a pag. 48 e segg. Sul bello 133 E qui sulle prime, per amore di chiarezza, mi bisogna richiamare alla mente de' leggitori il si- stema ontologico, che tutti ornai sanno, dell'insigne Gioberti. Facendosi egli rannodatore della grande catena, che fu rotta (o gli sembra) da Cartesio quan- do all' ontologia sostituì la psicologia : si studia a tutt'uomo di stabilire una formala ideale^ principio ontologico, nel quale debbansi comprendere in po- tenza tutte le nozioni possibili. - X'^'n^e crea le esi' stenze: - ecco la formola, espressione di quel prin- cipio ! ciascun membro della quale rappresenta una realtà, che sussiste effettivamente in se stessa fuori del nostro spirito : ed è assoluta e necessaria nel primo membro (cioè nell'ente)^ relativa o contingente nell'ultimo (cioè nelV esistenza). Il vincolo poi tra questi due membri è la creazione , cioè un' azione positiva e reale, ma libera, per cui l' ente (cioè la sostanza e cagion prima ) crea le sostanze e cause seconde, le regge e contiene in se stesso, le osserva nel tempo coU'immanenza dell'azione causante, che in ordine al tempo, in cui si termina , è una con- tinua creazione. Ed ecco tre realtà indipendenti dal nostro spirito : cioè una sostanza e una causa pri- ma, una moltiplicilà organica di sostanze di cause seconde, e un atto reale e libero della sostanza pri- ma e causante, in virtù di che l'ente uno collegasi colla moltiplicità delle esistenze. La mente umana poi intuisce coteste realità con un atto semplice e simultaneo perfettamente, il quale e prende ed ac- compagna ogni intuizione particolare; onde in ogni istante essa osserva in modo diretto ed immediato l'ente creante l'universo, e con ciò gli attributi di 134 Scienze Dio ; quantunque siffatta percezione avvenga solo per una rivelazione. Così 1" uomo non può farsene oggetto di riflessione senza il linguaggfo, che dee pei'ciò essere rivelato. Oltre la facoltà dell'intelligibile avvi quella del soprintelligibile , che si riferisce alla faccia oscura dell'ente, come la prima alla faccia lucida. Quindi a compiere la nostra conoscenza viene in soccorsa la rivelazione, che ai concetti negativi del soprain- telligibile aggiunge concetti positivi benché ravvolti nel velo del mistero. Io non so bene , se i savi lettori converranno tutti egualmente nella sentenza del suUodato anno- tatore (T. Zarelli)y che dice a pag. 288: « Il Gioberti ad onta dell' ottimo suo divisa- » mento di dare all' Italia nuove teorie filosofiche ^) e teologiche, tendenti al perfetto amicamento della » ragione colla fede, non ha fatto altro, che vestire- » di frasi italiane e cattoliche un panteismo , che » si direbbe composto de' due di Hegel e di Schel- » ling, idealistico insieme e realistico. » Io non so, dico, se lutti converranno ; certo non difenderanno il chiaro autore dalla taccia, che al Vico è comune, di un quasi oscurantismo, nemico della verità tutta lucida sempre di sua natura. Questa lode , come- chè sia, daranno al Gioberti, ponendo gli occhi si- curi nelle diverse sue opere filosofiche, di avere se- minata di rose una via tutta aspra di spine ; di avere presentato bensì l'orrore della notte profonda, ma di averlo rallegrato qua e là di lucide stelle di ogni grandezza. Tanta infatti è la erudizione e la eloquenza, con che illumina l'oscura delle sue carte: Sul bello 135 talché quando ancora non Io accogli come filosofo lo ammiri pur non volendo come scrittore (1). Ma i più dubbiosi tra loro, fatti alla scuola di Socrate € di Cartesio, avviseranno senz'altro, che non è oro tutto che luce. Vediamolo, secondo l'istituto nostro, in quanto all'estetica ! Detto prima, che il bello non essendo subbiet: tivo, non può essere ridotto all'utile e al dilettevole, che è obbiettivo; ma distinto dall' oggetto esteriore o materiale, che lo rappresenta spirituale ; ma non sostanziale, e della categoria dei modi : necessario, assoluto ; ma tuttavia distinto dal vero metafisico e matematico, non che dal bene morale; notata come imperfetta la definizione di s. Agostino e di Leibnitz, l'autore definisce il bello a pag. 25: « L'unione in- » dividua di un tipo intelligibile con un elemento » fantastico fatto per opera dell'immaginazione este- » tica. » j jj E si studia chiarire il senso di questa sua de- finizione (in cui l'aggiunto di estetica potrebbe far sospettare vi entri erroneamente il definito , contro le regole della logica); ma prima di giudicare ti è forza seguitare tutto il libro ne' capitoli - Dell'ori- gine del bello - Della fantasia estetica creatrice del bello - Del sublime considerato nelle sue attinenze col bello - è COSI Del maraviglioso -> e Del modo in che la fantasia si può dire creatrice del bello - poi Del bello naturale e dell'artifiziale iq genere - poi Del bello artificiale eterodosso ~ e dell' ortodos- so. - Le quali ultime appellazioni sono tutte del .Gio- (1) Vedi a proposito Y Appendice al compendio dilla storia dtlla filosofia di C. L> Kannegieszcr, Torino iSiS in 8. a pag..i92. /o'iJ 436 Scienze berti: e donde le abbia tolte, per regalarae T este- tica, ognuno sei vede ! Io invito gli studiosi a porre gli occhi della mente sulle carte dell'illustre autore : e dirò inge- nuamente, che a qualche diligente investigatore in- contrò di notare in una notte misteriosa , tra tanta luce di stelle di ogni grandezza, anche le nebulose. Cominciando dal proemio a pag. 3: « Il bello » colle sue aderenze non è una quantità né cosa » sensibile , sebbene abbia sempre congiunta una >) forma sensitiva, e un elemento quantitativo. » E torna quanto per noi il dire: // Bello colle sue aderenze non è sensibile , sebbene abbia sempre congiunto a se un sensibile : ciò che ripugna. Ma sia pure , che il bello abbia sempre con- giunta una forma sensitiva, ossia che abbia sempre seco sensibili. Che ne consegue ? ne consegue, che il bello assoluto , cioè Dio, non esiste ; perchè Dio certamente non ha in se alcun sensibile. Così il bello puramente intellettuale viene distrutto, perchè il puro intelletto è scevro di sensibili e di fantasmi. D'altra parte se il bello colle sue aderenze non ha sensibile, che sarà del bello fisico F sarabbe nulla. E allora a che parlarci di estetica matematica e fi" sica a pag: 49? a che della immaginazione creatrice del bello nel cap. Ili, quando l'immaginazione o fantasia lavora appunto di gensibili ? Sebbene però 1' autore e affermi e nieghi al bello il sensibile; tuttavia gli dà un elemento tn^eZ- lett ivo^ ed uno fantastico : l'intelligibile ed il sen- sib ile nel cap. II. Quello, cioè l' intelligibile , egli trova nel primo membro della enunciata sua formola Sul bello 137 Vente'^ questo, cioè il sensibile , nel membro 1' esi- stente : e dall'unione dei due gli risulta il bello. Ma che ? siffatta unione è in ogni qualunque pensiero dell' uomo peregrinante sulla terra , dove V intelligere per phantasmata è legge della sua intel- ligenza. Se ella è così, com' è veramente , ognuno ben vede, che a voler determinare il bello, uopo è fermare il principio, secondo il quale siffatta unione dee operarsi esteticamente. Questo principio appunto io riposi neWordine intellettuale^ fisico^ morale: nelle quali tre specie distinsi il bello , come è a vedere negli precedenti articoli , e nelle replicate edizioni delle mie Osservazioni ani bcllo^ e particolarmente nel discorso intitolato Del segreto della bellezza^ ossia dell'ordine. Ma si conceda per un momento all'insigne au- tore, che nel bello in genere sia necessario 1' elemen- to fantastico : e vedasi a quale strana conseguenza egli verrebbe ! Nientemeno che a questa : essere VEnte., DiOy inestetico. Ma che ? o rinunziare all'in- telletto , o ammettere coli' universale del genere umano, che Dio è la stessa bellezza, il Bello asso- luto : del quale il creato, il relativo^ è debole copia ed immagine; come Vordine creato ritrae finitamente dell'mcj'ca^o. Dal che ne conseguita, che il sistema della famosa formola giobertiana è dunque impotente ad ispiegare il bello. La quale impotenza torna più evidente pel panteismo , in cui la formola inceppa ad ogni passo. E pure il panteismo nuoce al belle^ come lo stesso autore confessa al cap. Vili. Io tremo a dirlo; ma il vero mi sforza, né sono io solo a dirlo : il bello del Gioberti sembra nuo- 138 Scienze lare , come il suo enCe^ in un maie di contraddi- zioni. Tuttavolta ( ripeterò ciò , che prima appena accennavo, e Io ripelerò con parole di un sottile in- vestigatore delle dottrine giobertiane) neWesteiica del dotto piemontese sono di molte cose , specialmente storiche, le quali ove fossero informate da retti prin- cipii tornerebbero utilissime nella compiuta tratta- zione del bello : rimane un pensiero di sceverare l'oro dalla scoria. Mi si perdonino queste parole , che a taluno di delicato sentire avranno sapore di forte agrume. A temperare con alcun dolce 1' amaro , mi si con- ceda di terminare questo articolo con parole dell'il- lustre autore, il quale così chiude il suo trattato a pag. 306. « Il ragionamento dello stile (egli dice) mi >) riconduce a Dante, col nome del quale conchiu- » derò questo mio discorso sulla bellezza. Dall'Ali- » ghieri si debbono pigliare non pur lo stile e la V poesia, ma le inspirazioni di maggior momento, » e l'esemplare più squisito dell'indole, del valore, » dell' ingegno italico ; giacché egli è veramente » l'italiano più italiano, che abbia giammai veduto » il mondo. Egli accoppia la virtù e la prudenza » del cittadino alla pietà dell'uomo religioso , e se » alle volte, sviato dall'età fervida e dalle passioni » civili, che nell'animo suo grande tanta più fiere » bollivano, passò il segno : serbò sempre anche in » mezzo agli errori l'amor del vero, del bello, del » buono e del santo, cristiano sempre e cattolicis- » simo .... Ma ninno cerchi in lui il fautore di » quell'incivilimenlo bugiardo, infesto alle cose più » sacre e venerande, che da Lutero in poi va crescen- Sul bello 139 » do e dilatandosi in Europa : al quale, s'egli vi- » vesse, sarebbe nemico implacabile. Calcolate tutte » queste cose, siccome il hello non si può scompa- » gnare dal bene e dal vero, io avrò per coTipiuta » la redenzione delle lettere italiche, quando vedrò » diffuso in tutte le persone, che attendono ad in- » gentilirsi , lo studio indefesso e amoroso e direi » quasi la religione di Dante » E qui al proposito mio non lascerò di notare quell'ingenua confessione del Gioberti : che il bello non sì può scompagnare dal bene e dal vero: e ad- diterò di nuovo il principio di unione tra il bene il bello ed il vero appunto neWordine intellettuale, fi- sico, morale; distinzione, che io posi nel mio primo ragionamento del Segreto della bellezza ossia dell'of- dine : cui prego i cortesi che leggeranno di riguar- dare. E mi gode l'animo, che il sacro Dante (il quale trovò anch'esso nell'ordine il principio della bellezza, e in carte eterne lo disegnò ) tragga pure in una sentenza con me il sommo Gioberti : lui che come il sole abbaglia, se tu lo guardi nel suo splendore; conforta gli occhi mal fermi, se lo guaidi a traverso a qualche nuvoletta di primavera I Del resto a noi, amatori del lucido vero, sia nella mente e nel cuore quella sentenza di Quintiliano, che dice: doversi giu- dicare de' grandi uomini con modestia ed a rilento, per non correr pericolo di condannare quello che non s'intende ! D. Vagcolini ìlOOfOVU' 140 i'mTTMUikT'^U^ Bella libertà delV eloquenza. Discorso dell'abate Paolo Rebuffo, letto neW ateneo genovese. \>» La concubina di Tifone antico » Già s'imbiancava al balzo d'Oriente, » Fuor delle braccia^ del suo dolce amico: » Di gemme la sua fronte era lucente » Poste in figura del freddo anin.ale, )» Che colla coda percuote la gente : »' E la notte, de'passi con che sale, » Fatti aveva due nel luogo ov'eravamo, » E'I terzo già chinava 'n giuso l'ale; » Quand'io, che meco avea di quel d'Adamo, » Vinto dal sonno in su Terba inchinai » Là've già tutti e cinque sedevamo. In questi versi evidentemente il poeta ha vo- luto segnalare col mezzo delle apparenze del cielo il momento in cui egli, e^e mea di quel d'Adamo, Cloe il CUI corpo era frale e non instancabile come quello de* suoi compagni, cadde vìnto dal sonno e s addormentò. Questo momento era quello in cui de- stasi l'Aurora, che Dante chiama concubina di Ti- lone, perchè essendo dea e non avendo avuto l'ac- corgimento d'impetrare da Giove pel suo sposo coli' immortalità dei celesU anche l'eterna giovinezza, non sera congiunta seco lui in nozze vere e legiuime. 158 Letteratura laiche Titone divenne antico , o sia decrepito per età (1). Indi soggiunge : Dì gemme la sua fronte era lucente Poste in figura del freddo animale, Che colla coda percuote la gente. Con questa terzina ci descrive , che nella parte in cui terminava V albore , scorgevasi un gruppo di stelle lucenti che figuravano la costellazione di un animale freddo che percuote colla coda ; e nello stesso momento la volta celeste, nel luogo ov'eravamo, cioè sull'orizzonte in cui si trovava il poeta, era in tale stato che due dei passi^ eoi quali la notte sa/e, erano già fatti o trascorsi , ed il terzo chinava in giuso Vale^ cioè stava per discendere. La difficoltà di conciliare tutte queste circostanze diede origine a diverse niterpretazioni. I più antichi espositori, supponendo che il freddo animale che colla coda percuote la gente fosse lo scorpione, e trovando che la costellazione dello scorpione nella notte dal 7 airS aprile del 1300, nella quale l'autore pone la sua scena, era lungi dal precedere il nascere del sole, ma che precedeva in vece di poco il nascere della luna, che surgeva sull'orizzonte circa alle tre ore di notte, interpretarono che l'aurora, alla quale Dante allude, fosse l'aurora lunare, e che i tre passi fos- (1) La favola aggiunge che Aurora, invaghitasi poscia del gio- vane Cefalo, lo rapi e trasportò in cielo: ed a questo probabilmente allude il verso Fuor delle braccia del suo dolce amico. Prolusione di laurea 159 sero le tre ore notturne decorse. Ma oltre che que- st'interpretazione fa creare a Dante di sua propria testa una nuova mitologia, ha il grave inconveniente di farlo dormire per circa undici ore: perchè in uno dei versi seguenti apertamente dice, che quando si svegliò E'I sole era alto più di due ore. Per interpretare i due passi fatti dalla notte, altri commentatori più recenti ricorsero alle quattro vigi- lie, nelle quali gli antichi dividevano la notte, e sup- posero che il terzo passo fosse la terza vigilia, per cui non potevano mancare più che due o tre ore allo spuntare del giorno. Ma Dante disse, che la notte dei passi con che sale fatti aveva due^ ed il terzo già chinava'n giusa Vale^ dandoci così ad intendere che i passi, coi quali sale, erano più di due. Or se i passi dinotassero le vigilie, la notte non istarebbe ascen- dendo che nei due primi passi , mentre cogli altri andrebbe discendendo. Io non mi arresterò a citare altre interpreta- zioni escogitate da altri per porre in accordo il senso delle diverse frasi, colle quali il poeta descrìve il momento in cui cadde sopito dal sonno- Il poco che ho detto, lo dissi solo coU'animo di far concepire su che versa l'argomento, ed in che consistano le sue difficoltà. Passerò quindi senza più ad esporre quale sia, a parer mio, la significazione dei versi di Dante. La divisione del cielo in dodici parti è antica. Il zodiaco fu diviso in dodici costellazioni : gli astro- logi dei bassi tempi dividevano l'emisferio che sta sull'orizzonte, e quello che giace al disotto, ciascuno 160 Letteratura in sei parti, per mezzo di sei circoli massimi, che s'intersecavano sotto angoli eguali nei punti cardi- nali opposti di settentrione e mezzodì. Le dodici lu- nule eguali, in che la volta celeste veniva così divi- sa, si chiamavano nel linguaggio astrologico case; e queste si contavano numericamente , partendo dalla parte orientale dell'orizzonte, discendendo per l'emi- sfero sottoposto, e rimontando poscia dalla parte oc- cidentale, ritornando poi in fine per l'emisferio su- periore all'oriente. In questo modo le case contene- vano le costellazioni, che durante la rivoluzione diur- na venivano in ordine successivo a spuntare sull'oriz- zonte del luogo. La prima casa, quella che conteneva la costellazione che stava per surgere nel momento della nascita del bambino, o del principio dell'avve- nimento di cui si voleva trarre l'augurio, era chia- mata Vascende7ite o Voroscopo. Questa era la più po- tente, ed era detta casa di vita, la seconda delle ric- chezze, la terza dei fratelli, la quarta dei parenti, la quinta dei figli, la sesta della salute, la settima del matrimonio, ì'ottava della morte, la nona della reti- gionp, la decima della dignità, Tundecima degli ami' ci, la duodecima degli inimici. Secondo che queste case erano in quel momento occupate da costella- zioni propizie o contrarie, da stelle benevole o ma- ligne, r infante era fortunato o sfortunato per ri- spetto alle classi d'oggetti posti sotto il dominio delle rispettive case. Questi particolari ho meramente citati a soddisfazione di curiosità. Quello solo che e' im- porta di stabilire si è la divisione della volta cele- ste in dodici parti, che l'astrologia aveva adottata; e l'astrologia durava ancora in fiore ai tempi di Dante, e bene spesso egli medesimo se ne mostra istrutto. Prolusione di laurea t61 Ciò posto, figuratevi ora di trovarvi a contemplare la volta celeste nella sera del 7 all'S aprile del 1300, nell'istante appresso in cui il sole è tramontato dal punto occidentale dell'orizonte, e la notte viene spun- tando dal luogo orientale diametralmente opposto. La costellazione dell'ariete tramonta col sole; quella della libra surge colla notte. Figuratevi di più la volta celeste, che è al vostro cospetto e s' appoggia sull'orizzonte, divisa da'suoi semicircoli massimi in sei parti o lunule eguali. Il meridiano starà nel mezzo; tre lunule o case staranno all'oriente del medesimo, e tre case staranno al suo occidente. Di mano in ma- no che la rotazione diurna della sfera celeste andrà procedendo, la notte, diametralmente opposta al sole, andrà salendo; dopo la costellazione della libra mon- terà sull'orizonte quella dello scorpione ; dopo quella dello scorpione quella del sagittario (1). Eccovi in queste tre costellazioni , che sono ascese una dopo l'altra sull'orizzonte, tracciati i passi con cui la notte sale. In questo momento la notte è giunta al suo punto culminante nel meridiano; essa domina tutto Temisferio che sta sull' orizzonte del luogo. Ora il poeta, a specificare l'ora che vuole esprimere, dice: E la notte dei passi con che sale Fatti avea due nel luogo, ov'eravamo, E'I terzo già chinava'n giuso l'ale. (1) Il lettore, che non è famigliare colle apparenze del cielo, troverà molto sussidio al concepimento di quanto qui si espone , se avrà sott'occhio un globo celeste. G.A.T.CXVII. Il 1 62 Lettera.tur.4. Chiaro si fa che \^ frase con che sale dinota uà presicpte jn^pfìi^itp riferibile alla prima metà del pe- riodo rnettt\vnq, e uop mi ^empo presente definito ; altrimenti il dir^ c|ie il ter?© passo, con cui s,ale^ chi' navcCn g,iu^o Vale^ iiflpjiciierel)}3e ppptr£it|dizione. Dun- que }a notte e*a di tantp avanzata, che il terzo p^sso q-qn (jy/ ^a^e, o sja la co^jleliazip^^ del Sc^^jittario, clii- %(3.v^'% gt^u^SOf VO'lfi ? pioè a d(\\'& ^ aveva coininciato a passare ^l piericliapo, e st^y^ per discendere dalla par^e ppp^sta y^r^ft.occideple. Jj^ po^tellazioni dello scQii-piope p dejl^ Uhra, come più avanzate, avevano qi\i(idi f^tti, i lorP passaggi al meridiano anterior- m,ente; e p,erciq dice: dei, 'pas$i^ con cui salCy fatti ne av^va dm. v-el luQ,g,a Q.v'epafV^nio, cjop p^^ rispetto all' ori^zoQtq it\ PVli era '\l poet^, ed ip cui noi ora ci ^qgi^pnp d'es^sp^e. h^ cpste,U^?ione dello scorpione s^^r^ qujndi discendendo dalla piirpa cas^ per pas- sare al,!^ sepQnd,a; p quella della librai d^Ha^ seconda ppr pasjsave ^\3^ terza casa all' occidente del meri- 4i^no. In. tal posizione della sfera , alla libra non iji^iaE^Ql^r^ più cjtie di scende^re per l'ultima casa per arrivaire all'orizzonte; e quindi alla costellazione dell' ariete diametralmente opposta, in cui si trova il sole, non mancherà più che di montare per l'ascendente o l'oroscopo, per apparire sull'orizonte. Volgete ora il vostro sgu,9rdp all'oriente , e lo vedrete già im- biancato dalla luce del sole , che si approssima al suo nascere; e scorgerete immerse in questa bianca luce le stelle della costellazione del pesce, che nell' ordine dei segni precede quella dell'ariete. Ecco le stelle che figurano il freddo animale che colla coda percuote la gente^ così designato, perchè è in fatti Prolusione di làurea 163 nella coda che il pesce, animale a sang uè freddo , possiede il mezzo più potente di percossa. Con queste considerazioni, alle quali siamo stati in gran parte condotti per una via piana e diretta da nozioni astronomiche, parmi d'a ver posto in piena luce il concetto del poeta, e quindi oso offrirvi l'in- terpretazione, alla quale siamo giunti, come la più ve- ridica e persuasiva. Avendo, in questa breve discussione, chiamato in soccorso l'astrologia per ispiegare il passo di Dan- te, penso che nessuno di voi s'aspetterà che proceda a farne un uso ulteriore , e che imprenda a trarne l'oroscopo della vostra carriera per un felice augu- rio. Tale favorevole occasione sarebbe forse stata ac- colta con alacrità da un astrologo del secolo di Dan- te; ma codeste illusioni sono dissipate dalla retta ra- gione dei nostri tempi , ed ora fortunatamente alle medesime alcuno più non dà fede. Il vostro orosco- po dipende da voi medesimi. Continuate a coltivare gli studi con fervore, arricchite le vostre menti di sempre nuove cognizioni, invaghitevi ognora più del vero, cercatelo con amore, dilettatevi in esso quando l'avete colto. Siate solleciti nel compimento de'vostri doveri, come ve ne siete finora mostrati zelanti: e la vostra felicità sarà compila. 11 piacere che prova l'animo nell' acquisto della cognizione del vero, la dolcezza che si gusta nella coscienza d'adempire all' olfieio^ al quale la provvidenza ci ha destinati, sono essi i soli elementi bastevoli a farci passare ilari e felici i giorni; e molti io ve ne auguro di tali. 164 LetteràtiiHa OSSERVAZIONI DJ MARCO GIOVANNI PONTA Mal contento della interpretazione che il clas- sico P. Antonio Cesari ha dato ai primi versi del IX del Purgatorio, colla quale, riferendo a due di- Tersi emisteri le fasi diurne in quelli additate, mette in piena armonia tutte le parole del testo : il chia- rissimo prof. Fabrizio Ottaviano Mossotti, cattedratico di astronomia nell'università di Pisa , si piacque di produrne altra che, quanto alla spiegazione, non si accorda con ninna delle antecedenti; ma viene poi a determinare col Rosa Morando, che il freddo animale, che colla coda percuote la gente, indica il segno dei pesci, ed in ciò saviamente: e che Dante siasi ad- dormentato sullo spuntare dell' aurora nell' emisfero del Purgatorio, dove allor si trovava. Però se il con- cetto è uno con quello di chi lo precedette da 50 anni, nondimeno, l'illustrazione con che questo viene dimostrato e difeso dal prof, pisano, può dirsi al tutto nuova ed ingegnosa, se pure, per quello che a me ne pare, non vuol denominarsi anche strana ed inop- portuna. Comunque però sia la cosa, io non pren- derei a farne parola né prò, né contro, ove non te- messi che la grandissima autorità di un tanto pro- fessore fosse per nuocere presso di moki alla vera intelligenza di un passo della Commedia , il quale franteso per lunghi anni, ora finalmente, mercè dell'e- sposizione del Cesari, è dichiarato così naturalmente, Osservazioni del Poma 165 che non ammette più dubbio sul proprio concetto dell'autore. Ma vedendo anzi che in alcuna recen- tissima edizione del Dante l'annotatore fu sì devoto al professore Mossotti, che, scartata la chiosa del Ce- sari, sentenziò la sua per unica vera : non so tenermi che, scevro da ogni vile passione, colla debita stima ed osservanza all' esimio professore non esponga in alcune osservazioni separate le ragioni che mi di- mostrano inammissibile la sua interpretazione; come quella che non solo è estranea a tutto il contesto, ma e dà pure alle parole del poeta un concetto diretta- mente opposto a quello che richiede il testo della Commedia. I. La narrazione, onde l'egregio astronomo pi- sano, il chiarissimo sig. professore Ottaviano Mos- sotti, espose la meccanica posizione e l'uso delle ca- se celesti nelle astrologiche osservazioni, è condotta con tale una brevità, chiarezza, maestria ed elegan- za di dettato ,. che manifesta essere lui non meno classico nella difficile scienza d'Urania e nella astro nomica erudizione, che nel maneggio e nel buon di- scernimento delle più squisite bellezze della volgare nostra eloquenza. Egli ha poi bene avvertito che « r astrologia durava ancora in fiore ai tempi di Dante: » perocché anche nel XVI secolo presso non pochi dei grandi uomini era tuttavia ritenuta in non lieve estimazione. Ne men vero è che Dante bene spesso se ne mostra istrutto: come rileviamo da più e più luoghi della Commedia, dalle canzoni , e da tutto i! Convito, e specialmente dal capitolo XXIII del quarto trattato. Nondimeno certo è del pari che in ni uno de'suoi dettati fece uso di cotali dodici ca- se; le quali per verità, se paiono sommameate ne- 166 Letteratura cessarle alle astrologiche compitazioni; erano al tut- to inutili alla oratoria, alla poesia ed alla loro op- portuna erudizione, che sono tanta parte , per non dire il tutto, nei volumi del nostro autore. Pertanto concediamo che mostrasi Dante istrutto di astrolo- gia: ma ne pare non irragionevole il sospettare che egli, toccando dei passi della notte, veramente non accennasse alle lunule o case immaginate dagli astro- logi per tutta la volta celeste. Imperciocché, nella fermata ipotesi del sommo professore , queste sono la vera base di tutto il concetto di quel passo. Ciò posto il poeta, senza cadere in una riprovevole oscu- rità, non poteva dispensarsi dal farne cenno espresso per mettere in mano al suo lettore il necessario tilo che lo guidasse per Tintricatissimo laberinto di quel- la descrizione, già tanto forte per se , a causa dei contenuti calcoli, posizioni ed immagini cosmogra- fiche. Laonde io credo che, per lo meno, sia molta incerto che il poeta in quel luogo, nel determina- re i passi della notte intendesse alle case astrolo- giche immaginate per la volta del cielo. IL Si concede che gli antichi astrologi imma- ginassero la sfera celeste ripartita in dodici case ris- pondenti alle dodici costellazioni del zodiaco: ma è altresì se non certo almen probabile , che questa ripartizione riguardasse solo i dodici segni, i qua- li ogni giorno con moto comune scorrono di ca- sa in casa da levante a ponente. Ma siccome i pia- neti con moto proprio scorrono tutto il zodiaco dal ponente al levante: nel che fare si trattengono alcun tempo nei singoli segni: cosi addivenne che gli astro- logi stessi immaginassero le dodici costellazioni so- Osservazioni del Pontà 167 pra nominate quasi altrettante case dei pianeti ; le quali cominciavalio dall' Ariete^ e procedevano pier Toro^ Gemini ec. , sino all'ultima costellazionè^che'è dei Pesci. Di qlii il nome di casa di Ariete, ansa di Toro., casa di Gemini ec, e perciò usavano|[dirè il sole entra., per triodo di esèmpio, nella casa di Gèmi- ni., Marte entra in casa di Sagittario., Venere tri casa di Granchio e via via. Se ciò è vero, cortié io cinè- do, e se è cèrto che la notte fli imnaàg^inata dal nostro poeta come Scorrente il cielo in costante op- posizione col sole, ónde si ha che entrava quasi pia- neta nelle diverse case dei segni; si dovrà dire, che la notte in Libra, o in casa di Libra (dóve, come in ciascun segno, si ferma un intero mése, al pari che il sole in Ariete, Toro ec.) ascendeva dall'oriènte ài meridiano senza rispetto alcuno né agli altri sègtìi, né alle varie case dei segni. Oppure si dirà che là libra, casa della notte per tutto un niesè, ascendeva alla prima, seconda, terza lunula o casa dei séfjhi, senza tener cOnto dell'ascendere che dopo lei vi face- vano lo scorpione ed il sagittario. Ma a qualunque modo accennisi il moto diurno della notte, i pà^si dello scorpione e del sagittario vengorio ognora es- clusi: né si possono contare tra i passi che faceva la notte, III. Detto è che i passi della notte sotto le ascen- sioni dei segni del zodiaco , i quali dall' orizzonte montano alla prima, alla secónda ed alla terxa ca- sa. Ma non sarebbe ella stata frase tiièno impropria se fessesi detto, che quelli sono i pàssi delle costel- lazioni che la sospingono dall'oriente al me^idiano ? In mia fé, supposta la notte férma nel segno di li- 168 Letteratura bla (come fa anche il signor professore), la quale dall' orizzonte passa alle diverse case ascendenti e discendenti, non è la notte che fa i passi, nna sib- bene la libra stessa, dove quella a suo bell'agio di- mora, nel modo stesso che il sole nella sua rotazion diurna sta fermo dentresso il proprio carro. In fatti se gli astrologi immaginarono le dodici case per la Yolta celeste, nelle quali entrano i dodici segni, e perciò sono veramente dette case dei segni; gli stes- si immaginarono del pari, già si è detto, i dodici segni, quasi altrettante case, per entro a cui passano e dimorano tutti i pianeti. Per questa ragione Dante suppose, e le sue ope- re lo dicono espresso, le costellazioni in ordine al sole ora come un letto, dove questi si giace coricata alcun tempo (Purg. e. 8, v. 133): ora come un pa- diglione, sotto cui si ferma alcune settimane (Inf. e. 24, V. 1) : ora come un compagno di viaggio, col quale compie il suo moto diurno (Inf. e. I, v. 38. Parad. e. 22, v. 115). Ma a ninna di queste manie- re, onde accennasi nella Commedia la posizione ed il moto dei pianeti, e specialmente del sole e della notte (Purg. e. 25, v. 1), conformasi la proposta in- terpretazione in ordine alla notte. In verità, suppo- sta la notte in libra , o trovasi in quella come in un letto dove si corca; e ciò posto, ninno dirà che la notte coricata fa passi : come non dirà che li fac- cia il letto che è la libra. 0 la notte è disposta sotto quel segno quasi sotto di un padiglione; e non so chi dirà, che il padiglione è il passo di chi sotto vi dimora. 0 immaginiamo la notte quasi moventesi in compagnia della libra, di guisa che senza mai dipar- Osservazioni del Pontà 169 tirsi da sé percorrono in circoli paralleli tutta la volta celeste così di conserva , che sorgono e tra- montano conlemporanea«iente per qualunque emi- sfero: in quest'ultima supposizione discorrendo per la celeste sfera tanto la notte, quanto la libra ( sic- come addiviene tuttogiorno di due compagni pelle- grini), tanto supponesi fare i passi la notte, quanto la costellazione compagna. Ma siccome il testo nulla dice del segno , e tutto si trattiene a parlare della notte , ed a lei sola attribuisce i passi con che sale', perciò non saprebbesi indovinare la ragione, per cui, or si attribuisce prima alla libra uno dei passi, che fa la notte, che con lei nasce e tramonta, e poi atlri- buisconsi gli altri passi alle costellazioni, che le ven- gono addietro. In ciò fare parmi addivenuto come se alcuno dicesse : A sale, o discende di costa a B, a cui corre dietro prima C, e poi D : dunque B, G e D sono i passi con cui A sale e discende. IV. Nuova ragione in contrario. Detto è che il primo passo della notte è la libra , lo scorpione il secondo, ed il sagittario il terzo : ma e perchè mai tante speciali denominazioni dei passi di un indivi- duo, o di una cosa medesima? Se le case dal le- vante al meridiano sono tre; la libra , che detta è l'uno dei passi, ascesa dall'orizzonte alla prima casa, ha compiuto un passo; ascesa alla seconda , ne ha fatto un altro ; e quindi col salire alla susseguente dà compimento al terzo. E siccome questo segno , cosi fece lo scorpione, che col primo passo salì alla prima casa, e coU'altro alla seconda, intanto che il sagittario fece egli pure un passo dal cerchio oriz- zontale montJindo alla prima casa. Or qui si dice che 1 70 Letteratura libra, scorpione e sagittario sono i tre passi con che la notte sale : a quale buon prò tanti passi compiuti con tanti piedi sul grado stesso, mentre soltanto la libra ha trasportato la notte dall'orizzonte al punto culminatile del cielo sul meridiano ? V. Sebbene l'eruditissimo interprete esponga che nelle ascensioni delle tre costellazioni sono tracciati i tre passi con cui la notte sale : il testo però della commedia parla di passi fatti veramente dalla notte senza alcuna relazione ai segni celesti: « La notte dei passi, con che sale, fatti avea due nel luogo ove eravamo » : in queste parole la notte fatti avea due passi nel luogo ove eravamo, non pare egli proprio che suppongasi la notte posare alternativamente le sue piante sulla superficie terrestre dell' emisfero che ella abbuia ? Di più, non mostrasi egli aperto che questi sono passi compiti dai piedi stessi della notte in persona ? i quali senza fallo saranno stati fatti con quei tali piedi, onde il poeta altrove disse : La notte dalla riva copre già col pie Monrocco (Purg. e. 4, V. 139). Questi due passi adunque furono compiuti dalla stessa notte immaginata come una matrona in signe, o percorrente la superficie terrestre, dal basso cerchio dell'orizzonte orientale ascendendo al colmo della terra posta sotto il colmo dell'emisfero celeste, per discendere poi sino all'occaso*, ovvero ascendente pel cielo dall'orizzonte orientale sino al meridiano, per poi discendere al cerchio orizzontale in occi- dente. Or dunque se quei due primi passi vennero fatti propriamente dalla notte, perchè non dovrà es- sere suo anche quel terzo, di che dicesi che già chi- nava in giuso le ale ? Imperlaqualcosa , siccome è OSSERAAZIONI DEL POT> si traduce non più in un presente indefinito, ma in un passato determinato , cioè : « La notte a quello istante avea compiuto due di quei passi che usa fare quando sale ». Laonde questa parte del periodo (s'io vedo lume) si traduce esattamente in quest'altra di ugual valore: la notte aveva compiuto due passi in salita : ove mostrasi aperto il tempo passato , come io dicono i grammatici. Ciò stabilito, passiamo all'ul- tima parte di quel membro : « E il terzo già chi- nava in giuso le ale. » Questa proposizione fu dal sig. professore es posta completamente così : il terzo passo, con cui sale, chinava in giuso le ale: la quale ri- ducesi poi alla seguente: il terzo passo saliente chi- nava in giuso le ale. Ora avvicineremo queste due tra- duzioni delle due parti dello stesso membro di pe- riodo, e raccoglieremo ; « La notte avea compiuto Osservazioni del Pont a 177 due dei passi salienti, e il terzo passo saliente già chinava in giuso le ale : quando, ec. « Possiamo an- cora diminuire le parole con aumento di chiarezza, e ritenere la medesima significazione: poiché quel terzo PASSO SALIENTE^ che è ripetizione di una qualità che gli è comune ai due primi passi salienti^ può sottin- tendersi dicendo : « La notte dei passi salienti fatto avea due, e il terzo già chinava in giuso le ale ... » Ciò stabilito, avviamoci alla scoperta del significato della frase , chinava in giuso le ale. A tale effetto si avverta che dei primi due passi fu detto: « la notte FATTI AVEA due »: vale a dire : così il passo primo, come il passo secondo, era fatto., era compiuto. Dun- que che poteva Dante soggiungere del terzo passo se non, o era compiuto come i due, o stava per coni' pirsil Di qui non possiamo allontanarci. Ma, che non fosse compito, lo mostra indubitabilmente la frase chinava in giuso le ale : poiché il chinare le ale (si- militudine presa dai volatili) indica che il piede fa- ciente il passo non era ancora posato al suolo, ma stava tuttavia elevato in aria. Dunque il chinare le ale fa prova che il terzo passo era incompleto. Il perchè il membro, di che si ragiona, Iraducesi con ri- gorosa equivalenza di concello in questi nuovi ter- mini : « La notte avea fallo due passi salienti, e il terzo non era fatto, ma era per esserlo ». In con- seguenza, ossia che i passi della notte siano le ore, o siano invece le costellazioni del zodìaco, ad ogni modo il tempo indicato dai versi esaminati non può oltrepassare le prime sei ore della notte : né seguen- temente potrà mai aver avuto luogo il passaggio al G.A.T.CXVII. 12 178 Letteratura met-idiano, non che di parte dal sagittario, ma nep- pure dello scorpione e della libra. X. Un'altra cosa è da osservare. II degnissimo signor professore dice, che le costellazioni libra, scor- pione e sagittario sono i tre passi con cui la notte sale : e per noi fu testé mostrato, che questi mede- simi passi più tardi son fatti diventare i passi con cui ella discende. Cotale avvertenza ne fa scorti, che il passo libra (se mi si consente di così chiamare il moto di questi segni celesti) il passo scorpione ed il passo sagittario sono di natura ben diversa dai nostri passi, e da quelli di qualunque animale ter- restre. I quali, fatti che sono, non ritornano più mai; che i passi di chi va si succedono e scompaiono per la vicendevole e successiva posa dei piedi sulla via. Chi ascende, per figura di esempio, una scala di tre scaglioni, avvicenda per tre volte il destro pie- de col sinistro posandoli alternativamente su pei tre gradini, e compie il terzo passo mentre T uno dei piedi tocca lo scaglione superiore. Questi tre passi non altro sono che il moto dei piedi che si fece col posare l'uno sul primo grado, e con levare dal suolo l'altro per posarlo sul secondo; e quindi dal levare il piede dal primo per posarlo sul terzo. Di qui è aperto che finito il moto primo per dar princi- pio al secondo, il passo primo è già distrutto, ed il simigliante avviene del secondo dall' istante che si diede principio al terzo. Come dell'ascesa, così av- viene dei passi fatti in discesa; l'antecedente scom- pare, se principia il susseguente. Quei primi si pos- sono dire passi con cui l'uomo sale: e questi secondi, Osservazioni del Pontà 179 se vogliamo credere al valente autore della nuova esposizione, saranno passi con cui discende^ o passi che chinano in yiuso le ale. Certo è che siccome i passi ascendenti scompaiono appena fatti, così i di- scendenti sono tutt'altra cosa che gli ascendenti: che in vero chi va con soli due piedi fa molti passi, ma non lice asserire, che gli venga mai ripetuto questo o quel passo. Affé che sarebbe strano se un uomo, ascesa una scala, discendendone un'altra dicesse: « Or fo in discesa quel primo passo fatto in asce- sa, ed ora fo quel secondo primo, ed ora quel ter- zo primo, ec. ». Eppure cotanto fu asserito nella nuova interpretazione quando si disse, che il sagit- tario oltrepassante il meridiano, o scendente all' oc- caso, è il terzo passo con cui la notte ascese da prima sul meridiano. Che se di questa costellazione discendente all' occaso si potesse dire che il terzo passo ascendente già chinava in giuso le ale , dovreb- besi dire del pari che lo scorpione e la libra era- no il secondo e il primo passo ascendenti che chi- navano in giuso le ale. E così la notte non farebbe mai altro in tutto il suo corso che avvicendare pel cielo cotesti tre passi salienti, come fa 1' addentellato di una ruota tridentata. XI. Se non che io non so come nel muovere delle costellazioni dall' oriente al meridiano e allo occaso, altri sappia riconoscere un andare a passi: in tal foggia che, prima fa un passo e monta nella prima casa la libra, poi ne fa uno e monta nella medesima prima casa lo scorpione, e poi ne fa un terzo e vi monta il sagittario. In vero ch'in questo muovere io non ci so immaginare alcuna sorte di passi umani 180 Letteratura né beluini, ma solamente un continuo strisciare alla fogfgia delle serpi ; ovvero un continuo succedere dei punti contigui di un medesimo cerchio, i quali nella rotazione della sfera passano tutti ad una stessa elevazione. Il che né propriamente né impropria^ mente può dirsi muovere a passi. Né certo fu detto mai da persona (che io mi sappia), che un cerchio rotante sul centro ha fatto due o tre passi sopra di un piano, cui passa vie ino con tutti i punti della sua circonferenza Dalle precedute os servazioni siamo avvertiti : I, che l'astrologica divisione della sfera celeste in do- dici case, sebbene a quei tempi fosse ritenuta dagli astrologi per uso degli oroscopi, non fu però mai né descritta, né accennata, né espressamente nominata in alcun suo volume dall'autore della Commedia. Sa- rebbe quindi molto ardito chi dalle parole, la notte dei passi con che sale fatti avea due ec. , conchiu- desse, che Dante abbia tacitamente accennato a quel* la. II. Che se la libra, lo scorpione e 'l sagittario sa- lienti alle diverse case sono i moti, per cui la notte supposta in libra é trasportata per le tre seguenti case al meridiano, non può dirsi che la notte avea fatto due passi: ma piuttosto che ciascuna di dette co» stella/ioni avea successivamente fatto un passo sulla prima casa, e che da tali passi procedette il mac- chinale innalzamento della notte alla prima, seconda e terza casa della plaga orientale. III. Che non pare convenientemente detto, la notte aver fatto due o tre passi, intendendo per ciò l'ascensione successiva deU la libra, dello scorpione e del sagittario alla prima casa : poiché oltre al supporre la notte facientc tre Osservazioni del Pontà 181 pàssi salienti sul medesimo grado, la si suppone eo- .me un animale di molti piedi; ciò sono uno per co- stellazione : tanto più che la sola libra col suo piede innalzò questa sino al meridiano. IV. Che l'interprete parla di passi fatti dalle costellazioni, mentre il poeta dice aperto dei passi della notte. V. Che non é con- forme al te^to un intervallo in tempo di sei ore dalla enumerazione dei primi due passi fatti in salita, fino al terzo fatto in discesa , come spiega il eh. Mos- sotti. VI. Che la natura del passo non concede che i tre passi fatti in ascendere siano propriamente ri- petuti gli stessi nel discendere. VII. Che finalmente tnon sembra potersi denominare passi la lenta mi- nuta e continuata ascensione delle costellazioni: per- chè non fu mai detto né in prosa né in rima, che un cerchio rotante sul centro abbia fatto uno, due, tre passi sur un piano : laonde per quanto l'uomo voglia seriamente disaminare la nuova interpretazio- ne, non saprà mai rinvenirvi altro che bella dici- tura, pregiata erudizione, e sottile ingegno, ma nulla che giovi all'illustrazione dei versi presi a dichiarare. Il perchè più che mai si fa certo e manifesto, che la chiosa esposta dal Cesari illustrò così bene e diritta- mente quel passo, che più non lascia dubbio sul vero concetto dell'autore: anzi per essa divien così limpido, chiaro e naturale quel luogo del Purgatorio, da ma- ravigliare che tutti i chiosatori non l'abbiano inteso sempre a questo modo. 182 Letteratura Instanze contro alle precedenti osservazioni disciolte. Io m'immagino che non mancherà tra' miei let- tori chi a difesa della criticata spiegazione mi fac- cia delle istanze che ei crederà molto discrete ed insuperabili. Fia dunque plausibile e giusta cosa , ch'io prenda tosto ad esame quelle tra le principali che io suppongo altri potermi fare. 1. Dirà dunque taluno : « Dalle celesti case, cui occupano successivamente le costellazioni medesime, sono indicati i passi che va facendo la notte; il qual mezzo fu impiegato dai primi astronomi. E in fatti parecchi dei nostri contadini, privi di orologi nelle campagne, sanno arguire dalla situazione delle co- stellazioni il cammino percorso dalla notte, e l'ora presente >». Piisposta. È assolutamente gratuita l'asserzione che « dalle celesti case occupate successivamente dalle costellazioni siano indicati i passi della notte ». Anzi è cosi nova questa frase nei libri astrologici dell'epoca di Dante, e nel linguaggio dei contadini di ogni tempo: che niuno mai udì costoro parlare di queste case determinatamente in ordine al corso della notte*, nò mai potè riscontrarsene cenno nelle opere del massimo Allighieri; il che per noi è tutto. E mentre volentieri si concede, che per mezzo delle costellazioni, ossia per mezzo della posizione di que- ste, rispetto all' orizzonte ed al meridiano gli astro- nomi, e Dante con essi, conoscevano le ore della notte., come tuttora fanno i contadini privi di oro- Osservazioni del Ponta 183 iogio : COSI si tiene per giustissimo il negare che gli antichi astronomi, e Dante, ed i contadini chiamassero e chiamino passi della notte il successivo passaggio delie costellazioni dall'una all'altra delle case celesti. Imperciocché altro è dalla posizione delle stelle ar- guire il tempo presente della notte, altro appellare passi della notte il ridetto passaggio di quelle per le diverse lunule della volta celeste. 2. Dopo questo si aggiungerà forse, che nella interpretazione « non s'intese né si parlò mai di passi" simili a quelli che fa un animale; poiché altrimenti l'autore avrebbe dovuto dire delle melensaggini. » Risposta. Io sono persuasissimo, e di buona vo- glia concedo che l'autor della prolusione non intese né parlò mai di passi simili a quelli che fa un ani- male. Tale e tanta è la stima che tutti gli italiani e noi con essi facciamo del valente professore Mossotti (che è tanta parte della gloria nostra), che niuno immaginerà mai, lui nell'ingegnosa sua ipotesi aver voluto attribuire tali passi alla notte. Ma e non è appunto dal troppo sottilizzare nei pensieri e nelle ipotesi che l'uomo, anche dotto e conseguente, cade talora, e non se ne avvede, nelle più strane legge- rezze."^ Io però non dico, né suppongo, né voglio che altri supponga, che in questa ipotesi siensi dette delle melensaggini. Solo invito il mio lettore a pon- derar prima bene quello che fu esposto nel §. IV, e poi decidere con quanti pie la esaminata chiosa fac- cia correre la notte. 3. Ma si opporrà anche : « Che Dante, tutte le volte che fece l'antitesi delle apparenze dei due emi- sferi, parlò sempre di emisferi opposti: « Sì che amen- duo hanno un solo orizoo. » Purg. e. IV, v. 70. 184 Letteratura Rispondo. Molto bene osservato : Dante tutte le volte che fece Vantilesi delle apparenze dei due emi- sferi , parlò sempre di emisferi opposti. Ma Dante non sempre fece Vantilesi suddetta; anzi tal volta non la volle fare : e per conseguenza in allora non parlò delle apparenze di emisferi opposti. Queste volte sono più d'una , come , per grazia di esempio , quando disse ( Purg. e. 2, v. 25, e e. 1 5 v. 6) : « Vespero è già colà dov'è sepolto Lo corpo mio, dentro cui faceva ombra; Napoli l'ha, e da Brandusio è tolto ». » Vespero là e qui mezza nott'era. » In questi due luoghi, omessine per brevità al- tri di simil natura, si potrà egli dire che il poeta faccia l'antitesi delle apparenze di emisferi opposti? No certo : che in emisferi opposti si hanno appa- renze opposte: « Qui è da man quando di là è sera (Inf. e. 34, V. 118) ». « Già era il sole all'orizzonte giunto .... E la notte, che opposita a luì cerchia, Uscia di Gange .... (Purg. e. 2, v. 1) ». Ma negli al- legati esempi si fa contemporaneo il mane del Pur- gatorio col vespero dell'Italia-, e la mezza notte di questa col vespero di quello : in somma, non di emi- sferi opposti che hanno un solo orizzonte, ma vi si parla di tali emisferi che hanno orizzonte molto di- verso. Laonde come in altri luoghi di questa can- tica ha fatto, così in questo ha potuto confrontare le apparenze dell'emisfero del Purgatorio con quelle dell'emisfero d'Italia, senza né poco né molto con- travvenire alla propria norma. Osservazioni del Ponta 185 h. Ma qui tosto sog^riungerassi : « Che in fine il supporre che il poeta abbia sostituito l'orizzonte dell'Italia a quello di Gerusalemme senza avvertirne, è un attribuirgli una incongruenza col solo oggetto di piegare il senso delle parole alla preconcepita spiegazione ». Questa obiezione varrebbe contro noi, quando fosse provato che il poeta si prefisse di far sempre l'antitesi delle apparenze di emisferi opposti : ma per quello che detto è nell'ultima risposta, è anzi pro- Tato che egli volle tenersi in così piena libertà, che senza farne cenno espresso, ora confronta quello del Purgatorio coll'emisfero di Gerusalemme, ed ora in- vece, così piacendogli, lo confronta con quello del- l'Italia. Pertanto non è, né può dirsi un'incongruenza la sua pratica, e nemmeno peccante di oscurità. Non incongruenza, perchè l'autore non manca ad alcuno dei posti principii : non oscurità , perchè l'attento lettore, che vede esposta la coincidenza del vespero colla mezza notte , della mane col vespero , delle tre ore di notte coU'aurora^ ha già argomentato da se , che quivi il poeta confronta l'orizzonte del Purga- torio con quello di un altro emisfero assai diverso dal suo opposito di Sionne. In fatti dopo che l'autore, accennando al Purgatorio , ha scritto : « Qui è da man, quando di là è sera: » fa egli mestieri a chi comprende i termini, ch'egli aggiunga: inCendo par' lare di emisferi che hanno un solo orizon? » E quan- do, scorrendo le falde della slessa montagna sull'ora di terza, lo stesso poeta ha detto : « Vespero è già colà dov'è sepolto II corpo mio: >► non fece egli de- terminatamente argomentare, che raffronta l'orizzonte 186 LfiTTERAtUliÀ di questa con quello dell'Italia, senza prendersi peri-' siero dell'opposito di Gerusalemme? Ed il simile non avvien egli là dove, accennando pure al saero mon- te, ripetè: « Vespero là, e qui mezza nott'era » ? Imperciocché a chi mai, per intendere il proprio va- lore dell'avverbio gm, farà bisogno dell' avviso, che in questo verso si paragonano le apparenze diurne del Purgatorio con quelle d'Italia ? e non basta il sentir additati luoghi diversi di orizzonte, così che il ve- spero dell'uno ( che nel caso nostro è il Purgatorio) coincide colla mezza notte dell'altro ? Non diversamente avviene in questo passo del canto nono : il poeta dice : « Spuntava nell' oriente l'aurora, ed erano due ore e mezzo di notte al Pur- gatorio, ov'io mi trovava ». Ecco un problema ad una incognita : in qual orizzonte 1' aurora coincide colle tre ore e mezzo del Purgatorio? Chi conosce i termini risponderà pronto, l'aurora spunterà al le- vante di un luogo che trovisi per tre ore al ponente di Sionne, opposto per ipotesi al monte del Purga- torio. Ma questo luogo è l'Italia: dunque conchiu- derà, il poeta addita l' aurora di questo paese. Né pertanto fia lecito il dire che egli ciò faccia a solo oggetto di piegare il senso delle parole alla precon- cepita spiegazione. Comechè già sia provato che il testo fa argo- mentare che parla del Purgatorio e dell'Italia; pure chi attende fiso a tutte le parole è costretto a ri- conoscer questo come detto espressamente dal poeta* In vero prima dice : Vaurora s'imbiancava all' ori- ente : poi soggiunge: e tà, dov'io era^ la notte avea fatti quasi tre passi in salita. Che altro è questo Osservazioni del Pontà 187 se non , nell' oriente del luogo ove sono spontava l'aurora, e là dov* era compievan le prinrje tre ore della notte ? Così appunto senza tanta astronomia la intese Iacopo della Lana, che chiosa in questo mo- do : << E la notte dei passi con che sale .... cioè ore; » fatti avea due^ e il terzo ec, cioè la terza ora. )) Dice dunque che l'aurora in oriente venia su, ed » in ponente era la terza ora della notte Dice » dunque che l'aurora col segno di scorpione ntl >) levante saliva; nell'altro emisfero era la terza ora » della notte (Codice vatic. num. 3201 ) ». Questi poco istrutto di astronomia erra nella costellazione zodiacale, ma in tutto il rimanente spiega così be- ne, che ninno potria meglio. V aurora venia su in oriente^ cioè nel nostro, e però spuntava per l' Ita- lia: ed era la terza ora della notte in ponente , cioè nostro, il che produce la terza ora dal tramonto del sole al Purgatorio. Pertanto è provato altresì che il testo offre con tutta la voluta chiarezza l'indicazione certa, che il poeta nei primi due trinari del luogo citato descrive il nascere dell' aurora all' oriente d' Italia (ove egli scriveva; siccome coincidente alla fine della terz' ora della notte al Purgatorio, Za ove^ egli era quando fu preso dal sonno. 5. « Ma questa spiegazione, si aggiunge, ha il difetto di far dormire Dante per undici ore.» Sia pure : niun inconveniente che dopo tre giorni di angoscioso correre per le vie erte ed arte Iella selva, dell'Inferno e del Purgatorio, si conceda al mistico pellegrino un riposo tranquillo di tante ore. Tanto più che sullo spuntare dell'aurora in quel luogo stesso egli entrò in un misterioso e salutevole 188 Letteratura sogno che gli durò forse tre ore: il che fa supporre che questo lungo sonno, anzi che poltrimento, fosse una saluberrima cura spirituale a quell'anima travia- ta. Ma anche senza questo, non è questa la sola volta che il protagonista della Commedia dorme lunga- mente quanto è d'uopo ; poiché avendo egli stabi- lito che la notte è fatta pel riposo, non solo si è sempre seduto ove giugneva al partire del sole, ma dice pure, che ivi si addormentò innanzi alla mezza notte, e che riprese via solo che quando « erano già pieni dell'alto dì i giorni del sacro monte n (Purg. e. 18, V. 74 sino al v. 37 del canto seguente; e c^ 27, V. 70 e segg.). Impertanto siccome non è solo in questo luogo che concedesi al mistico pellegrina un sufficiente e non biasimevole riposo notturno i cosi sconcio gravissimo stato sarebbe piuttosto se colla nuova spiegazione Dante si fosse abbandonato al son- no sull'aurora, quando gli altri uomini ripigliano il lavoro : siccome usavano quei romani patrizi derisi con queste parole da Giovenale (Satira 8, v. 1!)^ i> Si dormire incipis ortu » Luciferi, quo sigila duces et castra movehantl >» 7. Finalmente si ripiglierà: « Dante parla qui di un'aurora, che egli veramente vedeva incoronata da- gli astri dei pesci. Dunque egli intese di quella del Purgatorio, ov'era colla sua persona, e non di quella che allor sorgeva in Italia, da cui stava le mille mi- glia lontano.» Questa supposizione fu veramente l'inciampo di molti: ma è al tutto falsa. Dante non dice in quei Osservazioni del Ponta 189 ternari, di aver veduto sensibilmente il nascere dell'au- rora, ma che in oriente spuntava l'aura nel segno dei pesci, quando nel loco, dov'egli era, erano quasi le ^re ore della notte Ad afièrmar questo non richie- desi l'occhio corporale : chi abbia una mente eser- citata nella cosmografìa ( e Dante ne era maestro ) può determinare a qualunque ora le apparenze di qualunque orizzonte. Per tale scienza, trovandosi nel- l'inferno, disse per bocca di Virgilio : / pesci guiz- zan su per V orizzonta: La luna è sotto ai nostri piedi: Tocca V onda sotto Sihilia Caino e le spine : Già la notte risurge : Già il sole a mezza terza riede ( Inf. e. 11, V. 133 ; e. 20, v. 129; e. 29, v. 10; e. 34, V. 68, 96). E salendo il Purgatorio avvertì che: // sole avea lasciato il cerchio di merigge Al tauro^ e la notte allo scorpio : Vespero là e qui mezza nott'era: e che, tramontando pel Purgatorio, il sole nasce per Gerusalemme (Purg. e. 15, v. 6; e. 25, v. 2; e. 27, V. 1.). E così vie via in altri luoghi, dove l'autore fa certa fede che parla di apparenze vedute, non con quelli del corpo che scorgono solo ciò che loro è dinanzi, ma con quelli dell'intelletto, che liberi da nitoppi vedono quanto per occhio e per mente si gira (*). Pertanto se le addotte ragioni e risposte parran- no a tutti, come a noi, salde e concludenti , giova sperare che i lettori ed i nuovi interpreti del Dante, abbandonate le altre spiegazioni di questo luogo già dimostrate assurde, immaginarie e contrarie al testo, (*) Qiipsia verità è chiarissima al lettore esercitato nelle appa- renze celesti, ma può divenirlo anche per qualunque si rechi a mano VOrologio di damte. 190 Letteratura accoglieranno per ottima quella del Cesari (*) ; la quale, sgombra da tutti gli inconvenienti, cui sog- giacciono quelle, presenta il concetto dell'autore così facile, limpido, nobile, e sfavillante della luce del vero, e così armonizzante le celesti colle apparenze terrestri, che lo stesso professore Mossotti, se l'avesse conosciuta prima, l'avrebbe approvata. (*) Del Cesari diciamo, perchè primo la divulgò: ma era già stata nota ed accetta a Iacopo della Lana (come fu detto) e al GiambuUari {Del sito del Purgatorio): fi-esenl'iU dal, Rosa Morando, dal Perazziui (Dionisi, Anedd. II, cap. 3; Anedd. IV, e. 9) e dal Ven- turi (Pasquali, Venezia 1739), e finalmente determinata dall' abate Giuseppe Pederzani, che la comunicò al Cesari, il quale magistral- mente la espose e difese nell'opera Le bellezze della Commedia di Dante. Vedi Studi inediti su Dante. Firenze 1846^ a face 24, 28 e 31. 191 Notizie d'Innocenzo XI dettate daWabate Antonio Angelini-Rota. J-^a virtù de' nipoti splende di luce più viva, se in essa rifletta la jjloria degli avi : che di qua dalla nota di laida cortigiania si può affermare del casato Ode- scalchi, in cui trasmessa in prezioso retaggio vive bella e intaminata la fama degli antipassati. Da que- sto arbore grandioso, che da Como, dove ebbe ceppo, trasposto in Roma venne a maggiore altezza, ed al- largò i rami in onestissimi parentadi , io lasciando dietro i molti chiari nelle arti della toga e della spada soiFermerò breve spazio gli occhi in Benedetto Odescalchi, che empiè del suo nome l'Europa, e dal trono vaticano, dove varcato il mezzo secolo dicias- settesimo alzaronlo le sue virtù, splendette di gloria per ancor fresca e non offesa dalla potestà dell'oblio. Di quanta finezza ingegno fosse in Benedetto, qual' anima aperta al sentimento del bello e dell'one- sto, quanta elevatezza di pensieri che lo sollevavano dalle vie volgari, si fé aperto nel primo fiorire del- l' adolescenza che lo presagì nato ad alte imprese. Mancava a sì vasto intelletto un campo, dove spa- ziare e far degna mostra di se : e per conforto dei congiunti e degli amici l'ebbe in Roma d'ogni tempo formatrice di grandi e teatro di belle virtù. Qui, in- contanente che entrò ne' referendari apostolici, die tal saggio di se coU'ampiezza della mente colla dirittura 1 92 Letteratura del consiglio, colla desterità nei maneggio de' negozi, che in se converse in ammirazione gli occhi e le lingue di molti. Ardeva in queste contrade una in- felice guerra; sopra lo stato gravavano le spese e le molestie di questa, e ogni di peggio lo smunge- vano di pecunie, di viveri, d'uomini. Le province marchiane, di animo alieno alle armi e ripugnanti alle nuove gravezze, ebbero l'Odescalchi commetti- tore di pace presso V irato pontefice . e alleviatore dell'importabil tributo, rammorbiditi gli animi dalla matura sapienza di lui, spenta ogni favilla di dis- sensione. Al trentesimoquarto anno ebbe l'onor del cap- pello: e Innocenzo decimo affermò, che rimunerava con questo testimonio d'onore i meriti con lo stato: aggiugnendo che a quest'altezza di grado non s'era strisciato per le cupe vie di corte, dalle cui arti fu aborrente quel magnanimo petto, ma che gli aveauo schiuso e breviato la via rare e provate virtù. Spiegò nel cardinalato quella intemerata forma di gravi co- stumi, la quale dovechè risplcnda ne' primi personag- gi della chiesa, tanto incremento di gloria aggiugne alla religione di Gesù Cristo. Egli contuttoché lo splendore dell'ordine cardinalizio, per colpa più pre- sto dell'età che degli uomini, desse nel grandeggiante e nello sfoggiato, e de' suoi colleghi pochi o niuno gli entrasse innanzi nelle dovizie del censo paterno, nullamanco fu temperato nelle spese; non lusso nei cavalli e ne' cocchi, non ozioso sciame di sfaccen- dati servi, non grandiosità negli argenti e nelle sup- pellettili, di qua però dall'offendere al decoro e di- minuire la dignità. Amò con miglior usura suoi te- Notizie d'Innoc. xi 193 soli riposti per le mani de' poverelli nell'erario del cielo; alleviò le calauiità e pubbliche e di quanti rifuggissero alla sua pietà; e con regale munificenza giovò, conaechè privato, le armi polacche e tedesche prese contra l' ottomano. Nello stremo, a che suol gittare un gran popolo il caro de' viveri e il difetto di alimenti, l'ebbe Ferrara legato pontificio; e mercè della prestezza de' suoi consigli, venute di Puglia navi frumentarie e imboccate nel Po, acchetò le grida della famelica poveraglia, ricondusse l'abbondanza, sbassò i prezzi, e tornò in allegrezza le lagrime, i timori, le strettezze di sì nobile provincia : e questa fece eterna la riconoscenza al raro benefizio nella epi- grafe: Benedictus Odescalchi pater paitperiim. L' invidia cortigiana, seguace al chiaro nome, affinò la virtù di esso, il quale cedette magnanimo e in silenzio, e trovò alleviamento e conforto in Dio e nella coscienza della sua nettezza. Entrò vsotto il carico episcopale della chiesa di Novara: e il decoro cresciuto a' sacri templi o ristorati o rabbelliti o donati di preziosi vasellami e di splendide suppel- lettili : r allevamento de' giovani che si avviano al santuario, aiutato di consiglio, di disciplina, di buone dottrine: le case ospitali de' mendici e degl' infermi ricreate dall'aspetto, dalla voce, dalla munifica libe- ralità del pastore : i costumi del popolo ripurgati dalle sconcezze de' vizi , e questo giovato alla pietà dalla eloquenza de' banditori evangelici : il monte di pietà alzato a sollievo e presidio della indigenza, nel che sta la somma de' pregi: la vita di lui spec- chio a tutti in privato e in pubblico di purissima religione, fecero veneranda e cara ad ogni ordine la G.A.T.CXVn. 13 1 94 Letteratura sua presenza, amara e dolorosa la dipartita. Sì tosto che rivenne in Roma, tenne nelle pubbliche delibe- razioni il primo luogo di- autorità e di potenza: e di quanto si decretava a prò della chiesa e dello stato era egli l'indrizzatore, l'autore, la guida. La fama in- veterata di sapienza ne' consigli, di santità ne' costu- mi, riunì in esso nel conclave la parte maggiore delle voci per porlo nel Irono vaticanp ; ma egli, costante a se stesso e saldo ne' prinicipii di bassissinaa luBÌltà, con generosità più presto singolare che rara causò da se qutìUi'onore, e lo voltò col suo voto riu- nito a quello de' colleghi sopra un uomo di gran mente e di gran cuore, Emilio Altieri, che sedette sei anni col ao,Qae di Clemente decimo. Senonchè il generoso rifiuto, con che tentò la seconda volta sottrarre il capo alla pontificale tiara, fu vinto all' ultimo dalla fermezza de' colleghi, che lo chiedevano concordi a sovrano; pastor della chie- sa; ondechè temendo, se piO prolungalo spazio ri- cusasse, fare contro l'aperto voler del cielo, cedette a' voti pubblici il ventesimo secondo di settembre del millesecensettantasei. Dall'altezza del trono vol- gendo d' intorno lo sguardo vide e conobbe quali fossero i mali, cui porre riparo, i beni da promuo- vere: e pari alla mente da scorgerli ebbe e cuore a sentirli e generosità di venire all'opera- Le ragioni della sedia apostolica l'ebbero intrepido e generoso sostenitore, e pel labbro di esso sonò libera e forte a' monarchi la voce della giustizia. Colla celerità del consiglio corse in aiuto a Luigi decimoquarto a smor- bare le Gallio dalla pestilenza degli ugonotti^ che insolenti pe' primi movimenti, ringrossati di wuaafie- Notizie d'innoc. xi. 195 ro, feroci per potenza, minacciavano la tranquillità del reame e della chiesa. Studiò spegnere tra' prin- cipi l'ardore delle ire, e volgere i loro animi a con- corde amore di -pace. Largheggiò de' tesori con Leo- poldo, implicato in lunga e dubbiosa guerra con gli ottomani, e gli rassodò in capo la corona imperiale collegandolo col Sobieski di Polonia e co' veneti : i quali in molti fatti d' armi ruppero 1' orgoglio del turco, e or sotto le mura di Vienna, or nelle bande della Schiavonia calpestata e taglieggiata dal nemico, fiaccarono la temerità e la baldanza delle orde bar- bare addensate a disertar l'Europa. Zelò la purità della fede, la purgò da pestilenti dottrine che s'insinuavano ad ammorbarla, e fulminò di anatema le sentenze, che dando in contrari estre- mi, e trasmodando dal vero, o restrigneano a non comportabili obbligazioni l'evangelica legge, o la dis- solvevano allentandola a sconsigliato rilassamento. Il suo studio in conquistare nuove genti al vangelo uscì d' Europa, travarcò i mari, e si volse alla Cina, al Tonchino, allo Siam, all'Etiopia, al mezzodì dell'Ame- rica. Aprì un collegio di sacerdoti francesi, donde uscissero freschi e strenui operai a portar la luce della fede a' popoli giacenti in tenebre d'idolatria , e ad entrare nel luogo di quelli che o cadevano sotto alle fatiche e al peso dell' età, o il ferro del carnefice mieteva pel cielo. Mantenne ferrai i diritti e assodò l'autorità de' vescovi che la pontificale di- gnità rappresentavano a quelle nazioni; e statuì che applicassero i pensieri e dirizzassero le cure a co- stumare alla pietà, alle sacre dottrine e alla santità del sacerdozio i fanciulli naturali del paese, perchè 196 Letteratura di questi si selciasse la cherical milizia, giusta l'esem- pio e gli ammonimenti apostolici. Dio gli die di ve- dere allargati i confini al vangelo, e rientrare in se- no all'antica madre, usciti dalla pervicacia dello sci- sma, i patriarchi antiocheno e caldeo, l'arcivescovo di Tiro e più vescovi dell'Asia. Propose alla venerazione de' fedeli la santità, alzando non pochi all'onor de- gli altari, e stanziò nuovi canoni alle solenni bea- tificazioni vaticane. Roma non fu ultima nelle sue cure. Col vigor di leggi salutari sterminò l'inverecondia del santua- rio, richiamatane la pietà, la riverenza, il decoro, la smorbò dal lezzume di femmine cantoniere, annullò franchigie, fomento e scudo a' delitti, abolì i giuochi di rischio, pose modo allo sfoggiato lusso della no- biltà, raccolse entro mura ospitali e poveri e fan- ciulli perchè non intristissero birboneggiando ne' tri- vi, e li strinse alla fatica di utili mestieri. Cassò dal- l'aula pontificia uffizi di nome specioso, di tenue uti- lità, di gravi spese. Sgravò lo stato da pesanti esa- zioni, aperse i tesori alle città rotte e conquassate dal tremuoto, vegliò l'economia pubblica, estinse i debiti, e colla buona amministrazione lasciò pieno e impinguato l'erario. Caldeggiò i buoni studi, ac- carezzò gl'ingegni , rimeritò la virtù con gli onori che negò all'ambizione. Delle sue private e dimestiche virtù chi può dir tanto che risponda alla sublime idea che si ri- trasse nella forma de' suoi costumi? D'anima illiba- tissima, studiò guardar immacolata la stola di grazia rivestita nel battesimo, e ogni dì la rinetlava e rab- NoTizrE d'Innoc. xi. -197 belliva nel salutare lavacro di riconciliazione. Dimes- so tanto e di sì alta umiltà, che udì in silenzio e con lagrime chi lo notò pontefice di non saprei quel lieve fallo, e si volgeva a colpa i mali che perco- tevan la chiesa. Parco di cibo, e questo dozzinale: d. sonno, e questo tolto in umile letticello , dove tardissimo si gittava, e per tempissimo sorgeva ad immerger l'anima nella beata contemplazione delle cose celesti. Vesti positive e dimesse, che logore di sua mano rattoppava , suppellettile volgare e più presto povera che splendida, familiari di specchiata integrità e modestia. II dì pieno dava alle cure pub- liche, che non rompeva con verun genere di onesto ricreamento. Nelle spese seco sì misurato e ristretto, che con esempio, il quale ne tacere si può né ri- memorare senza ammirazione, visse nel pontificato col censo paterno non gravando l'erario pur di un piccolo ; per converso largo e munifico in rilevar l'indigenza e giovare le cose pubbliche. Propenso a gravità per natura e contegno.so, piegavasi per virtù ad umanità e clemenza, e largheggiava di grazie an- cor co' traviati. Nell'altezza della persona e maestà del volto rappresentava, a chi il riguardasse, la di-. gnità di vicario di Dio. Sedette dodici anni: uscì di vita colla serenità del gusto, e quasi sicuro della sua corona, il dì do- dicesimo di agosto del mille secento ottantanove, cor- rendogh il settantesimo dell'età. Le sublimi virtù Io posero vivo in ammirazione, morto in desiderio, e gh meritarono da Benedetto decimoquarto il nome di venerabile e l'introduzione alla causa per decre-. 198 Letteratura targli celesti onori (1). Il Bossuet vivuto a quell'età, sì parco alla lode che fece lodati quelli cui non la negò, predica Innocenzo undecimo per grandezza d'animo un Leone, per acceso studio di dilatare la fede un Gregorio, per forma di vita apostolica un altro Pietro (2). (1) Le virtù e le opera gloriose d'Innocenzo undecime ebbero un degno encomiatore in Filippo Bonamici, scrittore latino di purgatis- simo stile. Il commentario sta nella parte seconda del supplemento aìla storia ecclesiastica di Natale Alessandro. Bassano MDCCLXXII. (2) De l' instruction de monseigueur le daupliin fils de Louis XIV au pape Innocent XI. Oeuvres de Bossuet évéque de- Meaux, tom. XXXI, édit. de Lebel. Versailles MDCCCXVIII. 199 Volgarizzamenlo di vangeli , testo di lingua del buon secolo. Parma per Pietro Fiaccadori 1840 in 16 di pag. 196. i^ulla edizione del 1823, lodata dal Gftwòa nella Serie dei testi di lingua nostra, ha conformato questa l'e- ditore parmense, che non ha potuto avere innanzi la prima del 1473, fatta rarissima (*) : ed ha creduto darla senza il corredo di note e variainti, onde fre- giò la sua di Venezia il eh. Emmanuele Cicogna , che si servì di un codice da lui posseduto. E que- sto forse quanto spogliare di dote una bella fan- ciulla ? Mai no; la è tutta bella da se, e non abbi- sogna di frange , delle quali si piacciono gli eruditi, non si cura: l'universale: ed all'universale ha inteso, io penso, di provvedere il Fiaccadori d'altronde de- gnissimo di avere in comune col Giordani e col Co- lombo e coil'Adorni la patria, e colla patria l'amore ai cari studi della beata favella. (') Nella Biblioteca Italiana, o sia Notizia de' libri rari nella lingua italiana, di N. Haim, uscita in Venezia presso Angiolo Ge- remia 1728 in 4. a pag. 224 si legge: » L'Epistole, Vangeli, e Lezioni di tutto 1' anno. In Bolrf- » gna 1473 , e in Venezia 1482 e 1487 , per Annibale da Parma » in 4. In Roma 1483. In Venezia 1307 e 1320 (tutte senza nome » di traduttore).» Ciò sia per norma degli amatori di rare edizion? peiT fare' confronti utili alla correzione delle scritture del trecento. 200 Letteratura E questo amore infiamma pur noi , che da trenta e più anni ci andiamo studiando di promuo- vere il culto di Dante e della lingua , opponendo tutto l'animo al torrente de' novatori. E i nostri sforzi non caddero a vuoto; almeno i generosi, che sanno di avere per patria il bel giardino d'Italia, di fiori nativi ci offersero ghirlande : e se stessi ne orna- rono e le carte. Ma come il fuoco sacro spegnevasi, se la ve- stale lasciava di aggiungeie legna e di avvivare la fiamma: così l'amore della lingua pura vuol essciC alimentato ; e tanto più che il vento spegnitore , mosso da barbare contrade , non cessa di fare sua possa per ismorzare la vampa , che verso il cielo s' innalza felicemente ; quasi in desio di ossequiar Dante e gli altri del beato trecento. Tra' quali è il traduttore, quale che siasi, degli Evangeli : e cui ora stimiamo degno di venire in ischiera col Ca- valca, che gli Atti degli apostoli ne donò , e cogli altri di cuore candido e schietto, come parvero alla favella veramente beata, e degna che gli angeli la par- lino in paradiso ! Se non che la stampa non era ancora quando i nostri padri scrivevano , ed i copisti so- vente infedeli altro ci diedero da quello, che i ge- nerosi scrivevano. Quindi è opera al tutto pietosa quella di correggere gli sconci de' tristarelli, e ri- durre quanto è possibile a pili vera, od almeno più appropriata lezione, i testi di lingua. Ciò fecero e il Perticari ed il Betti gloriosamente: ciò fecero dei nostri il Monti ed il Biondi: ed io pure il tentai , come il Gamba notò , e come è a vedere in varie VOLGARIZZ. DEGLI EVANGELI 201 pagine di questo giornale (*). Il che dico, non per- chè io creda alcuna lode essermi perciò meritata da- gli uomini d'Italia; ma perchè aveix.lo essi più volte fatto buon viso al mio buon volere, accolgano ora altresì in benevola guisa le mie osservazioncelle sul Volgarizzamento de' Vangeli ; anzi non tutte, alcune soltanto, che gl'invitino meglio a studiare in questo prezioso volgarizzamento , di quello che a credere le mie parole un evangelo. Questo ho sempre cer- cato, e questo ora io cerco, né più né meno; giac- ché mi conosco, e basta ! Sono in questo volgarizzamento gli evatigeli di tutto r aano, cioè delle domeniche dall' avvento innanzi, e delle ferie e feste, secondo il rito della chie- sa romana disposti per rubriche. ') Rub. 1. Domenica 1 d'avvento. Secondo s. Lu- >> ca. Dixit lesus. n Pressura gentium^ dice il testo latino, e il volgare ha di molta tribolazione e paura nella gente. Qui meglio era pressura usato da G. Villani per angustia, tri- bolazione. Il traduttore ha snervato l'idea rendendo con tante parole l'unica così calzante., pressura: e ha usato paura.) che poi ripete dopo a significare il la- tino, che meglio sarebbe stato reso coll'italiano ti- more.) chi ben guarda al conlesto. Noi giurerei; ma mi va per la mente, che il traduttore nel passo al- legato di soprascrivesse press«(ra, meglio che ;j««r«: e vi sarebbe stata soprabbondanza , ma più fedeltà (*) Vedi sull'antico f'ulgarizzamento dell" Amicizia di Cicerone tom. 29 e 30 di questo [jiornale : e su! volgarizzamento inedita di alcuni scritti di Cicerone e di Seneca lom. 3i e 35. Sul Uiltamoudo *ii Fazio lom. 33: sul Convito di Dante to;n. 39 e o2, ed altrove. 202 Letteratura nella versione. E di soprabbondanza pecca il vol- garizzatore, che dopo in nube dice nelle nuvole del delo : dove del cielo è veramente superfluo. Altri passi infiniti potrei notare in conferma, se bisognas- se. Prope est aestas è reso coli' egli è presso alla stale: invece eli alla , leg'gi la state, cioè il tempo dell'estate. Infatti dove poco stante il latino ha prope est regnum Dei^ la versione ha egli è presso il re- gno d Iddio : il regno dico, e non al regno. E qui dove si spone una similitudine, quale è propria nel- r idea , deve esserlo nelle parole , chi sa le leggi dell'eloquenza. « Rub. 2. Dom. 2 d'avvento. Secondo s. Mat- » teo: Cum audisset Ioannes. » Il latino mortili resurgunt^ pauperes evangeli- zantur è reso così: « I morti resuscitati, ed i poveri » evangelizzare. » Chiaro è doversi leggere « i morti » sono risuscitati , ed i poveri evangelizzati. » Quel verbo sono potrebbe sottintendersi in Davanzati, vol- garizzante Tacito, non nell'autore che nel buon se- colo tradusse i vangeli; al quale la figura disse non fu già familiare, come ho fatto osservare più sopra. Quanto all' evangelizzare è chiaro doversi leggere evangelizzati., che vale quanto bene augurati.^ prospe- rati; perocché evangelo viene da greca voce signi- ficante buono annunzio , e noi diremmo buono au- gurio., o simili. « Rub. 3. Dom. 3 d'avvento. Secondo s. Gio- » vanni: Miserimt iudaei. » Et confessus est., replicato è nel testo latino, e nella versione solo la prima volta è detto ed egli confessò. Chiaro è doversi ripetere la seconda volta, il VOLGARIZZ. DEGLI EVANGELI 203 ponendolo a suo luogo, così che leggasi: « Ed egli » confessò e non negò: e confes.w , che egli non » era Cristo. » Il quid ergo ? Elias es tu ? è reso così: « Chi » se' tu ? adunque se'Elia? » L'interpunzione è non conforme al latino : dee leggersi, come è chiaro: 'i Chi se tu adtinque ? se' Elia ? » Il clamanlis in deserto è tradotto: « Che gridai » nel deserto.» Leggi vaeQWo che grida nel deserto y^'^ anzi così assolutamente, perciocché consuona il pre- sente grida coli' e dico , che è dopo : e il contesto vuole così, né altrimenti. « Rub. A. Mercoledì delle tempora. Secondo » s. Luca: Missiis est angelus. » Il « cui nomen erat loseph » è reso « il quale » nome era Giuseppe : » e va letto il quale uomo era Giuseppe ; salvo se non vogliasi sostiuire il cui nome era Giuseppe; alludendo a un uomo , che sta innanzi nella versione. In mulierihus - dice « sopra tutte le femmine. » Forse meglio sarebbe tra tutte le femmine; pensando sempre al beato trecento. Noi dopo tanti secoli me- glio diciamo - tra tutte le donne - perchè la voce femmina è nella bocca del volgo tratta a senso men buono. Adunque io lascerei nella versione il voca- bolo femmine , ma vorrei apposta una nota , dove avvisare, oggidì noi dover salutare Maria Vergine col nome di donna e di benedetta tra le donne più santamente. Il che valga per altri luoghi consimili, se incontrinsi per avventura, come ad esempio nella rubrica 5 nel saluto di Elisabetta a Maria. L' invenisti . . . gratiam apud Deum è reso così -^ 204 Letteratura « Tu hai ricevute grazie appo Dio: » e pare da leg^- gersi; « Tu hai trovato grazia appo Dio » non altri- menti; il perchè salta agli occhi, e parole io non ci appulero^ per dirla con i>ante In utero non ha corrispondente nella versione: e così è del sanctum^ che è poco dopo: non sareb- bero da supplire ? Né Vonine verbum reso con ogni cosa andrà a sangue ai filologi, e meno ai teologi, che meglio giudicar ponno di cosi alti misteri. Né io intendo di porre mai la lingua in cielo ! Il che sia detto una volta per sempre. » Kub. 5. Venerdì delle tempora. Secondo s. Lu- » ca: Exurgens Maria. » L' «6//; in montana in civitatem luda^ è reso così : « Andò . . . nelle montagne della città » di Giudea. » Dovrebbe invece leggersi della città di Giuda : ed era veramente la città di Ebron nella tribù di Giuda l Il repleta est Spiritu Sancto Elisabeth., riferibile a Elisabetta, invece con uno sconcio imperdonabile si riferisce nella versione al fanciullo così: « Si ral- » legrò e fu pieno di Spirito santo. » Tutto quel passo bisogna dunque ridurlo a vera lezione ; che ogni infedeltà offende qui non pure la lingua, ma e la religione come che sia. Se rendendo altri libri in volgare basta dar cosa per cosa, ne' libri santi (massime degli evan- geli) è da rendere con fedeltà sovente anche parola per parola, secondo l'altezza dell'argomento, laddove sillaba di Dio non si cancella , e ne' misteri che hanno scritto in fronte: Adora e taci. Del ben tradurre io diedi altrove le norme VOLGARIZZ. DEGLI EVANGELI 205 quanto a' tesli di lingua, e sono a vede) e in questo giornale gli articoli, fra gli altri, intorno al dialogo dell' amicizia di Cicerone , e intorno a vari scritti di Cicerone e di Seneca di quello da Catignano^ e sono ricoradati dal Gamba nella Serie de' testi di lin- gua italiana , come di sopra accennai. Ancora del ben tradurre Ciazio diedi più articoli in questo pe- riodico, e così toccando di altre versioni, di classici latini singolarmente. Ma quelle norme, in quanto a fedeltà, sono da osservarsi più strettamente in questo Volgarizzamento di vangeli^ e in simili altri di cose sante , per 1' addotta ragione e per ogni altra che splenderà facilmente ad ogni mente, cui non sia ve- lato il giudizio. Se portassi più oltre l'esame in questo Volga- rizzamento del buon secolo , troverei di che ridire ancora; ma ne io debbo arrogarmi troppo di auto- rità, massime in materia così delicata, né voglio dare più noia ai benevoli, che pongono gli occhi sovente su queste carte. Se amano toccar con mano quello che io solo accennai; potranno d'altronde essi stessi svolgere il Volgarizzamento , di che è parola : che pure è degno per molti rispetti di essere bene con- siderato, chi ama la semplice e pura favella del bel paese. Se poi alcuno di loro, che sia tenero assai di questa cara favella, si prenda cura di emendare i passi qua e là di qaesto stesso Volgarizzamento^ io so ben dire, che pubblicandolo con diligenza ne gua- dagnerebbero gli studiosi, ed un gioiello purissimo risplenderebbe in quella corona, di che si abbella la lingua nostra. Io prego il cielo, che così avvenga 206 Letteratdr felicemente: e sarò lieto di averne dato io medesimo, quale che sia, Teccitamento ! Prof.D. Vaccolini. JBiografie d'illuslri ilaliani recentemente defunti; I. Vito Procaccini Ricci. Vi ito Procaccini Ricci nacque in Monlesanvito nel Piceno al declinare del secolo XVIII. Sortì dalla na- tura un temperamento sanguigno , una indole do- cile, un ingegno vivace. Compiuti gli studi elemen- tari, passò in Macerata, ed in quella università attese alla filosofìa: indi in Bologna, e compiè la sua educa- zione nell'almo collegio diMontallo, e vi ebbe a compa- gni Francesco Saverlo Castiglioni, che fu poi Pio Vili, e Cesare Nembrini cardinale. Avanti di partire di quel- l'insigne testé nominato collegio, vi conseguì la lau- rea dottorale. Amantissimo delle belle arti, ebbe campo di secondare il suo genio stando in una cittadelle più celebri della Italia, e madre feconda di dipin- tori celeberrimi: ed in seguito se ne invogliò di più a Firenze, così elegante, e piena di opere superbe di eccellentissimi artisti. V" Recatosi in Roma, si consacrò interamente aliai pittura, lasciata la giurisprudenza , che non sem- ■ J Biografie d'illustri italiani eg . 207 bravagli troppo confaceate al suo sistema di vivere semplice, quieto, e nemico dei clamori del fóro. Non potè proseguire tanto a lungo i suoi diletti studi , e per affari domestici lasciò la metropoli, si diresse poi alle venete lagune per ammirare i sontuosi mo- numenti delle belle arti in quella ancor prima e sovrana repubblica delia nostra penisola. Indi si rivolse all'alta Italia, e vide colla massima soddisfa- zione quei dipartimenti assai ricchi di bei minerali, siccome fregiati sommamente di produzioni sublimi nelle arti imitatrici, ch'egli non trascurò giammai: e di là passò ad ammirare in Parma l' inimitabile pittor delle grazie Antonio Allegai da Correggio. Al principio degli sconvolgimenti in Italia si trasferì alla romorosa Napoli per osservare le biz- zarrie della natura, irrequieta per lo più in quelli amenissimi contorni; e di là alla maggiore isola del mediterraneo; e con desiderio di ritornarvi abban- donatala, visitò le Eolie, avanti di porre nuovamente il piede nel Lazio. Dopo il lasso di qualche anno cominciò a perlustrare i vulcani estinti dello stato romano , e riunì un ampia serie di prodotti delle antiche fucine sotterranee in quelle vaste province. Scrisse i suoi viaggi in quattro volumi: e, se le cir- costanze cambiate non si fossero , otto per lo meno pubblicati ne avrebbe. Fece di poi ritorno alla felice Etruria, e al prin- cipiare di autunno andò a visitare da naturalista l'isola Elba, allorché segnava un' epoca delle più memo- rande. Colà di leggieri ebbe campo di arricchirsii di vaghi prodotti metallici, di pietre dure, di rocce pri- 208 Letteratura mitive non comnni , e di altri oggetti distinti nella storia della natura. Unita insieme una considerevole collezione di minerali, di fossili, di sostanze vulcaniche ec. venne in Sinigaglia , vi fissò dimora , è dispose tutto con ordine in sua propria casa. Sembravagli precluso il varco ad altre ricorse, specialmente vicine; né sareb- besi mai dato a credere che un campo vastissimo aperto se gli fosse, dir si potrebbe, sotto i suol piedi. Le gessaie sinigagliesi discoprirono nel loro interno tanti corpi organici fossili , che di per se bastanti sarebbono a formar quasi un museo. In botanica non avvi che più desiderare: tronchi, rami, ramo- scelli, foglie, fiori (benché di radissimo) semi, frutta, piante erbacee, gramignee, fuchi, boracine, felci ee. stanno rinchiuse per mezzo le marne , le quali so- prastanno d'ordinario al masso selemitico. Gl'insetti in gran copia, e molte alucce di libellule e di far- falle. Né vi mancavano vermi parecchi, e piume, ed arti di uccelli. Di pesci poi un numero strabocche- vole , e di minute conchiglie marine puranche. È da rilevarsi come raro fenonemo nei filiti, il colore talvolta ricordante il simile alle foglie vegetanti, ed in ispecie allorquando si avvicina il finire di autun- no. Tuttociò è riunito in un perimetro di un mi- glio quadrato, a un dipresso , discosto una passeg- giata dalle mura di Sinigaglia : e tanto più si ri- trovano vari i corpi organici fossili, quanto più si ricercano con accuratezza maggiore. Pensò la colta e studiosa Pesaro d'instituire una accademia di agricoltura, e chiamò a collaboratori due soci da ciascuna città della provincia: scelse il Biografie d'illustri italiani ec. 209 Piocacciui, di j^ià agjjregato a parecchie accademie scientifiche ed illustri, per Sinigaglia, e non mancò egli di adoperarsi per render pubbliche le sue fa- tiche allo scopo prefìsso : e co minciò a raccogliere i fossili ed i minerali nel distretto accademico, ed a parlar via via di essi nell'esercitazioni che sono periodicamente pubblicate. Quantunque un tal la- voro sia lungo e quasi disastroso, pur vi si accinse di buon grado per far conoscere quante ricchezze rimangono tra noi ancor sotterra. E poiché le gra- naglie nostre sono disgraziatamente non più curate dagli estranei, fatti industri per disagio nostro, così egli giudiziosamente si rivolse a far parola di quello che non può mancar mai. E ben da desiderarsi che una tale intrapresa sia condotta al suo fine. Possono adunque considerarsi tre lavori prin- cipalmente del nostro Procaccini. La ricolta dei pro- dotti dei vulcani estinti dello stato romano. L'altro dei corpi organici fossili delle gessaie sinigagliesi. Il terzo dei minerali del distretto dell'accademia pe- sarese di agricoltura. Il primo riunisce poco men che tutti quei pro- dotti che l'eccellentissimo Covelli seppe raccorre al Vesuvio, ed esaminare con ogni accuratezza possi- bile; onde può dedursi che il focolare degli antichi vulcani da Radicofani, Santa Fiora , Patrimonio di s. Pietro, agro romano, e quasi tutto il Lazio, con- tiene le sostanze medesime che le bocche ignivome di Napoli. Questa nozione sembra meritevole di qual- che peso per la geografia segnatamente. Col mezzo del secondo si conosce chiaramente Ja struttura del nostro suolo, e a quali catastrofi sia G.A.T.CXVIL 14 2 1 0 Letteratura slata esposta una parte del territorio sinigagliese. Gli avanzi delle piante esotiche ed anche dell' emi- sfero opposto , che si veggono comparire di volta in volta tra l'immenso numero dei filiti che vi sono sepolti, fanno mostra di un soggetto quanto raro, al- trettanto degno delle più profonde meditazioni: e vie più le accrescono le piume, le ale di farfalle, gl'in- setti, i verrai, di cui sono sparse a profusione le ges-^ saie e parecchie colline nostre. Nel presente, che è il terzo lavoro su cui va intrattenendosi, si parla di varie miniere di zolfo ricchissime, e per la loro direzione ben si rileva es- sere in un immemorabile cataclismo partite dal sud per venire al nord; e al modo stesso non pochi viot->- Ioli di rocce primitive, le quali vi son pervenute dalla parte meridionale del Mediterraneo. Le crete, le marne, ed i sedimenti delie acque marine gli sot^ tostanno; i filiti e gl'iclioliti compariscono per mezzo ad esse in più luoghi. L'alabastro gessoso vi si vede talvolta abbon- dante. Le ligniti sparse bizzarramente in alcune col- line ed altrove. Depositi di testacei, ora riuniti ed ora separati ed intieri, non vi mancano: né sembra ingiusto ed inverosimile il pronostico di avere a di- scoprire altri oggetti d'entità considerevole, accre- scendo le indagini , nel suolo di questa provincia. Fatto sta che già tempo era essa considerata quasi immeritevole di uno sguardo del contemplatore fi' losofo: e lo straniero per qua passando, varcate le alpi, si arrestava soltanto ad osservare le belle arti e i monumenti più insigni per le antiche storie. Oggi è ben noto di quanta importanza siano meritevoli i Biografie d'illustri italiani ec. 2 1 1 corpi organici fossili, i cristalli di zolfo, e di altre terre non comuni, e cosi minerali parecchi, i quali non sono per noi affatto estranei. Se potrà esser con- dotto al suo termine l'incominciato lavoro, non si ri- chiama a dubbiezza che per esso aumenterà non poco di nuovi esemplari appartenenti alla storia della natura il gabinetto del Procaccini, ed illustrerà il di- stretto dell'accademia pesarese di agricoltura in una parte che riuscirà probabilmente nuova ed insieme istruttiva. N. B. Questo scienziato, il quale era nato di liuigi Procaccini il giorno 30 gennaio 1765, cessò di vivere il dì sei febbraio 1845. Rimasero superstiti la moglie di lui Celeste Lombardi, ed il figlio Camillo. Le sue ce- neri ebbero riposo in deposito a parte nel duomo di Sinigaglia. IL OTTAVIO MAZZONI TOSELLI. A monsignor C. E. MuzzarellL - Bologna. I n adempimento de' suoi comandi le accennerò bre- vemente le cose principali risguardanti la mia vita. Io nacqui in Bologna li 13 gennaio dell' an- no 1778 di Pietro Mazzoni e di Maddalena Toselli. Mi fu imposto il nome di Ottavio ad istanza di mia madre, mossa dall'amorevolezza eh' ella avea verso un zio di lei chiamato Ottavio Toselli, viomo di somma pietà e di molto merito nell' arte della scultura e 21*2 Letteratura dell'intaglio in legno, di cui sono anche oggi com- mendati molti suoi lavori. Giunto a! l'età di nove anni circa fui messo nel seminario di questa città, ove stetti tino agli anni tredici. Passai nelle scuole pie allo studio delle umane lettere e di rettorica sotto la direzione del fu don Domenico Bernardi. Studiai filosofìa alla scuoia del celebre dottore Palcani pub- blico lettore. Alla occupazione francese presi servi- gio nella distribuzione dei viveri militari, di cui Giuseppe mio fratello maggiore, poco prima venuto di Francia, era generale provveditore. Abbandonati per tal modo gli studi e cessato 1' impiego per la cacciata dei francesi d'Italia, mio padre rimprove- randomi la vita oziosa mi mandò nel principio del- l'anno 1801 nella città di Lione presso un nego- ziante suo corrispondente, ove stetti, siccome dico^ no i francesi, en ajyprentisage. Dopo tre anni di sog- giorno in Francia, parte in Lione, parte in Parigi, ritornai in patria ove per alcuni anni commerciai in generi di moda. Nel finire dell' impero francese mi ritirai dal commercio dandomi allo studio del- l' archeologia e della storia romana. Pubblicai nel 1826 alcune dissertazioni aventi per titolo: 182G. Discorsi tre sopra l'antica provincia bo- lognese: congetture di Ottavio Mazzoni Toselli. Bo- logna stamperia Cardinali e Frulli anno 1826 m 4. Nel 1831. Cenni intorno l'origine della lingua italiana., lettera di Ottavio Mazzoni Toselli al signor Paolo Costa con alcune interpretazioni di varie voci galloitaliche usate da Dante. Bologna presso Annesio Nobili 1831 in 8. Nel 1839. Origine della lingua italiana., opera. Biografie d'illustri ifALiANi ec. 113 di Ottavio Mazzoni Toselli. Bologna tipografia e li- breria della Volpe 1831 co?t dizionario gallo-italico^ voi. 3 in A. Nel 1833. Di Elisabetta Strani pittrice bologne- se^ e del supposto veneficio onde credesi morta nell'an- no 27 di sua età : racconto storico di Ottavio Maz- zoni Toselli. Bologna tipografia del Genio 1833 in 8, col ritratto della Strani. Nel 1835. Cenno sull'antica storia del foro cri- minale bolognese., nel quol cenno si confrontano gli antichi tempi coi presenti., si fa menzione delle pene, dei delitti., dei giudizi a,rbitrari., dei costumi., delle su- perstizioni., dell'antica procedura criminale., dei tor- menti., e degli effetti funesti della tortura. Bologna tipografia del Genio 1835 m8 con rame. Se ella bramasse ulleriori notizie, non ha che ad onorarmi de'siioi comandi, all'adempimento de' quali mi è pregevole il rassegnarmi Dell'Eccellenza V. II. Bologna li 16 settembre 1835 Umo e Devotissimo Servitore Ottavio Mazzoni Toselli. N. B. Quest'egregio letterato, còme si legge nel Mondo illustrato., cessò di vivere in patria il giorno 22 dicembre 1847. Fu pubblicato in Bologna un opu- scolo col seguente titolo - Memorie letterarie di Ot- tavio Mazzoni Toselli raccolte da Carolina Bonafede. Bologna tipografia gov. alla Volpe 1848. 2<4 Letteratura III. MARIA GIUSEPPA GUACCI NOBILE. A monsignor Carlo E. Miizzarelli. - Roma. jLj è una richiesta veramente amichevole quella delia- notizie di mia vita: l'è una richiesta che aperto di- mostra com'ella mi tenga in pregio più ch'io noi me- riti. E non basta forse quell'onorevolissimo articola inserito nel giornale arcadico ? (Nel quale articola va tant'oltre alle mie speranze, che in buona coscien- ze io non dovrei soffrirlo, e certo la pregherei che si rimanesse dal metterlo a stampa, dove conoscessi di poter porre alcun termine alla benevolenza ch'ella nutre per me). Non basta l'avermi inviato il Val- lardi affinchè vada il mio nome fra quelli di tanti chiari scrittori ? Anche le notizie della vita mia ades- so? Oh parie ch'io sia donna da biografia ? Sa ella che il nimico mi suggeriva da negargliele ? . . Ma la gratitudine ha vinto : che io non saprei negar cosa ad un gentile spirito, il quale di sì lontano si ricordò spesso di me poverella; e però le trascrivo alcune particolarità della mia vita , sì perchè m' è dolcissimo il poter parlare delle mie sciagure, e sì perchè ho pensato eh' ella avrebbe potuto diman- darne ad alcun amico mio, e quegli tirato dall'ami- cizia le avrebbe detto più eh' io non avrei voluto. Adunque io le dirò chiarissimamente tutto che po- trò quanto a'raiei studi ed alle cose di mia famiglia. IMio padre fu architetto e non degli ultimi del Biografie d'illustri italiani eg. 215 paese: e dove io facessi alcun conto della chiarezza del sangue potrei dire, essere stati i miei niagjjiori qualche cosa di più nobile: ma mio padre era uomo onestissimo, e però non merita siffatto torlo. Epli es- sendo fatto, dirò, di quella buona pasta antica, la quale ora del tutto è perduta , nulla pose mente alla educazione delle sue figliuole . sicuro che po- tesse esser assai ad esse il saper fare di cucina, e l'intendere ottimamente alla economia della casa: ed in ispecialtà di me volea fare una buona massaia. E veramente mi avrebbe fatta felice: ma la forJuna, che si apparecchiava di perseguitarmi, volle altri- menti. Fra gli otto anni ed i nove io, non leggendo che i così detti librelti per musica, incominciai ad accozzar sillabe e rime. Mio padre ne ridea , mia nndre amava eh' io secondassi la mia inclinazione naturale; in mia casa non veniva persona , ne pur io sapeva esser al mondo una razza d' uomini che leggono sempre e scrivono e stampano e l'uno con l'altro si lacerano, né credeva esservi un libro più alto e profondo delle opere del Metastasio. A que- sto modo trassi la vita sino al tredicesimo anno dell' età mia. In questo tempo conobbi il poeta Piccinni, uomo di caldissimo ingegno e di rarissima coltura, il quale di per se mi si offerse a maestro: e la no- stra lezione era questa : veniva il povero mio Pic- cinni due o tre volte nel corso di una settimana , e mi leggeva con una voce chioccia o alcun brano dell'Ariosto, ovvero alcune delle opere di Appiano Buonafede; spesse volte, noi nego, io sonnacchiava, moltissime volte non ne lulendeva sillaba. Intorno 216 Letteratura al mio quindicesimo anno , uno Schmidt mi aiutò' ad imparare un pò di francese: e così me la passai sino al diciottesimo anno. Io scriveva sempre, ru- bando i momenti alle mie donnesche occupazioni : principalmente scriveva di notte tempo, e mi ricordo che non mi metteva a letto dove io non avessi fatto alcun verso. Uno strano accidente portò ch'io conoscessi due persone, le quali professavano letteratura. Costoro vi- dero i miei versi, indi vollero vedermi: e però co- noscendomi imbarazzata e vedendomi fug;gire, al- lorché si leggevano le cose mie, argomentarono che io non fossi da tanto (quasi che fosse dilficile cosa^ il fare cattivi versi). Adunque questi miei amici, da- temi le rime, mi stimolarono a comporre u» sibil- lone alla loro presenza; il feci e n'ebbi infinite lo- di; perocché tutti mi erano affezionati. Di qui co- minciò in casa mia una mezza accademia in tutti sabati, nella quale molta mano di poeti interveniva, e si scriveva all' improvviso innanzi ad ogni ge- nerazione d'uomini e si stampava; e il poco inge- gno mio se n'andava a ruina , quando per buona iortuna mi fu presentato il Campagna , che certo ella conoscerà per fama. E veramente io dirò sem- pre dover a lui tutto l'amore allo studio: e confes- serò a qualunque, che il solo Campagna mi ha fatto conoscere i classici, mi ha aiutata di alcun consi^ glio, mi ha messa infine per quella diritta via ch'io forse non ho saputo tenere. Bisogna dunque contare dal diciannovesimo anno ilcominciamento degli stu- di miei, e nemmeno liberamente. Imperocché dovea far sempre da copista al mio povero padre, e per ^e non rinaaiieva che la notte. Biografìe d'illustri italiani ec. 217 Della morte del padre mio, della mia trista sorte credo cb' ella sappia abbastanza ; mi resta a dirle che solo forzala datoli amici e dalla famiglia ho dati a stampa que'pochi versi, i quali formano l'ultimo mio volumetto. La novella eh' io scrissi intitolata - Carlo Montcbello - non fu stampala da me, ma sì dal- l' editore del parnasso delle dame. Credo siano tre o quattro anni che alcune fra le cose mie son det- tale dall'amor di figlia e di ;iOiella: che io doveva pensare solo alle sciagure de' miei e saciificare an^ che qualche mio nobilissimo affetu» . . .Ma di ciò basta. INe! tempo presente ho un poco più d'agio per isludiare a mia posta: ed infatti mi vi adopro quanto posso. E già un anno da che ho cominciata un po' di latino: ma nuove disgrazie mi hanno forzata ad interrompere il corso degli studi miei: imperocché non son ancora cinque mesi che ho perduta una sorella, dopo eh' ella fu straziata per lo spazio di selle mesi da penosissimo male. Veda dunque come io poteva pensare al latino ! Ora, ripeto, vado ripigliando il filo delle idee interrotte e speio di poter fare qualche cosa di me- diocre , o almeno ne sento un vivissimo desiderio. Ecco quanto posso dire sicuramente di me e delle cose mie passate e presenti. Della mia vita futura non so ancor nulla. Intanto nella mia povera solitudine non m'è di lieve conforto la ricordanza di alcun alto e coltis- simo amico, il quale di tempo in ten)po faccia d'in- corarmi nella intrapresa carriera. E nel vero , non è più soave cosa che il vedersi ben accetta ad al- cuno de' pochi buoni: ed a me massimamente torna 2f8 Letteratura più soave, la quale ho patiti mille e mille torti e posso dire di aver provali - Come sa di sale Lo pane altrui, e com' è duro calle Lo scender e salir per le altrui scale. - Solo un favor le chiedo, ed è che talvolta voglia compiacersi di farmi alcuna osserva- zione: che per me sarà la maggior prova di ami- cizia eh' io possa sperare da lei. Ad ogni modo ella mi terrà sempre, P. S. Siccome il \ allardi mi ha detto, ella de- v'esser continuamente in corrispondenza seco : per la qual cosa la prego nuovamente di volere aver la bontà d'inviarmi l'esemplare dell' album che m' ha promesso, o per via di Liberatore o di Cappelli o di Ruggieri, insomma di quel mezzo ch'ella crede migliore. Sua Obbima amica e serva Maria Giuseppa Guacci. N. B. Questa celebre poetessa, onore dell' elk nostra, cessò di vivere in patria nell' anno suo 42, il dì 25 novembre 1848. Nel 1832 pubblicava un libro col titolo - Rime di Maria Giuseppa Guacci napoletana. Napoli 1832 in 16, -delle quali si parla con lode nel giornale arcadico, dicembre 1831. - Più tardi pubblicava quelle stesse rime con aggiunte, e ne facevano i ben meritati elogi i più illustri let- terati d'Italia. Questa gran donna, di cui non pian- gerà mai abbastanza la patria, si onoraiono di chia- mare a loro socia le più illustri accademie; ma ciò, che assicura il di lei nome alla posterità , è 1' alto valore delle sue rime Biografie d'illustri italiani ec. 219 IV. ALBERTO NOTA * La dedizione di Biella fu un crescimento di au- torità e di credito al conte Verde , fu una nuova gloria della corona real di Savoia; ma ahimè I per- chè al ricordo di un'antica gloria piemontese , che tuttavia si mantiene, dovea mescolarsi oggi il desi- derio di una gloria recente, che s' è non ha guari perduta ? Voi ben vedete che io parlo di quell'Al- berto Nota , che , robusto e fiorente nella prodotta sua età, passò di subito nel sepolcio; il qual sepolcro permise Iddio ch'egli trovasse in Torino; affinchè quella città, che gli avea dato la cuna, che n'educò l'intelletto, che ne promosse i trionfi, fosse pur quella che ne custodisse dipoi religiosamente le ceneri. Or su questo sepolcro, che non pure Tonno, ma Italia tutta bagnerà di molte lagrime, lasciate che, interprete del dolor vostro espositore del mio, io venga oggi a recitare alcune parole, le quali non sono punto aliene dal dop- pio uflicio, che già da più anni sostengo in questo ate- neo; poiché se il Nota appartenne come scrittore a quegli studi, di cui qui espongo i principii, appar- tenne come cittadino a quel Piemonte , di cui qui riandò le glorie. Nato in Torino del 1775, fu un di que' molti, (*) Alla memoria dell' lluslre Nota volle il cav. Paravia dedi- care alcune eloquenti pa[;ii)ft della sua ultima lezione sopra la pa- tria storia; e poiché gli piac((ue di esserne cortese, ci gode l'ani- iiio di lame dono ai leltorj rostri. 220 Letteratuìia che assai per tempo danno presagio della futura lor ■vocazione; poiché essendo tuttavia fanciullo, ma però pratico delle due lingue italiana e francese, si go- deva in un teatrino domestico di rappresentar coi fantocci i capo-lavori del JMolière e del Goldoni ; tacita ri velazione che egli si sarebbe un giorno in- viato sulle gloriose lor tracce. Ma per questi eser-^ cizi fanciulleschi non intermetteva il Nota gli studi più gravi ; anzi vi attese con tale alacrità , che di soli diciolt'anniera già laureato in legge, e ricevuto avvocato. Entrò nella via degli uiìici appresso il pro- curatore generale di Toiino; e mutate le condizioni politiche del Piemonte, lo veggiamo del 1811 so- stituito al procuratore imperiale del tribunal di Ver- celli. Una delle singolarità che mi occorse dinotare in que' tempi napoleonici, ne' quali tutto era tumulto guerresco e commovimento politico , si fu sempre quella di alcuni scrittori, i quali, fattosi un mondo da sé, così si astraevano per la qualità dei propri studi dalle passioni e dalle opere de' loro contempo- ranei, da mostrare ch'essi, ben lungi dal ricevere il moto dal loro secolo, a questo avrebbon voluto imporre il lor proprio; onde non dee far meraviglia se, mentre Napoleone mutava la faccia d' Europa, mentre risonavan d' armi il continente e l'oceano , Antonio Cesari attendesse a cose di lingua, Jacopo Vittorelli facesse rivivere le grazie di Anacreonte , Cesare Arici cantasse l" ulivo e le |jecore , Alberto Nota componesse delle commedie; restando tutto vo- mico (come notò il Salii) in mezzo allo spettacolo più tragico che la storia avesse offerto alla immaginazio- ne degli uomini. Biografie d'illustri italiani ec. 221 Ma se il Nota per l'indole dei suoi studi si se^ quesirava in certa guisa da quella dei propri tempi; non si creda però, che cosi si astraesse da questi , da non pigliarne invenzioni e tinte per disegnare e colorire i suoi quadri ; che anzi uno de' pregi di molte sue commedie quello si è di averci rappre- sentato costumi e caratteri che, propri della sua età, nx)n possono con que' delie altre confondersi. Alche lo giovava la stessa sua condizione , che il poneva in continua relazione con tutto ciò, che la società odierna può ofi'erire ad un acuto osservatore di mal- vagio o ridicolo. La città eterna, la classica Roma, fu la prima che sulle puhbliche scene vedesse rap- presentata una commedia del Nota. Era questa il Primogenito e il Cade/lo^ che, ritoccata poi dall'au- tore, e chiamata con nuovo titolo V Oppressore e Vop-^ presso^ ritenne pur sempre di quella tinta sentimen- tale, che coloriva allora le composizioni drammati- che degl'italiani, e da cui il giovane Nota non potò affatto schermirsi. Riserbato era alla sua patria l'am- mirare la felice rivoluzione operata dallo studio e dal senno nel suo talento drammatico; potendosi di- re con verità che / primi passi al mal costume^ com- media rappresentata sulle scene del Garignano del 1808 , furono i primi passi che egli mise in una via, che percorse di poi con non minore perseve- ranza che gloria. Ben lo seppe Milano, che applaudi l'anno appresso al Nuovo Ricco^ e due anni di poi al Filosofo celibe^ una delle migliori commedie, che uscite siano dalla penna del Nota, e che ebbe i suf- fragi del massimo poeta di quella età , Vincenzo Monti, e di quel Giovanni Paradisi, che, all'esempio 222 Letteratura del padre, la scienza di stato all'eleganza degli stu- di accoppiando, degno era di presiedere con raro esempio il senato e l'instituto d'Italia, Il voto di un tanto uomo , che per la sua duplice qualità potea non meno apprezzar l'ingegno del Nota , che gio- varne le condizioni, Io persuase a mutare le stanne piemontesi con la capitale lomljarda. Ma quando in quella vera Atene d' Italia gli arridevano i presagi di un più lieto avvenire, ecco, al cadere del trono napoleonico , que' suoi presagi altresì miseramente svanire. Ma per non cadere del tutto, massime che già era marito e padre, riprese nella sua patria la lenta, ma sicura via degl' impieghi forensi; sinché quel principe , che recar dovea sul trono sabaudo tanto amore di studio, e tanto patrocinio d'ingegni, di là il tolse, creandolo suo segretario privato. Uscito di quella corte, egli non usciva però dalla memo- ria e dal cuore di quell'ottimo principe, il quale e gli appendeva al petto le croci di s. Maurizio e del merito, e fregiava lui e i suoi discendenti del titolo di barone, e gradiva la dedicazione delle sue com- medie; mostrando con ciò come non istimasse inde- gno della maestà del trono un genere di componi- mento che, bene indirizzato, è strumento di civilità, tanto più efficace, quanto più popolare, E qui non dirò altro delle onorificenze che si accumularono sulla persona d'Alberto Nota: poiché , Dio mercè , noi siamo in tali tempi, che, ragionandosi di uno scrittore defunto, vuoisi tener conto del certo e pe- renne splendore che gli acquistarono le opere pro- prie, e non già di quello dubbio e fugace che gli procacciò il favore degli altri. Ben dirò, che, uscito Biografie d'illustri italiani ec. 223 dalla curia e dalla corte, egli prese altra via, quella cioè delle intendenze, incominciando dalle più mo' deste, quali furono Bobbio, San Remo e Pinerolo, e salendo a quelle più conspicue di Casale e di Cu- neo; nelle quali tutte non è a dire qual buon nome lasciasse di sé, si per la moderazione de'suoi pria- cipii , sì per la integrità del suo animo , e sì per quella sua schietta e operosa bontà; la quale non bi- sognava tanto argomentare da)!' esterior suo conte^ gno, che spesso era, non pur severo , ma brusco ; quanto cercarla nel fondo del suo animo , sempre disposto a quanto ha di più nobile e generoso. Che se i pubblici uffizi lo vedevano amministratore in- corrotto e indefesso, utile e indefesso scrittore non men lo vedeva il teatro; non passando quasi anno, ch'egli di qualche sua nuova composizione non ral- legrasse le nostre scene, e non aprisse così a\suoi cittadini periodiche fonti d'istruzione e diletto. E ve- ramente partendo da Primi passi al mal costume^ e giù venendo alla sua ultima commedia Educazione e natura^ che egli ci regalava nel carnovale andato, noi avremo uno spazio di quaranta anni, i cui bre- vi e onorati ozi furono spesi dal Nota nella colti- vazione di queir arte , nella quale egli portò tanta perseveranza di studio e tanta disposizion di natura. Né qui starò a dichiarare tutti i pregi del suo tea- tro, ne tutti a numerare i meriti che egli per que- sta parte s'acquistò con l'Italia; sarà opera di altro tempo e di altro luogo questo esame e questa cri- tica. A me basterà oggi notare, che dopo il grande ristauratore della commedia italiana, la giustizia dei posteri dovrà salutare Alberto Nota sì come il solo 224 Letteuatura che dato ci abbia un teatro, il quale defrno sia di venire per riputazione e per merito dopo quello dell'immortal veneziano. E dico un teatro, e non già qualche commedia; poiché quantunque sin da'tempi del Goldoni siasi cercato d'impedire la restaurazione comica di quel grande ingegno con gli aborti del Chiari, e con le fiabe del Gozzi; quantunque dopo il Goldoni prevalso abbia in Italia quel dramma pia- gnoloso e spesso terribile, che la facezia comica tra- smutava in iscene di lutto e talora di sangue; la vera e sana commedia de'latini e de'greci, ciucila che il Molière ed il Goldoni recarono a tanta eccellenza, non mai venne manco fra gl'italiani, per quel buon giudicio che è in loro, e che non li lasciò mai conr laminare affatto da' cattivi esempli domestici e dai peggiori esempli stranieri. Il qual buon giudicio de^ gl'italiani come non permise allora che si radicasse fra noi il dramma lagrimoso e cruento , spero che non lascerà prevalere sulla sana commedia il cosi detto dramma storico^ c|uel dramma, che frastaglian- do in dialoghi la nuda storia, allontanandosi dalla semplicità comica per la egualità del suggetto, e non alzandosi alla gravità tragica per la impotenza dello scrittore, appartiene a quel genere ibrido di compo- nimento, che sarà sempre condannato dalla ragione e dal gusto. Sia dunque lode all'ingegno italiano; la buona commedia non s'è mai smarrita fra noi; ma sia an- che lode al vero; di queste commedie, dopo il Gol- doni, e prima del Nota, l'Italia n'ebbe pur poche. Il Saggio amico dell'Albergati, VOlivo e Pasquale del Sografi , il Disperato per eccesso di buon cuore ^ e Biografie d'illustri italiani eg. 225 Aio neir imbarazzo de\ Giraud, alcune farsettedi que- sti tre medesimi autori, ecco a che si riduceva sot- tosopra tutta la nostra riccliezza comica dopo il Gol- doni; poiché, a tacere del Gamerra, del Villi, dell' Avelloni, del Greppi, e di tanti altri aonai già ca- duti nel disprezzo e nell' obblivione ; non è senza inerito, ma troppo freddo, il De Rossi; non è senza ingegno, ma troppo declamatore, il Federici; e quan- to al Marchisio , al Genoino ed al Bon , chi verrà dopo noi assegnerà il luogo che lor si pertiene; noi consoliamoci intanto , che ci vieti il parlare di essi la circostanza Che tuttavia sono vivi. Il Nota adunque è il solo, fra gl'italiani, che dopo il Goldoni ci abbia dato un teatro comico, quasi tutto lavorato sui grandi esemplari che ci la- sciò quell'insigne maestro; col quale non dirò già «he egli possa contendere per festività di dialogo e vivezza di azione; il naturale di lui , che era, non pur severo, ma brusco, più alla meditazione incli- nato che alla immaginativa, non gli lasciava aveie, né in teatro, né fuori, quel calore e quel brio, che a un tempo rivela l'ingegno di chi parla e stimola l'attenzione di chi ascolta; sopperisce, è vero, a que- sto difetto con la festività del carattere de'suoi per- sonaggi, eon le nuove situazioni , in cui li colloca, co'bizzarri accidenti che loro intervengono , e che spesso arrecano uno sviluppo tanto più piacevole , quanto meno aspettato. Ma rispeUo al dialogo, duo- po è confessarlo, egli rimane troppo inferiore a quel- la inesauribile miniera di grazie comiche che è il Goldoni; ben però merita di stargli dappresso, e per la regolarità della condotta, e per la verità dei ca- G.A.T.CXVII. 15 22G LetterA;TUR-4. ratteri, e per l'opportunità delle scene, e per la sem- plicità degl'intrecci; avanzandolo poi molto per la bontà della lingua e per la moralità dell'azione. E già circa aliai lingua, ijiuno è che per questa parte non gli conceda, sopra tutti gli scrittori' eomici d'Italia, il primato; serbandola sempre nellQ' non- meno dagl' impuri neologismi, che dalle ridicole affettazioni; af- fettazioni e neologismii ch'egil seppe sboltoneggiar sì betìe- in que' due bunlevoli pecsonaggi della sua Lwsinyhievw.. E quesljo, suo merito con la lingua da niuno fu più» solennemente ató)estat«i cbue dall'accade-^ mia della crusca, che aggregò il Nota all'onorevol suo cetjoy « alla quale l'accademico' piemontese le- gava la sua corrispondenzai,. onde potrà ella ordire una notizia di Alberto. Nota ^ che per eleganza ed ampiezza ristorerà questi; miei poveri cenni. Ma dove non è lode che. basti alle commedie del Nota, si è la perpetua moralità che spira da^ esse; poiché men^ tre il Goldoni, indulgendo alla licenza della sua età e alla corruzione; della sua patria, insozza Ile sue com- medie di que'laidi equivoci, di que'viziosi costumi, e di que'caratteri sospetti, che là civiltà e la morale oggi del pari condanna ; mentre il Federici cade nell'opposto sistema di trasformane la onesta ilarità della commedia nella gravità della cattedra, e tal- volta nell'austerità della predica; il Nota dall'uno e dall'altro eccesso guardandosi, ma però sempre pro^ ponendo alle sue commedie uno scopo morale e ci- vile , non già. è sollecito di coglierlo con le pom- pose declamazioni di chi parla, ma bensì coi senti- menti e i costumi di clii opera. Ed io^ mi fermo con singolare compiacenza su questa preziosa qualità Biografie ©'illustbo: italiani ec. 227 delle eonamedÌ€ del Nota , poiché essa è quella di cui uno scrittore altresì dee singolarmente piacersi; da che per essa, non pure si guadagna il suffragio de'dotti, noa, ciò «he è piti,, si ottiene la riconoscen- za de'buoni. E buoo® era (tornerò a dirlo) il Nota; e la sua bontà avea fondamento in quella religione, che, instillatagli in faciullezza da amorose parenti, non repudiò mai nel lungo corso della sua vita, e che poi vivissima apparve nella rapida chiusa di essa. Poiché tornato a casa la sera dei 17 aprile 1847 da quel tratro carignano, dove avea avuto nuova oc- casione di lamentare il decadimento della moderna commedia , ah ! che dolorosa tragedia dovea poco stante rappresentare egli stesso ? Poiché corcatosi ap- pena, e sentito a stringersi il cuore per 1' improv- viso scoppiare di un aneurisma, fu quel suo un di- battersi affannoso e crudele fra le agonie della morte e gli spasimi del dolore. Ma se in lui si spegneva Ja vita, ben si ravvivava la fede; e però un chia- marsi in colpa de'propri falli, un invocare quel Dio che solo può perdonarli, e un appressare alle con- vulse labbra e all'ansante petto il simbolo della re- denzione e della salute; ecco quali furono le parole, le azioni e gli affetti, in cui il povero Nota consumò quella estrema ora di vita, e di cui furono testimoni un fedel servo ed il cielo. Il tributo adunque, che sin qui rendemmo allo scrittore illustre, abbia il suo compimento in questo compassionevole e pur tran- quillante spettacolo del cristiano che muore; e que sti sentimenti coltiviamo ne'nostri animi, sin che <• sia dato di esprimergli in un pubblico monumeulo, il quale attcsti ad un tempo e la splendida gloria , 228 Letteratura. che procacciò Alberto Nota alla patria; e il ricono^ scente affetto, con che Torino gli ricambiò quella ffloria, P. A. Paravia. 229 MME^'E^'M MMTl I^olizie della vita e delle "pitture di Girolamo Mar- chesi da Coticjnola^ e di altri suoi conterranei^ rac- colte dal prof. Domenico Vaccolini autore delle me- morie 0 della biografia di Bartolomeo Ramenghi se- niore detto il Bagnacavallo. A monsignor Carlo E. de' conti Muzzarelli. i^e riguardassi in voi l'uomo di stato, io non ose- rei venirvi innanzi con queste cose attinenti all'isto- ria delle arti belle, ed alla gloria della nostra Ro- magna. Ma egli è buon tempo , che onoro in voi il proteggitore delle lettere ed arti nostre più care, ed il cultore di eletti studi, che assicurano all'Italia il primato fra le nazioni più eulte : in voi abbrac- cio l'amico verace, che in tempi difficili mi pioteg- geva contro i colpi dell'invidia e della fortuna , e mi dava conforto a vegliare e sudare ne' buoni stu- di, che guidano i popoli a civiltà. Per questi rispetti non dubito raccomandarvi alcune notizie della vita e delle pitture di Girolamo Marchesi da Cotignola , contemporaneo del chiaro Ramenghi detto il Ragna- cavallo^ e de' consorti, nativi di quella terra, che fu la culla dello Sfoi-za e de' generosi che lo segui—. 230 Belle arti Fono o l'imitarono. Conservatevi all'onore de^jli studi e della patria, e credetemi Di Bagnaca vallo il 16 settembre 1848. Tutto Vostro Domenico Vaccolini P. S. Ecco la serie delle notizie con documenti. I e n. Lettere inedite del signor dottor Giovanni Graziani notàio di Cotigoola , e già segretario di quel comune, Iir. Estratto del Catalogo de'quadri che si con- servano nella pinacoteca in Bologna^ pubblicato ivi dal chi arissimo Gaetano Giordmxi^ edizione del 1 829 pag. 82 e seg. IV. Estratto della Descrizione della quadreria Co- stabili per Camillo Laderehi (Ferrara, i839 continua- zione) a pag. 2 e seg. V. Estratto della Guida di Ravenna esposta da Gaspare Ribuffi (l^a\enm ^^S5) ap. 52,89,91,109. Aggiungo cosa non da altri notata: esistere cioè io Bagnacavallo, nella sala della congregazione di ca^ rità, una tavola di Girolamo Marchesi da Cotignola che era prima del 1796 nella chiesa di s. Bernar- dino, e sarebbe andata in Francia , se non veniva raccolta nell'ospitale degl'infermi. Se non che l'averla tenuta nascosta in tempo de}!' occupazione francese in luogo umido tra le legna da ardere portò qual- che scrostamento nelle parti inferiori del quadro. - Rappresenta M. Vergine in gloria^ e di qua e di là i protettori del comune di Bagnacavallo a due a due^ cioè s. Pietro e s. J^ernardino^ s. Michele Arcangelo e s. Giovanai Battista , con varie storiette analoghe. - Pitture del Cotignola 23 1 Ma basti di ciò; onde il poscritto non divenga più che la lettera. I, Al sìg. prof. Donaenico Vaccolini, BagTiaca vallo. Un sol pittore di cognome Mnrchesi iha avuto Cotignola, e questo è quel Girolamo da ■Cotignola , che fu conteoaporaneo di Bartolomeo Katnenghi seniore. Gli altri (due pittori celebri cotignolesi Fran- cesco e Bernardino da Cotignola sono del cognome Zaganelli : e di questi due fratelli ritengo eh' ella intenda parlare , appellandoli forse Marchesi sulla bugiarda autorità del Benoli, che così li chiama con altri andati alla guida di lui. Il Lanzi, toccando di Francesco da Cotignola, nota la diversità dei due co- gnomi, senza poi indicare quale sia il vero. Resta qiiindi a correggere l'errore riferendosi alla tradi- zione comune cotignolese ed alle tavole istesse di tali valenti pittori, alcune delle quali portano il no- me e cognome degli autori; ed aderendo all' eru- ditissimo ab. Beltrami, autore del Forestiero istruito delle cose di Ravenna, ti quale appella Zaganelli i pittori suddetti. La famiglia Zaganelli fu antica, onesta ed abbastanza agiata in Cotignola. Uno Ste- fano Zaganelli fu notaio, ed i suoi rogiti trovansi in quest'archivio notarile; un Gio. Antonio di Bartolo Zaganelli nel 1517 era notaio e segretario del co- mune. In un istrumento antico del U55, a rogito di Zaccaria di Ugone Zarabbini, .viene nominalo un Domenico di Francesco Zaganelli. Questi forse po- trebbe essere un zio od a!iro .sì fatto .parente dei 232 Belle arti nostri pittori. Francesco da Cotignola fu scolaro di Nicolò Rondinelli : ciò nota anche il Lanzi. Tanto esso che il fratello Bernardino sono alquanto più an- tichi del Bagnacavallo^ i\ quale, com'ella narra nellér biografia di questo suo pittore, nel 1503 giovinetto di 19 o 20 anni lasciò la patria per portarsi alla- scuola di Bologna, mentre in tal epoca appunto fio- rirono i fratelli ZaganelU^ narrando il Beltrarai, pagi- na ^3 opera cit. ediz. Raven. 1791, che essi nel 1504 fecero in Ravenna la tavola stimatissima di Nostra^ Signora fra s. Francesco ed il Battista nella chiesa di s. Apollinare nuovo, ossia de'MM. Oss. Non ac- cennerò i più noti e famosi quadri di questi pit- tori, esistenti in Ravenna, Faenza , Parma , Imola ^ Pavia, mentre può vederne il Lanzi ed altri autori che ne pa4:Iano. M' immagino eh' ella brami notizie patrie inedite sui due fratelli e sulle opere loro. M» di queste manchiamo: i forestieri meglio che noi co- noscono le cose nostre! Desideroso di servirla in qual- che modo, io ho rintracciato in questi atti comunali una nota e succinta descrizione dei quadri eotigno- lesi portati via nel tempo dello spoglio fiancese , fra' quali erano alcuni óeZaganelli non veduti for- se od indicati da altri perchè giacenti in questo paese quasi nascosti : ma sebbene venga assicurato da persone informatissime, che avvi tal nota esibita dal defunto nostro concittadino Paolo Cassani dopo il ripristinamento del governo pontificio, in momento in cui si concepiva speranza di riavere il mal tolto, tuttavia finora non mi è riuscito di rinvenirla. Se in appresso verrò a capo di ciò, non mancherò di co- municarle a lei colle ulteriori notizie che potessi prò- Pitture del Cotignola 233 curarmi suU'aigomenlo. Oltre quelli poi portati via dai francesi esisteva un quadro del Zaganelli nella chiesa de'mnra. oss. di Cotignola rappresentante l'ado- razione de'magi, il quale, come mi viene riferito, fu mutilato barbaramente da un padre del convento, de- sideroso di adattare allo stesso aliare un quadretto di altro santo : adattamento che non poteva aver fuo{jo convenientemente senza tagliare, come fu fatto, parie della bellissima tavola preesistente. E questo frate era cotignolese e della famiglia di Sante Parente, ^egga un poco se ho ragione di dire che disco- nosciamo le cose proprie I II quadro diviso in due, e perciò non involato nello spoglio francese, fu poscia venduto da un custode di questa chiesa durante il regno d'Italia: onde di tali nostri pittori non con- serviamo in Cotignola che una piccola lunetta , o dipinto semicircolare,, esistente nella slessa chiesa so- vra l'altare di s. Pasquale. Almeno viene comune- mente indicato per lavoro di un Zaganelli. Certo, an- che un occhio poco esperto vi scorge molta bellezza e verità. Rappresenta la deposizione di N. Signore, con quattro figure, oltre quella di G. C, cioè di Giu- seppe d'Arimatea e delle tre Marie, come a me pare, , salvo errore: e alcuni vogliono che non Marcitesi^ ma Zaganelli Francesco, fosse quello che assimiesse il no- me di Cotignola dalla patria. Anche il quadro geo- grafico storico di quel francese, che si vede nella sala od anticamera della residenza comunale di Ba- gnacavallo, chiude la descrizione degl i uomini cele- bri cotignolesi con Marchetti (voleva dire Marchesi) e Cotignola pittori. Ma è opera di poca autorità: nò io avrei ciò accennato, se non l'avessi udito o letto 234 Belle arti altrove. Se vaglio a servirla, gradirò che mi faccia grazia de' suoi comandi. Pregio molto le sue osser- vazioni ed avvertenze suU' ode nota : io ne la rin- grazio. E colla più distinta e vera stima mi protesto Cotignola 2 marzo 1838. Suo devmo obblmo servitore Giovanni Oraziani. II. Al medesimo. Fra i rogiti di Ugone, anzi Zaccaria di Ugone Zarabbini. trovasi il testamento di un Francesco Za- ganelli in data de' 25 luglio 1455. Farmi si possa ragionevolmente congetturare che questo Francesco fosse il bisavolo del nostro celebre pittore dello stesso nome. Infatti nel testamento esso nomina ed istitui- sce eredi tre figli Pasio, Domenico, e Giovanni; da Giovanni ne venne Silvestro, nominato egualmente nel testamento, e fino da quell' epoca già maritata. Da Silvestro poi ne venne Francesco Zaganelli , e questo dovrebbe essere il nostro pittore. L' epoche infatti combinano. Esso sarebbe nato dopo la morte del bisavo, che appare essere stato vecchissimo al- lorché fece testamento (cioè del 1460 circa), ne avreb- be portato il nome, ed i frutti di sua virtù sareb- bero stati appunto maturi sul finire del secolo XV € sul principio del XVI, epoca in cui si sa che ap- punto fioriva. Fra i rogiti di Giovanni di Filippo Tarluzzi,altro antico notaro cotignolese, trovasi l'istru- mento dotale in data dei 12 giugno 1483 di que- flTTUKE DEL COTtGNOLA, 235 Sto Francesco di Silvestro Zag^anelli. Per quanto si può intendere da una scrittura fatta colla zampa del gatto, esso sposava una Caterina Randi, riceveva in dote una casa in via Castel Nuovo, e suo padre sti- pulava per lui, che era assente: e la sposa si dice sponsa et uxor iam facta dicfi Franeisci., quae stetit in domo patris sui nondum traducta ad domum dicti sui mariti. Forse divideva l'amor suo fra la moglie e la pittura, la qual ultima per cagione dello studio lo dovea tenere assente. Le dissi già che antica e distinta era la famiglia Zaganelli in Cotignola : ag- giungo ora che quel Gio. Antonio Zaganelli, che nel 1517 era segretario del comune, fu soggetto as- sai chiaro e adoperato dal paese in molti impor- tanti uffici. Cacciatigli Sforza dal ducato di Milano da' francesi, questi s'impadronirono anche di Coti- gnola, e poco dopo la cedevano al duca di Ferrara. Cacciati poscia i francesi da quel ducato, Cotignola ritornava alla s. sede, sotto cui stette un tempo pri- ma che ne facesse pur essa cessione al sig. di Fer- rara. Ora il Zaganelli, di che parlo, nel 1518 fu man- dato ambasciatore a Leone X per ottenere diver.se grazie e privilegi importanti, che tutti ottenne come dal breve pontificio che ancor si conserva in comune, che pur fa onorevole menzione del Zaganelli. In quanto ai quadri cotignolesi, né presso le memorie di Cassani, ne in quest' officio comunale ho potuto rinvenire cosa alcuna. Ne parla per altro il Mala- gappi nella sua opera dei conventi de' mm. oss. della provincia di Bologna, se non di tutti almeno di quelli che esistevano nella chiesa di s. Francesco, che, come è noto, fu edificata o riedificata appunto sul finire 236 Belle arti del secalo XV; e potè in seguito essere decorata de' quadri de' nostri valenti pittori. E certo che Fran- cesco Zaganelli pittore mori in Ravenna, ove stette e lavorò pili che altrove. II Fabbri nella sua Ra- venna ricercata nota diversi quadri di questo pit- tore non indicati da altre guide ravennati , cioè nella vecchia chiesa del seminario una s. Caterina V. e M. all'aitar maggiore. In s Apollinare, all' ai- tar maggiore entro il coro, una tavola, e due altre nella facciata sopra la porta. In s. Agata, una tavola all'aitar maggiore. In s. Nicolò, una tavola alla cap- pella della B. Vergine: e due quadretti laterali nella stessa cappella rappresentanti s. Caterina e san Se- bastiano. In s. Romualdo, una tavola grande con mol- le figure. Il Beltrami, posteriore al Fabbri, non in- dica questi quadri, o li attribuisce ad altri. Queste sono le ulteriori notizie che le promisi suU' argo- mento. E cogli stessi sentimenti di verace stima e di grato animo mi ripeto Cotignola 17 marzo 1838. Suo devmo oblmo ser. Gio. Oraziani. III. Estratto dal catalogo de' quadri della pinacoteca di Bologna. Marchesi Zaganelli Girolamo., detto il Cotignola. 108. Lo sposalizio di Nostra Donna. Nel sacro tempio in mezzo a gran folla di persone accorse alla Pitture del Cotignola 237 cerimonia, presso all'altare il sacerdote Simeone uni- sce le palme della Vergine, e di s. Giuseppe. A se- dere ne' gradini dell'altare stanno un vecchio ed una donna, occupati con due puttini: e l'uno e l' altra, tenendo una tavoletta in mano, pare che rappresen- tino un profeta ed una sibilla, e siano introdotti a predire la venuta del Messia. Nel davanti uij gio^ vane pretendente rompe sul ginocchio levato la non fiorita verga, che gli tolse la speranza di essere lo sposo prescelto. In gloria, alcuni angioletti sono aF- faccendati attorno alla divina Colomba , e due li- brati in aria recano corone ai santi sposi. Tavola ricca di figure^ e citata fra le iriù rag^ guardevoli dell'autore^ anche per V imitazione dello stile di Raffaele^ che vi si è proposto. Era nella cap- pella maggiore della chiesa di s. Giuseppe fuori di porta Saragozza: nel 1802 con un cambio fu ceduta graziosamente da' rr. pp. cappuccini , che in quello, chiesa hanno fermato il loro monastero. IV. astratto dalla descrizione della quadreria Costabili. Girolamo Marchesi da Cotignola. 163. L'adorazione dei re magi al nato bambino. Tavola piuttosto grande, oblunga , proveniente dal convento de' minori osservanti di Cotignola , assai patita. Lascia poi ancora vedere una grande mae- stria di disegno, ed alcune teste piene di maestà , 238 Belle arti senza ombra di quel lezioso, che , . . qualche volta disgusta negl'imitatori del fare raffaellesco (*), V. Estratto dalla Guida di Ravenna del Ribu/fi. Abitazione Cappi. - Una B. V. col Bambino e s. Giuseppe, di Francesco da Cotignola. Chiesa di s. Agata - Coro. - Crocifisso con la B. Vergine ed altre figure, di Francesco da Cotignola. Chiesa di s. Nicolò • Pareti in contorno alla chiesa. ^ Sopra la porta d'ingresso in prospetto ta- vola grande con presepio, di Francesco' da Coti gnolav Stabilimento di pubblica istruzione - Sagrestia • In prospetto all'altare grande tavola rappresentante la risurrezione di Lazzaro, di Francesco da Cotignola. (*) VeJi sopra la leUera-2 marzo 1838 <}el dottor Oraziani, doVe tocca del resto di questa tavola, che è rimasto nella chiesa de' mi- nori osservanti in Cotignola. -pU<> Orazione del Farini 23^ Oraziom di monsignor Pellegrino Favini per la distribuzione de' premi nella pontificia accademia delle belle arti di Bologna nel 1847. s. fé tutte le incivilite nazioni sentono amore per le arti belle, se d'impararle si studiano, se godono dell'onore , che per le opere dei loro artisti ne ri- cevono , io credo che poi di un così fatto onore non solo quanto gli altri, ma più degli altri abbia- mo cagione di rallegrarci: e se dell'onor nostro vo- gliamo far conto, credo, che ad esse più degli al- tri dobbiamo porre studio ed amore. Dopo che queste arti da morte risursero, ebbe l'Italia da'suoi artisti opere non solo per ogni guisa sommamente commendate, ma quando e quanto il soggetto lo domandava, o comportava, impresse di un carattere, il: quale, se il giudizio non m'inganna, si è quello che al maggior pregio le innalza: né tanto l'ebbero da altri , quanto da noi : al quale carattere non trovo da dare miglior nome che quello di dignità. Ampio è questo tema, e tale certamente , che non può stare in un ragionamento , al quale il breve tempo i termini restrigne. Non né parlerò adunque in universale, ma terrommi ad una sola di esse, e sarà la pittura , come quella che mi presta la via» più facile e più corta per venirne a fine. E qui innanzi a tutto chiedo pregando, a chi mi ascolta, benignità e cortesia, che alla mia insuf- ficienza ne bisogna assai; e ancora chiedo, che siami conceduto di volgere le mie parole a questi gio- 240 Belle arti vani egregi, che a ricevere i meritati premi sono qua chiamati; e che co'bei fiori del loro profitto un «uovo maturare di bei frutti promettono. Sarei trop^- po superbo, se a tanta dignità di principe, a tanto decoro di magistrati, magisterio di professori e di collegi, sapere d'illustri accademici, a tanto lume, a tanta gentilezza di scienze, di lettere, di costumi, quanto ora rende così ragguardevole questo luogo, cos'i solenne questo giorno, volessi io parlare. Come però voi tutti, o signori, gratulando colla vostra prc^ senza a questi giovani, voi pure col nobilissimo sti- molo dell'onore a perseverare, ed a crescere in me- glio li confortate , così sarò io molto contento , se qui oggi ad essi ragionando, ancor io qualche cosa fiol medesimo intendimento per loro poti'ò fare. Quando dunque, o giovani, a questo carattere della pittura , che ho detto essere più che di altri nostro, ho dato il nome di dignità, non ho inteso quella dignità che è nei fatti illustri , ma quella che è propria dell'arte. Subbietto sempre grande a mostrare la dignità dell'uomo sarà Regolo, che eleg- . gè la morte piuttosto che mancare del giuramento; sempre grande sarà Stefano, levita giovine e santo, il quale per non mancare della fede elegge come; Regolo la morte, ma quello che è assai più nel mo- rire prega bene a chi l'uccide. Allora è la materia,! che ha in se la dignità, e può dirsi dignità naturale. Ma ve n'ha un'altra, che sta nel concetto del dipin-; tore, il quale ha da saper conoscere il meglio che ai fatti e alle persone si conviene, trovare i più bei modi da significarlo, e chiamasi artificiale. Quanto più di dignità naturale la materiale ha in se, tanto Orazione del Farini 241 più alla dignità artiiiciale è disposta; mette però a tanto maggior prova il dipintore , perchè sempre più nobile ed eccellente è la forma dell'arte che essa domanda. Questa forma si è la dignità , di che io parlo, e che tocca all'arte di dare al soggetto, sia che molta , sia che poca ne possa ricevere : ed è quel carattere , che io credo che della pittura ita- liana sia peculiare. Ora questa dignità in che consiste ? Nell'espres- sione di quello, in che sta la dignità dell'uomo. E in che sta la dignità dell'uomo? Nella ragione, ne- gli affetti, nella libertà dell'arbitrio. Nella ragione, la quale, fornita di una luce intellettuale tranquilla e divina, raffigura il sincero aspetto della verità, e mostra le vie che si hanno a tenere per trovarla: ed è perciò posta all'ufficio di presiedere agli af- fetti e alla volontà che hanno bisogno di lei per non offendere nel falso e nel male. Consiste negli af- fetti, i quali, dando forza alla volontà aiutano Tuo- mo ad avanzarsi alla sua perfezione , e a superare le difficoltà e le fatiche de'magnanimi fatti: per cui innalzandosi a grandi meriti pone il suo nome nella perpetuità della fam a. Consiste nella libertà dell'ar- bitrio , senza la quale gli ordinamenti morali non avrebbero più luogo, e meriti e demeriti nell'uomo non sarebbero più. Nella ragione però consiste prin- cipalmente, giacché per essa principalmente l'uomo è uomo, e più non è uomo, se di perderla sventurata- mente gli avvenga. Quando poi gli afifetti e la volontà sono assuefatti all'obbedienza della ragione, voi vedete l'uomo saggio che parla e si muove a proposito, che Bel parlare, nel muoversi ha una facilità, un decoro, G.A.T.CXYII. 16 242 Belle arti un candore, per cui tutti nella compagnia si sentono portati ad av erne stima e ad amarlo. Ma se nell'uo- mo vedete modi diversi (e diversi saranno, se in lui gli aflfetti e la volontà non obbediscono alla ragione, o se la ragione non ha il lume che bisogna per ben dirigere e governare) certamente non vi sentirete mossi ad amarlo, non allettati ad accostarvi a lui, ad usare con lui, bensì provocati a disprezzarlo e ad allontanarvene. E che cosa è essa la pittura, pigliata nel suo miglior genere, se non l'arte di rappresen- tare azioni umane eoi mezzi propri di lei, e pel fine che ha comune eolle arti sue sorelle, che è quello di dilettare giovando, o di giovare dilettando? E perciò quando in una figura si vedono tali atti, che se sotto quella apparenza di persona fosse una vera vita d'uo- mo, converrebbe dire che là entro gli affetti e la ve-; lontà non dissontqno dalla ragione, ma sono in rì- spondeuza con essa, non potrebbe, chi bene estima, non sentirne un nobile diletto, e non ornare di lodi il penpello, che a quel modo l'ha ritratta. Sebbene però il dominare della ragione e l'ob-- bedire ad essa si avvisi in quella pace, che l'uomo ha ne' suoi atti, ì quali sono segno della pace che r animo ha con se stesso, non s'intende che tutte le figure e invenzioni, nelle quali questa pace può aver luogo, debbano essere composte egualmente di pace e tranquillità. Come può dirsi che ognuno ha una particolare sua natura, così può dirsi che ha una particolare sua pace. Oltracciò talvolta anche ne'savi può , anzi dee svegliarsi quel risentimento , quello sdegno nobile, generoso, che n'é dato ^ difesa del ▼ero e del bene , a tutela di noi stessi ; e talvolta i Orazione del Farini 243 può e deve risvegliarsi l'amore, non c|iielIo che di lascivia e di ozio nasce , ma quello che esce dalle bellezze eterne del vero e del bene, ed è abito no- bilissimo della volontà. E ancora vi ha le occasioni^ nelle quali severamente e nelle quali piacevolmente vuoisi parlare, con autorità o coti sommessione, con fermezza o con giocondità: e quéindo \a diversità di questi parlari è conforme alla ragione, non isparisce ne sì oscura la dignità, ma piuttosto nel suo giusto lume si manifesta. Il simile vuoisi dire degli atti , coU'artifieiosa imitazione de' quali i pittori hanno a far conoscere non solo i savi dai pazzi, i gentili dai rozzi, ma i focosi dai placidi, i contegnosi dagli umi- li, i malinconici dagli allegri, e ciascuno per quello che è, o piuttosto che debb 'essere nel fatto^ in cui si trova. Né ai fatti vuoisi dare importanza maggiore di quella che meritano, né alla figure intenzione maggiore di quella che ad esse secondo i fatti o le contingenze si conviene. Né troppo allargare, né trop- po stringere, ma star lontano dalla soprabbondanza, per la quale si va all'estremo della parte massima, e star lontano dalla povertà, per la quale si va all' estremo della parte minima; l'una non é che esage- razione da rassomigliarsi a quella eloquenza, che par grande per gonfiaggine, 1' altra da rassomigliarsi a quella magra eloquenza, che Tacito chiama sana per dieta. Merita certamente molta lode il dipintore che sa ritrarre le figure di bella persona, che sa vestirle di viva carne, che sa dare ad esse il fiato: e la merita pur grande ancora quando abbia tolto a rappresen- tare , e bene rappresenti, persone di tal mente, di 244 Belle arti tal cuore, di tale condizione, ed in azioni tali, che imitando il vero debba ogni dignità esserne esclusa, salva però l'onestà. Non si vuole togliere ad alcuno la lode, che gli è dovuta: ma sempre sta che il he\- lissimo dei pregi sarà il vedere rappresentata l'uma- na dignità in azioni, nelle quali in un modo o in un altro possa comparire. Bella è sempre o si veda negli animosi moti del guerriero, o nei cauti del pru- dente, nei maestosi e gravi della matrona o nei ti- midi e casti della vergine, negli affezionati ed au- torevoli del padre, o nei teneri ed ansiosi della ma- dre. Anche nei dipinti di soggetto plebeo, dove non può avere luogo dignità, gode il giudicioso quando l'imitazione è bella: ma gode della sola imitazione, negli altri gode de U' imitazione , e gode alla vista dell'umana dignità, per la quale sentendo dentro di sé la sua propria risvegliar;*!, gode pur miolto qoq se stesso, ,,,(> jjfi Questa dignità si è quella che , a parer mio , forma il singoiar pregio della dipintura italiana. Non dico che questo pregio sia nostro esclusivamente; che sia nostro, e principalmente nostro, io lo credo; ma ognuno abbiasi il suo : questa non è merce, che per concorrenza cresca o scemi di valore. Poniamo , o giovani, poniamo noi ogni studio per mantenere quer sto pregio alle nostre arti : poca lode sarebbe per noi che dai nostri passati 1' abbiano essi avuto più che altrove grande, se poi per nostra negligenza a questa età miseramente lo perdessero. Insino dai tem- pi, che in Italia, già infelice per rovine e sciagure di ogni maniera, dopo lunghe tenebre d'ignoranza, appariva : la prima aurora delle scienze e delle arti, Orazione del Farini 245 cominciarono i nostri antichi a dare garbo alla pit- tura. Cimabue, abbandonata da giovine la rtlaniera goffa di quei greci che dipingevano in Firenze, e sotto ai quali dal padre era stato posto d distìepold^ cominciò a far vedere nelle teste (dove principal- mente si vede l'uomo) una apprezzabile aria di bontà. Giotto imparò da lui, e tanto portò innanzi l' arte ^ che fu a que'tempi una maravigliai Non parlerò del suo disegnare, né del suo colorire, in che vinse pure gli altri , perchè questo è fuori del mio tema; ma nelle teste, nei gesti, nelle attitudini delle figure si lasciò di grande spazio indietro gli altri. Fortunato di essersi avvenuto ai tempi di Dante, fortunato della famigliarità che ebbe con lui, onde potè giovarsi di quel sommo! Dante, e colla squisitezza del suo in- gegno , e colla maravigliosa sua potenza inventiva nelle azioni , nei parlamenti ^ nelle invenzioni tutte della sua commedia, nelle quali l'umana dignità ave- va luogo, la espresse in tante maniere , e sì acco- modate e sì belle, che tosto fu avvisata ed ammirata^ tutti subitamente studiarono in quelle cantiche divi* ne ; gli scrittori e gli artisti meditarono in quegli esempi , vi riconobbero le intellettuali forme della umana dignità e studiarono di farne belle le opere loro. Come Omero pe'greci, così Dante per gli scrit- tori e per gli artisti italiani fu il sovrano maestro. Quella dignità in tante forme da lui eccellentemente rappresentata trovò nelle menti italiane tale un'accor- danza, un consenso, che cominciò subito e nelle scrit- ture e nei dipinti a comparire, a spiegarsi, a dila- tarsi : e delle lettere e delle arti nostre diventò il carattere nativo. A Giotto seguitò Simon da Siena , 246 Letteratura il quale ebbe pur fama d'egregio; e troppi sareb^ bero, se tutti si volessero nominare i nostri dipin- tori, che diedero e mantennero questo pregio all'ar-^ te; e in eflfetto, se non fossero più che molti , non potremmo dire che questo carattere nostro fosse. E il medesimo nelle nostre lettere. Tutti i nostri scrit- tori (tutti cioè quelli che si possono dire veramente nostri ) quando al soggetto conveniva questo pregio^ e gli storici specialmente, che sono i conservatori ed i rappresentaiori dei fatti umani con le parole nelle earte, come i pittori col pennello nelle tele , tutti hanno fatto di questo pregio belli i loro volumi. E quando i subbietli erano tali, che in sé nobiltà al- cuna non avevano, né potevano ricevere, usarono un modo di scrivere così semplice, che di nobiltà facil- mente all'uopo si riveste. Anzi non essendo quella semplicità che lume schietto della ragione, e volontà del vero , è essa il primo fondamento della dignità dell'arte, se è vero che il lume della ragione e l'a- more della verità siano il primo fondamento alla di- gnità dell'uomo. Ma come nelle lettere, per poter di- re che il carattere nostro è questo , non è bisogno mettersi al novero degli scrittori, ne'quali risplende, che sarebbe novero quasi impossibile, ma basta no- minare quelli, che tutta Italia onora come i princi- pali maestri, nelle opere dei quali da alquanti secoli con lungo ed universale amore si studia, e alle quali dopo diversi traviamenti con universale amore si ri- torna, il medesimo é per le arti. Basta additare tra i dipintori coloro che per principali maestri furono celebrati, nelle opere dei quali dai nostri si pose sem- pre studio singolare, e specialmente per questa qua- Orazione del Farini 247 iità, che un eccellente esempio in essi si ritrova, per potere dire^ che anche nel dipingere questa qualità è nostra Da Giotto ci volle spazio non breve di leoa- po a passare dalla fozza alla gentile età dell'arte. Lio- nardo col suo profondo intelletto e col suo attentisi sirao studiare ed osservare fu quegli che nelle àrie delle teste, e nel dare i moti e le grazie e il decoro alle figure portò l'arte alla finita grandezza. Per af- fermarlo basterebbe il cenacolo, nel quale^ alla pa- rola che disse Cristo agli apostoli, che uno di loro l'avrebbe tradito , fece vedere nel volto e negli atti di quelli l'amore pel divino loro maestro, lo sdegno di tanta empietà^ il dolore di non potere compren- dere chi sarebbe il traditore: e tutti questi affetti in maniere diiFerenti e con dignità e bellezza maravi- gliosa. Raffaello fu quegli che condusse il pregio della dignità a grado così eccellente, che niuno vi giunse, e sarà molto difficile che altri vi giunga maié Forse non superò Lionardo nella grandezza: ma nella grazia, nel decoro , nella dignità fu principalissimo di tutti, e tale che meritò il nome di divino. Le arie delle teste sono le più belle, le più dolci, le più no- bili, che si possa dire. Nobile la gioventù e la vec- chiezza, nobile la maestà e la riverenza^ nobile la gioia e il dolore, nobile il riso e il pianto , nobile la severità e la clemenza, nobile la modestia, nobile l'umiltà. E questo carattere ha egli saputo imprimere tanto maravigliosamente negli occhi , nella fronte , nella bocca, nel volto , negli atti , che grandissimo diletto produce in chi , non si fermando al velame de'bei colori, penetra col senno a vedere quello che negrintimi pensieri dimora, e a quegli atti corrisppn» 2^8 Belle arti de. Né crediate, o giovani, che alla scuola di questi' sommi non s'imparino che maniere placide e sedate; Quel senno e quell' intelletto , che li levò alla ec- cellenza del magistero, fece loro conoscere, quando l'agitamento, l'impeto, la furia , e quando pure la malizia e la malvagità ritrarre si conveniva, e la ri- trassero. Nel cenacolo Cristo è veramente il mite e l'umile di cuore; gli apostoli, mantenendo dignità , hanno quelle risentite movenze, che agli agitati loro animi corrispondono', Giuda è Giuda. E in quel suo gruppo di uomini e di cavalli, dove si combatte per togliere e per non lasciarsi togliere una bandiera, si vede la rabbia, la vendetta, la furia di ostinati com" battenti. E Raffaello nel quadro della trasfigurazio- ne, dove col suo pennello si è innalzato sopra l'u- mano, dando a Cristo una sembianza di divinità, per cui la mente di chi ben mira , in alta contempla- zione è rapita , ha pure ritratto uno spiritato, che agli occhi , al volto ,. agli atti è tale veramente. E nell'incendio di Borgo A^ecchio che fierezza di pe- ricoli, che furia di spaventi ! E dove Eliodoro entra a spogliare il tempio santo dei depositi delle vedove e dei pupilli, il cavallo, che coi pie davanti percuote quel superbo , che Dio non teme , e il cavaliero e i due giovani a piedi, che hanno in mezzo Eliodoro e lo battono , in che sdegnose attitudini non sono eglino ritratti ! Non fu poi nel la sola Firenze, o nella sola To* scana, che cominciò la bontà e il garbo del dipin- gere. Forse la Toscana e Firenze ne hanno il mag- gior grido, mercè delle rime di Dante e di Petrarca, i quali ad alcuni di quei primi diedero lodi, e quelle Oiì AZIONE DEL FaRiNI 249 lodi bastarono acciocché i nomi di coloro fossero so- pra gli altri in eterna fama collocati. Bologna cer- tamente ebbe pittori non meno antichi, né da meno di Cimabue nel ricondurre l'arte alle belle somiglian- ze del vero. Prima di Cimabue ebbe Orsone, e Ven- tura , e Guido : dopo questi a maggior bontà con maggior lode la condussero gli Avanzi e un Lìppo Dalmasio: poscia, e sempre in meglio seguitando, in- nalzarono l'arte e i loro nomi a celebrità un Fran- cia, un Francucci, un Primaticcio , un Tibaldi, ed altri insino ai Caracei, che raccolsero nei loro di- pinti e nei loro insegnamenti il bello di tutte le scuole, dalle opere dei quali poi, e di un Guido Re- ni, e di un Francesco Albani , e di un Domenico Zampieri e di altri, che si potrebbero dire se biso- gnasse, Bologna ebbe una nominanza, che non poteva venire più meno, quando anche non avesse poscia avu- to, e non avesse, e non fosse per avere chi gliefa mantenesse. E Napoli nel secolo decimo quarto ebbe i suoi, e gli ebbe Venezia, e gli ebbe Padova, e gli ebbero altre città d'I talia, per le opere de' quali la pittura pur rinacque con questo incominciamento di bontà ; e poscia quelle e molle altre poterono dei nomi di solenni d ipintori, siccome avventurate ma- dri dell'eccellenza di lodatissimi figliuoli, gloriarsi. Dopoché si nominasse un Tiziano, un Correggio, un Paolo, un Parmigianino, un Andrea del Sarto, ne re- sterebbero ancora non pochi che furono sommi , e moltissimi che furono grandi, le opere dei quali in Venezia, in Roma, in Firenze, in Napoli, in Bolo- gna, in Milano, in Padova, in Mantova e in molte altre città, anzi per tutta Italia, si ammirano. Seb- 250 Belle arti bétìe gli stranieri ne abbiano compre moltissime per ornarne^ siccome di cospicue preziosità, i loro pala- gi, e per fare di lor ricchezza e gentilezza mostra- mento^ tante ancora ce ne restano nelle case, nelle chiese, nelle pinacoteche, che ne abbiamo tuttavia te- sori; e tanta sparsa dovizia, che i dotti stranieri an- che per questo vengono continuamente a visitare ritalia , e gli artisti di tutte le nazioni vengono a studiare le perfezioni dell'arte, che in esse si ritro- vano. Tanto benigno, infra le moltissime altre cose, è stato ed è Iddio a questo bel paese e a noi, che qui alle ottime arti ha data la stanza, e a noi, che ci nasciamo, ha data una nobile somiglianza d'inge- gno e di cuore., per la quale le lettere e le arti no- stre furono e sono impresse di quella dignità, che tanto onora l'uomo, e per la quale nell'uomo l'im- magine di Dio si manifesta. Siccome però una delle condizioni delle cose di quaggiù è il non mantenersi sempre in un essere, ed una delle umane miserie ( e pur troppo ve n' ha molte a molta nobiltà mescolate!) è lo stancarsi delle cose, ancorché siano le migliori, e nelle peggiori mu- tarli; così alle lettere eziandio ed alle arti più di una volta per diverse cagioni è avvenuto, che dal cam- min buono siansi nel falso deviate. Quello che fu può tornare ; ed io temo eh e di nuovo disviamento non siano ora in pericolo. Quando le menti e le pas- sioni sono da universali e gagliarde agitazioni solle- vate e sbattute, la gagliardìa e la impetuosità anche nelle lettere e nelle arti s'introduce: e le opere degli scrittori e degh artisti, come fanno sempre conoscere il carattere del loro popolo, così fanno conoscere le Orazione del Farini 251 forti mutazioni o turbazioni, alle quali è sottoposto. Amano essi allora le espressioni forti, gagliarde, vee- menti, e non sono paghi che di queste ; allora esti- mano che i grandi maestri dell' arte avessero poco spirito; che i grandi dipintori tenessero le attitudini troppo legate, troppo ristrette ; che bisogni rialzare gli atti e le forze, e dare più moto, più tita , e si trascorre nel troppo. Le attitudini si fanno esagera- te, veementi, gli sguardi crudi, atroci, spaventati: e credendo di guadagnare, si perde. I grandi maestri da simili cose si guardarono, non perchè fossero uo- mini di poco spirito , ma perchè erano nomini di buon discorso. Le tenevano per increanze, per isfre- natezze; volevano che nei loro dipinti fosse tutto V ordine e il garbo, che si conveniva; e staivano at- tenti a non trapassare in alcuna cosa i segni dell» ragione. E l'uomo rozzo, stravagante, di poco senno, che fa gli atti strabocchevoli; nell'uomo saggio non è, no, una impassibile indifferenza , ma una quiete nobile, per cuv nei sedati e facili suoi atti fa pur conoscere il suo senno e la sua dignità. Non sono che i plebei, i quali , provvedendo a sé principal- mente colla forza delle membra, quella forza prin- cipalmente desiderano e pregiano: e dove la vedono gagliarda, poco badando se sia fuori del convenien- te, se ne dilettano. I giudiciosi però, i quali apprez- zano soprattutto la saggezza, sentono noia alla vista di così fatte improprietà, e godono di quelle dipin- ture, nelle quali l'umana saggezza si riscontra. Ed è poi allora che l'arte, dilettando, principalmente giova; imperciocché tanto la saggezza che la virtù vuole la conformità degli affetti e della volontà alla 252 Belle arti ragione ; e perèiò dove si vedono atti , i quali d'i quella conformità sono segno, vi è sempre un esem- pio o di virtù che a virtù alletta, o di saggezza che a virtù apparecchia. Sia pure che tali esempi entri- no segreti ed inavvertiti nell'animo: vi entrano tut- tavia^ e la bellezza, di cui l'arte gli ha rivestiti ed accresciuti, e che per sua virtù conduce ad amore^ dà loro una forza che alletta e dolcemente trae ad imitarli. Ma le grandi agitazioni finiscono o posano, e torna il tempo che delle lettere e delle arti di- rittamente si giudica, e che dal troppo, a cui erano trascorse, ai giusti modi si richiamano; e se le pas- sate condizioni de'tempi fanno scusa agli autori, che vi si trovarono, non possono fare che il difetto non sia difetto, e che in pregio si trasmuti. E voi, o giovani, che oggi venite a ricevere il premio, che negli studi delle arti belle avete meri- tato, pensate che ad ogni vostro nome, che qui fra poco sarà chiamato^ si pubblica non solo la vostra diligenza e il vostro profitto , ma si pubblicai Una speranza; sì, una speranza che da ognuno di voi sarà mantenuto a queste arti il loro pregio e all'Italia la sua lode. Io so bene che, come ogni nazione ha un particolare suo carattere, cosi ad una cosa piuttosto che ad un'altra ha l'individuo una particolare sua disposizione, colla quale non si dee contendere^ e la quale si lascia vedere nelle opere di coloro che non si fanno vili servi degli altri, ma che hanno lena e forza per fare da sé. In Lionardo fu detto, da chi lo poteva dire, che si vede il decoro, in Polidoro la grandezza e la furia, in Buonarroti la terribilità; in RafiTaello la maestà pura e quasi divina, nel Mante- Orazione del Farini 253 gna l'arguta prudenza, in Tiziano la nobile varietà, in Gaudenzio la devozione. Sia qual si voglia il ge- nio, sia qual si voglia la naturale disposizione, quan- do riman salva la saviezza, rimane pur salva nell' uomo la sua dignità. Studiate adunque nelle opere dei nostri grandi maestri; coi loro esempi fecondate |e vostre menti di pensieri, le vostre fantasie d'im- magini ; esercitate i vostri cuori negli affetti. Non seguitate servilmente alcuno, ma imparate da tutti un ottimo universale, ed avrete imparato un ottimo che sarà vostro, e pel quale nelle opere che farete sarete lodatissimi, E noi pregheremo Iddio che vi dia tal mente, tal cuore e tale perseveranza di vo- lontà, che un giorno facciate opere degne di questa scuola, e che a Bologna e all'Italia mantengano nelle prti belle quella celebrità, nella quale l'hanno a noi lasciata i nostri maggiori. IL DIRETTORE PRINCIPE D. PIETRO ODESCALCHI ^J INDICE DEL VOL. 350. SCIENZE Vaccolinif Del bello nella stntenza del w^^ Giuèertù Art. XVIII. . . . » 129 LETTERATURA Rebuffo j Della libertà delV eloquenza. » 1 40 Diamilla, Intorno una medaglia d'In" nocenzo VII » 153 Mossolti , Prolusione sopra un passo di Dante u 156 PontOj Osservazioni sopra la suddetta prolusione del Mossotti . . . » 164 Angelini-Rota j Notizie d'Innocenzo XI 191 Volgarizzamento di vangeli j testo di lingua » 199 Biografie di Vito Procaccini Riecij di Ottavio Mazzoni ToselUj di Maria Giuseppa Guacci Nobile j di Alberto Nota » 206 BELLE ARTI Notizie della vita e delle pitture di Gi- rolamo Marchesi da Cotignola . » 229 Farinij Orazione all' accademia bolo- gnese delle beUe arti . . . . u 239 iNv, \ i' GIORNALE DI SCIENZE, LETTERE ED ARTI ^ ROMA TIPOGRAFIA DELLB BELLE ARTI 1848 257 g^l^lTE^ li sistema filosofico di Vincenzo Gioberti per T. Zi- relli. Parigi a spese di L. Sarlier 1 848, in 8. di pag. 292, pubblicato il giorno 24 agosto 1848. C i è pervenuto, non sappiamo ben donde, questo libro sulle dottrine filosofiche di quel nuovo inge- gno di Vincenzo Gioberti, che coll'opera del prima- to d'Italia ha eretto a se un monumento da durare ne'secoli. Ma ne solo della istoria e della politica vol- le farsi benemerito: cercò modo di servire eziandio alla ristaurazione della filosofia, regalandone un suo sistema, del quale un cenno fu dato in questo gior- nale nel gennaio 1845, a pag. 48. Dopo caduto il sensualismo, che fu l'idolo del secolo passato, domina in questo tempo l'idealismo. E disdegnando quasi la materia, ci eleviamo collo spirito, seguendo il volo di quell'angelo delle scuole 8. Tommaso, che fu idealista, e considerava l'oggetto dell'intelligenza e la forma astratta delle cose come la loro essenza originale. A capo de'filosofi in Ita- lia sono il Rosmini e il Gioberti: del primo sono a G.A.T.CXVII. IT 258 Scienze vedere gli articoli di questo giornale ( toni. 85 a pag. 83, tom. 51 a pag. 41, toni. Al a pag. 23 e 267 ). Del secondo vorremmo ritenerci dal senten- ziare dopo il cenno riferitone nel 1845: e ciò per- chè a volere far giusta stima del suo sistema spar- so in tanti libri, pieni di erudizione e di profonde vedute, converrebbe più tempo per bene approfon- dire quasi un mare di parole e d'idee, nel quale non è maraviglia se qualche scoglio appare qua e là ai naviganti , e il viaggio è ancora pericoloso . Del quale vocabolo non si adonti veruno, comecché tenero del Gioberti; imperocché alludesi alla massi- ma di prudenza avvertita dal liberto d' Augusto , quando disse: u Perle ulosum est credere et non credere. Né bisogna precipitare i giudizi ; la precipitazione essendo causa di tutti gli errori, come osservò quel- la mente di Cartesio: al quale toccò la sorte de'gran- di geni, oggi alle stelle, dimani agli abissi: intendo nella opinione del popolo studiante e degli stessi fi- losofanti. Tra i quali però non credo potere trovar- si chi sia per negare al dotto francese pregio di alto ingegno nella logica, come nelle matematiche; pre- scindendo dalla metafisica, dove alcuni lo tacciano di avere spianata la via a non vere dottrine, che men vere forse divennero in mano de'suoi discepoli. E contraddittori di chiaro nome trovò il Gio- berti, Ira'quali il Tommaseo e il Mamiani; ma ninno pose cura diligentissima a far conto l'intero sistema di queli' acuto pensatore. E ciò ha voluto fare il Sistema del Gioberti 259 Zirelli in questo libro; raccogliendo tale sistema con fedeltà dai molti e diversi luoghi, dove largamente si spazia, e ponendolo in chiaro lume, sì che possa giudicarne ogni uomo d'intelletto. Ed il quadro in- tero è diviso in capi come segue: 4. Definizione della filosofia. 2. Principio della filosofia. 3. Caratteri del principio della filosofìa. 4. 5. 6. L'intuito dell' ente. 7. 8. 9. La ragione per l'intuito. •10. Le due riflessioni e la parola. 1 1 . La riflessione creante. 12. Le idee. 13. I giudizi. 14. I principii. 15. Il raziocinio. La fatica dell'autore ne risparmia molta ai savi leggitori, che auguriamo ai libri della filosofia, ma- dre delle scienze e maestra dell'ordine, che va dal finito all'infinito, e viceversa. Quelli, che con amore porranno gli occhi sulle pagine giobertiane, verifi- cheranno i passi citati dal Zirelli, ne forniranno a se stessi ed agli altri modo di ben sentenziare : e giudicheranno in fine se e come sia da ammettersi la conclusione del Zirelli medesimo: la quale è co- me appresso sul sistema filosofico del Gioberti. "... Qual sia il giudizio che i lettori solleciti » del vero ne faranno (che solo ad essi intendo ave- » re scritto), io stimo però che tutti verranno una- >» nimi nella conclusione ultima evidente: che il si- » stema filosofico del Gioberti non è in fondo ve- » ramente cbe pretto panteismo. Il complesso e eoa- 260 Scienze » fronto de'non pochi argomenti da me addotti ren- » de impossibile ogni benigna interpretazione, che )» qualche testo qua e là distaccato sembrasse a pri- » ma \ista tollerare. Rispettiamo le intenzioni per » certo j e le teniamo purissime e cattoliche. Non » così le parole, non così il sistema. Il Gioberti ad » onta dell'ottimo suo divisamento di dare all'Italia » nuove teorie filosofiche e teologiche, tendenti al » perfetto amicamento della ragione colla fede, non » ha fatto altro che vestire di frasi italiane e catto- » liche un panteismo, che si direbbe composto de' » due di Hegel e di Schelling, idealistico insieme » e realistico. Nemico delle fole settentrionali, com' » egli sovente le chiama, non le ha supplite che » con simili anzi egualissime, se non anco più stra- » ne per le contraddizioni continue. Le quali dotte t> fole ben sa il lettore che da secoli il mondo le )» conosce, da secoli le ha confutate, rinascenti ad » ogni poco sotto varie forme. Conferma del resto » irrepugnabile di tale sentenza, intorno al sistema ») filosofico dell'illustre piemontese, porteranno le co- « se che del suo teologico e religioso prenderemo » fra non molto a ragionare ». Così il Zirelli, al quale ne si vuol credere in tutto, né in tutto discredere. Migliore consiglio l'as- pettare le nuove sue elaborazioni sulla parte reli- giosa del sistema ! Del resto è fatale forse, che il Gioberti attac- chi il Rosmini di panteista: e chi tiene da lui at- tacchi dello stesso errore il Gioberti. È fatale, che la filosofia non sapendo starsi nel mezzo sicuro: me- dio tulissimus ibis: o troppo doni alla materia , o Sistema del Gioberti 261 troppo allo spirito, o peggio confonda questo con quella. E fatale, che l'uomo da Pittagora a noi tenti sollevarsi al vivo sole della verità, e si perda tra le ombre: creda abbracciare Issione, e abbracci la nube ! Prof. D. Vaccolini. 262 Viterbo e il suo territorio. Archeologiche ricerche # Francesco Orioli viterbese. PAROLE PRELIMINARI Antendo mettere innanzi agli occhi di que'che leg- geranno alquante notizie relative a Viterbo e ad an- tiche città o castella che già tennero in tutto o in parte, la terra ove siede la patria mia. Molti prima di me poser mano a sì fatto argo- mento, ma non ne riportarono la lode de' dotti, e lasciarono un'eredità di disfavore a que'che per av- ventura seguitar volessero la stessa impresa. Io non mi son sentito venir meno il coraggio per sapere che in ciò un Annio, un Corretini, un Bianchi, un Mariani, un Bussi, un Paure, un Sarzana, e non so bene quali e quanti altri, oleum et operam perdide- runt. Valgami, per questo titolo, a cessare ogni ma- la prevenzione di chi vorrà giudicare, il far cono- scere che ho tenuto altra strada, e che, se debbano Viterbo e il suo territorio 263 anche i miei chiamarsi errori e sogni , essi almeno saranno errori e sogni nuovi, su i quali bisognerà instituire giudizio con nuove norme. Non nego che in qualche apprensione mi mette il pensare appunto a questa troppa novità delle mie dottrine, per le quali una storia parrà nascere che per lo meno non diede alcun sentore di sé in pas- sato agli eruditi; e città e castella si nomineranno, ignorate sin qui, la più parte, da coloro che scris- sero d'antica geografia. Ma mi rinfranca il pensare che reco a pruova buone autorità di lapidi, o per- gamene autentiche d'archivi, e ruderi avanzati so- pra la terra e visibili a tutti. E più mi rinfranca il ridurre alla memoria, che, non senza l'approva- zione d' uomini sapienti, queste cose medesime io discorsi con pubbliche parole, comechè sommaria- mente, in Napoli davanti all'italiano congresso degli scienziati l'a. 1845, e qui in Roma due anni dopo nel consesso dell' instituto archeologico tedesco. E già ne diedi, per istampa, un primo cenno in una mia lettera francese all'ili, prof, cavaliere sig. Odo- ardo Gerhard di Berlino (1). E con privata lettura le sottoposi più volte al senno di dottissimi altri per- sonaggi, del cui numero giovami nominare l' ami- cissimo, e sopra ogni dire con me benigno, sig. con- te Carlo Troya di Napoli: i quali, ed il quale, con cortese risposta, m'incoraggiarono a farle di pubbli- ca ragione, come qui adopero. (1) Lettre à monsieur Édouard Gerhard. Extrait des Nouvelles An- nales, publiées à Paris par la section franeaise de l'inslitul archéo- logifjiie. T. I 264 Letteratura Da ultimo, ricorderò essere, o privilegio, o pro- sunzione del nostro secolo, il riformai^e molti errori de'passati, in tutte o quasi tutte le opinioni che già s'ebbero, dal tetto in giù, e per conseguente anche nella storia e nella corografia di questa stessa italìa, non bene fino ad ora studiata, per giudizio univer- sale di que'che oggi credono guardarvi dentro eoa più sussidio di monunoieutiy con più diligenza e con più acume di critica. Così vedrassi, spero, che non altro io feci pel mio paese natale , se non quello che cercau fare tutti, con non diverso effetto, o air men fine, pe'paesi di loro nascita o di lor predile- zione. A che pensando già men temo, e con meno esitazione m'apparecchio al lavoro. Per fermo , avrei desiderato potere scrivere la mia lucubrazione colla immediata presenza de'luo- ghi e de' documenti, od almanco non isfornito del soccorso di molti libri,, che avcei dovuto consultare^ e che non ho potuto avere a mano. Nam quod scrìptorum non magna est copia apud me. Hoc /?/, quod Romae vivimus . . . Catull. ad Mani. E maggior ozio m'avrebbe bisognato, in questo mez- zo tempo, e più tranquillità d'animo . . ! Altri cor- reggeranno le cose in che avrò errato, ed aggiun- geranno quelle che m'è stato forza lasciar da parte* Contro alla necessità, secondo un antico detto, sona impotenti anche i numi. Viterbo e il suo territorio 265 I. Sommaria indicazione d'alcuni luoghi più notabili del territorio viterbese. Comincerò collo sfocarmi di pur cercare, quasi razzolando, le poche notizie che ci rimangono in- torno allo stato delle viterbesi contrade sotto gli etruschi ed i romani antichi, traendole da fonti quali che siano, e le dirette come le indirette. E qui do principio con dire, che niuna memoria s'incontra (o in classici, o in monumenti, legittimi e bene inter- pretati ) dell'essere stata in pie Viterbo (città o ter- ra con abitatori entro una stessa cerchia di muro) sotto questo medesimo nome, o sotto denominazione poco diversa, finché sì fatta parte d'etruria non di- venne pertinenza de'longobardi (I). Non dubito al- tresì d'affermare che su niun buono e sufficiente- mente saldo fondamento posa quel che in passato molti fantasticarono intorno a quattro città, Fano, Ar- bano^ Vetulonia^ Longula, raccolte in tetrapoli, e po- ste, nell'età primitive, dove or Viterbo sorge (2) . Né v'é omai necessità di provare l'afiFermazìone disser- (1) Tuttavia s'intenda ciò detto, salvo quello che conghietture- remo a suo luogo per limitazione di questa troppo generale , e troppo assoluta sentenza. Per ora contentiamoci di dir così. (2) V. Bussi, Ist. di Viterbo p. 2-21 e seg. — Paure, UiYesa df' decreto di De Desiderio. — Sarzana, Della capitale de' tuscaniensi ec E nondimeno vedremo altrove ciò che può aver generato in Annio, e ne'successori suoi , questa opinione, che per sopra tre secoli pose radici nel nostro suolo. 266 Letteratura tando a perdita di fiato o d'inchiostro. Il tempo ha già fatto giustizia di queste viete favole, delle quali niun savio più parla, se non a dileggiamento. Certo il paese non era allora un deserto, che, non senza ragione, Tito Livio (1) chiamava opulente le campagne, oggi viterbesi, vedute dall'alto de'ci- minii gioghi, ne'giorni ancor belli dell'autonomìa to- sca. I monti avevan selva condensa, ed ampiamente distesa per le pendici; coronante le cime; insinuata fra le gole; scendente fino all'ime valli: ed era essa il sì celebralo e temuto saltus Ciminius^ paragonata dallo storico latino agli orridi Ercinii boschi. Tra essi monti, il lacus Cimini^ così dai romani chiamato (lago, oggi, di Ronciglione o di Vico); e presso quel- lo, un colle ancor detto, da'nostri, Monte Venere^ con chiara indicazione, che a quest'ultima gentilesca di- vinità era sacro, cioè alla tosca Turan (2); e sull'una (1) IX, 37. Postero die, luce prima { Fabius ) juga Cimini mon- tii tenebat: INDE contemplalus OPULEISTA EfRUnUE ARVAj milites emiltit. E si sa a dì nostri, dopo anche le considerazioni del Niebuhr (li. R. voi. 3), che son quivi confusamente raccolti fat- ti tra loro diversi. Sta però il fatto d'un primo passaggio della cimi- nia catena verso queste terre, per viottoli montani che guide esper- te avranno indicato : e le campagne opulente, di che ivi si parla , saranno certamente state le trasciminie, ciof; quelle che, al di là della catena rispetto a Roma, si comprendono tra il tevere e il ma- re, e tra Viterbo e Montefiascone, al di sotto de'monti nella sogget- ta pianura. (2) Di Turan vedi tutti gli etruscisti. Quanto alla conserva- zione del nome restatoci dal gentilesimo , rammenterò che altri esempi domestici non ne mancano. Il nostro territorio aveva , per esempio, fino all'età ultima, selva pagana, senza dubbio perchè un luco essa era, sacro a qualche ignorala divinità della romana od etru- sca idolatria; ed un casale fanianum , ubi dicitur Spileum ; ed un altro casale fanianum in valle (mentovato nel Regestum farfense Viterbo e il suo territorio 267 delle rive il vicus Cimini^ che forse non altro è se non il vicus Elbii delle versioni latine di Tolom- meo (1), dove coloro abitar dovettero, de'quali Silio Italico, nell'ottavo delle guerre puniche, dice: qui te- ìient ... Cimini .. lacum. Inerpicato su per la sommità, e nascosto probabilmente nel folto, con muri superstiti di pelasgica o ciclopea struttura, a quel che n' odo io che noi vidi, l'antichissimo castello, nominato da- gli odierni Rocca Altìa^ diverso dall'altro detto Al- teto^ che pure apparteneva alle pendici medesime . . . Poi, nella pianura soggetta, secondo che il bosco, o n. 393 e 396^ agli anni 832 ed 840), che fan supporre due fani, uno de'quali con uno speleo mitriaco- Per non qui nomiiiare il bagno del Paganello, dove Paganello può esser nome di persona, piuttosto che allusione a paganesimo. (1) Il vicus Cimini è oggi rovinato e chiamato fico senz'altro* aggiunto, il vicus Elbii (Tolommeo, IV, 76) , che non è però oe\- testo greco (se esso vico è legittimo, ed è da distinguere dal vicu* Cimini], dovette almeno non esser lungi, e comprendersi nel bosca perchè vorrei dirlo derivato da uKn od CkFv) {la selva ciminia)-, per una derivazione simile a quella d' Uva (oggi l'isola d'Elba). E, posto che la { grammaticalmente non differisce dalla r, dovette esso aver parentela stretta, s'io non m'inganno, coll'^«r6aKmn di Plinio (H. N. ili, 8), essendo forse l'uno e 1 altro due paesi vicini, e quello nato da questo, o da esso dipendente. Siccome un quarto paesuc- cio poco distante è forza che fosse il forum Ciminum di si fatto frammento d'iscrizione : .... ELIVS . LARTIS . F ... RVM . CIMINVM ... EA . PECVNIA . VECTIGALIA .. ONSTI ET . IN . ANNO .. IS . GRAVIS . . . Q. L. DCXXV che co»ì è data dal Reinesio (CI. 2, 43) e dairOrsato {In Monum. Va' tav. lib. F, sect. 9); checche' poi sia da commentarvi sopra, ciocché qui non cerco. 268 Letteratura cessava, o s' apriva, dense altre borgate con muro intorno, non si scomparse che l'occhio non ne ri- trovi i segni ad ogni pie sospinto, o gli archivi no- stri, e que'di Farfa e di monte Amiata, non ne ser- bino il ricordo: e tagli e incavi di strade, che facil cosa è ravvisare ancor oggi ai lunghi lor solchi fra le rupi e il tufo; e sepolcri, e poliandriì senza nu- mero, e d'ogni fazione; indizio certo di popolazione soprabbondante: ciocché servir può di efficace co- mento alle parole del 1." de'tre mitografi editi dall' eminentissimo Mai (fab. 54) Hercules aliquando ve- nit ad POPULOS^ qui dicebantur Cimini^ vel a monte vel a lacu\ od al passo di Strabone nel V libro, dove in questa stessa contrada si rammentano con generali parole noki-/^jai aux^xi {parva oppidula, cioè piccole castella: parva^ senza dubbio, nel suo tempo), delle quali, tuttoché espressamente sei sole sieno mento- vate, pur non si tace, che ve n'ereno «XXat TrXsrsug (alia plurà). Io mi contenterò di notarne alcune più degne di memoria; siccome Ferentinum oppidum, o Ferentum , già città non incelebre (1) ; e con essa Castel Fiorentino^ e Fiorentinello (2), Civita Musar- na (3) ; l' Axia Castellum famoso tema alla difesa di Cicerone prò A. Caecina (4), e più ancor noto og- gimai per le sculte sue rupi; Orela, ignoto nome ai classici, e non men oggi illustre per uguale ragio- (1) Rimando il parlarne alla 1." appendice posta in calce di que- sta dissertazione. (2) Si consulti sopra essi ancora 1' appendice citata alla nota precedente (3) V. appendice 2.-» (4) V. appendice 3* Viterbo e il suo territorio 269 ne, cioè pe'siioi nobili sepolcri (1); e lungo indi la Cassia, Vicus Matrìni (2), Forum Cassii (3); né guari lungi Àquae Passeris^ o Passerianae (4), e Villa Cal- visiana (5); e più altre borgate d'oscura e perduta storia (6). Ma (fortunatamente sopiattutto al nostr' uopo) trovo a non bene un miglio, o più presto a poco più di mezzo miglio di distanza dalla Viterbo odierna, gli evidenti avanzi, e i più evidenti ricor- di d' un oppido, che, quantunque ignoto all' anti- chità classica, pur mostra a chiari indizi di non aver meritato l'obblio della posterità: della qual cosa, poi- ché v'è il prezzo dell' opera in dirlo, soggiungerò, senza indugio, le prove, posto che, per somma for- tuna, non se ne patisce penuria. IL Sorrina o Surrina Nova. Tale n'è il nome pervenuto fino a noi da più (1) V. appendice 4." (2) Di questo non v'è molto a dire. Le rovine se ne veggono alle capanaccie, luogo noto tra Viterbo e Capranica, terra a cui sup- ponsi Vico Matrino aver dato alcuni degli abitatori. (3) D'esso ancora s'incontrano avanzi a s Maria dì Forcassi ; ehe il volgo chiama anche Filicasse. (4) V. appendice 5.* (5) V. l'appendice medesima, e (jucl che se ne dirà in altro luogo. (6) Alcuni saranno nominati nelle altre note, e nelle appendi- ci. Aggiungansi, Petrignano, Salci, Roccarispampano, Palenziana ... a dir breve i molti, che registra il Bussi pag. 8 e seg., sebbene egli ancora ne omette parecchi, de'quali sarebbe assai lungo , e non qui a proposito il dire. 270 Letteratura parti. E schiero qui le autorità che ciò risguardano, cominciando dalle più moderne, per poi risalire, man mano, alle più antiche. Leggesi pertanto, 1." in Niccolò di Niccola della Tuccia, l'uno degl'inediti nostri cronisti, all'a. 1417, e per con- seguente prima che Annio apparisse al mondo co' menzogneri suoi scritti: Braccio et Tartalglia (sic, e vedi, quanto a questa ortografia, Fontanini, De an- tiquit. Hortae pag. 418) andarono quella sera allog- giare nella valle di saneto Antonio , poi la mattina si pusero in assedio nelle vigna (sic) di qua dal bu- licame^ ove già fu la città di SORRENA. 2." In Giovanni di luzzo di Cobelluzzo ( altro de'cronisti, ugualmente inedito; ms. viterbese pag. 1): Un altro barone, parente de Corinto (sic, per Cori- to ), con un suo fratello chiamato iasio ( el detto fu chiamato Italon) vennero nel nostro paiese, et edifi- carono doi cipta, una presso il bullicame, chiamata SORENA ec. ovvero , secondo il testo Riccardiano di Firenze: Un altro parente di Corinto con un suo fratello chiamato Tusco, et V altro fu chiamato Italon, vennero al nostro paese, et edificarono doi citta, una presso al bulUcame chiamato SORENNA ec. 3.° Nello stesso, all'a. 1475 (esemplare Riccar- diano suddetto ): Io dico questo perchè a quel tempo era de' Priori, et considerai le gare de' viterbesi^ sì in consigli, sì in varietà di controversie, et consideran- do la prima origine, perchè Hercule di Greca (sic) figliuolo d' Amphitreone ed Almena passo per le no- stre pianure, trovo popoli de SORRENA non havere receptali (1. receptacoli) ec. 4." In un curioso catalogo di tesori, che sup- Viterbo e il soo territorio 271 pongonsi nascosti, aggiunto alle cronache Tucciana e Cobelluziana della biblioteca Riccardi in Firenze (1), e quivi dato come proveniente dal cardinale Capocia (probabilmente Paudolfo Capocci, vescovo scismati- tico di Viterbo, verso l'a. 1328 e seg.): In valle del Cairo (oggi del Caio), prope civitalem SURENNAE, est quaedam crypiapraelonga (un cunicolo?j. Fode sub lapide qui in eo, in qua s p. 10 alap magni regio SUMIRENSIS: dove, checchessia del rimanente del testo corrottissimo ( forse: qui est in ea\ in qua sub ped. decem a lapide)^ chiara è la menzione, e l'indi- cazione topografica di Sorrena^ e naturale l'emenda- zione delle tre ultime voci, magni regis surrinen- sis . . . mancando al testo, sunt thesauri o simile. 5." Nel Chronicon farfense ( Muratori , script, rer. italic. t. 2, part. 2, col. 395) all'a. 883, od in quel torno : Et cuidam presbytero concessit ( abbas Sichardus) res cum piscinis V ad Unum macerandum in decano, et de excleto (aesculeto) in casale SURI- NAE^ et vineam de Riello^ et terram in placane^ et pratum super rivum^ ad pensionem dandam annua- lem solidi unius in curte nostra Viterbiensi. 6° Nel gran registro farfense num. 188, presso il Galletti (Gabio ec, pag. 157) all'a. 797: Regnante Domino Deo et Salvatore Nostro lesu Christoper in- finita secula , anno Deo propitio D. N- Leonis ter Beatissimi^ et Apostolici Papae^ in sanctissima B. Ve- tri Apostolorum Principis sede^ mense octobrls^ indi- none V. Ego AUieausus^ filiiis cuiusdam Fridi, habi- tator in Soffiano (l. in Foffiano, come ha veramente il (1) V. appendice 6.' 272 Letteratura Regestum) . . . ordino et dispono . . . integram va- tionem meam^ et filiorum meorum de IIII casalibus'^ idest easalem Sunsam^ et casalem SURRINEM-) et ca- salem campum Aureum, et de casale Salicis^ cum om- nibus ad se pertinentihus^ exeepto res mohiles. Quae omnia recepì prò ratione a filiis meis. Et ab ìiac die casales sint in potestate venerabilis M. (tnonasterii), vel tua^ Domne Mauroalde abbas ec. (1). 7." Nel galloniano apografo della biblioteca val- licelliana, in Roma, degli antichissimi atti de' santi MM. Valentino ed Ilario, propagatori primi, o tra' primi della fede cristiana, a' popoli di queste con- trade, secondo la tradizione restataci a memoria di uomini: li vero inventi in vicinio civitatis SURRE- NE^ ubi multi christiani erant absconditi .... sub cuiusdam domu religiosae feminae nomine Eudo- xiae (2). 8.° In Sasso, oggi scomparso, ma già noto a Frate Ànnìo, che, a relazione dell'ab. Francesco Ma- riani {De Etruria metrop. pag. 124) trascritto Io aveva nella sua epitome della storia di Viterbo (né par che ne inventasse di suo capo l'epigrafe, se si riguardi all' altre analoghe, che tra poco daremo ) Sasso del resto , l'iscrizione del quale passò anche nelle schede farnesiane e capponiane, con qualche (1) Ciocché non è omesso nel chronicon farfense, presso il Mu- ratori, Op. e t. cit. col. 357 e 338, dove però per isbaglio di trascri- zione il casalem surrinem è casalem turrinem, mentre nel Regestum, che ho consultato in originale è scritto come dà il Galletti. (2) Ciò è dove negli atti editi si ha in vicìnia Fitcrbii (V. Bus- si p. 444) ; e il tìtolo del MS. è: Fitae sanctorum, et alia monu- menta coUecta ab Antonio Gallonio congreg. oratorii romani presby- tero etc. Viterbo e il suo territorio 273 variante, e di là nella raccolta muratoriana) alla p. MCLXXXIIl 8 di detta raccolta, dalle schede far- nesiane . . VITELLIVS . L . F . MERENNA AVGVSTALIS.SORRINENSIVM . . FECIT . SIRI . ET . ANNIAE CAECILIAE . CONIVGI . BENEMER. (1) 9." In altro marmo, all'angolo della casa de'Cri- stofori, ove già più volte l'ho vista, e dove, men be- ne, il Mariani detto di sopra, la leggeva (Op. cit. pag. 123) : C. CAES .... IN BALI .... SORRI .... C. CAVI .... PRAEF .FA ... . EX . D . . . . (2). (1) L'ha anche sotto questa forma l'Orelly n.» 3723. Il preno- me è perito; e si dice che la pietra era in s. Angelo in Spata, dove però l'ho cercata, e fatta cercare, inutilmente^ senza dubbio, perchè sarà perita , o si sarà dispersa quando tutta la facciata di tjuella chiesa venne giù per la caduta del suo campanile, il dì 19 di mar- zo 1349, siccome narra il Bussi pag. 313 e 91. Giovi poi notare, che il cognome Merenna è tutto di genuina fattura etrusca; dedot- to però verisirallmenle dall'osco Meddix, Medix, Medis, e Meris, in quanto alcuno degli antenati di Vitellio, venuto a stabilirsi in Etrii- ria, sarà stato Mere o Meddice nel suo paese, e la memoria dell' onorevole sua carica avrà trasmesso a'discendenti. (2) E un frammento, del quale manca la metà ; dove però evi- dentemente era S la S.* lettera del 1.° verso; ma è incerto se la 2.» parola della 2.^ linea fosse Balin o Baiti, imparandosene che le ter- mali nostre chiamavansi in antico aquae sorrinenses, o balineae, ovs vero balneae sorrinenses; quantunque le acque naturali soglion dirsi piuttosto aquae che balneae. G.A.T.CXVII. 18 274 Letteratura 10." In un terzo marmo, ugualmente presso il Mariani (pag. 1 25), e presso il Sarzana (Della capi- tale de'tttseaniensi p. 297), che or del pari non si ritrova, ma cb'ei (dico il Mariani) narra essersi sco- perto al suo tempo , non lungi dal cosi detto con- vento di Gradi : L . VALERIO . L . F . PA TVLLIO . TVLLIANO EQVITI . ROMANO SACERDOTI . LANIVINO SORRINENSES . NO VENSES . PATRONO QVOD , OPVS . MACELLI SOLO . ET OMNI . CVLTV SVAE . REIP . CON TVLIT . ET . QVOD . RATIO NEM . EIVS . . . VERSOS INCOLAS . HONORAVIT qATI . RVSTICO . RVFO (1). 11.° In un quarto, ph'è oggi in Montetìascone, trasportatovi certo , ne so quando , e murato nellé^ superior parte della suburbana chiesa di san Flavia- no, e già edito dal Muratori (DCLXXX. L), e dal Marini (Iscriz. de'fratelli Arvali tom. 2, pp. 424 e 576): (1) Debbo io far avvisato il lettore, che l'ultimo verso ha il solito euram agente seguitato dal prenome Tiberio? che rationem ha ridondante la m, e sta per ralione ? e che la parola dimidìata è uni- persos ? Viterbo e il suo territorio 275 M . AVRFXIO . ELAINI .FILIO MARCELLO PONTIF . IVR . Die . SORR . NOV. QVAESTORI . ARK . PVBLICAE PATRONO . COLL . FABR . ET . CENT. HVIC . PRIM . OMNIVM . SPLENDID ORDO . EX . SPORTVLIS . SVIS . OD . MER. EIVS STATVAM . PONENDAM . CENSVER. CVIVS . OD . DEDICATIONEM . DEDIT DECVRIONIBVS . PANE . VINV . ET . * X HOC . AMPL . OB . HON . SIRI . OBLATVM I-S". V . N . POPVL . IN . ANNONAM PERPETVO DEDIT . L .D. D. D. C. A T. VARIO. SEVERO (1). 12.'' Nel tesoro gruteriano delle iscrizioni latine (Ed. 1, che sola posseggo, CLXXXIII, Tj dallo Sca- ligero : In Italia, in Surrenae thermis, in plumbeo tubo TVRR . TITIANI . V . C dove quello, in Surrenae thermis^ posto li così sec- canaente, mostra chiaro essersi creduto bastare ad (!) È anche nell'Orelly n." 3722, il quale però malametite ha Patron. Spurtul. e peggio ancora neirullimo verso G . (sic) A. T. - Del pontifex 1. D. possiam poi dire che non è insolito in queste contrade dell'Etruria. Male infine s'apponevano il Muratori e il Ma- rini, quando nei Sorr. Nov. pensavano avervi a riconoscere, l'uno i sutrini, l'altro i sorianesi. Di che sono però da scusare non co- noscendo essi quel più ch'io qui espongo. 276 Letteratura una indicazion sufficiente del luogo , non essendo allora la notizia di questo luogo perita, od essendo in modo risorta, da esser divenuta quasi comune e volgare. 13.' Ne' Comment. super fragment. Catonis di Annio, De Turrena augustalì (1), quam SURRENAM dicimus (eà) medio miliario distai a Volturna^ cioè da quella parte di Viterbo, verso la chiesa della ss. Trinità, presso il così detto Faulle, di che altrove favelleremo. 14-.° Finalmente, nel Mariani (Op. cit. pag. 124): Annius saepe scrihil de SURRINIA. et de SURRINEN- SIBUS, in Viterbiensis historiae epitome MS. , in bi- bliotheca vaticana ( che non ho potuto ancora ve- dere, non oggi ritrovandosi ne'cataloghi della biblio- teca suddetta; e che senza dubbio, tra molti sogni, qualche buona verità debbe aver contenuto sul pro- posito nostro, la quale deploriamo smarrita). Or, confrontando tra loro i qui riferiti passi, or^ dinati da me in una continuata serie , per fermo , questo vero da essi emerge, sfolgorando di manifesta luce; ed è, che, nel fatto, non ostante il silenzio de' classici e de'geografi, un'antica città ci rivelano essi testi, città bastantemente riguardevole fin dai tempi di Roma pagana, che i romani paiono avere, o rin- (1) L'aggiunto augustali lo credo tolto dalla iscrizione di Me- renna, malamente letta. 0 forse Sorrina, per deduzione d'Augusto fatta colonia, prendeva talvolta l'epiteto di Augusta dal suo fonda- tore, come già Perugia; o piuttosto come la vicina Horta ( Fonta- nini, Antiq. Hortan, pag. 23), ed Annio, che ciò lesse in qualche altra epigrafe , confondendo 1' augustalis dell' iscrizione di Meren- na con questo Augusta, fece laugustali di suo privato conio. Ri- spetto a che, rem in medio relinquimus. I Viterbo e il suo territorio 277 hovata, o lasciata rinnovare, non si sa quando, ne perchè, e della quale mai" non si abolì la memoria; poiché durò, per contrario, si chiara da permetterci oggi il dire, indipendentemente da ogni altra pruo- va, non solo che questa città fu, ma eziandio dove fu (con indicazione bastantemente accurata e preci- sa), e come fu nominata. Si raccoglie infatti, dal 1.» e dal 2.» testo de'cro- nisti, una Sorrena essere stata tra Viterbo, e il tan- to conosciuto Buhcame, nel tratto ove ora son vi- gne; e lo spazio ha già una prima determinazione, che, per se sola, potrebbe tenersi come sufficiente. Ma (quel che non meno è notabile), se nulla, quanto al sito, può ricavarsi dal 3.» testo, certo il 4.% in- dicandoci questa Sorrena posta in prossimità della valle del Cairo, viene ad insegnarci altrettanto con uguale evidenza , ove, nel modo che si conviene, correggasi 1' errata scrittura, od almen riconducasi la parola, dall'antica e men conosciuta sua forma , a quella, che oggi noi viterbesi conosciamo ed' usiamo. Perchè la valle quivi chiamata del Cairo, ed al- trove, nello stesso catalogo, vallis Chairi (1), non (1) Spesso di questa valle quel mio catalogo fa menzione , e qualche altra Tolta in modo da determinarne il sito al di là dWni pos..b.l.tà di controversia. In valle del Chairo (ha esso ) reperies locum antiquum cum multis figurls et lileris (ricordo senza dubbio Fodro sublus pedes quatuor, et invenies arcam lapideam plenam au- yt argenti. In eadem valle, ubi est quaedam crypta cum aqua , estquaedam tomba, ubi est arca lapidea, piena magni thesauri. In eadem valle, prope civitatem Surrenae (e seguita il passo riferito qu. addietro nel 4.o h.ogo). In eadem valle Chairi, in loco ubidì- 278 Letteratura può esser altra ila quella indicala ne'seguenti bra- ni, tolti all'opera degli scrittori antichi, De balneis (Ven. apud lunctas a. 1553^ , in che de'bagni vi- terbesi così più volte è parlalo : In Michele Savonarola (pag. 24), Balneum val- lis CHAYM^ quod alio nomine^ balneum dominarum. In Giorgio Franciotto di Lucca (p. 139), Bal- neum^ quod est vallis RAYM (L Kaim), vel domina- rum. In Bartolommeo a Clivolo (p. 262), Balneum val- lis KAYM ^ quod alio nomine Balneum dominarum diintur. 0 là dove dal Baccio è detto ( De thermis. Ro- mae 1622,, p. 182), Nec longe a Bullieani fervoribus^ citur Materna, prope dictwm, in quod'\m angulo, sub occidenti pla- ga, pedes quatuor [ode, et invenies tesau um multum. In eisdem par- tibus, prope slratam Jìomae, ubi est balneum languentis, invenies la- pidem album cum pcde equino. Fode subtus , et invenies aurum et argcntum. In foro praedicto prope ecrlesiam sci Valentini , ubi est cripta una cum septcm gruttulis. Fode subtus in medio criplae; et invenies tombam, et subtus pedes tres unum regem auri et reginam argenti , magni valoris. In eisdem partibus, ubi est balneum cru- ciatorum, ibi prope dictum, invenies lapidem cum signo crucis. Fo- de sub ipso pedes 12, et invenies tesaurum infinitum. Ne" quali passi tutti, e massime nep,li ultiaii, chiaro è che si parla di luogo presso i bagni nostri j tra'quali oggi ancora si conta il balneum languen- tis, il balneum crucialorum , e la crypta cum aqua, non senza la riputazione antica di tesori nascosti, come si trae beae consulares nobilitarunt, et praefecturae provin- ciarum. Perchè, so bene che gli abitanti di Massa di Maremma, presso Piombino in Toscana, pretendono appartenere al paese loro quelle parole, fantastican- do, che, quivi o ne'dintorni, essendo stata Vetulonia (ciocché non impugno), di leggieri questa lor Massa fu chiamata Vetuloniensis, e mutossi infine, per cor- ruttela di volgo, in Veternensis, Ma , lasciamo stare (1) D'Orvieto, stato già Volsi nio a mente del Mueller, bo parla- to qualche pagina indietro. Chi non si sentisse persuaso da quella conghiedura, non potrebbe ad ogni modo non concedere che il no- me indica pur sempre una città antica, la quale ivi sorse, e della quale la genuina denominazione primitiva era perita. Se ne accorse anche Ciprian Manente nelle istorie d'Orvieto pag. 269. Sari ivi sta- to Salpinum, se non vi fu fulsinium- 1 Viterbo e il suo territorio 309 tutto quel che v'è d'incertissimo rispetto alla realtà di questa trasformazione , e T assenza d' ogni argo- mento un po' più solido, il qual si rechi per farla probabile. A me basterà rimandare que' che la cre- dessero alla confutazione molto ben solida, comechè messa Vi per incidenza, che ne fece, nel quaderno II delle Memorie di Corrispondenza archeologica (n." 4, p. 123) il fu cav. Francesco Inghirami. Intanto a favor di Viterbo, al quale veramente abbia dovuto spettare in quel tempo la denominazione Massa Ve- lernensis, valorosamente milita 1' argomentazione se- guente. In primo luogo niun muova dubbio rispetto alla prima voce Massa. Perocché v'ha egli chi ignori esser questa una voce appellativa, familiare all'Ita- lia, fin dall'evo appunto costantiniano, e venendo poi gii\ per tutti i secoli della barbarie, significante nien- te altro, che un raduno di case rustiche, costituenti Fattorìa, o sì veramente una vastissima possessione? Masseria la dicon oggi i napoletani nel senso me- desimo; e quanto il vocabolo fosse diffuso può im- pararsi presso Anastasio Bibliotecario, dalla vita, per es., di s. Silvestro papa, nella lunga lista delle Masse., che si suppongon donate allora da Costantino alla Chiesa : ovvero Io si può imparare da Cassiodoro (Variar, lib. VIII, ep. 23 e 33; lib. IX, ep. 3) : da Gregorio Magno (lib. X , ep. 28) , e da mille più. Così altre Masse., dentro gli stessi confini nostri, m' indica e Cassiodoro in un luogo di che parlerò al- trove (quello ove favella della Massa Palentiana), e il solito Regestum Farfense , mentovando la Massa Àncarianensis (e non Anurianensis, come nello stam- 310 Letteratura pare il Chronkon ha scritto il Muratori) ( n." 30O, anno 850), o simili che qui non accade riferire. Quanto, in secondo luogo, al Veternensis ^ varrà la considerazione, che la più antica delle forme del nome Imposto a Surrina distrutta, vedemmo già es- sere stala (secondo 1' anonimo \ ave nnale ) Vclervmn (ridotta a latina la pronunzia greca) , di che per con- seguenza esce Vetervensis^ voce, la quale, leggier- mente mutala in Bilerviensis^ incontrasi anche assai più tardi, cioè all'anno H50 , presso il Muratori (Sciipt. Rer. Ital. tom, i, col. 139), per contentarnvi d'una citazione sola. Ora ognun s'accorge quanta è similitudine tra Vetervensis e Veternensis , e quanto facilmente, o per id'ìotisnw> nella bocca de'volgari , o per negligenza nella penna cfe'copisti, o per isbar glio nella lettura e nella trascrizione de'manoscritti, Vu dell'un vocabolo potè scambiarsi colla n dell'al- tro, posto massimamente che le figure delle due let- tere, in certe scritture, per ni un modo sono tra loro discernibili, sendo l'una e l'altra rappresentate assai spesso da due rette parallele senza tratti d' unione, e tuli' al più alcun poco uncinate a non diversa norma. Di che poi, nel caso nostro , o nella parola medesima della quale si tratta, posso dare opportu- namente una palmare dimostrazione, la qual sarà co- me dire l'experimentum crucis; e la traggo dal Mur ratori sullodato (Op. cit. tom. 3, col. 264), dove reca la lettera XG Adriani Papae ad Domnnm Carolum, e pone (si noti bene), parlando di Viterbo , questo passo dell'anno 774 : In partibus Tusciae . . . Sua- nani^ Tuscanam^ BITERNUM, et Balneiini regis\ Rl- TERNUM, dico, con w, e non con v, soggiuntovi a Viterbo e il suo territorio 31 1 maggior chiarezza, la variante tratta da altro codice: Suana^ Tuscana, Bitervo^ et Balneo regis (con muta- zione di desinenza nel caso); e così prova, che Bi- ternensì's, e perciò Viternensis^ e Veternensis , è bea cosa di nostra legittima spettanza. Donde conchiudo che veramente il passo d'Ammiano Marcellino a noi si riferisce, e non ad altri, o sconosciuti, o manife- stamente usurpatori (1); che quindi non è più vero , (1) La cosa {; tanto importante, che, a uscir di dubbiezza se fosse possibile, ho voluto consultare oltre all' edizioni che ho po- tuto incontrare dello scrittore qui sopra esaminato (dico d'Ammia- no), anche i Mss. della Vaticana; con poco frutto però, perchè, nei generale, dovetti convincermi, che, quasi tutti, ritengono la lezione, ^pud tuscos in massa Feterncnsi (non dovendosi tener conto della leggiera cacografia del codice vaticano della regina Cristina, num. 1994, car. 17 retro, il quale ha masse in luogo di massa). Pur la 2.* edizione, cioè la bolognese del 1317 a cura di Pietro Castello, car. 13 retro , scrive (lo si consideri bene) : Apui tuscos in arce t^erbensi. Or questa variante è notabilissima. E , rispetto ad essa , osserverò in prima, che a torto il Valesio, altro degli editori d'Am- miano, scredita nell'universale il lavoro del Castello, come d'uomo imputabile d'imperizia e d'audacia. Dice ei stesso (il Castello) espres- samente, d'aver tratto molte emendazioni ex codice Philippi Beroaldi, non malae frugis, e da un altro codice , ceteris fideliore , del suo maestro Pio. Cosi, non perchè una data lezione è da esso non data come dagli altri, ciò è da credere latto per una emendazione ar- dita ex ingenio. Pur sia ex ingenio- Non potrebbe ella essere effet- to d'altro, che della preconcetta opinione, in Castello, o in Beroal- do, od in Pio, che Ammiano parli di Viterbo. Infatti in arce Ther- bensi sarebbe una tal qual traduzione dell'm massa Feternensi, co- niata da chi conosceva e teneva in pregio il supposto decreto di re Desiderio (Bussi p. 21), e ivi il passo : suam Longulam (Viterbien- ses), non Longobardulam, sed, cognomine sui ampUatoris Tirreni, TERBVM vocent etc. cosicché in arce Therbensi sarebbe lo stesso che in arce Fiterbiensi. Tuttavia non sì facilmente concedo che qui «i tratti d'una emendazione ex ingenio. Massa Feternemis non era voce, la quale da un nuovo editore dovesse giudicarsi bisognosa 31;2 Letteratura che della città nostra, sotto il presente suo nome, o' sotto un nome poco diverso, niun classico parli; che il nome fu veramente latino, e non longobardo, ma' piti antico de' longobardici tempi; e che realmente l'antico paese, così denominalo, dovette, nel 4." se- colo, essere forse ricotto tutto intero alla trista con- dizione d'una massa ^ ì cui padroni sembrano però essere stati d'una schiatta sommamente illustre, poi- ché v'ebbe stanza, almen per alcun tempo, uno de* tre figliuoli di Costanzo Cloro Imperadore, e sua mo- glie Galla, la quale qui die alla luce Gallo Cesare y e perciò probabilmente anche il famoso Giuliano Apo- stata^ suo fratello, e imperatore anch' esso , nipoti tutti e due di Costantino , e da ogni lato mescolati a imperiali propaggini (i). d'emendamento; e come arx è assai distante da massa, così Therben- sis non lo è meno da Felernensis% Un emendatore ex ingenio avreb- be scritto Fiterbensi; percliè il decreto di Desiderio non s' arresta sul Terbum, e aggiunge subito dopo , nostra adiectìone Fiterbum pronuncient. In origine ciò dev'essere dunque stato un* glossa, la quale al solito ha usurpato il posto delle due parole date da tutti gli altri manoscritti. 11 glossatore volle notato, che la massa Feter- vensis, era nel tenimenfo dell'ora; Beterbensis. Scrisse compendiosa- mente arce Jbterbensi, o Flerbtnsi, aggiunta una piccola linea sopra Bt, o sopra FI, e, nel carattere corsivo d' un certo tempo, potero- no assai facilmente quelle due lettere esser prese per Tli. Al pos- tutto la lezione del Castello prova pur sempre, che in luogo della n, qualcuno ha veduto un b, e per conseguente un v, ciocché pel no- str'uopo è già molto. (1) lo non so se la Massa Fetervensis non fu terren dotale di Galla. Il casato di lei (quello almeno ch'esprime col nome) non è ignoto a Viterbo anche etrusca. Il Lanzi ci dà, sotto il num. 322, questa iscrizion viterbese. Arnth- Laric Galee ■■ e spiega : Aruntia Laris Galli. E, ciò posto, Viterbesi erano anche i due fratelli di es- sa Galla, mentovati (ivi) da Ammiano : Buftno, o Cereale, cioè Ne- razio Cereale, prefetto di Roma, e Vulcazio Rufino stato console, Viterbo e il suo territorio 34J Ma, dopo le cose fin qui discorse, niun dunque toirà neffare (e sarà una nuova consegfuenza più ca^ pitale di tutte le precedenti), che il paese posto a mezzo miglio di distanza da un altro, il secondo de' (juali portò il nome di Sorrina nova, mentre il pri- mo , con vestigia visibili d' una costruzione anti- chissima, portò quello di eillà vecdiia^ certo non a'I- tro esser potè, secondo tutte le apparenze, che la Sorrina f^etus^ o la Sorrina assolutamente così detta senz'altro aggiunto. E, ammesso questo, allora biso- gnerà supporre, appunto com'io affermava da prin- cipio, che la Sorrina nova^ nell'essere rinnovata, s'era mutata di luogo ella pure, come tante altre città in simigliante caso, spostatala però non troppo, ed ope- ratone lo spostamento col trasportarla nel luogo che dimostreremo tra breve a lei convenientissimo E, con ciò, quella prima Sorrina che ci eravam pro- posto di trovare sarà ritrovata. E sarà vero che,^ ai tempo della invasion longobardica, era essa del tut to, o già deserta, o ridotta al più ad abilazion di pochissimi ritornali in più fresco tempo, come ugual- mente io asseriva nel cominciare. E sta ottimamente così. Infatti it costruirsi d'u- na nuova Sorrina^ per una cagione quale che siasi, in tanta prossimità della vetus^ importa, per chi bei» considera, il vuotarsi della città vecchia, e l'abban- donarla. D'altra parte, il vocabolo urbs, o un altro d'ugual valore, lasciato come uno degli elementi al alla cui famiglia il Valesio crede appartenere aiiclie il Vulcalio dal- licano, un ilcjjli scrittori della storia Augusta, e l'orst- piiV d' iia al- tro V«lca/.io de'celebrati nella storia. 314 Letteratura nome che, da indi in là, s'impose alfa vantata col- lina, è indizio chiaro esso medesimo, che la Sorrina vecchia^ nel suo primo esseie, fu qualche cosa più cospicua che un semplice castelluzzo, come dire Ca- stelluni Axia , od altro simile. Dunque 1' area non molto {grande del poggio del duomo non dovette con- tener tutto, e non fu probabilmente che il luogo del- l'acropoli, o dell' arx^ come ciò s' è veduto di altre città etrusche. E allora è forza confessare, che il re- sto della città si dilatasse al di fuori, e, stando alla discrezione dell'occhio, abbracciasse, per fermo, an- che quel perimetro, il quale non può non averle se- gnato la ripa bagnata dal fiumicello Arcione, e una serie di fosse o carbonaie (di che le carte antichis- sime ci parlano) ricongiungenti cosi, da un lato all' altro, tutto lo spazio eh' elle racchiudono , cinto di naturali ed artificiali difese, a quel ponte del duomo, onde alla rocca passavasi, tagliatone sol fuori, con ciò, secondochè dal fin qui detto discende, il Piano Ascurano^ Searlano^ o Squarano^ il quartier di san Sisto^ e gran parte del quartiere ove oggi è la Por- ta della Verità^ chiamata in altro tempo Porta delV Abbate. Ora , tutto quel che si sa del Castrum lon- gobardo, dalla sua prima costruzione in poi , con- duce a stabilire, che solamente dopo l'undecirao, o verso Tundecimo secolo della nostra era , cominciò esso a protendere in modo regolare le sue braccia fuor della propria cerchia, rannodandosi co' borghi postigli intorno per una succession continuata d'abita- zioni, non prima avendo all'esterno, che chiese o ca- solari sparsi, e campagna più o men nuda, ciocché non manco viene ad impararsi, pel tempo della do- Viterbo e il suo territorio 315 minazione di Roma antica, dal documento della la- pida di Vigeto , che abbiamo alliove promesso, e che non dimenticheremo di addurre a miglior luo- go. Dunque vie più si è sfoizati ad aver per fer- mo, che, nel fatto, Vetiirbium, o Veterbum^ quando cominciò a chiamarsi con questo nome, perdette non pure l'antico suo lustro , qual ch'egli siasi stato, ^ ma ebbe cangiata in diserto la miglior porzione di sé, per non rifarjvi di case e d'abitatori, che in tem- po assai posteriore, pi-ima coH'opera di bm bari, fat* tisi padroni del suolo, quando ebbero assodato la dominazione tutt'intorno, e indi, nel rialzare che fè Italia la testa, coH'opera de'suoi stessi cittadini cre- sciuti in prosperità, quando la indipendenza italiana potè aver qualche radice, vinte le lotte intestine, e l'esterne, sotto la bandiera or ghibellina ot guelfa, e riguadagnata l'aulonomia per prezzo di sangue. Ed ecco una seconda parte del mio lavoro con- dotta a termine; se non che, per dargli pure quel compimento eh' io possa, non debbo abbandonare , al modo de' primi abitatori suoi , Sonina V antica^ senza far prova di ravvivarne altresì alcune delle memorie, che oltre alle precedenti ci restarono, quan- tunque sdegnate fin qui dagii scrittori nostri , che alle più di loro mai non poser mente. E ne si offre, innanzi tratto, il fiumicello Arcione^ di che parlava io poco fa, tanto più notabile, perchè tutto un lato della nostra Sorrina bagnava, e difendevala coU'erte sue ripe. In che fare, pur di traverso un altro van- taggio otterremo ; e sarà di veder confermato vie meglio, se ancor per alcuni ne durasse il bisogno,^ che Velerbiim .o Yeturbhmi^ non altro era, se non la 316 Letteratura prima sede donde mossero i Sorrinenses Novenses^ per darsi un' altra città in vece della già perita o abbandonata. Vegniamo al fatto. IV. // fiumieello Sonsa, o Sunsa^ o Surnsa. Risalendo dalla valle di Faiille (una cioè, come dicemmo, delle valli che fiancheggiano il Castriim Vilerhii)^ fino a (|uella che chiamiamo la Svoliate di là alla oggi detta Gabbia del Cricco , bassi sulla? sinistra, come ogni viterbese ben sa, il fiumieello di che abbiamo a trattare, e che gli archeologi patrit di scuola Anniana e Marianesca, sogliono nobilitare^ mutandone il nome in Urcioiiio^ od anche Alcionio^ per desiderio di dargli un suon più classico. Ma es- si (è forza confessar! oj si dilettano in ciò d'un soa- ve sogno. Se si faccj.sero a leggere, per e»., il Nibby (Analisi storico-topografi''.o-aniiquaria della carta de"* dintorni di Roma. T. I. p. 423), imparerebbero in categorico modo, che, ne'tempi bassi, dal IX al XIV secolo, noniavansi, con nome generale ed appellati- vo, Arciones e Arxones^ le arenazioni sotto le quali passano acque, donde poi si comunicava non rada- mente essa denominazione agli alvei tutt' interi, ed ai fondi attinenti; e con ciò saprebbero, che, se il Viterbese fiumieello si trova a dì nostri chiamalo anch'esso Arcione., o meglio, fosso d'Arcione.^ questo è perchè, da qualche secolo, traversa, al di sotto, ampie volle della specie di quelle, che l'archeologo romano accennava. Il nome vero gli. scrittori con- i Viterbo e il suo territorio 317 cittadini Io hanno ignorato fin qui, per la sola ra- gione che non si son curali di cercarlo. Esso è in molte antiche carte, alcune delle quali accessibili a tutti ne'noslri archivi; e gioverà fermarsi un tratto a cavamelo fuori. Prima di tutto è più volte nell'altrove ricordato statuto Viterbese dell'a. 1251, dove si legge, sotto la rubrica: De pena pro'/cieiitis lurpiluditiem in riuum Suc?am. Nullus proyciai^ vel proyci faciat in riuum Suczani spaezaturam domorum^ vel vie. vinatia^ pa- leas^ vel lelamen a muro sci Leonardi usque ad mo- lendinum fosse. E sotto 1' altra : Quod caldararii stent in planu Scarlani et Cairn Sunze. Volumus^ ut omnes Caldararii^ ad faciendas caldarias et similia., morari debeant in plano Scarllani , et intra Cauam Sunze. E sotto la terza: Quod fons et Ahheueralorium sci luce reapletur. Jlem ordinamus quod . . . fons et abbeueratorium sci luce reaptari debeat per homines habitantes a fossato Sunse superius eie, E sotto quella: Quod nullus mietat lanam., vel aliquod in via Suze. Item slatuimus quod a via quae venit a molendinis Sumse., usque ad molendinum filiorum Uenrici Lan- dulphi^ non mictatur lana., nec aliquid., quod praestel impedimentum aquis eto. Né trascriverò i molti più testi. De aqua fluenda in Abbeueratorio Sunze. Quod hostium lege Sunze remaneat apertimi. De pena proi- cientis turpitudinem in cursum sci Matthei de Sucza. Statuimus quod lanarolis liceat legam fuere a lega Suncze usque ad prontem tremuli (1) ad aquam col- (1) Il ponte di Tremuli conserva il suo nome. Forse fu cosi chiamato perdita iu principio, essendo levatoio e di le^no^ tremava 318 Letteratura ligendam prò lana lavanda. Statuimus qitod ad va-- dum lege Salcide et ad vadum porte Suncze et ad va- dum muri porle vallis imieuique predictorum catene ferree apponantur vel alhid aliquid tale fiat ut inde non possit bestia aliqua exirhai vel furtini abduei etc. etc. Ma, in tempi anteriori allo statuto, il cercato nome è, per esempio, all'a. 847, aache in una let- tera di PP. Leone IV ad Virum bonum Episcopum Tuscanensem (Baluzio T. 2, Epistol. Innocent p. 80), che ricorda esso pure. Infra Castrum Viterbi . . . Ca- vani Sonse\ ed all'a. 1233 nel seguente passo di Lan- cellotto Cronista nostro così volgarizzato da luzzo: In quello anno fu el diluvio ad Soma., et afuoco (aflfogò) lo Borgo de Sco Luca., et fu la vigilia de Sca Maria d'Agosto. Anego (annegò) molle persone: come altrove, a proposito del giro delle mura , la caduta di Soma (ivi). Da tutte le quali autorità que- sto insomma si ricava, che, in luoghi dove il con- testo , stando alla moderna nomenclatura , esigeva Arcione, o Urcionio^ si trova, da Federico II impe- ratore indietro, rìvus Sueza^ cava Sunze o de Sonsa^ fossalum Sunse^ molendina Sumse., lega Suncze^ abbe- veratorìum Sunze., Sonza., porta Suncze, la caduta di Sonza ec. Dunque , tra queste ultime varie forme si cela, con grande verisimiglianza, il genuino an- tico nome del fiumicello ; e sarà solo da stabilire quale tra esse forme sia la preferibile. Ora io aflfer- mo che, nel latino, la denominazione legittima era sotto i piedi ed i carri , massime in ragione della sua molta lun- ghezza. Es«o ini'alti doveva essere allora ad una delle porte del cer- chio di mura aggiunto dopo il mille alla città longobarda. Viterbo e il suo territorio 319 Sunsa^ più tardi fatto poi Sonsa ; e mi conduce a questa affermazione il ragionamento che qui all'al- trui giudizio sottopongo. Sorrina^ in etrusco (e già ne dicemmo altrove alcuna cosa) dovette essere, nel maggior compendio di sua forma, Surna^ 1." perchè i toschi non ebbe- ro la lettera o, e vi sostituivano abitualmente la m; 2." perchè non amarono i raddoppiamenti delle con- sonanti (come del resto abbiamo già notato più in- dietro); 3." perchè avendo l'abito di specialmente pe- sare ne'vocaboli sopra le prime sillabe , nel modo che oggi fanno gì' inglesi (I), ciò li conduceva a mangiarsi volentieri le vocali intermedie per amore d'affrettamento nella pronunzia : di che poi son pro- va le tante iscrizioni, ov'è Ceicna per Caeeina^ Vip- na per Vibenna^ Aulna per Aulinna ec, ed è argo- mento ancor più concludente l'identica voce Surna^ (1) Frane. Ritler., Elem. Gramm. lat. libri duo. Beroliii. 1831 , p. 19. n Omnem modnm in retrahendo accentu etrnsci excedebant ; n illi enim non solum iiltimani et penullimam verborum (3apuT0vwf v> proniuiciabanl, sed accentum in omnibus ferme vocabulis ad pri- » mam syllabam retrahebant. Quod quum facerent, vox ad vocabuli » longioris syllaljas luculenter proferendas non siifficiebal, et inde » accidit ut vocabulorum exitus mirum im modum mutiiarenlur ac » lacerarentur. Qua de causa graecum nomen 'AXs'^avBpoq etrnsci , » accentu in primam syllabam relracto , *AXs^oivSpo<; pronunciare » conabantur; id autem, cum humana voce nonnisi summa conten- n tiene perfici possit, ex eo nomine verbi monstrum Elchsntre (El- » xntre) procuderunt. Situili ralione ex nominibus MsvéXaoi, Hpa- M xXtjì , noXt(5£Ux*jf , IIoXtiVEi'xij? , MsXéaypOi , 'Affo'XXav , Aya.jJ-éymv » fecerunt Ménle, Hércle, Pultuke, Phùlnike, Mélakre, ^plu, Ak- » miem. Cf. 0. Muelleri. Etrnsci I. p. 595. sq. lidem latina vocabu- » la, Minerva, et Metéllus in Mèncrfa seu Ménrfa, et Méthnal de- » torseruut. Cf. Muelleri. Etrusci lib. I. et p. 411. 320 Letteratdra che abblam di sopra veduto tra i gentilizi sommi* nistratici dalle tombe toscane. Per lo meno (io dirò ancora una volta) questa dovette essere una delle forme legittime nella scrit- tura , cioè la forma contratta della voce normale , che mai forse non si pronunziava. Ma, se Surna era nome usuale della città vec- chia prima che fosse tramutata di luogo, come nella lingua etrusca (io farommi a dimandare) si sarebbe dovuto chiamare il fiumicello di Surna ^ posto che il nome se ne volesse trarre dal nome del paese, nel modo che ciò fu fatto pel fiumicello di Cere , per quello di Capena, e per altri ? Certo sarebbe diffi- cile il rispondere con accettabile risposta, se la pa- rola vera non ci fosse già somministrata d'altronde; o, per dir meglio, la risposta sarebbe allora d'assai poco momento, tra perchè le forme de'derivati sug- geriteci dall'epigrafi tosche, le quali sinor conoscia- mo, sono molte, e diverse; tia poi perchè, se ciò an- cora non fosse, ottenuta, per esempio, una risposta necessariamente unica, in quanto una sola ne des- sero le nozioni che fino ad ora si hanno delle con- suetudini grammaticali de' toscani, pur essa non ci condurrebbe ad alcuna certezza, posto che gratuita sarebbe giudicata dai più la conghiettura dall'essersi dato in origine al fiume un nome dedotto da quel della città. Tale però non è il caso nostro. La so- stanza del vocabolo vedemmo che già ci è nota. Si tratta dunque solo di confrontare le cinque o sei for- me di parole, tra le quali è confinata l'incertezza , con quel che conosciamo delle convenzioni lignisti- che d'Etruria, quanto a fattura di nomi derivati. Do- j Viterbo e il suo territorio S2i pò di che, se dal confronto vien fuori limpidamente una voce che convenga all'assunta ipotesi, V ipotesi non sarà più tale, ma sarà verità. Nel caso contrario essa invece sarà dimostrata presso a poco per inam- missibile, o alraen per gratuita. Ora io stimo di po- ter dire, che la prima di queste due cose è quella che risulta, fatto l'esame nella guisa la quale indicai. Da Surna, infatti, volendo trarre un vocabolo deri- vato, che presso a poco debba significare, Vappar- tene2ite-a-Surna^ sappiamo tutti che, all'etrusca, il più comune metodo sarebbe stato aggiungere al no- me della città, come suffisso, o postfisso , la sillaba ^«, scrivendo Sùrnasa. Ma sappiamo non meno, che, ove così fossesi operato, di leggieri , per la solita legge di contrazione che fa elider le vocali inter- medie, questo Surnasa^ nome del fiume , sarebbesi cangiato in Surnsa. Infine sappiamo ancora che, ac- eettate per vere tutte le precedenti supposizioni e dottrine, avrebbe poi dovuto accadere, che, al di- struggersi dell'aiitonomia tosca, passata la contrada sotto il dominio romano, e mutata in latina la lin- gua, il nostro Surnsa non fosse più restato sotto que- sta forma, e per necessità avesse perduto la lettera canina , ossia la r, che, innanzi alla 71 ed alla s, è incompatibile colla favella del Lazio. Dunque, coli' ultimo suo mutamento, la forma superstite avrebbe avuto ad essere Sunsa^ e non altra voce quale che siasi. Or, tra le cinque o sei varianti, nella scrittura del nome del fiumìcello, che vedemmo esserci con- servate dalle antiche carte, non pur troviamo in ef- fetto l'identico Simsa^ ma troviamo altresì, che tutte le altre forme ortografiche a quest'una naturalissiraa- G.A.T.GXVII. 21 322 Lette;^aturA. mente si riducono. Dunque , non una ipotesi , ma una verità è realmente, 1.° che s) fatta e non altra è la denominazione genuina, a uso romano, dell'og- gi detto Arcione-^ 2." ch'essa era Surnsa^ o Sùrnasa, nell'uso etrusco; 3." che , tale essendo, veniva ap- punto a significare non altro, se non il rio di Sur- rina^ odi Surna-, A,° finalmente, che, per conseguen- za, una nuova e luminosa conferma quindi emerge dalla scoperta nostra, per la quale la prima Surrina era specificatamente nel luogo dove ora è Viterbo. Quod erat demonstrandum. V, Il tempio d'Ereole-Carano (?) in Surina etrusca o Stirila. Andiamo adesso innanzi. Ci è riuscito fin qui di conoscere, quanto a Surrina la vecchia., il nome del suo fiume, e nel tosco, e nel latino, e abbiara po- tuto vedere che questo nome non si mutò in quello d'Arcione, se non quando la strada Svolta della nuo- va Viterbo fu fondata, e le arenazioni si fecero sotto le quali l'acqua passa. Qui però non si finiscono le notizie che, intorno alla tosca città, pur sopravvissero alla morte dell'altre memorie. Il grido d'un'età remotissima è arrivato sino a noi, trasmessoci dalle tradizioni religiose del medio evo, dal quale impariamo, che ad Ercole era sacro il luogo in tempo di paganesimo. L'opinione ha tanta antichità, che, a cagion di quella (fin da quando la Viterbo longobardica , da Viterbo e il suo territorio 323 prima ristretta, come sì spesso notammo, in sul colle della frequentemente ricordata cattedrale, uscì fuori dalle angustie de'suoi confini, per allungarsi verso tramontana, e dilatarsi verso le due parti del sole oriente ed occiduo ) venuta la necessità di denomi- nare con un particolar nome la più antica porzione, fatta omai, siccome sotto gli etruschi, rocca dell'ac- cresciuto paese , fu indifferentemente chiamata dal popolo, Castel di san Lorenzo e Castel d'Ercole. Così infatti, copiando pur sempre, e volgarizzando il Lan- cellotto, o il Gotofredo, ne scrisse luzzo. Venne poi nel paese uno Valenthomo chiamato Hercole^ figlio di Amphìtrione e d'Amena (sic) de grecia. Da poi hebbe morto lo re Cenone di Spagna^ et uedendo il bel pae- se^ et le terre disfatte senza habitatione de genti., per pietà commosso uolse edificare un castello in imo pog- gio superbo con ripe di qua et di la et poseli nome IL CASTELLO D HERCOLI ... Et uolse che hauesse per arma lo leone da lui morto. E all'a. 1475 . . . Considerai le gare de"" Viterbesi si in consigli., si in va- rietà di controversie .. et la prima origine , perchè Hercule di greca (sic) figliuolo de Amphitione .. fessi edificare il castello chiamo d hereuli et delli per se - gno leone. E indietro all'a. 1244. . . . del mese de Gennaro tutto lo castello d Ercole il quale anche se chiamaua el castello di sco Lorenzo fu scarcato et guasto da viterbesi., nel quale era 16 torri et molti belli palazzi. E nel catalogo de'tesori altrove men- zionato. In lenimento Castri Herculis., in medio pontis pinzani (lo stesso, dice il Bussi p. 137, che ponte quinzano., cioè di Grado) est quaedam cripta. Quere ibi et inuenies lesaiiriim trecentum quinquaginta milia 324 Letteratura florenormn ec. E altri luoghi analoghi, o del me- desimo luzzo, o del Tuccia, o del Catalogo, non lì trascrivo, questi potendo bastare a ogni discreto. Aggiungo però, quasi per comento, che la fama, dal suo lato, a memoria d'uomini, aveva infatti a' pa- dri nostri sempre detto, siccome il dio della forza era appunto venerato, finché pagani vi furono, con particolare e principal culto, in un tempio del no- stro colle, il qual tempio è voce sorgesse ove oggi è il duomo di san Lorenzo. Senza dubbio raccolser primi questa fama i leggendarii del martirio de'santi Valentino ed Ilario, apostoli di Sorrena la nuova, rac- contando, bene innanzi all'anno mille, Dixitque ad eos proconsiil: Sacrificate deo magno Herculi. At san- cii martyres dicebant : Misei\ cui nos iubes sacrifi- care '{ Lapidi surdo et muto ... E poco più giù : Ea- dem hora magnum Herculis templum (si noti quel magnum) funditus corruit (Bussi p. 445), dove, men- tre i compilatori più antichi, nominano, ad un tem- po, in tutto il testo degli Atti, Sorrena la Nuova., e il Castellum Viterbiensium, e, quanto al tempio, tac- ciono se fu nell'uno o nell'altro luogo, la tradizione ha sempre supplito a questo silenzio, assegnando es- so tempio al secondo, anzi determinandone anche il posto nel modo che dicemmo. Bisogna dunque pen- sare, che, per lunga serie d'anni, se ne fossero con- servate le vestigia, e la memoria , o che si fosser quelle trovate allorquando una prima volta la chiesa di san Lorenzo sulle rovine del tempio si fondò. Puossi anzi credere che si fatta antichissima chiesa e pieve, fosse anteriore alla riedificazione longobar- dica della città vecchia, e coeva alla vittoria ripor- Viterbo e il suo territorio 325 tata dal cristianesimo sul paganesimo, ed alla prima generale, e comandata sostituzione di quello a que- sto, perchè molto mi par verisimile, che , appunto allora, il tempio d' Ercole , o rimasto in piede , o restaurato dai cultori della superstizione pag^ana, fos- se trasformato nel già detto tempio cristiano, po- nendo nel luogo del falso nume che morì sulla pira, il santo che finì con pari morte. E forse guidò a ciò qualche bassorilievo superstite, o qualche fron- tone, o qualche pittura, che , rappresentando quel fatto mitico agli occhi de'rustici gentili, e servendo a perpetuare in essi le idee gentilesche, e la vene- razione del luogo, fu cagione a' zelatori del nuovo culto d'immaginare il mutamento del quale parlia- mo, acciocché, cangiata la spiegazione della pittura, o della scultura qual che si fosse , o alterato con utile arte il ricordo che ne restava, e cacciata la fa- vola dalla storia, più facile riuscisse il passaggio da una fede all'altra, come molti pari esempi se ne hanno, che non è necessario addurre, troppo essendo noti; le quali conghietture s'abbian qui quel valore che altri voglia accordar loro. Una cosa sta pur sem- pre; ed è ciò che scriveva già il Nardini (Atti de' ss. Valentino ed Ilario, p. 46, presso il Bussi, p. 44): Templnm (Herculis), ubi nunc ecclesia cathedralis di- vo Laurentio dicala^ extitisse. antiqua traditione ful- cita. existimatio est\ e ciò che, prima del Nardini, fin dal secolo XIII scriveva, siccome vedemmo, Go- tofredo o Lancellotto, compendiato dal Tuccia e da luzzo : e voglio dire che , per cagione di sì fatto pagano tempio (ingrandita la città, e nato il bisogno dì distinguere la intera Viterbo dal primitivo ca- 326 - Letteratura stello), al castello fu subito ciato il nome di Castel cT hreole^ o indiscriminatamente di Castel di san Lo- renzo^ ciocché non può essere stato un semplice av- >!enimento fortuito, od un fantastico arbitrio. Sebbene, mal io fo a fondarmi sopra mezzi ar- gomentiy o sopra argomenti d'un tempo posteriore^ per provar la mia tesi, mentre ho un argomento la- sciato per ultimo, e avrei dovuto porlo per piimor e dico una iscrizione antica, la quale , benché ora perduta al pardi tante altre, conservava»! già nel duo- mo , e registravasi, a farne fede, ne'^suoi manoscritti^ perfin dallo scettico , e celebrato filologo viterbese Latino Latini (Bussi, ivi), dove così egli leggeva: DEO . HERCVLI M .L. SPVRINA EX . VOTO. NVNC. SACRAVIT È dunque certo che, in Surrina la primitiva , il tempio v'era, o meritasse o no l'aggiunto di ma- gnum^ e che vi si nuncupavano voti dagli abitatori del luogo, o da vicini e lontani, forse, perchè, co- me altrove, alcun oracolo vi si rendeva per incuba- zione^ o con altro sconosciuto rito ; e sopra ottimi argomenti riposa la supposizione , eh' esso tempio fosse nella più cospicua sede della vetusta acropoli. Per altra parte, è prezzo dell'opera qui ricor- dare il motivo, che debbe avere indotto i surinesi nostri a far sorgere questo templum^ e ad immagi- nare questo culto; e ce lo indicherà il grammatico Viterbo e il suo territorio 327 Servio, in un suo scolio al VI" dell'Eneide (v. 697), dov'è l'emistichio. Et Cimini cum monte laeiim^ ri- sguardarite appunto la contrada nostra , chiosando egli : Hoc habet fabula Aliquando Hercules ad hos populos venit ; qui cum a singulis provocaretur ad ostendendum virtutem, defixisse dicitur vectem fer- reum^ quo exercebatur (al giuoco del palo). Qui cum terrae essei affixus^ et a nullo posset auferri^ eum ro- gatus sustulit^ unde immensa vis aquae secuta est , quae Ciminum lacum fecit (o, secondo una variante del 1." Mitografo edito dall'Emo Mai (I, 54/ Her- cules aliquando venit ad populos^ qui dicebantur Ci- mini^ vel a monte^ vel a lacu^ et cum a singulis pro- vocaretur . . . con quel che seguita di sopra). Im- perciocché si ricava dunque chiaramente da ciò, che i popoli abitatori delle falde del Cimino ebbero uno special motivo per venerare il nume, il quale ave- vali un tempo visitati, e s' era trattenuto tra loro. Ad altra prova di che, ricorderò avere anche le genti della vicina Horta onorato di special culto il Dio stesso (Fontanini, De antiq. hort. lib. I, cap. 6). E, per fino l'esser taciuto, nel passo addotto, il nome d'ogni particolare città, e l'essere in generale favel- lato, nella variante del Mai, de' popoli, qui diceban- tur Cimini^ è una prova di più de'rapporti che spe- cialmente questa Surina con Ercole debbe avere avuto. Evidentemente il fatto, appartenente all'era mi- tica, era considerato come fatto de'tempi primitivi, quando l'etruria si stava fondando, e vi consentono le tradizioni degli etruschi stessi relative al loro av- venimento in Italia , posto che , secondo i meglio 328 Letteratdra stabiliti dati mitologici, sembrano coincidere i lemp* d'Evandro, di Tarconte, e del dio venuto di Spa- gna al paese degl'itali, questa essendo la tradizione accellata dal medesinno Virgilio, e da nioltissinrii al- tri. Or supposto che Surina ^ o compendiosamente Surna, pretendesse d'essere tra le più antiche fon- dazioni tosche, già da questo un nuovo argomento può trarsi in favore del sin qui detto, ed una non ispregevole induzione intorno alle primi origini della città bagnata dal Sonsa^ od almeno intorno a quella che se ne spacciava da'cittadini. E ci sarà ciò age- volato dall'analisi di sV fatto nome Surina o Surna, di cui, tagliata via hi terminazione, non altra radice pesta, se non sur, o suri. E per vero, se si consi- deri che in latino, surus suH, lo stesso , etimologi- camente parlando che sudes sudis, fu arcaica voce, la qual significava precisamente non altro, che palus pali (Festo. Ed. Lindemana, p. 24 j e Pàolo (ivi) , pag. 41, 54 e 235): se inoltre si ricordi, che sif- fatto surus della latinità, non lascia di leggieri, com* altre voci latine, ridursi a origine greca, o a greche analogie. Se di più non si voglia dimenticato, che, quanto alle voci latine le quali non mostrano una greca provenienza, è già opinione ricevuta fra i lin- guisti, eh' esse han da credesi tratte dalle altre lin- gue antiche di quegli italici con chi Roma ebbe rapporti, e perciò non radamente dagli etruschi. Se, per giunta, s'avverta, che l'essere, non indigeno, ma esotico il vocabolo, è perfìn palesato dal conoscerlo SI presto caduto in desuetudine, e sì poco prolifica nella latina favella, cioè sì poco generatore d' altre ifoci, come i vocaboli, o indigeni, o ampiamente ac- Viterbo e il sud territorio 329 cettati fin da principio nella favella sogliono esserlo E se finalmente si noti, che, intanto, l'aver esso con- temporaneannente avuto esistenza in Toscana, come vocabolo legittimamente tosco, si prova da un curiosa monumento presso il Lanzi (Saggio, tom, 2, p. 416), e presso il Yermigliuoli (Iscriz. perug. tom. I, pag-. 188), monumento il quale già mentovammo, ed il quale dovremo assoggettare tra poco a più accurato esame. Se, dico tutte queste cose vogliano conside- rarsi come e quanto lo si dee, si sarà condotti a conchiudere, che que'popoli Ciminii, de'quali è fa- voleggiato nel mito di Servio, narravasi non men» (quantunque la favola, venutaci incompleta, oggi lo taccia), esigersi poscia congregati col pi ir grosso dell» lor turba, ed accordati a fondare una nuova città , la quale dal famoso palo o vette ferreo volle deno- minarsi, e questa città essere stata appunto la nostra. Ciò è dire che Surina riferivasi essere stata così chia- mala a suro vel suri , significante in etrusco quei che nella latinità. E senza dubbio la vera etimolo- gia non dovette essere questa. Forse, nella realtà i\ nome si trasse, in origine, da una parola analoga per suono e significato , al greco ocapog ( twnulusy. ma più tardi, parve miglior partito pensare al palo , ed alla favola dell' Erculeo vette, aggiungendo, com'è verisimile, che la provocazione, e quindi il mi- racolo, eran provvenuti dai surrinesi primi. Vorrei giunger anzi fino a sospettare che nella opinione del popolo il vette o palo famoso era rimasto come ob- bietto di venerazione e di culto, e quindi come oc- casione di erigere il tempio di che sin qui favellam- mo; e che se gli faceva perciò festa venerandolo come 330 Letteratura una reliquia; conghiettura che timidamente mi fo ad esporre, ma che m'è suggerita da quel monumenta datoci dal Lanzi e dal Verraiglioli , e già da me rammentato due volte, il quale appartenente ora alla collezione Kircheriana è però detto espressamente, come altrove indicammo, essere uscito da viterbesi scavi- Lifatti il Bussi lo registra nell'inedito suo 2" volume delle anticaglie di Viterbo. E per vero ap- plichiamo ad esso i metodi d'interpretazione che gli etruschi usano. E una lamina di bronzo, sopra la quale si legge in toschi caratteri Savcnes surisj e la forma è come per affiggerla in qualche luogo , a maniera d'avviso, o simile: dove la prima parola , liberata dalla s epilettica, e dall'intercalato digamma, contiene la radice italica acnu , a cui Lanzi stesso (Indice IIP) dà il valore di annus ; ma la contiene con una desinenza che può esser gi udicata di adietti- Yo, e di nominativo plurale, qual se tutto insieme valesse annui (sottinteso ludi^ o dies^ o non diver- samente), mentre la seconda parola, in una forma di caso obbliquo, già mostrammo aver probabil- mente la significazione di palo o vette. Dunque non dirà cosa non conforme a verisimiglianza, chi espor- rà l'indovinamento, che il monumento intero sia una specie d'invito alle annue solennità del palo. E, ab- bia tutto ciò per una fanfaluca chi vuole averlo, se tale non è, il sacro palo sarà stato quasi il Pal- ladio, cioè la res fatalis di Surina , oggetto d' un culto anniversario «he forse s'annunziava di lunga mano coll'afiissione qua e là, per città, o per le case, di molte di sì fatte tabelle , ciocche spiegherebbe perchè una delle tante sia pur potuta giunger sino Viterbo e il suo TERRixoRro 331 a noi. Del resto, stracci la pajjina , o almeii pass» oltre chi non si sente persuaso (1). Quel che in tutta ciò non può patire controversia ragionevole, o quel che senza essere assolutamente certo , è però cor- redato di sornnoa verisimiglianza, non mi par, ciò noa ostante, troppo poco : avvegnaché in conto di scienza possiamo almen registrare , elite Ercole , in realtà, ebbe in Surrina-Veturbium un suo santua- rio; che l'ebbe nell'acropoli, dov'oltre «"massimi tre numi Giove, Giunone, e Minerva (Serv. in Aen. I, 922j, soleva darsi la sede al pnncipal protettore del- la città; che per ispiegare la ragione dell' avervela avuta, una favola s'inventò, restata in onore finche durò il paganesimo, favola tutta locale, e tutta, vor- rei dire, viterbese, donde la ragione del nome stesso, imposto alla città, sembra essersi voluta trarre; che il tempio, al cader del gentilesimo, risorse come chiesa cristiana, destinata al culto d'un santo, la cui morte essendo stata simile a quella, che il mito at- tribuiva al pagano eroe, non senza un segreto per- chè sembra essere stato scelto a cacciarlo di posto: e si resti poi , ripeterò , tanto incerta, quanto più vuoisi, la conghietturata conservazione del sacro pa- lo, l'annua solennità per festeggiarlo, e quanto al- tro io pensava d'oracoli, di giuochi, o di tutto che il tempo ha involto d'un obblìo forse sempiterno. (1) Quanto all'elruscisnio della voce SHr«, checché si pensi del suo valore, è anche provato da un passo della vita di san Silve- stro papa in Anastasio bibliotecario ( Murat. Script. Btrum Italie. T. 3, pag. Ili), il quale nota Fundum Surorum, Via Claudia, terri- torio Vegentano, dove il Nibby intende Sulierorum, voce barbara , ma dove io vorrei vedere, in questa voce, Surorum, come se aves- se ad essere il fondo cinto di pali, o con selva per pali. 332 Letteratura Ben mi permetterò d'aggiunjjere, prò Coronide^ un'ultima probabilità, già suggerita, senza che sopra vi mettesse altra malizia, dal Baccio (Op. cit. IX , 178), probabilità, ammessa la quale, si vedrà ancor meglio la ragione del favore, che, sopra gli altri po- poli Ciminii, sembrano avere accordato ad i\lcide i sorrinesi. Quando Io Scoliaste di Virgilio parla della mitica origine del lacus Cimini^ malamente (osserva il Baccio, e con esso il Bussi, e più d'uno scrittore nostrale ) noi crediamo , che quivi il lacus Ciniini debba intendersi il laco di Vico, o di Ronciglione. Il poeta di Mantova può, noi nego, aver avuto in vi- sta quest'ultimo lago; ma certo l'Erculeo mito non a quello s'applicava in origine; sì bene a quell'altro lago minore, di che abbiam già fatto altrove men- zione sotto il nome di Bulicame o Placane , posto ch'erano ad Ercole consacrate le acque calde nelle naturali terme, non le fredde (Athen. Deipnosoph. XII. 1.). E già, se l'acque sgorgate, per copiose che si voglian supporre, dovevan pur serbare , appo i primi inventori della favola, una certa conveniente proporzione col foro lasciato dal vette ferreo, certa- mente bisogna pensare, più presto ad una laguna di non grandissima ampiezza, qual'è il Bulicame, che ad un vero lago qual è il lago Vicano o Ronciglio- nese. Ammessa inoltre l'opinione del Baccio , e di que'che lo seguitano, bene sta l'immaginata eruzio- ne dell'acque bollenti, quasi per fare intendere tanto essere stato l'impeto della percossa, con che il dio della forza spinse entro terra il palo suo di ferro, da produrre tal fenditura che fino a'caldi fiumi infer- nali sia penetrata, ciocché niun altro braccio poteva Viterbo e il suo territorio 333 fare. E sì può allora perfin credere nato il mito dalla fisica osservazione, che corpi piantali in quel suolo pregno d'acque lapidifiche, presto mettono in esso quasi ladice per la gromma di tartaro , o vo- gliasi dire per la stallattite addensatavi intorno, che di loro fa tutto un masso collo strato nel quale so- no introdotti (1). Laonde a tanto può stimarsi, che anche Plinio alludesse, quando (H. N. II, 98) af- fermava : In stiva Ciminia loca sunt , in quibiis in in terram depacla non cletrahuntur : avendo, a quel che pare, in mente, ad un tempo, la storia da Ser- vio grammatico raccontata, e la forza cementatrice che testé ricordavamo (2). Concesse le quali cose, a questo dunque si viene, che, a'sorrinesi, e non ad (1) Cf. quel che Dante scrive (Piir(?- XXXIII); quel che comen- ta quivi il Landino intorno al guanto di Federigo imperatore, fatto per meth pietra; e quel che Fazio degli liberti verseggia nel Ditta- mondo (111, 8). (2) Altri preferiranno il comento di Pio II ne'comentarii della sua vita pag. 309 dove scrive : Adoardus Marsorum du.r, in oppi- do Cavarum. . . pontificem excepit . . . Hic res miranda visa est, et quae nulli fidem factura vidéatur, nìsi cuius oculi te'tes fuerint. Ter- ra est ante oppidum argillosa, parvam implens scrobem, in qua, sive baculum, sive gladium impegeris, atque rd morulam dimiseris, nulla vi possìs educere Narrata est historia Pontifici. Fabulam putavit.No- luit credere , nisi postquam cubiculariis ac medicis ad visendum missis, rei periculum factum est. Tonsor pontificis , cum impacluni ferrum nullo ingenio, nulla vi posset extrahere , attonitus , relieto gladio, ad pontificem rediens, dicatum daemoni locum exclamavil , qui ferrum lignumque omne immissum in terrae viscera retineret. Pllninm non latuit hoc miraculum, cuius illa sunt verta etc. Im- perciocché, vien Pio a dire che il prodigio doveva essere, anche nella selva Cimiuia, e altrove, provvenuto da un letto di tenace ar- gilla, che colla gagliarda attrazione adesiva, lenea forte il corpo in- trodotto in me//.o ad essa. Scelga ognuno delle due ipotesi quella che più gli aggrada. 334 Letteratura altri, o a'sorrinesi più che ad altri, cioè a coloro, i quali Sorrina fabbricarono , veramente spettava la favola dello Scoliaste; e ad essi apparteneva il vette ferreo, e la memoria del vette; a essi l'acqua zam- pillante e il beneficio del nume; a essi quindi l'ob- bligo il più grande di essere a quest'ultimo dio gra- ti, e d'alzargli altare, siccome fecero. E forse, nel favoloso racconto, consacrar vol- lero la memoria, poscia perduta, del modo tenuto, innanzi a ogni memoria d'uomini, per procacciarsi artificialmente, le fonti salutari, o alcune almeno tra esse, che tanto , fin da tempo antichissimo, abbon- darono nell'agro loro. Perchè mi par di vedere, nella finzione del palo erculeo, un abbellimento poetico dell'origine depozzi artesiani. Infatti, non è impos- sibile, che gl'industriosissimi etruschi non ignoras- sero quel che prima dell' età storiche usavano ( ed ancor oggi usano) i cinesi, e quel che, a dì nostri sappiamo, avere un tempo saputo praticare gli egi- zii, de'quali le molte comunicazioni coll'Etruria omai ci son fatte palesi da troppi monumenti. E, se non lo ignorarono, è verisimile , che i loro aqiiilegi sì celebrati (1) questo adoperassero nelle terre succi- fi) V. Siigli aquilegi loschi, tra gli altri, Varrone {Quinquatri- bu«, apud Noniiim. Ed. Mercer. p. 69), dove si legge, ^n hoc prae- stat Herophilus Diogene, quod ille e ventre aquam mittit ? An hoc te iaclas ? At hac parte utilior te tuscus aquilex (volendo dire , a quel che pare, qui e terra aquam emittit). Né aggiungerò che i latini chiamavano , sì fatti aquilegi , anche Fenoces ( a quaerendia aquarum venis. Fronlin. De aquaeduct. Edict. Bipont. p. 159) ; e il volgo, nel secolo di piombo, li diceva barinulas (V. Serv. in Georg. I. 109), forse dalla voce bara, o vara, che in quella latinità^ signifi- cò, appunto^ verga. Viterbo e il suo territorio 335 miuie, o questo si vantassero avere operato nelle mentovate terre per multiplicare le calde sorgenti ; ma che il primo trovato al figliuolo d'Alcmena lo attribuissero sotto la forma del mito da noi narrato. Dopo di che sarà vero, che Viterbo ha l' onore d' aver co'colori della pagana mitologia renduta ador- na quella invenzione de'pozzi forati, di che, a'dì no- stri, si è fatto tanto strepito; e si comprenderà, co- me potrà essere, che anche al lago di Vico s'esten- desse l'applicazion della favola , come quello , che acque non meno emergenti dal profondo della terra crearono ed alimentano. Or giunto a questo termine, io non tacerò, ne manco, per sopraggiunta alla derrata, un sospetto, da lasciarsi esso pure da parte (se cos'i piaccia), co- me un' opinione soverchiamente arrisicata. Forse im- parar possiamo da Servio stesso, poco fa citato, una nuova particolarità, non indifferente per noi, rispet- to all'Ercole mentovato dianzi, il quale in Surina ri- ceveva gli onori di particolar culto, per cagione del- la memoria che qui di sé lasciava , prima di spin- gere il passo al romano settimonzio. Imperciocché cosi lo Scoliaste annota (in Aen. Vili, 203) : Ver- rius Flaccus dicit Garanum fuisse pastorem magna- rum virium^ qui Cacum afflixit'^ omnes autem magna- rum virium^ apiid veteres^ Hercules dictos (passo an- che copiato e parafrasato dall' autore del libretto : Origo gentis romanae^ e sottoposto, in questi ultimi tempi, a critico esame, dal tedesco Klausen : De Car- mine Fralrum Arvalium^ p. 70); è così , intorno a ciò, io ragiono. Impariamo dunque dal Comentatore latino , o 336 Letteratura piuttosto da Verrio Fiacco ( più di lui celebre , e soprattutto più dotto, come tutti sanno, in cose to- scane), che l'Ercole italico, vincitore del famoso la- dro; e, per conseguente, che l'Ercole pastore e boat- tiere; il venuto di Spagna co'buoi di Gerione (Ge- rione, dico, chiamato Carufone ne' vasi vulcienti ); quell'Ercole, il quale dicevasi andato a Roma, dopo aver , senza dubbio , attraversato prima le ciminie contrade, e, in queste le sorrinesi , portava, almen tra i romani antichissimi, il nome di Garano .... e se lo portava tra i romani antichissimi, niente è sì naturale, come il supporre, che quel nome, non lo avesse esclusivamente in Roma, o ne'dintorni i più vicini, ma si tra i popoli più o men limitrofi, e, di leggieri, anche tra i circomciminii. Se non che, ove questo nome Garanus abbia a dirsi diffuso tra i toschi ancora, sarà conseguenza di ciò, che non per sì fatte lettere dovrà essersi scritto, e principalmente non per (/, lettera esclusa dall'alfabeto etrusco, anzi anche dal romano antichissimo, e rappresentata or- dinariamente, nell'uno e nell'altro alfabeto, dalla e. Dunque la forma primitiva del nome, in Roma, do- vette esser Caranus\ in Etruria poi non meno dovè modificarsi la terminazione, e patire altresì alcuna delle contrazioni abituali tutto il vocabolo, scriven- do, per esempio, e pronunziando, Karanu o Karane., e indi Krami, Krane , o Kranis : e mi contento di solamente affermarlo , persuaso che dagli etruscisti mi sarà facilmente ciò concesso. Or cerchiamo, da un altro lato, se vi sono ar- gomenti per credere, che così accadesse in Surrina. Certo autorità antiche per dircelo non restano. V'è Viterbo e il suo territorio 33T però, fino a dì nostri, alle porte stesse di Viterbo, una fonte, e un' acqua, chiamata fonte di Cràniso , ucqua di Cràniso (colla seconda sillaba breve in CVà- niso). Anzi, ove s'avessero ad aggiungervi i ricami del padre Annio, v'è, o v'era, una regio Crànisi, e un Incus Crònisi, perchè scrive egli ne'commentarii suoi, dichiarando le diverse parti della città. Prima pars Crànisa . . a . . Crono (eroe ch'egli finge, senza sapei- nulla del Garano di Servio) .. est a porta Sa- licichia ad principium Macelli maioris, cui adhaeret fons Crànisus ... E poco appresso: Circa templum s. lohannis in petra . . . fuit Incus Crànisi^ uhi sunt, a salicibus^ et florcntihus arboribus, salicichia et fio- rita porta, et vicinus Crànisus fons luci. E, lasciando anche stare i sogni Anniani, per fermo è a fianco il Pian Scarano^ di che il Cronista Tuccia registra. Anno d. •1187. Fu accresciuto Viterbo, e fatto Piano de Scarlano: che prima si diceva Piano Ascarano. Dun- que si presenta spontanea l'idea, che il fons Crànisi^ fosse già fons Cranis^ e che il Planum Scarani , o Ascarani, sia il Planum Carani^ o ad Carani (all'an- tica), nel senso latinissimo di Spianata, per la quale s'andava al tempio di Carano (1); e, per conseguen- (1) Amor (li verità vuol però ch'io confessi die il cronista s' inganna, ed è male instriitto. Non Jscarano, né Scarlano, o Scava- no è il nome nella piti antica sua forma. Esso è una volta Squarra- nus (Regestum Farfense n. 226 nel 1.° decennio del IX secolo: più altre volle vicus Squaranus (ivi n." 289 anno 829 , e n.° 237 anno 819) e Casale Squaranum (ivi n." 257) ec. Né perciò non può es- sere che in «[uesto Squaranus celisi il Caranus detto di sopra. Non- dimeno confesso che forse non altro v'è sotto, se non la squara longo- bardica,progenitrice del nostro vocabolo squadre e sc/iicra;cioè quel- la squara, che appunto anche scara, nella quale ipolesi il luogo sa- G.A.T.CXV1I. 22 338 Letteratura za, si presenta spontaneo l'indizio, che, non Ercole soltanto si nominasse, in antico , tra noi, quel Dio, del quale i Sorrinesi avevan fatto il nume loro prin- cipale, ma che lo cognominassero , almen popolar-^ mente, a quel modo stesso, con che gli antichi ro- mani l'ebbero un tempo cognominato (1). E qui, circa i rapporti dell' eroe Tirinzio con jSurina, fo fine, conchiudendo con una riflessione : ch'egli è veramente singolare il vedere, come, dopo tanti secoli, pur nell'infimo evo si perpetuò il ricor- do, che la fondazione della città tosca riferiva alla venuta d' Ercole, come d^' passi addotti de' cronisti abbiam potuto imparare. Anche i compilatori barbari delle leggende lo raccolgono: essi che dimenticano la vera storia , o la trascurano. Sopravvivono que' miti ai cangiamenti di religione. Sopravvivono ài cangiamenti di lingua. J^è tanto mai si snaturano, che non ne resti sempre quel che basta a fare scor- gere , come in barlume , ciò che furono in origi- ne (2). rebbe stato, come dire la piazza d'arme del castrum. E bisogne- rebbe di più vedere, se questa denominazione d'acqua dì Craniso , risale realmente fino a tempi remoti; ciò di che non ho prove. (1) Non Karanu solamente o Krane, ma gli etruschi chiama- rono Ercole ancora Kalanice, modificata, io credo, alcun poco, in parola dalla prima forma, per accostarla al greco epiteto che gli è proprio, xa^X/vixof (V. Gehard Uber die Metallspieget des Etru- sker. p. 22. not. 106, 107). (2) V'è di più. Come se un Ercole solo non bastasse alle im-? maginazioni del volgo, s'è a tutte queste terre anche attaccato il mito dell'Ercole del medio evo, il figliuolo di Milone d'Anglante. Così presso Sutri mostrano la grotta, ove lo fanno nato i Beali di Francia; e da Sutri a Viterbo si trovano, le querele d'Orlando, I9 ruzzola d'Orlando ec. E senza dubbio i nostri buoni padri, a eia-? Viterbo e il suo territorio 339 VI. // Fano di Voltumna. Mutiamo adesso argomento, ed indaghiamo se, per avventura, nello stesso proposito, qualche altra notizia ci è lecito spigolare, la qual valga la pena d'essere richiamata a vita. Ma qui molti a me vel- lent aurem^ parlandomi del Fanuni Voltumnae^ che, sino al giorno d'oggi, si fu inclinati a regalarci, an- che presso i più difficili, siccome il Cluverio, il Lan- zi, recentemente il dottor Ambrosch , ed altri che non nomino. Dov'è poi nolabil cosa, che, que' che ce lo concedono, io non so troppo su quali validi argomenti appoggiano la concessione. Pur non ri- gettiamo così alla leggiera il cortese dono, e faccia- moci noi stessi ad investigare quel ch'essi non volle- ro, o non poterono, o non fecer che imperfettamente. Io, alla ricerca d'un qualche gran mistero, ce- lato ad occhi volgari, sono stato sempre invitato da una singolarità dello stemma Viterbese, la quale, a memoria d'uomini, vi s'incontra; e sono le quattro lettere F. A. V. L. , che vi si contengono misterio- samente scritte, e scompartite sopra la palla tagliata in croce a modo etrusco (1), e soggiacente alla zam- scuno di questi nomi avevano aggiunto la sua leggenda j simile, per esempio, alla leggenda della bella Galeaiia sepolta nella roma- na urna fuori della Chiesa di s. Angelo , che ha tante analogie con quel che la Spagna favoleggia circa il vecchio palazzo d'un' altra Galiana nella Huerta del Bey presso Toledo. (1) Veggasene il disegno nel bussi, alla vignetta di che s'or- 463 Letteratura pa destra del leon vessillifero, per fermo non senzs^ recondito sentimento; tanto più, che, non ivi solo elle occorrono, ma ne'suggelli altresì del Comune , e nelle antiche monete della sua zecca, e ne' pub- blici monumenti, anche solitarie, o scompagnate dal- l'immagine del re de'deserti, e dagli altri emblemi; come ciò fu, a tCiStimonianza di Frate Annio, e del Bianchi (a'quali non veggo troppo, come, in cosa di fatto, possa negarsi fede) nella prima delle porte della città, noverate dal Bussi (pag. 71 e 14), e per- ciò da essi detta Quatri-aera^ volendo significare, con SI fatta voce, le quattro lettere, che v'eran so- pra in bronzo, e di cospicua grande/za, perdutesji poi quando la porta fu messa a terra (Ivi, pag. 74). E potrebbe credersi, che questo Faul fosse il compendio, o l'acrostico di qualche parola o frase, così posta a modo di sentenza , coperta d' un velo troppo oggi denso, come in certi motti, o cartelli, per esempio, delle così dette Imprese, o Divise d'aU tri stemmi e suggelli; ma vi sono ragioni gagliar- de, per pensare, di preferenza, ch'ei si riferisca, in- vece, a tutt'altro. Infatti, il Faul^ parola di stemma, di suggello, e di monumenti, ricomparisce sotto forma d'un no- me di luogo, da tempi i più remoti, nella valletta che, all'antica cjltà, o piuttosto alla rocca della me- na il frontispizio^ ed alle pag. 2 e 40. Si sa poi, che il circolo staurogral'o, tra gli etruschi , rappresentava , oltre a molte allr^ cose, il cielo, o la terra tagliate dal cardine, e dal decumano , se- condo l«< aruspicali dottrine di Tagete, e di Bigoe. Viterbo e il suo territorio 341 desima, ed al Castrum longobardo, immediatamente è sottoposta, dentro il giro della città odierna, e che sì chiama ora ì)alle di Faidle (colla solita giunta di due lettere finali, evidentemente destinate a dare al vocabolo una terminazione di fare italiano). Così, al manco, il popolo Viterbese oggi pronunzia, men- tre i più antichi, nella incostante loro scrittura, qual era in tutto il durare de' secoli andati ^ per lo più scrivevano in carta, Faule con un solo i, e qualche volta FauuUé, con doppia u^ o Fabule^ ch'è lo stesso. Ma Fabule è idiotismo del cronista luzzo, che regi- stra, all'a. 1377. Ingrossò l'acqua . . et ruppe sotto le mura a pie a Fabule. Ed all'a. 1383. Fu un grande deluuio . . et ruppe el muro sotto al Fabule ec. Il Tuccia, nell'esemplare Riccardiano, all'a. 1257, ha invece. Fo facto el muro d piede di Faule. Il libro MS* delle memorie di Casa Sacchi, all'a. 1320. Ap- parse miracolo di una figura di nostra Donna^ ne la cappella del Campana, in santo Austino sopra Faule- E, per finirla, un istrumento del 1293, pressò il Bussi, p. 414. Ecclesiam Sanetae Mariae de Ginestra (sussistente tuttora) de Fauli de Viterbio; e appresso a pochi versi; prout muri plani civitatis ^ et Fauli novii^ et veteris., protenduntur; e poco più in là: in Fauli', e, da ultimo, più in là ancora: Porta Faulis: mentre^ in un istrumento (Archiv. pubbl.) del 1 265, iin Don Bartolommeo arciprete di san Lorenzo, in un co'suoi preti, vende certo orto di quella chiesa, posttum in Fauule. Da tutti i quali passi è fatto ma- nifesto, che la più comune forma era appunto Faule (lai. nominativo Faulus, o Faulis)., e che v'era urt 342 Letteratura Faide vecchio, ed un nuovo (1), in continuazione uno dell'altro. La misteriosa denominazione^ di che parliamo, tanto anzi fu cara a'viterbesi, che di essa fecero quel che dal nome di Viterbo , trasformandola anche in nome di persona. Infatti, a quella guisa, che, per es. in una pergamena del tabulario di s. Angelo in Spata, all'a. 1083, è detto: Ego Biterhu^ fìliu Ber- nardu de presbitero . . . avitator de castro biterho ^ prope eeelesiam scii Stephanu^ con quel che seguita; così, fra gli atti del monastero farfense, all'a. 809^ è una donazione Fauli et Autarii fratrum facta Vi- terbi (Regest. n.^ 210). Dunque più non si dee pen- stare ad acrostico , né a parola sentenziosa, rispetto alle quattro lettere del quadripartito globo. Altro ar- cano v'è sotto, che bisogna indagare, e solo possia- mo fin qui dire, che il vocabolo era solenne, e cer- to non impiegato a caso , per farne, in un tempo stesso, divisa o motto di stemma, denominazione di luogo, e nome d'uomo. Voltiamo intanto l'attenzione verso altra parte. Noi troviamo, che, dalla collina alla quale la valletta di Faule fa base o fondamento, sopr'essa valle s'af- faccia e pende un antichissimo monii>tero di Suore, che, in un coU'annessavi chiesa, fu presso a poco no- mato sempre monistero e chiesa di s. Maria in Voi- turna^ od in Volturno. In prova di che , si ha nel Bussi (pag. 328 e seg., e pag. 67), relativamente a (1) /( Fatile nuoyo sembra essere stato quel che prima diceva^ si, da nome di famiglia, P'alle del Tignoso, i cui confini furono se- condo i cronisti, il castello di san Lorenzo, le mura di porla di Bor ve, a pie di Fabule imino a santo Chimenli. Viterbo e il suo territorio 343 ciò: in una bolla d'Alessandro VI dell'anno 1499: Pro parte ... sororum Manlellatarum, nuncupatarum monasterii s. Mariae in Volturno Viterbiensìs. In pa- recchi autentici atti di esso raonistero, da diversi no- tari anticamente rogati-, come da Giovanni Malvici- ni il vecchio, da Anton Maria de Antici, e da talun altro : Die 20 martii 1 523 : Congregato . . honorabili capitulo honestarum monialiwn monasterii s. Mariae Volturnae de Yiterbio. Die 29 iulii 1542 : Congregato honorabili capitulo monialium etc. come sopra : In antica iscrizione, del coro, nella chiesa, sopra lapide d'altare: Sancta Maria in Volturno. E, poco diversa- mente, in istrumento dell'a. iiS9: Ego Adam. ..prò- pria mea bona voluntate, et una cum consensu prioris- sae^ et nostrarum sororum etc. Ven. monasterii s. Ma^ riae de Vuturno etc. E nel fine: Hoc actum est apud ecclesiam sanctae Mariae Vuturni. E in istrumento del- l'anno 1 1 53, presso il Sarzana, p. 25 : petiam unam de terra laboratoria, in loco., qui dieitur Magognano... Fines vero terrae hee sunt\ de una vero parte., terra filiorum Guerronis de Uro-, de seeunda^ via:, de aliis vero partibus., terra sanete Marie de Buturno., posse- duta ancor oggi dalle medesime suore. Poi, nel cro- nista Tuccia: A. d. 1215. Fu serrato di muro il pia- no di s. Faustino., e fatto il muro del borgo di san Matteo^ e della chiesa di s. Marco., intorno il moni- stero di Botorno, contro le ripe., sotto il ponte Tre- molo., dove furono fatte tre porte., che oggi si chia- ma la porticella, e la porta di s. Lucia , e la porta di s. Francesco. E di nuovo: A. d. 1246: Ferono fa- re il muro di santa Maria Maddalena., insino al mu- ro sotto alla porticella, presso alle ripe del monastero 344 o)/ioi!i Letteratura. di Botorno. VA Infine, in un catalogo ultimo delle chiese viterbesi, con che si termina la più antica cro-^ naca : 5. Maria di Botorno. A tutte le quali testimo- nianze, parecchie altre non sarebbe ditlicile di ag- giungere, se fosse mestieri. Or che nome vogliara noi dire aver veramente avuto, in origine, il luogo; e come lo vogliara cre- dere primitivamente intitolata, tra le tante varian^ti d'intitolazione, quante ne adducemmo, Vutumi., de Yutunio., di Botorìw, in Volturno, de Volturno., Voi- turnae i^ Certamente ad un titolo eoovien pensare tratto dal nome dell'una o dell' altra dfelle divinità pagane, a che quelle voci, coli' evidenza del suono loro, conducono, cioè Volturno.^ o VcHunno., o final- mente Voltumna', oscurissimo nume il primo, e, a quel che sembra, osco o latino, più che etrusco (I); celebri, ed eminentemente toscani, gli altri due, se due pur sono, e non uno stésso ed identico, siccome io m'ingegnai di dimostrare in un'antico lavoro, in- serito, sòn già moltissimi anni, negli opuscoli lette- rari! di Bologna (2), che i curiosi potran quivi leg- gere. E a quella dimostrazione io non rinunzio , e l'bo- per buona, niuuo avendo incontrato che l'ab- bia fino ad ora abbattuta. Da Vertunm dunque, vale (\) Né si voglia dirmi, che questo nome appunto danno in tut- te lettere, e senza equivoco, alcune delle autorità det(e di sopra. Sono sventuratamente delle pirt recenti, e d'un tempo, quando già tra noi generalmente soperchiava la costumanza d'accostare a ca- priccio alle forme classiche le denominazioni che correvano per le bocche del popolp. (3) Su P:'oUumna principale divinila degli etruschi. Lettera al pt'of. Giambattisiia'VèViniglioli di Perugia. Opuscoli suddetti. T. L Viterbo e il suo territorio 345 a dir da Voltumna^ io mi credo in dritto d'affermare che l'aja del monistero in realtà s'intitolasse; né certo per altra ragione, se non perchè quivi a Voltunana fu sacro il suolo. Ma, se questo è, mal non ci apponiamo preten- dendo , che già quivi sedesse in antico un Fanum VoUumnae^ salvo che sarà poi da vedere fino a qual segno avesse celebrità poca o molta, e col più o me- no di questa, mostri oggi, o non mostri , meritare d'esser creduto lo stesso illustre tempio dove le gran- di adunanze politiche di tutta la nazione tosca si te- nevano ... Or d' una celebrità, per fermo, non pie • cola, sono appunto segni evidenti que' che in tanto numero poco indietro riferimmo. V'è in prima la pertinace conservazione del no'- me, rimasto con sì poco mutamento , siccome testé considerammo (più che il nome dello stesso Ercole, dio sì principale ... più che il nome della stessa Su- rina), anche a traverso di tanti secoli di rovine, e poi di cristianesimo, particolarmente avverso alle pa- gane memorie. Ma ciò è meno. Maggior forza eser- cita su me quel Faul^ misteriosamente scritto . . . misteriosamente ricevuto, nello stemma della città, nelle sue monete, ue'suoi suggelli, sopra taluna delle sue porte . . . misteriosamente applicato alla denomi- nazione d'una interna valle, e celebrato perfin come nome d'individuo. FAVL, posto a quel modo sul globo staurogra- fo, in quattro lettere separate, ognuna inscritta nell' uno de'quadranti, è chiaramente, FA . VL, cioè un' abbreviazione delle due parole Fanum Voltumnae^ ri- dotte, come spesso avviene alle due sillabe iniziali 34G Letteratura (VL essendo un ovvio compendio di VVL). E ciò è, come, agli occhi miei, per la viterbese Porta Bona- venturae (Bussi p. 24), la quale si sa che fu ancora più spesso chiamata Porta Bove^ ma non s'è vedu- to, nemmen lì, che fu così chiamata, perchè fu so- lito scriverla Porta Bo : Ve : sciolta la parola Bona^ ventiirae nelle sue due componenti, e segnata solo la prima sillaba dell'una e dell'altra. Può di leggieri credersi, che, in questa forma si trovasse, ab antico, segnato sopra i globi, o gli emi- sferi, in che si terminavano colonnette, drizzate in- torno al peribolo del tempio per notare i limiti del- l'aia sacra. Le lettere saranno state etrusche al tem- po dell'autonomia : poi, venuta meno essa , insiem coH'uso curiale della lingua della nazione, ma non venuto meno il paganesimo, e perciò il culto del nu- me, restato come dio locale, coll'eredità pur sempre d'una parte della sua vecchia fama, quel che un tem- po fu scritto in etrusco, si sarà scritto in latino, al rifar del tempio, dopo una od un' altra distruzione che le guerre non avran mancato d'operarvi (1). E già di questa fama superstite è una specie di prova il nome intero che il luogo ha ritenuto colle poche modificazioni introdottevi dall'età. Ma sostituito, più tardi, il creder cristiano, la memoria d'ogni cosa, a poco a poco, si sarà oscurata. Le colonne, e le lor (!) Così in Veio, i nuovi veienti (Orcllyn. 109) ponevano que sta lapide a restauro d'nn'antica «listriizione : fur ^ 358 Letteratura RISPEDESDECEMFISTVLISPERLATITVDI NEMPEDESSEXPERFVNDOSANTONIAN MMOREMETANTONIANVMMINOR P.TVLLIVARRONISETBALBIANVMET PHELINIANVMAVLCEICOMMODI ETPETRONIANVMP.TVLLIVARRONIS ETVOLSONIANVMHERENNIPOLYBI ETFVNDANIANVMCAETENNIPROCVLI ETCVTTOLONIANVMCORNELILATIALIS ETSERR AN VMINFERIOREMQ VINTINI ( 1) VERECVNDIETCAPITONIANVMPISTRANI CELSIETPERCREPIDINEMSINISTERIOREM VIAEPVBLICAEFERENTIENSES(sic)ETSCIRPI (2) ANVMPISTRANIAELEPIDAEETPERVIAM CASSIAMINVILLAMCALVISIANAMSVAM ITEMPERVIASLIMITESQVEPVBLIGOS EXPERMISSV S. C. La pietra è nell'acquedotto, presso il convento già da noi mentovato di s. Maria ad gradus^ propria- mente dov'era il caput aquae , al posto medesimo , dove fu collocata da principio, sotterra, entro il cu- nicolo, poco lungi da un'altra eguale , di che perà non si sono salvate che le ultime linee (3). (1) Se v'era un Fundus Serranus inferior, ve n'era dunque ui» altro superior; e così i fondi che la lapida ci fa conoscere sono do- dici, oltre alla villa Calvisiana; e questa cogli undici precedenti era in continuata serie sopra una lunghezza di cinque miglia antiche , meno 50 passi, cioè di quattro miglia e mezzo moderne. (2) Fia Ferentienses ha il sasso, dov'è facile il correggere Fé- rentiensis. E dice Ferentiensis, parlando del Ferentutn nostro, per- chè Ferentum lo dicevano, e non Ferentinum. (3] Restano questi soli versi delia fine : Viterbo e il suo territorio 359 Materialmente fu nota al Bussi (p. 25 e 59), ed antecedentemente al Mariani (p. 221), che la dicono (l'uno e l'altro) ceduta la prima volta, il 18 gen- naio 1640, in congiuntura (per servirmi delle parole dell'uno de'due scrittori) che eereavasi Vorigine delV acqua della fontana grande^ come si ha nel pubblico archivio, dal libro delle Riforme del sopraddetto an- no, p. 220. Ma tutti ne riferirono un solo brano, e così letto ! ! ! MVMMIVS . NiGER . VALERIVS . VICHIVS CONSVLES . CIVITATIS . VITERBI AQVAM . COLLIS . QVINTIANI ... . . . . ANNO . DCCCGLI . .. > j-j^ Certo credevano dovervi a questo modo leggere, se- guitando una tradizione vecchia, secondo la quale, il luogo del trovamento chiaraavasi in Quintiano , anzi anche in Quintanione (Bussi p. 28 e 139, e Ma- riani p. 221) (1), e quel che l' occhio non sapeva . . . ALISEI . . . SISETSCIRPI STRANIAELEP1DAE ET PER VIAM CASSI AM IN VILLAM SVAM CALVISIANAM ITEMPERVIASLIMIT . . QVEPVBLICOSEXPERMISSV (1) Frequentissima è la menzione di questo Quintianutn nelle carte del medio evo, relative a Viterbo. É detto or Casale Quintia- Hum, or vicus Quintianus, or così, in vico et casale Quintiano, or semplicemente Quintianum. Qualche volta è vicus Quinzanus , e Quinzanum. Un'altra volta è in vico, vel in casale Quintanione, do- ve il vel, secondo la latinità di que'tempi s'avverta che vale et. E quest'ultima variante m'aveva appunto fatto preferire nella iscri- zione di Mummio (linn. 4, IS, 16) Anionano, ed Anionianum ad Antoniano ed Antonianum, per la ipotesi che il fondo così oomi- 360 Oiflona; LBTTERATURÌ>a^ìr'"7 vedere si sfoi*zava di vederlo la FaiUasra. Noi dalla iscrizione genuina dedurremo intanto quasi la for- mazione della carta topografica d'una lunga striscia di suolo, spartita tra nove patròni , e cominciante uh trecento passi al di sopra dell'odierna porta ro- màna, per finire a mezza strada di Montefiascone , alle radici di Monteiugo. Ma ne dedurremo altresì ìa notizia della sfrada Ferentiense, che verso restremi- tà di sì fatta striscia correa per traverso a riunirsi colla Cassia. E ne dedurremo tra più nomi d'anti- chi inquilini, o possessori di suòlo:, alcun p de'quali assai cospicui , la manifestata esistenza d' una villa già Calvisiana^ divenuta poi proprietà del nostro Vi- geto, nel suolo delle più note' acque Passeriane: villa che col casato donde denominossi ci richiama all' idea più d'un illustre Calvisio, congiunto con altis- sime afiinità , ed altri legami di sangue, anche alle case imperiati. '-' <>juyiijoy«/ij bo o^joul li E qui molte altre belle pài^Èicòlarità i!>6Vrébbèt'tf apprendersi dall'esame assunto dell'epigrafe; ma bi- sognerebbe perciò, ed essere il celebre, altrove lo- dato, Bartolommeo Borghesi, e dimorare in Viterbo, ed aver gioventù ed ozio per iscorrere con indefes^ so piede la campagna, come e quanto fosse d'uopo. nàto avesse preso il nome da un Quinto Antonio. Il Bussi , no- tammo altrove, che dà anche la variante Pinzano. Tutti lian sempre creduto che il luogo fosse, appunto sopra la chiesa di Gradi, al ponte, o presso il ponte. Vedi Regestum Farfense (nella Vaticana) n. 161 (a. 790), 194 (a. 805), 195 (stesso anno), 300 (a. 841), 348 (a. 881), 362 (a. 892), 421 (a. 963). V. inoltre la lettera di Leone PP. IV. ad Firumbonum ep. Tustan. (a. 847); e il Cronico Farfense presso il Muratori, Scripl. Rer. Italie. T. 2, p. 2, col. 409 ec. Viterbo e il suo territorio 361 Io essendo io, e non quel ch'esser dovrei e vorrei per tanta opera, e stando in Ronna donde mal posso discostarmi, poco valjjo a fecondare le parole per me morte , e a far palesi i luoghi perduti. Posso però conchiudere, dicendo colla bocca del Borghesi, che Valerio Vigeto non dee guari ayer posto que- sta lapide, .se non verso la fine del IX secolo di Ro- mìa, quando già, da parecchi secoli, qui il più della losca città era una devastazione, ed il gruppo di ca- se rimastovi in piede già non formava che un bor- go, e qualche tempio. Sic transit gloria mundi, i fi'ioiifi tfduij i)'j(j«/i i)?:èo eh CTsJoq aria éjiììd ■ ■VMM o ^'r -'^ '■ -■■'■■■■■■■■■ • ib oifUiRìcapitolazione delle cose finor discorse. Viterbo longobardica. Il Vico Sonsa, ed altri Vici, e Casali. Civitas sancii Vajentinù^ij ì;;^aijl oooq ^onoieoiiddcì Jbae ilidsJe oiebaoì lu» ni Or venuti al termine di quel che ci è slato le- cito mettere insieme intorno al primo, ed al secondo periodo della Storia di Surina o Surna, e sì dell'an- tica, che della rinnovata, raccogliamo le vele, e nel raccorle, qualche altro nonnulla vegnarao aggiun-j gendo, fatto d'ogni cosa un epilogo. Per cominciare da quel che in antico narravasi, ed opinavasi dell'età mitica, gli etruschi, cioè i rase- ni, eransi condotti appena tra i pelasgi, che misti ad aborigeni abitavano vicatim le campagne nostre, tutte bosco dalla cima al piede della montagna , e tutte pascoli, con alcuna seminagione nella pianura, quan- do favoleggiavasi, che vi capitò Ercole (sopranno- minato Cavano o Craneì ) dopo la vittoria contro a 362 Letteratura Carufone in Ispagna, recatasi dietro la preda del no-» bile armento; e questo circa XII secoli innanzi alla nostra era, se il computo almeno s'instituisce a uso toscano. I popoli circomciminii erano adunati a una festa, e s'esercitavano al palo. Banchettarono amichevol- mente l'eroe, lo invitarono ai giuochi loro, e lo pre- garono d'uno sperimento di forza. Egli vinse tuttiv Piantato da ultimo in terra con impeto il ferreo stiro^ sfidò i suoi competitori a trarnelo. E niuno essendo riuscito, lo trasse il figliuolo di Giove con quella fa- cilità che poteva da esso aspettarsi , ed ebbe allora principio il Placane o Bulicame. Partito Ercole-Carano restò in venerazione il sa- cro palo. I testimoni dell'alto fatto, specialmente di sangue tosco, cbe padroni, allora allora, della con- trada, perchè recentemente arrivati di Meonia, erano in sul fondare stabili sedi, fabbricarono, poco lungi dall'area del prodigio, una città, e in questa città un tempio ad Ercole. A suro., vel suri la chiamaron 5w- rina^ e per compendio Surna, e diedero al ruscello, che le correva sotto, il nome di Surnsa. S'istituiro- no annue feste, e giuochi a imitazione di que'pri- rai. Gli aquilegi toschi amarono trar di quinci l'o- rigine del trovar acque per mezzo di fori artificial- mente fatti nella terra (1). (1) Curioso è che Paolo e Feslo (6. v. TuUios) dicono i zam- pilli d'acqua {vehementes proiectiones) essersi in antico anche «letti silani. Silani non differisce da sulani, e sulani da surani. Viterbo ha poi sempre avuto di si fatti silani o surani. Di qui ciò che scrìve Lodovico Pasino (De Baln. p. 201 retro). Apud Viterbiuni ... Ealneum est nove*, vel nauseae, vel laves . . . Ad distantiam vero k Viterbo e il suo territorio 363 Tagete, il fanciullo rivelatore, intanto (in mezzo al solco primigenio^ vale a dire in mezzo al solco il quale il re stampava ei stesso nel suolo quando vuo- lea segnare il giro d'una città nuova, o in mezzo all'uno de'solchi del regio campicciuolo. che arava ei medesimo, come l'imperador della Cina, per dar esempio a'soggetti del pregio in che teneva l'agri- coltura) s'era manifestato a Tarconte fondatore di Tarquinia. Il sapiente fanciullo , o il saggio nano, aveva dato a' Raseni i religiosi e politici precetti. Le leggi della lega erano state fatte. Bisognava tro- vare un luogo adatto alle adunanze di tutti, libero e indipendente, e fu scelta Surina, fabbricatovi all' esterno , dopo il pomerio, il fanum Vultumnae in ter- ren consacrato, che da indi in là divenne la sede degli annui concilii, nella occasione de'quali grande era la solennità, grande il concorso de'forestieri e de' decem. cubilorum duo foramina terram erumpunt; quorum unum di- stai ab alio per unum cubitum -. foramina autem aliquanto Iribus digilis latiora sunt, e quibus prosilit aqua extra foramen quatuor digilis. Aquam amborum [oraminum tetigi decies in una hora. Mi- rabile dictu ! allerum erat calidissimum, allerum frigidissimum, et extra foramen prosiliebat frigidissima aqua; et hora erat XX, dum ibi essem sub ardenlissimo sole etc (Era il 29 luglio del 1553). 11 deUo Pasino seguita ivi raccontando, come ito a Roma non si potè ritenere dal parlarne a Papa Clemente VII , ed ebbe con esso di- sputa sulle cagioni astrologiche del prodigio, finché il pontefice fé scriverne per la verificazione a maestro Marcantonio Turino viter- bese, che rispose tutto esser vero. Adesso le due fonti non ci son più, ch'io mi sappia, e io non ve l'ho mai viste. Sono invece due altre all'Acqua rossa: una soprammodo mineralizzata dall'acido car- bonico, l'altra dolce, e potabile, quivi pure sì vicine tra loro che stendendo le due braccia si giunge presso a poco a toccare i l'ori donde sgorgano in abbondanza. 364 Letteratura mercatanti, splendida la pompa de'pubbliei tratteni- menti e passatempi. Due maggiori strade vi si aggiunsero. Una da mezzogiorno a settentrione, l'altra da ponente a le- vante, o presso a poco (il kardo^ e il decumanus)^ oltre a molte altre minori, che tutte mettevano in fa- cile comunicazione tra loro il celebre tempio caa Cere, Tarquinia, Velo, Faleria, Gapena, Vulci, Sal- pino, Vulsinio, Perusia, gli altri cantoni posti più lungi; la non remota Umbria, e Sabina, e il più lontano Lazio ; il tempio Vulsiniense di Nurtia , il sacro laghetto di Vadimone , e forse altri Santuari! più o meno illustri. Così durò, sinché infine la potenza etrusca noa cominciò a venir manco, assalita da quattro parti , da greci italioti, e poscia ancora da cartaginesi, per mare; da galli cisalpini verso levante e settentrione, e da romani verso mezzogiorno. Certo è che l'ulti- ma memoria, la quale se ne incontri, è del 364 di Roma, 388 anni avanti la nostra era, quando Etru- ria tutta fu sopra Sutri già romana, essendo ditta- tore M. Furio Cammillo, e maestro de'cavalieri C. Servilio Ahala. Si potrebbe credere, che fosse distrutta l'anno seguente , quando i romani devastarono il distretto tarquiniese, da Sutri fino al lago di Bolsena, nel suo confine occidentale , dove si sa che smantellarono quella Cornosa, e quella Contenebra, di che già par- lammo (1). Ma fano di Voltumna era tale, che, se (."iii.ii «)/. (1) Di Cornuosà ho già deW-o. Contenebra lo direi nome cor- rono anch'esso in Tito Livio (VI, 4); e lo leggerei Cortenetra, fatt?» Viterbo e il suo territorio 365 àvesser ciò fatto, non era impresa da non aveine par- lato nella storia, meglio che de'due paesucci testé ri- cordali. Probabilmente non la toccarono, come luo- go sacro; e con più probabilità ancora, perchè pare, che, nell'anno precedente, cogli altri etruschi aves- sero fatto tregua , e che la guerra si fosse ridotta contro a'soli tarquiniesi, de'quali Fanum Voltumnae non era, se le cose da me discorse valgon punto. E nondimeno è certo che ha da essere stata di- strutta, perchè, da indi in là, ben si trova menzione di concini di tutta l'Etruria, ma il nostro fano non è più nominato , comechè le guerre comincino ad essere trasciminie e succiminie. Laonde io mi credo permesso il dedurre da ciò, che la distruzione debba esser provenuta, non da'romani, ma forse dai galli, i quali, appunto verso que'tempi, più volte, tutta 1' Etruria corsero , mettendola largamente a sacco ed a distruzione (1): perchè, spregiatori delle cose uma- ne e delle divine d'ogni popolo d'altra stirpe , non è maraviglia, se non si saran fatto scrupolo di trat- tare città e tempio, come trattarono Roma, e i suoi santuarii . Così Surina venne meno, e d'allora in poi l'an- tico nome si perde. Forse si conservò tra i soli to- scani. Certo, quando, poco stante, i romani più fre- quentemente passeggiarono quel suolo, e ne diven- €Osi latina dall' etrusco Curtnetra, che significherebbe allora Cur- tnusa altera, ossia ìiova, e farebbe saperci che le due castella erano due fondazioni tra loro vicine l'una all'altra, ma olire a ciò deri- vate ancora l'una dall'altra. (1) V. Niebuhr, Hisl. lìom. (rad- frane, de Golbery. Bruxel. 1838. T. HI. p. 67 e seg. 366 Letteratura nero, in breve, padroni, diedero al rovinato paese il nome di Veturhium., Veturvum^ Vetervum., Viterhhim. Gli abitatori antichi, o que'che avanzarono alle ro- vine, non tutti però si dispersero. I più si congre- garono vicino al Bulicame, e fondarono, per amore de'bagni, una Surrina Nova^ richiamate in pregio le aquae Surrinenses^ formando così un municipio che tra breve divenne latino di costumi e di lingua. Il nome allora di Surnsa^ cangiossi nell'altro di addolcita pronunzia, Sunsa^ pel fiumicello. I templi d'Ercole e di Voltumna furono, per venerazione, ri- parati alla meglio. Il resto de'ruderi, e l'immediate adiacenze presto vennero in potere d'alcuna romana potente famiglia, e costituiron ciò che poi chiamossi Massa Vetervensis e Velernensis. Alla quale famiglia, o ad una delle famiglie eredi della Massa^ dovette ap- partenere il palagio, delle cui rovine favellammo; e non so se il mausoleo, posto che fosse cosa romana piuttosto che etrusca. E qui dovette dimorare, colla successione de'tempi, alcuna stagione, Costanzo^ fi- gliuolo di Costanzo Cloro imperatore, con Galla sua moglie. Qui nacque Gallo Cesare. Qui probabilmente suo fratello Giuliano., poscia imperadore anch'esso no- tissimo sotto il nome d'Apostata. Qui Costantino stesso soprannominato il grande non può non aver avuto almen frequente pratica. Qui Vulcazio Rufino, pre- fetto del pretorio; Nerazio Cereale prefetto di Roma; probabilmente anche Vulcazio Gallicano, uno degli scrittori della storia Augusta... Ma molti degli antichi abitatori, amo credere, che nel tempo della distruzione, scampati da quella, si riparassero più fuori di strada, e fabbricassero Vi' Viterbo e il suo territorio 367 torchiano^ s' ella è buona etimologia quella che mi par di veder sotto quest'ultimo nome ; per la quale i Veturbiciam, detti prima, col solito amor delle con- trazioni, Veturbciani, e indi VUureiani^ avrebber foi'- malo un Vitiircianum, chiamato in ultimo Viturcla- num; checché sia poi della più volgata opinione, che questo Viturelanum vuol niente altro essere, se non una storpiatura d'un vocabolo che fu Vicus Orcla- nus^ per la ragione d'un passo che riferiremo altro- ve, relativo all'abbandono d'Orda e ad un trasporto de'cittadini di questa, appunto nel qui nominato ca-r stello, il 15 del novembre 1435; come se non pree- sistesse già esso Vitorchiano , da molti secoli , a sì fatto accrescimento di popolazione, e come se la pro- babilità d'avergli dato i primi coloni non fosse piut- tosto per gli assai più vicini desertopi della vecchia Surrina, che pe'lontani cittadini d' Orda , de' quali niuno ha scritto, che, fino da più antico tempo, 1' avessero una prima volta abbandonata, in tutto o in parte, per cercar sì lungi un' altra sede. Solo è da considerare , che il qui discorso nome è di latina forma, non d'etrusca, e perciò al tempo della domi- nazione romana dev'esser nato : ciocché ci condur- rebbe a pensare ad una fondazione un po' più re- cente, quando già Roma e la latinità signoreggiava- no in queste contrade. Laonde una seconda catastro- fe di più bassa età è mestieri piuttosto supporre, co- mune forse alla rinnovata Surrina, ed alla Massa Ve-^ tervensìs^ antecedente di poco alla irruzione longo- bardica, ed accaduta dopoché, anche in Vetervum , tanto era tornato d'abitatori o di coloni, che, fug- jjiti più lungi, abbian potuto fabbricare il nuovo ca-» 368 oigoTiji Letteratura stello testé detto; e ciò dev'essere stato la catastrofe che pur c'indica l'incendiato palagio, del quale più volte parlammo, e la natura de'sepolti e de'sepolcri^ trovati nel terreno accumulatovi sopra. Perchè la prosperità della città ripristinata presso i bagni , nemmen essa durò intemerata e perenne. Sorrise la sorte alcuni secoli ; e si coperse allora il suolo di begli edifizi; e multiplicarono le fabbriche alle terme, ed altre dentro l' aia cerchiata di mu- ra, o all'intorno, e lungo la Cassia. Finalmente però, al cominciare, ed al frequente rinnovarsi delle incur- sioni de'barbari, forse nel chiudersi del V secolo di nostra era, od al più nell' entrare del VI , fu ogni cosa, quivi e nelle adiacenze, devastata un'altra vol- ta, e messa a soqquadro. E un'altra dispersione ten- ne a ciò dietro pe'miseri abitatori delle contrade no- stre; donde, a que'dì, s'io non sono in errore, denno avere avuto nascimento, Bagnaia (Balnearia) dai fug- gia^hi de'bagni (?) (1); Surianum^ che per Surnia- num^ cioè Surinianum, dai dispersi di Surna o Su- rina, iti a rifugio nel più erto del monte (?); Vetrai' la, quasi a Veteralibus, vale a dire dagli adunati a nuovo Comune, dopo le rovine delle più vecchie ter- re di Vicus Matrini, di Forum Cassii, e di tutto quel distretto (?); né vorrò poi contrastare con chi que- ste cose men certe ami non credere. Ma la morte non era senza resurrezione. In sul terminare del secolo VI, o nel principio del seguen- (1) Nondimeno giova ricortlarCj che, in una pergamena farfense (Regest. n. 421 a. 963), relativa ad un Cardone de vico fofp^ano ter- ritorit Beterbensis, parlasi d'una terra Leonis de Bangaria, che dee «jui valere di Bagnaia, per posposizione viziosa della g alla n. Viterbo e il suo terri torio 369 te, dilatatisi i longobardi colle conquiste sino alla Giminia catena, e guadagnatala al loro intero e fer- mo dominio, trovarono esser bene fortificarvisi con- tra il ducato romano, restato un annesso dell'impero greco, e ristorarono l'acropoli (arcem) de'primi sor- rinesi, conservatole il nuovo nome; e a questo modo s'ebbe il castellum^ o il castrum Veterbense, o Viterbi^ detto anche più tardi, appresso ad ultimi accresci- menti suoi, civitas Viterbi , con intendimento , che avesse ad essere una rocca guarnita di soldatesche, pronte a ogni bisogno di difesa o d'offesa, dal lato di questa importante lor marca (1), a cavallo della strada principale che dalla Tuscia va a Roma. Cosi la nuova Viterbo fu, da questa parte, co- me una delle chiavi di lombardia e de' greci posse- dimenti; e si concorda ciò col poco che ci è rima- sto di quella storia : conciossiachè qui si agitarono in parte alcune delle querele di papa Zaccheria, e di papa Adriano con Astolfo e con Desiderio re de' longobardi (2), in pien secolo VII. Laonde, non più bastando, all'importanza crescente d'un così fatto po- sto militare, il troppo ristretto spazio, che il castel d' Ercole dava, ebber fin d'allora l'origin loro borghi suburbani, ed altri più discosti, ma compresi nel ter- ritorio, i primi de'quali dovevan poi più tardi for- (1) Marchia tuscana è infatti detta, per es., in un dociiinenlo \ Farfense dei Regestum n. 844, all'a. 1048, dove l'abbate Benedetto accenna in essa Marca alcune terre, che il suo monastero vi pos- sedeva. (2) V. presso Anastasio bibliotecario la vita dello stesso Zac- cheria o d'Adriano suddetto, che su molti particolari ne favella; e i falli del 783 e degli anni seguenti. G.A.T.CXVII. 24 370 Letteratura mare il nucleo della città odierna, quando, eaduti i re di Pavia, e passato il dominare de'franchi, e de- gl'imperadori che ne raccolsero l'eredità, nasceva il Comune, con leggi, or di soggezione a tiranni, or al papa, or di repubblica piti o meno indipendente, o più o meno autonoma. E noterò altrove quel che si sa d'alcuni tra essi borghi o subborghi, secondo che la memoria n'è re- stata. Qui, per saggio, parlerò d'uno, addossato, sic- come pur sembra, nel suburbio quale allor dovette essere, al fiumicello ch'io mi studiai di provare es- sersi chiamato Sonsa^ o Sunsa , e che appunto dal fiumicello sembra esso ancora aver preso il nome sotto il quale lo conosciamo (1) Tutto dice essere stato il medesimo lungo l'odier- na Svolta^ cioè dove oggi è il centro della nuova Vi- terbo, presso alla chiesa che chiamiamo di s. Matteo; né le autorità mancano a provar che fu, e dove fu. Quanto alla prova dell'esistenza , resti pur da parte, come d'incerto valore, il n. 226 del tante vol- te lodato Regestum^ dove, al cominciare del secolo Vili, Gualperto, marito d'Anstruda, chiede all'abbate Benedetto l'usufrutto d'una porzione de' beni , già donati al monastero, e tra questi, in castro Viterhi easam^ et easam in Sulsa (sic), eum horto et vinea^ et arboribiis suis^ quantum ibi in Sulsa habuimus : e di- co, resti da parte, perchè il passo può essere inter- pretato come relativo a una nuda campagna così de- (J) Quando non vogliasi capovolgere il ragionamento, dicendo, il sobborgo aver dato il nome al fiumicello, piuttostochè il fiumicel- lo al sobborgo: cìoccliè, in ultim'analisi, è questione di poco rao- meulo. Viterbo e il suo territorio 371 nominata dal fosso , piuttostochè a un borgo. E si trascuri non meno , per la ragione medesima , nel registro del monastero del Monte Amiata in Tosca- na, il rogito dell'a. 823 , n." 87, dove Valperto di Rofano (territorio viterbese) vende a que' monaci , omnia bona suaiuxta castrum,quod vocantur Biter- bum, scilket in Sumpsa (1). Ma toglie ogni difficoltà, nel catalogo di Farfa, il n.° 188 dell'a. 797, che già noi citammo nella prova 6.* ralativa a Surrina nova; posto che quivi espressamense Alticauso, abitator di Foffiano, nomina Casalem Sunsam. E, nello stesso ca- talogo, il n.° 421, dell'a. 963, dove l'abbate Adamo concambia con Cardone, figlio della bo: me: di Sil- vestro Scabino de Vico Fo/fiano territorii belerbensis , una pezza di terra , quae reiacet in Casale Sunsa , tota in circuilu pertiearum trecentarmn:, et habet fines ipsa terra : de una parte vinea scae Mariae. De alia parte terra Tedmarii Scabini^ et de eius consortibus. De tertia parte vineae quae fuerunt scae Mariae. De quarta parte terra quae fuit Leonis de Bangaria (po- co fa mentovato). A che si deve aggiungere, a re- (1) Dee questi essere quel medesimo Gualipertus, (llius bonae memoriae Pranduli de Rofano, il quale (nel Reg. Fari', n. 245), sei anni prima, al monastero sabino aveva clonato, sortem . . de cascale fraganiano, e un'altra in casale herininno . . territorio P'eterbensi, con atto rogato in Rofano, in curte suprascripti Gualiperti, da quel medesimo Luminoso notaio (detto però ivi Limmosus, e dee legger- si Liminosus) che rogò la carta Amiatina; della quale debbo la no- tizia, in parte al Turriozzi nel suo libro sulla capitale de' tusca- niensì, in parte al celebre sig. C. Troia : poiché non sono ancora potuto andare alla biblioteca di s. Croce in Gerusalemme per pe- ccare nulla originale tonte donde ambidue trassero quel che qui so- pra è detto. 372 LEtTERATURÀ lazione del Turriozzi (Op. cit.), dal Registro Amia- tino, un contratto, dove a Tibinto cede l'abbate in enfiteusi, nel paese nostro, l'a. 831, la roba venduta da Adimagiso, qui fuit àbitaior in bicu, qui dicitur Sonsa; ed anzi ancora un altro contratto, dello stesso registro (n." 101 a. 828), indicatomi dall'egregio Troia nominato dianzi, dove Andualdo abbate concede, in livello, a Gisone del Vico Conso (che dev'esser Sonso) una casa in finibus Viterbi; e finalmente , di nuovo dal Reg. Farfense , il viterbese documento n." 238 (a. 816), dove come testimonio segna il suo nome un Teopertus de Sonsa : donde si fa omai manifesto a chicchesia, che, fuori, dunque, del Castrum longo- bardico, e nel territorio, il quale stende vaglisi intor- no, già in realtà, qualche secolo prima del 1000, sor- geva un casale, o viciis, detto Sumsa^ Sonsa^ o Sun- sa] cioè un raduno di case, abitate, per lo manco, da coltivatori delle terre connesse. Quanto indi al luogo dove fosse questo vico , niun negherà non altrove dover essere stato , che lungo, e presso, l'omonimo fiumicello : ma, perchè ciò non indicherebbe quanto basta il sito preciso , giovi ricordare quel tratto citato di sopra, iuxta ca- strimi^ quod vocatur Viterbum\ e considerando poscia, come non s'è mai perduta la memoria , d'una parte della città odierna, alla quale il nome di Sonsa at- taccossi, mi si conceda esser quivi e non altrove da stabilire la cercata sede. E per vero non, qui pure, a caso Annio, che non ne sapeva la significazione, e non la vedeva , par- lando ne'suoi commentarii, delle regioni di Viterbo, pone per prima parte della sua sognata Vetulonia Viterbo e il suo territorio 373 (una di queste regioni a suo dire) Susa, seu equestris, ubi Astures (com' egli ama fantasticare).^ seu domini equestres, et quadrigarum^ ut Cecinna. Finitima Vol- turnae eius regio, sub podio dicto Seddie: perchè que- sta Susa ch'ei noma non altra può essere se non la nostra Sonsa^ certo con nome preso dal fossatello che prossimamente la bagna, ma pur tal nome che dal fossatello erasi diffuso alla contrada, e per conse- guente alle case, le quali debbono in diversi tempi esservi state sopra. Se non che la denominazione par si dilatasse anche alla sponda opposta, cioè a quella dov'oggi è la principale strada dell'accresciuta città, strada che noi chiamiamo la svolta. Imperciocché scrive il cro- nista luzzo all'a. 1084: De poi vennero grande quan- tità de lombardi,, homini nobili, savii et gagliardi, et edificarono una strada dal detto castello (d' Ercole) , insino la porta de Soma . . . et impopularo di case, et famiglie ... Et fu la detta cipta chiusa de mura de intorno nel 1095. Et fu la detta cipta edificata sotto pianeta de Marte, attiua e passiua , et in cir- cuito miglio 5, et passi 434 (esagerazione , ed ana- cronismo). Dove non è a dire, che il luogo di que- sta porta ci sia sconosciuto, mentre ne resta la me- moria in pietra , lateralmente al sito, in che un gior- no era, qual, per altra parte, il medesimo cronista ce l'ha trasmessa , seguitando così il racconto : Et nota, che depoi la morte de detto Federico fu eletto imperatore lo detto Arrigo figliuolo del detto Federi- co Barbarossa.) et in nel detto tempo fu posto sopra la porta de Viterbo uno petaffio, che deciva^ cioè alla porta de sancto Matteo de Soma : 374 Letteratura Nomine Sonza vocoì\ fulgentis porta Viterhì. Est mihi grande decus, et fungor honore peremni. Omnis enim qui servili sub lege gravatur. Si civis meus extìterit liber deputatur. Maximus Henricus Caesar mihi contulit istud (1). A maggiore schiarimento del qual passo, rimane inol- tre ancor oggi , in un colla qui detta epigrafe in marmo, un'altra del seguente tenore : Anno ah incarnatione Domini MLXXXXIX, haec porta f andata est^ praesidenle domino Pascali Papa^ im- perante Enrico^ perfecta vero est tempore domini Eugenii Papae. Edificatores fuere Rainerius Min- cio et Petrus, ex praescripto Consulum , et totiu& populi. Gotifredus dictavit. Rolandus sculpsit. Donde mi par legittimo il dedurre , che la lapide d'Enrico IV vi fu messa subito, giacché, quando la porta si finiva sotto Eugenio III , dilficilmente mi piego a credere che si sarebbe lasciato porvela. Da ultimo, finirò notando siccome da quel tem- po, non pure essa porta divenne la più onorata della città, ma la strada inoltre che ricongiungevala al ca- ste! d'Ercole fu di buon'ora, ella slessa considerata (1] Così stampava il Bussi pag. 102 : ma certo manca un verso che ora, non avendo sott'occhio, né il cronista, né la pietra, noa posso restituire. E dev'essere un verso, dove ridncendosi il senso a compimento, dicevasi, che, col solo passare sotto a quella porta, o col solo rientrar da quella porta, il nativo di Viterbo, qui sei'vili sub lege gravatur, per privilegio d'Enrico tornavo libero. Viterbo e il suo territobio 375 come primaria tra tutte; giacché si legge nello sta- tuto del 1251 (cart. 71): Quod sfrata vadat a porta Suze usque ad portam vallis. Statuimus , quod sfrata vadat a porta Sunse ad portam vallis (alludendosi a un prolungamento lunghesso il caste! d'Ercole, fino all'estremo opposto del colle); et si quis duxerit pelegri- num, qui per aliam stratam vadat, puniatur in XX solidis, quocumque denuntiante, cuius pene medietatem habeat demmtiator, reliquum communi applicetur. E a cart. 12 : Quod grondane debeant poni sub terra, quae sunt a porta Sunse (vedi perfezionamento an- tico ). Grondane quae sunt a porta Suze^ usque ad domum insigne (sic) ubi sunt private (i privati, cioè le latrine), mittantur sub terra in fossatum sub ec- clesia sancii Egidii^ espensis illorum qui habent ibi privatas; et quod nullus turpitudinem faciat in dieta grondaria. E a cart. 18: /)e pena proicieniis turpitU' dinem in Cursum sancii Matthei de Sueza. Quieum- que fecerit turpitudinem ante cursum sei Matthei , in loco qui est iuxta portam Sunse^ per baliuos uiarum puniatur in 1 1 solidis. Medietas sit accusatoris, seu denuntiatoris^ et alia baliuorum... Sia dunque la conclusione (chiesto prima per- dono d'essermi lasciato andare, seguitando l'oppor- tunità, dove r invito di certe accessorie jnotizie mi strascinava), che, in fatto, il pome della Sonsa borgo, non solo mai non si perdette, ma restato vivo nella reminiscenza degli uomini, e ne'monumenti, recòse- co insieme, e conservò, la memoria de'luoghi cosi denominati; e ciò, o in quel che è detto della con- trada Susa, o in quello che della porta Soma, o in quell'altro che della chiesa di s. Matteo di Sonza; e 376 LeTÌER ATURA avrei potuto anche aggiungere , di s. Giovannf di Sonsa (Conferma de'beni e privilegi, data al mona- stero di Monte Amiata da Innocenzo III l'a. 1198, presso il Turriozzi), come per farci bene accorti di tutto che giovi a esserci guida nella ricerca la quale ci siam proposta . . . Ed eccoci ornai condotti al confine de'tempi mo- derni, dove le nostre presenti ricerche debbono aver termine. Pertanto, non io seguiterò faticosamente rac- cogliendo quel più che può riguardare i fatti no- stri interiori finché durò il regno de'longobardi; né quelli che succedettero da Carlomagno in qua sino al X nostro secolo, e indi sotto agl'imperatori Otto- ni, e agli altri che 1' eredità ne raccolsero. Questa parte d'oscurissima storia vorrebbe nuove e più la- boriose ricerche, alle quali, se vita ancor mi resti, non mi ricuso. E già ho materiali molti, ed inediti, che vedranno la luce quando che sia , se pur po- tranno vederla. Grandi cose infatti ho raccolto, ne' manoscritti delle biblioteche, e nelle pergamene degli archivi. Qui la sola topografia doveva occuparmi, che ho trattata, per tutti i tempi, che m'era prefisso di scorrere, a quel meno miperfetto modo eh' io seppi e potei. Senza dubbio sopra alcuni punti bisognerà tornarvi. Alcune cose correggerò io stesso. Altre cor- reggeranno altri. Molte ^pero, che non saranno cor- rette. Intanto, prima d'ammainar le vele, un ultimo capitolo aggiungerò , per dilucidare certa difficoltà della corografia nostra, alla quale niun sin qui aveva posto mente, e valgami l'indulgenza altrui per leg- gerlo , nonostante la noia necessaria compagna di questa specie di discussioni e d'indagini. Viterbo e il suo territorio 377 Vili. Vegezia. Il fonte Sipale. Le rivalità con Roma. Epilogo. E noto, che una voce del medio evo, per più bocche arrivata fino all'età nostra, riferisce che Vi- terbo, tra molli nomi che da uno o da un altro si regfistrarono, si trova ancora chiamata, in un certo periodo di tempo, Vegentia, Veiuzza^ città Vegetana, o poco diversamente di così. Nel Villani per es. (Istor. Fiorent, lib. I.cap. 51) si ha : La città di Viterbo fu fatta per li romani an- ticamente, et fu chiamata Vegentia., et li cittadini Ve- getani^ ciocché è ripetuto nel Pecorone dello stesso autore (Giorn. XVII. Novell. 1), colla .«ola variante non buona di Vergetia (secondo almeno l'edizione che ho sott'occhio), in luogo della parola posta qui sopra. In Faccio degli liberti (Dittam. Ven. MCCCCC, lib. Ili, cap. 10): De Viterbo or seguita ch'io dica, Che nel principio Veghienza fu detta. Sin al tempo che a Roma fu nemica'^ 0 come scrive il Bussi (pag. 27): Seguita or che di Viterbo io dica., Che nel principio fu Veiuzza detta^ E fu insin che Roma i fò nemica. 378 Letteratura Presso Annio, ne'commentarii ec : Pars quarta (Vìterbii) Sypalis, a magna fonte usque ad Yetuletum. Dicunt eiiam Yeiuzzam. A'quali testi aggiungo un ultimo di Ciprian Ma- nente (Hist. d' Orvieto. Vineg. presso il Giolito: a. 1561, pag. 7). A. 966: In quello anno essendosi par- tilo dall' Italia Ottone imperatore^ Crescentio Consolo e signore di Roma discacciò Papa Gregorio F, e sol- levò quasi tutta Roma e Campagna, et il Patrimonio, volendo ripigliare la libertà, et fece fare Papa Gio- vanni illegittimamente, onde Papa Gregorio V se ne fuggì nella città Velie, itana , con parte della corte et tenne Orti, et altri luochi del patrimonio in difesa sua e della chiesa. Perchè non par che qui possa inten- dersi per città Vehentana, né Veio, né altro luogo troppo vicino a Crescenzio, ed al centro della rivol- ta, ma sì un luogo come Viterbo, vicino ad Orla, e più riparato da improvvisi assalti. Ora io non trovo altra ipotesi atta a spiegare questo singolare mutamento di denominazione attri- buito alla città capo-luogo del Patrimonio, la quale, per troppe altre autorità, sappiamo intanto che in nessun tempo perdette il suo nome antico, se non pensare che quivi si parli non propriamente del Ca- strum Viterbi, o vogliasi dire della città longobardi- ca, succeduta nel luogo di Surrena la vecchia , o della sua rocca, e poi connessa, pressoché sempre , co'destini di Toscana, secondo che questi si venivan cambiando, ma sì bene d'un secondo castello (di ra- gione romana senza controversia ) posto dirimpetto a quel primo, e quasi a contatto di esso, facilmente perciò confondibile con quello; e ciò che me lo per- suade è questo che Juzzo registra all'a. 1080: Viterbo e il suo territorio 379 Essendo^ egli dice, Roma grande et magna cer- cavano ( i romani ) sottomettere il castello rf' Ercole (che co'toscani tenea pur sempre, e con Roma lot- tava), et non potendo averlo^ li fecero una bastia, dov' è oggi la chiesa di san Sisto , et durò la detta per insino che Arezzo fu scaricata da romani co il brac- cio deWimperadore Arrigo III (leggi IV ). E indi: a. 1084: Li aretini fecero continua guerra a Roma. Si ridussero al Castel d'Ercole, et per forza piglia- ro la bastìa de'romani, et edificaro sopra il detto ca- stello due borghi., a sancto Pietro l'uno per la strada romana, V altro verso sancto Pellegrino, chiamossi bor- go lungo, et multipUcanno populi assai nel detto luo- co, fecero assai torri per difendersi da romani:) traile quali genti furono assai ceptadinì de Tivoli in quello tempo nemici de romani', et per questo se dice, che di poi el corpo della cipta fu appellata Viterbo, e tensi per li homini valenti, che quelli Fibulesi (1. Tibulesi) posero questo nome Viterbo, Vi Tibure. Imperciocché chi non vede, che, ne' precedenti passi, quantunque un po'troppo laconici, e scritti in un tempo troppo posteriore a'fatti ivi raccontati , e perciò non esenti da qualche vizio di confusione de' tempi, de'nomi, e probabilmente delle circostanze, è però discorso di qualche cosa che i romani fecero, simile a quello che già i padri loro avevan fatto presso Veio, cioè d'un castello fortificato, come un tempo i Fabii sul Cremerà, dove, messa una guar- nigione permanente, stavano a offesa e guardia con- tinua contro a' viterbesi; gli uni sempre a fronte de- gli altri , e sempre in sul farsi reciprocamente il peggio che potessero ? 380 Letteratura Juzzo (o Gotofredo, o Lancellotto di cui siano le notizie ch'ei tradusse in volgare) , si contentò di chiamare bastìa^ con nome appellativo , il castello ; e non ci ha taciuto il luogo dove sorgeva. Sorgeva dove oggi è la chiesa di san Sisto ^ dice espressamente il cronista; e aggiunge Annio, come vedemmo (quan- tunque niente pensasse di quanto slam per dire), che uno aveva de'suoì termini alla oggi detta Fontana grande^ o del Sipale^ fontana non però sempre stata nella sede che ha oggi (1); e un altro termine Io aveva dove lo stesso Annio pone Vetuletum; parola (1) S'ha ricordo , che , senza mai molto dilungarsi dalla sana presente situazione, più volte fu ella rinnovata. Leggesi intorno a ciò nel Tuccia : Anno 1206. Fu fatta piazza nona , che prima se chiamava le Carbonare (oggi piazza di san Bernardino, all'ingresso del Castrum Fiterbi: Bussi p. iiì) , et fu rifacta una fontana senza pari [Sipale, così per falsa etimologia soprannominata presso il po- polo anche a di nostri), dalla quale si pigliava V acqua et andava a piazza nuova. A più spiegazione delle quali parole, ha qui il CoveL- luzzo. A. 1206 fu facta piazza nuova, che prima se chiamava le Carbonare, et fu facta la fontana senza pari, et la fontana de piaz- za nova : cosicché veramente le fontane erano due, che alimentava una stessa acqua, e la prima non era nella piazza nuova, ma la se- conda, e nondimeno quella, dico la prima, fu allora soltanto re- staurata, e forse mossa alcun poco di luogo; giacché d'un' esistenza anteriore fa fede il libro de'censi della chiesa romana, compilato da Cencio Camerlengo l'a 1192, dov'è questa particella : Naeredes do- mini Belliboni prò uno casalina iuxta fontem sepalis in Fiterbio 1. floreno argenti. E ciò stette così fino all'a. 1279, nel quale fu final- mente ridotta la già troppo vecchia fonte al presente splendido suo stato, come il Bussi ( ivi ) narra. Prezzo è poi dell' opera leggere quel che spesso ne paria il nostro Statuto del 1231, sotto i tito- li : De purgatione fondis sepalis. De pena sturantis fontem sepalis. De pena derivantiua aquam fontis sepalis. De requisitione viarum fa- cienda per baliuos viarum. -. statuimus, quod Baliui fontium et via- rupi, tam per se, quam per alias, inquirant ad minus qualar in an- no aquaeduclum fontis sepalis de. etc. Viterbo e il suo territorio 381 ch'egli a suo talento coniava dal così chiamato Bot- talone (1). Ciò prova dunque, che la sua sede, ap- punto, era quella, la quale, già oltra il suo nasci- mento, riceveva il tronco dell'acquedotto di Vigeto nella parte che se n'è conservata fino a nostri gior- ni, e sino d'allora dovette aprirvisi in fontana , la quale, innanzi ancora alla costruzione della Bastìa , forza è che avesse un nome. Or qual cosa tanto è conforme a ragione, quanto il supporre, che serbasse il nome tratto dal primo autore ? E se questo fu , chi non dirà essere stato mestieri che si chiamasse Fonte Vegetial E se cosi fu chiamata, chi non cre- derà che il Vieus preesistente alla Bastìa, dovette dir- si o Vegetia esso stesso, o ad Vegetiamo E la Bastìa, costruttavi indi sopra, con qual altro nome dovette esser nota a'romani, se non con quello proprio del vico, e della fonte, che gli era pur congiunta? E, ciò ammesso, chi non sarà tratto a pensare, che, pe'ro- inani, la lor Viterbo era Vegetia^ come la nostra era Viterbum o Vilerbium ? E chi da ultimo non com- prende, che questo nome medesimo, in età sì bar- bara, potè variamente essersi corrotto, come tanti al- tri nomi, mutandosi in Vegentia, Vergella^ Vemtia, (1) Del Botlalone nostro parlò ultimamente il sig. dott. Am- brosch (Mem. rlell'Istil. di Corrisp. Archeolog. fase, lì, p. 148; , e saggiamente dedusse il nome da botte, cioè dalla raccolta (V acque di che si nutrisce alcuna delle fonti nostre. Ma esso potrebbe an- ch'essere stalo Botatone, senza esser perciò f'etulonio, come preten- devano, già tempo, gli scrittori nostrali (così detto da Fetulonia) , perchè Botolone non sarebbe che un accrescitivo di Botola , che vuol dire cavità sotterranee, buca sotterranea, come può esser detta quella per la quale l'acqua si raccoglie in condotto, e giunge al suo destino. 382 Lette:utura Veiuzza, Civitas Vehentana, od altro simigìlante , o dissimigliante ? Certo, finché i romani vi si mantennero in forza, la Bastia non dev'essere stata piccola. Suppongo che l'antichissima nostra chiesa di san Sisto ( recente- mente alterata un'ultima volta nelle venerande sue forme, che la rendevano il più nobile monumento cristiano architettonico del paese nostro) ne fosse la Pieve. Restando su quel confine la suburbana altra chie- sa, che oggi chiamiamo delle Fortezze^ ciò m'è in- dizio patente, o che l'occupazione romana invadesse anche fin là, o che i viterbesi da quell'esterno lato contrapponessero fortificazioni a fortificazioni, e sti- mo allora, che, sendo stato il breve interposto inter- vallo tra il Castrum Viterhi^ e Castra Vegetia^ terra di continue battaglie, e d'infestazioni reciproche , e di ricatti, ciò di leggieri abbia dato opportunità al modificarsi della denominazione nativa di Planum ad Caram,o Caranum, ovvero almeno di Planum Squar- rawi, Squarani^ o Scarani^ in Planum Ascarani, cioè Pian dell'assassino. Lo stesso vorrei dire per un'altra denominazione di luogo esteriore al Castel Viterbese, probabilmente tratta dall'ordine stesso d'idee, s'io potessi esser certo che appartenesse allo spazio medesimo, o pochissimo se ne dilungasse; ed è il Planum de garrire (1). (1) Archivio di s. Angelo in Spata, o come più anticamente si diceva, in prato cavalluccialo (f. Cabailuculo) in pergamena dell'a. 1094. lohannes qui vocatur Maduzza . ■ insimul Rustico filio dà in •« SCIENZE Cialdij Osservazioni idraulico-nautiche su t porti ne- romano ed innocenziano. . . . pag. 3 Vaccolinij Casse di risparmio considerate come in- venzione italiana. .....)> 56 Ivij Del bello nella sentenza del Gioberti. Articolo XVIIL » 129 Ivij Sistema filosofico di Vincenzo Gioberti . » 257 LETTERATURA Giuliani j Della propria maniera di comentare la divina Commedia. Cap. I. Dell'importanza e dell' autenticità della lettera di Dante a Cangrande della Scala ....... 65 Pontaj Sulla pubblicazione del comento di Francesco da Butinel \391 » 106 Rambelli j Del debito degV italiani di porre studio alla propria lingua. . . . . » 1 1 6 Rebuffo, Della libertà dell'eloquenza. . . d 1 40 Diamilla^ Intorno una medaglia d'Innocenzo VII. » 153 Mossotti , Prolusione sopra un passo di Dante. » 156 Ponta, Osservazioni sopra la suddetta prolusione del Mossotti » 164 Angelini-JRotaj Notizie d'Innocenzo XI, . » 191 390 Volgarizzamento di vangeli j testo di lingua. n 199 Biografie di Vito Procaccini Ricci j di Ottavio Maz- zoni Toseìlij di Maria Giuseppa Guacci Nobile _, di Alberto Nota . ....-» 206 Or ioli j Viterbo e il suo territorio . , . » 262 BELLE ARTI Notizie della vita e delle pitture di Girolamo Marchesi da Cotignola ... . . . . » 229 Farinij Orazione ali" accademia Bolognese delle belle arti ...... * » 259 ■ (f^ì) ■ • ■ '^^^^^ i'.s V ^ . i j'.ir, Miti . • . . '.-... :...,^\> :. . . . ■ :^ '•■:.-~^vr. j,\, i.*t.<.-JC5'!,V^-i J ■/•' .■■;.■... ...DUI tO\'' ■' ì/.' »K\« r>ivtn\H\ .aVs 1 .,>i34Cim*.*b Wiily/i .^ViVvii-U.iVi jSd 'Ì^14 '^%ÈÈ%ÈM%ÈÈM%. GIORNALE DI SCIENZE, LETTERE ED ARTI Voi. 352, 353, 354 ROMA TIPOGRAFIA DELLE BELLE ARTI 1850 GIORNALE ARCADICO DI SCIENZE, LETTERE ED ARTI Voi. cxvm. Ciennaio, Febbraio e Marzo 1849 E 1850 ROMA TIPOGRAFIA DELLE BELLE ARTI 1850 DIRETTORE DEL GIORNALE S. E. il sig. principe D. PIETRO ODESCALCHI, socio ordinario della pontificia accademia di archeologia, niembro del collegio filologico dell''uuiversità romana. COMPILATORI BETTI cav. SALVATORE, professore di storia e mitolo- gia e segretario perpetuo dell'insigne e pontifìcia acca- demia di s. Luca, membro del collegio filologico dell'uni- versità romana, socjó ordinario della pontificia accade- mia di archeologia, accademico della crusca. BORGHESI cav. BARTOLOMEO, accademico della crusca, corrispondente della pontificia accademia romana di ar- cheologia e deil'instituto di Francia, membro delle RB. accademie delle scienze di Berlino, Torino ec. CAPPELLO dott. AGOSTINO, già medico consulente della san. mem. di Leone XII, socio ordinario della pontifi- cia accademia di archeologia. MAGGIORaNI dott. CARLO, membro del collegio medi- co-chirurgico e professore di medicina politico-legale nel- l'università romana. POLETTI cav. LUIGI , presidente e professore di ar- chitettura pratica nell'insigne e pontificia accademia di s. Luca, professore ordinario di architettura nell'ospizio apostolico di s. Michele , professore onorario della R. accademia delle belle arti di Modena, architetto diret- tore della riedificazione della basilica di s. Paolo, addet- to al collegio filosofico dell'università romana, socio or- dinario della pontificia accademia di archeologia. TONELLi dott. GIUSEPPE, medico a Paliano. VISCONTI commendatore PIETRO ERCOLE, commissario IV delie antichità romane , presidente onorario del mascq capitolino , segretario perpetuo e socio ordinario dclli ponliGcia accademia di archeologia, membro dei coiicgio fiioiogico dell'università romana. ONORARI CARPI doli. PIETRO, professore di mineralogia, membro del collegio medico-chirurgico e direttore dei gabinetto mineralogico deirunivcrsità romana. DE-CROLLIS dolt. DOMENICO. GERARDI doti. FILIPPO C0LL4B0RilT0RI ASTOLFI avv. Angelo, giureconsulto, a Rologna. BARTOLINl monsignor Domenico, referendario dell'una e dell' altra segnatura , socio ordinario delia pontifìcia accademia di archeologia, in Roma. BIANCHINI Antonio , segretario della società degli amici delle belle arti, in Roma. BIOLCHINI Pietro, segretario del giornale, in Roma. BRIGHENTI Maurizio, ingegnere ispettore, a Ravenna. BRIGNOLI di Brunoff Giovanni, profos&ore, a Modena. BRUNATI ab. Giuseppe, a Broscia. BUONCOMPAGNl S. E. don Baldassare, in Roma. CAMILLI Stefano, giureconsulto, a Viterbo. CAMPANARI avv. Secondiano, socio corrispondente della pontificia accademia romana di archeologia, a Viterbo. CANTALAMESSA CARBONI Giacinto, in Ascoli. CAPOZZI Francesco, a Lugo. CARDINALI cav. Luigi , socio ordinario e censore della pontificia accademia di archeologia, in Roma. CHELINI padre Domenico, delle scuole pie, membro e se- gretario del collegio filosofico dell'università, professore nel collegio nazareno, in Roma. CHIMENZ doti. Baldassare, chirurgo, in Roma. CICCONETTI avv. Felice, giureconsulto, in Roma. CONTI dott. Filippo, medico, a s. Analoglia di Camerino. COPPI ab. Antonio, socio ordinario e censore della pon- tificia accademia di archeologia, in Roma. Y CORDERÒ DI S. QUINTINO cav. Giulio , membro della reale accademia, a Torino. DE-FERRARI padre maestro Giacinto, dell'ordine de'pre- dicatori, prefetto della biblioteca casanatense, consultore della sacra congregazione dell' indice , socio ordinario della pontificia accademia di archeologia, in Roma. DE-LUCA monsig. Antonino, vescovo di Àversa. DE-MINICIS avv. Gaetano, a Fermo. DIONIGI ORFEI contessa Enrica, in Roma. FARI de'conti MONTANI monsignor Francesco, cameriere segreto di Sua Santità, sotto-custode di arcadia, in Roma. FERRUCCI cav. Luigi Grisostorao, a Firenze. FERRUCCI Michele, professore, a Pisa. FIORINI MAZZANTI Elisabetta, in Roma. FOLCHI cav. Clemente, architetto di Sua Santità, consi- gliere dell'insigne e ponti6cia accademia di s. Luca, in- gegnere ispettore emerito membro del consiglio d'arte, addetto al collegio filosofico dell'università romana, so- cio ordinario della pontificia accademia di archeologia, in Roma. FONTANA cav. Pietro, a Spoleto. FRANCESCHI FERRUCCI Caterina, a Pisa. GIACOLETTI padre Giuseppe, delle scuole pie, in Roma. GIULIANI padre don Giambatista, somasco, professore d'e- loquenza sacra nell'università, a Genova. GRIFI cav. Luigi , segretario generale del ministero del commercio, belle arti ec. , socio ordinario e conservatore perpetuo dell'archivio della pontificia accademia di ar- cheologia, in Roma. GUZZONl DEGLI ANCARANI dott. Carlo, a Spoleto. LABUS cav. Giovanni, membro e segretario dell' I. e R. istituto, a Milano. LEONARDI doli. Mauro, medico primario, in Amelia. LOPEZ Michele, prefetto del ducal museo, a Parma. MARCHI padre Giuseppe, della compagnia di Gesù, con- servatore de'sacri cimiteri di Roma, membro del collegio filologico dell'università, socio ordinario della poalificia accademia di archeologia, in Roma. ORIOLI Francesco, prof, d'archeologia nell'università, so- cio ordinario della pontificia accademia archeologica; in Roma. MASETTI canonico Celestino, a Fano. VI MORICHINI S. E. Rma monsignor Carlo Luigi, arcives» covo di Nisibi, in Roma. PAOLI conio Domenico, a Pesaro. PAUf-UCCl Domenico, vicesegretario municipale, a Rimini. PERETTl Pietro , professore di farmacia e direttore dei gabinetto farmaceutico dell'università, in Roma. PERUZZI monsignor Agostino, prelato domestico di Sua Santità, arciprete della metropolitana e rettore dell'uni- versilà, a Ferrara. PIANCIANI padre Gio. Rattista, della compagnia di Gesù, membro del collegio filosofico dell'università, in Roma. PLANA barone commendatore Giovanni , membro della reale accademia delle scienze, professore d'analisi nella università, regio astronomo, a Torino. POGGIOLI dott. Michelangelo, già medico ordinario delle san. mem. di Leone Xll e di Gregorio XVI, professore giubilato di botanica e presidente del collegio medico- chirurgico della università, in Roma. PONTA P. don Giovanni Marco, ex-generale de'somaschì, in Casal-Monferrato. PUCCINOTTI dott. Francesco, professore nell' università, a Pisa. RAMBELLI Gio. Francesco, professore, a San Giovanni in Persicelo. RAMELLI Camillo, professore, a Fabriano. RANALLI Ferdinando, a Firenze. RANGHIASCI BRANCALEONI marchese Francesco , a Gubbio. RICCARDI dott. Gregorio, medico, in Roma. RICCI marchese cav. Amico, a Bologna. ROSELLI Ercole, in Roma. ROSSI monsignore Stefano, prelato domestico di Sua San- tità e ponente della sacra consulta, in Roma. SANTINI dott. Angelo, medico primario, a Montalboddo. SANTUCCI ab. Domenico, rettore del collegio capranicense, in Roma. SECCHI padre Gio. Pietro, della compagnia di Gesù, mem- bro ordinario e censore della pontificia accademia di archeologia, in Roma. S08G0NI dott. Angelo, primo medico, a fllontolrao. SPKZI Giuseppe, in Roma. TONELLI doli. Valeriano, medico, a Paliano. VII TORTOLINI ab. Barnaba, membro del collegio Blosofico e professore di calcolo sublime nell'università, professore di fisica matematica nel collegio urbano di propaganda e nel seminario romano, in Roma. TROMPEO cav. Benedetto, a Torino. VALDRIGHI conte Mario, a Modena. VALORI doti. Francesco , membro del collegio medico- chirurgico, professore di sanità nella sacra consulta, in Roma. VESCOVALI Luigi, socio ordinario della pontificia acca- demia di archeologia, in Roma. VOLPICELLI cav. Carlo, professore di fisica sperimentale nell'università, direttore del gabinetto fisico, segretario della pontificia accademia de'lincei, in Roma. ZANELLI ab. Domenico, in Roma. . Monografia della Rachitide di Vincenzo Catalani, dottore in medicina e chirurgia. I^IEM£^21D1!2 •Cogliono, il più delle volte, coloro che intrapren- dono a scrivere cose scientifiche criticare, e onni- namente distruggere le opere classiche degli ante- cessori, per acquistar stima appresso dei lettori , e grandi cose promettere nelle opere loro. Seguono essi un cattivo metodo, ed oltre lo scandalo letterario , e le controversie che suscitano non istruiscono , e danneggiono i propri scritti. Chi di bel nuovo calca il sentiero, che fu d' altri percorso, studia i lavori dei nostri sommi padri, e modellata in essi la pro- pria mente, altri ne ingenera. E riproduce talora il bello degli antichi con maggior grazia e vezzo, ag- giugnendo alle vecchie teorie ciò, che da essi non fu scritto né pensato. E la semplice esposizione de- gli antichi sistemi e dei corollari, che allora se ne deducevano oltre l'istruire, fa concepire una buona G.A.T.CXVm. 1 2 Scienze opinione per quelli che scrivono. In questa guisa operando abbiamo attinti i materiali dalle opere pub- blicate, per formarne la trama d'un nuovo lavoro, che abbiamo dipoi abbellito con le nostre idee. Que- sto metodo è stato da noi seguito per non dividere la memoria, che andiamo pubblicando in due parti, nella prima esponendo quello, che fu da altri scrit- to, e nella seconda ciò ch'è opera nostra. au if'Ut; MONOGRAFIA 1. i^ u mai sempre argomento di letterarie liti e con troversie fra gli uomini illustri di nostra scienza l'origine e la storia delle malattie ereditarie' epide- miche e contagiose. Quelli , che versati sono nella lettura degli annali e storie mediche altamente ri- mangono persuasi di questa verità. La genesi del miasma e del contagio, non si compie come quella degli animali e del vegetabile; che una volta creati si mantiene la specie per una serie non interrotta di successioni. Il contagio ed il miasma si creano per generazione spontanea, ed hanno di bisogno del- la presenza simultanea degli elementi che li com- pongono , ed una volta distrutti nuovamente si ri- producono; così il cane diviene idrofobo, e l'uomo scabbioso senza la comunicazione del veleno idro- fobico, e senza il contagio della scabbia. Come s'in- trodusse il miasma nelle paludi pontine ? e chi fu quello, che portò la peste in Oriente ? Questa è dif- ficile ed ardita ricerca, e di nessun vantaggio per la scienza. Utile è l'analisi delle cause, che generano e diffondono nella specie umana la perniciosa e la peste. Senza perdersi in vane e speciali ricerche per stabilire da qual mare e da qual porto entrava il colera morbus nella nostra penisola, ed altrove; ave- rebbero fatta cosa grata all' umanità , ed utile alla % Scienze scienza se analizzarano le influenze cosmico-telluri- che, che generavano e dift'ondevano il morbo. Per- chè far viaggiare il virus venereo dall'uno all' altro continente ? Perchè non ritenere la generazione spon- tanea; anziché credere, che tutto il mondo sifilidico attignesse nell'America il virus contagioso^ custodito dall'americano fino ab eterno ? La genesi del miasma, e del contagio è spontanea; come potrà risolversi la questione e stabilirsi, che furono portati dal nuovo al vecchio continente ? 2. Non solo al miasma ed al contagio si pre- tese di stabilire un centro, dal quale partendosi si diffondevano ed infettavano i popoli delle più re- mote nazioni: come il sole spande i luminosi raggi; ma anche alle malattie ereditarie; così si ricercava da taluni in qual parte della terra nasceva il primo scro- foloso, ed il primo guttoso ec. ec. Il patologo potrà seguire la generazione spontanea del miasma, e del contagio, e delle malattie ereditarie asseconda, che vanno sviluppandosi; ma non potrà stabilire il centro e la sorgente, dalla quale costantemente scaturiscono. La storia politica dei popoli può in tal guisa pro- cedere, perchè gli uomini non nascono spontanea- mente. Lo storico dei fenomeni morbosi li descrive partendosi da un'epoca di mano in mano che vanno sviluppandosi; ma non gli collega, e tutti riporta ad un centro comune. Un quadro nosologico, che inco- minciando dai tempi a noi più remoli , stabilisse i punti del globo ove sviluppavano il miasma , ed il contagio e le malattie ereditarie; ne stabilisse le for- me e le cause che l'ingenerarono; e quindi deter- minasse la medicatura posta in pratica, ed i resultati I J Monografia della Rachitide 5 che se ne otteneiono: sarebbe questa l'opera la più grande e la più sublime. 3. Ma gli ostacoli che si frappongono nel tes- sere questo nuovo lavoro sono tali da sconfortare l'osservatore il pixi perspicace ed il più laborioso. E le malattie che formerebbero il subietto del quadro nosologico, che noi ci proponiamo, non sviluppano costantemente con le multiplici forme, che sono su- scettive di prendere; e né con quel complesso di fe- nomeni . che gli appartengono. E come immediato effetto dell'azione, che le cause determinanti risve- gUano nelle predisponenti; nel cambiarsi tanto delle prime che delle altre s'ingenerano nuove specie, o per lo meno si modificano le forme primitive delle medesime. E ingenerate che siano le malattie costi- tuzionali, ereditarie e contagiose le cause preterna- turali, continuando ad agire, rendono le malattie di cattiva indole, e le fanno prendere più forme: come si osserva nel morbo sifilidico, che di anno in anno si è reso più pericoloso, e si sono sempre più mol- tiplicate le sue forme. L'illustre cancelliere Bacone, con quella sagacità, che gli faceva prevedere la fu- tura sorte delle cognizioni umane diceva: come va- riano le malattie^ variamo la scienza. 4. Lo storico delle umane egritudini oltre il do- vere descrivere ciò ch'è suscettivo di cambiamenti , e di presentarsi sotto moltiplici aspetti; smarrisce e si perde nelle incertezze dell'antichità per il difetto e l'insufficienza dell'arte d'osservare; arte difficilissi- ma appena studiata, e condotta a qualche perfezione nei secoli a noi più vicini. E le difficoltà, e gli osta- coli, i quali esistevano prima della mirabile scoperta 6 Scienze della carta e della stampa, onde rendere di pubbli- co diritto le osservazioni dei medici; come ancora le turbolenze, le guerre e gli incendi furono più che altra cosa le cause, per cui poche osservazioni degli antichi medici sono a noi pervenute. Ed il patologo perde il filo delle successioni dei fenomeni morbosi di mano in mano, che si allontana da noi, per stu- diare nei misteriosi laberinti dell'antichità le umane costituzioni, e le gradazioni insensibili, per cui gli uomini passarono dallo stato di salute a quello di malattia, e da questo nei tenebrosi regni della mor- te. Ed è cosa difficile, se non impossibile dì seguire lo sviluppo successivo delle malattie ereditarie, epi- demiche e contagiose. 5. La disposizione alle malattie ereditarie può ingenerarsi, come in appresso vedremo, nell'atto della fecondazione, durante l'evoluzione dell'embrione, e nel decorso della vita. I genitori sanissimi incomin- ciano a perdere la buona costituzione per gli stravi- zii, e le malattie, generano allora dei figliuoli ca- gionevoli, e questi dei pili cagionevoli; ed in seguito nascono gli scrofolosi, i rachitici, gli erpetici ec. ec Così s'ingenerarono nei diversi punti della terra le malattie ereditarie, che si dileguarono con la mede- sima gradazione inversa mediante 1' osservanza dei precetti igienici. E la rachitide, come malattia co- stituzionale è sempre esistita, o per lo meno la sua origine si perde nei tempi favolosi ed incerti; men- tre si trovano nelle opere dei più antichi medici delle descrizioni, che si appartengono ad essa, o ad altre malattie, che avendo grandissima somiglianza alla rachitide, nei tempi nostri hanno cambiata for* Monografia della Rachitide 7 ma, o non più esistono. Negli scritti pervenutici dall'antichità è confusa con la tabe, ed i medici non ne parlarono diffusamente, né con quell'esattezza, e circospezione come ce la descrive il Glisson; ed al- tri, che ad esso furono posteriori. Come malattia co- stituzionale, ed ereditaria non desta maraviglia se nei tempi anteriori al Glisson, svolgendosi sotto forme benigne, e poco marcate, non fermava l'attenzione dei medici; ed in seguito, passando da generazione a generazione, prendeva una forma più distinta e marcata, e si rendeva più generale nella specie uma- na. Non sarebbe un'opinione sprovista di fondamento il credere, che la peste sifìlidica distendendosi nell* universo predisponeva la specie umana alla rachi- tide. E l'osservazione dimostra, che i figli dei padri sifìlidici sogliono il più delle volte esser rachitici. Questa opinione concorda coU'epoca assegnata da al- cuni allo sviluppo della rachitide; che noi la credia- mo, anziché l'origine , il tempo in cui si rese più generale e frequente. Il Boeravio sosteneva, che s'in- generasse per la prima volta nel 1 54 0, il Duberton nel 1590, il Glisson nel 1620, l'Offmanno nel 1690 sono queste epoche poco posteriori a quella, in cui la peste sifìlidica si diffondeva nell' universo. Una qualche diversità di tempo era indispensabile affinchè il virus sifilidico alterasse la mischione organica, e ingenerasse in alcuni individui la disposizione rachi- tica. 6. Fu circa il 1650, che otto medici del colle- gio di Londra formarono subietto delle loro ricer- che un morbo, che il volgo chiamava richets, ed i fatti che raccolsero li credettero sufficienti a formare 8 Scienze un trattato completo della malattia, che aveva fissate le loro dotte considerazioni. Ad eseguire questo nuo- vo ed interessante lavoro furono incaricati il Glis- son, il Bate ed il Regemortero. Ma l'esposizione de- gli ultimi due, essendo di gran lunga inferiore a quella del Glisson , e diversi essendo nel modo di ragionare; così per non dare alla luce un'opera mo- struosa, si atlìdò l'esposizione del nuovo trattato al solo Glisson; ed allora fu, che l'affezione morbosa, di cui noi ci occupiamo, prese il nome di rachitide, e con questa nuova denominazione fu in seguito chiamata da tutti ì medici. 7. Il Glisson non avendo lette o ben esaminate le opere degli antichi credeva , che la malattia , la quale formava il subietto dei suoi studi fosse nuova, e che esso per la prima volta ne parlasse. Ma se noi osserviamo per un istante le ragioni che poneva in campo per sostenere la sua opinione, ci persua- deremo, che essa non è nuova, e che i medici ne parlarono prima che il Glisson ne facesse menzione. Due sono le ragioni principali, per cui egli sostiene esser la rachitide una nuova malattia; cioè le rela- zioni dei medici da esso incaricati a rintracciare l'ori- gine della rachitide, ed ii silenzio degli scrittori. 8. Nel trattato del Glisson della rachitide, si ri- leva, che i dotti incaricati a rintracciarne l' origine unanlraamente riferirono, che le loro ricerche furo- no vane. Nessuno^ così egli si esprime, fino ad ora potei trovare, che sapesse^ o dimostrasse fautore del nome, o l'ammalato^ al quale per la prima volta fosse destinato; o il luogo particolare ove ciò fosse fatto^ ed il modo come di poi si propagasse nel volgo. Ma egli Monografia della Rachitide 9 sbaglia in logica allorché vole dedur dalle relazioni dei suoi incaricati esser la rachitide una nuova noa- lattia; ma che anzi il non potersi trovare l'origine, e né stabilire il luogo ove riceveva la sua denomi- nazione, anziché confermare l' opinione del Glisson interamente l'abbatte. Che se intende per silenzio il non trovarsi negli scritti dei medici il nome rachi- tide; ciò solo dimostra, che s'ignorava questa deno- minazione, ma non prova, che gli antichi non cono- scevano la malattia, che al Glisson piaceva di desi- gnare col nome rachitide. 9. Il Glisson ritiene la febbre come sintomo es- senziale , che distingue la rachitide dalla tabe de- scritta dagli antichi. Una volta provato, che la feb- bre è il più delle volte un segno incerto nei bambi- ni, e che fu da altri osservata anche nella rachitide: come daBoeravio (1), da Sydenham (2), dall'OfFman- no (3), dal Valdschmidio (4) ec. ec. allora averemo tolta ogni diversità fra il morbo descritto dal Glis- son, e la tabe degli antichi. Aron Boot, o de Boozio nato in Olanda e morto a Parigi nel 1653 aveva prima che il Glisson rendesse di pubblico diritto il trattato della rachitide, descritta la malattia con tanta perspicacità e verità dei suoi sintomi , che al dire (1) In tutto il decorso della malattia, cioè la rachitide, una febbre lenta consuma il corpo fino alla morte: Boeravio Afor. (2) Aggravandosi la malattia^ cioè la rachitide , sviluppa una febbre lenta, che spesso dura fino alla morte. Oft'manno delle malat- tie infantili. (3) Sydenham crede, che la febbre sviluppi prima della rachi- tide; e la considera come sintoma prodromo. (4) Valdschmidio ritiene la febbre come sintomo essenziale del- la rachitide. 40 Scienze del professor Testa (1) merita d' esser anteposta a qualunque descrizione , che altri ne abbiano fatta. E confrontando la descrizione del Boozio a quella del Glisson, si vede l'uno allontanarsi dall'altro per- chè i "vizii e le mostruosità della spina dal primo si considerano come effetti, e dall'altro come cause di queste speciali condizioni di corpi. 10 L'ippocrate della Gran-Brettagna (2) non trovava alcuna diversità tra il morbo descritto dal Glisson, e la tabe degli antichi. Troviamo in Mercu- riale (3), in Sennerto (4), in Khvefnero (5) descritta diffusamente la tabe, come morbo infantile, divisa in più specie e gradi , e con i caratteri e sintomi essenziali, propri della rachitide, che non si con- vengono alla tabe essenziale descritta dai medici del nostro secolo. Reusnero, il quale viveva nel secolo anteriore al Glisson descrive un morbo, conosciuto nella Svezia e nell'Olanda proprio dei fanciulli, che gK riduceva ad una estrema magrezza, che appena potevano sostenersi in piedi, con ostruzioni, costatato schiacciato, e le gambe curvate, ond'è, che nella Da- nimarca lo chiamavano varam. 11. I medici delia Germania non si lasciarono trasportare dall' autorità del Glisson , né da quella del Maiow; come chiaramente rilevasi dagli scritti del Morelino, e da quelli del Dolco. Il primo la credeva malattia antica, e l'altro era di parere, che i medici (1) Malattie del cuore, tom. I. (2) Sydenham. (3) Delie malattie dei t'anciiilh, cap. 2. (4) Della cura dei fanciulli, pari. 2. (a) Delie malattie dei Ijambini, cap. 22. Monografia della Rachitide 11 anteriori al Glissou la confondevano con la tabe. Ed il commendatore de^jli scritti (1) pervenutici del di- vino vecchio di Coo sosteneva, che Ippocrate cono- sceva la rachitide, la quale deviando la normale di- rezione della colonna vertebrale, rendeva difiìcile la respirazione, per cui egli la denominava asma. 12. Nelle opere di Gabro e d'Ippocrate si trova descritta la tabe come morbo infantile, con la pie- gatura della colonna vertebrale ed i tubercoli pol- monari. Nel libro de locis in homine parla Ippocrate d'una specie di tabe occasionata dall' incurvamento della spina; mostruosità, che come in appresso ve- dremo , costituisce uno dei pii\ costanti fenomeni della rachitide. Nel trattato de articulis mi sono delle osservazioni, le quali non possono riferirsi, che alla rachitide. 13. Se dagli scrittori greci passiamo ai latini troviamo in Cornelio Celso, che la tabe dei fanciulli è descritta con quei sintomi essenziali, che il Glis- son ed i medici ad esso posteriori attribuiscono alla rachitide. Il celebre medico romano, e seco lui al- tri distinti cultori delle cose naturali, ogniqualvolta si manifestava una rapida emaciazione, e l' infermo moriva consunto diagnosticarono trattarsi di tabe. In seguito degli stupendi progressi dell'anatomia pato- logica, e della chimica organica, si ritenne la tabe manifestarsi in seguito d'un lavoro morboso, che si ingenera nella macchina animale ; e l' emaciazione unirsi come sintoma a tutte le malattie. Allora dot- tissimi patologi escludevano dalla nosologia la tabe^ (1) Eqiirlo. 12 Scienze e la consideravano come una manifestazione ed es* pressione d'un occulto, o manifesto processo morbo- so. Nella rachitide, che il pervertimento della nutri- zione è uno dei principali sintomi, ed i rachitici so- gliono morire consunti; gli antichi ignari dell' ana- tomia patologica, e della chimica organica, presi di mira i principali caratteri , la consideravano come una specie di tabe. 14. Allorché i patologi si studiarono di stabi- lire la condizione morbosa della rachitide , ebbero ricorso a dotte ed ingegnose ipotesi alquanto sod- disfacenti, non capaci però di dare un'esatta ed ade- quata spiegazione del fenomeno morboso, che intra- prendevano ad analizzare con somma diligenza e stu- dio. Il Glisson a preferenza dei medici antichi spie- gava, non senza una qualche apparente precisione, la condizione morbosa della rachitide. Ed egli ripo- neva la causa del male nell'ostruzione della midolla spinale, e nei nervi, che da essa hanno origine; per cui essendo indebolita l' innervazione, ha luogo un inequabile nutrizione della macchina animale; e nel mentre alcune parti crescono a dismisura, altre inlan- guidiscono, e mancano di nutrimento. L'ipotesi del Glisson, quantunque convalidata dall' autorità dell' Offmanno, e da quella del Maiow, manca di fonda- mento; mentre non è sostenuta dall'anatomia patolo- gica. Ma di soverchio si allontana dal vero chi con- fonde gli effetti con la condizione morbosa; fra i quali possiamo annoverare il Sydenham, l'Arris, e l'Eistero, che la ripongono nell'ostruzione dei visceri addomi- nali. Il Boozio ed il Benevoli incontravano il medesi- mo errore; il primo riponendola nel fegato; e l'altro Monografia della Rachitide ^3 nella lassezza polmonare. Non si merita d'esser ram- mentata quella di Giovanni Equeto, che sosteneva contro ogni principio di fisiologia, che tutto il male derivava da un solido troppo vigoroso ed elastico, che stringendo i vasi rallentava il circolo dei liquidi. 15. Del pari furono errati gli umoristi, ammet- tendo con Lindestolpe e Monterò un umore guasto che consumava e distruggeva l'organismo. La me- desima sorte incontrava Boeravio, che prendeva in considerazione tutti i liquidi e tutti i solidi, ed am- metteva un principio venefico. Causa proxima mali cacoohymia iners mucosa frigida vapida, latente labe venerea permista, cum laza porlium fihrarum fabri- ca (1). Ma come lasciava scritto il barone Boyer, le ipotesi, che ammettono per causa immediata e pros- sima della rachitide la genesi d'un principio acido, come per esempio dell'acido ossalico, il quale diri- ga l'azione deleteria nelle ossa, sono tutte belle sup- posizioni più presto immaginate, che dimostrate dal- l'analisi chimica. 16. Quando per i progressi della chimica or- ganica, fu dai fisiologi stabilito, che il sistema osseo induriva mediante i sali a base alcalina e terrosa ; SI ritenne allora in patologia, che la sottrazione dei sali era la causa della rachitide; e la soprassatura- zione della fragilità delle ossa. Ma , per quanto a noi pare, la sottrazione dei sali è la causa del ram- mollimento, e non quella della rachitide. La causa prossima sarà spiegata quando si perverrà a cono- scere per quali ragioni abbia luogo la sottrazione (1) AjjIi. de ooyii. el car. inorb. 14 Scienze dei sali; allriraente in cambio di stabilire la condi- zione morbosa si dà la spiegazione d'un fenomeno concomitante la malattia, ma non si spiega la sua natura. Che la sottrazione dei sali sia effetto e non causa, ad evidenza lo dimostrano le ossa rammollite, e quelle indurite che si trovano nel medesimo ra- chitico; come ancora l'osso in parte petrificato , ed in parte rammollito. Se il rammollimento delle ossa costituisse la causa prossima della rachitide, conver- rebbe ammettere nell'osso in parte indurito , ed in parte rammollito due opposte condizioni morbose. Ritenendo in patologia, che la soprassaturazione e la sottrazione dei sali a base alcalina e terrosa, sia- no semplici effetti e non elementi morbosi, oltre l'es- sere più coerente con i principii di patologia,^ si dà di questi contrari fenomeni una pui soddisfacente spiegazione. E l' ipotesi della sottrazione dei sali a base alcalina e terrosa appartiene al numero di quel- le che confondono gli effetti con la causa prossima della rachitide. 17. Il fisiologo bolognese ritiene la riparazione organica compiersi mediante le secrezioni: ossia dalla naturale uscita dai vasi sanguigni di minime parti- celle d'abumina cioè, di fibrina e di terra animale; con questo però, che l'abumina e la sostanza crassa si depositano a preferenza sopra i nervi, la fibrina sopra i muscoli, la terra animale sopra la carlilla- gine e le ossa. La teoria del professor Medici è una espressione veridica di quanto si osserva nell' assi- milazione organica, allorché si considera nel modo il più generale ed astratto. Il sangue arterioso som- ministra i materiali per la genesi degli elementi me- Monografia della Rachitide 15 diati; ma non conosciamo gli atti analitici e sinte- tici che si svolgono nel sangue, onde prestarsi qual materiale istroraento alla riparazione organica. Solo possiamo asserire con certezza, che dal sangue sca- turiscono i principii che compongono gli elementi mediati della macchina animale. Fenomeno dovuto a quella speciale affinità o azione chimica, che le sostanze solide esercitano nelle fluide: ciò che costi- tuisce il gusto animale di Bordeu, la sensibilità elet- tiva di Bichat, e 1' armonia fra i solidi ed i fluidi di Baglivi. 18. Pel sistema della nutrizione dell'uomo; cioè della vita organica, interna, occulta di Bichat si ri- chiede la presenza dei fluidi assimilabiU, e dei solidi assimilatori , e lo stimolo del sistema nerveo-gan- glionario. Affinchè si risvegli nei fluidi l'atto anali- tico-vitale, per somministrare gli elementi necessari alla genesi dei solidi vivi, fa di mestieri d'una cor- rispondenza reciproca tra la composizione chimica del sangue, lo stimolo del sistema nerveo-ganglio- nario, e l'eccitabilità o contrattilità dei solidi, detta da Sthal motum tomcuni, da Bichat sensibilità orga- nica^ e contrattilità organiea insensibile, da Lamark orgasmo, e da Broussais erettismo vitale. Questo re- ciproco rapporto costituisce l'armonia fra i solidi ed i fluidi del Baglivi, ed il gusto animale di Bordeu. Il sistema della nutrizione dell'uomo può indebolirsi o rendersi soverchiamente energico perchè i tre ele- menti indispensabili per l'assimilazione organica sono equabilmente accresciuti o diminuiti d' intensità. E si disordina la nutrizione negli animali perchè ven- gono meno le corrispondenze fisiologiche, le quali 16 Scienze collegaHo gli agenti indispensabili del sistema della nutrizione; ed allora l'impasto delle nuove sostanze che vanno ingenerandosi è di cattiva natura, si for- mano i processi morbosi, e le sostanze etcrologhe. 19. Nei rachitici il sistema della nutrizione è sommamente disordinato, e non si compiè un equa- bile dilFusione degli elementi, che si prestano qual materiale istromento della riparazione organica; così la massa encefalica cresce a dismisura, e le artico- lazioni aumentano di volume. Il sistema osseo in alcuni punti rammollisce perchè manca dei sali a base alcalina e terrosa, nel mentre che in altre vi si accumulano in soverchia quantità, per cui indu- riscono e diventano friabili. Altri fenomeni, che at- testano l'inequabile diffusione degli elementi della ri- parazione organica sono l'ostruzioni dei visceri ad- dominali, l'atrofia del sistema muscolare; come an- cora la genesi delle sostanze etcrologhe; ed i sali a base alcalina e terrosa, che si trovano nelle orine dei rachitidi. E da quello che noi abbiamo partita- mente esposto se ne deduce come legittimo corol- lario, riporsi Tessenzialità della rachitide nel perver- timento di quella reciproca armonia, con cui sono riuniti i fluidi assimilabili con i solidi assimilatori ed il sistema nerveo-ganglionario, per compiere l'at- to chimico-vitale. 20. Non soddisfatti i patologi di avere prolis- samente parlato dell'origine e della causa prossima della rachitide; studiarono, per quanto il permetteva la sfera delle cognizioni umane, per stabilire se l'es- sere sensiente, allorché gode della vita intranserina, li o no suscettivo di centrar la rachitide; e quando Monografia della Rachitide 17 € sotto quali speciali condizioni si ordisca il proces- so morboso. Quella forza, la quale presiede alla pri- mordiale composizione dei corpi organici viventi do- po r atto generativo è intrinsecamente la stessa for- za riproduttiva, e la proprietà, e l'attitudine per ope- ra della quale i corpi viventi si rifanno della mate- ria che perdono. Le cause occasionali devono agire nell'embrione della specie umana, per ordire la tra- ma dei processi morbosi; o esistere nelle uove fe- condale le condizioni, per cui necessariamente de- vono svolgersi con una determinata forma. Ecco r origine delle malattie ereditarie ; e si spiega per quali ragiani i figliuoli spesso hanno la costituzione dei rispettivi genitori, le medesime inclinazioni, mo- iono nella medesima età, e per le medesime malat- tie. I vizii congeniti, e le cattive disposizioni deri- vano come effetto immediato del processo plastico primitivo, o combinazioni chimiche, che s'ingenera- no nell'atto delle fecondazioni; o come resultato del pertuibamento delle potenze, che mettono in azione il processo chimico- vitale. 21. Nell'uomo adulto un sistema di forze so- I stiene la vita organica, interna, occulta di Bichat. Nell'embrione sono in azione due sistemi di forze, j il primo determina l'assimilazione organica; e l'altro i regola lo svolgimento simmetrico, e determina la for- 1 ma della macchina animale. La vita fetale è più com- plicata di quella dell'uomo adulto; e le malattie van- no ingenerandosi per il difetto, o per l'eccesso, o la cattiva assimilazione organica; ed i vizii di confor- mazione per il pervertimento delle leggi, che deter- minano la simmetrica composizione della macchina G.A.T.CXVIIL 2 '18 Scienze animale. Essendo maggiore la complicazione delle forze della vita organica, interna, occulta dell' em- brione, con facilità potrà disturbarsi il sistema della nutrizione, e determinare l'inequabile diffusione de- gli elementi, che si prestano qual materiale istromen- to dell'atto chimico-vitale; e nascere un feto con la disposizione, o con il processo morboso della rachi- tide; che, $skvk posto in azione allorché la vita fetale sia resa indipendente da quella della madre. Cosi il feto che nasce vivo con il cuore mal conformato, o mancante della midolla spinale, o della massa en- cefalica costantemente perisce. 22. I figli dei padri rachidici^ sifilidici, scor- butici, o scrofolosi sono piccoli e cagionevoli; peris- cono in bassa età, e sono oggetto lacrimevole d'in- finiti mali. Il seminio delle malattie ereditarie è ri- posto nel processo chimico, che si compie nell'atto della fecondazione; imperocché quantunque la madre sia sanissima e di ottima costituzione, ed i bambini sieno tenuti nelle più favorevoli condizioni per lo sviluppo organico; ciò non ostante non si perviene a sottrarli dalle malattie ereditarie. Desta maraviglia il' vedere, come i figliuoli dei padri cagionevoli sie- qo sottoposti a quelle malattie , che i genitori non n^ furono mai attaccati; così il sifilidico generare dei figliuoli sc<>rbuticì, scrofolosi, rachitici ed erpetici. QuestO' fatto ci porla a stabilire V esistenza d' una predisposizione nell' organismo , che, a. seconda del qoncorso delle cause determinanti si svolge sotto di- verse forme. E nei figliuoli, che nascono dai geni- tori cagionevoli ed; infermicci può esistere la pre- disposisÌQne a più malattie; imperocché nascendo con Monografia della Rachitide 19 il germe della malattia ereditaria, mediante il con- corso delle cause determinanti, deve necessariamente svolgersi questa, e non altra malattia. Così stabili- remo come assioma: Che nelVatto della generazione i genitori determinano nelV embrione una predisposizio' ?ie, che può in seguito svolgersi sotto diverse forme morbose; o una condizione^ che necessariamente^ me- diante il concorso delle cause occasionali, determina una particolare malattia. 23. Ora rimane ad analizzarsi se le cause oc- casionali siano capaci a generare la predisposizione, e !a condizione morbosa della rachitide nell'embrio- ne. Per risolvere la questione fa di mestieri di se- guire il processo plastico , che determina 1' evolu- zione dell' embrione; per quindi stabilire le cause , che disturbano il processo chimico-vitale: Sulle pri- me., dice Velpeau , V uovo non è, che un vegetabile., il quale si insuppa degli umori circonvicini. Le vel- losità della sua periferia., che costituiscono una vera spugnetta cellulare traggono dalla tromba., o dalla matrice alcuni principii nutritivi^ per mantenere lo sviluppo delle vescichette^ dopo di che V embrione si nutre alla guisa del pulcino racchiuso ancora nel suo guscio., 0 meglio alla maniera della pianticella, che nelle prime si svolge soltanto a carico dei principii contenuti nei suoi cotiledoni. Esso esaurisce poco a po- co la materia contenuta nelle vescichette ombellicali , e la sostanza emulsiva del sacco reticolare , o del sacco allantoide viene pure grandemente assorbita. Giunge frattanto la fine del secondo mese, si formano i vasi del cordone., si abbozza la placenta., la quale ben presto basta a mantenere V evoluzione del feto. 20 Scienze Per mezzo del suo contatto la massa spugnosa atti- gne nella matrice degli elementi riparatori^ gli ela- bora, ne forma un liquido più o meno analogo al san- gue, e questo fluido viene assorbito dalle radici della vena ombellicale (1). Ammettendo, che l'ovicino sia ingenerato mercè una peculiare secrezione dell'ovaio; potrà disturbarsi il processo plastico per la cattiva conformazione di quest' organo , e per le malattie , che soffre la donna nell'atto della creazione, e in- generarsi un ovicino, che vivificato dall' aura semi- nale del maschio si svolga con una cattiva disposi- zione 5 imperocché a tutti è noto , che le malattie cambiano costantemente l'azione degli organi secer- nenti. E l'embrione può svolgersi con la disposizio' ne a contrar certe malattie, le quali sviluppano ezian- dio durante la concezione; ma tanto nel primo, che nell'altro caso le disposizioni ed i processi morbosi vanno ingenerandosi nell'atto della creazione: come la macchina mal costruita, che non eseguisce rego- larmente i rispettivi movimenti, perchè una qualche parte sia stata rotta ; ma per esser stata dall' ines- perto artefice rozzamente costruita. Le materie se- crecate dalle trombe faloppiane e dall'utero, che in parte vengono assorbite dall'ovicino fecondato, sono talora causa delle cattive disposizioni, che vanno in- generandosi nelP evoluzione dell' embrione; mentre le materie secrecate cambiano nel mutarsi le con- dizioni organiche degli organi secernenti. Ed essen- dosi alterate le proprietà fisico-chimiche degli umo-< ri, assorbiti dagli oviciiii vivificati dall' aura semi- (1) Ostetricia. Monografia della Rachitide 21 naie del maschio , si disturba il processo plastico ^ che determina l'evoluzione del feto. 24. Scorso il secondo mese la placenta attigna nella matrice gli elementi, che si prestano qual ma- teriale istromento del processo plastico: come il fe- gato, il pancreas, le glandole mammarie traggono dal sangue gli elementi per ingenerare la bile , il liquor pancreatico , il latte. Ed alterata che sia la struttura degli organi secernenti , la composizione chimica del sangue, e l'azione del sistema nerveo- ganglionario gli umori non pii'i si preparano con le proprietà fisico-chimico-fisiologiche. E gli elementi preparati nella placenta, e che alimentano il pro- cesso chimico-vitale, che determina l'evoluzione dell' embrione si alterano per i processi morbosi, i quali si ordiscono nell'organo secernente. Come ancora la pletora, e l'anemia, e gli insolili e deleteri princi- pi!, che circolano misti al sangue della madre, du- rante la gestazione disturbano talora la secrezione specifica, la quale si compie nella placenta. E le so- stanze assorbite dai vasi linfatici , ed introdotte nel torrente della circolazione furono trovate miste alle materie secrecate; così si trovava la parte colorante del rabarbero nelle orine, ed il mercurio nella sali- va di quelli, che prendevano il rabarbaro ed il mer- curio. In questa guisa si spiega, come il feto contrae la sifìlide, ed il vaiolo; imperocché il virus contagio- so delle specifiche malattie, ha di bisogno del ma- teriale contatto, per comunicare la malattia. Si cam- biano ancora le proprietà fisico-chimiche degli umo- ri secrecati nella placenta, disturbata che sia l'azio- ne del sistema nervoso. Ed il progresso scientifico ha 22 Scienze dimostrata l'esistenza dei nervi placentari. Altre cause valevoli, a disturbare l'atto chimico- vitale sono le malattie dell' utero, delle membrane del feto , e le alterazioni della composizione chimica delle acque dell'amios. 25. Nello stato attuale , in cui si trova la pa- tologia mediante gli stupendi progressi delle scienze naturali possiamo definire la rachitide: Una malattia costituzionale ed ereditaria, la quale sviluppa il più delle volle nelVelà di sei a dieci mesi, fino a quella di tre a quattro anni, dipendente dal pervertimento delle corrispondenze fisiologiche, che collegano gli agen- ti indispensabili pel sistema della nutrizione, per cui è pervertito il processo chimico^ vitale , ed ha luogo r inequabile diffusione degli elementi componenti la macchina animale. Ed essendo pervertita la simpatia esistente fra i materiali componenti il sistema osseo, e gli elementi immediati dei sali a base alcalina e terrosa, le ossa, e le cartillagini mancano di nutri- mento e di debita solidità. E nei rachitici prima di ogni altro il sistema muscolare fassi gracile, rilascia- to e senza attività, e quindi succede il rammollimen- to e la deformità delle ossaj ciò chiaramente dimo- stra come i fenomeni morbosi della rachitide seguo- no l'ordine consueto dell'assimilazione organica, per- cotendo prima le parti meno, dipoi quelle più d'essa solidificale. 2G. Oltre il rammollimento e l'abnormale svol- gimento delle ossa , la gracilità , la debolezza e la fiaccidità del sistema muscolare hanno luogo la con- sunsione, e l'aumento del volume della massa ence- falica. La testa comparisce grande rispetto al tronco. Monografia della Rachitide 23 e le suture sagittale, coronale ed occipitale perdono le loro forme e le rispettive direzioni, si dilatano, e le fontanelle dilficilmente si obliterano. Le ossa del cranio crescono a dismisura , e quelle della faccia non sviluppandosi con la medesima proporzione, si forma la fisionomia senile, carattere distintivo dell' abito rachitico. In seguito dell' accresciuto volume dell' encefalo si manifestano due contrari fenomeni ; cioè l'aumento delle facoltà intellettuali nei bambi- ni, e l'ottusità d'esse negli adulti; perchè in quelli col crescere l'encefalo si aumenta la cavità del cra- nio; ciò che non può aver luogo quando le ossa so- no indurite, e le suture completamente siano obli- terate. Nel crescere il volume dell' encefalo rimane più o meno compresso , e le facoltà intellettuali si ottundono, ed il rachitico diviene stupido; così ripor- tiamo l'aumento del volume dell'encefalo fra i sin- tomi essenziali, e la diminuita, e l'accresciuta atti- vità delle facoltà intellettuali li consideriamo come sintomi accidentali. 27. Altri sìntomi essenziali della rachitide, sono la difficile dentizione, lo spuntare dei denti neri e profondamente cariati, che si distruggono con faci- lità. Riteniamo questi fenomeni per sintomi essenziali della rachitide; perchè il sistema osseo è costante- mente alterato, e l'osservazione dimostra, che i ra- chitici hanno costantemente i denti più, o meno ca- riati. 28. Fino ad ora non possiamo stabilire quali siano le ossa che costantemente e per le prime ram- molliscono. Solo possiamo asserire , che quelle del cranio, nei bambini rachitici, non induriscono e si 24 Scienze rimangono molli, e che le articolazioni costantemente si tumefanno, onci' è, che da taluni la rachitide fu delta nodosità. La colonna vertebrale è quella parte del sistema osseo, che più spesso delle altre diviene mostruosa. E siccome nella regione cervicale suole curvarsi all'indietro, con la convessità in avanti , e viceversa nel dorso; cosi la testa è portala in dietro, e rimane come infossata nelle spalle, che s'innalzano a guisa d'ale, e costituiscono un altro carattere dell' abito rachitico. In seguito le costole e la clavicola, seguendo le anormali direzioni della colonna verte- brale cambiano la forma simmetrica del torace; e gli organi della respirazione e della circolazione, essen- do compressi, ed impediti nei rispettivi movimenti, non eseguiscono, che imperfettamente le proprie fun- zioni. Le ossa lunghe si rammolliscono e spesso in- curvano nel senso dell'azione dei muscoli più forti; così il femore incurva all'indietro formando conves- sità all'innanzi; nel mentre che le gambe formano convessità all'interno. Il bacino subisce dei cambia- menti, e la sua estensione ordinaria diminuisce nei primi due anni della vita- Alcuni patologi osserva- vano le ossa del bacino costantemente deformale , quando quelle delle estremità si allungavano senza alterarsi nelle rispettive forme. Il sistema dermatico il più di sovente è aspro, e come coriaceo, e d'un colore terreo. L'addome voluminoso, duro e spesso dolente. Le orine sogliono essere sedimentose, e con- tengono dei fosfati di calce. 29. Riteniamo come sintomi accidentali della rachitide l' ostruzioni dei visceri addominali; come ancora la genesi dei tubercoli, la tumefazione, e l'in- Monografia della Rachitide 25 durimento delle glandole linfatiche. E gli ingorghi glondolari si manifestano costantemente allorché il rachitismo è complicato dalla scrofola , o da altre malattie che irritano il sistema linfatico. 30. Molto furono discordi i clinici circa l'epoca, in cui si manifesta la febbre. Alcuni sostenevano con il Sydenham, che precedesse lo sviluppo della rachi- tide, e la consideravano come sintoma prodromo. Que- sta opinione si trova d'accordo con Boeravio , che sostiene esser la rachitide in tutto il suo corso ac- compagnata dalla febbre (1). Al Sydenham ed al Boe- ravio si oppongono il Glisson, e l'Olfmanno; il primo ritenendo la mancanza della febbre come sintomo caratteristico, che distingue la rachitide dalla tabe descritta dagli antichi; e l'altro sostenendo che la feb- bre si manifesti solo a malattìa inoltrata (2). Non po- tendosi por in dubbio i fatti osservati dal Sydenham, dal Boeravio, dall'OlFmanno, e dal Glisson siamo co- stretti a ritenere non esser la febbre un sintomo es- senziale, ma un semplice fenomeno, che si unisce il più delle volte alla rachitide per la debolezza, o so- verchia sensibilità del bambino rachitico , o per il concorso violento delle cause occasionali, che oltre l'essere capaci d'ingenerare i fenomeni morbosi della rachitide, destano eziandio il movimento febbrile. 31, Onde si avessero a conoscere le alterazioni morbose, ed i sintomi della rachitide, proposero al- (1) In lutto il decorso della malattia, cioè la racliltiile, una lenta febbre consuma il corpo fino alla morte. Boeravio, Aforismi. (2) AjTgravanJosi dipoi il male, cioè la rachitide, si svolge una febbre lenta, che dura (ino alla morte. Oflmanno, Delle malattie iu- fanlili. 26 Scienze cuni di dividere il suo corso in tre distinti periodi. Ma questa distinzione è sistematica ed arbitraria ; e la rachitide ha semplicemente il periodo d'aumento, al quale può succedere la morte, o un secondo pe- riodo, che noi chiamiamo di decremento. Se la ra- chitide pervenuta ad un certo grado rimane per più, o meno tempo stazionaria, o di mano in mano vada raegliorando, e quindi nuovamente esacerbandosi pro- segua il suo corso; ciò dipende perchè le condizioni, le quah sostengono gli elementi morbosi non si man- tengono nel medesimo grado, ed ordine; e così que- ste o si trovono in equilibrio con le forze organiche, che tendono a debellarli , ed allora è che rimane stazionaria , o essendo maggiori di forza le potenze organiche, gh elementi morbosi vanno cedendo, ed il rachitico va megliorando. L' intermittenza non è adunque sostenuta d'una legge inerente alla natura ed essenza della rachitide, che ne determina un corso costantemente composto di più periodi. Onde pro- cedere con qualche ordine nell'esposizione della sto- ria diagnostica, ci proponiamo dividere il suo corso in tre distinti periodi ; quantunque nel decorso di questa malattia non esistano dei punti intermedi, e caratteristici per sostenere questa divisione. 32. Primo grado. Nato il bambino con la di- sposizione rachitica, o per i cattivi trattamenti, l'im- proprietà dei pannolini, che lo ricoprono, la cattiva alimentazione, l'umidità ed il freddo, o per 1' aria mal sana, che respira , o per altre cause contratta avendo la disposizione rachitica; allora per il con- corso delle cause occasionali il bambino, essendo gra- cile, e di cattiva costituzione, con la testa grande, Monografia della Rachitide 27 la fronte sporgente, l'intelletto acuto, e precoce , e con la fisonomia da vecchio diviene tristo, ed apa- tico, perde il gusto, ed il piacere per i divertimenti propri della sua età, e la gaiezza, ed il fresco co- lorito della sua faccia. Il volto si fa rugoso, e la fi- sionomia prende un carattere, che esprime V abitu- dine alle serie meditazioni anche nei bambini di bas- sissima età. Gli arti inferiori, ed il sistema musco- lare mancano di forza; il sonno è turbato, manca l'appetito, e le digestioni si disordinano. Il polso di- viene celere; ma il bambino non si lamenta di nes- sun dolore. Quando la rachitide sviluppa negli adulti i movimenti diventano penosi; e si manifestano dei dolori più o meno vivi, vaghi o fissi, e d'un carat- tere equivoco. L'addome è teso, e meteorizzato, con difficoltà spuntano i denti neri e cariali, che si di- struggono con facilità. La testa cresce a dismisura rispetto al tronco ; e le ossa del cranio rimangono molli, e non induriscono; e le suture , e le fonta- nelle si dilatano. Diventano più energiche le facoltà intellettuali , ed i sensi più acuti , principalmente quello della vista. Il bambino sensibilmente dimagra, e si rende sempre più manifesto l'aumento del vo- lume delle tumefatte articolazioni. Nel primo grado della rachitide si sviluppano, il più delle volte, dei movimenti febbrili irregolari, ed intermittenti. 33. Secondo grado. Incomincia il secondo grado della rachitide con l'aumento graduato di tutti quei fenomeni, che noi abbiamo superiormente esposti. Si perde l'appetito, si disordina maggiormente la di- gestione, si accresce la debolezza e la consunsione, ed il volume delle tumefatte articolazion i; ed i mo- 28 Scienze vimenli diventano sempre più difficili, ed il rachitico limane a sedere, o nel proprio letto. Il ventre è co- stipatO; le fecce sono scolorate, e lorine ora abbon- danti e crude , ora torbe , e cariche di sedimento biancastro; nelle quali alcuni hanno trovata una quan- tità considerevole di fosfato calcareo, ed altr'assenza totale d'acido ossalico. Nel mentre, che tutte le fun- zioni della vita organica indeboliscono, e sempre più si disordinano; quelle della vita animale acquistano forza ed alacrità. Si manifestano dei dolori lungo la colonna vertebrale; la quale incurva in avanti, in dietro, o nelle parti laterali; e quasi sempre in due o tre direzioni opposte, formando delle curve, e non mai degli angoli. Le costole rammolliscono, e gon- fiano nelle estremità sternali , ove presentano delle nodosità, o specie di tumori; e seguono necessaria- mente le mostruose direzioni, che prende la colonna vertebrale, di guisa che le curvature raddrizzano, e paiono entranti sm un lato, e sporgenti nella parte opposta; e sono accavallate le une alle altre , non più si muovono , ed in fine si saldano. Lo sterno sporgendo in avanti presenta una forma analoga al petto degli uccelli. Da questa strana conformazione delle ossa del torace ne segue la respirazione diffi- cile, corta, e ventrale. La circolazione si disordina, e s'ingenerano i vizi organici. Le ossa della testa .sempre più rammolliscono; e le suture, e le fonta- nelle dilatandosi permettono all'encefalo d'aumentare di volume. Questa testa mostruosa è sostenuta d'un collo sottilissimo, che posa sopra un tronco, la di cui njagrezza e soverchiamente rimarchevole. Spun- tano con difficoltà i denti neri, e cariati. E se il barn- Monografia della Rachitide 29 bino melteva i denli durante il primo grado, allora cariano, e con facilità si distrugjTono. Le ossa delle estremità toraciche, e addominali l'ammolliscono ed in più sensi incurvano. In alcuni casi non soffrono veruna alterazione nelle respettive direzioni; e solo presentano una smisurata lunghezza rispetto al tron- co, ch'è il solo deformato. Si manifesta costantemen- te la febbre-, e se durante il primo grado si affac- ciarono dei movimenti febbrili ; allora diviene più regolare, e prende il carattere della febbre remit- tente. Nel termine del secondo grado, le facoltà in- tellettuali, che durante il primo , e gran parte del secondo aumentarono di attività in alcuni inlangui- discono, ed in altri conservano la squisitezza fino alla morte. 34. Terzo grado. Finalmente nel terzo grado tutto il sistema osseo sembra alterarsi, e più o meno deformarsi. I muscoli, le membrane, e gli organi pa- renchimalosi, ed il sistema glandolare nei bambini sono profondamente alterati. L'estrema debolezza, e le preternaturali conformazioni organiche disturbano la respirazione e rematosi; gli umori circolano len- tamente, e subiscono differenti modificazioni. I mu- scoli atrofizzati sono in uno stato di permanente con- trazione, e tengono le membra nella flessione, o in altre strane posizioni. L'ammalato non si può mo- vere senza provare i più acerbi dolori, e tanto nei trasporti, come nei leggeri movimenti hanno luogo delle lussazioni. In fine la febbre lenta , la diarrea colliqualiva, e l'estrema consunzione esauriscono in- teramente le forze, ed il rachitico soccombe. 35. Prima che la njalattìa sia tanto iuoltrat,», gii 30 Scienze infermi talora periscono in un accesso di convul- zione; e furono osservati, durante il terzo grado gli accessi d'epilessia, il vomito, la stranguria, la cecità, ed una sordità passeggera. Il chiarissimo Buchner, avendo osservato in una famiglia la maggior parte divenire rachitici fino al più alto grado, e gli altri che ne furono esenti esser sottoposti alle malattie nervose, e perire in bassa età, sostenne, basandosi a questa osservazione, che le affezioni del sistema ner- voso possono svilupparsi in cambio della rachitide. 36. Non sempre il rachitismo si manifesta con tanto contrafacimento dei nostri corpi; e né con quel- l'ordine, come noi l'abbiamo esposto; ma che anzi il più delle volte s'ingenerano eziandio entro di noi, senza evidente sproporzione delle nostre membra , delle occulte forme di rachitismo , le quali furono con tanta esattezza, e circospezione studiate, e descrit- te dal celebre Testa (1). 37. Quando il rachitismo ha un esito felice i dolori cessano, la febbre sparisce, il ventre si abbas- sa, diviene molle e cedevole, diminuisce l'irritazione del sistema linfatico. Torna l'appetito, le digestioni si compiono regolarmente; ed il sistema muscolare acquista forza, e le ossa la debita solidità. Nella ra- chitide incipiente, che non si formarono delle con- siderevoli mostruosità, il bambino ritorna nello stato il più commendevole; ma se il rachitismo, facendo maggiori progressi altera la forma simmetrica del corpo; allora nei casi più favorevoli le deformità di- vengono meno sensibili; ed il bambino acquista ala- (1) Malattie del cuore. Tom. I, cap- 3. Monografia della Rachitide 31 critìi e vigore. La testa conserva il suo volume ; e l'acquistata energia, ed il precoce sviluppo delle fa- coltà intellettuali si mantengono nel medesimp gra- do. Il più delle volte le ossa acquistando la natu- rale solidità rimangono nello stato di deformità, in cui erano durante il rammollimento. I muscoli quan- tunque ridotti ad una singolare sottigliezza acqui- stano sufficiente energia, per eseguire i movimenti necessari alla stazione ed alla progressione. Questi atti della macchina animale si eseguiscono con più o meno incomodo asseconda delle mostruosità, che s'ingenerarono nel sistema osseo. 38. Il rachitismo, siccome si congiunge costan- temente ad una profonda alterazione dell' assimila- zione organica; cosi è una malattia di cattiva indole, ripiena di pericoli; ed il raei^lico deve farne un cat- tivo pronostico. Il Sanson ed altri sono di parere , che non comprometta in verun modo la vita dell' infermo, e che costituisca anziché una malattia una semplice mostruosità allorché é limitato alle estre- mità toraciche e addominali. I pericoli si aumenta- no, e la malattia diviene gravissima alloi'chè inco- minciano a rammollirsi le ossa del tronco, perchè disturbandosi la respirazione e la circolazione s'in- generano delle congestioni polmonari, e dei vizi pre- cordiali; e deformandosi eziandio la simmetrica com- posizione del bacino si rende difficile nelle donne il parto. In fine la rachitide é una malattìa più o me- no grave a norma dell'estensione maggiore o minore delle ossa rammollite , e delle alterazioni viscerali , che gli sono associate come complicazioni, o come semplici effetti. 32 Scienze 39. Nelle autopsie che si facevano di quelli , che cessavano di vivere durante il corso della ra- chitide si trovava dai patologi l'encefalo accresciuto di volume, i muscoli costantemente assottigliati, lo scheletro in vari modi deformato, le ossa rammollite e cedevoli, le quali si rompevano allorché si piega- vano bruscamente Queste erano composte d'un tes- suto spugnoso, nel quale si spandevano grossi vasi, che comprimendoli versavano un liquido rossastro e sanguinolento. Quelle della testa furono trovate spugnose, molli ed ingrossate. Le pareti dei cilindri delle ossa lunghe erano assottigliate, e contenevano una sierosità rossastra; ed analizzate si trovava, che scarseggiavano dei sali a base alcalina e terrosa. Alle alterazioni organiche, che si trovano costantemente nei cadaveri degli individui, morti durante il corso della rachitide, si consociano il più delle volte , le lesioni organiche, le quali sono le conseguenze delle infiammazioni croniche degli organi encefalici, pet- torali, addominali, dello scorbuto, della sifilide, della .scrofola; e di altre malattie, che sviluppano nei ra- chitici. Queste lesioni organiche non si trovano co- stantemente nei cadaveri; e noi le crediamo anziché effetto immediato della rachitide, il resultato di altri processi morbosi, che si consociano ad essa. Questa nostra opinione concorda con i principii di patolo- gia; imperocché é dimostrato dal fatto clinico, che un affezione morbosa può nascere e sussistere con due processi morbosi primitivi, 1' uno indipendente dall'altro. Prova di ciò ne sia la sifìlide quando si unisce allo scorbuto, e la peripneumonia sopraggiun- ta nel corso d'un'afi'ezione reumatica. L'ipertrofìa, o Monografia della Rachitide 33 l'atrofia, che hanno luogo nel medesimo organo: co- me si osserva nel cuore, che nel mentre un ventri- colo è ingrossato nelle sue pareti , quelle del Iato opposto sono atrofizzate. Non si conoscono dei pro- cessi morbosi, che necessariamente non sieno mai complicati d' altri elementi morbosi. Alcuni di essi il più delle volte si consociano con altri, che gli so- no più affini, e dipendono dalia medesima funzione in altro modo alterata; imperocché, dimostra il pro- fessor Bufalini, che le forze primitive in più modi possono disordinarsi; e nel mentre la mischione or- ganica è alterata nella quantità dei principiì, potrà eziandio disordinarsi nell' ordine e nella natura dei medesimi. E le malattie che più o meno dipendono dal perturbamento del sistema della nutrizione si uniscono il più delle volte alla rachitide; ed allora si costituiscono due forme di malattie, o per dir me- glio una particolare forma risultante dalla riunione dei sintomi propri della rachitide e dell' affezione morbosa, con la quale si è consociata. Con questo però, che molti fenomeni morbosi sono modificati, e qualcuno neppure si manifesta. 40. Per queste e non altre ragioni la scrofola, lo scorbuto sviluppano nei rachitici ; ed in essi la sifilide spesso diviene costituzionale; e non raramen- te s'ingenerano in essi dei tubercoli. Le quali ma- lattie non cade dubbio, che siano sostenute dal per- vertimento del processo nutritivo; meno che non si volesse escludere il perturbamento dell'assimilazione organica nel morbo sifilidico. Ma ingenerate che sia- no dal virus venereo le lesioni organiche , tutto il sistema linfatico viene irritato; e si forma nell'orga- G.A.T.CXVIII. 3 ^4" Scienze nismo del sifilidicì una particolare indisposizione. Ed il virus venereo , essendo assorbito altera la crasi del sangue, e disordina il sistema della nutrizione : ed ecco come s'ingenera la diatesi venerea. Se per taluno non fosse soddisfacente questa nostra opinio- ne; allorché esso riterrà in patologia, che più ele- menti morbosi nascono e sussistono nel medesimo individuo, ci dovrà del pari concedere, che la sifi- lide sì consocierà alla rachitide ogni qualvolta il ra- chitico contrae il virus venereo. Al. La medesima ipotesi ci spiega come i rachi- tici sono spesso gottosi , reumatici, e qualche volta erpetici. Dal professor Bufalini, e da altri si ritiene esser la gotta ed il reuma sostenute dallo stato ple- torico, e dall'abberrazione delle secrezioni nutritive; per cui s'ingenera il più delle volte la soprabbon^ danza dell' acido urico , e dei fosfati ; e si formano nei gottosi le concrezioni tofacee. E con questa me- desima ipotesi si spiega come ai reumatici, ed ai got- tosi non si convenga onninamente la cura esperi- mentata giovevole nell'intense e legittime flogosi; e per quali ragioni nel reuma e nella gotta furono tro- vate proficue dal Sydenham quelle sostanze, che ren- dono sempre più attiva la traspirazione cutanea. 42. Somigliantissimo ragionamento è da farsi rispetto alla diatesi erpetica. E nel mentre ammet- tiamo con il Cullen ed il Bufalini grandissima diver- sità tra la diatesi erpetica e lo stato d'eruzione; non sappiamo stabilire se questa sia l'effetto o la causa. Si potrebbe sostenere, che da principio sia ingene- rato nella cute, senza colpa del sangue, il vizio er- petico; perchè i vasellini della medesima sono irritati Monografia della Rachitide 35 da cause specifiche : come sono prodotte le altera - zioni organiche dal virus venereo. Essendo assorbita dai vasi linfati la materia secrecata dalle lesioni, che da principio sono assolutamente locali, entra nel tor- rente della circolazione, altera la crasi del sangue, disturba il processo chimico vitale, e s'ingenera ne- gli erpetici, come nei sifìlidici una peculiare indis- posizione nell'organismo, capace da per se stessa di sostenere, e d'accrescere eziandio la di già esistente eruzione. Se l'eruzione erpetica fosse mantenuta d*un irritazione cutanea, gli erpeti sarebbero mali assolu- tamente locali, e la cura la più razionale e la più giovevole dovrebbe limitarsi alla parte affetta; ed al contrario l' esperienza dimostra, che non cedono se non in seguito d'una cura antierpetica generale. E come daremo ragione, senza ammettere un'alterazio- ne nel processo chimico-vitale, del cambiamento del- l'abito del corpo e di tanti altri fenomeni morbosi? 43. I medesimi principi! che abbiamo superior- mente esposti, ci spiegano, come nei diversi tessuti dei cadaveri dei rachitici si trovarono dagli anato- mici i tubercoli. E le osservazioni di Laénnec, Bayle, ed Andrai dimostrano ad evidenza, come la materia etcrologa costituente il tubercolo sia ingenerata da una specifica secrezione, mercè della quale si forma una materia atta a depositarsi in qualunque parte del corpo. > hh. Alle malattie dipendenti dal pervertimento del processo chimico vitale, possiamo annoverare il diabete, i versamenti sierosi e la clorosi. Il diabete è una malattìa rarissima, e la scienza fino ad ora Qon possiede dei fatti ; per convalidare questa no- 36 Scienze slra opinione. E lo stesso deve dirsi rispetto ai ver- samenti sierosi; imperocché l'anatomia patologica ha dimostrato, che raramente sono Teifetto della discra- sia umorale, e dell'accresciuta attività dei vasi esa- lanti; e quasi sempre derivano da altri processi mor- bosi. E l'idrocefalo, che spesso si unisce alla rachi- tide, forse dipende dall' irritazione , che le meningi soffrono nell'incremento anormale della massa ence- falica. Le ossa del cranio non dilatandosi con la me- desima proporzione, con la quale si accresce il vo- lume dell'encefalo, esso rimane compresso con le sue membrane in tutta la superficie esterna, o in alcuni punti soltanto; perchè nel mentre le ossa del cranio in alcune parti vanno cedendo, in altre fanno resi- stenza*, ed ecco come si accendono delle leggeri fio- gosi, e si formano i versamenti sierosi. Come anco- ra il sangue, per una cattiva conformazione del si- stema cardiaco-vascolare, in maggior copia affluen- do nella testa, ed ingorgando il sistema capillare in- genera i versamenti sierosi. E la rachitide svolgen- dosi nei primi anni della vita; come potrà allora ri- conoscersi nelle bambine l'affezione clorotica? Ma la mestruazione è scarsa e ritardata in alcune, ed in altre soverchiamente precoce; e le fanciulle rachi- tiche con facilità diventano clorotiche. A5. Se alle condizioni indispensabili allo svilup- po dei fenomeni rachitici , si uniscono quelle , che ingenerano la tabe essenziale; allora si manifesta una grandissima emacia/:ione; ed in cambio d'una com- plicazione morbosa, si vedrà questo fenomeno oltre modo accresciuto. E nel mentre i rachitici sono mag- giormente predisposti alle malattie , dipendenti dal Monografia della Rachitide 37 pervertimento del processo chimico-vitale, sono del pari esposti a tutti gli altri processi morbosi. 46. Passando ora a descrivere i cambiamenti , che hanno luogo nella forma della rachitide quando è complicata dalle malattie, dipendenti dal perver- timento dell'assimilazione organica; stabiliremo pri- ma di ogni altro; che siccome la rachitide sviluppa nel decorso, come prima e dopo di esse; così gli in- dividui portano la costituzione della malattia , che per la prima si è ingenerata. Un individuo scrofo- loso o scorbutico che diviene rachitico, avrà la co- stituzione scrofolosa o scorbutica; ed essendo rachi- tico avrà r abito rachitico se diviene scrofoloso o scorbutico. Ma le costituzioni proprie di queste ma- lattie, con facilità si confondono le une con le al- tre; e si potrebbe sostenere, che una medesima co- stituzione appartiene a più malattie, ed asseconda del concorso delle cause occasionali sviluppa questa, e non quella, che forse appartengono alla medesima costituzione. 47. Rachitismo- Scrofoloso. Nella rachitide com- plicata dalla scrofola si manifestano oltre ì sintomi essenziali della malattia primitiva, 1' accumulamento e la stasi della linfa, l'indurimento e l'ingorgo glan- dolare, l'ostruzione dei visceri addominali, la durez- za ed il gonfiore del basso ventre. S' ingenerano i versamenti sierosi; e per l'indurimento delle glandolo mesenteriche, essendo impedito il corso del chilo, si manifesta una rapida emaciazione. A malattia inol- trata si deposita la materia tubercolosa nei diversi tessuti; si promovono leggeri e viscidi sudori, il ca- lore urente nella palma delle mani, e gli altri sia- 38 Scienze tomi caratteristici della febbre elica. Dal Portai si osservava spesso cariarsi il sistema osseo nel rachi- tico scrofoloso. E dal Pott si ripone fra le princi- pali cause della carie vertebrale la diatesi scrofolo- sa. Il rachitico si lamenta d' un dolore profondo e circoscritto in un punto della colonna vertebrale ; dipoi essa incurva in varie direzioni^ e si manifesta la paralisi dei muscoli delle membra pelviche, della vescica e del retto, E la condizione morbosa del ma- le, che con tanta esattezza ci descrive il celebre Pott^ si ripone nella carie vertebrale, per cui si altera la forma del cavo rachidea, e si comprime la midolla spinale. 48, Rachitismo- Sifilidico. Nel rachitico venereo oltre i sintomi che sviluppano durante il corso della sifìlide primitiva; si manifestano anche quelli che caratterizzano la sifìlide consecutiva. Induriscano le glandole cervicali, ascellari ed inguinali, le quali con facilità suppurano e gangrenano. Esidcerano le mem- brane muccose; si manifestano le eruzioni nel siste- ma dermatico; come ancora le scaglie , i tubercoli, le pustole, le ulceri, gli indurimenti scirrosi, le fun- gosità, le escrescenze carnose, i polipi, le esostesi , la carie delle ossa, ed in fine i dolori esteocopi. Il Portai ed altri nelle autopsie cadaveriche trovarono ! le glandole linfatiche del polmone , del mesenterio e del fegato tumefatte, indurite ed inzuppate d'una materia esteomatosa. Il canale rachideo in alcuni punti ristretta per la tumefazione delle vertebre, nel quale era raccolto un liquido verdastro simile a quel- lo, che in grandissima copia si trovava nella cavità dell'addome. fi Monografia della Rachitide 39 49. Rachitismo- Scorbutico. Se per l'influenza di alcune cause viene meno la plasticità del sangue , si ingenera la discrasia umorale, e sviluppa nei ra chitici la diatesi scorbutica; si manifesta allora me- diante emorragie nere e fetide, e con macchie bru- ne e nere , che sviluppano nella superficie esterna del corpo. Le gengive gonfiano e divengono fungo- se e sanguinolenti, e l'alito prende un' orribile fe- tore. Vacillano e cadono nello spuntare i denti; l'e- stremità addominali divengono edematose, e si for- mano in esse le ulceri varicose. Il respiro è penoso, deboli i moti cardiaci, e le facoltà intellettuali non divengono più energiche, ma indeboliscono; ed acer- bi dolori sviluppano nei rachitici scorbutici. Neil* autopsie cadaveriche Portai, e Bertin trovarono il sistema muscolare rammollito, e manifesti segni della discrasia umorale, e dei versamenti neri e sangui- nolenti in quasi tutte le parti del corpo. Esaminan- do il sistema osseo trovarono le apofisi staccate ; e che nel mentre la superficie esterna delle vertebre era nello stato naturale, l'interno non era che una vasta caverna divisa da irregolari tramezzi talmente rammolliti, che non potevasi comprendere, vedendo una simile distruzione, come avessero potuto soste- nere il peso, ed i movimenti del corpo senza punto crollare, o per lo meno abbassarsi rapidamente. 50. La diatesi urica complicata alla rachitide 8Ì svolge sotto due forme; cioè di reuma e di got- ta; e la dispesia, e l'acidità dello stomaco ne costituis- cono i sintomi prodromi. I fenomeni infiammatori non sviluppano nei rachitici con quella forza ed ener- gia , con la quale ci si appalesano nelle legittime -40 Scienze flogosi. Il sangue estratto dalla vena del rachitico» reumatico o gottoso, non presenta i caratteri inflam- inatori cosi marcati e costanti; come quello estratto durante il corso d'intense e legittime flogosi. I fe- nomeni morbosi della diatesi urica furono veduti precedere quelli della rachitide; così fu creduto da taluno, che il rachitismo dipendesse da questa dia- tesi. Ma il reuma e la gotte si manifestarono ezian» dio dopo esser ingenerata la rachitide; ed allora la eausa deirafFezione morbosa si manifesterebbe in se- guilo, ed in forza dell'effetto. 51. Rachitismo-reumatico. Gli atroci dolori, che si fanno sentire nella regione lombare, e quindi si estendono in tutte le articolazioni sono i primi, ed i più costanti fenomeni, che determinano l'esistenza dell'affezione reumatica nei rachitici. Il rossore, ed il calore delle articolazioni sono mena sensibili ; e raramente nei rachitici prende il carattere aeuto^ e per lo più si manifesta sotto la forma cronica. I rau»- scoli atrofizzati sono in permanente contrazione', e le anchilosi ne costituiscono le più fatali conseguen- ze. Riportiamo il resultato d'un autopsia d'un cada- vere d'un individuo, che durante la vita i fenomeni morbosi della rachitide s'ingenerarono in seguito d' atroci dolori lombari, che furono dichiarati di na- tura artritica, e per i quali finalmente moriva con- sunto : Molte delle ossa lunghe furono trovale gon- fie^ e specialmente quelle delle ginocchia più delle al- tre; Vestremità inferiore del femore destro, e la sii>- periore della tibia contigua erano assai tumefatte , ed anche ineguali nella loro superficie esterna. Le la- mine ossee in vari siti erano elevale in prominenza Monografia della Rachitide Ai più^ 0 meno acute, ed in alcune altre depresse, inca- vate da varie cellule strette^ e profonde, e la lamina interna era distrutta in diversi luoghi. Molte altre estremità ossee erano mollificate^ e piene d'un liquido rossastro d'ineguale consistenza , essendo in qualche luogo condensato come la cera^ ed in altri fluidi co- me V acqua. Le ruotola era quasi nello stato nor- male (1). 52. Rachitismo-Gottoso. La diatesi urica sotto la forma di gotta di rado si complica alla rachitide, perchè questa si svolge nei primi anni della vita, e l'altra in quelli che hanno oltrepassati i trentacin- que anni. Non mancano però i fatti, che dimostrono la possibilità di questa complicazione. Dal Portai, e da altri si osservava, dopo esser comparsi più ac- cessi gottosi, le articolazioni ingrossare, divenire ir- regolari, e nodose, ed essendo deviate in tutti i sen- si, le superficie articolari non più si corrispondeva- no, ed erano in più modi lussate. E le ossa rammol- liscono in ragione diretta del loro aumento, ed una gran parte delle articolazioni vanno saldandosi per vera anchilosi. In fine si formano abbondantissime concrezioni tofacee, composte d'acido urico tanto li- bero, che combinato alla calce, ed alla potassa, e ad ' una materia animale. Portai trovava nei cadaveri dei rachitici gottosi delle ossa friabili e petrificate, nel mentre che altre erano rammollite senza il cavo mi- dollare, che era interamente obbliterato. In altre au- topsie si trova dal medesimo scrittore francese la (1) Portai, Osservazioni sulla iialiira, e miI Irattamento tUlla ia~ ij «liilide ari. 6. A% Scienze midolla concreta soda, o discioUa , e quasi sierosa E sezionando un cadavere d'un rachitico gottoso os- servava : Che le vertebre erano in parte coperte di concrezioni tofacee biancastre come la cera , situate sotto i legamenti^ e nella superficie anteriore dei cor- pi delle vertebre^ i quali erano in molti luoghi molli e deformati. Alcune osse del carpo erano riunite^ ed altre rammolite. Alcune avevamo perduto il volume , mentre le altre estremità digitali delle due prime os- sa del metatarso erano estreoianaente gonfie (1). 53. Oltre le alterazioni organiche, che s'inge- nerano nel rachitico gottoso si destono eziandio i sin- tomi di reazione : come la dispessia, la crudità , e l'acidità dello stomaco, ed il pervertimento delle fun- zioni digestive, la generale debolezza, il morale ab- battimento, la paralesi, e le vertigini, che sogliono precedere gli accessi gottosi. In seguito di atroci dolori gottosi alcuni rachitici ebbero affezioni nefri- tiche, le quali si manifestiivano con quei sintomi , con i quali ci si appalesono le concrezioni calcolose: ed ecco, che la diatesi urica si manifesta nei rachi- tici sotto la forma di renella. 54. Rachitismo-Erpetico. La condizione mor- bosa della rachitide sospende interamente negli er- petici lo stato d'eruzione, ed agisce come potentissi- mo rivulsino, dirigendo forse il vizio erpetico nelle ossa rammollite; o nell'ingenerarsi la condizione mor- bosa della rachitide si diminuiscono, o si modificono le condizioni, che sostengono l'eruzione erpetica. Che l'eruzione sia dipendente d'una peculiare condizione (I) Osservazioni sulla rachitide art 6. Monografia della Rachitide 43 dell'org.inismo non può revocarsi in dubbio; e nel cambiarsi alcune condizioni della macchina animale in certuni cresce l'eruzione, nel mentre che in altri interamente si sopprime. Se la diatesi erpetica si mantiene, nel mentre che il rachitismo va cedendo, ed il sistema muscolare, ed osseo acquistono la so- lidità, e la debita consistenza; allora nuovamente si manifesta lo stato d'eruzione. 55. Il rachitismo si consocia talora con la clo- rosi, ed il diabete; e la debolezza, ed il consumo del- l'organismo ne costituiscono i più costanti fenemoni. E tanto l'una che l'altra con indebolire la costitu- zione, accrescono la disposizione rachitica; e l'ema- ciazione, che costantemente si osserva nei rachitici è rimarchevole; mentre è sostenuta da due affezioni morbose. 56. Non merita d'esser rammentata l'opinione di quelli, che non ammettendo la rachitide primitiva ripongono la natura, e l'essenza del rachitismo nel vizio scrofoloso, nel virus venereo , nello scorbuto, nel reuma, nella gotta, nella scabbia, nell'erpete, ed in altre eruzioni del sistema dermatico; imperocché queste malattie hanno un corso, ed una forma par- ticolare, sono promosse e sostenute da peculiari cau- se, ed hanno di bisogno d'un particolare metodo di cura. Si trovano isolate senza esser complicate dalla rachitide, quantunque siano pervenute al più alto grado. Ed il rachitismo, che si presenta costantemente con i medesimi sintomi essenziali non deve confon- dersi con altri processi morbosi, né farsi dipendere da varie cause specifiche. 57. Nel rintracciare le cause occasionali, die 44 Scienze determinano lo svolgimento del processo morbose^ stabiliremo, che le potenze nocive, le quali debilitano il sisteaìa della nutrizione generano, sostengono, ed accrescono la disposizione rachitica. E la prevalenza del sistema linfatico, la debolezza del sistema car- diaco-vascolare, la cattiva conformazione della mac- china animale, ed i cronici processi morbosi ec. co- stituiscono il complesso delle cause predisponenti. E le potenze nocive accrescono la disposizione rachi- tica quando debilitano l'atto assimilativo; ed agiscono come cause determinanti allorché disturbono il pro- cesso chimico vitale. Quali sono le cause che dimi- nuiscono, o accrescono l'intensità dell' assimilazione organica ? E quali disordinano il processo chimico vitale ? Egli è questa una questione di facile solu- zione, allorché si considera nel modo il più generale ed astratto; ma discendendo alle particolarità, si toc- cano punti d'impossibile soluzione. Stabiliremo come assioma : Quando il complesso degli stimoli, che met- tono in esercizio la vitalità, e le potenze nocive agi- scono equabilmente nei poteri , che compiono V atto chimico vitale accrescono, o diminuiscono il processo di nutrizione. Quando dispiegono la rispettiva azione parzialmente, e rimovono dallo stato fisiologico uno, 0 più agenti, che mettono in azione il processo chi- mico vitale; allora disordinano V assimilazione organi- ca. Il tonico nevro-stenico accrescendo l'azione del sistema nerveo-ganglionario, il miasma, e certi ve- lini diminuendone l' azione disordinano il processo chimico-vitale. Il tonico astringente, o le cause mor- bose, che diminuiscono l'orgasmo dei solidi, che de- termiiia l'oscillazione areolare, e capillare, non es- Monografia della Rachitidil 45 sendo in reciproco rapporto con gli stimoli, che man- tengono la composizione chimica del sangue, e quelli che eccitano il sistema nervoso , la chimica viva non più regolarmente si compie. Le cause le quali diminuiscono la sensibilità organica , 1' orgasmo, e Perettismo vitale dei solidi le crediamo in modo spe- ciale valevoli a produr l'ineguabile difFussione degli clementi, che si prestono qua! materiale istromento della riparazione organica, I solidi indeboliti non sono più atti ad assimilare i principii alimentari nella debita proporzione, perchè è rotta V armonia fra i solidi ed i fluidi ammessa dal Baglini. '*' 58. Gli stimoli, che mantengono la composizioiife* chimica del sangue, e quelli che sostengono la to- nicità dei solidi, e la vitalità del sistema nerveo- ganglionario sono le cause motrici della nutrizione. E triplice è la varietà delle potenze nocive, che disor- dinano l'atto chimico-vitale. Ma è cosa difficile di stabilire le alterazioni, che generono nei sistemi: cioè sanguigno, muscolare e nerveo, che posti in azione dagli stimoli compiono l'atto chimico- vitale; mentre sono riuniti e strettamente collegati , che l' azione della potenza la quale agisce in uno d'essi nel me- desimo tempo si diffonde anche negli altri ; così il sangue stimola il sistema nervoso, il sistema nervoso la fibra muscolare, e presiede all'atto della sanguifi- cazione: Sanguis ad sapientiam facit praeserlim quum suam habet consuetam concretionem. Sanguis desipere facit quum si t niniis dissolulus (1). L'anemia suscita i disordini nervosi, i tonici analetici il più delle voU (1) l|)potrdle. 46 Scienze te gli calmono. E le sostanze non affini all'organismo, diminuendo l'intensità del processo chimico-vitale generono la disposizione rachitica, ed agiscono come cause determinanti allorché disturbano le corrispon- denze . fisiologiche , che mettono in armonia le po- tenze che compiono il processo chimico -vitale. E la mancanza, e la soverchia alimentazione non deter- minano da per se stesse lo svolgimento del rachiti- smo; ma predispongono la macchina animale a mag- giormente risentire la malefica influenza delle eauso determinanti. E non senza una qualche ragione si credeva dal Zeviani, che il latte soverchiamente nu- triente fosse la causa della rachitide dei bambini. Come ancora l'aria , che tiene disciolta una sover- chia quantità di vapori aquei noce all' organismo. Per un tal vizio dell'aria i solidi inlanguidiscono, ed i fluidi circolano lentamente; si sopprime la traspi- razione, e l'assorbimento si accresce, e ne succede il languore sì del corpo, che dell'animo, e quindi lo stato cachetico : ed ecco, che l'aria soverchiamente carica di vapori aquei agisce come potenza nociva, che favorisce, e determina eziandio la disposizione rachitica. Lo stimolo del calorico e del fluido elet- trico eccitano la fibra organica, ma se l' azione di questi imponderabili indebolisce, o diviene soverchia- mente energica, essi agiscono come potenze nocive capaci di disturbare il processo chimico-vitale. E l' esperienze dei naturalisti hanno confermato, che le piante elettrizate positivamente prosperono più delle non elettrizzate. E noi riteniamo con Bertholon Te- lettricità come un elemento, che sommamente favo- risca l'elaborazione delle sostanze nutritive ; ed ac- Monografia della Rachitide 47 crescendo l'azione del potere vejjetativo si opponga alla disposizione rachitica. E la mancanza della luce, con la scarsezza, e la prava natura dejj^li alimenti, e l'umidità ingenerarono, e favorirono la disposizio- ne, e quindi ordirono la condizione morbosa della rachitide negli animali, che dai curiosi della natura si tenevano in luoghi oscuri ed umidi, ed erano ali- mentati con pochi e cattivi alimenti. 59. E la rachitide sviluppa il più delle volte nei climi settentrionali dell'Inghilterra, dell'Olanda , della Danimarca e della Francia. Nelle grandi città si osservava da Boeravio esser soggetti quelli , che abitavano lochi umidi, poco ariosi, e non dominati dai raggi luminosi del sole. L'azione della luce es- sendo indebolita non è più capace di stimolare, o come altri sostengono, di combinarsi in debita pro- porzione alla fibra organica ; e così non favorisce l'elaborazione, e l'assimilazione delle sostanze nutri- tive. S'indebolisce il sistema della nutrizione, ed è pervertita quella speciale simpatia, o affinità chimi- ca, la quale esiste fra i materiali componenti i tes- suti, e quelli d'egual natura, che sono nel sangue. E dal vero non si allontana, chi sostiene, che le po- tenze nocive esterne, che debilitano la costituzione predispongano alla rachitide; e l'interne alle quali si riportano i processi morbosi, siano le cause predi- sponenti. Il Boeravio sostiene, che tanto le une, che le altre disturbando l'assimilazione organica dei ge- nitori ne predispongano la prole : E sommamente contraria^ così egli si esprime, alla prole dei geni- tori rilasciati^ e di debole costituzione di corpo., ozio- «ì, molli ^ abituati ad una lauta mensa., ai cibi pin~ 48 Scienze yui e zuccherati^ a poco pane, ai vini dolcissimi, ed a molta acqua calda, vi sono del pari soggetti quelli, che sono consumati dalle croniche infermità, daWetà, e principalmente dalla tabe venerea, e dalle iterate gonorree . Che se poi la nutrice d'^essi sia af- fetta dai medesimi morbi, allora la precoce malattia immensamente si accresce nei bambini (1). 60. Senza trattenerci a parlare degli esorcismi € della puntura, che si faceva dagl' inglesi con un ferro spuntato nella conca delle orecchie dei rachitici; onde raccoglierne il sangue , per quindi applicarlo negli ipocondri dei medesimi; e di tante altre me- dicature, che furono 1' effetto della superstizione e dell'ignoranza, diremo solo poche cose di quei me- todi curativi, che sono coerenti al modo di ragio- nare dei loro fautori. Il professore Maiow ritenendo col Glisson , che la causa prossima della rachitide fosse riposta nell' ostruzione degli organi racchiusi nel cavo rachideo, la quale indeboliva l'azione dei nervi spinali; si proponeva di stabilire una cura ra- zionale capace di togliere questa immaginata con- dizione morbosa. I catartici, i digestivi, i diaforeti, non che il salasso, il setone, il cauterico , ed i ve- scicanti ec. furono creduti valevoli a dileguarla. A questi sussidi terapeutici aggiungeva degli specifici e dei medicamenti tonici, ed eccitanti per animare il sistema nervoso. Il Maiow intraprendeva una me- dicatura per togliere la condizione morbosa, che esi- steva soltanto nella sua immaginazione; ed i medi- camenti che amministrava o furono di danno, o inu- (1) Aforismi da conoscere, e da curare le malattie. Monografia della RAcniriDE 49 tili, o essendo tonici ed eccitanti giovarono contro il volere del naedico, mentre li prescriveva per tutto altro fine. Il Zeviani avendo stabilito che il latte so- verchiamente nutriente era la causa della rachitide dei bambini; sostenne in forza dei suoi principii, che la cura purgativa era la sola medicatura conveniente ai bambini rachitici. Concediamo per un istante al sig. Zeviani, che la qualità del latte sia la causa oc- casionale; ma i fenomeni morbosi svilupperanno di mano in mano, che il disordine della digestione ge- nera una cattiva assimilazione, ed un'estrema debo- lezza. Applicando i principii del Zeviani alla tera- pìa della rachitide, sarà più conveniente di correg- gere la qualità del latte, sostenendo nello stesso tem- po la di già abbattuta forza organica , anziché in- debolire maggiormente il bambino con la medica- tura purgativa. Il Eonhomme, e Lantin prescrivendo il primo il fossato di calce, e di soda; e V altro il solfato d'ammoniaca stabilivano una medicatura, che si esperimentava proficua solo nei casi, che si pre- scrivevano nel medesimo tempo i marziali; la china, e si facevano delle frizioni aromatiche. Questa me- dicatura è basata in una falsa teoria; cioè nel ripor la causa prossima della rachitide nella sottrazione dei Isaii a base alcalina e terrosa; e noi abbiamo supe- riormente dimostrato , che la scarsezza dei sali nel sistema osseo è l'effetto, e non la causa della rachi- tide. 1 61. Quelle sostanze, le quali dai tempi a noi più remoti fino ai nostri giorni furono credute spe- cifiche della rachitide, e che reciprocamente si ce- devano le une alle altre la supposta virtù specifica, G.A.T.CXVm. 4 50 Scienze e quella rinomanza, che la superstizione dei popoli, e l'ignoranza dei medici gli avevano proccccìata, o erano dotate della virtù tonica, nutriente, ed ecci- tante, ed allora con rendere più attivo il potere ve- getativo, ne dileguavano i fenomeni morbosi; o non dispiegando veruna azione, il rachitismo si dileguava in forza dei sussidii igienici e terapeutici valevoli a dar forza e tono alla fibra organica. I tonici ed i nutrienti sono costantemente congiunti ai medica- menti supposti specifici, e ne costituiscono a seconda dei loro fautori la parte principale della medicatura. I medicamenti sciolgono talora le condizioni mor- bose, dispiegando la rispettiva azione contro le cause occasionali; così l'antelmitico ed il salasso guariscono il tetano promosso dai vermi, o dalla flogosi. Che se non apportarono giovamento, operando direttamente, e né indirettamente; allora sarà forza di convenire, che abbiano formata parte dell'etiologia, e non cer- tamente della terapìa. E le malattie furono debellate dalle forze organiche, che per loro natura tendono a togliere le condizioni morbose. 62. Dal Benevoli non si ottenevano in Firenze felici risultati dallo specifico, che Antonio Gregorio Carocci gli aveva comunicato, se non quando am- ministrava unitamente all'enee di Venere ì marziali, la 1 coclearia, il latte, e l'inosterica erba amara ed aro- ' matica, e vestiva gl'infermi con la flanella d'Inghil- terra. Furono aministrati i tonici, e gli eccitanti dai medici inglesi e francesi unitamente all'olio di fe- gato di merluzzo, I racchitici guariti con questo spe- cifico da Schénk e Bretonneau , e da Fehr furono sottoposti ad una medicatura igienica e terapeutica Monografia della Rachitide 51 valevole a dar tono e forza alla fibra or(janica. Dal Portai si amministrava, con felice risultato, il sciroppo mercuriale del Bellet al rachitico venereo u nilamente agli antiscorbutici, ai decotti amari ed alla china. Il metodo empirico trovato utile da Francesco Corvellà consistere in unzioni, le quali si fanno lungo la co- lonna vertebrale allo sterno ed alle articolazioni tanto toraciche, che addominali con teriaca veneta, o con il semplice miele, e quindi spargendovi sopra dell' aloe succotrino polverizzato, nel mentre che inter- namente si amministrano alcune once d'una deco- zione amara composta delle seguenti erbe : fiori e foglie della centaura minore, il coprifiglio, la boni- cera, il verbano officinale , il tevario comedrio, la prunella volgare, la centaura benedetta, la pianta- gine psilio, e la radice dell'aristolchia rotonda. Stack e Mayence in seguito dei resultati, che ottenevano degl'infermi da essi curati, proposero nella rachitide, come specifico infallibile la limatura di ferro unita al rabarbero ed allo zucchero. Uberto di Genova pubblicò nel raccoglitore della società medica di Pa- rigi più casi di rachitide guarita con Vosmonda re- galis Linn: ed altri assicurano di avere ottenuti fe- lici risultati della rubia tintorum Linn. 63. I rachitici guariti dai chiarissimi medici , che abbiamo superiormente nominati furono sotto- posti ad una medicatura igenica e terapeutica tonica, ed eccitante, e la maggior parte dei supposti speci- fici, accrescendo il potere dell' atto chimico-vitale danno forza e tono alla fibra organica. Così ripor- tiamo alla classe dei tonici la polvere aministrativa da Slrack e Mayence, Vosmunda ì'egalis Linn. esperi- 52 Scienze menlata utile d'Uberto ; e la rabia tintorum Linn: da altri espertissimi patologi; come ancora l'olio di fegato di merluzzo decontato specifico da Shenk, da Bretoneau e da Frehr, che per quanto rilevasi dalle settantuno esperienze, che furono fatte da Reister è un olio eccitante. 64. Noi abbiamo superiormente stabilito, basati mai sempre all'autorità dei più classici medici, me- ritevoli della nostra fiducia, e somma venerazione , che negli scritti, i quali si rendevano di pubblico diritto ne'tempi anteriori al Glisson ed al Boozio si trova descritta la rachitide sotto il nome di tabe. Dovendosi adunque stabilire il metodo curativo, che si poneva in pratica dagli antichi, deve rintracciarsi negli articoU che parlano della tabe e non in altri. Il sommo Ippocrate, parlando della cura convenien-» te ai tabifici , raccomanda quelle cose che danno tono e forza alla macchina animale : come chiara- mente rilevasi nell" articolo : delle affezioni interne , discorso trentesimosesto. E riportiamo poche linee tratte da questo divino scritto; affinchè abbia a ri- levarsi da chicchessia qual fosse il metodo curativo creduto giovevole nella tabe dal divino vecchio di Coo: Allora prendi poca pultiglia di mazaeva, e man- gia molto porro salato, e bevi molto vino dolce , e nella mattina del giorno seguente lavati con molta acqua calda, dipoi non raffreddarti, ma corgati e lun- gamente riposati, e come ti alzi in quel giorno pas- seggia soli venti stadii, e dipoi accrescene cinque al giorno fino a cento Nel mese seguente bevi il vino bianco forte^ e mangia solo del pane con la carne grassa di maiale, e ben cotta, e passeggia pri- Monografia della Rachitide 5S ina della cena non meno di trenta stadii^ e non meno di dieci dopo^ non raffreddarti, ma riscaldati. Se fa- rai queste cose facilmente porterai la malattia (I). 65. Galeno dopo d'avere prolissamente parlalo delle diverse specie di marasmo e della sua natura, stabilisce esser la tabe una denutrizione della mac- china animale. In questo stato morboso non solo manca la materia alibele, per cui non ha più luogo la riposazione organica, ma i tessuti di già formati vengono dagli assorbenti consumati ; mentre V atto di denutrizione si è reso pii'i attio del processo di nutrizione; per cui le molecole materiali assorbite , non essendo rimpiazzate da altre di nuova forma- zione, gli organi diminuiscono di volume e di mas- sa, e ne siegue la consunzione e la tabe. In seguito degli esposti principii stabiliva come assioma: unico essere lo scopo della cwm, che noi chiamiamo rinu^ trizione e refazione-, ed i corpi indeboliti dalla con- sunzione riacquistare forza e vigore, mediante Vuso degli alimenti sommamente nutrienti (2). 66. Quello, che abbiamo rilevato negli scritti d'Ippocrate, e di Galeno relativamente ai compensi igienici e terapeutici, posti da essi in pratica nella cura dei tabitìci; con maggior chiarezza ed evidenza ci si renderà manifesto allorché esamineremo con la dovuta diligenza e circospezione il seguente squar- cio, tratto dall'opera medica dell' immortale romano Cornelio Celso: Essendo questi i generi della tabe , primieramente si deve ricercare la condizione mor- ii) Tradotto dal greco da Fabio Calvo. (2) Del marasmo^ cap. 9, Agostino Gadaldino medico interpelrc. 54 Scienze bosa. Dipoi se non apparisce cosa alcuna^ se ne deve attendere la causa; e se si prese minor quantità del cibo necessario^ allora bisogna accrescerne la quan- tità: ma gradatamente, perchè il corpo non assuefai- to, essendo di subito soverchiamente riempito, lo sto- maco si aggrava , e gli alimenti non sono digeriti. Se però uno è solito di prendere cibo più del biso- gno, allora deve astenersene per un giorno; dipoi in- cominciare con pochi alimenti; ed aumentarli giornal- mente, piche si pervenga alla giusta quantità. Oltre a ciò conviene passeggiare in luoghi freddissimi, evi' tando il sole , e muoversi ancora con le mani. Se è debole esercitarsi, ungersi, stropicciarsi, massimamen- te da se stesso; e spesse volte nel medesimo giornata e prima e dopo di prendere cibo; e qualche volta unt- ile all'olio i riscaldanti finche si sudi. E giova, es- sendo digiuno, tirare per più volte la pelle , affinchè si rilasci: o soprapposta la resina, e tolta, tornare di bel nuovo a tirarla È anche qualche volta utile, dopo avere preso poco cibo, il bagno. E nel mettersi in esso., giova prendere qualche alimento ; a senza il bagno, essendosi fatto lo stropicciamento., si deve pren- dere un qualche alimento. I cibi però devono essere di facile digestione, e sommamente nutrienti. Dunque è ancora necessario fuso del vino, ma forte per pro- movere le orine (1). 67. Non possiamo conoscere i resultati, che si attenevano da questa medicatura d' Ippocrate , da Galeno e da Celso; mentre non esistono statistiche me- diche scritte nei tempi a noi più remoti; e così que- (I) Corn Cels Hb. 3, cap, 22. MONOGFAFIA DELLA RACHITIDE 55 sto problema si rimane d'impossibile soluzione. Ma la rachitide, essendo allora curata con la medicatu' ra , che si trovava giovevole dai medici posteriori al Glisson , potremo sostenere , che essendosi posta in pratica d'ìppocrate, da Gabno e da Celso se ne attenessero i medesimi resultati. 68. Da quello che abbiamo partitamente espo- sto chiaro risulta, che se furono discordi i patologi nello stabilire la causa prossima; non lo furono del pari allorché si occuparono del trattamento curati* vo. Ma la medicatura tonica, ritenuta giovevole dalla maggior parte dei medici, cioè d'ìppocrate, da Ga- leno, da Celso, da Boeranio, da Sydenham, dall'Off- mann, dal CuUen, dal Francie, dal Boyer e d' altri, non si conviene costantemente alle condizioni mor- bose immaginate da essi', così conviene credere, che nascesse dall'empirismo, e che quindi fosse sostenu- ta dalla ragione: a iuvantihus et ledentibus. La me- dicatura tonica che empiricamente si praticava, è la cura razionale che asseconda dei principii, che ab- biamo superiormente esposti, vale a correggere le cause predisponenti, e a dileguare i fenomeni mor- bosi della rachitide. Nella cura di questa malattia trattasi di modificare la costituzione tutta intera dell' organismo, e le potenze dell'igiene tengono il pri- mo posto perchè bisogna impiegare quei rimedi, la cui azione facciasi sentire perennemente , e che in tutti gV istanti sia prodotta. Il regime alimentare , il clima e sono le cattive abitudini, che bisogna mo- dificare. 69. Sì nasce con la disposizione rachitica; co- me ancora si acquista nel decorso della vita; e gli 56 Scienze uomini devono allontanarsi da quelle cause che la favoriscono, e sottoporsi ad un reginae igienico e te- rapeutico ogni qualvolta sia in essi ingenerata que- sta indisposizione organica Noi non ci fermeremo a parlare dei precetti generali dell' igiene, per non esser troppo prolissi , e passeremo a discorrere di quello cose, che correggono le cause predisponenti del rachitismo. I bambini che derivano da genitori cagionevoli, e che portarono nascendo il germe della disposizione rachitica , devono vestirsi con abiti di lana, alfinchè sia mantenuto in essi il colore anima- le. Ed i precetti generali dell'igiene dei neonati de- vono osservarsi con grandissima esattezza e circo- spezione. E le cose che specialmente influiscono alla costituzione fisica di questi delicatissimi esseri vi- venti, sono la posizione delle abitazioni, le qualità fisiche dell'aria, la quantità, e la qualità degli ali- menti. Noi ci fermeremo in modo speciale a parlare di questi compensi igienici; imperocché costituisco- no quasi per intiero la cura della rachitide essen- ziale e scevera d'ogni complicazione. 70. Le regioni meridionali si oppongono più delle altre alle cause predisponenti, e le settentrio- nali sono quelle che maggiormente le favoriscono. Indipendentemente dal clima sommamente influisce all'essere organica vivente la posizione del suolo. E le abitazioni che sono in luoghi bassi , ed esposte alla malefica influenza delle paludi, e non sono do- minate dai raggi luminosi del sole favoriscono la disposizione rachitica ; mentre non sono favorevoli alla vegetazione, ed indeboliscono il processo chi- mico-vitale. Le città ed i castelli fabbricati in lu©» Monografia della Rachitide 57 ghi elevati, esposti all'oriente, sono contrari alle cau- se predisponenti ; mentre posseggono le condizioni necessarie per rendere sempre più rigogliosa ed at- tiva la vegetazione organica. 71. La media temperatura dell'aria atmosferica, come è stato dai fisici osservato, è la più favore- vole per la vegetazione organica. E riteniamo con Rostan, che l'aria riscaldata a quattordici gradi del termometro di Réaumur, e sotto la pressione di ven- tuno a trenta pollici, o a quaranta gradi dell'idro- metro da Saussure sia la più favorevole per quelli che hanno l'abito rachitico. Imperocché essendo trop- po calda o soverchiamente fredda, o eccessivamente umida o secca, allora in cambio d'animare le fun- zioni della digestione , e di somministrare a tutti i sistemi gli elementi necessari all'assimilazione orga- nica, si oppone alla stessa vegetazione, operando co- me potenza nociva; Questa^ cosi si esprime Rostan, condizione deWaria^ come noi di sovente lo vediamo^ sarà giovevole ai fanciulli^ ed ai vecchi^ ed alle fem- mine^ ed in genere agli individui deboli^ e di tempe- ramento linfatico. Gli individui affetti da malattie croniche^ dallo scorbuto ec. ne proveranno una bene- fica influenza. Questa felice temperatura da deside- rarsi a preferenza delle altre., è del pari la più saua^ e la meno nocevole (1). 72. Il latte è il nutrimento il più affine ed il più onjogeneo ai bambini; e la proprietà nutriente è di gran lunga superiore alla virtù emolliente. I bambini che nascono con 1' abito rachitico devono (1) Elementi d'igiene, tom. I. 58 Scienze lungamente allattarsi , e farsi poppare come quelli di sana costituzione, o spopparsi al più presto pos- sibile? L'esperienza dimostra che l'allattamento so- verchiamente prolungato debilita la contrattilità del sistema cardiaco-vascolare; e la dieta lattea si esperi- mentava giovevole dal Valsalva e dall' Albertini negli aneorismi. Lo smodato uso del latte rende eziandio prevalente la venosità, ed il sangue estratto dai bam- bini che popparono lungamente, scarseggia di fibrina^ nel mentre che soprabbonda di albumina. In essi si svolge poco calore animale, s'indebolisce l'azione dei vasi assorbenti ; e così sono maggiormente esposti alla scrofola, agli ingorghi glandolosi, all'idrope ed alla rachitide. I bambini che nascono con V abito rachitico si allontaneranno per quanto è possibile dall'uso del latte, non che dai frutti e dai cibi fa- rinacei: e si amministreranno ad essi unitamente al latte altri alimenti più animalizzati: come le uove. il brodo ed i succi delle carni. In età più avanzata si sot- toporranno ad un regime dietetico alquanto nutrien- te e nello slesso tempo eccitante, composto di carni aromatizzate e di liquori alcoolici. 73. Altri compensi igienici che favoriscono lo sviluppo delle forze, e regolano nei bambini il la- voro dell'assimilazione sono i bagni freddi e la gin- nastica. Dai medici inglesi si trovava profigua l'im- mersione giornaliera dei bambini nell'acqua fredda. Pervenuto il bambino ad una certa età si farà pas- seggiare e solazzare a suo piacere in amena e de- liziosa campagna adorna di molte piante aromati- che, e dominata dai raggi luminosi del sole; men- tre i luoghi ombrosi e bassi oltre l'abbattere le fa- Monografia della Rachitide 59 colla mentali inlanguidiscono le funzioni della vita organica, debilitano l'atto dell'assimilazione; e s'in- genera in quelli, che abitano questi luoghi, l'abito cachetico. E se le membra addominali paralizzavano e la debolezza diveniva estrema, si prescriveva da alcuni il moto passivo, non senza un qualche van- taggio. 74. La disposizione rachitica reclama negli adul- ti, come nei bambini 1' uso degli alimenti eccitanti e sommamente nutrienti; cosi furono giovevoli all' abito rachitico quelle cose che eccitano e danno for- za e tono alla fibra organica: come il vitto animale, i liquori alcoolici, l'aria asciutta e calda, l'azione ec- citante della luce, il bagno freddo, il noto ed il bal- lo. Questi compensi igienici, affinchè sieno giovevoli, devono porsi in pratica a seconda delle forze dei singoli individui. Usati con soverchia parsimonia, non apportano quel giovamento di cui sono capaci; e se l'azione che esercitano nella fibra organica è troppo violenta, allora disturbano l'assimilazione, ed accres- cono sempre più la disposizione rachitica. 75. E tutto ciò, che riesce profico alla disposi zione rachitica, dispone la macchina animale a meno risentire la malefica influenza delle cause occasionali, mentre le malattie nascono e sussistono mediante il concorso delle cause predisponenti ed occasionali. E la medicatura che corregge la disposizione rachiti- ca è giovevole anche a malattia inoltrata. Ma deve modificarsi o interamente sospendersi a norma dei sintomi prevalenti. Sarà nocevole la stazione e la pro- gressione quando le ossa sono rammollite; imperoc- ché ingenererebbero , o per lo meno accrescereb- ^0 Scienze bero le di già esistenti mostruosità del sistema osseo. Allora sarà giovevole il moto passivo , ed i rachi- tici si faranno muovere sopra duri materassi ripieni di piante aromatiche, o sopra tappeti alquanto ris- caldati, in luoghi elevati, in cui l'aria è pura ricca d'ossigeno, calda ed asciutta , e che sono dominati dai raggi luminosi del sole. Nello stato d'irritazione che il più delle volte sviluppa nel principio della malattia, e si svolge mediante accessi accompagnati da acerbi dolori, da vigilia e da violenta febbre; in questo tempo qualunque agente tonico ed ecci- tante sarà pericoloso; e sono i calmanti e gli anti- spasmodici, che si devono allora amministrare. 76. L'esperienza ha confermato essere la medi- catura tonica la più giovevole a malattia inoltrata; imperocché non si conoscono medicamenti specifici per debellare la condizione morbosa della rachitide. Qui si presenta una difficoltà a risolversi, cioè quali siano i tonici maggiormente utili alla rachitide. Noi crediamo, che per riordinare V atto chimico-vitale nei rachitici a preferenza degli analetici e dei nevro- stenici siano i tonici astringenti , rendendo i solidi più compatti, più resistenti; così i movimenti ginna- stici, il bagno freddo ec. furono mai sempra gio- vevoli. 77. Girtan incominciava la cura del bambino rachitico con l'emetico, e ciò fu da molti ripetuto con felice resultato. L'emetico spoglia le prime vie del sistema gastro-enterico della tenace e viscida materia, rende più attiva l'azione del sistema linfa- tico, e lo stomaco risente maggiormente la vivifi- cante azione della sostanza tonica. Gli emetici devo- Monografia della Rachitide GI no prescriversi a piccole dosi, e con somma circon- spezione , affinchè non si indeboliscano gli organi alla digestione inservienti. Dipoi si intraprendeva dal Girtan la medicatura tonica in tutta la sua esten- sione , affinchè se ne ottenesse il desiderato effetto. Dal Francie si prescriveva con felice risultato la chi- na ed il bagno freddo. E Boeravio riteneva che le erbe corroboranti, eccitanti, antiscorbutiche sanasse- ro i rachitici. E ci lasciava scritto il barone Boyer: Comunque sia sì è trovato vantaggioso di far cam- biare i malati^ cioè i rachitici, di abitazioni^ di far loro abbandonare i luoghi bassi^ freddi ed umidii e farli abitare in luoghi elevati^ caldi ed asciutti^ di far loro respirare un' aria pura e ricca d' ossigeno^ preferire gli alimenti animali, fare un uso piuttosto copioso d'un vino generoso^ e frequentemente delle fri- zioni asciutte ed aromatiche sit tutto V ambiente del corpo (i). I marziali, il zolfo specialraenle nello slato di dissoluzione nelle acque minerali; i liquori alcoo- lici , la corteccia peruviana, la cannella, le piante crocifere e le loro diverse preparazioni furono utili nella cura della rachitide, allorché si amministrarono per tempo, e con le debite precauzioni. 78. La rachitide ha un corso lungo; e le malat- tie che si uniscono ad essa con indebolire l'assimi- lazione organica, inlanguidiscono gli atti vitali, ac- crescono la disposizione rachitica, e predispongono maggiormente la macchina animale a risentire la malefica influenza delle cause occasionali. Sarà adun- que principio inconcusso di terapìa, di dirigere pri- (1) Trattalo delle malattie chirurgiche, voi. 1, cap. 2. 62 Scienze ma d'ogni altro i sussidi! dell' arte a togliere ogni complicazione morbosa. E non si allontana dal vero, chi sostiene, che la medicatura tonica abbatta sol- tanto il potere delle cause predisponenti; e di mano in mano, che queste s'indeboliscono, i fenomeni mor- bosi della rachitide vanno cedendo. Quando fosse di- mostrato, che i tonici agiscano direttamente nella condizione morbosa; allora si potrebbe ritenere in terapìa, che la sostanza tonica sia lo specifico della rachitide. 79. Il rachitismo si complica con i processi morbosi, che si curano con la medicatura tonica ; come con quelli, che reclamano la cura debilitante. Nel primo caso i tonici sono giovevoli alla malattia primitiva, ed alle rispettive complicazioni; ma non si ottiene dai tonici il medesimo risultato nell' altro caso; perchè nel mentre una reclama la medicatura debilitante, all'altra si convengono i tonici. Se fosse vera la dinamica teoria di Brown, doverebbe all'i- stante risolversi l'una o l'altra in forza dell'unità, e indivisibilità dell'eccitabilità. 80. Nelle complicazioni reumatiche, artritiche, gottose e flogistiche la medicatura debilitante deve porsi in pratica con grandissima circospezione; im- perocché queste malattie sono complicate dalla con- dizione morbosa della rachitide, che l'esperienza ha confermato essergli nocevole la cura antiflogistica, ed evacuante, che si conviene alle malattie di con- dizione iperstenica. Ed i pratici si astengono il più delle volte, dalle sottrazioni sanguigne generali , e con le sottrazioni locali, gli evacuanti, ed i diafo- retici si vincono, il più delle volte, le complicazioni flogistiche nei rachitici. Monografia della Rachitide 63 81. Si deve essere circonspetto nella scelta delle sostanze, se la rachitide viene complicata dalle ma- lattie, che si guariscono con la medicatura tonica , ed eccitante^ imperocché alcune sono più giovevoli per certe malattie, di quello cht lo siano tante al- tre quantunque appartengano alla classe delle sostan- ze toniche ed eccitanti. E gli acidi vegetabiil, i to- nici astringenti, come i succhi delle erbe amare, la genziana, l'assenzio, le bacche di ginevro , la cur- teccia peruviana, di quercia, di salcio ec. sono gio- vevoli nello scorbuto complicato alla rachitide. Il Cullen ed altri amministravano le acque minerali le foglie di tussilagine, la corteccia peruviana nel mor- bo glandolare, e noi le prescriveremo nel rachitismo- scrofoloso; imperocché apportano utilità e vantaggio tanto all'una che all'altra. E con grandissima circon- spezione gli prescriveremo gli antimoniali, ed i mer- curiali; quantunque il Boyer raccomandi gli idro- solfuii e gli antimoniali alla rachitide; ed il Bouvarte, uno dei più distinti pratici della Francia, ritenesse il sciroppo mercuriale come specifico della rachitide. Sono giovevoli i marziali, il vitto animale, e gli astringenti in genere, se il rachitismo viene compli- cato dalla clorosi e dal diabete. I mercuriali ed i preparati di zolfo devono prescriversi ai rachitici ve- nerei ed agli scabbiosi. Se svolgendosi i fenomeni morbosi della rachitide , si sopprimono le eruzioni cutanee; devono richiamarsi alle sedi primitive, me- diante i sussidii, che possiede la terapia. 82. Diversi metodi curativi furono posti in pra- tica quando il sistema osseo infiammava e cariava. n Raimann era di parere, che le sintomatiche infiam- 64 SCIENZE inazioni delle ossa oltre il trattamento raccomandalo all'interno, richiedessero una medicatura locale aati- flogistica. E la carie si curava dal Raimann , come le ulceri scrofolose delle ghiandole; ed esso trovava ancora proficua l'esterna applicazione dell'acido sol- forico, tanto lodata da Lantin. Il metodo del celebre Patt applicato alla carie delle vertebre, è stato con- fermato utile da replicate esperienze. Egli apriva due fonticoli, o metteva un setore ai lati della colonna vertebrale corrispondenti alle vertebre cariate; e gli teneva aperti fino a tanto, che era sicuro d'una com- pietà guarigione. 83. Le incurvature della macchina animale, che ne deformano la simmetrica disposizione, con le pa- ralesi, che ne seguono rendono necessaria l'opera or- topedica alla medica riunita. Diremo ora di quelle cose, che devono porsi in pratica, per prevenire le mostruosità delle ossa; come di ciò, che vale a cor- reggerle, o per lo meno a modificarle, quando, in seguito del rammollimento, hanno deviato dalla nor- male configurazione. Di mano in mano, che il ram- mollimento fa dei progressi, si diminuisce con la me- desima proporzione il tempo della stazione e della progressione; ed allora è giovevole il moto passivo; e gl'infermi devono riposarsi in letti duri, alquanto inclinati dalla testa ai piedi. Si farrà ad essi spesso cambiare posizione, affinchè il sistema osseo rammol- lito, non abbia a piegarsi in quelle parti, che co- stituiscono i punti di appoggio. E devono osservarsi nella superficie esterna del corpo, per rimediare alle mostruosità di mano in mano, che vanno formandosi. Nel principio si procura di correggerle con la pres- Monografia della Rachitide G5 sione, praticata con le semplici mani ; e se questa operazione non sarà sufllciente , si metteranno in azione le macchine : come quella di Van-Gescher, di Le-Vacher, di Scheldrak, ed il reduttore di De- lacroix ; o gli apparecchi ortopedici di combinata azione : come quello di Schmidt, ed il reduttore di Borelli. Noi per non essere troppo prolissi, e per non parlare distesamente di quelle cose , che non sono di nostra pertinenza, preghiamo i lettori di compia- cersi di leggere le descrizioni ed il modo di appli- care le macchine, che abbiamo superiormente no- minate nei trattati completi d' ortopedia ; come in quello di Delpech, e nel trattato delle fasciature e dei congrui apparecchi del sig. Manfredini. L'azione delle macchine non può applicarsi quando il ram- mollimento è generale; mentre mancano i punti d'ap- poggio; ed essendo estrema la debolezza e l'insoflfe- renza dei rachitici, ogni azione violenta sarebbe pe- ricolosa, ed accelererebbe la morte. Il rammollimen» to essendo generale, oltre il collocare l'infermo nella posizione la più favorevole , devono raddrizzarsi le ossa con la pressione praticata con le mani. 84. Quando la spina dorsale rammollisce e pie- ga in varie direzioni, allora i malati si fanno gia- cere distesi nel proprio dorso, sopra letti alquanto duri ed inclinati dalla testa ai piedi. Alcuni per rad- drizzare la colonna vertebrale fanno l'estensione per- manente con apparecchi che l'applicazione esige, che gli infermi rimangano per più o meno tempo nella posizione orizzontale; altri con macchine, che per- mettono all'infermo di tenersi ritto, o assiso : come è la sedia ortopedica di Blomer , la quale si trova G.A.T.GXVIII. 5 66 Scienze descritta nell'opera che abbiamo superiormente ci- tala del sig. Manfrodini (1). 85. Qualunque sia l'apparecchio che si mette in azione, deve costantemente operare nelle due estre- mità della colonna vertebrale. Dal lato della testa si fa prendere il punto d'appoggio all'osso mascellare inferiore, all'apofosi mastoidea, ed all'osso occipitale; alla parte inferiore il punto di appoggio è sul ba- cino abbracciato da larga cintura. Quelli, che supe- riormente prendono il punto di appoggio nel cavo ascellare, non possono avere un'estensione e contro estensione della colonna vertebrale. Ed a ragione di- ce il Delpech, che caddero in errore per mancanza di cognizioni anatomiche. L'estensione sarà debole da principio e senza scosse, ed in direzione paral- lela all'asse normale della colonna vertebrale; e sarà moderata, o totalmente sospesa se cagiona dolori , vigilie e sintomi di congestione cerebrale. 86. Quando la regione cervicale della colonna vertebrale è curvata in avanti o indietro, allora tan- to nel primo, che nell'altro caso è giovevole la po- sizione orizzontale dell' infermo. E la testa piegata air indietro si sostiene e si spinge leggermente in avanti, mediante cuscini, o col gambo di sostenta- mento. E se piega in avanti, è sufficiente la posizio- ne orizzontale dell'infermo per riportarla alla posi- zione naturale. Noi non conosciamo un apparecchio giovevole alle mostruosità delle ossa componenti il bacino; e ci limitiamo a dire, che la posizione oriz- (1) Tratt. delle fase, cliirurg. e «lei loro cong. apparecchi p. 3G7, Uv. 2i, (i(j. 127. Monografia della Rachitide 67 zontale è vantaggiosa, allorché in seguito del ram- mollimento deviano dalla naturale configurazione. 87. Le anormali direzioni delle ossa lunghe nei bambini di due o tre anni, sogliono sparire di ma- no in mano che il sistema muscolare acquista con- sistenza, e le ossa la debita solidità. Nei tempi a noi più remoti, che l'ortopedia era una scienza appena conosciuta, si riducevano le anormali direzioni delle ossa degli arti mediante apparecchi analoghi a quelli, che si convengono alle fratture delle ossa lunghe : come chiaro apparisce dalla macchina adoperata da Vanel e dalla fasciatura di Bruckner ec. Questi com- pensi meccanici esigono un assoluto riposo ; ed in seguito degli stupendi progressi dell'ortopedia, fu- rono interamente proscritti; e si adoperarono le mac- chine, che permettono agli infermi di muoversi , e non esigono la posizione orizzontale. 88. Negli stabilimenti ortopedici rinvengonsi "vari apparecchi, destinati a correggere le mostruo- sità degli arti, e composti nel modo il più semplice ed il più economico. Una larga cintura abbraccia il bacino, e sostiene l'estremila superiore di una la- mina metallica, che scende fino al ginocchio, la qua- le si articola a modo di compasso tanto superior- mente con la cinta, che inferiormente con altra splan- ca metallica, che scende fino al malleolo esterno. A livello di questa protuberanza presenta l' apparec- chio una terza spezzatura , per permettere i movi- menti del piede; e finalmente termina incurvando- si ad angolo retto fra due suole di uno stivaletto. Queste splanghe metalliche sono convenientemente inbottite e fissate all'arto deformato mediante congrui lacci. 68 Scienze 89. La macchina di Mariolin (1), se corrispon- de a quanto ne scrive l'autore, è da preferirsi ad ogni altra. Essa riconduce le ossa nella normale di- rezione , senza cagionare alcun incomodo , e senza la necessità di tenere l'infermo in letto ed in ripo- so. E per quanto ci dice l'istesso inventore, il moto contribuisce ad affrettarne la guarigione. Raddrizzate le anormali incurvature delle ossa, bisogna mante- nerle nella rettitudine che ripresero rinforzando i muscoli, e rendendo alle ossa la debita solidità me- , diante quei compensi igienici e terapeutici, che ab- biamo superiormente esposti. 90. Crediamo di non allontanarci dal nostro argomento , se a quello che abbiamo partitamente esposto aggiungiamo alcune cose, che potranno ser- vire d' istruzione comune per diminuire il numero degli invalidi , ed estirpare dalla specie umana la disposizione rachitica. Questa indisposizione organica s'ingenera nell'atto dell'evoluzione dell'embrione, o durante la vita, o si ripone nell'intima struttura del- l'ovicino: per cui essendo vivificato dall'aura semi- nale del maschio , si svolge mediante il concorso delle cause determinanti. I genitori sono la causa delle malattie ereditarie; e per diminuirne il nume- ro e interamente estirparle , bisogna correggere la disposizione organica degli uomini destinati alla pro- pagazione della specie. Dai genitori sani e vigorosi j nascono i figliuoli valevoli al disimpegno dei biso- | (1) La descrizione ili questa macchina, ed il modo di applicarla, si trova in una memoria del Mariolin intitolata: « Memoria chirur- gica sui piedi storti congeniti dei fanciulli, e con la maniera di | correggere queste deformità ». Riportata nel Dizionario classico di j medicina interna ed esterna. Articolo. Ortopedia. Monografia della Rachitide 69 gni sì fisici, che morali della società. E la prole de- gli scrofolosi, dei sifilitici, degli scorbutici e dei ra- chitici fu mai sempre cagionevole ed infermicela, ed oggetto lagrinievole di infiniti mali. 91. Nati i bambini da sanie vigorosi genitori, che nel fiore dell' età, in forza di quella reciproca simpatìa, per cui si unirono mai sempre con sacri ed insolubili legami i cuori sinceri e puri, e si pre- starono reciprocamente ai doveri del matrimonio per cooperare allo stupendo ed impenetrabile fe- nomeno della generazione; fa di mestieri di vegliare con ogni diligenza e circonspezione all'educazione fi- sica e morale; affinchè non abbiano a perdere quel- la vivacità e vigore, con che furono generati, e di- venire cagionevoli, infermicci, e formar parte degli invalidi. Onde volere minutamente trattare questo argomento, converrebbe dettare precetti dietetici sui cibi, sulle bevande., sull'aria, sopra l'esercizio, i ba- gni, il sonno, il riposo, le passioni dell'animo, i la- vori intellettuali ec. Ma queste sono cose, delle quali si parla distesamente nelle classiche opere di pub- blica e privata igiene: come in quelle di Gian Pie» tro Franck , di Martini e di Rostan. Così per non essere troppo prolissi, e per non riprodur quello che fu altrove esposto , e per non volere discorrere di ciò che non monta al nostro proposito, ci limitiamo ad espor quelle idee sommarie, che sono di nostra assolata pertinenza. 92. Il feto essendo accostumato nell'utero ma- terno, per il lasso di nove mesi, a ricevere i mate- riali nutritivi dal sangue della propria madre, con fa- cilità passerà ad alimentarsi di quel latte, che viene segregato dalle glandole mammarie dal medesimo TQ Scienze sangue. Un uomo quantunque adulto , che ad un tratto passa d'un cibo, a cui era assuefatto, ad un al- tro, ne risente notabile danno. Quando la madre è di cattiva costituzione ed affetta dalle malattie eredi- tarie, e dalle sue mammelle si prepara un latte non adatto alla costituzione del neonato; allora è neces- sario l'allattamento d' una mercenaria nutrice , che porga al bambino un alimento conveniente alla sua delicata costituzione. Non si allontanava mollo dal vero il Zeviani, quando stabiliva , che il latte non adattato alla costituzione dei bambini era la causa della rachitide; imperocché disturbandosi l'assimila- zione, e con il concorso di altre potenze, con faci- lità può ingenerarsi. 93. Nulla vi ha dall'altro canto che impedisca tanto il libero sviluppo del corpo giovanile , scri- veva Gian Pietro Francie (1), quanto il pregiudizio, l'inerzia e l'agiatezza, per cui sogliono proibirsi ai fanciulli ogni specie di giuochi e divertimenti. Un sentimento filantropico ed utile alla società è quello del sig. Tissot, che voleva novamente riprodur gli esercizi ginnastici; l'abolizione dei quali deve riguar- darsi come la sorgente primitiva della moltiplicazio- ne delle malattie croniche e degli invalidi. Non fa di mestieri di argomenti e storici e medici per di- mostrare ad evidenza i danni fisici e morali, che co- stantemente derivano dall'effemminato modo d'edu- care la gioventù. Basta rapidamente osservare quei disgraziati che sono condannati a starsene di con- tinuo neghittosi , per essere intimamente persuasi di questa verità. Essi sono pallidi e leucollcmmntici, (1) Polizia medica. Monografia della Rachitide 71 con le ghiandole tumide ed ostruite, i loro arti sono deboli e flosci, si liquefanno in sudori, e periscono in bassa età. 94. Quando avremo formati dei sani e vigorosi cidadini mediante l'osservanza delle precauzioni igie- niche, che abbiamo partitamente esposte; osservando allora quei precetti, che prescriveva il sommo ro- mano Cornelio Celso a quelli che sono sani, avremo in questo modo diminuito, per quanto è possibile, il numero dei rachitici: Vuomo ben conformalo^ eh' è in salute^ non deve avvezzarsi ad alcun genere di vita^ e ad avere bisogno del medico e della medici- na. Deve tenere un vario genere dì vita^ ora stare in villa.) ora in città., più spesso in campagna:, navi- gare., cacciare., riposarsi alcuna volta., ma frequente- mente esercitarsi. Imperocché V inerzia rende ebete il corpo., la fatica lo rinforza. Quella dà una matura vecchiaia., questa una lunga adolescenza. Giova an- cora V'immergersi nel bagno freddo., ed in quello cal- do; ora ungersi ed ora ciò tralasciare: niun genere di cibo abborrire., dì cui si nutrisce il popolo: alcune volte stare in convito., alcune altre da esso allonta- narsi: ora prendere più alimento del necessario., ora attenersi al giusto: prendere il cibo due volte il gior- no., anziché una sola volta., e sempre moltissimo., pur- ché si digerisca. Ma come questi esercizi e questi ali- menti sono necessari., così gli atletici sono superflui. E come il metodo di esercitarsi , sospeso a cagione delle civili occupazioni, affligge il corpo; cosi gli in- dividui^ che ritengono sempre lo slesso metodo., pre- stissimo invecchiano ed ammalano (1). (1) Libro 1^ cnp. 1. 72 Le mummie peruane razza della specie umana estinta. Al eh. sig. dott. Donarelli prof, di fisiologia nelV archiginnasio romano ec. iVUorchè alcune straordinarie circostanze ci si pre- sentano per eccitare la nostra meraviglia e curio- sità , siamo indotti naturalmante ad investigarne e studiarne le cause ed i rapporti, sebbene tali ricer- che siano talora estranee alle nostre abituali occu- pazioni. Così mi avvenne due anni sono allorché mi fu annunciato, che uno straniero era giunto in Ro- ma con alcune curiosità di recente recate dal Perù e da altre regioni dell'America meridionale. Mi re- cai ad osservare questa collezione, la quale se non ntiQstrava oggetti degni di speciale considerazione in rapporto ad alcuni jnincrali, e fruiti, ed uccelli, e conchiglie e simili naturali produzioni, eccitò la mia speciale attenzione per alcune mummie di una spe- cie ben diversa delle comuni egiziane. Esse consi- stevano in tre cadaveri interi, ed un cranio sepa- rato. I cadaveri erano conservali senza alcuna so- stanza balsamica ed antisettica.^ come Io sono quei delle necropoli d'Egitto, ma erano disseccati median- te un naturale prosciugamento, e le carni in alcuni punti erano foracchiale da tarli come un vecchio legno. Assai strana era la disposizione de'cadaveri; poi- ché le cosce erano ripiegate sopra l' addome ed il torace in modo, che le ginocchia si avvicinavano al mento: e le gambe all'opposto si piegavano sulle parti posteriori delle cosce stesse in modo che i talloni Mummie peruane 73 toccavano le natiche. Le braccia erano distese pa- rallelamente ai fianchi, e l'avanbraccia e mani pie- gate verso il pube. Questa specie di pacco poi, che formava una lunghezza di circa due piedi, era nel suo mezzo involto e legato con una funicella grossa come un dito mignolo. L'oggetto però degno di speciale osservazione si erano le teste e crani ; poiché esse avevano un' altezza quasi doppia di tutte le specie umane oggidì esistenti, cioè più d'un piede. Le cavità faciali mo- stravano gli stessi rapporti e distanze de' crani eu- ropei, e l'altezza eccedente era formata da un gran- de sviluppo della teca cerebrale, la quale appariva prolungata, e terminata in una calotta emisferica Le teste aderenti alle mummie erano piegate sulle spal- le dritte; quasi per diminuire l'altezza del volume. Appartenevano a queste mummie , che erano racchiuse in due cassette, due cestelli di paglia emi- sferici, con un orlo nella parte convessa per assicu- rarne la stabilità del posameuto. Questi cesti sembra che fossero destinati a contenere commestibili dedi- cati ai defunti, e con essi sepolti. Appartenevano ai cadaveri stessi una bella tunica tutta tessuta di penne a fondo bianco, con alcune figure ornamentali entro simmetrici riquadri di color nero parimente di pen- na. Eranvi altresì alcune corone circolari, o turbanti di penne ritte, discretamente conservate. Era naturale che la relazione verbale del pro- prietario di tali oggetti poteva soddisfare a molte cu- riosità e domande; ma il pover'uomo era un vec- chio idiota quasi affatto sordo. Nulladiraeno potei da esso conoscere, che egli era un contadino d'un pie- 74 Scienze colo paese di Sabina, e chiamavasi Benedetto dì Tom- maso : che dopo essere stato coscritto, ed aver mi- litato con Napoleone, si recò nell'America meridio- nale, ove aveva passato molti anni facendo il me- stiere di vetturale, o condottiere di muli. Mi mostrò un certificato di un' autorità di Lima del 31 ottobre 1837, dal quale emerge che il Di Tommaso aveva trovato i due turbanti col poncho, o veste di penne, in uno scavo nel sepolcreto degli incas peruani in una collina chiamata Carquin, lontana una lega da Huacho. Da altro certificato delle autorità repubbli- cane della città di Paz del 17 luglio 1844 si rileva, che le tre mummie furono trovate dal suddetto iii un luogo poco distante. Dopo aver osservato tali mummie, mi proposi di invitare alcun chirurgo, od osteologo, a fare ispezioni più minute e scientifiche sulle dimensioni, e confor- mazioni specialmente delle ossa de'crani, anche com- parativamente agli europei, non che a fare osserva- zioni frenologiche secondo le più recenti norme della società di Edimburgo, per investigare l'indole di que- gli antichi abitatori del Perù. Invitai anche il chia- rissimo zoologo principe di Canino, ed alcuni mem- bri direttori dell'università della Sapienza di Roma a far acquisto almeno del cranio, se non delle mum- mie, pe'respettivi musei; ma o l'effervescenza politi- ca, che già incominciava a preoccupare le menti , o qualche altro incidente, fecero abortire i miei ten- tativi, ed il Di Tomasso dopo alcun mese parti colle sue mummie (delle quali domandava un discretissi- mo prezzo) verso Napoli con animo di far ritorno al Perù nell'età circa ottuagenaria. Pubblicai in tal Mummie peruank 75 circostanza nell'appendice dell' Albuna , giornale di amena letteratura (1), in Roma un breve cenno di queste mummie; che verosimilmente passò inosser- vato agli antropologi e naturalisti. Ora pertanto amo rammentarlo a voi, che come professore chiarissimo di fisiologia potete valutare il pregio di tale rarità zoologica, e sottopongo del pari alcune mie osser- vazioni in proposito. Ed in prima la strana conformazione di quei crani mi sembra aver qualche rapporto coll'opinioni di alcuni zoologi, che opinano i sei giorni della crea- zione menzionati dalla Genesi doversi intendere sei epoche di lunga ed indeterminata durazione, piut- tosto che giorni naturali , o rivoluzioni del nostro globo su! suo asse: e che l'uomo fosse creato nell* ultima di tali epoche, a differenza degli altri annuali creati precedentemente. Secondo quest'ipotesi viene esclusa la preesistenza di uomini di diversa confor- mazione dal tipo adamitico, del quale i crani in que- stione non possono credersi che una modificazione o degenerazione. Questa ipotesi cosmogonica poi non solo sembra dimostrata dalle osservazioni geologi- che e paleontografiche di Cuvier, ed altri accura- tissimi fisici, ma coerente ancora al testo biblico, se- condo il criterio di alcuni dotti ed ortodossi per- sonaggi odierni. E ciò è pur opportuno per tran- quillizare qualche coscienza meticolosa materialmente aderente al testo della genesi nella nostra volgata. Altra opinione da alcuni si è diffusa, che sta- bilisce essersi l'umana specie sviluppata, ed accre- (I) Num. 35 e 36 del 1817. 76 Scienze scinta da vari gelami simultaneamente in vari punti del globo, e quindi serbare l'aborigene diversità de' tipi, come i semi d'una data specie di vegetabili sparsi in diversi punti della superficie terraquea. Questa ipotesi però è positivamente inconciliabile colle chia- re espressioni della Genesi, e non solo non presenta alcun sostegno di fisiche osservazioni, ma vien con- traddetta della resultanza delle indagini storiche ed etnografiche. Mosè in fatti, il più antico e solenne storico, sebbene educato nelle dottrine egiziane, col- le più precise circostanze ci espone nella Genesi che l'uomo primitivo fosse creato in un punto dell' Asia centrale, che è inutile ora determinare. Questa origine corrisponde alla cosmogonia bramanica (sal- vo le superfetazioni mitiche di quella religione ). I persiani, i tibetani, i buddisti, i cinesi più o meno esplicitamente convengono in quella opinione d'ori- gine : e le tradizioni peruana e messicana , come quelle de'popoli selvaggi delle due Americhe e dell' Oceanica, indicano di dovere la loro origine ad uo- mini pervenuti ne' loro paesi da lontane regioni. Quindi la diffusione de'popoli dell'Asia centrale ver- so l'orientale, l'Affrica e l'Europa, non viene impu- gnata, ma convalidata dalle emigrazioni, che da quel- la primordiale regione ebbero luogo , al dir della storia e delle tradizioni, nell'universa terra. Due testimoni si aggiungono a confermare que- sta provenienza del genere umano nelle regioni an- che più remote dell' Asia, cioè la glossica e l'etno- grafia. E rapporto alla prima, quantunque le etimo- logie non formino una dimostrazione sicura dei rap- porti degli idiomi , e sovente i filologi abbiano da Mummie peruàne 77 alcune analogie di vocaboli dedotte conseguenze stra- nissinae, pure non si potrà ad esse in alcune circo- stanze negare un valore almeno sussidiario. Or se noi consultiamo l'Hervas, l'Hammer, l'Adelung, il Balbi e tanti altri dotti linguisti, troveremo che le lingue greca, latina, celtica, etrusca, teutonica, slava ed altre d'Europa, e la coptica che è pure una de- rivazione dell'antica faraonica d'Egitto, hanno mol- tissime radicali samscritiche, ossia della più antica lingua asiatica. E l' etiopica stessa è un dialetto se- mitico, od ebraico, come lo è secondo le recenti os- servazioni glossiche la stessa lingua madagascara , che mancante già di caratteri, come le selvagge na- zioni, li ottenne non molti anni indietro per cura di alcuni inglesi filantropi. In quanto alle lingue della Polinesia, e delle altre isole dell'Oceanica, anch'esse mostrano traccia di vocaboli e modi malesi e sam- scritici, sebbene sommamente alterati e corrotti. L'America , che prima dell' invasione ispanica del secolo XVI non aveva caratteri fonetici, né scritto atto a conservare i suoni e forme de' vocaboli, e quindi gli idiomi perennemente si alteravano e di- videvano in un caos di dialetti , sebbene abbia in oggi adottato colla civilizzazione anche le lingue eu- ropee, pure le tribù degli algonchini, irochesi, da- licote, eschimesi ed altre abitanti le regioni più au- strali, e perciò più vicine all'Asia orientale, conser- vano, se non 1' analogia di vocaboli con quei dell' Asia stessa, almeno quelle di forme grammaticali. Tali lingue sono tutte essenzialmente sintetiche: e per esprimere le idee dalle più semplici alle più composte procedono per agglomerazione, e quindi 78 Scienze somigliano alle lingue mongole e giapponesi. Il sig. Brancoft ricapitola con molto ordine e chiarezza i resultati delle ingegnose investigazioni in proposito di Schoolcraft, Valer, Lafitau, Pickering, Duponceau, Zeiberger, Elliot, Gallatin, Rames, Humboldt ec. (1), e quindi almeno da quella parte non è dubia la pro- venienza di que'popoli dall'Asia in epoche antiche indeterminate. Ma anche i costumi di forse ogni nazione della terra presentano analogie coi costumi e colla stessa religione dell'Asia centrale, e quindi indicano che da essa emersero come da una fonte le emigrazioni nel resto della superficie del globo. Fra i moltis- simi scrittori che si occuparono nel dimostrare \a somiglianza della icogonia e mitologia ìndostanica, tibetana e birmana con quella dell'Egitto, della Per- sia, della Grecia, amo rammentare il dottissimo o- ricntalista p. Paolino da s. Bartolomeo , che tanto profondamente studiò la storia dell' Asia (2). Nella opera di lui è agevole il riconoscere come anche la Genesi corrisponda a quelle vetuste e moderne dot- trine. Sarebbe superfluo il dimostrare ulteriori esem- pi di analogia di alcuni costumi asiatici con al- tri de'popoli dell' antico continente per inferirne la provenienza di questi ultimi dal centro dell'Asia. Ma (1) Brancoft, Ilistory of the uniteci states. Boston Ì838-40. voi. 3, p. 265-265. Gallatin, Coup d'ocil general 8ur les tribus indi- ennes de l'Amerique du nord. Boston. (Nouvelle Angleterre 1846 ec. (2) Paulinub a s. Bart. , Musei Borgiani codices avenses , pe- guani, biamilici, indostanici etc et cosmogonia indico-thibetana. Ro- mae 1793. Idem, Systema brachmanicum etc. Mummie peruane 79 anche nell'America settentrionale, al dire dello storico Brancoft, le affinità delle coafoitnazioni corporali, e fino ad un certo {jrado dell' intelligenza e costumi delle tribù nomadi e sedentarie con quelle de'mon- goli, e sopra tutto de'mantsciuri, non che de' ton- gusi, ainos, isciutsci, aleuti ed altri dell'Asia orien- tale, hanno sorpreso tutti i naturalisti e viaggiatori. Anzi alcuni usi e costumanze asiatiche si rinvengono persino presso i selvaggi della Guiana (1), come an- che nelle isole della Polinesia, e perfino nelle remote terre australi che sono state colonizzate od esplorate. Quindi non esiste forse alcun fisico o razionale fon- damento per supporre , che l' umana specie abbia avuto varie e distinte origini indipendenti l'una dall' l'altra in diverse regioni del globo, come i semi di una specie di piante diffusi sul suolo a distanze gran- dissime, e perciò non provenga dall'unico stipite ada- mitico menzionato nella Genesi. Coerentemente a tale osservazione teoretica, ed analogia di forme essenziali , il gran Linneo ed i più distinti zoologi nelle sistematiche loro classifica- zioni formano di tutti gli uomini esistenti ed esi- stiti in ogni parte della terra un sol genere, ed una sola specie, col tecnico nome di homo sapiens. E se si sono riconosciute dai naturalisti alcune diversità di conformazioni, che si riproducono di generazione in generazione in date regioni, considerarono tali dif- ferenze come costituenti diverse razze o varietà, non già generi e specie diverse. Queste diversità di razza (1) Art. inserito nei num. 20 e 24 del giornale romano ilei 18i8, analo^jamenle airEJimbourg rew. philos. journal, ottobre 1846. 80 Scienze resultano principalmente dalla forma delle teste e dai crani, sebbene taluni amino classificare la diver- sità delle razze da altri caratteri, come non ha guari si fece sul rapporto de'colori della pelle (1). (1) Secondo l'Omalio ecco la classieazione delle razze umane secondo il colore della pelle. Tali razze sono cinque, cioè : I. RAZZA BIANCA divisa in quattro rami. A. Europeo, che contiene le famiglie (a. Teutonica co'scandinavi, ger- mani ed inglesi: (b. Celtica co'cimbri e galli, (e. Latina co' fran- cesi, spagnoli, italiani e valacchi (d. Greca co' greci ed alba- nesi: (e. Slava co'russi, polacchi, bulgari, dalmati ec. B. Arameo, che contiene le famiglie (a. atlantica co'Berberi, e Co- pti, (b. Semitica cogli Arabi, Ebrei e Siri. C. Persiano che contiene le famiglie (a. persiana, e ( b. giorgiana. D. Scitico, che contiene le famiglie (a. Circassa (b. Magiara (e. Tur- ca (d. Finnica. II. RAZZA GIALLA, divisa in tre rami. A. Iperboreo. B. Mongolo. C. Sinico, che contiene le famiglie (a. Cinese (b. Coreana (e. Giappo- nese (d. Inda cinese (e. Tibetana. III. RAZZA BRUNA, divisa in tre rami. A. Indù, cogli indiani e malabari. Etiopico, eogli abissini e fellani. B. Malese, che contiene le famiglie (a. Malese micronesiana delle isole Mariane, Caroline ec. (d. Tabuana della Nuova Zelanda, Tai- ti, Marchesi, Sandwich ec. IV. RAZZA ROSSA, divisa in due rami. A. Meridionale ) nell' Americhe divisa in molle famiglie in gran B. Setientrionale; parte deperiente. Mummie peruane 81 Ritenuta una sola origine della specie umana insorge il talento d'investigare le cause che produs- sero successivamente le diverse conformazioni de' cranii, ossia delle razze , e sembra che tali cause possano essere o meccaniche artificiali, o accidentali, o fisiologiche e naturali. E circa alle prime è certo, che tutte le nazioni opinano , che il cervello sia la sede dell'intelligenza e delle facoltà dell'anima, come la precipua sede, e centro delle sensazioni, e la fonte de'moti volontari. Quindi è naturale, che alcuni po- poli suppongano, od abbiano supposto, che modifi- cando la forma di quel viscere mediante alcune com- pressioni ed artificii della teca ossea, che lo contiene potesse ottenersi uno speciale sviluppo di alcune fa- coltà dell'anima, ed anche dell'organismo fisico. Tal- volta una special forma di cranio , o di teste si è creduto che eccitasse o l'ammirazione, o la bellezza, o lo spavento negli spettatori. A tale oggetto non so- lo si prolungano, o forano, o dipingono le labra, le narici, le orecchie, le gote ec. ma anche o si com- prime circolarmente mediante strettissime bende, o si deprime la fronte, o l'occipite, o le regioni tem- porali con appositi artificii specialmente de'selvaggi. E di tali usi ridondano le relazioni de' viaggiatori , V. RAZZA NERA divisa in due rami. A. Occidentale che contiene le famiglie (a. Cafra (b. OttenloUa (e. Negra. B. Orientale che contiene le famiglie (a. Papuassa (b. Salomonica, (e Papnandamena cogli abitanti della IVuova-guinea, Nuova-Olan- da, Luzon ec. (Homalius d'Halloy. De races humaines, cu elemens d'Ethnographie. Paris 1843. G.A.T.CXVIII. 6 S2 Scienze che narrano le torture sofferte dai fanciulli, ne'quali le ossa sono molli e cartilaginose per produrvi al- cune modificazioni preternaturali. Omettendo il mar- tirio cui si assoggettano i piedi delle fanciulle nobili d'alcune provincie della Cina per ridurli ad una de- forme piccolezza osserverò che rapporto alle varie compressioni de'cranii infantili sembra che molti po- poli selvaggi senza conoscere il sistema frenologico di Gali abbiano alcune idee dell'influenza cranomor- fica, e cerebrale al ben essere o fisico, o psicologico, o morale degli individui. Presso altri selvaggi senza un precipuo scopo, ma per mere circostanze occidentali! cranii de'fan- ciuUi subiscono speciali alterazioni, poiché le madri portano costantemente nel giorno anche mentre si occupano in penosi lavori i loro pargoli distesi so- pra una tavola pendente loro dal dorso, e della quale si sollevano solo ue'momenti dell'allattamento , che dura sovente più anni. E chiaro che in tal guisa l'occipite ancor tenero rimane compresso, e si ripiana perdendo parte delle sua convessità. Altri usano col- locarli coricati sovra duri massi, ed altri perfino li espongono all'urto, ed impressione delle acque ca- denti, come alcune popolazioni dell' Immalaia. So- vente anche nelle colte ciltà europee i cranii sono percossi dal moto indiscreto delle culle, o i vasi san- guigni del cervello sono compressi dalle strette in- fasciature delle membra, o nella età poco maggiore i fanciulli delle classi indigenti sono soggetti a re- car sul vertice corpi duri e pesanti, che vi produ- cono talvolta perniciose alterazioni se non rimarche- voli deformità. Mummie perdane 83 Alcuni popoli più antichi e selvag^gi delle in- teriori montagne di Giava e di Borneo, e anche di alcune parti dell'Africa hanno teste, e bocche spor- genti in modo da somigliare il muso delle scimmie, anzi si persuadono di discendere realmente da esse. Ed i scheletri di tali uomini appena nel capo si di- stinguono da quei de'quadr umani. Una tale confor- mazione, che secondo alcuni naturalisti può presen- tare i caratteri di una razza distinta viene attribuita all'uso costante di que'popoli di allungare la bocca per prendere i cibi sovente senza il mezzo delle ma- ni (1), onde col progresso delle generazioni i volti assunsero una forma analoga a quella delle scimmie. Ma non potrebbe altresì negarsi la possibilità dell'o- rigine di quelle forme dalla miscela de'sangui dell' uomo, e delle scimmie di conformazione analoga ad esso. Forse però concorrono ed influiscono non poco alla divergenza delle forme umane, e specialmente a quelle del cranio della primigenia asiatica i cibi e bevande, che agiscono per intus susceptionem^ me- diante la nutrizione o isolatamente, o collettivamente con altri agenti mecanici esterni. In oggi è general- mente dai fisiologi riconosciuto , che la volumino- sità della teca craniale, ossia la grossezza delle pa- reti di essa nelle popolazioni cretine, cioè fralle quali il cretinismo si sviluppa nelle vallate delle alpi eu- ropee, e delle cordigliere meridionali si deve alle (1) Nasmisth, Ricerche sulle difTerenze delle forme che presen- ta la bocca nelle diverse specie umane. Edimb. oew philosopbic. iournal 1846 ii. 79. 84 Scienze sostanze calcari e lapidee, che tengono in dissolu- zione le acque, che beoao. Forse anche lo svihippo di alcun gas nell'interno de'cranii infantili produce quel macrocefalismo, e le concrezioni calcari ne in- grossano le pareti. Un pari fenomeno fu osservato alcuni anni sono negli armenti a corna dell'Islanda ove essi costretti a pascersi di vegetabili coperti, ed imbrattati di ceneri e sostanze vulcaniche andarono soggetti a mostruose esostosi, che in forme allunga- te ed acute prorompevano dalla pelle. Ma non ab- biamo forse esempii quotidiani di gottosi ne'quali la formazione di urato di calce deposto alle estremità produce concrezioni tofacee, che , o aderendo alle ossa ne deturpa la forma, e ne altera la sostanza, ovvero non agglutinandosi ad essa sono espulse co- me corpi estranei rompendo la cute, che le ricuopre? E le disposizioni a tali morbose difformità non è forse noto che si trasmettono da una in altra gene- razione in qualche modo come le conformazioni del- le teste costituenti i caratteri delle razze varie ? Il chiariss. Pictet in una dotta, ed interessante memoria (1) stabilisce alcune norme analogamente alle quali bau luogo nelle specialità degli animali le varietà di forme negli individui. Queste forme sono più o men permanenti a tenore della qualità del nu- trimento, del clima, dell'umidità ec. e perciò influi- scono alla conservazione, o degenerazione delle raz- ze. Omettendo le savie osservazioni del dotto zoologo (1) Encore qiielques mots sur la succession des etres organisès a la surfuce de la terre. Biblioth. universelle de Genève ii. 21 p. 23' 3n. 1847. Mùmmie peruane 85 si può concludere che se alcune circostanze fecero nella successione delle generazioni allontanare i pò- poli di alcune re^Moni del tipo primitivo delle for- me de'cranii quelle stesse circostanze concorrono a conservare le nuove foime assunte. Le generali osservazioni sopra esposte tendeva- no a dimostrare, che i cranii peruani sebbene dif- formi dai craaii delle altre razze umane stabilite dai precedenti naturalisti, pure appartengono alla specie dell Aomo sapiens, e proyenQoao dalla origine adami- tica, e per circostanze, che non ci è permesso rile- vare, assunsero un volume straordinario, e dirò mo- struoso. Ma non pochi dubbi anche dopo ammessa tale opmione restano a risolversi in proposito. Ed in primo potrà quella mostruosità ritenersi come una malattia individuale , o come uno speciale artificio m uso presso antichi popoli, ovvero era permanente e trasmessa colla generazione in guisa da costituire il carattere di una razza ? Ignorando se altri su i luoghi si sia occupato m fìsiche indagini in proposito osservo, che in al- cune valh delle cordigliere peruane alcuni viaggia- tori trovarono non solo individui co'gozzi o tumori pendenti dal collo, come nelle valli delle alpi sviz- zere, ma anche una specie di cretinismo sebbene for- se più circoscritto che in Europa. E le cause forse VI saranno più manifeste, se come si asserisce la po- polazione selvaggia degli Otomachi se non beve ac que pregne di sostanze minerali e concrescibili man- gia almeno gran parte dell'anno una specie di ar- gilla che serve ad essa di nutrimento (1). I„ tal caso o » uio (1. alcun, ind.vdu, e popoli di cangiare la terra. ' 86 Scienze il macrocefalismo in questione sarebbe meramente' individuale, e non costituirebbe una vera razza. Al- tronde però le mummie di cui parlo appartenevano a personaggi o reali, o principeschi , non ad infe- lici individui; poiché erano collocate in una speciale necropoli con distinta accuratezza, e non era un sola individuo ma molti di analoga struttura di cranio. Né pur anco quel volume sembra che producesse quella sorta di fatuità e degradazione fìsica, ed in- tellettuale, che si osserva ne'cretini; poiché non può supporsi che a tali deformi ed abietti individui fos- sero destinati speciali e distinti sepolcreti e tombe. Né poi l'esistenza di tali mummie, e cranii vo- luminosi vengono per i primi a figurare in Europa, poiché già alcuni viaggiatori ne avevano fatto men- zione nelle loro relazioni, ed il sig. Ischudi annun- cia il disegno del cranio di un Huanca il di cui mo- dello in cera si trova nel museo di Berlino, e cor- risponde alla forma de'cranii in questione. Ciò perà che sembra certo si è, che, o vogliano essi ritenersi come appartenenti ad una razza permanente, od una mostruosità frequente in alcune tribù, in oggi non si conosce che esistano individui viventi. Né ciò si. oppone ad altre osservazioni , od ai principii della progressione degli esseri organici sulla superficie della terra; poiché ne'bassi rilievi egiziani, e nubiesì furono osservati già teste, nelle quali le orecchie era- no collocate più in alto delle odierne razze, e furono in prima credute che in tal modo fossero poste per una specie di convenzione od uso artistico, ma quin- di in alcune necropoli delle più antiche dinastie si trovarono cranii ne'quali i meati uditorii corrispon- Mummie perdane tìevano alla posizione delle orecchie ne' monumenti figurati. Quella difformità ostreologica costituiva al certo una razza in oggi estinta. E una tale estinzione non solo avviene nelle razze o varietà che costante- mente tendono a tornare al tipo e conformazione aborigene, ma anche nelle specie stesse degli esseri organici, le quali anche nell'attuale nostro studio co- smico vanno estinguendosi , e riproducendosi sotto altre forme come osserva il pred. Pictet. Un altra questione potrebbe affacciarsi, se cioè le mummie in questione appartenessero agli Incas sovrani del Perù, come sembra che indichi la deno- minazione che i peruani odierni danno a quelle ne- cropoli chiamandole sepolture degli Incas. Su tal proposito però abbiamo notizie storiche, che esclu- dono una tale supposizione. Abbiamo in fatti da un discendente di quelle dinastie, la storia di essa fin dalla fondazione dell'impero degli Incas, che mentre riferisce moltissimi fatti storici ed etnografici di essi pur mai non fa menzione di tale deformità ne in se, ne ne'suoi ascendenti. Anzi egli, Garcilasso della Ve- ga, vivente all'epoca della conquista ispanica pre- senta le effigie degli Incas inclusivamente a Manco Capac, che fu il primo di essi, e nulla vi si osserva di rimarchevole diflFerenza dalle teste europee (i). Anzi egli riferisce che si aveva special cura allo spontaneo sviluppo fisico de' fanciulli , i quah non solevano in alcun modo comprimersi , o tenersi in braccio come è uso fra noi. Rammenta altresì che (1) Histoire des Incas rais du Perou de l'Inca Garcilasso de b Vega trad de l'espagaol ec. 88 Scienze Manco Capac alla sua morte fu imbalsamato, come fu eseguito ne'suoi successori al trono esportando- sene i precordii al tempio di Tampu cinque leghe lontano da Cusco. Ed uno di tali cadaveri o mum- mie fu rinvenuto nel 1559 dagli spagnoli senza però che si accenni alcuna defoimità del cranio. Ma que- ste ed altrettali difficoltà e dubii, forse non potreb- bero ottenere qualche dilucidazione se non dalle tra- dizioni ed indagini locali, e verosimilmente coU'am- mettere una più antica civilizzazione peruana e di al- tre parti dell'america come indicano i famosi monu- menti di Palenquè ed altri moltissimi di moderno discuoprimento. Può solo conchiudersi che già altri riconobbe queste forme de'cranii come caratteristi- che di una razza speciale oggi estinta , e questi si è il berlinese sig. profess. Zeune. Questi non a guari pubblicò una memoria col titolo di studii sulle forme de'cianii per istabilire con più di precisione la distinzione delle razze umane (1). Egli studia i cranii,eli classifica principalmente sotto il punto di vista delle tre dimensioni, altezza, lar- ghezza e lunghezza, e cosi stabilisce sei razze ori- ginali delle quali tre appartengono all'antico conti- nente, e tre all'America. Non ammette razza autot- tona nella Nuova-Olanda, e quella a testa allunga- ta, che ora vi abita la reputa venuta di fuori. Ecco pertanto le sei razze stabitite da Zeune sul rapporto de'cranii. I. Razza iranica (caucasica alla quale noi apparte- niamo ). ... , . . iì (1) Froriep's Nolize seplem. 1846. Mummie peruane 8*1 II. Razza turaniia (mongolica e cinese). III. Razza sudanica (etiopica). IV. Razza apalachica (dell' America seltentrionale ). L'autore rinvia il lettore alle tavole 20 e 21 de' Crania americana di Morton che rappresentano il cranio di un indiano nantchez. Angolo faccia- le 77. V. Razza guianica (dell'America media). Il cranio , che riporta come tipo è di un Mahousi, ma for- se sarebbe meglio stabilirlo con quello di alcun Garaibo ne'quali Schomberg ci insegna, che gli ossi delle guancie sono molto allontanati l' uno dall'altro. VI. Razza peruana (dell' America del sud ). Questa razza corrisponde a quella in questione , ed al tipo presentato ed esistente nel museo berlinese. Tali razze poi secondo le tre dimensioni de' cranii possono classificarsi in 4. Cranii elevati, razza iranica ed apalachica. 2. Cranii larghi, razza turanica e guianica. 3. Cranii lunghi, razza sudanica e peruana. Io, sig. professore, non ho inteso di fare se non un imperfetto annunzio di circostanza delle mum- mie peruviane, il quale può servire di eccitamento ad ulteriori investigazioni, e rilievi di persone dotte, e più di me versate nelle scienze antropologiche, e quindi a voi lo ho intitolato. S. Camilla -PU<> 90 Saggio della Vita. Di Vincenzo Catalani dottore in medicina e chirurgia. 1. Sottoponi l'aggregato organico ai reagenti chi- mici; e come ultimo risultato dell'investigazioni ana- litiche, ne otterrai costantemente una quantità più o meno considerevole di principii materiali etero- genei. Solo non troverai nel corpo, il dicui radicale sia composto quella uniformità e costanza di prin- cipii, come con leggi determinate e più circoscritte ci si appalesano nel composto a radicale semplice. Ma , essendo immensamente esteso il numero dei corpi organizzati, la forza creatrice volle lasciarsi più libero il campo, per creare i vegetabili, e gli ani- mali sempre più svariati e più belli. 2. Gli elementi della natura organica sono in- distruttibili, e ne reagente chimico o combinazione qualsiasi valgono ad annichilire le proprietà essen- ziali della materia; perchè collegate con le più mi- nime particelle. Ma qualora fosse possibile modifi- care, o interamente distruggere la struttura dell'a- tomo, anche queste verrebbero meno. La rude ma- teria solo possiede le proprietà essenziali e comuni a tutti i corpi, e di mano in mano che organizza, ne acquista delle nuove, suscettive di cambiare all' infinito; ma che sono dal tempo onninamente distrut- te. - Se ci fossero note le leggio che reggono resi- stenza^ così si esprime Berzelius, degli esseri orga- nizzati-, riconosceremmo del pari., che resistenza sen- za alterarsi d' un corpo organico , sotto V influenza Saggio della Vita 9f prolungata di circostanze eguali , è un' impossibilità fisica^ la cui cagione appunto dipende da queste ley- 3. L'essenza dei corpi viventi non è da ricer- carsi nella natura degli elementi che li compongo- no, ma nell'ordinamento dei medesimi è riposto it magistero della vita; come in quel potere, che dis- pone ed organizza la rude materia , e da stabilirsi la causa prima della medesima. Senza disposizione molecolare non si ha organizzazione; come senza l'ag- gregazione degli elementi eterogenei non si mani- festano fenomeni vitali. Se il globo terraqueo esistes- se con gli elementi inorganici continuerebbe a ri- manersi senza esseri viventi, se questi principii non fossero in più modi riuniti; come del pari cessereb- be ogni movimento molecolare allorché gli elementi fossero saturi; cioè posti nelle più favorevoli com - binazioni. Ma l'atto analitico è in tal guisa concate- nato con il sintetico, che in natura si manifesta co- me causa, quando il corpo organizzato restituisce i propri elementi alla natura inorganica; ed a guisa d'effetto, allorché le molecole si coordinano e si dis-- pongono sotto una foggia qualsiasi. Ed una serie non interrotta d'esseri peribili nascono gli uni dagli altri; ed i frammenti dei primi servono al manteni- mento dei secondi. 4. Nella genesi dei corpi è indispensabile un cambiamento nello stato primitivo della molecola; e nel formarsi la compage degli elementi immediati dei corpi organici viventi , fa di mestieri del con- (i) Chimica. 92 Scienze corso simultaneo di parti fluide e solide , le quali nell'atto dell'organizzazione cambino il consueto stato. E fino a quel momento, che sono fluide e solide non organizzano, e rimangono sotto l'impero delle po- tenze fisiche e chimiche. Ecco come gli atomi sono in perenne movimento ; e come i gruppi degli es- seri del mondo vivente altro non sono che rude ma- teria disposta e combinata; che disciogliendosi di bel nuovo, per la tendenza che hanno gli elementi inor- ganici di prendere lo stato elettro-chimico primitivo rientrano nel seno della natura inorganica. 5; Quella forza che tende a coordinare ed uni- re gli elementi, cambia d'indensità nella più parte dei corpi, tra i quali si esercita; e cosi ha luogo l'atto analitico e sintetico , che incessantemente si svolge in natura, e mantiene il fenomeno dell'avvicendarsi delle forme della materia. Ed i prmcipii elementari tendono ad unirsi in determinate proporzioni; ed i composti trovandosi a contatto con altri, che hanno maggiore affinità per i principii costituenti, tosto si disciolgono, ed altri composti s'ingenerano, rima- nendo distrutte le forze quiescienti dalle divellenti. Versando nella soluzione di muriato di barite la dis- soluzione di carbonato di potassa , restano rotte le prime combinazioni, generandosi il muriato di po- tassa, ed il carbonato di barite. I principii eteroge- nei sogliono combinarsi, per generare i composti a radicale semplice con determinate leggi; così l'acido nitrico si unisce a preferenza degli altri metalli al zinco; nel mentre che ha minore affinità per il mer- curio, il rame ed il ferro. 0. Gli elementi della natura inorganica posti a SAGGIO DELLA Vita 93 contatto entrano in combinazione; e l' atto sintetico è favorito da quelle cose, che accrescono l'intensità dell'affinità chimica: e la decomposizione degli agen- ti, che aumentano l'atto di repulsione, e distruggo- no la forza che mantiene l'aggregazione molecolare. Generandosi i corpi , perdono gli elementi le pro- prietà accidentali, ed il composto acquista partico- lari affinità. L'acido nitrico, composto di ossip^eno e d'azoto, dispiega una peculiare azione su i metalli e vi si combina. Ma l'azoto non ha affinità alcuna per essi, e l'ossigeno unendosi ai metalli gli ossida e li rende idonei ad unirsi agli acidi per ingene- rare i sali. Il zucchero, la gomma, gli acidi acetico, succino, citrico, e formico ec. sono ingenerati dall' ossigeno unito al carbonio ed all'idrogeno; ma i primi diversificano notabilmente dai secondi, e non possono unirsi come questi alle basi salifìcabih per ingenerare i sali. Invertito 1' ordine degli elementi dell'apparecchio voltaico non si ha più atto analiti- co e né sintetico, ed i fenomeni elettrici onninamen- te si sopprimono. Egli è dunque comprovato dal fatto, che gli elementi dei corpi posti in combina- zioni, acquistano particolari affinità, e dei caratteri distintivi, suscettivi di cambiare all'infinito. 7. Non può revocarsi in dubbio, che in natura l'avvicendarsi delle forme, come il scomporsi e ri- comporsi dei corpi, l'attrarsi ed il repellersi dei me- desimi, non siano l'espressione, ed il risultato di quel- le medesime forze, che mantengono l'armonia uni- versale. Se ci fermiamo per un istante a considera- re l'eterogenia, generalio heterogenea^ aequivoea^ pri- mitiva, originaria^ spontanea-^ allora saremo portati a 94 Scienze stabilire , che gli elementi dei corpi inorganici in determinati modi combinati generano gì' infusori ve- getabili ed animali; e la compage degli elementi im- mediati dei corpi organici si crea prima che si ma- nifesti la vita; e la primordiale composizione non è sottoposta all'azione vitale; ma l'attrazione aggregan- do gli elementi inorganici, genera un composto, dal quale scaturiscono di poi gli atti vitali; cioè gli at- tributi e le caratteristiche di queste speciali combi- nazioni. L'assioma stabilito dal genio del norde Car- lo Linneo: cioè, che tutti gli esseri si propagano per semi e per uove, si verifica nei corpi organizzati , in cui i fenomeni vitali sono meno dipendenti dalle proprietà primitive degli elementi inorganici. 8. Un cambiamento cViimico nel liquido e nella sostanza solida posta in infusione, costantemente ac- compagna la genesi dei vegetabili e degli animali infusori , fenomeno che probabilmente dipende da quella reazione, che la sostanza liquida esercita nel- la solida, distruggendovi la forza di aggregazione , considerata da Gruithuisen come una peculiare fer- mentazione, capace di generare il mucco primor- diale analogo alla sostanza, che il corpo della fem- mina segrega nella generazione per individualizzazio- ne. Scorse sedici o ventiquattro ore, varie bolle di aria si svolgono dall'infusione, ed il liquido nota- bilmente intorbida ; ma dopo un qualche tempo diviene di bel nuovo limpido, e si organizza una pe- culiare mucillagine , o gelatina nella superficie del liquido, o un sedimento che precipita al fondo del vaso, o si formano dei fiocchi che rimangono sos- pesi, o galleggiano nel liquido. In questa sostanza Saggio della Vita 95 primordiale s'ingenerano le granellazioni, che si stac- cano dalla membrana per svolgersi in infusori. - Ogni volta che avviene rigenerazione si scorge spor- gersi certo liquido chiaro come acqiia^ il quale a poco a poco si addensa^ prende veduto col microscopio un aspetto graneloso , finalmente si organizza e spesso sostituisce perfettamente Vorgano perduto con tutti i suoi ossi^ legamenti^ muscoli e nervi (1). - 9. Gli ovicini dei vegetabili e degli animali, or- ganizzati dalla forza plastica con l'attitudine ad unir- si al polline ed allo sperma, mediante l'atto della fecondazione subiscono una peculiare elaborazione nel mentre che la sostanza prolifica vi si combina, ed acquistano l'attitudine a svolgersi in speciali for- me. Gli ovicioi prima d' esser fecondati portano il germe dell'individualità; come l'ossigeno racchiude in se quello dell'acido, e l'acido quello del sale, e diviene il primo acido ed il secondo sale, allorché le combinazioni essenziali per questi avvengono; va- le a dire ogni qualvolta l'ossigeno si combina eoa i corpi combustibili, e l'acido con le basi salificabili. 10. Il Burdach, in seguito di una lunga serie di esperienze, stabiliva effettuarsi la generazione per un'attività vitale, che procede giuste le leggi dell' elettricità. Ma nella sua idea ravvisa l'elettricità, co- me una forza generale della natura ; così in altri termini spiega il fenomeno mediante l'attrazione uni- versale. - La propagazione sessuale^ così egli si es- prime, è un atto dinamico, che consiste in un conflit- (1) Burdach trattato di fisiologia, voi. 1, part. 2, sezione 1, cap. 1. 96 Scienze to dei sessi^ cioè dei due membri della specie opposti Vuno aWallro^ come i due poli di una calamita^ che dà luogo alVatto chimico delle formazioni (1). - E la forza generale della natura rappresentata sotto la fornaa dell'elettricità, è una potenza, mediante la qua- le viene creato il germe con V attitudine a svilup- parsi sotto la forma di vegetabile e di animale. Ma il conflitto dei sessi, e l'atto dinamico, ed il polo ideale del Burdach non hanno più luogo quando la deposizione delle uove precede la fecondazione: co- me negli entozoari, fra gli acatocefali, nei mollus- chi fra i cefalopadi, nella maggior parte dei pesci, e nei batraci auuri. Lo sperma disseminato dai pesci ossosi ovipari, dagli urodeli e dagli anuri viene rac- colto dall'acqua, come il polline delle piante monoi- che dall' aria; e così la materia prolifica per acci- dentalità è condotta all'ovaio, per fecondare le ©vi- cine. Nelle acque adunque ove guizzano i pesci, e nell'aria, che noi respiriamo sono sospese le potenze prolifiche, che si appartengono a più specie. Ma il bastardume negli animali, e l'ibridismo nelle piante sono fenomeni rari, e nel mentre si sottraggono dal- le leggi generali, vanno sottoposti ad alcune speciali, senza delle quali non può aver luogo la loro genesi; cosi il caso, o una peculiare affinità conduce la ma- teria prolifica all'essere che gli appartiene; ed il pol- line e lo sperma devono avere affinità speciale per alcune ovicine, con le quali combinandosi le fecon- dano, per conservare la propria individualità. 11. Sia pure la fecondazione, come scriveva (1) Fisiologia, voi. 2, pari. 1, sezione 2, cap. 3- Sàggio della Vita 97 ì'Harvey, una specie d'infezione, che lo sperma de- termina nel corpo della femmina; in qualunque mo- do sia considerato il fenomeno, fa di mestieri d'am- mettere un cambiamento nell' intima struttura dell' ovicino. Le proprietà fisico-chimiche costantemente si cambiano; e la fecondazione determina una mag- giore proclività alla decomposizione; e le uova non fecondate di gallina sopportano un calore di tren- tadue gradi per trenta o quaranta giorni, nel mentre che le fecondate si decompongono e si putrefanno. E quelle di autunno, perchè meno atte all'incuba- zione , si conservano più lungamente di quelle dì primavera; quantunque la temperatura sia la mede- sima. Un carattere costante e generale, che annun- zia la prossima decomposizione è l' intorbidamento del liquido. Nel gambero e nell'echinorino le uove fecondate perdono la naturale trasparenza, e diven- gono opache. Nel baco da seta il colore giallo, me- diante la fecondazione è cangiato in paonazzo. Nei pesci in principio si accresce la trasparenza del li- quido; ma scorse quarantotto ore, questo notabil- mente intorbida. Invergendo nell'alcool un uovo di gallina non fecondate, la cicatricola rimane traspa- rente; e diviene opaca in quelle che furono sotto- poste all'atto della fecondazione. Provai e Dumas os- servarono nelle cagne , e Grasmeyer nelle vacche , ed Haighton nelle coniglie in calore le vescichette ovariche non crescere di volume; ma dopo la fecon- dazione gonfiare in poche ore, e crescere a dismi- sura. L'ovicino dei mammiferi determina allora l'af- flusso degli umori, e quello dei vegetabili maggior copia di succhi. Posti in fine gli ovicini fecondati, G.A.T.CXVIII. 7 98 Scienze e di quelli che non lo furono nelle condizioni fa- vorevoli per l'incubazione, nel mentre che dai primi s'ingenera un essere organizzato; gli altri si putre- fanno, ed entrano nel seno della natura inorganica. Quando avremo stabilite le quantità e le qualità dei principii nelle uove prima e dopo la fecondazione, allora avremo conosciuta la proporzione o quel prin- cipio che determina l'attitudine alla generazione. 12. Per non abbandonare la via dell'esperienza e dell'osservazione, per battere quella del concettu- rale e dell'ipotetico, osserveremo i fatti come la na- / tura ce li presenta. Posto il seme a germogliare as- sorbe l'umidità, e cosi gli inviluppi seminali ram- molliscono. Penetrata la molecola dell'acqua nel tes- suto dell'embrione si sveglia un'azione chimica con svolgimento di calore , e 1' embrione si dispone in questa guisa a ricevere gli elementi nutritivi. In se- guito il perisperma rammollisce in quelle parti che sono a contatto dell'embrione, e convertito in liqui- do emulsino, percorre i vasi dei cotiledoni, per ser- vire di nutrimrnto al blastema. Nell'atto della ger- minazione è assorbito l'ossigeno, nel mentre che una parte di carbonio viene espulsa mediante lo spri- gionamento del gas acido carbonico; e le respettive quantità dell'ossigeno, dell'idrogeno e del carbonio, che sono gli elementi della fecola del perisperma, essendo cambiate, per la presenza degli elementi del- l'acqua e dell'ossigeno assorbito, non che per l'esa- lazione di una certa quantità di carbonio , subisce una metamorfosi, e da insolubile che era , diviene solubile; e così s' ingenera la corapage primordiale degli elementi immediati delle piante nascenti. Fe~ Saggio bella Vita 99 siomeno costantemente accompagnato dall' ingrossa- mento parziale o totale dell' embrione , per cui gli inviluppi seminali sono rotti, e la radicina ingros- sata si dirige nel centro della terra; nel mentre che la piumetta si innalza al di sopra del suolo. Le aga- me e le criptogame, ed alcune fenogame, come le cuscute sono per la massima parte sproviste di co- tiledoni. In questi semi gli elementi dell'acqua e l'os- sigeno assorbito si combinano direttamente con i principii elementari dell'embrione, mediante processi chimici spontanei, per dar luogo alla formazione de- gli elementi immediati. - Il corpo solido 0 polpa dei semi, dice Targioni, contiene una sostanza oleosa 0 mucosa, 0 farinacea riposta in infiniti acinetti, 0 ve- scichette comunicanti per un tessuto reticolare d'im- percettibile sottigliezza . . . Tutti adunque contengono materie capaci di scomporre Vacqua iie'suoi principii, cioè idrogeno ed ossigeno. Sono adunque capaci di ris- caldarsi, divenire spiritosi, acidi e putridi, e di en- trar in altre combinazioni con i medesimi principii costituenti. In fine i semi farinacei, quelli del lino , della senepa, ed altri se siano bagnati ed ammucchia- ti in una certa quantità, si riscaldano e fermentano, e se abbiano abbastanza di calore e di umidità i se- mi germogliano (1). 13. L'atto chimico sostenuto, durante la ger- minazione, da quelli agenti e principii chimici, che risvegliano il processo di fermentazione, ben presto si modifica, e cambia quando la luce agisce nella piumetta; allora il gas acido carbonico e l'acqua si (♦) Potauica. 100 Scienze decompongono; e l'ossigeno viene in gran parie es- pulso; ed il carbonio e gli elementi dell'acqua com- binandosi insieme, generano dei prodotti infiamma- bili, fissi e volatili, che subentrano alla materia zuc- cherina ed alla mucillagine. Noi abbiamo l' analisi e la sintesi; cioè l'attrazione e la repulzione in azio- ne; e nel mentre che certi corpi sono decomposti, altri s'ingenerano; e così quelle medesime forze che mantengono l'armonia universale, sono in azione nel- la genesi degli esseri organizzati. 14. Il celebre anatomico Malpichi, e seco lui non pochi distinti fisiologi pretesero di vedere il ru^ dimento dell'embrione solo nella cicatricola del gial- lo dell'uovo fecondato. Harvey, Spallanzani , Haller e Bonnet assicurano del pari di averlo veduto nella cicatricola delle uove non fecondate. Quello che non forma oggetto di controversie e discrepanse sono i soli fenomeni, che nel decorso dell' incubazione si svolgono nelle uove fecondate. Questi brevemente de- scriveremo, lasciando ad altri risolvere la questione agitata da Harvey, Malpichi, Spallanzani, Haller e Bonnet. 15. Nel primo periodo dell'incubazione si ren- de più manifesta la distinzione fra il giallo, la mem- brana proligera e la vitellina. La proligera diviene consistente, e si divide in due lamine; la superiore di natura sierosa costituisce l'areola trasparente; ed in essa s'ingenerano dipoi il sistema cutaneo ester- no, il muscolare, il nervoso, l'osseo e tutto il com- plesso della vita animale; e l'inferiore, di natura rauc- cosa, assorbe l'embriotrofo, e lo depone trasformato in massa organica primitiva alla superficie interna; Saggio della Vita 101 (B fra le superfìci muccosa e sierosa s'ingenerano le formazioni indirette e secondarie, che sviluppandosi maggiorraente ingenerano il sistema delle membrane muccose , sede primitiva della vita plastica , ove i principii elementari sono introdotti ed assorbiti^ e le sostanze organiche decomposte sono portate all'ester- no. In seguito nella parte interna del cerchio , che circonda l'areola trasparente si formano i vasi; e fra la superfìcie muccosa e sierosa si forma uno strato di globetti, dai quali sviluppandosi dei vasi s'inge- nera la lamina vascolare di Pander* E nel centro longitudinale dell'areola trasparente apparisce la cor- da spinale simile ad una spilla munita di testa; che si compone di una serie di globetti oscuri, che col moltiplicarsi acquista maggior solidità e consistenza. Altri globetti si uniscono del pari per formare i pri- mi rudimenti delle vertebre; e l'embrione sorte al- lora dal torlo accompagnato dall'areola trasparente. Dipoi incomincia a sortire dalla membrana prolige- ra la parte inferiore e addominale dell'embrione. E nelle cellule cerebrali, e nel cavo rachideo si forma- no dei grossi globetti, ed in seguito s' ingenera la sostanza solida del cervello e della midolla spinale, E tra le lamine sierosa e muccosa apparisce una massa granolosa, dalla quale s'ingenera il cuore, che dopo un qualche tempo pulsa, e circola nell'interno un liquido, nel quale si distinguono piccole isolette di sangue rosso, che probabilmente scaturisce dalle grondaie dell'areola trasparente. In seguito svilup- pano sotto la lamina sierosa piccole vescichette agio merate d'un tessuto plastico, che presa la forma di piccoli grani si circondano di fìssure a guisa di ma- t02 Scienze glie, e costituiscono l'isolette di sangue descritte dal Wolff. Le piccole isolelte allargandosi si riuniscono insieme e formano un reticolo con interstizii, dai qua- li sortono correnti tenue di globetti , che a norma della loro grossezza si distribuiscono in rami o tron- chi. E dal tessuto plastico s'ingenerano delle fibre, le quali ammucchiandosi, il sistema muscolare ap- parisce in quasi tutte le parti. Nel medesimo tempo si risveglia il processo di ossificazione, ed apparisco- no dei punti ossei nelle vertebre del collo e del pet- to; ma quasi istantaneamente manifestandosi in tutte le parli, progredisce con grandissima celerità. L'os- sificazione è sì poco identica negli individui, che tor- na quasi impossibile determinarne la successione normale. In fine si sviluppano i rudimenti delle pen- ne sotto la forma di piccoli tubercoli. E negli ul- timi giorni dell'incubazione il torlo apparisce aumen- tato di volume; nel mentre che il bianco è quasi in» teraraente scomparso; così l'embrione si è sviluppa- to a spese del bianco; ed il torlo, passando per l'a- pertura ombellicale nel ventre l'alimenta per qual- che giorno, terminata che sia 1' incubazione. Dalla serie dei fenomeni che si manifestarono nel decorso dell'incubazione, chiaro apparisce, che in principio non si distingue nell'embrione, che tessuto plastico^ cioè la massa fondamentale di tutte le parti animali; composta di mucco, d'abumina e di globetti; e l'em- brione essere una parte delia proligera, che median- te uiìsl serie non interrotta di combinazioni chimi- che perviene ad una maggiore indipendenza. 16. Il corpo organizzato sviluppa adunque nel- l'eterogenia mediante la riunione diretta degli eie- Saggio della Vita > 1 03 menti inorganici, e nella monogenia d'una spora, da un seme, d' un uovo. Gli elementi inorganici nella generazione spontanea si riuniscono per prima for- mazione per generare la sostanza primordiale; nella quale si generano, mediante altro processo chimico spontaneo delle granelazioni; che staccansi dalla mem- brana, per svolgersi in ultima metamorfosi sotto la forma di vegetabile ed animale. Nella monogenia la formazione dell' embrione si eflfettua mediante una serie non interrotta di metamorfosi, o spontanee com- binazioni chimiche del seme, o della sostanza mera- braniforme della proligera; proveniente essa pure da sostanza organica primordiale; e gli agenti dell'in- cubazione, altro non fanno , che mettere in azione il lavoro chimico della formazione. La parte orga- nica della vita è dunque costantemente l'effetto dell' aggregazione molecolare; sia che l'atto chimico trag- ga gli elementi direttamente dal seno della natura inorganica; o decomponendo la materia organizzata, ne prenda i materiali per crearne un essere organico di nuova formazione. Il processo chimico della vita è determinato dagli agenti esterni, che mettono in peculiari combinazioni gli elementi inorganici. E le forze generali della natura, agendo direttamente ne- gli elementi inorganici li dispongono per generare il vegetabile e l'animale infusori. Nel seme ne svi- luppano costantemente una pianta ed un animale, allorché dispiegano nell'uovo la vivificante azione; così la vita di un essere organizzato qualunque, non è certamente il risultato di peculiari forze proprie di ciascun essere, senza delle quali non sia possibile la loro esistenza. La parte peculiare della vita, che 104 Scienze varia in tutti gli esseri viventi, è la sola disposizione molecolare, dalla quale ne derivano, come effetto immediato gli atti dinamici; così le proprietà fisico- chimiche si appartengono al corpo inorganico, e le fisico-chimico-dinamiche sono di pertinenza degli esseri organici viventi. Da Brown era stabilita la de- finizione la più significante della vita, consideran- dola il risultato di due elementi, cioè eccitabilità e stimolo , se nell' espressione generica di eccitabilità avesse compreso la composizione e simmetrica dis- posizione organica, capace di svolgere sotto l'azione degli stimoli la parte attiva e passiva della vita. Sta- bilita la serie non interrotta delle scomposizioni e composizioni, mediante le quali si creano e sussisto- no gli esseri organizzati, avremo la storia della par- te organica della vita. Ed allorché si avranno deter- minate le cause che risvegliano l'atto analitico e sin- tetico, e si avrà stabilito il complesso degli stimoli che mettono in azione l'organizzazione, e si avranno de- scritti gli atti, che ne scaturiscono come effetti imme- diati, non più incognite ci saranno le cause determi- nanti la parte organica e dinamica; e saremo a portata di distinguere il potere attivo, dall'atto passivo della vita. E se studieremo gli stimoli eterogenei e quelle condizioni che rimovono dalla normalità l'analisi e la sintesi , che incessabilmente compongono e dis- truggono l'organismo, e determineremo gli sconcerti funzionali; allora saremo pervenuti a conoscere le cause occasionali ed efficienti, e la semiotica di tutti i processi morbosi. 105 E^mTTMRJ^T'O'&M. Viterbo e il suo territorio. (^Continuazione e fine.) APPENDÌCI APPENDICE L PERENTO. lioi viterbesi pronunziamo questo nome colla se- conda sillaba breve, come ciò fassi con Lepanto , Scàrpanto, Otranto, Taranto, Ofanto e simili. Fu città, le cui rovine oggi sussistono nel no- stro territorio, e tra queste, come altrove dissi, gli avanzi cospicui d' un teatro , mal già pubblicato in disegno dal Serlio; e, come il Pennazzi scrive (Vita di s. Eulizio p. 215) : Ecclesia diruta s. Bonifacii., quadratis lapidihus^ antiquo more, magnis sumptihus aedificata. La distrussero i concittadini nostri l'anno 1 170, o in quel torno, siccome può leggersi nel Bussi, che cita le cronache, e registra 1' assoluzione ottenutane dal Barbarossa (p. 498, documento n. 4). Ed è prez- zo dell'opera conoscere l' accaninuMito , con che ne perseguitarono anche i ruderi, ben 80 anni dopo; leggendosi nello statuto del 1251 : Pantana, et rea aliae., quondam Commimitatis Ferentinensis., ad Coni- 106 Letteratura munitatem Viterbii reverlantur, praefer illa^ quae ah ecclesiis^ et aliis rationabiliter possidenlur; et quiciim- que (ibi) vineam (aiit) ortum laboraverit^ in centum solidis puniatur. Et si quis dictas vineas devastave- rìt^ seu destruxerit^ penam exinde minime patiatur. Qui eas inciderit nullam penam exinde sustineat, et ficus, et caricas^ et piros^ sive poma quilibet incidere possit; et qui supradictis locis de cetero plantaverit arbores X Uh. sine querela peiìa puniatur. Ed altrove: Ordinamus.) quod terrae quae fuerunt sce crucis., et possessiones de Perento, et Casalina., salvis terris sco- rum Gemini et Matlhei et Bonifacii et Stephani., om- nia Casalina., quae fuerunt in Perento , nulla exce- ptione admissa., ad civitatem Viterbii revertantur., et auferantur a quolibet possessore. Scindici Communis., et dictas terras, et possessiones prò Communi habeant et possideant., salva super his provisione consilii spe- cialis etc. Non credo, che d'un anfiteatro, ma sì del tea- tro detto di sopra, parlasse il Tuccia, all'an. 1170, di- cendo, quel che già riferiva poco addietro : Lunedì a dì \ gennaro i viterbesi entrarono per forza a Pe- rento di notte tempo., et prenderno et scaricamo fino ad un luogo che si chiamava i Cercini ( o secondo altra copia i Circoli)'., de'quali ultimi citammo anche la menzione che ce n' è data nel catalogo Riccar- diano de'tesori, così: In ea civilate Perenti., ubi di- citur Circuii., invenies parietem cum istis signis ... et invenies multos lapides preciosos; e qui aggiungere- mo il testé mentovato Statuto, sotto la rubrica: Quod destruatur Circulus Perenti., colle seguenti sue parole: Statuimus., quod potestas, vel consules teneantur fa- Viterbo e il suo territorio 107 cere destrui Cirmlwn Ferenti., miltendo homines sive magistros de Viterhio, salva tamen provisione consilii specialis: D'altri decorosi edificii non credo che la città mancasse, oltre al mentovato teatro, avvegnaché ri- ferisce Vitruvio (2. 7.) : Sunt lapidicinae complures, in finibus Tarquiniensium, quae dicuntur Anieianae , colore quemadmodum Albanae^ quorum offìcinae ma- ximae sunt circa lacum Vulsiniensem; item praefectura Statoniensi. Eae aulem infinitns habent virtutes etc. Id autem maxime iudicare licet e ìnommentis, quae sunt circa municipium Ferentis, ex liis facla lapidi- cinis; namque habet et slatuas amplas (di granrlezza più che la naturale ? ), faelas egregie, et minora si- gilla, floresque et acanthos eleganter scalptos }, quae cum sint vetusta, sic apparent recentia, uti sint modo facta: ciò provando, a mio senso, che Vitruvio vi era stato, e che conosceva il nosrro nenfro (nome patrio del sasso aniciano). Che fosse poi, già tempo, città non ìsprovista della sua superbia, può anche provarlo la seguente iscrizione, presso il Muratori (10-40, 5), e 1' Orelly (3507): D. M. Ulpio. C. F Sporo. Medico. Alar. In- dianae. Et. Tertiae. Asturum,. Et. Salarialo. Civita- tis. Splendidissimae. Ferentiensium. Utpius. Protoge- nes. Lib. P. B. M. F. (cioè Patrono Benemerenti fecit). Per vero par che contraddica a questo splen- dore, almeno pe'suoi tempi, Orazio, e l'antico Sco- liaste, che pur ne parlano come di luogo quasi al- lora deserto, in un notissimo passo, col quale par consuoni anche Strabone; ma ciò non toglie il lustro già stato in età migliore. La più antica e più ri- 108 Letteratura guardevole memoria ch'io n'abbia trovata è in Ta- cito (Ann. XV, 53), dove favella di Flavio Scevino, uno de' principali attori nella neroniana congiura , che pugionem ... tempio Salntis in Etruria, sive , ut aia tì^adiderCj Fortunae, Ferentano in oppiclo, detra- xerat^ gestabatque velut magno operi sacrum ... olim religione patria cultum ... vetustate obtusum (quera) asperari saxo., et in miicronem ardescere iussit (per servirsene nel ferimento): donde s'impara, che que- sto Scevino, per essere di leggieri dei ferentinati , mentre secondo qualche scrittore, da un indetermi- nato tempio etrusco della dea Salute (Suthinal).^ tolto aveva alla meditata uccisione un sacro ferro, secon- do altri avevalo invece preso da un tempio della Fortuna (Nurtia, o forse Nurthia) in Ferento nostra. Ma se ne impara altresì, che questo ferro, non sen- za un gran perchè, aveva dovuto essere anticamente (olim) consacrato in esso tempio, e patria religione in cubiculo cuUus. Certo aveva già servito, ne'tempi dell'autonomia tosca, a liberare la patria (o Feiento, o Toscana tutta) da un qualche fiero tiranno. E poiché Scevino, confessando d'averne trasportato in propria casa il rito della religiosa venerazione, ere- dea non pregiudicarsi, forza è dire ch'egli avesse a potere addurre come buona scusa, che il fatto in- signe, pel quale il ferro divenuto era santa cosa, fosse una gloria della famiglia, e che, perciò, a essa par- ticolarmente spettava il celebrarne con ispeciali ce- rimonie la memoria. Laonde non è malamente ap- porsi il conghietturare , che ancora il cognome di Sceva siasi, fin del tempo di esso fatto, attaccato alla stirpe intera, perchè l'eroe tirannicida erasi nel fé- Viterbo e il suo territohio 109 riie servito, come mancino, o per altra particolare circostanza, della mano sinistra. Ma Tacito, coll'eloquenle suo laconismo, non ciò solo c'insegna. Ei c'insegna altresì, intorno a que- sto ferentiense pugnale, che, a congiura scoperta, fu consacrato di nuovo, per monito forse d'aruspica , apud Capitolium^ colla iscrizione lovi Vindici (o piut- tosto, com'io suppongo /. Vindici)^ donde poi, quan- do Giulio Vindice capitanò la rivolta per la quale Nerone alla fine morì di violenta aiorte, chiosaron lutti, che queir /. Vindici^ non lovi Vindici voleva dire, ma profeticamente dirigevasi lulio Vindici. Aggiunge infine Io storico la particolarità qui utile a ricordarsi, che fu allora , oltre a ciò , fatto edificare un altro templum Salutis , eo loci, ex quo Scaevinus (eum pugionemj prompserat: ciocché spie- ga, per avventura, perchè alcuni confondendo il nuo- vo tempio col vecchio, lasciarono scritto, che il ferro era stalo tratto, anziché dal tempio della Fortuna., da quello della Salute', sebbene, anche il più antico tem- pio della Fortuna Ferentiense par fosse dedicato a una Fortuna Salutare.^ forse nell' occasione appunto del primo tirannicidio, a fine di sospendervi il ferro liberatore, se vuoisi riguardare, più per sottile, alla iscrizione, la qual non lungi da Perento dev'essersi ritrovata, ed ora è nel Montefiasconese seminario : Fortune. Sancte. Pro. Salutem. Fufiorum. Festi. Mar- eellini. Et. Proculi. Antigonus. Seragtcums ( Servus actor cum suis.) Né, per vero, questa iscrizione sola, d'un tempio della Fortuna non lungi dall'agro Ferentino, parla, poiché riportammo, poche pagine indietro, il docu^ 1)0 Letteratura mento del Registro Farfense n. 160, dove in finibus Viterbiensium è mentovato un molino e un orlo in Fortuna^ che, se qui non istà per Vorluna^ in senso di Voltumna^ e se non è una nuova conferma con ciò dell'esistenza tra noi del fanum VoUitmnae^ certo è la chiara indicazione d'un tempio alla dea inco- stante, il quale al luogo dove già sorse lasciò il suo nome. Or basti di questo argomento. D'altri illustri cit- tadini di Perento ci ha conservato la menzione Sve- tonio (m Oth. 1. e in Vespasiano 3), ricordandoci, che di qui erano oriundi , 1.1' iraperadore Olone ; 2. a quel che sembra, Flavia Domitilla, prima mo- glie dell'imperador Vespasiano; e ignoro s'ella sia la medesima, che, così nominata, è in venerazione come martire nella vicina Orte. Rispetto alla qual Flavia, si può dedurre dal no.me, ch'essa era attinente di Flavio Scevino; e, rispetto al quel casato, giova con- siderare, che qui non si tratta d'alcuna di quelle fa- miglie Flavie , le quali in gran numero sorsero a' tempi di Vespasiano o di Tito, e del fratello Domi- ziano, quando gl'imperadori di quella stirpe riempi- rono i vuoti della nobilita romana con molte nuove aggregazioni, decorate allora di questa cognomina- zione onorifica (Trebell. Pollion. in Claud. 3); ma si tratta d'altri più legittimi Flavii di genuina etrusca stirpe (poiché si parla d'Etruria), cioè di quelli che, ah antiquo s'incontran detii toscamente Phlave (cf. gl'indici Lanziani ec), così nominati, secondo tutte le apparenze, da colore, come i Phulni ec. E a ciò molte altre cose potrebbero far giunta, che lascio da parte, perchè, non ex professo delle Viterbo e il suo territorio 1 1 1 antichità e delle memorie ferentane impresi a scri- vere, ma volli solo alcun che dirne a maniera di Saggio. Mi permetterò notare che della Perento no- stra è menzione presso Anastasio Bibliotecario nella vita di s. Silvestro (Muratori, Scr. Rer. It. T. IH, pag. 111, nota 113), dove si legge: Donavit Con- stantinus Augustus ... Fundum Barbatianiim^ territo- rio Ferentes (a. Ferentis). Praestat solidos XXXV et trimisium; e, credo, anche nella vita di s. Damaso, dov'è detto (p. 114): Donavit (idem papa basilicae, quam ipse constituit in urbe romana) possessionem papyrianam^ territorio Ferentino^ cum adiacentiis at- tiguis (al. antiquis^ vel attignis)^ praestanlem solidos ducentos et vigiliti (al. CXXV, vel CXX), et tremi- Slum:, e nel n. 240 del Regestum Farfense (a. 817) in un atto di donazione di Lupone e Benedetto ger- mani viterbesi al monastero di Farfa e ad Ingoaldo abbate, al quale si sottoscrive, tra i testimoni!, un An- selmo figliuolo d'Ausone, habitator intro civitatem Ferentis; e finalmente, traile note tironiane che fan- no appendice al Grutero, in una di esse, dov'è ap- punto la sigla del nome di che trattiamo. Quanto agli avanzi d'antichità che serba, ne ha parecchi, oltre al teatro, ed alla chiesa già detta; sic- come un ponte-acquedotto, a due archi ; un altro ponte, a grandi pezzi d'opera quadrata; qualche su- struzione assai cospicua, e simili. Ricordo, che il fu don Pio Semeria possedette già, dissotterrato tra le sue mine, un bel piatto del medio evo, notabile in questo, che il di sotto era tutto stampato a basso rilievo in figure rappresen- tanti un'adorazione de'magi, e coperte d'uno smalto turchin-cupo. 112 Letteratura Finalmente non lascerò di rammentare la reli- quia famosa dell' Alba, cioè del Camice di s. Boni» facio, vescovo del VI secolo mentovato da s. Gre- gorio Magno ne'Morali : lavoro unico nel suo gene- re, conservalo ora nel nostro duomo con gran cura, ed illustrato con particolare dissertazione da monsig. Giusto Fontanini; del quale lavoro scrive il Pennazzi (Vita di s. Eutizio p. 255) : In civitate Viterhii as- servatur Alba eum amictu s. Bonifacii , ex Perento delata : e più distesamente il Macri nel suo Hiero- lexicon : sub v. Alba : Antiquiores adiiciebant textilia frusta in manicis . et in pectore^ humeris^ et fivibriis Albae . . . S. Bonifacii Ferentinatis Episcopi Alba, in cathedrali Yiterbiensi asservata habet haec frusta Attalica , ac etiam in eiusdem amictu similiter, in quo gothicis litteris, minutisque margaritis, pulcre te- tragrammaton efformatur^ nomen illud scilicet inef" fabile^ alludens ad id^ quod summus sacerdos in fron- te gerebat. Quanto a Castel Fiorentino^ ch'è adesso men d' un villaggio, esso è cosa cbe fu già certamente più cospicua, come lo prova il suo particolare statuto del secolo XIV, che in originale, ed in antica copia si conserva nell'archivio viterbese. Chiaro è che Fio- rentinello^ altro minore borgo, n'è proceduto, come rarauscello da ramo. Tutti e due son oggi casipole di villani , e niente più , secondo almeno che odo. Parla del primo , senza dubbio , l' autore anonimo presso il Surio, nel T. V delle vite de'santi, sotto il 2 ottobre (vita del santo vescovo d' Inghilterra , Tommaso Erefordense), ove cosi è riferito : Romam venite et a Martino Pontifice honorifiee exceplus est}, Viterbo e il suo territorio iì3 rebiisque^ et negociis^ quorum causa eo venerata prò voto expeditis^ dum in patriam redire contenditi mor- bo oppressus apud florentinos^ iuxta Flasconis mon- tem decessit e vita^ VI nonas octobris a. salutis 1287. Piispetto a che è da maravigliarsi, che il Bussi (p. 476) critichi il biografo, come se ivi parlasse di Fi- renze, e mal a proposito ponesse questa vicino a' Montefiasconesi. Egli non s'è accorto, che appunto da Montefìascone poco è lontano il Castel Fiorentino nostro, il quale è anche detto più compendiosamente Florentinum\ donde poscia il Florentinulum divenuto in vernacolo Florentinellum. E forse, l'uno e l'altro sono derivazione de'ferentesì, o almeno quello de'Fe- rentesi, e questo de'Ferentinesi : per tal guisa che al primo appartenga una più antica origine, e di esso per avventura si tratti nella iscrizion seguente (Gru- tero 2. ediz. 1022, 12; e Orelly 1011) : Corneliae. Saloninae. Sanctissimae. Aug. Coniugi. D. N. Gallieni. Invicti. Aug. Ferentinai.es. Novani. Devoti. Numini. Maiestatique. Eius. : la qual semplicemente è detto, che è tolta dalle schede di Fulvio Orsino, e rivista dal Gudio, senz'altra indicazione donde possa esser conosciuto se appartenga alla Ferentino vicina ad Anagni, od alla nostra. APPENDICE IL CIVITA MUSARNA Di siffatta città, ne'classici e ne'monumenti eh' io conosco, ncque vola, ncque vestigium. Ma se ne parla con molta asseveranza dai nostri cronisti ante-* G.A.T.GXVIII. 8 114 Letteratura riori ad Àanio, e, dopo essi, da questViItitno, diste- samente così : Dal Covelluzzo (testo Riccardiano): Un altro ba- rone parente di Corinto, coni' era suo fratello chia- mato Tusco^ et V altro fu chiamato Italon , vennero nel nostro paese et edificarono dui citta , una presso al bullicame, chiamata Sorenna, l'altra chiamala CI- VITA MUSARNA^ verso la Veia (fiumicello), et edifi' corno poi città et palazzi, et massime in campagna, et da questo Italon cominciò il nome d'Italia. E sendo le dette dui citta moltiplicate assai de populi., per loro superbia fecero guerra^ et disfaronsi l'una l'altra da fondamenti. Dallo stesso Covelluzzo (testo medesimo) : Her' cute di Greca., figliuolo d' Amphitreone et dalmena es- sendo fortissimo et havendo rapita la pompa a gerio- ne in ispagna , uolendo confondere et excedere alla forza di Cucco al monte aventino passo per le nostre pianure^ trovo populi de Ciuita MUSERNA (sic) et Sorrena non, havere receptali., fessi edificare il castello chiamo d'Herculi et delli per segno leone. Da frate Annio (Ann. Quaest. XXIX) : Musar- nus Collis est ubi dicimus Castrum Herculis . . . quia ibi Musarnus Hercules ( un Ercole di sua fantasia ) palatìum fundavit . . . Condidit tamen urbem iuxta Coryti Lyanum.) quam adhuc MUSARNAM appellant., et cuius ruinae visuntur., et de qua contractus nostri Conventus aiunt agellum nostrum esse in civitate Mu- sarna. Finalmente dal medesimo (Comment. super fragm, Calonis) Oppidum dirutum., non procul lacu Vadimor^ nis., dicitur MUSARNA civilas. Viterbo e il suo territorio Ilo Da tutti i quali passi si trae, che la fama dev' «sser durata in Viterbo d'un non ignobile paese, al quale questo nome di Musarna fu dato, almeno nel tempo in che quelle scritture che ne parlano furon fatte. Ben bisogna eh' io confessi, mai non essermi imbattuto in esso nome allorquando ebbi a svolgere Je pergamene e le carte del nostro archivio. Tuttavia non posso credere, che una qualche Civitas Musarna non siavi stata in realtà, quantunque cercandola, non io veramente, ma per me altri, verso le contrade che Annio indica, non sìa riuscito ancora a sapere se qualche avanzo ne resti in piede. Le probabilità sono, per me, che fosse sull'oggi detto Monte Àrminio^ nella supposizione che si chia- masse Mons Armena^ colla seconda sillaba d'Armena breve; e allora il Musarna sarebbe una corruzione di quelle due voci. Ma, in sì fatta ipotesi, il nome sarebbe latino, e latina perciò la fondazione, o la re- staurazione del paese, perchè non ho motivo di cre- dere che, monte in etrusco si dicesse mons o mus. L'argomento è oscuro. Ha bisogno d'altre in- dagini sopra i luoghi, e ne'Tabularii. La distruzione, se altre volte il paese esistè, deb- ba essere stata più antica ancora della distruzione di Fereuto. 0 sì veramente i suoi maggiori rapporti erano con Montefiascone, piuttosto che con Viterbo: ciocché spiegherebbe il silenzio de'nostri archivi; se tuttavia questo silenzio è completo. Il Coryti Lyanum^ di cui parla Annio,-nemmen esso so dove sia. Forse è quello che oggi chiamia- mo Montiliano, o Monte Aliano (Bussi, pag. 99.) La Veia ella pure (fiuroicello) avrebbe ad es- 1 1 6 Letteratura 861*6 quella che diciamo la Leia^ o piuttosto quella che ehiamiamo la Vezza (non so se sincope di Ve-' getta essa ancora). Ma tutte queste cose non possono determinarsi che con nuovi studi. APPENDICE III. CASTELLUM AXIA. Scrissi già del Castellum Axia più volte {DelV antica Axia conosciuto castello etrusco nel territorio di Viterbo., e de' cospicui suoi sepolcri. Bibl. Ital. di Mil. 1817, pp. 261-279, e luglio p. 171; e Opusc. lett. di Boi. n. 1818. voi. 1. pag. 36 e seg. - De' se- polcrali edifizi delVEtruria media. Ragionamento VII intercalato all'opera del cav. F. Inghirami , Monu- menti etruschi o d'etrusco nome.- De'sepolcrali edifìzi etruschi di Norchia e Castellaccio. Anual. de l'Instit. archeolog. Voi. 1.\ Ciò che ne dissi nel lavoro ci- tato da ultimo, contraddicendo al già dettone prima, incontrò censura dell'egregio sig. can. Ceccotti di Viterbo in questo stesso giornale arcadico, della qua- le mi parrebbe bassezza avergliene sdegno, sebbene non avvertì egli, che, nell'opuscolo da lui censurato io scriveva alla pag. 24 : Resta pertanto che ci ras- segniamo a riguardare come ignoto il vero vecchio nome (del Castellaccio odierno, ch'io riputava allora non esservi buon motivo per chiamarlo Castel d'As- so ) finché^ 0 lapidi per caso uscite dalle sue rovine., 0 carte antiche dissepolte da chi lo può , e meglio esaminate , non ce lo rivelino : del quale diseppelli- merUo ed esame io fo calda preghiera a que'ehe con- Viterbo e il suo territorio 11T iervan le carte de' monasteri dì Farfa e di Monte Amiata^ e soprattutto a' viterbesi miei concittadini ,, siccome quelli che soli hanno agio di consultare i do- cumenti oltremodo numerosi dell'archivio pubblico e degli altri due principali ahe serbami nelle sacristie di s. Angelo in Spata^ o di san Sisto, i quali con- fesso di non aver potuto esaminar quanfera d'uopo^ E dimenticò forse, che, pochi mesi innanzi al cen- surare ch'ei fece, lo aveva io, per lettera privata, in- vitato ad investigare negli archivi nostri ciocché po- tesse giovare a meglio far conoscere le antichità vi- terbesi , ed esortato ad unirsi meco per dare una buona edizione, con note, de'nostri, sino ad ora ine- diti, cronisti. Certo, io era in Parigi esule quando così stampava; ed in Corfù quando invitava. Ne fo colpa al sig. canonico (studioso ed erudito uomo) se rifuggì in que' poveri tempi , dall' entrar meco in letteraria corrispondenza, consegnando invece al gior- nale arcadico le notizie importanti che aveva saputo trovare. Oggi siamo amici (almeno così spero), come lo si è presto tra galantuomini, tostochè può venirsi ad abboccamento , cessate le miserie politiche. Ad ogni modo le notizie opportunamente da lui raccol- te, prima ancora, die' egli , del mio eccitamento a raccorle, sono le seguenti, delle quali qui giova ri- petere il ricordo. In un rendiconto del camerlengo della colle- giata di s. Angelo, inserto in un istrumento per gli atti di Giacomo Tuzi (a. 1485. Archivio pubblico). Ivimus ad Castellum Assi, die dieta (6 Madii 1461) deambulando^ et in retrocessione^ prò coena solvi in carnibus^ et una gallina^ bononenos X, et unum bo-- f 1 8 Letteratura nonenum de baccellis , et casei bononenum unvim^ Nello statuto dell'arte de'pastori e bifolchi (a. 1450): Item^ lo prato d'Assi^ et lo Caldano, et le case di Giovanni di Frate Rosso , et le case di Rainieri di Paolo Banco, et la Ferriera da Capo alla Fontana di Assi. Item la Bandita d'Assi vada per la via del Cavone^ dal Vespaio fino al guado di preta bianca , come per altri tempi soleva andare. Item le prata di s. Maria de Rasieri : confina da piedi la ferriera da capo le case di Antonio della Cozzetta^ dall'altri lati le vie pubbliche, come la via d'Asso , e le prete fitte (1). In altro statuto, più ancor prezioso ., quel deli'a. 1251, anno memorando per Viterbo, perchè ricostitutivo della città, dopo i fatti di Federico II, come può impararsi dai cronisti nostri, e dal Bussi che li trascriveva (pag. 140 e seg.) : Item .^ statui- mus.) quod nullum Castrum , vel Dominus Castri de districtu Viterbi., videlicet , Alteto , Montecocuzzone , ASSI., Roccaltia., Seulcula, et quodlibet aliud Castrum^ quod sit de districtu Yiterbii.^ non teneat aliquem a- scaranum, vel latronem , qui offenderit aliquem no- strum civem., vel aliquem aliuni, qui non sit diffida- tus a Viterbio; et quicumque eum, vel eos receptave- (1) Intendi, secondo tutte le apparenze, col nome di queste prete fitte, che qui o altrove nel nostro territorio si trovan men- tovate, i sepolcri scolpili nella rupe a forma d'edifizi, e o que'che oggi conosciamo, od altri ora periti; come la preta bianca par qui sopra dover essere stata qualche cospicuo marmo: quando per que- sta pietre fitte non abbiano ad intendersi alcuni de' sepolcri della più antica maniera propria de'fenici, e ad uno de'celti; i sepolcri, dico, chiamati oggi oltr'alpe men-hirs, e detti appunto nel medio ed infimo evo pietre fitte, come leggo in Dalamarmora, Foyage en Sardeigne 2. Partie pag. 7, libro ch'io debbo alla sua molta cortesia. Viterbo e il suo territorio 119 Wf., vel maltolectum aliquod fecerit, intra spatium VII dierum^ dominus illius Castri teneatur facere emen- dane et emendet communitas illius Castri 5 et si hoc non fecerit, teneatur potestas domino Castri, nomine pene^ auferre^ L libras , et ahlata emendet. Ceterum potestas constringat dominos ipsorum castrorum per iuramentum et fideiussores, quod supradicta observent (dove uso della mia stessa trascrizione, che, non so se a torto o a dritto, è diversa in qualche minuzia)^ Fin qui l'erudito e diligente sig. Ceccotti, e sta bene , massime avuto riguardo all' ultima autorità. Posso poi, per mie nuove ricerche, oggi aggiungere io slesso, a'passi che il Ceccotti cita, quest'altro dalla lista de' tesori da me altrove ricordata, ed essa non meno di non dispregievole antichità : In territorio Viterbii^ ubi dicitiir le Pietre fitte (ecco di nuovo le pietre fitte che incontrammo anche sopra ) invenies hospicium (una forse delle case scolpite a uso sepol- crale, se la prima interpretazione di pietre fitte ha preferenza, ciocché a me par meglio ) ubi est lapis cum capite leonis (in qualche frontone o acroterio). Fode subtus^ et invenies duas heminas auri purissi- mi (reminiscenze d'ori trovati negl'ipogei, come ciò è non tanto raramente ). In medio CASTRO ASII , in Carbonario^ invenies criptam cum lapide magno , in quo est sculpta fiyura hominis (un coperchio di sarcofago colla solita figura recombente). Fode sub- tus pedes 13, et invenies thesaurum regis in magnam copiam ( dove non manco è cavata la indicazione dalla memoria d'altri sepolcri recati a luce in an- tico, e analoghi, per esempio, a quello celebre di Ceri, contenente gran numero d'ori e d'argenti la- f^O Letteratura \orati). E posso aggiungervi questa del cronista Del'- la Tuccia (Esempi. Corsiniano in Roma) A. D. 1187- Ruppero (i viterbesi) le genti de romani nel cerqueta d'Assi, e ne pigliorno assai. E qui fo punto perchè per un accidentale excursus è anche troppo. Chi al- tra cosa intorno a questo Asso vorrà conoscere, leg- ga il primo articolo che ne scrissi nella Biblioteca italiana dell'a. 1817, APPENDICE rV O R e L A. D'Orda ho detto in que' miei citati opuscoli , ne'quali anche d'Assia parlai. A'testi che ho quivi adunati, questi potranno far coda. Dall'ili, sig. conte Troya, Stor. d'Ital. T. I, part. V all'anno 775. Aimo Voltarius, ahitator Castri Viterbi (Reg. Farf. n." 105) dona tutto quel che possiede , tam hie in Viterbio , quamque in Tuscana , ORCLA, seu Castro. Dal me- desimo, per comunicazione orale (Archivio di Monte Amiata), all'anno 807, marzo, Indiz. XV: Amalbino del fu Laziano., abitante nel castello d'ORCLA, vende ad Erimberto del vico di s. Martino in Colonnata, un^ oncia di terra ec. Dal medesimo, archivio stesso, al- l'anno 808, Indiz. I. Occiuo prete e notaio roga un Atto in Flabiano , TERRIT. ORCLE (1). Dal Mu- (l^É notabile, qui e in altre carte, il Flabianum, o Flavianum di che è discorso. Non prende esso il nome dalla famiglia Flavia , della quale già favellammo, e che in quel tratto aveva possidenza? Ma di questo Flaviano avremo a toccar qualche altra cosa prima di finire. Viterbo e ìl suo Ierritorio 121 ratori (Script. R. I. T. 1, Cronico di Farfa, col. 396, all'anno 840. Ahhas etc. acquisivit a quodani Petro etc. sorlcm . . . de Yiazana ( barbarismo per De Vias Anniasl) TERRITORIO ORCLANO. ( Reg. n. 300 }. Ivi, col. 395, all'anno 842 Sicardo abbate acquista non so che terre, TERRITORIO ORCLA- NO, come sopra. Ivi, col. 463, all'anno 936. Item, in comitatu ( Viterbii ) infra territorium Ordanum , ipsani civitatem ORCLAE , Casalinos desertos. E si legge ivi, col. 679, a. 1158. Chartula transaclionis^ quam fecit Gezo de Damiano Domino Papae Adria- no IV super quibusdam possessionibus^ et rebus positis in Castro de ORCLE . ... In Castro.^ quod voeatur ORCLE, iuxta iurrim domni papae , ripam eiusdem Castri . . . vado del pixarello., ftumen.^ quod voeatur Bleidano. E prima nel Regestum n. 237 (anno 826) Territoria iam divisa., quam et indivisa.) tam in finibus veterbensibuS't quam etiam et in ORCLANO. Nello sta- tuto viterbese del 1251: Quicumque viterbiensis or- deum., speltam.) vel quamlibet aliam speciem biadi., Icgu- minis et saginae mter hos confines habuerit^ scilicet ab i,o che pare indi invalso iri Viterbo, del nome, fra gli altri, per don- na, d'Albqviridis. Bastimi citare da una pergamena della chiesa di s. Maria Nuova, seri»la il 1224, e re- lativa alia donazione d'un molino, il seguente tratto, Matheus de Caladonna . . . et ego Albaviride filia di- old Malhei et uxor Petti de Polo ... confirmamus do- -naiionem ... c/e sedia unius molendini., con quel che seguita. E per vero difficilmente poteva nascere in mente ad alcuno di così denominare una fanciulla, 'se la naturale sconvenienza di così fallo nome non fosse sta\a tolta, nel luogo dove l^| nome non pa- veva incoujjLup, da qualp^lae cagione analoga a quel- la di el^e qui: è ricoido. Né mi si opponga , che, stando alla tradizione, se da essa Posse stato tratto il sopiaddelta. nome proprio, si saiebbe detta non Bian- v,a-nei'de, uia Bionda- verde., o Rossa-verde. Quando di dii« crpuisti clie ci rimangano, ricordanti l'antica esisteiiza. dielja donna dalle chiome bi-colori, mentre ambidue sono uniformi, rispetto alla seconda |)arle della denominazione, l'uno e l'altro però discordano, rispetto alla prima parie, potè ben esservi nell' in- costanza della fama popolare, una terza variante, se- condo cui la femmina-fenomeno fosse in una metà albina, e in un'altra metà tinta nel modo, che tutti Viterbo e il suo territorio 151 t due i cronisti riferiscono, concordi in ciò coli' atto di donazione del 1224. Evidentemente (concessa la realtà storica del fatto primitivo), si trattava qui d' una femmina, per mostruosità ingenita o avventizia, messa fuori dell'ordinario tipo, per uno di que'casi, che servono a porre in chiaro la distinzione inse- gnala da tutti i medici dell'uomo-destro dall'uomo- sinistro. Infatti, checche sia di tutto il rimanente, la maraviglia si riduceva a quest'ultimi, e minimi ter- mini : Anna aveva un'imperfetta melanosi, nella me- tà, destra o sinistra, della cute capillata, ed aveva l'altra metà, od affetta d albinismo, o allo stato n.i- turale, che in lei faceva i capelli d'un falbo rossic- cio. Quanto a aie più mi fa maraviglia la storia nar- rata da Luciano in Prometheo di Tolommeo figliuolo di Lago, il quale recò in Egitto , un uom , di cui Vuna parte era bianca^ e tutta l'altra nera^ dal capo ai piedi ; o qucila eh' è in Filostrato de vit. Apoll. lib. 3, d'una indiana, mora dal petto in su, e can- dida nel rimanente delle membra. Il color verde poi dovette essere in Anna l'effetto della mescolanza del rosso naturale de'capelli col pigmento turchia cupo, ch'era il prodotto della melanosi. A. Il cavallo valente. Di questo dirò, che son tentato di giudicare hata da esso la denominazione di contrada , che trovo scritta in prato cavallu calu^ e in pratu cavalli cali^ «e mi si concede di prendere cavallus calus nella si- 15*2 Letteratura gnificazione {grecanica di cavallo hello^ come un avan- zo delle grecità dell'esarcato e della 'lunga domina- zione greca su tutto il ducato romano. Già è noto dal Bussi (pag. 222), che questo prato eavetlluceiola^ o del cavalluccio^ com'egli, interpretando, lo chiama, era dov'è oggi la piazza del Comune colle sue adia- cenze; e si fonda forse su quella pergamena deirarchi- vio di s. Angelo in Spata, anno 1092, che nell'atto di donazione di essa chiesa a certi servi servoì'um dei^ la chiama ecclesia quae vocatur sancii Michael Archangelu in pratu caoalluccialu; ma, se così è ivi, in altra antecedente pergamena dello stesso archivio, a. 1077, si ha d'uno Stefano prete . .. abitatore in bicu pratu cavalluccalu. supra castro Bilerhu^ prope ecclesiam sancta cruce (ch'è oggi la chiesa del Gesù), il quale livera poteslate, . . . vindedit . . . gir ardii filiu dominicu casone, qui est abitatore in bicu pratu cavallìi calu (lo si notij, prope ecclesiam sancta cruce^ idest in integrum .... medietate de una case cum sua accessione , quae est murata et tegulata , atque solorata^ et est exdi ficaia in dictu pratu cavalluc ca- lu^ E nel Regestuin farfense^ è tra i documenti po- steriori al 1000, sotto la lettera «, senza altro nu- mero d'ordine, un Breve recordalionis et indicati^ quod fccit grimaldus iudex^ cum sigiza uxoì*e sua de om- nibus rebus suis, idest duabus casis in prato cavalli cali ... in sancta Maria ad Cellam^ notissima viter- bese dipendenza del monastero di Farfa. Dunque iu realtà, il più spesso dicevano non Cavalliciùlus^ o al- men cavalliealus, ma Cavallus Calus, in due parole staccate; e allora non senza fondamento io preten- derò, che il nome sia provenuto da qualche nobile Viterbo e il suo territorio 153 (Ijjstiloro, a eiii malamenle non s'applicasse repiietò Y.c/Xòz 1 e conseguentennente dal destriero forse , di cui le nostre cronache ci hanno trasmesso la notizia. // fisigello. E di esso, per ultimo, mi basterà rainmentcrre, che ne fa pur menzione Pietio Proia Fontano , in una orazione sua, che già recitò al Senato e popolo di Viterbo, alla presenza di monsig. Pietro Millino: De armorum, seu Insignium usu^ atque laudibus: do- ve, a encomio della città, cosi licordò: Hic (cioè qui) olim Fisigellus, in romanorum thealris ioculator egre- gius dieiùur nalus - (Roma, per Guglielmo Facciot- ti 1599) : a schiarimento ulteriore di che gioverà tra- scrivere dal della Tuccia ; La 6. ( nobiltà ) fu che hebbe un lollaro chiamato frisignelto^ che faceva gio- chi maravigliosi di nove maniere^ il quale in quel tempo non trovava pari, et ne fu fatta certa memo- ria nel porticale nella chiesa di s. Angelo della spa- da nella pariete d'avanti. Dove è facile annotare, che questo Fisigellus, o Physicellus (il Fisichetto) era una spezie di Cavalier Pinelli, o di Bosco del suo tem- po, passato dottore nelle destrezze di mano , a cui giovò l'eccellenza dell'arte per essere eccettuato dalla general proscrizione degli esercenti sì fatto mestiere di gherminelle, posto ch'io leggo nello statuto del 1251, tra le altre rubriche, la seguente : Ve pena locidntorum - Nullus Istria, Ioculator, vcl locidatrix, vadat ad comedendum oum aliquo civc, vcl forensi. 1 54 Letteratura vel ad domum alicuius , ìiisi sii invitatus ah eo ad qnetn vndii^ et qui contra fecerit XX solidis pena mid- cteluì\ quam penam teneaiur potestas exiyere quocum- que denuntiante. Cuius pene medietas denuntiatori , et alia medietas curie applicetur. Hospcs^ qui, eum non invitatum receperit, simili pena penileal ; et hoc capitulum potestas legi faciat inpublica contione. Og'gi in s. Angelo in Spala del nostro giullare nessun ri- cordo più si serba. Pag. 342. Quanto a questo Faulo^ nome di per- sona, debbo io però confessare, ch'esso incontrasi, ne'secoli barbari, anche altrove; e basti citare, a pro- sarlo, quel Faulone del 685, maggiordomo del re Cuniberto, che ci è rammentato dal Troya, Stor. d' Ital. del med. ev. T. I, parte V, p. CXLIV. Cosi, al- trettanto è altrove del nome di persona Viterbo. Resta da vedere, se il Faulone di Cuniberto non aveva egli stesso tratto il suo baUesuno, o da provenienza, o da reminiscenza, viterbese. Pag. 349. Si metta dentro parentesi, per più chia- rezza d'espressione, lutto quel che è scritto dalla li- nea 7 alla 11, da una tayliante lino a umbri. Pag. 356, nota 2. Favellai d'un vico., e d'un ca- sale Antoniano^ detto anche semplicemente Antonia- num , del quale è menzione nel Regestum di Farfa n. 196 (a. 802), 208 (a. 808j, 238 (a. 816), 270 B (a. 822), 362 (a. 893;, e nella lettera ad Viruai bo- num episcopum tuscanieusem di s. Leone PP. IV (a. 842) dove anzi è ricordato soltanto un fundus del sopraddetto nome, come nella iscrizione di Vi- gelo. E dal n. 196 conosciamo due fratelli Gualfredo e Agiperlo habitutores vici Antoniani , vendilori a Viterbo e il suo territorio 155 Donnone prevosto di san Valentino, di non so che cene sode (Cese\ come si dicono ancor o(j{ji in qual- che parte delia piovincia, le terre ingombre di cespu- gli fìlli, che si tagliano a dati periodi , e si abbiit- clano, pei' seminarvi indi grano) in finibiis, vel lerri- toriis vitei'biensibus. Il 208 ci mette in presenza di lui Teudualdo figliuolo di Teuderico, habilator^ anch' egli, vici Aìitoniaìii^ che fa un contralto di permuta con Benedetto abbate di Farfa, e perciò « dal atque » tradii ... vineam suam quam habere visus est IN » CASTELLIONE , quae est prò mensura tota in » circumitu perticarum XXXI ad legitimam perli- » cam pedum XII ; cuius est finis : ab una parte » vinca s. Mariae; ab alia parte terrula Mauroaldi; » a tenia parte terrula filiorum cuiusdam Ottonis; a )) quarta pai'te esl ripa . . . Seu et dedit unam petian» » de terrula sauda (cioè sodaj, quae reiacere vide- )» tur infra casaleni Antonlauum. Et ipsa terrula est » per mensuram tota in circumitu perticarum XIIH » cuius est finis : ab una parte terra quae fuil cu- » iusdam Anselmouis, ab alia parte terra s. Mariae; » a lerlia parie terra . . . l'eubaldi; a quarta parte » siiuililer ieri ula s. Mariae, una cum accessione sua )) in iutegrum. » E aggiunge : « Pro quibus recq^i » ego < . . casaui quae posila est intro castrum Vi- » terbi . . . quae esl in circumitu perticarum V, et )• pedum Vili et semisse ad legitimam peilicam pe- » dum XII, una cum omnibus ficlilibus, et solo , » ubi ipsa casa superposita est, quaui suplus sola- » rem, quam etiam supra, seu accessione sua in in- » legrum. Cuius est finis: ab una parie casa Lupo- » nÌ6 et Benedicli ; et a duabus partibus casa rae'a 156 Letteratura » cuius supra Teudualdi; a quarta parte est marus » de castro Viterbi; seu et dedisti mihi unam pe- » tiara de terrula sauda, quae esse videtur infra ca- » saleoi Antonianum, quae ad partem monasterii a » quodam Auderado evenit et est prò mensura tota » in circuitu perticarum XXIHI . . . Cuius est finis: » ab una parte terrula mea cuius supra Teudaldi, Tel » meorum consortium. Sìmiliter ab aliis duabus par- » tibus. A quarta parte pergit rivus; una cum ac- » cessione sua in integrum. » Il 270 B, già da noi ricordato poco indietro in questa stessa appendice , fa dire al sopra mentovato Orso Diacono: « Vendidi »... ad partem sacrosancti monasterii omnem meam » portionem in casale Antoniano , una cum sorte » mea de casa sancii Petri, cum casis, vel territo- » riis, et omni pertinentia, et aliam meam portionem >> infra suprascripto casale, quam ibidem a genitore » meo habere visus sum. Idest uineas, territoria, et » olivetum cum arboribus, vel accessionibus suis in » integruni, quanta pater meus ibidem, extra ipsam » ecclesiam superius nontinatam. habuit, et mihi in » portionem a germanis meis venit. » Finalmente il 362 ci dà come Messi del giudice, a tutelare la giu- stizia in un contratto di comutazione, in un co'Messi del papa, un Rodilando de Antoniano^ e un Hildepran- do figlio della b. m. di Demetrio, per esaminare le cose da permutarsi, andando sulla faccia de'luoghi, cioè vineam in vico quintiano^ e una casa intra ca- slrum Yiterbii. Or ponderando le sopraesposte noti- zie, e mettendole a fronte di ciò che l'iscrizione Vi- geli.ina intorno al fondo antoniano ci ha detto, al- cun lume a me par che possa cavarsene per la illu- Viterbo e il suo territorio 15T sirazione della topografia viterbese. Infatti, oltre al documento della condizione di vico o casale^ a che esso fondo era venuto nel IX secolo, se ne impa- ra, s'io mal non m'appongo, 1." (e di traverso) dal n." 196, resistenza presso Viterbo, oltre al Castrum Herculis d'un castellio^ confinante con una ripa^ cioè di un altro fortino staccato,^ il quale non pare che allor fosse , o il castel di sant' Angelo fuori porta Sonsa, o la Bastia romana , di che altrove abbiatn fatto menzione, ma qualche altro lavoro di fortifica- zione accessoria, piuttosto, cred'io, verso i luoghi della bastìa, cht' verso quelli del Castello suddetto; 2.", da esso numero, il bisogno di cercare il luogo del vico o casale Antoniano presso uno de tre rivi, o fossi che oggi e allora solcano, e solcavano la cit- tà, il quale nel caso nostro, non avrebbe ad essere il Sonsa^ posto che il vicus postogli appresso deno- minavasi dal fìumicello (o viceversa) vicus Sunsa , ma uno degli altii due più vicini al caput aquae ov' è la Vigeziana epigrafe, e secondo tutte le probabi- lità immediatamente sotto il Quinlianum^ Quinzanutn o Pinzanum^ poco più in giù della porta odierna di san Sisto, sulla sinistra, mi penso, dell'acquedotto di Mummio; 3." dal n." 270 B, che il luogo poi pre- ciso ci è meglio ancora indicato per la notizia che infra^ cioè (secondo il significato di que'tempi) in- tra vicum era una citiesa di san Pietro, la quale io direi fosse slata san Pietro dell'olmo (Bussi pag. 44), sull'antica strada romana, presso al luogo dov'oggi han chiesa i padri Teresiani o Carmelitani Scalzi, a Fontana grande, o nelle adiacenze , e appunto sul fiumicello (rivus)^ che Annio chiamava, Anmis Ve- 158 Letteratura tuletus^ e il Bussi, Velulonio (pag. 1 i 8), e intorno alla cui vera collocazione, siccome intorno alla col- locazione del Paradosso o Paralosso^' ulivo de'fiumi- celli, il cui nome s'incontra anche, presso il Serafi- ni, a Vetralla, mi bisognano nuovi studii. Pag. 369 nota. La maraviglia de'due fori che danno acqua, uno freddissima, l'altro caldissima, tro- vo che fu anche veduta da Atanasio Kirchero (Mundus subterraneus lib. 4, e. 3), presso il quale leggo: Ci- « minus mons magnam adhuc ignis vim fovere vide- » tur sub profundissimis antris . . . llabet enim (Bul- » licamen ), cum alio vicino lacu inter Viterbium et » Montem flasconem, magnam comunicationem, ubi » aqua ex fundo lacus erumpens, miros exercet lu- » multus » (ch'io non ho saputo vedere, né udire al mio tempo) « et, quod mirum dictu, duo simul hic » fontes spectanlur, vix uno dissiti passu , quorum •» unus fervidissima , gelidissima alter aqua tripu- » diat. » Pag. 368 nota. S'aggiunga al n," A2\ del Re- geslum Farfense il n." 527 (a. 1017), dove, in una donazione Oriana d'un Benedetto prete, figliuolo di Giovanni milite, e d'Anna, alla chiesa ugualmente Ortana di san Teodoro , il donante eccettua unum pelium de vinea in fundo bagnaia (sic). Pag. 377, n. VIIL Leggi IX. Pag. 378. Il passo del Manente , io 1' ho male interpretato. La città veltentana , della quale ivi si parla, non credo, che fosse la Vegezia nostra, ma si yeiamente Civita Castellana^ i)veiso*\iì quale la pre- tensione d'esser l'antica Veio non è nuova, e s'haa documenti, peifin sulla fronte dell'aulica casa comu- Viterbo e il suo terhitorio 159 naie, ch'era fermissima ne' tempi dello storico or- vietano. Pag. 383 lin. ultima del testo, una parte^ cor- reggi, come parte. Pag. 38'^! nota lordanis vitar forse è fordanis Viterhiensis^ cioè de Viterbio\ ma lascio la cosa in in- certo. Forse è una delle solite abbreviature, di cui la prima parte è vh\ la seconda un epiteto d'onore da determinarsi. Del molino e dell'orto in fortuna^ qui con più asseveranza dirò che non mi piace l'in- terpretarlo in Vortuma , cosi scritto per Voltumna. Ciò non m'ha l'aria d'ortografia del medio evo. Per altra parte la parola non v' è ragione di crederla guasta. In fortuna è in fortuna., espressione alla qua- le non manca una sola lettera per essere al. tutto regolare. Né alcuno supponga, che ciò valga, nelle sostanze, negli averi. Il conlesto non si piega a que- sta supposizione; e la frase poi sarebbe al tutto in- solita in si falle pergamene, dove io non l' ho più incontrata. Così la pensò anche, fin dal suo tempo, il buon monaco Gregorio Calinense, scrittore dei. Re - gestum nel secolo XII, poiché nell'Indice generale pose questo in fortuna tra gh altri nomi di luogo. Dunque non resta che stabilire (raitarsi qui d' una contrada, alla quale si fatto nome fu dato perchè già in tempo di paganesimo vi fu un tempio della dea Fortuna'^ uno de'tanti tempi della tosca Nwtia., che ci rammenta una lapide citata già da noi, di Moti- tcfiascone, e eh' ebbe altari, nelle vieioe Vulsinìo ,. FerentOy Sulri ec. E qui pongo fine a questo saggio info togliere, fede alla supposizione detta di sopra. Nelle Iscrizioni relative ai Tullii Varroni, leggi Procuratore in luogo di Proconsole- /fi m ■■ì .'>fin>'i Quàl tita il giudizio di m esser Francesco Petmrcts intorno alla Comedia di Dante Allighieri. Pensie- ri di Marco Giovanni Ponta. » xVir AfFricano il senno acquistò virtù, la virtù acquistò gloria, e la gloria a lui acquistò gii invi- diosi ». Questa grave sentenza dell'autore della ret- torica ad Erennio mi corre alla mente sempre che, nel rileggere i profondi dettati di messer Francesco Petrarca, mi incontro in quella sua epistola, onde scrivendo all'amico suo messer Giovanni Boccaccio da Certaldo si purga di certa calunnia che gli in- vidi avversarii avevangli improntato: e ben tosto tra me e me vado ripetendo: or fu dunque vero in ogni stagione che il senno acquista virtù e glotia segui- ta da rabbiosa invidia , se come osservò Cicerone dell' Affricana, e come addiviene tuttavia nei giorni presenti, cosi è addivenuto all'incomparabile Petrar- ca, secondo che per questa sua sincera confessione puote ognuno vedere. Egli certo ebbe senno più che altro uomo de'suoi di; siccome dai suoi lodatissimi scritti appare manifestamente : questo gli acquistò virtù senza meno grandissima , onde naturalmente gliene derivò gloria somma non meno in Italia che in Francia ; la quale da ultimo gli procacciò una densa schiera di uomini invidiosi di quella. Ma pu- re egli è il vero che all' affricano Scipione la in- vidia stessa in breve tornò in maggior lustro della propria gloria, mentre al Petrarca come in allora co- si anche cinque .^coli più tardi ella dura maligna ih Divina Commedia ìqj ad arrecargli offesa. E non che la ingenua ed aperta difesa che di sua innocenza egli prese a fare in que- sta lettera all'amico certaldese abbia giovato un non- nulla a diminuirgli la macchia d'invidioso, gli ac- cattò piuttosto la ignominiosa taccia non più meri- tata di finto scrittore, il quale vuol essere avuto per ammiratore dell'altrui gloria, intanto che veramente ne è mvidioso detrattore. Ma torni la gloria bella di tutta la sua luce a chi con senno e virtù la si ebbe acquistata, e ricada sul capo dall'incauto detrattore li disdoro della maldicenza. Petrarca mostrò candore e sincerità nei suoi dotti volumi; ed ivi ove si disse afferma ripetutamente a chi ben lo conosceva di non aver mai invidiato alla gloria altrui, ma di averla sempre magnificamente commendata, né mancano fatti solenni e gloriosi che acquistano a' suoi scritti la bramata credenza. E noi speriamo poterne dar qui la prova più decisiva che uomo nato si possa bramare. Questa la ci viene offerta per avventura da tale un documento tratto dal codice Borghese del secolo XIV da farne persuasa l'invidia stessa, se pur è vero che questa abbia occhi per conoscere il vero Fu già una voce molto ripetuta sia presso i let- terati Italiani sia presso il volgo, che il cuore di messer Francesco Petrarca fosse da tanta invidia ac ceso pel merito letterario del «uo concittadino Dante AUighieri, che egli non abbia mai voluto leggerne le opere, né averne presso di sé i di lui commen- dati volumi. Questa parola non si tosto, fu detta «he come delle malediche dicerie spesso o quasi sempre addiviene, divulgossi dall'uno all'altro confine d'Ita- . Letteratura liiaf e per itial modo insozzò la bella fama del can> tore di madonna Laura, c!io il certaldese Boccaccio, mal reggendo al disonuic delTillustre amico, e sos- pettando che' veramente m-esser Francesco, qual ne fosse la cagione, ancora non avesse veduto la Com- media di Dante, si affrettò pei- amicale attenzione a fargliene di tratto regalo in una copia che egli ave- va idi epropria mano esemplata: di più volle accom- pagnargli il. dono con mia epistola in versi esame- tri,;dove dolcemente lo invita a fare di quella una pronta e pensata lettura, se amava di conoscere il nuova lustro che dalle opere di tanto concittadino ridoiadava alla comune patria Firenze. A questo amo- revole invito ed al prezioso dono del libro e del carme tfe' eco il Petrarca con una sua lettera allo stesso, messer Giovanni, nella quale mette in aperta veduta là' sozza invidia, onde erano dominati e con- suntij l vili suoi detrattori, l quali ei dice avere ciò sparso- ad arte, perchè, sapendo loro male gli elogi che universalmente erano accordati dai sommi uo- n»iui alle sue scritture, intendevano scemarli come- chessia coiraccattargli (se ciò potessero^ l'avversiane dei tanti e tantissimi lodatori dell'Allighieri, ai quali faceasi malignamente credere, lui per invidia avere disprezzai ò così ammirando poeta. Di più ei mostra di sapere molto bene che a dar colore di vero alla improntatagli calunnia essi toglievano occasione da che egli tra suoi libri non aveva alcun tempo dato luogo alle poesie volgari di questo insigne verseggia- tore. Il perchè in questo solo ei dichiara non aver detto il falso gli invidiosi , ma falsissimo essere il fine che esM'tìe adducono. Imperciocché se ne'suoi . Divina Commedia. 169 più verdi aiin^ si asleniie dal leggere e dal posse- dere le opere volgari così dell'Allighieri, come de- gli altri rimalori volgari, la ragione fu non disprez- zo od invidia, ma sola quella naturale brama tutta propria della gioventù data ad uno studia medesi- mo, di volere riuscire in quel genere nuovo di poe- sia non imitatore, ma al tutto originale; al che non avrebbe mai potuto aspirare col tenere sott'occhio le fantasie altrui. Nondimeno attesta e ripetutamente sull'onor suo afferma che, passato quel bollore della gioventù, non che egli non possedesse i libri di Dante e degli altri, ben anzi gli aveva tutti, e tutti leggeva qual con più e qual con minore diletto rispetto agli altri, ma che a questi di Dante in cui si affisava con tutta la mente più che in altro attribuiva sopra tutti la gloriosa palma della eloquenza volgare: né esser egli mai uso di farne parola con alcuno, se ciò non era colle espressioni più magnifiche, che altri sapes- se usare. Né qui lascia di assicurare l'amico da Certaldo colTafFermar che fa credere altrui, come egli ammi- ri tanto il lavoro di quest' uomo , che gli è il più amico dei suoi lettori , che si compiace di udirne gli encomii anche iu bocca della gente triviale: ma che, ove altre occupazioni non lo distraessero, vor- rebbe far egli un lavoro tale sopra quel libro, che tulli conoscerebbero dove sono ed in che consistono i veri pregi, lodati e sentiti anche dal \volgo, ma non compresi, della poesia di Dante. Aggiunge che tanto egli sentesi preso di amore a tanto uomo, che questi, se ancor vivesse, più che «id altri sarebbe ami- co di lui. 170 Letteratura Sì veramente il Petrarca voile pure avvertita per testimonio del candore dei suo animo, che quan- do occorre che alcuno troppo scrupoloso voglia ad- dentrarsi nel giudicare, egli suole rispondere che questo scrittore non fu in ogni scritto uguale a se medesimo, poiché nel volgare sermone si dimostra più chiaro e più elevato che nei versi e nella prosa latina. Della qual cosa ei spera ottener conferma dal giudizio competente dello stesso Boccaccio. In breve in questa lettera il Petrarca è lutto sul provare che egli non ha motivo di invidiare Dante, ma che ben piuttosto e per la comune patria, e per la disgrazia che questi patì col proprio genitore, e per la grandezza del suo ingegno, e per la degna- mente vulgata celebrità delle sue opere, ei gli è di tutto cuore e gli deve essere amico con tutto l'animo. A queste spontanee confessioni per incanto ac- cattano credenza da qualunque lettore non preve- nuto, molti pregi die nella lettera sono detti dell'in- gegno di Dante. Imperciocché e vi é affermato co- stui fornito di gran capacità di mente, e di instan- cabile brama di imparare: vi è detto ricco di un ingegno sì straordinario, da potere riuscire in qua- lunque cosa egli avesse determinatamente inteso : che se non riuscì eguale a se stesso, e sì nella vol- gare, e sì nella latina eloquenza per non essersi dato a questa con tutto suo impegno, ciò nulla toglie alla sua gloria; poiché e chi mai, fiorendo nel suo mas- simo grado la eloquenza fu detto sommo in ogni parte ? ciò non avvenne a Cicerone, non a Virgilio, non a -Saiustio. non a Platone: ad un uomo è suf- ficiente l'essersi procacciata eccellenza in alcun gè- 1)!V1N\ COMMEDU 47 f nere di stile. Dopo tali sue difese ei corichiude: Cosi ^stando le cose tacciano una volta coloro che inven- tarono la calunnia; e coloro che per mala ventura credettero ai declamatori invidiosi, questi , se loro piace, leggano il presente mio giudizio, onde inten- do essermi purgato dall'invidia presso te, e per tuo mezzo appresso gli altri. Questa lettera non giunse invano tra le mani di messer Giovanni da Certaldo: egli uomo di nobile intelletto, e di molto sapere ; egli amico intrinseco di messer Francesco ; egli giusto ammiratore sino alla idolatria dell' Allighieri, non si tenne sinché la confessione di tanto personaggio non fu nota e sa- pula a quanti erano i suoi illustri e dottissimi ami- ci. Così commendevole adoperare del Boccaccio (o io troppo mi prometto dal beli' animo suo j è tanto certo, perchè naturale per se, è tanto voluto dalle discrete istanze dell'amico, è tanto conforme alla sin- golare devozione del Certaldese a Dante, che non occorre di qui recarne alcun fatto per prova: niente di meno non graverà (crediamo bene) ai nostri let- tori, udirne la testimonianza espressa da un uomo degno quant'altri mai di tutta la loro fede, perchè dotto, perchè conoscentissimo del sacrato poema: è questi Benvenuto Rambaldi da Imola che, avendo posto mano a quel famoso commento della Comme- dia, che tuttora inedito ammirasi nelle principali Bi- blioteche d'Italia, credette acquistare nome a Dante allegando ivi stesso Talto giudizio, che del suo vo- lume il vivente Petrarca aveva portato nella suddetta epistola al Certaldese. II che egli adoperò con le se- guenti formali parole del medesimo lodatore: « Alii i 72 Letteratura tamen et multi comuniler dicunt, qiiod auctor co- gnovit stylum suum literalem (cioè latino) non at- tingere sufficienter ad tani arduum thema; quod et ego credeiem, nisi moverei auctoritas novissimi poe- tae Petrarcae, qui loquens de Dante scribit ad prae- ceptorem meum Bocatium de Certaldo: magna mihi de eius ingenio opinio est , poiuisse eum omnia qui- bus intendisset. » (Benven. com. al verso io comin- ciai inf. e. 2;. In tal guisa leggonsi in bella mostra congiunti i nomi gloriosi dei tre gran luminari del 14 secolo a dar lodi al massimo Tosco. Boccaccio voglio dire che riceve una lettera dove Petrarpa fa dell'Allighieri il maggiore elogio che lodato perso- naggio potesse offrire a lodatissimo poeta, e Benve- nuto Rambaldi che lega insieme in un anello questi preziosi nomi per adornarne il cantor di Beatrice. Or qui ripiglio, non certo l'Imolese poteva cosi par- lare e scrivere, se dall'amico Boccaccio non gli fos sero innanzi comunicati i sentimenti del Petrarca ; ma se Benvenuto saputo questo lo disse e registrò opportunamente in quel volume, che potrebbe dirsi un continuo panegirico di Dante, niuno sospetterà che ciò siasi fatto per disgradire né all'amico messer Giovanni, né all'amicissimo messer Francesco: dun- que (comecché indirettamente) ciò fu a solo fine di torre via di dosso all'incomparabile cigno di Val- chiusa quella macchia, che sebbene falsamente appo- stagli, pure se dagli incauti, che son molti, per vera fosse creduta, avrebbe di troppo disonorato, ed av- vilito il suo nome. Cotale fu lo zelo e la prontezza, onde gli ami- ci del Petrarca si adoperarono, che di tratto cessò DiVmA CóMMEDI.4. 173 affatto la diceria di tale invidia di messer France- sco alla gloria di Dante: né più alcuno rimestò in pubblico simili traversie, sinché l'ab. de Sade, noto molto vantaggiosamente per la sua storia degli amO" ri di M. Laura e del Petrarca , si diede con tutto l'animo a questa fatica, rovistando con nuova dili- genza nelle pubbliche e nelle private biblioteche per raggranellare quante più sapesse notizie nuove ed autentiche. In questo fare s' abbatté fortunatamente nella epistola testé accennata e descritta ; la quale era stata inserita nella collezione delle epistole di Petrarca fatta nel 1601 da Samuele Crispino: edi- zione unica dove si rinvenga. Per un sì avventura- to fatto menò gran rumore il francese, e quasi che l'inaspettato ritrovamento fosse puro effetto di una sua lunga e premeditata investig^izione, come fu pel ligure Colombo la scoperta del nuovo mondo, prese a farsene bello, ed a proverbiare altamente gli eru- diti italiani con fare le meraviglie che ninno di loro avesse conosciuto mai per ben tre secoli un docu- mento così prezioso per la storia delle due principali glorie fiorentine. Non é da dire se così clamorose e basse esultazioni e così inopportuni insulti dispia- cessero all'umile sincero ed instancabile autore della storia della letteratura italiana, il Tiraboschi: il qua- le non rinvenendo in quella lettera di messer Fran- cesco il nome espresso di Dante (perché come è già avvertito da noi, fu artificiosamente e per buon fine omesso dallo scrittore) e trovativi alcuni computi sul- la età dell'individuo descritto e quella del genitore del Petrarca, i quali non si conformavano ad altri in altre sue lettere registrati , le quali a dir vero i 74 Let^rAtura come acutamente osserva il medesimo storico non rispondono a capello: si diede tutto sul mettere in dubbio che in quella scrittura si parli di Dante; dal che \oleva argomentare, che per ciò stesso gli ita- liani potevano aver visto e trascurato un documen- to così incerto: onde che il sig. ab. De Sade fuor di proposito inorgoglivasi della vantala scoperta, la quale non fosse altro era molto dubbia ed incerta. Nondimeno se il principe della storia letteraria italiana non bene si appose in ogni cosa di tale qui- stione; poiché la lettera contiene tali fatti,, tali no- lizie, e tali condizioni che non possono non riferirsi ad altri che a Dante, e che per tale fu intesa ed allegata espressamente da Benvenuto che amava a tutta fede di amicizia e chi scrisse quella, e la per- sona a cui quella fu scritta ; pure la galloria dell'a- bate francese mi pare non solo inopportuna ma ed anche puerile e stolta quanto quella di quel lavo- ratore di terra, il quale battuto a caso della zappa o dell'aratro contro di un' olla ripiena di oro , la quale ivi da più secoli pareva nascosa , volesse far plauso al suo senno profondo ed accorto, perchè egli rinvenne ivi quello che tante migliaia di zappatori antecedenti non bastarono a rinvenire. Infatti non è tanto raro che tutti non lo sappiano quel detto che tal fiata accade che uno va cercando rame, e senza suo merito alcuno rinviene oro ed argento. Questo è effetto di cieca fortuna e non di senno né di se- ria e lunga considerazione. Così fece l'abate de Sade: cercava per entro le opere del Petrarca fattarelli cu- riosi, notizie e corrispondenze amorose avvenute tra i due amanti, le quali cose si possono quasi assomi- Divina Commedia 175 giiare al ferro ed al rame, ed ecco che dove meno lo si attendeva , rinvenne pregiatissime notizie per la storia dei due poeti principali, il che è molto si- mile all'oro. Bene egli fece ad aprir gli occhi all' incantevole splendore che di subito sfolgorò al suo sguardo, meglio a prenderne atto solenne, ma sem- pre inopportuno e vile sarà il darsene merito e vanto con insulto a chi prima di lui, non avendolo incontrato, non seppe impadronirsene e farne il suo prò. I doni della fortuna ci danno ben il diritto di dirli nostri , ma non di insultare a chi da quella non gli ebbe. Ma intanto il ritrovamento e l'esame di questa lettera ridestò in alcuni il sospetto che il Petrarca fosse stato veramente punto ed acceso d'invidia verso Dante : gli argomenti però a cui questi appoggiano la propria opinione sono deboli molto, anzi per ogni verso vani e superficiali. Primo argomento di sospetto .si coglie dall'arte usata dallo .scrittore di non mai esprimere il nome di Dante, cui pure accenna e de- sidera che ciò sia saputo : il secondo è desunto dal suo giudizio poco vantaggioso, quantunque giusto, intorno alle opere latine dell' Allighieri : il terzo è tutto nella prevenzione che il Petrarca dovesse a malincuore sentire ovunque encomiato Dante più di se stesso. Questi tre argomenti parvero tanto gra- vi ed impigliarono sì la mente di Ugo Foscolo, che sia per quel suo vezzo che avea e per natura e per abito di offuscare di sospetti e dubbi la bviona in- tenzione dei personaggi di cui prende a trattare, sia per quella vsua voglia insana di spargere il .scetticis- tno in ogni cosa , e ragionar sempre per sinistre n6 Letteratura congetture, non seppe astenersi daU'impegno di vo- ler trovare in questa lettera delle fondate prove della calunnia antica. Laonde con queste vane apparenze presentate ai lettori adorne di maligne espressioni, intese far visto ai suoi lettori che tutte le discolpe affastellate in questa lettera, a chi hen guarda non sono che un ammasso di accuse e di critiche ora aperte, ora chiuse, or dirette, ed ora indirette con- tro la fama dell'amante di Bice. Ondechè per esse messer Francesco con belle ed artificiose parole scusandosi dalla bassa invidia, più vilmente .i ma- nifesta da quel vizio medesimo invaso ed arso. Questa nera sentenza non fu delta invano. Mon- signor Iacopo canonico Dionisi sino dal ìTò^ aveva riprodotto la lettera stessa colla sua traduzione a fronte corredata di alcune sue note qual più, qual meno preziosa, ma tutte buone e sensate molto: salvo che in alcuna lascia trasparire un non so che di dub- bio assai lieve che il Petrarca mentre in tal concetto scriveva non fosse stato cosi puro d'invidia come per avventura voleva essere tenuto. Codesto lieve dubi- tare di monsignore, uomo di grande autorità nella critica e letteratura, coadiuvato dalla aperta dichia- razione del Foscolo, uomo tutto inclinalo ai sinistri giudizii, acquistò tanto peso sulle bilancie di alcu- no moderno ammiratore di Dante, che non dubitò di condannare l'autor della lettera come finto nello scritto, e come turpemente invidioso nel cuore. Così dura sentenza mi pose in capo il deside- rio di conoscere il vero della questione : mi recai prontamente a mano l'Epistola del Petrarca al Boc- caccio . lessila per intero con molta diligenza una Divina Commedia 177 e due volte : ma nulla incontrai colà delle tante doppiezze di parlare a cui accenna il Foscolo, nulla delle mire di abbassare la gloria della persona che dicesi lodata in apparenza, ma in verità biasimata. Piuttosto io dovetti riconoscere per tutto lo scritto quella ingenuità che messer Francesco ha sparto in tutte le sue scritture; per cui si obbligava la stima, la devozione, e rafFetto di chiunque leggeva. Io rac- colsi da questo documento che il suo autore per una ardente brama di gloria (tanto naturale in gio- vane di molto ingegno) nei suoi più verdi anni si astenne assolutamente dal procacciarsi e dal leggere qualunque composizione volgare , comprese quelle di Dante: ma ciò non mai per disprezzo d' alcuno, anzi il fece per timore di divenire un mediocre imi- tatore, intanto che era sua determinata intenzione di volersi fare poeta volgare in ogni cosa originale. Ma per altro fattosi uomo dagli anni maturo, quan- do colla sodezza delle membra corporali già essen- do arrivata la ferma tempera delle facoltà mentali, fu cessalo il grave pericolo della bassa imitazione; ei più non ebbe alcun riguardo, e concesso libero adi- to a tutti i poeti italiani, e tra questi a Dante, e tutti letti, esaminati da pari suo e giudicati, non s'infin- ge, ma con grave ed espresso latino concede sopra tutti la palma all'autore della Commedia. Ed in tanto che si duole che quel volgo stesso, il quale loda e commenda questo poema senza intendere il perchè di tanti elogi, quel volgo stesso laceri, corrompa e deturpi quei versi divini (ingiuria gravissima ad un poeta), egli confessa che se le proprie bisogna non lo occupassero in altro, vorrebbe ampiamente com- G.A.T.CXVIII. 12 178 Letteratura porre tale opera su Dante, che tutti svelerebbero la sua grandezza, e quale è quella prerogativa della commedia per la quale tutti sino gli ignoranti sono tratti a lodarla Con ampie parole poi parla del me- rito poetico di Dante ; ed attesta senza restrizione alcuna che quest'uomo si mostra dotato di sì gran- de ingegno da potere qualunque cosa alla quale aves- se posto mano. Loda sopra tutte le volgari poesie quelle di Dante, ed assicura che quante volte egli entra con alcuno a parlarne non sa farlo che molto magnificamente. Ben è vero che con tutto questo am- pio apparato di elogi, egli non omette di esternare il suo giudizio su tutie le scritture dell' Allighieri, e da quel savio ed erudito uomo che era, espertis-» simo così nel latino come nello stile volgare, sen- tenzia che Dante nelle opere latine in verso ed ia prosa, non fu uguale a se stesso nelle rime e dettati volgari. Ma se nella latina tale non si può acclama- re, pure egli è senza disputa il principe nella vol- gare eloquenza. Questo in compendio è il giudizio che il Petrarca fa nella citata lettera di sua difesa al Boccaccio: e consentaneo a se medesimo , come sempre fa l'uomo che è non timido amico del vero, torna sulla slessa conclusione in altra lettera allo stesso per confermare il primo posto a Dante sopra tutti i poeti volgari , e nominatamente sopra di se medesimo. (Nel libro V delle lettere senili, epist. 3) « ... te praecedat ille nostri eloquii Dux vulgaris ... » E poco appresso confessa volontieri che gli intelli- genti danno il primo posto a Dante: « Audio senem illuni Ravennatem, rerum talium non ineptum iu- dicem, quotiens de his sermo, semper libi locum ter- Divina Comjiedia ]79 tìum assignare solitimi, si is sordet, sique a primo (che è di Dante) obstare libi videor . . . ecce volcns cedo ... » E poiché quando gU interni sentimenti venjjono espressi con le debite parole per quanto siano ripetuti ritornano sempre a quell' unico \ero onde sono spremuti, così è che ritornato il Petrarca su questo argomento con mire al lutto differenti là dove tratta delle cose memorabili antiche e recenti, registrando a perpetua memoria un fatto di Dante, comincia dal dirlo uomo nella volgare eloquenza chiarissimo « Dantes Alligherius • • . , concivis nuper meus, vir vulgari clarissimus fuit ». (Rerum memo- labiliura lib. II. De Tronia cap. III). Era tale adunque il costante linguaggio che questo insigne Fiorentino tenne per iscritto ai suoi amici ed a'suoi coetanei sempre che si abbattè a far parola di Dante. Ora qual uomo mai seriamente po- trà sospettare, senza turpe offesa dell' altrui probità universalmente riconosciuta, alcuna finzione in detta- ti così solenni? Chi dico terrà ragionevohuente men che spontanei, men che sinceri questi ampli e ri- petuti encomii di Dante? Uno scrittore invido, un tristo disprezzatore, quale ci voglion dipingere il Pe- trarca, non va in traccia di ripetute occasioni per ofiFrire all' invida e sprezzata persona l'incenso delle massime lodi anche colà dove il lettore men Io si crede : anche in quei lavori che sono dedicati ad eternare presso i dotti i nomi dei commcisdati per- sonaggi. L'invidia, il disprezzo non ammettono sa- crificii all'inviso nume: o tacciono, o insozzano chi loro non piace, non encomiano mai. Oh cessi per- tanto una volta dopo cento lustri la mala lingua dal 180 Letteratura più infestare l'onorato riposo di tanto poeta, di tanto filosofo, di tanto italiano. E visto come egli afferma le due, e le tre fiate con giuramento se avere sopra tutti gl'italici poeti ammirato 1' autor della Comme- dia : ed avvertito che procaccia di tesserne ovun- que i più alti encomii e di perpetuarne la memo- ria, conchiudasi per sempre che se Dante fu lodato dai volgari, commendato dai dotti, fu altamente lo- dato, commendato, ammirato da quella candidissima, e dottissima anima del Petrarca. Senonchè al Foscolo sa alquanto di spregevole e d'invidioso verso Dante che altri abbia detto lui som- mo poeta volgare non uguale a se stesso nei carmi e nella prosa latina : « . . . . Fuisse illum sibi irapa- » rem, quod in vulgari eloquio quam carminibus » aut prosa clarior atque altior assurgit. » In vero che qui messer Ugo fu accecato dalla passione che gli faceva veder tenebre nel sole e malignità in ogni persona. Il Petrarca afferma che questo lin- guaggio a chi ben ne comprende il midollo è la massima lode per Dante : che per un uomo l'esser detto sommo in un genere di letteratura, è il tutto dell'encomio che si possa bramare. « Quod neque f tu neges, nec rite censentibns aliud quam laudera et gloriam viri sonat. Quis enim non dicam nunc extincla complorataque iam pridem eloquentia, sed duni u)axime floruit in omni ejus parte summus fuit ? . . . . Non id Ciceroni tribuitur, non Virgilio, non Salustio, non Platoni . . . Viro in genere excel- luisse satis est. » Se al Petrarca intendentissimo a quel tempo delle più care veneri del latino parvero le latine opere di Dante non cosi perfette, come per- i b Divina Commedia 181 fellisslme gli erari parute le volgari ; e per questo ci è lecito dirlo invido e sprezzante il massimo de' suoi concittadini? che si dirà di Filippo Villani più che encomiatore idolatra di Dante, il quale cercan- do : « Cur noster comicus opus suura materno ser- mone dictaverit^ risponde di questo tenore : « Au- divi patruo meo Ioanne Villani istorico referente , qui Danti fuit amicus et socius , poetam aliquando dixisse,^ quod collalis versi bus suis cum metris Ma- ronis, Statii, Horatii, Ovidii et Lucani, visura ei fora iuxta purpuram cilicium collocare. Cumque se poten- tissimum in ritmis intellexisset, ipsis suum accomo- davit ingenium : et cetera. » Eccoci dunque un ve- ro amico di Dante che non solo giudicò Dante non sommo nel linguaggio latino, ma afferma che questi medesimo sentivasi ben potentissimo nelle rime, ma debolissimo nei metri di Virgilio e di Orazio. Sia dunque lode e gloria al Petrarca il quale mentre se- guendo Dante stesso rispondeva che questi è debole nel latino, lo innalzava a tal grado della eloquenza volgare che lo costituiva primo, sommo, duca e prin- cipe dei moderni poeti. Né altri ci soggiunga sotto voce, come piacque al Foscolo, che nonostanti queste ragioni non si può negare che un tempo raesser Francesco non volle tra suoi libri le tante commendate opere volgari di Dante , e che nell' atto stesso che lodalo in questa lettera non si stanca di compatirlo perchè la divina Commedia sia straziata, maltrattata colla pronunzia di coloro stessi che tanto affettano di encomiarla : il che in ultimo e vero concetto fa prova di un ani- mo invido, e disprezzante. Imperocché posto che sia 182 Letteratura vero che nel primi bollori della gioventù, cosi ane- lante alla gloria della originalità, ci non siasi pro- cacciati i volumi dell' esule fiorentino , questa non particolare a Dante, ma fu una precauzione gene- rale per tutti i dettali volgari ninno eccettuato. Ma passati appena quei primi anni , e giunto alla so- dezza della età e dello stile, quando cessava il pe- ricolo di cadere in una servile imitazione, biasime- vole in tutti, e spregevele sempre in qualunque par- lo poetico, il Petrarca accolse tutti i volgari, Dante sopra tutti, cui volentieri assegna il luogo sovrano di stima, di lode e di gloria. « Postquam totus inde abii, sublatusque, quo tenebar, metus est, et aliosom- nes, et hunc anfe alios tola mente suscipio. lam qui me aliis iudicandum dabam, nunc de aliis in silen- tio iudicans, varie quidem in rdiquis^ in hoc ita^ ut facile sihi vuhjaris eloqnentiae palmam dem. » Laon- de per l'ingenuità delle lodi offerte in età matura si argomenta ragionevolmente che quella giovanile ri- servatezza tanto male interpretata era figlia non di invidia ma di nobile emulazione. Quanto poi al forte rammarichio della mala pronunzia che pei giullari e bulloni da trivio e da taverne deturpavasi l'av- venentissima fronte della Commedia, il Petrarca cosi una come mille ragioni. Conciossiacosaché essendo questo un atto che porta al ridicolo le più sante com- posizioni, per cui talora si eccita il riso, ivi mede- simo ove l'autore .studiasi di eccitare il pianto, era poi ingiuriosissimo alle scritte di un poeta grave e concettoso e filosofico come Dante. Ma in questa la- gnanza egli non fu né solo , né primo : Giovanni del Virgilio lo precedette di varii lustri allorché tinta Divina Commedia ^83 Tuna e l'altra tempia di santo sdegno scriveva allo stesso amico di Beatrice : « Che la sua Commedia era gracidata pei vicoli e per le piazze. » Quae tamen in triviis numquam digesta coaxat » Comicomus nebulo, qui Flaccum pelleret orbe. » E Dante medesimo perchè se non per questo diede la grande batacchiata al mulatiere, e fece al Fabbro quel solenne dispetto ? In questo ben meritò dun- que il Petrarca, e a buon diritto scrisse al Certal- dese, che se Dante vivesse a quel tempo sarebbe più amico a lui, che non a tutti codesti inettissimi lo- datori, (i Quod ad me attinet, miror ego illum et di- ligo, non contemno. Et, id forte meo iure dixerim, si ad hanc aetatem pervenire illi datura esset, pau- cos habiturum quibus esset amicior quam mihi . . . sicut ex adverso nullos, quibus esset infestior, quam hos ineptissimos laudatores, qui oranino quid laudent quidve improbent ex aequo nesciunt; et qui, nulla poetae praesertim gravior iniuria, scripta eius pro- nunciando lacerant , atque corrumpunt : quae ego forsitan, nisi me meorum cura vocaret alio, prò vi- vili parte ah hoc ludibrio vindicarem. » Vedi com- miserazione nobile, utile e degna della vera amici- zia, studiare il modo che i sensi del venerato amico siano debitamente pronunziati e meglio intesi- Ma così forte persuasione che tutto mi assicura dagli artificiosi sospetti del Foscolo, e mi dà tutto alla credenza di Messer Francesco, si farà, o io trop- po mi confido, comune a tutti i miei lettori, se ad- durrò prove di fatto , che egli così come scriveva 184 Letteratura di pensare e di operare, così appunto pensava ed operava. Questa prova io la traggo da due scritture sincrone al Petrarca ste^ou, le quali trattano aperta- mente di lui e del suo pensare : inedita l'una, l'al- tra sebbene edita a Venezia sino dal 1532 , pure come ignorata affatto da quasi tutti i letterati di Europa , o non mai considerata come si merita. I quali documenti ove :^ia chi diligentemente li con- deri con mente chiara e con affetto puro , mette- ranno in forte pensiere la numerosa e gentile schiera degli amici del cigno di Valchiusa, che come egli giustamente lagnavasi per la triste opinione che al- cuni invidi ne'suoi di facevano di lui, così essi ab- biano a condolersi stupefatti che pur dopo le so- lenni sue proteste, e dopo le solenni conferme delle stesse pur siano alcuni accecati dell'amor dell'appa- renza che chiusi gli orecchi alla voce del vero cor- rano colPaffetto nella sentenza dei detrattori del se- condo lustro di Firenze. Il documento inedito che reco, tratto dall'ulti- mo foglio di un codice membranaceo in foglio del secolo 14, che contiene tutta la D. Commedia, esi- stente nella biblioteca di S. E. il principe D. Marco Borghese, è un ingenuo racconto di conversazione letteraria stata in Milano tra il Petrarca e lo scrit- tore. L'oggetto della conversazione sono le opere di Dante : lo stile, la lingua , ed il concetto rivelano nel narratore un personaggio che alla molta erudi- zione aggiungeva somma venerazione a Dante, e noa minore al Petrarca con tanto più di affezione a que- sto. Ecco il documento. « Compose questo famosissimo poeta Dante una Divina Commedia 185 libretto in grammatica latina al tempo dello impe- ratore Arrigo di Luzimboigo che fu coronato a Ro- ma l'anno mcccxij da tre cardinali di papa Clemen- te iiij (anzi v) e chiamossi, e chiama Monarchia (1) ... « E noti chi leggerà qui che trovandomi io scrittore a Trapani di Cicilia, ed avendo visitalo un vecchio uomo pisano perchè avea fama per tutta Cicilia d'intendere molto bene la Commedia di Dan- te , e con lui ragionando e praticando sopra essa Commedia più volte e di più cose, questo tale va- lente uomo mi ha detto così: « Io mi trovai una fiata in Lombardia e visitai messer Francesco Pe- trarca a Milano; il quale per sua cortesia mi tenne seco più di. E stando uno d\ con lui nel suo stu- dio, lo domandai se v'avea il libro di Dante^ e mi rispose di sì. Sorge, e cercalo fi-a suoi libri , prese il sopra detto libretto chiamato Monarchia., e gettol- lomi innanzi. A che io veggendolo dissi, non essere quel ch'io domandava, ma che io domandava la Coni- media. Di che allora messer Francesco mostrò me- ravigliarsi, che io chiamassi quella Commedia Libro di Dante. E domandorami s'io tenea che Dante aves- se fatto quello libro: e dicendogli di sì, onestamente me ne riprese , dicendo clie non vedeva che per umano intelletto senza singolare aiuto dello Spirito Santo si dovesse potere comporre quella opera; con- cludendo che a lui parea che quello libro di Mo- narchia si dovesse e potesse bene intitolare a Dante, ma la Commedia piuttosto allo Spirito Santo che a (t) CJii ami vedere 11 docurriPHto intiero pur. trovarlo alla fac- cia 200, tomo 11 delia classica Bibliografia Dantesca dei sig. Viscon- te Colombo de Batines. Prato, tip. Alberglielti 1848. 186 Letteratura Dante. Soggiung^endo ancora e dicendomi: Dimmi, tu pari vago e intendente di questa sua Commedia; come intendi tu tre versi che pone nel^Purgatorio, dove pone che messer Guido Guinizzelli da Lucca (anzi Bonagiunta da Lucca) domandi se quivi era colui che disse: Donne che avete intelletto cV amore: e Dante disse : « Et io a lui , io mi son un che » quando Amor mi spira noto, et in quel modo Che » ditta dentro vo significando ». Dicendo messer Francesco: Non vedi tu che dice qui chiaro ; che quando l'amore dello Spirito Santo lo spira dentro al suo intelletto, che nota la spirazione, e poi la si- gnifica secondo che esso Spirito gli ditta e dimo- stra ? Volendo dimostrare che le cose sottili e pro- fonde , che trattò e toccò in questo libro , non si potevano conoscere senza singolare grazia e dono di Spirito Santo ». In tutta la premessa relazione due argomenti , tra tanti altri, conferniano principalmente per sincero il giudizio che messer Francesco uella lodata lettera al Boccaccio ha emesso intorno a tulle le scritture di Dante. Imperciocché primieramente egli colà vuol far argomentare all'amico sé possedere e conoscere a fondo da mollo tempo non pure la Commedia ma tutte le opere del medesimo autore: e qui un te- stimonio oculare fa espressamente conoscere che ap- punto Petrarca possedeva tali opere, e tutte le aveva minutamente conosciute. Secondamente al Certaldese afl'erujava che egli ben lontano dal disprezzare le poesie volgari di Dante, anzi avea per costume di manifestare la sua grande estimazione di quelle col parlarne in termini e concetti molto magnifici. Ed ora Divina Commedia 187 ne avviene di leggere ciò affermato da un eruditis- simo suo Ospite, che Io udì esaltare di tanto le poe- sie di questo portentoso ingegno sopra quelle di tutti i poeti volgari , quanto le opere scritte per ispira- zione divina si deono tenere superiori a quelle che non hanno fondamento altro che l'estro umano. Con sì enfatico parlare, con una iperbole tanto nuova ed onorifica non conferma egli il Petrarca che della Commedia non usava parlare se non molto magni- ficamente ? In terzo luogo all'amico egli ripeteva che sebbene fosse tutto suo costume accordare a Dante la palma sopra tutti i rimatori, pure occorreva ta- lora che a chi troppo curiosamente lo interrogava solesse aggiungere, che questo autore nella prosa e nei carrai latini non agguagliava se stesso nelle ri- me volgali; nondimeno ciò nulla diminuire alla sua eccellenza, bastando pure che uno scrittore sia ec- cellente in un genere, come avvenne di tutti i più acclamati autori greci e latini. Ed il suo ospite, che lascia argomentare di essere entrato in minute dis- quisizioni sul merito letterario del cantor dei tre regni, con la più espressiva figura ne presenta l'ami- co di L, vira, che, chiesto se aveva tra suoi libri il libro di Dante, in un atto medesimo dà un adegua- to giudizio su tutte le scritture dell'uomo ammira- to: il perchè dichiarata la monarchia come libro di Dante, e la Commedia come libro divino, conchiuse che se Dante fu uomo grande scrivendo latinamen- te, fu divino veramente nei suoi volgari dettati. Ma un parlare simile, chi bene lo considera, ritorna in massima lode dell'autore. Finalmente afl'ermava all' amico Riesser Giovanni, che era il suo maggior pia- 488 Letteratura cere il sentire ed il ripetere {jli enconiii di Dante i e l'autore del presente racconto fa conoscere avere a lungo parlato di Dante col Petrarca, il quale non che si ritirasse dall'udirne gli elogi sull'altrui lab- bro, ne aggiungeva egli da pari suo altri ben più giusti e meravigliosi. Ora è sentenza dei filosofi antichi ben nota al Petrarca come lo fu a Dante, che l'invidia vizio che sorge tra i pari di merito non ha luogo tra coloro che sono da immenso tratto di merito separati: Pe- trarca affermò al Boccaccio nella detta epistola, che egli dà la palma a Dante per la poesia volgare; ri- petè lo stesso nella epistola in cui riprovava il Boc- caccio di avere bruciato i suoi versi volgari, da noi citata più sopra,, perchè non aveva ottenuto il primo posto in quel genere di poesia, e lo assicurava che il primo posto era di Dante , ma che a lui molto bene spettava il secondo, mentre esso Petrarca non era mal contealo di occupare il terzo : arroge che nel citato aneddoto delle cose memorabili scritto dal Petraica ad eterna memoria, è detto una terza volta che Dante era il principe della volgare eloquenza; e qui dal suo ospite si raccoglie che Dante pel Pe- trarca era uno scrittore non pur eccellente ma di- vino: dunque come mai può tra cotanto senno del Petrarca aver avuto luogo la invidia alla divina men- te dell'Allighieri ? In somma parmi certo che dopo il detto di sì ampio e verace testimonio il Petrarca si meriti tutta la fede in quanto scrisse al Boccaccio della sua sti- uja verso il cantor della rettitudine ; e quindi po- tremmo conchiudere che egli non mai andò sogget- to alla invidia della fama di Dante. Divina Commedia 189 Ove altri per dare rna no. anche a stampa sessantatrè Lettere, che l'Arici scriveva a' famigliari tra 'l 1800 e la vigilia della sua aiorle> E' fra le poesie postume, pubblicate in Bre-» scia- del 1838, èvvi 1 primo Canto di un poema dir dascalico su l'Elettrico, un Carme lirico su i Par^ ganiottì di Hayez, due frammenti di un altro poema didascalico su i Fiori ec. (9) L'Arici tradusse, come ho detto nell' Elo- Elogio dell'Arici 211 gio, tutte quante le poesie di Virgilio , insino alle minori e messe in controversia dagli eruditi, come la Ciride, il Culice, il Moreto ec. Della versione del- la Georgica leggesi un articolo critico nella Biblio- teca Italiana, tomo III, a car. 40. (10) Questi versi sono dell'Arici. Vedi '1 Sir- raione , a car. 37 , ediz. di Milano , per Giovanni Silvestri, 1827. Voglio qui avvisato il lettore: che tutti i versi, ch'io ho recati per entro il mio Elo- gio, sono tutti dell'Arici; e non ne ho citati i luo- ghi per amore di brevità. (1 1) Il Sirmio è una penisoletta o isoletta nel Benaco , ora lago di Garda. E celebre per questi versi elegantissimi di Catullo: Peninsularura, Sirmio, insularumque Ocelle, quascumque in liquentibus stagnis Marique vasto fert uterque Neptunus, Quam te libenter, quamque laetus inviso ! Vix mi ipse credens Thyniam atque Bithynos Liquisse campos, et videre te in tuto. 0 quid solutis est beatius curis ? Cum mens onus reponit, et peregrino Labore fessi venimus larem ad nostrum Desideratoque acquiescimus lecto. Hoc est, quod unum est prò laboribus tantis. Salve, o venusta Sirmio, atque hero gaude. Gaudete vosque Lydiae lacus undae, Ridete quidquid est domi cachinnorum. E dell'amenità di questo luogo così scriveva all' a- mico suo, Plinio Toraacello, il Bonfadio: « Voglio 212 Letteratura perdere la vita, se giunto che sarete qua , non vi parrà d'esser venuto in luogo simile a quello, ove dicono abitare gli animi nostri , quando partiti di qua, come di un tenebroso e tempestoso mare, ar- rivano in parte, dove fermati, per non sapere che desiderar più oltre, contenti in sempiterna luce si godono una tranquillità infinita. Però ancorché Ca- tullo mosso da strano capriccio poetico con il suo fascio (*) andasse a vedere la nobile Rodi, e tutte le maraviglie dell' Arcipelago fin oltra lo stretto di Ponto, donde passò la prima nave di que'scelti ca- valieri argivi che andarono al monton d'oro; non- dimeno ritornato che fu a questo spettacolo di nuo- vo paradiso, fece voto a Castore e Polluce di non partirsene più mai d. (12) Intorno al Sirmione dell'Arici vedi l'arti- colo della Biblioteca Italiana, tomo XXVII, da car. 16 a 27. (13) Anche di questo bellissimo Carme si vuol vedere il giudizio che ne diedero i Giornalisti della Biblioteca Italiana nel tomo XXXIII, da car. 15 a 34. (14) l^ Letteratura Brox.ooi, ed uscì di vita il 2 luglio 1836, egU mori nel Piorno stesso del suo nascimento. I suo, concit- tadini per la miseria de'tempi, non poterono fargli al mortorio gli onori dovuti; ma nell'anno appresso, 1837 a- 24 di giugno, celebrarono la sua memoria con una pubblica festa solenne; e fu decretato che la sua effiric in busto di marmo, lavoro dell egre- gio scultore veronese. Innocente Fracaroli fosse pò- L in quel luogo del Campo Santo, che 1 Munici- pio assegnò ad onorata sepoltura de'suoi benemcriU concittadini. 11 prof. Giuseppe Nicolim co. descrisse le esteriori sembiante del suo celebre amico: « Co- sare Arici fu di mezzana e ben disposta persona, di sana e robusta complessione, di regolari, scolpite, ed anche direi belle forme d'aspetto, se non fo^ che la infermità della vista e il lume presso che spento degli occhi facca difettar di fisonom.a e d. espressione il suo volto ». 215 / monumenti degli antichi cristiani in relazione col progresso delle scienze^ delle arti e della civiltà. Dissertazione letta neW accademia tiberina nella tornata dei 20 novembre 1848. Xjo studio della storia monumentale è fondamento al vero sapere, e i voli dell' imaginazione temperati dall'estetica sono le cause del progresso filosofico e letterario. Nei sacri cemeteri di Roma soho i più antichi ed autentici monumenti che il cristianesimo ci ab- bia lasciato fin da' suoi primi tempi. Negli altri luo- ghi colali monumenti o giacquero sepolti, o dimen- ticati, o consunti dalla ruggine degli anni , o ben anco distrutti dalla mano dell' uorr;o, maggior di- struttore ancora del tempo; laddove a Roma s'è ve- nuta conservando fin entro le viscere della terra ed a traverso di tanti s^ecoli una sì gran quantità di t)jpiere de'primi fedeli, ch'egli è impossibile di non iscorgesre in ciò il disegno della Provvidenza , che colloòafr volle il nido della nascente chiesa nel cen- tro stesso dell'unità cattolica, e congiungere, in cer- to modo, il destino della nuova Roma con quello ■della eterna città. Gli antichi cristiani essendo i primi eflfetti della redenzione, e per conseguenza del più grande in- civilimento dell'umanità cristiana, promossero lo svi- luppo dell'intelletto, lo slancio del genio, ed i dise- gni del sociale miglioramento. 216 Letteratura I. Gli antichi monumenti cristiani raccolgonsi net- le catacombe di Roma. Un viaggio che non può farsi se non a lume di torcia, e talvolta coU' aggrap- parsi su per le fondamenta ed aprirsi a gran pena un sentiero, pare fatto a non altro che a destare se- vere meditazioni. Difficil sarebbe il descrivere oggi in termini esatti e precisi una giusta immagine delle catacombe di Roma, come nel tempo che quei sotterranei an- cor popolati di tutti gli ospiti loro, e vestiti di tutti i loro ornamenti, presentavano allo sguardo e alla pietà de' cristiani un complesso di memorie e di monumenti commoventissimo, un ampio museo se- polcrale, dove tutta era scritta l'istoria delle lunghe e dure prove del cristianesimo nelle liste innurae- rabilì di coloro che n'erano stati gli eroi o i testi- moni. A^ero è che quanto a quei tempi costituiva la maggiore importanza delle catacombe, ne dispar- ve dopo tanti secoli, che la religione andò ad at- tingervi e che il tempo ivi distrusse tuttociò che la pietà dei primi tempi v' avea deposto ; ma pur nondimeno v'ha in questi luoghi anche nudi e spo- gli, come ci appaiono, nel lutto di queste profonde solitudini, di queste vote sepolture dove l'immagine di tutti gli eflélti della vetustà con quella s'accop- pia de' primi giorni del cristianesimo; v' ha , dissi, una vena di sì potenti impressioni, che la parola non vale a significarle. Chi non è disceso in quegli sterminati sotter- Monumenti antichi cristiani 217 ranci, in quelli almeno dove gli aditi non furono sì resi difficili da non potervisi con qualche sicu- rezza dare abbandonatamente in preda agli affetti che ivi si destano, chi non ha veduto le catacom- be, non isperi farsi un giusto concetto delle impres- sioni che esse producono. In quelle lunghissime vie, che s'incrocicchiano in tutti i versi, l' imaginazione non ha veramente alcun sforzo da fare per crede- re, che tu vai colaggiù passeggiando in una ster- minata città tutta popolata di morti. Il silenzioso orror che vi regna rende i pensieri che vi rechi , e le impressioni che vi raccogli, penetranti e profon- di al pari di quei recessi che colaggiù, nelle visce- re della terra, avea per se scavati una proscritta e perseguitata religione. Dal decimosesto secolo, in cui le catacombe fu- rono in certo modo riscoperte e riaperte insieme alla religione e alla scienza, fino ai tempi nostri, in cui la stessa importanza conservano per l'una e per r altra, intrepidi eruditi e perseveranti letterati at- tinsero a questa copiosa fonte , pur sempre traen- done nuove cognizioni. Bosio e Boldetti spesero per i primi trent' anni della loro vita in iscorrere per ogni verso le catacombe, in levarne le piante, di- segnarne i monumenti, copiarne le iscrizioni: e ri- lasciarono degli scritti ricchissimi di fatti e d'osser- vazioni, tesoro grandissimo di erudizione sacra e di letterario sapere. Continuarono questi studi istancabilraente fino alla fine del secolo scorso, quando Agincourt scrisse la storia del decadimento dell'arte applicata a' suoi monumenti , in cui rifrustando negli ultimi abissi 218 Letteratura Roma sotterranea mostrò, suU' orme di tanti anti- quari, la face ohe allo storico dell'arte rischiara il cammino, Mercè di questi sludi, le catacombe di Roma sono state esplorate per ogni verso, sviscerate in ogni profondo , descritte sotto tutti gh aspetti , cosicché puoi studiarle sui libri come sui luoghi. I libri anzi hanno sui luoghi questo vantaggio , che parecchi cimiteri, esplorati dagli autori per lo passato, più non esistono oggidì forche nei disegni : come parecchie delle pitture pubblicate in allora sono coU'andar del tempo sparite o cadute. Ma se le catacombe venner cosi perdendo quasi tuttociò che raccomandavale alla reHgiohe e alla scienza, esse acquistarono da un altro lato: però che tutte le cose che dar potevano a questi sotterranei un lugubre aspetto, e renderne la vista penosa in- sieme al cuore ed all'animo, ne sono da gran tem- po sparite. Le tombe, o vote o piene d'aride ossa, offrono non tanto immagine della morte, quanto dei monumenti deiranticlrltà. Nomi sparsi qua e là di cristiani che si leggono scritti sulla muraglia in ca- ratteri pressoché impercettibili; ombre di pitture che vi ricompaiono al chiaror delle faci appressatevi ; qualche pezzo di vetro dipinto sigillato nella calce; qualche lucerna collocata in una nicchia, o sospesa alla volta, ti ricordan la vita in mezzo a quei sepol- cri, nell'immensa vacuità loro, tuttavia gremiti di tante memorie che ad essi si riferiscono. I luoghi stessi, cosi al tutto nudi, al tutto spo- gli come sono , presentano forme e strutture che scuotono ed allettano. Tutte qui le arti del cristia- Monumenti antichi cristiani 2^9 nesimo si trovano nel primo lor nido, pien delle ce- neri de'suoi martiri. L'origin loro non risuona egualmente tra i let- terati. Dall' una parte assennatissimi autori, sia che cedessero a preoccupate rispettabili opinioni, sia che si lasciassero signoreggiar dallo spirito del loro se- colo, non altro videro nei sotterranei che luoghi scavati ad uso unicamente dei cristiani, ai quali ser- viron d'asilo nei tempi di persecuzione, ed insieme di cimiteri dopo morie. Altri all'incontro, in preda ad altre preoccupazioni, e tratti da spirito di setta e di parte , nelle catacombe altro non videro che luoghi di comun sepoltura alla gentilità ed al cri- stianesimo: d'onde arditamente conchiudevano, esser- si senza discernimento e senza ragione qualificate per reliquie di martiri, e come tali esposte alla pub- blica venerazione, le ossa di oscuri cristiani, ed ezian- dio di pagani alla rinfusa. In questa controversia, che per oltre due secoli ha diviso le menti e posto in moto di molte passioni, v' ebbe, né temo dirlo, ora eccesso ed ora errore nelle opposte opinioni: e qui pure, come nella maggior parte delle quistioni che s'agitano con maggior ardenza che buona fede, la verità siede framezzo alle due estreme asserzioni. Non v'ha però dubbio che il progresso e l'im- pulso della coltura delle scienze e delle lettere de- riva dalla cristianità. Tale è, per dono di Dio, la co- stituzione della cristianità, che avendo essa (anche la parte errante di lei ) un solo Dio, un solo Van- gelo, una sola virtù, ella non può avere se non una .sola coltura, o se si voglia, parecchie colture somi- gliantissime; e che chi si forza di tenerle disgiunte 22i> Letteratura o peggio nemiche, farebbe opera empia, se non la facesse vanissima ; e che a malgrado di costoro le colture nazionali diventano di secolo in secolo raen diverse, più simili, più identiche, più une. Cosi fu lìn dai primi secoli della cristianità; meravigliosa è l'unità della coltura de'padri greci e latini; mera- vigliosa quella degli stessi secoli barbari e scolastici. La coltura religiosa, innalzandosi sopra le altre, ri- mase cosi per quattro secoli diversa dall'altre senza dubbio : ma questa esclusività fu propria dell' età del risorgimento, e non si può riprodurre. I dotti, che nella scienza seguirono l'impulso religioso, si tennero discosti dalle scurrilità e dalle trivialità che deturpano tanti celiatori , discosti da que'soggetti filosofici e peggio sacri , dove le celie anche decenti sono inconvenevoli; ma seppero rivol- gere senza dubbio i loro soggetti a correggere i vizi anche aristocratici, e furono svelatori dc'vizi patrii. I monumenti sepolcrali iscritti, quasi come vivi e parlanti testimoni dell'antichità, diffondono una lu- ce di vero sopra la storia delle scienze, delle arti, ed in ispezialità dell'augusta nostra religione, la qua- le nella pace e nella guerra, ne'primordi e negli in- crementi, ti viene innanzi sempre di un medesimo volto , bella di sempre eguale e costante bellezza , candida del candore di semplicità e d' innocenza. Queste epigrafiche note mentrechè spargono l'anima di soave dolcezza per la naturale semplicità de'mo- di e de'pensieri, con che sono condotte, istillano un generoso ardore d'imitare le virtù di coloro, al cui beato fine applaudisci; ti fanno sovente conoscere, chi sia deposto entro al loculo, cui tu passi innan- Monumenti antichi cristiani 22 1 zi; ti dicono non di rado quanti anni e in qua[ condizione meritò nel cammino della vita; se volò al cielo bambino innocente ed ignaro delle fraudi del secolo, se vecchio venerando incanutito tra le opere di cristiane virtù, se tenera vergine col fior del pu- dore, o matrona matura specchiata nella fedeltà al consorte, e nelle domestiche e familiari virtù. Ti di- cono sovente con qual fine incoronò il mortai suo corso, se in pace tra il compianto de' congiunti e tra i conforti della religione, o se in campo da pro- de. Le iscrizioni adunque degli antichi cristiani por- gono vasto campo all'archeologo e al letterato d'in- dagazioni e di studi: imperciocché semplice ne è lo stile, breve la sentenza, la dicitura più spesso latina che greca, più sobrie e concise quanto più s'acco- stano ai primi tempi dell'era cristiana. Io però non ho in animo, siccome molti, di voler dimostrare es- ser le iscrizioni cristiane non usitata locuzione sic- come oro tersissimo di pretta latinità: ma certamen- te vorrò affermare che in quei tempi d' angustia e di duolo il desiderio di consegnare a' posteri la me- moria dell'estinto, quantunque sempre secondato non fosse dalla perizia di chi la dettò, o di chi la inci- se, pur tuttavia sotto quella rozzezza meglio si rile- ■va il candore della verità non adulterata dal raffi- namento delle arti e delle scienze. E chiamo voi in testimonio se si possono leggere a ciglio asciutto le voci che l'affetto dettò ai sopravvi vuti. Il figlio chia- ma la madre carissima^ amatissima^ dolcissima : il marito appella la consorte pudica^ casta, vivuta seco senza querela: la sorella nomina il fratello incompa- rabile: r amico dolente chiama 1' amico dolce, caro 222 Letteratura compagno^ benemerito-, cose tutte che attestano a chia- re note quale fosse il risorgimento della fede riva ed operosa nel cuore di quei giusti. II. Per intender poi quale influenza ricevessero le arti dagli antichi monumenti cristiani, giova all'in- tento del nostro scopo il porre in piena luce il con- cetto generale che da essi risulta : poiché appunto col mostrar l'unico pensiero, da cui furono gover- nati , si viene a far rlsplendere la superiorità del cristianesimo, a fronte dei monumenti medesimi del decadimento e delle reminiscenze della antichità. Di mano in mano che il cristianesimo sottraen- dosi agli influssi della civiltà, cui egli rinnovar vo- lea, studiavasi con le sue sole forze di creare im- magini di proprio capo, o meglio di mano in mano che egli prova vasi di rappresentar sui monumenti de'suoi martiri, e per mano de 'suoi artisti, fatti della storia sua e simboli della sua credenza , ci venne trovando il soggetto di queste nuove composizioni offerte alla pietà ed alla contemplazione del creden- te, non già nei propri fasti, ma bensì nelle bibliche tradizioni. I patriarchi e i profeti divenivan gli eroi di queste pitture cristiane, intanto che le immagini loro servivan d'esempio ai martiri e di consolazio- ne agli oppressi, I miracoli del Vangelo trovaron essi pure loco nei monumenti cristiani , ed anche nella scelta dei soggetti tolti dal nuovo Testamento osservossi pur sempre lo stesso metodo: cioè si tol- sero fin da prima a dipingere, e si produsser quia- Monumenti antichi cristiani 223 di costantemente quei fatti della vita del Salvatore che più degli altri riferivansi alla sua divina mis- sione , ed insieme in lui mostravano il benefattore e il redentore dell'umanità sconsolata. Le catacombe destinate alla sepoltura de'primi cristiani, popolate per lunga stagione di martiri, ben- ché venissero ornate in tempo di persecuzione e sotto r influsso di malinconici pensieri e di trava- gliosi uffici , pur tuttavia da ogni parte altro non presentano che fatti eroici in tutto ciò che forma la parte isterica di questi dipinti^ e in tuttociò che ne costituisce la parte meramente ornamentale, null'al- tro che soggetti cari e graziosi, immagini del buon Pastore, rappresentazioni di vendemmie, di scene pa- storali, di agapi, di frutti, di fiori, di palme, di co- rone, di agnelli, di colombe; insomma nuU'altro che soggetti di gioia, d'innocenza e di carità. I cristia- uii, intenti come eran solo, in mezzo alle prove di una vita sì agitata e spesso ancor di una morte si orribile, alla celeste rimunerazione che gli aspettava, altro non vedevano nell' ultimo transito, ed anche nel supplizio, che una via spedita e sicura per giun- gere a questa suprema beatitudine; ed anziché ac- compagnare a questa immagine quella degli strazi, piacevansi rallegrarla di ridenti colori , presentarla sotto simboli graditi, ornarla di pampini e di fiori: che appunto così e non altrimenti a noi si mostra il ricetto della morte nei monumenti cristiani. Onde abbiam qui- senza dubbio una sensibile e positiva rimembranza del modo, con cui gli antichi rappre- isentavan la morte; sempre sotto forme piacevoli, e quasi ridenti, sempre con simboli di gioia profana 1224 Letteratura « di piacer sensuale, talvolta pine con immagini di sfrontato cinismo. 0 io m' inganno assai , o questa osservazione, che sì evidente risulta dall'esame dei dipinti cristiani, è tale che presenta il cristianesimo primitivo in aspetto proprio a conciliargli rispetto ed amore al par che qualsiasi dei tratti della sua storia e dei monumenti del genio suo. Né questa osservazione cade solo a'monumenti della prima chiesa: che s'egli è lecito arguirne dal novero dei fatti, che ci rimangono nella storia let- teraria di quell'età, anche l'insieme dell'ornato delle basiliche cristiane fu ideato ed eseguito giusta il medesimo sistema. La qual cosa ben dimostra che l'arte cristiana, esercitandosi in opere siffatte, erasl sollevata dalla fiacchezza e dalla imperfezione delle sue produzioni, nel tempo medesimo che usciva dal- l'oscurità delle catacombe. Ma quel che da ciò prin- cipalmente risulta si è, che la Bibbia rimanea per fonte poetica agli artisti di quell'età, da cui attinge- re inspirazioni e soggetti. CoU'andar del tempo le rappresentazioni dei cri- stiani vennero introducendosi e moltiplicandosi a se- gno da coprir tutte le pareti delle basiliche , e da non lasciarvi quasi più luogo ad altre immagini; ma questo malaugurato rivolgimento nel gusto consu- mossi verso il decimo secolo, vale a dire nel tem- po della più turpe barbarie, a cui certamente si ri- ducesse mai l'umano ingegno. Allora in mezzo all' universal corruzione anche al cristianesimo fu forza soggiacere, nelle cose di suo servizio, alla sorte co- mune di tutte le cose umane. Esso venne alteran- dosi, se non nel principio suo rimasto puro e incor- 1 Monumenti antichi cristiani 225 rutlibile, almeno negli elementi de'suoi templi, imma- gini concordanti con lo stile del secolo, che troppo giustamente fu qualificato di ferro. Il cristianesimo però trionfante sempre e rispettabile, da lunga età non avendo più martiri , godeva di rinnovarne in ogni luogo le memorie e le immagini. Sotto l'influs- so di queste idee avvenne qualche secolo dopo il risorgimento dell'arte; e a questo fonte appunto il genio moderno, purgato, al par della stessa religio- ne, della ruggine dei tempi di barbarie, attinse un infinità di belle ispirazioni e di sublimi concetti. L'arte cristiana adunque, qual noi la troviamo nei monumenti, era al par di tutto il resto una re- ligione, aveva il suo popolo di fedeli, i suoi mar- tiri di credenza e di fedeltà; aveva la virtù de'suoi segni, che soli bastavano a risvegliar vivissime imma- gini : e come oggi in seno ad una rapinata civiltà l'arte basta a commuovere i cuori con le opere sue più squisite, essa faceva miracoli cogli umili abboz- zi delle pitture cristiane in sul nascere della chiesa. E in questo punto mi sia lecito l'arrestarmi a considerare qualche speciale avvenimento dell' arte cristiana, che solo abbia promosso lo slancio del ge- nio nell'arte moderna. Gli- elementi della iconogra- fia cristiana, in cui l'arte de'nostri tempi ha saputo svegliar vivissime simpatie, son nati dai monumenti primitivi del cristianesimo. I fedeli nei primi secoli della chiesa, nemici come erano dell' idolatria e di tuttociò che contribuito avea al suo progresso , sì poco coltivarono per se stesse le arti del disegno, da non poter possedere veruna autentica effigie di Cri- sto, né della Vergine, né degli Apostoli. G.A.T.CXVIII. ns 220 Lettera.tur.4 Dal punto però che parve compiuto il trionfo del cristianesimo sovra le costumanze e le tradizioni della società pagana, accadde nell' opinion de* capi della chiesa, fino allora sì avversi alle arti imitative, un temperamento che merita d'esser notato. Già fin dal tempo di Costantino vediamo la principessa Co- stanza ricorrere ad Eusebio vescovo di Cesarea, per- chè avesse a procacciarle un'effigie del Salvatore : ilqual solo fatto basta a provare e che siffatte imma- gini eran tuttavia rarissime, e che l'uso non erane dalla chiesa condannato, dappoiché una principessa tanto rinomata per la pietà sua rivolgevasi ad uu vescovo a soddisfare una simile brama. Or nelle ca- tacombe appunto di Roma esiste la più antica di queste immagini di Cristo, quella cioè che si vede nella volta di una cappella del cimitero di s. Calisto. Il Salvatore si mostra quivi con quel volto soave , con quell'aspetto grave, dolce e malinconico insie- me, quella barba corta e rada , quei capelli divisi nel mezzo della fronte in due lunghe ciocche cas- canti sovra le spalle, come anche il vediamo sopra tanti sarcofagi del cimitero del Vaticano. Appiglian- doci a questa immagine, che certo è la più antica e la migliore di tutte, noi «iam poco men che sicuri di trovarvi il tipo del sembiante di Cristo, qiial fu dapprima stanziato appo la chiesa greca, e ricevuto dai fedeli d' occidente dal IV al V secolo dell' era nostra; quale il vediamo invariabilmente, a principiar da quell'epoca, riprodotto su tutti i monumenti dell' arte cristiana, del periodo bisantino, nelle miniatu- re de'manoscritti, e nei musaici delle più antiche ba- siliche di Roma; quale finalmente fu tramandato per Monumenti antichi cristiani 227 mezzo di una tradizione ieratica, che avea tanto del sentimento religioso, quanto dell'impotenza dell'arte, fino a' giorni del risorgimento ed al secolo di Giotto. Le stesse osservazioni vogliono applicarsi all'ef- figie della Vergine, della quale ebbesi pure un tipo fatto per man de'cristiani nel modo più soddisfacente che comportar poteva la condizione dell'arte in quei tempi. Il sentimento della modestia, che splendeva in queste immagini della Vergine, prova che in difetto d'un'effigie reale della Madre di Dio, l'arte cristiana saputo avea riprodurre in essa le sembianze dell'ani- ma sua. La maniera, con cui tali immagini sono figu- rate nei monumenti antichi, è bastante a provare che si avea già nei primi secoli del cristianesimo un mo- dello del volto della Vergine, se non consacrato dal- l'autorità sacerdotale, almeno generalmente ricevuto tra i fedeli. E questo punto dell'iconografia, così sta- bilito dai monumenti medesimi tratti dalle catacom- be di Roma, è pur bastante a distruggere le asser- zioni di quei protestanti, che sostennero non essersi cominciato a dipingere la Vergine se non dopo il concilio di Efeso : appunto perchè non ebbero co- noscenza di questi monumenti d'antichità cristiana. Queste semplici e nude indicazioni da me date sin qui bastano a far palese quale fortissimo impul- so dette al progresso dell'arte il ricco tesoro di an- tichità che ci fu conservato dai cimiteri di Roma, collegate coi più gravi soggetti della storia del cri- stianesimo, e nelle quali il pregio delle memorie fa dimenticar quasi sempre l'imperfezione dell'opera. 228 ... Letteratura III. L'ultimo scopo del mio ragionamento si è l'ad- dimostrare come dalle memorie degli antichi cristia- ni si manifesta in modo sensibilissimo il grande ri- volgimento sociale operato nel mondo dalla religio- ne di Cristo. Chiunque ama la storia, e per meglio conosce- re la scienza delle cose umane, profondamente la me- dita da vero filosofo , quando abbia misurate coli' animo le geste del più guerriero popolo che fosse in terra, ha un gran problema da sciogliere; ed è que- sta Roma vincitrice miracolosa di sé stessa co'raar- tiri suoi. La miglior parte del mondo che conserva vestigie d'antica civiltà, conserva pur le vestrgie del dominio romano: e se tante vittorie tutte cedono alla sanguinosa vittoria della guerra italica, perchè Ra- ma vinse allora quei popoli, che fuori d'Italia avea- no vinto con lei tutti gli altri popoli; Roma cristia- na che vince la pagana Roma , ne miete tutte le glorie di magnanima fortezza, e chiaro dimostra che Roma finalmente fu vinta , perchè non vinsero gli uomini, ma vinse Iddio. E deh ! chi mai , tranne lui, potea superare la prepotenza armata colla fede inerme, gli uccisori feroci colle vittorie degli ucci- si, la forza brutale del corpo colla semplice forza dello spirito? Eppure egli è fatto (oh veramente pro- digio della fede cristiana!) che sul palazzo de'Cesa- ri e sul Campidoglio s'innalza la croce, e ne domi- na le ruine; e questa città, che fu la sede de'tiranni, è divenuta la reggia sacerdotale di Pietro. Monumenti anticui cristiani 220 I tribolati, i poverelli, gli avvi^liti, gli oppressi tutti della terra furon nel nascere del cristianesimo di subito chiamati a goder del lume e dei beneficii del Vangelo*, dagli ultimi ordini del popolo Cristo trasse i primi suoi discepoli, i suoi primi apostoli, i suoi primi martiri: e il cristianesimo si strinse alla radice medesima, [)er cos'i dire, della società, onde rinnovellare la forma di questa , e ristorarne i de- stini. Or tale si è pur l'aspetto che ci presentano le memorie dei nostri cristiani; sono monumenti d'un' arte rozza, opera di poveri artieri, iscrizioni di per- sone del volgo, che ci danno a conoscere ivi la pre- senza della prima società cristiana sepolta, or morta or viva, nelle interiora di Roma, Le son liste di no- mi oscuri, le son opere di mani inesperte, che si tro- vano ad una profondità cui giunger non potava né la possanza ne il fanatismo degli imperatori, E quan- do tu raffronti la S3rte di quei cristiani tanto umili, tanto avviliti, ridotti a celar in sì tristi luoghi la vi- ta e la morte loro , a non poter testificar la loro credenza, fuorché colaggiù in seno a quegli abissi impenetrabili alla luce; quando tu raffronti questa privazione d'ogni sorta d'agi in un ordine di perso- ne sì miserabili, con le dovizie che ancor rimane- vano alle società pagana, co'talenli che questa po- neva in opera, co'monumenti che fabbricava: tu non puoi far di non maravigliarti sempre più, un sì gran- de, un sì benefico rivolgimento, uscire da quei sot- terranei che altro al nostro sguardo non offrono se non poverissime cose in servigio di poverissima gente. Finalmente come i monumenti degli antichi cri- stiani hanno tanto contribuito alla gloria del cristia- 230 Letteratura. nesimo, così nello stesso modo sono stati necessari all' ammaestramento dell' età nostra. Gli esempi di quei tempi, in cui uno si appassionava per un'idea, immolavasi per una opinione, moriva per la sua cre- denza, sono stati così utili per l'ammaestramento de' tempi, che fu troppo necessario raccorne le testimo- nianze. I dipinti infatti, i bassirìlievi , le iscrizioni ci offrono tradizioni viventi del genio della prima chiesa, frammiste ad una infinità d'antiche rimem- branze; e queste cose d' ogni sorta , onde la pietà de'fedeli fregiava la sepoltura dei loro fratelli, sono altrettanti materiali segni d'una nuova civiltà, tolti da una civiltà scaduta. Y'è dunque un doppio mo- tivo d'istruzione e di curiosità anche pel filosofo che d'altro non fa caso se non dei fatti, non d'altro tien conto se non delle realità ; né fia senza frutto che un secolo tutto positivo, tutto materiale qual'è il no- stro, discenda nelle catacombe di Roma, s'altro non fosse, per ivi compiacersi in sé stesso, e consolarsi dell'esser qual'egli è all' aspetto di qual fu già nel nascer suo la società cristiana. Demetrio Diamilla. H^i Disseriazione sopra i Ludi anlichi secolari, per la ro- mana pontificia accademia di archeologia 10 lu- glio 1 84 5. Del reverendissimo padre maestro Gia- cinto De Ferrari de'predicatori^ prefetto della Ca- -sanatense^ socio ordinario. ije le ri( ricerche e lo studio dell'antichità pagana non producessero che parziali ed isolate cognizioni, troppo arido campo a coltivare intraprenderebbe il laborio- so archeologo. I fatti slegati e disgiunti per avver- timento del filosofo, non concentrandosi in un pun- to di scientifica unità, si considerano come notizie imperfette, finché ulteriori scoprimenli li avvicinino in un tutto intellettuale. Con tai metodi Galileo , Newton, Keplero ed altri valorosi sofì han saputo dalle particolari esperienze dar anima e consistenza ad astruse teorie , a sorprendenti ipotesi. Herschell colla scoperta di Urano^ Piazzi di Cerere^ Olbers di Pallade^ Harding di Giunone^ hanno potuto ampliare ed estendere le astronomiche dottrine , nella guisa medesima che gli arditi navigatori, solcando ignoti mari , recano alla geografia e alla nautica quello splendore che non avea prima di Tristan Vaz sco- pritor di Porto Santo, di Noli ritrovator delle isole di Capo Verde, di Diego Cam, che si spinse a'iidi del Congo, e dell'immortal Colombo, che a nuovo mondo aprì e facilitò l'ardua via. Cosi se nello squit- tinio de'monumenti non ci facciam largo allo sco- primento di universali verità storiche e scientifiche, rimane troppo sterile e ignudo l' intelletto nato a 232 Letteratura veder dentro^ per avviso dell'Angelico, e la natura e le proprietà delle cose nitidamente a svolgere e penetrar signorilmente. Il perchè ordinando io alcu- ni nummi improntati degli antichi ludi, a quelli par- ticolarmente mi rivoltai, che più aflinità presentano alla cronologia storica, e servono come punti di ap- poggio , per determinare le epoche più famose e memorande. Questi sono appunto i ludi secolari, su de'quali ho l'onore d'invitare l'attenzion vostra, non già come se io voglia proporre cosa a voi nuova , ma siccome a dottissimi giudici le riflessioni mie candidamente assoggetto. Innumerevoli sono i generi di ludi usitati pres- so gli antichi greci e romani , che somministrano ampia materia di filologia e di storia. Pitisco ne in- lesse con ordine alfabetico il dizionario, cominciando dai ludi agonali, apollinari , artici, augustali , ca- strensi, circensi ec. La parola Ludus generalmente significa una celebrità instituita o per causa di re- ligione o di divertimento, la cui origine gli scolia- sti comunemente deducono daLydi illonim origo est a Lydis (1). Così ricavano da Tertulliano (2), che nel quinto capitolo degli spettacoli dice: Ludorum origo sic traditur. Lydos ex Asia transvenas in Etru- ria consedisse , duce Tyrreno etc. Lo stesso scrisse Erodoto, Dionisio, presso tutti i lessici. Né già io vorrei scuotere il giogo di tante autorità; ma la ve- nerazione agli antichi etimologisti non m'impedisce di osservare, che la derivazione materiale del ter- (1) Pitlscus. Veri). Ludus. i^) De Spectac. e. 5. Antichi ludi secolari 233 mine non può sempre congiungere anche la esi- stenza della cosa significala; che se Ludus deriva da Lydis^ non concederei che anche V origine de'gio- chi derivi da que' popoli , che non sono né i più vetusti , né i primi che di ludi si dilettassero. E non potrebbesi argomentare con qualche maggior solidità, che l'etimologia di Ludus discendesse dall' ebraico ^'^ (Lutz) che ha il corrispondente nella caldaica VìV (Lutz) nel siriaco ^ \- (Latzu) e così in tutte le lingue semitiche ritenendo sempre il na- turale significato di ludificare , illudere e di ludus ne'derivati ? Prima che quel tratto di paese situatd tra la Caria e l'Ellesponto si chiamasse Lydia^ già da molti secoli i popoli dell'alta antichità egiziani, medi , fenici ed altri usavano giuochi religiosi , militari e civili. Io perciò reputo cotale derivazione piuttosto un vero giuoco di parole, che una filoso- fica analisi: e fattomi strada con questo previo esa- me filologico, entro a discorrere il tema propostomi. I ludi secolari furon così detti perchè si do- vean celebrare ogni centesimo anno, pel felice rin- novamento del secolo seguente; onde ne'nummi le leggende di Ludos seculares^ seculum novum. S. Ago- stino nel terzo libro de Civitate Dei (cap. 18) dice: Instaurati sunt ex aiictoritate lihrorum sibyllinorum ludi saeculares^ quorum celehritas inter centum annos fuerat instituta, felicioribusque temporibus memoria negligente perierat. A tal legge però, da cui tras- sero il nome, non furono costantemente soggetti; nel che altri opinano, che si facessero ogni cento dieci anni; ma, come in seguito diremo, neppur questo opinamento viene rinfrancato, avendo contrari i fat- 234 Letteratura li. I Decennali^ i Quinquennali aveano maggiore re- golarità, sì perchè lo spazio era più facile e breve, e poteansi più volte dal medesimo imperatore ce- lebrare. Ma i secolari , se si fossero sempre stabi- liti nell'anno centesimo, nessun augusto avrebbe po- tuto goderne più volte, e pochi una volta. È vero- simile perciò che ricorressero una volta nell'età del- l'uomo: e questa, concepita a guisa di periodo se- colare, tal nome applicasse a ciò che sì di raro av- viene. Onde Ovidio (1): lusserai et Phoeho dici, quo ieìnpore ludos Fecit^ quos aelas adspicit una scìnsi. Censori no nel libro De die natali definisce il secolo: Spatium vitae humanae longissimum., natali et morte defìnitmn., a sene dictuni. Eraclito rimprovera coloro che restringevano anche nell'età di trent'anni il se- colo ; laddove Beroso 1' estendea a 106 anni. Altri a 110, 120 e fino a 156 e 200 con Teopompo ed Ellanico. Ma riguardo a'romani, Valerio Anziate, M. Varrone, Tito Livio, Sesto Pompeo, Zosimo, s. Ago- stino assegnano 1' anno centesimo a' ludi secolari : al che manifestamente ripugna quanto dice Orazio che indica il centesimodecimo. Così nel carme secolare: Cerlus undenos decies per annos Orhis et cantus^ referatque ludos Ter die claro^ totiesque grata Nocte frequentes. {1} Trisl. 11. 2. 25. Antichi ludi secolari 235 A cui fanno eco i versi sibillini Ast ubi iam humanae lonyissima tempora vitae, Orbis agens annos^ referet cenlumque decemque^ Sis, romane^ memor licet alta oblivia tentent. In tanta varietà di sentenze Onofrio Panvinlo (1) dice doversi più tosto seguire l'autorità degli edit- ti di Augusto, di Orazio, di Acrone , della Sibilla e de'quindici commentatori, essendo libri pontificali, e determinarli all'anno centesimodecimo: De re enim pontificia lihentius pontifieales libros , quam alium quemquam^ sequi aequum visum est. Ma neppur que- sta opinione è sicura. L'interesse maggiore di questi ludi, per rappor- to alla storica verità , essendo 1' ordinamento cro- nologico, io col sussidio delle inscrizioni, de'num- mi , delle tavole Taffiniana e Moneliana, e di due antichissimi codici membranacei, uno de'quali è re- scrìtto o palimpsesto, non ancora consultati, così mi affaticai di tesserne la cronologia , almeno per via di approssimazione. I primi ludi si celebrarono nell' anno 245 di Roma sotto i consoli P. Valerio Poplicola e Tito Lucrezio. L Ciò rilevasi da Valerio Anziate, il quale pe- rò nomina i consoli L. Junio Bruto e P. Valerio. Ma i famigerati quindici commentatori fissano i pri- lla De Lutlis saecul. apud Grev. toni. IX, pag. 1073. 236 Letteratura mi ludi secolari all'anno 298 sotto i consoli M. Va- lerio e Sp. Virginio. IL I secondi corrisponderebbero, computandoli all'anno centesimo, al 305 di Iloma sotto i consoli L. Valerio Potilo e M. Orazio Barbato, giusta Va- lerio Anziate: ma seguendo i quindici si assegnano air anno 408 sotto Marco Valerio Corvino e Caio Petilio. IIL Manca il terzo ludo secolare nel 405 es- sendo stati ommessi dai consoli C. Marcio Rutilo e Tito Manlio Torquato. IV. Nel 505 si trovano celebrati dai consoli P. Claudio Pulcro e da C. Giunio Pullo. Ciò si deduce dall' Anziate e da Livio; ma dai quindici è notato l'anno 518 nel consolato di P. Cornelio Lentulo e di C. Licinio Varo. V. Nel 605 sotto i consoli L. Marco Censorino e Marco Manilio, secondo Anziate, Livio e Varrone: ma da Pisone censorio , Gneo Gellio e Cassio He- mina si notano all'anno 608 sotto Cornelio Lentu- lo e Lucio Mummio Acaico ; ma secondo i quin- dici commentatori all'anno 628 nel consolato di Mar- co Emilio Lepido e Lucio Aurelio Oreste. VI. Nel 705 non furono celebrati. VII. Nel 737 li celebrò Cesare Augusto, giu- sta il computo comune, essendo consoli Caio Fur- nio e Giunio Silano. Nel che apparisce, che non os- •servò né il centesimo, né il centesimodecimo anno. Vili. Neir800 si solennizzarono da Claudio Ce- sare imperatore sotto i consoli Claudio Cesare IV e Lucio Vitellio III. Il quale anno coincide al 47 del- l'era cristiana. Antichi ludi secolari 237 IX. Neir84l si celebrarono da Domiziano im- peratore, coincidendo nell'anno 88 dell'era cristiana, sotto il suo decimoquarlo consolato, e di Lucio Mi- nucio Rufo. X. Nel 900 di Roma, e 147 di Cristo, ricor- rendo il consolato di Largo e di Messalino , Anto- nino Pio non celebrò i secolari, che furono richia- mati nel 957 di Roma, e 204 di Cristo, dagli ina- peratori Settimio Severo e Antonino sotto i consoli Libone e Chilone. XL Nel 1000 di Roma, e 247 di Cristo, tra le due feste annuali dette Palilìa, nelle quali celebra- vasi il natale di Roma, si rinvengono i noni ed ul- timi ludi secolari sotto i due Filippi Augusti, de' quali esistono nella Casanatense cinque rari nummi co'seguenti rovesci: 1. Saeculmn novum^ tempio otta- stilo con il nume dentro. 2. Saeculares Aiigustorum^ con figura di cervo. Itém 3. Saeculares Augustorum, con cippo inscritto (cos. Ili): 4. Item Saeculares Au- gustorum^ con capra afìfricana. In quello di Otacilia milUarium saeculmn^ parimenti con cippo. Perciò questi ludi celebrati daTilippi nel millesimo di Ro- ma furono i più splendidi e magnifici, solennizzati con tanta pompa da quegli augusti per conciliarsi gli animi de'popoli afflitti per la morte di Gordiano. Né mai fu vista in Roma tanta copia e varietà di ani- mali, quanta se ne ammirò in cotali secolari. Lo stes- so Filippo col figlio Filippo, come ci narra Cassio- doro (1), scese nel circo massimo a pugnar colle bestie, delle quali volle improntare i suoi nummi a (1) Apiul Kache. Vtibo Ludus, pag. 1863. 238 Letteratura non peritura memoria; e nel campo Marzo per tre {viomi e tre notti , vigilando il popolo , celebrò i giuochi teatrali. Questi sono gli ultimi secolari: né dopo posso- no con sicurezza rinvenirsi, per quanto il Talfiuo si argomenti di fissarne anche la ricorrenza sotto l'im- perator Gallieno : e sotto V augusto Onorio crede che per l'ultima volta si facessero. Ma esser ciò una pura invenzione si dimostra: poiché lo stesso Zosimo storico greco, conte ed av- Tocato del fisco sotto l'imperator Teodosio il giovine nell'anno 410 dell'era cristiana, mena lamenti e que- rele, siccome scrittore pagano e acerbo contro i cri- stiani, perché i ludi secolari si fossero tralasciati sotto gli augusti Costantino e Licinio nel 1066 di Roma, e 313 di Cristo (1). Venim^ dice egli , Conslantino et Licinio iertium eonsulibus centum et deeeìn anno- rum iempus integriim aderat^ quo iam ludos consue- to more celehratos oportuit. Eo vero non observato ad infelicilalem illam res prolabi necesse fuit, quae hoc tempore nos nrget. Anzi, come osserva il Pagi, in queir anno medesimo Costantino Magno emanò la sua famosa constituzione a favore della Chiesa, che considerò sempre come superstiziose ed empie quelle ceremonie e feste secolari. Abbiamo parimenti un' altra irrefragabile testimonianza di ciò in Vittore, il quale lamentasi Neglectum morem^ quem Claudius at- que Philippus imperatores invexerant, omissosque lU' dos a nullo post Philippuni celehratos (2). Arroge (1) Zosimi hist. 1. 2 pag. 671 apud Rom. hist. script. Tom. Ili Francofurti 1690. (2) Apud Moiieliam, De iitriusq. Philip. Relig. p. 32. Romae 1741. Antichi ludi secolari 239 che l'imperatore Onorio abolì onninamente anche i ludi gladiatorii nel 1157 di Roma, o 404 di Cristo: Ludi gladiatorii omnino ab Honorio imperatore eo- dem anno aboliti fuerunt (1). Per la qual cosa dobbiamo emendare un' ine- sattezza del cardinal Baronio, che riprende aspra- mente 1' augusto Onorio, come se avesse accordata, la permissione ai romani di celebrar nel 404 i ludi secolari, indotto a ciò da una falsa applicazione di questi versi di Claudiano , che parlando di Onorio dice: .... fam flavescentia centum Messibus estivae detondent Gargara falees^ Spectatosqiie iterum nulli celebrantia ludos Circumflexa rapit centenus saecula consul. Ora se tai versi (su' quali mai dee fondarsi la gra- vità storica ) si svolgano letteralmente al centesimo console, si verrebbe a significare l'anno 304 cioè un secolo prima di Onorio: onde a tutt' altro poetica- mente alludono , come rilevasi nel citato palimpse- sto , che va segnando anno per anno minutamente le azioni degli imperatori e de' romani pontefici, e neppure un apice vi è indicato intorno a'supposti ludi secolari: anzi leggesi una patetica e commovente de- scrizione dell'invasione sanguinosa de' barbari , che non dà luogo neppure a pensare a pompe ed a spet- tacoli. Quindi difeso il pio augusto Onorio , molto più ci cale di respingere l'audacia dell' OfFmanno , che adottando la calunnia scagliata da Zosimo con- (1) lijid. 240 Letteratura tro il pontefice s. Innocenzo I, impudentemente af- ferma, che questo supremo gerarca abbia permesso i ludi secolari per placare i numi irritati: Impru- deus Innocetitius numiim genti um placavi permisit (1). Questa miserabile e putida asserzione di paludoso ingegno, che ricusa dissetarsi alle limpide fonti del vero, cade per se stessa, né merita alcuna seria con- futazione: mentre da quanto ahbiamo dimostrato evi- dentemente deducesi, i ludi secolari essersi affatto aboliti alcuni secoli avanti il pontificato di s. Inno- cenzo I; tanto più dopo la costituzione di Costan- tino dell'anno 325: Careni universim ea labe tempora magis auspicata principum ehristianorum: come os- servano lo Scaligero, il Pagi, il Moneglia. Lo stes- so protestante Cave, autore certamente non sospetto ove trattisi delle geste de' romani pontefici, scrive: Pennisisse Innocentium , ut imminente iam Romae Alarico , gentiles priscos ritus et sacrificia clam pe- ragerenl^ conficta est a Zosimo calumnia. Zosimo seri- ptori etnico opponi possunt Socrales et SozomenuSy qui Romae ohsidionem et ethnicovum molitiones nar- rantes^ rem piane tacent: id nequaquam facturi^ si crimen eiusmodi admisisset Innocentius^ quem sectae Novatianae odium ipsis invisum reddiderant (2). I sommi pontefici furono dunque quegli immortali be- nefattori del genere umano , che colla religione i principii miti dell' umanità fiorir fecero in Iloaa particolarmente, ove distrutta la idolatria e ogni pa- gana empietà ornarono di genuino alloro il vatica- (1) Vedi i l'asti della chiesa, lom. 7, pag. 610 in nota. (2) Ilist. Litt. Script. Eccles. p. 206. Antichi ludi secolari 241 tK) « il campidoglio; sostituirono alle pompe san- guinose del circo la sacra liturgia del tempio; a' clamorosi spettacoli terentini e circensi succeder fe- cero le pacifiche salmodie del coro; e a' ludi seco- lari, l'anno santo del Giubileo ; cioè inanellando la terra col cielo resero i secoli perituri del tempo beati primordi della eternità felice. Poiché sigili sempre i supremi speculatori dfilla casa d'Israele si opposero ognora a tutte le barbariche conseguenze della \ieta idolatria estinta. Né voglio tacere ciò che ben si attaglia al mio assunto. Narra Giovanni Vil- lani, come la città che si specchia sull'Arno, sedotta da ree massime, preparavasi l'anno 4804 a celebrare, a imitazione de' ludi secolari, alcune infernali rap- presentazioni sul fiume. Il sommo pontefice B. Be- nedetto XI pria con dolci inviti, poscia con severe minacce, cercò d'impedire quello sconcio. Ma quel- le minacce furono profezie: che l'indocile Firenze da- tasi pazzamente in preda agli spettacoli di Plutone e Proserpina ne riportò il meritato castigo. Cadde in mezzo a'iudi il ponte di legno, una moltitudine di gente si annegò nelle acque, si appiccò il fuoco ad alcune case , e la stridula fiamma rapidamente avvampando giunse a distruggere mille e settecento case (1). Difeso s. Innocenzo 1 da quella iniqua calun- nia, richiamo gli sparsi pensieri a brevi e lucidi trat- ti. I ludi secolari si sono celebrati nove volte, nu- merando le epoche non soggette a controversia , e comprendono lo spazio di 755. Nel quale calcolo si (1) Vedi Fasti della chiesa. Tom. 7, pag. 213. G.A.T.CXVIII. 10 245, Letteraturì suppone che il primo siasi instituito neiranno 30 di Servio Tullio, il quale secondo il computo varroniano corri^onde al 205 che differisce dalla sentenza di Fabio Pittore di cinque anni, numerando caso anni 200. Quindi da Poplicola all'augusto Filippo decor- sero sette secoli e mezzo. E chiaro, che nel cele- brarsi non si è osservato un ordine inalterabile né nel tempo, né nel modo , né nel motivo. Poiché la prima causa di essi si riferisce da Valerio Massimo a una terribile pestilenza, e a favolose apparizioni di spettri , per placar i quali si fecero sacrifici a Dite e Proserpina. Varrone vi aggiunge altre circo- stanze mitologiche : Cum multa portenta fierent^ et murus ac turrìs quae sunt intra portam collinam et esquillìnam de eoelo essent tacta, et ideo lihros syhil- linos decemviri adissent, renunciarunt uti Diti Patria et Proserpinae ludi terentini in campo Martio fie- renty et hostiae furvae iniìnolarentiir; utque ludi ceu' tesimo quoque anno fìerent (1). Quindi si unirono i voti onomastici per celebrare il natale di Roma, per auspicare il secolo novello, e per altri superstizio- si fini. Quando si fecero più regolarizzati, procedeasi con questo modo: s'inviavano degli araldi e preco- ni per tutto l'impero, ad annunziare i ludi secola- ri, che non eransi veduti pria, né poteano vedersi poi. Mentre biondeggiavano i campi di messe alcu- ni giorni avanti i quindicemviri distribuivano di soli uomini liberi da nobile suggesto faci, zolfo, bitu- me, grano, orzo e fave. Dopo segue a dir Zosimo: Ubi ludorum tempus appetiit^ quod tribus diebu$^ to- (t) Apud PitiscUm, pag. 494. Antichi ludi secolari 243 lìdemque noctibim in campo Martio faciunt ^ hosCiae ■prope ripam Tiheris ad Tereniiim diis conseerantur. His autem diis rem sacram faciunt^ videlicet lovi^ limoni^ Apollim\ Latonae, Dìanae , tum praeter hos Parcis, et Lucinis, et Cereri^ et Diti^ et Proserpine. Prima nocte spectaculorum^ ad horam secimdam, tri- bus aris in ripa fluminis constructis imperator ctim quindecim viris tres agnos caedit^ et aris sanguine l'espersis solidas vietimas adolet (1). Hoc vero lu- dorum saeeularimn triduo^ ludi celebrabantur in orniti- bus circis et theatris omnium genere , et sacrificia in templis omnibus fiehant^ venationes qtwque conficie- bantur. Basti questo brano per daici una idea di quelle strepitose solennità, nelle quali la stolta gen- tilità riponea ogni fiducia, quasiché per esse la Re- pubblica venisse preservata da infauste sventure. Iti- dem alia secundum traditum a Numine ritum fìebant^ quae sane quandiu peracta fuerunt^ nullum respu- blica romàna detrimentum caepit (2), A questi mi- seri aberramenti dell' uomo pagano opponiamo per conclusione l'aurea sentenza del profondo s. Agosti- no: His ludis maieslas divina non placatar^ quibus humana dignitas inquinatur (3). E Tertulliano, dopo di avere minutamente descritto e riprovato quanto si facea in tali centenari, esclama: Utinam ne in sae- eulo quidem simut cum illis moraremur: sed tamen in saecularibus separamur, quia seeulum Dei est, sae- cularia autem dioJbuli (4) ! (1) Apiul Monel. p. 17, disscrt. If. (2) Ibid. (3) S. Auf; t. 7, p. 88. (1) De spectac. pag. 79. $. 15. Liitellis Paris. 1675. 244 Autichi monumenti scrini tihurlini posseduti ed Uhi' strati dal dott. Stanislao Viola. ^e è cosa desiderabile per la certezza dei fatti sto- rici la esi^tenza e cognizione degli antichi monumen- ti scritti, non può non esser lodevole di adoperarsi, perchè il numero ne sia al più possibile copioso , e se ne abbia custodia gelosa, in particolare nel suo- lo, dove furono ritrovati. Conciossiachè se grande è l'utile che ne traggono e la storia universale dei popoli , e r archeologia , per quella del luogo del ritrovamento è grandissimo. Nudrito V animo mio di questo vero, n'è inteso fin dove può arrivare pos- sibiltà: e se a raggiugnerne lo scopo poca influen- za poterono avere le premure mie e la mia pazien^ za , d' altrui è la colpa ; il perchè pel poco amore delle cose antiche, e per la maledetta sete dell'oro, consta esserne accaduta per lo passato la presso- ché totale dispersione, in guisa che molti dei mar- mi tiburtini fanno ora bella mostra in più musei d'Italia: e, ciò che più spiace, in quelli ancora di terra straniera. Quei pochi marmi adunque, che mi fu dato di raccogliere per il fine di già annunciato al pubblico ( Tivoli nel decennio p. 9. ), io avviso di renderli di pubblica ragione, perchè anzi tempo se ne abbia l'utile e il diletto; per essere ammonito dai dotti, ove il mio metodo nello illustrarli man- casse ; da ultimo per pagare altro debito alla terra che m'ha dato i natali. Alcuni dei marmi si trove- ranno anche editi; però non senza difetti, e privi di Monumenti tiburtini 245 commenta, i quali per me si aramenderanno cogli originali, che ho sott' occhio: altri, ancorché non li abbia presso di me, come inediti e di recente ritro- vati , darolli in apposita appendice. Il primo della mia raccolta è il seguente: I. Feli CITATEI T. Caupo . . . , NIVS . T . F C. Aufcsti . . . . VS . C . F AED Felicitatei Lucius Cauponius Titi filius^ Cahis Aufestius Caii filius ^ Aediles. E un frammento di marmo che per caso io ri- tro'vava in un acervo di sassi tolti dal palazzo Boschi di Tivoli e rammontati in un pianterreno della casa del mio amico Pietro Petrucci, che gentilmente fa- cevamene dono. I supplementi li ho ritratti dalla co- pia che ne recavano i benemeriti Cabrai e del Re (1) che primi lo pubblicarono. Erravano non pertanto, alla linea terza , dove invece di Aufestio figlio di Caio^ scrivevano Aufestio figlio di Lucio. Veniva pub- blicato dappoi nella storia di Tivoli (2), in cui si . ha FELICITATI invece di FELICITATEI. Corret- tamente si legge presso il Sebastiani (3). La felicità delle città e dei popoli dipende, se- (t) Delle ville e moniimenli di Tivoli p. 127. (2) Viola, Storia di Tivoli, tom. !, p. 263. (3) Viaggio a Tivoli, p. 321. 24G Letteratura condo Aristotele (1), dall'uso di una perfetta virtù* intorno i beni esterni: ondechè ottima chiama quel- la citlà, che di cittadini si compone forniti di que- sta attitudine, la quale in tutte cose sia sempre la stessa tanto in tempo di guerra che di pace. In si- miglianti opportunità m'avviso che la felicità, che i greci chiamano éu^af/xcvJav, fu dichiarata, o alme- no creduta una divinità ; e perciò erigevansele e templi ed are; le si tributavano e constituivano i sa- crifici con le. sacre largizioni (2). Allora appunto s'imprimevano medaglie con la epigrafe FELICITAS BVBLICA, con donna sedente in soglio, col cadu- ceo alla destra , xttwxewv , segno della concordia e della pace , e con la cornucopia alla sinistra, xspocg A',a«X$£?«>j, simbolo della ubertàe dell'abbondanza (3). Come nella città signora del mondo il console suf- fetto M. Licinio Lucullo nell'anno 666 di Roma fa- ceva fabbricare il primo tempio alla Felicità (4), co- si anche nella città nostra ho per fermo, che sia avvenuto ai tempi di Cicerone, o in quel tarno, in cui a questa pretesa divinità FELICITATEI, s'in- nalzava una ecUeola^ mercè le cure dei tibutinì Ti" to Copomo e Cado AufesHo ^ i quali come edili st j occupavano dell'ornamento della città, e dielle ope» re pubbliche (5). (1) Tom. 3^Ub. Poli*, cap. 13. (2) Gyraldius, Syat. Deor. p. 36. (3) Ursallis, De IVot. Rom. Thes. ant. rom. Graev. Tom. XI, p. 71K, 13. (4) Gyraldus loco cit. (5) Pomponius e. 2. ff. de orig. iuris. Itemque ut essent, qui aidibìis praessent, in quibus omnia sancta sua plets deferebat-. duos tot plebt consti tuerunt: quos etiam aedilef appellaverunt. Monumenti tiburtini 247 t-Hr Che la gente Coponia o Cauponia fosse realmen- te tìburtina, non è a revocarsi in dubbio pei raar-' mi, e per i'autorità del magniloquente Tullio. Son due i marmi ritrovati nel nostro territorio^ e di tempo meno antico (forse l'augusteo) di quel- lo del frammento. L'uno fu rinvenuto nel 1640 fra le rovine del tempio di Ercole, e ci recava un Gneo- Coponio Epagato ^ che si era adoperato per erigere un simulacro alla Fortuna Pretoria sostenuto da pie- destallo, in cui era scritto: FORTVNAE .PRAETORIAE SACRVM L . MINVCIVS . NICEPHOR MAG HERCVL . AVG CN . COPONIVS . EPAGATVS CVRATOR . PRIMI . D . S . P CVLTORIBVS D . D Questo marmo con qualche diversità trovasi pub- blicato dal Marzi (1), dal Muratori (2), dal Volpi (3), e dal Viola (4). Il secondo è pur gentilizio di due gemelli concepito così; CAVPONIVS . L . F . GEMINVS CAVPONIA . L . F . GEMINA (1) St. di Tivoli p. 27 e 184. Invece di MINVCIVS ha MVG- CIVS: HERCVLI invece di HERCVL. (2) Muratori a pag. 83, 3 reca MVCIVS, e a pas. 1991, 10, MVC- CIVS. (3) Lai. Vet. de Tiburt., p. 2. p. B20, ha MVCIVS- ' . ■'. , (4) Viola St. di Tivoli, tom. I, p. 262, scrive MINVCIVS, cui mi sono attenuto, per altri marmi tiburtini che parbao anche del- la gente Minucia. 248 Letteratukà ritrovato^ secondo il Nieodemi^ nella strada denomi- nata S. Valerio, edito dal Muratori (1), dal Volpi (2), dai Cabrai e del Re (a), dal Viola (A), e dal Se- bastiani (5). A questi marmi arroge la deiiominazio- ne di un tratto di campo a destra dell'Attiene a co- sta del monte Ripoli denominato Covone^ limitrofo ai possedimenti della gente Rubellia: che gli scrittori patrii avvisano che colà era la villa della gente Coponia. Tullio , quel grande che di ogni cosa p^rlò magnificamente e con verità, correndo il 697 di Roma declamava nel libro degli Oratori l'elogio del tiburtino Lucio CossiniOj e vi aggiungea quello di un Tito Coponio: Quomodo ex eadem cìvitate (ti- burtina) Tìtus Coponius , civis item summa virtute et dignitate ( nepotes T. et C. Coponios nostis), da- mnato Caio Massone^ civis romanus faetus est (6). Né mi spiace di conghietturare che Tito Coponio del marmo esser possa quello nominato da Cicerone: il perchè con la identità del prenome e gentilizio , e con la mancanza del cognome^ che sa de' tempi del- la repubblica , coincide la considerazione , che co- me edile della terra natale esser doveva civis sum- ma virtute et dignitate, constando che la carica di edi/e, siccome la pretura, apparteneva al diritto ono- (1) Muratori, p. 1654, 3. - Tibure e schedis ambrosianii - In sehedii meis legitur GEMMA. (2) Op. cit. p. 380. (3) Op. cit. p. 126. (4) Op. cit. tona. . . . p. . . . {») Op. cit. p. 321. (6) Orat. prò Cornelio Balbo art. 23. Monuménti tibuktini 249' rario. Nei municipi gli edili, oltreché sopraintende- vano le fabbriche e fjli spettacoli, ufficio assai ri- schioso per la diilicollà di soddisfare il popolo, am- ministravano eziandio la giustizia: lus dicehaid^ co- me da Svetonio (I) si ha di quell'infelice Caio Al-r biizio Sito novarese: Quum aedilitate in patria fun- geretuì\ quum forte ius dieeret, ab iis^ cantra quos pronuntiahal ^ pedibus e tribunali detractus est. On- dechè la persona loro doveva essere dotta e di gran- de riputazione , dimodoché gli stessi imperatori ne invaghirono, ed Adriano infra di loro si sa da Spar- ziano (2), che in Hetruria praeturam egit; per la-^^ Una oppida dictator et AEDILIS et duumvir fuit.^i Ammesso questo pensiero, ardirò aggiugnere,. che Tito Coponio del nostro marmo tramutasse la «uà dimora da Tivoli alla città regina, di cui fu fat- to anche cittadino, civis ronianus factus esf, e che da lui originassero dappoi gli altri Coponi che vi si segnalarono nei tempi eziandio della republica e dell'impero. Al che sono indotto per l'autorità dello «tesso Cicerone, che ci reca un Marco Coponio ce- lebrato per una causa strepitosa di eredità, che cor- rendo l'anno G6 I egli ebbe con Marco Curio innan- zi i centumviri , nella quale , benché difeso dalla eloquenza e perizia in diritto di Quinto Scevola , contraddicente Lucio Crasso per Curio, soccombette. Non saprei accertare, per difetto di notizie, se que- sto Marco Coponio fosse figlio di Tito, oppure fra- tello. Né so arrendermi all'avviso dell'Orsini (3), che (1) De claris rhet. e. VI. (2) In Hadrian. (3) De Fam. Rom. ex anliq. mimism. p. 60. 250 Ibtteratura lo crede, ut credìtur^ padre di quel Caio Coponio^ cher UDitaraente al fratello Tito (come gpià abbiamo udi- to da Cicerone ) era nipote di Tito Coponio , e dei quali neU' orazione prò M. Caelio art. X (che nel mentovato anno 697 recitava prima delle anzidette prò Cornelio Balbo)^ si fa a dire essere adolescentes humanissimi et doctissimi , rectissìmis sludiis alque optimis artibus dediti, Titus Caiusque Coponii', per la ragione che manca la nota paternale, e non arreca arjjomenti di sorta a poterne persuadere. Dirò an- cora che se si avesse a seguire V autorità del Pi- ghio (1), tanto l'uno che l'altro avrebbero avuto per padre un Tito^ recandoci T. Coponius T. F. T. nepos^ C. Coponius T. F. T. nepos. Se però di Tito Coponio quasi nulla di positivo si è avuta la sfortu- na di poter narrare, non così ci avviene di Caia^ a cui favore ci si presentano non pochi Baonumenti antichi. Una moneta del 705, che imprimeva il Irium- Tiro Q. Sicinio. ci reca la epigrafe C. COPONIVS' PR. S. C. , e nel mezzo la clava di Ercole con la pelle di leone. Mi uniformo coli' Orsini (loc. cit. ),^ che avvisando Gaio Coponio esser nipote dell'anzi- detto Tito tiburtino , crede che la clava e la pelle di leone s' imprimessero per addimostrare che C. Coponio, dal senato romano favorito, originasse da Tivoli, come città consacrata alla divinità di Erco- le : ondechè Stabone ( lib. V ) la nominava Tìbur herculeum. La pretura di Caio, espressa nella mo- neta, viene confermata da una lettera che Gneo Pom- (1) Annales Roman, tom. 3, p. 430. Monumenti tibtirtini 251 lieo Magno proconsole indirizzava nel 704 ai consoli C. Marcello e Lucio Lentulo: Ego ad C. Lupum et C. Coponium praetores misi^ ut se nobis coniuiifjerent: et militum quod haberent^ ad nos deducerent (1). Fer-; veva in detta opportunità la grande lotta fra Pora- * peo e Cesare, l'uno per la repubblica , 1' altro so-tfg prafifatto dall'ambizione per rassolutismo. Il nostro Coponio seguiva il partito repubblicano. Cesare in*-, fatti, nella storia tramandataci di quel civile con-!, flitto, nel descrivere le forze marittime del suo com-V petitore , la cui somma del comando alFidata era- all'acerrimo suo nemico M. Bibulo, lo pone con C. Marcello a capo delle navi rodie: Praeerat^ dice egli,v.. aegiptiis navibus Pompeius filius'^ asiaticis D. Las'^ , lius et C. Tì'iarius ; syriacis C. Cassius ; rhodiis C.> Marcellm eum CAIO COPONIO^ lUmmiae atqne achar* , iae classi Scribaniiis Libo et M. Octavius ^ì). An*ir. che Cicerone^ trovandosi come repubblicano negli ac-V campamenti di Ponapeo, ci narra di esservisi incoa^?-. Irato con C. CopoQÌo: C. COPONIUM ad se venisse Dyrrachio^ eum praelorio imperio classi rhodiae prae"- esset , eum primis hominem prudentem atque d»i^ ctum (3). , ,«)>.;;f^V Morto Pompeo, il rovesciato e per meglio difé' il distrutto suo partito serviva di sgabello alla ditta- tura di Cesare; dalla cui uccisione sorgeva il cel^-V bre triumvirato, che fra i proscritti annoverava,, se-'i condo Appiano (4), anche il nostro C. COPONIO^ ",1* (1) Cicerone Ep. ad Alt. lib. 8. (2) De bel. civil. lib. HI, art V. (3) Cic. (le divin. lib. 1. art. 32. (4) De bello civili lib. 4. 252 Letteratdrjl aggiungendo però che uxorìs opera servatus est , quae pudica licei et casta., Antonio tamen pudicitia prostrata, vitam redemit coniugis. Succedeva questo fatto nell'anno 710 di Roma, anno menaorando, in cui la proscrizione colpiva anche il povero Cicero- ne, e nella città di Gaeta consta che per opera di Antonio triumviro fu morto. Dopo le mento- vate circostanze la storia non fa più menzione del nostro Caio Coponio. Plinio parla di un altro Co- ponio^f però senza note paternali e senza prenome ; era uno scultore di rinomanza, ed egli lo esalta per la bella opera di avere presso il teatro di Pompeo scolpite in marmo le quattordici nazioni: Idem et a Coponio XIV nationes^ quae sunt circa Pompei^ fa- ctas aucior est (4) : ed appariamo da Dione , che quando morì Augusto furono portate processional- mente ad ornato della funebre pompa (2). Di un Quinto Coponio lo stesso Plinio (3) ci fa menzione, che fu condannato de ambìtu , perchè a mezzo di donativi si era comperato un voto per mire ambi- ziose: Q. Coponium invenimus ambitus damnatum^ quia vini amphoram dedisset dono ei, cuius suffraga latio erat. Se però questi due Coponii originassero dagli anzidetti Titi^ Marco e Caio., non ci è dato di conoscerlo ; forse potrà esservi stata agnazione in ispecie col primo, che per le cose dette viveva ai tempi della moribonda repubblica. Non volendo ora intralasciare incolto 1' altro edile C. Aufestio, C. AVFESTIVS C. F, sul conto (1) Plinio Hist. XXXVI, cap. V. (2) Dione lib. 86. (3) Lib XXXV, cap. 12. MOI^UMKNTI TIBDRTINI 253 di lui potrò unicamente dire, che la gente Àufestia^ come la Coponia^ era pur tiburtina, tanto perchè la carica di edile ne richiedeva la cittadinanza, quan- to per il seguente marmo ritrovato in Tivoli , che ci recava un liberto medico di una Caia Aufestia, forse della famiglia del nostro edile , cognominato SOTER, 2ojT>7p, salvatore, che salute apportava: C . AVFESTIVS . 3 . L SOTER . MEDIC. IN . FR . P . XX IN . AGR . P . XXX. ritrovato nella via dell' Acquaregna, e pubblicato dai Cabrai e del Re (1), dal Sebastiani (2), dal Nib- by (3), e recentemente da me (4). II. D M S Polìjb . . IO VALERIASIA tico p . . RAEFEC VRBIS curato . . RI AEDIFICIORVM IS Valer . . IVS POLVBIVS PATER Filio dwkiSSIMO VIX ANN . I. MENS. II. die . . . B. XXV (1) Loc. cit. 128. (2) Op. cit. p. 322. (3) Dinlorni di Roma, loin. 3, p. 227. (4) Tivoli nel Decennio, p. %'d. 254 Letteratura ! Diìs Mnnibus Saerum^ Pobjhio Valeri Asiatico., Prae* fedo Urbis^ Curatori aedifìciorum ù, Valerius Poly- hius Pater^ Filio dulcissimo^ vixit annis ■. . . menti' bus duobus, diebus oigintiquinque. Pielra mancante nel lalo destro, alla palnno uno e once 7, lunga palmo 1 once 5. Esisteva questo frammento d'iscii/ione in casa Boschi unitamente ad altre molte, donde la ritraeva pel primo il Corsini, da poi il Sarti, dalle cui car- te l'aveva il Marini. Con poca fedeltà lo pubblicava il Corsini (1); il perchè alla seconda linea scriveva IO VALERIO con puntini, anziché VALERIASIA, onde ne traeva il cognome VALERIANVS di un prefetto di Roma. Alla quarta lasciava la S di più piccola forma, che il quadratario poneva con una virgola elevata orizzontalmente alla voce AEDIFI- CIORVM per averla senza meno dimenticata. Alla quinta la parola PATER , che nel marmo è pure di piccola forma ed anche un poco elevata dalla linea orizzontale, la scriveva senza distinguerla dalle altre voci. Il P. Sarti, da cui copiavalo il Marini (2), peccò anch'esso nel ritrarla, meno però del Corsini. Oltre i punti, aggiugnea il B al principio della se- conda e quinta linea, BIO e BIVS, benché alla se- conda si sottintenda: dopo AEDIFICIORVM aggiun- gea, con la stessa grandezza di lettere, IS per is di forma più piccola: la voce Pater^ non impicciolita, la situava all'estremità di una linea, che pei punti (1) Series Praefect. Urbis p. 387: Mannoris aihuc inediti frag- menluìTi Tibure rcperilur, in quo mutilum praefccti urbis (cioè IVS VALERIANVS) nomen obscrvatur. (2) Fralolli Arvali p. 346. / MONDMEKTI TIBURTINI 255 che vi pone pare la ritenesse corrosa, fra la quarta e quinta. Posciachè il Marini la ebbe veduta co' propri occhi;, emendava la copia del Sarti (1), ag- giugneudo la S dopo AEDIFICIORVM , interpre- tandola Servus, e scrivendo PATER con sigle pic- cole dopo POLYBIVS. Se però la S potesse indica- re Servus e non Sacrorum, conforme è nostro av- viso, sarà merito di disamina. intanto non è a dubitarsi, che il marmo ci dia notizia di un prefetto di Roma, che per le vedute del Marini si chiamava VALERIVS ASIATICVS , piaciuto al sommo Borghesi e al dotto Cardinali (2); ma ninno seppe dirci l'anno preciso della di lui pre- fettura, né noi siamo da tanto da dirne da vantag- gio. Dal Marini soltanto possiamo ritrarre qualche «entore sulla epoca approssimativa, la quale sembra non più antica del -^6, né più bassa della metà del secondo secolo dell'era volgare : mercechè correg- gendo , o scambiando egli nel seguente marmo la voce AVRELI in VALERI: DIS MANIBVS 1 D. AVRELI ASIATICI CONSVLIS DESIGNATI (3), dichiara spettare questo monumento (qualora sia sin- cero) a Valerio Asiatico genero di Vitellio impera- tore dell'anno 68, che mori appunto console desi- gnato: e di lui crede egli fosse liberto quel D. Va- lerio^ ricordato in una guasta lapida del Grutero (4). Manifesta per altrui detto , che il padre suo fosse (t) Op. cit. , p. 823. (2) Atti della soc. lett. Volsca Velit. Voi. 2, p. 56. (3) Marini, loc. cit. p. 345. (i) Thes. p. 478, 2. =. D. VALERIO ASIATICI LIBEllT [ SISSI limi VIRO COL EQ | ETT . . ^56 Letteratura Valerio Asiatico console per la seconda volta nell' anno 46, ed aggiunge che all' anno 93 fu console sufFetto M. Lollio Paulino con Valerio Asiatico Sa- turnino^ del cui consolato sembra aver parlato Pli- nio (1): diverso probabilmente da Valerio Asiatico^ console esso pure due volte, e la seconda nell'anno 125 con Tit. Aquilino, e lo deduce dalle iscrizioni di due tegoli (2). Ne'fasti antichi al detto auno 125 sono notati i soli cognomi de'consoli Asiatico e Aqui- lino^ e COSI parimente rilevansì in altri tegoli (3), con di più la marca del secondo consolato per il primo. Ora se la famiglia Valeria Asiatica si segnalava in questo periodo di tempo nei fasti consolari, non sarà improbabile che il figlio di Polibio del marmo si apparentasse con essa , e poscia diventasse pre- fetto di Roma PRAEFECtus VRBIS , abbracciando anche la cura degli edifici CVRATOR AEDIFICIO- RVM. Si sa che la prefettura urbana aveva la giu- risdizione molto vasta, tanto sotto il regime dei re, in assenza di loro, quanto durante la repubblica, quan- (1) V. il Torre de Col. For. p. 373. (2) Marini, loc. cit. pag. 346. Uno dei detti tegoli è il seguen- te : VAL ASIATII ET TIT AQVIL | EX PR VLP VLPIANI | COS. L'altro fu scavato nel campo Vaccino nel 1788, e non nomina che il solo primo console: VALER ASIATII | CN DOMITI TROPHIMI. Trovasi nel Boldetti (Osserv. sopra i cimit. p. 833), ma con qualche mancanza. (3) 11 Fabretti, Lap. 7, p. S04, 109. . . . ISTEPIIANI | ASIA- TICII ET AQViL COS DOL EX PRAED CAES N C AQVIL | AR | ASIATIC II ET AQVILI | COS. Altro tegolo edito dal Marini (loc. cit. p. 3i8) vi si uniforma: EX PR Q SER PVDT NARN | ASIATIC ET AQV I COS. Leggasi Ex praediis Quinti Servili Pudentis Nar- niensis, -asiatico et Aquilino Consulibus. Consoli del 123 dell'E. V. Monumenti tiburtini 257 do i consoli pei bisogni dello stato in ispecie di guerra si allontanavano da Roma, e molto più ciò avveniva da Augusto in poi, il quale per guider- donare i servigi del confidente suo C. Gilnio Mece- nate, dichiaravalo prefetto di Roma, posciachè udito lo avea senza meno suU'ampliazione dell'istituzione, che di fatto allargò grandemente , come ci attesta Dione Cassio (1): il perchè, rimanendo salva l'auto- rità del senato , dei pretori , dei consoli e di altre antiche magistrature, il prefetto di Roma 4ìsercitava il diritto ed il potere sopra ogni cittadino e le pro- vince circostanti fino al centesimo miglio da Ro- ma, o, come dice Cassiodoro (2), intra centesimam potestalem. Eran deferite al suo tribunale tutte le cause civili e criminali; ad esso si appellava dalle sentenze dei giudici singolari, pretori e presidi di tutte le province; nelle cose sacre giudicava invece del principe, e non altri che il principe potea rive- dere le sue sentenze: PRAEFECTVS VRBIS VIGE SAGRA IVDIGANS, siccome di Rufìo Antonio Agrip- nio Volusiano parla un marmo presso il Grutero (3), ed altri molti vi si uniformano citati dal Marini (4). La quale istituzione venne dipoi molto decurtata dal- l'imperatore Alessandro Severo, che stabiliva dover- si servire il prefetto di Roma del consiglio di quat- tordici cittadini: Fecit Romae et euratores urbis X/F, sed ex consularibus viris^ qiios audire urbana nego- Uà Clini praefecto urbis iiissit (5). (1) Lib. LII, e. 16 e 21. (2) Lib. VI. Fam. (3) Pag. 193, 10. (4) Arvali, p. 797 e seg. (5) Lampriclio in Alex. e. 33. G.A.T.CXVIII. n r 258 Letteratura. Dopo di che non sarà da trasandate la bizzar- ria di quella" is piccola con breve asta dopo la vo- ce AEDIFICIORVM. Il Marini è già detto che ia giudicò come lettera iniziale di Servus, ma a dire il mio avviso (che intendo sempre di manifestare con subordinazione , non essendo del mio poco vedere il replicare a un tant' uomo ) , non so come possa intromettersi un Servus in una epigrafe, del quale non ci reca il nome, ed ove i posti vacanti, per la rottura del marmo, sono tutti riempiuti. Sepolcrale è il marmo, e comprende chiaramente la memoria di un padre nomato Valerius Polybius verso di un figlio, filìo dulcissimo^ che portava il nome di Pobj- hìo Valerio Asiatico^ al quale a propria onoranza scol- pisce la carica che sostenne di prefetto di Roma. Se volesse riferirsi a Polybius pater, mentre disdirebbe alla storia e agli esempi , quella voce si sarebbe si- tuata sempre dopo il pater e non prima. Riferirla poi al figlio, che fu prefetto di Roma, ripugnerebbe sotto ogni rapporto. Fino a che adunque non ci si alleghino altri argomenti , mi pare di non potermi soscrivere all'opinione del Marini , che vi fosse un Servus. Se però volesse riferirsi alla voce, che la pre- cede, AEDIFICIORVM, m'avviso di non dir cosa strana che potesse significare singulorum., pel rifles- so che il prefetto di Roma aveva, siccome è detto, un'autorità molto eslesa: e perciò che con detta vo- ce vi si sia voluta comprendere la cura AEDIVM SACRARVM, di cui si hanno molti esempi: tutto- ché potrebbe anche dedursene la voce semplice sa- crorum., ossia aedificiorum sacrorum, per aedium sa- crarum, benché non ne abbia potuti ritrarre esempi Monumenti tiburtini 259 in alni raarnii. È di esperienza che una lettera che si trova in tal foggia scritta in fine o nel tnez^o dei marmi, provenga dalla spensieratezza degli scarpe l- lini, i quali non avendoli misurati, né disegnati pri- ma di cominciare l'impressione, jfupplivaHQ ai gom- messi difetti comunque loro pareva. Investigando adunque il vero che potesse avere in capo l'arU^jr? per volontà del padre di Valerio Asiaiico^ aggiungo conghietture a conghietlura. Innanzi della S ?ivvi un piccolo segno verticale 'S, nel quale mi par di ve- dere un I, Per ciò, se non ispiacesse, vorrei azzar- dare di concedere al nostro prefetto di Koma uno degli altri incarichi, che pur dai marmi fi ritrag- gono, hidicanti Sacra^ ovvero ludici S^^rprum- Sul- la qual cosa son certo di non trovarmi in pace con ogni archeologo ; perchè i marmi , che ci recano i prefetti, non danno loro sì seccamente l'incarico, siccome da rae si è notato, ma invece IVDEX SA- CRARVM COGNITIONVM , o VICE SACRA IV- DICANS (1): ondechè lascio la deci«ion^ alla prw denza e al giudizio dei dotti. I Se il nostro prefetto Polibio Valerio Asidtico originasse da Tivoli, non m'attento asserirlo; posso nullaostante assicurare che la gente Polibia non le è estranea , come non le è neppur la Valeria. In quanto alla Polibia avvi un marmo ritrovato nel suo territorio, votivo alla Fortuna Opifera per la salute di un Polibio Liberale: C. IVLIVS. POLIBI. DIVI | AVGVSTI LIBERTI. L | ANTHVS | SALTVM. FORTVNAE. OPIFERAE i RESTITVIT. PRO. SA- (1) Marini loc cit. p. 797. 260 Letteratura LVTE I POLIBlI. LIBERALIS. PATRIS (1). E forse a questo liberto di Augusto appartiene il se- guente sepolcrale ritrovato in Roma: DIS. MANI- BVS 1 POLYBI I CVBICVLARI (2). Ed il Cubicu- lario essendo destinato ad osservare ed invigilare la camera del padrone, anche in difesa della di lui per- sona, non disconvengo all'opinione del Grutero (3), che questi fosse il Polibio liberto , che con V altro liberto, chiamato Ilarione^ parte del testamento dell' imperatore Augusto scrisse, un anno e quattro mesi avanti ch'ei si morisse, sendo consoli Lucio Munazio Fianco (figliuolo di quel celebre Lucio di patria ti- burtino (4) ) e Caio Silio^ siccome si raccoglie dal biografo imperiale (5) : Testamento , L. Fianco C. Silio consulibuSy tertio nonas aprilis^ ante annum et quatuor menses^ quam decederet, factum ab eo, ac duobus codicibus^ partim ipsius^ partim libertorum Fobjbiì et Hilarionis manu scriptum. La Valeria poi è conosciuta più che la Polibia a mezzo anche dei tiburtini marmi, fra i molti dei quali giova di ri- ferire quelli che ci recano VALERIA ATHENAIS (6); VALERIAE DONATAE, marmo che ora sta nell' impluvio del casamento Serbucci una volta Sab- (1) Giulero, p. 7o, 9. Volpi Vet. Lat. lib. 18, cap. VI, p. 206. (2) Grillerò 1111, 2. . (3) Idem ivi: Polybius divi Augusti libertus est (si cita il ti- i)urtiuo raarmo), cuius manu Augusti testamentum scriptum. (4) V. la mia dissert. sulla vita e sulle geste di L. Munazio Fianco. G A. voi. CV. In conferma di questo consolato abbiamo un frammento di fasti trovato in Anzio nel 1846 pubblicato dal eh. prof. Matranga al n. 27 delle notizie del giorno dell'anno 1847. (3) Svetonio in Aug. 101. (6) Volpi, tom. X, par. I, p. 1S3. Mar^i, pag. 26 e seg. Croc- chiante p. 3. Monumenti tiburtini 261 bl (1); M. VALERIO ADMETO e VALERIA M. F. QVINTA, marmo ritrovato in Afìle, paese anti- camente soggetto alla giurisdizione di Tivoli (2) ; VALERIAE CHRISEIDI, marmo esistente nell'implu- vio del palazzo municipale, e che ne' tempi barbari servì per misurare le olive (3) ; VALERI METTI e METTI A VALERIA, marmo inedito presso di me, di cui nel num. XVII; VALentt MAXIMA, marmo ritrovato nel 1757 nel territorio di Vicovaro , ora immurato nel palazzo del conte Bolognetti barone del paese (4); da ultimo VALERIA POTITA (5), e YkLerio SVDLO . MILITI . LEG . I (6), marmi dis- sepoltì nel sepolcreto presso i Cunicoli. Per la esistenza dei rapportati marmi non sarà, disconveniente di affermare, che il mentovato pre- fetto potesse originare da Tivoli, III. TrlB . LPiTiclavius (1) Idem ioc. cit. i (2) Fabretti 410, 394. Volpi Ioc. cit. p. 667. (3) Volpi Ioc. cit. 667, reca CHRISIDI (4) Desantis, Villa d'Orazio, p. 53; Sebastiani, Viagg. a Tivoli, p. 383; Nibby, Dintorni di Roma, tom. 1, p. 259 e 379, e tom. 3, p. 489 e 713. (5) Viola, Cronaca dell'Aniene, parte 1, p. 130. Nibby Ioc cit. tom. 3, p. 213. Cardinali, Diplomi, p. 322. (6) Viola, Ioc. cit. p. 131. Kellemann, Hg. nell'addenda alla 262 Letteratura Qli«sto picciolo Frammenlo, che reca lettere di bella forma e di mezzana {]|randezza , sitai filanti » quelle dell'età di Traiatìo, fu ritrovato non so in qual parte del nostro suolo. Non ^spregiava di farne te- soro pel mio nascente museo, tanto per la speran- za di averne poscia i pezri mancanti , quanto per quel poco di sigle bra visibili . . IB . LAT . . che m'avviso dovessero giacere nel centro della iscrizio- ne, la qtìale parlai dovdva; certamente di personag- gio illustre. In détte sigle tói sembra di potere ri- trarre ftatacalHientie urt Tribuno Laticlavio^ Tribunus Laticittviust, ó'Lhtìolnvialis^ pei'sonàggio 6h* era in grado di diventare dappoi senatc^re romano: il per- chè costumava presso i romani, che i figli dfei se- natori o prima o dopo il vigintivirato ricevessero il tribunato militare coq 1' onore del Lato davo. Era poi indotto all'espresso supplimento pei molti esem- pli, che trovava nei marmi, nei quali ogni volta si è voluto scrivere quell'onore, il Tribunus si è scrit- to cosi TRIB. , come Laticlavim^ o Lati davi alis^ si è cominciala la voce con le sigle LAT. Da un mar- mo infatti ritrovato in Tarquinia nel 1829, scolpito dai larquinesi al loro palf ono Q . PETRONIO . ME- LIORI, fra i molti onori che di lui si vollero tra- mandare alla posterità, si annoverava ancor quello di TRIB . LATIGL . Tribuno Laticlavio (i). Questa carica si osserva per lo più in quei fi- gli di senatori, che si segnalavano nelle legioni ro- nota 177 scrive SVDIO per SVDLO. Cardinali loc. cit. p. 323. Mas- simo Cài-d., ÌUvei-slónè déll'JMiehè tóm. 2, p. 3^à, tn\tìi. 31, scrive- va parimente, conie il KellùriiKihh, SVDIO per SVDLO- (!) Carditìali, Diplomi «uni. 592. 1 Monumenti tiburtini 263 «ia»je, come rileviamo dai marmi che son per ri- ferire, ed i quali concorrono eziandio a convalidare il mentovato nostro supplemento. Un marmo difatti ritrovato nel Monte Celio di Roma ci reca le mol- tissime cariche che sostenne Lucio Mario, e che pa- rimente fu TRIB . LATICL . LEG . XXII . PRI- MIG . ITEM III ITALICAE . ÌIII VIARVM CV- RANDARVM (4); altro marmo di Spagna ci reca un M- Aeenìia Elvio Agrippa della tribù Galeria , che anche ebbe l'onore di TRIB . LATIGLA . SY- RIAE LEG . XVI . FLA . ITEM . TRIB . LA- TIGLA . BRITANNIAE LEG . XX . VAL . VICTRI- CIS (2) ; altro di Osimo ci dà un C. Giulio Oppio Clemente patrono della colonia di Osimo , la quale innalzandogli una statua scolpiva la epigrafe descri- vente fra i molti onori quello di tribuno della ple- be candidato dell' imperatore Antonino, di pretore candidato di lui, e di TRIB . LATICL . LEG . IIII . FL . FEL (3)v altro marmo dissepolto fra Avel- lino e Salerno ci parlava di un Tiberio Claudio Fron- tino, con la carica parimente di TRIB . LATICA- VIO . LEG . Ini . ITALICAE (4); e venendo alla mia Tivoli, fra i ruderi dell'antico palazzo senato- rio si ritrovava un marmo con la notizia del cele- bre C Popilio Caro Pedoive , che fu suo patrono e curatore di grandissimo esempio , PATRONO MV- NICIPI . CVRATORI . MAXIMI . EXEMPLI , e che dopo di aver percorsa la via di gradi onorati, (1) Muratori 397, 4. (2) Idem 665, 3. (3) Iilem 1103, 7. (''() Grulero p. 389, tì. 264 Letteratura e di quello di TR . LATICLAVIO . LEG Hi CYRENAICAE, pervenne alla maggior curule: on- deehè il senato e il popolo gli erigeva una statua (1), È storia che i senatori ornavano le loro toghe di un nodo di porpora o d' oro , in forma di testa di chiodo alquanto spazioso, donde originò la voce Latus davus: al contrario dei cavalieri, che parimen- te portavano la porpora; il nodo però sopra di essa era assai più piccolo di quello dei senatori, dal che fu chiamato angustus clavus : quindi Laioclavo il primo, angustidavo il secondo. L'autore di questa usanza non si conosce dalla storia. Non può rivocarsi in dubbio, che l'addottas- sero Siila e Giulio Cesare (2), e che questi ne fa- cesse indossare il suo adottivo ancor giovanetto, Ot- taviano^ siccome abbiamo dal biografo Svetonio: Su- menii virilem togam^ iimica lati davi r esula ex utra- que parte ad pedes deeidit (3) : il quale ci narra eziandio, che divenuto imperatore: Liberis senatorum, quo celerius reip. assuesecrent^ protinus vinlemtogam^ latum davum induere^ et curiae interesse permisit: mi' Utiamque auspicatitibiis^ non tnbunatum modo legio- num, sed et praefecturam alarum dedit: ac ne quis ex- pers castrorum esset^ binos plerumque latidavios prae- posuit singulis alis (4). La quale autorità oltreché ci conferma nell'avviso, che Latidavia non erat ipse (1) Grulero 457, 6. Marzi, St. Tib. p. SO. Viola, S». di Tivoli, toni. . . . p. . . . Sebastiani p. 190. (2) Babelonio in Svet. in Auj., e cita Macrob. lib. 1 , e, 6, e Gel- lio lib. 1, cap. 23. (3) In Augiislum, eap. 94. (4) Loc. cit. cap. 38. Monumenti tiburtini 265 ordo senatorhis^ sed gradus ad eum^ e che i figli dei senatori, avuta appena la toga virile all'anno 17, in- dossar dovessero il lato davo, e intervenire alla cu- ria, eran chiamati Laticlavi^ appunto perchè in spem senatoriae dignitatis latum clavum portahant (1), ci dà anche a conoscere che loro era conferito ora il tri- bunato delle legioni, ora la prefettura delle ale, ora araendue le cose. E di vero i personaggi notati nei riferiti marmi ce ne danno esempli, cui per Coro- nide aggiugneremo quel C. Ilario Druso che al tri- bunato laticlaviale univa la prefettura LEG . XIII. Geminae (2). La stessa cosa avveniva dei figli dei cavalieri per la summentovata ragione detti angusticlavi. Ce ne assicura il lodato biografo cesareo , quando ci narra, che il padre suo Svetonio Lene nell'ultimo fat- to d'armi dell'imperatore Ottone contro Vitellio mi- litava in qualità di tribuno angusticlavo della deci- ma terza legione: Inter fuit huic bello pater meus Sve- tonìns Lenis^ tertiae decimae legionis irihunus augii- sticlavus (3). Ed è a meravigliare come un tradut- tore di Svetonio spiegasse la detta voce angusticla- vius » il quale fu fatto senatore da Augusto » (4). Anche il favorito ed il confidente amico di Augu- sto C. Cilnio Mecenate^ proteggitore dei letterati, es- sendo della stirpe dei cavalieri romani , indossò la tunica angusticlavia: Maecenas non miuus Agrippa Cae- (1) Vedi il Lipsio ad Ann. Tac. lih. 13, p. 380. (2) Grulero, p. 180, 3. (3) Svet. ili Olho. Art. X. (4) V. la Bibl, degli scritt. Ialini. Ediz. deirAntonelli dell'an- no 184 4. 266 Letteratura sari carus^ sed mimis honoratus: quippe vixit angu- sto davo poene contentus. È ben da dolersi adunque che il nostro mar- mo in lai guisa frusto ci privi del nome di una per- sona senatoria, la quale oltre all'essere stato tribuno di legioni e dì ale delle falangi romane , dovè so- stenere senza dubitazione il patronato del municipio tiburtino, che per gratitudine gli avrà forse innalza- to anche un simulacro. IV. Prov . Agric . dioeceseCtS . CA¥daginien Proconsìilis . PaiKlS .SVI . Trib . mii . Leg . I Adiut . P . F . UFM . LEG . XI . €/ . P . F. item . Leg. XTm .gmi N MARTI Ae . vicine . Ifl. Viro Mone TALI . k . k . a . F . F . Patrono . Municipii Cura TO)n' . Fani . Hermlis . Vietoris Questo frammentò di grosso marmo fu ritrova- to, non ha molto, in costruzione di muro presso l'an- tico tempio di Ercole dal signor Camillo Sarace- ni, che gèttliliftetìle me ne fece un presente. Io l'ho già reso di pubblica ragione nel mio Decennio in Tivoli n pag. 280 e seg. , all'opportunità del com- mento fatto al celebre cippo di L. Minicio Natale i)UCidronio Vero^ dissepolto nella piazza di s. Andrea il 3 aprile del 1845: per cui m'avviso superflua cosa di aggiunger qui altre parole, riportandomi a quanto ne ho dotto nella citata mia operetta. Monumenti tibuRtini 26T V. .... TVCCIAK . . OMPEIO . MACRlNO P. Inventio Celso COS Forse - Matuceiae . . . M. Pompeio Macrino, P. Inventio Celso Consulibiis Frammento di travertino compatto, erto once 5^ divisò in due pezzi, alto palmi 2. 1 , lungo 4. 1 ; intero doveva arrivare ai palmi 9 circa. Ci offre la citata iscrizione di gratìdi lettere, nella prima linea di once 6, nella seconda di 5, e nella terza di quat- tro e mezzo. Il Volpi pel primo la pubblicava e la disse ri- trovata nel fondo Vitriano, oggi proprietà del duca Braschi: Supra sareophagum^ disiectum tmnen ac va- cuiim. in candido politissimo marmore grandioribus perpulchris in scripto lilteris saepius legimus: MATTVCIAE . L . F POMPEIO MACRINO COS (1) Dichìiara di averla spesso letta: ma dal confronto con l'originale sembra sempre male, giacché l'ordine del- le parole è ben diverso , ed appunto come da noi riportato. L'È in fine di TVCCIAE non è a conlro- (1) YeUis r.stiiim prof. lil). |S, o^p. X, p. ;$82. 268 Letteratura vertersi, come non è a negarsi la possibilità che la seguissero le lettere di paternità L. F. Non conve- niamo né disconveniamo alle due TT , perchè il marmo è rotto a mezzo la seconda T. Forse saran- no state due, per l'esempio che si ha nel Murato- ri (1): MATTVCCIAE . PATERNAE . EX . PAGO LICIRRO . VICO . NOVELLIS . . . L . MATV- CIVS . VARINVS . . . , benché possano moversi dei dubbi, sì perchè lo Spon (2) ed il Marini (3) recano MATVCCIAE, che per le due CC che si ri- levano nel sasso, e da esso neppur lette. Neppur si avvide che le parole POMPEIO MACRINO non era- no al mezzo la tavola; che innanzi di Pompeio dove- va stare altra lettera, come appresso Macrino altre voci; che il COS, sonsulibus^ giaceva sotto all' estre- mità di Macrino , e precisamente nel punto medio della tavola, la quale nel suo pieno come alla pri- ma linea richiedeva altra voce, forse il cognome di Matuecia^ cosi alla seconda il resto della lapida, sen- za dubitazione il nome dell' altro console, che pei fasti consolari io suppliva, P. luventio Celso^ senza tema di errare. A tante omissioni aggiugnea il peg- giore dei giudizi , col riputare intera la iscrizione , stimando che Pompeio Macrino fossero due consoli, e si maravigliava perchè non li vedea notati nei fasti, ondechè li caratterizzava suflfetti: Quos consitles ita coniunetos in tota consularium fastorum serie re- perire non fuit , linde inter suffectos atque omissos / (1) Muratori, p. 103'(, 3: ed aggiunge nella nota. Av-i Matuc- ciae scribendum est, aut MATTfCIfS^ ììosiremum plus arridct. (2) P. 191. (3j Jstriz. Aib. p. 112. Monumenti tiburtini 269 comunUcr reputati sunt. L' altro che la pubblicava fu il Muratori copiandola dal Volpi (1). Se però er- rava nella disposizione delle parole, perchè non l'eb- be sott' occhio, fu più accorto in quanto alla desi- gnazione dei consoli, discostandosi dal giudizio del Volpi. Il terzo è l'ab. Nevillas, di cui non ho vedu- ta l'opera. Però, a quanto ne dice il Sebastiani, pare che fosse di avviso che nel luogo dei ritrovamento esistesse il Sepulchrum Matucciae^ e non dissento che ciò sia un vero sogno. L'ultimo che la riportava è il lodato Sebastiani, il quale non so da chi la co- piasse così concepita: f ... MATVCCIA ^OMPEIO . MACRINO COS e ne deduciamo che neppur la vedesse. Forse l'avrà ritratta dal Nevillas, che perciò la pubblicava a spro- posito, e fu quindi portato in inganno col giudicar- la intera dalla parte manca, e mancante alla destra unicamente, ponendo il COS per finale della secon- da linea , in vece di porlo alla terza. Matuccia la ritenne in caso retto, quando la è del secondo : la scriveva con una sola T : al che non dissento. Di- chiarava poi un sogno l'avviso del Nevillas , senza però manifestarne la ragione: e quello che è poi ri- provevole, di non averci detto l' uso preciso della lapide, se sepolcrale, o storico, o di altra siasi spe- cie : metodo non adatto a screditare altrui , ma a rimanere screditato. (1) Muratori p. 333, 3. In auro tiburtim - ex ri. P. yulpio. *270 Letteratdrà Azzardando io però d'esternare il mio avviso , qualunque si sia, intorno l'uso del mentovato fram- mento, dirò, che considerata la lunghezza , altezza ed ertezza della pietra, fatti che allontanano 1' idea che potesse stare sopra od allato di un' urna sepol- crale; considerale le lettere di una dimensione piut- tosto grande che no, che vi dimostrano la necessità, ch'esservi dovea, di leggerle in una considerevole distanza; fatto riflesso al concetto della epigrafe, che presenta una semplicità dignitosa e grave, non con' lenendo per la forma e lunghezza del marmo, che il nome di Matitccìa , le note di sua paternità , e forse anche il cognome nella prima linea , e nelle altre 1' epoca del marmo col mezzo dei consoli , e non altro; mi sembra che la iscrizione potesse essere scolpita nella facciata di un grosso edificio, o nel mu- ro d'ingresso di un luogo di delizie di pertinenza della gente Matucoia. Questa gente, o si nomasse Matuccia^ o Mattu- €ia^ 0 Mattuccia^ è sconosciuta nelle storie, e quasi anche nei marmi. In Tivoli certamente non ve ne ha esempio. Se altrove avesse dimora, non altro ar» gomento si ha che la surriferita del Muratori , del Marini e dello Spon: Matueeìae Paternae et pago LU girro Vieo Novellis: ed un marmo ritrovato in Roma nella vìa flarainia di due colliberti, l' un de' quali , cioè CN. MATTVCIVS. CASTALIVS che faceva la tomba alla sua colliberta ANNEAE HEDISTAE (I): e ne inferiamo il giudizio, che in Roma in realtà do- vè esistere, e che ad essa per avventura apparteneva (1) Grutero p. l'à-i, 4. Monumenti tiburtini 271 l'edifìcio, cui appella il nostro frammenlo , la cui epoca non può fallire pei consoli che yì stavano scritti. E credo che possa non disapprovarsi il sup- plimento da me fattovi , e sul prenome Marcus in Pompeio Maerino^ e sul secondo console nella per- sona di P. luventio Celso^ concorrendovi tanto il fram- mento d'iscrizione ritrovato in Roma nel 1728 (1): GARIN VS AVGVSTOR. N. SFR. PEL | NYMPHAS POSVIT. PVTEVM INST . . . . | LEGIS. D. D. QVOD. DEDICATVM E . . . | M. POMPEIO MA- CRINO P IVVEN . . . I , quanto una figulina del museo Albano (2): M. POMPEIO. MAGRI P IVVEN GEL I GOS EX PR PLAVTI AQVIL | DO. Goi qua- li si sono volenterosi uniformati i fastografi, che ad una voce li adottarono per consoli del 164 dell'era volgare sotto l'impero dei due fiatelli Marco Aurelio Antonino e L. Elio Aurelio Vero. VI. SE ... . NIO . SENECE MIL . GL . PR RAVENNAS D . EGNATI VS . RVFVS HERENS . PO NENDVM . GV RAVIT e) Muratori 33ij, 6. (2) Idem 336, 1. 272 Letteratura Se . . . ìlio Senece Militi Classis Praetoriae Ra- vennas , Decìmus Egnatius Rufus herens ponendum curavit. Pietra di travertino alta pai. 3 onc. 11, larjja pal- mo 1 onc. 10. Fu ritrovata questa pietra nella tenuta di Galli, poco lungi dalla villa Adriana . una volta di pro- prietà del conte Briganti, ora del duca Braschi. Il Briganti me ne faceva gentil dono nell' aprile del •1847, ed io non posso non sapergliene veramen- te grado , perchè la iscrizione , che stimo inedita , quantunque non ci rechi una novità, nulladimeno è importante, come novello monumento che amplia il numero dei mìliti della classe pretoria ravennate. E da dolersi, che non possano con sicurezza ritrarsi né il prenome, né il nome di questo classiario cogno- minato Senece. Nulladimeno io m'avviso che le pri- me lettere SE sono l'avanzo del prenome, probabil- mente SExfo, e le altre NIO sono pur l'avanzo del nome , che con un quasi convincimento di animo supplisco C'a/pwrNIO. Ne scorgo il mio pensare pri- vo di fondamento, imperocché se la storia tace dei Calpurnii Senece., non così i monumenti scritti ritro- vati fra gli avanzi di antichità. Di vero, non pochi ce ne recano le collezioni, e mi ricorda di uno tro- vato in Osimo, che ci dava M. CALPVRNIVS SE- NEGA, la cui consorte SVCCONIA RVSTICA festeg- giava la dea Giunone , e ci reca eziandio eh' egli era stato prefetto della Flotta Pretoria Ravennate (1j; (1) Muratori p. 15, 7 a Auximi, E schedis mss. Martioli San- ctii: IVISONI REGINAE. M. CALPVRNIVS | M. F. GAL. SENECA. Monumenti tibdrtini 273 di altro trovato in Ispagna impresso ad onore (sic- come ho per fermo) dello stesso M. CALPVRNIO SENECAE, dal quale lo abbiamo prefetto non solo dell'anzidetta Flotta Pretoria Ravennate^ ma anche di quella di Miseno (1). I quali marmi m' avviso che parlino di quel Calpurnio^ di cui il diploma im- periale di Adriano del 15 settembre dell' anno 134 dell'era volgare, col quale concedeva l' imperatore per grazia Voìiesta dimissione dalla milizia^ la citta- dinanza romana, il diritto di connubio^ la legittima- zione della prole avuta durante la milizia, US QVI MILITAVERVNT IN CLASSE PRAETORIA | MI- SENENSI QVAE EST SVB CALPVRNIO SENE- CA (2), che è quanto dire sotto il comando e la prefettura di Calpurnio Seneca. Né si creda che io col racconciare il marmo tiburtino, si malamente frusto, pretenda di apparen- tare il nostro Seneca col mentovato illustre cittadi- no dell' Umbria o di altro luogo che si fosse (3) ; FABIVS. TVRPIO | SENTINA TIANVS. PRIMVS. PILVS | LEGIO- NIS. PRIMAE. ADIVTRICIS | PROCVRATOR. PROVINCIAE LVSI- TANIAE I ET VETTOMAE. PRAEFECTVS. CLASSIS | PRAETO- RIAE. RAVENNATIS. EX [ ARGENTEI. LIBRIS. CENTVM. D. D | SVCCONIA. C. FILIA. RVSTICA. VXOR , EPVLO.DATO. VTRIVSQ. SEXVS I DEDICAT. (1) Griitero p. 383. 7. — In Ispali nova in ambita d. Salva- toris : M . CALPVRNIO . M . F . GAL | SEiNECAE . FABIO . TVR- PIONI i SENTINATIANO | PRAEF . CLASSIS . PRAET . RAVEN | PROC . PROVINCIAE . LVSITAN | ET . VETTONIAE P.P. LEG. I I ADIVTRICIS ORDO . D . C . R . M ( cioè De CiiRionuM ) M . CALPVRMVS . SENECA i IIONORE . VSVS . IJIPENSAM ) RE- MISIT — (2) Vernaiza, Dipi, di Adr. sp. — Cardinali, Dipi. Imp. XVI. (3) Non disconvengo dal Muratori (p. 13), che l'agnoine SEN- G.A.T.CXVIIL 18 274 Letteratura dirò nuUadimeno che può aversi ^nande probabili- tà, ch'egli ne discendesse portandone eguah il nome e cognome. Il tempo in cui fu morto, e quando il suo ere- de gli facesse la tomba, non è cosa sì facile a pre- cisarsi. Però la non buona forma di lettere, ancor- ché impresse in sasso indigeno , la omissione del dittongo in SENECE per SENECAE, che corretta- mente l'abbiam veduto scritto nell'anzidetto marmo ritrovato in Ispagna del tempo di Adriano, e la ri- dondanza della N in HERENS per HERES, di cui si hanno più esempli nel Fabretti che reca PA- RIENS MEDIVS per PARIES MEDIVS (1), mi fan- no pensare che potesse appartenere al declinar del- l'impero: ondechè ne scaturisce che un bel tratto di TINATIANO originar possa dalla patria di il/. Calptirnio Seneca , SEINTIìSVM, Sentina città dell'Umbria: Firo huic illustri patria fu- isse videtur Sentinum Umbriae oppidum: is saltem ex ea cognomen, aut agnomen dcduxit- al che concorre anclie la consorte Succonia che festeggiava la regina Giunone in Osimo città del Piceno che confina coH'Umbria. Tuttochò io m'avvisi che la gente Calpurnia Seneca sia oriunda di Spagna, sì per la tribù Calerla, cui vedesi as- critta, ch'era propria di più città di quella nazione, che pei molti marmi ritrovati in Barcellona, Tarragona, Sagunto ed altrove. Grii- tero 382, a, 7, 8 e 9; 383, 1 e 7. 384, 1 e 2; e che da Roma colà si trasferisse per quello ricaviamo da Plutarco e Pesto presso il Si- gonio (de Nom. Rom. libet) che i Calpurnii originano da Calpo fi- glio di Numa: CALPVRNII E CALPO NVMAE FILIO. (1) Fabretti cap. 1, p. 13; num. 32. Come al declinar dell'im- pero ridondava la N per errore volgare e dei quadratari, così la si ometteva talvolta nei tempi precedenti: ed abbiamo infatti gli esempi di COSERVVS per CONSERVVS, CRESCES per CRESCENS, PVDES per PVDENS, CLEMES per CLEMENS e simili: su di che vedi lo stesso Fabretti p. 330. 33, 333. 497, e il Cori de Lib. Co- lumb. in Grevio p. 100 al 103. Monumenti tiburtini 215 tempo sia decorso fra il nostro soldato della flotta rav venate, e il prefetto delle mentovate due flotte di Ravenna e di Miseno. Dal rilevare nell'epitafìTio, che l'erede fosse De- cimo Egnazio Rufo^ ne deduco che il classiario non avesse eredi suoi , ed istituisse egli estraneo forse suo amico e commilitone nella flotta , niuna nota potendo aversi di parentado infra di loro. Nella gen- te Egnazia non è ignoto il cognome Rufus^ aven- dosi un Lucio Egnatio Pollione Rufo sotto V impe- ratore Antonino e Vero da un marmo di Pozzuolo (1), e un Tito Egnazio Rufo da altro di Cervetri (2). Si sa che Augusto istituì la flotta ravennate contemporaneamente alla misenate: Classem Miseni^ dice Svetonio, et alteram Ravennae ad tutelam su- peri et inferi maris eollocavit (3). In Vegezio (4) poi si hanno i particolari offici di esse flotte, i qua- li abbracciavano i punti marittimi i più importanti e che con Roma teneano in esatta corrispondenza ogni parte del mondo. Quando peraltro si la mise- senate che la ravennate flotta fossero denominate pretorie è stata cagione di controversia antiquaria (1) Grillerò 404, 2. (2) Muratori 698, 9. (3) Svet. in Aug. e. 49, 2. (4) Vegezio, De re milit. lib. IV, e. 31: Apud Misenum et Ra- vennam singulae legiones cum classibus stabant, ne longius a tutela urbis abscederent, et cum ratio poslulasset, sine mora, sine circuitu ad omnes mundi partes navigio pcrvenirent: nam miscnatium clas- sis Galliam, Ilispaniam, Maiiritaniam, Jfricam, Acgiplum, Sardi- niam atque Siciliam habebat in proximo. Classis autem ravenna- tium, Epiron, Macedoniam, Jchaiam, Propontidem, Pontum, Oricn- tem, Cretam, Cyprum petcre direcla navigatione consueverat. 276 Letteratura e non piccola fino a che non pubblicò il Vernazza i diplomi di Adriano, al cui avviso si ottenne re- ligiosamente il Cardinali (I): il quale ragionandovi sopra dichiarava false le sentenze del Torre (2), del- lo Spreti (3), del principe di Torremuzza (4) e del Rezzonico (5). Il Vernazza pertanto dai monumen- ti e dagli antichi scrittori raccolse le necessarie no- tizie a mezzo dei confronti, dai quali in siffatte cose scaturisce la verità, e fissava per canone che le iscri- zioni che ricordavano la flotta di Ravenna o di Mi- seno, senza l'aggiunto di pretoria, dovevansi stimare più antiche di quelle che detto aggiunto recavano. È infatti del 127 dell' E. V. il primo diploma di Adriano che parla della classe pretoria ravennate; e dirò col Cardinali ( loc. cit. ) esser certo che né essa ne la misenate dicevansi praetorie, quando Pompeo volle provvedere ai due mari d'Italia maximis clas- sihus firmissimisque praesidiis (6); né quando Au- gusto a Ravenna ed a Miseno collocava due flotte ne longius a tutela urbis ahsederent; né la misenate chiamavasi pretoria nell'anno 52 a tempi di Claudio; né la ravennate al 71 a' tempi di Vespasiano, come provano i diplomi raccolti da quel dotto archeo- logo (7). Se però al 103 alle menzionate flotte si desse il titolo di pretorie, siccome procedendo oltre (1) Dipi. Milit. p. 170 e seg. (2) Mon. vet. Antii, e. IV. (3) Inscr. Rav. Voi. 3, p. 52o. (4) Inscr. aut. di Palermo, p. 301. (5) Disquis. Plinianne, tom. I, p. 177. ((>) Cicero prò lege Manilìa. (7) Cardinali, Diplom. tav I e V. Monumenti tiburtini 277 col suo ragionare parve al mentovato Vernazza (loc. cit. p. 9 e segg.), ancorché valevolissimi non sia- no i di lui argomenti, pure non distandone la ve- rosimiglianza , sottoscrivo di buon grado alla sua opinione sino a che non la vegga distrutta da mo- numenti ora sconosciuti. La lapide nostra sarebbe stata senza meno di maggiore importanza , se il classiario Seneca , o il suo erede Egnazio Rufo , secondo il consueto , si fosse compiaciuto d'indicarci il nome della nave, a bordo della quale militò, tutte le volte questa non si fosse rinvenuta nell' elenco delle navi già note componenti della flotta, il quale con tanta precisio- ne veniva compilato dall'anzidetto Cardinali nei ci- tati diplomi (1). (1) Mi lusingo di non fare cosa spiacevole col riportare qui appresso i soli nomi delle navi senza citare i marmi scritti, donde quell'antiquario ritraevali: potendosi d'altra parte satisfare alla bra- ma col discorrere la dotta opera di luì, e quella del Gori sulle la- pidi della Toscana, tom. 3, p. 69 e segg. Opportunamente stimo di antidire, che le classi non che ogni specie di milizia soleva prendere d'ordinario il nome degl'impera- tori viventi. Le diverse classi che s'incontrano ricordate nei mar- mi scritti, oltre la ravennate e la misenate, sono la Flavia Mesica, la Siriaca, la Germanica P. F. , la Latina, la Britannica, la Panno- nica^ detta anche Flavia Pannonica, V Alessandrina, la Egiziana e «juella del Ponto. Alle navi eran soliti gli antichi (Cf. Marini Iscr. Alb. p. 131, e il Daquino Lex. Mil. in v. Navis) di porre alcun nome preso o dal- la deità tutelare del naviglio, o dai luoghi e dai popoli ai quali erano spedite, dagli ordini dei remi od anche dalla insegna, che nomina- vasi TrapaaTTfAQv (Fabretti, Col. Trai. p. 112; Ottone, De Tut. Viar. p. 104,106, 288). Della classe Ravennate, cui apparteneva il nostro Seneca, sono QVADUIREMI, 1 Providenlia, 2 Victoria, TRIREMI, 3 Augvsta, k 278 Letteratura Il ritrovamento del tumulo del nostro classia- rio nelle campagne di Tivoli non molto prossime, ai mari, mi fa conghietturare, o eh' egli fosse nel novero dei graziati dal suo imperatore dopo dì aver militato nella classe pretoria ravennate, venuto nel- le medesime a diporto, ovvero che quando egli fu morto faceva parte di qualche spedizione in questi dintorni. Di quale patria sarà egli stato ? La epigrafe nulla ci dice. Il P. Adami , spiegando 1' iscrizio- ne (1) d' un velerano della coorte VII , stabilisce che i soldati pretoriani per la maggior parte erano romani^ e che quando non lo erano , nei marmi si accennava la patria, come Domo Cortona, Domo Ar- Hercule, 5 Marte, 6 111 Minerva, 1 Ope, 8 Pace, 9 Ftrtute. LIBVR- NE, 10 Ammone. Della cKisse Misenalc: PENTERl o QVINQVEREMI, 1 Fictoriay 2 Daeica, 3 Fide, 4 Minerva, 5 Festa. TRIREMI, 6 JpoHine, 7 Ca- pricorno, 8 Concordia, 9 Cupidine, 10 Fide, 11 Fortuna, 12 Her- cule, 13 Iside, 14 luventute, 13 Mercurio, 16 Minerva, 17 Neptu- no, 18 Portico, 19 Pittate, 20 Providentia, 21 Benocyroti, 22 Sa- lamina, 23 Salute, 24 .Spe, 25 Tauro, 26 Ticride, 27 UrlUte. LI- BVRNE, 28 Armala, 29 Fide, 30 Nepiuno. Ecco i nomi delle altre navi, che rilevansi anche dai marmi, ben- ché non indichino a qiial floUa appartenessero. SESSERI (ossia di sei remi) 1 Ope. PENTERF, 2 Augusto: 3 QVADRIREMI Mercurio, , 4 Pado, 5 Virtute: 6 TRIREMI Are ( forse ARCIN. per Arsirne ), , 8 Armena, 9 Atilino, 10 Castore, 11 Cerere, 12 Constantia, 13 Cy- ;- pris, 14 Danae, 15 Galea, 16 love, 17 Marino, 18 T. rinnata, 19 '( Triumpho, 20 Fenere, 21 . . . nonri ( non si è supplita ancora la t; lacuna): 22 BIREMI Fortuna, 23 DICTROTA iHarte { dictrota per H dictrocta^ nave a due ordini di remi usata da' greci , come dalie j voci Sii xporsu ) , 24 LIBVRNE Clementia, 25 Clupeo, 26 Diaria, 27 J Grypi, 28 Nereide, 29 Firtute. || (1) T. VI, p. 777, anic. VIII, p. 12. Vedi la Stor. letler. .l'Ita- lia del 1755, voi. 14, p. 81. Monumenti tiburtini 279 retto, Domo Verrona ; per la qual teoria molto as- sennata argomento anche per la identità di ragione, che il nostro Seneca, non parlando il marmo della sua patria, esser doveva romano. Tuttoché non dis- sentirei ch'esser potesse tiburtino, tanto per l'altra teoria che pure abbiamo nella epigrafia , che nei marmi si ometteva la patria quando uno in essa moriva, quanto perchè il marmo stesso erasi ritro- vato nel suo territorio. Arroge poi che la gente Cal- furnia^ cui io avvisava appartenere il nostro Seneca^ non è estranea nei marmi tiburtini, e siane argo- mento quello dissepolto nella vigna Rondanini : D. M. CALPVRNIAE. L.F. j NICES | SER. CALPVR- NIVS I HELIVS I SCIPIONIS ORFITI | ATIAS | CONIVGI CARISSIMAE (1). VII. M . LVCRETIO M . L . OPTANDO SVLPICIA . LEZBIA CONIVNX Marmo Lucretio^ Marci liberto^ Optando^ Sulpicia Lezbia coniunx. È dell' altezza di palmo 1 — , largo palmo 1 onc. 4. Questo prezioso titoletto in marmo di Paro, di buonissimo carattere, ha sofferto delle speciose com- (1) Fahretti Tii, 318. Volpi de Tibiirt. in V. L. p 2, p. 674. 280 Letteratura binazioni. Fu pubblicato da più autori, ma in pez» zi, e niuno in conseguenza ha potuto supplirlo con verità e con le voci che oggi per fortuna per me vedesi scritto. E fu veramente il caso che in mio potere facesse pervenire le varie porzioni, che in di- verse mani prima erano divise. Due frammenti ne pubblicava per il primo il defonto mio genitore (1) come pertinenti a due diversi titoli: in uno si ave- va ... A. LEZBIA . . . IVNX : nell' altro M. LVe . . . M. L. 01 . . . SVLPIC . . . CON . . . Un frammento ne pubblicava l' autore dell' opera sulla diversione dell'Aniene, il cardinal Massimo (2). Quantunque spezzalo e rotto in tre parti che per me si comperavano, forma ora serie nella mia rac- colta: e conservandolo siccome gemma, così voglio dirne quel poco che mi cade in acconcio, in atte- stato di venerazione dei nomi Lucrezio e Lesbia ^ per noi carissimi, come lo sono oltremodo agli ama- tori della bella letteratura, che sa della preziosa an- tichità. Optando è il nome del liberto dì M. Lucrezia. Non è nuovo vedere i nomi terminanti in gerundi, benché non la sia cosa usitatissima. Mi ricorda al presente soltanto di quel M- Peiicius Amandus del Muratori (3). Apparteneva costui alla gente Lucre- zia, che originava dalla romana consolare e celeber- rima, che negli annali ci reca i cognomi dei Flavi, dei Galli, degli Ofelia, dei Trio e dei Vespillo, e la (1) Cronaca dell'Aniene, p. 129. (2) Tom. 2, p. 380, num. 2, (3) Murai., Mns. p. SJS, 4. Monumenti tiburtini 281 quale nella storia antica di Roma segnava la prima pagina illustre con la morte della casta e nobilissima matrona, che nel 244 dalla fondazione faceva disper- dere il mal governo dei re, e scaturire quella repub- blica che sopra le altre del mondo sempre primeg- giò. Essendo però tanti i Lucrezi che si segnalaro- no nella storia in particolare dei tempi repubblica- ni, non saprei a chi di loro fosse appartenuto, co- me servo , il nostro Optando. Un di costoro , che portava il prenome di Marco^ lo rinvengo nell'anno 538 di Roma Questore Urbano, e si crede che fosse il primo della famiglia plebea dei Lucrezi, e sem- bra che sia stato il padre di quei due Marco e Caio Lucrezi, dei quali l'uno fu tribuno della plebe nel 581, e l'altro fu pretore nell'anno appresso. Spin- gere però a tanta antichità l' età del marmo , non corrisponde né può confarsi con il carattere della iscrizione, che per essere molto studiato e bello, ci trasporta ai tempi pili bassi assai, e senza meno agli imperiali, non però oltre i traianei. Dal che ne de- rivo ancora che non potesse avere relazione nep- pure con r autore dell' immortai poema De rerum natura.) Lucrezio Caro, nato da una nobile famiglia romana : perchè , secondo la cronaca d' Eusebio , questo poeta nasceva l'anno di Roma 658, e l'an- no 702 fu morto. Il suo prenome poi era J«7o, e non Marco. Nulladimeno la distanza con l' età del marmo non essendo sì grande, è fra i possibili che il nostro Optando esser potesse di famiglia romana Originata da quella del poeta Lucrezio, 1 colombari di questa gente Lucrezia sono stati 282 Letteratura molti : il che dimostra essersi grandemente estesa. Ce ne persuadono i marmi ritrovati non solo in Ro- ma, ma nel Piceno, in Verona ed anche nelle Spa- gne. Il monumento del nostro liberto ci assicura che qualche dovizioso di essa gente anche in Ti- voli avesse dimora e possedimenti. Per il prenome Marco^ ch'egli porta, non mi credo disposto a so- stenere, che la libertà potesse averla avuta da quel Marco Lucrezio Campana figlio di altro Marco^ che fu flamine perpetuo dell'imperator Traiano, e che sotto il suo successore Adriano, FELICITATI. AV- GVSTi, aggiugnea un non so che negli spettacoli pubblici (1). La gente Sulpicia^ cui apparteneva Lesbia^ fu nobile e patrizia; dagli annali la vediamo cogli ono- randi cognomi , Camerini , Cornuti , Galbae . Galli, Lonyi, Maximi, Patercidi, Pelici, Praetextati, Rufì e Saverriones. È cosa non ordinaria di vedervi ritrat- to, come liberta, il nome di Lesbia, tanto venerata dal genio di Catullo. Io però m'avviso esserle ori- ginato questo nome dal luogo donde forse aveva avuto i natali, cioè da Aza§oq, Leshus, isola del ma- re egeo, e non già, siccome qualcuno pretendereb- be, che potesse essere la diletta del cantore verone- se. Non si ometta di osservare la Z per la S in LEZBIA , permutazione che nello stesso nome di Lesbia ritraggo in un marmo di Cordova, HEREN- NIAE Q. L. LEZBIAE (2), ed in altro romano: GN. (1) Gl'Utero, p. 101, 4. (2) lcU>m 941, 8. Monumenti tibdrtini 283 POMPEI LEZBI FAVSTO L (1): e sembra doversi ripetere non da ignoranza e sbadataggine dello scar- pellino, ma da pronuncia locale o del volgo d'allora. VIIL D. m. AVRELIAe Primitìvae Coniugi caris SIMAE VIVOs fecit Zusimianus Aug. Ub. NOMENCLATOr a censibiis sibi suisque LIBERTIS LIBERTABVs posterisque eorum H. M . H. n. s. Diis Manibus^ Aureliae Primiiivae coniugi ca- rissimae vivos fecit Zosimianus Augusti lihertus^ no- menclator a ccnsibus^ sibi suisque libertis libertabus posterisque eorum. Hoc monumentum heredein non sequitur. Questo frammento di lapida mi è stato favorito dal sig. Pietro Del Re, che lo ritrovava fra le molte dei sotterranei di casa Boschi. Si è per me supplito con r aiuto di una copia che rinveniva pubblicata dallo storico Marzi (Ist. Tib. lib. G, p. 181), e dal Volpi (Lat. Vet. de Tiburt. p. 2, p. 675), i quali la recavano con diverso ordine di parole, e trala- sciavano la parola LIBERTABVS. L'autografo, ben- ché frusto, che io posseggo, rettifica l'ordine delle voci, e ne rimenda i difetti originati senza meno da una non esatta copia. Anche il Grutero fp. 599, 5} (1) Muratori, 1534, 3. 284 Letteratura ed il Muratori (889, 5) la pubblicavano; si distac- cano parimente ambedue dal vero ordine delle pa- role; scrivono Zosimianus^ che piace pure a me, in- vece di Zozimianus ; aggiunjjono AVG. LIBERT , che non trovo né nel Marzi, né nel Volpi; ma con- siderata la grandezza della tavola e l'ufTicìo di Zo- simiano, pare convenientissimo V aggiunto di dette voci. Il Muratori omette la voce VIVOS , che ri- feriscono gli altri, e sta nell'autografo. Dicevo pia- cermi Io scambio dalla Z in S in Zosimianus , perchè colla Z non ho nei marmi trovati esempi ; al contrario con la S ve ne ha molti, tantopiù che come liberto di Augusto la stimo voce grecanica , derivata da Zodat[xo^^ nome che pur portava il ce- lebre filosofo di Alessandria, che scrisse la vita del divino Platone (Snida v. Z^Miaog): il qual nome non era certamente romano, vietandosi ai servi e liberti di trarre la denominazione loro personale da un nome romano (Svetonio in Nerone cap. 32. Visconti Quirino^ Man. Gah. p. 147); nondimeno m'avviso che la desinenza di Zosimiano potesse anche origi- nare da un primo padrone nominato Zosimo. Il pregio però del marmo non consiste nel ve- dere ritratta la gente Aurelia ( di cui parlerò nel marmo num. XXXXIII) nella consorte di Zosimia- ììo, ma nell'impiego ch'esercitava di Nomenclator a censibus, di cui pochi esempli abbiamo dall' antica epigrafia. Si sa che i liberti degli augusti , come delle auguste, sostennero cariche e dignità della più alta importanza (Visconti loc. cit. p. 94); che gli onoravano d'offici e presso di loro e presso dei ma- gistrati, come è quel Tabular iiis rationis patrimoni Monumenti tiburtini 285 caesaritm del Grutero (589. 8), quello Scriba ab epistulh lalinis dello stesso Grutero (577, 8), quel- lo Seriniarius ab epistulis presso il medesimo (1111, 10) , quel Dispenstitor ad eensus provinciae liigdu- nensìs del Doni (clas. 7, num. 174), da ultimo quel celebre liberto di Claudio, Narciso^ che in un me- tallo rinvenuto nelle vicinanze del paese della Co- lonna ci recava: Narcisi Ti. Claudi Britannici supra insulas (Visconti Fil. Aur., Atti d'Ardi. Rom. tom. 2, p. 357), ed in un tubo di piombo presso il Fabret- ti (p. 543) e Muratori (911, 1), Narcissi Aufr, Uh. ab epistulis. Fra gli offici minori dei liberti presso dei magistrati vi aveva il Nomenculator o Nomen- clator., 0'jo\ì.y.xoko''ioc,.^ cioè quegli che a memoria chia- mava ciascuno con la voce: e quindi le cause che 10 vincolavano all'adempimento del suo officio, pro- ducevano per il solito denominazione diversa, come Buccinator caXTrr/vjTvjg, trombetta , come sarebbero i volgarmente chiamati balivi.^ e quando, dopo il suo- no forse della trombetta, chiamava i nomi, era det- to Buccinator nominum., come di quel liberto di un marmo ritrovato in Roma presso la via salara (Gru- tero 1116, 4), L. Volusio. Urbano. Nomenclatori Prae- torio. Papias. Servus. Puhlicus Buccinator Nomiìium. 11 quale officio di Nomenclator non è già esclusivo del tempo dei cesari , perchè Cicerone ( Pro Mu- rena e. 3G) ne parlava nelle orazioni , e scrivendo al suo amico Attico (ad Att. IV, 1) dicea: Ad ur- bem ita veni., ut nemo ullius ordinis homo nomen- clatori notus fuerit , qui miìii obviam non venerit , praeter eos inimicos, quibus id ipsum non liceret aut dissimulare aut negare. E fu in uso anche ne'tera- 286 Letteratura pi posterbri (Svetonio in Aug. e. 19), e non solo nelle pubbliche e semipubbliche adunanze, ma an- che nelle private occorrenze. E credo che a questo appelli Plinio (liist. lib. 29, cap. 1) con quelle pa- role: Alìenis pedihus amhulamus , alienis oeulis co- gnoscimus^ aliena memoria salutamus^ aliena vivi- 1HUS opera. Alle quali verità, oltre le teorie, con- corrono eziandio i marmi, che sono monumenti ir- refragabili. I nomenclatori poi, se erano di neces- sità per la conoscenza esatta del numero dei citta- dini, non Io erano meno per la scrupolosa forma- zione del censo : perchè i romani per la legge antica di S'^.rvio Tullio (Liv. lib. IH, cap. 1 ) eran tenuti scrivere nelle tavole censorie, non solo i no- mi loro, delle consorti, dei figli e servi, ma anche i propri possedimenti , sì per sapere il numero di coloro ch'erano atti a portar le armi, e sì le ric- chezze rispettive, con le quali dovevansi sostenere le spese della guerra (Liv. XXXIX 44, Cicer. prò Fiacco e. 32) : dimodoché se qualcuno fosse stato renitente, e si ricusava di obbedire al prescritto del- la legge, era officio del nomenclatore di denunciar- lo ai censori, non già di chiamarlo in giudizio. Dal che ne è originata la denominazione di Nomenclator eensorius^ di cui abbiamo il seguente esempio nel Pignorio rde Servis col. 1219 presso il Poleni): L. VOLVSIÒ VRBANO NOMENCLATORI CENSO- RIO. E convengo col citato Pignorio, che trasferita negli imperatori la potestà censoria, fosse l'anzidet- to incaricato chiamato Nomenclator a censibus^ e ne reca il seguente marmo : DlIS MANIBVS 1 TL CLAYD. AVG. LIB. 1 THALETIS VINCIANI 1 Monumenti tiburtini 287 NOMENCLATORIS | A CENSIBVS j (loc. cit , col. 1220): al quale si uniforma il nostro Zosimiano che pur fu Nomenclutor a censibus^ il quale ancor vivo (VIVOS per VI\ VS) costruiva la tomba per se, pei suoi di famiglia, e per i liberti e loro discendenti. IX. D ^ M BOETHO EPITYNCHANV FRATRI Q KARIS FECIT Diis Manibus^ Boetho Epitynchanu fratrì carìs- simo fecit. Pietra alta palmo 1 onc. 1, larga p. 1, onc. 8. Trovata in Tivoli non saprei dove, perchè in- sieme con altre giaceva nei sotterranei Boschi. I due punti a guisa di cuori ci chiamano all'età de- gli Antonini , eh' è quanto dire verso la metà del secondo secolo, benché la voce EPITINCHANV co- me formola d'acclamazione fu comune ne'monumenti d'ogni genere dal terzo al quinto secolo, unita qual- che volta anche al nome della persona acclamata, come apprendiamo dal Visconti (1) , il quale in (1) Op. Hai. e Frane, lom. i, p. 216. Difatti la voce Epityn- chanu origina da sTit prop. , Ouvw, prospero, festino, e pjavw, hiu, l'ut. hiabo — ore aperto spirilum cmitto , che è un siQniHcare ad alta voce la pienezza del contento verso di (pialcuno ; al poslntto ac- clamarlo. 288 Letteratura proposito riferisce Epitynchanus^ o ab Epitynchano^ ovvero cimi Anchario^ cum Synchorusa e simili- Nel nostro marmo mi sembra indubbio, che Epitincanu sia il nome del fratello di Boeto: e convien dire che gli fosse applicato per qualche azione , che meri- tasse plauso. Però come voce grecanica ci assicura che fosse un servo , e si sa che i servi di Grecia portavano per lo più nomi significativi. Per questa mia congettura sono in forse di convenire nel pare- re di chi, per la mancanza della S in Epitynchanu^ crede di riconoscervi piuttosto il cognome di Boe- tho, che il nome del superstite fratello, e quindi che come tanti altri , l'epitaffio fosse anonimo dal lato del dedicante. Io, che ho il marmo avanti gli occhi, mi accorgo che pochissimo spazio rimaneva al qua- dratario : poteva nuUadimeno imprimervelo; se noi fece, non deve alterare l'intelligenza del concetto. La S si sarà lasciata, come in tanti altri marmi si veggono omesse , permutate , o raddoppiate le let- tere, o pel capriccio od ignoranza dello scarpellino, o di chi dettava l'epigrafe, o come avveniva per lo più per la pronuncia del volgo, siccome ho altrove accennato. In ogni modo se si volesse ritenere per cognome di Boetho, si sarebbe dovuto accordare col nome ch'era in caso terzo, e perciò non Epitynehanu ma Epitynchano doveva scriversi. Non vi sono mar- mi, per quanto io sappia, che in detta voce rechi- no la mentovata permutazione: che anzi rovistando- ne le collezioni , osserviamo : M. VLPIO EPITYN- CHANO (Grut. 1039, 6); A. SERVILIO EPITYN- CHANO (id. 1041, 5); L. ANTONIO EPITYNCNA- NO LICTOUI DEC?(Wae CVRIATIAE (id. 356, A); Monumenti tiburtini 289 Q. SVLPICIO EPITYNCHANO ( id. 827, 5 ) ^ TI. CLAVDIO EPITINCIIANO (Ib. 93G, 4). In conse- guenza quella voce doveva stare da se, e significa- re un individuo proprio. Vediamo d'altra parte an- che dagli stessi raarmi che la si è adoperata isola- tamente per indicare il nome di un servo o di un liherto, siccome m'avviso sia avvenuto nel caso no- stro. Fra i molti riferirò un dei servi di Livia Augu- sta, clVesercitava l'arte di orefice, EPITYNCHANVS AVKIFEX (Muratori 920, 7); altro servo addetto alla città di Milano, che pur chiamavasi EPITYN- CHANO M. M. SER. VICTIC | ARK (I) (id. 950, 8); altro della città di Firenze EPITYNCHANO MAT- TIA MARSILLA . . . (id. 1339, 12); altro tratto dal Muratori dai colombari romani, EPITYNCHANO DAPHNIS ET SIRI (id. 1616, 17); presso il Ma- rini (Fr. Arv. p. 690) una formula quasi direi co- dicillare espressa in un epitaffio : LIRERTIS. LI- BERTARVSQVE. SVIS. POSTERISQVE. EORVM. PRAETER. EPYTINCHANVM. ET FORTEM, e iì- nalmente quel liberto cubiculario di M. Aurelio Ce- sare, che si occupava del culto fontinale, come dal seguente marmo del Fabretti ( clas. VI, num. 5): EPITYNCHANVS. M. AVRELI CAES. LIB. ET. A. CVBICVLO. FONTIBVS | ET. NIMPHIS. SAN- CTISSIMIS. IIIVIVM ( leggi TITVLVM (2) ) EX VOTO RESTITVIT. Non è infrequente di vedere che voci di tal fatta diventino cognomi stabili di famiglie illustri, (1) Municlpii Mcdiolanensis Servo Ficticius Archarius (2) Stiipeiiila correzione fatta al FabreUi, Guasco, MalFei e Fog- gìni dai dottissimo Marini ne'suoi Arvali, p. 376. G.A.T.CXVIII. 19 290 Letteratura che si segQalaioiio in cariche rilevanti ; in fatti il Grutero (168, 7 ) ci reca un marmo ritrovato in Roma presso l'arco di Gallieno coli' epigrafe : FL. EVRYCLES FPITYNCHANVS VC PRAEF VRB. CONDITOR HVIVS FORI CVRAVIT. nel lato si- nistro : GOLL. X. KAL. FEBR. ARRIANO. ET. PAPO. COS. Il quale Epitincano prefetto di Roma, il Corsini (pref. di Roma p. 129) seguendo il Gru- tero, poneva all'anno 243 dell'E. V-. senz'avvertire a quello cui poneva mente a'tempi nostri l'esperienza del gran Borghesi, cioè che la dedicazione risguar- dava un vecchio marmo, e trascuratone l'abbrasa- mento, vi si scolpiva la detta iscrizione, che deter- mina esso Borghesi al 450, cui arrideva il Cardi- nali (Atti dell'Accad. Volsca voi. 2, p. 240). In quanto al nome del defunto, sarebbe follia di pensare a quel Boeto statuario famoso cartagine- se annoverato da Plinio (St. Nat. lib. 34, cap. 49, num. 23): Boetlii quamquam argenio meliorìs^ infans eximte anserem strangulal: portalo a cielo da Pau- sania (lib. 5, Eliac. prior.) per una sua opera che rappresentava un fanciullo sedente ai piedi di una Venere. Del qua! gruppo avrà senza meno voluto parlare il Visconti ( loc. cit. , p. 187), quando si faceva ad illustrare due gruppi d'imitazione tiovalì nel 1792 negli scavi di Roma vecchia. Il nome di Boeto giunse in Roma per le conquiste de'romani, perocché la derivazione sua è di Grecia; si sa che Soethus^ Bcij^cg, significa Adlulor (apud Aus. In. sac. lit. Esdra), tantoché da un marmo de'tempi di Au- gusto ritrovato nel celebre colombario di Livia (Gori, De lib. columb. Liviae Aug. num. 74) rileviamo uu Monumenti tiburt ini 29 1 M. LIVIVS BOETHVS MEDICVS: ed un frammea- to dello stesso colombario: M. Llvius C0ETH?«5 DE- Curio MEDIGOfwm. Anche Cicerone e Gelso parla- no di un famoso medico chiamato Boeto^ che scris- se de arte medica (Cic, De divin. lib. 2, 21; Celsus De medicina lib. V, cap. 21 ). Fu console del 1G4 quel Flavio Boeto di Tolemaide, di cui tante ^folte fa menzione Galeno , che racconta altresì di aver medicato un suo figli uolo di nome Cirillo (Cf. Ma- rini, F. A. p. 391). IVNIA - FECIT- SEX-RAECIO-M-L ALEXSANDRO ET-RAECIAE-SEX-L 'AINI lunìa fecit Sexto Raecio Marci liberto Alexsandro^ et Ra€ciae Sexti liberlae. Pietra alta palmo 1, onc. 6: larga pai. 2, onc 4. Anche questa pietra mi favoriva il Del Re ri' trovata fra i sassi dei sotterranei di casa Boschi. Ne ho trovata edita la iscrizione dal Muratori (1), ma (1) Ecco come la pubblicava il Muratori a p. i598, 3: Tibure in via pubiica. E schedis meis SEX . RAECIO . M . L ALEXANDRE ET . RAECIAE . SEX . L Ognun vede che mancano la prima e quinta linea, « che in ALEX- SANDRO si t; lasciala la S dopo la X. 292 Letteratura ohimè con quanti difetti ! quantunque asserisca aver- la egli stesso copiata. Dopo di lui la copiava e pub- blicava il Marini parimente in casa Boschi, però cor- retta, e solo vi lasciava l'ultima linea 'AINI (Frat- Arv. p. 271). E di sasso indigeno, travertino, che è indizio di molt' antichità. La forma delle lettere è di una bellezza maschia, che nella successione dell' arte stringe appunto l'anello tra l'ultimo secolo re- pubblicano ed il primo dell'impero, l'uno de'quali si andava raffinando e l' altro era già raffinato. Ha la cornice alquanto rozza, ma di una rozzezza naae- stosa. Il quadratario non aveva disegnato prima le parole, cosicché l'ultima linea dovette imprimerla a caratteri più piccoli sopra la cornice, che poscia il tempo ha resa inintelliggibile. Le lettere sono di gros- sezza eguale, non hanno le punte di freccia risul- tanti, o quei riccetti che si vedono in lapidi poste- riori di Tiberio, di Adriano, degli Antonini. Gli 0 sono rotondissimi, e non hanno nulla di ovale. Am- minicoli tutti per la sua antichità. Si ha in questa iscrizione un esempio della ridondanza della S in ALEXSANDRO liberto di M. Redo , di cui molti esempi recano i collettori (1). Non si ometta di (1) La divisata ridondanza non è allrimenti una cacografia (V. il Cardinali Iscr. Vel. p. 199) , come pretesero il Casauhono ( in Svet. Aug. cap. 88) e il Dausquio (de Orthogr.), ma dee dirsi col Fa- bretti ( Iscr. p. 38 ) antico modo di scrivere^ conforme appariamo da lapidi greche e romane del bonissimo tempo ; come VIXSIT , MAXSVMOS: SEHSTOS, AAEH2ANAP02, X2TNAPX02I, in Mont- faucon (Paleogr. p. 48)j Maffei (Miis. Ver. p. ■ilS), e Chandler (Iscr. part. 2, n. 2). Si consultino poi lo stesso Mafl'ei ( loc. cit. p. 406) , Carlo Patino ( Comment. ad tres inscr. graecas p. 247 ) , il iMarini (Arvali p. 268 e seg.), e il Corsini (Spieg. di due antiche iscr. gre- che p. 8). Monumenti tiburtini 293 osservare che Alessandro non è liberto di Sesto, ma di Marco Marci Liberto-, il che è patentemente una delle eccezioni alla regola generale delle manomes- sioni de' servi , mentre secondo la regola generale, avrebbe dovuto dirsi Sexto Raecio Sexti liberto Ale- xsanclro ; e questa eccezione origina o ex patroni permissu (Morcelli t. 1, p, 33, edit. Patav.), ovvero dall'adozione, che deve essere intervenuta fra Sesto Redo e Marco della medesima gente Recia. Si sa che il prenome concedevasi ai liberti indifferente- mente, o quello del padre naturale , o quello del- l' adottivo ( Zaccaria , Ist. lap. lib. 2 ) , cosic- ché o dall'uno o dall'altro potè aver preso Alessan- dro il prenome di Marco. Ne abbiamo 1' esempio presso rOderico (Silloge vet. inscr. p. 205): Q. TVR- PILIVS. A. L. NIGER , e P. TVRPILIVS. A. L. PRONIMVS: ed in specie nei liberti di Livia figliuo- la naturale di M. Livio Druso Claudiana, ai quali da quel tempo si era sempre dato il nome di Giulio^ da poi ora il prenome di Cmo, come Geìiio C. IVLI Augustae L. Prosepae (Fabretti 75, V), ora di Marco^ come M. IVLIVS AVGVSTAE. L. MENANDER (id. 58, 336); anzi in una medesima iscrizione (id. 438, 38) trovansi M. IVLIVS. AVG. L. (cioè Augustae Libertus) POSIDES; M. IVLIVS. AVG. L. HEBER, e C. IVLIVS. AVG. L. BATHYLLVS. La gente Recia^ di cui in Tivoli il nostro mar- mo è r unico che parli , è molto antica: e m'av- viso non essere improbabile, che originasse il nome dai Recii^ antichi popoli d'Italia, noverati da Stra- bone nel numero di quelli, il cui paese , dopoché furono soggiogati , fu chiamato Lazio. Nella stessa 294 Letteratura {j[uisa che la gente ACVLLA di un marmo pado- vano sembra aver preso il nome dalla città AchuUai parimente il cognome SALONA , da Salona ; co- me la PEDANA tiburtina da Pedum città latina fra Preneste e Tibur (Cf. la mia opera Tivoli nel de- cennio ec. p. 103); come i cognomi NYSA e PISI- DA, anziché il primo dal nome Nysa città dell'In- dia, vuoisi derivare da quello di Nysa della Caria più vicina alla Pisidia, donde origina l'altro cogno- me Pisida (Cf. Cavedoni, Bull, di Corr. Arch. del 1846, p. 105 e 107). Il più antico marmo, che io mi conosca, che faccia menzione della gente Recia, è del 646 di Roma, riportato dal Grutero (59, 8), ma meglio assai dal sommo Borghesi (presso il Fur- lanetto, Lap. Estensi p. 15 nota), come ritrovato in Capua, che ci reca un M. RAECIVS Q. F., il qua- le con altri undici senatorelli, che formavano il col- legio del Pago Giovio^ edificava un muro di un tem- pio MVRVM. AEDIFICANDVM. COIRAVERVNT. Il seguente è dell'epoca imperiale, ritrovato in Tar- racona, e parla eziandio di altro senatorello di quel municipio: M. RAECIO MONTANO aEVIRO. MAG. LAR. AVGVSTALI, cui costruiva il sepolcro il suo figliuolo C. RAECIVS IVLIANVS (Grutero 487, 5). Fra i tempi di questi due marmi pongo l'età del nostro, sul quale IVNIA, senza cognome e sen- za le note di paternità all'uso delle matrone romane antiche, in testimonianza dell' affezione sua ai due suoi colliberti inoprimeva una memoria. Monumenti tiburtini 295 XI. IVLIAE . NEBRIDI FELIX . TI . CLAVDII CAESARIS . AVGVSTI DISPENS . FABIANVS CONTVBERN . OPTVME ERGA . SE . MERITAE POSTERISQVE . EIVS . FECIT ìuliae Nebridi, Felix Tiberii Claudii Caesaris Au- gusti dispensator Fabianus^ contubernali optume er- ga se meritac, posterisque eius fecit. Pietra rotta in quattro pezzi: riunita, è alta pal- mi 2, onc. 1: larga palmi 2, onc. 8. Questa pietra, di color bianco, statuario, fu ri- trovata nel 1844, presso l'altra al nura. III dell'ap- pendice, nel territorio di Monticelli al colle Cerino quarto del Cupo in un fondo del sig. Arcangelo Maria Santarelli, che cortesemente me ne faceva do- no. La iscrizione è senza dubbio inedita. Niuna cu- riosità storica ci esibisce: nulladimeno per un qual- che incidente nato sulla retta interpretazione della medesima, ne dirò alcuna cosa a sola istruzione del- la gioventù, che si occupa di siffatte gemme. So- steneva taluno , che la voce FELIX fosse indecli- nabile e potesse perciò essere il cognome di IVLIAE. Però alla declinabilità di quella voce imivamo noi la sintassi della iscrizione intera, per il che incar- navamo il Felix al FABIANVS, ch'era il DISPEN- 296 Letteratura SATOR della famiglia Augusta Claudia, VOiy.ivc[Jiogf ch'è quanto dire il preposto delle ragioni domini- cali del dare ed avere. Altre subalterne quistioni furon mosse, se cioè si trattasse della famiglia degl'imperatori Claudio o Tiberio , da ultimo se quel DISPENSATOR fosse di condizione liberto o piuttosto servo. Se di leg- geri si superava la prima , perchè è cosa indub- bia che queir economo presiedeva alle dimestiche ragioni dell'imperator Claudio^ e non di Tiberio, ten- tennava io sull'altra, e dico il vero, che esaminata sulle prime la tesi propendeva che il nostro Felice Fabiano, come dispensatore, esser potesse liberto e non servo, anche per la sentenza del dotto Maffei: Dispensatores non semper servi, ut Fabrettus pugnat (M. V. p. GXXX). Sulle quali cose volli consultare il dottissimo Borghesi , il quale gentilissimo coni* è, da s. Marino il 12 maggio 1845 così mi ris- pondeva. « Nella iscrizione, che mi ha trascritta, non può » leggersi diversamente da quello che ha fatto: Fe- » lix Fabianus dispensator Tiberii Claiidii Caesaris » Augusti fecit luliae Nebridi contubernali optumae » meritae erga se posterisque eius. Ella mandi a ri- » cevere le sardelle dal maestrino del Donato chi » vuol costruire luliae feiix, che non fu mai inde- » clinabile, né si degni di rispondere ad antiquari » COSI dotti da ignorare che 1' imperatore Tiberio » dal dì in cui fu adottato da Augusto cessò di » chiamarsi Ti. Claudius Nero per assumere i nuo- » vi nomi di Ti. Julius Caesar. Non accorderò peral- » tro né meno a lei, che questo Felice dispensator Monumenti tibdrtini 297 » dell' imperator Claudio fosse un liberto , mentre » l'uflicio di dìspensator fu generalmente servile , » come ha largamente provato il Fabretti p. 293 , » e di tal condizione lo persuade anche l' aggiunto » FABIANVS, che indica il nome del primitivo pa- » drone, secondo che dallo stesso Fabretti si mo- )) stra a pag. 343. E potrebbe anzi dirsi che servo » si confessa da se medesimo, se fosse certo, com'è »> probabile, eh' egli sia lo stesso Felice ricordato » nella seguente lapide del Muratori p. 1010, 8: .. ORCHIVIAE I DAMALINI, corregga DAMALI- » DI I CONIVGI. SVAE. ET | SIBI FELIX CAE- .. SARIS I SER. FABIANVS FECIT ... La sentenza del gran cronologo si vede mara- vigliosamente confermata dalla stessa isci'izione nella^ parola CONTVBERNaZ/. Si sa che il matrimonio fra i servi e le serve non aveva la denominazione di coniiigiiun^ ma contiiberniuni: dimodoché l'impe- rator Costantino rescriveva ad un tal Patroclo: Cum AncilUs non potest esse coniugium , nam ex huius- modi contubernio servi naseunlur (L. 3 cod. de rn- cest. et inut. nupt. ). E siccome quando non esiste matrimonio legittimo, non può aver luogo violazio- ne di legge che lo risguarda , così non era a di- chiararsi adultero un servo lascivo; perciò gl'impe- ratori Diocleziano e Massimiano rescrive vano al sup- plicante Procolo: Servi^ oh violatum contubernium suum^ aduUerii crimine accusavi non possimi (e. 23, cod. ad Leg. lui. de Adult.). Ondeché conlubernales eran chiamate le mogli dei servi: E contubernale es- sendo designata Giulia Nebride del marmo tiburtino, seì'vo e non liberto era il suo marito Felice Fabia- 298 Letteratura no. Ed accogliendo 1' opinione del Borghesi anche nel lato di congettura, dirò avvisare, che Giulia del marmo dovè essere la seconda compagna contuber- nale di Fabiano-, che la prima gli fu morta in Ro- ma, come dal citato marmo del Muratori, e questa seconda nelle campagne circostanti dei monti corni- colani, dove fu ritrovata la iscrizione: perchè l'an- tecedente del Muratori ce lo dichiara semplice CAE- SARIS SERvus, e la recente tiburtina TI. CLAV- DII. CAESARIS. AVGVSTI. DISPENSATOR, ch'è quanto dire, che sotto gli auspici della seconda mo- glie avanzato aveva di grado coll'esser divenuto l'e- conomo della casa di Cesare. ( Sarà continualo ). 299 Introduzione allo studio della letteralma classica greca^ di Giuseppe Spezi. A SUA ECCELLENZA IL SIG. PRINCIPE D. BALDASSARE BONCOMPAGNL Eccellenza Questa introduzione allo studio della letteratura classica greca^ perchè sia bene accolta dal pubblico, ho voluto dedicare a, Vostra Eccellenza: essendo certo che il suo nome le procurerà quella stima , che da se sola non polirebbe meritarsi. Né di questo mio giu- dizio porterò inganno: poiché so quanto l'È. F., ris- plendendo di virtù e dottrina, riesca a grande or- namento della nobilissima sua casa , delle lettere e delle scienze. E coloro che si pregiano di conoscerla, tutti hanno di lei questa opinione^ e dicono com'ella abbia raccolto delV umana educazione quello che in ogni tempo, in ogni luogo e in tutte condizioni di vi- ta rende stimato un uomo., cioè la coltura della men- te e la bontà del cuore. Imperocché come Vessere il- luminato d'intelletto .f ma non buono di animo., o Vaver buono questo , ma povero ed ignorante quello , non mostra eccellente Vuomo\ così la sapienza accompa- gnata con la virtù è il vero ed il maggior pregio di lui, il più bello ed utile frutto della nostra civiltà. Ond'io confesso ingenuamente, signor Principe, che da 300 gran tempo soglio amare e stimar VE. V. non per le paterne sue dovizie^ o per Vantica nobiltà di san- gue, ma per conoscerla coltissima e tutto amore del- le lettere e delle scienze , e tanto poi di animo sa- via e gentile da essere veramente congiunta di vir- tù, come di parentado , con quel chiarissimo splen- dore di Roma e della Chiesa^ il sig. cardinal Lodo- vico principe Altieri. Che se la modestia di V. E. non mi ritenesse^ direi ancora che felicissimi que'tempi e quelle città , in cui di uomini tanto caldi amatori dé'buoni studi e delle virtù, siccome lei, fosse abbon- devolmente. Quanto migliore sarebbe il mondo, quanto più dolce 0 meno travagliato questo vivere civile , quanto bene maggiore uscirebbe dell'umana letteratu- ra! Adunque V. E. mi permetta che io coWoffenrle questo tenue lavoro, possa pure sfogare e discoprire in parte la stima ed affezion mia tenerissima verso di lei. Ella poi si degni di riceverlo con la mede- sima cortesia, onde già volle accogliere la mia tra- duzione e illustrazione dell'oratore Iseo, maestro di Demostene, e le altre mie fatiche intorno agli studi greci , del cui amore sì venni preso fin dalla pri- ma gioventù, che dipoi con vivo desiderio e con vo- lontà forte e costante gli ho seguitali. E pieno di rispetto ho l'onore di dichiararmi Di V. E. Roma 24 gennaio 1850. Vino Dmo e Obblmo servitore GIUSEPPE SPEZI II 301 INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA LEraRATURA CLASSICA GRECA 1. P rima di attendere allo studio di un'arte o di una scienza, si dee volger la naente a conoscere il fine di quello e i mezzi necessari a conseguirlo. Poiché noi avendo una chiara conoscenza dello scopo, a cui sono diretti i nostri studi, e delle vie che si hanno a tenere per aggiungervi, possiamo render ragione delle nostre occupazioni e formare veri giudizi sopra di esse ; ci mettiamo nel buon sentiero per venire al termine proposto; ci conduciamo più saviamente ad abbracciare questa o quella professione, secondo le diverse nostre attitudini all'una od all'altra, e ci invogliamo di seguitarla con amore e con profitto. Laonde a me pare che una delle cagioni, per cui molti si mostrano tanto schivi delle lettere e delle scienze, e raccolgono sì piccoli frutti delle loro ap- plicazioni, nasca eziandio dalla presente pedagogia, la quale non tiene i migliori modi d'insegnamento. E merito principale della pedagogia essendo nel me- todo d'indirizzare i giovani alla virtù ed alla dot- 30*2 Letteratura trina, educandoli saggiamente nel cuore e nell'in- telletto; credo che nell'educazione scientifica e let- teraria il miglior modo da seguire sia di mettere innanzi tratto nella mente degli studiosi un concet- to chiaro degli studi, e di porne sotto degli occhi loro il line e i mezzi più acconci ad ottenerlo, non che i legami , onde le buone arti , le lettere e le scienze tra di loro insieme vengano congiunte. Per tale guisa entrerebbe nell'animo de'giovani non solo la persuasione di attendere con lor vantaggio ai pro- pri studi, ma l'amore e il desiderio di questi. Nel che mi sembra essere riposto il vero pregio della pedagogia, sì poco studiata e conosciuta da molti che intendono ad ammaestrare degli umani studi la gioventù. Imperocché a bene e utilmente insegnare le lettere e le scienze , non si richiede solo una profonda dottrina di esse , ma è duopo di saperla comunicare altrui con si bello, chiaro e distinto modo, che il giovane studiante si volga con piace- re e profitto ad appararle. Per la qual cosa chiun- que professi d'insegnare con la voce o con gli scrit- ti le lettere e le scienze, affine di mantenere e pro- muovere col diritto uso di quelle l'umana civiltà, dee por mente a questo obbietto principale della peda- gogia, se non vuol render vana, o di picciolo frut- to, la più saggia e degna occupazione dell'uomo. Inoltre quando noi conosciamo chiaramente lo scopo de'nostri studi, le vie necessarie che vi me- nano, ed i legami onde ciascuno studio è stretto con gli altri, intendiamo come tutti cooperino con mezzi diversi al benessere degli uomini, al loro incivilimento ed alla pubblica sapienza e virtù ci- Letteratura classica greca 303 vile, morale e letteraria. Il che arreca piacere vi- •vìssimo ad uno studioso; sapendo e(jli come anche le sue nobili fatiche procurino a conservare ed ac- tjrescere questo vivere civile: e cessa le inutili e ozio- se gare di tanti uomini su la maggiore o minore im- portanza di loro professioni. Imperocché tutti gli stu- di liberali delle buone arti, delle lettere e delle scien- ze si legano tra loro di un vincolo comune , e si porgono insiem la mano per un vicendevole so- stegno ed oroamento nella esposizione e applicazio- ne de' grandi principii in tutte le opere e in tutti i pensamenti nostri. Per il che essendo la coltura uma- na conservata e promossa dai diversi studi di quel- le , si debbe esser grato a ciascuna professione li- berale del pubblico bene e della civile prosperità e sapienza. Che sarebbe invero cosa stolta che il me- dico od il giureconsulto, spregiando il filologo e il matematico, dicesser loro: La mia arte e la profes- .sion mia va di pregio e utilità innanzi alla vostra: non ricordando essi che senza lo studio ed il buon uso della lingua, della rettorica e di quelle scienze, dove è grandissimo il costume del ragionare , non sarebber venuti eccellenti nell'arte e professione lo- ro. Conciossiachè tutto il sapere umano è come uà immenso e vaghissimo edificio, la cui stabilità e bel- lezza muove dalle varie sue parti congiunte insieme, e non da una solamente. Questi adunque essendo i vantaggi che si trag- gono da una chiara conoscenza degli studi e del loro fine, dei mezzi meglio atti a conseguirlo e dei rapporti, onde uno studio con gli altri è collegato; stimo che in ogni ottimo metodo d' insegnamento 304 Letteratura delle buone arti e delle scienze si debba mettere in- nanzi a tutto quella cognizione. Il che poi si vuol fare singolarmente in quegli studi, de' quali o per ignoranza che se ne porti, o per negligenza in cui si giacciono, si hanno falsi concetti: ed il tor via dal- le menti degli uomini alcuni errori, non solo fa ri- tornare in onore certe umane professioni, ma ezian- dio richiama la giustizia e la verità nelle lodi e ne' giudizi nostri. Il perchè spero che tale introduzione allo studio della letteratura classica greca potrà riu- scire a questa utilità , che cioè facendo conoscere Io scopo, a cui quello è diretto, e i mezzi necessari ad ottenerlo, non che il congiungimento di esso stu- dio con tutti gli altri, ecciterà vieppiù a coltivarlo con amore coloro, i quali vi han posto mano, e ne metterà il desiderio in quelli, che sono più vogliosi delle lettere e delle scienze; comprendendo gli uni e gli altri la sua importanza in un corso regolare e compiuto di umana educazione. 2. La conoscenza del vero, del bello e del buono è l'oggetto principale e più degno di tutti gli uma- ni studi. Alla qual cognizione 1' uomo viene sola- mente per lo sviluppo ed esercizio delle facoltà sue, come r intelligenza, la memoria e l' immaginativa. Per il che uno studio che miri a svolgere e porre in atto le potenze dell'anima umana, affinchè si pro- muovano le naturali disposizioni alla verità, alla vir- tù ed alla bellezza, procura all'uomo la più saggia e intera sua educazione. Inoltre gli uomini espri- Letteratura classica greca 305 mono con due forme tutti gli affetti, i pensieri ed i ritrovati loro, e con esse espongono eziandio il bello, il vero ed il buono ; cioè , con la poesia e con la fìlosotìa. Le quali, come diceva un grande filosofo del nostro secolo, Giacomo Leopardi, Sono le due parti più nobili e faticose ad acquistare.) più straordinarie e stupende dell'arte e della scienza umana. Impeioc- chè esse appartengono all'immaginativa ed all'intel- letto, che sono facoltà principali nelle invenzioni e creazioni umane : la poesia, come madre dell' elo- quenza e delle arti belle; la filosofia, come genitri- ce della scienza universale. Ma dacché gli uomini attesero alla poesia ed alla filosofia, e ad esprimere con esse tutti sentimenti dell'animo, tutti concetti e ritrovati della mente , furono sempre risguardati i poeti, gli oratori, gli storici ed i filosofi dell'antica Grecia come esempi più perfetti e insuperabili nell' espressione ed esposizione della bellezza, della veri- tà e della virtù. Conciossiachè gli antichi greci, sic- come Omero, Pindaro, Sofocle, Isocrate, Demostene, Erodoto, Tucidide, Senofonte, Platone, un Crisosto- mo, un Basilio, un Nazianzeno, un Cirillo e gli al- tri cosiffatti, coltivaron per modo la poesia, 1' elo- quenza, la storia e la morale filosofia, che lasciaro- no quelle immortali opere, state in ogni età la ma- raviglia, r amore e lo studio de' più alti ingegni e degli animi più gentili e virtuosi, e da essi imitate ed invidiate, non però vinte o superate. Laonde il vero, il bello ed il buono essendo espresso e dipin- to con le più chiare , native e profonde immagini nelle opere degli antichi scrittori greci, queste con- tengono veramente i semi più fecondi della migliore G.A.T.CXVin. 20 306 Letteratura nostra coltura intellettuale, estetica e morale. Adun- que lo studio della letteratura classica greca si dee riguardare come uno sviluppo ed esercizio delle po- tenze e facoltà dell'anima umana, per ravvivare ed accrescere le naturali nostre disposizioni alla bel- lezza, alla verità ed alla virtù, e per renderci meglio atti e sicuri nel discorrere e nello scrivere a bene giudicare, conoscere ed imitare le più eccellenti ope- re de'poeti e degli oratori, degli storici e de'filosofi nei tre sommi fini del bello, del vero e del buono. Ecco il perchè in ogni tempo più colto e pres- so ogni popolo meglio ingentilito furono in grande estimazione le opere degli antichi scrittori greci: per guisa che il maggiore od il minor pregio e studio di quelle ha reso più o meno civili e dotti i secoli dell'umana storia. Poiché quando volse in basso l'u- mano incivilimento, e sopraggiunse la barbarie ne' secoli di mezzo, era grande e universale dimenti- canza di quella classica lingua: e allorché risorse la moderna coltura prima in Italia nel decimoquarto e decimoquinto secolo e poscia nel rimanente di Europa, tornarono in vita i morti studi della greca letCeratura. Quindi gl'ingegni, che più risplendono nella storia delle scienze e delle lettere, comincia- rono i loro studi dall'imparare il greco; ed ebbero mai sempre le greche lettere come il più caro e de- gno loro trattenimento. Di che fanno fede i due se- coli più illuminati e famosi della storia scientifica e letteraria, il decimoquinto e il decimosesto; nel qual tempo era comune opinione che a meritare il nome di letterato o di scienziato abbisognava di essere bene addentro negli studi greci. Di ciò fanno pure i Letteratura classica greca 307 chiara testimonianza i più saggi e antichi metodi di pubblica educazione letteraria, i quali raoveano dal- lo studio della greca favella. E quegli che dopo la morte di Costanzo tenne solo l'impero nel trecento sessantuno dell'era volgare, l'apostata Giuliano, non ebbe altro in mente con quel suo giuramento - Per solem mihi clarlssimum tion amplius feram graeeis disciplinis institui maxime impium genus ehristiano- mm , se non di tor via con essi studi il sapere e l'educazione migliore delle menti umane. Però della civiltà e sapienza, procacciata dagli studi greci, la pruova più manifesta è certo quella de'romani an- tichi, i quali seguendo l'orme degli cileni, vennero a tanta celebrit«ì di lettere, e di scienze. Impercioc- ché essi ne'primi cinque secoli di Roma attesero uni- camente alle armi ed alla forma di lor governo; e dentro a quel tempo non aj)pare vestigio di sapien- za scientifica o letteraria : e solo nel principio del sesto secolo si diedero a coltivare gli umani studi. Infatti Svetonio nella sua opera degl'illustri gram- matici parlando di Livio Andronico e di Ennio, che fiorivano nel sesto secolo di Roma, dice che - Graece interpreiabantur ; cioè esponevano in greco i più ec- cellenti autori greci ad alquanti cittadini romani più desiderosi di apprendere le umane lettere. Né qui è da tacere quello che osservò il dottissimo pro- fessore in Berlino Augusto Volfìo , che cioè delle mille e cento opere greche conservate (non com- preso da lui alcuno scrittor sacro ed ecclesiastico), quattrocento cinquanta sono avanti all'età di Livio Andronico, 'I più antico scrittore romano. Quindi il primo genere di letteratura coltivalo dai romani au" 308 Letteratura lichi, siccome da ogni altro popolo, la poesia, co- luìnciò ad essere un'imitazione di quella de' greci: essendoché allora i tragici ed i comici recavan dal greco in latino le migliori tragedie e comedie gre- che. Dipoi i due greci Panezio e Polibio, l'uno Fi- losofo e l'altro storico, accesero vieppiù ne'romani l'amore e il desiderio delle lettere e delle scienze. Imperocché il giovane Scipione Affricano, discepolo degnissimo di que'due sommi cileni , aveva di con- tinuo per le mani le opere di Senofonte ateniese: e con quel celebratissimo capitano di Roma si accom- pagnarono negli studi delle greche lettere i primi cavalieri romani Caio Furio, Quinto Muzio Scevola e Quinto Tuberone. Inoltre i due famosi tribuni del- la plebe Tiberio e Caio Gracchi, ricordati da Ci- cerone come valentissimi oratori , venner sin dalla prima giovinezza provveduti dalla lor madre Cor- nelia di eccellenti maestri greci, ed in ispecie del più eloquente dicitore che a quella età fosse in Gre- cia, Diofane da Mitilene. Ma la grande letteratura, l'erudizione, la filosofìa e l'eloquenza singolarmente, salirono dopo la conquista della Grecia , fatta dai romani di poco appresso la rovina di Cartagine, in altissima rinomanza. Intorno a che bene scrisse Tul- lio: Auditis oratoribus graecis^ cognitisque eornm U- terìs^ adhibitisque doctoribiis^ incredibili quodam no- stri homines dicendi studio flagraverunt. Esso Tullio medesimo si pose in viaggio per la Grecia, e quivi dimorò lungamente per compiere quella sua pro- digiosa educazione scientifica e letteraria. In Grecia andavano i cittadini romani più vaghi delle lettere G della filosofia: dalla Grecia raoveano i più cele- Letteratura classica greca 309 bri retori, {grammatici e filosofi per la pubblica edu- cazione di Roma. Il perchè si può affermare dirit- tamente, che il più grande e onorato frutto delle ro- mane conquiste fu l'avere appreso dai vinti popoli greci le lettere e le scienze, e l'essersi procacciato con esse un nome più durevole nella storia della letteratura. Ho voluto recare in mezzo questi fatti dell'u- mana storia, perchè sono più aperte testimonianze di quella somma coltura che dagli studi greci fu derivata: e perchè tali osservazioni debbono essere degne del pensiero di que'filosofi, i quali pongono i loro studi in conoscere le cagioni diverse e i di- versi effetti dell'umano incivilimento. Conciossiachè se è vero che la nostra civiltà è generata dallo svol- gimento ed esercizio delle potenze e facoltà dell'uo- mo, bisogna anche trovare le cagioni, le quali più o meno educano e perfezionano esse potenze e fa- coltà nostre. Ed io ho per fermo che lo studio del- le classiche lingue, come la greca e la latina, par- torisca agli uomini questo sommo beneficio ; che cioè, dando a conoscere nella vita civile e nelle ope- re dell'ingegno i due più colti popoli della storia umana, riesce di una grandissima efficacia nello svi- luppo politico, morale e letterario delle future ge- nerazioni. Poiché niun popolo, secondo una giusta e dotta osservazione del chiarissimo professore in Vienna Francesco Ficker, niun popolo^ come il gre- co ed il romano pose, e quasi scolpi in opere im- mortali di poesia, di storia, di eloquenza, di politi^ ea e di fdosofia la grandezza, la dignità, Veroismo, la prudenza nel consiglio e nelVatto, non che ogni 3 1 0 Letteratura maniera di pubbliche virtù. E se lo studio della sto- ria dee tornare a vera e universale utilità degli uo- mini , è mestieri che consideri ed esponga pur le cagioni del maggiore o minore incivilimento loro. Perocché verrebbe manifesto se alcuni studi elemen- tari, o avuti solo per occupazioni di ornamento e diletto, conducano l'uomo per sicuro cammino a ci- viltà, e se gitlino come le fondamenta più stabili di una vera, saggia e profonda sua educazione. Lingua. Proposto e dichiarato il fine degli studi nella letteratura classica greca, passo ad osservare i mez- zi necessari a conseguirlo. Per via del linguaggio noi manifestiamo tutti gli affetti dell'animo, tutti i pensieri e i ritrovati della mente: sicché la lingua fu sempre riguardata come tino specchio^ nel quale sì riflette Vanima^ il carattere^ i costumi e la civiltà di un popolo. Laonde dall'eccellenza di una lingua veniamo a comprendere la coltura del popolo, che la parlava. Ma niuno è sì leggermente istruito de- gli antichi e moderni favellari, il quale a tutti gli altri linguaggi non anteponga quello di Omero, di Erodoto, di Sofocle, di Pindaro, di Anacreonte, di Platone, del Crisostomo e del Nazianzeno, non solo per bellezza e grazia di stile, per copia, per chia- rezza ed armonia di voci , ma eziandio per conte- nere dell'ingegno umano i più grandi monumenti. Della quale eccellenza di opere letterarie fu certa- Letteratura classica greca 311 mente cagione sì l' ingegno greco e sì la natura e l'indole della greca favella: l'uno perchè venne edu- cato in ogni maniera di buone lettere, di arti e di scienze, e tanto potè ritrarre dalle sagge e antiche forme di un vivere civile*, l'altra, perchè porgeva modo a significare con le parole ogni concetto della mente, ogni cara e leggiadra immagine dell'umana fantasia. Per il che lo studio della lingua dev' es- sere il primo mezzo necessario per conoscere la somma coltura del popolo greco , e per ottenere quella educazione intellettuale, estetica e morale, che si deriva principalmente dalle opere degli antichi scrittori greci. Grammatica. Me per ben tenere una lingua è bisogno dello studio della grammatica: poiché con una esatta co- gnizione di questa possiamo sciogliere le difficoltà e distinguere i pregi di quella, e diveniamo fran- chi e sicuri nella interpretazione e intelligenza delle opere letterarie. Imperocché quello che Quintiliano diceva della grammatica quanto all'oratore, si dee pur dire quanto al filologo, cioè : Grammatica nisi oratori futuro fìdeliter fundamenta iecerit^ quidquid superstruxeris., corruct. Certo la grammatica greca per la sua filosofica regolarità offre allo studioso una maggiore agevolezza di essere appresa, che non la latina e le altre dotte lingue: quantunque per la ric- chezza e varietà di tropi e di vocaboli porga una vera e grandissima difficoltà. La quale abbondanza e varietà di voci e di figure nacque da tre princi- 312 Letteratura pali cagioni. La prima è, perchè i greci coltivaron per lunghissimo tempo gli umani studi. Poiché la sto- ria della greca letteratura da Orfeo ai bizantini contiene meglio che venticinque secoli ; nel quale spazio di tempo fiorirono , quando più e quando meno, eccellenti poeti, storici, oratori, fdosofi, me- dici, matematici, geografi, critici, grammatici e sco- liasti di ogni maniera ; e furono coltivate tutte le buone arti, le lettere e le scienze. La seconda ca- gione è, perchè gli antichi greci salivano a grande civiltà politica e letteraria, essendo ancor divisi tra loro in piccoli stati e indipendenti l'uno dall' altro per leggi e per costumi ; e non venner congiunti insieme a politica unità prima della macedone signo- ria: per guisa che tanto per amore delle cose e del- le usanze patrie, quanto per quella vicendevole ga- ra , onde sempre furono accese le province e gli slati dell'antica Grecia , ognuno parlava e scriveva nel dialetto , in che era cresciuto ed educato. La terza cagione è, perchè i greci amando di portare il bello in tutte loro cose, usarono di cambiare, di accrescere e di contrarre le lettere nelle parole; per- chè da tali cambiamenti, contrazioni e accrescimen- ti, che sono tanta parte della grammatica greca, rao- vea quell'armonia, quella grazia e pieghevolezza mi- rabile della lor lingua, che essi dicevano Eufonia; e per cui il greco linguaggio fu sempre tenuto il più bello e pregiato che mai da uomini si parlasse o fosse scritto. Ermeneutica. Quindi per la chiara intelligenza degli antichi Lettera.tur\ classica greca 313 scrittori è pur bisogno dell' Ermeneutica; o sia di quella interpretazione, che da Quintiliano è definita: Aiictofum enarrano: esposizione degli autori, e la quale ha per iscopo di stabilire il senso proprio e \ero delle opere loro. Critica. E siccome le opere degli antichi scrittori clas- sici non ci sono pervenute dalle mani medesime dei loro autori, poiché i più antichi codici non vanno di là dal sesto secolo dell' era cristiana, ma elle ci sono giunte dalle mani di altrui, che spesso per igno- ranza , per negligenza o per loro talento le muta- rono o contraffecero , è duopo saper ravvisare le vere ed autentiche, e distinguerle dalle false o sup- poste, dove nelle parti e dove nel tutto. Il perchè esso medesimo Quintiliano diceva: Enarralionem (id est^ interpretationem ) praecedat emendata lectio. On- de per mezzo della Critica conoscendo la falsità, ov- vero l'autenticità delle antiche opere, bassi a ferma- re la vera o più ragionevole lezione. Estetica. Dipoi per educare il sentimento del bello e del vero, e per venire capaci di mettere un savio giu- dizio sopra le opere antiche de' classici scrittoti, e per bene imitarle nel discorrere e nello scrivere, si vuol sapere applicare in esse i principii e le regole del ben dire e del ben pensare. Per cui con l'este- liea si dee indagare l'esposizione del pensiero e del- 314 Letteratura r aflfetto, e distinguerne il bello nei diversi generi della prosa e della poesia, non che ravvisarlo nelle sue forme semplici, naturali, sublimi e originali, ov- vero ricercate, ammanierate, gonfie, volgari ed imitate. Metrica. Inoltre a bene intendere e gustare le poesie de'tragici, de'comici, de'lirici, degli epici e dei di- dascalici, è mestieri di conoscere le leggi del ver- so e del ritmo, da cui è generata la bella e singo- lare armonia de'poeti antichi. Sicché per mezzo del- la metrica dobbiamo apprendere la grazia e la bel- lezza dell'antica poesia, conoscendo anche l'estrinseca sua forma. Storia politica. E poiché tornano malagevoli ad essere bene in- tese tutte quelle voci e maniere di dire, le quali si collegano con un dato storico, geografico, mitico, an- tiquario, o con un principio filosofico del mondo an- tico, perciò senza la cognizione delle origini, dello avanzare e crescere di un popolo in civiltà, senza la notizia delle leggi e de'costurai suoi, non si potran- no intendere con chiarezza le sue opere letterarie. Adunque per mezzo della storia politica dobbiam comprendere tutto ciò che riguarda la vita del po- polo greco; e per tal modo ne riuscirà più chiara singolarmente la lettura degli storici e degli ora- tori. Poiché, a modo di esempio, Demostene, Ero- doto e Tucidide vogliono essere compresi meglio con la cognizione delle leggi e dell'antica storia. \ Letteratura classica greca 31ó Cronologia e Geografìa antica. Anche l'esatta conoscenza delle diverse età pas- sate, de'luoghi e de' paesi, in cni visse un popolo antico, e dove accaddero i grandi avveninnenti della sua storia , dee accompagnarsi con lo studio della letteratura. Mitologia. E per intendere gli antichi scrittori fa di me- stieri sopra tutto di conoscere anche la loro mito- logia : poiché per lei giungiamo a comprendere le antiche tradizioni e quel linguaggio simbolico della fantasia, che è sì proprio de' poeti, e donde viene tanta loro bellezza. Antiquaria. Per le medesime cagioni di ben conoscere e gustare la greca letteratura , è necessario lo stadio dell'antiquaria, o sia della vita religiosa, domestica, civile e guerriera de' greci. E l' antiquaria è quasi la chiave degli scrittori classici. Storia letteraria e filosofica. Finalmente come la storia civile è il quadro della vita interna ed esterna di un popolo, e la sto- ria letteraria e filosofica è quello dell'ingegno e del- l'operare della mente di esso popolo; perciò lo stu- dio della storia delle scienze e delle lettere de'gre- \ 316 Letteratura ci dee metterci più addentro a conoscere la greca letteratura nel suo crescere ed avanzarsi, nel suo de- clinare e cadere, non che nelle opinioni e nelle scuo- le diverse della greca filosofia. Adunque a poter venire ad una chiara e di- stinta intelligenza degli antichi scrittori greci, e a ri- portarne quell'educazione intellettuale, estetica e mo- rale, che forma il vero scopo dello studio della clas- sica loro letteratura, son necessari i predetti mezzi della lingua , della grammatica , dell' ermeneutica - della ùì^itica^ dell'es^e^jca, della metrica^ della storia politica, della cronologia e geografia , della mitolo- gia, deW antiquaria e della storia filosofica e lette- raria. E per istringere tutto in poco , il principal mezzo necessario a conseguire il fine di tale studio è l'ermeneutica: poiché ella, a bene svolgere ed es- porre gli scrittori classici, domanda della cognizione della lingua, della critica, dell'estetica e della sto- ria. Onde l'ermeneutica, o sposizione grammaticale, critica, storica ed estetica, dee occupare a tutt'uo- mo e colui che insegni , e coloro che apprendano un'antica e classica letteratura. Ho posto sotto gli occhi di uno studioso della letteratura classica greca Io scopo de' suoi studi, e le vie che dee tenere per aggiungervi; affinchè egli non solo porti un concetto chiaro di quelli, e co- nosca tutto ciò che gli occorre per la intelligenza degli scrittori, ma fugga singolarmente quella su- perficialità e leggerezza di studi, si proprie del no- stro secolo. Letteratura classica greca 317 Dopo di aver discorso il fine di sifFalto studio, e i mezzi necessari a conseguirlo , si vedrà meglio il legame che stringe insieme questo e gli altri stu- di. Poiché ora è chiaro come col dare opera in que- sta guisa alle greche lettere si educhino e crescano le facoltà dell'animo nostro, e come venga loro una maggiore capacità di bene intendere e ricercare il belio, il vero ed il buono. La quale capacità è ca- gione grandissima di apprendere e coltivare con buon successo le lettere e le scienze di professione, e di molto avanzare in esse. E prima, quanto alle lette- re, lo studio e la cognizione de 'sommi scrittori gre- ci educa il sentimento del bello , e forma il gusto , o sia quell'attitudine di saper distinguere, imitare e riprodurre il bello. Quest'altitudine poi, da cui nasce il vero merito di un uomo di lettere, dee procurar- si dallo studio e dall' imitazione delle opere classi- che di quegli autori, i quali sono i più provati esem- pi di esprimere il bello ed il vero. Il perchè tan- to era stimato e seguito dai più dotti romani il co- stume di leggere e di voltare nella propria lingua gli autori greci. Conciossiachè Plinio solca ricor- dare alla gioventù l'imitazione de' sommi, dicendo: Slultissimum ad imiUmdwn non optìma quaeque pro- ponere. E Quintiliano nelle celebri istituzioni retto- riche proponendo gli antichi esempi, diceva: Vertere graeca in lalinum veteres nostri oralores optimum iu- dicabant. Anche il grande lirico venosino, preso all'am- mirazione delle greche lettere, ammonia del loro stu- 318 Letteratura dio i Pisoni, dicendo: Vos exemplarìa yraeca Nuctur- nà versate manu^ versate diurna. E Marco Tullio, il cui giudizio dee andare innanzi a quello degli al- tri, perchè dallo studio de' greci scrittori egli rac- colse tanto frutto e uguale celebrità, disse: Ut quum ■in sole ambulem^ etiamsi oh aliam causam ambulem^ fit natura tamen ut colorer:, sic, quum graecorum li- bros studiosius legerem , sentio orationem meam il- lorum tactu quasi colorari. Laonde a professare con frutto e con onore le umane lettere, si hanno a tener volti e fissi gli occhi a quelle opere, cui i più ce- lebri e sapienti uomini ebbero per modelli di bene scrivere ed esporre gli affetti ed i pensieri nostri. Né a coltivare le scienze sacre o profane suol venire dallo studio del greco una minore utilità. Im- perocché per mezzo della lingua greca si sparse pel mondo quella luce divina , di che furono illumi- nate le cieche menti degli uomini: essendoché non solo gli scrittori dell'antica Legge vennero più letti e conosciuti dopoché il re Tolomeo Filadelfo ebbe commesso a settanta interpreti greci di volgere dall' ebraico nel linguaggio greco il vecchio testamento; ma i libri della nuova Legge, tutti o furono scritti, o vennero recati nel greco idioma. Di questa me- desima lingua usarono i più celebri e antichi pa- dri, dottori e apologisti della santa chiesa cristiana, come un Crisostomo, un Basilio, un Nazianzeno, un Cirillo, un Atanasio, un Origene ed altri molti. E chiunque sia mezzanamente istruito nella classica letteratura sacra conosce l' utilità e importanza, che si deriva dallo studio de' santi padri greci: i quali nell'eloquenza, filosofìa e dottrina si mostrano uomi- Letteratura classica greca 319 ni tanto maravigliosi d'ingegno e di sapere, che al loro paragone forse vengono meno gli stessi Demo- steni e Fiatoni, sia pel subbietto dello scrivere, sia pel modo di maneggiarlo. E questa medesima opi- nione portarono i greci contemporanei de'santi pa- dri, che stati già grandi ammiratori e studiosi de- gli antichi filosofi ed oratori, dopoché lessero i li- bri de'Crisostomi e de'Basili, si lasciarono quasi ca- der di mano le più stupende opere di eloquenza e filosofìa de' celebratissimi ateniesi. Onde il teologo dee fare suo studio principale quello della greca lingua, affinchè bene intenda ed esponga i sacri li- bri, e studi singolarmente ne'paclri greci il modo di bandire la santa parola, e di difendere e sostenere gli usi , le leggi e la dottrina della nostra chiesa. Poiché le sacre omelie de'padri greci e le loro apo- logie cristiane sono veri tesori di eloquenza e di morale filosofia. Quindi il medico , il filosofo e il matematico ritroveranno appo i greci alcuni scrittori , siccome Ippocrate, Galeno, Platone, Aristotile, Archimede ed Euclide , dai quali prenderanno grandissima utilità non solo per la storia, ma eziandio pei principii del- le scienze e professioni loro. E intorno all'etimolo- gia scientifica , presso che tutto greca , non ci ha cultore delle antiche e moderne scienze , che non abbisogni della cognizione del greco. Il perchè sono degni di lode e imitazione que'forestieri ed italiani licei, i quali prima di ricevere i giovani studiosi , che si avviano alle scienze, li richiedono anche di uno esperimento nella parte grammaticale e terminolo- gica della lingua greca. Questi adunque e sì grandi 320 Letteratura vantag^fji , cui le lettere e le scienze di professione riportano dallo studio della greca favella, dimostra- no il suo collegamento con esse e la sua importan- za in un corso regolare e compiuto di pubblica e letteraria educazione. Giuseppe Spezi. Biografia dell'avvocato Antonio Morichini. il-ntonio, quinto dei figli de'coniugi Cecilia e Do- menico Morichini, nacque in Roma il dì 7 agosto dell'anno 1816. Ne'primi anni dette subito prove di grande amore agli studi ed alla fatica; perciocché quantunque per la troppa tenera età non si credes- se ancor atto ad apprendere i primi rudimenti del leggere e dello scrivere, ciò nonostante gli apprese e presto. Quando giungeva in casa il maestro che era destinato per un suo maggior fratello, egli la- sciava subito i balocchi ed i giuochi s\ cari alla pri- ma età , e correva al tavolino dello studio : sicché quegli, scorgendo cosi buona volontà, preselo innan- zi tempo ad istruire. A sette anni entrò nel collegio nazareno diret- to dai padri delle scuole pie. In codesto istituto che fiorisce da oltre due secoli, e tanti uomini insigni diede alla chiesa, alla società, alle scienze, alle let- tere , egli studiò ordinatamente e con molto pro- fitto le lettere italiane, latine e greche, l'istoria, la Biografia di A. Morichim 321 Ideografia, le matematiche, la fisica e la filosofia ra- zionale; ed anche un po' di disegno di figura, esei- €Ìzio che poi intralasciò. Vi dette il suo nome all' accademia che dicono degli incolti, la quale è co- lonia arcadica, e fu ascritto altresì all'Arcadia stessa e v'ebbe nome Edesio Pegèo. Il giovine Moriehini si segnalava per soda pietà, per ingenuità d'indole e candor di costumi, per savio contegno e per sin- goiare amore agli studi: onde uscito di collegio a diecisette anni, lasciava di se buona fama e deside- rio grandissimo, ed avverava il pronostico che scri- veva il rettore nel giorno del suo ingresso: » che il fanciullo Antonio Moriehini prometteva fare otti- ma riuscita ». Non sono molte le vie, che si aprono ad un giovine, che per mezzo delle scienze e della fatica voglia correre una carriera. Il Moriehini intraprese quella del diritto, la quale forse più che qualunque altra in Roma può porgere svariate e moltiplici oc- cupazioni. Pertanto nell' università romana fece in quattro anni con molta diligenza e grande opero- sità il corso del diritto criminale, civile e canonico, n'ebbe magisteri e premi di medaglie, anche per uf- fici tenuti alla spirituale congregazione, che sempre esemplarmente frequentò, ed ottenne la laurea dot- torale quando compiva appena venlun anno di età. Fatto il corso teorico , cominciò la pratica foren- se, prima presso l'onorato ed abile procuratore Giu- seppe Vassalli, poi presso l'avv. Carlo Villani uomo che è per dottrina e saggezza fra i primi nostri giu- reconsulti. Questi, che alla scuola di pandette ave- va potuto ben conoscere il Moriehini , lo volle ad G.A.T.CXVllI. 2! 322 Letteratura aiutante di studio nelle difese delle quistioni foren- si, e lo propose a supplente della cattedra che egli tiene nell'università; poiché diceva che in tanti anni di pubblico insegnamento aveva avuto pochi de'gio- vani studenti, i quali riunissero come lui doti d'in- gegno, maturità di giudizio, onestà ed aurei costu- mi. Cosi il Morichini, compiuto appena il corso, di soli ventidue anni, salì la cattedra di pandette del- la romana università, e più volte nell' assenza del Villani fé le sue lezioni di diritto con molto con- tentamento di quella numerosa e non facile scolare- sca, in che molti che gli erano stati poc'anzi com- pagni se lo ebbero a maestro. Né ciò punto loro spiaceva, perchè avevano già imparato a collocar in lui stima ed aflfetto: ed egli mostrava d'altronde col fatto che l'indefesso e profondo studio del ius ro- mano e il suo bell'ingegno lo ponevano, quantun- que in verde età, all'altezza dell'ùflicio di pubblico professore. Lesse ancora le istituzioni di diritto civile alla pontificia accademia ecclesiastica, dove si ricevono ed allevano quei giovani che si destinano agli alti impieghi della prelatura. Il cardinal Pacca, protet- tore di quell'istituto, nominollo a professore nel 1844. Egli prima vi tenne le veci dell'avv. Villani, e poi gli successe, e per due anni v'insegnò, finché lo sta- bilimento fu chiuso per operarvi una riforma. An- che parecchi giovani lo chiesero a particolare loro maestro, ed è sua lode l'avere esercitato codesto uf- ficio col principe D. Baldassare Boncompagni gio- vine patrizio di tanto sapere e di tanta saviezza. Ad un altro genere di magistero lutto caritate- Biografia di A. Morichini 323 \o\e e pio applicò anche il suo animo il giovane Morichini. Egli andava alla scuola notturna che tiene da più anni l'ottimo sacerdote D. Komanini, e mal- grado delle molte occupazioni della giornata vi spen- deva nel faticoso esercizio d'insegnare i primi ele- menti ai giovanetti artigiani quelle prime ore della sera, che sogliono i più dare ad un onesto riposo. Il Romanini era maravigliato della grande assiduità e bontà che 1' avv. Antonio poneva a quell' ufficio caritativo, e sopra tutto lodavasi del modo ond'egli metteva alla portata di quelle tenere e rozze menti le grandi verità della religione coU'insegnar loro il catechismo con tanta chiarezza e dottrina, quanta ap- pena poteva attendersene da un provetto e dotto sacerdote. L' avvocato Morichini accoppiava coU'insegaa- mento teorico la pratica del foro. Scelto il di lui fratello monsig. Carloluigi a votante del tribunale di segnatura nel 1838, lo aiutò della sua opera e de" suoi lumi nel grave officio di giudice , e dalla sua penna uscirono tutte le decisioni che a nome di quel prelato furono fatte. Nei venti mesi che il fratello stette in quel tribunale la curia romana co- nobbe e stimò l'onoratezza e l'ingegno dell'avv. An- tonio. Promosso monsig. Carloluigi all'ufficio di chie- rico di camera, fu egli presso monsig. Quaglia udi- tore della s. Rota coli' incarico che appellasi di se- greto rotale. Questo egregio prelato, che per tre an- ni lo ebbe al suo fianco nello studio delle cause d'ogni fatta, che recansi al giudizio di quel famo- so tribunale, gli mise grande stima ed affetto, e lo avrebbe voluto a suo aiutante di studio: ma egli non 324 LETTERATURA aveva allora che ventoUo anni, né potè ottenere dal papa la dispensa dell'età di trent'anni, che gli usi di quel tribunale esigono per quell' incarico. La- sciò pertanto lo studio rotale , ed ebbe il titolo di avvocato. Quand'era tesoriere generale e ministro del- le finanze il suo fratello Carloluigi, lo ebbe a colla- boratore indefesso negli affari più delicati non solo che toccavano il diritto, ma ancora l'amministrazio- ne: e quanti ebbero a far con esso lui ne ammira- rono la capacità ed onoratezza. In compagnia pur di codesto suo fratello, amandosi fra loro di tene- rissimo affetto, e di due altri comuni amici, fece nel 1844 un bel viaggio nell'Italia, nella Svizzera, in alcune province dell' AUemagna, nel Belgio, nell'In- ghilterra e nella Francia. Attento osservatore, come egli era, ne cavò grande profìtto e svariate conoscen- ze. Imperciocché quando ben si conosce il proprio paese, e l'animo è nutrito di forti studi ed avvez- zo al riflettere, il viaggiare è gran mezzo d'istru- zione , e vi si acquista quella pratica conoscenza degli uomini e delle cose di molla utilità nell'uma- na vita. In un manoscritto, che resterà a cara me- moria della sua famiglia, l'avv. Antonio notò con molto senno le cose vedute e le osservazioni che gli vennero in pensiero durante quella peregrinazione. Diedesi anche all' esercizio di difesa nel foro , quando l'ufiìcio di consigliere di giudice sia in se- gnatura, sia in rota, non glielo impedivano, e pre- se a patrocinare gratuitamente le cause de' poveri ne'tribunali, scrittosi a fratello nella pia congrega- zione di s. Ivo. Queste occupazioni forensi, cui si era dato con molto amore e disinteresse, gli fecero ri- Biografia di A. Morichini 325 fmtarfì quegl'impieghi giudiziari che avrebbe potu- to facilmente ottenere, essendo stato senza punto ri- chiederlo collocato fra gli aspiranti approvati ai po- sti del ministero di giustizia. Era suo divisamento l'esercitarsi nel magistero del diritto e nella libera difesa del foro; perciò non profittò di quell'onore- vole invito, che gli era fatto dal governo, ed era una testimonianza del conto che se ne faceva. E per vero quantunque egli per somma mo- destia si tenesse piuttosto nascosto, né brigasse mai per cosa alcuna, era però nella stima e nell'affetto di quanti lo conobbero. Nominerò per cagione d'o- nore raonsig. Teodolfo Mertel uditore di rota, uomo di quel sapere e di quel maturo giudizio che tutti sanno, il quale fu amicissimo dell' avv. Antonio, e lo riputava come uno de' più profondi conoscitori del testo giustinianeo; e l'avv. Villani, che lo ebbe in particolare conoscenza, fra gli altri elogi che gli dà in una sua larghissima testimonianza, dice di lui: « L'ingegno, lo studio lo facevano uno de'primi giu- riconsulti del nostro tempo ». Ma più che l'ingegno ed il sapere rendono ca- ra e benedetta la memoria del giovine avv. Morichini le belle doti del suo animo. Egli, profondamente re- ligioso, senza ostentazione praticò ogni specie di buo- ne e sante opere; egli di costumi sì candidi ed il- libati e di tanta ingenuità , che alquante volte nei detti e nei modi accennava quasi a semplicità; egli che non ebbe mai fortuna eguale al suo merito, mai non se ne dolse, e serbò sempre la più rara modestia; egli infaticabile cosi negli studi come nel far ser- vigio a chicchessia, ed affettuosissimo per gli amici e pe'suoi, cui giovò in mille guise. Tal fu l'avv. An- 32G Letteràtdra tonio Morichini che veniva rapito da immatura e re- pentina morte nel mezzo del trigesimoterzo anno dell'età sua. Quantunque di robusto e sano tempera- mento, ebbe una malattia umorale che assai lo tor- mentò per oltre due mesi. Riavutosi ed alzatosi di letto quasi guarito, la mattina del 9 febbraio 4849 mentre passeggia nella camera dei libri, sorpreso a quel che pare da un deliquio, cade repentinamente a terra e batte con tal violenza l'occipite, che vi si pro- dusse uno stravaso, cagione fra pochi minuti della sua morte. Accorre al tristissimo caso il suo mag- gior fratello arcivescovo di Nisibi, e trovatolo ancor vivo ma senza conoscenza, gli dà tosto, sa Dio con qual cuore, l'estrema assoluzione. Il professore Bucci, che durante la malattia umorale sopraccennata pro- digò all'avv. Antonio un'assistenza cordiale e più che fraterna, ivi trovavasi in quel momento, anzi fu il pri- mo a scorgerlo e levarlo di terra. Ma riconobbe la gravità dell'accidente, e la impossibilità di recarvi col- l'arte qualunque soccorso. Non è a dirsi in qual pro- fondo e amaro dolore gittasse la famiglia Morichini un caso sì tristo ed inaspettato. I molti amici e tutti i buoni ne furono altamente commossi ed afflitti. I suoi fratelli superstiti inconsolabili per una perdita tanto dolorosa, onde conservare agli occhi perenne la memoria del carissimo germano, come perenne l'avranno scolpita nell'animo loro, allogarono al va- lente pittore Carlo Morelli di farne tostamente il ri- tratto. Il cadavere trasportato con decente funebre corteggio prima alla chiesa parrocchiale di s. Eu- stachio , e poi a s. Marcello, fu qui tumulato nel sepolcro gentilizio. ;327 MM^ILM MM!TI Sopra un dipinto di Michele Wittimer bavarese {di Monaco) in Roma. « MARIA VERGINE IN GLORIA .. ... Io mi son un che, quando Amore spira, nolo: ed a quel modo, Che detta dentro, vo significando. I. Ordinazione del dipinto e sua esposizione al pubblico^ per pochi di, in Roma. \_luesta dipintura, operata in ampio ma più lungo che largo parallellogrammo rettangolare , fu com- messo a figurare al pittore dalle monache frances- cane del terz'ordine , così specialmente denominate di s. Rosa in Viterbo: da collocarsi nell'interno coro in quel monastero, ora che alla gloriosa s. Rosa è ivi eretta più bella e nuova chiesa. Quelle divote solitarie, satisfatto, in quanto al nuovo tempio, alla pubblica religione ed espettazio- ne dei buoni viterbesi, sentirono il bisogno di prov- vedere ancora più specialmente alla loro pietà; de- 328 Eelle Arti siderando per loro stesse , e a loro sempre YÌslbi(e e presente un monumento, onde del continuo s'in- formassero l'animo della contemplazione de'piii cari oggetti della lor tenera divozione. E qui cade in ac- concio il notare, essere l'amore naturalmente pitto- re: il quale con mille ingegni, non altro potendo , si dipinge e vagheggia in fantasia la soave imma- gine dell'amato: e ciò non bastando, il vuole in fi- gura visibile di persona viva. E quindi, siccome la poesia, così la pittura crediam verosimile che si de- rivasse dall' amore , dalla divozione, onde chi ama non patisce lontano né invisibile l'amato, a cui vuol essere del continuo con l'afietto obbligato. L'amor grande che inspirò di sé, e dei suoi eroi , e delle sue gioie, e delle sue glorie il cristianesimo, fu ca- gione che la fede cristiana, non men che delle belle e solenni virtù al mondo nuove, fosse nella congre- gazione de'fedeli inspiiazion potentissima e aiuto som- mo e nuovissimo alle gentili arti; e più forse alla pittura, che ha virtù come quasi creativa d'impron- tare i segni della vita, e sin le sembianze d'una vi- ta soprannaturale e divina, alle tele e con mezzi ed elementi che diresti poco o nulla adattati al fine. Forse le arti belle, cotanto magnificate nella chiesa cattolica, chi ben considera, non sono l'ultima delle prove della sua vigorosa e potente verità. Questa potenza di fede (alle arti sì utilissima) dimostrarono in lor semplicità, noi sapendo, le mo- nacelle viterbesi, allor che dissero al pittore: Tal di- pintura vogliamo , in cui i nostri occhi si pascano nello affisare la nostra madre Maria in gloria; e ad un tempo vi brillino le immagini del nostro palriar- Dipinto di M. Wittimer 329 ca s. Francesco di Assisi, e della madre s. Chiara^ e della gloriosa s. Rosa^ sotto Vale della cui 'prote- zione riposiamo^ e in fine del miracoloso s. Vincenzo Ferreri. Le buone monache furono bene avventurose della scelta del gentil dipintore: il quale, vero e pio cattolico, senza più intese il loro concetto; e buono artista seppe quindi crearsi bellamente V idea dell' opera, e in tela finamente incarnarla. Questo non pomposo, ma al certo bel dipinto (modestissimo che è l'autore), senza le gentili sol- lecitudini d'amico cortese, che lo indusse a mostrar- lo al pubblico , rimaso per fermo sarebbesi a lui solo noto, che il lavorò, ed alle monache, nel coro delle quali era destinato a collocarsi; che vuol dire nascondersi in perpetuo allo sguardo del pubblico. In fra quei molti che in Roma, d'ogni ordine cit- tadini, laici ed ecclesiastici riguardevoli, ed anche, e più forse di condizione pittori, e qualche pittore eccellente, i quali (come ad un ritorno e richiamo a studi pacifici) all'invito del Wittimer accorsero, e furono lieti di osservar quella dipintura, anch'io non pittore, e sol dilettantemi e vago di veder cose belle , mi vi ridussi. E quel momento che ivi mi rapii come in ispirito a guardare, per lungamente ch'io affisassi quella chiara e splendida gloria e quel- le care immagini, dico il vero che quegl'instanti mi sortirono beati, e quelle cose belle mi seppero di- rei quasi una tal quale rappresentazione di quella gloria che la gran vergine Maria si gode e si go- drà tanto più vera , e noi mortali un dì vedremo che ella mirabilissima sFolofora in cielo. 330 J3ELLE Arti II. Composizione^ o idea del pittore: e dichiarazione del concetto universale^ e delle singole figure del dipinto. Se è vero, come è verissimo, che La gloria di Colui che tutto move Per Vuniverso penetra, e risplende In una parte più, e meno altrove, nell'ingegno dell'uomo circa le opere d'arte, sopra ogni altra creata cosa della natura, brilla vaghissi- mo il raggio della divina sapienza, onde il sommo Iddio si piacque ornare e far bella e sublime que- sta fattura della sua mano, sua immagine e simigliane za in terra. E per tal forma le opere degli artisti sogliono meritamente chiamarsi creazioni; inspiran- dosi dal bello che è sparso da Dio nell'universo, e, lavoro d'intelletto e d'ingegno, formandosene in lo- ro idee concetti e componimenti particolari, questi mettono ad effetto in visibile e corporale sembianza. Mi ricorderà sempre un vero e bel detto, giu- sto quanto semplicissimo, d'un mio maestro di let- tere (le lettere e le arti sono sorelle), che le ignare moltitudini del povero popolo, ascoltando un bel ser- mone, non ti satì ben dire, ove e d'onde sia il bello in esso; »wa sentono, e senza più dicono che è bello. Il bello è raggio di lume divino, onde le cose tut- te quante han vaghezza e splendore; or sia di na- Dipinto di M. Wittimer 331 tura , opere di Dio , or sia delle arti , inspirazione d'ing^egno, che è pur dono e partecipazione dell'in- telligenza divina; e chi ha lume d'intelletto non può fare che noi -vegga, benché non sia facultà se non degl'ingegni culti e gentili il discernerlo e diffìnir- lo e darne ragione. E non a mio particolar giudicio , che in tale faccenda non è al postutto che un sentimento, ma per autorevole discernimento d' un solenne de' so- lennissimi pittori di Roma, io so che il dipinto del Wittimer è bello: nel concetto e nell'eseguimento. Il vago pensiero delle monache semplicette il pittore ideò e compose in tal forma. La Vergine in sua gloria, ma che ella per comparire più bella fos- se « umile in tanta gloria » : cioè in somma che tutta quella magnificenza di gloria (la qual rappre- sentano, come si toccherà in appresso , innumere- voli angioletti a coro sparsi ed ordinati nell'ampio cielo) e tutta la solennità delle adorazioni de'solto- posti soprammemorati santi, come ad un sol segno si riferisse al divino infante, bambinello Gesù, Ver- bo incarnato, splendore e gloria dell'Eterno Padre, e re del cielo e della terra; che è in seno alla Ver- gine, volto amorosamente ai santi adoratori; e del quale la Vergine dolce accennando par che favelli e dica: A lui solo V onore e la gloria. Così veramente al più bello e glorioso de'figliuolì degli uomini tutta si rivolge la scena di quella gloria: ma da esso tut- ta si riflette alla sua gran Madre, che ei fece glo- riosa sopra tutte le figliuole di Sion La Serafica di Assisi poi con il su le mani il simbolo del gran miracolo, onde sfolgorando l'ostia 332 Belle Arti sacrosanta in faccia ai saracini, li fugò: In questo^ in sua postura ti dice, ecco è in questo Figliuol di Maria ogni nostra possanza^ in esso la nostra confi- denza. Intanto che dall'altro lato, rivolto alla terra, il taumaturgo Ferreri mostra ed insegna alle genti: Timete Deum^ et date illi honorem^ quia venit hora iudiciì eius. Se non che mentre t'incanta ed inna- mora in suo bel volto gentile la verginella di Vi- terbo , eroina di tanta fama e valore per la gloria di Roma e d'Italia, a cui contro imperadore super- bo dopo tanti anni di travagli procurò e predisse la sicurtà e l'onore della quiete dei papi; e sin ora, anzi ora più che mai, adorando ginocchioni, invita e conforta all'adorazione di Gesù e di Maria, ed a vagheggiare ad essi orando, le figliuole, gli angeli della solitudine ... Il mirabile s. Francesco in quel suo slancio, delle braccia distese, del volto desioso d'amore, di tutta la persona come traentesi al cielo, e seco traendo all'amore del suo Gesù tutte le gen- ti, ti ricorda il portento, che di presente par voglia rinnovare, dell'avere in quelle tenebre e in quegli orrori del suo tempo, con la predicazione più dell' esempio che della parola, con lo spettacolo stragran- de e sommamente eroico della sua santità, soccorsa al Laterano cadente, e rapito l'universo nell'ammi- razione e nel culto dell'amore di Dio. Ammirando io tal figura e tal carattere, ben mi disse il Wittimer essere stato suo pensiero che quello fosse come Va- nima di tutto il dipinto: ed è; poiché, a vedere, esprime assai di quella stupenda missione che ei compì in teira nei mezzi tempi , sì che ancora il mondo ne risuona, e se ne edifica , e va cantando Dipinto di M. Wittimer 333 que'versi del poeta: Non era ancor molto lontan daWorto^ di' e' cominciò a far sentir la terra Della sua gran virtude alcun conforto : SI che in povertà, la qual in lui trovò il primo ma- rito^ e Ai frati suoi^ si eom'a giuste erede^ Raccomandò la sua donna piii cara^ E comandò che Vamassero a fede; degno Collega fu a mantener la barca Di Pietro in alto mar per dritto segno. Nel dipinto del Wittimer il poverel di Dio^ il serafico in amore^ il vedi verissimo. HI. Giudìcio^ o sentimento^ sopra tutta V opera: ed altre sue particolarità. Presente allo spirito ( in quella che gli occhi guardano ) quel simplex .... dumtaxat et unum , e quel corrispondersi in armonia il principio., il mezzo e il fine.) che vuole Orazio nelle opere dell'arte; tu scorgi di leggieri, tutto essere rigorosa e facile unità ed armonia nella dipintura del Wittimer. Ma quel che più vviolsi considerare si è l'espressione del sen- timento religioso. Egli è un artista cattolico, che be- ne, come crede e sente, ha saputo profittarsi di quei 334 Belle Arti bello, semplice, e mirabilmente divino, onde solo la fede cattolica, e solo in Roma, può informare dell' idea divina del bello cristiano gli spiriti degli arti- sti , e dirigerne il pennello ed animarne i colori. Raffaello, e Michel più che mortai Angiol divino in Roma perfezionarono tal figura di bello nuovo , che inspirò alle arti il genio del cristianesimo. Nei primi saggi dell'ingegno lor singolare, fuori di Ro- ma, essi intravvidero (perchè erano in Italia, sempre piena dell'aura delle inspirazioni della fede romana); ma in Roma poterono vedere, e svolgere, e finire la vera e magnifica idea di sì stupenda rivelazione , e darle persona e vita toccante al soprannaturale. Ro- ma antica e la Grecia, pagane, ben dettero al mondo il tipo del bello, afferrando le prime rivelazioni, on- de ai colti ingegni si apriva primamente la vergine natura: ma essi, e né altro potevano, colsero il fiore del bello puramente naturale:, nel che forse sono non facilmente imitabili, e certo saran sempre insupera- bili. Ma il bello divino noi conobbero: che si aspet- tava alle inspirazioni delle rivelazioni cristiane. Il Wittimer, benché infino ad ora in sé stesso segreto, è, s'io non erro, del bel numero uno di quei che sinceri e modesti, ma caldi amatori e ricerca- tori del bello, nudriti le menti nella contemplazione dei capolavori dell'arte, cercano ad un tempo in fondo alla loro anima, tra le inspirazioni delle loro credenze, le vere, ma sempre sì varie forme di esso: onde innamorati lo vagheggiano e forbiscono dentro Dipinto di M. Wittimer 335 tli sé, lungamente contemplandolo, per quindi trarlo fuori, e con ogni sottil diligenza e pazienza metterlo in atto, nelle scritture, ne'raarmi, e nelle tele : sic- come « Amore spira^ dicea il poeta, ed a quel modo Che detta dentro » si va quindi significando di fuo- ri. Questo buono artista, che ora si può dire che co- mincia la sua manifestazione al pubblico, non è, co- me meritano i suoi studi e le opere, abbastanza dal mondo conosciuto : ma gl'intendenti pochi, a cui il ben piace^ meritevolmente lo stimano : ed ei dee es- sere ben lieto della lode de'pochi, che son sempre gli ottimi. E l'ottimo stesso più si diletta della co- scienza del proprio merito, che non dello strepito d' una fama romoreggiante. Come già il celebre Pietro Giordani per certo discorso d'un suo amico: non di' rò, gli diceva, che sia molto bello, ma (senza peccato d''arroganza) dirò che mi è piaciuto molto : tal (a ser- bar moderazione) direm noi della Vergine in gloria del Wittimer. Se non è un dipinto del Raffaello, gli si avvicina, o non gli è moltissimo da lungi, ed ha molto di quella soavità : il s. Francesco ritrae assai del rapido e veemente del Michelangelo : e se la Gloria della religione, che dipinse in tante forme e figure di santi d'ogni ordine della chiesa cattolica V egregio Overbek , e sì bella, sì vera e mirabile , piacque a tutto il mondo gentile e sapiente , la Ver- gine in gloria, che discorriamo, andò bene a versi, e piacque (quanto sappiamo) al dilicato Overbek ; che a mala pena d'alcun neo nel colorito, non delle figure, ma d' alcuna nube in quel cielo , desiderò d'alquanto più vero. Le figure del Wittimer, secondo lor particolare 336 Belle Arti carattere e postura, ehi ben le guartla, hanno tutte, ed espressione lor convenevole, anzi propria (umile in tanta gloria Maria, amoroso il Bambino , vene- randa e grave s. Chiara, zelante il Ferreri, infiam- mato d'amore il Serafico, pia e semplicetta la ver- ginella di Viterbo), e sembianza naturale : ma non sì del tutto naturale, che non rendano, anzi , s* io non m'inganno , rendono ciascuna quella vaghezza di divina sembianza, che in opera religiosa e in tal concetto della gloria di Maria bisognava che rendes- sero. Il quale splendore non è abbagliante, ma caro, dolce, quanto basti a far quindi immaginare il tra- sumanarsi, o trasfigurarsi, o vestirsi di luce che fan- no mercè della santità e della grazia di Gesù Cristo le creature razionali, che perfezionandosi e già per- fette ascendono alla gloria : là ove nel lume di Dio videbinius lumen : là ove (al dir del poeta) la chia- rezza seguita Vardore; ed ove Come la carne gloriosa e santa Fia rivestita^ la nostra persona Più grata fìa per esser tutta quanta. Là in somma, ove tutto rapisce a sé, e gira, il carro della gloria di Dio; carro rapidissimo, come il pen- siero : nella quale ascensione e glorificazione ogni cosa si fa leggiera e come sorvolante. E si a punto in sé stesse leggieri (per quanto ad umana opera è possibile) tu ammiri le immagini de'santi in questo dipinto, le quali benché vestite di umanità, ti paiono senza gravità, e al tutto celesti; poggianti in aria senza stento, su le nubi che empiono vagamente la Dipinto di M. Wittimer 337 dipintura, e con giusti compartimenti girano, e per tutto il fondo intorno si attraversano. Tra le quali nuvolette che abbellano rompendo il chiaro cielo , con buona economia di chiari ed oscuri distribuite, vedi qua e là faccie d'angioletti, alcune carissime : e chiudono di sopra la scena, l'un all'altro rispon- dente, due come arcangeli, i quali delle ali e delle braccia distese, con in mano, questi un ramo di gi- gli, e quegli biancheggianti e purpuree rose, in atto d'incoronarne la Vergine, le fanno padiglione, ma- gnificandone la gloria. IV. Sia lode al pittore altrettanto valente quanto modesto : congratulazione alle monache, che dettero al mondo una pruova novella che non sol delle loro preghiere, e delle lor penitenze, e dell'esempio delle loro virtù giovano alla società cristiana , ma delle lor divozioni fanno sì che abbiano mezzi ed occa- sione d'inspirazioni gli artisti da continuare e cre- scere le ricchezze delle arti belle. E faccio augurii alle arti che » occorrendo felicità di tempi e di for- tuna » elle isvolgatio ognora più le forme del bello divino che Roma cattolica, madre di magnificenza, siccome maestra di verità, sa inspirare agl'ingegni. E Iddio guardi gl'ingegni, siccome gl'intelletti ita- liani, dell'aura d'altre credenze e d'altri riti, concios- siachè quelle dimezzano ed ottenebrano il vero , e questi inaridiscono la vena delle sublimi ed ideali invenzioni. Gennaio 1850. P. Antonio da Rignano. G.A.T.CXVill. 22 338 Inlrotluziune alle lezioni di archìleUura pratica det- tate nell'insigne e ■pontificia accademia di s. Luca dal cattedratico cav. Luigi Potetti presidente del" la medesima. G, ^\ì antichi nostri padri, i greci e i latini, presso i quali crebbe e si perfezionò per eccellenza l'ar- chitettura , intesero e definirono esser questa arto direttrice di tutte le arti. Ne deriva subito, che l'ar- chitetto dev' essere tanto istruito delle medesime , quanto importa saperle con fondata ragione dirige- re allo scopo di un'opera ben ideata. Non è però necessario che le debba conoscere al sommo grado di perfezione, né che debba essere in istato di eser- citarle quanto un perfetto scultore, un esimio di- pintore, od un egregio artista meccanico o fabbro di muro, di legnami, di ferro, di pietre ec. Basta che l'architetto abbia tanta cognizione di esse, quan- to importa a condurle al compimento e alla squi- sitezza di una fabbrica dal medesimo immaginata e diretta: al che giova oltremodo lo studio e la pra- tica delle scienze e del disegno delle arti. Considerando ora come nacque e come si svi- luppò l'architettura, e volgendo un rapido sguardo al progresso della medesima dalla sua origine fino a' giorni nostri, si vedrà ch'essa fu prima arte mec- canica e cagione di tutte le altre arti, e che in ap- presso la civiltà de'popoli, conoscendo il bisogno di rendere più caro ed utile il vivere gentile, vi ag- ArCHITETTDRA PftÀTICA 339 giunse le comodità, le decorazioni e tutto ciò che un bel genio ed un buon gusto può creare a per- fezionamento di un' opera. Sicché scorgesi subito che l'architettura naturalmente si compone di scien- za e di arte liberale, e si dovrebbe difinire 1' arte di comporre e di eseguire perfettamente un edifi- cio. Per la qual cosa io amerò di dividerla, non co- me si usa comunemente in tre parti, ma Gome ri- cerca la sua natura in due soltanto, cioè in archi- tettura di composizione e di decorazione, cui spetta il modo d'ideare, di comporre e di ornare un edi- ficio, ed in architettura di costruzione cui appartiene la maniera meccanica di edificarlo e di condurlo al suo perfezionamento. Ora perchè non è qui luogo della prima, affidata ad un illustre e chiarissimo mio collega, mi occuperò della seconda siccome vuole l'ufficio a cui sono chiamato. Né mi limiterò io già alle sole costruzioni di fabbriche civili, ma sì an- cora delle idrauliche, anzi delle generali dell'archi- tettura universale: poiché porto opinione, che l'ar- chitetto non sia perfetto se di tutte non sia piena- mente istruito. Imperocché le costruzioni in terra e in acqua, di qualùnque genere siano, sono comuni tanto all'architetto civile, quanto all'idraulico e al militare. E cosi facendo stimo di ricondurre l'arte a' suoi principii, che una mal intesa divisione intro- dotta a giorni nostri ha separati con danno di chi la professa. Chiunque volesse oggi indagare la storia delle costruzioni, sarebbe lo stesso che involgersi nelle epoche più tenebrose dei popoli, e d'immergersi nei tempi favolosi. È certo ch'essa sarebbe anteriore alle 340 Belle Arti storie civili: imperocché le costruzioni primitive del- le genti aborigini furono senza dubbio limitate ai bisogni fisici dell'uomo appena dedicato al culto di un Dio , ad un semplice ricovero e al lavoro dei campi. Le costruzioni di un monumento religioso e di un rozzo abituro furono dunque i primordi dell'arte di fabbricare: ed innanzi che le popolazioni registrassero i loro fasti, e le eroiche imprese, a veano sentito e prov- veduto a questi primi bisogni. Quindi un'ara, una ca- panna, la riduzione di un antro e di una grotta furono le naturali costruzioni delle genti primitive. E però mal si appone il Milizia, che tutta l'arte dell'architettu- ra e la spiegazione di tutte le sue parti e membrature deriva come tipo dalla sola capanna: e senza ricor- dare Vitruvio che prima tracciò una simile ipotesi, sebben più ragionevolmente la limitasse ai soli tetti, aggira sopra sì sterile principio tutto il suo gran sistema di rilevare le ragioni e gli errori dell'arte. Dai tempii e dagli abituri 1' applicazione dell' arte passò gradatamente alle tombe e agli altri edifici, e le crescenti società moltiplicarono quelle opere che conobbero giovare al vivere civile, ed assicurare ai posteri l'esistenza delle loro istituzioni. Le più antiche memorie delle costruzioni le ab- biamo dagli egiziani e dagli etrusci, i quali poscia le introdussero nella Grecia e nel resto d'Italia. Gli egiziani senza dubbio trassero il tipo della loro ar- chitettura dagli antri e dalle grotte che abitarono lungo il Nilo. Il taglio interno nei monti obbligò quei primi lavoratori a lasciare dei sostegni e dei Architettura pratica 341 fulcri, onde non si dilaniassero internamente le parti superiori: e da ciò ebbero origine le loro colonne tanto frequenti e poco distanti fra loro, quanto lo esigeva il primo tentativo della solidità di un archi- trave di pietra, perchè non si spezzasse col proprio peso. La forma di quelle colonne, le loro propor- zioni e i loro intercolunni appena di un diametro fanno piena testimonianza di siffatta opinione , che potrei largamente estendere di moltissime prove se non mi fossi prescritta molta brevità di questo ar- gomento. I principii della loro composizione erano ristretti alla forma piramidale, che annuncia anche oggi la imitazione delle elevazioni naturali dei mon- ti. La loro statica era diretta a tagliare, a muovere ed elevare le immense moli di masse di pietre cal- cari e di graniti che riempiono tuttodì di maravi- glia gli eruditi viaggiatori. Certamente che la costruzione di opere sì gi- gantesche dovette elevare a molta perfezione la mec- canica degli edifìci, se dobbiamo argomentarlo dall' obelisco vaticano, che in altezza non è che 'I3 dell' obelisco che fu eretto in Tebe da Sesostri, ossia 'I27 del peso: innalzamento che in epoca molto incivi- lita fu riguardato e si riguarda tuttora come ope- razione maravigliosa. Le grandi piramidi di Egitto, monumenti che dopo tre mila e più anni già scorsi conservano e conserveranno quasi la durata delle montagne, di cui sono l'immagine, sorprendono la mente umana pensando alla mole di fondamenti, alla massa colos- sale che sorge fuor di terra, alla loro elevazione, e in fine alla perfezione della loro struttura. La pira- 342 Belue Arti mide di Caio Cesilo, che forma senza fondamenti una solidità di circa 12 mila metri cubi di muro rivestita di marmo, diviene un modelletto di quelle d'Egitto, considerando che queste ultime oltrepassa- no la cubatura di due milioni e mezzo di metri cubi di granito e pietre calcari fuor di terra. Si deve dunque naturalmente congetturare che le arti della costruzione presso gli egiziani giungessero ad alto grado di perfezione , principalmente pensando alla lavorazione di una sorprendente esattezza, tal- volta operata sopra masse durissime di granito, di porfido e di batalte , e alle operazioni meccaniche che fu loro necessario per lavorarle, muoverle ed elevarle. I più antichi monumenti e le più renf>ote co- struzioni d'arte sono le egiziane e le italiane. E ve- ro che le memorie degli scrittori sembrano ricor- dare un'antichissima civiltà nei caldei, negli assiri e nei fenici, anteriore o almen coeva all'egizia ed ita- liana; ma di questi popoli non rimangono che sem- plici frammenti d'istoria facili a congetturarsi in più sensi, e veramente non resta di essi una pietra, un sasso che ricordi di fatto la loro sapienza: e certa- mente le loro opere non furono di gran rilievo, .se nulla rimane delle medesime. Si trovano al contra- rio in questa nostra penisola monumenti antichissimi anteriori di molti secoH all'origine di Roma, cioè prima che la Grecia fosise incivihta. Si rammenta in queste nostre contrade una popolazione tanto lon- tana dai nostri padri, che gl'istorici greci giunsero a chiamarla coll'ampollosa espressione di gente na- ta da se stessa, ed avanzata e scampata dalle acque Architettura pràtica 343 che inondarono la terra. Senza rimontare ad epoche sì remote, è certo che una stirpe italica passò a re- gnare in Troia, e che i tirreni occuparono le prin- cipali città dell' Ellenia fondandone ancora delle nuove, come Lesbo, Atene , Samo ecc. , prima che usciti fossero dallo slato di barbarie, mentre, al dir degli stessi greci, ancor si cibavano di ghiande , e si vestivano di pelli (1). Le prime costruzioni di questi nostri aborige- ni furono, a modo di dire, naturali ed artifmali^ cioè il taglio del monte e le mura espressamente fabbricate di pietre poligone e quadrate. Magnifiche opere si veggono del primo genere nelle tombe di Cere, di Tarquinia, di Vulcia, di Perugia ecc. in cui si scorge un modo originale tendente all'imita- zione dei lavori di legname, particolarmente nelle soffitte rappresentanti per Io più una struttura di travi , di travicelli di tavole , di lacunari ecc. In questi vetustissimi monumenti si osservano i primi tentativi delle modinature, degli ordini architettoni- ci così detti dorici e ionici, e molte altre singola- rità, che dimostrano esser qui stata una gente an- tichissima che creava le arti da se stessa, e certa- mente in un' epoca in cui i greci non erano mai approdati ai nostri Udi. Questa medesima costruzione del taglio del mon- te fu praticata anche come fortificazione nelle cinte delle città, per difendersi dagli assalti degli estranei: e si veggono tutto dì fatte di questa maniera le (1) Veggasi la mia rfisserlazione intorno alle genti ed alle arti primitive d'Italia. Atti dell'Accad. Rom. di Archeologia, t. Vili. 344. Belle Arti anlichissime mura di Alba Longa, del Tuscolo, di Arce, e della stessa rocca Tarpea, tagliate nel vi- vo scoglio nei fianchi dei balzi e delle rupi. Delle mura poligone poi sono oltre 300 mo- numenti in Italia eppure non è mancato chi abbia voluto sostenere, che i nostri padri le tolsero ad imitare dai greci sull'esempio di dieci o dodici mo- numenti trovati in quelle contrade: monumenti che sono ancor dubbi dell'identità, mancando il sicuro esempio delle vere mura italiche, sebbene si potes- se anche supporre che artisti tirreni ve le avessero fabbricate. Infatti si può dimostrare facilmente, che gì' italici emigrarono in Grecia prima che gli cileni penetrassero fra noi: e la famiglia etrusca dei Dar- dani, che regnò in Troia, e la spedizione degli ar- gonauti ne sono prove evidenti. Queste mura sono di maravigliosa struttura, vedendosi le pietre connes- se mirabilmente fra loro, e ricercati gli angoli con sorprendente lavorio , talché sembrano fatte di un sol getto. Presentano in niolti luoghi masse lauto enormi, che paiono opere di giganti, e da ciò forse trassero il nome di ciclopee. Bellissimi monumenti di queste costruzioni offrono le mura di Alatri, Se- gni, Ferentino, Preneste, Amelia, Spoleto, Chiusi, Cortona ec. , e dimostrano evidentemente che fu duopo di molt'arte e magistero per eseguirle. Un antichissimo ponte trovato impietrito pel vagar delle acque veline, prima dell'eccelsa opera di Curio Dentato, sul fianco della sinistra sponda della Nera presso Terni (che rimonta perciò ad un'epoca remotissima molto anteriore all'origine di Roma), si osserva costruito di masse poligone e parallelepipe- Architettura pratica 34^ de. Questo monumento adunque ci dà il diritto di gloriarci inventori dell'una e dell'altra costruzione, come ci tramandarono i mitologi colla favola di Sa- turno, che dal ciel cacciato discese nella terra sa- turnia, o sia nell'Italia, per insegnarvi le arti dell'a- gricoltura e del fabbricare. I monumenti storici fin qui esaminati ci fanno conoscere che i popoli antichissimi, oltre la costru- zione delle mura a taglio sul fianco delle rupi, oltre di quella a masse poligone e parallepipede, oltre le colonne e gli architravi, non aveano azzardato for- malmente veruna altra maniera di fabbricare. Fu per allargarsi negl'intercolunni, nei vani e negl'intervalli delle mura parallele , che furono inventati gli ar- chi e le volte: e l'indicato ponte, e la cloaca massi- ma sono le più antiche memorie di questo genere di costruzione, onde gl'italiani possono di nuovo pre- giarsi anche di questa invenzione. Poiché gli egi- ziani non ardirono di allontanare le colonne oltre due diametri, o sia quanto richiedeasi alla natura e solidità degli architravi di una sola massa di pietra: per cui occorrendo loro di avere grandi vani ud muri, non seppero. trovare altro artificio, che sepa- rarli e dividerli senza piattabande, I greci, sebben giungessero nelle arti a toccare il sommo della perfezione e della grazia , tuttavia non conobbero che tardi la maniera di fabbricare Prima d'impiegare i marmi e le pietre si accomo- darono alle costruzioni di legname, e le reggie degl' eroi di Omero e i primitivi edifici citati da Pausania non ricordano che antichissime opere dedalee, o sia 346 Belle Arti di legno (1), Allorché con eleganza tutta propria di loro introdussero le pietre e i nnateriali laterizi, se- guendo una lontana imitazione delle opere primitive di legname, essi videro la necessità degli archi e del- le volte cilindriche, che dobbiam credere traessero dall'esempio e dall'usanza dei popoli italiani; poiché, come abbian veduto, i più antichi monumenti sono in Italia. I romani , che ne' primi secoli ebbero le arti primitive degli etrusci, superarono poscia in ogni maniera di costruzione quelle difticoltà, alle quali sembrarono arrestarsi gli egiziani ed i greci. Essi moltiplicarono l'uso dei più arditi lavori di archi e di volte, perfezionando i modi delle costruzioni, in- ventando le opere di cortina e di reticolato, le volte emisferiche , a crociera , a lunette , tagliando nel seno dei monti lunghi trafori o gallerie ec. , ed usando i materiali eoa tale combinazione di genio, che l'arte di fabbricare sembrava progredire ed ac- crescersi colla forza civile e politica del loro gover- no. Finalmente la grandezza e la magnificenza delle pietre e dei metalli parvero dilatarsi coU'estensione dell'impero, e fu tentata ogni maniera di gigante- schi edifìci, senza timore delle più gravi difficoltà d'arte: come di natura avviene ai popoli possenti e (1) Di legno era la reggia di Ulisse, e tutta consisteva nell'a- trio, nel cortile ed in alcune stanze intorno all'atrio, il quale for- mava la gran sala, dove i proci regalmente banchettando di solo pane, vino e carni abbrustolite, con gran diletto si trastullavano: e Penelope, lasciata l'occupazione delle spole e della conocchia, ascen- dea alla dedalea saia dei proci pregando Femio che volgesse il can- to ad altro argomento, e lasciasse l'Odisseo a lei troppo molesto. Architettura pratica 347 signori delle alhe nazioni, i quali alle glorie dì con- quista sembrano voler aggiungere anche quelle delle arti e della civillà. Ma col declinar dell'impero caddero a poco a poco le stesse arti, e cominciò a mirarsi una goffag- gine ed una imperfezione , che sembravano figlie della miseria e dell'adulazione, e quindi anche dell' ignoranza e della mal intesa frettolosa esecuzione. Si desiderò d'imitare l'antica grandezza coll'accop- piare insieme i materiali di differenti edifici rovinali per trascuraggine e per povertà. Siffatte vicende sof- frirono l'anfiteatro Flavio, il tempio così detto della Concordia ed altri simili monumenti. Contultociò in quest'epoca furono tentate molte ardite costruzioni, grandi archi e grandissime volte sopra gli archi me- desimi, forse non prima arrischiate con tanto co- raggio. All'architetto del tempio della Pace die l'a- nimo di osare simili ardimenti, in cui la gran volta di mezzo è posata sopra sei arconi, le cui forze so- no concentrate nei piloni degli arconi medesimi per mezzo delle crociere. Si tentò anche di risvegliare qualche volta la passata magnificenza coli' erigere nuovi grandiosi edifici; ma essi non furono che un accozzamento di barbarie e di meschina imitazione. Ne fanno testimonianza l'arco di Costantino, che si servì dei materiali di quello di Traiano , le terme ed il circo di Caracalla ec. Queste ultime dimostra- no tuttavia a quali termini si possono ridurre le co- struzioni delle volte coH'alleggerirle e mischiarle di figuline e vasi di terra cotta. Le rivoluzioni dei popoli settentrionali contro l'impero, e la trasportazione dello stesso impero nel!' 348 Belle Arti oriente, cagionarono l'ultima rovina alle arti. Fu neir Vili secolo, sotto il regno di Teodorico, che parve un momento risvegliarsi in questa classica terra il gusto delle medesime. Egli da Ravenna con lettere di Cassiodoro inviava al prefetto di Roma l'archi- tetto Aloisio, a/fmchè volesse conservare e r istaurare^ son sue parole, quella magnifica selva di edifici^ che sembrava falla di (jetto^ e quella stupenda mollitu- dine di statue che formava un''altra popolazione. Pa- role che dimostrano la sapienza e la gentilezza di quel principe. Ma ciò non fu che un breve tempo: e le orde dei barbari, inondando questo suolo, por- tavano colle guerre il guasto e la rovina per tutto. Veggansi le storie di Procopio e di Giambullari. Intanto a que'tempi ebbe origine quello stile, che chiamerei romano di decadenza , perchè fatto con accozzamento di principii e di frammenti più antichi. Questo stile si svela chiaro nella Rotonda e nella chiesa di s. Vitale a Ravenna, di s. Agnese e di s. Lorenzo fuor delle mura di Roma, e in tutte le chiese di quell' epoca. Si combinarono poscia al medesimo quelle idee, che produssero i ristauri im- maginati all'azzardo: idee che rimasero convalidate dall'esperienza della solidità. Primo elemento fu di apporre un sostegno sotto al mezzo degli archi, che è in fatti il punto più debole, perciò quasi sempre lesionati alla chiave, come si vede al tempio della Pace e in molti altri monumenti antichi. Questo elemento si vedrà poscia imitato espressamente nei secoli di mezzo, generando così l'arco acuto, cioè imo de'più marcati principii elementari dello stile cosi detto gotico, i cui primi esempi sono in Italia, Architettura pràtica. 349 cioè in quella terra nella quale le arti amarono di stazionarsi come in privilegiata dimora. La chiesa di s. Scolastica a Subiaco è il primo monumento di questo stile, perchè rimonta al principio del se- colo X, cioè quando i goti lasciarono respirare que- ste nostre contrade dalle loro incursioni, e quando le altre nazioni non avevano ancora né scienze, né arti. Lo stile gotico, che si può riguardare una con- tinuazione del romano di decadenza, ed il romantico dell'architettura, non è che una rivoluzione com- pleta dei principii fondati dai classici maestri greci e romani, e sembra creato da una setta, che nau- seata del bello e del buono, come accade comune- mente negli animi volgari non educati alla virtù, amasse una novità con un sovvertimento direttamente opposto a quanto si era utilmente e ragionevolmente praticato fino allora. Quindi dispiaceva ad essi il prin- cipio dell'euritmia, la quale dispone che nel mezzo delle fronti degli edifici corrisponda un vano , a destra e a sinistra un egual numero di ornati e di vani, sicché questi risultino nella fronte medesima di numero dispari, 'e i pieni di numero pari. Essi al contrario amavano il pieno nel mezzo, il numero dei vani pari, e quello dei pieni dispari. Usarono i nostri padri le figure e le forme regolari conforme alle leggi della semplicità e della statica: quindi l'arco semi-circolare, le figure del circolo, del quadrato, dell'esagono, dell'ottagono, e di tutte le altre figure inscritte nel circolo medesimo. Quindi le eleganti proporzioni degli ordini e degli intercolunni dettate dall'osservazione e dall'esperienza in genere, tutte le 3i5© Belle Arti belle simmetrie dotate non solo di una solidità reale, ma altresì apparente. Gl'innovatori al contrario introdussero 1' arco acuto e le figure mistilinee, abborrirono le giuste proporzioni, facendole prima basse e pesanti, poscia troppo svelte ed esili con fusti di 16 a 20 diametri di altezza mancando così ad ogni apparente solidità. Il grandioso fu cangiato in trito, l' ornar semplice in trafori e merletti, e l'economico in più grave di- spendio. Siffatta irragionevolezza è pure sembrata ai popoli del nord tanto maravigliosa , che mirando alla leggerezza, di che quegli edifici sembrano col- pire la mente dell'ignaro osservatore, si è slimata de- gna d'imitazione. Lasceremo la gloria di questi so- gni e deliri alle genti agghiacciate di Arturo, cui non scaldò mai il petto una favilla di genio, cammi- nando noi sul sentiero dei classici, da' quali per ven- tura non si dipartì giammai questa regina delle ar- ti, non contaminata da siffatte laide innovazioni im- maginate soltanto dallo spirito di novità, più facile a trovasi nel disordine che nel progresso dei sani principii, e delle giuste regole delle scienze e delle arti. Noi vergogneremo solamente di aver dati gli elementi a questo barbaro stile colla necessità di ri- staurare le stupende opere dei nostri maestri, e di aver data origine a tanta frenesia della mente umana con edifici che furono i primi (siccome maestri ìu ogni tempo di arti agli altri popoli) di questo sov- vertimento, al quale solamente si vuole attribuire il merito di aver tentato fin dove può giungere la economia della materia nel fabbricare. Ma di que- sta vergogna dovremo dolerci un' altra volta, allor- Architettura pràtica 351 die dal bello, in cui risorsero le arti, ricaddero nel manierato e nel goffo, come si dirà in seguito: gof- fagine e maniera, da noi appellata barocco, che pur suo malgrado dettò leggi d'imitazione nel resto di Europa, imitazione che ora si rinnovella con stile chiamato di fantasia e con corrotto vocabolo roeoccò: perchè gli stranieri, più dell'ispirazione del genio, sentono la servile imitazione, trattando le arti sublimi come il capriccio del vestire. Dall'ignominia del così detto gotico ritornarono le arti a sollevarsi, e le di- vine menti di Dante e di Petrarca, rivolte allo studio dei nostri classici e della dotta antichità, accesero in Italia molto prima che altrove l'amore delle buone discipline. Brunellesco e Leon Battista Alberti, nati sul finire di quel secolo, furon due lumi, che simili al levar del sole diradarono le nebbie gelate della notte. Il primo coll'arte, il secondo coi precetti, en- trambi colle opere e collo studio degli antichi mo- numenti, segnarono la sicura via e l'epoca gloriosa del risorgimento dell'architettura. Ben presto in Ita- lia, senza divider nulla cogli stranieri, sorse una ischiera di geni, anzi una popolazione di sommi ar- tisti , che alla mente umana reca maraviglia che tanti ne potesse generare questo classico suolo. Gli stranieri, invidiosi della nostra gloria, tentano di ri- petere, ma invano (che l'oro non si macchia), da cau- se estrinsiche, diverse dal genio ' italiano, le opere sublimi ed eccelse di questa nostra patria dolcissima. In quest'epoca luminosa d'i«gegni elevatissimi la costruzione fece ugualmente grandi progressi. Un Brunellesco potè proporre ed eseguire 1' opera più ardila che siasi mai tentata nella cupola di s. Maria 352 Belle Arti del Fiore, segnando un'epoca distinta nella storia dell'arte. Nel 1420 furono chiamati a Firenze i più celebri architetti, onde compiere l'opera di Arnolfo. Vi accorsero dall' Inghilterra , dalla Francia , dalla Spagna, dalla Germania, dall'Olanda per far progetti di quella cupola, niuno per saperla eseguire. A sostenere tanta mole proposero armature, pi- lastroni, grandi archi, monti di terra ed altre simili goffaggini. Brunellesco, unico nella sua idea, propose di far non solo una, ma due cupole, Tuna dentro l'altra. Fu deriso e creduto insensato, e finalmente scacciato come pazzo dall'assemblea de'magistrati, al- lorché sostenne di tutto eseguire senz'armatura. Noa pertanto avea con molta sagacità fatto mistero del suo modello, e reggeva la sua oppinione col trivia- lissimo giuoco di sostenere un ovo in piedi : la qual cosa, tentata da tutti que'grandi architetti senza riu- scita, terminò col far egli vedere che com'era facile il reggerlo, cosi sarebbe poscia sembrato facile il sostenere la cupola dopo che ne avesse spiegato il concetto. Giunse cosi il nostro architetto, col dar oc- casione di meditare alle sue speciose contemplazioni, a movere l'opinione di que'magistrati, e potè otte- nere di erigerne qualche braccia sotto la sorveglian- za del Ghiberti architetto materialissimo. Ma con eguale impegno seppe scansarlo e ri- dursi solo nell'opera : talché, confermato al compi- mento della medesima, la portò tant'oltre che alla sua morte non mancavano che l' esterno del tam- buro ed il lanternino. È singolare che questo gran- de artista cadesse in un errore, nel quale cadde pur anche quell'ingegno trascendente di Michelangelo , Architettura pratica 353 di far caricare potentemente la cupola nella sua sommità. Imperocché raccomandò caldamente , che il suo lanternino fosse costruito non solo a forma del modello , ma benanche di pietre pesantissime ; pensando erroneamente, che la curva spingesse all' insii, mentre al contrario spinge ai fianchi, e la sta- tica dimostra che del minor peso possibile si deve ca- ricare il vertice di una volta. Esaminando artisticamente questo slancio dell' arte, che fu riguardato come un capo lavoro sovru- mano d'intelligenza e di ardire, scema tanta maravi* glia, allorché si consideri, che non è che una imi- tazione più audace e sicura di opere colossali del- l'antichità. Perché il Brunellesco, facendo una cu» pola posata sopra un ottagono regolare e forato di archi ne'suoi piedi, è da credere che togliesse la pri- ma idea dai tempii antichi del cosi detto della Tosse a Tivoli, di quello prossimo al circo di Caracalla, e di altri. Così Michelangelo mostrò più da vicino l'asso- ciazione di due opere gigantesche, allorché disse di volere slanciare il Panteon sul tempio della Pace, che tradotto in altri termini vuol dire di sostituire alla crociera di mezzo del tempio della Pace il Panteon. Anche Sangallo e Bramante avrebbero forse meglio mostrata eguale prontezza, quando il primo compi la cupola di s. Pietro col partito del Colosseo , ed il secondo con più eleganza della mole Adriana. Pen- sieri sublimissimi, che dopo di aver assegnato un nome immortale al Brunellesco , come primo ristau- ratore dell'architettura, stabilirono altresì una som- ma gloria a Michelangelo, al Bramante e al Sangallo. La costruzione di quest'epoca fortunata di ri- G.A.T.CXVIII. 23 354 Belle Arti sorgimento del genio italiano, inclito vanto non di- viso collo straniero, porta l'impronta delle opere co- lossali, ed una facilità di superare le più grandi dif- ficoltà dell'arte. Archi, volte e moli smisurate furono erette, se non superiori, emule al certo dell'antica grandezza romana. Ognun concepirà quanta cono- scenza e perfezione di arti meccaniche occorressero nella costruzione di tali opere, onde eseguire tanta sublimità di concetti. Ne'secoli posteriori gli artisti annoiati della bel- la semplicità e purezza, dati in preda al capriccio e ad un eccessivo amor di novità, di cui il prepo- tente ingegno di Michelangelo fu mal seme, volta- rono le arti nella corruzione e nel bizzarro. Soltan- to lia costruzione continuò a far progressi, perch'era d'uopo di piegar la materia alle stranezze. Si deb- bono a quest'epoca le volte ribassate e piatte, le più magnifi^che scale a campo aperto con rampanti iso- lati ^ e l« moli erette sui voti sottoposti. Le volte ribassate del pon»e di s. Trinità a Firenze, le piatte dell'oratorio di s. Filippo in Roma, le scale di Ge- nova, l'obelisco di piazza Navona, offrono l'esempio di tanta novità ed ardire. Anche la diligenza, la pre- cisione, la solidità furono il carattere delle arti di questai epoca, perchè l'invenzione di tanti cartocci, Ciirve strane e contorte ecc. , le costringerà alla necessità delCesaltezza di costruzione. Le opere dei Borromàsi e dei Guarini, mentre presentano il ca- priccio e V insania della mente sotto il velame di genio, ci dimostrano egualmente che non temevano di assoggettar le arti e di modificar le materie alle p'¥Ù strane immagini. Architettura pratica 355 In questa medesima epoca furono coltivati con gran fervore gli studi delle scienze esatte: e col sussidio di queste crebbe mirabilmente, onde si moltiplicò la novità e l'ardire delle costruzioni. Negli archi e nelle volte elittiche si giudicò di vedere nuove bellezze, ri- guardando come bello il difficile, e furono usati an- che dove non era d'uopo per fare pompa di sapere e d' ingegno. Si deve però ad essi quella grande utilità di poter con siffatti artifici sbarazzare l'oj^e- ra da ogni altro ripiego principalmente dov'è limi- tala l'altezza dell' estradosso , e dove si richiede al contrario moka larghezza di luce, come accade or- dinariamente nei ponti. Le celebrate opere di Per- ronet in Francia, ridotte a curve di più centri, par- tono da questo principio e dall'esempio più antico del citato ponte di s. Trinità in Firenze e di Rial- to in Venezia. Poiché non bastava conoscere l'im- portanza di detto principio, conveniva altresì conce- pire tutte le difficoltà della costruzione di una volta quasi piana, per soddisfare alla solidità, per dare il libero passaggio alle escrescenze delle acque di un fiume al disotto, e dei carri al di sopra del ponte, conservando il piano della strada. Si può asserire che questa specie di edifici abbia ottenuta dai principii ma- tematici tutta quella perfezione, che umanamente si può desiderare, essendosi veduto a'giorni nostri get- tare sulla Dora un ponte ribassato della luce di 140 palmi, che fatto di pietra è la più grande opera che si conosca di questo genere. Convien però evitare di por- tar al fanatismo questa maravigliosa esecuzione: po- tendo facilmente cadere nell'errore, per soverchia pompa di scienza, di applicarla dove non bisogna, co- 356 Belle Arti me avvenne ad un esimio e celebrato nostro architet- to, che in un progetto di ponte suU'Aniene della luce di pai. 00 lo avrebbe quivi edificato, se morte non troncava i suoi giorni, di una curva ribassata a più centri, mentre al contrario occorreva di tutto sesto per non discendere da ambo i lati colla strada. Nacque a quest'epoca la scienza idraulica, tut- ta di gloria nostra, come crebbe fin qui senza che lo straniero abbia ancora a parteciparne; e con essa ebbero origine i trovati di mirabili costruzioni nelle acque. I porti marittimi, di cui gli antichi ci lascia- rono i più magnifici monumenti , i canali naviga- bili, i sostegni, invenzione veneziana imitata poscia dai francesi nel canal di Lingua doca , e a' dì no- stri da molte altre nazioni , le botti sotterranee dei fiumi, i trafori per le strade e per le acque, inven- zioni arditissime dovute agli antichi nostri italiani imitate poscia dai moderni, sono sorprendenti idrau- lici edifìci, in cui si riunisce la scienza, la perfezione delle costruzioni, e la somma utilità. La moltitudine dei canali navigabili sparsi in Italia, delle botti sot- terranee del veneziano, del bolognese, del mantovano del modenese, saranno sempre monumenti non meno celebri delle eleganti fabbriche delle antichità. Gli stessi principii, che dimostrano l'avanzamen- to della civiltà, hanno illustrato l'ultimo secolo e questo nostro non solo col risorgimento del gusto e del bello nelle arti, ma eziandio col moltiplicare le opere in Italia, in Inghilterra, in Francia, e col- ì'aggiungere altre invenzioni mirabili di sommo ma- gistero. I ponti di ferro imitanti quelli di pietra portati ad una luce quasi creduta impossibile, i pon- Architettura pratica 357 ti sospesi di una luce ancor più ampia, anzi di gran lunga maggiore, la costruzione dei passaggi sotter- ranei ai fiumi di grandissima portata, le strade di ferro, e la sostituzione del vapore alla forza mec- canica degli animali e dell'acqua, sono opere tenta- te e sviluppate dalla ricchezza di alcune nazioni , che segneranno senza dubbio un' epoca luminosa nella storia dell'arte di fabbricare. Converrà solamen- te che l'architetto sappia farne una giusta applica- zione, potendo accadere in moltissimi casi che i me- lodi antichi siano preferibili ai moderni. Tal'è in breve la storia delle costruzioni: e a noi non resta che raccogliere dall'esperienza di quel- la e del calcolo matematico i più maturi risultati, onde procedere con maggior sicurezza all'arte pra- tica dell'edificare , la quale quando sia con scienza esercitata contribuisce ad imprimere agli edifici il primo grado di bellezza e di perfezione , e quella sensazione di maraviglia e di lunga durata, che de- sta naturalmente una fabbrica solidamente e mae- strevolmente costruita. mm sm D'un bassorilievo di Andrea CorUucei da Monte San- savino^ rappresentaìite l'assalto di Ar-Zila, piaz- za deW Affrica presa da Alfonso Vre di Portogallo. Descrizione inedita del celebre prof. Antonio Nibby. U n bel lavoro del secolo XVI, il più felice nella storia moderna delle arti del disegno. E' questo un bassorilievo intagliato in legno , che ha sei palmi e mezzo per ogni lato, e rappre- senta la presa per assalto di una città, accompagna- ta da una battaglia feroce. Le armi ed i lineamen- ti del volto delle due parti combattenti fanno di un tratto ravvisare, che il fatto è fra europei e mori, che i primi sono gli assalitori, che ai mori appar- tiene la città che è presa di assalto, e che sul pun- to della presa sopraggiunge un soccorso di mori , che invano si oppone all'eccidio. E' la città cinta di mura, difesa da torri co- perte di armati , situata sulla sponda destra di un fiume, presso alla sua foce nel mare. I nemici con molte barche danno la scalata dal canto del fiume: e penetrando entro le mura, mettono il fuoco alle case, che veggonsi andare in fiamme, e corrono ad aprire la porta ai loro compagni, i quali così pe- netrano anche essi pel ponte, e si scagliano con fu- rore entro la terra. Di fuori appariscono qua e là in distanza qua- drati di armati e fuochi nella campagna: una ma- no di cavalieri s'imbosca entro una selva aspettan- do che i mori v' imbattano. Ma nel primo campo Bassorilievo del Contucci 359 vedcsi espressa una battagiia terribile di cavalleria, nella quale distinguonsi i capitani delle due parti nemiche: ed è indescrivibile la verità del movimen- to, l'impeto de'cavalli, la furia delle persone, a segno che la mente riman stupefatta e si conduce sul luogo della pugna. Ed appunto in questo movimen- to si ravvisa bene il carattere della scuola fiorentina, come pure nella forza muscolare delle figure sì de- gli uomini e sì dei destrieri. La forma delle armi è di quel secolo , abbellita alquanto dalla eleganza antica. Negli scudi degli europei vedesi dominare una maschera leonina , simbolo della forza e del coraggio: in quelli degli affricani è la terribile gor- gone, emblema tutto affricano , nei quale viene fi- gurata la rabbia venefica de'mori. Ho notato, che il lavoro si annuncia a prima vista per opera del secolo XVI e di un artista insi- gne della scuola fiorentina. Scorrendo le vite degli scultori , che particolarmente si distinsero nell'arte di scolpire in legno, creta, marmo e bronzo, a niu- no parmi poter attribuire questo lavoro con mag- gior verosomiglianza , se non ad Andrea Contucci dal Monte san Savino , col quale mirabilmente si accorda il soggetto. Imperocché narra il Vasari nella sua vita, che avendo quell'artista fatto molti belli lavori, e divul- gatosi il nome suo, fu chiesto al magnifico Loren- zo de 'Medici, il vecchio, nel cui giardino aveva at- teso agli studi del disegno , dal re di Portogallo. Andrea vi andò , ed edificò per quel re un palaz- zo, e fece molte opere di scultura, fra le quali si ricordano un altare di legno con alcuni profeti ; 360 Belle Arti particolarmente però il modello dicesi eseguito in terra cotta per il colore che gli rassomiglia, ma in realtà fu in legno per poi farsi di marmo, di una battaglia bellissima fra quel re ed i mori, che furo- no da lui vinti: Della quale opera non si vide mai di mano di Andrea la più fiera né la più terribile cosa per le movenze e varie attitudini de' cavalli^ per la strage de' morti ^ e per la spedita furia de"" soldati in menar le mani. Andrea stette nove anni in Porto- gallo; e quindi con buona grazia di quel re se ne tornò a casa, lasciando chi là desse fine alle opere che rimanevano imperfette. Ora io credo che fra queste fosse il bassorilievo della battaglia, del qua- le per maggior sicurezza, oltre il modello in terra, avrà fatto anche questo in legno, (.r. Andò pertanto il Contucci in Portogallo essen- do ancor vivo Lorenzo il magnifico: ora questi morì, secondo il Machiavelli, nell'aprile dell'anno 1492, e perciò prima di quella epoca fu l'andata di An- drea in Portogallo. Rimase colà nove anni, regnando sempre lo stesso re : e per conseguenza durante il regno di Giovanni II, che succedette al padre Al- fonso V soprannominato 1' AfFricano per le sue im- prese di Affrica, l'anno 1481, e mori nel 1495. D'al- tronde era nato il Contucci nel 1460, secondo il Vasari: quindi parmi doversi stabilire il suo viag- gio in Portogallo circa l'anno 1485, quando avea 25 anni, cioè 7 anni prima della morte di Lorenzo. Fissalo questo punto cronologico , sappiamo dallo scrittore portoghese G. Battista de Castro nel- la Mappa de Portugal^ t. I p. 323 e seg. , che Al- fonso V ai 24 di agosto 1471 prese colla medesi- Bassorilievo del Contucci 361 ma fortuna, con che si era impadronito di altre ter- re dell'Affrica, anche Ar-Zila. E questa una città si- tuata di là dal capo Spartallo, 5 leghe distante da Tanger , alla foce del fiume dello stesso nome e sulla riva destra di esso, appunto come nel basso- rilievo è rappresentata: città ricordata da Sfrabonc col nome di Zales, Zelis : da Plinio con quello di lulia Constantina, Zilis: da Mela Zilia, e da Tolo- meo Zilea , Zilsioc , nome che avea comune coi fiume. In quella impresa, secondo lo scrittore por- toghese sovra indicato, il figlio di Alfonso, Giovan- ni, che dieci anni dopo salì sul trono avendo 16 anni, si trovò presente, ed operò prodigi : A eom- panhouven paz clerey d. Affonso na gloriosa conquista de Ar-zila^ onde obrou accoes mayores que a sua idade promettia. Veggasi inoltre Garcia de Resende nella Vida del rey Iona II e. V. È dunque nel bas- sorilievo rappresentata la presa di Ar-Zila fatta per opera di Alfonso V, ed alla quale assistè e contri- buì Giovanni, principe reale, con molto valore. Quin- di il Contucci, che era alla corte di Giovanni me- desimo, volle rappresentarla. I particolari di quella conquista importante, raccolti da Chenicr nella sua opera intitolata Reehcrehes historiques sur les maures et V empire de Maroc^ T, II p. 414, si accordano pure con quello che vedesi espresso nel bassorilievo. Il re Alfonso, profittando dell'imbarazzo in che trova- vasi il re di Marocco Muley Sceik, imbarcossi il /3 di agosto: il 20 fu in istato di assalire la piazza, e sì la strinse che la mattina del 24 il governatore chiese di capitolare. Ma i portoghesi non diedero il tempo di entrare in trattative, e montarono all'assalto dando 362 Belle Arti la scalata alla città. Accorsero i mori, e fra loro ed i portoghesi seguì una zuffa accanita. Ma i porto- ghesi, impadronitisi delle porte, fecero entrare l'eser- cito del re : i mori furono passati a fil di spada; non si die quartiere che alle donne ed ai fanciulli, che vennero condotti in ischiavitù. Fra le altre persone vennero in potere di Alfonso due donne ed una fi- glia di Muley Sceik , che furono l' anno seguente cambiate col corpo di Fernando principe, che era ne- gli anni antecedenti morto prigioniero a Fez, e che fu allora condotto a Lisbona con grandissimi onori. La conquista di Alfonso V fu nel secolo se- guente abbandonata da Giovanni III, che salì sul trono di Portogallo l'anno 1521: che, secondo il lo- dato de Castro, nell'impegno di continuare la conqui- sta della India rilasciò ai mori di Aflfrica quattro piazze principali, Alcacer, Ar-Zila, Cafrin ed Aza- raon: di che tanto querelossi Manuele Fasia. Questo prezioso lavoro di Andrea Contucci era in proprietà dei duchi d'Altemps, e dicesi che lo possedessero sic- come donato al pontefice di quella famiglia, il quale era fratello di Chiara madre del cardinale Marco Sit- tico d'Altemps, che tanta figura fece ne'pontificati della ultima metà del secolo XVL Dalla casa d'Al- temps poi fu venduto, ed attualmente lo possiede il gioielliere Castellani di Roma. 363 Programma del grande concorso dementino e pel pre- mio pittorico Pellegrini^ che si giudicheranno nel MDCCCLI dall'insigne e pontificia accademia ro- mana delle belle arti denominata di san Luca. I 5 u insigne e pontificia accademia ha determinato di pubblicare il grande concorso dementino ed insie- me il premio di pittura fondalo dalla eh. mem. del prof. Domenico Pellegrini. PRIMA CLASSE Daniele in Babilonia difende Susanna avanti i giu- dici dalle false accuse che le danno ; due vecchi. - f^. Il libro di Daniele cap. 13. Quadro ad olio in tela, lungo palmi cimfue ar- chitettonici romani , cioè metro 1,115; alto palmi quattro, cioè metro 0, 892. SECONDA CLASSE S. Giovanni Battista rimprovera il tetrarca Erode Antipa del suo incesto con Erodiade. t^. Il Vangelo di s. Marco cap. 6. Disegno in figura, in foglio lungo tre pahni ro- mani., o sia metro 0,670; alto due palmi, o sia metro 0,446, non compreso il margine. 364 Belle arti PRIMA CLASSE Un episodio della strag^e degl'innocenli. Gruppo di tutto rilievo^ iti gesso o in terra cot- ta, deW altezza di tre palmi romani, cioè metro 0,,G70, non compreso lo zoccolo. SECONDA CLASSE Trovandosi N. S. Gesù Cristo con gli apostoli, se gli avvicinò una donna e l'adorò, pregandolo che gli piacesse guarirle una figliuola, cb' era posseduta dal demonio. Gesù Cristo, dopo averle fatto alcuna do- manda, le disse : « O donna, grande è la tua fede ! Sia fatto ciò che desideri. » - V. Il vangelo di s. Matteo cap. 15. Bassorilievo in gesso o in terra cotta, lungo palmi romani cinque, cioè metro 1,115; alto palmi tre, cioè metro 0, 670. PRIMA CLASSE Una basilica da edificarsi sulle norme delle co- stantiniane tanto nella parte interna , quanto nella esterna. Deve esservi annessa 1' abitazione per dodici canonici ed altrettanti beneficiati, e per gl'inservienti. Il suo prospetto verrà decorato da una magnifica piazza con portici all'intorno. Non vi si debbono omettere la torre campanaria e la torre per l'orologio innestate in modo che non turbino per nulla la dignitosa unità dell' edificio. Lo stile da adottarsi dev'esser puro e severo, senza mancare di nobiltà e di eleganza. Concorso Clementino ec. 365 Tutto V edificio sarà dimostrato in sette tavole : cioè una pianta , tre sezioni, due prospetti , cioè il principale e (jucllo di fianco, ed una di (luahhe parte pili importante della fabbrica: usando a tal uopo fo- gli lunghi palmi 3 9|,^ , o sia metro 0,840; largo pal- mi 2 7 1,2, o sia metro 0,576. SECONDA CLASSE Un battlsterio isolato e prossimo alla basilica, di cui si è trallafo nella prima classe. Il progetto verrà dimostrato in quattro tavole : cioè una della pianta, un altra del prospetto, una terza della sezione, ed una ili alcune particolarità principali. I fogli avranno la medesima dimensione di quelli prescritti per la prima 'classe. PREMIO PITTORICO PELLEGRINI I tre principi idumei che compiangono Giobbe , mentre la moglie di lui lo schernisce, ì^. Il libro di Giobbe cap. 2. Quadro ad olio, alto palmi sei romani architet- tonici, o sia metro 1 . 345 ; largo palmi otto romani architettonici, o sia metro 1. 780. ORDINE DEL CONCORSO 11 giorno della solenne distribuzione de'premi verrìi determinato con particolare avviso. 36G Belle Arti Ogni artista, di qualsiasi nazione, potrà fare espe- rimento del suo valore in quella classe, ove non abbia ottenuto mai premio in alcuno de'grandi concorsi ca- pitolini. Le opere saranno consegnate al professore segre- tario perpetuo dell' accademia , nella residenza delle scuole accademiche a Eipetta , il giorno 20 di feb- braio 1851. Ogni opera da presentarsi al concorso avrà scritta una epìgrafe, e sarà accoroj>agnata da una j lettera si- gillata, che conteftga il nome dell' autore, la patria e l'abitazione, ed abbia di fiiori ripetuta l'epigrafe mede- sima, ond'è notata l'opera. Ne'giorni 24 e 25 di esso mese i concorrenti sa- ranno sottoposti a prove estemporanee sopra temi tratti a sorte. Queste prove, affinchè bastino a far conoscere se l'opera presentata sia dell'autore che la presenta, con- sisteranno negli esperimenti che qui seguono : Per la pittura, nella prima classe e nel concorsi> al premio Pellegrini, si farà un bozzetto d'invenzione nel primo giorno e nel termine di sei ore , alto un palmo e due once, cioè metro 0,268 : largo un palmo e mezzo, cioè metro 0,335. Nel secondo giorno, entro il medesimo spazio di tempo, si dipingerà una mezza figura dal nudo (nella misura così detta di Sassofcr- rato) a fine di avere le prove dell'esecuzione. Il medesimo, quanto a'modelli, si userà per la pri- ma classe della scultura. Nella seconda classe poi della pittura si eseguirà un soggetto in disegno ; e nella seconda classe della scultura un altro soggetto in bassorilievo : e ciò ne! Concorso Clementino ec. 367 primo giorno. Nel secondo giorno si disegnerà da' pit- tori, e si modellerà dagli scultori, una parte dal vero. Nell'architettura, quelli che concorreranno alla pri- ma classe dovranno nel primo giorno eseguire la pianta, l'elevazione o lo spaccato di un piccolo edificio, in fogli lunghi palmi tre e un dodicesimo, cioè metro 0,688; larghi due palmi e cinque dodicesimi, cioè metro 0,539. I concorrenti alla seconda elasse saranno sperimentati sopra un soggetto più facile, in fogli lunghi palmi due e dieci dodicesimi, cioè metro 0,633; larghi palmi due e un dodicesimo, cioè metro 0,464. Nel secondo giorno essi concorrenti della prima classe faranno una descrizione della fabbrica operala estemporaneamente nel giorno innanzi: indicando il me- todo di costruzione , e dando qualche particolare in grande di una parte di essa fabbrica. E così faranno in proporzione quelli della seconda classe. La opere de'concorrenti colle rispettive prove sa- ranno esposte al pubblico nelle sale accademiche per otto giorni, prima del giudizio dell' accademia: e per altri otto giorni , dopo esso giudizio. L' accademia giudicherà le opere de'concorrenti inappellabilmente, ed in tutto secondo le disposizioni del cap. rV de'suoi pontifìcii statuti. Le opere premiate rimarranno in proprietà dell' accademia , perchè siano collocate nelle sue sale co' nomi degli autori. 11 premio clementino, per le opere della prima classe della pittura, della scultura e dell'architettura, sarà d' una medaglia del valore di scudi romani cen- totrenta. Il premio per le opere delle seconde classi sarà d'una medaglia del valore di scudi romani settanta. 368 Belle Arti II premio pittorico Pellegrini sarà di una meda" glia di scudi romani seicento. Dato in Roma delle stanze accademiche questo dì 20 febbraio 1850. // Conte Palatino Professore Presidente dell Accademia CAV. LUIGI POLETTI // Professore Segretario Perpetuo CAV. SALVAVORE BETTI. ^(t>(t>(l> dr »■»• 369 P'ocabolario degli accademici della crusca. Quinta impressione 4. Firenze 1849 nelle stanze dell'accademia. (Il fascicolo n. y , di pag. dal 229 al 288.) Comprende questo quinto fascicolo le voci italiane che sono da accrescitivamente ad Adattabilità- L'opera continua con onor gran- de sì dell'accademia e sì dell'Italia, malgrado delle ciance degli scioli « di quanti si arrovellano d'invidia e di rabbia^ e non si vergogna- , no centra l'onorando consesso, benemeritissimo delle lettere, seri- ■ ver cose villane , non che presuntuose. Noi ci rallegriamo di cuor sincerissimo cogli accademici di tanta loro rettitudine e accura- tezza '■ senza però pretendere d'innalzarli sopra la condizione degli uomini, ch'è quella di non far nulla immune da qualche menda : e rendiamo plauso alla magnanimità e dignità del governo toscano , che non dà retta alle voci della petulanza e della pedanteria a ca- rico di un'opera sommamente patria. Che se con alcuna tardità veg- giamo uscirne in luce i fascicoli, oltreché la cosa è ben compensa- ta dalla diligenza e ricchezza di tanto tesoro della favella , ognun conosce le difficoltà che incontrar deve un lavoro, in cui molti let- terati hanno il diritto della discussione e del voto. Una città ed un castello di fondazione etrusca recentemente trovati nel territorio di Fiterbo. Avere scoperto un'antica città ed un minore castello d'etru- sca origine, sconosciuti l'una e l'altro a'classici, e solo noti di no- me per testimonianze d'inediti autori de' secoli XIII , XIV e XV , o d'alcuno che ne copiò i ricordi pubblicandoli colla stampa: città e castello tuttora serbanti vestigie non piccole del giro delle lor mura di genuina opera tuscanica, e d'altro che nell'interno era; niun vorrà dirlo avvenimento men che gratissimo a quanti amano gli ar- G.A.T.CXVIII. 24 aro VARIETÀ' cheologici e corografici studi ilella nostra Italia. E questa scoperta noi la dobbiamo alla industria dell'egregio e benemerito cittadino viterbese sig. Giosafat Bazzichelli , ricercatore sagace de'patrii mo- numenti, il quale secondando pochi indizi! datigli dal celebre prof'.F. Orioli suo concittadino, potè felicemente riconoscere le nobili rovi- ne, che la mettono fuori d'ogni controversia. Onore a chi lo merita. II luogo è il territorio viterbese, tra Viterbo e Toscanella, nella così delta Macchia del Conte, lungo il fiumicello Feia, oggi Leia. 11 castello dista mezzo miglio dalla città. Il nome di questa è pel volgo La Civita, per antichi cronisti Musarna o Mu^erna. Il no- me del castello è Cortiliano. Musarna o Muserna si raccomanda specialmente agli eruditi^ perchè oltre al giro delle mura, alle quat- tro sue porte, e ad altro che la fa decorosa all'esterno, ha edifizi interiori, comechè salvi solo nelle fondamenta, dove mano romana, o del medio evo, o del tempo moderno niente ha operato. Abbon- dano intorno sepolcri, che già si scavano a cura di esso sig. Bazzi- chelli, e de'sigg. Carlo Scerra padrone, del fondo, e Luigi Ludo- visi affittuario. H celebre padre Secchi vi diede una corsa, e fu cortese d'i qualche direzione, ed ebbe comunicazione de* primi tro- vamenti, siccome ancor 1' ebbe il promotore della scoperta prof. Orioli. Si parla di lunghe iscrizioni, di numerosi sarcofagi, di bron- zi e bassorilievi. Torneremo quando che sia sul fatto-, e su i suoi paj^ticoWi, secondo ehe meglio saranno conosciuti. ■\h\ il!- Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani o come che sia aventi relazione alVltalia, di G. M. - 8. Milano coi torchi di Luigi di Giacomo Pirola. 1848 {Tomo primo, dalla lettera A a tutta la G, di pag. 479). È opera importantissima a tutta la letteratura, e di gran polso, e di vastissima erudizione. Il che dovevasi bene aspettare dal raro giudìzio elei chiarissimo autor suo cav. D. Gaetano Melzi , il quale ognun veneriamo qual principe de' viventi italiani bibliologi. Noi speriamo di vederne quanto prima la continuazione,' è specialmen- te invitiamo le nòstre biblioteche a provvedersene. ■■■■• --■■'> •■'■^•3 '"•' "-^'^i "<■•- ■ . • niiifijGio omntfli'|['>n id'* oilb-'b ■■ -■js ìig once- ' " > ""' VARIETÀ' 371 Esercitazioni filologiche. Num. FI. - 8. Modena, pei tipi della H. D. camera, dicembre 1$49. {Sono pag- 113} Il nostro giornale ha già parlato degli antecedenti volumetti di queste sì giudiziose ed eleganti Esercitazioni, e lodatone il ce- lebre autore sig. professore Marcantonio Parenti. 11 volumetto, che qui annunciamo, per l'importanza delle cose è ben degno fratello degli altri: e noi non possiamo che raccomandarne la lettura a quanti de'nostri, sì giovani e sì provetti, intendono a scrivere seii'-'" za corruzione straniera la propria lingua. "^ Fiore di virtù. Testo di lingua ridotto a miglior lezione, ed ag- giuntivi i segni della pronunzia, con annotazioni, da B. Fabri- catore. 12. Napoli dalla stamperia del Faglio 1850. {Sono pag. Fili e 126). Fiori di poesie italiane per i giovanetti, raccolte da Bruto Fabri- catore. Parti due. Seconda edizione. 8. Napoli dalla stamperia del Faglio 1849. [La prima parte è di pag. 164 , la seconda di pag. 179). Il sig. Bruto Fabricatore, scrittore elegantissimo, continua la bella scuola del suo gran maestro Basilio Puoti pubblicando e illu- strando le più candide scritture italiane a vantaggio soprattutto della studiosa gioventù. Di che s'abbia l'egregio napolitano quella lode che merita la sua carità a prò delle povere nostre lettere , che sempre più per boriosa pecoraggine di seguir gli stranieri si fanno sparute e seonce. >io Tre pistole attribuite a s. Bernardo. Testo di lingua citato nel vo- cabolario della crusca, ora per la prima volta pubblicato dal ca- valiere abate Giuseppe Manuzzi. 8. Firenze nella stamperia di D. Passigli 1848. {Sono pag. FI e 28). Trattato del ben vivere. Testo di lingua citato nel vocabolario della crusca, ora per la prima volta pubblicato dal cavaliere ab- Giu- seppe Manuzzi. 8. Firenze per David Passigli 1848. {Sono pag. Fin e 38). 372 VARIETÀ' Quattro leggende del beato Iacopo da Jaragine volgarizzate nel se- colo XIF. Testi di lingua ora per la prima volta dati alla luce dal cavaliere abate Giuseppe Manuzzi aopra il codice citato da- gli accademici della crusca. 8. Firenze presso David Passigli 1849. {Sono pag. VIU e 28). Sono tre nuovi gioielli, di che il cav. abate Manuzzi adorna la corona de'classici della nostra lingua. Quanta grazia e dignità di dettato ! Quanti be'modi da giovarne e arricchirne il tesoro della favella ! E tutto Tesimio editore nota da pari suo, cioè ma- gistralmente, sia ne'proemi, sia nelle note e negrindici. Meditazione sulla povertà di santo Francesco. Scrittura inedita del secolo XIF- • 12. Pistoia, tipografia Gino iSil. {Sono pag. 19 e 72). Non men gentile e soave è quest'altro testo di bel parlare, che ora solo ci è giunto alle mani. Giudiziose sono le note^ di cui 1' hanno qua e là dichiarato i due valenti editori Pietro Fanfani ed Enrico Biondi. V Avvento. Sermoni di Gian Carlo di Negro, colle parole obbligate alla rima usate do Dante Alighieri nei primi dodici libri del Pa- radiso. - 8. Genova costipi del R. 1. de sordo-muti 1849. [Un voi di pag. 77). La musa del marchese di Negro non conosce ingiurie d'età , ed é sempre giovane e vigorosa. Ben lo dimostrano questi sermoni, ne'quali il caldo della fantasia è pari non solo alla dignitosa viva- cità de'versi, ma sì alla spontaneità mirabile della rima : e ciò mal- grado della difficoltà, a cui l'esimio autore si è voluto assoggetta- re. Possa l'inclito veterano per lunghi anni ancora onorare la pa- tria e le lettere ! I sermoni sono dodici, cioè: I, la morte : 11, il trionfo della religione : III, il giudizio finale : IV, 1' inferno : V, il paradiso : VI, l'amor di Dio : VII, la grazia divina : Vili) le tentazioni : IX, la misericordia: X, il vangelo : Xl, il peccatore ostinato : XII, Dio. VARIETÀ' 373 Per Giuseppe Parini, considerato specialmente come poeta morale e civile, epistola in versi di Giuseppe Bernardoni, corredata d'illu- strazioni. - 8. Milano coi tipi di Giuseppe Bernardoni di Giovan- ni 1848. {Sono pag. 9J). Era già nota per le stampe questa lodata epistola del cav. Ber- nardoni all'ab. Giuseppe Barbieri. Ma nella presente edizione Til- liistre autore 1' ha di molto variata e accresciuta. « Inoltre ( egli j) dice nella lettera dedicatoria al cav. D. Gaetano de'conti Melzi ) « mi risolvetti al partilo di corredarla possibilmente della noti- » zia di quanti avessero ragionato del Parini, a comodo, massime, » di chi bramasse di consultarli per entrare di proposito nell' esa- » me de'suoi componimenti e della mira cui essi tendono, a fine 1) di presentarli ai giovani italiani siccome ima poetica pratica, sic- » cOme un compiuto modello di quanto di piacevole ^insieme ed » energico, di sublime, e specialmente d'instruttivo e proficuo può » vantare la nostra poesia , risorta da lui a nuova vita : per mo- » strare in somma a quegl'ingenui animi tutti i pregi di lui, lan- » to più degni di venire esaltati , quanto che egli non solamente » studiò con intenso amore i bisogni , i difetti , i vizi della sua « età per soccorrere agli uni e per combattere gli altri, ma lasciò » dopo se una perpetua scuola di probità e di derisione contra » qualunque forma, sotto la quale que'difetti e que'vizi tentassero » di riprodursi. Nò mi pareva fatica di ridurre , con assidua ■» scrupolosa accuratezza, in un elenco le testimonianze di quelli )i che in più tempi, in più paesi si erano esercitati intorno alle » sue opere : i quali sono in sì gran numero, che ben pochi mo- v> derni poeti tanto ne possono contare. » Sia non pur di lode, ma di esempio, la rara fede e tenerezza che questo egregio conserva al suo maestro ed amico, e di tutto gradisca qui il plauso che sinceramente glie ne facciamo. L'operetta t! invero di onor sommo alla memoria di quel Parini, che fu de' solenni nostri poeti e sapienti, e vuol venerarsi meritamente fra i principi nobilissimi delle lettere. E che all'alto animo aggiungesse egli anche una rara modestia e cortesìa, ben lo attesta il sig. Ber- nardoni con queste parole a carte' 77, che piacerà a' nostri lettori di veder qui riferife : " Chi poi lo conobbe personalmente può as- r, severare quanto fosse calunniosa la voce che lo accusava (e che 374 VARIETÀ' » non tace del tutto forse nemmeno adesso) di superbia verso i u poeti suoi contemporanei. I mediocri versegfiiatori si non po(e- » va egli sopportare: ma che non diceva egli dell'Alfieri, del Monti » e di quanti altri meritassero il titolo di veri poeti ? Citerò un » fatto, del quale io fui testimonio. Lorenzo Mascheroni gli ave- V va mandato il proprio Invito a Lesbia; e poco dopo mi volle » scegliere per farsi presentare a lui, col quale egli non si era » mai trovato insieme. Il Slascheroni gli comparisce innanzi eoa « quella ritenutezza, ed anzi timidità, ch'era in lui naturale; e se » gli accosta con somma riverenza in atto di baciargli la mano , :i esclamando : Oh mio maestro ! E i) Parini, dal seggiolone dal H quale non poteva sorgere per la debolezza delle sue gambe, gli M stende alTettuosamente le braccia, e gli dice con espansione di « cuore : Caro Mascheroni, abbracciamoci ■■ i suoi versi scio'ti sono 11 i più bei versi sciolti di questo secolo. E chi diceva questo era 1' 11 autore del Mattino e del Mezzogiorno I Non è a dire quanto il » Mascheroni ne fosse commosso. 11 E giacché siamo in sul discorso della urbanità e della schiet- » lezza de'giudizi letterari del Parini, dirò come la rinomata ira- X provvisatrice Bandettini si fece pur presentare da me a lui il gior- » no dopo una pubblica accademia, alla quale egli aveva assistito , » eJ in cui essa aveva provato quanto fosse straordinario il valor » suo nell'arte ch'esercitava : ed io vidi quella egregia donna ver- » sar lacrime di consolazione nel sentirsi dire da quel grand'uomo » con un garbo non iscompagnalo dalla dignità, ch'era in lui, si , )i può dire, una seconda natura, e con un porger di voce che pa- ,j» iesava la interna persuasione : Signora 2'eresa, io credeva, dopo » avere udito il duca Mollo, che, non che superarlo, nessuno non 11 lo potesse uguaqliare nelfimprovvisare ; dopo udita lei, mi ricre- » do in tutto. » Ma fra le testimonianze di lode al grandissimo italiano avrem- mo desiderato che il sig. Dernardoni avesse recato pur quelle di due sommi nostri maestri di queste cose, cioè di Paolo Costa e del marchese Basilio Puoti. 11 primo ne canta così nel secondo de'suoi Sermoni sull'arte poetica -. Dove lascio il Parini, che sull'Adda Alzò il diflicil verso che risplende Scevro da rime ? — Nel Parini io voggo^ VÀRìETA' 375 Forse qui mi dirai, colori e forme Or di lirico, or d'epico poeta, E localo il vorrei fuor della schiera Di qiu;', cui duce è il venosino. Ei segga Solo, e per sempre, poiché seppe ei solo Condurre a lungo l'ironia, che morse Il profumato cavalier ventoso. Alla satira ei die splendida forma D'alto poema. A temeraria impresa Seguendo lui t'arrischieresli. Il Bondi Scguillo, e l'ardir suo l'edace tarlo Vendica. Del Puoti può vedersi il secondo libro della classica opera intiio- Jata : Della maniera di studiare la lingua e Veloquenza italiana , libri due. Forse sarebbe slato anche bene avvertire, che il Gamba registfò le òpere del Pàrini nella sua Sèrie dei testi di lingua : e che veramente nella quinta impressione del vocabolario dèlia crusca, che si va pubblicando in Firen/è, il iParini è citato dagli accademici come testo di bel parlare. Considerazioni sopra un somtln del Petrarca , scrìtte àa Gaetano GihelU. 8. Bologna., tip. Sassi nelle Spaderie 1849. {Sono pag. 16). Fila di monsignore Pellegrino Farìni scritta da Gaetano Gibelli. 8. Bologna tip. Guidi alV ancora 1849. [Sono pag. 15). Saggio di un dizionarietto {amigliare. 8. Bologna, tipi Sassi nelle Spaderie 1849. (Sono pag. 71). Sono tre fiori di buon giudizio e di eleganza , i quali attesta- no quanto sia il magistero del sig. professor Gibelli nelle cose della nostra letteratura. Il sonetto del Petrarca, da lui comentato, è quello che incomincia Quel vago impallidir che il dolce riso ec. Bello ed utile altresì ^ il vocabolarietlo domestico : ma difficilmen- te saremmo coll'egregio autore a dare rilaliana cittadinanza alle parole parterre^ sciarpa e surtù. 376 VARIETÀ' Delle casa abitate in Roma da parecchi uomini illustri. Cenni sto- rici del dott. Andrea cav- Belli. Seconda edizione. 8. Roma, tipo- grafia Marini e Marini 1830. {Un voi. di pag. 145). Perchè nelle vicende de'tempi non vadano amarrile molte me- morie romane, il sig. cav. Belli ha pubblicato quest' opera , nella quale sono raccolte assai preziose notizie patrie con amore e con diligenza. Di che vogliamo render lode al benemerito autore, con- fortandolo a continuare indefesso le filiali sue cure verso questa Roma diletta. Le illustri persone di ogni gente, delle qaali il sig. Belli ha trovate in Roma le abitazioni, e delle quali egli reca pure i cenni biografici, sono le seguenti: Alfieri Vittorio, s. Ambrosio, Antinort Giovanni, Baini Giuseppe, Bartolo, Bonafede Appiano, Bosio Anto- nio, Cancellieri Francesco, Canova Antonio , Capparoni Giuseppe , Carlo IV re di Boemia, Carlotta regina di Cipro, Catalani Michele, s. Caterina da Siena, Chirgiù Atanasio, s. Ciriaca, Cola di Rienzo , De-Rossi Giangherardo, s. Domenico, Falereo Demetrio, Fea Carlo, s. Filippo Neri, Fontana Domenico, s. Francesca romana, Galeno , Ghislieri Giuseppe, Giovanni VII papa, Giovenazzi Vito Maria, Gme- lin Federico, s. Gregorio Magno, s. Gregorio II, s. Ignazio Loiola , s. Ippolito, Lombardi Carlo, Masdeu Gianfrancesco, Massimini An- drea, Mengs Antonio Raffaello, Mercandetti Tommaso, Metastasio Pietro, Monti Vincenzo, Petronio Alessandro, Peter Venceslao , s. Pietro principe degli apostoli, Pikler Giovanni, Pio VI papa. Pi- ranesi Francesco, Raffaele d' Urbino, Riva Guglielmo, Rosa Salvato- re, Sangallo Antonio, Scanderberg, Scarpellini Francesco , Seroux d'Agiucourt Giambattista, s. Silvia, Sisto V papa, T^isso Torquato , B. Tommasi cardinale, Tucci Pietro, Vace Domenico , Della Valle Pietro, Volpalo Giovanni, Waddingo Luca, Zabaglia Nicolò. 377 INDICE DELLE MATERIE CONTENUTE NEL TOMO CXVIII, VOLUMI 352, 353, 354 Catalogo de signori compilatori e collaboratori, pag. ni SCIENZE Catalani, Monografia della rachitide » 1 Camilli, Le mummie peruane » 72 Catalani, Saggio della vita ...,...» 90 LETTERATURA Orioli, Viterbo e suo territorio (Continuazione e fine). y> 129 Ponta, Qual sia il giudizio del Petrarca sulla divina Commedia » 166 Mordani, Elogio di Cesare Arici » 193 Diamilla, I monuìnenti degli antichi cristiani in rela- zione col progresso delle scienze, delle arti e della civiltà • . » 215 De Ferrari, Sopra gli antichi ludi secolari . . » 231 Viola, Antichi monumenti scritti tiburtini posseduti ed ed illustrati dall'autore » 244 Spezi, Introduzione allo studio della letteratura clas- sica greca » 299 Biografia deU'avv. Antonio Morichini ... « 320 BELLE ARTI Da Rignano, Sopra un dipinto di Michele Wittimer bavarese » 327 378 Paletti , Introduzione alle sue lezioni di architettura pratica » 338 Nibbj-, Bassorilievo di Andrea Contucci . . , » 358 Programma de' grandi premi deìV accademia romana dì s. Luca » 363 Varietà ERRATA-CORRIGE Airarticolo =^ Viterbo e il suo territorio = pag. 132 di questo quaderno, lin. 3, invece di Tlieodatus si legga Vitiges. D'altre emendazioni, fatte necessarie da nuovi studi, sì parlerà in altro articolo. IMPRhMATUU Fr. Dom. Bultaoni OrU. Praed. S. P. A. Jlaf;. IMPRIMATUU Joseph Canali Archiep. Constantiiiop. Vicesg. .